Marchi

di phoenix_esmeralda
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Marchi di dolore ***
Capitolo 2: *** Marchi di calore ***
Capitolo 3: *** Marchi di speranza ***



Capitolo 1
*** Marchi di dolore ***









http://www.superedo.it/foto/immagini/Case/casa_sull'albero_di_lusso.jpg
“Affamati come lupi viviamo in crudeltà
e tutto sembra perso in questa oscurità.
All'angolo e indifeso ti cerco accanto a me...

... da soli gli occhi non vedono.
Ti penso e cambia il mondo,
le voci intorno a me.
Cambia il mondo, vedo oltre quel che c'è.
Vivo e affondo e l'inverno è su di me,
ma so che cambia il mondo

se al mondo sto con te”

 

(“Ti penso e cambia il mondo” A. Celentano)

 

- 1 -

Marchi di dolore


Il giovane percepisce con chiarezza la goccia di sangue che scivola con percorso irregolare lungo la sua schiena. Ha gli occhi chiusi e questo lo aiuta a concentrarsi sui particolari, a sfumare per qualche secondo tutto il resto. Delinea con gli occhi della mente la piccola macchia rossa che si increspa e si allunga sulla sua scapola, trasformandosi in un serpentello scarlatto che guizza zigzagando su un terreno di pelle rosa. Con la mente, il giovane la segue con attenzione lungo il suo tragitto, senza distrarsi, come faceva da piccolo, percorrendo con il dito i fiumi che gli mostrava il padre sulle mappe.
Errore.
Il dolore si riapre come uno squarcio, lo attraversa di scatto, come un fulmine che lo trapassi dalla testa ai piedi.
Suo padre...
Deglutisce per inghiottire, con la saliva, il nodo di angoscia che gli ostruisce la gola, ma così facendo peggiora la situazione. Non ha più saliva, i liquidi nel suo corpo sono ridotti al minimo, le energie prossime al nulla.
Giace appeso per i polsi in quella stanza maledetta che lo ha trasformato da uomo a bestia, in attesa del destino più atroce che possa schiacciare un principe di Verathan.
Cerca di controllare il respiro, di rallentarlo, torna a concentrarsi sulla goccia di sangue che ormai ha raggiunto le natiche e si è avvallata silenziosa sul suo corpo nudo. Questo lo fa pensare di nuovo a ciò che sta per accadere e per l’ennesima volta gli si mozza il respiro.
No, non c’è modo di fermare il dolore, la vergogna, la disperazione. Gli ultimi mesi sono marchi profondi sulla sua anima, lampeggiano nella sua mente ininterrottamente, con grida laceranti. Lo costringono a prestar loro attenzione, sempre, quasi non esistessero altri pensieri che quelli. E la sua angoscia diventa immagini che un’altra volta scorrono senza controllo dietro alle sue palpebre chiuse.

L’assassinio di suo padre. Silenzioso, inaspettato.
Trovare il suo corpo accoltellato, riverso nel sangue, nel suo giardino privato. Il re di Verathan, dignitoso, solido e incrollabile, ridotto a un’immobilità umiliante, riverso in una posizione innaturale, che lo rende quasi irriconoscibile.
Per il principe, che ha già perso la madre in giovane età, quel padre rappresentava il mondo. Colui che determinava i confini e istruiva a oltrepassarli. L’uomo che gli aveva insegnato l’amore, la dignità, l’onestà, la saggezza.
Aveva pensato immediatamente a Saridan, il crudele, primitivo regno nemico, in guerra da decenni con Verathan. Saridan, governato da re che, generazione dopo generazione, perpetuano la schiavitù più bestiale e rinnovano la guerra con Verathan, attaccando a tradimento, promuovendo stragi barbare, cercando di estendere con i mezzi più biechi il loro dominio crudele su nuove terre.

Ma scoprire la verità era stato il secondo marchio di dolore.

Zio Aratan aveva tradito per avidità. Voleva il trono, il potere, la libertà assoluta d’azione e per questo non aveva esitato un istante a massacrare il fratello, a entrare in combutta con i mercanti di schiavi di Saridan e a vendere il nipote, unico erede rimasto, per un tozzo di pane.
Smerciato come un oggetto superfluo al popolo barbaro che massacrava da anni i suoi uomini. Venduto dall’uomo che aveva la stessa voce, gli stessi colori, gli stessi occhi di suo padre.
Il sorriso di Aratan, mentre i suoi uomini lo marchiavano sulla spalla con il simbolo che Saridan riservava agli schiavi, era stato il primo approccio del giovane alla vera crudeltà.
Poi, la crudeltà era diventata il suo mondo.

Lo portarono a Saridan, nella Casa delle Valutazioni. Ogni schiavo messo all’asta possedeva un libretto personale con i punteggi relativi alle diverse aree di valutazione. Maggiori erano i punteggi - e maggiori le aree con punteggi elevati - , maggiore era il valore dello schiavo.
Lui non concepiva di essere valutato come merce. Lo legarono a un gancio sopra alla sua testa, una donna lo spogliò completamente. L’umiliazione gli tolse il respiro e gli annebbiò la vista.
-“Cosa fate?” – ansimò, ma lei non gli badò. Non lo guardavano mai in faccia, non gli si rivolgevano direttamente. I primi rudimenti della schiavitù stavano scavando nella sua carne i contorni di una verità raccapricciante. Il disprezzo per le barbare usanze di Saridan era un’eredità acquisita. Oggi diventava un veleno corrosivo nelle sue vene.
La donna iniziò a tastargli il volto, controllò le ossa del suo viso, i denti, le orecchie, i capelli. Gli palpò con cura il collo e le spalle, saggiò i pettorali e i muscoli delle braccia. Ogni tanto si fermava e annotava qualcosa nel libretto, scriveva un punteggio seguito da una breve descrizione. Le sue mani scivolarono sugli addominali del giovane, valutarono la sua schiena e infine scesero sulle natiche. A quel punto lui si inarcò, inorridito. - “Non mi toccate! Smettetela immediatamente!”
Lei non gli badò, proseguendo con la valutazione delle gambe, scendendo fino alle caviglie per poi risalire, con orrore del giovane, alle sue parti più intime.
-“Non ci provate, siete disgustosa!” Lei si allontanò per un istante, senza una parola. Afferrò un frustino sottile e si mise alle sue spalle. Il principe imparò il dolore sottile e lancinante della sferza. Lo imparò contando fino a venti, a denti stretti, per non aggiungere a tutta quell’umiliazione quella di sentirsi urlare davanti a quella donna.
Poi lei gli tornò di fronte e valutò, toccando a suo piacimento, i suoi organi genitali. In quel momento il giovane comprese che quando una persona, nonostante i tuoi appelli, non ti guarda negli occhi, ha smesso definitivamente di considerarti un essere umano.

La morte del padre, il tradimento dello zio, il simbolo di schiavitù, l’umiliazione, la frusta. Marchi di dolore invisibili e profondi che attraversano la pelle, la carne e il sangue e raggiungono le ossa. Le stritolano, le deformano, e tu non sei più lo stesso.
Eppure quello non era che l’inizio.

Lo portarono nel salone delle valutazioni, gli diedero calzoni sdruciti al ginocchio, numerati, per distinguerlo dagli altri schiavi. Intorno a lui le valutazioni si susseguivano, gli schiavi correvano lungo un percorso, saltavano ostacoli, combattevano con la spada o corpo a corpo. E gli esaminatori annotavano ogni cosa nei loro libretti, davano punteggi di velocità e resistenza, di agilità e forza, di prontezza di riflessi e strategia.
Il giovane ebbe un capogiro. Non mangiava da due giorni, e a quella vista provava nausea. “Merce” - continuava a pensare e la parola gli rimbombava in testa come un rumore sordo. Erano merce, come i carri che acquistava per il padre all’inizio di ogni nuova stagione e lui prima di decidersi alla spesa, ne saggiava la forza, la resistenza, la manovrabilità. Erano merce come i cavalli della loro stalla, stimati in base alla salute, alla velocità, alla docilità. Merce muta e impotente.
- “Avanti, corri!” Un uomo lo afferrò e lo spinse in pista. Lui si immobilizzò. ‘No’, si disse, ‘Non sarò merce muta’.
- “Corri, sbrigati!” – ripeté l’uomo e aggiunse alle sue parole una sferzata sulla parte nuda delle sue gambe. Lui si sforzò di restare immobile.
“Non intendo correre” – disse piano - “E non farò nulla di quello che mi chiederete, se non riceverò un po’ di rispetto!”
Nonostante quelle parole, l’uomo non lo guardò. Fece un cenno alla donna che l’aveva condotto nel salone e lei si avvicinò.
- “Non mi hai detto che andava rieducato. Pensaci tu”
Lei sorrise, lo stesso sorriso che gli aveva rivolto umiliandolo nella stanza accanto e lui comprese che lei aveva sperato in quel momento.
Mani forti lo afferrarono, lo trascinarono nuovamente nella camera vicina e questa volta lo legarono disteso sulla schiena a una tavola di legno. Mani sopra alla testa, gambe aperte. La donna rivolse loro alcune indicazioni e poi la lasciarono sola con lui.
Gli tolse i pantaloni e ancora una volta lui rimase nudo e impotente di fronte a lei.
“Non hai capito la tua situazione” – sibilò la donna, rivolgendogli la parola per la prima volta – “Tu credi ancora di essere un uomo, ma non sei che una bestia. Dal momento in cui sei stato marchiato come schiavo, sei diventato un oggetto nelle nostre mani.” – salì in ginocchio sulla tavola, le gambe attorno ai suoi fianchi. Chinò il viso sopra il suo – “ Non hai diritto ad alcun rispetto né ad alcuna spiegazione. Non hai il diritto di fare domande né di ricevere risposte. Non ti è consentito parlare, avere opinioni, pensieri né sentimenti. Sei solo un corpo vuoto a nostra disposizione, principe di Verathan. E oggi lo imparerai.”
Nelle mani stringeva una boccetta, gli cosparse un unguento sulla parti intime e lui iniziò a sentir montare l’eccitazione. Le mani di lei sul suo corpo completarono l’opera, salì su di lui per concludere l’atto. L’umiliazione lo marchiò nell’animo a fuoco vivo, fino a strappargli un singhiozzo.
La donna si sollevò e solo allora lui si accorse delle ragazze che erano entrate nella stanza. Giovani schiave, ciascuna con il proprio simbolo di asservimento sulla spalla destra, addestrate a obbedire senza mettere mai in discussione. Questo significava nascere schiavi.
-“ È vostro” – disse loro la donna – “Fate bene il vostro lavoro”
Lo lasciò con loro e loro non fecero che ripetere ciò che lei aveva iniziato. L’unguento, le loro mani sul suo corpo, la violenza... una, due, cinque, dieci volte. Cinque schiave che si alternavano una dietro l’altra, senza riposo, senza rivolgergli una parola, un solo sguardo, come se di lui notassero solo il corpo e quel corpo fosse lì esclusivamente a loro utilizzo. Non c’era spazio per la compassione, per la pietà... per nessuna forma di umanità. L’unguento funzionava ogni singola volta, come una maledizione perpetuata all’infinito, trasformandolo in sola carne, staccando la mente dal suo corpo, come se non gli appartenesse più. Gli strapparono l’anima un pezzo alla volta e quando gli liberarono braccia e gambe e lo lasciarono solo, l’oscurità era così forte che lui non si riconobbe più. Erano le due di notte, lo avevano tormentato per quattordici ore a fila.

L’anima di un uomo può sopportare qualunque dolore. Le ferite affondano nello spirito, ma lo spirito è immateriale e riacquista ogni volta la sua forma. Con alcune ferite può impiegare più tempo di altre, ma torna sempre alla sua forma originale.
Questo lui aveva sempre pensato, prima dei marchi di dolore.
Ma i marchi di dolore si imprimono nello spirito stesso, non lasciano ferite da colmare, ma trasformano lo spazio in dolore pari a loro. I centimetri di spirito, diventano centimetri di dolore, lasciando sempre meno superficie all’anima.
Quando l’anima si accorge di non avere più una casa, l’abbandona.
Quel giorno lui diventò un marchio di dolore senz’anima. Lo trasformarono in bestia.

Il mattino dopo gli diedero da mangiare, perché senza energie le sue prestazioni sarebbero risultate falsate.
Poi lo fecero correre e corse. Saltò quando glielo ordinarono, tirò di spada, combatté corpo a corpo. Studiarono la sua capacità strategica, gli fecero compilare questionari di cultura generale, approfondirono la sua conoscenza delle lingue, analizzarono le sue buone maniere.
Dai loro discorsi comprese di aver raggiunto punteggi sorprendenti in ogni ambito valutato. Erano soddisfatti, perché lui valeva tanto oro quanto pesava.

Da lì lo spostarono in un edificio vicino, dove tenevano gli schiavi valutati in attesa di essere messi all’asta. Li tenevano nudi, ammassati in grossi stanzoni sporchi. Il cibo era scarso, soffrivano il freddo tutto il giorno. Li facevano muovere due volte al giorno, così come facevano con i cavalli, perché al momento dell’asta non sembrassero rachitici.
Ma il suo momento di essere messo in vendita non arrivava mai. Vedeva arrivare in continuazione nuovi schiavi e poi li vedeva caricare sui carri, diretti all’asta. E poi un nuovo carico arrivava. Ma lui non veniva mai chiamato.
Intorno a lui c’erano solo sguardi vuoti, fissi. Gli schiavi non parlavano mai fra di loro, convinti essi stessi di non possedere alcuna iniziativa.
E lui non era da meno. Sapeva che qualunque atto riconosciuto come iniziativa personale l’avrebbe rispedito sulla tavola di legno, alla mercé delle sue torturatrici. Così restava zitto ad aspettare ciò che sarebbe accaduto. Teneva lo sguardo basso e la bocca chiusa e per non sentire la vergogna della sua situazione, aveva smesso di pensare al passato. Nei momenti in cui riusciva a convincersi che la sua vita non era mai stata altro che quella, poteva quasi tirare un sospiro di sollievo. Non esisteva altro modo per sopravvivere.

Il tempo per le bestie non ha significato e lui smise di misurarlo. Ma le stagioni cambiavano e il clima si fece umido, afoso, soffocante, si mantenne caldo e infine rinfrescò nuovamente, cedendo il posto a giornate più brevi e ventose. Sapeva che dovevano essere trascorsi quasi sei mesi, eppure nulla nella sua condizione penosa sembrava mutare.
L’unica emozione che gli era rimasta era l’odio.
L’odio è freddo come brina che ti avviluppa, lascia insensibile tutto ciò che tocca. È affilato come ghiaccio e come il ghiaccio è tagliente. Ma l’odio gli permetteva di ricordare che un’ingiustizia era in atto, che lui era destinato ad altro, che un uomo non può trasformarsi in animale, in oggetto, neppure volendolo. Neppure non avendo scelta. L’odio, ferendolo con il suo gelo acuminato, gli diceva che la sua condizione era innaturale e che lui stava solo fingendo di non avere una testa, di non avere una dignità.
Lui li odiava. Odiava qualunque cosa appartenesse a Saridan, qualunque essere vivente provenisse da quella terra blasfema. L’odio galleggiava sotto la sua pelle, silenzioso e invisibile, per non creargli danno, ma c’era, c’era sempre. Si dilatava nel suo corpo vuoto e lambiva delicatamente i marchi di dolore, mantenendoli vivi e infiammati.
I suoi carcerieri vedevano un corpo vuoto, docile, mansueto. Ma lui era odio e dolore.

Quando seppe il destino che gli era stato riservato, l’involucro in cui si era avviluppato andò in frantumi.
Sentì la parola quasi per caso, non ci prestò veramente attenzione all’inizio, abituato com’era a non dare più importanza a ciò che lo circondava.
Scorter.
Un termine usato solo a Saridan, ma lui ne conosceva il significato. Ogni nobile di Saridan, superata l’età dell’infanzia, aveva diritto a uno scorter. Era la posizione più ambita per qualunque schiavo, ma semplicemente irraggiungibile ai più, poiché servivano punteggi altissimi in ogni ambito di valutazione per potervi accedere.
Se eri scorter diventavi qualcosa a metà fra un valletto e una guardia del corpo per il signore che ti era stato assegnato. E se eri scorter di una dama, molto probabilmente eri tenuto ad andarci anche a letto, soprattutto se era giovane e nubile e il padre aveva bisogno di qualcuno che la tenesse impegnata mentre decideva a quale suo pari darla in moglie.
Lui non aveva pensato di poter diventare scorter, chi metterebbe un principe di Verathan al servizio di un nobile di Saridan? Era follia!
A meno che non si volesse sottoporre il principe di Verathan a un’umiliazione insopportabile.
A questa riflessione giunse lui, quando finalmente capì che era stato acquistato dal re di Saridan in persona, per diventare lo scorter della sua unica erede, la principessa Milanda.
Scorter della principessa ereditaria di Saridan!
Non ci sarebbe stata nessuna asta per lui, poiché il suo libretto di punteggi lo poneva a un tale livello da poter aspirare alle cariche più alte. Presto, un incaricato del re sarebbe venuto a visionarlo di persona, per accertarsi che i punteggi non fossero stati falsati. E poi lo avrebbe condotto a palazzo, nudo, impotente e schiavo, al servizio della crudele principessa di Saridan, che avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni prendendosi su di lui ogni minima rivincita nei confronti di Verathan.
Se c’era qualcosa che lui non poteva sopportare era quello. Così esplose.

“Non diventerò lo scorter degli sporchi sovrani di questo regno!! Non mi venderete a loro o li ucciderò! Mi sentite? Non potete costringermi, non ve lo permetterò!”
Urlava con tutta la voce che aveva e anche se fingevano di non sentirlo perché lui era nulla, lui sapeva che le loro orecchie non potevano ignorare quei suoni. Lo sentivano, lo capivano e li avrebbe costretti ad ascoltarlo.
In effetti capirono bene. Capirono che se non fossero intervenuti, lui avrebbe mandato a monte l’affare più lucroso della loro vita. Non potevano permettere che aggredisse l’inviato del re, che tentasse di ucciderlo o che lo ricoprisse di insulti.
Così decisero, in tutta semplicità, di far sì che non avesse più la forza di ribellarsi.
Lo legarono di nuovo alla tavola di legno e lo lasciarono in balia delle schiave per un tempo che non riuscì a quantificare. Quando loro lo ebbero calmato, lo appesero per i polsi e lo frustarono finché non ebbe più voce per urlare.
Poi smisero di dargli da mangiare. Gli concedevano solo acqua, il minimo indispensabile a non farlo morire, ma non sufficiente a lasciargli abbastanza saliva in bocca per parlare.
I giorni passavano e le sue energie venivano meno. Si assopiva di continuo, destato solo dal bisogno atroce di acqua e dai tormenti della fame, per poi ricadere in un torpore delirante. Le ferite sulla schiena non guarivano, perché ogni giorno si premuravano di dargli una dose fissa di sferzate.
Poi sentì annunciare che finalmente quel pomeriggio sarebbe arrivato l’inviato del re. E non sarebbe stato solo, perché la principessa Milanda in persona sarebbe venuta a valutare il suo acquisto prima di portarlo con sé.
Allora lo appesero per i polsi al centro di una stanza vuota, nudo, in bella vista, dove la principessa avrebbe potuto esaminarlo dalla testa ai piedi con comodo. Rideva, l’uomo che lo legava.
“ Prova a ribellarti ora, bestia!”
Lui alzò la testa e gli morse la mano che ancora stava fissando i nodi. Provò una soddisfazione enorme e non gli importò della razione supplementare di sferzate che gli costò. Né che non gli dessero acqua per tutto il giorno, mentre lì appeso, completamente privo di forze, si accingeva a vivere il momento più umiliante della sua intera vita.



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Ciao a tutti... So di non aver scritto una storia particolarmente allegra, ma mi è scaturita dal cuore esattamente in questo modo...
"Marchi" è un racconto impulsivo, "buttato giù" di getto, senza quasi riflettere e credo che lo stile utilizzato ricalchi perfettamente il
modo in cui è stato generato.
A questo punto, se piacerà o meno, sta a voi dirlo...



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Capitolo 2
*** Marchi di calore ***


-  2  -
Marchi di calore

 
Così ora attende, immobile e silenzioso, concentrando la sua attenzione su tutto quello che può allontanare i pensieri dal dolore. Le gocce di sangue però, hanno smesso di colare sulla sua schiena e lui non trova altri diversivi all’ansia ossessiva di quello che lo aspetta.
Ha deciso che la tratterà come lei tratta lui. Non la guarderà in faccia, non darà segno di considerare le sue parole. Così come lui per lei sarà un oggetto, lo stesso lei sarà per lui.
Quando entrano nella stanza, lui ha gli occhi chiusi. Non li apre, perché non vuole degnare della minima considerazione la principessa di Saridan. E poi non gli è rimasta quasi la forza di respirare, tenere le palpebre chiuse è molto più semplice. Più semplice di vedere lo sguardo di scherno che la principessa rivolge al principe nemico sconfitto.
Tuttavia, anche se a occhi chiusi, non può ignorare la presenza delle persone intorno a lui. Quante sono? Più di una, più di due...
Avverte un sospiro, quasi un gemito. Poi la voce del suo carceriere. - “Siamo stati costretti a renderlo innocuo, non riusciva ad accettare di essere acquistato da voi” - C’era derisione in quella frase. L’aveva morso e quello era il momento della vendetta.
- “Vedo che non vi siete risparmiati. Va bene, potete andare, e anche tu Shalamanka.”
- “Principessa, non sono davvero sicuro che...”
- “Erano questi i patti. Prima di accettare come scorter un principe di Verathan, desidero valutarlo personalmente”
- “Lo so signora e so che avete avuto il permesso di vostro padre, ma il re, se mi permettete, non conosce bene questi luoghi, né la pericolosità di uno schiavo inselvatichito. Andarmene lasciandovi qui è più di quanto il mio animo possa reggere!”
Lei scoppia a ridere. Ha una risata cristallina, quasi infantile e lui la odia. Solo una figlia di Saridan può ridere di fronte all’orrore di un uomo massacrato.
- “Avanti Shalamanka, il tuo animo è più forte di quanto tu immagini. E non sarò sola, ci sono qui mio cugino Laish e il suo scorter, credi che non siano una protezione sufficiente?”
- “La principessa ha ragione” – interviene un’altra voce maschile – “ Io e Yulien veglieremo su Milanda ogni istante. Domani saremo a palazzo con il nuovo schiavo, docile e domato. Lasciateci pure con tranquillità, Shalamanka”
Schiavo docile e domato.
Se gli fosse rimasta saliva in bocca, avrebbe sputato in faccia a quello sciocco selvaggio!
La porta si apre e intuisce che quel tale Shalamanka è uscito assieme al suo carceriere.
Il silenzio cala nella stanza. È tentato di aprire gli occhi e scoprire cosa sta succedendo, ma la vergogna di affrontare lo sguardo della principessa lo spinge a rimandare ancora l’inevitabile. Rifiutandosi di guardarla gli pare quasi di diventare invisibile, come se anche lei, di conseguenza, non possa vederlo.
Poi sente la voce di lei, in un bisbiglio.
- “Laish, è peggio di quanto credessi.”
- “Lo so. Lo temevo.” – il ragazzo sospira – “La carrozza di Shalamanka si è allontanata. Yulien, vai a preparare il carro.”
Di nuovo la porta si apre, passi che si allontanano.
- “Pensa tu ai lacci,  io sono troppo bassa per arrivarci”
Un corpo caldo gli si avvicina, lui si irrigidisce istintivamente. Sente il rumore della lama sulle corde e poi all’improvviso la tensione si spezza e lui si affloscia a terra come un sacco morto. Non ha la forza di salvarsi dalla caduta, poiché le sue gambe non lo reggono più da giorni.
Rimane immobile, accasciato sul pavimento freddo e sa che non potrà ancora ignorare per molto la verità. Vorranno valutarlo e lui non potrà farci niente. Strangolerebbe la principessa, ma non ha la forza neppure di sollevare un braccio. È rimasto legato in quella posizione da così tanto tempo, che gli sembra di non possedere più gli arti superiori.
Qualcuno gli si avvicina, gli sposta i capelli dal viso.
- “Laish...hai visto le sue labbra?”
- “È completamente disidratato!” – un po’ di trambusto – “Ecco, prendi questa”
E succede qualcosa di inaspettato. Metallo freddo gli apre le labbra inondandogli la bocca di acqua fresca. La gola arida sussulta sotto quella benedizione improvvisa.
Poi la borraccia si allontana e lui, istintivamente, l’afferra con una mano, perché ha bisogno di bere ancora, e ancora, e ancora...  La borraccia resta docilmente fra le sue dita, perché nessuno gliela strappa sadicamente, ridendo dei suoi tormenti. La porta alla bocca e beve ancora.
- “Fate piano” – dice la voce – “Dovete bere poco alla volta, oppure rigetterete tutta l’acqua”.
Allora apre gli occhi.
Incontra un viso pallido, punteggiato di lentiggini. Occhi verdi lo stanno scrutando, occhi verde scuro enormi, in un viso minuto e smunto.
Poi abbassa lo sguardo e si rende conto che è successo davvero. Si trova davanti alla principessa di Saridan, la sua mortale nemica, ed è inerme, senza forze, ferito e nudo come un verme. Le ha  strappato di mano la borraccia, perché non sa più sopportare tutta quella sete.
L’umiliazione per un istante gli spezza il respiro, poi arriva l’ondata d’odio e travolge ogni altra emozione. La borraccia cade a terra, stringe i pugni con tutta la poca forza che gli resta e butta fuori la voce, rotta da giorni di sete.
- “Io vi ucciderò. Ve lo giuro! Se oserete portarmi con voi a palazzo, se oserete tenermi schiavo nelle vostre luride stanze, io vivrò solo per assassinarvi! Vi detesto, detesto ogni abitante di questa maledetta terra e se non mi ammazzate in questo momento, arriverà il giorno in cui ve ne pentirete!”
Lo sguardo verde non si adombra, rimane fisso sul suo viso.
“Vi credo, principe. I vostri occhi azzurri sono trasparenti come acqua, posso leggere i vostri sentimenti con chiarezza.”
La porta si riapre, vede entrare un uomo sulla quarantina. Ha capelli castani lunghi fino alla vita, occhi leggermente allungati.
- “È tutto pronto” – dice – “Possiamo andare”
La principessa annuisce, poi si leva il mantello e lo avvolge sul corpo freddo del prigioniero. Lui rimane disorientato. Sono mesi che non possiede un abito e il mantello è soffice e caldo sulla sua pelle.
- “Lascia fare a noi, Milanda”
Quello che deve essere il cugino Laish si china su di lui. È alto, biondino, snello. Lui e il suo scorter lo sollevano e lo costringono a camminare verso l’uscita. Non ha la forza di ribellarsi e lascia che lo trasportino attraverso i corridoi e poi fuori, finalmente, da quel luogo che per mesi è stato teatro di atroci sofferenze.
Lo caricano su un carro e  partono.
Steso sulla schiena, osserva il cielo correre sopra ai suoi occhi. Sono mesi che non respira aria pulita, che non sente il sole sulla pelle. Poi il corvo taglia l’azzurro del cielo e all’improvviso si rende conto di avere una speranza.
Quello è il suo corvo, è ancora lì nonostante siano trascorsi mesi, pronto a portare un messaggio ai suoi alleati.  Possono esserci ancora salvezza e vendetta.
 
Quando raggiungono il limitare di un bosco lo fanno scendere. Lo scorter se ne va con il carro, dicendo che si allontanerà il più possibile per cancellare ogni pista. Laish invece lo prende in spalla, perché lui  non è in grado di muoversi e si addentra nella foresta assieme alla principessa.
Non comprende cosa stia succedendo, ma non ha la forza di farsi domande. Ogni residuo di energia deve essere impiegato per la salvezza e per la vendetta.
Camminano a lungo, quando si fermano è il crepuscolo. Si trovano nel fitto del bosco e lui non può nascondere la sorpresa quando si accorge di un rifugio costruito in cima a un enorme albero. Sembra una vera e propria casa, appoggiata a un ramo solido e gigantesco. Laish si arrampica e fa calare una scaletta di corda, poi torna per portarlo in cima. L’interno della casa è sorprendente, ci sono un tavolo e delle sedie, una credenza ricolma di oggetti e un materasso ampio gettato a terra.
Non sa cosa pensare, ma ha smesso da mesi di fare domande perché uno schiavo non ha diritto a risposte.
Lo appoggiano sul letto e lui rimane seduto immobile, in attesa. Quel viaggio l’ha sfiancato.
Passa un po’ di tempo, Milanda e Laish sono scesi a terra, capisce che hanno acceso un fuoco. Quando lei arriva, tiene in mano una bacinella d’acqua calda e uno straccio.
Si inginocchia dietro di lui e abbassa il mantello. Lui è rigido di tensione, non sa cosa stia per succedere. Ma Milanda intinge lo straccio in acqua calda e sapone e inizia a strofinargli delicatamente le spalle.
- “Avete bisogno di lavarvi, il vostro corpo è gelato” – dice lei e lui si accorge che ha ragione. Solo a contatto con l’acqua calda si rende conto della sua temperatura spaventosamente bassa.
Chiude gli occhi e si chiede cosa stia succedendo. Sa che ci sono cose che stonano, che hanno dell’inspiegabile. La principessa lo guarda in faccia e gli parla. Lo sta lavando con le sue stesse mani. E si trova con lui nella casa sull’albero di un bosco enorme.
Milanda gli pulisce la schiena martoriata con delicatezza e lui si sforza di non gemere di dolore. Poi lei gli gira intorno e gli lava il viso, il petto, i fianchi. Quando arriva all’ombelico, lui si irrigidisce, ricordando le umiliazioni nella casa delle valutazioni. Ma lei si alza e gli chiede di avvicinarsi alla bacinella.
- “Vi aiuterò a lavarvi i capelli”.
Lui oggi non ha la forza di ribellarsi a niente. Non aveva energie quando stava appeso nella stanza ore prima, dopo quel lungo viaggio non ha più neppure pensieri.
Si lascia lavare i capelli e lei lo fa con tocco gentile.
- “I vostri capelli sono nerissimi”- commenta lei – “E la vostra pelle è olivastra. Qui a Saridan abbiamo colori molto più chiari.”
Lui non risponde, ma beve quelle parole e le accantona in un angolo di mente. Sa che più tardi gli frulleranno in testa, perché hanno qualcosa di miracoloso.
Lei gli pettina i capelli umidi e poi gli lascia in mano la spugna.
- “Ecco, lavatevi  il resto del corpo, ora vi porto abiti puliti”
E lo fa davvero. Ha appena finito di sciacquarsi che lei arriva con vestiti maschili di buona manifattura e glieli porge. Ma non è solo quello. Quando lui si è vestito, lei, che era scesa accanto al fuoco, torna con due piatti di minestra e uno glielo lascia fra le mani. Gli raccomanda di mangiare lentamente, perché il suo corpo è disabituato al cibo.
Il profumo gli fa girare la testa, ma si controlla e mangia con lentezza esasperante. Sa che lei ha ragione riguardo al suo stomaco, ma soprattutto sa di non volersi umiliare mangiando come una bestia davanti a lei. Eppure, mentre si porta il cucchiaio alle labbra, il suo braccio trema. Il sapore del cibo gli toglie quasi i sensi.
- “ Principe, non so ancora il vostro nome.”
Lui alza lo sguardo di scatto e la osserva davvero per la prima volta.
Piccola e minuta, con quel visino contornato da una massa di ricciolini fini rossi tenuti a bada da mille forcine. Occhi di un verde scuro liquido, incandescente, troppo grandi per quel viso. Lentiggini ovunque.
 - “Siete una bambina.” – dice lui, sorpreso.
- “Non credo di essere  tanto più giovane di voi.”
- “Ho quasi diciannove anni.”
- “Io ne ho quindici e mezzo. Vedete che fra noi ci sono sì e no tre anni!”
Lui sbatte le palpebre. Fa fatica a distogliere lo sguardo da quegli occhi. Quindici anni e mezzo sono pochi,  ma quegli occhi verdi non sono quelli di una bambina.
- “Come devo chiamarvi?” – domanda ancora lei.
È tentato di ostinarsi e non rispondere, ma sono mesi che nessuno pronuncia il suo nome. Si sorprende all’improvviso di averne uno.
Apre bocca e il suono esce, familiare e stonato allo stesso tempo – “Axel”.
Lei annuisce.
- “Axel, sarò chiara. Siete palesemente denutrito e disidratato e la temperatura del vostro corpo è troppo bassa. La vostra muscolatura è buona, ma è evidente che da troppo tempo non fate sufficiente esercizio fisico. Mi stupisce che non vi siate ancora gravemente ammalato.”
Quelle parole lo fanno infuriare.
- “State dicendo che non valgo tutti i soldi che avete speso per me?” – sbotta, sarcastico – “Sono un acquisto deludente, principessa?”
Neanche stavolta però, riesce a scomporre  il suo sguardo.
- “Sto dicendo che dovete avere riguardo di voi e che non dovete tentare colpi di testa finché non avrete recuperato le forze. Chiamate il vostro corvo se volete e mandate un messaggio ai vostri amici. Sono certa che vi stiano aspettando per delineare con voi la linea d’attacco per rimettervi sul trono.”
Vedendo che lei sa del corvo, Axel è disorientato. Ma lei si alza in piedi e fa un cenno verso la finestra. Il corvo è appoggiato su un ramo poco distante, quando si sente osservato, si alza in volo e lo raggiunge.  Sorpreso, Axel si vede porgere carta e penna.
- “Cosa intendete fare?” – ribatte – “Volete catturare i miei alleati? Pensate che li farei cadere nella vostra trappola?”
- “Non ho interesse per i vostri alleati” – risponde lei e anche se lui non le crede, non può fare a meno di sentirsi attratto ancora una volta dai suoi occhi verdi – “Scrivete ciò che volete, il vostro corvo arriverà a loro e li porterà qui.”
Axel scuote le spalle, confuso da quell’atteggiamento. Qualunque cosa ci sia sotto, quella è un’occasione che non può perdere.
Afferra la biro e scrive:
 
“Sono stato venduto al re di Saridan, ora mi trovo in un rifugio nel folto di una foresta. Seguendo il corvo mi troverete. Portate con voi armi e corde, sono con la principessa di Saridan, decideremo sul momento se catturarla oppure ucciderla.”
 
Affigge in calce la sua firma, poi consegna il biglietto al corvo e lo osserva volare fuori dalla finestra.  La principessa non bada a lui, disinteressata a qualunque messaggio abbia scritto.
Non gli era parsa tanto stupida, ma evidentemente la è.
Laish entra nel rifugio.
- “Dormirò fuori, facendo la guardia. Sarò fuori portata d’orecchio, per cui se tu avessi bisogno non ti sentirò. Dovremo legarlo”
- “Non è necessario, è così debole!”
- “Milanda, lui non ha altri pensieri che ucciderti! Riesci a immaginare cosa possa provare nei tuoi confronti?”
- “Lo so, ma è rimasto legato talmente tanto a lungo... ha i polsi scorticati, la schiena devastata! Non possiamo lasciarlo riposare in pace?”
- “Non a costo della tua vita!”
Laish gli si avvicina e gli lega i polsi uno contro l’altro. La carne infiammata brucia, ma se non altro non ha le braccia dietro la schiena.
Il giovane afferra una coperta ed esce. Axel si ritrova a fissare Milanda, rimasta in sottoveste per la notte.
- “Avete sete?” – gli chiede.
Lui non risponde, ma lei capisce comunque. Gli avvicina una tazza alle labbra e lui beve, ma l’acqua gli va per traverso e si ritrova a tossire. Cerca di pulirsi la bocca con le mani legate, ma è davvero umiliante. Milanda lo osserva in silenzio, poi getta uno sguardo fuori dalla finestra e si alza. Ormai la stanza è illuminata solo dalle candele accese e Axel non comprende subito che lei stringe fra le mani un coltello.
Gli libera le mani e gli consegna un’altra tazza colma d’acqua.
- “Il materasso è vostro” – gli dice – “Sono mesi che non dormite su un letto e anche se questo giaciglio lascia a desiderare, sono certa che lo apprezzerete ben più di me”.
Sorpreso, Axel la osserva coricarsi poco più in là, sopra a una coperta stesa sul pavimento. Beve lentamente, richiamando la lucidità necessaria a capire cosa stia succedendo. Ma la lucidità non arriva.
Per la prima volta da mesi è pulito, caldo e coperto. Indossa abiti, ha la gola bagnata e qualcosa nello stomaco. Si stende sul materasso e la sua comodità lo fa quasi piangere di commozione. Il torpore lo assale all’improvviso e anche se le sue mani libere prudono per il desiderio di uccidere la principessa di Saridan, il resto del suo corpo sprofonda nell’oblio... Un oblio meraviglioso, che assomiglia al piacere puro. Axel si rassegna e si lascia andare.
 
Al risveglio non c’è nessuno che lo prende a calci su un pavimento duro, non c’è nessuna frusta, non ci sono corde. Ha dormito così tanto, che il sole è già alto nel cielo. Indossa ancora i vestiti della sera prima, il materasso è morbido, le coperte calde e accanto al letto qualcuno ha lasciato acqua e pane. E nessuno lo sta sorvegliando.
Axel sa che non è necessario finché ha quel marchio sulla spalla, uno schiavo che gira da solo, senza un permesso scritto dal padrone, viene immediatamente fermato e riportato al mittente.
Eppure questa improvvisa libertà lo lascia smarrito.
Mangia e beve, si lava il viso nel catino e poi si affaccia alla porta della casa. Sotto di lui il fuoco è ancora acceso e Laish sta facendo colazione. O forse sta pranzando, considerata la posizione del sole.
Laish alza la testa verso di lui e gli fa cenno di scendere.
- “Venite, volete un po’ di zuppa?”
Axel scende cautamente, rendendosi conto di aver recuperato parte delle sue forze. Accetta la zuppa e siede in silenzio vicino al fuoco.
- “Milanda mi ha dato il cambio, sta sorvegliando la zona” – gli spiega il giovane – “E se avete voglia di godere dell’aria aperta, io prenderei volentieri il vostro posto sul materasso “ – lancia un’occhiata ai suoi polsi liberi – “Immagino che se non ci avete uccisi stanotte, non lo farete nemmeno oggi. E non ne avreste convenienza, finché avete quel marchio sulla spalla.”
Axel sorride amaramente.
- “Non ne avrei convenienza? Avrei tolto di mezzo due eredi al trono di Saridan, vi sembra poco?”
- “Mi sembra molto poco in effetti, di fronte alla prospettiva di tornare libero e riappropriarsi del proprio regno.”
- “Ma questo non può accadere.”
Laish lo fissa in silenzio, i suoi occhi verdi sono molto simili a quelli della cugina.
- “Axel... è questo il vostro nome, vero? Prestatemi ascolto, voi non siete nostro prigioniero. Se preferite, potete andarvene in qualunque momento.”
- “Non prendetemi in giro, signore. Non ho sufficienti forze per stare allo scherzo.”
- “Chiamate  questo uno scherzo?” – dice lui stupito, guardandosi intorno – “Vi siete domandato perché ci troviamo in un bosco e non al palazzo reale?”
Axel non risponde.
- “Quando mia cugina si è resa conto che fra gli aspiranti scorter c’era anche un principe di Verathan, non ha più avuto pace. Non poteva tollerare che umiliassero a tal punto un essere umano e ha accettato solo per aiutarvi che il re vi acquistasse. Ha chiesto a me e a Yulien di assecondarla nel suo piano, costruendo questo rifugio in cui nasconderci dagli uomini di suo padre. Il re e Shalamanka ci aspettano a palazzo entro stasera, quando non ci vedranno arrivare scoppierà un putiferio. Avete idea dei guai che passerà Milanda, quando sapranno che ha lasciato scappare un principe di Verathan? Suo padre non vedeva l’ora di avervi con lui per sfogare su di voi l’ira che nutre verso il vostro popolo. Mia cugina non passerà dei momenti buoni, di ritorno a palazzo. Per cui vedete... non abbiamo affatto voglia di scherzare.”
Axel scuote la testa frastornato, i suoi occhi azzurri si fissano taglienti su Laish.
- “Vi renderete conto che è difficile credervi, spero.”
Laish scrolla le spalle.
- Avete guardato in faccia mia cugina, principe? Forse sono ingenuo, ma credo che non ci sia assicurazione migliore.” – si alza in piedi scuotendo l’erba dai pantaloni – “Vado a dormire un po’. Vi consiglio di non sprecare tempo a tentare fughe rovinose, sarà Milanda stessa a darvi una libertà più sicura. Se fossi in voi approfitterei di questa giornata per mangiare, passeggiare sotto il sole e riposarvi. Avrete bisogno di energie per riappropriarvi del vostro trono.”
Così dicendo, Laish sale la scaletta ed entra nel rifugio. Non si ferma neppure un istante a controllare le intenzioni di Axel.
Lui, dal canto suo, approfitta del consiglio che gli è stato dato. È inutile tentare la fuga spostandosi dal luogo dove il suo corvo l’ha visto l’ultima volta. I suoi compagni sono l’unica speranza di un’evasione efficace.
In quanto alle parole di Laish, non ci vuole pensare. Le illusioni non fanno più parte del suo campo visivo, Axel crede solo a ciò che ha di fronte agli occhi.
Crede alle ferite sulla pelle, al sorriso perverso di chi gode nel vederlo sottomesso, alle dolorose contorsioni del suo stomaco vuoto. Le parole sono solo parole. Lui stesso ne ha pronunciate tante e non erano che aria che spostava altra aria. “Non farò nulla di ciò che mi chiederete, se non riceverò un po’ di rispetto” 
Axel potrebbe ridere, ripensando alla vanità del suo parlare.
Tuttavia, quando dopo una passeggiata sotto il sole si stende a riposare sull’erba e assapora il piacere di quell’istante, non può fermare i pensieri che dal giorno prima bussano alla soglia della sua coscienza. Li ha tenuti lì, immobili, temendo e assaporando il momento di prenderli in considerazione e adesso che apre uno spiraglio nella loro direzione, gli scappano di mano come sabbia nel vento, avvolgendo tutto ciò che lo circonda.
 
E adesso non può più negare a se stesso  quello che è successo.
La principessa l’ha guardato in viso, dritto negli occhi, gli ha parlato come una donna parla a un uomo. Gli ha dato del voi, lo ha chiamato principe.
Gli ha offerto l’acqua e non ha riso della sua sete. Ha lasciato la borraccia nelle sue mani finché ha voluto.
Poi si è tolta il mantello e l’ha coperto, dal freddo e dalla vergogna.
Ha lavato le sue ferite e i suoi capelli, ma ha rispettato la sua intimità. Gli ha dato vestiti e cibo, e poi il suo giaciglio. Non ha reagito alle sue provocazioni neppure una volta.
E tutto questo è penetrato in Axel, goccia dopo goccia.  Il suo animo inaridito ha bevuto ogni istante dell’umanità che Milanda gli ha offerto. Mentre il suo corpo reagiva difendendosi, odiando, il suo animo si protendeva verso quegli occhi verde incandescente.
Occhi gentili, trasudanti calore. Un calore che si accosta a un corpo contratto dal dolore e dall’odio.
Axel pensava che la sua anima fosse scappata, quando lo avevano trasformato in bestia.
Ma forse era solo congelata nell’odio.
Forse qualcosa ha iniziato a evaporare.
 
Era semplicemente un oggetto indefinito, un corpo per il piacere altrui, un animale da battere. Era ferite aperte, fame, sete, dolore, freddo e desiderio di vendetta.
E poi quelle parole.
“I vostri occhi azzurri sono trasparenti come acqua”
E lui all’improvviso ha di nuovo degli occhi azzurri.
“I vostri capelli sono nerissimi, e la vostra pelle è olivastra”
Ed ecco che lui torna ad avere dei capelli, una pelle.
Poi lei parla del suo corpo denutrito, e lui si ricorda che quel corpo, a uso e consumo degli altri, in verità è suo.
Quando gli ha chiesto il nome, lui all’improvviso è tornato Axel.
Ieri a quell’ora era un animale, come lui stesso si vedeva.   Ma oggi ha un corpo, ha un nome, ha di nuovo un’identità. È bastato uno sguardo caldo, sono bastate parole che danno per scontato ciò che scontato non è più e lui è tornato a essere se stesso.
Axel odia ancora, ma cosa succede quando marchi di calore affondano là, dove il dolore ha lasciato il segno?
Non ne ha idea. Ma mentre il gelo e il caldo combattono per trovare entrambi posto sotto la sua carne, Axel sente la sua anima battere un fremito.
 
 
 

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Capitolo 3
*** Marchi di speranza ***


- 3 -

Marchi di speranza
 
 
Milanda è tornata al tramonto e Laish le ha dato il cambio.
Axel non sa per quanto tempo le cose andranno avanti in questo modo, né ha un’idea precisa della zona di Saridan in cui si trovano. Immagina però che i suoi alleati non siano distanti dal confine e che nel giro di un’altra giornata possano raggiungerlo.
Ha cenato in silenzio e quando l’oscurità è scesa, è risalito lungo la scaletta verso il letto. Milanda però si sta pettinando seduta sul materasso. Gli sorride e vede i suoi occhi verdi colmi di imbarazzo quando gli chiede – “Vi dispiace se dormo sul materasso con voi? Temo di non essere abituata a riposare sul pavimento... stamattina mi sono svegliata tutta indolenzita.”
Si vergogna della sua debolezza e teme che lui, che ha sopportato tanto, la giudicherà per quella richiesta.
Axel si stupisce di capirla così bene. Per mesi non ha guardato in faccia nessuno, si era disabituato a leggere le emozioni altrui. Eppure oggi lo fa con facilità, come se non avesse mai smesso.
Alza le spalle in un gesto di disinteresse e si butta sul materasso accanto a lei. Potrebbe coricarsi a fianco di un elefante, per quel che lo riguarda, non basterebbe comunque a privarlo del piacere di dormire nuovamente in un letto.
Milanda spegne la candela e si corica vicino a lui, la luce chiara della luna gli permette di distinguerne chiaramente la sagoma. È assurdo che lei non tema la sua vicinanza. Le ha giurato vendetta, ha promesso che l’avrebbe uccisa. Come può dargli fiducia così ingenuamente?
 
 
  Non si è nemmeno accorto di essersi addormentato, ma quando sente la mano di lei sul suo petto, quando capisce che lei vuole usarlo come le donne alla Casa delle Valutazioni, si sveglia all’improvviso e reagisce. Si volta di colpo, violentemente, e la immobilizza con il suo corpo imprigionandole le mani ai lati della testa.
- “Cosa volete fare?” – ansima, mentre l’odio gli trasuda dalla voce – “Avete un unguento anche voi? Non vi permetterò di farmi violenza, non sarò un corpo per il vostro piacere! “ – avvicina il viso al suo, con rabbia – “Non lo sarò mai più, mi capite?”
Così vicino al suo viso però, vede con chiarezza i suoi occhi illuminati dalla luna. Occhi sbarrati, sbigottiti, in un viso innocente. E all’improvviso, Axel sa con chiarezza che lei è vergine. Capisce che l’ha sfiorato per sbaglio, nel sonno, e che lui, terrorizzato e confuso nel dormiveglia, ha frainteso.
Rimangono fermi in quella posizione un istante, mentre la consapevolezza di quello che è accaduto attraversa gli occhi di Milanda.
Axel si stacca da lei e raggiunge il bordo del materasso. Il cuore gli martella in petto come un tamburo, fa fatica a rendersi conto di non essere realmente in pericolo.
- “Axel...” – la voce di Milanda lo raggiunge appena percettibile – “Vi hanno fatto veramente questo?”
Lui si morde le labbra, si detesta per quello scatto. Ora lei sa e con questo la sua umiliazione è completa.
- “Axel...stavate sognando vero? Non... non hanno osato veramente...”
- “Sognando?” – scatta lui, mentre la rabbia lo travolge – “Credete che abbia sognato di restare legato a una tavola per ore e ore, mentre donne sconosciute, una dietro l’altra, usavano il mio corpo per il loro sporco comodo?” – tremava di indignazione e di furia. Non voleva che Milanda sapesse, ma al contempo non poteva tollerare che non sapesse quello che si faceva nel suo regno – “Come potete essere così sciocca e ingenua? Ve ne state nel vostro palazzo dorato, in mezzo al lusso e alle comodità, mentre i vostri schiavi dormono per terra, nudi, affamati e senza alcuna possibilità di replica, perché replicare significa solo soffrire all’infinito sotto una frusta, o legati a un tavolo in balia di un maledetto unguento che non smette mai di...” – gli si rompe la voce e si ferma, sbalordito dalle sue stesse parole.
Milanda gli ha dato la schiena e se ne sta immobile in silenzio. Offesa per quell’aggressione, con tutta probabilità.
Lui non sa più cosa fare e sta pensando di tornare a coricarsi, quando un sussulto nelle spalle della principessa lo ferma. Istintivamente la prende per un braccio e la costringe a girarsi. Lei si oppone, ma prima che riesca a nascondere nuovamente il viso, vede il suo volto rigato di lacrime.
- “Cosa vi prende?” – mormora, sconcertato – “Perché piangete?”
Lei scuote la testa, non vuole rispondere, cerca solo di nascondere la sua reazione.
Ma alla fine si gira lentamente, vergognosamente.
- “Mi dispiace” – sussurra – “Sono una sciocca a piangere. Siete voi a doverlo fare, non io... Ma è che... non avevo capito. Non davvero. Pensavo di sapere cosa succedeva nelle Case delle Valutazioni, perché raccoglievo in merito ogni voce che arrivava a palazzo. Ma nonostante questo, quando vi ho visto in carne e ossa, ridotto com’eravate, mi è mancato il fiato. Era mille volte peggio di quanto mi ero figurata fino ad allora. E tuttavia pensavo ormai di avere capito, pensavo di aver visto il peggio... E invece...” – affonda il viso nel lenzuolo, per nascondere una nuova ondata di lacrime – “Non avevo capito niente. Non avevo capito quello che cercano di fare. Di spezzare le persone, di annientarle finché resta di loro solo pelle vuota. Vi hanno tormentato oltre il limite del sopportabile e io... non so... come siate sopravvissuto...”
Axel non ha mai pianto nei lunghi mesi di prigionia. Gli animali non piangono e lui non aveva più l’anima per farlo.
Ma le parole di Milanda gli scavano nel cuore e lui ascolta sulle labbra di lei il suo stesso dolore, le sue lacrime rendono visibile la sofferenza che lui ha patito. Ascoltando la voce di Milanda, si rende veramente conto di quello che gli hanno fatto.
Sente le lacrime scivolargli dagli occhi e stupefatto le scaccia con il dorso della mano, ma altre prendono il posto delle prime. Non riesce a smettere di piangere, poiché vede se stesso con gli occhi di Milanda, immobilizzato e costretto a subire l’insopportabile.
Lei allunga una mano e afferra la sua, che sta ancora cercando di respingere le lacrime.
- “Non vergognatevi, avete il diritto di piangere... avete ragione a piangere” – sussurra.
A quello parole lui scoppia in singhiozzi, si perde in un pianto rotto, devastante. Piange su ciò che ha perduto, su ciò che non ritroverà più. Per la prima volta versa lacrime sulla morte di suo padre e sul funerale cui non ha mai partecipato, piange sull’innocenza che ha perso, sulla sua fiducia nell’uomo che è andata distrutta, sui sogni e sugli ideali che nutriva e che ha scoperto non essere altro che un vento passeggero. Piange per ogni frustata, per ogni umiliazione che ha sofferto, per ogni parola di conforto che non ha ricevuto, per tutta la solitudine che è stato costretto ad accettare. Per ogni marchio di dolore congelato nella sua carne. Per la consapevolezza che non tornerà mai più ad essere la persona che era.
E mentre i singhiozzi lo devastano, in singulti disperati, si accorge che la principessa di Saridan, la sua mortale nemica, lo sta abbracciando. Lo stringe a sé come fosse un bambino, mentre continua a mormorare – “Avete ragione, avete così ragione a piangere...”
E le sue parole lo fanno singhiozzare, se possibile, ancora di più. I marchi di dolore gocciolano dai suoi occhi, frammento dopo frammento, mentre il calore dell’abbraccio di Milanda stempera l’odio in un sentimento che Axel riconosce troppo simile alla disperazione.
 
- “È stata zia Resi a farmi vedere la verità” – sussurra Milanda nel buio – “La madre di Laish. Fin da quando ero bambina ha continuato a ripetermi che Saridan stava sbagliando. Che la guerra con Verathan era un errore e che la schiavitù era... un orrore. Errore e Orrore. L’ha ripetuto fino allo sfinimento, a me e a Laish, e ci ha fatto promettere che avremmo cambiato le cose quando sarebbe stato il nostro momento. Lei adesso è morta, ma i suoi insegnamenti sono gli unici che io riconosca sensati. Negli anni io e Laish abbiamo cercato di scoprire cosa avvenisse realmente alla Casa delle Valutazioni. Gli schiavi che arrivano a palazzo sono tutti di livello piuttosto alto, ben istruiti, ben nutriti... oh, è sempre schiavitù, ma non è... come quello che ho visto quando sono venuta a cercarvi. Non vi è neppure lontanamente simile. Sapevo che fuori dal palazzo c’era... di peggio, ma...” – deglutisce e lancia uno sguardo afflitto ad Axel, che siede nel buio sul materasso, con la schiena appoggiata al muro. Lui si sente completamente svuotato.
- “Quando mio padre ha iniziato a vantarsi dell’acquisto di un principe di Verathan, non ho creduto alle mie orecchie. Credevo che schiavi si nascesse... era una condizione disumana, ma se non altro l’unica che queste persone conoscessero. Ma sapere che si poteva diventare schiavi dopo aver vissuto come uomini liberi... sapere che un principe poteva diventare schiavo del suo nemico... è stato uno shock per me. Trovavo intollerabile che per mio padre tutto questo fosse accettabile... zia Resi sarebbe morta di indignazione vedendo suo cognato gongolare per qualcosa di tanto ... disgustoso. Tuttavia la mia autorità a palazzo è limitata, non ho potuto contrastare apertamente mio padre ordinando la vostra liberazione immediata. Ho dovuto studiare questo sotterfugio, nella speranza che ogni cosa andasse bene. Devo ringraziare Laish e Yulien che mi hanno aiutata, altrimenti, da sola, non avrei saputo come fare.” – sorride imbarazzata – “Purtroppo mi ritrovo ad essere una persona piuttosto inutile”.
 
Axel ha ascoltato ogni parola, nascosto dal buio della stanza. Milanda è illuminata dalla luna e la sua presenza, la sua voce, sembrano far tutt’uno con i raggi lattiginosi che schiariscono il materasso.
Non è ancora sicuro di fidarsi, perché dopo ciò che ha vissuto crede che non si fiderà mai più. Ma il suo cuore pesa cento volte meno e per il momento questo gli basta.  Porta ancora sulla pelle il tepore delle sue stesse lacrime e le sue spalle ricordano la forma dell’abbraccio di Milanda.  È più di quanto abbia ricevuto in quei mesi, è più calore di quello che gli sia mai stato offerto da quando suo padre è morto.  È tutto ciò che ha, e se lo tiene ben stretto.
 
Il pomeriggio dopo, Milanda torna dalla ricognizione in anticipo rispetto al giorno precedente. Sembra che abbia in mente qualcosa e infatti lo chiama vicino al fuoco. Tiene in mano un oggetto di metallo e lo sta arroventando alle fiamme, tenendolo stretto tra due pinze. Axel aguzza la vista finché non si rende conto che l’oggetto è il sigillo del casato reale di Saridan.
- “Axel, sapete come si fa ad affrancare uno schiavo?”
Lui è stupito. - “Non credevo si potesse.” – ammette.
- “In effetti accade così di rado, che si crede quasi inutile parlarne.” – Milanda avvicina il sigillo al viso, controllandone la temperatura – “Toglietevi la maglia”
Lui rimane immobile. Non è propenso a spogliarsi nuovamente davanti lei, è rimasto nudo per un tempo più che sufficientemente lungo.
Milanda riavvicina il sigillo al fuoco, senza girarsi.
- “Toglietevi la maglia, Axel – ripete – “Non posso affrancarvi, se non mi porgete la spalla nuda.”
Per un istante gli manca il fiato.
- “Vo..lete dire che..?” – balbetta, quando ritrova il respiro.
- “Il sigillo reale posto sopra al marchio di schiavitù, ne annulla gli effetti. Solo il re può affrancare uno schiavo e renderlo un uomo libero.” – si gira verso di lui e sorride – “Naturalmente ho preso in prestito il sigillo di mio padre. Beh.. lui non sa nulla di questo prestito... Ma a conti fatti, il risultato è lo stesso. Quando avrete il marchio, nessuno potrà più rivendicare diritti su di voi.”
Solamente due giorni prima, Axel avrebbe pensato a un crudele scherzo. Non avrebbe dubitato che quelle parole celassero l’intenzione di farlo soffrire doppiamente, per il dolore di una bruciatura e per l’illusione vana di potersi salvare.
Ma oggi si leva maglia con un sol gesto e si volta verso la principessa, porgendo la spalla con il marchio di schiavitù.
- “Vieni, Laish!” – chiama Milanda, togliendo ancora una volta il sigillo dal fuoco – “Aiuta il principe a restare immobile, mentre appongo il simbolo!”
Laish arriva, Axel si appoggia a lui mentre il ferro arroventato gli brucia la carne. Sono mesi che soffre, ma questo dolore è il primo che riconosce sensato.
 
 
Più tardi Milanda gli lava la spalla con acqua fredda e poi appone una pomata lenitiva che lo aiuti a sopportare il bruciore. Axel contempla stordito quel minuscolo emblema che, da un istante all’altro, gli ha restituito la libertà.
Non è più uno schiavo, nessuno ha più il diritto di valutarlo e di assegnarli punteggi, di immobilizzarlo e punirlo, di schernirlo o usarlo.
Una piccola bruciatura dalla forma di un airone in volo lo ha trasformato nuovamente in un essere umano.
La novità è così inaspettata, così sorprendentemente enorme, che non riesce a dire nulla. Siede vicino al fuoco in silenzio, sopporta il dolore del marchio e aspetta che la consapevolezza raggiunga ogni angolo della sua mente.
 
 
Nel frattempo cala l’oscurità, Laish torna a fare la guardia, Milanda scalda della zuppa e gliela porge. Axel continua a tacere, mangia avvolto da una patina di irrealtà.
Milanda si alza, comincia a riordinare il campo, ma lui resta fermo a osservare il fuoco che lambisce la notte.
È un rumore sordo a farlo riscuotere, unito a un gemito soffocato.
Si volta di scatto, balzando in piedi, tutti i sensi all’erta. E si trova di fronte a un viso conosciuto.
Batte le palpebre due, tre volte, prima di dare a quel volto un  nome.
- “...Selander?”
Il giovane, uno dei migliori amici della sua infanzia, il più fedele dei suoi sudditi, è fermo di fronte a lui. Con un braccio immobilizza Milanda a sé, con l’altro le tiene un coltello puntato alla gola.
- “Abbiamo fatto come ci hai detto, Axel. Siamo stati prudenti e abbiamo aggirato il ragazzo che faceva la guardia. Abbiamo lasciato Vinor a tenerlo d’occhio, qui ci siamo solo noi due.”
Alle sue spalle, Axel vede Roman, un altro dei fedeli compagni della sua infanzia. Quando zio Aratan l’ha tradito, diversi amici non hanno esitato a lasciare il palazzo per creare  una fazione a suo favore.
- “Axel, sei irriconoscibile” – mormora Selander, guardandolo meglio. Sembra manifestamente scosso. I suoi occhi corrono lungo il corpo magrissimo e ferito del principe – “Come hanno osato, questi sporchi selvaggi?”
Così dicendo, accentua la stretta su Milanda e le sfiora il collo con il coltello, palesando di pregustare il momento di squarciarle la gola e  vendicare il  principe.
- “Non vedo motivo di portare la principessa di Saridan con noi” – aggiunge, strattonandola a sé – “La uccido, così ce ne andiamo immediatamente.”
Cerca con gli occhi quelli di Axel, perché dia l’assenso all’esecuzione e lui rimane per un istante sospeso tra due scelte contrastanti. È il momento della vendetta, quello che ha agognato per più di sei mesi, mentre si dibatteva tra odio e dolore. Se uccide l’erede di Saridan, l’unica figlia del re, causerà a quel maledetto regno un danno considerevole.
Guarda Milanda trattenendo il respiro. Lei non dice nulla, i suoi occhi verdi non supplicano, aspettano semplicemente che lui prenda una decisione.
- “Non è la principessa di Saridan, mi sono sbagliato.” – dice.
Roman trasale, Selander prende un’espressione incredula.
- “Sbagliato? Sei impazzito Axel? Stiamo parlando dell’erede al trono di Saridan, della nostra vendetta! E tu mi dici di esserti sbagliato? Come puoi sbagliare su una cosa simile?”
Axel gli restituisce uno sguardo obliquo - “Solo gli imbecilli non si sbagliano mai - dice, sfidandolo a smentirlo  – “Credi che io sia un imbecille Selander?”
Il giovane rimane spiazzato, torna immediatamente nei ranghi.
- “No... certo che no... non oserei mai...”
- “Allora lasciala.”
Selander, ancora dubbioso, abbassa il coltello e libera la ragazza. Sembra deluso, frustrato.
- “Abbiamo esaurito le scorte di cibo” – interviene Roman – “C’è qualcosa che possiamo prendere?”
Milanda indica il rifugio sull’albero.
- “Lì troverete qualcosa da portare con voi”.
Entrambi i giovani salgono la scaletta e scompaiono ai loro occhi.
- “Grazie” – pronuncia piano Milanda. Una parola che lui, a lei, non è ancora riuscito a rivolgere.
- “Voi passerete grossi guai per avermi aiutato.” – le dice invece – “Vostro padre sarà furioso.”
La ragazza si stringe nelle spalle.
- “Qualunque punizione dovrò sopportare, varrà bene la libertà di un uomo.”
Lui stringe i pugni - “Milanda... perché fate questo? Non posso credere che sia solo per gentilezza... che non ci sia un altro fine!”
Lei sorride. Un sorriso sottile, consapevole.
- “C’è sempre un altro fine.” –  ammette – “Axel, ora voi tornerete a Verathan, combatterete per riavere il trono e un giorno sarete re. Mentre io fra qualche anno sarò regina di Saridan. Quando tutto questo succederà... quando io sarò regina e voi sarete re, forse... forse voi vi ricorderete di un atto di gentilezza che la vostra nemica ha compiuto nei vostri confronti. Forse la guerra tra di noi vi sembrerà un poco più insensata.”
- “Milanda, mi state chiedendo di cessare la guerra fra i nostri popoli?”
- “Sto solo gettando un seme, principe. Un giorno mi direte voi se sarà sufficiente a parlare di pace.”
- “Verathan non potrà mai trovare un accordo con un popolo che perpetua la schiavitù!”
- “Allora forse Verathan potrà insegnarci a vivere senza schiavi.”
Lui sorride beffardo – “Per fare questo, i nostri popoli dovrebbero mescolarsi.”
- “Sì, lo dovrebbero” – Milanda non abbassa lo sguardo, i suoi occhi verdi non arretrano sotto a quella proposta così sfacciata.
Lui è sbigottito davanti a tanta audacia.
- “State ventilando l’ipotesi... di un nostro matrimonio?”
A quel punto lei sorride imbarazzata e l’antica vergogna torna a velarle lo sguardo.
- “Lo so... vi sembra inaccettabile. Detestate la mia gente ed è normale dopo ciò che avete sopportato. E io devo apparirvi una sciocca ingenua. Mio padre ripete in continuazione che sono una stupida illusa, piena di idee insensate. Se per lo meno fossi bella, la mia proposta vi parrebbe  meno ridicola. Tuttavia non posso farci niente.”
Roman e Selander scendono dalla scaletta con le sacche piene di cibo.
- “Siamo pronti Axel, andiamo. Dobbiamo avvisare Vinor della partenza.”
- “Sì, andiamo.”
Axel fa un cenno di saluto a Milanda e quando i due si inoltrano nel bosco li segue. È ancora frastornato per il susseguirsi degli eventi, per le ultime parole della principessa. Sa che lei non è affatto una sciocca ingenua. A quindici anni è una vera e propria rivoluzionaria, ha ordito un autentico complotto ai danni del re di Saridan per ridare la libertà al suo più acerrimo nemico. La testa di Milanda non è colma di stupide illusioni, checché ne dica suo padre. È una testa saggia... più saggia di quella di qualunque glorioso re sia mai salito sul trono di Saridan. E ha occhi caldi, caldi come il fuoco che gli ha ridato la libertà.
Si ferma e si gira verso di lei, che lo sta ancora guardando.
- “In ogni caso, per sicurezza, evitate di sposarvi nei prossimi tempi.” – le dice.
Gli occhi di lei si illuminano e in un istante gli corre incontro, gli butta le braccia al collo e accosta il viso al suo... Ma poi si ferma. Per rispetto a ciò che lui ha subito, non gli si imporrà mai. È Axel a colmare l’ultimo spazio tra loro e a sfiorarle le labbra con le sue. Lei risponde con altrettanta delicatezza e quel tocco, così in contrasto con la violenza che ha ricevuto negli ultimi mesi, apre nel suo animo uno spiraglio di fiducia nel futuro.
- “Voi che avete così sofferto, potreste mettere fine a tutte queste atrocità” – bisbiglia Milanda.
- “Vedremo” – risponde lui e stavolta si gira per raggiungere i suoi compagni.
Ma non può ignorare quella possibilità. Mentre accelera il passo verso i confini di Saridan, si rende conto delle infinite opportunità che Milanda ha aperto sul futuro.
Potrebbero scomparire gli schiavisti e le Case delle Valutazioni, ogni schiavo potrebbe tornare ad essere uomo, a vivere una vita degna di un essere umano. Le possibilità si spalancano davanti a lui.
Due occhi verdi, caldi come il sole estivo, hanno gettato un seme che sta già germogliando. I marchi di dolore non sono più circonfusi d’odio, ma di un calore che pian piano lascia spazio alla speranza. Ogni cosa sta diventando possibile. Axel si ritrova a sorridere.
Vedremo.
 

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