A Carne Viva

di timscrivello
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Al Bar ***
Capitolo 2: *** La Stessa Ombra ***
Capitolo 3: *** Modus Operandi ***
Capitolo 4: *** Beretta 92 ***
Capitolo 5: *** Sangue ***
Capitolo 6: *** Luna Piena ***
Capitolo 7: *** Allucinazioni. ***



Capitolo 1
*** Al Bar ***


Aveva cominciato a tracannare la terza birra quando si rese conto che erano solo le quattro e trenta.
Prese il cellulare dalla tasca sinistra dei suoi pantaloni e con molta difficoltà tolse il blocco tasti.
Nessun messaggio.
Lo posò con noncuranza nel bancone del bar e osservò il ristretto panorama di colori vitrei al di là del barista, l'ambiente era scuro, fumoso e deprimente.
Alla sua destra aveva una ciotola impolverata con delle arachidi, ne prese una e la sgusciò con i denti, la mangiò e si accorse che stava masticando anche un pezzo piccolo e insignificante ma fastidioso di scorza. 
- Ehi! Ma io ti conosco!- Disse un ragazzotto alla sua sinistra che con un gioco di luci riusciva a stare nella penombra.
Non riuscì a distinguere quella voce da quella del barista, quindi non ci fece molto caso.
- Ma sì, sei quello che ieri era al TG! Sei quel poliziotto...-
Un brivido corse lungo la schiena e si trasformò in un gran mal di testa.
Si grattò la tempia destra e sorrise amaramente e istericamente nello stesso tempo.
Si girò per osservare il ragazzo e si accorse che se lo era immaginato diverso. Era di bell'aspetto, occhi azzurri e un sorriso che stonava con l'arredamento spento del locale. Aveva la faccia di uno che aveva appena fatto sesso, e poteva anche essere così.
- Sono Giovanni Sperino, piacere!- e dicendo questo il ragazzo porse la mano.
Il poliziotto la prese con noncuranza ma la strinse con forza.
- Daniele Diaz, il piacere è tutto mio... - disse cercando di non sembrare scortese.
In quei giorni aveva ripetuto il suo nome più e più volte, purtroppo tutte in situazioni spiacevoli o quasi.
Daniele Diaz aveva cinquantaquattro anni, viveva con sua moglie e  suo figlio ed era poliziotto da una vita.  Aveva affrontato casi più o meno gravi, dalle indagini su spaccio di droga a follia omicida, ma non si era mai trovato davanti ad un caso come quello attuale.
Il ragazzo farfugliava qualcosa accanto a lui riguardo al caso in corso e lui si limitava ad annuire senza ascoltare. Giovanni era visibilmente eccitato dalle sue stesse parole e il poliziotto trattenne una risata per non sembrare scortese.
Controllò il cellulare di nuovo e interruppe il giovane che sembrava stordito dalla voce di Diaz.
- Ehi, calma! Calma! Ho l'impressione che sappia più tu su questo caso che io!- Disse, condendo il tutto con una risata amara. Giovanni si limitò a sorridere, non sapeva che rispondere, era veramente emozionato da quell'incontro.
- Di cosa ti occupi tu, invece?- Esordì di nuovo Diaz.
- Beh, studio all'università qui vicino,- Si schiarì la voce, poi continuò – Chirurgia, ultimo anno!- e sorrise cercando di farsi dire buona fortuna dal poliziotto.
Ma la parola “Chirurgia” portò Diaz in un turbinio di immagini rivoltanti e disgustose, ma non riusciva a non sorridere a quel ragazzo.
- Avete già una pista su chi possa aver ucciso quelle quattro ragazze?- 
A Diaz sembrò che il il giovane leggesse nel pensiero.
- Tre...-
- Come scusi?-
- Le ragazze sono tre...- Diaz si aiutò con la mano per sottolineare il numero.
- Oh, sì, mi scusi.-
Ci fu qualche momento di silenzio. Pensava e ripensava a quei corpi al limite della strada, nascoste solo da qualche cespuglio. Avvelenate dolcemente, poi smembrate e ricucite.
Marta, Giulia e Chiara, tre ragazze graziose con un futuro davanti a loro. Nessuna violenza sessuale, nessuna violenza fisica, se non da morte.
Pensarle e rivederle nude dietro un cespuglio o una siepe faceva quasi vomitare, ma l'alcool attutiva le visioni, le faceva sembrare melliflue, senza realtà.
Il cervello stava cominciando a fluttuare.
- No. - Rispose Diaz, - Nessun Indiziato.-
Giovanni cominciò a giocherellare con il suo bicchiere che conteneva un liquido rossastro, quando il cellulare cominciò a suonare.
- Qui è Diaz.-
- Daniele, sono Francesco...- La voce dall'altra parte del telefono sembrava sconnessa dal mondo, preoccupata, quasi andata a male.
- Dimmi Francesco, novità?- 
- Ne abbiamo trovata un'altra...-
Diaz si sentì mancare, toccò lo sgabello per sentire al tatto qualcosa di concreto, ma la notizia lo fece traballare e non potette fare a meno di mettersi in piedi.
- Come si chiama?-
- Cristina Gerchi, ma...-
Diaz conosceva bene quel “Ma”, quel “Ma” che ha ucciso migliaia di persone, che gli dava quel senso di vuoto, che rivelava un macabro dettaglio nascosto nelle fondamenta della mente malata di un assassino.
- Di cosa si tratta?- Disse infine.
- Alla ragazza non è stato posto un esame autoptico dal suo assassino...-
Diaz si sentì sollevato, non si sentiva più tanto teso, si immaginò un viso e un corpo d'angelo non sfigurato e, anche se era venuto a sapere della morte di un'altra ragazzina, sapere che non gli erano stati inflitti tagli e cicatrici lo rincuorò. Ma tutto svanì in un secondo.
- Grazie a Dio il corpo non è stato martoriato..- 
- Aspetta a dirlo.-
- Perché?-
- E' stata vivisezionata.-

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Capitolo 2
*** La Stessa Ombra ***


 

Cinque giorni prima della fine del mondo
 
Francesco Ruppo se ne stava sdraiato nel sedile posteriore della sua Panda di seconda mano, era riuscito ad avere il permesso di parcheggiarla vicino alla scena del crimine.
Non era il capo della scientifica, ma comandava lui. Era un bell'uomo e tutti pendevano dalle sue labbra, tutti lo ascoltavano e facevano in modo di accontentarlo in qualsiasi situazione.
Si massaggiava le tempie e pregò Dio di farlo sognare, ma riuscì solamente a pensare.
Marta Muzu frequentava il liceo scientifico e ogni pomeriggio andava al corso di recitazione; Sabato non ritornò a casa. Domenica mattina fu trovata vicino casa sua, dietro una siepe, il corpo esanime e profanato.
Cellulare e vestiti scomparsi nel nulla. Non possedeva un computer, quindi non trovarono nessun indizio. Stando ai genitori, nessun cambiamento d'umore.
Neanche una pista.
Giulia Cresti era all'ultimo anno delle medie, non era popolare, a scuola stava sempre in disparte, molti suoi compagni di scuola non la ricordavano e i compagni di classe si limitarono a dire che non parlava con nessuno o quasi, non aveva contatti con loro al di fuori della scuola.
Ogni tanto usciva di casa ma i genitori non sapevano dire dove potesse andare.
Ritrovata sempre vicino casa, sotto un cespuglio l'indomani della sua scomparsa.
Anche per lei cellulare e vestiti scomparsi nel nulla. Aveva un computer ma a parte qualche film piratato e qualche canzone non c'era niente di significativo.
Zero piste.
Il Caso di Giulia Cresti fu un fulmine a ciel sereno. La polizia di Lapizea non aveva mai avuto a che fare con un assassino seriale e tutti erano molto confusi.
Poi, d'un tratto, arrivò la bomba.
Chiara Diaz, quattordici anni, figlia di Daniele Diaz, poliziotto.
Cinque giorni prima questa notizia fece rabbrividire tutti. Se indagare su un Serial Killer era già difficile, indagare sulla morte di una persona così vicina dava il voltastomaco.
Chiara Diaz era scomparsa ed era stata ritrovata nello stesso modo delle altre due ragazze.
Nessuna pista.
Daniele, da poliziotto sobrio, divenne un alcolizzato in pochi giorni. Quando ti si avvicinava non sentivi più quell'odore lieve di dopobarba, o di dentifricio alla menta. Ormai quel poliziotto marcio odorava di sporco e di alcool.
Pensava al decadimento dell'amico quando tamburellarono in un finestrino.
Francesco si destò, vide che dall'altra parte del vetro opaco c'era Diaz che sorrideva, dopotutto.
Non si salutarono, non lo facevano ormai da molto tempo, era un segnale di dura e duratura amicizia.
Diaz cominciò a seguire Ruppo, anche se non ne aveva bisogno, aveva già individuato il cadavere, messo in bella mostra, non nascosto da un minimo filo d'erba, né da un albero secolare.
- Vedi tutto questo sangue?- Domando' Ruppo.
- Sì, che significa?-
- Non fosse stata morta, non sarebbe uscita una così vasta quantità di sangue...-
- E' stata violentata?- Lo interruppe Diaz.
- Non da viva.-
A quella risposta Diaz rabbrividì, voleva trovare un briciolo di umanità in quel mostro, voleva sapere se un giorno sarebbe riuscito a perdonarlo, o se potesse provar dolore ma non riusciva a trovare uno spiraglio di luce in quella bestia.
Si mise a piangere e si allontanò dal corpo che cominciava ad emanare un odore acre; Poi si accorse di qualcosa. Qualcosa che non lo convinceva.
Era passato da quella strada un sacco di volte, cosa c'era di diverso?
Si voltò e lo vide.
- Dove sono le siepi?- Domandò Diaz.
Ruppo sussultò.
- Le ha sdradicate il padre, un momento di follia...-
- Non voleva che nessuno nascondesse sua figlia sotto qualche siepe.- Concluse Diaz.
Ci fu un momento di silenzio.
- Sempre la stessa ombra, vero?- Domandò infine Diaz.
- Sempre la stessa ombra.
 

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Capitolo 3
*** Modus Operandi ***


 

Capirono di dover sorvegliare le case delle ragazze scomparse dopo il ritrovamento della seconda ragazza.
Un po' furono spinti perché si trattava della figlia di Daniele Diaz, un po' perché sembrava non si facesse problemi a lasciare le vittime accanto casa, così sfacciatamente.
Alle vittime era stato inflitto lo stesso modus operandi.
Venivano rapite o, meno probabilmente, si dirigevano nel covo dell'assassino. Venivano avvelenate e, appena morte, veniva fatta loro un'autopsia completa.
Prima veniva fatto un taglio a Y, che parte da entrambe le spalle fino a qualche centimetro sotto il seno, più o meno sviluppato o quasi inesistente; l'incisione profonda continuava fino a quasi superare l'ombelico.
Le cartilagini che collegavano la cassa toracica allo sterno risultavano recise e lo sterno era scomparso.
Gli organi, visti gli evidenti tagli, erano stati staccati rozzamente uno ad uno e non ce n'era più traccia. 
Il cervello era stato studiato ( parecchi tagli e cicatrici erano in bella mostra) ma non rimosso.
Dopodiché l'assassino (o, improbabilmente, qualcun altro) violentava la vittima.
Nessuna traccia di sperma, ma nella parte inferiore dell'inguine c'erano parecchi lividi e tracce di sangue coagulato, apparsi all'incirca nello stesso momento.
A Cristina Gerchi era stato riservato un trattamento speciale. Una vivisezione.
Tutto, per lei, era stato molto crudele.
Il veleno che l'assassino aveva inferto a Cristina Gerchi era poco, questo mandò la vittima in uno stato semi cosciente, quasi comatoso, in cui riusciva a sentire il dolore, ma non poteva reagire.
L'assassino, molto probabilmente, non si era accorto che Cristina non fosse morta, quindi iniziò a  recidere il suo busto con il classico taglio ad Y.
Il sangue, nel corpo di Cristina, circolava ancora abbastanza velocemente, quindi dopo il taglio cominciò a perdere abbastanza sangue, ma l'autopsia (ormai diventata vivisezione vera e propria) continuò senza interruzioni.
Fu violentata dopo la sua morte.
A conti fatti, il maniaco presentava i tratti psicologici di un serial killer vero e proprio: Uccideva regolarmente, non riusciva a controllare i pruriti sessuali ma era freddo e “staccato dal mondo” quando uccideva.
In quel caso, seppur straordinario e terribile, tutto sembrava avere una logica, anche se folle.
Solo due cose non quadravano.
Nel corpo delle ragazze non c'era nessun segnale che potesse lasciar intendere ad una resistenza fisica, mentre nel poco sangue trovato nel corpo delle prime tre ragazze c'era un'elevata dose di adrenalina, sostanza che il corpo crea quando uno avverte un pericolo fisico, una paura fondata, in poche parole l'avvicinamento della morte.
Dato che il veleno immesso nelle loro vene aveva effetto immediato, non era possibile che l'adrenalina che circolava nelle vene fosse postuma all'iniezione dell'antidoto fatale.
Ma la cosa più strana in assoluto riguardava la sorveglianza.
Quando ricomparve Chiara Diaz tutti se la presero coi poliziotti che erano stati incaricati di tenere d'occhio casa Diaz. Descrissero che un'ombra aveva lasciato il corpo vicino alla siepe, e il tutto era durato meno di un secondo. Furono licenziati.
Davanti casa Gerchi, oltre a dei poliziotti, vennero piazzate telecamere di sorveglianza, così da poter riuscire a vedere chiunque avesse deposto un corpo nelle vicinanze.
Nello schermo della centrale di polizia collegato ad una delle telecamere di sorveglianza il display segnava le quattro e venticinque di pomeriggio.
L'obbiettivo era puntato dove prima si trovavano le siepi, prima che Rodolfo Gerchi, padre di Cristina, non le sdradicasse preso da un istinto folle e scaramantico. Sullo sfondo si vedeva l'auto della polizia che osservava ventiquattro ore su ventiquattro la casa.
Dopo circa due secondi, nello schermo apparse il corpo della ragazza. Dieci secondi dopo, i poliziotti erano giunti nel luogo dove era misteriosamente comparso il corpo. Si guardavano attorno storditi.
Giacomo Prelassi, tecnico video che analizzò le immagini mandate dall'obbiettivo della telecamera, un giorno prima della fine del mondo dichiarò quanto segue.
 
“Perché state registrando? Ok, sì, scusatemi, so come funzionano queste cose. Cosa posso dirvi, Francesco Ruppo mi disse di analizzare le immagini e io lo feci. Prima aumentai il contrasto e la nitidezza, poi rallentai le immagini del settantacinque percento. Il corpo della ragazza, impiegava solo tre fotogrammi a comparire all'interno dell'inquadratura. L'arrivo dei poliziotti sul posto, invece, ha inpiegato in tutto duecentotrentacinque fotogrammi, che equivalgono sì e no a dieci secondi.
Posso avere un bicchiere d'acqua?
[Pausa]
Grazie.
Adesso non so come dire, mi prenderete per pazzo ma ho le prove video e io non ho manomesso niente. Guardate qua.
[Pausa]
Visto? Avete visto? Non sono pazzo. C'è qualcosa che è passato e ha impiegato, per percorrere l'intero vialetto la bellezza di sei fotogrammi! Che equivalgono ad un quarto di secondo.
La ragazza compare qui, aspettate che metto il fermo immagine... ora.
La ragazza compare completamente al quarto fotogramma dalla comparsa di quel qualcosa, di quell'ombra, non lo so. E cosa notate di strano?
[Pausa]
Sì, lo so, la targa dell'auto della polizia, che si trova dietro l'ombra e dovrebbe essere illeggibile, si legge perfettamente.”

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Capitolo 4
*** Beretta 92 ***


Cinque giorni prima della fine del mondo
 
Diaz si sedette sul suo letto matrimoniale. Quello stesso pomeriggio aveva abbandonato quel caso.
Trovava insopportabile tutto.
Non riusciva a capire quale mente brutale avesse potuto uccidere sua figlia e altre ragazze.
La vivisezione era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
La sua stanza era lugubre e spenta e, sua moglie già a letto da qualche ora nonostante fossero le dieci di sera, sembrava far parte dell'arredamento.
Aprì il terzo cassetto del comodino di fianco a letto e un odore di ricordi lo inondò. Sorrise lievemente.
Prese una scatola e la aprì.
Si ricordò il giorno in cui aveva compiuto cinquantadue anni. Lui e la sua famiglia erano andati a fare un picnic nel parco che si trovava a due isolati dalla loro casa. C'era ancora Chiara.
Il parco era veramente grande, presentava faggi, limoni ed eccezionalmente Salici piangenti che rendevano l'aspetto dell'ambiente circostante fermo nel tempo. A creare un forte contrasto erano i bambini che trascinavano i loro aquiloni nel vento e i giovani che lasciavano incisioni romantiche sulla corteccia di quell'albero secolare che sarebbe durato ancora più del loro amore.
Martina, sua moglie, teneva i capelli biondi legati con una treccia e rideva con Marco, il loro figlio più piccolo.
Chiara armeggiava col cellulare, ma contrariamente alle altre giovani insieme alle loro famiglie lei rideva, non teneva il broncio.
Era buona.
A ripensarci, la vedeva come una scena al rallenty.
Anche se era un picnic avevano preso il cibo al McDonald e, in fondo in fondo, non dispiaceva a nessuno.
Poi Martina si allontanò per qualche secondo, e ritornò con una torta.
La torta era al cioccolato, la sua preferita, e ne mangiarono gran parte, Chiara addirittura ne mangiò due fette.
Martina era un po' irritata perché Marco si puliva le mani sulla maglietta nuova.
Lui rideva di gusto. Era felice.
Anche Diaz era felice.
Sua figlia gli mise le mani agli occhi e gli disse di porgere le mani davanti a se.
Diaz lo fece, ma sentì ridere Chiara che non aveva pensato a come prendere il regalo se teneva le mani sul volto del padre. Risero e lui le fece il solletico.
Chiara prese la scatoletta e gliela porse.
Diaz la aprì.
Si trovò di nuovo nella sua stanza.
Dentro il contenitore c'era una catenina d'argento a cui era collegato un proiettile, sempre di argento.
Il proiettile entrava perfettamente nella sua Beretta 92, aveva persino l'innesco e detonante.
In quel momento si sarebbe potuto uccidere con quel proiettile e un giorno, se lo avesse dovuto fare, l'avrebbe fatto con quel proiettile.
Accarezzò il proiettile e lesse la dedica che la sua famiglia aveva lasciato impressa su quel proiettile: Al mio angelo custode.
Voleva morire.
Suonarono alla porta, maledisse chiunque ci si trovasse dietro ma aprì comunque.
Rimase impietrito.
Era Giovanni Sperino, il ragazzo del bar, ma gli ci volle un secondo per riconoscerlo.
- Signor Diaz, deve seguirmi, so chi ha ucciso le ragazze!- 

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Capitolo 5
*** Sangue ***


Cinque giorni prima della fine del mondo
 
Quando Diaz salì in macchina di Giovanni Sperino si assopì per qualche secondo e notò solo in quel momento che era veramente stanco.
Il viaggio si presentava silenzioso e parecchio privo di tensione, nonostante la devastante scoperta.
Capì cos'era la rassegnazione.
Pensò a quando insistette con i suoi superiori per continuare ad indagare su quel caso nonostante fosse coinvolto personalmente, e quando quello stesso pomeriggio, con l'aria avvilita, rinunciò a cercare un colpevole, a trovarlo, a torturarlo o perdonarlo. Non gli importava più niente.
Pensò che piangere davanti Giovanni fosse ridicolo, ma lo fece comunque.
Pioveva forte, e i lampi con l'aiuto della luna piena illuminavano la città avvolta nell'oscurità.
La radio trasmetteva una canzone d'amore degli anni settanta, una di quelle canzoni strazianti e per niente ritmate. Tutto gli sembrava spezzato per sempre, niente aveva senso.
Entrò la depressione nella sua vita.
Giovanni svoltò per via Lucca, poi prese viale Sicilia, dove c'erano i negozi più alla moda. Più in fondo, in Via dei Germogli, c'erano i bassi fondi.
Ogni tanto Diaz ci andava, cercava qualcuno da picchiare o semplicemente prendersi in faccia qualche pugno.
Era perso nei suoi pensieri quando si accorse che era la terza volta che passavano davanti Via dei Germogli e questo lo insospettì. C'era qualcosa che non andava.
Si accorse anche che Giovanni, nonostante il tempo, stava sudando freddo.
Si fermarono accanto il cortile alberato accanto a Piazza Seneca e scesero dall'auto. 
Giovanni non parlava ancora. Diaz camminava dietro lui, fece finta di inciampare, si appoggiò a lui e scoprì che i suoi sospetti erano fondati, Giovanni aveva una pistola.
D'un tratto si ricordò che anche lui aveva un arma ma non fece neanche in tempo ad uscire la sua Beretta 92 dalla fondina che Giovanni sparì nel nulla, con una folata di vento. Lontano, ma non troppo, le sue urla.
- Il tuo cibo è lui, non io!- Gridò Giovanni alla bestia che gli stava addentando il torace.
Sembrava un cane, ma era di dimensioni enormi, quasi umane.
- Lasciami, Bestiaccia!- continuava il mal capitato.
Dopo, il silenzio.
La metà inferiore del corpo di Giovanni era a terra, bagnata dagli spasmi, da urina e dall'acqua della pioggia.
Gli era stato lacerato il tronco, e adesso la bestia stava addentando la sua testa.
Diaz era impietrito, non credeva ai suoi occhi.
Sparò due colpi, poi tre. La bestia ululò.
- Scappa!- urlò qualcuno.
Si guardò intorno.
- Scappa!- ripetette la voce.
Diaz era confuso, non ricordava neanche dove si trovasse cinque minuti prima. L'aria era diventata rossa, l'acqua orrenda. Il sangue di Giovanni gli arrivò ai piedi.
Scappò.

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Capitolo 6
*** Luna Piena ***


Quattro giorni prima della fine del mondo
 
Francesco Ruppo tornò a casa col sapore di sangue ancora in bocca.
Odiava la luna piena.
Sapeva che in fondo Giovanni Sperino fosse un imbecille, un incapace e un buono a nulla, ma non si sarebbe mai aspettato che come pasto gli avesse portato proprio Diaz, uno dei suoi più cari amici.
Si tolse un po' di pelo dalle spalle e asciugò le gocce di sangue che gli sgorgavano ancora dalla bocca.
In quel momento di scarsa lucidità era comunque riuscito a salvare Diaz e gli aveva pure gridato di scappare.
Si ripromise di non far sapere niente alla Congrega.
Gli faceva male la testa, la pioggia lo picchiava in testa. Erano circa le tre e mezza del mattino ed era stanco, veramente stanco.
Passò davanti casa di Diaz e guardò per circa dieci minuti la porta cercando di non piangere. Posò una mano sulla porta, la accarezzò e sentì la ruvidità del legno gonfiato e bagnato dall'acqua.
- Scusami.- Sussurrò.
Riprese a camminare in quel conglomerato di strade, con le luci delle insegne che gli scivolavano negli occhi lucidi e di ghiaccio.
Guardò su, la luna era coperta. Fortunatamente.
Casa sua era lontana, ma poteva benissimo arrivarci prima che la luna piena rispuntasse dai cespugli di nuvole.
Si maledisse e sorrise per l'inutilità del gesto, era già maledetto.
Non voleva farlo più, era stufo di fare il doppiogiochista.
Tuttavia prese il foglietto da una delle sue tasche che ancora erano integre:
“Melania Roi, Scuola Media Statale F. Parigi, 14 anni, ore 15 e 30” c'era scritto.
Lo strinse forte.
Alle 15 e 30 si sarebbe affacciata al finestrino, avrebbe chiesto “Sei tu?” e lui avrebbe annuito.
L'avrebbe portata in quel capannone al largo di Via Falcone, avrebbero parlato un po' per tranquillizzarla, sarebbero entrati in quel posto fetido e poi Dio solo sa cosa sarebbe successo.

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Capitolo 7
*** Allucinazioni. ***


Quattro giorni prima della fine del mondo
 
Il locale era stretto e la gente entrava a fatica. Si potevano avvistare gonne e leggins, e qualche coscia scoperta che inchiodava gli uomini.
Pioveva e la gente si era rintanata dentro per non infangarsi né bagnarsi inutilmente.
Demetra danzava senza seguire la musica, la sua minigonna di seta si alzava al passaggio di ogni individuo, facendo intendere che sotto non c'era niente di nascosto.
Non lasciava spazio all'immaginazione.
Le sue amiche ridevano, ma lei pensava a come sembrare attraente per ogni uomo del locale, anche per il più disgustoso.
I cocktail coloravano l'aria oscura del pub, e i flash delle macchine fotografiche immortalavano gente a morire e momenti da dimenticare.
Demetra quella sera voleva qualcuno di sua conoscenza.
Uscì dal pub e si era dimenticata di quanto fosse piccolo quel pianeta.
Poteva accorgersi dell'incurvatura e l'effetto gravitazionale era strambo.
Aveva vissuto solo qualche anno sulla Terra e attualmente si trovava su Percors, ma ancora non si era abituata alle forme buffe di questo bizzarro pianeta.
Osservò la Terra e si domandò cosa stessero facendo i suoi amici terrestri.
Si accese una sigaretta e la aspirò quasi tutta in un colpo.
Era preoccupata per le voci che circolavano.
Chiuse gli occhi. Una mano le afferrò la spalla. Sobbalzò.
Era Saraceto.
Lei fece per salutarlo, ma lui le posò un indice sulle labbra, infilò una mano in tasca e inserì il contenuto nella bocca di Demetra, che era inerme.
La testa di Demetra iniziò a dondolare. Poi ci fu un black-out.
- Hai sentito?- Chiese Saraceto.
Bum. Bum. Bum.
- Hai sentito?- Ripetette. 
- Cosa?-
- Terminano il programma.-
- Sono solo dicerie.-
Guardarono in alto,  riuscivano a vedere le luci della notte terrestre.
La terra scoppiò. Frammenti arrivarono a cadere anche vicino al piede di Demetra, e Saraceto fu schacciato.
Chiuse gli occhi. Li riaprì. 
La terra era ancora lì.
Cominciavano le allucinazioni.
- Come faranno?- chiese lei.
- Solo Dio questo lo sa.-
Silenzio. La testa di Saraceto scoppiò. No. Era ancora lì.
- Il tuo soggetto come si chiama?- Chiese senza curiosità lei.
- E' un segreto.
- A me è andata bene.
- Sì?- Domandò Saraceto senza nascondere la sua curiosità.
- Diciamo che qui lo conoscono tutti.-
- Ma ci pensi?-
Silenzio.
Demetra si sentì svenire.
- Ma ci pensi?- ripetette Saraceto.
- A cosa?- 
- A noi, Angeli Custodi- Si interruppe – E' strano.
- No, non lo è.- Rispose lei.
Dopo qualche secondo di silenzio lei si risvegliò da un sonno effimero.
Vedeva tutto giallo e sfocato.
Afferrò per il colletto Saraceto e disse:
- Offrimi un drink e poi fottimi.-

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