Hit the Cripple

di fiorediloto87
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [0] Aim ***
Capitolo 2: *** [1] Head (100 points) ***
Capitolo 3: *** [2] Body (500 points) ***
Capitolo 4: *** [3] Heart (∞ points) ***
Capitolo 5: *** [0+] Prize ***



Capitolo 1
*** [0] Aim ***


Hit the Cripple
Prologo


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[0] Aim

 

 

Quando James Wilson sbucò fuori dalla porta che conduceva al tetto, una folata di vento notturno gli investì la faccia al di sopra della sciarpa slacciata e del cappotto invernale, avvisandolo che se il suo umore non era proprio roseo, quello degli elementi si stava seriamente incazzando. Se non fosse stato così irritato, e se non fosse stato così irritato con House, avrebbe forse iniziato la discussione con qualche quieto apprezzamento sul tempo, che prometteva pioggia, e sulla pioggia, che in linea di massima non gli dispiaceva. Invece, siccome era così irritato, e con House per giunta, sbucò fuori dalla porta con cinque piani di scale nei polmoni e neanche un’oncia della sua proverbiale diplomazia.

«Che cosa le hai detto?»

«Che starà meglio senza di me.»

«Oh. Probabilmente è vero» replicò, tentando un sarcasmo che un po’ per il fiatone e un po’ perché il sarcasmo era specialità di House gli riuscì alquanto sfiatato.

Dalla sua posizione sopra la balaustra del tetto, House non gli rivolse uno sguardo. Brutto segno. Era il gesto che riservava a due stati d’animo, entrambi meno rari di quanto ci si potesse aspettare: la sofferenza e il senso di colpa. Quale dei due, stavolta?

Stappò la bottiglietta di Vicodin, mandando giù le due pillole di rito.

Probabilmente entrambi.

«Sei un idiota» gli disse, alzando la voce più di quanto avrebbe voluto. «Tu non pensi che starebbe meglio senza di te.»

«Giusto. L’ho mandata via per capriccio» replicò House, monocorde.

«Tu non hai idea del perché l’hai mandata via.» E neppure io, aggiunse mentalmente.

House lasciò scivolare prima una gamba, poi l’altra, giù dal muretto, mettendosi lentamente in piedi. Continuò a non guardarlo. «Non cominciare» ribatté, con voce atona, anche se Wilson avrebbe potuto giurare d’aver sentito una nota di supplica insinuarsi tra le pieghe aspre della sua voce.

«Per te non è stato un grande sacrificio!» scattò, annaspando alla ricerca di una giustificazione, una qualsiasi, che ricomponesse quella storia nella sua testa. Che gli togliesse quella nebbia dagli occhi ogni volta che cercava di farvi luce. Impresa vana, comunque. «L’hai mandata via perché tu hai bisogno di essere infelice.»

Aveva dato notizie peggiori con più tatto.

La risposta lo investì con più violenza di quanta se ne aspettasse. «Questa psicologia da quattro soldi la rifili ai tuoi pazienti per farli stare meglio? O serve a te? Ti piace la gente che soffre? Ti piace quando ammette che sta soffrendo?»

«Tu non ti piaci» rispose, senza davvero rispondere, solo seguendo quel bislacco filo logico che aveva appena stabilito e in cui non sapeva più se credere. «Ma ti ammiri. È tutto ciò che hai, e ti ci aggrappi. Hai paura che se cambi perderai quello che ti rende speciale.» Fece una pausa, guardando la sua gamba. Avrebbe potuto dire lui in due parole cosa lo rendeva speciale, ed era tutto meno che il dolore. Concluse, svariati toni di voce più giù: «Essere infelice non ti rende migliore degli altri, House. Ti rende solo infelice.»

Non si fermò ad aspettare una risposta che non sarebbe arrivata, e gli passò accanto diretto alla porta. Un tuono gli rimbombò nelle orecchie nell’istante in cui House gli stringeva il braccio.

«E il resto?»

«Quale resto?» replicò, con un sospiro.

«Quello che non hai menzionato perché pensare che potrebbe essere il motivo ti ucciderebbe di sensi di colpa.»

«Non…» Wilson aprì la bocca e la richiuse, come un pesce, senza riuscire a pronunciare una parola. «Non puoi averlo fatto» mormorò. «Non dirmelo.»

«Ti manderò un fax» sospirò House, massaggiandosi la coscia lesa.

«Ma… ma perché? Che senso ha?» Alzò le mani come per mettergliele al collo, o sulle spalle, ma si afflosciarono sconfitte lungo i fianchi. «Perché?»

«Perché ti amo» rispose House, rudemente. «E ora vattene» aggiunse, voltandosi verso la balaustra.

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Capitolo 2
*** [1] Head (100 points) ***


 


Capitolo I


[1]
Head (100 points)

 

 

Cinque anni prima

 

C’era stato qualcosa di definitivo nel modo in Stacy gli aveva detto che sarebbe andata due giorni a Trenton per quell’udienza di cui gli aveva parlato.

Per quanto non raggiungesse i livelli sopraffini di House, James Wilson aveva una certa abilità nello smascherare le bugie. I sintomi erano piuttosto evidenti. Il tono forzatamente deciso, gli occhi rossi e gonfi, le mani disperatamente aggrappate agli avambracci; lo sguardo sfuggente, lei che guardava sempre negli occhi. Che non gli avesse mai parlato di alcuna udienza era una certezza, perché se pure nel caos degli ultimi mesi Wilson faticava a ricordarsi dove avesse lasciato la macchina e cosa avesse mangiato a pranzo, Stacy non era tipo da restare sul vago quando dava un’informazione. Era invece tipo da contare sulle piccole debolezze indotte dall’esaurimento e dalla stanchezza, ma purtroppo per lei Wilson aveva riserve di energia sconosciute ai più.

«Gliel’hai detto?»

«Io…» esitò.

«Non posso dirglielo io.»

Lei annuì. Il fatto che non l’avesse già avvisato dimostrava che era stata un’idea repentina, non premeditata. Probabilmente le era venuta dopo la crisi di quella mattina. Probabilmente sarebbe andata due giorni da sua madre a schiarirsi le idee.

Wilson non se la sentiva di biasimarla. Anche se una parte di sé cercava di spingerlo a indignarsi e gli sbatteva in faccia la realtà - che Stacy stava scappando, mentre lui era ancora lì al suo posto, che Stacy voleva una tregua, mentre lui non vedeva sua moglie da quattro giorni - malgrado questa voce nella testa, non riusciva davvero ad avercela con lei.

E non era opportunismo, si ripeteva con una frequenza a dir poco allarmante, come a giustificarsi con… con chi? Non era opportunismo. Opportunismo sarebbe stato piantare tutto - piantare House - e andare a prendere Rachel e fare l’amore con lei fino a togliersi ogni residuo di quella casa, di quell’aria - di House - dalla pelle e dal respiro. Non restare lì e sentire il suo matrimonio scivolargli via tra le dita.

La frattura non era stata così evidente, fino a una settimana e mezzo prima. Rachel conosceva distrattamente House (“quello del cinese”, nella sua definizione, il che nascondeva un’implicita connotazione negativa. Qualcosa contro la carne di maiale, probabilmente), ma era abituata alle lunghe assenze di Wilson e un amico in difficoltà è pur sempre un amico in difficoltà - anche se ha disprezzato la tua tappezzeria e la cravatta numero 15 che hai regalato a tuo marito.

Poi in qualche modo la situazione gli era sfuggita di mano. Se avesse conservato e messo in fila i biglietti lasciati da sua moglie avrebbe potuto ricostruire la storia del loro decadimento in sette tappe. Si andava dal primo, vergato con cura e condito da un cuoricino in fondo (“Sono da mia madre, torno per le undici. Non fare troppo tardi. Ti amo. R.”), alla rapida impazienza del terzo-quarto (“È mezzanotte, vado a letto. A domani. R.”), all’irritazione palpabile del quinto (“A che ti serve il cellulare se non rispondi mai? Vado a letto. R.”), alla lapidarietà del settimo (“La cena è nel frigo”), privo anche del conforto dell’iniziale a mo’ di firma.

Quattro notti prima, che era poi l’ultima volta in cui l’aveva vista, era rincasato verso l’una. Aveva gettato la borsa sul divano, aveva attraversato la casa immersa nel buio e si era ficcato in fretta e furia sotto la doccia. L’acqua calda l’aveva rilassato, anche troppo, tanto che dopo un po’ si era scoperto assopito in piedi contro la parete. Nel riscuotersi aveva urtato la maniglia allentata, e un improvviso getto gelido gli aveva dato la sveglia. Quando era entrato in camera da letto, la stanchezza in qualche modo evaporata o messa da parte, Rachel dormiva sul fianco, rivolta verso il comodino.

Wilson si era tolto l’accappatoio e infilato il pigiama, e si sarebbe limitato a mettersi a dormire e rimandare ogni iniziativa al giorno seguente, come faceva da una settimana, se nel sollevare le coperte non avesse urtato qualcosa, e quel qualcosa non fosse stato il cordless. L’ultima chiamata, proiettatagli in faccia dalla luce azzurrina dello schermo, era per “Jimmy”.

Si era infilato sotto le lenzuola, lasciando aderire delicatamente il proprio corpo a quello sottile della moglie, e le aveva posato un bacio sul collo e la mano sul ventre coperto di seta leggera. Che avesse fatto finta di dormire o si fosse appena svegliata, per Wilson era irrilevante. Quando Rachel aveva intrecciato le dita con le sue e si era girata nel suo abbraccio con un fruscio di lenzuola e profumo di shampoo fresco, Wilson si era detto che lì in mezzo al buio, al torpore e all’eccitazione doveva esserci il motivo per cui l’aveva sposata.

Poi House aveva distrutto lo specchio del bagno con un pugno, e il telefono di casa Wilson aveva squillato per l’ultima volta.

Stacy venne fuori dalla camera da letto con un feroce ticchettio di scarpe alte, passò accanto a Wilson singhiozzando un saluto, afferrò la valigia già pronta vicino alla porta e si fermò sulla soglia per mormorare con la mano sulla bocca che avrebbe chiamato appena arrivata.

Anche Rachel, come Stacy, si era presa la sua pausa di riflessione. A differenza di lei, però, non aveva penato troppo nel comunicarglielo. Un messaggio in segreteria, pensava Wilson, era sempre il modo migliore per far sapere a tuo marito che lo lasciavi solo in un momento difficile.

Il messaggio per la verità era molto dolce e stanco, e terminava con un ‘Ti amo’ che sapeva di ripensamento all’ultimo istante, ma doveva pur significare qualcosa. Quattro anni insieme dovevano pur significare qualcosa. Diceva che andava a stare da un’amica per qualche giorno, giusto per non sentirsi sola mentre lui era occupato col suo amico. Il sottofondo era recriminatorio, ma Wilson non poteva farci niente. Aveva provato a chiamarla varie volte, solo per scoprire che Rachel non voleva rispondergli. Forse era una vendetta. O forse davvero non voleva parlargli.

Guardò il divano di House, che sapeva scomodo per principio. Ci aveva dormito qualche notte dopo la rottura con Sarah, o in mezzo alla rottura con Sarah, e visto e considerato il precedente non aveva molta voglia di tornarci. Non che fosse superstizioso, ma aveva brutti ricordi legati a quel divano. (Ne aveva anche di belli, ed erano la maggior parte, ma non voleva pensarci adesso.)

Stava ancora decidendo il da farsi quando sentì un frastuono dal bagno ed ebbe la certezza - brutale e invischiata di paura - che quei due giorni sarebbero stati i più lunghi della sua vita.

«House! Che stai…»

«Dov’è… dov’è quella cazzo di bottiglia?» gridò House, appoggiato pesantemente con una mano al bordo del lavandino mentre l’altra rovistava dentro l’armadietto, rovesciando scatole e bottigliette di medicinali sul pavimento. Il rumore che aveva sentito era stato prodotto dalla rottura di un flacone di sciroppo. House era a piedi nudi.

«Hai preso il Vicodin un’ora fa» disse Wilson, afferrandogli prima il polso libero e poi anche l’altro, quando House lasciò l’appoggio del lavandino per frugare con l’altra mano. In questo modo l’equilibrio già precario venne a mancare del tutto, e House gli crollò addosso, tra le braccia che ressero il peso senza troppa fatica.

Stava tremando.

«Mi serve» ringhiò House, cercando di districarsi dal corpo dell’amico. «Mi serve. Di nuovo.»

«L’effetto non è ancora finito. Ora te ne torni a letto e la smetti di sfinirti senza motivo.»

House deglutì a fatica, la fronte premuta contro la clavicola di Wilson. Ansimava. Il sudore che gli imperlava il volto si raccolse in una goccia sul mento, che andò a precipitare tra le pieghe della camicia di Wilson. L’oncologo gli accarezzò le spalle, gentilmente.

«Vieni» mormorò.

«Cos’è…» ansimò House, a corto di fiato. «Cos’è… ha lasciato a te l’onore di dirmelo?»

«Tornerà.»

«Sei un pessimo bugiardo, Wilson. E un pessimo…»

Wilson si attese la parola amico, dopo la quale la gamma di sue possibili reazioni, virtualmente imprevedibile, avrebbe spaziato dall’annichilimento totale alla violenza su invalido.

«… infermiere. Dammi quelle pillole.»

«Avrai la tua dose all’ora stabilita, ossia alle sei di domani mattina» replicò Wilson, cercando di far sì che il sollevo non trasparisse troppo chiaramente dalle sue parole. «Vieni a letto.»

La mano destra di House, fasciata dopo la rottura dello specchio, si spostò sul suo fianco e da lì risalì, lentamente, in una lunga carezza. Wilson la sentì tremare contro di sé. «House…»

Il più vecchio volse leggermente il viso appoggiato sulla sua spalla, cosicché il suo respiro premette caldo sul collo di Wilson. «House…» ripeté l’altro, imbarazzato.

Le dita gli sfiorarono un capezzolo attraverso la stoffa della camicia. Wilson trattenne il respiro.

Tra le varie cose più o meno illegali che aveva fatto nella sua vita, House doveva avere un passato da borsaiolo. Questo a giudicare dalla rapidità con cui tuffò le dita nella tasca anteriore della sua camicia e ne trasse fuori la bottiglietta di Vicodin prima che Wilson potesse reagire. I suoi riflessi si risvegliarono dal torpore nell’istante esatto in cui House lasciava il suo appoggio - cioè, lui - e stappava il flacone con un leggero schiocco.

Qualcosa di simile doveva essere già successo. Wilson aveva il vago ricordo di un biglietto omaggio per una partita dei Metz e di House che glielo sfilava dalla tasca posteriore dei jeans con la stessa scioltezza di adesso, solo con entrambe le gambe sane e la possibilità di scappare quando Wilson l’aveva inseguito.

Questa volta, invece, gli bastò afferrargli gli avambracci e House perse l’equilibrio. Le pillole schizzarono via dal flacone aperto, spargendosi sul pavimento, e solo per un caso fortuito House cadde parzialmente sopra Wilson e non il contrario.

Con un grugnito l’oncologo allungò una mano ad afferrare il polso di House, già proteso verso la pillola più vicina. «Basta. Fermati» ansimò, contorto in una posizione innaturale, la spalla che pulsava dolorosamente dopo l’urto col lavandino.

House si massaggiò spasmodicamente la coscia, boccheggiando, il capo chino a pochi centimetri dal pavimento cosparso di sciroppo e pezzi di vetro. Wilson temette che si lasciasse andare, procurandosi altre ferite. «Vieni a letto» ripeté, per l’ennesima volta, scivolando via da sotto il suo corpo.

«Dammi… quella roba» ansimò House, gli occhi fissi sulla capsula azzurro pallido che sembrava farsi beffe di lui, così vicina eppure fuori dalla sua portata. «Una sola» patteggiò.

«Non è la gamba, House» disse Wilson, cercando di rimetterlo in piedi. «È una crisi isterica.»

 

Mentre lo riportava a letto, senza molta collaborazione da parte di House, si rese conto che aveva la maglietta zuppa di sudore, e che la fasciatura dalla parte del palmo era ridotta a uno straccio. Ma dubitava che House avesse la forza di farsi una doccia o la pazienza di rifasciarsi la mano.

«Profumo… di gelsomino, eh?» sbuffò House, con un vago imbarazzo che chi non lo conosceva quanto lui avrebbe trovato insolito. Non che il senso del pudore di Gregory House fosse semplice da capire. Era qualcosa circa il sentirsi più debole dell’interlocutore – e forse in questo momento c’era la possibilità che lui fosse un po’ più debole degli altri.

«Ti manderò il conto della lavanderia» replicò Wilson, contemplando l’impronta di sudore stampata sulla propria camicia.

«Conservala. Mi sono fatto un nome nel giro fetish-necrofilo. Te la pagano una fortuna, quella.» Chiuse gli occhi, stringendo le lenzuola nelle mani. «I cd te li lascio. Tranne quello autografato di Bob Dylan. Quello lo voglio sepolto con me.»

«Ma tu non eri per la cremazione?»

«Bruciare un cd di Bob Dylan? Ma sei pazzo?» ansimò House, spalancando gli occhi.

Wilson sorrise appena. «Te la senti di farti un bagno?»

«Non hai detto che non dovevo sfinirmi

«Neppure marcire nelle tue secrezioni cutanee.»

«Ah, lo humour medico» grugnì House, massaggiandosi la gamba.

Dal momento che non aveva protestato, Wilson lo prese per un assenso. Tornò in bagno armato di straccio, scopa e paletta e fece piazza pulita dello sfacelo, risparmiando solo quanto era rimasto intero e le pillole di Vicodin. Dopo un istante di riflessione, mise la bottiglietta nella tasca anteriore dei jeans. Dubitava che House sarebbe arrivato a infilargli una mano nei pantaloni per avere le sue pillole - o no?

La vasca era quasi piena. Si voltò per andare a prendere House e lo trovò sulla soglia, appoggiato allo stipite. Se non fosse stato per le occhiaie profonde e l’espressione devastata, la posa si sarebbe potuta dire perfino maliziosa.

Wilson aprì la bocca per chiedergli se voleva aiuto, ma subito dopo meditò che era una pessima idea. Ad House l’aiuto si poteva solo chiedere o imporre, e già in questi due casi il risultato era un’incognita.

«So che il tuo sogno proibito è vedermi nudo» sbottò House, arrancando nella stanza, «ma faccio da solo.»

Wilson alzò le mani in segno di resa. «Vado a preparare la cena.» A metà strada si voltò. House era seduto sul bordo della vasca con aria contemplativa. «Ah… giusto per notizia, non c’è niente in questo bagno che assomigli a un analgesico. A meno che non usi la candeggina, nel qual caso dovresti sostituire “analgesico” con “detersivo” e “cessazione del dolore” con “morte tra atroci sofferenze”. Quindi… voglio dire, non stancarti inutilmente.»

Uscì richiudendosi la porta alle spalle.

(«Bastardo» sibilò House, dall’altra parte.)

Wilson tornò in camera da letto, e nel tempo in cui sperava l’amico riuscisse a rilassarsi e a non pensare alla gamba cambiò le lenzuola, preparò dei vestiti puliti e mise su l’acqua per la pasta. Il divano sembrava chiamarlo dal salotto, e Wilson si rassegnò mentalmente a un’altra di quelle notti scomode e solitarie che aveva cercato di rimuovere dalla memoria. Dopotutto non era lui ad aver bisogno di aiuto, stavolta, ma House. House.

Che era un po’ come dire il suo migliore amico.

Mentre gli spaghetti iniziavano a cuocere, prese i vestiti puliti e bussò delicatamente alla porta del bagno. Nessuna risposta. Anche se aveva una mezza certezza che House non avrebbe risposto comunque, per dispetto, per un istante si sentì stringere lo stomaco. Aprì la porta un po’ più rapidamente del dovuto.

House era sdraiato nella vasca, la schiena appoggiata al leggero declivio che si inabissava tra l’acqua e la schiuma, il capo reclino su una spalla. Per l’esperienza che ne aveva in proposito (minima, in quella casa lui aveva sempre usato la doccia), era virtualmente impossibile addormentarsi in quella vasca, scomoda più o meno come ogni altra cosa in casa di House - House compreso. Eppure il respiro era regolare, il corpo sembrava aver trovato un suo incastro nella geometria contorta della porcellana e House pareva tranquillo, per una volta.

Entrò in punta di piedi, posando i vestiti su uno sgabello vicino alla vasca. Cercò anche di convincersi che l’unico motivo per cui il suo sguardo era caduto tra la schiuma diradata era perché dopo l’operazione e la rimozione dei punti gli unici ad aver visto la cicatrice erano stati la Cuddy, House e Stacy. Solo un briciolo di curiosità, niente di più.

La cicatrice era lunga e visibilmente profonda, di un colore rosato intenso che Wilson dubitava sarebbe mai schiarito più di tanto. Tutto intorno la carne era come deformata, stretta intorno al muscolo mancante in una sorta di muto gesto di solidarietà. Accartocciata. Contratta.

Wilson sospirò, staccando l’accappatoio di House dal muro e posandolo, ripiegato, in cima ai vestiti.

«Hai finito di contarmi i peli o ne hai ancora per molto?»

Wilson trasalì, colto di sorpresa. «Stavo… ti ho portato i vestiti puliti.»

«È quello che dicono tutti.»

Wilson scosse la testa, rinunciando a replicare. Uscì dal bagno richiudendosi la porta alle spalle.

 

House espirò lentamente.

C’è un punto di rottura in tutte le cose. Quello di Stacy era quasi raggiunto. E il quasi stava a significare che ci sarebbe arrivata quando, tornando dalla sua pausa di riflessione o qualunque cosa fosse, l’avrebbe trovato due volte più sano e autosufficiente di quel che era stato finora. Lui ovviamente non lo sarebbe stato, non davvero, perché nelle pause dal Vicodin doveva spendere quasi ogni grammo di energia per evitare di gridare, e poca altra gliene restava per dar fiato ai suoi discorsi inutili o spostarsi per casa. Ma avrebbe finto. E lei si sarebbe sentita semplicemente di troppo.

Era contraddittorio, ovviamente; lui l’avrebbe fatto per non farle pesare ulteriormente la situazione e lei l’avrebbe lasciato per questo. Né il fatto di vedere con chiarezza gli sviluppi prossimi della loro storia significava che House avrebbe fatto qualcosa per fermarli.

Quando c’è necrosi, puoi solo tagliare. Era questa la sua lezione, no?

Il punto di rottura di Wilson era ancora lontano, ma non molto. Sicuramente meno di quanto lui stesso credeva, ma forse un po’ più delle stime di House. Prima di farsi mettere in coma farmacologico (o forse durante, o dopo. Non che importasse) aveva fatto qualche scommessa con se stesso. Su quanto avrebbero resistito le persone intorno a lui prima di crollare e decidere che in fondo, ma sì, non stava così male da non potersela cavare da solo.

Le stime più basse erano per Stacy, le più alte per la Cuddy. Ma solo perché dei tre era quella che aveva meno a che fare con lui. Wilson… Wilson sarebbe dovuto stare nel mezzo, una posizione altalenante. Avrebbe potuto resistere finché House non avesse ripreso il controllo di sé o mollarlo nel momento più critico. Nel secondo caso, ovviamente, si sarebbe costruito tutto un mondo di ragionevoli spiegazioni per giustificare la cosa, esattamente come i fallimenti matrimoniali numero uno e numero due.

Ma in realtà Wilson era l’unico di cui House non si sentisse in grado di predire le azioni. Era stanco, ma non esausto; era triste, ma non depresso; si sentiva in colpa, ma non così tanto. Il suo cellulare aveva smesso di squillare, quindi Rebecca o come si chiamava aveva smesso di cercarlo. In compenso Wilson adesso lo teneva sempre in tasca, quindi Randy aveva anche smesso di rispondergli.

Aprì gli occhi, allungando una mano verso l’accappatoio.

Il dolore sembrava vagamente più sopportabile, adesso.

Aveva bisogno di un Vicodin.

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Capitolo 3
*** [2] Body (500 points) ***


Hit the Cripple
Capitolo II


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[2] Body (500 points)

 

 

 

Per quel che poteva ricordare, in casa di House il tavolo della cucina non era mai stato adibito ai pasti. Era largo e piuttosto comodo, ma il suo utilizzo più frequente era quello di deposito di oggetti che il padrone di casa non sapeva dove scaricare. Se House riusciva a rimediare qualche folle intenzionato a sfidare la fortuna, poteva anche diventare tavolo da gioco per una delle sue nottate a poker.

 

Dovendo fare alla maniera di Stacy, Wilson gli avrebbe portato da mangiare direttamente a letto, per non stancarlo. Doveva esserci un vassoio da qualche parte.

 

Dovendo fare alla maniera di House, Wilson avrebbe preparato i piatti e portato il tutto insieme alla birra in salotto, per cenare sul divano di fronte alla tv accesa.

 

Ma siccome lui non era né Stacy né House, e ringraziava sempre Dio per questo, avrebbe fatto a modo suo. Perciò tolse dal tavolo l’ultimo strato, paurosamente alto, di oggetti senza fissa dimora, stese una tovaglia macchiata di sugo e apparecchiò.

 

House entrò in cucina con quella che, malgrado la gamba e il fatto che procedesse appoggiandosi ai muri, gli parve un’indubbia risolutezza.

 

«Quasi pronto» lo avvisò Wilson, mescolando gli spaghetti con il sugo precotto.

 

«Uh. Niente grembiule a fiori?» sbottò House, zoppicando fino alla sedia più vicina. Era uno dei due posti che Wilson aveva apparecchiato; strategicamente, per la verità.

 

«Gli hai dato fuoco quattro anni fa» rispose, rivoltando il contenuto della pentola nella speranza che la schifezza precotta si amalgamasse un po’ meglio di così.

 

«È stato quando hai tentato di accendere il barbecue?»

 

«Quando io ho tentato di accenderlo e tu di darmi fuoco.»

 

«Ma lo stavi accendendo tu?»

 

«Io lo stavo accendendo e tu ci hai messo dentro un lato del grembiule. Mentre l’avevo ancora addosso.» Alzò lo sguardo, preso da un’improvvisa irritazione. «Ehi! Ma che volevi fare, uccidermi?»

 

House ghignò. «Mortificava la tua bellezza. Ti ho sempre detto di puntare sulle righe.»

 

Wilson lasciò cadere uno sguardo sulla propria cravatta. A righe, appunto. Si chiese perché non l’avesse ancora sfilata; forza dell’abitudine. «Be’, era l’unico grembiule che avevi in casa e non mi andava di immolare una camicia alla causa.»

 

«Io ti avevo suggerito di arrostire a torso nudo.»

 

«Oh sì. James, l’ultimo dei Mohicani» mormorò Wilson tra sé, tanto distratto che il suono soffocato alle sue spalle lo colse di sorpresa. Era una risata, scoprì voltandosi. House stava ridendo.

 

Lo seguì quasi subito, automaticamente. Era un suono, scoprì, che gli era mancato più di quanto si fosse permesso di pensare. Per questo, quando svaporò in un silenzio imbarazzato, provvide a sostituirlo con nuove parole inutili.

 

«La gamba?»

 

«Attaccata al resto.»

 

Wilson annuì, di nuovo e improvvisamente consapevole del Vicodin nella tasca dei pantaloni. Fece le porzioni, allungando volutamente a House la più scarsa.

 

L’altro alzò gli occhi, fissandolo con un misto di perplessità, fastidio e minaccia mortale, e Wilson scambiò i piatti con un sorriso.

 

Mangiarono in silenzio. Wilson ignorò deliberatamente il tremore della forchetta nella mano destra di House, e il numero di volte che questa andò a tintinnare contro il piatto quando l’altro la lasciò cadere per massaggiarsi la gamba.

 

Quanto a House, non fece commenti sulla sua cucina. Gli spaghetti non erano poi così male, ma a un tratto Wilson sentì il bisogno estremo di sentirgli dire che erano scotti e sconditi - che sembrava che una mucca ci avesse sputato sopra, che una scimmia con un braccio atrofico avrebbe potuto fare di meglio - solo per sapere che gli erano piaciuti, e che tutto aveva, se non la sostanza, almeno l’apparenza della normalità.

 

«Buoni?» chiese a un certo punto, contemplando il piatto ancora mezzo pieno di House.

 

«Mm» fu il massimo che ottenne in risposta.

 

Lo squillo del telefono si intromise con prepotenza nella loro non-conversazione.

 

Wilson sospirò e fece per alzarsi, ma House gli ordinò, senza alzare gli occhi dal piatto: «Stai seduto».

 

Wilson pensò che volesse andare a rispondere al suo posto. «Vado io.»

 

«Stai seduto» ripeté House, più lentamente.

 

Quando gli fu chiaro che nessuno dei due sarebbe andato a rispondere, Wilson si rilassò contro la sedia. Fece un ultimo tentativo, solo per rimorso di coscienza: «Potrebbe essere importante».

 

«Non ti preoccupare, Rose non ti lascerà per telefono.»

 

«Rachel… io e lei non…»

 

«Certo che no» disse House. «Andate d’amore e d’accordo.»

 

«È solo… un brutto periodo.»

 

House alzò gli occhi, mentre il telefono continuava a squillare. «Perché non vai a casa, allora?»

 

«Dovremmo rispondere. Si preoccuperà.»

 

House lo guardò, attendendo una risposta.

 

Perché non posso lasciarti solo, idiota. Sospirò. «È andata a stare qualche giorno da una sua amica.»

 

«Non tornerà.»

 

«Certo che tornerà.»

 

«No. Ne ha avuto abbastanza.» Puntò le mani sul tavolo, cercando di alzarsi. Il telefono diede un ultimo squillo, più breve, e tacque prima che partisse il nastro registrato della segreteria. «Non si preoccupi, infermiera. Arrivo solo fino al divano» lo avvisò, notando come Wilson faceva per alzarsi a sua volta.

 

«Tu non parlavi di Rachel» mormorò, guardandolo arrancare verso il salotto.

 

«Ah, si chiama così?» ribatté House.

 

Sparecchiò e lavò i piatti mentre le voci dalla tv si sostituivano al silenzio come sottofondo della loro inesistente comunicazione. Quando ebbe finito, svariate gocce d’acqua e uno schizzo di detersivo si aggiungevano al sacro sudore di Gregory House sulla sua camicia.

 

«Vado a casa» disse, affacciandosi in salotto.

 

House non alzò gli occhi, ma a Wilson parve che la mano si irrigidisse intorno al telecomando.

 

«Vado a prendere qualche ricambio, lo spazzolino, cose così» precisò Wilson. «Dovrei sbrigarmi in un quarto d’ora.»

 

«Mm» rispose House, cambiando canale.

 

Il più giovane emise un sospiro vagamente sconsolato. «Per favore, cerca di non ucciderti mentre non ci sono. Vorrei presenziare all’evento.»

 

«Coscienza sporca, Jimmy?»

 

«Pulitissima.»

 

«Dammi quelle dannate pillole e non dovrai preoccuparti di niente.»

 

«Ho un’idea migliore. Perché non la smetti di pensare alla tua gamba?»

 

«Non posso. Penso a tutti i miei organi a turno, sai, per non farli sentire soli.» Strinse le palpebre. «Oh, ciao, milza. Come va?»

 

«Allora siamo a posto, visto che la gamba è un arto.» Staccò la giacca dall’appendiabiti e andò a prendere la borsa dal divano. «Sono quasi sicuro di averla lasciata chiusa» commentò.

 

«Quasi? Stai invecchiando.»

 

«House…» Scosse la testa. Perché allontanarsi gli sembrava una pessima idea? «Almeno cerca di non affogarti con la tua stessa saliva» mormorò, prima di chiudersi la porta alle spalle.

 

 

 

Per esperienza, Wilson sapeva che Gregory House era esponenzialmente più pericoloso in compagnia che da solo. Questo perché quand’era solo l’esibizionismo tendeva ad affievolirsi, la mancanza di un pubblico gli toglieva verve, la noia gli fiaccava l’entusiasmo. Tuttavia, le cose peggiori Gregory House le aveva compiute proprio da solo, in vista di un prossimo siparietto comico. Se c’era qualcosa che amava era dare fastidio, se c’era un modo in cui amava farlo era con premeditazione, e se c’era una sua vittima preferita, be’, quella era proprio Wilson.

 

Per questo raccolse le proprie cose il più velocemente possibile, si cambiò e gettò la cravatta ancora annodata all’appendiabiti, tutto pur di restringere il tempo d’azione di quel pazzo in crisi d’astinenza. Aprì la porta di casa di House sedici minuti e ventiquattro secondi dopo esserne uscito, con un leggero fiatone.

 

Lo trovò esattamente dove l’aveva lasciato, sul divano, intento a fare zapping con l’aria più innocente del mondo.

 

«Prima che io accenda la luce» disse, appoggiando un dito sull’interruttore, «hai aperto i fornelli per farci saltare in aria tutti e due?»

 

Non ricevette risposta.

 

«Sappi che se l’hai fatto mi avrai sulla coscienza» dichiarò prima di accendere il lampadario, cui per fortuna non seguì alcuna esplosione mortale.

 

Si avvicinò al divano. I canali tv scorrevano con metronomica precisione. «Ehi?»

 

House non si voltò. Mettendogli una mano sulla spalla, Wilson percepì quanto fossero contratti i suoi muscoli. «House…?»

 

Un leggero velo di sudore gli imperlava la fronte.

 

«Ho bisogno del Vicodin» disse, a bassa voce. «… per favore» aggiunse, in un ansimo.

 

Wilson ritirò la mano. «Domani mattina alle sei» ripeté, cercando di suonare inespressivo. «Perché non vai a letto?»

 

«Per favore, Wilson.» Si voltò, rivolgendogli uno sguardo così genuinamente sofferente che l’altro si sentì vacillare.

 

«House… devi rispettare degli orari. Non puoi drogarti di quella roba.»

 

«Tu non hai idea di quanto fa male.»

 

Neanche tu, pensò Wilson, abbassando lo sguardo. «Se non ti serve niente io andrei a farmi una doccia.»

 

«Mi servono quelle fottute pillole!»

 

Scaricò il borsone con la propria roba vicino al divano, tirandone fuori l’accappatoio, una maglietta di casa e i pantaloni del pigiama. «L’unica cosa che ti serve è smettere di pensare a quelle pillole e a quella gamba» disse. «Domani chiedo alla Cuddy se ha qualche caso irrisolvibile da passarti. Almeno terrai la mente impegnata.» Allungò la mano per strappargli il telecomando, dato che lo stava stringendo così forte da far crocchiare la plastica esterna, ma House gli bloccò il polso con la sinistra.

 

«Non mi sto inventando niente» sibilò, tirandolo verso di sé, con tanta decisione che Wilson dovette lasciar cadere la roba sul divano per mantenere l’equilibrio contro lo schienale.

 

«Che stai…»

 

House gli tirò la mano fino alla coscia, finché le dita esitanti di Wilson non sfiorarono la stoffa leggera del pigiama. Al di sotto, costretto dalla presa ferrea dell’altro, Wilson avvertì il rilievo irregolare della cicatrice e dei muscoli intorno, esattamente come la sua vista aveva comunicato alle sue dita quando l’aveva visto - spiato - nella vasca, e adesso era il contrario, ma la sensazione la stessa.

 

Alzò gli occhi, incontrando i suoi. «Lo so che fa male» mormorò. «Ma io non posso… lasciami.»

 

«Dammele.»

 

«No.»

 

La presa si serrò fino a divenire soffocante. Wilson sentì le dita formicolare, le ossa del polso ribellarsi alla compressione. Non abbassò lo sguardo.

 

«Non te le darò, House. Se ti vuoi sfogare accontentati della destra. La sinistra mi serve.»

 

Quando lo lasciò, Wilson pensò che sarebbe rimasto il segno per un bel po’.

 

 

 

La doccia gli fece bene. Si era chiuso dentro a chiave, non per sfiducia, ma insomma, sì, per totale sfiducia nei confronti di House e del tubetto di Vicodin che aveva lasciato nella tasca dei pantaloni. Nel raggiungere il bagno aveva notato una serie di cose fuori posto che gli avevano descritto molto bene l’itinerario del suo amico alla ricerca delle pillole - non ultimo uno sportello della cucina che ricordava perfettamente chiuso.

 

Non stentava a credere che la gamba gli facesse male, dopo quell’allegra passeggiata per tutta la casa.

 

Sotto le dita, aveva sentito i muscoli tutto intorno alla cicatrice contrarsi e rilassarsi in corrispondenza del suo tocco, come una marea inquieta incapace di rilassarsi - di rassegnarsi - e trovare, almeno per un momento, un po’ di pace.

 

Se House l’aveva fatto per farlo sentire in colpa…

 

Spinse la maniglia della doccia, osservando l’acqua rimasta sgocciolare via dal suo corpo.

 

Se l’aveva fatto per farlo sentire in colpa, c’era riuscito.

 

La luce nella stanza da letto era accesa, quella non molto potente del comodino, e Wilson si affacciò con un asciugamano sui capelli bagnati e i vestiti sporchi sul braccio. House era disteso sulla schiena, sopra le lenzuola, un braccio ripiegato sugli occhi. «Buonanotte, House.»

 

«Dove stai andando?»

 

«A dormire.»

 

«Dove?»

 

Wilson corrugò la fronte. «A meno che tu non abbia una stanza degli ospiti che mi hai tenuto nascosta fino ad oggi, nel qual caso credo proprio che ti accoltellerò alla schiena, la risposta è sul tuo divano

 

House scostò il braccio. «Non puoi.»

 

«E perché?»

 

«È sporco.»

 

Wilson socchiuse le palpebre, perplesso. «Era pulito fino a un’ora fa.»

 

«E ora non lo è più. Il cane.»

 

«House, tu non hai un cane.»

 

«Il cane dei vicini.»

 

«Il cane dei vicini» ripeté Wilson. «Il tizio sordo che sta di fronte o la vecchia pazza con dieci gatti?»

 

«La seconda. Ci credo che voleva cambiare aria, povera bestia.»

 

«House…»

 

«Se fossi in te mi accontenterei di questa versione, perché la verità è sempre peggio.»

 

Wilson sospirò, strofinandosi distrattamente i capelli con l’asciugamano. «E quindi? Devo dormire per terra o posso arrangiare due lenzuola sul tavolo?»

 

«Dormi qui» disse House.

 

«Qui?»

 

La mano di House si spostò sulla piazza vuota. «Se non tiri calci.»

 

«No, no, aspetta. Qual è il trucco?»

 

«Nessun trucco.»

 

«Se è un modo per arrivare a quelle pillole…»

 

«Le tieni nelle mutande?» ribatté House, disgustato.

 

Wilson scosse la testa, gettando i vestiti su una poltrona vicino alla metà vuota del letto. Sapeva che togliere le pillole adesso era un errore, ma era stanco di schivare gli assalti di House.

 

Probabilmente voleva solo compagnia. Aveva dormito per cinque anni con un’altra persona accanto e ora era solo. Lui ricordava ancora bene lo smarrimento dei primi tempi dopo la rottura con Sarah.

 

Sedette sul bordo del letto, sentendo il lieve cigolio della rete e l’incurvarsi del materasso sotto di sé.  Appoggiò il tubetto sul pavimento vicino al comodino. «Dovresti coprirti» osservò, gettandogli uno sguardo.

 

«Sei sempre così materno o sono io che ti ispiro tenerezza?»

 

«In realtà se non ti togli le lenzuola da sotto la schiena non posso coprirmi neppure io.»

 

House sbuffò e puntò il piede sinistro contro il materasso, sollevandosi a fatica, quanto bastava per disincastrare le lenzuola e permettere a Wilson di aiutarlo.

 

Quando furono entrambi sistemati, House allungò una mano a spegnere la lampada e la stanza sprofondò nel buio. Seguirono vari istanti di silenzio.

 

«House?»

 

«Mm?» grugnì il padrone di casa.

 

«È solo…» Wilson inspirò ed espirò, esitando, «… mi dispiace.»

 

Attese una risposta per quasi un minuto, sentendo i secondi sgocciolare nella testa come un rubinetto difettoso, prima di mormorare un leggero “Buonanotte” e voltare il viso contro il cuscino. Profumo di donna, pensò distrattamente.

 

Quasi trasalì quando le dita di House invasero il suo spazio sotto le coperte e gli toccarono il polso sinistro, prima solo sfiorandolo, poi stringendolo in un lento massaggio – accarezzando il segno che l’indomani sarebbe stato coperto da un rapido cambio di posto dell’orologio. Quando le dita si soffermarono sul rilievo pulsante della vena, Wilson trattenne il fiato.

 

Anche a me.

 

Poi la mano di House scivolò via, ed entrambi si voltarono dal proprio lato.

 

 

 

Al risveglio non c’era nessun cinguettio d’uccellini né trillo di sveglia, e le palpebre di James Wilson si dimostravano stranamente poco collaborative. Era un tipo mattiniero, non aveva mai avuto difficoltà a svegliarsi all’ora esatta, e spesso anticipava la sveglia della manciata di minuti necessaria a riprendere coscienza e spegnerla prima che suonasse.

 

Ma stavolta, allungando la mano verso il comodino, non trovò nessun bottone da schiacciare, e quando al terzo tentativo riaprì gli occhi si rese conto che era ancora notte – e che quello non era il suo letto.

 

Da qualche parte accanto a lui, qualcuno stava gemendo. Una serie di ansiti brevi e spezzati, seguiti da un lungo gemito contratto e soffocato contro il cuscino. Voltandosi, vide la figura di House rattrappita sul fianco intorno alla gamba lesa, le mani strette sulla coscia, le lenzuola accartocciate dal suo lato. Gli voltava la schiena.

 

«House» lo chiamò. «House, che c’è?»

 

L’altro non rispose, a meno che un gemito gutturale come di bestia ferita non potesse definirsi risposta. La mano destra stava sfregando la coscia con tanta forza che Wilson si domandò se non stesse amplificando il dolore, anziché diminuirlo. La prese nella sua, per bloccarlo, e House si aggrappò alle sue dita con uno scatto di disperazione.

 

«Calmo» mormorò, spostandogli la mano e posandogliela sullo stomaco. «Calmo.» Riportò la propria sulla coscia, delicatamente. Attraverso il leggero strato di cotone avvertiva il calore di House e di riflesso il proprio. Mosse la mano in un lento circolo sulla cicatrice, non perché pensava che potesse servire ad alleviare il dolore, ma per dare a House l’illusione che fosse così.

 

Con una lentezza infinita, il più vecchio si andò rilassando sotto il suo tocco. Sospirò, e Wilson con lui, appoggiando la fronte contro la sua spalla. «Grazie a Dio» sussurrò. «Meglio?»

 

Invece di rispondere, House appoggiò la mano sulla sua e la strinse, non con la furia disperata di un momento prima né con la rabbia feroce della sera, ma in una presa salda e tiepida cui l’altro non si sottrasse.

 

«Tornerà» sussurrò Wilson. «Torneranno.»

 

House mosse la sua mano lentamente sopra la coscia, in un movimento spezzato che dopo qualche secondo assunse una certa fluidità e permise a Wilson di rilassarsi inconsciamente mentre lo lasciava fare. Qualunque cosa, pensò senza pensarlo, per aiutarlo a stare meglio.

 

I loro corpi aderivano quasi l’uno all’altro, anche se Wilson non ricordava quando si fossero avvicinati così tanto. La sua guancia premeva contro la spalla di House nel tentativo di spiarne l’espressione, e il gomito sinistro, su cui era appoggiato, formicolava di silenzioso dolore.

 

Credette di distinguere il momento esatto in cui qualcosa cambiò - un flash d’avvertimento gli lampeggiò nella mente. La mano di House cambiò angolazione sulla sua, poi la trascinò più in alto, sconfinando dal circolo familiare della cicatrice. Più in alto e più interno. Wilson trattenne il fiato e ripiegò le dita prima stese, opponendo una minima resistenza che l’altro vinse senza battaglia.

 

A volte può capitare che il cervello interpreti i segnali di dolore come segnali di piacere.

 

«House…»

 

O forse doveva solo distrarsi, e pensò, smettendo di ostacolarlo, meglio così che facendosi del male.

 

Sentì House voltarsi lentamente, lasciandosi scivolare sulla schiena, e d’un tratto si ritrovarono a guardarsi in faccia. Per Wilson fu una scarica di adrenalina che poco aveva a che fare con l’amicizia, la compassione e l’aiuto disinteressato. Quando la mano di House portò la sua all’orlo dei pantaloni e poi si ritirò, Wilson la lasciò scivolare sotto l’elastico senza riflessione.

 

Pensò che non c’era niente di tanto strano - che House stava male, che aveva bisogno di distrarsi, che - buffa questa - era stato lui a dirgli di pensare ad altro. Continuò a dirsi che non c’era niente di strano finché non appoggiò la guancia sulla clavicola di House e sentì l’altro passargli un braccio intorno alle spalle.

 

Era molto dimagrito. Non era mai stato un tipo in carne, ma adesso la maglietta gli penzolava desolata dal torace, e l’elastico dei pantaloni doveva fare del suo meglio per aderire al profilo ossuto delle anche. La clavicola sporgeva come lo spigolo di una scrivania contro la guancia di Wilson.

 

Lo strinse piano e House sospirò rumorosamente, muovendo la mano destra in una lenta carezza sulla sua schiena. Forse fino a quel momento aveva potuto dirsi che non c’era niente di strano - poteva pure aver creduto alla storia dell’obbligo morale e dell’amicizia. Ma poi un brivido seguì il percorso delle dita di House sulla sua spina dorsale, e Wilson si ritrovò col viso affondato nell’incavo del suo collo e le labbra che istintivamente andavano alla ricerca di un punto sensibile vicino all’orecchio.

 

House si tese, piegando il capo dall’altro lato per lasciargli più spazio. La mano afferrò la maglietta e la tirò su per scoprire la schiena, per toccarla, per tracciarvi sopra sentieri invisibili, mentre i brividi si moltiplicavano e Wilson si chiedeva che diavolo sto facendo, House, che diavolo stiamo facendo.

 

Parlare sarebbe stato come ammettere che c’era della coscienza in ciò che stava accadendo, perciò Wilson tenne i propri pensieri per sé e si limitò a spingersi verso l’altro, accarezzandolo più forte.

 

Allo stesso modo ascoltò senza fiatare il fruscio dei vestiti e delle lenzuola quando House si voltò verso di lui, sollevandogli il viso con la mano libera, e gli accarezzò le labbra con il pollice.

 

Iniziò lento e stucchevole come un primo appuntamento. Mentre si baciavano sentì quella stessa mano scorrergli lungo il corpo fino ad afferrare le lenzuola abbandonate in mezzo a loro, coprire entrambi e poi ridiscendere lungo il suo addome, sollevargli la maglietta e scostargli i pantaloni.

 

Ritrovarsi eccitato come un quattordicenne nel letto del suo miglior amico, scoprì, non lo sorprese affatto. Si fecero così vicini che ormai si strusciavano l’uno contro l’altro, le mani che cozzavano nocche contro nocche nel tentativo di trovare un incastro perfetto nella geometria mobile dei loro corpi, e un affanno tangibile nel modo in cui il bacio si sfrangiava in mille piccole schermaglie senza fiato.

 

Alla fine rimasero a riprendere fiato l’uno addosso all’altro. Wilson con la guancia sulla spalla di House, la mano ferma dove l’aveva lasciata - House con metà del corpo incastrata specularmente sotto di lui, immobile. Quando Wilson alzò gli occhi per guardarlo, l’altro districò la mano pulita e si contorse infelicemente per pescare fuori dal cassetto una scatola di kleenex, che gettò sul letto.

 

Qualunque cosa fosse stata, Wilson sentì che questo era l’unico momento per parlarne, e al tempo stesso che non voleva pronunciare una sola parola a riguardo. Si ripulì in silenzio, riducendo i kleenex sporchi a una pallina di carta che tirò senza speranza verso il cestino. Non controllò se aveva fatto centro.

 

House si era girato sul fianco dal suo lato, e Wilson fece appello a tutto il proprio autocontrollo per dirigere il proprio corpo dalla parte opposta, appoggiare la guancia sul cuscino e chiudere gli occhi un’altra volta.

 

«Buonanotte» bisbigliò, senza quasi avvedersene, e il silenzio gli si frantumò intorno come un palloncino bucato da uno spillo.

 

House mugugnò in risposta; ma forse, più probabilmente, se l’era solo immaginato.

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Capitolo 4
*** [3] Heart (∞ points) ***


Hit the Cripple
Capitolo III


 

 

[3] Heart (∞ points)

 

 

 

 

C’era un telefono che squillava. Il suono di per sé non era gradevole, e non lo sarebbe stato neppure con la Nona di Beethoven o la Primavera di Vivaldi, ma in quel momento andava a sommarsi a una nottata insonne e a un crampo alla gamba non del tutto smaltito. James Wilson si voltò nel bozzolo delle coperte, mugugnando a Rachel di rispondere.

 

Non solo lo squillo persistette, ma Rachel emise anche un grugnito ben poco femminile.

 

«… House?» mugugnò Wilson, aprendo un occhio. L’altro sbuffò nel sonno e si raggomitolò dal proprio lato.

 

Wilson puntò il telefono, che frattanto aveva smesso e poi tenacemente ripreso a squillare. Era lontanissimo da lui, sull’altro comodino: per raggiungerlo avrebbe dovuto fare il giro del letto, ma ciò significava togliersi le calde, calde coperte di dosso, mettere i piedi sul pavimento gelido, affrontare il mondo ostile al di fuori del bozzolo e andare a ricevere una telefonata il cui contenuto, con ogni probabilità, gli avrebbe rovinato la giornata.

 

Driiin.

 

Almeno alzarsi era fuori questione.

 

Si allungò verso il telefono, non del tutto consapevole del fatto che l’ostacolo era più solido di quanto sembrava, e House mugugnò: «Levati, cazzo», e poi senza molta coerenza «Fallo smettere». La metà di cervello rimasta sul cuscino gli impedì di rispondere a tono, e l’aver abbandonato gli esercizi di stretching mattutino intorno ai ventiquattro anni frustrò i suoi tentativi di afferrare la cornetta. Proprio quando stava per arrendersi, House schiacciò una mano sull’apparecchio e gli porse l’oggetto di tanto affanno.

 

«… Wilson» borbottò l’oncologo. Richiuse gli occhi. «Sì… bene. Te lo passo.»

 

Appoggiò la cornetta sull’orecchio di House, senza che l’altro facesse un movimento per prenderla.

 

«… bene» mormorò quello, con una voce più bassa e ruvida del solito. «Davvero?… Non ti abbiamo sentita, stavamo facendo sesso. Wilson ci va giù pesante, mi fa ancora male il…» Lieve pausa. «Salutami Francine» aggiunse, prima di fargli cenno di riprendersi la cornetta.

 

Wilson sospirò. «Stacy?»

 

«Sta bene, James?»

 

«Sì» mentì. «Tu?»

 

«Bene. Bene.»

 

Almeno tutti e tre erano concordi nel dire che stavano bene e altrettanto nel pensare il contrario. Potere dell’amicizia, pensò, allungandosi per riporre la cornetta.

 

«Devi proprio strofinarmelo in quel modo tra le chiappe?» sbottò House.

 

«Perché non mi ringrazi? È il tuo telefono, è la tua casa, è…»

 

«… il mio culo

 

Wilson si lasciò ricadere dal suo lato, già stanco. Le schermaglie con House di prima mattina erano in fondo alla sua lista di Cose-da-fare-assolutamente-prima-di-morire. E poi, che ora era?

 

Sei in punto.

 

Raccolse il tubetto di Vicodin da dove l’aveva lasciato e si lasciò cadere due pillole, poi una terza, nel palmo. House si voltò al rumore, tendendo la mano, e le ingoiò all’istante. Poi socchiuse gli occhi, appoggiandosi contro la testiera.

 

«Ne vogliamo parlare?» disse Wilson.

 

«Mi chiedi se voglio

 

«È un no?»

 

«In realtà è un “perché non mi prepari la colazione?”»

 

«Perché ho sonno e perché con quella dose puoi correre i cento metri. Preparatela da solo» borbottò, voltandosi dal suo lato e rimettendosi, finalmente, a dormire.

 

«Cattivo» lo sentì ribattere, in tono offeso, prima di chiudere gli occhi.

 

 

 

Verso le otto Wilson si svegliò definitivamente. L’altra metà del letto era vuota, e quasi se ne stupì – aveva ancora la percezione vaga ma tangibile di un corpo stretto intorno al suo, di una mano leggera sullo stomaco, di una carezza lenta e prolungata sull’addome. La tenne stretta alla mente mentre entrava in bagno, richiudendosi la porta alle spalle con una spinta.

 

Il James Wilson nello specchio aveva l’aria stanca, ma anche un indecifrabile, ingiustificato mezzo sorriso sulle labbra.

 

«Non c’è proprio niente da ridere» lo rimproverò, aggrottando le sopracciglia.

 

Qualche minuto dopo House entrò spalancando la porta, con passo trionfale malgrado la zoppìa. «Cuddy ha chiamato mentre dormivi,» annunciò.

 

Wilson alzò gli occhi, senza smettere di spazzolarsi i denti.

 

«Non muori dalla voglia di sapere cos’ha detto?»

 

Wilson si sciacquò la bocca, sputando nel lavandino. «Sì, poi la vado a prendere la tua cartella clinica» disse infine.

 

«E tu come lo sai?»

 

«È stata una mia idea.» Gli passò accanto, diretto al salotto, dove aveva lasciato il borsone coi vestiti puliti. «Te l’ho detto ieri, ma tu eri nella tua crisi da ho-cercato-le-pillole-per-tutta-la-casa-sfinendomi-come-un-idiota-quindi-ora-me-la-prendo-con-Wilson.» In realtà non aveva ancora parlato con la Cuddy, ma quando si trattava di House loro due erano capaci di sviluppare una strana telepatia.

 

Per tutta risposta, House gli afferrò il braccio sinistro e lo sollevò per studiare l’ematoma lasciatogli sul polso. Era meno evidente di quanto fosse sembrato la sera prima, ma sempre ben visibile.

 

Wilson lo guardò con calma. «Non è niente.»

 

«Fa male?»

 

«Ti stai preoccupando per un altro essere umano?»

 

«Blandendo. Per evitare che mi denunci.»

 

«Non ho soldi per intentarti una causa. Li spendo tutti per pagarti il pranzo.»

 

«E per gli alimenti di Sally.»

 

«Sarah.»

 

«Quello che è.»

 

«Posso riprendermi il mio braccio, adesso?»

 

«Solo un momento.» Lasciò scivolare le dita sul polso, stringendolo, e fece un passo per colmare la distanza tra sé e Wilson - si ritrovarono così vicini da respirarsi addosso, così vicini che un bacio sarebbe stato solo poco di più. Wilson sentì il sangue incendiargli la faccia.

 

«Tachicardia» decretò House, lasciandolo andare. «Sintomo interessante.»

 

E Wilson rimase fermo come l’ultimo degli imbecilli di fronte alla porta del bagno, mentre un House più allegro di quanto lo fosse stato in tutto l’ultimo mese se ne tornava zoppicando in cucina.

 

Che cos’era, quello?

 

Wilson scosse la testa, già rassegnato in partenza all’inattingibilità dei misteri del cosmo. La sua mente non era capace di indagare quesiti come l’infinità dell’universo, l’esistenza di Dio, i processi mentali di Gregory House e come ha fatto quello schizzo di sugo a dribblare il tovagliolo schiantandosi sui tuoi pantaloni nuovi da 200 dollari. La sua era una mente relativamente semplice. Deduttiva, ma semplice. Capace dei suoi momenti di genialità, di connessioni inusuali, di incredibili sfoggi di pensiero laterale. Ma c’erano cose che le erano precluse, e non sarebbe stato lui a rompersi la testa correndo in carica contro un muro di cemento.

 

Tornò in camera da letto, togliendo il tubetto di Vicodin dal suo nascondiglio - tra il materasso e il comodino dal suo lato - e si chiuse in bagno per il tempo di rito necessario a ritenersi a posto. House ricomparve mentre si stava allacciando la cravatta.

 

Aveva ancora addosso la maglietta grigio scuro con cui aveva dormito, mentre la camicia di Wilson era di un bianco panna che gli fece ricordare quando House si era lanciato nell’accurata bipartizione dei colori in virili e non virili. Guardandolo nello specchio con la coda dell’occhio, ebbe come l’impressione di un grosso calabrone che svolazzava ronzando intorno a un bignè.

 

«Sì?» domandò, rigirandosi i due lembi della cravatta tra le dita.

 

«Perché non blu?»

 

«Prego?»

 

«Perché non blu? È martedì.»

 

«E con questo?»

 

«Metti sempre una cravatta blu il martedì. Prima la mettevi il giovedì, ma poi quell’infermiera che porta la sesta ti ha detto che il blu non ti donava, e da allora la metti solo il martedì, che è il suo giorno di riposo.»

 

Wilson rimase attonito per un momento, prima di riprendere ad annodare la sua cravatta rossa. «Avevo voglia di cambiare» rispose, perfettamente conscio che non sarebbe stato creduto.

 

«Sì, certo. E la cravatta blu?»

 

«Quale cravatta blu?»

 

«Quella.» Fece una pausa. «Cos’era, secondo anniversario? Compleanno? Bar Mitzvah?»

 

«Il Bar Mitzvah si festeggia a tredici anni.»

 

«E scommetto che allora avevi già tre fidanzatine, maschione» ribatté House, dandogli un pugnetto sulla spalla.

 

Wilson sospirò, sciogliendo nervosamente il nodo che, per la prima volta in anni e anni di cravatte mattutine, non gli era riuscito al primo colpo. Nessuna speranza che il gesto passasse inosservato.

 

«Sì, quella che mi ha regalato Rachel. Ho preso i vestiti il più velocemente possibile per evitare che ti strozzassi con la tua stessa lingua mentre non c’ero.»

 

«Mi chiedo quante cravatte una moglie debba regalare al proprio marito prima che un matrimonio possa dichiararsi finito.»

 

«E io mi chiedo quanti sacrifici un amico debba fare per un altro prima che gli sia riconosciuto il diritto a un po’ di privacy!» scattò Wilson, violentemente. Si sfilò la cravatta, frustando l’aria con la sottile striscia di stoffa rossa, e uscì dal bagno. La ficcò nel borsone, imprecando tra sé e sé contro tutti gli amici ingrati del mondo.

 

«Dovresti fartene una ragione» disse House, appoggiandosi allo stipite della porta. «Del resto la rabbia è il terzo stadio. Sei già avanti col lavoro.»

 

«E tu dovresti smetterla di ficcanasare nella mia vita, perché non ne hai nessun diritto.»

 

«Non mi sembrava che la pensassi così, ieri

 

Wilson richiuse la bocca, preso in contropiede. «Io non… ieri non…»

 

«Ieri non…?»

 

Distolse lo sguardo, richiudendo il borsone con uno strattone violento che gli lasciò in mano la spoletta di plastica della cerniera. Se la gettò alle spalle, sempre più nervoso. «Ieri non è successo niente. Ti ho chiesto se ne volevi parlare e hai detto di no. Bene. Neanch’io ne voglio parlare. Siamo a posto.»

 

«Tecnicamente non ti ho detto di no, ti ho detto “preparami la colazione”.»

 

«Che al mio paese è un modo per sviare la discussione. Ho detto che va bene, non ne voglio parlare.»

 

«Al tuo paese? Ma dove vivi, in Thailandia?»

 

«Lo stai facendo di nuovo!»

 

House abbassò lo sguardo. «Ti crea problemi.»

 

«Cosa? Che tu non sappia farti gli affari tuoi?»

 

Gli occhi di House tornarono a fissarlo, profondamente.

 

«… non ne voglio parlare, House.» Afferrò la giacca dall’appendiabiti, indossandola e ficcando le mani nelle tasche alla ricerca delle chiavi della Volvo. Frugò per un po’, sempre più nervoso, finché un tintinnio metallico non distolse la sua attenzione.

 

«Queste?» chiese House, con l’aria più innocente del mondo.

 

«Dammele.»

 

«Non credo.»

 

«A che gioco stiamo giocando?»

 

House alzò lo sguardo, fingendo di pensarci. «A occhio e croce… a Picchia lo zoppo

 

«Vuoi che ti picchi?» replicò Wilson, aprendo le braccia. «Cos’è, la gamba non è abbastanza per appagare il tuo masochismo?»

 

«È solo il secondo round. Il primo era Fai una sega allo zoppo, e l’hai passato brillantemente.»

 

Wilson scosse la testa, negando che tutto questo stesse davvero accadendo a lui. Sapeva che quella cosa House gliel’avrebbe rinfacciata per tutta la vita, lo sapeva come sapeva che il sole sarebbe sorto l’indomani. Ma aveva comunque sperato, pregato, implorato che non accadesse. Si fece avanti con la mano tesa, per strappargli le chiavi. «Dammele e basta, House. Non ho tempo di discutere.»

 

House non si mosse. Si limitò a tirare indietro il braccio, con aria di sfida.

 

«Quant’è che non fai a pugni, Jimmy? Dieci anni?»

 

«Non farò a pugni con te, razza di idiota!»

 

«E perché? Scommetto che vinco io.»

 

«Dammi le chiavi.»

 

«No.»

 

Wilson alzò le braccia in segno di resa. «Va bene. Tienitele. Chiamo un taxi.»

 

«Già ti arrendi?»

 

L'altro non sollevò gli occhi dal suo cellulare. «Sai qual è il tuo problema, House? Non capisci mai quando hai passato il segno» disse, con voce non del tutto ferma. «Ora pensi che prenderti un pugno in faccia ti dimostrerebbe che sei uguale a tutti gli altri, che non hai perso niente, che quello che ti è successo non ti ha cambiato. Ma sai cosa c'è? Che non è vero, tu vuoi essere speciale, tu vuoi essere diverso, e vieni a chiedere a me di fare a pugni perché sai benissimo che non lo farò. Così puoi dirti che è per via della gamba e fortificarti nella tua autocommiserazione. Pronto? Sì, un taxi al 221B di via...» Chiuse la conversazione e rialzò lo sguardo. «Bene, vuoi saperlo? Non è per la gamba. E ora trovati qualcun altro da affliggere, perché io ne ho abbastanza.»

 

«Dove stai andando?» domandò House, alla sua schiena.

 

Non si preoccupò di voltarsi, mentre rispondeva: «A fare due ore di ambulatorio, a ritirare la tua maledetta cartella clinica, a fare la tua spesa e a chiedermi perché sto ancora qui a parlarti.»

 

House inspirò. «Wilson?»

 

«… cosa

 

«Già che esci, comprami anche un lecca-lecca.»

 

 

 

Mezz’ora dopo, mentre varcava l’ingresso dell’ospedale, già si chiedeva se non avesse esagerato. House era un provocatore per natura, dacché lo conosceva non si era mai comportato in modo diverso, e spesso Wilson si era vantato con se stesso di essere l’unica persona al mondo – fatta eccezione forse per Stacy – assuefatta ai suoi atteggiamenti.

 

Invece aveva perso il controllo.

 

A differenza della maggior parte degli individui, quando perdeva il controllo Wilson non era molto diverso dal solito. Non alzava troppo la voce, non si sbracciava, non tentava di sfogare la rabbia sugli oggetti. Non diceva cose che non pensava. Ma quando l’ira sbolliva non poteva fare a meno di sentirsi in colpa.

 

Per questo, nonostante fosse certo di aver avuto ragione nel dire a Rachel che non poteva pretendere da lui che abbandonasse il suo migliore amico mentre a stento si reggeva in piedi, in realtà continuava a ripetersi che la colpa era sua – che l’aveva trascurata, e non solo quella volta; che House era House, ma Rachel era sua moglie.

 

Per questo, nonostante avesse detto a House solo la verità che conoscevano entrambi, ora desiderava ardentemente non averlo fatto.

 

Quella delle ore di ambulatorio, peraltro, era una bugia. Dopo la rottura dello specchio aveva chiesto alla Cuddy una settimana di ferie anticipate, per riuscire a stare con Rachel. Poi, dopo aver riattaccato la cornetta, aveva trovato il suo messaggio in segreteria.

 

Ancora non sapeva perché gli avesse mentito. Forse anche i suoi nervi stavano cedendo, come quelli di Stacy.

 

«Wilson? Che ci fai qui? Non sei in ferie?»

 

L’oncologo si passò una mano sulla fronte, annuendo e contemporaneamente spingendo lo sguardo via dalla sempre invitante scollatura del suo direttore sanitario. «Sono passato a prendere quella cartella clinica.»

 

«Quale cartella?» domandò lei, voltandosi verso la segretaria della reception. «Cindy, chi copre la clinica stamattina?»

 

«Un attimo che controllo» disse la ragazza.

 

«Come ‘quale cartella’? Quella di House.»

 

«La sua cartella? A che gli serve? Vuole farci causa?»

 

«Il dottor Davidson, dottoressa.»

 

«Bene, grazie.»

 

«No, non la cartella di House, la cartella per House. Quella… del paziente che non si capisce cos’ha. Quella per tenerlo impegnato, Cuddy.»

 

Lisa Cuddy alzò gli occhi su di lui, confusa. «Ma di che stai parlando?»

 

«Hai chiamato un’ora fa a casa e gli hai detto che avevi un caso per lui.»

 

«Wilson, io sono arrivata solo mezz’ora fa.»

 

La confusione, poi lo stupore, poi la comprensione si susseguirono al volto di Wilson in una sequenza così familiare e perfetta che la Cuddy non ebbe bisogno di ulteriori spiegazioni. «C’è Stacy con lui, vero?» Gli lesse la risposta in faccia. «Vai, io intanto provo a chiamarlo.»

 

«Non ho la macchina!»

 

«Prendi la mia. Le chiavi nella mia borsa, sul divanetto del mio studio.» Afferrò il telefono della reception, voltandolo verso di sé e quasi sradicandolo dal filo, mentre Wilson correva via raggelato.

 

L’aveva fregato, fregato, fregato ancora una volta – e lui si era fatto fregare, ovviamente, come se non sapesse – come se non lo sapesse – che House faceva ogni cosa per un motivo, e un motivo preciso. Aveva pensato che volesse solo prendersi gioco di lui dopo la notte passata… perché quella cosa gli stava togliendo la capacità di giudizio.

 

La Volvo, per fortuna, era ancora parcheggiata di fronte a casa, ma nell’appartamento non c’era nessuno. Wilson controllò ogni stanza, la cucina, la camera da letto, controllò perfino dentro la doccia. Gridò che se era uno scherzo non era affatto divertente, ma il silenzio che gli giunse in risposta sembrò anche quello architettato per schernirlo. Quando il telefono prese a squillare corse a rispondere, ma era la Cuddy.

 

Era uscito senza cercapersone né cellulare. Se c’era un posto dove poteva aspettarsi di trovarlo era in farmacia, a fare scorta del suo prezioso Vicodin, ma senza ricetta nessuno gliel’avrebbe venduto.

 

Dalla madre di Stacy? Francine abitava dall’altra parte della città, avrebbe preso la macchina. O forse chiamato un taxi. Il che lo riportava al punto di partenza.

 

Quel che era certo è che sforzando la gamba non avrebbe resistito più di un paio d’ore senza i suoi analgesici, e Wilson ormai conosceva fin troppo bene House in preda a una crisi isterica. In casa sua era preoccupante, ma per strada era una tragedia.

 

Staccò un post-it, vergò qualche parola in fretta e lo incollò sul coperchio del pianoforte, dove sapeva per certo che House l’avrebbe visto. Poi uscì di casa.

 

Non era al Princeton, non era nel suo bar preferito, non era dalla madre di Stacy – che Wilson pregò di non avvertire la figlia, altrimenti si sarebbe scatenato un putiferio. Non era stato in nessuna delle farmacie della zona, non all’edicola, non dal fioraio, non in libreria, non da nessuna parte, ma un uomo nelle sue condizioni non passava inosservato, cazzo, qualcuno doveva pur averlo visto!

 

Verso mezzogiorno la Cuddy aveva avvertito il 911, e Wilson varcava la porta di casa di House con aria desolata. Il post-it era ancora lì, sul pianoforte, e nessun segno del suo passaggio.

 

Si lasciò cadere sul divano, esausto. La preoccupazione era diventata una spina continua, un dolore sordo e tangibile localizzato tra il cuore e lo stomaco, che diventava fitta quando si permetteva di fare congetture.

 

Si passò la mano tra i capelli e in quel momento il cellulare vibrò e squillò nella sua tasca. Lo trasse fuori bramosamente solo per ritrovarsi deluso ancora una volta, e scoprire che dopo aver aspettato per giorni che sua moglie rispondesse alle sue chiamate, adesso il nome ‘Rachel’ lampeggiante nello schermo non gli faceva alcun effetto.

 

Scusami.

 

Lasciò cadere il cellulare sul divano, coprendolo con un cuscino per riuscire a ignorarne lo squillare furioso.

 

Senza House, il suo appartamento aveva un aspetto insopportabilmente spoglio, e Wilson dubitava di poterlo sopportare oltre. Raccolse il cellulare, che nel frattempo s’era zittito, lo ficcò in tasca e si frugò alla ricerca delle chiavi di casa.

 

Fu dopo dieci minuti buoni di ricerca per tutta la casa – eppure era sicuro, sicuro di averle lasciate nella giacca – che si paralizzò, le fodere tirate fuori dalle tasche come due buffi palloncini di stoffa.

 

Le chiavi. House. Le chiavi e House.

 

Corse fuori un’altra volta.

 

 

 

A vederlo, sembrava uno senza un problema al mondo. Sdraiato comodo sul suo divano, una gamba allungata sul bracciolo opposto e l’altra col piede appoggiato sul pavimento, uno dei suoi tovaglioli ficcato nell’orlo della camicia, uno dei suoi piatti appoggiato sul petto, e un panino presumibilmente ordinato col suo telefono al Mc Donald poco lontano. La sua televisione accesa su un qualche scadente telefilm adolescenziale – volti concitati della pupa numero 1 e del boy numero 2 che si squadravano drammaticamente l’un l’altra. Un tubetto nuovo di Vicodin appoggiato sul pavimento, vicino alla testa.

 

Il modo in cui finse di non prestargli attenzione, come se avesse ogni ragione di trovarsi lì, fece capire a Wilson che tutto era stato architettato per un motivo ben più complicato di un flacone di pillole – per un motivo che House, ignorandolo, gli stava praticamente sbattendo in faccia.

 

«Sono quattro ore che ti stiamo cercando, e tu eri in casa mia a guardare la televisione?»

 

«Ne possiamo parlare nella pubblicità?»

 

Wilson andò a spegnere la tv, piantando i pugni sui fianchi.

 

«Ehi! Lo stavo guardando!»

 

«Che cosa hai fatto?»

 

House sbuffò, posando il piatto sul pavimento – e approfittandone per intascare il Vicodin. «Chiamato un taxi, uscito di casa, fatto qualche spesuccia inutile, poi sono tornato qui ad aspettarti. Sono o non sono una brava mogliettina?»

 

«Siamo tutti impazziti di preoccupazione, non sapevamo cosa fare. Ti abbiamo cercato ovunque.»

 

«Perché siete ignoranti. C’è un racconto di Edgar Allan Poe su una lettera nascosta ben in vi…»

 

«Basta giocare, House!»

 

James Wilson che gridava era un evento abbastanza raro da spingere anche Gregory House a chiudere la bocca. Almeno per qualche istante.

 

Per la strana empatia che condividevano, Wilson avvertì il cambiamento con puntuale precisione. House richiuse la bocca, abbassò lo sguardo, si concesse un lieve sospiro interiore e si sfilò il tovagliolo dal collo prima di mettere giù anche l’altra gamba e raddrizzarsi sul divano. Alzò gli occhi. «Ti sei preoccupato?»

 

«La Cuddy ha chiamato il 911.»

 

House lo guardò, in attesa.

 

Wilson si lasciò cadere accanto a lui, i gomiti sulle ginocchia e le mani tra i capelli. «Non sapevo cosa fare» mormorò, fissando il pavimento. Chiuse gli occhi. «Non so cosa fare» aggiunse, in un bisbiglio.

 

Sentì la guancia di House contro la spalla, e il suo calore, così leggero, era qualcosa che poteva tollerare, sì, poteva tollerare tranquillamente. Sentì House prendergli la mano sinistra tra le sue, e lo lasciò fare perché anche questo – il modo in cui la carne ossuta del più vecchio si sfregava contro la sua – anche questo era tollerabile. Ma ciò che non riuscì a tollerare (perché non c’era un letto, perché non c’era il buio, perché non c’era un fottuto letto nel buio pieno della notte) fu il modo in cui le dita di House tracciarono ancora una volta il loro marchio intorno al suo polso, e si fermarono sul fiumiciattolo bluastro della vena.

 

Cercò di ritirare la mano, ma House non glielo concesse. «Guardami. Wilson. Guardami.»

 

«No.»

 

House gli afferrò la faccia con la mano libera, voltandola a forza. «Ho detto guardami, Wilson.»

 

L’altro alzò gli occhi. Dischiuse le labbra, forse per dire qualcosa, forse solo per un gesto inconscio, ma qualunque cosa fosse finì per perdersi nell’urto con quelle più aggressive e sottili di House. Qualunque cosa fosse, Wilson vi rinunciò quando House gli appoggiò una mano salda sulla nuca, e ogni tentativo di fuga si rivelò vano nella sua mente prima ancora che in concreto.

 

Quando la lingua di House gli accarezzò la chiostra inferiore dei denti, sentì i brandelli della sua volontà sbriciolarsi e volare via come piume al vento. Sentì che non c’era più niente da fare.

 

«Va bene» sussurrò, in un secondo di respiro. «Va bene.»

 

«Va bene?» ripeté House, sulla sua guancia.

 

«Fammi… fammi togliere la giacca.»

 

Le mani di House gli scivolarono sulle spalle, tra la giacca e la camicia, spogliandolo dello strato superfluo che volò sul bracciolo opposto.

 

«Quante ne hai prese?» sussurrò Wilson, mentre si districavano con fatica tra l’imbarazzo e l’intreccio scomposto dei rispettivi arti.

 

«Abbastanza. Per un po’ possiamo stare tranquilli.»

 

«House…» iniziò, passandosi una mano tra i capelli.

 

«Ma non la chiudi mai, quella bocca?»

 

 

 

(Stacy li trovò addormentati, più o meno coperti dai lembi scomposti dei propri vestiti, più o meno abbracciati, più o meno decenti agli occhi della compagna di uno di loro. Niente meno di una cosa del genere avrebbe potuto far perdere a Wilson la consueta precisione – la porta dimenticata socchiusa era un errore da sedicenne – e niente meno della precisa volontà di essere scoperto avrebbe potuto far tralasciare il dettaglio a Gregory House. Inspirò ed espirò con rapidità nervosa, e solo marginalmente si rese conto che il post-it accartocciato nel pugno le scivolava di mano, raggiungendo il pavimento con un leggerissimo tonfo.

 

Quando uscì, si chiuse la porta alle spalle senza fare rumore.)

 

 

 

*Per favore, smettila di giocare. J.*

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Capitolo 5
*** [0+] Prize ***


 


Epilogo

 

[0+] Prize

 

 

 

 

«Ti… ti amo quindi vattene?» ripeté Wilson, con un filo di voce. «Cos’è, vuoi cacciare anche me?»

 

«Non ti sto cacciando. Ti ho detto di andartene.»

 

«Spiegami la differenza.»

 

House si strinse le mani sopra il muretto, sfregandosi le nocche con le dita. «Devo pensare.»

 

«Non vedo l’iPod né il Game Boy.»

 

«Wilson.»

 

«House.»

 

Il vento fischiò in mezzo a loro, invadente.

 

«… va bene» mormorò il più giovane, alzando le mani. «Va bene, come vuoi tu.» Si voltò, tornando alla porta, e deciso stavolta ad andarsene davvero.

 

«Tu cosa preferiresti?» riprese House, senza muoversi. «Che dessi ragione alla tua brillante teoria su come mi piaccia essere infelice, o che la smentissi clamorosamente?»

 

Wilson rispose lentamente, misurando le parole. «Tu preferiresti piantarti un chiodo in una mano che darmi ragione.»

 

«Il che ci riporta alla domanda: che cosa preferiresti?»

 

«Come dici sempre tu, per fortuna non sono io a dover decidere

 

«Ehi, io lo dico dei pazienti. Credevo che ti importasse di me più di quanto a me importi di loro.»

 

Wilson sospirò, strofinando il pollice contro la maniglia che non aveva ancora lasciato. «Va bene, allora, fallo. Smentiscimi. Dimostrami che anche un pazzo autolesionista e drogato come te ha qualche legame col mondo normale.» Pausa. «Per quanto ne dubito.»

 

Poi il silenzio stagnò così profondo per almeno un minuto o due che Wilson dovette voltarsi per capire cosa House stesse facendo. Lo trovò fermo dove l’aveva lasciato, intento a fissarlo.

 

«… stasera a casa mia?»

 

Una goccia di pioggia gli bagnò le labbra nell’attimo esatto in cui le dischiuse per rispondere.

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