Hit the Cripple
Capitolo III
[3]
Heart (∞ points)
C’era un telefono che
squillava. Il suono di per sé non era gradevole, e non lo sarebbe stato neppure
con la Nona di Beethoven o la Primavera di Vivaldi, ma in quel momento andava a
sommarsi a una nottata insonne e a un crampo alla gamba non del tutto smaltito.
James Wilson si voltò nel bozzolo delle coperte, mugugnando a Rachel di
rispondere.
Non solo lo squillo
persistette, ma Rachel emise anche un grugnito ben poco femminile.
«… House?» mugugnò Wilson,
aprendo un occhio. L’altro sbuffò nel sonno e si raggomitolò dal proprio lato.
Wilson puntò il telefono,
che frattanto aveva smesso e poi tenacemente ripreso a squillare. Era
lontanissimo da lui, sull’altro comodino: per raggiungerlo avrebbe dovuto fare
il giro del letto, ma ciò significava togliersi le calde, calde coperte di
dosso, mettere i piedi sul pavimento gelido, affrontare il mondo ostile al di
fuori del bozzolo e andare a ricevere una telefonata il cui contenuto, con ogni
probabilità, gli avrebbe rovinato la giornata.
Driiin.
Almeno alzarsi era fuori
questione.
Si allungò verso il
telefono, non del tutto consapevole del fatto che l’ostacolo era più solido di
quanto sembrava, e House mugugnò: «Levati, cazzo», e poi senza molta coerenza
«Fallo smettere». La metà di cervello rimasta sul cuscino gli impedì di
rispondere a tono, e l’aver abbandonato gli esercizi di stretching mattutino
intorno ai ventiquattro anni frustrò i suoi tentativi di afferrare la cornetta.
Proprio quando stava per arrendersi, House schiacciò una mano sull’apparecchio e
gli porse l’oggetto di tanto affanno.
«… Wilson» borbottò
l’oncologo. Richiuse gli occhi. «Sì… bene. Te lo passo.»
Appoggiò la cornetta
sull’orecchio di House, senza che l’altro facesse un movimento per prenderla.
«… bene» mormorò quello,
con una voce più bassa e ruvida del solito. «Davvero?… Non ti abbiamo sentita,
stavamo facendo sesso. Wilson ci va giù pesante, mi fa ancora male il…» Lieve
pausa. «Salutami Francine» aggiunse, prima di fargli cenno di riprendersi la
cornetta.
Wilson sospirò. «Stacy?»
«Sta bene, James?»
«Sì» mentì. «Tu?»
«Bene. Bene.»
Almeno tutti e tre erano
concordi nel dire che stavano bene e altrettanto nel pensare il contrario.
Potere dell’amicizia, pensò, allungandosi per riporre la cornetta.
«Devi proprio strofinarmelo
in quel modo tra le chiappe?» sbottò House.
«Perché non mi ringrazi? È
il tuo telefono, è la tua casa, è…»
«… il mio culo.»
Wilson si lasciò ricadere
dal suo lato, già stanco. Le schermaglie con House di prima mattina erano in
fondo alla sua lista di Cose-da-fare-assolutamente-prima-di-morire. E poi, che
ora era?
Sei in punto.
Raccolse il tubetto di
Vicodin da dove l’aveva lasciato e si lasciò cadere due pillole, poi una terza,
nel palmo. House si voltò al rumore, tendendo la mano, e le ingoiò all’istante.
Poi socchiuse gli occhi, appoggiandosi contro la testiera.
«Ne vogliamo parlare?»
disse Wilson.
«Mi chiedi se voglio?»
«È un no?»
«In realtà è un “perché non
mi prepari la colazione?”»
«Perché ho sonno e perché
con quella dose puoi correre i cento metri. Preparatela da solo» borbottò,
voltandosi dal suo lato e rimettendosi, finalmente, a dormire.
«Cattivo» lo sentì
ribattere, in tono offeso, prima di chiudere gli occhi.
Verso le otto Wilson si
svegliò definitivamente. L’altra metà del letto era vuota, e quasi se ne stupì –
aveva ancora la percezione vaga ma tangibile di un corpo stretto intorno al suo,
di una mano leggera sullo stomaco, di una carezza lenta e prolungata
sull’addome. La tenne stretta alla mente mentre entrava in bagno, richiudendosi
la porta alle spalle con una spinta.
Il James Wilson nello
specchio aveva l’aria stanca, ma anche un indecifrabile, ingiustificato mezzo
sorriso sulle labbra.
«Non c’è proprio niente da
ridere» lo rimproverò, aggrottando le sopracciglia.
Qualche minuto dopo House
entrò spalancando la porta, con passo trionfale malgrado la zoppìa. «Cuddy ha
chiamato mentre dormivi,» annunciò.
Wilson alzò gli occhi,
senza smettere di spazzolarsi i denti.
«Non muori dalla voglia di
sapere cos’ha detto?»
Wilson si sciacquò la
bocca, sputando nel lavandino. «Sì, poi la vado a prendere la tua cartella
clinica» disse infine.
«E tu come lo sai?»
«È stata una mia idea.» Gli
passò accanto, diretto al salotto, dove aveva lasciato il borsone coi vestiti
puliti. «Te l’ho detto ieri, ma tu eri nella tua crisi da
ho-cercato-le-pillole-per-tutta-la-casa-sfinendomi-come-un-idiota-quindi-ora-me-la-prendo-con-Wilson.»
In realtà non aveva ancora parlato con la Cuddy, ma quando si trattava di House
loro due erano capaci di sviluppare una strana telepatia.
Per tutta risposta, House
gli afferrò il braccio sinistro e lo sollevò per studiare l’ematoma lasciatogli
sul polso. Era meno evidente di quanto fosse sembrato la sera prima, ma sempre
ben visibile.
Wilson lo guardò con calma.
«Non è niente.»
«Fa male?»
«Ti stai preoccupando
per un altro essere umano?»
«Blandendo. Per evitare che
mi denunci.»
«Non ho soldi per
intentarti una causa. Li spendo tutti per pagarti il pranzo.»
«E per gli alimenti di
Sally.»
«Sarah.»
«Quello che è.»
«Posso riprendermi il mio
braccio, adesso?»
«Solo un momento.» Lasciò
scivolare le dita sul polso, stringendolo, e fece un passo per colmare la
distanza tra sé e Wilson - si ritrovarono così vicini da respirarsi addosso,
così vicini che un bacio sarebbe stato solo poco di più. Wilson sentì il sangue
incendiargli la faccia.
«Tachicardia» decretò
House, lasciandolo andare. «Sintomo interessante.»
E Wilson rimase fermo come
l’ultimo degli imbecilli di fronte alla porta del bagno, mentre un House più
allegro di quanto lo fosse stato in tutto l’ultimo mese se ne tornava zoppicando
in cucina.
Che cos’era, quello?
Wilson scosse la testa, già
rassegnato in partenza all’inattingibilità dei misteri del cosmo. La sua mente
non era capace di indagare quesiti come l’infinità dell’universo, l’esistenza di
Dio, i processi mentali di Gregory House e come ha fatto quello schizzo di
sugo a dribblare il tovagliolo schiantandosi sui tuoi pantaloni nuovi da 200
dollari. La sua era una mente relativamente semplice. Deduttiva, ma
semplice. Capace dei suoi momenti di genialità, di connessioni inusuali, di
incredibili sfoggi di pensiero laterale. Ma c’erano cose che le erano precluse,
e non sarebbe stato lui a rompersi la testa correndo in carica contro un muro di
cemento.
Tornò in camera da letto,
togliendo il tubetto di Vicodin dal suo nascondiglio - tra il materasso e il
comodino dal suo lato - e si chiuse in bagno per il tempo di rito necessario a
ritenersi a posto. House ricomparve mentre si stava allacciando la
cravatta.
Aveva ancora addosso la
maglietta grigio scuro con cui aveva dormito, mentre la camicia di Wilson era di
un bianco panna che gli fece ricordare quando House si era lanciato
nell’accurata bipartizione dei colori in virili e non virili.
Guardandolo nello specchio con la coda dell’occhio, ebbe come l’impressione di
un grosso calabrone che svolazzava ronzando intorno a un bignè.
«Sì?» domandò, rigirandosi
i due lembi della cravatta tra le dita.
«Perché non blu?»
«Prego?»
«Perché non blu? È
martedì.»
«E con questo?»
«Metti sempre una cravatta
blu il martedì. Prima la mettevi il giovedì, ma poi quell’infermiera che porta
la sesta ti ha detto che il blu non ti donava, e da allora la metti solo il
martedì, che è il suo giorno di riposo.»
Wilson rimase attonito per
un momento, prima di riprendere ad annodare la sua cravatta rossa. «Avevo
voglia di cambiare» rispose, perfettamente conscio che non sarebbe stato
creduto.
«Sì, certo. E la cravatta
blu?»
«Quale cravatta blu?»
«Quella.» Fece una
pausa. «Cos’era, secondo anniversario? Compleanno? Bar Mitzvah?»
«Il Bar Mitzvah si
festeggia a tredici anni.»
«E scommetto che allora
avevi già tre fidanzatine, maschione» ribatté House, dandogli un pugnetto
sulla spalla.
Wilson sospirò, sciogliendo
nervosamente il nodo che, per la prima volta in anni e anni di cravatte
mattutine, non gli era riuscito al primo colpo. Nessuna speranza che il gesto
passasse inosservato.
«Sì, quella che mi ha
regalato Rachel. Ho preso i vestiti il più velocemente possibile per evitare che
ti strozzassi con la tua stessa lingua mentre non c’ero.»
«Mi chiedo quante cravatte
una moglie debba regalare al proprio marito prima che un matrimonio possa
dichiararsi finito.»
«E io mi chiedo quanti
sacrifici un amico debba fare per un altro prima che gli sia riconosciuto il
diritto a un po’ di privacy!» scattò Wilson, violentemente. Si sfilò la
cravatta, frustando l’aria con la sottile striscia di stoffa rossa, e uscì dal
bagno. La ficcò nel borsone, imprecando tra sé e sé contro tutti gli amici
ingrati del mondo.
«Dovresti fartene una
ragione» disse House, appoggiandosi allo stipite della porta. «Del resto la
rabbia è il terzo stadio. Sei già avanti col lavoro.»
«E tu dovresti smetterla di
ficcanasare nella mia vita, perché non ne hai nessun diritto.»
«Non mi sembrava che la
pensassi così, ieri.»
Wilson richiuse la bocca,
preso in contropiede. «Io non… ieri non…»
«Ieri non…?»
Distolse lo sguardo,
richiudendo il borsone con uno strattone violento che gli lasciò in mano la
spoletta di plastica della cerniera. Se la gettò alle spalle, sempre più
nervoso. «Ieri non è successo niente. Ti ho chiesto se ne volevi parlare e hai
detto di no. Bene. Neanch’io ne voglio parlare. Siamo a posto.»
«Tecnicamente non ti ho
detto di no, ti ho detto “preparami la colazione”.»
«Che al mio paese è un modo
per sviare la discussione. Ho detto che va bene, non ne voglio parlare.»
«Al tuo paese? Ma dove
vivi, in Thailandia?»
«Lo stai facendo di nuovo!»
House abbassò lo sguardo.
«Ti crea problemi.»
«Cosa? Che tu non sappia
farti gli affari tuoi?»
Gli occhi di House
tornarono a fissarlo, profondamente.
«… non ne voglio parlare,
House.» Afferrò la giacca dall’appendiabiti, indossandola e ficcando le mani
nelle tasche alla ricerca delle chiavi della Volvo. Frugò per un po’, sempre più
nervoso, finché un tintinnio metallico non distolse la sua attenzione.
«Queste?» chiese House, con
l’aria più innocente del mondo.
«Dammele.»
«Non credo.»
«A che gioco stiamo
giocando?»
House alzò lo sguardo,
fingendo di pensarci. «A occhio e croce… a Picchia lo zoppo.»
«Vuoi che ti picchi?»
replicò Wilson, aprendo le braccia. «Cos’è, la gamba non è abbastanza per
appagare il tuo masochismo?»
«È solo il secondo round.
Il primo era Fai una sega allo zoppo, e l’hai passato brillantemente.»
Wilson scosse la testa,
negando che tutto questo stesse davvero accadendo a lui. Sapeva che quella
cosa House gliel’avrebbe rinfacciata per tutta la vita, lo sapeva come
sapeva che il sole sarebbe sorto l’indomani. Ma aveva comunque sperato, pregato,
implorato che non accadesse. Si fece avanti con la mano tesa, per
strappargli le chiavi. «Dammele e basta, House. Non ho tempo di discutere.»
House non si mosse. Si
limitò a tirare indietro il braccio, con aria di sfida.
«Quant’è che non fai a
pugni, Jimmy? Dieci anni?»
«Non farò a pugni con te,
razza di idiota!»
«E perché? Scommetto che
vinco io.»
«Dammi le chiavi.»
«No.»
Wilson alzò le braccia in
segno di resa. «Va bene. Tienitele. Chiamo un taxi.»
«Già ti arrendi?»
L'altro non sollevò gli
occhi dal suo cellulare. «Sai qual è il tuo problema, House? Non capisci mai
quando hai passato il segno» disse, con voce non del tutto ferma. «Ora pensi che
prenderti un pugno in faccia ti dimostrerebbe che sei uguale a tutti gli altri,
che non hai perso niente, che quello che ti è successo non ti ha cambiato. Ma
sai cosa c'è? Che non è vero, tu vuoi essere speciale, tu vuoi
essere diverso, e vieni a chiedere a me di fare a pugni perché sai
benissimo che non lo farò. Così puoi dirti che è per via della gamba e
fortificarti nella tua autocommiserazione. Pronto? Sì, un taxi al 221B di
via...» Chiuse la conversazione e rialzò lo sguardo. «Bene, vuoi saperlo? Non è
per la gamba. E ora trovati qualcun altro da affliggere, perché io ne ho
abbastanza.»
«Dove stai andando?»
domandò House, alla sua schiena.
Non si preoccupò di
voltarsi, mentre rispondeva: «A fare due ore di ambulatorio, a ritirare la tua
maledetta cartella clinica, a fare la tua spesa e a chiedermi perché sto ancora
qui a parlarti.»
House inspirò. «Wilson?»
«… cosa?»
«Già che esci, comprami
anche un lecca-lecca.»
Mezz’ora dopo, mentre
varcava l’ingresso dell’ospedale, già si chiedeva se non avesse esagerato. House
era un provocatore per natura, dacché lo conosceva non si era mai comportato in
modo diverso, e spesso Wilson si era vantato con se stesso di essere l’unica
persona al mondo – fatta eccezione forse per Stacy – assuefatta ai suoi
atteggiamenti.
Invece aveva perso il
controllo.
A differenza della maggior
parte degli individui, quando perdeva il controllo Wilson non era molto diverso
dal solito. Non alzava troppo la voce, non si sbracciava, non tentava di sfogare
la rabbia sugli oggetti. Non diceva cose che non pensava. Ma quando l’ira
sbolliva non poteva fare a meno di sentirsi in colpa.
Per questo, nonostante
fosse certo di aver avuto ragione nel dire a Rachel che non poteva pretendere da
lui che abbandonasse il suo migliore amico mentre a stento si reggeva in piedi,
in realtà continuava a ripetersi che la colpa era sua – che l’aveva trascurata,
e non solo quella volta; che House era House, ma Rachel era sua moglie.
Per questo, nonostante
avesse detto a House solo la verità che conoscevano entrambi, ora desiderava
ardentemente non averlo fatto.
Quella delle ore di
ambulatorio, peraltro, era una bugia. Dopo la rottura dello specchio aveva
chiesto alla Cuddy una settimana di ferie anticipate, per riuscire a stare con
Rachel. Poi, dopo aver riattaccato la cornetta, aveva trovato il suo messaggio
in segreteria.
Ancora non sapeva perché
gli avesse mentito. Forse anche i suoi nervi stavano cedendo, come quelli di
Stacy.
«Wilson? Che ci fai qui?
Non sei in ferie?»
L’oncologo si passò una
mano sulla fronte, annuendo e contemporaneamente spingendo lo sguardo via dalla
sempre invitante scollatura del suo direttore sanitario. «Sono passato a
prendere quella cartella clinica.»
«Quale cartella?» domandò
lei, voltandosi verso la segretaria della reception. «Cindy, chi copre la
clinica stamattina?»
«Un attimo che controllo»
disse la ragazza.
«Come ‘quale cartella’?
Quella di House.»
«La sua cartella? A che gli
serve? Vuole farci causa?»
«Il dottor Davidson,
dottoressa.»
«Bene, grazie.»
«No, non la cartella di
House, la cartella per House. Quella… del paziente che non si capisce
cos’ha. Quella per tenerlo impegnato, Cuddy.»
Lisa Cuddy alzò gli occhi
su di lui, confusa. «Ma di che stai parlando?»
«Hai chiamato un’ora fa a
casa e gli hai detto che avevi un caso per lui.»
«Wilson, io sono arrivata
solo mezz’ora fa.»
La confusione, poi lo
stupore, poi la comprensione si susseguirono al volto di Wilson in una sequenza
così familiare e perfetta che la Cuddy non ebbe bisogno di ulteriori
spiegazioni. «C’è Stacy con lui, vero?» Gli lesse la risposta in faccia. «Vai,
io intanto provo a chiamarlo.»
«Non ho la macchina!»
«Prendi la mia. Le chiavi
nella mia borsa, sul divanetto del mio studio.» Afferrò il telefono della
reception, voltandolo verso di sé e quasi sradicandolo dal filo, mentre Wilson
correva via raggelato.
L’aveva fregato, fregato,
fregato ancora una volta – e lui si era fatto fregare, ovviamente, come se non
sapesse – come se non lo sapesse – che House faceva ogni cosa per un
motivo, e un motivo preciso. Aveva pensato che volesse solo prendersi gioco di
lui dopo la notte passata… perché quella cosa gli stava togliendo la
capacità di giudizio.
La Volvo, per fortuna, era
ancora parcheggiata di fronte a casa, ma nell’appartamento non c’era nessuno.
Wilson controllò ogni stanza, la cucina, la camera da letto, controllò perfino
dentro la doccia. Gridò che se era uno scherzo non era affatto divertente, ma il
silenzio che gli giunse in risposta sembrò anche quello architettato per
schernirlo. Quando il telefono prese a squillare corse a rispondere, ma era la
Cuddy.
Era uscito senza
cercapersone né cellulare. Se c’era un posto dove poteva aspettarsi di trovarlo
era in farmacia, a fare scorta del suo prezioso Vicodin, ma senza ricetta
nessuno gliel’avrebbe venduto.
Dalla madre di Stacy?
Francine abitava dall’altra parte della città, avrebbe preso la macchina. O
forse chiamato un taxi. Il che lo riportava al punto di partenza.
Quel che era certo è che
sforzando la gamba non avrebbe resistito più di un paio d’ore senza i suoi
analgesici, e Wilson ormai conosceva fin troppo bene House in preda a una crisi
isterica. In casa sua era preoccupante, ma per strada era una tragedia.
Staccò un post-it, vergò
qualche parola in fretta e lo incollò sul coperchio del pianoforte, dove sapeva
per certo che House l’avrebbe visto. Poi uscì di casa.
Non era al Princeton, non
era nel suo bar preferito, non era dalla madre di Stacy – che Wilson pregò di
non avvertire la figlia, altrimenti si sarebbe scatenato un putiferio. Non era
stato in nessuna delle farmacie della zona, non all’edicola, non dal fioraio,
non in libreria, non da nessuna parte, ma un uomo nelle sue condizioni
non passava inosservato, cazzo, qualcuno doveva pur averlo visto!
Verso mezzogiorno la Cuddy
aveva avvertito il 911, e Wilson varcava la porta di casa di House con aria
desolata. Il post-it era ancora lì, sul pianoforte, e nessun segno del suo
passaggio.
Si lasciò cadere sul
divano, esausto. La preoccupazione era diventata una spina continua, un dolore
sordo e tangibile localizzato tra il cuore e lo stomaco, che diventava fitta
quando si permetteva di fare congetture.
Si passò la mano tra i
capelli e in quel momento il cellulare vibrò e squillò nella sua tasca. Lo
trasse fuori bramosamente solo per ritrovarsi deluso ancora una volta, e
scoprire che dopo aver aspettato per giorni che sua moglie rispondesse alle sue
chiamate, adesso il nome ‘Rachel’ lampeggiante nello schermo non gli faceva
alcun effetto.
Scusami.
Lasciò cadere il cellulare
sul divano, coprendolo con un cuscino per riuscire a ignorarne lo squillare
furioso.
Senza House, il suo
appartamento aveva un aspetto insopportabilmente spoglio, e Wilson dubitava di
poterlo sopportare oltre. Raccolse il cellulare, che nel frattempo s’era
zittito, lo ficcò in tasca e si frugò alla ricerca delle chiavi di casa.
Fu dopo dieci minuti buoni
di ricerca per tutta la casa – eppure era sicuro, sicuro di averle
lasciate nella giacca – che si paralizzò, le fodere tirate fuori dalle tasche
come due buffi palloncini di stoffa.
Le chiavi. House. Le chiavi
e House.
Corse fuori un’altra volta.
A vederlo, sembrava uno
senza un problema al mondo. Sdraiato comodo sul suo divano, una gamba
allungata sul bracciolo opposto e l’altra col piede appoggiato sul pavimento,
uno dei suoi tovaglioli ficcato nell’orlo della camicia, uno dei suoi
piatti appoggiato sul petto, e un panino presumibilmente ordinato col suo
telefono al Mc Donald poco lontano. La sua televisione accesa su un
qualche scadente telefilm adolescenziale – volti concitati della pupa numero 1 e
del boy numero 2 che si squadravano drammaticamente l’un l’altra. Un tubetto
nuovo di Vicodin appoggiato sul pavimento, vicino alla testa.
Il modo in cui finse di non
prestargli attenzione, come se avesse ogni ragione di trovarsi lì, fece capire a
Wilson che tutto era stato architettato per un motivo ben più complicato di un
flacone di pillole – per un motivo che House, ignorandolo, gli stava
praticamente sbattendo in faccia.
«Sono quattro ore che ti
stiamo cercando, e tu eri in casa mia a guardare la televisione?»
«Ne possiamo parlare nella
pubblicità?»
Wilson andò a spegnere la
tv, piantando i pugni sui fianchi.
«Ehi! Lo stavo guardando!»
«Che cosa hai fatto?»
House sbuffò, posando il
piatto sul pavimento – e approfittandone per intascare il Vicodin. «Chiamato un
taxi, uscito di casa, fatto qualche spesuccia inutile, poi sono tornato qui ad
aspettarti. Sono o non sono una brava mogliettina?»
«Siamo tutti impazziti di
preoccupazione, non sapevamo cosa fare. Ti abbiamo cercato ovunque.»
«Perché siete ignoranti.
C’è un racconto di Edgar Allan Poe su una lettera nascosta ben in vi…»
«Basta giocare, House!»
James Wilson che gridava
era un evento abbastanza raro da spingere anche Gregory House a chiudere la
bocca. Almeno per qualche istante.
Per la strana empatia che
condividevano, Wilson avvertì il cambiamento con puntuale precisione. House
richiuse la bocca, abbassò lo sguardo, si concesse un lieve sospiro interiore e
si sfilò il tovagliolo dal collo prima di mettere giù anche l’altra gamba e
raddrizzarsi sul divano. Alzò gli occhi. «Ti sei preoccupato?»
«La Cuddy ha chiamato il
911.»
House lo guardò, in attesa.
Wilson si lasciò cadere
accanto a lui, i gomiti sulle ginocchia e le mani tra i capelli. «Non sapevo
cosa fare» mormorò, fissando il pavimento. Chiuse gli occhi. «Non so cosa fare»
aggiunse, in un bisbiglio.
Sentì la guancia di House
contro la spalla, e il suo calore, così leggero, era qualcosa che poteva
tollerare, sì, poteva tollerare tranquillamente. Sentì House prendergli la mano
sinistra tra le sue, e lo lasciò fare perché anche questo – il modo in cui la
carne ossuta del più vecchio si sfregava contro la sua – anche questo era
tollerabile. Ma ciò che non riuscì a tollerare (perché non c’era un letto,
perché non c’era il buio, perché non c’era un fottuto letto nel buio pieno della
notte) fu il modo in cui le dita di House tracciarono ancora una volta il loro
marchio intorno al suo polso, e si fermarono sul fiumiciattolo bluastro della
vena.
Cercò di ritirare la mano,
ma House non glielo concesse. «Guardami. Wilson. Guardami.»
«No.»
House gli afferrò la faccia
con la mano libera, voltandola a forza. «Ho detto guardami, Wilson.»
L’altro alzò gli occhi.
Dischiuse le labbra, forse per dire qualcosa, forse solo per un gesto inconscio,
ma qualunque cosa fosse finì per perdersi nell’urto con quelle più aggressive e
sottili di House. Qualunque cosa fosse, Wilson vi rinunciò quando House gli
appoggiò una mano salda sulla nuca, e ogni tentativo di fuga si rivelò vano
nella sua mente prima ancora che in concreto.
Quando la lingua di House
gli accarezzò la chiostra inferiore dei denti, sentì i brandelli della sua
volontà sbriciolarsi e volare via come piume al vento. Sentì che non c’era più
niente da fare.
«Va bene» sussurrò, in un
secondo di respiro. «Va bene.»
«Va bene?» ripeté House,
sulla sua guancia.
«Fammi… fammi togliere la
giacca.»
Le mani di House gli
scivolarono sulle spalle, tra la giacca e la camicia, spogliandolo dello strato
superfluo che volò sul bracciolo opposto.
«Quante ne hai prese?»
sussurrò Wilson, mentre si districavano con fatica tra l’imbarazzo e l’intreccio
scomposto dei rispettivi arti.
«Abbastanza. Per un po’
possiamo stare tranquilli.»
«House…» iniziò, passandosi
una mano tra i capelli.
«Ma non la chiudi mai,
quella bocca?»
(Stacy li trovò
addormentati, più o meno coperti dai lembi scomposti dei propri vestiti, più o
meno abbracciati, più o meno decenti agli occhi della compagna di uno di loro.
Niente meno di una cosa del genere avrebbe potuto far perdere a Wilson la
consueta precisione – la porta dimenticata socchiusa era un errore da sedicenne
– e niente meno della precisa volontà di essere scoperto avrebbe potuto far
tralasciare il dettaglio a Gregory House. Inspirò ed espirò con rapidità
nervosa, e solo marginalmente si rese conto che il post-it accartocciato nel
pugno le scivolava di mano, raggiungendo il pavimento con un leggerissimo tonfo.
Quando uscì, si chiuse la
porta alle spalle senza fare rumore.)
*Per favore, smettila di
giocare. J.*
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