Revenge&Guns.

di Eikochan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ogni fine è un'inizio. ***
Capitolo 2: *** Mai più vodka! ***
Capitolo 3: *** Sensi di colpa. ***
Capitolo 4: *** Perchè? ***



Capitolo 1
*** Ogni fine è un'inizio. ***


Note autrice: il corsivo sta ad indicare un flashback.

CAPITOLO I:

 
“Come siamo finiti a ridurci così, Tsunade?”
Jiraya la stava guardando dall’altra parte del tavolo, sorseggiando un wisky invecchiato dieci anni, con le gote arrossate dall’alcol e dal caldo che invadeva la bettola in cui si erano rintanati.
L’altra non rispose, tormentandosi uno dei codini in cui teneva stretti i suoi capelli biondi, perennemente in disordine; poi ordinò un'altra bottiglia di sakè e si versò quello che rimaneva della prima nel bicchiere.
“Ti ricordi la prima volta che ci siamo incontrati?” Gli rispose Tsunade, con un altro interrogativo.
La domanda cadde nel silenzio, entrambi persi nei loro ricordi e nel torpore dell’alcol.

 

Si tastò il labbro gonfio tentando di tamponare alla bell’e meglio  il sangue che le sgorgava a fiotti, cercando sempre di non posare lo sguardo sul liquido rosso: non era proprio il momento di svenire.
Si era ritrovata a sedere su una lunga panchina, in mezzo ad altri due ragazzi della sua età circa.
Dalla porta alla sua destra  uscì un funzionario che chiamo a gran voce: “Jiraya Myoko.”
Il ragazzo alla sua destra si alzò ed entrò nella stanza. Lo osservò mentre percorreva il tragitto: non era molto alto né magrissimo, con degli improbabili capelli bianco, sicuramente frutto di qualche decolorazione malriuscita  a giudicare dall’aspetto. Le vesti strappate e qualche abrasione qua e là lasciavano intuire che si era appena messo nei guai. Il ragazzo –che evidentemente si chiamava Jiraya- si richiuse la porta alle spalle e lei tornò a dedicare l’attenzione altrove.
Osservò attentamente la sala d’aspetto in cui l’avevano portata: era spoglia, poco accogliente e disseminata di sedie e panchine scomode. C’erano due piccole finestrelle, una di fronte all’altra sui due muri opposti, con le inferriate che bloccavano la luce del sole del tramonto. Di fronte a loro il poliziotto si stava sistemando l’uniforme mentre lanciava – da dietro il vetro dell’ufficio-  diverse occhiate a lei e all’altro ragazzino, in modo da bloccare tempestivamente ogni problema che potessero creare. La scritta “Polizia” torreggiava sulle loro teste.
‘Diavolo, questo maledetto sangue non si vuole fermare.’ si ritrovò a considerare mentre l’emorragia non accennava ad arrestarsi.
Si costrinse a pensare ad altro e iniziò a osservare di sfuggita l’unico occupante della stanza –oltre a lei-. A differenza di quel Jiraya di prima, questo ragazzo era di corporatura magra, al limite della malattia si poteva tranquillamente affermare, e i capelli, che ricadevano composti lungo le spalle, erano di un nero lucente. Aveva lineamenti fini - quasi serpenteschi, a dirla tutta- e sembrava a proprio agio nonostante l’ambiente in cui si trovava. Non era bello nel senso comune del termine ma era strano, particolare,
fuori dal comune. Era li, in attesa di essere interrogato, e sembrava vivere in un mondo tutto suo, lo sguardo fiero, deciso ma distaccato e distante.
“Orochimaru Kusanagi.” Il poliziotto era tornato: l’interrogatorio del ragazzo di prima era finito. Ora era il turno di quello moro.
Si sistemò meglio sulla panchina. Finalmente l’emorragia era finita. 

 
La seconda bottiglia di sakè era arrivata al tavolo e Tsunade se ne versò un altro bicchiere.
“Eravamo proprio dei piccoli scapestrati ribelli..” prese di nuovo la parola Jiraya.
“Non sono io quella che ha quasi dato fuoco alla casa di un professore..”
“Ma anche tu hai la tua dose di peccati, Tsunade.” le ricordò lui, finendo tutto d’un fiato il suo wisky.

 

“Tsunade Senju.”la chiamò il solito, odioso, poliziotto. Gli lanciò un sguardo di sfida mentre lo oltrepassava per entrare nella stanza degli interrogatori.
Si sedette sulla sedia anonima che le aveva indicato l’uomo e  passarono diversi minuti in cui nessuno dei due disse una parola.
“Ma hanno intenzione di interrogarmi? Perché me ne torno a casa, se no..” disse sprezzante e infastidita dall’attesa.
“Ragazzina. Stai al tuo posto e ringrazia di non essere interrogata da Ibiki Morino.”
“Come mai no?” domandò; tanto valeva parlare per ingannare il tempo, a quel punto. E poi era curiosa: la fama di Ibiki Morino, il poliziotto più temuto dell’intero Giappone, era vasta ed era arrivate alle orecchie di tutti…persino alle sue.
“Non sono affari tuoi, ragazzina.”
“Chi mi interrogherà allora?”
“Il sovraintendente Hiruzen Sarutobi. E ora smettila di parlare”
Lo sguardo severo della guardia la convinse a tapparsi la bocca e dopo pochi minuti entrò, finalmente, il pezzo grosso della centrale.
Il peso dell’età iniziava a farsi sentire: i capelli castani era striati di bianco mentre alcune rughe d’età gli circondavano il contorno occhi e labbra. Nonostante questo aveva due occhi marroni che guizzavano da una parte all’altra della stanza, raccogliendo e immagazzinando ogni informazione: aveva gli occhi di un ventenne, pieno di vita, fiducia e aspettativa.. di un giovane che già sa come funzionano le cose  e cerca di cambiare il destino.
“Allora..” iniziò a parlare, con voce ferma e calma “Sei Tsunade Senju?”
“E se anche le dicessi di no mi crederebbe?”
“No. Ho la foto del tuo documento d’identità qua sotto gli occhi.” E le indicò il fascicolo posato sul tavolo.
“E allora cosa me lo domanda a fare? Le parole non vanno sprecate.”
“Pensi di essere una dura?”
Gli rispose con un sott’inteso, muto, cenno d’assenso.
“Allora dimmi cosa spinge una tredicenne a pestare a sangue due ragazzi.”
L’altra stette in silenzio per qualche minuto, sotto lo sguardo inquisitore del sovraintendente.
“Se una persona mi fa un torto, e chi deve punire essa non fa niente, non è forse lecito farmi giustizia da sola? Occhio per occhio, dente per dente”
Per Tsunade era sempre stato un vizio rispondere ad una domanda con un’altra domanda.
Anche Sarutobi stette zitto per un minuto, quella ragazza era diversa dalle solite scapestrate ribelli che si trovava a gestire.
“No. Invece non è meglio porgi l’altra guancia?”
“Se applicassi questo proverbio ora mi ritroverei senza famiglia e affetti.”
“Cosa vorresti dire?”
L’altra si torturò un altro po’ le pellicine delle unghie prima di rispondere.
“Quei bastardi mi hanno tolto le persone più importanti della mia vita e sono ancora in libertà. E lei mi dice che non dovevo provare a staccargli almeno qualche arto?”
“Spiegami.”
“Akito Mitsuri e Hisaki Nakayama...” disse semplicemente la ragazza.
“Me li ricordo. Lo scorso aprile furono indagati per omicidio colposo ai danni di due...”
“...ragazzini.” lo interruppe. “Nawaki Senju e Dan Kato. Rispettivamente mio fratello minore e il mio fidanzato, oltre che migliore amico. E sapete, voi piccole teste di cazzo cosa avete fatto? Li avete rilasciati per contaminazione di prove; perché non sapete nemmeno fare il vostro lavoro.”
“E per questo hai rotto, a uno, entrambe le gambe e all’altro hai provocato un trauma cranico e un’operazione alla cornea?”
“Almeno in ospedale avranno il tempo per pensare a quello che hanno fatto,
spero.”
Il sovraintendente non pronunciò una sola parola, ma fece un segno alla guardia.
Venne condotta fuori e fatta risedere in sala d’attesa.

 

Tsunade era al terzo bicchiere di sakè e l’alcol iniziava a contaminare i suoi riflessi. Incurante se ne versò dell’altro e riempì anche il bicchiere dell’amico.
“Si può dire che quel tardo pomeriggio di fine dicembre sia stato la salvezza per tutti noi..” constatò Jiraya sorseggiando il suo drink.
“In un certo senso si può dire di si…” lo assecondò.
“Questo è l’ultimo bicchiere, Tsunade. Poi ce ne torniamo a casa.”

 

Era di nuovo seduta sulla panchina di prima, ancora più imbronciata e inviperita dalla conversazione appena avuta.
“Orochimaru Kusanagi, Tsunade Senju, Jiraya Myoko.” La guardia era uscita di nuovo e ora li stava chiamando a rapporto, tutti e tre insieme.
In una breve e lenta processione sfilarono davanti al poliziotto e rientrarono nella sala degli interrogatori. Sarutobi li guardò sedersi e prendere posto, li osservò tutti e tre negli occhi e si convinse di aver preso la scelta giusta.
“Vi ho convocati di nuovo qua” iniziò “per proporvi un compromesso..”
I tre lo guardarono, stupiti, e Hiruzen lesse nell’espressione  di Tsunade la forza e la sicurezza in sé, in quelli di Jiraya la determinazione e la risolutezza mentre in quelli di Orochimaru, la scaltrezza e l’ambizione. Decisamente aveva trovato  proprio una buona soluzione.
“Un compromesso?” domandò Jiiraya.
“Certo. Io evito di portare la denuncia al tribunale dei minori e di assicurarvi un biglietto per il riformatorio e voi, in cambio, mi assicurate di seguire il mio corso di polizia per ragazzi e di entrare nelle forze dell’ordine.”
“Io ci sto.” disse subito Jiiraya, contento di sfuggire al riformatorio.
“E dove sta la fregatura?” domandò, invece, Tsunade. Orochimaru aveva ancora da aprire bocca.
“Nessuna fregatura.” assicurò il sovraintendente, sorridendo.
“E se per caso, fra qualche tempo, decidessimo di abbandonare il corso?”
“In quel caso, Kusanagi, dovrete rispondere dei vostri reati davanti al tribunale… come sarebbe dovuto accadere.”
Tutti e tre ammutolirono, ognuno perso nelle proprie elucubrazioni mentali.
“Io accetto.” disse infine Orochimaru.
“Io anche.” asserì Tsunade.
“Splendido. Domani pomeriggio alle quattro vi voglio trovare qua per la prima lezione.”

 

NOTE AUTRICE:  

Questa long doveva particapare al bellissimo contest di Falsa dea molto adorata (Crack Pairing! Una lettera, un numero, e che la fortuna vi guidi..) ma, purtroppo, sono stata costretta a ritirarmi per mancanza di tempo (infatti non ho ancora finito gli ultimi capitoli).
Detto questo spero che il primo capitolo vi abbia incuriosito, tengo molto a questa fanfiction dato che è totalmente e assolutamente un'esperimento: non ho mai scritto AU non scolastica, nè polizieschi, nè ho mai trattato i personaggi di Tsunade, Jiraya e Orochimaru. Quindi aspetto con ansia i vostri commenti e i riscontri! 
Al prossimo capitolo, Eikochan.

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Capitolo 2
*** Mai più vodka! ***


CAPITOLO II:

 

“Perfetto! Siete arrivati tutti.” esclamò entusiasta Sarutobi.
Oltre a loro tre c’era una  ragazzina che sembrava più grande di loro, sui sedici anni circa, che masticava volgarmente una big-babol, i capelli biondissimi tagliati alla maschietta; vicino a lei stava, invece, un ragazzo dall’aria annoiata e dai lineamenti quasi grotteschi, i capelli color liquirizia, scompigliati a donargli un’aria selvaggia.
“Iniziamo la nostra prima lezione.”
E mentre il sovraintendente ciarlava sull’ordine della polizia, sulle loro regole e via dicendo, il ragazzino di nome Orochimaru le si avvicinò.
“Ieri non abbiamo avuto occasione di presentarci. Piacere, io sono Orochimaru Kusanagi.” le tese la mano mentre il volto si apriva in un sorriso allo stesso tempo subdolo e affascinante che stonava del tutto con il suo volto bello e fine.

Io sono Tsunade Senju.” gli rispose lei stringendo la sua mano.
“Hei, se fate la riunione dei graziati voglio esserci anch’io.” si intromise l’altro ragazzo dai capelli bianchi. “Io sono Jiraya Myoko, piacere di conoscervi!” Le sorrise anche lui e, a differenza del moro, il volto di Myoko godeva del suo riso: sembrava splendere ora.
“Voi tre, li infondo. Vedete di fare attenzione o vi rispedisco al vostro destino.” li richiamo Sarutobi.

Si ritrovò a pensare a Orochimaru. In quelle due settimane di vicinanza si era rivelato una persona calma e sicura, di quelle che sembrano sapere tutto dalla vita. Era estremamente riservato e lei aveva ancora da capire per quale motivo si fosse inguaiato in quella situazione: Jiiraya era stato chiaro fin da subito fornendo un resoconto dettagliato della sua malefatta ai danni di un professore bastardo; lei, di risposta, aveva accennato superficialmente ad una rissa, Orochimaru invece aveva semplicemente serrato le labbra e ignorato la questione.
I giorni si alternavano in una monotona e triste ridondanza: scuola la mattina, pranzo, visita alle tombe del fratellino e dell’(ex)fidanzato, lezione alla centrale, cena e finalmente abbandonarsi al torpore del sonno. Sopravviveva, niente di più. La ferita della perdita era ancora aperta e sanguinante.

 

 


Tre anni dopo avevano già completato metà corso e si apprestavano a iniziare la fase finale che li avrebbe portati alla nomina di poliziotti: a questo punto era necessario creare delle squadre di collaborazione. Il caso volle che si ritrovò in team con Orochimaru e Jiraya...e da li le cose iniziarono a farsi sempre più difficili.
Stavano assistendo alla cattura di un prigioniero evaso due mesi prima dal carcere centrale di Tokyo e fungevano solo da spettatori: la loro preparazione non era ancora completata e non potevano quindi prendere parte alle operazioni.
Osservò i poliziotti a capo della retata forzare la porta della casa; si concentrò per capire le dinamiche ma all’improvviso, dopo aver vagato un po’ con lo sguardo, la sua attenzione fu catturata da due persone, al limitare della zona, che osservavano il tutto.
Fu come un pugno tra le costole e un calcio nello stomaco, le si mozzò il fiato. Aveva già visto quei due bastardi e li avrebbe riconosciuti tra mille: il naso sporgente e gli occhi, neri, sfuggenti dell’uomo, la corporatura esile della donna con una cicatrice sullo zigomo destro che partiva dalla base del naso e arrivava quasi fino all’orecchio che Tsunade stessa le aveva, orgogliosamente, provocato. In un attimo i flashback di quel giorno le tornarono in mente e sentì montare la rabbia, fino a offuscarle gli occhi. Il pensiero volò istintivamente alla pistola di riserva poggiata sul sedile anteriore dell’auto, a nemmeno un metro da lei; si costrinse a non dare vita ai suoi pensieri mentre la mano destra bruciava dal desiderio di appropriarsi dell’arma.
Iniziò a tremare di rabbia mentre cercava di darsi un contegno.
Gli altri avevano iniziato a intuire che c’era qualcosa che non andava.
“Tsunade, tutto a posto?” le chiese Jiiraya, preoccupato, avvicinandosi.
Iniziò a prendere fiato, facendo dei respiri brevi e veloci.
“S..si, sto bene.”
Finalmente aveva ripreso a respirare in maniera decente, la mano aveva smesso di tremare e i due erano spariti dalla sua visuale. Era tornato tutto normale… circa.

 
Quella sera era tornata a casa, si era preparata da mangiare in uno stato catatonico e si era fatta una doccia. Ora era seduta sul davanzale della finestra, i capelli ancora umidi che gocciolavano lungo la sua schiena, e guardava Tokyo, illuminata dalle luci, che si stagliava contro il cielo nero.
Era ancora turbata dalla scena del pomeriggio: aveva sguazzato per anni nella sete di vendetta e nel rancore per poi riuscire ad uscirne con difficoltà una volta per tutte.. o almeno era quello che credeva. Se lo sentiva nelle ossa,  glielo urlava il cervello: se non fosse stata in servizio, circondata da una trentina di persone, si sarebbe comportata esattamente come quel pomeriggio invernale di tre anni prima.
Che debole. Non riusciva a credere di avere così poco autocontrollo.
Lo squillo del cellulare la riscosse dai suoi pensieri; recuperò l’apparecchio dal pavimento e lesse il messaggio che le era appena arrivato.

 

Da: Orochimaru

A: Tsunade

 

Vieni e bere qualcosa?

 

 Getto un’occhiata fugace alla sveglia sul comodino: 23.27. Era tardi per uscire ma del resto non riusciva a prendere sonno; decise di rispondere affermativamente, aveva proprio bisogno di bere qualcosa.
Si diedero appuntamento alla stazione di Shibuya di li a quindici minuti –entrambi abitavano relativamente vicino-; era in anticipo ma, nonostante questo, Orochimaru era già li: appoggiato mollemente sul muro accanto all’uscita dell’edificio, nella sua aria distaccata e affascinante.
“Ciao.” lo salutò avvicinandosi.
“Ciao.” le rispose lui.
Poi scese un silenzio imbarazzante che nessuno dei due si apprestava a rompere.
“Conosco un bar qua vicino, gestito da un mio amico, che non è niente male..” riprese quindi lui, iniziando a camminare. “Te lo mostro.”
Come sempre non aveva chiesto il suo parere: Orochimaru sceglieva e toccava agli altri adattarsi.

Una volta seduti nel locale, una grande sala illuminata a intermittenza dalle luci fluorescenti e cullata dal suono soffuso delle ultime hit giapponesi, Orochimaru le fece la domanda che Tsunade temeva più di tutte.
“Dimmi, cos’è successo questo pomeriggio?”
La frase era stata formulata come domanda ma lei non mancò di notare il tono deciso dell’ordine, mascherato nell’interrogazione; non voleva rispondere, voleva tenere per sé quel segreto così gelosamente custodito, quelle ferite che ogni volta che venivano sfiorate rischiavano di sommergerla con ondate di dolore. Ma poi intercettò lo sguardo di Orochimaru, i suoi tratti fini che l’adolescenza aveva scolpito in maniera impeccabile, quel suo sorriso così insopportabile e al tempo stesso intrigante, quegli occhi di pece insondabili: in pochi secondi perse la sua determinazione. Cosa diavolo le provocava quel ragazzo? Non riusciva a capacitarsene, sembrava la ipnotizzasse: gli raccontò
tutto.
Finì il racconto e Orochimaru continuò il suo silenzio; a quel punto si arrischiò a domandare anche lei.
“Te per cosa sei finito in questo casino?”
Ancora silenzio.
Poi, dopo qualche minuto, il ragazzo aprì di nuovo la bocca.
“Truffa.” rispose laconico.
“Truffa?” esclamò lei, incapace di capire come un tredicenne potesse essere indagato per un tale crimine.
“Mi sono affiancato ad un’organizzazione non proprio lecita che stava organizzando una truffa con agguato ai danni della sua rivale.”
“Perché?”
Quel ragazzo l’affascinava sempre di più. Insondabile e imprevedibile.
“Perché ‘l’organizzazione rivale’ ha rapito i miei genitori quando avevo sei anni.”
Calò di nuovo il silenzio: Tsunade non sapeva cosa dire… non immaginava che il movente fosse quello.
“Mi dispiace, capisco come ti puoi sentire a perdere le persone a te care..” cercò di consolarlo a suo modo: non era molto brava con le parole.
“Hai ragione. Io e te riusciamo a capirci..siamo nella stessa barca” le disse, strascicando le parole, aprendosi in quel sorrisino che le procurava sempre brividi la cui origine non era ben specificata.. paura o eccitazione?
Ingollò il bicchiere di vodka che Orochimaru aveva ordinato –era la sua prima bevuta alcolica- e considerò che il ragazzo aveva ragione, erano decisamente nella stessa situazione. Entrambi privati delle persone a cui tenevano di più da terzi, entrambi aveva cercato la vendetta, avevano tentato di colmare il vuoto del baratro che si apriva nel loro petto… non poteva negare l’affinità che sentiva con lui.
Perse il filo dei pensieri, sentiva la testa girare e gli occhi farsi sempre più pesanti.

 

Si ritrovò sdraiata su un letto dalle lenzuola di raso rosso.
Inquietante.
Si girò su un fianco e scorse Orochimaru dormire accanto a lei, i capelli perfettamente ordinati anche nel sonno, le palpebre chiuse e a petto nudo. Improvvisamente i ricordi della notte precedente le piombarono addosso con la forza di un tifone.
Si alzò piano cercando di non svegliare il ragazzo e, tenendo gli occhi lucidi ben aperti per non iniziare a piangere, recuperò la borsa e i vestiti per poi attraversare la stanza in punta di piedi e chiudersi in bagno.
Si sedette sulla tazza e frugò alla ricerca del portafoglio; una volta trovato- sul fondo della borsa- lo aprì e tirò fuori una vecchia fototessera spiegazzata: su uno sfondo bianco un ragazzino dai capelli tinti di un blu cielo e con il sorriso furbo e gentile la salutava allegramente. La appoggiò sullo specchio e piano una lacrime le solcò il viso per poi cadere nel lavandino; subito ne segui un’altra e poi un’altra e ancora un’altra… in poco tempo era scoppiata in un pianto, silenzioso naturalmente  –non voleva assolutamente farsi trovare da Orochimaru in quello stato-, che non accennava a diminuire. Il peso dei sensi di colpa le schiacciava il petto e le mozzava il respiro: osservava Dan guardarla allegramente dalla foto e immaginò il rimprovero e il disgusto che avrebbe avuto stampati in volto se l’avesse guardata in quel momento.
Dio, che mostro che era! Aveva appena scopato con un ragazzo –per di più sotto l’effetto dell’alcol- che non era il
suo Dan, aveva infangato la sua memoria in un modo talmente becero da darle il voltastomaco.
Stupidastupidastupidastupida.
“Come puoi avermi fatto una cosa del genere?” la voce seria e delusa di Dan le risuonava nel cervello ad un volume altissimo… come se glielo stesse urlando nell’orecchio.
Si accasciò a terra, rannicchiò le gambe al seno e pianse tutte le lacrime che aveva in corpo.
Poi anche quelle finirono e si asciugarono, si strofinò quindi gli occhi irritati e si rivestì.

Si guardò allo specchio: aveva un paio di pensanti occhiaie violacee sotto gli occhi gonfi e arrossati dal pianto, i capelli scarmigliati e annodati, il trucco colato della sera precedente e la tristezza stampata in volto. Uscì dal bagno e gettò un’occhiata a Orochimaru che dormiva ancora; si infilò le scarpe e si chiuse l’uscio alle spalle ripromettendosi che non sarebbe mai, mai, mai più successo.

SPAZIO AUTRICE:
Eccoci qua con il sencondo capitolo! Bè, che dire? Spero che questo capitolo riscutoi più successo del primo...
Ci tengo a precisare che questo è in corsivo e che quindi è un luuuunghissimo flashback! 
Detto questo: alla prossima! Sono ansiosa di ricevere i vostri commenti e i responsi, quindi.. recensite e mi farete felice! ^^
Baci, Eikochan.

 

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Capitolo 3
*** Sensi di colpa. ***


Note Inizio Capitolo: Come sempre le parti in corsivo
indicano un flashback; il testo in formato normale, invece,
il presente.

 

 CAPITOLO III:

 

La pavimentazione irregolare del marciapiede la stava mettendo decisamente in difficoltà; si distrasse un attimo e subito inciampò in una piastrella più alta, barcollò leggermente sui tacchi e si aggrappò prontamente al lampione alla sua destra.
Si produsse in un’imprecazione biasciata.
“Tutto bene, Tsunade?”
Jiraya la seguiva a distanza di qualche passo, anche lui piuttosto provato dall’alcol.
“Si.” gli rispose leggermente superba raddrizzando la schiena e procedendo a passo un po’ più sicuro: odiava mostrarsi debole di fronte agli altri. “E comunque sono arrivata.”
Si appoggiò al portone del suo condominio, cercando le chiavi dell’appartamento che si era comprata da poco. Una volta trovate infilò la chiave nella serratura –non senza qualche difficoltà- e aprì l’uscio.
“A domani, Jiiraya.”
“Notte, Tsunade.” le rispose lui prima di voltarle le spalle e attraversare la strada.
Salì attentamente le scale, uno scalino alla volta, e finalmente arrivò al suo appartamento; entrò e accese le luci, poi buttò malamente la borsa sulla sedia vicino all’entrata e si diresse in camera.
“Maledetti tacchi.” inveì contro le sue stiletto ad alta voce e, a sentire la sua voce rimbombare per la stanza deserta, si produsse in un risolino decisamente poco sobrio: ora si metteva pure a parlare da sola? Stava decisamente peggiorando; poi anche la risata si spense nel silenzio e tornò seria.
Si girò verso il comò, posizionato sotto l’unica finestra della stanza, e si avvicinò per osservare da vicino le foto incorniciate: in prima fila –al posto d’onore- stava la sua preferita di Dan e Nawaki, leggermente spostata indietro c’era invece una foto che raffigurava lei insieme a Orochimaru, Jiiraya e al sovraintendente Sarutobi, tutti e quattro sorridenti. Le spostò leggermente per scoprirne un’altra, particolarmente nascosta, che la ritraeva –anni prima, come ne erano testimoni i capelli raccolti in una coda alta e sbarazzina- affianco a Orochimaru: era una foto strana; nessuno dei due accennava ad un sorriso e le loro posizioni erano piuttosto rigide… la teneva esposta solo perché era l’unica che raffigurasse solo loro due.
Sentì i ricordi del passato riaffiorare e perse un po’ la testa: in uno scatto d’ira lanciò la foto che si andò a schiantare contro la parete, spargendo frammenti di vetro e legno dappertutto. Senza fare una piega si liberò dei vestiti e si mise sotto le coperte tentando di prendere sonno e ignorare la voce di Orochimaru che le ronzava nelle orecchie.

 
Era seduta sull’autobus affollato, schiacciata tra un nerd in evidente sovrappeso e un’anziana signora che puzzava di minestrone di verdure. Se il buon giorno si vedeva dal mattino quella sarebbe stata di sicuro una giornata da dimenticare!  
Quella mattina si era dovuta auto-imporsi di scendere dal letto e vestirsi per andare al corso di polizia: era ancora piuttosto confusa e turbata dagli avvenimenti del giorno prima e trovarsi a stretto contatto con la causa del suo nervosismo l’agitava parecchio.
Nella sua mente si accavallavano disordinatamente pensieri e considerazioni: stava cercando la maniera migliore per affrontare Orochimaru una volta arrivata a destinazione. Era così concentrata che a momenti saltò la fermata ma, per fortuna –il cielo minaccioso prevedeva un acquazzone in poco tempo-, riuscì a scendere dal bus a forza di spintoni e a salvarsi da una camminata di un quarto d’ora 
Entrò in caserma con il passo di una condannata a morte e aprì la porta dell’aula; con suo sommo dispiacere l’unico occupante era il bel moro, seduto all’ultimo banco e immerso nella lettura di un libro. Si richiuse lentamente la porta alle spalle, cercando di non far rumore e di non farsi notare: non ci riuscì per niente. Al suono dell’impatto con lo stipite, Orochimaru alzò lo sguardo dal libro e, una volta che l’ebbe notata, le rivolse un leggero, neutrale, cenno del capo per poi tornare alla lettura del suo libro.
Interdetta rimase ferma in mezzo all’aula, a metà tra l’essere sollevata che Orochimaru non accennasse alla sera prima e la delusione –per non dire orgoglio ferito- della poca attenzione che il ragazzo dedicava all’avvenimento.
Si riscosse dai suoi pensieri quando la porta si aprì di nuovo per far entrare Jiraya, sorridente e casinista come al solito; ancora interdetta prese posto al primo banco, dalla parte opposta dell’aula rispetto alla posizione del moro.
Quella mattina non riuscì a concentrarsi nemmeno per un minuto, le lancette dell’orologio ticchettavano in sottofondo alla lezione di Ibiki Morino mentre lei tentava di dare un senso ai pensieri, di mettere ordine in quella cacofonia di emozioni e sentimenti contrastanti tra di loro. Iniziò ad avere mal di testa:  non vedeva l’ora che la lezione finisse; per di più aveva iniziato a piovere  e lei –
ovviamente- aveva lasciato l’ombrello a casa.

Dopo quella che le parve un’intera era geologica finalmente Ibiki sistemò le carte, li guardò con il suo solito sguardo severo e li congedò al lunedì  seguente. Lentamente si alzò dalla sedia e prese a riordinare gli appunti -ovvero un foglio bianco completamente intonso-, poi acchiappò la sua vecchia, logora, giacca e uscì dalla stazione di polizia. Nel frattempo aveva preso a diluviare; sconsolata si fermò un attimo sotto tettoia, poi emise un lungo sospiro irritato e fece per spiccare una corsa verso la pensilina della fermata. Stava per compiere il balzo iniziale quando una mano, esile e terribilmente fredda, le afferrò il polso per trattenerla; irritata si girò per insultare lo screanzato ma quando si trovo faccia a faccia con Orochimaru non potè che sbarrare gli occhi, sorpresa.
“Che vuoi?” gli chiese, una volta rinsavita dalla sorpresa, sostenendo il suo sguardo.
“Niente di che. Ti sei già dimenticata di giovedì sera?” La stava guardando con quell’espressione subdola e sicura, a tratti anche terrificante.
“No.”
“Stazione di Shibuya, nove e mezza, stasera.” Come al solito non chiedeva mai.
“No.” Continuava a sostenere il suo sguardo, fiera.
“Non ti è forse piaciuto? Perché non sembrava così, sai, l’altro giorno quando mi baciavi, quando ti sei sdraiata sotto di me… quando urlavi il mio nome.” le disse, aprendosi nel solito sorrisino.
Sentì le lacrime pizzicarle gli occhi e tentare di uscire. Le represse con rabbia: non voleva assolutamente piangere.
“Lasciami stare. Non succederà più…non posso” E diede un forte strattone al braccio ancora bloccato nella mano del ragazzo e, di risposta, sentì la stretta intorno al suo polso farsi più forte… quasi dolorosa.
“Non puoi o non vuoi?” le domandò lui, beffardo.
“Non posso… non voglio.. non posso..” prese a farfugliare, senza dare un senso alle parole che le uscivano di bocca, poi lui prese ad avvicinarsi al suo viso. Tentò di divincolarsi, ma Orochimaru le cinse la vita con l’altro braccio tentando di avvicinarla. Fece un ultimo, debole, tentativo di fuga ma poi sentì le labbra fini del ragazzo premere contro le sue e la sua lingua tentare di intrufolarsi nella sua bocca e non potè fare a meno di lasciar cadere tutte le difese e abbandonarsi al bacio, aggrappandosi alle spalle magre ma forti di Orochimaru e rispondere con foga. Dopo un paio di lunghi, interminabili, stupendi e terribili instanti sentì tornarle la volontà e spinse via, con violenza e rabbia, il ragazzo prima di girare sui tacchi e fuggire via a gambe levate.
Correva sotto la pioggia scrosciante, bagnata fradicia, urtando contro le persone che camminavano in strada, sprofondando con rumorosi “splash” nelle pozzanghere, piangendo a dirotto con la voce di Dan che le rimbombava nelle orecchie e si sovrapponeva alla sua voce interiore che le urlava insistentemente: “stupidastupidastupidastupidastupidastupidastupida”.

Ci era ricascata di nuovo.  

 
Giorno dopo giorno le cose peggioravano.
Arrivava a casa la sera e sentiva la voce di Dan, carica di rimprovero, che le domandava come potesse averlo tradito in quella maniera ma nel frattempo sentiva il cuore perdere qualche battito mentre sentiva il ricordo dei baci di Orochimaru. E non riusciva a dormire, prendeva a pungi il cuscino per sfogare la sua frustrazione… imprecava, lanciava il libro che aveva sul comodino e poi crollava sfinita nel letto.
Non si sapeva spiegare cosa le stesse accedendo. Lei era una ragazza forte, fin da bambina…; non aveva mai contato sull’aiuto di nessuno –le faccende preferiva sbrigarsele da sola, contando sulle sue forze-, possedeva una buona dose di orgoglio che molto spesso sfociava in presunzione. Era sicura di sé, tenace: riusciva sempre a rialzarsi dopo ogni caduta, dopo ogni sconfitta, dopo ogni dolore… perfino quelli da cui pensava non si sarebbe mai più ripresa –come la morte di Dan e Nawaki- ma ora sembrava una bambola di porcellana, una ragazzetta ingenua e sciocca che si faceva condizionare dagli altri: perché diavolo Orochimaru riusciva a scombussolarla in quella maniera? Ogni dannata volta distruggeva le sue difese e la rendeva vulnerabile, sempre con quel sorrisino strafottente stampato in viso... come cazzo ci riusciva?
Lei non voleva Orochimaru, non voleva trovarsi ogni mattina a risvegliarsi in quel letto –ormai così famigliare-, non voleva lasciarsi andare con lui… non voleva infangare la memoria del suo Dan in quella maniera.

O forse invece si? Forse, in realtà, voleva Orochimaru, desiderava quel corpo che si muoveva sopra di lei, cercava il contatto con le sue labbra, bramava quell’annebbiamento che la pervadeva ogni volta che incrociava il suo sguardo… forse erano solo i sensi di colpa che la bloccavano, che le mozzavano il respiro… lei voleva quel sorrisino beffardo e strafottente.
“Nononononononononononono!” prese a ripetersi tra se e se, le mani premute contro le tempie per il mal di testa che le sembrava spaccare il cervello in due. Frustata si girò e tirò un poderoso pugno al muro, aprendosi le nocche così che il sangue prese a sporcargli la mano e il dolore ad offuscarle la mente.

 
Annaspava affannosamente cercando di sopravvivere ad ogni giorno, cercando di non farsi abbattere dai ricordi di Dan e Nawaki –che le riaffioravano ogni volta che posava lo sguardo su qualunque oggetto-, tentando di sopravvivere ai sensi di colpa che la invadevano tutte le volte che incrociava gli occhi duri di Orochimaru, provando a studiare per ottenere la nomina a poliziotto -. Non ci stava riuscendo per niente… era ad un passo dall’affogare.
E poi arrivò la scialuppa di salvataggio, e lei ci si aggrappò con tutte le forze che aveva in corpo… come un naufrago che  tenta di mettere in salvo la propria vita con la volontà della disperazione; una  vecchia zia l’aveva invitata per due settimane a casa sua, dall’altra parte del Giappone, per aiutarla a traslocare in cambio di un po’ di soldi. Accettò senza tentennamenti.
Quello che le serviva era proprio cambiare aria per un po’; quindi comprò i biglietti, preparò la valigia, comunicò a Sarutobi che si sarebbe prese una piccola pausa e salutò i compagni di corso.
Infine, in quel pomeriggio di fine primavera, si imbarcò sull’aereo e volò verso le sua scialuppa di salvataggio.

 

SPAZIO AUTRICE:
Eccomi tornata con il nuovo capitolo! ^^ In realtà non ho molto da dire in questo caso… Quindi direi che possiamo anche chiuderlo questo ‘Spazio Autrice’ XD (‘perché mai l’hai aperto?’ vi starete domandando! Bè mi sembrava brutto non salutare i lettori… si, cose inutili rulez!)
Al prossimo capitolo!
Eikochan.

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Capitolo 4
*** Perchè? ***


CAPITOLO IV:

 Sbattè le palpebre, cercando di mettere a fuoco la stanza nel buio, la testa che scoppiava dal dolore... poi si girò verso la sveglia che segnava le dieci e venti. Si alzò di scatto e lanciò scalciò via le coperte.
“Merdamerdamerdamerda” imprecò tra se e sé, togliendosi al volo il pigiama e raccattando i primi vestiti che le passavano sotto mano: era dannatamente in ritardo per il lavoro; il suo turno iniziava alle dieci e mezza e lei era ancora a casa!
Si lavò, si vestì e fece colazione in meno di cinque minuti poi acchiappò chiavi e borsa e scapicollò giù per le scale; rispose con un cenno sbrigativo al “Buongiorno, Tsunade-san” con il quale l’aveva salutata il vicino e finalmente riuscì a fermare un taxi.

 

 Dopo soli venti minuti di viaggio –l’autista si era visto sommergere da una valanga di incitamenti, non sempre gentili, sull’andare più veloce e non aveva potuto fare a meno di schiacciare sull’acceleratore- era arrivata a destinazione. Entrò, cauta, nell’atrio e si accorse che –stranamente- non c’era anima viva in vista, sollevata, sgattaiolò verso gli uffici; era quasi arrivata alla porta del suo quando una voce tuonante la bloccò.
“Tsunade!” Il sovraintendete Sarutobi la guardava, dall’altro capo del corridoio, con sguardo severo; le mani ai fianchi e il tono irritato non promettevano nulla di buono. “Sei in ritardo anche sta volta!”
Si girò lentamente e assunse l’espressione più desolata che il suo smisurato orgoglio le permetteva di fare. “Mi scusi, sovraintendente. Non succederà più.”
“Lo spero bene, altrimenti la prossima volta dovrò prendere provvedimenti!” la ammonì severamente, nonostante il tono di voce ormai fosse tornato normale, segno che le aveva già perdonato lo sgarro. “Voglio vederti alle undici nel mio ufficio, puntuale… e porta con te anche Jiiraya. Dobbiamo discutere degli ultimi avvenimenti.”
“Certo.”
Venti minuti dopo stava bussando alla porta di legno di Hiruzen Sarutobi, come decantava la targhetta d’ottone affissa a lato, seguita da Jiraya. Finalmente giunse dall’altro lato della porta la voce del sovraintendente che li invitava ad entrare.
“Eccoci, capo” lo salutò allegramente Jiiraya, sventolando una mano. Sarutobi alzò gli occhi al cielo ma lasciò correre: si era ormai rassegnato al non-rispetto che gli portava il ragazzo, nonostante fosse il suo superiore.
“Sedetevi pure.” gli rispose invece, accennando alle comode sedie poste di fronte alla sua scrivania; una volta che si furono accomodati riprese a parlare. “Penso avrete intuito che siete qui per il caso di Orochimaru.” I due annuirono in risposta. “Dalle ultime notizie che abbiamo sappiamo che è stato visto da una testimone nei pressi della zona periferica orientale al limitare di Tokyo, il che ci fa escludere definitivamente il rapimento.” Nessuno dei tre sembrava contento dell’idea. “Direi che a questo punto non c’è nient’altro da fare: Orochimaru è maggiorenne ed è in grado di decidere per se stesso, evidentemente ha deciso di scappare verso un’altra vita. Se per caso vi trovaste a comunicare con lui riportategli i miei saluti e il mio augurio per il futuro. Il caso è chiuso.”
Il tono di voce di Sarutobi indicava chiaramente che la discussione era finita e che erano ufficialmente congedati; lentamente si alzarono e uscirono dall’ufficio, tutti e due con la stessa, triste, espressione sconsolata stampata in volto.
“Non posso credere che se ne sia andato così… nemmeno un saluto.” ruppe il silenzio Jiraya.
Tsunade non rispose, non voleva rispondere; così il ragazzo continuò il suo monologo.
“Non che fossimo in un rapporto tutto rose e fiori ma ne abbiamo passate delle belle insieme. Evidentemente sono io  che mi sono affezionato troppo… bè del resto è di Orochimaru che stiamo parlando.” Sospirò pesantemente. “Bene, io sono arrivato a destinazione. Ci vediamo, Tsunade.” e si chiuse alla spalle la porta dell’ufficio.
Una volta arrivata alla sua postazione anche Tsunade si lasciò cadere pesantemente sulla comoda sedia girevole, immersa nei suoi pensieri e totalmente estraniata dal mondo. Non riuscì a concentrarsi per tutto il giorno: i pensieri le ronzavano fastidiosamente nelle orecchie e la sua attenzione continuava ad andare a tutta la questione di Orochimaru.
Non sapeva nemmeno lei se essere triste della fuga o sollevata da essa: da una parte era contenta di non avere più quegli occhi a scombussolarle la giornata e la determinazione, non doveva più guardarsi dagli attacchi a sorpresa del ragazzo che ogni volta riuscivano a metterla alle strette, non era più terrorizzata di svegliarsi e trovarsi di nuovo in quella stanza ordinata e asettica. D’altra parte era estremamente irritata dalla scomparsa nel nulla di quello che, doveva ammettere –seppur con estrema riluttanza-, era diventato il suo amante; una chiamata, una lettera… un misero bigliettino di saluti sarebbe stati apprezzati, l’avevano abbandonata di nuovo. Tutte le persone accanto a lei continuavano a sparire, una dietro l’altra: il suo fratellino minore, il suo fidanzato, sua madre, suo padre.. e ora il tradimento di Orochimaru.
‘Ecco!’ si trovò a pensare, infuriata. ‘Tradimento è la parola giusta.’ Perché il moro aveva fatto niente meno di quello: aveva tradito la tacita promessa che si erano fatti, erano amanti, erano confidenti, erano una la medicina dell’altro e viceversa. E ora, quello stronzo, si permetteva di svanire nel nulla –come debole fumo- senza uno straccio di spiegazione?! Ah no, quello era proprio il colmo!
‘Che beffa d’uomo’ pensò decisamente irritata.
Traditore” borbottò poi, chiudendo violentemente il block notes per sottolineare, mentalmente, il concetto.

 

 Aprì la porta con un lieve calcetto –i sacchetti della spesa le occupavano le mani- ed entrò nell’ appartamento. Si richiuse la porta alle spalle e lanciò le chiavi sul mobile all’ingresso, per poi avviarsi in cucina; era a metà del soggiorno quando un profumo forte e dolciastro, decisamente famigliare, le arrivò alle narici; si girò di scatto verso il divano e fu solo grazie al suo provvidenziale sangue freddo che non mollò le borse per terra.
"Ciao Tsunade. Ce ne hai messo di tempo per accorgerti della mia presenza…”
Orochimaru era tranquillamente seduto sul suo divano a gambe incrociate e stava sfoggiando il suo peggior sorrisetto irritante.

 

SPAZIO AUTRICE:

E con questo capitolo siamo tornati definitivamente al presente. Un presente che si pone, circa, un paio di settimane dopo che Tsunade torna dalla casa della vecchia zia: Orochimaru è scomparso, senza uno straccio di spiegazione, subito dopo che lei torna.
Ma ora è ricomparso. Perché? Cosa vorrà mai?
Restate connessi e lo scoprirete *musichetta accattivante* XD

 Niente, spero che questo capitolo sia piaciuto… e chiedo perdono per il lungo tempo trascorso dallo scorso e la brevità di questo. (E dire che questo capitolo era già scritto, ma si… sono un caso perso!)
Aspetto, come sempre, le vostre impressione e commenti.

Baci, Eikochan.

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