Revenge&Guns. di Eikochan (/viewuser.php?uid=25453)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ogni fine è un'inizio. ***
Capitolo 2: *** Mai più vodka! ***
Capitolo 3: *** Sensi di colpa. ***
Capitolo 4: *** Perchè? ***
Capitolo 1 *** Ogni fine è un'inizio. ***
Note
autrice: il corsivo sta ad
indicare un flashback.
CAPITOLO I:
“Come siamo finiti a ridurci così,
Tsunade?”
Jiraya la stava guardando dall’altra parte del tavolo,
sorseggiando un wisky invecchiato dieci anni, con le gote arrossate
dall’alcol
e dal caldo che invadeva la bettola in cui si erano rintanati.
L’altra non rispose, tormentandosi uno dei codini in cui
teneva stretti i suoi capelli biondi, perennemente in disordine; poi
ordinò
un'altra bottiglia di sakè e si versò quello che
rimaneva della prima nel
bicchiere.
“Ti ricordi la prima volta che ci siamo
incontrati?” Gli
rispose Tsunade, con un altro interrogativo.
La domanda cadde nel silenzio, entrambi persi nei loro
ricordi e nel torpore dell’alcol.
Si tastò il labbro
gonfio tentando di tamponare alla bell’e meglio
il sangue che le sgorgava a fiotti, cercando sempre di non
posare lo
sguardo sul liquido rosso: non era proprio il momento di svenire.
Si era ritrovata a
sedere su una lunga panchina, in mezzo ad altri due ragazzi della sua
età
circa.
Dalla porta alla sua
destra uscì
un funzionario che chiamo a
gran voce: “Jiraya Myoko.”
Il ragazzo alla sua
destra si alzò ed entrò nella stanza. Lo
osservò mentre percorreva il tragitto:
non era molto alto né magrissimo, con degli improbabili
capelli bianco,
sicuramente frutto di qualche decolorazione malriuscita a giudicare
dall’aspetto. Le vesti strappate e
qualche abrasione qua e là lasciavano intuire che si era
appena messo nei guai.
Il ragazzo –che evidentemente si chiamava Jiraya- si richiuse
la porta alle
spalle e lei tornò a dedicare l’attenzione
altrove.
Osservò attentamente
la sala d’aspetto in cui l’avevano portata: era
spoglia, poco accogliente e
disseminata di sedie e panchine scomode. C’erano due piccole
finestrelle, una
di fronte all’altra sui due muri opposti, con le inferriate
che bloccavano la
luce del sole del tramonto. Di fronte a loro il poliziotto si stava
sistemando
l’uniforme mentre lanciava – da dietro il vetro
dell’ufficio- diverse
occhiate a lei e all’altro ragazzino,
in modo da bloccare tempestivamente ogni problema che potessero creare.
La
scritta “Polizia” torreggiava sulle loro teste.
‘Diavolo, questo
maledetto sangue non si vuole fermare.’ si ritrovò
a considerare mentre
l’emorragia non accennava ad arrestarsi.
Si costrinse a pensare
ad altro e iniziò a osservare di sfuggita l’unico
occupante della stanza –oltre
a lei-. A differenza di quel Jiraya di prima, questo ragazzo era di
corporatura
magra, al limite della malattia si poteva tranquillamente affermare, e
i
capelli, che ricadevano composti lungo le spalle, erano di un nero
lucente.
Aveva lineamenti fini - quasi serpenteschi, a dirla tutta- e sembrava a
proprio
agio nonostante l’ambiente in cui si trovava. Non era bello
nel senso comune
del termine ma era strano, particolare, fuori dal comune. Era li, in attesa di essere interrogato, e
sembrava vivere in un mondo tutto suo, lo sguardo fiero, deciso ma
distaccato e
distante.
“Orochimaru Kusanagi.”
Il poliziotto era tornato: l’interrogatorio del ragazzo di
prima era finito.
Ora era il turno di quello moro.
Si sistemò meglio
sulla panchina. Finalmente l’emorragia era finita.
La seconda bottiglia di sakè era arrivata al tavolo e
Tsunade se ne versò un altro bicchiere.
“Eravamo proprio dei piccoli scapestrati ribelli..”
prese di
nuovo la parola Jiraya.
“Non sono io quella che ha quasi dato fuoco alla casa di un
professore..”
“Ma anche tu hai la tua dose di peccati, Tsunade.”
le
ricordò lui, finendo tutto d’un fiato il suo
wisky.
“Tsunade Senju.”la
chiamò
il solito, odioso, poliziotto. Gli lanciò un sguardo di
sfida mentre lo
oltrepassava per entrare nella stanza degli interrogatori.
Si sedette sulla sedia
anonima che le aveva indicato l’uomo e
passarono
diversi minuti in cui nessuno dei due disse una parola.
“Ma hanno intenzione
di interrogarmi? Perché me ne torno a casa, se
no..” disse sprezzante e
infastidita dall’attesa.
“Ragazzina. Stai al
tuo posto e ringrazia di non essere interrogata da Ibiki
Morino.”
“Come mai no?”
domandò; tanto valeva parlare per ingannare il tempo, a quel
punto. E poi era
curiosa: la fama di Ibiki Morino, il poliziotto più temuto
dell’intero
Giappone, era vasta ed era arrivate alle orecchie di
tutti…persino alle sue.
“Non sono affari tuoi,
ragazzina.”
“Chi mi interrogherà
allora?”
“Il sovraintendente
Hiruzen Sarutobi. E ora smettila di parlare”
Lo sguardo severo
della guardia la convinse a tapparsi la bocca e dopo pochi minuti
entrò,
finalmente, il pezzo grosso della centrale.
Il peso dell’età
iniziava a farsi sentire: i capelli castani era striati di bianco
mentre alcune
rughe d’età gli circondavano il contorno occhi e
labbra. Nonostante questo
aveva due occhi marroni che guizzavano da una parte all’altra
della stanza,
raccogliendo e immagazzinando ogni informazione: aveva gli occhi di un
ventenne, pieno di vita, fiducia e aspettativa.. di un giovane che
già sa come
funzionano le cose e
cerca di cambiare
il destino.
“Allora..” iniziò a
parlare, con voce ferma e calma “Sei Tsunade
Senju?”
“E se anche le dicessi
di no mi crederebbe?”
“No. Ho la foto del
tuo documento d’identità qua sotto gli
occhi.” E le indicò il fascicolo posato
sul tavolo.
“E allora cosa me lo
domanda a fare? Le parole non vanno sprecate.”
“Pensi di essere una
dura?”
Gli rispose con un
sott’inteso, muto, cenno d’assenso.
“Allora dimmi cosa
spinge una tredicenne a pestare a sangue due ragazzi.”
L’altra stette in
silenzio per qualche minuto, sotto lo sguardo inquisitore del
sovraintendente.
“Se una persona mi fa
un torto, e chi deve punire essa non fa niente, non è forse
lecito farmi
giustizia da sola? Occhio per occhio, dente per dente”
Per Tsunade era sempre
stato un vizio rispondere ad una domanda con un’altra
domanda.
Anche Sarutobi stette
zitto per un minuto, quella ragazza era diversa dalle solite
scapestrate
ribelli che si trovava a gestire.
“No. Invece non è
meglio porgi l’altra guancia?”
“Se applicassi questo proverbio
ora mi ritroverei senza famiglia e affetti.”
“Cosa vorresti dire?”
L’altra si torturò un
altro po’ le pellicine delle unghie prima di rispondere.
“Quei bastardi mi
hanno tolto le persone più importanti della mia vita e sono
ancora in libertà.
E lei mi dice che non dovevo provare a staccargli almeno qualche
arto?”
“Spiegami.”
“Akito Mitsuri e
Hisaki Nakayama...” disse semplicemente la ragazza.
“Me li ricordo. Lo
scorso aprile furono indagati per omicidio colposo ai danni di
due...”
“...ragazzini.” lo
interruppe. “Nawaki Senju e Dan Kato. Rispettivamente mio
fratello minore e il
mio fidanzato, oltre che migliore amico. E sapete, voi piccole teste di
cazzo
cosa avete fatto? Li avete rilasciati per contaminazione di prove;
perché non
sapete nemmeno fare il vostro lavoro.”
“E per questo hai
rotto, a uno, entrambe le gambe e all’altro hai provocato un
trauma cranico e
un’operazione alla cornea?”
“Almeno in ospedale
avranno il tempo per pensare a quello che hanno fatto, spero.”
Il sovraintendente non
pronunciò una sola parola, ma fece un segno alla guardia.
Venne condotta fuori e
fatta risedere in sala d’attesa.
Tsunade era al terzo
bicchiere di sakè e l’alcol iniziava a
contaminare i suoi riflessi. Incurante se ne versò
dell’altro e riempì anche il
bicchiere dell’amico.
“Si può dire che quel tardo pomeriggio di fine
dicembre sia
stato la salvezza per tutti noi..” constatò Jiraya
sorseggiando il suo drink.
“In un certo senso si può dire di
si…” lo assecondò.
“Questo è l’ultimo bicchiere, Tsunade.
Poi ce ne torniamo a
casa.”
Era di nuovo seduta
sulla panchina di prima, ancora più imbronciata e inviperita
dalla
conversazione appena avuta.
“Orochimaru
Kusanagi, Tsunade Senju, Jiraya Myoko.”
La guardia era uscita di nuovo e ora li stava chiamando a
rapporto,
tutti e tre insieme.
In una breve e lenta
processione sfilarono davanti al poliziotto e rientrarono nella sala
degli
interrogatori. Sarutobi li guardò sedersi e prendere posto,
li osservò tutti e
tre negli occhi e si convinse di aver preso la scelta giusta.
“Vi ho convocati di
nuovo qua” iniziò “per proporvi un
compromesso..”
I tre lo guardarono,
stupiti, e Hiruzen lesse nell’espressione di
Tsunade la forza e la sicurezza in sé, in
quelli di Jiraya la determinazione e la risolutezza mentre in quelli di
Orochimaru, la scaltrezza e l’ambizione. Decisamente aveva
trovato proprio una
buona soluzione.
“Un compromesso?”
domandò Jiiraya.
“Certo. Io evito di
portare la denuncia al tribunale dei minori e di assicurarvi un
biglietto per
il riformatorio e voi, in cambio, mi assicurate di seguire il mio corso
di
polizia per ragazzi e di entrare nelle forze
dell’ordine.”
“Io ci sto.” disse
subito Jiiraya, contento di sfuggire al riformatorio.
“E dove sta la
fregatura?” domandò, invece, Tsunade. Orochimaru
aveva ancora da aprire bocca.
“Nessuna fregatura.”
assicurò il sovraintendente, sorridendo.
“E se per caso, fra
qualche tempo, decidessimo di abbandonare il corso?”
“In quel caso,
Kusanagi, dovrete rispondere dei vostri reati davanti al
tribunale… come
sarebbe dovuto accadere.”
Tutti e tre
ammutolirono, ognuno perso nelle proprie elucubrazioni mentali.
“Io accetto.” disse
infine Orochimaru.
“Io anche.” asserì
Tsunade.
“Splendido. Domani
pomeriggio alle quattro vi voglio trovare qua per la prima
lezione.”
NOTE AUTRICE:
Questa
long doveva particapare al bellissimo contest di Falsa dea molto adorata
(Crack Pairing! Una
lettera, un numero, e che la fortuna vi guidi..) ma,
purtroppo, sono stata costretta a ritirarmi per mancanza di tempo
(infatti non ho ancora finito gli ultimi capitoli).
Detto questo spero che il primo capitolo vi abbia incuriosito, tengo
molto a questa fanfiction dato che è totalmente e
assolutamente un'esperimento: non ho mai scritto AU non scolastica,
nè polizieschi, nè ho mai trattato i personaggi
di Tsunade, Jiraya e Orochimaru. Quindi aspetto con ansia i vostri
commenti e i riscontri!
Al prossimo capitolo, Eikochan.
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Capitolo 2 *** Mai più vodka! ***
CAPITOLO
II:
“Perfetto!
Siete
arrivati tutti.” esclamò entusiasta Sarutobi.
Oltre a loro tre c’era
una ragazzina che
sembrava più grande di
loro, sui sedici anni circa, che masticava volgarmente una big-babol, i
capelli
biondissimi tagliati alla maschietta; vicino a lei stava, invece, un
ragazzo
dall’aria annoiata e dai lineamenti quasi grotteschi, i
capelli color
liquirizia, scompigliati a donargli un’aria selvaggia.
“Iniziamo la nostra
prima lezione.”
E mentre il
sovraintendente ciarlava sull’ordine della polizia, sulle
loro regole e via
dicendo, il ragazzino di nome Orochimaru le si avvicinò.
“Ieri non abbiamo
avuto occasione di presentarci. Piacere, io sono Orochimaru
Kusanagi.” le tese la
mano mentre il volto si apriva in un sorriso allo stesso tempo subdolo
e
affascinante che stonava del tutto con il suo volto bello e fine.
“Io sono Tsunade
Senju.” gli rispose lei stringendo la sua mano.
“Hei, se fate la
riunione dei graziati voglio esserci anch’io.” si
intromise l’altro ragazzo dai
capelli bianchi. “Io sono Jiraya Myoko, piacere di
conoscervi!” Le sorrise
anche lui e, a differenza del moro, il volto di Myoko godeva del suo
riso:
sembrava splendere ora.
“Voi tre, li infondo.
Vedete di fare attenzione o vi rispedisco al vostro destino.”
li richiamo
Sarutobi.
Si
ritrovò a pensare a
Orochimaru. In quelle due settimane di vicinanza si era rivelato una
persona
calma e sicura, di quelle che sembrano sapere tutto dalla vita. Era
estremamente
riservato e lei aveva ancora da capire per quale motivo si fosse
inguaiato in
quella situazione: Jiiraya era stato chiaro fin da subito fornendo un
resoconto
dettagliato della sua malefatta ai danni di un professore bastardo;
lei, di
risposta, aveva accennato superficialmente ad una rissa, Orochimaru
invece
aveva semplicemente serrato le labbra e ignorato la questione.
I giorni si
alternavano in una monotona e triste ridondanza: scuola la mattina,
pranzo,
visita alle tombe del fratellino e dell’(ex)fidanzato,
lezione alla centrale,
cena e finalmente abbandonarsi al torpore del sonno. Sopravviveva,
niente di
più. La ferita della perdita era ancora aperta e sanguinante.
Tre anni dopo avevano
già completato metà corso e si apprestavano a
iniziare la fase finale che li
avrebbe portati alla nomina di poliziotti: a questo punto era
necessario creare
delle squadre di collaborazione. Il caso volle che si
ritrovò in team con
Orochimaru e Jiraya...e da li le cose iniziarono a farsi sempre
più difficili.
Stavano assistendo
alla cattura di un prigioniero evaso due mesi prima dal carcere
centrale di
Tokyo e fungevano solo da spettatori: la loro preparazione non era
ancora
completata e non potevano quindi prendere parte alle operazioni.
Osservò i poliziotti a
capo della retata forzare la porta della casa; si concentrò
per capire le
dinamiche ma all’improvviso, dopo aver vagato un
po’ con lo sguardo, la sua
attenzione fu catturata da due persone, al limitare della zona, che
osservavano
il tutto.
Fu come un pugno tra le
costole e un calcio nello stomaco, le si mozzò il fiato.
Aveva già visto quei
due bastardi e li avrebbe riconosciuti tra mille: il naso sporgente e
gli
occhi, neri, sfuggenti dell’uomo, la corporatura esile della
donna con una
cicatrice sullo zigomo destro che partiva dalla base del naso e
arrivava quasi
fino all’orecchio che Tsunade stessa le aveva,
orgogliosamente, provocato. In
un attimo i flashback di quel giorno le tornarono in mente e
sentì montare la
rabbia, fino a offuscarle gli occhi. Il pensiero volò
istintivamente alla
pistola di riserva poggiata sul sedile anteriore dell’auto, a
nemmeno un metro
da lei; si costrinse a non dare vita ai suoi pensieri mentre la mano
destra
bruciava dal desiderio di appropriarsi dell’arma.
Iniziò a tremare di
rabbia mentre cercava di darsi un contegno.
Gli altri avevano
iniziato a intuire che c’era qualcosa che non andava.
“Tsunade, tutto a
posto?” le chiese Jiiraya, preoccupato, avvicinandosi.
Iniziò a prendere
fiato, facendo dei respiri brevi e veloci.
“S..si, sto bene.”
Finalmente aveva
ripreso a respirare in maniera decente, la mano aveva smesso di tremare
e i due
erano spariti dalla sua visuale. Era tornato tutto normale…
circa.
Quella sera era
tornata a casa, si era preparata da mangiare in uno stato catatonico e
si era
fatta una doccia. Ora era seduta sul davanzale della finestra, i
capelli ancora
umidi che gocciolavano lungo la sua schiena, e guardava Tokyo,
illuminata dalle
luci, che si stagliava contro il cielo nero.
Era ancora turbata
dalla scena del pomeriggio: aveva sguazzato per anni nella sete di
vendetta e
nel rancore per poi riuscire ad uscirne con difficoltà una
volta per tutte.. o
almeno era quello che credeva. Se lo sentiva nelle ossa, glielo urlava il cervello:
se non fosse stata
in servizio, circondata da una trentina di persone, si sarebbe
comportata
esattamente come quel pomeriggio invernale di tre anni prima.
Che debole. Non
riusciva a credere di avere così poco autocontrollo.
Lo squillo del
cellulare la riscosse dai suoi pensieri; recuperò
l’apparecchio dal pavimento e
lesse il messaggio che le era appena arrivato.
Da: Orochimaru
A: Tsunade
Vieni e bere
qualcosa?
Getto un’occhiata
fugace alla sveglia sul comodino: 23.27. Era tardi per uscire ma del
resto non
riusciva a prendere sonno; decise di rispondere affermativamente, aveva
proprio
bisogno di bere qualcosa.
Si diedero
appuntamento alla stazione di Shibuya di li a quindici minuti
–entrambi
abitavano relativamente vicino-; era in anticipo ma, nonostante questo,
Orochimaru era già li: appoggiato mollemente sul muro
accanto all’uscita
dell’edificio, nella sua aria distaccata e affascinante.
“Ciao.” lo salutò
avvicinandosi.
“Ciao.” le rispose
lui.
Poi scese un silenzio
imbarazzante che nessuno dei due si apprestava a rompere.
“Conosco un bar qua
vicino, gestito da un mio amico, che non è niente
male..” riprese quindi lui,
iniziando a camminare. “Te lo mostro.”
Come sempre non aveva
chiesto il suo parere: Orochimaru sceglieva e toccava agli altri
adattarsi.
Una
volta seduti nel
locale, una grande sala illuminata a intermittenza dalle luci
fluorescenti e
cullata dal suono soffuso delle ultime hit giapponesi, Orochimaru le
fece la
domanda che Tsunade temeva più di tutte.
“Dimmi, cos’è successo
questo pomeriggio?”
La frase era stata
formulata come domanda ma lei non mancò di notare il tono
deciso dell’ordine,
mascherato nell’interrogazione; non voleva rispondere, voleva
tenere per sé
quel segreto così gelosamente custodito, quelle ferite che
ogni volta che
venivano sfiorate rischiavano di sommergerla con ondate di dolore. Ma
poi
intercettò lo sguardo di Orochimaru, i suoi tratti fini che
l’adolescenza aveva
scolpito in maniera impeccabile, quel suo sorriso così
insopportabile e al
tempo stesso intrigante, quegli occhi di pece insondabili: in pochi
secondi
perse la sua determinazione. Cosa diavolo le provocava quel ragazzo?
Non
riusciva a capacitarsene, sembrava la ipnotizzasse: gli
raccontò tutto.
Finì il racconto e
Orochimaru continuò il suo silenzio; a quel punto si
arrischiò a domandare
anche lei.
“Te per cosa sei
finito in questo casino?”
Ancora silenzio.
Poi, dopo qualche
minuto, il ragazzo aprì di nuovo la bocca.
“Truffa.” rispose
laconico.
“Truffa?” esclamò lei,
incapace di capire come un tredicenne potesse essere indagato per un
tale
crimine.
“Mi sono affiancato ad
un’organizzazione non proprio lecita che stava organizzando
una truffa con
agguato ai danni della sua rivale.”
“Perché?”
Quel ragazzo
l’affascinava sempre di più. Insondabile e
imprevedibile.
“Perché
‘l’organizzazione rivale’ ha rapito i
miei genitori quando avevo sei anni.”
Calò di nuovo il
silenzio: Tsunade non sapeva cosa dire… non immaginava che
il movente fosse
quello.
“Mi dispiace, capisco
come ti puoi sentire a perdere le persone a te care..”
cercò di consolarlo a
suo modo: non era molto brava con le parole.
“Hai ragione. Io e te
riusciamo a capirci..siamo nella stessa barca” le disse,
strascicando le
parole, aprendosi in quel sorrisino che le procurava sempre brividi la
cui
origine non era ben specificata.. paura o eccitazione?
Ingollò il bicchiere
di vodka che Orochimaru aveva ordinato –era la sua prima
bevuta alcolica- e
considerò che il ragazzo aveva ragione, erano decisamente
nella stessa
situazione. Entrambi privati delle persone a cui tenevano di
più da terzi,
entrambi aveva cercato la vendetta, avevano tentato di colmare il vuoto
del
baratro che si apriva nel loro petto… non poteva negare
l’affinità che sentiva
con lui.
Perse il filo dei
pensieri, sentiva la testa girare e gli occhi farsi sempre
più pesanti.
Si
ritrovò sdraiata su
un letto dalle lenzuola di raso rosso.
Inquietante.
Si girò su un fianco e
scorse Orochimaru dormire accanto a lei, i capelli perfettamente
ordinati anche
nel sonno, le palpebre chiuse e a petto nudo. Improvvisamente i ricordi
della
notte precedente le piombarono addosso con la forza di un tifone.
Si alzò piano cercando
di non svegliare il ragazzo e, tenendo gli occhi lucidi ben aperti per
non
iniziare a piangere, recuperò la borsa e i vestiti per poi
attraversare la
stanza in punta di piedi e chiudersi in bagno.
Si sedette sulla tazza
e frugò alla ricerca del portafoglio; una volta trovato- sul
fondo della borsa-
lo aprì e tirò fuori una vecchia fototessera
spiegazzata: su uno sfondo bianco
un ragazzino dai capelli tinti di un blu cielo e con il sorriso furbo e
gentile
la salutava allegramente. La appoggiò sullo specchio e piano
una lacrime le
solcò il viso per poi cadere nel lavandino; subito ne segui
un’altra e poi
un’altra e ancora un’altra… in poco
tempo era scoppiata in un pianto,
silenzioso naturalmente –non
voleva
assolutamente farsi trovare da Orochimaru in quello stato-, che non
accennava a
diminuire. Il peso dei sensi di colpa le schiacciava il petto e le
mozzava il
respiro: osservava Dan guardarla allegramente dalla foto e
immaginò il
rimprovero e il disgusto che avrebbe avuto stampati in volto se
l’avesse
guardata in quel momento.
Dio, che mostro che
era! Aveva appena scopato con un ragazzo –per di
più sotto l’effetto
dell’alcol- che non era il suo
Dan,
aveva infangato la sua memoria in un modo talmente becero da darle il
voltastomaco.
Stupidastupidastupidastupida.
“Come puoi avermi
fatto una cosa del genere?” la voce seria e delusa di Dan le
risuonava nel
cervello ad un volume altissimo… come se glielo stesse
urlando nell’orecchio.
Si accasciò a terra,
rannicchiò le gambe al seno e pianse tutte le lacrime che
aveva in corpo.
Poi anche quelle
finirono e si asciugarono, si strofinò quindi gli occhi
irritati e si rivestì.
Si guardò allo
specchio: aveva un paio di pensanti occhiaie violacee sotto gli occhi
gonfi e
arrossati dal pianto, i capelli scarmigliati e annodati, il trucco
colato della
sera precedente e la tristezza stampata in volto. Uscì dal
bagno e gettò
un’occhiata a Orochimaru che dormiva ancora; si
infilò le scarpe e si chiuse
l’uscio alle spalle ripromettendosi che non sarebbe mai, mai,
mai più successo.
SPAZIO AUTRICE:
Eccoci qua con il sencondo capitolo! Bè, che dire? Spero che
questo capitolo riscutoi più successo del primo...
Ci tengo a precisare che questo è in corsivo e che quindi
è un luuuunghissimo flashback!
Detto questo: alla prossima! Sono ansiosa di ricevere i vostri commenti
e i responsi, quindi.. recensite e mi farete felice! ^^
Baci, Eikochan.
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Capitolo 3 *** Sensi di colpa. ***
Note
Inizio Capitolo: Come sempre le parti in corsivo
indicano un flashback;
il testo in formato normale, invece,
il presente.
CAPITOLO
III:
La pavimentazione
irregolare del marciapiede la stava
mettendo decisamente in difficoltà; si distrasse un attimo e
subito inciampò in
una piastrella più alta, barcollò leggermente sui
tacchi e si aggrappò prontamente
al lampione alla sua destra.
Si produsse in un’imprecazione biasciata.
“Tutto bene, Tsunade?”
Jiraya la seguiva a distanza di qualche passo, anche lui
piuttosto provato dall’alcol.
“Si.” gli rispose leggermente superba raddrizzando
la
schiena e procedendo a passo un po’ più sicuro:
odiava mostrarsi debole di
fronte agli altri. “E comunque sono arrivata.”
Si appoggiò al portone del suo condominio, cercando le
chiavi dell’appartamento che si era comprata da poco. Una
volta trovate infilò
la chiave nella serratura –non senza qualche
difficoltà- e aprì l’uscio.
“A domani, Jiiraya.”
“Notte, Tsunade.” le rispose lui prima di voltarle
le
spalle e attraversare la strada.
Salì attentamente le scale, uno scalino alla volta, e
finalmente arrivò al suo appartamento; entrò e
accese le luci, poi buttò
malamente la borsa sulla sedia vicino all’entrata e si
diresse in camera.
“Maledetti tacchi.” inveì contro le sue
stiletto ad alta
voce e, a sentire la sua voce rimbombare per la stanza deserta, si
produsse in
un risolino decisamente poco
sobrio:
ora si metteva pure a parlare da sola? Stava decisamente peggiorando;
poi anche
la risata si spense nel silenzio e tornò seria.
Si girò verso il comò, posizionato sotto
l’unica finestra
della stanza, e si avvicinò per osservare da vicino le foto
incorniciate: in
prima fila –al posto d’onore- stava la sua
preferita di Dan e Nawaki,
leggermente spostata indietro c’era invece una foto che
raffigurava lei insieme
a Orochimaru, Jiiraya e al sovraintendente Sarutobi, tutti e quattro
sorridenti. Le spostò leggermente per scoprirne
un’altra, particolarmente
nascosta, che la ritraeva –anni prima, come ne erano
testimoni i capelli
raccolti in una coda alta e sbarazzina- affianco a Orochimaru: era una
foto
strana; nessuno dei due accennava ad un sorriso e le loro posizioni
erano
piuttosto rigide… la teneva esposta solo perché
era l’unica che raffigurasse
solo loro due.
Sentì i ricordi del passato riaffiorare e perse un
po’ la
testa: in uno scatto d’ira lanciò la foto che si
andò a schiantare contro la
parete, spargendo frammenti di vetro e legno dappertutto. Senza fare
una piega
si liberò dei vestiti e si mise sotto le coperte tentando di
prendere sonno e
ignorare la voce di Orochimaru che le ronzava nelle orecchie.
Era seduta
sull’autobus affollato, schiacciata tra un nerd in evidente
sovrappeso e
un’anziana signora che puzzava di minestrone di verdure. Se
il buon giorno si
vedeva dal mattino quella sarebbe stata di sicuro una giornata da
dimenticare!
Quella mattina si era
dovuta auto-imporsi di scendere dal letto e vestirsi per andare al
corso di
polizia: era ancora piuttosto confusa e turbata dagli avvenimenti del
giorno
prima e trovarsi a stretto contatto con la causa del suo nervosismo
l’agitava
parecchio.
Nella sua mente si
accavallavano disordinatamente pensieri e considerazioni: stava
cercando la
maniera migliore per affrontare Orochimaru una volta arrivata a
destinazione.
Era così concentrata che a momenti saltò la
fermata ma, per fortuna –il cielo
minaccioso prevedeva un acquazzone in poco tempo-, riuscì a
scendere dal bus a
forza di spintoni e a salvarsi da una camminata di un quarto
d’ora
Entrò in caserma con
il passo di una condannata a morte e aprì la porta
dell’aula; con suo sommo
dispiacere l’unico occupante era il bel moro, seduto
all’ultimo banco e immerso
nella lettura di un libro. Si richiuse lentamente la porta alle spalle,
cercando di non far rumore e di non farsi notare: non ci
riuscì per niente. Al
suono dell’impatto con lo stipite, Orochimaru alzò
lo sguardo dal libro e, una
volta che l’ebbe notata, le rivolse un leggero, neutrale,
cenno del capo per
poi tornare alla lettura del suo libro.
Interdetta rimase
ferma in mezzo all’aula, a metà tra
l’essere sollevata che Orochimaru non
accennasse alla sera prima e la delusione –per non dire
orgoglio ferito- della
poca attenzione che il ragazzo dedicava all’avvenimento.
Si riscosse dai suoi
pensieri quando la porta si aprì di nuovo per far entrare
Jiraya, sorridente e
casinista come al solito; ancora interdetta prese posto al primo banco,
dalla
parte opposta dell’aula rispetto alla posizione del moro.
Quella mattina non
riuscì a concentrarsi nemmeno per un minuto, le lancette
dell’orologio
ticchettavano in sottofondo alla lezione di Ibiki Morino mentre lei
tentava di
dare un senso ai pensieri, di mettere ordine in quella cacofonia di
emozioni e
sentimenti contrastanti tra di loro. Iniziò ad avere mal di
testa: non vedeva
l’ora che la lezione finisse; per
di più aveva iniziato a piovere
e lei –ovviamente-
aveva lasciato l’ombrello a casa.
Dopo
quella che le
parve un’intera era geologica finalmente Ibiki
sistemò le carte, li guardò con
il suo solito sguardo severo e li congedò al
lunedì seguente.
Lentamente si alzò dalla sedia e
prese a riordinare gli appunti -ovvero un foglio bianco completamente
intonso-,
poi acchiappò la sua vecchia, logora, giacca e
uscì dalla stazione di polizia.
Nel frattempo aveva preso a diluviare; sconsolata si fermò
un attimo sotto tettoia,
poi emise un lungo sospiro irritato e fece per spiccare una corsa verso
la
pensilina della fermata. Stava per compiere il balzo iniziale quando
una mano,
esile e terribilmente fredda, le
afferrò il polso per trattenerla; irritata si
girò per insultare lo screanzato
ma quando si trovo faccia a faccia con Orochimaru non potè
che sbarrare gli
occhi, sorpresa.
“Che vuoi?” gli
chiese, una volta rinsavita dalla sorpresa, sostenendo il suo sguardo.
“Niente di che. Ti sei
già dimenticata di giovedì sera?” La
stava guardando con quell’espressione subdola
e sicura, a tratti anche terrificante.
“No.”
“Stazione di Shibuya,
nove e mezza, stasera.” Come al solito non chiedeva mai.
“No.” Continuava a
sostenere il suo sguardo, fiera.
“Non ti è forse
piaciuto? Perché non sembrava così, sai,
l’altro giorno quando mi baciavi,
quando ti sei sdraiata sotto di me… quando urlavi il mio
nome.” le disse,
aprendosi nel solito sorrisino.
Sentì le lacrime
pizzicarle gli occhi e tentare di uscire. Le represse con rabbia: non
voleva
assolutamente piangere.
“Lasciami stare. Non
succederà più…non posso” E
diede un forte strattone al braccio ancora bloccato
nella mano del ragazzo e, di risposta, sentì la stretta
intorno al suo polso
farsi più forte… quasi dolorosa.
“Non puoi o non vuoi?”
le domandò lui, beffardo.
“Non posso… non
voglio.. non posso..” prese a farfugliare, senza dare un
senso alle parole che
le uscivano di bocca, poi lui prese ad avvicinarsi al suo viso.
Tentò di
divincolarsi, ma Orochimaru le cinse la vita con l’altro
braccio tentando di
avvicinarla. Fece un ultimo, debole, tentativo di fuga ma poi
sentì le labbra
fini del ragazzo premere contro le sue e la sua lingua tentare di
intrufolarsi
nella sua bocca e non potè fare a meno di lasciar cadere
tutte le difese e
abbandonarsi al bacio, aggrappandosi alle spalle magre ma forti di
Orochimaru e
rispondere con foga. Dopo un paio di lunghi, interminabili, stupendi e
terribili instanti sentì tornarle la volontà e
spinse via, con violenza e
rabbia, il ragazzo prima di girare sui tacchi e fuggire via a gambe
levate.
Correva sotto la
pioggia scrosciante, bagnata fradicia, urtando contro le persone che
camminavano in strada, sprofondando con rumorosi
“splash” nelle pozzanghere,
piangendo a dirotto con la voce di Dan che le rimbombava nelle orecchie
e si
sovrapponeva alla sua voce interiore che le urlava insistentemente:
“stupidastupidastupidastupidastupidastupidastupida”.
Ci era ricascata di nuovo.
Giorno dopo giorno le
cose peggioravano.
Arrivava a casa la
sera e sentiva la voce di Dan, carica di rimprovero, che le domandava
come
potesse averlo tradito in quella maniera ma nel frattempo sentiva il
cuore
perdere qualche battito mentre sentiva il ricordo dei baci di
Orochimaru. E non
riusciva a dormire, prendeva a pungi il cuscino per sfogare la sua
frustrazione…
imprecava, lanciava il libro che aveva sul comodino e poi crollava
sfinita nel
letto.
Non si sapeva spiegare
cosa le stesse accedendo. Lei era una ragazza forte, fin da
bambina…; non aveva
mai contato sull’aiuto di nessuno –le faccende
preferiva sbrigarsele da sola,
contando sulle sue forze-, possedeva una buona dose di orgoglio che
molto
spesso sfociava in presunzione. Era sicura di sé, tenace:
riusciva sempre a
rialzarsi dopo ogni caduta, dopo ogni sconfitta, dopo ogni
dolore… perfino
quelli da cui pensava non si sarebbe mai più ripresa
–come la morte di Dan e
Nawaki- ma ora sembrava una bambola di porcellana, una ragazzetta
ingenua e
sciocca che si faceva condizionare dagli altri: perché
diavolo Orochimaru
riusciva a scombussolarla in quella maniera? Ogni dannata volta
distruggeva le
sue difese e la rendeva vulnerabile, sempre con quel sorrisino
strafottente
stampato in viso... come cazzo ci riusciva?
Lei non voleva
Orochimaru, non voleva trovarsi ogni mattina a risvegliarsi in quel
letto
–ormai così famigliare-, non voleva lasciarsi
andare con lui… non voleva infangare
la memoria del suo Dan in quella maniera.
O forse invece si? Forse,
in realtà, voleva Orochimaru, desiderava quel corpo che si
muoveva sopra di
lei, cercava il contatto con le sue labbra, bramava
quell’annebbiamento che la
pervadeva ogni volta che incrociava il suo sguardo… forse
erano solo i sensi di
colpa che la bloccavano, che le mozzavano il respiro… lei
voleva quel
sorrisino beffardo e strafottente.
“Nononononononononononono!”
prese a ripetersi tra se e se, le mani premute contro le tempie per il
mal di
testa che le sembrava spaccare il cervello in due. Frustata si
girò e tirò un
poderoso pugno al muro, aprendosi le nocche così che il
sangue prese a
sporcargli la mano e il dolore ad offuscarle la mente.
Annaspava
affannosamente cercando di sopravvivere ad ogni giorno, cercando di non
farsi
abbattere dai ricordi di Dan e Nawaki –che le riaffioravano
ogni volta che
posava lo sguardo su qualunque oggetto-, tentando di sopravvivere ai
sensi di
colpa che la invadevano tutte le volte che incrociava gli occhi duri di
Orochimaru, provando a studiare per ottenere la nomina a poliziotto -.
Non ci
stava riuscendo per niente… era ad un passo
dall’affogare.
E poi arrivò la
scialuppa di salvataggio, e lei ci si aggrappò con tutte le
forze che aveva in
corpo… come un naufrago che tenta
di
mettere in salvo la propria vita con la volontà della
disperazione; una vecchia
zia l’aveva invitata per due settimane
a casa sua, dall’altra parte del Giappone, per aiutarla a
traslocare in cambio
di un po’ di soldi. Accettò senza tentennamenti.
Quello che le serviva
era proprio cambiare aria per un po’; quindi
comprò i biglietti, preparò la
valigia, comunicò a Sarutobi che si sarebbe prese una
piccola pausa e salutò i
compagni di corso.
Infine, in quel
pomeriggio di fine primavera, si imbarcò
sull’aereo e volò verso le sua
scialuppa di salvataggio.
SPAZIO AUTRICE:
Eccomi
tornata con il nuovo capitolo! ^^ In realtà non ho
molto da dire in questo caso… Quindi direi che possiamo
anche chiuderlo questo ‘Spazio
Autrice’ XD (‘perché mai l’hai
aperto?’ vi starete domandando! Bè mi sembrava
brutto non salutare i lettori… si, cose inutili rulez!)
Al prossimo capitolo!
Eikochan.
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Capitolo 4 *** Perchè? ***
CAPITOLO IV:
Sbattè
le palpebre, cercando di mettere a fuoco la stanza
nel buio, la testa che scoppiava dal dolore... poi si girò
verso la sveglia che
segnava le dieci e venti. Si alzò di scatto e
lanciò scalciò via le coperte.
“Merdamerdamerdamerda” imprecò tra se e
sé, togliendosi al
volo il pigiama e raccattando i primi vestiti che le passavano sotto
mano: era
dannatamente in ritardo per il lavoro; il suo turno iniziava alle dieci
e mezza
e lei era ancora a casa!
Si lavò, si vestì e fece colazione in meno di
cinque minuti
poi acchiappò chiavi e borsa e scapicollò
giù per le scale; rispose con un
cenno sbrigativo al “Buongiorno, Tsunade-san” con
il quale l’aveva salutata il
vicino e finalmente riuscì a fermare un taxi.
Dopo
soli venti minuti di viaggio –l’autista si era
visto
sommergere da una valanga di incitamenti, non sempre gentili,
sull’andare più
veloce e non aveva potuto fare a meno di schiacciare
sull’acceleratore- era
arrivata a destinazione. Entrò, cauta, nell’atrio
e si accorse che
–stranamente- non c’era anima viva in vista,
sollevata, sgattaiolò verso gli
uffici; era quasi arrivata alla porta del suo quando una voce tuonante
la
bloccò.
“Tsunade!” Il sovraintendete Sarutobi la guardava,
dall’altro capo del corridoio, con sguardo severo; le mani ai
fianchi e il tono
irritato non promettevano nulla di buono. “Sei in ritardo
anche sta volta!”
Si girò lentamente e assunse l’espressione
più desolata che
il suo smisurato orgoglio le permetteva di fare. “Mi scusi,
sovraintendente.
Non succederà più.”
“Lo spero bene, altrimenti la prossima volta dovrò
prendere
provvedimenti!” la ammonì severamente, nonostante
il tono di voce ormai fosse
tornato normale, segno che le aveva già perdonato lo sgarro.
“Voglio vederti alle
undici nel mio ufficio, puntuale…
e
porta con te anche Jiiraya. Dobbiamo discutere degli ultimi
avvenimenti.”
“Certo.”
Venti minuti dopo stava bussando alla porta di legno di
Hiruzen Sarutobi, come decantava la targhetta d’ottone
affissa a lato, seguita
da Jiraya. Finalmente giunse dall’altro lato della porta la
voce del
sovraintendente che li invitava ad entrare.
“Eccoci, capo” lo salutò allegramente
Jiiraya, sventolando
una mano. Sarutobi alzò gli occhi al cielo ma
lasciò correre: si era ormai
rassegnato al non-rispetto che gli portava il ragazzo, nonostante fosse
il suo
superiore.
“Sedetevi pure.” gli rispose invece, accennando
alle comode
sedie poste di fronte alla sua scrivania; una volta che si furono
accomodati
riprese a parlare. “Penso avrete intuito che siete qui per il
caso di
Orochimaru.” I due annuirono in risposta. “Dalle
ultime notizie che abbiamo
sappiamo che è stato visto da una testimone nei pressi della
zona periferica orientale
al limitare di Tokyo, il che ci fa escludere definitivamente il
rapimento.”
Nessuno dei tre sembrava contento dell’idea. “Direi
che a questo punto non c’è
nient’altro da fare: Orochimaru è maggiorenne ed
è in grado di decidere per se
stesso, evidentemente ha deciso di scappare verso un’altra
vita. Se per caso vi
trovaste a comunicare con lui riportategli i miei saluti e il mio
augurio per
il futuro. Il caso è chiuso.”
Il tono di voce di Sarutobi indicava chiaramente che la
discussione era finita e che erano ufficialmente congedati; lentamente
si
alzarono e uscirono dall’ufficio, tutti e due con la stessa,
triste,
espressione sconsolata stampata in volto.
“Non posso credere che se ne sia andato
così… nemmeno un
saluto.” ruppe il silenzio Jiraya.
Tsunade non rispose, non voleva rispondere; così il ragazzo
continuò il suo monologo.
“Non che fossimo in un rapporto tutto rose e fiori ma ne
abbiamo passate delle belle insieme. Evidentemente sono io che mi sono affezionato
troppo… bè del resto
è di Orochimaru che stiamo parlando.”
Sospirò pesantemente. “Bene, io sono
arrivato a destinazione. Ci vediamo, Tsunade.” e si chiuse
alla spalle la porta
dell’ufficio.
Una volta arrivata alla sua postazione anche Tsunade si
lasciò cadere pesantemente sulla comoda sedia girevole,
immersa nei suoi
pensieri e totalmente estraniata dal mondo. Non riuscì a
concentrarsi per tutto
il giorno: i pensieri le ronzavano fastidiosamente nelle orecchie e la
sua
attenzione continuava ad andare a tutta la questione di Orochimaru.
Non sapeva nemmeno lei se essere triste della fuga o
sollevata da essa: da una parte era contenta di non avere
più quegli occhi a
scombussolarle la giornata e la determinazione, non doveva
più guardarsi dagli
attacchi a sorpresa del ragazzo che ogni volta riuscivano a metterla
alle
strette, non era più terrorizzata di svegliarsi e trovarsi di nuovo in quella stanza ordinata e
asettica. D’altra parte era
estremamente irritata dalla scomparsa nel nulla di quello che, doveva
ammettere
–seppur con estrema riluttanza-, era diventato il suo amante;
una chiamata, una
lettera… un misero bigliettino di saluti sarebbe stati
apprezzati, l’avevano
abbandonata di nuovo. Tutte le persone accanto a lei continuavano a
sparire,
una dietro l’altra: il suo fratellino minore, il suo
fidanzato, sua madre, suo
padre.. e ora il tradimento di Orochimaru.
‘Ecco!’ si trovò a pensare, infuriata.
‘Tradimento è
la parola giusta.’ Perché il moro aveva fatto
niente
meno di quello: aveva tradito la tacita promessa che si erano fatti,
erano
amanti, erano confidenti, erano una la medicina dell’altro e
viceversa. E ora,
quello stronzo, si permetteva di
svanire nel nulla –come debole fumo- senza uno straccio di
spiegazione?! Ah no,
quello era proprio il colmo!
‘Che beffa d’uomo’ pensò
decisamente irritata.
“Traditore”
borbottò poi, chiudendo violentemente il block notes per
sottolineare,
mentalmente, il concetto.
Aprì
la porta con un lieve calcetto –i sacchetti della spesa
le occupavano le mani- ed entrò nell’
appartamento. Si richiuse la porta alle
spalle e lanciò le chiavi sul mobile all’ingresso,
per poi avviarsi in cucina;
era a metà del soggiorno quando un profumo forte e
dolciastro, decisamente
famigliare, le arrivò alle narici; si girò di
scatto verso il divano e fu solo
grazie al suo provvidenziale sangue freddo che non mollò le
borse per terra.
"Ciao Tsunade. Ce ne hai messo di tempo per accorgerti della
mia presenza…”
Orochimaru era tranquillamente seduto sul suo divano a gambe
incrociate e stava sfoggiando il suo peggior
sorrisetto irritante.
SPAZIO AUTRICE:
E con questo capitolo
siamo tornati definitivamente al
presente. Un presente che si pone, circa, un paio di settimane dopo che
Tsunade
torna dalla casa della vecchia zia: Orochimaru è scomparso,
senza uno straccio
di spiegazione, subito dopo che lei torna.
Ma ora è ricomparso. Perché? Cosa
vorrà mai?
Restate connessi e lo scoprirete *musichetta accattivante*
XD
Niente,
spero che questo capitolo sia piaciuto… e chiedo perdono
per il lungo tempo trascorso dallo scorso e la brevità di
questo. (E dire che questo capitolo era già
scritto, ma si… sono un caso perso!)
Aspetto, come sempre, le vostre impressione e commenti.
Baci,
Eikochan.
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