Dimmi che mi odi

di Due Di Picche
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Perchè ti odio ***
Capitolo 2: *** Perchè non ti capisco ***
Capitolo 3: *** Perchè non andremo ma d'accordo ***
Capitolo 4: *** Perchè mi rovini le giornate ***
Capitolo 5: *** Perchè mi mandi in confusione ***
Capitolo 6: *** Perchè ho bisogno di riflettere ***



Capitolo 1
*** Perchè ti odio ***


Due parole...

attenzione, questa storia è già stata pubblicata e in seguito cancellata, su un altro account (Rain e Ren) sotto il nome di "Say I hate you" che poi ho tradotto in italiano come "Dimmi che mi odi". Dopo averla revisionata e averci apportato alcune modifiche, ho deciso di pubblicarla nuovamente, su questo nuovo account, visto che è un racconto piacevole da scrivere per me e in molti lo hanno trovato molto divertente e scorrevole da leggere.
Per quelli che mi seguivano grazie a "L'annunciatrice di Morte", non preoccupatevi, non ho abbandonato quel  racconto e appena ho tempo continuerò a scrivera perchè a differenza, "Dimmi che mi odi", è già provvista di una dozzina di capitoli già pronti!

Quando troverete le scritte:
nero -> da parte del punto di vista di lui: Aaron Valley.
rosso-> da parte del punto di vista di lei: Ginevra Wilson.

Il racconto sarà un susseguirsi di "scambi" tra vari punti di vista: spero che troverete piacevole questa lettura!
Baci... Due di Picche!

***

1.Perché ti odio…
 

Chi siamo veramente lo decidiamo solo noi. Delle scelte che facciamo, ne dobbiamo essere sicuri almeno al 51% perché costituiscono il nostro cammino, e non sempre, se sbagli, puoi tornare indietro.
Il mio cammino? Il successo. Famoso batterista di una altrettanto famosa band da almeno due anni, con un secondo disco in uscita.
Avevo deciso io quella strada? Beh, diciamo che ne rimasi coinvolto tutto d’un tratto, ma decisi di mia spontanea volontà di far parte di quel gruppo formato dal mio migliore amico, la mia ex e il suo ragazzo.

A volte non siamo noi a scegliere all’istante cosa è giusto o cosa è sbagliato. A volte la vita ti ingloba in qualcosa di troppo grande ed emozionante. Io, ad esempio non mi accorsi di aver firmato un contratto per comprare un biglietto di sola andata per un altro mondo: la Musica.
Pensieri profondi fatti sul terrazzo della scuola a fine giugno. Ero uno dei tanti sfortunati studenti che era rimasto vittima dei corsi estivi causa insufficienze scolastiche. Tre materie da trasformare in voti positivi agli esami di settembre, c’è l’avrei fatta tra ragazze e concerti? I professori poi mi odiavano, prima uscivo da quella scuola e prima avrebbero evitato di mandarmi in presidenza ogni qualvolta saltavo le lezioni; dormivo in classe e scatenavo risse e scompiglio tra le ragazze. Colpa mia se ero dannatamente bello e popolare? No! Colpa loro che erano soltanto un branco di oche giulive. Dovevo ammettere però che mi piaceva tutto ciò: ci avevo fatto l’abitudine!
Mi ero innamorato solo una volta nella mia vita. Era successo cinque anni fa,e  ora lei era la ragazza del leader della band ed io, solo il batterista. Il suo volto, mi torna in mente spesso: Marina, indimenticabile. Ero destinato a non innamorarmi mai più?
Avevo perso la verginità a quattordici anni e ne andavo fiero, ero famoso, avevo fama di donnaiolo, ma l’amore mi avrebbe evitato per sempre, forse la mia era una punizione …

 
Ognuno di noi ha degli scopi nella vita, il mio era cambiarla. Mi mancava poco per sconvolgere tutto quello che mi circondava, per fare tutto a modo mio.
La bella Ginevra, l’intelligente Ginevra, la brava Ginevra. Così la gente mi vedeva, una brava ragazza, una fissata con lo sport. Il mio lato acido e sboccato era nascosto, ovviamente.
Tutti i capitani delle altre squadre mi facevano il filo da sempre, ma per me erano solo una perdita di tempo. L’amore era una perdita di tempo.
Già avevo una vita difficile con un padre avvocato mai in casa e una madre, ex modella, in un centro di riabilitazione causa droga, avere problemi con una terza persona era l’ultimo dei miei desideri.
Tardo pomeriggio. Stavo rientrando dai miei allenamenti quotidiani. Quell’estate mi sarei dovuta preparare per diventare il nuovo capitano delle cheerleader, dovevo preparare una coreografia da presentare a settembre: non volevo perdere.
Che cosa facevo nella vita? Puntavo in alto! Il mondo doveva essere cambiato, la mia vita doveva cambiare.
Entrai in doccia. L’allenamento mi aveva fatto sudare parecchio, avevo bisogno di una rinfrescata. La palestra era vuota, in quel momento c’eravamo solo io, l’acqua e i miei pensieri. Quanto ancora avrei dovuto aspettare prima che qualche mutamento sbuchasse nella mia monotona esistenza?


 
Le loro voci riecheggiavano nella mia testa. Stridule, acide e arrabbiate “Aaron Valley. Perché prometti tante uscite con noi e poi non ci porti da nessuna parte?”
La ragazza che mi parlava non la conoscevo e men che meno le altre che mi circondavano. Che memoria corta, colpa mia se erano tutte uguali?
“Lo sapete ormai. Sono famoso! Sven mi ha proibito di andare in giro con voi.” Una volta c’era il capo band a tenermi sottocontrollo ma sia lui che Marina stavano finendo gli esami di maturità. Dall’anno prossimo mi sarei dovuto arrangiare con tutte quelle belve inferocite e pazze di me.
Cosa facevo io alle donne? Me lo ero sempre chiesto eppure, non l’avevo mai capito, anche perché l’unica donna che avrei voluto sotto l’effetto del mio incantesimo, era già occupata a vita.
Incominciai a correre. Io pigro e sfaticato corsi per una delle rare volte nella mia vita. Non volevo finire sommerso da quelle ragazze fuori di testa. Il mio motto era “toccata e fuga” ma non credevo che l’avessero ancora capito.
Corsi verso le palestre. Entrai nel palazzetto principale perdendomi nei corridoi. Qualcuno che mi poteva nascondere non c’era? Sentii il rumore di una doccia chiudersi. Proveniva dagli spogliatoi. Mi avviai il più velocemente possibile, ma appena varcai la soglia, ovviamente, non mi accorsi che era il bagno femminile.

 
Chiusi il rubinetto e afferrai l’asciugamano. I lunghi capelli biondo scuro bagnati mi ricadevano sulle spalle. Mi avvolsi l’asciugamano bianco attorno al corpo. Per fortuna era tutto deserto, potevo fare con calma.
Quando uscii, la mia tranquillità scomparve alla vista di un ragazzo. Rimasi impassibile. Aveva il fiatone e lo sguardo color smeraldo stanco. I suoi capelli neri erano arruffati e mossi, piccole gocce di sudore ai lati della fronte.  Mi guardava con aria spaesata e poi mi corse incontro. Forse non si era accorto delle mie condizioni! Mi fece indietreggiare obbligandomi a rientrare nel box doccia per poi chiuderne la porta. La mia schiena si appoggiò contro la manopola dell’acqua. Una pioggia bollente ci colpì all’istante infradiciandoci.


 
Una ragazza in asciugamano rapì la mia intenzione. Occhi d’ambra e capelli biondi bagnati. Dio mi stava facendo un regalo? Avvolta soltanto in un asciugamano bianco mi fissava sorpresa. Sentivo gli schiamazzi delle altre ragazze che mi stavano ricorrendo, perciò non ci pensai due volte. Dovevo approfittare del “dono del cielo” e della possibilità che mi dava per nascondermi.
La feci indietreggiare velocemente ed entrambi entrammo, in uno dei tanti box doccia, della palestra. L’acqua calda si aprì e mi bagnò. Lei era lì, a pochi centimetri da me. Impassibile con uno sguardo ardente. Non l’avevo mai vista prima eppure sembrava un angelo con quell’asciugamano bianco aderente che, per poco, non le metteva in mostra le parti più sensuali ed eccitanti.

 
Cosa ci faceva lì? Perché era lì? Avrei voluto tirargli un bel calcio se solo, il mio affidabile udito, non avesse sentito gente entrare e uscire dallo spogliatoio. Avevo a che fare con un ricercato?
Era zuppo, i suoi vestiti fradici, ma mai quanto quel mio asciugamano che mi copriva il necessario. Un maniaco? Dallo sguardo fattosi voglioso anche si!
I capelli neri incominciarono a coprirgli gli occhi però il suo sorriso ironico non sfuggì ai miei. Quando i rumori si calmarono sospirò “L’ho scampata. Grazie angelo caduto dal cielo!”
Mi fece l’occhiolino. Io spensi la doccia e gli diedi uno spintone. Lui indietreggiò. La porta del box doccia di aprì di colpo e il giovane cadde fuori sul pavimento in piastrelle.


 
Non avevo ancora provato il brivido di fare sesso in doccia, però dovevo ammettere che la ragazza mi aveva eccitato parecchio. Me la sarei fatta all’istante, un incontro del genere non avviene tutti i giorni, ma lei mi spinse violentemente fuori  dal box doccia “Angelo un corno pervertito di merda” urlò successivamente con tono sboccato.
Avevo incontrato una vipera? I suoi occhi di fuoco erano pieni sia di rabbia che d’imbarazzo, ma la sua lingua biforcuta mi offese all’istante. Uscì subito dopo di me tenendosi l’asciugamano stretto al corpo.

 
Avrei voluto tirargli un calcio, ma non ebbi il tempo neanche di fare un passo che subito scivolai su quelle piastrelle bagnate. Il destino mi voleva così male in quel momento? L’unico mio pensiero rimase quello di tenermi stretto l’asciugamano, non volevo rovinare la mia reputazione denudandomi in pubblico.
Mi preparai al duro colpo sul pavimento, che però non arrivò. Il ragazzo mi afferrò prima che potessi sbattere la testa per terra che finì sul suo petto. Mi dimenai immediatamente spostandomi da lui, ma non feci in tempo: una voce mi sorprese.


 
La sua pelle era bollente quanto il suo viso. L’acqua calda doveva averle fuso  qualche rotella  per farla cadere in maniera tanto stupida. Era pur sempre una donna perciò le attutii la caduta prima che prendesse un brutto colpo, dimostrandomi cavaliere. Poi una voce ci fece sobbalzare entrambi. I miei occhi smeraldo guardarono quelli pietrificati della giovane rivolti verso l’entrata del bagno. Seguii il suo sguardo “Che ci fate qui?” chi diamine era quella vecchia alle nostre spalle?

 
Merda! La bidella addetta alle palestra ci aveva appena sorpresi in una posizione equivoca. La mia reputazione per colpa di un “pervertito cerca guai” era stata appena rovinata.
In quel lasso di tempo le nostre mosse furono talmente veloci da confondermi. Il giovane corse velocemente fuori, anche se era completamente zuppo, ed io mi dileguai dagli occhi indiscreti della bidella, accennando un debole sorriso. Cosa avevo fatto di male per meritarmi questo?
Avrei voluto picchiarlo di santa ragione. Non si entrava in quella maniera nel bagno delle ragazze, che fine aveva fatto la buona educazione?
Mi vestii il più velocemente possibile e uscii. Notai l’espressione ancora perplessa sul volto della donna che lavava le docce. Me lo sentivo, qualcosa sarebbe successo.


 
Tardo pomeriggio: casa Power. Me ne stavo disteso sul divano a guardare il soffitto mentre Marina e Sven stavano discutendo su una canzone. A lei, che era la cantante, non andava bene una parola, ma lui dibatteva che senza quella parola la canzone non aveva senso.
“Tutto bene Aaron?” la voce di Matt mi distrasse dai miei pensieri. Il mio amico stava accordando la chitarra, anche se le prove sarebbero dovute cominciare da un pezzo, nessuno aveva ancora toccato uno strumento a parte lui.
“Si, circa” dissi con insicurezza “Cioè, non che vada male quando ti ritrovi a tu per tu con una ragazza in una doccia, quella non è altro che fortuna specialmente se poi lei è dannatamente sexy e provocante.”
“Ti sei fatto una in doccia?” veloce e perspicace come sempre. Non si perdeva con tanti giri di parole. Io tentavo di fare il saggio ma finivo, come sempre, per risultare uno stupido.
“No! Non è successo; peccato. Lei mi ha spintonato fuori immediatamente”
Nessuna ragazza lo avrebbe mai fatto ma lei, senza pensarci due volte, si era liberata della mia presenza. Mai una donna aveva fatto un tale gesto per poi insultarmi in quel modo. Era scioccante ma accattivante allo stesso tempo.
“Credo sia una ragazza sportiva, perciò spero di non incontrarla mai più” dissi con un po’ di rammarico. L’unico mio movimento a parte lo zapping e il corteggiare le donne era suonare la batteria. Odiavo lo sport, odiavo le ragazze sportive.
 

Camminavo per strada accanto a Sue mentre mi gustavo un gelato al limone. La mia amica, un po’ robusta dai capelli biondi a caschetto, era con me nel gruppo delle cheerleader ed era la mia sostenitrice numero uno. Eravamo amiche da un bel po’ anche se lei era un po’ troppo chiacchierona per i miei gusti. Non che avessi tutte queste amiche strette a parte lei a dire il vero, ma con Sue potevo liberare il mio carattere acido, brusco e sboccato: non ero per niente la brava ragazza che tutta la scuola prendeva come esempio.
Uno sguardo color smeraldo ogni tanto affiorava nella mia mente, i suoi occhi mi avevano colpito molto ma mai quanto la sua sfacciataggine nel trattare una donna in asciugamano.
D’un tratto Sue si fermò davanti ad un manifesto. Mi
voltai e lo osservai attentamente anch’io. Al centro, a colori, c’era una ragazza dall’abbigliamento trasgressivo e dark,  dai lunghi e mossi capelli scuri tendenti al bluastro. Era rivolta di spalle ma un sorriso di ghiaccio era dipinto sul suo volto posto lateralmente. Nei quattro riquadri attorno a lei c’erano la scritta “Black Out” e dei ragazzi di cui si intravedeva solo l’ombra, gli occhi e l’espressione. I ragazzi più seri sembravano famigliari, mentre il terzo lo era di certo: sorriso ironico, occhi verdi e i capelli scompigliati a giudicare dalla sagoma.
“Chi sono?” chiesi curiosa alla mia amica.
“Ma dove vivi Ginevra! Sono i Black Out. Frequentano la nostra scuola, tra poco uscirà il loro secondo album, sono incredibili” ecco l’esaltata. Molto spesso Sue mi aveva parlato di loro, ma non ero mai stata particolarmente attenta ai suoi discorsi: che pessima amica!
I Black Out, un gruppo rock composto da giovani, sconosciuto! Per me la musica era marcia, ed era a quel ritmo che procedeva la mia vita, ma odiavo il rock, odiavo i musicisti.


 
Mi stavo incamminando verso quella dannata porta nera: la presidenza. Perché? Cosa avevo fatto questa volta? Che io ricordassi avevo saltato le lezioni solo 3 volte in meno di un mese. Beh, non era troppo infondo, potevo esser definito quasi un bravo ragazzo.
Arrivai alla soglia e bussai. La voce del preside mi invitò ad entrare. Alzai i miei occhiali da sole e spinsi la maniglia verso il basso. Entrai.
Quando alzai lo sguardo la prima cosa che notai fu l’ometto dall’aria simpatica, un po’ calvo che per un miliardo di volte mi aveva offerto il caffè dopo.
Una bella chiacchierata in quello stanzino. La seconda fu una ragazza dei codini biondi, con addosso una divisa rossa e uno sguardo imbronciato. I suoi occhi di fuoco mi diedero la possibilità di riconoscerla all’istante.

 
Io in presidenza? Inaudito! Ero una studentessa modello con voti nella norma e un buona media, perché mi avevano convocato in presidenza?
La porta si aprì e la risposta alle mie domande arrivo: il pervertito della doccia! No! Ecco la causa di quella seccatura che mi aveva obbligato ad interrompere i miei allenamenti quotidiani.
Si incamminò. Mi fissava e io lo fissavo.
“Che posso fare per lei signor preside?” chiese il ragazzo con aria amichevole. Sicuramente non era la prima volta che entrava in quella stanza a giudicare dal suo tono di voce troppo tranquillo
“Come vedi, questa volta non sei solo Valley!”
“Lo vedo”  Quel maniaco mi squadrò dall’alto in basso. Che disgusto.
“Beh, ora vi spiego il perché di questa doppia convocazione. Per lei, Valley, non è niente di strano essere qui per la millesima volta, ma per la signorina Wilson è alquanto insolito.”
“E’ troppo insolito, e non ne vedo una ragione.” cercai di dimostrarmi il più simpatica possibile.


 
Sorrisi ironicamente mentre ascoltavo le lamentele di quella ragazza dall’aria troppo seria.
L’uomo, prima di continuare, sospirò con un po’ di imbarazzo e poi finalmente si decise a vuotare il sacco “Mi sono giunte voci su di voi. Vi hanno sorpreso a commettere atti osceni in luogo pubblico, più precisamente nel bagno femminile della palestra”
Mi ero fatto tanto di quelle ragazze a scuola e nessuno mi aveva mai colto in fragrante, ora invece, per uno stupido incidente, mi trovavo veramente nei guai.
“Signore, la situazione deve esser stata fraintesa alla grande, io questo studente …” lei era nel panico più totale.
“L’una sopra l’altro, completamente bagnati e lei con solo un asciugamano addosso?”
“Ammetto che le mie condizioni non erano delle migliori, ma le do la mia parola di futuro capitano delle cheerleader che tra noi non è asuccesso niente.” Dio! Ci volevano i pop corn. Lei era troppo divertente. Alzai lo sguardo al soffitto cercando di nascondere l’espressione divertita.
Il preside rimase in silenzio. I suoi occhi si spostarono su di me e mi fece togliere immediatamente il mio scemo sorriso. Dovevo dire qualcosa sicuramente “Ehm … diciamo che è come dice lei!”

 
Le parole che quell’essere riusciva a pronunciare non aiutavano di molto la situazione. Avrei voluto sprofondare di vergogna. Io, Virginia Wilson, una delle stelle di punta di quella scuola, ero stata accusata di sesso selvaggio a scuola.
Attesi. Non dissi più niente per non sembrare un’idiota. La risposta del preside arrivò.
“Ho trovato una soluzione per questa faccenda senza portarla al consiglio studentesco di settembre. Infondo se si saprebbe un fatto simile il signor Valley verrebbe bocciato all’istante, e lei signorina Wilson non sarebbe ammesse alle selezioni per capitano delle cheerleader no?”
“Arrivi al dunque!” il ragazzo dai capelli neri si fece serio. Strano! Dovevo preoccuparmi?
“Se Valley vorrà essere ammesso al quinto anno avrà bisogno di un tutor che l’aiuti, e chi se non una studentessa modello con ottimi voti a scuola come Ginevra Wilson? E poi Aaron Valley è un ottimo musicista a quanto pare, perfetto per una cheerleader alla ricerca del ritmo?”
Scambiai un’occhiata veloce con il giovane di fianco a me. I nostri sguardi perplessi si incrociarono.
“In poche parole se Aaron James Valley non supererà l’anno a causa dello scarso aiuto della signorina Wilson, la signorina Wilson verrà esclusa dalla candidatura di capitano cheerleader. E se la signorina Wilson non arriverà alla selezione con una coreografia degna di lei, non faremo passare l’anno a lei, Valley!”


 
Eravamo in trappola. Io ero in trappola, la mia vita era appena passata nella mani del mio peggior nemico: le ragazze sportive. Non c’era modo di uscirne, lo sapevo. Non c’erano altre soluzioni e non esitai a chiedere al vecchio opzioni migliori. Perché aveva avuto quell’assurda idea?

 
Ora potevo dire addio al mio orgoglio. Il mio peggior nemico, uno stupido musicista rock. Perché? La mia vita dipendeva da lui, i miei piani dipendevano da lui, il mio sogno era in mano sua. Avrei pagato oro per uscire da quella situazione ma non potevo fare la figura della lagna.

 
In corridoio, di fronte a lei. Dovevo ammettere che quella divisa aderente e quella gonnellina corta che indossava dava sfogo alle mie fantasie mentali. Perché una persona così odiosa doveva provocarmi esteticamente?
“Io non ci capisco niente di musica da parata sia chiaro” dissi immediatamente.
Lei incrociò le braccia facendo risaltare il seno. La odiavo. “E io di farti capire la matematica”
“Allora scordati di diventare il prossimo capitano delle cheerleader”
“E tu di passare l’anno”
Dio come era acida. Odiosa al punto giusto da farmi saltare i nervi. Non potevamo andare avanti così. Nessuno dei due voleva collaborare con l’altro, ma sapevamo che, andando avanti ad offese, non avremo risolto mai niente.

 
“Senti, qui dobbiamo collaborare per il bene di entrambi” il riccio era uscito allo scoperto. Gli seccava essere bocciato, forse per la sua reputazione di batterista? Aveva intenzione di collaborare con me?
Alzai gli occhi al cielo e sbuffai. Mi accorsi dopo un po’ che Aaron Valley mi stava tendendo la mano. Voleva saldare un accordo?
“Non vedo altre soluzioni!” dissi schifata mentre stringevo la mano del ragazzo. Infondo era un ordine del preside.


 

-Ora, il loro futuro era nelle mani del loro peggior nemico. A che gioco stava giocando il destino?
A nessuno dei due andava a genio l’altro, ma entrambi sapevano anche che l’unica soluzione per andare avanti era di fronte ai loro occhi.-

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Capitolo 2
*** Perchè non ti capisco ***


Due parole...

Ringrazio Alyce_Maya per il commento e per le correzzioni dei vari capitoli, ma ringrazio le eprsone che hanno messo la storia tra le seguite, come inizio lo trovo buono, ma spero di coinvolgere più persone in questa "Commedia romantica" dove l'odio e l'amore sono la medesima cosa.
Come alcuni mi hanno suggerito ho fatto una bella immagina (collage) anche per Aaron e Ginny che vedrete qui sotto! Spero che vi piaccia... cercare un attore che assomigli anche lontanamente ad Aaron è stata un'impresa O__O
Buona lettura!

***


2.Perché non ti capisco…
 

La vita mi aveva portato ad odiare molte cose e molte persone ma, soprattutto, odiavo me stessa. La persona dolce e gentile che tutti credevano che fossi, era solo una stupida maschera per avere una buona reputazione a scuola. Sempre gentile, sorridente, dalle frasi intelligenti e dagli atteggiamenti responsabili. Rivelare ad Aaron Valley la mia lingua biforcuta era stata difatti una pessima idea. Ma mostrarmi angelica e santerellina con il peggiore ragazzo della scuola non se ne parlava proprio.
Quel giorno di inizio luglio mi stavo recando a scuola, il mio inferno sarebbe iniziato quella mattina stessa in compagnia di un batterista che ragionava con una parte del corpo, che non era il cervello.
Salii le scale d’entrata della scuola. Dovevamo trovarci là, ma di lui non c’era ombra. Irresponsabile!
Mi guardai attorno e con mia grande sfortuna, vidi che un ragazzo biondo, alto e fisicamente ben piazzato, stava camminando nella mia direzione. Alzai gli occhi. Sospirai. E sorrisi. Christopher Gens stava passando all’attacco. Bel fusto, capitano della squadra di football e perso di me in una maniera tremenda.


 
Mi ero messo nel casino peggiore che potessi desiderare. Io volevo solo una vita tranquilla: musica, successo e ragazze. Lo studio non rientrava in queste tre cose, era secondario. Avevo deciso di impegnarmi il minimo indispensabile quell’estate dei miei diciotto anni, freschi freschi, compiuti a maggio. Ora invece avevo un’insegnate privata maledettamente eccitante e insopportabilmente sfacciata.
Sbadigliai mentre entravo nel giardino della scuola. Le occhiaie le avevo coperte con gli occhiali da sole. Una notte di baldoria come sempre: com’era dura essere una star!
Faceva caldo e i miei capelli, umidi com’erano, non mi aiutavano per niente a uscire da quell’afa estiva di inizio luglio. Ci voleva qualcosa di stimolante, di divertente, qualcosa come la scena che si stava creando davanti ai miei occhi: la Wilson in dolce compagnia di Gens. Allora anche lei se la intendeva con qualcuno? E chi di meglio se non quel palestrato del mio compagno di classe?!

 
“Allora quando usciamo Ginny?” mi chiese il ragazzo biondo a cui avevo dato buca per tutto l’anno. Deglutii e sorrisi indietreggiando leggermente, anche perché lui non faceva altro che venirmi sempre più vicino. Caldo!
“Chris, ho da fare. Ho poco tempo per divertirmi anche d’estate e sai anche il perché …”
“Ma le selezioni delle cheerleader sono appena a inizio settembre. Hai tutta l’estate davanti. Un’uscita non ti chiedo altro. Lo sai che mi piaci da impazzire Ginny.” Arrossii e abbassai lo sguardo. L’ultima frase mi metteva sempre a disagio e me la ripeteva in continuazione. Christopher era molto insistente. Gli piacevo sul serio e lo sapevo ma, a me lui non piaceva per niente. Ora che ci pensavo non avevo mai riflettuto sul “ragazzo ideale” a dire il vero.
“Usciremo prima o poi” dissi dandogli le solite false speranze. Ero proprio cattiva con lui.
“Dici sempre così. Cosa posso fare per piacerti?”
La mia popolarità non era ai livelli di Marina McChervelle, da sempre la ragazza più bella e desiderata della scuola, ma era sicuramente abbastanza alta da procurarmi certi fastidi. Rifiutavo ragazzi in continuazione ma Gens non mollava mai. Avevo 17 anni, 18 ad agosto, avevo dato il primo bacio per sbaglio, ed ero vergine. Ne andavo fiera!

 

Decisi di immischiarmi in quella ridicola situazione. Mi avvicinai e con tono sfacciato decisi di interrompere quel corteggiamento che stava coinvolgendo la mia insegnante privata e il fusto biondo.
“Oh! Wilson!” esclamai con un tono falsamente sorpreso “Scusa il ritardo”
Alzai gli occhiali da sole, tolsi l’espressione stanca e assonnata e sfoderai il mio più malizioso sorriso alla coppia. Lei, appena mi vide, si impietrì. Ero così maledettamente bello da farla rimanere di sasso?
“Qual buon vento ti porta da queste parti, Aaron? Ah! I recuperi scolastici forse?” era come sempre invidioso della mia popolarità; ecco perché, da alcuni anni, aveva smesso di essermi amico. E dire che ragionavamo con la stessa parte del corpo. Forse lui un po’ di più con il cervello a dire il vero, ma in quanto istinti adolescenziali non era da meno.
“Proprio così. E la tua ragazza mi da ripetizioni sotto richiesta del preside” ora lei era alquanto infastidita. I suoi occhi di fuoco mi fulminarono e le sue sopracciglia si corrugarono. Era davvero divertente vedere quell’espressione nascosta in quel momento agli occhi di Christopher.
“Dimmi che non è vero, Ginny?!”
“Non è vero che sono la tua ragazza, ma è vero che devo dare ripetizioni a Valley” e con quella frase lo stroncò.
 

Se c’era una cosa che odiavo di Aaron più della sua stessa presenza, era l’ironia. Quel sorrisetto da deficiente glielo avrei levato con uno schiaffo. Quel giorno aveva rovinato la vita con Gens che, sicuramente, ora mi avrebbe girato ancora più attorno scioccato dalla notizia che davo ripetizioni ad un idiota.
 
Bevevo quella lattina di The al Limone mentre, assieme a Sue, uscivamo da scuola. Gli allenamenti ci avevano sfinito, ma io avevo sicuramente sfinito la mia amica raccontandole la piega orrenda che aveva preso la mia vita.
“Contesa tra Valley e Gens? Cosa di vuoi di più dalla vita, scusa?” la faceva facile lei! Infondo non era lei che aveva a che fare con soggetti dei quali, non le importava niente. Avevo passato la mattina ad offendere Aaron reputandolo proprio un ignorante. Le ripetizioni, insomma erano andate male. Dovevo indossare una tuta da sci per non farlo distrarre?
“Mi fa schifo quel suo sguardo perverso addosso.” Ripetevo mentre i suoi occhi verdi mi tornavano in mente. Odiosamente ipnotici risaltavano più del dovuto nella mia mente.
“Ti senti meglio quando Christopher ti guarda sotto la gonna mentre ti alleni?”
“Cosa?” Sue aveva il potere di scioccarmi all’istante con semplici frasi. Odiavo tutto ciò che era al di fuori dei miei obbiettivi vitali.
“Tu non te ne accorgi ma tutti i ragazzi in verità sono pervertiti. Perciò non reputare Gens un santo e insultare Aaron a tuo piacimento” la mia amica prendeva sempre le difese di quel batterista, soprattutto perché era una  sua grande fan.


 
Tardo pomeriggio, nella mia classe deserta, io e Ginevra studiavamo. A dire la verità io studiavo, lei mi aiutava a capire quella famosa matematica che avevo sempre fatto a meno di conoscere.
Si legò i capelli biondi in una coda bassa. Accavallò le gambe nude facendo penzolare da un piede l’infradito in paglia. Mi passo un foglio con la spiegazione delle equazioni. Era argomento di terza ma, dovevo incominciare dalle basi per capire poi, quelli di quarta.
Mi guardò mantenendo un’espressione seria. La sua canottiera beige le metteva in risalto le spalline del reggiseno nero,  e i suoi short di jeans erano veramente corti. Non avevo fatto altro che osservarla da più di un’ora, stando in silenzio. La matematica la capivo ma subito dopo la dimenticavo. Terribile.
Sbuffai. Alzai gli occhi al soffitto.
“Non ci riesco”
“Fino ad adesso però c’è stato qualche miglioramento. Non è difficile” ma proprio non capiva che lei stessa era la causa della mia continua ignoranza? Si spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. 
“Non riesco a concentrarmi con te qui davanti”
Offesa, incrociò le braccia al petto facendo risaltare la sua terza misura, era sicuramente una terza! Ma perché non me ne stavo zitto? Non ero mai stato così a lungo da solo, con una ragazza vestita in modo così provocante. E non erano niente di più di una canottiera e un paio di pantaloncini.

 
Che sfacciato. Perché mai avrei dovuto essere io la causa della sua mancata concentrazione? Stupido Valley! Spostai lo sguardo fuori dalla finestra ma quegli occhi smeraldo continuavano a fissarmi.
“Che c’è?” chiesi notando l’espressione pensierosa. Non gli si addiceva per niente. “Ti sei illuminato su come risolvere quell’equazione?”
“Non capisco perché hai un carattere così di merda e un fisico così da favola”
“Cos’è? Un problema esistenziale?”  mi sentii leggermente in imbarazzo forse perché, sotto sotto,lo presi come un complimento. Non per il corpo da favola intendo, ma per il carattere di merda. Finalmente qualcuno mi metteva davanti agli occhi l’ amara realtà, quel lato che volevo nascondere e che soltanto davanti a Valley riemergeva con facilità. Non che questo lo rendesse migliore ai miei occhi, infondo era pur sempre un insulto per una persona normale.
Il suo sguardo tornò sul foglio dove avevo scritto l’equazione matematica.
Accavallai le gambe dall’altra parte e, per sbaglio, sfiorai leggermente quelle di Aaron.
Lui alzò il volto verso di me. Corrugò la fronte e disse “Vedi. Non fai che distrarmi. Che bisogno c’era di urtarmi?”
Tutte le scuse erano buone per non studiare. Tutte le colpe erano mie se lui non studiava “Oddio! Ora non posso manco respirare? Urtarti poi, ti ho a malapena sfiorato i jeans”


 
Non capivo se ogni suo movimento fosse fatto apposta, non capivo se ci trovasse gusto a provocarmi esteticamente, non capivo niente di lei, e tutto ciò mi rodeva alquanto. Perché era così maledettamente odiosa?
Incominciai a risolvere l’ennesimo problema matematico che, la mia insegnate, mi stava obbligando a fare. Dovevo concentrarmi su altro, non potevo continuare a essere ossessionato dalla sua presenza.
La guardavo di tanto in tanto con la coda dell’occhio. Osservava seria il cielo fuori dalla finestra, il sole stava incominciando a nascondersi dietro i grattacieli del centro città. Non trasmetteva alcuna emozione o pensiero, era concentrata su qualcosa di suo e irraggiungibile per me. La Wilson nascondeva sicuramente qualcosa di irraggiungibile per tutti.
Infine le porsi il foglio con lo svolgimento dell’equazione e mi alzai “Io vado”
“Non vuoi sapere se hai fatto giusto o meno?”
“Se sto ancora un altro po’ in questa stanza impazzisco. Domani vestiti in maniera più adeguata all’ambiente scolastico” avevo parlato io che andavo in giro tutto l’anno con i jeans bassi e le camicie slacciate, però un conto ero io e un altro era lei: così maledettamente ben fornita esteticamente.

 
Come potevo mantenere, d’ora in poi, un self control di fronte a Sue? Unica mia vera amica, unica mia fonte di sfogo. Eravamo al bar del centro quella mattina, a fare colazione, mentre sfogliavamo una rivista di moda. Lei, alla ricerca di costumi da bagno io, svogliatamente, buttavo l’occhio ogni tanto a qualche vetrina. Il mio sguardo era diviso tra il Magazine e il mio cellulare. Aspettavo una chiamata da tempo ormai, una chiamata dall’istituto di riabilitazione di mia madre. Non la sentivo da molto. Lei non mi chiamava mai e io non me la sentivo di disturbarla. Però mi preoccupavo molto per lei nonostante fosse per una persona che, infondo, non era mai stata parte della mia vita.
“Ti vedo turbata Ginny. Tutto bene?” mi chiese Sue mente addentava la seconda brioche al cioccolato. Fortuna che si lamentava raramente della linea.
Sospirai “Solito. Niente di nuovo. Famiglia, sport, Valley. Sono solo un po’ stanca” non volevo farla preoccupare. Nemmeno la mia migliore amica conosceva il mio stato famigliare che ormai, da molti anni, aveva interrotto la mia quotidianità.
“Fai troppe cose Ginevra. Dovresti avere un po’ di tempo anche per divertirti d’estate. Vieni, con me e le altre, al mare un giorno. Non hai ancora toccato acqua o messo costume quest’anno”
Sue aveva sempre ragione. Ero una persona che si stressava troppo però, non potevo permettermi svaghi. Non potevo permettermi niente finché non avessi raggiunto i miei obbiettivi.
“Ci penserò. Magari appena Valley farà qualche miglioramento in matematica mi unirò a voi”


 
Appoggiai i pesi al loro posto e afferrai l’asciugamano. Ero completamente sudato ma mi piaceva fare palestra ogni tanto, poi il nostro capo band, Steven Power, era un ereditiere con tanto di palestra privata a casa. Anche se odiavo lo sport dovevo comunque rafforzare il fisico. In quel caso il successo con le ragazze era secondario. Per suonare una batteria dovevo avere braccia e fiato: non era sempre semplice come avevo pensato la vita di un musicista.
“Sei ancora qua?” la voce di Matt mi arrivò all’orecchio obbligandomi a voltarmi “Non dirmi che hai passato la nottata in palestra. Ok che non fai niente tutto il giorno e che oggi è domenica, ma questa sera dobbiamo suonare.”
“Meglio ancora. Avrò il fisico più rafforzato” dissi sorridendo al mio migliore amico. Matt aveva una personalità troppo tranquilla per le mie avventure notturne, e poi era felicemente legato alla sua bella pattinatrice per andare a donne, infondo era da sempre un ragazzo serio con la testa sulle spalle. Lo invidiavo.
Avrei voluto avere la sua stessa sicurezza nelle mie azioni. Lui aveva degli obbiettivi, io desideravo soltanto divertirmi.
“Ho visto che hai degli appunti di matematica tra gli spartiti. La Wilson ti sta facendo lavorare sodo, eh?”
“La Wilson non fa altro che distrarmi. Non riesco a studiare decentemente con una che si mette cannoniere e shorts a scuola” Matt conosceva, ovviamente il mio rapporto con il sesso opposto, conosceva ogni dettaglio del mio passato, e conosceva il sentimento che nutrivo ancora per Marina e l’odio per le ragazze sportive.
Il mio amico dai capelli biondi sorrise con ironia “Ammettilo che ti piace .”
Matt aveva sempre ragione, maledettamente ragione. Avevo veramente un debole per il corpo di Ginevra!

 
Avevo preso, o quasi, le difese estetiche da quel maniaco di Valley. Una t-shirt lunga e larga, e un paio di shorts sportivi che si nascondevano sotto la maglia. Ero in tenuta sportiva. Entrambi stavamo sulle gradinate in cemento e di fronte a noi il campo, da calcio più quello di atletica, deserto.
Gli passai dei libri di teoria Elementare di fisica, altra materia da recuperare. Mi misi l’I-Pod con il volume al minimo, in modo da poter tenere d’occhio Aaron e fare i miei esercizi a ritmo di musica.


 
Cosa pensava, che mettendosi una t-shirt di qualche taglia in più avrebbe ridotto la mia immaginazione?! Se non altro l’aveva allargata. Vederla fare la ginnastica di riscaldamento con addosso una maglia che, non dava visione dei pantaloncini, sviluppava le mie più piccanti fantasie mentali.
Presi gli appunti e mi appoggiai contro il muro in cemento. Quella zona delle gradinate era ombreggiata, perciò il caldo afoso della piena estate si sentiva poco.
Riuscii a concentrarmi per un po’, riuscii a capire qualche strana legge gravitazionale e ad apprendere qualche formula. Stranamente gli schemi che mi faceva Ginevra erano molto chiari.

 
Non lo dovevo guardare eppure, ogni tanto provavo il desiderio di incrociare i suoi occhi verdi che, il più delle volte, si nascondevano sotto gli scompigliati capelli neri bagnati. La musica e il ritmo scorrevano nelle mie vene e, pian piano, mi dimenticai di tutto ciò che mi circondava finché, il suono del mio cellulare non mi riportò alla realtà.
Avevo portato la borsa con i miei effetti: non mi fidavo di lasciarla in spogliatoio. Il cellulare continuava a squillare. Lo sentii e mi precipitai a rispondere.


 
Tutto d’un tratto vidi la Wilson rovesciare il contenuto della sua borsa di pelle bianca. Il suo cellulare stava insistentemente squillando. La ragazza si tolse le cuffie dell’I-Pod: era identico al mio. Rispose al cellulare come se sapesse già chi la stava cercando.
La sua espressione mutò. Allarmata, pietrificata, impassibile. Sbiancò. Per la prima volta notai la fragilità di una ragazza che credevo odiosamente forte.

 
“Sua madre … ricaduta … spaccio … coma …” le parole più importanti pian piano mi fecero comprendere la realtà di quella telefonata improvvisa  “Wilson … irraggiungibile … subito!”
Risposi a malapena. La voce mi tremava mentre parlavo al telefono. Pian piano le gambe mi cedettero facendomi accasciare al suolo. Il mittente riattaccò e finalmente compresi la gravità della situazione. Mia mamma aveva abusato di nuovo, non si sa come, di sostanze stupefacenti; era in coma ora e, mio padre, come sempre, era troppo occupato per badare a certi problemi.
Rimisi i miei effetti dentro la borsa bianca con velocità. Mi alzai in piedi. “Devo andare”


 
Quella non era Ginevra Wilson. Quella voce così morta, così ansiosa, non poteva essere la sua. Qualcosa di brutto doveva esserle capitato fuori dall’ambiente scolastico, qualcosa che le stava mettendo paura.
“Cosa succede?” chiesi correndole dietro, giù per i gradoni.
Lei non rispose perciò la bloccai afferrandole una spalla. I suoi occhi di fuoco erano spenti, congelati “Lasciami andare”
“Non in queste condizioni. Vuoi una mano? Cosa succede? Sei … sei sconvolta”

 
Mi liberai dalla presa di Valley immediatamente. Non si doveva permettere di interessarsi a me, qualunque fosse il mio stato. Lui era l’ultimo che si doveva preoccupare per me. “Tu non sai niente. Non rompermi le scatole Valley, non mi bastavano i miei problemi quotidiani, ora ti ci metti anche tu, eh?” corsi via. Il più lontano da lui e verso la fermata dell’autobus più vicina. Ci avrei messo un’ora per raggiungere mia madre nella clinica fuori città.

 
Lei nascondeva qualcosa, qualcosa che la turbava, qualcosa che non sapevo e che non mi era permesso sapere. Forse il carattere odioso della Wilson non era altro che il risultato di tanta sofferenza. Rimasi fermo e impotente. I suoi occhi e il suo volto, da quel giorno, rimasero perennemente impressi nella mia memoria proprio come la sua frase.
Io stesso provai curiosità verso di lei, verso una persona così diversa da me. Niente di lei mi era comprensibile, niente di lei era normale. Forse tutto questo mistero che l’avvolgeva incominciava a renderla sempre più intrigante.
 
Rientrai in quell’appartamento vuoto di centro città, al tramonto. Avevo trascorso il peggiore dei pomeriggi in compagnia di Jeanne McGrey, attuale signora Wilson, non che mia madre. Vederla in quello stato mi faceva male all’anima. Forse soffrivo più io che lei.
Sparpagliai le ciabatte nel corridoio di palchetti lucidi, sicuramente la signora delle pulizie era stata lì. Aprii le tende illuminando il salotto di quella calda luce arancione che filtrava dalle vetrate. Da queste, potevo ammirare la città dal decimo piano di uno dei più imponenti grattacieli del centro. Quello spettacolo era la mia quotidianità, la mia solitudine: ero la prova vivente che i soldi non facevano la felicità.
Mi distesi sul divano di pelle lanciando la borsa sul tavolino di cristallo. Con svogliatezza presi fuori l’I-Pod, dovevo dimenticare quell’orrenda giornata in qualche modo, dovevo elaborare una coreografia infondo. Meglio immergersi nel dovere infondo, Valley, che aiuto avrebbe mai potuto darmi?
Mi misi le cuffiette e premetti il tasto Play. Metal? Rock? Eh? Mi alzai di scatto. Da quando avevo canzoni del genere?
Osservai meglio l’apparecchio tecnologico nero. Notai dei graffi e che le cuffiette non erano della Sony. Bene! Mi ero accorta che io e Aaron avevamo lo stesso I-Pod, ma non avevo fatto caso, nella fretta, a quale dei due avessi riposto nella borsa dopo averla svuotata sulle gradinate in quel momento di panico. Addio esercitazioni!
Presa dall’ira, incominciai a premere tasti a casaccio. Tecno, House, Rock, Metal! Che schifo. Canzoni inutili!
Odiavo tutto di Aaron, odiavo quella musica di cui, il mio orecchio era capace di percepire il ritmo della batteria. Aaron suonava la batteria, Aaron era l’ennesimo problema che la vita mi aveva dato.
Mentre sfogliavo gli artisti notai i “Black Out” il famoso gruppo di cui Valley faceva parte. Orrendi proprio come immaginavo. Puramente rock e dalla voce femminile decisa e potente.
Passavo da una canzone all’altra finché non arrivai alla traccia nove che mi fece aprire gli occhi di colpo mentre, per la prima volta, una chitarra elettrica mi incantò. Un suono lieve, una voce dolce, così diversa, così profonda. Il basso si sentiva appena proprio come la batteria. La chitarra e la voce continuavano a dominare la scena. Poi, brividi incominciarono a percorrermi la schiena quando, una voce maschile affiancò quella femminile al secondo ritornello.
Ferma ed immobile, distesa sul divano, sentii gli occhi inumidirsi.
Nessuna canzone aveva mai avuto un effetto del genere su di me. Alzai la mano con cui reggevo l’apparecchio elettronico e, con una strana agitazione, lessi il titolo della canzone “Pincess On Ice”
Il titolo stesso mi sorprese. Rimisi da capo la canzone più volte. Mi rilassava. Riuscì perfino a farmi addormentare nella mia più odiata solitudine su quel divano di pelle. L’ultima cosa che sentii  fu una lacrima rigarmi il volto e poi il sonno piombare nella mia testa.

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Capitolo 3
*** Perchè non andremo ma d'accordo ***


Due parole...

Ecco finalmente il terzo capitolo! Lo ammetto, sono in ritardo e mi scuso con tutti quelli che hanno incominciato a seguire questa storiella. Le ultime settimane di scuola mi hanno tenuta fin troppo occupata, tanto da non riuscire a correggere e rivedere i vecchi capitoli. Però eccomi qui con un nuovo capitolo. Ringrazio Alyce_Maya per i commenti e per le correzzioni in classe XP.
Non espettatevi sdolcinerie da nessuno dei due protagonisti: Aaron è uno che essenzialmente pensa al fattore estetico di lei e Ginevra non fa altro che criticarlo e ripetersi dentro di se quanto odia i soggetti come lui.
Buona lettura <3

*** 


3.Perché non andremo mai d’accordo… 
 
Tenevo l’ombrello ben stretto nella mano destra. Quell’immancabile ombrello giallo che mi accompagnava sempre durante le giornate di pioggia. Era luglio e il diluvio universale aveva deciso di perseguitarmi quella settimana. Odiavo allenarmi quando pioveva, odiavo la pioggia.
Entrai dal cancello della scuola. Indossavo un paio di short, una felpa e le infradito. Non avevo le cose di allenamento quel giorno, anche perché, con un nubifragio simile, la voglia di esercitarmi era pari a zero. Molte volte il mio umore variava a seconda del tempo anche se, ultimamente, cambiava in presenza di Valley.
Non gli avevo ancora restituito l’I-Pod, perché, tra concerti e interviste, era molto occupato. Faceva la bella vita invece di studiare. Io dovevo corrergli dietro con i libri, io dovevo badare a mia madre ricoverata d’urgenza all’ospedale, io dovevo allenarmi. Perché la vita di certe persone è così dannatamente tranquilla mentre la mia no? Ora anche il meteo mi remava contro.


 
La vidi arrivare sotto quell’ombrello giallo, nel suo abbigliamento inestinguibilmente succinto. A parte la felpa, mi chiedevo che bisogno ci fosse di’indossare gli short e le infradito durante una giornata di pioggia.
L’aspettavo all’entrata della scuola. Ovviamente non avevo l’ombrello perché Sven, con la sua lussuosa macchina, era riuscito a darmi un passaggio. Perché, pur essendo un batterista che aveva appena passato una notte a far baldoria, ora mi trovavo a scuola? La risposta la conoscevo anche troppo bene anzi, si stava avvicinando sempre di più.
Con passo veloce, Ginevra, mi arrivò dinanzi. Alzò lo sguardo scocciato, quello che riservava solo a me e disse “Andiamo in palestra”               
“Non hai il borsone da allenamento” difatti solo una stracolla nera occupava la sua spalla. Perché dovevamo spostarci dall’altra parte del mondo per qualche ora di fisica? “E poi qua siamo già all’asciutto”
Ci bastava entrare a scuola per studiare in fin dei conti.
“Io non ho l’ombrello” dissi cercando una scusa per non muovermi da lì. Sinceramente non volevo nemmeno sporcarmi le scarpe.
“Non voglio farmi vedere a scuola con te. Oggi poi molti club hanno le riunioni e solo Gens sa che ti do ripetizioni. Sarebbe umiliante.” La sua scusa era plausibile. Non volevo nemmeno io esser visto con la terribile Wilson.
Mi pose il suo ombrello giallo e si mise il cappuccio “Andiamo in palestra”
“Possiamo stare in due sotto lo stesso ombrello” era strana, ma strana forte. Perché preferiva bagnarsi piuttosto che fare una romantica passeggiata sotto la pioggia con me?
Ma che stavo pensando?! Stare sotto lo stesso ombrello di Ginevra sarebbe stato tutt’altro che romantico. Ero un gentleman, o quasi, ma non con lei. Perciò, alla fine, non rifiutai di lasciarla sotto la piaggia.

 
Corsi il più velocemente possibile verso la palestra mentre Valley se la prendeva comoda. Mi bagnai leggermente tralasciando i piedi, ora imbrattati di fango. Il perché delle infradito? Arrivata a casa si sarebbero asciugate più in fretta di un semplice paio di scarpe da ginnastica.
Mi accomodai in uno spogliatoio deserto dove c’era anche un tavolo. Approfittai della lenta camminata del mio studente per darmi una sciacquata ai piedi e alle gambe sporche.
Aaron arrivò e, con aria scocciata, si sedette sulla panca di fianco al tavolo. Mi osservò. Anche se non capivo cosa avesse tanto da guardare. Mi stavo solo asciugando le gambe con uno dei tanti asciugamani puliti posti nello spogliatoio, dopo tutto.

 

Se non fosse stata Ginevra Wilson, le sarei già saltato addosso. I miei pensieri erano poco puri come sempre. Era bella, cioè esteticamente parlando meritava parecchio. Tuttavia, visto che si trattava della ragazza con il carattere più odioso e falso del mondo, perdeva parecchi punti nella classifica.
“Fisica giusto? Sicura di non volere tu una vera lezione di fisica?” fulminato all’istante da quel suo sguardo di fuoco.
Arrivò a passo svelto nella mia direzione e di sedette di fronte a me. Prese fuori i libri e li sbatté sul tavolo.
Poi mi pose un oggetto nero che riconobbi subito: il mio I-Pod. “Questo è tuo, tu hai il mio.”
Avevo ascoltato parecchie volte quelle poche canzoni che possedeva. Dalla musica classica alla pop, uno schifo insomma, perciò non avevo alcuna intenzione di ricattarla per farglielo riavere, anche perché rivolevo indietro il mio, a qualunque costo. Per me, il mio lettore musicale era essenziale per vivere, non per niente mi nutrivo di musica, della mia musica.

 
Aprii i libri di fisica e cominciai a leggere ad alta voce l’argomento che trattava i passaggi di stato dell’acqua. Un argomento da elementari ma che sicuramente Valley, con la sua media del tre, non aveva ancora capito.
Parlavo sperando di essere ascoltata. Sembrava quasi attento quel giorno e qualcosa riusciva a capire. Non per niente era un argomento semplice:  l’acqua che passava dallo stato liquido, al solido e al gassoso.
“Perché l’altra volta sei scappata via?” la sua voce interruppe la mia spiegazione.
La domanda non riguardava l’argomento che stavamo affrontando, riguardava me. “Zitto. Non sono affari tuoi”
“Avevi un’espressione terribile”
“Sono qui per farti studiare”
Ricordare il giorno del ricovero di mia madre era doloroso. Ed era l’ultimo argomento di cui volevo parlare, soprattutto con Valley.
“Non pensavo che fossi capace di fare certe espressioni, di sbiancare tutto d’un tratto” parlava, continuando a far riemergere le mie ferite senza rendersene conto.
La pioggia picchiettava sui vetri. La voce di Aaron si fece profonda “Ogni persona normale si sarebbe preoccupata vedendoti in quelle condizioni. Forse anche tu sei fragile.”
Alzai gli occhi dal libro. Perché continuava a girare il coltello nella piaga? Ma cosa poteva saperne lui di me. Fragile? No, non lo ero, non potevo dimostrarmi fragile agli occhi di nessuno. Ero stata solo molto scossa dall’avvenimento.
“Dio! Quanto ti odio Valley.” Dissi alzando gli occhi verso l’alto e stringendo sempre di più l’evidenziatore tra le mani tanto da far sbiancare le nocche.


 
Si stava arrabbiando. Io la stavo facendo arrabbiare continuando a esporle le mie curiosità sul suo conto. Stava perdendo la pazienza e sotto sotto, era divertente.
“Sai: tu effettui molti cambiamenti di stato durante la giornata, soprattutto il passaggio da liquido a gas, è stato strano quel giorno vederti passare da liquido a solido” dalla mia bocca sarebbero uscire solo cazzate, perciò mi limitai a mescolare le stupidaggini con l’argomento di studio.
“E con questa frase arriva un due. Possiamo continuare analizzando il calore adesso e non me?”
La battuta mi stava arrivando, ma per fare effetto mi sporsi verso di lei con il busto, avvicinando i nostri volti. Era dannatamente bella e i suoi occhi possedevano varie sfumature di nocciola chiaro. “Si, meglio il calore. Vuoi sentire il mio calore corporeo? Sono un tipo molto caldo”

 
E dopo quella frase gli scaraventai il libro di fisica in testa. Arretrò e continuammo quell’insulsa lezione in maniera più seria. Niente tentativi di seduzione, niente chiacchiere sulla mia vita. Solo fisica.
Dovevo ammettere, però, che gli occhi verdi di Aaron mi avevano fatto un brutto effetto da vicino. Mi avevano incantato. Un verde insolito, un verde mai visto. Ma forse perché non guardavo mai veramente negli occhi le persone.
Il suo sguardo mi rimase impresso per molto più tempo del previsto, tanto che dovetti farmi distrarre dagli assurdi discorsi della mia amica Sue per il resto della settimana.
“Verresti al mare domani?” mi aveva chiesto un giorno con tono supplichevole. Ora guardandola meglio notai che aveva gli occhi azzurri. Azzurri. Verdi. No! Azzurri!
“Ma non lo so. Dato che non piove più, dovrei riprendere i miei allenamenti”
“Ammettilo che ci stai prendendo gusto a dare ripetizioni a Valley”
Per poco il tè al limone che stavo sorseggiando non mi andò di traverso. Fulminai Sue immediatamente ma lei continuò a parlare “Anch’ io sarei felice di dare ripetizioni al famoso batterista dei Black Out”
In quel momento, sentendo il nome della band di Valley mi ritornò in mente una canzone. Una canzone che mi aveva commosso. Arrossii al solo pensiero di aver apprezzato una canzone di un gruppo rock e Sue se ne accorse immediatamente. Lo sguardo imbarazzato non mi si addiceva proprio.


 
Mentre sfogliavo il mio caro I-Pod mi ricordai di aver messo il conteggio per le canzoni. Ogni volta che ascoltavo una canzone il mio lettore musicale l’ho annotava. Era un’applicazione nuova e divertente che avevo scaricato da poco.
Questo sistema smascherò Ginevra. Il numero delle volte che aveva ascoltato la canzone “Princess on Ice” venne alla luce, ed era veramente alto. Era una canzone da rock melodico, molto romantica e molto dolce, composta dal mio migliore amico, Matt. Una canzone che faceva commuovere le ragazze e che non voleva lasciare le classifiche. Una canzone diversa che perfino l’orecchio della Wilson lo aveva capito.
“Cosa sorridi Aaron?” Marina mi spuntò alle spalle e notò il mio ghigno malizioso mentre fissavo l’I-Pod.
La cantante dei Black Out era bella da sempre e ogni volta che incrociavo le sue iridi blu mi perdevo in un vuoto incolmabile, le parole mi morivano in gola, il fiato mi veniva mozzato. Da sempre, lei faceva questo effetto su di me.
“Abbiamo una nuova fan, o almeno una fan delle canzoni di Matt” dissi facendo posto alla ragazza su quel divano di pelle bianca.
Marina si sedette accanto me. Il suo abbigliamento mozzafiato era tremendamente sexy. Di lei mi piaceva tutto, dal corpo, al carattere, al sorriso. Era lei che volevo da anni, era lei che mi ero lasciato scappare anni fa, e ora soffrivo come un cane mentre lei era felicemente impegnata con Sven. E contro il capo io non avevo alcun potere.
“Le canzoni di Matt sono sempre le migliori. Ne sta preparando alcune stupende, non vedo l’ora di cantarle”
“Penso che la tua voce le renda ancora più belle però”
“Grazie!”
A lei avrei fatto tutti i complimenti del mondo, era l’unica cosa che le potevo ancora darle. Parole.

 
Quel giorno il sole era alto. Faceva caldo. Sentivo l’estate sulla pelle anche se non avevo ancora toccato il mare. Non è che non potessi recarmi con Sue alla spiaggia più vicina, semplicemente non volevo. Tutto poteva succedere se mi assentavo un attimo dalla mia quotidianità, tutto poteva mutare se perdevo il controllo degli eventi con distrazioni.
Notai Valley. Con aria schietta se ne stava seduto sulle prime gradinate del campo da calcio. Arrivai lentamente con addosso i miei short, le infradito e una canottiera. L’ultima volta quel batterista pervertito mi aveva rimproverata riguardo il mio abbigliamento, ma sinceramente faceva troppo caldo per una tuta da ginnastica.
Le cose di allenamento le avevo lasciate a casa, la mia tracolla pesava già un bel po’ per colpa dei libri e dei quaderni, per quel somaro che stava di fronte a me. E poi le mie amiche erano tutte al mare.
“Ciao.” Dissi in un tono scocciato e gelido. Sbadigliai poi prendendo fuori i libri di fisica. Lui non mi degnò di uno sguardo. Continuava a guardare vero l’alto. Il cielo blu che si estendeva sopra di noi. In quel momento sicuramente la sua testa era fra le nuvole.
“E’ proprio blu il cielo.” Mormorò sorridendo. “Troppo blu” il suo sorriso si afflosciò in un istante.
Sospirai “Sono qua per spiegarti la termodinamica non per osservare il cielo” dissi seccata dall’atteggiamento menefreghista nei miei confronti.
 


Odiavo il blu. Odiavo il cielo. Gli occhi di Marina erano di quel colore. Tutte le sue tonalità mi ricordavano quell’unica sfumatura in cui mi era facile perdermi.
“Mi chiedo perché io non riesca a comporre canzoni …” dissi d’un tratto preso da una vena malinconica. Nella nostra band Sven e Matt componevano, Marina le adattava o modificava e io, beh suonavo la batteria.
“Come mai questo pensiero profondo?” mi chiese Ginevra con il suo tono basso e svogliato nel star a sentire le mie lamentele.
Le dissi la prima cosa che mi passo per la testa. L’unica che mi aveva tormentato negli ultimi giorni “Sembra che a una buona parte del genere femminile, piacciano i ragazzi che scrivono canzoni.” Poi la fissai e le dissi, con tono di rimprovero “ Te compresa!”
Mi guardò perplessa sbattendo più volte le palpebre. Non era un modo per abbordarla. Lei non mi interessava, chiaro?
“Ah, lascia stare! La vita di un musicista fa schifo ogni tanto” volevo farle svuotare il sacco su “Princess on Ice” ma, me ne accorsi solo più tardi del motivetto che stava canticchiando in sottofondo mentre mi preparava gli schemi per fisica. Era proprio quella maledetta canzone.
 

Parlando di musica mi tornò in mente una melodia particolare. Le parole le ricordavo appena, però la sinfonia era rimasta indelebile nella mia mente  per un po’ di giorni.
Silenzio. Poi Aaron mormorò “Con un movimento mi hai incantato/ Con un passo mi hai ispirato / E ora con la tua danza compongo / Ieri, oggi, domani / Il vestito regale lo porterai in eterno / La tua lama ha tracciato un segno indelebile sul mio cuore / Ooooh, mia principessa sul ghiaccio …”
Nello stesso istante in cui smisi di canticchiare anche lui si zitti. Lo guardai. Coordinati? Sospirai alzando gli occhi al cielo “Ti prego, amo la termodinamica, facciamo questo argomento Valley”
Mi sentivo terribilmente in imbarazzo in quel memento e incominciai a parlare di fisica ad alta voce, sperando che Valley memorizzasse qualche parola. Io intanto avevo memorizzato qualcosa di proibito nella mia testa: il ritmo della batteria di Valley che scandiva quella maledetta canzone.

 

Era strano non avere un’ardente discussione con Ginevra, da trovare quasi piacevole la sua compagnia. Il suo volto, sempre serio, non lasciava trasparire alcuna emozione, era come se qualcosa la turbasse nel profondo, e non erano sicuramente i miei studi. Più volte mi ritrovai ad osservarla di nascosto con la coda dell’occhio, più volte cercai di immaginare i suoi pensieri anche se, il mio sguardo, finiva sempre sulle sue gambe per poi risalire fino al bordo dei suoi short.
Ritrassi i miei occhi verdi da lei. Continuavo a ripetere parola dopo parole le varie spiegazioni di fisica capendone perfino il significato.
 

Era strana quella tranquillità. Lui non faceva battutine e io continuavo le spiegazioni mantenendo lo sguardo sul libro. Mille pensieri turbavano la mia mente. Preoccupazioni che mi assillavano da giorni, mesi, anni.
“Ma allora studiate veramente!” esclamò una voce famigliare che mi fece interrompere la spiegazione sul secondo principio della termodinamica. Alzai lo sguardo irritato e notai Sue, con il borsone da allenamento che si gustava un bel gelato alla fragola.
“Che ci fai qua?” dissi con tono sorpreso ma scocciato. Era seccante farmi vedere in presenza di Valley.
“E’ così che ti rivolgi ad una tua amica? Grazie! Comunque non c’è allenamento?”
“Già. Bell’amica!” fulminai Aaron quando intervenne di proposito con quell’ultima frase. giusto per stuzzicarmi.
In quel momento notai lo sguardo cristallino di Sue scintillare mentre osservava il famoso batterista da quella distanza ravvicinata.
La ragazza cicciottella fisso prima Valley e poi me. Rabbrividii immaginando cosa stava per dirmi “Oddio! È proprio Aaron dei Black Out”

 

Non lasciai rispondere Miss Scontrosità. Mi alzai in piedi e tesi la mano a quella caramella bionda bionda che mi stava di fronte “Si. Sono proprio io. Aaron James Valley al suo servizio …”
“… Sue Mason” disse lei arrossendo mentre le facevo il bacia mano da vero gentleman. Io infondo ero un gentiluomo anche se non lo facevo con Ginevra. In quel momento, quest’ultima mi guardava con sguardo schifato.
“Ginny, posso chiedergli un autografo?” e c’era bisogno di chiederlo alla Wilson? Mah.
“Fai quello che vuoi” evviva l’amicizia. Dal modo in cui Ginevra lo disse, sicuramente la povera Sue conosceva il vero carattere dell’amica. Rude, sboccato e sfacciato.
Subito dopo mi ritrovai a fare la mia firma su una rivista di musica dove c’era un mio bel primo piano. Ero venuto veramente bene in quella foto, ora capivo perché quella Sue fosse pazza di me. La biondina mi sorrise e io ricambia. Sapevo ormai come comportarmi con i fan.
 

Una scena pietosa era appena avvenuta davanti ai miei occhi. Sue sarebbe stata tutto il tempo ad adorare il suo Valley, ed era sicuramente venuta apposta. Altro che allenamento, quello era sfruttamento d’amicia.
“Oggi comunque non c’è allenamento” le dissi appoggiandomi con la schiena al duro cemento delle gradinate.
“Ma come. Una delle rare volte che vengo ad aiutarti tu non porti neanche le cose. Uff”
“Avevate detto che andavate al mare, così …”
Mi dava fastidio che Aaron ascoltasse le nostre conversazioni. Ma finché se ne stava in silenzio, con un sorriso ebete stampato in faccia, era buona cosa.
“Ma noi volevamo andare al mare anche con te, Ginny.” Il suo tono si fece lagnoso. Odiavo quando si lamentava di me e assumeva un atteggiamento bambinesco.
“Io non …” tentai di ribadire il perché non volevo andare al mare ma, la voce di Aaron si sovrappose alla mia. Mi stava guardando da un po’ con un punto interrogativo stampato in faccia e finalmente si era deciso a intervenire.
“Che male c’è a prendersi un giorno di riposo? Così lo prendo anch’io” in altre parole tutto giocava a suo favore.
Sue, come avevo previsto, aveva interpretato quelle parole in tutt’altro modo. “Cioè? Verresti anche tu al mare con noi?”

 

Facevo proprio uno strano effetto alle ragazze, alle fan. Dicevo qualcosa e loro la prendevano per tutt’altro. Non che non volessi andare al mare e vedere delle belle ragazze in bikini, ma Sven me lo avrebbe proibito all’istante.
Come ribadivo sempre, essere una star è assai dura. Se mi avessero riconosciuto in spiaggia, la fine del mondo sarebbe avvenuta all’istante, ritrovandomi poi, su una rivista di gossip di fianco della Wilson.
La Wilson! Mi feci pensieroso al solo immaginarla in costume da bagno.
Scossi la testa “Non penso che sia una buona idea”
“Ecco. Bravo. Stai a casa a studiare. Io farò lo stesso. Non ho nemmeno il costume e odio il sale nei capelli”  a giudicare dall’insistenza, pensai che odiasse proprio il mare. Da quando l’avevo conosciuta non mi era mai capitato di vederla sorridere, secondo me aveva bisogno di una vacanza, era perennemente sotto stress.
 

“Dai Ginny? Ti prego. Ti prego. Ti prego. Solo un giorno? Il costume si compra, il pullman non costa tanto poi” Sue cercava di corrompermi in tutti i modi possibili per qualcosa di cui non me ne importava niente. I suoi occhi da cerbiatta erano maledettamente dolci e languidi, come si poteva dirle di no? Io potevo.
“Si, vai Wilson. Fuori dai piedi.” Disprezzavo il lato ironico di Valley ma cercai di non farci caso. Anch’io lo volevo fuori dai piedi, ma allo stesso tempo desideravo che studiasse perché se lui non si fosse dato da fare per superare gli esami di riparazione, io non sarei potuta diventare capitano delle cheerleader.
“Lo sai, se continui così Ginny, potrebbe sembrare che vuoi a tutti i costi stare in compagnia di Valley. Ti capisco, ma una volta ogni tanto potresti dedicare una giornata anche alle tue amiche”


 
Ginevra nascose il volto dietro il libro di fisica. Si sentiva in imbarazzo dopo quell’affermazione. Per la prima volta la trovai adorabile. Bella. Zitta. Imbarazzata. Queste erano le qualità che stranamente le si addicevano e che, a parte la prima, non possedeva. Alla fine cedette,  ed io esultai alla prospettiva di averla fuori dai piedi per una giornata intera-
Mi dispiaceva? Ma neanche un po’. Ok, non avrei avuto il mio panorama giornaliero ma avrei potuto accontentarmi di qualunque ragazza. Si, la Wilson fuori dai piedi!

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Capitolo 4
*** Perchè mi rovini le giornate ***


Due parole...

Eccoci al quarto capitolo. L'estate è inoltrata e il caldo rischia di tenermi lontano dal PC e più al mare: ma ci tengo ad aggiornare (man mano che mi revisiono capitolo per capitolo con l'aiuto di qualche amica) questa storia che incomincia a prendere anche voi lettori.
Come noi, anche Aaron e Ginny sono in piena estate. Il capitolo che affronterete mi piace in maniera particolare perchè l'ho costruito basandomi su esperienze personali soprattutto nel finale.
Ringrazio chi segue e commenta questa divertente commedia e sono felice che Meteora89 sia riuscita a ritrovare questo racconto che avevo già pubblicato in precedenza! E un abbraccio come al solito a Alyce_Maya!
Buona lettura a tutti <3

*** 



4.Perché mi rovini le giornate…
 

Ero seduta nell’ultima fila in quel pullman pieno di gente. Accanto a me c’erano Sue Mason e Eleonor Lake, due mie compagne di squadra. Era sabato ed eravamo dirette al mare.
Alla fine avevo comprato un costume. Bianco. Era quello che mi stava meglio secondo il loro parere. Un bikini semplice e da pochi soldi. Indossavo i miei soliti short, una canottiera e il cappello da cow boy. Un capello immancabile per me, per le mie gite, per le mie vacanze. Nella tracolla avevo il minimo indispensabile per tutta la giornata, notte compresa: mi avevano convinto a dormire sulla spiaggia.
Sue, nel suo vestito a fiori, era tutta eccitata all’idea di portarmi al mare, anche se, dopo avermi vista in costume aveva detto “Io non ho intenzione di togliermi il vestito se tu ti metti in costume”
Eleonor invece era una ragazza alta, magra, dai capelli corti neri la pelle olivastra, lei e non appena mi aveva vista in bikini si era limitata a dire “Mi sa che metterò il reggiseno imbottito”
Belle amiche! Prima mi supplicano di andare al mare e poi si lamentano perché le faccio sfigurare.
La spiaggia era a tre quarti d’ora dalla città. Ci ero stata spesso da piccola e rare volte dopo esser entrata alla scuola superiore. Avevo altro da fare infondo. Quello era il mio ritorno dopo anni. La giornata era maledettamente splendida, il clima allegro, la sabbia bollente e l’aria salmastra riuscì a strapparmi un invisibile sorriso pieno di amari ricordi.


 
Me ne stavo al bar su quella spiaggia affollata ad osservare le belle ragazze che passavano, che si fermavano, che ci chiedevano un autografo. Dio che nervi, e non me ne potevo fare neanche una!
I Black Out quel sabato sera, avevano un concerto sulla spiaggia. E quindi eccomi qua, io e il mio gruppo, a passare noiose ore al  chiosco o quel cavolo che era, senza poterci divertire.
Non facevo che vantarmi del mio successo ma, tuttavia sotto certi aspetti, era tremendamente faticoso mandare avanti quella vita.
Sbadigliai abbassando gli occhiali da sole e appoggiando la testa sul tavolo. Misi il broncio e sbuffai. Matt notò il mio stato scazzato “Pensavi che avremmo avuto vita facile?”
“Beh, si! Qui invece è una noia. Sono appena le undici di mattina e incominciamo a suonare appena alle otto di sera. Morirò!”
In quel momento vidi arrivare il nostro capo band, Sven, che sicuramente aveva sentito le mie lamentele. Mi rivolse un’occhiata seria “Non. Fare. Casino.”
Poteva scandire quanto voleva le parole, ma sicuramente non avrei messo in pericolo la mia immagine. Non gli risposi per le rime. Con lui non potevo. Chi la sentiva poi Marina se avessimo incominciato a litigare? Io e Sven non eravamo mai andati molto d’accordo, o forse, ero io che semplicemente non volevo andare d’accordo con quello che mi aveva rubato l’unico amore della mia vita.
Fissavo la spiaggia a vuoto. Fissavo le ragazze. Fissavo la libertà delle persone.
 
Mi tolsi senza problemi i miei indumenti restando in costume. Tenni il capello da cow boy. Il sole picchiava alto nel cielo e  nonostante il caldo infernale, l’acqua mi sembrò comunque gelida. Preferivo decisamente il caldo al freddo perciò non mi bagnai oltre i fianchi. Poi la sola idea di riempirmi i capelli di sale. Era terribile.
“Ti perdono Ginny. Però se entro la giornata non fai un bagno completo ti buttiamo noi” mi rimproverò Sue mentre sguazzava nell’acqua salmastra.
Io e Eleonor decidemmo di costeggiare la spiaggia con una piacevole camminata.


 
Stavo per addormentarmi sul tavolo dopo aver bevuto una granita al limone. Tutto ciò era terribile. Non mi ero mai annoiato così tanto in vita mia. Osservavo il mare. Sven mi aveva proibito di metterci piede. Caldo.
Il mio sguardo distratto si posò su una coppia di ragazze che passeggiavano sulla sabbia. Non so perché proprio su di loro, forse perché una era tremendamente famigliare. Il costume bianco le stava divinamente. Un corpo da favola, tanto da mozzarmi il fiato, e scatenare i miei istinti animali.
Una folata di vento le fece scivolare all’indietro il cappello da cow boy mettendole in risalto il viso angelico dall’espressione indifferente. Capelli biondi. Sbattei più volte le palpebre per metterla a fuoco. Non sapevo se definirla fortuna o sfortuna perché quella ragazza era proprio Ginevra Wilson.
 

Successe tutto in fretta, molto velocemente. Sentii una presa ferrea al polso che mi obbligò a voltarmi di scatto. P ersi l’equilibrio. Il mio amato capello mi scivolò sulla schiena. Mi sentii mancare la sabbia sotto i piedi. Scivolai. Chiusi gli occhi. Non vedevo più Eleonor, ma nemmeno il cielo azzurro.
Mi accorsi di essere sdraiata a terra con qualcosa che mi faceva ombra.
Quando ebbi il coraggio di aprire gli occhi fui obbligata a immergermi in due gemme color smeraldo racchiuse da due riquadri spessi, neri e rettangolari, un paio di occhiali da vista.
 


Volevo fuggire dalla realtà. Avevo bisogno di abbandonare per attimo il mondo che fingevo di amare così tanto ma che, in quel momento, odiavo.
Solo Matt mi fece qualche domanda quando mi vide uscire dalla porta sul retro con un paio di spessi occhiali da vista, un berretto di lana nero in testa, una camicia hawaiana e un paio di jeans corti. Marina e Sven si limitarono a lanciarmi occhiate preoccupate. Mi conoscevano troppo bene per fermarmi, sapevano che non avrei retto tutto il giorno senza far niente.
Corsi a piedi nudi sulla sabbia bollente. Nessuno mi riconosceva anche se, molti sguardi erano puntati su di me. Dopotutto uno con un berretto di lana d’estate non si vede tutti i giorni. Continuai a correre finché non la raggiunsi. Raggiunsi Ginevra.
Lei conosceva la mia identità . E dire che la odiavo, ma infondo dovevo pur rompere le scatole a qualcuno.

 
Quegl’occhi così maledettamente famigliari da farmi venire la nausea. Quei capelli neri che spuntavano ribelli da quell’insolito berretto di lana. Poi quel sorriso: sghembo e ironico.
La situazione era imbarazzante ma non me ne preoccupai. Ero distesa sulla sabbia con lui sopra di me, l’uomo peggiore che avessi mai conosciuto e che, purtroppo, avevo subito riconosciuto: non riuscii a trattenermi e per istinto gli tirai immediatamente una testata. Fronte contro fronte spinsi il più lontano possibile da me Aaron Valley.

 

“Si può sapere che cazzo ci fai qui?” mi urlò lei in modo sboccato mentre mi rotolavo sulla sabbia con una mano sulla fronte. Dio, che violenza. Perché mi maltrattava anche a gesti ora?
“Mi stavo annoiando.”
“Vatti a trovare qualche troia che te la dia facilmente. Non rompere a me. Comunque è impossibile che tu sia qua proprio lo stesso giorno che ci sono anche io. Impossibile!” urlava con grinta. Urlava corrugando la fronte. Mi odiava.
Io le sorrisi. Era troppo divertente vederla arrabbiata. Per la prima volta forse avrei apprezzato la compagnia della Wilson “Oggi abbiamo un concerto. Questa sera.”

 
Il mio sguardo si spostò immediatamente su Eleonor che, fino a qualche secondo fa, era rimasta in disparte. Anche lei, come Sue conosceva il mio lato rude, perciò non si meravigliò della parole che rivolsi a quel ragazzo a lei sconosciuto. Era meglio poi non rivelarle l’identità di Valley in quel momento.
“Tu lo sapevi?” dissi alzandomi in piedi e rivolgendomi alla mia amica imbambolata.
“Cosa?” mi disse lei facendo finta di niente.
“Che oggi avrebbero suonato i Black Out?”
“Ah! Si!, siamo venute oggi apposta. Idea di Sue ovviamente”
La mia giornata era ufficialmente rovinata ora che Valley era lì. Ora che lui mi aveva trovata in mezzo a tutta quella gente. Perché proprio io?


 
Dopo essermi ripreso dalla botta, afferrai Ginevra per un polso “Lei me la prendo io per tutta la giornata” dissi infine alla ragazza, quella con i capelli corti, mentre trascinavo di peso la sua amica lungo la spiaggia.
Era pesante, a dire il vero faceva parecchia resistenza. Cercai di non guardarla. Di non posare i miei occhi curiosi sui suoi fianchi, sul suo seno, sulle sue gambe. Era maledettamente attraente  e quel costume da bagno le faceva risaltare le forme. La odiavo proprio tanto a dire il vero.
“Non sono il tuo giocattolo Valley. Ti prego. Ci sono mille ragazze su questa spiaggia. Non io”
“Non devo svelare la mia identità, ma tu la conosci e saresti l’ultima persona che andrebbe in giro a vantarsi di essere in mia compagnia, Wilson”
Lei si dimenò e io mollai la presa. Si sistemò il capello da cow boy e incrociò le braccia. Perché incrociare le braccia dico io? Quel gesto, che era diventato un’abitudine, mi stava facendo impazzire. Se non fossi stato consapevole che la ragazza davanti a me era proprio Ginevra Wilson, le sarei già saltato addosso.
“Devo solo sfuggire dalla realtà per un giorno. E tu sei la mia realtà quotidiana. Un mio problema. Non ti chiedo molto Valley. Oggi e poi basta.” il suo tono si fece quasi supplichevole. Però non era una buona ragione per rifiutare la mia compagnia. Io ero nella sua stessa situazione anche se, la realtà, non mi poteva sfuggire di mano neanche per un secondo: avevo scelto la vita della star.
“E io ti chiedo qualche ora.” Infondo non sarei in quelle condizioni da nerd sfigato se non avessi una buona ragione “La mia realtà mi perseguita. Ho quello che ho sempre voluto dalla vita: successo; però è pesante.”
 

Sembrava quasi serio mentre parlava. Ci pensai. Entrambi volevamo fuggire dalla vita quotidiana ma nessuno dei due riusciva a sopportare la presenza dell’altro. O almeno io non avevo intenzione di passare la mia giornata di riposo in sua compagnia. Lui però era solo, aveva solo me. No! Non mi poteva far pena. E poi non volevo rientrare nei passatempi di Valley, come giochini erotici e porcherie simili.
Lo fissai. Era strano vederlo con addosso degli occhiali e un capellino di lana, era strano vederlo fuori dall’ambito scolastico. Alla fine cedetti perché non potei fare altro, ma misi in chiaro una cosa.
“Prova a mettermi le mani addosso, e sei morto!”
Spostai lo sguardo da lui e lo rivolsi al mare. Non lo avessi mai fatto perché immediatamente non sentii più i piedi sulla sabbia. Valley mi prese in braccio. Braccia forti, salde, sicure. Mi imbarazzai ma non lo feci notare.
Quando Aaron mi mollò finii nell’acqua salata. Era fredda e mi fece rabbrividire. Riemersi immediatamente: il fondale era basso. Da anni nessuno mi buttava in acqua prendendosi gioco di me. Avevo persino dimenticato il sapore del sale sulle labbra e quella leggera adrenalina che ti procurava lo stato di immersione.
Vidi il mio capello da cow boy galleggiare vicino a me. I miei capelli zuppi di sale mi si appiccicarono ai lati del viso. Valley, invece, se ne stava in piedi e rideva soddisfatto. Corrugai la fronte e mi alzai. Lui era asciutto? Bene. Ora non lo sarebbe stato più. Lo schizzai presa dalla rabbia del gesto che aveva compiuto. Cominciando così la giornata non osavo immaginare come sarebbe andata a finire.
Mi mostrai infuriata anche se, dentro di me, una sensazione chiamata “divertimento” faceva di tutto per non essere rivelata.


 
In quelle poche ore prima del concerto volevo a tutti i costi far sorridere Ginevra. Così, solo per curiosità. Però sembrava che tutto quello che facessi la irritasse ancora di più. Passi per averla buttata in acqua, volevo solo aver la soddisfazione di toccarla per un attimo.
Con il berretto di lana faceva leggermente caldo, ma dovevo sopportare se volevo godermi la giornata. Diedi alla Wilson la mia camicia hawaiana perché troppi ragazzi cercarono di abbordarla quando la lasciavo sola. Mi dava un po’ di fastidio la facilità con cui le mettevano gli occhi addosso nonostante fosse in mia compagnia ma, in quel momento non ero Aaron dei Black Out, solo un nerd sfigato.
Ginevra era divertente. Vederla imprecare mentre correva sulla sabbia bollente. Vederla concentrata a sciogliere tutto il ghiaccio della granita. Vederla mentre mi spiegava il movimento delle onde, argomento che avrei dovuto studiare per fisica. C’erano molti lati che mi attiravano di lei oltre al suo corpo. Molti aspetti che non avrei mai sospettato che potesse avere e (penso) un modo di divertirsi tutto suo senza darlo troppo a vedere.
“Ti piace molto la Wilson” il commento di Marina mi irritò parecchio. Mi stavo avviando in bagno quando la vidi seduta all’ombra di un ombrellone intenta a sorseggiare un succo. Indossava solo un semplice vestito nero e i suoi capelli scuri erano raccolti in una coda alta. Cercai di evitarla ma lei continuava a infastidirmi commentando il mio abbigliamento anti  fan “Se sei perfino disposto a conciarti in quella maniera per divertirti un po’, vuol dire che non ti dispiace”
Sapevo che Marina non lo faceva apposta ad irritarmi. Lei non sapeva niente di me e di quelle emozioni ancora vive che provavo nei suoi confronti “E’ solo un passatempo.”
“Se fosse un semplice passatempo allora saresti già in un angolo a scopartela, invece ti limiti a parlarle. Strano, è la prima volta che hai un atteggiamento simile. Sarà!” la sua voce sensuale mi fece ribollire il sangue nelle vene. Sicuramente, tanto presa da Sven, si era dimenticata di quel “noi” che c’era stato una volta.
Andai in bagno. Quando uscii lei era ancora lì. Le passai accanto e le dissi, senza incrociare i suoi occhi blu marino “Beh, se vogliamo un esempio: dopo sei mesi che sono stato con te eri ancora puramente candida.”
Non vidi l’espressione che fece, mi limitai a correre in spiaggia. Corsi a tormentare la Wilson che osservava un granchio. Corsi lontano da una realtà che mi faceva impazzire.

 
Non potevo definirla la peggiore delle giornate perché, senza metterlo troppo in evidenza, mi stavo maledettamente divertendo. Era dura da ammettere. Aaron era una persona allegra, solare, energica e stupida . Sicuramente non aveva preoccupazioni nella vita. Era una star che in quel momento voleva vivere da comune mortale.
Star. Conoscevo i problemi che avevano le persone famose. Sapevo cosa volesse dire esser stata la figlia di una grande attrice. Anche mia madre tempo fa, si conciava in modo assurdo per uscire, nascondendosi alla luce del sole per avere un po’ di libertà. Una volta però. Ora la grande McGrey non brillava più da qualche anno. Sospirai decidendo di non pensarci. Quella giornata serviva per scappare dai problemi, non per continuare a tormentarsi.
Aaron aveva tre volti nella sua vita: il primo quello del donnaiolo, studente e ragazzo poco raccomandabile; il secondo quello del bambino che amava giocherellare, scherzare e prendermi in giro; il terzo lo scoprii quando salì sul palco, dietro quella batteria rosso fiammante. Mi irrigidì quando incominciò a battere sui vari “tamburi” che la componevano con quelle bacchette in legno. I capelli ondeggiavano, lo sguardo attento, il sorriso stampato in faccia: adrenalina allo stato puro.
Sorseggiavo un drink che mi aveva passato Eleonor mentre, insieme a quest’ultima e Sue, ammiravo il concerto dei Black Out. Tutte e due erano gasate. Urlavano. Sorridevano. Io guardavo con indifferenza mentre quello strano succo mi intorpidiva le labbra, entrava nella mia bocca, scendeva giù nella gola e, man mano una strana sensazione riempiva la mia testa.
Indossavo i miei vestiti, il mio capello e in mezzo alla folla assistevo al mio primo concerto. Non sorrisi. La musica rock non mi piaceva. Un mondo sconosciuto, un’altra vita.
Chiusi gli occhi e continuai a sorseggiare, quello strana bevanda dal gusto forte che sapeva di libertà.
Alle mie orecchie finalmente arrivò la canzone di “Princess on Ice” l’unica che ero capace di apprezzare. La cantante, Marina McChervelle, molto famosa per la sua bellezza anche a scuola nostra, duettava con il chitarrista dalla chioma bionda. Capii che non era la voce di lei a farmi venire i brividi, ma quella di lui. Sembrava che le parole stesse gli appartenessero.  Feci una supposizione: l’aveva scritta lui!
“La tua lama ha tracciato un segno indelebile sul mio cuore“
era la stessa strofa che aveva cantato Aaron quel giorno. Chiusi gli occhi assimilando altre frasi. Chissà perché quella canzone, per quanto potesse essere dolce, riusciva a rendermi malinconica.
“Stai continuando a sorprendermi / Vivo delle tue note / Tu le crei e io le raccolgo”
La batteria di Valley scandiva quelle parole d’amore.
“Mia Principessa sul ghiaccio / Riuscirai ad ispirarmi ancora?”
La mia testa incominciò a girare. Avevo finito quello strano succo.
“Scusate, vado in bagno.” Dissi a Sue e Eleonor. Bugia. Scappai sulla spiaggia.
Le mie amiche non mi chiesero spiegazioni. Non notarono i miei occhi lucidi e umidi di lacrime. Quella canzone aveva avuto di nuovo un brutto effetto su di me.


 
La cercai invano dopo il concerto. Dopo gli autografi. Non so perché ma volevo vedere la Wilson, volevo sentirle dire quanto ero stato figo su quel palco. Quanto ero bravo a suonare la batteria. Volevo che mi lodasse per una mia qualità, visto che non faceva altro che offendermi.
Era buio. Mi misi solo quei falsi occhiali da vista. Il minimo indispensabile per non farmi riconoscere.
Chiesi di lei alle sue amiche quando le incontrai alla festa al bar. Nessuna delle due sapeva dirmi dov’era. Recuperai una bottiglia di vodka. Sembravo impazzito eppure la cercavo ininterrottamente. La vodka alla pesca scese giù nella mia gola. Solo un sorso. Mi sentivo pazzo nel cercare proprio lei. Poi la trovai.
Guardava il mare. Da sola sulla spiaggia illuminata dalla luce della luna.
“Wilson” urlai.
Si girò di scatto. Il suo capello da cow boy le scivolò sulla schiena, i suoi capelli biondi ondeggiarono. Mi tolsi gli occhiali da vista che mi facevano sentire un nerd sfigato per metterla meglio a fuoco man mano che mi avvicinavo.
Dio se era bella!
La raggiunsi. Lei sorrise. Si! Sorrise dolcemente. Perché stava sorridendo di fronte a me? Capii successivamente che non aveva il controllo delle sue emozioni, lo capii dall’odore di alcol che la circondava.

 
Non so per quanto tempo rimasi a osservare il mare. L’orizzonte, illuminato dalla luna, mi faceva riflettere sul perché non l’avessi mai superato.
Mi sentivo piena di energie e sorridevo. Non potevo fare a meno di sorridere stupidamente. Anche quando Valley mi trovò la mia espressione non si decise a mutare ma, non me ne resi conto.
Aaron mi si avvicinò e sfoderò una bottiglia dicendo “Beh, vedo che hai già bevuto”
“Cosa? Io sono sobria” dissi prendendo con forza la bottiglia dalle sue mani. La sua presa non era molto salda. L’aveva fatto apposta. Voleva farmi bere. Ma bere cosa?
Un sorso. Il gusto era simile a quello che aveva ingerito prima. Mi resi conto solo in quel momento che era alcol.
“Tu sarai la mia rovina Valley” sussurrai con aria maliziosa sorridendo. Dio! Stavo bevendo per la prima volta.


 
Le presi la bottiglia dalle mani. Ricambiai il sorriso. Era molto bella con quell’espressione.
Un sorso anch' io. Avrei voluto ubriacarmi del sorriso della Wilson a dire il vero.
“Allora? Ero figo sul palco vero?” dissi passandole la bottiglia. Un sorso lei, un sorso io. Ginevra non rifiutava.
Rise di gusto “Si. Molto. Ma non pensare di essere rivalutato solo per questo”
Con la bottiglia in mano incominciò a piroettare sulla sabbia come una bambina guardando in alto.
Le presi la bottiglia. Lei mise il broncio “E così sei un’alcolista, eh?”
“A dire il vero è la prima volta che bevo. Vedi, tu sarai la mia rovina. Tu, la tua musica, il tuo mondo. Tu e basta”
 

Notai Valley avvicinarsi a me. Pazza a non allontanarmi. Mi ripresi la bottiglia avara del suo contenuto. Era la prima volta che ingerivo cose malsane. Non me ne accorgevo, tutto mi andava in testa senza rendermene conto. Lui rientrò in possesso della bottiglia.
“L’alcol ti fa un brutto effetto Wilson: stai sorridendo!” E dopo questa frase mi ripresi la bottiglia.
Avevo voglia di ridere. “E tutta colpa di questo liquore. Oddio come mi gira la testa. Oddio”


 
Si stava ubriacando con della vodka alla pesca, io di lei invece. Quel lato di Ginevra era troppo divertente, troppo intrigante. Quel carattere malizioso unito al suo corpo mi eccitava troppo. Tentai di farmi vicino. Sempre di più mentre la bottiglia passava dalle mie mani alle sue.
“Proprio non lo reggi l’alcol, eh?” la punzecchiai.
“Se sono capace di reggere te figuriamoci questa roba, una passeggiata”
 
 
Le parole mi uscivano da sole. Non mi rendevo pienamente conto di ciò che dicevo. Pian piano però vedevo i miei problemi dissolversi all’orizzonte. Vedevo la vita che mi ero rifiutata di vivere come un onda intenta a travolgermi.
“Stai sclerando Ginevra!” la voce di Aaron era vicina. Molto vicina.
Non so quanta distanza ci fosse tra me e Valley. Mi girava la testa. Non avevo mai bevuto in vita mia perciò non conoscevo i miei limiti, eppure continuavo a ingerire quella bevanda dolcemente forte.
Il suo sguardo era sempre più vicino. Molto vicino. Rimasi immobile.


 
Ritrovarmi fronte contro fronte con lei fu la cosa più strana che mi potesse capitare, non avevo idea di come fossi riuscito a trattenermi dalla tentazione di baciarla fino a quel momento.
Le accarezzai un braccio. La mia mano scese arrivando alla sua che, salda reggeva la bottiglia di vodka.
“Sai, quando sorridi anche la tua faccia e quasi sopportabile”
Tra il bere prima e dopo il concerto, forse stavo andando anch' io. Non potevo averle appena rivolto un complimento.
Troppo bella da sedurmi, troppo vicina da tentarmi. La odiavo. Non volevo ammettere che stavo perdendo la testa per Ginevra perciò diedi la colpa all’alcol.
Mi sembrò di tornare nel passato perché la sensazione che mi coinvolse l’avevo provata solo una volta nella vita, ma troppo tempo fa per ricordare quando.
Cercai le sue labbra. Ci sfiorammo un istante perché successivamente, sentii lei cadermi addosso.
Sorreggevo Ginevra. Dio! Cosa le era successo ora?
Mi sedetti a terra, sulla sabbia, con lei tra le braccia. Coma etilico? No, si era addormentata. Sorrisi e mi distesi tenendo la Wilson stretta a me. Che situazione insolita. Che sensazione insolita avevo provato!

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Capitolo 5
*** Perchè mi mandi in confusione ***


Due parole...

Eccoci qua al quinto capitolo! Non ho voglia di perdermi in chiacchiere perchè fa caldo (:P) perciò molto velocemente faccio i soliti ringraziamenti a chi commenta, a chi segue la storia e a chi semplicemente la legge... ringrazio come sempre Alyce_Maya che mi aiuta la revisione dei vecchi capitoli (in campo grammaticale) XP
Baci
Due Di Picche

*** 




5.Perché mi mandi in confusione…
 
Non avevo mai pensato a quanto l’alba fosse simile al tramonto: forse perché non l’avevo mai vista in vita mia. Ero sveglia e un forte dolore mi martellava la testa. Distesa sulla spiaggia, con gli occhi socchiusi, osservavo il sole nascere. Vicino a me, sedute, c’erano Eleonor e Sue.
Appena notarono che ero di nuovo cosciente mi aiutarono ad alzarmi. Non avevo freddo. Una camicia bianca e larga mi copriva le spalle e le braccia. Quando l’avevo indossata?
Recuperando il cappello poco lontano da me, continuavo a farmi domande su domande. Avevo vaghi ricordi della serata. Una gran confusione offuscava quei piccoli frammenti di puzzle che, senza incastro, continuavano a vorticare nella mia testa.
Incrociai le braccia intorpidite e sbattei più volte le palpebre. Un brivido inaspettato mi percorse; qualcosa stava per cambiare me lo sentivo.
“A che ora passa il primo autobus?” chiesi alle ragazze senza distogliere lo sguardo dal mare.
“Alle sette e mezza” mi rispose Sue.
Non sapevo che ora fosse ma sicuramente mancava ancora un bel po’ .
“Si può sapere cos'è successo ieri dopo il concerto tra te e Valley?” quel cognome era l’ultimo dei miei pensieri ma il primo dei miei problemi.
Scossi la testa appoggiando una mano sulla tempia. Il dolore era allucinante “Non lo so. Mi avete fatto bere, poi ho bevuto ancora. Ho vaghi ricordi”
Molto vaghi. E quello più preoccupante era sicuramente lo sguardo di Aaron talmente vicino da riuscirmici a specchiare. Occhi svegli, di un verde intenso. Una vera confusione.
 
 
Avevo lasciato la Wilson sulla spiaggia. Faceva freddo perciò le avevo messo addosso la mia camicia da vero gentleman. Mi ero sempre rifiutato di fare il gentiluomo con lei, ma vederla addormentata e quindi indifesa, mi aveva fatto quasi paura.
Ero nel lussuoso pullmino della famiglia Power, quella del nostro capo band, e stavamo rientrando in città. 
Marina e Sven si erano addormentati. Matt, nonostante fossero le sei del mattino, scriveva un sms. Il destinatario? Ovvio, la sua ragazza in trasferta dall’altra parte del mondo per i campionati di pattinaggio sul ghiaccio.
Non avevo mal di testa dato che non avevo bevuto molto. Mi passai un dito sulle labbra mentre ammiravo il sole che, pian piano saliva sempre più in altro. Quello con Ginevra non era stato un vero bacio infondo, e allora perché continuavo a preoccuparmi?
“Hai una faccia.” Disse Matt che si era messo ad osservarmi.
Sorrisi dopo quell’osservazione, ma non spostai lo sguardo. “E’ stato solo un quasi  insignificante bacio a stampo”
Lui era il mio migliore amico da sempre, perciò non mi feci problemi a raccontargli quella mezza verità. 
“Da quando ti fai tanti complessi per un bacio a stampo?”
Mi stiracchiai e risposi con tranquillità “Non mi sto facendo complessi, poi era ubriaca perciò non se lo ricorderà nemmeno. Non è stato nemmeno un bacio a stampo a dire il vero.”
I miei occhi si spostarono inavvertitamente su Marina che, con aria angelica, dormiva appoggiata alla spalla di Sven. Sorrisi per non mostrarmi infastidito dalla situazione. Era passato ormai tanto tempo ma non mi ero ancora abituato al rapporto della bella cantante con l’erede del casato Power.
Cercai di direzionare i pensieri sui miei fastidi, per allontanarli da Ginevra, allontanarli dall’ultima persona che avrebbe dovuto occupare la mia testa.
 
 
Rientrai a casa per le nove di mattina. La posta di sabato non c’era perciò qualcuno, quasi sicuramente la donna delle pulizie, doveva esser passato. Aprii la porta dell’appartamento convinta di esser in piena e completa solitudine, ma ahimè, mi sbagliavo. Rumori provenivano dalla cucina. Rumori che mi obbligarono ad accelerare le mie azioni.
Papà.
Un uomo ormai quarantenne se ne stava seduto sul banco di quella cucina moderna, utilizzata raramente. Vestito in giacca e cravatta, sorseggiava un caffè fatto in casa mentre smanettava con il computer portatile.
Da lui avevo preso gli occhi e il carattere. I lineamenti del mio viso ricordavano di più mia madre, come i miei capelli.
Alzò lo sguardo quando si accorse della mia presenza sulla soglia della porta. Posò la tazza e sorrise “Oh! Ginny. Pensavo di trovarti in casa”
“Ho passato il sabato fuori. Con amici” dissi comportandomi con naturalezza senza mostrare quella lieve felicità che avvampava sul mio volto. Dovevo essere dura nei suoi confronti. Con il lavoro di celebre avvocato che aveva, ormai rientrava in casa molto raramente e della mamma non parlava quasi mai. Così era George Wilson. Un uomo che voleva fuggire dalla realtà immergendosi nel lavoro.
“La mamma. Ti hanno contattato vero?” come da previsione, abbassò immediatamente lo sguardo. 
“Sono andato a parlare con i medici. So che ci sei andata anche tu. Comunque oggi la riportavano al centro di riabilitazione.”
Silenzio. Quando l’argomento era la mamma i nostri discorsi finivano sempre in un silenzio assordante. 
Ero stanca e assonnata “Io vado a dormire. Ho passato la notte praticamente in bianco”
Lo sentii sospirare “Finalmente incominci a divertirti un po’. Ti sveglio per mezzogiorno, così pranziamo insieme, vuoi?”
“Si” dissi finendo quella tazza di caffè e avviandomi verso camera mia “A dopo papà”
Quella domenica mi svegliai alle tre e di George Wilson rimase solo un biglietto appeso al frigorifero con un avviso che riguardava il lavoro. Tipico. 
 
 
Svegliarsi la domenica alle due dopo un sabato di baldoria era il massimo, peccato per la sveglia poco piacevole: una madre su tutte le furie che radunava l’intera famiglia a pranzo subito dopo la chiusura pomeridiana domenicale della pescheria. Ricco? No di certo. Noi Valley eravamo una rispettabile famiglia del quartiere più vecchio della città. Eravamo benestanti e il pesce fresco che vendeva mio padre era molto richiesto dalla gente.
Una copertura perfetta per una star come me, perché nel vecchio quartiere della città di giornalisti non se ne vedevano l’ombra. Un luogo dimenticato dove tutti si conoscevano e tutti si volevano bene: il mio segreto era al sicuro!
“Aaron guarda che della tua vita da star non mene frega niente. Alzati immediatamente” il generale maggiore Hana Valley di origini Giapponesi, madre ormai cinquantenne, mi stava chiamando a rapporto.
Quando arrivai a tavola, per ultimo, notai tutti i membri Valley ai loro posti: di fronte a me, mio padre che distribuiva le porzioni. Kyle Valley era di qualche anno più giovane di mia mamma.
Accanto a me mia sorella maggiore di tre anni: Ran Valley. Studiava per diventare stilista, da sempre migliore amica della nostra cantante, Marina, e fornitrice ufficiale dei suoi vestiti. L'ho sempre considerata molto “strana”: capelli neri tinti di biondo platino, occhiali dalla montatura rosa fluo e abbigliamento appariscente e bizzarro. Alla fine mi ero rifiutato di capirla!
Di fronte a me c’era la bella Sakura Valley. La tipica sorella maggiore: bella e buona in tutti i sensi; di sei anni più grande di me, ormai indipendente con un recente matrimonio alle spalle e anche il dolce attesa. La creatura che portava in grembo quasi da nove mesi era prossima alla nascita.
“Andato bene il concerto?” mi chiese sorridendo Sakura.
“Come sempre” risposi sbadigliando.
Ran sbuffò alzando gli occhi al cielo “Oh, ti sei già abituato a questa popolarità che persino i concerti ti sembrano tutti uguali?” a lei dava dannatamente fastidio che io, il suo sfaticato fratello minore, fossi famoso.
“Alla fine diventa tutto molto monotono. Comunque ho i soldi della serata”
“Quelli devi tenerli per te per quando finirai la scuola” mia mamma mi rispondeva sempre così quando parlavo della quota che ricevevo, una bella somma che i miei rifiutavano sempre.
“Guarda che sono tanti e la porta di legno della pescheria sta marcendo” non che non volessi quei bei bigliettoni ma sapevo che la mia famiglia ne aveva bisogno.
Il volto di mio papà si fece serio. Un’occhiata di rimprovero da parte di un paio di occhi uguali ai miei mi stava fulminando “La porta sta benissimo. Ho già provveduto io a sistemarla”
Deglutii e incominciai a mangiare. Ci fu un attimo di silenzio subito interrotto dal solito e allegro caos che dimorava in quella famiglia, nella mia famiglia.
 
 
Ritornare agli allenamenti mattutini era la soluzione migliore per scacciare via vecchi pensieri. Nella mia divisa rosso fiammante incominciai a ballare da sola in quella palestra deserta. Non c’era nessuno quel giorno a scuola se non l’ansia che Aaron potesse spuntare da un momento all’altro. Solito posto, palestra; solita ora, due di pomeriggio.
La giornata per niente afosa, riusciva a trasmettermi la carica giusta per inventare una coreografia da zero. Settembre non era così lontano come sembrava, e la fine di luglio era un orizzonte molto vicino.
La musica che avevo messo era maledettamente ritmata e coinvolgente, ma da giorni solo “Princess on ice” risuonava nella mia testa come una maledizione.
Mi fermai. Ero sudata. Ripresi fiato e, corrugando la fronte, diedi un calcio all’aria arrabbiata con me stessa. Nemmeno lo sport che amavo di più al mondo, il mio sport, riusciva a distrarmi dal mondo di Valley.
“Dannazione!“ urlai passandomi una mano sulla fronte togliendo via il sudore. 
La musica che avrei dovuto seguire continuava, ma questa volta il mio orecchio fu rapito dalla voce di Valley “Oddio! Sono capitato nel momento sbagliato”
Alzai il volto e vidi il ragazzo dai capelli neri appoggiato alla porta della palestra. Jeans, canottera, infradito.
 
 
Si era accorta tardi della mia presenza. O aveva fatto finta di non vedermi o era stata troppo presa da ciò che stava facendo. Il completino da cheerleader le stava decisamente aderente e quell’aria affaticata la rendeva ancora più eccitante. 
“Qualcosa non va? Problemi di musica?” misi le mani in tasca e sorrisi. Cercai di dimostrami amichevole.
“Problemi con te” secca e acida, la sua risposta mi elettrizzò. E così ero io il problema della sua ira. Nulla di più normale infondo, no?
“Lusingato di essere nei tuoi pensieri”
Incrociò le braccia. Perché lo fece? Forse per rabbia, ma odiavo quando lei incrociava le braccia.
“Non sento il ritmo delle mie canzoni. O altro per la testa” si lamentò lei.
“Intendi un’altra canzone?”
La vidi annuire con il capo mentre si avviava per spegnere lo stereo. Sapevo perfettamente che canzone aveva in mente.
Presi fuori il cellulare e cercai quella musica. Alzai il volume e lasciai che quella dolce canzone scritta da Matt si espandesse in tutta la palestra.
 
 
Mi girai di scatto quando riconobbi l’unica canzone sopportabile dei Black Out, “Princess on Ice”. Valley voleva farmi impazzire? 
Le mie braccia scivolarono lungo i fianchi e un brivido mi percorse la schiena, Aaron intanto si stava avvicinando. La melodia si faceva sempre più forte. Mi piaceva!
“L’ha scritta lui vero?” chiesi senza esitazioni spinta da quell’ardente curiosità risalente ancora a sabato.
“Il chitarrista intendi?”
Annuii con un cenno del capo e poi lo lasciai parlare. Lo vedevo proprio voglioso di avere una conversazione sensata che riguardasse il suo mondo, senza alcol o matematica attorno. 
“L’ha scritta per la sua ragazza che ora è lontana”
“Lo si sente dal modo in cui canta: ci mette proprio passione”
“Perché ci tiene a lei, quella canzone è il pezzo fondamentale della loro storia”
 
 
Non so perché avevo deciso di farmi gli affari di Matt, forse perché aspettavo la domanda fatidica che ogni ragazza mi rivolgeva dopo aver sentito la storia del mio amico. Ginevra non esitò difatti “Tu non scrivi canzoni?”
Sorrisi dandole la risposta più ovvia del mondo “Non ho né ragioni né argomenti per scriverne”
Lei mi fisso dubbiosa. Il suo sguardo indagatore cercava il segno che poteva smascherare quella mia bugia: troppo tempo fa, anche io avevo scritto una canzone.
Sbuffai mettendo via il cellulare. Perché tutti provavano sempre interesse verso Matt? Aveva un passato doloroso, era una persona gentile, dolce, ingenua ma forte. Era molto diverso da me.
“Allora che materia facciamo oggi?” chiesi quando mi trovai a pochi passi da lei. Avevo deciso di chiudere il discorso “mio mondo” per potermi concentrare su Ginevra.
 
 
Così incominciammo l’ennesima giornata all’insegna della matematica. Avrei voluto fargli molte domande riguardo il sabato passato visto che la mia memoria era offuscata, ma non trovai il coraggio. Non volevo neanche immaginare cosa fosse successo, cosa avevo fatto o cosa lui aveva fatto approfittando di me in quelle condizioni.
Aaron non disse niente, io non dissi niente e entrambi continuammo ad ignorare quella giornata che ci aveva coinvolto fuori dall’ambito scolastico.
Appena mi sedetti sull’autobus di ritorno, con i libri di matematica in mano, decisi di rivedere il programma sui radicali che avevamo affrontato quel giorno. 
I miei occhi stanchi non si lasciarono sfuggire una scritta insolita a bordo pagina. Scrittura mediocre, ovviamente maschile. Una matita molto marcata aveva lasciato il segno  “Sorridi più spesso :D ”
Sospirai. Valley stava contagiando anche i miei libri. Girai pagina. Un’altra scritta “sei più guardabile almeno U_U”
Mi specchiai nel vetro del finestrino. Vedevo a stento la mia immagine per fortuna, però riuscii a distinguere la linea delle mie labbra curvarsi verso l’alto. Dio! La stupidità di Valley mi stava contagiando.
 
 
Per la prima voltai provai fastidio nel vedere la mia insegnate privata in dolce compagnia di Christopher Gens. Li avvistai da lontano e non mi avvicinai. Era facile riconoscere un palestrato biondo e un ragazza formosa. Era facile scambiarli per una bella coppia a dire il vero, e tutto ciò non faceva che irritarmi, perché?
Mi nascosi dietro alla colonna del cancello. Sospirai. Cazzo! Ma cosa mi stava prendendo? Perché non ero andato lì a sfotterli entrambi? Perché mi  ero nascosto?
 
Stavo cercando in tutti i modi possibili di liberarmi di Gens senza essere volgare. Mi dispiaceva sotto sotto trattarlo male poverino: era solo cotto di me in maniera assurda. Se solo fossi riuscita a ricambiarlo. Lui però non era al centro dei miei pensieri in quel momento perché il mio cellulare squillava.
“Chris, devo rispondere scusa” lo liquidai, o almeno tentai, con quelle parole portando l’apparecchio all’orecchio.
Immobile. Il mio corpo si impietrì tutto d’un tratto. “Ha tentato una fuga” quella frase mi rimbombava nella testa. 
Mi scansai da Gens, lo ignorai completamente e incominciai a correre verso il cancello, verso la strada alla ricerca di un autobus, un taxi, un passaggio. Dovevo raggiungere l’Istituto di Riabilitazione, dove era ricoverata mia madre il prima possibile, l’unico problema era che si trovava fuori città vicino all’ospedale Centrale.
 
Mi passai una mano tra i capelli neri cercando di togliere dalla mia mente insulsi pensieri. Sospirai per la millesima volta ma continuai ad attendere. Cosa volevo che succedesse?
Una folata di vento mi distrasse. Passi. Una corsa sfrenata contro il tempo. Alzai o sguardo curioso e davanti a me comparve lei, Ginevra.
La ragazza dai capelli biondi vestita con una camicia a fiori e degli shorts neri, se ne stava in mezzo alla strada e si guardava attorno. Destra. Sinistra.
“Ginny!” una voce preoccupata la obbligò a voltarsi e io riconobbi la sua espressione. Avevo desiderato non rivedere mai più quel volto pieno d’ansia e paura. Desideravo dimenticare la faccia di una ragazza sconvolta.
La Wilson si accorse di me. I suoi occhi spalancati mi fissarono. Mormorò qualcosa. Il mio nome? Non feci in tempo a comprendere che subito notai Christopher vicino a lei. Doveva esser stato presente alla sua “trasformazione”. La sua reazione era stata simile alla mia quando avevo visto per la prima volta Ginevra in quelle condizioni. 
 
 
“Cosa succede Ginny? Hai un’espressione terribile. Cosa è successo?” domande, domande e ancora domande. Gens mi stava mandando ancora più in confusione. Mi girava la testa mentre i miei occhi si spostavano da Gens, al cellulare, alla strada e a Valley.  
Rimasi in silenzio continuando a osservare Aaron mentre il mio cervello cercava una soluzione. Avevo i vari numeri d’ufficio di mio padre nella tracolla. Si! Avrei potuto contattarlo.
Tremavo. La mia borsa cadde a terra e l’intero contenuto si sparpagliò. Mi accucciai e precipitosamente cercai quei numeri. L’agitazione e il panico erano tali da non farmi capire più niente.
 
 
Non sapevo come affrontare quella scena di fronte a me. Gens che urlava, lei che non rispondeva ma continuava a cercare qualcosa. Dovevo fare qualcosa.
“Cosa pensi di fare Valley?” mi urlò Chris quando notò il mio avvicinarmi alla Wilson.
La mia voce si fece seria “Quello che non fai tu Gens: mantengo la calma”
Lo zittii. Bene, un problema in meno. Mi accucciai accanto a Ginevra che intanto non si era accorta di me. Le afferrai un polso obbligandola ad accorgersi della mia presenza ravvicinata.
Alzò lo sguardo. I suoi occhi spenti mi trafissero. La situazione era la stessa di quella volta. La parola “panico” era ben stampata sulla sua fronte ma questa volta, più in piccolo, riuscivo a leggere quella “aiuto”.
Rimase in silenzio. Le labbra le tremavano mentre il suo volto, sempre più pallido, la trasformava in un’altra persona. Quell’aspetto di Ginevra Wilson mi intimoriva ogni secondo di più.
“Wilson!” come prima cosa la richiamai poi, incominciai a scandire bene le parole in modo che lei capisse. “Non voglio spiegazioni sul tuo stato ma sembra che tu debba raggiungere una destinazione?”
La vidi annuire con un cenno del capo. Era un buon segno “Bene. Dove devi andare?”
“Fuori città.” Parlava a stento “Lontano. Lontano. Lontano”
Doveva smetterla con i segreti. Non doveva avere paura del mio giudizio. Voleva nascondere una realtà che ormai era appena stata rivelata a due persone che non potevano far finta di niente.
“Dove. Devi. Andare?” riformulai la domanda più lentamente.
Il labbro le tremò mentre sussurrava “L’ospedale Centrale”
 
 
Perché stavo confidando la mia destinazione ad Aaron? Avrei potuto farcela da sola a raggiungere l’Istituto di mia madre, vicino all’ospedale. Come sempre: sola.
Immobile, continuavo a guardarmi attorno presa dal panico. Vidi prima Valley alzarsi, poi Gens prendere il suo posto ed aiutarmi a mettere via i miei effetti sparpagliati a terra, di nuovo nella borsa.
“Sven, ho bisogno di un passaggio. È urgente” Aaron doveva essere al telefono. Stava chiamando qualcuno per me. Mi stava aiutando. Non volevo il suo aiuto ma non osai replicare quella volta.
Perché le azioni folli di mia madre ricadevano sempre sul mio stato d’animo? Non ne potevo più di correre dietro a quell’attrice fallita! Avevo fatto il possibile standole accanto durante la disintossicazione dalla droga, avevo trascorso giorni con lei facendole capire quanto la vita fosse bella se lei avesse mostrato un po’ di buona volontà, e ora, i dottori mi avevano telefonato dicendomi che aveva tentato una fuga. Tutto ciò mi faceva star male. Mio padre non si degnava di trascorrere del tempo con lei, ed io non potevo godermi la vita a causa dell'enorme peso che ero costretta a portarmi dentro.

 
Gens aiutò Ginevra a rialzarsi appena la lussuosa BMW nera dei Power si fermò davanti a noi. Sven scese dal sedile anteriore del passeggero: ovviamente tutte le macchine del casato Power erano munite di autista.
“Cosa succede?” mi chiese con fare preoccupato il bassista di Black Out. Io gli indicai la Wilson spiegandogli lo strano shock in cui la ragazza si trovava e l’urgenza che aveva di raggiungere l’ospedale Centrale.
“Ok. Vi aiuto. Stavo andando giusto da mio padre.” Bene, ero riuscito a chiedere un favore all’ultima persona con cui volevo avere a che fare, odiavo chiedere favori a Sven ma sapevo che, il signor Power, era un medico importante in quell’ospedale.
Dissi a Gens di avere la situazione sotto controllo, lui non esitò, sicuramente si sentiva un verme per come si era comportato prima, per la sua crisi di panico nel vedere la sua Ginny in quelle condizioni.
Feci salire in macchina la Wilson che, per tutto il viaggio, rimase in silenzio. Questo suo strano atteggiamento mi mandava in confusione, quanto desideravo capirla, quanto volevo continuare ad odiarla come all’inizio. Perché non la odiavo? Ora che avevo deciso di imparare a conoscerla non ci riuscivo.

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Capitolo 6
*** Perchè ho bisogno di riflettere ***


Due parole...

E' decisamente da tempi immemori che non aggiorno questa storia originale e mi dispiace. Dopo tutto sono già molto avanti con i capitoli che non avrei nemmeno problemi di scadenze varie al momento però ho avuto un bel blocco dello scrittore che mi ha allontanato da EFP per mesi e mesi.
Ma non me ne pento di essere stata via così al lungo, anche perchè nel frattempo ho coltivato la mia prima e seria storia d'amore (<3)  che mi ha dato modo poi di continuare a scrivere più che volentieri!
Non voglio annoiarvi, so che siete ansiosi di leggere finalmente come continuano le cose tra Aaron e Ginevra >__<
Due Di Picche

*** 




6.Perché ho bisogno di riflettere…
 
Perché la stavo seguendo in capo al mondo? Una domanda talmente semplice che mi mandava su tutte le furie.
Appena la Wilson scese dalla BMW dei Power, esattamente davanti all’ospedale, capii che non era quella la sua destinazione. Ginevra incominciò a correre e io, inconsciamente la seguii senza dare spiegazioni a Sven o all’autista.
Il posto che lei raggiunse era un Istituto di Riabilitazione poco più in là dell’ospedale. Come struttura assomigliava ad un’antica villa però, l’aria che si respirava intorno sapeva di ospedale.
La Wilsonvi entrò, sicuramente non si era accorta che l’avevo seguita. Certo che ero proprio insignificante ai suoi occhi per non notare un bel ragazzo correrle dietro a pochi metri di distanza. La sua testa era occupata da altro come sempre, io ero all’ultimo posto ovviamente.
La seguii anche all’interno dell’edificio, ma quando si precipitò dentro ad una stanza attesi fuori. Dalla porta socchiusa riuscivo a sentire la sua voce e poi quella di una donna.
Appoggiato contro un vecchio muro di cemento, mani in tasca e sguardo rivolto verso il soffitto alto, mi stavo pentendo di origliare come non mi era mai successo in vita mia.
“Mamma. Mamma. Si può sapere che combini” sotto quella sua voce rude, si riusciva a distinguere un tono preoccupato. Rimasi sorpreso però, non era la classica voce con cui una persona normale rivolge al proprio genitore. Freddo. Distante. Indifferente. Queste erano le sensazioni che mi dava. Era quasi più confidenziale il tono che usava con me!
Una voce più lieve che cercava di trasmettere tranquillità le rispose “Ginevra, che sorpresa!”
“Io sono sorpresa. Hai tentato di scappare, mamma.”
“Il manager mi aveva chiamata per sapere come stavo, sai ogni tanto mi contatta ancora, pensavo che forse voleva farmi lavorare visto che sto meglio”
“Ma cosa dici. Era solo preoccupato: sai quanto gli è costato coprire il tuo ricovero per tutti questi anni? E invece tu … tu … alla prima occasione che hai di uscire riprendi a farti di pasticche.”
“Ma cosa dici. Sto benissimo ora, non succederà più”
Deglutii quando la voce di Ginevra si rattristò di colpo facendomi venire i brividi “Lo dici ogni volta che ci vediamo. Ogni volta mi giuri che non succederà più ma …” emise qualche leggero singhiozzo “… come faccio a fidarmi delle tue parole ormai, mamma?”
Basta. Avevo sentito abbastanza. Non potevo continuare ad origliare oltre quella conversazione. Mi sentivo uno schifo.
Lasciai la mia postazione. Avevo sentito anche troppo.
 
Vedere mia madre fare origami seduta su quella vecchia poltrona in una stanza luminosa da farla sembrare in ospedale, mi diede il nervoso.
Indossava una camicia bianca e un paio di pantaloni lunghi. I capelli biondi erano legati in una coda bassa e i suoi occhi azzurri, socchiusi, mi osservavano distrattamente. Pallida. Magra. Non era la grande Jeanne McGrey di un tempo. Un’attrice che aveva fatto parlare di se, che si era fatta amare.
Il sorriso ingenuo che mi rivolgeva era la cosa che odiavo di più essendo privo di significato. Perché sorridere se sei cosciente delle tue pessime condizioni? Chi voleva rassicurare sorridendo se poi continuava a sbagliare.
“… non succederà più.” Quella frase mi faceva sempre inumidire gli occhi tanto da far mutare anche il tono della mia voce. Perché cedevo di fronte a lei? Perché ero così fragile di fronte a qualcuno che mi aveva abbandonato?
Rimasi lì. In quella stanza chiara a osservare un donna che mi dava solo preoccupazioni. Mi sedetti sul suo letto e attesi. Attesi che il mio volto ritornasse quello di sempre, che il mio stato d’animo tornasse normale e pensai al perché Valley era diventato “umano” tutto d’un tratto con me.
Dio! Per poco non mi ero dimenticata del mio peggior nemico, per non parlare di Gens che mi aveva visto in quelle condizioni. Fantastico! Un bel gran casino per una che non vuole rivelare mai niente di se.
Arrivarono le sei di sera. Avevo trascorso tutto il pomeriggio in quel posto deprimente a fare conversazioni insulse con quella falsa persona di mia madre. Parlare di fiori, di mare, tutto sembrava troppo irreale.
I ruoli forse si erano invertiti? Lei così ingenua e spensierata da sembrare una bambina, io sempre in ansia con l’acqua alla gola che cercavo di fare da madre a mia madre.
Quando lasciai finalmente l’Istituto mi sentii sollevata. Scendendo le scale che mi conducevano al cancello d’uscita, non feci caso ad un sagoma maschile dai capelli scuri, comodamente seduta sui gradini di pietra. Avevo altro per la testa per accorgermi di quella presenza finché la sua voce non mi richiamò “Ehi! Dove pensi di andare?”
Mi voltai e finalmente mi accorsi di Aaron Valley!
Sbattei più volte le palpebre incredula della visione.
“Tu che ci fai qua?” rimasi lì, in piedi a fissarlo impietrita. Mi ero completamente dimenticata di lui dopo esser scesa dalla lussuosa macchina del suo amico.
“Vorrei farti la stessa domanda, ma visto che so già la risposta, e non è una bella risposta, evito di chiedertelo.” Si spostò verso destra, e facendo cenno con una mano vi invitò a sedermi accanto a lui.
Beh, il danno era fatto, ma ora mi preoccupavo di cosa lui sapeva.
“Cosa hai visto sentiamo?” la pietra era fredda ma mai quanto il brivido che mi percosse mentre attendevo una sua risposta .

 
“Troppo” rispondere senza dare dettagli non era da me, forse perché non le volevo far ripensare a sua madre. Mi sentivo in colpa.
“Voglio che dimentichi tutto” disse Ginevra decisa.
“Impossibile.”
“Allora ti prego di non dire niente a nessuno. Nemmeno Sue e le altre sanno ciò che sono sicura che sai”
“E come sai che io so?”
Cercava in tutti i modi di non parlare in maniera specifica dell’argomento poi sbuffando infastidita disse “Non sei stupido Valley. Quando qualcosa ti incuriosisce vai fino in fondo”
Silenzio. Sapevo cosa volevo dire ma per un attimo esitai.
“Questa volta ne avrei fatto a meno però” l’avevo detto!
Alzai lo sguardo per vedere lei. Trovai Ginevra che mi fissava con un espressione malinconica. Nei suoi occhi non c’era ira ma solo tristezza e paura: provai compassione.
Scostai lo sguardo da lei, mi sentivo a disagio “Dimmi che mi odi!” dissi con decisione volendo ritornare alla nostra caotica realtà.
Lei, senza esitare rispose “Ti detesto”
Sorrisi. Si, lei mi odiava come sempre. Bene. Tutto doveva tornare normale immediatamente, ma come potevo scordare quella serie di avvenimenti?
 
Mostrare il mio quotidiano disprezzo verso Aaron era la cosa più naturale del mondo infondo, mi risollevò il morale.
Mi alzai con l’intento di andarmene il prima possibile da quel posto “Forse è meglio che vada”
“Sarai sola”
“Non sono affari tuoi”
Si alzò anche lui accanto a me. Spostò lo sguardo altrove e, massaggiandosi una spalla indolenzita, mi chiese “Ti va di venire da me?”
La sua gentile offerta mi risuonò prima incredibilmente strana ma poi mi capacitai dell’idea che era pura pietà o il desiderio di mettermi le mani addosso. Con un ghigno poco amichevole dissi “Si, certo. Ti faccio così pena?”
“Guarda che parlavo sul serio”
Mi voltai curiosa della sua espressione. Serio e sincero mi fissava. Dio, che imbarazzo! Perché si stava comportando così?
“Rifiuto” dissi tutta d’un fiato avviandomi giù per le scale il più velocemente possibile. Mi aveva tolto il respiro. Sfortunatamente mi sentii afferrare per un polso.
“Insisto”

 
Non lo so perché volevo a tutti i costi portare Ginevra a casa Valley, ma ero sicuro che se sarebbe tornata a casa sua avrebbe trovato solo il vuoto. Già una volta mi era capitato di incontrare una persona sola nel vero senso della parola, ma ero troppo piccolo e troppo ingenuo per accorgermene in tempo anche se era diventato il mio migliore amico.
Mi misi gli occhiali da sole, giusto per non dare troppo nell’occhio, non volevo uno scandalo con Ginevra ovviamente, e la trascinai fuori dal giardino di quell’edificio. Stranamente non oppose resistenza assecondando i miei capricci.
“Non chiedermi perché non ti sto menando” disse la Wilson irritata da tutto quello che stava accadendo. Non mi voltai a guardarla perché non volevo poi ammettere di trovare carino quel suo viso imbarazzato.
“Tu rilassati e lascia fare a me” era ovvio che dopo una frase ambigua come quella, Ginevra mi scaraventò la sua borsa in schiena.
“Provaci a mettermi le mani addosso e sei morto!” lei era tornata quella di sempre e tutto ciò mi rendeva stupidamente felice senza capire il motivo.
 
Mi immaginavo che il “famoso” Aaron Valley abitasse in una lussuosa villa con tanto di piscina, nei quartieri alti della città, non in una casa nel vecchio quartiere dove di solito risiedevano gli immigrati e le persone in difficile situazione finanziaria.
“Eccoci a casa” quando Valley pronunciò quella frase pensavo che scherzasse. L’odore pungente di pesce mi infastidiva ma a quanto pareva, i suoi mandavano avanti una pescheria che era un tutt’uno con la casa.
“I miei stanno mettendo facendo la cassa giù al negozio, perciò posso farti fare il giro della casa senza troppe domande” detto questo entrammo in quella casetta a due piani. Era piccola e l’umidità era palpabile. Al contrario dell’aspetto esteriore, l’interno era molto accogliente con un arredamento semplice ma d’effetto, forse leggermente orientale a giudicare dalla porte che erano tutte scorrevoli e il soffitto abbastanza basso.
Il piano terra comprendeva la pescheria, la cucina, un salottino, un bagno e poi una veranda in legno che dava sul giardino ben curato. Arrivata al piano di sopra tramite una scala a chiocciola di ferro, Aaron mi fece vedere, velocemente le stanze, che in totale erano tre, e un bagno con tanto di vasca. Una rampa di scale in legno invece conduceva alla soffitta di cui, il giovane batterista non me ne fece parola.
“Beh, fai come se fossi a casa tua” mi disse infine il “padrone di casa” mentre mi accompagnava in cucina. Diciamo che non sarei mai riuscita ad abituarmi a quel genere di abitazione, così diversa dalla mia.

 
Guardava casa mia con curiosità, come se avesse appena scoperto un altro mondo. A dire la verità non mi ero mai fatto un’idea delle condizioni sociali della Wilson e sinceramente non riuscivo a farmela. Forse viveva in un semplice appartamento in città, forse in una casetta in periferia. Con le poche conoscenze che avevo su di lei, non riuscivo a realizzare nella mia mente la sua vita.
“Di chi dovrebbe essere la casa, scusa?” mia mamma, Hana Valley, mi arrivò alle spalle sorprendo prima me e poi la nuova ospite. Notai Ginevra guardare la donna di casa con sorpresa: sicuramente aveva intuito perché la nostra abitazione aveva quel chissà che di orientale!
“Oh, mamma!” esclamai voltandomi verso di lei “Vorrei presentarti la ragazza che mi dà ripetizioni per gli esami di settembre”
“Piacere, Ginevra Wilson” notai la cheerleader sorridere mentre porgeva la mano a mia madre. Anche un semplice sorriso di cortesia riusciva a fare un bel effetto su di lei, tentai di non fissarla troppo.
Un trambusto proveniente dalle scale richiamò la nostra attenzione.
Notai mia sorella maggiore con i suoi capelli platino e gli occhiali dalla montatura rosa shocking urlare “Si, la tua insegnante privata. Quella è una modella in piena regola.”
“Ran, non essere maleducata, vieni a salutare.”
“L’ho osservata per bene mentre Aaron le stava facendo fare il giro per la casa. Il foro che ho fatto alla porta del mio laboratorio di sartoria (soffitta) è utile ogni tanto”
Mia sorella continuò a schiamazzare finché non si rassegnò e si presentò i maniera civile a Ginevra. Perché avevo una sorella maggiore così odiosa?
 
Che razza di famiglia. Strana in tutti i sensi: una madre Giapponese che non faceva altro che raccontarmi che disastro di figlio aveva, una sorella mezza fuori di testa che mi accusava di essere una modella (assomigliava terribilmente a Aaron caratterialmente) e poi un padre che si complimentava con il figlio su “che bel bocconcino di ragazza” che aveva portato a casa.
Troppo caos, troppa allegria, troppo affetto: Valley aveva ciò che io, per tutta la vita, avevo sempre desiderato!
Inizialmente mi trovavo in difficoltà a integrarmi con l’ambiente ma poi, mi lasciai andare. La miglior cena dopo anni la passai a parlare di scuola, sport, viaggi. Nessuno accennò niente sulla mia famiglia, Aaron sicuramente si era preso la briga di dire ai suoi di evitare l’argomento.
“Vuoi fermarti a dormire, Ginevra?” mi chiese la signora Valley mentre mi gustavo in dessert, un budino.
Deglutii e risposi “Non vorrei disturbare”
“Se per i tuoi va bene per noi non c’è problema. Abbiamo una stanza inutilizzata”
“Si! dai, fermati a dormire” insistette il signor Valley intento a lavare i piatti “Non abbiamo mai ospiti, ci fa solo piacere avere qualcuno di nuovo in torno.”
“Ti siamo molto grati che lo aiuti a scuola, è proprio un somaro. Però l’ultima volta che ho messo un po’ in ordine camera sua ho notato dei libri di fisica aperti e un quaderno pieno di calcoli”
In quel momento il cuore mi sobbalzò di colpo e incominciò a correre. Osservai il budino senza dire niente. Aaron e sua sorella era intenti a stendere la biancheria, perciò quel lieve imbarazzo non fu notato da nessuno.
Mi fece un tale piacere che Aaron studiasse tanto da farmi curvare gli angoli della bocca verso l’alto. Per la seconda volta stavo improvvisando un sorriso grazie alla persona più odiosa del mondo
.
 
“Aaron, stendi il futon (materasso Giapponese che funge da letto) nella vecchia camera di Ran” dato quest’ordine pensai che sicuramente la mamma non si ricordava che casino regnava in quella stanza, era diventata un magazzino.
Mia sorella si esonerò dall’aiutarmi, ma Ginevra mi raggiunse di corsa.
“I tuoi mi hanno convinto a dormire qua, mi dispiace” disse in tono sarcastico mentre spostava una scatola piena di vestiti non usati in corridoio.
Sorrisi ironicamente “A me invece dispiace che devi dormire proprio nella stanza accanto alla mia e non con me, sul mio letto” là sua reazione fu ovvia.
“Pervertito! Tu prova solo …” non finì la frase per fortuna, visto che arrivò anche mia madre a darci una mano. La figura della brava ragazza doveva farla sempre e comunque se non si trovava da sola con me o con le sue amiche.
 
Tutto d’un tratto, distesa tra quelle morbide coperte, la casa mi sembrò terribilmente grande da farmi sentire insignificante. Io non ero nessuno, io non avevo nessuno. Perché un’idiota come Valley aveva ciò che io non avevo? Mi rattristai per un attimo ora che ero da sola, ora che facevo i conti con la mia solitudine.
I miei occhi si inumidirono. Dio, no! Non in casa altrui almeno. Non la seconda volta in una giornata. Soffocai un singhiozzo stringendo i denti. Ne soffocai un altro mordendomi il labbro. Basta! Ginevra Wilson non poteva essere così fragile, Ginevra Wilson non era fragile! Quella non potevo essere veramente io, io non piangevo mai, mai, mai!

 
La sentivo. La mia stanza e la vecchia stanza di mia sorella, erano state divise in seguito al nostro crescere, perciò la parete non era molto spessa.
Sentivo Ginevra: un lamento soffocato da mozzarmi il respiro. Non riuscivo a dormire.
Mi alzai di scatto e con una mano mi portai indietro i capelli. Cosa fare? Le mie gambe si mossero da sole. Scesi dal letto e mi avvicinai alla porta. Uscii in corridoio.
La porta della stanza in cui la ragazza dormiva era socchiusa, potevo scorgere nel buio la sua sagoma raggomitolata su un lato che stringeva forte il cuscino a se. Decisi di avvicinarmi.
“Se continui così non riesco a dormire” sussurrai aprendo di più la porta.
Lei non si mosse. “Vai via!”
“Beh, fino a prova contraria questa è casa mia”
“La verginità invece è mia”
Questa pensava sempre a me come se fossi un maniaco sessuale. “Così non allenti la tensione”
“Ti odio Valley”
Entrai e chiusi la porta alla mie spalle. Non la guardai ma mi avvicinai alla finestra. La aprii. La luce della luna penetrò all’interno della stanza, le stelle si vedevano in cielo.
 
Perché era venuto da me? Facevo così pena mentre piangevo per ottenere tale pietà?
Affondai il viso nel cuscino rimanendo raggomitolata su me stessa. Con l’orecchio ascoltavo ogni movimento del ragazzo, ma non osavo guardarlo: dovevo avere una faccia orribile.
Silenzio. Niente. Ancora silenzio. Io aspettavo di addormentarmi, lui aspettava che io parlassi. Decisi di cedere, ne avevo bisogno e forse, quel tonto di Aaron era l’unica possibilità che la vita mi regalava. Un regalo senza ritorno, non potevo cambiarlo purtroppo.
“Mia mamma è ricoverata in quel posto da quando avevo 11 anni. Prima il lavoro, poi la salute, poi la famiglia. Pensa che mi ha chiamato Ginevra perché è stato il suo primo ruolo importante nell’ambito professionale del suo lavoro.” non mi chiese il mestiere di mia madre, continuai “Mio papà promette di passare più tempo insieme, ma mente. Alla fine sceglie il lavoro. Va raramente a trovare la mamma all’Istituto” Non fece domande nemmeno su mio padre “Non hanno avuto il tempo di darmi fratelli e sorelle. Tutto ciò che ho sono foto piene di bugie e un appartamento troppo grande per una persona piccola come me”

 
Non volevo interrompere quel suo piccolo sfogo. Si stava aprendo con me e ciò mi dava la possibilità di capire il significato di quel carattere rude, non riusciva a fidarsi di nessuno; di quell’atteggiamento solitario, era vissuta nella piena solitudine; e di quello sfogo, era troppo fragile da vergognarsene.
“Vorrei solo svegliarmi la mattina e sentirmi dire buongiorno, vorrei solo addormentarmi la sera augurando buonanotte, vorrei solo avere ciò che hai tu!”
Doveva essersi calmata perché finalmente vidi il suo volto riemergere dalle coperte. La luna mi dava modo di vedere gli occhi leggermente arrossati, ma nessuna traccia di lacrime. Era riusciva a rimuoverle.
Mi fissava con disprezzo. Io ricambiavo il suo sguardo con indifferenza. Entrambi eravamo troppo orgogliosi per cedere: io per abbracciarla tentando di darle il mio sostegno e lei per continuare a piangere.
 
Dire quelle poche frasi mi aveva fatto bene. Ora mi sentivo bene. Il pianto si era calmato e riuscivo a distinguere per bene Aaron illuminato dalla luna.
Una brezza notturna penetrava nella stanza dalla finestra aperta. Rabbrividii e mi rannicchiai su me stessa mettendomi seduta. Silenzio. Avrei voluto parlare.
Era così strano stare là, nella stessa stanza di Valley senza insultarlo, senza provare il piacere di farlo.
“Grazie.” sussurrai tirando leggermente su con il naso.

 
Nessuno dei due aveva intenzione di distogliere lo sguardo. Sorrisi dopo quella semplice parola che mi aveva rivolto. Sorrisi perché non avevo parole sensate da dirle. Il mio cervello non riusciva a formulare frasi per una situazione del genere. Mi avvicinai a gattoni verso di lei.
 
Si avvicinò a me. Rannicchiata su me stessa me ne restai immobile. Era molto vicino. Così vicino da potermi specchiare nelle sue iridi splendidamente verdi. Spostò il volto verso su, non più verso di me e sentii le sue labbra umide appoggiarsi sulla mia fronte. Mi baciò con irreale dolcezza mentre io restavo imbambolata a fissare di fronte a me la collana in argento che Aaron portava sempre al collo. Anche se i miei occhi erano puntati su quell’oggetto metallico la mia mente era altrove.
Una parola, e un batticuore improvviso partì.

 
“Buona notte” le sussurrai dopo averla baciata sulla fronte. Darle la buona notte rientrava nei suoi desideri. Perché lo stavo esaudendo? Perché non mi ero buttato su di lei come su tutte le ragazze?
In quel momento di veloce riflessione di accorsi di tenere a lei in maniera particolare. Avevo bisogno di riflettere. Avevo paura che per me, dopo oggi, niente sarebbe stato più lo stesso.
 
Valley sei un idiota, pensai nella mia testa. Questo suo gesto mi stava mandando nella confusione più totale senza darmi modo di riflettere.
Fece per alzarsi e abbandonare la stanza, in quel momento decisi di fare il gesto più stupido mai fatto in vita mia: lo trattenni. Gli afferrai un polso. Lui si voltò di scatto e io gli dissi “Resta. Sono già stata troppo tempo sola.”

 
“E se ti salto addosso?” volevo far tornare la nostra normale atmosfera a tutti i costi, forse era l’unica soluzione per scacciare la confusione.
“Ti ammazzo.” Beh, almeno nell’offendermi non ci perdeva mai gusto “Ma stranamente mi fido di te. E poi non ti ho chiesto di stare nello stesso letto, ma nella stessa stanza”
Mi sedetti nuovamente a terra accanto a lei. La osservai distendersi e mettersi sotto le coperte mentre teneva d’occhio i miei movimenti. Ero tentato: quella camicia da notte troppo grande le scopriva una spalla e le nude gambe erano sempre state ben in vista.
 
Spostai il cuscino verso l’esterno e mi presi solo un piccolo angolo “Spero che ti basti”
Lui si distese sul pavimento e con la testa sul cuscino. Eravamo molto vicini. Troppo vicini. Una vicinanza che stava facendo aumentare il mio battito del cuore. Tensione? Si, molta.
“Buona notte, Valley” dissi chiudendo gli occhi e girandomi dalla parte opposta alla sua. Non volevo vederlo.
“Buona notte, Ginevra” Dio, come era strano sentire il mio nome, per la prima volta, fuoriuscire dalla sua bocca, prodotto dalla sua voce, dalle sue corde vocali, da lui.

 
Per la prima volta non la chiamai per cognome, non so il perché di questo improvviso cambiamento. Quella notte non capivo il perché di molte cose:
La prima, perché mi trovavo nella stessa stanza della ragazza che odiavo di più al mondo;
La seconda, il motivo per cui mi sentivo particolarmente teso da non riuscire a chiudere occhio;
La terza, la tentazione di stringere Ginevra tra le mie braccia e augurarle la “Buona notte” all’infinito.

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