Will you remember me? .

di myloxiloto
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sono passati 7 anni lo sai?. ***
Capitolo 2: *** l'inizio di qualcosa. ***
Capitolo 3: *** gli occhi color cielo. ***
Capitolo 4: *** due nuovi compagni. ***
Capitolo 5: *** Dave e Chris. ***
Capitolo 6: *** la donna susi. ***
Capitolo 7: *** credetti di morire. ***



Capitolo 1
*** Sono passati 7 anni lo sai?. ***


Me la ricordo ancora sai?
L’ultima volta che ti ho visto, la ricordo più della prima.
Con quel falso sorriso hai spezzato tutto, tutto ciò che di buono avevamo costruito fino a quel momento.
Eravamo così tante, ma io mi sentivo così sola lì, per te. Come se ad un tratto tutto si fosse dileguato, come se ci fosse soltanto quel vetro, tu ed io.
Ma tu ti voltasti senza dire neppure una parola, che poi anche se l’avessi detta, io non l’avrei mai sentita, avrei al massimo potuto decifrarla.
Ma mi lasciasti lì, dietro quel vetro in mezzo alle ragazze che urlavano il tuo nome spingendomi, ed io lasciavo fare si, perché mi sentivo pietrificata, ero inadatta a quel contesto, ti è bastato un solo attimo a farmi perdere tra la gente, a massificarmi come se per te non ero più nulla. 
Sai, in quel momento avrei desiderato più di qualunque altra cosa, che prima di andartene avresti ricordato.
Ricordi quando il tempo girava soltanto intorno a noi?
Quando all’uscita da scuola andavamo a nasconderci in quella casetta sull’albero che avevamo costruito con tanto amore solo per passarci tutto il tempo che volevamo insieme?
 ..e ricordi quando mi sei apparso davanti con i capelli colorati di viola?
Ed io mi son messa a ridere come una matta offendendoti, ma dentro di me pensavo che..eri consapevolmente irresistibile.
Ma ti ricordi quando la mattina andavamo insieme alla fermata del bus, quante scritte sopra quei muri eh?
Il mio, il tuo nome, sono ancora lì, forse sono state cancellate o nascoste da altre scritte, e beh ne son passati anni, lo posso anche capire.
E quel giorno che invece non mi aspettasti fuori da scuola?
Io me lo ricordo bene.
Eri solito aspettarmi sempre, e invece quel giorno non eri lì, seduto sul muretto.
Ti cercai come una matta, l’ultimo posto dove andai poi, fu la casetta sull’albero, in effetti eri lì.
Ti chiesi cos’era successo, ma non rispondevi e abbassavi gli occhi, piangevi.
Fu la prima volta che ti vidi piangere, sai?
La prima volta che mi abbracciasti accasciandoti tra le mie braccia.
Ti avevano picchiato a scuola, si ti avevano picchiato perché ai loro occhi eri diverso, beh, eri soltanto più carino a mio parere.
E allora con tanto coraggio andai a picchiarli, non so neppure perché lo feci, ma non sopportavo il fatto che il mio migliore amico venisse picchiato senza nessuna ragione.
Mi dicevi che ero l’amica più bella del mondo, ci divertivamo un mondo insieme.
Piangevo sempre sentendoti cantare, pur sapendo che ancora avevi tanto da imparare, ma mentre cantavi, io ti fissavo con gli occhi di chi sogna, pensando che avrei sognato così tutta la vita accanto a te.
E invece qualcun altro quella sera, ti sentii cantare per la prima volta, sembra brutto a dirsi, ma fu ancora peggio vederlo con i miei occhi, vedere quel foglio di carta poggiato sul tavolo, una penna, e quella stretta di mano.
Tu, e tua madre, insieme sorridevate, ed io li in disparte.
Poi il tuo sguardo cadde su di me, il tuo viso illuminava quel locale, la gente continuava a farti complimenti.
Ti avvicinasti a me con quel foglio in mano, “ è mio Sugar! È tutto mio finalmente!”.
Sorridevo, ma in fondo ero disperata.
Mi mettesti il foglio tra le mani, avevi già firmato.
“Adesso, adesso sei una star.” Dissi ridandoti in mano il foglio.
E tu dicesti un “si!” entusiasmato.
Era tutto quello che avevi sempre sognato, cantare, recitare, essere una star,esternare quelle emozioni che fino a quel momento avevi dato soltanto a me e a tua madre.
Ma nel momento in cui firmasti quel foglio, ho capito tutto.
Te ne saresti andato da lì, non saremmo mai più andati a nasconderci dentro quella casetta, non avremmo mai più passato i pomeriggi insieme, scrivendo i nostri nomi sui muri alla fermata del bus.
Una cosa di positivo c’era, non ti avrebbero più picchiato, e si perché al posto mio ci sarebbe stata una guardia del corpo, meglio vero?
Molto meglio di una ragazzina che si finge un ragazzino bullo soltanto per difenderti.
Mi dicesti che mi avresti sempre portato dentro il tuo cuore, anche se avessi viaggiato per il mondo intero.

Sono passati 7 anni lo sai?

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Capitolo 2
*** l'inizio di qualcosa. ***


Aprii gli occhi.
Ero nel mio letto, ma sicuramente non era ancora arrivata l’ora di svegliarsi: dalla poca luce che filtrava dalle persiane, ero sicura che il sole stesse ancora sorgendo.
Gettai indietro le coperte e mi alzai.
Scrutai le cifre sul display del cellulare: ero in anticipo di mezzora sulla sveglia del telefono, impostata, per la prima volta dopo tre interi mesi, alle sei e un quarto.

Alzai la persiana e assaporai l’aria fredda dell’alba sul viso.
Fui attraversata da un piccolo brivido, ma era piacevole stare lì a guardare la città addormentata. Mi rilassava.

Neanche il pensiero della giornata che mi attendeva scalfì il buonumore regalato da quel momento di tranquillità.
Quel giorno era il MPGDS (Maledetto Primo Giorno Di Scuola).
Avevo diciassette anni e stavo iniziando il quarto liceo.
Amici? Pochi ma buoni. Ragazzi? Neanche l’ombra. Che tristezza. E che rabbia.
D’accordo, i fianchetti e la pancetta c’erano, ma, diamine, da quando portare la 44 è un fattore discriminante?
L’unica cosa che amavo veramente di me stessa erano gli occhi, di un colore che variava da azzurro a grigio a verde, a seconda del tempo, dei vestiti che indossavo, e a volte persino dell’umore.

Sospirai, mentre la brezza mi accarezzava i capelli, il viso, le braccia nude.
Era bello che a metà settembre si potesse ancora assaporare un venticello fresco come quello.

Rimasi affacciata alla finestra per minuti interminabili, con quelle gradevoli folate di vento che mi svegliavano a poco a poco dal torpore.
Il sole non era ancora sorto del tutto sopra le palazzine, quando la sveglia del cellulare suonò. Sbuffai e la spensi; l’effetto rilassante era svanito.
Andai in bagno a prepararmi; sentivo dei rumori provenire dalle altre stanze, prova inconfutabile che la mia sveglia non era stata l’unica a suonare. Quando fui pronta, venti minuti più tardi, andai in cucina a fare colazione; ero sempre la prima a mangiare, perché l’autobus che mi avrebbe riportata a scuola dopo tre mesi di meritato riposo sarebbe passato alle sette e cinque minuti.
Mia madre mi raggiunse nell’arco di due minuti.
« Hai preparato la cartella? »
« Sì, mamma, stai tranquilla » la rassicurai.
Sorseggiai il mio caffè, mi alzai e presi lo zaino; stampai un bacio sulla fronte di mia madre, salutai a gran voce mio padre e mia sorella e uscii di casa, nella fresca aria settembrina.

In breve arrivai alla fermata, mi sedetti sulla panchina lì accanto e mi guardai intorno.
Era deserto.
Vanessa, la mia migliore amica, non era ancora arrivata, e questo mi fece sorridere: di solito quella in ritardo ero io.

Non dovetti aspettare molto: dopo neanche un minuto sbucò fuori dal vicoletto che stavo tenendo d’occhio, mi vide e corse ad abbracciarmi, con i riccioli scuri al vento e la borsa in spalla. Mi strinse forte; non ci vedevamo da tanto, tanto tempo.
« Ciao! » disse lei, entusiasta, con un sorriso larghissimo.
« Ciao! » risposi io. « Com’era Miami? »
Era andata a Miami per ben tre settimane. E infatti, notai dopo un secondo, era abbronzatissima.
« Stupenda! » rispose Vanessa con entusiasmo, e si lanciò nella descrizione del suo lungo viaggio, che continuò sull’autobus, fino alla scuola.


Ascoltai affascinata il suo resoconto sull’albergo, sulle bellezze di Miami, il cibo, i ragazzi, il viaggio. Da come Nessa ne parlava, si capiva subito che il soggiorno le era piaciuto molto. Era tornata solo il pomeriggio del giorno prima, piena zeppa di dolci, e aveva già provveduto a ficcarmi nello zaino un’intera scatola di delizie sicule.
Sperai di riuscire a trattenermi dal vuotarmela direttamente in bocca e lasciare che arrivasse a casa ancora sigillata.
Molti ragazzi erano già arrivati, dato che mancavano solo quindici minuti al suono della vecchia campanella della scuola. Mentre Nessa mi raccontava delle grandi onde che aveva cavalcato, però, qualcosa mi distrasse.
Accanto al cancello, un paio di ragazzi che sembravano avere la nostra età ci guardavano con interesse.
Ero sicura di non averli mai visti prima.
Gli lanciai un’altra occhiata, mentre loro riprendevano a parlare. Carini.
Quando fui sicura che non ci stessero guardando, mormorai a Vanessa: « Hai notato? Quei due bellimbusti ci stavano fissando. »
Lei interruppe immediatamente il suo racconto, una reazione prevedibile.
Il suo radar era estremamente sensibile. « Quali? Quelli appoggiati al muretto? »

« Sì, quelli. »
« Ne conosco uno, » disse Vanessa, guardandoli di sottecchi, « è nella stessa classe di Tessa. Si chiama Michael, è quello con gli occhi scuri. Ma non ci ho mai parlato. »
Tessa era la cugina di Vanessa; aveva un anno in più di noi, ma era stata bocciata al terzo anno. Lei e Vanessa erano in buoni rapporti, ma non uscivano quasi mai insieme.
« Me l’ha presentato al suo compleanno » continuò Vanessa, lanciando occhiate fugaci ai due ragazzi. « Ma non conosco il suo amico. »
Li guardai di nuovo anch’io. Uno era castano, con gli occhi e la pelle scura, molto alto; aveva l’aria dello sportivo, resa anche dalla tuta di marca che indossava; fui immediatamente sicura che si trattasse di Michael.
L’altro, di pochi centimetri più basso, aveva i capelli di un castano-biondo fissati con il gel, e un paio di occhiali da sole stretti in mano.

Distolsi lo sguardo.
Beh, quel Michael aveva sicuramente un bel fisico, ma di viso non era poi stupendo com’era sembrato a prima vista.
Non era neanche brutto, però; anzi.

Non riuscii ad impedire a me stessa di sbirciare di nuovo in direzione dell’altro ragazzo. Era più snello rispetto al suo muscoloso amico, ma il suo fisico più naturale mi piaceva molto di più.
Rideva e scherzava con Michael.
Non sembrava ci stessero guardando, ma quando spostai lo sguardo su Michael, scoprii che mi stava osservando attentamente, mentre i miei occhi erano fissi sul suo amico.

Arrossii furiosamente e mi voltai di scatto.
Oh, Dio! Che figuraccia… proprio il primo giorno di scuola. Fantastico.
E poi, era proprio necessario che arrossissi in quel modo? Patetico, sbuffai irritata.
Mi ero quasi dimenticata di Vanessa, accanto a me. « Come ci dividiamo il Ringo? » mi chiese, sorridendo con aria divertita.
« Come, scusa? » chiesi, annebbiata. Avevo il sorriso dell'altro ragazzo stampato nella retina, e la figuraccia fatta con Michael stampata nel cervello.
« Terra chiama Sugar, rispondi, Sugar » sghignazzò Vanessa, lanciando un’occhiata maliziosa in direzione della fonte della mia distrazione.
Le diedi una botta sul braccio. « Dài, piantala » sorrisi. « Cosa stavi dicendo? »
Lei ridacchiò. « Ti ho chiesto come vogliamo dividerci questo bel Ringo. »
« Intendi crema o cacao? » Sorrisi a mia volta. Era proprio fuori di testa.
Per fortuna, altrimenti non avremmo mai potuto andare d’accordo.
« Esattamente, tesoro. »
Non ebbi neanche bisogno di rivolgere loro un’ultima occhiata. « Decisamente crema. »
« Ottimo. Io invece dico cacao… che poi tanto cacao non è » aggiunse, mentre osservava critica il colore dei bicipiti di Michael.
« Direi che è abbastanza abbronzato, no? »

Scherzammo per qualche altro minuto. Quando parlavamo di “dividerci il Ringo”, sapevamo benissimo di non avere chance con due tipi del genere.
Forse, Vanessa sì. Era molto bella, un tipo mediterraneo, e faceva girare la testa a parecchi ragazzi. A volte era difficile per me starle vicino: i ragazzi spesso si accorgevano solo di lei. Io non solo non ero esattamente quel che si definisce una taglia 40, ma nella 44 entravo a stento. Era altamente improbabile che un ragazzo così bello si interessasse ad una come me.

Ma anche loro avevano ricominciato a gettare occhiate dalla nostra parte, scambiandosi sussurri e sghignazzando. Dio, che risata adorabile.
Ovviamente, non stavo parlando di Michael.

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Capitolo 3
*** gli occhi color cielo. ***


Mancavano circa cinque minuti all’apertura dei cancelli, quando un manipolo di sinuose ragazze dell’ultimo anno passò davanti a Michael e al suo amico, attirando quasi magneticamente i loro sguardi, con profondo disappunto mio e di Vanessa.
Rimasero per almeno un minuto a guardarle con occhi rapiti.

« Accidenti » borbottò Vanessa. « Non posso credere che ogni singolo studente maschio di questa scuola fissi il sedere di Martina del quinto F ogni volta che lei gli passa davanti. »
« È la dura realtà » commentai con finto tono tragico. Cercavo di scherzare, ma anch’io ero infastidita.
Tornai con lo sguardo al soggetto che quella mattina avevo preferito in assoluto, e il mio cuore fece un balzo.

Mi stava guardando. Quando il mio sguardo scivolò in quegli occhioni azzuri, però, lui li distolse immediatamente; 
E lui, stava arrossendo?
Perché lo avevo sorpreso a guardarmi, poi?
Oh, Dio. Non è possibile.
Studiai i suoi movimenti.
Per qualche secondo tenne la testa bassa, lo sguardo altrove, non guardava nemmeno Michael. Poi risollevò la testa e scoppiò a ridere. Sembrò che concordasse con qualcosa che Michael aveva appena detto.

Inforcò gli occhiali da sole, anche se non c’era poi troppa luce.
Dio, adesso ha cambiato modalità: da “dolce e timido” a “sexy e strafigo”. Diiio, aiutami. Possibilmente PRIMA del collasso.

Grazie, la direzione.
Forse Dio mi ascoltò, perché un secondo più tardi la campanella diede nel suo primo trillo settembrino; la folla di studenti si riversò all’interno dei cancelli ormai aperti, e nella confusione Michael e il suo amico scomparvero.


Accidenti, li avevamo persi. Entrammo nell’atrio, spintonate dalla folla, cercandoli con lo sguardo.
« Li vedi? » mi chiese Vanessa, che cercava di avvistare i due ragazzi nel mare di teste che camminavano in tutte le direzioni, alzandosi sulle punte tutte le volte che la spinta degli studenti che si accalcavano per entrare si faceva più debole.
« No, ma il quarto C è da quella parte » dissi, indicando il corridoio che si apriva alla nostra destra.
« Non li vedo comunque » scosse la testa Vanessa. « Accidenti, devo assolutamente ritrovare Michael. »
« Come mai stamattina ti ha fatto quest’effetto, mentre al compleanno di Tessa non avete scambiato una parola? » le chiesi, dando voce ad una curiosità improvvisa.
« Beh, l’altra volta non era così… in forma » rispose Vanessa, di nuovo maliziosa, mentre superavamo, deluse, il corridoio della sezione C, completamente privo di Michael e del suo amico.
Salimmo una rampa di scale, sulla cui cima ci salutammo come al solito: Vanessa proseguì su per un’altra rampa, fino al quarto E, mentre io mi avviai nel corridoio del primo piano, verso l’aula del quarto A.
Trovai l’aula giusta e vi entrai, ma la mia mente vagava fuori di lì. Precisamente, era fissa sul muretto a cui quel ragazzo dall’aria così dolce si era appoggiato solo uno o due minuti prima. Quegli occhi grandi, quel profilo perfetto, quelle labbra generose, quei capelli così ben sistemati, quella camicia azzurra che…
Improvvisamente urtai qualcosa di solido: ero andata dritta a sbattere contro una sagoma dai capelli corti e castani che si rivelò essere Rachele, una mia compagna di classe.
« So che è dura tornare a scuola dopo tanto tempo, » mi sorrise lei, « ma la trance mattutina è un po’ esagerata, non credi? »
« Oh, ciao, » balbettai, imbarazzata, « scusami, stavo pensando… »
« Non fa niente, tranquilla. » Sorrideva ancora. « Allora, com’è andata l’estate? Non ci siamo viste quasi per niente, in questi mesi. »
Non ero veramente interessata alla conversazione con Rachele: avevo ancora la testa piena di pensieri e domande sul ragazzo con gli occhi color cielo, ma mi faceva piacere rivedere un’amica dopo tanto tempo. Attaccò a raccontarmi della sua vacanza a Rio de Janeiro, ma io ascoltavo solo a metà.
Dov’era? Era uno studente di quel liceo? Ricordai che a pochi passi da lì c’era un’altra scuola superiore; e se avesse semplicemente accompagnato Michael alla sua scuola, per poi dirigersi verso la propria?
Oh, santo cielo.
Mi congedai da Rachele, cercando di non essere scortese, e cercai un banco libero. Per fortuna, i posti in terza fila erano quasi tutti liberi. Quasi corsi ad occupare quello accanto al muro, appoggiando la borsa sul banco, e mi sedetti. Non riuscivo a scambiare le solite chiacchiere del primo giorno, ma perlomeno risposi ai saluti dei miei compagni di classe con un tono normale.
Rimasi seduta, le braccia posate sul banco e la mente lontana anni luce da quell’aula.

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Capitolo 4
*** due nuovi compagni. ***


Dopo sole tre ore, il MPGDS (Maledetto Primo Giorno Di Scuola) era già finito.
Nessuno era venuto a sedersi accanto a me, ma non me ne ero neanche accorta: la mia mente era altrove, e mi ero quasi sorpresa quando, all’ennesimo suono della campanella, tutti i miei compagni si erano alzati mettendosi le cartelle in spalla e avviandosi fuori dall’aula.

Risvegliandomi subito da quelle dolci fantasticherie, presi lo zaino e corsi fuori dall’aula, sperando che Vanessa si muovesse a scendere la rampa di scale che ci divideva.
Era già lì, e aveva anche la mia stessa espressione impaziente. Non potei fare a meno di ridacchiare. Mi prese la mano e mi trascinò a razzo giù per le scale, cercando di non travolgere gli altri studenti; in men che non si dica, eravamo già fuori, nel cortile.
« Vanessa, aspetta » le dissi, mezza sfiatata. « Non sono sicura che venga a scuola qui… »
« Non si sarebbe fermato a chiacchierare così tanto con Michael, se avesse dovuto fare della strada, no? » disse, come se mi stesse spiegando una cosa ovvia.
In effetti, aveva ragione, ma non riuscivo a scacciare quel pensiero spaventoso dalla testa. Lo avevo visto soltanto una volta, e già mi struggevo per sapere se frequentasse il mio stesso liceo o meno.
« Ma tu stessa hai detto di non averlo mai visto » osservai. « E neanch’io l’ho mai notato da queste parti. » 
Diversamente, ero che sicura al cento per cento che me ne sarei ricordata.
Sembrò che l’esuberante sicurezza di Vanessa tentennasse. « Su, abbi un po’ di fede. » Si affrettò a cercare Michael con lo sguardo.
Con uno sbuffo impaziente iniziai anch’io ad ispezionare i ragazzi che passavano davanti alla nostra solita postazione, sedute sull’alta base di un lampione.
Dopo pochi secondi, Vanessa esclamò: « Eccoli, laggiù! »
Ci misi poco a individuarli. Camminavano insieme ad un gruppetto di ragazzi che conoscevo soltanto di vista, e sembravano spassarsela un mondo.
Solo dopo qualche secondo realizzai che non aveva né borse né zaini con sé. Ma allora, da dove era uscito?
« Ho un’idea » esclamò Vanessa all’improvviso. « Quando passeranno di qui, tu fingi di allacciarti una scarpa, così possiamo origliare. »
« Buona idea » approvai.
Fingemmo di chiacchierare, mentre la banda di ragazzi si avvicinava; quando furono quasi all’altezza dei cancelli, Vanessa si alzò e finse di aspettarmi, mentre io mi chinai ad “allacciare le scarpe”. Riuscivo a sentire gli schiamazzi del gruppo; misi una ciocca di capelli dietro l’orecchio per evitare che coprisse l’intera visuale e cominciai ad armeggiare a casaccio con i lacci; probabilmente a casa avrei dovuto usare le cesoie per sciogliere i nodi.
« Beh, ragazzi, io e Chris dobbiamo andare » sentii dire una voce maschile. « Ci vediamo domani. »
Saluti sparsi. Sbirciai di nuovo. Michael ed il ragazzo con gli occhi azzurri si erano separati dal gruppo alzando la mano in segno di saluto, si avviarono rapidi lungo la strada, svoltarono a destra e sparirono.


Il giorno dopo, misi molta più attenzione nel trucco e nell’abbigliamento.
Mi preoccupai che la linea dell’eye-liner fosse assolutamente perfetta, una cosa a cui non avevo mai pensato prima, ma che quella mattina mi sembrò vitalmente importante.

Quando arrivai alla fermata dell’autobus, Vanessa era già lì. Ci salutammo e subito iniziammo a spettegolare riguardo Michael e… Chris? Non ero sicura di aver capito bene il suo nome.
La nostra discussione era semplicemente la prosecuzione della lunga telefonata del pomeriggio precedente; avevamo chiacchierato così tanto che mia madre venne a chiedermi di attaccare, dato che stavo spendendo una fortuna e che lei aveva bisogno del telefono.
Quando arrivai alla fermata, Vanessa era già seduta sulla panchina a limarsi le unghie.
Vidi parecchio eye-liner più del solito a ingrandirle gli occhi castani; sembrava una modella. Per qualche motivo, cercai di evitare il paragone con Naomi Campbell.

Aspettammo l’autobus per dieci, quindici, venti minuti, e quando finalmente comparve all’orizzonte, eravamo decisamente in ritardo. Lanciando epiteti e maledizioni e sperando di non beccarci una nota, salimmo a bordo alla velocità della luce e chiedemmo all’autista di fare più in fretta possibile.
Non appena le porte si riaprirono, corremmo giù e riuscimmo per un pelo ad evitare che il custode della scuola ci chiudesse il cancello in faccia.
« Sbrigatevi, scansafatiche! » ci gridò dietro. Che uomo gentile.
Irrompemmo nell’atrio luminoso e salimmo le scale, frettolose. Ci scambiammo il solito “ciao, a dopo” alla fine della prima rampa di scale, poi lei proseguì verso l’alto, mentre io giocavo alla velocista nel corridoio deserto. Mi fermai di botto davanti alla porta della mia classe. Cavolo, era già chiusa (come tutte le altre porte del piano, del resto).
L’insegnante doveva già essere dentro.
Essendo il secondo giorno, non avevo idea di chi fosse; sperai che non si trattasse dell’acida professoressa di lettere.

Bussai alla porta, ma non ricevetti risposta.
Indecisa, con il fiatone, abbassai la maniglia e diedi un’occhiata dentro.

« Oh, buongiorno. Ci degni della tua presenza, allora? »
Lo immaginavo. La professoressa di lettere mi squadrava con quella sua aria di sopportazione che detestavo con tutto il cuore.
« Ehm, buongiorno » salutai, imbarazzatissima. « Scusi il ritardo, ma l’autobus… »
« Non mi importa delle tue scuse » mi interruppe, gelida. « Siediti. »
Obbedii senza fare rumore, con gli occhi di tutti i compagni di classe addosso. Che imbarazzo. Guardate da un’altra parte!
« Come stavo dicendo prima che Susi mi interrompesse, » disse la professoressa in tono di sopportazione, guardandomi in cagnesco, « quest’anno avrete due nuovi compagni di classe. »
Due nuovi compagni?
Alzai di scatto la testa.
In piedi accanto alla professoressa, con lo zaino in spalla e l’espressione un po’ imbarazzata, c’erano due ragazzi. Mi chiesi come avevo fatto a non notarli entrando in classe; probabilmente ero stata distratta dalla solita acidità dell’insegnante. Li esaminai.
Il primo era chiaro, con gli occhi e i capelli castani sparati da tutte le parti con il gel. Si vedeva lontano un miglio che era uno di quei tipi che scatenano l’inferno in dieci secondi.
Il mio sguardo si posò sul secondo nuovo arrivato. Mi si bloccò il respiro.
Accanto a quello con i capelli castani, stava il ragazzo dagli occhi azzurri.

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Capitolo 5
*** Dave e Chris. ***


Seduta allo stesso banco del giorno prima, potevo solo immaginare che faccia avessi, affannata e scarmigliata dalla corsa folle per arrivare in orario, con gli occhi sgranati dalla sorpresa. La professoressa di lettere si rivolse ai nuovi arrivati.
« Sedetevi, ragazzi » disse, indicando loro le file di banchi già occupati e coperti di graffiti.
Notai che parecchie ragazze li fissavano con estremo interesse.
Scossi la testa. Se alcune di loro avessero puntato il ragazzo con gli occhi azzurri, sarebbe stata la fine.
Per un attimo guardai l'altro ragazzo . Non lo avevo mai visto, esattamente come il ragazzo da gli occhi azzurri il giorno prima…
Fui fulminata dall’esigenza di rispondere ad una domanda improvvisa: perché il ragazzo da gli occhi azzurri, il giorno prima, era entrato ed uscito dalla scuola in orari normali, ma senza che io lo vedessi all’interno dell’edificio scolastico?
Era stato assegnato alla mia stessa classe, quindi avrebbe dovuto trovarsi lì dentro anche il primo giorno.
Stesso dicasi uguale per l'latro, anche se non lo avevo visto affatto durante il giorno prima.
Che strano. 
Con un secondo pensiero repentino, fui estremamente consapevole del posto vuoto alla mia sinistra.
Mi ritrovai a supplicare con frenesia nella mia mente “Dai, ti prego, vieni da questa parte, siediti qui… Questo posto è libero… su…”
Neanche avesse captato i miei pensieri, incrociò i miei occhi. Per un breve istante ci guardammo, poi lui distolse lo sguardo, rivolgendolo al posto vuoto accanto a me.
Accennò un passo nella mia direzione, ma l’altro ragazzo fu più veloce.
Con una rapida falcata gli passò davanti e venne a sedersi vicino a me, togliendosi lo zaino dalle spalle.
Coooosa?!?
Nooo!
Mentre lui posava la cartella a terra, lanciai uno sguardo al ragazzo con gli occhi color cielo.
Aveva guardato con aria perplessa il mio nuovo vicino, mentre si avviava verso l’unico posto rimasto libero, in prima fila, proprio davanti alla lavagna.
Con estremo disappunto, constatai che era quello accanto a Sharon Lewis, che oltre ad essere stupenda, quel giorno portava una maglietta che era riduttivo definire provocante.
Non appena il ragazzo da gli occhi azzurri si avvicinò, lei iniziò a sorridergli e a giocherellare con i suoi lunghi capelli biondi.
Accidenti. Bambola Sharon era tornata alla carica fin dal secondo giorno di scuola; forse aveva stabilito un record.
« Dave e Chris si sono appena trasferiti a scuola » spiegò brevemente la professoressa alla classe, poi si rivolse direttamente ai nuovi arrivati. « Ragazzi, perché non ci parlate di voi? » Guardò il ragazzo alla mia sinistra: « Dave? »
Tutta la classe si voltò a guardare il ragazzo, che non si alzò, ma parlò con voce squillante.
« Mi chiamo Dave e ho diciotto anni. I miei mi hanno dato un nome inglese perché sono nato in Gran Bretagna, ma sono italiano. »
Tacque, ma evidentemente la professoressa non era soddisfatta.
« Non vuoi dirci qualcos’altro? »
Dave scosse la testa.
« No, direi di no. »
« Bene » replicò lei, con l’aria non troppo contenta. Qualcosa nel suo sguardo mi suggerì che Dave non avrebbe avuto un anno facile con lei. « Chris? »
I miei occhi, come quelli dei miei compagni, scattarono subito da Dave al ragazzo da gli occhi azzurri. Sentii il mio vicino cambiare posizione sulla sedia, ma avevo occhi solo per quel misterioso ragazzo, del quale finalmente avevo conosciuto il nome: Chris. Mi sembrò di non aver mai sentito un nome più bello e musicale.
Neanche lui si alzò, ma la sua voce era più bassa di quella di Dave. Dal tono che usò, capii subito che doveva essere imbarazzato.
Mi compiacqui di me stessa: avevo indovinato, era timido.
« Well*… mi chiamo Chris e sono americano. Ho diciannove anni, ma ho perso gli ultimi due anni di scuola per studiare l’italiano. Sono in Italia da cinque anni. » Aveva l’accento straniero, ma questo non impediva che le sue parole sembrassero i versi di una poesia.
La professoressa gli rivolse qualcosa che avrei potuto definire un sorriso, se fossi stata sicura che non avesse mai sorriso a uno studente in trent’anni di carriera; poi si sedette alla cattedra e iniziò una lezione di ripasso.

Mentre la professoressa attaccava a ripetere una vecchia regola di latino, una voce maschile giunse al mio orecchio sinistro: « Ciao. Ti chiami Susi, vero? »
Mi voltai verso il mio nuovo vicino di banco. Dave era seduto sul lato della sedia, completamente girato verso di me; aveva la mano tesa e gli occhi vaccesi da un sorriso amichevole, irresistibile. Era impossibile non ricambiare quel calore; e nonostante fossi furiosa con lui perché aveva mandato Chris dritto nelle grinfie di Bambola Sharon anziché accanto a me, gli strinsi la mano con un gran sorriso.
« Sì,in realtà Sugar,ma per gli amici Susi » risposi. « Piacere. »
« Piacere mio » replicò lui; il suo sorriso si allargò.
« Come sei finito qui? »
« Sono stato bocciato per la seconda volta, e i miei genitori non l’hanno presa bene » spiegò.
« Come mai sei stato bocciato? » gli chiesi, controllando che la professoressa non si accorgesse dei nostri sussurri.
« Diciamo che lo studio non rientra nelle mie attività preferite » ghignò lui.
Non sembrava gli importasse molto della scuola neanche dal modo in cui si era vestito, uno stile un po’ troppo trasgressivo per andare a lezione.
Mentre lui parlava, sbirciavo Sharon e Chris. Lei continuava a sorridere e giocherellare con quelle sue ciocche bionde.
Non avevo mai avuto niente contro Sharon, anche se non eravamo vere e proprie amiche; ma all’improvviso mi apparve una scialba Barbie da quattro soldi con il cervello grande quanto una nocciolina. Mi resi conto con sorpresa che in quel momento avrei potuto farla fuori lanciandole una sedia e fregandomene altamente delle conseguenze.
Sperai per lei che non mi desse motivo di farlo per davvero.
« Tutto a posto? »
Costrinsi me stessa a voltarmi verso Dave. « Sì, tutto bene. »
« Ne sei così sicura? » mi chiese, guardandomi dritto negli occhi. Quello sguardo così profondo sembrò obbligarmi a dire la verità. Cedetti senza rendermene conto.
« Non mi piace che Sharon importuni i nuovi arrivati » sparai, prima di ricordarmi che stavo parlando con un perfetto estraneo, nonché con un ragazzo: sicuramente avrebbe riferito tutto sia a Sharon che a Chris, facendomi fare una figuraccia epica.
Arrossii di nuovo. Come se mi avesse letto nel pensiero, Dave ridacchiò e disse: « Non ti piace la nuova amica di Chris, eh? Stai tranquilla, non lo dirò a nessuno. »
« Davvero? » chiesi, scettica.
« Sì, certo, » mi guardò, forse irritato dalla mia mancanza di fiducia. « Sono uno che mantiene le promesse, io. »
« Beh… Grazie » risposi, sincera.

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Capitolo 6
*** la donna susi. ***


Passai tutto il tempo chiacchierando con Dave, quel giorno. Non riuscivo a credere che avesse combinato da solo tutti i casini di cui mi aveva raccontato; ma capii che doveva essere tutto vero quando all’uscita disse:
« Vado a controllare che quelli del quinto B non abbiano già fatto esplodere tutti i petardi. A domani, Arancia. »
Mi chiamava ogni volta con il nome di un frutto diverso, fingendo di capire che mi chiamassi Susina e non Susi.
Matto da legare, ci voleva poco a capirlo. Per qualche strano motivo, però, mi sembrava una parte fondamentale di lui, senza la quale non sarebbe stato sé stesso.
Sperai di non stare impazzendo anch’io.
Vanessa mi aspettava come al solito alla fine del corridoio; la raggiunsi in circa tre secondi e le raccontai immediatamente quel che era successo quella mattina.
Lei mi guardò, entusiasta quando le parlai di Chris, infastidita quando fu il turno di Bambola Sharon e divertita e interessata quando fu la volta di Dave.
Quando mi lamentai del fatto che Dave si era fiondato al posto accanto al mio non appena Chris aveva puntato nella mia direzione, Vanessa osservò: « Deve esserci un motivo. »
« Forse voleva provocare Chris » suggerii.
« O forse ha notato una ragazza carina ed è deciso a socializzare » ipotizzò lei con un sorrisetto.
Prima che potessi replicare con la prima parola che mi era venuta in mente (“Impossibile!”), lei mise su un piccolo broncio.
« Da te, due nuovi arrivati bellissimi. Da me, neanche l’ombra di un bel ragazzo. E Michael ha la febbre, me l’ha detto Greta. »
« Non ti butterai giù per questo, vero? » le chiesi, sorpresa.
« Sei una ragazza stupenda. Sei stata con un sacco di ragazzi… Non è possibile che ti avvilisca solo perché nella tua classe non ci sono bei fusti da ammirare! »
« Hai ragione » ammise. « Però sono invidiosa lo stesso » sorrise poi, facendomi la linguaccia e fingendosi offesa.

Quel pomeriggio fu molto difficile concentrarmi sul primo capitolo di matematica che ci era stato assegnato.
Compiti fin dal secondo giorno di scuola… non era un bell’inizio di quadrimestre, per quel verso.
Guardando poi la situazione da un’altra prospettiva, direi che mi era andata egregiamente.
Avevo fatto amicizia con un pazzo scatenato, e avrei giurato che, mentre Sharon blaterava di chissà che cosa (probabilmente, di quanto il suo specchio fosse fortunato a riflettere la sua immagine), Chris mi aveva gettato qualche breve occhiata.
Forse avevo le allucinazioni.
Si riaffacciò l’immagine della mattina precedente, quando Michael e Chris scherzavano sul muretto; mi aveva guardata eccome, in quell’occasione.
Mi sentii decisamente meglio.
E che dire di quella mattina, in classe?
Aveva provato a sedersi accanto a me, e se non fosse stato per quel petardo ambulante di Dave, ci sarebbe riuscito.
Però, non riuscii ad arrabbiarmi seriamente con Dave. Probabilmente non era in pieno possesso delle sue facoltà mentali. Anzi, forse non lo era mai stato.
 

Le prime tre settimane di scuola passarono in un lampo.
L’orario delle lezioni tornò regolare, anche se era ancora provvisorio; andavo e tornavo da scuola con Vanessa e in classe mi divertivo da matti con Dave, che aveva già cominciato a seminare il panico a scuola con un paio di compari folli quanto lui.
Il primo venerdì erano riusciti a far recapitare al liceo un pacco che, nelle mani dell’amichevole (come no) custode, era esploso, ricoprendolo di una viscida sostanza non meglio identificata che puzzava tremendamente di fogna. Quel lunedì, un paio di ragazzi della banda di Dave erano stati sorpresi ad aprire tutti i rubinetti dei bagni, con l’evidente intento di allagare la scuola, e sospesi per tre giorni. Dave mi spiegò che quello era soltanto l’inizio, e io iniziai seriamente a pensare che avrei dovuto cominciare a girare per la scuola con un giubbotto antiproiettile.
Un giorno di fine settembre, Dave prese l’autobus con Vanessa e me, tornando a casa.
Fu un viaggio memorabile, con Dave che fingeva di fare surf senza reggersi alle apposite sbarre rosse, finendo “casualmente” addosso a noi quando l’autobus frenava. Quando scendemmo, ridevamo tutti e tre.
« Dave è troppo forte » commentò Vanessa non appena lui si allontanò salutandoci con la mano.
« Sì, ma è pazzo » risi io.
« Ma così è più divertente, no? »
Quel giorno, dopo tanto tempo, Vanessa pranzò a casa mia.
Ci applicammo ai compiti, ancora in quantità esigue, per un’ora; poi, alle tre e mezza, aggiustammo il trucco e uscimmo di casa.
L’aria era fresca, dopo due mesi di afa, e ci godemmo appieno la quiete del pomeriggio. Mentre ci gustavamo un po’ della Coca-Cola di Vanessa, Chris svoltò l’angolo.
Quasi mi strozzai.
« Oh, mio Dio! » esclamai, con il cuore a mille e il cervello che si svuotava velocemente. Sentivo tutti i pensieri sensati defluire dalla scatola cranica. « Che faccio adesso? »
« Vagli incontro, parlagli… » suggerì Vanessa. « Io vado! »
« Come sarebbe, “io vado”?! » Con quell’urlo soffocato la afferrai rapida per un braccio, presa dal panico.
« Vi lascio soli » rispose lei, liberandosi dalla mia stretta e correndo via.
Lanciai uno sguardo a Chris: si avvicinava, bellissimo, lo sguardo distratto e assorto, con gli occhiali da sole in mano.
« Ciao, Susi! » urlò poi Vanessa da una certa distanza, e sparì in una traversa.
Oh mio Dio.
Al suo grido, Chris finalmente sollevò lo sguardo su di noi. I suoi occhi si posarono su di me, e immediatamente mi sentii irrequieta, un nervosismo che andava ad aggiungersi all’irritazione per la brusca uscita di scena della mia migliore amica. La quale mi aveva lasciata nel caos mentale più completo.
Chris mi sorrise, timido. Si fermò davanti a me, più vicino di quanto non avesse mai fatto.
« Ciao » disse.
« Ciao » lo salutai a mia volta.
« Come va? » mi chiese cordiale.
« Bene, grazie. »
Ok, quella era una bugia.
A meno che farfalle nello stomaco e testa incapace di formulare un pensiero che non fosse “Dipingiamo di blu un’albicocca” non rientrassero nello “star bene”.
Ed eccolo. L’orribile silenzio imbarazzato. Io e lui, fermi sul marciapiede, che non sapevamo cosa dire.
Avevo il terrore che mi salutasse e se ne andasse. Così dissi: « Non ci siamo mai detti molto, vero? Come ti trovi in classe? »
Forse ero andata un po’ troppo sul personale. Ci eravamo solo squadrati davanti scuola, santo cielo!
Ma lui rispose, continuando a sorridere incerto: « È una classe piacevole. Le ragazze sono molto… come si dice?… Socievoli, sì. »
Erano ‘socievoli’ eccome, con lui.
Sembrava che un paio di loro non avessero mai visto un ragazzo in vita loro, prima che Chris arrivasse a scuola. Per non parlare dell’incredibile successo riscosso da Dave. Ad ogni intervallo, due o tre ragazze si fiondavano al nostro banco per essere sicure di essere le prime ad attaccare bottone con lui. Qualcuna di loro doveva essere stata scoraggiata dalla timidezza di Chris, e il carisma di Dave era, per contrasto, incredibile. Gli altri compagni di classe non erano molto contenti di come stavano andando le cose, però.
« Sì, alcune sono molto simpatiche, » dissi, con una certa riluttanza. Sperai che lui non la notasse.
Michael rise piano. « Sì. »
D’un tratto divenne pensieroso. Per un paio di secondi i suoi occhi si persero, poi tornò a guardarmi, nell’iride una nuova inquietudine, un nuovo imbarazzo.
Senza quasi più guardarmi, esordì: « Senti, Susi… ti andrebbe di aiutarmi a fare una… commissione? Credo… beh, di aver bisogno dell’aiuto di una donna. »
Donna.
Mi aveva definita ‘donna’. Me, io. Che ero sempre stata considerata ‘la piccola Sugar’.
Donna.
Wow.
 

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Capitolo 7
*** credetti di morire. ***


« D’accordo. Di che si tratta? » chiesi.
Ero lusingata.
Chris aveva bisogno che una ‘donna’ lo aiutasse, e lo aveva chiesto a me. Quasi non mi conosceva, eppure aveva riposto della fiducia in me.
Mi sentii felice e leggera come un palloncino.
« Mi sento un po’ stupido a chiedertelo » confessò.
« Ma oggi è il compleanno di mia madre, stasera festeggeremo in un ristorante e io non le ho ancora comprato nulla… Per favore, aiutami, » implorò.
Mi stava supplicando, la sua voce era così suadente…
« Certo, » replicai subito, « non c’è problema. »
« Davvero? » chiese Chris, una scintilla di gratitudine negli occhi. « Se hai da fare, ti assicuro che posso anche cavarmela da solo… »
« Non preoccuparti » sorrisi.
« Nessun problema. Mi fa piacere aiutarti, » ammisi in uno slancio di sincerità.
Forse troppa sincerità.
Ma lui continuò a sorridere. Il suo sorriso era speciale, intriso dell’innocenza tipica di un bambino e della sicurezza che spesso caratterizza un adulto, modellato sui tratti da ragazzo;
gli zigomi si sollevavano, gli occhi brillavano e si socchiudevano e la luce che emanava quando era felice divampò in tutto il suo splendore.
Non sapevo spiegarmi come mai mi sembrasse di conoscere da sempre quel sorriso e, insieme, di vederlo ogni volta come fosse la prima… ma era così… e l’emozione che mi dava era pura e intensa.
Sorrisi anch’io.
Trascorremmo insieme il resto del pomeriggio.
Girammo sette od otto negozi; dopo due ore e mezza, uscimmo dall’ultimo, esausti ma soddisfatti, Chris con il gigantesco quadro impacchettato in carta da regali rosa e blu sottobraccio. Era una veduta di New York; la madre di Chris aveva vissuto dodici anni in quella città così moderna e affascinante e ne sentiva la mancanza.
« Starà benissimo nella camera da letto dei miei genitori » disse lui, allegro.
« Grazie mille, Susi… senza di te non avrei mai trovato questo negozio » disse con calore, regalandomi uno di quei suoi sorrisi speciali.
Era vero, quel negozio era in una viuzza nascosta; Chris da solo non avrebbe mai potuto trovarlo, a meno che non sapesse già della sua esistenza.
« Di niente, » risposi, sorridendo a mia volta.
Sembrava che non riuscissi a smettere di sorridere in compagnia dei miei due nuovi compagni di classe.
Lui controllò l’orologio.
« Dio, è tardi… devo proprio andare » disse con una smorfia. « Mi dispiace, Susi. »
« Figurati » risposi. Il tempo era volato. Fino a quel momento ero stata allegra, ma non appena pronunciò quelle parole, la spensieratezza svanì.
Avrei voluto poterlo trattenere lì, su quel marciapiede, con quell’enorme quadro sottobraccio, a parlare anche dell’argomento più insulso del mondo.
Il mio cuore era sprofondato, ma continuai a simulare allegria.
« Grazie mille dell’aiuto e… della compagnia, » disse, un po’ impacciato. « Ci vediamo lunedì. »
« Certo, a lunedì. »
Ma nessuno dei due si mosse.
Lui sembrava sul punto di dire qualcosa.
Esitante, sollevò un braccio e mi prese delicatamente il mento tra le dita.
Smisi di respirare.
Si avvicinò sempre di più.
Sentivo il cuore vibrare nel torace, il respiro di Michael sulle labbra.
Era vicinissimo; 
Le sue labbra si posarono dolcemente sulla guancia, molto vicine alle mie.
Durò pochi secondi, ma mi sentii al settimo cielo. Mi sembrò un’eternità.
« Grazie, davvero » mormorò, mentre io, completamente rossa, mi scioglievo.
Poi la sua mano abbandonò il mio viso, lui girò l’angolo e sparì.

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