Elementary, Watson.

di Ephi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #The return. ***
Capitolo 2: *** #Secrets. ***
Capitolo 3: *** #Photos. ***
Capitolo 4: *** #The ring. ***



Capitolo 1
*** #The return. ***


Avevo la netta sensazione di non essere troppo all'altezza per la rustica casa di campagna di quello che era ormai da una vita il mio compagno e fedele amico. Fratello forse era il termine più adatto, ma nessuno lo aveva mai usato, se non una signora, una fattucchiera, tempo addietro, in un momento che ora fatico a ricordare, forse perché il nodo della sciarpa mi stava facendo tribolare non poco.
Mi legai la camicia e mi guardai allo specchio per tentare di mettere apposto quei capelli neri e ribelli che mi trovavo.
Quanto tempo era passato dall'ultima volta che avevo visto Watson? Sette, forse otto o nove. Il giornale del mattino mi aveva fatto intuire che eravamo in pieno marzo, dunque nove anni esatti dall'ultima volta che passai del tempo al suo fianco.
Poco male. Si era sposato, con Mary, alla fine aveva vinto lei, ma andava bene così, avevano avuto una bella bambina, Mary Jane, come simbolo dell'unione eterna del loro amore.
Romanticone, il dottor Watson.
L'avevo visto proprio in occasione della nascita della bambina, bella e paffuta, e poi in seguito ben poche volte, dati i suoi impegni costanti e i miei pochi e rari, eppure intensi passatempi.
- Mrs Hudston, mia cara, chiuda la porta e non faccia entrare nemmeno il cane.
- Come vuole lei, signor Holmes, ma la prego, non mi faccia entrare lì dentro.
- Nessuna costrizione, nessun invito, chiuda solo la porta.
Salutai con un inchino la mia padrona di casa e lasciai Baker Street con la calma più calma di questo mondo, dirigendomi alla stazione dei treni.
Troppa gente mi faceva quasi soffocare, l'idea di condividere lo scompartimento con qualcuno ancora di più. Avrei ammazzato Watson con le mie mani appena arrivato, ovviamente dopo aver pranzato, si intende.
Il treno prese velocità in pochi secondi da quando mi sedetti e accesi la pipa mentre il mio sguardo si concentrava sulla cittadina londinese che via via scompariva, lasciando spazio a grandi prati terrosi e color grano.
Notai il fumo dei camini che si lasciava andare in braccio alla leggera brezza mattutina, la foglie che si agitavano alla velocità del treno, le nubi in cielo pronte a far spazio ad un pallido sole, che piano prendeva piede, lasciando sperare una piacevole, mite giornata.
Io dal canto mio adoravo la campagna. Per quanto la mia casa fosse perfetta per me, piena di cose mie, addobbata con cose mie, ordinata a modo mio, l'unico altro posto in cui potevo stare bene era lontano dalle persone. E la campagna desolata andava non bene, di più.
Ad un fischio del treno più forte di altri, mi svegliai di soprassalto, accorgendomi di essermi appisolato e, con grande sorpresa, che nessuno si era accomodato di fronte a me, soprattutto nessuna.
Non avevo mai adorato la compagnia, la compagnia femminile in maniera particolare. Non che io le trovi brutte o che le trovi disprezzabili, è che proprio tra me e loro non c'è contatto intellettivo, credo, anzi sono sicuro, che il motivo sia questo.
Una volta sola, una di esse, era quasi potuta arrivare a toccare parti di me che, vi assicuro, solo Watson può dire di aver visto. Non è stata una bella esperienza. Spero solo che io non debba essere costretto a trovarmi di nuovo in quello stato. L'imbarazzo non fa parte di me, come nemmeno l'essere impacciato. Al suo fianco, potevo sentirmi così, con un pizzico di vulnerabilità.
Non posso permettermelo. La mia mente potrebbe riscontrare danni irreversibili. Una scusa, dite? Oh ma a voi che importa, buon dio.
La stazione del piccolo paese sperduto dimora di mister Watson apparve nel folto di un'ampia zona collinare. Il grande lago brillava alla luce del sole ora del tutto sorto. Si prospettava una piacevole giornata all'insegna di innumerevoli susseguirsi di eventi: i saluti, i ritrovi, le presentazioni e la cosa positiva che mi tratteneva, i pranzi.
Scesi dalla carrozza e infilai la pipa nella giacca, guardandomi intorno, e riconobbi subito la figura esile del mio amico di una vita.
John Watson portava il suo solito cappello e completo da gentil signore borghese, il viso era steso, rilassato, segno che la vacanza stava andando davvero bene, buon per lui. Nulla lasciava trasparire in lui un qualsiasi dolore, nemmeno gli occhi, azzurro accesi, come pochi se ne vedono ancora, così. I baffi curati accentuavano questo suo entusiasmo alla vita, spolverati solo da una leggera sfumatura grigia, impercettibile agli occhi, ma non ai miei.
- Holmes, mio caro Holmes! - mi disse, avvicinandosi gaio.
Gli sorrisi di rimando, tenendogli la mano. - Watson, Waston, quale piacere!
- Ero convinto che avrebbe declinato l'invito.
- Lo avrei quasi fatto, non fosse che era troppo tempo che non incrociavo la sua faccia.
- Non menta, le mancava l'arrosto di Mary.
- Beccato in pieno.
Camminammo fino a raggiungere la sua auto, raggiungemmo la sua villetta in campagna parlando di quanto fosse facile perdersi in giro per quei boschi, di quanto Mary Jane fosse cresciuta, di quanto Londra fosse rumorosa, di quanto fosse allettante la possibilità di trasferirsi lì, in campagna.
- Però il mio lavoro non mi agevola, Holmes. All'ospedale, a Londra, hanno ancora bisogno di me, e finché non occuperanno il mio posto, non potrò trasferirmi all'ambulatorio del paese.
- Allettante davvero, come proposta. Mary si trova bene qui?
- Oh benissimo! Adora curare i fiori, ha un piccolo spazio verde tutto per sé. E Mary Jane, lei, lei passa tutti i pomeriggi a cavalcare. Ormai ha finito gli studi secondari e cominciato quelli universitari, vuole diventare fisica.
- Fisica? - chiesi sorpreso – Sono ben poche le donne che intraprendono quella via. Oserei dire, tale padre...
- Tale padre, esatto, Holmes – dichiarò lui, ridendo – Ma vieni, la devi vedere, è molto curiosa di conoscerti. Da bambina le raccontavo spesso i casi da lei risolti.
- Da noi risolti, vorrà dire.
A lui parve piacere questa precisazione, tanto che mi sorrise vivamente contento, fermando l'auto. Mi diede una mano con i bagagli, mentre ammiravo l'intima e semplice casa loro.
- Mary! Mary! Sherlock è qui!
Sulla soglia della porta, poco tempo dopo, apparve una donna dai capelli ancora color grano, il volto curioso che poi si distese in un sorriso felice. Mary era ancora bella, bella come il primo nostro incontro finito male, ma che ancora, per fortuna poteva ripetersi.
- Signor Holmes! - mi disse allegra, mentre si avvicinava – Quanto piacere rivederla!
Mi baciò due volte sulle guance, come mai aveva fatto, ma le sorrisi, stavolta deciso a stare zitto.
Incredibile quanto una famiglia potesse modificare le persone, nel loro caso, evidentemente in positivo. Notai il colore acceso degli occhi della moglie del mio fedele amico, brillanti era l'unico modo per descriverli, uguali a quelli di Watson, della stessa intensità.
Il vestito color lillà era appena spolverato da un sottile strato di farina, segno che era stata distratta dalla voce del marito mentre aiutava i domestici in cucina: una bella nobile donna come lei grazie a lui e a sua figlia, aveva riscoperto il piacere di fare con le proprie mani qualcosa per loro.
Smisi giusto in tempo di seguire il flusso logico e descrittivo dei miei pensieri, seguendo Mary dentro casa.
- Cara, dov'è Mary Jane?
- Oh è fuori a cavallo, tesoro, arriverà a momenti.
- E i suoi studi?
- Tesoro, oggi veniva il signor Holmes, studierà quando sarà il momento più consono. Le ho dato il permesso per questa mattina, dato che oggi pomeriggio non potrà per via del nostro ospite.
- Mary, cara Mary, nessuno deve smettere di dilettarsi per causa mia – intervenni, prendendo un bicchiere di vino offerto da lei.
- Lei è sempre gentile, signor Holmes, ma ritengo molto più cortese che lei stia con noi.
Passò una mezzora buona, nella quale io ascoltai Watson con notevole stanchezza, mentre mi parlava dell'ultimo paziente a cui aveva salvato un occhio. Non trovavo molto interessante la scienza, eppure la capivo fin troppo bene. Non sarei mai riuscito a salvare la vita a qualcuno chirurgicamente, forse, solitamente avevo altri mezzi.
Mi accorsi di nuovo di stare cominciando a seguire il corso dei miei pensieri, fino a non sentire quasi più la voce del mio amico, tanto che se ne accorse.
- E' stanco, Holmes? Vuole riposarsi?
- Volentieri, se non le dispiace, fino all'arrivo di Mary Jane andrei a darmi una rinfrescata.
Watson annuì con un cenno di capo e mi indicò le scale. - Ultima porta a sinistra, è la sua stanza.
Appena entrai nella stanza un leggero profumo di lavanda mi investì. Si intonava talmente bene con l'ambiente semplice ma elegante che non mi azzardai nemmeno a prendere la pipa, sedendomi sul letto, giusto il tempo di prendere il mio violino e dilettarmi qualche secondo, prima di appisolarmi.
Non so bene quanto tempo dopo, ma un rumore ritmico e appena accennato provenne dal piano di sotto, passi di stivali. I passi si fermarono a parlare con qualcuno, Watson, la voce di quei passi poi rise, prima di tacere, muovere mezzo passo ancora e oltrepassare il mobile che prima avevo visto, salendo le scale. I passi salirono poi le scale stesse, potevo avvertire il respiro leggero ma affaticato di chi li guidava, ma nel dormiveglia non mi accorsi di quanto fossero vicini.
Sgranai gli occhi e posai il violino che avevo per istinto abbracciato, avvicinandomi piano alla porta della mia stanza. Da una piccola fessura notai che i passi, gli stivali, entrarono nella porta esattamente di fronte alla mia sparendo non appena si furono tolti dai piedi di chi li possedeva.
Sentii un leggero scorrere di acqua, calda, un leggero canticchiare sommosso, poi un immergersi altrettanto leggero, poi più nulla.
Decisi di smetterla ancora, quella giornata sarebbe dovuta essere diversa. Mi sistemai il gilet e mi preparai a scendere, nonostante nessuno mi avesse ancora chiamato.
- Ah Holmes! Ben svegliato, tra poco pranzeremo, avrei mandato Mary Jane a chiamarla, ma ha fatto tutto da solo – disse Watson, seduto in poltrona a leggere il giornale
- Rapido e indolore, tutto per i pranzi di Mary – gli dissi, uscendo fuori a fumare la pipa.
- Mary è ben contenta di cucinare per te, credimi – disse, sorridendomi – Me lo lasci dire, lei non sembra invecchiato di una virgola.
Il suo commento mi fece destare qualche pensiero che, fino a poco prima, forse non avrei nemmeno sfiorato. Mi voltai verso uno dei vetri delle finestre e mi specchiai, notando come il nero corvino dei miei capelli fosse quasi intatto, a differenza del biondo appena spento del mio amico. Il viso, inolte, sembrava sempre lo stesso, rivestito della mia solita barba incolta quasi accennata e poi nulla più.
- Sarà che forse, lavorando di testa, si vive di più.
- Mi sta dicendo che sarà immortale, quindi.
- E chi può dirlo – conclusi, ironico.
Lui parve un po' confuso da queste parole, ma non ebbe il tempo di replicare, poiché Mary entrò in salotto, poggiando alcune stoffe.
- Mary Jane, vieni, il nostro ospite è arrivato! - disse poi, voltandosi verso le scale.
- Arrivo mamma.
Non seppi perché, non seppi come, ma il suono di quella voce mi scosse un poco. Mi sentii quasi agitato all'idea di vedere quella che era la figlia del mio più caro amico, forse non all'altezza della figura che lei aveva immaginato fin da bambina, quella dell'investigatore coraggioso e po' matto che di sicuro Watson aveva sottolineato bene.
- Holmes è agitato?
- Io? Mai – dissi concludendo in fretta, mentre mi sbrigavo a mettere via la pipa.
Fu allora che udii i passi leggeri, gli stessi dei movimenti nell'acqua di poco tempo prima, scendere le scale con una cadenza musicale, fino a raggiungere lo specchio proprio di fronte all'entrata del salotto.
La sagoma esile, perfettamente bilanciata del suo corpo, si fermò davanti ad esso e si specchiò, sistemando una forcina nei capelli scuri, raccolti in un ampio chignon. Alcune ciocche sembravano non voler stare apposto, ricadevano leggere sul collo bianco della ragazza vestita in azzurro che stava davanti a me, e che per poco dimenticai chi fosse.
La cosa che meglio ricordo è il suo volto. Le labbra rosee rimasero serie e composte per i primi istanti che i nostri occhi si incontrarono, ma dopo un poco si schiusero in un sorriso pulito, come tutto il suo viso, ornato solo di un piccolo neo sotto l'occhio sinistro. Mi si avvicinò con passo sicuro e fermo, tendendomi poi la mano.
- Signor Holmes – mi disse, stingendola forte – Finalmente la conosco come si deve.
Le sorrisi, non sapendo cosa dire.
- Mary Jane, molto lieta, ma credo che già lo sapesse. Mio padre dice che mi avete vista quando ero più piccola, ma mi perdoni se le dico che non lo ricordo nemmeno vagamente.
Watson rise al suono di quelle parole e Mary fece lo stesso, mentre Mary Jane non scostava il suo sguardo dal mio. Era come se non aspettasse altro che quel momento, da tanto tempo.
Mi era bastato quello, per capire che la persona che avevo davanti non era la candida bambina che la mia mente aveva lasciato da parte, troppo occupata a pensare a chissà cosa. La mia mente, di fronte a lei, si trovava per la prima volta spenta, concentrata solo su quegli occhi scuri e profondi che dicevano tante, troppe cose, pure per me che, di cose, ne sono pieno fino alle scarpe.
Mi lasciò la mano non appena la madre la chiamò per aiutare in cucina. Ne seguii l'andatura leggera sparire dietro la porta, avendo la sua fotografia bene impressa sopra ogni altra immagine della mia mente.
Non avrei mai scordato la perfezione del disegno del suo viso. Per la prima volta, ero anche disposto ad ammetterlo.

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Capitolo 2
*** #Secrets. ***


Quella notte dormii poco. La mia mente continuava a rielaborare le immagini della giornata appena passata, pronta a cogliere ogni minimo particolare di essa.
Il pranzo fu delizioso. Mi accomodai vicino a Watson, mentre il primo veniva servito dai domestici e da Mary Jane stessa.
Quella ragazza si presentava ogni momento più diversa da quello precedente. Si dimostrava cortese e gentile con loro, volenterosa e propensa a non stare mai ferma. Non si sedette finché tutto non fu sistemato e suo padre non la costrinse a farlo.
- Ha visto che bella che è? - mi chiese Watson, nel pomeriggio, mentre passeggiavamo per i campi verdi e dorati, dirigendoci nel boschetto.
- Sì, molto – commentai neutro – Mi chiedevo solo da chi avesse preso il colore dei capelli, tu e Mary siete più biondi di chiunque altro.
Il mio amico rise, continuando a camminare. - Dal padre di Mary. Assomiglia molto a lui, non solo fisicamente, ma anche come persona. Lei è forte, forte e determinata, come lui. Grande uomo di industria, uno dei pochi che sapeva lavorare col cuore.
- E' mancato? - chiesi, accendendo la pipa.
- Si quando Mary Jane aveva cinque anni. Ne soffrì molto. Crescendo si riprese, ma conserva ancora gelosamente una foto loro, assieme. E' nella sua stanza, te la mostrerò.
- Di cosa è morto?
- Infarto, così, all'improvviso. Queste cose non si prevedono. Non me la sentii di operare di mio pugno, nel verificarne la morte.
Annuii pensieroso mentre il terreno terroso si inoltrava nel verde delle fronde boschive.
- Le dirò – disse poi Watson, di punto in bianco – che mia figlia non fu dell'avviso del referto medico e mio, una volta capito come andarono i fatti.
- Cioè?
- Cioè che credette che non era possibile che suo nonno fosse morto così. Il buon Theodore era in perfetta salute, allora. Cosa che ho potuto condividere.
- Perché dice ciò? - chiesi, fumando un poco.
- Perché lui era una persona attiva, mai sedentaria. Viaggiava molto, ha contratto anche molte malattie infettive, sebbene di relativa importanza, eppure ne era uscito sempre vive e vegeto, forse anche meglio di come stava prima. Era inoltre una persona tremendamente sportiva. Pugilato da giovane, equitazione fino alla sua venerabile età.
- Capisco allora da chi ha preso la passione per i cavalli, la sua figliola.
Lui annuì in silenzio, sorridendo sotto i baffi.
Tornammo a casa verso sera, dopo che Watson mi illustrò tutti i possedimenti del territorio, di chi fossero, che fine avrebbero fatto.
Non gli chiesi se avesse intuito la mia straordinaria capacità di tacere, di non essere più particolare del solito. Decisi di smetterla di essere me stesso solo per quella giornata, ma sapevo che sarei durato poco, data la mia scarsa costanza.
Più volte avrei voluto rispondere a tono ai discorsi idioti che Watson intratteneva con Mary per coinvolgerla in qualche modo. Non capivo perché un uomo innamorato debba fare tutte queste frivolezze per compiacere la sua amata.
Non fraintendete, io avevo cominciato ad adorare seriamente Mary, gli arrosti come li fa lei, non li fa nessuno, nemmeno Mrs. Hudston, soprattutto Mrs. Hudston, dato che mi lascerebbe a digiuno volentieri, pur di vedermi agonizzante sulla poltrona e pronto per andare via da casa sua, direzione ospedale. Ma io sono uno che non demorde. Non importa cosa mangio, l'importante è che, in qualche modo, io viva.. o sopravviva.
A cena qualcosa in me cominciò a smuoversi di nuovo all'idea di dover stare a tavola tutti assieme. Mi sedetti al mio solito posto, mentre Mary si accomodava di fronte, aiutata dal marito.
- Dov'è Mary Jane? - chiese Watson, sedendosi.
- E' ospitata a cena dai McClean, tesoro, non ricordi?
- Oh, che sbadato – commentò il mio amico, scuotendo il capo – Grazie, Grace – disse poi alla domestica, che sorrise cortese, servendogli del pollo.
Non sapevo chi fossero i McClean, ma la mia mente scattò come al suo solito. Le ipotesi più azzardate si elencarono davanti ai miei occhi, non trovando però un senso.
Cosa diamine mi stava succedendo?
- I McClaen sono nostri amici di famiglia – cominciò Watson, salvandomi – La loro figlia ha la stessa età della nostra Mary Jane, sono molto amiche.
Nell'udire quelle parole mi rilassai un poco. Lo strano senso di pesantezza svanì come non fosse mai avvenuto e ascoltai Watson, tagliando elegantemente, o almeno mi sforzai a farlo, la carne, apparentemente interessato.
- Si conoscono da molto, sì – continuò lui, alternando delle forchettate – E Jodie ha rubato anche il possibile, futurissimo, fidanzato di Mary Jane...
- Rubato? - commentò Mary – Ma John caro, lo sai meglio di me che Mary Jane non si è minimamente interessata a lui.
Watson ammise suo malgrado ciò che la moglie aveva detto.
- Deve avere proprio un bel caratterino, eh, Watson, chissà da chi l'ha preso – commentai, buttando giù il bicchiere di vino.
Lui mi guardò alzando un sopracciglio, rilassandosi dopo un poco – Troppo, direi. Ne ha rifiutati ben due e credo che anche il terzo verrà declinato da qui a breve, se non l'ha già fatto.
Mi trattenni dal ridere, mentre inforchettavo un carciofino al vapore.
Passai il resto della serata a sorseggiare del brandy con Watson e consorte, finché quest'ultima non si ritirò nelle sue stanze, sul tardi. Io e Watson parlammo di ogni argomento che mi saltava in mente, come eravamo soliti fare, quando eravamo a Baker Street.
- Se vuole può passare a trovarmi, il posto non è cambiato di una virgola – gli dissi, posando il bicchiere.
- Lo immaginavo – commentò lui – Ma passerò volentieri, una volta Londra.
- Dubita del mio ordine domestico?
- Ne dubito da una vita.
- E' un bisogno puramente professionale.
- L'ho capito, ormai.
- E' sempre un piacere, Watson.
- Anche per me.
Salii in camera verso l'una, pronto a dormire il prima possibile, data la mia partenza il mattino seguente. Mi ritrovai ad ammettere che un po' mi dispiaceva, andare via, la quiete casalinga che qui si respirava non era così pressante come mi aspettavo.
Mi distesi nel letto e poco dopo mi appisolai. Nuovamente fui risvegliato da un rumore impercettibile al piano di sotto. Ancora nel dormi veglia mi tirai su, guardai l'orologio: le tre e mezzo. Presi il mio violino e me lo portai vicino all'orecchio, cominciando a svegliarmi sul serio, poi chiusi gli occhi.
Avvertii un rumore di ombrello, un appoggiare di giacca, passi leggeri, troppo per chi portasse delle scarpe, dedussi quindi fosse ormai scalza. Udii i passi fermarsi di fronte alla porta della mia stanza, esattamente come la mattina prima, poi aprire, ed entrare.
Tenni ancora gli occhi chiusi quando sentii appena il rumore del fruscio di un vestito, il leggero tossicchiare, l'acqua scorrere, il tocco spugnoso della tovaglia sul viso di chi si muoveva.
Tutto ciò sarebbe stato inudibile ad orecchio umano, tanto che né Watson né sua moglie si svegliarono.
Non passò molto tempo prima che la porta si aprì nuovamente. Scattai dritto, guardandomi intorno. Mi accorsi perfino di aver abbracciato il mio violino, nella sensazione che qualcuno stesse venendo esattamente da me. E così fu. Udii un deciso e silenzioso bussare, poi l'attesa.
Mi alzai dal letto e mi avvicinai, aprendo piano la porta.
- Buonasera, signor Holmes.
Mary Jane era davanti alla porta, sveglia e vestita con il suo solito sguardo penetrante. Mi sorrise gentilmente, porgendomi stavolta la sua mano, che io baciai educatamente.
Che ragazza spavalda e strana, che era. La mattina pronta a ricambiare il saluto da vero uomo, ora la rappresentazione di una donna raffinata e sicura di sé.
- Avevo notato il lume acceso, così mi sono permessa – continuò, entrando nella stanza – Volevo salutarla, so che domani partirà.
- Mio malgrado – confessai – Devo ammettere che qui non si sta così male.
Lei sorrise, avanzando fino alla finestra. Era vestita con una leggera vestaglia color blu scuro, lo stesso della notte che fuori dominava. I capelli erano ordinatamente sciolti, i boccoli ricadevano sulla schiena esile, circondando il viso chiaro, ombrato appena dalla luce della lampada.
- Sono stata molto contenta di averla conosciuta – riprese, sedendosi sulla poltrona accanto al letto – Mio padre mi ha parlato più di lei che della sua famiglia.
- E' un immenso piacere.
- Mi sarebbe piaciuto averla qui con noi ancora per un po', data la mia assenza a casa, quest'oggi.
- Oh mia cara non si turbi. Ci vedremo ben altre volte – le dissi, accendendo la pipa.
- E' troppo se le chiedo di restare?
Mi voltai a guardarla, stupito, quelle parole mi colpirono, costringendo la mia mente ad attivarsi nuovamente, cominciando a chiedersi ogni tipo di perché. Mary Jane mi fissava però ancora, stavolta più seria, mentre fuori il temporale cominciò a rimbombare, lontano. Nel silenzio, mi sorrise di nuovo.
- Immagino che abbia da fare, lo so.
- Bhè, io avrei anche dei clienti a cui badare, a Londra – le dissi, cercando di rimanere impassibile.
- Oh, sono sicura che Scotland Yard se la caverà anche da sola, per qualche giorno – disse, sorridendomi di più.
- Sì, può darsi – conclusi, fumando.
- Bene, lo prendo come un sì – disse, alzandomi e venendomi incontro - Mio padre afferma che suona il violino.
- A modo mio, sì – risposi – Lei ne è capace?
- Non molto – ammise senza mezzi termini, guardandomi – Mi farà vedere quanto è bravo, allora – concluse, sempre sorridendomi.
Annuii in silenzio, ricambiando il sorriso. La mia mente si spense di botto, concentrandosi ancora sul designo del suo viso, non aiutandomi a trovare qualcosa da dire.
- Bene, la lascio riposare. Buonanotte signor Holmes.
La osservai uscire come un ebete, tirando un po' dalla mia pipa, mentre fuori un tuono esplodeva in lontananza. I miei occhi caddero sul suo collo, arrivando quasi a cogliere il profumo lì racchiuso, prima che sparisse dietro la sua porta.
Mi chiusi subito nella mia stanza, abbracciando il mio violino. Lo portai vicino al mio orecchio, fumando ancora e tentando di capire cosa la mia mente mi diceva.
Mary Jane mi spegneva la mente quando era nelle vicinanze e di nuovo mi sentivo vulnerabile. No, non era proprio così. Era l'idea di essere spento a darmi fastidio. L'idea di essere in balia di qualcosa che la mia mente non capiva.
Cominciai ad agitarmi, mentre suonavo con più rabbia. Passai tutta la notte a tentare di capirci qualcosa, senza successo.
Con la sua sola presenza quella persona mi scombussolava. Il suo profumo aleggiava ancora nella stanza, costringendomi a rimanere sveglio. Per qualche secondo fui tentato di andare a vedere se dormisse davvero o stesse architettando qualcosa contro di me, ma poi mi fermai, sicuro che se avessi rivisto quegli occhi non sarei stato più capace di collaborare col mio pensiero.
Fu allora che mi stoppai, con un ultimo acuto, la corda del violino tacque. Fissai il vuoto davanti a me. Era il suo viso, la chiave di tutto, era il suo viso che mi avrebbe condotto alla risposta che cercavo.
Il suo viso nascondeva qualcosa e di questo ne ero ormai sicuro. Nei suo occhi, lì dietro, c'era qualcosa che doveva essere detto da troppo tempo e doveva essere detto a me. Mio malgrado, ero sicuro che non sarei uscito da quella casa, prima di averlo saputo. Avrei alloggiato in casa Watson per mesi, pur di saperlo.
A costo di non farmi ammazzare da Watson in persona, si intende. L'importante, infondo, era che non mi togliesse il violino.

 

nota: ricordate di tenerlo bene a mente, questo capitolo qui!

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Capitolo 3
*** #Photos. ***


La mattina attesi pazientemente il risveglio dell'intera dimora Watson, sorseggiando del tè che mi ero fatto precedentemente.
Avevo passeggiato nelle mura domestiche immagazzinando ogni particolare, fino a rendermi conto che il colore rosa antico mi disturbava parecchio. I mobili ben curati e tenuti puliti non lasciavano intuire nulla di nascosto, tutto, insomma, andava bene.
Eppure io non riuscivo a stare tranquillo.
Vagai per casa fino alle otto in punto, dopo di che mi sedetti e smisi per un istante di credere che qualche indizio si trovasse tra le mura, immaginando dove potesse essere.
Mentre bevevo il mio tè mi soffermai con lo sguardo sul quadro sopra al camino, dove vi era raffigurato il Signor Theodore seduto sulla stessa poltrona su cui vi ero io.
Era molto giovane, all'epoca del ritratto: i capelli castani, molto scuri, circondavano, concludendosi in basette, il volto allegro del ragazzotto rappresentato. Gli occhi erano accesi, parevano ancora vivi, osservanti, l'uomo era vestito di blu e grigio, un fazzoletto nel taschino, un anello sul dito della mano destra.
Mi chiesi se quest'ultimo fosse finito nella tomba con lui e incominciai a stilare una lista di domande che avrei sottoposto al mio amico Watson.
Marito e moglie scesero mezzora dopo il mio tranquillo tè.
- Buongiorno, Holmes - mi disse lui, sorridente - Pronte le valigie? L'accompagnerò entro le dieci, come le avevo detto.
Non risposi, continuando a osservare l'enorme quadro.
- Holmes? - disse Watson, cercando di attirare la mia attenzione.
- Holmes, mi sente o fa finta di non farlo? - chiese nuovamente, più vivace.
- La seconda, temo - risposi, accendendo la pipa con gli occhi fissi davanti a me.
Lui non parve sorprendersi e invece mi si avvicinò, osservandomi meglio.
- Cosa sta facendo? - mi chiese.
- La sua voce mi distrae - gli dissi, fumando.
- Da cosa?
- Mh, pensieri - risposi, lo sguardo ancora fisso.
Immaginai che lui avesse notato quell'espressione che in pochi casi avevo, essenzialmente e soprattutto mentre pensavo. Fu questo a preoccuparlo, l'idea che io avessi colto qualcosa ch enon andava, nel suo perfetto, profumato nido. Mi si sedette vicino, guardandomi meglio. Cominciai ad irritarmi.
- Holmes - cominciò impaziente.
- Stia zitto, Watson, sto pensando!
- Lo so, Holmes, e mi sto chiedendo perché!
Sbuffai, spostando per la prima volta lo sguardo dal quadro. Lo guardai aggrottando la fronte. - Lei è peggio di Mrs. Hudston, sa?
- E' un insulto?
- Lo veda come le pare.
Lui parve spazientirsi e si poggiò con la schiena al divano, spostando lo sguardo sul giornale e leggendolo.
- E poi scusi, lei non è più il mio assistente, Watson - gli dissi guardandolo con la coda dell'occhio.
Da parte sua provenne un mugugno indefinito e girò le pagine del giornale con una certa rumorosità.
Per tutta la colazione parlai semplicemente con Mary, evitando lo sguardo fin troppo sospettoso del mio amico. Odiavo che mi conoscesse così tanto, non avevo più il privilegio delle novità, con lui. Rimase a guardarmi corrucciato per una manciata di minuti, finché l'arrivo della figlia non lo distrasse.
- Buongiorno, papà, Signor Holmes- disse educatamente fermandosi alla porta.
Watson si alzò in piedi e le andò incontro, baciandola sulla guancia, e l'accompagnò a sedere, porgendole la sedia.
Mary Jane mi sorrise gentile, mentre la colazione le era servita e sembrò dirmi qualcosa, attraverso gli occhi indecifrabili. Poi parlò.
- Dormito bene, Signor Holmes? - domandò prendendo una brioche.
- Beatamente - risposi mettendo il tovagliolo al collo.
Ne mangiò un pezzo, sorseggiando poi il suo caffè. - Ha intenzione di andare via presto?
La guardai con sospetto, stavolta, certo di non aver sognato di avere avuto una conversazione con lei la sera precedente.
Lei sembrò far finta di nulla, fin troppo bene, guardandomi in attesa. Avevo capito.
- Oh, no, non troppo, anzi, Watson, la sua camera sarebbe disponibile per qualche giorno ancora?
A lui andò di traverso il pezzo di pane imburrato che aveva appena messo in bocca e tossicchiò prima di guardarmi. Fu allora Mary a rispondere, allegra.
- Ma certo che no, Signor Holmes, può fermarsi quanto vuole, vero, John?
Watson fissò prima lei poi me, che gli sorrisi beffardo, sicuro che dopo mi avrebbe bombardato lui con le sue domande.
Si limitò a sorridere alla moglie e a bere un sorso di tè, mentre il suo viso si dipingeva di una sottile, composta curiosità, quella che ogni volta gli veniva quando era la sua di mente a elaborare.
Mary Jane non disse nulla, afferrò la tazza di porcellana e la portò alle labbra, bevendo. Ero sicuro di aver notato un'ombra compiaciuta tra queste ultime e la ceramica.
- Gradirei fare un giro della vostra tenuta, quest'oggi- dissi allegro, asciugandomi poi la bocca nel tovagliolo.
- Oh, certo, Holmes, l'accompagno volentieri- disse Watson molto pià tranquillo.
- Mi perdoni se non accetto e se chiedo, invece, la possibilità che sia Mary Jane ad accompagnarmi- continuai volgendo il mio sorriso più convincente.
Lei alzò lo sguardo dalla sua colazione e mi guardò, prima di sorridere, annuendo col capo.
- Ma gli studi, tesoro?- chiese Watson all'improvviso.
- Oh, non si preoccupi, vecchio mio, questa mattina faremo un bel ripasso mentre passeggeremo, sempre se è d'accordo, Miss Watson.
Mary Jane annuì nuovamente con il capo e prese congedo, alzandosi. -E a tra poco, allora- disse, prima di sparire al piano superiore.
La salutai con un cenno di capo e mi voltai verso Mary, che pareva tranquilla e per nulla sospettosa di questa mia richiesta. Watson, invece, mi tirò per un braccio.
- La faccia studiare, Holmes, sono stato chiaro?- mi disse, sibilando tra i denti.
- Cristallino, mio caro.
I coniugi Watson sarebbero andati in paese a fare qualche acquisto, data la mia improvvisa fermata. Un po' mi sentii in colpa, un po' no: infondo era stato sempre Watson a dirmi che dovevo uscire di più, aprirmi di più al mondo, magari cominciare a vestirmi con qualcosa di più aggiornato.
Fermo sotto il porticato, entrata della villetta, mi guardai le scarpe, chiedendomi se potessero andare bene anche l'anno prossimo esattamente come andavano bene cinque anni prima.
Tirai un po' di tabacco e mi infilai le mani in tasca, osservando i due sposi partire alla volta del paese lì vicino. Che buffo che era vedere Watson così complice anche con quella donna. Io l'unico con cui lo ero mai stato, era proprio lui. Lo sapevo da una vita, ma lo ricordavo poco spesso.
La volta che provai ad essere complice, partecipe alla vita di una donna, scelsi quella sbagliata.
Pensare a lei non mi fece bene, tanto che una strana sensazione si impossessò alcuni secondi di me. Ricordavo ancora il suo viso, il profumo forte, l'andatura danzante, i capelli scuri, il suo nome: Irene. Erano ormai passati anni, ma capii che i ricordi, da qualche parte, dentro di noi, dovevano per forza mettere su casa e pure famiglia, dato che non se ne andavano mai.
Scossi il capo, scacciando l'assurdo pensiero nel quale ero caduto e mi concentrai sul cortile della casetta. Più in giù, in lontananza, le stalle appartenute al padre di Mary sorgevano, pennellate di un colore rosso scarlatto, estremamente risaltato dal dorato del grano.
- Che tempismo, signor Holmes.
Una voce, quella voce, mi costrinse a voltarmi di scatto. Tolsi la pipa dalla bocca e guardai Mary Jane scendere la piccola scalinata, sorridente come al solito.
Come al solito, inoltre, la mai mente si accartocciò, ben peggio di come aveva fatto altre volte in passato, in presenza di una persona sola e una soltanto.
Si sistemò meglio il berretto verde, nascondendo sotto di esso una ciocca che era scappata via, poi aprì l'ombrello, ponendosi sotto, all'ombra. Anche in quella circostanza appariva una dama da compagnia di nobili origini, educata e composta. Eppure sapevo che sotto quella ben disposta mascherata si nascondeva una donna del tutto diversa. La sola parola che mi balzò in mente fu: viva.
- Bene, vogliamo andare? - disse, aspettando che le porgessi il braccio.
Con stupore glielo porsi, infilandomi gli occhiali da sole e la pipa in bocca. Cominciammo a camminare in silenzio, finché non le chiesi che cosa stesse studiando, così da fare contento il suo caro paparino.
Mi parlò di astri, di volumi, di aree, pendenze, elettricità. Mi parlo anche di quando enorme fosse l'universo, quanto volesse arrivarci, lassù al cielo. Non me la sentii di interromperla e la lasciai parlare, propenso a conoscere e capire chi lei fosse.
Sembrava tante cose. Un momento una donna saggia e matura, un altro una sognatrice incallita, quello dopo una studiosa di quelle che ti sbranerebbero, se ti azzardi a negare qualche teoria. Poi all'improvviso rise. Rise e cominciò a raccontarmi di una strana lezione avvenuta all'università. Io feci finta di ridere a mia volta, continuando invece a studiarne la persona.
Non avevo mai studiato la psicanalisi, ma un cliente, una volta, mi aveva accennato qualcosa. Qualcosa che riguardava anche il linguaggio non verbale. Lo studio delle persone dal loro corpo, insomma.
Da Mary Jane, mio malgrado, non traspariva altro che l'immagine di una donna tranquilla e serena, passeggiante per un sentiero di campagna, fin troppo logorroica e di gradevole aspetto.
Non fraintendetemi, quest'ultimo era un dato puramente oggettivo.
- Nelle stalle avete cavalli? -le chiesi, abbassando un po' il capo.
- Oh sì, tre.
- Bene, torniamo pure a casa -conclusi, girando i tacchi e pronto a tornare indietro.
- Ma... perché mai?
- Problemi di natura intellettuale, odio i cavalli, sgradevoli, ciccioni, equini da passeggio - confessai, mentre la sentivo raggiungermi dietro.
- Pensavo volesse vedere le scuderie - disse lei, arrivata poi al mio fianco.
Mi fermai in mezzo al sentiero e mi voltai a guardarla. Di nuovo notai l'ardore del suo sguardo, lo stesso del nonno appeso nel quadro.
Se prima avevo detto che era di bell'aspetto, credetemi se vi dico che è una svalutazione bella e buona di ciò che vedevo in quel momento.
Il vestito verde smeraldo faceva risaltare ancora di più lo scuro dei suoi occhi e quello dei capelli, mentre al collo teneva appesa una rosa blu, come quella che aveva sua madre, il giorno del matrimonio. Non parlai per qualche istante, in balia della mia confusione.
- Crede che non me ne sia accorto, che non ha detto apertamente di essere stata lei a chiedermi di fermarmi? - le dissi spavaldamente, guardandola da sopra gli occhiali.
Lei trattenne un sorriso, abbassando lo sguardo, poi tossicchiò e parlò.
- E' stato gentile a non dire nulla.
- Perché non l'ha voluto dire?
- Perché non voglio che mio padre e mia madre sappiano, quello che lei non sa ancora di sapere già.
Mi meravigliai nell'udire quelle parole. Evidentemente Mary Jane mi conosceva bene, quasi quanto suo padre. Aver sentito racconti su racconti su di me dovevano averla condotta a pensare che solo io avrei potuto esserle d'aiuto, in una faccenda evidentemente complessa da poter risolvere da sola.
- Mi dica come posso aiutarla, miss Watson-dissi, mettendo via la pipa.
Il suo sguardo si illuminò un poco di più e sul suo viso non si formò alcun sorriso, ma la semplice consapevolezza di aver trovato ciò che cercava. Io dal canto mio mi dovetti trattenere dal lasciare che la mia mente pensasse qualcosa, qualsiasi cosa, poiché dovevo concentrarmi solo su ciò che lei aveva da dirmi.
Mary Jane prì la piccola borsetta che portava al braccio e cominciò a cercare qualcosa. Ne estrasse un piccolo foglio di carta spessa, evidentemente una foto, la foto di cui Watson mi aveva parlato il giorno prima.
Me la porse e attese, mentre me la rigiravo fra le mani, poi mi si avvicinò, fissandomi con quegli occhi talmente profondi che spensero ogni mio singolo input ancora attivo.
-  La guardi con attenzione - mi sussurrò, come se mi avesse lasciato un autentico tesoro. Poi si girò e mi superò, prendendo la strada di casa.
Mi lasciò solo con quella foto e la certezza che i cavalli non mi avrebbero attaccato.
Mentre me la rigiravo tra le mani notai quanto piccola fosse, tanti anni fa. La mia mente mi fece ricordare quanti anni avessi io, ora: troppi, a confronto di una ragazza come lei.
Lanciai un riso soffocato e gettai un'ultima occhiata alla foto, pronto a metterla in tasca.
Fu allora che notai una leggera piegatura nell'angolo in basso sulla destra. Afferrai la lente che portavo sempre in tasca e la avvicinai, decifrando le poche, minuscole, righe:
“Non ti fermare a ciò che ti diranno;

pensa, invece, a ciò che crederai”.



nota: ho adorato scrivere questo capitolo! Holmes entrerà in azione o pure no? lui, che non ha mai lasciato un caso al suo destino. e chi è l'autore della frase? perché Mary Jane non vuole rivelare nulla di ciò che sa, se non a Sherlock? tante domande, tante risposte nei prossimi capitoli! oppure no.. dipende tutto da Holmes.

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Capitolo 4
*** #The ring. ***


 - Allora, cosa ne dice Holmes?
Watson mi guardava da dietro il suo giornale, gli occhi ridenti almeno quanto le sue labbra.
Io continuai a fumare la mia pipa, mentre suonavo il violino con aria assente.
- Assolutamente no - decretai, cominciando una nuova scala musicale.
- Ha detto di volersi fermare, dunque sono convinto che si troverà bene anche dai McClean.
Dannata famiglia borghese. Dannate usanze borghesi. Dannati compleanni borghesi.
I signori McClean avrebbero dato una festa in occasione del compleanno del Signor David McClean, il capo famiglia, il padre Jodie, amico di Watson e Mary, insomma, un dannato borghese.
Ero incastrato, non avevo possibilità di fuga e Watson lo sapeva bene, lo si vedeva dal sorriso fin troppo contento che traspariva sotto i baffi curati.
Non gli diedi alcuna soddisfazione, continuando a suonare a testa alta, lo strumento vicino all'orecchio e pipa fumante. Cominciò a venirmi una sorta di ansia all'idea di dovermi immergere in quella marea di persone sconosciute dall'odore nauseabondo e dai dialoghi idioti. Mi voltai verso Watson, ancora allegro.
- Spero si metterà bene in tiro, se vuole può prendere qualcosa di mio.
- Mi sta dicendo che mi vesto male?
- Malissimo.
- Apprezzo la sua sincerità.
- E' il mio punto forte.
- Mh.
- Mh?
- Vorrei il suo gilet nero.
- No, quello lo metterò io.
- Cosa vorrebbe dirmi? Che è più importante la sua estetica della mia?
- Si, anche.
- Lei è ingiusto - conclusi accennando una nota col violino.
- E lei non sa vestirsi.
Lo sentii trattenere una risata, nascosto dietro il suo giornale del mattino.
Erano passati due giorni dalla passeggiata con Mary Jane ed ero arrivato a chiedermi se davvero ne valesse la pena di rischiare di mandare in frantumi il bell'equilibrio familiare che il mio amico amava così tanto.
La ragazza, dal canto suo, non sembrò volermi dare alcun fastidio, preferendo svolgere le sue occupazioni per conto suo, soffermandosi a parlarmi per pochi minuti e di cose del tutto irrilevanti.
Mi ricordava il mio amico Watson, all'inizio, quando ancora non conosceva i miei modi di fare, di essere. Lui era silenzioso, scaltro, acuto, proprio come lo era lei. Non voleva dare fastidio, ma era sempre pronto ad un confronto d'idee, ad aiutarmi meglio di chiunque altro, confrontandoci su casi in cui c'eravamo imbattuti.
Quando tornai nella mia stanza mi sorpresi di trovare sul mio letto un completo nuovo, di colore scuro, ornato con un fazzoletto verde nel taschino. Guardai il biglietto che vi era sotto e non scorsi altro che il nome di una sartoria ben nota a Londra, ma non ebbi alcun dubbio, quel verde era assolutamente indiscutibile.
Non avevo alcuna intenzione di preparami ore prima dell'evento, decisi quindi di starmene in camera, dovevo assolutamente pensare.
Ripercorsi il poco che sapevo, sempre indeciso se andare oltre o restare dov'ero. La cosa che mi lasciava disturbato era la certezza che avevo ormai dato a Mary Jane. Non ero il tipo di persona da tirarmi indietro o da non mantenere una parola data.
Era chiaro che il segreto era oscuro anche a lei, almeno in parte, anche se ero sicuro che avesse in mente qualche teoria. Mi sedetti sulla poltrona di fronte alla finestra e cominciai a fumare.
Qualcosa che riguardava suo nonno non andava. Suo nonno era un grande industriale, un uomo conosciuto e rispettato. Non mi pareva che Mary fosse una donna scontrosa e poco socievole,e ra anzi ben disposta al prossimo, Watson mi aveva anche detto che andava spesso ad aiutare volontariamente i bambini di un orfanotrofio a Londra e di sicuro non poteva essere cresciuta in una famiglia in cui i valori morali erano assenti.
Il signor Morstan era quindi un nobile esempio di aristocrazia ancora con un cervello dentro il cranio. Era questo che mi lasciava insospettito, che qualcuno, magari, non apprezzasse la sua buona volontà di lavorare per il bene non solo dell'economia inglese, ma anche per i suoi clienti. Avevo curiosato in giro per casa, non ricordo esattamente in quale ora della notte precedente.
Assieme ai libri che il salotto mostrava in bella vista, ve ne erano anche altri, veri e propri diari scritti dallo stesso Theodore. Molti illustravano come era stata costruita quella casa, altri la storia della famiglia Morstan. Altri erano proprie considerazioni scientifiche, evidentemente era un chimico di professione, studiante come rendere più brillanti i colori delle proprie stoffe. In altre pagine avevo notato la presenza di persone anche straniere, come l'incontro che aveva avuto con il signor Chevreul, uno studioso francese che si occupava anche lui di migliorare la lucentezza delle stoffe.
Il signor Theodore era quindi un abile scienziato, un viaggiatore e un ottimo comunicatore.
Aveva molti consensi da parte dei suoi operai. All'interno di uno dei suoi diari vi era ripiegata una lettera con una scrittura difficile e contorta, appartenuta di sicuro ad uno dei suoi operai. Lo ringraziava per avergli trovato una casa per lui, sua moglie e i tre figli. Ogni settimana gli scriveva una lettera diversa, sempre contenente dei ringraziamenti.
In un altro diario trovai altrettante lettere quante le persone che lavoravano per lui. Tutte ricche di affetto e stima, tutte indirizzate a quell'uomo che, secondo quello che potevo sentire anche io, era ancora vivo nella mente di tutti loro.
Ammetto che avevo in mente di andare a trovare il prima possibile chi avesse scritto la prima delle lettere che mi era capitata sotto mano. Me la sfilai dalla tasca, deciso a capire da dove provenisse.
Ne annusai il forte odore un po' ammuffito, ma ancora intatto, evidentemente nella casa di Watson l'umidità non era molto presente. Intuii un leggero retrogusto di rosmarino, di cenere e carbone, mi resi dunque conto che il signore abitava dalle parti di una fabbrica o magari di un fornai. La seconda mi parve più plausibile, quando mi accorsi di alcune macchie bianche incrostate sul fondo.
Farina, non vi era alcun dubbio. Un operaio del suo calibro non poteva possedere la penna e la carta giusta per scrivere ad un uomo del livello di Morstan, evidentemente era andato a chiedergliela in prestito.
Dovevo dunque trovare il modo di andare in paese e capire chi fosse quell'uomo e se, magari, potesse essere ancora vivo.
Quando alzai la testa mi resi conto che il pomeriggio era passato troppo in fretta e il cielo stava assumendo colori tipici di quei quadri impressionisti che Mrs. Hudston, santa donna, voleva attaccare all'entrata di casa sua.
Mi alzai e decisi di impegnarmi come si deve, per evitare di fare una pessima figura. Inoltre non volevo che Watson potesse avere alcun modo per infangare la mia immagine.
Quando finii di lavarmi mi resi conto che i capelli erano sempre il punto critico della mia opera. Tentai di sistemarli alla meglio che potevo, infilai la pipa nella tasca e il fazzoletto nel taschino.
No, no, il fiocco non potevo sopportarlo. Lo tolsi e aprii un bottone della camicia. Elegante sì, ma senza perdere troppo me stesso.
Scesi in salotto, ma non trovai altri che Grace, la domestica, che mi guardò fin troppo compiaciuta e mi sorrise in un modo che trovai troppo, tanto che mi affrettai ad uscire dalla stanza, dirigendomi fuori.
L'aria era tiepida e piacevole, la nottata sarebbe stata limpida. Fuori il silenzio era solo canzonato dal cantare delle cicale, cosa che mi rilassava, ogni volta. Pregai ci fosse anche da questi McClean.
- Holmes, Holmes, lei mi sorprende sempre.
Waston mi guardava veramente sconvolto, ma con un sorriso soddisfatto stampato in faccia. Aveva un abito grigio formale, il suo solito cappello in testa, i guanti che uscivano dalla tasca. La sua signora scese poco dopo, bella come sempre, delicatamente vestita con la sua solita semplicità, che Watson evidentemente, per come la guardava, adorava.
- Bene, tra poco andremo. Mary, vado a prendere la carrozza, mi accompagni?
I due uscirono e si diressero nel cortile, mentre le domestiche si affrettavano a portare loro i soprabiti.
- Ah Holmes, aspetti Mary Jane, vi raggiungeremo subito- mi disse poi, prima di voltare l'angolo.
Annuii con la testa, attendendo. Ma non volle molto.
Quando mi voltai, in cima alla scalinata c'era la creatura che avrebbe potuto rovinare le mie giornate, se solo avesse voluto, e, se solo avesse voluto, avrebbe potuto dar loro il senso che avevo sempre cercato e mai trovato.
La guardai, non seppi cos'altro fare. Il suo viso era diventata la mia ossessione, ossessione mista a curiosità logica e curiosità senza alcuno scopo.
Io di scopi ne avevo sempre avuti, ma in lei, ecco, non avevo motivo di mettermi a trovarne uno.
Era vestita di scuro, con le spalle scoperte, coperte appena da uno scialle bianco, nessun cappello, solo qualche forcina che permetteva a tutti di vedere quanto bello fosse quel viso pieno di cose nascoste.
Mi avvicinai alla scalinata e le porsi la mano, cosa che fece comparire su di lei un sorriso, quando me l'afferrò.
- Vedo che il vestito le sta di incanto, signor Holmes – mi disse, guardandomi dalla testa ai piedi.
- Lo so, ho un portamento invidiabile.
Lei annuì, trattenendo una risata.
- Lei non crede? Di sicuro molto meglio di quello di suo padre.
Ci avviammo alla porta e salimmo sulla carrozza appena arrivata.
Arrivammo dai McClean in meno di una trentina di minuti, la casa si presentava meno isolata di quella di questi ultima, ma ugualmente ben curata, forse solo appena più grande.
L'interno era ornato di opere d'arte provenienti dall'Olanda e dalla Francia, mentre i tappeti, quelli, addirittura dalla Persia.
Mi misi a girovagare tra le persone, ero sicuro che nessuno lì mi conoscesse o speravo che fosse così. Evidentemente, mi sbagliavo.
- Lei è il signor Holmes?
Mi voltai di scatto e fui sorpreso di vedere una ragazza dell'età pressappoco come quella di Mary Jane che mi squadrava da capo a piedi.
Aveva i capelli biondo cenere, gli occhi castano verdi, un avvenente vestito appena scollato. Teneva in mano un fazzoletto che, sicuro, aveva appena tolto dalla borsetta di pelle, una “J” e una “M” erano ricamate sopra.
- Jodline McClean, molto lieta.

Mi sorrise, tendendomi la mano. Io la salutai con un cenno di labbra, annuendo poi con la testa.
- E' un vero piacere conoscerla, Mary Jane mi ha parlato molto di lei.
Certo, tra amiche del cuore.
- Dice che siete un un uomo di grande intelletto, dedito alla scoperta.
- Più o meno – confessai, sorridendo.
- Bhè, spero non vi dispiaccia fare un ballo con me, a Mortimer di sicuro no – disse poi, indicando con la testa un ragazzo appena poco distante da noi, evidentemente il suo fidanzato.
- Ma certo che no - dissi, invitandola ad andare nella zona danzante.
- Lui stima molto gli intellettuali, uomini ricchi di valore, li chiama – continuò poi, mentre aspettavamo di entrare in pista.
- Oh sì, anche io ne ho, di valori. Solo un po' più contorti di altri.
Le strinsi un braccio intorno alla vita e ci immergemmo nelle coppie, mentre la mia mente si preparava a quello che volevo compiere.
Una volta entrato nelle mura di casa McClean notai subito gli arazzi luminosi e splendidi all'ingresso e per il corridoio, opera di sicuro del chimico Chevreul, dato che quel tipo di stoffa veniva lavorata in Francia. Mentre ballavamo guardai tutto quello che c'era da guardare, ogni persona che respirava in quella stanza, ogni oggetto, granello di polvere e attimo era sotto il mio controllo.
Lasciai libero una parte di me, rispondente alle domande di miss McClean, mentre il resto della mia persona studiava ogni angolo di quel luogo.
- Signor Holmes?
- Mh?
- Si fermerà qui per molto?
- Chi può dirlo.
- Mi farebbe piacere rivederla di nuovo.
- Mh, piacerebbe anche a me rincontrare una persona del mio calibro.
Dopo gli interminabili minuti trascorsi a immagazzinare ogni istante guardai di nuovo Jodie, che mi fissava confusa, e sorrisi, tentando di sdrammatizzare la mia ovvia, forse troppo ovvia, frase.
Fu allora che lo vidi. Un altro quadro, posizionato accanto al divano, raffigurava un uomo, assieme a sua moglie e ai suoi figli. Riconobbi il padre di Jodie, il signor David, che all'ingresso mi aveva stretto la mano.
Era il più piccolo dei tre fratelli, sedeva in braccio al padre, il sorriso infantile e innocente sul volto. La cosa che però mi ridestò fu l'anello che il padre del signor David portava sulla mano destra: lo stesso di quello del signor Morstan. La mia mente viaggiò fin troppo velocemente, tanto che mi bloccai in mezzo alla pista e mi voltai verso il signor David, certo di averglielo visto addosso, sulla sua mano, poco tempo prima.
Vi era dunque un collegamento certo tra i due signori, e avrei dovuto scoprire come e perché i due erano così legati e vincolati da un simbolo così forte come un anello.
Ripresi a ballare, scusandomi con Jodie di aver avuto un attimo di giramento di testa.
Ero fin troppo elettrizzato per riuscire a non pensare al caso in cui mi ero immerso, tanto che divenni quasi simpatico e socievole, agli occhi della mia compagna di ballo.
Uno sguardo alle mie spalle, però, mi costrinse a cambiare direzione, voltandomi ancora. Mary Jane mi fissava con uno sguardo indecifrabile, non accennò un sorriso, si limitò a voltarsi e a sparire tra gli invitati, seguita da un ragazzotto con le spalle larghe. Provai una sensazione strana, quasi l'impulso di seguirla.
Aveva capito che avevo scoperto qualcosa di essenziale, ma non voleva parlarne.
Poi abbassai gli occhi su Jodie, che mi sorrideva.

Evidentemente era altro, ora, che la disturbava troppo.



nota: come può Sherlock dire di no ad un caso, vero?
ditemi cosa ne pensate!

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