Frammenti di Luce.

di Kim NaNa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** L'inizio della fine. ***
Capitolo 3: *** Utopia. ***
Capitolo 4: *** Vieni con me. ***
Capitolo 5: *** Chi sei, tu? ***
Capitolo 6: *** La bottiglia ***
Capitolo 7: *** Dessert al sapore di cielo ***
Capitolo 8: *** Alla Signora Notte ***
Capitolo 9: *** Quella donna ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Ad una stella che brillerà per sempre nel firmamento della mia vita:
mio cugino ANTONIO.


Frammenti di Luce.

 
Prologo.
 
Un imprevedibile e misterioso gioco di eventi è la vita.
Si sussegue imperturbabile e senza remore, come spinta da un’impercettibile brezza. Talvolta vento di Ponente, piacevole e leggero, altre vento di Bora, freddo ed impetuoso.
Si scandisce il tempo mescolando ore, minuti, secondi.
Attimi che profumano di vita, qualunque sia la tonalità del colore che li distingue.
Giallo: allegria.
Rosso: amore.
Verde: speranza.
Viola: dolore.
Grigio: impazienza.
Nero: morte.
È un gioco la vita. Noi siamo le pedine.
I giorni sono i numeri tratti dal fantomatico dado.
Un gioco un po’ insolito. Un gioco che non si smetterà mai di scoprire, perché esso non ha mai fine. Prosegue. Pedina, dopo pedina, giorno, dopo giorno.
È un gioco la vita, a volte piacevole, a volte crudele.
Si intrecciano i fili del destino in questo grande e affascinante mistero che chiamano vita.
Si tesse la tela dei nostri giorni tra gioie e dolori, tra angosce e soddisfazioni.
Non conoscenza stanchezza, non conoscenza clemenza.
Essa non fa distinzione tra gli uomini. Non c’è razza, religione o età che conti per la Suprema Signora dell’Esistenza.
Fredda, muta ed impassibile prosegue il suo percorso, percorrendo le distinte strade del destino di ogni essere umano.
Ma la vita non ha strade, solo infiniti orizzonti da scoprire.

Non esiste caso a questo mondo.
Solo un destino predestinato per ciascuno di noi.
Qualunque sia la strada intrapresa, finiremo sempre tra le braccia della predetta segreta sorte.

Un percorso ineluttabile quello di ognuno.
Si nasce, si vive e si muore.
Il tempo oscilla lento e inesorabile. Fa incetta di vita e non cancella mai nulla. Porta con se il bene e il male plasmandoli.
Non c’è più dolore, ne gioia. C’è la vita ed essa è un unisono che profuma di realtà, di quotidiano ed ha una bellezza particolare che ci proietta verso una dimensione che sa di eterno.
Non lo sfuggi il destino se il sole si leva alto nel cielo dell’indomani.

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Capitolo 2
*** L'inizio della fine. ***


L’inizio della fine.
 
È sempre complicato tornare a casa dopo qualche mese di ospedale.
Gente che va, gente che viene. Parole gentili, sorrisi stampati, frasi di circostanza e strette di mano.
Ma quand’è che la gente smetterà di indossare la maschera dell’ipocrisia?
Forse mai.
Fingono tutti di essere preoccupati, dispiaciuti e quasi tristi, ma, in realtà, di te, non sanno poi molto.
L’uomo non è quell’individuo buono e comprensivo che dice di essere.
L’uomo è subdolo, egoista, ignavo e superbo.
Detesto gli sguardi compassionevoli della gente; mi guardano tutti come se fossi una malata. Anche se la verità è che io sono davvero malata.
Devo solo convincermi di esserlo.
Questi occhi curiosi e indagatori mi scrutano con una cura magistrale, sembra quasi abbiano paura di me e di quel velo di morte che aleggia sul mio viso nei momenti più critici.
La morte.
Ma, in fondo, cos’è la morte?
Un dolce sonno eterno. Senza dolori.
È la totale assenza della vita.
Silenzio. Pace.
La morte è tutto o forse niente.
Non sarebbe poi male morire. Tutto finisce.
Ecco perché io non ho paura della morte. È vivere il vero problema.
Affrontare la vita con coraggio, nonostante le sue frustrazioni, le sue prove, i suoi grandi dolori.
Morire non è poi così male, è sopravvivere alla morte di qualcuno che si ama la più grande e atroce delle sofferenze.
Provate a chiedere cosa vorrebbe a una madre che ha appena perso il suo bambino. Vi urlerebbe, in preda al dolore, che vorrebbe morire. Sì. La morte è un leggero respiro che dobbiamo restituire, ma sopravvivere alla morte di qualcun altro è la più sciagurata delle agonie.
Mi chiamo Gabrielle Cooper, ho 22 anni e da cinque gioco a tavolino con la morte. Sì, perché sono io che le corro dietro, ma lei non mi vuole.
Forse è meglio così o forse no.
Dipende.
Da me. Da quello che ho intenzione di fare. Vivere o morire. Restare a guardare la mia fine o lottare per quella vita che, in fondo, non ho ancora scoperto.
A volte credo sia meglio morire, non proverei più alcun tipo di dolore.
Niente delusioni. Niente difficoltà. Niente bugie. Niente tradimenti. Niente rabbia, odio, amicizia, amore, indifferenza. Nessuna disgrazia. Nessuna malattia.
Niente di niente.
Altre volte, però, mi soffermo a guardare la vita che vedo dalla finestra. Quelle vite che seguono il proprio destino incuranti di quanto accade agli altri.
Vedo sorrisi, abbracci, risate. Vedo gli amici, le coppie, le famiglie. Vedo la vita e allora non so se è davvero morire quello che voglio.
Da quando mi pongo questi quesiti?
Da quando faccio simili discorsi?
Non lo so, non mi ricordo. O forse sì.
È tutta colpa di quel ragazzo che ho incontrato in ospedale.
Un semplice fattorino che mi ha portato una coca cola dal bar più vicino.
Una coca cola che nessuno aveva chiesto.
A me neanche piace la coca cola!
Da allora l’ho visto sempre. Ogni giorno. Stessa ora e sempre con quella dannata coca cola fra le mani.
Mi guardava quel tipo.
Ma come mi guardava!
Anthony Sky mi ha detto di chiamarsi.
Aveva capelli neri come la pece e gli occhi scuri come la notte. E la sua pelle… candida ed eterea emanava un confortevole tepore che mi donava una quiete mai provata.
Forse la morte vuole che io diventi pazza prima di raggiungerla, ma quel profumo, quel suo delicato profumo non credo riuscirò mai a dimenticarlo.
Mi disse di avere di 18 anni e poi mi sorrise.
E come mi sorrise.
Aveva una strana luce negli occhi e ne rimasi profondamente colpita. Quasi rapita.
Parlavamo sempre io ed Anthony, senza stancarci mai.
Preferivo le sue parole alle solite, mille ed inconcludenti argomentazioni dei miei medici.
Era piacevole parlare con lui e le mie giornate non sembravano più così interminabili e lente.
Quando pioveva però, Tony, come lo chiamavo io, non parlava mai.
Se ne stava sempre in un angolo della mia stanza ad osservare, silenzioso, il cielo. Sembrava assorto in qualche strana e complicata visione, come se qualcuno, dall’altra parte, lo tenesse imprigionato in una qualche dimensione parallela.
‹‹Che guardi?›› gli chiesi in un pomeriggio caldo e piovoso di Agosto.
Lui non smise di guardare il cielo che liberava la battente pioggia, ma sorrise.
‹‹Guardo il mondo. Guardo quanto è infinito. Lo senti? Lo senti tu, il profumo dell’eternità?››
Guardai fuori dalla finestra avvicinando il mio sciupato viso al freddo vetro.
‹‹Io non sento niente. E fuori diluvia. Altro che mondo ed eternità…››
Lo guardai perplessa. Da quando diceva assurdità?
‹‹Devi guardare con l’anima e sentire con il cuore. L’eternità è come la morte, non esiste quando c’è la vita, ma la puoi sentire quando ti soffermi a guardare il mondo.››
Si voltò a guardarmi per un attimo, un breve istante, solo per sorridermi.
‹‹Imparerai.›› mi disse prima di tornare a guardare il cielo carico di pioggia.
Non gli credetti. E tornai sul mio letto a gustare quella coca cola che avevo, pian piano, cominciato ad apprezzare.
Quando mi parlava della sua vita, di quanto si divertiva ad andare in giro con la sua moto, delle serate passate in compagnia di fidati amici, della sua famiglia, il tempo pareva fermarsi. Era come se riuscisse ad ipnotizzare la mia mente, a soggiogare il mio cuore.
C’eravamo solo noi. Io, lui e il mondo. Il suo mondo.
Avrei passato la vita ad ascoltarlo. Eppure i suoi occhi, quei serafici occhi sempre sorridenti, talvolta, mi incupivano.
Penetranti, indagatori, ridenti eppure troppo lontani da quel mondo che io vedevo ogni giorno.
Quegli imperturbabili occhi sembravano celare il più fitto dei misteri, il più inconfessabile dei segreti.
Pioveva il 10 di Settembre. Una pioggia torrenziale, violenta, minacciosa.
Lui era lì con me, ma con lo sguardo perso oltre la mia finestra, in quel cielo sconquassato da lampi e fulmini accecanti.
Avevo freddo e anche paura.
I temporali non mi sono mai piaciuti e poco importa se l’anagrafe evidenzia i miei 22 anni. Ho paura, punto e basta.
Mi alzai e, dopo essermi avvolta in una coperta, mi sedetti accanto a lui, stringendogli la mano.
‹‹Non avere paura, Gabrielle. Ci sono io con te.›› Mi disse.
E paura non ebbi.
Lui era lì e poco m’importava se la sua mente si era persa a fissare quel cielo impietoso. Lui era lì, tutto il resto non contava.
Chiusi gli occhi appoggiando il capo sulla sua spalla e inspirando a fondo quell’intenso profumo di pioggia gli chiesi:
‹‹C’è qualcosa che dovrei sapere anche io? Ti puoi fidare di me, lo sai…››
I suoi serafici occhi abbandonarono lo spettacolo incessante di quell’inclemente cielo grigio e si posarono sulle mie iridi castane rallentando i battiti del mio cuore.
‹‹Non adesso Gabrielle. Non ancora…››
Questo mi disse.
 

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Capitolo 3
*** Utopia. ***


Utopia.
 
Ululava impetuoso il vento in quel sabato mattina di settembre rischiarato da un tiepido sole.
Sentivo le finestre resistere a quella forza maestosa che inscenava quella fragorosa danza.
‹‹Ce l’hai un sogno, Gabrielle?››
Anthony era venuto anche quel giorno, con la sua immancabile coca cola e quel sorriso stampato sul volto che riempiva le mie giornate.
Feci una smorfia crucciata, indicandogli la sedia posta accanto al mio letto.
‹‹Uhm… un sogno dici? Forse lo avevo, ma è stato tanto tempo fa… I sogni sono le bugie della vita, le menzogne dei singoli giorni, quelle dolci amare speranze che t’illudono il cuore e ti bendano gli occhi. I sogni sono solo un’utopia… un effimero desiderio dell’uomo, l’essere più incontentabile e pretenzioso del pianeta. È da stupidi avere dei sogni!››
Lo guardai passandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio e vidi i suoi occhi velarsi di una luce truce e scura.
‹‹È da stupidi non averne!››
La durezza della sua esclamazione mi sorprese.
Tony è sempre stato molto gentile con me, non aveva mai alzato la voce. Sembrava davvero contrariato dalla mia affermazione.
‹‹Tutti noi abbiamo un sogno, un obiettivo da raggiungere, un desiderio da realizzare… Siamo solo troppo vigliacchi per ammetterlo. E tu sei una codarda, Gabrielle!››
Se ne andò così. Con gli occhi pieni di uno strano ed inspiegabile furore, con una luce mai vista sul volto.
Se ne andò e mi lasciò in preda a quel mondo che cercavo di soffocare.
L’indomani non venne.
E neanche il giorno seguente.
Ero tornata ad essere la ragazza di sempre, sola, triste e in bilico tra la vita e la morte.
L’alba del martedì mattino mi scoprì con la testa china sul water, con conati di vomito che sapevano di ruggiti inferociti.
Vomitavo via tutto quel che mi appesantiva corpo, cuore ed anima.
Vomitavo via la mia vita e sentivo la mia essenza deteriorarsi.
La sentivo.
La morte, era lì, per me. Eppure avevo timore di afferrare la sua mano…
Lacrime copiose e salate bagnavano il mio viso scarno e sciupato; le lacrime, le mie uniche vere compagne di quella vita crudele ed infelice, lacrime che versavo, silenziosamente, anche con occhi asciutti.
Mi sentivo sola. E pensai a lui.
Anche Tony mi aveva lasciata sola.
La solitudine, quella carogna.
La più infida dei miei nemici. Così silenziosa e, al contempo, assordante… Rumoreggia Lei… ti attanaglia, ti ammutolisce, ti soffoca, ti uccide lentamente. Ti lascia inerme, senza fiato, rannicchiata nel più tetro e sconfinato angolo dell’oscurità, a dover lottare, a mani nude, con i fantasmi del tuo passato, del tuo presente, del tuo futuro.
Quasi mi venne da ridere.
Il futuro?!
Quello sconosciuto che non avrei mai visto… ne ero convinta.
Subivo, rassegnata, gli effetti devastanti delle mie scelte, mentre osservavo, impotente, lo scandire del tempo. Quello stesso tempo che, per quanto scorresse lesto ed inesorabile, pareva non passare mai.
Mi sentii morire.
Volevo alzarmi e rimettermi a letto, ma il mio corpo sembrava paralizzato. Uno strano dolore mi aveva colpito e non riuscivo a muovermi.
Fu allora che udii qualcuno bussare alla mia porta.
Farfugliai qualcosa di incomprensibile, ma ero troppo sfinita per permettere alla mia voce di sovrastare il legno di quella porta.
Silenzio.
Mai udii un silenzio più fragoroso di quello che si sparse, in quei minuti, nel mio piccolo bagno.
La testa cominciò a girarmi intorno, tutto si muoveva troppo velocemente dinanzi ai miei occhi e sentivo le forze venirmi sempre meno.
‹‹Forse sono davvero giunta al mio capolinea.›› pensai prima di abbandonarmi a quella sensazione di malessere che mi aveva pervaso.
L’ultima cosa che percepii fu il tocco leggero di due braccia delicate e forti che mi sollevarono dal pavimento, sussurrandomi dolci parole che non ricordo più.
La mia testa era abbandonata contro il petto del mio sconosciuto salvatore e fu così che lo riconobbi: il suo profumo. Quel profumo di cielo e pioggia che aveva solo lui… Anthony era tornato. Era tornato per me. Sorrisi debolmente, prima di cadere nell’oscurità.
Mi risvegliai nel pomeriggio e la prima cosa che vidi fu il sorriso di Tony.
E allora non so che mi accadde, ma cominciai a piangere. Un pianto disperato, irrefrenabile, proprio non ce la facevo a smettere.
Tony mi si avvicinò pian piano, poggiò il suo capo sul mio ventre e mi disse:
‹‹Piangi Gabrielle, piangi per la tua vigliaccheria, piangi per le tue paure, piangi per quei sogni che rinneghi…››
Ed io piansi, affondando il mio viso bagnato nei suoi capelli color carbone.
Quando mi fui calmata, mi sentivo bene e avevo, persino, voglia di ridere. Sì, ridere. Non ricordavo più neanche come si facesse.
‹‹Grazie Anthony.›› sussurrai.
Tony  mi sorrise come solo lui sapeva fare, imprimendo i suoi occhi penetranti nelle mie iridi scure.
‹‹Allora… adesso me lo dici qual è il tuo sogno?››
Ci pensai su per qualche istante, ma gli risposi senza esitare.
‹‹Vorrei ridere!››
E lui rise.
Ed io lo accompagnai, avvertendo nel cuore un tepore rassicurante.
Rise a crepapelle Anthony, così forte da farsi venire le lacrime agli occhi. Lacrime di gioia… e quella sì che fu una scoperta eclatante.
‹‹Uffa Tony! Smettila di ridere in quel modo del mio sogno! Volevi che te lo confidassi ed io te l’ho detto…››
Incrociai le braccia sul petto, fingendo un broncio che in realtà sapeva di allegria.
Con un gesto rapido delle dita, si asciugò gli occhi umidi e mi guardò.
‹‹Hai visto? Tutti hanno dei sogni e il tuo è solo uno dei tanti… Non esiste l’utopia. Non c’è nulla di utopico a questo mondo, solo una marea di volontà ferree e determinate. Qualunque sia il tuo desiderio, esso vedrà il suo compimento se tu lotterai per vederlo realizzato. Neanche l’eternità è un’utopia… e un giorno io te lo dimostrerò!››
Aveva ragione lui. Avevo dei sogni e non volevo morire.
Lo avevo capito quella mattina, quando, in quella tazza bianca del water, stavo facendo scivolare la mia vita.
E anche se, l’eternità che lui inseguiva, ancora non la capivo, sorrisi a quel giovane ragazzo che vedeva la vita come fosse un diamante da far brillare attraverso la luce giusta.
‹‹Sai Gabrielle… La vita è piena di salite, discese, strade tortuose, vicoli ciechi e sentieri infiniti, eppure ogni singolo percorso merita di essere intrapreso, perché esso ti porterà in mille posti diversi, in situazioni e mondi che meriteranno d’essere vissuti. E non è detto che ci sia sempre il sole ad illuminare la via che percorri. Potresti ritrovarti nel bel mezzo di un temporale o ritrovarti al buio più completo… e tu smarrirai il sentiero e, per paura di andare oltre, resterai lì, per un’infinità di tempo, ad aspettare il sole. Ma sarebbe un vero peccato sprecare tutto quel tempo nell’attesa del ritorno del sole… C’è tanta vita che lasci scorrere come granelli di sabbia mentre attendi che la pioggia cessi. Non è stupido avere dei sogni, Gabrielle… è stupido stare ad aspettare che la tua vita cambi da un giorno all’altro, senza fare nulla, senza lottare mai. Il tempo non è mai abbastanza in questa vita, non puoi permetterti di lasciarlo andare. Devi prenderlo, tutto, e vivere tutta la vita che c’è, anche quando essa ti sembrerà crudele e ingiusta… quella sarà pur sempre vita e tu dovrai viverla e lottare per superare anche quel momento. Il dolore, le sofferenze, la morte sono eventi ineluttabili di questa nostra esistenza e nonostante facciano tanto male, male da sentirti morire, profumano di vita e, tu, non puoi permetterti di accantonarla solo perché non è come l’avevi immaginata. Il tempo perduto non torna indietro. Mai! Non importa quanto a lungo vivi, ciò che importa davvero è come vivi! La vita è una sola Gabrielle… solo una. È come la corolla di un delicato e profumato fiore, se la privi di qualche petalo, perde la sua bellezza originaria e lentamente muore…
Ricorda Gabrielle… Siamo tutti guerrieri a questo mondo, ma non tutti scoprono di esserlo.››
Quelle dolci e ferme parole mi scaldarono il cuore.
Risuonavano nella mia testa come un’antica e dimenticata nenia.
Mi parlava di coraggio, speranze, sogni…
Sembravano le liete parole di una tenera fiaba.
Quell’amabile cantilena mi accompagnò, pian piano, nel mio mondo onirico, lasciando mostri e fantasmi fuori dalla mia stanza.
C’era Anthony con me e nulla poteva turbarmi.
Quando riaprii gli occhi era notte fonda.
Tony non c’era, non c’era nessuno.
V’era il buio attorno a me e il silenzio.
E mi sentii di nuovo sola.
Pioveva fuori dalla mia finestra. E come pioveva.

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Capitolo 4
*** Vieni con me. ***


Vieni con me.
 
Era il primo di Ottobre quando un primario di quel maledetto ospedale pubblico mi dimise.
«Può tornare a casa, signorina Cooper.  In questa settimana non ci sono esami clinici a cui deve sottoporsi, pertanto la mando a casa sua, ma le ricordo che il prossimo lunedì deve effettuare nuovamente il ricovero presso la nostra azienda ospedaliera.»
Mi sorrise quell’uomo dal viso paffuto e i capelli neri, e non capivo cosa avesse da sorridermi.
Casa.
Come se la mia casa fosse il posto più tranquillo e rassicurante della terra!
Io odiavo quella casa, la odiavo perché era mia.
I miei genitori erano troppo impegnati ad occuparsi della situazione finanziaria di famiglia e dell’impresa che gestivano per occuparsi di me.
Erano troppo ciechi per vedermi davvero.
Non s’erano neanche mai accorti che stavo scomparendo, lentamente, poco a poco.
Tornare a casa! Tsè! Solo un idiota come quel medico poteva pensare che la mia casa fosse migliore di una stanza d’ospedale.
E poi c’era Anthony. Non l’avrei più rivisto.
Si fece buio nel mio cuore.
C’era un timido sole quella mattina, quando con una piccola valigia nera  tra le mani, camminai a piedi per ore pur di attardare il mio rientro a casa.
Mi trascinavo lungo la strada, le mie gambe parevano essere trafitte da mille lame, ogni passo si rivelava una vera sofferenza, ma proseguivo in silenzio, nonostante la pesantezza di quei movimenti.
Era il mio cuore ad essere pesante, era lui l’unico fardello che gravava sulle mie spalle.
Ero io che incidevo sul mio essere, erano i miei pensieri ad appesantirmi l’anima.
Suonai il campanello del mio appartamento e cercai di riprenderei fiato.
Subito mi affrettai a fingere di stare bene: mi asciugai la fronte dal sudore, mi pizzicai le guance per colorarle appena e abbozzai un sorriso.
Dovevo fare l’attrice, io!
La storia riprendeva il suo percorso.
«Ciao sorella, sei viva allora?!»
La voce di mio fratello maggiore, Michael, mi attraversò la mente come un fiume in piena.
Detestavo il suo solito sarcasmo.
«Già, sono viva, per tua sfortuna. Io non sono malata, sono i medici a pensarlo.»
Lo superai senza neanche guardarlo, dirigendomi nella mia stanza e proprio mentre chiudevo la porta alle mie spalle gli sentii dire:
«Le tue sono solo manie di protagonismo.»
Chiusi gli occhi e trattenni il fiato. Sentii la rabbia crescere dentro di me e l’assurdo desiderio di prendere a sberle quel ragazzetto viziato di ventisette anni sfiorò i miei pensieri.
Odiavo il cinismo che regnava in quella famiglia. Ma non potevo farci niente, loro erano fatti così ed io dovevo adeguarmi.
I miei giorni a casa non furono migliori delle miei giornate trascorse in ospedale, al contrario.
Passavo il tempo a letto, a leggere decine e decine di libri. Ogni tanto guardavo un po’ di televisione e poi me ne andavo a dormire con tutti i miei pensieri, con tutta la mia solitudine.
Sabato mattina il cielo era limpido, c’era solo un vento freddo a rammentare l’arrivo della stagione autunnale.
Me ne stavo seduta sul mio letto, a guardare il leggero ondeggiare delle foglie d’acero del grande albero che s’ergeva dinanzi alla mia finestra.
Bussò qualcuno alla mia porta.
Era mia madre.
Una donna sulla cinquantina, ancora molto piacente, con qualche filo d’argento sulla capigliatura dorata. Aveva degli occhi piccoli di uno strano marrone, venato da una serie di pagliuzze gialle.
Nessuno avrebbe mai detto fossimo madre e figlia.
Eravamo troppo diverse e non solo esteticamente.
Sono diversa da tutti, io.
«Ti ho preparato la colazione, Gabrielle. Mi raccomando mangiala tutta, non devi aver mangiato cose prelibate in ospedale. Adesso vado, sono in ritardo. Ho un’importante riunione questa mattina.»
Andò via così, senza neanche voltarsi a salutarmi, senza neanche accorgersi che non avevo staccato gli occhi dalle foglie d’acero.
Guardai il vassoio che mi aveva poggiato sulle gambe.
Lo afferrai e lo misi sotto il letto, coprendolo meticolosamente.
Il mio quarto giorno di digiuno era appena iniziato.
Perché non mangiavo?
Al mio rientro a casa mi scoprii con un tale appetito da rimanerne io stessa sorpresa.
Mangiavo regolarmente ai pasti, assaporando il gusto dei cibi, senza avvertire quegli spiacevoli malesseri che influenzavano le miei giornate.
Ma il martedì sera, Michael, mi offrì una coca-cola e fu come se il mio stomaco si fosse offeso.
A me non piace la coca-cola, solo Anthony poteva offrirmela. La sua aveva un sapore diverso.
Ma non l’avrei più assaggiata. Non l’avrei più rivisto, almeno credevo.
È così la vita.
Tu prosegui i tuoi giorni come se nulla dovesse cambiare, ma un giorno ella si sveglia, scuote la tua anima e ti scombina ogni cosa, lasciando a te l’ardua impresa del ricominciare.
È un continuo inizio la vita.
Non la mia, però. La mia è sempre stata una fine. Ho sempre avuto l’impressione che qualunque cosa mi riguardasse sarebbe cominciata dalla fine, l’avrei vista cadere e morire in fretta, qualunque cosa fosse.
Uno strano picchiettio ruppe il rumoreggiare dei miei pensieri.
Mi guardai intorno senza capire cosa fosse.
Poi di nuovo e poi ancora.
Qualcosa urtava contro la mia finestra.
Alzarmi dal letto fu complicato. Non avevo le forze necessarie per mettermi in piedi, ma spinsi le braccia contro il materasso e mi misi in piedi.
Guardai fuori dalla mia finestra e, dopo giorni di silenzio e inespressività, sorrisi.
Anthony Sky, con indosso una tuta da ginnastica blu, lanciava sassolini contro la mia finestra per attirare la mia attenzione.
Aprii le imposte e mi affacciai sul davanzale salutandolo con una mano.
Quello strano fattorino, venuto dal nulla con la sua coca-cola, non si era affatto dimenticato di me.
«Buongiorno, Gabrielle!» Disse, sorridendomi.
Quel sorriso! Quanto mi era mancato.
Il cuore mi batteva forte, le mani mi sudavano. Come diavolo aveva fatto a scoprire dove abitavo?!
«Come hai fatto a trovarmi? …Dico, come hai scoperto il mio indirizzo?» Ero curiosa, ma ero felice.
Lui sorrise ancora. E come mi sorrise!
Mi sorrise con le labbra, mi sorrise con gli occhi, mi sorrise col cuore.
«Che importa?! L’importante è averti trovata! Su, dai. Scendi.»
Mi aveva trovata.
Non so perché, ma quelle parole mi fecero tremare le gambe. Mi tenni stretta al davanzale e continuai.
«Scendere? Ma sei pazzo? E per andare dove, poi?»
Mise il cappuccio della sua felpa blu sui capelli corvini e protese un braccio verso la mia finestra.
«Vieni con me.» Disse.
Quegli occhi… quella voce, quella mano, stavano chiamando proprio me.
Mi sentii un po’ come la Giulietta di William Shakespeare; dal mio balcone parlavo con un giovane affascinante.
Il pensiero mi fece sorridere e accennai un segno di conferma col capo prima di tornare nella mia stanza e di spogliarmi del mio pigiama.
Quando gli fui di fronte, dopo lunghissimi giorni, finalmente lo risentii.
Il suo profumo.
Quell’odore di pioggia che aveva solo lui.
E quegli occhi così misteriosi, perché mi guardavano in quel modo?
Afferrai la mano che lui mi aveva offerto e cominciò a correre.
«Aspetta. Aspetta. Fermati Tony, non correre così… sono troppo stanca.»
Dapprima si voltò a guardarmi, col sorriso stampato, intimandomi di continuare a correre, poi si fermò e, prima che potessi accorgermi di quanto stesse accadendo, mi ritrovai a cavalcioni sulla sua schiena.
«Ma che fai? Sei impazzito? Fammi scendere!» Gli urlai.
Ma lui proseguì la sua corsa e sghignazzando aggiunse:
«Non ancora. Reggiti forte, non è lontano dove devo portarti.»
Corremmo in quell’assurdo modo per una decina di minuti, poi, nei pressi di un luminoso campo di grano lui si fermò.
Con estrema cautela mi fece scendere, e con il viso illuminato dal sole, mi disse:
«Ti ho portata in paradiso!»
Mi guardai intorno. V’era solo luce, pace e quiete attorno a me.
Un vero giardino dell’Eden.
Anthony mi prese per mano, spezzò una piccola spiga di grano e si mise lo stelo in bocca.
«Vieni con me, ho portato qualcosa che voglio fare con te.»
Lo guardai senza riuscire a proferir parola, il suo sguardo era troppo serio per poter violare l’intensità di quel momento.
Mi portò sotto un grande albero di Platano e scorsi due biciclette appoggiate al robusto tronco.
«Non vorrai farmi salire su quella spero?!» Dissi indicando una delle due biciclette.
«E invece sì! Coraggio.»
Andò verso la bicicletta di colore verde e si mise in sella. Il sole, tra le verdi e gialle foglie di Platano, filtrava la sua luce rischiarando quegli occhi angelici che tanto mi rapivano.
Incrociai le braccia sul petto e assunsi un’espressione accigliata.
«Scordatelo! Io non salirò mai su quell’affare!»
Mi guardò con un' aria un po’ sorpresa, come se avesse appena appreso qualcosa di nuovo.
Scese dalla sua bici, mollandola sul prato e mi afferrò per un braccio spingendomi verso la bicicletta azzurra.
«Ti insegnerò io, Gabrielle. La vita è un continuo imparare, un crescente scoprire… ma non c’è nulla che non si possa fare.»
E mi guardò di nuovo con quegli occhi ai quali non ero mai in grado di dire no.
Ci provai.
Salii in sella a quell’odiosa bicicletta e provai a guidarla.
Caddi subito, ma Tony mi aiutò, tempestivamente, a rialzarmi. Caddi ancora e poi ancora. E poi di nuovo.
Era un continuo cadere, ma Anthony non mi aiutava più.
«Devi alzarti da sola, Gabrielle. Nella vita non è detto ci sia sempre qualcuno disposto ad aiutarti. Devi essere tu stessa la tua più grande amica!» Questo mi urlava.
Ero stanchissima.
Il vento si era fatto più pungente. Lo sforzo mi aveva arrossato le guance e il fiato mi mancava.
Tony se ne stava lì, in piedi, appoggiato contro quel Platano che sembrava essere il perfetto sfondo di quel misterioso ragazzo.
Mi guardava, mi scrutava, mi capiva.
Ero caduta ancora una volta, mi dolevano le gambe, ma spinta da una strana forza di volontà, mi alzai da sola senza che lui mi dicesse nulla.
Salii in sella alla mia bici e spinsi i pedali con tutta la forza che mi restava in corpo.
Pedalai. E pedalai.
Passeggiai tra le alte e dorate spighe di grano. Lasciai che il vento mi scompigliasse i capelli, permisi al sole di baciarmi il viso.
Ce l’avevo fatta.
Stavo pedalando.
Mi diressi verso Anthony volgendogli il mio miglior sorriso. Feci un giro intorno al grande Platano e poi mi fermai, proprio davanti a lui.
Non sorrideva.
Mi guardava serio, con una strana luce negli occhi, quella luce che aveva ogni qual volta osservava il cielo piangere le sue lacrime di pioggia.
«Potrai anche cadere cento volte nella tua vita, ma altre tante cento volte potrai rialzarti. E non importa se il dolore della caduta ti farà desiderare la rinuncia, tu rialzati e ricomincia. Non c’è nulla che non si possa fare in questa vita. Devi volerlo, Gabrielle, volerlo davvero.»
Mi poggiò una calda mano su una guancia continuando a guardarmi con quell'inspiegabile luce che riflettevano le sue iridi.
Mi penetrò l’anima. Mi gelò il cuore.
Cominciò a piovere e poi, i suoi occhi si persero, nell’infinito di quel cielo funesto.


NdA: questo capitolo lo dedico alla mia Unnie, perchè, mentre lo rileggevo per apportarne qualche modifica, ho pensato a lei.
Al prossimo aggiornamento.


Nanà-sshì

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Capitolo 5
*** Chi sei, tu? ***


Chi sei, tu?
 
Scendeva fitta la pioggia quella sera. Il cielo si faceva sempre più nero, sempre più cupo. Un vento gelido s’alzò d’improvviso, scuotendo con veemenza gli alberi e il campo di grano che avevano davanti.
I tuoni si ripetevano ad un ritmo inquietante, mentre il mondo circostante s’illuminava d’argento.
« Anthony! Anthony! » urlavo spaventata.
Lui non mi rispose.
Se ne stava lì, immobile, con il capo rivolto verso il cielo. La pioggia gli scendeva copiosa sul viso, i capelli gocciolavano rivoli d’acqua che incorniciavano stranamente il suo viso, negli occhi quella luce che avevo imparato ad amare, sulle labbra la smorfia di un sorriso, la sua mente persa in chissà quale segreto pensiero.
Era bello, pensai. Bello da lasciarmi senza fiato.
Lo vidi allargare le braccia e voltarsi a guardarmi.
« La senti, Gabrielle? La senti l’eternità? » Mi disse.
Mi rivolse uno strano sguardo, uno di quelli che non riuscivo mai a reggere, uno di quelli che mi faceva rabbrividire.
« Smettila! Vieni via! Io sento solo la pioggia e… tutti questi tuoni e questi fulmini! Ti prego, ti prego andiamo via. Lo sai, ho paura… » urlavo per sovrastare lo scroscio dell’acqua e lo sferzare del vento.  Lui abbassò le braccia e mi guardò. Il suo sorriso si era spento e i suoi occhi mi parvero, d’un tratto, tristi.
Camminò lento sotto la piaggia, era bello, bello davvero, era come se anche lui facesse parte di quello spettacolo naturale.
Quando mi fu di fronte, mi afferrò per le spalle con forza e mi guardò dritta negli occhi, penetrandomi l’anima con quelle iridi nero pece.
Non parlava, ma io lo sentivo. Il suo cuore stava urlando.
« Lasciami! » dissi. « Voglio tornare a casa. »
Mi strinse con più forza e mi avvicinò a sé. Sentivo il calore del suo corpo, sentivo il suo respiro concitato, sentivo i suoi occhi che mi scrutavano.
« Hai paura? » urlò, fissandomi e scuotendo con forza le mie spalle.
Feci un cenno di assenso con il capo, senza riuscire a dire una parola.
« E di cosa, sentiamo? » mi domandò, mentre i suoi occhi mi scuotevano l’anima.
Stretta in quella morsa non riuscii a dire nulla.
« Tu hai paura della vita! Hai paura di farti male, hai paura di affrontare gli imprevisti… Hai paura della fine! E allora, spiegami perché la cerchi? »
La sua voce mi trapassò il cuore. Calde e silenziose scesero le lacrime sulle mie guance.
Non mi aspettavo quel comportamento, non mi aspettavo quelle parole, non dopo la giornata che avevamo trascorso insieme.
Ululava il vento, schiacciandoci contro la pioggia battente, ma era il mio cuore quello che piangeva di più.
Perché mi parlava così?
« Dimmi perché? » continuò.
« Dimmi, perché pianifichi la tua fine? Perché ti ostini a rifiutare il cibo? Perché ti nascondi in un bagno per vomitare via la tua vita? »
Il mio pianto si fece disperato.
No, Tony non poteva parlarmi così. Lui no.
« Quante vite pensi di avere, Gabrielle? » mi disse alla fine, allentando la presa.
« Nessuna. » Mormorai.
Un fulmine si abbatté alle mie spalle, seguito da un fragoroso tuono.
« Nessuna? A sì? E spiegami dunque… quella che hai fra le mani, cos’è? Non è forse una vita? Una? »
Non le sopportavo, le sue parole. Non riuscivo a sostenere la durezza del suo sguardo e, con tutta la forza che riuscii a raccogliere, mi liberai della sua presa.
« No, non lo è. La mia non è una vita. La mia è solo una sopravvivenza! Ma che puoi saperne tu… tu che parli di cose assurde come l’eternità… »
Gli voltai le spalle e cominciai a correre. Sentivo la pioggia entrarmi nelle ossa, sentivo il vento penetrarmi l’anima.
Correvo disperata, soffocata dai miei stessi singhiozzi, perseguitata dalla paura e dallo sgomento.
Perché? Perché Anthony mi aveva parlato in quel modo?
Riuscii a vedere il ciglio della strada e mi chiesi quanto distante fossi da casa.
Non sapevo neanche dove fossi. Non avevo fatto caso alla strada mentre andavo, ero con Anthony, mi sentivo al sicuro e mi fidavo di lui.
Mi accasciai sull’asfalto bagnato e cominciai a sbattere violentemente i miei pugni su di esso.
Pochi minuti passarono, minuti che mi parvero interminabili, minuti che mi annientarono dentro. Poi, una mano ferma si poggiò sulla mia spalla, arrestando il mio respiro.
Sollevai piano la testa e lo vidi.
I suoi occhi mi guardavano seri, con quella luce che scaldava ogni parte di me.
« Perché? » Mi chiese.
Ripresi a respirare, allontanando i miei occhi dal suo sguardo così profondo.
« Non chiedermelo, per favore. Non farmi domande… è troppo difficile per me risponderti… Io non posso… » aggiunsi.
« Non puoi o non vuoi? »
La sua voce decisa mi arrivò alle orecchie come uno schiaffo imprevisto.
Era stanca, sentivo le forze abbandonarmi, eppure feci forza sulle mie gambe e riuscii ad alzarmi.
Mi voltai a guardarlo e sentii la rabbia crescere dentro di me.
« Chi sei, tu? Eh? Dimmi chi sei? » urlai.
« Sei piombato nella mia vita dal nulla. Mi hai portato una dannata coca-cola, lo sai vero che non mi piace la coca-cola? Certo che non lo sai, tu non mi conosci, non sai chi sono io. Sei arrivato in quella stanza di ospedale, mi hai ascoltata, mi hai offerto la tua mano, ma tu… tu chi sei? Che vuoi da me? » piangevo disperata.
Sentivo il mio corpo fremere dalla rabbia, dalla paura, dall’incertezza.
In fondo, non sapevo nulla di quel ragazzo, però ero certa di volerlo nella mia vita.
Lo vidi avvicinarsi a passi lenti, quando mi fu davanti, mi strinse tra le braccia, con forza.
Sentii il suo cuore battere all’impazzata, sentii quel profumo di pioggia che aveva sulla pelle, sentii quel tepore che mi scioglieva il cuore.
Era Anthony quello, il mio Anthony.
« Tu chi sei, Gabrielle? » sussurrò al mio orecchio.
« Te lo sei mai chiesto? O hai solo paura di scoprirti come quella che credi di essere?»
Come poteva una persona che conoscevo da così poco tempo, leggermi così bene dentro? Come poteva conoscere persino quello che io stessa non avevo il coraggio di pensare?
Mi aggrappai alla sua giacca e strinsi i pugni.
« Smettila, Gabrielle. Smettila di farti del male. Questa è la tua vita, non ce ne sono delle altre a disposizione. Non puoi buttarla via in questo modo. Smettila di guardarti nello specchio dell’orrore, smettila di piangere, smettila di avere paura. Tutto questo è vita, fa male, ma è vita lo stesso, anche se non vuoi, anche se ti rifiuti di ammetterlo. »
Mi strinse con più forza, una mano dietro la mia schiena, l’altra sulla mia testa, quasi a volermi proteggere da quello che i miei stessi pensieri potevano dirmi.
« Io ti vedo, Gabrielle. Vedo te. Io lo so che speri di essere svegliata dolcemente dal sole e di scoprire che l’alba abbia portato via i brutti ricordi, il triste passato. Anche se ti rifiuti di crederlo, io lo so che tu speri. La realtà è troppo dura per te e quando al mattino ti svegli, rendendoti conto che nulla è diverso dal giorno precedente, i ricordi, il dolore, il tempo perduto, la vita rubata, tornano alla mente tormentandoti. E muori dentro, lentamente. E ricominci a farti del male, perché ti detesti, perché credi che il tuo domani non verrà mai, perché la disperazione è più forte della tua voglia di vivere. Perché scomparire per porre fine alle tue sofferenze lo ritieni l’unico mezzo valido per terminare il tuo calvario. Io lo so, Gabrielle. Io ti vedo e i miei occhi vedono al di là di quello che credi di mostrare agli altri. »
Mi sfiorò i capelli con un bacio, prima di riprendere a parlarmi.
« Se smettessi di sopravvivere, vedresti la vita con gli occhi di chi non ha nulla da perdere. Se tu volessi vivere io non ti lascerei… Non potrei farlo. Io ti ho scelta. Tra milioni di persone, tu sei quella a cui ho offerto la mia coca-cola. Lo sai che mi piace la coca-cola, vero? »
Mi sembrò di vedere quel dolce sorriso dipingersi sulle sue labbra e ridacchiai appena, stringendomi in quell’abbraccio, incurante della pioggia che scrosciava senza sosta.
« Quanti anni ti sei lasciata rubare? Quanta vita hai lasciato che corresse come le lancette di un orologio impazzito? Gabrielle, la vita è una, una sola, devi averne cura, trattarla come il più prezioso dei gioielli, perché non esiste bene supremo maggiore. Non spostare i limiti, non fare di essi la tua condanna a morte, non lasciare che la luce dei tuoi occhi si spenga, non permettere ai sogni che rinneghi di morire per mano tua. La senti, la pioggia? Lo senti, il vento? Guardati intorno, guarda quanta vita c’è. Respira questi profumi, lascia andare le tue paure, dentro di te c’è una grande forza, una forza alla quale non ti appelli mai. Preferisci essere un angelo agonizzante, perché temi il fallimento… ma non cerchi mai di farti scudo della forza che custodisci dentro di te. Parlo della tua forza di volontà, Gabrielle. Ti confesso una cosa, la vita è piena di fallimenti. Se non attingi a quella forza, se non sgomiti, se non cadi e ti rialzi, se non piangi e asciughi le tue lacrime, se non lotti con coraggio non saprai mai quanto è bello e gratificante superare un fallimento. Sforzati di uscire da quel tunnel nel quale ti sei cacciata con le tue stesse mani. Le tue mani… Io amo le tue mani, Gabrielle. »
La sua voce era calda, profonda, rassicurante. Io sapevo che potevo fidarmi di lui, sentivo di poter credere alle sue parole, Anthony non mi avrebbe mai mentito.
« Mi ascolti? » mi chiese, allontanandomi dal suo petto.
Mi mancò subito quel contatto e cercai i suoi occhi, smarrita.
« Sì. » Bisbigliai.
« Sei in guerra. Devi combattere per riprenderti l’unica vita che possiedi. Io sarò con te. Non lascerò la tua mano, mi prenderò cura di te, ma ricorda: se ferisci te stessa, ferirai anche me. »
« Io vorrei poterlo fare, ma non credo di riuscirci. Credi siano sufficienti le tue parole? Credi che mi basti guardarmi attorno per desiderare questa vita? Quel dolore, quel peso che mi porto dentro è sempre là, sempre più grande, sempre più profondo. Mi scava dentro, non arresta mai la sua corsa, mi sfinisce, non vuole lasciarmi andare. Sono stanca di battermi contro l’altra me. Vuoi sapere perché non mangio, perché mi chiudo in un bagno? Perché io odio Gabrielle, perché voglio ferirla, farle male fino a distruggerla. Lei non è mai quello che la gente vorrebbe vedere, non è neanche quella che io stessa vorrei vedere. Quella Gabrielle, si prende sempre quel che resta di me… e mi lascia in un angolo inerme, da sola, tormentata dai ricordi, dai pensieri… e allora mi sembra d’impazzire. E giro, giro, giro in tondo, come se corressi sulla ruota di un criceto; mi affanno ad andare avanti, ma sono sempre lì, ferma nello stesso punto dal quale ero partita. »
Scoppiai in un pianto inconsolabile.
Mi sentii come se la Gabrielle di cui stavo parlando, mi stesse prendendo in giro, come se ridesse di me, di quella vita che aveva trasformato in un inferno.
Mi accovacciai su me stessa, tappandomi le orecchie con le mani.
« Basta! Sta’ zitta! Sta’ zitta, non voglio sentirti! Non voglio che tu mi ricorda niente! Non voglio! »
I ricordi si susseguivano nella mia testa, come la pellicola di un film che scorreva veloce, sempre più veloce.
Strinsi gli occhi con forza per cancellare dalla mia mente quelle immagini, ma invano.
Vidi Anthony, piegarsi sulle sue ginocchia e cercare i miei occhi.
« Ti prego, falla smettere. Non ne posso più. » Mormorai.
Mi accarezzò il viso, asciugandomi una lacrima.
« Non posso mandarla via, quella Gabrielle è dentro di te. Fa parte di te, devi accettarla, batterti e vincerla. Tu non sei quella che credi, nella tua scia di imperfezioni sei perfetta così come sei. Credimi, tra milioni di persone, io sceglierei di nuovo te. Ancora e poi ancora. Sei così imperfetta, sei così reale, sei così viva… »
Mi asciugò le lacrime con piccoli baci e alzò gli occhi al cielo.
La pioggia era cessata. Intorno a noi c’era solo silenzio e quiete.
Potevo sentire l’eco dei nostri battiti, il fruscio dei nostri respiri, l’odore della pioggia.
Si alzò in piedi e mi offrì la sua mano.
Era lì, tesa verso di me, ferma e sicura.
L’afferrai piano, dapprima con timore, poi lasciai che lui mi aiutasse ad alzarmi e cercai, ansiosa, i suoi occhi che credevo persi in qualche angolo di cielo.
Invece no.
Mi guardava, Anthony. Mi guardava come solo lui sapeva fare.
Lui mi vedeva davvero. Lui vedeva Gabrielle.
« Chi sei, tu? » Gli chiesi, guardandolo attentamente.
Non ebbi risposta, ma mi sorrise. E come mi sorrise.

 
NdA: Quasi mi sembra impossibile, non credevo che un giorno avrei proseguito questa storia… Questo significa tanto per me, vuol dire che sono “tornata”, che sono davvero tornata. ^^
Voi cosa ne pensate? Fatemi conoscere il vostro parere, qualunque esso sia.

Con affetto,

Kim Na Nà

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Capitolo 6
*** La bottiglia ***


La bottiglia.
 
Il 30 di Ottobre, dopo giorni di digiuno, ripresi a mangiare, ma il mio fu solo un atto convulso, disperato e pieno di rabbia.
«Devi mangiare.» Non mi dicevano altro.
E io mangiavo. Tutto, con una voracità pazzesca, senza neanche assaporare il gusto di quel che ingurgitavo. Mangiavo tutto, fino a scoppiare, fino a sentire il bisogno di andare in bagno e lavare il mio peccato, vomitando meticolosamente qualunque sostanza avessi in corpo.
In quei giorni non vidi mai Anthony. Pensai che non mi piaceva sapere così poco di lui e provai ad immaginare la sua vita.
«Chissà, magari la sua vita è più incasinata della mia.» Mi dissi.
Mi mancava e, per la prima volta, mi resi conto di quanto mi facesse paura la solitudine.
Quel pomeriggio lasciai la mia camera per raggiungere un piccolo parco, non lontano dalla mia casa.
Era un bel posticino per una come me, aveva solo qualche panchina, una piccola fontana e una vecchia altalena sulla quale mi sedetti.
Non c’era quasi nessuno, solo un anziano con il suo cane.
Appoggiai le mani alle catene dalle quali pendeva l’altalena e, a capo chino, cominciai a dondolarmi in silenzio, accompagnata dal cigolio delle catene.
Udii qualcosa scricchiolare alle mie spalle, ma continuai a dondolarmi, incurante, fino a che qualcuno non cominciò a spingermi.
Era lui, il mio Anthony.
Non dissi niente, il mio corpo era vuoto, poco prima, nel bagno di casa mia, mi ero liberata di tutto, anche delle parole.
«Che fai?» Mi chiese, spingendo l’altalena.
«Aspetto» dissi.
«Chi?»
«La solitudine.»
Arrestò l’altalena e mi fu di fronte in un attimo.
«L’hai vista?»
Feci un cenno di assenso col capo e ripresi a dondolarmi.
«E com’è?» insisté.
«Silenziosa.»
Mi fissava con quella forza e profondità che avevo imparato ad amare.
«Ma non sa di eternità…» Disse, guardando il cielo.
Sbuffai.
Ecco che ricomincia con la storia dell’eternità! Pensai.
Mi sorrise e, dalla tracolla blu che indossava, tirò fuori una piccola bottiglia di Coca-cola.
«Non c’erano più lattine.» Aggiunse, togliendo il tappo.
Ne bevve un po’ prima di offrirmela.
«No, grazie.» risposi, agitando le mani.
«È la mia Coca-cola, Gabrielle…» il suo sorriso si perse e mi parve di vedere un alone di tristezza nei suoi occhi.
Mi sentii colpevole, rea di avergli strappato quel tenero sorriso dalle labbra.
«Ecco…» cominciai. «Non ho mangiato nulla e berne un po’ non mi farebbe bene…» mi giustificai.
Sorrise di nuovo, scompigliandomi i capelli con una mano.
«E che problema c’è?»
Mise nuovamente le mani nella sua tracolla e sorrisi guardando la sua espressione buffa.
Ne tirò fuori una scatolina di biscotti al cacao con zuccherini e granella di nocciole.
«Toh! Sono i miei preferiti e non li divido con nessuno.» disse, porgendomi la scatola.
«E perché li dividi con me?» chiesi, prima di sgranocchiarne uno.
«Perché tu sai di eterno.»
Scoppiai a ridere, una risata un po’ esagerata per l’affermazione appena udita, ma sentivo il bisogno di tirare fuori la mia voce, quella voce che proprio non riusciva a piacermi e allora rise anche lui. Così, senza motivo. Rideva solo perché ridevo anche io.
Dopo qualche biscotto e un paio di risate ingenue, mi porse di nuovo la Coca-cola e la bevvi tutta. Non mi ero mai data una spiegazione plausibile, ma la sua Coca-cola era diversa, migliore delle altre.
Mi alzai per cestinare la bottiglia, ma Anthony me la strappò dalle mani e l’appoggiò sul fondo della fontana, aprendone piano il getto.
«La vedi, la bottiglia?» mi disse.
Fissai quell’oggetto, cercando di comprendere cosa volesse farne, ma fui costretta ad affrontare i suoi occhi nero ebano per cercarne spiegazione.
«La bottiglia scivola, rotola a tocchi leggeri spingendo le zigrinature del vetro in una sorta di scala che né sale né scende, semplicemente rotola, scivola, sul fondo di questa piccola fontana.
Senza tappo. L’abbiamo tolto per bere. Senza tappo.»
«Ma chi io o la bottiglia?» Non riuscivo proprio a seguirlo.
«Entrambe Gabrielle, entrambe.»
Poi continuò.
«Deglutisce il vetro bolle d’aria e d’acqua, sembra la tua apnea di vita. Solo che nei tonfi in caduta tu sei più discreta, somigli al silenzio, perché il dolore ammutolisce qualsiasi anima spaventata di sé. Ma chi vi ha spinte, poi? Non importa, affoga il vetro, poi il pomello disperde dietro il flusso d’acqua tutta la sua regolare forma, solida, si disfa pure il colore, grigio, poi il legno, e se ci metto questo fazzoletto vedrai che da spugna raccoglie l’errore d’equilibrio di una effervescente bottiglia e di una spenta ragazza.»
«Ma io o la bottiglia?» domandai ancora.
Il tempo dilatato, mi accorsi di essere seduta sul prato, il corpo stretto nelle ginocchia.
Anthony mi parlava ancora, fissando l’acqua che batteva violentemente contro la bottiglia.
«Vedi, l’acqua nel collo singhiozza forza, l’ultima speranza per trattenere un po’ di vita. È solo acqua. Poi vince il vuoto dentro. E se insisti, se l’acqua continuasse a picchiare su quella bottiglia, quella si infrangerà. E una volta chiusa la fontana guarderai la bottiglia. A terra. In cocci acuminanti ripari. O prigioni.»
Mi passai una mano sui capelli , confusa e ancora una volta domandai: «Ma io o la bottiglia?»
«Entrambe Gabrielle, entrambe…»
Mi alzai di scatto, pulendomi le mani sui jeans scuri.
«Accidenti! Rinuncio a capirti! Sicuro di essere un terrestre? Parli una lingua che proprio non riesco a capire.» Incontrai i suoi occhi neri e solo allora mi accorsi di sentirmi più leggera.
Quel peso che portavo sempre con me, sembrava essere stato lasciato in qualche angolo di mondo, nascosto dalle ombre provocate da tutta quella luce che mi aveva portato lui.
«Hai niente da dire?» Mi chiese, fissandomi.
Mi allontanai appena da lui, non troppo, solo lo stretto indispensabile per non essere inghiottita dal suo profumo.
 «È guerra dentro il mio corpo. Vincitori? Chiedi dei vinti? Non lo so… sono seduta tra lo sferragliare dei due, con le ginocchia fradice, le mani umide, lo stomaco sottosopra, la gola in fiamme… se non mi sentissi respirare, giurerei di non esserci…»
Lo avevo detto.
A voce alta.
A qualcuno che non fossi sempre io.
Raggiunsi l’altalena sotto il suo occhio vigile e mi sedetti.
«Vorrei sparire.»
«Lo stai facendo.»
«No. Non è vero. Sono ancora qui, sono sempre io… sono sempre Gabrielle, quella diversa, quella sbagliata…» c’era rabbia nelle mie parole.
«Diversa? Sbagliata? Siamo tutti diversi e siamo tutti sbagliati. Conosci qualcuno perfetto?» mi chiese, ironico.
Pensai che sì, lo conoscevo e ce l’avevo davanti a parlarmi con quel suo tono profondo e serio.
Sembrò leggere nei miei pensieri.
Rise.
«Io? Perfetto? Gabrielle… non lasciarti ammaliare dalle apparenze… lo so, hanno fascino, ma sono delle grandissime stronze ipocrite. Impara che ci sono parole come delusione che resteranno sempre lì dove sono andate a finire. Non cesseranno mai di farti male. E torneranno, di continuo, per ricordarti che lei è lì, immobile, ma viva.
La gente non cambia e neanche le cicatrici che ti restano addosso. Saranno sempre le stesse, si riapriranno per tornare a sanguinare, poi cesseranno di farlo e poi di nuovo.
È così che gira il mondo. E gira così per tutti. Devi solo imparare ad incassare il colpo e a preparare l’attacco di difesa. Sì, hai ragione. Sei in guerra, ma dovresti esserlo con il mondo che è qua fuori, non con quel tuo corpicino stremato che non ha neanche il coraggio di chiedere aiuto.»
Non piangevo.
Ero lì, sull’altalena che mi dondolavo.
«Come fai?» domandai.
«Come fai, cosa?»
«A sapere sempre cosa dire e a chi dirla?»
«Non lo so. Lo sento e lo faccio.»
«Tu perché ti fai del male?»
Tacqui, abbassando gli occhi.
«Non lo sai. Lo senti e lo fai. Certo, avrei un’infinità di obiezioni da fare, ma so quant’è complesso il mondo che hai rinchiuso dentro.»
Ecco, l’aveva fatto di nuovo. Mi aveva capita senza che gli avessi detto una sola parola. Lui mi leggeva dentro, capiva ogni mio sguardo, ogni mio passo, ogni mio gesto.
«Io lo so perché lo faccio.» dissi, strisciando le scarpe sulla terra.
«Dimmi, perché?»
«Il mio peso è la sola cosa che posso tenere sotto controllo. Se qualcosa nella mia vita va storta e non posso cambiarla, perdo peso. Digiuno. E quando le parole di chi mi sta intorno mi assillano la testa, allora mangio, mangio così tanto da stare male, da sentire il bisogno di infilarmi qualcosa in gola e cacciare tutto fuori dal mio corpo. Perché è peccato. Perché sono colpevole di aver reso la mia vita un inferno, colpevole di non essere mai stata all’altezza degli altri.»
«Non dirò salvati… non mi ascolteresti. Ma lo sai che seguo le tue ombre e che non smetterò mai di fare luce per vederti. Non importa quanto ti nasconderai, quanto buio sarà il tuo inferno. Io sarò lì. Io ti sostengo i passi, Gabrielle… perché anche nel buio tu possa trovare le mie mani a sorreggerti, perché tu possa sentirti sicura, qualsiasi cosa accada… Se forza toglierai, forza t’imboccherò! Te l’ho detto, tu sai di Eternità… quella che sto cercando.»
Mi parlò senza preamboli, arrivando dritto al dunque, dritto al mio cuore, quello stesso cuore che sentivo sciogliersi nell’udire le sue parole. E poi mi guardava, mi amava, tutta, senza escludere niente. E mi guardava, come solo gli occhi che cercavano l’Eternità sapevano fare.

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Capitolo 7
*** Dessert al sapore di cielo ***


Dessert al sapore di cielo
 
Nell’ultimo periodo avevo sempre usato la maschera di una “terza”, impersonale, persona.
Quel giorno mi facevo chiamare Io.
Sentivo l’esigenza di uscire allo scoperto, magari era solo colpa di Anthony, di tutte quelle sue parole così strane da non andare via dai miei pensieri. Per qualche incomprensibile motivo la sua voce indugiava nelle mie orecchie continuamente, di notte, di giorno, nei sogni... sempre.
Io…
Un tempo io ero un Io di quelle che, nel secolo scorso, si affacciavano alla vita con pazza voglia di baciarla e assorbirla, senza sconti. Mi piaceva sentire il formicolio delle vite degli altri sulla pelle, mi piaceva il loro sorriso appiccato ovunque, mi metteva leggerezza ai piedi. O meglio, nella mia testa credevo di essere una di quelle.
Quel giorno ero un Io che, se non chiude, almeno socchiude le porte.
E se prima guardavo, quel giorno sbirciavo.
E se prima gridavo, quel giorno a stento bisbigliavo.
E se prima… e se…
E se prima, quanto prima? Troppo…
Quel giorno ero il tipo che ogni giorno, allo specchio, durante un incubo, camminando, in una lite, per un'idea, interrogava la voce. Avevo la stessa risposta dal troppo tempo di prima.
“Mi risparmio” non mi dice.
Ero perennemente impreparata.
Ero il tipo che a volte, spesso, si sentiva vigliacca persino quando scriveva.
Speravo che quanto prima, il sollievo generato dalle parole che scioglievano i nodi in gola, mi rassicurassero dicendomi che non ci fosse niente di sbagliato nel sopravvivere.
Ognuno ha il suo modo.
Quello era semplicemente il mio. Me lo ripetevo nel caso, un giorno, cominciassi a crederci.
Ero il tipo che scivolava, in superficie.
Prendevo un odore, un colore, mi limitavo a riconoscerlo, ad esperirlo nella sua pelle. Sua, la mia era bandita.
I ricordi, miei, erano banditi.
Non c’era profondità.
Non mi piaceva vagolare nel buio.
Ero diventata il tipo che dopo le legnate sui denti, sigillava la storia in un sorridente “niente”, mi evitavo il poco tempo altrui, mi evitavo il facile giudizio, mi evitavo di interrogare ancora la voce, quella che non dice. È la sua arte!
Ero diventata il tipo che nonostante il poco spazio, la poca aria, la semichiusura, allungava la mano.
Che la si sbranasse o la si accarezzasse, era ancora pronta.
Dio solo sapeva ancora per quanto.
Eppure, nonostante fossi tutto quel gran casino, Anthony mi ripeteva che era normale, che non ero affatto diversa dagli altri, che la magrezza non faceva di me una persona perfetta, che scomparire non mi avrebbe alleggerita come immaginavo.
Ripensai ai giorni trascorsi con Tony. Ripensai a quel mondo che mi offrì racchiuso in una lattina di Coca cola e fu come accorgermi di avere la rabbia dentro.
Sì, rabbia.
Mi venne voglia di urlare, stringere forte i denti e cessare di vivere in quella mia posizione mediana così maledettamente usuale.  Era proprio così che mi sentii quella mattina, avevo percepito che nulla mi faceva sentire viva se non quell’aria fresca che Anthony mi faceva respirare.
Quella mattina mi accorsi di avere la vita negli occhi, dannazione!
Scesi dal letto e mi guardai allo specchio.
Di solito, avevo tutto un rituale da fare: bilancia, centimetro alla mano e jeans di due taglie più piccole da misurare, ma quel giorno mi sorrisi. Il mio mondo continuava a farmi schifo e la tristezza non mi aveva di certo abbandonata, però c’era qualcosa di diverso quella mattina. Faceva freddo quel 31 Ottobre, ma sentivo l’aria soffocante. Ero in gabbia, quella che avevo costruito con le mie mani, ma qualcuno mi stava insegnando come fare a sentirsi liberi dentro.
Mi guardai di nuovo e pensai che forse il mio sorriso non fosse male, afferrai il mio cellulare e chiamai lui.
«Non farmi domande, sono già fin troppo imbarazzata. Possiamo vederci?»
Sembravo un treno in corsa e mi stupii della spigliatezza del momento. Guardai fuori dalla mia finestra, mentre udii Anthony ridacchiare. Il cielo era nero e gravido, ma con Tony accanto il cielo poteva prendersi qualsiasi lusso.
«L’hai vista, eh? Non è vero?» Chiese lui, sereno.
«Ma di che stai parlando?» Impaziente, mi infilai un cappotto e misi un cappello di lana sulla testa.
«Guarda fuori. L’Eternità, l’hai vista?»
«Mi chiedo quando la smetterai con questa storia… fuori non c’è niente, se non un cielo nero che promette tempesta. Allora, che fai? Passi a prendermi?»
«Sono di sotto che ti aspetto.»
«Eh?» gridai.
Aveva riagganciato. Spalancai la mia finestra in tutta fretta e mi affacciai al balcone, perlustrando con gli occhi la strada che avevo di fronte e poco dopo lo vidi.
Se ne stava seduto sul marciapiede, jeans scuri, giubbotto nero, il cappuccio di una felpa grigia calcato sulla testa e un paio d’occhiali da sole sugli occhi.
Sorrisi. Un po’ per la sorpresa, un po’ per la scelta di indossare gli occhiali con quel tempo minaccioso.
Scesi le due scale di corsa, impaziente e quando gli fui davanti scoppiai a ridere.
«Mi piace sentirti ridere!» disse.
«Ma ti sembra il tempo ideale per tenere gli occhiali da sole?» dissi io, continuando a ridere.
«Perché? A me piacciono. È illegale?»
«No, ma… che direbbe la gente se ti vedesse?»
«La gente pensa sempre e il più delle volte pensa sempre ciò che le pare. Allora, come sto?» imitò una posa da fotomodello e ridere fu la sola cosa che mi venne da fare.
«Bene. Lo prenderò come un Oh, sei bellissimo! Ora sbrigati o faremo tardi. Prendi questo.»  Sollevò dal marciapiede un casco grigio, porgendomelo.
«E quello cos’è?» chiesi, scioccamente.
«Non vorrai andare senza di quello sulla mia moto?!»
«La tua che?»
Mi indicò una vespa color cielo, parcheggiata lì vicino e mi sorrise.
«Salta su. Oggi pranziamo insieme.» Mi aveva infilato il casco e, dopo aver scostato una ciocca ribelle di capelli, mi allacciò il cinturino sotto il mento.
«Ti ho già detto che sai di eterno anche quando sorridi?»
Mi strattonò un po’ e un istante dopo ero stretta alla sua schiena, a bordo della sua moto.
Ricordo ancora i mille pensieri che vennero a farmi visita in quel momento.
Un pranzo?
Significava che dovevo mangiare… e contare, e andare in bagno, e poi sputare, e rifiutare, ed ingoiare… erano proprio quelli i miei pensieri, quando lui mi disse: «Lascia stare. Non ci sarà nessuno ad osservarti. Saremo solo io e te… e sto per offrirti un pranzo celestiale, preparato con le mie stesse mani.»
Anthony aveva capito. Mi lasciai andare sulla sua schiena e respirai a pieni polmoni.
Non dovevo sentirmi alla gogna. Ero con lui, il resto poteva anche sparire per quel giorno.
Mi portò in un piccolo ristorante con ancora le serrande abbassate.
«Ma è chiuso?!» esclamai.
Lui mi guardò senza battere ciglio, mise le mani in tasca e ne estresse un mazzo di chiavi.
«Non per me! È il ristorante dei miei genitori, ma oggi è giorno di chiusura…»
Sorrise, infilando la chiave nel dispositivo elettrico e aprendo la serranda quel tanto che serviva a farci entrare.
Non so come accadde, ma da quel momento in poi il tempo parve volare.
Persino aiutare Anthony in cucina mi aveva messo di buon umore. Io che odiavo sentire gli odori, io che odiavo dover assaggiare.
Con Anthony mangiai. Non contai. Non vomitai. Non digiunai.
Non posso dire di aver mangiato come fanno le persone “normali”, ma avevo assaporato i piatti seppur in porzioni ridottissime.
«Non sapevo cucinassi così bene… » dissi, sedendomi su uno sgabello.
«Sono un vero e proprio chef!» affermò, porgendomi un barattolo di nutella.
Gli rivolsi un’occhiata poco rassicurante, ma lui parve non curarsene, mettendomi un cucchiano in mano.
«No, grazie…» biascicai.
«Sai, Gabrielle…» cominciò, mangiando un po’ di nutella. «Quando i miei sono al lavoro, sono io ad occuparmi dei miei due fratelli minori… cucino, mi occupo della casa… Ah, ti ho mai detto che ho due fratelli, vero?»
Scossi il capo.
C’erano così tante cose che non sapevo di lui.
«George e Daniel. Due tesori, ma non dirlo a loro, per favore…» sorrideva mentre parlava dei suoi fratelli e aveva un’espressione dolce sul viso.
«Devi amare molto la tua famiglia…» sussurrai.
«Chi non ama la propria famiglia?» Infilò il mio cucchiaino nel barattolo e lo estrasse pieno di nutella.
«Non puoi rifiutare il dessert della casa.» aggiunse.
Lasciai che mi imboccasse e fu come esser fatta prigioniera dal mio aguzzino.
Me stessa.
Era troppo.
Tutto quel cibo e poi quel dolce…
Mi guardai le gambe e provai orrore.
«No!» urlai, alzandomi.
«Dov’è il bagno? Anthony, dimmi dov’è il bagno?» chiesi, in preda ad attacchi di panico.
Lui non rispose. Mi lasciò vagare nel ristorante per alcuni istanti, poi si alzò e, a passi lenti, raggiunse la porta del bagno, facendomi un gesto con la mano.
Lo raggiunsi di corsa, ma prima di poterci entrare lui mi fermò.
«Non lascerò che tu lo faccia. Non lascerò che tu sia sola, non di nuovo. Non adesso che ci sono io.»
Sentivo lo stomaco rivoltarsi e il cibo salirmi all’altezza della gola.
Come impazzita, entrai nella cucina e cercai un utensile che potesse servirmi.
Trovai un piccolo mestolo di plastica, ne osservai attentamente la forma e tornai alla porta del bagno.
«Lasciami andare, ti prego. Non posso permettermi di fallire ancora, non posso permettermi di essere ancora lo zimbello di quelli là fuori…» Dissi, piangendo.
«Starai meglio dopo?» mi chiese.
«Non credo.» aggiunse subito dopo.
Mi sentivo morire, avevo l’impressione di soffocare, sentivo il cibo ballarmi nello stomaco e schiacciarmi il petto.
Mi accasciai sul pavimento.
«Ti prego, Anthony… non farmi questo.» Lo guardai, supplicandolo con gli occhi. Poi, feci quello che sentivo di fare.
Raggiunsi il bagno, mi infilai quell’affare in bocca e mi provocai il vomito.
Era la storia della mia vita quella, non ci vedevo nulla di strano, niente di nuovo.
E fu come rivedermi durante il corso dei miei giovani anni.
Intrappolata da me stessa, dalle giornate tutte uguali, dalle voci che urlavano su di me.Volevo uscire, evadere, ma prima avrei dovuto trovare la chiave per liberarmi, quella chiave che credo sia dispersa chissà dove... Ancora non l'avevo capito. Il tempo scorreva e lei arrugginiva come me... Che restavo a terra, a piangere e ad invecchiare da sola...
Sola in compagnia di me stessa e di tutti i miei mostri.
Aveva ragione Anthony, non mi sentivo meglio, al contrario. Il mio malessere ora ruggiva senza controllo e la terra sembrava sgretolarsi sotto di me.
Ero stata incapace di chiedere aiuto al momento giusto. Forse lo stavo chiedendo in quel preciso istante.
Sbagliavo i tempi, i modi, i toni, ma lo stavo elemosinando tra i singhiozzi sviliti e pesanti, lo stavo chiedendo in quel momento. Anni prima non potevo, qualunque cosa avessi fatto prima, il destino avrebbe compiuto il suo disegno.
Quanti anni passati a rimproverarmi?
Se solo avessi gridato, se solo fossi scappata. Ma coi se non si aggiusta una vita, semmai la si distrugge ancora.
Aiuto, chiedevo.
Spalle a terra, pugni chiusi, occhi bassi.
Schiava in quel momento come in passato. Ripercorsi ogni gesto, ogni parola, ogni colpo basso subito e mi chiedevo dove fossi andata a finire.
«Perché io muoio e gli altri mi guardano?» mormorari. Sentivo la pioggia scrosciare, batteva violenta sull’asfalto e cadeva incurante del resto del mondo.
«Perché devi ucciderti?» chiese Anthony, accovacciandosi e alzandomi la testa.
Senza aggiungere altro, mi pulì la bocca, poi il viso, le mani, i capelli e intanto mi parlava di lei, dell’Eternità, di quanto è magnifica se solo la si riesce a scovare.
«Se solo ti guardassi con i tuoi occhi, capiresti che non c’è nulla di così sbagliato dentro di te.» mi disse.
Era una dolce nenia la sua voce, mi strinsi al suo petto e mi lasciai calmare dalle sue parole.
Il pomeriggio se ne stava acquattato all’orizzonte di un sole timido, coperto da nuvoloni neri che s’allontanavano piano, un sole incerto nell’immobile scorrere del tempo.
Anthony sollevò la felpa, quel tanto da permettermi di giocar con la sua schiena. Adagiata la testa sulle sue gambe,  presi a disegnarvi parole incomprensibili, promesse. Dal collo in giù, me ne colò una forte ma, in un sospiro, fermai il gesto.
«Che c’è?»
«Niente, che vedi?»
Avevo voglia di sentirmi raccontare ancora dell’Eternità, di immaginarne il colore, il profumo, il sapore…
«Non ho bisogno di guardarti per sapere che espressione hai in questo momento, per capire che qualcosa non va. Che c’è?» Le braccia a cuscino, il jeans, gli macchiavano la limpidezza della voce.
Mi sfuggì un sorriso, negli occhi.
«Ma no. Non parlavo di quello… Sei strano, sai? Quando sono io a chiederti di “lei”, tu parli di me e quando io parlo di me, tu parli di “lei”!»
Il tempo ricamava attesa, su quelle due sedie bianche, quando le uniche parole che sapevo, gliele scrivevo con le dita e si tingevano di blu.
«Te l’ho spiegato, Gabrielle. Anche tu sai di eterno, ma sei così ostinata da non riuscire a vederlo.» mi disse, accarezzandomi piano i capelli.
«Pensavo… Mi sarebbe piaciuto vederti a quell’età. Prima del Tutto, intendo.Perché vedi, c’è altro. Io vengo da una famiglia che il mondo esterno, estraneo, lo vede come una possibilità. Positivo. Prendi mio padre, no? Quello esplode di meraviglia e simpatia in ogni occasione, nuova. E vengo da una famiglia che di “dolore” ne conosce poco. E quel poco è sempre stata causa di una parentela stretta, più o meno sanguigna, ma stretta. Non che fosse stato un “dolore da niente”, ma non è ancora il momento… non è il loro tempo. Non come te, che il dolore lo hai conosciuto da bambina e hai imparato a credere che ti spettasse, che fosse tuo, che fosse per sempre.
Per cui mi piacerebbe rivederti nel momento in cui ti porgevi agli altri senza alcuna difesa. Eri totale. Adesso invece, se tu prendessi un fiore. Se tu lo facessi e di sorpresa, con quello, mi sfiorassi la pelle, riconosceresti l’istinto del preservarsi, conservarsi, risparmiarsi… proteggersi. Io voglio proteggerti. Ti rivoglio piena, Gabrielle! Piena di te, dei tuoi pregi, dei tuoi difetti, piena di vita, di gioia, di speranza. Ti rivoglio piena, capisci?»
Crollai prima che lui iniziasse a non dire. Se ne accorse dal ronzare del respiro, ma a quel punto non mi importava chi ci fosse ad ascoltare, viaggiavo su quella schiena, in silenzio e avevo bisogno di perdonarmi.
Tra le mie ciglia sfumò il sole, mi accarezzò i capelli ed un alito di vento mi suggerì forza.
I suoi neri capelli si mossero leggeri ad accarezzargli la fronte, mentre sulle labbra si increspava quel sorriso che amavo.
«Ce la farai…» mi disse.
I suoi occhi erano pieni di luce e calore , quel calore che mi faceva sentire come gli altri, come una comune ragazza.
E fu allora che lo vidi.
Quel raggio di sole arancio che gli illuminò il viso, aveva il colore dell’eternità di cui Anthony mi aveva raccontato quel giorno e le prime parole che nacquero sulle mie labbra, furono il mio innocente regalo.
«Ce la farò.»
Lui sorrise e l'Eternità gliela vidi tutta negli occhi.

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Capitolo 8
*** Alla Signora Notte ***


Alla Signora Notte.

 
1 Novembre.
Per qualche strana ed inspiegabile ragione, ho sempre odiato il mese di Novembre; così lungo, così lugubre, così silenzioso… Lugubre e silenzioso? Sarà Novembre ad essere tale o sarò io?
Ho formulato sempre troppe domande, domande alle quali non ho mai dato risposta.
Quella sera, dopo una giornata spesa a tacere il dolore, ad ingoiare lacrime ed aria, decisi di uscire un po’, di vagabondare per le vie del mio paese e di lasciarmi accompagnare dalla mia fidata solitudine.
Fu complicato l’impatto con la gente che passeggiava serena. Mi sembrava di essere trasparente, di un altro pianeta. Ero un essere non identificato che girovagava tra gente sorridente e chiacchiere vivaci. Sentivo gli sguardi dei curiosi attraversarmi e mi costringevo a tenere sempre gli occhi ben piantati sulla strada per non dover mai fronteggiare volti sconosciuti.
Che penseranno di me? Mi strinsi nelle spalle e mi avvolsi ancor più nella sciarpa di lana color della notte.
Guarda quei sorrisi, guarda quegli occhi… io non sarò mai come loro. Un velo cadde sui miei occhi e conficcai le unghie nelle mie mani per impedirmi di piangere. Non davanti agli altri, Gabrielle! Non davanti a coloro che potrebbe deriderti… e tu non vuoi che lo facciano, non un’altra volta.
Cercai di ritrovare la calma e respirai a pieni polmoni l’aria pungente dell’inverno. Il vento freddo mi carezzava il viso, pizzicando i miei occhi, asciugandomene gli angoli e arrossandomi le gote.
L’odore di caldarroste mi raggiunse e mi invitò a spostare l’attenzione su alcune ragazze che mangiavano, tra una risata e una parolina bisbigliata all’orecchio, quel frutto che mi sarei negata ancora una volta.
Erano belle. Di una bellezza che mi invadeva il cuore di una melanconia agghiacciante, come a volermi ricordare il fallimento della mia vita stessa. Negli occhi di quelle ragazze sfavillava quel bagliore di luce che per anni avevo cercato, quel fascio di colore del quale la vita sembrava avermi privata.
Quello che invidiavo, in quel momento, era quell'aria ferma, conforme alla vita, che tutti avevano. Pensai a come dovesse essere la mia espressione, se qualcuno avesse sentito il mio affanno di solitudine che mi schiacciava in quelle strade ovattate.
Il sapore dell’Eternità. Mi ritrovai a pensare. L’Eternità di Anthony, il mio Anthony.
Ma io e l’Eternità non ci saremmo mai incontrate perché l’imperfezione non sposa mai l’eterno. Anthony forse non lo sa ancora, ma l’Eterno è fratello del Perfetto.
Mi manca Anthony e vorrei raccontare a lui quello che sto scrivendo adesso.
Questa verità  è un buco nell'anima, ma insieme è rivelazione: io ed Anthony eravamo quel  vento, che si faceva sempre più violento, sfidava la forza di gravità ma, a contatto con la vita, moriva.
Possiamo esistere ancora, ma per farlo dobbiamo dirci addio. Dobbiamo morire capisci? Proprio come la  pioggia di quel pomeriggio trascorso nel campo di grano, incessante, inclemente, proprio come noi. Dovevo dire addio ad Anthony. Io non potevo far parte del mondo di nessuno, ancor meno di un essere così vicino alla perfezione come Anthony.
Sentii la distanza insormontabile che faceva parte di due essenze ormai lontane, astratte, il tempo che scandiva sempre più le ore e le lancette erano distanze inarrivabili che squarciavano in due tutto, noi, quello che ne eravamo, quello che mai sarebbe stato e ci sbattevano via lontano, senza esserne coscienti, senza capire.
Avrei voluto dirti così tante cose, Anthony.
Credetti di farcela il giorno prima, ma davanti al bagliore di quelle fanciulle  non potei nulla. Io non avrei mai avuto quel guizzo sul volto, non sarei mai riuscita a spezzare le catene della gabbia che avevo costruito con così tanta fatica. Io morivo. Io non esistevo.
Anthony ha voluto che per un attimo, piccolo e forse dolcemente infinito continuassi ad esistere, lui che ha creduto fortemente in una collisione che non producesse la distruzione… e invece no. Ero lì, eravamo lì, macerie del mondo, della vita, dell'amore, dell'amicizia. A brandelli. No, non potevamo esistere, io non potevo respirare l’Eternità che gli leggevo negli occhi.  E per quanto l'anima mi si facesse a pezzi, per quanto il battito del mio cuore si facesse sempre più forte capivo che la sua era tutta una corsa per venire contro di me, contro di noi. Il mio cuore fuggiva ed io con lui. Noi no. Non dovevamo fuggire, non dovevamo rincorrere il sogno di un’Eternità da condividere. Non potevo imbrattare il candore del tuo cuore con la melma putrefatta che aveva infettato ogni parte di me, ogni arteria, ogni osso… Quelle come me si lanciano su letti di chiodi e, pur implorando aiuto, a tarda notte tornano a dormirci sopra.
Anthony era diventato la mia forza, la pelle che asciugava le mie lacrime, il battito sincrono, il pensiero costante. Quando la mia fragilità si serviva della sua spalla per mutare in forza vitale, la morte s’allontanava un po’ da me e le mie mani smettevano di tremare.
Io non dovevo più essere per lui.
E quel dolore non era altro che l'infrangersi della nostra immagine sulle pareti ghiacciate della mia vita e la testa che scoppiava, era solo la consapevolezza della verità.
Piangevo.
Senza volerlo.
Piangevo dinanzi a quell’immagine, di fronte a quello squarcio di vita che avevo invidiato sempre.
Piangevo davanti agli occhi eterni del giovane che non poteva appartenermi, sì, perché erano gli occhi di Anthony quelli che mi fissavano da lontano.
La sua figura si fece sempre più nitida, più vicina, quasi a volermi svegliare dal torpore nel quale ero caduta. Sentii il profumo di pioggia penetrare le mie narici e seppi che l’Eternità mi stava venendo incontro, con in mano delle caldarroste calde e profumate.
«Ti guardavo da lontano.» Mi disse non appena mi fu di fronte.
Io mi affrettai ad asciugarmi le lacrime, ma lui mi trattenne.
«Credi non le abbia viste? Credi non abbia sentito tutte quelle parole che hai detto a me?»
Perplessa, lo fissai.
«Solo perché tu non abbia parlato a voce alta, non vuol dire che io non ti abbia ascoltata. C’è chi si parla col cuore, chi si ascolta con gli occhi e si risponde con l’Eternità.»
«Ma io non so di Eterno… io non sono come te.» biascicai.
«Hai due occhi, due mani, due braccia, due gambe, due piedi, due orecchie, un naso, una bocca. Il tuo sangue è rosso come il mio e la sola differenza che ci distingue è il sesso. Prova a negarlo, se ci riesci.» Continuò sorridendo e porgendomi le castagne ancora fumanti.
Ne assaporai una e mi lascia vincere dalla dolcezza del sapore, beneficiando anche del calore che emanavano.
«Non c’è nulla di Eterno in me… Guarda gli occhi di quelle ragazze, guarda i loro sorrisi… non credi profumino di Eternità?» dissi, volgendo lo sguardo lontano.
«L’Eternità si nasconde dietro ogni sorriso. Nelle nostre imperfezioni siamo tutti Eterni.» Si era seduto su un mezzo vecchio muro e continuava a mangiare le sue caldarroste, senza mai distogliere i suoi occhi dai miei.
«Sei tu che rifiuti l’Eternità che si cela dietro quel sorriso che hai dimenticato.»
Mi sedetti al suo fianco, facendo scivolare la testa sulla sua spalla. Fu dividere a metà il mio peso, quel gesto.
Rinunciare ad Anthony era l’ennesima punizione che mi stavo infliggendo. Perché poi? Di cosa mi punivo?
Mi punivo per l’essere venuta al mondo, per il non essere all’altezza delle aspettative degli altri, per non riuscire neanche lentamente a somigliare alle migliaia di persone che si potevano incrociare per strada.
«Smettila di crocefiggerti. Non sei diversa dagli altri, non sei diversa da me. Guarda quelle ragazze laggiù, credi davvero siano così perfette come credi? Magari una di loro è orfana di padre, l’altra, quella che si fa sempre vicina per ascoltare, potrebbe avere problemi di udito e vergognarsi così tanto della cosa da tenerlo segreto e quella che sorride sempre, guardala bene. Guardale il viso, non noti niente?»
Focalizzai l’attenzione sulla ragazza dai lunghi capelli color del sole e il sorriso disegnato sulle labbra e scoprii una cicatrice che le segnava tutto il mento.
«Prova a domandarti come possa sorridere nonostante quel segno sul volto…»
Provai vergogna per i pensieri avuti poco prima e sentii il senso di colpa farsi spazio dentro di me.
«Solo dopo aver sofferto tanto, si può ridere di cuore anche dei propri difetti. Chi lo dice che i difetti rendono qualcuno imperfetto? Dove è scritto che solo i pregi profumano di Eterno? Hai un mondo fatto di congetture sbagliate nella tua testa. La gente non è profeta. La gente non può dirti chi sei, né quanto vali. Devi dimostrarlo, Gabrielle e per dimostrarlo bisogna sgomitare e lottare e non arrendersi e non stancarsi, perché non c’è pace in questa vita. Ma ricordati che di vita ne hai solo una a tua disposizione, non c’è tempo per i ma, per i se, per i vorrei. La vita è fatta di istanti e bisogna viverla nella totalità della sua essenza. Vuoi piangere tutto il giorno, ovunque e davanti a tutti? Fallo. Nessuno te lo vieta. Vuoi vestirti da clown e andare in giro a far divertire tutti i bambini che incontri? Fallo, non è proibito. E se la gente ti guarderà con occhio stizzito e un po’ basito, passa oltre e dagli tempo. La novità di oggi, sarà l’ovvietà di domani. Se c’è qualcosa che desideri, va’ a prenderla e non lasciarti rubare il tempo che corre contro di noi.»
Il mio Anthony era tornato. Come un treno parlava senza sosta, cercava di destare quella me assopita che cercavo da anni di assassinare e io tentavo di risalire a galla.
Io non potevo lasciare andare Anthony. Lui era la luce del mio faro, il porto sicuro nel quale approdare, il rifugio accogliente delle mie notti tempestose.
Anthony era l’Amore, quello che stavo conoscendo insieme all’Eternità.
L'amore mi stava salvando dalla mia anima che batteva il ritmo di cose andate in pezzi, ma nessuno ha mai saputo che rumore fanno  i sogni  che si frantumano a contatto con la vita.
L'amore, lui mi stava salvando. Il profumo dell’Eterno mi stava salvando.
«Gabrielle…» continuò. «Noi siamo una forza d'amore fuori, fuori da tutto, dal cerchio della vita e del senso mentre tutto il resto è dentro. Noi no, noi ci teniamo per mano e lì c'è tutto, mi basta. Non è pioggia, è sole. Anche le stelle sai, si tengono insieme mentre tutto il resto cerca un punto fermo e si dimena nello spazio come pesci fuor d'acqua. Noi siamo fuori dall'acquario e ci stiamo bene, l'uno è ossigeno per l'altro, non c'è collisione, c'è l'unione pacifica e vera e pura dell' anima e forte, mentre i piedi cercano un equilibrio inesistente. Te l’ho detto, non ho alcuna intenzione di mollarti in quell’angolo tetro e maleodorante nel quale ti sei cacciata. Non ti lascerò morire, non ora che ti ho scovata.»
L’Eternità gli era stata cucita addosso e il calore del suo corpo non era che il solo posto sicuro nel quale potersi nascondere.
Strinsi forte il suo braccio e mi nascosi tra le maglie della sciarpa. Lui sapeva leggermi dentro e io mi sentivo d’improvviso nuda, venuta al mondo una nuova volta, sporca dei miei difetti, dei miei sbagli, del mio vissuto.
«Scrivi, Gabrielle. Tu che ami imbrattare fogli di carta coi tuoi pensieri, scrivi. Sfogati. Parla alla notte, parla alla signora che ti guarda piangere nelle ore più buie. Scrivile e non risparmiarti. Non temere la risposta. La notte è clemente. La notte è vicina all’Eternità.»
 
Tornai a casa calma.
Gli occhi asciutti, le mani gelate, il cuore caldo.
Avrei giurato di profumare di Eterno.
Presi una penna, afferrai un vecchio diario e feci quello che Anthony, l’Amore, l’Eterno, mi chiese di fare.
Scrissi. Sì, perché scrivere è un po’ come piangere, lava l’anima e alleggerisce il cuore.
 
Alla Signora Notte, quella maledetta.

Maledetta, selvaggia Notte, dipani le speranze che sogni leggeri riusciranno a brandir di seta l’immaginazione di ciglia piegate al tuo cielo.
Maledetta, effimera Notte, lasci che annodi speranze a cocenti stelle d’inverno, mi ubriachi d’invincibile serenità suggerendomi magici scorci di luce. Angoli solitari, buoni per trovare una ragione. Poi? Mi confondi, fiera e potente, teatrale come ti ami, gonfi il petto di nuvole scure, sciogli le stelle e mi mastichi le certezze come paesaggi spenti, appestati e rigurgitati poi in grigie sfumature di nebbia.
Ma sei donna fino al riverbero dell’alba, e proprio lungo quel confine di solitudine, ho imparato ad amarti. Così al buio, nel tuo prepotente buio, mi regali comunque l’esempio migliore.
Perché nel mio buio, amica mia, m’uccido e risorgo con la lentezza di chi centellina forze ma con la forza di chi non risparmia cuore. Come paesaggio spento, appestato e rigurgitato, rinasco poi nell’alba di una nuova consapevolezza. (In)Sorta per crescere, e per andare. Avanti.

L'avevo capito. Tra me ed Anthony c'era qualcosa di più della vita, qualcosa di più dell'amore. C'era qualcosa, quella tendenza che ci portava sempre a convergere, quell'inclinazione quasi naturale verso l'anima dell'altro, qualunque cosa accada noi due saremo sempre lì, l'uno accanto all'altra. Deve esserci stata un'alchimia naturale, nata nel momento stesso in cui, quel ragazzo dal profumo di pioggia e gli occhi d’Eterno, aveva deciso di riportarmi alla vita, offrendomi il suo tempo. Io avevo bisogno solo del mio tempo, ognuno ha bisogno del proprio tempo per inserirsi nel mondo ed Anthony me lo stava porgendo, mentre io cominciavo a prendermelo. Non era morte, era tempo, attesa.

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Capitolo 9
*** Quella donna ***


Quella donna
 
Quella notte mi tenevo strette le braccia ed avvinghiata al mio stesso corpo davo l'idea di un grumo impenetrabile ma, con gli occhi persi fuori dalla finestra, presi a disegnare ali d’angelo e fumi di draghi. Fu una contrapposizione evidente perché lasciavo andare la mente mentre il cuore si stringeva tra le fauci di un silenzioso dolore.
Ricordo di aver cercato il mio cellulare al buio, tastando le lenzuola del mio letto con il palmo della mano; la luce bianca infastidì i miei occhi umidi e arrossati e in un lungo sospiro composi il numero di Anthony.
Parlai senza fermarmi mai, continuando a mangiare le lacrime salate che morivano sulle mie labbra, mentre lui se ne stava in silenzio ad ascoltare le mie parole senza senso.
«Dove sei finita?» mi chiese.
Trattenni il fiato per un istante, prima di ricordargli che non mi ero mossa dal letto sul quale giacevo.
«Te. Il tuo cuore. I tuoi sogni. I tuoi sorrisi. Dove li hai nascosti?» continuò.
«Sono morti. Gli ho ammazzati tutti.» Fu la mia breve risposta.
«Non è vero. Non piangeresti se fosse davvero morto tutto, non soffriresti in silenzio, non ti negheresti la vita per la paura di soffrire ancora… Tu non sei morta, vorresti esserlo, ma sei qui, con me a parlare del dolore che come un proiettile ti ha perforato un polmone. Stai agonizzando, ma per quanto speri di non farcela, dentro di te vorresti solo poter cominciare a vivere.»
Aveva ragione, come sempre.
Con Tony non avevo segreti da omettere,  lui aveva inquadrato per bene la mia figura esile di ragazza scappata dagli anni migliori, e nei miei lunghi silenzi aveva iniziato la sua battaglia.
«Non resteremo schiacciati qui sotto Gabrielle, te lo prometto» Quel tono di voce marcato, quasi rinnegato e ricacciato nell’oblio del tempo, in quel frangente, a tratti, saliva come gorgoglio di caffettiera.  Dall’altro lato del telefono io arrossii, come beccata con le manine nella borsa materna a cercar cioccolate…
«Credo che la fantasia sia una dei meccanismi di difesa migliori che ci abbiano mai messo tra le mani. Più delle urla, della paura, della corsa, più delle armi. Con queste cose o ci si graffia o ci si muore, con la fantasia invece si cambiano i colori, e chi, come te, riesce a fare del suo dolore la sua stessa forza, ha anche il potere di smembrare il mondo da inutili e pruriginose pesantezze. Dovresti ritrovarla la tua fantasia, colorare il tuo cuore, immaginare, tornare a sperare…» riprese lui.
«Ma che me ne faccio della fantasia se non so distinguere ciò che è vero da ciò che non è vero?» dissi io un po’ stizzita.
«La fantasia non è un modo codardo di camminare, è aiuto al respiro, ci nutri la speranza…»
«Speranza? Quale speranza, Anthony?!  È che io sono stanca di morire, di non essere io, di rialzarmi più ferita di prima. Sono stanca di lottare.»
«Non hai mai cominciato a farlo, Gabrielle. Non ci hai nemmeno provato. Sei una fifona, una codarda e fuggi l’Eternità con le paure che ti cuci addosso.»
Chiuse la conversazione così, senza nemmeno salutarmi, senza neanche darmi il tempo di obiettare.
Non chiusi occhio quella notte, soffocata dal turbine dei miei pensieri, dalla tormenta del mio dolore, da quell’anelito di cuore spirato sulle labbra di Anthony.
L’alba del mattino seguente mi colse impreparata.
Non ero mai pronta per morire.
Il mio corpo pareva sprofondato nel letto, pesante ed opulento, impossibile persino pensare di muoversi. Faticai ad aprire gli occhi e il mio cuore batteva così violentemente da sembrare prossimo all’esplosione.
Avrei voluto piangere, ma non ebbi la forza neppure di chiedere aiuto e mi lasciai ricadere in quel sonno intorpidito. Il cielo, tinto di un tenue rosa misto all’azzurro mi diede il buongiorno, portando alla mia mente la conversazione avuta con Anthony. Il mio Anthony.
Sì, lo sentivo mio, perché solo qualcosa che t’appartiene, qualcosa che senti pulsare dentro, ti legge l’anima senza dover troppe spiegazioni e persone così sono nostre per sempre.
Dopo un paio di giorni in completa agonia qualcuno in casa chiamò il medico.
«Sarebbe meglio ricoverarla subito.» Diceva il medico a mia madre.
Aprii piano i miei occhi castani, occhi che dovevano avere il colore del sangue in quel istante e milione di spilli infilzati nelle pupille per dolermi così tanto.
«No… l’ospedale no. Per favore…» biascicai, prima di lasciarmi andare nuovamente nel buio.
Quando fui sola piansi lacrime silenti e pensai a lui che voleva salvarmi. Voleva davvero salvarmi. Lui voleva donarmi l’Eternità pur di salvarmi dall’oblio.
Lottai contro me stessa nei giorni a venire, giorni violenti, giorni oscuri, giorni orrendi, giorni odiati… qualunque cosa avrei sopportato per rivederlo, per risentire il suo profumo di pioggia. Ma lui non venne e il tempo passava ogni giorno esattamente alle stesse ore.
Era l’undici di Novembre quando mio fratello entrò nella mia stanza, con una busta gialla tra le mani.
«C’è posta per te!» Mi disse, canzonandomi.
L’afferrai osservandola con meticolosa attenzione. Il mio nome era scritto in nero, con lettere un po’ svolazzanti  e curve, alcune macchie d’inchiostro avevano scolorito la “r” finale del mio cognome e le donavano un aspetto quasi sospetto. Voltai la busta per leggerne il nome del mittente e vi trovai una scritta: Nell’Eterno c’è di buono che tutto è bianco ma, anche nel nero come il tuo, se spalanchi gli occhi e resti ferma per alcuni istanti, imparerai a scorgere gli ostacoli e ad evitarli e troverai la tua strada, anche se saranno le ombre a indicarti la via.
L’Eterno.
Anthony.
Non mi aveva dimenticata. Non mi aveva lasciata morire.
Aprii la busta frettolosamente e ne estrassi alcuni fogli, tutti ben ripiegati su se stessi.
«Un po’ lunga per essere una lettera!» Mi dissi, sorridendo.
Allargai piano il primo foglio, ne contemplai la calligrafia, la odorai, cercando tracce del profumo di pioggia che tanto amavo e, nel silenzio di quel pomeriggio d’inverno, cominciai a leggere il cuore del mio Anthony.
 
 
                                                                                       Quella donna
La storia della donna che la vita se la portava chiusa nella testa e teneva fuori il resto del mondo.
 
Se ne stava sempre chiusa in camera, quella donna. Aveva occhi anonimi, capelli anonimi e una bocca che preferiva tacere sempre, per non pronunciare mai ciò che nessuno avrebbe voluto  sentire. Ma le mani... le mani di quella donna si muovevano lente e sinuose. Quella donna prendeva sempre la penna tra le mani e andava via, lontano. Prendeva un libro e spariva senza far rumore.
Ma dove mai andrà, poi?
Le mani di quella donna… mai che smettessero di scrivere, di imbrattare fogli immacolati e di modellare le parole che uccideva sul nascere dalle sue labbra.
 
A quella donna faceva male il cuore, in ogni momento, ma mai che dicesse a qualcuno quel che sentiva, quel che pensava. Lei fingeva. Mentiva. E moriva.
Si uccideva in ogni istante, per rinnegarsi, per rifiutarsi. E allora nasceva Lei, la donna che volevano gli altri, la donna che quell’altra avrebbe voluto distruggere.
 
Quella donna amava la pioggia, così simile a lei, così incessante, così fastidiosa, così indesiderata. Sottile, fragile… come le lacrime che le solcavano sempre il volto. È che alla pioggia mai nessuno chiede «Come va?»; lei è quella che rovina giornate divertenti o romantiche, che disfa occasioni importanti, momenti cruciali. Quella donna, come la pioggia, sentiva sempre di essere di troppo, in qualunque cielo si mostrasse.
 
Quella donna collezionava domande. Le disponeva in fila per uno, nell’ordine sconclusionato dei suoi pensieri e le obbligava a venir fuori pian piano.
Come può morire un respiro?
Quante volte si muore in un frangente?
Cosa guarisce un’anima dilaniata a morsi dalle circonstanze?
Mai che si rispondesse.
Ormai era tardi, ormai non c’era più tempo per le domande, per essere felice…
 
Nei suoi incubi, quella donna, correva sempre.
Si dimenava, ansimava, ma non urlava. Mai.
La sua bocca era sempre impastata di una qualche strana e disgustosa melma e gli occhi vagavano nel nulla.
Cercava sempre qualcuno e piangeva. Tanto.
Si portava le mani al petto, stringeva più forte che poteva e intanto continuava a correre, finché la terra non le apriva una voragine sotto i piedi, inghiottendola.
Nel fondo, il nero era impenetrabile, il silenzio assordante.
Il dolore della caduta faceva eco, ancora e ancora.
Correva e piangeva quella donna e cercava questo qualcuno o qualcosa che neanche conosceva.
Poi si fermava e poggiava le mani da qualche parte. Respirava e ingoiava lacrime senza sale che non sapevano più fermarsi.
Alla fine sa sempre dove si trova.
Nel suo cuore.
Troppo confuso per avere un po' di luce, troppo ferito per apparire un posto sereno.
È che il cuore non ti lascia mai, lui è dentro di te e tu dentro di lui. E non puoi fuggire. Mai.
 
Quella donna ha il cuore in frantumi.
Qualcuno l’aveva ferito e lei ha finito col distruggerlo. Quella era una di quelle donne che, con la felicità davanti agli occhi, preferisce spararle a brucia pelo.
Quella donna preferiva la lacrima alla felicità. La chiamavano masochista , quando distruggeva le cose belle, ma non hanno mai imparato a chiamarla impaurita.
La paura le rubava la consapevolezza della gioia di vivere, dell’essere felice. Ed il cuore si frantumava, ogni volta che, quella gioia, la vedeva da lontano, quando credeva di poterla sfiorare o percepire. E la paura si faceva largo dentro di sé.
Quella donna, fragile com’era, con le sue piccole mani, si ritrovava a tremare, scavando nel profondo per ritrovare il coraggio, l’istinto di animale ferito per sopravvivere all’attacco del branco.
E si guardava intorno, aspettando qualcosa, sentendo che non aveva niente da dare. Aspettando di capire se aveva perduto tutto. Aspettando.
E il cuore si frantumava, mentre le mani tremavano, tutto scuoteva il cuore, quel cuore che si frantumava, mentre tutto il resto sembrava quasi felicità. Una felicità che non poteva appartenerle.
 
Quella donna sapeva che c’erano sogni che facevano la lotta: erano i sogni che resistevano, perché c’erano persone, come lei, che li uccidevano, giornalmente, a suon di quotidianità, abitudini e paure.
Erano i sogni dispersi, affranti, ma mai persi.
Erano quelli che ritrovava per caso, nella tasca della giacca, anni dopo e si sorrideva con una dolce tristezza dipinta negli occhi. Erano quei sogni che aveva cercato di nascondere nell'armadio, ma non ci entravano più. Quei sogni grandi, così grandi che a guardarli le veniva voglia di volar via. Erano i sogni in lotta, quelli che si portava appresso senza sapere di averli accanto. Erano i sogni di chi di notte dormiva poco e vola via con la mente, perché viverli, quei sogni, sarebbe stato impossibile. Troppo dolore, troppe lacrime, troppe paure.
E se li vedeva tornare, significava che quei sogni, quella donna, li aveva messi nella tasca della giacca  e se ne andava via sorridendo, chiusa nel suo mondo, chiusa nella sua stanza, in quella prigione scarlatta arredata al meglio.
 
Quella donna affondava ogni giorno un po’ di più e la gente intorno a lei non faceva altro che legarle macigni intorno al collo. Allora lei chiudeva gli occhi e si lasciava cadere… per annegare prima, insieme a tutto il suo peso.
 
Quella donna implora ad occhi spenti d’essere salvata e sulle labbra dipinge il sorriso di chi vuol chieder la clemenza per non subire la pena capitale.
Quella donna vuole vivere e sarà l’Eternità a strapparla alla morte.
Quella donna vuole vivere perché sarò io a tirarla fuori dal suo bunker interiore.
Quella donna appartiene al mondo, ma è soprattutto mia  e chiederò all’Eternità la luce che possa filtrare nel buio del suo cuore.

 
 
Avevo le mani sudate e la vista mi tremava, quando finii di leggere. Chiamai con forza il nome di mio fratello e lasciai che mi aiutasse a raggiungere la poltrona.
Sentivo il cuore martellarmi nel petto e uno strano ronzio nelle orecchie. Fuori il cielo mi parve come investito da un sole accecante e le mie lacrime presero a scendere sulle mie guance.
Tutto d’un tratto la sentii esplodere.
L’Eternità ce l’avevo dentro.
L’Eternità era mia.
L’Eternità, la mia, era lui. Anthony.
 

 

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