Amsterdam di formerly_known_as_A (/viewuser.php?uid=6311)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Zaterdag // Sabato ***
Capitolo 2: *** Maandag ***
Capitolo 3: *** Dinsdag//Martedì ***
Capitolo 4: *** Woensdag ***
Capitolo 5: *** Donderdag // Giovedì ***
Capitolo 6: *** Vrijdag ***
Capitolo 7: *** Zaterdag // Sabato ***
Capitolo 8: *** í vorið ***
Capitolo 1 *** Zaterdag // Sabato ***
Islanda non saprebbe
dire come siano finiti lì. In un pessimo albergo ad ore ad
Amsterdam, che puzza di fumo ed alcol. Brennivìn. È
quasi sicuro che sia colpa di quella bevanda demoniaca -oh, ma tanto
buona, le perdona anche questo- o forse è stato l’assenzio?
Il fumo?
Incastra la gamba
tra quelle dell’uomo e continua a baciarlo, afferrandolo per la
camicia ed abbassandolo, lasciandosi andare ad un lamento quando si
rende conto della differenza di altezza. Quando hanno cominciato a
baciarsi era così alto? È sempre stato così
alto? Ricorda, Eirìk, ricorda! Non potete essere lì
senza un motivo.
Oh, c’è
un motivo. Sesso. Non è un motivo valido? Nella mente
annebbiata da fumo ed alcol, non riesce a trovare motivo migliore per
desiderare altri mille di quei gemiti che l’uomo sta lasciando
uscire dalle labbra.
Ricorda. È
solo un flash, ma gli manda un brivido lungo la schiena. Van Gogh, le
raccomandazioni di Norge, Olanda…
“Jan…”
geme, buttandolo malamente a sedere sul letto, che cigola come se
dovesse crollare da un momento all’altro -al piano di sotto, a
giudicare dallo scricchiolare del pavimento- e salendogli a
cavalcioni sopra.
Certo, è
cominciata così, ecco perché non era poi così
alto, gli era in braccio, dannato olandese e le sue droghe che gli
fanno scordare le cose importanti.
“Tuo padre mi
ammazzerà.” sussurra lui, nell’ennesima protesta
che dovrebbe, di norma, far fermare l’islandese. Ha cominciato
con ‘non sei il mio tipo’ e passando per ‘sei
troppo giovane’ è arrivato a quello. Islanda gli ha
risposto sempre allo stesso modo.
“Che peccato.”
Muove il bacino su
di lui, sensualmente, stuzzicandolo oltre l’impossibile,
spostando le mani sul suo corpo, sotto la camicia, sulla sua pelle,
leccandogli le labbra prima di legarle con un bacio profondo,
impedendogli di protestare ulteriormente.
Andare in Olanda per
vedere le città, i musei… quella era stata la sua idea
iniziale. Non è il tipo da andare in giro in cerca di sesso o
droga, solitamente è troppo timido per questo. No, non è
il tipo, allora perché sta spogliando l’uomo di fronte a
lui? Uomo. Non dimostra la sua età, chissà che cos’avrà
pensato la signora alla reception! Se la ricorda in modo appannato,
forse era un uomo, ma le unghie laccate erano un segno che…!
L’olandese lo
allontana, secco e deciso, facendolo vergognare a morte per il modo
in cui lo prende per la vita, lo solleva e lo posa sul letto, lontano
da lui, come se non pesasse nulla o fosse un bambino. Poi resta
seduto sul bordo del letto, la testa tra le mani, i capelli
scompigliati che ricadono un po’ sugli occhi.
“Sei un bel
ragazzo. Davvero, sei intelligente e mi piace parlare con te, ma sei
ubriaco e probabilmente non avrei dovuto farti fare un tiro. Dio! Ma
cosa diavolo stavo pensando, sei suo figlio!” sbotta, tirando
un pugno al materasso, che protesta rumorosamente.
Islanda non sa cosa
rispondergli. Ha la testa che gira e l’eccitazione non svanirà
perché glielo dice lui. Però si sente un po’ più
razionale, rispetto alla persona che ha oltrepassato la porta e si
vergogna. Molto.
Allunga le mani
verso l’olandese infelice, vorrebbe allo stesso tempo sbatterlo
sul letto ed abbracciarlo, è una sensazione strana, gli gira
la testa perché ci pensa davvero troppo. Le incastra sotto
alle proprie cosce, come a punirle per aver disubbidito e voler
evitare altri danni.
“Ti accompagno
in albergo.” sussurra l’altro, più calmo,
alzandosi e porgendogli la mano. L’islandese guarda di lato,
non osando guardarlo in faccia, cercando di elaborare qualche modo
creativo di mandarlo via, per lasciarlo solo con la propria vergogna.
“Eirìk,
non è successo nulla, torna in albergo e dormi, senza alcol in
corpo starai meglio.” aggiunge, conciliante, un tono che ancora
non ha sentito, nella sua voce.
Libera una mano e
prende la sua. Ma non lo guarda. Resta a guardare in terra mentre
fanno il percorso inverso verso la reception e Jan parla con la
persona con cui hanno parlato prima. È amichevole e l’altra
persona ride allegra. È una donna, ma non ha voglia di alzare
lo sguardo per vedere se ha le unghie laccate o meno.
Barcolla insieme
all’accompagnatore fino in strada e senza neppure accorgersene
si trova in taxi. La testa rimane rigidamente voltata dalla parte in
cui sa che non ci sarà nessun uomo dagli occhi verdi e la mano
che gli aveva porto ritorna a nascondersi, mentre si addossa alla
portiera e chiude gli occhi.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Maandag ***
Islanda ha pensato che un viaggio
lontano dal se stesso fisico potesse fargli soltanto del bene. A
volte succede. A volte gli sembra che l’isola sia troppo
piccola, troppo vuota, persa com’è in mezzo al mare. A
volte ha bisogno di allontanarsene per rendersi conto di quanto sia
bella.
E non c’è nessun
avvenimento che gridi ‘vattene’ come una
separazione. Dopo due mesi, si rende conto che la casa in cui viveva
con quella persona è sempre troppo piena di ricordi per
essere sopportabile, ma esita ancora ad andarsene. Si dice che è
soltanto per un periodo breve, una vacanza e riesce a convincersi,
ma, da allora, sono già trascorsi quattro mesi. Sei mesi in
totale nei quali erra di stanza in stanza, cercando di eliminare le
tracce, rinchiudendo tutto in una delle sue tantissime stanze vuote.
Senza quella persona, quella
casa troppo grande per una persona sola diventa immensa. Dopo sei
mesi, quell’immensità è insopportabile.
Ne parla a Matt. Anche se l’istinto
gli dice di andare dal fratello, non lo fa perché sa che si
preoccuperebbe molto di più del dovuto, che si metterebbe a
dar di matto nel suo modo calmo, borbottando per casa velati insulti
per la sua ex metà. Probabilmente se lo terrebbe a casa, non
lasciandolo un momento, come se Eirìk potesse deprimersi al
punto di fare qualche stupidaggine.
Dopo sei mesi ed una separazione
consensuale, più che essere triste sente che gli manca
qualcosa. Si dice che è l’abitudine ad avere sempre
qualcuno di tanto rumoroso intorno, più che il fatto che gli
manchi proprio quella persona. Non gli manca. Non piange più.
E non si ferma lunghi momenti a pensare se sia felice con l’altra
persona, con quello più meritevole del suo amore, che la
sposerà presto.
Islanda trova stupido che esista la
possibilità di amare per tanti anni una persona e poi
accorgersi che c’è di meglio. Le da’ molte colpe,
ma se ne da’ altrettante per averla lasciata andare molto prima
di quando si siano lasciati. Fa il conto delle colpe, decide che però
è lei che ha iniziato tutto e lei che ha finito tutto. Lei ha
la responsabilità di quegli anni di felicità e quei
mesi di vuoto.
Non per questo è meno triste.
Matt gli dice di andare ad Amsterdam e
lui lo guarda male. L’altro ride e gli spiega che, nonostante
la fama, la città ha molti pregi e che una settimana lì,
ammesso che non si dia alla pazza gioia con donne e droga, può
rimetterlo in forma. A volte, molto spesso, non capisce del tutto i
ragionamenti di quello che un tempo chiamava padre. Chiunque gli
avrebbe detto di darsi ad una settimana di follia ad Amsterdam a base
di donne e droga.
Matt invece gli mostra il sito della
città e, per la prima volta in molti anni, Eirìk prende
una decisione in meno di due mesi.
Lunedì.
Sei giorni prima.
Olanda è strano, per essere
amico di Danimarca. Forse è perché immagina i suoi
amici rumorosi e ubriachi e sempre con il sorriso sulle labbra.
Quando invece gli si avvicina, in aeroporto, non può fare a
meno di notare quanto sia lontano dall’idea che si è
fatto di lui, soprattutto perché il danese, parlandogliene, ha
continuato a dipingerlo come il proprio migliore amico.
Non è caotico e, anche se porta
sempre con sé una pipa piuttosto appariscente, quello che c’è
dentro sembra tabacco. Parla con un tono calmo, la voce bassa che gli
ricorda molto quella del fratello, non è propriamente
amichevole. Però è gentile e questo ha modo di
dimostrarlo quasi subito.
Non può fare a meno di
sorridere, stirare un pochino le labbra, almeno, nel notare quanto
sia più simile a lui.
Per prima cosa lo porta al Rijksmuseum.
Dapprima non gli spiega nulla, resta ad osservarlo da lontano mentre
si muove da un quadro all’altro, vicino fino a guardare le
singole pennellate e poi a guardare l’insieme, meravigliato.
L’arte gli è sempre
piaciuta. Ama la poesia sopra ogni forma d’arte, il canto, le
leggende e gli eroi, perché gli ricordano un tempo lontano in
cui gli sembrava di essere felice, gli ricorda che, un tempo, è
stato il primo ed il migliore tra i nordici, nonostante fosse molto
più piccolo.
Nonostante questo, ama anche i dipinti,
ama guardarli e pensare a come e perché siano fatti. Guarda le
nature morte e quasi tende una mano verso di esse, perché sono
così perfette da sembrare reali.
Olanda -Jan, si chiama Jan- lo segue in
silenzio, accompagnandolo senza però guidarlo, guardandolo un
po’ stupito quando si rende conto che l’islandese non
segue affatto il percorso del museo, tornando indietro ad analizzare
dipinti simili, facendo una foto e tenendo la macchina fotografica in
fondo al braccio teso accanto a quelli dipinti dalla stessa persona.
Non parla, ma dentro di sé si
sente bene, in pace, come ogni volta che entra in un museo.
Si trova ad Amsterdam da due ore quando
tira fuori il cellulare e manda un messaggio a Matt.
Grazie. Semplicemente questo, grazie.
Sa che lo chiamerà quando la giornata sarà finita,
raccontando a macchinetta ogni cosa.
Islanda è una persona
silenziosa, ma il suo carattere cambia radicalmente quando si tratta
di parlare di cose che gli piacciono. Matt lo sa e, forse, quello è
solo un altro trucco per tornare a parlare come un tempo, in quello
strano piano che sembra aver elaborato da qualche anno. Ad
Eirìk non importa. Parlerà al telefono con lui per
un’ora, spendendo un capitale per la doppia chiamata
internazionale, perché, anche se è un trucco, Matt l’ha
mandato in un posto che gli piace.
A volte bisogna riconoscere i meriti
delle persone.
Si blocca di fronte alla Ronda di
Notte di Rembrandt, stupito e meravigliato. Nel sito sembrava
meraviglioso, ma non aveva ben realizzato quanto fosse grande. Si
avvicina il più possibile, cercando di cogliere ogni
particolare, ammirando la luce e come l’intera scena ne sia
modificata.
“Jan, i tuoi pittori sono
affascinati dalla luce.” commenta, quasi casualmente, rivolto
all’olandese dietro di lui.
Lui si avvicina e sembra intento a
pensarci su, mentre osserva con attenzione il dipinto che ha
sicuramente visto milioni di volte.
“Era un periodo luminoso.”
ribatte, lo sguardo ancora un po’ perso, probabilmente al
momento di cui parla. “Mi ero liberato dal dominio di Spagna.”
aggiunge, portandosi la nocca dell’indice sulle labbra.
Eirìk lo osserva, sentendosi,
per un momento, molto vicino a quello che deve provare, ripensandoci.
“Si è molto ispirati,
quando si è felici.” gli risponde, con un minuscolo
sorriso. Sa esattamente di quello che parla.
Non ha ancora terminato di stupirsi,
quando si spostano poco lontano, prendono qualcosa da mangiare in una
bancarella, si siedono sul prato del Museumplein e pranzano lì,
in silenzio a guardare le persone -turisti, adulti e bambini,
semplici olandesi a passeggio- che più o meno di fretta gli
passano di fronte. Islanda è già stato in una città
d’arte e gli sembra di poter leggere nel pensiero.
Quel gruppetto di corsa, ad esempio,
che ha quasi camminato sopra al suo pranzo -ed ha evitato anche di
calpestare lui per un soffio- è lì per poco tempo e
probabilmente perderà un’ora a scegliere souvenir e
cartoline che dimostrino che loro ad Amsterdam ci sono stati, anche
sacrificando una visita ad un museo o una passeggiata sui canali. Ah,
vuole fare questo, dopo.
Più lontano, sorprendentemente,
c’è un gruppo di ragazzi chiassosi e strafatti, che
gridano al mondo quanto sia bella l’Olanda. Che pena. Non
dubita che faranno una visita al quartiere a luci rosse, in seguito.
Si sono sicuramente persi, per essere in quella parte della città.
Guarda la Nazione accanto a lui, pronto
a chiedergli cosa ne pensi di quella gioventù bruciata e si
scopre fissato a propria volta, cosa che lo manda un po’ nel
panico per colpa della propria naturale predisposizione all’imbarazzo
con gli sconosciuti.
“Hai scelto il tuo preferito?”
chiede, confondendolo, accendendo la pipa. Eirìk ha appena
addentato l’Hollandse Nieuwe che fa parte della piccola
montagna di cibo che l’altro gli ha voluto far assaggiare.
Aringa cruda. Ha un gusto meraviglioso e passa il test, ma la domanda
dell’olandese lo lascia un attimo perplesso.
Sta parlando dei turisti strafatti?
“Pittore.” specifica,
chiarendo la questione e facendogli fare un sospiro di sollievo.
“Sembra che ti siano piaciuti un po’ tutti, anche se hai
guardato soprattutto Vermeer.” gli fa notare, stupendolo
ancora. Sì, effettivamente tra quelli che hanno visto è
il suo preferito.
Ha già visto qualcosa a Parigi,
qualche anno prima e l’ha decisamente colpito per quel modo di
vedere e trasporre la luce, per i dettagli, la polvere per terra, i
segni sui muri. Sì, tra quelli del museo è il suo
preferito, anche se la Ronda di Notte l’ha colpito, facendolo
sentire minuscolo.
“Van Gogh.” risponde, quasi
senza pensare.
Jan lo fissa con lo stesso stupore che
deve avergli mostrato prima, la stessa confusione, poi ridacchia. Ha
una risata controllata, di certo non quella sconclusionata di
Danimarca. Però è lo stesso allegra, divertita.
“Non l’abbiamo ancora
visto.” precisa, come se non fosse ovvio. Islanda sbuffa e
gonfia le guance, stizzito. Ecco, non gli dirà più
niente, ora, se deve prenderlo in giro in quel modo! Sta per
rispondergli qualcosa a tono, ma tace quando l’altro gli ruba
un pezzo di frikandel. “Sei strano, islandese. Hai le
idee chiare, però, non è male.” aggiunge,
facendogli un sorriso.
Qualcosa in Islanda si scioglie,
esattamente al centro del petto.
La sensazione ritorna quando, alla
sera, Danimarca gli chiede cosa ne pensa della città e della
sua guida eccezionale.
Non risponde subito, ma, quando lo fa,
sente il calore invadergli il viso, la bandierina con cui era
trafitta l’aringa che si muove tra le sue dita.
“Grazie, Dan.”
Note dell'autrice
Per prima cosa, grazie per il vostro
supporto, il primo capitolo -complice il rating?- è stato un
successo e, per essere un pair sfigato, sono contentissima.
In seguito, due cose.
La fanfiction sarà aggiornata
ogni lunedì, fatta eccezione per questa settimana e la
prossima. Oggi e mercoledì.
I primi sei capitoli sono pronti...
e anche gli ultimi tre, in pratica ne manca uno che è a buon
punto e pubblicando un capitolo a settimana sono quasi sicura di
finirla in nove settimane, in tempo per la mia partenza all'estero.
L'altra cosa importante è
che, inizialmente, questo capitolo doveva avere un pezzo in più,
ma che non sono assolutamente ispirata per un altro museo. I due si
devono ancora conoscere!
Quindi spero non vi abbia deluso...
e vi ringrazio per le letture :)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Dinsdag//Martedì ***
Il giorno successivo l’islandese
non può che arrivare al Museumplein con un sorriso sulle
labbra, esaltato per quello che sa che farà quel giorno.
“Ti piace davvero molto, eh?”
chiede l’olandese, guidandolo verso il museo. Islanda non
risponde. Non perché non voglia o sia maleducato, ma perché
è bloccato, il corpo teso mentre attraversano la soglia, le
mani tremanti.
Ha sempre pensato che adorare in quel
modo un artista di un’altra Nazione fosse sbagliato. Non si
venerano arti diverse dalle proprie, pensava, osservando il fratello
prendere il violino per suonare qualcosa di straniero e gli altri
nordici leggere ed apprezzare opere in altre lingue. Ha sempre
creduto che la forza di una nazione risiedesse appunto nel tenersi
strette le proprie opere e farsele piacere.
Islanda è sempre stato
particolarmente fissato con la propria identità, nato com’è
da una protesta contro chi quella identità voleva sostituirla
a qualcosa venuto da lontano, ma Van Gogh gli ha decisamente fatto
cambiare idea.
Si è trovato per la prima volta
di fronte ad un suo dipinto a metà anni ’50, in uno dei
libri di arte che Dan gli aveva mandato in blocco per farsi perdonare
e cercare di recuperare quel sembiante di famiglia che erano un
tempo. Anche allora sapeva decisamente come ammorbidirlo, lo stupido
danese.
Non erano i Girasoli, erano gli
Iris. Un dipinto meno famoso ma altrettanto bello, che l’aveva
affascinato con i colori, con quei blu così vividi che gli
avevano subito ricordato i tempi malinconici dei viaggi per mare.
Così aveva iniziato ad
apprezzarlo e presto era diventato l’Artista, quello con la
prima lettera maiuscola, aveva letto, ma soprattutto guardato.
Pensare di ritrovarsi finalmente di fronte a qualcosa che ha dipinto,
qualcosa su cui si è dannato per trovare i colori giusti lo
emoziona troppo per rispondere all’olandese.
“Tu… L’hai
conosciuto?” chiede, mentre osserva i dipinti e i semplici
disegni con occhio attento, con una lentezza quasi esasperante.
“Non molto. Non era il mio
genere, non avevo ancora capito quanto fosse grande. Per me era un
povero pazzo che colorava in modo strano.” ammette quello, non
senza un pizzico di vergogna. “Credo che si trovasse
decisamente molto meglio in Francia.”
Islanda si volta per guardarlo, uno
sguardo di disapprovazione in volto, da vero fanatico, cercando di
capire se il tono che ha sentito sia o meno dispiaciuto. Di sicuro
ora dev’essere un orgoglio essere la patria di un tale genio.
“Guarda.” sussurra,
prendendolo per un polso e piazzandolo di fronte ad un autoritratto.
“Ti piace la luce, eppure non la vedi, qui. Guarda, i tratti
concentrici intorno a lui, quella è luce, anche se non è
chiarezza, è come un’orbita. La luce si modifica a
seconda di cosa importa di più.” gli spiega, sorridendo
ed indicandone il percorso.
Lo fa avvicinare il più
possibile, con una delle guardie che li guarda un po’ male, ma
non gli interessa.
“Vedi? Non sono pennellate a
caso. Ci sono luci ed ombre e il colore non è uniforme.”
aggiunge, tracciando ancora dei piccoli movimenti con le dita,
nell’aria di fronte alla tela.
Jan annuisce, colpito, anche se
probabilmente sa già tutte quelle cose.
Islanda è soddisfatto e passa
agli altri quadri, gli occhi luminosi mentre cerca i dettagli, le
pennellate, il cuore che batte all’impazzata come se fosse ad
un appuntamento romantico. E, in un certo senso, quello è come
il coronamento di un rapporto a distanza, durato anni.
Continua ad andare avanti ed indietro
attraverso le stanze, fermandosi a lungo davanti agli Iris.
“È meraviglioso. Come
immaginavo.” commenta, all’accompagnatore che non lo
lascia un secondo solo mentre il suo continuo girovagare attira
l’attenzione degli altri visitatori. Vorrebbe fare un milione
di foto ai dettagli, ma, soprattutto, fare una foto accanto a quel
dipinto, il primo che ha imparato ad amare. È davvero un
peccato non potere.
“È il tuo preferito?”
chiede Jan, incuriosito, ormai probabilmente convinto di avere
davanti un fissato dell’artista. Ma la cosa non sembra turbarlo
più di tanto.
Eirik scuote la testa, voltandosi verso
di lui per parlare. “No, è stato il primo che abbia mai
visto, però. Il blu è bello come il mare, con gli
stessi riflessi e i fiori sembrano incredibilmente vivi.”
commenta, socchiudendo gli occhi e sentendo di nuovo quell’ondata
di nostalgia. “Mi ricorda la mia infanzia.” confessa, in
uno slancio di sincerità, tornando a guardare le sfumature di
blu.
“Qual’è
il tuo preferito, allora?” domanda l’olandese,
guardandosi in giro come per individuarlo. “Il mio è
Campo di grano con volo di corvi.” lo anticipa e Eirik
lo guarda come se avesse detto la cosa più assurda del mondo.
È anche il suo preferito e sa
che moltissimi lo snobbano perché non è maestoso come I
Girasoli e non ha attorno un alone di tormento come gli autoritratti.
Si illumina, annuendo brevemente. “È
anche il mio preferito.”
Jan sorride a propria volta, un po’
meno misterioso rispetto al giorno prima, più rilassato in sua
presenza… amichevole. Probabilmente hanno entrambi bisogno di
un po’ di tempo. Lo guida attraverso il museo, fino al dipinto
in questione ed Eirik sente la morsa tipica di qualcosa di
angosciante e bello, avvicinandosi con estrema lentezza.
C’è tutto. Il vento e le
nuvole scure, quell’angoscia che sembra preannunciare la fine.
La follia.
Forse è una sensazione ancora
più forte di quanto pensasse quando fissa la stampa che ha
messo nel soggiorno che ne riproduce le figure. O forse è
autosuggestione.
“È bellissimo.”
ammette, però, portandosi una mano dove quella sensazione è
più forte, sul petto.
Bellissimo, sì, ma non riesce a
guardarlo più di cinque minuti, imprimendosi nella memoria
ogni tratto, collegandolo alla follia di qualcuno che ha amato di un
amore ben diverso da quello che lega due innamorati, ma proprio per
questo incondizionato, senza limiti.
L’amore di un figlio nei
confronti di un padre che, lentamente ed inesorabilmente, soccombe
alla follia.
“Dan?”
“Vuoi ringraziarmi ancora?”
chiede il danese, al telefono, divertito. “Guarda che se vuoi
chiedo a Jan di adottarti, se ti piace così tanto la città!”
Scuote la testa, arrossendo al
pensiero. Anche nell’Amsterdam Dungeon l’hanno scambiato
per il fratellino dell’olandese. Solo perché ha avuto
seriamente paura che quei finti malati di peste fossero veri e si è
nascosto dietro Jan quando sono entrati!
Un tempo sarebbe scappato gridando, è
già un buon passo avanti.
Abbraccia il cuscino, imbarazzato,
sbuffando leggermente.
“Dopo il museo mi ha portato
all’Amsterdam Dungeon.” borbotta, giocherellando con il
cordino della macchina fotografica, ancora decisamente imbarazzato.
“E mi hanno preso per il suo fratellino. Non ci somigliamo per
niente e io non ho fatto storie per il pirata che sputava nei
bicchieri prima di darci da bere, anzi!” protesta, imbronciato,
cadendo sul fianco.
“Pirati? Ti piacciono sempre?”
chiede il danese, interessato, ricordando ad Eirik che quell’uomo
sembra avere una memoria prodigiosa per qualsiasi cosa lo interessi,
anche solo un minimo. Se li marca sicuramente da qualche parte, non
ci sono alternative possibili!
“Certo che mi piacciono. C’era
tutta una parte dedicata solo a loro, era bellissimo, sembrava di
stare su una vera nave pirata!” esclama Islanda, ricordando
quella parte con entusiasmo. Sembra così diverso dal solito
Lui, ma quella è solo una parte, un po’ infantile,
forse, che può mostrare quando si sente al sicuro. Al
telefono, ad esempio, protetto dalla lontananza e dal fatto che
nessuno può vedere la sua espressione felice.
“La parte sull’Inquisizione
era assurda. Il prete continuava a gridare cose senza senso. Anche
Jan non era contento.” continua, cercando di raccontare ogni
cosa, ma non riuscendoci molto bene. Troppe emozioni, tra
l’entusiasmo per i pirati e l’orrore della peste.
“Invenzione spagnola.”
ribatte Dan, divertito. “Ha una certa avversione per lui,
l’hai notato?”
Eirik ci pensa un momento, ricordandosi
quello che gli ha detto a proposito della luce nei dipinti. Annuisce.
Sì, non sembra sopportare molto lo spagnolo. Ma è così
per quasi tutte le ex colonie.
Anche lui è al telefono con il
proprio ex colonizzatore. Ma è decisamente diverso.
“Notato. Poi c’era una
stanza sulla peste e…” si blocca, stringendo fin troppo
il cuscino.
“Stai bene?” chiede
immediatamente il danese. Non per il silenzio. Non è durato
molto più di due secondi. L’argomento è
abbastanza delicato per entrambi. Hanno avuto paura di perdere Nor a
causa della peste. La sua popolazione si era ridotta drasticamente e…
“Sto bene, mi sono fatto scudo
con Jan.” ribatte, facendo ridere Dan. Per poco non lo segue,
anche se è una battuta fatta solo per rassicurarlo un poco sul
proprio stato mentale.
Ha avuto paura, sì. Si è
nascosto e se ne vergogna, ma l’immagine del fratello devastato
dalla malattia è impresso a fuoco nella sua memoria.
Il fratello che lo proteggeva sempre,
magro ed incapace di muoversi senza provare dolore, la pelle candida
diventata blu o nera in certi punti.
Il terrore non l’ha abbandonato
finché non si sono mossi verso la stanza successiva ed Islanda
si è tenuto bene dietro l’olandese, cercando di guardare
per terra per non scorgere, in quella processione di morti che ancora
camminavano -attori, solo attori!-, il volto di Nor.
“Non ti preoccupare, anche per
lui è… un brutto ricordo.”
La voce di Dan sembra lontana,
all’improvviso, ma è perché era perso a pensare.
Torna subito attento a quelle parole. Cosa vuole dire? Che l’olandese
non lo prenderà in giro per il resto della visita? Bene, non
ne ha proprio voglia.
“Senti, Dan.” inizia, ben
intenzionato a porre una domanda che non si è mai azzardato
neppure a formulare consciamente, ma che una cosa che ha letto al
museo gli ha suggerito. “Quando non stavi bene…
com’erano i colori? E la luce?” chiede, tentennante,
rendendosi conto che la domanda è decisamente personale,
intima. Inoltre, non hanno mai parlato veramente del periodo buio del
danese, quello che trascorreva facendosi del male.
Lo sente sospirare, probabilmente
pensando se rispondere sinceramente o meno. Forse ha letto la stessa
cosa che ha letto, che gli schizofrenici vedono i colori e la luce in
modo diverso e che quello, misto all’assenzio, avrebbe
influenzato l’arte di Van Gogh.
Da una parte riconosce il tormento
sotto le pennellate, ma, dall’altra… c’è
moltissima luce in quei dipinti, come una speranza che non scompare
mai. Se così fosse, se anche per Dan ci fosse stata, allora un
po’ del peso che ha sentito in quel periodo, sul cuore, se ne
andrebbe.
“Non c’erano colori, né
tanto meno luci.” risponde invece Dan, uccidendo quella
speranza. Un altro sospiro, una pausa, come se volesse aggiungere
altro. “C’eri solo tu e quella era la mia speranza,
Eirik.”
Lascia andare il cuscino per un
momento, l’espressione stupita, poi l’abbraccia e, giura,
se quel danese stupido fosse lì, abbraccerebbe anche lui in
quel modo. Sorride.
“Suppongo di doverti molto più
che un consiglio su dove andare in vacanza, mhm?”
“Idiota.”
Ma lo dice con talmente tanto affetto
nella voce che sembra significare un milione di cose diverse.
Note dell'autrice
Per prima cosa vi ringrazio ancora
moltissimo per il feedback. Purtroppo nell'ultima settimana ho avuto
una specie di strana influenza che mi ha impedito di rispondere ai
commenti ed aggiornare come avrei voluto, quindi avete questo
capitolo solo di venerdì... per il prossimo, però,
aspetterete solo il weekend, promesso.
Vi rimando alla pagina
del blog dedicata ai primi capitoli per le note “artistiche”
e qualche foto dei luoghi visitati!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Woensdag ***
“Oggi
voglio fare qualcosa di diverso.”
Fiducioso, Islanda l'ha seguito per le
vie affollate del quartiere Jordaan, mancando a più riprese di
farsi travolgere dai turisti, sebbene non sia poi così
piccolo. Il quartiere è decisamente caratteristico, con le
case tutte attaccate l'una all'altra, colorate, gli artisti che si
fanno pubblicità. Se solo guardasse quello, di certo lo
apprezzerebbe.
Ma non vede più di tanto,
sballottato qui e lì e per poco non si perde.
“Jan!” lo chiama, dopo
quasi un'ora di cammino, sollevando un braccio per farsi vedere. Di
lui nota solo la punta dei capelli, insieme ad un aroma di tabacco
che si perde negli odori della folla. Ripete il suo nome, vedendo che
si allontana sempre di più, un po' nel panico, nonostante
sappia di saper uscire da quel quartiere per tornare in albergo.
La punta dei capelli si ferma e lui
riesce a raggiungerlo, aggrappandosi alla sua manica e standogli il
più vicino possibile.
“Non ti piace?” chiede
l'olandese, lasciandolo a pensare, per quasi un minuto, cosa possa
rispondere ad una domanda così diretta. No, il quartiere
sarebbe bello, ma senza tutte queste persone.
“Quando piove è molto più
bello.” aggiunge, senza mostrare segno di essersi offeso.
L'islandese tira un sospiro di sollievo, presto interrotto da una
spallata che lo separa di nuovo da Jan. Ma l'altro è rapido ad
afferrarlo per un polso e guidarlo verso una delle case, aprendo una
porticina e conducendolo all'interno.
Spalanca gli occhi, immaginando già
il proprietario furioso che li caccia via di casa, ma si ritrova,
inaspettatamente, in un cortile, con tanto strada ciottolata, fiori e
statue. Un cortile come non ne vede da moltissimi anni.
“Hofjes.” lo anticipa
Olanda, mostrando lo spazio intorno con una mano, come se dovesse
presentare un'opera d'arte. “Questo è un quartiere
popolare, ma i nobili avevano l'abitudine di creare questi giardini
interni per beneficenza.” gli spiega, portandolo fino alla
panchina e sedendoglisi accanto, prima di accendere la pipa.
Eirik lo osserva, perché quello
sembra in tutto e per tutto un rituale a cui non ha mai assistito.
Segue le sue mani che posano il tabacco, la giusta quantità,
con un movimento particolare, per poi cercare un fiammifero ed
accenderlo. A quel punto l'olandese deve sentirsi osservato, perché
si volta con un'espressione un po' sorpresa.
“Non ti piace la folla, eh? Ci
avrei scommesso.”
Sembra davvero così solitario?
Oppure addirittura sembra il tipo di persona che desidera soltanto
isolarsi? Lo guarda fumare, in silenzio, pensando ancora a cosa
rispondergli. Perché ci avrebbe scommesso?
“Non ti piacciono i turisti.”
aggiunge l'olandese, tirando lungamente e guardando la facciata della
casa di fronte a loro. L'altro si gira ad osservare due passerotti
che saltellano sull'erba, fermo a pensare.
“Non mi piacciono i turisti
irrispettosi, ecco tutto. E mi piacciono i luoghi tranquilli come
questo.” riesce finalmente a rispondere, intrecciando le dita
ed appoggiandosi con i gomiti alle gambe. “I tuoi turisti sono
rumorosi e non guardano dove vanno, ma quella strada mi piaceva.”
A fatica, una parola alla volta, forse
comincia a riuscire a spiegarsi. Non è mai stato molto
semplice, per lui, ha sempre avuto la tendenza ad aggrapparsi alle
sottane letterali del fratello.
“Uhm... hai rovinato il mio bel
programma.” risponde Jan, facendolo trasalire. Quel tono di
voce non gli piace per niente, sembra minaccioso!
“Mi spiace.” si affretta a
ribattere, imbarazzato ed un po' a disagio, raddrizzando la schiena e
guardandolo. Di sicuro non si aspetta quel sorriso furbo che vede
sulle sue labbra.
“Ehy, sono così
inquietante?” chiede, ridacchiando e muovendo tra le dita la
pipa spenta. Ha già finito? Non ha la più pallida idea
di come funzioni una pipa, a dire il vero... si possono spegnere e
riaccendere?
“Ah! No! Non lo sei!”
mente, imbarazzato, gesticolando con le mani davanti al volto. “Ma
sei la mia guida e sei gentile e...!” si blocca, abbassando lo
sguardo alle dita che sta tormentando e sentendosi un po' stupido.
“Non volevo...”
Il suo interlocutore resta in silenzio,
ad osservarlo, poi sorride. Un sorriso diverso da quello di prima,
luminoso. Un sorriso che lo rilassa senza che sappia come diavolo
faccia.
“Non avevo voglia di andare nel
caos, oggi, quindi è come se tu mi avessi letto nel pensiero.
E ora che abbiamo appurato che non ti va' di stare qui, direi che
possiamo andare dove avrei voluto stamattina. Abbiamo ancora
moltissimo tempo prima di stasera.” annuncia, alzandosi e
facendo sparire la pipa nella giacca.
Stasera? Lo guarda, con la testa
leggermente voltata di lato, senza capire. Solitamente di sera torna
in albergo, no? Che vuole fare?
“Cosa c'è stasera?”
cede finalmente alla curiosità, seguendolo verso la folla.
“Questa è una sorpresa.”
Seppur conoscendolo da pochi giorni,
l'idea che si è fatto di Jan è abbastanza chiara. Con
quell'atteggiamento da teppista, gli sembra uno di quei ragazzi degli
anni ottanta, con quei capelli assurdi e l'aria strafottente, con la
pipa sempre in bocca.
E poi, Islanda lo sa, l'Olandese è
ricco. Quindi è esattamente come quei finti ribelli anni
ottanta in sella ad una motocicletta.
Per questo, quando gli dice che
dovranno prendere la macchina, Ice si immagina subito una sportiva
anni sessanta, tirata a lucido, una di quelle macchine che sembrano
fatte apposta per rimorchiare.
Quindi è possibile immaginare
quale sia la sua reazione nel ritrovarsi di fronte ad una macchinina
squadrata nella quale teme dovrà fare un buco nel tettuccio
per entrare. Rossa, per carità, quindi almeno in qualcosa
somiglia a quella delle sue aspettative... ma è pur sempre una
scatoletta.
“Non è come l'immaginavo.”
commenta, osservando l'olandese incastrarsi dentro l'auto. Ecco cosa
sembra, la macchinina dei Lego!
“Vero? È bellissima! La
mia bambina!” esclama Jan, entusiasta, mentre Eirik si infila a
fatica attraverso la portiera, sussultando quando si rende conto che
il sedile è veramente basso.
“Adorabile.” ribadisce, con
una smorfia.
L'olandese sembra non capire il
sarcasmo o, forse, è troppo preso dall'auto per rendersene
conto. Poco male, ricorda le discussioni sulle auto scoppiate con
Dan, quindi è molto più sano evitare.
“È molto lontano?”
chiede, genuinamente incuriosito.
Il paesaggio è diventato subito
diverso, una volta usciti da Amsterdam. Le case diventano tipiche,
anche se le vede da lontano, visto che prendono l'autostrada.
“Non molto, ci vuole un'ora e
mezza per andare fino a lì, ma ne vale decisamente la pena.”
risponde l'olandese, guardando la strada, per poi sorprenderlo quando
indica qualcosa dalla propria parte, fuori dal finestrino.
“Di là c'è il
Markermeer, è un lago artificiale, non il vero mare. Ha preso
il nome da una penisola, Marken... è molto tipica, per lo più
ci sono pescatori...” gli spiega, prima di chiudere il
finestrino, visto che non fa caldissimo.
L'auto fa un rumore infernale, come se
dovesse abbandonarli da un momento all'altro. Sgrana gli occhi,
aggrappandosi al sedile. Del mare nessuna traccia... tanto che
comincia a pensare che Jan lo stia prendendo in giro.
“Come mai sei qui?” domanda
Jan, dopo qualche minuto di silenzio.
L'altro lo osserva, non capendo proprio
benissimo. Non ha deciso lui di portarlo in un posto misterioso,
senza dirgli nulla?
“Voglio dire... Dan mi ha detto
che avevi bisogno di...” aggiunge, forse nel tentativo di far
conversazione, più che voler sapere i fatti suoi.
Scuote la testa, nonostante questo,
sospirando. Non sono cose di cui gli va' di parlare. Proprio perché
ormai non lo fanno soffrire come prima, vuole evitare di pensarci.
Sta bene, così, guarda fuori dal finestrino e se lo ripete,
mentre il paesaggio scorre.
Qualcosa gli dice che tutto non vada
troppo bene, invece.
Un'ora e mezza di macchina dopo, quello
che lo aspetta non ha nulla di particolare o culturale e questo lo
sorprende abbastanza.
Qualcosa di diverso, ha detto, però...
quella sembra una struttura moderna e sono a qualche chilometro da
Amsterdam. Che cosa sarà?
“Ti piacerà, sono sicuro.”
mormora l'olandese, guidandolo verso l'entrata. Islanda sta con le
mani intrecciate, a tormentarsele, come ogni volta che si ritrova in
un posto nuovo.
Lo segue, sentendo la temperatura
abbassarsi a mano a mano che si addentrano nel corridoio. Prende nota
dell'olandese che paga, chiedendosi perché non gli dica nulla,
visto che vuole pagare anche lui e solo quando vede lo stand dei
pattini a noleggio si illumina.
Quella -dev'essere gigantesca, viste le
dimensioni all'esterno- è una pista di pattinaggio.
Come gli sia venuto in mente di
portarlo lì, quando per pattinare potrebbe benissimo andare
sotto casa, è un mistero, ma lo trova un bel gesto, in fondo.
“Non è proprio una meta
turistica...” sussurra, ma è già felicemente
diretto verso il noleggio pattini, come se si trovasse di nuovo nel
proprio habitat naturale. Sente lo sguardo di Jan seguirlo, ma non ne
è imbarazzato per nulla, tutta la propria attenzione è
rivolta al ghiaccio ed alle espressioni delle persone intorno.
Se deve essere sincero, non pattina da
quasi un anno, quindi si immagina fare cadute tremende, così
poco allenato com'è. Ma non importa. Andare a divertirsi sul
ghiaccio fa parte di tutte quelle cose che faceva con lei e non
avrebbe mai ripreso a fare, se non messo di fronte alla cosa in
questione.
“In realtà è
un'arena molto importante, parecchi grandi artisti ci hanno cantato e
si fanno qui le selezioni nazionali di Miss Universo.” lo
informa l'olandese, facendogli fare un sorriso di traverso.
“Oh, capisco, Miss Universo...”
ripete, con un tono insinuante, ma con quel sorriso furbo sulle
labbra. Come biasimarlo? Sono uomini entrambi, no?
Ned non risponde ed Islanda si ferma a
guardare un volantino appoggiato accanto alla cassa, sgranando
leggermente gli occhi.
Thialf. Quel luogo si chiama Thialf.
Il sorriso si allarga e ripiega il
volantino per infilarselo in tasca, con l'intenzione di fargli
raggiungere i suoi compagni stipati in valigia. Ha quell'abitudine da
moltissimo tempo, ormai, probabilmente dalla prima volta in cui Dan
l'ha portato in Francia per una riunione, facendolo assistere per poi
premiare la sua pazienza con un giro nei musei. Gli piace
collezionare cose. Ricordi. Con le foto è molto più
cauto, ma i souvenir occupano spesso gran parte della sua valigia.
Indica il numero di entrate con le
dita, cercando di capire cosa dica la ragazza della cassa -e cosa,
soprattutto, abbia da ridacchiare-, ma riuscendo a pagare e capire il
minimo indispensabile. Certo, olandese ed islandese hanno una radice
comune, ma è comunque abbastanza complicato esprimersi.
“Sei praticamente olandese.”
commenta, ammirato, Ned, mentre si dirigono verso i pattini.
Lui lo fissa, perplesso, poi torna
all'argomento precedente, senza commentare questo. Era un
complimento?
“Thialf. Vorrei sapere cos'è
saltato in testa a chi ha dato il nome a questo posto...”
ribatte semplicemente, scuotendo la testa, ma decisamente di buon
umore. Può sentirsi più a casa di così?
“Uhm, se non sbaglio è il
nome di una divinità della corsa?”
Scuote ancora la testa e restando a
guardarlo mentre litiga con i pattini. A tratti gli ricorda Dan,
anche se è molto meno scemo.
“Þjálfi è uno
dei servitori di Þórr. E sì, effettivamente
nell'Edda deve correre. Útgarða-Loki gli fa sfidare il
pensiero stesso. Ovviamente perde la corsa, ma solo per pochissimo.”
riassume, con l'espressione di ammirazione che assume ogni volta che
gli capita di parlare del proprio poema nazionale, il proprio
orgoglio.
L'olandese lo fissa dall'alto,
leggermente perplesso, essendo riuscito a trovare un certo equilibrio
sui pattini e lo segue, chiedendosi se non abbia per caso esagerato.
Quando parla dell'Edda tende a farsi trasportare dall'entusiasmo.
“Credevo che l'islandese fosse
più violento, visti tutti quei segni e i nomi dei vulcani.”
commenta infine Jan, facendolo ridacchiare.
“Tutti lo credono.”
“Invece è bello.”
Arrossisce per il complimento
inaspettato -nemmeno parlasse di lui!- e si lancia sulla pista per
non farsi vedere, salvo sentire un tonfo alle proprie spalle e
ritrovarsi a fissare l'olandese a gambe all'aria.
“Tutto ok?” chiede,
vedendolo abbastanza dolorante e tendendogli una mano per farlo
rialzare. Salvo poi assistere a cinque minuti buoni di cadute nella
medesima posizione prima di riuscire finalmente a rimettersi in
piedi.
Islanda cerca, cerca davvero, di non
ridere, ma l'espressione dell'altro è troppo buffa,
imbronciata e stizzita com'è.
“Non ridere.” borbotta lui,
appoggiandosi alla ringhiera a bordo pista e strisciando i piedi con
le gambe rigide, fissandole con una faccia perplessa.
“Non sai pattinare?”
domanda Eirik, stupito, guardando quel movimento tanto buffo. Stupito
perché è stato lui a portarlo lì e di certo non
si aspettava che non sapesse stare in piedi sul ghiaccio.
“Credevo fosse meno difficile.”
biascica Olanda, distogliendo lo sguardo verso gli altri pattinatori,
imbarazzato. Che un adulto grande e grosso come lui possa
imbarazzarsi in quel modo gli sembra impossibile, ma tant'è.
Ridacchia a sue spese, porgendogli la
mano e pattinando all'indietro, trascinandolo e facendolo scivolare
lentamente. Con la sua postura rigida sembra un grosso orso sulla
banchisa.
Gli stringe la mano come se quella
potesse veramente impedirgli di cadere. Ma da un dirupo, non sul
ghiaccio.
Lo trova quasi tenero.
“Rilassati, piega le gambe e fai
come se camminassi.” gli consiglia, prendendogli anche l'altra
mano per non sbilanciarlo troppo da un solo lato. Ci manca solo che
cadano entrambi. In quel caso sembrerebbero orsi ubriachi, altro che!
“Non credo di poter veramente
fare tutte quelle cose insieme.” borbotta Ned, quasi
imbronciato.
Lo fa ridere un'altra volta, perché
il suo imbarazzo, legato alla sua apparenza burbera da teppista, lo
diverte decisamente troppo e finiscono per battibeccare come bambini
per un'ipotetica offesa alla virilità olandese.
Ci vuole circa un'ora per far capire
all'uomo il concetto di 'sollevare i piedi per non sembrare un
vecchio orso polare pigro' e alla fine riesce a mettere in fila
qualche passo, tra i continui tonfi, rendendolo felice come un
bambino, mentre scivola sul ghiaccio, goffamente, accanto ad un
islandese fiero di sé.
“A cosa pensi?”
La domanda di Jan lo fa sobbalzare,
tanto è preso dal corso dei ricordi. Fissa prima lui e poi la
tazza di cioccolata ormai tiepida, la panna quasi intoccata
tristemente afflosciata su se stessa.
Si affretta a darle il colpo di grazia,
mangiandola in due rapide cucchiaiate, sorseggiando poi la bevanda.
“Pensavo...” mormora,
quando posa la tazza. A cosa, di preciso? Ha cominciato a ricordare
l'ultima -ed unica- volta in cui ha insegnato a qualcuno a pattinare,
per poi perdersi in dettagli insignificanti, come la lunghezza ed il
colore dei capelli di lei ed il modo in cui essi avevano l'abitudine
di arruffarsi e soffocarlo durante la notte, quando dormivano
insieme.
Ricordi insignificanti, quelli, che gli
lasciano un retrogusto amaro, ma non il solito soffocato dolore.
Essere lontano dai luoghi che hanno generato quelle immagini è
davvero un bene, allora.
“L'unica persona a cui abbia mai
insegnato a pattinare era la mia ragazza. Quindi è un po'
strano ripensarci, dopo tutto questo tempo.” mormora, giocando
con il cucchiaino. “È passato un bel po' da quando mi
ha lasciato, ma ogni tanto qualcosa me la fa ricordare.”
Solleva leggermente lo sguardo verso
l'olandese, quasi vergognandosi per quella confidenza, ma è
sollevato quando non vede né scherno né pietà.
“È normale. Cioè,
io... Non mi è mai successo, ecco, però a volte mi
capita di sentire la mancanza di qualcuno, semplicemente guardando
qualcosa o tornando in un posto. Mi viene subito voglia di chiamare e
dire di raggiungermi.” ribatte quello, annuendo.
Non è proprio la stessa cosa, ma
apprezza l'appoggio morale, nonostante lo veda un po' abbattuto.
Soffre forse di solitudine?
“Quando trascorri cento anni con
una persona finisci per riempirti di ricordi, per qualunque cosa,
anche minima.” aggiunge Eirik, mordicchiando il cucchiaino.
“Per qualche motivo non ti vedo
impegnarti per tutto quel tempo.” ammette l'altro, irritandolo
un po'. Deve accorgersene, perché si affretta a precisare:
“Sembri troppo giovane.”
E la cosa gli fa scattare il
sopracciglio.
"Guarda che ho il doppio dei tuoi
anni."
Jan sembra stupito e boccheggia un
momento, prima di assumere nuovamente la solita espressione da
teppista.
“Ma sembri più giovane,
quindi è legittimo pensarlo.” borbotta, nervoso.
“Ah! Non te l'aspettavi, eh?!”
chiede l'islandese, sembrando un ragazzino esaltato e provando così
l'affermazione di Ned, che lo fissa da sopra il proprio bicchiere
vuoto di birra, indecifrabile. “Lo ammetto. Ma è molto
interessante.”
Per qualche motivo, il suo sorriso gli
provoca un brivido.
Ma non è affatto una brutta
sensazione.
Quattro tazze di caffè dopo, che
corrisponde all'incirca ad un'ora e mezza di tempo umano, la
discussione si è spostata sulla musica. Ovviamente non
concordano. Trascorrono il tempo a non concordare e questo su
qualsiasi cosa.
Eirik ama la musica classica. Non si
direbbe, vista l'aria scombinata che ha assunto a causa del caffè,
si direbbe più un tipo da jazz, a questo punto, esattamente
come Jan. Il fiocco dell'islandese, con cui Eirik ha giocato
quarantacinque minuti buoni, rischiando di fermarsi la circolazione
nelle mani, è ora legato intorno al polso dell'altro, dopo che
gli è stato da lui confiscato dopo uno strano sguardo alle
mani incastrate.
Ora esibisce un bel fiocco al polso,
che Islanda stesso ha fatto, sostenendo che, se proprio voleva quel
nastro, allora doveva anche legarlo, altrimenti non ci sarebbe stato
gusto.
“Sei un tipo poco
raccomandabile.” commenta, la voce resa leggermente altalenante
nel tono a causa dell'agitazione da caffeina. “Il jazz è
adatto, è il genere che ascolta l'uomo a cui non presenteresti
mai tua figlia.” cita, non ricordandosi da dove, rimaneggiando
il tutto.
L'olandese sembra offeso, smettendo di
giocare con il fiocco. “Non mi presenteresti a tua figlia? Mi
sento una guida incompresa e sottopagata.”
Per un attimo si chiede se, per caso,
Dan non lo paghi per davvero per seguirlo ed assicurarsi che si
diverta, poi scuote la testa, trovandolo assurdo.
“Le mie figlie ti mangerebbero
vivo, temo.” commenta, con un'alzata di spalle.
“Chi è che è poco
raccomandabile?” ribatte Jan, leggermente inquieto.
“Ma è nella loro natura,
sono vulcani. Tu invece hai quell'aria da teppista, con i capelli
stupidi e quelle sopracciglia che... Che disgrazia farti sposare...”
sospira, con aria disperata. Come se dovesse veramente trovargli
moglie.
“Vuol dire che tu non mi
sposeresti?” chiede l'olandese, apparentemente offeso. Le sue
reazioni, nonostante, sì, effettivamente tentare di ragionare
sotto caffeina non è l'idea più brillante del mondo, lo
confondono parecchio, ma è abbastanza poco lucido da seguitare
nella discussione.
“Jan, non so come dirtelo, ma non
hai abbastanza seno.” vaneggia quello, intossicato dal caffè,
con aria mortalmente seria.
Ned scoppia a ridere. Sembra si sia
trattenuto fino a quel momento.
“Eirik, Eirik, devi bere caffè
più spesso, sei divertente!” esclama, prima di
controllare l'ora. “Riesci ad alzarti? Se non partiamo ora non
saremo mai ad Amsterdam in orario...”
La sorpresa! Lo segue il più
rapidamente possibile verso il parcheggio, divertendolo,
probabilmente. Dice ancora qualcosa a proposito del caffè, ma,
nell'esatto momento in cui si siede in quella macchina per nani, si
addormenta.
Sì, il caffè ha uno
strano effetto sul suo organismo, decisamente.
“Ehy, non vorrai mica farti
prendere in braccio...”
Apre gli occhi, sentendo male ovunque,
chiedendosi dove sia, cosa ci faccia in quelle scatola da scarpe -ah,
no, è un'auto, ha anche i finestrini- e perché sia
finito proprio lì, prima di ricordarsi che si è
addormentato di colpo e vergognarsi come un cane.
“Ah! No!” scatta e fa per
alzarsi, ma prende un colpo in testa, rannicchiandosi immediatamente
per soffrire in silenzio. Sente una mano estranea farsi largo tra i
capelli e stupidamente si sente meglio. Deve aver battuto la testa
molto forte.
Si volta dolorosamente verso di lui e
mormora: “La sorpresa?”
All'olandese sfugge una risatina,
probabilmente perché ha un'espressione talmente assonnata da
risultare buffo. Si imbroncia leggermente, ma aspetta una risposta e
l'altro se ne accorge.
“Non sei stanco?”
Scuote la testa, anche se si farebbe
volentieri portare in braccio fino al letto. E magari farsi sistemare
anche le coperte addosso. Quello sarebbe indubbiamente comodo.
“Uhm... Facciamo così.
Cena e verso le sette e mezza mi dici...” inizia Ned, subito
interrotto.
“Sto bene, non sono stanco... Ci
vediamo per quell'ora.” mormora Islanda, scendendo dall'auto.
Sta chiudendo la portiera, quando l'olandese gli blocca un polso,
facendolo sussultare.
“Hai degli abiti eleganti?”
chiede, sorprendendolo. Non lo vorrà per caso portare a corte,
no? Annuisce ed è immediatamente liberato, prima di restare a
guardare, come inebetito, l'auto che se ne va'.
Sbaglia a pensare di averlo visto
arrossire?
E perché, poi, fa tanto caldo?
Gli abiti eleganti gli piacciono. In
famiglia hanno tutti un certo amore per le camicie e pensa di aver
ereditato quel bisogno di apparire al meglio in ogni situazione un
po' da tutti. Non è proprio narcisismo, perché ormai si
tratta di movimenti automatici, quelli con cui sceglie le camicie
migliori ed i vestiti più adatti alla circostanza, lo fa
veramente... per far capire alle persone che ci si mette d'impegno,
per incontrarle.
Questo ragionamento è davvero
poco chiaro, ma ogni volta che ci riflette, all'incirca la
conclusione è sempre la stessa.
Si guarda allo specchio, imbarazzato,
cercando ancora di capire che occasione sia, quella e se sia il caso
o meno di abbottonarsi fino in cima e mettersi un papillon. Fosse una
riunione, un ricevimento... forse sarebbe meno agitato.
Jan non ha parlato di altre persone,
vero? Sono soli?
Lancia un'occhiata all'orologio e
decide che è tempo di uscire, visto che mancano solo una
decina di minuti all'appunta... mento. Oh Thor. No, ma intendeva...
un luogo ed un'ora prefissati, come dal medico, non di certo un
appuntamento tra...
Si affretta verso la Museumsplein,
sentendosi il viso rossissimo e cercando di calmarsi.
Aiuta poco la chiamata in entrata da
parte di Dan. Maledice il cosmo intero e risponde, cercando di non
balbettare.
“Ci chiedevamo come avessi
trascorso la giornata!” esclama, tutto contento.
Quell'entusiasmo gli dice a cosa si riferisca quel 'noi' ancor prima
di porsi consciamente la domanda.
“Saluta Nor.” ribatte,
sentendo nascere un sorriso sulle labbra. Sarà anche strano,
ma non può che essere contento quando sa che sono insieme.
“Ti saluta anche lui. Con la
mano.” ribatte il danese, ironico, prima di lasciarsi andare a
svariati versi di dolore che fanno da sottofondo alla vendetta
norvegese. “Ahi! Ahi! Nor, sono al telefono con Eirik,
insomma!” protesta, ridacchiando ed il ragazzo riesce ad
immaginarsi perfettamente il fratello che si calma ed appoggia il
mento sul braccio di Dan, guardandolo dal basso.
A volte quei due lo preoccupano.
“Sono andato a pattinare... è
stato bello, ma ho dovuto insegnare a Jan...” racconta,
sforzandosi di sembrare scocciato ed accelerando il passo quando vede
che ore sono.
“È stato difficile?”
chiede l'altro, ridacchiando. Probabilmente ha un'idea abbastanza
precisa di quanto sia goffo l'olandese.
“Non hai idea.” risponde,
divertito, immettendosi nella folla serale del Museumsplein. I musei
chiudono e sembra che abbiano ospitato più persone di quelle
che effettivamente potrebbero.
“Ah! Non sei in albergo?”
“No, ho un appuntamento sulla...”
inizia, senza possibilità di replicare, perché dal
ricevitore proviene un discreto urlo, mescolato ad un borbottio basso
in cui riconosce un 'bravo Eirik, bravo' che un po' lo inquieta.
Possibile che nessuno capisca il senso
della parola appuntamento?
“Ti lasciamo al tuo appuntamento,
allora, noi riprendiamo il nostro.”
“Nei tuoi sogni.”
“Sei cattivo, Nowu.”
E con questo, la telefonata termina,
probabilmente interrotta da uno dei due che ha schiacciato il tasto
sbagliato... e non vuole sapere il resto.
Resta con il telefono in mano, basito,
per qualche secondo, prima di sentirsi picchiettare sulla spalla e
voltarsi, per ritrovarsi di fronte l'olandese, con un bel sorriso sul
volto, vestito di tutto punto.
Resta a guardarlo per un po', mentre la
testa gli dice che, sì, obiettivamente è un bell'uomo,
soprattutto con i capelli che gli ricadono sugli occhi, ma che i
crampi alla pancia non sono una reazione tanto normale. Ribatte
sottolineando come sia tutta colpa sua, salvo poi rendersi conto del
monologo mentale e vergognarsene molto.
“Sei... diverso.” commenta,
indicandolo.
Lo vede sussultare e poi distogliere lo
sguardo. “Ero in ritardo e non ho sistemato i capelli.”
Si nota, ha un ciuffo perfettamente
dritto in testa. Si alza sulle punte per sistemarlo e si riabbassa
con estrema lentezza, come un ladro colto sul fatto, quando si
accorge del gesto.
Non era quello che intendeva, comunque.
“Mhm... questa sorpresa?”
chiede, scrollando la testa e guardando altrove. La folla li sta
guardando? Che imbarazzo...
“Di qua.” risponde
semplicemente, porgendogli il braccio ed aspettando che si appenda...
no, ma è serio? Non è mica la sua dama... Resta due
buoni minuti a fissare quel braccio e, vedendo che l'altro non sembra
desistere, si arrende ed afferra il suo polsino tra indice e pollice,
sperando che non chieda nulla di imbarazzante.
Le sorprese lo mettono a disagio. Non
sa perché, ma sapere che qualcuno prepara qualcosa di
nascosto, aspettandosi una reazione positiva, lo manda in crisi. Deve
sembrare felice per forza? E se la sua espressione deludesse l'altro?
No, non gli piacciono le sorprese...
Ma quando arrivano di fronte al palazzo
e legge i manifesti appesi fuori si dice che, in fondo, non sono così
male.
“Ti piace Schubert?” chiede
l'olandese, un po' nervoso.
Gli risponde con un sorriso ed
annuisce, prendendolo per il polso e trascinandolo dentro alla sala
da concerto, al settimo cielo.
Il finale perfetto per quella
giornata... come avrebbe potuto immaginarlo?
Angolino
dell'autrice
Qui
potete trovare foto e spiegazioni per il capitolo.
Mi scuso
moltissimo per il mancato aggiornamento, ma ho esami/vita/condizioni
psicofisiche che mi rallentano parecchio nella rilettura... spero che
il capitolo vi sia piaciuto, comunque <3 Da qui in poi saranno
piuttosto lunghetti, spero non vi dispiaccia, ma devono succedere
molte cose in pochissimo tempo!
Fatemi
sapere cosa ne pensate tramite una recensione o un breve commento
sulla
mia
pagina di Facebook,
grazie per la lettura!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Donderdag // Giovedì ***
Si
sveglia contento, nonostante la stanchezza accumulata il giorno prima
renda il risveglio un po' traumatico.
Si
dice che non gli importa, perché il giorno prima è
stato particolarmente divertente. Ed ha amato il modo in cui è
terminato. La sala da concerti era meravigliosa e l'acustica
praticamente perfetta. Ha fantasticato sulle probabilità di
suonarci, per poi concentrarsi soltanto sulla musica.
Cosa
più che positiva, Jan non sembra detestare la musica classica,
al contrario di ciò che pensava... è uscito anche lui
dal teatro con il sorriso sulle labbra.
E,
nonostante la stanchezza, hanno passato un po' di tempo seduti sul
muretto che delimita il laghetto della Museumplein, a parlare,
semplicemente.
Sta
diventando sempre più facile comunicare, anche se sembrano
tanto diversi... non può che esserne contento.
Si
sveglia di buon umore, quindi, pensando a cosa potrebbe dirgli in
seguito, parlando di sé, di quello che gli piace, di quello
che pensa. Quando si accorge di non pensare affatto a cosa vedranno,
concentrandosi invece sull'olandese, arrossisce e si da' dell'idiota.
In
fondo, è lì solo per fare il turista, no?
L'incontro
è decisamente imbarazzante. Se potesse si metterebbe a gridare
non appena l'olandese gli mostra il fiocco che sembra appena stirato,
facendogli ricordare che gliel'ha lasciato intorno al polso quando
sono tornati dalla pista di pattinaggio.
L'apoteosi
dell'imbarazzo, quando desidera soltanto fuggire, però, è
quando l'olandese gli tira su il colletto della camicia e si impegna
a fargli un fiocco, con una destrezza che non si sarebbe aspettato,
ma comunque protraendo il contatto troppo per non andare nel panico.
Per
fortuna non abbastanza da esprimere direttamente quel panico con un
grido soffocato, in pieno stile piccola aquila appena nata. In poco
tempo Jan torna a distanza di sicurezza ed il ragazzo si calma.
"Oggi
andremo in uno dei miei posti preferiti."
Sta
per dirgli che ha detto questo praticamente di tutto -pista di
pattinaggio a parte-, ma il suo entusiasmo sembra genuino e lui non
può fare a meno di sorridere e seguirlo, contando i suoi
sbadigli. Ah, sembra che non abbia una buona resistenza!
“Stanco?”
chiede, seguendolo attraverso la folla. “Avremmo dovuto
rimandare a questo pomeriggio, forse.”
L'olandese
scuote la testa. “Oggi pomeriggio non sarebbe stato possibile,
devo lavorare.”
Rallenta,
depresso, chiedendosi se, per caso, le scene con il caffè del
pomeriggio prima non l'abbiano spaventato. Rallenta così tanto
da restare un po' indietro, così che Jan si volta con
espressione confusa. Lo raggiunge in fretta, cercando di far finta di
niente.
“Credevo
saresti stato contento che mi togliessi dai piedi per mezza giornata,
puoi girare liberamente la città...” commenta,
meritandosi uno strano sguardo dell'islandese, tra il ferito e
deluso. La sua espressione diventa ancora più confusa.
A
dire il vero, lui stesso non capisce cosa gli sia preso, non è
offeso perché la guida lo abbandonerà per un
pomeriggio, non pensa che sia una città pericolosa ed
esplorarla da solo è qualcosa che non gli dispiacerebbe.
Però... però lo stesso un po' del suo entusiasmo -che
già è minimo, all'apparenza- si spegne, senza un
motivo.
O
forse solo perché l'olandese è una persona
interessante, che gli piacerebbe conoscere meglio.
Cerca
di fare finta di nulla, seguendolo fino alla fermata del tram, ma
entrambi sono molto silenziosi. Ad Islanda sembra che quei dieci
minuti siano eterni, ma si distrae guardando dal finestrino. I treni
e i loro simili hanno sempre avuto un certo fascino, per lui.
Ricorda
perfettamente la prima volta che è salito su un treno.
Era
un ragazzino minuto, accanto ad un imponente Danimarca, sottomesso,
ma fiero della propria cultura, abbastanza da sopravvivere nonostante
gli inverni rigidi e la fuga del proprio popolo verso luoghi più
ospitali.
Immaturo,
nonostante l'età, il desiderio di indipendenza lo portava ad
essere assolutamente contrario a qualunque cosa proponesse o facesse
la Nazione che lo governava, come un adolescente. Solo dopo anni
-quasi un secolo, a dire il vero- ha capito che Eirik e Islanda sono
due parti separate della sua esistenza. Convivono, hanno bisogno
l'una dell'altra, ma non approvare Danimarca non significa dover
rifiutare per forza Matt.
Ma
all'epoca non aveva voglia di ascoltare, era orgoglioso anche per
ringraziare dei gesti della persona Matt, che cercava in tutti i modi
di riparare il loro rapporto, seppure con un equilibrio mentale
appeso ad un filo. Per questo aveva trattenuto l'emozione di quel
viaggio fino a Parigi, si era sforzato di apparire annoiato davanti
ad una città davvero bella. Ama viaggiare proprio per
quell'episodio. Non è pronto a confessarlo al danese, per il
momento lo ammette solo a se stesso e, conoscendosi, quello è
già un traguardo.
A
distoglierlo da quei pensieri ci pensa la mano di Jan, posata sulla
spalla, che lo richiama fuori dal mondo malinconico dei motori a
vapore, riportandolo ad Amsterdam ed avvertendolo che sono arrivati.
Lo segue ancora in silenzio, a breve distanza. è molto presto,
eppure le persone si fanno via a via più numerose.
Pare
che non sia il posto preferito soltanto di Jan.
Non
impiega molto a capire di cosa si tratti, perché è
immediatamente investito da un profumo meraviglioso. Fiori. Ovunque,
di ogni colore e forma, tutto intorno a loro. Sì, deve
ammetterlo, è un luogo piacevole.
Un
mercato dei fiori.
Lancia
un'occhiata divertita al proprio accompagnatore, con un sopracciglio
comicamente sollevato. Questo è il suo posto preferito?
Davvero? Pare che l'olandese nasconda -sotto l'atteggiamento da
teppista svogliato- una parte tenera.
“Tu.
E i fiori.” commenta, causando confusione nell'altro. “Scusami
se non lo trovo un hobby da te. Virile.” aggiunge,
sghignazzando ed avvicinandosi ad un banco pieno di semi e bulbi.
Non
è il tipo da fiori. A dire il vero, tra un'educazione
'vichinga' ed il clima rigido, ha sempre pensato che coltivare fiori
fosse roba da donne. O anche coltivare in generale. Immagina
l'olandese con un fazzoletto in testa, chino sui fiori e gli viene da
ridere.
Si
trattiene soltanto perché non ne ha l'abitudine. E vuole anche
evitare di rimanere a piedi, abbandonato nel mercato da uno Jan
incazzato.
“Virile?
E cosa c'entra? A me piace.” ribatte con sicurezza lui, che lo
segue, senza perderlo un momento di vista. Sembra sia abituato a quel
tipo di obiezione, ma, anche se lo capisce, in realtà ancora
si chiede come sia possibile.
Certo,
nessuno crede mai che i ricami della tovaglia che usa nelle occasioni
speciali siano opera di Svezia, ma lui è un caso a parte...
...e
no, con questo non intende dire che è normale che ami il
ricamo perché è gay. Anche Nor lo è, ma in
qualsiasi faccenda -fosse anche fare una lavatrice- il fratello
fallisce miseramente. E poi, non è il tipo di persona che
ragiona per stereotipi.
Tutto
quello che pensa vedendo lo svedese ricamare è che, un giorno,
finirà per dover indossare dei fondi di bottiglia per vederci,
ma ormai ha tanto l'abitudine ai suoi passatempi quasi femminili da
non pensare ad altro. Bé, c'è sempre quella domanda
insistente su come mani così grandi possano fare gesti così
precisi, ma per quella si accontenta di studiarlo per ore mentre fa
finta di leggere un libro.
Ha
un che di affascinante, un omone del genere che riesce a fare cose
così piccole e delicate.
Quindi
non è una questione di stereotipo... è genuinamente
sorpreso ed ha un senso dell'umorismo distorto. A maggior ragione
quando la persona che tenta di impressionare gli interessa e non
capisce come sia possibile.
"Non
ti piacciono i fiori?" chiede all'improvviso l'olandese,
facendolo sobbalzare, perso com'era tra i pensieri.
Si
ferma a pensarci seriamente per almeno dieci secondi e, per tutto
quel tempo, l'altro si accontenta di fissarlo con un bulbo in mano,
perplesso dal suo perdersi.
Non
è che non gli piacciano, ma... insomma, gli sono indifferenti?
Preferisce attività meno faticose del giardinaggio,
soprattutto se si tratta di fiori. Non ha mai pensato di far crescere
dei fiori nella piccola serra che ha a casa. A dire il vero... è
inutilizzata da tempo, perché di coltivare fragole ed altri
frutti se ne occupava Lei.
"Non
sono bravo ad occuparmi di esseri viventi." conclude, senza
particolare tono di voce, ma, più ci pensa e più quella
cosa lo deprime un poco. Fin da piccolo ha avuto grossi problemi a
rapportarsi con gli altri. Non ha aiutato il voler testardamente
seguire le orme di Nor, sembrare freddo ed irraggiungibile.
Certo,
poi in altre situazioni è molto più spontaneo, però...
ci vogliono anni per guadagnarsi la sua fiducia. Si considera un caso
disperato.
"Non
sono d'accordo." ribatte l'olandese, voltandosi per scegliere
altri bulbi e facendoli impacchettare. Eirik pensa che siano per lui,
per cui è sorpreso quando Jan si volta per porgergli il
sacchetto, lo guarda, sembra voler dire qualcosa e si volta
rapidamente verso l'anziana donna che si occupa della bancarella,
facendola ridacchiare.
Che
cosa si stanno dicendo? Cerca di allungarsi verso di loro, ma hanno
assunto un tono cospiratorio e non li capisce.
Non
dura molto, comunque, perché dopo pochissimo Olanda è
di nuovo rivolto a lui e gli appunta al maglioncino un tulipano.
Resta
a guardare la sua manovra, incrociando gli occhi sul fiore e cercando
poi aiuto nella signora, che ridacchia e sospira. Che cos...?!
“Jan?
Quale parte della mia frase non ti era chiara? Ucciderò tutti
questi bulbi, lo so.” protesta, indicando il sacchetto di
carta.
“Scommetto
che non succederà.” ribatte l'altro, divertito, prima di
portarlo nuovamente fuori dalla folla che via a via sta scemando.
“Il mercato dei fiori è una tappa obbligata.”
aggiunge, come a giustificarsi, sedendosi nuovamente alla fermata del
tram.
Decide
di lasciar stare, dicendosi che è un peccato che un bel regalo
debba morire per mano propria. Forse può provare ad
occuparsene. Forse può starsene a notte fonda a cercare su
internet come non uccidere dei tulipani.
L'espressione
soddisfatta dell'olandese è troppo simile a quella di Dan per
non valere un tentativo. E, più per ricordo di quello, è
perché ricorda cosa significa deludere quell'espressione che
ci pensa un po', seguendo meccanicamente Jan nel tram.
Sì,
può provarci. Anche se l'ultima volta che ha tentato di
salvare qualcosa con internet si è rivelata disastrosa. Ci
saranno sicuramente meno persone che gli suggeriranno di mangiarsi il
bulbo, almeno.
“Jan?”
lo chiama, rendendosi conto -ed assumendo un colorito vermiglio, per
questo- che non serve attirare la sua attenzione, perché l'ha
già completamente. Esita, poi sospira.
Come
se gli leggesse nel pensiero, l'altro gli si siede accanto,
approfittando del fatto che il tram è vuoto.
“Non
ti arrabbierai se moriranno?” chiede, tenendo tra le dita il
sacchetto e facendoci un buco, nervosamente.
L'olandese
lo guarda semplicemente, divertito e scuote la testa. Per qualche
motivo ha l'impressione che non stia mentendo. Forse l'importante era
soltanto fare il gesto. Che sopravvivano o meno... insomma...
La
mano che lo afferra per il braccio e lo trascina fuori dal tram,
facendolo camminare ancora per un po', fino a giungere in un parco.
Gli
cammina dietro, con occhi enormi, sorpreso che possa esserci un parco
di quelle dimensioni in mezzo ad una città. Attraversano un
ponte in legno come pensava esistessero solo nelle fiabe -ma forse
l'insieme di verde, acqua e ponte lo trae in inganno- e finalmente
Jan si ferma in un punto, non lontano da una serie di chioschi di
cibi e bevande tipiche, ma piuttosto nascosto dagli altri.
Ci
sono parecchie persone, nel parco, ma sono ben celati e sembrano
comunque non fare caso a loro.
Si
siede nell'erba accanto all'olandese, composto ed un po' a disagio
per il silenzio ed andando ancora di più in imbarazzo quando
alcune persone li fissano, per fortuna solo per poco tempo. Abbassa
la testa per guardare la busta e si mette a leggere le istruzioni per
approfittare della presenza di Jan per chiedere eventuali
delucidazioni.
I
tulipani sono fiori eleganti e dai colori brillanti. Sono i primi a
fiorire in primavera.
Belli
e romantici, i tulipani sono ideali per ogni occasione, ma, in
particolare, per quelle più romantiche. I tulipani di colore
rosso, ad esempio, sono quelli più significativi e significano
amore vero ed eterno.
Sbarra
gli occhi e gira rigidamente la testa verso l'olandese, che sembra
molto concentrato sul filo d'erba che ha tra le dita. Si volta di
nuovo verso il sacchetto, tentando di reprimere il pensiero che sta
ridendo di lui e, nel frattempo, gli causa qualche anomalia,
impedendogli di pensare lucidamente.
Non
è sicuramente un messaggio. si ripete, scuotendo la testa.
Piantare
i tulipani: hanno bisogno di molta luce e vanno piantati con la parte
allungata verso l'alto, in Ottobre.
"C-com'è
che ti piacciono i tulipani?" sbotta, talmente all'improvviso da
farlo sobbalzare, segno che probabilmente si stava addormentando. O
forse no. Da quando è diventato così agitato in sua
presenza?
L'olandese
alza lo sguardo, fissandolo come se avesse appena detto la cosa più
stupida del mondo. O, almeno, così si ritrova a pensare,
dandosi dello stupido.
"A
te non piacciono?" chiede invece con naturalezza. "Non
avrei dovuto comprare quei bulbi, ho capito. Posso portarli a casa
e..." comincia, interrotto immediatamente dalla sua voce che
pronuncia un no così fermo da sorprendere persino se
stesso.
Jan
gli fa un sorriso sincero e al povero Islanda sembra quasi che il
cuore smetta di battere. Il che sarebbe stupido. E pericoloso, ma
tant'è, gli sembra di non avere molto controllo del proprio
corpo e dei propri pensieri, da quando è in quella terra
sconosciuta.
“No.”
ripete, con più calma, stringendo il sacchetto. "Grazie."
borbotta, posandolo accanto a sé ed appoggiandosi ai palmi,
con la testa rivolta al cielo, per perdersi in quel blu limpido.
Peccato sprecare una giornata del genere.
Non
è il tipo da sole. Soffre terribilmente il caldo, ma, ogni
tanto, giornate come quelle, limpide e serene, in un posto così
bello e calmo, fanno un immenso piacere. Vorrebbe un libro, ma ha
solo la guida turistica in tasca e quell'esiguo manuale sulla cura ai
tulipani, da leggere.
“Dove
siamo?” chiede, ritrovando l'olandese ad occhi chiusi, sdraiato
sull'erba e facendo un piccolo sorriso. Poca resistenza, eh? Chissà
come arriverà al lavoro!
Si
sente in colpa a fargli fare tutta quella fatica. Sospira e lo spinge
con la mano per svegliarlo di nuovo.
“Vuoi
andare a casa? A che ora devi essere in ufficio?”
Jan
scuote la testa, rimettendosi seduto e reprimendo uno sbadiglio. Che
testa dura!
“Volevo
fare un giro del Vondelpark e prendere qualcosa da mangiare... Devo
essere lì per l'una.” spiega, un po' controvoglia, dopo
uno sguardo insistente dell'islandese, che sospira per l'ennesima
volta.
“Non
mi sembri in grado di farmi visitare il posto. Possiamo mangiare
qui.”
L'olandese
esita, giocherellando con un nuovo filo d'erba. "Sono una
pessima guida." commenta, lanciando il filo ed appoggiandosi al
tronco dell'albero dietro di sé. Sembra pensare a lungo ed
Islanda, che lo vede muoversi solo di sfuggita, essendo tornato a
guardare il cielo, pensa che si sia di nuovo addormentato.
“Conosco
un buon ristorante. Ti va' di andarci stasera?” propone, dal
nulla, facendolo voltare all'indietro quasi di colpo, stupito.
Prima
i fiori e poi... è una specie di appuntamento, quello?
Apre
la bocca per rispondere, rimettendosi seduto decentemente ed
arretrando fino all'albero. Possono condividerlo senza problemi e
senza essere troppo vicini e almeno può evitarsi un torcicollo
epico.
“Se
mi porti fuori stasera rischi di addormentarti nel piatto.”
commenta, leggermente divertito, notando come i suoi occhi fatichino
a stare aperti. Ma quanti anni ha, otto? Ha bisogno di dodici ore di
sonno come i gatti.
“Potrei
dirti qualsiasi cosa, Jan, stai attento.” lo rimprovera con un
sorriso, prima di sospirare e tirare fuori la guida, cercando il
Vondelpark nell'indice ed andando a leggere quello che dice. Niente
di esaltante. Un parco. Le persone vengono a leggere e fissare gli
altri in modo inquietante come la vecchietta che si è messa a
lavorare a maglia su una panchina proprio di fronte a dove sono
seduti ed ogni tanto ridacchia da sola.
Qualsiasi
cosa dica la guida, lo sa, sarebbe mille volte più
interessante se detta dall'uomo che sente a mano a mano appoggiarsi
alla sua spalla e lottare contro il sonno. Ormai nessun posto in
quella città è interessante senza quella guida
particolare.
Sospira
e si mette a cercare posti da visitare senza di lui, posti che magari
potrebbero annoiarlo o non sarebbero visitabili con l'olandese
accanto a metterlo a disagio. Oh, ma ora è perfettamente a
proprio agio, com'è possibile? Forse perché l'altro
dorme?
Mette
un segno al Ketelhuis e scorre ancora per cercare qualcosa da fare.
Forse dovrebbe prendere una bicicletta e perdersi volontariamente in
quel intreccio di vie? Uhm, Dan si lamenta sempre del suo modo di
girare in bicicletta e forse non è il caso. Sarebbe meglio
avere qualcuno a fermare la propria impulsività alla guida.
Ketelhuis
sia, allora. Anche se la guida parla di non specificati film
d'autore. Se li farà bastare, in mancanza di libri in una
lingua comprensibile.
L'olandese
accanto a sé si agita e crolla di lato, ormai addormentato -un
bambino!-, rischiando di cadere sull'erba. Sbuffa -ed è più
una risata soffocata, la propria-, attutendo la caduta, ma
bloccandosi quando l'altro si sistema sulle sue ginocchia, facendo un
sospiro soddisfatto.
“Bastardo.”
sibila, lanciando un'occhiata preoccupata alla vecchietta stalker e
lasciandosi sfuggire un gemito di disapprovazione davanti al suo
discreto e silenzioso applauso.
Il
mondo intero complotta per farlo imbarazzare.
Nonostante
questo, però, sorride quando infila le dita tra i capelli
dell'olandese, approfittando del suo sonno per accarezzarlo.
Il
peggio è che Jan non si stupisce neppure un po' della
posizione in cui si sveglia, uno sguardo di fuoco pronto a
disapprovare il suo lungo pisolino. Islanda ha avuto il tempo per
impararsi tutta la guida a memoria ed è ad un passo da
lanciargliela in testa di taglio, tanto per aggiungere un'altra
cicatrice alla fronte.
Le
due ore di sonno profondo da Biancaneve -ed Eirik nota con profonda
soddisfazione che quel nomignolo riesce ad imbarazzare un uomo di
oltre un metro ed ottanta- sono quasi perdonate dopo che l'olandese
gli fa fare il giro di tutti i chioschi, comprando per ognuno
qualcosa di tipico, ma, in particolare, cinque o sei tipi diversi di
aringa.
Dopo
quello, potrebbe perdonarlo, se non finisse con il guardare l'ora per
l'ennesima volta, decretando di essere in ritardo e doverlo lasciare
alla sua libertà provvisoria.
A
nulla valgono le proteste mentali del ragazzo. Nessuno le sente, in
ogni caso.
Passa
l'intero pomeriggio a non capire nulla di quello che succede sullo
schermo, convinto com'era che non fosse poi così traumatico il
passaggio da una lingua all'altra.
Bé,
si sbagliava. E le sei ore che lo separano da quell'appuntamento -non
si può definire in altro modo, soprattutto quando Jan gli
invia un messaggio che usa proprio quel termine- sembrano
interminabili.
Continua
a camminare di fronte al palazzo, nervoso, le mani in tasca e
qualcosa che gli pizzica orribilmente la schiena.
Si
porta la mano dietro, sbarrando gli occhi quando incontra l'etichetta
della camicia, staccandola e voltandosi di nuovo verso l'entrata.
Ritrovandosi, di fatto, a dieci centimetri dall'olandese.
Quasi
grida per la sorpresa, sventolando il cartoncino e cercando di
infilarlo in tasca, facendola invece cadere.
“Non
volevo spaventarti.” si scusa Jan, raccogliendolo e buttandolo
nella spazzatura, avvicinandoglisi per spezzare il pezzettino di
plastica con i denti.
Certa
di trattenere un brivido nel sentirlo respirare sulla nuca, ma è
già tanto non andare in iperventilazione. Per fortuna quella
vicinanza non dura troppo e può riprendere a respirare
normalmente dopo pochissimo.
“Cos'hai
fatto senza il vecchio tra i piedi?” chiede l'olandese,
guidandolo verso -spera- una fermata del tram. La camminata avanti ed
indietro l'ha ucciso. Forse anche emotivamente, troppo nervosismo in
così poco tempo.
“Sono
andato in un cineclub a guardarmi la programmazione della giornata.”
risponde, vergognandosi, improvvisamente, perché ha
l'impressione di essersi rovinato la giornata. Ma per lui non è
stato un pomeriggio libero da Jan... è stato un pomeriggio in
solitudine quando non ne aveva assolutamente bisogno.
“Avresti
dovuto dirmelo, ti avrei accompagnato un altro giorno ed avrei
tradotto.”
“Sì,
certo, sussurrandomi all'orecchio per tutte le cinque ore.”
ribatte, sarcastico. Gli basta una rapida occhiata all'olandese per
rendersi conto che è dannatamente serio. “...che tram
dobbiamo prendere?” chiede, senza sapere esattamente cosa stia
dicendo e controllando nelle tasche di avere il telefono.
Oh,
perfetto, l'ha dimenticato. E non ha avvertito. Come minimo Dan
chiamerà la NASA.
“Il
quarantotto... tutto bene?”
Annuisce,
odiandosi per aver dimenticato in quel modo qualcosa di così
vitale.
“Ho
lasciato il telefono in camera.”
“Ne
avrai bisogno?”
“Per
il taxi, forse...” azzarda, cercando di guardarlo negli occhi
il meno possibile.
“Ti
accompagno fino all'albergo, non preoccuparti.”
No,
Jan, non capisci, ora mi sto preoccupando.
Il
ristorante è... non sa che cosa pensare per prima. Sì,
forse che il ristorante è una nave. Oppure che il posto sembra
deserto, all'esterno, con solo il rumore dell'acqua. O ancora che è
una diavolo di nave che galleggia sull'acqua ed è un
ristorante.
È
il ristorante più figo che abbia mai visto. Gli importa poco
che non ne abbia visti poi tanti o cose del genere. Già da
subito, nonostante il viaggio silenzioso, lo adora ed è grato
a Jan per averlo portato in un posto del genere.
Figurarsi
quando scopre che sono in uno dei posti migliori, da cui possono
ammirare le luci della città da una parte e del porto
dall'altra.
Il
menu non è dei migliori e di sicuro non è tipicamente
olandese, ma è decisamente troppo impegnato a guardarsi
intorno per notarlo.
Jan
gli lascia il tempo di abituarsi a quella meraviglia, senza parlare,
ordinando solo per entrambi come hanno pattuito durante il viaggio ed
osservandolo per il resto del tempo.
Ci
mette un po' ad accorgersene, ma, stranamente, si sente abbastanza a
proprio agio da non nascondersi o rispondergli male. Lo guarda a
propria volta, cercando di ignorare la candela accesa tra loro -è
solo per far luce- e facendo un sorriso timido.
“Grazie.
È veramente un bel posto, Jan. ”
Olanda
annuisce e all'islandese sembra, all'improvviso, che sia lui quello
in imbarazzo.
“Uhm.
Oggi ho visto una locandina. Un posto che si chiama...” si
ferma a pensare, cercando di visualizzare l'entrata del cineclub.
“Sì, ecco, Bimhuis! Lo conosci? Pensavo che potremmo
andarci, fanno musica jazz e visto che ti piace... bé, voglio
ricambiare!” esclama, mentre il sorriso timido scompare.
Jan
ha un'espressione indecifrabile sul volto. Non sa se può
essere tradotta con rabbia o stupore o qualcosa di più
positivo, ma è abbastanza per farlo tacere.
Resta
in silenzio, inquieto. Ha detto qualcosa di sbagliato? L'ha offeso?
Non ha capito quello che gli piace o ha frainteso?
“Che
c'è?” sbotta, sembrando, involontariamente, stizzito.
L'olandese
sembra rendersi conto del silenzio calato su entrambi e si riscuote.
“Pensavo...
sei molto più complesso di quello che pensassi. Alle riunioni
sei sempre così composto ed imperscrutabile da sembrare un
clone di tuo fratello.” spiega, giocherellando con il
bicchiere.
Un
commento del genere dovrebbe, di norma, non piacergli molto. Con gli
sforzi che fa per somigliargli, quell'affermazione dovrebbe
irritarlo. Invece gli fa piacere.
“Siete
profondamente diversi.” aggiunge Jan, con un sorriso
compiaciuto. “Mi aspettavo una settimana di tortura, dalla
quale mi sarei dovuto riprendere con un mese di terapia.”
“Mio
fratello non è così pessimo. È solo
particolare.”
“Particolarmente
bravo ad uccidere l'autostima degli altri.”
“Ehy!
Non è affatto vero!” protesta, nonostante sappia che
l'olandese ha perfettamente ragione.
“Vuoi
dire che non si divertirebbe a demolire ogni minima cosa?”
Si
ferma, prima di rispondere, scoppiando a ridere ed ammettendo la
sconfitta.
“Assolutamente.
Però dentro di sé farebbe un sacco di complimenti...
finirebbe anche per comprare libri pieni di foto di Amsterdam perché
sarebbe troppo orgoglioso per scattarle lui stesso ed ammettere che
la città lo interessa.” gli spiega, con un sorriso.
Jan
sbatte più volte le palpebre, chiedendosi probabilmente come
diavolo funzioni Nor, poi scuote la testa, prende il bicchiere e lo
fa tintinnare contro il suo.
“Per
fortuna hai una personalità più interessante e
comprensibile.”
Parlano
in continuazione, al ritorno. Forse per l'alcol, forse perché
sono finalmente in confidenza, hanno finalmente trovato quel qualcosa
che li sbloccasse, è come se si conoscessero da secoli.
A
più riprese ha voglia di prendergli la mano e tenerla
semplicemente, stupendosi del gesto, ma è abbastanza lucido da
dirsi che non è il caso.
Questo,
ovviamente, prima che l'olandese gli passi un braccio intorno alle
spalle, avvicinandoselo con tutta la naturalezza del mondo.
Il
distacco è imbarazzante come l'incontro della mattina. Quasi.
L'alcol aiuta, ma resta sempre la sensazione di essere bloccati l'uno
di fronte all'altro da venti minuti, tirando fuori argomenti fuori
dal mondo per trattenersi a vicenda.
È
una sensazione che lo scalda a livello del viso e del petto in modi
diversi, ma per nulla spiacevoli.
“È
stata... una bella serata, Jan.” riesce a balbettare,
strappandogli un sorriso.
“Grazie.”
mormora l'olandese, apparentemente nelle sue stesse condizioni.
Si
allontana di un passo, ma l'altro lo segue, aprendo la bocca per dire
qualcos'altro, ma ripensandoci quasi subito.
Ha
il cuore nelle orecchie. O nella gola.
Lo
sente in quindici punti diversi, è normale? È così
che si sentono gli eroi di Hyrule? A che diavolo sta pensando?
Più
a nulla, all'improvviso. Ecco, perché Jan decide di fare
l'unica cosa possibile. Un bacio, diverso dal cliché, sulla
fronte, ma Islanda si considera soddisfatto per quel lungo bacio
tenero.
E
scoprire che gli basta davvero, per coronare una serata perfetta, lo
fa sorridere a lungo, mentre saluta con la mano Olanda e corre in
albergo.
Quando
torna in camera, butta giacca e scarpe alla rinfusa, sdraiandosi poi
sul letto, esausto ma felice.
Nel
buio della stanza il telefono emette una luce bianca, facendogli
ricordare che l'ha dimenticato e prendendolo. Trenta chiamate senza
risposta.
“Crederà
che Jan mi abbia venduto al mercato nero.” sussurra, ad occhi
sbarrati, dando una rapida occhiata all'orologio che segna le due e
trenta.
Decide
che è meglio chiamare, ben conscio che Den non stia dormendo,
perennemente preoccupato com'è del proprio figlioletto
adorato.
Come
volevasi dimostrare: basta un solo squillo per sentire la sua voce
preoccupata che pronuncia il suo nome.
“Non
sono stato venduto.” taglia subito, con un minuscolo sorriso.
“Non
avevo nessuna intenzione di vendere tuo fratello per ricomprarti.”
ribatte il danese, stizzito e, probabilmente, anche molto offeso. Di
sicuro deve essersi preoccupato a morte.
“Figurati.
Come se non sapessi che saresti venuto a prendermi con l'ascia tra i
denti, due mitra nelle mani ed una fascia a tenerti quei capelli
stupidi.” lancia, con un sorrisetto, immaginando la scena.
“Tu
frequenti troppo Peter.” borbotta il danese ed Eirik se lo
immagina benissimo incrociare le braccia, imbronciato. “E i
miei capelli non sono stupidi, Norge Secondo. Sei invidioso perché
i tuoi non sono belli come i miei.”
Ridacchia,
rendendosi conto che, sì, a volte gli viene naturale assumere
in modo esagerato gesti e modi di comportarsi del fratello, non è
solo imitazione.
“Sono
andato a cena fuori e poi mi ha...” no, cosa stai dicendo? Devi
parlare di un'ipotetica lei, giustificarti con lei! “L'ho
accompagnata a casa.” si corregge.
Come
la chiama, ora? Non è bravo a mentire, non si ricorda mai
quello che racconta.
“Che
principe!” lo punzecchia Dan, divertito, facendolo arrossire.
Principe? Ancora con questa storia? “E poi? Non racconti
nient'altro? C'è stato qualcosa?”
Ok,
il lato comare del danese gli mancava. Certo, ne avrebbe fatto
volentieri a meno, ma tant'è.
Cerca
di non morire soffocato per la domanda, ricordandosi la scena del
bacio -sulla fronte, poi! Perché si agita tanto?!- da trenta
angolazioni diverse. Fosse uno scontro frontale tra due automobili lo
capirebbe anche, ma un bacio?
“Mi
ha detto che vorrebbe venire a trovarmi e che l'Islanda gl... le
sembra meravigliosa, una terra magica.” balbetta, tentando
inutilmente per non considerarli complimenti personali.
“Vuol
dire che continuerete a vedervi dopo, è una buona cosa.”
ribatte il danese e lo sente chiaramente più rilassato,
sinceramente contento.
Non
osa immaginare la sua faccia, se solo sapesse la verità.
“Ha
detto che assaggerebbe l'hákarl.” aggiunge, entusiasta.
Un
momento di pausa, poi il suono distinto del danese che deglutisce.
“Le
hai detto che cos'è?”
“Ovvio.”
Questa
volta non c'è nessuna pausa ed il tono è dannatamente
serio.
“Sposala.
È perdutamente innamorata.”
Scoppia
a ridere, nonostante l'imbarazzo di quella bugia. Non pensa che Dan
sarebbe tanto entusiasta, sapendo di chi si tratta.
“Pabbi?”
Silenzio.
Da parte propria, solo il battito furioso del cuore, come dieci
minuti prima. Di paura o di emozione? Non riesce a capirlo. Ma è
un notevole passo in avanti e lascia al danese un momento per
riprendersi.
“Tu
credi nelle relazioni a distanza?” aggiunge, tremendamente
serio.
“Ne
ho una che dorme nel mio letto. E spero lo faccia per altri cento
anni, almeno.”
Note
dell'autrice
Dopo
questa, ci vediamo tra due mesi <3
Vado
all'estero fino (spero) metà settembre e mi sarà quasi
impossibile aggiornare. Se ho tempo, però, non escludo un
nuovo capitolo la settimana prossima o quelle successive, ma è
ancora troppo presto per dirlo, quindi, per sicurezza, sono in hiatus
fino al mio ritorno!
Grazie
per le recensioni, mi fanno davvero piacere, anche se non rispondo a
tutti subito, a volte sono poco ispirata :3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Vrijdag ***
La zona in cui lo sta portando non lo
rassicura neppure un po', neppure con il sole che splende ed il cielo
azzurro sopra le loro teste. Non importa che non abbia assolutamente
fatto accenno a dove sono diretti, se ne sta rendendo conto
perfettamente.
Giusto dietro il Dam, ecco che
cominciano a delinearsi palazzi tradizionali, dall'architettura
tipica, come casette di marzapane altissime, allungate verso l'alto
-non osa neppure immaginare quanto possano essere ripide le scale,
all'interno!- e vetrine.
Cerca di protestare, ma non gli viene
in mente nulla di convincente. Quella è una parte della città
che ha imparato ad amare in quei pochi giorni trascorsi lì?
Deve far finta di nulla, mostrarsi entusiasta come per ogni altra
cosa?
Sono in pieno quartiere rosso e
l'islandese è a disagio. Un disagio che si traduce presto nel
non riuscire a guardare attraverso quei vetri trasparenti, non
imbarazzato, soltanto amareggiato da quell'esposizione. Merce. Come
se si trattasse di macellerie una dietro l'altra, gli mette addosso
un senso di tristezza che non sa come spiegare alla sua guida, non
senza passare per pudico.
La prostituzione, in Islanda, è
vietata. Non ci sono strip-club, neppure. Personalmente non è
attratto da quelle cose, anche se conosce il sesso e lo considera ciò
che di più normale possa esistere. Ma... La prostituzione è
tutt'altra cosa.
"Jan." la voce gli esce
autoritaria, alza la testa, finalmente, ruotando il polso che
l'olandese gli sta tenendo per guidarlo e riuscendo ad afferrargli la
mano. "Non sono qui per questo, portami via."
Ancora una voce decisa, nonostante il
disagio, quella sensazione opprimente...
"Questa è Amsterdam.
Dipinti, fiori, canali, prostitute... il Quartiere Rosso fa parte
della città, come tutti gli altri. A dire il vero fa già
parte di altri quartieri, quindi non c'è nessuna ragione per
saltare la visita." risponde Jan, come se si aspettasse quella
protesta, come se si fosse già preparato.
Questa è Amsterdam. Può
non volerci pensare? Può voler ignorare quell'aspetto che non
gli piace, passando il pomeriggio a camminare lungo un canale o
andare a mangiare qualcosa di tipico?
Serra la mandibola, lasciando andare la
mano dell'olandese ed incrociando le braccia al petto.
"Non mi interessa. Non sono qui
per questo. Non andrò a prostitute, non mi farò d'erba
fino a star male. Non sono quel tipo di persona, non posso
accettarlo." resta fermo nella propria posizione, contento di
essere così deciso da, forse, farlo vacillare.
Ma non è così. A Jan non
sembra importare. Perché sbuffa e posa lo sguardo su una
vetrina, con uno sguardo semplicemente stizzito, come se non ci fosse
nessuno, dentro.
"Avanti, è come andare a
Parigi e non passare mezza giornata a Disneyland! E poi, non avevo
nessuna intenzione di portarti a donne, sei abbastanza adulto per
trovartene una! Volevo portarti al museo del sesso. Molti turisti
vanno semplicemente lì, senza per forza passare da loro..."
ribatte Olanda, come se fosse la cosa più normale del mondo.
Ma non lo è. Non per l'islandese, che cerca ancora di
capacitarsi di come possa essere freddo, quando invece, anche
conoscendolo da così poco, quell'uomo dai capelli impossibili
gli ha sempre trasmesso uno strano calore, come l'affetto di una
persona conosciuta da tempo.
La mattinata era cominciata bene,
almeno. Timidamente l'aveva salutato avvicinandosi a lui più
del consentito, azzardandosi a tenergli la mano quando aveva
cominciato a piovere e si erano rifugiati in un caffè tipico a
bere qualcosa di caldo.
Bruine Café. Luoghi in cui bere
una birra o qualcosa di caldo per togliersi il gelo della pioggia
dalle ossa, rumorosi, pieni di discorsi iniziati e lasciati in
sospeso, di lunghi racconti.
Si è ripromesso di tornare in
uno di quei luoghi, si è ripromesso di tornare ad Amsterdam,
semplicemente, perché sta bene, lì, perché ci
sono così tante cose, ancora, sulla guida, cose che Jan forse
non ritiene necessarie, cose poco importanti, da non fare se si resta
soltanto una settimana.
È l'ennesima cosa che non ha
avuto il tempo di gustare, non più di tanto, non come avrebbe
voluto. Perché avrebbe trascorso l'intera giornata ad
ascoltare l'olandese che descriveva i primi posti come quello,
parlandogli di navi cariche di spezie e pirati.
Una cosa che vuole fare, che ha segnato
in una lista mentale, un motivo per tornare.
Andare in bicicletta, prendere un
battello e farsi trasportare da qualche parte, leggere in uno dei
parchi, vedere un vero mulino a vento... tutte cose che vuole fare
davvero, tornare ed avere sempre una scusa, qualcosa da raccontare
ritrovando l'olandese.
Eirik ha l'impressione che quella
semplice cotta -se così si può definire, lo trova
leggermente infantile, per un uomo della sua età- per Jan sia
già incontrollabile. Non gli importa. Non gli importa se sta
diventando importante, ai propri occhi, incontrare quel verde e
vederlo allegro, entusiasta nel mostrargli nuovi luoghi, di
raccontare altro. Non gli importa davvero, perché è
rilassato, perché si sente bene, dopo mesi trascorsi a
soffrire in silenzio per qualcosa che non esiste più, che
forse non è mai esistito, che è morto da tempo.
Per questo fa improvvisamente male,
sapere che l'olandese insisterà, continuerà con il suo
programma anche se quel luogo gli mette i brividi, anche se non vuole
andare, Eirik, né continuare a vedere intorno a sé così
tante persone a cui non importa.
Per questo è furioso, perché
si sente stupido ad aver creduto così tanto in qualcosa, senza
tener conto delle parti in ombra.
"Davvero paragoneresti questo
posto a Disneyland?" chiede, già sconfitto, domandandosi
che diavolo dovrà raccontare a Danimarca, la sera. Ah,
sicuramente non importerà neppure a lui, è una cosa
normale, come andare a visitare un'attrazione turistica qualsiasi.
"Bé, non è
altrettanto divertente, ma fa parte di me."
Le parole dell'olandese hanno un
effetto bizzarro in lui. Non sono dette a caso, perché,
alzando la testa, quello che vede nei suoi occhi non gli piace
affatto. L'accusa non è neppure tanto velata, è proprio
lì, nelle parole e nello sguardo.
Una parte di lui. Se non l'accetta,
allora quello che sta nascendo -lo sentono entrambi, almeno? oppure è
un modo soltanto per convincerlo a seguirlo?- non ha nessun senso.
Infuriato, cammina senza una parola,
seguendolo. Spera sia soddisfatto. Poteva essere una buona giornata e
quell'idiota... quello...
Per la prima volta in tanto tempo si
sente di nuovo come se ci fosse un masso sopra al suo petto.
Il museo è su tre piani ed è
esattamente come se lo immaginava. Immagini falliche ovunque,
immagini pornografiche, macchine bizzarre che sembrano più
strumenti di tortura che altro, tutto ciò che dovrebbe
stuzzicare l'immaginazione di un uomo, ma che lo lascia perplesso,
perché è infuriato, ben deciso ad uscire da quel posto
con un'espressione talmente disgustata da fargli pentire persino di
aver pensato di aprirlo, quel genere di museo.
Non lo tiene più per mano, non
lo guarda neppure, nonostante l'olandese cerchi di spiegare che,
ecco, ad esempio, quello è il modello in cera del bigliettaio
di un teatro erotico. Non gli importa. Donne con le gambe aperte,
nubi di turisti pronti a farsi foto mentre sono dominati da una
statua, legati a chissà quale struttura. Non riesce a smettere
di sfregare i denti tra loro, furioso.
Che gli dia del frigido, anche, non gli
interessa.
Si siede su uno dei funghetti di una
stanza completamente dipinta nello stile che si userebbe per un
asilo. Disneyland. Gli torna in mente quel posto che ha citato, ma
questo è completamente privo di senso, sessualizzato, il
piccolo televisore che trasmette porno. Resta a guardare le immagini,
sperando che il mal di testa causato da quel continuo digrignare
passi, ma sa che è una causa persa.
Sospira e si tiene la testa tra le
mani, scompigliandosi i capelli e tornando a guardare il televisore.
L'olandese gli si siede accanto. Lo
riconosce senza guardare, riconosce i pantaloni che ha fissato per
quasi tutta la visita, gli occhi bassi nel suo ostinarsi a non
guardare quasi nulla, riconosce la mano che ha stretto al mattino,
sentendosi bene, una sensazione che sembra persa.
"Non ti piace, eh? Possiamo
uscire, se vuoi."
Non riesce a crederci, pensando sia una
specie di scherzo o una prova. Se ora si mettesse a saltellare,
sicuramente l'altro finirebbe per dirgli che hanno ancora dieci piani
da fare, pieni di ogni oggetto che rappresenti un pene esistente al
mondo.
"Figurati, sei tu la guida."
ribatte, aspro, guardandosi le mani e chiedendosi se possa dargli
degli schiaffoni belli forti, all'infinito.
Sciaf-sciaf-sciaf.
Almeno per dieci minuti, se non
all'infinito. Teme che alla lunga potrebbe avere male alle mani.
La luce è andata via, il cielo
invernale già scuro, ma appena usciti da quel luogo sono
subito investiti da una luce rossa, proveniente da ogni angolo della
strada. Le insegne accecano l'islandese, peggiorando il suo mal di
testa e malumore.
È in quel momento non proprio
propizio che Olanda allunga le dita per sfiorargli una mano. In un
altro momento avrebbe accettato di buon grado quel gesto di pace, ma
non riesce a fermarsi quando la mano, la propria, si allontana di
scatto, come se l'uomo scottasse.
Non si rende subito conto di averlo
ferito. Jan cammina e lui lo segue, ancora una volta fisso sulle sue
gambe. Sembra aver fretta ed Islanda capisce di nuovo, dopo poco,
dove stiano andando.
L'albergo.
È il penultimo giorno che
trascorre ad Amsterdam ed è arrabbiato, deluso, non capisce
cosa non vada nel proprio accompagnatore. Andava tutto bene, si
stavano avvicinando ed eccoli lì, neppure capaci di guardarsi
in faccia.
Eirik è spaventato. Ha paura che
l'olandese si volti e gli rinfacci ogni singolo giorno, ogni singolo
minuto, che gli dica che sta facendo orari strani al lavoro, che gli
sta dedicando il proprio tempo e che, nonostante quello, Eirik sia
comunque una compagnia terribile, qualcuno che non si desidera veder
tornare con una scusa qualsiasi.
Si ferma, le luci tornate chiare e
normali, il respiro affannato perché stavano praticamente
correndo e Jan si allontana sempre di più. Abbassa la testa
per non vederlo, portandosi le braccia intorno al corpo, come se
all'improvviso avesse freddo.
Perché? Andava tutto bene, tutto
era così dannatamente perfetto che non è riuscito a
darsi un limite, a dirsi che, no, non avrebbe provato un tale
sconvolgimento per quell'olandese così bizzarro, sì, in
alcuni aspetti della personalità, eppure così in
sintonia, così...
“Jan!”
L'olandese si blocca, la voce
dell'altro che ha fatto girare le teste di parecchi passanti, forse
non per il volume, forse solo per il tono. È abbastanza da
ridargli la forza di raggiungerlo in fretta, rendendosi conto
soltanto dopo del gesto, ma non avendo tempo per vergognarsene.
“Jan.” ripete,
improvvisamente insicuro mentre allunga una mano verso di lui e gli
afferra la camicia, nella schiena, troppo spaventato da quello che
potrebbe dire o fare per guardarlo in faccia, terrorizzato dall'idea
di vedere nei suoi occhi disprezzo o, peggio, delusione.
“Tu non sei questo.”
sussurra, abbassando la testa per posare la fronte sulle mani, un
pretesto, solo un pretesto, per sentire ancora quel profumo di fiori
e tabacco. Se fosse l'ultima volta in cui gli è permesso
essere tanto vicino, allora vuole conservare un ricordo, almeno uno,
per quanto fuggevole possa essere.
“Fa parte di me e ti disgusta.”
Sei diretto, terribilmente diretto...
Senza giri di parole, quella verità
pronunciata senza edulcorarla in alcun modo lo ferisce a propria
volta. Solo allora capisce. Capisce che ha voluto mostrargli questo
all'ultimo, anche se ne ha parlato molte volte, perché, ogni
volta, Islanda ha espresso ribrezzo verso quell'aspetto.
È crudele per entrambi. Crudele
averlo trascinato fino a quel punto, fino al suo aggrapparsi come se
temesse di vederlo scomparire in una nuvola di fumo; crudele è
Eirik, perché quella verità non può smentirla in
nessun modo.
È nella natura dell'olandese
mostrarsi per quello che è senza pensare, come è
istintivo per l'islandese nascondersi, avere paura di qualsiasi
sentimento le persone intorno a lui possano lanciargli contro.
“Tu non...” perde le
parole, perché ripetere la stessa frase finirebbe per ferire
di nuovo entrambi.
Jan non è quello. Non è
solo fumo. Non è solo quel commercio.
Ma quei due aspetti fanno parte di lui,
sfaccettature del suo essere, accanto alla bellezza di tutto il
resto. Quell'odio violento verso di esse è un odio verso di
lui, qualcosa che non esisterebbe, se fossero semplicemente umani, ma
Eirik sembra esserselo dimenticato per qualche giorno, questo.
Non può mettere da parte
quell'aspetto, non sarebbe sincero.
Lascia la sua camicia, a fatica,
facendo un passo indietro, abbassando la testa ancora una volta.
“Buonanotte, Jan.” riesce a
dire, prima di fuggire verso l'albergo, di corsa, senza voltarsi
indietro.
Si dice che è semplicemente
folle stare così male dopo così poco tempo trascorso
insieme.
Eppure, per la prima volta da quando è
in quella città, Eirik si scopre incapace di addormentarsi, la
testa affollata di se e ma, ipotesi che sembrano volerlo prendere in
giro, come le ombre grigie ed inafferrabili che si inseguono sul
soffitto.
Fumo.
Era solo fumo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Zaterdag // Sabato ***
Sabato.
Quindici ore
prima.
Non si può
dire che si affretti verso la Museumplein, il giorno dopo. No, forse
cammina molto più rapidamente di quanto faccia di solito, ma,
in fondo, è solo perché non vuole perdersi quell'ultimo
giorno insieme... ad Amsterdam, ad Amsterdam! Che siano insieme
c'entra poco.
Vuole scusarsi,
anche. Forse. No, non vuole, eppure...
Eppure vedere i
capelli sparati in aria dell'olandese gli fa lanciare un sospiro di
sollievo, di quelli davvero sollevati, come se si rendesse conto,
all'improvviso, di quanto stesse pensando e ripensando al modo in cui
si erano separati il giorno prima.
"Ehy." lo
saluta timidamente, comparendogli davanti, le mani dietro la schiena,
il viso arrossato, consapevole finalmente di quanto lo imbarazzi e,
nel contempo, lo renda felice e stranamente entusiasta, stargli
accanto.
"Sei in
anticipo."
Ah, quello uccide
tutti i tentativi di sorridere in cui si stava impegnando, perché
l'olandese non lo guarda affatto, sembra, invece, perso da qualche
parte nella folla. Si imbroncia leggermente, prima di pensare che se
lo merita, perché non si è comportato per niente bene.
Ma da lì ad
ammetterlo ad alta voce...
Aggrotta le
sopracciglia e sospira.
"Anche tu."
riesce a dire, finalmente, chiedendosi se anche lui, per caso, veda
quel giorno come lo vede Islanda, non solo un tentativo di scusarsi
-Jan non gli deve nessuna scusa- ma... un'ultima occasione per
parlare, per conoscersi, per...
Scuote la testa e
poi l'abbassa, fino a fissarsi con interesse le scarpe.
Ok, ha rovinato
tutto con il proprio atteggiamento. Non sarebbe la prima volta.
Insomma, ha sempre avuto qualche problema ad esprimersi, finendo
inevitabilmente per dire il contrario di quello che pensa.
L'unica a
sopportarlo, in quell'aspetto, l'unica ad avere la pazienza di
cogliere il suo lato nascosto... bé, si vede che alla fine ha
ceduto.
Forse sarebbe il
caso di andare avanti, no? Non ha senso trascinarsi dietro quella
storia, nonostante sia stata, lei, l'unica persona con cui sia
riuscito a mostrare una parte che è più fragile,
delicata, ma più vera.
Forse è
destinata a rimanere così, lontana o vicina che sia.
Ed è in quel
momento, tra mille pensieri negativi, che un coniglietto bianco entra
nel suo campo visivo.
Fa un piccolo
sussulto, sorpreso, chinando la testa di lato come per seguire
l'orientamento del musetto, osservando la bocca ad x e gli
occhietti neri senza capire, prima di allungare una mano verso il
vestitino da marinaio per sfregare tra indice e pollice la stoffa.
Ha già visto
quei conigli. Li ha visti sicuramente su una cartolina e poi... ah,
vero! Il quaderno di appunti di Giappone è sempre pieno di
adesivi con questo coniglietto! Ah, ma perché glielo sta
mostrando? È decisamente adorabile.
Ad Eirik piacciono
moltissimo i pupazzi. Per forza di cose non ne ha mai avuti quando
era piccolo, aveva solo Mr Puffin per giocare -ed è sempre
stato molto faticoso giocare con qualcosa che insisteva nel volergli
fare un nido tra i capelli- ma Dan gli ha regalato un Teddy Bear
quando ne è cominciata la produzione, quasi per scherzo e da
lì non ha smesso di collezionare animaletti di peluche, seppur
in segreto.
Ed un coniglio così
carino, poi! Ha un debole per quegli animali!
“Si chiama
Nijntje, è tua.” mormora l'olandese, allungandogli
ulteriormente l'animale imbottito. Alza lo sguardo, sorpreso, ma Jan
non lo sta guardando, apparentemente interessato ad una biglietteria.
“Nin...
Nin-she?” ripete, confuso, rendendosi conto che un gruppetto di
turisti li sta fissando in modo bizzarro. Che cosa vogliono? Quello è
soltanto un souvenir -non è giapponese! è olandese!- e
glielo sta regalando per.... Perché glielo regala?
Finalmente si volta
e nota il suo imbarazzo. Sembra imbarazzarsi anche lui, ma è
difficile dirlo quando gli occhi cercano disperatamente un punto da
guardare e finiscono inevitabilmente per annegare nel verde.
Apre la bocca per
dire qualcosa, ma le parole si perdono, per entrambi, almeno finché
l'olandese non interrompe il contatto e gli volta le spalle.
“Ninshe.”
lo sente ripetere, con un tono di voce quasi divertito. Gonfia le
guance, Islanda, colpito sul vivo perché si rende conto di
essere preso in giro.
“Hnoðri
í norðri verður að veðri þótt
síðar verði!” sbotta, seguendolo nella folla
e facendolo scoppiare a ridere.
“E che cosa
dovrebbe voler dire?” chiede l'olandese, guardandolo
affiancarglisi e sembrando più rilassato, come se le
incomprensioni del giorno prima non fossero mai esistite.
“Una nuvoletta
a nord prima o poi diventa un temporale.” gli risponde, a due
passi dal gonfiare il petto dalla fierezza. “Dovresti
impararlo, potrebbe tornarti utile in futuro!”
L'olandese lo fissa,
poi ride di nuovo, contrastando di nuovo il suo umore abituale,
quell'aria cupa che l'ha accompagnato il giorno prima. È come
se si fosse liberato da un peso, come se stesse meglio,
all'improvviso.
“Stai cercando
soltanto un modo per potermi prendere in giro a vita.” insinua,
senza nessun tono di accusa, però, sussultando quando la mano
dell'islandese arriva ad intrecciarsi con la sua, senza nessun tipo
di avvertimento.
Eirik arrossisce, ma
non lascia andare. È l'ultimo giorno e Jan ha deciso che
quella ferita che gli ha procurato non deve importare. Non può
far altro che cercare un modo per farla guarire del tutto.
“Jan, andiamo
alla Condomerie!” esclama, lasciando la propria dignità
da qualche parte sulla Museumplein, uccisa sul colpo da quella
spavalderia. E poco ci manca che anche l'olandese finisca a farle
compagnia, perché si ferma di colpo e tenta di guardarlo,
anche se, ovviamente, l'altro fugge dal suo sguardo indagatore il più
possibile.
“Sei... Stai
bene?” chiede, perplesso e forse un po' colpito. Eirik
ringrazia che non abbia pensato fosse una proposta indecente. È
quasi sicuro che l'olandese pensi che abbia preso qualche pasticca
strana, però. “Volevo chiederti cosa... cosa volessi
fare, ma questo...”
È riuscito a
rompere Jan? Davvero ci vuole così poco -entusiasmo,
niente di più?- per farlo imbarazzare?
“Voglio
comprare dei preservativi ridicoli per mio fratello.” spiega,
cercando di non arrivare a sfumature di rosso troppo accese, anche se
ne deve aver sperimentate almeno una cinquantina.
Cinquanta
sfumature di rosso, un'autobiografia. Si sorprende per aver
pensato di scrivere un libro sulla propria esperienza ad Amsterdam,
soprattutto con un titolo così idiota, ma, in fondo, è
così entusiasta dal fatto che non dovrà vedere uno Jan
demoralizzato per tutta la giornata che non potrebbe importargli di
meno della propria imbarazzante fantasia.
Jan assume
un'espressione indecifrabile, forse pensando semplicemente a quanto
desideri vedere qualcosa che non sia una faccia vuota sul norvegese,
forse tramando già il peggio, ma anche quello dura pochissimo,
perché sembra decidersi e lo conduce per le vie attraversate
il giorno prima per portarlo in quel negozio.
Ok, forse non è
proprio stata una buona idea. Ma Eirik non si fa alcun problema con
il sesso normale, è quello a pagamento che lo turba parecchio,
quindi bastano un paio di minuti per ritrovarsi davanti ai
preservativi dalle forme più strane e riderne con il proprio
accompagnatore.
Cerca di non notare
tutte le coppiette intorno a loro, davvero, ha voglia di passare una
giornata tranquilla, un ultimissimo giorno in quella città che
tanto l'ha affascinato. Senza pensare che stringe così tanto
la mano di Jan perché non vorrebbe andarsene mai.
Escono dal negozio
con gli occhi brillanti e le guance rosse, avendo riso troppo mentre
la commessa impacchettava un preservativo-salmone ed uno a forma di
riccio di mare, immaginando le facce imbarazzate delle persone alle
quali vuole regalarli.
L'idea che quelli
che a lungo ha considerato come i propri genitori -e ancora è
così- facciano sesso l'ha sempre imbarazzato, fin dal primo
momento in cui i due si sono messi in testa di fargli il discorso.
E non doveva arrivare al piano della cucina che avevano allora quando
li ha sorpresi, con conseguente trauma. Ma ha finito con
l'accettarlo, a patto di non assistervi -cosa molto facile, peraltro,
visto che i due non sono più due giovani vichinghi infoiati
che approfittano di ogni superficie piana disponibile-, ormai
abituato ai rumori del letto o anche solo quell'idea che, in un modo
o nell'altro, quei due si amano ed è più che naturale
che facciano... l'amore. Non sesso, ecco.
Almeno si amano, no?
È quello che, alla fine, importa di più, quello che gli
ha fatto dimenticare ogni imbarazzo.
Si lascia guidare
ancora per le strade della città, fiducioso, allacciato con
sicurezza alla mano dell'olandese, sentendosi così bene da
chiedersi cosa diavolo l'abbia portato ad addormentarsi stritolando
il cuscino, la sera prima.
Jan lo porta davanti
a quello che sembra un gigantesco distributore automatico. Febo,
c'è scritto ed altre persone lo stanno utilizzando come se non
fosse la cosa più...? Lo fissa, perplesso, ricordandosi della
buonissima cena al ristorante e decidendo di fidarsi dei suoi gusti.
Cerca di non pensare che quelle cose potrebbero essere lì da
millenni e contenere versioni cristallizzate ed in miniatura del
pianeta Terra.
Forse dovrebbe
smettere di pensare troppo.
Osserva il
funzionamento dell'apparecchio ed afferra il piattino con il cibo,
quando l'olandese glielo porge, sentendolo caldo e sorprendendosi
parecchio.
“Kroketten.
Sono una specialità, devi mangiarle prima di andare via o non
mi perdonerò mai.” asserisce, quasi solenne. Dev'essere
serio. Prova tutti i tipi di kroketten che gli porge,
mangiando mentre camminano ancora, come se avessero fretta di vedere
tutto quanto si fossero lasciati sfuggire. Il che ha ben poco senso,
per Jan, che ha a disposizione quella bella città ogni giorno,
in ogni momento.
Lo invidia ed è
un sentimento strano, quello. Ama il proprio paese, ma Amsterdam è
particolare, ha quasi qualcosa di magico.
“Cosa vorresti
fare?” chiede Olanda, finendo l'ultima krokett e
porgendogli un tovagliolo.
Eirik ci pensa
seriamente, ma non gli viene in mente nulla che non sia passeggiare
ancora e cercare di assorbire il più possibile l'aria della
città.
Camminano lungo il
canale, in silenzio per lasciargli modo di scegliere e non riesce a
pensare. Vorrebbe dirgli di tornare ancora al Red Light District, in
modo da recuperare la figuraccia del giorno prima, ma non riuscirebbe
a mentire. Non riuscirebbe a farselo piacere e rovinerebbe anche
quell'ultimo giorno insieme.
“Vorrei vedere
il più possibile, sapere il più possibile.”
finisce col dire, adocchiando un battello e chiedendosi se quello sia
un buon modo per farlo. Sicuramente non rischiano di stancarsi, ma
quello è davvero il problema minore.
Jan sorride,
prendendogli di nuovo la mano e all'islandese viene in mente che
potrebbe essere la prima volta che è lui ad iniziare quel
gesto.
Gli piace navigare.
Che sia nell'immenso oceano o solo per un paio d'ore lungo un fiume,
è rilassante sentire il rumore dell'acqua, il suo dondolio
particolare, soprattutto quando non c'è quasi nessuno a
disturbare quelle sensazioni.
E, di sicuro, avere
un olandese accanto che si premura di raccontargli dettagli e
spiegargli il perché di certi aspetti della città, non
è un disturbo.
“Le case sono
così alte perché un tempo le tasse si pagavano in base
alla larghezza della facciata...” dal nulla, ad esempio. Ad
Eirik non dispiace avere tutte quelle notizie, non quando è
così affascinato dalle storie e da quella voce.
Non quando ancora
stringe la sua mano, non lasciandola neppure quando gesticola anche
con quella, per indicare qualcosa. Si appoggia alla sua spalla,
osservando bene tutte le facciate, ascoltandolo, soprattutto.
“Voi olandesi
siete tirchi.” commenta casualmente.
“Siamo pratici
e teniamo a non sprecare troppi soldi.” si difende l'altra
nazione, con un tono di voce leggermente offeso che lo fa sorridere.
“Io non so nulla degli islandesi per ribattere, non è
affatto equilibrato!”
Quella protesta gli
fa alzare la testa dalla posizione comoda in cui si trovava fino ad
un momento prima, per osservarlo.
Gli ha parlato di sé
in parecchie occasioni.
Gli ha detto che
cosa gli piace fare in inverno, quando sono andati a pattinare. Gli
ha raccontato delle giornate trascorse davanti al camino, con una
tazza di cioccolata calda in mano ed un buon libro e Jan gli ha
chiesto se non si sentisse mai solo.
Allora ha mentito,
dicendogli che la realtà del libro bastava, quando sa
perfettamente che leggere davanti al camino, fianco a fianco con
qualcuno, commentare ad alta voce certi passaggi, dividere una
liquirizia ed il calore, sono molto più piacevoli, come
sensazioni.
“Si chiama
Hajnòwka.” sussurra, chiudendo gli occhi e sospirando.
Si allontana un
poco, sempre stringendogli la mano e si sofferma sulle case, sulla
calma di alcune vie, paragonate a quelle frequentate dai turisti, per
lasciare che la mente vaghi.
“Ci siamo
incontrati casualmente, perché suo padre ha deciso, in un
lampo di genio, che una Nazione così lontana ed inaccessibile
fosse la migliore per ospitarla, lontana dalla guerra. È una
città polacca, con la stessa parlantina, lo stesso amore per
il rosa. A volte sembra stupida, ma il più delle volte è
così dolce da far male.” racconta, abbassando gli occhi
verso le mani intrecciate e non sentendo troppo male.
Nessun rimpianto,
allora?
“Non sono il
ragazzo perfetto, anche se lei lo diceva sempre, ho finito per fare
degli errori, la trovavo troppo bella, troppo preziosa, troppo
lontana dal mondo per non esserne ferita. Ho finito per venerarla e
lei è andata via con qualcuno che la trattava come una persona
e non una statua di cristallo. A ripensarci è così
logico che mi sembra assurdo aver sofferto così tanto.”
Non ne ha mai
parlato in quel modo chiaro, neppure con Lukas. Forse perché
fino a quel viaggio non se n'era reso conto, c'era in lui soltanto un
senso di inadeguatezza dovuto al tradimento e rimaneva cieco davanti
ai propri difetti.
Ma li vede tutti,
ora, vede gli errori e pensa che non vuole perseverare in essi. Vuole
essere felice.
Jan non gli
risponde, non cambia discorso, si accontenta soltanto di portarselo
al petto, stringendolo con un braccio, come se volesse nasconderlo da
qualcosa.
Lo ringrazia a bassa
voce, abbandonandosi con una guancia sul suo petto, a guardar
scorrere Amsterdam lungo il canale, sentendo battere il cuore
dell'olandese.
Amsterdam è
anche quello: il suo cuore. Ed averlo capito rende tutto fin troppo
chiaro.
Sotto al ponte,
l'acqua scorre senza quasi un suono, le luci che vi si riflettono lo
fanno sembrare una distesa di pietre preziose ed Islanda si dice che
forse sta esagerando con i paragoni colti. Hanno trascorso una
giornata meravigliosa, però, una settimana intera, anzi, a
scoprire quella città che ormai sente di adorare, non ci sono
molti motivi per fingersi indifferenti ad uno spettacolo del genere.
Si sporge
leggermente, guardando l'acqua fino al punto in cui diventa scura,
sentendo l'uomo accanto a lui tendersi ed affrettandosi a tornare con
le ginocchia sulla panchina, poggiando la guancia a alle braccia
incrociate e guardando il flusso di persone della strada accanto.
“C'è sempre tanto rumore, qui.” commenta,
socchiudendo gli occhi. “Sei fastidioso.”
Non è vero,
gli piace, gli piace tanto. Il fiume, le persone, le lingue
differenti che si mescolano fino a creare un borbottio
incomprensibile, una di quelle cose che fanno sentire a casa anche a
centinaia di chilometri di distanza da essa.
L'Islanda non è
quella che si dice una meta turistica molto apprezzata. Sì, i
paesaggi sono pubblicizzati come meravigliosi in molte parti del
globo, ma le persone davvero disposte a visitarli dal vivo non sono
molte.
“Fastidioso?”
ripete l'olandese, facendolo voltare per il tono di voce, forse
perplesso, forse offeso. Non vuole offenderlo o insultarlo, ha solo
un modo di parlare che... argh. Si appoggia con la guancia dall'altra
parte, guardandolo fumare e chiedendosi quanto ci vorrà a
togliere l'odore del fumo della pipa dai vestiti. Spera che vada via
prima che il fratello si decida a fargli visita.
Allo stesso tempo,
però... non ha tutta questa fretta di cancellare l'unica cosa
che gli rimarrà di lui.
Ironico, vero? Fumo.
Soltanto fumo, qualcosa che non si può afferrare, come la vera
natura di quell'uomo così complicato, come qualcosa che non
potrà mai avere.
“Fastidioso.
Ma non in senso negativo.” gli spiega, facendo un breve
sorriso. “È una bella città questa. i canali, i
musei, il verde... è triste che ci siano persone che vengono
qui per il sesso o la droga.” continua, sospirando e chiudendo
gli occhi, sentendo che le gambe si stanno leggermente addormentando
per la posizione, ma desiderando più di tutto poter guardare
quel fiume, di acqua e di persone, che scorre intorno a lui.
“I concerti, i
quadri, la musica per strada, il riflesso delle stelle nell'acqua...
è una città che fa venir voglia di innamorarsi.”
sussurra, affrettandosi a spostare lo sguardo verso il cielo, senza
notare molte stelle, però, viste le luci del ponte. Non
importa, gli basta distrarsi.
Jan tossisce, segno
che quello che ha detto è davvero strano come credeva. Non è
una cosa che si può dire così, a cuor leggero.
Però Eirik sa
di non avere nulla da perdere, in fondo, quindi può essere
profondo e mostrare un lato che difficilmente emerge con qualcuno con
cui ha così poca confidenza. Magie di Amsterdam, forse.
“È la
prima volta che qualcuno mi dice una cosa del genere.” ammette
Olanda, sorpreso. La sua voce ha un tono strano, ma l'islandese lo
ignora, dicendosi che è probabilmente colpa del fumo che gli è
andato di traverso. Forse.
Ma voltandosi per
guardarlo nota un leggero rossore e non può fare a meno di
replicare allo stesso modo, facendo un microscopico sorriso,
altrettanto imbarazzato
“Oh, ma è
bella.” ripete Islanda, annuendo e tornando a sedersi
normalmente. “Davvero. Prostitute e droga a parte, non ha
nulla da invidiare a Parigi o Roma...” aggiunge, appoggiando i
gomiti alle gambe ed intrecciando le dita tra loro, giocandovi
nervosamente. Sospira ancora, rendendosi conto che essere sinceri ed
aperti è davvero un problema, per lui.
“O forse sono
solo io a vederla così.” ammette, volgendo lo sguardo
sui passanti. Nessuno presta attenzione a loro, per fortuna, ma Eirik
è enormemente imbarazzato lo stesso, perché quello
sembra un ponte da innamorati. Ci sono parecchie coppie a passeggio.
Ed alcune sono da voltastomaco, ma è un discorso a parte.
Sente l'olandese
accanto ed ha paura a voltarsi, perché voltarsi
significherebbe guardarlo ancora, rendersi conto di essere attratto
da lui per l'ennesima volta e maledirsi perché non c'è
più tempo per restare lì, è il momento di
salutarsi, quello, la sera prima la partenza, come nei peggiori
cliché. Nei film che Nor guarda di nascosto -pensando che
nessuno l'abbia mai scoperto, tra l'altro- è una di quelle
situazioni in cui tutto è possibile.
Nella realtà
è ben diverso. La realtà è piena di aspettative,
paure e consapevolezza che non succederà nulla.
“Grazie.”
mormora Jan, semplicemente. Quella è la realtà. Nessun
bacio sul ponte degli innamorati. L'ultima sera insieme e basta. “Mi
andrò a vantare con gli italiani e il francese.”
Gli viene da ridere
e fa l'errore di voltarsi, rimanendo ipnotizzato, gli occhi fissi in
quel verde surreale che lo affascina da giorni, le dita che si
flettono per tendersi ed afferrarlo. Le blocca, quasi desiderando
sedercisi sopra. Ma si accorgerebbe di quel gesto, gli chiederebbe
qualcosa a cui non vuole rispondere.
“Ti
prenderanno in giro.” ribatte, a voce bassa, quasi non
riuscisse più a formare le parole come vorrebbe. E, in parte,
è decisamente vero.
“Dirò
che è tutta colpa tua. Mi hai illuso che la mia capitale fosse
romantica e io ci ho creduto.”
Strano... sembra che
anche lui abbia lo stesso problema. Cos'è quell'improvviso
ammutinamento delle corde vocali?
“Lo credo
veramente.”
Dannatamente serio,
le dita che si liberano e si posano sulla sua cicatrice, scivolando
poi lungo la tempia, lo zigomo, il mento. Lo tiene, tremando, il
pollice sulle sue labbra per un secondo.
Quando Jan si
avvicina, chiude gli occhi e sospira, andandogli incontro per
lasciare che il bacio avvenga.
Il resto della notte
è un turbinare confuso di eccitazione e paura, misto alla
consapevolezza che tutto finirà l'indomani e che, per questo,
Islanda vuole ogni cosa, senza badare alle conseguenze.
Se la lista delle
cose che avrebbe voluto fare una volta tornato ad Amsterdam fosse
esistita per più di una settimana, se avesse avuto il tempo di
riordinarla, il primo posto sarebbe stato sicuramente occupato da un
altro bacio sul Magere Brug.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** í vorið ***
Seduto
ad aspettare il proprio volo -ci vogliono cinque ore per tornare a
casa, non l'ha mai desiderato più che in quel momento- Islanda
si sente immensamente triste.
Guarda
la valigia finché non gli bruciano gli occhi e tutti i dolci
che sta letteralmente inglobando non lo aiutano per niente a
sollevarsi il morale.
Ha
cambiato volo all'ultimo minuto, evitando di prendere quello da tre
ore, solo per avere l'illusione di stare ancora un po' lì con
lui. Allo stesso tempo, ha evitato di incrociarlo in aeroporto. Ha
pensato che, se mai avesse deciso di andarlo a salutare -a questo
punto gli sembrerebbe un miracolo- avrebbe pensato fosse partito
prima e si sarebbe arreso all'evidenza che, sì, anche Eirík
considerava la serata precedente un errore.
Torna
a fissare la valigia, ricordandosi che dentro c'è una Miffy
scelta con cura da lui e la cosa non lo solleva neppure un po' dal
suo stato malinconico e depresso. No, vorrebbe tirar fuori il pupazzo
e stringerlo, per consolarsi.
No,
non è viziato, non è infantile. Sa incassare un
rifiuto, se si tratta della solita notte di sesso che può
proporre ad una ragazza carina incrociata al bar. Non è... non
è affatto questione di sesso.
Il
telefono vibra in tasca e lo tira fuori, sospirando quando legge sul
display il nome del danese. Non ha voglia di rispondere. Assurdo,
perché il telefono è acceso soltanto per ricevere una
sua chiamata, sperando davvero che Jan non lo chiami... e, nel
contempo, desiderando solo questo.
Manda
un sms per comunicargli che è vivo, che sta bene e che non può
rispondere al telefono e spegne, senza aspettare una risposta.
Se
ne pentirà sicuramente quando, arrivato a casa, troverà
un coro di messaggi da parte del fratello e Dan, in un numero non
inferiore a venti, tutti pieni di preoccupazione per il suo stato di
salute. A volte gli capita di ritrovarsi a pensare che quei due siano
davvero fatti l'uno per l'altro, nonostante le differenze.
Non
riesce a star fermo sulla sedia scomoda e decide di alzarsi,
lasciandosi la sedia scomoda alle spalle e cercando di distrarsi
andando ad osservare la vetrina lì accanto, quella in cui sono
sistemati modellini di aerei e... un'altra Miffy. Con una divisa da
hostess, adorabile, ma che riesce a stringergli qualcosa dentro,
pesando come un macigno.
Non
è stata una grande idea rimanere lì. Tutto gli ricorda
cosa ha vinto e perso in così poco tempo. Tutto, alla fine,
anche la sua decisione di rimanere ancora un po', contribuisce a
sbeffeggiarlo nel momento in cui pensa che non importa quanto voglia
illudersi di poter avere una parte di lui in quel modo, l'ha perso.
A
primavera.
È
un bacio umido a svegliarlo. Gli si posa sulla guancia come un
petalo, seguito da una risatina.
Si
guarda intorno, confuso, cercando di capire dove si trovi ed incontra
gli occhi verdi della ragazza, il suo sorriso luminoso, la carezza
che gli fa, quasi scherzosamente, sulla fronte.
Si
è addormentato con la testa sulle sue gambe?
“Stanco
per il viaggio, eh?” mormora lei, non smettendo di sorridere.
Cerca
di ricambiare, ma è ancora un po' confuso. Si mette a sedere e
si guarda intorno, respirando piano come per riconoscere il luogo
anche dai profumi nell'aria.
“Vondelpark?”
chiede, facendola ridere.
“Qualcuno
ha dormito fin troppo bene!” esclama lei, coprendosi le labbra
con la mano. “Per tua informazione: siamo ad Amsterdam da ieri
sera, perché me ne parli così tanto da sembrare una di
quelle fan di Giappone che si vestono tutte colorate e gridano quando
vedono i cartoni!” spiega, ma Eirík sa benissimo perché
e come sono arrivati fino lì.
Il
parco gli ricorda troppe cose. Ha voglia di mangiare un'Hollandse
Nieuwe, all'improvviso, ma sa che gli farebbe male. Ecco, si è
precluso un ulteriore piacere della vita.
Hajnòwka
lo fissa, incuriosita, per poi mordergli il naso, scatenando un
movimento di protesta nell'islandese, che finisce per spingerla
nell'erba, ridacchiando.
Parlano
un linguaggio tutto loro e le persone nel ristorante si fermano a
fissarli più volte, un po' per la voce allegra di Haj, un po'
perché le lingue in cui si esprimono sono talmente diverse che
sembra impossibile riuscire a passare da una all'altra con tanta
semplicità.
Eirík
lo sa. Oh, se lo sa. L'islandese sarà anche difficile, ma ha
impiegato più della ragazza per riuscire a parlare
correttamente il polacco.
Ed
è probabile che il suo cominciare facendogli ripetere la
filastrocca del dannato scarafaggio di Szczebrzeszyn che sussurra tra
le canne -unico punto di interesse della città, visto che
è proprio famosa per questo- non abbia accelerato il processo
di apprendimento.
Lei,
poi, aveva anche osato lamentarsi per la poca utilità del dire
sono andato per fiordi, al
che ovviamente aveva risposto che sapere delle canne dello
scarafaggio non era molto più interessante e ne era seguita
un'infinita discussione sulle rispettive lingue.
Allora
erano discussioni meno delicate, accese, ma scherzose... allora erano
semplicemente amici.
La
mano della polacca è stretta intorno alla sua, mentre lo guida
controcorrente attraverso la folla di persone che escono dal
concerto, per recuperare la borsa che stava dimenticando. Una folla
disomogenea di persone e parole, una folla che sembra tutta uguale,
però, al ragazzo.
Il
concerto era bellissimo. L'acustica perfetta come ricordava, le note
che lo fanno tremare come la prima volta. Neppure ad Haj piace molto
la musica classica, ma fa un'eccezione per Chopin. Dopotutto, è
una Łukasiewicz.
Eppure...
questa malinconia, questa tristezza... ha l'impressione di essersi
svuotato all'improvviso, come se avesse un buco nero nel petto, che
assorbe energia ma non da' nulla in cambio e che cresce ogni secondo
di più.
Jan.
Dire che non ci ha più pensato, da quel giorno in aeroporto di
due anni prima, è una bugia enorme. Basta guardare i tulipani
che ha in giardino o le Nijntjie che ha cominciato a collezionare per
pensarci. Un viaggio che cambia la vita, Eirík l'ha fatto.
Ma
non ha avuto il coraggio necessario a cambiarla del tutto ed è
rimasto in una sorta di limbo, come qualcuno che sì, ha una
famiglia, persone da amare... ma ha perso quell'occasione che avrebbe
illuminato ogni cosa.
Per
quello, incontrando quel verde familiare, si blocca. La mente che gli
dice che è impossibile e, allo stesso tempo, gli supplica di
cercarlo ancora, di dare una conferma al cuore che ha smesso di
battere per almeno tre secondi.
Jan.
Ci
vogliono alcuni lunghi istanti, prima di ritrovarsi di nuovo a quegli
occhi. Il taglio da gatto, il verde irreale... solo in quel momento
sembra che la mente si decida finalmente a fare il collegamento con
la ragazza che gli sta accanto.
Potrebbero
essere fratello e sorella, pensa stupidamente, dandosi dell'idiota
subito dopo.
Sono
solo simili, in fondo, c'è un abisso tra di loro.
“Eirík?”
lo chiama lei, confusa, ma non riesce a distogliere lo sguardo, la
mente invasa dai se e dai ma. Ammettere tutto, all'aeroporto, non
dover stringere quel pupazzo per tutto il viaggio di ritorno,
pregando le lacrime di starsene al loro posto, per non cedere al
rimorso... Allungare una mano verso di lui, adesso, dire il nome che
gli sta esplodendo in testa...
Stringe
la mano della polacca, abbassando gli occhi e tornando a guardarla.
Ma lei sta fissando l'uomo dagli occhi così simili ai propri,
senza animosità, solo incuriosita.
Esita.
La sua mano si tende, poi si solleva, ma è nascosta dalla
folla che li separa. Vede gli occhi verdi dell'uomo posarsi nei
propri ancora una volta e non sa cosa fare. Vorrebbe mettersi a
gridare cose senza senso, ma non ne ha la forza.
Correre
verso di lui e baciarlo, soltanto questo. Stringerlo così
forte da fargli male, non lasciarlo andare e non giustificarsi con la
paura di esser trascinato via dalla folla.
Ma
non può. Non dopo tutto quel silenzio. Non se non c'è
stato nulla a parte un bacio infinito ed una delusione.
“Eirík.”
Non
è sicuro di sentirlo, ma le sue labbra si muovono per
pronunciarlo. Fa un passo in avanti, prima di sentire una risatina
allegra accanto a lui.
Si
volta verso la polacca, che sta ancora ridacchiando, confuso -e, in
parte, ferito- dalla sua reazione. Ok, è una Łukasiewicz
-ed un'Arlovskaya, quindi è ancora
peggio- quindi certe reazioni incomprensibili, folli, a volte
stupide, fanno parte della sua stessa natura. Però non si
aspettava che...
Bé,
certo, se lui non dice nulla, di certo le cose non può
intuirle da sola. Non gli legge ancora nel pensiero.
“Scemo.”
commenta semplicemente, spingendolo verso l'olandese. Riesce a
reagire soltanto quando si trovano l'uno davanti all'altro, il cuore
nelle orecchie, le mani della ragazza a bloccarlo. Si appoggia alla
sua spalla, facendolo ondeggiare.
“Ti
lascio con il tuo amico! Augurami buona fortuna per la borsa!”
esclama lei, saltellando via.
Ma...?!
Cos...?!
Resta
a fissarla finché non si perde nella folla, basito, prima di
tornare a guardare... i bottoni della giacca elegante di Olanda.
Allunga le dita e ne sfiora uno, senza quasi accorgersene, prima di
ritirare la mano, come se si fosse scottato.
“Westwood.”
Alza
gli occhi, sorpreso, incontrando lo sguardo perplesso di Jan.
“Se
ti interessa tanto la mia giacca, è un completo Westwood.”
chiarisce, ma l'islandese, se possibile, è ancora più
confuso di prima.
“Non
mi interessa.” ribatte, allontanandosi di un passo. È
incredibilmente confuso, come se quello fosse un sogno. Jan non è
cambiato. Stesse sopracciglia strane che gli danno un'aria arcigna,
stessi occhi meravigliosi, stesse labbra che...
“Dici
che la tua ragazza tornerà presto?” chiede,
costringendolo a distogliere lo sguardo.
“Non
è la mia ragazza.” riesce a rispondere, con le mani che
tremano.
Hanno
deciso di non riprovare.
Sì,
l'ex ragazzo di Haj -quello nuovo, quello per cui l'ha lasciato,
quello che ha quasi sposato- è un bastardo di prima categoria.
L'ha lasciata sull'altare e, anche volendo, l'unica cosa che è
riuscita a fare è stata tornare da Eirík per un
abbraccio.
Ma
hanno deciso di convivere come fratello e sorella e a nessuno dei due
sembra importare di stare insieme in quel senso.
La
notizia passa sul viso dell'olandese in un momento: c'è un
muoversi delle sopracciglia, leggermente aggrottate, una smorfia
sulle labbra, una luce sorpresa negli occhi verdi.
“Sto
per baciarti.”
“No.”
la risposta è secca, diretta, come Eirík si
aspetterebbe da Olanda, non da se stesso. Ma gli anni sono trascorsi
e, nonostante abbia coltivato quell'amore sui ricordi, sa anche
quanto possa far male farsi prendere dal sentimento e ritrovarsi a
stringere fumo.
Jan
arretra di un passo, il sorrisetto divertito che si spegne,
l'incomprensione che tinge i suoi occhi. Deve spiegare, ma non sa se
ha le parole. Lui gli posa una mano sul braccio e quella parte sembra
bruciare, all'improvviso.
Perché
è un contatto così desiderato. Più di un bacio,
più dell'amore che ha soffocato nel petto, un semplice tocco
lo sconvolge. Sembra fargli capire che sono veramente insieme, che
non è un sogno, che...
“Non
voglio che mi baci per poi far finta di niente. Non voglio rimanere
solo ancora a chiedermi cos'abbia sbagliato, non...” questa
volta è l'olandese a posargli un dito sulle labbra, un passo
di nuovo verso di lui, la mandibola contratta, la mano che trema.
Islanda
ha paura che sia rabbia. Ha paura, perché una reazione nervosa
riuscirebbe a spezzargli di nuovo il cuore.
Invece
l'olandese lo avvolge di slancio, come avrebbe dovuto fare vedendolo,
come sarebbe stato più giusto minuti prima. Vorrebbe
protestare, ma si rende conto di quanto imbarazzante sia stato, di
quanto, incontrarsi due anni dopo, possa averli bloccati.
“Ho
aspettato che tornassi ed ho finito per pensare che mi avessi
dimenticato. Ma mi sei mancato. È assurdo, ma non importa, mi
sei mancato.” mormora, tenendolo intrappolato e non allentando
la presa neppure quando sente l'islandese appoggiarsi a lui.
Sa
ancora di tabacco. Sa ancora di spezie e liquirizia ed Eirík
vorrebbe piangere ed urlare per quanto si sente debole, perché
sa che non andrà bene, non andrà bene per niente, sarà
deluso e litigheranno, lo manderà via, andrà via.
Eppure
sembra non importare quando riesce a ricambiare quell'abbraccio, le
dita che stringono forte la stoffa della sua giacca elegante e
nessuna voce protesta per quella disperazione, la felicità di
tornare lì e trovarci un futuro.
“Ci
sono tante parti di Amsterdam che voglio conoscere. Sei stato crudele
a negarmele.” borbotta, ad occhi chiusi, il vociare della folla
intorno a loro ben lontano, come se fossero in una bolla protettiva e
poco importa se l'illusione ogni tanto si spezza quando qualcuno li
scontra.
Ricorda
di aver pensato una cosa meravigliosa, bloccato in uno dei suoi rari
abbracci. Ricorda di aver pensato ad Amsterdam come al suo cuore.
Vuole passare più tempo possibile a conoscere entrambi.
“E
tu sei freddo e sfuggente, ma voglio conoscere Reykjavík.”
confessa l'olandese ed Eirík riesce a sentirlo sorridere.
Non
può fare a meno di imitarlo, avvolto tra le sue braccia, in
pace, dicendosi che probabilmente non imparerà mai a
pronunciarlo bene, ma che vale la pena di provare ad insegnarglielo.
Note
dell'autrice
I
due scioglilingua sono:
I
Szczebrzeszyn z tego słynie.
Ég
kom við hjá Nirði niðri í norðfirði
nyrðri.
Grazie
per aver seguito fino alla fine questa storia, spero che vi abbia
fatto venir voglia di visitare Amsterdam o shippare questi due.
Questa
storia rappresenta una sorta di epilogo finale, se voleste
leggerlo.
Amsterdam
è giunta alla fine, ma potete portarla avanti e farne parte,
oltre a vincere un po' di cose a tema! Per sapere come, andate
qui.
Se
volete seguirmi ancora, invece e parlottare in compagnia, c'è
la mia pagina Facebook
gestita insieme a ViolaNera.
Alla prossima!
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=1084026
|