Shine on you crazy diamond

di fewlish
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** LEI ***
Capitolo 2: *** LUI ***
Capitolo 3: *** LEI ***



Capitolo 1
*** LEI ***


Sono una bastarda.
Sono cattiva.
Sono senza scrupoli.
Sono subdola.
Mi sento totalmente inutile.
Non ho nessun talento, non so fare nulla e fallisco in tutto quello che faccio.
L’unica cosa che mi riesce, è far soffrire chi mi ama.
Mi comporto come una bambina di sei anni che ha bisogno di stare al centro dell’attenzione.
Mento sempre per non sentirmi inferiore, ma questo non fa altro che logorarmi dentro come la lama affilata di un coltello.
Tutti dovrebbero odiarmi, sono un essere malvagio e senza scrupoli.
Odio le scelte che ho fatto.
Odio le scelte che farò.
Non riesco a capire chi sono e qual è lo scopo della mia esistenza. Questo mio male mi rende totalmente indifferente alla morte. Sopratutto alla mia.
Vorrei morire anche ora, ma non posso.
Non ho paura della morte, più volte nella mia vita ho provato a togliermi la vita.
Mi guardo allo specchio e il mio volto mi disgusta, provo a sorridere come sorrido agli altri, e quello sguardo che vedo di fronte a me, mi spaventa, m’inorridisce. Chiudo le mani a pugno e con un lancio colpisco lo specchio, proprio dove si trova il mio volto. Mentre dei pezzi di vetro cadono a terra, un dolore acuto alla mano mi fa digrignare i denti. È un’emozione così dolce poter finalmente sentire qualcosa oltre il vuoto del mio cuore e del mio spirito.
Sono una bugiarda, mento persino a me stessa.
Mento per sentirmi bene nel mondo e per essere accettata e amata dagli altri.
Porto molteplici maschere: con i miei amici ho un volto, con i miei genitori un altro e con Marco ne avevo un altro ancora.
L’ho fatto soffrire, l’ho fatto star male, gli ho spremuto ogni linfa vitale, ho succhiato ogni goccia del suo sangue finché non è diventato solo un corpo, un automa, un cucciolo indifeso nelle mie mani.
Mi sono cibata dei suoi pensieri, mi sono dissetata con il suo amore.
Era il mio giocattolo, era il burattino e io il burattinaio, l’ho ammaliato, l’ho imprigionato nel mio incantesimo. L’ho usato, gli ho mentito e poi l’ho lanciato nel vuoto, come foglie al vento.
Agli occhi degli altri sono la ragazza perfetta che ogni uomo vorrebbe, essi, però, mi vedono solo con occhi sognanti, ignari dell’orrore che si cela dietro il mio sorriso cordiale.
Se potessero vedere oltre il velo sottile che separa il mio volto amichevole, scorgerebbero l’aspetto terrificante del mostro che si cela dietro.
Vivo dell’ammirazione e del rispetto degli altri, sarei disposta a tutto pur di essere adorata.
Ho bisogno di essere perfetta, non posso sbagliare, mai.
Sono una codarda, ho paura di essere me stessa.
Faccio finta che nulla m’importi, ma questa, è un’altra maschera.
Vivo in un perenne stato d’ansia, il giudizio degli altri mi uccide e le critiche mi soffocano.
Sono una narcisista, amo ammirare la mia figura allo specchio e contemplarne la forma, le curve, ogni singolo dettaglio, anche il più insignificante.
Amo scrivere di me stessa, ma odio parlare agli altri della mia vita.
Mi nascondo dietro ad un velo, ed inorridisco al solo pensiero che qualcuno possa scoprire l’orrore che si cela dietro al mio candido viso.
Odio sbagliare e perdere.
Amo il sapore della vittoria.
Sono una persona vendicativa, senza scrupoli.
Fuggo dai problemi, mi nascondo nella mia ampolla di vetro e scappo dalle responsabilità.
Sono un’egoista, non do nulla a nessuno, voglio tutto per me. Ho voluto anche Marco e ci sono riuscita, ora la sua anima è qui, fra le mie mani.
Sono una persona solitaria, amo il suono del silenzio: quando tutto tace e l’unica cosa che si percepisce è il respiro.
Odio circondarmi di persone, perché odio tutti, ogni singolo essere umano.
Odio l’ipocrisia e la falsità, ovvero le principali qualità dell’uomo, ma sopratutto della sottoscritta.
Odio me stessa, ma ora è troppo tardi per cambiare.
Più volte ho pensato al suicidio come liberazione dal mio peggior nemico, me stessa.
In questo mondo, in questa vita, non mi sento libera di esprimere appieno la mia persona, sono come bloccata in una stretta gabbia di sbarre di ferro, che m’impedisce di volare.
Nel mio cuore c’è solo un vuoto incolmabile, nella mia mente solo le ultime parole di Marco prima di andarsene da me: “Tu non sei nessuno”.
Il peso delle mie colpe, non mi fa prendere sonno.
Il nodo che ho alla gola, non mi fa mangiare.
Il freddo glaciale del mio cuore, m’impedisce di piangere.
In questo momento vorrei andare da Marco, forse si trova nel bar sotto casa sua, forse sta bevendo una birra, magari accompagnandola con una sigaretta, una Malboro, la sua marca preferita. Forse è con un’altra donna, forse la sta tenendo teneramente fra le sue braccia, magari stanno facendo l’amore, forse lui l’ama più di quanto amava me.
Vorrei andare da lui ora; lui, il solo che abbia visto cosa si cela dietro il mio volto amichevole. Vorrei guardare i suoi occhi zaffiro, ormai freddi e non più pieni d’amore, e dirgli per la prima volta, senza mentire: “Ti amo”.
Devo andarmene, devo lasciare questo posto, per sempre, ma non prima di aver purificato la mia anima, per potermene andare in pace con me stessa.
Per espiare ogni mia colpa ho bisogno di scrivere, di liberarmi dal peso che mi affligge e che mi fa perdere il coraggio di togliermi la vita.
Ho bisogno di lasciare che sia la carta a portare il mio peso, non riesco più a tenere tutto dentro.
Solo allora potrò andarmene nel silenzio più totale, un posto perfetto per la mia anima.

Caro lettore, è l'autrice che parla!
Questo era il primo capitolo di una storia a cui sto lavorando da un po' di tempo.
È diversa rispetto all'altra storia che sto scrivendo; mentre quest'ultima è più semplice, più tranquilla e occupa
piacevolmente il mio tempo, questa a parere mio, è più impegnativa, più complessa dal punto di vista psichico.
Ed è per questo motivo che adoro scriverla e entrare nella psiche dei mie personaggi.
Non mi dilungo oltre, aggiungo solo che ogni tipo di recensione è gradita, e le critiche sono accettate dalla sottoscritta
come incentivo per migliorare.
Enjoy it! :)
Baci, fe.

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Capitolo 2
*** LUI ***


Sono morto.
Non ho più un'anima da quel fatidico giorno. Non lo scorderò mai, rimarrà per sempre impresso nella mia mente, indelebile, incancellabile. Posso ricordarlo chiaramente, come se fosse accaduto ieri.
Ricordo quella sera, quando il mio amico Leo mi aveva spronato e costretto ad uscire, nonostante volessi restare a casa a leggermi un buon libro.
Nitidamente posso vedere il locale in cui andammo: molto chic, un po' appariscente, ma sopratutto pieno di gente. Non era un locale nel nostro stile e non era il solito che frequentavamo, ma quella sera, per un inspiegabile motivo, decidemmo di cambiare aria.
Ricordo ancora la birra che ordinai, una Becks, ma ancor più nitido è il ricordo dell'istante successivo.
Lei, circondata dalle sua amiche, sedute ad un tavolo, mi stava guardando con i suoi occhi neri come l'abisso. Neri come il cielo stellato, neri come l'universo, neri come il buio della notte.
Fra tutta la gente nel locale, lei scelse me: un povero aspirante poeta-musicista senza il becco di un quattrino.
Il suo volto perfetto mi squadrava ammiccante, l'arcata precisa delle sue sopracciglia sottolineava i suoi occhi grandi, maestosi, avvolti da folte ciglia. Le sue labbra carnose e rosse come il sangue, come la passione e come l'amore che non mi ha mai dato, si aprivano in un sorriso amichevole, che solo dopo scoprii essere tutt'altro. Ella sorrideva perché sapeva di avermi in pugno. E aveva ragione.
Vorrei non averla mai incontrata, lei è stata sicuramente il mio sbaglio più grande, uno sbaglio che ripeterei all'infinito.
Ricordo il momento esatto in cui la vidi: mi si seccò la gola, il mio cuore dapprincipio si fermò, poi, batté all'impazzata.
Non avevo mai visto una creatura tanto armoniosa e piena di grazia. Pensavo fosse un angelo e io un comune mortale, la credevo una dea inavvicinabile e fuori dalla mia portata. Scacciai subito dalla mente il pensiero di avvicinarmi e parlarle, non ero decisamente alla sua altezza! Non appena finii la birra, lanciai un'occhiata furtiva al suo tavolo, ma non la vidi più.
Fui pervaso da un senso di angoscia e delusione: come avevo potuto lasciarmela scappare? “Stupido! Stupido!” Continuavo a ripetermi.
Finché non mi cadde lo sguardo verso l'uscita, dove vidi la sua esile figura aprire armoniosamente la porta per far uscire le amiche, per poi chiuderla, facendo fluttuare i lunghi capelli corvini che le arrivavano ai fianchi.
Per un attimo rimasi di nuovo folgorato. Lei non poteva essere un essere umano, lei era qualcosa di trascendentale, di mistico, era una ninfa dei boschi, una dea greca, un angelo diabolico.
Sconvolto ancora da quell'apparizione, mi congedai da Leo, con la scusa di dover studiare per un esame importante all'università.
Tornai a casa malinconico, con il pensiero di non rivederla mai più.
Sdraiato sul letto, fui colto da un'improvvisa ispirazione poetica e incominciai a scrivere delle poesie, forse le più belle che io abbia mai scritto, come le successive che le dedicai in seguito per farmi amare almeno un po' da lei.
Lei era la mia musa.
Lei è la mia musa.
Lei sarà sempre la mia musa.
Solo ora che guardo lucidamente al passato, mi rendo conto di come fin da subito lei mi avesse imprigionato nel suo incantesimo.
Solo ora capisco appieno le parole di Baudelaire dedicate alla vista di una passante bella, nobile, elegante e maestosa: "la douceur qui fascine et le plaisir qui tue" (la dolcezza che affascina, il piacere che uccide). Io sono morto, morto dentro.
La amo come amo il profumo di pane caldo al mattino, come amo le verdi colline irlandesi, come amo l'odore del mare all'alba, come quando infilo la mano in un sacco di ceci freddi, la amo perché è la cosa più bella e più brutta che mi sia capitata. La amo perché è lei, Francesca, o semplicemente Fra, il mio amore, la mia vita.
Non ho un cuore, non ho un animo, le ho donato tutto pur di farla felice, ma la sua voracità la rendeva insaziabile, ha succhiato ogni goccia del mio sangue. Sono uno zombie che reclama la sua vita, sono una vittima che chiede giustizia.
Non posso dormire, lei si è presa anche i miei sogni, lasciandomi solo degli incubi allucinanti.
Non posso star sveglio, il suo volto occupa insistentemente ogni mio pensiero.
Lei mi ha fatto sentire così vivo e così morto allo stesso tempo.
La voglio togliere dai miei pensieri, la voglio cancellare, eliminare dalla mente.

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Capitolo 3
*** LEI ***


Ufficialmente, ci vedemmo per la prima volta in un locale un sabato sera, in realtà io l'avevo già notato all'università.
Quel suo sguardo malinconico, passivo e triste, quella sua camminata un po' goffa con le mani nelle tasche dei jeans e il volto rivolto a terra.
Lo dovevo conoscere, assolutamente. Dovevo sapere cosa lo turbava e mi affascinava il suo essere diverso, fuori dagli schemi, marginale rispetto alla massa.
Al locale mi bastò uno sguardo per catturarlo nella mia rete.  
Il mio piano stava procedendo splendidamente, come sempre.
Decisi di non avvicinarmi a lui se non dopo una settimana.
Poi, un giorno, decisi che gli avrei parlato. Andai nella segreteria della facoltà, dove sapevo che lavorava per poter frequentare l'università.
Era all'ultimo anno di lettere, io al secondo di medicina. Il mio cuore freddo ed estraneo ad ogni tipo di sentimento era in grado di reggere alla vista del sangue e di ogni organo umano, anche il più rivoltante. Sono affascinata dal sangue, lo sono sempre stata, fin da piccola. Quel colore vermiglio e quel sapore acido mi attiravano come il dolce e biondo miele attira le api.
Lo vidi immerso nei documenti, con il volto abbassato sulle carte.
Mi fiondai davanti a lui e lo salutai con la voce più seducente che mi riusciva. Lui mi salutò, senza distogliere lo sguardo dai fascicoli.
«Scusa, ma ora sono piuttosto occupato» disse senza degnarmi di uno sguardo.
«Non ti voglio rubare del tempo prezioso, mi bastano solo due secondi e poi ti lascio in pace».
Alzò lo sguardo con aria scocciata, ma appena mi vide in volto, il suo viso mutò e mi fissò con la bocca spalancata.
«Avrei bisogno del modulo per l'esonero dal pagamento delle tasse scolastiche»
Lui mi guardò ammaliato e non mi rispose: avevo fatto centro, ne ero sicura!
«Scusa, mi hai sentito? Potresti darmi quel modulo per favore?»
Scosse la testa come risvegliato da un sogno «Io....sì, te porto subito. Posso sapere il tuo nome?» mi chiese senza guardarmi negli occhi.
«Francesca, Francesca Mazzini».
«Ok perfetto, te lo porto subito.» mi disse con lo sguardo rivolto a terra per poi dirigersi verso l'enorme schedario della segreteria. Tornò con il documento in mano e me lo porse guardandomi finalmente negli occhi.
«Sei magnifica» si lasciò scappare con aria trasognante.
«Come scusa?» gli chiesi incuriosita, anche se sapevo perfettamente cosa mi aveva appena detto.
«Niente, niente, scusami, a volte parlo a vanvera» disse con un sorriso imbarazzato guardando a terra e toccandosi i capelli. Ho sempre amato quel suo gesto, l’accarezzarsi i capelli a disagio guardando a terra, lo fa sembrare un cucciolo indifeso.
«Potremmo vederci qualche volta» gli suggerii.
Alzò immediatamente lo sguardo e mi guardò come folgorato «Sì, voglio dire, molto volentieri»
«Solitamente frequento il bar all’angolo, se non sbaglio si chiama “Luna” o qualcosa di simile. Se hai del tempo passa di lì qualche volta, in genere sono sempre là a studiare»
«Io...sì, sì. Ci farò un salto» disse balbettando.
«Perfetto!» dissi infine e me ne andai.
Io lo ammiravo.
Adoravo la sua goffaggine, il modo buffo in cui balbettava.
Adoravo il fatto che fosse totalmente e completamente differente da me.
Adoravo il modo in cui mi guardava, in cui volevo essere guardata.
Lui se ne infischiava del giudizio degli altri, era semplicemente se stesso.
Si vestiva come voleva, senza aver paura di violare qualche sacro canone della moda.
Scriveva poesie e non si vergognava di farle leggere agli altri.
Parlava di sé e amava stare in compagnia.
Aveva sempre i capelli in disordine, non si curava di pettinarli, di sistemarli.
Era l’imperfezione fatta a persona e questa era la qualità che più apprezzavo in lui.
Io volevo essere Marco, volevo avere il suo coraggio, la sua passione, il suo cuore.
L’ho distrutto per potermi impossessare della sua anima, del suo spirito puro, per poter redimere i mali della mia mente.
Non sono mai riuscita a diventare come lui: mentre il suo cuore batteva per i suoi ideali, per la libertà, per l’indipendenza e per me, il mio cuore non batteva, se ne stava fermo, avvolto in una coltre di nebbia e ghiaccio.
In passato, ho sempre anelato alla perfezione e solo ora mi rendo conto che la perfezione era lui, Marco, con i cappelli arruffati e la barba incolta.
Aveva ragione, io non sono nessuno, sono soltanto il prodotto dei miei genitori. Sono la loro macchina da guerra a cui non hanno tolto il tasto di autodistruzione.
I miei genitori.
L’alto nome della nostra famiglia, l’onore dei nostri discendenti, la purezza del nostro sangue nobile.
Se solo penso a loro, un brivido freddo mi scorre per tutta la schiena. Anche ora che scrivo di loro, ho come il terrore che siano dietro di me e che mi stiano giudicando.
Io ho paura di loro, mi terrorizzano, mi mettono in soggezione.
Non li odio, non potrei mai odiarli, provo solo terrore, ansia e angoscia nei loro confronti.
I loro silenzi quando avevo cinque anni, i loro rimproveri quando ne avevo 15, i loro volti entusiasti quando decisi di iscrivermi a medicina.
Sì, loro volevano un medico, loro volevano la figlia perfetta, la figlia che tu tutti dovevano ammirare, la figlia che tutti i vicini e amici avrebbero voluto.
Sono sempre stata al loro gioco, ho sempre portato la maschera della brava bambina e loro sono sempre riusciti a nascondere agli altri i miei tentati suicidi, le mie fughe, i miei incontri con lo psicologo, le mie continue depressioni. D’altronde, con tutti i soldi di cui hanno sempre disposto, non hanno mai avuto problemi a pagare il silenzio degli altri ed il mio.
Non ricordo un abbraccio, non ricordo un bacio.
Da piccola non piangevo mai, non si poteva.
Ero una bambolina, una bella bambola di porcellana.
Tutto quello che ricordo della mia infanzia è il silenzio, puro e soffocante silenzio.

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