Profumi di menta e vaniglia.

di BlueCinnamon15
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


capitolo 1

Benissimo gentaglia, innanzitutto buongiorno, o forse è meglio dire BUONASERA!
Eccomi qua con una nuova storia, non mi ricordo neanche come mi sia venuta inmente, so solo che un pomeriggio sono corsa a casa da scuola con le mani che fremevano perchè avevo una nuova idea e volevo scrivere.
Spero non sia un fiasco totale, ci sto davvero mettendo l'anima e mi farebbe piacere ricevere dei pareri, giusto per sapere se vale la pena continuare o no. *faccina-con-occhi-come-quelli-del-gatto-con-gli-stivali*
Ah, e non preoccupatevi, so che è un capitolo un po' da suicidio perchè è piuttosto malinconico, ma vi prometto che le acque si smuoveranno.

Un grazie a tutti

Buona lettura

Capitolo 1

 
Lo scroscio degli applausi riempì il teatro quando Kurt terminò il suo ultimo assolo. Fu talmente forte e pieno che ne fece tremare le pareti, gli rimbombò nelle orecchie e arrivò dritto al cuore, facendolo pulsare più forte.

Le guance gli si colorarono di rosso acceso e gli occhi brillarono riempiendosi di lacrime malcelate di felicità e soddisfazione, di fronte a quell’ aspettato successo.

Kurt amava paragonare come si sentiva sul palco all’ innamorarsi, il cuore che batte più forte, la sensazione di galleggiare nell’ aria, gli occhi lucidi e l’emozione che rimane intrappolata nella gola, impendendone il respiro.

Amava pensare ciò perché forse lo aiutava a sentirsi un po’ meno solo, un po’ meno triste, e lo illudeva che la sua vita fosse un successo in tutti i campi, non solo sul palcoscenico.

Kurt era veramente innamorato, era innamorato delle travi di legno scuro del teatro di Broadway, del pesante tessuto rosso del sipario, del sottile filo di luce che si intravedeva tra i due lembi accostati, quando lo spettacolo non era ancora iniziato e la sala iniziava a riempirsi, amava i profumi delle donne di alta classe che si sedevano nei divanetti sventolando un ventaglio ostentandone gli intarsi di diamanti, e i minuscoli grani di polvere che intravedeva nell’ aria quando cercava di distrarsi per non cadere nel panico.

Ma soprattutto amava il credersi innamorato. Perché se non si fosse creduto tale probabilmente sarebbe affondato, scivolato su una di quelle belle travi marroni o inciampato nel tessuto rosso cadendo dal palcoscenico rimanendo fermo, immobile.
Perché solo quando recitava e cantava riusciva a vivere, gli applausi erano il suo ossigeno, il resto, la sua vita al di fuori dei musicals, era solo una mera successione di eventi di poca importanza, così come le numerose donne che aveva avuto. Non contavano niente.

Era questo che aveva deciso di amare tempo addietro. Aveva potuto scegliere, e aveva scelto.

Si sentì raggiungere dai suoi colleghi che lo circondarono e, stringendosi le mani e portandole in aria, si inchinarono al pubblico che applaudiva.

Poi, in un rituale consolidato di spettacolo in spettacolo, lo sospinsero in avanti, permettendogli di raggiungere il centro del palco.

Senza vergogna fece una piroetta su sé stesso e si inchinò più profondamente, sentendo con compiacimento il rimbombo degli applausi aumentare vertiginosamente. Poteva addirittura sentire le mani degli spettatori arrossarsi per lo forza con cui lo applaudivano.

Indietreggiò tornando dagli altri e, dopo un ultimo inchino, il sipario si chiuse.

 

 Era ormai da due anni che lavorava a Broadway. Due anni pieni, si disse Kurt mentre, nel suo camerino, si toglieva il costume di scena.

Pose la calzamaglia sulla sedia accanto, e passò una buona quantità di salviettine struccanti sul viso, cercando di togliere il pesante strato di cipria che era costretto a mettere ogni spettacolo.

Era il momento più difficile della giornata, quello. Lo svestirsi segnava in modo definitivo il suo ritorno alla vita reale, sempre che per Kurt fosse più reale la vita fuori che dentro il teatro.

Ormai neanche lo sapeva più.

Vivere era diventato meccanico, come se dormire e magiare e camminare fossero solo una cornice non degna di grande attenzione.

Quando, nei momenti di maggiore sconforto, si ritrovava a pensare alla sua vita, a quello che aveva passato, si portava istintivamente le mani alla bocca, chiudeva gli occhi e canticchiava qualcosa per cancellare le immagini che riaffioravano dolorosamente alla memoria.

Cantare lo distraeva. Lo aveva sempre fatto e sempre lo avrebbe continuato a fare. Ne era sicuro.

Quando finì di rimuovere il trucco dal viso, indossò i suoi jeans da mille dollari a gamba e una delle sue ormai infinite magliette: se c’era qualcosa di cui almeno non si doveva preoccupare erano i soldi. Lavorare a Broadway fruttava bene, e almeno quello contribuiva a rendergli la vita più facile: non sarebbe mai rimasto senza soldi per la sua mania compulsiva di comprare vestiti firmati. No, quello non sarebbe decisamente mai stato un problema.

I soldi erano uno dei ragionamenti cinici che si costringeva a fare ogni giorno: lo distraevano. E non desiderava altro.

Non aveva mai desiderato altro.

Almeno non da quando si costringeva a ricordare.

 

 

Si stava mangiando le unghie dal nervoso.

Dannazione! Pensò quando se ne accorse,  Non le mie unghie, non le mie unghie così perfettamente e amorevolmente curate.

Così si costrinse ad allontanarle dai denti che continuarono a sbattere, non trovando però niente con il quale soddisfare la loro frustrazione.

E’ un’ ora che sono seduto qui, un’ ora! Quando si decideranno a venire a dirmi qualcosa, è una questione così difficile da decidere?

Poi si diede mentalmente dello stupido perché, sì, era una questione difficile, difficile quanto importante, avrebbe determinato il suo futuro, nel bene o nel male.

Il ragazzo al suo fianco fece un sorriso tirato, si vedeva che anche lui era nervoso, anche se cercava di non sembrarlo, d’altronde era lì per sostenere il suo ragazzo, non per renderlo ancora più spaventato.

Lentamente lasciò scivolare lo sguardo su di Kurt. Lo vide corrugare le sopracciglia in un’ espressione eccessivamente affranta nel notare le unghie ormai rovinate, lo vide cercare di rilassarsi prendendo due respiri profondi, e chiudere gli occhi canticchiando un motivetto per calmarsi.

Poi vide sé stesso allungare la mano prendere quella del compagno, e gli sorrise, mettendo in quel sorriso tutta la fiducia ed il calore che gli riuscì. L’altro ragazzo aprì gli occhi, smise di cantare e sorrise in risposta, facendogli capire che apprezzava il tentativo, ma che neanche lui sarebbe mai riuscito a calmarlo in una situazione simile.

Improvvisamente la porta di legno scuro intagliato si aprì, ed il direttore del teatro, un uomo sulla settantina con una folta barba bianca ed un cipiglio fin troppo severo, ne uscì  chiamando il nome di Kurt. Quest’ultimo saltò in piedi in una frazione di secondo, inciampando su se stesso e rischiando di cadere a terra, se non fosse stato per il ragazzo a fianco che, conoscendo la sua scoordinazione unita all’eccitazione del momento, aveva avuto il presentimento di ciò che stava per accadere e l’aveva afferrato saldamente fermando la caduta.

Aveva poi allargato le labbra nel più grande sorriso che aveva potuto, e, stringendo Kurt in un caloroso abbraccio, aveva  poggiato la faccia sul suo cappotto blu scuro, inspirandone il fresco profumo di menta e vaniglia.

L’uomo, ancora fermo vicino a loro ,si era quindi schiarito la gola con un’ espressione scocciata picchiettando con la punta della scarpa sul pavimento.

“Buona fortuna Kurt” gli sussurrò quindi dolcemente l’altro ragazzo.

“Grazie, Blaine”

E staccandosi da lui si diresse velocemente verso la porta seguendo il direttore del teatro.

 

 

Blaine.

Quel nome ancora gli lasciava l’amaro in bocca, quelle poche volte che si permetteva il lusso di pensarlo. Il che non succedeva spesso. Anzi, quasi mai.

Indossò il cappotto blu scuro, il suo preferito, e, chiudendo la porta dietro di sé, s’incammino fuori dal teatro.

Declinò cortesemente le proposte dei suoi colleghi di uscire insieme a bere qualcosa e, non appena fuori, respirò a fondo l’aria fresca di New York.

New York che ormai era casa sua, New York che gli ricordava che i sogni si possono avverare, credendoci. Ma New York che gli ricordava anche che il suo, di sogno, non si era avverato per davvero, non interamente, almeno. New York che stava diventando una prigione sicura.

Blaine.” Pronunciò lentamente quel nome, assaporandone il retrogusto dolciastro.

Quando però si accorse di cosa aveva fatto si insultò mentalmente, non doveva lasciarsi andare in un modo così esagerato, non doveva permettersi di lasciare che la sua mente vagasse così liberamente.

 

 

Quando Kurt attraversò la porta seguendo il direttore del teatro sentì il freddo invadergli le membra per aver lasciato Blaine nella sala d’aspetto, ma si impose di non pensarci, c’era già il nervosismo a renderlo incapace di ragionare razionalmente.

Il direttore lo condusse attraverso un dedalo di porte e corridoi verso il suo ufficio e lo fece accomodare su una sedia di fronte ad un’ elegante scrivania, mentre lui prendeva posto dall’ altro lato, sedendosi su una poltrona imponente.

“Bene” iniziò toccandosi la barba con fare pensoso e ordinando un plico di fogli sull’ angolo della scrivania “Kurt Hummel, giusto?”

Kurt annuì in preda all’ agitazione. Le mani che si muovevano torturandosi a vicenda, i denti che battevano, il sangue che gli pulsava nelle orecchie, il respiro che saliva a fatica.

“Ha passato le selezioni.”

Oh.

Si era preparato talmente tanto a ricevere un rifiuto, aveva immaginato talmente tante volte il momento in cui gli avrebbero comunicato che non aveva passato la selezione che non aveva minimante pianificato a come reagire in caso contrario.

Forse fu per quello che non appena lo sentì gli sembrò che il cuore si fosse fermato per un impercettibile secondo, che il suo stomaco gli fosse arrivato in gola insieme ai suoi polmoni.

Non era pronto, non era assolutamente pronto.

Una lacrima si affacciò agli occhi ormai rossi ma Kurt si affrettò ad asciugarla.

Non sapeva cosa dire, non aveva parole, boccheggiò per qualche secondo ma le nessun suono gli uscì di bocca.

Era il sogno di una vita. Che si avverava.

Quando vide che il ragazzo non accennava a parlare il direttore, comprendendone l’emozione, aggiunse che le prove per il musical sarebbero iniziate il giorno successivo e che avrebbe dovuto presentarsi un attimo prima dell’ orario prestabilito per prendere familiarità con i colleghi e con la troupe.

Kurt annuì ancora senza fiato e, dopo aver stretto la mano al direttore ed averlo ringraziato in tutti i modi possibili, si fiondò fuori dalla porta, tra le braccia di Blaine il quale capì, con una sola occhiata, che ce l’aveva fatta, che era andato tutto bene.

 

 

Kurt spalancò le braccia per attirare l’attenzione di un qualche tassista, e, con sua enorme fortuna, uno si fermò subito vicino al marciapiede.

Dopo esserci salito, gli disse l’indirizzo del suo appartamento, poi si appoggiò sul sedile e chiuse gli occhi, massaggiandosi le tempie e cercando di non pensare a niente.

Le luci di New York saettavano veloci fuori dai finestrini dell’ auto, spettacolo suggestivo per un turista, ma non di grande rilevanza per Kurt, che ormai era abituato.

Quando il tassista annunciò che era giunto a destinazione prese una manciata di soldi dal portafoglio e glieli porse, dicendo che il resto lo avrebbe potuto tenere, quindi si affrettò ad uscire dal taxi, non sopportando l’odore di muffa ed usato che ne impregnava i tessuti.

Cercò le chiavi nella sua borsa in ecopelle preferita e velocemente aprì la porta del suo loft, poggiò le chiavi sul comodino, appese il cappotto all’ appendiabiti vicino alla porta e si sdraiò sul divano rifugiandosi nella quiete.

Odiava quella quiete, perché lo faceva pensare. Aveva paura della notte, di quando si ritrovava da solo, perché i pensieri sarebbero inevitabilmente riaffiorati, e così ai ricordi.

Ed era per quello che quando poteva si circondava di persone, perché lo distraevano.

Si maledisse mentalmente per non aver accettato l’invito dei suoi colleghi. Tanto l’importante sarebbe stato fare presenza, intervenire due o tre volte nella conversazione, e poi ascoltare i loro discorsi lunghi ed inutili. Quello sì, che sarebbe stato utile. Avrebbe avuto la testa troppo impegnata a chiedersi come mai esistessero ancora stupide persone che credevano che il leopardato andasse di moda, per pensare al passato.

Invece si trovava sul divano, inerme, e quel giorno la sua mente sembrava molto più propensa del solito a lasciarsi andare, e quello non aiutava di certo.

Improvvisamente sentì il rumore del chiavistello girare e la porta sbattere. Non aprì gli occhi. Probabilmente era una ragazza. Bene. Significava distrazione.

Il tocco delicato di due mani lo raggiunse pochi attimi dopo attraverso la stoffa sottile della camicia, e, tra le ciglia semichiuse, intravide un viso famigliare.

Neanche se ne ricordava il nome, probabilmente era qualcosa di simile a Danielle o Michelle. Poco importava.

La ragazza iniziò a sbottonargli lentamente il colletto della camicia, i sui capelli che gli solleticavano il mento.

Non disse niente. Non diceva mai niente, perché gli unici sentimenti che provava erano disgusto e solitudine. Infinita, profonda, amara, cara, intima solitudine.

Con un sospiro si preparò a mentire un’altra volta, prima alla ragazza che si stava strofinando contro di lui ed infine a sé stesso.

 

 

 

Blaine si aggiustò il colletto della camicia guardandosi allo specchio e si annodò, con patologica lentezza, il suo papillon rosso.

Se c’era una cosa che adorava nell’ insegnare alla Dalton era che finalmente poteva vestirsi come voleva e rinunciare a quell’ orribile cravatta che sempre aveva odiato.

Guardò l’orologio e si accorse che il suo amore per il fiocco annodato con precisione millimetrica gli aveva fatto perdere un’ enorme quantità di tempo, e che ormai sarebbe arrivato inesorabilmente in ritardo alla lezione.

Poco male, i suoi studenti lo adoravano anche per i pochi minuti che guadagnavano dopo il suono della campanella. Ormai conoscevano tanto bene il loro professore da sapere che la sua seconda malattia, oltre ai ridicoli fiocchettini con cui adorava strozzarsi il collo, era il ritardo.

Blaine era un ritardatario, cronico. Senza speranza di redenzione.

Quest’ultimo si affrettò quindi, maledicendosi mentalmente, a prendere la sua tracolla con i libri, chiudere la porta del suo alloggio nella scuola e correre come un forsennato per raggiungere la sua aula.

Giunto davanti alla porta prese un respiro profondo, giusto per non avere l’espressione addormentata di un bradipo e si passò una mano nei capelli per sistemarseli.

Quando però si accorse che erano privi del consueto strato di gel quasi imprecò ad alta voce.

Se n’era scordato. Bene, quella giornata iniziava male, molto.

Appena mise piede nella classe gli alunni corsero ai loro posti, fingendo di esserci sempre stati, e non di essere appena stati beccati a chiacchierare con un compagno dalla parte opposta dell’ aula, ad essere appoggiati alla finestra a raccontarsi gli ultimi pettegolezzi o, ultimo ma non per importanza, a ballare la macarena facendo girare la cravatta sulla testa saltellando da un banco all’ altro. E con saltellando da un banco all’ altro si intende sopra il banco.

Blaine raggiunse la cattedra con studiata lentezza e assunse il cipiglio più severo che aveva nel suo repertorio, anche se dentro di sé ridacchiava e ricordava con nostalgia i momenti in cui anche lui era stato un alunno spensierato come i ragazzi in quella stanza.

Gli mancavano quei tempi. Dannazione se gli mancavano.

Costringendosi a cambiare la direzione dei suoi pensieri e vedendo che la classe continuava a parlare e non accennava a smettere si schiarì la voce attirando la loro attenzione.

“Buongiorno ragazzi” disse quindi.

Un mugugno indistinto si levò tra le file. Il professor Blaine Anderson, dall’ alto dei suoi venticinque anni, poteva anche essere il professore più simpatico e disponibile di tutta la scuola, ma perdeva di sicuro mille punti per il solo fatto che insegnasse storia.

Già, quello decisamente non lo aiutava ad essere apprezzato dai suoi studenti che ogni volta che leggevano sui loro orari la parola storia venivano presi dal panico.

L’ora passò in fretta. Almeno, per lui molto in fretta, per gli studenti scommetteva che era stata una vera a propria tortura. Ben sessanta minuti sulla guerra di secessione. Da suicidio.

Fortunatamente per loro Blaine aveva deciso che la prossima lezione l’avrebbe dedicata a guardare un film sull’ argomento.

Quando la campanella suonò si diresse verso la caffetteria.

Ricambiò il saluto di qualche studente che si affrettava in ritardo verso la sua classe e non appena entro nel piccolo locale sentì subito la fragranza di caffè invadergli le narici. Ah, il suo amato caffè. Non avrebbe mai resistito senza.

Seduto da solo ad uno dei tavolini del bar si perse a guardare i disegni del vapore che saliva dalla tazza di caffè fumante, divertendosi a soffiarci sopra per dissolverli.

 

 

Il giorno dopo l’audizione Kurt si era svegliato prestissimo. Se lo ricordava benissimo perché, essendo che dormivano nello stesso letto, non appena era balzato a sedere per il suono della sveglia il materasso si era alzato di colpo, infliggendo a Blaine un doloroso colpo alla spina dorsale.

Ricordava se stesso insultare ad alta voce il compagno e poi girarsi e tentare di tornare a dormire.

Fatica sprecata perché Kurt gli si era letteralmente gettato addosso urlandogli che era il gran giorno, che non gli avrebbe più parlato se, citando letteralmente, non avesse mosso quelle chiappe dal letto e non si fosse fatto trovare pronto per accompagnarlo a teatro, in cinque minuti.

Temendo le ire del suo ragazzo Blaine aveva fatto esattamente come richiesto. Si era fiondato giù dal letto e aveva occupato il bagno, sapendo ormai bene che se Kurt ci fosse entrato prima di lui sarebbe stata la fine.

Ricordava poco di quello che era successo poi, solo sprazzi dai colori confusi. Ricordava di aver bevuto tre caffè bollenti tutti di fila, per cercare di restare sveglio e di aver raggiunto il teatro con un taxi maleodorante.

Si ricordava che Kurt gli aveva stretto la mano talmente forte che credeva gliel’avrebbe distrutta.

Si ricordava stringerlo in un abbraccio soffocante prima di lasciarlo entrare in teatro, e di avergli sussurrato che l’amava e che era fiero di lui, che se lo meritava e che avrebbe fatto venire i brividi a tutti.

Quella era l’ultima volta che aveva avuto un contatto del genere con Kurt.

E tutto cio che successe dopo se lo ricorava bene, purtroppo.

 

 

“E’ libero, qui?” una voce lo risvegliò dai suoi pensieri, sollevò velocemente lo sguardo e vide un uomo, probabilmente della sua stessa età, rivolgergli un timido sorriso.

Si guardò un attimo intorno notando che tutti i posti nella caffetteria erano occupati, quindi rivolse lo sguardo al suo interlocutore e, sorridendo a sua volta, ripose affermativamente.

L’uomo prese posto nella sedia davanti a lui e gli porse la mano.

“Steve Dover, sono un nuovo insegnante” si presentò.

“Blaine Anderson, confinato in questo posto sin dal liceo” sorrise in tutta risposta il moro stringendogli la mano mentre per un secondo si concedeva il lusso di osservare il nuovo arrivato: alto, muscoloso, capelli castani e due grandi occhi verdi.

Poteva non aver avuto una relazione con un altro uomo da tanto ma Blaine sapeva riconoscere quando una persona era bella. E lui era bello. Dannatamente bello, e con un fare leggermente impacciato che lo rendeva ancora più interessante.

Rendendosi conto di dove erano andati a finire i suoi pensieri arrossì improvvisamente e si aggrappò al primo argomento che gli veniva in mente per fare un po’ di conversazione.

“Allora, ehm, Steve” si schiarì la voce in imbarazzo “Come mai qui alla Dalton?”

Cretino si insultò tra sé e sé, se è un insegnante sarà qui per insegnare, no?

Quello non sembrò accorgersi dell’ ingenuità della domanda “Insegno letteratura, sono qui in sostituzione al professor  Phillips, che è appena stato trasferito. Tu, Blaine, che cosa insegni?”

Blaine.

Era bello il suo nome pronunciato da lui, così consapevole.

Non si sentiva così da tanto. Non sentiva quel leggero battere del cuore nel petto da due anni ormai.

Forse non era esattamente la stessa cosa di quando stava con Kurt, con lui il cuore martellava quasi volesse uscire dal petto, ma quel battito leggermente velocizzato era comunque un buon inizio.

“Kurt.”

Sussultò quando si accorse di quello che la sua mente aveva appena formulato, di quello che si era imposto come termine tabù, e che invece aveva appena pronunciato, a bassa voce, senza neanche rendersene conto.

Steve sembrò accorgersene perché chiese se andasse tutto bene, e Blaine, riacquistando il sorriso di sempre, disse che si era semplicemente distratto un momento e si affrettò a rispondere alla domanda.

“Mi hanno affibbiato storia, perché evidentemente direttore del coro della scuola non è valido come lavoro”

“Direttore del coro?” chiese Steve stupito “Avete un coro, in una scuola di soli ragazzi?”

Blaine annuì compiaciuto “Sì, e sono anche bravi. Questa Domenica si esibiscono per gareggiare alle Provinciali contro latri licei della zona, puoi venire a vederli se vuoi”

StupidoStupidoStupidoStupidoTroppoAvventatoTroppoAvventanto.

“Volentieri” disse invece Steve, sorprendendolo.

Oh. Questo cambiava le cose.

“Perfetto” disse allora Blaine cercando di darsi un po’ di contegno e di non mostrare quanto la sua risposta lo avesse sorpreso e destabilizzato.

Non era più abituato a parlare con un bel ragazzo. No davvero.

“Ora devo andare” disse il moro ricordandosi che aveva un appuntamento per pranzo “Mi raccomando. Ti aspettiamo Domenica alle nove di sera all’ auditorium del McKinley.”

“Non mancherò per nulla al mondo”

Blaine era pronto a giurare che gli avesse appena fatto l’occhiolino.

 

 

Entrò nel ristorante italiano in ritardo di venti minuti, tanto per cambiare.

Non appena adocchiò Rachel Finn Brittany e Santana si affrettò a raggiungerli.

“Ehi” li salutò appena arrivato.

“Ti stavamo dando per disperso, gnomo” lo salutò amorevolmente Santana, ricevendosi una gomitata da Brittany che la guardò con fare ammonitrice, obbligandola a chiedere scusa, cosa che le sembrò costare un enorme sforzo.

Rachel e Finn si limitarono a sorridergli  teneramente.

Grazie al cielo aveva ancora loro ad aiutarlo ed a fargli dimenticare qualsiasi motivo per essere triste.

“Allora Blaine, come va la vita alla Dalton?” Chiese Rachel mentre il moro prendeva posto al tavolo con loro.

“Come al solito, studenti che saltano dalla gioia quando annuncio che non interrogherò e che si mettono a recitare il padre nostro quando invece c’è una verifica, l’unica cosa che rende felici tutti rimangono ancora le lezioni con gli Warblers, quelle vanno decisamente bene.” Guardò Rachel con un sorriso di sfida e aggiunse: “Quest’anno il tuo Glee Club non riuscirà a battermi, Rachel, te lo puoi sognare.”

La ragazza non sembrò minimamente toccata.  “Abbassa la cresta Blaine, non sarà così facile sconfiggermi, un altro anno le Nuove Direzioni passeranno le selezioni. Non so se te lo ricordi ma stai parlando con la più richiesta allenatrice di Glee Clubs di tutto l’Ohio”

Blaine sorrise al tono combattivo della ragazza ed alzò le mani in segno di resa.

Il pranzo passò velocemente, tra chiacchiere sulla squadra di Cheerleaders che Santana e Brittany allenavano, i racconti delle numerose vittorie di Finn nella nazionale di football, e gli infiniti sproloqui di Rachel su quanto sia difficile girare per tutto l’Ohio essendo enormemente richiesta da tutti i maggiori cori di canto coreografato.

Blaine adorava quei momenti, quando tutti si riunivano e parlavano delle loro vite. Certo, non accadeva spesso. Erano rari i momenti in cui si trovavano tutti a Lima, ma quando capitava non potevano di certo mancare i loro ritrovi.

La porta del ristorante sbatté di colpo facendo voltare i cinque amici contemporaneamente.

“Mercedes!” un urlo di sorpresa si levò da loro alla vista della ragazza che era appena entrata.

“Sorpresa” disse in tutta risposta quella prendendo una sedia e sedendosi vicino a loro.

Blaine fu il primo a risvegliarsi dallo shock in cui tutti erano caduti dopo il suo arrivo, dopo averla guardata con la bocca spalancata per una quantità di tempo infinita.

“Ma.. Ma.. Che ci fai qui? Non ti aspettavamo! Credevo- Credevo fossi a New York!”

Mercedes sorrise agli amici e mandò uno sguardo complice a Rachel, con la quale aveva segretamente organizzato il suo arrivo.

“Diciamo che avevo bisogno di una pausa” sorrise “e poi” aggiunse con una faccia esageratamente affranta “essere una cantante famosa è stancante, davvero, non ve lo augurerei mai!”

Tutti risero e iniziarono a tempestarla di domande su come fosse la vita a New York, su dove avesse trovato casa, su come fosse essere la cantante blues più richiesta in tutti i locali più in, quelli frequentati da VIP del calibro di Brad Pitt, per intenderci.

“…E poi dovreste vedere Starbucks, ogni volta che ci entro è una gioia per i miei occhi e per il mio palato,e ah la statua della libertà! Ogni volta che la vedo mi emoziono, è così.. così.. così grande!”

Tutti risero, gli occhi spalancati per l’invidia e luccicanti per il desiderio di essere nei panni della fortunata Mercedes.

“Ma la cosa più bella” aggiunse poi con gli occhi spalancati per l’emozione “e’ Broadway. Davvero ragazzi, ho appena visto una replica del Moulin Rouge che mi ha fatto piangere! Sul serio!”

Tutti la ascoltarono rapita raccontare di quanto fosse bello l’attore principale, di come la ragazza che cantava avesse la faccia da spocchiosa, di come le scenografie fossero grandiose, e, soprattutto, di come fossero comode le poltroncine in prima fila

Forse fu per quello che quando Brittany, molto ingenuamente, pose la domanda, il suo effetto fu così accentuato.

Perché non ci stavano proprio pensando, a quello. E, Dio, ci stavano riuscendo, per una volta ci stavano riuscendo.

“Ma Kurt non lavora a Broadway?”

 

 

Quella mattina Blaine aveva deciso di andare a fare una passeggiata in giro per negozi, gli serviva assolutamente un papillon verde da abbinare ai pantaloni che aveva appena comprato, e decise quindi di sfruttare il tempo durante il quale Kurt faceva le prove a teatro.

Passeggiò dunque nel centro di New York entrando in ogni negozio strano che adocchiava per cercare quel maledetto papillon che nessuno sembrava avere.

Ma insomma come si poteva vendere un papillon verde pino, verde sottobosco umido, verde limone, verde acqua di lago, verde acqua di mare, verde acqua di stagno, verde vomito, verde erba in primavera, verde erba in estate, verde erba quando un gatto ci ha urinato sopra e mille altre tonalità improponibili di verde e non un semplice e dannatissimo verde?

Blaine era così uscito distrutto da una sessione di shopping che non gli aveva fruttato niente ed era tornato al teatro per aspettare Kurt, sapendo che il solo vederlo gli avrebbe illuminato la giornata.

Non si aspettava sicuramente però di non trovarlo fuori ad aspettarlo.

Guardando confuso l’orologio  si era domandato perché mai non ci fosse, illudendosi poi che le prove si fossero protratte più a lungo del dovuto. Quindi si era seduto su un panchina ad aspettare tranquillamente. Quando però un’ ora era ormai passata si era deciso a farsi coraggio, alzarsi ed entrare a cercarlo nel teatro.

Tutto ciò che aveva trovato erano degli inservienti che si occupavano di pulire i pavimenti e che, con espressione scocciata, gli avevano detto che gli attori  se n’erano andati già da un paio d’ore e che lì non avrebbe trovato nessuno.

 

 

Finn spalancò gli occhi e boccheggiò.

Santana guardò la sua ragazza e le diede uno scappellotto sulla nuca guardandola con un’ occhiata ammonitrice.

Brittany, dal canto suo, si guardò in giro spaesata chiedendosi che cosa avesse detto di male.

Rachel iniziò a ridacchiare nervosamente.

Mercedes cercò di rimediare fingendo che non fosse successo niente e cercò disperatamente un argomento, anche il più stupido, a cui aggrapparsi per deviare il discorso, ma la sua mente era andata completamente in blackout.

Blaine rimase semplicemente bloccato.

La mascella si contrasse e le mani afferrarono convulsamente i bordi del tavolo facendo diventare le nocche bianche per la pressione.

Abbassò lo sguardo cercando di mascherare il fatto che, se lo sentiva, il colore avesse repentinamente abbandonato le sue guance e che gli occhi fossero diventati lucidi.

Riprenditi. Non è successo niente. Ci stavi riuscendo così bene, Blaine. Non rovinare tutti i progressi che hai fatto.

Sentì una mano delicata prendere le sue e stringerle, per comunicargli che non era solo, che ci sarebbe sempre stato qualcuno con lui, e si lasciò andare ad un gemito sconsolato e liberatorio, che gli fece tremare la colonna vertebrale.

Alzò gli occhi e incontrò quelli di Mercedes, che d’istinto strinse le mani ancora più forte.

si disse non sei solo Blaine.

Evitò però di pensare a quando la notte si svegliava, gli occhi lucidi e le mani tremanti, cercando invano nel letto un corpo caldo che, puntualmente, non trovava.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2
Ok, buongiorno popolo di EFP!

Stare la mattina  casa da scuola è veramente supermegafoxyawesomehot!
Comunque, ieri sera, complice la casa libera perchè i mei non c'erano, ho finito il secondo capitolo (E ne ho sentite su una marea quando sono tornati a casa e si sono accorti che ancora stavo scrivendo, sigh)
Quindi oggi aggiorno, non vedevo l'ora, davvero, non riuscivo ad aspettare e quindi, anche se mi ero ripromessa di aspettare, eccomi qui a pubblicare!
Ringrazio per i consensi ricevuti, davvero, e prometto che non appena pubblico rispondo anche alle recensioni, che ringrazio infinitamente. (Vi amo)
Vi prometto che questo sarà l'ultimo capitolo depresso della storia, dal prossimo in poi le cose si smuoveranno! E ci saranno anche incontri intereressanti.
Sembrerò una mendicante che implora recensioni, e probabilmente è quello che sono quindi, ci prego, fatemi sapere che cosa ne pensate! Anche in negativo, mi farebbe molto piacere.
Un abbraccio
Spero che il capitolo vi piaccia
BluCannella

Capitolo 2

Kurt quella mattina si svegliò più tardi del solito.

Allungò le braccia sopra la testa e si stiracchiò, sentendo tutte le giunture del suo corpo che scricchiolavano.

Decisamente non una bella sensazione.

Si girò lentamente sui fianchi per poi notare che il letto era vuoto. Poco male, non gli importava granché che la ragazza restasse, anzi non gliene importava proprio niente.

Pensò che ancora non se ne ricordava il nome. Aveva smesso di curarsi dei nomi da tempo ormai, rendevano solo più facile il ricordarsi di ciò che era costretto a fare, e lo rendevano più reale. Dannatamente reale.

Svogliatamente uscì dalle lenzuola e posò i piedi sul pavimento del suo appartamento.

Freddo.

Rabbrividì ed istantaneamente contorse i piedi affrettandosi a cercare le sue ciabatte.

Se le infilò in fretta e subito dopo indossò una tuta sgualcita.

Sorrise tra sé pensando a quello che i suoi vecchi amici avrebbero detto riguardo a quell’ inusuale scelta di vestiti. Lui, Kurt Hummel, con una tuta? Non era possibile. O almeno, non per il vecchio Kurt.

Quello nuovo ne aveva maledettamente bisogno, invece, aveva bisogno di riposarsi, di non dover preoccuparsi di come apparisse al mondo, come era costretto a fare ogni volta che aveva un’ intervista o che qualcuno lo fermava per strada.

E Kurt era stanco di fingere. Stanco di fingere che andasse tutto bene, che tutto ciò che stava passando non gli pesasse, che la sua vita non gli pesasse.

Perché era proprio così che andavano le cose.

Kurt non sopportava più se stesso, quello che era stato costretto a diventare.

No, si corresse, quello che aveva scelto, di diventare.

Si trascinò i cucina dopo aver fatto tappa in bagno per sistemare quel disastro che era la sua faccia di prima mattina.

Preparò un caffè caldo fumante e mentre aspettava che si riscaldasse indossò un cappotto per ripararsi dal freddo ed uscì dall’appartamento per prendere la posta della mattina.

Scese di fretta le scale ed aprì la cassetta della posta, trovandoci dentro una copia di Vogue, un’ ossessione che non aveva mai perso, e due lettere a cui non diede molto peso.

Tornato nell’ appartamento si sedette sul divano, la tazza di caffè in una mano ed il giornale poggiato sulle ginocchia, non curandosi delle due buste che erano state poggiate malamente sul tavolo in cucina.

Neanche sperando che una di quelle avrebbe potuto cambiargli la vita.

Semplicemente aveva smesso di sperare che esistesse qualcosa che potesse farlo.

 

 

“Ehi bella ragazza!” Ululò un uomo che camminava in gruppo, in mano una bottiglia di birra di dubbia qualità “Che ne dici di farti un giro con il vecchio Tom, eh?”

Uno scoppio di risate accompagnò quell’ esclamazione, ma la ragazza non volse lo sguardo verso la fonte di quelle urla; aveva ormai imparato ad ignorare i commenti volgari degli ubriachi che affollavano le strade di New York il Sabato sera.

Camminò più svelta stringendo le mani l’una nell’ altra, come gesto istantaneo di protezione, e quando vide l’insegna dell’ Anonymus si lasciò sfuggire un sospiro che la aiutò a scaricare la tensione.

Notò la coda della gente che aspettava davanti all’ entrata e John, il buttafuori, che cercava di contenere le persone che avevano appena giurato di aver visto Anne Hathaway entrare accompagnata da un collega.

Cosa che probabilmente era vera.

Mercedes fece un cenno di saluto a John, che subito la riconobbe e le permise di superare la coda.

“Ciao bellezza” ammiccò lui sorridendo sornione.

Lei in tutta risposta gli schioccò un sonoro bacio sulla guancia e si diresse verso l’interno dell’ edificio.

Mercedes faceva ancora fatica a credere che quella che stava vivendo fosse davvero la sua vita.

Neanche nelle sue più rosee fantasie si era mai immaginata di avere la possibilità di andare a vivere a New York, la sua amata New York, e di trovare lavoro come cantante in uno dei locali più in della città.

E invece era successo, e lei ne era ancora stordita.

Aveva ormai perso il conto delle volte che si era data dei forti pizzicotti per verificare che non fosse tutto solo un sogno, che tutto ciò che stava vivendo fosse vero.

“Mercedes tra cinque minuti vai in scena, muovi quelle chiappe e sbrigati a prepararti!”

“Ann tranquilla, in cinque minuti faccio in tempo a vestirmi e truccarmi potendomi pure permettere di indugiare sulla scelta del vestito” rispose tranquillamente Mercedes alla ragazza che le si parò di fronte. Le sopracciglia accigliate e la faccia pervasa da preoccupazione.

La prima volta che aveva incontrato Ann e che aveva scoperto che era colei che si occupava di tutto ciò che riguardasse musica ed esibizioni dal vivo nel locale, l’unica cosa che era riuscita a pensare era che quella ragazza fosse la più isterica che avesse mai conosciuto in tutta la sua vita.

E se superava Rachel Berry allora voleva dire che doveva essere davvero isterica.

Invece, dopo aver superato a fatica i primi giorni, che, a detta di Ann, erano i più difficili, in quanto bisognava organizzare tutto, prepararle i vestiti di scena e permettere che lei prendesse famigliarità col palco, aveva scoperto che passare del tempo con lei non era poi così male, e che fuori dal lavoro riusciva anche ad essere divertente.

Sorridendole si precipitò nel camerino per prepararsi perché, lo doveva ammettere, il tempo era davvero poco e lei non poteva davvero permettersi di sprecarne.

I truccatori si apprestarono a sistemarle il viso mentre lei si infilava nel vestito preparato per quella sera.

Rosso brillante.

Adorava il rosso, la faceva sentire una donna, una donna desiderabile.

Sentì la voce di Ann che saliva sul palco del locale e che annunciava la sua entrata, per poi allontanarsi con un inchino.

Il pianista attaccò la musica e gli archi lo seguirono.

Ecco il vantaggio di suonare in un locale famoso: disponeva di un’ intera orchestra ad accompagnarla.

Mentre sulle travi del palco si diffondeva un sottile strato di vapore, abile trucco degli sceneggiatori per creare un effetto scenico, e le luci diventavano di un blu scuro, Mercedes entrò in scena lentamente, e si posizionò di fronte al microfono, sorridendo al pubblico ed iniziando a cantare.

Lasciò vagare lo sguardo, compiaciuta, sulla folla della gente che era lì solo per ascoltarla, ed era quasi sicura di aver riconosciuto più di un vip di fama internazionale.

Di sicuro quello con lo strano pizzetto non poteva che essere Johnny Deep, e quello che gli sedeva accanto e che rideva animatamente per un battuta aveva l’aria estremamente famigliare. Lo doveva aver visto in un film o in qualche programma televisivo. Sì, sicuramente.

Quando la canzone finì la sala fu riempita dagli applausi e Mercedes si permise di fare un leggero inchino, prima dell’ inizio della canzone che seguiva.

Si stava giusto lasciando trasportare dalla melodia quando notò qualcosa.

O forse è meglio dire qualcuno.

E no, non poteva essere.

Perché ormai non lo considerava neanche più come qualcosa di realizzabile.

Ma vederlo lì, seduto da solo in un angolo della sala, tra le mani un bicchiere di qualche bibita probabilmente scelta accuratamente perché non avesse neanche uno zucchero di troppo, le ricordò che niente era irrealizzabile, che niente era impossibile.

E lei semplicemente non ci credeva, dopo tanto tempo che desiderava vederlo, ascoltare la sua voce mentre si lamentava di un capo di moda che ormai di moda non era più, abbracciarlo e sentirlo vicino, non ci credeva che finalmente lui fosse lì, tanto vicino ed a portata di mano.

Una fitta le trafisse lo stomaco nell’ accorgersi di quanto effettivamente le fosse mancato avere Kurt Hummel al suo fianco.

 

 

Quando l’esibizione terminò ed il locale si approssimava alla chiusura, Mercedes corse letteralmente giù dal palco, talmente velocemente che a momenti sarebbe inciampata nel vestito e caduta irrimediabilmente a terra, rompendolo.

Non poteva lasciarlo andare.

Fiondatasi nel camerino si spogliò il più in fretta che riuscì e si infilò i suoi vestiti non curandosi di sistemarseli bene o di togliersi il trucco.

Uscì dal locale e per un attimo temette di averlo perso.

Si alzò sulle punte dei piedi per vedere oltre la folla e fece scorrere con gli occhi la gente che la circondava

Maledizione, ci aveva messo troppo tempo.

Il cuore le balzò in gola quando però vide, con sua enorme felicità, che il ragazzo era esattamente dall’altro lato della strada, riconoscendolo per la sua chioma sempre e rigorosamente laccata per aria.

“Kurt!” urlò, non pensando sul momento che se si fosse accorto che lei lo stava seguendo magari avrebbe tentato di scappare. D’altronde era lui che se n’era andato dal locale senza neanche fermarsi a parlare, era lui che l’aveva evitata per tutto quel tempo. Era lui che aveva evitato tutti.

Il ragazzo, non appena sentita la voce che chiamava il suo nome si girò. L’espressione rassegnata di chi sapeva che prima o poi ci avrebbe avuto a che fare, con quello da cui fuggiva.

Ma non si mosse. Non un solo passo.

Non diede segni di ripensamento, non si mise a correre né fece finta di non essere se stesso ignorando i richiami della ragazza.

Semplicemente rimase lì.

Gli occhi azzurri fissi nel vuoto.

 

 

Qualcosa si ruppe dentro di Kurt nel momento in cui vide Mercedes cantare sul palco.

E sapeva anche benissimo cosa.

Era ciò che si era impegnato a costruire durante quegli anni.

Ciò che gli aveva costato tanta fatica, e che ogni sue lacrima e sofferenza avevano temprato.

Era la sua corazza, la sua protezione.

E lui non ci credeva, non ci poteva credere che si potesse essere rotta così, in neanche un secondo.

Perché ci aveva messo così tanto, a costruirla, e non poteva bastare una voce, un’immagine del suo passato, ad intaccarla.

Non poteva essere.

Era per quello che non aveva più voluto avere contatti con nessuno, nessuno che gli ricordasse la sua vecchia scuola, o il Glee club.

Se voleva sopravvivere ne aveva bisogno, di quella corazza.

Ma tuttavia non riuscì a muoversi. Non riuscì a compiere un passo per allontanarsi, quando fuori dal locale lei lo chiamò.

Semplicemente perché non lo voleva neanche più.

Era stufo, stanco e spossato.

E forse, se esisteva qualcuno lassù, gli stava dando un’ altra possibilità.

La possibilità di raccogliere i cocci della sua vita ed incollarli insieme. Di fare qualcosa di buono, di riacquistare quella luce negli occhi che sapeva si era spenta.

E Mercedes poteva aiutarlo, ne era sicuro.

“Mercedes…” sussurrò più a se stesso che a qualcun altro.

“Mercedes…” ripeté quasi singhiozzando, mentre le lacrime iniziavano a rigargli le guance.

Quando la ragazza lo raggiunse senza bisogno di parole si strinsero in un abbraccio bisognoso.

“Sono qui Kurt, sono qui”

 

 

Pochi minuti dopo Kurt stava armeggiano con le chiavi di casa con Mercedes dietro di lui, che, non appena aprì la porta, riuscì a stento a trattenere un sospiro di ammirazione, estasiata dal super attico dove Kurt alloggiava, chiedendosi quanto dovesse guadagnare l’amico per potersi permettere un posto del genere.

Non avevano detto una parola dopo l’incontro.

Semplicemente avevano bisogno di stare l’uno vicino all’altro.

Così Kurt aveva iniziato a camminare e Mercedes l’aveva seguito, senza preoccuparsi di quale fosse la meta. Affidandosi completamente a Kurt.

Mentre quest’ ultimo le chiedeva gentilmente il cappotto per appenderlo dietro la porta lei si guardò in giro e, adocchiando il divano, si buttò sopra di esso, terribilmente stanca.

Iniziare il discorso non fu facile. C’erano troppi argomenti tabù, troppe domandi irrisolte sepolte nell’ interno di loro stessi, che non potevano essere fatte, troppa curiosità, troppa paura.

Ma come inizio andava bene. Qualche domanda circostanziale, informazioni sulla loro vita, sul loro lavoro.

Kurt non chiedeva di più, né Mercedes voleva di più, che la vicinanza dell’ altro.

 

 

La mattina dopo Kurt si svegliò meno triste degli altri giorni.

Mercedes era tornata a casa quella notte, ma si erano scambiati gli indirizzi ed i rispettivi numeri di telefono. Si sarebbero rivisti, ne erano certi entrambi.

Dopo aver attuato la sua routine mattutina Kurt si diresse in cucina, notando solo in quel momento le lettere del giorno prima che non aveva degnato di uno sguardo.

Vide che una era la bolletta della luce, e di malavoglia la spostò da parte.

Fu l’altra ad incuriosirlo.

C’era scritto solo Kurt Hummel, nessun indizio che fosse di qualche società, o che fosse la pubblicità di qualche nuovo elettrodomestico di ultima generazione.

Curiosò la aprì, e vide che al suo interno c’era un foglio bianco accecante,  ripiegato in tre.

Si affrettò ad aprirlo, e lesse velocemente la testata.

 

45° edizione del concorso regionale di canto coreografato per Glee Clubs

 

Kurt sbattè un attimo le palpebre, credendo di aver letto male.

Non poteva essere.

Febbrilmente fece scorrere gli occhi saltando tutta l’introduzione che spiegava le regole e che cosa di preciso fosse quell’ evento che Kurt conosceva bene.

Improvvisamente tra le righe scorse il suo nome. Si fermò. Inspirò profondamente. E lesse quello che, che ci credesse o no,  gli avrebbe per sempre cambiato la vita.

 

Con la presente per l’edizione di quest’anno vorremo chiedere al sig, Kurt Hummel, nota star di Broadway con palese conoscenza del mondo del canto e del balletto, di presenziare come giudice alla competizione,che quest’anno si terrà al lice McKinley (Lima - Ohio), sperando che la sua esperienza in campo ci permetta di portare il livello della competizione ad un grado di serietà e credibilità più alto, senza togliere il fatto che una figura di riferimento come la sua potrebbe essere da stimolo per i ragazzi che inseguono il suo stesso sogno.

Le chiediamo conferma della sue presenza, e la preghiamo di prendere seriamente in considerazione la richiesta

Cogliamo l’occasione per porgerLe i più cordiali saluti

 

Mark Smith

Barbara Nott

Michael Gordon

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Beh, che dire, questo capitolo è stato davvero un parto.
Avevo paura di non riuscire a rendere bene un momento così importante nella storia.
Perchè già, qui finalmente potremo vedere Blaine e Kurt che..
Ehehe, lo scoprirete solo leggendo!
Ci vediamo a fine capitolo, donzelle :)




Capitolo 3


“Kurt, tesoro non stare lì impalato. Ti va già bene che ti aiuti, ma non posso portare giù tutto il tuo guardaroba condensato in trenta valigie. Perché dev’essere per forza tutto il tuo guardaroba, insomma, trenta valigie, Kurt, tren-“
“Va bene Mercedes, arrivo, tranquilla” interruppe Kurt con un tono esasperato la ragazza che stava scendendo le scale del suo appartamento trascinando con sé tre valige enormi.
“Tranquilla? Tranquilla dici? Kurt è tre ore che trascino le tue valige fuori dal tuo appartamento mentre tu trovi sempre una scusa per non fare niente!” Sbottò la ragazza distrutta “Potrei anche capire il cercare il Taxi, anche se è inutile dato che hai ancora, o meglio ho ancora, ventimila valigie da portare giù e ci metterò la vita se qualcuno non mi aiuta, capisco il controllare che nessuno le rubi, anche se a rigor di logica sarebbe compito mio visto che le valigie sono tue e tu dovresti fare i lavori più pesanti, ma il controllare che non cadano schitte su di loro no, eh! Cosa vuoi fare? Se ne vedi una cadere ti tuffi sulle valigie per sacrificarti al posto loro? E’ così grande il tuo amore Hummel?”
In tutta risposta il soprano sbuffò, alzò gli occhi al cielo, e si mise pazientemente a spiegare come un set di trenta valigie Gucci non potesse essere rovinato, in quanto senza la trentesima non avrebbe avuto assolutamente senso e avrebbe dovuto buttarlo, aggiungendoci anche che, essendo un attore di Broadway di fama mondiale, le sue mani non avrebbero dovuto rovinarsi con dei calli per aver trascinato valigie su e giù per le scale.
Cosa che Mercedes accolse con uno sbuffo piuttosto cinico, dato che non capiva come delle mani un poco rovinate potessero influire su una performance musicale, ma tenne i suoi pensieri per sé sapendo che tutto ciò che avrebbe potuto ricevere sarebbe stata un’ occhiataccia ed un commento sarcastico su come non potesse capire la vita difficile di una star.
Era passato un mese da quella volta che si erano incontrati fuori dall’ Anonymus, un mese da quando erano ritornati a parlare, un mese da quando Kurt si era aperto di nuovo a qualcuno, un mese fatto di risate, momenti di malinconia, parole tabù e ricordi non troppo difficili da sopportare, sussurrati perché dirli ad alta voce avrebbe fatto troppo male.
Un mese da quella lettera.
Tutto ciò che Kurt si ricordava del momento in cui l’aveva aperta erano le sue mani.
Mani tremanti.
Mani che si agitavano.
Mani che prima stringevano convulsamente il foglio e che poi lo lasciavano cadere a terra, come se fosse una maledizione da cui scappare.
E piedi.
Piedi che la calpestavano.
Piedi che si calpestavano a vicenda.
Piedi che correvano disordinati a prendere il cappotto blu e scendevano di corsa le scale per precipitarsi dall’ unica persona che, nonostante l’avesse ritrovata da poco, avrebbe potuto aiutarlo, consolarlo, dirgli che non c’era niente di cui preoccuparsi, che andava tutto bene.
Mercedes.
E Mercedes l’aveva accolto, non appena l’aveva visto varcare il locale dove si stava esibendo, aveva chiesto il giorno libero e l’aveva abbracciato.
Perché Kurt era lì, sconvolto, bianco come uno straccio e tremante come una foglia, e mai gli era sembrato così fragile, mai gli era sembrato così distruggibile, come se fosse stato pronto a spezzarsi per colpa di un misero alito di vento.
Aveva chiamato un taxi e l’aveva accompagnato a casa sua, l’aveva fatto stendere sul divano, aveva adagiato su di lui una coperta di lana pesante e aveva preparato una tazza enorme di cioccolata calda, fregandosene dei farfugliamenti di Kurt riguardo a quanti grassi contenesse e a quanti giri del parco sotto casa avrebbe dovuto fare per smaltirli.
E poi Mercedes aveva aspettato.
 
 
La coperta di lana pizzicava sulla pelle lasciata scoperta dalla maglia a mezze maniche di Kurt, ma per la prima volta il soprano non si ritrovò ad elencare nella sua mente tutti i problemi che ne sarebbe conseguiti sulla sua pelle così delicata ed amata.
Si era solo rannicchiato su sé stesso, cingendosi le ginocchia con le braccia e poggiandoci sopra la testa.
Mercedes era seduta su una sedia davanti a lui.
Sembrava tranquilla, ma in realtà Kurt sapeva che stava aspettando che lui le raccontasse ciò che era successo.
“Mi-Mi-“ iniziò con voce rotta, poi, accorgendosi che parlare era fuori dalle sue capacità, le porse la lettera semi-distrutta che si era premurato di raccogliere prima di uscire di casa. “Ecco”
Mercedes si accigliò, poi prese la lettera e fece scorrere velocemente gli occhi su ciò che era scritto.
Possibile che Kurt sapesse? Lei si era premurata di non dirglielo e credeva che lui non avesse avuto relazioni con nessuno dei componenti del Glee negli ultimi anni.
E allora perché aveva quell’ espressione spaventata? Blaine era diventato insegnante della Dalton da poco, e da ancora meno direttore degli Warblers. Kurt non poteva immaginarsi che ci sarebbe anche lui, alla gara di canto.
Doveva essere per forza spaventato da altro, di sicuro.
“io-“Kurt  interruppe esitante i pensieri di Mercedes “Ho paura,’ Cedes, ho paura di rivederli, insomma mi-“ si fermò per asciugarsi una lacrima sfuggita “Non gli parlo da una vita, sono stato uno stronzo, li ho evitati! Mi odieranno!”
Mercedes, vedendolo in quello stato, lo abbracciò subito, e Kurt, avvolto nella sicurezza e nel calore che quel paio di braccia potevano dargli, si sfogò.
Disse di come avesse paura di essere odiato, che i ragazzi del Glee non volessero più avere a che fare con lui.
Disse di come avesse paura che Rachel, la sua compagna di sogni e aspirazioni, non gli rivolgesse  più la parola, che Santana e Brittany lo guardassero come un perdente, che si era arreso a come il mondo lo voleva, che Finn non gli parlasse, che la sua famiglia non lo volesse più.
E disse anche che ringraziava il cielo che non ci fosse lui.
Per la prima volta parlò con Mercedes di lui.
E Mercedes decise che non gli avrebbe detto che invece Blaine ci sarebbe stato.
Prese quella decisione di fretta, senza pensarci veramente. Perché sapeva che Kurt era tornato un combattente.
E che avrebbe combattuto, e avrebbe vinto.
Bastava dargli l’occasione giusta.
 
 
L’aeroplano sarebbe partito entro poche ore.
Kurt non sapeva se ringraziare o odiare che gli avessero concesso due settimane libere per fare da giudice.
Il suo agente ne era estremamente felice, credeva che quell’ occasione sarebbe stata un’ enorme pubblicità.
E così si ritrovava in aeroporto con tutte le sue valige che, lo sapeva, gli sarebbero costate una fortuna, e con Mercedes che lo salutava felice, promettendogli che lo avrebbe raggiunto la sera successiva per accompagnarlo a fare da giudice alla gara.
Dopo aver trascinato i suoi bagagli per tutto l’aeroporto e completate tutte le procedure burocratiche si poté finalmente imbarcare sull’ aereo.
Sistemò il suo bagaglio a mano, che consisteva in una tracolla firmata Marc Jacobs dalla quale non si sarebbe mai diviso, poi si sedette sul suo sedile, che fu felice di sapere essere vicino al finestrino, e si lasciò andare ad un lungo, enorme e potente sospiro, per scaricare la tensione e prepararsi psicologicamente a quello che sarebbe stato costretto ad andare incontro.
 
 
Era il giorno prima della gara.
Era il giorno prima della gara.
Era il giorno prima della gara, cazzo.
Blaine si stava letteralmente distruggendo le mani dal nervoso.
Senza contare che era anche il giorno prima del suo appuntamento con Steve.
Beh, forse non proprio appuntamento, era più un incontro, ma era Blaine quello che lo aveva proposto quindi si sentiva ragionevolmente in ansia. Nervoso. Agitato. Pronto ad uccidere qualcuno.
Fece un grande respiro di preparazione ed entrò nella sala prove degli Warblers.
Forse sei ancora in tempo a scappare Blaine, un passo indietro, due-
“Mr. Anderson!”
Merda.
“Mr. Anderson, abbiamo un problema! I costumi non sono pronti!”
Un ragazzo con una zazzera di capelli rossi si precipitò da lui e per poco non gli ruzzolò addosso, gli occhi spalancati in un’espressione di orrore.
“Calmati Derek, indossiamo le divise, non abbiamo costumi di scena, ricordi?”
“Oh” disse lui con un espressione confusa “Giusto.”
“Mr. Anderson!”
Blaine si girò dalla parte opposta, maledicendo le sue gambe corte che non gli avevano permesso di scappare prima.
“Mr. Anderson!” Un ragazzo correva verso di lui, il fiato corto ed i capelli in disordine per la corsa.
“Ehm, sì Jonathan?”
“Mark dice che se non accettiamo che il suo gatto si esibisca con noi non si esibirà neanche lui!”
 Il moro si lasciò sfuggire un gemito di sofferenza e frustrazione e, prima che qualcun altro potesse aggiungere qualcosa e fermando un altro paio di Mr. Anderson calmò quella massa di ragazzini a cui voleva tanto bene e si posizionò in mezzo all’ aula.
Inforcò la sua chitarra fece un cenno al ragazzo al piano e decise di fare l’unica cosa che poteva aiutarlo a calmarsi ed a calmare loro.
Cantare.
 
I've paid my dues
Time after time
I've done my sentence
But committed no crime
And bad mistakes
I've made a few
I've had my share of sand
Kicked in my face
But I've come through
 
Blaine sperava che quella canzone riuscisse a tranquillizzare l’atmosfera pre - regionali che caratterizzava gli Warblers.
Aveva scelto un classico, giusto per incoraggiarli, e per incoraggiare sé stesso.
Strimpellò allegramente la chitarra mentre i suoi studenti lo assecondavano cantando con la loro solita armonia, che caratterizzava gli Warblers.
 
And we mean to go on and on and on and on
 
 We are the champions - my friends
And we'll keep on fighting
Till the end
We are the champions
We are the champions
No time for losers
'Cause we are the champions of the World
 
Al ritornello gli Warblers si scatenarono come adoravano fare e mentre uno di loro prendeva un plico di fogli e li gettava al vento, in un’ inconsapevole imitazione del suo insegnante quando era lui che si esibiva tra le mura della Dalton, gli altri erano saliti sul tavolo ridendo come dei matti e dandosi le mani, portandole in alto e ridendo come matti.
Blaine quasi si commosse per quanto fossero uniti quei ragazzi, e dopo aver strimpellato le ultime strofe si fermò, fece un bel sorriso e si disse che sì, nessuno avrebbe vinto contro gli Warblers, non se c’era Blaine Anderson.
 
 
Era arrivato.
Era arrivato, aveva appena messo i piedi sul terreno dell’ aeroporto e già si sentiva mancare l’aria ed il fiato.
Da una parte c’era l’emozione di vedere suo padre, che gli mancava più di tutti, Carole e, perché no, anche il suo fratellastro Finn.
Dall’ altra la paura, una maledettissima paura.
Si tolse il cappotto, investito dal calore del giorno. Non si ricordava che quel posto fosse così soffocante.
Perché faceva così caldo?
Si affrettò a prendere le sue valige, alla fine aveva optato per lasciarne a casa la metà, e con fatica uscì.
Il primo che vide fu Burt, le gambe gli diventarono molli, e sul sorriso gli si stampò un sorriso enorme.
Dio quanto gli era mancato suo padre.
Non lo vedeva da mesi.
La verità era che non tornava a Lima da quel fatidico giorno. Due lunghissimi anni.
Suo padre, per le festività, lo raggiungeva a New York, insieme a Carole e, raramente, a Finn, e non gli aveva mai chiesto niente. Non gli aveva mai chiesto il perché di quella telefonata, due anni prima, della sua voce rotta dal pianto e del fatto che non volesse più mettere piede a Lima.
Ed era per quello che era rimasto il figlio, gli aveva detto, due settimane prima, che sarebbe stato da lui per due settimane.
Due intere settimane.
Quasi si era messo a piangere per la felicità quando lo aveva sentito.
Ed ora su figlio era lì, il suo adorato figlio era lì, sommerso dalle valige, adorabilmente curato, con i capelli scrupolosamente laccati ed un cappotto che teneva elegantemente appeso ad un braccio.
Dio quanto gli era mancato.
Non appena lo vide gli corse incontro, emozionato, stringendolo tra le sue braccia.
Kurt si beò di quel contatto che tanto gli era mancato, e quando venne raggiunto anche da Carole che gli si aggrappò addosso felice, e da un timido Finn che rimaneva in disparte, sorridendogli, si accorse di quanto fosse stato difficile per lui rimanere lontano da casa per tutto quel tempo.
Nonostante odiasse Lima, la chiusura mentale della gente in quel posto, la malignità delle persone, il fatto che fosse in mezzo al nulla, era pur sempre lì che era cresciuto.
“Oh Kurt, che bello averti qui con noi!” sospirò Carole sciogliendo l’abbraccio.
Burt annuì convinto e Finn, dopo averlo abbracciato un po’ impacciato si offrì di aiutarlo con le valige, cosa che fece molto piacere a Kurt, che già iniziava a preoccuparsi per le sue amate mani.
Raggiunsero a fatica la macchina mentre Carole, per la gioia di tutti, riempiva i silenzi parlando di cosa avesse preparato per pranzo e di come si sentisse la mancanza di un cuoco come lui in casa, dato che Burt e Finn erano dei disastri in cucina.
Kurt rise e promise che per due intere settimane non avrebbe più dovuto preoccuparsi.
Perché ci sarebbe stato lui.
 
 
Dopo un po’ di imbarazzo iniziale Kurt si era completamente sciolto. Aveva iniziato a scherzare con Carole, a raccontare del lavoro a Burt e di parlare di Mercedes con Finn.
Quando era entrato in casa si era commosso come poche volte in vita sua e, notando che la sua vecchia camera era esattamente come l’aveva lasciata, si era lasciato andare in un pianto liberatorio.
Scrisse un messaggio a Mercedes per dirle che il viaggio era andato bene e che si trovava a casa, poi si infilò in doccia per darsi una lavata ed indossare una tuta comoda, ed aveva declinato gentilmente l’invito di Finn ad uscire con lui ed i ragazzi a mangiare qualcosa.
“Io-“ aveva detto dopo aver sentito la domanda “Ehm, Finn, preferirei andare con calma, davvero. Magari un’ altra volta, va bene?”
Finn aveva annuito, non comprendendo fino a fondo il problema del fratello, ma felice che gli avesse detto che prima o poi sarebbe andato con lui.
Quindi si era diretto a passo spedito in cucina, aveva spostato gentilmente Carole dei fornelli ed aveva iniziato a cucinare lui.
Quella sera, dopo aver mangiato con Burt e Carole, riso e scherzato come non faceva da tempo, raccontando della sua vita a New York e di come fosse bello cantare su un palco di Broadway, mentre si stendeva nel letto tirando su le coperte, si addormentò con un sorriso in volto.
 
 
“Bene ragazzi, oggi è il gran giorno. Date il meglio di voi, sono sicuro che questa volta vinceremo. Siamo forti, siamo bravi, ma soprattutto siamo uniti, e nessuno ci potrà sconfiggere, mai!” Blaine pronunciò quel discorso di incoraggiamento più per se stesso che per i suoi alunni, che per il nervoso si muovevano frenetici in sala prove, dove stavano sistemando per l’ultima volta il loro numero.
Mancavano due ore, poi sarebbero dovuti salire sul pullmino della Dalton, raggiungere il McKinley, ed esibirsi sul palco davanti a tantissime persone.
Ed il peso della loro sconfitta o della loro vittoria gravava tutto sulle spalle di Blaine.
Fantastico.
Era così nervoso che neanche si accorse che la porta in sala prove si fosse aperta, e che Steve fosse entrato chiedendo di Blaine Anderson.
Quando si accorse del silenzio carico di aspettativa che si era creato nella sala e che tutti stavano guardando proprio lui, si risvegliò dallo stato di trance in cui era caduto e mise a fuoco la figura di Steve che lo stava fissando con un enorme sorriso.
La sua omosessualità non -era un segreto alla Dalton, e forse era per quello che i suoi studenti, quando lo videro arrossire e balbettare qualche frase senza senso per scusarsi, iniziarono a darsi delle gomitate ed emettere dei risolini.
A volta stare in una scuola maschile era peggio che avere a che fare con milioni di donne pettegole messe assieme.
Quindi prese Steve per un braccio e lo trascinò fuori dall’ aula.
“Scusali, è il nervosismo pre-spettacolo” si scusò passandosi una mano tra i capelli.
 “Traquillo, anch’io sono nervoso quando mi trovo davanti a molte persone, probabilmente se fossi al posto loro mi sarei già chiuso in un qualche sgabuzzino per nascondere eventuali attacchi di panico.” Sorrise l’altro.
Blaine lo trovò decisamente adorabile.
“Comunque” riprese Steve “Volevo solo chiedere una conferma sullo spettacolo di stasera, è alle otto, giusto?”
“Sì perfetto” annuì Blaine “Quindi verrai?” non potè fare a meno di chiedere con ansia.
“Non me lo perderei per niente al mondo, Blaine” e dopo avergli sorriso gli diede un leggero bacio sulla guancia che lo fece sussultare, per poi andarsene.
 
 
Mercedes lo aveva raggiunto esattamente due ore prima del grande evento.
Quel giorno Kurt si era svegliato tardi, come non si concedeva il lusso di fare da tempo, dopo aver fatto un sonno pesante e privo di sogni.
Aveva bighellonato per casa tutta la mattina e poi preparato una torta al cioccolato che sapeva Finn e Burt avrebbero adorato.
Il pomeriggio invece lo aveva passato a disperarsi per la scelta dei vestiti che avrebbe indossato quella sera, gettando tutti i suoi completi sul letto e distruggendo la sua amata pettinatura a forza di passarsi le mani nei capelli per la disperazione.
Dire che era nervoso era poco.
Ci sarebbe di sicuro stata Rachel, e Santana e Brittany avrebbero di sicuro assistito all’ esibizione, dato che lavoravano in quella scuola.
Quando il campanello suonò e si accorse che Mercedes era già arrivata a prenderlo optò per un completo informale, un paio di pantaloni neri stetti ed una camicia azzurra arrotolata ai gomiti e scese di corsa mentre si abbottonava l’indumento.
La ragazza lo stava aspettando sulla porta con un’ espressione indecifrabile, quasi impaurita.
Kurt decise di non farci caso, prese il suo cappotto, la sua tracolla e, dopo aver salutato di fretta Burt e Carole che gli urlarono buona fortuna, corse in macchina e seguì quella di Mercedes fino al McKinley.
 
 
Blaine era seduto in prima fila.
I suoi ragazzi lo circondavano ridendo e scherzando. Chissà come il più nervoso lì fosse lui.
Steve era arrivato e si era seduto qualche fila più in là, dato che non poteva stare nell’ area riservata ai cori ed ai giudici, dopo averlo salutato e auguratogli buona fortuna.
Mancavano cinque minuti.
Cinque maledettissimi minuti poi le luci si sarebbero spente, il sipario sarebbe stato alzato, ed il presentatore avrebbe annunciato l’inizio delle esibizioni.
 
 
Kurt non aveva ancora incontrato nessuno che conoscesse, Mercedes lo aveva letteralmente scortato dentro l’ auditorium e successivamente si erano divisi, lui per entrare in una saletta dove si doveva incontrare con i giudici, e Mercedes per andare a prendere posto nell’ auditorium.
Si ritrovò quindi a parlare con gli altri due colleghi, un atleta che prendeva di sicuro steroidi e il cui cervello, se esisteva, doveva essere intasato dai chili di frullati energetici che sicuramente ingurgitava, e con una nonna che aveva partecipato alla seconda, Kurt sospettava che, dall’ aspetto, fosse non fosse la seconda ma la prima, guerra mondiale vantandosi di aver fatto lo scalpo a tutti quelli che aveva ucciso con una semplice mossa di karate.
E quando Kurt si mise a ridere per l’impossibilità di quella storia e si ritrovò la nonnina indignata sopra di lui che gli girava un braccio sulla schiena, decise che forse l’avrebbe dovuta prendere un po’ più sul serio.
Mai ridere davanti ad una nonnina che dice di aver partecipato ad una guerra mondiale.
Si appuntò quindi in testa rialzandosi e massaggiandosi il braccio.
Si incontrarono quindi con il presentatore che spiegò loro quello che avrebbero dovuto fare, e, subito dopo, si diressero nell’ auditorium dato che entro pochi minuti sarebbe iniziata la gara.
 
 
Le luci si erano finalmente spente, Blaine finì di mangiarsi l’ultima unghia delle mani e, quando se ne accorse, decise di dedicarsi alle pellicine.
Il sipario si aprì ed il presentatore fece il canonico discorso di benvenuto, nominò le squadre in gara ed iniziò a parlare dell’ importanza della musica nel mondo dei giovani.
Daidaidaidai.
Blaine era nervosissimo, aveva visto Rachel poco prima e l’aveva visto così sicura di sé che ne era uscito spaurito e sconfortato.
I suoi ragazzi erano già dietro le quinte a prepararsi, la loro esibizione era la prima e quindi in quel momento stavano sicuramente facendo casino, che poi era il loro modo di scaricare la tensione.
“Bene, ora presentiamo i giudici in gara!” disse il presentatore.
Oh, santo cielo, ma quanto dura?
Pensò esasperato Blaine. Non ne poteva più.
“Direttamente dallo spot dei cerali più famosi d’America, ecco a voi Bruce Hogan!”
Blaine non si prese neanche la briga di guardare verso il tavolo dei giudici, in quel momento era troppo preoccupato a scovare tutte le pellicine possibili da morsicare per scaricare la tensione.
Dissero il nome di un’ altra donna che doveva avere a che fare con una delle due guerre mondiali, ma non ci fece molto caso.
“Ed infine, il nostro ultimo giudice, direttamente da-“
Il cellulare di Blaine iniziò a suonare.
Maledizione. Imprecò tra sé e sé Blaine, guardò lo schermo del telefono e, notando che era sua madre, uscì da una porta secondaria dell’ auditorium per rispondere.
Al diavolo sua madre ed il suo tempismo.
 
 
Quando Kurt venne presentato capì che era la fine, tutti i suoi amici che erano lì lo dovevano di sicuro aver visto, era impossibile che non lo avessero fatto.
Si sedette già pensando a come potesse giustificarsi quando il presentatore annunciò che il coro della Dalton stava per esibirsi.
Kurt provò una fitta enorme a rivedere quei ragazzi in divisa, che gli ricordavano tanto Blaine.
Provò a non pensarci e si concentrò sull’ esibizione.
Ne rimase sbalordito. Erano veramente bravi, cantavano con una precisione ed armonia che non si ricordava.
Soddisfatto si lasciò trasportare dalla musica.
Non si accorse neanche che avevano già cantato tre canzoni diversi, era così preso dalla canzone che quando finirono sentì un moto di tristezza pervaderlo.
Gli piacevano, gli facevano ricordare del bel periodo nel Glee.
Quindi non si stupì quando, alla fine di tutte le esibizioni, vennero decretati vincitori.
Se l’erano meritato, quel trofeo.
Poi, dopo che alcuni di loro saltarono, altri si abbracciarono ed altri si misero ad improvvisare balletti strani, tutto contornato da urla di gioia e stupore, uno dei ragazzi chiese in un orecchio al presentatore il permesso di fare una cosa, che evidentemente lui gli concesse perché annui con un gran sorriso.
Quindi prese il microfono e disse, con un enorme sorriso in faccia: “Vorremmo ringraziare il nostro professore che ci ha fatto arrivare fin qui.” Si fermò soddisfatto ed annuì a qualcuno giù dal palco “Quindi può smetterla di mangiarsi le unghie per il nervoso, Mr. Anderson e salire sul palco!”
A Kurt mancava l’aria. Iniziò a boccheggiare.
Le orecchie che pulsavano.
Le mani che stringevano convulsamente i bordi del tavolo.
I fogli dei punteggi caduti.
Nessun rumore.
Niente.
Non era più niente.
Perché non era possibile.
Non era possibile cazzo con tutti i lavori che esistevano al mondo che lui facesse proprio quello, che fosse proprio .
Si sentiva bruciare tutto.
La testa pulsava, gli occhi bruciavano.
No.
Ed invece lui era lì. Davanti a Kurt.
E gli fece male al cuore vederlo. Perché gli mancava, dannazione, gli mancava come l’ossigeno.
Aveva sperato di non vederlo più, dopo quella volta, perché sapeva, sapeva che se l’avesse fatto non avrebbe retto.
E la dimostrazione che avesse ragione era la fitta al cuore quando lo aveva visto.
Un ragazzo, un uomo, leggermente impacciato davanti a tutta quella gente, con un ammasso di riccioli perfetti in testa, un sorriso che illuminava il mondo, le guance rosse per l’emozione e due occhi che non si sarebbe mai scordato.
Quelli che lo tormentavano ogni notte, ricordandosi che era tutto sbagliato, che era sbagliato svegliarsi e non essere abbracciato da lui, che era sbagliato cucinare solo per se stesso e non dover nascondergli le ghiottonerie per on fargliele mangiate tutte, era sbagliato tornare a casa e non trovare nessuno ad aspettarlo, era maledettamente sbagliato.
E quando quegli occhi, ancora spalancati per la felicità, si volsero distrattamente verso al tribuna dei giudici, quando si soffermarono su un volto, un volto famigliare, quando incontrarono gli occhi di Kurt, che lo fissava attonito. Distrutto. Kurt capì che non aveva mai smesso di farlo.
Che poteva averci provato, poteva aver vissuto nell’ illusione di avercela fatta, poteva aver nascosto a se stesso le fitte che provava ogni volta che pensava a lui, ma non aveva mai smesso di amare Blaine Anderson.
 
 
“Vorremmo ringraziare il nostro professore che ci ha fatto arrivare fin qui. Quindi può smetterla di mangiarsi le unghie per il nervoso, Mr. Anderson, e salire sul palco!
Blaine era felice. Gli Warblers erano stati fantastici. Ed avevano vinto. Avevano superato il Glee club di Rachel Berry! Glielo avrebbe rinfacciato a vita.
Salì sul palco un attimo a disagio ma quando venne abbracciato dai suoi ragazzi non potè che sentirsi bene, a casa.
Fece vagare distrattamente lo sguardo sul pubblico, e, un po’ curioso di vedere la vecchietta che aveva combattuto la seconda, dall’ aspetto avrebbe detto prima, guerra mondiale, volse lo sguardo in direzione della tribuna dei giudici.
Ma non fu la vecchietta che attirò la sua attenzione, né l’atleta pieno di steroidi, furono un paio di occhi azzurri, limpidi come l’oceano che lo stava inghiottendo in quel preciso istante.
 

 BluCannella


Allora, che ne dite?
Si sono incontrati, alla fine!

Dio spero sul serio che non sia stato troppo lungo, il fatto è che continuavo a dirmi "Ora lo finisco" e poi mi veniva in mente qualcos' altro da scrivere! Davvero, è stata una faticata.

In compenso ho pronto un altro capitolo, dove finalmente si parleranno, e non vedo l'ora di sapere che ne pensate, risponderò subito alle recensioni! 

Già sono uno schifo, è che sono stata così presa a scrivere che me ne sono scordata!

Ah, e poi ho scoperto che l'ora di Greco può essere fantastica se passo tutto il tempo a scrivere, davvero, potrei amarla quell'ora!

Ok, ehm, sto divagando, lo so..

Mi farebbe molto piacere sapere che ne pensate,

Un abbraccione

BluCannella

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


cap 4

Dedico questo capitolo ai genitali di Ryan Murphy quando verrano da me stessa schiacciati 

e ridotti in politglia, perchè NO, non è possibile che Kurt non entri alla NYADA.

No.

Capitolo 4

Molte persone si chiesero perché all’inizio della competizione ci fossero tre giudici, ed alla fine solo due si fossero presentati per consegnare il premio sul palco.

Rachel Berry non se ne stupì.

Un po’ forse perché era ancora sotto shock per essersi fatta rubare il trofeo sotto gli occhi da quegli imbellettati degli Warblers, un po’ perché aveva già capito cosa sarebbe successo quando aveva sentito il nome di Kurt pronunciato dal presentatore, un po’ perché aveva passato tutta la serata a pensare a come avrebbero reagito se loro due si fossero visti ed un po’ perché aveva visto la paura, la consapevolezza, il dolore, e la rabbia negli occhi di Blaine quando lui aveva rivolto lo sguardo verso il tavolo dei giudici.

E, dopo che tutti erano scesi dal palco, dopo aver visto Blaine correre via da tutto e da tutti, evitare di guardare nella direzione di un uomo che sembrava essersi avvicinato per fargli dei complimenti con un ampio sorriso sul viso, aprire con forza la porta secondaria del teatro, e scaraventarsi fuori al freddo, senza neanche prendere un cappotto ed immergersi nell’ aria pungente della sera, Rachel lo prese lei, il cappotto, e congedandosi da Finn, che cercava preoccupato il fratellastro tra la folla, intimando a Santana di non fare niente di avventato come suo solito, e annuendo a Mercedes che si guardava in giro con espressione colpevole, si diresse fuori per cercare l’amico.

Tra lei e Blaine era nata una bellissima amicizia. Probabilmente nessuno lo avrebbe mai detto: il ragazzo iperattivo e la ragazza piena di sé, in competizione l’uno contro l’altro perché dirigevano due Glee clubs diversi.

Ed invece, contro le aspettative di tutti, si erano trovati ed andavano estremamente d’accordo.

Era lei che, quella lontana sera di due anni fa, quando l’aveva visto camminare da solo, sotto la pioggia, per quella strada che portava dall’ aeroporto verso il nulla, verso Lima, lo aveva fermato, lo aveva abbracciato e, senza avergli chiesto niente, lo aveva portato a casa sua, con una coperta ed il calore di una abbraccio a riscaldarlo.

 

Gli inservienti non potevano aver mentito.

Blaine sperava tanto di sì, lo sperava con tutto il cuore, perchè Kurt non se n’era semplicemente potuto andare, non poteva semplicemente averlo lasciato lì, da solo.

Non dopo aver coronato il sogno di una vita. Della loro vita. Insieme.

Si convinse che era solo tornato nel loro appartamento per preparargli una sorpresa, doveva essere così.

Si avviò il più velocemente possibile sul ciglio della strada e si mosse freneticamente le braccia, rischiando quasi di essere investito, per chiamare un taxi.

Non appena salito farfugliò il loro indirizzo e iniziò a tormentarsi le mani per in nervoso.

Il viaggio che seguì gli sembrò il più lungo di tutta la sua vita, ogni secondo che passava gli sembrava un’ eternità, tanto che quando scese dal taxi quasi si dimenticò di pagare.

Corse velocemente incespicando più volte nei piedi finché non raggiunse le porte del palazzo.

Salì le scale e, nella foga di cercare le chiavi nel cappotto le fece cadere a terra un paio di volte.

Imprecando le infilò nella toppa con mani tremanti.

Dannazione, stava davvero esagerando, avrebbe varcato quella porta ed avrebbe trovato Kurt, sorridente, con un grembiule sporco di cioccolato, che stava preparando una torta per festeggiare il suo primo giorno a Broadway.

E allora lo avrebbe baciato, e gli avrebbe detto che lo amava, e che era fiero di lui, che lo sapeva che ce l’avrebbe fatta perché se lo meritava.

E riuscì veramente a convincersene, riuscì veramente a crederci in quel sogno così dolce, che sapeva di casa, di affetto e di amore.

Ci riuscì così tanto che quando entrò e si accorse che sbagliava niente impedì al suo cuore di fermarsi, e poi di frantumarsi in tanti piccoli pezzi che cadevano sul pavimento senza nessun rumore.

O forse era lui che non l’aveva sentito, quel rumore, troppo preso a guardare la sagoma del suo ragazzo che, in lacrime e scosso da violenti singhiozzi, stava raccogliendo tutto ciò che gli apparteneva e lo stava mettendo in dei borsoni scaraventati in giro per la casa.

 

 

Rachel intravide la sagoma dell’ amico nel buio, illuminata solo da un lampione solitario che emetteva una luce debole accompagnata da un basso ronzio fastidioso.

Mosse qualche passo verso di lui, ma si ritirò quasi scottata quando vide le sue spalle scosse da un forte tremito.

Dio, ci erano riusciti, a fare in modo che tutta la sofferenza si allontanasse dalla loro vita.

Ci avevano messo così tanto impegno.

Blaine, ci aveva messo così tanto impegno. E non si meritava che tutto il lavoro che aveva fatto andasse in frantumi.

Non dopo che si era rialzato ed era ritornato a sorridere.

Si avvicinò fino a che non fu dietro di lui, e, delicatamente, senza pronunciare una parola, poggiò il cappotto sulle spalle del ragazzo e gliele accarezzò dolcemente.

“Shht” sussurò “Calmati, ci sono io”

In tutta risposta l’altro emise un singhiozzo più forte e si girò verso l’amica accasciandosi tra le sue braccia, lasciandosi andare ad un pianto liberatorio.

 

 

Finn non trovava Kurt da nessuna parte.

Non sapeva neanche perché sentisse di doverlo cercare.

Sapeva solo che quel ragazzo ne aveva passate troppe, e che, nonostante le sue scelte non fossero sempre state le migliori, aveva bisogno di qualcuno vicino.

Corse fuori dall’ auditorium ed esplorò tutto il parcheggio ed il tratto di strada circostante.

Passò per i campi da football e per la palestra, e continuò a correre, fino a che, stremato, non si gettò su una panchina.

Dove sei Kurt? Dove sei scappato?

Fu proprio lì che gli venne l’illuminazione.

Sapeva dove trovare Kurt.

E si meravigliava di non esserci arrivato prima.

 

 

La sala del Glee club non era cambiata di molto.

Era rimasta quella più piccola di tutta la scuola, perché ancora non si erano trovati abbastanza studenti da convincere il preside Figgins a donare più soldi per ristrutturarla, c’erano alcuni strumenti, il pianoforte nel centro della sala, e quelle stupide e scomode sedie tutte ammassate sul fondo.

Finn corse verso di essa come un forsennato, e non si meravigliò di aver indovinato.

Kurt era lì, seduto al pianoforte, gli occhi chiusi, le mani che si muovevano sui tasti creando una melodia a lui sconosciuta.

Struggente. Era tutto quello che riusciva a pensare.

Mosse un passo all’ interno della stanza e Kurt, accorgendosi che qualcuno era entrato, si fermò di scatto.

“No ti prego” sussurrò Finn ”Continua”

Kurt non se lo fece ripetere due volte.

Non aveva bisogno di parlare, con Finn.

Bastava sentire la presenza di suo fratello lì accanto a lui, per calmarsi.

E per Kurt non esisteva niente di meglio che il canto, per esternare quello che provava.

Quindi iniziò a cantare.

 

 

Mercedes, Brittany, Santana, insieme a Mike Puck e Tina che li avevano raggiunti dopo, sedevano ad un tavolo del Bel Grissino chiacchierando allegramente.

La cena per quella sera era già programmata da parecchio tempo, e per niente al mondo si sarebbero sognati di disdirla.

Anche se dovevano ammettere la situazione non era delle migliori.

In effetti non chiacchieravano proprio allegramente.

Era più una chiacchierata forzata, il ricercare un ottimismo che sembrava essere andato perso.

Santana si stava trattenendo dal correre fuori, cercare Kurt e scuotergli violentemente le spalle chiedendogli perché diavolo si fosse comportato così.

Invece se ne stava seduta lì, con un mano stretta in quella di Brittany, cercando di non pensare a quello che era successo, e quando Blaine entrò, accompagnato da Rachel, l’espressione sul suo viso non era certamente quella che ci si sarebbe aspettati.

I lineamenti erano rilassati, la bocca stirata in un leggero sorriso, e gli occhi concentrati, in un’ espressione fiera e sicura, quasi fosse l’unica cosa a cui aggrapparsi, quella sua maschera.

La verità era che Blaine aveva deciso. Aveva deciso che si sarebbe rialzato, anzi, che semplicemente non sarebbe caduto, quella volta.

Perché era già stato buttato a terra come un giocattolo mal funzionante una volta, senza una sola spiegazione, e non avrebbe permesso che succedesse di nuovo.

Tutto ciò non impedì però, al momento del suo arrivo, che il tavolo cadesse in un profondo silenzio.

Rachel si destreggiò sicura tra i tavoli del ristorante fino ad arrivare a quello dei suoi amici, immediatamente seguita da Blaine.

Entrambi occuparono i posti liberi.

Nessuno parlò, finchè Brittany non fece un enorme sorriso.

“Lord Tubbington ne sarà felice” asserì sicura “scusa Rachel ma tifava per Blaine”

Si sentì un sospiro generale.

Rachel si scurì subito in volto farfugliando che avevano solo avuto fortuna, Blaine, dal canto suo, si illuminò un poco iniziando a tessere le lodi degli Warblers.

Gli Warblers

Gli Warblers santo cielo! Li aveva lasciati da soli, ed erano lì con il pullman della scuola che guidava Blaine!
Fu colto da un enorme attacco di panico.

Era sua responsabilità, e lui era stato così sciocco che se n’era completamente scordato.

Si alzò velocemente dalla sedia e, dopo aver spiegato agli amici la situazione, si diresse correndo verso la scuola.

Neanche pensò, passando per il parcheggio, di guardare se ci fosse ancora l’autobus, semplicemente era troppo occupato a darsi mentalmente dell’ idiota per curarsene.

Entrò subito nell’ auditorium tagliando per la porta secondaria, e quando sentì solo il rumore dei suoi passi rimbombare per l’edificio vuoto crollò su una poltroncina.

Maledizione! Stava già iniziando a pensare al peggio, quando si accorse di qualcosa che vibrava nella tasca interna del suo cappotto.

Il cellulare.

Fachesianolorofachesianoloro

Aggrappandosi a quell’ultima speranza estrasse il telefono che continuava a vibrare.

Numero sconosciuto.

Non perdendosi d’animo cliccò sul tasto verde e mentalmente pregò per sentire buone notizie.

“Pronto?”

“Ehm… Blaine?” una voce esitante che non riconobbe subito rispose al cellulare. “Sono Steve”

Dio, Steve non era esattamente la persona con cui voleva parlare in quel momento.

“Oh, ciao Steve- Senti- Vorrei tanto parlare con te ma sono un idiota e non sono stato tanto bene ed i ragazzi ora-“

“Blaine Blaine respira! I ragazzi sono qui con me!”

“Com-chi-? Oh! Grazie a Dio!”

Blaine si accasciò sulla sedia lasciandosi andare ad un sospiro rilassato. Steve doveva aver portato a casa i ragazzi: non si era mai sentito meglio in vita sua.

Si scusò con l’amico per come fosse scappato senza parlargli, a fine serata, e lo ringraziò infinitamente per il favore che gli aveva fatto.

Promise che avrebbe rimediato con un caffè, comunque, e l’altro accettò allegramente.

Quando chiuse la conversazione era  notevolmente più rilassato.

Si stava quindi concedendo un momento di solitudine in cui allontanare tutti i pensieri della giornata quando la sentì.

 

 

Finn era uscito dalla stanza.

Kurt, ad occhi chiusi, lo aveva sentito, e lo aveva mentalmente ringraziato perché l’unica cosa che desiderava in quel momento era di essere lasciato solo.

Mentre le dita scorrevano sul piano la sua voce si spezzò per un secondo al ricordo di cosa lo aveva ridotto così.

 

 

Kurt non aveva aspettato che Blaine lo venisse a prendere quella sera a teatro.

Si sentiva vuoto.

E sapeva che quel vuoto che provava non si sarebbe riempito velocemente. Forse mai più.

Prese il primo taxi che si fermò, entrò nel loro appartamento il più in fretta possibile ed iniziò a fare le valigie.

Non avrebbe pianto.

Non voleva piangere.

Pianse.

 

 

Non c’era stato giorno, non un minuto, non un secondo della sua vita a partire da quel giorno in cui non si fosse sentito sbagliato.

E sotto quella sua maschera sicura, spigliata ed un po’ arrogante, il ragazzino spaurito che tremava ogni volta che riceveva una granita in faccia, soffriva come non aveva mai fatto.

Perché Kurt Hummel, in quel momento, mentre suonava il piano e cantava con voce spezzata, non era il Kurt Hummel che tutti erano abituati a vedere sul palco, non era chi si era tanto impegnato a fare credere che fosse, era solo un uomo ferito, ferito da sé stesso.

Perso nei suo pensieri non si accorse che qualcuno era entrato nella stanza fino a che non sentì il rumore dei passi che si avvicinavano lentamente,

Non c’era bisogno di voltarsi per capire chi fosse: Kurt avrebbe potuto riconoscere quella camminata leggermente saltellante e, a tratti, un po’ goffa, tra mille.

E provò una fitta di dolore quando si accorse che ancora ci riusciva.

 

 

“Devi scegliere ragazzo.”

Devi scegliere.

Scegliere.

Scegliere.

“O lui o Broadway.”

O lui o Broadway.

Lui.

Mille volte lui.

“Broadway”

 

 

Doveva vomitare.

Lo stomaco gli si contorse.

Non ce la poteva fare.

Si alzò dallo sgabello e corse più in fretta che poteva verso il bagno, le braccia strette in un abbraccio che voleva essere di protezione.

Di protezione da cosa?

Kurt si accasciò abbracciando la tavolozza del gabinetto.

Vomitò l’anima, e sperò ardentemente anche i ricordi.

Era scosso da violenti tremiti, e ringraziò il cielo che fosse seduto, perché sicuramente le sue gambe non lo avrebbero retto.

Sentì la porta aprirsi, si piegò su sé stesso contorcendosi per il dolore, lacrime calde che gli rigavano la pelle di porcellana.

Un corpo caldo si accostò a lui, ed una mano bagnata si posizionò sul suo collo, provocandogli una piacevole sensazione di sollievo.

Casa.

Dopo due lunghi anni si sentiva finalmente a casa.

Fu tutto quello che riuscì a pensare.

 

 

 

Quando Kurt riaprì gli occhi notò per prima cosa il freddo delle mattonelle del bagno attraversagli la stoffa dei vestiti ed insediarglisi dentro le ossa.

La seconda cosa che notò, invece, fu un corpo caldo seduto vicino a lui.

“Non eri costretto a farlo” disse con voce neutra, piantando lo sguardo a terra concentrandosi sugli intarsi delle mattonelle.

“Volevo” fu quello che rispose l’altro.

“Non dovresti, volerlo.”

“Lo so.”

Blaine si alzò , e Kurt soffrì istantaneamente dell’ improvvisa mancanza di contatto.

“Dovremmo andare, gli altri mi aspettano” disse quindi il ricciolo “chiamo Finn e gli dico che sei qui. Ti porterà a casa.” Aggiunse secco.

“No” si lamentò Kurt accartocciandosi su è stesso. “Voglio vederli, voglio vedere i miei ami-“ esitò, non sapendo se gli era più concesso usare quel termine “Il glee club”

Blaine annuì solo, lo aiutò ad alzarsi e gli poggiò il suo cappotto sulle spalle, guidandolo fuori dalla scuola, al freddo.

 

 

Kurt non sapeva cosa stava facendo.

Davvero non lo sapeva.

Sentiva come se fosse tutto sbagliato, come se mancasse qualcosa di importante.

Aspettava solo il momento in cui Blaine gli avrebbe urlato, lo avrebbe insultato e lo avrebbe distrutto, perché, in fondo, sapeva di meritarselo, e tanto valeva che succedesse subito, no?

Via il dente via il dolore.

Ma  Blaine era stranamente calmo, e per tutto il viaggio fino al Bel Grissino non disse niente, gli unici rumori erano le rare macchine che passavano per strada, ed i loro piedi che sfregavano sull’ acciottolato.

Quando entrarono, nel ristorante calò il silenzio.

Blaine si avviò diretto verso il tavolo, prendendo una sedia e sedendosi con gli amici.

Kurt rimase fermo.

E si maledì perché quel giorno aveva pianto più di quanto avesse fatto in tutta la su vita, ma vedere i suoi amici, coloro con cui era cresciuto, che lo avevano aiutato nel trovare sé stesso e nell’ accettarsi, era semplicemente qualcosa che non riuscì a sopportare.

Non ci riuscì perché l’unica cosa a cui che gli veniva in mente era come avesse mandato a monte tutto, come fosse stato orribile a lasciarli come aveva fatto due anni prima.

Le lacrime gli colmarono gli occhi, impedendogli di vedere, e quando sentì le mani, le braccia, i corpi confortevoli dei cuoi amici abbracciarlo e dirgli che andava tutto bene, quasi lo urlò, quel “mi dispiace” che si era tenuto dentro per tutto quel tempo.

 

 

Si risedettero tutti insieme al tavolo, Kurt ancora un po’ frastornato da quello che era appena successo.

“Ehi amico!” gli disse Puck dandogli una forte pacca sulla spalla “devi raccontarci un po’ com’è essere la star di Broadway!”

Kurt sorrise insicuro. “Non così emozionante come sembra”

“Oh ma dai!” esclamò Rachel “Non fare il finto modesto, è quello che hai sempre voluto fare, per forza deve essere fantastico!”

“Si beh” iniziò esitando il soprano, muovendosi a disagio sulla sedia “E’ diverso da come me lo ero immaginato” ed i suoi occhi guizzarono involontariamente sulla figura di Blaine, che teneva lo sguardo fisso su un punto sopra la testa di Kurt.

Mercedes capì subito lo sconforto dell’amico, e s’intromise subito facendo qualche domanda innocente su come fosse il suo appartamento (nonostante lei lo sapesse già) ed altri dettagli insignificanti.

L’atmosfera la tavolo si rilassò notevolmente quando Kurt iniziò a raccontare aneddoti sulla sua vita in teatro, riuscendo a far ridere la tavolata, ed addirittura sé stesso.

Era bello, pensò, poter essere liberi di parlare così. Certo, era anche strano, ma Kurt non si era certo aspettato che tutto fosse rose e fiori, erano passati due anni d’altronde.

E tutto stava andando meglio di quanto si era aspettato.

Fu proprio quando stava raccontando di quella volta in cui un piccione aveva rovinato uno dei costumi di scena due minuti prima dello spettacolo e la compagnia aveva dovuto aggiungere delle righe al copione per giustificare l’enorme macchia sul vestito, che Blaine si alzò di scatto dalla sedia e si affrettò fuori dal ristorante.

Tutti si guardarono stupiti, poi i loro sguardi si posarono tutti su di Kurt.

Fu con studiata lentezza quindi che quello si alzò, prese il cappotto, e uscì dal ristorante.

Dentro di sé sperava che Blaine se ne fosse già andato, non aveva le forze di affrontare quello che era sicuro sarebbe successo.

Sapeva che sarebbe dovuto accadere, ma il solo pensiero gli faceva stringere nuovamente lo stomaco.

Il ricciolo era in piedi sull’ orlo della strada, le mani in tasca e la testa bassa, gli occhi piantati sull’asfalto.

Kurt gi si avvicinò, piano, posandogli una mano tremante sulla spalla.

Quando Blaine si voltò di scatto  guardarlo, il soprano non si era  di certo aspettato le lacrime che trovò negli occhi dell’ altro.

“Blaine-“ iniziò esitante.

Ma il ragazzo si scostò bruscamente dal soprano, la cui mano gli ricadde in mobile sul fianco.

“Potevi dirmelo sai” urlò Blaine.

Eccolo, quello che si era tenuto dentro per tutta la serata.

“Potevi avvisarmi, ti sarebbe costato un fottuto singolo minuto della tua perfetta e felice vita!” sputò le parole con disgusto. “E invece no! Non un messaggio, non una chiamata, niente! Ti sei presentato come se non fosse successo un dannatissimo niente!”

“Blaine non lo sapevo!” si riprese Kurt, lo sguardo supplicante un perdono che sapeva non sarebbe mai arrivato “Se solo avessi saputo che tu insegnavi alla Dalton io-“

“Io cosa, Kurt, io cosa!?” lo interruppe l’altro, le lacrime che ormai gli inondavano il viso “Sai quante cose non sapevo io? Sai cosa mi sarebbe piaciuto sapere? Per esempio il perché quello che si supponeva fosse il giorno più bello della nostra vita io sono tornato a casa e ho trovato il mio ragazzo che senza un spiegazione mi sbatte la porta in faccia, o per esempio perché in due anni non si è mai degnato di farmi sapere perché! Sai quanto ha fatto male, Kurt? Sai cosa vuol dire svegliarsi ogni fottutissimo giorno e trovare il letto vuoto?”

“Dannazione certo che lo so, Blaine! Cosa credi che abbia provato io, eh? Cosa-“

“Di sicuro non stavi poi così male se sei uscito con tutte quelle troiette in minigonna, Kurt. Cos’è? Una nuova moda di Broadway? Giochiamo a chi si nasconde meglio?  A chi finge meglio di essere qualcuno che non è?”

“Io- loro erano” Kurt era stato preso in contropiede, sapeva che i giornali lo avrebbero fotografato con le ragazze con cui era uscito, in verità quello era il suo scopo, ma non aveva mai pensato a come avrebbe reagito Blaine se avesse visto le foto.

“Cosa, Kurt, cosa?! Dov’è finito il Kurt che conoscevo? Dov’è finito il ragazzo orgoglioso che non aveva paura di essere sé stesso?”

“Blaine-“
“Tu non sai più chi sei, Kurt, tu-“

“BLAINE! Credi che sia stato facile non correre indietro? Credi che non abbia pensato mai a come sarebbe stata la mia vita se non avessi fatto quello che ho fatto? Ma non posso, dannazione, non posso!”

“Il problema è che non mi hai mai detto perché! Una spiegazione, Kurt è tutto quello che ti ho sempre chiesto!”
“Era il mio sogno, Blaine, non potevo lasciarlo, tu mi hai sempre detto di inseguire i miei sogni-“

“Beh, sai che ti dico Kurt? Vaffanculo! Perché indovina un po’ qual’era il mio sogno Kurt? Tu.”

E detto questo si girò e corse via, infilandosi velocemente in macchina e lasciando un Kurt tanto distrutto quanto non si era mai sentito in tutta la sua vita.

 

 

  

 
 

.BluCannella

Vorrei iniziare scusandomi con tutti, davvero, per il ritardo.
Lo so che sembrerò una bambinetta capricciosa, ma ci sto davvero mettendo l'anima per questa storia, e quando ho all' inizio pubblicato i nuovi capitolo ero un po' giù di morale per il poco successo, le poche recensioni.. e non riuscio a trovare un motivo per andare avanti.
Scusate davvero, e ringrazio le fantastiche persone che per MP mi hanno fatto capire che ci tengono a questa storia, mi avete commosso,!
Ecco qui un altro capitolo, ora la smetto di scrivere Angst (Lo sto scrivendo? Davvero non ho ancora capito bene che cosa sia :P), dal prossimo capitolo le cose diventeranno più tranquille, ma non posso risolvere ciò che è successo ai nostri due poveri eroi in così poco tempo, ergo: l'Angst mi si scrive da solo!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, vi ringrazio infinitamente per le recensioni ricevute, davvero, mi illuminate la giornata!
Spero di non avervi deluso (ammetto di odiarlo, questo capitolo)
Fatemi sapere che ne pensate, basta poco e mi rendereste davvero felice :)
Alla prossima
BluCannella

P.s. IO. UCCIDO. RYAN. MURPHY.

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