Midnight Train di Daphne S (/viewuser.php?uid=120166)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 1 *** Capitolo Primo ***
Magari qualcuno si ricorda ancora di
questa FF che scrissi circa un anno fa. La lasciai a metà, perché
ebbi problemi di vario genere, perché mi sentivo noiosa nello
scrivere, carente di idee. Però ultimamente l'ho riletta e ho voluto
riscriverla: stesso inizio, stessi personaggi, ma storie diverse,
location diverse. Spero la leggerete. Spero mi appoggerete. Non vi
abbandonerò di nuovo, perché so che è nella scrittura che trovo me
stessa, non importa cosa succeda nella vita reale.
S.
Midnight
Train
Just
a small towngirl Livin' in a lonely world She took the midnight
train goin'anywhere
Just a city boy Born and raised in
south London He took the midnight train goin' anywhere.
La
verità è che a noi essere umani piace andare dietro a ciò che ci
avvolge, che ci stuzzica, che ci appare difficile. La verità è che
nessuno si accontenta di ciò che fila liscia come l'olio, di ciò
che non ha problemi, di ciò per cui non bisogna lottare e farsi
sanguinare le mani. Scoprii quella verità durante il mio primo anno
di università a Londra e, dopo che l'ebbi scoperta, capii perché il
mio cuore non aveva mai battuto all'impazzata, perché le mie mani
non erano mai tremate tanto da far cadere una tazza, perché non
avevo mai rischiato, restando attaccata alla mia vita da ottima
studentessa, ragazza carina ma “niente di particolare”, AKA
fantasma.
I
La
stazione di King's Cross era sempre un vero e proprio bordello.
Non ci ero stata molte volte, a dire il vero, ma in quelle poche
volte, avevo sempre quasi perso testa nel tentativo di capirci
qualcosa. Avevo letto che la stazione di trafficata fosse considerata
Waterloo: cosa diventava quel posto se già King's Cross era così
confusionaria? Erano le 23.53. Probabilmente era l'ora esatta: il
tabellone delle stazioni non sbaglia mai, giusto? Osservai quei
quattro numeri per un istante, prima di abbassare lo sbaglio e
guardare il biglietto che stringevo fra le mie mani: London King's
Cross – Brighton. Tirai un lungo respiro e tornai a cercare con lo
sguardo un tabellone, questa volta quello delle partenze; appena lo
trovai cercai Brighton e vidi che partiva alle 23.57, fra esattamente
quattro minuti, dal binario 6. Mi incamminai con passo sostenuto
nella direzione indicata dalle frecce e vidi lo scintillante treno
blu e rosso della compagnia South West Trains. Non molti viaggiavano
a novembre inoltrato verso la spiaggia probabilmente, ma a me non
interessava: Brighton era il mio posto sicuro. La brezza marina
cancellava i miei cattivi pensieri, cancellava tutta quella
negatività che mi portava lentamente ad implodere, ad andare via
dalla popolosissima Londra e dalle sue mille domande, dai suoi mille
perché... «Benvenuti a bordo di South West...» Non finii di
ascoltare l'annuncio, perché non appena presi posto vicino al
finestrino, infilai le cuffie nelle mie orecchie e mi aggomitolai su
me stessa, osservando la banchina del binario 7 con scarso interesse.
La prima volta che ero andata a Brighton avevo dodici anni e ci
ero andata con mio padre e Matt. Lo ricordavo ancora allora come il
giorno migliore di sempre. Era luglio, faceva caldo, uno dei giorni
più caldi di quell'estate. Io indossavo un vestitino rosso, comprato
da mia madre pochi giorni prima, e avevo un cerchietto rosso fra i
miei capelli. Matt era ridente, era la prima volta che andava verso
la costa: indossava una t-shirt bianca, semplice, jeans e sandali:
non mi sarei mai dimenticata come brillavano i suoi occhi quella
mattina. Mio padre aveva ottenuto un permesso per tornare dall'Iraq e
aveva deciso di portarmi al lunapark di Brighton: a suo avviso era il
migliore in assoluto. Mentre cercavo di richiamare il sapore dello
zucchero filato che io e Matt avevamo mangiato insieme, mentre
bagnavamo i piedi nell'oceano, qualcuno urtò la mia gamba,
costringendomi a svegliarmi bruscamente dai ricordi e tornare a
contatto con la realtà. I miei occhi incrociarono quelli di uno
sconosciuto. Le sue labbra parvero pronunciare uno “scusa”, prima
che lui si sedesse sul sedile davanti al mio, guardando a propria
volta fuori dal finestrino. Il treno partì due secondi contati
dopo ed il binario 7 fu velocemente fuori dalla portata della mia
vista, come lo fu anche King's Cross, e come sperai che lo fosse
altrettanto in fretta Londra. La musica suonava impetuosa nelle mie
orecchie e me ne compiacei: mi aiutava a tenere il mondo fuori dai
miei confini. In più non c'era nessuno che si potesse eventualmente
lamentare del volume, e il ragazzo davanti a me, non sembrava
curarsene più di tanto, intento anche lui ad ascoltare musica.
Decisi di osservarlo, curiosamente. Aveva capelli scuri, media
lunghezza, che li coprivano leggermente la fronte. Gli occhi
sembravano scuri, persi nella contemplazione del paesaggio che si
mostrava ai passeggeri del treno fuori dal finestrino. Era ben
vestito: sciarpa firmata, camicia stirata, giacca elegante, jeans di
buona qualità, scarpe di pelle. La sua mano sinistra sorreggeva il
suo mento, quella destra stringeva l'iPhone. Notai le sue dita
affusolate non appena cominciò a tamburellare con l'indice sullo
schermo nero del telefono.
Aveva un qualcosa di particolare, un
qualcosa di affascinante. Forse era il modo in cui sedeva,
composto nel suo essere incomposto. Forse era il modo in cui il
suo respiro si infrangeva sul vetro del finestrino appannandolo.
Forse
era il modo in cui dondolava leggermente la testa a ritmo della
musica. Amavo osservare i passeggeri dei treni, degli aerei. I
miei luoghi preferiti erano sempre stati gli aeroporti e le stazioni.
Mi piaceva guardare il modo in cui la gente portava le proprie
valigie, consegnava il passaporto, si guardava intorno. C'erano i
viaggiatori solitari e timidi, quelli solitari e pieni di sé, quelli
che spendevano milioni nelle librerie, quelli che si ammazzavano di
caffeina e nicotina... C'erano quelli che prendevano i viaggi come
una questione di comfort, presentandosi in tuta e scarpe da
ginnastica, c'erano quelli che consideravano viaggiare come la
donna/uomo del secolo, presentandosi quindi all'appuntamento al top
dell'eleganza, sfoggiando le borse, le scarpe migliori. Lo
sconosciuto davanti a me che viaggiatore era? Io che viaggiatrice
ero? Mi vedevo come una fuggitiva. Appena un problema emergeva ero
lì sul mio treno per Brighton, ero lì diretta lontana. Ero lì che
scappavo dalla London School of Economics, dalla mia laurea in
relazioni internazionali, dalla mia coinquilina asiatica, dalla
miriade di libri che avrei dovuto leggere ma che non avevo ancora
toccato... Scappavo. Ero la viaggiatrice fuggiasca, o forse meglio:
viaggiatrice codarda. Lo sconosciuto si alzò improvvisamente.
Notai che il suo telefono si era illuminata: una chiamata in entrata.
Forse si era alzato per rispondere. Forse era la sua fermata. Forse
era uno di quelli a cui piaceva parlare camminando. «È libero
questo posto?» La malasorte volle che lo stacco fra una canzone e
l'altra fosse proprio in quell'istante in cui un signore che odorava
come una distilleria, toccò la mia spalla, attirando la mia
attenzione. Lo guardai, con le labbra leggermente schiuse, e scossi
inconsciamente la testa. Non era vecchio, avrà avuto si e no
trent'anni. Tornai a guardare fuori dal finestrino, cercando di
capire dove ci fossimo fermati, ma il mio sguardo non fu abbastanza
sveglio. Lo sentii nuovamente toccare la mia spalla. Mi girai,
togliendomi una cuffia. «La posso aiutare?» Domandai
cortesemente, cercando di non far trapelare il mio reale stato
interiore. «Solo se è single.» Disse sfacciato. Abbassai lo
sguardo e mi voltai dall'altra parte. Ignorare ignorare ignorare.
Ecco ciò che dovevo fare, ma lui mi tocco nuovamente la spalla e io
mi voltai nuovamente. «È single, signorina?» «Non credo sia
affar suo.» Borbottai fredda. «Sei carina.» Ribatté lui,
posando una mano sulla mia coscia. Rabbrividii al contatto per il
disgusto ma non riuscii a muovermi. Ero congelata per il terrore.
«Sei carina e credo che tu sia single.» Portò l'altra mano alla
mia sciarpa e tirò con decisione il mio volto verso il suo. A nulla
servirono i miei tentativi di oppormi, la sua stretta era decisa, e
la sua forza era tanta. L'odore di alcol era forte, non riuscivo a
respirare, e vedevo il suo volto, la sua barba non fatta, essere
sempre più vicini a me, al mio viso, alle mie labbra... «Concordo
sul fatto che sia carina.» Una terza voce lo fece scattare di scatto
e mollare la presa. Mi alzai prontamente in piedi e guardai il mio
salvatore: lo sconosciuto. «Però non è single. Se non le dispiace,
quindi, la inviterei a cercarsi un altro posto a sedere prima che io
chiami la sicurezza.» La sua voce era calda, ferma, senza un'ombra
di indecisione. Il suo accento era tipicamente inglese, delle ricche
famiglie del centro città: le sue vocali erano ben marcate, ben
calcate... Lo immaginavo perfettamente a giocare a polo sul cavallo
di razza migliore. L'ubriaco si alzò e si allontanò in fretta,
non alzando lo sguardo da terra. Solo quando si fu distanziato mi
sedetti nuovamente, con lo sconosciuto davanti a me. Lo osservai e
lui ricambiò il mio sguardo con sicurezza. «Grazie.» Mormorai.
Mi accorsi che la mia voce era rocca, la mia gola secca. Non avevo
capito l'impatto che quell'approccio a base alcolica avesse avuto sui
miei nervi fino a quel momento. Lui si limitò a sorridere,
inclinando leggermente il capo. «Qual'è il tuo nome?» Mi
domandò improvvisamente ed io mi schiarii la voce, questa volta,
prima di rispondere. «Dafne.» Risposi, cercando di rendere la
mia voce ferma, non tremolante come mio solito nel momento
imbarazzati. «Tu come ti chiami?» «Nathan.» Ci sorridemmo e
sembrò che l'eternità si fosse congelata in quei sorrisi.
Il
treno si fermò. La voce metallica annunciò l'arrivo a Brighton. Ed
io mi svegliai. Ricordavo come io e Nathan avevamo parlato di
tutto e di niente. Della musica. Dei film. Non di noi. Ma del mondo.
Era come se entrambi volessimo lasciare noi stessi fuori dalla
conversazione, da quella sera... Le nostre vite erano lontane, il
presente invece di presentava come una tabula rasa che potevano usare
a nostro piacimento. Poi mi ero addormentata e, a giudicare dai suoi
stiracchiamenti e dai suoi sbadigli, lui aveva fatto lo stesso. Ci
alzammo e ci incamminammo silenziosamente verso l'uscita del treno,
verso i tornelli, e in men che non si dica ci ritrovammo all'aria
fredda. Non ero mai venuta a Brighton a novembre, ma era decisamente
molto, ma molto più fredda di Londra in quel periodo, soprattutto a
causa del forte vento. «Vuoi passare questa notte con me?» Mi
domandò all'improvviso. Io sbarrai gli occhi e lui scoppiò a
ridere. «Vuoi stare con me questa notte, mentre aspettiamo il primo
treno, non in un letto e non facendo cose a base sessuale?»
Riformulò la domanda ed io risi con un tono ancora più alto e
squillante. «Sì.» Mormorai infine in un soffio, leggera. Ma ero
convinta che lui sentii quel leggero mormorio, perché i suoi occhi
sorrisero, come fece la sua bocca, come fecero le sue labbra. «Sì.»
Ripetei, scuotendo leggermente la testa, imbarazzata, ma felice. Lui
allungò la mano, invitandomi a stringerla, ed io lo feci, sentendomi
girare la testa a quel contatto, a quella stretta. «Solo ad una
condizione però.» Dissi all'improvviso, poco prima che ci
incamminassimo. Lui si voltò nella mia direzione e mi guardò
intensamente negli occhi. «Qualsiasi essa sia.» Le sue parole mi
spiazzarono e mi persi nuovamente nei suoi occhi. Solo in quel
momento realizzai che fossero blu: blu come l'oceano, blu come la
notte, blu come il maglione di mio padre in cui dormivo ancora.
Blu. «Non parliamo delle nostre vite. Non parliamo di chi siamo.
Io sono Dafne. Tu sei Nathan. Punto, nient'altro. Siamo due persone
senza passato, senza futuro. Conta solo il presente.» Dissi tutto
d'un fiato, cercando di non sciogliermi a causa del suo sguardo su di
me. Quando finii di parlare, lui fece un passo verso di me, poggiando
le mani sul mio viso e costringendomi a guardarlo fermamente negli
occhi. «Ragazza senza passato e futuro, ma che vive solo nel
presente, spero che ti piaccia la spiaggia, perché voglio portarti
nel mio posto preferito.» Detto ciò tornò a stringere sicuro la
mia mano e mi condusse per le strade di Brighton, lontano dalla
stazione, lontano dai locali pieni di vita, lontano dalle luci, dai
profumi di fish 'n chips, lontano da tutti... Verso la spiaggia,
verso quel profumo di sale, quel profumo di mare che aveva inebriato
le mie narici con quella intensità solo quando portavo il mio
vestito rosso, solo quando mio padre mi comprò lo zucchero filato,
solo quando Matt mi costrinse a salire sulle montagne russe, solo
quando la vita sembrava bella e colorata come Brighton in piena
estate. Pensavo di non poter più sentire quell'odore in quel modo,
pensavo di non poter essere più felice e rilassata con quel luglio
del 2004, pensavo, pensavo... ma pensavo male, perché un semplice
sconosciuto dall'accento snob e dagli occhi blu come il mare, era
riuscito a scuotere il mio cuore, risvegliarlo, e farlo battere come
se impazzito. Brighton non era mai stata così bella.
Il posto preferito di Nathan era sotto il
pontile, in un angolo dove i caratteristici sassi che componevano la
spiaggia, avevano lasciato spazio per un paio di metri ai granelli di
sabbia. L'odore di salsedine lì era fortissimo, ma il vento era
leggero, rispetto alle altri parti della città. Mi spiegò che da lì
si potevano fare le foto migliori, specialmente all'alba e al
tramonto: capii così che amava fare fotografie, immortalare in
centinaia di scatti la realtà, catturare l'essenza più vera di
taluni momenti.
Ci sedemmo sul telo da mare che mi ero
portata da casa, e lui mi strinse con dolcezza a sé, passandomi un
braccio intorno le spalle. Mi guardava, mi toccava, mi trattava con
dolcezza, come se fossimo legati da sempre, come se lo saremmo sempre
stati. Eppure più lo osservavo, più ascoltavo la sua voce, più mi
rendevo conto di quanto lui fosse distante da me, dalla mia vita, da
tutto. Ci eravamo promessi di non raccontarci nulla su di noi, sulla
nostra provenienza, ma quando lo sentivo parlare di cose futili, di
piccoli interessi, capivo che viveva nel centro più ricco di Londra,
che aveva hobbies costosi come il golf. Non parlare di noi faceva
comodo solamente a me, perché avevo paura che si sarebbe
allontanato, che avrebbe perso l'interesse per me, se avesse scoperto
che vivevo nell'Est di Londra, quello stesso Est tanto criticato e
denigrato da tutte le famiglie ricche o benestanti. Volevo tenerlo
lì, vicino a me, solo quella sera, solo lì, a Brighton, solo quelle
ore... Poi io sarei scomparsa, lui avrebbe fatto lo stesso, saremmo
tornati alle nostre vite, saremmo tornati alla normalità, e quello
sarebbe stato solamente un ricordo, un dolce ricordo autunnale. Lo
guardai un'ultima volta negli occhi, rivolgendogli un amaro sorriso,
prima di scivolare in un sonno profondo, carezzato dalla brezza
marina, avvolta fra le sue braccia, con la testa abbandonata sul suo
petto.
Quando riaprii gli occhi il sole stava sorgendo e il
rumore delle onde coccolava il mio torpido stato di risveglio. Lo
guardai, era sveglio e mi guardava a sua volta con un dolce
sorriso. «Buongiorno.» Mormorai. «Buongiorno.» Rispose,
sistemandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Non hai avuto
freddo?» Domandò gentilmente. Io scossi la testa, nascondendo poi
uno sbadiglio dietro la mano. «Bene.» «A che ora è il
prossimo treno?» Domandai, sentendo poi una diffusa tristezza
prendere piede dentro me. Stava per finire tutto, stava per finire
tutta quella perfezione, e tutto ciò che sapevo di lui era che amava
la fotografia, il gol, si chiamava Nathan, era di Londra, e a
valutare dall'accento era della zona Chelsea. «07.46» Rispose,
controllando l'orologio. «Abbiamo mezz'ora. Ci incamminiamo?»
Annuii, alzandomi in piedi e pulendomi i jeans dalla sabbia. Lui mi
seguì, passandosi una mano tra i capelli e sbadigliando a propria
volta. Non faceva freddo, il vento era docile, come lo erano le onde,
e la luce era soffusa, tipica dell'alba, colorata da sprazzi di
rosso. «A quest'ora il mare è stupendo.» Mormorai. Lui mi
sentì, avvicinandosi a me, con le scarpe strette in una
mano. «Voglio immortalare questo istante. Guardami.» Eseguii il
suo ordine, e mi resi conto che aveva nelle mani il cellulare, pronto
a fare una fotografia. Inizialmente nascosi il viso fra le mani, ma
poi sorrisi, convinta da quel venticello, convinta da quell'odore di
mare, convinta dai suoi occhi... Lui sorrise soddisfatto e si
avvicino a me, mostrandomi il risultato. Era splendida. Una
fotografia scattata con il cellulare che era semplicemente
splendida... La luce cadeva perfettamente sulla mia figura,
illuminandomi il volto. I miei lunghi capelli castani erano
spettinati elegantemente dal vento e miei occhi azzurri brillavano
nel mezzo delle mie mille lentiggini. «È bella.» Sussurrai.
«Tu sei bella.» Rispose, facendomi arrossire. «Ed io sono
bravo.» Scoppiammo a ridere insieme, ed io mi sciolsi dall'imbarazzo
creatosi dopo il suo complimento. Mi prese poi per mano e cominciò a
correre: presto mi trovai costretta a seguirlo, con i piedi bagnati
dall'acqua gelida, e i primi passanti che ci guardavano curiosi dal
pontile. Ricordavo ancora come ero corsa lì con Matt e mio
padre, cercando di non essere la prima ad essere buttata in acqua.
Ricordavo come mio padre mi aveva sollevata, facendomi fare un giro a
360 gradi sopra la sua testa. Ricordavo il suono delle mie risate, il
suo sorriso, i suoi occhi che brillavano, i suoi occhi che avevano
ripreso vita dopo l'Iraq. «Andiamo, voglio farti assaggiare il
croissant più buono di Brighton prima che ce ne andiamo.»
Nuovamente mi tirò per la mano ed io lo seguii correndo.
Raggiungemmo la strada, indossammo le scarpe, e continuammo a correre
leggeri, ridenti, felici, come se fosse estate, come se la vita fosse
uno scherzo, come se Londra, come se l'università fossero lontano,
come se fossimo all'interno di un film perfetto, dove lei ama lui e
lui farebbe qualsiasi cosa per lei... Leggeri come l'acqua, come le
onde dell'oceano che si erano infrante sui sassi di Brighton...
Leggeri come l'aria. Entrammo in un piccolo bar, caratterizzato da
migliaia di fotografie dei Beatles e dai loro vinili appesi sulle
pareti. Le mie narici furono invase dal dolce odore di cornetto, lui
mi sorrise soddisfatto. «Ti piace il Kinder?» Mi domandò ed io
annuii. Tornò a guardare il proprietario. «Mi dia due croissant con
il Kinder, per favore.» L'uomo sorrise e dopo un paio di secondi
tendeva il braccio con una busta bianca stretta in mano. Nathaniel la
prese e diede tre sterline all'uomo. «Grazie, buona giornata.»
Uscimmo e lui mi porse un croissant. «Grazie.» «Grazie a te
per la notte.» Ci scambiammo uno sguardo e poi decisi che forse
fosse meglio addentare la mia colazione. «Vengo in questo bar da
dieci anni circa. La prima volta mi ci portò mio zio.» «È
delizioso.» Mormorai, mentre il cioccolato Kinder si scioglieva
nella mia bocca fondendosi con il burroso sapore del croissant. Altri
sorrisi. Altri sguardi. Arrivammo alla stazione, comprammo i
biglietti, e ci lasciammo Brighton alle spalle, con anche i ricordi
di quella notte, i croissant, l'acqua sui miei piedi...
Arrivammo a King's Cross in perfetto
orario. I treni inglesi erano la puntualità fatta a... treno, per
l'appunto. Scendemmo dal vagone e ci incamminammo in silenzio lungo
il binario. Nathan stringeva dolcemente la mia mano, come se non
volesse lasciarmi, come se come me volesse aggrapparsi a quelle ore
di perfezione passate insieme... Avevo dimenticato tutto in quelle
ore, tutti i problemi che mi avevano spinta ad andare via dalla
grande metropoli, tutti i volti da cui mi ero distanziata, tutti, e
tutto. Ci ritrovammo vicino all'uscita e lo guardai, sentendo il mio
cuore aumentare drasticamente i battiti. «Un giorno mi
racconterai il perché di questo viaggio?» Mi domandò. Io abbassai
lo sguardo, guardandomi le punte degli stivali. Non ci saremmo mai
rivisti, e lo sapevo perfettamente. «Facciamo così: se ci
incontriamo casualmente, di nuovo come oggi, ti racconterò tutto di
me, non sarò più senza passato e futuro.» Risposi e lui annuì.
Sembrava soddisfatto della mia risposta. «Credi nel destino?» Mi
guardò intensamente negli occhi. «Credo che l'uomo crei il
proprio destino.» Ribattei. I suoi occhi brillarono ed io mi sentii
arrossire. «Quindi credi che sia stato puro caso il fatto che ci
siamo ritrovati seduti nello stesso vagone, sullo stesso treno,
diretti entrambi a Brighton perché stanchi della nostra vita a
Londra?» Mi morsi il labbro, abbassando nuovamente lo
sguardo. «Credo sia stata fortuna.» Sussurrai. Lui mi sentì,
come sempre, e portò due dita sotto il mio mento, costringendomi a
guardarlo negli occhi. «E spero di essere così fortunata ancora una
volta.» Aggiunsi. Fu tutto improvviso. Nathan si abbassò sul
mio volto e mi baciò. Le sue labbra erano morbide, gentili, mi
baciavano con dolcezza, mentre le sue mani passavano dai miei fianchi
alla mia schiena, sfiorandomi appena, ma bruciando ogni centimetro di
me anche da sopra i miei vestiti. Afferrò poi il mio viso con
entrambe le mani e approfondì il bacio, schiudendo le labbra. La mia
lingua intrecciò la sua e mi sentii totalmente inebriata dal suo
buon profumo, dal suo tocco, dalla intensità di ogni suo gesto. Le
mie ginocchia erano gelatina, mi sentivo totalmente in balia di lui e
dei suoi gesti. Le mie mani strinsero la sua camicia, come se fosse
l'unica salvezza dallo sprofondare nel baratro, nel vortice delle mie
emozioni. Tutte quelle emozioni erano nuove, intense, il mio stomaco
si stava rigirando e mi sentivo andare a fuoco. Avevo sottovalutato
con quanto ardore avessi desiderato quel bacio. Quando si
allontanò, mantenne le mani sul mio viso e io le mie mani sul suo
petto. Ci guardammo negli occhi e notai che anche il suo volte era
arrossato. «Devo andare ora.» Mormorò. Io annuii, ancora
scombussolata da tutti quei brividi. «A presto.» Fu tutto ciò
che riuscii a dire. «A presto, Daf.» Mi baciò sulle labbra e
poi sulla fronte, scomparendo velocemente dalla mia vista. Rimasi lì,
ferma, per lunghi istanti, mentre pian piano la realtà tornava a
infrangersi contro la mia pelle: sentivo nuovamente freddo e sentivo
come le frettolose persone che occupavano la stazione mi urtavano nel
tentativo di raggiungere al più presto il proprio treno. Nathan. Il
suo nome, il suo sorriso, i suoi occhi blu. La sua immagine
sarebbe rimasta a lungo impressa, stampata in me. Nathan. L'unico,
a parte mio parte, che aveva fatto vibrare la mia anima lì, a
Brighton, in quel modo.
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Capitolo 2 *** Capitolo Secondo ***
Midnight Train
II
«Buongiorno,
Tom.» Appena entrai nella sala dei dipendenti, trovati Tom seduto su
una poltrona ad allacciarsi le scarpe. Indossava già la maglietta
bordeaux da impiegato di Costa Caffè. Lui alzò lo sguardo e mi
sorrise, sventolando poi la mano. «Ciao, Daf. Pronta per questo
intenso venerdì pomeriggio?» Disse con una risata e io non potei
fare a meno di sorridere. Il suo sorriso era sempre così contagioso.
«Come sempre, Tom. Mi conosci.» Ridemmo insieme, mentre io mi
toglievo la felpa, restando solamente con la stessa t-shirt del mio
collega. Conoscevo Tom dagli inizi di agosto quando, dopo che mia
madre aveva perso l'ennesimo lavoro, avevo trovato impiego a Costa
Caffè: ben pagato e letteralmente di fronte l'entrata principale
della London School of Economics, la mia università. Tom studiava
cinema alla Queen Mary, vicino Mile End, ed era un ragazzo genuino,
un vero amico, in grado di sollevare l'umore più nero con un paio di
parole, una semplice carezza.
Erano passate due settimane da
quella notte a Brighton e, volente o nolente, il ricordo di Nathan
tardava ad abbandonarmi. Non ne avevo parlato con nessuno, non avevo
raccontato a nessuno di come avevo sbattuto la porta di casa,
lasciando mia madre sconvolta, seduta sul divano con il suo nuovo
compagno e una birra fredda fra le mani. Quella notte mi aveva
fatta tornare in vita, aveva risvegliato ogni singolo capillare, ogni
singolo nervo, anche il più nascosto, il più piccolo. Mi aveva
aiutato a tornare a respirare, a ragionare con la mente cristallina,
pulita, non condizionata. Lui mi aveva fatta tornare in vita e poi
era scomparso, lasciando un solco dentro di me. Riuscivo ancora a
ricordare la sabbia intrappolarsi fra le mie dita, il vento
scompigliarmi i capelli, il profumo di salsedine, il cioccolato
Kinder sciogliersi nella mia bocca, le sue dita sul mio viso, i miei
piedi bagnati dall'acqua dell'oceano, il suono delle sue risa
cristalline, le sue labbra sulle mie, quel bacio, quell'infinito
bacio che aveva fermato il tempo lì a King's Cross. Prima di
quel giorno avevo collegato ricordi solo legati a mio padre e Matt a
Brighton, malgrado ci fossi stata centinaia di volte. Ora invece ero
in grado di collegarci non solo mio padre e Matt, ma anche Nathan.
Nathan e il suo portamento elegante, il suo accento snob, i suoi
capelli scuri, i suoi occhi blu come la notte e come il maglione di
papà...
«Pronta?» Alzai lo sguardo, incrociando quello di
Tom. Mi ero nuovamente incantata, perdendomi nei miei pensieri.
Annuii, scrocchiandomi le dita e seguendo Tom verso il bar. Eravamo
arrivati giusto in tempo per dare il cambio a Gemma e Chris, le
ragazze che avevano il turno dalle 11 fino alle 17. Mi sistemai alla
macchinetta del caffè, mentre Tom andò alla cassa, cominciando
immediatamente a prendere i primi ordini. Quel lavoro per certi
versi mi rilassava: era quasi sempre meccanico. Le persone ordinavano
sempre qualcosa a base di latte e/o caffè. Espressi, cappuccino,
caffè americani, caffè latte... Raramente, soprattutto durante
l'inverno, si presentavano clienti desiderosi di bere Frappuccini o
caffè o tè freddi. L'inverno a Londra obbligava a bere bevande
calde. Nell'arco di quaranta minuti avevo preparato almeno una
ventina di espressi e altrettanti caffè latte. Io e Tom eravamo
sempre stati un'ottima squadra: lui era chiaro nel passarmi gli
ordini ed era ordinatissimo alla cassa, mentre io ero veloce e abile
alla macchinetta del caffè. Il nostro servizio soddisfaceva sempre i
clienti ed il nostro manager tendeva a darci turni nelle ore in cui
il negozio tendeva ad essere più pieno. Tom mi sorrideva
incoraggiante ogni volta che mi diceva di preparare qualcosa, si
comportava con dolcezza estrema nei miei confronti. Io e Victoria, la
mia migliore amica, avevamo pensato diverse volte che lui avesse una
cotta per me, che i suoi sentimenti fossero ben distanti da una
semplice amicizia, ma poi Evan, che era il mio amico più stretto e
studiava alla stessa università di Tom, mi aveva raccontato di come
non mi nominava mai e andava dietro diverse ragazze di medicina della
Queen Mary.
«Io non capisco certe persone: come si fa
preferire andare a prendere una birra al Maddox? Cioè, stiamo
parlando del Maddox, non del Jewel di Piccadilly Circus.» Nonostante
il rumore del latte che veniva schiumato, riuscii a sentire una voce
fin troppo alta e acuta fare il suo ingresso nella caffetteria.
Decisi di non alzare lo sguardo, concentrandomi sul non rovesciare
neanche una goccia di cappuccino fuori dall'orlo del
bicchiere. «Potrei avere un doppio espresso e un tè verde medio,
per piacere?» Eppure quella seconda voce maschile sembrava
familiare: avrei potuto giurare di averla sentita prima. Quando Tom
mi comunicò l'ordine, mi sistemai una ciocca di capelli ed alzai lo
sguardo, curiosa di vedere chi avesse parlato. Il mio cuore si
congelò non appena i miei occhi incrociarono la traiettoria di
quelli di Nathan. Era lì, in piedi dietro il bancone dove io stavo
lavorando, che mi guardava con le labbra schiuse, apparentemente
tanto sorpreso quanto me. Indossava una camicia azzurra, un maglione
blu scuro che si intonava ai suoi occhi, un cappotto pesante e jeans
scuri. Gli occhiali dal sole era incastrati nello scollo della
camicia e i capelli castani erano leggermente scompigliati dal vento.
Deglutii, cercando di preparare in fretta e furia il doppio espresso
ed il tè verde, servendoli immediatamente dopo. «Possiamo
andarcene da questo posto adesso?» La voce fastidiosa apparteneva
alla biondina in piedi vicino Nathan. La riconobbi immediatamente:
Claudia Delacroix, figlia del console francese, puzza sotto al naso,
studentessa di Storia alla mia stessa università. Nathan annuì, non
staccando gli occhi da me. «A che ora stacchi?» Mi domandò
sottovoce, mentre Tom mi passava l'ennesimo ordine. «21.»
Sillabai. Nathan non aggiunse altro e, sorseggiando il suo
espresso, si allontanò insieme a Claudia dalla caffetteria, mentre
il mio cuore ricominciava a battere con fatica. C'erano centinaia, se
non migliaia, di Costa a Londra: ad ogni angolo c'era un Costa,
accompagnato da Starbucks, Caffè Nero, e decine di altre catene...
Per quale assurdo scherzo della vita era entrato proprio in quel
Costa, quel venerdì, a quell'ora? Perché c'ero proprio io a servire
il caffè? Perché, nuovamente, aveva scelto quel Costa spiaccicato
fra la LSE e il King's College sulla Strand? Mi ricordai che non
sapevo nulla di lui: non sapevo dove studiava, quale fosse il suo
cognome. Però frequentava Claudia Delacroix: le loro famiglie
dovevano essere legate dall'alta borghesia, o magari erano compagni
di corso... Se fossero stati compagni di corso avrebbe voluto dire
che lui frequentava la LSE come me e non lo avevo mai visto
prima... «Daf, è pronto il caffè?» Mi resi conto di essermi
incantata nuovamente e cercai di recuperare il ritmo sotto lo sguardo
attento sia di Tom che dei clienti. Non potevo rallentare il ritmo,
perdere il lavoro per colpa del mio continuo pensare a Nathan.
Mi
tolsi la maglietta di Costa, con il cuore che batteva ancora mille
da quando Nathan era entrato a prendere un caffè. Erano le 20.55 ed
io gli avevo detto che staccavo alle 21. Non potevo vederlo, non
potevo lasciare che il mio cuore collassasse a cause di tutti quei
battiti, di tutte le emozioni che lui mi procurava. Perché
incendiava il mio corpo e la mia mente con tanta facilità? Perché
gli bastava entrare, ordinare un caffè per fottere totalmente la mia
mente? Perché aveva quell'effetto su di me? Era uno
sconosciuto, un totale sconosciuto di nome Nathan. Un totale
sconosciuto che frequentava persone tanto snob quanto il suo
accento. Persone come Claudia Delacroix e le sue borse di Louis
Vuitton. Io lavoravo da Costa, loro consideravano Costa un
postaccio. Nascosi la t-shirt e la felpa nella borsa e indossava
una camicetta bianca e un cardigan blu scuro, pettinandomi poi
velocemente i capelli. Dovevo uscire da quel posto e se lui fosse
stato lì fuori mi sarei dovuta comportare da persona matura. Infondo
non potevo negare che avessi sognato centinaia di volte di
incontrarlo nuovamente, di baciare nuovamente le sue labbra... Ed i
miei sogni si erano avverati stranamente, qualcuno aveva udito le mie
preghiere.
Quando spinsi e mi chiusi alle spalle a chiave la
porta presi un lungo respiro e lo vidi in piedi, davanti l'ingresso
della caffetteria. Lo guardai, nuovamente paralizzata, senza muovermi
di un centimetro, senza riuscire a fare più niente. In una mano
stringevo le chiavi del negozio, nell'altra il brownie che avevo
preso di nascosto. Le mie orecchie fischiavano e lui era lì, fermo,
proprio davanti a me. Sembrava un film, un meraviglioso film, dove
l'attrice aveva serie difficoltà motorie però. Lui accennò un
sorriso, ma non disse nulla, limitandosi a camminare lentamente verso
di me. Si muoveva piano, come se avesse paura di spezzare
l'incantesimo che si era creato fra di noi. Si muoveva con cautela,
misurando ogni passo, ogni gesto. Quando fu a meno di mezzo metro da
me, tese la mano nella mia direzione ed io, leggermente titubante, la
afferrai. Fui nuovamente invasa da mille brividi, ognuno collegato
ad una diversa sensazione, una diversa emozione. Il mio cuore aveva
smesso nuovamente di battere, e non ero neanche più tanto sicura del
fatto che io stessi respirando. Come potevo avere paura di tutto
ciò? Come potevo tirarmi indietro solo a causa di mie fisime
sulle classi di appartenenza? Eravamo nel XXI secolo ed io parlavo
in termini coniati da Marx. Quel contatto non poteva portare a
qualcosa di sbagliato se tutte le emozioni che scaturiva erano
decisamente positive? Lo guardai per qualche istante negli occhi e
mi parve di sentire parte di me ordinarmi di tuffarmici dentro. Erano
di un blu talmente intenso, talmente ipnotico, che non riuscivo a
dire parola, non riuscivo a forzarmi a spezzare quel silenzio. Poi
lui sorrise, sorrise con leggerezza, infondendomi sicurezza,
infondendomi calore. Fece un altro passo nella mia direzione,
sciolse il legame delle nostre mani e mi abbracciò, semplicemente mi
abbracciò. Era più alto di me, nascosi il viso nell'incavo fra la
sua spalla ed il suo collo, sentendo la sua clavicola spingere contro
il mio zigomo. Passai le mani dietro la sua schiena e lo strinsi a
me, mentre il mio cervello veniva metto totalmente K.O dal suo
profumo. Dio, quanto era buono il suo profumo. La sua mano destra
andò dietro la mia nuca, quella sinistra sulla mia schiena. Mi
stringeva infondendomi sicurezza: mi sentivo protetta fra le sue
braccia, lì davanti al Costa della LSE. Come avevo potuto solo anche
pensare a rinunciare a quel contatto? Ci allontanammo dopo un po':
non sapevo quanto fosse passato. Secondi, minuti, ore... Il tempo si
era solamente fermato, come il mio cuore, come il mio respiro. Lo
guardai coraggiosamente negli occhi, convinta di essere rossa come un
peperone. «Che ci facevi in questo Costa?» Mormorai con la voce
puntualmente roca. «Ci vengo spesso di mattina, solitamente,
studio al King's College.» Wow. Per poco la mia mandibola non cadde
nuovamente a terra, come quando lo avevo visto entrare per ordinare
il suo doppio espresso. Studiava al King's College, che era situato
sulla strada parallela alla LSE. «Tu quindi lavori?» Aggiunse, io
deglutii. «Studio alla LSE.» Vidi il suo sorriso allargarsi, poi
scoppiò a ridere ed io lo seguii a ruota. «Quindi fammi capire,
studiamo attaccati l'uno all'altro e non ne avevamo idea.» Scossi la
testa. «Infondo non ne avevamo mai parlato.» «Giusto ma...
Ciò vuol dire che sei sempre stata a due passi da me.» Schiusi le
labbra, sentendo che non dovevo ribattere, perché aveva altro da
dire. «Ciò mi farà sembrare uno psicopatico ma... Io ti ho cercata
in queste settimane, ti ho cercata con lo sguardo ovunque andassi...
Ti ho cercato nella metropolitana -tutti usano la metropolitana!-, ti
ho cercata nei musei, ti ho cercato nelle discoteche... Sì, lo so
che Londra è grande ma ci sono posti dove tutti vanno almeno una
volta ed io speravo che il calcolo delle probabilità fosse a mio
favore.» «E sei finito con il trovarmi dentro un Costa
Caffè...» Che parole stupide! Ma erano le uniche che ero riuscita a
dire, totalmente ammaliata dal suo parlare, dalla sua confessione.
«Fortuna che sono venuto ad un orario totalmente insolito per
me.» «Vuoi un pezzo di brownie?» Lui mi guardò esterrefatto
ed io realizzai che potevo vincere un premio per le “frasi più
inopportune da dire”. Sorrisi, arrossendo, e gli porsi il brownie
che avevo preso in negozio. «Non è avvelenato.» Anche lui sorrise,
staccandone un pezzo. Cominciò così a parlarmi, dicendomi tutte
quelle cose che non ci eravamo detti quella notte perché avevamo
deciso di essere senza passato e senza futuro. Scoprii così che
studiava giurisprudenza, che era al suo secondo anno, che amava il
corso e che era tanto diverso da ciò che la sua famiglia avrebbe
voluto che facesse, senza però dire cosa avrebbe voluto la sua
famiglia. Scoprii che abitava in una palazzina che affacciava su
Hyde Park, presto capii che l'intera palazzina era fosse della sua
famiglia. Nuovamente la mia fiducia cominciò a scemare e la mia
voglia di scappare aumentare. Giocava a polo, guidava una
mini-cooper, faceva di cognome Crawford. Crawford come i politici
di destra radicati da secoli nel parlamento e che avevano titoli
nobiliari. Era lo scapolo d'oro, si capiva ad ogni parola che
diceva, ad ogni sorriso che indirizzava nella mia direzione. Non
faticavo ad immaginare la fila di ragazze che si creava solo per
parlare con lui, solo per stare sedute vicino a lui durante una
lezione. Mentre lui continuava a parlare, osservai il mio riflesso
nella vetrina di Costa. Avevo lunghi capelli castani, leggermente
mossi, particolarmente banali. Il mio volto era perennemente
ricoperto da lentiggini e non portavo il minimo velo di trucco. I
miei vestiti erano tanto semplici quanto la mia fisionomia. Come
potevo affrontare quella schiera di ragazze che sarebbero morte per
parlare con lui? «Sono davvero felice di averti incontrata di
nuova.» Disse ad un certo punto ed io decisi di non mentire. «Anche
io. Davvero.» Infondo non avevo armi per lottare per lui. E
fondamentalmente non ero la tipica ragazza che lottava per ottenere
un uomo. Dovevo semplicemente essere me stessa: magari mi avrebbe
accettata nonostante la mia semplicità, nonostante il fatto che
abitassi in un appartamento preso in affitto nell'Est più sporco di
Londra; magari sarebbe fuggito e, a quel punto, avrei imparato la
lezione. «E dobbiamo ancora raccontarci il perché della fuga a
Brighton.» Mi ricordò, facendomi l'occhiolino. Io sorrisi,
prendendo un lungo respiro e guardandolo più
coraggiosamente. «Accompagnami a casa, capirai.» Non so con
quale forza dissi quelle parole, ma quello era il mio tentativo più
grande di fargli spazio in me: nei miei pensieri, nelle mie paure,
nel mio passato, nei problemi... Semplicemente tornando a casa, gli
avrei potuto mostrare parti di Londra che raccontavano la mia storia,
il mio passato, il perché di quella improvvisa notte a Brighton. Lui
si limitò ad annuire, prendendo poi gentilmente una mia mano e
baciandola. «Okay. Guidami.» Sorrisi e lui mi sorrise
nuovamente. Perché ero disposta a lasciarmi andare così con
lui? Sì, ora non potevo più definirlo uno sconosciuto. Sapevo
molto più io di lui che lui di me. Eppure ci conoscevamo da
neanche 24 ore tutto sommato. Eppure i suoi occhi blu mi
chiedevano di fargli spazio. I suoi occhi blu brillavano come
quelli di mio padre. I suoi occhi blu, maledettamente blu...
«Non
so quanto ti convenga accompagnarla a casa.» Quella voce spezzò
tutto. Spezzò il tempo che si era fermato, spezzò il legame fra
le nostre mani. Conoscevo quella voce, la conoscevo fin troppo
bene. «Claudia, che ci fai qui?» Domandò Nathan, inarcando un
sopracciglio. «Ero andata a stampare un paio di cose per la
lezione di lunedì.» Si sistemò una ciocca dorata dietro l'orecchio
e si strinse nella sua pelliccia -sperai vivamente fosse finta quasi
quanto sperai che lei scomparisse dalla mia vita-, guardandomi con il
naso arricciato. «Comunque dicevo, non credo di convenga
accompagnarla a casa.» «Perché non dovrebbe convenirmi?»
Nathan la guardava scettico; le sue mani erano scivolate in tasca e i
suoi lineamenti erano improvvisamente diventati duri, mentre i suoi
occhi si erano rabbuiati. «Non credo ti interessi mettere piede
nella feccia dove abita.» Sorrise maligna. «Il posto dove abita è
stato definito la peggior area residenziale nel 2006: Hackney,
giusto?» Mi guardò, ed il suo sguardo fu accompagnato anche da
quello di Nathan. «Sì, abito ad Hackney.» «In più credo
che tu e quella drogata di tua madre affittiate una casa...» Si
avvicinò pericolosamente a me. «Hai cominciato a farti di eroina
anche tu? Vedo delle belle occhiaie qui...» Mi toccò il viso ed io
mi scostai, come se toccata da una scossa elettrica. Nathan era
fermo lì, accanto a lei e mi guardava. Era silenzioso,
immobile. Nessuno dei suoi lineamenti si era addolcito. I suoi
occhi non si erano illuminati... Sembrava un incubo. Tutta la
mia speranza, tutto il mio coraggio, erano stati sovvertiti da un
paio di frasi pronunciate dalla perfetta e stronza Claudia Delacroix,
e dal comportamento di Nathan. Non diceva niente, assolutamente
niente. Era lì, fermo, che la ascoltava insultare il luogo dove
vivevo, mia madre, la ascoltava accusare me di essere una drogata. Il
mio cuore era tornato a battere forte, il mio respiro era diventato
pesante. Lei continuava a parlare, osservando languida Nathan, ed io
non la sentivo, non li sentivo più, le mie orecchie fischiavano
nuovamente e la mia testa girava. La salvezza apparve in un
secondo. Vidi la fermata dell'autobus, vidi l'autobus passare e
cominciai a correre. Corsi semplicemente, verso quella salvezza a
quattro ruote. Non sapevo in che direzione andasse, ma sapevo che
sarebbe andato lontano dalla Strand. Lontano da Costa. Lontano
da Claudia che toccava la spalla di Nathan mentre gli parlava della
mia vita disagiata. Sentii il mio nome essere chiamato mentre
salivo sull'autobus, mostrando il biglietto all'autista. Decisi di
non voltarmi. Dovevo andarmene. Dovevo... Sparire.
Sparire. Non
so quanto ci misi ad andare a casa. Non so quanto tempo rimasi su
quell'autobus, con il viso nascosto nelle mie mani. Avevo
conosciuto Claudia Delacroix durante il mio ultimo anno di scuola. Io
frequentavo la Christ's Hospital School, una scuola resa gratuita per
le famiglie meno agiate. Lei frequentava la Westminster School, una
delle migliori scuole private dell'intera Inghilterra. Ci eravamo
entrambe ritrovate a un torneo interscolastico di tennis. Ero
sempre brava a giocare a tennis e quella era la semifinale. Vincere
la semifinale avrebbe significato molto. Molto più di quanto già
significasse essere riuscita ad arrivare fino a quel punto, avendo
battuto decine di figlie di papà che avevano a propria disposizione
i migliori maestri del paese. Lei era sempre stata altezzosa,
servita e riverita dalla madre e dal padre. Io invece ero lì sola,
con solo mia zia Eloise fra gli spalti. Mia madre era in un centro di
recupero, mio padre era morto in Iraq. Non ci eravamo mai
scontrate verbalmente, ma a tennis la battei, andando in finale.
Quando ci eravamo strette la mano a fine partita lei mi aveva
sussurrato: «Se mai incontrerò te, feccia, di nuovo, ti renderò la
vita impossibile.», scoppiando poi a piangere e correndo ad
abbracciare la famiglia. Ovviamente la sorte aveva voluto che
andassimo alla stessa università e che io conoscessi il suo amico
(?), Nathan Crawford.
Quando rientrai a casa trovai mia madre
sul divano, che allattava Julie, la bambina nata dalle sue continue
scopate con il suo nuovo compagno, Rick, seduto accanto a lei. Lui
beveva la birra e guardava la televisione, accendendosi di tanto in
tanto una sigaretta. Tanto viveva a spese mie e di mia madre, tanto
mangiava gratis, tanto spendeva i suoi guadagni da benzinaio di
sigarette e birra... Ed io avrei voluto portare lì Nathan, poche ore
prima. Con quale forza? Con quale coraggio? Lo avrebbe probabilmente
derubato delle sue costose scarpe, della sua sciarpa di
Burberry. «Com'è andata a lavoro, tesoro?» Mi domandò mia
madre, guardandomi. Vedevo dolcezza nei suoi occhi, vedevo il
fantasma dell'amore di cui brillavano i suoi occhi quando mio padre
era ancora vivo. «Bene, sono solo un po' stanca.» Mormorai,
abbozzando un sorriso che lei ricambiò entusiasta. «Julie, dillo
anche tu a tua sorella che deve andarsi a riposare ora...» Sorrisi
nuovamente, facendo 'ciao' con la mano alla piccolissima bambina che
mia madre stringeva al seno. «Fai veloce a passare che sta per
arrivare la parte migliore del programma.» Sputò Rick. Obbedii,
annuendo semplicemente, continuando a ripetermi di non insultarlo,
perché altrimenti lui avrebbe convinto mia madre a cacciarmi via di
casa. Cercavo di non pensare al fatto che il cinquanta percento di
ciò che guadagnavo finiva nelle mani di mia madre per sfamare quel
perdente, cercavo di non pensare al disgusto sul volto di Claudia,
cercavo di non pensare, mentre mi chiudevo la porta della mia stanza
alle spalle. Un'altra giornata era finita. Ero sopravvissuta. Ero
veramente sopravvissuta? Perché il mio petto faceva così male
allora? Perché non riuscivo a trattenere le lacrime? Perché
le mie mani tremavano? Perché il mio cuore si stringeva ogni
volta che ripensavo all'abbraccio che mi ero scambiata con
Nathan? Nathan. Dovevo cancellarlo dalla mia mente. Dovevo
smettere di pensare. Chiusi la porta a chiave, mi sedetti sul
letto, aprii un cassetto del comodino e tirai fuori una bustina piena
di erba. Mi ero ripromessa di smettere di fumare centinaia di volte,
ma avevo capito presto che non riuscivo ad addormentarmi senza. Non
riuscivo a smettere di pensare a mia madre, di pensare a Rick, di
pensare a mio padre, a Julie... ed ora c'era anche Nathan. Girai
velocemente una canna ed uscii dalla finestra sulla scala di
emergenza del condominio, accendendola. Ad ogni tiro la mia mente era
più leggera ed i pensieri meno importanti. Abitavamo al deciso piano
e riuscivo a vedere Londra, notturna e piena di luci... Dio, quanto
odiavo quella città e quanto l'idea di Brighton restava la più
allettante che toccasse la mia mente.
*
Ok,
sono d'accordo con chi criticherà dicendo che questo capitolo è
deprimente e forse un po' troppo negativo, soprattutto considerando
il personaggio di Dafne. Però è per questo che c'è Nathan, no? Per
salvarla! Basta stereotipi di ragazze perfette e ragazzi
problematici, questa volta ho deciso di sfatare il mito e mettere
come personaggio problematico/violento/drogato una donna, che allo
stesso tempo però studia in una delle università migliori del mondo
e che si spacca la schiena per aiutare la madre e la famiglia. Vivo
a Londra da un anno e ho imparato che la realtà di Dafne è la
realtà di moltissime persone che studiano anche con me. Padri morti
in Iraq, pregiudizi contro la parte “snob” di Londra, ect. E
quelli della Londra bene sono veramente insopportabili, pieni di sé,
immersi nel Polo: Nathan è una eccezione. Alla prossima <3
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