Without a Pigtailed Boy

di Kuno84
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Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nightmare ***
Capitolo 2: *** Lost memories ***
Capitolo 3: *** Revelation ***
Capitolo 4: *** Lights of the past ***
Capitolo 5: *** Bitter discovery ***
Capitolo 6: *** Homeless ***
Capitolo 7: *** Indian summer ***
Capitolo 8: *** Interlude ***
Capitolo 9: *** Something goes bad ***
Capitolo 10: *** A middle autumn day's date ***
Capitolo 11: *** The agony of the twilight ***
Capitolo 12: *** The road to China ***
Capitolo 13: *** Deity's charm ***
Capitolo 14: *** Rebirth ***
Capitolo 15: *** Before the storm ***
Capitolo 16: *** Revenge ***
Capitolo 17: *** Chaos ***
Capitolo 18: *** Sacrifice ***
Capitolo 19: *** Alone ***
Capitolo 20: *** United we stand ***
Capitolo 21: *** The last showdown ***
Capitolo 22: *** The plain truth ***



Capitolo 1
*** Nightmare ***


“WITHOUT A PIGTAILED BOY”

 

di Kuno84

 

 

Aggiornamento del 18 gennaio 2010 -
Questa fanfiction ha vinto il primo Contest Ufficiale di MangaNet.it , risultando prima nelle votazioni che si sono tenute dal 1° dicembre 2009 al 16 gennaio 2010. Ringrazio coloro che mi hanno sostenuto, nonché i lettori che ancora oggi, ad anni di distanza, continuano a inserire la storia tra le Seguite o le Preferite.

 

LEGENDA. I dialoghi sono riportati tra le virgolette, i pensieri tra gli asterischi. Il corsivo è usato sia per indicare i vocaboli giapponesi che per segnalare parole pensate o pronunciate in modo più marcato o a voce più alta. In qualche caso (per esempio già nella seconda riga, e-ehm; ma assicuro che non sarà un’abitudine) mi sono preso la licenza di scrivere in maiuscolo per lo stesso scopo.  

DISCLAIMER. Shingo, Muchitsujo, Ryuukei, Saitoki e Pyu-ha sono personaggi originali di proprietà del sottoscritto. Ranma & Co. non sono invece miei, ma appartengono alla somma Rumiko Takahashi.




 

PART ONE –

“NIGHTMARE”




Il buio.
Il silenzio. E poi…

“AKAAAANEEEEEEE!”

Il grido riecheggiava negli oscuri antri della grotta, non seguito però da alcuna risposta.
Lui correva, correva. Senza sapere dove si stesse dirigendo. Ogni volta che gli si presentava davanti una biforcazione, non faceva altro che prendere la strada che gli suggeriva l’istinto. Ed il suo istinto non aveva mai sbagliato. Continuò a gridare quel nome, non era da lui arrendersi ai primi ostacoli. L’avrebbe trovata. Prima che fosse troppo tardi. Quello che aveva sentito era stato più che sufficiente, non aveva molto tempo: più di ogni altra cosa, non aveva il tempo di perdersi, come uno di sua conoscenza. Ed allora perché gli pareva ora di ritrovarsi alla stessa biforcazione di tre svolte prima? Che il suo istinto… avesse fatto cilecca? No, non era possibile! Non in un momento del genere! Ma i cunicoli si assomigliavano tutti, e quello pareva veramente il classico labirinto senza uscita. Urlò ancora un’altra volta, sempre senza ottenere il minimo risultato… ma come, come diavolo poteva essersi perso?! Lui! Soprattutto, come poteva trovarsi lì… e non con lei? Non pronto a difenderla, come sempre… non pronto, come ogni volta, a rischiare la vita, pur di saperla al sicuro?! Come?! Come?!
Lui correva, correva. Ancora una biforcazione, magari doveva prendere l’altra strada, questa volta… Anche perché gli pareva che fosse daccapo il medesimo bivio, lo stesso di quello di poco prima. Forse. Oppure no. Probabilmente era solo simile a quello precedente, ma nient’altro. Non lo sapeva. Ormai aveva preso l’altra strada. Perché non c’era tempo. Non c’era tempo per scegliere la via sbagliata. Non c’era tempo neanche per prendere quella giusta. Non c’era più tempo e basta. Nemmeno per pensare…
Lui correva, correva. Sentiva la sua voce, in lontananza. Cercò d’individuare da dove provenisse: impresa tutt’altro che facile, dato che l’eco di questa si propagava per tutti quanti i cunicoli, confondendogli non poco le idee. O forse era nella propria testa che la sentiva, quella voce? Era soffocata, ma riusciva chiaramente a distinguerla invocare il proprio nome. Un urlo di panico, pareva. Eppure, man mano che gli risuonava nel cervello, sembrò andare assumendo un timbro diverso, un’espressione di rimprovero. Od era la sua fantasia, piuttosto? Lui, che rimproverava se stesso!
*Maledizione! Maledizione! Maledizioneeeeee!*
Correva, correva. Tutti i suoi sforzi erano concentrati sull’unico fine di correre. Senza un dove preciso. Sperava solo di uscire da quel labirinto. E di non ricordare. Di non ricordare, di non porvi più mente, trascurare – che – era stato – tutto – a causa – sua! Per lui, era cominciato tutto. Per lui sarebbe pure finito, se non si fosse dato una mossa. Ma l’uscita di quel buio cunicolo non arrivava mai. Non c’era nessuna luce, in fondo al tunnel. Poteva solo urlare il suo nome. Come se quello servisse, poi, a qualcosa!
Eccola. Ancora. Di nuovo. Lo scongiurava, di venire in suo soccorso. A toglierla da quel pericolo. Pericolo del quale lui era il solo, l’unico, il vero responsabile. Ecco perché udiva il rimprovero, dove non c’era: perché se lo meritava… Se solo non fosse mai entrato nella sua vita! Se solo quella ragazza col codino, portata a forza da un grosso panda, non avesse mai infranto la vita monotona e tranquilla della famiglia Tendo! Tutto era cambiato, dal suo arrivo: in peggio…
Correva. Sentì il bisogno di rispondere al suo grido, di urlare di nuovo il suo nome. Spalancò la bocca e usò tutta quanta l’energia che teneva nei polmoni: ma, con sua gran sorpresa, questa volta non riuscì ad emettere alcun suono. Riprovò una seconda volta e poi una terza, niente da fare. Perché?… Continuando a correre, prese un’enorme boccata d’aria e tentò ancora di sibilare quella parola. Niente. Chiuse gli occhi, strinse la mascella, fece realmente ricorso a tutte le sue energie. E questo sforzo, come spesso accade nei nostri sogni, lo riportò alla realtà.



Il cinguettio di alcuni uccellini accompagnò il suo lento risveglio.
*Che male…*
Poggiò una mano sul capo dolorante, si scosse fino a trovare le forze per rialzarsi, o almeno riacquistare una posizione più comoda rispetto a quella in cui stava da ormai diverse ore. Il suo respiro era affannoso. Ricordava di aver fatto qualcosa come un incubo orrendo. Almeno così credeva, dato che le immagini del sonno si erano velocemente dissolte, come la luminescenza delle stelle allo spuntare dell’alba. E di quelle visioni tormentate, nulla gli era rimasto nella mente, se non una sensazione di angoscia, il sentimento di qualcosa di orribile, un fortissimo… senso di colpa? E poteva avvertire l’accelerazione incredibile del battito del suo cuore, senza nemmeno il bisogno di appoggiare la mano al petto. Sì, proprio un brutto sogno. Il sudore gli colava ancora lentamente dalla fronte: così freddo che non resistette all’impulso di sbottonarsi la giubba per controllare. Aprì lentamente gli occhi e verificò, constatando con un rumoroso sospiro di sollievo che il suo fisico non era cambiato.
L’altra cosa che constatò, immediatamente dopo, fu che ciò su cui si trovava sdraiato non era il suo futon. Bensì la nuda terra. Ma… ma dove… dove si trovava? Guardò il fitto susseguirsi del nodoso intreccio di una ragnatela di robusti alberi. La luce filtrava solo parzialmente, impedita dal sovrapporsi continuo di un oceano di foglie: verdi, per la maggior parte, ma anche gialle e marroni, alcune, alla fine della loro breve vita, pronte a lasciarsi andare nel vuoto alla prima occasione. Una foresta, non bisognava essere un genio per capirlo. Ma non capiva come poteva essere lì, invece che nel suo futon: per terra, nel mezzo di una foresta.
Non era tutto, un sinistro presentimento si era appena impadronito di lui: era osservato, qualcuno lo stava spiando. Alzò lo sguardo. E lo vide, ritto sopra il ramo più alto di un albero.
“Mmm… questo non doveva accadere.”
Erano parole pronunziate a bassissima voce.
Eppure Ranma riuscì benissimo a distinguerle.
Il ragazzo col codino squadrò il losco figuro, nascosto in parte dalle invisibili ed intricate fronde dei rami. La carnagione chiara e la statura non eccessivamente elevata lasciavano presupporre che fosse anch’egli giapponese. Per quanto, i vestiti che portava indosso sembrassero provare tutto il contrario: pantaloni lunghi cinesi, un gilet che lasciava intravedere dei grossi pettorali. Lo colpì un luccichio. Mise a fuoco ciò che abbagliava i suoi occhi, che si rivelò essere un antico medaglione.
“Chi sei?!” tuonò Ranma allo sconosciuto. Ma quello si limitò a sorridere, socchiudendo i profondi occhi color zaffiro puro e lasciando che i lunghi capelli platino venissero scossi dalla gelida folata autunnale che era appena sopraggiunta. Le foglie morte piovvero lentamente una ad una, alcune di esse finirono sui capelli di quello che stava di sotto, in realtà più avvezzi ai petali di rosa nera.
“No.” disse infine il misterioso individuo, con lo stesso timbro atono di voce. “Non è ancora il momento.”
Il ragazzo con la giubba cinese saltò sulla postazione dove stava appostato l’altro.
“Aspetta, tu! Cosa vuol dire, che non è ancora…”
Si arrestò, stava parlando al vuoto: meglio, all’aria che ancora continuava a soffiare con violenza. Non c’era più nessuno. C’era mai stato qualcuno? Che domande, certo che sì: non soffriva mica di allucinazioni! Eppure… come aveva fatto quel tipo a dileguarsi così rapidamente, a sfuggirgli dalla vista così facilmente? Forse un artista marziale?…
Le riflessioni di Ranma furono interrotte dal rumoroso borbottio dello stomaco. Beh… che c’era di strano? Erano ore che non mangiava. Si sostiene che il bisogno aguzza i sensi e l’ingegno, nel giovane col codino la fame acuì certamente la vista, dato che riuscì a scorgere a gran distanza qualcosa che nemmeno un falco avrebbe potuto.
Del fumo. Una sottilissima, quasi incorporea, nuvoletta semi-trasparente di fumo. Quello tipico che era solito vedere uscire da un piccolo bollitore pieno d’acqua, posto sul fuoco generato da alcuni rametti secchi attorniati da numerosi sassi disposti con cura. Con accanto una mini-tenda da campeggio ed un buffo coso nero che grugniva. Già s’immaginava la scena, traendone le ovvie conclusioni. Il piccione viaggiatore, senz’altro. Bene, forse lui avrebbe saputo chiarirgli quella confusione che gli pervadeva la testa. In due balzi salì su un albero più vicino, così da scorgere la figura dell’adolescente con la bandana: vestito del solito maglione giallo e teso nella solita posa pensierosa, da assorto, seduto, il capo chinato e gli occhi chiusi. Quella che bolliva non era, però, acqua. Non semplice acqua. Si trattava di zuppa calda, messa a cuocere in un grosso pentolone.
“Buongiorno, P-chan!” Gli saltò sulla testa, dunque si chinò ad afferrare la pentola. “Me ne offri un po’?” E già, senza attendere risposta, né avendo pensato nemmeno per un attimo di doverla attendere, si stava avventando sulla zuppa. Ma un pugno scagliato verso l’alto dal ragazzo dai lunghi canini lo allontanò dall’ambìto oggetto dei desideri. E si trovò proiettato verso il cielo, evitando una rovinosa caduta solo per merito della sua agilità di artista marziale: la quale gli permise di finire in piedi, dopo una doppia capriola… proprio come i gatti, per quanto lui stesso allontanò rapidamente il fastidioso paragone, che subito gli aveva fatto drizzare leggermente i capelli.
“Dico, non potresti essere più amichevole, ogni tanto?! Eh, maiale?”
L’altro si era nel frattempo alzato in piedi, una volta toltosi dalla testa il gravoso carico del giovane col codino. Ed aveva afferrato rapidamente, con una mano, il consueto ombrello: con la consueta naturalezza che poteva parere quasi paradossale, visto l’enorme peso di quel particolare ombrello.
“Cosa vuoi da me?! Cerchi di fregarmi il pranzo e dovrei essere pure amichevole?!”
Ranma si mise istintivamente sull’attenti, subito dopo il ragazzo dal maglione giallo gli lanciò contro l’ombrello. Meglio, lo lanciò sopra di lui, mancandolo completamente.
“Ha-ha! Tutta qui la tua mira, Charlotte?”
L’ombrello continuava a volare lungo la sua traiettoria prestabilita. Segò in due un grosso ramo dell’albero che si trovava accanto al giovane vestito alla cinese, ramo che cadde puntualmente sulla testa di quest’ultimo. Mentre l’ombrello, come un cane fedele, tornava a mo' di boomerang nella mano del suo padrone.
“Questo” disse Ryoga “era per ricambiare il colpo di poco fa. Ed è anche un avvertimento: vedi di non scocciare più o sarà peggio per te!”
Ranma era steso a terra. Steso sul terreno, aveva pure battuto forte il mento contro il suolo e questo aveva cominciato a sanguinargli. Asciugò i rivoli rossi con la manica lunga della giubba cinese, così che altre tinte vermiglie andarono ad aggiungersi a quelle già presenti nella stoffa dell’abito; con l’altra mano si massaggiò la testa dolente; dunque si rialzò.
“Ne hai abbastanza?” chiese l’altro, con aria grave.
Il primo ridacchiò.
“Bene.” disse infine. “Se vuoi combattere, io sono pronto!” Ryoga fece una smorfia sarcastica, lasciando scoperto uno dei suoi lunghi canini. Quindi tornò serio. “L’hai voluto tuuu!”
Ranma osservò l’Eterno Disperso scagliarsi contro di lui. Non chiedeva altro. Si scambiarono una veloce serie di calci e schivate, quando la fame prese nuovamente il sopravvento sul ragazzo col codino: il quale decise di sbarazzarsi del fastidioso ostacolo che si frapponeva tra lui e la zuppa. Si lanciò verso la tenda, frugò il grosso bagaglio dell’amico-nemico.
“Cosa fai?” gridò Ryoga, che lo raggiungeva.
“Oh, chiudi il becco!” rispose Ranma, tirando fuori una borraccia d’acqua e versandola addosso all’altro.
*Perfetto, ora pensiamo a mangia…*
Il suo pensiero fu interrotto da un potente pugno che si era appena beccato sullo stomaco e che l’aveva fatto nuovamente finire supino. Un pugno? Da un maiale nero?! Alzò gli occhi, rimanendo a dir poco sbalordito nel constatare che Ryoga, fradicio dalla testa ai piedi, aveva mantenuto la sua forma umana.
“Alzati! E preparati a morire, maledetto!”
Cos’era mai successo, mentre lui giaceva inerme in mezzo a quel bosco? E perché non riusciva a ricordare come mai si trovasse così lontano da Nerima?

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Capitolo 2
*** Lost memories ***


PART TWO –

“LOST MEMORIES”




Il cinguettio degli uccelli era cessato, come se anch’essi avessero percepito la tensione improvvisa che si era diffusa per l’aria. Unico suono era ora lo scrosciare lento e monotono dell’acqua: c’era un fiumiciattolo poco vicino, lo si poteva distinguere tra le fitte fronde del bosco. Quello che, però, Ranma fissava allibito era l’avversario di mille battaglie. Come? Non si era trasformato? Era guarito dalla maledizione? Ma in che modo? Doveva scoprirlo, ad ogni costo.
“Si può sapere come hai fatto? Mi vuoi spiegare?!”
L'altro, però, non lo ascoltava minimamente.
“Cerchi pure di derubarmi, maledetto?!… Muoriii!” Ryoga gli si stava lanciando contro, l’ombrello impugnato con entrambe le mani come fosse una lancia, con l’intenzione, forse, di trafiggerlo per mezzo di esso.
Il ragazzo col codino reagì rapidamente: schivò il colpo, mentre un cratere andava formandosi, sul punto del terreno colpito dall’estremità di quel maledetto affare. Spiccò un balzo sul ramo di un albero. Quello con la bandana lo imitò e cominciarono a saltare d’albero in albero, scagliandosi pugni e calci a ripetizione. Quindi Ranma finì su un ramo meno robusto degli altri, che subito cedette al suo peso: il giovane con la camicia rossa parò la caduta, finendo però le gambe sbilanciate al suolo, chiuso alle spalle da una robusta parete di roccia. L’altro spalancò la bocca, mostrando i canini in tutta la loro sporgenza, mentre gli si gettava addosso, il braccio destro più avanti del corpo, la mano puntata pericolosamente verso di lui.
*Sono fritto… Sta per usare il Bakusai Tenketsu, mi seppellirà vivo, sotto un cumulo di terra e sassi.*
Ryoga si fece avanti con tutto il suo impeto.
“Sei finito!”
Ranma si buttò istintivamente a terra per evitare l’avversario, il pugno di Ryoga colpì in pieno la roccia dietro di lui. Le mani sul capo a mo’ di protezione, il codino rizzato, il ragazzo vestito alla cinese chiuse gli occhi, aspettando la fine.
“… Uaaaaahhh! Che maleee!”
Hibiki si tenne la mano incredibilmente gonfia e rossa, cominciando stupidamente a saltellare dal dolore. Il giovane Saotome lo osservava con la bocca di fuori. La roccia non era franata. Dal momento che l’altro l'aveva colpita con un pugno! Non con l’indice! Non aveva premuto il punto di pressione! Che voleva dire? Non aveva intenzione di utilizzare il Colpo Esplosivo? Ma sì, aveva tentato di colpire lui! Non la roccia! Solo che l’aveva schivato e… ecco il risultato!
Dal sollievo, Ranma passò in pochi istanti alla rabbia più nera. Era spalle al muro. Con la sua tecnica speciale, Ryoga lo avrebbe vinto, molto probabilmente. Eppure non vi aveva fatto ricorso. Come aveva osato umiliarlo a tal punto?! Era questa la serietà con cui Ryoga affrontava il combattimento?! L’avrebbe pagata!
“Va bene! Ora facciamo sul serio, porco!”
Ripresero la contesa. Adesso si confrontavano nei pressi del fiumiciattolo. Ranma pensò di adoperare la Tecnica delle Castagne, per quanto fosse perfettamente consapevole che Ryoga era da tempo in grado di schivare i suoi colpi. Comunque, in questo modo, avrebbe guadagnato qualche secondo per pensare a qualcos’altro.
“Kachu Tenshin Amaguri-ken!”
Le mani di Saotome si mossero ad una velocità incredibile, Ryoga sembrò stranamente preso di contropiede da questa mossa. Strano. Non se la aspettava, forse? Schivò i primi colpi, ma pareva più lento del solito, in quanto a riflessi. Ed infatti non tardò a venire colpito in pieno. E a cadere all’ingiù, sul suolo.
Ranma trattenne il respiro. Come? L’aveva battuto… beh, non c’era poi tanto da meravigliarsi riguardo questo. Lo batteva sempre, Ryoga: cosa più che naturale dal momento che, per quanto fosse forte quel suino, il migliore era indubbiamente lui… Ma così! In pochi secondi! Con una tale facilità! Non si sarebbe stupito se si fosse trovato davanti Kuno, oppure quell’oca di Mousse – ma, diamine! Quello era Ryoga Hibiki – il suo acerrimo avversario! L’unico che avesse mai stimato alla sua altezza. Ryoga! Hibiki! Il ragazzo che ora giaceva a due passi da lui, per terra, inerte, privo di sensi. Messo al tappeto come un principiante. Da quando era diventato così scarso? Ranma si chiese istintivamente se quel maledetto vecchiaccio di Happosai non si fosse per caso divertito a praticargli la Moxibustione¹… Perché, sinceramente, non riusciva a trovare nessun’altra spiegazione a quello. Almeno, non una spiegazione logica.
“Ryoga!” Lo afferrò per il colletto del lungo maglione, obbligandolo a rialzarsi, sebbene il suo sguardo fosse ancora leggermente intontito. Gli scosse ripetutamente la testa, col solo effetto di peggiorare la condizione del ragazzo. Cercò di calmarsi, riprese fiato, lo lasciò andare. Aspettò che si riprendesse, quindi lo fissò dritto negli occhi. “Mi prendi forse in giro?! Ti vuoi decidere a combattere seriame…”
Un lieve mormorio proveniente dalle labbra di Hibiki, che si erano mosse impercettibilmente, interruppe lo sfogo di Ranma.
“Sco… Sconfitto!”
Parola esclamata con sommo stupore da parte di chi la pronunciava. Il giovane col codino si chiese se Ryoga si fosse effettivamente rimesso dal colpo.
“Sconfitto! Sono stato… sconfitto!” continuò quello dai lunghi canini, rigustando evidentemente ognuna di quelle parole nel proprio intimo, per saggiarne il sapore, nuovo ed insolito.
“Ma sei fuori?!” replicò perplesso Ranma. “Non è certo la prima volta che…”
“Dimmelo!” tuonò improvvisamente l’altro.
“Cosa?!” fece lui. Cos’è che doveva dirgli? Gli aveva dato di volta il cervello?
“Sei sordo?! Ti ho chiesto di dirmelo!” fu il turno dell’Eterno Disperso, di scuotere a destra e a manca il proprio interlocutore.
Ranma, al limite della sopportazione, se lo scrollò faticosamente di dosso. No, la forza non gli mancava affatto. La Moxibustione era da escludere.
“Non scappare!”
Il ragazzo dalla lunga camicia cinese spiccò qualche balzo indietro in direzione del fiumiciattolo, continuando però a fissare il pazzo con la bandana che si era messo ad inseguirlo. Ma che gli stava prendendo? Da quando Ryoga si dava a quelle scenate, soprattutto – perché pareva così scosso? Si chiese se avesse per caso interrotto uno dei suoi soliti sogni ad occhi aperti, con Akane in abito nuziale abbandonata felice tra le proprie braccia, il tutto circondato da immaginari fiori variopinti e putti intenti a fare le cose più stupide. Probabile.
Intento in questi pensieri, Ranma mise un piede in fallo, cadendo all’indietro nel fiume. A pancia in su, le gambe all’aria, e per di più con le braccia che gli si accorciavano, i vestiti che lo impedivano maggiormente e la forza che diminuiva, mentre qualcosa sul petto andava a costituirgli un ulteriore ingombro. Spaventata dal tuffo improvviso ed inaspettato, la ragazza dai capelli rossi diede delle vigorose bracciate per tornare subito a galla: ma il movimento risultò completamente scomposto e scoordinato, finendo solo per rallentare la risalita. E non si accorse così dello scoglio, contro il quale cozzò violentemente con la nuca. Perdendo subito conoscenza. E piombando come un peso morto verso il fondo.



“Il bosco di Yakuzai?”
“Ploplio così, ailen! Non è un posto pelfetto, pel una gita?”
“Che ne dici, Ran-chan? Non dista troppo ed è poco frequentato, nessuno ci verrà a disturbare…”
“Certo che è poco frequentato! Ho sentito dire che è un luogo maledetto: porta sfortuna il solo nominarlo, si racconta.”
“Amole, non cledelai a queste sciocchezze?!”
“Inoltre, c’è qualcosa che ti piacerà sicuramente, laggiù!”
“Mh?”
“Gualda, al Nekohanten è allivato pochi giorni fa questo volantino: pubblicizza l’apeltula di una succulsale di una solgente telmale.”
“Si tratta di una sorgente sotterranea situata all’interno di una profonda grotta…”
“Aah, che stupidaggine! Dovremmo andare così lontano solo per farci un bagno alle terme, per quanto caratteristiche possano essere?!”
“Ma non sono telme qualsiasi!”
“Il nome Volpe Rossa² non ti suggerisce nulla?”
“Volpe... volete dire la Nannichuan giapponese? Una succursale della Sorgente della Volpe Rossa?! Perché non me l’avete detto prima?! Quando si parte?”
“Anche subito, Lanma! L’acqua che tlasfolma in uomo è lì che ti aspetta.”
“Ti libererai della maledizione di Jusenkyo, Ran-chan!”



Yakuzai… Yakuzai… Quel nome era rimasto vagante nella sua mente, mentre le immagini del ricordo già facevano posto alla coscienza, che riprendeva man mano il controllo di sé. Ma i ricordi, ormai stimolati, prendevano pian piano a riaffiorare dalle più profonde tane tenebrose dell’io. Certo, adesso si trattava di memoria volontaria, guidata dal cervello e dalle emozioni, forse meno autentica della precedente. Però stava ricordando e questo era già qualcosa.
Sicuro! Come aveva potuto dimenticare? Yakuzai, la succursale della Sorgente della Volpe Rossa, la possibilità di tornare finalmente normale… L’invito di Ukyo e Shampoo… Ricordava anche altre cose, il fatto che Ryoga e Mousse, sbucati da chissà dove, si fossero subito intromessi nel discorso, bramosi di guarire dalle loro maledizioni. E che Nabiki era intervenuta immediatamente dopo, pronta a sfruttare la situazione per scroccare una gita gratis per lei e tutta quanta la famiglia Tendo, vantando non sapeva bene quali diritti dovuti a precedenti affari con le due “fidanzate”… affari che certamente lo riguardavano, in qualche modo. E loro, stranamente accondiscendenti. Forse – no, sicuramente! – perché felici di poter stare con lui. E come dar loro torto? Era un bel ragazzo, lui. La cosa, tutto sommato, non gli dispiaceva affatto.
Provava soddisfazione, sotto sotto, nell'essere corteggiato. Solo che tutti pensavano male, di questo. Gli davano del pervertito, del dongiovanni. Oppure lo rimproveravano per la sua vanità… forse non avevano tutti i torti, godeva nel fare la parte del playboy. Ma sbagliavano di grosso, quando credevano di comprenderne il motivo. Non era vanità. Almeno, non era solo quella. Nessuno capiva ciò che lui provava, nel più intimo segreto del cuore. Nessuno capiva quanto gli facessero bene quelle attenzioni, quei corteggiamenti, dopo anni e anni di solitudine… anni di duro addestramento con quell’idiota del padre… e soprattutto, dopo quel famoso incidente di Jusenkyo: che, in un batter di ciglia, meglio, in uno spruzzo d’acqua, aveva reso vano il sacrificio di tutta una vita… Nessuno capiva quanto gli facesse bene quel sentirsi corteggiato, trattato come un vero uomo, lui che aveva penato una vita intera per esserlo e che invece si trovava per metà imprigionato nel corpo di una ragazza…
Con questa sensazione di disgusto improvviso per il proprio corpo femminile, si ritrovò nuovamente a tastarsi il petto. Stavolta era gonfio. Imprecò a mezza voce. Aprì quindi gli occhi, per spiccare un salto dallo spavento non appena si rese conto di avere quelli di Ryoga a vicinissima distanza – che lo fissavano… anzi, la fissavano… in modo strano – poteva forse osar dire – preoccupato.
“Ehi… tutto bene?”
La rossa scosse le palpebre confusa.
“Co… come, scusa?”
Ryoga la squadrò nuovamente, sembrava imbarazzato.
“Eri caduta nel fiume, devi aver battuto la testa e perso i sensi… però è strano, cosa ci fa in questa foresta una ragazza carina come te?”
Non l’aveva riconosciuto. E l’aveva salvato. Non era la prima volta, nemmeno per quello. L’aveva ingannato mille volte, in passato. Travestendosi da studentessa, da giocatrice di pallavolo, da tata. Una volta, era riuscito pure a spacciarsi per sua sorella! Ma questa volta… insomma, come poteva essere così stupido?! Lui, Ranma Saotome, era caduto nel fiume. Un secondo dopo una ragazza stava annegando. Era così evidente che fosse lui, bastava sommare due più due. Forse quello scemo non sapeva far di conto.
“Tieni!” l’Eterno Disperso gli porse una scodella abbondante di zuppa. Dopotutto, perché non approfittarne? Ranma si spazzolò tutto in pochi secondi e con modi non propriamente femminili. Facendo venire parecchi goccioloni di sudore al povero ignaro.
“Ehi, eri davvero affamata!”
La ragazza dalla chioma fulva alzò lo sguardo dal piatto per incrociare quello del suo interlocutore. Sbuffò, quella situazione cominciava a darle sui nervi. Inoltre, ormai l’appetito era saziato. E si era ricordata che lui aveva ancora molte cose da spiegarle. Quello dove si trovavano doveva essere il bosco di Yakuzai. Ryoga, sicuramente, aveva trovato la Sorgente. L’avrebbe costretto a portarla nella grotta di cui parlavano Ukyo e Shampoo, questo proponimento prese il sopravvento sugli altri pensieri.
“Idiota, non mi riconosci?!” fece, sempre più spazientita.
“Eh?” balbettò quello con la bandana. “Vuoi dire che ci siamo già visti da qualche parte?”
Ranma prese il mestolo del pentolone e si versò addosso un cucchiaio di zuppa ancora calda. La sua statura s’innalzò di poco. Le sue forme mutarono. Quello di fronte osservò il tutto stupito, per non dire terrorizzato.
“Ma… ma tu – come?!… Eri una ragazza bellissima, un momento fa…”
Ranma rimase col respiro mozzato. Veramente Ryoga non lo riconosceva?
“Ti ho già chiesto ben due volte di dirmelo… si può sapere chi sei?!”
Questo, intendeva, prima? Non poteva essere, lo stava prendendo in giro.
“Ricominci?! Lo sai benissimo chi sono! Sono Ranma! Ranma Saotome! Veramente non ti ricordi più di me?”
“Come potrei? Non ti ho mai visto prima d’ora!”




¹ In una storia del manga. Happosai, praticando la Moxibustione su Ranma, lo rende debole come un bambino.

² Un'altra storia del manga. Questa sorgente ha gli stessi poteri della Nannichuan e Ranma passa un sacco di guai per giungervi, visto che è collocata sotto lo spogliatoio femminile del Furinkan. Per poi scoprire che ormai è fuori servizio.

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Capitolo 3
*** Revelation ***


PART THREE –

“REVELATION”




“Ryoga…”
Non credeva alle proprie orecchie. Il suo più grande avversario – ma anche, in un certo qual modo, l’amico migliore che avesse – non lo riconosceva. Aveva perso la memoria. Così sembrava. E questo avrebbe spiegato parecchie cose. Anzitutto, il fatto che fosse così debole rispetto al solito. Inoltre, il motivo per cui non aveva usato contro di lui il Bakusai Tenketsu: ovvio, dimenticato pure quello.
Bene. Anzi, per niente! Come mai Ryoga non si ricordava più di lui? Il motivo, evidentemente, doveva essere lo stesso per il quale anche il giovane col codino si era ritrovato senza ricordi. Ma Ranma, perlomeno, lo riconosceva ancora, il suo P-chan – anzi, ex P-chan, dato che era guarito dalla maledizione. Altro dubbio che lo tormentava. Perché Hibiki era tornato ad essere uomo per intero… e lui niente affatto? Era forse implicata in qualche modo la succursale della Sorgente della Volpe Rossa? Certo che era così! Cos’altro, se no?
“Senti!” riprese il ragazzo che gli stava di fronte. “Non so come tu faccia a conoscere il mio nome: rimane però il fatto che io non conosco te, dunque ti pregherei di smetterla di tormentarmi e, prima di tutto, di spiegarmi come è stato possibile ciò che ho appena visto!”
Si stava naturalmente riferendo alla trasformazione di Ranma. Il ragazzo col codino socchiuse gli occhi. Non ricordava, più che evidente, neppure di averla avuta, una maledizione. Ma, si chiedeva, a quanto tempo indietro risalivano, i ricordi che Ryoga aveva perduto? E a quanto risalivano i suoi? Magari era in quel bosco – il bosco di Yakuzai, a questo punto gli sembrava chiaro – da settimane, forse ancora di più. Forse i Tendo erano in pensiero per lui. Così pure Ukyo e Shampoo. Se le cose stavano però in questo modo, come mai allora non c’era più nessuno, e tutti si erano invece dileguati nel nulla? Che fosse successo loro qualcosa?!… Un lampo scattò nell’inconscio dell’adolescente con la camicia cinese, quelle parole soltanto pensate gli avevano risvegliato sensazioni fastidiose – meglio – nauseanti. Scosse il capo, come se fossero state degli impedimenti fisici e avesse potuto così scrollarsele di dosso. Ma il nemico non era corporeo, e Ranma capì presto che si trattava di quell’unico nemico che lo sconfiggeva ogni volta, regolarmente, con calma, senza alcuna fretta – lento ed implacabile.
“Allora?” Hibiki lo incalzava.
“Il fatto che mi trasformi in ragazza se vengo a contatto con l’acqua fredda?” Ranma aveva ripreso temporaneamente il controllo delle proprie emozioni. “Dovresti conoscerlo, il motivo… Non ti viene in mente nulla, se ti dico il nome Jusenkyo?”
Quello con la bandana rimase immobile. Saotome cercò di scorgere in lui anche il minimo sussulto, fosse pure un respiro impercettibilmente più affannoso, un batter di ciglia, una pupilla che si stringeva. Niente di tutto questo.
“Mi viene in mente solo” rispose, dopo qualche secondo “che tu sei matto da legare! Devo però ammettere che mi stai incuriosendo, vai un po’ avanti con la tua storia!”
Ranma sbuffò rassegnato. Ormai non gli rimaneva altro da fare. E sperare che l’ex suino ricordasse. Anche se non ci credeva più nemmeno lui stesso.



Il fuoco scoppiettava con vivacità. L’adolescente col maglione giallo tirò fuori un altro paio di ciocchi e lo ravvivò ancora di più. Faceva freddo, d’intorno. Si sentiva che l’estate era definitivamente morta.
“Incredibile!” mormorò a denti stretti Ryoga. “Non mi era mai capitato di sentir raccontare cose del genere. Pare che la tua vita sia piuttosto movimentata, Tanma!”
Ranma, non Tanma!” lo corresse l'altro, seccato. Si voleva decidere a tenere a mente perlomeno il suo nome?! Gli aveva detto praticamente ogni cosa. Dei suoi anni di addestramento col vecchio, della caduta nella sorgente maledetta, del fidanzamento imposto, di alcune delle sue pazze avventure: il primo scontro con Kodachi la Rosa Nera, la sfida di pattinaggio marziale con Azusa Shiratori e Mikado Sanzenin, il loro scontro tra le montagne, l’allenamento speciale di quello, con Obaba che gli aveva insegnato il Bakusai Tenketsu – insomma, le vicende in cui un ragazzo con una scarsa propensione all’orientamento, chiamato Ryoga Hibiki, aveva recitato un ruolo più che importante. Risultati: zero. Gli aveva raccontato anche di come si fossero conosciuti, di come da ragazzini Ranma gli avesse fregato sempre i panini che davano alla mensa della loro vecchia scuola. Della loro sfida, dei tre giorni che lui aveva aspettato inutilmente, mentre poi quell’idiota si era presentato il quarto. Di Hibiki che lo aveva inseguito fino in Cina, che era caduto nella Heito Uen Nichuan, si era trasformato in un ridicolo porcellino nero, ed era stato infine adottato da una stupida ragazzina senza un briciolo di fascino. Di come avesse in seguito conquistato il cuore di un’altra ragazza, che i maiali li adorava. Qui, però, l’altro si era messo addirittura a sghignazzare.
“Ne hai, di fantasia!” aveva esclamato, dopo che finalmente le risate erano abbastanza diminuite da permetterglielo. Non aveva creduto ad una sola parola. Forse lo riteneva solo un povero pazzo.
“Hai finito?!” aveva ribattuto il ragazzo col codino, piuttosto innervosito dalla situazione.
“Non mi divertivo” continuava l’Eterno Disperso, come se non avesse sentito “non mi divertivo così da tanto di quel tempo…” Aveva abbassato lo sguardo. “Forse la verità è che non mi sono mai divertito, in vita mia…”
Ranma aveva appena finito di ripensare a quella stramba serata. Le fiamme adesso avevano preso a scemare. Il buio di quella notte senza stelle stava inglobandosi, poco alla volta, tutto quanto. Hibiki si voltò verso di lui.
“Sai, Tanma, mi sei simpatico!” Gli diede una vigorosa pacca, non molto gradita, sulla spalla. L’altro aveva aperto la bocca per replicare: finì per liberare, invece, un grosso sbadiglio. Il sonno, forse la noia. Perché si era stufato, a che serviva? Non c’era speranza. Doveva pensare a cose più importanti. Trovare la caverna e tornare un ragazzo normale, ad esempio. Ma chiederlo a quello scemo era un’impresa. Inoltre, anche se per miracolo si fosse infine ricordato di esservi stato – quando mai Ryoga sarebbe stato in grado di condurlo in quel posto?! No, si sarebbero ritrovati ad Aomori, molto più facile.
“Oggi mi sento bene.” riprese Hibiki.
“Mh? Che intendi?” gli domandò Ranma.
“Era da moltissimo tempo che non stavo tanto a lungo a contatto con un’altra persona.” spiegò lui. “Vedi, i miei genitori non sono mai in casa. Per questo mi sono messo in continuo viaggio, sperando di sfuggire alla solitudine delle pareti domestiche.”
Le pupille grigio-blu del ragazzo col codino si erano dilatate vistosamente, e lui rimase come catturato dalle parole dell’amico-nemico.
“Ciò non è bastato, purtroppo. Sai, sono un tipo piuttosto introverso: mi riesce molto difficile farmi degli amici e, a dire il vero…”
Chinò il volto in basso, giocherellando nervosamente con le dita.
“A dire il vero, non me ne sono mai fatto uno.”
Ranma sussultò.
*Oh Ryoga, è naturale che tu sia sempre stato così solo: da anni non fai altro che rincorrermi e sfidarmi di continuo, non hai altri pensieri per la testa. Ma così ti sei rovinato la vita.*
Si sentì in colpa. Mentre Hibiki proseguiva:
“Niente amici! E nessuna ragazza da amare, per cui vivere, per la quale persino struggermi… tuttavia io pagherei, per trovare l’amore, sia pure non corrisposto… meglio quello, che questo insopportabile nulla!”
Il giovane Saotome lo fissava perplesso.
*Ma cosa dici, scemo?! Possibile che tu non riesca a ricordare nemmeno lei? O Akari?!*
“Forse è proprio – proprio per colmare questo vuoto, che mi sono dedicato anima e corpo alle arti marziali.” disse l’adolescente con i lunghi canini. “E poi mi sono messo in ricerca di un avversario degno, qualcuno forte quanto o più di me, tale da spronarmi a migliorare volta dopo volta, per poterlo affrontare nuovamente e confrontarmi ancora e perfezionarmi sempre di più. Insomma, uno scopo per la mia vita.”
Sospirò.
“Questa persona non l’ho mai incontrata.” Rialzò lo sguardo, incrociando quello del proprio interlocutore, ed abbozzò un sorriso. “Almeno, non fino ad oggi.”
Il fuoco si era appena spento del tutto.
“Si è fatto tardi” si stiracchiò vivacemente, dunque si alzò in piedi. “Sarà bene andare a dormire.”



Correva. I cunicoli s’intrecciavano tra di loro senza sosta, tutti i passaggi aperti nella roccia apparivano assolutamente identici. Ma lui sapeva che uno solo era quello buono, quello da percorrere. Quale? Qui stava il problema. Ne scelse uno a caso e vi si avventurò. Passo dopo passo, l’ombra avvolgeva ogni cosa. Tutto ciò che riusciva a scorgere erano i suoi piedi. Eppure non andava a sbattere contro alcun ostacolo, sembrava che il percorso in cui si era addentrato fosse perfettamente rettilineo. Accelerò ulteriormente il passo, fin dove le forze rimaste glielo permettevano.
Correva, correva. Buffo, non sentiva il rumore prodotto dai propri passi. In verità, non avvertiva nessun suono. Solo il silenzio. Quello assoluto. Una sensazione insopportabile, il presentimento orribile di trovarsi di fronte alla proverbiale quiete prima della tempesta. Ed un momento dopo, eccola! La tempesta!
“Raaaanmaaaaa!”
D’un tratto, una luce in fondo a quell’interminabile corridoio. Ed era da quella luce, che proveniva la sua voce. Presto, doveva fare in fretta! Ecco, si avvicinava! Il chiarore s’ingrandiva ancora ed ancora, si faceva sempre più potente, sconfiggeva poco a poco l’oscurità di cui era avvolto! Ma le lancette giravano. Il tempo gli era nemico. Correva – dai! – su! – Un altro – un altro sforzo! – Uno solo! – e sarebbe arrivato da lei, l’avrebbe salvata come sempre: e sarebbe tornato tutto come prima, sarebbero ritornati alla loro vita… monotona?! No, la verità era che, da quando lui aveva invaso la sua vita, nulla era più monotono! Un continuo di avventure folli. E rischiose. E lei ci andava di mezzo. Come sempre. Se solo lui non…
Eccola! La Luce! Le si tuffava incontro. Ora avrebbe saputo. Se aveva fatto in tempo. O se…



Si alzò di scatto. Respirava con affanno. Dov’era? Ancora buio, attorno a sé: ma stavolta, quello ben più rassicurante della notte. Già, doveva essere notte fonda. E lui si trovava nel sacco a pelo che gli aveva gentilmente offerto Ryoga, il quale dormiva profondamente a pochi metri da lui, entrambi al riparo dal freddo settembrino, nella mini-tenda da campeggio dell’amico-nemico. Un sogno, meglio, un incubo. Questa volta ricordava ogni particolare. E così, per collegamento, gli era tornato alla memoria di averle già avute, quelle angoscianti visioni oniriche. Uguali. Identiche. Cosa volevano mai dire? Erano solo frutto della sua fantasia? Oppure c’era qualcosa di reale, alla loro base?
Uscì dalla tenda. Il sonno l’aveva perso, decise dunque che una passeggiata all’aria aperta gli avrebbe forse schiarito le idee. Fresca, l’aria. Ma il brivido improvviso che gli aveva attraversato tutta quanta la schiena non era causato dal freddo.
*C’è qualcuno, qui.*
Si guardò intorno. Solo i rumori della natura. Se il nuovo arrivato credeva di ingannare un artista marziale esperto come lui, si sbagliava però di grosso.
“Avanti, fatti vedere!”
Apparve sul ramo di un albero, proprio come l’altra volta. Il medaglione in bella vista gli permise di riconoscere in quel tipo la figura misteriosa della mattina passata.
“Vieni qui! E dimmi chi diavolo sei!” ringhiò Ranma. Al vento.
Svanito. Dileguato nel nulla. Proprio come allora. Ma il ragazzo col codino scattò dallo spavento, quando sentì una gelida mano poggiarsi sulla sua spalla. Era dietro di lui. Come aveva fatto?
“Vuoi sapere il mio nome?” sogghignò. “Chiamami pure Shingo.”
Il giovane Saotome si girò di scatto, per assestargli un potente calcio. Quello, per nulla sorpreso, lo schivò come poca cosa.
“Impulsivo come sempre, vero, Ranma Saotome?” gli mormorò.
“Ma... ma tu come fai a…”
“Una cosa per volta.” lo anticipò Shingo. “Prima di tutto – dove stai scappando?”
L’adolescente con la giacchetta cinese fu colpito nel vivo. Scappare? Lui?!
“Sei scemo?! Ti sembra forse che io ti fugga?!” scagliò un pugno contro l’avversario.
“Non da me, sciocchino.” trattenne una risata, mentre schivava facilmente pure questo. “Tu stai scappando da te stesso.”
Rimase come impalato. Perché aveva la tremenda impressione che quel tizio davanti a lui avesse colto nel segno?
“Una splendida notte, per sognare. Non trovi?” ricominciò Shingo.
“Beh, ora ti metti a fare il poeta?!” replicò seccato Ranma.
“Sempre che il tuo” continuò l’altro “sia stato veramente un sogno.”
“Non ti capisco!” Quel tipo era un enigma, non lo sopportava più.
“Testardo, eh?” squadrò Saotome dalla testa ai piedi. “Eppure l’incontro con Ryoga avrebbe dovuto fartelo capire, quello che è successo."
“Tu sai – sai cos’è avvenuto? Dimmelo, se lo sai! Perché Ryoga ha perso la memoria? Perché anch’io non ricordo parecchie cose? E dove sono gli altri? E dov’è…”
Gli mise una mano sulla bocca, per zittirlo.
“Calma, calma. Troppe domande in una volta. Inoltre, testimoniano che non hai capito proprio niente, Ranma Saotome! L’unico che non ricorda, sei tu!”
Fu agghiacciato da quell’affermazione. Shingo rincarò la dose.
“Sei tu, quello che non ricorda. E sai come mai? Perché non vuoi ricordare!” sorrise, con l’aria della madre che scuote affettuosamente la testa dinanzi al figlio che le rivolge delle domande ingenue. “Scomodo, a volte, ricordare. Molto più facile, l’oblio. Ma serve a poco, sai? La verità viene sempre a galla, prima o poi.”
Ranma si voltò e cominciò a correre. Stava scappando. Come un coniglio. Lui, Ranma Saotome, della Scuola di lotta indiscriminata Saotome, futuro erede della palestra Tendo. Ma non importava – non gliene importava proprio nulla. L’unica cosa che contava, adesso, era correre. E non sentire.
“Tentativo inutile.” Shingo, comparso improvvisamente davanti a lui, l’aveva immobilizzato per le braccia. “Non serve a niente, l’oblio.”
Ranma tremava, pareva in preda alle convulsioni. Il sudore gli colava da tutto il corpo. E quello continuava, insensibile.
“Tu devi – devi ricordare – di aver provocato la fine – di Akane Tendo!”
Lampi. Immagini che tornavano in tutta la loro violenza. Un dragone come di fuoco. Akane che precipitava nell’abisso, nelle sue fauci. Lui che poteva solo guardarla, la scena, da spettatore immoto.
Si era accasciato a terra, gli occhi spalancati come quelli di un pazzo. Shingo gli pose una mano sulla fronte. E Ranma, per incanto, cominciò a rivivere quei momenti. Ed il suo incubo diventava realtà.

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Capitolo 4
*** Lights of the past ***


PART FOUR –

“LIGHTS OF THE PAST”




“Che idioti...”
Ranma si era separato dal gruppetto composto da Genma, Ryoga e Mousse.
Shampoo, all’entrata della caverna, aveva consegnato loro una mappa che li avrebbe condotti dritti filati alla sorgente sotterranea. Soun, Kasumi e Nabiki erano rimasti nel vicino ryokan¹ dove avevano pernottato. Akane si era domandata come mai anche Ryoga fosse del gruppo: Hibiki aveva prontamente balbettato che non avrebbe mancato di fornire ai suoi amici la propria assistenza morale, in un momento così importante per loro. Le altre due fidanzate avevano quindi informato i mezzi uomini che li avrebbero aspettati all’esterno, all’ingresso della grotta. In realtà, la minore delle Tendo aveva insistito per accompagnarli: Ucchan gliel’aveva poi sconsigliato – adducendo come motivo che era troppo pericoloso avvicinarsi a quell’acqua magica, per loro che erano ragazze. Trasformarsi in uomo non era una cosa molto allettante, così la più giovane delle Tendo si era convinta. Non prima di aver sferrato un forte pugno in faccia a Ranma: il quale aveva semplicemente osservato che, se lei fosse caduta nella sorgente e avesse assunto forme virili, non si sarebbe poi notata una gran differenza.
Dunque i maledetti si erano avviati. I problemi erano cominciati quando quell’idiota di P-chan aveva fatto sua la mappa e, con la scusa di non fidarsi di nessuno dei propri compagni di viaggio, si era voluto mettere alla guida della stramba spedizione. Ovviamente, gli altri non erano dello stesso parere. E si erano messi a combattere, come al solito: finché Ranma se n’era andato per conto suo, convinto di riuscire a trovare quella sorgente anche senza mappa. Sempre meglio che guidato da Ryoga!
Una voce catturò la sua attenzione.
“Ne sei sicura, Shampoo?!”
Ukyo. Veniva da dietro la parete adiacente, ne era sicuro. Ma la faccenda puzzava, perché quelle due stavano lì? Si appoggiò alla roccia per ascoltare la conversazione.
“Tlanquilla, spatolona! Questo cunicolo sottellaneo è molto esteso: la mappa, quella che ho disegnato lolo, guidelà quei quattlo molto lontano da qui. Non lo saplanno mai.”
Cosa non avrebbe saputo mai? Il ragazzo col codino aguzzò le orecchie.
Saishuu Shiyou Rei-ryuujin?!”
“Cledo sia così che si dica nella vostla lingua: lo Spilito-Dlagone del Limedio Definitivo! Mentle facevo le pulizie nella soffitta del listolante, dove la bisnonna tiene le ploplie cose, ho tlovato un antico manosclitto cinese che sembla fale ploplio al caso nostlo.”
“Il nome promette più che bene… Basta che non sia tutto fumo e niente arrosto!”
“Tu stanne celta: dopo di questo, il maschiaccio non costituilà più un ploblema pel noi.”
“Ran-chan non sarà mai costretto a sposarla. Del resto, l’abbiamo già salvato una volta, il giorno del tentato matrimonio.”
“Il mio ailen ci linglazielà."
“Bene, però spiegami almeno in cosa consiste, questa tecnica! Poiché è stata mia l’idea di come attirare Akane in questa trappola: sapevo bene che, se avessimo invitato qui Ranma con la scusa della sorgente magica, quegli impiccioni dei Tendo – Akane compresa – si sarebbero aggiunti, in qualche modo… Comunque sia, spero non si tratti di nulla di troppo drastico.”
“Ogni cosa a suo tempo. Sappi solo che, tlamandato di genelazione in genelazione dalla famiglia amazzone, è il leggendalio metodo pel toglelsi di tolno i plopli avvelsali. Questo spilito è la soluzione ai nostli ploblemi: ma può essele evocato solamente una ed una sola volta, pel un’unica pelsona, dalla pelgamena magica in mio possesso e in un luogo sottellaneo, spazioso, umido e buio. Ecco come mai siamo venute in questo posto.”
“Ssh, abbassa la voce! Sta arrivando, le ho detto di raggiungerci qui perché abbiamo trovato una cosa molto interessante. Reggimi il gioco!”
Non riuscì più a percepire alcunché. Dovevano essersi allontanate, essere andate incontro ad Akane.
Maledette! Lo avevano preso in giro! Nessuna succursale della Sorgente della Volpe Rossa. E Akane era in pericolo! Doveva raggiungere le ragazze immediatamente. E cominciava così la sua corsa contro il tempo.

“Ranmaaa!”
Era all’ingresso di un’area più spaziosa delle precedenti. Il ciglio di un fosso sotterraneo, che sembrava non avere fondo. Akane, evidentemente in preda al panico, si trovava dove voleva l’amazzone, più avanti delle altre due, sul margine estremo, certo attirata lì con qualche scusa. Mentre Ukyo sorreggeva una lampada per farle luce, Shampoo pronunciò in quel preciso momento le parole finali della pergamena. Dalle tenebre del burrone affiorava un possente vortice, il quale pareva possedere le sembianze di un dragone.
“Ecco la vittima che ti offlo, Spilito-Dlagone: pulifica la mia casa, eliminando i miei nemici!”
Ukyo si pose in mezzo.
Eliminare? Aspetta, Shampoo: non si era parlato di questo!”
“Taci, spatolona!” la colpì con uno dei suoi bombori, stendendola a terra. “Un’amazzone del villaggio di Joketsuzoku è plonta a tutto, sappilo.”
Il turbine generò un veloce spostamento d’aria, provocando un potente frastuono: la risposta consenziente dello spirito.
“Fermeee!” gridò Ranma, correndo verso le fidanzate. Troppo tardi. Il vortice si fece incandescente e cominciò a risucchiare al suo interno ogni cosa si trovasse vicino. Akane era sull’orlo del precipizio, paralizzata dal terrore, incapace di reagire in alcun modo.
“Akane, vieni via!” il ragazzo col codino si lanciava verso di lei.
La giovane Tendo si voltò, scorgendo il fidanzato e fissandolo con occhi luccicanti. Accennò un sorriso, segno della ritrovata sicurezza. Un secondo più tardi, la roccia sotto i suoi piedi franò tutta insieme e lei precipitò nel vuoto, allungando vanamente la mano verso il braccio di Ranma, già disteso in avanti.
Vide il corpo di Akane sparire nel nulla, inglobato da due mascelle infuocate. Poi nient’altro, se non la propria mano ancora sbilanciata verso il basso, tesa come ad afferrare l’aria.



Ranma scostò con violenza la mano di Shingo dalla propria fronte. Lo sguardo perso nel vuoto, il ragazzo col codino ansimava nel tentativo di introdurre maggiore aria nei suoi polmoni. Respirare gli riusciva difficile, in quel momento. Qualcosa gli mozzava il fiato. Il suo nemico implacabile aveva vinto, alla fine. Come sempre. Quel tipo col medaglione aveva solo accelerato le cose. I ricordi erano affiorati tutti insieme: senza l’intervento di Shingo, forse, li avrebbe quietati ancora molto tempo. Ma ne era sicuro, sarebbero tornati comunque. Il rimorso – questo era il suo nemico invincibile – lo avrebbe sconfitto in ogni modo, prima o tardi.
“Ti è piaciuto, lo spettacolo?” chiese beffardo quello dai lunghi capelli color platino.
“Ma… male… MALEDETTOOO!” sbraitò Ranma, sputando di colpo tutta quanta l’aria faticosamente incorporata. Cercò di alzarsi per colpire l’interlocutore, ma le membra non rispondevano ai comandi del cervello. E si limitò a continuare a gridargli, la voce frammentata che andava a scatti: “Perché dovrei – dovrei credere – a quello che mi hai fatto vedere?!”
“Non fare il bambino.” replicò freddo l’altro, i lineamenti del suo volto ora si erano fatti seri. “Sai benissimo che tutto quello che hai appena visto è accaduto realmente.”
Era vero. Lo sapeva benissimo. Come aveva potuto dimenticare tutto questo?! Carponi sul nudo terreno, si coprì istintivamente il volto con le mani. Mani che tremavano freneticamente. Anche se avesse voluto, non avrebbe potuto rispondere. Le corde vocali gli si erano come spezzate.
“Ti sei calmato, finalmente?!” Shingo sbuffò impercettibilmente. “Adesso stai buono, la storia non è finita: e vedo che hai il vizietto di saltare sempre alle conclusioni affrettate.”
L’altro pareva non udirlo. Dalla sua bocca uscì infine un mormorio, tanto lieve che si confuse con la brezza che si era appena levata.
“A-akane…”
Quello di fronte sorrise.
“Tranquillo, lei sta bene.” socchiuse gli occhi color zaffiro. “Peccato lo stesso non si possa dire di te.”
Ranma rialzò il capo, levando le mani dal viso e lasciando intravedere il lieve rossore dei suoi occhi.
“Cosa – cosa vuoi dire?!” era rimasto catturato dalla prima parte della frase, e dalla sicurezza con cui era stata proferita.
“Ora vedrai…”
Poggiò nuovamente la mano sulla sua fronte. E la richiuse come un artiglio. A Ranma parve che le unghie di Shingo gli trafiggessero la mente. Il medaglione prese a brillare di luce propria.



“Lanma!”
“Ranma!”

Stava sul ciglio del burrone.

“Amole, non dovevi essele qui: comunque hai visto, ola sei libelo!”
“Ran-chan, perdonami! Non lo sapevo, non pensavo Shampoo avesse progettato questo.”

Guardava verso il basso.

“Ailen, cosa fai?”
“Ranma, no!”

Si sbilanciò in avanti.

“Lanmaaa!”
“Ranchaaan!”

E si lasciò andare nel vuoto, dritto nelle fauci del dragone di fuoco.



Ranma tornò al presente, riassaporando la tranquillità della notte. Questi ultimi momenti rievocati erano stati piuttosto confusi. Le voci alle sue spalle, lui che si buttava. Tutto appariva, però, annebbiato. Suoni, colori, immagini. Nulla di razionale lo governava, in quegli infiniti attimi di inferno. Logico che i ricordi fossero meno chiari e distinti dei precedenti.
Saishuu Shiyou Rei-ryuujin…” disse, come riflettendo ad alta voce, Shingo. “Bella trovata, non c’è dubbio: ne avevo sentito parlare, ma credevo che quella pergamena magica fosse solo una favola per mocciosi!”
Il ragazzo col codino si mise a scrutarlo.
“Tu… come sai tutto questo?!”
Lui sogghignò.
“Vedi, Ranma Saotome, ti seguo da molto tempo.”
“Cioè mi stavi spiando…” l’odio che gli suscitava quel tipo lo scosse dall’apatia.
“Pensala pure come ti pare: diciamo solo che ho assistito a molte tue battaglie, in questi due anni.” si era rifatto serio. “Taro, Herb, Safulan: combattenti valorosi, uno più forte dell’altro, eppure sei riuscito a sconfiggerli tutti. Ciò costituisce sicuramente un punto a tuo favore.”
Ranma si era intanto rialzato in piedi.
“Purtroppo, noto che questa situazione ti ha messo fin troppo in difficoltà.” continuò l’altro. “Mi hai deluso, ragazzo: il fatto che l’incontro con Ryoga non ti abbia minimamente schiarito le idee conferma che non sei poi molto sveglio, in ciò che non concerne le arti marziali.”
Lo fissò intensamente.
“Sai, non sono ancora sicuro che tu sia l’individuo che faccia al caso mio… Troppo facilmente sopraffabile dalle emozioni, si vede bene che non riusciresti mai ad accettare la responsabilità della morte di una persona: mentre un artista marziale degno del suo nome dovrebbe innanzi tutto restare freddo, qualunque cosa accada.”
Ranma ripensò istintivamente a quello che gli diceva Obaba, riguardo l’Hiryu Shotenha. Shingo scosse la testa.
“Anche adesso… possibile che non ti sia reso conto di un particolare, in tutta la storia?!”
“Mh? Che intendi?”
“Le ricordi, le parole della cinesina? Lo Spirito-Dragone può essere evocato solamente una ed una sola volta, per un’unica persona… Ora hai capito?!”
Le pupille del ragazzo col codino si erano vistosamente dilatate. Ecco che, quando tutto sembrava finito per sempre, gli si riaffacciava l’ombra del dubbio – della speranza.
“Si dà il caso che quello Spirito abbia inglobato sia te che quella ragazza. Si dà il caso che dunque abbia dovuto rinunciare ad uno di voi.”
Ranma si morse il labbro.
“Si dà il caso che abbia lasciato andare quella Akane…”
Il vento cessò improvvisamente di soffiare tra le fronde degli alberi.
“E abbia preso te!”



¹ Il ryokan è una piccola pensione giapponese.

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Capitolo 5
*** Bitter discovery ***


PART FIVE –

“BITTER DISCOVERY”




Assottigliò lo sguardo.
Lo zaffiro dei suoi occhi non lasciava trasparire alcuna emozione. Ma il ragazzo col codino era certo che lo stesse esaminando a fondo. Shingo riprese a parlare, con tono neutro:
“Quella ragazza, Akane Tendo, è al sicuro.”
L’ansia gli cresceva, ancora non sapeva se poteva fidarsi appieno di ciò che gli aveva detto quella specie di guardone – che nell’ultimo anno e oltre, così sembrava, non aveva avuto nulla di meglio da fare che osservare minuziosamente ogni suo gesto o azione. I ricordi rievocati, sì, gli parevano genuini – insomma, non credeva che quel tizio gli avesse, tipo, manipolato il cervello. Comunque fosse, quell’individuo enigmatico gli aveva come donato nuova linfa vitale. Anche se… “Maledetto!” ringhiò. “E non potevi dirmelo subito, invece di...”
Di fargli provare le pene dell’inferno? Di farlo soffrire come l’ultima volta, a Jusenkyo – più di Jusenkyo?! Ma non terminò la frase. L’altro non si turbò minimamente.
“Peccato.” aggiunse, con il medesimo timbro inespressivo di voce. “Peccato che, ora, la sorte prevista per lei sia divenuta la tua.”
Ancora con questa storia?! Dopo queste parole, Ranma si sentì sbeffeggiato, preso in giro. Prima pensava di aver sentito male. Ma che cavolo raccontava quel tipo col medaglione?
“Ti ha dato di volta il cervello? Quel drago o chicchessia non può avermi preso! Non vedi che sono qui, davanti ai tuoi occhi – vivo e vegeto, in carne ed ossa?”
Un’idea improvvisa ravvivò a quel punto lo sguardo dell’adolescente con la camicia rossa dalle maniche rivoltate. “A meno che…” A meno che non fosse diventato qualcosa come un fantasma, come in quei film angoscianti – proprio quelli che Akane si vedeva sempre, nonostante la facessero morire di paura… Ma questo era da escludere. Lui aveva combattuto sodo, contro Ryoga: le aveva prese e date in abbondanza. No, si sentiva ancora piuttosto corporeo.
“Tranquillo.” sorrise Shingo. “Non sei ridotto ad un pallido spiritello. Non ancora. Nessuno qui ha mai parlato di morte."
Questo gli fece spalancare la bocca. Quel tizio sapeva pure leggergli nel pensiero?
“Come hai fatto?! Come sapevi ciò a cui stavo pensando?!”
L’altro piegò gli angoli della bocca in un accenno di sorriso.
“Niente di straordinario. Né io sono una sorta di essere superiore. E neppure un sensitivo, un medium, un mistico Guardiano delle porte dell’Aldilà o quant’altro ti abbia stuzzicato la mente – per quanto, qualche potere io ce l’abbia.” incrociò le braccia. “Ma riguardo a ciò, semplicemente, i tuoi pensieri sono così prevedibili e penosamente ovvi.”
Ranma non reagì all'insulto. Tutti quegli eventi lo avevano spossato, corpo e, soprattutto, anima.
“Ma se sapevi tutto fin dall’inizio” mormorò solamente, senza traccia alcuna della grinta di prima “perché mi hai fatto credere che…”
“Un’altra prova.” inspirò Shingo, scuotendo la testa. “E sei stato bocciato. Senza possibilità di appello.”
Si girò e cominciò ad allontanarsi a lenti passi.
“Lo ripeto, mi hai deluso.” disse, dando le spalle a Ranma. “Sembravi un tipo acuto, come pochi: adesso mi trovo di faccia alla realtà, quella di uno stupido sbarbatello testardo, chiuso di mente, troppo emotivo, desideroso di una qualunque scusa per poter alzare le mani: non ci è voluto molto perché quelle due ti raggirassero come un allocco.”
Il ragazzo col codino ritrovò di colpo tutto quanto il suo spirito combattivo. Il suo orgoglio non poteva tollerare tante offese tutte in una volta.
“Allocco a chi?! Combatti!”
Paradossalmente, proprio grazie alle provocazioni di Shingo, aveva recuperato l’autostima. E non gli riuscì, perciò, difficile caricare tra i palmi delle mani un potente Moko Takabisha.
“Girati e guardami in faccia, se non vuoi finire male!”
Quello continuava per la sua strada come se nulla fosse. Era troppo! Ranma lasciò partire il proprio colpo energetico: un fascio di luce accecante squarciò le tenebre, seguito da una forte esplosione.
Il buio circostante e la polvere sollevata non gli permettevano di verificare se il colpo fosse andato a segno. Avanzò cautamente, badando a non mostrare il fianco. E lo avvertì, dietro di sé, proprio come l’altra volta. Non ne fu sorpreso. Quando scorse la propria ombra farsi più distinta oltre i suoi piedi, e le cortecce degli alberi rischiararsi, capì subito cosa costituisse quella improvvisa fonte di illuminazione alle sue spalle.
“Sai, Shingo, se conosci così tante cose sugli artisti marziali” disse Ranma “sarai pure consapevole che non bisogna mai ripetere troppe volte la stessa tecnica col medesimo avversario.” L’uomo dai capelli color platino avanzò, tornando davanti a lui. Non si era scomposto minimamente. Qualcosa appoggiato al suo petto sfavillava di luce propria.
“Hai commesso un errore.” continuò Saotome. “Non ho ancora inteso bene come funzioni, ma adesso so che è solo merito del tuo medaglione, se riesci a schivare ogni mio colpo. L’abilità non c’entra niente.”
Era sollevato: quel tizio non era affatto più forte di lui. Questo gli aveva fatto riacquistare il pieno controllo di sé.
*Non illuderti, il tuo è solo un trucco: quando ne capirò il meccanismo, potrò sconfiggerti!*
Incurvo le sopracciglia: “Ora, come ti sei procurato quell’affare? Inoltre, è più che evidente che, dal momento che mi stai dedicando tanta parte del tuo tempo, io ti servo a qualcosa. Ma cosa? Infine, se Akane, come dici, sta bene, dove si trova?!”
Quest’ultima parte di frase era stata più gridata che parlata. Shingo batté ripetutamente le mani, in una specie di applauso.
“Molto bene.” disse. “Stai recuperando punti, Ranma Saotome. Non sei così ottuso, tutto sommato…”
Sogghignò.
“Ragion per cui, potrai scoprirlo benissimo da solo.”
L’istante successivo, era scomparso. Ranma tornò nella tenda. Tanto non avrebbe ripreso sonno.



Magnifico! Nessuna traccia del ryokan. Perfetto, veramente perfetto! Più lui aveva fretta di tornare, più gli eventi sembravano ritorcerglisi contro. Dopotutto, come poteva immaginare di trovarlo in poche ore di viaggio? Chiedere informazioni era impossibile. Quel luogo era deserto. L’unica persona che aveva incontrato finora in quel bosco – Shingo escluso – era stato Ryoga: il quale, a dire il vero, prima di salutare a malincuore il suo nuovo amico che si rimetteva in marcia, lo aveva informato di aver avvistato una locanda, qualche ora prima. Ovviamente non gli aveva saputo indicare da che parte dirigersi per arrivarvi.
D’un tratto si era scosso e aveva colpito con un pugno il palmo dell’altra mano: “Ora ricordo!” aveva esclamato. “Era nella direzione in cui tramonta il sole.” E già il giovane col codino si stava avviando, deciso a dargli spago almeno questa volta, quando quello con la bandana aveva aggiunto: “A Nord, non puoi sbagliare!” facendolo cadere gambe all’aria.
A proposito di sole che tramontava, si stava nuovamente facendo buio. Diamine, due interi giorni persi – e perso lui – in quella foresta! E Ranma scalpitava, avrebbe voluto già essere al dojo, poiché un altro dubbio gli si stava insinuando nella mente.
E se – se Shingo gli avesse mentito? Se quel Saishuu Shiyou Rei-ryuujin si fosse veramente sbarazzato di Akane?
*Fa’ che non sia così!* andava ripetendosi. Non doveva essere andata così. Shingo gli aveva detto che non le era successo niente. Che si era salvata. Credergli o non credergli? Gli aveva detto pure che era lui, la vittima. Assurdo, si stava solamente divertendo alle sue spalle, voleva mettergli paura! Pure quella storiella che il drago potesse essere evocato una sola volta e catturato da una sola persona: nient'altro che una frottola! Sicuro! Se lui era salvo, anche Akane lo doveva essere. Magari quella specie di spirito non era poi tanto efficace – si poteva essere risolto nella solita fregatura, come del resto la maggior parte degli oggetti magici e delle tecniche di combattimento che aveva sperimentato sulla propria pelle, in quell’ultimo anno e mezzo… Comunque non contava, a quel punto. Ora doveva solo raggiungere la dimora dei Tendo – nella locanda era certo non vi avrebbe trovato nessuno, dato che doveva essere trascorso parecchio tempo dall’escursione nella grotta – il prima possibile. E scoprire la verità.
Purtroppo Nerima non era dietro l’angolo. Anche quando avesse finalmente trovato il ryokan, unico punto di contatto che collegasse quel bosco dal resto del Paese civilizzato, da lì occorrevano diverse ore di viaggio. Col treno. Lui non poteva far conto, però sul treno: i pochi yen che teneva in tasca bastavano a malapena per un pasto decente in un’osteria di bassa reputazione. L’andata non aveva costituito un problema, i soldi li avevano messi – su invito di quell’affarista senza scrupoli di Nabiki – nientemeno che Ukyo e Shampoo: e le due avevano sganciato senza lamento alcuno. Questo avrebbe dovuto farlo insospettire. Troppo felici di liberarsi di Akane, per preoccuparsi della vile moneta. Facile capire, col senno di poi. Si maledisse, possibile che si facesse sempre ingannare così facilmente?! Qui Shingo aveva maledettamente ragione.
Si arrestò. Aveva sentito delle voci. Persone a cui chiedere come raggiungere un riparo per la notte. Si diresse verso la fonte del suono. E cominciò a sentire un profumo ben noto. Quello delle okonomiyaki calde appena grigliate. Possibile che…
“Ucchan!” gridò alla persona girata di spalle, la quale stava effettivamente cucinando qualcosa nella penombra circostante, afferrandole un braccio.
“Dici a me, giovanotto?” Ranma rimase impietrito, fissando l’omone grande e grosso che si era voltato verso di lui, lo sguardo severo e la fitta barba nera. Allargò lo sguardo, inquadrando un carretto portatile di okonomiyaki. Almeno in questo ci aveva visto – meglio, annusato – giusto.
“E-ehm, mi scusi signore…” disse, aggiustandosi la voce. “Saprebbe indicarmi la strada per il ryokan più vicino?”
Quello lo squadrò minacciosamente. Piegò una delle due spesse sopracciglia, quindi spalancò la mascella, manifestando la sana dentatura in quello che forse voleva essere un sorriso. “Sei fortunato, ragazzo!” gli rispose, a voce piuttosto alta. “Mi ci sto avviando, non dev’essere bello passare la notte in un posto come questo… Unisciti a noi, faremo la via insieme!”
Ranma si sentì sollevato. Finalmente un poco di fortuna. Quindi rifletté un momento sulle parole dell’omone.
“Ha detto… noi?!”
“Esatto!” fece quello. “Io e mia figlia, lei si è allontanata un attimo per cogliere delle bacche… Ma sarai affamato, per caso ti piacciono le okonomiyaki?”
Ovviamente il ragazzo col codino accettò l’invito.
*Ora si spiega… in effetti avevo udito più voci!* pensò, mentre addentava con vigore una della focacce giapponesi di cui andava matto.
“Di’ un poco!” fece il suo interlocutore. “Com’è che ti chiami?”
“Ranma Saotome, della rinomata Scuola di arti marziali indiscriminate di Saotome!” rispose meccanicamente, nella maniera che il padre gli aveva inculcato negli anni dell’infanzia, allo scopo, naturale, di farsi pubblicità.
“Saotome, eh?” mormorò l’altro. “Non mi è nuovo, chissà dove l’avrò sentito.”
In realtà, pure Ranma ricordava vagamente di aver già fatto la conoscenza della persona che gli si trovava di fronte. Ma dove? E quando?
“Papà, eccomi di ritorno!” una voce femminile dietro di lui. “Vedrai che condimento preparerò, con queste deliziose…” s’interruppe. “Oh, ma abbiamo visite! Buffo, credevo fossimo gli unici ad esserci addentrati a Yakuzai.”
Ranma, ginocchioni a terra, si voltò lentamente, guardando la nuova arrivata dal basso verso l’alto. Indossava un lungo abito intero rosso, molto elegante e femminile, che ben s’intonava con i lunghi capelli sciolti color castano scuro, adornati da un fiocco bianco, e con la grande… spatola?! che la ragazza portava dietro la schiena.
“Piacere di conoscerti. Il mio nome è Ukyo Kuonji.”
Ukyo! E lo aveva salutato. Ma come un estraneo. Non come il vecchio amico d’infanzia. Lei gli porse la mano. Lui gliela strinse calorosamente.
*Ucchan, possibile che abbia perso anche tu i ricordi?*
La fissò come per leggerne i pensieri e comunicarle i propri, cercando una risposta agli interrogativi che lo tormentavano. C’era una cosa che Shingo non gli aveva spiegato: il motivo per cui coloro che erano entrati in quella grotta, avevano tutti dimenticato. Forse la cinesina li aveva sottoposti ad un trattamento forzato con la tecnica smemorizzante Xi Fa Xiang Gao: in effetti, lo "shampoo 110" si era già mostrato efficace una volta, con Akane. Possibile. Dopotutto, Ukyo nel momento cruciale le si era ribellata, magari aveva raccontato l’accaduto a Ryoga e agli altri. Messa con le spalle al muro, l’amazzone aveva forse deciso di cancellare ogni traccia del suo delitto. Delitto tutt’altro che perfetto, però, dato che non era stato portato a termine.
Qualcosa non aveva, evidentemente, funzionato. Lui era salvo, più che plausibile che avesse perduto parte della memoria proprio per un lavaggio del cervello fatto dalla cinesina, nel tentativo di rimediare in qualche modo al danno. Bisognava verificare che pure Akane fosse salva. Se così fosse stato, il piano di Shampoo sarebbe saltato. Sarebbe rimasto solo da far tornare la memoria ai suoi amici. Ma ci sarebbe riuscito, a costo di farli soffrire rievocando i loro ricordi più spiacevoli – così come Shingo aveva, a quanto pare, fatto con lui. Con Ryoga sarebbe stato facile: chiamarlo P-chan un centinaio di volte in presenza di Akane era più che sufficiente. E si sarebbe pure divertito. Con Ukyo era diverso. Per quanto parte della responsabilità di quanto era accaduto fosse indiscutibilmente dell’esperta cuoca di okonomiyaki, era pur vero che poi si era pentita. E, comunque, lei non aveva mai voluto veramente male ad Akane. Inoltre, rimaneva pur sempre la sua amica d’infanzia. Tornò a scrutarla, ancora non le aveva lasciato la mano.
La giovane cuoca di okonomiyaki, sentendosi puntati addosso quei profondi occhi blu, non poté fare a meno di arrossire.
*Che… che bel ragazzo… mi sta fissando… cosa faccio?*
Ranma le si avvicinò ulteriormente. Non capiva, aveva appena notato qualcosa che non quadrava. Ukyo aveva perso la memoria, giusto. Perché, però, era vestita in modo così… femminile? Dove se l’era procurato quel carretto di okonomiyaki, così identico a quello che possedeva un tempo – la bancarella portatile che le aveva sgraffignato quell’idiota di un panda che aveva la sfortuna di vantare per genitore? E l’omone che gli stava vicino – sicuro, il papà di Ucchan, come aveva fatto a non riconoscerlo? - cosa ci faceva pure lui a Yakuzai? Padre e figlia si erano incontrati casualmente? La fidanzata carina gli aveva, una volta, spiegato che era rimasto nel proprio paese ad attendere che lei si vendicasse del promesso sposo, il fedifrago che se l’era filata dieci anni prima con quella che avrebbe dovuto essere la dote. Saotome sussultò. Ukyo l’aveva poi perdonato, ma… il signor Kuonji? Sarebbe passato sopra al disonore arrecato a sua figlia?
Proprio in quell’istante, il barbuto alzò il braccio contro di lui. Ranma non ebbe il tempo di sistemarsi in posizione di difesa che questi… gli diede una potente pacca sulla spalla.
“E bravo Saotome! Vedo che hai già fatto colpo sulla mia piccina.”
Il giovane sospirò sollevato, per quanto, quella pacca gli fosse risultata piuttosto fastidiosa, come già a suo tempo quella di Ryoga, mentre Ukyo diveniva sempre più rossa.
“Che dici, papà? Non è assolutamente vero!” balbettò tutta imbarazzata, gesticolando selvaggiamente con le braccia e colpendo un paio di volte il coetaneo, preso alla sprovvista, con lo spatolone.
Il padre si scosse di colpo.
“Ma certo!” un Ranma piuttosto malconcio e col viso leggermente deformato lo guardò attentamente, mentre pareva raccogliere i pensieri. “Saotome! Genma Saotome! Lo incontrai tanti anni fa, era in viaggio d’addestramento: moriva di fame, non mangiava da giorni, mi ha letteralmente ripulito le provviste...” rise di cuore.
Si girò verso la figlia. “Tu eri ancora piccola, Ukyo. Io e quell’uomo diventammo subito grandi amici, da allora ci teniamo ogni tanto in contatto: nel senso che, quando passo dalle sue parti, gli faccio visita e lui mi scrocca sempre un bel po’ di okonomiyaki.” Giù un’altra risata. “Perlomeno sua moglie è così gentile e ospitale!”
Ranma decise di giocare la sua carta. Il papà di Ucchan non era stato nella caverna, ragion per cui, se gli avesse rinfrescato la memoria, almeno lui si sarebbe ricordato del bimbo col codino, il futuro consorte di sua figlia. Bisognava farlo, sebbene in questa maniera gli avrebbe fatto tornare in mente pure il resto.
“Signore, allora si ricorda anche di me?”
“Mh? Veramente no. Sei forse un parente acquisito, dal momento che porti lo stesso cognome?”
“Sono suo figlio – il figlio di Genma! Ranma, Ranma Saotome!”
Quello lo scrutò con sguardo allucinato. Quindi sghignazzò rumorosamente, facendo sì che un istante dopo Ranma si beccasse la terza pesante pacca sulla spalla da quando si trovava a Yakuzai.
“Sei matto? Genma e Nodoka Saotome non hanno mai avuto figli!”

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Capitolo 6
*** Homeless ***


PART SIX –

“HOMELESS”




Una pugnalata in pieno petto. Questa era, pressappoco, la sensazione che provava in quegli interminabili istanti, quelli appena seguiti all’inattesa dichiarazione. Non era agitato, stavolta. Nessuna goccia fredda di sudore gli scendeva dalle tempie. Ed il cuore, quello non batteva all’impazzata, come era successo dopo la rivelazione di Shingo. Non batteva affatto. Almeno non poteva udirlo distintamente, tanto si era fatto lieve il pulsare del muscolo. Il tempo pareva essersi fermato. Poco contava che le sue gambe continuassero a muoversi meccanicamente, seguendo padre e figlia, i quali avevano già ripreso il cammino. Poco contava che ormai le tenebre avessero inghiottito l’enorme calotta del cielo. Per lui, il tempo si era fermato.

“Sei matto? Genma e Nodoka Saotome non hanno mai avuto figli.”

Quelle parole – proferite con una tale naturalezza! Quell’uomo pareva sapere bene di cosa stesse parlando. Non dava l’impressione di essere un bugiardo, oppure un burlone – nonostante le sue chiassose risate potessero a prima vista far pensare l’esatto contrario. Perché mai, comunque, avrebbe dovuto dare ascolto? Ad una cosa così assurda, così folle, così… Eppure, adesso, tutto cominciava a prendere la forma giusta, ad assumere il suo vero significato.

“Ti ho già chiesto ben due volte di dirmelo… si può sapere chi sei?!”
“Ricominci?! Lo sai benissimo chi sono! Sono Ranma! Ranma Saotome! Veramente non ti ricordi più di me?”
“Come potrei? Non ti ho mai visto prima d’ora.”

“Piacere di conoscerti. Il mio nome è Ukyo Kuonji.”


Non si ricordavano più di lui. Ma questo non voleva dire necessariamente che avessero dimenticato. In effetti, come si poteva ricordare qualcosa che – che non è mai avvenuto?!

“L’unico che non ricorda sei tu.”

Rabbrividì, rievocando le parole di Shingo. Pensò che la sua precedente ricostruzione dei fatti non reggeva per niente. Un tassello non si incastrava nel puzzle. Ryoga non si trasformava. Come spiegarlo, questo? Era guarito dalla maledizione? Oppure era più corretto sostenere che – che non fosse stato mai maledetto? Non era una cosa così difficile, dopotutto: bastava solamente che una ragazza dalla chioma fulva in tenuta da kempo non lo avesse scaraventato con un calcione nella Heito Uen Nichuan. Bastava che Hibiki in Cina non ci fosse mai andato, non avesse mai dovuto inseguire per mezzo mondo il suo avversario che era mancato alla sfida.
In quanto ad Ukyo… Quello che aveva con sé, era evidentemente il carretto di okonomiyaki che suo padre non le aveva fregato, dal momento che non aveva nessun figlio da darle come fidanzato e nessuna dote da rivendicare… Il castello di carte crollava al primo alito di vento… Tutto portava ad una sola incredibile conclusione…
Possibile? Lui – lui non esisteva! Ranma Saotome, figlio di Genma Saotome, ultimo discepolo della scuola di lotta Saotome, futuro erede della palestra Tendo, non era mai venuto al mondo!
Era sparito dalla circolazione… Allora era questo, l’effetto del Saishuu Shiyou Rei-ryuujin… Lui era veramente la vittima del Dragone del Rimedio Definitivo! Bel modo per sbarazzarsi di una persona sgradita, non c’era che dire: non bisognava neppure sporcarsi le mani. Eccola, la sorte progettata per Akane. E che ora, come gli aveva detto Shingo, era divenuta sua. Gliene erano accadute, di cose strane, negli ultimi tempi: ma questa, questa le superava di gran lunga tutte quante.
“Eccoci arrivati!”
La voce di Ukyo lo riportò al presente. E si accorse che davanti a lui c’era il ryokan.
“Bene, stanotte potremo pernottare qui.” disse il padre di Ucchan, la quale scrutava, incuriosita, quel bel giovane dagli abiti cinesi: uno che in Cina doveva esserci stato, uno che doveva aver viaggiato molto. E quello sguardo assorto, quelle iridi blu-grigie così profonde e tristi, che lo rendevano così misterioso… Del resto, cosa non aveva di misterioso uno che vagava in un bosco apparentemente senza alcun motivo? Forse quel ragazzo aveva bisogno di aiuto, di una persona amica. Sembrava così timido.
“Senti!” si decise infine a chiedergli, quando ormai si stavano accingendo a mettersi a dormire, entrando in camere separate.
“Mh?” fece un Ranma ancora immerso nei propri pensieri.
“Tu, ecco...” farfugliò la coetanea, giocando nervosamente con le dita. “Volevo dire, insomma – dove sei diretto?”
Dov’era diretto? Lui?… Già, dov’era diretto? La fretta di raggiungere casa Tendo era cessata di colpo, adesso che gli si era parata dinanzi la realtà – la nuda, dura realtà. La realtà che il mondo aveva smesso improvvisamente di girargli attorno… Buffo, proprio a lui che ormai ci aveva preso l’abitudine, ad essere sempre al centro dell’attenzione…
“Io… io non lo so.” ammise, con un sospiro.
Ukyo lo fissò dolcemente. Sentiva per quello sconosciuto un forte senso di compassione… o forse anche qualcos’altro?
“E… cosa farai domani?” chiese con fare candido. “Non potrai dormire sempre al ryokan.”
“Già.” si limitò ad ammettere lui.
“A-allora… io p-pensavo… che…” balbettò la ragazza, arrossendo visibilmente. Ranma la guardò incuriosito.
“E-ecco… Noi domattina ripartiremo, ci dirigeremo molto lontano da qui…”
Cosa? Non era un fulmine nel capire cosa passasse per la testa degli altri, ma stavolta l’intenzione della ragazza gli sembrava chiarissima. Ukyo stava per proporgli di seguirlo nel suo viaggio. Perché mai? E lui che doveva fare? Accettare, forse?… Eppure, eppure, un nuovo pensiero gli aleggiava nella mente. Lui portava guai, su questo non c’era dubbio. Colpa sua, se… se Akane aveva corso tanti pericoli: Shampoo che le dava il bacio della morte, Mousse che intendeva trasformarla in anatra – ma, primo fra tutti, risaltava, tra i suoi ricordi, quello della lotta contro Safulan: per poco non lo perdeva definitivamente, quella volta, il suo maschiaccio. Ed ora, ora questa trappola di Yakuzai! Era troppo! Sì, lui portava guai… ma adesso lui non esisteva più per nessuno. Perché ritornare ad invadere le vite tranquille delle persone cui teneva? Non avrebbe di certo cominciato con Ucchan.
“Ukyo, io…” la sua voce fu però sovrastata da quella della ragazza, che metteva faticosamente insieme le parole per concludere la propria frase.
“Ma – ma prima, ci fermeremo qualche giorno nella casa di quei nostri amici: sai, i Saotome.”
Le pupille del ragazzo col codino si dilatarono vistosamente.
“Hai detto… i Saotome?!”
No, non poteva. Non poteva tornare nelle vite dei suoi cari. Più di tutto, in quella della sua famiglia. “Vuoi venire con noi?”
Doveva andarsene, approfittare dell’incredibile occasione che gli si era creata. Nessuno avrebbe più corso pericoli a causa sua. Lei non li avrebbe corsi. Perché indugiare? Ranma Saotome non esisteva più. Perché coinvolgere ancora coloro cui voleva bene nelle pazze disavventure che attirava come fosse una calamita? Deciso e risoluto, stabilì che la sua risposta dovesse essere un netto rifiuto. Nossignore, non sarebbe tornato indietro.



“Benvenuti.”
La signora Saotome sorrise amabilmente agli ospiti sopraggiunti alla sua porta. Un'altra figura parzialmente nascosta dall’ombra le stava affiancato, ma in posizione di guardia. Ed allungò un braccio, impedendo alla donna di inginocchiarsi in segno di rispettoso saluto davanti al trio che si trovava sull’uscio di quella modesta dimora.
“Che fai?” protestò lei.
“Cosa fai tu, piuttosto!” replicò agitato l’altro. “Ti sei sincerata che non sia qualche malintenzionato? O, peggio ancora, un creditore?!”
La porta parzialmente richiusa da quell’uomo occhialuto in tenuta da kempo non impedì di scorgere il luccichio di una grossa katana, appena sguainata dalla compagna.
“Stai al tuo posto, tesoro: non li riconosci?” avvicinò minacciosamente la lama affilata al suo collo. “E vedi di non azzardarti a gettare loro addosso il tatami, chiaro?!”
Gli occhiali del poveraccio, appannatisi per l’improvvisa colata di sudore proveniente dalla pelata malcelata da un vistoso fazzoletto, lasciavano intravedere un’espressione piuttosto intimidita, la quale rispondeva a quella ben più risoluta della donna. Dopodichè, sorridendo nervosamente, questo volse gli occhi in direzione dei nuovi arrivati. Uno di essi sghignazzò fragorosamente.
“Ah ah! Genma Saotome, vecchio mio! Vedo che non cambi proprio mai!”
L’altro sbatté le palpebre perplesso.
“Ku… Kuonji!” esclamò infine. “Sei proprio tu!”
“Ne è passato di tempo, dall’ultima volta!” gli andò incontro per abbracciarlo. E Genma Saotome lasciò crollare le ultime istintive difese, ricambiando affettuosamente la stretta di quello che pareva essere, dunque, un amico di vecchia data.
Ranma ne era sicuro. Erano molto amici. Magari non c’erano tra di loro quei modi fraterni che tanto caratterizzavano, nel suo vecchio mondo – quello che non c’era più – il rapporto con Soun Tendo. Ma erano grandi amici, il fatto era evidente.
Il giovane col codino avanzò timorosamente. La vista della katana di sua madre – ma doveva portarla con sé proprio in ogni momento? – aveva provocato in lui delle reazioni involontarie di terrore puro, tale da poter probabilmente venire superato solo dalla fobia per i gatti e dalle esibizioni del padre di Akane in versione demone blu con tanto di lingua biforcuta. Le vecchie abitudini erano dure da dimenticare.
“Ukyo, come sei cresciuta: ti stai facendo molto carina, sai?” Mentre gli uomini discorrevano animatamente, Nodoka si era avvicinata alla ragazza.
“La ringrazio, signora Saotome.” sorrise la giovane Kuonji.
“E lui – lui chi è?” chiese curiosa l’altra, scorgendo il giovane col codino. “Il tuo ragazzo?”
“Ma nooo, si sta sbagliando!” Ucchan avvampò, mentre con una spatolata decisa spinse il giovane proprio di fronte a sua madre.
“Come ti chiami?” chiese lei, con aria cortese, ad un Ranma visibilmente imbarazzato.
“Io… er… Ranma.” balbettò intimorito. Preoccupato soprattutto del fatto che si trovavano ancora all’aperto. E cosa sarebbe avvenuto se, con la fortuna che lui si ritrovava, avesse preso a piovere?
“Ranma… che bel nome!” sospirò Nodoka. “Proprio così lo avrei voluto chiamare mio figlio, se…”
Tacque improvvisamente.
“Sono proprio maleducata.” riprese quasi subito. “Prego, entrate.”
Un lampo attraversò lo sguardo di Genma, mentre i due Kuonji si erano già accomodati. Intercettò il ragazzo vestito alla cinese, che stava solcando l’uscio, scagliandoglisi contro con un calcio.
Calcio che andò a sfondare parte del tatami, dal momento che Ranma si trovava già alle spalle del padre. Non aveva abbassato la guardia nemmeno per un istante, quindici anni di allenamenti erano pur serviti a qualcosa.
“Mmh, questo è l’Utsushimi no Jutsu [tecnica per spostarsi senza cancellare la propria presenza]. Il mio intuito non ha mai sbagliato, vedo che pratichi le arti marziali.” disse Genma. “Bravo, mi piaci giovanotto!”
Giovanotto? La cosa lo fece sentire molto strano, lui che era abituato a sentirsi chiamare per lo più inetto e figlio degenere. Inoltre, suo padre che gli faceva un complimento?! E gli stava sorridendo! C’era da aspettarsi qualche trabocchetto, rimase all’erta: magari aveva in serbo per lui lo Jigoku no Yurikago, la Culla infernale¹.



Nessun trucco. Nessun doppiogioco. E le sorprese non erano affatto finite, come Ranma ebbe modo di considerare quella notte. Ripensò alla lauta cena preparata da sua madre, all’allegria che regnava al tavolo, nonostante Nodoka non avesse permesso la presenza del sake offerto dal padre di Ukyo e… in quel frangente, Genma aveva ubbidito alla moglie senza fiatare! Paura della katana…?
Ad un certo punto del pasto, il Saotome adulto aveva chiesto al Saotome adolescente dove avesse appreso quelle tecniche. Ranma si era ritrovato così a raccontare dei suoi duri addestramenti… col padre, aveva detto in modo generico…
“Che disgraziato, quel padre!” era sbottato improvvisamente Genma. “Tenerti lontano da casa tutto questo tempo, obbligandoti a fare cose che magari non volevi: se l’avessi io, la fortuna di avere un figlio cui trasmettere le mie conoscenze…”
Il ragazzo col codino aveva inghiottito a fatica il suo oden. Quelle parole… erano uscite veramente da quella bocca?! E sembravano sincere!… Si trattava veramente di Genma Saotome, l’idiota del suo vecchio?! Era ormai evidente, sua madre era riuscita a compiere su quell’uomo un vero miracolo, in quegli anni…
Si rigirò ancora una volta sul futon. Non poteva chiudere occhio. C’era riuscito nel ryokan, in quel caso la stanchezza del viaggio aveva prevalso su tutte le proprie emozioni. Ma rivedere suo padre così diverso – e, soprattutto, sua madre – lo aveva sconvolto non poco. Aveva recuperato una parvenza di rapporto normale con lei – tale, cioè, da poterla guardare in viso senza temere di dover fare harakiri – da così poco tempo! Ed ora, ecco che lo considerava un perfetto sconosciuto. Pensare che lo aveva cercato disperatamente, quell’ultimo anno e passa – dopo che padre e figlio avevano sperimentato le Sorgenti Maledette e Genma aveva improvvisamente smesso di scriverle.
E lui, lui le era sfuggito in tutti i modi possibili ed immaginabili. D’altronde, ci teneva a rimanere in vita… Poi era successo, Nodoka aveva scoperto il suo segreto… e lui respirava ancora. Maledizione, quanti mesi sprecati! Ad evitarla, evitare sua madre – come se non le volesse affatto bene. Rimpianse quei tempi: ora che sapeva, sarebbe voluto tornare indietro per potersi comportare diversamente… Quel suo sguardo cortese, gentile, ma freddo – diamine, come lo faceva star male. Cosa avrebbe dato per sentirla gridare ancora una volta il suo nome, per poter dare per scontato che lei lo stesse ancora cercando, per – per...
Si diede uno schiaffo. Come poteva essere così egoista, addirittura nei confronti di sua madre?! Chissà quante pene aveva patito! Ma adesso, adesso Nodoka Saotome non era più stata costretta a soffrire per quasi quindici anni, lontana dal suo unico figlio. Ranma cercò di convincersi, doveva essere lieto di ciò.
*Mamma… certamente sei stata più felice, in questa realtà… una realtà senza di me!*
Di colpo gli presero a luccicare gli occhi. Che stava succedendo? Lui… lui non doveva piangere. Un uomo non piangeva. Ed era tutta la vita, che lui si allenava per diventare un vero uomo e… ma tutto questo non aveva senso. Non più! A nessuno sarebbe più importato di quello che fosse diventato, non aveva più alcun obbligo da seguire. Libero! Doveva farsene una ragione. E ricominciare da capo… con la sua maledizione, certo, ma senza imposizioni.
Non aveva più fidanzate ufficiali o ufficiose, nemici che volevano fargli la pelle, una scuola di arti marziali da portare avanti, una palestra da prendere in dote.

Era libero.

Libero di scegliere il suo destino.

Lo era mai stato?

Ricordò gli anni trascorsi col padre, lontano da casa, tra cime innevate e inospitali, villaggi sperduti nei confini della civiltà. Ripensò ai lunghi mesi di sacrifici, stenti e digiuni. E di durissimo addestramento. Ricordò le parole del nuovo Genma (“…obbligandoti a fare cose che, magari, non volevi…”). Mai una pausa, mai una sosta. E tutto questo… per cosa? Per qualcosa che voleva lui, forse? Non era così. Non l’aveva scelta Ranma, quella vita. Le arti marziali non erano nate in lui come una passione. Erano penetrate in lui con forza, costituivano l’unica realtà praticabile. Non aveva alternative. Così, fin da piccolo, si era convinto di essere nato per combattere. Non aveva che una maniera, per dare un senso a ciò: diventare il migliore, il più forte. Era quello che desiderava, gli ripeteva continuamente, suo padre. Era, evidentemente, ciò che desiderava pure Nodoka: altrimenti perché avrebbe lasciato partire il marito col figlio?
Da sempre, erano gli altri a decidere per lui. Anche negli ultimi tempi, non aveva certamente scelto di propria volontà di fidanzarsi con quattro ragazze contemporaneamente. Poteva essere per le stolte promesse paterne, per le ridicole leggi di un villaggio sperduto nel più remoto angolo della Cina, per la follia pura di una che si autonominava come propria fidanzata. Certamente, non era stato lui a fidanzarsi con nessuna di loro.
Basta! D’ora in avanti avrebbe agito di testa sua. Avrebbe operato le proprie scelte, preso le proprie responsabilità, compiuto i propri errori, pagato le conseguenze di questi – e forse sarebbe finalmente maturato, sarebbe diventato un vero uomo – ma nel vero senso della parola.
Tutto questo significava abbandonare coloro che conosceva.
Dopotutto, le loro vite erano migliorate, senza la sua esistenza.
Ukyo Kuonji aveva condotto una vita normale, col padre. Non aveva dovuto rinunciare alla propria femminilità e nello stesso tempo non aveva trascurato ciò che più contava al mondo per lei: le okonomiyaki. Genma Saotome era quasi divenuto un brav’uomo, non si poteva chiedere di più. Nodoka aveva vissuto tranquillamente col marito, senza angustiarsi per un figlio che non le avrebbe procurato che sofferenze. Ryoga Hibiki, beh, lui era il solito piagnone, era rimasto uguale: che avesse o meno incontrato tale Ranma Saotome, avrebbe sempre continuato a commiserarsi e ad essere l’Eterno Disperso. Comunque non si trasformava in un maialino: questa, a detta dello stesso, costituiva la peggior disgrazia che gli fosse capitata, la causa principale della propria infelicità. Bene, Ranma era sicuro che il suo amico-nemico, adesso, non sarebbe mai riuscito a scagliare quei potenti Shishi Hokodan d’un tempo.
E gli altri? Shampoo e Mousse erano sicuramente rimasti in Cina, a Joketsuzoku. L’atmosfera in casa Tendo era, di certo, molto meno movimentata. E Akane… Akane doveva avere ancora i capelli lunghi, Saotome l’avrebbe probabilmente vista lottare ogni giorno con decine di ragazzi per entrare al Furinkan, odiare con tutta l’anima i maschi e nello stesso tempo spasimare per il dottor…
Cambiò pensiero. Non poteva trattenersi in quella casa un minuto di più. Doveva rompere i legami col passato. Non ci voleva molto ad andarsene: non c’era nemmeno uno zaino da preparare, questa volta. Uscì dalla finestra, senza fare rumore.
Avanzò qualche metro, quindi si voltò. A vedere un’ultima volta casa sua. E invece vide il volto di sua madre. L’aveva seguito e lui non se ne era nemmeno accorto. Ora sì che la teneva abbassata, la guardia. Troppo emotivo, forse Shingo aveva ragione pure su questo.
“Ranma.” disse lei.
“Ecco… io…”
“Non dire niente.” continuò Nodoka. “Capisco che qualcosa turba il tuo animo… Non ho intenzione di chiederti perché ci lasci in questo modo, né dove sei diretto: sappi solo che non è mai bene cercare la solitudine, per risolvere i problemi che ci angustiano… Non fuggire coloro cui vuoi bene, che ti vogliono bene: non si tireranno mai indietro, saranno sempre disposti ad affrontare i tuoi ostacoli insieme a te.”
Ranma si sentì provato, dal vorticoso circolare di emozioni che non lo mollava un istante.
“Ma io… non posso!” sentì l’improvviso bisogno di confidarsi. “Anche se non voglio, finisco sempre per fare loro del male, sono sempre la causa dei loro guai, delle loro sofferenze… questo vale anche per i miei genitori, li ho delusi profondamente.” mormorò, pensando alla propria maledizione.
“Ascoltami.” Nodoka lo fissò a fondo. “Il tuo cuore è limpido, ti si legge in viso che sei un bravo ragazzo: sono sicura che sarei felice, orgogliosa – non delusa – se potessi avere un figlio come te.”
La commozione stava prendendo il sopravvento sul ragazzo col codino.
“Grazie.” disse con un alito di voce, guardandosi le scarpe, lo sguardo coperto dalla folta chioma. “Grazie di tutto. E addio.”
Corse via, ancora deciso a farsi una nuova vita, ma ignaro che i suoi passi lo stavano dirigendo verso un piccolo sobborgo di Tokyo, chiamato Nerima.
“Arrivederci…” accennò la madre con un muto movimento delle labbra. 



 
¹ Genma adopera questa tecnica nel manga, quando si rende conto che il figlio è ormai diventato più forte di lui. Consiste nello stringere Ranma in un forte abbraccio e coccolarlo, dondolandosi come fa un... panda con il suo pneumatico! Mossa molto pratica, dal momento che Ranma non sopporta assolutamente questo atteggiamento da parte di suo padre.

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Capitolo 7
*** Indian summer ***


PART SEVEN –

“INDIAN SUMMER” ¹



Il sole aveva preso a levarsi in cielo, risplendendo per le vie con la sua luce diffusa. I raggi luminosi accendevano di vita, poco a poco, ogni cosa. Case ed alberi mutavano in nuove gradazioni di colori, mentre le strade, all’inizio deserte, cominciavano lentamente ad affollarsi. Gli uomini varcavano le soglie delle loro abitazioni, incoraggiati dal saluto affettuoso delle loro famiglie: ricaricati, grazie ad una buona notte di sonno, dalle fatiche del dì precedente, pronti a nuove lunghe ore di lavoro. L’inizio di un nuovo giorno. L’inizio di una nuova vita.
Saltellava per la solita ringhiera, quella che costeggiava il fiumiciattolo che attraversava in pieno un piccolo quartiere della periferia di Tokyo. La stessa strada che percorreva ogni pomeriggio, quando tornava da scuola assieme alla fidanzata. Ma Ranma, questa volta, era solo.
Incrociò alcuni ragazzi con indosso la divisa scolastica dell’istituto superiore Furinkan. Era ora di scuola. Quotidiana routine… che adesso non gli apparteneva più. Perché era tornato in quei posti che gli rievocavano tante cose, troppe cose? Ricordare non gli giovava affatto. Anzi, aumentava il suo dolore. Quale senso aveva rivivere nella propria mente eventi che – che non erano mai avvenuti?! Non faceva più parte di quel mondo, doveva rendersene conto. Solo. Altro che Ryoga. Questa era vera solitudine, nemmeno il proprio passato, a fargli compagnia.
Arrestò il passo. Fissò altri ragazzi che provenivano in direzione opposta alla sua. Tra questi riconobbe Hiroshi e Daisuke. Il movimento della mano fu istintivo: alzò il braccio, meccanicamente teso ad eseguire un normale gesto di saluto. Ma trattenne l’arto a mezz’aria. Loro non l’avrebbero riconosciuto. Non potevano. Lui non esisteva. Che gli stava saltando in mente, di salutarli?! Non doveva interferire. Si avvicinavano. Rimase immobile. Portò il braccio ribelle dietro la nuca, affiancato dal compagno, nella solita posa strafottente. Chiacchieravano del più e del meno. Sempre più vicini, cartelle sulle spalle. L’aspetto di sempre. Tranne che per le teste, stranamente rasate a zero. Continuò a fissarli. Eccoli, al suo fianco, le loro teste all’altezza delle sue gambe, dal momento che Ranma continuava ad ergersi sulla ringhiera. Avvertì il minimo spostamento d’aria generato dal loro passaggio. Lo superarono senza la minima esitazione... ed il giovane col codino, per la prima volta in vita sua, si sentì invisibile
Scese sulla strada. Fece due passi in avanti. Si fermò ancora una volta. Nessuno al mondo notava in quel momento alcuna differenza, pensò, se lui camminava o no. Le foglie degli alberi sempre più morti cadevano comunque. La ringhiera continuava ad esserci, la strada continuava ad esserci, così come pure, sicuramente, la casa in direzione della quale stava camminando. Poteva fare qualunque cosa, sarebbe sempre rimasto un estraneo. Muto spettatore della vita. Un bel colpo da digerire per lui che era abituato ad essere al centro dell’attenzione. Indubbiamente.
Si sbottonò il collo della giubba cinese. Dovette riconoscere che la temperatura si era fatta più mite. L’aria era limpida e trasparente, come in altri tempi. Ed il sole splendeva indisturbato. Il ragazzo col codino ritrovò una ventata di ottimismo. Socchiuse le palpebre. Fantasticò su un Kuno che, alla vista di quella scena, non avrebbe sicuramente fatto a meno di decantare il profumo frizzante dei ciliegi in fiore, atto ad ispirare l’amore casto e allo stesso tempo passionale di giovani donzelle pure ed ingenue... ed altre simili fesserie targate Tatewaki. Abbozzò un sorriso. Trovò finalmente un accenno di buon umore. Doveva guardare al futuro, adesso. Che vita era mai, quella sempre e solo orientata alla memoria di ciò che non era più?! Ranma Saotome era morto e sepolto. Lui era finalmente libero.
Forse la cosa migliore da fare era tornare sui propri passi. Ma ormai si trovava a pochi metri dalla meta tanto ambita, fino a due giorni prima. La scuola dei Tendo era lì, vicinissima. Tanto valeva controllare che tutto andasse bene. Verificare come la vita degli altri fosse più felice, in questa realtà.
E finalmente la vide. Casa Tendo. Un poco malandata, strano! Non che non lo fosse stata continuamente, quando c’era lui: il tetto aveva risentito più volte dei continui squarci provocati dai voli in orbita suoi o di Happosai. Le pareti, poi, erano sempre piuttosto decrepite per via dei petardoni del vecchiaccio. E come dimenticare lo scontro tra Rouge e Taro²? I restauri, in quel caso, avevano necessitato parecchi giorni – tanto più che gli era toccato riparare una seconda volta di persona le parti aggiustate da Akane… Quante lacrime aveva versato Soun! Ci teneva quell’uomo, alla sua casa. Ancora peggio era andata il giorno del matrimonio fallito: per poco non crollava l’intera abitazione, in seguito all’esplosione dell’happodaikarin special di quel maledetto…
Adesso, però, non c’erano né duelli né continui scontri che potessero motivare quello stato decrepito dell’abitazione. In verità, la dimora più che danneggiata appariva… trascurata? Inoltre pareva mancasse qualcosa. Ma cosa?!
“Noi andiamo!”
La voce di Nabiki. Che puntualmente usciva di casa, seguita da un’altra figura, ancora semiavvolta nell’ombra dell’uscio. Tutto come prima che lui facesse il suo arrivo dai Tendo. Il suo primo proposito fu quello di balzare sopra un albero, sperando che le due ragazze non avrebbero guardato in alto. Non voleva farsi vedere. Non aveva scordato i suoi propositi della notte precedente, la decisione di non interferire in alcun modo nella vita delle persone cui teneva. Quando, però, la giovane dai profondi occhi nocciola scuro e con lo sguardo puntato verso il basso, in direzione della cartella che stringeva con ambo le braccia per il manico, uscì dal cancello, la risolutezza di Ranma scomparve tutta d’un colpo.
“Akane, che fai? Muoviti, lumaca, od arriveremo tardi!”
“Eccomi, Nabiki.”
E si avviò, con passo stranamente calmo. Ma come, tutta quella foga che la caratterizzava la mattina presto, ce l’aveva solo con lui?! Del resto, la cosa non lo riguardava affatto. Magari lei era felice perché sapeva che quel giorno avrebbe visto il suo dottore… Il cuore, citando all’inverso le stesse parole di Akane di molto tempo prima, non se lo era certo messo affatto in pace. Visto che poteva ancora contare di “competere” con propria sorella Kasumi, esibendo la propria chioma… corta?! Un momento, qualcosa non tornava. Come mai Akane portava il solito taglio da maschiaccio? Cioè, non che la cosa gli dispiacesse molto, anzi così era ancora più car… Ma non era questo il punto! Dal momento che una ragazza col codino non aveva mai fatto la propria comparsa a Nerima, un pazzo con la bandana non poteva averla inseguita fin lì. L’incontro con Ryoga non aveva avuto luogo, Akane non vi si era intromessa. Hibiki non le aveva tagliato i capelli. E allora perché?!…
Mentre Ranma era ancora immerso in questi pensieri, la ragazza dai capelli castani a caschetto lo oltrepassò. Nemmeno se ne accorse. E non avvertì l’occhiata fulminea che quella gli aveva rivolto con la coda dell’occhio. Un nuovo arrivato, valutò Nabiki. Da piuttosto lontano, a giudicare dagli abiti cinesi che portava. Il suo istinto da affarista le diceva che ben presto avrebbe realizzato ottimi affari.
E lei si avvicinava. Non l’avrebbe riconosciuto. Non avrebbe potuto. Beh, cosa gli importava? Di quella stupida racchia dai fianchi larghi, di quel maschiaccio nevrotico, di quel… Smise improvvisamente di pensare. Non ne era più in grado. Akane era proprio di fianco a lui, lo sguardo sempre puntato verso il basso. Il cuore di Ranma pulsava nell’agitazione più totale. Desiderò che lei si fermasse, alzasse il viso, lo riconoscesse. Sentì il bisogno di litigare con lei. E poterle così rivolgere ancora una volta la parola… No, non poteva fargli questo! Non poteva ignorarlo!

Ma Akane lo passò.

Non si era nemmeno accorta della sua presenza, assorta in chissà cosa. Eppure non pareva serena. Forse, dopotutto, non pensava a Tofu.
Ranma strinse il pugno. Chi voleva prendere in giro? Se stesso, forse? Ma già da Ryugenzawa aveva scoperto di non poter fare a meno di quella stupida… e l’ultima volta sul monte Hooh era finalmente riuscito a dare un nome a quello strano sentimento che lo faceva star bene quando litigava con lei, o quando semplicemente si trovavano insieme. Che gli accelerava follemente il battito cardiaco se solo gli sorrideva. Che lo spingeva a dare tutto pur di saperla al sicuro. Che poco alla volta aveva incrinato il muro titanico da sopra il quale aveva da sempre guardato gli altri, gli aveva fatto assaporare più di una volta sensazioni nuove quali l’umiltà. E gli aveva fatto perdere il senso di una vita dove lei non esistesse… già una volta, a Jusenkyo; ancora un’altra, a Yakuzai. Chi voleva ingannare?
Rimase, non seppe quanto, impalato in silenzio con lo sguardo completamente assente. Nessun suono uscì dalle sue corde vocali. Chi gli fosse stato vicino, avrebbe potuto però udire distintamente un crac. Non erano i muscoli, pur tesi: era il cuore, che gli era andato in pezzi… Guardare al futuro, certo. Ma che futuro era, senza quel maschiaccio?!… Comunque fosse, doveva farsi forza, essere uomo e proseguire per la sua strada: constatare che, senza di lui, lei c’era lo stesso… e non poteva stare che meglio… anche se quel suo sguardo… sembrava… malinconico…

Attraversò il piccolo cortile. Non poté non meravigliarsi dell’inconsueto silenzio che troneggiava nei dintorni. Altra prova, pensò, che la vita senza di lui non era più una continua burrasca. Casa Tendo aveva trovato la pace, perché formarsi tante congetture? La realtà era che stava diventando paranoico.

Cosa mai poteva andare storto, senza un ragazzo col codino?

Lanciò un’occhiata allo stagno, si decise dopo non poche titubanze a farsi vedere dal padrone di casa, seduto sul soggiorno che dava appunto al laghetto compagno di tante trasformazioni… Cosa gli avrebbe raccontato? Beh, sarebbe riuscito ad improvvisare! Avrebbe fatto uso della sua innata abilità di attore.
Si avvicinò fino a pochi passi dal capopalestra.
“Uhm, signor Tendo.”
Nessuna risposta. Gli occhi lunghi e stretti dell’uomo baffuto non fissavano nessun punto dello spazio in particolare. Aveva un’aria afflitta. Fin qui, nulla di nuovo. Ma nessuna lacrima gli rigava il volto. Sembrava più che altro… spento?
“Signor Tendo.” provò una seconda volta. Ancora niente. In compenso, gli venne incontro una ragazza dai capelli lunghi e raccolti da un fiocco, tutta sorridente.
“Benvenuto.” disse con tono cordiale. “Il mio nome è Kasumi Tendo.”
Lei sembrava indubbiamente quella di sempre.
“Ti prego di perdonare mio padre: è un poco depresso e, dunque, con la testa fra le nuvole.”
“N-no.” balbettò lui, spiazzato dalla situazione. “Fa niente.”
Ranma non sapeva come comportarsi. Aveva appena pianificato mentalmente una bozza di discorso da rivolgere a Soun, ma quello ancora non si era nemmeno accorto della sua presenza. Già, cos’era però a renderlo tanto estraniato? Era come se niente di quello che scorreva davanti ai suoi occhi avesse più un senso. Ma perché mai?!
Kasumi si accorse dell’imbarazzo del giovanotto che si trovava di fronte. Alzò lo sguardo al cielo limpido e sereno.
“Oggi è una splendida giornata di sole, non trovi?”
Ranma si voltò anche lui, di malavoglia.
“Mmh… già, una bella giornata.” rispose, nonostante il sole fosse l’ultimo dei suoi pensieri, in quel momento.
Quando riportò lo sguardo sulla maggiore delle sorelle Tendo, la sua attenzione fu inevitabilmente calamitata dalla tazza fumante che la ragazza gli porse con grazia.
“Sarai assetato, vuoi del tè?”
Cara dolce Kasumi! Si trovava di fronte ad un perfetto sconosciuto, eppure – eppure ecco che, senza nemmeno chiedergli chi fosse e perché si fosse presentato in quella casa, gli offriva tutta la propria ospitalità: neanche fosse stato il migliore degli amici, per quella famiglia. Non c’era che dire, quella ragazza riusciva a sorprenderlo ogni volta. Il giovane col codino sbuffò impercettibilmente, le usanze della famiglia Saotome insegnategli dal padre non corrispondevano propriamente a queste.
Si guardò attorno. Scorse capi di biancheria intima femminile sparsi dappertutto. Il marchio inconfondibile del vecchiaccio. E il disordine regnava sovrano. Come se ciò non fosse di per sé sufficiente, le pareti erano piene zeppe di scarabocchi vari. Happosai non sembrava essere in casa, molto probabilmente era fuori per una delle sue sortite oppure, ancora più probabilmente, a smaltire una delle sue sbornie. Come al solito. Eppure… quel disordine pareva eccessivo: come se la stessa Kasumi, quella Kasumi che gli sorrideva tuttora, si fosse rassegnata una volta per tutte all’idea di ripulire l’abitazione dall’atmosfera sordida che l’ultracentenario si portava appresso. Nemmeno le bombe alla muffa che, tempo prima, Happosai aveva usato per rimpiazzare i consueti petardoni, in verità, erano riuscite a creare un simile squallore.
Ranma sorseggiò un poco del tè offertogli da Kasumi. Non riusciva a non sentirsi a disagio, nonostante tutte le premurose attenzioni della sua ospite.
“Come sei giovane, sei forse un amico di Akane o Nabiki?”
“Uhm, non proprio: in realtà io…”
Furono interrotti dal gracchiare di un nuovo arrivato.
“Sono a casa.”
Dice un detto, parli del diavolo ed ecco che ne spuntano fuori le corna. Mai poteva essere più appropriato, per quel demone che aveva appena fatto il proprio ingresso.
“Oh, buongiorno signor Happosai.” lo accolse la maggiore delle Tendo. Mentre Soun non aveva mosso un ciglio.
“Allora, quando si mangia?! Io ho fame!” protestò il vecchietto, infischiandosene di qualsivoglia regola della buona educazione.
“Subito, signor Happosai.” gli sorrise Kasumi. “Le sue takoyaki sono sul tavolo, belle calde.”
“Mmm, sarà bene.”
“Inoltre ci sono quegli shumai che le piacciono tanto: conditi col succo di mirtilli, come mi aveva chiesto lei.”
L’anziano maestro di arti marziali si accese di un potente ki.
“Succo di mirtilli?! Lo volevo di lamponi! Possibile che in questa casa un povero vecchio non possa mai venire rispettato come si deve?!” sbraitò furioso.
“La prego, si calmi.” accennò lei.
“Calmarmi?! Dovrei calmarmi?!” si rivolse all’uomo di casa. “Soun Tendo, è così che hai educato le tue figlie? Allora sei un fallimento: non solo come artista marziale, ma anche come padre.” Quello incassava, senza proferire parola.
“Per farmi perdonare, le preparerò subito nuovi shumai col succo di lamponi. Che ne dice?” sorrise Kasumi, come se quella scena fosse tutt’altro che straordinaria, in casa Tendo.
“Mmm, allora vai! Ma non pensate di cavarvela così a buon mercato. Oggi a cena esigo una doppia razione, inoltre stasera qualcuno mi dovrà fare un massaggio come si deve, chiaro?!”
Ranma, fino a quell’istante, era riuscito con grande sforzo di volontà a tenersi in disparte. Ovvio, il suo mancato arrivo al dojo Tendo non aveva pregiudicato in alcun modo il successivo insediamento del vecchiaccio. Ma, si chiese, era possibile che nessuno si opponesse in alcun modo alle sue prepotenze?! Neanche Soun, con la sua solita falsa riverenza? Nemmeno la stessa Akane?!… Comunque stessero le cose, non doveva interferire in alcun modo. Lui non apparteneva più a quella realtà. Non doveva interferire.
“Ora basta, vecchiaccio! Come ti permetti di tiranneggiare, neanche fossi il padrone qui!”
Happosai si voltò lentamente. Accarezzò i baffetti bianchi e sottili.
“E tu chi saresti? Certamente un povero sprovveduto, dal momento che hai osato contrastarmi… Vediamo se ti saprò insegnare una bella lezione di vita per l’avvenire.”
Detto questo, si scagliò furibondo, con la solita pipa in mano, contro il ragazzo vestito alla cinese, avvolto di un’aura incandescente. Ma Ranma non fu affatto colto alla sprovvista, anzi.
“Hiryu Shotenhaaa!“
“Che – che cosa? Questa mossa l’ho già vista una volta, credevo che la conoscesse solo la mia amata Coloooohhh!”
Il vecchio, completamente spiazzato, volò via, imprigionato in un vortice d’aria. Ranma teneva fieramente il braccio destro alzato, ed il pugno chiuso. Soun tremò impercettibilmente. Kasumi s’incupì, temeva di aver compreso come sarebbero andati evolvendo gli eventi.
“Tu… tu sei… un artista marziale?” chiese a Ranma.
“Ecco… proprio così.” rispose lui, pensando di sfruttare la situazione per giustificare finalmente la propria presenza. “Sono giunto qui da molto lontano apposta per incontrare Soun Tendo, il capopalestra della famosa scuola di arti marziali indiscriminate di cui avevo sentito tanto parlare…”
L’espressione di Kasumi mutò nella tensione più totale. L’uomo più anziano cominciò a frignare rumorosamente.
“Papà, non fare così!” cercò di calmarlo la figlia maggiore. Dunque si girò accigliata verso il giovane forestiero spaesato. Ranma non ricordava di averla mai vista tanto turbata.
“Ti prego di andartene.”
“Ma… cosa ho…”
“Per favore, qui siamo impegnati: se non hai altro da dirci, puoi anche farne a meno.”
“Ka-kasumi…”
“Buongiorno.”
Quel tono non ammetteva repliche. Pochi istanti più tardi, si trovava a balzare per i tetti del quartiere, intontito e confuso. Doveva assolutamente riordinare le idee.
Cacciato fuori di casa dalla dolce Kasumi. Senza alcun motivo apparente. Non aveva senso. Eppure era appena successo. Fu riscosso da una folata improvvisa di vento, gelida, questa. Che lo riportò alla realtà. Scese sulla strada. Era arrivato all’ingresso del parco. Si sedette su una panchina. Attorno a sé i ciliegi non erano affatto in fiore. Le ultime foglie stavano finendo di giacere, fragili, al suolo: le piante erano quasi completamente spoglie. E se il cielo continuava a rimanere sereno, veniva tuttavia offuscato dal fitto intrico dei rami ormai anneriti. L’autunno non era più alle porte. Era già penetrato in tutta la sua calma violenza.
Effettivamente sentiva che qualcosa non andava… Non era tanto lo strapotere assunto da Happosai, a turbarlo. Né la folle reazione di Kasumi e del padre, di per se stessa. C’era sicuramente qualcosa di ben più terribile, che aveva portato a questo. Lui doveva aver toccato un tasto dolente. Ma quale? Mancava un elemento, nel quadro d’insieme: ne era sicuro. L’assenza di una cosa che doveva invece esserci… Si sforzò di ricordare tutta quanta la sua visita a casa Tendo, senza trascurare alcun particolare di ciò che aveva – e non aveva – visto. E finalmente si rese conto di quello che non andava.

Di cosa mancava.

L’insegna della palestra.



¹ “Indian summer” corrisponde alla nostra “estate di San Martino”, caratterizzata da giorni sereni e temperature miti. Ci si dimentica che è autunno inoltrato. L’ultima illusione di estate…

² Accade in un episodio del manga. Collant Taro viene inseguito fino in Giappone da una certa Rouge, ragazza caduta nella fonte di Jusen dove annegò il dio indiano Asura, intenzionata a riprendersi a tutti i costi una fantomatica "fonte della forza"... che si rivelerà consistere in cerotti magnetici contro il mal di spalle -.-

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Capitolo 8
*** Interlude ***


PART EIGHT–

“INTERLUDE”




L’istituto superiore Furinkan. L’orologio posto al centro dell’imponente struttura segnava l’orario della fine delle lezioni. Ed il cancello si aprì, mentre la campanella aveva cominciato, puntuale, a suonare.
Era ora, non ne poteva più di tutta quell’attesa! Sarebbe potuto entrare facilmente nell’aula dell’ultimo anno, saltando di albero in albero. Ma non voleva attirare su di sé troppa attenzione. Ancora stava tormentandosi per il modo così ingiusto in cui era stato cacciato fuori di casa Tendo da Kasumi: quel vero e proprio evento bruciava più di una ferita in un animo come il suo, già normalmente tanto tempestoso ed ora tale più che mai. Non aveva commesso niente di sbagliato. Eppure aveva fatto adirare Kasumi. Rifletté. Questo era successo dopo che le aveva rivelato di essere un artista marziale e, di conseguenza, fatto cenno alla scuola di lotta indiscriminata. Già, la palestra. L’insegna della palestra era scomparsa, probabilmente le due stranezze erano collegate: e Ranma voleva assolutamente scoprire cosa fosse avvenuto… ma allo stesso tempo era ben consapevole che non sarebbe dovuto incorrere negli stessi errori di prima, per di più, stavolta, davanti ad una persona acuta come Nabiki Tendo. Le avrebbe dunque nascosto in ogni modo di praticare le arti marziali. Non doveva fare passi falsi. Con lei sarebbe stato ancora più difficile. Ma poco importava. Lei era la sola. L’unica persona che gli potesse spiegare cosa fosse accaduto.
Entrò finalmente nel cortile. Quindi si lasciò sfuggire una smorfia di disgusto. Orrendo, lo spettacolo che gli si era parato dinanzi.
Palme dappertutto. E ritratti del preside. Dovunque. Statue raffiguranti il suo stupido volto sghignazzante. Statue che lo raffiguravano nelle pose delle opere d’arte più famose. Già disgustosa appariva la versione del Discobolo con la sua faccia e un ananas al posto del disco. Ma la testa di Koccho Kuno inserita nel busto della Venere di Milo – beh, questo lo fece nauseare più di ogni altra cosa.
Ranma si inoltrò maggiormente, mentre i primi ragazzi cominciavano ad uscire dall’edificio. Superò alcuni capoccioni raffiguranti una facciona sorridente ed abbronzata, modellati su quelli ben più solenni dell’Isola di Pasqua. Al centro esatto del cortile troneggiava un’enorme pseudo-Statua della Libertà con indosso gli occhiali da sole ed una camicia hawaiana. Happosai non era, evidentemente, l’unica persona a profittare della sua assenza da Nerima. Proprio in quell’istante, due puntini rossi illuminarono le lenti degli occhiali del monumento ed una telecamera nascosta entrava in azione.
*Mmh, percepisco una minaccia.*
Il sesto senso non tradì Ranma nemmeno questa volta. Una piccola palma sbucò dal capo di un’altra statua, questa volta a grandezza naturale. E che si svelò non essere affatto una statua, dal momento che si stava lanciando contro al giovane Saotome, attaccandolo con un affilato rasoio.
“No, no, no! Very, very bad! Quel tuo lungo codino non è ammesso nella mia school, non le conosci le regole?”
“Maledetto!” si rivolse lui a quella sottospecie di un preside. “Guarda che non sono affatto uno dei tuoi studenti… almeno non più.”
“Non c’entra, you sei diventato un mio student nel momento stesso in cui hai messo piede qui: now preparati ad un beautiful scalpo!”
“Questo è quello che vedremo!”
Cominciarono a combattere. Ranma schivò facilmente il rasoio del preside del Furinkan, quindi lo spedì in aria con un potente calcio. Il tutto in pochi secondi.
*Più facile del previsto!* convenne, soddisfatto di sé.
Non aveva, però, previsto un particolare. Una gran folla di studenti si radunò velocemente attorno a lui e lo applaudì festosa. Mentre, al contrario, un gracile ragazzo dall’aria furtiva andava in tutt’altra direzione.
Ranma si maledisse. E sì che non doveva attirare su di sé l’attenzione degli altri… il proposito non aveva avuto un grande successo.
*Accidenti, adesso come devo comportarmi?*
Un altro pensiero finì poi per prendere il sopravvento. I suoi compagni… ex compagni di scuola… Com’erano conciati?! Fissò con meraviglia le teste rasate a zero degli studenti maschi, e le capigliature cortissime delle ragazze, tipo quelle di Akane e Nabiki. Si ricordò di come aveva trovato Hiroshi e Daisuke, quella mattina.
“Perché siete combinati così?” chiese ad uno studente.
“Colpa di una disposizione del preside.” rispose quello. “Ci ha obbligati, a meno che non avessimo trovato una dispensa speciale, mostrandoci meritevoli della sua stima.” Si massaggiò il capo. “Ma, come vedi, non ci siamo mai riusciti.”
Ora tutto era chiaro. E la mente del giovane Saotome rievocò il malaugurato giorno del ritorno del preside dalle Hawaii: la dispensa, in effetti, l’avevano trovata e dopo non poche difficoltà lui e Akane… Akane! Anche lei portava i capelli corti, eccone il motivo – ma possibile mai che si fosse sottomessa alle folli disposizioni del degno padre di Kuno e Kodachi?! Strano! No, questo non era da Akane…
Non poté continuare le proprie riflessioni. Il pazzo vestito all’hawaiana era tornato alla carica.
*Ecco, era appunto troppo facile!* sbuffò Saotome.
Gli studenti si sparpagliarono per il cortile, mentre il preside cominciò a lanciare i suoi ananas esplosivi. Ranma schivò anche questi, balzando all’indietro più volte.
Il ghigno del preside si allargò ulteriormente.
Very good! Sei proprio dove ti volevo.”
L’adolescente con la camicia cinese sentì appena queste parole. Mentre il preside premeva il bottone di una specie di telecomando, il pavimento ai suoi piedi cominciò a tremare vorticosamente.
Do you know cosa si trova sotto di te?”
Ranma non fece in tempo a spostarsi.
“Se your answer era: le tubazioni dell’acqua, allora hai indovinato! Ha ha ha!”
Il disgraziato fu travolto in pieno da un potentissimo getto d’acqua.
You see, questo è il metodo usato alle Hawaii per raffreddare i bollenti spiriti delle teste calde come la tua.”
Ranma-chan fu balzata in aria. Ed atterrò fortunosamente sopra una delle decine di palme finte che riempivano il cortile. Bene così. Non era il caso di mettere ancora una volta tutta quanta la scuola a conoscenza della propria maledizione. Ma come avrebbe fatto ad affrontare il preside senza far capire agli altri che le sue forme adesso erano diverse?

“Cos’è tutto questo trambusto?” chiese un ragazzo dai vestiti antichi, dalla folta capigliatura e dal portamento elegante, attorniato da quella cerchia dei membri del club di kendo che costituivano i suoi fedeli.
“Non sappiamo, Kuno senpai.” rispose uno di costoro.
“Bene, che aspettate? Andate a vedere e quindi informatemi.”
Non ce ne fu, però, bisogno. Un giovane dall’aspetto pallido, smilzo quasi da parere denutrito, marcato dalle profonde occhiaie che gli rigavano il volto, stava infatti accorrendo dalla loro parte. Nascosti solo all’ultimo momento in tasca i feticci per le maledizioni raffiguranti le sembianze di Tatewaki, con tanto di spilloni già infilzati, si preparò a raccontare gli ultimi sconcertanti eventi.
“Senpai, è incredibile!”
“Cosa è incredibile? Spiegati!”
“Ecco, il preside del nostro istituto” disse Gosunkugi “sta venendo proprio in questo momento messo in seria difficoltà da un nuovo arrivato.”
“Un nuovo arrivato?” ripeté Kuno.
“Proprio così. Non dev’essere di questa scuola, almeno io non l’ho mai visto prima: veste strani abiti, porta un lungo codino e, proprio per questo motivo, il preside lo ha attaccato con i soliti rasoi. Solo che – insomma, sembra sia stato sconfitto!”
I membri della squadra di kendo avevano preso ad alimentare un fastidioso brusio generale di voci. Il loro capitano deglutì a stento, capiva l’importanza che potevano assumere quegli eventi. E già osservava intorno a sé il proprio prestigio cadere in declino.
“Questo è inammissibile!” si affrettò a gridare, sovrastando i compagni. “Nessuno può permettersi di combattere contro il preside dell’istituto superiore Furinkan, eccetto il sottoscritto: Tatewaki Kuno, altrimenti noto a tutti come il Tuono Blu.”
“Eppure qualcuno lo sta facendo.” replicò con tono indolente una giovane studentessa, portandosi stancamente una mano ai propri capelli a caschetto.
“Taci, i tuoi modi arroganti non mi toccano affatto.” ribatté Kuno. “Sono io il più forte qui, mi sembra fuori di dubbio.”
“E allora perché non sei ancora riuscito a sistemare il tuo paparino, finora?” fece lei, socchiudendo le palpebre.
Kuno esitò un istante. Dunque si avvicinò alla ragazza, finché non vi fu a quattr’occhi.
“Nabiki Tendo, ti odio con tutta l’anima.”
“Il sentimento è reciproco.” disse l'altra, senza scomporsi.
Ridicolizzare quell’idiota vestito da samurai era il suo passatempo preferito. Certo, badava a non calcare troppo la mano. Dal momento che Kuno costituiva, d’altro canto, una delle sue maggiori fonti di guadagno.
Sebbene, mai come quell’altro giovanotto incontrato da poco tempo…
“Comunque il migliore sono io!” riprese intanto Tatewaki. “Chiaro?!”
Puntò il bastone da kendo verso il cuor di leone del gruppo: il quale non poté che assecondare il suo interlocutore.
“Ma certo, Kuno senpai!” esclamò Gosunkugi. “Lo sappiamo bene che sei tu.”
“E non dovete dimenticarlo!” ringhiò lui. “Da quando quel meschino individuo è tornato dal suo viaggio alle Hawaii, io solo sono stato risparmiato dal suo losco piano di rasare a tutti le teste a zero: segno che quell’uomo mi teme, si è reso subito conto con chi ha a che fare. Ragion per cui, è su di me – solo su di me, che dovete fare affidamento.”
Nabiki celò un sorriso sprezzante. Lei lo conosceva bene, il vero motivo per cui la nobile chioma del Tuono Blu era rimasta al proprio posto. Per non far prendere ancora più freddo a quel testolone già pieno di spifferi, vuoto e bucherellato com’era al suo interno. E, soprattutto, per celare la dispensa tatuata sul suo cranio, che avrebbe esonerato tutti quanti da quegli assurdi tagli di capelli. Bella informazione, questa. Che avrebbe venduto ad altissimo prezzo, non appena avesse giudicato essersi verificate le condizioni migliori per ricavarne il miglior profitto possibile.

Kuno si avviò verso il lato opposto del cortile, quello che a detta di Gosunkugi costituiva l’improvvisato campo di battaglia. Bene, avrebbe ancora una volta dato sfoggio del proprio indiscusso valore. Il cocchio sfolgorante dell’astro diurno, illuminando ogni cosa viva e non, avrebbe dato adito ai pochi fortunati di ammirarlo all’opera. E costoro si sarebbero presto dimenticati dello sconosciuto che si era preso la briga di sfidare quel degenerato di un preside, cui lui stesso era, purtroppo, indissolubilmente legato da un vincolo di sangue e la qual cosa gli aveva sempre impedito – quale animo generoso nonché magnanimo! – di umiliarlo una volta per tutte in pubblico. Già, nonostante un tale padre, si poteva affermare tranquillamente che egli, Tatewaki Kuno, era pressoché perfetto.
Eppure, eppure non era soddisfatto. Era certo il miglior spadaccino del mondo. Era ricco, nobile, fortunato e di bell’aspetto. Fragili e delicate donzelle smaniavano solo per potergli portare i libri, i loro ingenui cuoricini portati ad amarlo con tutta l’intensità e la passione di quell’effimera stagione della vita che è la giovinezza. Eppure… Chi l’avrebbe detto che lui, il Tuono Blu, era in verità infelice ed insoddisfatto?! Difficile a crederlo, ma era così.
Una cosa gli mancava. A lui! L’amore. Il vero amore. E dire che pensava di averlo trovato, credeva di avere individuato definitivamente la fanciulla che faceva al suo caso. Un fiore dolce e delicato. E nello stesso tempo forte e indomabile, con le sue spine. Ma lui era pronto a pungersi per l’eternità.
Boku no aka-ne bara..." mormorò con un lieve sospiro.¹
La sua rosa rossa. La sua rosa Akane. Unica, quella ragazza. E così solare.
Peccato. Peccato davvero, per quell’incidente. Anche i fiori più belli finiscono per appassire, pensò mentre aveva ormai raggiunto il centro del cortile.
Dove una figura nascosta tra le palme finte stava lanciando delle noci di cocco lì sopra appese, e queste vere, contro il preside. Era l’unico modo di attaccarlo senza farsi vedere. Ma le munizioni erano piuttosto limitate. Cavolo, possibile che, avendo l’incredibile opportunità di ricominciare daccapo una nuova vita, si stava ritrovando praticamente in tutte le situazioni di quella precedente?! Ranma sbuffò, un momento più tardi dovette schivare l’ennesimo frutto esplosivo lanciato dal basso. Il preside non desisteva. Come far cessare quell’assurda e ridicola battaglia?
“Fermi tutti!”
Il tono imperioso di Kuno sovrastò ogni rumore presente. Ma i due contendenti sembrarono ignorarlo. “Cut cut cut!” aveva preso a fare il preside, spezzando lentamente la base della palma con una sorta di scure. Si interruppe al suono di una sveglia da polso.
“Ho-ho! Break-time.” proclamò, mentre aveva cominciato a sorseggiare una tazza di caffé bollente, tirato fuori da un termos.
“Vuoi fare la persona seria, per una volta, idiota?!” gridò una voce spazientita il cui timbro parve agli studenti del Furinkan un po’ diverso da poco prima. Femminile, avrebbero potuto azzardare alcuni.
“Ok, ok! Don’t get angry! Fine della pausa pranzo.” E riprese ad armeggiare con la scure.
“Statemi a sentire!” continuò imperterrito il Tuono Blu. “Io Tatewaki Kuno vi ingiungo di…”
In quel preciso istante la palma crollò. Kuno fece appena in tempo a schivarla e non finirvi sotto. Ma non fu abbastanza veloce per evitare la ragazza dalla chioma fulva che gli stava balzando addosso, con qualcosa nel palmo della mano. Ebbe appena il modo di scorgerla.
*Una ragazza con una noce di cocco?!* pensò sbalordito, mentre rimaneva abbagliato dalla luce solare di cotanta visione. Un secondo più tardi, al contrario, vide le stelle.
Ranma-chan usò Kuno come trampolino: con un nuovo balzo andò verso il preside, a quel punto gli lanciò la noce di cocco che stringeva in mano disarmandolo. Approfittò del momento per versarsi addosso quello che era rimasto del caffé bollente e tornare uomo. Quindi, con un pugno deciso sferrato verso l’alto, spedì nuovamente il preside nella stratosfera. Tutto questo in nemmeno due secondi, non permettendo a nessuno di rendersi conto della sua trasformazione.
Gli studenti del Furinkan ripresero ad applaudirlo. Si guardò intorno. Scorse tutti quelli che conosceva. Anche Yuka e Sayuri, le quali si erano molto avvicinate a lui con gli occhi sfavillanti di ammirazione – nulla da dire, il suo fascino colpiva sempre, in qualunque realtà. Tutti quelli che conosceva. Tranne…
“Cerchi mia sorella? Lei si trova ancora dentro e vi rimarrà parte del pomeriggio, è il suo turno di fare le pulizie.”
Ma che diamine! Gli aveva fatto prendere un bel colpo. Pure lei si dilettava a leggergli nel pensiero, ora?! Era veramente così prevedibile, come gli aveva detto Shingo?… Dopo qualche istante di balbettamenti vari, si ricordò che era giunto al Furinkan apposta per incontrare lei. E non Akane. Per quanto, non riuscì a non volgere lo sguardo, per una frazione infinitesimale di secondo, verso la finestra che dava alla loro aula.
“A dire il vero” si ricompose. “Cercavo proprio te, Nabiki Tendo.”
La ragazza non si sbalordì affatto. Non si aspettava che quel forestiero conoscesse il proprio nome, ma ciò dopotutto non poteva significare altro se non il fatto che la sua fama stava estendendosi velocemente e ben oltre i confini di Nerima. Molti la cercavano. Anche se, dopo quell’incidente
Furono interrotti dal ruotare vorticoso di un nastro da ginnastica ritmica.
Nastro che lanciava per tutto il cortile petali di rosa nera.
Il tutto, mentre una pazza con indosso la divisa dell’istituto superiore femminile Saint Hebereke piroettava allegramente per la scuola.
“Uffa! Ecco che ci risiamo!” mormorò rassegnata Yuka.
“Oh oh oh oh oh oh! Gli studenti compiono il loro dovere quotidiano, consci e fieri della loro ignavia.” civettava una voce stridula ben nota. “Ma eccomi, quale imprevisto momento di caos atto a rendere eccitanti le loro squallide esistenze, raggio di luce teso a squarciare le nubi grigie che ottenebrano le loro insulse vicissitudini.”
Detto questo, ricominciò a saltellare stupidamente da una parte all’altra della scuola, lanciando vapori paralizzanti contro degli impotenti liceali.
“Cosa vuol dire?!” domandò Ranma.
“Quella che vedi” spiegò Sayuri “è Kodachi Kuno, detta la Rosa Nera: viene qui ogni giorno alla fine delle lezioni, per celebrare la sua grande vittoria nei confronti della nostra scuola: nel torneo di ginnastica ritmica marziale che si è tenuto più di un anno fa. Contro la nostra rappresentante, Akane Tendo.”



¹ “Boku no aka-ne bara” tradotto sarebbe “la mia rosa rossa” (Kuno usa il termine "boku" anziché "watashi"). Ma mi sono permesso di giocare sul doppio senso della parola “akane” (sia nome proprio di persona, sia traduzione della parola “rosso”) ^^;

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Capitolo 9
*** Something goes bad ***


PART NINE –

“SOMETHING GOES BAD”




In un localino nei dintorni dello Shopping Plaza, al suono di musichette occidentali molto gradevoli, una ragazza ed il suo accompagnatore godevano la tranquillità delle prime ore pomeridiane. Meglio, solo la ragazza. La quale gustava lentamente la propria coppa di gelato, senza badare ai brontolii dell’altro, segno del suo spazientimento.
“E allora? Ti basta?”
Lei lasciò sciogliere in bocca il cucchiaio appena introdotto, assaporando avidamente la sensazione di frescura – piacevole, in una giornata tiepida come quella, sebbene l’inverno fosse ormai alle porte – unita al buon sapore di frutta. In un altro luogo e in un altro momento… e pure in un altro corpo… anche il ragazzo avrebbe sicuramente gradito la fattura del proprio gelato. E ne avrebbe addirittura ordinati degli altri. Ma quelli scelti da Nabiki erano indiscutibilmente i più costosi del menù, e la giovane liceale ne ordinava tranquillamente uno dopo l’altro. Il disgraziato si sentiva molto Kuno, in quel momento. Con l’importante differenza che il suo portafoglio era ben più ristretto di quello del senpai. E Ranma cominciava a temere che non sarebbe uscito da quel bar senza prima aver pulito per un paio di giorni bicchieri, piatti e tazzine varie in veste di sguattero – o aver servito per altrettanto tempo ai tavoli come cameriera – ed almeno in quel caso avrebbe potuto contare sull’esperienza accumulata al Nekohanten, nel periodo in cui Obaba gli aveva stimolato il nervo del gatto…
Soprattutto, Nabiki non gli aveva detto ancora un bel niente. E lui riteneva di aver sborsato fin troppo, per quel giorno.
“Ti decidi a darmi ascolto?!”
La media delle sorelle Tendo deglutì con estrema calma l’ennesimo boccone. Quindi afferrò con grazia un tovagliolino e si pulì accuratamente le labbra.
“Mmm, buono questo gelato.”
Per poco Ranma non scivolò dalla sedia. Ma stava parlando ad un muro?! La sua pazienza aveva un limite.
“Insomma, dammi retta!” sbatté il pugno sul tavolo, richiamando l’attenzione degli altri clienti.
Nabiki sbadigliò indolentemente, infine assottigliò lo sguardo e finalmente lo incrociò con quello del proprio interlocutore.
“Sai, penso proprio di avere con me ciò che ti interessa…”
“Che…?!”
Gli lanciò tra le mani una busta, accuratamente sigillata. Ranma la aprì, possibile che le risposte alle sue molteplici domande fossero contenute lì dentro?
“Allora, non è quello che volevi?”
Il ragazzo col codino rimase con la bocca spalancata, atteggiata in una delle sue classiche smorfie. In quella busta non c’erano altro… che…
“Un set completo di foto che ritraggono mia sorella Akane. Ti costerà solo 4990 yen.” disse candidamente la giovane con i capelli a caschetto.
“Non è questo che voglio!” ringhiò Ranma, furioso ed imbarazzato al tempo stesso.
“Vuoi dire forse che non sei un ammiratore segreto di mia sorella?” fece stupita lei.
“Niente affatto!” replicò lui, in modo fin troppo deciso.
Nabiki piegò un sopracciglio in un’espressione poco convinta. Non la incantava. Si era accorta di come quel forestiero aveva fissato Akane la mattina, quando loro erano uscite per recarsi a scuola. Già, una debolezza da sfruttare. Soprattutto adesso che il numero degli ammiratori della sorella era – notevolmente calato, per usare un eufemismo. Ma c’era tempo. Dopotutto, poteva farsi pagare anche per le informazioni…
“Va bene. Per qualche altro migliaio di yen, ti dirò tutto quello che vorrai sapere.”
Alla buon’ora. Di cose strane ce n’erano abbastanza. Da cosa poteva cominciare? Da Happosai che spadroneggiava per casa Tendo? Dal comportamento pressoché folle di Soun e Kasumi? Dal trionfo di Kodachi che non sembrava avere alcun senso? Da…
“Uhmm, che ne dici di spiegarmi che fine ha fatto l’insegna della palestra Tendo?!”
Per una volta, fu Nabiki Tendo la calcolatrice umana a rimanere completamente spiazzata. Sapeva quanto l’argomento fosse delicato in famiglia, era proibito solo farvi cenno in presenza di loro padre… Ma gli affari erano affari, e al giusto prezzo avrebbe spifferato anche i dettagli più intimi della propria vita privata.
“Va bene… non che poi ci sia molto da spiegare.”
“Allora?”
“Presto detto. Credo che tu sappia, dal momento che conosci la palestra Tendo, di come questa fosse la più rinomata della città. Molte scuole di lotta indiscriminata hanno guardato con invidia alle tecniche portate avanti da mio padre.”
“Lo so bene, vai al sodo!”
“Tranquillo.”
Nabiki giocherellò col cucchiaino, esplorando il fondo della coppa di gelato ormai vuota.
“Quello che sicuramente non sai” riprese “è che un bel giorno giunse, da non so quale zona del Giappone, un potente artista marziale.”
Fece un attimo mente locale.
“Mi pare si facesse chiamare… sì, dojo yaburi.”
Ranma rilesse a fondo quel nome nella propria mente. Il dojo yaburi…? Cioè, quel tipo che sfidava le scuole di lotta per impossessarsi delle – ma certo, delle insegne delle palestre! Ora la cosa cominciava a farsi chiara. Il dojo yaburi che aveva sfidato i Tendo non avrebbe potuto scegliere momento meno opportuno, ricordò Ranma. Era venuto lo stesso giorno in cui il ragazzo col codino aveva l’appuntamento con Shampoo per ottenere dall’amazzone la bustina con l’estratto di Nannichuan – che però funzionava una volta sola… A saperlo prima… Potente quell’omone? Forse grande e grosso, ma nient’altro. Dove voleva arrivare Nabiki?
“Insomma, questo dojo-yaburi ci ha sfidato. Akane, che praticava le arti marziali, ha combattuto per difendere il nome della nostra palestra.”
Si voltò a guardare attraverso la vetrina lo spettacolo della gente che passeggiava per la via principale. Fu silenzio totale per una manciata di secondi.
“Dunque?” riprese spazientito Ranma.
“Dunque ha vinto il dojo yaburi: credevo tu l’avessi capito, no?”
Cosa?! Non poteva essere! Cioè… era sì vero che quella volta era venuto lui a dare man forte a quell'imbranata di Akane – ma era vero pure che la fidanzata aveva una mano ferita: e di quello, la colpa era in un certo senso sua. Doveva ammettere che addirittura una schiappetta come lei, in condizioni normali, avrebbe potuto tranquillamente battere un principiante qual era il suo avversario, dando sfoggio della forza erculea che si ritrovava.
Ranma espresse solo l’ultima parte del pensiero. Nabiki parve divertita dal modo familiare con cui quel tipo si riferiva a sua sorella.
“Se ti interessa” gli rispose “Akane non era in condizioni normali: era gravemente infortunata, quel giorno…”
*Un altro infortunio?!* meditò, turbato, il giovane Saotome.
Contemporaneamente, Nabiki stessa si incupì, mordendosi il labbro inferiore. Raramente Ranma l’aveva vista così tesa, per lui era impensabile che l’affarista della famiglia Tendo potesse lasciar trasparire le proprie emozioni. Ma ora il ragazzo con la camicia cinese poteva scorgere in lei un sentimento misto tra la preoccupazione ed il rancore: non capiva, però, quale delle due spinte emotive prevalesse.
“Cosa è successo?!” ebbe l’imprudenza di chiedere lui.
“Questo” scandì l’altra, passato l’istante di umanità “ti costerà un extra.”
Ranma sbuffò rassegnato, annuendo col capo.
“Tutto è cominciato” riprese Nabiki “il giorno in cui il capitano della squadra di ginnastica ritmica marziale dell’istituto femminile Saint Hebereke, Kodachi Kuno, la pazza che hai visto piroettare per il cortile del Furinkan qualche ora fa, lanciò la sua sfida contro la nostra scuola…”
Alzò il cucchiaino, come a voler catturare l’attenzione dell’interlocutore. “Kodachi vinceva sempre, anche perché le sue avversarie finivano sempre per ritirarsi per abbandono prima dell’incontro. Anche questa volta, una dopo l’altra, tutte le ragazze del corso di ginnastica furono messe fuori gioco: con mezzi più o meno subdoli. Finché decisero di chiedere aiuto ad Akane, la quale accettò di scontrarsi con la cosiddetta Rosa Nera senza alcuna esitazione... sebbene non avesse mai praticato prima d’allora quella pseudo-specie di disciplina sportiva. In quanto a Kodachi, lei non aveva certo paura. Avrebbe vinto, facendo uso della sua migliore abilità.” Socchiuse le palpebre. “Barare” qui sorrise, come se la cosa fosse stata perfettamente logica, come se il fine giustificasse veramente i mezzi. Ranma poté, però, scorgere il velo di amarezza che si nascondeva dietro a quel gesto.
“E la vigilia dell’incontro, puntuale come un orologio, Kodachi colpì. Si era già intrufolata qualche notte prima in casa nostra, per mettere fuori gioco Akane: ma mia sorella seppe in quel frangente tenere alzata la guardia e sventare l’attacco... Così non fu invece in quel tragico allenamento al dojo.”
Al ragazzo col codino parve sentirla come sussultare appena, mentre proferiva queste parole.
“Un… incidente, si disse in seguito. Le clavette con cui si allenava Akane non erano le solite, di plastica e cave al loro interno, ma imbottite di pesini di ferro. Erano state sostituite da ignoti: questa, per così dire, la versione ufficiale dei fatti. L’ignara Rosa Nera non poteva sapere, venendo a sfidare la sua prossima avversaria in un innocente allenamento dell’ultim’ora tra rivali, che poteva far male alla sua contendente, con una di quelle clavette. Risultato, Akane accettò ingenuamente quella sfida e ne ricavò il braccio rotto.”
Nabiki si lasciò sfuggire un sospiro annoiato.
“Testarda com’era, volle gareggiare comunque. Fu la prima ad avere tanto coraggio. Com’era scontato, venne sconfitta molto facilmente. Ne derivò una terribile umiliazione, di fronte a tutti i nostri compagni di scuola che assistevano all’incontro. Kodachi divenne in questo modo la campionessa indiscussa di ginnastica ritmica marziale di tutta quanta la città: e, come hai potuto constatare, viene al Furinkan a ricordarcelo ogni giorno.”
La ragazza si fermò. Ranma, con un cenno del capo, la invitò a continuare.
“Quando arrivò il giorno della visita del dojo yaburi, Akane era già completamente ristabilita. Fisicamente. Ma non era del tutto guarita. Qualcosa era andato perduto per sempre. Sentiva di avere deluso le aspettative di tutti, di avere tradito in qualche modo chi credeva in lei. Aveva completamente perso la fiducia nelle proprie capacità. Era suo, il compito di difendere l’onore del dojo Tendo. Ormai non se ne sentiva più all’altezza. Combatté, ma al peggio delle proprie potenzialità. Il suo infortunio era tutto nella testa.”
“E così…” accennò il ragazzo col codino.
“Così, fine della palestra di arti marziali.” completò Nabiki. “L’omone ha vinto e si è portato via l’insegna, come ti ho già detto.”
La ragazza con i capelli a caschetto si voltò a guardare distrattamente dall’interno l’insegna, dipinta sulla vetrina, del Cafè Toramasu. Ranma seguì il suo sguardo. Buffo, Nabiki aveva scelto proprio questo locale. Ripensò distrattamente a quanti gelati aveva qui scroccato alla propria fidanzata, nelle vesti di una ragazza dalla chioma fulva.
Sentiva una morsa al cuore, sapeva cosa significava una sconfitta per Akane. Lui non era mai stato bravo a capire cosa passasse per la testa del suo maschiaccio. Ma questo lo sapeva. Sapeva cosa lei provava a perdere una sfida, sapeva quanto lei potesse soffrirne. Lo sapeva perché era così anche per lui. In questo si assomigliavano – cavolo se si assomigliavano! Digerire una sconfitta, nessuno di loro ne era capace. E Akane aveva perso due volte. Deludendo le amiche e i familiari. Deglutì a stento, temeva che quegli eventi avessero lasciato il segno. Non un piccolo segno. Ma un profondo squarcio.
Ricordò l’atmosfera surreale di casa Tendo. E l’espressione del volto di lei, mentre si avviava verso scuola: così malinconica…
“Oh, eccoti finalmente!”
La voce di Nabiki lo riportò al presente. Balzò istantaneamente in piedi, non appena si rese conto che la giovane non si stava affatto rivolgendo a lui. E realizzò a chi si stava rivolgendo.
“Scusami.” sorrise la Tendo, di nuovo divertita dallo scatto improvviso di Ranma. “Avrei dovuto dirti il motivo per cui ti ho fatto venire qui: in realtà, c’era un tale che doveva venire a prendermi.”
Un giovane vestito di un elegante smoking bianco le porse la mano.
“Perdonami per il ritardo, mademoiselle Nabiki.”
”Fa niente.” disse lei. Poi si alzò anch’essa da tavola, dicendo al ragazzo col codino:
“Senti, uhm… Ranma, giusto?! Ti presento il mio fidanzato.”

 

Il fidanzato di Nabiki. Questa poi…!
“Mio padre aveva promesso una delle sue tre figlie in sposa al giovanotto qui presente, per pagare il pranzo che lui ed un amico, di cui ora si sono perse le tracce, si erano sbafati vent’anni fa nel ristorante della sua famiglia. Ho deciso di prendermelo io, non potevo perdere una simile occasione!” la semplice e concisa spiegazione di Nabiki. Era incredibile come quella ragazza riuscisse a parlare anche degli argomenti più delicati con una tale disinvoltura.
Picolet Chardon porse il braccio alla sua compagna. Ranma ritrovò poco alla volta un inizio di lucidità. Ovvio, a rifletterci. La quarta sorella, Ranma Tendo, non aveva potuto fare la sua comparsa a casa Chardon e tirare fuori dai guai le altre. Dopotutto, quel francesino era ricco almeno quanto Kuno. E molto meno idiota. La calcolatrice umana, ancora una volta, aveva fatto bene i propri conti.
Pagato il dovuto a Nabiki, Ranma si avviò verso l’uscita.
“Io vi devo lasciare. Addio.”
Era deciso. Avrebbe risolto quella faccenda e poi se ne sarebbe finalmente tornato per la propria strada. Avrebbe rintracciato il dojo-yaburi: si fosse anche trovato, in quel momento, all’altro capo del pianeta. Lo avrebbe sfidato, sconfitto, e riportato l’insegna ai Tendo. Facile. Come bere un bicchiere d’acqua.
“Aspetta!”
Ancora la voce di Nabiki. Quello strano tipo non le sarebbe sfuggito così facilmente, pensò la giovane Tendo. Aveva scoperto a malincuore che non era affatto una gallina dalle uova d’oro, come si era dapprima augurata. L’aveva spennato completamente, altri soldi da lui non sarebbe riuscita a ricavarne. Questo era chiaro. Eppure – quel ragazzo meritava ancora la sua attenzione. Mentre raccontava, aveva analizzato ogni sua espressione – e notato come le sue iridi grigio-blu si accendevano di vita, quando gli parlava di sua sorella. Lui conosceva Akane. E teneva a lei – ne era sicura, non aveva mai sbagliato una volta...
Non era una sognatrice, anzi. Nabiki Tendo era famosa per essere una ragazza estremamente pragmatica. Ma questa volta fu più forte di lei. Si stava rammollendo? Forse. Non poteva, però, continuare a vedere la sorellina in quello stato. E quel buffo giovane col codino – lui – magari – poteva fare qualcosa.
“Cosa c’è?” replicò seccato Ranma.
“Volevo solo dirti, visto che sembri nuovo di queste parti” rispose lei “che il laghetto dei fiori di loto, che sta al centro del parco pubblico, è uno dei posti che vale veramente la pena di visitare: suggestivo, romantico, perfetto per le coppiette.”
Si metteva a fargli da guida turistica? Ranma non capiva. Ma comprese un istante più tardi, dopo aver ascoltato il seguito del discorso.
“Se ci vai adesso” disse Nabiki noncurante, dopo aver sbirciato il proprio orologio da polso “puoi trovarci mia sorella.”
Lasciò volutamente passare qualche istante di pausa. Prima di aggiungere quelle parole che mandarono a Ranma, per così dire, l’acqua di traverso.
“In compagnia del suo ragazzo.”

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Capitolo 10
*** A middle autumn day's date ***


PART TEN –

“A MIDDLE AUTUMN DAY’S DATE”




Finite le pulizie al Furinkan, smessa l’uniforme scolastica, vestita di una leggera maglietta a maniche corte con un’evidente scollatura – incoraggiata in ciò dal clima temperato di quel giorno – e di una gonna che lasciava piuttosto scoperte le sue gambe sinuose, Akane si dirigeva verso il luogo dell’appuntamento.

Il suo appuntamento.

Le suonava strano. Soprattutto, pensando con chi doveva incontrarsi. Fino a poco tempo prima, aveva sempre ritenuto che gli uomini fossero stupidi e mascalzoni.
Poi lo aveva conosciuto.
E lui le aveva sconvolto letteralmente la vita.
No. Non credeva sarebbe diventato addirittura il suo fidanzato.
Ma costituiva la sua unica ancora di salvezza, l’unica cosa a cui aggrapparsi tenacemente in un mondo che le stava andando a rotoli.
Glielo doveva. Era in debito, dopotutto.
E poi…
Non era così male di aspetto. Alcune compagne avevano fatto notare ad Akane che quel ragazzo rispecchiava meglio di tanti altri la figura immaginaria che tanto le affascinava.
Il principe azzurro.
Chi prima, chi dopo, sia Yuka che Sayuri che tutte le altre avevano ammesso di aver sospirato, almeno una volta nella loro vita, nella dolce speranza di incontrare l’uomo dal lungo mantello in sella al suo valente destriero. Costui, cingendo loro le braccia, le avrebbe strette protettivamente. E loro gli si sarebbero completamente abbandonate, dimentiche della realtà e sicure di non dover più pensare a nulla: poiché da quel momento, e per tutta l’eternità, avrebbero potuto contare su qualcuno che le avrebbe sempre protette…
Che fesserie!
Il principe azzurro! Le sue amiche si erano proprio rimbecillite. La realtà era ovvia, gli uomini erano tutti uguali. Ma forse le sue amiche – loro potevano almeno sognarlo, un personaggio del genere. Loro erano fragili, deboli. Lei no – lei non poteva permettersi di esserlo. Era Akane Tendo, erede della palestra di arti marziali Tendo. Lei era forte. Doveva esserlo. Fin da piccola, conosceva bene il proprio destino. Fin da quando, bambina, osservava con meraviglia e stupore gli allenamenti del padre nel dojo, sapeva che sarebbe toccato a lei portare avanti la tradizione di famiglia.
Nessuno la costringeva a ciò.
Lei adorava le arti marziali.
Erano la sua più grande passione.
Avervi dato addio, aver dato addio al proprio destino, era stato molto doloroso…


“Akane, cosa stai facendo?”
“Sei tu, Kasumi? Sto buttando via la mia tenuta da kempo.”
“Ma perché, scusa?”
“Vedi, ora che la nostra palestra è senza insegna, papà si trova disonorato: non potrà più praticare le tecniche di lotta indiscriminata.”
“Questo non vuol dire che debba rinunciarvi pure tu, sorellina.”
“Devo. Se tutto questo è successo, è solo colpa mia.”
“Ma…”
“Mi dispiace, ormai ho preso la mia decisione. Se sono stata sconfitta così facilmente, significa che non sono affatto tagliata per le arti marziali.”
“Akane…”


Inutile rivangare nel passato. Aver abbandonato per sempre le arti marziali non significava affatto che lei non fosse più la ragazza forte di prima. Forte, del resto, doveva esserlo più che mai. Adesso che non osava rivolgere parola a suo padre, fisso in soggiorno da mesi come un morto vivente – morto rischiava di diventarlo davvero, visto come si stava lasciando deperire… e sua, solo sua, la responsabilità di questo.
In quanto alle sorelle.
Kasumi. Sorrideva sempre, ma mai il suo sorriso le era apparso così falso come in questi ultimi tempi. Badava al padre ventiquattro ore al giorno – come se poi non fosse abbastanza dover rabbonire continuamente Happosai, e lasciarsi da lui maltrattare: ebbene, Kasumi era l’unica che lo faceva. Con Nabiki quasi sempre nella villa della famiglia Chardon e Akane – Akane che pure evitava il più possibile di trovarsi dentro le mura di casa, troppo forte il senso di colpa.
Kasumi così era l’unica.
Non aveva scelto di badare al resto della famiglia. Era stata costretta dagli eventi. Dalla scomparsa della mamma. Aveva dovuto prendere il suo posto, maturare più di quello che la sua età richiedeva, rinunciare alla spensieratezza dell’infanzia e dell’adolescenza.
Ma, temeva Akane, quegli ultimi eventi avrebbero potuto costituire la proverbiale ultima goccia: probabilmente, anche la dolce e generosa Kasumi si stava stancando di addossarsi le sofferenze degli altri.
Nabiki. Lei sembrava indifferente. Aveva addirittura accettato di buon grado il fidanzamento imposto con quel Picolet: dopotutto non aveva sempre sognato di sposare un nababbo?… Akane sapeva, tuttavia, perché la sorella l’aveva fatto.
Era lei, la minore delle tre, non Nabiki, la ragazza che era stata scelta da Picolet.
Normalmente si sarebbe opposta ad una tale situazione con tutte le sue forze. Era assolutamente certa di aver sconvolto non poco tutti i familiari, quando ebbe invece tacitamente annuito, in segno di rassegnata accettazione. Forse fu proprio per questo che Nabiki si intromise nella delicata questione, chiedendo espressamente di diventare lei la fidanzata del francesino. Certo, si trattava di una manna, economicamente parlando: era infatti in questa maniera che la sola Nabiki sosteneva patrimonialmente tutta quanta la famiglia. Aveva pure evitato di apprendere l’assurda tecnica del Combattimento del Pasto. Con la scusa di essere a dieta e di dover mantenere la linea, era riuscita a convincere quel Picolet ad inghiottire cocomeri per due…
Akane aveva sempre ritenuto Nabiki una persona cinica, senza scrupoli, attaccata solo al denaro. Poi il sacrificio. Avrebbe trascorso il resto della propria esistenza accanto ad una persona che non amava. Akane non sapeva se la sorella fosse in grado di amare. Ma adesso non si poteva più fare alcuna verifica.
Sembrava indifferente. Eppure Nabiki aveva sacrificato tutti i propri sogni. Al posto della sorellina minore. Perlomeno sembrava ricavare continuo profitto, da quell’assurda situazione – e così sarebbe stato, almeno, finché l’instabile equilibrio in questo modo creatosi si fosse mantenuto. Comunque per ora durava: e ciò non poteva fare che bene, a Nabiki. Anche perché, Akane l’aveva sentito raccontare dalle amiche, il commercio di foto messo in atto dall’affarista delle Tendo non rendeva più come prima.
Akane sapeva bene di essere il soggetto preferito delle foto della sorella, e di aver provocato la fine degli affari di Nabiki da quando i suoi corteggiatori del Furinkan si erano ritirati in blocco. Sorrise in modo amaro, anche indirettamente era sempre una causa di problemi. Non che le facesse piacere essere fotografata di nascosto, o comunque trovarsi al centro dell’attenzione dei ragazzi, questo era ovvio. Ed anzi, inizialmente, aveva provato una grande sensazione di sollievo nella consapevolezza di non doversi più confrontare, la mattina quando entrava nel cortile della scuola, con centinaia di liceali assatanati convinti di doverla sconfiggere per ottenere da lei un appuntamento. Queste, del resto, le regole dettate in quel triste discorso d’apertura di parecchi trimestri prima. Che ora erano parole disperse al vento. Completamente inutili. Nessuno era rimasto, dei suoi corteggiatori.
Strano. Quando li affrontava tutti i giorni impugnando la cartella come un’arma, allora quelli la infastidivano con ancora più convinzione. E si erano tolti di mezzo, paradossalmente, solo dopo la sua vergognosa sconfitta con Kodachi: quando, cioè, lei aveva perso la voglia di scacciarli.
Forse quegli scemi erano solo invaghiti della sua forza.
Però lei – doveva ammetterlo, inutile fingere – non lo era. Non era affatto forte.
Almeno non in modo tale da sopportare da sola tutto quel peso che le gravava la coscienza ogni notte insonne. La famiglia in rovina per colpa sua. E non aveva più spalle su cui appoggiarsi, lei. Nemmeno il dottor Tofu. Anzi, quanto lo riguardava aveva costituito il cosiddetto colpo di grazia. L’arrivo del maledetto preside, il taglio della sua bella chioma lunga. Nemmeno a quello, aveva saputo opporsi. Così, la fine dei suoi ultimi sogni. Tanto lo sapeva da tempo che Tofu amava sua sorella maggiore. Ma sognare, si sa, almeno lenisce i dolori.
Ed ora Akane in che cosa poteva più sognare?
Si sentiva sola, incompresa.
Non conosceva nessuno che potesse capirla, nessuno – per così dire – simile a lei. Che condividesse la sua antica testardaggine, la sua passata forza di volontà. Che la spronasse a combattere per ciò in cui credeva.
Forse il principe azzurro?
No, non il principe azzurro.
Almeno, non come lo intendevano le sue amiche.
Non voleva accanto a sé uno perfetto. Voleva qualcuno che le stesse vicino e basta. Non con parole gentili. Ma con i fatti.
Ecco, il laghetto dei fiori di loto. Era arrivata.
Possibile che proprio lui…?
Fino a poco tempo prima, aveva sempre ritenuto che gli uomini fossero stupidi e mascalzoni.
Ma ora…



Il parco. Più precisamente il laghetto dei fiori di loto. Pensare che era stato in quei pressi proprio la stessa mattina! Ranma, attentamente nascosto dietro un cespuglio, attendeva il suo arrivo. Si augurava che Nabiki non l’avesse preso in giro. Se lo augurava per il bene di Nabiki. Sapeva essere molto vendicativo, a volte.
Quando quell’avvoltoio in veste da liceale gli aveva tranquillamente riferito che Akane aveva un appuntamento con un altro, il ragazzo col codino non aveva fatto il minimo sussulto. Anzi. Aveva ridacchiato, quindi salutato con la sua solita aria superiore la coppia del bar, borbottando qualcosa riguardo al fatto che non gli interessava certo visitare luoghi smielati né tantomeno gli importavano gli affari privati di una mocciosa che lui, questo lo mise bene in chiaro, non conosceva in alcun modo – e anche se l’avesse in qualche modo conosciuta, cosa mai gli sarebbe potuto fregare di lei? Sotto lo sguardo di Nabiki e del giovane Chardon, si era infine trascinato stancamente per la strada, con l’aria di uno che non andava in nessun luogo in particolare, e fischiettando la melodia del locale.
Questo, fino a che non ebbe girato l’angolo.
Dopo, si era lanciato a capofitto in direzione del parco. E vi era giunto a tempo di record.
Adesso avrebbe finalmente saputo.

Chi?!

Ryoga non poteva essere. In questa realtà, molto probabilmente, l’uomo-bussola non era nemmeno mai capitato nei dintorni di Tokyo. Ed inoltre Ranma ci aveva parlato di persona a Yakuzai, Hibiki non aveva mostrato di conoscere Akane in alcun modo.
Uno dei loro compagni di scuola era da escludere. Gosunkugi? Un’ipotesi nemmeno da prendere in considerazione.
Tofu?… No, era inconcepibile. Probabilmente, l’Akane di questa realtà aveva ancora un debole per lui. Ma Tofu amava Kasumi, dunque pure il dottore era da scartare.
Anche perché un altro nome aveva cominciato a solleticargli la mente. Un nome difficile da dimenticare, per lui. Per quanto fosse sicuro che l’altro si fosse completamente dimenticato del suo, di nome: e della sua esistenza, del resto, e questo senza alcun bisogno del Rimedio Definitivo della famiglia amazzone.
Shinnosuke.
In questo mondo privo di un tale Ranma Saotome, molte cose, aveva avuto modo di verificare, erano andate per tutt’altro verso. E ad un’Akane sconfitta sia da Kodachi che dal dojo yaburi nemmeno il giovane Saotome avrebbe mai potuto pensare. Eppure, poco prima, credeva di aver capito tutto. Come sempre. Credeva che Akane avesse risentito fin troppo dell’accaduto. Già se la vedeva a piagnucolarsi addosso.
Ed invece…
Sembrava che quella scema si fosse consolata ben presto. Ranma cominciava ad immaginarsela tra le braccia del suo... baah, ma cos’aveva mai quello lì, poi, che lui non avesse?!
Che stupida!
In questo mondo molte cose si erano svolte in modo diverso. Ma quegli eventi, magari potevano anche essersi ripetuti. Forse Akane si era ricordata del suo bel guardiano di porci giganti – e di tutto quello zoo taglia extralarge che popolava la foresta di Ryugenzawa. E, piena di riconoscenza, era tornata in quei luoghi. Così, forse, loro due… E il muschio della vita? E il serpentone ad otto teste, quell’Orochi? Akane non aveva mica dovuto affrontarlo, un’altra volta, per salvare quello smemorato? Senza di lui?!… Un senso di terrore si era impadronito di Ranma per un lungo, eterno attimo. Poi tornò a ragionare. Akane era viva e vegeta. Lui l’aveva vista. Allora, molto probabilmente, non ci era stata, a Ryugenzawa. Oppure – oppure ci era stata e… se era tornata, Shinnosuke poteva anche essere riuscito a proteggerla… e… in quel caso…
Ranma sudò freddo. Poteva essere tutto ed il contrario di tutto.

Proprio in quel momento, la realtà prese il posto dell’immaginazione.

Vide Akane. E, quasi contemporaneamente, vide anche il suo lui. Rimase come di sasso, credette di stare sognando. Perché no? Magari quello che stava avvenendo – dal principio alla fine – era solamente un’assurda visione onirica. Non era così. Peccato. Dal momento che non trovava altre spiegazioni logiche per giustificare la presenza di quell’idiota, in quel luogo e in quel momento. Una coincidenza? Se lo augurava vivamente, ma man mano che i secondi passavano, e quello si avvicinava sempre di più ad Akane, le speranze vennero meno.
E Ranma, che pure di scene assurde ne aveva viste innumerevoli, nella sua finora breve ma intensa vita, si preparò ad assistere a quella più assurda in assoluto.


Un leggero venticello, appena levatosi, sussurrò dolcemente musiche più che umane tra le fronde degli alberi ormai spogli. Akane si rivolse alla persona con cui aveva appuntamento.
“Sei puntuale.”
Il ragazzo, distinto dall’elevata statura, sorrise alla brezza che gli spettinava i capelli castano scuro.

Tatewaki Kuno sentiva che quella sarebbe stata una memorabile giornata.


Pochi secondi. La brezza era immediatamente cessata, come se avesse esaurito il proprio compito nell’annunciare il nuovo arrivato. Stranamente, un cespuglio continuava ad agitarsi.
Intanto Akane fissava dritto negli occhi il fidanzato.
Prima di conoscerlo, riteneva che gli uomini fossero solo degli stupidi.
Ma adesso…
“Ti porgo i miei saluti, Akane Tendo. Puoi tranquillamente bearti dell’onore che ti reco con la sola mia presenza.”
Adesso lo riteneva ancora più di quanto avesse fatto prima.
Quel pazzo le aveva letteralmente sconvolto la vita. Nel discorso di apertura del primo trimestre di un anno prima, aveva invitato tutti coloro che avessero voluto uscire con lei a sconfiggerla in combattimento. L’ingresso mattutino a scuola si era fatto piuttosto movimentato, per un po’ di mesi. Anche perché, un tempo, lei non rifiutava mai una sfida. Buffo che adesso Kuno ottenesse quella sorta di primo appuntamento, senza fatica alcuna. Senza dover combattere contro di lei. Era Akane stessa che si consegnava al samurai. Buffo. Se solo ci fosse stato qualcosa da ridere, in quella situazione.
Eppure glielo doveva, quell’appuntamento.
Poiché questa era la volontà di suo padre.
Non poteva negargli niente, dopo quello che gli aveva fatto. Dopo avergli fatto perdere l’insegna della palestra. La vita sembrava essere finita, per lui. Fino a quando il senpai non gli aveva riacceso il lume della speranza. Qualche tempo prima, Kuno aveva osato presentarsi a casa Tendo, chiamando Soun con l’appellativo di padre e declamando che avrebbe difeso l’onore del suo futuro suocero, affrontando di persona quel vile del dojo yaburi. Lei ci credeva poco. Ma poi suo padre – lui, che non le rivolgeva la parola da quella sconfitta – le aveva posato le mani sulle spalle, e quindi si era addirittura inginocchiato davanti a lei.
Tutto questo mentre la supplicava di accettare la corte di Tatewaki.
Il primo istinto era stato quello di rifiutare. Di sostenere che nessuno avrebbe mai potuto decidere della propria vita al proprio posto. Un istinto che si placò subito, non appena ebbe ripensato alla sorte delle sorelle.
Kasumi aveva compiuto il proprio sacrificio. Nabiki, pure.
E lei? Akane non aveva ancora dovuto sacrificare niente di importante. Sentiva che doveva pagare, in qualche modo, il disastro che aveva combinato. Era l’occasione di espiare i propri mali.
Ma proprio Kuno…!
*Ragazza.* disse a se stessa. *Non è il momento di fare l’egoista. Ora è semplicemente il tuo turno.* Kuno aveva giurato sul suo onore che avrebbe riottenuto l’insegna della palestra. Adesso lei era in debito. E avrebbe pagato. Non importava. Se ciò voleva dire concedersi a quell’idiota. Se il suo primo bacio sarebbe stato per – per quello lì! Se…
“Akane Tendo.”

Kuno ruppe il silenzio. Doveva compiere il proprio dovere, in un modo o nell’altro. Doveva fare la cosa giusta.

In quel momento Ranma provò un brivido freddo, simile a quello che gli provocava Happosai, quando il vecchiaccio palpava il suo corpo femminile.

In quel momento, anche Akane si sentì oppressa da una bruttissima sensazione.

Quella sarebbe stata una memorabile giornata.

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Capitolo 11
*** The agony of the twilight ***


PART ELEVEN –

“THE AGONY OF THE TWILIGHT”




Il silenzio aveva ripreso a regnare incontrastato in quella zona isolata del parco. Akane fissava Kuno, come per studiarlo. Sembrava più strano del solito. Pure Tatewaki era tornato zitto, come se stesse cercando le parole più appropriate per iniziare il suo discorso. Akane si immaginava che avrebbe ringraziato gli dei per quell’appuntamento o qualcosa del genere. Eppure quella brutta sensazione non l’aveva ancora abbandonata.
Anche la natura, come per un tacito accordo, rimaneva muta. Non un filo di vento. Gli uccelli non cinguettavano. Unici a fare una sorta di rumore erano alcuni piccioni, posatisi sopra un cespuglio: intenti a beccare, forse in cerca di cibo. Un paio di essi provavano a tirare via quello che pareva un vermetto o una cosa simile. Ma si trattava di un codino. In quanto al proprietario del codino, e della testa che gli altri piccioni continuavano incuranti a beccare, questo non si era paradossalmente neppure accorto della loro presenza: preso com’era da tutt’altri pensieri.
Kuno finalmente si riscosse.
“Akane.”
“Cosa?” domandò lei, cauta.
“Guarda, guarda i ciliegi!”
I ciliegi? Ma la giovane Tendo era abituata alle stranezze del senpai, così lo assecondò.
“Le cose belle non durano.” continuò lui. “Guarda questi ciliegi: un tempo erano in fiore, ed il loro profumo rallegrava l’aria circostante. Ma ora – ora cos’è rimasto di essi? Se non dei rami secchi e spogli.”
Decisamente non era una dichiarazione d’amore, pensò Akane. Anche Ranma fu sorpreso da quello strano soliloquio. Entrambi si chiedevano dove quell’idiota volesse andare a parare.
“Tu eri una ragazza unica, Akane: bella e forte, indomabile. Eppure adesso – vedi, null’altro domina se non l’agonia dell’autunno.”
I pensieri di quella mattina erano tornati vivi nella mente di Tatewaki.
*La mia rosa rossa… ma anche i fiori più belli finiscono per appassire…* rifletté ancora una volta.
“Felice utopia è il fiore che non si sgualcisce.” riprese. “Parafrasando il poeta. Felice, più felice l’Amore, fervido e sempre da godere – quello che spinge l’audace amante, scolpito nella pietra o dipinto sulla tela, ritratto nel momento immediatamente antecedente a quello del bacio alla sua amata: mai, mai egli potrà portare a termine il bramato gesto. E godrà, proprio per questo, in eterno del suo desiderio insoddisfatto. Nossignore. Non c’è sentimento più bello che quello rivolto ad una fanciulla irraggiungibile, non credi anche tu?”
Akane sussultò inavvertitamente.
“Il mio cuore piange.” disse Kuno. “Tu non sei più quella d’un tempo. L’estate è finita. E purtroppo non tornerà.” sospirò in maniera teatrale. “Maledetto fu quell’incidente. Non perdonerò mai quella sciocca di mia sorella. Credimi, non volevo che andasse in questo modo: eppure dovevo saperlo, le cose belle non durano.”
Scostò con grazia la frangia dalla propria fronte.
“Si vede, tuttavia, che questo giorno era segnato dal destino. Il giorno del nostro appuntamento. Il giorno in cui ho conosciuto colei che mi ha cambiato la vita.”
Ranma soffocò alla buona uno starnuto improvviso. Non si stava mica riferendo a…
“Stamane, all’uscita da scuola, ho sistemato quel pazzo del nostro preside. E’ un vero peccato che tu non abbia potuto assistere alle mie grandi gesta. Sai, è proprio in quel frangente, che l’ho vista.”
Si massaggiò il capo dolente, ricordo dolceamaro del colpo di fulmine – e non solo – ricevuto quella strana mattina. Bella. Bella quella fanciulla. E forte. Molto forte. Non era come le altre. L’aveva sconfitto. Lui, nientemeno che il Tuono Blu. In una singolar tenzone – così interpretava il fatto che la giovane gli fosse atterrata sulla testa, tramortendolo al suolo. Aveva del fegato, non c’era che dire. Se quella donzella voleva catturare la sua attenzione, ebbene lo scopo era stato raggiunto.
“Una ragazza bella e forte. Qual eri tu quando ebbi la fortuna di conoscerti. Il suo nome lo ignoro: ma ella resterà per sempre nel mio cuore come la soave fanciulla con la noce di cocco sulla palma.”
Il ragazzo col codino represse il moto istintivo di nausea che si era impadronito di lui a quelle parole. Ora capì il brivido avvertito prima.
“Un segno divino. Senza ombra di dubbio. Il quale mi ha spinto ad adempiere più in fretta un triste compito che già da tempo torturava il mio povero animo sensibile. Un incentivo in più a compiere il mio dovere.”
Un triste compito? Il suo dovere? Akane si morse il labbro, sempre più stufa di quei vaneggiamenti. E sempre più oppressa da quella sensazione. Temeva che stesse per accadere qualcosa di spiacevole.
Come tutti i presentimenti di Akane, anche questo si rivelò fondato.
“Adesso che sento di aver trovato alfine il vero amore” disse Kuno “so che attendere oltre non mi è più lecito.”
Sospirò ancora.
“Le nostre strade” aggiunse poi “sono destinate a separarsi, Akane Tendo."

Ranma osservò sbigottito l’assurda scena cui stava assistendo. Stava sognando oppure… era successo veramente?
Quel deficiente. Quella sottospecie di samurai depravato.
Aveva. Mollato. Akane.
Un momento prima, credeva di avere visto tutto e il contrario di tutto.
Kuno il suo fidanzato.
Ora, il tutto era niente a confronto di questo.
Come – come si era permesso! Quell’idiota… con la… la fortuna – proprio così, la fortuna che si trovava davanti…!
Un lampo percorse la mente di Ranma.
I pensieri che ora gli affollavano il cervello… per la prima volta… ma non gli erano del tutto nuovi…
Perché, paradossalmente, quella situazione gli pareva familiare?
Dov’era che l’aveva già vista?
Quand’era che l’aveva già vissuta?
Si sentì come fuori ruolo. Un altro stava con lei… e lui era nell’ombra… e dall’ombra poteva vedere più di quanto la luce non permettesse… e le sfumature diventavano contrasti nettissimi…
Si rese conto di quando aveva vissuto questa situazione. Non una, ma mille volte. Solo che lui si era sempre trovato dall’altra parte…
Capì improvvisamente tante cose. Molte parole di un Ryoga che, infuriato, gli si faceva contro col solito ombrello: quale, a detta dello stesso Hibiki, difensore dell’onta arrecata all’onore di Akane dai suoi stolti comportamenti – ebbene, adesso gli divennero chiare. Lo comprese. Era questo – questo che si provava, a stare nell’ombra?

Kuno si girò, dando le spalle ad Akane. Quindi si allontanò in direzione del sole che, arrossando ogni cosa attorno, cominciava a calare nel suo lento ma inarrestabile declino.
“Fermo!” disse lei.
Lui si voltò.
“E la tua promessa? L’insegna della palestra?”
Tatewaki non rispose.
“Sai bene” riprese stizzita Akane, con tutta la determinatezza che le restava “che io sono qui – ho accettato l’appuntamento – solo per questo! Dunque che ne è della tua parola? Non affronterai più il dojo yaburi?!”
Ranma s’illuminò. A quelle parole rivelatrici, il suo cuore provò una gioia intima e segreta.
Kuno fissò la giovane Tendo, con un moto di tenerezza.
*Com’è dolce… cerca di mascherare i sentimenti che prova per me, non vuole che la veda soffrire per la sua prima pena d’amore.*
Si commosse, non voleva veder soffrire la sua rosa rossa. Ma non poteva cambiare il destino. Nemmeno lui.
“Mi dispiace.” mormorò. “Sto partendo, adesso il mio unico scopo è ritrovare quella ragazza dalla chioma fulva, dovessi pure girare l’intero Paese: tutto il resto passa in secondo piano… anche la palestra di tuo padre.”
“Kuno!” la voce di Akane era leggermente tremante.
“Mi dispiace.” l’altro si limitò a ripetere. E riprese il cammino. Triste per colei che era stata il suo primo amore. Ma anche ben consapevole che la vita di un samurai comportava questi ed altri sacrifici.

*Cosa aspetta?* si chiedeva nel frattempo, spazientito, Ranma.
Akane, la sua Akane, non avrebbe esitato un solo momento a spedire quel deficiente in orbita. Non avrebbe mai tollerato quell’affronto. Ed invece – la vedeva ancora immobile, il volto chinato in basso, i capelli che le coprivano lo sguardo. Perché quella calma?! Dov’era finito il maschiaccio violento, l’Akane forte e orgogliosa che conosceva?
Che fine aveva fatto la sua Akane?! Kuno le aveva appena detto in faccia che la lasciava per un’altra – che poi, ehmm, era lui… aveva interferito ancora… Comunque. Anche se Akane non si era innamorata di Kuno, la cosa non gli pareva poi nemmeno concepibile umanamente, Tatewaki le aveva mancato di rispetto. E la ragazza non reagiva.

Akane, il suo animo era scosso da molte emozioni. Tutte negative.
Kuno se ne stava andando. E con lui, le ultime speranze. Dopo che lei aveva sacrificato la sua dignità, il suo orgoglio per ottenere che quello riconquistasse l’insegna. Come dirlo a suo padre? Aveva di nuovo deluso tutti. Stavolta aveva anche mortificato se stessa, sentiva di essersi, in un certo qual senso, venduta… e tutto questo per niente. Cosa le rimaneva più da fare?

*Reagisci!* la incitava Saotome con il pensiero.
E la reazione arrivò. Ma non quale lui se l’aspettava.
Un impercettibile singhiozzo. E poi un altro. Un altro ancora. E le scarpe di lei cominciavano a bagnarsi, sebbene non piovesse.
*Non… non starà piangendo?!*

Ranma a quel punto non ci vide più. La ragione perse il controllo su di lui. Quando lo riacquistò, non dovevano essere passati che pochi secondi. Più che sufficienti. Il ragazzo col codino era uscito dal nascondiglio. Aveva lanciato la sua sfida a Kuno. Tatewaki l’aveva accolta sorridente.
Adesso il Tuono Blu dell’istituto superiore Furinkan giaceva a terra, privo di sensi e pieno di lividi.

Per l’ennesima volta, Ranma aveva interferito.
Solo che adesso aveva fatto quello che per tanto tempo non aveva avuto il coraggio di fare. Aveva lasciato esprimere i propri sentimenti. Aveva difeso Akane. Esponendosi apertamente.
Tremò in modo impercettibile, rendendosi conto di questo e, allo stesso tempo, avvertendo due occhi puntati su di lui.
Akane si era asciugata rapidamente le lacrime. Scrutò a fondo quello strano ragazzo che aveva appena fatto la sua comparsa. Aveva sconfitto Kuno in un batter d’occhio. Era evidente che si trattava di un artista marziale. Vestito alla cinese, strano. Forse veniva dalla Cina?
“Chi sei?”
Ranma soffrì. Come quando Akane non ricordava più di lui per via dello shampoo 110. Questa volta non v’era nemmeno rimedio. Ma doveva farsi forza ed inventarsi qualcosa da rispondere.
“Uhm, io… ho visto Ku… quel tipo trattarti in quel modo e…”
Bene, sbuffò Akane nel suo intimo. Ora magari doveva pure sentirsi obbligata e ringraziare quello sconosciuto. E lui si sarebbe accontentato? Figurarsi, gli uomini erano tutti uguali.
“Non c’era alcun bisogno che tu intervenissi.” disse lei, ma con tono tutt’altro che quello secco e rozzo cui Ranma era solito... piuttosto, freddo. “E poi sei stato molto fortunato: l’hai vinto perché l’hai colto di sorpresa, ma quel ragazzo, Kuno, è un combattente molto forte. Non ti conviene sottovalutarlo.”
“Kuno forte?!” non poté trattenersi dal ridere. “Andiamo, forse per una principiante come te... ma anche il più fasullo degli artisti marziali sarebbe in grado di metterlo al tappeto ad occhi chiusi.”
Come l’aveva chiamata? Principiante?! Ma come si permetteva…! Un moto di antica rabbia si mosse in Akane, ebbe l’impulso di controbattere che lei rappresentava la scuola Tendo e… l’amara realtà le tornò presente e l’aura si sopì.
“Dico solo che faresti meglio a non sfidare ancora la sorte.” riprese nella stessa maniera distaccata. “Allontanati, prima che rinvenga!”
“Ma per chi mi hai preso?!” sbottò lui, punto nel vivo, scordandosi del tutto della situazione in cui si trovava. “Con chi credi di avere a che fare, stupida?!”
“STUPIDA A CHI?!” replicò istintivamente Akane. Dunque si arrestò, che le stava prendendo? Era da molto tempo che non perdeva più la calma: precisamente, da quando gli eventi esterni avevano perso per lei ogni interesse. Ma quel ragazzo – quel ragazzo dai modi arroganti e strafottenti, la stava facendo arrabbiare di brutto. E pensare che credeva volesse chiederle di uscire o qualche altra ricompensa di questo genere.
“Tu, cosa ti credi di fare!” aggiunse, cercando vanamente di contenersi. “Credi forse che mi dovrei sentire obbligata nei tuoi confronti, solo perché sei sbucato fuori dal nulla con un abito esotico a vendicare torti immaginari, come un giustiziere mascherato? DOVREI RINGRAZIARTI?!”
“Ed è per caso quello che stai facendo?!” gridò lui, indispettito.
“Certo che no! Non ringrazierò mai uno scemo come te!”
“E ti pare! LO SAI CHE NON SEI PER NIENTE CARINA?!”
Un brivido percorse la schiena di Akane. Ebbe per un attimo una sensazione di dejà vu. Qualcosa di strano. Come se quella scena fosse tutt’altro che nuova. Come se… qualcosa, tipo in un’altra vita… La sensazione passò. Ma un pensiero le rimase in testa. Gli uomini erano tutti stupidi. E quel ragazzo col codino non faceva eccezione, anzi. Solo che – nessuno le aveva mai tenuto testa, o voluto tenere testa, nessuno l’aveva mai trattata così alla pari come stava facendo lui, prima d’allora.
Solo in quel momento Ranma si rese conto della sua enorme gaffe. Non faceva che complicare le cose, pensò: forse sarebbe dovuto veramente scomparire definitivamente dalle vite di tutti… Poi un’intuizione. Akane aveva reagito! Eccome se lo aveva fatto. Allora non rimaneva che tentare una cosa.
Tornò alla realtà appena in tempo per scansare un destro di un’Akane infuriata. Ne era convinto, doveva continuare su quella strada e avrebbe riavuto il suo maschiaccio.
“Tutto qui? Questa la tua abilità?” provò ad insistere. “E vuoi farmi credere che saresti stata capace di tenere testa a Kuno? Tu?!”
“Guarda che anch’io pratico le arti marziali!” replicò la ragazza, con una punta di orgoglio che teneva represso da ormai troppo tempo.
“Bene, allora dimostramelo!” fece lui, con una linguaccia insolente.
“Con vero piacere!”
Cominciarono a combattere. Meglio, Ranma si limitò a schivare i colpi di Akane e la cosa gli riusciva ancora più facile, se possibile, del solito. La fidanzata – l’ex fidanzata – era fuori allenamento, in più era accecata dalla rabbia.
Infatti, inizialmente, Akane puntò esclusivamente sul piano della forza, con l’unica intenzione di spaccare la faccia di Ranma. Però, man mano che quel particolare incontro andava avanti, e Akane si rendeva conto di avere a che fare con un tipo che era molto meglio di Tatewaki, l’ira sbollì per lasciare il posto alla determinazione e alla voglia di confrontarsi. Improvvisamente si trovò a rivivere il duello con Kodachi e lo scontro col dojo yaburi. La minore delle Tendo cominciò a far ricorso alle proprie tecniche di kempo, completamente dimentica del proprio proposito di non praticare mai più le arti marziali. Si rese pian piano conto di sentirsi meglio.
Ranma notò i veloci progressi di Akane, e non poté fare a meno di sorridere osservando il fuoco dello spirito combattivo tornare a sfavillare nei profondi occhi castani della ragazza.
Un calcio, un pugno, un salto, un altro calcio. Ranma scansò tutti i colpi. Con un’agile capriola, si trovò proprio di fronte a lei. La immobilizzò per le braccia e vi si trovò a quattr’occhi.
“Ecco, è proprio questa l’Akane che volevo.” le sorrise gentilmente. “Violenta, cocciuta, testarda… forte, intrepida, determinata, che non si arrende mai per le cose in cui crede.”
Rimasero entrambi in silenzio per parecchi secondi. I volti dei due adolescenti erano vicinissimi. Akane lo fissò confusa e percepì una strana dolcezza nel suo sguardo. Chi era quel ragazzo? Come poteva sapere il suo nome? E non solo quello. Le parlava come se la conoscesse da sempre. La sensazione di poco prima tornò più forte: era come se… in un’altra realtà… Akane si trovò immersa in un vortice di emozioni tutte diverse e anche contrastanti tra loro: tra queste, però, emergeva uno strano sentimento di fiducia per quella persona – la consapevolezza che poteva far conto su di lui.
Ranma, lui rimase sbalordito dalle sue stesse parole. Non sapeva cosa lo aveva spinto a comportarsi così. Anzi, lo sapeva. Tutte le sue difese, dettate dalla timidezza e dall’orgoglio, erano crollate in un solo colpo, come un castello di sabbia alla prima vera ondata di alta marea. Sentì l’improvviso desiderio di proteggerla: gli pareva così indifesa, così fragile, in questa realtà più che mai… Accentuò, inconsapevolmente, la presa, tramutando lentamente la stretta in un vero e proprio abbraccio. Il battito del suo cuore stava accelerando vertiginosamente.
Quando, un secondo dopo il suo gesto, si rese conto di quello che aveva fatto, lo spavento prese il sopravvento su ogni altra cosa. Ma, con sua grande sorpresa, scoprì di non stare affatto volando in orbita né di rischiare in alcun modo di essere soggetto ad una qualche reazione violenta da parte della ragazza col taglio corto di capelli. Akane non aveva opposto la minima resistenza. Ranma ritrovò la calma. Sentiva nuovamente solo il desiderio di trasmetterle in qualche modo i propri sentimenti. Lo sguardo di lei lo calamitò, lo avvicinò sempre di più al suo viso… alle sue labbra…

“Hun… co-cos’è stato?!”
La voce di un Kuno dolorante, che stava lentamente riprendendo conoscenza, riportò Ranma alla realtà. E proprio allora il suo intuito gli comunicò un avvertimento: quello che stava per avvenire – era tutto sbagliato. Il suo intuito non lo aveva mai tradito. Allentò la stretta. Quindi si allontanò con qualche balzo, prendendo lo slancio proprio sulla testa di Tatewaki: che tornò nel mondo dei sogni.
Akane rimase immobile e stordita, vivendo ancora nella sua mente le parole di quel ragazzo; e quel suo abbraccio, avvolta nel quale, per pochi interminabili secondi, si era sentita per la prima volta in vita sua così protetta.
“E-ehi…” riuscì quindi a balbettare, ma il giovane era ormai sparito. Akane respirò a pieni polmoni l’aria fresca del parco. Molte erano le cose che si chiedeva, in quel momento. Eppure finalmente le era chiarissimo ciò che doveva fare.
Ranma corse via con la maggior velocità possibile. Non era così che voleva andassero le cose. Era la sua realtà, che voleva: lì, doveva avvenire. In un mondo dove lui esisteva, dove Akane lo conosceva, dove entrambi avevano condiviso innumerevoli avventure non mancando mai l’uno all’altro nel momento del bisogno. Sapeva che qui non era giusto. E aveva deciso. Ora era libero di scegliere il proprio destino, no? Bene, aveva scelto: adesso che, grazie al buio, conosceva le sfumature, intendeva immergersi di nuovo nella luce. Inoltre, le cose senza di lui non andavano in modo esattamente meraviglioso. Sarebbe tornato. Non importava come. Ma sarebbe tornato.

Poco distante, mentre Akane camminava risoluta verso casa ed i piccioni di prima erano passati a cercare del cibo sulla carcassa esanime del Tuono Blu, una figura osservava il ragazzo col codino allontanarsi. Socchiuse gli occhi color zaffiro puro, giocherellò con qualcosa che teneva al collo.
Sorrise.
“Ci siamo, Ranma Saotome…” mormorò tra i denti.

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Capitolo 12
*** The road to China ***


PART TWELVE –

“THE ROAD TO CHINA”

 

Il cielo, completamente avvolto nello spesso mantello notturno, vedeva poco a poco addensarsi un’altra buia coltre: ma questa, al contrario di quella, non si sarebbe dissolta col tepore dei primi raggi del mattino. Era una coltre di nubi, pure gonfie d’acqua. La giornata pseudo-estiva appena trascorsa costituiva già un ricordo: gli ignari abitanti di Nerima, ancora beatamente supini nei loro caldi letti, avrebbero dovuto, però, attendere qualche altra ora per constatare che la beffarda figura dell’Autunno si era finalmente levata la maschera.
Uno, in verità, non dormiva: come ormai da diverse notti. Ranma, completamente avvolto dal quel crepuscolo ancora più terso del normale, si aggirava silenziosamente lungo i tetti del quartiere, deciso ad intrufolarsi nella malridotta dimora della famiglia Tendo.
Non si trattava affatto di un’impresa proibitiva. Trovò che le finestre non erano nemmeno state ben chiuse. Forse perché i Tendo sapevano che nessun ladro si sarebbe penato per rubare qualcosa da quella catapecchia, dove ben difficilmente potevano trovarsi custoditi oggetti di gran valore. Ma probabilmente anche perché, se un ladro fosse o no entrato, la cosa sarebbe risultata pienamente indifferente agli inquilini della casa. Il giovane Saotome si introdusse dalla veduta che dava alla soffitta.
Scese le scale di un piano. Girò le stanze, in prevalenza camere da letto, con la sicurezza di chi tra quelle mura aveva vissuto, e con la determinazione di chi sapeva esattamente dove dirigersi. Solo, si arrestò un momento passando accanto ad una porta, che recava un nome di persona in caratteri occidentali, disegnato su una sagoma di paperella. L’idea di entrare… e controllare come lei stesse, dopo quello strano pomeriggio… gli fulminò per un attimo la mente. Ma riprese la marcia. Aveva solo peggiorato le cose in questa realtà, con le sue continue interferenze. Era finito il momento di interferire. Se il suo piano avesse funzionato, le cose si sarebbero sistemate da sole.
Non poteva immaginare che, se fosse entrato, avrebbe constatato che non c’era nessuno in quella camera. Il letto era in perfetto ordine. La finestra era solo socchiusa. Sulla scrivania, un foglio lasciato a bella vista. Nell’armadio mancavano uno zainone da viaggio e una tenuta da kempo. Tenuta che non era mai stata realmente buttata via, ma accantonata in un angolo nascosto.
Ranma spinse, con la massima attenzione nel non fare rumore alcuno, la porta scorrevole che introduceva a quella che ricordava come la camera dove alloggiavano lui e suo padre: e che ora costituiva il piccolo dominio personale del vecchio Happosai.
Si mosse con maggiore difficoltà, badando a non inciampare tra i capi di biancheria intima femminile sparsi ovunque. Si guardò in giro, cercando di abituare, il meglio che poteva, gli occhi alla penombra. Scosse la testa, non trovando l’oggetto della propria ricerca.
Improvvisamente fu fatto sobbalzare da un rumore sordo. Era stato scoperto?… Falso allarme, Ranma si capacitò che si trattava solamente del vecchiaccio che si era girato di colpo, la bocca spalancata e un po’ di bava che ne usciva fuori: forse frutto di un qualche sogno non troppo innocente. Disgustoso anche in questo. Ma ciò portò l’attenzione del ragazzo col codino a quello che Happosai stringeva avidamente tra le proprie grinfie: una vecchia scatola. Saotome se la ricordava, quella scatola. Afferrò il primo reggiseno che trovò a portata di mano e lo allungò in direzione degli artigli di quella specie di demone in miniatura. Anche se profondamente addormentato, il vecchiaccio avvertì subito l’adorabile presenza ed accettò facilmente lo scambio, afferrando il reggiseno e allo stesso tempo lasciando andare il contenitore. Ranma lo prese immediatamente e lo portò con sé in un angolo, non potendo aspettare oltre.
Aprì il coperchio e cominciò a frugare al suo interno. Uno yo-yo, un orsacchiotto di pezza, una pipa di riserva ed altre simili cianfrusaglie. Ma, misti a queste, anche altri oggetti di ben diversa importanza.
Il braccialetto con le compresse dell'amore. Il disegno con sopra indicati i punti terapeutici per guarire dalla Moxibustione. Libri di diversi generi, sicuramente rubati. Un tomo con la storia di alcune famiglie francesi, dove spiccava la biografia di tale La Petit Bouche, con tanto di illustrazione della tecnica chiamata Gourmet de Foie Gras. I cerotti afrodisiaci cinesi di cui una volta Ranma era rimasto vittima. Il foglio che riportava le posizioni degli tsubo per annullare l’Happo Goen Satsu. Il tesoro sgraffignato all’altro vecchiaccio, Lakkyosai: cioè il Nishiki no Cho, il bastoncino d’inchiostro di china dai sette colori che serviva a… se ci pensava, gli veniva ancora la pelle d’oca per il ribrezzo. La ricca collezione di incensi, tra cui quello che sdoppiava la propria parte maledetta, e lo Shunminko, il quale mandava in letargo chiunque lo annusasse. Ed infine… eccolo, l’oggetto della sua ricerca!
Lo Specchio Greco!¹
Forse quell’oggetto faceva al caso suo. Lui non era mai nato, questo era vero: ma valeva per gli altri. Ranma c’era ancora e i ricordi affollati nella sua mente erano – lo dovevano essere – memorie di cose realmente accadute. Solo per lui, certo; non per il resto della realtà. Ma bastava, per il suo scopo: riportarlo nel passato rimpianto. Almeno così sperava.
Non aveva bisogno di nessuna cipolla, come era invece successo le volte precedenti che aveva fatto ricorso a quello strumento così affascinante. La lacrima partì da sola. Troppe emozioni lo avevano messo alla prova anche quel giorno e gli bastò riviverle per un attimo. Ranma guardò la bolla d’acqua salata infrangersi sul vetro e distorcere leggermente la propria immagine.
Nient’altro.
Il luogo e il tempo pensati da Ranma erano ovvi. Aveva desiderato tornare a Yakuzai poco prima che Shampoo evocasse lo Saishuu Shiyou Rei-ryuujin. Nessun bagliore lo aveva, però, avvolto. Attorno a sé, ancora il buio della stanza e il russare monotono di Happosai.
Lo Specchio Greco non aveva funzionato.
Eppure, eppure lo avrebbe dovuto spedire nel tempo da lui rimpianto e vissuto. Perché lui li aveva vissuti, quegli eventi… no? Certo che li aveva vissuti, si disse più per darsi sicurezza che non credendo veramente in ciò che asseriva tra sé. Due, le spiegazioni che gli vennero presenti. La prima, che… lui non esisteva, punto. Se Ranma Saotome non era mai nato, che senso aveva tutto quello che stava facendo? Forse lo era veramente, un fantasma. Ciò avrebbe spiegato benissimo come mai lo Specchio Greco non aveva funzionato con lui.

Questo significava la fine di tutte le speranze.

Ma la speranza è ultima a morire.

E l’altra, di ipotesi, gli si era insinuata già quel pomeriggio. Nel momento stesso in cui era stato sul punto di… eehm, quando si era avvicinato ad Akane. Semplicemente, non era Ranma ad essere fuori posto: ma la realtà, a non essere la sua realtà. E quella Akane, che non aveva appunto reagito da Akane al suo abbraccio – certamente perché scossa da tutti gli avvenimenti di quella giornata, era anche notevolmente fuori forma in quanto a forza e riflessi – ma. Difficile da spiegarlo, lui lo aveva sentito e basta, d’altronde non si era sempre fidato del proprio intuito? Ebbene, Ranma aveva avvertito che quella non era la sua Akane.
Non che lui si fosse sentito molto se stesso, quel pomeriggio. Diamine, l’aveva abbracciata! E forse stava anche per osare ba… Che gli era preso?! C’erano state sì un altro paio di volte, negli ultimi mesi, in cui si era preso tanto coraggio: ma quelle erano state situazioni più ambigue, o chiusi loro due in un armadio per sfuggire alla tutina della forza, o lui al buio solo con Akane fraintendendo però le intenzioni di lei, che intendeva in realtà salvarlo dalla katana di sua madre. Tanto aperto, prima di quel pomeriggio, non lo era mai stato né credeva sarebbe mai potuto esserlo. Quest’esperienza di spettatore del mondo lo aveva forse sconvolto troppo.
Di esperienze spiacevoli ne aveva avute tante, ultimamente. E non era nemmeno passato troppo tempo dalla battaglia del monte Hooh. Forse perché credeva di stare perdendo per sempre la sua fidanzata rozza, era riuscito a farle delle confidenze per lui altrimenti inimmaginabili. Magari, non avesse perso per un attimo la speranza che lei lo potesse ancora udire, si sarebbe ritrovato, la propria timidezza ed il proprio orgoglio lasciati completamente alle spalle, a gridare non il nome di Akane ma tutto il sentimento che provava per lei. Strano come certi eventi possano cambiarti.
Del resto, bastava pensare a Ryoga, quando era temporaneamente guarito dalla maledizione grazie al sapone magico di Shampoo: vedere il ragazzo dai lunghi canini, normalmente più timido ed impacciato di Ranma stesso, felice e reso sicuro di sé dal fatto di non dover diventare più un porcellino tanto da correre dietro ad Akane come un assatanato, nemmeno fosse diventato Kuno e Happosai fusi insieme, era stato qualcosa di piuttosto bizzarro.
Quella strana situazione aveva costretto Ranma a confrontarsi con i sentimenti che teneva repressi. E finalmente si era esposto. Solo, con l’Akane sbagliata. Doveva rimettere le cose a posto, riavere i suoi cari… e la sua Akane. Ma come?…
L’adolescente con la camicia cinese spalancò la finestra e balzò fuori nel giardino, arrivando a terra con un’agile capriola. La quale venne, inaspettatamente, accolta da uno sbrigativo applauso, che lasciò Ranma, per un momento appena, a bocca aperta.
“Molto bene, bravo.” gli si riferì una voce ormai a lui odiosa. “Ottimo, il voto in educazione fisica.”
“Shingo.” mormorò Saotome.
Non era del tutto sorpreso. Erano ben due giorni che l’uomo del medaglione non si faceva più vedere. Ranma sapeva che non lo avrebbe atteso ancora molto. Sapeva che Shingo aveva bisogno di lui, per qualche recondito motivo. Eccola, un’altra speranza.
“E’ un po’ di tempo che non ci vediamo, Ranma Saotome.” sorrise quello. “Spero che il tuo cervellino abbia fatto qualche progresso, dall’ultima volta.”
Il suo volto si fece serio.
“Scommetto che non hai ancora capito con esattezza in quale situazione ti trovi, ho per caso indovinato?”
“Perché non me la spieghi tu?” fece il ragazzo col codino, con tono di sfida.
L’altro portò la mano ad una ciocca dei lunghi capelli dai riflessi di platino. “Non ne vale la pena.” disse. “Non ho certo intenzione di sprecare il mio fiato per questo.”
“Allora perché sei qui?” replicò secco Ranma.
“Hai combinato un paio di… guai anche in questa nuova realtà, da quel che ho potuto osservare.” lo squadrò Shingo.
Ranma lo fissò attentamente. Quel maledetto! Possibile che lo avesse spiato ancora, dall’ultima volta? Ma non se n’era mai accorto: com’era mai concepibile che il suo istinto di artista marziale lo tradisse sempre, quando aveva a che fare con l’uomo del medaglione?
“Come sei corrucciato!” lo provocò ancora Shingo. “Su, sorridi! Sono venuto da te appunto con uno scopo: darti la chiave per rimettere le cose a posto.”
“Sarebbe?”
“Semplice!” alzò gli occhi al cielo. “Se vuoi risolvere i tuoi problemi, devi tornare alla loro fonte.”
“Tutto qui…? E che diamine vuol…”
Ancora una volta si ritrovava a parlare al vento. Di Shingo, nessuna traccia.
Amico o nemico? Una cosa era sicura: stava divenendo il suo passatempo preferito, quello di svanire nel nulla nel bel mezzo di un discorso. Secondo, forse, solo a quello di rivelargli la realtà dei fatti poco alla volta, pensò Ranma. Anzi, stavolta non gli aveva detto proprio niente di utile. A cosa mai si riferiva, parlando dell’origine di suoi problemi? Forse alludeva al Rimedio Definitivo della famiglia amazzone: in effetti, tutto quello che conosceva a riguardo derivava esclusivamente dall’aver udito per caso il dialogo tra Shampoo e Ucchan nella grotta di Yakuzai. Ma come poteva mai scoprire qualcos’altro?… Un momento. Shingo non gli aveva parlato dell’origine dei suoi problemi, aveva pronunciato la parola fonte. Una buffa combinazione… La “fonte” dei suoi problemi – beh, quella costituiva sicuramente la definizione più appropriata che potesse esserci per il proprio disgraziato tuffo nella Niang Nichuan, per l’appunto la fonte dove era annegata una giovane ragazza, che tanto gli aveva stravolto la vita.
Colpa di Jusenkyo, anche se ora si trovava in quella pazzesca situazione. Era o non era caduto nella trappola di Shampoo credendo di cercare la sorgente della Volpe Rossa, allo scopo di tornare un uomo per intero? Perché sua madre potesse andare orgogliosa di lui. Perché non dovesse essere considerato una mezza femminuccia. La sua condizione era un’autentica tortura. Quanti problemi, quanti equivoci gli aveva causato. E dire che…
Quante cose non sarebbero state le stesse, se solo suo padre avesse saputo il cinese… se solo loro avessero prestato maggiore attenzione alla guida delle Sorgenti Maledette, che tentava di avvertirli… se solo quel giorno di primavera, il giorno del suo arrivo a Nerima, non si fosse messo a piovere… Maledizione! Perché diavolo quel panda pulcioso lo aveva portato in Cina?!… In Cina? Ranma strabuzzò le palpebre. Ovvio! Ecco cosa doveva fare, quello che in realtà gli aveva indicato Shingo.
Lasciò immediatamente il quartiere, deciso a raggiungere al più presto la Cina.
Non sospettava di essere osservato anche quella volta. Shingo, seduto sopra il tetto di una casa, fissava divertito il ragazzo col codino correre via: segno che aveva recepito il messaggio e che presto avrebbe capito da solo ogni cosa. Bene, non rimaneva che… aspettarlo.
Il medaglione fu avvolto da un potente bagliore.

E Shingo tornò finalmente nel suo mondo.

 

Il viaggio era stato penoso e arduo. Arrivare in Cina a nuoto, non costituiva ormai da tempo una novità per lui. Più difficile il tragitto, da quando aveva la sua maledizione. Inoltre l’acqua del mare era molto fredda, certamente non aveva scelto il clima migliore per una lunga nuotata. E se, qualche giorno prima, l’estate pareva cercare di resistere allo scorrere delle stagioni, adesso era l’inverno a voler anticipare la propria venuta. Il vento soffiava gelido, mentre le nubi promettevano un grosso acquazzone: lui, neanche a dirlo, non aveva minimamente pensato a procurarsi un ombrello, lungo la strada. La cosa importante, comunque, era che Joketsuzoku non doveva ormai trovarsi molto lontano.
Aveva raggiunto la catena di montagne Bajankala della provincia di Chinhai. Buona parte della strada era stata fatta; lo sapeva perché aveva memorizzato abbastanza bene il percorso, l’ultima volta che era venuto in quei luoghi: quando, cioè, la piccola Plum aveva guidato lui, Ryoga e Mousse sul monte Hooh per salvare Shampoo e la mappa delle Sorgenti Maledette dalle grinfie di Kima e degli uomini-uccello.
Il monte Kensei, sede delle fonti di Jusenkyo, era nei pressi. Ma qualcosa aveva la priorità rispetto alla cura della sua maledizione: l’obiettivo di Ranma era, infatti, incontrare Shampoo oppure Obaba o qualcun altro che avesse sentito parlare dello Spirito-dragone del Rimedio Definitivo e potesse dirgli come annullare l’incantesimo; la meta era solo ed esclusivamente il villaggio delle amazzoni cinesi.

Il ragazzo col codino si arrestò. Aveva chiaramente percepito una presenza. Sicuro! Qualcuno l’aveva udito sopraggiungere e si era nascosto. Ancora Shingo? No, conoscendo il suo stile: non si sarebbe lasciato scoprire cosi facilmente; inoltre sarebbe già dovuto essergli comparso di fronte… e non strusciare, come un coniglio, dietro quelle rocce… proprio quelle laggiù! Ecco, aveva individuato il nascondiglio: tre grossi massi disposti uno sopra l’altro, che proiettavano una lunga – ma innaturale – ombra sul suolo.
Ranma si voltò di scatto, scagliandosi con decisione verso le rocce. Ottenne l’effetto, sperato, di spaventare il losco figuro rifugiatovisi: quello tentò la fuga, ma il ragazzo col codino gli fu davanti con un unico balzo.
“Allora, si può sapere perché mi stavi spiando?!”
“Aiya! C'è un errore!” gridò un tizio dalla buffa faccia rotonda e dai tipici lineamenti asiatici, con indosso la divisa del partito comunista cinese, il cui aspetto e la cui voce erano tutt’altro che sconosciuti a Saotome.
“Un momento! Ma tu non sei… la guida delle Sorgenti Maledette?!”
“Mmh? Tu mi conosci?” disse l’altro, in un giapponese discreto, ma non eccessivamente fluido.
E proprio in quell’istante si mise a piovere, con la conseguenza che la statura di Ranma diminuì considerevolmente: più tutti gli altri effetti, e ciò proprio sotto gli occhi della guida.
“Aiya, ti sei trasformato in ragazza… per caso tu caduto in fonte Niang Nichuan, dove secondo tragica leggenda millecinquecento anni fa affogò povera ragazzina? Ma non mi ricordo di te.” Detto questo, si sfilò lo zaino che portava alle spalle: vi estrasse un piccolo quadernino e chiese il nome al proprio interlocutore. “Sarà meglio controllare.”
*Quello è il registro delle Sorgenti Maledette!* osservò in silenzio Ranma.
La guida esaminò scrupolosamente il testo. Anche la rossa diede una sbirciatina, ma non ne cavò fuori granché dato che non sapeva leggere i caratteri cinesi in cui il registro era redatto.
“Tuo nome non c'è.” disse poi la guida, rivolta al proprio interlocutore. “Ciò conferma fatto che non ti ho mai visto prima, che cosa strana!”
“Dunque perché mi stavi spiando?”
“Spiarti? Io? Ti sbagli! Ero solo partito da mia casetta in leggendario campo Jusen per…”
La ragazza dalla chioma fulva fu colta da un’illuminazione.
“Vieni da Jusenkyo?! Allora puoi portarmi là?” chiese, entusiasta di quella inaspettata occasione di potersi liberare finalmente del proprio aspetto femminile, a tal punto da avere temporaneamente scordato tutto quanto il resto.
“Come mai?” chiese la guida, perplessa. “In cos’altro ti vorresti trasformare?”
“Scemo, che hai capito?!” replicò seccata la rossa, mentre un gocciolone le solcava la fronte. “Voglio tuffarmi nella Nannichuan e tornare un uomo per intero.”
La guida si turbò. Il buffo uomo tacque per un mezzo minuto, quindi riprese a parlare.
“Mi dispiace, ma questo non possibile.”
“Eh?” fece perplessa l’altra. “Non puoi portarmi alle sorgenti?”
“Certo che potrei, se volessi!” disse lui. “Sono o non sono una guida?”
“Allora… tu non vuoi farmi tornare normale?!” scandì lentamente Ranma, socchiudendo le palpebre con un’espressione piuttosto accigliata.
“Non detto questo.” fece lui, sereno. “Solo che, anche se volessi, non potrei.”
La rossa cadde con le gambe all’aria.
“Ma non avevi appena detto che…”
“Adesso mi spiego. Potrei portarti a sorgenti: ma sarebbe fatica sprecata, dal momento che Nannichuan – e tutte altre pozze maledette – si sono prosciugate. Ecco il motivo per cui non posso farti tornare normale.”
“Che… che cosa?” sussultò Ranma-chan.
“Colpa di alcuni brutti omacci con ali e artigli: mi hanno riempito di bernoccoli, rubato mappa di sorgenti e fermato l’acqua. Non sono molto cordiali, sai? Temevo tu fossi uno di loro, per questo mi sono rifugiato dietro quelle rocce: ho moglie e figlia, non posso correre rischi procurandomi altri bernoccoli; e se mi venisse una cervicale?… Anche se, adesso che fonti sono seccate… un vero disastro!”
La ragazza col codino si buttò ginocchia a terra, sconfortata. Possibile che le uniche cose che, senza la sua esistenza, si svolgevano in modo perfettamente identico, fossero quelle negative?!… Ora non aveva certo il morale per fronteggiare di nuovo Safulan, l’uomo-fenice, il principe del monte Hooh. Inoltre doveva pensare al Rimedio Definitivo. Tuttavia, non riuscì ad evitare di ripetere con frustrazione le ultime parole della guida:
“Già… proprio un vero disastro!”
“Trovi anche tu?” disse il cinese. “A coloro che sono caduti in fonti non importava di tornare normali. Ma io, invece, ci ho rimesso il posto di guida: chi verrà mai a visitarle, delle pozze asciutte?! Un disastro!”
Un altro gocciolone scese lungo le tempie della rossa.
“Bene, non mi rimane che andare in pensione anticipata.” concluse la guida, rimettendosi addosso lo zaino. “Dopotutto un po’ di vacanza me la merito, dopo più di venti anni di lavoro… Addio, amico, la vecchia Cologne mi aspetta.”
“Un momento! Hai detto… Cologne?!”

 

“Ni-hao.”
Una figura non più grande di un soprammobile si voltò, riconoscendo la voce amica. Spalancò i grandi occhi a palla e si avvicinò ai due nuovi arrivati, saltando sul nodoso bastone cui era avvinghiata, i lunghi capelli grigi che ricoprivano parte del legno.
La guida e la vecchia amazzone si scambiarono alcune battute in lingua cinese, che Ranma non fu assolutamente in grado di intendere. Quindi lo sguardo della vecchia si posò sulla ragazza.
“Sei giapponese, non è vero?” chiese, in perfetto idioma.
“Hai indovinato, vecchia!” disse Ranma.
“E sentiamo, chi saresti?”
“Questa ragazza” la anticipò la guida “ha voluto a tutti i costi seguirmi fin qui."
“Ciò che conta, è che non sei del nostro villaggio. Dunque ti pregherei di lasciare la mia dimora: dal momento che le ragazze non di questi luoghi hanno sì il permesso di visitare il villaggio, ma non di entrare nelle case delle Grandi Anziane.”
“Aspetta!” la interruppe l’altra, con fermezza.
“Mmh?!”
“Sono giunto qui apposta per farti una domanda. Mi risponderai?”
Obaba strinse le sottilissime pupille.
“Mi hai incuriosita. Avanti con la domanda.”
“Perfetto.” sorrise Ranma. “Ti dice niente, Saishuu Shiyou Rei-ryuujin?”
La rossa poté vedere lunghe gocce di sudore scorrere lungo le innumerevoli rughe dell’esperta amazzone. Obaba pareva veramente sorpresa.
“Tu… come conosci quella tecnica?! Si tratta di un antichissimo segreto delle amazzoni cinesi, che viene tramandato da innumerevoli secoli, di generazione in generazione, tra i membri della mia famiglia. E, poiché io sono l’ultima depositaria di tale segreto, tu non puoi conoscerlo.”
“Invece posso, come puoi vedere. Esiste un modo per annullare gli effetti del Rimedio Definitivo?”
La vecchia ghignò.
“Questa è una seconda domanda.”
“Poche storie!” esclamò Ranma. “Esiste o non esiste?”
Obaba tornò seria.
“Ebbene…”
“Ebbene?”
“Ebbene, no.”
“N… no?” sussultò la ragazza col codino.
“Solamente lo Spirito-Dragone in persona potrebbe annullare il suo stesso incantesimo: ma questo, come descrivono le antiche pergamene, può essere evocato una ed una sola volta…”
E per un’unica persona. Risparmiati la solfa, la so già!” la zittì, amareggiata, la rossa. Adesso sapeva di non avere più speranze: doveva rassegnarsi ad accettare questa realtà, per quanto fosse per tutti i suoi cari peggiore della precedente, e la sua nuova vita, quantunque si prospettasse triste e solitaria. E Shingo? A quanto pareva, non si trattava che di un burlone deciso a tormentarlo e illuderlo. Ma le illusioni erano finite. Anzi, quello strano tipo intendeva sicuramente solo fargli capire che era giunto sul serio per lui il tempo di cominciare una nuova vita. Ranma si lasciò cadere a terra, in segno di resa.
“Oh quasi dimenticavo!” La guida, che durante quel dialogo aveva messo a bollire del tè in un pentolino, sbatté i palmi delle mani. “Tieni, Obaba: ti affido come d’accordo tutti oggetti sacri che finora erano stati sotto mia custodia.”
“Fai bene.” disse la vecchia. “Alcuni di essi sono troppo pericolosi per cadere nelle mani di persone comuni.”
La guida rovesciò lo zaino, facendo cadere vari bracciali, sigilli e roba simile. Ranma si riscosse, attirata da un oggetto in particolare.
“Ma – ma quello è…” esclamò stupefatta.
Com’era possibile?! Il medaglione di Shingo. Lo strano oggetto che il tizio del mistero portava sempre al collo. E adesso si trovava proprio davanti agli occhi di Ranma.



¹ In alcuni episodi dell'anime. Rubato dal giovane Happosai ad Obaba durante il "soggiorno" nel villaggio delle amazzoni, lo Specchio ha il potere di portare le persone nel passato rimpianto.

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Capitolo 13
*** Deity's charm ***


PART THIRTEEN –

“DEITY’S CHARM”



“Ragazzina.” disse Cologne.
“Ti vedo molto attratta da quel medaglione. E’ un male.”
“Quel” balbettò Ranma-chan “quel medaglione – io l’ho già visto.”
“Cosa?!” esclamò la vecchia, preoccupatasi d’un tratto.
“Non può essere!” disse la guida. “Lo tenevo da vent’anni sotto mia custodia, e nessuno ci si è mai potuto nemmeno avvicinare.”
“Invece vi dico che l’ho visto!” replicò seccata la rossa. “Appeso al collo di uno strano tipo che afferma di chiamarsi Shingo.”
“Vuoi dire… che qualcuno si sarebbe impadronito del medaglione sacro?” chiese Obaba.
“Ma se sta qui, davanti nostri occhi!” protestò ancora l’omino cinese tutto vestito di verde. “E’ oggetto coperto dal mistero, nessun mortale deve sapere che si tratta del leggendario accessorio che permette di annullare maledizione di Sorgenti Maledette.”
“Zitto, idiota!” tuonò, troppo tardi, la vecchia.
“Ehm, scusa.”
“Sarebbe così che avresti mantenuto il segreto, in questi ultimi venti anni?!… Per fortuna che la cosa non riguarda affatto questa mocciosa.”
“Beh, ecco…” sorrise nervosamente la guida. Dopodichè, versò sopra la fanciulla col codino il tè appena preparato.
“Aah, è bollente!” gridò una voce dal timbro virile.
“Giusto cielo!” sbuffò Obaba. “Fammi indovinare, una vittima della Niang Nichuan?”
“Proprio così, vecchia!” disse Ranma, tornato uomo ed eccitato dalla felice novità. “Fatemi capire, voi due, se indosso il medaglione non mi trasformerò più in una ragazza?”
“Impudente!” Cologne lo picchiò col lungo bastone. “Ho già detto che è un male, che tu sia attratto da quel medaglione.”
“Perché? Spiegati, almeno!”
“E sia.” disse la vecchia. “Quello che vedi è il leggendario Tai-ma no Mamori.”
“Tai-ma no Mamori.” ripeté meccanicamente Ranma.
“Esatto, il Talismano dello Spazio-Tempo. Il mito di cui è oggetto risale ai primordi della civiltà, tanto che quasi tutti ne hanno perduto memoria.”
“Ma non tu: giusto, vecchia?” sorrise Saotome.
“Non interrompermi!” lo rimproverò Obaba. “Secondo la leggenda, in un tempo remotissimo gli uomini godevano della protezione delle divinità. Queste ultime, antropomorfe, erano per la maggior parte benigne, fautrici dell’Ordine, e cercavano di favorire in ogni modo i loro compagni mortali.
L’immortalità, però, fa perdere il senso della misura. Cagiona noia. E alcune divinità, tentando di sconfiggere la noia, si facevano beffarde e davano continui fastidi. Si professavano, inoltre, adoratrici del Caos, di gran lunga più divertente ed eccitante. Detestavano gli uomini perché fu proprio per avvicinarsi ad essi, che gli dei scelsero di preferire l’Ordine al Caos primigenio. Una di loro, di nome Muchitsujo, il signore di quel Caos primigenio, creò per suo puro diletto il luogo maledetto di Zhou Chuan Xiang: nella tua lingua, Jusenkyo.”
Obaba prese un largo respiro.
“Le fonti avevano il potere di memorizzare l’aspetto di chi vi cadeva dentro per la prima volta. Poteva trattarsi di creature animali, esseri umani o addirittura altre divinità: pure queste soggette alla maledizione di Muchitsujo.” Mentre Cologne narrava, Ranma ripensò istintivamente alla sua esperienza con Rouge, la quale si era bagnata nella Asuranichuan, trasformandosi nel dio guerriero indiano Asura. “Quello che avevano in comune, è che venivano tutti attirati in quella zona dal beffardo incantesimo del dio: infine, chi si immergeva successivamente nelle fonti, assumeva – ed assume ancora oggi – le sembianze a suo tempo memorizzate. Tutto chiaro, fin qui?”
Ranma annuì.
“Ora, avvenne che una delle divinità dell’Ordine, Saitoki, figlio del sommo Ryuukei, che era a sua volta il leggendario signore del Tempo e dello Spazio, divenne curioso di conoscere più a fondo la condizione mortale degli esseri umani che proteggeva assieme agli altri membri della sua stirpe celeste. Fu così che decise di scendere sulla terra e vivere per un certo periodo di tempo nei loro villaggi. Per fare ciò, dovette reprimere la propria natura divina, la cui vista avrebbe folgorato all’istante lo sventurato mortale che vi si fosse imbattuto, e assumere le sembianze di un giovane umile pastore.
Passarono gli anni e Saitoki peregrinò di villaggio in villaggio, cercando di apprendere sempre nuove cose riguardo ai suoi protetti. Conobbe popoli dalle ben misere condizioni di vita, costretti ad affrontare ogni giorno presente una dura lotta con gli elementi della natura per poter guardare al giorno successivo: eppure andavano avanti, nonostante la loro così infelice condizione e, innanzitutto, nonostante la loro mortalità. Cosa dava loro la forza, di vivere con tanta intensità quel poco tempo, e così sofferto, che avevano a disposizione? Saitoki meditò su come aiutare concretamente gli umani, cercando allo stesso tempo di carpire il segreto della loro condizione. Questo si mostrò una cosa ardua. Saitoki meditava, e gli anni divennero lustri. Saitoki, che di tempo ne aveva infinito davanti a sé, si spostava incurante di zona in zona, all’incessante ricerca della soluzione. E i lustri divennero decenni. E i decenni, secoli. E i secoli…”
“Abbiamo capito!” la interruppe Ranma. “Ma quand’è che arrivi al sodo?! Soprattutto, cosa c’entra questa storiella con i poteri del medaglione?!”
“Ci stavo arrivando!” Cologne lo premiò, per la sua interruzione, con una seconda bastonata sul capo. “Dicevo, il tempo trascorreva inesorabile e le generazioni di uomini si succedevano l’una all’altra. Mentre il dio, al contrario, rimaneva sempre giovane grazie alla sua immortalità.
Un giorno, all’incirca mille anni or sono, portando il gregge a pascolare lungo dei campi accoglienti e fioriti, Saitoki udì una voce soave, trasportata a grandissima distanza dalle correnti del vento. Decise di seguire il percorso formato da quella melodia e di individuare la persona da cui provenisse. Fu così che si trovò davanti ad una bellissima fanciulla, dai tratti leggiadri e gentili. Estasiato dalla bellezza della ragazza, e dalla purezza che pareva da lei manifestarsi come il calore trasportato dai biondi raggi del sole mattutino, rimase letteralmente senza fiato: e, per la prima volta nella sua pur lunghissima esistenza, gli parve di essere sul punto di perdere il controllo dei propri poteri. Si trattò, come si suol dire, di amore a prima vista. Lui la guardava, senza proferire parola. Lei lo guardò a sua volta, e gli sorrise. Lui rispose a quel sorriso.
Si scosse, infine, e riuscì a chiederle il nome. Lei disse di chiamarsi Pyu-ha. In breve Saitoki scoprì che Pyu-ha era pure lei una pastorella, proveniente da un vicino villaggio dei dintorni. Si offrì di accompagnare Saitoki, stanco e affamato dopo il suo lungo peregrinare, al proprio villaggio, dove lui avrebbe potuto riprendersi dalle sue fatiche. Saitoki non lasciò più quel villaggio. Presto i due si ritrovarono a portare insieme i loro capi di bestiame a pascolare. Era evidente che anche Pyu-ha aveva un debole per Saitoki.
Qui sorsero i problemi. Quando Saitoki si trovava vicino all’amata, mille emozioni lo travolgevano e rischiava sempre di perdere il controllo e dissimulare il proprio travestimento umano. Ma non poteva assolutamente rivelarsi a lei. Sapeva infatti che, se avesse finito per mostrarle il suo vero aspetto divino, la fanciulla sarebbe rimasta folgorata e sarebbe morta all’istante: non potendo la natura umana reggere la vista di un’entità superiore, come già detto. Per il bene di Pyu-ha, il povero Saitoki aveva capito che sarebbe dovuto andare via, molto lontano da lei.
Una notte come tante, fece i bagagli e lasciò definitivamente il villaggio di Pyu-ha, senza nemmeno trovare il coraggio di congedarsi da lei. Cosa avrebbe potuto dirle? Come avrebbe potuto spiegarle? Riprese a viaggiare... Triste e sconsolato, Saitoki vagava senza meta tentando vanamente di seppellire nell’oblio le sue pene d’amore. Ma il tempo, adesso, passava per lui lento come mai. Ed invece di cancellargli i ricordi, glieli rendeva, se possibile, ancora più amari.
Saitoki giunse infine a Zhou Chuan Xiang, intenzionato a porre fine ai suoi tormenti buttandosi in una pozza ancora pura: era a conoscenza dell’incantesimo di Muchitsujo, sapeva dunque che anche le divinità potevano annegare nelle Sorgenti di Jusen o comunque cadere vittime della loro maledizione. Avrebbe ottenuto l’oblio, in un modo o nell’altro.
“Addio, mia piccola dolce Pyu-ha!” sospirò, prima di lasciarsi andare alle gelide acque. Un braccio lo trattenne.
“Fermo, Saitoki!” pronunciò una voce soprannaturale; il dio si voltò e poté riconoscere Muchitsujo in persona. “Ho seguito la tua vicenda, e ti dico che non risolverai così i tuoi problemi. Non vedi che quella ragazza ricambia i tuoi sentimenti? Non pensi a quanto sta soffrendo, ora che sei andato via da lei?”
“Eppure non mi resta altro da fare.” disse Saitoki. “Non voglio tornare al mio posto, nella mia dimora celeste, così lontano dalla donna che amo. Ma non posso nemmeno tornare da Pyu-ha, giacché, non essendo in grado dinanzi a lei di controllare la mia natura divina, la mia presenza la metterebbe in continuo pericolo di vita. Vedi, ora so che questo mondo non è per me. Nessuno dei due mondi è per me. Mentre Pyu-ha merita di passare il resto della sua vita accanto ad un mortale come lei.”
“Che ne dici, allora, se fossi tu quel mortale?” propose Muchitsujo.
“Cosa intendi?” domandò confuso Saitoki.
“Conosci la maledizione di queste fonti.” si spiegò il dio. “Tra di esse ce n’è una, la Nannichuan, che fa al caso tuo: tempo fa vi annegò un ragazzo umano, di conseguenza essa ti donerà sia l’aspetto che la natura umana.”
“E’ meraviglioso!” esclamò Saitoki. “Solo che…” scosse il capo.
“Cosa non va?” chiese il dio del Caos.
“Questo vorrebbe dire” mormorò Saitoki “perdere la mia divinità… e soprattutto la mia immortalità.”
“Niente affatto!” lo rassicurò Muchitsujo. “L’acqua calda annullerà l’incantesimo ogni volta che vorrai, scacciando temporaneamente quello spirito mortale che s’impadronirà di te. Come vedi, non corri alcun rischio.”
“E potrò tornare dalla mia Pyu-ha, senza più temere di metterla in pericolo!” completò il ragionamento Saitoki. “Sia, dunque: accetto la tua generosa offerta!”
Senza aspettare oltre, Saitoki si tuffò nella sorgente dell’uomo annegato. Quando riemerse dalle acque, il suo aspetto esteriore non era affatto cambiato. Ma era cambiato lui dentro di sé, e questo lo poteva avvertire chiaramente. Era un essere umano.
“Aspettami, Pyu-ha! Sto venendo da te!” gridò ai campi e alle montagne, mentre correva pieno di gioia in direzione del suo villaggio.
Il piano beffardo di Muchitsujo era stato così portato a termine.
Quando giunse la sera, Saitoki era ormai allo stremo delle forze. Non era per nulla abituato a sensazioni umane come la stanchezza, e questo lo aveva reso poco resistente. Constatò con amarezza di non essere giunto a nemmeno metà del cammino che lo separava dal villaggio di Pyu-ha. Determinò quindi di riacquistare i poteri divini, per poter completare facilmente il suo viaggio. Giunto presso un ruscello, si organizzò per raccogliere un po’ d’acqua e scaldarla con un fuoco improvvisato. Quando l’acqua ebbe raggiunto la temperatura giusta, Saitoki se la versò addosso e – scoprì con suo grande stupore di essere rimasto un umano!
Lo scherzo più subdolo che Muchitsujo avesse mai attuato. Il Caos aveva vinto ancora. Saitoki si disperò, alla ricerca di un senso a tutto ciò. Finì per invocare suo padre, il sommo Ryuukei, che come già detto era il leggendario signore del Tempo e dello Spazio.
Ryuukei scese dunque sulla terra e, constatata la situazione del figlio, intese cosa dovesse essere avvenuto. Quello che contraddistingue le divinità è la loro perfezione: Saitoki, bagnandosi nella Nannichuan, aveva contaminato la sua essenza mischiandola ad un’anima mortale, perciò adesso si trovava nella terribile condizione di impuro. Non avrebbe più potuto riacquistare i suoi poteri divini: era, adesso, un mortale tra i mortali.
Saitoki implorò l’aiuto del padre, temeva la mortalità umana più di ogni altra cosa. Ryuukei pianse molto il destino del figlio, giocato da una divinità folle che aveva creato tanto disordine per suo puro diletto. Decise di intervenire, e trovò il modo di risolvere la situazione. 
Fu in questo modo che Ryuukei creò il Tai-ma no Mamori, un medaglione dove aveva concentrato parte dei propri poteri divini in maniera che essi potessero venire utilizzati anche da chi dio non era. Lo fece indossare a Saitoki, il quale acquisì, tra le altre, la capacità di annullare qualunque maledizione delle sorgenti di Jusenkyo: ma solamente a patto che non si sfilasse mai il talismano. Così fece. Poté inoltre controllare facilmente i nuovi poteri. Poteva essere immortale ma anche stare con Pyu-ha! E Saitoki ritornò finalmente dalla sua amata.”
“Mi piacciono storie a lieto fine.” La guida si soffiò il naso, commossa.
“In quanto a Muchitsujo” proseguì Cologne “gli dei dell’Ordine decisero di punirlo per aver creato qualcosa di così inutile e problematico come Zhou Chuan Xiang. E riservarono per lui quello che stava per essere il destino di Saitoki: scavarono una nuova fonte, lo buttarono lì dentro ed infine ve lo sigillarono per i secoli futuri con un potente incantesimo.”
“E il medaglione?” domandò Ranma.
“Calma, il racconto non è ancora terminato.” disse Obaba. “Le divinità del Caos, offese per la triste fine di Muchitsujo, loro signore, decisero di vendicarsi contro i mortali con cui aveva convissuto Saitoki. Misero in giro tra gli dei dell’Ordine voci subdole e maligne: insinuarono che gli uomini, invidiosi dei loro poteri, volessero coalizzarsi per combatterli. Fu l’inizio di una serie di incomprensioni, che portarono presto alla rottura definitiva. Un giorno gli dei abbandonarono per sempre gli uomini, rompendo con loro ogni relazione ed isolandosi definitivamente nelle proprie dimore celesti.
Gli dei sembrarono, però, scordarsi del Tai-ma no Mamori. Il medaglione rimase quaggiù, conservando gli immensi poteri di Ryuukei.
La leggenda finisce qua, e qua inizia la storia. Non si sa con precisione cosa ne fu di Saitoki e Pyu-ha, né se furono mai esistiti realmente. Ma le leggende hanno un fondo di verità. E di certo si sa che questo medaglione fu tenuto dagli uomini che si succedettero, nei secoli, nell’importante compito di custodire le Sorgenti Maledette.” concluse Obaba.
“Ed io sono l’ultimo di questi!” disse con orgoglio la guida.
“Purtroppo, col viavai delle generazioni, la qualità dei custodi è andata sempre peggiorando.” mormorò Obaba. La guida ridacchiò stupidamente.
“Questo non spiega” protestò Ranma “perché a tuo dire, vecchia, questo medaglione sia un male. La leggenda che mi hai narrato non mi sembra per nulla tragica. Inoltre, quell’individuo chiamato Shingo, di cui ti parlavo prima, lo indossa e…”
“Se quello Shingo è un semplice umano, allora è uno sventurato!” lo zittì Cologne. “Non si scherza con i poteri delle divinità.”
“La tua ansia di guarire da maledizione non ti giustifica affatto.” sentenziò la guida. “Saitoki poteva indossare medaglione perché in lui scorreva comunque sangue divino, anche se contaminato. Se indossassi tu medaglione, invece, saresti sopraffatto e perduto da poteri troppo grandi per comune mortale. E poi, storia di tipo qualunque che lo porta addosso mi sembra grande frottola.”
“Quale frottola?!” Ranma si avventò sull’omino vestito di verde, afferrandolo per il colletto. “Credi che me lo sia inventato?!”
“Aiya, pietà! Ho moglie e figlia.”
“Buoni, voi!” disse loro la vecchia. “Il ragazzino mi pare sincero. E’ tuttavia un dato di fatto che il Tai-ma no Mamori si trova qui, in questa stanza: e non al collo del suo amico – a meno che...”
Cologne aggrottò le ciglia quasi inesistenti.
“Non sarà forse che” domandò a Ranma “mi hai chiesto dello Saishuu Shiyou Rei-ryuujin perché tu stesso ne sei rimasto vittima?”
“Ma – ma come l’hai capito?!” balbettò sorpreso lui. Obaba non gli rispose.
“Ora mi è tutto chiaro…” si limitò a mormorare, quasi tra sé.
“Cosa ti è chiaro?! Spiegati!”
“Ragazzino.” gli puntò contro l’estremità del bastone. “Tu hai idea di come operi il Rimedio Definitivo?”
“Io… credo di sì.” disse il giovane Saotome. “Mi ricordo che lo Spirito-dragone, una volta evocato, aveva assunto le sembianze di un vortice, come di fuoco: quando sono entrato nel vortice, penso di essere rimasto prigioniero del suo incantesimo.” Ricordava ancora le parole di Shampoo: il metodo per togliersi di torno i propri nemici. “In poche parole” continuò “ha cancellato la mia identità o qualcosa di simile. Giusto?”
Obaba sospirò. Quindi colpì nuovamente col bastone il ragazzo.
“Sbagliatissimo, invece! Non hai compreso un bel niente!”
Ranma smise di massaggiarsi il bernoccolo, il terzo bernoccolo di quel giorno, per nulla sicuro di aver udito bene le parole della vecchia.
“Che… che cosa vuoi dire?”
“Lo Saishuu Shiyou Rei-ryuujin consiste nell’evocare, per mezzo di un rituale magico, lo spirito di un antico dragone defunto duemilacinquecento anni or sono. Si narra che i dragoni, esseri ormai estinti da tempo, furono creati proprio da Ryuukei, e avevano perciò l’incredibile proprietà di manipolare l’energia interna.”
Il volto del ragazzo s’illuminò. Aveva pensato ad Herb, capace di sferrare potentissimi attacchi energetici appunto perché discendeva da un dragone e nelle sue vene continuava a scorrere quel sangue.
“Manipolando l’energia oltre certi livelli” continuò Obaba “si è in grado di squarciare la struttura della materia stessa, le trame dello Spazio-Tempo. I dragoni erano appunto difficili da avvistare, dal momento che si trasferivano continuamente da un universo all’altro.”
Ranma rimase muto quanto confuso. Obaba sospirò ancora.
“Temo che dovrò rendere più chiara la mia spiegazione con un esempio. Immagina che la realtà sia un fiume: questo non scorre rettilineo, lungo il suo percorso, ma incontra ostacoli vari che lo biforcano una e due e più volte. Le varie diramazioni seguiranno sentieri diversi, anche se nate dalla stessa fonte d’acqua e destinate a defluire tutte nello stesso oceano. Ebbene, la realtà è, allo stesso modo, scomposta in tanti universi paralleli. Va bene?”
Ranma la fissava, sempre più interessato.
“Lo Spirito-dragone” spiegò la vecchia “non ha cancellato la tua identità. Semplicemente, con i suoi poteri ti ha spedito in un mondo parallelo a quello che conosci.”
“Cioè… questo?”
“Questo. In realtà la cosa non è tanto semplice come l’ho descritta. Inoltre esiste una minaccia, legata a ciò: una minaccia molto grave.”
“Una… minaccia? Spiegati meglio!”
“Ora ti dirò.” Obaba si avvicinò al ragazzo col codino, rannicchiandosi sul lungo bastone.

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Capitolo 14
*** Rebirth ***


PART FOURTEEN –

“REBIRTH”


Ranma scrutò accuratamente il volto della vecchia amazzone. Molte erano le cose che stava scoprendo, mentre Obaba gli parlava. E le sorprese si accumulavano una dietro l’altra. L’ultima di queste l’aveva turbato non poco. Una minaccia. Legata al Rimedio Definitivo. E a quella… quella specie di storia sui mondi paralleli. Di cosa si trattava? Il giovane Saotome concentrò la propria attenzione, quasi dovesse apprendere una nuova tecnica di arti marziali.
“Vedi, ragazzo.” disse Cologne. “L’equilibrio delle cose è molto fragile, e nemmeno gli esseri superiori possono turbarlo oltre un certo limite. Così, semplicemente, lo Spirito-dragone, che pure è in grado di manipolare la materia a suo piacimento, non è onnipotente, in questo ambito, e nemmeno lui poteva spedirti in un universo qualunque. Infatti, devi sapere che qualcosa che fa parte di un mondo non può coesistere a lungo col proprio doppio dell’altra dimensione: se, in caso, essi venissero accidentalmente a contatto, si annullerebbero a vicenda o comunque qualcosa di simile. Questa è la minaccia riguardo ai mondi paralleli di cui ti accennavo e sta appunto a protezione dell’equilibrio delle cose.”
Saotome si ripeté mentalmente quelle parole, sperando di aver compreso.
“Dunque” accennò, per ottenere conferma “se io dessi, diciamo, un pugno ad un… un me stesso di un’altra realtà…”
“Sarebbe la fine per tutti e due. Almeno così credo: non è mai successa una cosa del genere, che io sappia!” ridacchiò l’altra, rilassando leggermente le abbondanti rughe. “Ora, nei tanti universi possibili la nostra essenza si ripete nelle forme più varie. Gli eventi si possono concatenare secondo innumerevoli combinazioni, cosicché non esiste una realtà perfettamente identica ad un’altra. Simile, semmai. E credo che questo sia il tuo caso: poiché, se sei a conoscenza dello Saishuu Shiyou Rei-ryuujin, tanto da averlo sperimentato sulla tua pelle, ciò non può che confermare il fatto che tu fossi già entrato in contatto col villaggio delle donne di polso. Sbaglio?”
Ranma scosse la testa. “Dici il vero, vecchia. Nella realtà da cui provengo, tu mi conosci. Questo mondo è molto simile al mio… salvo il fatto che qui non esisto e le cose collegate con la mia esistenza – beh, quelle invece si sono svolte in modo completamente differente.”
“Bene. Un mondo molto simile al tuo. Ma non credere che gli altri mondi siano tutti così. In verità, l’unica cosa che normalmente non cambia è la nostra presenza in ciascuno di questi universi. Questa, però, lo ripeto, non assume sempre la medesima forma.”
Il ragazzo con la camicia cinese si grattò la testa, stordito. Una tecnica di arti marziali era sicuramente più facile da apprendere. Si voltò, cercando istintivamente con lo sguardo la guida come per avere un aiuto. Ma il cinese era intento a soffiare sul suo tè caldo.
“Voglio solo dire” si spiegò Cologne “che in un’altra realtà ci sarà un te stesso completamente calvo, in un’altra un te stesso quattrocchi e topo di biblioteca… o più presumibilmente, esisterà un tuo doppio che non è caduto affatto nelle Sorgenti Maledette. Te l’ho già spiegato, nessuna realtà può essere uguale ad un’altra, dato che pure l’evento più insignificante può portare ad un effetto a catena: paradossalmente, anche il ronzio di una mosca può provocare un terremoto.”
Ranma sussultò. Ecco spiegato perché l’Akane di questa realtà non era esattamente quella che conosceva lui. Si chiese se per caso le sue continue interferenze con la dimensione in cui si trovava non rischiassero di stravolgerla. Forse era già successo. Pensò improvvisamente che, proprio a causa sua, quell’Akane non avrebbe più potuto far conto nemmeno su Kuno per riottenere l’insegna della palestra Tendo. Forse persino un idiota come il senpai sarebbe riuscito a sconfiggere il dojo yaburi. Ma ora anche quell’ultima speranza era morta. Il giovane Saotome dubitò di aver mai combinato qualcosa di giusto, da quando si era recato a Yakuzai.
“Chiaro fin qui?” riprese l’amazzone. “La nostra essenza, di solito, si ripete, pur con le sue differenze, in ciascuna realtà. Tuttavia, questa la cosa importante, per ognuno di noi esiste un’eccezione.”
“Un mondo dove non siamo nati?” provò ad anticiparla Ranma.
“Non solo.” precisò Obaba. “Un mondo dove non siamo nati né mai verremo ad esistere, sotto alcuna forma: un mondo, in altre parole, privo della nostra essenza. Questo è un caso più unico che raro, certo: ma l’imprevedibilità delle variabili comporta per forza anche l’eccezione alla regola.”
“E tutto questo è per dirmi…” accennò il giovane col codino.
“Per dirti che lo Spirito-dragone, una volta evocato, è stato incaricato di mandarti in un mondo parallelo al tuo. Dato, però, che nemmeno lui può andare contro natura, era tenuto a spedirti in uno solo degli universi paralleli possibili, cioè questo. Un mondo privo della tua essenza. Tutto ciò per mantenere l’equilibrio delle cose ed evitare che tu rischiassi di incontrarti con un tuo doppio. Ecco perché ti trovi qui.”
Rimasero tutti in silenzio. Ranma si aspettava che la vecchia aggiungesse qualcosa, restò in attesa per qualche secondo ma poi si spazientì.
“E… non hai altro da dire?!” domandò ad Obaba.
“Oh, sicuro. Un’ultima cosa ancora.” fece lei.
“Sarebbe?”
“Che vorrei anch’io un po’ di tè. Tutto questo parlare mi ha seccato la gola.” Scavalcando un Saotome piuttosto deluso, si avvicinò alla guida e si fece versare da bere.
Mentre dunque la coppia di cinesi prendeva il tè, Ranma riordinò i pensieri. Eccola, la verità dei fatti. Un mondo parallelo. Questo spiegava perché lo Specchio Greco non aveva funzionato: ovvio, non poteva certo spedirlo in un’altra dimensione.
Ma allora…
Lui esisteva! Ed esistevano ancora anche gli altri, così come li conosceva lui: nella sua realtà, a Yakuzai, le cose si svolgevano normalmente – e laggiù, era con tutta probabilità Ranma stesso, ad essere dato per scomparso. Questo, intendeva Shingo, dicendogli di tornare. Non era una metafora. Il suo mondo lo stava aspettando.
Tuttavia – come tornare?
“Spero di essere stata abbastanza chiara.” disse Cologne. “Il medaglione, tu l’hai visto al collo di questo Shingo perché Shingo, evidentemente, non appartiene a questa realtà.”
“Capisco.” annuì Ranma. “E, siccome ha ammesso lui stesso di avermi osservato a lungo, in questi ultimi tempi, molto probabilmente proviene dalla mia realtà: è lì che si è impadronito del medaglione ed è per mezzo di esso che ha potuto raggiungermi in questo mondo.”
“Con tutta probabilità è così: quel medaglione è come se contenesse i poteri di migliaia di dragoni, e neutralizzare gli effetti delle fonti di Jusen è solo una minima parte delle sue potenzialità.”
“Allora” propose Ranma “posso tornare nel mio mondo indossando il medaglione di questa realtà!” Fu bastonato per l’ennesima volta.
“Sei proprio cocciuto! Un semplice essere umano non può indossarlo!” lo rimproverò Obaba.
Già, non un semplice essere umano, si ripeté Ranma. Ma allora quello Shingo? Chi era mai? O cosa era?!… Già. A proposito del tizio del mistero.
Shingo voleva che tornasse, questa era forse l’unica cosa che poteva dare per sicura. Ma allora l’amichetto col medaglione avrebbe potuto usare i suoi poteri su di lui. Se non l’aveva fatto, voleva dire che doveva pur esistere un sistema alternativo: forse si attendeva che lui lo trovasse, forse si trattava di un’altra prova. Shingo pareva divertirsi un mondo a metterlo alla prova. Dunque il modo c’era. Ma quale?
Poi, un lampo. E capì.
Pensò a Shampoo che evocava lo Spirito-dragone per sbarazzarsi di Akane. Per via della rievocazione di Shingo, ricordava ogni parola: soprattutto quelle pronunciate dalla cinesina mentre compiva l’incantesimo. Una lunga tiritera in lingua cinese… e da qui non avrebbe potuto trarre niente di utile. Ma dopo… Dopo, Shampoo aveva chiaramente ordinato al dragone di… qualcosa come purificare la sua casa… e… sbarazzarsi dei propri nemici. No, non sbarazzarsi. Aveva parlato di eliminare. Se fosse stato riferito alla propria essenza? Allora la sua idea aveva un senso.
“Vecchia!” disse. “Mi hai raccontato che lo Saishuu Shiyou Rei-ryuujin funziona una ed una sola volta, per un’unica persona.”
“Vero.” confermò quella.
Ranma accennò un sorriso. Se, nella sua realtà, il manoscritto del Rimedio Definitivo apparteneva ad Obaba e Shampoo l’aveva trovato, come detto da lei stessa, solo per caso – allora, probabilmente, anche in questa realtà…
“Se ho ragionato bene” continuò “in questa realtà, al Rimedio Definitivo non è mai stato fatto ricorso: non ho forse indovinato?!”
Obaba annuì.
“E’ come hai detto. Ma cos’hai in mente?”
“Ebbene” formulò deciso “se sei in possesso del manoscritto, fa’ tu ora l’incantesimo… su di me!”
La guida saltò in piedi come morsa da una tarantola, facendo volare in aria il pentolino così che il tè ormai freddo si rovesciò completamente addosso a Ranma.
“Aiya! A te manca più di una rotella!” esclamò l’uomo tutto vestito di verde.
“E invece no!” lo fece tacere Obaba; quindi si rivolse alla rossa, bagnata da capo a piedi: “Credo di aver capito a cosa pensi: dal momento che, ora, l’unica realtà priva della tua presenza è proprio quella da cui provieni, sostieni che lo Spirito-dragone non potrebbe spedirti se non là.”
“Almeno lo spero. Del resto, non mi rimane altro da tentare!” disse Ranma-chan, strizzandosi la giubba tutta fradicia. “Posso contare sul tuo aiuto, vecchia?”
Cologne corrugò la fronte. Prima di quel giorno, pur custodendo gelosamente la pergamena del Rimedio Definitivo, non aveva creduto sul serio che l’incantesimo potesse funzionare. Ed ora, ecco questo mocciosetto cambia-sesso che affermava di esserne rimasto vittima. L’età le aveva insegnato da tempo a leggere negli occhi degli uomini, e quelli del ragazzino le confermavano che lui le stava dicendo la verità.
Era, però, sospettosa. Perché mai un membro della famiglia amazzone, forse la lei stessa dell’altra realtà, aveva compiuto un incantesimo tanto radicale su quel ragazzino? Non sembrava pericoloso, né malvagio. Eppure, qualcosa nell’aura che lo avvolgeva le diede da pensare. Quella persona era particolare. Il suo destino lo conduceva verso una strada molto diversa da quelle degli altri. La sua caduta nella Niang Nichuan forse non era un caso.
Eppure doveva fare una considerazione ancora più importante di questa. Il fatto che qualcuno si fosse impadronito del Tai-ma no Mamori la rendeva molto inquieta: la storia di quello Shingo non era da prendere sottomano e in tutto ciò avvertiva un pericolo ancora maggiore. Cologne aveva già una mezza idea su come operare. “Sì, ti aiuterò.” disse. “Anche se…”
“Cosa?” domandò la rossa.
“Non è certo in assoluto ciò che sostieni.” si affrettò ad aggiungere l’amazzone. “Nessuno ci assicura che il dragone ti riporterà indietro. Nel tuo mondo adesso non esisti, giusto, ma sei esistito, sebbene la tua essenza sia stata indubbiamente strappata da lì a forza. Per quanto, è comunque piuttosto probabile che lo spirito ti spedirebbe nella dimensione da cui giungi, piuttosto che in altri mondi pieni della tua presenza: il suo stesso precedente incantesimo, lo squarcio della materia già da lui provocato, potrebbe agire come una calamita e attirarvelo.”
“Allora è deciso!” esclamò Ranma-chan, battendo le nocche sul palmo dell’altra mano.
“Però c’è un’altra questione!” replicò l’altra. “Lui ti conosce: e un dragone non è come un animale domestico cui dare ordini, potrebbe rifiutarsi di trasportarti una seconda volta – o peggio.”
“Cioè?”
“Stizzito, potrebbe decidere di distruggerti.”
La fanciulla con la treccia deglutì a fatica. Il rischio era grande. Decise, intanto, di ritornare uomo. “Proverò comunque!” affermò determinata. “E tu, vedi di scaldarmi altra acqua!” aggiunse, rivolgendosi alla guida. Ma Obaba s’interpose.
“Aspetta, ti conviene prendere tempo prima di una decisione tanto importante.” disse. “E ho deciso invece io che il mondo non crollerà, se rimarrai nel mio villaggio per una notte. Ovviamente, in questo caso, dovrai tenere il tuo aspetto femminile: non è permesso a uomini non del posto di pernottare a Joketsuzoku.”
Ranma annuì. Pensò che anche questa Obaba, come quella del suo mondo, dovesse averlo preso in simpatia, dato che per lui stava infrangendo un paio di regole – e sapendo bene quanto fossero severe le regole delle amazzoni cinesi.
“Ed io?” chiese la guida.
“Dato il tuo ruolo importante di custode del campo Jusen, non hai bisogno di permessi speciali.” rispose Cologne. “Ma gradirei che stanotte tu facessi compagnia alla signorina.” aggiunse, indicando Ranma col bastone. La rossa sbuffò, evidentemente non aveva conquistato appieno la fiducia della vecchia.
“Domattina” disse Cologne a Ranma prima di ritirarsi “mi dirai cos’hai deciso. Nel caso, avrai il mio aiuto. Ma ricorda, la scelta è solamente tua.”

 

Notte fonda. Ranma-chan, coricata sul pavimento e avvolta in un paio di coperte, non riusciva ancora a chiudere occhio, e questa stava diventando ormai un’infelice abitudine. Il sonno c’era, aveva camminato parecchie ore quel giorno. Il pavimento non era troppo scomodo, non costituiva un problema essere una ragazza e, tutto sommato, non lo costituiva nemmeno il freddo – che pure sentiva ancora di più, poiché aveva messo in un angolo camicia e pantaloni ad asciugare… merito di quell’imbecille di una guida! La guida. Il problema era proprio lui, che lo sorvegliava con dedizione… russando molto rumorosamente e non dando così a Ranma un momento di tregua. Ma non era proprio buono a niente?! Capì perché la famiglia di lui non gli facesse compagnia nella sua piccola dimora a Jusen, né nell’una né nell’altra realtà. Pensò anche che Obaba volesse divertirsi a sue spese, tanto per ripagarlo del disturbo che le aveva dato.
Passò a pensieri più seri. Cosa fare riguardo il Rimedio Definitivo gli era chiaro. La notte porta consiglio, ma a lui non aveva nessun consiglio da portare: non aveva riconsiderato nemmeno per un attimo la propria decisione. Piuttosto, quello Shingo. Come aveva fatto ad impadronirsi del medaglione? Com’era venuto a conoscenza del suo potere? L’unica che avrebbe potuto illustrarglielo era Obaba. E, certamente, anche la guida avrebbe potuto. Che Shingo fosse stato a Jusenkyo? Ma il custode delle sorgenti, che motivo mai avrebbe avuto per fare il chiacchierone?
Se Shingo fosse caduto in una delle fonti? Ma la spiegazione, pensò Saotome, non pareva reggere in piedi. Anche lui era caduto nelle Sorgenti Maledette. E così Ryoga, Mousse, Shampoo… e la guida non aveva fatto la minima parola di quel medaglione che avrebbe potuto risolvere i loro problemi. Poi. Shingo non sembrava sopraffatto dalla divinità dell’oggetto: forse non era un semplice umano. Ma in quel caso, come sarebbe mai potuto cadere in una delle fonti?… Troppe domande. E troppe poche informazioni per potervi dare una risposta.
Tutti quegli interrogativi conciliarono finalmente il sonno di Ranma, a dispetto del sottofondo non propriamente melodico. Saotome non poté dunque accorgersi di una figura dai lunghi capelli, che affiorò dal buio della camera. Si avvicinò ai vestiti del giovane col codino ed inserì qualcosa nella tasca dei pantaloni. Quindi tornò nell’oscurità. La guida mormorò nel sonno alcune parole incomprensibili, si grattò la fronte, si girò dall’altra parte. E riprese a russare più forte di prima.

 

Il sole era spuntato da non troppo tempo e già, filtrando tra gli alti e impervi monti che chiudevano Joketsuzoku, pareva aver dissipato le nubi, che pure per tutta la notte avevano continuato a versare la loro furia sulle vicende degli uomini. L’acqua gocciolava ancora dai tetti delle modeste abitazioni del villaggio, alimentando le pozzanghere presenti. I campi erano vistosamente bagnati e l’erba impregnata d’umidità diffondeva il suo particolare profumo nell’aria, facendo ulteriormente risaltare l’aroma del muschio di qualche albero distribuito nella rarefatta vegetazione del luogo.
“Dunque?” domandò la donna anziana a quella giovane.
“Ho deciso, vecchia: rischierò!”
“Me l’aspettavo… andiamo, allora: c’è una caverna nelle vicinanze che fa proprio al caso nostro.”
Ranma-chan accennò a seguire Obaba che usciva dalla capanna.
“Quel tè caldo?” disse alla guida. “Penso che adesso potrò tornare uomo.”
“Caffé ti va bene lo stesso?” chiese lui, col volto assonnato, uscendo per ultimo. “Questo ho preparato per me: non riuscito a chiudere occhio, io, stanotte…”
“Non ancora.” Cologne, con un movimento del bastone, fece cadere a terra la tazza che la guida stava porgendo a Ranma.
“Che ti prende? Sei impazzita?!” gridò la ragazza col codino.
“So quello che faccio.” disse la vecchia. “La maggior parte delle amazzoni che vivono nel villaggio è in età da prendere marito: prendere marito, qui, significa sfidare qualche artista marziale sperando che sia più forte di loro, in grado di sconfiggerle. Tu, mocciosetto, si vede lontano un miglio che pratichi le arti marziali: se qualcuna se ne accorgesse, addio pace per tutta la mattinata. Noi abbiamo fretta, e come donna darai meno problemi.”
Effettivamente la mini-comitiva composta da Cologne, Ranma-chan e la guida poté uscire dal villaggio quasi indisturbata. Unica eccezione fu l’incrocio con due adolescenti del posto. Lui, contraddistinto dalle spesse ed opache lenti degli occhiali, rincorreva lei, distinta dai lunghi capelli color lavanda, che cercava di ignorarlo. Tutto uguale, pensò Ranma. Eccetto per il fatto che non si trasformavano in un’anatra e in una gattina con un po’ di pioggia. Altri due maledetti in meno, senza la sua presenza.
“Lascia stare la mia nipotina, Mousse!” disse Obaba in cinese. “Non ti è permesso di sposarla, lo sai bene: ti ha sconfitto quando avevi tre anni e le regole di Joketsuzoku sono tassative a riguardo. L’unico modo, per rilegittimarti a suo potenziale pretendente, sarebbe sconfiggerla a tua volta: ma non credo ne sarai mai capace.”
Infatti, mentre Obaba diceva queste parole, la cinesina spediva l’altro a terra con un calcio. Quello, però, non desisteva: nonostante i suoi occhiali si fossero rotti nella caduta, si lanciò con un mazzo di fiori per fare la sua dichiarazione. La fece, ma alla guida, che obiettò il fatto di avere già moglie e figlia. Cologne non pensò oltre prima di mandare Mousse in orbita con un colpo del bastone.
Ranma-chan provò un sospiro di sollievo quando Shampoo si allontanò senza averla nemmeno degnata di uno sguardo. L’avevano ignorata entrambi. Essere una donna aveva veramente evitato il sorgere di nuovi problemi. Adesso, comunque, bisognava risolvere quelli vecchi. Pensò distrattamente che proprio Shampoo aveva un ruolo importante, se non determinante, nell’intera vicenda. Se fosse riuscito a tornare, molte cose avrebbero dovuto spiegargli, lei e Ukyo, ma soprattutto la cinesina. Anche se sapeva già che non avrebbe dato retta ad alcuna giustificazione.
In una grotta poco distante dal villaggio, buia e profonda come richiesto dall’incantesimo, Cologne srotolò l’antica pergamena che portava con sé. Ranma, potuto tornare finalmente uomo, si avvicinò all’amazzone.
“Sei ancora deciso?” chiese lei.
“Naturale!” disse deciso lui.
Visto un crepaccio, il posto ideale per l’incantesimo, Obaba si avvicinò all’orlo, mentre la guida le faceva luce con una torcia. La vecchia pronunciò la formula arcaica, scandendo lentamente e con precisione ogni singola parola. Ranma ascoltava con attenzione. La guida soffocò uno sbadiglio. Dopo l’ultima parola, la torcia si spense. Fu buio totale, ma Saotome non ebbe il tempo di abituare la vista che già poté scorgere un lumicino pallido farsi lentamente strada nell’oscurità. E farsi via via più grande finché squarciò le tenebre, materializzandosi in un possente vortice.
“Ora lasciati risucchiare dallo Spirito, farà tutto lui!” raccomandò Cologne a Ranma, prima di allontanarsi. Il vortice divenne incandescente, mentre la guida impaurita si portava a distanza di sicurezza, raggiungendo l’amazzone.
Ranma osservava sbigottito la scena. Uguale all’altra volta, e questo nell’intimo lo terrorizzava. Il vortice andò prendendo una forma sempre più distinta, fino a che lui poté riconoscere i contorni del dragone. Netti e marcati, più del resto, erano i suoi occhi: rossi come il sangue, sembrarono scrutarlo attentamente, e Ranma temette che quello l’avesse riconosciuto e stesse per riservare la propria ira contro di lui. Lo spirito dunque gli si fece incontro, spalancando la gigantesca bocca. Saotome dubitò delle buone intenzioni di questo. Ma era troppo tardi per tornare indietro.
Lo spirito inglobò lentamente il suo corpo nelle enormi fauci, solo apparentemente infuocate. Le fiamme non bruciavano, pensò un attimo prima di venire risucchiato in… dentro… diamine, quel coso l’aveva inghiottito! Cominciò una discesa rapidissima, e Ranma non voleva neanche figurarsi verso dove. Poi un’esplosione di colori. E di rumori. Il caos. Ogni suo senso gli comunicava tante cose, troppe cose. Superando il limite di sopportazione.

Credette di distinguere un corridoio di luce, e lui nel mezzo: lo percorreva ad una velocità inimmaginabile, mentre l’uscita si faceva sempre più vicina. Tanto che infine scorse una specie di finestra, che sembrava dare al mondo circostante. E lui si avvicinava. Gli pareva di ricordare queste cose, forse le aveva già vissute nel viaggio d’andata. La distanza era sempre minore. Ranma fu sicuro di poter toccare quell’ingresso solo allungando il braccio.
Mentre strinse la mano, come per afferrarvisi, la finestra si chiuse. Guardando il suo palmo vuoto, gli parve di aver lasciato cadere Akane un’altra volta, nell’abisso più nero. Non fu in grado di reggere questa opprimente sensazione. Accanto a lui, tutto tornava buio. Come all’inizio del suo incubo.
Solo buio. E silenzio. E poi una voce.
“HAI FALLITO!” la voce di Shingo. “Mi hai profondamente deluso, Ranma Saotome… Hai perso anche la tua ultima opportunità: la prova non è stata superata – e purtroppo per te, non sono previsti ulteriori appelli!”
Quindi avvertì un dolore allucinante, in ogni punto del corpo. Non c’era alcun dolore, nel suo ricordo. Si sentì stretto in una morsa invisibile, che gli troncava il respiro. Pensò che era arrivata la sua fine. E lo prese ancora il dolore, più acuto di prima, ma stavolta localizzato attorno all’anca. Come se qualcuno lo stesse pungolando. Come se…

Riaprì lentamente gli occhi, lo sguardo che vagava nell’indefinito, come in un dormiveglia agitato in cui il ricordo del sogno si confonde ancora alla coscienza della realtà presente. La prima cosa che percepì distintamente, fu di essere ancora vivo. Vivo. Se era così – allora forse le ultime vicende le aveva solo immaginate, e poteva avercela fatta. Poi percepì la seconda, cioè che il dolore era reale.
Cercò di distinguere le immagini confuse davanti a lui. L’azzurro luminoso del cielo, disturbato solo da poche, solitarie, nuvole. Si trovava di nuovo sdraiato sul suolo. E qualcuno gli stava chinato accanto.
*A…akane…?*
No. Non era Akane. Mise finalmente a fuoco dei capelli lunghi e grigi, degli occhioni enormi, e rughe, rughe in ogni parte dell’esile vecchio corpicino.
*NO!* si alzò di scatto, furioso. Il dragone lo aveva risparmiato. E allora – “PERCHEEEE’?! PERCHE’ NON HA FUNZIONATO?!” gridò, sfogando tutta la propria rabbia.
Obaba smise di pungolargli l’anca col nodoso bastone, constatando che finalmente aveva ripreso i sensi: lo fissò e sbatté le ciglia, perplessa.
“Come?” domandò. ”Cos’è che non avrebbe funzionato, consorte?”

 

Avvertì la sua presenza. Bene, il palcoscenico era pronto. Gli attori, pure. Mancava solo lui, ma il suo arrivo era pressoché imminente.
“Che comincino le danze!” proclamò a gran voce. E per i presenti si scatenò l’inferno.

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Capitolo 15
*** Before the storm ***


PART FIFTEEN –

“BEFORE THE STORM”




Consorte?
Era così che la vecchia mummia lo aveva appena chiamato, ne era sicuro. La scrutò con maggiore attenzione, che non fosse la stessa amazzone che aveva evocato il dragone poco prima? L’altra non avrebbe mai potuto chiamarlo con quell’appellativo. Se così stavano le cose, forse… Riprese a sperare.
“Tu… perché mi hai chiamato consorte?” domandò Ranma, titubante, facendo presa sulle braccia per sistemarsi in una posizione più diritta. Notò che il sole era ormai alto nel cielo, nonostante la luce filtrasse solo in parte, ostacolata dalle fronde degli alberi.
“Oh ma è semplice.” rispose Cologne, strizzando un occhio e portando sensualmente all’indietro una ciocca dei lunghi capelli, mentre gli uccellini d’intorno cantavano al fiorire della natura. “Perché sono la tua dolce adorata mogliettina, no?”
Gli uccellini volarono via, e a loro si sostituì un gracchiare, forse di un corvo, che pareva deriderlo. Il mondo per lui finì in quell’istante. In quale pazza, folle, irrazionale dimensione era mai finito? Si sentì caduto, nel vero senso del proverbio, dalla padella alla brace. Ma probabilmente il peggio doveva ancora venire, pensò un istante più tardi. Obaba, infatti, gli si fece più vicino, annullando di attimo in attimo la distanza che li separava. Ed infine, unica testimone la natura che li circondava…
“Uh uh uh uh uh!” gli rise in faccia. “Ovviamente stavo scherzando.”
Si lasciò nuovamente cadere all’indietro, sulla terra ricoperta dalla prima ondata stagionale di foglie secche. Era un miracolo che non gli fosse venuto un infarto. Maledetta vecchiaccia! Lo Saishuu Shiyou Rei-ryuujin aveva fallito completamente e quella scema si permetteva pure di prenderlo in giro?! “Senti tu…”
“Uno strano posto per dormire, non pensi?” gli si sovrappose con la voce l’altra, che non lo aveva ascoltato. “Tanto più che la pensione è proprio qui accanto.”
La pensione? Ranma alzò lo sguardo. Realizzò che non c’erano tutti quegli alberi, nei pressi di Joketsuzoku. Non era più in Cina. Si trovava in un bosco e, di fronte a lui, in uno spiazzo che si faceva strada tra la vegetazione, s'ergeva il ryokan. Quello dove aveva pernottato tempo prima con la famiglia Tendo più i suoi genitori, Shampoo e Ukyo. Era a Yakuzai. La vecchia lo aveva chiamato in quel modo perché…
“Sono tornato.” mormorò tra sé. Poi, più forte: “Sono tornato!
L’urlo del ragazzo col codino richiamò l’attenzione dei presenti nella locanda. Furono spalancate alcune finestre, dalle quali si affacciarono Kasumi e un Soun Tendo assonnato, con lo spazzolino da denti in bocca. Videro Ranma, chiamarono gli altri e scesero in strada correndogli incontro.
In quanto al ragazzo col codino, pure lui corse incontro a quella che ormai considerava la sua famiglia, e che temeva fino ad un attimo prima di avere perduto definitivamente: questo sotto lo sguardo attonito di Obaba, confusa per il dirompente entusiasmo del ragazzo.
La commozione del giovane vestito alla cinese crebbe ulteriormente, quando vide, tra gli altri, sua madre correre verso di lui con le braccia spalancate.
*Mamma!* pensò, sforzandosi di resistere al proprio turbinio di emozioni. La sua visita a casa dei Saotome nella realtà parallela era un ricordo ancora troppo vivido, nella mente del giovane.
“Ranma, che gioia!” esclamò Nodoka.
Fu proprio perché lui aveva abbassato completamente la guardia che, quando furono finalmente l’uno davanti all’altra, Nabiki poté intrufolarsi alle spalle di Ranma senza che questo se n’accorgesse.
“Bisogna festeggiare, non credi, signor uomo-per-intero?!” ebbe appena il tempo di udire, prima di essere travolto da una secchiata d’acqua. Di modo che la signora Saotome si trovò a stringere tra le braccia il petto ben poco piatto di una fanciulla con la treccia bagnata fradicia.
“Ma… Ranma…” balbettò la donna, appoggiandosi una mano al cuore.
“Eh?” fece confusa la rossa.
“Credevo che fossi così contento perché eri tornato completamente maschio.” mormorò Nodoka, come a se stessa. “Invece ti trasformi ancora in Ranko, eppure sei felice comunque… Questo vuol dire forse che ti piace essere una ragazza?!” esclamò piena di ansia. Dopo di questo, sembrò lasciarsi cadere per terra, come fosse svenuta. Ranma-chan capì solamente all’ultimo istante che sua madre si era invece chinata ad afferrare la propria katana.
“Toh, io pensavo che si fosse bagnato nella Sorgente della Volpe Rossa guarendo definitivamente: per questo gli ho fatto il gavettone.” spiegò Nabiki al resto della famiglia.
“Si sarà trattato della solita bufala.” commentò Soun, che aveva ripreso a lavarsi i denti, osservando il figlio fuggire alla madre in sembianze non maschili ed emettendo, tra l’altro, grida altrettanto poco virili.
“Oh, ma se corre e suda così bagnata, Ranma rischierà di buscarsi un malanno!” notò preoccupata Kasumi, mettendosi una mano alla bocca.
“Perché scappi, Ranma? Non stavi correndo da me, un momento fa?” diceva quasi con le lacrime agli occhi Nodoka, che ormai lo stava inseguendo in tondo.
Nabiki interruppe il ridicolo giro di giostra, facendo lo sgambetto all’inseguita.
“Ma insomma!” Incrociò le braccia, con fare indolente. “Invece di stare qui a giocare, ci dici dove hai lasciato il resto della brigata?!”
“C-come, scusa?”
“Hai sentito bene, dove sono gli altri?… in effetti eri tornato troppo presto, perché tutto fosse andato per il meglio.”
“Troppo presto? Ma se… vuoi dire che loro sono ancora là?! Spiegati bene!”
“Sei tu che dovresti dare qualche spiegazione a noi, non credi?” intervenne Obaba.
Fu solamente allora che Ranma capì che qualcosa non quadrava. La vecchia. Se quello era veramente il mondo cui apparteneva il giovane col codino – allora cosa ci faceva Obaba, a Yakuzai?

 

Scese lentamente il burrone. Riconobbe che era molto profondo, i tortuosi cunicoli di prima si erano risolti in un’apertura sotterranea dalla vastità imprevista. Una meraviglia per qualsiasi appassionato di geologia. Ma lei non lo era, e doveva pensare piuttosto a non mettere il piede in fallo: un passo falso e nulla l’avrebbe salvata da una rovinosa caduta.
La discesa per lei era quasi conclusa. Nessuna traccia dell’apocalisse che si era scatenata appena poco prima, tutto era tornato nella penombra e questo aveva rallentato di molto i tempi di Ukyo. Quel dragone era scomparso nel nulla. E non sarebbe mai apparso se solo – com’era stata cieca! Chissà se sarebbe mai riuscita a farsi perdonare da Ran-chan. Sempre che Ran-chan fosse ancora vivo. Rabbrividì, pensando che probabilmente lui… e Akane… Quell’altezza era troppo per chiunque. Ma doveva sperare, non poteva arrendersi. Non poteva finire tutto così. Doveva verificare. Perfino quella pazza di Shampoo avrebbe avuto ciò che si meritava solamente più tardi. Non sapeva se era in tempo a fare qualcosa, soprattutto ignorava se c’era qualche cosa che poteva essere ancora fatta.
Spiccò gli ultimi balzi e già riuscì a distinguere una sagoma distesa sul fondo. Strinse inavvertitamente i pugni. La riconobbe, era Akane. Si portò accanto alla ragazza con i capelli corti, non sembrava avere nessuna ferita visibile. Almeno in apparenza, ma non poteva affermarlo con certezza: troppo poca luce, per giudicare. Akane era sdraiata su un fianco, immobile, gli occhi chiusi. Ukyo si inginocchiò sulla nuda roccia, percependo una fastidiosa sensazione di freddo. E di umidità. Dovevano trovarsi molti metri sottoterra e la cosa sorprendente era che quella grotta sembrava estendersi per molto ancora, in lunghezza ma non solo: il soffitto si poteva solo intravedere ad un’altezza di poco superiore a quella dell’enorme dislivello in cui era scesa, il baratro lungo il quale lo spirito aveva risucchiato prima Akane e poi Ran-chan. Come si era potuto formare un tale burrone sotterraneo? Che fosse stato scavato – dall’acqua? Forse c’era veramente una sorgente, da qualche parte.
Queste erano, però, considerazioni fuori luogo. Riportò la propria attenzione su di Akane. La sollevò a sé, ascoltò con maniacale attenzione per scovare il battito cardiaco. Respirava. Fu in quel momento che Ukyo si accorse di avere lei trattenuto il respiro, per tutto quel tempo, e che adesso il cuore le era stato sgravato come d’un grosso peso.
“Mmm…”
*Sta riprendendo i sensi!* valutò la giovane cuoca di okonomiyaki. Si sentiva decisamente meglio. Avvertiva persino meno freddo, quasi come se si fosse alzato un vento tiepido.
“U-ukyo… sei tu?” mormorò la minore delle Tendo.
N-non sapevo niente, meglio, qualcosa sapevo ma – è stata un’idea di Shampoo, non credevo le avrebbe dato di volta il cervello! quello che provò a dire Ukyo. Ma altre, le parole che uscirono dalla sua bocca: “Come… ti senti?”
Akane si tastò in tutto il corpo. Non sentiva dolore da nessuna parte: era stordita per lo shock, forse, ma nient’altro. Ucchan immaginò che il vortice l’avesse semplicemente posata in quel punto. Rilassò i muscoli, ancora rigidi per la tensione. Forse anche Ran-chan aveva qualche speranza.
“Uh… io credo di essere svenuta.” accennò Akane. “C’era quella specie di drago e…” Si arrestò. La sua mente aveva rimesso brevemente in ordine gli ultimi accadimenti. Non poteva abbassare la guardia. Troppo chiaramente aveva percepito Shampoo invocare il drago. E Ukyo poteva avere una parte in tutto questo. Certo, aveva capito troppo tardi del tranello – stupida che era! Stupida, stupida! Chissà come l’avrebbe presa in giro quell’idiota di… Arrestò il pensiero, cercandolo con lo sguardo. L’aveva visto tenderle la mano un attimo prima di cadere nel baratro. Ma lui adesso non era presente.
“Ranma! Dov’è?!” quasi gridò, come assalita di colpo da un bruttissimo presentimento.
La ragazza con la grossa spatola incrociò le pupille di Akane, che le supplicavano una pronta risposta, e non seppe cosa dire. Non perché non l’avesse, una valida spiegazione. Anzi. Una risposta si era formata, nel suo animo. Quella più tremenda, quella che non avrebbe mai voluto dare nemmeno a se stessa. Ran-chan e Akane erano caduti pressappoco nello stesso punto. Ma la giovane Kuonji in quel momento non scorgeva nessun’altra presenza, oltre a quella della giovane Tendo.
“Ukyo! E’ successo qualcos’altro… che dovrei sapere?!”
La donna con la spatola non riuscì a spiccicare parola. Cominciò a sudare intensamente. Ma non era solo il terrore che lo spirito avesse eseguito l’ordine di Shampoo contro Ranma. Il vento caldo era aumentato. Si voltò. Tutto d’un tratto, la caverna si era illuminata a giorno. Socchiudendo gli occhi, scorse la fonte della luce, che era in rapido avvicinamento: un corpo luminoso da cui provenivano versi certamente non umani.
“Ke ke ke ke ke.”
E fu l’inferno di fuoco.

 

“Ma dove diavolo è questa benedetta sorgente?!” sbottò un ragazzo con una bandana gialla e nera che gli avvolgeva la fronte, girando in ogni verso possibile la mappa che l’avrebbe dovuto guidare verso la sua nuova vita da vero uomo: quella in cui, finalmente divenuto degno di lei, avrebbe potuto dichiararsi ad Akane, sebbene questo comportasse il necessario sacrificio di P-chan. Un sacrificio più che accettabile, comunque, se paragonato alla loro futura felicità.
“Ti sei perso un’altra volta, idiota! Vuoi deciderti a darla a me, quella mappa?!” protestò un cinesino tutto vestito di bianco, cercando di vincere la resistenza dell’altro, che non aveva nessuna intenzione di mollare quel pezzo di carta. Il tutto mentre un grosso panda li insidiava entrambi nell’ombra, pronto a colpirli a tradimento con uno dei suoi cartelli non appena uno di loro avesse trovato la sorgente: non avrebbe condiviso l’acqua magica con quei due, poco ma sicuro.
“Lascia fare a me, talpa: ho la situazione sotto controllo!” disse Ryoga, stampando un potente calcio sul viso dell’altro. “Tanto è solo questione di tempo, i nostri sogni stanno per avverarsi.”
“Per una volta ti devo dare ragione.” Mousse si rialzò da terra. “Quando non mi trasformerò più in un’oca, Shampoo finalmente ricambierà i miei sentimenti!”
Seguì una rumorosa sghignazzata di loro due che già si immaginavano sposati alle loro amate. Genma valutò fosse giunto il momento di intervenire e prese accuratamente la mira sui loro crani.

“Che illusi.”

Tutti e tre si fermarono di colpo, avvertendo una nuova inquietante presenza. Una sagoma si fece lentamente strada nell’oscurità, rilevando alla fievole luce d’intorno il brillio di due occhi esotici di forma allungata, e il riflesso di due lunghe ciocche fini di capelli, che passavano davanti le orecchie del nuovo arrivato. Mousse inforcò gli occhiali, mettendo a fuoco i suoi tratti.
“Ti riconosco, tu sei Collant Taro!
Il panda ritornò alle intenzioni originarie, colpendo pesantemente il ragazzo dalla lunga tunica, anticipando persino l’Eterno Disperso, il cui ultimo scopo era certo di far arrabbiare quel pazzo che già una volta aveva gratuitamente rapito la povera, innocente Akane: non voleva che gli eventi portassero ad uno scontro, forse anche Taro si trovava lì per la sorgente della Volpe Rossa, comunque fosse Hibiki non intendeva correre il rischio di trovarsi seppellito vivo nella caverna in seguito alla furia cieca di una specie di minotauro alato con i tentacoli di polipo.
Le paure di Ryoga si rivelarono infondate. Il giovane non mosse un ciglio e il ragazzo con la bandana notò distrattamente che le sue pupille luccicavano di un rossore insolito.
“Proprio dei poveri illusi.” riprese Taro. “Credete veramente che tornare normali risolverà i vostri problemi? Credete sul serio che le vostre amate vi getteranno le braccia al collo festanti, quando sarete dei veri uomini? La risposta è no.”
Mousse finì di mettere fuori combattimento il panda, quindi fissò stranito Ryoga ed infine entrambi guardarono, perplessi a dir poco, il ragazzo ritto davanti a loro. Da quando si occupava di problemi sentimentali?
“Sapete bene che tra voi e le ragazze per cui trepidate rimarrà un ostacolo: uno solo ma il peggiore, quello finora insormontabile.”
Le loro anime capirono e sussultarono. In un attimo tutto perse importanza, mentre i due giovani innamorati visualizzavano l’ostacolo ai propri desideri.
“Ranma!” dissero ad una voce.

 

Soffocò a stento uno starnuto. Troppe docce fredde, negli ultimi tempi. Decisamente. Si versò il contenuto della teiera che Kasumi gli stava porgendo, tornando così nella sua forma maschile. La famiglia Tendo aveva appena finito di ascoltare la sua incredibile storia, e Cologne pareva la più interessata.
“Allora questo vuol dire che Shampoo e Ukyo…” cominciò Nabiki, mordendosi il labbro.
“Continua!” la invitò il giovane con la treccia, tenendo nella dovuta considerazione le riflessioni della persona più sveglia ed acuta tra di loro.
“Vuol dire che quelle due non ci pagheranno anche il viaggio di ritorno.” La media delle Tendo sospirò malinconicamente, schioccando le dita. Mentre Ranma cadde a terra, perdendo l’equilibrio.
Saishuu Shiyou Rei-ryuujin, vero?” rifletté Obaba. “Tu ne saresti rimasto vittima, quindi ti saresti recato in Cina dalla me stessa di quell’altra realtà per escogitare insieme il modo di tornare indietro. Suggestivo, molto suggestivo.”
“Un momento, ragioniamo!” disse Soun. “A sentire il tuo racconto, Ranma, dovrebbero essere passati parecchi giorni. Ma questo non è vero, tu e i tuoi amici vi siete avviati verso la grotta alle prime luci dell’alba, e cioè nemmeno due ore fa.”
“Du… due ore fa?” Ranma non capiva.
“Giusto!” sorrise maliziosamente Nabiki, finendo la sua colazione. “Non sarà che hai battuto la testa e ti sei sognato tutto?” Per un istante, il giovane Saotome fu tentato di prendere in esame quell’ipotesi.
“Il consorte non ha sognato!” li interruppe l’amazzone. “Il Rimedio Definitivo esiste veramente.”
“Tu lo conosci bene.” disse Ranma, riacquistando la propria sicurezza. “E forse ti trovi qui proprio per questo.”
La vecchia tossì rumorosamente. “In effetti mi sono precipitata a Yakuzai non appena ho realizzato cosa stava per succedere. Shampoo mi disse solamente che stava per partire in gita con te; io le replicai, sorpresa che tu avessi accettato ma anche immaginando ci fosse qualcosa sotto, che le cose non sono destinate a rimanere sempre uguali. Lei aggiunse che in effetti, con quella gita, sarebbero cambiate molto più di quanto avrei mai potuto immaginare. Avevo colto qualcosa, ma non immaginavo addirittura questo.”
“Tua nipote è caduta molto in basso.” commentò Nodoka, con aria severa.
“Mmm.” annuì l’altra. “Il suo comportamento è effettivamente molto grave, dovrà darmi una spiegazione esauriente per giustificare ciò.”
“Volete dire che è successo qualcosa ad Akane?!” gridò Soun Tendo, che aveva improvvisamente inteso l’unico punto importante di quel discorso.
“Ma no, papà.” Kasumi posò la scodella di riso e si voltò a tranquillizzarlo. “Se Ranma è qui e sta bene, a maggior ragione Akane è assolutamente fuori pericolo. Non è forse vero?”
La vecchia esitò prima di rispondere.

 

“Ke ke ke! Morite, maledette!”
Ukyo ebbe l’impulso di tirare via Akane per un braccio, per scappare da lì: notò con sorpresa che la ragazza con i capelli corti era stata addirittura più reattiva di lei, alzandosi di scatto con un riflesso inaspettato. Meglio così. Perché era già abbastanza difficile per lei schivare tutti quei – colpi energetici? che sembravano provenire praticamente da ogni direzione.
Akane aveva rapidamente riconosciuto quella tecnica. Ancora prima, aveva notato il numero abnorme di braccia di quell’essere che stava attaccando lei e Ukyo. E più di ogni altra cosa, quelle tre teste, che scrutavano per ogni dove, tanto che per le due inseguite dividersi sarebbe stata una mossa totalmente inutile.
“Asura!” esclamò, un momento prima di schivare l’ennesimo attacco calorico.
“Cretine! Non potete sfuggirmi!” gridavano ad una voce sola le tre teste, rendendone, se possibile, il timbro ancora più sgraziato e stridulo di quello che non fosse già di suo. Ukyo si girò per parare con la spatola un colpo più preciso dei precedenti, quindi riprese a correre. Bisognava pensare in fretta ad una qualche strategia, considerò: l’apertura nella roccia pareva estendersi ancora molto, ma prima o tardi si sarebbero trovate spalle al muro. L’unica cosa buona, la luce emanata da quella mostruosità rischiarava pressoché a giorno la strada davanti a loro.
Akane intanto si sforzava di capire. Perché si trovava nella caverna? E perché ce l’aveva con loro? Fu tentata di fermarsi e chiedere il motivo di quella follia. Si voltò istintivamente, senza smettere di correre, guardando i sei occhi di quella mostruosità. Sembrava molto più forte dell’ultima volta. E nel suo sguardo, Akane non scorse alcuna traccia di Rouge, la ragazza che cadendo nella fonte maledetta aveva ottenuto i terribili poteri del dio indiano. Ma, questa la cosa più strana, in quello sguardo non v’era nemmeno traccia di Asura.

 

“Diciamoci la verità, siete proprio ridicoli!” riprese Taro, con fare sprezzante ma allo stesso tempo freddo. Nessuna autentica emozione traspariva dalla sua voce. “Non siete riusciti una sola volta a sconfiggere Ranma: finché lui sarà più forte di voi, non avete alcuna speranza di cambiare le vostre vite.”
Mousse sospirò. Taro aveva maledettamente ragione, Shampoo non l’avrebbe mai degnato di uno sguardo finché non fosse divenuto degno di lei. Ma non aveva alcun diritto di essere proprio quel pazzo dal nome strampalato a far loro la predica.
“Mi risulta che quel Ranma abbia sconfitto anche te.” si limitò così ad osservare.
Lui sorrise.
“Quello era il passato. Ora è diverso: ho ottenuto il segreto della forza, della vera forza.”
“Dunque” considerò Ryoga “sei venuto fin qui per prenderti una rivincita?”
“La rivincita, se lo desiderate, ci sarà. La vostra, però.”
“A cosa ti riferisci?” domandò Mousse sistemandosi a braccia conserte, le mani nascoste nelle ampie maniche della tunica.
Taro distese un braccio, a palmo aperto, verso di loro.
“Sono qui per offrirvi la mia forza!” disse. “Datemi la mano e sarà anche vostra: insieme al controllo delle vostre maledizioni, se proprio tenete pure a quello.”
Non si mossero. Per alcuni secondi, nessuno aprì bocca.
“Perché tutto ciò?” ruppe infine il silenzio Ryoga, soffiando per alzarsi la frangia. “Non siamo così stupidi.”
L’altro strinse le nocche.
“Lo siete, invece, se sprecate quest’occasione d’oro!” replicò. “Chi vi dà quest’opportunità vi offre una sola scelta: o con lui” assottigliò lo sguardo “o contro di lui.”
Chi dava loro…? Queste parole non sfuggirono a nessuno dei due. Ma non importava chi fosse dietro a tutto ciò. C’era una sola cosa da fare, e non bisognava esitare. Ryoga e Mousse si avvicinarono, allungando la mano verso quella dell’altro. Nessuna esitazione, si ripeterono.

 

Ranma si affrettava ad ampi balzi in direzione della caverna. Obaba lo seguiva prendendo lo slancio col bastone: grazie alle capacità acquisite con tutta l’esperienza accumulata durante la sua lunga vita, l’amazzone sarebbe potuta benissimo andare più veloce. Ma le premeva parlare con il consorte, perché c’erano ancora alcuni elementi da chiarire.
“Vuoi dirmi che da qualche parte c’è un tizio di nome Shingo che gira col Tai-ma no Mamori come se niente fosse?”
“Non farmi ripetere le cose, vecchia! Non ho tempo per te.” In realtà non aveva motivo di andare tanto di fretta. Eppure sentiva che qualcosa non andava.
“Sii più educato! E sappi che non serve a nulla lanciarsi allo sbaraglio contro qualcosa di cui non abbiamo valutato adeguatamente il pericolo.”
“Allora hai anche tu questa brutta sensazione?!”
“Sì, avverto chiaramente qualcosa di instabile, nei flussi di energia, nella direzione verso la quale ci stiamo avviando. Potrebbe essere conseguenza del Rimedio Definitivo. Oppure, qualcos’altro.”
“Tipo la presenza del medaglione?”
“Forse. Ma ciò non basterebbe a giustificare l’enorme aura che sto percependo: no, quello che sento è frutto di un’entità soprannaturale.”
Ranma accelerò inavvertitamente l’andatura. “Non mi importano le tue sensazioni, voglio solo controllare che tutti stiano bene!”
La vecchia non poté trattenere un sorrisetto furbo. “Tutti? A chi vuoi darla a bere, tu stai pensando a qualcuno in particolare.” Poi sospirò. “Ed è evidente che non si tratta di Shampoo.”
Si avvicinavano. E l’amazzone rifletteva: com’era possibile che la lei di un’altra realtà lo avesse lasciato andare così, senza alcun avvertimento? Il consorte non sapeva a cosa stava andando incontro. In realtà, non lo sapeva bene neppure lei: ma l’esperienza le diceva che non si trattava di nulla di positivo.
“Una cosa, vecchia!” riaprì il discorso Ranma, più per cercare di allentare la propria tensione e recuperare la calma, che per far luce sull’ennesimo mistero.
“Parla!” lo invitò l’amazzone, continuando a tenere il passo.
“Come si spiega che qui è trascorso così poco tempo, mentre per me sono passati giorni?!”
“E’ stato lo Spirito-dragone.” spiegò lei. “Spazio e tempo sono più legati tra loro di quanto tu non creda, così per lui non è stato un problema trasportarti qui e adesso: in quanto al perché, proprio qui e adesso, immagino che semplicemente il drago abbia sfruttato lo stesso squarcio della materia già da lui provocato con il primo incantesimo, per non crearne uno nuovo inutilmente. Dunque un tempo e uno spazio molto vicini a quando e dove fu evocato da Shampoo.”
“Uh, già.” Gli tornarono in mente le parole del doppio di Obaba. “E questo, per via dell’equilibrio delle cose?”
Lei annuì. “Vedo che ti ho istruito bene, nell’altra realtà.”

Ranma si accorse che erano arrivati. Con loro grande sorpresa, qualcuno li stava aspettando all’ingresso della grotta. E la sua presenza non faceva che confermare i timori del ragazzo con la treccia.
“Ce ne hai messo di tempo, volevi portarti appresso la nonnina per una gita?” Accennò una smorfia divertita, additando l’amazzone. “Per tua fortuna, il tempo – per me – non costituisce affatto un problema.”
Cologne non raccolse la provocazione, la sua attenzione era stata catturata da qualcosa che Shingo teneva con sé. “Oh, il Tai-ma no Mamori: il consorte diceva la verità.” sussurrò, stringendo le pupille. *Al collo di un semplice mortale. Non ha senso.*
“Peccato” continuò quello, incurante “che per i tuoi amici lì dentro il tempo sia quasi scaduto.”
“Che cosa?!” ringhiò Ranma. “Adesso basta, vuoi essere comprensibile, una buona volta?! Mi sono stufato di tutti i tuoi stupidi enigmi!”
“Eppure” replicò, senza cambiar tono di voce “sono proprio i miei stupidi enigmi, ad averti fatto tornare nel tuo mondo.”
“Già!” riprese la parola Obaba “Perché lo hai aiutato?”
Il volto di Shingo mutò istantaneamente. I lineamenti si fecero severi, mentre le sue iridi assunsero una sfumatura più profonda.
“Ranma.” gli disse. “Tu sei l’unico che può fermare quello che sta accadendo là dentro.”
“Che intendi?!” il ragazzo con la treccia ebbe appena il tempo di riflettere che mai aveva sentito Shingo parlargli con un timbro così grave, e soprattutto che quella era la prima volta che lo chiamava semplicemente per nome. “Vuoi dire che gli altri sono in pericolo?!”
Cologne sentì l’aura vicinissima. E non si trattava del medaglione. La sua potenza era di un’entità con cui nemmeno lei aveva avuto mai a che fare, certamente non poteva provenire da un essere umano. Pensò che Ranma stesse per affrontare qualcosa di troppo grande.
“Te l’ho detto, sei l’unico.” scandì l’uomo dai capelli col riflesso del platino. “Ti ho portato fin qui, ma il mio compito è finito: adesso sta solamente a te agire.”
Ranma fissò l’entrata buia e sinistra. Certo, tutt’altro era lo spirito con cui l’aveva varcata poco tempo prima, tanto tempo prima, quando era convinto di essere sul punto di guarire dalla maledizione, di stare per risolvere tutti i suoi problemi. Pensò che non era comunque il caso di essere pessimisti. Qualunque cosa stesse succedendo, Shingo aveva voluto lui, per cui lui solo poteva rimediare alla situazione. Aveva appena constatato come fosse un mondo senza di lui. Ora sapeva che lui serviva. Avrebbe vinto anche questa sfida: lui aveva sempre vinto, del resto. Cosa sarebbe mai dovuto andare storto, questa volta?
“Cosa aspetti?! Va’ prima che sia troppo tardi!” lo incitò l’uomo col medaglione.
“Perché proprio lui?” sibilò Cologne a Shingo. Ma non ottenne risposta. Fu allora che l’avvertì. La presenza divina era adesso inconfondibile. Non una qualsiasi. Indubbiamente una divinità suprema, una di quelle originarie.
*Non può essere che – impossibile, se quella leggenda ha un fondo di verità! Non lui. Lui è prigioniero. Per sempre!* i pensieri sconnessi dell’anziana della famiglia Joketsu. Poi, nuove parole si combinarono nella sua mente. Ma non era lei ad averle formulate.

Ti sbagli, cara. Come ti sbagli. Lui è libero, adesso. Libero. E avrà la sua vendetta.

“Consorte, non andare!” gridò con quanta più voce possibile, sconvolta dall’incredibile verità appena appresa.
Per la seconda volta, non ricevette risposta. Ranma era già dentro.

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Capitolo 16
*** Revenge ***


PART SIXTEEN –

“REVENGE”




Guardò ancora l’entrata della caverna, che pareva inghiottire dentro di sé la luce del giorno. Conscia della terribile novità, notò appena che l’uomo col Tai-ma no Mamori era scomparso nel nulla – né si meravigliò di questo, essendo perfettamente a conoscenza degli incredibili poteri del medaglione. Preferì concentrarsi di nuovo sull’aura che aveva percepito. Non riusciva ad individuare il punto esatto da cui provenisse l’emanazione. Ma la sua presenza era inconfondibile: quella di una delle divinità originarie. Se la memoria riguardo ai racconti che aveva udito da bambina, dalle Grandi Anziane del suo villaggio di un tempo ormai lontano, non stava cominciando a giocarle qualche brutto scherzo – allora era sicura. Uno solo, il dio supremo rimasto sulla terra, da quando le somme divinità avevano abbandonato i mortali.
Aveva creato Zhou Chuan Xiang, complicando innumerevoli vite.
Per questo fu punito.
Fu sigillato con un potente incantesimo.
Qualcosa, evidentemente, doveva averlo spezzato. Ed ora lui era libero.
Si trovava a Yakuzai, in quel momento.
E avrebbe ottenuto la sua vendetta, come aveva appena suggerito la beffarda voce.

Muchitsujo.

Il sole continuava a splendere alto nel cielo. La natura quieta della foresta pareva ignorare la minaccia che incombeva sull’ordine delle cose. Cologne fissò un’ultima volta l’entrata della caverna. Quindi si avviò in aiuto del consorte.

 

La ragazza giaceva immobile, ginocchia a terra, lo sguardo rivolto ad un angolo indefinito di vuoto. Non ricordava quanto tempo fosse passato, del resto non le importava. Il suo ailen era caduto, lui, nella trappola preparata con tanta cura per il maschiaccio. Come rimediare? Non vedeva via d’uscita. L’unica che poteva aiutarla era la bisnonna, forse. Ma lei era all’oscuro di quello che la nipote aveva macchinato e non avrebbe gradito la novità, una volta appresa. Si raggomitolò in posizione fetale. Lei, l’orgogliosa amazzone del villaggio delle donne di polso. Ranma era perduto. Com’era potuto accadere?!
Eppure sembrava un piano perfetto. Una guerriera di Joketsuzoku non poteva tirarsi indietro di fronte ad una propria rivale, specialmente dopo averle dato il bacio della morte. Vista la netta inferiorità della ragazza violenta, si era risolta in un primo tempo a risparmiarle la vita limitandosi a praticare su di lei la digitopressione shiatsu. Aveva funzionato, ma per poco: quella Akane si era rivelata più cocciuta del previsto, non tardando a ricordarsi di Ranma. Shampoo era tornata così al suo antico proposito di eliminarla, ma solo ove se ne fosse presentata la facile occasione e soprattutto all’insaputa di ailen. Col tempo aveva rinunciato pure a questo.
Dopotutto Ranma non aveva mai mostrato apertamente di provare qualcosa per la donna rozza o per le altre smorfiosette che dichiaravano con tanta faccia tosta di essere le sue fidanzate. Lei si era sempre sentita in vantaggio, sulle proprie rivali. Inoltre, le regole del suo villaggio non potevano essere infrante come niente. Lui veniva spesso a trovarla al Nekohanten, dunque tutto pareva andare per il meglio. L’avrebbe sposata, queste erano le regole. Questo era il loro destino.
Allora? Cos’era cambiato, in quegli ultimi tempi? Era stato il terrore che l’aveva invasa quando Nabiki Tendo le aveva fatto credere che ailen volesse dare ad Akane un anello di fidanzamento? No, non quello. L’invito per le loro nozze, forse? Nemmeno. Di fronte a quelle cose, aveva capito che la sua vera ed unica minaccia era costituita da Akane: ma lei avrebbe sempre potuto combattere e riprendersi il suo amato. Non c’erano problemi, finché si trattava solo di strapparlo dalle grinfie del maschiaccio.
E allora come mai aveva ripreso una nuova volta i vecchi propositi, anzi era ricorsa a qualcosa di così radicale come il Rimedio Definitivo? Niente di importante, la prima risposta che diede a se stessa: semplicemente non doveva indugiare nel portare a termine quello che era pur sempre il suo dovere, come membro della famiglia Joketsu. Suonava bene. Era plausibile, come scusa.
Sembrava un piano perfetto. Eppure, un’altra era divenuta la vittima del dragone. Ailen era perduto per sempre. Come prevedere tutto questo? Non poteva immaginare che Ranma le avrebbe raggiunte mentre lei e la spatolona evocavano lo spirito. Non poteva certo immaginare che il suo amato avrebbe perso l’equilibrio e sarebbe caduto dalla rupe, finendo dritto nelle fauci infuocate del drago.

Fatalità.

“Il destino.” accennò a mezza voce, tra le lacrime che le rigavano copiosamente il volto, quello di lei, l’orgogliosa amazzone. “Il destino folse non voleva davvelo Shampoo e Lanma insieme.”

(Il destino… Troppo facile, non credi?)

Shampoo s’irrigidì, e persino le lacrime si arrestarono.
Era vero. Sarebbe stato troppo facile attribuire la responsabilità di quello che era accaduto al destino. Lei sapeva che le cose non erano andate in questo modo. Ma ammetterlo, come poteva – come poteva ammettere a se stessa che…

(Ranma si è buttato. Di sua spontanea volontà.)

Ecco, l’aveva fatto. Meglio, ci aveva pensato la sua coscienza, forse il rimorso. Strano, perché non aveva mai provato simili sensazioni. Un’amazzone non esitava, un’amazzone non si pentiva. Forse si era rammollita. Probabilmente quegli eventi l’avevano sconvolta come mai nulla era riuscito a fare. In ogni modo quella vocina nella sua mente diceva il vero. Ranma si era buttato spontaneamente. Perché?
Una sola risposta a quell’interrogativo. Jusendo.
Ricordava fin troppo bene. Il combattimento contro gli uomini-uccello di Safulan procedeva bene e lei aveva appena messo al tappeto quella Kima, la megera che aveva osato ridurla ad una sua schiavetta personale. Era felice, soddisfatta, appagata. Era stata rapita e Ranma era venuto fino in Cina a salvarla. Quindi lei aveva vendicato la propria umiliazione e l’onore di amazzone era così salvo. Non aveva avuto il tempo di assaporare pienamente tutto questo, che poté vedere Safulan venire sconfitto da Ranma per mezzo dell’incredibile tecnica che la bisnonna di lei gli aveva insegnato tanto tempo prima, l’Hiryu Shotenha. Aveva visto in ciò un segno del destino.
E poi? Un altro colpo spezzò il rubinetto del drago, facendo sì che l’acqua della sorgente delle Fonti Maledette sgorgasse verso l’alto e investisse ailen, che si trovava in aria. E quella Akane, che era così tornata istantaneamente alle sue sembianze normali. Era per lei, per salvarle la vita, che Ranma aveva combattuto, pensò. Ma ciò non voleva dire niente. Quindi Shampoo aveva notato che nel maschiaccio non apparivano segni di vita. Ranma aveva fatto troppo tardi. Eccolo qui. Un altro, l’ultimo segno del destino. Un destino senza alcuno che potesse ostacolarli, un destino che vedeva i nomi di Shampoo e Ranma legati per l’eternità.
Troppo bello. Troppo. Quello che vide un istante dopo, non l’avrebbe mai più scordato. Il volto di Ranma, ora ragazza, quella ragazza-Ranma che lei stessa in passato aveva cercato di eliminare, il suo volto recava segnata la disperazione più totale. Fu in quel preciso istante che aveva compreso che Ranma non sarebbe stato suo. Non era mai stato suo. Mai. Nemmeno per un istante.
Nessuno aveva osato avvicinarsi a lui, mentre stringeva Akane, che tutti credevano morta, tra le proprie braccia. Nemmeno Ryoga, che pure era innamorato del maschiaccio. Forse perché lui sapeva. Tutti sapevano. Solo lei non sapeva, meglio, voleva far finta di non sapere. Ma in quel momento la verità era lì, davanti ai suoi occhi.
Ranma amava Akane.
Capì dentro di sé il motivo dell’evocazione dello Spirito-dragone, il motivo di quell’ultimo disperato tentativo. Non poteva non giocare l’ultima carta.
Eliminare l’esistenza della persona scomoda – cancellarla dal mondo, passato presente e futuro. Questo era quello che le pareva di comprendere, traducendo i difficili ideogrammi di quella antica pergamena. Eliminarla dal cuore di Ranma – ma questa era solo la propria liberissima interpretazione: una mera illusione. Non poteva funzionare comunque. Ma lei aveva ignorato tutto ciò, ancora una volta. Sapeva ormai la verità ma non voleva ammetterla. E poi… Ranma che si lanciava nell’inferno per condividere la sorte di quella ragazza… Questo no. Questo era francamente impossibile ignorarlo.
Non aveva mai pensato ai sentimenti che potesse provare Ranma. Perché avrebbe dovuto? Lui l’aveva sconfitta. Lei lo amava. Era tutto scritto. Non poteva essere diversamente.

(Il destino non esiste) riprese l’assillante vocina (e le regole sono scritte per essere infrante.)

Shampoo realizzò solo allora che non si trattava della propria coscienza.

 

Si era addentrato da qualche minuto. L’unico accesso si era presto diramato in una serie imprecisa di cunicoli stretti e tortuosi, che imprigionavano non solamente la luce, ma anche qualsiasi suono ed ogni altra cosa che potesse in qualche modo costituire un punto di riferimento per orientarsi. Allora come faceva, lui, a procedere tanto spedito? Ranma se lo domandò appena, mentre percorreva a gran velocità la direzione scelta di volta in volta. Nessun dubbio. Cos’era, che lo guidava? Aveva una grande stima del suo sesto senso, ma nemmeno lui credeva potesse mai arrivare a tanto. E poi, la volta precedente non era stato così facile. Ora, invece, era come se fosse attirato verso qualcosa. L’aura percepita dalla vecchia, forse. Ma non quadrava.
Si sentì come la pedina di un gioco. La sensazione gli appariva fastidiosa ed insopportabile, non tollerava di essere manipolato. E quello Shingo, pareva sapere ogni cosa: perché si ostinava a non spiegargli? Soprattutto, chi era il giocatore, colui che muoveva le redini? Poi scorse l’uscita, una fessura tanto stretta da costringerlo ad inginocchiarsi per poterla attraversare.
Così fece. Vide la via rischiararsi e aprirsi in qualcosa di più ampio. Vide qualcosa di molto simile ad un mondo sotterraneo. E vide la spessa parete di roccia alla sua destra ed il silenzio che si colorava di caos, mentre le due ragazze terminavano la propria corsa, finendo spalle al muro, nello stesso momento in cui la risata dell’essere a tre teste si faceva più disumana, pregustando le vittime che gli erano state assegnate.
“Ranma!”
“Ran-chan!”
Nello stesso istante, lo chiamarono, ritrovando improvvisamente la speranza. Poté godere appena, lui, della gioia d'essere di nuovo riconosciuto da loro – dall’unica amica donna che avesse mai avuto… e da… “Ke ke ke, bruciate!”
Questo lo riportò subito al presente ed alla critica situazione in cui si trovavano. Ukyo impugnò lo spatolone con entrambe le mani, facendone uno scudo improvvisato, mentre Akane si era posta alle spalle della cuoca di okonomiyaki. Era una difesa che non poteva reggere molto, giusto qualche secondo e poi sarebbero entrambe state arrostite dall’alito di fuoco della testa principale. Ranma lo capì, smise di chiedersi cosa ci faceva Asura in quel posto ed intese che doveva inventarsi qualcosa al più presto.
“Moko Takabisha!” La sfera di energia partì dai suoi palmi, destinata ad attaccare lateralmente l’avversario ed arrestare così il suo attacco.
“Sciocco!” gracchiarono le voci, mentre il colpo veniva facilmente parato con una soltanto, delle sei braccia. “Asura è troppo potente per te, ora assaggerai la sua collera!” e mentre così parlava, la fiamma diminuì di potenza. Il risultato era stato raggiunto, anche se per un altro motivo. L’aveva fatto solamente arrabbiare, ma l’avversario non aveva minimamente risentito del suo attacco. Era molto più forte dell’ultima volta che lo aveva affrontato.
“Muori!” gridò Asura, cambiando dunque il suo bersaglio. Ukyo tirò appena un sospiro di sollievo, osservando la grossa spatola, che si era fusa per metà. Poi il presentimento, lo stesso che aveva preso Akane mentre vedevano il mostro lanciarsi contro il loro fidanzato – il presentimento che nemmeno Ranma avrebbe potuto fare niente.
Troppo facile era stato distrarlo. Il ragazzo col codino pensò che forse era lui, quello finito in trappola, mentre attaccava il nemico con una serie di Moko Takabisha, che però questo neutralizzava senza sforzo rispondendo con attacchi sempre più micidiali. Ne era sicuro, Akane e Ucchan costituivano solo un’esca. Lui era la preda. Ranma tentò di girare intorno al nemico per coglierlo di sorpresa, ma la cosa si rivelò subito impossibile: braccia e teste sbucavano da ovunque, costringendo ben presto Saotome ad arretrare, conscio che sparare la sua energia non solo non serviva a nulla, ma l’avrebbe stancato in poco tempo. Se solo Rouge avesse potuto governare la propria trasformazione e riprendere il controllo sul dio!
*Ah! Ma forse…* l’intuizione che ebbe lo sorprese non poco. Eppure sembrava dare un senso a tante cose.
Intanto continuava ad arretrare. Non gli piaceva fuggire di fronte al nemico, ma non vedeva altra scelta. Pensò che solo con l’Hiryu Shotenha avrebbe avuto qualche speranza: ma impossibile era attirare Asura in una spirale, senza prima venire colpito lui. Ranma decise dunque di ritirarsi, almeno avrebbe fatto da esca dando ad Akane e Ucchan il tempo di mettersi in salvo. Lui poi si sarebbe trovato al sicuro non appena fosse rientrato nel cunicolo da cui era giunto. Poteva funzionare.
“Fuggite!” gridò alle due mentre si allontanava, seguito dal mostro. Akane, per tutta risposta, si accinse invece a seguirlo a sua volta: ma l’iniziativa venne meno, le gambe cedettero di colpo e la ragazza con i capelli corti si ritrovò a terra col fiato spezzato. Ukyo, che pure inizialmente stava partendo alla rincorsa di Ran-chan, vide tutto: capì che Akane non si era completamente ripresa dallo shock ed anzi, scappando da Asura, aveva probabilmente dato fondo alle poche energie che le erano rimaste.
“Tu resta qui!” disse alla minore delle Tendo, che già stava faticosamente rimettendosi in piedi. “Controllerò io che a Ranma non accada niente.”
“Non mi puoi costringere, Ukyo!” replicò l’altra con tutta la sua determinazione.
“Allora… allora vuol dire che rimarrò con te, impedendo che tu commetta qualche sciocchezza."
La giovane Kuonji sorrise appena dentro di sé: forse aveva appena trovato, se non un modo per farsi perdonare, almeno qualcosa che somigliasse vagamente ad un buon inizio.
“Ma…”
“Niente ma.” fece Ukyo, con altrettanta determinazione. “E poi sono sicura che Ranma non ha bisogno di noi: ce l’ha sempre fatta, ce la farà anche stavolta. Dobbiamo fidarci di lui.”
Akane intuì appena i pensieri di Ukyo e questo bastò a farla annuire, mentre le sue labbra si piegavano in un timido accenno di sorriso.
Ranma, intanto era arrivato alla spaccatura, stretta abbastanza perché Asura non potesse seguirlo. Stava per farvi ingresso, quando percepì nuove presenze.
“Ghuhuh!” la specie di grugnito che udì, prima che un essere mostruoso dalla testa di toro sbucasse fuori dal cunicolo, allargandolo a dismisura con la forza delle braccia e dei tentacoli per farsi lo spazio necessario ad uscire e sollevando un enorme nuvolo di polvere.
“Taro?” Adesso si trovava tra due fuochi. L’unica via di scampo era approfittare di quel momento ed entrare prima che si accorgesse di lui.
Con un agile balzo scavalcò il minotauro, ma non trovò affatto la strada libera davanti a sé. Nella foschia creata dalla polvere, scorse un’aura pesantissima di energia.
“Sei finito!” riconobbe la voce di Ryoga, mentre una sfera luminosa veniva caricata nella sua direzione; e non ebbe il tempo di pensare.
“Shishi Hokodan!”

 

Le lacrime avevano ripreso a scorrere dagli occhi dell’amazzone, queste se possibile ancora più amare delle precedenti. “Il destino non esiste e Lanma non mi ha mai amato.” singhiozzò Shampoo. “Sono stata cieca e ho pelduto pel semple ailen…! Pel colpa solo mia, mia!”
“Non è ancora finita.”
La voce, questa volta, era esterna.
“Chi sei?” disse con odio.
“Ascolta, ho due notizie per te: una buona e l’altra cattiva. Da quale preferisci cominciare?”
“Non plendelmi in gilo!”
“Non collabori? E allora sceglierò io per te. Sappi che Ranma è vivo – e sta venendo qua.”
L’amazzone si asciugò il viso. Fissò il proprio interlocutore ancora avvolto nell’ombra, la speranza era riaffiorata in lei pur contro ogni logica. Ma poteva fidarsi delle parole di quello sconosciuto?
“Come posso sapele” chiese “che quello che dici è velo?”
“Presto potrai verificarlo con i tuoi occhi.” rispose. “Ma se fossi in te, farei qualcos’altro piuttosto che sospettare. Mi preoccuperei. E molto. Perché questa non era la buona notizia. Era quella cattiva.”
“Cosa intendi?”
“Ranma è salvo, certo. Ma tu? Hai cercato di eliminare la donna che ama, ti odierà a morte per questo. Sarebbe stato meglio che fosse morto, per te. Ora non dovresti affrontare la sua collera.”
“Non… non volevo falgli dispiacele!”
“Credi veramente che dirgli ciò basterà? Adesso sì che l’hai perso. E per sempre.”
“Ma io amo Lanma.”
“Lo so. E infatti sono venuto apposta per portarti l’altra notizia, quella buona. Non sta scritto da nessuna parte che il futuro di Ranma debba essere con quella Akane. L’ho detto, il destino non esiste.”
“Vuoi dile che…”
“Che Ranma può ancora essere tuo. Hai ancora un’opportunità. Sempre che tu accetti la mia alleanza.” Le tese il braccio. L’amazzone esitò un momento. Poi strinse con sicurezza la mano di lui: i suoi occhi, incrociando quelli dell’altro, color zaffiro, brillarono di un riflesso nuovo ed inquietante.
“Lanma salà mio!” le sue ultime parole coscienti.

 

Taro emise un sordo lamento e crollò a terra, stordito dall’enorme potenza del colpo che aveva subito in pieno petto.
Ranma, fissando Ryoga e Mousse uscire dal cunicolo mentre la polvere si depositava lentamente per terra, rendendo di nuovo possibile la visibilità, valutò cos’era appena successo. Taro aveva fatto in tempo a percepire la presenza di Ranma e si era voltato, pronto a colpirlo. Ma era stato anticipato dallo Shishi Hokodan di Hibiki.
Adesso il bestione tentava di riprendere il controllo, ma era ancora vacillante. Avere più forza non era servito poi a molto; capì di avere sottovalutato il nemico, sicuramente anche questo era più forte dell’ultima volta. Non importava. Sarebbe durato per poco, sentiva già dentro di sé scorrere nuova energia. L’avrebbero pagata molto cara.
Ripensò rapidamente a quando aveva teso la mano verso quei due. Ancora un poco e le loro anime sarebbero state spacciate. Ma quelli avevano allungato i loro arti verso il proprio solamente per schiaffarlo via, con gran meraviglia di Taro. Cosa li aveva spinti a ciò? Il loro stupido onore, forse? Che sciocchi! Come si poteva non provare disprezzo, per loro? Fu questo il sentimento che accelerò nel gigante dalla testa taurina il recupero delle forze.
Mousse l’aveva inteso e si era affrettato a cingere il corpo del mostro con le catene più robuste che aveva nella veste. Ma non sarebbe bastato per molto.
“Oh, rieccoti qui!” Ryoga si accorse solo allora del ragazzo con la treccia. “Sembra che tu non abbia trovato la fonte, se alla fine sei tornato da noi.”
“Veramente siete voi che mi siete venuti incontro!” notò Ranma, puntando l’indice alla tempia. “E in ogni caso non c’è nessuna fonte, Shampoo e Ukyo ci hanno mentito: inoltre credo che la fonte sia l’ultimo dei nostri problemi, ora come ora.”
Detto questo, fece cenno in direzione di Asura che tornava alla carica. Gli occhi del dio indiano erano rimasti accecati dalla polvere, così questo aveva pensato di sollevarsi in volo aspettando che si diradasse. Ryoga e Mousse si concentrarono sull’infausta novità.
“Che cosa?! Nessuna fonte?!” urlarono all’unisono i due maledetti.
“Ho appena detto che non è il momento di pensare a ciò!” replicò Ranma. “E poi anche Akane, Ucchan e Shampoo potrebbero trovarsi in pericolo!” In effetti, Shampoo non l’aveva proprio vista, mentre le altre due erano ora fuori della portata del suo sguardo. Pregò che andasse tutto bene.
“Cosa?! Shampoo!” gridò Mousse.
“Akane è in pericolo?! Va bene, ne riparleremo dopo aver abbattuto questo strano coso.” disse Ryoga, preparando nuovamente i palmi. “Mousse, tu pensa a controllare Taro!”
“E come pensi che possa fare?!” protestò il cinesino. “Si sta già liberando dalle mie catene! E non ne ho altre.”
“A lui ci penso io.” la voce di Obaba. “Pare che vi abbia trovato in tempo.”
“Sei arrivata al momento giusto, vecchia.” Ranma la vide, con la coda dell’occhio, premere un paio di terminazioni nervose del mostro e fargli così perdere coscienza, appena prima che questo spezzasse l’ultima catena.
“Ottimo!” esclamò Mousse. “Ora, non potresti fare lo stesso con quell’affare volante?” suggerì, indicando Asura.
“Oh, un’altra vittima di Jusen.” constatò l’amazzone. “E come ci arrivo lassù, secondo voi? Prima dobbiamo atterrarlo!”
“Dici facile, tu!” protestò Ranma, sparando un altro Moko Takabisha, facilmente controbilanciato dall’ennesima vampata di calore.
*Aspetta un momento, in effetti c’è un modo per abbatterlo!*
Corse in direzione opposta all’ingresso del cunicolo, dove ancora stavano gli altri. Notò che Asura lo seguiva con lo sguardo, tutto come previsto. Asura puntava su di lui. Schivò alcune fiamme, finché non ritenne di essersi allontanato a una distanza sufficiente dal resto del gruppo.
“Adesso, Ryoga!” gridò.
Mousse pensò di aver inteso l’idea di Ranma, cioè distrarre l’avversario dando a Hibiki il tempo necessario per preparare il suo colpo energetico. Il giovane dai canini sporgenti non si fece attendere e concentrò i propri pensieri infelici: quello di Akane in pericolo, in verità, bastava da solo allo scopo. Caricò tra i palmi delle mani un nuovo Shishi Hokodan, mirando con quel poco di concentrazione che gli restava in direzione di Asura, girato di spalle e per di più con tutte e tre le teste intente a non lasciarsi sfuggire il giovane Saotome.
“Prendi questo!” gridò, lasciando andare una potentissima onda energetica. Una testa laterale scorse il bagliore ed intuì il pericolo.
“Ormai è tardi per schivarlo.” giudicò Mousse. “Ce l’abbiamo fatta!”
L’espressione del cinesino dovette cambiare in un batter di ciglia. Nel giro di una frazione di secondo, infatti, il dio si girò su se stesso e, con rapidità disumana, scansò il fascio di luce. Che adesso, senza altri ostacoli, era diretto verso il ragazzo con il codino.
“No!” si lasciarono sfuggire Ryoga e Mousse. A sorridere, ora, erano le teste di Asura. Ranma fissò lo Shishi Hokodan che stava per colpirlo. Non aveva tempo per schivarlo. Ma non era quello che aveva intenzione di fare.
Un lampo, il colpo che andava a segno, forse. Ma durò solo un istante infinitesimale.
“Hiryu Shotenha!”
Asura si trovò preso di contropiede. Inaspettatamente, era come se il colpo da lui appena schivato stesse tornando indietro con gli interessi. Ebbe appena il tempo di distinguere qualcosa di simile ad un sottilissimo tornado, prima di essere colpito in pieno. E di venire scagliato contro la parete di roccia, privo di sensi. Obaba non tardò a farglisi vicino e a premere gli tsubo giusti perché non li infastidisse per qualche ora almeno.
“Questi due sono a posto.” disse Ranma.
“Non… non ci ho capito nulla!” balbettò Mousse.
“Era questo che avevi in mente?” domandò sconcertato Ryoga. “Ma come hai fatto?!”
“Mmh, credo di aver capito l’idea del consorte.” disse Cologne. “Una parte dello Shishi Hokodan di Ryoga, che altro non è se non l’energia pesante di un animo depresso, è collassata verso le zone periferiche di aria leggera, quella emanata prima da Ranma e Asura. L’aria calda in eccesso è confluita a sua volta nel vuoto del fascio di energia sparato da Ryoga, riscaldandolo e allo stesso tempo determinando un movimento rotatorio: questo, sommato all’accelerazione dello Shishi Hokodan, ha formato..."
"Una spirale!" esclamò Mousse.
"Proprio così" riprese lei. "Una sottilissima spirale di energia calda, anche se quasi invisibile a occhio nudo. La quale era la condizione ideale per l’Hiryu Shotenha.”
“Poteva funzionare” disse Ranma “solo se fossi riuscito a tenere la mia aura fredda e colpire l’onda energetica di Ryoga un momento prima che quella colpisse me. Per fortuna è andata proprio così.”
“Dunque lo Shishi Hokodan” mormorò Ryoga “non serviva a colpire quell’essere maledetto, bensì a formare la spirale.”
“Precisamente!” annuì Ranma. “Ero certo che Asura avrebbe schivato facilmente il tuo colpo, consentendomi di servirmene al mio scopo.”
“Capisco benissimo.” disse Hibiki, in un sospiro; immediatamente dopo, colpì Saotome con un pugno allo stomaco. “Solo, la prossima volta avvisami prima di sfruttare i miei pensieri infelici per i tuoi tortuosi intenti!”
“Bene, abbiamo vinto!” considerò Mousse.
“Purtroppo non ancora.” spiegò la vecchia. “Questi due, l’avrete notato tutti, erano posseduti.”
“Già!” annuì Ryoga. “Taro aveva parlato chiaramente di qualcuno che gli aveva fornito la sua nuova forza. Ma con chi abbiamo a che fare?!”
“Con un nemico molto più forte di quelli che avete affrontato in passato.” disse Cologne. “Si tratta della divinità suprema che creò le Sorgenti Maledette, il suo nome è Muchitsujo.”
“Una… una divinità suprema?!” esclamò Ryoga.
“Questo spiegherebbe perché si sta accanendo, combattendoli o facendoli suoi servi, solo su coloro che sono caduti nelle fonti.” ragionò Mousse. “Ma cosa vuole esattamente?!”
“Penso che finalmente lo sapremo.” disse Ranma. “Lui è qui, davanti a noi!”
Gli altri si voltarono. Silenzio. E poi un suono sordo. Un battere di mani. Un accenno di applauso. E una figura uscì finalmente dalla semioscurità in cui la grotta era tornata dopo che Asura era stato sconfitto, illuminata dallo sfavillio del medaglione.
“Sempre più acuto!” disse con una smorfia divertita. “Non ho sprecato il mio tempo, tutto sommato, a puntare su uno come te.”
“Shingo..." mormorò Ranma. "Dunque quella storiella di poco fa, gli altri in pericolo ed io solo che potevo salvarli, era solo… per tendermi una trappola?!”
“Preferirei definirlo, piuttosto, l’ultimo test. Superato con lode, data la facilità con cui avete sconfitto i miei guerrieri, pur potenziati dal Tai-ma no Mamori.
“Tu?!” esclamò Cologne. “Sei stato veramente tu a concepire tutto questo?! Eppure l’aura di Muchitsujo…” Shingo sorrise e la vecchia tacque di colpo: d’improvviso vedeva l’aura divina incontrarsi con quella di Shingo e del medaglione. Ovvio! Come aveva potuto non pensarci prima?! “Ti è più chiaro, adesso, nonnina?” domandò beffardo quello dai capelli riflesso del platino.
“Ora capisco.”
Obaba intese il motivo per cui le sue percezioni sull’aura di Muchitsujo fossero sempre tanto confuse e non riuscisse ad individuarne la fonte precisa.
“Adesso molte domande hanno una risposta.” disse Ranma. “Almeno, io credo di averla trovata mentre combattevo contro Asura.”
“Pensi che…” accennò appena Cologne.
“Che Shingo sia stato alle Sorgenti Maledette? Sicuro!” continuò il ragazzo col codino. “E non solo: è caduto in una delle fonti.”
Quello inarcò un sopracciglio.
“Non in una qualsiasi.” aggiunse Saotome. “Se ho fatto bene i miei conti – Shingo, tu sei caduto nella fonte dove fu sigillato il dio del caos, Muchitsujo! Non è forse vero?!”
“Ma certo!” esclamò l’amazzone. “Questo spiega come possa indossare il Tai-ma no Mamori pur essendo un semplice mortale. L’aura di Muchitsujo è in lui: prima non l’avevo localizzata per via dell’interferenza con l’energia emanata dal medaglione, ma ora lo avverto chiaramente.”
“Molto bene.” plaudì ancora Shingo. “Una tale intuizione merita di essere premiata” disse “ed è per questo che adesso vi racconterò la mia storia.”

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Capitolo 17
*** Chaos ***


PART SEVENTEEN –

“CHAOS”



Da qualche parte nel cuore dell’angoscioso antro, là dove unica vera fonte di luce s’irradiava il misterioso talismano dimenticato nei meandri del tempo, come volto a solennizzare l’ingresso del suo, ancora più oscuro, attuale possessore, un silenzio altrettanto religioso sostituì brevemente le domande e le constatazioni di appena pochi attimi prima, quasi a completare l’irreale atmosfera.
Shingo sorrise compiaciuto, forse meditando le parole adatte a far schiudere le sue labbra, da cui ormai tutti pendevano: soprattutto la vecchia amazzone, ma anche gli altri artisti marziali che solo allora stavano facendo la sua sgradita conoscenza. Più probabilmente, si divertiva ad ammirarli, ignari burattini invischiati nei suoi fili. Un tipo cui piaceva enormemente tenere in pugno la situazione, così almeno pensò Cologne.
Ranma, lui pure sorrise. Un sorriso di sfida, però, il suo. Il sorriso di chi aveva ritrovato finalmente la sicurezza, e la certezza che le cose stavano tornando alla, pur anomala, normalità. Più di tutto, il sorriso di chi sapeva che l’ora della verità era infine giunta. Non che volesse poi tante risposte. Una sola. All’unica domanda che aleggiava nella mente del giovane col codino. Perché lui?! Tutto quello che Shingo aveva fatto, e stava facendo, era per lui. L’aveva persino recuperato da un’altra dimensione. Quale, il motivo?! Continuò a scrutare gli occhi impenetrabili dell’altro, che parevano fare altrettanto con i suoi, come in un duello invisibile di sguardi, la cui vittoria sarebbe forse potuta consistere nella fine di tutti i misteri.
“Molto simili.” queste le parole con cui a Shingo piacque di rompere la muta atmosfera.
“Uh?!” bofonchiò Ranma, colto evidentemente alla sprovvista.
“Dicevo che io e te siamo molto simili.” riprese l’altro. “Anch’io, come te, pratico le arti marziali. Anch’io, come te, ho trascorso gli anni della giovinezza in un continuo peregrinare: alla ricerca di nuovi luoghi e nuove tecniche, per diventare sempre più abile e forte.” Strinse impercettibilmente le pupille. “Proprio come te.”
Il giovane Saotome si morse appena il labbro. Un artista marziale. Dunque aveva visto giusto fin dall’inizio, almeno in questo. Ma era certo che le passate esibizioni di Shingo non fossero farina del suo sacco. Comunque stessero le cose, la consapevolezza di avere di fronte un avversario tale non solo per quel medaglione – beh, non lo lasciava indifferente.
“Ebbi molti anziani maestri.” continuò il suo interlocutore. “Apprendevo rapidamente i loro insegnamenti, ma non mi bastava. E chiedevo sempre di più. Finché uno dopo l’altro mi scacciarono, ciascuno a suo modo lamentandosi della mia impazienza. Ma i fatti stavano diversamente. Fui io, piuttosto, ad abbandonarli alle loro sciocche verità e alla loro saggezza solo presunta. Perché aspettare di ridurmi all’ultimo sospiro di vita, prima di aver imparato quel che mi serviva, così da non avere nemmeno il tempo di metterlo in pratica? Tempo, io, non ne avevo da perdere.”
Ranma guardò appena con la coda dell’occhio gli altri, che ascoltavano attentamente e forse più concentrati di quanto non fosse lui stesso. Scorse persino suo padre, sotto forma di panda, dapprima annuire gravemente al discorso iniziale sui duri allenamenti di un artista marziale e dopo borbottare qualcosa che sarebbe probabilmente risultato incomprensibile pure in lingua umana, di fronte al disprezzo che Shingo non si curava di celare nei confronti dei suoi maestri. Il ragazzo col codino sapeva che quel codardo del suo vecchio doveva trovarsi da qualche parte nella caverna, ma non si aspettava che lo avrebbe visto uscire allo scoperto in una situazione così delicata. Evidentemente la curiosità aveva avuto la meglio anche su di lui.
“Quindi mi trovai a visitare i più remoti villaggi della grande Cina” le parole dell’altro catturarono nuovamente l’attenzione di Ranma, che pure non vedeva l’ora che quello arrivasse al sodo “scoprendo in ogni posto qualcosa di nuovo e che mi permetteva di accrescere sempre maggiormente la mia forza.” Shingo si fece più serio. “Eppure non bastava. Vedevo davanti a me gli anni scorrere, e la vita scivolare come un soffio. Gli allenamenti non erano sufficienti. Volevo la forza, ma subito.” I presenti tremarono impercettibilmente davanti alla violenza con cui il tipo del medaglione aveva marcato l’ultima parola.
“Fu dunque per questo che, non appena venni a conoscenza dell’esistenza di Zhou Chuan Xiang, il dubbio non ebbe nemmeno il tempo di adombrare la mia mente. Fonti che avevano la capacità di trasformarti negli esseri viventi più forti del creato!… Il potere, istantaneo, era ad un passo da me.”
Ranma ripensò distrattamente a quando Taro, molto tempo prima, gli aveva detto una cosa molto simile: si era tuffato una seconda volta nelle fonti, di sua spontanea volontà, proprio allo scopo di diventare più forte. Così gli aveva confermato, almeno, ma lui proprio non riusciva a comprendere. Non comprendeva come si potesse ottenere qualcosa senza conquistarlo con il sudore dei propri sforzi. Questa, l’unica cosa buona che riteneva gli avesse insegnato suo padre.
“Dunque, qualche tempo fa, mi recai alle Sorgenti Maledette. Senza perdere tempo, domandai alla guida quale fosse, tra le tante, la fonte con la leggenda più tragica, quella che potesse donare maggior potere. Il cinese mi rispose che era la prima volta, da che lui lavorava in quel posto come guida, ed erano perlomeno vent’anni, era la prima volta che un visitatore si presentava apposta per tuffarsi in una delle pozze d’acqua maledette. Mi fece vedere varie sorgenti, che avevano memorizzato l’aspetto di decine di animali selvaggi, nonché alcune fonti che avevano dato vita a stranissimi incroci, poiché vi erano finite più creature. Ma nessuna di quelle catturava la mia attenzione. Spiegai le mie intenzioni e quindi l’uomo con la veste del partito comunista cinese mi illustrò delle fonti di diverso genere: fonti dove erano cadute divinità ed esseri superiori, che non si limitavano a trasmettere l’aspetto fisico ma anche le loro anime.” Ranma annuì. Capì che il caso di Asura rientrava tra questi.
“Ero interessato, questa volta, ma non mi accontentavo.” continuò Shingo. “La guida mi fissò attentamente e capì qual era la fonte che avrebbe fatto al caso mio.
Mi condusse in disparte rispetto al resto del campo leggendario, là dove stava una fonte isolata dalle altre e per di più circondata da una specie di shimenawa¹ sul quale erano apposti numerosi sigilli. Chiesi di che cosa si trattasse e la guida, volendo lodare la tenacia di uno come me che, anziché finire per sbaglio in Jusen o recarvisi senza conoscerne le tragiche leggende, era giunto fin lì apposta per potenziarsi, decise di soddisfare la mia curiosità. Mi disse che quella fonte era chiamata Muchitsujonichuan e che ad essa era legata la più tragica delle leggende che era nata nel campo Jusen.
Mi raccontò di Muchitsujo, di come il supremo dio del Caos aveva creato questo posto. Di come ingannò perfino un altro dio, convincendolo ad immergersi nella fonte Nannichuan per poter stare con altri umani e specialmente con la donna umana di cui era innamorato. Ed infine di come venne sigillato, per espiare le proprie malefatte, nella fonte che ora si trovava davanti a me. Inspirò quindi una boccata della sua pipa, sbuffò una nuvoletta di fumo e ribadì con aria divertita che immergermi in quella fonte mi avrebbe certamente dato il potere che cercavo: nientemeno che quello di una divinità originaria!
Era una fantasia, però, si affrettò a spiegarmi dopo che ebbe realizzato come io avevo preso sul serio il suo racconto. Le divinità dell’Ordine in persona avevano provveduto a sigillare quella fonte, raccontava la tragica leggenda, e certo un semplice umano non avrebbe mai potuto spezzare il campo d’energia creato dallo shimenawa. Mi disse poi che era finito il tempo di scherzare e che adesso doveva badare agli altri ospiti: un paio di visitatori rimasti vittima di Jusen qualche ora prima, che lui, per sdebitarsi di non averli avvertiti in tempo, si era offerto di accompagnare per alcuni villaggi della regione tra cui quello delle donne di polso.
Improvvisamente, mentre ancora meditavo sul da farsi assieme alla guida davanti alla Muchitsujonichuan, delle ombre fecero la propria comparsa e sparirono ancora più veloci di com’erano arrivate. Un momento dopo avvenne qualcosa di straordinario. Una luce avvolse la sorgente. Lo shimenawa si spezzò. La guida si mise le mani in volto, terrorizzata. Accennò a tornare nel suo rifugio per sostituire la corda e così non poté vedere in tempo che io avevo approfittato di quell’insperata occasione per tuffarmi nella fonte.
Come previsto, sentii Muchitsujo entrare in me: tutti i suoi indescrivibili poteri ora erano miei. Ma c’era una cosa che non avevo previsto. La sua anima immortale stava prendendo velocemente il sopravvento sulla mia, mi stavo trasformando nel dio supremo ma quella trasformazione andava annientando allo stesso tempo la mia identità. Cercai di resistere e, con un immenso sforzo della mia volontà, forse quello che molti chiamano istinto di sopravvivenza, riuscii ad uscire dalla sorgente: ma il tentativo fu inutile. Quella per me poteva essere la fine, probabilmente la mia anima sarebbe stata cancellata dalla manifestazione divina. Avevo già perso ogni controllo del mio essere, quando inaspettatamente tutto finì così com’era cominciato.
La lucidità tornò in me, e ritrovai lentamente piena cognizione di quello che accadeva nel mondo esterno. Sentii dapprima una sensazione di calore, quindi potei scorgere la guida con un pentolino vuoto in mano. Conoscevo il funzionamento delle fonti di Jusenkyo e capii subito: la guida mi aveva versato dell’acqua calda. Pensai dunque di essere salvo. Così sarebbe stato, normalmente: difatti l’acqua calda ha l’effetto di quietare lo spirito risvegliato dal tuffo nella sorgente, così come l’acqua fredda provoca al contrario il suo risveglio, ricreando ogni volta le condizioni originarie della caduta nella fonte, che infatti è fredda. Questo, tuttavia, non fu il mio caso.
Passò solamente qualche secondo di quiete. Quindi lo spirito di Muchitsujo tornò ad imporsi su di me, anche se questa volta nessuna trasformazione era visibile dall’esterno. La guida mi spiegò che purtroppo lo spirito di una divinità suprema non era facile da imprigionare, col mio tuffo l’avevo liberato dalla prigione in cui era rinchiuso da mille anni ed ora egli reclamava la sua libertà.
La guida mi pregò di resistere con tutte le mie forze, disse che andava a prendere qualcosa che avrebbe neutralizzato la maledizione. Mi fidai, del resto non potevo fare altro. Lottai con tutto il mio vigore, per non lasciarmi sopraffare. Qui non vennero in soccorso gli anni di addestramenti, che avevano formato il fisico, forse, ma non più di tanto la mia forza interiore. Fu la volontà, la testardaggine di volere io il potere, senza permettere che fosse quello a volere me, fu questo a salvarmi durante minuti che mi parvero un’eternità. Fu questo a salvarmi, fino all’arrivo della guida, e a permettermi di diventare quello che sono oggi.
La guida tornò, dicevo. Mi infilò al collo quello che sembrava essere un antico medaglione, facendo ripetuti scongiuri e pregando che quell’azione non stesse solamente peggiorando la mia situazione. Il medaglione neutralizzò lo spirito di Muchitsujo cosicché mi ritrovai con il pieno controllo non solo di me stesso, ma anche dell’anima del dio supremo.” Prese un attimo di respiro. “Così, quella che doveva essere la fine fu soltanto l’inizio.”
“Il Tai-ma no Mamori” lo interruppe Obaba. “Ovvio, era l’unico modo di salvarti. Quello che non capisco è come mai la guida non mi abbia mai avvisato di una cosa tanto grave, in tutto questo tempo.”
“Non è difficile da immaginare” riprese Shingo. “Il medaglione teneva sotto controllo Muchitsujo e Muchitsujo mi permetteva allo stesso tempo di utilizzare gli immensi poteri del medaglione. Così mi spiegò la guida, mentre allestiva un nuovo shimenawa. Uno dei poteri consiste in certi… giochini mentali – che ho avuto l’occasione di usare poco fa, con te, nonnina.” Rivolse lo sguardo a Cologne, con fare altezzoso.
“E certamente, anche con te.” disse poi, fissando Ranma. “E’ stato in questo modo che ti ho fatto recuperare la memoria, quando avevi rimosso nel tuo animo ogni ricordo dello Saishuu Shiyou Rei-ryuujin e dell’esperienza intera di Yakuzai. Per me fu dunque un gioco da ragazzi cancellare dalla mente della guida di Jusen ciò che era successo negli ultimi minuti. Troppo scomodo avere testimoni.”
Ranma sussultò. Qualcosa gli diceva che le cose avrebbero preso presto una brutta piega. Per fortuna Akane e Ucchan si trovavano lontano da lì, al sicuro.

Ukyo e Akane erano molto più vicine di quanto Ranma potesse immaginare. Per l’esattezza, si erano acquattate dietro un’enorme stalagmite, a pochi metri dagli altri.
“La senti quest’aria carica di tensione? Non mi sembra una bella idea stare tanto vicine a quello… Shingo, mi pare di aver capito che si chiami.” Akane ammonì la cuoca di okonomiyaki.
“E allora perché mi hai seguito?!” la secca risposta dell’altra ragazza, che in effetti in breve tempo era venuta meno a quanto si era ripromessa. “Ti avevo pur raccomandato di rimanere al sicuro!” aggiunse, come per giustificarsi.
Poi la sentirono. Entrambe. Nello stesso momento. La sua aura era molto familiare alle due ragazze. Eppure v’era, stavolta, come qualcosa di diverso in lei. Ma una sola, la cosa che contava per Ukyo.
*Maledetta!* ringhiò la sua mente. *Come hai osato servirti di me?! Ora la pagherai!*
L’azione precedette il pensiero. Tutto quello che restava, della grossa spatola da combattimento, era il manico. Ma per la giovane Kuonji tanto sarebbe bastato. Mentre Akane era rimasta come paralizzata, si lanciò in aria, contro la figura che si avvicinava rapidamente, sempre più rapidamente – troppo!

Shingo fu l’unico, dei presenti, a percepire tutto questo. Ciò nonostante, aspettò con tutta tranquillità la reazione degli altri al suo racconto.
“Bene.” disse sprezzante Ranma. “A vedere il tuo comportamento, e sentendo come parli, non credo affatto che tu abbia voluto usare i tuoi poteri per aiutare l’umanità o cose simili.”
“Hai colto nel segno!” sorrise l’altro, ancora più sprezzante. “Almeno, Muchitsujo non approverebbe. Sapete, lui è in me. Comunica con me quando vuole, nella mia mente. Ho il controllo su di lui, ma è pur sempre il dio supremo del Caos e così non posso negargli il favore che mi ha chiesto in cambio dello sfruttamento dei suoi poteri.”
Obaba strabuzzò gli occhi. “Shingo, ti riferisci forse a…”
“Alla sua vendetta, certo. Non che a me interessi più di tanto, ma spesso il compromesso è la mossa più intelligente: dunque non sarà poi tanto male, se sia io che Muchitsujo avremo conseguito i nostri fini.”
“Dunque è a questo” s’intromise Ryoga “che ti servivamo.”
“Pressappoco.” sorrise Shingo. “Avete una pallida idea di quante persone siano cadute nelle fonti di Zhou Chuan Xiang, da che furono create? Tanto che ancora oggi, mille anni dopo la condanna del dio, moltissimi sono coloro che vi hanno a che fare. Voi conoscete un consistente numero di questi individui.”
Non solo Ranma e Obaba, ma anche Ryoga e Mousse intesero immediatamente a cosa Shingo si riferisse. Non parlava solo dei maledetti che stavano in quella caverna. E non solo di chi nelle fonti era caduto direttamente. Loro avevano avuto a che fare con quell’Herb², ricordavano dunque che i membri della copiosa dinastia Jako discendevano da animali trasformati in donne umane dall’incantesimo della Niang Nichuan. Si poteva tranquillamente affermare che nelle loro vene scorreva non sangue, ma acqua di Jusen. Un discorso simile poteva essere fatto per il popolo del monte Hooh, i cui abitanti avevano vissuto per generazioni utilizzando l’acqua di un’altra fonte maledetta, situata sulla cima della montagna.
“Vuoi controllare coloro che sono stati contaminati da Jusenkyo, questo mi sembra evidente.” constatò Cologne. “Ma questo come è collegato alla vendetta di Muchitsujo?”
“Semplice!” rispose Shingo. “Uomini e divinità dell’Ordine speravano di fermarlo con la sua creatura, Jusenkyo. Adesso proprio Jusenkyo sarà lo strumento della rivincita: acquisterò il controllo su tutti i maledetti, uno dopo l’altro, fino a costituire il mio personale esercito. Un esercito che capovolgerà l’Ordine, sovvertirà le regole e porterà ancora una volta il Caos tra gli uomini, quel Disordine che essi credevano di aver rigettato per sempre.”
“E’ una follia!” esclamò l’amazzone.
“E cosa c’è di male nella follia?” replicò Shingo, mentre a Cologne parve di udir parlare Muchitsujo stesso, per bocca dell’altro. “Comunque sia, non è una cosa eccessivamente facile. Ho trascorso più di un anno per imparare a maneggiare i miei poteri ed inoltre il controllo delle anime altrui è materia di grande complessità. Certo, quei due che avete appena sconfitto mi hanno dato poco filo da torcere.” Si riferiva, pensò Ranma, a Taro e Rouge. “Erano tremendamente attaccati alla forza, avrebbero fatto qualunque cosa per essa. E l’hanno fatta, dato che hanno praticamente accettato di loro spontanea volontà di perdere le loro anime per me.”
“Li hai sicuramente ingannati!” ribatté furioso Ryoga. “Come, del resto, hai provato a fare con noi per mezzo di Taro.”
“Peccato che nel nostro caso” aggiunse Mousse “tu non ci sia riuscito.”
“Non siete una gran perdita.” disse quello, scotendo sornione il capo. “Troppo persi nei vostri insulsi sogni d’amore, dopotutto non fate al caso mio.”
Ryoga strinse con forza i pugni. Quel tipo non sapeva quanto aveva sbagliato a sottovalutarlo, e presto l’avrebbe scoperto a sue spese. Hibiki si voltò istintivamente verso Mousse, come per cercare nel suo sguardo i medesimi sentimenti e la medesima determinazione che l’animavano. Non trovò niente di tutto questo. Il ragazzo cinese dalla lunga tunica aveva improvvisamente chiuso gli occhi e pareva assorto in qualcosa di totalmente diverso. Confuso per l’atteggiamento dell’altro, il giovane dai canini sporgenti non replicò, così, alla provocazione di Shingo, lasciando involontariamente che fosse Ranma a parlare al suo posto.
“Sembra che noi due” giudicò il ragazzo col codino “saremo dunque nemici.”
“Questo dipende da te.” precisò l’individuo del medaglione. “In fin dei conti è merito mio, se sei tornato: potresti anche mostrarmi maggior gratitudine.”
“No!” il giovane Saotome replicò con decisione. “Avresti potuto farmi tornare quando volevi, con i tuoi poteri. Dico bene?”
“Dici benissimo.”
“Allora, se volevi tanto che tornassi, perché mi hai fatto passare tutto questo?!” Ranma aveva alzato inavvertitamente la voce. “Per divertirti alle mie spalle?!”
Shingo si fece attendere. Fissò con fare indolente la volta sopra le loro teste, da cui la luce del giorno filtrava solo parzialmente, attraverso alcune strette fessure nella roccia. Quindi riportò lo sguardo sull’altro che smaniava impaziente per una sua risposta.
“L’hai detto.” sibilò, infine, con un ghigno beffardo.
Ranma inspirò profondamente. Il suo autocontrollo stava venendo rapidamente meno, quel tizio gli aveva suscitato fin dal loro primo incontro un’antipatia istintiva, ma ora – beh, ora la sopportazione aveva raggiunto il limite.
“Dobbiamo assolutamente fermare Muchitsujo, prima che sovverta l’Ordine delle cose!” disse Cologne agli altri. “E Muchitsujo è dentro di Shingo, ora.”
“In poche parole, per fermare il dio del Caos bisognerà sconfiggere Shingo, vero?” la interruppe Ranma, convinto. “Bene, vuol dire che gli toglierò quanto prima quel sorriso dalle labbra!”
“Potete contare anche su di me!” esclamò Ryoga, mentre già Ranma si era lanciato all’attacco. Si accinse ad imitarlo, ma qualcosa fermò i suoi movimenti.
“Cosa succede?! Perché non riesco ad avvicinarmi a quello Shingo?!”
“Si vede” constatò Obaba, allungando il proprio bastone “che ha alzato un campo di forza. Non so per quale motivo, ma è solo con il consorte che vuole combattere.” La sicurezza parve abbandonare l’amazzone, mentre gridò al ragazzo di fare attenzione.
Possibile? La stava sentendo. La paura. Lei, che aveva numerosi decenni di esperienza. Era una giovinetta alle prime armi, a digiuno totale di tecniche, l’ultima volta che un tale sentimento si era impadronito della sua razionalità, sconvolgendole le membra. Si sentì ringiovanita di colpo, e questo, che in altri casi le avrebbe recato gradimento, non le piacque. Sapeva che bisognava averne, e tanta, di paura. I poteri di Ryuukei e di Muchitsujo, neutralizzandosi vicendevolmente, erano concentrati in un essere umano che aveva appena ammesso di essere affamato di potere. Cologne sapeva che ciò non prometteva niente di buono.

Fare attenzione! Tsè! La vecchia sparlava. Perché avrebbe dovuto temerlo? Era di nuovo nel suo mondo, pensò il giovane con la treccia e la camicia cinese. Non era più uno straniero in un contesto che non lo riconosceva. Era nuovamente Ranma Saotome, dell’omonima scuola di arti marziali indiscriminate, colui il quale non aveva mai perso una sfida. Perché avrebbe dovuto temere un nuovo avversario, pur con poteri divini? Non era una novità. Aveva già sconfitto Safulan, che era il dio fenice. Avrebbe scoperto anche il punto debole di Shingo.
“Fammi vedere cosa sai fare!” gridò, mentre aveva cominciato a scagliare un attacco continuo di pugni, sfruttando la rapidità acquisita sin dai tempi in cui aveva appreso la Tecnica delle Castagne. Avanzò, trovandosi immediatamente faccia a faccia con Shingo, il quale non aveva mosso un ciglio: le sue braccia erano distese lungo i fianchi, non accennava nemmeno a provare una posizione di difesa. Tutto quello che faceva era arretrare dietro i colpi incessanti del giovane con la treccia.

Mousse sentiva qualcosa che non andava. Percepiva nuove presenze, ma non era questo a preoccuparlo. Era una, di quelle presenze. L’avrebbe riconosciuta tra mille. Lui viveva, per quella presenza. Viveva in sua funzione. La conosceva meglio di chiunque altro. Eppure adesso aveva qualcosa di diverso. Quel qualcosa che già aveva percepito in Taro, quando gli era stata offerta la forza per sconfiggere Ranma. Ecco, si faceva più vicina. L’ombra si dirigeva, non vista, verso i due contendenti. Solo lui poteva accorgersene. E temeva che la persona per la quale viveva stesse per compiere qualche sciocchezza.

“Ma cosa fa quello Shingo, non tenta nemmeno di difendersi?!” meditò Ryoga.
“Purtroppo” commentò Obaba “non ne ha bisogno.”
Ranma proseguiva il suo attacco. Shingo continuava ad arretrare. Genma, che si era riparato dietro alcuni massi in postazione di sicurezza, notò che nessuno dei colpi del figlio andava a segno, in realtà. Quello Shingo riusciva a schivarli, uno dopo l’altro. Almeno così sembrava. In realtà era come se il ragazzo vestito alla cinese finisse sempre con lo sferrare il proprio attacco fuori tempo. Eppure, giudicò l’anziano Saotome, i suoi movimenti erano tanto fluidi che nemmeno li avrebbe visti, non avesse avuto l’occhio allenato di un artista marziale qual era. Il punto era che i movimenti di Shingo, quelli non riusciva veramente a vederli.
“Tutto qui? Non sai fare di meglio?” Shingo cominciò a stuzzicare l’avversario.
“Anche tu mi stai deludendo!” replicò Ranma, senza rallentare. “Non puoi fare a meno di servirti di quel tuo medaglione, vedo.” Infatti aveva subito notato come questo brillasse più intensamente, ogni volta che Shingo evitava i suoi pugni.
“Bravo, i tuoi occhi sono certamente più allenati del tuo cervellino.” lo provocò quello dai capelli riflesso del platino.
“Il consorte” giudicò intanto Obaba “non ha alcuna possibilità di vincere.”
“Cosa vuol dire?” domandò Ryoga.
“Quello che Shingo ha al collo è il leggendario Tai-ma no Mamori.” spiegò la vecchia. “Il medaglione racchiude i poteri del sommo Ryuukei, che era il dio del tempo e dello spazio. Facendone uso, Shingo può sfilacciare impercettibilmente le trame della materia.”
“Huh?” tutto quello che fu in grado di replicare il ragazzo con la bandana.
“Voglio dire” sospirò l’amazzone “che Shingo sta…”
“Questo è lo stesso trucco dell’altra volta!” esclamò Ranma. “Non stai schivando i miei colpi, tu stai scomparendo e riapparendo: ecco perché non riesco a colpirti!”
“Più precisamente” disse Shingo “mi sposto impercettibilmente nello spazio e nel tempo. Un assaggio dei poteri di Ryuukei. Niente di che, per carità. Qualcosa che normalmente dovrebbe essere perfino invisibile alla mente poco allenata degli uomini. Spostamenti, ma di centimetri e di frazioni di secondo. Non posso fare di più ma questo direi che può bastare, per i miei scopi. Il fatto che tu te ne sia accorto costituisce un nuovo punto a tuo favore.”
Detto questo, l’uomo dai capelli riflesso del platino aprì il palmo della mano adagiandola sul petto di Ranma, senza che questi potesse evitarlo. Un istante più tardi, il giovane Saotome fu lanciato contro la nuda parete di roccia della caverna da un’energia potentissima. Qualcosa che al momento gli fece rimpiangere addirittura il Ryuseihisho, il cannone energetico di Herb.
*Come… come ha potuto ridurmi così?! Eppure mi ha solo sfiorato!* pensò Ranma, rialzandosi faticosamente.
“E’ questo stesso potere” Shingo continuava incurante il suo discorso “che mi ha consentito di raggiungerti nel mondo parallelo, quando fosti vittima dello Saishuu Shiyou Rei-ryuujin.” L’uomo del medaglione artigliò il vuoto davanti a sé, come per graffiare l’aria circostante. Quello che ne seguì fu, però, una sorta di squarcio. Uno squarcio che si allargò vistosamente, dando vita a qualcosa di molto simile ad un ingresso. Non si vedeva a cosa dava quell’ingresso. Tutto buio e inconsistente, così l’impressione che ebbero i presenti. A Ranma parve di aver già visto un fenomeno molto simile. Forse era stato durante il proprio viaggio di ritorno dall’altra dimensione.
“Chiaro!” disse Cologne. “Quell’incantesimo era attivato dallo spirito di un dragone e Shingo racchiude dentro di sé i poteri di migliaia di dragoni: per lui è uno scherzo varcare le dimensioni."
“Anch’io ho un limite, in realtà.” ammise l’altro, mentre scansava senza problemi un calcio di Ranma, il quale non voleva arrendersi nemmeno di fronte all’evidenza. “Non potevo trattenermi troppo a lungo, perché avrei rischiato prima o tardi di incrociarmi col mio doppio dell’altra realtà. La sua sola presenza, da qualche parte in quel mondo, mi ha costretto a fare solo brevi visite. Ma quello che ho visto” aggiunse, prendendo ancora in pieno Ranma con un nuovo colpo energetico “è stato più che sufficiente.”
“Un’altra realtà?” non poté far a meno di ripetere Ryoga; e poi, a voce alta: “Ranma, cos’hai combinato stavolta?!”
“Già, Ranma!” lo invitò a sua volta Shingo, con evidente sarcasmo. “Perché non racconti a tutti di quello che hai combinato, nell’altra dimensione?”
Il ragazzo con la treccia fu come fulminato. La foga con la quale si stava rialzando da terra, facendo leva con un braccio poggiato sul terreno e pulendosi con la manica dell’altro il rivolo di sangue che gli era affiorato sul mento, svanì tutta insieme.
“Non vuoi parlare? Allora lo farò io per te.” mormorò Shingo, a voce più bassa. “Ti sei recato a casa della famiglia Tendo, hai premuto il dito nella piaga ricordando al capofamiglia che non c’era più alcuna palestra da mandare avanti. Hai strapazzato quel parassita d’un vecchio, che probabilmente si sarà vendicato con gli interessi nei confronti degli inquilini di quella casa. Hai scacciato il preside della tua scuola, che però sarà tornato a tartassare i suoi alunni in modo ancora peggiore. Hai…”
“Maledetto!” Ranma lo sovrastò con la voce, recuperando un po’ di vigore per quanto ciò fosse dovuto esclusivamente ad un’ondata di rabbia cieca, che aveva appena sovraccaricato ogni suo nervo. “Tu mi hai sempre spiato! Anche in quelle occasioni! Tu…”
“Sii educato e lascia finire chi sta parlando!” Shingo schiuse nuovamente il palmo della mano, costringendo Ranma a terra. “Dov’ero rimasto? Ah, sì! Hai rovinato la vita della tua fidanzatina, giusto?”
“Sta’ zitto!” gridò il ragazzo col codino.
“Le hai mandato a monte l’appuntamento con quel ragazzo…”
“Chiudi il becco!”
“Quel ragazzo che avrebbe dovuto salvare la sua famiglia, vendicare la sua sconfitta…”
“Vedi di piantarla!”
“Salvare l’onore suo e della famiglia Ten…”
“Taaaciii!”

Fu in quel preciso istante. Lui aveva perso ogni autocontrollo, sentendo sopra di sé il peso insostenibile della realtà. Lei era arrivata. E Shingo lo sapeva. Ma anche un altro lo sapeva.
Nella semi-oscurità in cui era riparata, Akane non aveva modo di vedere molto più di Ranma e Shingo che si affrontavano. E sebbene avesse percepito pure lei il suo avanzare, tremando inconsciamente di questo nel più profondo del proprio animo – fu solo allora che la minore delle Tendo poté scorgere il corpo di Ukyo disteso sul terreno, pieno di lividi e privo di sensi.

Aveva interferito, verissimo. E aveva cambiato le cose in peggio. Come in questa realtà, anche nell’altra aveva stravolto le vite di coloro che gli stavano vicino. Questa consapevolezza gli fece perdere, per un momento, il senno. Ranma si lanciò contro Shingo, privo di ogni ragione che sostenesse il suo attacco. Per l’altro fu, così, ancora più facile immobilizzarlo per le braccia e costringerlo ad ascoltarlo.
“Ascoltami, Ranma Saotome. Non c’è alcuna ragione per cui noi due dobbiamo essere nemici. L’ho detto prima, io e te siamo molto simili. E quando l’ho detto, non mi riferivo solo agli anni di addestramento o alla testardaggine che sembra contraddistinguere entrambi.”
Il giovane con la treccia smise di divincolarsi, fissando sconcertato il proprio interlocutore.
“Sciocchino, non era questo. Non ti sei mai chiesto perché porti confusione ovunque tu vada? La risposta è molto più semplice di quanto possa sembrare.” Socchiuse gli occhi color zaffiro, pregustando la rivelazione che si apprestava a dare.

“Ranma, tu appartieni al Caos!”

Era folle. Non aveva udito rumore alcuno. Era successo tutto in pochi attimi, e a pochi metri da lei. E nemmeno se ne era resa conto. Akane si maledisse. La vicenda dello spirito-dragone doveva averla veramente rammollita. Possibile che fosse stata distratta a tal punto dalla paura di essere lei, il suo bersaglio? Ed invece non lo era. Un altro, il bersaglio. Ukyo? No, la giovane Kuonji pareva solamente essersi in mezzo, un sassolino in mezzo alla strada che conduceva al vero obiettivo. Ma quale…?

“Ti ho detto, prima, di come lo shimenawa si spezzò misteriosamente. Ma i misteri non esistono. E sai a chi appartenevano le ombre che appena intravidi? Ad una fanciulla con la treccia e ad un grosso panda, da lei rincorso!… No, non sopravvalutarti. Non hai fatto assolutamente niente, in quell’occasione. Ti limitasti a proseguire per la tua via, tutto intento nell’inseguimento. Il punto è un altro. Fu la tua aura a spezzare il sigillo. La tua aura, intrisa di Disordine. Nessun semplice mortale avrebbe potuto, ma la tua aura sì. La tua aura, che Muchitsujo aspettava da mille anni.
Perché lui lo sapeva – questo disse nella mia mente, fu la prima cosa che mi disse, non appena fu in me – sapeva che un giorno saresti arrivato. Non è destino. Anzi. Zhou Chuan Xiang è stata la causa prima. Di infinite conseguenze, le quali furono a loro volta infinite cause di infinite conseguenze. Alcuni lo chiamano Effetto Farfalla. I fisici del nostro tempo, più correttamente, gli hanno dato il nome di Teoria del Caos. Le conseguenze del Caos non sono prevedibili, ma sono probabili. Molto probabili.
Le fonti continuano tutt’oggi ad attrarre decine di individui, per via del loro incantesimo. Non persone qualunque. Ma soggetti affini, la cui natura è già di per se stessa in relazione col Disordine. Muchitsujo sapeva che una delle vittime di Jusen un giorno l’avrebbe liberato. Il calcolo delle probabilità, per dirlo con parole facili.”
“Stai” ringhiò Ranma, il quale temeva di comprendere anche troppo. “Stai – dicendo – un mucchio – di fesserie!” quasi le sputò, queste parole, tanta era la loro violenza.
“Cocciuto come sempre.” Shingo sospirò pazientemente. “Mi costringi a prendere misure drastiche.”

E capì. Ma era troppo tardi. Cosa faceva Ranma? Perché non se n’era accorto? Cos’avevano da dirsi lui e quello Shingo, di tale importanza da non fargli percepire quel pericolo?! Troppo tardi. L’ombra era arrivata. Da lui. Era lui, che voleva! Le corde vocali erano come paralizzate, ma Akane sapeva che doveva avvertirlo. Doveva avvertirlo. Prese un ampio respiro e costrinse il suono ad uscire dalle labbra, gridando con quanta più energia avesse in corpo.

“Ranma!”

Tardi.

Quando lui sentì il grido, Shampoo aveva già sferrato il proprio attacco.



¹ Lo shimenawa è un festone fatto di corde di paglia, che normalmente si cinge attorno ai templi e alle divinità shintoiste.

² In una delle più lunghe saghe del manga. Herb, erede al trono dell’impero della dinastia Jako, caduto anche lui nella Niang Nichuan, si è imbattuto in Ranma e lo ha bloccato nella sua forma femminile con un secchio particolare, lo Zhishuitong. Da qui la lunga lotta per recuperare il secondo tesoro segreto della dinastia Jako, il Kaishuihu, capace di annullare gli effetti del primo e di riportare Ranma alla “normalità”. Poiché la sua famiglia ha ereditato il sangue dei dragoni, Herb è capace di manipolare a piacimento la propria energia interna: il che lo rende un avversario formidabile per il nostro “eroe”.

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Capitolo 18
*** Sacrifice ***


PART EIGHTEEN –

“SACRIFICE”




L’obiettivo era prossimo.
Questo, l’unico pensiero razionale che assillava la sua mente.
Per il resto, solo lampi confusi e l’ennesimo disperato tentativo di resistenza da parte di un orgoglio ferito. Il proprio. Tentativo accompagnato, da una parte, dalla frustrazione e dalla rabbia di essere caduta in una trappola tanto evidente: ma proprio tali sentimenti, d’altro canto, essendo meno facilmente governabili, erano il tramite con il quale lui stava riuscendo nell’intento di sottomettere l’estrema parvenza di volontà.
*Non voglio!* ciò che la mente tentò un’ultima volta di comandare al corpo.
(Non importa ciò che vuoi. Fa’ ciò che devi!)
l’ordine che, al contrario, le membra ascoltarono.

Il ragazzo con la treccia si riscosse, come da un orrendo sogno. E fu cosa immediata verificare che la realtà era peggio dell’incubo.
“Ranma!”
La voce di – cosa ci faceva qui?! Le aveva detto chiaramente di fuggire. Perché non gli dava mai ascolto, quella stupida?! Ma non ebbe il tempo di pensarci oltre.
Si voltò. Tardi. Poté finalmente scorgere Shampoo lanciarsi contro di lui. Tardi. Uno dei due bombori che l’amazzone stringeva nelle mani era già stato scagliato. E proprio nell’istante in cui lui si era voltato, il colpo era andato a segno.
Crollò rovinosamente all’indietro, preso in pieno petto dall’arma della cinesina. La violenza era stata tale da mozzargli il respiro. Le grida dei presenti si persero al suo udito come un unico lamento sordo. Riuscì appena a domandarsi come lei si fosse procurata una forza così smisurata; e come potesse lui essere diventato tanto incapace da non aver percepito la sua presenza. Credette di udire il rimprovero paterno, ma la voce era solamente nella sua testa. Forse per via dell’improvvisa mancanza d’ossigeno nei polmoni, perse la cognizione della realtà per un momento. In quello immediatamente successivo, vide Shampoo spiccare un balzo in aria, tesa a colpirlo col secondo bombori. A distanza tanto ravvicinata, che se ben assestato quel colpo sarebbe potuto risultare fatale.
Non fu la mente. Non fu la ragione. L’istinto di sopravvivenza, quello gli disse, molto più rapidamente che il formarsi di un pensiero, gli disse che doveva difendersi. Ciò voleva dire solo una cosa. Un contrattacco. Avrebbe ancora potuto farcela, recuperare l’arma che già gli era stata gettata contro, rialzarsi da terra e colpire lui prima che lo facesse lei. Avrebbe ancora fatto in tempo, ma questo sarebbe stato rischioso per Shampoo quanto lo sarebbe stato per lui se l’amazzone fosse riuscita ad anticipare la sua mossa. Del resto, cos’altro rimaneva?
Quindi lo vide, con la coda dell’occhio. Shingo osservava la scena, la sua espressione pareva un enigma inestricabile. Eppure – forse paranoia? – eppure Ranma si convinse – no, ne era assolutamente sicuro! – che quel pazzo in realtà – dentro di sé – stava sogghignando! Lo capì solo allora. Era di nuovo una pedina. Allo stesso modo di Shampoo, evidentemente sotto il suo influsso come già prima Rouge e Taro. L’individuo del medaglione, tanto per cambiare, stava manovrando quel perfido gioco.
Lo voleva. Per qualche recondito motivo, voleva che lui attaccasse. Ebbene no. Non l’avrebbe fatto. Lo considerava tanto prevedibile? Era sicuro, invece, che questo non l’aveva previsto. Comunque fosse, le cose non sarebbero potute più andare diversamente. Troppo, aveva esitato. Il tempo era scaduto.

Il tempo era scaduto. Shampoo raccolse tutta l’energia che aveva in corpo e la concentrò sull’arma che le era rimasta in mano. Come era arrivata a questo punto? Non era giusto. Tutto quello che voleva – era solo che Ranma non la odiasse! Voleva solamente non dover ravvisare lo sguardo di rimprovero nei suoi occhi, non dover scorgere la tempesta infuriare nelle profonde iridi color del mare. Una vocina annuì.
*Non la vedrai, infatti. Ancora un secondo e le sue palpebre rimarranno sigillate per l’eternità.*
Non era la voce che stava assordando la sua mente. Questa volta, intese con amarezza la giovane amazzone, si trattava veramente della sua coscienza.
“Peldonami, Lanma.”
Fu come un sussurro, che sfuggì perfino al controllo del medaglione.
Quindi una lacrima scivolò furtiva.
Ed il braccio col bombori lasciò partire l’attacco decisivo.



L’arma si spezzò a metà, così che una delle due parti andò a rotolare vicino al suo corpo dolorante. Colpito in pieno. Una Shampoo priva ormai di volontà fissava meccanicamente il bersaglio che aveva centrato. Fu Shingo a dirglielo, tornato padrone incontrastato della sua mente, mentre le iridi, animate da una luminescenza rossastra non loro, cadevano ancora incoscienti su un artiglio posto all’estremità di una lunga fune e risalivano lentamente fino all’origine, andando a focalizzare la manica di un’ampia tunica bianca.
Il bersaglio era quello sbagliato.
“Mousse!” esclamò il ragazzo col codino.
Il cinese aveva cercato di strappare via il bombori dalla mano di Shampoo, un momento prima che lei attaccasse. Era riuscito nel suo intento, spezzando l’arma: ma una parte di questa era schizzata contro il suo braccio sinistro, ferendolo gravemente. Poco contava, pensò inforcando gli occhiali e voltandosi verso Ranma. Per fortuna aveva avvertito in tempo la presenza dell’amazzone e, per il resto, si era lasciato guidare dal suo orribile presentimento. Aveva avvertito, inizialmente, il campo di forza separare i due contendenti dalla realtà circostante. Poi questo era svanito, nel momento stesso in cui Shampoo si faceva avanti. Era per farla passare. La conferma che il presentimento aveva ragione d’essere.
Shingo era contrariato. Chiunque avrebbe potuto facilmente verificarlo, osservando l’ombra del turbamento offuscare la lucentezza del profondo zaffiro delle sue pupille. Pupille che si restrinsero, mentre il medaglione brillava di una luce più intensa.
(Che cosa aspetti?! Liberati dell’ostacolo e attacca!)
Lasciò che in lei tornasse la consapevolezza della realtà circostante. Trovò rapidamente i sentimenti giusti, nel cuore dell’amazzone, perché queste parole sortissero comunque la cieca obbedienza. Frustrazione. Questo sentiva Shampoo, in ogni parte del suo essere. Frustrazione, perché tutto stava per finire ed invece non era ancora finito e lui era vivo e ancora la guardava e questo la faceva soffrire e lei desiderava – solo – che la sofferenza – finisse!
Stupido Mousse! Perché si era messo in mezzo? Perché la faceva soffrire?! Ostacolo. Era solo un ostacolo alla fine di tutte le cose. La vocina, seppure tanto odiosa, diceva il giusto. Doveva ascoltarla un’ultima volta, doveva obbedire: e presto non avrebbe più sentito quella vocina. Non avrebbe più sentito niente. Shampoo non esitò oltre.
“Togliti!” disse con voce sprezzante, mentre il brillio rosso senza vita aveva ormai completamente sovrastato il colore delle sue iridi.
“Shampoo.” disse lui, di nuovo in piedi, imperturbabile. “Ormai sono abituato al tuo sguardo gelido. Non mi metterà in crisi. Non questa volta.”
Lo vide frapporsi ancora, tra lei e Ranma. Illuso! Che cosa credeva di fare? La spatolona era stata messa fuori combattimento col suo solo passaggio, la talpa non avrebbe di certo avuto una sorte migliore.
(Non sottovalutarlo! Liberati dell’ostacolo.)
*E’ solamente un altro sassolino, l’ultimo insignificante sassolino sulla mia strada.*
(Liberati dell’ostacolo!) ripeté la voce.
*E’ solo Mousse!* Questa frase compose la sua mente ribelle, dettata e dal fastidio e dall’orgoglio. Quindi si lanciò contro Ranma, ignorando totalmente il cinesino. Se fosse stato tanto stolto da mettersi in mezzo, avrebbe pagato caro il suo gesto.
E fu stolto. Eccome se lo fu.
“Ti impedirò di compiere questa sciocchezza!” gridò, intercettandola. Aveva ancora un braccio sano e l’avrebbe usato. Tre dita della mano destra affondarono nella scapola dell’amazzone. Dopo di ciò, Mousse fu scagliato a terra da una forza disumana.
Ranma incrociò le braccia in posizione di difesa. La sua intenzione non era mutata: anche se Shampoo dimostrava di non voler usare alcun riguardo, lui non avrebbe fatto il gioco di Shingo. Sapeva essere testardo, a volte. E se quell’azzardo si fosse rivelato letale – beh, forse non sarebbe stata una cosa tanto negativa.
Pensò con amarezza che tutto questo stava accadendo a causa sua.
Ancora una volta.
Allo stesso modo, era certo di un’altra cosa.
Solamente con lui, tutto sarebbe finito.
L’amazzone attaccò, questa volta a mani nude. Ma gli occhi di lei non si rispecchiavano più nei suoi. Non scorgevano il rimprovero che avrebbe meritato. Non scorgevano più nulla. La vista si annebbiò improvvisamente. E capì. Cretina! La conosceva, quella tecnica. Era esperta in tutte le tecniche che concernevano la digitopressione. Eppure si era lasciata avvicinare e soprattutto si era lasciata premere i punti nevralgici. Se l’era meritato, questo l’ultimo pensiero razionale prima di perdere i sensi, trovando inaspettatamente il sollievo. La sua corsa si era arrestata. Il sassolino l’aveva fatta inciampare e la sua caduta era stata tanto rovinosa quanto provvidenziale.
Crollò esanime di fronte ad uno sbigottito Ranma, che pure aveva capito e si era subito chinato in direzione del cinesino: il quale provava faticosamente a rialzarsi da terra.
“Mousse!” esclamò una seconda volta il ragazzo con la treccia. “Tu mi hai…”
L’altro lo anticipò. “Non è come pensi, Saotome. Non l’ho fatto per difendere te: l’ho fatto per difendere Shampoo. Se, dopo averti eliminato, avesse ritrovato la ragione, si sarebbe dannata per il resto della sua vita!” Strinse il pugno. “E questo… non l’avrei potuto sopportare.” Rilassò le nocche, come liberandosi d’un grosso peso. E, anch’egli sollevato, lasciò che il dolore del colpo subito prevalesse su tutto il resto, ricadendo inerte al suolo.
Tutto questo fu roba di pochi secondi. Akane, Genma, Obaba avevano osservato attoniti l’intera scena ed ancora non si erano ripresi. Anche Ryoga aveva udito il grido di Akane, poco prima, così l’attenzione del ragazzo con la bandana era tutta confluita sulla minore delle Tendo. Piangendo di gioia si era rassicurato sulle sue condizioni, quindi aveva lanciato qualche improperio nei confronti del pazzo col medaglione che aveva messo in pericolo la sua vita, dimenticandosi temporaneamente del resto del mondo. Solo l’ultimo grido di Mousse lo riscosse del tutto, portando il suo sguardo ad imitare quello di Akane.
Ranma, intanto, sembrava aver recuperato un apparente autocontrollo. Il giovane Saotome lanciò un ultimo sguardo sul suo antico avversario dalla tunica bianca. Non l’avrebbe mai ammesso, ma lo aveva difeso. “Grazie…” sussurrò.
Mousse, ancora cosciente, lo udì e lui sapeva bene cosa volesse dire un grazie proferito da uno come Ranma. Accennò, pur tra mille dolori, un fiero sorriso. “Non credere di poter andare così facilmente all’altro mondo.” disse, piano. “Almeno, non prima che io sia riuscito a sconfiggerti…”
Ranma rispose abbozzando un sorriso altrettanto fiero. Lasciò l’amico-nemico, si rimise in piedi, si voltò verso Shingo, gli si avvicinò.

“Perché?!” disse con tono fermo. ”Perché questo?!”
L’altro gettò un’occhiata di derisione sul cinese accovacciato sul terreno, ormai privo di sensi, quindi riportò la sua attenzione sull’interlocutore.
“Era per aiutarti.” rispose in modo neutro. ”Hai molto da imparare. Speravo che la tua esperienza nell’altra dimensione ti avesse insegnato ad estraniarti dagli affetti, ma evidentemente le cose non stanno così.”
“Volevi farmi combattere contro Shampoo, dico bene?!” digrignò disgustato Ranma. “Tu volevi che fossi costretto ad eliminarla.”
“L’alternativa era essere eliminato tu da lei. Dopotutto è colpa sua, quello che ti è successo. Ammettilo, non l’avevi a morte con lei per quello che voleva fare ad Akane? La bella cinesina non si sarebbe forse meritata questa fine?”
“No!” replicò senza esitare. “Nessuno merita tutto questo.”
“Sei sicuro? Avresti veramente scelto di sacrificarti pur di non macchiarti della sua fine?” lo stuzzicò. “Sei un debole. Forse avresti capito, guardando la morte in faccia. Purtroppo, quel tuo amichetto quattrocchi si è intromesso e la mocciosetta si è intestardita a non tenerlo in considerazione, nonostante il mio comando mentale.”
“Dunque è così, la stavi controllando come pensavo.”
“Il potere di cui ti parlavo prima. Posso interferire nelle aure ed insinuarmi nella mente degli altri, facendo leva sulle giuste corde. E’ così che ho ottenuto il controllo su di lei e sugli altri due tuoi amici.”
Un pazzo. Ora ne era totalmente sicuro. Quello Shingo non era solo il più grande esibizionista che avesse mai incontrato sulla faccia della terra, come il possessore del medaglione aveva dimostrato raccontando teatralmente, per filo e per segno, la sua storia. Non era solo un grosso pallone gonfiato, come dimostravano i suoi continui atteggiamenti arroganti e boriosi. Ranma capì di trovarsi di fronte ad un folle, da fermare ad ogni costo. Nonché un sadico. Il giovane con il codino sospettava che avesse goduto, nel profondo del suo animo, ad aizzare Shampoo contro di lui, la persona amata dall’amazzone. Ma ancora una cosa non era chiara.
“Si può sapere cosa vuoi da me?! Perché tutte queste attenzioni nei miei confronti?!”
“Te l’ho detto. La tua energia spirituale, così caotica, è perfetta per Muchitsujo: lui si nutre da sempre delle aure che rimangono imprigionate nelle Sorgenti Maledette. In quanto alla tua, me l’ha chiesta dal primo istante da che fu liberato nel campo Jusen.”
Vero, pensò Ranma di sfuggita. Risposta coerente con quanto gli era stato rivelato prima. Eppure gli suonava in qualche modo incompleta. Sospettò che ci fosse qualche altro motivo, ma estorcere qualcosa di più chiaro dall’individuo del medaglione sembrava un’impresa ardua. Non sapendo cos’altro provare, tentò di incalzarlo.
“Allora perché non te la sei presa subito?” sibilò, quasi con tono di sfida.
“Vuoi dire mediante il controllo mentale? Certo che avrei potuto. Hai visto come ho soggiogato facilmente la mente della tua amichetta amazzone: questo perché era sconvolta, la sua energia era turbata e dunque vulnerabile. Ma mai quanto la tua, quando ho risvegliato i ricordi di Yakuzai che tu stesso avevi cercato inconsciamente di eliminare. Avrei potuto facilmente ridurti ad un burattino come gli altri. Se non l’ho fatto, è per un solo motivo.”
“Quale?”
“Te l’ho spiegato prima, non sono un tuo nemico. La mia essenza e la tua sono entrambe votate al Disordine, noi due insieme abbiamo liberato il Signore del Caos” a quelle parole Ranma provò un moto incontrollato di nausea. “Inoltre, come ho avuto modo di considerare osservando ogni tua azione, ogni tuo combattimento da Jusenkyo in avanti, hai un ottimo potenziale e soprattutto sei affamato come me di nuove sfide, nuovi avversari da sconfiggere e nuovo potere da conquistare. Perché dovremmo combatterci, quando siamo così simili?”
“Noi non abbiamo niente in comune!” ruggì il giovane Saotome.
“Sì che l’abbiamo!” scosse il capo quasi con fare comprensivo. “Ammetto che a dire il vero hai molti difetti, sei ancora ingenuo e ti sei lasciato buggerare come un allocco dalle tue fidanzatine qui a Yakuzai. Un imprevisto, certo, che comunque mi ha soltanto costretto ad accelerare i tempi.”
Ranma non lo ascoltava più. La rabbia aveva di nuovo preso il sopravvento. Tentò un nuovo attacco, come per imprimere forza e significato alle sue ultime parole. *Proviamo anche questo!* si disse, lanciandosi verso l’alto, facendo leva, una dopo l’altra, sulle sporgenze della roccia, sfidando implicitamente Shingo a seguire il suo esempio. *Dopotutto il combattimento volante è la specialità della scuola d’arti marziali Saotome.*
L’altro comprese e decise di assecondarlo ed entrambi saettarono dunque rapidi e come sospesi nel vuoto dell’improvvisato campo di battaglia, Ranma sferrando nuovi colpi e Shingo limitandosi a schivarli, lasciando Mousse e Shampoo in disparte, distesi vicini.
Pure questo fallì. L’individuo del medaglione atterrò infine l’avversario senza difficoltà, con l’ennesimo colpo energetico.
“Consorte!” gridò Obaba.
“Ranma!” gridarono gli altri all’unisono.
“Sei stato molto fortunato e non te ne rendi ancora conto.” aggiunse Shingo, senza mostrare il minimo segno di fatica. “Avevo sentito parlare dello Saishuu Shiyou Rei-ryuujin, ma credevo fosse una favola per mocciosi. Mai avrei sospettato che il Rimedio Definitivo esistesse realmente. Per tua buona sorte, seguirti mi è stato facile.” Indicò il varco nella materia da lui precedentemente formato. “Tra una dimensione e l’altra c’è… il nulla, ciò che viene prima del creato: plasma o come lo vuoi chiamare, in altre parole l’informe, il caotico, l’esistente così com’era nella notte dei tempi, prima dell’intervento delle divinità dell’Ordine. Passare attraverso questo squarcio non è esattamente come fare una scampagnata.”
Il nulla, aveva detto. In effetti, nulla era quello che si poteva vedere osservando il varco: tale da ingoiare perfino la luce, pensò Ranma, immobilizzato a terra dopo la brutta caduta.
“Non è roba per semplici mortali, a meno che non si chieda un passaggio allo Spirito-dragone, come è capitato a te, oppure che si abbiano i miei poteri. Ti ho seguito nel mondo parallelo, ma non potevo certo riportarti indietro assieme a me. Dunque ho deciso di lasciarti il tempo necessario perché ti rendessi conto di quanto sei e sarai sempre fuori posto, assieme agli uomini, gli uomini figli dell’Ordine; ti ho dato lo spunto, niente di più, per tornare: e tu sei tornato, hai intuito come fare, dimostrando di saper essere sveglio – perlomeno quando vuoi.”
Ranma lo fissava in silenzio, supino, dal basso verso l’alto. Visto così, Shingo gli pareva persino più tronfio del solito. Rialzandosi di scatto, capì di avere qualche costola rotta. Non sapeva quanto ancora avrebbe potuto fare. Più probabilmente, non avrebbe potuto fare nulla.



Ryoga fremeva. Non ne poteva più di ascoltare e assistere senza agire. Non avrebbe resistito ancora molto, nella sua stasi forzata. Sentiva il desiderio di dare una lezione al tipo del medaglione, ma prima era stato impedito dal campo di forza e successivamente aveva constatato, suo malgrado, la superiorità del nuovo avversario. Non importava. Ranma, quello stesso Ranma che lui non era mai riuscito seriamente a sconfiggere, era ormai ridotto ad uno straccio: del resto, cosa poteva aspettarsi quello stupido?! Nessun essere vivente avrebbe potuto affrontare un simile avversario. Non da solo. Bisognava unire le forze, questa l’unica possibilità. Perché anche Hibiki era fiducioso che potevano farcela, in un modo o nell’altro.
Alzò lo sguardo. Scorse l’aria preoccupata della ragazza con i capelli corti assieme a lui.
“Ryoga…” mormorò lei, girandosi nella sua direzione. In quel momento, la resa era divenuta l’ultimo dei pensieri per Hibiki Ryoga.
“Sta’ tranquilla, Akane!” Sorrise stupidamente, una mano dietro il capo, lasciando sporgere i lunghi canini. “Quel tipo non ha ancora vinto, ora vado a dare una mano a Ranma e tutto sarà a posto!”
Già. Ranma non era il solo ad essere tenace ed ostinato. Il ragazzo con la bandana era sicuro che avrebbe potuto contribuire a creare qualche grattacapo a quello Shingo. E lui e Ranma non erano gli unici artisti marziali lì presenti. Mousse aveva appena dato l’esempio. Alla sua destra, sapeva poi che stava il signor Saotome, il padre di Ranma. Forse non era alla loro portata, ma era più anziano e dunque più… saggio? Beh, non proprio così. Comunque. Era sicuramente più esperto. Era più furbo. Lui era – sparito!
Ryoga si era appena voltato, prendendo atto che non c’era più nessuno. Per terra, un cartello con sopra scritto: _Torno fra dieci minuti_
A quanto pareva, una volta che aveva visto il figlio avere la peggio contro il nuovo avversario, il panda aveva pensato bene di fuggire. Varie gocce di sudore scivolarono sulla fronte di un esterrefatto Ryoga.
Recuperò la calma. Non era certo una tragedia. Forse l’anziano Saotome aveva già perso ogni speranza sull’esito finale dello scontro, ma era l’unico a pensarla così. Hibiki era ancora fiducioso: sapeva che potevano farcela.
Inoltre, avevano dalla loro parte la guerriera più forte. Shingo aveva i poteri, ma Cologne possedeva l’esperienza: avrebbero potuto contare sulle tecniche plurimillenarie di una amazzone cinese. Si volse dunque alla propria sinistra, in direzione della vecchia, aspettandosi un suo intervento. Sapeva che lei – lei mai si sarebbe arresa. Cosa avrebbe avuto in serbo questa volta? Non la vide più al suo fianco. Era scomparsa? Forse una qualche tecnica dell’invisibilità. Allargò lo sguardo e quando l’occhio si posò su Mousse, vide finalmente la fiera combattente del villaggio Joketsuzoku.
Ginocchioni sul cinesino, cingendo ed intrecciando per quanto possibile le esili e corte braccia intorno alla vita di lui.
“Aaaah! Obaba, cosa stai facendo?!” gridò Ryoga. “Ti pare questo il momento di soddisfare i tuoi desideri repressi?!” Nuovi goccioloni di sudore solcarono il capo del ragazzo. Dopotutto la vecchia non pareva avere molta fiducia nella situazione presente.



“Non parli più? Il solito testardo.” commentò Shingo, avanzando lentamente verso il ragazzo con la camicia cinese. “Ma la mia pazienza ha un limite, così ti offro un’ultima possibilità.”
Ranma, rialzandosi faticosamente, sosteneva con rabbia il suo sguardo.
“Adesso!” tese il braccio. “Schierati dalla mia parte e il potere sarà anche tuo e mi affiancherai nel portare il Caos nel mondo.” Ghignò appena, osservando la ferma espressione di sfida del giovane Saotome. “Altrimenti, mi prenderò comunque la tua aura, soddisfacendo il desiderio di Muchitsujo – ma dopo averti eliminato personalmente!... Sarebbe un vero peccato, però riuscirei a sopportarlo” ironizzò.
Il trambusto che seguì attirò l’attenzione di tutti i presenti, Ranma compreso, spezzando di colpo la tensione che aveva pervaso l’atmosfera.
“Ma nonnina…” accennò appena Akane, sconcertata.
“Lascia stare queste sconcezze, vecchia!” urlava il ragazzo con la bandana, al colmo dell’imbarazzo, cercando di strappare Obaba dal suo abbraccio. Aveva sentito dire che quando ci si sentiva prossimi alla fine, proprio allora sopraggiungeva l’impulso di aggrapparsi in modo più forte che mai al richiamo della vita – ma questo era, francamente, ridicolo.
“Lasciami stare tu, che non hai capito niente!” la vecchia lo colpì sul capo col lungo bastone. “Sto solo facendo il bene di Mousse.”
“Non ti stai un po’ sopravvalutando?! E poi non credo che lui sarebbe d’accordo.” protestò Ryoga, massaggiandosi un grosso bernoccolo.
“Intendevo dire che faccio questo per salvarlo.” chiarì l’altra. “Le sue condizioni sono gravi ma premendo determinati tsubo, posizionati tra le costole e il bacino, gli sto trasmettendo una parte della mia energia vitale. Una tecnica amazzone molto efficace.” In effetti Mousse stava riprendendosi. “Aaaaah, un mostro!” salvo poi perdere nuovamente i sensi, ma questa volta per lo spavento di avere visto Obaba avvinghiata a lui.
“Davvero molto divertente!” plaudì Shingo. “Ma ora state diventando troppo rumorosi. Nessuno di voi mi serve più, tanto vale che questa caverna diventi fin da adesso la vostra tomba!” dispiegò il palmo della mano. Il medaglione brillò nella penombra. E subito tutto cominciò a tremare.
“No! Fermo!”
Shingo richiuse immediatamente gli artigli, rilassando i lineamenti del viso. L’ambiente tornò in stato di quiete. Finalmente il moccioso sbarbatello si era deciso a parlare. Sorrise. Tutto come previsto.
Ranma si morse il labbro, nel tentativo di soffocare il dolore causato dagli ultimi colpi. Capì che era in gioco la vita di tutti. Improvvisamente ogni cosa gli divenne chiara. Adesso sapeva cosa fare.
“Shingo.” disse. “Ti propongo un patto.”
“Tu a me?” l’interlocutore incrociò le braccia divertito. “Bene, sentiamo.”
“Libera Shampoo e gli altri dal tuo controllo mentale. Permetti a tutti di uscire salvi da questa caverna.” Fu il ragazzo con la treccia, stavolta, a non lasciar trasparire emozione alcuna.
“E cosa mi offri in cambio?”
“E’ me che vuoi, giusto?… In cambio” mormorò Ranma, chinando il capo, mentre la frangia dei capelli andava a coprirgli lo sguardo “in cambio, io mi consegnerò spontaneamente al Caos.”
Anche se aveva parlato con un filo di voce, lo udirono tutti. Obaba allargò le orbite. Ryoga strinse i pugni con rabbia. Akane sussultò. Perfino il panda uscì nuovamente allo scoperto. Ranma era rimasto immobile, una strana calma si era impadronita di lui. Era proprio come pensava. Il controllo mentale non aveva alcun effetto, senza il consenso di chi vi era soggetto: Taro e Rouge avevano accettato di loro spontanea volontà l’alleanza con Shingo, come pure Shampoo, probabilmente indotta con l’inganno. Prima, il tizio del medaglione gli aveva mentito spudoratamente. Ne era sicuro. Non aveva usato su di lui il controllo mentale semplicemente perché non poteva – poteva, forse, interferire. Poteva risvegliare i ricordi, come effettivamente era accaduto. Ma non controllare la sua mente – non poteva, senza la collaborazione da parte dello stesso Ranma. Questo, il vero motivo per il quale cercava di convincerlo a passare dalla propria parte.
Shingo squadrò attentamente il ragazzo, senza mutare espressione.
“Non sono parole di poco conto. Ma perché dovrei fidarmi?”
“Lo giuro sul mio onore di artista marziale. Se mi conosci bene come hai sempre sostenuto, saprai che nessuna promessa ha più valore per me.”
“Vero. Sono certo che non verrai meno alle tue parole.” disse Shingo. “Sei debole, Ranma: è il tuo problema, sei troppo attaccato ai sentimenti. Ma presto rimedieremo anche a questo.”
“Non farlo!” gridò Cologne, mentre gli altri non riuscivano nemmeno a proferire verbo. L’amazzone aveva osservato con orrore l’amata nipote ridotta ad un burattino senza volontà. Sapeva che Ranma si stava consegnando alla medesima orrenda sorte.
Intuì il vero motivo che spingeva il mortale con il gioiello divino a ciò. La vecchia avvertiva chiaramente la consistenza dell’aura di Shingo e questa non era caotica come quella del consorte. Se Muchitsujo voleva tornare sulla terra con l’aiuto di spoglie umane, ebbene quelle di Shingo non erano le più adatte. La sua aura bastava appena a contenere l’emanazione divina, e questo solo grazie all’aiuto del Tai-ma no Mamori. Forse Shingo era cosciente di un tale stato di cose, forse Shingo intendeva appropriarsi dell’anima di Ranma per rinforzare la sua ed aggiustare così la propria condizione precaria. Una precarietà che non poteva che essere d’impiccio, ad uno cui piaceva avere costantemente la situazione sotto controllo.
Ecco, dunque, l’unico punto debole di Shingo.
Ma proprio in quel momento…
… il consorte stava per commettere l’errore più grande.
“Non farlo!” urlò ancora l’anziana amazzone.
Il ragazzo con la treccia la ignorò, invitando con lo sguardo Shingo a continuare.

“Sta bene!” disse l’uomo del medaglione. “Il patto è concluso.”

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Capitolo 19
*** Alone ***


PART NINETEEN –

“ALONE”




Le ultime parole proferite dall’uomo col medaglione riecheggiarono nell’antro per parecchi secondi, come se la sentenza in esse contenuta dovesse essere udita non solamente da coloro che erano presenti, ma perfino dalla terra, dalla roccia e da quant’altra cosa inanimata: testimoni mute, queste ultime, ma meno precarie e forse più attendibili, dell’accordo appena suggellato.
Cologne scosse il capo, amareggiata.
“Ragazzo testardo…” pensò, involontariamente ad alta voce.
Mi consegnerò al Caos.
Hibiki ripeté mentalmente la frase di prima, convinto di non aver ancora afferrato la realtà della situazione. Una cosa era sicura. Quel Ranma sapeva come finire, immancabilmente, al centro dell’attenzione... Un momento più tardi, il ragazzo con la bandana fu costretto ad impuntarsi con entrambe le suole sul terreno, per non perdere di colpo l’equilibrio.
L’intera caverna aveva cominciato a vibrare, come se la pietra stessa fosse stata destata dalla violenza del tono di Shingo e volesse ribellarsi, mentre una parete sembrò sul punto di abbattersi sui presenti.
“C-che succede?! Non aveva appena detto che…” Ryoga non ebbe il tempo di finire la frase. Non stava crollando. La parete s’inclinò, mostrando un’apertura in alto, in direzione della luce esterna e formando, al tempo stesso, una comoda strada in salita verso di questa.
“Prego!” Shingo invitò i presenti, con fare sarcastico. “E stai tranquillo, ho appena liberato i tuoi amici dal mio influsso” disse al giovane Saotome.
“Cosa aspettate?! Andate tutti fuori di qui!” ordinò Ranma agli altri, con un tono che non ammetteva repliche.
Akane si rivolse ad Obaba.
“Vecchina, cosa possiamo fare?!”
“Soltanto quello che ci è stato detto.” rispose, sconfortata, l’amazzone. “Il consorte si è ormai impegnato e non possiamo più cambiare le cose.”
Era vero, pensò con amarezza Ryoga. Il danno ormai era stato compiuto, la sua solita smania di protagonismo aveva condannato Ranma senza alcuna speranza. Una parte di Hibiki sentì di odiare a morte il rivale di sempre, perché cosciente che stava facendo soffrire Akane ancora una volta, anche se questa sarebbe probabilmente stata l’ultima. Ma la ragione tornò in lui: e lo convinse che bisognava innanzi tutto pensare agli altri.
“Vedo che Saotome non ha perso tempo.” commentò Cologne, osservando il panda che, senza farsi pregare, si era già issato sulle possenti spalle i corpi di Shampoo e Mousse e si affrettava verso l’aria aperta. Akane, dopo qualche attimo di esitazione, prese con sé un’esanime Ucchan. Ryoga si decise ad imitarli, ma si accorse quasi subito di avere il compito più ingrato: Asura non solo vi somigliava, ma pesava pure quanto una statua sacra di quelle che si trovavano nei templi; per ciò che riguardava Taro – beh, il giovane Hibiki era sì molto forte, ma a tutto c’era un limite.
Poi l’idea. Notò che i corpi erano distesi vicino al muro antistante di pietra. Sperò di avere ragione. Chiuse gli occhi per concentrarsi e centrare il giusto punto di pressione: quindi premette il dito indice su una zona individuata della roccia, ponendo attenzione a non esagerare e far crollare tutto lui, al posto di Shingo. L’acqua zampillò dalla parete, investendo in pieno il mostro dalla testa taurina e, ancora prima, il corpo rovente della divinità indiana. Al contatto con quest’ultimo, evaporò all’istante. Quando, infine, la colonna di fumo si diradò, i due erano tornati alle loro sembianze umane.
Sorrise appena, la vecchia, riconoscendo il Bakusai tenketsu, la tecnica che lei stessa aveva insegnato a quel ragazzo tanto tempo prima. “Dunque, qua dietro, c’è veramente una sorgente sotterranea!” disse.
“Già.” si limitò ad annuire lui. Ricordava bene. Taro, dopo il rifiuto suo e di Mousse, aveva sfondato la roccia con un pugno, lasciandosi investire dall’acqua per ottenere l’immediata trasformazione. Ecco perché sapeva. Hibiki issò i due sulle proprie spalle e si avviò verso l’uscita, preceduto dall’anziana amazzone, incrociando non senza alcun sussulto Akane: la quale aveva già portato Ukyo al sicuro e, affacciatasi di nuovo verso l’interno, aveva assistito a tutto con un’espressione indecifrabile. La stessa che aveva assunto dalla dichiarazione di Ranma in poi, pensò Ryoga. Si era aspettato una reazione ben diversa, perlomeno più attiva, dalla minore delle Tendo. Una cosa, solo una cosa traspariva dal suo viso. L’esterno non la riguardava, per il momento.
Del resto, la sua presenza fuori non pareva necessaria. Il signor Saotome si era generosamente offerto di vegliare, lontano dal teatro di battaglia, sul gruppetto ancora privo di sensi, di cui Cologne si era subito messa a controllare le condizioni fisiche: nessuno di loro pareva gravemente ferito, tranne Mousse che in ogni modo era fuori pericolo. Ryoga posò il proprio carico davanti alla vecchia e si affrettò ad affiancarsi alla ragazza.
“Siamo rimasti soli.” la voce di Shingo rimbombava indisturbata, per una caverna ormai pressoché deserta. “Io ho fatto la mia parte, adesso sta solo a te.”
Tese il braccio verso il ragazzo col codino.
Ranma volse gli occhi verso l’arto dell’interlocutore, con fermezza.
“Hai ragione, manterrò la mia promessa.”
Allungò la mano, dopo essersi sincerato che davvero non v’era più nessuno. Pensò che era la prima volta che riusciva a toccare il tizio del medaglione, finora inavvicinabile. Allungò la mano, dunque, e con un rapido scatto afferrò il polso di Shingo. Rabbrividì, al contatto con la cute gelida di quello.
Tirandolo a terra, si diede lo slancio per scavalcarlo con un balzo e poi correre, più veloce che poteva. Shingo si rialzò rapidamente, quasi divertito dall’accaduto. Non si aspettava un comportamento tanto vigliacco. Del resto doveva saperlo, l’aveva visto abbastanza volte in azione: aveva notato che, nei momenti di difficoltà, quel Ranma Saotome ricorreva a certi mezzucci. Voleva giocare ancora un po’? Forse era stata tutta una messinscena per prendersi almeno la soddisfazione di atterrarlo? Non contava, l’importante era che l’idiota aveva buttato al vento l’ultima possibilità di salvezza: a questo punto, Shingo avrebbe estratto il ki che gli serviva dal suo corpo senza vita. Gli dispiaceva perdere un giovane così abile, che sarebbe potuto divenire facilmente un valido braccio destro, una volta caduto burattino nelle proprie mani. Pazienza.
Alzò solo allora lo sguardo. E capì. Prima che l’individuo del medaglione potesse fare qualunque cosa, Ranma si lanciò verso lo squarcio nella materia, ancora aperto. E scomparve dalla sua vista.
“E’ stato di parola.”
Shingo si voltò, scorgendo dietro di sé Cologne, ritta sul nodoso bastone.
“Sei dunque tornata qua dentro, nonna?” accennò, con un sorriso.
“Aveva detto che si sarebbe consegnato al Caos, non a te!” continuò la vecchia. “Oltre quel varco, è il Caos: dunque ha tenuto fede al suo giuramento.”
“Capisco, uno stupido gioco di parole.” mormorò l’altro, con fare indolente, ponendo una mano a sostegno del proprio mento.
L’amazzone cercò letteralmente di penetrarlo, con lo sguardo.
“I tuoi piani sono saltati: avevi bisogno dell’aura di Ranma e ora l’hai persa per sempre!” giudicò, decidendo di scoprire le carte con la speranza di suscitare in lui almeno una qualche reazione di stizza. Eppure l’uomo dai capelli col riflesso del platino continuava a non sembrare minimamente turbato.

 

Una volta varcato l’ingresso, restò temporaneamente privo di ogni cognizione. Niente di quel che vedeva e percepiva aveva un aspetto appena simile alla realtà che sempre aveva visto e percepito. Non era buio, ma nemmeno luce. A dire il vero, non si trovava nemmeno in grado di stabilirlo. Nessun sopra, né un sotto. Stava come galleggiando in un qualcosa d’indistinto, indescrivibile proprio perché era – anzi, non era nulla di somigliante a ciò che l’esperienza gli aveva insegnato a riconoscere. La porta da cui era entrato, quello squarcio che costituiva l’ennesima esibizione da parte di Shingo del suo potere di forgiare l’energia, fu l’unico punto di riferimento che permise a Ranma, in concreto, di non impazzire a quel primo impatto con qualcosa di così estraneo ai propri sensi.
Lo smarrimento non durò troppo, ad ogni modo. Poco a poco l’ambiente attorno al giovane col codino andò acquistando una forma, come se fosse la sua mente stessa a costruirsi uno scenario in qualche maniera familiare, modificando la realtà circostante. Una realtà informe, ma plasmabile. Così doveva essere stata, immaginò il giovane Saotome pensando alla leggenda raccontatagli dalla vecchia, anche prima che le divinità scegliessero l’Ordine. Il ragazzo con la treccia smise di galleggiare, i piedi avvertirono qualcosa di solido e pianeggiante e lui prese a camminare lentamente, verso la direzione più lontana rispetto all’entrata. Il ritorno era ancora possibile. Lo sapeva bene. Eppure, questa volta, tornare era l’ultimo dei suoi pensieri.
Ne era convinto. Finalmente aveva compiuto la cosa giusta. Non era passato dalla parte di Shingo e allo stesso tempo gli altri erano in salvo. Non poteva fare di più.
E pensare che fino a pochi minuti prima… Si era illuso di essere necessario, al suo mondo, invece aveva causato l’ennesimo pandemonio. Shingo aveva detto bene, lui apparteneva al Caos e Caos avrebbe sempre portato. L’aveva già portato, anche nell’universo parallelo. Qualunque cosa lui facesse, si rivoltava immancabilmente per il verso errato. E ci andavano di mezzo tutti.
Basta pensare!… La confusione stava facendosi strada anche nella sua testa; e forse non era solo per via del suo vizio di rimuginare. Avvertendo le forze venirgli meno, aveva intuito quale sarebbe stato ora il suo destino. La lotta contro Shingo lo aveva spossato, ma sapeva che non era solo questo… Inutile continuare a scervellarsi. Tanto, non ne era già più in grado. Respirava affannosamente. Capiva sempre meno, ma la cosa importante era che gli altri erano in salvo… Questo bastò ad acquietarlo. A riportargli finalmente un po’ di serenità.
Per un istante appena. Dopodichè si voltò ancora in direzione del varco, come per dare un ultimo saluto a ciò che era stato. E la vide. E tutto andò all’aria.

*Akane!*

La minore delle Tendo giaceva svenuta, non troppo lontano da lui, con tra le mani qualcosa che sembrava una fune simile a quelle usate da Mousse. L’aveva seguito. La carne era pallidissima, segno che la sua energia vitale era quasi azzerata. Presto lei sarebbe… No! Non poteva finire così! Cosa poteva fare?! Istintivamente Ranma andò verso la fidanzata e la raccolse a sé, quindi fece appello alla sua memoria. Solo una possibilità.
*La tecnica della vecchia!*
La mossa che Obaba aveva usato con il cinesino era ancora piuttosto vivida nel ragazzo col codino: e lui possedeva una rapidità innata nell’apprendere nuove tecniche, dopo averle osservate anche una sola volta. Pregò che andasse così pure allora. Tentando di ricordare le posizioni dei punti nevralgici premuti dall’amazzone, cinse con le braccia la vita di Akane. Sorrise appena dentro di sé, ma con malcelata amarezza, pensando di sfuggita a quante volte l’aveva definita larga. Avvertendo la debolezza crescere in lui, assodò di stare riuscendo a trasferirle la propria energia.
La vide riprendersi, poco a poco. E riaprire gli occhi, anche se in maniera non del tutto cosciente.
“Ran…ma…”
Funzionava! L’incubo di rivivere Jusen andò poco a poco dissolvendosi. L’agitazione scemò nel giovane con la casacca cinese. Improvvisamente comprese che ciò che lei aveva mormorato con un filo di voce era il proprio nome. Le vecchie abitudini erano dure a cancellarsi ed egli non poté non provare un pizzico di piacere nel constatare che in quel momento era al centro dei suoi pens…
“Stu…pido… Ran…”
Come non detto. Del resto, non aveva fatto ancora nemmeno in tempo a figurarsi di quale natura potessero essere, questi pensieri. Magari il maschiaccio stava sognando di picchiarlo. Probabile.
Notò, intanto, che lo sguardo di Akane stava come squadrandolo da cima a fondo, acquistando sempre più lucidità e passando lentamente dal suo volto al busto e via scendendo, finché non si posò sulle sue mani… la cui posa non era cambiata da prima… Ranma si rese infatti conto, in quel momento, di non aver minimamente allentato la presa.
“No-non è – come pensi!” balbettò, in preda all’agitazione. Valutò che adesso era lui, quello in pericolo di vita. Se Ryoga aveva equivocato l’atteggiamento di Obaba, non vedeva il motivo per cui la fidanzata non avrebbe dovuto fare altrettanto.
In effetti, non ebbe la stessa buona sorte dell’ultima volta che si era trovato in una situazione simile. Lo schiaffo arrivò inesorabile. Sfiorandosi con una mano la guancia in fiamme, Ranma mollò finalmente la stretta e si allontanò ad una certa distanza. Tornò quindi a guardare verso di lei. Sembrava che la reazione di Akane fosse già terminata.
La fidanzata aveva ripreso a fissarlo in volto, con un’espressione come compunta. Ma non pareva che fosse per il loro contatto di un momento prima. Almeno, non solo per quello.

 

Ryoga Hibiki si guardò ancora una volta la mano destra, il pugno chiuso. Quindi, impose a se stesso di mantenere la calma. Non era il momento di mettersi a piangere istericamente, quello. Non era il momento di gridare nella propria mente frasi disperate senza senso. Anche se erano esattamente le cose che stava facendo.
Akane era scomparsa proprio sotto il suo naso. Avevano osservato insieme, dall’ingresso che dava al sottosuolo, Ranma e Shingo che confabulavano, ormai rimasti soli. Sia lui che Akane speravano in segreto che il giovane col codino avesse ancora in serbo qualcosa. Non era il tipo da arrendersi così facilmente. Quindi l’avevano visto entrare nel varco. Cosa stava accadendo? Il primo pensiero fu che non ne sarebbe più uscito. Sicuramente Akane aveva condiviso quel presentimento, dato che, approfittando di Obaba che era entrata ed aveva catturato l’attenzione di Shingo, aveva deciso di agire anche lei.
Aveva preso la sua mano – proprio la mano destra – sussurrandogli parole che il suo cervello non fu in grado di connettere di primo acchito, e per lo stupore provocato dal gesto di Ranma e per via del fatto che i sensi gli si erano come annebbiati, al contatto con le mani di Akane.
Deficiente! Ecco cos’era. Se non si fosse perso nelle sue fole d’amore, adesso Akane sarebbe stata ancora con lui. La mente gli aveva comunicato, in ritardo, il significato delle cose che gli aveva detto. Era il cuore, che si rifiutava di accettare che a ciò potesse venire attribuito un senso. Perché l’unico senso possibile era quello che lui meno poteva accettare.
Aveva infine lasciato il suo polso. Ed era entrata. Mentre lui era rimasto fermo ed imbambolato, incapace di fare qualunque cosa, lei era entrata nella caverna. Aveva corso verso il punto dove era sparito Ranma. Si era infilata, a sua volta, nel varco. Anche l’adolescente con la bandana sulla fronte aveva cominciato a procedere, ordinando alle gambe disubbidienti di riprendersi dal trauma del momento e di portarlo da Akane. Ma era troppo tardi.
Adesso Ryoga si trovava davanti al varco. Obaba, pur senza abbandonare la propria posizione e continuando dunque a fronteggiare Shingo, gli aveva gridato qualcosa riguardo ad un pericolo mortale insito nel passare quella misteriosa soglia. Lui non si era arrestato, però, per dare ascolto alla vecchia. Il palmo della mano gli stava quasi sanguinando, tanta era la forza con cui Ryoga serrava il pugno. Ma non poteva fare altrimenti. Non poteva seguirla. Un momento prima di sparire dalla sua vista, lei lo aveva pregato, tra l’altro, di rimanere lì. E gli parve che la salvezza di Akane sarebbe dipesa dal vigore della propria stretta.

 

La minore delle Tendo cercò di riprendersi. Che cosa era successo? Ricordava di essere entrata in quella specie di squarcio. E poi – era divenuto tutto così confuso. Dopo pochi passi, aveva sentito le forze come venirle meno. La cosa immediatamente successiva che ricordava era lo sguardo di
(Ran…ma…)
Uno sguardo intenso, preoccupato forse. E lei si trovava tra le sue braccia. Di nuovo… come quella volta… Adesso era tutto chiaro, stava sognando. Sognava ancora una volta gli avvenimenti del monte Hooh. Era plausibile, del resto. L’esperienza vissuta in Cina era stata piuttosto scioccante, senza ombra di dubbio, anche se credeva di essersi ormai assuefatta a simili situazioni, viste le esperienze passate.
Eppure non era un sogno spiacevole, anzi. Avvertiva il calore di lui come diffondersi fin dentro l’anima. Però c’era qualcosa di diverso. Non distingueva i contorni dell’ambiente circostante. Ma forse la cosa era naturale, dato che i sogni non sono mai precisi nei particolari. Anche riguardo quell’altro dettaglio… Lui piangeva, la volta precedente. Le lacrime scivolavano calde dai suoi occhi sul proprio viso ancora rigido, come tutto il resto, mentre le sussurrava parole che lei non aveva mai udito, per bocca di lui, da quando si erano conosciuti. E… la cosa più importante, le diceva infine che la amava – o forse questa era già una mera immaginazione. Poco importava, tanto avrebbe presto rinnegato tutto, parola per parola! Già si rivedeva in abito da sposa, mentre lo
(Stu…pido… Ran…)
negava con tutte le sue forze, tanto per cambiare!… Decise che era il momento di svegliarsi. Aveva sognato fin troppo.
Si scosse abbastanza per osservarlo agitarsi improvvisamente e balbettare frasi sconnesse, prima di allentare la presa. Abbassò gli occhi e si rese conto di trovarsi sul serio tra le sue braccia. Non si trattava di un sogno. Almeno, non la parte dell’abbraccio. Era già rinvenuta. Da un pezzo.
Dunque l’aveva stretta sul serio a sé? Del resto, non sarebbe stata la prima volta che succedeva; e Akane credeva di avere ormai imparato a non lasciarsi trasportare così facilmente da strane idee, specie se si trattava di lui. Inoltre, quasi immediatamente la terzogenita di casa Tendo ricordò la posa di Obaba nei confronti di Mousse, identica. Capì. Fu, dunque, questione di due secondi. Peccato che lo schiaffo fosse partito a metà del primo… Peccato? In realtà non ne era nemmeno troppo pentita.
Ciò che, invece, continuava a non capire era cosa le fosse successo. Questo, non riusciva a ricordarlo. Perché si era sentita così debole?… Un’altra cosa, non capiva. Lui era ancora immobile. Aveva terminato già da un po’ di farfugliare e sbracciarsi. Si era allontanato ad una certa distanza. Il rossore sul proprio viso – forse per lo schiaffo, forse perché alla fin fine aveva avuto almeno la decenza di imbarazzarsi, per quell’atteggiamento così equivoco, il pervertito – era scomparso già da un po’. Sembrava aver recuperato la calma. Anche troppa. Perché rimaneva lì? Non aveva intenzione di tornare? Possibile che non avesse qualcosa in mente, una qualche idea per contrastare Shingo? Lo guardò intensamente, non trovando in lui niente di simile. Eppure non poteva crederlo. Non poteva credere che Ranma, poco prima, davanti a loro tutti, si fosse arreso veramente!
Che faceva? Avrebbe pagato non sapeva cosa per vederlo scuotersi.
Un momento più tardi, avrebbe scoperto quanto questo desiderio costasse caro.
“Cretina!” sbraitò improvvisamente lui, troncando il silenzio. “Cosa pensavi di fare?!”
Akane lo fissò meravigliata. Ma perché, poi, tanto stupore? La prima parola che le avrebbe rivolto non poteva che essere l’ennesimo insulto! E con che domanda idiota, se ne usciva!
“Come cosa?!” replicò. “Sono venuta ad aiutarti! Credevo che…”
“Credevi male!” la zittì con violenza. “L’ho forse chiesto, il tuo aiuto? Di che t’impicci?! Qui me la cavo benissimo da solo!”
Il solito presuntuoso. Arrogante e superbo fino all’inverosimile!… Solo che quel tono… il suo di solito era molto più leggero e canzonatorio…
“Mi sembrava di essere stato chiaro, già prima!” Ranma ormai stava gridando, lei intese che stava facendo sul serio. “Non ho alcun bisogno di te! VATTENE VIA!”
Akane sgranò gli occhi. L’aveva detto davvero? Dunque la considerava solo un impiccio? Per un momento, sperò di avere frainteso tutto. Ma sapeva che non era così. Si rialzò in piedi a rilento. Vacillò appena, senza accorgersene. Abbassò lo sguardo, ormai incapace di sostenere il suo.
Si sentì così sciocca. Così maledettamente sciocca! Il sentimento che già l’aveva tormentata, da quando Ranma aveva iniziato ad affrontare Shingo, era riemerso facendosi preponderante.
Inutile. Era stata completamente inutile.
Non aveva mosso un muscolo per fermare Shampoo, quando l’amazzone era passata nella sua direzione. Non che Ukyo ci fosse riuscita, ma forse in due qualcosa in più si poteva fare. Ed invece si era lasciata impietrire da uno stupido terrore. Proprio lei! Non era tutto. Aveva compreso la situazione solo all’ultimo momento: l’amazzone stava per attaccare Ranma e lei l’aveva capito quando ormai era troppo tardi. E comunque… Anche se l’avesse compreso in tempo, cosa sarebbe cambiato?
Tutto quello che era stata in grado di fare, lei? Urlare il suo nome. Che novità! E questo non l’aveva aiutato, anzi. Ranma aveva subito malamente il primo colpo, senza difendersi in alcun modo. Akane aveva un’orribile sensazione, a tal proposito. Era stato per lei. Lei stessa l’aveva probabilmente distratto in maniera fatale, col suo grido. Ranma aveva rischiato molto. E tutto questo era solo per colpa sua.
Vero.
Lo era, in fin dei conti. Era un impiccio.
Dopotutto, questa storia non era cominciata forse con Ranma costretto a giungere in suo soccorso? Perché lei si era lasciata ingannare da quelle due… Pensò vagamente che temeva da tempo, nell’inconscio, che un giorno le avrebbe detto quelle parole. Quante volte, si era già verificata una situazione simile? L’ultima di queste, a Jusendo, la sorgente delle Fonti Maledette, Ranma aveva dovuto perfino sacrificare la Nannichuan, per procurarle l’acqua allo scopo di salvarle la vita. E l’intera disavventura in Cina sarebbe stata molto più semplice per tutti, se solo quella Kima non l’avesse fatta suo ostaggio.
“Quindi è così.” mormorò con fare calmo, sollevando il volto. “Hai ragione, sono stata solo una sciocca a preoccuparmi!” disse, sorridendo.
Come aveva potuto pensare che Ranma non stesse preparando qualcosa? Il punto era che, ovviamente, lei non poteva essere prevista nel suo piano.
“Che sciocca, eh?” proseguì, tornando a guardarsi le scarpe. “E’ ovvio. Non potevi certo avere bisogno… di me.”
Non la voleva tra i piedi? Era logico. Eppure – eppure! Perché quello stupido ci aveva messo tanto?! Questo si chiedeva, mentre sentiva la rabbia salire in lei e permeare ogni antro del proprio corpo. D’altronde, cosa c’era di sbagliato nel ragionamento? Lui era uno dei più forti artisti marziali e lei… non poteva certo pensare di raggiungere il suo livello, senza tutine della forza od oggetti magici di questo genere. L’aveva sempre derisa, a riguardo. Sicuramente Shampoo e Ukyo, al posto di lei, avrebbero potuto fornirgli un aiuto molto più gradito.
Le cose stavano così, ovvio. Ma allora… Perché finora non aveva mai manifestato apertamente la volontà di liberarsi del loro fidanzamento?! Perché per tutto quel tempo aveva lasciato che lei si potesse illud… Stupido Ranma! Stupido stupido stupido stupido Ranma!
Rialzò il viso, tornando a guardarlo in faccia un’ultima volta con i propri lineamenti corrotti da questi pensieri. Quindi si voltò. E cominciò a correre. Correre correre correre, mentre gocce disubbidienti d’acqua salata prendevano ad annebbiarle la vista. Correre – e non pensare. Non pensare più.

 

Riaprì gli occhi. Vide l’immenso e nient’altro e si lasciò inondare d’azzurro. Nel proprio campo visivo, solamente la pace, la serenità dell’infinito della volta eterea. Il cielo era sempre lo stesso. Uguale, in Giappone come nel suo villaggio. Il cielo stava lì e basta. Non cambiava mai. Quel medesimo cielo che aveva assistito ai suoi allenamenti di amazzone, quando ancora era una bambina felicemente incerta del domani, si trovava ancora presente adesso a porgerle il conforto che cercava. Il cielo, l’unica certezza rimasta.
Le altre erano crollate, una per una.
Le regole delle donne di polso erano diventate carta straccia. Ranma ragazza l’aveva sconfitta, eppure lei non l’aveva uccisa. Ranma ragazzo l’aveva sconfitta, eppure lui non la amava.
E adesso – adesso Shampoo aveva infranto anche quel poco che restava di saldo nel suo onore. Aveva agito all’insaputa della propria bisnonna. Aveva usato mezzi indegni. Sapeva di avere perso per sempre il suo rispetto – il rispetto dell’unica parente che le era rimasta sempre accanto, da quando aveva lasciato il villaggio natio…
No. Non era vero, questo. Girò appena la testa su un fianco. Poté scorgerlo con la coda dell’occhio, ma era sicura, già prima di vederlo, che lui era lì, accanto a lei come sempre. L’altra propria certezza. Insieme al cielo. Solo che il cielo non faceva parte del suo mondo, vegliava su di lei ma non era con lei. Mousse sì, Mousse era con lei e fin da quando erano bambini. Stupido Mousse. Non l’avrebbe mai lasciata sola, anche se sapeva benissimo che lei amava Ranma. Povero sciocco Mousse, sempre uguale a se stesso.
Questo la riportò alle ansie del presente. Si trovava all’aperto, era evidente. E libera. Niente vocine in testa. Quella sorta di incantesimo era stato spezzato. Ciò poteva forse significare che l’essere diabolico che l’aveva ingannata era stato sconfitto? Ma non riusciva ad essere così ottimista.
“Shampoo.”
La sua voce. Una voce che aveva pronunciato quel nome infinite volte, per lo più col tono sofferto di chi è consapevole che l’altra persona non risponderà mai al richiamo. Ma adesso poteva avvertire qualcosa di diverso. Il suono era flebile, spezzato. Shampoo si ricordò soltanto allora di averlo ferito. E duramente. E non solo con le parole. Ricordò ogni cosa. Questa volta, non volle scacciare le memorie che riaffioravano. Inutile, il rimpianto. Quella breve ma tormentatissima esperienza le aveva lasciato, forse, un insegnamento: poteva guardare unicamente avanti.
Finì di girarsi, piano. Fino ad incontrare, da ultimo, le sue iridi: rivolte, ancora una volta, verso di lei. “Mousse, tu…” lo guardò intensamente.
“Tu sai dov’è Lanma?” Mousse scosse appena il capo, piegando il labbro in una smorfia simile ad un sorriso. Non si aspettava niente di diverso. Sapeva che sarebbe stata la prima cosa che gli avrebbe chiesto. Ma faceva male lo stesso.

 

Quando l’aveva vista, in principio, sorridergli in un modo così falso, il suo primo istinto era stato quello di assumere una posizione di difesa, ben sapendo che un simile atteggiamento da parte della fidanzata era, solitamente, il presagio di una reazione molto violenta. La situazione era, però, ancora più grave di come se l’era figurata: e lo comprese un istante più tardi. Precisamente, nel momento in cui Akane aveva riabbassato lo sguardo, con fare remissivo. Aveva pensato che la causa potesse essere la momentanea debolezza. Ma non era così. E Ranma in fondo lo aveva capito fin da subito, anche se in cuor suo aveva sperato, sino all’evidenza dei fatti, nel contrario.
Perché mai le cose stavano precipitando a tal punto? Ridicolo. Dopo tutto ciò che si era ripromesso quel giorno, al parco, nell’altra realtà… Dopo aver assistito all’idiota del senpai che si approfittava di lei, le mancava di rispetto, la faceva piangere… In quel momento, Ranma aveva sinceramente desiderato tornare – tornare a prima di Yakuzai, ricominciare daccapo, stare nella luce con lei e non mascherarsi, come al solito, nell’ombra delle menzogne e delle incomprensioni.
E cosa aveva fatto? Le aveva mentito. Di nuovo. L’ultima bugia, certo. Ma anche la più amara.
Akane era rimasta qualche secondo con il capo chino, a nasconderle il volto, aiutata in ciò anche dall’ombra circostante che avvolgeva ogni cosa. Il giovane con la treccia aveva immaginato che stesse piangendo. Non questo! Non voleva farla piangere. Il pianto di una donna lo metteva, da sempre, nel panico più totale: era stato allenato da suo padre a saper fronteggiare tutte le situazioni, ma questa, evidentemente, non era stata prevista nel programma d’addestramento. Quando, poi, a piangere era lei… e soprattutto, quando a farla piangere era lui… di nuovo… dopo tutto ciò che si era ripromesso quel giorno…
Istintivamente si era avvicinato alla fidanzata. Per rimanere spiazzato ancora una volta. Lei aveva rialzato la testa con un improvviso scatto, per fulminarlo con un’espressione che non avrebbe mai dimenticato. Uno sguardo carico di rancore, almeno così gli parve. Ma non era la solita reazione rabbiosa cui aveva fatto ormai l’abitudine. C’era qualcosa di più profondo. E… possibile? Forse era un’illusione creata dalla penombra. Forse si trattava del proprio senso di colpa, che gli faceva percepire cose che non c’erano. Eppure… eppure, in quello sguardo, gli pareva di aver scorto un sentimento di odio.

Quindi la vide dargli le spalle e correre via.
Verso il varco.
Lontano da lui.

 

Shingo scorse il fuoco indomito e ardente che si celava dietro le grigie pupille di un corpicino, il quale solo apparentemente era smunto dal trascorrere inesorabile del tempo. Ma non ebbe problemi a contrastarlo col gelo delle sue iridi inespressive.
“Una teoria veramente interessante, la tua.” disse all’interlocutrice. “Poniamo che i fatti stiano così, nonnina. Adesso Saotome mi avrebbe giocato, almeno questa la sua intenzione.”
L’amazzone sospirò. Aveva ottenuto qualcosa, dopotutto. L’attenzione dell’interlocutore era rivolta esclusivamente su di lei, tanto che l’uomo del medaglione sembrava ignorare del tutto Ryoga e Akane. Quei ragazzini s’erano cacciati in un grosso guaio. Cologne si decise a replicare, per continuare a tenerlo distratto.
“Ed invece il consorte ha fatto il tuo, di gioco, inconsapevolmente.”
“Allora lo sapevi.” sogghignò. “Fra pochi minuti, la sua aura verrà spontaneamente a me. Mentre lui è già spacciato.”

 

Se soltanto avesse saputo la verità…! Ma non poteva permetterlo in alcun modo.
Aveva voglia di prendersi a pugni. Ma perché, poi?! Non aveva colpa, si disse. Era stato solo affinché lei non ci andasse di mezzo.
Lui avrebbe potuto ingegnarsi qualcosa di più ortodosso, questo lo riconobbe. Aveva comunque conseguito il suo scopo, pensò. Se Akane avesse scoperto il pericolo racchiuso in quella specie di limbo in cui si trovavano, certamente non l’avrebbe lasciato da solo. Si sarebbe, perlomeno, intestardita a portarlo via da lì, rischiando di finire per condividere la sua sorte. Ranma si disse che aveva fatto ciò che doveva fare. Doveva farla arrabbiare, farle perdere la lucidità necessaria per comprendere la situazione. In questo era un esperto. Infatti, c’era riuscito. Era la cosa giusta, si ripeté come per convincersene, mentre le ultime forze lo abbandonavano. Aveva perso molta energia, con la tecnica amazzone.
Inoltre non badava più a trattenere la propria aura, avvalendosi degli anni d’allenamenti da artista marziale, come aveva fatto fino a poco prima. Si era presto reso conto, infatti, che la propria energia andava rapidamente disperdendosi nel Disordine d’attorno.
Pensò di avere intuito quello che intendeva Shingo, quando gli aveva parlato del pericolo di questo passaggio tra le dimensioni. La sua energia vitale lo stava abbandonando, dal momento preciso in cui lui aveva varcato il passaggio. La stessa cosa che era successa ad Akane, poco dopo. Con la differenza che lei era meno allenata e aveva così perso la propria molto più velocemente. Per questo, doveva andarsene subito.
Era sicuro che l’aura trasferita alla fidanzata le avrebbe permesso di raggiungere l’uscita di quel non-posto senza problemi. Alzò ancora lo sguardo e la vide di spalle, in lontananza, che si appressava di fretta alla soglia del varco. Poi Ranma cadde sulle proprie ginocchia, stremato. Tutto stava per finire.
Eppure era la cosa giusta.
La cosa giusta.
L’ultima immagine che il cuore rievocò, prima di perdere contatto con la realtà, fu però lo sguardo di Akane pieno di rancore… Non quello!
Già una volta che era stato sul punto di mollare, sul monte Horai, l’aveva vista. Il suo volto era addolorato e le palpebre lasciavano partire silenziose lacrime di tristezza e rimprovero, perché lui non manteneva la promessa di tornare con l’aspetto maschile e abbandonava la lotta: si era riscosso, allora, dandole della piagnucolona e rialzandosi per concludere lo scontro con Herb.
Lei gli aveva dato la voglia di continuare.
Così come, adesso, al contrario, il suo sguardo pieno di rancore si sovrapponeva ad ogni ricordo e non liberava un attimo i propri pensieri, invogliandolo a piantare tutto. Il terrore che lei lo potesse odiare s’impadronì completamente di lui, cosicché concentrò le poche energie in un’unica azione.
“Scusami…” mormorò al vuoto, con l’ultimo residuo di forza.
Poi fu di nuovo l’oscurità. Più profonda di quella che lo avvolgeva fisicamente. Era solo, ancora una volta. Lasciata andare ogni sicurezza, perse infine conoscenza.

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Capitolo 20
*** United we stand ***


PART TWENTY –

“UNITED WE STAND”




Non ricordava di aver mai visto quei luoghi. Gli erano del tutto nuovi, ma ciò non era determinante. Forse poteva averli visti. Ne aveva visti tanti. Ma non aveva mai badato eccessivamente all’aspetto estetico delle varie zone da lui visitate, nel periodo della propria vita in cui vagava col vecchio in lungo e in largo per il Giappone, in viaggio d’addestramento. Anche volendo, il tempo in cui si trattenevano in uno stesso posto era sempre troppo poco. E quello che rimaneva, andava interamente dedicato ai duri, pazzeschi e a volte completamente assurdi allenamenti ai quali veniva sottoposto.
In ogni caso, quei luoghi gli erano tutt’altro che familiari.
L’unica cosa che poteva stabilire con certezza era che non si trattava di Nerima, Tokyo.
E la costruzione che s’ergeva imponente di fronte a lui, per quanto avesse l’aspetto inequivocabile di una palestra, non era assolutamente il Tendo dojo.
Improvvisamente, notò l’incoerenza dell’intera situazione. Pensò che non si trovava né nella caverna, né in quella cosa oltre il varco aperto da… Come aveva potuto scordarsene?! Soprattutto, come era finito, adesso, in un posto così lontano da Yakuzai? Accennò a battere un pugno contro il palmo dell’altra mano, rievocando assieme gli ultimi avvenimenti e cercando di scrollarsi via quella calma tanto poco consona a lui. E si accorse, così facendo, che non gli era possibile compiere quel gesto. Le sue mani erano invisibili. Non solo le mani. Tutto il suo corpo era invisibile. Non riusciva a vedersi in alcuna maniera. E del resto, nemmeno a toccarsi.
*Sono… un fantasma?!* Quell’idea penetrò con brutalità nell’intimo di Ranma, mozzandogli il respiro – sempre che, a questo punto, lui avesse ancora la facoltà di respirare.
Poi pensò che tutto questo aveva un senso.
In fin dei conti, lui si era arreso. Perché avrebbe dovuto sorprendersi?
Certo, però, che se lui era veramente morto… beh, si aspettava quantomeno qualcosa di diverso dal girare ancora sulla terra come uno spirito incorporeo. Non che si fosse mai posto seriamente, prima d’allora, una qualche domanda sul dopo. E sicuramente non condivideva le fantasie di altri, per esempio di Ryoga, sul varcare lo Stige o cose simili. Nonostante ciò, quel contesto non poteva non metterlo a disagio. Si decise ad esaminare più accuratamente i luoghi circostanti, confidando di poter ricevere da essi un maggiore chiarimento. La porta della palestra era solo socchiusa. Accennò a spingerla in avanti con la mano, ma si trovò a trapassarla con tutto il corpo. Eccola, l’ulteriore conferma. Era veramente un fantasma. Oppure stava sognando. Nell’uno e nell’altro caso, non era nella sua realtà.
Si abituò alla diversa illuminazione. Nonostante le finestre che davano all’esterno, la luce del giorno era quasi interamente sopraffatta dall’enorme ombra proiettata da una figura dall’autorevole mole. Sopra la divisa da kempo che avvolgeva la spessa corporatura, due grossi occhi a palla, posti a degna decorazione di un viso la cui perfetta rotondità era interrotta soltanto da un paio di baffetti sottili e dalle oltremodo lunghe labbra, fissavano un’area indefinita di vuoto: come assorti, o meglio, impossibilitati a guardare nella direzione dell’altra persona presente, posta troppo in basso rispetto all’omone.
Il dojo yaburi. Ma allora…
Ranma portò lo sguardo in direzione del contendente.
E la vide, anche lei in tenuta da kempo e in posizione di combattimento.
Akane.
Cosa ci faceva lei in quel posto? Se si trattava veramente di un sogno, era fin troppo assurdo. Possibile che… In quel preciso istante, la terzogenita delle Tendo si fiondò in avanti, contro l’avversario. L’espressione di questo restò immutata, mentre parava con facilità l’attacco, sfoderando la propria ricca collezione di insegne di palestra, inchiodate tra loro a mo’ di catena. Ranma tentò di scuotersi e di fare ordine nei propri pensieri. Lei era l’altra Akane? E lui, quindi, si trovava nuovamente nell’universo parallelo? Ma come ci era potuto finire un’altra volta? E poi, come mai Akane si trovava a faccia a faccia con… Un momento! Improvvisamente, credette di individuare il nesso logico. Era stato lui. Quel giorno, al parco. L’aveva spronata a non arrendersi. E lei aveva, evidentemente, accolto l’invito. Tatewaki Kuno non avrebbe più pensato a recuperare l’insegna del Tendo dojo, ormai troppo distratto da altre incombenze. Ma doveva trattarsi necessariamente del senpai?
Un destro. Un calcio. Ancora un altro pugno. Il dojo yaburi continuava a respingere i colpi della minore delle Tendo, alzando o abbassando la frusta improvvisata con ambo le mani. Improvvisamente accelerò il gesto. A Ranma parve quasi un ragazzino che saltava la corda. Un ragazzino un po’ troppo cresciuto, ovviamente. Il movimento divenne tanto rapido da rendere l’omone quasi invisibile agli occhi di tutti, per quanto ciò potesse apparire paradossale. Akane arretrò di qualche passo, sconfortata. Sfondare le difese dell’avversario sembrava impossibile. Come indovinare il tempo preciso in cui sferrare l’attacco?
*Non mollare!* l’incitò Ranma, sebbene nessun suono potesse uscire dalle sue labbra. Per farcela, la fidanzata avrebbe dovuto usare non gli occhi, ma la mente.
Come se l’avesse udito, Akane chiuse le palpebre. Abbandonò la posizione di difesa, unendo tutti i suoi sforzi nell’individuare il giusto momento. Qualche istante. E ripartì alla carica.
Lo scatto fu molto rapido. Ricordando il loro precedente combattimento al parco, Ranma pensò che il doppio della giovane Tendo era molto più in forma dell’ultima volta. Doveva essersi allenata. E molto.
L’attacco riuscì a passare oltre la protezione del contendente. Akane sferrò un potente calcio. Forse era fatta. O forse no. Si accorse di averlo mancato, ma questo era impossibile. Come poteva mancare un bersaglio tanto grosso? Alzò lo sguardo. E capì. Il dojo yaburi aveva rapidamente ritratto a sé la catena di insegne, per poi alzarla in direzione del soffitto e girarla ad una velocità vorticosa: facendone una sorta di elica, aveva potuto sollevarsi da terra con un’agilità altrimenti impossibile, vista la propria stazza. Schivato l’attacco, mantenendo lo sguardo sempre apparentemente fisso nel vuoto, replicò con fare meccanico, lanciando alcune insegne mentre era ancora sospeso in aria. Akane si girò con riflessi pronti e le scansò a sua volta.
L’omone atterrò di nuovo sul pavimento. Riunì di nuovo le insegne e, questa volta con una sola mano, le roteò a spirale attorno a sé, adoperandole, con una grazia inaspettata, similmente ad un nastro da ginnastica ritmica. Un’altra tecnica? Ranma ricordava che quel tipo sapeva destreggiarsi molto bene con le insegne; ma non aveva avuto l’occasione di osservare tutto ciò, l’ultima volta che lo aveva affrontato. Evidentemente, l’aveva messo al tappeto troppo presto. Anche Akane avrebbe dovuto sbrigarsi, prima che quello sfoderasse le sue carte migliori.
Forse, però, l’asso nella manica era stato appena estratto. Ogni tanto, il dojo yaburi lasciava che un’insegna si staccasse dalla catena, sfrecciando contro l’avversaria con una forte accelerazione. Akane scansò il primo proiettile. E il secondo. Ma i successivi arrivarono ancora più veloci ed in rapida sequenza. Fu dapprima colpita di striscio, poi presa in pieno ad un braccio.
*Akane!*
A quel punto, Ranma non poté più trattenersi. Fantasma o non fantasma, doveva fare qualcosa. Un metodo per fermare quella giostra infernale forse, anzi sicuramente c’era, ma di certo non poteva attuarlo lui di persona né, come ovvio, comunicarlo ad Akane. Si lanciò allora verso di lei – quella stupida si era intestardita a voler parare le insegne per contrattaccare, piuttosto che farsi indietro – con l’intenzione di gettarla a terra e farle da scudo. Aveva perso la lucidità necessaria per figurarsi quello che sarebbe seguito. Si trovò ad attraversare il corpo della fidanzata da parte a parte e, quindi, carambolare per terra. Akane dovette aver percepito qualcosa, perché girò la testa, confusa, in più direzioni. Poi sembrò come colta da un’illuminazione.
Il ragazzo con il codino ebbe appena il tempo di rialzarsi e scorgere la determinazione che sfavillava dentro di lei, rischiarando le iridi nocciola.
La giovane raccolse un’insegna da terra. Accennò un sorriso: per una strana combinazione, era proprio quella che recava l’ideogramma Tendo. Prese la mira. E stavolta colpì il bersaglio.
Ranma la fissò sbigottito. Gli aveva letto nella mente? Era stato durante quel loro contatto… quel loro non-contatto di pochi attimi prima? La mano che reggeva la catena di insegne era stata colpita e costretta a mollare la presa. La catena era andata dissolta e le insegne si erano abbattute sul dojo-yaburi in rapida successione, stordendolo. Infine Akane si lanciò contro di lui, centrandolo nei punti vitali. L’omone tracollò al suolo, privo di sensi.
Aveva vinto. Akane ce l’aveva fatta. Aveva riconquistato l’insegna. Aveva risistemato le cose. Una nuova consapevolezza si fece strada nella mente di Ranma. Non era vero. Non aveva cambiato le cose in peggio. Le sue interferenze non erano state dannose come credeva. Forse, anche nel proprio mondo… Si era convinto che solo la sua assenza avrebbe potuto portare qualcosa di positivo. E se non fosse stato vero nemmeno questo?
“Ranma…”
Sussultò, colto alla sprovvista. Akane lo aveva chiamato? Poteva vederlo?
“Ranma…”
Si girò, per incontrare il suo sguardo. Ma non riusciva più a scorgerla da nessuna parte. In verità, faceva sempre più fatica a distinguere ogni cosa. I contorni divennero ombre. E la nebbia andò velocemente sostituendosi alla piena percezione della realtà.
“Ranma!”


Cologne puntò un’ultima volta, con la coda dell’occhio, in direzione dell’entrata del varco. Non ce l’avevano fatta. Aveva compreso subito che Ryoga e Akane intendevano tirare fuori di lì il consorte. Ma sembrava che avessero fallito.
“Bene, nonnina.” disse l’interlocutore. “Spero che non mi giudicherai un maleducato, se ora interrompo la nostra deliziosa conversazione. Come saprai, ho un’aura che mi aspetta.”
L’uomo accennò a dirigersi verso lo squarcio della materia. L’anziana amazzone intese che non rimaneva che l’ultimo tentativo: se non altro, per guadagnare ancora ulteriore tempo e permettere, almeno ai due ragazzi, di salvarsi. Sempre che per qualcuno rimanesse la sola speranza di salvarsi, una volta che il tipo del medaglione avesse preso il sopravvento.
“Non lo farai!” gli si pose davanti. “Non prima di avermi affrontato.”
Shingo accennò un sorriso, mentre scostava una ciocca della chioma riflesso del platino.
“Non sia mai che rifiuti l’invito di una gentile signora, per quanto un tantino troppo matura per i miei gusti.” Poi tornò serio. “Ammiro il tuo coraggio, nonna. Ma sei più consapevole di me di quanto ti sarà inutile.”
“Lo verificheremo subito!” replicò Cologne. Un momento dopo, manifestò all’esterno la propria intera energia spirituale, indirizzandola poi, con un cenno del nodoso bastone, contro l’avversario. Ovviamente non poteva competere con i poteri in suo possesso. Questo era fuor di dubbio. Ma lei aveva qualche decennio di esperienza in più, rispetto a Shingo. D’altronde, si trattava pur sempre di un moccioso che usurpava le doti di esseri a lui infinitamente superiori. Avrebbe dovuto dimostrare di saperle padroneggiare. Di esserne degno.


Badando a non mollare la presa, Ryoga si lasciò sfuggire un fiotto della tensione che gli attanagliava, da ormai troppi minuti, il corpo e, soprattutto, l’animo. Questo bastò a rischiarargli il cuore. E sospirò.
Ormai era rassegnato. Sapeva che le cose non cambiavano mai, tra di loro. Il mondo circostante poteva venire stravolto da qualunque avvenimento, ma ogni fatto sembrava toccarli solo indirettamente. Loro vi prendevano parte, certo, ma venivano in realtà appena sfiorati dagli eventi. E niente pareva intaccare lo strano equilibrio del gruppo. Ora, cosa stava accadendo davanti ai suoi occhi? Fece mente locale. Ah, sì. Un tizio che riuniva in sé i poteri di due antiche divinità era determinato ad usarli per ridurre l’umanità intera sotto il giogo del Caos, o perlomeno qualcosa di simile. Non avevano reagito poi così diversamente del solito, di fronte a ciò.
Ranma aveva affrontato il nuovo avversario con la solita spavalderia. La dolce Akane stava mettendo in pericolo la sua vita per tirare quel maledetto incosciente fuori dei guai. Mousse faceva altrettanto per l’ingrata Shampoo. E poi… relegato come di consueto sullo sfondo, c’era il solito poveraccio. Quel tale Ryoga Hibiki, innamorato perso di una ragazza che non lo vedeva se non come un amico e che non si rivolgeva a lui se non per chiedergli di unirsi a lei nel tentativo di soccorrere l’altro. E quel poveraccio che ubbidiva ciecamente. Complimenti per l’originalità del copione…
No. Interruppe la sua preghiera mentale affinchè quel bastardo di Ranma si facesse salvare senza tante storie – e soprattutto, in tempo perché Akane non corresse chissà quali pericoli – per fare quella constatazione. No. Non era vero che le cose non cambiavano mai, per loro. In lui stavano cambiando, ad esempio. Da Jusendo, molte cose erano cambiate per lui.
Stava cominciando ad accettarlo. Ogni momento, ogni istante che Ryoga aveva la fortuna di condividere con Akane, sia che fosse uomo, sia che si trovasse nel corpicino – oggetto di ben maggiori attenzioni – di P-chan, lei era sempre da un’altra parte, lontana da lui. Quella parte era sempre la stessa, a dire il vero. E aveva un nome. Ranma. Per saperlo, Hibiki lo sapeva da fin troppo tempo. Adesso, però, stava cominciando a capirlo e, innanzitutto, si era reso conto che doveva essere lui stesso a compiere il primo passo per spezzare l’equilibrio e provare a costruirsi finalmente la sua porzione di felicità. La strada che portava ad Akane si era rivelata un vicolo cieco.
Perché farsi tanto male?! Quando, del resto, un’altra via la stava percorrendo già da un po’ di tempo. Sapeva che non era giusto farlo senza aver distolto lo sguardo da quella precedente, eppure era stato più forte di lui. Si era avventurato da tempo verso quel sentiero chiamato Akari Unryu, solo che aveva continuato a tentare di non perdere di vista Akane. Sapeva che non era per niente giusto. Ma non poteva smettere di amare Akane da un giorno all’altro. Nessuno poteva chiedergli questo. Lei era stato il primo volto gentile con lui, da che ricordasse.
Per girare le spalle ed incamminarsi definitivamente verso il nuovo viaggio, avrebbe dovuto abbandonare ogni esitazione. Ci stava provando con tutta la sua buona volontà, fin da quando aveva ricevuto l’invito al loro matrimonio. Eppure i suoi souvenir per Akari continuavano a scadere prima che lui potesse raggiungere la destinazione; eppure i suoi passi continuavano a tradirlo, portandolo nei pressi dell’abitazione dei Tendo. Non poteva continuare a tenere il piede in due staffe. Ma non poteva nemmeno dimenticare Akane da un giorno all’altro. Ciò non cambiava il suo destino. Lo ritardava, semmai. Il giovane Hibiki era sicuro che, prossimo o remoto, il suo futuro sarebbe stato in ogni caso con Akari Unryu.
Anche perché i fatti parlavano chiaro. Akane amava Ranma. Che la cosa fosse reciproca, era molto meno scontato. Ma i fatti avevano parlato anche qui più volte, in special modo da Ryugenzawa in avanti. Quando quei due fossero finalmente cresciuti, ammettendo una buona volta la realtà delle cose, Ryoga si sarebbe defilato e avrebbe cambiato definitivamente strada.
Fino a quel momento, avrebbe fatto ancora tutto il possibile per vegliare su Akane. E la cosa più importante, adesso, era un’altra. Quel dannato di Ranma non doveva prepararsi a morire, per questa volta. Che non si permettesse! Avrebbe fatto soffrire Akane… Ed ormai Ryoga, che, prima di lasciare il proprio primo amore per accantonarlo in un cantuccio speciale del cuore, intendeva assicurarsi della sua felicità, sapeva benissimo che questa sarebbe stata possibile solo se Ranma fosse stato ancora vivo.



Era ancora vivo. Lo percepiva benissimo, ora. Così come percepiva lei. Udiva la sua voce che lo chiamava, come pochi attimi prima. Ma non era la stessa cosa. Stavolta era diverso. Ancora non la vedeva, ma sentiva il suo tiepido respiro. Avvertiva il lieve, appena accennato contatto con la sua pelle.
Akane.
La sua Akane.
Ne era sicuro. Non poteva sbagliarsi. Era probabilmente chinata accanto a lui; e di ciò gli forniva una chiara conferma quello stesso contatto, che andava facendosi via via più accentuato. In effetti, la fidanzata lo stava letteralmente scuotendo da una parte all’altra, in maniera non molto ortodossa, presumibilmente con l’intenzione di fargli riprendere coscienza – per quanto stesse, di fatto, producendo quasi l’effetto opposto.
Eppure, giudicò Ranma, poca era – relativamente ai canoni del maschiaccio – la forza che metteva nel gesto. Forse era rassegnata. O più probabilmente… Fu così che il ragazzo con il codino rammentò, all'improvviso, l’insidia di quel luogo. E una domanda gli sorse spontanea. Come faceva lui ad essere di nuovo cosciente? Era convinto di aver esaurito tutte le sue forze.
“Ranma…” continuava lei, nel frattempo, con voce sempre più bassa e spezzata. “Smettila… di fingere… lo so che sei sveglio… scemo!... Ti prego… Svegliati!... Ranma!” esclamò infine, in un ultimo impeto che assomigliò più ad un singhiozzo.
Non era il momento di pensare ai come ed ai perché. Nella sua voce colse tutta la sofferenza che provava; e questo, il ragazzo con la treccia non poté sopportarlo. Si sforzò di sollevare le palpebre e di risponderle.
“Aka… ne…”
“R-ranma…” lo fissò con gli occhi colmi di commozione. “Sei… sei…” non riuscì a proseguire. Si voltò di scatto e si asciugò alla meglio le lacrime che le imperlavano il viso. Le lacrime che aveva versato in precedenza, quando l’aveva scacciata da sé. Forse non solo quelle.
“Akane...” fu, quindi, lui a ripetere, recuperando una posizione più composta. “Perché lo hai fatto?!”
“Fatto cosa?” domandò confusa, tornando a guardarlo in volto. Non capiva.
“Come mai sei tornata?” completò Ranma, con affanno. Non era riuscito a concludere la frase. E non perché gliene mancasse la forza. Voleva chiederle il motivo per cui fosse tornata nonostante quello che le aveva detto. Voleva chiederle per quale ragione non sembrasse più arrabbiata con lui, l’unica volta che avrebbe avuto piena ragione di esserlo. Tuttavia credeva di averla convinta, prima.

Effettivamente c’era riuscito. Pochi minuti indietro, Akane stava correndo verso lo squarcio che dava alla loro realtà, fermamente decisa a non guardarsi alle spalle. Ma, una volta giunta all’ingresso, aveva esitato. Per un momento, le era come venuto meno il respiro. Stava realizzando che era davvero tutto finito. Nondimeno non poteva rimanere impalata, doveva imporre a se stessa quell’ultimo sforzo. L’idea di essere considerata un impiccio fu più forte di ogni altra cosa e la minore delle Tendo si accinse, così, a varcare la soglia.
Fu in quel momento che se ne accorse. Trovandosi nel preciso confine tra i due mondi, ora poteva avvertirlo nitidamente. Qualcosa di simile ad un risucchio. Qualcosa che le trascinava via, verso l’esterno, l’energia che aveva in corpo, con un meccanismo che ricordava vagamente l’Happo goen-satsu della professoressa Hinako. Improvvisamente comprese il motivo della propria perdita di conoscenza di poco prima. Lei non sveniva tanto facilmente. Era quel posto. In qualche modo, succhiava l’energia vitale. Ma se le cose stavano così… prima Ranma l’aveva mandata via per…

“Se ti riferisci a poco fa, è che ho capito!” disse al fidanzato, con un’espressione grave. “Ho capito il vero motivo per cui non dovevo restare qui. Ma questo non cambia nulla. Anzi…” esitò appena, quasi raccogliendo le parole. “A maggior ragione, non potevo lasciarti…”
A Ranma mancò un battito. Akane gli si avvicinò ulteriormente, rompendo la già ridotta distanza che li separava. Lo guardò dritto in viso, così che il giovane Saotome poté pienamente specchiarsi e perdersi nei suoi profondi occhi. Erano ancora addolorati, certamente; ma non vi scorgeva più quel rancore di prima, quel rancore da lui tanto temuto.
“Non potevo!” ripetè. “Non potevo lasciarti senza poterti almeno prima dire che…” si zittì per un lungo, interminabile momento. E il cuore del ragazzo credette di scoppiare.
Quindi, lei socchiuse nuovamente le labbra.
“Che sei uno stupido egoista!”
Ranma si riscosse, come da un sogno ad occhi aperti.
“C… che cosa?” esclamò, tra l’attonito e il risentito.
Era così che lo accoglieva?! A sentirsi dare da lei dello stupido si era abituato da tempo, ed infatti non vi aveva quasi posto caso. Ma in quanto all’egoista… Lui si sacrificava e questo era il ringraziamento?! Certo non pretendeva di essere ringraziato, però era pure vero che un po’ di gratitudine non avrebbe affatto guastato. Ranma aveva rinunciato a tutto per le persone cui teneva. Questo, per la fidanzata, sarebbe stato segno di egoismo? Forse Akane avrebbe dovuto dare un’occhiata al dizionario.
“Hai sentito bene!” la fidanzata rincarò la dose, alzando il tono. “Sei il solito stupido! Ed egoista! E non è solo per avermi mentito, per essere stato falso con me ancora una volta! E’ soprattutto perché…”
“Lasciami indovinare!” la interruppe lui, ormai completamente indispettito. “Perché ho fatto il massimo che potevo per salvarvi la vita? E’ per questo?!” urlò con maggior forza.
“Proprio così!” gridò lei di rimando.
“Magnifico!” commentò sarcasticamente. “Adesso sì che tutto ha un senso! Come ho potuto non accorgermi di essere un dannato egoista?!” enfatizzò, alzando le braccia al cielo.
“Egoista ed egocentrico!... Ed anche un completo idiota, visto che non hai capito un bel niente di quello che ti ho detto!”
“Ha parlato quella che capisce sempre tutto, che non fraintende mai ogni mia azione!”
“Se succede, è comunque colpa tua! Sei tu l’idiota!”
“BENE!”
“PERFETTO!”
Come per un tacito accordo, smisero entrambi di sbraitare. Dal momento che quella discussione stava velocemente degenerando, perdendo come al solito il senso originario. Ma soprattutto perché avevano speso troppe forze, per sovrastarsi l’un l’altro. Il risucchio di energia contribuì non poco a far recuperare loro la calma.
Akane fu la prima a ritrovare la giusta lucidità. Inspirò. Sospirò. E riprese a parlare, questa volta con un tono più sommesso:
“Sei un egocentrico perché… perché vuoi essere sempre tu. Da solo. Tu, quello che salva la situazione. Tu, quello che si sacrifica… Tu, sempre tu! Si può sapere chi credi mai di essere?”
Quella domanda colpì Ranma nel profondo, al di là dell’autentico significato con cui la minore delle Tendo l’aveva proferita.
“Chi credo di essere?… io sono la causa di tutto questo.” mormorò, sopraffatto dai sensi di colpa, che non persero l’occasione di riemergere tutti assieme. “E’ per colpa mia se… se ora state rischiando così tanto… Ed è colpa mia se tu…”
“Lo vedi che sei uno stupido?!” fu la fidanzata, in questo caso, ad interromperlo; e lo stupido, questa volta, fu pronunciato senza rabbia. “Sempre e comunque al centro dell’attenzione! O ti senti il superuomo invincibile, o la causa dei mali dell’intera umanità. Ma sbagli in entrambi i casi: non sei né l’una né l’altra cosa… e quindi non puoi pretendere di fare tutto da solo…”
L’affanno nel respiro aumentava velocemente, ma questo non impedì ad Akane di concludere:
“Perché tu non sei solo.”
Questo, intendeva? Gli vennero in mente le parole di sua madre. Meglio, non proprio lei. Ma la Nodoka Saotome che aveva incontrato nell’universo parallelo.

“Ranma…”
“Ecco… io…”
“Non dire niente… Non ho intenzione di chiederti perché ci lasci in questo modo, né dove sei diretto: sappi solo che non è mai bene cercare la solitudine, per risolvere i problemi che ci angustiano…”


Era vero. Non era solo. Era tanto vero questo, quanto non lo era il fatto che la sua presenza portasse unicamente il caos. E, per completare il quadro, lui era veramente uno stupido. Uno stupido per avere capito tutto ciò solo allora, quando ormai era troppo tardi per cambiare la situazione.
Paradossalmente, i fatti avevano finito per prendere una piega positiva proprio là dove lui aveva maggiormente interferito. E rinunciando ad essere se stesso, aveva permesso che nel suo mondo, al contrario, le cose volgessero verso il peggio. Dopotutto, il proprio sacrificio non avrebbe impedito a Shingo di portare a termine i suoi piani. Ed in quanto ad Akane, era troppo tardi anche per lei. Ma quest’ultimo dato di fatto, l’inconscio si rifiutava di ammetterlo.
“Hai ragione…” ammise, non con poco sforzo, chinando il capo. “Ma” si girò di scatto, cogliendola di sorpresa, mentre l’afferrava di nuovo per la vita “di noi due rimani tu la più stupida, se non te ne vai subito!”
Akane intese che il ragazzo con il codino stava provando ancora a trasferirle la sua energia vitale. Questa volta, però, non gliel’avrebbe permesso. Imitò il gesto di Ranma, tentando di attuare la stessa tecnica – facilitata dal fatto che avvertiva, non senza che ciò le provocasse un fremito, i precisi punti di pressione sulla propria stessa pelle. E ci riuscì.
“Cosa fai, Akane?!” esclamò lui, impossibilitato ad impedire la sua manovra. Dunque era stata lei, anche prima, a fargli riprendere i sensi? A questo punto, era una seria possibilità.
“Quel discorso sull’egocentrismo.” ribattè la minore delle Tendo. “Ti impedisco di fare l’eroe… non se non torni anche tu!”
Entrambi percepirono chiaramente la loro energia fluttuare dall’uno all’altro, in un circolo vizioso. E rendendo il tutto completamente vano, dato che continuava comunque a disperdersi, aspirata dallo stesso varco che avrebbe dovuto costituire la via di salvezza.
“Cocciuta come sempre…” mormorò Ranma, che cominciava a rassegnarsi.
“Imparo dal maestro…” provò a scherzare lei. La stanchezza stava prendendo il sopravvento ed i due fidanzati si accasciarono quasi contemporaneamente al suolo – se così si poteva definire la strana superficie del non-luogo in cui si trovavano.
“Akane… mi dispiace!” mormorò ancora il ragazzo. “Per tutto quanto.“
“Ora non ricominciare… da capo…” fece lei, mentre impallidiva a vista d’occhio. “E poi…” continuò, con un filo di voce, accennando stentatamente un sorriso “e poi a me va bene così…”
Non per lui. Era troppo ingiusto. Ranma fantasticò per un momento di tentare il tutto per tutto, issare Akane su di sé e cercare di raggiungere il varco. Ma le forze non erano sufficienti. E capì improvvisamente di avere pochissimo tempo. Per dirle quelle parole che ormai troppe volte, in passato, gli erano morte in gola. A Jusenkyo. Nella realtà parallela. Sapeva che non avrebbe avuto un’altra occasione. “E’ solo che” riprese “avrei voluto saperti proteggere…”
“Ranma…” Akane sorrise di nuovo, debolmente.
“Ascoltami… è da molto tempo che… che io…” A questo punto il giovane col codino cominciò ad imbrogliarsi, complici l’estrema vicinanza alla minore delle Tendo e la propria abituale tensione, che pareva non essere stata sufficientemente indebolita nemmeno dal risucchio d’energia. Ma doveva andare avanti. Come fosse un nemico dei soliti, s’impose di sconfiggere anche la timidezza; e così continuò, sia pure con fare impacciato: “Io volevo dirti che… che…”
Si interruppe di colpo. Non per l’imbarazzo, stavolta. La fidanzata aveva abbassato le palpebre: stava lentamente perdendo conoscenza. Non doveva succedere! “Akane!” La tirò a sé, scuotendola e facendo presa sulle spalle e le braccia e – un momento, cos’era quella cosa che stringeva nel palmo della mano? “Una… fune?” disse, confuso. Akane riaprì gli occhi in quel momento, udendo le parole di Ranma: fissò pure lei la fune, pur senza guardarla veramente, troppo stordita dalla stanchezza che le avvolgeva le membra. Poi, d’un tratto, ricordò. *Che sciocca che sono! Come ho potuto dimenticarmene?*
Il ragazzo con la treccia seguì il percorso tracciato dalla corda.
Scoprì, con propria grande sorpresa, che portava oltre il varco.


A dispetto della gravità della situazione, si sentiva più sereno. Aveva finalmente fatto chiarezza nel proprio cuore. Akane era destinata a Ranma. E Akari lo attendeva. Ma Ryoga non voleva fare del male ad Akari, non voleva che lei fosse una scelta di riserva. Quindi avrebbe lasciato trascorrere un po’ di tempo ancora, perché le ferite del cuore si rimarginassero, evitando di contagiare altri del suo dolore e permettendo la felicità di tutte le persone care.
Non c’era che dire, Ryoga era più buono di quanto egli stesso si fosse valutato. In fondo, il suo animo era generoso. In fondo, non sapeva veramente odiare.
Nemmeno Ranma.
Nonostante tutti i loro diverbi, Ryoga era sempre lì, nel momento del bisogno. Sempre pronto a dare una mano, quando ad esempio il vecchio Happosai aveva reso il giovane Saotome debole come un poppante, o ancora quando il Kashuihu sembrava perduto e Ranma pareva condannato a tenersi per sempre esclusivamente l’aspetto femminile. Per non parlare della lotta contro Safulan. Volta per volta, aveva detto a se stesso che lo faceva per non far soffrire Akane. Ma in fondo non era l’unico motivo. E, forse, era per questo che non si era ancora lanciato nel varco in un tentativo irrazionale di portare via Akane, vanificando quanto lei stessa gli aveva detto.
Si scosse repentinamente. La corda. Quella che Akane aveva prelevato dall’abito di Mousse quando erano usciti all’aperto. Quella corda di cui Akane gli aveva fatto stringere un lembo nel palmo della mano destra, mentre lei si era portata appresso la parte restante, varcando la soglia. Si stava tendendo. Istintivamente, il pugno acuì la stretta. Stava tornando. Ryoga si sentì felice. Si sbalordì, capacitandosi che non era solo per Akane. Anche lui stava tornando. Stava per rientrare prepotentemente nella sua vita. Questo non faceva piacere solo ad Akane.
Si chiese senza un apparente motivo come sarebbe potuta essere la propria esistenza se non avesse conosciuto Ranma Saotome, colui che aveva sempre considerato la causa di tutte le proprie disgrazie. Non riusciva ad immaginarselo. Dopotutto, oltre ad essere l’idiota più bastardo e fanfarone che avesse mai visto sulla faccia della terra, oltre ad essere la persona che l’aveva gettato nella sorgente del maialino affogato, oltre ad essere il terzo incomodo che gli metteva immancabilmente i bastoni fra le ruote quando lui pareva avvicinarsi ad Akane – Ranma Saotome era anche quanto di più vicino avesse mai avuto ad un amico.
Tirò la fune a sé, facendo appello a tutte le proprie energie. Non poté trattenersi dal pregare mentalmente Akane perché gli desse la forza necessaria. Digrignò i denti e contrasse ogni nervo in uno sforzo spasmodico, trattenendo istintivamente il respiro.

“NNNRGH!”

Lo strattone fu violentissimo ed inaspettato. Ranma, che si preparava a compiere l’ultimo sforzo, facendo leva sull’altro capo della medesima corda, nonostante si sentisse ormai allo stremo, fu trascinato attraverso l’ingresso assieme ad Akane. Vennero trainati al di là del varco e caddero malamente, uno sopra all’altro, di fronte agli occhi di un Ryoga prima ansimante, poi soddisfatto per il successo della propria azione, quindi incredulo mentre fissava la scena. Il tutto nel giro di una frazione di secondo.
Le energie vitali tornarono in un attimo ai loro legittimi proprietari. Riprendendo le forze, come se niente fosse accaduto, Ranma pensò vagamente che si trattasse dell’effetto del risucchio. Quindi si pose la domanda. Chi l’aveva tirato a sé? Riconobbe subito i contorni dell’amico-nemico dai lunghi canini. Era rimasto. Anche lui.
Sempre più vero. Ranma non era solo.

“Non fuggire coloro cui vuoi bene, che ti vogliono bene: non si tireranno mai indietro, saranno sempre disposti ad affrontare i tuoi ostacoli insieme a te.”

Ancora altre parole di sua madre che riaffioravano alla memoria. Non potevano essere più appropriate. Erano tutti con lui. Non solo Akane. Pensò a Mousse, che in precedenza lo aveva salvato dall’attacco mortale di una Shampoo senza più volontà. Alzò lo sguardo e vide la vecchia del Nekohanten fronteggiare Shingo, il proprio ki proteso contro i poteri del medaglione: i contendenti erano apparentemente immobili, ma ad affrontarsi erano i loro spiriti, senza che alcuno dei due paresse prevalere sull'altro. Almeno per il momento.
Nessuno di loro si era tirato indietro. E poi… Lo stesso Hibiki era tornato nella caverna, a disprezzo del pericolo, apposta per riportarlo fra loro. Caro vecchio Ryoga! Che compagno di battaglie! Che amico! Che… che cosa gli stava succedendo, ora?
Era letteralmente ricoperto da un’aura terrificante e minacciosa. Le dita delle mani scricchiolavano in modo pericoloso, pronte a colpire come artigli, mentre negli occhi sfavillava una luce indemoniata, che tanto contrastava con le tenebre che sembravano aver avvolto il ragazzo, intriso di energia rabbiosa in tutti i pori del corpo. Che Shingo avesse preso il controllo su di lui? Ma le cose si stavano mettendo molto peggio, per il giovane Saotome.
“Ra… Ra… RAAAAANMAAAAA!”
L’altro sorrise nervosamente.
“C-che ti prende, Ryoga?” chiese.
“Questo dovrei dirlo io a te.” sibilò. “Cosa. Stavi facendo. Ad Akane!”
“…Eh?”
Solo in quell’istante Ranma si accorse della posizione equivoca in cui si trovava. Era finito completamente disteso per terra: più nello specifico, addosso alla fidanzata e continuando a cingerle le braccia. Akane si stava riprendendo a sua volta e, a giudicare dal grado di rossore che era rapidamente subentrato, sul viso, alla pallidezza di un attimo prima, non aveva impiegato troppo tempo ad intendere la situazione.
“Ma no Ryoga… puoi stare tranquillo… non stava affatto succedendo…” tentò di calmarlo lei, ingarbugliandosi con le parole. L’Eterno Disperso la ignorò, concentrando la propria attenzione sull’odiato bastardo col codino. Quel maledetto! Era ancora vivo? Lo sarebbe stato per poco…
“Come hai osato approfittarti della mia bontà d’animo?!” gridò il ragazzo con la bandana, prendendo in disparte Ranma, picchiandolo con forza e, allo stesso tempo, piangendo copiose lacrime. “E tutto questo mentre stavo facendo una riflessione tanto matura e assennata!”
“Ma di cosa stai parlando?!” si ribellò l’altro, pieno di lividi. “E poi non hai capito un bel niente!”
“Davvero? Allora spiegami come mai ti ho trovato abbracciato ad Akane!” ringhiò, furioso.
“Non… non era un abbraccio!” protestò Ranma a sua volta, pur non riuscendo ad impedirsi di arrossire a quel pensiero, che giusto allora aveva cominciato a realizzare nella sua interezza.
“E soprattutto” continuò Hibiki, sporgendo i lunghi canini come se volesse farlo fuori a morsi “dimmi cosa ci facevi sopra di lei!”
“Questo è perché mi ci hai gettato tu, pezzo d’idiota!” gli fece osservare l’altro.

Furono interrotti da un’esplosione.
Si voltarono e videro che Cologne era stata lanciata a terra.
L’equilibrio tra i due contendenti era stato spezzato.
“Per oggi basta così, nonnina.” parlò a denti stretti l’uomo del medaglione, senza mostrare alcun segno apparente di stanchezza.
“Obaba!” esclamarono ad una voce Ranma, Ryoga e Akane.
“Sto… sto bene.” li tranquillizzò lei. Ma, interiormente, era esausta. Si rivolse di nuovo verso Shingo: “Avresti potuto sconfiggermi quando volevi, vero?”
“Già.” ammise sornione quello. “Ma poi come avrei ammazzato il tempo, aspettando che gli amichetti chiamassero Ranma per venire fuori a giocare con me?”
“E va bene!” disse a quattr’occhi il giovane con la bandana, lasciando andare il colletto della camicia cinese dell’altro. “La nostra piccola discussione è momentaneamente rimandata. Abbiamo cose più serie, ora.”
“Bravo Ryoga!” sorrise il ragazzo col codino, con un cenno d’intesa. “Ma mantieni la tua rabbia. Mi sarà più utile che mai, contro Shingo.”
“Ah, sì?” Hibiki lo guardò di sbieco. “Ti sarà utile? Pensavo tu avessi gettato la spugna, Saotome.”
“Pensavi male!” replicò. “Apprezzo moltissimo l’aiuto che mi state dando, ma da qui in poi la mia forza, la mia agilità e la mia intelligenza saranno indispensabili per la vittoria finale.”
“Tutto qui? Nessun’altra qualità?” ironizzò Ryoga, mentre Ranma, incurante, prendeva a dargli alcune indicazioni. Akane puntò un indice alla tempia: il fidanzato si era ripreso piuttosto bene; peccato che non sembrasse conoscere le mezze misure.
“Pare che tu abbia cambiato idea, Ranma Saotome. Non ti eri sottratto alla lotta con una delle tue consuete vigliaccherie, qualche minuto fa?” lo provocò Shingo.
“E’ che non mi andava” disse lui “di lasciartela vinta tanto facilmente. Saprai che non mi piace abbandonare a metà un incontro.”
“Stai attento, consorte!” lo ammonì Cologne. “Ricorda che quello che Shingo vuole è la tua aura.”
“La nonna dice bene.” confermò quello dai capelli color platino. “Comunque, tranquillo. Non te la toglierò prima di averti battuto, concedendoti così la fine molto più gloriosa che hai scelto, affrontandomi invece di fuggire.”
“Vuoi la mia aura?” Ranma si lanciò all’attacco, ulteriormente caricato dalle punzecchiature dell’interlocutore. “E allora vieni a prenderla!”
I due cominciarono a combattere, Ranma sferrando colpi e Shingo limitandosi ancora una volta a schivarli.
“Non mi sembri granché concentrato.” notò il ragazzo col codino.
“Dovrei forse esserlo, lottando contro di te?” lo canzonò nuovamente l’altro.
Saotome sorrise. Quindi, con un agile balzo laterale, si scansò lasciando campo aperto a Ryoga come stabilito. Questa volta Shingo sarebbe stato colto di sorpresa, non avrebbe fatto in tempo a ricorrere al medaglione.
*Se Akane ha passato un brutto quarto d’ora, oltre che di Ranma, la colpa è tua! Purtroppo per te, Shingo, hai però incontrato sulla tua strada un ragazzo piuttosto sfortunato ed infelice... ed ora assaggerai tutta quanta la sua rabbia!* pensò il giovane Hibiki. Dopodichè puntò i palmi in avanti, sprigionando da essi un potente fascio di luce. “Shishi Hokodaaaaaaaan!”
Come previsto da Ranma, l’uomo col Tai-ma no Mamori non schivò il colpo energetico.
Pose una mano in avanti, distesa per tutta la spanna. Parò il raggio di energia e, ripiegando su di sé le falangi, lo modellò come una sfera. Sfera che rilanciò, un istante più tardi, contro il mittente, colpendolo di striscio.
“Ryoga!” esclamò Akane.
“Giusto.” mormorò Cologne. “Shingo può modellare l’energia a suo piacimento. Gli attacchi energetici, contro di lui, sono totalmente inutili.”
“Come stai?” Ranma, colto completamente alla sprovvista da quanto era appena accaduto, si avvicinò all’Eterno Disperso.
“B-bene.” disse. “Ma temo che sconfiggere questo Shingo non sarà come bere un bicchier d’acqua.”
Un bicchier…” il giovane col codino lo fissò per un attimo stranito, come in trance. “Ryoga, non credevo te l’avrei mai detto, ma sei un genio!” esclamò poi.
“A-ah sì?” titubò quello con la bandana, pensando dapprima di aver capito male, poi di aver colpito davvero troppo forte, poco prima, il rivale di sempre.
Shingo notò il mutamento d’espressione nel ragazzo con la camicia cinese e ne fu divertito.
“Sembra che ti sia venuto in mente qualcosa, Saotome. Avanti, fammi vedere cosa sai fare!” lo invitò, adagiando la schiena alla retrostante parete di roccia e incrociando le braccia.
“Gioco. Per lui tutto è un gioco!” disse Cologne. “Se non avesse perso tempo volontariamente, avrebbe già potuto prendere l’aura del consorte poco fa.”
“Sei troppo sicuro di te, maledetto! Ma proprio questa sarà la tua rovina!” sentenziò Ranma. Poi si rivolse agli altri, a voce più bassa: “Come un bicchier d’acqua! Acqua! La vittoria è nostra!”
“E chi sarebbe quello troppo sicuro di sé?” notò Cologne.
Ranma la ignorò. Adesso sapeva cosa fare, ma… C’era un ma. L’acqua era la soluzione. Dove trovarla, però?
L’acqua? Forse Ranma voleva… ma perché mai, si chiese Akane. Improvvisamente un lampo attraversò il suo sguardo: un gesto di Ryoga di qualche minuto prima le era tornato vivido alla mente. Guardò Shingo, guardò la roccia, guardò ancora Shingo. Era proprio quella parete rocciosa. Bene. Ne era certa, avrebbe funzionato.
“Tieniti pronto, Ranma!” disse.
“C-che cosa credi di fare, stupida?!” ebbe appena il tempo di gridarle il fidanzato, prendendola per una spalla e costringendola a guardarlo in faccia.
Quindi lo udì. Il tacito invito che la sua espressione, i suoi occhi, gli angoli della bocca, ogni parte del volto (quella stessa determinazione…!) gli stavano rivolgendo. L’invito a fidarsi di lei.

“Non puoi pretendere di fare tutto da solo.”

L’esitazione che ebbe fu fatale. La terzogenita di casa Tendo ebbe modo di liberarsi della sua presa e lanciarsi in avanti, in posa d’attacco.
“Akaneee!” gridò Ryoga, sconcertato, allungando la mano come per riportarla a sé. Ma il gesto fu tanto teatrale quanto inutile.
Shingo inarcò un sopracciglio. Quella mocciosetta aveva del fegato. E nient’altro, in particolar modo la materia grigia. Di certo, lui non l’avrebbe trattata con maggior riguardo solo perché era una ragazza. Per un momento aveva creduto che avesse qualcosa in mente, ma l’eccessiva irruenza del suo attacco sembrava smentire completamente quest’ipotesi: la fidanzatina di Saotome stava semplicemente avanzando verso di lui a pugni tesi, illudendosi forse di poterlo colpire. La materia grigia le sarebbe stata più utile del fegato, senza dubbio.
Da quel che aveva potuto osservare nel periodo in cui aveva esaminato il ragazzetto col codino che era stato prescelto da Muchitsujo, aveva avuto modo di constatare la rabbia e l’impulsività di quella Akane Tendo che gli stava sempre appresso. No, non c’era niente di premeditato, in lei. Che si sfogasse pure! Shingo pensò che, limitandosi a schivare il rozzo attacco della ragazzina per poi catturarla e farne un prezioso ostaggio, avrebbe raffreddato i bollenti spiriti di Ranma e dei suoi amichetti e girato ulteriormente la situazione a proprio favore.
“Kiiiyaaaah!”
Ancora più facile del previsto. Il grido di battaglia della minore delle Tendo lo avvisò che era il momento giusto. Il medaglione brillò di una luce più viva. Shingo si spostò lateralmente, con noncuranza e non abbandonando al tempo stesso la propria posa sorniona. Akane continuò ad avanzare nell’impeto dell’attacco. Continuando a stringere i pugni, invece di rallentare la corsa, parò le braccia davanti al corpo. Un momento più tardi, si schiantò contro la roccia, per poi ricadere pesantemente a terra per via della forza d’urto.
“Akane!” gridò uno sconvolto Ryoga. Vedendo l’uomo del medaglione voltarsi e camminare lentamente verso di lei, Ranma fu invaso da una sensazione opprimente di nausea. Perché aveva fatto una cosa così folle? E soprattutto, perché lui era stato tanto più folle da averla lasciata andare?!
“Fermo!” intimò istintivamente, accennando a caricare tra i propri palmi un Moko Takabisha. Ma il bastone di Cologne lo bacchettò sulle falangi, fermando l’iniziativa sul nascere.
“Non fare cose avventate, consorte” lo rimproverò. “Adesso Shingo schiverebbe il tuo colpo senza problemi, non così Akane.” La vecchia aveva ragione. Non poteva intervenire, questa volta.
Shingo si chinò verso la giovane Tendo, fissandola con aria sprezzante.
“Era per caso in questo misero modo che volevi sconfiggere il potere di una Divinità suprema, mocciosetta?”
Ancora provata dal colpo ricevuto, Akane faticò a recuperare una posizione tale da permetterle di tornare a guardare in viso l’interlocutore. Quando incontrò lo sguardo della ragazza, Shingo per un momento fu sorpreso dalla risoluzione che traspariva dai suoi occhi.
“Veramente… no.” disse, con un tono inaspettatamente sicuro e controllato. “Era in questo misero modo che volevo sfondare la roccia.”
Per la prima volta, Shingo parve perdere la sicurezza che lo contraddistingueva.
Sfondare la roccia? Dandoci contro a spallate?! “E’ impazzita?!” esclamò Ranma, che certo più volte in passato aveva etichettato la fidanzata come una donna dalla forza erculea; ma quella parete era veramente troppo solida e spessa! Da qui a...
“Ho capito!” la voce di Ryoga sovrastò i suoi pensieri. “Quella è la parete che ho colpito col Bakusai Tenketsu!” In effetti, il punto che Hibiki aveva perforato per far tornare normali Rouge e Taro era poco distante e, quasi sicuramente, il Colpo Esplosivo doveva aver minato la stabilità dell’intera struttura.
Akane udì il gorgoglio dell’acqua, segno che si stava velocemente facendo strada. Era riuscita a fare la propria parte.
*Ranma, non so cosa tu abbia in mente. Ma ora sta solamente a te…*
“Eh?” ebbe appena il tempo di sillabare Ranma, prima che l’intera parete collassasse, permettendo all’acqua di aprirsi un grosso squarcio e di investire sia Akane che Shingo.
Il giovane Saotome capì. *Era questo che voleva fare!* E che aveva fatto. Ora loro avevano finalmente una speranza, avevano…
“Siete impazziti?!” Obaba lo picchiò con violenza, per mezzo del solito bastone. “Adesso sì che siamo tutti spacciati!”
Ranma si massaggiò il capo, trovando che gli faceva meno male del solito: forse stava cominciando ad assuefarsi al legno della vecchia.
“Tutti spacciati?!” ripeté Ryoga. E gli venne in mente che quel tipo era caduto in una delle Sorgenti Maledette. Nella sorgente del dio del Caos, per la precisione.
Shingo si risollevò da terra, l’acqua che gli arrivava alle caviglie defluendo velocemente negli incavi del sottosuolo. Cologne notò che nei suoi occhi non vi era più traccia della calma di prima.
*Che stia perdendo il controllo?* si chiese la vecchia amazzone. *Se è così, non abbiamo più veramente alcuna speranza.*
L’uomo del medaglione si girò freneticamente in ogni direzione, cercando Akane. E la vide, mentre provava a porsi a distanza. Un ghigno più che tenebroso tornò ad alterargli i lineamenti facciali. “Molto bene, ragazzina. Sei riuscita a farmi arrabbiare…”
Ripiegò gli artigli del proprio palmo, come a comprimere uno stretto spazio d’aria, condensando una sfera luminescente di energia. Il Tai-ma no Mamori risplendeva di una luce oltremodo accecante, più di quanto avesse fatto in precedenza.
“Ed ora, purtroppo per te, ne pagherai le conseguenze!” terminò, con un sibilo di voce.
*Ranma!* chiamò mentalmente lei. Ed il fidanzato, con un paio di rapidi balzi, non si fece attendere.
“Fermati! Sono io il tuo avversario!” intimò il ragazzo col codino.
“Allora fermami tu, se ne sei capace.”
“E’ quello che farò!”
Fu in quell’istante. Cologne lo avvertì.
La sua aura stava rapidamente mutando.
*Devi sconfiggerlo a tutti i costi, consorte!* pregò col pensiero. *Devi farcela.
Prima che Shingo perda il controllo.*

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Capitolo 21
*** The last showdown ***


PART TWENTY-ONE

“THE LAST SHOWDOWN”



Ranma conquistò rapidamente terreno verso l’uomo ed il medaglione che rifulgeva sul suo petto, rischiarando pressoché a giorno l’interno della spelonca. A sua volta Shingo, sia pure continuando a comprimere nella mano il globo d’energia, come da monito per il prezioso ostaggio, torse lateralmente il collo, dirigendo lo sguardo verso il ragazzo con la treccia. E rivolgendogli, allo stesso tempo, qualche nuovo beffardo commento provocatorio.
Distratto quanto bastava.
Akane giudicò che fosse l’occasione propizia per sottrarsi dal suo raggio d’attacco. Accennò ad allontanarsi, evitando di far rumore, muovendosi carponi sul nudo terreno. Ma, già nel momento successivo, non fu più in grado di toccarlo. Nemmeno con i piedi. Shingo dovette aver intuito la sua intenzione e l’afferrò con la mano libera, sollevandola per il colletto della maglia.
“Non andartene così presto, dolce fanciulla!” scherzò, senza distogliere gli occhi da Saotome. “Non hai ancora ricevuto il mio regalino.”
“Maledetto! Lasciala!” intimò Ranma.
“Mi dispiace, ma temo che dovrai costringermi.” disse sornione l’altro.
L’avrebbe costretto, dunque. Mancava solo qualche falcata. Ad ogni modo, Shingo lo avrebbe sicuramente atteso: il giovane con la camicia cinese sapeva che quel pazzo non si sarebbe lasciato scappare l’occasione di colpire Akane proprio nel momento in cui lui fosse arrivato. Eppure era l’unica carta da giocare. Una carta azzardata, certo. Ancora di più dopo che quella testona della fidanzata aveva fatto a modo suo, consegnandosi in sostanza all’avversario. Certo che… se l’acqua non avesse funzionato? Si sentì mancare un palpito. In quel caso, Akane sarebbe stata spacciata. Ma ormai non c’era altro da fare, se non tentare il tutto per tutto.
Era arrivato alla giusta distanza. Compì un ultimo lungo balzo in avanti, dunque, come per scavalcare l’avversario: e, nell’istante che valutò opportuno, sfoderò un calcio deciso a mezz’aria.
“Idiota!” non poté fare a meno di esclamare Ryoga, fino allora costretto ad assistere e soffrire in silenzio. “Shingo schiverà il suo colpo!”
Non fu così. La sfera energetica si dissolse come una bolla di sapone. La mano fu così libera di artigliare la caviglia di Ranma, un istante prima dell’impatto, tenendo sospeso il ragazzo con il codino in un equilibrio molto precario.
“Un calcio? Tutto qui? Mi aspettavo di più, Saotome.” lo biasimò Shingo. “Anche prima. Eri così disperato da tentare, grazie ad un… gavettone, che Muchitsujo prendesse il controllo su di me? Credevo di essere stato chiaro, a riguardo: il talismano annulla la maledizione di Jusen.”
Indifferente allo sforzo di tenere sollevati da terra con una mano Akane e con l’altra il fidanzato, socchiuse le iridi, assumendo un’espressione gelida.
“Ed in quanto a Muchitsujo, ormai il suo potere è solo mio!”
Fu allora: Akane udì un grido strozzato, prima di cadere a terra. La presa era stata lasciata di colpo. Alzò lo sguardo, per constatare che Shingo era stato scagliato parecchi metri più avanti rispetto a lei.
Ryoga e la vecchia amazzone accorsero senza perdere tempo.
“Non… non ci credo!” esclamò il giovane con la bandana. Ranma lo aveva colpito. E proprio con un calcio: non aveva fatto altro che usare l’altra gamba, facendo leva proprio sulla presa di Shingo, per centrarlo in pieno petto… e dire che, fino a quel momento, non erano mai riusciti ad avvicinarglisi in alcun modo! Lui come diamine c’era riuscito?
“Certo, ora capisco!” annuì pensosa Cologne. “Avevo così paura che Shingo si trasformasse nel dio, da non vedere in faccia la realtà.”
“Akane!” esclamò il giovane con la treccia. “Tutto bene?”
“Sì, Ranma.” sorrise lei. “Grazie.”
“Rimani qui con gli altri!” disse alla fidanzata. “Shingo deve pagare, per tutto quello che ha fatto!” e, proferite queste parole, si avviò nella sua direzione.
Shingo stava ancora cercando, faticosamente, di rialzarsi in piedi. Levò il braccio, accennando a formare una nuova sfera di luce, ma il dolore del colpo patito era ancora troppo vivo: fu invece costretto a portarsi la stessa mano sul torace, digrignando i denti per farvi fronte.
“Quanta scena per un semplice calcetto, Shingo!” lo canzonò Ranma, scimmiottando il medesimo atteggiamento dell’altro di solo poco prima. “Non mi sembri un granché resistente, se non riesci a sopportare una sciocchezza come questa.” Detto ciò, gli si proiettò nuovamente davanti, colpendolo, questa volta, con un pugno sullo stomaco. L’uomo fu conseguentemente scaraventato all’indietro, andando a schiantarsi contro una roccia.
“Bravo Ranma!” esclamò Akane. Quindi si voltò istintivamente verso i due compagni. Non avevano esultato allo stesso modo. Meglio, non avevano proprio esultato. Guardò Cologne, tutta intenta a studiare la situazione: e avvertì il suo respiro difficile ed affannoso. L’amazzone, per quanto cercasse di non darlo a vedere, era sfinita. Nella lotta contro Shingo, aveva dato certamente fondo a tutto il proprio spirito combattivo.
Ryoga non pareva in condizioni migliori. Anche lui cercava di far finta di niente. Anzi, quando, un momento dopo, si accorse di essere osservato dalla giovane Tendo, incontrò il suo sguardo e le sorrise con fare rassicurante. Ma Akane l’aveva notato: stava soffrendo di dolore e, non a caso, si era portato una mano sulla spalla, forse temendo di avere qualcosa di rotto. Il colpo di Shingo di pochi minuti indietro non era stato senza conseguenze.
Akane stessa, del resto, sapeva di non essersi pienamente ripresa dall’ultima botta subita.

Di nuovo! L’uomo del medaglione si asciugò un rivolo di sangue che gli scendeva dal mento. Per la seconda volta, non era riuscito a schivare il colpo del moccioso sbarbatello. Eppure avvertiva i poteri del medaglione, per non parlare di quelli di Muchitsujo, fluire in lui. Possibile che…
“Sei confuso, Shingo?” disse Ranma. “Ti spiegherò io.”
Si avvicinò all’avversario, con il suo consueto fare sicuro e un po’ arrogante.
“Vedi… sembra che nemmeno il tuo medaglione, per quanto potente, sia in grado di fare due cose nello stesso tempo.”
“Vero.” intervenne Cologne. “Ora che sei stato bagnato dall’acqua fredda, tutti i poteri del Tai-ma no Mamori sono concentrati esclusivamente nello sforzo di annullare gli effetti della maledizione, contrastando lo spirito di Muchitsujo.”
“Vale a dire” riprese la parola Saotome “che adesso dovrai fare a meno dei tuoi trucchetti.”
L’anziana amazzone annuì di nuovo tra sé, concludendo mentalmente il ragionamento. L’aura che era mutata proveniva, in verità, non da Shingo ma dal medaglione. Questo spiegava anche il brillio più intenso del normale.
“Molto ingegnoso.” mormorò Shingo, assumendo un’espressione indecifrabile. “Tutto ciò è stato davvero molto ingegnoso.”
“Inoltre, mi pare che tu abbia trascurato un tantino gli allenamenti che ti davano così noia, facendo conto sul tuo solo amuleto. In parole povere” Ranma assottigliò lo sguardo “siamo finalmente alla resa dei conti!” gridò, lanciandosi in un terzo attacco.
Sferrò un nuovo calcio. Questa volta, però, Shingo spostò il busto all’indietro, evitandolo. Ranma allora portò un braccio a terra e, facendo leva su di esso, spiccò un ulteriore guizzo, distendendo le gambe per colpire a piedi congiunti. L’uomo del medaglione incrociò le braccia davanti a sé per attutire il colpo: quindi si distese a sua volta, colpendo con l’arto inferiore il braccio del ragazzo con il codino e facendogli perdere l’equilibrio.
“Acc…”
“Sai? Hai proprio ragione.” ridacchiò Shingo. “Questa, per te, sarà la resa dei conti.”
Con un’agile capriola all’indietro recuperò una posizione eretta, guadagnando un certo vantaggio su Ranma, ancora supino a terra.
“Potrai pure colpirmi, adesso.” aggiunse. “Ma ciò non toglie che ti sono di gran lunga superiore.”
Spiccò un balzo in alto, per piombare sul giovane Saotome. Questi rotolò lateralmente, evitando di poco l’attacco. Accennò a rialzarsi, quando vide il palmo della mano di Shingo tornare ad emettere una fonte di luce.
“Che diav…”
Ranma fu scaraventato contro una parete della caverna. L’uomo dai capelli riflesso del platino fissò per un attimo il proprio arto, lasciando che un ghigno beffardo gli alterasse i lineamenti del viso.
“Oh, ma guarda!” mormorò, con finto stupore. “Sembra che nonostante tutti i tuoi bei ragionamenti, caro Saotome, io sia ancora in grado di emettere i miei colpi energetici. Dopotutto, il mio spirito combattivo non pare essere così debole. E forse dimenticavi che anch’io, come te, ho dedicato tutta la vita alle arti marziali.”
“La sai una cosa, Shingo? Tu parli troppo!” replicò l’altro, impettendosi e lanciando a mani giunte un Moko Takabisha in direzione dell’interlocutore. Shingo non era certamente l’unico a poter fare quei giochetti.
L’altro si buttò a terra per scansare il colpo. Ranma sorrise, soddisfatto di quello che aveva appena visto: ciò confermava che quel pallone gonfiato non era più in grado di fermare gli attacchi basati sul ki. E Ranma, di ki, ne aveva da vendere più che mai.
Approfittando del momento, il giovane con la camicia cinese annullò la distanza che lo separava dal contendente e scagliò una serie di pugni, immediatamente imitato dall’avversario. Ciascuno schivò con agilità i colpi dell’altro. Quindi Ranma fece uno, due, tre passi indietro, con l’intenzione di prendere uno slancio, e si ripropose in avanti. Adesso Shingo avrebbe visto l’abilità di un vero artista marziale.
“Kachu Tenshin Amaguriken!” gridò.
La velocità delle mani di Ranma aumentò considerevolmente e Shingo dovette porsi sulla difensiva: non riuscì, però, a parare tutti i pugni e, questa volta, fu lui ad indietreggiare, per non soccombere alla carica incessante. Era chiaramente in difficoltà.

All'improvviso tutto cominciò a tremare. Una nuova scossa. Per ogni dove, si verificarono simultaneamente tante piccole frane, mentre alcune stalattiti si staccarono dal soffitto dell’antro. Questo avvenne anche vicino ai due contendenti, distogliendoli dal combattimento. Ranma e gli altri arretrarono di corsa, proteggendo il capo: trovarono velocemente riparo in uno dei tanti anfratti della caverna, intanto che tra loro e Shingo, che al contrario era rimasto impassibile nella propria postazione, andava formandosi un vero e proprio muro di pietra.
Poi tutto finì e tornò la quiete.
Una quiete, però, tutt’altro che rassicurante.
“Cosa sta succedendo?” domandò Ryoga, guardando la vecchia amazzone.
“E’ per via di tutti questi combattimenti.” spiegò lei. “Hanno enormemente indebolito la struttura della caverna: rischia di crollare da un momento all’altro.”
Ranma notò che si trovavano vicino alla spaccatura che dava all’aperto: per loro fortuna, il sisma non l’aveva richiusa. Inoltre, Shingo era temporaneamente isolato da loro e questo avrebbe facilitato di molto le cose. Forse, era persino l’ultima occasione. Bisognava sbrigarsi, prima che fosse tardi.
“Ryoga, Akane, Obaba!” disse perentoriamente il giovane con la treccia. “E’ meglio che usciate fuori di qui!”
“Ma…” esitò l’eterno rivale.
“Niente ma.” fece Cologne. “Il consorte dice il giusto: eccezion fatta per lui, nessuno di noi è più in grado di combattere. Qui rischiamo la vita e, nelle nostre condizioni, saremmo solo d’impiccio.”
“Brava, vecchia!” disse Ranma.
Il ragazzo con la bandana annuì. “Ora che puoi” disse dopo, rivolto all’amico-nemico “sbrigati a dare a quel tipo il colpo di grazia. Anche da parte mia.”
Il giovane Saotome sorrise, in atto di conferma.
“Ranma!” esclamò la fidanzata con tono di protesta, mentre gli altri due cominciavano ad avviarsi. “Pretendi veramente che ti lasciamo qui?! Non puoi chiedercelo una seconda volta!”
“Non preoccuparti!” disse. “E poi ti risulta che abbia mai perso un incontro?”
Lo sguardo di Akane, tuttavia, non era convinto.
“Ascoltami.” fece Ranma, con tono più gentile. “Questa volta è diverso: vi prometto… ti prometto che vi raggiungerò non appena avrò terminato qui.” Alzò lo sguardo per controllare che Ryoga e Obaba fossero abbastanza distanti. Quindi riprese, a voce più bassa ed arrossendo involontariamente: “Inoltre… c’è ancora quella cosa che dovevo dirti. E, lo ripeto, non mi piace lasciare le cose a metà.”
Akane arrossì a sua volta: dunque, non se l’era immaginato. Quel pensiero arrestò per qualche attimo ogni suo intento di protestare. D’altronde, non avrebbe più avuto modo di farlo in ogni caso.
Avvertirono, infatti, delle nuove vibrazioni: questa volta provenivano dalla parete improvvisata di massi. Non ci volle loro molto per capire che era Shingo che si faceva strada.
“Sbrigatevi!” disse Ranma.
Controllò con lo sguardo Akane mentre raggiungeva gli altri e, con loro, si allontanava per lasciare la cavità. Questa volta non li avrebbe traditi. Non ne aveva alcuna intenzione. Non poteva, però, andarsene senza concludere la questione: Shingo andava sconfitto e fuggire non avrebbe portato a niente.

L’ultimo strato di massi fu polverizzato. Immersa nel nuvolo di polvere che si era sollevato, si poteva vedere stagliarsi la figura dall’uomo del medaglione.
“Dunque, aiutami a ricordare. Dov’eravamo rimasti, Ranma Saotome?”
“Alla tua fine!” gridò Ranma, sparando un nuovo Moko Takabisha.
Questa volta la foschia che susseguì alla detonazione del colpo fu tale da ricoprire ogni cosa. Ranma non vedeva più niente. Si aspettava di venire attaccato da un momento all’altro, tuttavia non accadeva nulla: forse l’avversario attendeva che fosse lui a fare la prima mossa. Ebbene, l’avrebbe accontentato. Non era vigliacco, lui.
“Dove sei, Shingo? Fatti vedere!” gridò, orientandosi al medesimo tempo con l’eco della propria stessa voce. Finché non avvertì i passi dell’altro, che si facevano sempre più veloci e sempre meno distinti.
Stava veramente scappando? Del resto, poteva anche darsi. Shingo era stato spavaldo soltanto fin quando aveva avuto nelle sue mani il controllo. Sfuggito questo, tolto il paravento del potere, l’essere umano dietro il medaglione si era rivelato in tutta la propria miseria.
Ranma cominciò, dunque, ad inseguire la sorgente del fievole rumore, mentre l’ambiente intorno tornava a farsi più nitido. Arrivò nell’esatto luogo dove Akane aveva frantumato la parete. L’acqua filtrava ancora in piccole dosi.
“Mi cercavi?” la voce di Shingo rimbombò per tutto l’antro. Era dietro le sue spalle. Ranma si voltò. Lo vide, in una cavità del suolo, immerso nell’acqua fino alle caviglie. Troppo tardi per fare qualcosa: il giovane Saotome capì di essere in trappola. Come teso a spostare l’aria, l’uomo distese il braccio. Così facendo, con un campo d’energia posto ad estensione del braccio stesso, inzuppò Saotome prima che questi potesse scansarsi.
“Maled…!” esclamò un Ranma ormai in versione femminile e bagnato fradicio, dalla testa ai piedi.
Dopo di ciò, l’altro spalancò i palmi verso il basso, rilasciando il proprio ki. In pochi secondi, l’acqua attorno a Shingo fu riscaldata. Istantaneamente, l’aura del medaglione mutò ancora, ritornando all’imponenza di prima.
“Non avevo ancora avuto modo di ringraziare per la doccia di poco fa.” ghignò l’uomo. “Ora direi che siamo pari.”
“Accidenti a te! E tu questo lo chiami essere alla pari?!” tuonò la ragazza con la treccia, letteralmente furibonda. I suoi pensieri avevano trovato conferma. Quel tipo, dopotutto, era solo un individuo dei più vili e spregevoli.
“Basta lamentarsi!” disse l’individuo dai capelli riflesso del platino, attaccando con una serie di pugni che Ranma non poté in alcun modo evitare.
“Ma… maledetto codardo!” esclamò la giovane dalla chioma fulva, asciugandosi un rivolo di identico colore che le usciva dalla guancia. Combattere in quelle condizioni era molto più difficile: tanto più che Shingo, grazie all’acqua calda, era tornato pericoloso come prima.
*Devo arrivare anch’io all’acqua calda!* giudicò Saotome, lanciandosi verso Shingo.
“Dimmi, vuoi farti un tuffo?” ridacchiò quello, emettendo un nuovo getto rovente di energia ed evaporando all’istante tutta l’acqua, proprio un momento prima che Ranma arrivasse. “Spiacente, hai fatto troppo tardi!” concluse, sferrandogli un nuovo colpo.
“Dannato!” urlò la rossa, al colmo dell’esasperazione.
Cominciò ad arretrare. Shingo seguì ogni suo passo, adesso però senza attaccare: sembrava stare al gioco, quasi divertito dal repentino mutamento di scena.
“E così sarei io il codardo?” ridacchiò.


Cologne si arrestò. Erano giunti alla fine della ripida salita, tanto che potevano già scorgere un’ampia porzione di cielo filtrare dall’esterno, assieme alle figure degli altri. Fino a quel momento, si era occupata di guidare Ryoga, temendo che il ragazzo fosse capace di perdersi persino in quella circostanza: e non valeva certo la pena rischiare. Ma, mentalmente, stava seguendo il combattimento del consorte con profonda attenzione. Così, ora, aveva avvertito le nuove alterazioni di energia. L’aura del Tai-ma no Mamori non era più intensa come prima. Guardò meccanicamente alle proprie spalle, verso l’interno dell’abisso. Cos’era successo, lì dentro?
“C’è qualcosa che non va, Obaba?” domandò Hibiki, voltandosi nella stessa direzione. E scoprì l’amara verità. Era stato troppo intento a seguire la vecchia che saltellava sul solito bastone passo per passo, per paura di fare brutte figure davanti ad Akane. Così non si era potuto, in alcun modo, accorgere che lei non era affatto con loro.
“Dov’è finita Akane?!” gridò disperato, con le mani ai capelli. Non poteva essersela lasciata sfuggire una seconda volta.
“Akane?” ripeté incerta Cologne. “Se fosse andata avanti a noi, l’avremmo vista. Dunque, l’ipotesi più probabile è che non ci abbia mai seguiti…”
Questo scatenò tutta la disperazione di Ryoga. Mentre l’anziana amazzone, compiendo gli ultimi balzi verso l’aperto, passò rapidamente lo sguardo sul resto del gruppo, che per lo più si trovava tuttora privo di sensi.
E notò che Akane non era l’unica persona ad essere sparita.


La ragazza con la treccia, continuando a ritirarsi pur non volgendo mai le spalle all’avversario, cercò di valutare al tempo stesso lo stato delle cose. Acqua calda, era impossibile procurarsene altra in quella caverna. Ed ormai sapeva benissimo che Shingo non gli avrebbe consentito di lasciare quel posto. Non vivo, almeno. Fuggire non era una cosa che recava gradimento a Ranma, eppure doveva assolutamente guadagnare tempo per escogitare qualcosa. Qualunque cosa.
“Devo ammettere che mi hai dato più filo da torcere di quanto immaginassi, non mi hai fatto annoiare nemmeno un poco… Ma adesso è finito il tempo di giocare!” decretò Shingo. Dopodichè, cominciò a scagliare i suoi colpi energetici, a breve distanza, uno dopo l’altro.
Ranma riuscì a schivarli, con balzi e capriole varie. Bene così, per il momento: ma se la cosa fosse andata avanti troppo a lungo, sarebbe stato, presto o tardi, sconfitto per la stanchezza. Doveva assolutamente farsi venire in mente un’idea, senza nel frattempo deconcentrarsi di fronte a quegli attacchi di energia. In verità, l’istinto aveva già pensato a dettargli un piano, ispirato dal calore provocato dagli attacchi: ma la ragione aveva già provveduto a disilluderlo, ricordandogli che nessuna delle tecniche che Ranma conosceva sarebbe stato in grado di aiutarlo, stavolta.


Se Ranma credeva che lei veramente se ne sarebbe stata buona ad aspettarlo mentre combatteva un pazzo dotato di poteri sovrumani, si sbagliava di grosso. Si era accodata a Ryoga e Obaba solo per la prima parte di strada, per poi tornare sui propri passi. Adesso, aveva visto che Ranma era nella sua versione maledetta e parecchio in difficoltà: stava, così, cercando di avvicinarsi il più possibile al campo di battaglia per cercare di essere d’aiuto, facendo nel contempo la massima attenzione a non farsi individuare da Shingo.
Non si accorse, però, che già un’altra figura aveva notato la sua presenza.


Il respiro di Ranma si era fatto affannoso. Stava solo perdendo tempo. E stancandosi ulteriormente. Tanto più che, come se la situazione non fosse di per sé abbastanza drammatica, era pure abbondantemente impedito dai propri stessi vestiti: larghi, fuori misura e più pesanti per via dell’acqua che avevano trattenuto. Non aveva avuto nemmeno tempo e modo di strizzarli, in qualche maniera. I movimenti non gli riuscivano, quindi, troppo agili. Come se tutto ciò non bastasse, adesso gli pareva anche che si formassero numerosi bozzi, come quello della tasca dei pantaloni…
Infilò istintivamente una mano nella suddetta tasca. Quello era un vero bozzo. C’era qualcosa dentro. Lo tirò appena fuori per un’estremità, scorgendo l’oggetto con la coda dell’occhio. Chi gliel’aveva messo nei pantaloni? E quando? Provando ad estrarlo completamente, fece uscire un piccolo foglio di pergamena. Lo prese al volo, prima che cadesse a terra. Una sola frase.

Fanne buon uso.

“Vedi di non distrarti, se non vuoi che tutto finisca subito!” lo provocò Shingo, il cui ultimo colpo energetico aveva sfiorato di poco la ragazza con il codino.
Ranma rialzò lo sguardo, fiero. Improvvisamente aveva capito. D’altronde, era forse la soluzione più semplice. Per quanto, fin troppo radicale. Ma Shingo andava fermato immediatamente, per il bene di tutti: questa era la cosa più importante. Ora, dato che la soluzione c’era, gli occorreva solo uno stratagemma per attuarla. Pensò che il suo istinto, dopotutto, non si era rivelato così inutile.
Il percorso invisibile tracciato meccanicamente dai suoi passi, del resto, era quasi completato. Non sapeva se Shingo se ne fosse accorto, ma a questo punto non era più l’elemento essenziale. Ad ogni modo, era l’unica tecnica che potesse utilizzare, ora che era meno forte: l’unica che, tra quelle conosciute dal giovane Saotome, gli permettesse di sfruttare a proprio favore, di forza, quella dell’avversario.
Ecco, era il momento. Shingo si trovava assieme a lui presso il centro della spirale. Con la mano, pareva caricare un nuovo colpo energetico: sarebbe bastato schivare anche questo, quindi Ranma stesso avrebbe potuto colpire.
Eppure, qualcosa non andava. L’uomo pareva, improvvisamente, come distratto da altro.
*Cosa… chi sta guardando?* si chiese, mentre un terrore illogico gli invadeva la mente senza preavviso. Guardò di lato, con la coda dell’occhio. Capì. Akane era poco distante da loro, tanto per cambiare non gli aveva dato ascolto. E quel maledetto l’aveva vista e la stava tenendo sotto mira. La frustrazione e la rabbia crebbero vorticosamente nell’adolescente con la treccia.
“Vedo che te ne sei accorto, finalmente!” sibilò Shingo.
“Non te lo lascerò fare! Hiryu Shotenhaaa!” gridò Ranma con tutte le forze che gli restavano, levando il pugno con un movimento rotatorio e aspettando quello che sarebbe seguito.
Nient’altro. Non si sollevò nemmeno il refolo più insignificante.
“Ma cosa…” Fu questione di un istante. Intese subito dove aveva sbagliato: anche il proprio spirito combattivo stava ardendo all’interno della spirale. Mancava il cuore di ghiaccio, si era lasciato travolgere dall’ira e ciò aveva impedito lo scatenarsi del drago volante.
“Che delusione, non impari mai.” disse Shingo, sorridendo. “Eppure te l’avevo già detto chiaramente, tempo fa. Un artista marziale deve rimanere freddo, qualunque cosa accada. Ed ora la tua fidanzatina pagherà molto caro questo errore.” Pronunciò l’ultima frase con voce molto più marcata, così da poter essere udito anche da Akane: la quale si accorse solo in quel momento di essere stata scoperta e rimase troppo attonita per fare qualunque cosa.
“Noo!” gridò Ranma, vedendo il fascio di energia partire dal palmo di Shingo.
Per schiantarsi un solo secondo più tardi. Contro un enorme masso scagliato nella sua direzione: il quale, per l’impatto, si ridusse in migliaia di frammenti che schizzarono da ogni parte.
Shingo chiuse istintivamente le palpebre. Quando le riaprì, appena dopo, intravide, immersa nel pulviscolo, una figura lanciarsi in posizione di attacco contro di lui.
Akane, dalla propria postazione, poté distinguerne nettamente i contorni. “Shampoo?!” esclamò, con sua somma sorpresa. Aveva attaccato Shingo e… possibile che l’avesse difesa?

“Shampoo è molto allabbiata con te!” gridò la ragazza dai capelli color lavanda, scagliandosi verso Shingo. “Tu molilai. Adesso!” Questa, la sola punizione adeguata per essersi preso gioco impunemente di una guerriera amazzone. Lei ne era sicura. Del resto, non era l’unica cosa di cui lo era. Non più.
Dopo aver ripreso i sensi e parlato con Mousse, si era subito risolta a raggiungere ailen… cioè, Ranma. Entrata nella caverna, però, non aveva saputo cosa fare, soprattutto temendo ancora la reazione del proprio amato una volta che l’avesse rivista. Fin quando non aveva compreso. Lo aveva constatato già quando si trovava all’esterno: le certezze che aveva, non erano crollate tutte. Ed una di queste, poteva ancora recuperarla lei con le sue stesse mani. Qualcosa che andava oltre le tante piccolezze dell’animo, oltre la ripicca, oltre l’orgoglio, oltre la gelosia. Oltre i suoi stessi sentimenti per Ranma.
Si trattava del proprio onore.

“Hai commesso un grosso sbaglio, cinesina!” disse l’uomo del talismano. Con lo stesso braccio ancora proteso in avanti, caricò immediatamente un nuovo colpo di energia: molto più debole del precedente, ma bastò per scaraventare l’amazzone contro la parete opposta del cunicolo, vicino a dove stava Akane.
“Non esitare, consorte: colpisci!” questa la voce di Obaba che sopraggiungeva. “Proteggerò io le ragazze.”
“Vecchia… sei tornata anche tu?” mormorò Ranma, piuttosto scombussolato dagli ultimi avvenimenti. Ma durò appena un istante. La cosa più importante era che gli avevano fatto guadagnare il tempo necessario per contenere nuovamente la propria aura. Per sua fortuna, la spirale di energia calda non si era ancora dissolta. Aveva una seconda occasione.
“Lo sai, Shingo? Un artista marziale non dovrebbe nemmeno mai distrarsi… HIRYU SHOTENHAAA!”

Il vortice fu totalmente diverso da quello che aveva colpito Asura. Quello era stato piccolo e sottile. Questo era un uragano in piena regola. L’ampiezza della spirale, la differenza delle temperature, erano state molto maggiori delle precedenti e ciò comportava un potenziale distruttivo infinitamente più grande. Cologne aveva fatto temporaneamente scudo alle fidanzate di Ranma ruotando vorticosamente il lungo bastone, invitandole al tempo stesso ad allontanarsi il più possibile e quindi ad aggrapparsi a qualcosa. Ma la vecchia sapeva che il vero pericolo si sarebbe concretizzato una volta che l’uragano si fosse sollevato dal suolo. Se avesse colpito la struttura portante della caverna, nessuno di loro avrebbe più trovato scampo. Si augurò che il consorte fosse stato ben consapevole di ciò che stava per scatenare.
Shingo accennò un sorriso. La mossa della disperazione, giudicò. Era ben consapevole che l’Hiryu Shotenha costituiva spesso l’ultima speranza, nei combattimenti di quel Ranma Saotome. Ed il movimento a spirale dei passi della graziosa fanciulla con la treccia non era sfuggito, fin dal principio, ai sagaci occhi dell’individuo con il medaglione.
L’aveva assecondato, dunque. Quel Saotome si era forse dimenticato che il Tai-ma no Mamori gli consentiva un controllo pressoché totale sull’energia interna? Nel momento in cui Ranma aveva levato il pugno, scatenando l’uragano, Shingo a sua volta aveva alzato attorno a sé un nuovo campo di forza: in questo modo, lo spostamento d’aria del vortice non lo aveva minimamente scalfito.
Si addentrò con fare tranquillo nella tromba d’aria. In pochi calmi passi, giunse nell’occhio del ciclone. Non vide nessuno. Strano, Ranma doveva trovarsi in quel punto preciso.
“Di’ un po’, Ranma Saotome. Vuoi per caso seppellirci tutti?” domandò ad alta voce, scrutando con lo sguardo alla sua ricerca. “Peccato che questo non rientri nei miei programmi.”
Distese le braccia nelle direzioni opposte, sparando due colpi energetici simmetrici: il vortice si spezzò e l’aria tornò quieta come in precedenza. Questa, la fine dell’Hiryu Shotenha. Ma Ranma non si vedeva ancora. In nessuna direzione. Che fine aveva fatto?
“Mi stai cercando, Shingo? Sono sopra di te!” esclamò una voce dal timbro femminile.
Shingo alzò lo sguardo, piegando il collo all’indietro per avere una chiara visuale. La ragazza vestita alla cinese, approfittando del momentaneo moto ascendente del vento, era rimasta sospesa a mezz’aria: precisamente, qualche metro al di sopra del proprio capo. Si era lanciata nel vortice da lei creato, approfittando della propria stessa tecnica.
*Hai mostrato il fianco!* meditò Ranma, le cui pupille si erano ravvivate di un fuoco acceso. Puntava proprio sul fatto che Shingo avrebbe facilmente annullato l’uragano. Ed era, inoltre, riuscito nel suo intento. Fino ad allora, da quando era stato ridotto nella propria forma femminile, gli era stato impossibile anche solo arrivargli vicino: ma, in quel preciso istante, il petto di Shingo era scoperto. Il talismano si trovava finalmente alla sua portata.
“Prendi il colpo decisivo!” gridò la ragazza con il codino. In quel preciso istante, qualcosa fu lanciato ad una velocità vorticosa contro l’avversario.
Il suono cupo dell’arcaico metallo di cui era forgiato il medaglione di Shingo rimbombò per alcuni interminabili istanti, tanto che ai presenti parve perfino sopraffare il precedente rumore del vortice. Il Tai-ma no Mamori era stato colpito.
Ancora con la testa innaturalmente inarcata all’insù, Shingo spalancò la mandibola. Un secondo più tardi, Ranma atterrò con un calcio deciso, stendendo l’avversario all’altezza precisa del mento.
“Ho visto giusto.” disse. “Ora è tutto finito.”
Il Talismano dello Spazio-Tempo. La vera forza di Shingo. Ma anche, allo stesso tempo, la sua debolezza.
Distruggerlo. Questo, giudicò Ranma, comportava la fine di ogni cosa.
Shingo era accasciato a terra, a pochi passi da lui. Che avesse perso i sensi? Improvvisamente fremette. Forse era sconvolto. Rannicchiandosi su se stesso, il volto completamente nascosto tra i capelli e le braccia, mantenne la propria posizione supina, distesa. Ranma poté notare che stava stringendo convulsamente le mani al petto. La determinazione della battaglia andò scemando, nella ragazza con la treccia, per fare posto alla compassione. Il potere, e la brama di gestirlo ed aumentarlo, aveva reso Shingo troppo pericoloso perfino per se stesso. Ma era una fine troppo triste, anche per quel pallone gonfiato.
Avanzò cautamente. Notò di sfuggita, in lontananza, lo squarcio della materia di prima: buffo, erano tornati nel punto esatto dove avevano iniziato a combattere. Per qualche secondo, l’unico rumore d’intorno fu rappresentato dalla cadenza regolare dei lenti passi di Saotome. Poi, ancora silenzio. L’altro dovette averlo sicuramente udito, ma non per questo rialzò lo sguardo, né mutò la propria posa.
Il corpo minuto della ragazza si chinò, andando ad incontrare quello, sempre rannicchiato e tremolante, dell’avversario.
“Shingo.” mormorò, come un sospiro.
Allungò una mano per tirargli via il braccio che gli copriva il viso. La prima cosa che scorse dalla sua espressione fu il sorriso. Un ghigno beffardo. Quello dettato dalla sicurezza di avere ancora la situazione a proprio favore. Shingo afferrò con violenza il polso di Ranma, stringendolo come se volesse spezzarlo.
“Ma che…”
L’uomo scosse i lungi capelli platino e si levò repentinamente in piedi, facendo leva sul braccio della giovane con il codino. Questa tentò di respingerlo, ma si trovò sbilanciata. Shingo la tirò a sé e le assestò un forte calcio sullo stomaco, mozzandole il respiro.
Sor-pre-sa!” sillabò giocosamente.
“Ranma!” esclamarono ad una voce le due fidanzate, accennando a soccorrerlo. Ma entrambe non riuscirono a muovere un solo passo in avanti.
“Ha alzato un nuovo campo di forza!” constatò Cologne.
“Maledetto… allora era tutta una finta!” ringhiò Ranma, sia per la rabbia sia per il dolore.
“Non dirmi che ti aspettavi qualcos’altro! Credevi veramente di poter distruggere il Tai-ma no Mamori? E per di più, con un semplice ciottolo?!” disse, lasciando che l’altro potesse vedere lo sfavillio del medaglione, perfettamente integro.
Si avventò su Ranma, che ancora non si era ripresa completamente, e la afferrò per il collo: quindi, la sollevò a qualche centimetro da terra. “Come dicevo poco fa, è finito il tempo di giocare.”
Ranma tentò di sottrarsi alla presa dell’artiglio di Shingo. Ma fu inutile, era troppo debole in quel momento. Non riusciva a muovere un solo muscolo e già si sentiva mancare l’aria nei polmoni: in questo modo, sarebbe soffocato in pochi secondi. Fece stridere i denti per la frustrazione.
“Vista la tua espressione” disse Shingo “mi sembra che tu abbia capito la fine che ti attende. Praticamente indolore, non sei contento?”
Accentuò lentamente la stretta. Notò che la cara donzella stava mormorando qualcosa.
“Come sono maleducato!” ghignò. “Il condannato ha diritto alle ultime parole, dopotutto.”
Rilasciò leggermente la presa.
“Avanti!” lo invitò. “C’è qualche cosa che tenevi a dirmi?”
“So… solo una.” Ranma raccolse avidamente quanto più fiato poteva. E, nonostante ciò, riuscì a tirare fuori appena un filo di voce. Ma le parole che seguirono, l’uomo del medaglione le comprese ugualmente benissimo.

“Non era un ciottolo.”

Shingo assottigliò lo sguardo. Le sue pupille si restrinsero.
Scaraventò Ranma a terra. La rossa tossì ripetutamente, recuperando il fiato. Shingo scrutò con frenesia in ogni direzione. Scorse un luccichio. Si diresse verso l’oggetto da cui proveniva e lo raccolse, con aria sconvolta.
“Consorte.” disse Cologne, sopraggiungendo. Il campo di energia era scomparso.
“Vecchia…”
“Quello che hai lanciato contro il medaglione. Ho visto bene? Era forse…”
“Lo è.” annuì Ranma. “Il Tai-ma no Mamori... Intendo, l’altro Tai-ma no Mamori.”
“L’hai rubato dall’altra realtà?”
“Veramente, no. Neanch’io ci avevo capito molto, all’inizio: ma forse questo foglio ci chiarirà tutto.” La ragazza col codino porse il pezzo di pergamena all’amazzone e pure lei poté leggere le parole che vi erano riportate. Erano scritte in nitidi ideogrammi giapponesi. Ma ciò non cambiava un importante dato di fatto.
“Questa… è la mia calligrafia!” esclamò Cologne.
“Lo immaginavo.” mormorò Ranma. “Questo foglio, insieme al medaglione, si trovava nei miei pantaloni.”
“Vuoi dire che ce l’ha messo il mio doppio dell’universo alternativo?” domandò la vecchia. “Tutto ciò è sorprendente. Ma in effetti credo che io stessa, in una situazione di questo tipo, non ti avrei rimandato nel tuo mondo, per così dire, allo sbaraglio. Può darsi che avrei compiuto la medesima scelta.”
Esitò un istante. Poi riprese a parlare. “Suppongo che la mia copia ti abbia anche suggerito un’idea di quello che succederà ora.”
“Già.” si limitò a dire Saotome. Ricordava troppo bene. La minaccia legata ai mondi paralleli. L’altra Obaba era stata molto chiara, a riguardo.

“Qualcosa che fa parte di un mondo non può coesistere a lungo col proprio doppio dell’altra dimensione: se, in caso, essi venissero accidentalmente a contatto, si annullerebbero a vicenda o comunque qualcosa di simile. Questo sta a protezione dell’equilibrio delle cose.”

Era stata una soluzione eccessivamente radicale, meditò Ranma. Ma Shingo stesso si era rivelato l’artefice della propria condanna, in fin dei conti. I poteri del medaglione erano tornati pieni ed incontrastati. Avrebbe potuto tranquillamente schivare il suo lancio di prima, nonostante lo stratagemma del vortice. Invece, si era lasciato colpire volontariamente. Superbo fino all’ultimo. Questa era stata la propria rovina.
Cologne gettò uno sguardo verso Shingo, che stringeva ancora i due medaglioni, ciascuno in una diversa mano. La vecchia sapeva che aveva due possibilità. Tenerli… e venire soppresso insieme ad essi dall’Ordine delle cose. Oppure sbarazzarsene… e perdere l’unica protezione contro Muchitsujo ed essere annichilato dall’interno per mezzo del dio del Caos, che lo possedeva. In ciascuno dei due casi, era spacciato.
Non si scherza con i poteri delle divinità. Aveva giocato con qualcosa di troppo superiore a lui ed ora ne stava pagando le conseguenze.
All'improvviso, un globo di oscurità di espanse dai medaglioni e inglobò una massa considerevole di spazio. Fu tutto fulmineo. Né Ranma né Cologne riuscirono a vedere molto: quando, però, il globo si ripiegò su se stesso, scomparendo in un microscopico punto senza lasciare traccia alcuna, nessuno di loro scorse più la presenza di Shingo.
“Ha scelto… il potere?” domandò Ranma, senza la vera intenzione di ottenere una risposta. Ma la ricevette lo stesso.
“Ha scelto l’ordine.” precisò Obaba. “Ed il controllo. Così sembra. Questa costituisce indubbiamente la decisione più favorevole, per noi.” Un silenzio irreale s’impadronì del luogo. Era finita per davvero? Akane provò a lasciar partire un sospiro di sollievo: ma questo non bastò a scrollarle di dosso un odioso senso d’inquietudine.
Shampoo ebbe per un solo istante l’impulso di lanciarsi ad abbracciare Ranma, che l’aveva appena vendicata: ma il suo sguardo incontrò per primo quello della bisnonna e i sensi di colpa ebbero in lei il sopravvento. La riabilitazione del proprio onore, la riabilitazione di fronte alla sua parente non era stata compiuta con così poco e ne era ben cosciente. Cologne intuì i pensieri della nipote e cominciò ad accennare un discorso. “Ascolta, bambina…”
S’interruppe subito, avvertendo l’improvviso sentore della minaccia.
“Attento!” gridò.
“Cos…” Ranma non ebbe il tempo di voltarsi verso la vecchia: un’ombra si abbatté fulminea sulla ragazza con la treccia, colpendola in pieno.
Shingo. Ma la sua espressione era completamente diversa rispetto a quella di pochi istanti prima. Nessuna traccia dell’atteggiamento canzonatorio che lo aveva sempre contraddistinto. Nonostante tenesse gli occhi chiusi, ogni suo lineamento era tutto meno che rilassato: ogni nervo, al contrario, pareva contratto in una tensione tesa a sfociare da un momento all’altro.
“Hai sbagliato, Saotome. Non è ancora finita!” sibilò. “In effetti, normalmente non avrei mai abbandonato il potere. Nemmeno ora che tutto è perduto. Eppure avverto un desiderio più forte, da soddisfare. Più forte di tutto il resto. Sai qual è?... La vendetta.”
Mentre proferiva quest’ultima parola, sollevò le palpebre. Lo zaffiro degli occhi stava rapidamente venendo sopraffatto da un rosso cupo sangue. “Sento già l’anima di Muchitsujo, dentro di me, che sta per sopraffarmi. Ma, prima di allora, ti farò assaggiare alcuni dei suoi poteri” disse. Soffiò appena e questo basto affinché Ranma-chan fosse avvolta da un gelido turbine e da esso scagliata contro la parete. Gli altri provarono ad accorrere, ma furono respinti da un nuovo spostamento d’aria.
Shingo si avvicinò al muro di roccia. Riconoscendolo, la sua mente fu illuminata da un’idea. “Potrei finirti in questa maniera. Ma non mi basta!” esclamò. “La tua morte sarà ancora più misera!” Dopo di ciò, assestò un potente pugno contro la parete, lasciandosi immergere dal getto d’acqua che ne fuoriuscì.
“Non è divertente?” gridò, sghignazzando senza più alcun ritegno. “Fra pochi secondi, Muchitsujo, corpo e anima, tornerà sulla terra per mezzo delle mie spoglie e riporterà di persona il Caos primigenio… Ah, dimenticavo: peccato che nessuno qui presente potrà assistere a questo.”
Cologne rabbrividì più di tutti. I suoi timori più neri si erano realizzati. La natura umana non può sostenere la vista di un’entità superiore: così loro sarebbero stati penosamente folgorati nel momento stesso della manifestazione divina.
“Che cosa?! Tu sei completamente andato!” esclamò Ranma.
Shingo, però, non ascoltava più. Il suo sguardo si era fatto del tutto assente e le iridi erano scomparse, immerse nel sangue di cui si erano completamente iniettati gli occhi. Questo, mentre l’acqua, che ancora sprizzava verso l’alto dopo averlo investito, si arricchiva di un riflesso luminoso ed accecante: e la terra, come consapevole dello sconvolgimento delle cose, riprendeva a tremare.
La vecchia amazzone avvertì il nuovo mutamento di energia. L’aura divina stava espandendosi rapidamente dal corpo di Shingo, diventando visibile anche ad occhi nudi, sotto forma di un alone splendente che avvolgeva via via e l’acqua e la pietra e la stessa figura dell’uomo.
“Shingo ha perso il controllo!” disse, svelando nel suo tono tutta l’amarezza che provava nel constatare che si stava verificando ciò che lei aveva inteso impedire fin da quando erano entrati nella caverna. “E noi siamo perduti.”
*E’ un pazzo totale! Non… non credevo avrebbe fatto questo. Ho sbagliato… ho dannatamente sbagliato!* pensò in maniera convulsa Ranma. Aveva già liberato Muchitsujo una volta, dalla fonte di Jusen, pur senza saperlo. Adesso, l’aveva fatto di nuovo. Forse era logico: il Caos richiamava solo altro Caos e la propria aura, come aveva detto Shingo, era irrimediabilmente intrisa di disordine. In nessun modo lui avrebbe mai potuto impedire ciò che stava avvenendo. Semplicemente, fin dal principio, non era la persona giusta.
La ragazza dai capelli rossi parò le braccia davanti al volto, pur conscia dell’inutilità di questo gesto: la luce, che s’irradiava dal punto preciso dove stava Shingo, era ormai divenuta intollerabile.
*Mi dispiace, Akane… non potrò mantenere la promessa…*
Attese l’inevitabile, con la speranza involontaria ed inconscia che tutto terminasse al più presto. Fu questo a scuotere Ranma, quando notò che era passato un certo tempo e nondimeno lui si trovava ancora cosciente: ciò gli permise di pensare con maggiore coerenza e di notare che sullo scenario rosso vivo, creato dal bagliore che picchiava brutalmente sulle palpebre sigillate, era da qualche secondo abbondante calato il sipario.
Ritrovò il coraggio e riaprì gli occhi, abbattendo ogni ostacolo tra sé e la realtà. Quello che vide aveva, tuttavia, ben poco di reale. L’antro era di nuovo assorbito dalla sua più consona penombra soffusa. Il terreno aveva cessato di vibrare, rivelando nuovamente la stasi ancestrale della terra. Perfino il getto d’acqua si era arrestato nel mezzo del proprio percorso, in maniera del tutto innaturale, andando ad assumere una consistenza solida ed impropria.
Finendo di sollevare lo sguardo, scorse anche lui. Shingo si trovava nell’identico punto di prima e senza parere in alcuna maniera cambiato nell’aspetto. Eppure, si avvertiva qualcosa di diverso. Stava fissando nella propria direzione e Ranma, sentendosi osservato, avvertì uno sguardo nuovo, placido, rilassato, superiore alle tante piccole vicissitudini che riempiono il mondo.
La ragazza con la treccia si voltò dietro di sé, intravedendo Akane e Shampoo accasciate a terra, svenute. Non così Cologne, che ricambiò l’occhiata.
“La trasformazione… è fallita?” osò dunque chiederle.
“Al contrario!” rispose la vecchia, che percepiva chiaramente la nuova aura. “Anche se non sembra, colui che abbiamo di fronte è proprio Muchitsujo.”
Sorrise, egli, a quelle parole: e fu un sorriso aggraziato e gentile, il preciso contrario di quelli che avevano sempre deformato il volto di Shingo. Quindi, decise fosse giunto il momento di rompere il proprio silenzio.
“Piacere di conoscerti, Ranma. Ti aspettavo. Da mille anni.”

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Capitolo 22
*** The plain truth ***


DIZIONARIO.

¹ Bie la – “Addio” in cinese.

² Zai jian – “Arrivederci” in cinese.





PART TWENTY-TWO

“THE PLAIN TRUTH”



Ranma scosse il capo, sbatté le palpebre e in ultimo strabuzzò gli occhi, aspettandosi di svegliarsi da un momento all’altro. L’atmosfera silente che permeava l’intera profondità della grotta, dal momento in cui tutti gli elementi della natura e perfino l’acqua che sgorgava dalla roccia si erano come incastonati in un filo immoto smagliatosi dalla trama dinamica del tempo, assomigliava, effettivamente, a quella irreale che generalmente caratterizza i sogni: e se Akane e Shampoo si trovavano, adesso, assopite poco dietro Saotome, non vedeva perché a lui non dovesse essere accaduta, di fatto, la stessa cosa.
A rimanere in silenzio era anche il suo interlocutore. Il suo nuovo interlocutore. O almeno così sembrava. Nonostante l’aspetto di colui che si trovava di fronte a loro fosse pressoché identico a quello di Shingo, lo stesso Ranma, percependo confusamente la sua aura, diversa da tutto ciò che aveva conosciuto fino ad allora, dovette ammettere tra sé che non si trattava più della medesima persona. Da qui a concepire di avere a che fare nientemeno che con la manifestazione di una divinità suprema, tuttavia, il passo era ancora troppo lungo.
Dopo il racconto della vecchia dell’altra dimensione e, soprattutto, dopo il racconto di Shingo, la ragazza con la treccia si era figurata quel Muchitsujo come un’entità onnipotente o quasi, che non avrebbe esitato un solo istante a dimostrare la sua forza e portare a compimento la propria vendetta: ebbene, tale descrizione non si confaceva per nulla alla pacatezza che, al contrario, sembrava caratterizzare il nuovo Shingo.
Ciò nonostante, restava un dato di fatto. La vecchia gli aveva appena ribadito che quello era Muchitsujo. Ranma sapeva che, almeno a questo riguardo, delle parole di Cologne del villaggio delle amazzoni non v’era certamente motivo di dubitare. Eppure l’istinto lo spinse a cercare una conferma.
Quindi si voltò ancora verso di lei, anche per avere una qualunque idea sul da farsi, su come doversi comportare. Ma non servì a molto: quella stessa atmosfera senza tempo pareva aver suscitato nell’anziana amazzone un moto di rispetto e timore – lei, la vecchia! – vero timore, nei confronti di quella sorta di manifestazione soprannaturale. La quale aveva, nel frattempo, cominciato ad incedere lentamente verso di loro.
Ebbene, si disse Ranma, non sarebbe rimasto imbambolato un solo momento di più, almeno lui. Analizzò il proprio stato e poté così constatare che da parecchi secondi il suo corpo aveva assunto impulsivamente una posizione di difesa: i pugni erano serrati, i muscoli irrigiditi, mentre dai nervi oltremodo tesi traspariva una consistente quantità di aura combattiva. Molto bene. Si voltò leggermente un’ultima volta per controllare Akane con la coda dell’occhio, quindi si concentrò per mantenere la propria postura. Per il momento, avrebbe cercato cautamente di farsi spiegare la frase sibillina che gli era stata rivolta dal dio; ma i riflessi erano tenuti costantemente pronti al peggio.
Dunque si risolse ad attendere Muchitsujo. Il quale, giunto ormai davanti a Ranma e Cologne, a pochi palmi dai loro nasi, si arrestò, sereno, fissando la persona meno anziana delle due. Ranma resse il suo sguardo, ripromettendosi una nuova volta di far ricorso al massimo della diplomazia che era in grado di sfoggiare.
E parlò per primo.
“Che cavolo significa?!” gridò, spezzando bruscamente il silenzio precedente. “Che vuol dire che mi stavi aspettando, e da mille anni?”
Abbozzò un nuovo sorriso, lui, come pieno di comprensione. Decise finalmente di non far attendere oltre il proprio interlocutore – o meglio, si corresse, la propria interlocutrice.
“Tanto per cominciare, una brava signorina non dovrebbe esprimersi in questo modo. Non credi?” domandò, alzando un sopracciglio con aria ingenua.
Signorina a chi?!” sbraitò Ranma, improvvisamente fuori di sé. “Guarda che io sono un uomo! Ed anzi, ci terrei a precisare che se non fosse stato per le tue fonti…”
Le parole successive furono troncate dal ribrezzo che gli attraversò tutto il corpo, il quale gli consentì di anticipare l’ennesimo colpo del bastone della vecchia, ma non di sfuggire all’occhiataccia che gli aveva appena rivolto. Ranma si calmò all’istante, convenendo tacitamente sull’assunto che mettersi a litigare con una divinità onnipotente non era esattamente la cosa più saggia da fare, in quella situazione. Così non ebbe nulla da obiettare quando fu l’amazzone a riprendere la parola.
“Sei proprio Muchitsujo!” disse lei. “Eppure non capisco. Avresti potuto eliminarci tutti, poco fa, anche semplicemente manifestandoci la tua essenza: ma non l’hai fatto.”
“Come puoi vedere.” confermò il dio, placido.
“G-già, è vero!” Ranma s’interpose di nuovo. “Cosa c’è sotto? Che ne è della tua intenzione di vendicarti sull’umanità?” concluse innocentemente, ignorando il sospiro pesante che Cologne si era lasciata sfuggire intanto che udiva quelle parole così incaute.
Vendetta.” mormorò l’interlocutore, con aria annoiata, ponendo una mano a sostegno del proprio mento. “Un vocabolo che voi mortali usate spesso, da quel che ho potuto constatare. Fin troppo.”
Saotome sbottò. Possibile che quel tipo non di degnasse di rispondere ad una sola domanda? E adesso, come se non bastasse, s’improvvisava filosofo! Decisamente diverso da come se l’era figurato. E già sentiva di non poterne più di lui, divinità o non divinità. Tuttavia, rimaneva l’interrogativo di prima e lui voleva risolverlo, in qualunque modo: cos’era che Muchitsujo aveva in mente?
“Quasi dimenticavo… State pure comodi!” riprese il dio, notando la postura della ragazza con il codino. “Anche tu, Ranma. Lodo il tuo coraggio, ma non c’è bisogno che mantenga questa posa da combattimento. La mia unica intenzione è quella di scambiare due parole con te.”
“Scambiare due parole?” ripeté incredulo Saotome. “Ma tutto quello che è successo… credevo che…”
“Non sforzarti troppo, posso leggere chiaramente i tuoi pensieri. E ti assicuro che la vendetta non c’entra assolutamente nulla.” rispose la divinità, anticipando la domanda che l’altro stava per porre. “Shingo ne ha parlato, è vero. Questo è ciò che credeva, meglio, ciò che gli faceva comodo – e che io gli ho fatto credere. Ma anch’egli era un mortale e a dettare le sue azioni è stata esclusivamente la propria brama, tipicamente umana, di potere: aveva solo bisogno di giustificarla, perfino a se stesso, in qualche maniera.”
A quella rivelazione, Cologne spalancò completamente i grandi occhi, prendendo la parola. “Dunque vuoi dire che Shingo in realtà parlava per sé, in altre parole che è stato lui a pianificare ogni cosa?”
“Beh… non proprio ogni cosa.” sorrise il dio, divertito dall’espressione sorpresa della vecchia. Ranma fu costretto, suo malgrado, ad ammettere che quel sorriso gli stava infondendo una certa serenità e solo allora fu portato a rispondere all’invito di poco prima, rilassando i muscoli.
“Shingo voleva il potere, certo, ma in realtà ero io a volere Ranma.” continuò. ”Shingo pensava che la sua aura, che mi aveva liberato dalla sorgente di Jusen, fosse l’ideale per tenermi sotto controllo. Non sapeva che ero io a fargli pensare ciò. Il Tai-ma no Mamori non aveva risolto tutto, per Shingo. Lui credeva di controllarmi, in realtà aveva solamente accesso ai miei poteri: non ho fatto altro che ispirargli l’idea di impadronirsi dell’aura di colui che aveva spezzato il sigillo della fonte che mi teneva imprigionato, ma Shingo ne ignorava il vero scopo.”
“E Ranma…” accennò l’amazzone.
“Ranma era l’unico che potesse completare la mia liberazione, anima e corpo. Zhou Chuan Xiang è una mia creatura, un mio protetto: anche se, letteralmente, figlio del caso, non sceglie per ciò stesso a caso le sue vittime. Come sapete bene, il Caos è una parte ineliminabile dello spirito di Ranma. E dunque lui era la persona perfetta per tale scopo.”
“Aspetta un momento!” intervenne bruscamente la ragazza con la treccia. “Tutto quello che è accaduto, allora, è stato previsto perché tu tornassi libero? Vuoi farci credere che tu, il signore del Caos, hai… preordinato ogni particolare?”
“Non esageriamo!” Sembrò trattenere una risata, tornando a guardare Saotome. “Ma una cosa che poco fa ho udito pensare da te è vera: il Caos richiama altro Caos e dunque solo tu, che avevi liberato il mio spirito spezzando lo shimenawa a Jusen, potevi completare l’opera. In quanto al fatto che le cose sono poi andate veramente in questa maniera… che ciò fosse stato previsto, non è esatto. Ma rientrava, per usare parole facili, nel conto delle probabilità. Presto o tardi, sarei stato liberato.”
“Presto o tardi?” replicò Ranma, esibendo una smorfia poco convinta. “Ma sono passati ben mille anni!”
Sorrise ancora, il dio, con un’aria comprensiva e tollerante. “Ebbene, cosa sono mille anni, per chi ha davanti a sé l’Eternità?” disse, stringendo il pugno della mano destra. “La verità è che, convincendo un dio a trasformarsi in mortale, ho giocato uno scherzo un po’ troppo pesante e per questo sono stato castigato dai miei simili. Adesso è un discorso chiuso ed infatti, completando la mia liberazione, tornerò tra loro. Lo ripeto: la vendetta, il rancore, l’ambizione sono sentimenti che accomunano solamente voi mortali.”
Ranma trovò che queste affermazioni avevano un senso. Certo che, messa così, non era una situazione molto soddisfacente. Tutto quello che era accaduto non era, quindi, altro che il riflesso di una serie di dispetti tra divinità?... Inoltre, la sensazione di essere stato usato non era delle più gradevoli. Affabile, sicuramente: ma, per non essere un tipo vendicativo, quel Muchitsujo si comportava in una maniera piuttosto antipatica. E ogni volta che pronunciava il termine “mortale”, gli suscitava una fastidiosa sensazione di ripugnanza.
“Per me adesso è tempo di andare.” riprese il dio. “Il vostro mondo non è abbastanza interessante, a mio parere. Diciamo che è troppo noioso, per i miei gusti."
Riaprì il palmo della mano che teneva serrata, rivelando qualcosa che assomigliava ad un rotolo perfettamente cilindrico, che lanciò subito dopo ai piedi di Cologne.
“E’ un regalo: per te che conosci così bene le leggende sul mio conto.” disse, prima di eseguire un inchino con fare teatrale. “Mi auguro che questo spettacolo sia stato di vostro gradimento. Con permesso.”
Si allontanò, camminando a calmi passi in direzione dello squarcio della materia, che era ancora aperto. Ranma ebbe, però, un moto di stizza: come poteva svignarsela così? E, senza pensarci troppo, decise di rincorrerlo.
“Aspetta!” gli disse quando l’ebbe raggiunto, poggiando una mano sulla sua spalla e costringendolo a voltarsi. “Si potrebbe sapere dove stai andando?”
Rimanendo impassibile, Muchitsujo indicò lo squarcio. “Torno nel mio mondo. Nel limbo che sta oltre quel varco: l’indistinto, il Caos che è rimasto tra i mondi paralleli, ciò che non è ancora Creato. Il mio dominio, per l’appunto.”
Ranma inspirò con difficoltà, decidendosi ad esprimere il pensiero che da ormai parecchi secondi gli occupava la mente. “E… cosa ne sarà di Shingo?”
“Per liberarmi dalla fonte di Jusen, mi sono dovuto impadronire del suo corpo mortale.” rispose, con voce inespressiva. “Quando sarò passato al di là del varco, accadrà ciò che hai avuto occasione di sperimentare di persona: mentre la mia anima ultraterrena completerà la propria liberazione, quel che rimane dell’essenza di Shingo, compreso questo suo fragile corpo che sto possedendo, si dissolverà nel disordine d’attorno.”
La ragazza con il codino deglutì pesantemente. Come faceva quel Muchitsujo a dire una cosa del genere mantenendo un atteggiamento così indifferente?
Non ebbe il tempo di finire di formulare questi pensieri: all’improvviso, i lineamenti del volto del suo interlocutore cominciarono a contorcersi in maniera spasmodica. Il respiro si fece via via più affannoso. Quindi digrignò la mandibola, prima di gridare selvaggiamente, con lo sguardo apparentemente perso nel vuoto:

No! Non lo farai!”

Non avrebbe mai ammesso di essersi spaventato. Tuttavia, Ranma non poté non lasciare di scatto la mano che ancora teneva poggiata sulla spalla dell’altro, arretrando di qualche passo. Quel grido disumano… chi aveva appena parlato non era Muchitsujo. No di certo.
“Tu sei…” accennò. “Shingo?”
Non parve averlo udito. Ogni muscolo era teso al massimo grado, in quello che pareva l’estremo sforzo di resistenza.
NO!” ripeté ansimante, portando le mani al volto e artigliandosi letteralmente la faccia, come per tenersi cosciente.

NOOOOO!

Ed il suo grido squarciò l’aria circostante.

Fu l’ultima manifestazione di Shingo cui la ragazza con la treccia ebbe modo di assistere. Un momento dopo, il suo volto era tornato alla compostezza abituale. Il dio aveva ripreso il sopravvento.
“Perdona l’interruzione.” disse a Ranma, senza lasciar trasparire alcun sentimento. “Non si ripeterà più. L’anima di quel mortale, ora, è cancellata per sempre.”
Assottigliò lo sguardo. “Credo che ciò risponda meglio di ogni altra cosa alla tua domanda.”
Sorrise nuovamente, a quel punto, con la solita grazia, per niente offuscata dal rivolo di sangue che scendeva da una ferita che le sue mani stesse gli avevano procurato pochissimi secondi prima, all’altezza dello zigomo. Saotome non riuscì a provare più la stessa tranquillità che quel sorriso gli aveva suscitato in precedenza. Pur senza farlo fisicamente, aveva appena visto il volto, il vero volto di Muchitsujo. E nonostante le apparenze, era ben più terrificante di quello barbaro e selvaggio che aveva mostrato l’essere umano la cui anima era stata appena soppressa.
Senza ombra di dubbio, la persona più mite e amabile di questo mondo. Finché qualcuno non lo ostacolava. Forse Ranma non l’avrebbe mai visto scomporsi, neppure dopo cent’anni.
Eppure in quel momento fu perfettamente consapevole che Muchitsujo avrebbe potuto, se solamente si fosse trovato di cattivo umore, provocare infinita morte e distruzione, in quel medesimo mondo.
Anche soltanto battendo una palpebra.
Ora capiva le ansie della vecchia.
Il dio del Caos. Dopotutto, quella qualifica non gli si addiceva?
In quel preciso istante Muchitsujo strizzò l’occhio verso la ragazza col codino, riscuotendola dai suoi pensieri e facendola così sobbalzare, come se avesse visto un gatto.
“Non distrarti mentre ti parlo! Solo un’ultima cosa, prima di andare: ti affido il mio protetto!” gli disse, congedandosi di nuovo. “Ah! E non lamentarti troppo della tua maledizione: anche quella ti si addice perfettamente.”
Il giovane Saotome non seppe se infuriarsi od imbarazzarsi. *Anche la mia… mi si addice…?*
Quel… quel maledetto bastardo! Gli aveva letto di nuovo nella mente, era chiaro: e come se ciò, sommato pure all’insulto, non fosse sufficiente, gli aveva ammiccato al solo scopo di terrorizzarlo. Senz’ombra di dubbio, era anche un vero burlone.
*E, tra l’altro, con uno spirito di patata! Mi hai sentito?!* concluse così il pensiero, indispettito, augurandosi che Muchitsujo gli leggesse nella mente questa frecciata.
“Il suo protetto? Cosa vuol dire?” si ripeté Cologne, la quale, pur essendo rimasta distante dagli altri due, aveva teso l’orecchio per ascoltare e sperava anche lei in una replica del dio. Ma Muchitsujo aveva già oltrepassato il varco. E non ci fu tempo, né per la vecchia né per la ragazza, di pensare ad altro.
Nello stesso momento in cui il dio fu scomparso, lo squarcio si chiuse in se stesso. Ranma udì un mugolio sommesso e, girandosi, poté constatare che Akane e Shampoo stavano riprendendo conoscenza. Ranma si chiese se Muchitsujo non le avesse tenute addormentate intenzionalmente.
Il tempo riprese il suo corso.
L’acqua ricominciò a scorrere.
La terra a tremare.
E tornò il finimondo. L’antro era sul punto di crollare una volta per tutte. “Correte!” gridò la vecchia. “La presenza di Muchitsujo era l’unica cosa che teneva in piedi la caverna!” Fece cenno di scappare e gli altri la seguirono.

Ranma arrivò per ultimo all’uscita, assicuratosi che le fidanzate, davanti a lui, fossero in grado di compiere la scalata.
Non fece in tempo ad affacciarsi pienamente all’esterno, ancora abbagliato dai raggi del sole che filtrava, che avvertì una sensazione di calore ed un formicolio attraversargli piacevolmente tutto il corpo. Acqua calda. Alzò nuovamente il capo, abituando gli occhi alla luce del giorno. Lo vide: suo padre che, con una teiera ora vuota in mano, allungava l’altra per issarlo. Lo stava aspettando. E chissà da quanto.
Sorrise. Per un attimo, gli parve d’essere appena risalito dall’inferno.
Ebbe soltanto il tempo di scorgere, poco avanti a lui, Ryoga che porgeva la mano ad Akane mentre un Mousse ancora dolorante provava, senza successo, a fare la medesima cosa con Shampoo, cui era però mancata la solita aria di disprezzo nel rifiutare la gentilezza del pretendente. Poi avvenne. Giusto pochi secondi dopo che furono tutti fuori, la caverna si piegò su se stessa e crollò con un enorme boato, seppellendo per sempre la cavità.
Adesso era veramente finita.
Lo spettacolo era concluso.
Il sipario era definitivamente calato.



Ranma continuava ad osservare l’inerte cumulo di massi. Nessuna traccia della battaglia che si era svolta sottoterra. Ogni cosa pareva tornata alla normalità. O meglio, come se nulla fosse mai accaduto. Le nuvole volteggiavano pigre nel cielo, mutando lentamente forma, mentre il disco del sole calava arrossandosi in un vano tentativo di opposizione al moto naturale delle cose: vano giacché l’equilibrio era stato ristabilito, ormai.
Strinse le braccia attorno al corpo, per proteggersi da una folata di vento freddo che si era alzata in quell’istante. Ripensò distrattamente ai pochi avvenimenti delle ultime ore. Taro e Rouge si erano entrambi congedati non appena avevano recuperato conoscenza, seppur in maniera completamente differente: Rouge si era esibita in ripetuti inchini e ringraziamenti; Taro si era, al contrario, voltato dalla parte opposta rispetto ai suoi interlocutori, borbottando con aria sprezzante un grazie ben poco sentito prima di bagnarsi e volare via.
Non era successo praticamente altro. Girò lo sguardo. Un poco di metri più in là, Akane stava ancora aiutando Ryoga e Ucchan a medicarsi le parecchie ferite che avevano riportato, e le fasciature eccessivamente abbondanti dei due fornivano una prova inconfutabile dell’operato della fidanzata. Un po’ prima, Ukyo era andata da Ranma a rendere chiaro il fatto che non era a conoscenza del vero piano di Shampoo. Dentro di sé, lui l’aveva perdonata da tempo. Sapeva già come stavano le cose, dopotutto. Non aveva avuto modo di constatare se la fidanzata carina si fosse chiarita anche con la stessa Akane, ma, dai loro comportamenti che aveva osservato a distanza, pensò che almeno qualcosa di simile, tra loro due, dovesse essere già avvenuto.
Ranma, dal canto suo, se n’era stato per tutto il tempo in disparte, davanti alle macerie. Cologne approfittò dell’occasione per avvicinarsi e parlargli a quattr’occhi.
“Come mai così pensoso, consorte? Non mi sembra da te.” disse.
Lui sbuffò tutt’ad un tratto. “Si vede tanto, vecchia? E’ che… non riesco a sopportarlo!” La scrutò attentamente e si decise a rivelare ciò che si teneva dentro. “Insomma, so che il vero responsabile era Shingo. Ma, in fondo, quel che è successo è stato per i capricci di Muchitsujo. E non sopporto l’idea che, dio o non dio, l’abbia fatta franca.”
La vecchia si lasciò sfuggire un sorriso malizioso.
“Di’ la verità: volevi combattere anche contro di lui, non ho forse ragione?”
Ranma arrossì leggermente. “Beh, cosa c’è di male? Non sarebbe nemmeno stata la prima volta che affronto una divinità.” mormorò, pensando di sfuggita a Safulan.
“Non mi aspettavo una risposta diversa!” ridacchiò Cologne. “Ma ascoltami bene, consorte. Avrai avuto modo di vedere con me che non tutto è sempre come sembra, che distinguere tra il bene ed il male è spesso più difficile di quanto appaia, che perfino tra l’Ordine ed il Caos non esiste un confine così netto e distinto come si potrebbe immaginare.”
Il giovane Saotome non parve accettare il discorso dell’amazzone.
“Non starai cercando di giustificarlo, adesso?!” replicò, accigliato.
Cologne bofonchiò qualcosa tra sé, quindi si rivolse nuovamente al suo interlocutore. “Immagino che sarà meglio mettertene al corrente. Ma prima di tutto – il mio doppione dell’altra dimensione ti ha, per caso, raccontato la leggenda che circola sull’origine del Tai-ma no Mamori?”
“Beh, sì.” mormorò spaesato lui, riconoscendo di ricordare la narrazione dell’altra vecchia in un modo molto vivido, forse perché allora la sua concentrazione era tesa al massimo per cercare di carpire qualche indizio su come tornare nel proprio mondo.
“Lo immaginavo. E me la riassumeresti brevemente?” domandò lei.
“Ecco…” cominciò, evidentemente a disagio. “C’era quel Saitoki o come diavolo si chiamava: il dio che, sceso sulla terra, si era innamorato di una ragazza umana. E così, per poter stare con lei senza metterla in pericolo, era stato indotto con l’inganno da Muchitsujo ad immergersi nella Nannichuan assumendo su di sé lo spirito del ragazzo affogato.”
“Precisamente.” annuì lei. “Ma la fonte Nannichuan, su Saitoki, dimostrò avere un effetto permanente, trasformandolo in un essere mortale. Proprio per rimediare a ciò, il padre di Saitoki, il sommo Ryuukei, decise di creare il talismano.”
“Ricordo. Grazie al medaglione, Saitoki ha potuto alla fine recuperare i poteri divini, assieme al controllo di essi. E basta, mi pare. La storia finiva qui, no?”
“Giusto. Ma adesso che sappiamo che quella leggenda corrisponde a verità, non ti risulta un particolare fuori posto, in tutta questa vicenda?”
“Uh… no, credo. A cosa ti riferisci, vecchia?”
“Non te ne sei ancora reso conto?! Il Tai-ma no Mamori, ovvio!”
“Eh? Non ti seguo!” esclamò Ranma, sempre più confuso.
“Pensaci un attimo. Se Saitoki aveva bisogno di tenere costantemente con sé il talismano, per mantenere la propria divinità e rimanere immortale, mi sai spiegare come mai, mille anni dopo, si trovava custodito dalla guida di Jusenkyo?”
“In effetti… non ne ho la minima idea!” ammise Ranma.
“Qui entra in gioco quel rotolo che mi ha consegnato Muchitsujo, nella grotta.” disse Cologne. “Si tratta di una pergamena antica, redatta in un dialetto cinese molto arcaico. Ho finito giusto adesso di tradurlo, sia pur sommariamente. E penso che sia meglio che tu venga messo al corrente del suo contenuto.”
Esitò un momento, prima di proseguire.
“La pergamena contiene il seguito della storia, ciò che si era perso nelle nebbie del tempo.”
“Un seguito?!” ripeté Ranma.
“Sì. E insieme una nuova versione, oserei dire. La narrazione comincia dal momento in cui Ryuukei creò il Tai-ma no Mamori.” Obaba tossì e, impugnato il rotolo, cominciò a leggere ad alta voce.

“Ryuukei, il leggendario signore del Tempo e dello Spazio, si era manifestato sulla terra non in tutta la sua potenza, ma in modo tale da poter consegnare di persona al figlio, ormai ridotto a semplice mortale, l’amuleto che avrebbe posto rimedio allo scherzo del dio del Caos. Così facendo, però, rese possibile il caso che anche un altro essere umano fu in condizione di assistere a tutto ciò: e di scoprire, così, la verità riguardo Saitoki.
Quella persona era Pyu-ha, la pastorella da lui amata.
Anch’ella ricambiava il sentimento e, quando vide che egli aveva lasciato il villaggio, si era messa immediatamente alla sua ricerca, guidata da nient’altro che il suo cuore. Questo si rivelò una buona guida, ma per la fanciulla il raggiungimento della meta sarebbe stato appena l’inizio del dramma.
Era notte fonda e Pyu-ha si stava arrendendo alla stanchezza, dato che, da quando era partita, non aveva mai interrotto il suo viaggio, nemmeno per la sosta più breve. Fu proprio allora che udì una voce e questa era, inconfondibilmente, quella di Saitoki. Piena di gioia, le andò incontro, ma si fermò non appena scorse Ryuukei. Inizialmente spaventata, rimase nascosta dietro alcuni alberi e fu così che ascoltò il discorso non vista...
Un momento dopo che Ryuukei ebbe consegnato il talismano al figlio e fu ripartito verso la propria dimora celeste, Saitoki avvertì un sussulto. Era Pyu-ha che singhiozzava, tradendo involontariamente la propria presenza. Accortasi di essere stata scoperta, la giovane scappò via. Saitoki la rincorse e questo durò parecchi minuti. Quando, infine, Pyu-ha si arrestò esausta, Saitoki si fermò a pochi passi di distanza e si decise a parlare.
Pyu-ha… perché fuggi da me?” le domandò, addolorato.
Ho sentito ogni cosa!” rispose lei, piangendo. “Per tutto questo tempo, mi hai nascosto di essere un dio!
Capisco…” mormorò lui, credendo di leggere correttamente le lacrime che bagnavano il viso dell’amata. “Dunque mi disprezzi, dato che adesso conosci la mia autentica natura. Perdonami se non sono stato sincero, se non ti ho mai rivelato la verità su di me, ma temevo appunto che la cosa potesse spaventarti! Lo so, so che ti ho deluso… e ti comprendo… ti comprendo benissimo, se vuoi starmi lontano, d’ora in avanti.” concluse, con un sospiro sofferto.
No!” si affrettò ad esclamare Pyu-ha, non potendo sopportare che lui pensasse una cosa simile. “Non dire che io ti disprezzo… perché non è assolutamente vero e non potrei mai farlo. Ma ciò non toglie che questa è l’ultima volta che noi due ci vedremo.
Saitoki conobbe, in pochi secondi, la felicità, nel sapere che Pyu-ha non lo odiava, e poi di nuovo la disperazione, ma una disperazione ancora più profonda di quella che ebbe provato in passato, nell’udire le parole finali.
Come?! Se non mi disprezzi, cos’è che non va?!” replicò, con un filo di risentimento. “Perché non potremo più vederci? Hai paura, forse, che possa perdere il controllo dei miei poteri? Ma questo, adesso, non costituisce più un problema, te l’assicuro!
Non è questo, infatti, Saitoki! Non sono io a non poter stare con te… ma tu con me.”
“Che vuoi dire? Pensi che sia io a non volerti vicino? Allora non l’hai ancora capito? Non sono fuggito per questo!
” disse lui, rompendo la distanza che li separava. “La mia unica intenzione era non farti correre alcun rischio. Il solo pensiero che la mia manifestazione divina avrebbe potuto ucciderti non mi lasciava il cuore in pace un singolo istante. Impazzivo a quella sola idea. Ci tengo troppo alla persona che… che amo! Mi hai sentito, Pyu-ha, io ti amo!
La giovane parve illuminarsi, a quell’affermazione. Le lacrime si arrestarono. Ma ciò durò solamente pochi secondi. Lei conosceva il motivo. E pensò che fosse giusto che anche lui ne divenisse consapevole.
Oh, Saitoki! Anch’io ti ho sempre amato! Però… però questo non cambia niente.”
“Che significa?
” esclamò lui, che non sapeva più se urlare per la gioia o per la frustrazione. “Giuro che non ti lascerò mai, che rimarrò con te per tutta l’esistenza!”
“E’ questo il punto! Tu sei immortale… ma non io. Mentre per te non sarà passato un considerevole lasso di tempo, mi vedrai velocemente invecchiare e morire. Sei veramente disposto a sopportarlo? Apparteniamo a mondi diversi, e questo non si può cambiare in alcun modo!
” disse la pastorella, con un ultimo singhiozzo.
Rimasero entrambi in silenzio. Ora anche Saitoki aveva capito.
Pyu-ha aveva smesso di piangere. Non doveva piangere nel momento dell’addio. Salutò mentalmente l’amato, quindi accennò a correre via da lui. Per sempre. Ma il braccio di Saitoki la trattenne.
Ci ho pensato.” disse. “E il modo c’è… un unico modo!
Saitoki aveva conosciuto infinite culture e popoli. Si era sempre chiesto cosa li spingesse ad andare avanti, nonostante la loro mortalità. Cosa desse loro la forza di vivere con tanta intensità quel poco tempo che avevano a disposizione.
Si sfilò il Tai-ma no Mamori. “Lo vedi? Se non porto questo, io adesso sono un semplice essere umano. Come te. Umano… e mortale.
Saitoki…” mormorò lei. “Non posso… non posso chiederti un sacrificio del genere! Non è giusto!
Ma Saitoki sorrise. Aveva finalmente trovato la risposta che aveva tanto cercato.
Un sacrificio, dici? Pyu-ha, un sacrificio sarebbe una vita eterna senza di te! Invece noi vivremo insieme ed invecchieremo insieme. E godremo con ogni nostro senso, nella massima intensità, ciascun prezioso istante che ci offrirà il calice della vita… e ogni attimo sarà per noi infinito… e berremo avidamente assieme ogni singola goccia della nostra eternità!” disse, prima di baciarla.
Segnando in questo modo il suo – ed il loro, ora comune – destino.”

Ranma si destò come da un sogno. Le parole della vecchia Cologne erano state talmente coinvolgenti da dargli l’impressione di aver vissuto di persona i momenti solamente narrati. Soprattutto, pensò ancora ed ancora al gesto di Saitoki. L’amore poteva portare a tanto? Gli venne in mente, per converso, quanto tempo lui avesse sprecato, fino a questo punto.
Ciò occupava il suo animo, turbandolo, mentre continuava a fissare l’amazzone con gli occhi spalancati, ma in realtà persi nel vuoto dei ricordi e dei dubbi circa un futuro che gli si presentava più caliginoso che mai.
“Adesso capisci, consorte?” continuò la vecchia, inconsapevole di ciò che avveniva nel ragazzo. “Saitoki rinunciò ai poteri del medaglione e questo spiega come mai il talismano è andato custodito nei secoli dalle guide di Jusen: fu lui stesso, probabilmente, ad affidarlo a loro. Non è tutto bianco o nero. Zhou Chuan Xiang, come vedi, si rivelò un bene per Saitoki, che poté grazie ad esso coronare il proprio sogno d’amore.”
Ranma si costrinse a scuotersi una seconda volta, concentrandosi di nuovo sulle parole di Obaba. Tutto questo aveva la funzione di commentare l’operato di Muchitsujo, dopotutto.
“Lo vedo.” disse. “Lo scherzo di Muchitsujo, forse, non aveva un’intenzione così malvagia. Ma fu punito lo stesso, no?”
“Questo è vero.” ammise lei. “Forse le altre divinità non erano ancora a conoscenza della decisione di Saitoki. Chi può dirlo? Sembra che adesso abbiano, in ogni caso, ammesso di nuovo il dio del Caos tra loro.”
“Ora che ci penso!” Ranma schioccò le dita. “Mi ha… affidato il suo protetto. Cosa voleva dire con questo?”
“Non credo si tratti di nulla di particolare: suppongo che si riferisse a Zhou Chuan Xiang, dato che sei caduto in una delle sue sorgenti. Certo, non posso affermarlo con certezza. Piuttosto…”
“Cosa?”
“Quando tu hai varcato lo squarcio della materia... Spero che il fatto resti senza conseguenze: per quello che ne sappiamo, la tua bella iniziativa potrebbe tanto non aver comportato nulla di nulla, quanto aver destabilizzato irrevocabilmente l’Ordine delle cose: in questo o in chissà quale altro mondo.” Cologne sospirò. “Del resto, non è in nostro potere fare alcunché. Possiamo solo sperare in bene.”
Ranma sudò freddo. Ritenne fosse il caso di tacere, sia riguardo alle sue continue interferenze con l’universo parallelo, che intorno a quella specie di sogno, o cos’altro fosse, in cui aveva forse aiutato l’altra Akane a sconfiggere il dojo yaburi.
“Bene, questo è tutto. E’ tempo di andare, per noi.” riprese Cologne, chiamando poi a sé in lingua cinese la bisnipote e il quattrocchi, che stavano sistemando le loro poche cose.
Prima che i due giovani li raggiungessero, Ranma domandò istintivamente alla vecchia: “Riguardo Shampoo?”
Non serviva aggiungere altro. L’espressione dell’anziana amazzone si fece più grave.
“Ha agito senza dirmi niente. Ha adoperato una tecnica proibita. Ha tradito la mia fiducia. Direi che è stato trasgredito un certo numero di leggi amazzoni. Ma” si affrettò ad aggiungere “è pure vero che sembra averne preso coscienza. Ha cercato di riabilitarsi ed in effetti è anche in parte merito suo, se adesso noi siamo qui a parlare di ciò.”
“Capisco.” disse Ranma, non sapendo cos’altro dire. Si sentiva in colpa perché avrebbe dovuto sentirsi infuriato nei suoi confronti, per la trappola apparentemente mortale che aveva teso ad Akane, eppure non lo era. Tra l’altro, Shampoo aveva, in seguito, difeso Akane contro Shingo, nella caverna. Almeno pareva che lo avesse fatto. Non sapeva affermarlo con certezza.
“La cosa migliore è un certo periodo di severo addestramento nel nostro villaggio.” proseguì Cologne. “In qualche modo, dovrà espiare le sue colpe. Lei lo sa, gliene ho già parlato. Ma credo che non sarà lasciata sola, credo che qualcuno vorrà accompagnarla.” Alzò lo sguardo verso il cinese vestito di bianco, che solo allora si stava incamminando.
“Ti riferisci a Mousse?” Il giovane Saotome dilatò vistosamente le pupille. “Sbaglio o hai cambiato opinione su di lui?”
“Ah, questo no! Resta un grande impiastro e sicuramente non farei mai a cambio tra te e lui come mio futuro genero. Sta di fatto, però, che affidare il Nekohanten alla sua conduzione, finché noi ci troveremo in Cina, sarebbe un autentico suicidio… e, soprattutto, nella grotta Mousse ha sconfitto Shampoo ed in un regolare combattimento, ricordi? Le leggi di Joketsuzoku parlano chiaro, a riguardo.”
“Ma allora vuoi dire…”
“Frena! Questo cambia tutto e non cambia niente. Diciamo solo che ora si è, per così dire, legittimato. Se mai un giorno la mia nipotina dovesse stancarsi di te, da oggi Mousse rientra tra i possibili pretendenti. E se per assurdo Shampoo dovesse scegliere proprio lui, io non avrei più niente in contrario… Ma sta' tranquillo, tu rimarrai sempre il mio consorte preferito!” ammiccò, in una maniera che a Ranma fece rizzare leggermente il codino.
Nel frattempo, Shampoo e Mousse erano arrivati. Lei era irriconoscibile. Il ragazzo con il codino non ricordava di averla mai vista in tale stato: certo, non si aspettava che gli saltasse addosso abbracciandolo e gridandogli “Wode ailen!”, non dopo tutto ciò che era accaduto; ma la cinesina era remissiva come non mai ed evitava, inoltre, il viso rivolto costantemente verso il basso, di incrociare il suo sguardo. Ranma notò che non erano soli. Akane, vedendoli in movimento, si era silenziosamente aggregata al gruppo.
“Bene, partiamo subito.” disse la vecchia. “Mi sembra inutile passare per il ryokan.”
Mousse salutò alzando appena il capo, il braccio sinistro ricoperto da un’ingombrante fasciatura. Ranma ricambiò alla stessa maniera. Quasi nel medesimo momento, Shampoo e Akane si erano rivolte uno scambio di sguardi, che il giovane Saotome non fu in grado di decifrare.

Poi venne la parte più difficile.
La ragazza si fece forza e alzò il volto verso Ranma. Ma nient’altro. Era veramente, quella, Shampoo l’indomita amazzone? Ranma non era un genio a capire cosa passasse per la testa degli altri, ma percepì chiaramente il sentimento che impregnava la giovane.
Paura. Shampoo aveva paura. Di quello che le avrebbe detto.
E lui… cosa le avrebbe detto? Sinceramente, non lo sapeva. Fu per questo che, alla fine, parlò come gli suggerì l’istinto.
“Così, stai per partire.” Nel pronunciare la frase che al suo stesso orecchio percepiva come delle più stupide e banali che avesse mai articolato, perfino per i suoi canoni, avvertì che la propria voce non celava rimprovero, non era alterata. Non era nulla in particolare. Sentì che doveva proseguire, in qualche modo.
“Uhmm, com’è che dite voi in Cina?... Bie la.” ¹
Shampoo sospirò, rilasciando la tensione. Aveva inteso. Ranma non la odiava.
Poteva bastare.
Per adesso.
“No.” scosse la testa, accennando per la prima volta un sorriso. “Non bie la. Ma zai jian.” ²
Cologne ridacchiò, a quella scena. “Non devi preoccuparti troppo, consorte!” aggiunse, marcando l’ultima parola. “Vedrai che torneremo presto. Molto prima di quanto tu possa immaginare.”
Le due donne si avviarono insieme, mentre Mousse le seguì da tergo senza proferire una parola.
*Buona fortuna!*
Fu con questo pensiero, teoricamente rivolto al solo Mousse, che Ranma li accompagnò, mentre si facevano sempre più piccoli, lungo la linea dell’orizzonte infuocato dal calare del sole, fino a scomparire del tutto. Scorse Akane al suo fianco e, per un attimo, s’irrigidì preoccupato da una sua possibile reazione. Ma la fidanzata era ancora intenta a fissare con lo sguardo nella stessa direzione e Saotome finì con l’immaginare che non stesse pensando qualcosa di troppo diverso.

“Direi che è ora di avviarci anche noi.” disse Genma, a braccia conserte e con sguardo grave, affiancandosi al figlio. “Tanto più che il sole sta tramontando. Si è fatta ora di cena… e il cibo che ho preso dal tuo zaino, che avevi lasciato qui all’ingresso della caverna, bastava appena per una persona!” aggiunse, pulendosi poi con uno stuzzicadenti.
“Che cosa?!” esclamò Ranma, voltandosi esterrefatto. “Vuoi dire che ti sei appena fregato il pasto che mi aveva preparato mia madre?! Maledetto!”
“E’ anche mia moglie!” protestò l’altro. “E poi non è colpa mia, se a me non l’ha preparato.”
“Cosa ho fatto di male per avere un padre così goloso e così geloso? Vieni qui!” e prese a rincorrerlo.
Ryoga fissò malinconicamente, dalla cima di una rupe, quei soliti battibecchi. Le cose non cambiavano mai, tra loro. Pensò che nello zaino aveva un souvenir. Akari l’avrebbe gradito, sperava. Forse si sarebbe dovuto avviare, mettersi in cammino per raggiungere la sua fattoria prima che scadesse pure questo. Solo che… solo che…
“Che hai intenzione di fare qui in disparte, mammalucco? Non vorrai perderti un’altra volta?!” Ukyo lo colpì piano sul capo con la solita spatola, o meglio, quel poco che ne era rimasto dopo lo scontro con Asura. “Ora tu vieni con me, immediatamente, al ryokan, ti ci dovessi portare legato mani e piedi! Non so gli altri, ma io non ho nessun’intenzione di fermarmi in questo posto qualche altro giorno per mandare le squadre di ricerca a prenderti.”
“Ukyo…” Il ragazzo con la fascia immaginò che anche lei stesse condividendo i suoi pensieri, in quel momento.
“E poi devo tornare al locale, prima che Konatsu mi mandi in bancarotta. Non posso perdere un giorno di più. Inoltre ho in mente una nuova ricetta di okonomiyaki che farà letteralmente impazzire Ran-chan e…”
Ryoga le pose gentilmente un indice davanti alla bocca. Le sorrise, in atto di conferma, e si avviò con lei.



EPILOGUE


Ranma sbuffò, mentre finiva di tornare sui propri passi. Essendosi fatto tardi ed avendo ancora fame, suo padre aveva pensato bene di svignarsela, dichiarando ad alta voce che sarebbe tornato per primo al ryokan, padre tanto generoso da permettere al sangue del suo sangue di trascorrere un po’ di meritata intimità con la propria fidanzata. Si credeva pure spiritoso! Ma il ragazzo con il codino aveva deciso di rinunciare all’inseguimento. Tanto, sapeva che al vecchio l’avrebbe fatta pagare una volta tornato. Come al solito.
Già, proprio come al solito. Ranma si fece più serio. Com’è che aveva detto la vecchia?
Era cambiato tutto e non era cambiato niente.
Proprio vero. Nonostante quello che avevano passato, l’equilibrio, solo apparentemente sottile, che legava le persone che si rapportavano a lui, in sostanza non si era modificato. Perfino Shampoo sarebbe tornata presto in Giappone, pensò. E la sua vecchia bisnonna avrebbe escogitato qualche nuovo stratagemma per incastrarlo, senza dubbio. Tutto come sempre. In quel modo, gli interrogativi che lo torturavano dall’inizio dell’intera vicenda non si erano per nulla sopiti, ma, al contrario, parevano essersi alimentati di nuova linfa vitale per tornare a martellarlo, più insistenti che in precedenza.
Aveva rimpianto di essere penetrato a forza nelle loro vite. Nella sua vita. Poteva biasimarsene ancora? Dopotutto, aveva sperimentato sulla propria pelle cosa fosse un mondo senza di lui. Nemmeno lì, le cose andavano come voleva, tanto che erano state, paradossalmente, proprio le sue continue interferenze ad aggiustare qualcosa. Ma allora? In definitiva, cos’avrebbe dovuto fare, lui?
“Ranma…”
La voce di Akane lo riscosse dai propri pensieri. Si rese conto di essere rimasto veramente solo con lei, suo padre dunque non scherzava. Che fine avevano fatto Ryoga e Ucchan? Guardò la fidanzata, con aria confusa e allo stesso tempo curiosa. In effetti, non si erano più scambiati una sola parola da quando erano usciti dalla caverna.
“Obaba, prima, ha raccontato, a me e agli altri, di quello che è successo nella grotta con Muchitsujo.” disse la minore delle Tendo, quieta. “Beh… direi che ci è andata bene. Siamo stati fortunati, vero?”
Ranma ebbe l’impressione che non fosse questo l’argomento di cui lei intendeva parlare. Sembrava voler aggiungere qualcos’altro. Cosa, dunque?
E d’un tratto, si ricordò.

E’ da molto tempo che volevo dirti… che…

Avvampò all’istante e sperò che Akane non se ne fosse accorta. Per qualche strana ragione, adesso che non si trovavano più in pericolo di vita e ogni minaccia era definitivamente cessata, il giovane con la treccia non sentiva più la pressante esigenza di concludere quel discorso. Né lei, ora, l’avrebbe potuto costringere. D’altronde non aveva nessuna prova, riguardo ciò che voleva dirle… giusto…?
Dannazione! Ecco che ci ricadeva! Eppure, dopo l’esperienza nel mondo alternativo, lui credeva di essere cambiato… almeno un po’. Aveva fatto maggiore chiarezza riguardo ai propri sentimenti. E allora, perché continuava ad esitare?
Forse perché… Perché aspettare era facile. Molto più facile. Ma quanto sarebbe potuto durare?
“Scusami.”
Non appena udì Akane aprire bocca, scattò in lui la molla. “Non so di cosa tu stia parlando!” si sbracciò Ranma, scattando come morso da una tarantola. “Guarda che non ho detto, assolutamente, categoricamente, nulla del genere e… c-come?” afferrò solo allora ciò che aveva proferito la fidanzata.
“Mi riferisco a poco fa, nella grotta.” Si spiegò Akane, che parve non aver fatto caso alla reazione del fidanzato. “Se non fossi tornata, nonostante quel che avevi detto, e Shingo non mi avesse preso di mira, sarebbe stato tutto più facile, penso. Forse… forse io non dovrei nemmeno essere qui…”
Si tranquillizzò. Non era l’unico con i sensi di colpa. Ma lei non aveva motivo di farsene. Volle farglielo comprendere e pensò che, una volta tanto, doveva dirle qualcosa di gentile.
“Ma dai!” fece. “Eppure l’hai capito, che prima non parlavo sul serio! Cosa vuoi che me ne importi delle fesserie che fai senza pensare?! Ne combini così tante che ci sono abituato, quale sarebbe la novità?” sdrammatizzò, con un grosso ghigno stampato in bocca. Per poi indietreggiare di un passo, al repentino mutare dell’espressione della ragazza, che aveva assunto uno sguardo a dir poco omicida. Forse, a ben pensarci, non era stato abbastanza gentile. Avrebbe fatto meglio a spiegarsi al più presto, per il loro – e per il suo stesso bene.
“V-volevo dire che, se tu non avessi fatto quella fesseria… no, cioè” aggiustò subito la frase “se non fossi intervenuta, forse non avrei fatto in tempo a scagliare l’Hiryu Shotenha contro Shingo.”
“Non è solo questo.” Akane si era ricomposta. “Se Shampoo non avesse cercato di sbarazzarsi di me, tutto ciò non sarebbe accaduto. E’ stato per me.”
“Che?! Non dire assurdità!” sbottò Ranma. Non doveva sentirsi in colpa lei. Per una cosa della quale, in fondo, la colpa era piuttosto di lui che non aveva mai voluto fare chiarezza con le fidanzate. Proseguì, con tono più dolce: “Oggi mi hai salvato la vita… e nemmeno questa, del resto, è una novità…”
“Ranma…” disse lei di nuovo, colpita da quell’inatteso seguito del discorso.
“Certo, so di averti troppe poche volte ringraziato veramente per tutto quello che fai per me… il fatto è che sono maldestro, con le parole.”
“Sì, lo so.” Akane sorrise, ripensando alle diverse cose, oltre a questa, che lui le aveva confidato nell’altra grotta, quella di Jusendo: cioè che non aveva mai inteso farla arrabbiare sul serio, o ferirla; che ciò succedeva quando tentava, senza successo, di dirle quello che provava veramente. Da allora era divenuta più sicura, perché aveva inteso che Ranma sentiva qualcosa nei suoi confronti. Ma temeva, ancora, lei stessa, di approfondire l’argomento. Non riusciva a compiere quell’ultimo passo: guardare in faccia, anche lei, i propri sentimenti ed esporsi.
“Se è per questo” sussurrò la minore delle Tendo. “Nemmeno io sono brava con le parole… e neanch’io credo di averti saputo ringraziare per tutte le volte, compreso oggi, in cui sei stato tu a salvarmi…”
“E’ vero che non dovresti essere qui.” riprese Ranma, scuotendo la testa. “Perché non dovresti essere tu a correre tanti rischi. Perché, se è vero che ti salvo dai pericoli, il più delle volte, quando ti trovi in pericolo, è proprio… per tirare me fuori dei guai.”
Il ricordo del monte Hooh, il più recente prima di quel giorno e, contemporaneamente, il più atroce, lo assalì di nuovo in tutta la sua brutalità. Akane era quasi morta, per aver girato quel dannato rubinetto della Fenice salvandolo dai filamenti di Safulan. Così anche questa volta, non aveva ripetutamente rischiato la vita, gettandosi nel varco e combattendo Shingo, sempre per lui? Quello che Ranma aveva cercato in ogni guisa di evitare, persino scacciando la fidanzata da sé in malo modo. Senza successo.
E lui forse ne conosceva il motivo. Ecco perché doveva agire e cambiare qualcosa.
“Come posso permettertelo ancora?” continuò. “Non deve più succedere. Per questo, tra noi, non voglio che… che le cose continuino in questo modo.”
Akane lo guardò attentamente.
“Dunque… mi vuoi lontano dalla tua vita?” Non lo chiese con risentimento, anzi. Sembrava essere avvolta da una strana lucidità. Era evidente che entrambi sentivano il desiderio che qualcosa cambiasse, tra loro. Ma temevano, allo stesso tempo, che ciò avrebbe solamente complicato ancor di più le loro esistenze. Ranma era un artista marziale, più passava il tempo e più avversari trovava sulla sua strada. Sempre più pericolosi. Il fatto, poi, che, come le aveva raccontato Obaba, l’anima del fidanzato fosse intrisa di Caos, questa era un’ulteriore promessa riguardo nuovi futuri nemici e nuove future minacce. Poteva permettersi di dargli il peso ulteriore, in questi scontri, di dover anche… pensare a lei?
“NO!” replicò con decisione Ranma. Akane sgranò gli occhi, prima di intendere che la negazione era riferita alla prima domanda, quella che gli aveva rivolto ad alta voce. “Stai sempre a fraintendermi! Non volevo dire questo!”
”Allora… che volevi dire? Come vuoi che continuino, le cose?” domandò lei, con recuperata calma.
Non avrebbe frainteso, stavolta. Voleva solo ascoltare. La verità. E Ranma lo capì. Ma qual era la verità?
“Io… io non lo so.” disse, girandosi nervosamente i pollici. Si sforzò di continuare, ma le parole gli morivano in bocca.
“Capisco.” Akane sorrise amaramente, mordendosi il labbro, quindi si voltò di spalle.
Attese qualche secondo, ma il silenzio del fidanzato fu la risposta che ritenne più eloquente. Alzò lo sguardo al cielo. Le prime stelle della sera stavano affacciandosi nel firmamento. La giornata stava volgendo alla conclusione. Forse non solo quella. Si avviò.
“Sta facendosi buio.” mormorò. “Io torno al ryokan.”
A quello, Ranma si sentì il cuore in gola. Non poteva perdere anche quest’occasione!
Maledizione, perché non riusciva a parlare? Perché doveva essere tutto sempre così difficile?! Ripensò a Saitoki, che non si era fermato di fronte ad ostacoli ben più gravi. Poteva lui essere da meno? Se era vero che le cose non erano cambiate, sapeva che era altrettanto vero che lui stesso avrebbe potuto, in quel momento, cambiarne una.
La più importante.
E lo fece. Cinse Akane da dietro con entrambe le braccia, trattenendola. Non si accorse che la ragazza aveva sussultato, al suo tocco. Il ragazzo col codino prese un lungo respiro, per scuotersi di dosso l’agitazione che l’aveva sconvolto da capo a piedi per quel solo gesto.
Riprese a parlare.
“Non lo so… non so quello che ci riserverà il futuro. Diamine, non so nemmeno quale assurdità ci potrebbe capitare domani stesso! Ma voglio avere una sicurezza in più.” aggiunse. “Me ne basta una sola. Io… non ti sto chiedendo di non essere qui. Però voglio dovermi preoccupare il meno possibile per quello che combini. Voglio essere nella condizione di poter controllare che tu non faccia niente di azzardato. Voglio che tra noi non ci siano più incomprensioni. Voglio… non rimanere solo.” Imprecò silenziosamente contro la timidezza che voleva impedirgli di proseguire e spiegarsi meglio. “Quello che sto cercando di dire è che… voglio essere...”
Il tempo si fermò un istante per entrambi, prima che lui, guardandosi le scarpe, trovasse la forza di concludere.

“…con te.”

L’eco di queste parole si confuse col battito accelerato dei loro cuori. “Ra…” ebbe appena modo di accennare la giovane con i capelli corti, mentre lui, lasciandosi guidare completamente dal proprio istinto – che non aveva mai fallito, non cominciasse proprio ora! – cercava le sue mani e gliele stringeva, spingendola a girarsi.
I loro sguardi si incrociarono, finalmente. Ranma era adesso incapace di pronunciare qualunque altro suono, rapito dalla bellezza di lei. Ma non ce n’era bisogno. I loro occhi si specchiavano ciascuno in quelli dell’altro. E si dicevano tutto quello che non erano in grado di esprimere con le parole.
Avvicinò lentamente il proprio viso al suo, le gote di entrambi che arrossivano ogni secondo che passava. Si arrestò quando i loro nasi quasi si toccavano, attendendo un qualunque consenso della fidanzata.
Akane si sentì invasa da una sensazione di gioia pura.
Ranma stava per baciarla.
Ranma voleva che loro fossero insieme.
“Anch’io…” gli sussurrò inavvertitamente, levandosi in punta di piedi, sorridendogli e sciogliendo così le ultime resistenze di entrambi, dettate dalla timidezza e dall’orgoglio. Inclinò leggermente il capo e chiuse gli occhi.
Ranma la imitò subito dopo.

Il ragazzo con il codino pensò, un’ultima volta, all’altra Akane. Pensò a come si fosse sentito colpevole per averla lasciata sola. Adesso era però tornato dalla sua Akane, nella sua realtà. Lei, non l’avrebbe mai abbandonata, per nulla al mondo.
Ricordò ciò che si era ripromesso quel giorno, al parco.
Non aveva alcun dubbio.

*E’ qui, che voglio che avvenga!*

Fu l’ultima considerazione razionale. Mentre le loro labbra si accingevano a toccarsi reciprocamente, dando vita al loro vero primo bacio, Ranma non pensava più a nulla, tanto meno all’avvenire. Akane era il presente e lui sapeva di non desiderare altro.

Qualunque cosa il futuro avesse avuto in serbo per loro, avevano entrambi una certezza in più.





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Il finale è sempre la parte più difficile da scrivere. Ma uno dei motivi è che non mi sembrava vero di stare concludendo definitivamente una Fan Fiction la cui stesura mi ha accompagnato per qualcosa come circa due anni.
Non riesco ancora a credere di aver realmente scritto tutto, ma proprio tutto quel che avevo ideato, senza saltare nulla, senza semplificare minimamente. Ignoro il risultato, ma vi assicuro che è stato qualcosa di parecchio impegnativo. E sicuramente, non ce l’avrei mai fatta senza il continuo sostegno, le recensioni, gli incoraggiamenti, i consigli, i suggerimenti che ho ricevuto capitolo per capitolo, che mi hanno permesso di intervenire più volte in corsa, modificare certi particolari, in una parola: migliorarmi.
Non so cosa avrei fatto senza di voi. Non posso che ringraziarvi come sempre. Sappiate che grandissima è la gratitudine che provo nei confronti di tutti, nessuno escluso. Compreso anche chi è rimasto nell’ombra, ma ha comunque deciso di perdere un po’ di tempo nella lettura di questa storia.
Bene. Tutte le domande hanno avuto una risposta, alla fine. Ma se ve ne avanza lo stesso qualcuna, chiedete pure: vi risponderò nel topic relativo a questa FF, sul forum N di Nibunnoichi, come ho avuto modo di ricordare più volte. Dunque ci tengo, fatemi sapere le vostre opinioni! ^^

Kuno84




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