I ciliegi della città

di Angemon_SS
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Charlie Brown ***
Capitolo 2: *** La canzone del sole ***
Capitolo 3: *** Tsubasa wo kudasai ***



Capitolo 1
*** Charlie Brown ***


Capitolo 2

 

Charlie Brown

 

 

Non ricordo se in un film o in un libro, ma una volta l’attore Robin Williams disse che il Creatore ci aveva dotati di un organo riproduttivo e di un cervello e, purtroppo, sangue sufficiente a farli funzionare solo uno alla volta. In poche parole se avessi ragionato con il pene, quella mattina mi sarei svegliato con Sakura accanto, invece mi svegliai con un forte mai di testa. Troppo sangue al cervello.

Dopo una decina di sbadigli mi decisi ad aprire l’acqua della doccia e, preso il rasoio, mi chiusi dentro per la sciacquata mattutina. Senza barba ribelle, lavato e profumato mi presentai al lavoro con il preciso intento di non essere disturbato per tutto il resto della mattinata. Oramai l’attività era in moto e teoricamente potevo anche saltare un giorno o due di ufficio, me lo meritavo dopo tutto l’impegno che avevo messo per garantire un’apertura puntuale, eppure sapevo che i miei superiori di Hong Kong non me lo avrebbero permesso quindi, durante la videoconferenza giornaliera, non lo chiesi nemmeno. Ricevetti i complimenti quotidiani per il buon lavoro svolto fino a quel momento e terminai il programma.

Il sorriso di Yuko fece capolino nel mio ufficio con una tazza fumante di caffè. Il suo fu il primo curriculum che mi capitò tra le mani e fu anche la prima persona con la quale pranzai in città, prima avevo sempre mangiato da solo finché non la presi con l’azienda, mi consigliò i posti migliori nelle vicinanze. Fu il suo sorriso a convincermi, era piena di vita e portava sempre con se una spilla del nastro rosa, simbolo che aveva sconfitto un cancro al seno, non le ho mai chiesto niente ma penso che fosse quello il motivo della sua gioia permanente.

Tra di noi c’era parecchia sintonia e dopo il lavoro non era raro andare a cena insieme- o anche solo a passeggiare, stare tutto il giorno seduti ti pietrifica le ginocchia - più di una volta. Si può dire che stessi bene in sua compagnia, forse per il fatto che, a differenza di un’altra mia conoscenza, non mi aveva chiesto di andarci a letto il secondo giorno.

«La vedo stanco questa mattina.» La sua voce mi ridestò in quanto mi stavo per appisolare. Tutta colpa di Sakura: passai la notte in un bagno di sudore tra sogni poco casti, un miscuglio di incubi e citazioni grottesche, in più il mal di testa martellava incessante.

 «Vorrai dire “più stanco del solito”.» Cercai di sorridere e sembrare lucido mentre assaporavo il caffè bollente. «Non ho avuto una notte tanto tranquilla, aggiungerei per niente.»

«Si tratta di una donna?» Lo chiese con un virgola di invidia e feci finta di non accorgermene.

«Incubi…» Il telefono della scrivania di Yuko mi salvò da una conversazione indesiderata, restai solo con il caffè, il mio tessssssoro! Non ricordo di averne mai bevuto così tanto come in quel periodo, ho rischiato di diventarne dipendente, così come lo ero per le sigarette. Infatti mi venne voglia di uscire a fumare non appena terminai la tazzina.

«Shaoran!» Tomoyo. Lei la riconobbi all’instante, esplose il mio nome come se volesse assordare tutti quelli che erano in strada, tanto che spense la fiamma dell’accendino. Non era cambiata molto, a differenza della cugina, anche le sue forme si erano ammorbidite con la crescita ed era diventata molto alta, praticamente quanto me.

«Buongiorno, sigaretta?»

«Grazie!» Ne prese una dal pacchetto e le porsi la fiamma del mio accendino. «Accidenti a te: erano tre giorni che non fumavo, sto cercando di smettere.»

«Bastava dire “no, grazie”.»

«Lo so ma mi rilassano, soprattutto in questo periodo…comunque, come vanno le cose? Vedo che l’attività è tranquilla, inoltre Sakura mi ha raccontato della cena superlusso di ieri notte.» Se la ridacchiava sotto i baffi.

«Ti ha raccontato ogni particolare?»

«Ovvio, però non ho ancora deciso se etichettarti come idiota o gentiluomo.» Non ho mai capito come facesse a dire ogni singola frase con lo stesso beato sorriso. Sembrava un agnello pronto al macello. «In ogni caso, mi ha confessato che era tesissima all’idea di averti così vicino e che sei stato davvero gentile, è molto felice di averti rivisto.»

Tesissima? Una persona tesa non si getta su di un'altra persona gridando di andarci a letto, ma questi sono punti di vista. Vidi che gettò la sigaretta ancora prima che arrivasse a metà, era il momento che fossi io a chiedere qualcosa: «A te come vanno le cose?»

«Mi sono laureata e gestisco l’azienda di mia madre, quella di giocatoli, inoltre ho voluto aprire una divisione per i film ed i cartoni animati, abbiamo fatto alcuni corti istruttivi per le scuole ed adesso sto producendo un film, mi sarebbe piaciuto girarlo di persona ma non ho la stessa bravura del regista. Se vuoi, quando sarà terminato potrei farti avere un biglietto per la prima, magari riesce a venire anche Sakura.»

Sakura, Sakura, Sakura, si finisce sempre col nominarla, stava cominciando ad annoiarmi quel nome.

«Ti ha per caso detto che sta con qualcuno?» Come volevasi dimostrare, sempre a parlare di lei, perché Tomoyo se ne uscisse con quella domanda non lo so ma non potei che rispondere con ciò che mi aveva detto la notte prima.

«Non stanno insieme ma sono molto intimi, è da quasi nove mesi che non fanno altro che andare a letto. E’ un po’ brutto messo in questi termini ma è così. Lei non vuole questa situazione e più volte mi ha raccontato come ha provato a cercare qualcosa di più. Escono insieme ma non si sfiorano nemmeno, non si danno la mano, non si baciano, si chiamano per cognome come degli sconosciuti. Dopo un po’ ci fai l’abitudine e lo vedi come una variante di ciò che pensi sia l’amore, ne rimani intrappolato.»

Le mie mani cominciarono a sudare: non volevo sapere i fatti privati di Sakura, mi facevano male.

«Capisci? Sakura ti ha chiesto di stare con lei perché stava cercando conferma.»

«Su che cosa?»

«Sul fatto se possa essere considerata amore la sua situazione attuale. Ti vuole bene, non smetterà mai di volertene, è per questo che avrebbe voluto…»

«Ti ha detto lei di dirmi tutte queste cose?» Avevo deciso che era abbastanza.

«No ma…»

«Allora non continuare, ti prego, non ne ho il diritto ma mi fa male.»

«Lo so…»

«Allora smettila!»

Tomoyo parve sconvolta ma il sorriso tornò sul suo volto in poco tempo: «Comunque, basta parlare di Sakura, sono passata in zona per chiederti un preventivo, vorrei farti entrare nel mio campo, faresti molti buoni affari.»

Rimasi disorientato, un contratto così grosso avrebbe figurato sul mio curriculum con l’inchiostro dorato, era una di quelle occasioni che capitano una sola volta.

«Entriamo in ufficio e parliamone, che ne dici?»

«Preferisco parlane in un bar con calma, da amici, quando hai il giorno libero? Non voglio rubarti tempo.»

«Nessun problema ma se proprio vuoi, ho libero il mercoledì sera.»

«Davvero? Fantastico, allora che ne dici di incontrarci alle 18, davanti al negozio della Apple? Vestiti per la serata, se fai il bravo e le offerte mi convincono di porto a cena fuori.»

Sorrise e la lasciai andare. Ebbi paura, pareva che mi stesse chiedendo di uscire con lei piuttosto di un semplice preventivo, non mi andava di incasinarmi ancora di più.

 

Come concordato mi feci trovare all’ora stabilita davanti alle vetrate della Apple a Shibuya. Mi accesi la sigaretta dell’attesa, come da tradizione, ed alzai di un tacca il volume del mio lettore mp3. Rimasi ad attendere per alcuni minuti finché non passò una siluette che conoscevo a memoria, di colpo risentii quel sapore sulle mie labbra e quasi non ci credevo, Sakura era davanti a me in tutta la sua bellezza - in quel periodo pensavo che diventasse più bella di giorno in giorno – e la sua espressione pareva più sorpresa della mia. Arrossimmo contemporaneamente ma non riuscimmo a distogliere lo sguardo l’uno dall’altra.

«Che cosa ci fai qui?» La prima domanda fu sua.

«Sto aspettando Tomoyo, dobbiamo parlare di un possibile contratto tra la sua azienda e la mia davanti ad un caffè. E tu? Stai andando al lavoro?»

«No, anche io dovrei incontrarmi con Tomoyo, dobbiamo prendere un frappé insieme.»

Ci guardammo per alcuni secondi e dovemmo trattenere una risata. Tomoyo ci aveva fregati, era riuscita ad organizzare un appuntamento tra me e Sakura, a nostra insaputa, non si sarebbe di certo fatta viva e ne ottenemmo conferma quando Sakura ricevette un messaggio da parte della cugina: “Divertitevi!”

«La uccido! Riesce sempre nei suoi piani malvagi.» Ovvio che non era credibile mentre minacciava un telefonino, era troppo buffa; quel suo sorriso: da quando avevo capito di provare sentimenti diversi nei suoi confronti mi ero sempre incantato in quel sorriso che solo lei era in grado di mostrare. Era diverso, era qualcosa di inspiegabilmente bello, era il suo e basta, era quello che ogni persona vorrebbe suscitare in chi ama.

Scaraventò il suo apparecchio nella borsetta e si sistemò i capelli: «Io voglio comunque il frappé!» Lo disse come un capriccio che invoglia alla tenerezza, non potei che accontentarla e mi feci accompagnare nel suo locale di fiducia, d’altronde non conoscevo la zona e non potevo di certo fare da cicerone; entrammo e ci sedemmo nell’unico tavolo libero in zona non fumatori - lo fece apposta! – ci raggiunse in poco tempo una cameriera e prese le nostre ordinazioni.

Ricordo che restammo in silenzio per svariati minuti e passò tutto il tempo a smanettare con il telefonino, stava di sicuro inviando maledizioni su maledizioni per messaggio alla cugina.

«Spero che Tomoyo non ti abbia scombussolato i programmi.»

«Tranquillo.» Non alzò lo sguardo. «Avevo la serata libera e non avrei fatto altro che dormire, solita routine.»

Annuii e ci furono altri interminabili minuti di silenzio finché non ci vennero servite le nostre ordinazioni ed il viso di Sakura si illuminò come quello di una bambina in un negozio di giocatoli. Lo finì nello stesso tempo che impiegai io per zuccherare e gustarmi il caffè – e già mi veniva voglia di fumare – sembrò più tranquilla e rilassata, si stravaccò sulla sedia e mi sorrise.

«Siccome sono una gentil dama, lascerò offrire a te, dopotutto devi sdebitarti per la cena a base di cheeseburger e patatine fritte dell’altro giorno.»

«Hai ragione.» Mi rilassai anche io. «Però è stata una cena troppo elevata, con il caviale avresti risparmiato.» Riuscii a strapparle un altro sorriso.

Ci furono alcuni secondi di altro imbarazzante silenzio finché una bustina di zucchero non si infranse sul mio naso, la colpevole nascose la mano e fece la gnorri.

«Ma guarda, piovono bustine di zucchero.» Stetti al gioco.

«Quello di canna per giunta, il più fastidioso, è un fenomeno che si può osservare solo nei locali al chiuso. Propongo di rifugiarci all’aperto, dove non ci possono colpire!»

Ci alzammo e pagai le ordinazioni. Il tempo era cambiato e si stava annuvolando in modo minaccioso, la seguii lungo la via, ci trovammo in mezzo a centinaia di persone nella zona dei locali e dei negozi più famosi. Migliaia di rumori e brusii ci accolsero sui marciapiedi mentre ci fermavamo di vetrina in vetrina per commentare orrendi vestiti, utilissimi cellulari, dolci e cibi buonissimi. Comprai della frutta secca in una bancarella ambulante e la divisi con lei. Camminammo a lungo e finalmente parlammo, parlammo e parlammo di milioni di cose, sembrava che gli argomenti non finissero mai.

 

«Si, mio padre è tornato in Italia, è docente all’Università di Napoli, sembra proprio che abbia fatto buona impressione quella volta.» Ci sedemmo su di una panchina per riposare i piedi. Ormai era calato il buio e le luci al neon facevano brillare ogni angolo delle strade, di li a poco i negozi avrebbero chiuso e la gente si sarebbe riversata nei locali. «Divido un appartamento con due mie colleghe di lavoro, ci consideriamo sorelle; mio fratello naturale invece, è rimasto a Tomoeda, dopo la laurea è stato assunto da una piccola azienda che si occupa di spedizioni nell’area di Tokio, è il responsabile delle relazioni con i clienti. E tua cugina, invece?»

«A dir la verità non la sento da parecchio tempo, lavora come interprete all’aeroporto di Hong Kong, aiuta i turisti e i lavoratori delle compagnie estere ad orientarsi. Una specie di hostess, ma di terra.»

Per la prima volta dopo due ore ininterrotte restammo in silenzio. Nessuno dei due riusciva a staccare gli occhi da quelli dell’altro e parve come se l’intera città si fosse ammutolita di colpo. Sorridevo perché ero contento di aver passato un po’ di tempo con la vecchia Sakura, quella che conoscevo bene, quella che ricordavo nei miei bei ricordi, non so perché anche lei stesse sorridendo ma speravo si fosse ricordata di qualche istante bello passato insieme.

Un grosso energumeno ci piazzò davanti alla faccia due volantini coloratissimi e se ne andò. Bastardo!

«Interessante.» Sakura lesse attentamente il volantino. «”Vieni a divertiti con il nuovissimo LaserTag, a pochi passi dalla New Tokyo Tower, se batti il record ti offriamo la cena”.»

«Scordatelo.» Non avevo alcuna voglia di sudare i vestiti nuovi.

«Hai paura che io ti possa battere?»

«La psicologia inversa con me non attacca.»

«Giusto! Infatti è un ordine.» Si alzò e corse verso il bordo del marciapiede nell’intento di fermare il taxi che stava sopraggiungendo in quel momento. Il mezzo si dovette fermare con un lungo stridio di freni e gomme, la portiera si aprì in automatico e Sakura si sedette, restai sulla panchina ad osservarla per alcuni secondi. Il giorno dopo sarei dovuto andare al lavoro, ci sarebbe stata la videoconferenza, indossavo i vestiti nuovi. Al diavolo!

Salii sul taxi e presi posto accanto a Sakura, porgemmo il volantino all’autista e fece cenno con la testa di aver capito.

Ovviamente dovetti pagare io la corsa! Vabbè, facciamo i gentiluomo, mi dissi.

«Una partita per due.» Sakura porse i soldi alla ragazza della cassa all’ingresso. Sembrava facile ma dovemmo compilare un modulo di iscrizione e pagare per una tessera annuale, che sarebbe servita come assicurazione medica, fortunatamente la prima partita era inclusa nell’iscrizione. Ci fecero entrare in una stanza piena di otaku ed altri mocciosi per farci vedere un video sulle modalità di gioco.

Due squadre…blablabla…colpire solo pettorina ed arma rigorosamente impugnata a due mani…blablabla…non si corre…blablabla…non si salta…blablabla…non ci si sdraia in terra…blablabla…vietato il contatto fisico…blablabla.

Finalmente si aprì una secondo porta ed entrammo in una stanza con le armature pronte per essere indossate, quasi svogliatamente indossai la pettorina rossa e con la coda dell’occhio notai Sakura indossare quella verde.

«Fai sul serio?»

«Ti voglio bene, mio caro Li, ma in guerra non ci sono regole.»

 

Sakura, perché devi pronunciare queste frasi? Mi uccidi!

 

«Va bene, allora nasconditi per bene, perché non avrai scampo.» Impugnai l’arma cercando di sembrare un perfetto Rambo, penso di essere sembrato al quanto ridicolo.

Finalmente si aprì la porta dell’arena ed ogni squadra marciò verso la rispettiva base. Caricammo le armi e ci sparpagliammo; lo devo ammette: era una figata, ostacoli di ogni genere, luci nere, vernice riflettente, musica a tutto volume, fumo e luci stroboscopiche. L’adrenalina era compresa nel prezzo!

Impugnai l’arma e mi avventurai con altri due compagni alla ricerca della base nemica. Una pettorina verde fece capolino da una finestrella in un ostacolo, era Sakura, sparò tre colpi e tutti e tre andarono a segno. Eravamo fuori dal gioco per dieci secondi e ci nascondemmo finché le nostre armature non smisero di vibrare.

Di li a poco fu un bagno di sudore. Laser da ogni angolo e fessura, grida, risate, bestemmie, qualcuno infrangeva le regole e correva incurante del pericolo, incrociai più volte Sakura e in qualche occasione riuscii anche a colpirla, il resto delle volte mi abbatteva lei, aveva una mira incredibile. Il primo punto per la squadra riuscii a farlo proprio io e ritornai vittorioso alla mia base per ricaricare l’arma. Mi attendeva Sakura, nascosta dietro un angolo, mi tirò per un braccio e mi eliminò: «Mi vendicherò!»

Ed è quello che fece, conquistò la nostra base non una, ma per ben tre volte, incurante del pericolo e dei nostri colpi. Fortuna che in squadra avevo dei giocatori esperti e recuperammo in poco tempo.

Alla fine vincemmo 110 a 89.

Sakura era rossissima in viso, sperava di battere il grande Li Shaorang. Sudati come dei pugili ci dirigemmo con le squadre alla cassa per ritirare le pagelle personali. Nonostante la mia squadra avesse vinto, avevo fatto il minor numero di punti, ero il peggiore della squadra rossa. Sakura invece fu la migliore della verde e non solo, infranse anche il record vincendo la cena. Lo so che a raccontarlo sembra pazzesco ma uscimmo di li con un buono per una cena gratis, per due persone.

«Basta volerlo!» Fu la spiegazione semplice della sorridente sconfitta ma vincitrice. «Peccato solo che il buono sia valido solo per il ristorante dall’altra parte della strada.»

Il ristorante in questione era una kebaberia, semideserta per giunta, consegnammo il buono e prendemmo posto su un divano pieno di cuscini.

«Mi piace questo locale, penso che ci porterò Tomoyo uno di questi giorni.»

«Sei ancora arrabbiata con lei?»

Dopo quella mia domanda si zittì per alcuni secondi ma poco dopo mi mostrò uno di quei suoi sorrisi spensierati. Di quelli di cui ho parlato prima, quelli che ti fanno innamorare di una persona: «Non posso esserlo, hai fatto compagnia, grazie della serata.»

Ci portarono due lattine di birra e ne stappai una. Alzammo i bicchieri che avevo riempito: «Alla vittoria della squadra rossa ed un po’ anche alla squadra verde che offre la cena.»

«Camppai!»

Non nascondo che a cena era ottima e la birra entrò in circolo velocemente. Ridemmo svariate volte, soprattutto dopo il quinto bicchiere, non eravamo di certo i clienti più silenziosi del locale e più volte ci fecero capire di aver alzato troppo il volume della voce.

Ordinammo del thé tradizionale, che non era incluso nel buono, e ce ne andammo con la pancia gonfia, sembravamo due Tanuki di guardia al tempio, identici alle statue.

La serata era finita, mi doleva il cuore ma Sakura sembrava al quanto assonnata. Chiamai un taxi e chiesi di portarmi al mio appartamento che, a detta di lei, era più vicina del suo. Durante il viaggiò si addormentò sulla mia spalla e non posso nascondere che mi fece molto piacere, era davvero bella quando dormiva, nonostante perdesse bava dalla bocca.

 

L’auto si fermò sotto il mio palazzo e cercai di svegliarla, almeno per salutarla.

Niente. Non apriva gli occhi, solo mugugni. Le diedi degli scossoni più volte e provai a chiamarla altrettante volte, le feci il solletico, la pizzicai, niente.

«Senta, così non la lascia, la porti con se.» Seppur scorbutico, il tassista aveva ragione. Pagai e la presi in braccio, che altro potevo fare se non e metterla a nanna? Con fatica aprii la porta di casa e la portai subito in camera da letto, per quella notte mi sarei accontentato del divano, le tolsi le scarpe e la coprii con il lenzuolo, la borsa ai piedi del letto e la lasciai la luce del bagno accesa per farla orientare nel caso si fosse svegliata.

Dopo aver socchiuso la porta mi diressi nel soggiorno, finalmente tolsi la camicia e la gettai sulla sedia della cucina, via le scarpe e via la cintura, a causa della partita al laser tag ero sudatissimo. Era il momento di provare il divano e devo ammettere che non era male una volta trovata la posizione ideale.

Verso le quattro del mattino mi svegliai perché mi dava fastidio la luce che proveniva dalla cucina. Mi alzai assonnato e trovai Sakura seduta che beveva.

«Compri la mia stessa marca di succo di frutta, e russi.»

«Come stai?» Nonostante stesse finendo il mio succo per la colazione versai un bicchiere e sorseggiai anch’io.

«Bene ma non riuscivo a dormire, il tuo letto è troppo grande per una sola persona.»

 

Defcon 3! Allarme giallo! Allarme giallo! Possibilità di attacco!

 

«Se vuoi cambiare con il divano non hai che da chiedere.»

«Tomoyo ha ragione: non sei cambiato, sei rimasto il solito credulone ingenuo.»

«Ehi, piano con gli insulti! Ti ricordo che sei ospite, non si tratta così il padrone di casa.» Ero consapevole che lo diceva in modo scherzoso.

«Mi fa piacere che tu sia rimasto tale.»

 

Defcon 2! Allarme rosso! Allarme rosso! Massima cautela!

 

«Penso che tu non abbia ancora smaltito la birra, o il kebab, o tutti e due; comunque dovresti dormirci su, torna a dormire, a che ora vuoi la sveglia?»

«Sei davvero gentile.»

«E’ il minimo.»

«Scusa per come mi sono comportata la volta scorsa. Devo esserti sembrata una ninfomane, sono stata una stupida.»

 

DEFCON 1! Ripeto: DEFCON 1! ALLARME BIANCO! ALLARME BIANCO! SIAMO SOTTO ATTACCO, OGNI OPERATORE CONVERGA LA PROPRIA OPERATIVITÀ SUL PROGETTO “DIFESA DA DISCORSO IMBARAZZANTE”.

 

«Condividerai sicuramente l’idea che non sia il momento migliore per parlare di queste cose. L’ora, l’alcool, la bella giornata, il fatto che ti trovi in una casa non tua…per favore, vai a dormire!»

«Infatti, sto andando via!»

Non avevo notato la borsa di Sakura fino a quel momento, si trovava ai piedi del tavolo e, osservando bene la proprietaria, notai che si era data una risciacquata al viso e una sistemata ai capelli.

«Alle quattro di mattina pensi di trovare un taxi disposto a portarti dall’altra parte della città?»

«Basta pagare.» Si alzò in piedi e si diede una sistemata ai vestiti. «Grazie della serata, sono stata davvero bene. Spero che sia stato lo stesso per te.»

L’accompagnai alla porta e la aprii da perfetto gentiluomo, non potevo di certo trattenerla contro la sua volontà, è reato. Si diede un’altra sistemata ai capelli e mi sorrise, bastarda!

«Ciao!»

«Buon viaggio.»

«Sei uno stupido.» Lasciò cadere la borsetta e si mise in punta di piedi per far toccare le sue labbra con le mie. Fu un bacio breve ma quanto bastava per sentirne il sapore. Raccolse di nuovo la borsetta e varcò la soglia.

 

Fanculo, non poteva baciarmi e scappare come se niente fosse.

Allungai il braccio e dopo avergli preso il polso la riportai in casa chiudendo la porta. Restai disorientato da me stesso, non mi credevo capace di una reazione del genere, speravo solo di non averle fatto male. Cominciai a camminare per la stanza come uno scemo. Non sapevo che dire, che fare, come potevo giustificare quel gesto? Non riuscivo nemmeno a guardarla negli occhi.

Ad un certo punto la vidi allontanarsi, scomparve in camera da letto e la sentii entrare in bagno. Dannazione, dovevo averle fatto male sul serio, che idiota.

Mi precipitai nella stanza ed attesi che uscisse dal bagno.

«Ti ho fatto male?»

«Tu sei nato per farmi male.»

Eccolo lì il fattaccio! La presi tra le braccia e si lasciò baciare. Sapeva ancora di succo di frutta, era buona, non riuscivo a smettere di baciarla. Mi morse le labbra, sembrava volermele strappare via finché non mi prese il viso tra le mani. Avrei voluto dire un oceano di cose ma non ne usciva nemmeno una, in quel momento sembravano tutte frasi inutili, superflue.

Perché tutti i baci che avevo ricevuto fino a quel momento sembravano così stupidi, così senza senso, fuori luogo? Mi parve che solo lei aveva il diritto di mordermi le labbra a quel modo.

Nemmeno io so’ come ci ritrovammo sul letto, me ne accorsi solo quando imprecai nel cercare di slacciarle il reggiseno, fortunatamente mi diede una mano e potei ammirare il seno, baciarlo, appoggiare l’orecchio e sentire il suo cuore che batteva come una caldaia pronta ad esplodere. La volevo, non mi importava di nient’altro e quando mi accolse dentro di se mi diede il bacio più bello della mia vita, non ne ricevetti mai più così delicati. Mi sembrava di essere a casa, come se quello fosse il mio posto riservato, tutte le altre volte che avevo fatto l’amore erano niente, era come se era quello l’amore giusto, era così che doveva essere, era lì che dovevo stare.

«Non l’ho mai fatto senza preservativo.» La sua voce sussurrata nell’orecchio mi fece trasalire. Non ci avevo pensato, non ne avevo nemmeno in casa. «No, no, no. Non uscire! E’ giusto, mi fido di te.»

«Sono sicuro di non avere malattie ma…».

«Mi basta sapere questo! Prendo la pillola, per regolarizzare il ciclo, ma non me la sono mai sentita di farlo senza prima, è te che stavo aspettando.»

«Sicura di non essere ubriaca?»

«Sei tu che non mi hai lasciato andare a casa, ora devi darti da fare.»

Ricordo ogni secondo di quella notte. Fu come recuperare tutto il tempo perso. Non voleva che uscissi, voleva che restassi dentro di lei il più possibile, come se avesse paura che da un momento all’altro mi rivestissi e andassi via senza farmi vivo per anni ed anni. Ero stato un idiota a non farmi sentire per tutto quel tempo. La baciai e la ribaciai a più non posso, finimmo col piangere tutti e due ma non ci fermammo, come detto prima, sembrava che dovessimo recuperare il tempo perso, andavamo veloci, il più veloce possibile. Il tempo era poco e il sole stava già sorgendo.

Non mi lasciò mai uscire, mi ripeteva che ero suo, che non dovevo andare via, mi voleva tutto per se, che dovevo darle tutto ciò che era mio, che lo voleva. L’accontentai anche se avevo paura di pentirmene in futuro, in quel momento però, non potevo non continuare ad innamorarmi di lei secondo dopo secondo.

«Non sono capace di dirti che ti amo.» Mi gelò il sangue ma fui comprensivo.

«Nemmeno io sono capace di dire quelle parole.» Era la verità.

«Allora promettiamo di non dircelo mai.» Sorrise e mi baciò sul naso, era bellissima, stupenda. Non riuscivo a non sbirciare e mi incantai nell’osservare ogni centimetro del suo corpo nudo. Ci coprimmo con un lenzuolo e presi sonno quasi subito, non prima di averla cinta con le braccia, ora che era lì con me, non potevo permetterle di scappare.

 

Defcon 5! Allarme blu! Tempo di pace.

 

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Capitolo 2
*** La canzone del sole ***


 

Capitolo 1

 

La canzone del sole

 

 

 

“Maledizione Li, non è la prima volta che vai a Tokio!” Questo è ciò che pensavo tra me e me poco prima di accendere una sigaretta nella zona fumatori dell’aeroporto di Narita, terminal dei voli internazionali. Ricordo di aver fumato un pacchetto intero di Marlboro appena comprato al tabacchino poco distante, lo consumai così in fretta che più di una persona mi chiese se stessi bene.

Ma fatevi gli affari vostri!

 

«Tu sei già stato in Giappone, ci hai anche vissuto per parecchio tempo. So che sei una risorsa relativamente giovane ma non ho nessun altro da inviare per gestire la filiale, si tratta della nostra prima apertura nipponica e ti assisteremo giorno per giorno

 

“Ma perché cazzo ho accettato?” Quella era la seconda frase che ronzava tra una sigaretta e l’altra. Non avevo mai fumato così tanto e cominciai a desiderare l’aria pulita dell’esterno, pulita per modo di dire dato il traffico presente della metropoli. Raccolsi la maniglia del trolley e mi diressi verso il primo taxi fino all’appartamento preso in affitto dalla mia azienda.

Tornare in quella parte del Paese significava una cosa sola: Sakura Kinomoto.  A Tomoeda non ci sono Università, data la vicinanza con Tokio, doveva aver finito gli studi da parecchio tempo e aver già trovato lavoro – o per lo meno lo speravo – il che rendeva un nostro incontro molto probabile. Lo so, lo so, su tredici milioni di abitanti non è possibile che io sia così sfigato da incontrarla per strada, questo lo dite voi, non mi conoscete così bene.

Non è che non la volessi incontrare, in realtà ne avevo una voglia pazzesca; non avrei saputo che dire, come parlare, dove andare, avrei fatto la figura del ragazzino al suo primo appuntamento.

Il taxi correva per le vie trafficate della città diretto a Shinjuku, dove si trovava il mio appartamento semi vuoto, avevo la fortuna di non stare in un monolocale, come succedeva per molti universitari; una stanza per la cucina con un tavolo, una camera da letto con letto matrimoniale occidentale e vista sulla città, un piccolo ingresso con un mobile per il televisore e lo spazio per un divano e una poltroncina in miniatura, una stanza per i bambini, che decisi di adibire a studio, un buco-ripostiglio e un bagno alla occidentale con doccia. Casa!

Il giorno dopo mi feci vivo al locale commerciale, a Shibuya, dove i muratori stavano lavorando all’impianto elettrico e idraulico, con gli arredatori decidemmo come impostare i mobili e in che modo i clienti sarebbero entrati e cosa si sarebbero trovati davanti, davvero snervante; quando gli operai andarono via mi incamminai anche io verso casa, non mi sembrava il caso di prendere il taxi dato che la stazione centrale era a poche centinaia di metri.

Ipod e via! Non mi trovavo bene dentro all’abito scuro, così elegante da farmi ribrezzo ogni volta che lo vedevo su di me allo specchio, allentai la cravatta rossa con il simbolo aziendale e mi feci spazio tra la folla della stazione. Lungo le scale e i corridoi ricevetti decine e decine di spallate e gomitate finché non ne ricevetti una talmente forte da farmi voltare. Se devo essere sincero venni sfiorato appena ma qualcosa di molto più forte mi voltò ed indirizzò i miei occhi verso un ammasso di capelli familiare ed un sorriso che trasmetteva una piacevole nostalgia. Scomparve quasi all’istante in mezzo al resto della folla.

“Li Shaorang, ci sono tredici milioni di abitanti, ripeto: tredici milioni. E’ statisticamente improbabile che sia proprio lei. Ed ora muoviti o perdi il treno!”

Salii sul treno e fui felice di togliermi le scarpe una volta rientrato in casa ma il frigo vuoto mi ricordò di fare la spesa, e subito se non volevo andare a letto senza cena; davvero dura cambiare città da un giorno all’altro, non sai nemmeno dov’è il supermercato più vicino.

Fortunatamente mi ci vollero poche settimane per abituarmi alla mia nuova vita giapponese e finalmente arrivò il giorno dell’inaugurazione. Decine e decine di invitati si affollarono nei locali ancora impregnati dall’odore della vernice fresca. Una dozzina di tavolini con i rinfreschi vennero presi d’assalto mentre chi non pensava al cibo annoiava me, i miei superiori in visita o visionava i prodotti ed i servizi offerti. Quando mi liberai dell’ultimo scocciatore uscii in strada e potei finalmente accendere una sigaretta, non lo avevo ancora fatto quel giorno, non avevo nemmeno avuto il tempo di andare al bagno.

Il fumo entrò in bocca e lentamente fino ai polmoni, mi diede alcuni secondi di sollievo finché un'altra scocciatrice non mi si avvicinò, ma non potevano guardare i prodotti senza fare domande? Tanto nessuno di loro avrebbe mai comprato il giorno dell’inaugurazione. Cercai di sfoggiare il sorriso più decente del mio arsenale ma risultò una smorfia. Lei non parlò e si limitò ad osservarmi da capo a piedi, era alquanto snervante e quasi per dispetto ricambiai quegli sguardi. Era più bassa di me e la sua fronte arrivava appena al mio collo, la sua pelle era bianchissima così come i capelli castani che sembrava volessero diventare a tutti i costi biondi, gli occhi grandi e chiari guardarono fissi i miei finché il suo viso non mostrò un sorriso fin troppo familiare.

«Ciao!» La voce era caldissima ed impossibile da non riconoscere.

«Ciao, Sakura.» In quel’istante milioni di fotogrammi, di miglia di istanti, di centinaia di giorni passati insieme cercarono di riaffiorare tutti insieme nella mia testa, facendo un gran male al cuore. Dall’ultima volta che l’avevo vista era ancora più bella, i capelli erano diventati ricci, gli occhi sembravano ancora più chiari di come li ricordassi, le labbra con il rossetto le donavano davvero tanto ed i seni erano cresciuti quasi alla terza, ammetto di non essere riuscito a non guardarli di tanto in tanto, portava nei polsi due fiori di ciliegio giapponese tatuati con tratto così delicato da non attirare troppo l’attenzione.

«Sei diventato ancora più alto.» Fu la prima frase che mi disse mentre arrossiva, cercò di nasconderlo facendo la parte della sicura di se.

«Anche tu sei cambiata tantissimo, non ti stavo riconoscendo…ti vedo in ottima forma.» Fu naturale ricambiare il complimento e diciamo anche che fu d’obbligo, era stupenda. «Che cosa ci fai qui?»

«Questa domanda la dovrei porre io, ma ho deciso che mi farò gli affari miei, comunque, Tomoyo ha saputo che eri a Tokio ed è riuscita tramite le sue conoscenze a procurarmi un invito…beh, volevo vederti per dirti in faccia che sei uno stronzo!»

«Grazie! Questo complimento è per il fatto di non essermi fatto vivo?» La faccia di Sakura diventava sempre più rossa, quasi livida, sembrava voler esplodere da un momento all’altro. «Sono stato molto impegnato con questo progetto ed una volta che le cose si fossero calmate vi avrei contattato. Mi perdonate?»

«Tomoyo non è in grado di provare rancore verso gli esseri umani, è a me che devi chiedere perdono: comincia offrendomi qualcosa da bere!»

Non potei ribattere e l’accompagnai nella confusione dei festeggiamenti fino ad un bancone adibito a bar improvvisato. Mi feci porgere due bicchieri di aperitivo e dopo aver trovato due sedie libere ci trattenemmo a parlare di quegli anni che non ci eravamo visti. Troppo impegnati e lontani per restare perennemente in contatto tramite social network. Parlammo di Università, lavoro, della famiglia, di come fosse cambiata la città, della nuova crisi economica, ricordammo momenti passati insieme alle elementari e ridemmo a più non posso, le solite cose che ci si dice in quegli incontri, finché non tirammo fuori l’argomento Italia.

Era ancora una ferita aperta, beh non proprio una ferita ma poteva essere ritenuta tale in quanto ero andato via, per la terza volta dopo aver liberato i miei sentimenti nei suoi confronti. Entrambi avevamo paura di aprirci una quarta volta ed eravamo diventati adulti. “Errare è umano ma perseverare è diabolico”, disse una volta un tizio dell’antica Roma.

La serata era volta a termine senza che ci fossimo mai sfiorati. Gli invitati cominciarono ad andarsene uno dopo l’altro, sopraggiungeva l’ora di cena. Per ultima andò via anche Sakura e stranamente ne sentii la mancanza non appena sparì in strada.

Finalmente la chiusura e fui felicissimo di poter tornare a casa, il giorno dopo non si sarebbe aperto in quanto domenica, ero libero fino al lunedì e sapevo che avrei dormito quasi tutta la mattinata.

«Dove vai, non penserai mica che bastino due mezzi bicchieri per farti perdonare?» Sakura era inaspettatamente rimasta ad aspettarmi fuori dalla filiale. Quasi mi sobbalzò il cuore e feci viaggi mentali di chilometri e chilometri. «Ti va di offrirmi la cena domani? Decidi tu dove, ora devo andare dal mio ragazzo.»

Anche quella sua ultima frase mi fece sobbalzare, non mi sarei mai aspettato che Sakura volesse cenare con me e non mi importava se aveva il ragazzo, sapevo che si trattava di uno spuntino tra conoscenti di vecchia data. Non potei che accettare e darci appuntamento il giorno dopo davanti al mio posto di lavoro; ero contento come un bambino al quale hanno promesso una gita a Disneyland, tale era la mia gioia che non riuscii a prendere sonno per molte ore. La euforia però, finì con lo scemare minuto per minuto mentre l’attendevo sul marciapiede, tra un tiro e l’altro di sigaretta continuavo a partorire eventuali scuse o contrattempi per giustificare il suo breve ritardo, successivamente questo si trasformò in un ritardo di quasi mezz’ora e successivamente di un’ora ed infine di due ore e più. Capii di essere stato preso in giro, si era vendicata di essere andato via e di essermi dato al banditismo per tutto quel tempo. Sconsolato rinunciai anche ad accendermi l’ultima sigaretta del pacchetto e tornai a casa per andare a dormire, nemmeno mi cambiai e così vestito andai al lavoro il lunedì successivo restando apatico per tutto il giorno.

Ogni persona che passava ed ogni ed ogni cliente mi facevano sobbalzare, pensavo e speravo di vedere il suo volto, non ero arrabbiato ma molto deluso e non sapevo che avrei dovuto dire o fare quando l’avrei rincontrata, se mai sarebbe ricapitato. Come da aspettativa Sakura non fece capolino dalla porta a vetri e non lo fece nemmeno per il resto della settimana, nemmeno in quella successiva. Mi sentivo come in attesa di un pacco importante che non si decidevano a consegnarmi, molto snervante e proprio quando mi dissi arreso la ritrovai sul pianerottolo del mio appartamento.

Il suo sorriso era un incrocio tra la gioia e le scuse, fece un passo nella mia direzione e mostrò due buste con la grande M del loro McDonald’s; non dissi nulla ed aprii la porta di casa valutando attentamente se farla entrare oppure no, alla fine mi scostò e si fece largo nel mio disordinato appartamento.

«Caspita quanto lerciume!»

«Prego, entra pure come se fosse casa tua, nessun disturbo.» Al quanto sarcastico.

«Grazie, sei molto gentile!» Sakura scostò alcune lattine e pacchetti di sigarette vuoti dal tavolo e ci poggiò sopra le buste con la cena.

«Io sono gentile ma tu non lo sei stata proprio.»

«Ho avuto problemi con il lavoro, sono vice maître in un locale al quanto rinomato, il mio superiore ha avuto un incidente in moto, non è grave ma è dovuto restare in ospedale per qualche giorno e questo significa che ho dovuto prendere il suo posto per due intere settimane, senza giorni liberi a pranzo e cena.» Sakura parlava a sguardo basso, si vedeva che si sentiva in colpa. «Non ho il tuo numero di telefono e ho scoperto dove abiti chiedendo dove lavori. Con due settimane così pesanti gli unici istanti liberi che avevo li passavo con il mio ragazzo o dormendo.»

«E allora perché non sei con il tuo ragazzo?» C’era una nota di rimprovero nella mia frase, ma anche invidia, speravo che non se ne accorgesse.

«Teoricamente non stiamo insieme ma mi piace considerarlo tale, comunque non mi va di annoiare ancora di più una persona a disagio in mia presenza, mi volevo scusare ma c’è un muro. Me ne vado.»

«Adesso non fare la bambina!» Mi tolsi il giubbotto e feci spazio sul tavolo. «Non mi sembra il caso di lasciarti mangiare tutto da sola, ingrasseresti e finirai col prendertela con me.»

«Quindi mi trovi bella?»

«Domanda trabocchetto e non risponderò in quanto tutto ciò che potrei dire potrebbe essere utilizzato contro di me in futuro.»

«Hai evitato la prima trappola della serata, complimenti.» Rise e dovetti lottare con me stesso per non incantarmi nel suo sorriso. Tirò fuori dalle buste di carta due hamburger, due porzioni di patate e due bibite, tutto in formato gigante. Un punto a suo favore.

Si sedette senza attendermi ed addentò il suo panino, la seguii e mandai giù il primo boccone. Freddo, così come le patate fritte. Mangiammo in completo silenzio e fu quasi surreale perché ci guardammo negli occhi per tutto il tempo, come se attendessimo che qualcuno parlasse da un momento all’’altro. I tatuaggi che aveva nei polsi erano bellissimi, sembravano veri, un ramo con un fiore di ciliegio che spuntava dalla pelle per ogni braccio, erano simili ma diversi, solo osservandoli bene era possibile capirlo.

«Mio padre e mio fratello.» La bibita di Sakura finì rumorosamente e mi porse la mano in modo che potessi osservare meglio il tatuaggio, si era accorta che li stavo fissando. «Nella simbologia di quest’arte i fiori del ciliegio giapponese rappresentano la famiglia, un fiore per ogni membro.»

«Non vedo quello di tua madre.»

«Lei è già tatuata dentro il mio cuore, non ha bisogno di esserlo anche sulla pelle.»

«Capisco…ho sempre voluto un tatuaggio sulla gamba, è doloroso?»

«E’ la domanda che fanno tutti ma non so mai rispondere, dipende dal punto del corpo, dal sesso di chi viene tatuato, dal tatuatore, dalla pistola, bisogna provare per scoprirlo, a me ha fatto abbastanza male nel polso sinistro, nel destro solo un po’ di solletico.»

Dopo quel breve dialogo restammo in silenzio per molti minuti, quando finii il mio pasto e cominciai a fare zapping tra un canale e l’altro della televisione.

«Cavoli, è così che intrattieni gli ospiti?»

Volevo un gran bene a Sakura ma la sua presenza stava cominciando ad essere seccante. In realtà aveva ragione, piuttosto che fare zapping avrei dovuto tirare fuori degli argomenti, aforismi, qualcosa di cui parlare o ridere, magari avendo tra le mani un bicchiere di vino o una birra, un po’ di frutta secca o porcherie simili. La mia casa era ancora vuota come il giorno che l’avevo aperta per la prima volta.

«Perché sei andato via, intendo, quando ci trovavamo a Napoli? Perché non mi hai baciato quando ci siamo abbracciati nell’albergo a Roma, o anche solo scostato quell’accappatoio? Perché ti sei lasciato trascinare così facilmente in tutta quella faccenda? Perché non ti sei mai accorto che ho preso una parte del tuo cuore?»

Maledizione Sakura! Se la situazione era già tesa prima, con quelle domande aveva rarefatto ancora di più la tensione. Mi aspettavo quelle fatidiche domande ma non così presto. Ero andato via perché era tutto finito ed era in compagnia del padre e di Tomoyo; non l’avevo baciata perché era incredibilmente lunatica e non capivo che volesse un bacio, ci eravamo appena presi a parolacce; perché avrei dovuto scostare l’asciugamano? Per vederla nuda e ricevere una bella sberla, ovvio; dopo che aveva vinto l’ultima sfida, quando mi si era presentata inondata di luce ero pienamente cosciente di quel che stesse facendo con i miei sentimenti, la sentivo frugare, osservare, assaggiare e restai deluso quando si portò via solo quella piccola parte di me.

«Vattelappesca.»

«Se è la tua risposta definitiva sei un idiota.»

«Grazie.»

«Ho aspettato anni per poterti sbattere in faccia queste domande, lo so che sono stupide ma voglio una risposta, hanno condizionato la mia vita da quel giorno in poi. Non mi importa se non vuoi rispondere subito alle altre ma per una la esigo subito: perché sei andato via? Perché non sei rimasto con me almeno un altro giorno?»

«Non sarebbe cambiato nulla.» Ne ero convintissimo.

«Mentre papà era ospite all’Università siamo andati in giro per Napoli solo io e te, ricordi? Bene, lo sai che considero quella giornata come la più bella della mia vita?»

«Non abbiamo fatto niente di particolare, solo i turisti.»

« Quel giorno ci siamo avvicinati così tanto che a fine serata siamo andati in giro mano nella mano.»

«E con questo?» Mi era dispiaciuto moltissimo andare via ma cos’altro potevo fare, avevo già perso un anno scolastico, rischiato di affogare nel Tevere, di morire ad Agropoli, di essere arrestato non so quante volte. Che cosa avrei dovuto fare se non lasciarla con il padre? Ci eravamo baciati poco prima, è vero, ma io avevo casa ad Hong Kong, e tra Hong Kong e Tomoeda c’è di mezzo un oceano.

«CAZZO!» Si era arrabbiata, non capivo il perché, ed aveva scaraventato tutto ciò che si trovava sul tavolo a terra. «Dovevi restare un altro giorno! Non immagini quanto mi sia mancata la tua mano, la tua voce. Volevo passare un altro pranzo con te, lanciarti addosso qualche briciola, camminare ancora per il centro della città e baciarti ogni volta che mi saltasse per la testa, accarezzarti, assaggiare il tuo collo, potermi appisolare all’ombra ed usarti come cuscino e tante altre cose ancora.»

Non dissi nulla, sapevo che si sarebbe arrabbiata ancora di più, qualunque cosa avessi detto. Mi limitai a raccogliere ciò che aveva lanciato in tutta la casa mentre andava a sdraiarsi sul divano – ma si, fai pure – sembrava che le fosse venuto mal di testa, non era strano dopo quella sfuriata.

Quando mi sedetti sulla poltrona sita di fronte al divano mi diede le spalle voltandosi su un lato: «Ricordi quando siamo andati al mare, a Napoli? Totalmente diverso dalle nostre spiagge e l’acqua era molto più calda e meno sporca, se pur verde.»

«Senti Sakura, non ho ancora capito il motivo per il quale tu sia venuta qui stasera. Da quando sei entrata non hai fatto altro che insultare e rivangare cose vecchie. Che ti importa di tutte queste seghe mentali sul fatto che io sia andato via un giorno prima, che ci siamo baciati l’ultimo giorno e cose del genere? Hai il ragazzo, lo hai detto tu, dovresti essere felice e fregartene di me.»

Lentamente si rialzò dal divano e si avvicinò alla mia poltrona: «Voglio fare l’amore con te!»

Ok, qualsiasi uomo sulla terra direbbe che sono un pazzo ma ero sconvolto, non poteva chiedermi una cosa del genere, con quale faccia, con quale motivazione? Non eravamo più quattordicenni, i nostri sentimenti reciproci erano di sicuro cambiati e non mi andava di fare del sesso. Più di una vola mi ero immaginato di andare a letto con lei ma avevo sempre partorito per pensiero mettendoci in mezzo dei sentimenti, una sorta di amore, non era quello che mi si presentò davanti: «Io sarò un idiota ma tu sei fuori di testa, per favore vai a casa e dormici su, hai detto solo cavolate da quando sei entrata.»

«Sono una donna ormai, e so cosa voglio…»

«Che cosa vuoi dire “sono una donna ormai”, cosa tutto hai combinato in questi anni? Tanto non mi risponderesti e non voglio saperlo. Sono confuso da quanto ti ho rivisto la prima volta e non stai certo migliorando le cose, penso che sia ora che tu vada a nanna.»

Ancora prima che potessi fare qualcosa si gettò sulla poltrona e cercò di baciarmi. Lo ammetto: non ho fatto molta resistenza, tanto che riuscii nel suo intento ma la respinsi poco dopo.

«Scusami!»

«Sakura, anche io mi sono sempre chiesto come sarebbero andare le cose se fossi rimasto con te ma non mi sembra il caso di fare tutte queste scene. Vuoi avermi di nuovo tra i piedi? Va bene, frequentiamoci, ma devi risolvere i tuoi casini ormonali e la questione del tuo ragazzo perché…»

«Non stiamo insieme, usciamo spesso con altri vecchi colleghi universitari e di tanto in tanto andiamo a letto insieme.»

«Non ti ho chiesto di specificare ma grazie della precisazione.» La odiai per come mi aveva sbattuto in faccia tutto quello. L’accompagnai alla porta, sembrava che stesse per scoppiare in lacrime da un momento all’altro e chiamai un taxi con il cellulare. Attendemmo alcuni minuti finché non udimmo il clacson dalla strada e nel frattempo ci scambiammo i numeri.

«Sakura…»

Di nuovo mi colse di sorpresa e mi abbracciò nascondendo la faccia sul mio petto: «Mi sei mancato, stupido Li Shaoran.»

Quando andò via la casa sembrava un posto estraneo, vuoto e in bianco e nero. Mi leccai le labbra alla ricerca del suo sapore, anche della più piccola particella, sentivo ancora il calore delle sue braccia attorno al mio corpo e il suo respiro sul mio petto. Non capivo se in quegli anni fosse impazzita o il vedermi a Tokio l’aveva disorientata, ma sapevo che dopo una bella dormita sarebbe tornata la Sakura che conoscevo, dopotutto aveva lavorato come una pazza le ultime due settimane, doveva essere la spossatezza a parlare per lei, lo speravo. Comunque, anche a me era mancata.

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Capitolo 3
*** Tsubasa wo kudasai ***


Capitolo 3

 

Tsubasa wo kudasai

 

 

«Kerochan direbbe che facciamo schifo: pensa che l’accoppiamento degli esseri umani è quanto di più disgustoso esista. Non mi ha mai visto fare cose del genere, ha visto tutto su internet, la sua curiosità era troppa per non sbirciare in un sito porno.» Sorrise tra le mie braccia. «Immaginati l’imbarazzo quando mi ha fatto vedere quel video e chiesto se noi umani ci riproduciamo in quel modo, all’ora sapevo solo in modo generico come funzionasse il tutto, dopotutto l’avevo studiato a scuola, ma quel video era davvero inguardabile.»

«Peggio di ciò che abbiamo fatto questa notte?»

«A confronto, siamo degli angioletti.»

Per la terza settimana consecutiva, Sakura aveva passato il mercoledì notte da me, stava diventando quasi una regola non scritta; si presentava da me all’ora di cena con un film a noleggio ed una cena veloce, non ricordo che film avesse preso perché non abbiamo mai prestato attenzione alla TV, c’era qualcosa di più importante.

«Ho lasciato Ken.» Fu come se si fosse tolta un giubbotto pesante ed un po’ mi sentivo in colpa, non volevo stravolgerle di nuovo la vita, non volevo che lasciasse il suo ragazzo; Si! E’ da egoisti andare a letto con una ragazza dichiaratamente impegnata e non pretendere che lei lasci il ragazzo ufficiale, mi sentivo in colpa non tanto per essere stato con lei, quanto per aver rovinato un rapporto, Tomoyo dice che era un rapporto di solo sesso ma se Sakura non me ne ha mai parlato ci sarà un motivo.

«Quando?»

«Avanti ieri…l’ha presa bene, non si è nemmeno scomposto.» Nascose il viso sul cuscino. «Ti faccio male se piango, solo per qualche minuto?»

Maledizione, certo che mi fai male, ma non te lo posso di certo sbattere in faccia, ancora meno quando sei nuda e tra le mie braccia! Non risposi alla sua domanda, semplicemente la strinsi forte a me e la coccolai nel tentativo di arrestare quelle lacrime. Fu un’impresa titanica, stava lasciando andare due anni di stress e sentimenti, non potevo fare altro che accarezzarla finché non si addormentò sul cuscino fradicio. Inutile dire che era bellissima quando dormiva, ero cotto di lei, non riuscivo a non toccarla, baciarla e anche farle il solletico quando l’avevo vicina, mi dispiaceva che stesse piangendo.

Guardai l’orologio e mi accorsi che erano appena le undici e mezza, si era presentata prima del solito quel giorno, meglio, potevamo dormire qualche ora in più.

Magari!

Il telefonino rosa di Sakura vibrò minaccioso sul comodino: guardai lo schermo, non mi andava di svegliarla se non si trattava di qualcosa di urgente; sull’LCD lampeggiava la foto di una ragazza in divisa da ristorante e il nome era “Momo Lavoro”. Forse c’erano problemi al locale.

Lasciai che, ancora assonnata, Sakura rispondesse alla chiamata e la faccia non fu quella di chi riceve buone notizie; non parlò e si limitò ad ascoltare e annuire, quando chiuse la chiamata si rialzò da letto alla ricerca della propria biancheria.

«Dove le hai lanciate?»

«Ci sono problemi al locale?» Le porsi le mutande.

«Durante la cena si è staccato un pezzo del controsoffitto ed è caduto su un tavolo.»

«Beh, sono cose che succedono, si è fatto male qualcuno?»

«C’è mancato poco ma la cosa peggiore è che insieme al controsoffitto sono caduti due topi enormi, ed ora stanno gironzolando per la sala.»

«Vai ad aiutarli nella cattura?»

«Peggio: alcuni clienti, di quelli ricchi sfondati e con la puzza sotto il naso, invece che accettare la cena gratis e lasciarci sistemare hanno chiamato la polizia, che ovviamente si è portata appresso un ispettore sanitario, questo ha trovato altri topi nel controsoffitto e vuole chiudere il ristorante.»

«Ma com’è possibile!?» Inutile dire che ero sorpreso.

«Non chiederlo a me, io sono un maître, non manutentore.»

Con mio rammarico si rivestì in pochi secondi e, dopo avermi baciato, corse fuori dall’appartamento in cerca di un taxi. La lasciai andare via senza battere ciglio, dopotutto stava per perdere il lavoro e un altro impiego non lo trovi di certo per strada; ricaddi sul letto e mi addormentai quasi all’istante e quasi all’istante mi risvegliai la mattina dopo, mi sembrava di non aver nemmeno preso sonno. Zittii la sveglia e mi diressi al lavoro dove mi attendevano Yuko ed un buon caffè rinvigorente.

Come ogni mattina svuotai la tazzina come se fosse acqua e dopo aver acceso il computer uscii per fumare. Speravo che Sakura fosse riuscita a calmare l’ispettore sanitario, magari non era uno di quelli rigidi ed avrebbe chiuso un occhio se avessero sistemato il controsoffitto in pochi giorni. Subito dopo pranzo suonò il telefonino con il responso: il messaggio era il suo e mi avvisava di essere diventata disoccupata.

 

Si ripresentò a casa mia per l’ora di cena con Tomoyo, le accolsi e scongelai qualcosa, se non ricordo male erano bastoncini di pesce ed una confezione di lasagne, di quelle per quattro.

Aveva le guance rigate dalle lacrime e non smetteva di singhiozzare. In quel periodo il resto del mondo aveva superato in poco tempo la crisi mondiale grazie alle conoscenze maturate con quella del 2010, per il Giappone però era arrivata tardi e perdere il lavoro equivaleva a morire. Sakura aveva qualche risparmio da parte e sarebbe potuta andare avanti per quattro o cinque mesi al massimo, stringendo la cinghia, ma senza uno stipendio rischiava di finire sulla strada. Non lo avrei mai permesso e l’avrei ospitata volentieri, stesso discorso aveva fatto Tomoyo ma Sakura non smetteva di piangere. Si calmò solo quando cominciammo a mangiare.

«Sono stati dei bastardi!» Tomoyo posò la forchetta di plastica. «E’ sicuramente gente che non ha mai lavorato in vita sua, non puoi danneggiare un’impresa in questo modo, lasciare senza stipendio decine di famiglie, è normale che ci siano topi a Tokio e che siano attirati dal cibo delle cucine, una svista può capitare ma basta farlo notare al proprietario invece di chiamare subito la polizia.»

«Teoricamente hanno fatto la cosa più giusta.» Fu la prima frase che pronunciò Sakura da quando entrò in casa.

«Sono stati comunque degli stronzi!» Era la prima volta che sentivo Tomoyo parlare in quel modo e non riuscii a nascondere un sorriso. «Li, dammene una, sono incazzata nera.»

Le porsi una sigaretta e l’accompagnai al terrazzo per lasciarla fumare, dovetti combattere la voglia di raggiungerla per poter restare in casa e non lasciare Sakura da sola.

«C’è possibilità che il locale riapra?»

«Non lo so, il proprietario è piuttosto anziano e voleva lasciare la gestione al figlio, questo purtroppo non è interessato, è il tipico figlio di papà viziato, abituato ad avere tutto già pronto.»

«E lasciarlo in gestione a terzi?»

«Chi si accollerebbe, con questa crisi, il carico di un macigno del genere? Io non di certo.»

Il ragionamento di Sakura filava, con uno slancio di generosità mi sarei potuto proporre io ma non avrei avuto i mezzi, e tantomeno le conoscenze, per gestire un ristorante. Mi limitai ad abbracciarla e stringerla forte, era l’unica cosa sensata da fare, seppur inutile.

Quella notte dormì da me, insieme a Tomoyo, nel mio letto.

Mi dovetti accontentare del divano, di nuovo!

Fortunatamente in soggiorno faceva fresco e dopo aver guardato un po’ di televisione riuscii lentamente a prendere sonno.

Mi risvegliai molto presto, mi sembrava che l’ora fosse simile a quando mi svegliò Sakura la prima volta, la seconda volta però il viso era quello ancora assonnato di Tomoyo.

«Scusa se ti sveglio, avresti del caffè?»

Mi rialzai più rincoglionito che mai e scoprii che erano le cinque meno un quarto del mattino. Lanciai decine e decine di maledizioni silenziose finché non accesi la luce della cucina e cominciai a mugugnare per la luce troppo forte.

Trovai il barattolo con il caffè e rimasi un po’ disorientato quando notai che Tomoyo indossava una delle mie magliette, solo quella. Sakura aveva fatto gli onori di casa, non mi dispiaceva ma Tomoyo poteva coprirsi un po’, la maglietta era corta ed io sono pur sempre un uomo.

«Scusa, Sakura mi ha assicurato che non ti saresti arrabbiato.» Si era accorta di come l’avevo squadrata.

«Oh…tranquilla, come mai la voglia di caffè a quest’ora?»

«Alle nove devo prendere l’aereo per un viaggio di lavoro e devo ancora andare a casa per fare la valigia. Meglio prendersi più tempo possibile, inoltre, Sakura sta russando come un trattore. Tu ne vuoi un po’?»

Annuii con la testa ciondolante e mi diressi al bagno sbadigliando come un ippopotamo. Dopo due o tre risciacqui facciali con acqua fredda, e dopo la cacca mattutina, tornai alla cucina dove mi accolse l’aroma del caffè che lentamente risaliva su per la caffettiera.

«Sakura dorme ancora?»

«A proposito di Sakura.» Versò del caffè nella tazzina e mi porse dei biscotti che doveva aver trovato in fondo alla credenza. «Mi sembra superfluo chiederti di starle il più vicino possibile. Hai una casa così grande e bella, potresti ospitarla così risparmia i soldi dell’affitto mentre cerca un’altra occupazione, ovviamente concorrerebbe alle spese.»

Era una possibilità che avevo già preso in considerazione e non mi importava se avesse contribuito o meno alle spese di luce e acqua, l’importate era che restasse con me. Annuii mentre svuotavo la tazzina, non sarebbe bastato di certo quel poco a risvegliarmi, allungai la mano per versarmene altro ma Tomoyo mi precedette e le nostre mani si toccarono. Forse eravamo ancora entrambi rimbambiti per il poco sonno ma ricordo che abbiamo nascosto la mano contemporaneamente. Passarono molto secondi prima che mi decisi a versare un’altra tazzina ad entrambi. Era una situazione strana e non riuscii mai a decifrarla, nemmeno a distanza di molti anni.

«Grazie del caffè.» Fu la prima a riprendersi e corse a cambiarsi in camera.

Restai seduto al tavolo finché non riapparve finalmente rivestita. L’accompagnai alla porta e mi salutò con un semplice gesto della mano poco prima di sparire dietro le porte dell’ascensore.

Maledizione, non riuscivo a capire che diavolo fosse successo. Ora che ci penso non ricordo di aver mai capito se Tomoyo fosse impegnata, se lo fosse mai stata, se fosse innamorata di qualcuno, per me era un mistero al pari della costruzione delle piramidi. In realtà avevo sempre intuito che provasse qualcosa di più profondo verso la cugina, qualcosa che andava certamente oltre l’affetto tra amiche, cominciai a temere che potesse odiarmi o che fosse gelosa di Sakura. Meglio averla vicina da amica che da folle omicida in preda alla gelosia. Fortunatamente mi scrollai di dosso quei pensieri quasi subito e tornai a dormire nel mio letto, accanto a colei che amavo. Si, era un po’ prematuro da dire ma non riuscivo a non provare tutto quello. Mi accovacciai sul letto e senza accorgermene la svegliai, fortunatamente non si arrabbiò e mi strinse forse per conciliarsi il sonno.

 

«Penso che dovremo lasciarci.» Fu come se mi sgozzassero. «Vado in Italia da papà.»

Quando pronunciò quelle due frasi stavamo facendo la doccia mattutina. Niente di sconcio, ma svegliarci in quel modo, con un sorriso, ci allietava la giornata. Quel giorno non fu tanto piacevole, Sakura restò per tutto il tempo in un angolo del box e pronunciò quella frase dandomi le spalle. A causa dell’acqua non capito se stesse lacrimando e non si lasciò baciare, nemmeno quando l’abbracciai nel tentativo di farle cambiare idea.

«Papà dice che hanno aperto un nuovo ristorante giapponese vicino all’Università, stanno cercando un maître che sia di origini nipponiche. Potrei risolvere il problema nel quale sono incappata.»

Io non fiatai, il karma si stava vendicando per le volte che ero andato via senza farmi vivo per anni interi. Me lo meritavo, dopotutto. Mi sentivo uno straccio buttato via, non capivo se in quel mese potevamo considerarci impegnati o che cosa, erano poco più di tre settimane ma quel piccolo paradiso stava lentamente crollando, come spazzato via da quell’acqua che sgorgava nella doccia.

«Hai già deciso?»

«Non ancora, ma ci sto pensando seriamente.» Vidi un barlume di speranza. «Non odiarmi.»

Odiarla? I più sadici avrebbero di certo suggerito di farlo. Io però, non ne sarei mai stato capace, l’avevo accolta nel mio letto, nella mia casa e di nuovo nella mia vita, era entrata quasi prepotentemente ed ero felice che lo avesse fatto, poteva anche piantarmi una forchetta in un occhio, non sarei mai stato capace di odiarla: avrei fasciato la ferita, pulito la faccia ed atteso che si addormentasse beata prima di andare al pronto soccorso, era inutile chiedermi di non odiarla, non lo avrei mai fatto.

L’abbracciai di nuovo.

 

Durante la mattinata al lavoro, restai tutto il tempo con la porta chiusa, non feci entrare nemmeno Yuko con il caffè. Non mi sarei dovuto arrabbiare ma alla fine sopraggiunse, fu un miracolo che non rivoltai l’ufficio; l’unica cosa buona che mi fosse capitata da quando ero a Tokio stava andando via, scappando in cerca di una vita migliore, la cosa che da fastidio in questi casi è che la colpa non è di nessuno dei due, quindi ti senti impotente e sembra che tu non possa fare proprio nulla, diciamo che non si può fare proprio niente.

Al ritorno a casa mi accolse un profumo che mette fame all’istante, i fornelli erano accesi e qualcosa di buono stava ribollendo nelle pentole, non me l’aspettavo, così come non mi aspettavo di trovare una valigia in soggiorno. Venni sopraffatto da un enorme senso di smarrimento e di paura, se ne stava già andando e quella era la cena dell’addio!

«Bentornato! Ho cucinato qualcosa di buono, spero di aver usato gli ingredienti giusti. Se non ti dispiace oggi sono passata a casa ed ho preso due cambi, inoltre ti ho lavato tutti i tuoi calzini arretrati, zozzone!»

«Nessun problema, voglio che questa sia anche casa tua!»

Sorrise e venne incontro per baciarmi. Mi sentivo completo quel giorno, la collera della mattina prima era già andata via, sciolta da quel caldo abbraccio, non stava andando via e il cuore ricominciò a battere normalmente.

«Ma, in realtà questa casa non è di tua proprietà.»

«Dettagli…allora, cos’hai preparato di buono? Ho una fame di quelle paurose.»

«Non cambiare argomento: stai cercando di dirmi che vuoi convivere con me?»

Divenni rosso all’istante, non mi succedeva così platealmente dal tempo delle elementari. Annuii semplicemente, cercando di tornare al colorito normale.

«Sei uno stupido!» Mi diede una testata sul petto. «Stiamo correndo troppo, inoltre ti ho già detto che vado in Italia.»

«Questo non significa che non possa godermi la tua presenza.»

«Mi verrebbe da dirti “peggio per te”.»

«Affronterò il dolore.»

Si intristì ed abbassò le braccia: «Lasciamo perdere, teniamo tutto così com’è.» Venni scortato in cucina dove mi venne servita una porzione enorme di ramen fatto in casa. Doveva aver passato tutto il pomeriggio a cucinare ed il risultato era da cinque stelle. Purtroppo la cuoca passò il restò della serata in silenzio, lavai i piatti e la cucina mentre se ne stava inerte sul divano a guardare la televisione.

«Ti va di uscire?»

Fece segno di no con la testa.

«Vuoi guardare un film?»

Altro no.

«Vuoi dormire?»

No.

«Vuoi andare a casa?»

No.

«Vuoi fare l’amore?»

Ci mise un po’ a dire “no” ma la presi in braccio lo stesso e la portai in camera dove si mise subito comoda sul letto. Rimase in silenzio ma sembrava volersi assopire.

«Parto questa domenica.» Fu la sua sentenza, e il giorno che lo disse era mercoledì.

 

Quegli ultimi giorni furono strazianti. Non ci baciammo, non ci sfiorammo nemmeno, agli occhi di chiunque sembravamo due zombie. Non riuscimmo nemmeno a fare l’amore, la paura era che lei potesse cambiare idea o piangere. Ed anche io. L’altra nota dolente fu quella che il tempo corse come non mai, alla fatidica domenica arrivammo come uno schioppo.

Quella mattina riuscimmo a fare fuori due caffettiere da cinque, una a testa, eppure continuavamo ad essere in dormiveglia. Quando arrivò il taxi per andare alla stazione pregavo ogni dio che mi svegliasse in quel momento, ma non accadde e mi ritrovai in pochi secondi (per me) davanti al terminal partenze di Narita, non mi accorsi nemmeno di aver preso il treno.

Facemmo una seconda straziante colazione in aeroporto e la vidi piangere mentre addentava il suo croissant, dovetti combattere con tutto me stesso per non seguire il suo esempio.

Merda, merda, merda! Il controllo sicurezza si faceva sempre più vicino.

«Vattene!» Si mise in fila dicendo quella unica parola, ovviamente non ubbidii.

«Non funziona il ragionamento del lasciarsi “con il litigio”, se credi che lasciandosi in quel modo serva a qualcosa ti sbagli di grosso, te ne pentiresti.»

«Conosci altri modi per lasciarsi andare?»

«Con un bacio.»

«Ancora peggio!»

Venne il turno di Sakura e passò il controllo sicurezza senza che ci potessimo sfiorare. Sentivo il cuore sanguinare e lo stomaco sciogliersi. La seguii oltre i vetri mentre si dirigeva la proprio gate d’imbarco. Non potevamo sentirci oltre quel muro di vetro e non riuscivamo a distogliere lo sguardo l’uno dall’altra.

Alla fine dovette andare e sparì.

Sembrò sparire anche la mia vita, in quel momento restai sordo. Presi posto nel terminal in una poltroncina di fronte allo schermo con i voli in partenza. Restai con lo sguardo fisso finché non comparve la scritta “Decollato” accanto alla dicitura “Roma-Fiumicino”.

“Fanculo. E’ davvero finita.” Mi dissi. “Non ne combino mai una giusta e di conseguenza non me ne capita mai una.”

Decisi di restare seduto per qualche altro minuto. Tanto non avevo niente da fare e nessuno che mi attendesse a casa. Era così bello avere qualcuno che ti aspetta, o qualcuno da accompagnare a fare compere, se poi quel qualcuno lo ami, ancora di più. Sai che sarà li, sai che tornerà a casa con te e che passerai con quella persona del bel tempo, non sarà mai tempo buttato.

 

Due braccia mia cinsero il collo proprio quando decisi di tornare a casa.

Non mi voltai, chiusi e riaprii gli occhi più e più volte cercando di capire se mi stessi immaginando tutto.

«Ti amo

«Come?» Lo disse sottovoce e con la testa nascosta sulle mie spalle.

«Ti amo

«Scusa ma non…»

«CAZZO! Ho detto che TI AMO!»

Nascose di nuovo la testa e la sentii piangere. Sakura mi stava abbracciando, non era passata per il gate ed era tornata indietro per cercarmi, sentiva che non sarei andato via finché non avessi visto il suo aereo decollare.

«Hai infranto la nostra promessa.»

«Chi se ne frega di quella stupida promessa, stai zitto, dovevo dirlo e basta.»

Restammo in silenzio per alcuni secondi, sembrò come se si fosse zittito anche l’intero aeroporto; riuscivo a sentire il suo cuore che batteva veloce e le sue lacrime cadermi sul collo.

«Senti Shaorang.» Ci fu un’altra pausa. «E’ ancora valida la proposta di usare quella casa insieme?»

«Naturalmente.»

 

 

Fine

Grazie a tutti per la lettura

 

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