Aremakhìa

di Justanotherpsycho
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** LIBRO I - Ares, il Dio Empio -- Capitolo 1: Un'Antica Profezia ***
Capitolo 2: *** LIBRO I - Ares, il Dio Empio -- Capitolo 2: L'Imboscata degli Uomini-Lupo ***
Capitolo 3: *** LIBRO I - Ares, il Dio Empio -- Capitolo 3: Il Tempio dimenticato ***
Capitolo 4: *** LIBRO I - Ares, il Dio Empio -- Capitolo 4: L'Antica Madre ***
Capitolo 5: *** LIBRO I - Ares, il Dio Empio -- Capitolo 5: Il Mostro degli Abissi ***
Capitolo 6: *** LIBRO I - Ares, il Dio Empio -- Capitolo 6: La Controffensiva di Apollo ***
Capitolo 7: *** LIBRO I - Ares, il Dio Empio -- Capitolo 7: Battaglia Aerea ***
Capitolo 8: *** LIBRO I - Ares, il Dio Empio -- Capitolo 8: Ares, il salvatore ***
Capitolo 9: *** LIBRO I - Ares, il Dio Empio -- Capitolo 9: Echidna, la strega-serpente ***
Capitolo 10: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 1: I Cancelli dell'Ade ***
Capitolo 11: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 2: Cerbero, guardiano dei Cancelli ***
Capitolo 12: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 3: Il Giudice dei Morti ***
Capitolo 13: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 4: Nella Testa del Dio Empio ***
Capitolo 14: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 5: Caronte, traghettatore di anime ***
Capitolo 15: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 6: Accoglienza Infernale ***
Capitolo 16: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 7: Il ritorno di Caronte, domatore di Stige ***
Capitolo 17: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 8: Immortale contro Immortale ***
Capitolo 18: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 9: Chi è più immortale? ***
Capitolo 19: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 10: I Pilastri dell'Ade ***
Capitolo 20: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 11: Maniere Forti ***
Capitolo 21: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 12: Far cantare il satiro ***
Capitolo 22: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 13: Prendere provvedimenti ***
Capitolo 23: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 14: Sfinge, divoratrice di uomini ***
Capitolo 24: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 15: La fierezza del Leone ***
Capitolo 25: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 16: Questione d'Orgoglio ***
Capitolo 26: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 17: La Speranza degl'Ingannatori ***
Capitolo 27: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 18: La Liberazione dell'Idra ***
Capitolo 28: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 19: Thanatos ***
Capitolo 29: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 20: l'Isola degli Omicidi ***
Capitolo 30: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 21: Chimera ***
Capitolo 31: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 22: il Demone Ancestrale ***
Capitolo 32: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 23: Sangue e Onore ***
Capitolo 33: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 24: L'anima di un Dio ***
Capitolo 34: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 25: La sconfitta di Ares ***
Capitolo 35: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 26: Soliloquio ***
Capitolo 36: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 27: Al Palazzo Oscuro ***
Capitolo 37: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 28: Il Dio in catene ***
Capitolo 38: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 29: Gargoyle di guardia ***
Capitolo 39: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 30: il Re degli Spiriti ***
Capitolo 40: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 31: la Regina degl'Inferi ***
Capitolo 41: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 32: la Battaglia dell'Ade ***
Capitolo 42: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 33: Gli Occhi della Morte ***
Capitolo 43: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 34: Un corpo integro ***
Capitolo 44: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 35: La Signora degli Usci ***
Capitolo 45: *** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 36: Porte e Cancelli ***



Capitolo 1
*** LIBRO I - Ares, il Dio Empio -- Capitolo 1: Un'Antica Profezia ***


Capitolo 1 - l'Antica Profezia

LIBRO I

Ares, il Dio Empio




Freddo e urla ghiacciate. Nella notte buia e fitta, tra le raffiche di vento e neve, balugina una luce... piccola e flebile luce… che piano piano cresce, ingoiando ingordamente tutto ciò che le capita a tiro. 

Presto il terrificante verso che scaturisce dalle sue viscere sovrasta l’ululato del vento. La gente scappa confusamente tra i vicoletti ricolmi di fango ghiacciato del villaggio.
Da cosa scappano?
Alle loro spalle si riversa un fiume impetuoso di uomini. Soldati, ma non di quelli comuni. Soldati senza scrupolo né pietà, con l’unico obiettivo di uccidere tutto ciò che si muova, bruciare quello che non lo fa e saccheggiare quello che non prende fuoco.
Sangue e neve. Mentre l’esercito si muove all’unisono tra le capanne, come se tutte quelle teste fossero le membra di un unico, più grande e mostruoso animale, il rogo prende piede e sembra riscaldare il mostro, che ne acquista energie.
Ancora urla, ancora sangue e orribile suono di morte.
Alla fine, niente più urla. Tutto tace, ad eccezione del calmo e angosciante scoppiettio delle fiamme.
Il mostro è arrivato ad una capanna che sembra più importante delle altre, che si trova più o meno al centro del villaggio, e si apre, facendo strada al suo padrone e domatore…
Con la postura fiera e inquietante che gli si addice, si fa strada con passo misurato tra le sue fila.
La presenza imponente, la corazza lucente, ma, al tempo stesso, ricoperta di sangue nero, ancora caldo, tanto che, a contatto con l’aria gelida, fuma ancora. Ricaccia la daga nel fodero e arriva di fronte alla capanna, dove l’esercito gli ha lasciato uno spiazzo vuoto.
Con atteggiamento quasi regale, si sfila il casco dalla testa e lo lascia cadere per terra… si volta…
«Miei prodi combattenti! Un altro villaggio barbaro è caduto ai nostri piedi! – i soldati esultano in preda all’euforia – Ma questo non è un villaggio come gli altri! Ci avevano detto che avremo causato l’ira dei loro dei, se l’avessimo profanato. Era santo, questo villaggio, protetto da temibili mostri dall’aspetto di fiere voraci. Eppure… è qui che brucia davanti ai nostri occhi, come ogni altro… Quindi dov’è l’eccezionalità? E’ lì dentro, miei cari fratelli. – indicando la tenda, a cui ha rivolto le spalle – Lì si nasconde uno dei più potenti oracoli che il mondo abbia mai conosciuto. Un oracolo che, si dice, sia in contatto con qualcosa di superiore addirittura agli stessi Dei dell’Olimpo. – Un certo sconcerto sembra serpeggiare tra gli ascoltatori, e lo stesso oratore sembra quasi indignato, tanto che ricomincia con voce più alta e collerica – Ma noi siamo qui per mettere fine a questa eresia! E per dimostrare al mondo intero, una volta per tutte, che gli unici veri Dei sono gli Olimpi!!» 
Alzando un braccio al cielo per l’ultima volta, istiga una nuova e più potente ovazione che si alza dall’esercito.
«E ora…» fa per riprendere, ma un uomo armato di spada sbuca dalla tenda e con la sua arma trafigge il comandante dritto nel mezzo della schiena.
Improvviso silenzio. Stranamente nessuno si muove per vendicarlo, ma tutto tace, tanto che persino l’attentatore sembra spiazzato.
Il comandante, intanto, abbassa lentamente lo sguardo a squadrare la lama che lo ha trafitto da parte a parte e che ora spunta dal suo addome intrisa del suo stesso sangue. 
Ma, incredibilmente, accenna una risata… che cresce lentamente fino a contagiare tutti i soldati e a diventare scrosciante! Mentre l’uomo, sbalordito, indietreggia abbandonando l’arma nella ferita, il comandante, divertito, voltandosi:
«Hahahaha… non lo sai… non lo sai che non si può uccidere un Dio?» 
Quando il suo sguardo torna in linea con quello del suo attentatore si rifà serio e costui, indietreggiando sempre più impaurito, sembra aver capito con chi ha a che fare ed esclama con voce rotta:
«A-Ares!?!»
Con un ultimo ghigno, il Dio della Guerra afferra l’elsa della sua daga e con un unico movimento, la estrae e trancia di netto la testa al malcapitato.
«Il bastardello aveva forza da vendere: non è da tutti riuscire a trafiggere la corazza di un Dio - commenta beffardamente, osservando i resti del barbaro e provocando le risate dei commilitoni – Proioxis… toglimi questa stupida spada dalla schiena, quel piccolo insolente me l’ha ficcata proprio dove non ci arrivo, per colpa di quest’armatura… - l’ordine viene eseguito – Fobos, Deimos, seguitemi»
Ares e i figli entrano nelle capanna, dove trovano un’atmosfera surreale.
L’interno è completamente addobbato con pelli di lupi, crani e altri strani amuleti di legno e osso. Al centro, vi è una tenda, decorata con strani simboli, che avvolge un piccolo spazio, dal quale proviene un filo continuo di voce, basso e inquietante.
Ma il Dio non si fa impressionare e scosta la tenda, rivelando un vecchio canuto e raggrinzito, ricoperto da una pesante pelliccia, come tutti, d’altronde, in quelle zone, ma che, data la sua debolezza, sembra non consentirgli nemmeno di alzarsi. Quando sente l’intruso, il vecchio interrompe la grave cantilena e alza lo sguardo, mostrando gli occhi vacui e bianchi: è cieco.
«Ares» bisbiglia
«Come sai chi sono io?»
«Sapevo che saresti venuto da tempo ormai. E so anche che non c’è bisogno che risponda alla domanda: in cuor tuo tu sai che ciò che hai sentito è vero… anzi lo temi. Temi che ci sia qualcosa di più grande di tuo padre, Zeus, il Re dell’Olimpo, perché temi una giustizia che sfugga al suo controllo. Eppure essa esiste, ma non devi temerla, anzi… in verità non devi temere nulla, Ares, Dio della Guerra, perché sei tu il vero Re dell’Olimpo… sei destinato a diventarlo, è questo che deve essere, ed è questo che Zeus non vuole che tu sappia. Perfino il Padre degli Dei ha paura, anche se di una sola cosa: ha paura di perdere il suo potere, di venire spodestato; e c’è uno solo che può farlo, che è destinato a farlo: suo figlio. Così come Zeus stesso fece con suo padre, ed egli con il suo a sua volta, solo il figlio può succedere al padre, e quel figlio sei tu.»
«Che fandonie vai raccontando, vecchio!?» sbraita Ares, come a voler allontanare quelle invitanti parole.
«Non ostentare fedeltà, Dio della Guerra. In cuor tuo ora fremi dalla voglia di realizzare quest’antica profezia. Il tuo animo da combattente non aspettava altro… quindi, và e compi il tuo destino»
«E tu credi che metterò a soqquadro tutto l’Olimpo sfidando l’autorità di mio Padre, Re degli Dei, solo perché è ciò che un vecchio barbaro cieco e millantatore mi ha riferito, nella sua squallida capanna fatta di pelli di lupi? … Non mi conosci»
«Oh si che ti conosco, invece – la voce del vecchio, questa volta, viene fuori accompagnata da un’altra, che non proviene da gola alcuna, ma suona profonda e avvolta da una dogmatica e misteriosa autorità – Ti conosco meglio di chiunque altro. Perché tu sei un mio progetto, è grazie a me che ti trovi qui, in questo momento… anzi, forse è meglio dire che tu sei una parte di me»
L’Olimpico sembra scosso da queste parole, sia dalla loro natura che dalla voce che le pronuncia. Non capendo ciò che sta succedendo, e infuriato per il fatto che ciò non si addice ad un Dio come lui, indietreggia qualche passo bisbigliando tra sé e sé (sotto lo sguardo attonito dei figli che non gli hanno mai visto in faccia quelle espressioni) «Per i cancelli del Tartaro!»
«Ora so che non mi crederai – ricominciano le voci del vecchio e dell’ignoto all’unisono, mentre il primo si solleva lentamente da terra, come trasportato dalla volontà del secondo, come fosse una marionetta – anzi, avrai bisogno di maggiori conferme, e ti capisco. Ma non fidarti dei fratelli e degli Olimpi tutti, non faranno altro che ostacolarti. Ciò che devi fare è tornare alle origini della Storia degli Dei, scavalca l’autorità di Zeus, consulta qualcosa di più vecchio di lui… e quando esci, sbarazzati pure di questo vecchio: ha fatto il suo dovere» Detto ciò il corpo si affloscia al suolo come se privato improvvisamente del suo sostentamento.
Ares abbassa la testa, sentendosi denudato e impotente davanti a qualcosa che si è dimostrato superiore alla volontà di un Dio: non gli era mai capitato che qualcuno gli impartisse ordini, ma la cosa peggiore è che è esattamente quello che voleva, eseguire quegli ordini, tanto che si rende conto che non gli erano stati impartiti, ma predette le sue azioni. E questo lo fa sentire, appunto impotente.
Nel frattempo, il vecchio si era ripreso, e aveva rialzato lo sguardo verso il Dio, sempre con quegli occhi vuoti.
«Fate come ha detto» ordina ai figli. I due si avvicinano allo sciamano sguainando le spade e allora l’anziano uomo capisce le loro intenzioni e inizia a biascicare supplichevole, ma niente riesce a scalfire l’animo dei figli di Ares e presto la loro lama penetra il suo corpo.
Prima di esalare l’ultimo respiro, però, l’oracolo prorompe in un alto e potente ululato.



NdA (quanto mi sa di pomposo 'sta sigla XD): Mi ero ripromesso che avrei iniziato a pubblicare questa storia solo dopo averla terminata, dato che è già successo che abbia iniziato a pubblicare una storia senza mai portarla a conclusione, ma data la mole che va via via assumendo questo racconto ed essendomi accorto che poi non mi sarebbe più andato di pubblicarla tutto d'un fiato, ho deciso di iniziare a pubblicare i primi capitoli.
So che la materia non è delle più originali (non nego che ci sia qualcosa, anche indirettamente, che mi abbia influenzato del fascino di God of War, per esempio), e anche altri su questo sito avranno affrontato qualcosa di simile, ma vi assicuro che tutta quest' "opera" è nata come puro e semplice preambolo a quella che era la storia che volevo originariamente scrivere XD 
Nello stendere il testo effettivo mi sono fatto influenzare un po' anche dall'epica vera (purtroppo, forse, faccio il classico) soprattutto per quanto riguarda epiteti, monotonia nel descrivere alcuni pezzi e varie consonanze e figure di suono e ritmiche (si, non sono uscite per caso... XD)
Buon proseguimento :)

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Capitolo 2
*** LIBRO I - Ares, il Dio Empio -- Capitolo 2: L'Imboscata degli Uomini-Lupo ***


«Ma che…?» fa il Dio nuovamente stupito, mentre il vecchio accenna un ghigno.
«Pensavi che questo ti avrebbe salvato, inutile vecchio?» Ares, seccato, estrae la daga e velocemente trafigge nuovamente il corpo dell’oracolo. Questo, con le ultime energie bisbiglia:
«Pensavi che sarebbe stato tutto così facile?»
Proprio allora numerosi ululati fanno da eco al barbaro, provenienti dall’esterno della capanna, e sembrano esserle tutt’intorno.
Ares, sorpreso, estrae la lama dall'addome e il vecchio crolla al suolo morendo col ghigno immortalato sulla faccia.
I tre immortali si precipitano fuori dalla tenda dove i soldati, alquanto scossi, si guardano intorno bisbigliando. Altri ululati rimbombano nella coltre di nebbia e neve che circonda e riempie il villaggio, resa più rada dalle fiamme che ancora non accennano a spegnersi, anzi hanno quasi stretto lo spiazzo in cui si trova ora l’esercito in una morsa di fuoco.
Gli ululati si susseguono l’uno dopo l’altro e sembrano sempre più vicini, più forti, più terrificanti…
«Scappiamo o moriremo tutti!» urla un soldato istericamente mentre lascia la sua postazione e scappa con quanto fiato ha in corpo abbandonando armi e armature.
Ares, in un batter d’occhio, afferra una lancia da un soldato e gliela scaglia contro, conficcandola proprio in mezzo alla schiena, e il disertore cade sul terriccio impregnato già di sangue oltre che neve sciolta:
«No! Nessuno si muova! Preferite l’ira di qualche bestia selvaggia o quella di un Dio!?»
Subito dopo le belve tacciono. E il silenzio pare ora ancora più assordante di quegli ululati. Le si avverte: sono lì vicino, oltre quella cortina di fiamme. Forse il fuoco le spaventerà o almeno le tratterrà dall’attaccare… Quand'ecco che all’improvviso un ammasso di peli salta fuori dalle fiamme come se queste nemmeno lo sfiorassero, e si avventa su un soldato: non sono semplici bestie! Sebbene abbiano sembianze di lupi, camminano su due zampe e sono addirittura armati e ricoperti da un’armatura!
Subito ne spuntano altri che attraversano il fuoco come niente fosse. Presto l’intero contingente si ritrova circondato e attaccato da tutti i lati. Gli uomini-lupo attaccano seppur con le armi ancora in modo feroce e animalesco, non disdegnando, quando non possono menar fendenti, di prendersi qualche boccone di carne fresca da collo e arti del nemico.
Ma Ares e gli Spiriti della Battaglia non si fanno impressionare e si gettano all’attacco.
La tecnica guerriera del Dio, non scalfita dal terrore come invece quella dei suoi soldati, riesce facilmente a sopraffare lo stile animalesco dei mostri. Questi comunque continuano a sbucare dalle fiamme e Ares e i Makhai sembrano essere gli unici in grado di eliminarli poiché lentamente i soldati vengono decimati e orribilmente sfigurati o mutilati dai mostri che sembrano uccidere per nutrirsi proprio come dei lupi.
L’impressionante miscuglio di tonfi metallici allo scontro di due lame, di urla da battaglia dei soldati, di latrati e versi bestiali, di carni lacerate e spolpate, di fiamme vive tutt’intorno faceva rabbrividire il sangue nelle vene persino al Dio che di battaglie sanguinose ne aveva viste a centinaia.
Para un fendente alto con la daga, un calcio nel ventre della bestia per liberarsi la lama e poi un colpo per tagliargli la testa. Un altro mostro crolla ai piedi di Ares, boccheggiando egli si asciuga il sudore misto a sangue che gli imbratta il volto. Alza lentamente lo sguardo incuriosito dal rallentare dell’azione e scopre che sono rimasti solo lui e i Makhai a contrastare gli uomini-lupo, che li hanno completamente circondati e ora lentamente li stringono analizzandoli e cercando la strategia migliore per cenare con carne divina.
Un moto d’orgoglio aizza le fiamme dell’ira nel ventre di Ares che erompe in un fragoroso:
«Per l’Olimpo!!!»
Le urla dei commilitoni accompagnano la carica che si apre e si espande come un muro contro i nemici, che non solo li hanno circondati ma sono in numero nettamente maggiore.
Molto dopo, quando le fiamme si stanno ormai dissipando e un tiepido sole fa debolmente capolino dietro le foreste innevate e i fianchi delle montagne, Ares sta estraendo la lama dall’ultimo corpo caldo.
«Beh, alla fine ce l’abbiamo fatta: è una vittoria per l’Olimpo!» esclama soddisfatto Kydoimòs, seduto sopra una pila di cadaveri pelosi, alcuni dei quali fumanti e orribilmente mutilati.
«Tu dici?» fa Ares con aria misteriosa.
Più tardi Ares si trova sull’Olimpo, ma sulla soglia della cittadella divina lo aspetta il fratello Apollo, con la sua armatura dorata e splendente come il sole e le sue solite vesti pompose che si addicono al Dio della musica, delle arti, della medicina e, non per ultimo, del cerchio solare.
Appoggiato con la schiena contro una delle colonne che sorreggono l’ingresso alla cittadella, il Dio sta evidentemente aspettando il fratello:
«Contento fratello? Hai sterminato un altro villaggio di innocenti barbari. Peccato che stavolta tu ci abbia rimesso tutti gli uomini! Nostro padre sarà furioso! Come farai a giustificargli l’accaduto? Cosa c’era di così importante in quel minuscolo villaggio sperduto sui monti barbari, da doverlo attaccare e saccheggiare con un contingente dei migliori uomini dell’Olimpo? Oro? Diamanti?»
«A quanto pare non erano i migliori, i miei spartani avrebbero saputo fare di meglio… Non ti preoccupare fratello, ho le mie ragioni. Lì ho trovato qualcosa di infinitamente migliore di qualche banale oggetto rituale in oro e brillanti. Ma questo non è affar tuo…»
«Non è affar mio? Da quando sei così geloso del tuo bottino?»
«Non c’è nessun bottino caro Apollo, niente che tu possa lucidare o riempire con del Nettare, solo una certezza…»
«Oh… non ti facevo così filosofo, Ares, forse stai finalmente maturando»
«Si, forse… forse è giunto il momento che io cambi, che compia il mio destino… A proposito… sai, per caso… se esiste qualche oracolo di Gea ancora in piedi?»
L’espressione del Musageta si fa d’un tratto sospettosa e scrutatrice: «Perché mi chiedi questo? Perché mai vorresti metterti in contatto con la vecchia Gea?... non credo, comunque…»
Ares, per niente soddisfatto della risposta, che comunque già immaginava, e accortosi di aver provocato la curiosità del fratello, abbandona la discussione prima che questi potesse indagare di più e prende la strada per il suo tempio, dove potersi lavare di dosso sangue e sudore.

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Capitolo 3
*** LIBRO I - Ares, il Dio Empio -- Capitolo 3: Il Tempio dimenticato ***


Qualche giorno dopo, il Distruttore di Uomini, Ares, Dio della Guerra, si trovava ancora nel suo tempio sulla cima dell’Olimpo. Con aria annoiata sta sul suo trono dorato nel mezzo del naos, con il gomito appoggiato su una gamba e la testa appoggiata su quella mano. Osserva il suo solito intrattenimento: due dei più grandi combattenti dell'Ellade si sfidano al suo cospetto. Per loro è uno dei più grandi onori immaginabili, mentre in realtà è solo un crudele e frivolo passatempo del Dio, che spesso ordina al vincitore di uccidere lo sconfitto, per puro divertimento. Ma oggi nemmeno questo gioco attira la sua attenzione.
Ad un tratto Polemos irrompe nel tempio proclamando:
«Ares, Signore… alcuni anziani riferiscono di un antico Tempio di Gea proprio dove ora si trova l’Oracolo di Delfi…»
«Proprio come sospettavo… sapevo che Apollo mi nascondeva qualcosa… Prepara i miei cavalli e raduna gli altri, si parte per Delfi… e voi, chi vi ha ordinato di fermarvi?» sbraita contro i due eroi che avevano smesso di darsi battaglia quando erano stati interrotti.
Quel giorno stesso, Ares, sulla sua biga, accompagnato dai Makhai al completo sulle loro cavalcature, giunge sulle pendici del monte Parnaso. Ma nessuno di loro è consapevole di essere spiato.
Apollo, notato lo strano comportamento di Ares e il movimento intorno al suo tempio sull’Olimpo, si era recato da Zeus in persona, il Padre degli Dei. Egli, seduto sul suo divino trono sulla cima dell’Olimpo, il Monte più alto del Mondo, scruta tutto il suo regno usando i suoi poteri per guardare attraverso le nuvole.
«Vedete padre, avevo ragione! Ares non è più lo stesso da quando è tornato da quel villaggio barbaro. Sta tramando qualcosa. Perché dovrebbe viaggiare verso il mio oracolo con il suo contingente da guerra? Solo questo è già un enorme sacrilegio!»
Ma l’Onnipotente Zeus non si pronuncia, piuttosto rimane fisso a guardare suo figlio mentre si avvicina al Santuario. Il corpo muscoloso da giovane guerriero, accarezzato dalle vesti bianche e splendenti, ornate qua e là da tocchi d’oro, contrasta con il volto inciso da numerose rughe che trasmettono quel senso di saggezza, e con la lunga barba e i capelli bianchi, che sembrano della stessa consistenza delle nuvole, mentre degli stracci di nuvole vere e proprie gli cingono le braccia poco sotto le ascelle e le gambe poco sopra le ginocchia.
Nel frattempo, Ares e i suoi sono giunti davanti al Santuario, un magnifico edificio costruito su un lembo di terra che dalle altezze del monte Parnaso si protrae sul vuoto.
Nell’anticamera dell’Oracolo i sacerdoti fermano i visitatori.
«Ares – fa uno di loro – che piacere ospitare nel nostro santuario una divinità dell’Olimpo. Cosa vi porta qui?»
«Devo vedere la Pizia» fa bruscamente l’Enialo.
«Mi dispiace, questo è concesso solo ai Sacerdoti di Apollo»
«Ahahahah, starete scherzando!? Io sono un Dio! Nonché fratello di Apollo. Non basta questo?» detto ciò Ares scosta violentemente il sacerdote dirigendosi a passo deciso verso la sala dell’Oracolo, seguito dai suoi accompagnatori, quando una mano gli si posa sulla spalla.
Di scatto il Dio estrae la daga e voltandosi la punta alla gola di colui che ha osato fermarlo.
«A-almeno lascia qui i tuoi soldati – fa spaventato il sacerdote – è già un grande sacrilegio entrare qui con le armi, figuriamoci presentarsi alla Pizia con un intero esercito… da cosa vorreste difendervi?»
«Non parlarmi di sacrilegi, mortale» sbotta Ares rimettendo a posto l’arma e facendo poi segno ai suoi di restare lì.
Apre dolcemente le possenti ed eleganti porte della sala, intarsiate delle più raffinate trame floreali. Davanti a lui si presenta una stanza circolare, aperta per la maggior parte del perimetro sulla splendida vista delle valli ai piedi del monte, intercalate ogni tanto da splendide colonne decorate. L’arredamento è scarso, se non si considerano gli innumerevoli veli e teli di preziosi tessuti. Su uno di questi, per terra, più o meno al centro della sala è distesa, di spalle una graziosa fanciulla, tra lei e Ares un enorme focolare, anch'esso interamente fatto d’oro intarsiato, che ospita un possente fuoco. Mentre le porte dietro Ares si chiudono, come da sole, la fanciulla lentamente e leggiadra si solleva da terra; è vestita degli stessi tessuti che decorano tutta la stanza.
La prima cosa che risalta agli occhi sono i lunghissimi capelli dorati, che sembrano impregnati di un’ipnotica bellezza. Il profumo soave che proviene da quell’esile corpicino riesce a fare brezza perfino nel cuore del Dio della Guerra. Lentamente la giovane si volta mostrando il bellissimo viso, degno delle più alte bellezze dell’Olimpo. I lineamenti delicati accompagnavano la vista dalla bocca rossa e carnosa al piccolo e fine naso fino agli splendenti occhi azzurro oceano. I veli semitrasparenti le scendevano lungo i femminei fianchi giù per le eleganti e affascinanti lunghe gambe, fino a rimanere come strascichi per terra, donandole allo stesso tempo l’ingenua grazia di una ragazzina e il prorompente fascino di una Ninfa.
Pochi, persino fra gli Dei, sono quelli che hanno avuto la fortuna di osservare quella bellezza ai limiti del conoscibile umano.
«Cosa ti porta qui, Dio della Guerra?» chiede dolcemente la Pizia, con una voce forse più soave di quella della Musa Erato.
«Dovresti saperlo, Oracolo» fa Ares cercando di rimanere austero sia nella voce che nel comportamento. «Perché non me lo dici tu? Mi piace sentire la tua voce…» risponde la Pizia con fare provocante avanzando verso il suo interlocutore, aggirando il grande focolare… Ares indugia qualche istante, rapito ormai dalla seducente bellezza della sacerdotessa, mentre questa gli è ormai vicina e giocherella disegnando con un dito sottile ed elegante, spensierati ghirigori sull’armatura del Dio.
«Sai, io sto sempre qui dentro, rinchiusa tra queste mura, da sola… il massimo esempio di virilità che io abbia mai visto sono quei sacerdoti là fuori… e non sono granchè… non in tuo confronto, mio possente Dio…» ne approfitta lei per incalzare.
Ormai è praticamente appoggiata sulla sua armatura; la sua testa non arriva al mento di lui, è un fuscello al confronto del Dio, ma Ares, in questo istante, non può niente contro l’incantesimo che lo ha fatto prigioniero, un incantesimo senza formule e pozioni. «Sono qui per visitare il tempio di Gea, la Titanessa» continua Ares cercando di darsi un tono e ignorando le provocazioni della Pizia.
«Oh, mi dispiace, devi essere stato informato male, mio Dio, perché quel tempio non esiste più da molto tempo…» mentre dice questo, i suoi profondi occhi azzurri ingoiano quelli del Dio come fa l’oceano in tempesta con le navi dei malcapitati avventurieri e Ares nemmeno se ne rendeva conto.
Mentre il suo sguardo lo distraeva, per una qualche strana magia una consistente ciocca dei suoi dorati capelli strisciava come un serpente, dotata di vita propria, risalendo le spalle del Dio.
«So che menti, Sacerdotessa di Apollo! Dimmi come si accede all’Oracolo di Gea!»
«Come mai questa ottusa ostinazione?» i capelli striscianti sono ormai arrivati al collo.
«Non sono cose che ti riguardano! E bada a come…» ma non fa in tempo a finire la frase che i capelli cingono il suo collo strozzandolo.
D’un tratto, mentre Ares si porta le mani al collo, anche il resto dei capelli della Sacerdotessa si animano, dividendosi in altre ciocche, come tanti tentacoli.
Alcuni di questi si impuntano al suolo sollevando il leggero corpo della Pizia fino a più o meno 8 cubiti, lasciandolo ciondolare in una inquietante sospensione, accentuata dallo strascico che ora pende dolcemente. Nello stesso istante i bellissimi occhi ruotarono all’indietro lasciando in vista solo il bianco vitreo della sclera, più o meno come nel vecchio barbaro, ma in questo caso il volto non era per niente inespressivo.
«Pensavi veramente che saresti venuto qui e avresti fatto i tuoi comodi nel MIO tempio!?!?» non è più la Pizia che parla: anche se la sua dolce voce esce ancora dalla sua gola, una seconda più potente e autoritaria la surclassa, sebbene non si capisce di preciso da dove venga, allo stesso modo che aveva già visto in quel villaggio barbaro, ma questa volta conosce bene quella seconda voce:
«Apollo, fratello mio…» boccheggia soffocando Ares, mentre la Pizia, o meglio Apollo per lei, lo aveva sollevato da terra con quel tentacolo di capelli.
Ma con un veloce movimento il Dio della Guerra afferra un pugnale che aveva nascosto nella cintura dietro la schiena e in un attimo trancia la ciocca che lo attanagliava, atterrando alla perfetta maniera di un guerriero.
«Come hai osato!?!?» ruggisce Apollo, e sferra un paio di affondi con altri tentacoli, che Ares evita agilmente e che si conficcano nel pavimento aprendo delle crepe.
«Non costringermi a uccidere la tua sacerdotessa, Apollo» avverte minaccioso il Distruttore di Uomini.
«Non lo farai! Un oltraggio del genere ti farebbe disconoscere come Olimpico!»
Altri terribili affondi dalla chioma della Pizia, ancora abilmente aggirati da Ares, che non si è ancora sbilanciato a rispondere agli attacchi.
«Tu non capisci Apollo! Non sai quello che so io!»
«E illuminami allora, fratello!»
«Non posso, non capiresti lo stesso. Tu sei solo capace di servire nostro padre e pensi solo a guadagnarti le sue grazie mandando giù qualsiasi suo ordine, senza mai farti qualche domanda… Ad esempio: perché vuoi impedirmi di realizzare il mio destino?»
«Il tuo destino? Stai farneticando, Ares! Il tuo destino è sull’Olimpo, come Dio della Guerra, quello è il tuo posto.»
«Il mio posto è si sull’Olimpo, ma sul trono di Zeus!»
Lo scambio di battute era stato accompagnato da altri attacchi andati a vuoto, che avevano ridotto la sala in un campo di battaglia ricoperto da enormi crepe.
Sfruttando la sorpresa che aveva colto il fratello alla risposta di Ares, questi scatta verso uno dei tentacoli “portanti” e lo trancia di netto, facendo precipitare la Pizia. Con una velocità e coordinazione degne del solo Dio della Guerra, Ares si volta infilzando al volo il ventre dell’Oracolo col pugnale mentre cadeva.
La forza del Dio è tanta, che riesce anche a sorreggere facilmente il corpo della Pizia, impalata in quello strano modo, con un solo braccio.
All’istante tutti i capelli si afflosciano tornando normali, così come i suoi occhi.
Quando il sangue caldo inizia a colare sulla mano e lungo il braccio di Ares e questi avverte i singhiozzi di dolore della donna, la posa delicatamente per terra.
La sacerdotessa rivolge l’ammaliante sguardo, ora pieno di paura e tristezza, verso il volto del suo carnefice. Non dice niente, forse perché incapace, dato il sangue che ora sgorga anche dalla sua bocca, forse perché sarebbe inutile, dato che tutto ciò che avrebbe potuto dire viene espresso e amplificato dal suo sguardo.
Ares sarebbe stato l’ultimo ad ammirare quella bellezza, pensa mentre guarda la vita abbandonarla. Che peccato che la bellezza sia mortale come il corpo che la ospita, cosicché l’anima, immortale, non possa portarla con sé nell’oltretomba. Sarebbe rimasta lì, immortalata su quel delicato viso, sfigurato dalla morte, ma ancora memore della beltà della vita, finché non fosse stato sepolto e divorato del tempo, più velocemente che avrebbe fatto invecchiando.
Qualche istante dopo irrompono nella sala i sacerdoti allertati dal frastuono, ma prima che possano emettere anche solo un urlo, i Makhai alle loro spalle li trafiggono con le loro spade eliminandoli in un batter d’occhio.
Kratos lancia l’arma al suo comandante che la afferra al volo, mentre Kydoimos chiede se avesse scoperto qualcosa.
«Purtroppo niente… diciamo che l’Oracolo e mio fratello non si sono dimostrati molto collaborativi… anzi, ora avremo tutte le forze dell’Olimpo contro, quindi dobbiamo sbrigarci a…» ma non fa in tempo a finire la frase che il pavimento martoriato dallo scontro cede completamente crollando sotto i piedi di Ares, facendolo sprofondare in un baratro oscuro.

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Capitolo 4
*** LIBRO I - Ares, il Dio Empio -- Capitolo 4: L'Antica Madre ***


Subito i suoi fedeli compagni si gettano verso la voragine, ma è troppo tardi: Ares è volato giù e ogni istante, allontanandosi di più, il suo urlo diventava più tenue e inudibile.
Qualche istante dopo Ares si schianta contro qualcosa di estremamente duro: roccia, gli suggerisce il suo tatto. Per fortuna la sua natura divina gli ha evitato una orribile morte che sarebbe sicuramente sopraggiunta a chiunque avesse fatto un volo del genere, atterrando sulla dura roccia.
Il Dio della Guerra si rialza, non senza accusare il dolore della botta. Si rimette a posto qualche osso, che era uscito dalla sua naturale posizione e si scrocchia un po’ la mascella.
Si guarda intorno: il posto è completamente buio e surreale. Tutto ciò che si vede sono solo delle enormi, immense colonne, disseminate qua e là. Non c’è né pavimento al di sotto, né soffitto al di sopra, quindi le estremità di tali colonne si perdono nell’oscurità.
Le uniche luci provengono da degli enormi focolari appesi sulle colonne, ma sono sufficienti solo ad illuminare quei singolari pezzi d’architettura.
Il fascio di luce proveniente dal buco fatto nel pavimento della sala dell’Oracolo squarcia le tenebre fino ad illuminare proprio il luogo della caduta di Ares: questo è una colonna come le altre, ma stranamente sembra essere stata tranciata, o almeno non portata fino al soffitto.
«Tutto a posto, mio Dio?» urla Alala dall’alto, facendo valere la sua grande abilità vocale.
«Si, sto bene» risponde Ares, non sapendo nemmeno se il messaggio sarebbe arrivato.
Ma non se ne preoccupa, la sua preoccupazione più impellente è capire che posto sia quello, e come se ne potrebbe uscire.
Osservando ancora l’unica cosa osservabile, ovvero quelle enormi colonne, il Dio si accorge che sono disposte in due schiere, una alla sua sinistra e una alla sua destra, come a voler formare un corridoio davanti a lui, come in un tempio…
“E’ lì che devo andare: dritto – pensa – ma come?” Ancora il suo sguardo finisce sulle colonne, su quei focolari, disposti in ordine, in fila, a gettare la loro luce prettamente all’interno di quel corridoio: fuochi stranamente vivi ed energici, che ballano nei loro grandi piatti di metallo, lo stesso metallo di cui sono fatti i bracci che spuntano dalla pietra, lo stesso metallo di cui sono fatte le catene che li uniscono ai piatti.
Riflettendo ancora Ares si chiede come sia possibile che quei fuochi sia ancora così giovani, nonostante è evidente che nessuno “frequenta” più quel posto ormai da molto. Ma anche qualcos’altro non gli quadra: niente sembra essere lì da molto tempo, non ci sono rampicanti o erbacce, di quelli che di solito si vedono nei posti abbandonati, lungo le colonne, la pietra stessa è ancora pulita ed elegante, come se fosse stata conservata da qualche strana forza ancestrale.
Ormai è lì da un po’ e non ha fatto altro che studiare quello strano paesaggio. E’ ora di agire, ma l’unico modo che gli riesce di escogitare per percorrere quel corridoio senza pavimento è sfruttare proprio quei bracci, ma non è possibile che quel luogo sia stato escogitato per essere percorso in quella maniera! Quale pazzo avrebbe realizzato un progetto così stupido ed inutile?
Ma, ad un tratto, la colonna sotto ai piedi di Ares scricchiola e, qualche istante dopo, la base su cui il Dio poggia e che, anche se non se n’era accorto, era stata quasi distrutta dal suo atterraggio, cede improvvisamente e si spacca in vari pezzi: è ora.
Con un balzo sovraumano, Ares si lascia dietro la piattaforma che crolla e raggiunge quasi facilmente il primo braccio, sebbene fosse posto più in alto del punto di partenza.
Guardandosi indietro, pensa che il piano stia funzionando, il braccio per adesso regge.
Poi un sibilo… sarà stato il braccio che sta cedendo.
Così spicca un altro balzo verso il braccio successivo, distruggendo definitivamente quello che aveva lasciato con la spinta che si era dato.
Così fa con altri tre bracci, quando sente nuovamente quel sibilo, stavolta più vicino, per quanto la volta precedente non si era accorto quanto fosse lontano.
Prova a rimanere un po’ di più su quel braccio metallico, ma questo non cede, nè scricchiola: solo la spinta che si dava per i suoi salti faceva cedere i bracci.
Ma allora cos’era quel sibilo?
Si sarebbe fermato ulteriormente, se non avesse visto quella luce, in mezzo al corridoio, in lontananza: qualsiasi cosa stia cercando si trova lì.
Così salta da una colonna all’altra fino a poter chiaramente vedere la fonte di quella luce, ma decide di osservarla meglio una volta avutala davanti. Così, con un ultimo balzo raggiunge quella che sembra la colonna gemella di quella su cui era atterrato, dato che si trova alla stessa altezza.
Questa volta, sul piano della colonna c’è un mezzo busto, che spunta dalla stessa pietra della colonna, come se ne fosse il prolungamento naturale.
E’ una figura a dimensioni reali, alta poco meno di Ares.
Rappresenta una donna, con le braccia aperte e protratte in avanti, che sorreggono un libro aperto, ma anch’esso fatto di pietra. Il volto non è più quello di una donna giovane, ma dà l’innata idea di quello di una madre, vissuta e saggia. La bocca è aperta e col resto del viso e del corpo sembra comunicare un’espressione caritatevole.
Gli occhi sono delle cavità, dalle quali filtra la luce di due fiamme, che ballano all’interno della testa, come i fuochi degli altri focolari.
La donna è vestita di un lungo drappo da donna di casa, che finisce, oscurando le gambe e la parte bassa dell’intera figura, gettandosi direttamente nella colonna sottostante.
Arrivato a quel punto però, il Dio della Guerra si chiede cosa debba fare.
Sul libro ci sono incise le parole:

Se con la Madre vuoi parlare,
un po’ di ciò che è suo devi restituire.

La sua mente non elabora neppure il pensiero, ma agisce come d’impulso: sfodera la daga che aveva riposto poco prima di cadere e si incide un taglio nella mano, dal quale gocciola un piccolo rivolo di sangue, sangue divino, che atterra quasi al centro del libro per poi scivolare lungo la piega centrale fino a cadere sul piano della colonna.
Seguendolo con lo sguardo, Ares nota che nel piano è scavato una specie di piccolo canale, lungo il quale il suo sangue continua la sua corsa, fino a cadere nel vuoto sottostante: ora ciò che era della Madre è sicuramente tornato alla Madre.
Seguono pochi istanti, pieni di attesa mista a curiosità e anche a un pizzico di ansia, che il Dio non vuole riconoscere: tra poco potrebbero essergli svelate verità che potrebbero cambiare il suo destino.
Finalmente quell’atteso qualcosa accade: una folata di vento, caldo, sale impetuoso dagli abissi della terra, accompagnato da una voce, possente, che riempie le orecchie, e sembra provenire dal baratro, ma non da un punto preciso, bensì dall’intera voragine, come il vento caldo, come se a parlare fosse una bocca, una gola grande quanto quel vuoto.
In principio la voce era solo un urlo informe, né di rabbia né di altro, come quello di chi si sveglia dopo un lungo sonno: quasi uno sbadiglio.
Poi però prende a parlare:
«Finalmente qualcuno si è ricordato della vecchia Gea» esclama una voce femminile, di una donna vissuta.
«Tu devi essere Ares, se non ricordo male… cosa ti porta qui da me? Non dev’essere questione da poco, data la fatica che hai fatto…» continua la titanessa.
«Sono qui… per chiederti delucidazioni…»
«Su cosa? Dio della Guerra»
«Su una profezia…»
Gea a questo punto prorompe nella risata di chi ha capito tutto.
«Ho già capito di cosa parli, Olimpico… in effetti mi chiedevo come mai nessuno fosse ancora mai venuto a reclamare quella profezia. E chi poteva farlo, se non tu? Ebbene questa profezia esiste sin dal Principio… è passato tanto di quel tempo che non ricordo più nemmeno chi la formulò. So solo che la vidi realizzarsi ben due volte.
La prima era al tempo di Urano, mio marito. A quel tempo era lui a detenere il potere, ma non faceva altro che abusarne e così un giorno, su mio invito, mio figlio Crono lo evirò, spodestandolo e prendendone il posto come Re dei Titani.
Molto presto però anche lui iniziò a comportarsi come suo padre e prese la disgustosa abitudine di divorare i suoi stessi figli, spaventato dall’eventualità che la profezia si avverasse una seconda volta.
Un giorno però io e Rea, sua moglie, escogitammo un piano per far sopravvivere l’ultimo nato, tuo padre, Zeus, nascondendolo sul monte Ida e dando invece in pasto a Crono una pietra. Zeus venne così cresciuto a Creta in gran segreto e quando fu maturo, attraverso un veleno, riuscì a far rimettere a suo padre i suoi fratelli, con i quali formò un esercitò che guidò contro i Titani in quella che fu la prima e più grande guerra: la Titanomachia.»
«Sono a conoscenza della nostra storia Gea, quello che voglio sapere è: questa profezia, esiste davvero o sono state solo coincidenze?»
Gea non risponde subito, anche se non si può dire stia riflettendo o altro…
«Io sono convinta che esista un motivo, un qualcosa che spinge il figlio a ribellarsi al padre, di generazione in generazione. Non so dire né se vi sia uno scopo, buono o cattivo, né se vi sia una causa, ciò che so è che nessuno è più indicato di te a portarla a compimento»
Ares non aspetta che questo, una specie di ufficializzazione di ciò che spera nell’animo.
«Grazie Gea…» dice, facendo per voltarsi e interrompere la discussione.
«Ma so anche che sarà una cosa tutt’altro che facile. Sarà l’impresa senza dubbio più ardua di tutta la tua vita. Non ce la farai da solo, né con un manipolo dei migliori guerrieri della Grecia, che siano essi mortali o divini. So che ti serviranno alleati potenti…» Ares si arresta di colpo, interessato alle parole della titanessa.
Di tutta risposta esplode nell’aria uno stridore assordante, di roccia che sfrega contro altra roccia, mentre tutta la terra, e l’aria di conseguenza, trema.
Giù, tra l’oscurità si apre quella che sembra una piccola breccia, dalla quale proviene una fioca luce rosso acceso.
«Quello è l’accesso per il Tartaro, il punto più profondo delle mie viscere. Lì, come saprai, sono rinchiusi i più potenti nemici di Zeus: i Titani. Nemmeno le forze coalizzate di tutti gli Olimpi potranno far nulla contro questi potenti avversari guidati dal Dio della Guerra in persona.»
Ares conficca il suo sguardo dritto in quella breccia, cercando di intravedere qualche sagoma, ma ciò è impossibile data la profondità a cui questa si trova.
«Grazie del consiglio Gea… ma non credo che i Titani facciano a caso mio… non credo che una volta liberati si darebbero la premura di riconoscermi come loro re, io, un Olimpico…»
«E allora dove hai intenzione di trovare degli alleati all’altezza?»
«Per ora non lo so, ma stai certa che di nemici degli Dei se ne trovano a dismusura…»
«Allora auguri Ares, sappi che hai la mia benedizione…» dice Gea mentre richiude il passaggio per il Tartaro.
«Ma un ultima cosa: stai attento, non sei da solo qui…» sono le ultime sibilline parole della Titanessa prima di ritornare nel suo stato di sonno apparente.
«Cosa? Che intendi Gea!?» Urla Ares, ma nessuna risposta proviene dagli abissi oscuri, nessuna folata di vento attraversa quelle tenebre, e quando anche l’ultima eco dell’urlo di Ares scompare in lontananza, tutto ripiomba nel silenzio più assordante.
Qualche istante dopo, però, una risposta arriva, ma non come l’avrebbe voluta Ares: un sibilo, un ennesimo sibilo, di quelli che aveva sentito prima… ma questa volta sembra ancora più vicino…

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Capitolo 5
*** LIBRO I - Ares, il Dio Empio -- Capitolo 5: Il Mostro degli Abissi ***


Un altro sibilo, ma stavolta ha sentito perfettamente da dove era venuto: alle sue spalle!
Si volta, ma niente. Solo quell’oscurità e quelle enormi colonne… ma… nota qualcosa sulla colonna più vicina alla sua sinistra: sembra una grossa coda di serpente!
Con lo sguardo segue le sue spire avvolte intorno alla pietra, su, fino ad arrivare all’animale a cui appartiene, o forse è meglio dire "mostro": un enorme drago dalle evidenti e fitte scaglie, sparse su tutta la palle, più dure e sporgenti su ventre, schiena e arti; questi (quattro), conficcano gli enormi artigli, sporgenti tra quattro grosse dita per zampa, nella roccia della colonna, fornendogli ancora più presa.
Ma la parte più spaventosa è senza dubbio la testa: simile in molti aspetti a quella di un rettile, se non fosse per la grandezza e per un grosso paio di temibili corna, leggermente ricurve all’indietro e avviluppate su esse stesse.
Gli occhi, con pupille verticali contornate da iridi rossi grandi quanto quasi l’intero bulbo oculare, sono fissi su quella che deve considerare la sua prossima preda, dato che la sta già pregustando assaggiando l’aria nella sua direzione, cacciando e ricacciando velocemente la lunga lingua biforcuta, provocando quell’inquietante sibilo.
Ma non è ancora tutto: la creatura dispone anche di un paio di enormi ali simili a quelle dei pipistrelli, ma ricoperte delle stesse scaglie presenti su tutto il corpo, che partono da poco sotto le scapole.
E’ Pitone, il drago leggendario che faceva la guardia al tempio di Gea e che si racconta fosse stato ucciso da Apollo per impossessarsi dell’oracolo; Ares conosce bene questa bestia dato che ne ha sentito molto parlare: conosce la sua immane forza, i suo artigli affilati, le sue fauci sputafuoco ma soprattutto il veleno prodotto dalle sue zanne. Questo di solito uccide la vittima in pochi secondi tra i dolori più atroci, ma, non potendo un Dio morire, il dolore durerebbe per l’eternità e sarebbe un dolore talmente forte che il Dio in questione verrebbe infine ridotto all’immobilità e alla pazzia.
Pitone è avvinghiato con tutto il corpo alla colonna, dando le spalle ad Ares, ma la sua testa punta proprio verso di questo e non sembra volerlo mollare, anzi, quando si accorge che la sua preda si è resa conto della sua presenza, spalanca le gigantesche mascelle, mettendo in mostra diverse fila di lunghi e affilatissimi denti, e, con un potente ruggito, erutta una enorme fiammata dalla bocca.
Per fortuna i riflessi divini di Ares riescono a evitargli l’ustione, facendoli compiere un salto verso la colonna più vicina, quella opposta a dove si trova il drago.
Atterra sul braccio di un focolare: quella fila di colonne gli servirebbe per tornare indietro, dato che l’altra, usata per arrivare all’oracolo, è ormai sprovvista dei focolari, distrutti dal passaggio del Dio.
Pitone, sembra aver soltanto iniziato la sua offensiva e, senza perdere altro tempo, si getta dalla sua colonna contro quella della sua preda. Ancora una volta Ares riesce ad evitare l’attacco, saltando e distruggendo al contempo il focolare, che comunque non sembra una grande perdita in confronto ai danni causati dall’impatto dell’enorme drago sulla colonna: nonostante l’imponenza e lo spessore di questa, il drago sembra passarla da parte a parte come se fosse fatta di fango.
Ora però Ares, avendo saltato in verticale senza pensare alle conseguenze, sta per ricadere nel vuoto, così sfodera velocemente la spada e la conficca violentemente nella pietra, riuscendo a rimanervi appeso.
Dall’altra parte della colonna, fuori dal campo visivo del Dio della Guerra, un battito d’ali segnala che il drago non è stato messo fuori gioco dall’impatto, anzi, dopo poco un tonfo e la colonna trema mentre quattro enormi zampe artigliate fanno capolino dall’orizzonte di pietra: è atterrato dall’altra parte.
Poco dopo l’orribile testa si sporge da dietro la colonna, aiutata dal lungo collo, e trova il suo obiettivo, che cerca di colpire con una zampata. Ma il drago è ancora troppo lento e Ares, con uno strattone, grazie alla sua forza sovrumana, riesce a far scorrere la lama nella roccia, scivolando più giù ed evitando il colpo.
Subito dopo però, Pitone usa la lunga coda per afferrarlo e stavolta egli non ci può fare niente, se non rimanere attaccato alla spada, che però viene facilmente estratta dalla roccia insieme a lui.
Il drago si porta la preda, ormai bloccata nelle sue spire, all’altezza della testa e cerca di stritolarla con la possente coda.
Il Dio sente la pressione salire sui suoi fianchi e sulle costole e quasi all’unisono avverte il crack di queste e quello dell’armatura, che con un suono metallico, si piega stringendo ancora di più il corpo di Ares.
Costui è cosciente che deve reagire il prima possibile, prima che sia troppo tardi, e sferra un fendente alla coda, che però non viene completamente tranciata, ma il dolore basta a far mollare la presa al mostro.
Ares si dà la spinta contro la coda che lo ha appena abbandonato per saltare incontro alla testa dell’avversario. Questo, sempre a causa del dolore, aveva spalancato le fauci e chiuso gli occhi e quindi ora si trova completamente scoperto contro gli attacchi del nemico e Ares sa bene dove vuole colpire: dritto sul palato della bestia.
Non sa se per astuzia o istinto, però, questa non si rivela completamente impreparata e lo schiaccia violentemente con l’ala sulla colonna a cui ancora era avvinghiata con tutte e quattro le zampe.
Ares si ritrova nuovamente immobilizzato, con gli artigli, simili a quelli delle zampe, che spuntano da sopra l’ala a puntellargli il torace.
Le costole divine non hanno ancora avuto modo di sanarsi e quella presa gli ripresenta il dolore, che stavolta non riesce a controllare e libera in un grido.
Il Distruttore di Uomini cerca di levare la sua lama per liberarsi dalla presa come aveva fatto in precedenza con la coda, ma Pitone dimostra di saper imparare dai suoi errori e, dopo aver ben stretto gli artigli dell’ala attorno al Dio, lo stacca dalla colonna per poi schiacciarcelo nuovamente contro, facendola incrinare ancora di più.
Il dolore aumenta nuovamente, tanto da costringere il Dio a lasciare la presa della sua arma, che cade nel baratro, senza dare mai più segno di aver toccato il fondo.
Il drago ruggisce violentemente a pochi centimetri dal volto della preda, come a volerla deridere per la sorte che le si prospetta.
Ma quell’ira nelle profondità delle sue viscere, quella fiamma, si è nuovamente accesa, e arde consumandolo dall’interno. Il corpo diventa sempre più caldo finché la pelle divina inizia a fumare e a bruciarsi in chiazze, prendendo letteralmente fuoco e, mentre le fiamme si dipanano a macchia d’olio, lascia intravedere sotto la pelle qualcosa di diverso dalla carne umana, qualcosa di ugualmente rosso, ma un rosso più acceso e caldo.
Il calore aumenta ancora, mentre Ares accompagna l’eruzione d’ira con urla sovrumane, non di dolore questa volta, ma di potere, il potere di cui si sente ripieno fino ad esplodere.
Il drago iniziava ad accusare il calore, e ora era lui ad urlare per il dolore, ma Ares non sembra aver ancora finito, dato che da rosso acceso la sua “carne”, scaldandosi, ora è diventata di un giallo intenso, come quello del metallo fuso nelle fornaci.
Il mostro, sebbene la sua pelle sia fatta per resistere alle più alte temperature, deve lasciar andare la presa e vola via.
Ares, ormai piantato nella colonna, si raffredda, in tutti i sensi: la sua “carne” si risolidifica dimostrando di essere realmente metallo.
Il Dio della Guerra guarda il suo arto metallico affascinato, come se fosse la prima volta, come sempre. Poi sogghigna e in un batter d’occhio il braccio ritorna giallo e incandescente e, come se forgiato da un fabbro abile quanto invisibile, si trasforma in una lunga e affilatissima lama, che ritorna velocemente fredda e pronta da usare.
Spicca un salto verso la colonna successiva, stavolta senza bisogno di usare i bracci metallici, perché usa il suo, quello non modellato a mo’ di lama, affondandolo con facilità nella dura roccia.
Si scruta intorno per localizzare il nemico, ma, non vedendolo, salta verso la prossima colonna.
D’un tratto, però, il drago gli è di nuovo addosso e lo intercetta a mezz’aria sbucando quasi dall’abisso.
I due schizzano verso l’alto, mentre Pitone stringe nelle zampe anteriori il nemico. Questo ha però libera l’arma-braccio, che usa senza pensarci due volte, per colpire gli arti del mostro. Dopo essere riuscito a penetrarne le carni, il mostro e costretto nuovamente a lasciare la presa, in corsa, e Ares finisce in un batter d’occhio alle sue spalle, ma prima di cadere nel vuoto, riesce ad afferrare la lunga coda del drago, fino ad arrivarne alla punta, che, a causa del colpo inflittogli poco prima dallo stesso Ares, ora sventola quasi comicamente, attaccata solo per poco al resto della coda.
Il Dio ora vorrebbe non aver mai sferrato quel fendente, ma fortunatamente la punta tiene, o almeno finché Pitone si ferma e, con un movimento a frusta, scaraventa via Ares, che si porta, però, con sé, l’appendice del mostro, che urla violentemente.
Il Dio di Fuoco e Metallo viene scagliato contro una delle enormi colonne e la attraversa da parte a parte, prima di fermarsi contro una seconda, che regge per poco.
Il drago non sembra conoscere pause e, anzi, convinto nel voler vendicare la sua amputazione, si scaglia contro l’avversario, facendosi precedere da una palla di fuoco, che però non infastidisce il Dio che si fa investire dal mostro.
Entrambi sfondano quindi l’ennesima colonna, ma stavolta il drago blocca l’arma nemica e fa per mordere e iniettare il veleno. Ma il collo, trasformato nel più resistente dei metalli, non gli lascia bersaglio e, inferocito, Pitone lo lancia in aria e, al ritorno, lo colpisce nuovamente con la coda, battendolo, come una palla, direttamente contro un'altra colonna, che va, anche questa, in frantumi.
Sembra la goccia che fa traboccare il vaso: le colossali colonne che reggevano la volta del monte, ora sono decimate, e quelle rimanenti vengono squarciate da evidenti crepe, che si fanno strada nel marmo scricchiolando paurosamente. Rivoli di polvere e terra piovono dal “soffitto”, segno inequivocabile che il tutto sta cedendo.
Ares, aggrappato ad un’altra colonna, individua il drago e lo abborda in volo. Questa volta è lui a usarlo per i suoi scopi: con il braccio simil-umano, gli ficca la mano nell’occhio e tira il cranio verso l’alto. Il mostro, in preda al dolore, vira verso quella direzione a velocità pazzesca, finché i due non sfondano il pavimento della Sala dell’Oracolo, mancando di poco il varco precedente.
Dopo aver attraversato anche il soffitto della Sala, entrambi si ritrovano finalmente alla luce del sole, ma Pitone, non sembra gradirla tanto che ora forse l’occhio sano fa più male di quello accecato. Smette di battere le ali e, dal movimento verticale i due frenano bruscamente, tanto che Ares viene sbalzato in avanti via dal collo del drago, e iniziano lentamente una picchiata che prende però subito velocità.
Mentre sotto di loro tutto il tempio collassa crollando su sé stesso, l’altitudine guadagnata prima della ricaduta è abbastanza da permettere ad Ares un ultima offensiva: sfruttando non si sa quale nozione fisica, il Dio, offrendo la sua posizione più aerodinamica, riesce a recuperare il vantaggio sul drago che, nel frattempo, rimasto inerme, non aveva ne frenato la caduta, né tentato una manovra evasiva.
Abbrancatolo, carica il braccio armato e sferra il colpo che, penetrando la corazza che si diceva impenetrabile da lama umana, raggiunge il cuore della bestia, trafiggendolo.
Ares ha solo il tempo di immortalare l’espressione indurita dalla morte sul volto del drago Pitone, prima di saltare via dal suo cadavere in caduta e lasciarlo tornare all’oblio da cui era nato.


NdA: e voilà (detto alla Willie-il-giardiniere maniera XD) il "superpotere" del nostro Dio della Guerra... sì, in questo capitolo non sembra un granché ed è comunque un po' forzato (mi sembra), ma ha un motivo 'sto potere, un'eziologia, quasi (cavolo che paroloni :D): dato che tutti gli altri dei presenti sembravano avere dei poteri "elementali" (Zeus = fulmini; Apollo = luce... e, se vogliamo essere "canonici", della musica, degli oracoli e della medicina, cose inutili in combattimento, a meno che non voglia mettersi a buffare un alleato XD; ecc...) mi sembrava squallido dare ad Ares, protagonista della storia, solo delle ottime abilità guerriere (quelle che sembrano essere il suo potere nei primi capitoli), così ho pensato: "cos'è il Dio della Guerra se non il "Dio di Fuoco e Metallo"?" beh... scusate la nota un po' troppo lunga, ma ditemi se avete qualcosa da dire su questo punto.
PS: Dovahkiin! Dovahkiin! ... stupido Skyrim che invadi la mia psiche XD

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Capitolo 6
*** LIBRO I - Ares, il Dio Empio -- Capitolo 6: La Controffensiva di Apollo ***


Capitolo 6: La Controffensiva di Apollo «Avete visto, Padre? – urla Apollo, sconcertato – Che oltraggio! Che sacrilegio!»
Si sbraccia e sbraita mentre l’ira si palesa sui suoi divini lineamenti. Ma Zeus suo Padre, sempre seduto sul suo trono, non pronuncia alcun suono. E’ rimasto fermo, con lo sguardo fisso verso una nuvola dove poco prima aveva aperto un varco, attraverso il quale aveva visto suo figlio Ares distruggere il sacro tempio di Delfi. Ora il varco si è richiuso; per sua volontà, certo, ma non perché non ci sia nient’altro da indagare, ma perché non vuole vedere oltre.
«Allora, Padre, che aspettate!? Fate qualcosa! Prendete la vostra Folgore e fulminatelo! Banditelo poi dall’Olimpo e relegatelo nelle profondità del Tartaro! E’ questo che si merita chi tradisce l’Olimpo!» queste parole sembrano risvegliare l’animo scosso del Re degli Dei:
«Un traditore dell’Olimpo… è questo il suo titolo ora? … Una volta era il Dio della Guerra… tuo fratello… mio figlio! Posso io gettare nel Tartaro il sangue del mio sangue?»
Apollo sembra profondamente deluso dalla risposta del Padre, quasi disgustato:
«Cosa!? Lascerete che Ares sfidi di nuovo l’Olimpo? Di certo la distruzione del mio Tempio non è che l’inizio di qualcosa di ancor più grande… e sacrilego! Non lo avete sentito mentre si proclamava legittimo proprietario del vostro stesso trono? … Egli non è più mio fratello, Padre, e voi  avete un figlio in meno…»
Zeus rimane ancora fermo e non osa incrociare lo sguardo del figlio. Cala il silenzio fra i due e la rabbia e il dissenso montano nell’animo del Dio del Sole, finché, vedendo che Egli non intende rispondergli, la rabbia lascia il posto alla calma:
«Bene, se non intendete far nulla… me ne occuperò da solo» detto ciò, si incammina per la scaletta che diparte dal trono del Padre e si immerge nelle nuvole che sempre lo circondano.
Tornato nella cittadella olimpica, Apollo chiama un suo servitore:
«Raduna le Guardie dell’Olimpo e manda i Grifoni a rallentare Ares e i suoi mentre io preparo gli uomini»
L’uomo annuisce a corre verso la torre delle guardie.
«Ares, mio signore, state bene?» urla una voce nella nuvola di polvere.
Il Dio della Guerra si rialza a fatica facendosi largo tra le macerie del Tempio. La sua carne è ritornata simile, nell’aspetto, a quella mortale, ma abiti e corazze sono andati in frantumo ed ora è completamente nudo.
«Oh, mio signore!» esclama Bia, intravedendolo tra la polvere.
«Non ora Bia, non c’è tempo – taglia corto il Dio, che conosce bene la sua fedele servitrice – mio Padre avrà già visto tutto e starà già preparando le sue armate»
«Quindi qual è il prossimo passo?» chiede Kydoimòs, che intanto era giunto insieme agli altri
«Ci creiamo il nostro di esercito»
«Avverto gli spartani?» azzarda Proioxis
«Non bastano, per quanto siano i più forti fra gli umani sono sempre umani… ci serve qualcosa di più potente... – un verso in lontananza, un incrocio tra il grido di un aquila e il ruggito di un leone – e ci serve alla svelta»
Ares, preoccupato scruta, l’orizzonte: sembra saper per certo dove guardare. Ma torna subito risoluto, si avvicina alle macerie, ne estrae il cadavere di un sacerdote, gli strappa di dosso le vesti sacre e se le avvolge alla meno peggio intorno al corpo.
Intanto impartisce ordini ai suoi prodi: «Prendete i cavalli, andrete prima da Eris, vostra madre: il suo appoggio ci sarà molto utile; poi Kratos e Bia andrete in Scizia, al cospetto della regina delle Amazzoni: queste dovrebbero essermi ancora fedeli; a te, probabilmente, Bia, daranno ascolto, dato che tu e loro avete molte cose in comune. Kyudoimòs, Phobos e Deimos invece vi recherete comunque dal Re di Sparta e gli direte di preparare i suoi uomini migliori per la più grande e gloriosa battaglia a cui essi parteciperanno: gli spartani non saranno la nostra arma vincente, ma ci serviranno per tenere occupate le guardie dell’Olimpo…»
«Quindi è questo, quello che stiamo per fare… attaccare l’Olimpo…» chiede con qualche remora Alettrione.
«Certo, e non voglio mai più sentire quel tono spaventato!» minaccia Ares avvicinandosi pericolosamente.
Ma ad un tratto, senza preavviso, una freccia fende l’aria e si conficca nella fronte del Dio.
Poco dopo, tra versi agghiaccianti, un ammasso luminoso si precipita dal cielo sui cavalli, li afferra e se li riporta in aria, scaraventandoli a valle.
Ares raddrizza la testa che era stata piegata all’indietro dall’impatto, mentre i suoi tirapiedi si mettono in posa da battaglia e lo accerchiano. Con aria stufata, spinge la freccia più affondo nella sua testa, facendole trapassare la parte posteriore, non senza problemi, poi, con l’altra mano spezza la punta della freccia che sbuca dalla nuca e infine tira via dal davanti il resto della freccia.
Nel frattempo quell’ammasso dorato, a cui se ne sono aggiunti altri, si rivela essere uno squadrone di grifoni da guerra, armati dal Dio del Sole, come l’armatura dorata delle cavalcature e dei loro cavalieri non smetteva di urlare ai quattro venti. Armati di arco, i campioni in sella ai propri grifoni, svolazzavano intorno ai nemici continuando ad emettere quegli assordanti versi.
«Ci manda Apollo in persona, ed Egli vi ordina di seguirci senza porre resistenza fino all’Olimpo, dove verrà decisa la vostra punizione per aver commesso questo atto sacrilego» dice uno di loro con tono deciso e fiero, l’unico ad essere atterrato davanti ad Ares, ma fuori dal cerchio disegnato dai suoi compagni, che stringe lo stesso Ares e i suoi Makhai.
«Io non prendo ordini da nessuno se non da me stesso! – urla Ares – E riferisci al duo padrone… anzi, tu non gli riferirai niente, perché morirai adesso!» a queste parole Kydoimòs gli lancia un giavellotto che afferra al volo e subito scaglia contro quel cavaliere, trafiggendogli la spalla e disarcionandolo.
Subito una pioggia di frecce sgorga dagli altri cavalieri che restano in volo, corrisposta da Alala, che alterna frecce a urla spaventose. Ares si separa dagli altri e raggiunge il grifone rimasto senza cavaliere. Una volta salitoci a bordo, gli ordina e partire e quello, che di solito obbedisce solo agli ordini del suo addestratore, nonché cavaliere, si solleva maestosamente in volo.
Sebbene presi dalla battaglia con i Makhai, le altre Guardie si accorgono della fuga del Dio e qualcuna urla di inseguirlo, così, alcuni grifoni si gettano al suo inseguimento, mentre solo alcuni riescono ad essere fermati dai seguaci di Ares, come Kydoimòs, che riesce a saltare a bordo di uno e ad ucciderlo facendolo precipitare.
Ares è già lontano dal monte Parnaso, ma alcuni cavalieri continuano a tormentarlo con frecce e attacchi ravvicinati dei propri grifoni.

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Capitolo 7
*** LIBRO I - Ares, il Dio Empio -- Capitolo 7: Battaglia Aerea ***


Capitolo 7- Battaglia Aerea Un grifone affianca quello di Ares, gli tira zampate e cerca di ferirlo con qualche beccata, ma l’armatura dorata evita gravi danni, anche se comunque, cercando di difendersi, il grifone fa quasi cadere il Dio della Guerra. Nel frattempo il cavaliere su quel grifone continua a tempestare di frecce il Dio ribelle, ma questo non si scompone, sebbene alcune frecce vadano a segno.
«Ormai mi hanno scomodato, tanto vale usare a pieno i miei poteri» pensa stufo il Dio
Così, liberando la sua ira, trasforma nuovamente la sua carne in ferro e riscaldando un braccio arriva a fonderlo fino a uno stato quasi del tutto liquido, ma malleabile abbastanza da consentirgli di staccarlo dal resto del corpo: con un gesto di quel braccio, lancia quella che prima era la sua mano, che va a finire, pezzo informe di metallo fuso, contro la faccia del cavaliere che, con un urlo disumano, cade dal suo grifone, il quale può finalmente svolazzarsene libero dove vuole.
Ma ben presto un altro cavaliere gli si affianca nuovamente, seguito da un altro sul lato opposto.
Ares allora stende le braccia su entrambi i lati e, dopo averle portate a temperatura di fusione, le estende e appuntisce come lancia, che colpiscono e trapassano entrambi i nemici contemporaneamente. Nemmeno un attimo di tempo per capire che sta succedendo che un cavaliere abbandona il suo grifone dopo averlo portato sopra quello del Dio e vi si getta addosso, cingendogli la gola, ma non fa in tempo ad estrarre la spada che uno spuntone, generato dalla schiena del Distruttore di Uomini, gli trafigge il petto, passandolo da parte a parte.
Finalmente sembra che gli inseguitori siano finiti, quando ad un tratto un altro grifone piomba su quello di Ares da una direzione imprecisata, fatto sta che lo trascina giù con sé. Mentre i due mostri piroettano in picchiata perdendo quota con una rapidità spaventosa, il cavaliere del grifone trova il modo di arrembare l’altro, sfodera la spada e tira un fendente corto alla prima parte del anatomica del nemico che gli viene a tiro, dato che in quel vortice confusionario era già straordinario essere riuscito a cacciare la spada dal fodero. Ma appena la lama entra in contatto con la pelle metallica del Dio va in frantumi ed egli sfrutta lo stupore del cavaliere per gettarlo via.
Ma è troppo tardi per riprendere il controllo del grifone, che è ancora avvinghiato all’altro, ed entrambi si schiantano sul tetto di una casa, trapassandolo e trascinando con loro anche il Dio.

NDA: eccomi! scusate se ho tardato con questo capitolo, ma mi è esploso il router e per un po' ho dovuto sopravvivere senza internet D: Ma ora sono tornato e posso continuare a postare capitoli :D

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Capitolo 8
*** LIBRO I - Ares, il Dio Empio -- Capitolo 8: Ares, il salvatore ***


Capitolo 8 - Ares, il salvatore Un gran polverone ingombra l’angusta stanza della piccola casetta dove i due mostri e Ares sono “atterrati” maldestramente. Spostando qualche maceria, il Dio riemerge tra i detriti con solo qualche ferita (laddove non aveva trasformato il corpo in metallo) ma presto rimarginata, e gli abiti del sacerdote completamente a brandelli.
Si guarda intorno, ma lo sguardo è presto bloccato da delle mura grigie, forse perché questo è il loro colore, forse perché la polvere, che ormai si sta posando, le ha ingrigite tutte: la stanza è così stretta che calza alla perfezione ai due corpi dei grifoni.
Subito un uomo, seguito da una donna e un bambino, accorre da una delle due porte della stanza: l’espressione sul suo volto è di puro terrore.
«Chi siete?» chiede non senza iniziare a tremare, mentre il resto della famiglia si nasconde dietro di lui, non appena distingue una sagoma antropomorfa dietro la polvere.
«Io sono Ares, il Dio della Guerra» gli risponde questo emergendo dalla nuvola.
Subito la famigliola si inchina timorosamente.
«Dove mi trovo?» continua egli
«Questo è un piccolo villaggio di pastori sui monti del Peloponneso, al confine tra l’Argolide e l’Acaia, ma la città più vicina, Corinto, dista parecchie parasanghe a est…»
«Sì sì, ho capito… ora però portatemi dei vestiti decenti»
«Certo, mio Signore» dice l’uomo facendo segno alla moglie di andare a prendere qualche vestito nell’altra stanza
«Quindi – continua, con l’aria di chi sta per azzardare qualcosa – alla fine le nostre preghiere sono state esaurite? L’Olimpo ha mandato il suo più forte condottiero per liberarci de quell’orribile mostro?»
«Quale mostro?» chiede brusco Ares
«Quell’immonda strega-serpente che infesta questi monti… I più audaci la chiamano Echidna…» sembra avere paura perfino di pronunciare quel nome
«Una strega-serpente? Parlami di lei, uomo!» nel frattempo la donna torna con degli abiti, che il Dio indossa senza il pudore di denudarsi davanti all’intera famigliola
«Bhe… si narra che sia figlia di altri due terribili mostri, per di più fratello e sorella, Forco e Ceto e che abbia dato alla luce innumerevoli mostri come lei e i suoi genitori, continuando la striscia di peccati incestuosi accoppiandosi anche con uno dei suoi stessi figli. Vive in una caverna su questi monti, ma spesso le maledizioni che lancia contro gli Dei si sentono perfino da qui: odia l’Olimpo perché le ha strappato i figli e riversa la sua furia sul nostro villaggio e su quelli di questa zona uccidendo uomini, donne e bambini, divorando bestiame o gettando incantesimi malefici sui campi per renderli sterili… Per generazioni abbiamo supplicato gli Dei dell’Olimpo affinché ci salvassero da lei e finalmente ci avete ascoltati…» lascia il racconto aperto, sperando di avere conferma alle proprie speranze .
«Quindi questa Echidna odia gli Dei, eh? … E va bene, la affronterò – conclude deciso Ares – ma dovete fare una cosa per me, in cambio»
«Qualsiasi cosa, mio Signore» dice l’uomo speranzoso, producendosi in un altro profondo inchino
«Prenditi cura di uno di questi grifoni: al mio ritorno dovrà essere abbastanza sano da poterlo riusare come mezzo di trasporto»
«Si, mio Signore… ma quale?» adesso mostra qualche incertezza
«Quello ancora vivo» conclude il Dio volgendo lo sguardo a quell’ammasso di piume, peli, pezzi di pietra e scorci di armatura dorata ma ricoperta da uno spesso strato di polvere, dove ancora qualcosa, ogni tanto, si muove.
Condotto il divino ospite fuori dalla sua modesta abitazione, l’uomo gli indica una parete rocciosa qualche dozzina di stadi lontana e più alta rispetto al villaggio, che già si trova sui fianchi del monte. Senza alcun preambolo il Dio congeda il pastore mentre questo fa l’ennesimo inchino.
Dopo qualche ora di marcia continua, Ares raggiunge la parete rocciosa, sulla sommità della quale si staglia la cupa entrata di una caverna.
Risoluto, egli trasforma i suoi arti superiori in enormi lame e le conficca di volta in volta nella nuda roccia, usandole a mo’ di picconi.
In men che non si dica, ha raggiunto la bocca della caverna e per quanto si sforzi di penetrarla con lo sguardo, le tenebre lo ingoiano, non consentendogli di vedere niente.

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Capitolo 9
*** LIBRO I - Ares, il Dio Empio -- Capitolo 9: Echidna, la strega-serpente ***


Capitolo 9 - Echidna, la strega-serpente

«Vieni fuori, mostro!» Urla Ares.
Ma nessuna risposta dall’oscurità.
Senza indugiare, l’Enialo riscalda un braccio fino a farlo diventare di un giallo accecante, e lo alza a livello della testa, maneggiandolo proprio come fosse una torcia.
Armato di questa luce, muove i primi passi nella grotta e presto si ritrova isolato dal mondo esterno: nessun suono penetra più quell’antro tetro, né nessuno sguardo può più importunare quell’oscurità, nonostante la luce del Dio non sia poi così lontana da quella esterna… E’ come se un incantesimo pendesse su quella grotta.
Dopo parecchi passi, ancora Ares distingue solo le mura rocciose che vengono illuminate dalla sua luce, nessun rumore può fargli presagire qualcosa: tutto ciò che gli arriva all’orecchio è il suono dei suoi passi sulla terra bagnata, quello delle gocce d’acqua che filtrano dal soffitto della caverna per bagnare poi la terra su cui egli cammina e le scintille del suo braccio che sfrigolano e zampillano vigorose.
Poi, finalmente, un rumore… un sibilo che taglia l’aria densa. Non ci sono dubbi: è il verso di un serpente. Ares scruta il suolo, ma niente; cerca il manto squamoso di un rettile che rigetti la sua luce, ma trova sempre e solo fango.
Nel frattempo il sibilo si fa più vicino e più lungo. Altri gli si affiancano: ce n’è più di uno. Ares scruta ancora il terreno, lo settaccia prima di affondarci il piede. Ancora le gocce d’acqua che riescono a penetrare il soffitto roccioso gli si infrangono addosso; alcune cadono sulla sua torcia vaporizzandosi all’istante ed emettendo un suono molto simile a quel verso sinistro.
Ad un tratto Ares posa il piede su qualcosa di più solido e subito si avverte un lamento, ma quando il Dio guarda verso il suo piede, non vede che fango. La cosa è strana e sospetta: avvicina la testa al suolo per guardare meglio… ed ecco che quel pezzo di fango si muove! Si muove, spalanca le fauci e si getta verso il viso del Dio addentandolo. Subito col braccio infuocato egli colpisce la strana fiera, ma è ancora rintontito dal suo attacco, quando una simile alla precedente, sbuca dal suolo e lo attacca anch’ella.
Così egli realizza: sono lì, tutt’intorno, tappezzano la grotta, sono la grotta! Serpenti fatti di fango e terra. Ora si manifestano dappertutto, persino sui muri e sul soffitto!
Ares si agita e sferra colpi a vuoto in tutte le direzioni cercando di sfruttare il fuoco, ma le bestie continuano ad attaccarlo e adesso gli si arrampicano perfino addosso.
Costretto ad usare nuovamente i suoi poteri divini, riesce a sbarazzarsi delle creature avvolgendosi nelle stesse fiamme che prima costituivano la sua torcia ed emana un urlo di rabbia che rimbomba per tutta la caverna. Ora, finalmente libero, lancia un’occhiata davanti a se: tutta la caverna brulica di questi esseri fin tanto che persino la caverna stessa sembra le budella di un enorme serpente di terra e roccia. Infuriato, il Distruttore trasforma le sue braccia in lame infuocate  e si mette a tagliuzzare quei serpenti, correndo sempre più dentro le viscere della montagna e urlando sempre più.
Ad un certo punto, però, la terra sotto i suoi piedi viene a mancare e, in un istante, il Dio si ritrova in caduta libera. L’atterraggio non è certo un problema, ma adesso le mura della grotta sono più distanti, come se ci si trovasse in una vera e propria stanza. Non c’è più traccia degli strani serpenti, al loro posto per terra ci sono ossa di tutte le dimensioni, alcune delle quali abbastanza inquietanti: ossa di umani. Ma Ares non si fa intimorire e, per prima cosa, cerca quella strega: ha capito di essere finalmente giunto nella sua tana.
«Echidna! E’ questo il tuo nome?»
nessuna risposta
«Non sono venuto qui per affrontarti…
»
Ancora la luce del Dio non riesce ad illuminare completamente la stanza, ma, girovagando, egli trova un calderone su un focolare, da poco spento.
Poi intravede, dietro questo, dei contorni lunghi e sinuosi, simili a quelli di un serpente, ma molto più grandi… gli si avvicina e dall’oscurità spunta un busto umano, di donna. Ares, prontamente, si mette in posizione da battaglia, ma poi scorge la vacuità degli occhi del busto e la pallida trasparenza della pelle e , dopo averlo punzecchiato, capisce che non è nient’altro che la gigantesca muta della strega. Risollevato, le volta le spalle dicendo:
«Fatti vedere, mostro!»
Dopo ciò, la pelle della muta alle sue spalle si solleva e con la coda stringe poderosamente Ares. Questi cerca di dimenarsi e trafigge la pelle con le lame, ma essa non sembra avvertire dolore.
«Non chiamarmi così, straniero!» tuona una voce sottile ma potente.
Il Dio si guarda intorno finché non vede dall’oscurità emergere un corpo in tutto e per tutto simile all’involucro senz’anima che lo sta stritolando, se non per il fatto che i suoi colori sono più vividi e i suoi movimenti spinti da veri muscoli.
«E così sei tu Echidna…» esordisce il Dio.
«Da queste parti sono molto pochi quelli che osano pronunciare il mio nome – risponde quella – ma tu ovviamente non hai paura di niente, vero Ares?»
«Vedo che le tue capacità magiche precedono la mia dovuta presentazione»
«Non c’è stato bisogno di ricorrere ad alcun incantesimo, mio caro Olimpico, dato che nessun’altro, che io sappia, può vantare una simile abilità nel trasformare ogni sua parte del corpo in un’arma mortale…» mentre parla, la strega striscia intorno al Dio e alla sua immagine che ancora lo tiene prigioniero
«Giusto…» momento di pausa, in cui si avverte solo un sibilo partito dalle labbra del mostro e dalla sua lingua che, con un guizzo, vi fa capolino per qualche istante.
«Hai detto che non sei qui per affrontarmi…  saprai, però, che non nutro simpatia per gli dei dell’Olimpo»
«E vorrei sapere il perché…» azzarda l’Olimpico.
«Perché!? Perché, mi chiedi??» urla la strega mentre d’un tratto l’aria si riempie del suo urlo, amplificandolo e rendendolo più spaventoso e meno umano; nel contempo, la grotta si riempie di un bagliore rossastro che esplode dai suoi occhi, mentre con un gesto raggiunge l’intruso e i suoi capelli, che ora ondeggiano come fossero immersi in un liquido trasparente, ne sfiorano il volto.
Ares adesso la vede chiaramente: dalla vita in su la sua forma è perfettamente simile a quella di una donna, ma le squame risalgono dalla coda di serpente e ricoprono tutto il busto, la testa e gli arti. Il viso, sebbene deformato da quella pelle verdognola, ha un qualcosa di misteriosamente attraente, nonostante anche il fatto che adesso la sua bocca spalancata mostri delle zanne da rettile e gli occhi, dagli iridi rossi che occupano tutto il bulbo, divisi quasi a metà dalla feritoia orizzontale della pupilla, spalancati. I capelli neri, sempre sospesi in aria, sono lunghi, contorti e lucenti.
«Sì… io sono solo al corrente di ciò che i contadini dicono di te… non conosco le vere fonti del tuo odio» Ares sembra sempre più star giocando col fuoco, e ne è cosciente.
«Bene… se è solo una storia quella che vuoi sentire da me, te la racconterò, prima di spedirti dove i tuoi compari Olimpici non potranno trovarti: avrai sentito che io sono nata già deforme, da stirpe di orribili mostri. Ma non è così: io sono nata umana, donna di una delle più alte fatture.
E ancor più grande della mia bellezza era la mia abilità con le arti magiche, tanto che gli abitanti delle zone dove abitavo, smisero di pregare nei templi e presero l’abitudine di rivolgersi a me per risolvere i loro problemi, e subito ottenevano in cambio quello che volevano.
Questo ovviamente non piacque agli dei che, invidiosi, mi trasformarono in questo orribile mostro cosicché, tutti quelli che venivano a chiedermi un favore, scappassero poi a gambe levate una volta mi avessero vista nelle mie nuove sembianze. Nessuno si rivolse più a me e, anzi, dopo che si diffuse la voce che ero una strega malvagia e che mi cibavo della carne degli uomini, con forconi e torce vennero alla mia porta e mi costrinsero ad abbandonare il mio villaggio.
Furono talmente crudeli con me che, una volta trovata dimora in questi antri nel ventre di Gea, promisi che li avrei accontentati, e mi sarei comportata proprio come si aspettavano loro: uccisi, divorai, maledissi e distrussi. Feci anche di peggio: rapivo i più aitanti esemplari di uomo che passavano da queste parti e ripetutamente mi accoppiavo con loro finché non ne rimanevo gravida… ma presto appresi che la maledizione degli dei non si fermava a me, ma si ripercuoteva anche sulla mia prole: partorivo mostri orridi almeno quanto la loro madre e, ogni volta in preda all’ira, uccidevo il padre, prima di trovarmi un altro compagno.
Gli dei, però, ancora non erano sazi del mio dolore e quegli stessi figli, che, sebbene fossero mostri, io amavo perché soli potevano comprendere il mio animo straziato, mi portarono via, uno ad uno.
Ed ogni giorno, per tutte questo ingiustizie che ho subito dall’Olimpo, io urlo e torturo i suoi sudditi, e poi urlo ancora più forte, urlo e bestemmio più potentemente di ogni altro suono si possa udire tra questi monti, affinché le mie minacce li scavalchino e raggiungano quello più alto di tutti, facendo sapere a quei codardi che Echidna brama vendetta, nascosta alla loro vista»
Ares rimane spiazzato dalla collera e dalla forza che quelle parole appena udite esprimono.
«Io e te non siamo poi così differenti, Echidna: anch'io sono stato oggetto dei soprusi degli dei, che mi hanno fatto credere di non essere altro che uno dei tanti, e mi hanno sempre fatto fare tutto il lavoro sporco. Ma recentemente ho scoperto che mi tenevano allo scuro del mio vero destino, un destino da Re indiscusso degli Dei. E sono venuto qui per chiederti aiuto: aiutandomi otterrai la tua vendetta... e in più potresti anche diventare la nuova Regina dell'Olimpo, e nessuno guarderebbe a te con ribrezzo, ma tutti considererebbero la tua immagine come il canone universale di bellezza» Ares ammicca verso la strega.
«E così... mi faresti tua sposa?» chiede questa, quasi commossa.
«E perché no? D'altronde io non riesco a credere come qualcuno posso odiare il tuo aspetto...»
Echidna, ammaliata dalle parole del Dio, è sempre più vicina al suo viso e ora lo accarezza con le orride mani, terminanti alle estremità con delle affilatissime unghie che però non sono altro che  continuazioni di quelle squame. I suoi occhi rossi ora sono incollati a quelli del Dio. Quando la sua lingua biforcuta guizza fuori per annusare l'aria, gli sfiora guance e naso.
«Ma al massimo potrei aiutarti con la mia magia, mentre per espugnare l'Olimpo ti serve un esercito...»
«I tuoi figli potrebbero essere un buon inizio per costruire il mio esercito... pensi che ascolterebbero ancora l'appello della loro bellissima madre?»
«Certo che sì... c'è solo un piccolo problema: gli dei li stanno impiegando come supplizio per le anime dannate nell'Ade... per tua fortuna, però, anche Cerbero, il guardiano dei cancelli dell'aldilà è mio figlio»
«Allora che aspettiamo? Andiamo a fare visita a mio zio...»
«Dovrai andare da solo, però, perché per aprire un passaggio per l'aldilà, io dovrò rimanere ferma, qui, o il varco si richiuderà»
«E come farò a dimostrare loro che mi mandi tu?»
«Beh, penso che siano in grado di ricordare l'odore della loro mammina... ma per piantartelo per bene addosso c'è un solo modo...» Echidna enfatizza il tono provocatorio della frase appena pronunciata ed estrae la lingua per la sua intera, enorme, lunghezza.
«Perfetto, così intanto suggelleremo anche il nostro patto» conclude l'Enialo.

 

 

 

NDA (stanno diventando sempre più frequenti): questa è una delle modifiche maggiori alla mitologia greca originale (fino ad adesso... tra un po' arriva il disastro), e cioè la storia di Echidna che da semplice mostro diventa un personaggio con almeno un pizzico di psicologia e un passato segnato dall'ingiustizia (almeno a suo dire, dato che si è macchiata del peccato di υβρις, tema ricorrente nella mitologia greca) e un presente pieno di odio e brama di vendetta. Il resto invece - l'aspetto e soprattutto le parentele - è tutto fedele al mito; spero troviate le modifiche interessanti e utili alla narrazione.

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Capitolo 10
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 1: I Cancelli dell'Ade ***


Capitolo 10 - I Cancelli dell'Ade

LIBRO II

La discesa nell'Ade



Ares si sta rivestendo, evidentemente provato dalla prestazione, quando Echidna gli si attorciglia dolcemente intorno:

«Sono dai particolari come questo che si riconosce un Dio» commenta con un ghigno di soddisfazione.
«Ma ora basta pensare al divertimento, è ora di agire» taglia corto Ares.
«Se quella non era azione... comunque, come vuoi, mio Re...»
Così la strega inizia ad armeggiare con varie fiale, fialette e contenitori dei più disparati e orribili "ingredienti": pezzi di animali di vario tipo, intrugli ribollenti e maleodoranti, poltiglie semoventi ecc... Alla fine ha tracciato un perfetto cerchio su una parete, usando qualcosa che può sembrare sangue, e vi ha scritto tutt'intorno con rune incomprensibili. Infine afferra una specie di bastone con in cima un qualche tipo di gioiello o pietra e disegna per aria qualche invisibile parola.
«Preparati!» intima.
Inizia anche a sussurrare qualcosa di inudibile sempre mentre gesticola col bastone, mentre Ares osserva impossibilitato a capire quanto stia succedendo.
Alla fine Echidna pronuncia le ultime parole, stavolta però urlandole e l'effetto è simile a quando la strega infuriata aveva  non molto tempo prima minacciato il Dio: la stanza si riempie di nuovo prima di quel frastuono, e poi del bagliore rosso.
Immediatamente  la terra trema e un rumore assordante sembra provenire dal cerchio sul muro: la roccia compresa nella circonferenza si riempie di crepe che traboccano di luce, proveniente da dietro la stessa parete.
Ad un tratto il cerchio letteralmente esplode e apre una voragine perfettamente circolare nella roccia.
«Cosa aspetti!? - urla la strega - vai!»
Il Dio non se lo fa ripetere due volte e si infila nel portale.
Si ritrova in un'altra galleria scavata nella roccia, ma molto più corta, tanto che una lieve luce riesce già a guidarlo verso l'uscita.
Lo spettacolo che gli si presenta davanti è completamente inatteso: la piccola galleria sbuca in una specie di enorme volta naturale di roccia, il soffitto di una gigantesca stanza più o meno circolare.
Non è l'unica entrata: tutta la "cupola" è costellata di quelli che da quella distanza sembrano dei piccoli buchi. A terra, qualche stadio sotto di lui, Ares vede un esercito di gente che percorre la sala muovendosi in circolo intorno a quella che sembra un'imponente colonna, che unisce il soffitto al suolo. Tutta quella gente entra da quattro porte, una per punto cardinale, molto più grandi e appariscenti di tutte le altre entrate sul soffitto.
Proprio da quella colonna al centro, ad un tratto, qualcosa si muove a gran velocità verso Ares: è un colonna vertebrale grottescamente lunga, che, da sola, ha raggiunto l'entrata dalla quale era giunto il Dio e vi si è ancorata con le scapole appuntite che gli spuntano all'estremità. Sulla sommità di questo strano ponte vi è un piccolo satiro, un nanerottolo con le gambe e le corna di una capra.
«Buonasera! Non aspettavamo visite, ma fa sempre piacere ospitare un Dio dell'Olimpo quaggiù. Benvenuto nell'Ade, Ares» esordisce il capretto.
L'Enialo si stupisce del fatto che non sia ancora giunta la notizia del suo tradimento dell'Olimpo, quindi sta al gioco e imbastisce la scusa di voler far visita allo zio, il Re del Regno dei Morti, Ade in persona.
Mentre attraversano il ponte di ossa il piccoletto gli spiega che sarà molto difficile, ma che potrà contare sull'ospitalità degl'inferi, mentre cercherà di convincere lo zio a riceverlo.
Nella colonna si rivela esserci una scala a chiocciola che conduce fino a livello del suolo e anche sotto.
Ares passa vicino alla piccola porta dalla quale passa ogni morto che viene assunto nell'Ade da un'altro nanerottolo che controlla una lista. Alla fine della scalinata tutti sbucano su un'altro ponte, ma questa volta ben più grande,  di pietra, sospeso a grande altezza su un lago; per un istante Ares getta uno sguardo a quelle acqua più scure delle tenebre e avverte, per non si sa quale motivo, una sensazione sgradevole, quasi un'inconscia paura, ma è l'orgoglio ferito da quel sentimento poco divino che gli fa distogliere lo sguardo, mentre la paura stessa l'aveva paralizzato su quei flutti antichi e terribili.
Alla fine del ponte si scorge un enorme cancello bronzeo, formato da due cani in atto di darsi battaglia, ritti su due zampe mentre si attaccano vicendevolmente con quelle anteriori, e una terza statua, sempre di un cane, in atteggiamento minaccioso, e posto a quattro zampe a dare il "benvenuto" ai nuovi dannati.
Il satiro fa strada ad Ares fra la miriade di dannati che affollano il ponte e lo percorrono con passo disperato e faticoso, canalizzati da degli altri satiri, più grossi e robusti, armati con alabarde e protetti da corazze, disposti a mo di cordone lungo i lati della formazione rocciosa.
Tutto sembra andare per il verso giusto finché
«Eccolo! E' lui! Il traditore dell'Olimpo!» urla un cadavere; era una di quelle guardie olimpiche su grifone che aveva ucciso fuggendo da Delfi.
«Bada a come parli! Dannato!» tuona il satiro.
«Sì! E' proprio lui!» un'altra delle guardie olimpiche da molto lontano.
«Mi dispiace...» inizia il satiro voltandosi, ma Ares non ha tempo per queste piccolezze e, stufo delle formalità, gli assesta un fendente ad altezza collo che lo decapita sul colpo.
All'unisono i caproni armati iniziano a dirigersi verso il centro e Ares scalpita e sgomina facendosi violentemente largo tra i morti.
Finalmente giunge allo spiazzo davanti al Cancello. Ma le guardie dell'Ade gli stanno ancora alle calcagna, così lancia un urlo per catalizzare le forze e, fondendo le braccia, le apre davanti a se tranciando il suolo sul lato corto, in modo da tagliare via il ponte che, puntualmente crolla portandosi dietro morti e guardie.
Dopo essersi beato della distruzione da poco causata, il Dio si volta ritrovandosi faccia a faccia con l'enorme cane di bronzo; lo spiazzo è deserto e probabilmente i morti che erano giunti poco prima di lui sono scappati in preda al terrore.
«E così saresti tu Cerbero... non sembri un così grande ostacolo...» commenta beffardo Ares, ma non fa in tempo a concludere una risata che dalla bocca spalancata della statua sbuca un ammasso di carne grigiastra e piume, che si arrampica come un geco su un muro lungo la testa e il collo della bestia fino a portarvisi in groppa.
Lì la creatura lancia un urlo disumano e al contempo altri due ammassi di carne e piume si separano dal suo corpo volando a mezz'aria, prima di posarsi sulle altre due statue: sono le Erinni, disgustosi demoni dalle sembianze di donne miste a volatili.
«Non si passa di qui se non si è morti o esplicitamente invitati dal Re di queste lande dolorose» intima la prima con voce acuta e quasi bestiale.
«E sarete voi a impedirmelo?» Sogghigna l'Enialo.

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Capitolo 11
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 2: Cerbero, guardiano dei Cancelli ***


Capitolo 11 - Cerbero, Guardiano dei Cancelli Ma le Erinni non sembrano per niente intimorite, e anzi rispondono con una loro risata malvagia che sembra risvegliare le statue: improvvisamente le masse di bronzo acquistano vita propria ed elasticità; le due che creavano il Cancello sullo sfondo lasciano perdere quelli che sembravano i loro intenti bellicosi reciproci e imitano il loro "fratello" nella sua posa intimidatoria, iniziando a ringhiare tutti e tre all'unisono.
«Ora sì che sembra minaccioso» inizia Ares, ma il cane che gli si trova davanti, più vicino, soffia un lungo getto di fiamme che lo investono in pieno.
Quando il getto si è diradato Ares è ancora in piedi, ma molta della sua pelle umana è stata bruciata e lascia trasparire la "carne" grigia al di sotto.
«Pensi di potermi distruggere così? Il fuoco è il mio elemento! Ora tocca a me diventare minaccioso!» urla Ares caricandosi. La rabbia di nuovo lo investe da dentro e la carne grigia inizia a diventare rossa mentre l'aria tutto intorno viene distorta dal calore e quel poco di pelle rimasta va letteralmente in fiamme. Mentre il metallo di cui è composto inizia ad assumere sfumature giallo chiaro, Ares muta lentamente forma: quando il processo è terminato e il calore si dissipa, il suo corpo è diventato nero, ma inciso da antiche lettere greche gialle come metallo fuso, e si è trasformato in una vera e propria corazza, tanto è costretta a interrompersi brevemente alle giunture per permettere il movimento. Gli avambracci terminano lateralmente con delle enormi lame appuntite anche alle estremità, di cui quella posteriore raggiunge anche la spalla, mentre quella anteriore non spunta di molto oltre le mani per lasciare queste libere di agire. Sulle spalle e sulle ginocchia così come su tutta la schiena e sull'estremità della testa sono comparsi dei terrificanti spuntoni nodosi simili a corna. Gli occhi e la bocca risplendono dello stesso colore delle lettere, facendo intuire il calore degno della più potente fornace di Efesto prodotto all'interno del corpo del Dio.
«Ora sì che mi sento bene» riprende con un'altro ghigno.
Ma la Furia non sembra intimorita e il suo destriero canino salta addosso al nemico senza remora.
Una zampa finisce sul petto del Dio, ma questo non cede e rimane in piedi cercando di contrastare la grande forza del mostro, poi l'ennesimo ghigno e smette di opporre resistenza, tanto che la zampa lo trapassa con facilità! Ma non è come sembra: l'Olimpico ha fuso il suo addome facendo in modo che la zampa vi passasse attraverso, ma quando la bestia cerca di rimuoverla questa si separa dal resto dell'arto. Ora il mostro è privo della zampa anteriore sinistra, ma il colpo sembra averlo avvertito quella delle Erinni che lo cavalca, che infatti lancia un altro urlo sovrumano tenendosi la corrispettiva mano.
 L'urlo è talmente violento che stordisce persino Ares, costretto in ginocchio dal dolore.
Lo stesso urlo sembra provocare le altre due Erinni che ora attaccano all'unisono per vendicare la prima.

«C'è un qualche collegamento tra cavaliere e cavalcatura» pensa il Dio mentre schiva gli attacchi.
Uno dei mostri si è scoperto troppo su un fianco dopo aver mancato un attacco e il Dio della Guerra non perde l'occasione e sferra un poderoso pugno. Il bronzo del corpo animalesco si deforma nel punto dove è stato inflitto il colpo e la fiera vola dritta contro una parete di roccia, schiantandovisi con una spalla e disarcionando al contempo una delle sorelle.
Così Ares nota stupefatto che il simulacro rimane immobile fintanto che il suo cavaliere non torna sulla sua groppa.
Una palla di fuoco lo investe alle spalle, ma è solo utile ad informarlo dell'imminente attacco, cosicché riesce ad evitarlo, salta agilmente fino all'altezza della groppa e con un gesto preciso e veloce sferra un fendente al collo della Furia che gli stacca di netto il collo. L'orribile testa rotola per un po' prima di fermarsi e il cane sembra arrestarsi, ma poi la stessa testa lancia un altro urlo  e quello stesso cane si rizza sulle zampe e, stavolta riuscendo ad approfittare del momentaneo calo di difese del Dio seguito all'urlo, sferra una poderosa zampata e stavolta è Ares a finire contro il muro di roccia.
Come temeva, le Erinni sono immortali, anche quando la loro testa è separata dal corpo.
La testa per terra, ad un tratto, esplode in una miriade di piume nere, dalle quali spuntano due corvi che vanno a posarsi sulle spalle del corpo decollato prima di ricostituire la rispettiva testa.
Ares, stupito, osserva avvicinarsi zoppicando il cane che aveva mutilato precedentemente, finche la sua enorme bocca non gli è poco distante.
«Pensavi di potertela cavare così facilmente, Dio della guerra?» chiede con voce orribile l'Erinne che gli stava sopra.
Colto da un impeto di orgoglio, rabbia e intuizione, scalda le lame delle braccia e le pianta nel collo del mostro trasferendovi tutto il calore. Il mostro inizia a fondere e nel dolore la Furia affonda gli arti che usa per tenersi salda in groppa a questo nella sua stessa massa bollente.
Le urla si fanno sempre più acute e intense mentre brucia viva e tenta di liberarsi inutilmente, ma Ares non si fa sopraffare dal rumore doloroso, bensì ritrae le lame facendo solidificare il mostro, lo solleva dal basso e lo lancia contro un suo fratello. Entrambe le statue finiscono per schiantarsi sulla parete opposta, facendone crollare una buona parte che li sotterra.
La terza sorella, dopo aver osservato la fine delle altre due, rivolge di nuovo lo sguardo quasi spaventato verso l'avversario, scoprendo che adesso carica a tutta velocità verso di lei. Così emette l'ennesimo urlo, ma Ares, stringendo i denti, continua la corsa, la raggiunge in salto e con un pugno la scaraventa giù nel lago, e prima ancora che questa possa effettivamente toccare la superficie del lago un guizzo dalle acqua la raggiunge, ma è così veloce e lontano che prima che Ares possa capire cosa sia, si trascinato giù anche l'Erinne.
Dopo qualche istante è chiaro che non sarebbe più ritornare ed essere d'intralcio così il Dio decide che qualsiasi cosa fosse stata, sarà lei a toglierli di torno anche le altre due sorelle.
Raggiunge il cumulo di macerie da cui spuntano pezzi di bronzo e recupera il corpo di una delle Erinni, che subito si riprende e gli urla in faccia con tutta la sua forza. Ares però è stanco e gli infila la lama in bocca tagliandoli via la testa tra la mascella e la mandibola.
Poi butta sia la mezza testa che il resto del corpo e passa a cercare l'ultima.
Ad un tratto, il masso su cui si ritrova in piedi inizia a muoversi ed è l'ultima bestia rimasta che lo sposta via con la schiena.
«Pensavi di avermi messa fuorigioco con quella mossa? Invece mi hai resa ancora più invincibile» e l'Erinne prorompe in una risata.
In effetti ora che è fusa con la bestia sembra più difficile separarla da questa. Ma Ares non si abbatte e parte di corsa contro il nemico. Questa sembra spiazzata dal fatto che non sia stato preso dallo sconforto e quasi paralizzata subisce l'attacco del Dio: dopo aver preso un bel po' di velocità, salta in corsa e con la solita precisione trancia di netto tutti e quattro gli arti dell'Erinne, poi l'afferra a mezz'aria e con un pugno la scaraventa giù dal burrone.
La statua si irrigidisce e cade nel punto in cui gli manca l'arto "asportatogli" dal Dio. Ciò che rimane delle mani e dei piedi dell'Erinne, ancora fusi con la statua, si disintegrano in un mucchio di piume nere  che lasciano sul dorso dell'animale quattro curiosi fori circolari.
«E' fatta» pensa l'Enialo guardando le tre statue ora finalmente inermi.
Ma non ha nemmeno il tempo di realizzare quale sarà la prossima mossa che un rumore attira il suo sguardo verso la porta nella colonna naturale che ormai è rimasta isolata in mezzo al lago misterioso.


PS: Oddio dovete scusarmi, non so perchè i caratteri siano usciti così minuscoli O.o

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Capitolo 12
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 3: Il Giudice dei Morti ***


Capitolo 12 - Il Giudice dei Morti Un verso già sentito precede l'entrata in scena di una massa veloce di piume e oro: un altro grifone dell'Olimpo con relativo cavaliere.
«Ancora questi!? Sono stufo di gente in groppa a mostri!» commenta stufo il Dio.
Con un urlo allarga gambe e braccia disponendosi a croce e una voragine appare al centro del busto quando il metallo di cui è fatto si fonde, aprendo quella che sembra la bocca di una vera e propria fornace.
«Ma almeno tu non sei immortale!» urla infine eruttando letteralmente da quella bocca un palla di fuoco e ferro fuso che colpisce in pieno il grifone e il suo cavaliere, trascinando anch'essi nel lago, anche se probabilmente saranno stati inceneriti prima di toccare l'acqua.
Altri versi preannunciano l'arrivo di altri grifoni, e questa volta sembrano molti di più di quanti Apollo ne avesse mandati l'ultima volta; così Ares afferra uno dei grossi massi che prima seppellivano le Erinni, lo alza sopra la testa e, con un ultimo sforzo, lo scaraventa violentemente contro quell'apertura sulla colonna, incastrandovela ben bene e tappandola almeno momentaneamente.
«Iniziavo a pensare che quel "patto" fatto con Echidna fosse stato inutile - dice Ares voltandosi verso le effigi di Cerbero - Ma non so da dove iniziare, non ho grandi nozioni di magia» il Dio fissa le bestie così, rovesciate su un fianco, e scuote la testa contrariato.
«Beh, iniziamo con le cose semplici»
Mentre dietro il masso il frastuono si fa sempre più forte e preoccupante e al suono di quegli strani versi si unisce anche quello più sordo di qualcosa che batte contro la roccia ripetutamente, Ares solleva le statue e le dispone dritte una accanto all'altra.
«Se qualcosa è rotto... dagli una saldata»
Con un braccio rovente salda alla meno peggio il corpo delle tre bestie e poco dopo queste si illuminano intensamente, proprio mentre la pietra viene rimossa e uno stormo di grifoni entra nella stanza.
La luce si affievolisce e un mostro quadrupede dalle sembianze canine ne esce fuori ringhiando, grosso quanto le sue copie e con lo stesso numero di teste ma qualche zampa in meno.
«Chi sei? E perché hai addosso l'odore di nostra madre?» esordisce una testa mentre lui e Ares sono intenti a schivare e rispondere agli attacchi delle guardie olimpiche.
«E' stata tua madre a mandarmi qui per liberare te e i tuoi fratelli, ma per farlo ho bisogno che tu tenga a bada questi tipi per me»
«Mi sembra un'accoglienza troppo calorosa per impedire ciò che mi hai appena detto di voler fare, ma so che il mio naso non mi inganna e mi fido di mia madre, quindi puoi andare tranquillo ché di questi me ne occupo io»
Ares non se lo fa ripetere e abbandona la battaglia correndo in direzione opposta verso un'apertura nella parete rocciosa che aveva già notato.
Mentre alle sue spalle le tre teste di Cerbero tengono a bada le guardie sputando fuoco a più non posso, Ares raggiunge la strana porta, incorniciata da una miriade di teschi di tutte le dimensioni, ma non ha il tempo di pensare a quanto tutto ciò sia insolito dato l'infuriare della battaglia non molto più in là.
E' l'ingresso di una lunga galleria, strana quanto la porta che la annuncia: le pareti sono delimitate da un'enorme colonna vertebrale in alto e da innumerevoli costole lungo le pareti, come se il tutto appartenesse ad un enorme scheletro dello stesso animale.
Ares sta per riscaldare il proprio braccio per illuminare la galleria proprio come aveva fatto nell'antro di Echidna, ma, stupito, trova un braccio scheletrico che spunta, da solo, da una parete e regge una torcia accesa, che emana stranamente poca luce. Nonostante ciò Ares la prende stufo di dover usare i suoi poteri per scopi così bassi.
Proseguendo nella galleria scopre che le torce, poste su altrettante braccia, sono disposte a intervalli regolari su entrambe le pareti, e proprio il riverbero delle loro luci sulle pareti attira la sua attenzione, facendogli realizzare che le rocce trasudano e sono interamente coperte di sangue!
Ma non c'è tempo per riflettere: Ares raggiunge rapidamente la fine del tunnel e sbuca in una stanza più piccola di quella precedente, almeno così sembra, o forse questa impressione è dovuta al gigantesco essere che vi troneggia.
«Salve, ben venuto nell'aldilà» inizia quello.
Nell'aspetto non differisce da un semplice uomo, anziano, con barba e capelli bianchi e lunghi, aria autoritaria; ma le sue dimensioni sono paragonabili a quelle dei Ciclopi. E' seduto su un enorme cumulo di migliaia di ossa di vario tipo che lo fanno sembrare ancora più alto e terrificante. I suoi occhi sono ben chiusi, come se non potesse aprirli. Il suo possente corpo è avvolto in una panneggio che cade morbido sui suoi contorni, ma che, da come sembra cadere al suolo, sembra piuttosto pesante.
«Chi sei?» esordisce brusco Ares, già sul piede di guerra.
Il vecchio accenna una risata:
«Sei il primo che me lo chiede, sai? Devo desumere che non sei morto... Io sono Minosse, Giudice dei Defunti... e tu?» la voce calma ma carica di potenza.
«Non sono molti neanche quelli che lo chiedono a me... Hai ragione, Minosse, io non sono morto, e mai lo sarò, perché io sono un Dio dell'Olimpo: Ares è il mio nome, ma molti mi chiamano Dio della Guerra e Distruttore di Uomini...» decanta tutto impettito.
«E cosa porta un Olimpico nelle profondità del Regno di Ade?»
Ares ormai non sa che rispondere a questa domanda, se ritornare sulla prima bugia o confessare i suoi intenti poco pacifici, dichiarando così ufficialmente saltata la sua copertura.
«Sono qui per una visita a mio zio, Ade in persona» mente, abbandonando la posa da battaglia.
Minosse accenna un'altra risata:
«Bene bene, e così sei un bugiardo, oltre che un superbo... Pensi davvero che Minosse, il grande Giudice dei Morti, non sia a conoscenza di qualunque cosa avvenga nel Regno dei Viventi? Tutti i defunti passano dal punto in cui ti trovi tu, e tutti si confessano a me, trasferendomi tutto quello che hanno visto, sentito, fatto, appreso e vissuto, e quelli che sono passati di qui poco prima di te mi hanno mostrato un Dio Empio che distruggeva il ponte e sfidava le autorità dell'Aldilà. Ma non mi basta per giudicarti... Ares, devo guardare dentro di te» detto questo, spalanca la bocca rivelando un enorme occhio incastrato nella gola, con una lunga e sottile pupilla verticale al centro, talmente affilata che sembra poter penetrare persino la carne del Dio, giungendo alla sua anima e infilzandola da parte a parte come se niente fosse.
«E' finalmente giunto il momento che stavo tanto aspettando: un Dio si confesserà al mio occhio!» prorompe un voce nella testa dell'Olimpico.

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Capitolo 13
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 4: Nella Testa del Dio Empio ***


Capitolo 13 - Nella Testa del Dio Empio

Non c'era stato nemmeno bisogno  del contatto visivo che quell'occhio aveva già penetrato l'anima del Dio e ora fruga nei suoi ricordi, costringendo anche Ares a riguardarli con lui.
«Sono molti gli atti sacrileghi che hai compiuto» afferma Minosse, sempre parlando nella testa del suo interlocutore, mentre gli passano davanti le immagini dell'uccisione della Pizia, della distruzione del Tempio di Delfi, dello scontro con le Erinni.
«Ma perché? Perché tutta questa fatica e tutta quest'ira? Che il mio primo giudizio fosse corretto? Che si tratti semplicemente di superbia? O c'è qualcosa di più? Forse c'è qualche altra memoria che potrebbe aiutarmi a capire... E questo cos'è? - dice, arrivato a quella notte nel villaggio barbaro - Una profezia, eh? Ecco cosa ti ha spinto a muovere guerra all'Olimpo... strano però, non ricordo quell'uomo... non ricordo che si sia mai presentato al mio cospetto, eppure ho visto la sua morte... Ma soprattutto a chi appartiene la voce che parlava attraverso l'oracolo? Non te lo sei mai chiesto? No? No. Eri troppo occupato a far avverare quella profezia, volevi scoprire se quel barbaro aveva ragione: ti sembrava troppo bello per essere vero, quella profezia sembrava aderire talmente perfettamente alle tue più recondite brame di potere che sembrava fatta apposta!
Ma forse c'è anche qualche altro motivo se non hai indagato sulla voce misteriosa: ne sei spaventato, tuttora! Già, paura! Un sentimento che non si addice certo ad un Dio, ancor meno al Dio della Guerra! E questo lo sai, l'orgoglio è la pulsione più forte che muove le tue membra mistiche.
Tutte le ferite del tuo corpo si rimarginano, perciò non sei abituato al dolore profondo, ma quel nuovo sentimento ha ferito il tuo orgoglio, che ancora non è guarito.
Paura... ma di cosa? Non lo sai nemmeno tu... non lo sai perché non te lo sei chiesto, hai ancora più paura di indagare sull'origine della paura... beh, allora ti aiuterò io: paura dell'ignoto, la paura più antica e pericolosa del mondo, che ti lascia privo di difese davanti ad un possibile pericolo e ti impedisce di avanzare nella notte senza qualcosa che rischiari il tuo cammino. Ma a te queste cose non sono mai successe, sei un Dio dell'Olimpo, e non esiste l'Ignoto per l'Olimpo. Eppure quella semplice voce trascende le conoscenze delle Divinità e sconfina al di fuori della comprensione  addirittura di Zeus in persona, forse.
E quindi ti sei trovato paralizzato, proprio come l'uomo privo di luce non riesce a muovere un passo nell'oscurità, impotente, perché non sapendo da dove e da chi provenisse quella voce non potevi nemmeno difenderti da lui... Sacrilegio! Un Dio, uno del Dodekàteon, spaventato, ignorante e impotente!
Non so come abbia fatto il tuo orgoglio a reggere a questo pestaggio ideologico! Ah già, la Guerra all'Olimpo! Tutto torna! Ecco la ragione dei tuoi atti empi e della tua tracotanza: hai bisogno di ritrovare il potere e la fiducia nei tuoi privilegi divini, gonfiando il tuo petto con la gloria dell'Olimpo.
Oh, sì, sì che la Folgore, lo scettro del Re degli Dei rifocillerebbe il tuo orgoglio!
Ma io ti dico che questo certo non ti aiuterà a risolvere il mistero dell'oracolo e, probabilmente, non estenderà nemmeno il tuo potere sull'entità dietro quella voce...»
La voce di Minosse nella testa di Ares si spegne inaspettatamente come era arrivata, ma i pensieri del Dio sono tutt'altro che acquietati: come la sabbia sul fondale marino quando un animale vi passa sopra velocemente si agita e si alza impregnando l'acqua e poi continua a vorticare anche quando ormai l'animale è passato, così i pensieri dell'Enialo vorticavano intorno a quel singolo ricordo evocato da Minosse, che ancora sembra rimanere impresso sotto le sue palpebre serrate, come quando un mortale guarda il sole, anche di sfuggita, e poi ne rivede l'impronta quando chiude gli occhi.
«Smettila! Ora basta!» urla riaprendo gli occhi, ancora un po' rintontito, ritrovando il vecchio con la bocca chiusa, come se non fosse mai successo nulla.
«Ho cose più importanti da fare! Quindi levati di mezzo, oppure affrontami, se è questo che vuoi!»
«Oh, no, io al mio gioco ho già vinto, non ci sarebbe motivo di continuare»
«Ah sì? - risponde Ares un po' sorpreso - Beh, allora almeno mostrami dove devo andare per proseguire verso l'Ade, giacché qui non vedo porte io»
Di tutta risposta, senza più dire niente, Minosse abbassa la testa, come volesse indicare qualcosa con lo sguardo, e subito si apre un varco fra le ossa che compongono il suo trono, spostatesi misteriosamente da sole.
Ares non ci pensa due volte e risoluto attraversa il varco a testa bassa, anche lui senza proferire più parola, ostentando la solita fermezza e autorità, ma avvertendo realmente dentro di sé la sensazione di essere appena stato sconfitto in battaglia: la sua nudità al cospetto dell'Occhio del Giudice aveva ancora di più lacerato il suo orgoglio, e il colpo di grazia era stato proprio il rifiuto a procedere allo scontro, come quel guerriero che, sconfitto il nemico, gli risparmia la vita, ma non per buon animo, bensì perché essa non vale la pena di sporcare la sua lama; Minosse aveva vinto su un piano che ad Ares era ignoto, prima ancora di mettere mano allo spirito combattivo.




NDA: Piccolo excursus psicologico per fuggire dalla frenesia dell'azione e per sfogare le mie pulsioni psicanalitiche XD

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Capitolo 14
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 5: Caronte, traghettatore di anime ***


[You all saw this coming XD]






Capitolo 14 - Caronte, Traghettatore di Anime Tutto torna nuovamente buio. C'è solo una luce soffusa che proviene da delle torce molto lontane appese alle pareti. Il luogo sembra essere un'altra galleria, ma stavolta molto meno "esuberante": un semplice tunnel scavato nella roccia, niente ossa o sangue.
Eppure questo sembra aumentare ancora di più il senso di angoscia che impregna l'aria.
A farla da padrone, in quell'atmosfera, è il rumore: rumore di acqua che scorre, limpida e pura. Già, perché a pochi passi da dove si è fermato Ares scorre un fiume di medie dimensioni, le cui acque rigettano la luce delle torce rimanendo scure e al contempo colorando d'una fioca tonalità argentea le pareti rocciose.
Lo sguardo di Ares viene subito catturato da quelle acque scure e impenetrabili che scorrono impetuose: sembrano famigliari, forse sono le stesse in cui aveva gettato le Erinni!
Hanno la stessa capacità di incutere inconscio terrore; così Ares si trova nuovamente costretto a distogliere lo sguardo.
«E adesso?» pensa poi.
Subito le acque del fiume rallentano, fino a fermarsi, e incredibilmente riprendono la loro corsa al contrario! Anche se molto più lentamente.
Così, sospinta da quella lieve corrente, un'altra fievole luce compare all'orizzonte e, lentamente, si fa sempre più vicina. E' una lanterna, appesa al collo della polena di una piccola barchetta di legno fatiscente.
La polena raffigura un vecchio barbuto e rachitico, il cui legno non è decorato o verniciato, è stato lasciato esposto proprio come quello del resto della nave e sembra proprio esserne una continuazione, tanto che come quello è mezzo marcio. Ma soprattutto la polena si muove... Ormai Ares si è ripromesso di non sorprendersi più di nulla laggiù in quello strano regno.
Il vecchio ha tra le scheletriche mani un remo con cui muove la barca, ma che sembra del tutto inutile, dato che sembra sia la corrente a sospingerla.
«Avanti! A bordo, anima prava!» tuona il nocchiero.
Senza proferire parola, Ares gli obbedisce, chiedendosi se davvero egli non conosca la sua vera identità, ma deve per forza servirsi di lui per raggiungere l'Ade.
Così prende posto sulla piccola imbarcazione che, sotto il peso della sua forma metallica, scricchiola pericolosamente già quando solo un piede vi è stato messo sopra. Allora è costretto a riassumere forma umana, lasciandosi addosso solo una lieve armatura giusto per coprire le membra. Volta poi lo sguardo verso il Traghettatore, nel caso in cui questo, vedendo la trasformazione si sia reso conto della sua identità, ma quello sembra non avere pensieri, dato che la sua testa era rimasta fissa con lo sguardo in avanti, perso nel vuoto; in effetti le sue cavità oculari sono vuote e Ares non è nemmeno sicuro che egli possa vedere.
Con qualche movimento di remo la barca si volta di 180° gradi e quelle inquietanti acque oscure ricominciano il loro normale corso al contrario.
Per l'ennesima volta lo sguardo dell'Enialo viene catturato da quel liquido, ipnotizzato dalla sua danza tra i solchi lasciati dall'imbarcazione, ma stavolta vincendo la paura non lo distoglie e viene trascinato sempre più giù, nelle sue profondità; il respiro si fa più pesante, l'aria più densa e difficile da respirare, mentre ormai è sommerso da quelle acque, sta affogando... sta affogando!
Tutto d'un tratto si ritrova fisicamente in acqua, senza aver memoria di esserci realmente caduto.
Respirare acqua non è sicuramente confortevole, ma nemmeno un gran problema, a preoccuparlo è il fatto di aver perso il Traghetto e qualsiasi altro punto di riferimento. Intorno a lui c'è solo oscurità.
Ad un tratto il dolore: qualcosa l'ha urtato strappandogli via la carne umana ricostituita poco prima di salire sulla barca. Ma ora sente già che quel qualcosa è lontano, quando succede un'altra volta, ma da un'altra direzione. Così decide di ritrasformare un braccio in metallo per riscaldarlo e farne una torcia.
Il metallo incandescente, di un giallo intenso, in quelle acque gelide perde subito energia ed ha un bisogno continuo di rifornimento di questa da parte del Dio, e dove quest'energia non è sufficiente si raffredda un po' diventando rosso, mentre innumerevoli bolle d'aria, formatesi dal vapore acqueo evaporato intorno alle zone calde, risalgono da tutto il braccio.
Ma è comunque solo efficace abbastanza da illuminare nient'altro che qualche metro di acqua intorno.
E poi eccola lì la cosa che lo ha colpito, sfreccia verso di lui, colpendolo nuovamente e poi continua la sua corsa. E altre la seguono, ancora di più attirate da quella luce, sembra.
Le riconosce: sono le stesse cose che si sono occupate delle Erinni per lui! Esseri metà donne e metà pesce, con capelli lunghi e flessuosi, orribili occhi assetati di sangue e denti aguzzi come quelli di squali: sirene, ma molto più terrificanti di quanto questo nome lasci pensare.
Ares si vede costretto a ritrasformare tutto il suo corpo in metallo, almeno per parare i colpi e annullare il dolore, ma... non funziona! Sebbene ora la sua carne sia metallo tra i più duri nel mondo, quelle bestie riescono ancora a provocargli dolore. E quando guarda il suo corpo scopre con ancor più stupore che non ha riportato alcuna ferita, ma che quando le sirene lo attaccano, nel punto in cui dovrebbero affondare le fauci sgorga per qualche breve istante un lieve fiotto di luce.

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Capitolo 15
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 6: Accoglienza Infernale ***


Capitolo 15 - Accoglienza Infernale Ecco che attaccano nuovamente, ma stavolta l'ha vista: ha visto distintamente una sagoma lucente venire fuori dal suo braccio trascinata dalle fauci della bestia e poi venire strappata via da questa mentre il resto della sagoma luminescente, come una seconda pelle, ritornava ad aderire perfettamente al suo corpo, affondando e scomparendo in questo.
Spaventato da questa nuova tortura e indebolito dagli attacchi, Ares si risolve di dover contrattaccare: ormai arrivato sul fondo, spinto dal peso della sua forma metallica, intercetta due sirene lanciate a folle velocità contro di lui e le elimina una dopo l'altra con le sue lame.
Questo non fa altro che aumentare il flusso di mostri che spuntano da ogni dove. Ma il Dio tiene loro testa facendone fuori un buon numero, finché ad un tratto tutte le sirene gli si gettano addosso all'unisono.
Il dolore è più forte che mai e Ares sta esaurendo le energie, ma con un ultimo impeto d'orgoglio trasforma il suo corpo in un ammasso  di spuntoni metallici che si diramano velocemente facendosi largo tra gli ammassi di squame e pelle umana.
Quando richiama a sé quelle protuberanze appuntite, la mischia si scioglie e i corpi inermi delle sirene iniziano a fluttuare nell'acqua mentre questa si colora di un intenso color rosso sangue.
Per qualche istante c'è una strana quiete... poi ad un tratto un urlo muove le acque, un urlo maschile, di rabbia, che, anche se attutito dall'acqua, emana potenza, anzi forse più di quanta ne avrebbe trasmessa per aria, tanto che si potrebbe dire che è l'enorme massa di acqua stessa a emettere quell'urlo, infatti trema e si agita insieme a quello.
Poi tutto il fiume riprende a scorrere impetuoso e le sue membra esercitano tutta quella pressione su Ares che, sebbene piantato per terra dal peso del metallo, viene sollevato facilmente e trascinato dalla corrente.
Ad un tratto il Dio, ormai inerme, sente che la spinta cambia direzione e ora punta verso l'alto, finché non vira di nuovo proiettando Ares direttamente fuori dall'acqua.
L'ambiente che vede è completamente diverso da quello della galleria in cui si trovava poco prima, partendo dalle dimensioni e dalla luce: ora si trova in un'enorme spazio chiuso che si direbbe un'altra grotta, ma dalle dimensioni apparentemente infinite, dato che non se ne vede il perimetro, se non le mura più vicine, rocciose ma levigate, mentre il soffitto è pura pietra, in forma di gigantesche stalattiti rocciose e massicce, la cui superficie è tempestata di indefiniti scarabocchi, impossibile dire cosa siano, data la grande distanza dal Dio, che pure si ritrova sparato verso di loro.
Sotto di lui, ad ancor più grande distanza, un oceano di lava incandescente, infinito quanto l'ambiente di cui forma il "pavimento", e una miriade di isole di vario tipo e dimensione ne costellano la superficie, collegate da catene di dimensioni spropositate che sembrano tenerle insieme.
In mezzo, a bloccargli parte della visuale, il fiume che l'ha appena scaraventato fuori dalle sue stesse acque: un enorme serpentone blu scuro  che occupa saldamente uno spazio ben definito in aria, sebbene scorra violentemente verso una direzione sconosciuta. Risalendo con lo sguardo quella strana e lunghissima formazione d'acqua, arriva a quella che si direbbe essere l'uscita della galleria: una gigantesca testa interamente scolpita nella parete rocciosa, dalla cui bocca spunta come un'enorme lingua quel fiume che ora scorre per aria; inoltre quel volto sembra famigliare, assomiglia a quello del Nocchiero, sebbene più spaventoso, e con un'espressione altera.
Tanto è il tempo che rimase per aria Ares dopo essere stato scagliato fuori dal fiume che può analizzare queste cose, ma non fa in tempo a trovare l'altra estremità del fiume con la vista, non perché atterri, anzi, sta ancora salendo al momento, ma perché proprio questa si volta e, dopo una larga curva che la porta sopra al Dio, lo colpisce in pieno. La forza dell'acqua lo trascina verso una montagna di cui consiste un'intera isola, e lo schianta violentemente contro le sue rocce.
Riesce a resistere solo grazie alla sua natura divina, chiunque al suo posto, forse persino il potente Eracle, sarebbe stato distrutto dall'impatto e dalla seguente pressione che ora lo schiaccia contro le stesse rocce, tanto forte che non riesce a muovere un solo muscolo.
Alla fine, tanta la forza dell'acqua, che anche le rocce cedono e, sfondandole Ares scopre che la montagna in realtà è cava.
Quando si riprende, il fiume è tornato sui suoi passi, lasciando un enorme buco che attraversa una grande porzione di montagna. Ora il Distruttore si ritrova in una vera e propria stanza, evidentemente costruita da esseri senzienti perché perfettamente quadrata e dotata di aperture che fungono da porte.
Ma lo spettacolo che vi trova, e che realizza subito dopo, è comunque raccapricciante.
Su dei letti in pietra che spuntano direttamente dal pavimento ci sono degli uomini, con le braccia legate da dei ceppi di ferro fissati al muro, che urlano come forsennati,  e la causa del loro grande dolore è presto detta: stanno partorendo.
Una schiera di uomini su altrettanti letti dà alla luce senza interruzioni una miriade di corpi di neonati (uno dopo l'altro o due alla volta, alcuni) che però non emettono alcun pianto e sembrano inermi. Questi vengono raccolti da dei satiri avvolti nelle tipiche vesti da ostetrica, uno predisposto ad ogni letto, che senza tanti preamboli li impilano in delle grosse ceste di vimini fornite di ruote, che, una volta piene, vengono trasportate via da altri satiri. Questi si affrettano a portar via le ceste, se non altro perché dopo un po' iniziano a traboccare, dato che i neonati crescono e in pochissimo tempo diventano adulti, ma sempre inermi.
Mentre Ares trattiene il ribrezzo, uno di questi satiri prorompe:
«Per Zeus! Cosa diamine sta succedendo qui!?»
«Dove mi trovo?» chiede Ares tagliando corto.
«Sull'isola degli uccisori e dei molestatori di bambini... e tu chi sei!? Di che schiera di dannati fai parte? Come hai fatto a fare questo alla montagna?!»
«Non vedo perché risponderti. Piuttosto, dimmi dove posso trovare i figli di Echidna o taglio via da quel collo la tua testa cornuta!» intima infine puntandogli al collo l'enorme lama che gli scorre lungo il braccio.
Ma il satiro non fa in tempo ad avere alcuna reazione che un rumore famigliare riempie l'aria della stanza erompendo dal buco nella parete, seguito a ruota da una furiosa massa d'acqua.




NdA: mi dispiace di avervi dovuto presentare il sistema di contrappasso del mio Ade con i partorendi XD Comunque lo so che inserire tra i dannati anche i molestatori di bambini quando nella società ellenica dell'epoca la pederastia era considerata assolutamente normale e, anzi, indispendabile per la formazione del ragazzo può sembrare fuori luogo, ma è stata una doverosa aggiunta personale (quelli che partoriscono due gemelli sono coloro che si sono macchiati sia dell'uccisione che della molestia).
Ps: lo so che tutti avete immaginato il tipico completino da infermiera con tanto di croce rossa addosso al satiro, ma ricordatevi che si parla sempre di Antica Grecia XD

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Capitolo 16
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 7: Il ritorno di Caronte, domatore di Stige ***


Capitolo 16 - Il ritorno di Caronte, domatore di Stige L'acqua travolge tutto e tutti, Ares compreso, nuovamente, e li spinge attraverso le infernali "sale parto", una dopo l'altra, sfondando occasionalmente muri e altre barriere architettoniche, finché non sbuca dal lato opposto della montagna e scaraventa di nuovo il Dio contro un'altra isola.
Dopo un volo spaventoso egli atterra malamente in un fitto bosco, rotolando per diversi cubiti fino a finire contro un albero, dopo averne abbattuti molti.
«Chi è che vuole infliggere altro dolore ad un povero dannato?» lamenta una voce sopra Ares.
Questo cerca il punto da cui è venuta e trova una faccia umana, la faccia dell'albero.
«Che succede?» chiede un'altra voce più in alto: viene da un uomo legato per il collo ad uno dei rami dell'albero.
Il Dio si guarda intorno e scopre che tutti gli alberi hanno facce, anche più di una per albero, e da quasi ogni ramo grande abbastanza per sostenerli, pendono corpi impiccati, ma ancora senzienti, sebbene non si muovano.
Ares non ha nemmeno il tempo di decidere cosa fare che un ruggito alle sue spalle, lontanamente simile all'urlo che aveva sentito sott'acqua, lo fa voltare.
Sopra le fronde degl'inquietanti alberi parlanti si erge imponente la faccia di un dragone, interamente fatta d'acqua, grande più o meno quanto un terzo della montagna che ormai ha alle spalle: è la testa del fiume-serpente. Subito emette un'altro ruggito assordante e poi dalla gola spara un potente getto d'acqua che spazza via tutti gli alberi che incontra sul suo cammino.
Il Dio, preso alla sprovvista inizia a correre per seminare la colonna d'acqua generata dal mostro e finisce in una radura dove gli alberi e gli impiccati lasciano posto ad una grande piana finalmente senza alcuna caratteristica inquietante, macchiata qui e là da qualche chiazza di erbetta rasa, circondata a ferro di cavallo dalla foresta, mentre un lato dà direttamente sul baratro sopra il mare di magma.
Così Ares si ferma per respirare un secondo, ma voltandosi si accorge che il serpentone è sparito dalle sue spalle, ma ricompare all'orizzonte dell'isola sollevandosi proprio dal lato dove la piana si getta nel vuoto.
Conscio di non poter evitare lo scontro per sempre e stufo di scappare, cosa che non si addice al Dio della Guerra, l'Olimpico prende la solita posa da battaglia e richiama a sé tutte le energie, riprendendo la forma che aveva usato contro Cerbero.
Il mostro spalanca nuovamente le fauci e Ares si prepara a schivare il colpo, ma quello non attacca... Invece, un grande vascello sbuca direttamente dalle sue viscere acquatiche e ora sta fermo, tronfio, sulla lingua ritratta del dragone.
Come polena di quella nave si erge lo stesso vecchio che lo aveva incitato a salire sulla sua barchetta non molto tempo prima, ma ha un aspetto più spaventoso e possente ed è molto più grande di prima; ora la sua faccia è identica a quella scolpita nella roccia.
La nave, sebbene sia sempre scassata e fatta di legno apparentemente marcio, ora ha tutte le caratteristiche di un vascello: oltre le dimensioni ha ben due alberi e l'albero maestro, che espongono vele di un bianco macchiato, quasi grigio, squarciato in alcuni punti; il ponte è spazioso e simile a quello delle navi da guerra, con tanto di entrate per la stiva e gli altri locali.
«Come hai osato sfidare Caronte, il Nocchiero Infernale!?» tuona quello da lassù, senza urlare, ma la sua voce è talmente possente che sembra non sia più distante di qualche piede, all'orecchio di Ares; una voce molto diversa, più decisa, di quella che l'aveva accolto una volta passata la porta di Minosse, ma identica a quella che aveva lanciato l'urlo subacqueo.
«Io non ti ho fatto proprio un bel niente!» risponde a tono il Dio Empio.
«Hai osato uccidere le mie Sirene!»
«Non ho osato nulla! Sono state quelle bestie ad attaccarmi per prime!»
«Ma certo che ti hanno attaccato! Gliel'ho ordinato io! Dovevo avere il corpo di un Dio tra la mia ciurma!»
«Quindi sai chi sono? E allora come potevi sperare che delle fanciulle con la coda di un pesce potessero sconfiggermi? E poi cos'è questa storia della ciurma?»
«Pensavo ti fossi accorto del potere delle mie Sirene... no? Allora te lo spiegherò io: vivendo da secoli nel fiume infernale che ora vedi davanti ai tuoi occhi in tutta la sua temibile potenza, Stige, potevano nutrirsi solo dei corpi dei defunti che cadevano nelle sue acque, ma i corpi di coloro che sono costretti alle pene eterne in questo regno non sono come quelli dei vivi, sono fittizi, insipidi, delle semplici incarnazioni per l'anima, in modo che questa possa avvertire fisicamente il dolore, e vengono assegnati alla morte ad ognuna di esse. E tra l'altro probabilmente poco fa hai scoperto con i tuoi occhi da dove provengono tutti quei corpi.
Così le Sirene si sono abituate a divorare direttamente l'anima dei malcapitati che venivano attirati dalle caratteristiche "persuasive" di queste acque, e facendo ciò lasciavano dei corpi vuoti e inutili, che il mio re Ade ha acconsentito perché io ne usufruisca nel modo che ritengo opportuno. Ed è così, sottomettendo questi corpi alla mia volontà come fossero parte integrante della nave, che ho creato la mia flotta!»
A queste ultime parole un rumore di legno scricchiolante e travi calpestate emerge dalla nave, da cui si affacciano subito dopo una miriade di corpi armati di tutto punto, con lo sguardo perso nel vuoto.
«Ora assaggerai la potenza di Caronte e di Stige!!» urla infine, all'unisono con un ruggito di Stige, mentre entrambi partono all'attacco con una carica terrificante.

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Capitolo 17
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 8: Immortale contro Immortale ***


Capitolo 17 - Immortale contro Immortale La mandibola del mostro sfrega violentemente contro il terreno mentre si avvicina alla massima velocità, facendo lo stesso assordante frastuono dell'acqua che si scontra contro la costa, ma in modo più continuo.
In pochi istanti Ares gli si ritrova vicinissimo, ma è pronto e spicca un salto, cosicché l'albero di trinchetto lo intercetta a mezz'aria, ma lui vi atterra come se avesse previsto tutto.
A causa della velocità di Stige, e conseguentemente della nave, e del peso di Ares, l'albero si spezza sul colpo, facendo emettere un piccolo verso di dolore a Caronte.
Senza avere il tempo di pensare alla mossa successiva, però, il Dio Ribelle viene nuovamente sommerso dall'acqua, dacché Stige richiude le fauci.
Successivamente delle cime si animano e da sole scattano verso Ares legandolo e immobilizzandolo a mezz'acqua. La ciurma a quel punto inizia a nuotare verso di lui brandendo le armi, ma egli si libera facilmente dalle corde improvvisando qualche nuova lama laddove quelle già create non fossero sufficienti e poi mette KO facilmente gli avversari.
Stige apre nuovamente le fauci ma stavolta sta sfrecciando verso l'alto, cosicché Ares deve aggrapparsi all'albero maestro per rimanere sulla nave. Sfruttando allora la gravità formatasi si appollaia sull'albero mentre questo è completamente orizzontale, pronto a darsi lo slancio con salto e raggiungere le spalle di Caronte per trafiggerlo con la sua lama, ma nel momento esatto in cui salta, Stige lo sorprende e arresta bruscamente la sua corsa verso l'alto, cosicché, a gravità zero, tutta la nave galleggia a mezz'aria continuando ancora un po' a salire, ma Ares, che invece si era dato la spinta verso l'alto, ne viene sparato fuori quando questa rimane indietro.
Un'altra cima lo afferra subito per una caviglia mentre la nave inizia a prendere velocità verso il basso, ma, guardando sotto, Ares non vede più Stige, come invece si aspettava, e realizza che la nave continua la sua folle corsa verso il suolo, ma mentre lo fa si volta lentamente, finché Ares non impatta violentemente al suolo, sepolto successivamente dalla nave stessa, sottosopra.
L'impatto è talmente forte che chi si fosse trovato su quell'isola avrebbe potuto giurare che per un istante si fosse abbassata. Quando la pioggia dell'acqua residua di Stige e la polvere si sono posate, lo scenario si presenta catastrofico: il suolo si è deformato in un cratere e tutto intorno, per piedi e piedi, sono disseminati i resti della nave, che variano da piccole schegge di legno a interi alberi.
Dopo qualche istante di silenzio, seguito all'assordante frastuono dello schianto, Ares risorge dalle macerie di quello che doveva essere l'alloggio del capitano.
«Che stolto, come si può pensare di sconfiggere un Immortale?» commenta sogghignando.
«Ti informo che anch'io sono immortale!» annuncia una voce.
Seguendola, Ares giunge sorpreso alla polena della nave, divisa dal resto della prua.
Caronte, con un urlo, si separa dal resto del legname, creandosi al contempo delle gambe là dove prima finiva il busto, strappandole direttamente alla prua.
«Ah! Era da tanto tempo che non mi sentivo così... libero!» dice con aria sollevata.
Ora il vecchio è più alto di Ares, ma comunque abbastanza sottile, insomma non proprio il tipo da combattimento corpo a corpo.
«Cosa pensi di fare, eh? Sei solo un ammasso di legno marcio! Io sono fatto di puro metallo e posso incenerirti all'istante! Come pensi di battermi?»
«Non dimenticare la mia ciurma!» ghigna il Nocchiero.
«Come? Anche loro sono immortali?» chiede confuso Ares, mentre un'orda di marinai armati di spada sbuca da ogni dove dandogli addosso.
«No, semplicemente sono me. O almeno burattini alla mia mercé. Sono un burattinaio di legno e le mie marionette sono umane!» nota prima di scoppiare in una risata malsana.
Gli uomini della ciurma si rivelano ancora una volta relativamente facili da sconfiggere, ma il loro grande numero e il potere di continuare a combattere anche se gravemente mutilati, rende il tutto una grande seccatura. Inoltre Caronte non rimane fermo a guardare per molto: con la coda dell'occhio Ares lo vede fare un gesto a qualcosa alle sue spalle e poco dopo l'albero maestro con le vele spiegate, come trasportato dal vento, fluttua sulla sua testa e successivamente cerca di colpirlo con l'estremità rotta, fortuitamente degradatasi in una rudimentale punta.
L'albero si abbatte molte volte al suolo, ma Ares riesce a evitarlo, continuando contemporaneamente a tenere a bada gli altri.
Alla fine il Dio si risolve a tagliare le gambe a tutti, il che, sebbene non li uccida, impedisce loro di nuocere.
Successivamente si lascia colpire dall'albero fondendo il punto colpito così da lasciarsi passare da parte a parte, ma ciò lo manda in fiamme, mentre l'Enialo sogghigna soddisfatto verso l'avversario.
«Non è ancora finita!» intima quello. E con un gesto dell'altro braccio una gigantesca accozzaglia di detriti raggiunge proprio quell'arto e lui, come se avesse sempre fatto parte del suo corpo, maneggia l'ammasso di legno per colpire Ares al fianco, ma quello lo anticipa tagliando di netto la nuova appendice dell'avversario con un getto di metallo fuso del suo braccio.
Allora l'Enialo si separa da ciò che è rimasto dell'albero maestro e corre stavolta dritto verso il suo vero nemico.
«Mi ero ripromesso di non usarle, dato che sono corpi freschi e non so se riesco a controllarli alla perfezione, ma dato che non mi dai altra scelta...» dice Caronte, stranamente calmo.
Ares, arrivato a pochi piedi da Caronte, si ferma di botto quando sente dietro di sé il suono di macerie spostate.
Subito dopo da quel cumulo di macerie schizzano fuori tre ombre che volano su prima di disporsi a triangolo, fermandosi a mezz'aria, e lanciare tre urli praticamente armonici, ma l'armonia in questo caso è dolore: sono di nuovo le Erinni che devono aver fatto esattamente la fine che aveva descritto prima Caronte.
Le orecchie del Dio vengono perforate da quel suono acuto e le sue gambe non si muovono più. Persino le rocce dal suolo si muovono, fluttuano a mezz'aria e si frantumano.
Caronte si lascia andare ad un'altra risata prima di colpire violentemente l'avversario con quello che era rimasto del braccio di macerie.
Ares vola all'indietro forse per un intero stadio, dando il tempo al Traghettatore di preparare la mossa successiva: tutti i pezzi della nave, compresi vari resti di ciurma, ad un tratto vengono attratti come calamite dal suo corpo, che in breve assume aspetto e dimensioni mostruose, risultando come una pila antropomorfa di scarti lignei di ogni forma e dimensione.

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Capitolo 18
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 9: Chi è più immortale? ***


Capitolo 18 - Chi è più immortale? Ares si rialza, ma le Erinni sfrecciano verso di lui, colpendolo giusto per distrarlo da Caronte che lo raggiunge e lo colpisce con un destro schiacciandolo al suolo. Successivamente lo solleva tenendolo ben stretto nella presa della stessa mano; egli cerca di liberarsi riscaldando il corpo, ma le Erinni ancora una volta lo paralizzano col loro urlo combinato.
Un'altro ghigno di Caronte anticipa la sua mossa successiva: scaglia con potenza l'avversario verso l'alto, che, nonostante il suo peso, vola per diversi cubiti fino a raggiungere le tre sorelle, che, prontamente, lo chiudono insieme in una presa a mezz'aria prima di trascinarlo con loro al suolo e schiantarlo in un potente impatto, nel quale esse stesse esplodono in una nube di penne nere che le ricostituisce a mezz'aria poco dopo.
Ares, lentamente, si rimette su un ginocchio. Questo scontro sembra provarlo più di quanto si aspettasse.
«L'unico modo per riuscire a sconfiggerlo è usando le mie fiamme - pensa il Dio - ma finché ci saranno quei tre uccellacci a bloccarmi con le loro urla non riuscirò nemmeno ad attaccare»
Poi, dopo qualche istante di silenzio, il suo corpo ritorna di carne...
«E così hai deciso di arrenderti... saggia decisione» ridacchia Caronte.
«Non ancora» fa l'Olimpico mettendosi in piedi.
Poi punta due dita contro le sue orecchie e successivamente le trasforma in delle specie di mini-lance con cui si trapassa i timpani. Il sangue sgorga dai suoi padiglioni mentre lancia un urlo di dolore.
«Che fai? Pazzo!» gli urla il Traghettatore con un tono a metà fra lo sconvolto e il canzonatorio.
Ares legge le sue labbra lignee, ma non sente nemmeno una parola «Perfetto» pensa.
E subito parte alla carica, cosciente del fatto che il suo corpo divino non ci metterà molto a cancellare le ferite; così trasforma un solo braccio in metallo incandescente.
Le Erinni provano a fermarlo urlandogli contro, ma egli non avverte nulla e così Caronte finalmente capisce la sua strategia, ma è troppo tardi: il braccio del Dio penetra fino al gomito nelle membra di legno del nemico che, in un batter d'occhio, prendono fuoco come fossero cosparse di olio per lanterne.
E' Caronte che urla questa volta, Ares lo sente, l'udito gli è ritornato giusto in tempo.
Mentre il Nocchiero Infernale si dimena e si lamenta delle fiamme che gli hanno ormai avviluppato il mostruoso corpo, le Erinni si fiondano con attacchi aerei contro il Dio della Guerra solo per tenerlo occupato.
Poi, dall'orizzonte dell'isola sbuca nuovamente la gigantesca testa di Stige che subito si fionda verso il suo padrone ingoiando lui e Ares.
Di nuovo in acqua, il Dio vede le fiamme di Caronte spegnersi all'istante e subito dopo il suo corpo quasi esplodere in mille pezzi che lo circondano. Mentre cerca di capire la situazione, nota che i detriti hanno formato una vera e propria sfera intorno a lui, ma il tempo di realizzare ciò, che questa sembra collassare su se stessa e su Ares chiudendolo in una morsa.
Poco dopo si ritrova a spuntare col busto sul ponte della nave, tornata come fosse nuova (ignorando sempre il legno marcio e le vele strappate), con il ponte stesso che lo ingoia a livello della vita, intrappolandogli anche le braccia.
Ares trasforma di nuovo tutto il corpo in metallo e prova a liberarsi con le fiamme, ma l'acqua che ancora sommerge tutta la nave impedisce al legno di bruciare.
La faccia di Caronte appare sul tronco dell'albero maestro, proprio davanti ad Ares, mentre una miriade di "marinai" sbuca da ogni dove avvicinandosi lentamente, e stavolta Ares ha il tempo di riconoscerne qualcuno: ci sono le Guardie Olimpiche, i satiri e i dannati che aveva fatto cadere distruggendo il ponte per i Cancelli... in pratica quella ciurma, comprese le Erinni, gliel'ha fornita lui.
«Oh guarda! Pare che il nostro Olimpico sia in trappola» ghigna il Nocchiero, e la sua voce, come prima, risuona perfettamente nell'acqua, trasportata da questa.
Un impeto di orgoglio e rabbia prende le membra del Dio che, con tutta la forza in corpo, urla:
«Non l'hai ancora capito!? TU - NON - PUOI - SCONFIGGERMI!!!! Nessuno può!!» la sua voce invece si fa strada a fatica tra le acque.
Poco dopo esplode in un tripudio di lame che squarcia il legno e trafigge i componenti della ciurma più vicini.
Appena libero Ares sa di dover seguire una tattica:
«L'unico modo per mettere fine a questo combattimento e togliere di mezzo Stige - pensa - e credo si aver capito come fare»
Appena può, abbandona la nave saltando dalla poppa e inizia a nuotare controcorrente, dopo essersi ritrasformato nella sua versione di carne, per essere più leggero e riuscire effettivamente a spostarsi.
Non ci vuole molto che anche il vascello faccia dietrofront e inizi, sembra con più fatica di Ares, a seguirlo. Più volte Caronte cerca di riafferrare Ares scagliandoli contro delle cime, ma quello riesce sempre a schivarle o a liberarsene facilmente.
Finalmente, attraverso quelle acque oscure, Ares avvista il buco nella montagna che Stige aveva fatto trapassando l'isola dei molestatori e uccisori di bambini.
Entrato dentro la montagna, il Dio semina la nave di Caronte, troppo grande per seguirlo, e poi riesce a uscire dal corpo del serpentone, ritrovandosi di nuovo negli ambienti dell'isola.
Subito dopo però dal muro di acqua che si è appena lasciato alle spalle, spuntano anche le Erinni che lo seguono sfrecciando attraverso l'aria.
Ares corre quanto più veloce può e, mentre schiva colonne e muri, li abbatte usando lame e pugni dopo aver nuovamente assunto la sua forma metallica, aiutato involontariamente dalle stesse Erinni che, spesso, si schiantano contro qualche elemento della struttura, scomponendosi e ricomponendosi poi in vortici di piume nere, così da non perdere terreno contro l'inseguito. Ciò fa si che non riescano a emettere i loro urli contemporaneamente, così l'effetto su Ares è meno intenso e questo, anche se comunque con sforzi immani, riesce a proseguire la sua corsa.
Alla fine, dopo essersi lasciato dietro mucchi di detriti, Ares trova il capolinea in un muro più spesso degli altri, quello della montagna stessa, ma non se ne accorge in tempo, data la grande velocità ormai raggiunta nella sua corsa, e proprio grazie a questa riesce a trapassarlo come un proiettile, mentre le Erinni non sembrano avere la stessa fortuna: solo, Ares spunta dal fianco dell'isola-montagna e inizia a cadere nel vuoto, ma per fortuna la sua traiettoria incontra una delle enormi catene che legano le isole, sospese a grande altezza sopra il magma, e vi atterra senza problemi dopo un volo pazzesco.
Si trova anche nella posizione perfetta per ammirare il frutto dei suoi sforzi: un suono di scricchiolii e franamenti accompagna la nascita di crepe lungo la roccia della montagna, che serpeggiano fino a ricoprirne tutta la superficie. Ad un tratto la montagna implode crollando su se stessa e decapitando Stige. La parte che spuntava dalla montagna, che si trova sospesa sul magma tra le due isole che li hanno visti combattere, viene staccata dal resto del corpo e, priva di sostegno, si sfalda iniziando a cadere verso il basso, trascinando con se il vascello che si trova ora sulla testa del mostro.
L'intera testa del serpentone evapora ancora prima di toccare la superficie dell'oceano lavico, emettendo un'enorme nube di vapore che ingoia Caronte e l'esclude alla vista di Ares, ma questo può facilmente intuire la sua fine dal rumore di fiamme che divampano all'improvviso e dalle urla di dolore straziante di Caronte, che si spengono lentamente.
Il Dio riprende la sua forma umana e si siede sulla catena per riprendere fiato.
«Questo trasformarsi e ritrasformarsi mi ha sfinito» commenta.

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Capitolo 19
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 10: I Pilastri dell'Ade ***


Capitolo 19 - I Pilastri dell'Ade Intanto la montagna continua a crollare e enormi massi cadono nel magma dopo un volo di diversi stadi. Il frastuono è assordante, ma per le orecchie provate del Dio sembra una dolce ninnananna dopo le urla delle tre Erinni.
Dopo un po' sembra esserci qualcosa di strano: i detriti, cadendo, sembrano aprirsi come un fiore che sboccia intorno ad un qualcosa di portante... quando la montagna è ormai scomparsa e la coltre di terra si è diradata, il Dio finalmente vede la verità: le isole non sono sospese sopra il magma, ma sono sorrette da giganti!
Come ha potuto non accorgersene? Sbalordito alla vista di quel pilastro vivente, si guardò intorno, alla base di altre isole, e sotto ognuna c'era uno di quegli enormi mostri a reggerla sulle spalle.
Doveva essere stato davvero preso dal combattimento per non accorgersene.
Non vedeva giganti dall'era della Gigantomachia, e ne era passato di tempo, ma non aveva idea di dove fossero stati relegati a scontare il loro supplizio dopo la sconfitta per mano degli Olimpici, solo i Tre Fratelli lo sapevano.
Intanto il gigante, il cui corpo immenso copriva alla perfezione la distanza tra l'isola, ormai scomparsa dalle sue spalle, e il mare di magma, nel quale affondava i piedi almeno fino a metà stinco, non si sa come sopportando il calore, si sta stiracchiando liberamente.
Subito però il suo volto cambia espressione in un misto di rabbia e timore:
«Cos'è successo!? Chi mi ha liberato dal mio fardello!?» urla, scuotendo l'aria terribile con la voce e le catene, che Ares aveva notato essere collegate ai giganti e non direttamente alle isole, con il movimento delle braccia.
«Sono stato io» esordisce Ares.
Il gigante volge lo sguardo alla fonte della voce che ha appena sentito.
«Pazzo! - tuona - così attirerai la terribile punizione di Ade su di me!»
«E così un gigante teme mio zio...»
«Tu sei un Olimpico?»
«Sono Ares, Dio della Guerra. E non sono un Olimpico, ma il loro Re!»
«Olimpico o no, ora penseranno che mia sia liberato di mia iniziativa dal mio supplizio!»
«Come ti chiami, gigante?»
«Encelado»
«Io ricordo i Giganti per essere stati degni avversari e per aver avuto l'ardire di sfidare gli Dei. Ora invece ne trovo uno che piange pensando alla punizione che un Dio potrebbe imporgli... preferisci, Encelado, essere schiacciato dal peso di una montagna mentre delle catene ti imprigionano come una bestia e i tuoi piedi sono immersi nella lava più bollente, o affrontare con onore il tuo vecchio nemico, magari per riscattare il tuo nome?» Ares è alto quanto un unghia della mano del gigante, ma gli parla con fiero orgoglio, come se stesse parlando ad un subordinato.
«E' evidente che non conosci i metodi di tuo zio, Dio della Guerra, né hai famigliarità con i suoi "sottoposti"...»
«Certo che no. Io sto per rivendicare il posto che mi spetta sul trono dell'Olimpo, e se Ade si metterà fra me e il mio scopo, anche il suo regno cadrà, ma per fare tutto ciò mi serve un esercito degno del mio comando... - un'idea lo fulminò - questo non ti alletta, Encelado?»
«Possano i cancelli del Tartaro ingoiarmi, se mai volessi affrontare anche solo un altro Olimpico»
«Che delusione - commentò con amarezza - Ma comunque ci sono altri pronti ad unirsi alla mia causa, e sto cercando proprio loro: hai mai sentito parlare dei figli di Echidna?»
«Vorresti usare quei mostri per attaccare l'Olimpo? Se pensi di poterli piegare al tuo volere... Ma io non so dove si trovino, anche se so che sono usati come supplizio su alcune di queste isole»
«E sai dove posso trovare qualcuno che sia a conoscenza della sua posizione»
Il gigante lentamente, come colui che non compie un movimento da tanto tempo da dover rifarci l'abitudine, solleva la testa guardando agli enormi spuntoni di roccia che pendono molto al di sopra di lui.
«Le guardie potrebbero saperlo... o almeno il loro comandante. Si trovano lassù, quando non sono di pattuglia o impegnate in altre attività di loro competenza»
«E come ci arrivo fin lassù?»
«Non saprei, loro usano quelle strane ali per fare su e giù dalle loro caserme»
Ares si ferma improvvisamente a riflettere quando gli sovviene una folgorazione:
«Questo supplizio non ti avrà fiaccato completamente nel fisico, oltre che nell'animo, vero?»
«Diciamo che non sono forte come un tempo, la mia pelle è stata talmente tanto tempo ferma che in certi punti è ormai simile a pietra, e i miei movimenti e i miei riflessi sono molto più lenti, per non parlare del dolore ineffabile ai miei poveri piedi... Ma perché me lo chiedi? Ti ho già detto che non mi presterò ai tuoi scopi bellici»
«Non voglio chiederti nuovamente di stare al mio fianco nella guerra agli Dei, ma di aiutarmi in altro modo» detto ciò raggiunse di corsa l'estremità della catena sulla quale era atterrato, che cingeva il polso del gigante. Poggiò poi la sua mano sul muro si carne che gli si parava davanti:
«Lanciami in aria»
«Avevo ragione: tu sei pazzo!»
«Non fare storie, è già abbastanza difficile per un Dio e oltraggioso per il suo orgoglio chiedere di essere maneggiato come fosse un insetto!»
«Ma anche questo verrebbe considerato come un aiuto, una specie di dichiarazione di ostilità contro i tuoi nemici!»
«Ti ricordo, gigante, che anche io ho partecipato alla grande guerra dove tu e quelli qui presenti furono fatti prigionieri e altri tuoi compagni perirono, e alcuni trovarono la morte proprio per mano mia. Quindi decidi di chi avere paura: del vecchio Ade, o del Dio della Guerra, che tra l'altro è il più vicino e il più comodo a infliggerti qualche ferita mortale...»
«Se parli così allora davvero non conosci ciò di cui è capace Ade e ignori chi è al suo servizio... Ma non mi lasci altra scelta, e per questo spero che il sovrano di queste lande sia clemente nei miei confronti»
Detto ciò Encelado si convinse ad aprire la mano col palmo rivolto verso l'alto e Ares vi prese posto esattamente nel mezzo.
Le catene lasciavano abbastanza gioco ai movimenti del gigante, che poté così portarsi la mano e il suo ospite ad altezza degli occhi:
«Spero di non rivederti mai più, Dio della Guerra» poi trasse la mano in basso e repentinamente la fece risalire scagliando Ares in aria a velocità assurda.

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Capitolo 20
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 11: Maniere Forti ***


Capitolo 20 - Maniere Forti Mentre l'aria grave tenta invano di frenarlo, ottenendo solo di scompigliargli i capelli e increspargli la pelle, vede chiaramente gli enormi spuntoni di pietra avvicinarsi, finché non riesce a scorgere le strutture che vi si abbarbicano intorno: impalcature di ferro e legno girano intorno ad ogni formazione rocciosa, accompagnando dei satiri verso delle porte incavate che sembrano condurre alle loro stanze, nascoste nella roccia, e esili ponti di corda, nudi di qualsiasi protezione, collegano queste strutture protraendosi spaventosamente sopra l'inimmaginabile baratro che Ares sta eccezionalmente risalendo.
Lentamente, però, gli spuntoni sembrano rallentare la loro corsa apparente mentre Ares avverte la pressione sul viso calare: gli effetti della poderosa spinta del gigante stanno infine cedendo alle leggi di questo e quel mondo. Ma, fortunatamente, sono sufficienti a raggiungere, anche se a malapena, uno di quei ponti, che il Dio afferra prontamente all'apice della sua traiettoria.
Senza sforzo si tira su con un gesto e, senza perdere altro tempo oltre ad esaminare il posto più di quanto non avesse già fatto avvicinandovisi,  prende a percorrere deciso quel ponte traballante, le cui travi scricchiolano al suo passaggio, senza cedere alla tentazione di guardare verso il basso, forse sapendo che persino il suo cuore divino verrebbe attanagliato dalla paura alla terribile vista di quello sconfinato vuoto che ora, poiché egli lo inganna sottraendovisi con quel misero mezzo, reclama furioso la sua preda.
Ma a muovere quel suo passo fermo è anche la consapevolezza che ormai la sua guerra, nel mondo di sopra, sarà già conoscenza di tutti i suoi avversari e che, probabilmente, essi hanno già mosso offensiva ai Makhai e agli altri suoi emissari e alleati, e che quindi, l'effetto sorpresa non è più perseguibile, ma d'altronde, quando il tuo avversario è l'onnisciente Zeus, che tutto può vedere attraverso le sue nuvole sul suo seggio divino in capo all'Olimpo, hai poche possibilità di prenderlo di sorpresa.
Risolutezza è quindi ora la parola d'ordine, basta farsi trasportare dagli eventi, l'obiettivo è chiaro: trovare il generale dei satiri e spremerlo finchè non rivelerà la posizione dei figli di Echidna.
Non è che a metà del ponte verso la destinazione da lui scelta che proprio dei satiri giungono dall'abisso, spinti da delle ali da pipistrello posticciamente attaccate alle loro schiene, ma che si muovono come fossero naturali. Questi satiri, avendo probabilmente notato la sua rapida ascesa da altre arie dell'Ade a cui erano assegnati, ora l'hanno raggiunto su quel ponte.
«Portatemi dal vostro superiore!» esordisce Ares senza preamboli.
I satiri, tre in numero, corazzati e armati di una lunga e lucente alabarda, si scambiano uno sguardo con il quale sembrano intendersi sul dafarsi.
«Tu sei l'intruso vero? Quello che ha liberato Cerbero dalla sua magica prigionia e abbattuto Stige fiume infernale e il suo cavaliere Caronte? Sei un soggetto pericoloso e hai sfidato le leggi di Ade, nostro sovrano e Dio, quindi meriti una punizione esemplare» detto questo inforcano le loro armi in atteggiamento bellico.
«Non sapete con chi avete a che fare, stolti! Ma se non volete dirmelo voi lo scoprirò da solo!»
Il Dio poi, come suo solito, trasforma il braccio destro in una terrificante lama di acciaio affilatissimo. Subito, però, le travi sotto ai suoi piedi mandano un lamento e poi si rompono rendendo al vuoto i suoi piedi e punti d'appoggio.
L'Enialo cade solo per il lasso di tempo prima che afferri sotto le ascelle le due corde che fanno da argini al ponte con le braccia. I Satiri balzano proprio su queste corde e percorrono in velocità il tratto che li separa dal loro obiettivo, anche se per quel tratto le assi sono perfettamente integre.
Raggiungono una velocità che mai si direbbe dalle loro stazze, e, con fare quasi rituale, incrociano le lame delle loro armi poco sopra le assi del ponte tenendole poi in posizione e pronte per abbracciare il collo del Dio, la cui testa spunta proprio di quella misura dal piano del ponte.
Questi però, pur non potendo trasformare altre parti del suo corpo in pesante metallo che metterebbe ancora più a rischio l'integrità della struttura, semplicemente molla la presa lasciandosi ciondolare nel vuoto appeso con la sola mano sinistra; in questo modo, i due Satiri lo passano a gran velocità ma le lame non lo sfiorano.
La lama del braccio destro torna poi utile per tranciare proprio quelle corde, facendo così mancare il sostegno sotto i piedi a quei due satiri.
Avendo tagliato dietro di sé, la porzione davanti ad Ares inizia a cadere verso il baratro avvicinandosi alla stalattite che aveva scelto come meta. Il satiro che è rimasto alle spalle dei due precedenti e quindi fra Ares e la stalattite viene preso alla sprovvista e inizia a precipitare proprio verso di lui.
Quando lo strano pendolo ha terminato la sua corsa la caduta del satiro raggiunge l'altezza dell'Olimpico Ribelle e la guardia dell'Ade riesce finalmente a spiegare le ali arrestandosi a mezz'aria, mentre il moto del ponte ha impedito al Dio di riuscire ad afferrarlo, portandolo lontano da lui.
Il satiro poi manda un ghigno malefico al suo avversario e parte in risalita puntando a tagliare le corde che lo reggono laddove si congiungono alla roccia o ad una impalcatura.
Anche Ares inizia a risalire velocemente usando l'ormai fu ponte come una di quelle scale verticali di corda e le assi come passanti, benché alcune si rompano al suo passaggio.
Dalle retrovie, però, tornano i due satiri di prima, che, a quanto pare, si sono ricordato dei loro gadget svolazzanti e ora li sfruttano per caricare il nemico, impugnano le loro alabarde come lance.
Ares però le schiva entrambe sollevando le gambe e la parte inferiore del corpo con un colpo di reni e, con un unico movimento, li scalcia via tutti e due i satiri, uno per piede.
Le alabarde ora sono ben conficcate nella roccia e, fulminato da una brillante intuizione, il Dio decide di atterrarvi sopra dopo il calcio. Poi usa i suoi poteri divini trasformandosi in un blocco unico di ferro, aumentando notevolmente il suo peso in modo da piegare i lunghi manici delle due armi, e poi tornando repentinamente di carne deperibile.
Ciò crea un effetto trampolino che lo proietta con inaspettata velocità verso l'alto. Raggiunge quindi il satiro alle spalle prima che questo arrivi al suo obiettivo e, con movimento simmetrico, trancia via le ali da entrambi i lati con ambo le braccia trasformate in lame.
Atterra infine sull'impalcatura alla sommità dell'ex-ponte.
Non ha nemmeno il tempo di vantarsi della vittoria che, appena alza il capo, nota la presenza di una folla di guardie accorse dalle loro camere, chi provvisto di ali, chi no.
 
Un tumulto come di battaglia sconvolge la tranquillità dell'ufficio del generale Yusub. Egli alza la testa cornuta e barbuta dalla sua "Gazzetta dell'Ade" sbottando:
«Cos'è di nuovo tutto questo baccano!? Volete forse che vi dia in pasto alla chimera!?»
La minaccia sembra essere andata a buon fine date che il trambusto termina improvvisamente come era iniziato.
«Yusub, hanno ancora paura di te» commenta fiero il capriniforme rimettendo gli zoccoli sulla scrivania, inclinando la sedia e riavvicinando la tazza alle labbra.
Poco dopo, però, la porta del suo ufficio si apre sbattendo con forza, facendolo saltare dallo spavento e sputare il caffè caldo appena bevuto, evitando per poco di non farlo cadere all'indietro con tutta la sedia.
Dopo aver ripreso goffamente uno stato d'equilibrio prorompe in un furibondo:
«Per Zeus Katactonio!! Che cosa succede qui!?»
ma quando alza lo sguardo all'ospite che ha appena varcato la sua soglia, riconosce il ricercato che era da poco schizzato in cima alle preoccupazioni delle guardie.
«Beh, almeno ci hai tolto l'impaccio di venire a cercarti - commenta sicuro di sé - fammi solo indossare la mia tenuta da combattimento»
Sulla faccia di Ares, madida di sangue alieno, si dipinge nuovamente un ghigno, mentre il suo avversario recupera da un appendiabiti una di quelle paia di ali e si assicura l'imbracatura da cui queste poi dipartono tutt'intorno al busto, e afferra infine un'arma a doppio fine: doppia alabarda da un lato e tridente dall'altro.
 
Poco dopo i due sfondano la parete posteriore dell'ufficio piombando su un ponte ancora integro.

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Capitolo 21
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 12: Far cantare il satiro ***


Capitolo 21 - Far cantare il satiro Non assomiglia per niente agli altri satiri: è più alto e possente, con gambe caprine, zoccoli e muscolatura umana molto ben sviluppati; corna da ariete molto più grandi ma non completamente avviluppate su sé stesse, tanto che, dopo aver compiuto un primo giro continuano sporgendo in avanti, diventando così una vera minaccia. Barba e criniera si fondono fluendo dalla sua testa in ciocche spontanee, occhi rossi fuoco e denti digrignati cercano di intimorire il nemico. E' protetto da una massiccia armatura che, alle sue spalle, si collega a delle ali posticce, ma in numero di quattro e con un'apertura alare molto maggiore di quella dei suoi subordinati.
Dopo essersi rimesso in piedi, anzi, sugli zoccoli, il generale lancia uno sguardo al nemico (e chiunque al posto di Ares sarebbe stato fatto preda della più grande angoscia) per poi rigirare la sua strana arma dalla parte delle lame e lanciarsi in corsa contro questo.
Il Dio della Guerra riforgia le braccia a mo' di lame, ma nuovamente le tavole di legno sotto di lui scricchiolano per il peso. Così, stavolta con i riflessi pronti, salta per aria, frantumando le tavole ma scampando al vuoto. Il suo nemico lo segue a ruota dimostrando grandi doti di saltatore.
Giunto all'altezza del Dio sferra un fendente verso l'alto che apre le difese messe a punto per parare il colpo. Tra le scintille provocate dall'impatto del ferro contro il ferro, il satiro scorge l'addome ora scoperto del Dio e lo trafigge rivoltando l'arma e usando la parte del tridente.
Le punte penetrano a fondo nella carne divina, non tramutata in acciaio. Allora il satiro sbatte le possenti ali con forza, spingendo entrambi verso la parete rocciosa alle spalle del Dio.
«E così il nostro intruso non è null'altri che il Dio della Guerra, Ares! Beh, che delusione, mi aspettavo un combattimento molto migliore» ghigna il satiro ad un palmo di naso dalla faccia dell'Enialo, che, di tutta risposta, accenna un sorrisetto.
In quel momento, infatti, fonde le membra nel punto in cui erano state ferite dal tridente, diventando con questo una sola cosa.
Il satiro, spiazzato, cerca di ritirare l'arma, ma non ci riesce, e Ares lo spazza via con un pugno d'acciaio in piena faccia.
Poco dopo lo raggiunge con un balzo e, dopo essersi liberato dell'ingombro che si dipartiva dalla sua pancia, lo colpisce prima con un pugno all'addome e poi con un altro dietro la nuca, verso il basso, che gli spezza un corno.
Il satiro sfonda in picchiata il ponte, ma poi riesce a ristabilizzarsi con le grandi ali, Ares invece è in caduta libera proprio verso di lui; gli piomba quindi addosso, trascinandoselo nella caduta, afferrandolo in volo per la gola e, sollevando l'altro braccio trasformato in lama a minacciare la vita del nemico.
«Dimmi dove si trovano i figli di Echidna!» urla Ares, per assicurarsi che le parole non vadano perse nel vento.
«Mai!» risponde il satiro e afferra la spada di Damocle che pende sopra di lui, ma Ares crea uno spuntone dal suo braccio che trafigge proprio la mano trapassandola nel mezzo del palmo.
«Potresti morire con le mie fredde lame che trapassano il tuo corpo o tra i bollori della lava che stiamo per raggiungere - dice Ares - oppure potresti dirmi come trovare questi mostri e poi ti lascerei svolazzare via libero con le tue belle aluccie...»
Solo Ares vede quale sarà il capolinea della loro corsa, poiché il satiro dà le spalle al suolo. Nel frattempo la loro velocità ha raggiunto il limite e, per quanto si sforzino le ali del generale, non possono reggere quel peso né frenare quella corsa; ciononostante c'è stato non solo il tempo di scambiarsi queste parole, ma prima e dopo di queste, anche per tacere.
Molto infatti riflette il satiro e alla fine:
«Va bene, ti dirò dove trovarli! Si trovano sulle isole dei Lussuriosi, dei Superbi, degli Omicidi e degli Ingannatori. Da qui riesco a vedere solo quella dei Lussuriosi - dice voltando lo sguardo verso le isole alla sua destra - ed è quella lì»
Ares, allora, stacca l'imbracatura che teneva le ali unite alla schiena del satiro e la indossa.
«Avevi detto che mi avresti risparmiato!» lamenta il satiro disperato.
«Sono un Dio! Come puoi ancora credermi!?» gli risponde Ares, scoppiando poco dopo in una risata.
Subito dopo abbandona il corpo in caduta libera del generale librandosi con quelle ali dopo essere ritornato in carne ed ossa, onde diminuire il peso.
Comunque il generale ne ha fino a finire il fiato prima di raggiungere finalmente la sua fine tra i fiotti incandescenti del magma, mentre Ares prende a dirigersi verso l'isola che gli ha indicato.



Il Cantuccio: mi scuso per l'aggiornamento tardivo ma mi era morto internet... e giacchè ci sono mi scuso anche per questo orribile capitolo :(
Per Licht: avrei aggiornato il giorno stesso in cui sono tornato, ma poi internet è morto di nuovo XD

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Capitolo 22
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 13: Prendere provvedimenti ***


Capitolo 21 - Prendere provvedimenti Briareo, ultimo della stirpe degli Ecatonchiri, fiero ancora si agita e muove l'aria pesante dell'Ade con la sua voce possente: maledice gli Dei e quelle catene che ora umiliano il Re dei Giganti, costringendolo al ruolo di fondamenta per il castello di Ade stesso. C'è chi lo chiamerebbe un grande onore concesso al Re caduto, ma lui l'ha sempre visto come un'ulteriore beffa, un modo per insinuare che la stirpe dei Giganti è ormai completamente soggiogata e raffigurare come su di essa gli Olimpici abbiano edificato il loro regno.
Secoli e secoli di supplizio non hanno irretito il suo orgoglio, forse il più grande che abbia ingombrato questo mondo, simile a quello di Ares, ma amplificato e proporzionato alle dimensioni gigantesche del suo possessore; le catene non hanno fiaccato le sue ossa e i suoi muscoli, che ora danno del filo da torcere a colui che siede sul triste trono, scuotendo come può le innumerevoli isole che sostiene, una per ogni mano (cosa che sarebbe impossibile ad ogni "comune" Gigante), oltre le quattro che gli servono per reggere l'enorme mole del Palazzo.
Questo, se non bastasse il pilastro che lo innalza sopra le lande infernali a spaventare chi vi si trovasse a passare nelle vicinanze, ha l'aspetto più cupo e terrificante che mai edificio costruito da mani mortali o immortali abbia potuto assumere.
Non stupisce quindi che anche gli stessi satiri temano quel posto e odino dovervisi recare per dare qualche comunicazione o ricevere qualche ordine.

E quand'anche riesce a passare inosservato all'Ecatonchiro, troppo occupato a sbraitare ed agitarsi sotto di lui, quel piccolo satiro tremante che sta volando a fatica verso il Palazzo di Ade non manca di attirare l'attenzione del Palazzo stesso: subito, facendo il loro dovere, tutti i mostri di pietra che popolano la facciata dell'edificio prendono vita e all'unisono puntano il loro orribile sguardo verso quello che avvertono come un intruso.
Occhi iniettati di sangue e odio lo seguono verso la bocca di quell'inferno nell'inferno: la facciata del Palazzo è identica a quella di un tempio, solo molto più spropositatamente esagerata, tanto che in altezza, se sorgesse dal suolo, raggiungerebbe il ginocchio del Gigante che la sottende, e ciò, detto così, potrebbe non sembrare gran cosa, ma se si ricorda che Ares sembrava alto quanto un'unghia a confronto del gigante Encelado e si prova a confrontare un'unghia con uno stinco si può lontanamente intuire le sublimi altezze raggiunte dal Palazzo.
Ma non sono le dimensioni la cosa più inquietante, come si è visto: le colonne sono formate da mostri di ogni tipo e dimensione che si accumulano, accavallano e susseguono fino al soffitto; Ciclopi enormi, Draghi che si avviluppano intorno a questi, Grifoni alati, insetti e ogni altra belva e orrore che abita i più spaventosi incubi di tutti quelli che possono essere accolti nel regno di Morfeo.
L'enorme frontone, che è fatica di tutte le figure in pietra sopra elencate, è classicamente sviluppato a triangolo, la forma perfetta, e ospita le solite scene sacre, che qui corrispondono alle vicende con protagonisti i Tre Fratelli che hanno portato alla spartizione del Mondo e quindi alla fondazione del Regno Infero. Ma anche le figure protagoniste di questi rilievi hanno ora vita e dall'alto gli occhi iracondi di Zeus, Poseidone e Ade stesso fulminano l'ospite, e a intervallare le figure in rilievo, a colmare quelli che dovrebbero essere spazi vuoti, ci sono una miriade di teschi di dimensione umana, sempre scolpiti nella roccia, e il malcapitato messaggero potrebbe giurare che anche i loro occhi inesistenti lo stiano fissando.

La guardia infernale atterra poco dopo la prima fila di colonne, le cui membra mostruose si rivoltano tutte verso di lui come un girasole che segua il carro solare nel suo declivio verso il riposo crepuscolare.
Il satiro, zoppicando per via delle ferite che gli butterano tutto il corpo, si fa forza e si costringe a non guardare mentre avanza lentamente.
Dopo pochi rintocchi asimmetrici dei suoi zoccoli sul duro pavimento del Palazzo, ad un tratto l'oscurità lo avvolge completamente, sia che guardi avanti che dietro, nonostante le colonne, date le dimensioni dell'edificio, siano molto distanti tra loro e non possano creare tutta quell'ombra.
Il non poter vedere quei mostri, ora, è tutt'altro che un sollievo, poiché sa che sono comunque a breve distanza da lui e il puntello dei loro sguardi ora si conficca più affondo nelle sue carni impreparate.
Insieme all'oscurità è calato anche il silenzio: non si odono più le urla dell'Ecatonchiro, né sembra che questo, sotto di lui, si stia agitando, data l'immobilità del pavimento; non si sentono più neanche lo sfrigolare della lava molto più in basso né le urla dei dannati disseminati nell'Ade... solo i sibili di quelle bestie, il loro ringhio minaccioso e il rumore che fanno mentre seguono l'incedere del satiro coi loro corpi.
Finalmente un barlume, una piccola face, si accende lontano senza preavviso, facendo sussultare il visitatore, e lentamente gli si avvicina fluttuando nell'aria che, al suo passaggio, si colora del suo blu pallido, come se la fiamma fosse fredda.
Raggiuntolo, lo accompagna nel suo percorso mentre la guardia la osserva spaventata, ma senza rallentare il passo. Molte altre, in seguito, si accendono e si uniscono a quella strana carovana, tant'è che alla fine le loro luci unite riescono a illuminare un buon numero di colonne e mostri tutt'intorno.
Distratto da quell'inquietante spettacolo blu-argento sopra la sua testa, il satiro sbatte contro qualcosa che poi trova essere un'enorme catena, dalle dimensioni tali da raggiungere e superare le sue corna. Seguendola giunge infine ad uno spiazzo dove le colonne lasciano il posto ad una lunga tavolata su cui però non vi è alcuna pietanza.

Ora il corteo di fiammelle abbandona il satiro e si dispone a cerchio molto al di sopra della tavola, illuminando tutta l'area: all'estremità più vicina all'ospite, in corrispondenza dell'unico piatto "pieno", sebbene contenga un'unica melagrana mezza consumata, v'è una sedia dorata (mentre tutte le altre, come qualsiasi altra cosa lì, sono di pietra) dallo schienale alto, dalla cui sommità si stende un velo che nasconde il suo occupante. La luce riflessa da questa risplende stranamente calda, risultando immediatamente un pugno nell'occhio, unica stella in un cielo morto e scuro.

Unico altro "commensale" a quel lugubre tavolo siede invece a metà di questo, ancorato ad una sedia "normale", se normale può definirsi un'enorme mano scheletrica in pietra che spunta dal pavimento. Di costui si può chiaramente vedere il volto e il corpo, ma giace inerme con la testa penzolante da un lato, dando l'idea più di uno che dorma che di un morto.
Infine, non all'altro capo del tavolo, ma dietro di questo, si erge alto un trono composito dei peggiori mostri di pietra che l'Erebo abbia mai sputato fuori, e sopra di esso Ade in persona, in tutta la sua enorme mole, più simile a quella di un Ciclope che a quella di un Dio.

Egli sta con il capo chino sul petto mentre il suo volto è completamente oscurata dai suoi lunghi capelli neri e la barba, nera anch'essa, ricopre le sue vesti divine fino ad arrivare a toccare terra.

Anche lui sembra dormiente, ma il povero satiro è comunque terrorizzato alla vista del suo Re.
Tutte le catene che spuntano da ogni lato dello spiazzo, compresa quella che sta seguendo l'ospite, conducono al seggio dello Zeus Ctonio e vi si avviluppano tutt'intorno alla base. Da quel ammasso confuso spuntano infine quattro estremità che cingono gli arti del Re, questi, pur sembrando in quiete, sostiene la tensione proveniente da ogni singola catena che imprigioni un Gigante.
Alla fine, il satiro è giunto, dolorante, oltre l'ultimo posto a tavola, ai piedi dell'imponente trono.
«Cosa ti porta qui e chi è riuscito a ridurre in queste condizioni una mia guardia?» erompe Ade senza muovere null'altro che le labbra, sotto il nero manto della sua funerea chioma.
«E'-è stato Ares, mio signore... E' per lui c-che sono qui - balbetta l'essere caprino, scosso da tremiti sempre più forti - Ha s-sterminato tre intere legioni delle v-vostre guardie... i-io sono sopravvissuto per miracolo scappando... Sono rimasti vivi solo i satiri che erano in servizio in giro per l'Ade...»
Il Re delle Tenebre sta un attimo in silenzio, senza muovere ancora la testa, come non abbia sentito, o compreso, ma conoscendo la sua natura, probabilmente sta solo riflettendo. Ad un tratto poi il suo capo scatta verso l'alto mostrando gli occhi, due piccole biglie rosso fuoco che risaltano sull'ombra del resto del viso:
«ARES!?!? E agisce per conto di suo padre!?»
Il satiro, sempre più terrorizzato, quasi sbalzato via dall'urlo del suo sovrano:
«N-non lo sappiamo...»
Altra pausa di riflessione del Dio dei Morti.
«Se agisse da solo, quali potrebbero essere le sue intenzioni? Perché profanare l'autorità del Dio Infero? E' possibile che mio fratello non ne sia a conoscenza? E se lo è, perché non mi ha avvertito? ... E se invece agisse realmente su mandato di Zeus? Questo significherebbe guerra! Che mio fratello voglia disonorarmi ancora di più prendendosi la corona di questo già triste mondo?»
Ennesima pausa. Ennesima elucubrazione.
«Cosa sta facendo ora!?» tuona infine.
Il satiro, colto di sorpresa dalla domanda dopo tanto tempo che non veniva interpellato, fa un balzo indietro finendo sullo schienale scheletrico della sedia alle sue spalle.
«L'ultima volta che l'ho visto stava... massacrando i miei compagni... chiedendo a gran voce dove si trovassero i figli di Echidna...»
Pausa.
«Cosa vuole da quei mostri!? ... questo non riesco a spiegarlo...»
Pausa.
Questa volta è il satiro che, timidamente, interrompe il silenzio tombale di Ade.
«S-s-signore... s-se mi permette... credo di aver capite che intende l-liberarli...»
Nessuna pausa questa volta.
«LIBERARLI!?!? Questo scatenerebbe il caos nel mio regno!! Che sia un attacco da parte dell'Olimpo o un'iniziativa privata, tutto questo va impedito! Tu, devi recarti sull'Isola Blindata e liberare il mio agente»
Ancora una volta sorpreso, ma questa volta dalla rapidità e dalla decisione con cui erano stati emanati gli ordini, il satiro ci mette un po' di più a elaborare l'idea:
«... I-i-intendete dire... THANATOS!?»




Il Cantuccio: Scusate il ritardo, ma è festa anche per me :) a proposito, auguri! per qualsiasi cosa

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Capitolo 23
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 14: Sfinge, divoratrice di uomini ***


Capitolo 23 - Sfinge, divoratrice di uomini Giunto sull'isola indicatagli dal Generale dei Satiri Ares atterra con un po' d'impaccio, d'altro canto già non si spiega come faccia a saper usare quelle ali posticce che ha praticamente solo indossato.
L'isola è un'enorme collina interamente ricoperta di rose rosse. Su questo mare cremisi spunta un candido luccichio in cima alla china.
Attrattovi come una falena dalla luce, prima che se ne possa accorgere, Ares vi è condotto dalle sue gambe.
Il luccichio proviene da un ammasso di piume bianche come la neve che riflette diffusa nell'aere maligno. Prima che il Dio possa indagare ancora sulla sua natura, quella candida figura si svolge, sollevandosi da terra: è il mantello piumato di una giovane e bellissima fanciulla.
Questa, con le spalle verso Ares, si è appena rialzata dacché stava raccogliendo i vermigli boccioli, e con un gesto sensuale li annusa da sotto il suo abbagliante ammanto.
«Ti piace il profumo delle mie rose bianche?» chiede con voce sottile e delicata, prima che il visitatore possa proferire parola.
«Ma... sono rosse» risponde egli, prima di pensare che non è la cosa più importante al momento.
«Perché le guardi attraverso gli occhi del desiderio... Lussuria... - respira profondamente di quel profumo che pare inebriarla - Sapevo che non era possibile che mia madre fosse scesa fin qui... tuttavia il mio olfatto non mente mai: tu... hai il suo profumo addosso... mischiato a pura fragranza di virilità...»
Si volta di scatto. Ora il suo viso appare al Dio nella sua intera bellezza, come un'alba che rischiari infinite lande da tempo ottenebrate. Quella bellezza cancella ogni altra immagine di donna mortale o divina, persino quella della Pizia e di Venere, ma non le batte al loro gioco: non è semplice bellezza, di quella che viene immortalata dall'arte e celebrata nei canti, non è quella che gli uomini cercano con tanto affanno, anzi, è quel tipo di bellezza che spaventa e attrae insieme.
Questo duplice anelito non è causato da ragione logica alcuna, giacché, da un punto di vista meramente estetico, oggettivo, quel viso è sì bellissimo, ma formalmente non ha gioco contro quello delle sopra citate. Quegli occhi, invece, profondi, rossi quanto quelle rose bianche... ecco! Echidna! E' lei che si nasconde dietro quegli occhi! Li ricorda bene, ed è lo stesso sensuale mistero che avvolge entrambe le figure, ma più forte e totalizzante nella figlia.
«Tu devi essere la figlia di Echidna, giusto?» cerca di ricomporsi l'Enialo.
«Indovinato, ma chiamami Sfinge. Le... assomiglio?» chiede sollevando gli occhi dal mazzo di fiori in cui ha immerso il viso, mescolandovi gli iridi fiammeggianti, che dal resto dei boccioli si distinguono solo per il baratro verticale che ha per pupille, che taglia in due i suoi occhi e ora cerca di ingoiare quelli del Dio verso cui punta.
Completamente incantato da questi, a stento l'Olimpico si accorge che ella gli si sta avvicinando con passo soave, elegante e seducente.
«Beh, in un certo senso...»
Quella emette uno strano, perverso gemito di gradimento, mordendosi le labbra e aspirandovi dell'aria attraverso.
Il Dio Empio ripensa all'epopea vissuta in poche ore dacché si è "congedato" dalla Strega Serpente: lo scontro con le Arpie e Cerbero, la lotta sullo Stige (e dentro lo Stige), i voli di andata e ritorno dalle stanze dei satiri e il massacro che vi è in mezzo, le varie trasformazioni... Com'è possibile che riesca ancora a percepire il suo odore?
«Sento le imprese che hai compiuto, ma sotto quegli strati avverto ancora l'odore della pelle squamosa di mia madre...» sussurra come per rispondere ai pensieri di Ares.
Ormai gli è addosso e il fiato che abbandona, gentile, quelle labbra rosse come gli occhi e le rose solletica il collo del Dio.
«C'è solo un modo per fissare così bene un odore su qualcuno, che la sua carne sappia di carne o di ferro... - continua - sesso... l'unione di due anime arriva dove nè fuoco, nè acqua, nè vento nè sangue possono mai arrivare... e una volta giunta vi esplode come un fiore che dissemini il suo polline dopo una brezza primaverile...» mentre pronuncia queste parole molto lentamente, con lo stesso ritmo avvicina la bocca a quella del suo interlocutore, risalendo, quasi sfiorando, il suo collo, finchè alla fine della frase le labbra dei due si incontrano.
Stranamente trasportato dall'emozione, Ares abbassa ogni guardia e il suo cervello viene sgomberato da ogni proposito bellico. Questo potrebbe bastare a dare l'idea del potere di quel bacio: far dimenticare la guerra al Dio della Guerra... ma il vuoto che crea viene riempito da altri pensieri, altre immagini, odori, sapori. Ma condividerli con altri sarebbe un insulto al suo orgoglio, che forse mai si riprenderà dalla mossa con cui ora quella lo disarma.
Dopo un tempo indefinito, però, qualcosa interrompe quell'idillio, un tocco, a livello dello stinco sinistro del Dio gli fa aprire gli occhi e abbassare lo sguardo: una coda da leonessa avvinghiata sotto il suo ginocchio. Risvegliato da quell'incantesimo Ares nota ora anche il paio di zampe leonine che spuntano da sotto il "mantello" e gli trafiggono la cerne con i loro artigli all'altezza del petto.
Sorpreso, il Dio interrompe il contatto e arretra.
«Come ho potuto dimenticare che sei un mostro!?» prorompe egli.
«Questo non sembra averti fermato con mia madre... Forse non sono bella quanto lei?» chiede con voce ammaliatrice mentre apre il mantello rivelando che sono in realtà due enormi ali piumate, che come un sipario si aprono sul suo corpo leonino ma dalle forme femminili.
«Non c'è tempo!» risponde scuotendo la testa a scacciare quei pensieri, e a ritrovare quelli soliti.
«Perché questa fretta?» chiede il mostro, sconsolata.
«Io e tua madre abbiamo stabilito un'alleanza per attaccare l'Olimpo e spodestare Zeus...»
«Interessante - commenta quella ricominciando ad avvicinarsi con passo felino - mi piacciono gli uomini intraprendenti... e quindi sei qui per chiedere il mio aiuto... e immagino anche quello dei miei fratelli... e vuoi che io ti conduca da loro, vero?»
«Perspicace...»
«Beh... confesso che questo posto è una tortura anche per me... Sai, io ho un problema: ho un enorme... "appetito"... e non faccio che tentare di saziarlo tutto il giorno con questi dannati... Anche loro avevano il mio problema, anche se a mio confronto erano dei santi... Il mio appetito è molto più profondo, più forte, più insaziabile! E loro... hanno dei corpi finti, freddi, insapori... E ciò offende il mio appetito, ché più provo a soddisfarlo più cresce e mi divora! Così, presa dalla foga e dalla rabbia dell'insoddisfazione, dilanio questi corpi ignobili e getto via le loro carni a concimare le mie rose bianche... Ho portato io le prime due rose: ho popolato questa collina in origine deserta... almeno loro si sono divertite... Se non mi sazierò a breve, potrei impazzire del tutto!»
Dopo aver dato un'occhiata intorno ed essersi accorto che non c'è traccia di dannato, Ares replica:
«E vieni con me, allora! Ti prometto che avrai corpi caldi e bellissimi, e spiriti forti e volenterosi che li animano, i migliori di tutta l'Ellade. E se non ti basteranno o se sarai stufa di veder morire il tuo amante sotto i colpi della tua libido, posso procurarti anche della carne immortale...»
«In effetti io mi accontenterei anche solo di te... ma dato che fai il prezioso non mi resta che accettare» detto questo, lancia, con fare provocatorio, le rose addosso ad Ares, che gli sporcano il volto del loro colore.
Subito dopo la leonessa si volta, accarezza con la coda il corpo del Dio per tutta la sua lunghezza dal basso verso l'alto e spalanca le grandi ali sollevando una lieve brezza.
«Seguimi» ammicca.
Poi sbatte le piume perlacee sollevando un vento poderoso, e un accecante bianco le esplode sotto i piedi appena essi abbandonano il terreno, quando l'aria spostata dalle sue ali rivela il vero colore dei fiori sotto lo strato di sangue rosso.Ares non se lo fa ripetere due volte, e con molta meno grazia e teatralità, ricorre nuovamente alle ali posticce per sollevarsi da terra e mettersi a convoglio della Sfinge.



Il Cantuccio: scusate le luci "quasi rosa porcellino" (cit. Marge Simpson), ma ci stavano sull'Isola dei Lussuriosi (ebbene sì, non l'avevate capito che era l'isola dei lussuriosi? :D)
Comunque, ecco il nostro primo figlio di Echidna, che ne pensate? L'associazione Sfinge-lussuria non me la sono inventata io, ho studiato: sebbene tutti la associno agli indovinelli (e quindi magari potrebbe sembrare più appropriata a presidio di una Isola degli Ingannatori [spoiler]) avevo letto da qualche parte che rappresenta l'istinto sessuale perverso, dato poi che la sua apparizione più famosa nel mito greco si trova nella storia di Edipo, basata sull'incesto... Giuro che l'avevo trovato da qualche parte anche se adesso non ci riesco più XD volevo aggiungere le altre argomentazioni che avevo trovato ma, appunto, non le trovo più XD

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Capitolo 24
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 15: La fierezza del Leone ***


Capitolo 23 - La fierezza del Leone «Allora... Dove stiamo andando?» chiede Ares, dopo un po' che segue Sfinge attraverso l'aria dell'Ade.
«Da mio fratello il Leone di Nemea... con lui sarà un po' più difficile che con me»
«E perché?»
«Innanzitutto perché per il suo orgoglio, aiutare un olimpico sarà molto dura... ma alla fine accetterà; basterà che tu gli dica quanta gloria otterrà da questa guerra... Poi ci sono i centauri...»
«I centauri?»
«Già... Non li hai incontrati sulla mia isola perché, a quanto pare, non sono pericolosa quanto i miei altri fratelli»
«Non direi... la seduzione è un arma al pari della spada, e contro alcuni nemici è anche più efficace... come contro di me...» la Sfinge si volta per lanciargli un occhiatina maliziosa.
«Ma il Leone di Nemea non ha spade, bensì denti e artigli molto affilati, e soprattutto una pelle invulnerabile a qualsiasi arma da taglio...»
«Mh, interessante... sarebbe un eccezionale rivale...»
«E' la stessa identica cosa che penserà di te... probabilmente i vostri ego rivaleggiano in quanto a enormità... »
Ares pensa allora che dopo essere stato umiliato dalla Sfinge, il suo orgoglio merita di essere rimpolpato con una bella sfida impossibile come questa, proprio come aveva fatto l'uccidere l'immortale Caronte, dopo che Minosse l'aveva affossato con quel suo occhio scrutatore.
«Ecco, è questa» dice Sfinge dopo aver annusato un'ultima volta l'aria.
L'isola sotto di loro si contraddistingue dalle limitrofe, prima ancora che per l'aspetto, per le poderose esplosioni che vi rimbombano: ruggiti.
Al centro di questa c'è un enorme arena che ne occupa quasi tutta la superficie, simile a quella per le tauromachie a Creta, ma poco conosciuta dai greci: circondata per intero da delle tribune in pietra completamente vuote, come se due teatri fossero stati uniti per racchiudere al loro interno il palco, eppure non c'è nessun palco, bensì una grande distesa di sabbia.
In mezzo a questa troneggia un enorme leone, che, nella sua naturale posizione a quattro zampe, raggiunge con gli occhi la sommità della testa di Ares; intorno a lui una miriade di uomini, armati di spada ma nudi, gli danno battaglia.
Il Leone però non sembra in difficoltà, anzi orgogliosamente spazza via orde di dannati con un ruggito, ne affetta altre con una sfuriata di artigli e completa l'opera sbranando e mordendo.
Ares e il suo cicerone alato atterrano a pochi piedi da lui.
Dopo aver sputato via una carcassa maciullata, l'attenzione del Leone viene rapita dagli ultimi arrivati.
A parte le dimensioni e le due zanne che gli spuntano dai lati della bocca, ha lo stesso sembiante di un comune leone, ma la maestosità e la fierezza che gli smuovono la criniera e gli brillano negli occhi felini non hanno eguali sulla Terra.
«Sorella... qual buon vento?» inizia quello, parlando inaspettatamente.
«Sono qui per chiedere il tuo aiuto...»
«Lui chi è?» la interrompe, facendo cenno al Dio.
«Beh, lui è... Ares, Dio della Guerra...»
«E futuro Re degli Dei» precisa l'Enialo.
Il Leone sembra indispettito dalla risposta, serra le fauci e inizia a ringhiare avvicinandosi ai due.
«E perché mai avresti portato un Olimpico nel luogo del mio supplizio?»
«Il tuo supplizio?» lo interrompe questa volta Ares.
Il Leone è ormai in faccia all'Olimpico.
«Pensi che io mi diverta!? Guardali!» urla spostando l'aria.
Ares allora rivolge lo sguardo ai dannati: stranamente, praticamente tutti si muovono ancora anche se gravemente mutilati.
«Non riconosci nessuno nelle loro facce maledette e tutte uguali!?»
Sebbene quei volti, anche se contratti e deformati dal dolore, non sembrano avere particolari peculiarità, non sono tutti uguali, nè tantomeno il Dio vi riconosce qualche faccia conosciuta.
Stufo di non vedere quello che vedono gli altri, sbotta:
«Non capisco di cosa tu stia parlando...»
«ERACLE! - urla sollevando un polverone e smuovendo il suo interlocutore - Hanno dato loro la sua faccia per tormentarmi in eterno! Non posso ucciderli perché il supplizio non è la morte nè il dolore fisico, ma quello interiore che ferisce i loro orgogli, che in vita furono così smisurati da assicurare loro un posto quaggiù. E anche se li uccidessi i loro corpi verrebbero rimpiazzati con altri, sempre copie dell'unico uomo che riuscì a sconfiggermi... e io non posso tollerare di trascorrere l'eternità senza riscattare quell'oltraggio!»
Prima che possa aggiungere altro. Delle urla giungono dall'entrate dell'arena alla base delle tribune: da quei bui corridoi spuntano i centauri.
Enormi creature, il cui torso umano spunta dal corpo equino elevandosi sopra il Leone e Ares; il loro volto corrucciato in un'espressione terribile fulmina i due e la Sfinge al centro dell'arena, mentre galoppano a tutta velocità, facendo sobbalzare ritmicamente le loro lunghe criniere nere. Al frastuono dello loro urla agghiaccianti e della loro cavalcata impetuosa, si aggiunge anche il severo schiocco delle fruste che fanno roteare in aria, fendendola con sibili taglienti e veloci.
Il mostro e il Dio, allora, mettono da parte la loro chiacchierata e si posizionano a triangolo, proteggendosi le spalle a vicenda insieme con la Sfinge.
Un ruggito del Leone apre le ostilità, spazzando via due centauri, nonostante la loro mole considerevole; subito dopo Ares, avendo trasformato le sue braccia nelle solite lame, si getta contro un centauro schivando un colpo di frusta, sferra un fendente ad una delle zampe anteriori forzandogli un inchino e poi gli sale in groppa; raggiunta la schiena umana del mostro, prima gli ci infila un braccio fino al gomito, facendolo spuntare in mezzo all'addome, e poi usa l'altro per tranciargli di netto la testa.
Il sangue del centauro imbratta tutto il corpo del Dio e forma grandi pozzanghere sulla sabbia altrimenti arida, ma Ares non se ne cura poiché la sua attenzione, ora come per tutta la durata della precedente azione, è stata tutta canalizzata dal Leone.
Costui, d'altro canto, ha ricambiato e sostenuto l'incrocio di sguardi a mo' di sfida, mentre sbranava e squarciava i due centauri.
«Solo uno, eh? Per essere il Dio della Guerra sei lento...» commenta pungente il Leone.
«Mi stavo solo riscaldando...»

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Capitolo 25
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 16: Questione d'Orgoglio ***


Capitolo 25 - Questione d'Orgoglio Alla fine il polverone sollevato nella foga della battaglia si posa.
Si ergono su quella distesa di corpi sfregiati solo Ares e il Leone, che si fissano nascondendo un accenno di fiatone con un sorrisetto compiaciuto.
«Quanti ne hai contati, Olimpico?» chiede il Leone con un cenno della testa.
«Ventisette...» aspetta la replica dell'avversario.
«Anch'io...»
I due si squadrano un po' delusi, ma senza mai abbandonare il sorrisetto beffardo.
«Allora c'è solo un modo per chiudere questa faccenda...» comincia Ares.
«Mi hai letto nella mente...»
I due non si muovono, pietrificati l'uno dallo sguardo dell'altro.
Poi sopraggiunge Sfinge svolazzando, sbucata da uno di quei corridoi; si lecca via del sangue dalle labbra per poi leccarsi anche la zampa destra e passarsela sulla chioma tutta scapigliata per ricomporla.
«Ehi voi, maschioni, cosa combinate?»
«Non sono cose che ti riguardano» taglia brutalmente corto il Leone, sempre con gli occhi fissi.
«Fratello! - esclama quella indispettita - dopo tutto questo tempo che non ci vediamo mi tratti così? Non vuoi darmi nemmeno un bacio?»
«Non dire sciocchezze, sorella... Non so cosa stessi facendo tu, ma qui noi abbiamo appena vinto una battaglia»
«Anch'io ho avuto il mio bel da fare, lì dietro...»
«Beh non mi interessa. Dobbiamo... verificare una cosa»
Ares fa un cenno di approvazione quando la Sfinge gli rivolge uno sguardo.
«Voi uomini e i vostri stupidi complessi... Fate come volete, ma, Ares, non abbiamo tutta l'eternità, presto Ade chiamerà i rinforzi...»
«Non ci vorrà molto» la liquida quello.
L'Olimpico ricorre nuovamente alla sua forma più divina, ma poi cala nuovamente il silenzio.... finché il Leone parte con un balzo fulmineo, coprendo in un istante la distanza non trascurabile che divideva i due.
Ares è pronto e, infilando l'affilato braccio sinistro tra le fauci dell'avversario, ne blocca il morso; subito col destro prova un affondo nel costato scoperto e il colpo va precisamente a segno... ma la pelle del Leone non ne viene minimamente scalfita!
Esterrefatto, si convince che quanto raccontatogli ha un fondo di verità e rimane attonito a fissare l'enorme bocca leonina che lo minaccia a un palmo dal suo naso.
Ficcando lo sguardo nella sua nera gola riesce quasi a scorgere il ruggito che ne erutta poco dopo mentre la risale, fragoroso e potente, che lo spazza via di un centinaio di piedi.
Rimettendosi in piedi con la consueta rapidità, il Dio della Guerra non fa in tempo a sollevare lo sguardo verso l'avversario che questo gli è già addosso e lo atterra con tutto il suo peso.
Tenendolo schiacciato a terra, sfodera una violenta zampata sul volto con gli orribili artigli che emettono scintille al contatto... eppure nemmeno quest'attacco provoca i danni auspicati, scalfendo a malapena il metallo divino.
Ares allora indirizza uno sguardo tronfio al nemico e poi surriscalda il corpo, costringendolo a balzare via onde evitare gravi ustioni.
L'Enialo si rimette in piedi, nuovamente faccia a faccia col Leone.
«E così la tua pelle non è resistente al calore...» commenta l'Olimpico.
«E così le tue difese vengono infrante dal mio ruggito...» replica il figlio di Echidna.
 
«Allora! Volete finirla! Abbiamo una guerra che ci attende!» sbraita Sfinge per l'ennesima volta.
Ares e il Leone, dopo qualche altro minuto di battaglia senza esclusione di colpi, si ritrovano nuovamente uno davanti all'altro, entrambi provati, ma nessuno vincitore.
Ad un tratto
«Ha ragione - fa Ares abbassando la guardia - Dichiariamola patta e andiamo a conquistare l'Olimpo»
«Giusto, se le nostre forze così grandi in battaglia si equivalgono, chissà cosa potrebbero fare unite»
I due si fissano ancora qualche istante
"Pareggio... ah, ci ha creduto! Era ovvio che con un altro po' di tempo le mie fiamme l'avrebbero arso vivo e sarei stato io il vincitore!" pensa il Dio, nascondendo un ghigno.
"E' normale che mi abbia chiesto di dichiarare il pareggio: sa che non avrebbe speranze contro il mio ruggito! A lungo andare l'avrebbe smembrato!" pensa il Leone, anche lui trattenendo il labbro beffardo.
"Ma ora ci sono cose più importanti a cui pensare... c'è un regno da rovesciare!" pensano i due all'unisono.



Il Cantuccio:  scusate se non sono stato celere ad aggiornare, ma varie vicissitudini scolastiche, l'inizio di una nuova long (una vera fanfiction 'stavolta! :D la trovate nella sezione dedicata ai pokemon) e varie one-shot mi hanno "trattenuto" (anche se le one-shot non andrebbero contate, dato che sono scritte sul momento ma sarete clementi)

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Capitolo 26
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 17: La Speranza degl'Ingannatori ***


Capitolo 26 - La Scelta degl'Ingannatori Corrono entrambi, nudi come vermi, luridi, sudati, col fiato pesante e le gambe dolenti.
Quel corpo maledetto è così dannatamente realistico; ad ogni passo forzato il colpo del freddo pavimento di pietra si ripercuote sulla gamba e risale la coscia tremante fin sulla schiena.
E ogni colpo affossa sempre di più le loro già misere forze.
Non sanno da cosa stanno scappando, dove siano, o perché vi si trovino né si preoccupano l'uno dell'altro: l'impeto della fuga oscura completamente le loro menti.
Alla fine giungono in una stanza di pietra, identica ai corridoi austeri da cui stavano scappando.
Lì, illuminato dalla debole luce di due torce appese a due pareti prospicienti, troneggia un centauro, la cui testa arriva a sfiorare il soffitto che per i due dannati invece è irraggiungibile.
La creatura mezza uomo mezza cavallo è corazzata di tutto punto e armata di frusta, i suoi occhi imperscrutabili puntano i due appena sopraggiunti.
Questi non fanno nemmeno in tempo a urlare che il centauro comincia:
«Ben trovati, dannati. Vi trovate nell'Inferno dei Subdoli e degli Ingannatori perché questo siete stati in vita. Ma a voi è concesso qualcosa di estremamente eccezionale, che a nessun'altra categoria di suppliziati è concessa nell'Ade: una possibilità.
Infatti, dietro una di queste porte alle mie spalle c'è la libertà, una via di fuga dal Reame dei Morti... ma dietro l'altra si nasconde una bestia feroce che vi ingoierà in un sol boccone.
A voi la scelta: quale porta scegliete?»
Detto questo, il mostro fa qualche passo indietro svelando le suddette porte.
I due voltano lo sguardo l'uno verso l'altro: nessuno vuole scegliere per primo.
Alla fine tirano a sorte e quello meno furbo a imbrogliare vince lasciando l'altro costretto a scegliere il suo destino per primo.
Avvicinatosi tremante al centro della stanza, se ne rimane lì fermo, a far correre velocemente lo sguardo da un legno all'altro, sembrandogli entrambi poco rassicuranti.
Dopo qualche istante il centauro fa schioccare violentemente la frusta e, sussultando, il dannato allunga un braccio verso la porta alla sua destra.
Velocemente, il centauro afferra la maniglia di questa con la frusta e la apre di scatto, svelando una testa di rettile grande tanto da passare dalla porta solo per miracolo. In un batter d'occhio le fauci mostruose hanno fatto scomparire il dannato e si può facilmente seguire il percorso di questo lungo l'enorme esofago del serpente. Non sazio, poi, questo si scaglia contro l'altro suppliziando, ma viene impedito da delle catene che si stringono dietro la sua testa partendo dal corridoio oltre la porta aperta.
Il sopravvissuto cade a terra dalla paura, strisciando indietro e urlando, finché il centauro riesce a rimettere a posto il mostro con qualche colpo di frusta.
Chiusa la porta
«E' il tuo turno» fa il centauro.
Contento di averla fatta franca, il sopravvissuto si avvia piangendo dalla gioia verso la neo-conquistata libertà, quando dalla porta restante spunta un'altra testa uguale alla precedente che lo ingoia allo stesso modo.





Il Cantuccio: la Kobayashi Maru dell'Ade XD Scusate se ogni tanto cambio soggetto, ma lo faccio per alleggerire e spezzare la monotonia... dietemi se gradite

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Capitolo 27
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 18: La Liberazione dell'Idra ***


Capitolo 27 - La Liberazione dell'Idra Quando anche l'altra testa si è da poco rintanata dietro la sua porta e il centauro si prepara ad accogliere la successiva tornata di dannati, qualcosa si schianta davanti a lui, un frastuono indicibile, il soffitto sfondato.
Il fascio di luce creato dal buco nella roccia sovrastante illumina perfettamente la figura che si sta rialzando davanti al guardiano infernale, tra i detriti della pavimentazione che una volta si trovava proprio dove ora stavano i suoi piedi.
«Chi sei!?» chiese sorpreso l'equino.
«Ares, Dio della Guerra» gli risponde, e poi, senza troppi preamboli, spicca un salto e conficca il suo braccio destro appositamente affilato dritto nello sterno del mostro.
Abbattuto questo, sfonda la porta più vicina. Subito la testa dell'Idra vi sbuca cercando di ingoiarlo in un sol boccone, ma Ares è pronto all'evenienza e blocca le gigantesche fauci, che comunque lo spingono per tutta la stanza come se non opponesse resistenza.
«Calma, bestione! Sono dalla tua parte!» detto questo, sferra un colpo alla catena, rompendola.
La testa allora lascia perdere il Dio e inizia a muoversi con fare liberatorio per il ristretto spazio della stanza. L'Enialo poi ripete sbrigativamente la procedura con l'altra testa.
«Perfetto... se Sfinge e Leone non hanno avuto problemi, queste dovrebbero essere le ultime... ora come facciamo a tirarti fuori di qui?» pensa poi ad alta voce.
Gli vengono poi in mente le storie sull'Idra e la sua lotta contro Eracle: se non ricorda male una volta decapitate le teste non solo ricrescono, ma si duplicano!
Intuisce subito che questa cosa può tornare a suo vantaggio:
«Mi dispiace, mostro, è per il tuo bene... forse»
Ficca poi violentemente il braccio affilato nel collo del serpente subito dietro la testa e con un movimento discendente ne divide metà, per poi tagliare anche la metà superiore della sezione di collo in un secondo momento.
Le urla di quella e dell'altra testa riempiono la piccola stanza ed eruttano dal buco nel soffitto, dal quale poco dopo spuntano i due fratelli.
«Cosa sta succedendo, Ares!?» chiede la Sfinge.
«Olimpico!!» urla con tutta la sua forza il Leone.
Prima però che il Dio possa giustificarsi, il troncone inizia a dividersi longitudinalmente e poi due altre teste, delle stesse dimensioni di quella precedente spuntano dal moncherino grondante sangue, mentre premendo sulle mura del buco da cui spuntano sembrano smuovere l'intera isola.
«Allora funz-» una testa lo azzanna.
«Stupido mostriciattolo! Non l'hai capito, eh?»
E seguita ad infilzarla un'altra volta.
«Smettila! Dannato mangia-ambrosia!» lo minaccia di nuovo il Leone.
Il veleno mortale dell'Idra scorre lungo il metallo divino di Ares, come un verme parassita che cerchi un buco buono per entrare nella carne di un uomo e consumarla da dentro, ma per fortuna non ne trova.
«Fate come faccio io! Così la potremo liberare!» un altro affondo e di nuovo la testa viene mozzata, e di nuovo due ne ri-spuntano, smuovendo ancora di più l'isola.
«Fate lo stesso con le altre!»
I figli di Echidna allora si disperdono e altri smottamenti dell'enorme massa rocciosa, scricchiolii e piccoli franamenti si avvertono in tutta l'isola per i diversi minuti che ne seguirono.
Gradualmente, crepe si aprono lungo tutto l'edificio e il cupo rumore della roccia che si spacca si fa più violento.
«Tutti fuori!» urla infine il Dio.
Più che un crollo sembra un esplosione: teste del mostro spuntano di qua e di la scagliando via macerie come fossero briciole ed emergendo a malapena dalla coltre di polvere sollevata.
Ormai libera da ogni impedimento, le teste dell'Idra, rimpolpate in numero, lanciano all'unisono un urlo liberatorio mentre esplorano i nuovi spazi dove prima si trovava la loro prigione.
Alla base dell'Isola, una volta sgombrata dalle enormi macerie (che sono cadute già dal dorso del gigante sollevando alte onde nel magma ma che al suddetto gigante a malapena sono arrivate a sfiorare le cosce), si rivela esserci un enorme lago dal quale spuntano tutte le teste.
«Cavolo! Nessuno mi aveva detto che sarebbe stato un peso morto! - si lamenta l'Enialo con gli Echidnidi - Come facciamo a portarcelo appresso ora?» chiede alla Sfinge, entrambi sospesi a mezz'aria, chi grazie alle sue proprie capacità, chi grazie ad artifici estorti con la forza al povero fu comandante delle guardie.
«Forse ho io un'idea!» dice il Leone, dalla sommità di una delle mostruose teste, qualche piede più in basso.
«Ah sì? Allora forse non sei solo muscoli, mostro... avanti, riferisci»
«Potremmo usare il gigante! Facciamo in modo che sia lui a portarci dal nostro ultimo fratello, Chimera. La sua Isola si trova oltre il Palazzo di Ade, solo così potremmo farcela»
«Ho già parlato con uno di loro, non sarà collaborativo»
«E allora costringiamolo, abbiamo il veleno dell'Idra...»
«Ottima idea» constata infine Ares.
Poi svolazza fin davanti alla gigantesca faccia del Pilastro di carne.
«Tu! - ruggisce subito quello alla sua vista, spostando una quantità d'aria non molto inferiore a quella spostata dai poderosi ruggiti del Leone - Sei tu che sta facendo tutto questo trambusto là sopra!?»
«Silenzio, Gigante! So che non mi aiuteresti mai, ma ho bisogno di te per raggiungere l'Isola della Chimera, che tu lo voglia o no!»
«AHAHAH! Sì? E come credi di costringermi, moscerino!»
«Così» e indica una delle mani del gigante, ancora impegnate a reggere l'isola: una testa dell'Idra vi si getta, individua una delle vene, grande quanto la sua testa, e vi affonda le fauci.
«COME HAI OSATO, OLIMPICO!» sbraita quello agitandosi.
«Se vuoi l'antidoto dovrai portarci a destinazione» sentenzia lapidario.
«ANCHE SE VOLESSI, COME POTREI!?!?!?!? NON VEDI CHE SONO INCATENATO!?!?!? E LE CATENE DELL'ADE NON SI SPEZZANO MOLTO FACILMENTE!!!!»
«Problemi! Solo problemi sapete crearmi!» sbotta l'Olimpico, poi però sembra folgorato da un idea, e con l'impeto di quest'idea, il più velocemente possibile vola in alto, fino a raggiungere l'enormi stalattiti sul soffitto roccioso, una volta popolate dalle guardie. Una volta giunto lì inizia a recidere ponti per poi attaccare direttamente la struttura rocciosa.
Un forte boato preannuncia lo staccamento della formazione che inizia a precipitare, spinta, come se ce ne fosse bisogno, dallo stesso Dio.
Dopo la lunga caduta, il gigantesco cuneo di roccia si infrange contro una catena, riuscendo infine a spezzarla.
«Bello e intelligente - commenta ammiccando la Sfinge - ma dobbiamo sbrigarci, ho un brutto presentimento...»





Il Cantuccio: sono terribilmente, terribilmente dispiaciuto, ma che dico: mortificato! Me tapino! Devo scusarmi con tutti per questa ABNORME attesa, forse di più di due mesi, ma ho avuto problemi con la connessione (che perdurano anche ora). Spero mi possiate perdonare.

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Capitolo 28
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 19: Thanatos ***


Capitolo 28 - Thanatos Urla!
Strazianti! Stridenti! Strepitanti!
Penetrano prepotentemente fin dentro la carne, i nervi, le ossa.
Non serve a niente tapparsi le orecchie caprine: le grida vengono da dentro il cervello di chi le ascolta.
Svolazzando a fatica su quell'infinito oceano di lava, il povero capretto si chiede sconsolato se sia ancora una guardia dell'Ade o uno dei suoi tristi abitanti, perché ormai sembra che i suoi supplizi debba subirli proprio come fosse un dannato.
Prima il rapporto a Ade nel suo terrificante palazzo, ora questo.
E' ormai un bel po' che si è lasciato alle spalle l'ultima isola, quella degli Omicidi: questi sono gli unici alle spalle del Palazzo, gli unici costretti a subire una pena del genere, talmente atroce da essere ritenuta troppo disumana perfino per i dannati, eccetto per gli Omicidi, appunto; ma anche loro sono posti ad una certa distanza dalla fonte di questo macabro sortilegio, mentre lui, l'instabile satiro, vi si deve proprio recare, lì, su quell'isola che ora inizia a delinearsi più nitidamente all'orizzonte.
Ora qualcos'altro si aggiunge alle urla di disperazione e dolore, qualcosa che vi cozza grottescamente, ma senza attenuarne l'effetto, anzi, se possibile, rendendo il tutto ancora più inquietante: risate.
E' il povero gigante che sorregge l'Isola Blindata... ride con forza, si ferma per ansimare un po' e recuperare fiato, e poi ricomincia a ridere, gli occhi spalancati, quasi volessero fuggire dalla sua testa e gettarsi nella lava piuttosto che continuare a vivere quel supplizio.
Ne ha sentito parlare: il gigante sconosciuto, di cui nessuno, neppure tra le Guardie sapeva niente, nè il nome nè tantomeno perché fosse stato destinato ad un supplizio così grave; era impazzito, completamente, e non era difficile capirne il motivo, tanti millenni passati a sentire quelle voci nella testa, più forti e più a lungo di chiunque altro.
Ma il satiro non si sofferma molto su di lui, non vuole rimanere un secondo di più di quanto necessita per compiere il suo dovere.
Una volta ormai vicina, l'isola appare finalmente ben definita: quella che sembrava una piccola montagna è in realtà un enorme "gomitolo" di gigantesche catene d'acciaio compatto, intrecciate con altre di ogni dimensione, ma non sono collegate con quelle che tengono i giganti fermi e legati ad Ade.
Alla fine, il piccolo ungulato svolazzante atterra su uno di questi enormi anelli d'acciaio, intravedendovi davanti un varco.
Attraversato questo, gli si parà davanti la più profonda oscurità, squarciata solo da un unico fascio di luce che, passando da un buco alla sommità del "soffitto", illumina il centro della cavità delimitata dall'acciaio.
Nel centro perfetto di tutto questo spazio, illuminato quasi scenograficamente dal fascio di luce, vi è un bozzolo, nero, sospeso a mezz'aria, che sembra fluttuare senza il supporto di nient'altro.
Mentre vi si avvicina con quelle ridicole alette, il satiro nota che l'intero bozzolo si muove, in qualche modo, pulsa...
Ma non gli importa, vuole far finire quelle urla nella sua testa per non diventare come il gigante, è ha l'irrazionale sensazione che cesseranno una volta che avrà compiuto il suo dovere.
Così continua imperterrito ad avvicinarvisi finché, ormai vicino, il bozzolo non si apre improvvisamente in una piccola area nella sua parte superiore, mostrando l'orribile testa di un cadavere, con carne e muscoli esposti, come fossero stati erosi da delle fiamme, bocca serrata e cavità oculari vuote.
Probabilmente il satiro ha lanciato un urlo, ma non è riuscito a percepirlo, date le grida agghiaccianti che gli logorano la mente. Dopo un istante di esitazione, tuttavia, data anche l'immobilità dell'essere, infila le mani nella borsa affidatagli dal suo sovrano e ne caccia due sfere perfettamente tonde, scintillanti, di cristallo trasparente una, e di alabastro bianco l'altra, ma con un buco che lascia intravedere l'interno completamente nero. Il satiro si sofferma un attimo a guardare il piccolo bigliettino presente in quella di cristallo, inciso da Ade stesso, recante il nome "Ares" con tutta l'austerità di una condanna a morte.
Prende infine un lungo respiro d'incoraggiamento e poi ficca con un solo deciso gesto entrambe le sfere nelle cavità oculari vuote del cadavere, per non doverci pensare di più.
Ad un tratto silenzio.
Le voci nella testa sono scomparse per davvero!
Il che però, fu di conforto solo per i primi istanti, poiché il silenzio non era meno assordante, spezzato solo dalle pazze risate del gigante che ormai non sembra potersi accorgere dell'assenza di quelle voci.
In quel ritrovato silenzio, il satiro può ora sentire un altro rumore, molto più basso, ma ugualmente diffuso in tutto lo spazio intorno: un ronzio. Un inquieto ronzio e un orrido rumore come di brulicare di insetti.
Subito quindi nota che il bozzolo è in realtà formato da una miriade di insetti nerissimi, quasi lucidi, di quelli che si trovano anche sui corpi in decomposizione, che si muovono uno sull'altro, sbattono le loro alette per tenere sollevata l'intera "colonia".
Un tremore, e l'occhio sinistro, quello d'alabastro, ruota di lato andando a nascondere la "pupilla" nerissima dietro la testa, mentre l'altro, sebbene privo di pupilla, si muova in ogni direzione facendo sussultare il bigliettino al suo interno, finché non si fissa sull'esserino che gli sta d'avanti.
Poi ritorna immobile per qualche istante.
Il satiro ha paura, trema.
Un urlo, l'ennesimo, l'ultimo, potente come mille uomini che gridino insieme, erutta dalla bocca di Thanatos, poi il suo mantello vivente esplode in tutte le direzioni. Nero.

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Capitolo 29
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 20: l'Isola degli Omicidi ***


Capitolo 29 - l'Isola degli Omicidi Ripetuto lo stratagemma anche per l'altra catena, il gigante è libero di muoversi.
Dopo qualche prima esitazione dovuta alla cattività forzata per millenni, muove i primi passi quasi come un infante, ma poi riprende la sua forza e comincia a marciare con passo regolare, smuovendo l'oceano di lava con le gigantesche gambe come fa uno che si fa strada faticosamente nella palude.
Ed ecco comparire davanti a loro il Palazzo Reale, l'Ecatonchiro e l'arcipelago da esso sostenuto.
Lo sguardo di Ares, in piedi sull'isola, viene catturato irrimediabilmente dall'enorme Centimane che si agita e urla con una forza e una fierezza inumane.
Gli occhi fissi, le braccia incrociate sul petto, a stagliarsi contro quella gigantesca figura, come a sfidarla; ma persino lui avverte, se non paura, un qualche timoroso rispetto, una sensazione fredda, di piccolezza, che gli stampava bene in teste, come a dissolvere ogni dubbio "fa attenzione, non sarebbe un avversario facile".
Anche l'Ecatonchiro si avvede di lui, o meglio, del gigante che avanza libero nella sua direzione.
Per un istante interrompe la sua lotta millenaria con le catene che lo imprigionano e, addirittura, smette di urlare: cala il silenzio nell'Ade, forse per la prima volta dall'alba dei tempi, solo una risata flebile, in lontananza...
«EHI! - riprende però poco dopo -Sei libero, fratello! Come hai fatto?!»
«Non rispondere - intima il Dio - Prosegui senza fermarti»
E così fa: abbassa la testa  e continua per la sua strada, scatenando l'ira dell'Ecatonchiro che si dimena più forte di prima.
Ma quello non risponde ancora e alla fine è oltre il suo re.
Per un altro bel tratto di oceano lavico le urla dell'Ecatonchiro si fanno sentire tanto da scuotere la terra dell'Isola dell'Idra, ma alla fine, nel vuoto alle spalle del Palazzo, finalmente compare un'altra unica, singola Isola.
«Eccola, è l'Isola degli Omicidi» commenta la Sfinge.
«Preparatevi a sbarcare» annuncia Ares.
Così l'isola-traghetto si ferma a largo di quel solitario atollo e Ares, Sfinge e Leone, con un balzo, raggiungono quelle nuove coste.
L'Isola degli Omicidi, al contrario delle altre "visitate" fin ad ora, non sembra avere nulla di strano: subito dopo il bordo inizia una folta foresta di normali alberi, senza facce e senza cadaveri parlanti impiccatici sopra; l'unica stranezza, se non si fosse nell'Ade, sarebbero le urla in lontananza, ma folte come un muro, dalla natura strana, quasi spettrale, data la loro esistenza non fisica, ma nella testa di quanti vi si trovano.
Addentratisi nella foresta, però, iniziano a comparire i primi cadaveri, o meglio, quello che ne resta: brandelli di essere umano seminati qui e là, alberi e fogliame ridipinti di un rosso acceso, pelli umane appese sui rami, come ad asciugare, appena divelte dal loro precedente proprietario. Poi anche alberi tranciati a metà, sia longitudinalmente che trasversalmente, fumo che si alza in enormi colonne... poi un uomo, presumibilmente un dannato, spunta fra i tronchi, in fiamme, e si dirige correndo verso i tre visitatori, quasi volesse attaccarli, urlando intanto il suo infinito e rovente dolore.
Per nulla mosso a compassione, Ares affila il braccio e con un unico, preciso movimento, gli taglia via la testa prima che si avvicini abbastanza da nuocere.
«Tu, Olimpico, mi hai appena sottratto una preda» sibila una voce suadente nel buio tra gli alberi, esattamente dal punto da dove era sbucato il dannato in fiamme.
«Non è colpa mia se non te le tieni strette» risponde l'Enialo, ancora all'oscurità.
Ficcando uno sguardo nel punto da cui proviene quella voce così profonda, sperando di cavarci almeno un profilo, egli intravede solo un bagliore, simile ad un occhio.
Poi, lentamente, il proprietario di quell'occhio si rivela, avanzando in mezzo all'ombra, con la luce proveniente dai vicini incendi a disegnarli i contorni degli alberi sulla pelle.
Chimera, mostruoso essere, forse il più abominevole di tutta la figliolata della strega: Testa da leone come il fratello, ma fornita di ben quattro corna, due un po' sopra gli occhi, dritte e appuntite ma non lunghissime, e due che spuntano dalla folta e regale criniera e si avviluppano su se stesse come quelle di un ariete, molto più lunghe delle altre sebbene questa costituzione non lo faccia notare; parte anteriore del corpo, possenti arti compresi, ancora da leone, ma dalla schiena partono due enormi ali di drago, che egli, ora che procede a quattro zampe, tiene raccolte; zampe posteriori caprine, simili a quelle dei satiri e, infine, per coda, un lungo serpente, identico ad una delle teste dell'idra.
«Ho stretto un patto con tua madre e i tuoi fratelli, Chimera: insieme rovesceremo l'Olimpo» attaccò Ares.
Il mostro, raggiunto il gruppetto, si ferma con molta calma, poi spalanca le enormi ali e, senza mostrare sforzo, come se fosse la cosa più facile e naturale che esista, le sbatte una volta, sollevando la parte superiore del corpo e rimanendo eretto sulle zampe caprine, un po'm come la sorella.
«Già, noi rovesceremo l'Olimpo.. ma senza di te. Tu sei l'Olimpo, finchè esisterai tu esisterà l'opprimente tirannia degli Dei. Posso capire come tu sia riuscito ad abbindolare i miei poveri fratelli, ma non mi sarei mai aspettato che qualcuno, mortale o immortale, potesse ingannare mia madre, la potente strega Echidna. Hai fatto un ottimo lavoro per riunire la famiglia, ora possiamo cavarcela da soli: avanti, fratello e sorella, tradite quest'ipocrita, fatemi sapere che era questo il vostro piano si dall'inizio!»

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Capitolo 30
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 21: Chimera ***


Capitolo 30 - Chimera Istanti di silenzio, freddi, tagliano le carni divine di Ares, mentre nella sua testa si affollano elucubrazioni allarmiste su quanto detto dal mostro che gli sta davanti: che i due mostri che invece sono alle sue spalle, in una posizione ottima per coglierlo impreparato, abbiano solo finto di volerlo aiutare?
In effetti, a pensarci bene, Sfinge l'ha umiliato e il Leone è riuscito a tenergli testa, senza neanche parlare del gigantesco Idra "attraccato" poco oltre quegli alberi... se unissero le forze... e Ares li ha addirittura aiutati a scappare! Una trappola! Voltarsi e attaccare!
«No fratello» rompe la sequela di quei pensieri Sfinge, giusto prima che il Dio potesse trasformarli in atti.
Ares si volta a guardarla.
«No - riprende - non possiamo farcela da soli, abbiamo bisogno del suo aiuto!»
«Cosa dici, Sfinge!? Vi ha fatto il lavaggio del cervello!? Avrà ereditato l'arte della retorica dal padre!»
«Chimera, nostra sorella ha ragione» interviene il Leone.
«Anche tu? Dov'è finito il tuo proverbiale orgoglio?» seguono altri attimi di silenzio, Chimera indietreggia lentamente, spostando freneticamente lo sguardo tra i due suoi consanguinei.
«Bene, fate come volete, ma io non ci sto, combatterò l'Olimpo da solo... e inizierò da adesso!» con un gesto rapidissimo, afferra le corna piccole e dritte che gli spuntano dalla fronte e, tirandole, svela delle lame che spuntano da dentro il suo cranio e di cui le corna non sono che l'elsa.
Preso completamente alla sprovvista, Ares non ha il tempo di reagire quando, con un battito d'ali Chimera gli è addosso e lo trafigge con quelle spade.
L'Echidnide gli pianta uno sguardo sadico negli occhi a bruciapelo, poi, altro possente battito d'ali ed entrambi si fiondano verso l'alto.
Sfinge fa per partire in volo e seguire i due, ma Leone, le afferra la gamba con fauci e farfuglia con la bocca ingombrata:
«Lasciali stare, è una faccenda tra loro due»
Intanto, molti piedi più su, Chimera lancia in alto l'Enialo liberandosi le lame, questo riprende le sue sembianze più divine, giusto in tempo prima che una palla di fuoco, eruttata dal suo avversario, lo investa. Proprio da quella coltre di fiamme scende in picchiata sfruttando l'effetto sorpresa, ma il mostro non si fa cogliere impreparato e para il colpo incrociando le spade.
Fortunatamente, le ali rubate al generale dei satiri funzionano ancora, fornendo ad Ares la spinta per restare sospeso a mezz'aria, dove ora i due battagliano.
Chimera, velocissimo, riesce a colpire diverse volte Ares, generando scintille che sgorgano e sprizzano in ogni direzione. Il Dio comunque non soffre gli attacchi ma riesce a procurare qualche ferita con le lame delle braccia.
In quel turbinio di metallo, i due continuano a salire e salire, ora respingendosi, ora re-incontrandosi a metà strada con un esplosione metallica che riempie l'aria dannata.
Alla fine giungono ad una cittadella delle guardie, non ancora visitata da Ares, ma già deserta.
Atterrano su uno di quei lunghi ponti sospesi tra uno spuntone roccioso e un altro. Ansimano. Si osservano l'un l'altro con sguardo di sfida. Il ponte di corda ondeggia. Ares deve sbattere le ali per non scaricare tutto il peso sulle assi di legno che ricorda non essere molto resistenti.
«Tutto ciò è stupido - commenta il Dio - siamo dalla stessa parte!»
«E' inutile, non riuscirai a farmi il lavaggio del cervello come hai fatto con i miei fratelli!» urlato ciò, sputa un'altra palla di fuoco che percorre il ponte incendiandolo.
Ares incrocia le braccia e abbassa il capo per proteggersi e le fiamme non lo feriscono, ma il sostegno sotto di lui cede e per un istante perde l'appoggio. Proprio allora Chimera spunta da quel sipario vermiglio di fuoco e con entrambe le lame parallele colpisce le braccia del Dio, per poi scaraventarlo indietro.
L'Enialo viene catapultato contro uno di quegli enormi spuntoni di roccia e ne sfonda la parete, per ritrovarsi nelle ex camere dei Satiri.
Ha giusto il tempo di rialzarsi che Chimera si fionda attraverso il buco creato nella roccia e gli è di nuovo addosso con l'ennesimo fendente. Stavolta Ares lo respinge con la sua lama che sbalza via l'avversario. Gli afferra però la coda-serpente prima che sfugga via e con un colpo dell'altro braccio la taglia di netto.
Chimera urla di dolore e si ritrova per terra.
L'Olimpico Rinnegato sembra felice di aver finalmente portato a segno un colpo con successo, ma dal mostro giungono poi lentamente delle risate: il moncherino del corpo del serpente si agita, finché non si divide per tutta la sua lunghezza facendo spuntare due teste di serpente.
«Ti ricorda qualcosa? - fa, beffardo, Chimera - E' la stessa abilità di mio fratello Idra»
Il mostro si rimette in piedi, le due teste di serpente più minacciose che mai.
Ares risolleva la guardia, ma Chimera spicca un salto poderoso con le zampe caprine e, con una velocità inimmaginabile, che fa sparire il mostro persino alla vista del Dio, inizia a rimbalzare per tutta la stanza creando il caos e lasciando impronte di zoccoli nella dura pietra di pavimento, pareti e soffitto.
Dopo qualche istante, mentre Ares prova a seguirlo con lo sguardo e col corpo, Chimera lo colpisce alla schiena con le grandi corna, facendo un suono simile ad un gong. Il Dio si curva all'indietro e sembra aver sentito il colpo, ma non è tutto: con le spade il mostro gli recide le ali. Chiude il tutto puntando le stesse spade nel pavimento alle sue spalle e, usandole come appoggio, solleva i zoccoli per poi piantare anche quelli nella sua schiena con una forza spaventosa.
Altro gong, e Ares viene proiettato fuori dalle stanze facendo un altro buco nella roccia.
E' in caduta libera, ma questa volta non ha nessun paio di ali!
Si volta e per fortuna nota che la sua traiettoria finirà sull'Isola degli Omicidi, ma sarà comunque un bell'impatto.
Il suo sguardo ritorna verso l'alto, giusto in tempo per notare Chimera che raggiunge lo spuntone roccioso che pende proprio sopra di lui, quello che si trovava all'altro capo del ponte distrutto.
Il mostro sfonda la roccia e crea un frastuono assurdo all'interno delle stanze scavate nella stalattite. Dopo poco Ares capisce cosa fosse: con un grave e possente rumore, la formazione rocciosa si smuove, enormi pezzi di pietra iniziano a cadere e si forma una crepa notabile sin da dove si trova il Dio, interi stadi più in basso.
Poi, all'improvviso, si stacca: viene verso di lui!
Il suo sguardo va dalla roccia sopra di lui, a quella al di sotto: quale delle due arriverà prima? Sta per essere sconfitto?
Un urlo di guerra, proviene dalla gigantesca stalattite in caduta libera: è Chimera, appollaiata alla sua estremità superiore, che la spinge verso il basso con le sue ali!
La pesantissima Statua di Metallo Divino che è Ares fischia nei cieli maledetti dell'Ade, raggiunta un'altissima velocità terminale, e punta inevitabilmente a quell'isola.
Lì, in basso, Sfinge e Leone assistono alla scena, increduli.
Chimera e il suo proiettile titanico sono sempre più vicini e sempre più veloci, più veloci di Ares.
«Fuggite fratelli!» urla come un ruggito ai due spettatori.
La velocità è tale che Ares non riesce nemmeno a provare di assumere una posizione per l'atterraggio. E' troppo tardi. Sopra e sotto due enormi masse gli si avvicinano.
Fragore enorme. Ares colpisce l'Isola, e la Stalattite colpisce entrambi nello stesso, medesimo istante, procurando un frastuono che scuote le viscere di Gaia, oscurando le urla imponenti dell'Ecatonchiro e facendo tremare il Palazzo Oscuro di Ade in persona.
Un istante dopo, un enorme crepa spacca in due l'isola. Gli alberi vengono spazzati via dall'impatto mentre la stalattite penetra sempre di più nelle profondità di quel suolo, alzando un enorme nube di terra che spegne ogni incendio nella foresta.
Il Gigante che sorregge l'isola accusa il colpo e viene costretto in ginocchio nella lava, urla.
Conficcata sempre di più nella roccia, la stalattite alla fine la trapassa e le due metà dell'isola collassano verso il basso.
L'enorme massa rocciosa colpisce alla testa il Gigante e la spacca letteralmente, frantumando il cranio e facendolo esplodere in una macabra eruzione di sangue e cervella.
Tutto inizia a crollare. Il gigante lentamente precipita verso l'oceano di lava, trasportandosi dietro le due metà della fu Isola degli Omicidi e quello che resta dell'enorme stalattite, grande quanto una di queste metà.
Un altro tonfo, quando tutto tocca nello stesso istante la lava. Un'enorme onda anomala di magma si innalza dal punto d'impatto e corre via veloce a raggiungere gli altri Giganti, primo su tutti quello che ospita l'Idra, lì vicino, che viene smosso e urla per la lava che raggiunge punti non già abituati al suo tocco incandescente.
Scogli rocciosi e parti di Gigante affiorano lì dove una volta venivano puniti gli assassini.
Alcuni di questi isolotti, più o meno grandi, esibiscono gli incendi di quello che resta della foresta.
I dannati e tutti quei corpi sono dispersi, probabilmente persi per sempre.
Chimera, sbattendo leggermente le ali, atterra su uno di questi spogli isolotti, a pochi passi dalla lava.
«Abbiamo già finito? Quello era tutto ciò che un Olimpico ha da offrire? Non hai combattuto nemmeno lontanamente al massimo delle tue capacità, confessa! Almeno lo spero per te! Altrimenti come speravi di rovesciare l'intero Olimpo se non sei riuscito a tenere testa nemmeno a me solo?» urla l'Echidnide, sperando di raggiungere il Dio, sepolto da qualche parte, e sperando nel contempo che questi sia in condizione di sentirlo.
Ma nell'aere maligno tutto sembra tacere ora, la calma dopo la tempesta di quell'enorme fragore.
Nessuna risposta da Ares, solo il lento gorgogliare della vicina lava.
«Non è possibile che sia stato sconfitto... vero sorella?» chiede incredulo il Leone, dall'alto dell'Isola degli Ingannatori, dove i due sono scappati poco prima dell'impatto.
Il silenzio della Sfinge, occhi spalancati verso il luogo della catastrofe, si aggiunge a quello di tutto l'Ade.
Ad un tratto però, qualcosa spezza quel silenzio: un ronzio.
Sempre più forte, sempre più vicino e assordante.
Chimera si volta verso la direzione dalla quale proviene, lo sentono anche gli altri Echidnidi.
Nei loro occhi la paura.



Il Cantuccio: Ed eccomi qui, tornato a pubblicare e a chiedere scusa per l'enooooooorme pausa, dovuta a esami di maturità, cazzi, mazzi, svogliatezza estiva, etcetera etcetera.
Ma quello che importa è che sono tornato con il TRENTESIMO CAPITOLO! WHUU! Peccato che ora tecnicamente non sia più il trentesimo capitolo... non avete notato? E' il ventunesimo capitolo del secondo libro... No, non mi sto montando la testa, ho semplicemente diviso la storia in libri per comodità, dato che i capitoli, essendo corti, saranno un numero troppo elevato. Comunque, per dare un idea, i libri saranno tre o massimo quattro (qualcuno ha parlato di tetralogia tragica?) e non vi preoccupate, questo secondo libro è di gran lunga quello più esteso... almeno credo... spero... Comunque, ancora scusate per la mancanza e grazie della pazienza :)

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Capitolo 31
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 22: il Demone Ancestrale ***


Capitolo 31 - Il Demone Ancestrale Eccola lì, una sagoma nera che sfreccia verso l'Echidnide.
Da quella proviene il ronzio, assordante.
D'un colpo, arrivata davanti a Chimera, la strana massa nera si blocca bruscamente, in modo da farsi vedere bene: è una figura incappucciata e avvolta da un lungo abito nero che la copre interamente, anche sotto il cappuccio è imperscrutabile, e lì dove dovrebbe esserci la faccia sembra esserci il vuoto.
E' rimasta lì, sospesa a mezz'aria, come sospinta da quel ronzio.
Chimera la fissa sudando freddo, non vuole confessarsi chi egli sia.
Dalla figura non proviene nessun altro suono; quando ad un tratto, un'enorme falce, incisa di segni arcani, spunta dal lato destro, senza però sembrar smuovere il mantello che ha anche dovuto attraversare. Contrariamente alla brusca rapidità di quest'atto, successivamente quella si muove molto lentamente fino a puntare Chimera.
«Spostati!» ordina secca una voce orribile, come composita di migliaia di lamenti, innaturalmente distorti e piegati a formare quella parola.
«C-come osi darmi ordini!» fa Chimera, cercando di riprendere il suo solito tono.
«Spostati!» ripete quella voce, senza degnarlo di una risposta.
«Non ti permetto di ignorarmi!» urla il mostro, sfilandosi nuovamente le spade dal cranio.
«Spostati!» intimano nuovamente i mille lamenti.
«Questo è troppo!» con un balzo ed un battito d'ali, Chimera raggiunge quel mantello nero.
Ma poco prima che possa sferrare il suo attacco, la figura alza il capo facendo finalmente intravedere il suo volto: una visione talmente orribile che persino Chimera rimane pietrificato dal terrore.
Quello che resta della faccia di un cadavere, con la pelle consunta e i muscoli e le ossa esposti e danneggiati da chissà quale male. Su quel viso, se così lo si può chiamare, campeggiano due occhi bianchissimi, uno dei quali trasparente e con dentro un qualche foglietto di carta.
La comparsa di quell'incubo davanti a sé disarma l'Echidnide che così è esposto al contrattacco di quell'essere: con un movimento innaturale, il bastone della falce dimostra una flessibilità maggiore di qualunque altro pezzo di legno e così riesce a colpire con un fendente in rovescio il corpo del mostro.
Chimera viene sbalzato di nuovo su quell'isolotto dove atterra malamente.
«Mi sei d'intralcio, quindi sono autorizzato a farti fuori» fa meccanicamente la voce composita, senza però muovere le sottili labbra che ora sono visibili.
Successivamente un'altra falce, grande quanto la prima, spunta simmetricamente all'altra.
«Ah, anche a te piace combattere usando due armi, eh?» commenta Chimera.
Ma poi subito altre due, anche se più piccole, spuntano sotto le prime.
«Cosa!? Ma quante braccia hai!?» fa esterrefatto.
Di risposta quello lancia mille urla tutte insieme e il suo mantello prende letteralmente vita trasformandosi in una massa nera amorfa che si stacca dal suo proprietario e si fionda sul nemico.
Colto alla sprovvista, quello cerca di parare l'attacco incrociando le lame, ma la "cosa" lo travolge come un fiume e solo quando gli è addosso Chimera capisce cos'è: sono migliaia di piccoli insetti neri volanti. Lo hanno interamente sommerso e ora... stanno mangiando la sua carne! Può sentire le loro orride minuscole fauci brucare i suoi tessuti seppur duri come la pelle di suo fratello Leone.
Alla fine si decide a saltare fuori da quello sciame mortale e vola in alto, ma gli insetti fanno per seguirlo. Ora però che sa cosa sono può attaccarli efficacemente: una bella palla di fuoco ne stermina la maggior parte.
«Devi scusarmi, il mio amico qui ha iniziato col piede sbagliato» fa una voce, singola, diversa da quella del Demone.
Chimera, appena disperso lo sciame e atterrato, rivolge lo sguardo verso la figura, da cui viene questa nuova voce, e nuovamente rimane scioccato: il corpo nudo del Demone è distrutto come la sua faccia, ma ha conficcate in più parti lame di spade, coltelli, lance, asce e chi più ne ha più ne metta. Da tutte queste ferite sgorga copioso sangue.
Sta ancora fluttuando a mezz'aria ma ora, non più aiutato dagli insetti, sembra sia sospinto da quelle grandi falci che, seppure siano ferme e comunque inutili quando si parla di portanza, rassomigliano proprio delle grandi e lunghe ali, spuntategli dalla schiena.
Il sangue prima nominato, cola per tutto quel corpo fino a cadere nel vuoto, ma poi, animato da non si sa cosa, fa una curva e assume sembianze umanoidi.
Proprio da quella strana sagoma cremisi sospesa a mezz'aria era giunta quella voce.
«Salve, mi presento: io sono Ker, e questo mio vivacissimo amico qui è Thanatos, Demone Ancestrale della Morte... mai sentito nominare?» inizia quello strano blob, con una bocca scimmieggiata da una fessura su quella che dovrebbe essere una testa, niente occhi.
Ci si aspetta una risposta dal mostro, ma ormai è senza parole e fissa la scena a bocca aperta.
«Bene... - riprende Ker dopo un istante, spazientito - Quello che il mio amico cercava di dire è che non sei tu il nostro obiettivo... Vedi quella cosa nel suo occhio destro? Già, quella è una condanna a morte, sancita da Ade in persona. Non sono molti quelli a cui viene riservato un trattamento del genere, di solito sono le anime più pericolose da mietere. Il problema è che il mio amicone è molto simile ad una specie di robot... ah già, voi ancora non potete sapere cosa sia un robot... ah, che fregatura scrivere dell'antichità e non poter usare una miriade di riferimenti alla cultura pop come vorresti, non è vero?»
Chimera è sempre più confuso e non proferisce parola, fissando la cosa che ancora fluttua a mezz'aria.
«Avanti! - riprende quella con tono stufato - mai sentito parlare della quarta parete? Andiamo! ... Uff, e va bene... dicevo: quella cosa nel suo occhio destro gli fa vedere quasi esclusivamente il suo obiettivo, che si trova esattamente sotto di te, ma è anche autorizzato a fare fuori chiunque lo ostacoli»
Chimera abbassa lentamente lo sguardo verso i suoi piedi. Ares si trova davvero lì sotto? Ed è ancora vivo?
«Ma-Ma tu chi sei?» chiede poi ancora un po' rintontito.
«Ah già, dimenticavo: io sono Ker, Demone della Morte Violenta. Vedi il sangue che cola da quelle armi e che mi forma interamente? E' il sangue che in questo momento sta venendo versato, in tutto il mondo»
«Qualcos'altro?» fa l'Echidnide, con un accenno di cinismo.
«No, possiamo procedere: spostati e consegnaci Ares, noi mieteremo la sua anima e tu potrai andare per la tua strada»
Il mostro sposta di nuovo lo sguardo alle rocce sotto i suoi zoccoli, vi ci conficca lo sguardo, serioso, alla fine può giurare di aver sentito il respiro del Dio.
«No! Abbiamo ancora un conto in sospeso! Lui è la mia preda!»






Il Cantuccio: ok, forse ho esagerato con la caratterizzazione di Thanatos, ma tutto ha un significato simbolico (eccetto forse le ali-falce, quelle sono solo molto fighe XD). Anche la rottura della quarta parete ha un significato (sebbene io abbia inserito un personaggio che la oltrepassi solo perché sono in fissa con questo tipo di personaggi): la Morte è un Demone Ancestrale, nacque dall'Erebo prima ancora dei Titani, prima di Cronos, cioè prima del Tempo. In qualche modo è come se fosse al di fuori del tempo e della realtà della storia e quindi capace di averne una visione unitaria e di andere oltre questa... ok, concedo che Ker, il Demone della Morte Violenta, non è ancestrale perché nato con gli uomini (come dimostrano le armi da cui "sgorga"), ma volevo mantenere intatta in Thanatos questa natura "robotica", come a dire che la Natura stessa, e quindi i suoi cicli di vita-morte, sono come delle enormi macchine (Leopardi?), e se avessi dato a lui il "carisma" necessario per abbattere la quarta parete, tutto ciò sarebbe andato in frantumi. E poi Ker è comunque una parte di Thanatos, quindi, se vogliamo, condivide alcune sue caratteristiche. E dai, basta fare i pignoli! Fatemi qualche critica costruttiva!

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Capitolo 32
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 23: Sangue e Onore ***


Capitolo 32 - Sangue e Onore Si lancia nuovamente contro Thanatos, questi fa per intercettarlo di nuovo con una falce, ma stavolta Chimera, con un battito d'ali, evita il blocco e sferra un fendente al corpo del Demone che va dalla spalla fino all'addome, recidendogli un braccio.
Dal moncherino della spalla fuoriescono all'improvviso una miriade di lunghi vermi che riafferrano al volo il braccio prima che cada nel vuoto e lo riportano in posizione; pochi istanti dopo, sotto lo sguardo attonito di Chimera, gli stessi vermi eruttano dal resto della ferita sul torso, tutti insieme compatti, a formare l'ennesima massa amorfa, bloccandogli un braccio.
«Ma che schifo!» urla il mostro, mentre si accorge anche che quella specie di arto pulsante e viscido sta cercando di tirarlo all'interno del Demone.
«Sai, la gente dice che al suo interno abbia dei visceri di bronzo o di ferro... io non credo che abbia alcun tipo di visceri conosciuti dall'uomo» commenta Ker, dispostosi ad anello intorno a Thanatos, sempre fluttuando a mezz'aria.
Con un gesto netto dell'altro braccio, taglia via quella protuberanza verminosa e fa per allontanarsi, ma è ancora vicino a quell'Incubo Vivente per assistere da spettatore privilegiato alla scena successiva: quella sottile linea che ha per bocca si spalanca in modo innaturale e Chimera può ficcare il suo sguardo giù per la sua gola, sentendovi provenire chiaramente il ronzio di prima.
Subito dopo, una valanga di quegli insetti saprofagi ne risale la trachea per finire nuovamente in faccia a Chimera.
Altro battito d'ali e l'Echidnide si allontana dallo sciame nero.
Prova nuovamente con la palla di fuoco, ma la massa di insetti, come fosse un unico essere mostruoso, la evita agilmente partendo all'inseguimento.
Chimera si vede costretto a scappare, sempre mentre lancia palle di fuoco, tutte però evitate.
Volteggia in aria cercando di portarsi in una posizione vantaggiosa, ma gli insetti non mollano la sua scia. Così decide di puntare verso la lava e poi la sfiora volando a pochi palmi da questa. Il calore è sufficiente a far prendere fuoco allo sciame, ma velocemente anche la pelliccia del mostro si infiamma.
Chimera si getta rotolando su un altro isolotto per spegnere le fiamme nella terra.
Alzando lo sguardo, nota Thanatos che ha distolto l'attenzione da lui e punta verso l'isolotto dove è sepolto Ares.
Un altro slancio e il mostro si prepara all'ennesimo tentativo di attacco, questa volta al fianco sinistro.
«Bel tentativo di distrarmi, ma non è abbastanza!» urla.
Thanatos sposta lo sguardo verso di lui, ma stavolta è Ker a frapporsi, espandendosi e appiattendosi a mo' di scudo. La lama dell'Echidnide vi si abbatte, ma non lo scalfisce, né lo oltrepassa: non è più liquido, ma si è solidificato, tanto che ora sembra di essere davanti ad una parete di rubino splendente.
«Ora basta con i giochetti» fa, intimidatoria, una bocca apertasi nella parete.
Subito dopo, il sangue si rifà fluido e l'avambraccio sinistro del mostro ne viene inglobato.
Chimera si allontana per l'ennesima volta e guarda terrorizzato il proprio braccio, ma non vi nota nulla di strano.
Un istante di silenzio e poi... l'avambraccio esplode letteralmente sparando in ogni dove sangue e brandelli di carne, mentre la spada viene inghiottita dalla lava, qualche piede più in basso.
Chimera urla straziato dal dolore. Mai era stato visto farlo.
«Avrei potuto far entrare il sangue in circolo e farti saltare in aria interamente, oppure avrei potuto cristallizzarlo e farti venire una attacco cardiaco... avrei potuto ucciderti in decine di modi, ma non l'ho fatto, perché era solo un avvertimento: non vogliamo te, ma Ares»
Chimera ancora urla, la faccia coperta dal suo stesso sangue, lo sguardo fisso dove una volta c'era la sua zampa.
«E poi è una cosa stupida: sbaglio o stavi combattendo contro Ares, prima? Perché ora lo proteggi?»
«Voi... voi non sapete cos'è l'onore!» urla in risposta Chimera, tra i singhiozzi.
«Tu sei solo un mostro, uno scarto dell'Esistenza, un errore del Cosmo! Tu non hai nulla a che vedere con l'onore» lo deride Ker.
«Te la farò vedere io! Ho sconfitto un Dio dell'Olimpo, voi non mi fate paura!» annaspa.
«Tsk! L'Olimpo! Noi esistiamo da prima dell'Olimpo, ne siamo al di sopra, sia come giurisdizione che come forza! Pensi di poterci battere? Vuoi uccidere la Morte? Accomodati»
Chimera si afferra il moncherino, da cui ancora sgorga sangue a fiotti, e vi soffia sopra una lingua di fuoco. Urla di nuovo, ma il fuoco ha cauterizzato la ferita impedendo l'emorragia.
Lo sguardo ritorna ai sui avversari, più agguerrito che mai, ma mentre Ker e lui si scambiavano quelle accese battute, Thanatos era giunto all'isolotto dove si trova Ares.
Chimera si fionda a frapporsi fra lui e le macerie che dovrebbero celare il Dio.
«Spostati!» intima di nuovo meccanicamente la voce composita del Demone Ancestrale.
«Allora vuoi proprio morire» commenta Ker.
«Morire per mano della Morte in persona sarà un onore» sogghigna Chimera, ancora col fiatone per il dolore.
Fa per partire nuovamente all'assalto, ma qualcosa, una mano, gli afferra tempestivamente una gamba, ancorandolo.
Sposta lo sguardo verso cosa l'ha fermato: è Ares!
Spunta fino alla vita dai sassi e dalla terra depositatasi dopo la distruzione dell'isola, col braccio propeso verso lo zoccolo del mostro. Ha abbandonato le sembianze divine e ora la sua carne all'apparenza mortale è ricoperta di sangue e polvere.
«Tu mi servi vivo» fa il Dio, con la voce rotta ed un ghigno rivolto all'Echidnide.
«Ares! ... Ormai è una questione fra me e questi mostri! Devo vendicare il mio braccio e la mia lama!»
«No, invece tu non c'entri nulla. E' me che vogliono. Quindi lascia che me ne occupi io»
Chimera, all'inizio un po' titubante, sembra accettare.
«Sappi comunque che noi non abbiamo ancora finito» fa infine, atterrando.
Ares si libera completamente dalle macerie e si erge in piedi.
«Lo so, ma riprenderemo il nostro duello quando entrambi saremo nel pieno delle nostre forze. Che ne dici?»
«Ok, ci sto» e Chimera pianta la lama nel terreno per porgere la zampa leonina al suo avversario in segno di accordo.
Ares subito la stringe con fermezza, fissando uno sguardo deciso negli occhi dell'Echidnide.
«Ok, avete finito di fare "giurin-giurello"?» commenta sprezzante e scocciato Ker.
«Ora scopriremo se siete davvero capaci di mietere l'anima di un Dio, Demoni!» urla Ares, mentre rune identiche a quelle delle falci di Thanatos scavano, incandescenti, la sua carne e questa lentamente si trasforma in uno dei metalli più resistenti mai esistiti.

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Capitolo 33
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 24: L'anima di un Dio ***


Capitolo 33 - L'anima di un Dio Thanatos, quell'orribile presenza, Demone Ancestrale della Morte, si staglia, fermo e statuario, come a riprova della sua eternità, contro i cieli senza sole dell'Ade. Il volto inespressivo, con quella bocca senza labbra serrata, a fare da più grottesco controcanto a quella altrettanto senza labbra ma sempre aperta di Ker, che aleggia ora intorno a quello, come anelli di pulviscolo intorno ad un pianeta, infischiandosene di prendere una forma fissa e definibile.
Ares, è più in basso, i piedi pesanti e metallici ben conficcati nelle macerie dannate di quell'isola, affondata nel magma. Questo gorgoglia ancora più sotto, affamato di ingoiarli tutti, scalpita dalla fame, lanciando sprizzi di materiale incandescente e illuminando Thanatos, di una strana luce arancione intensa, che sembra appesantire tutta l'aria.
Leggere scintille incandescenti nascono dall'oceano infernale e svolazzano vicino alla pelle metallica e altrettanto calda del Dio, lucciole di fuoco.
Mentre l'Olimpico e il Figlio dell'Erebo mantengono un insolito lungo contatto visivo, non vi è alcun rumore oltre ai bestiali versi dell'Ade ringhiati fuori per bocca della distesa di magma che li circonda.
Intorno, enormi incendi divorano la foresta mutilata e macabre fiaccole accendono i resti del gigante che affiorano qua e là, a malapena rendendone possibile la riconduzione ad un unico corpo.
«Sarà uno scontro epocale» commenta sottovoce, quasi in religioso silenzio, il Leone, parecchi stadi più su, dall'Isola dell'Idra.
Chimera, atterrato dietro ad Ares, ringhia alla battaglia, forse per invidia di non potervi prendere parte, forse invece per il dolore ancora proveniente dalla ferità che gli ha mozzato il braccio.
Finalmente accade qualcosa: Ares caccia un poderoso urlo di battaglia, contrae i muscoli, riscalda il corpo, ancora di più!
Thanatos lentamente sposta solo l'occhio sinistro, facendo di nuovo spuntare fuori la nerissima pupilla da dietro la testa.
Subito un bagliore scaturisce dal corpo del Dio e una sagoma lucente, lentamente, ne fuoriesce, attraversandone la carne senza intaccarla. Ares ha già visto qualcosa del genere: è quello che succedeva quando attaccavano le sirene!
Significa che... quella è la sua anima!
Sotto lo sguardo attonito di tutti i presenti, l'anima del Dio lascia lentamente il suo corpo, come trascinata dallo sguardo di Thanatos.
Con un movimento semplice e veloce, il Demone fa oscillare la sua falce e, con la normalità di un contadino che miete le sue messi, separa il Trascendente dall'Immanente, l'Etereo dal Tangibile, la Vita dalla Forma, l'Essenza dall'Essere.
Fatto ciò, la falce torna nella sua solita posizione mentre l'anima guizza via risucchiata interamente nell'occhio del Demone che, prontamente, rintana la sua nera pupilla nella sua testa facendone scomparire definitivamente la luce.
All'improvviso, il corpo di Ares cade a peso morto, come avesse perso conoscenza tutto d'un tratto.
Il silenzio allaga di nuovo lo spazio tra i vari spettatori di questa scena e Thanatos stesso.
«Anima acquisita» fa schietto quello meccanicamente, con le sue molteplici voci.
«Bene, il nostro lavoro è finito» commenta Ker.
Il Demone Ancestrale allora spalanca nuovamente la bocca e ne vomita nuovamente fuori un altro enorme sciame di insetti che lo avvolge immediatamente.
Ker scompare racchiuso dal brulicante manto nero e subito dopo anche le falci vengono ricacciate al suo interno, lasciando una figura incappucciata che levita nel vuoto.
«NO! NO! NON PUO' ESSERE!» urla il Leone da sopra il gigante.
La sorella, immediatamente accanto a lui, è rimasta con la bocca spalancata e non proferisce parola.
«Ares! Avevamo un accordo!» ruggisce Chimera.
Poi, preso dall'ira, sguaina nuovamente la sua spada e, come farebbe un fachiro, si infila la spada giù per la gola facendola lentamente calare dall'alto. Ne riesce completamente avvolta dalle fiamme.
«Ridammi quell'anima!» urla scattando verso Thanatos.
Questi, senza scomporsi, si scompone dividendosi al passaggio di Chimera, come coincidesse con lo sciame che lo ricopre, che poi si ricongiunge una volta evitato il fendente.
Senza indugi, poi, la massa nera parte a tutta velocità verso gli altri Echidnidi.
Terrorizzata, dalla sua postazione su una delle teste dell'Idra insieme al fratello Leone, Sfinge è come pietrificata alla vista della Morte che punta nella sua direzione, gli occhi sgranati e imploranti pietà.
Il Leone di Nemea, invece, guerriero come suo fratello, si frappone a petto gonfio fra la sorella e il pericolo incombente, per poi lanciare uno dei suoi poderosi ruggiti.
L'onda d'urto disintegra in un istante lo sciame, e Thanatos con esso.
Il Leone è basito, ma il pericolo non è scongiurato: lo sciame si è solo disperso, e una parte di questo si sta riaggregando alle sue spalle, senza che l'Echidnide se ne renda conto.
Dal piccolo agglomerato fluttuante spunta la testa del Demone e una sua spalla, da cui spunta a sua volta una delle sue enormi falci, che adesso pende sulla nuca del Leone.
Ma prima che possa abbattere la lama, una zampa artigliata gli trapassa il petto: Sfinge si è decisa ad intervenire. I lunghi vermi saprofagi che prima avevano colto di sorpresa Chimera, però, ora sbocciano intorno al braccio di Sfinge, da entrambe le parti, bloccandolo; la testa di Thanatos compie un'innaturale rotazione di 180 gradi fino ad arrivare a conficcare quell'orribile e inespressivo sguardo negli occhi di lei.
Dall'altra parte il Leone si è accorto dell'azione e si volta urlando, cercando di assestare anche lui un colpo di artigli al Demone, ma il sangue di Ker, sbucato dal nulla attraverso il mantello di insetti, crea un resistentissimo scudo vermiglio tra i due.
Chimera schizza verso i tre a tutta velocità gridando ai fratelli di scappare, e arriva giusto in tempo per evitare che il Sangue Maledetto si mescoli a quello del Leone: con una zampata lancia via di lato questo e affonda la lama infuocata nel sangue, liquefattosi per colpire il nemico, trapassando la testa di Thanatos e mandandolo in fiamme.
Ciò è sufficiente per fargli mollare la presa su Sfinge, che repentinamente spicca il volo, seguita da Chimera nella direzione opposta.
Anche la testa sotto di loro si ritrae, solo perché un'altra, dall'alto, si sta fiondando sul Mietitore.
Completamente riformatosi lo sciame, il Demone alza lo sguardo, sempre senza avere reazioni, e Ker sbuca nuovamente fuori facendogli scudo.
I denti dell'Idra si abbattono con violenza sulla parete rossa, rompendosi e procurando dolore al mostro, ma del veleno imbratta lo scudo e subito, da quelle gocce, si dipana una macchia nera che sembra intaccare il sangue.
L'area infetta viene subito abbandonata da Ker, che si ritrae sorpreso e, forse, anche un po' spaventato, e cade nell'oceano di lava.
L'Idra, però, non lascia loro tempo di reagire, ché un'altra testa, alle loro spalle li ingoia interi.
Per un attimo tutto tace, ma poi la testa viene tranciata via dal resto del corpo dall'interno e i due demoni riappaiono in mezzo a quel tripudio di sangue.
Mentre la testa si divide in altre due, tranquillamente, Ker fa di nuovo da portavoce del suo "amico":
«Forse non siamo stati chiari - dice con un tono scocciato - abbiamo detto che qui noi abbiamo finito! Voi non siete sul nostro "taccuino", non dobbiamo mietere le vostre anime! Ma niente ci impedisce di farvi fuori alla vecchia maniera se ci intralcerete dal consegnare Ares ad Ade, nel suo Palazzo, che era il luogo verso cui noi ci stavamo semplicemente dirigendo prima che ci attaccaste. Forse avete frainteso, quindi lasciatemi dire che avete la possibilità di andarvene tranquillamente, senza che vi succeda niente di male... Quindi ora, se volete scusarci...»
Detto ciò, Ker si rintana nel nero mantello ronzante e Thanatos riparte proprio nella direzione che aveva preso per raggiungere l'isola dell'Idra, cercando di lasciarsi alle spalle gli Echidnidi.
«Oh, non te la caverai così facilmente!» gli urla dietro Chimera.
Così, lui e la sorella Sfinge partono all'inseguimento in volo, mentre Leone li segue saltando da una testa all'altra di Idra.
Thanatos si destreggia abilmente in volo tra la foresta di teste di serpente giganti, ma è costretto anche ad evitare le palle di fuoco di Chimera,  i vari affondi delle stesse teste e i ruggiti del Leone.
Alla fine, facendo emergere una delle falci, sferra in aria un veloce fendente che poi si materializza come una lampo di luce che squarcia l'aria stessa e, a velocità elevatissima, si abbatte sulla testa dell'Idra su cui il Leone stava per atterrare, facendolo precipitare verso il lago al di sotto; la stessa testa, poi, crolla sugli altri due Echidnidi, che vanno a fare compagnia al fratello.
Il Demone, così, evitando gli ultimi attacchi del mostro di Lerna, è libero di volare verso il Palazzo Oscuro.

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Capitolo 34
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 25: La sconfitta di Ares ***


Capitolo 34 - La sconfitta di Ares Riemersa dall'acqua, la stirpe di Echidna già non vede più il Mietitore all'orizzonte.
Il relativo silenzio degli inferi li circonda nuovamente, pesante e spiacevole.
Chimera, Sfinge e Leone salgono sulla testa mozzata dell'Idra che ora galleggia al centro del gigantesco lago, tutt'intorno il muro squamoso si flette in cima, le teste che fissano i tre ammarati, sibilando di tanto in tanto.
Sguardo basso per tutti. Chimera lentamente poi lo sposta dove una volta c'era il suo avambraccio sinistro.
«No... non può essere stato un sacrificio invano!» digrigna i denti.
«Io non ti capisco, fratello - interviene, sommessa, Sfinge - prima gli dai battaglia, quasi lo uccidi, e poi... poi rischi la vita per difenderlo?»
«E' questione di orgoglio!» fa subito il Leone.
«No, non è orgoglio, è onore, è ben diverso. Ares non ha nemmeno provato a combattere al massimo contro di me, a malapena ha risposto ai miei attacchi. Dobbiamo avere la possibilità di combattere sul serio. Anche se è un Olimpico, stirpe maledetta, ha dimostrato di essere un valoroso condottiero, anche solo per giungere fin qui... Merita di trovare un degno rivale come me, e io merito di vedere tutta la sua forza all'opera!»
«Beh, l'hai vista... a quanto pare non è bastata a salvargli la pellaccia» risponde Leone.
«Non ha nemmeno avuto modo di combattere! Quello non era un duello, una battaglia o qualcos'altro di simile, è stata un'esecuzione...»
«E ora cosa intendiamo fare? - chiede Sfinge - Non possiamo fare nulla contro Thanatos, se nemmeno un Dio immortale è riuscito anche solo a difendersi... Noi abbiamo dato la nostra parola, ad Ares ed indirettamente a nostra madre, abbiamo giurato di vendicarla rovesciando l'Olimpo, ma la nostra vendetta è stata fermata sul nascere, il nostro comandante fatto prigioniero, o peggio...»
«E poi anch'io ho un conto in sospeso privato con quell'Olimpico - interrompe Leone - il nostro duello è finito in pareggio... e questo non mi sta bene!»
«A proposito di differenza tra orgoglio e onore...» sentenzia cinico Chimera.
Piomba di nuovo il silenzio.
«No! - inizia con tono sicuro Chimera, rimettendosi pian piano in piedi - L'Olimpo capitolerà! E grande sarà la gloria dei Figli di Echidna! Perché unici mortali a fuggire dall'Ade, perché sconfissero gli Dei, malvagi, ipocriti e ingannatori, e perché liberarono Ares, l'Olimpico Rinnegato, per condurlo alla vittoria!»
«Ma come?» chiese ancora titubante la sorella.
«Beh... - riflette Chimera - usiamo Thanatos a nostro vantaggio: sappiamo che può solo eseguire gli ordini che gli vengono impartiti per iscritto da Ade in persona... una volta che avrà portato a compimento questa missione non avrà ordini, giusto? Quindi non dovremo preoccuparci di lui»
«Ma quando l'avrà portata a compimento sarà troppo tardi!» ribatte Sfinge.
«Questo non lo possiamo sapere... ma sempre meglio questo piano che niente... Credo però che ci servirà il suo corpo materiale, se riusciremo a liberarlo» detto ciò vola sopra le teste d'Idra e trova con lo sguardo il corpo di Ares, nudo e di carne, riverso come materia inanimata lì dove prima si ergeva fiero e agguerrito.
 
«Fai rapporto, Ker» esordiscono le labbra invisibili di Ade.
Prontamente, il Demone della Morte Violenta spunta fuori dal manto nero di Thanatos con quella sua sottile bocca, senza labbra anch'essa, intenzionata a raccontare al suo Re gli eventi occorsi.
«Ma conciso, non come al tuo solito, e bada a non rompere pareti che vedi solo tu, sai che mi irrita» precisa lo Zeus Infero.
«Missione compiuta, sua Lugubrità... Anche se abbiamo incontrato resistenza... Non tanto da Ares stesso, quanto da parte degli Echidnidi...»
«E così è davvero riuscito a farseli alleati, eh?»
«Beh sì, più o meno...»
«Non importa, senza Ares non potranno andare da nessuna parte. Ora è il momento di riscuotere la mia anima... Mia cara, saresti così gentile...?» fa cambiando voce d'un tratto, facendola diventare, se possibile, più dolce.
Dal trono dorato in fondo al tavolo risponde un delicato «Ma certo» seguito poi, però, da strani e velocissimi versi, come soffi isterici.
Come una ninfa che sorge dalle acque di un fiume cristallino, aggraziata, così quella figura, alta, longilinea, delicata, attraversa il candido velo che la escludeva allo sguardo.
«Nessuno può vedere la mia regina eccetto me! - tuona Ade - ritorna nel suo mantello, Ker! Passi per Thanatos che è una marionetta senza anima né pensieri, ma tu!...»
«Ma, mio signore! Io nemmeno ce li ho gli occhi!»
Non potendo controbattere a questa constatazione, Ade sembra riprendersi dalla cieca gelosia che l'aveva rapito e acconsente col silenzio.
Ker, comunque, segue con la testa, sempre abbozzata in quella macchia di sangue sospesa a mezz'aria, quella camminata soave e pudica fin al suo capolinea, davanti a Thanatos.
Qualunque donna, anzi, qualunque essere umano, avrebbe urlato dal terrore, una volta svelatasi davanti ai suoi occhi il volto dell'Incubo Vivente, ma quella donna no, non ebbe la minima reazione, come se anche lei, come il mostro che le stava davanti, non avesse un'anima.
E sempre nessuna reazione ha quando infila le dita dentro le cavità oculari per tirarne fuori i suoi bulbi.
Uno, freddo, leggero, trasparente, con dentro un foglietto di carta che aveva terminato la sua danza impazzita quando l'anima era stata catturata, e l'altro, bianco, più pesante, caldo, quasi incandescente, ma nemmeno questo sembra infastidire la donna.
Come se niente fosse, questa si volta verso il suo re, porgendogli le due perle.
«Bene - fa Ade, quasi non veda l'ora di proferire queste parole - Vieni fuori Ares!»

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Capitolo 35
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 26: Soliloquio ***


Capitolo 35 - Soliloquio Buio.
E' così che finisce?
Sogni di gloria, pretese di potere e poi... buio?
Un Dio può morire?
Forse è il prezzo da pagare per essere immortali: la morte non esiste, perché dopo non vi è l'aldilà ma il nulla.
Se fosse così gli Dei hanno un destino orribile. Potrebbe invidiare i dannati che ha appena visto scontare il loro supplizio per l'eternità nell'Ade.
Ma forse è meglio così, meglio cessare di esistere che dover vivere con l'onta di essere stato sconfitto.
Ma... aspetta un istante... Pensare non conta come esistere? E' pur sempre un'azione, e per agire uno deve pur esistere. Ma lui sta pensando, significa che ancora esiste, in qualche modo, da qualche parte!
Eppure non ha sensazioni di nessun genere, non vede, non sente, nulla; persino la tensione, la pressione intrinseca solo nell'avere un corpo, con la sua pelle, le sue articolazioni, i suoi confini, insomma; nemmeno quello.
Ma che vuol dire? Si può esistere così?
E soprattutto: significa questo che potrà mai possedere nuovamente un corpo?
O sarà costretto ad un'eternità di buio? Un'eterna prigionia in compagnia solo di se stesso: la pena peggiore di tutte!
«Non ti preoccupare, Dio della Guerra, non è la fine» interviene una voce, non si sa da dove, come, di chi... Ce l'aveva un tono? Le labbra che l'avevano emessa appartengono ad un uomo o ad una donna? Esistono almeno, queste labbra? ... Quando si riflette, ognuno nella sua testa, quando si parla con se stessi, lo si ha un tono? E' sempre la propria, solita voce? Che cosa orribile, essere costretti ad immaginarsi la propria voce, dentro di sé, vincolati a quella che sentiamo uscire dalla nostra bocca, confinati da quel poco fiato che le nostre corde vocali piegano alla meno peggio.
«Sì, sono nella tua testa, Ares, ma esisto veramente, ci siamo già incontrati, di recente... Ti sto parlando per comunicarti questo: gli Echidnidi, non basteranno. Ci vogliono forze più grandi per abbattere l'Olimpo. E queste forze sai dove trovarle... sono vicine... I Titani, Ares! Il Tartaro è qui vicino, il suo ingresso è nei sotterranei del Palazzo Oscuro di Ade!»
Ma prima che la voce potesse continuare
«GEA! Ti ho riconosciuto! Ormai ho capito il tuo gioco! Vuoi solo che liberi i tuoi figli dal tuo grembo!» urla nella sua testa.
Il soliloquio a due sarebbe continuato, ma qualcosa, stavolta chiaramente proveniente dall'esterno chiama: «Vieni fuori Ares!» e poi luce.

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Capitolo 36
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 27: Al Palazzo Oscuro ***


Capitolo 36 - Al Palazzo Oscuro Provato, il Gigante affonda le gambe insensibili nella lava, i denti dell'Idra, come aghi, sempre trafitti nelle sue vene, a mo' di briglie.
Briareo è ormai vicino, le sue urla sono assordanti.
Chimera, ritto in piedi su una delle teste del serpente, con sguardo serio fissa il Palazzo Oscuro avvicinarsi, un po' preoccupato. Leone fa lo stesso da un'altra testa, mentre Sfinge raggiunge i fratelli dalle retrovie:
«Sarebbe stato un peccato non approfittare di quel corpo» si giustifica, prima ancora che qualcuno le rivolga la parola. Ma ciò non impedisce a Chimera di accusarla
«Come fai a pensare a questo, in un momento del genere!? Spero almeno che tu l'abbia lasciato tutto intero!»
«Ma fratellone, è il corpo di un Dio: si rigenererà, è proprio questo il bello!» sogghigna.
Alla fine, il Gigante è abbastanza vicino all'Ecatonchiro perché questo se ne possa accorgere; ad un tratto tace, e con molta difficoltà gira la testa il tanto che può per guardarsi alle spalle.
«Di nuovo tu! Devi qualche spiegazione al tuo re, gigante!» urla.
Ma prima ancora che questo possa rispondere, interviene Chimera:
«Siamo stati noi a liberarlo» l'Ecatonchiro sembra accorgersi solo ora degli Echidnidi.
«Impossibile! Degli esserini così minuscoli!»
«E invece è così! Anzi, per la precisione il merito è di Ares!»
«Cosa!? Quello sporco Olimpico!? E' ridicolo! Perché mai un Dio dovrebbe avere compassione per un gigante?!»
«Anch'io la pensavo come te, Re dei Giganti, ma poi mi sono ricreduto: Ares è intenzionato a rovesciare l'Olimpo!»
«Vuole continuare la profezia, eh?»
«Quale profezia?» chiede sorpreso il mostro.
«Quella che ha portato Zeus a detronizzare Crono, suo padre, nella leggendaria Titanomachia, la Prima Guerra Divina! Noi c'eravamo! Io e i miei due fratelli! Combattemmo al fianco degli Dei e li aiutammo a trionfare! Ma poi ci tradirono, tradirono Gea, nostra madre, e così esplose la Seconda Guerra Divina, la Gigantomachia! Ma fummo sconfitti, i miei fratelli uccisi e io lasciato in catene, Re di una stirpe prigioniera, ridotta a reggere le isole dei dannati nell'Ade...»
«Ma questa profezia... è davvero fondata?»
«Certo! Prima di Zeus, Crono stesso aveva rubato il potere a suo padre, Urano: generazione dopo generazione il governo di questo mondo deve cambiare mano, da padre a figlio»
«Ciò significa che il Fato è dalla nostra parte, Centimane! Ci aiuteresti a far sorgere una nuova generazione di Dei?»
«Farei di tutto per farla pagare a Zeus! Ma purtroppo sono in catene da millenni ormai! Finchè Ade sederà sul Trono Oscuro, io sarò prigioniero»
«Che coincidenza - ghigna Chimera - devo giusto entrare nel Palazzo»
Non fa in tempo a finire la frase che un frastuono esplode in lontananza:
La colossale bocca di Caronte, scavata nella roccia all'entrata dell'Ade, vomita una miriade di quelli che da lontano sembrano piccoli insetti, tanto che la scena ricorda Thanatos e i suoi sciami, ma i lampi abbarbaglianti che quegli esseri lanciano in ogni direzione non lasciano spazio a dubbi: quelle sono armature dorate dell'Olimpo!
In testa a quel fiume aureo si riconosce un'enorme sagoma procedere a grandi salti tra un'isola e l'altra, con una facilità senza pari.
«Fratello!» urlano all'unisono i figli d'Echidna.
E' proprio Cerbero, che scappa dalla valanga di Guardie su grifone che lo inseguono scagliando frecce e lance d'oro, mentre cerca di ostacolarli sputando, ogni tanto, qualche fiammata alle sue spalle.
«Fratelli miei! - urla una volta giunto abbastanza vicino da poterli riconoscere - Ares vi ha portato il messaggio di nostra madre? Dov'è adesso?» ansimano spartendosi le frasi le tre teste, una alla volta.
«Sì; ma Thanatos ha portato via la sua anima, nel Palazzo Oscuro, e ora la riprenderemo!» gli risponde Chimera.
«So che puoi farcela, Chimera, ma io non posso più combattere da solo contro le Guardie! Sono ore e ore che lo faccio, forse un giorno intero! Mi hanno ferito, non ci vedo più da un occhio!» infatti ha una vistosa ferita sull'occhio destro della testa centrale, ricoperto di sangue ormai incrostato, e numerose altre ferite su tutto il corpo.
«Hai fatto un buon lavoro! Ora ci pensiamo noi!»
«Fratello - interviene il Leone - tu vai, noi ci assicureremo che non entrino nel Palazzo»
Chimera fa viaggiare lo sguardo tra i suoi fratelli e il muro di nemici che si avvicina sempre di più, ma poi si decide, afferra il corpo del Dio e spicca il volo verso il Palazzo.
Ormai Cerbero è giunto all'Ecatonchiro e si ferma su un'isola minore retta da questo, per poi voltarsi ed affrontare le Guardie a testa bassa.
Sfinge ordina velocemente al gigante che regge l'isola dell'Idra di farsi avanti e questi ubbidisce, schierandosi davanti al suo Re.
L'enorme stormo di grifoni suona i suoi corni santi, attirando i satiri rimasti in tutto l'Ade, che si uniscono alla carica saltando in groppa ai mostri alati.
Il muro del suono composto di urla e ruggiti investe gli Echidnidi prima di quello di carne e metallo. Tutte le teste dell'Idra sibilano all'unisono verso il nemico.
Facendo ciò, però, devono lasciare la presa sul Gigante che le regge. Questo, a tradimento, lancia l'isola verso l'alto con un ultimo, immane sforzo e inizia a correre verso gli emissari dell'Olimpo implorando pietà a gran voce «NON SONO CON LORO! MI HANNO COSTRETTO!».
Ma a quanto pare non è sufficiente e delle guardie si passano una spessa corda che tendono sulle gambe del gigante, facendolo cadere, mentre altre guardie lo tempestano di frecce e lance.
L'Ecatonchiro, nonostante la stretta delle catene, getta via un'isola da una delle sue innumerevoli mani e afferra al volo quella dell'Idra, salvandovi gli occupanti.
Nonostante la fatica, ha l'energia sufficiente per cacciare un urlo possente: «NO! Si era arreso! Luridi servi degli Dei!»
Ritorna il fiato a Chimera, che aveva assistito alla scena senza respirare per l'apprensione, e finalmente si decide ad entrare nel Palazzo a cui aveva dato le spalle: si volta, ma la struttura stessa dell'edificio, le sue membra fatte dei gargoyle più mostruosi esistenti, ringhia contro di lui, per bloccargli il passaggio.
Alle sue spalle il muro di nemici si abbatte finalmente su Idra, Sfinge, Leone, Cerbero e l'Ecatonchiro: inizia la Battaglia dell'Ade.

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Capitolo 37
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 28: Il Dio in catene ***


Capitolo 37 - Il Dio in catene La luce, proveniente inizialmente da un punto, lo circonda, lo ingloba, lo ingoia e poi lo sputa, e quando il lampo abbagliante è morto ritorna un'oscurità, diversa da quella di prima, ma forse più lugubre: l'unica fonte di luce sono delle fiammelle blu, fuochi fatui che danzano sulla sua testa, abbastanza in alto da diffondere la loro tenue e fredda luce per l'ambiente circostante. Questo è formato da un'enorme spazio, di cui la luce non riesce a raggiungere i confini, ma solo enormi colonne composte di statue di mostri, affastellate una sull'altra, che sibilano e ringhiano, ficcando i loro occhi mostruosi in quelli di Ares: sono vive!
Davanti al Dio, ancora un po' spaesato dagli eventi, un gigantesco trono, composto anch'esso dai mostri della peggior stirpe, anch'essi vivificati da qualche oscura magia; ma la scena viene completamente rubata da colui che vi siede sopra: Ade, della stazza più simile a quella di un Ciclope che a quella di un Dio, se ne sta tronfio sul Trono Oscuro, la testa abbassata e i lunghi capelli color pece che si uniscono alla barba altrettanto nera scendendo sul corpo possente e nascondendo il viso.
Enormi catene, quelle che imprigionano i giganti, spuntano dall'oscurità e come fiumi confluiscono l'una nell'altra, fino a diventare solo due e a trasformarsi in serpente che avviluppa il trono in catene più piccole, per poi trasformarsi di nuovo, spuntando dal groviglio di metallo per intrappolare i quattro arti del Re dei Morti e inchiodarlo al suo seggio.
Oltre a lui, c'è solo un'altra figura, nera, immobile nel rimescolio continuo del suo mantello: Thanatos.
Ares, riconoscendolo, monta in collera e scatta per colpirlo con un pugno, ma questo oltrepassa il bersaglio come fumo che si infrange su un corpo solido. Ritrae allora il braccio di scatto, ma è ancora lì: il suo braccio ha semplicemente ignorato la materia, come un raggio di luce attraverso un vetro.
«Ares - inizia con tono derisorio Ade, senza muovere il capo - nelle condizioni in cui sei adesso non puoi nuocere a nessuno, specialmente a Thanatos: sei anima senza corpo, uno spirito, uno spettro, sei altra cosa dalla materia e quindi non vi puoi interagire, specialmente se questa è priva di vita, come il nostro Demone Ancestrale qui... d'altronde, poco hai potuto contro di lui in vita, figurarsi da spettro...»
Ares, colpito in pieno dalla provocazione, urla:
«E tu invece? Se provassi a colpire te? Ce l'avresti un'anima?»
«Io, mio caro nipote? - ridacchia - Beh, vedi, io ho molte anime... In effetti, io possiedo tutte le anime di quanti si trovino nel mio Regno!» detto questo, una luce intensa squarcia il corpo del Cronide, esattamente come era successo ad Ares prima di venire inghiottito da Thanatos, ma con un lampo decisamente più forte.
Subito dopo, come una farfalla che sboccia dalla crisalide, l'anima del Dio si solleva dal suo corpo materiale, lasciandolo comunque intonso, lì fermo sul Trono a reggere i Pilastri del suo stesso Regno.
«Ares - ricomincia quello, deciso, finalmente mostrando il viso sotto la chioma e le labbra parlanti - sei comunque un Olimpico, un membro del Dodekàteon, quindi, nonostante gli empi e vergognosi atti da te commessi, meriteresti un processo nella Cittadella Sacra. Ma siamo a migliaia di stadi sotto quel sacro marmo, nel mio Regno! E io non tollero che mi si manchi così di rispetto! Cos'hai da dire a tua discolpa?»
«Ade, io non ho alcun interesse nel coinvolgerti nella Guerra che sta per scoppiare, è una questione che riguarda me e mio Padre, ma dovresti ben sapere cosa si prova a subire l'ingiustizia dell'Olimpo, proprio tu, Re Prigioniero, uno dei Tre Fratelli, costretto a regnare sui morti in mezzo a mostri e desolazione, senza mai poterti muovere da quel Trono maledetto né tantomeno vedere la luce del giorno»
«E tu invece che ne sai?» lo interrompe alzando la voce.
«Io... Io sono destinato ad un ruolo ben superiore a quello a cui sono stato relegato da Zeus... Io sono destinato a prendere il suo posto!»
«BLASFEMIA!» tuona Ade.
«No invece! Blasfemia è che sul trono Olimpico sieda ancora mio padre! Il Fato vuole che ad ogni padre succeda il figlio, che conduca questo mondo in una nuova Era. Questa profezia ha guidato proprio Zeus contro i Titani ed è più antica persino di questi! Il Cosmo intero brama la mia ascesa! Ma la profezia non parla di zii o altre parentele, quindi, se non sarai suo alleato, io non sono tenuto ad affrontarti... anzi, potresti essere mio alleato! Potremmo vendicare l'affronto che i tuoi Fratelli ti hanno fatto relegandoti negl'inferi!»
«Tu sei pazzo! Il Mondo è in pace da secoli grazie all'Olimpo, e non sacrificherò questa pace per sete di gloria o vendetta! Mi dispiace, ma tu sei un pericolo per l'intero Cosmo di cui invece ti proclami rampollo, quindi vai eliminato, seduta stante!»
Queste parole, rimbombando per tutta l'oscurità del Palazzo, richiamano uno sciame di anime che affluisce da tutto l'Ade per congiungersi con l'anima del loro Re: questo viene avvolto come da una tempesta di spiriti che iniziano a vorticargli intorno ma aderendo alla sua forma, facendo crescere la sua stazza ancora di più.
«Io sono il Padrone degli Spiriti! - annuncia Ade accompagnato da un coro di mille voci unisone, che ricordano terribilmente Thanatos - posso usufruire di loro a mio piacimento, vivificandone statue - e indica le colonne - o facendole diventare mia armatura vivente e parte di me!»

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Capitolo 38
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 29: Gargoyle di guardia ***


«Devo immaginare che voi dobbiate intralciare il mio cammino, vero?» chiede Chimera, con una punta di sarcasmo.
Le orribili statue viventi, di risposta, rincarano la dose di ringhi e sibili.
L'Echidnide, allora, estrae la lama dalla fronte e si posiziona in assetto da battaglia.
I Gargoyle non se lo fanno ripetere e una colonna si smembra quando un drago, un ciclope a due teste, un'enorme scorpione e uno strano, altrettanto enorme, uomo cinghiale saltano giù dalla loro postazione.
«Tutti contro uno, eh? A me sta bene!» commenta Chimera.
Subito parte la pesante carica delle guardie di pietra, la prima a trovarsi faccia a faccia con il mostro è il ciclope a due facce, armato di clava, che cerca di fracassarla sul cranio del nemico, ma questo è più veloce e, con un battito d'ali, sguscia via dalla traiettoria dell'arma, tranciando nel frattempo una gamba della statua, che crolla a terra frantumandosi.
L'Echidnide non ha però il tempo di complimentarsi con se stesso dell'azione che subito il drago, con un battito delle marmoree ali, lo atterra piombandogli addosso dall'alto.
Con le zampe artigliate gli ha fermato l'arto armato, e, nonostante la sua grande forza, Chimera non riesce a divincolarsi. Le zanne di pietra sono ormai a poche dita dalla sua faccia e stanno per strappargliela via, ma il il figlio di Echidna finalmente si decide a sputargli in faccia il suo alito di fuoco.
Dopo un'esposizione prolungata a quell'intenso calore, la faccia del drago non si riconosce più: ha fuso la roccia! Ma ancora non molla la presa, sebbene non sembri più nemmeno muoversi.
Intorno a lui, le altre statue, però, si stanno avvicinando, e Chimera farebbe meglio ad inventarsi qualcosa. Disperato, inizia a sferrare calci con entrambi gli zoccoli al ventre della bestia immobile, riuscendo a incrinare la roccia.
I nemici sono sempre più vicini e l'unica cosa che può fare è continuare a tirare calci.
 
A non molta distanza, nel frattempo, infuria la battaglia tra i suoi fratelli e quella che sembra essere almeno metà dell'esercito olimpico.
«L'obiettivo primario è penetrare nel Palazzo e contattare Ade» fa schietto uno di loro, lontano dalla prima linea, con un portamento e un'armatura che lo distinguono dalle altre Guardie: è certamente un loro superiore.
Il Palazzo sembra trovarsi nell'occhio di un ciclone d'orato, dato che lo sciame vi ronza davanti, ma è miracolosamente bloccato dagli Echidnidi poco prima dei suoi confini.
L'Idra fa grandi bocconi di grifoni e uomini; il Leone li respinge con i suoi boati, disarcionandone anche molti che finiscono poi la loro lunga caduta nella lava. Sfinge, in volo, affronta i grifoni nel loro elemento, l'aria appunto, e sembra essere quella più in difficoltà; quasi quanto lei, Cerbero, distaccato dai fratelli, è spossato dalla lunga battaglia sostenuta ai Cancelli, ma si fa ancora valere a suon di fiammate e morsi.
L'Ecatonchiro, dal canto suo, riesce a muovere di poco i grandi e innumerevoli arti, ma, quando può, colpisce un gran numero di nemici con intere isole, anche se sicuramente vorrebbe avere più libertà per riuscire a scagliargliele proprio addosso.
 
Finalmente, le zoccalate hanno scavato la loro strada attraverso il corpo del Gargoyle-drago fino a mandarlo in frantumi, liberando Chimera. Costui fa appena in tempo a rialzarsi, che un pungiglione fa capolino poco sotto la sua spalla destra, attraverso il petto.
Il sangue sgorga a fiotti, imbrattando nuovamente quella pelliccia leonina, il mostro lo fissa senza fiato, con gli occhi sgranati.
«Non sei velenoso, giusto? Sei di pietra, come potresti avere del veleno?» chiede Chimera col fiato corto, senza perdere la vena cinica.
Intanto, la coda a cui è attaccato lo scorpione lo issa in alto e due tenaglie gli afferrano saldamente le gambe caprine: lo Scorpione vuole farlo letteralmente a pezzi!
Inizia infatti ad applicargli tensione, ma Chimera oppone resistenza.
Nel frattempo l'uomo con la testa da cinghiale ha preso posizione davanti a Chimera e, ora che è immobilizzato e quasi esposto come un drappo contro un toro, lo carica proprio come farebbe questo. L'Echidnide, però, brandisce ancora la sua arma e con questa colpisce in pieno la fronte del nemico. La roccia si incrina, ma il Facocero non si ferma e addirittura riesce a spostarlo insieme allo Scorpione verso l'entrata del Palazzo.
Alla fine, Chimera riesce a deviare la sua corsa contro una zampa dello Scorpione che, prontamente, va in frantumi. Con una gamba libera, può fare leva per sfilarsi lentamente e dolorosamente il pungiglione dalle carni.
Successivamente, con un unico gesto, si  volta e pianta la lama dritta fra gli occhi della statua vivente.
L'Uomo-cinghiale, ha frenato la sua corsa, e ora si volta verso la sua preda.
Frastuono di roccia in movimento: ad un tratto tutte le statue sembrano mobilizzarsi e miriadi dei mostri più strani, nella loro versione gargoyle, spuntano dall'oscurità che infesta il Palazzo, il quale, comunque, stranamente non sembra risentire dell'attuale mancanza di colonne e, quindi, sostegno, ma se ne sta sempre dritto, anche lui, sembra, quasi minacciando l'invasore in qualche modo.
Un dolore lancinante, insopportabile, costringe Chimera in ginocchio, a vomitare sangue ai suoi stessi piedi: la ferita è grave, non avrà il tempo di combattere tutti quei mostri.
 
Sarà qualche tipo di collegamento fraterno, anche i mostri ce l'hanno? Fatto sta che Sfinge avverte il pericolo in cui si trova Chimera e si volta verso di lui, abbassando la guardia. Questo basta perché un grifone, lanciato a tutta velocità, l'afferri al volo e continui con lei la sua corsa, fino a schiantarla contro il frontone del Palazzo.
L'impatto è fortissimo ed è un miracolo che Sfinge sia riuscita anche solo a rimanere cosciente. Il pericolo però è tutt'altro che scampato: il grifone, gli artigli nella carne, la trattiene ancora contro la roccia, e la Guardia sulla sua groppa impugna un lungo giavellotto dorato che ora sta per conficcarle dritto in faccia.
L'Echidnide, però, è più veloce e con gli artigli acceca la sua cavalcatura che, imbizzarrendosi per il dolore, lo disarciona.
Sfinge fa per tornare dai suoi fratelli, ma qualcosa la blocca: è il Tridente di Poseidone! Non quello vero, bensì la sua riproduzione in pietra, in scala maggiorata. Appartiene a chi ci si aspetterebbe: Poseidone, gigantesco, anche lui in pietra, spunta per tre quarti dal muro del frontone cesellato di teschi, il che non gli concede di voltarsi verso il mostro, ma gli dà abbastanza libertà, appunto, per imprigionarla con la sua arma.
La stretta è sempre più forte e rischia di stritolarla.
 
Chimera, molto più giù, è troppo preso dalla sua risoluzione per accorgersi di tutto ciò: con gesto sempre scenico, infiamma la sua lama, poi afferra con le fauci il corpo nudo e inerme di Ares che aveva precedentemente accantonato e decolla a tutta velocità tuffandosi negli oscuri meandri del Palazzo.
La lama come torcia non è un gran che, e la luce basta solo a illuminare flash violenti di asce, mani, spade, artigli, zampe di qualunque tipo e persino qualche tentacolo che dal basso cercano di afferrare l'invasore spuntando dal nulla e rimandando, con la loro superficie lucida di pietra, piccoli lampi di quella debole fiaccola.
Dopo essere sfuggito velocemente a tutti questi assalti, dovendo ogni tanto ricorrere a qualche calcio caprino nei casi di gargoyle più grossi o più agili, finalmente intravede una luce davanti, estranea alla sua spada.

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Capitolo 39
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 30: il Re degli Spiriti ***


Capitolo 39 - il Re degli Spiriti Accresciuto da tutte le anime accorse, la stazza del Dio è diventata ancora più spaventosa, Ares solo per guardarlo in faccia deve fare un passo indietro e un'enorme mano scheletrica, di pietra gli attraversa quello che, se fosse stato un corpo, si sarebbe chiamato addome: è lo schienale di una sedia, quella a capo di una lunga tavola che Ares nota solo ora.
Senza troppi preamboli, Ade sferra un'enorme pugno composito di decine di anime.
Ares avverte una sensazione stranissima: rabbia, istantanea, violenta, come quando ti stritola il petto dopo aver ricevuto una notizia scomoda, un colpo al cuore. E' stato proprio quello un colpo al "cuore"... ma sembra sia stato alquanto solido, tanto da farlo volare per tutta la tavolata.
Poi un'altra sensazione, calda, piacevolissima, suadente, gli pervade il corpo come un sorso di latte caldo quando attraversa il trono dorato all'altra estremità del tavolo.
«Mia Regina!» urla Ade, infuriato.
Ares atterra poi qualche piede dopo, scombussolato e senza aver capito nulla di quanto gli sia successo.
«Come hai osato toccare la mia regina!?» ruggisce Ade.
Due paia di tentacoli, anch'essi formati da anime concatenate fra loro, spuntano dalla schiena del Dio Infero e attanagliano Ares.
Di nuovo, al posto del tocco di quei tentacoli, altra strana sensazione, ancora più inusuale per l'Enialo: sensi di colpa? Immagini di tutti i suoi crimini gli passano davanti come lampi improvvisi, un tarlo gli scava lo stomaco... se solo ne avesse uno.
«Che cosa mi succede?» fa quello, automaticamente, come se parlasse tra sé e sé ad alta voce.
«Non hai un corpo - risponde Ade - quindi non puoi avvertire dolore, né altre sensazioni fisiche, ma io, perché fatto di pura energia spiritica, posso colpirti. Questo paradosso viene risolto dalla tua anima trasformando ogni mio colpo in qualcosa che può avvertire, qualcosa che colpisce lo spirito, e non il corpo. Probabilmente stai avvertendo varie sensazioni, emozioni, ad ogni mio tocco. E si dà il caso che tu non sia mai stato un granché con le emozioni: troppo duro, tu, Dio della Guerra. Provare emozioni non fa per te! E così hai allenato solo il tuo corpo, l'hai reso invincibile, ma hai lasciato indietro il tuo spirito, debole, esposto anche ai più basilari colpi della vita normale, tanto, avrai pensato, neanche la vita normale fa per te: passerai l'eternità combattendo! Non c'è tempo per il "normale"»
«Smettila!» prorompe Ares, cercando di divincolarsi.
«Ho appena iniziato» sogghigna Ade di risposta, prima di sferrargli un altro pugno, stavolta verso il basso.
Terrore. Deve affrontare il Re degli Spiriti.
Subito scompare nel pavimento del Palazzo, per poi riapparire dall'altra parte in un'enorme sala, più illuminata della precedente da una soffusa luce gialla. Dove dovrebbe esserci una parete, c'è un enorme cancello di bronzo, tenuto insieme da altrettanto grandi catene, incise delle stesse antiche rune presenti sulle falci di Thanatos e sul corpo divino di Ares. Lo spazio oltre quel cancello, non sembra appartenere a quella stanza, anzi, neanche a questo Mondo, in verità: vi regna l'oscurità più totale.
Ares, ancora in caduta libera, ne viene catturato, ipnotizzato, il suo sguardo perso tra quelle sbarre. Poi, due occhi, giganteschi, terrificanti, si aprono nel buio e lo trafiggono, poco prima che l'anima del Dio attraversi anche il pavimento di quella sala e questa scompaia alla sua vista.
Quando riemerge, ha trapassato l'isola ed ora è in caduta libera verso l'Ecatonchiro.
Ade, ricompare al suo fianco e lo afferra per un piede.
Dubbio. Ce la farà a rovesciare Zeus se non sembra in grado nemmeno di sconfiggere Ade?
«Vuoi ancora continuare a combattere?» chiede Ade.
«Non ho nemmeno iniziato!» fa Ares, cercando di scacciare quei pensieri e farsi forza.
Con un calcio, spinge via Ade, che non sembra opporre resistenza, poi, a mezz'aria, come fosse la cosa più naturale del mondo, si rimette dritto e sferra un pugno contro il nemico.
Il Re degl'Inferi, però, oltre che grosso è anche molto veloce e si abbassa schivando il pugno, per poi colpirlo a sua volta con un altro poderoso gancio.
Frustrazione. Ares digrigna i denti mentre vola all'indietro, impotente.
Ade lo raggiunge in volo, ma non lo attacca, anzi gli sussurra:
«Guardati intorno»
I due sono finiti nel bel mezzo della battaglia: nugoli di Guardie dell'Olimpo si abbattono a ondate su gli Echidnidi, come fossero un'unica arma.
Idra cerca di ingoiarli al volo, ma i Grifoni sono troppo veloci e sfuggono alle sue fauci mentre i loro cavalieri imprigionano le teste con delle spesse corde dorate, evitando così di tagliarle aumentandone il numero.
Il Leone viene scaraventato su un'isola retta dall'Ecatonchiro, dove un singolo dannato spinge un'enorme masso rotondo su per una collina. Sembra affaticato, sebbene non abbia evidenti ferite e riesca a respingere i nemici coi suoi poderosi ruggiti prima che riescano a catturare anche lui.
Sfinge invece è bloccata al frontone del Palazzo da un sovradimensionato Poseidone di pietra e dal suo Tridente.
Cerbero, su un'altra isola ancora dell' "arcipelago" retto dall'Ecatonchiro, disseminata di enormi palle di ferro irte di lunghi aculei, è circondato da una manica di satiri, mentre un circolo di Guardie su grifone gli vola intorno, scagliando frecce.
Briareo, infine, sembra essere dalla parte degli alleati dell'Olimpico, ma riesce a muoversi poco e, per lo più, urla.
Di Chimera nessuna traccia.
«Questa "battaglia" tra poco diventerà un massacro. I tuoi "potenti alleati" sono in pochi e da soli non potranno mai fare niente contro le forze dell'Olimpo e degl'Inferi, perché pensi che non siano mai riusciti a scappare prima, se avessero potuto farcela? E tu, ormai, non hai più nemmeno un corpo. Lasciati assorbire da me e tutto sarà finito, continuare a lottare ti farà solo soffrire di più!»
Nel frattempo ancora sfrecciano tra le armate Olimpiche.
Ma Ares ha un improvviso moto d'orgoglio e afferra Ade
«Non mi importa se tutto sembra essere contro di me: il Fato vuole che io trionfi, e trionferò!»
Detto questo, gli sferra un pugno facendolo volare in alto per poi seguirlo a ruota.
Nessuno ancora sembra notarli, mentre attraversano vari corpi di grifoni e cavalieri, forse non possono. L'Enialo, però, forse per la prima volta, avverte quello che provoca nei suoi avversari quando carica in battaglia: il terrore della guerra, l'impeto, il tumulto. Tutti raccontatigli per l'immobile e silente bocca di quelle anime, attraversate per un istante.
Ade e Ares si restituiscono colpo su colpo sfrecciando per tutto il campo di battaglia, tra le teste dell'Idra, dentro le urla del Leone e attraverso le braccia del Centimane.
La mente del Dio Empio è ormai in preda a violenti spasmi emozionali, con sentimenti contrastanti che la dilaniano all'alternarsi dei colpi avversari.
Tutto questo, in quella strana sinestesia di spirito e sua manifestazione fisica, si traduce nel fiatone dell'Olimpico Ribelle.
Ade, invece, non sembra avvertire nessun tipo di stanchezza.
Entrambi, ora, fluttuano a parecchi stadi sopra il Palazzo Oscuro e il campo di battaglia, da cui ancora giungono lampi dorati e urla di guerra.
Il Dio della Guerra non sembra, però, intenzionato a cedere, e Ade, non vuole concedergli speranze.
«Forse non ti è chiaro: questo non è uno scontro alla pari, ma un'esecuzione capitale! - Sentenzia Ade - Se proprio non vuoi rassegnarti all'idea, dovrò usare tutto il mio potere!»
Con un urlo, un'altra miriade di anime, un muro etereo, si solleva da tutto l'Ade e corre verso di lui.
«Ora te la vedrai contro TUTTE le anime del mio Regno! Chiunque sia morto dall'Alba dei Tempi! E la cosa divertente è che una buona parte di loro è qui per colpa della Guerra, per colpa tua! AHAHAHAHA!»

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Capitolo 40
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 31: la Regina degl'Inferi ***


Capitolo millemila - la Regina degl'Inferi Sono fuochi fatui, sospesi in circolo sopra una lunga tavolata e un Trono, avvolto da catene, sul quale siede Ade in persona.
Subito Chimera è spaventato dalla vista, ma nessuno sembra curarsi di lui, tranne i soliti mostri di pietra che cercano di acchiapparlo.
Alla fine atterra proprio davanti al Trono e, abbandonato il corpo di Ares ai suoi piedi, si guarda intorno: non esistono più colonne, tutti i Gargoyle hanno abbandonato la loro postazione e adesso circondano l'Echidnide come un mare di pietra. Si avvicinano, lentamente, minacciosamente.
D'istinto, Chimera sale sul Trono e punta la sua lama infuocata contro il corpo di Ade, che non sembra reagire.
Impacciato, minaccia:
«Fermi! o uccido il vostro Re!» prontamente, le statue si immobilizzano come... beh, statue.
Ma tutti i Gargoyle ancora sibilano, ringhiano e minacciano Chimera. Questo, dal canto suo, ha finito le idee e sembra giunto ad uno stallo.
«Fallo!» urla una voce femminile, veloce, nervosa.
«Chi ha parlato!?» chiede ad alta voce il mostro, avvicinando ancora un po' di più le fiamme della sua lama al corpo del Dio dei Morti.
«Sh! Non rispondere» fa di nuovo quella, sempre veloce, ma stavolta quasi a bassa voce, come volesse sussurrare.
Poi, un viso, o almeno metà di un viso, spunta in mezzo ad un candido velo, teso sopra un piccolo trono dorato all'altro capo della tavolata, al di là di un altro individuo ma che sembra più statua di quelle che circondano la scena.
Sebbene ancora coperto per metà da quel bianco e leggero sipario, anche solo quella metà di un volto è bellissima, delicata, luminosa, in così forte contrasto con l'ambiente tetro e cupo circostante. Quell'occhio, azzurro, languido, punta verso Chimera e non sembra per niente intimorito dal suo mostruoso sembiante; ma tutt'a un tratto viene scosso come da una scarica elettrica e si contrae per accompagnare le dolci labbra ad urlare: «FALLO!»
«Sai che non può ucciderlo! E' immortale! Tornerà e ci punirà» cerca di sussurrarle quell'altra voce, che non viene emessa dalla sua bocca, ma sembra provenire anch'essa da dietro quel velo.
«Ma chi sei tu?» chiede stupito Chimera.
«Io... io, ahimè, sono la regina di questo triste regno» risponde, calmando la voce, trasformandola in una delicata ed innocente carezza.
«P-Persefone? Figlia di Demetra, nonché sposa di Ade?» incalza ancora più basito.
Un istante di silenzio, la regina sembra addolorata da quelle parole.
«Allora perché vuoi che uccida tuo marito?»
«Perché!? - urla di nuovo - Perché quell'essere immondo mi ha rapita e costretta, con l'inganno, a rimanere qui, segregata, sei mesi all'anno, solo per aver mangiato sei piccoli semi di questa maledetta melagrana -indica il piatto davanti a se con un cenno della testa - e in più mi nasconde dietro questo velo, geloso di me e timoroso che qualcuno possa vedere la "sua regina"! Come se a me piacesse farmi vedere in questo stato!» scatta in piedi sbucando interamente dal velo.
Così com'è bella la metà che aveva esposto, così è terrificante quella che era rimasta dietro il velo: molto più simile ad un cadavere mummificato che alla Dea che le fa da controparte sinistra.
«Questo frutto maledetto non mi ha solo diviso tra mia madre e il mio sposo, ma ha anche diviso me stessa, il mio corpo, la mia personalità!»
«Non è cauto farci vedere! Lui ci punirà!» fa timorosa, la metà sinistra della sua bocca, che sembra potersi muovere autonomamente con le sue labbra ruvide e grigie come il resto di quella pelle.
«Ma se lo faccio, tutte queste statue mi massacreranno!» protesta Chimera, dopo un veloce e timoroso sguardo ai Gargoyle ancora in agguato.
«Se non ho capito male, tu e Ares volete dichiarare guerra all'Olimpo, giusto? Beh allora vi serviranno alleati potenti... e si dà il caso che dal corpo di "mio marito" dipenda la libertà di tutti i Giganti imprigionati nell'Ade, alcuni dei più antichi nemici degli Dei: distruggere le catene è impossibile, ma dilaniare il suo corpo no...»
«Ho già promesso all'Ecatonchiro la libertà, ma non pensavo di dover fare a pezzi il corpo di Ade in persona...»
«A te la scelta: salvare te stesso o i tuoi compagni...» termina Persefone, di nuovo con quella voce suadente, voltandosi e dandogli le spalle.
Chimera sposta lo sguardo tra l'orda di pietra che lo circonda, le delicate spalle di Persefone e Ade, lì, immobile ai suoi piedi. Deglutisce sonoramente: non ha mai dovuto fare una scelta così difficile... donare la sua vita... alla fine Ares è pur sempre un Olimpico! Ma da quella decisione dipende anche la sorte dei suoi fratelli...
Alla fine stringe la presa sull'elsa di corno della sua spada, per darsi forza, e caccia un urlo sonoro: ha deciso! Alza la spada per preparare l'affondo e il cerchio di Gargoyle all'improvviso si rianima e ricomincia a stringersi, correndo verso l'invasore.
La lama infuocata penetra nelle carni divine, infiammandole a loro volta. Il mostro serra gli occhi e digrigna i denti, ormai pronto alla sua fine...
Ma questa non arriva e, nel buio delle sue palpebre, avverte prima uno schianto, poi diversi.
Apre gli occhi e le statue, fermatesi nuovamente di colpo, stavano cadendo una dopo l'altra, per inerzia, infrangendosi al suolo.
«Ma che...?»
Quando aveva riaperto gli occhi, Persefone si era già voltata nuovamente verso di lui, e ora osservava la pioggia di pietra infranta, con sguardo riflessivo.
«Ade deve essere nei guai» commenta infine.
«Ma certo che è nei guai! Va a fuoco e ha una mia spada piantata nel ventre!»
«Quello è soltanto il suo corpo, è la sua anima ad essere in difficoltà...»
«...Vuoi dire che la sua anima non è nel suo corpo? E' per questo che non si muove?»
«Già, e sembra che abbia richiamato a sé tutte le anime dei morti, comprese quelle che animavano queste statue. Quindi o era in difficoltà o voleva chiudere la faccenda alla svelta... Di sicuro, chiunque se la stia vedendo con lui, credo non avrà vita lunga»
«Non è qui...» ripete Chimera, uno sguardo sadico ed un sorriso inquietante si dipingono sul suo volto.
Poi estrae la lama dalla carne del Dio, ma solo per ficcarcela dentro ancora con più forza, mentre scoppia in una risata malefica e viene inondato dal sangue immortale.
Istantaneamente, le catene scattano e Chimera deve volare via dal trono perché l'ammasso di metallo inizia a vorticare fino a districarsi distruggendo il Trono e, alla fine, le enormi catene che vi dipartono iniziano la loro corsa verso la libertà.
«Ecco fatto...» fa Chimera, leccandosi il sangue divino dalla faccia, guardando soddisfatto i brandelli del Dio con gli occhi ancora sgranati in quella smorfia terrificante, soddisfatto.
«Ora non rimane che rimettere l'anima di Ares nel suo corpo... a proposito, dov'è?»
«Ho paura che sia proprio la sua anima a star affrontando Ade...»
«Cosa!? E quante possibilità ci sono che ce la faccia?»
«Nelle condizioni in cui è? Temo nessuna»
Chimera ancora una volta è incredulo: tutta quella fatica per niente.
Poi, però, finalmente posa lo sguardo su qualcosa che fino ad allora era passato inosservato, ai piedi del Trono, mentre lui era in quella difficile situazione
«THANATOS!» urla puntandogli contro la lama dopo aver esaminato quella massa nera e ronzante, i suoi serpenti che sibilano minacciosi contro il Demone.
«Non ti devi preoccupare di lui, non è attivo al momento»
Le parole di Ker riaffiorano in un istante nella mente dell'Echidnide: "Noi esistiamo da prima dell'Olimpo, ne siamo al di sopra, sia come giurisdizione che come forza!" "Vedi quella cosa nel suo occhio destro? Già, quella è una condanna a morte, sancita da Ade in persona"
«Persefone - inizia - Se io scrivo qualcosa in un foglietto e poi lo metto nell'occhio di Thanatos non funziona, vero?»
«Certo che no: la condanna deve venire direttamente dal pugno di Ade»
Ecco la fulminazione.
«Dove sono gli Occhi?» chiede secco.
Persefone gli indica un piccolo scrigno accuratamente riposto sull'estremità del tavolo più vicina al Trono. Chimera lo apre delicatamente: dentro, su un tessuto pregiato, sono adagiati i due bulbi dei diversi materiali, una lunga e solenne penna e un calamaio.
«Non hai capito? Solo la mano di Ade può impartire ordini alla Morte!»
Ma Chimera abbozza un sorriso e si volta per afferrare proprio una mano del Dio, separata dal resto del corpo come altre sue estremità e lembi.
Quando si rialza, però, nota uno spettacolo raccapricciante: le membra del Dio si stanno ricongiungendo, strisciano e infine, lentamente, si ergono di nuovo in un sol corpo, monco solo della mano che è tra le zampe del mostro.
Il corpo di Ade, però, non sembra più inerme, anzi, alza lo sguardo con un ghigno agghiacciante.
«Oh, avremmo dovuto dirti questo; avremmo dovuto dirti che il suo corpo può muoversi senza l'anima! Ahahah!» fa, gracchiante, la metà destra e sfigurata della Dea.
«Mi dispiace» si scusa, sincera e dispiaciuta, la giovane Dea, come non avesse potuto fare altrimenti che omettere quel "particolare".











Il Cantuccio: scusate l'abnorme ritardo, ma è iniziata l'università... e pensate che ho solo dovuto caricarlo sto capitolo, non scriverlo, dato che l'avevo già pronto... ma ora ci stiamo avvicinando pericolosamente alle parti ancora in scrittura... ho terrore

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Capitolo 41
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 32: la Battaglia dell'Ade ***


Capitolo 32: la Battaglia dell'Ade «Stiamo perdendo molti uomini, anche se siamo in schiacciante superiorità numerica. Abbiamo racimolato le ultime, sparute, guardie dell’Ade e dato l’assedio al Palazzo Oscuro, ma gli Echidnidi hanno formato una resistenza attorno all’edificio e non riusciamo ad entrare né a contattare Ade in persona. Non abbiamo visto traccia di Ares, ma presumiamo sia all’interno e stia combattendo contro Ade»
«Sentito, Padre!? – interviene, pedante, Apollo – ora si avvale anche della collaborazione di quei mostri! Insozzando il nome dell’Olimpo! E non è tutto, anche i suoi seguaci, quei Makhai si stanno muovendo, stanno tramando qualcosa… Ma questo voi lo sapete, anche se volete negarlo… so che avete visto, dal vostro trono, fra le nuvole: visto l’orda di Amazzoni che abbandona le terre selvagge ad Est guidate da Bia e Kratos, fratelli pestiferi, e Kydoimos, il più velenoso di tutti, a ricevimento alla corte di Sparta, per non parlare della loro visita a Eris… L’obiettivo di Ares non è l’Ade, ma l’Olimpo!»
«Basta! Apollo! Hai già detto abbastanza!» tuona all’improvviso Zeus, uscendo dal suo silenzio, seduto sul suo trono col gomito su un ginocchio e lo sguardo perso nel vuoto.
Di solito il Musageta avrebbe mantenuto un rispettoso silenzio, ma questa volta incalza, forse conscio della momentanea debolezza di spirito del Padre:
«Ma, mio Padre e Re, dobbiamo fare qualcosa! Mobilitare tutto l’Olimpo e i suoi alleati! Allertare i nostri Campioni! Non oso immaginare quale sarà il prossimo passo di mio fratello: sul fondo della spirale di odio e follia che l’ha portato a cercare l’appoggio di quei mostri immondi… potrebbe esserci molto di peggio! …Potrebbe addirittura…»
«NON OSARE!» un tuono, esplode da qualche parte molto vicino, mentre barba, capelli e quello strano tessuto che gli cinge braccia e gambe con lembi delicati e perlacei, fluttuanti leggeri nell’aria, si colorano di un rabbioso nero «Non… dirlo…» riprende, calmandosi e sedando la tempesta.
La guardia, intanto, era rimasta lì, in ginocchio, avvolta dall’oro sporcato della sua pesante armatura, tremando dalla fatica per la posa scomoda e la corsa fatta per giungere al cospetto del Padre degli Dei.
«Sei congedato – gli fa, secco, Zeus – va a riposarti»
Lo sguardo attonito di Apollo al saluto formale e impeccabile della guardia è più eloquente di mille domande
«Non prenderò provvedimenti in merito, ritengo che Ade e i suoi… “aiutanti” siano perfettamente in grado di gestire la cosa»














Cantuccio: Scusatemi. Tanto.
Mi era morto l'hard disk, e con lui tutte le storie.
Al tempo volutoci per sistemare il problema tecnico (imbarazzantemente tanto... e senza nemmeno aver del tutto risolto il problema) si è poi aggiunto quello necessario a riprendermi dal brutto colpo al morale.   Tra l'altro, avendo una memoria di praticamente nulla, le storie usciranno diverse e ovviamente di qualità più bassa delle originali u.u
Lo so che sono io stupido ad non riuscire a tenermi un HDD esterno dove salvarmele, o usare qualche cloud storage, ma perdonatemi.
Comunque, orsù, non era poi così tanto il materiale scritto, quindi si può fare. Ovviamente questo discorso vale anche per la mia altra long, se la seguite.
Alla prossima, che si spera essere molto più vicina della scorsa ;)
Ps: dimenticavo anche che ora ho un esame in ballo :(

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Capitolo 42
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 33: Gli Occhi della Morte ***


LIBRO II - Capitolo 32: Gli Occhi della Morte All’improvviso un frastuono metallico fra il fragore della battaglia, Ares distoglie lo sguardo dal suo gigantesco avversario e così fa questo, Ade, che mai da nulla sembra essere turbato.
Come un fulmine, il rombo serpeggia fra i capannelli di armature dorate e gli alleati di Ares, attirando l’attenzione di tutti e immobilizzando fendenti e zanne, frecce e fiamme, per un istante le lame tacciono.
Silenzio surreale, dopo questo sconosciuto rumore.
A scongelare l’Ade dallo stato in cui si trova improvvisamente a versare, un urlo, il più alto, forte, possente mai ascoltato: Briareo è libero.
Il Centimane si scuote per riprendersi dalla millenaria cattività e si sgranchisce gli innumerevoli arti mentre i vincoli che lo costringevano, simbolo della tirannia di Ade, della sconfitta dei Giganti, spezzandosi, corrono verso l’oceano di lava sotto di loro.
«Fratelli! – prorompe il Centimane, la sua voce riecheggia per l’aule infinite dell’Ade – questo è il momento di sollevarsi! L’oppressione degli Olimpici sta per giungere al termine! Vendichiamo nostra madre e i nostri fratelli caduti anni orsono!»
Altre urla di guerra si alzano da ogni parte, vicine e lontane. Molti Giganti aderiscono alla causa del loro Re e scagliano via le isole che da millenni gravano sulle loro spalle. Molti altri, però, non lo fanno: alcuni rimangono immobili, con gli occhi vuoti, come privi di una volontà loro, completamente trasformati in semplici Pilastri senza onore e dignità; altri ancora scoppiano in lacrime e, gettando via la loro isola solo per correre più veloci, scappano codardamente, accumulandosi intorno all’effige di Caronte, la cui bocca rappresenta l’unica uscita da quell’Inferno, e cercando di entrarci goffamente, sgomitando per essere i primi.
Alcuni dei Giganti ancora fedeli alla loro natura montano in collera alla vista di quell’ignominiosa fuga e cercano di far tornare in sé i loro fratelli, ma alla fine sfogano nella violenza fratricida.
Altri fedeli di Briareo, comunque, indirizzano il loro odio verso le truppe Olimpiche che ora sono costrette a guardarsi le spalle. Gli Echidnidi, che erano in seria difficoltà, ora hanno finalmente tempo per recuperare il fiato.
Il Leone, con un balzo, raggiunge la sorella Sfinge, ancora intrappolata dall’altorilievo di Poseidone e dal suo Tridente, liberandola.
«Dobbiamo raggiungere Chimera con gli altri» si precipita quella.
 
Il Corpo di Ade, silenzioso come al solito, ma stranamente sogghignante si avvicina lentamente a ciò che rimane del suo Trono, scansando le statue mostruose ormai inermi. Chimera, come impietrito anch’esso, stringe ancora fra le zanne il braccio del Dio e continua a far andare freneticamente lo sguardo da quello alla massa ronzante di insetti che avvolge Thanatos e allo scrigno contenente gli Occhi del Demone Ancestrale.
Infine Ade giunge al Trono Oscuro e infila il braccio sinistro, l’unico ancora integro, nella gola di un enorme serpente di pietra che faceva parte dello schienale, e ne estrae… un’enorme pala, la sua arma.
Alla vista di quella Chimera lascia perdere le esitazioni e scatta verso gli Occhi della Morte, gettando al suolo e distruggendo varie statue che gli ostruiscono il passaggio.
Ma con un’inaspettata velocità, data la mole ciclopica del Dio, Ade lo raggiunge e sferra un possente colpo col piatto della pala, un rumore, come il triste rintocco di una campana, scaturisce dallo scontro tra il cranio del mostro e il metallo dell’arma. Poi Chimera viene scaraventato via e frenato da decine di statue che vanno in frantumi al suo passaggio.
 
«Com’è possibile che qualcuno sia riuscito a spezzare le mie catene?» tuona Ade, quello vero, al di sopra del Palazzo Oscuro.
Sulla faccia affaticata e provata di Ares si disegna un sorriso perfido, forse c’è ancora speranza. Ma non è il momento per riposare, bisogna incalzare: Ares spicca un balzo e, come fluttuando nell’aria, arriva a colpire la gigantesca accozzaglia di anime che fanno da corpo ad Ade, distratto ora dalla furia della battaglia poco distante.
Il pugno del Dio Empio non trapassa la guancia dello Zeus Ctonio come avrebbe fatto con la materia, ma comunque non sembra sortire alcun effetto. Ade, ridendo di gusto, si volta verso di lui e commenta:
«Non puoi scalfirmi! Tutte le anime dell’Ade mi fanno da scudo, stai facendo soffrire loro al posto mio!» poi con una mano cerca di colpirlo, ma Ares è più veloce e lo scansa.
Da solo non riuscirà mai a sconfiggerlo, non nelle condizioni attuali.
Non sa chi è stato a liberare i Giganti, ma sa che deve contare su qualcun’altro per farla franca, altro incredibile smacco per il suo orgoglio. L’unica cosa da fare ora è prendere tempo e sperare.
Così inizia una tattica di mordi e fuggi: attacchi veloci che se anche sono portati con tutta la forza possibile non scalfiscono il nemico, e schivate rocambolesche.
 
Tutt’intorno al Palazzo lo sciame dorato ora è importunato dai Giganti che abbattono grandi quantità di Guardie con le sole mani. Anche l’Ecatonchiro ora rincara la dose: getta contro i Grifoni le grandi isole che è stato costretto a sorreggere per millenni come fossero sassolini.
Anche le truppe olimpiche, comunque, si fanno valere: un paio di Giganti soccombe alle loro lance e alle loro frecce e si perde per sempre nell’oceano di lava.
 
Chimera si rialza intontito, in bocca il braccio mozzato del Dio e nella zampa la spada ancora ricoperta di fiamme. Potrebbe essere comico: si ritrova con due bracci destri e nessun sinistro, adesso.
Ma il Corpo di Ade è ancora lì e parte per una nuova carica, sempre a scapito delle statue che si trovano sulla sua traiettoria. Stavolta l’Echidnide è pronto a controbattere: para la pesante pala non senza difficoltà, ma i due rimangono così in stallo. Ci pensano le due piccole teste d’Idra che ha per coda a sbloccare la situazione, conficcando le zanne velenosissime nelle enormi gambe divine.
Questo basta a far abbassare la guardia al Re degl’Inferi e Chimera ne approfitta per scostare l’arma nemica e, lasciato per un istante l’arto divino, sputare una palla di fuoco proprio in faccia al Dio che si allontana barcollando.
«Il veleno è inutile – commenta Persefone, il suo lato umano – è solo corpo, non avverte dolore, è come una marionetta, e inoltre non lo può uccidere perché è immortale, così come non lo ucciderà il fuoco»
«E allora come faccio a sconfiggerlo!?» urla disperato Chimera.
«Non puoi!» sghignazza Persefone, il suo lato cadaverico.
Per tutta la parte inferiore del corpo di Ade il veleno dell’Idra si espande attraverso le sue vene, facendole gonfiare e colorandole di nero, così che ora si stagliano sulla sua pelle biancastra. Nel frattempo la parte superiore, compresa la testa, è in fiamme, lasciando scoperta la carne sotto la pelle e rendendo quel ghigno ancora più terrificante. Mentre il figlio di Echidna osserva la scena, il braccio che aveva lasciato cadere si trascina verso il suo proprietario, come un verme che striscia sul ventre, finché il mostro non lo recupera infilzandolo con la spada e stringendolo poi fra i denti.
Come se niente fosse, comunque, quell’innaturale marionetta di carne ricomincia ad attaccare e Chimera, indietreggiando velocemente, evita i colpi, cosa che non possono fare le malcapitate statue, ma presto queste sembrano vendicarsi quando l’Echidnide finisce sua sponte in un affondo di una statua alle sue spalle e una lama di pietra gli spunta dall’addome: è la spada di un Gerione, gigante qui notevolmente ridimensionato, ma ancora con la peculiarità di possedere tre teste e tre busti con conseguenti sei braccia, ognuna armata di spada, e proprio su l’unica di queste protesa in avanti Chimera era andato a conficcarsi.
Ade si ferma solo per ghignare ancora un po’ della sfortuna del suo avversario, prima di alzare la pala al cielo e prepararsi per il colpo di grazia.
Ma Chimera risponde a tono:
«Questo buco ce l’avevo già» così con un fendente infuocato taglia l’ultimo braccio del Dio all’altezza del gomito che casca al suolo con tutta la pala ruggendo di un fragore metallico che riempie l’aria del Palazzo, poi pianta gli zoccoli al suolo e, con enorme sforzo e dolore, solleva la statua e la fa ruotare, colpendo il ventre del Dio con tante sciabolate quante sono le lame impugnate dalla statua; poi, tornato faccia a faccia col nemico, posa la roccia e stavolta è lui a sollevare gli zoccoli, sferrando un potente doppio calcio contro il nemico che lo scaraventa via fino di nuovo ai piedi del Trono.
Urlando dal dolore si sfila lentamente la lama dal corpo, poi nota la mano del Dio che si trascina con le dita verso il resto del corpo e la inchioda subito al suolo con la spada, facendole prendere fuoco.
Dall’altra parte il Corpo di Ade si rimette in piedi, niente sembra potergli cancellare quel ghigno senza labbra, divorate dalle fiamme ancora vive, e ormai circondato dall’osso scoperto del cranio.
Davanti a lui vi è la statua di uno strano uomo-lucertola che, dandogli le spalle, solleva sopra la testa, come a voler partire per la carica, un bastone terminante con due lame ricurve, una per estremità.
Senza pensarci due volte infilza il moncherino dell’avambraccio appena reciso in una di queste lame e, distruggendo con una ginocchiata il resto della statua per staccarla, solleva la sua nuova arma, con ancora le rettiliane mani ancorate all’impugnatura.
L’Echidnide, stringendo i denti per il dolore lancinante all’addome, solleva con molta fatica la sproporzionata pala di Ade e se la carica in spalla, poi incrocia lo sguardo con quello privo di palpebre del nemico: entrambi partono alla carica, ma poi Chimera, sbattendo le grandi ali, si solleva dal suolo e porta con se la nube di terra e frammenti scaturita dalla distruzione delle sculture.
La nube corre espandendosi come una lingua e nascondendo Chimera cosicché, arrivato ad Ade, questo non riesce a schivare la possente palata che gli raggiunge la faccia spuntando dalla polvere.
Il collo, già molto logorato dalle fiamme, cede completamente e la testa si stacca dal corpo venendo scagliata fuori dal cerchio illuminato dalle fiamme blu, diventando una macabra torcia a debellare l’oscurità al di fuori di questo.
Nonostante tutto il Corpo ancora si muove e sferra una sciabolata col suo nuovo braccio di pietra nel nugolo di detriti e pulviscolo impenetrabile alla vista.
Con un battito d’ali Chimera disperde la nube rivelando che l’attacco ha tranciato le teste dell’Idra che già stanno rinascendo in quattro. Ma il Corpo di Ade non ha ancora finito: con una gamba sposta una statua di un massiccio cinghiale, sollevandola e scagliandola contro l’Echidnide con un calcio.
Nuovamente questo vola lontano dagli Occhi di Thanatos a cui si era avvicinato.
Atterrato molti piedi più in là, fuori dal cerchio di statue, Chimera si lascia sfuggire l’arma del Dio, ma ancora trattiene il suo enorme braccio fra le fauci.
Rimasto a terra per riprendere fiato, nota che il Corpo di Ade, mezzo bruciato, mezzo avvelenato, senza testa né braccia, si sta dirigendo dove giace la mano sinistra, ancora agonizzante come un ragno tra le fiamme e ancorata al suolo dalla spada di Chimera.
E’ il momento opportuno: scatta in piedi e poi si fionda verso gli Occhi. Ma la testa di Ade, fino ad ora sempre silente, lancia un urlo per avvisare il resto del suo corpo.
Non si sa bene come, dato che le orecchie sono sempre sulla testa, il resto del corpo se ne avvede e inizia a correre verso Chimera
Ormai è tardi però e Chimera, impugnando il braccio di Ade, lo costringe a scrivere il suo stesso nome su un piccolo fogliettino di carta, poi, liberatosi del braccio, infila la condanna a morte nell’Occhio di cristallo e, arraffato anche quello di alabastro si volta per raggiungere Thanatos.
«Basta avvicinarti a lui con gli Occhi e rimetterli al loro posto, quello di cristallo a destra e quello d’alabastro a sinistra!» urla Persefone, subito zittita dall’altra sé.
Ma il Corpo di Ade ormai gli è alle calcagna e, con il ritrovato braccio destro che, lasciato andare da Chimera, da sé gli si era gettato incontro, lancia ogni statua ancora in piedi gli capiti a tiro contro l’avversario.
L’Echidnide, schivando i pesanti proiettili di pietra, raggiunge lo sciame nero che, sentendo la presenza degli Occhi, gli rivela solo la faccia del Demone, facendola spuntare fra gli insetti, come addormentata.
In fretta e furia Chimera inserisce un Occhio, ma prima che possa ripetere l’operazione Ade gli è addosso e sferra un fendente col la lama ancora infilzata nel moncherino sinistro.
Chimera lo schiva abbassandosi all’ultimo momento e la lama fende in due lo sciame, che però si ricongiunge poco dopo senza aver subito alcun danno; ma non può evitare il calcio seguente che lo scaglia lontano per l’ennesima volta.
Con la vista ormai annebbiata per la gran quantità di sangue perso dacché la statua dello scorpione l'aveva trafitto, troppo persino per un mostro della sua levatura, Chimera dà un ultimo sguardo al Corpo di Ade che sempre lo punta, tutto sbiadito e ondeggiante nella sua mente, mentre il suo corpo si inzuppa del suo stesso sangue, ora che ormai non riesce più a contenere l’emorragia. Richiama a se tutte le forze e le incanala in quel braccio, l’unico rimastogli, sollevandolo debolmente e tremando, poi un gesto veloce, secco: lancia l’ultimo Occhio contro il suo proprietario.
La sfera di alabastro passa tra le fiamme dove una volta c’era la testa di Ade; questo si volta seguendone il moto coll’arma di pietra, pronto a deviarne la traiettoria; sembra che stia andando nella giusta direzione… ma una mano, putrescente, la blocca, e nello stesso istante la lama trafigge Persefone all’addome.
Lo sguardo sgranato di Persefone, incredula del gesto compiuto, volente o nolente, dal marito si riflette in quello di Chimera, che crede quella lo abbia intercettato per ostacolarlo, ma poi quello della Regina si tramuta in un’occhiata sprezzante e tronfia quando, presa la sfera con la mano bellissima e delicata, anche se resa tremante dall’ombra della morte, la inserisce nella cavità libera sulla faccia del Demone.

Un istante di silenzio, mentre una pupilla nera compare, come disegnata, sull’Occhio di alabastro, per poi scomparire dietro la testa, e mentre il caldo sangue della Regina degl’inferi, metà ancora ghignante e metà con aria abbattuta, come tradita, scivola lento sulla pietra che l’ha trafitta.
Poi l’Occhio di cristallo si smuove, mentre il foglietto al suo interno danza fuori controllo, e infine un urlo, che sono come centomila.
Lo sciame nero sfreccia via dalla scena portandosi con sé l’urlo e lasciando un grave silenzio, riempito solo dallo scoppiettio delle fiamme che ancora macinano la carne divina di Ade e il gocciolio del sangue, quello di Persefone e quello di Chimera.
Quest’ultimo confessa finalmente a se stesso: “Ovvio, Thanatos punta all’Anima di Ade, non al suo Corpo… ma ciò significa che per me è la fine”
Abbandonatosi a questo pensiero, Chimera smette di lottare contro le sue palpebre e crolla disteso per lungo nello stesso istante in cui Persefone cade al suolo.












Cantuccio: l'arma di Ade è un pala perché questa è l'"arma" dei becchini, quella che scava le fosse per i defunti, e quale migliore arma per il re di questi defunti? Inoltre non esiste un'arma assegnata dalla tradizione classica ad Ade, quindi la mia licenza non offende nessun antico greco.

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Capitolo 43
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 34: Un corpo integro ***


LIBRO II Capitolo 34 un corpo integro Pentimento, è l’ultima sensazione avvertita da Ares, colpito da Ade. Ma il Dio ferma il volo e scuote la testa come per scacciare quei pensieri: se continua così suo zio gli farà il lavaggio del cervello o, peggio, lo farà diventare pazzo.
Ma qualunque pensiero riesca a farsi venire, le possibilità di riuscire a sconfiggere Ade sembrano diventare sempre più piccole.
Poi, all’improvviso, un ronzio. Non è passato molto tempo da quando Ares l’ha sentito l’ultima volta: è Thanatos.
Le possibilità svaniscono nel nero del suo manto vivente.
A cosa serve ora il Demone? La sua anima è stata già estratta dal suo corpo! Ma soprattutto, chi gli ha ordinato di attaccare se Ade è sempre stato qui?
La massa nera compare oltre il tetto del Palazzo e si ferma tra Ares e Ade, si ricompone nella solita figura incappucciata, ma dà le spalle al Dio Ribelle.
«Cosa significa questo, Ker?» tuona il Re degli Spiriti.
Il Demone della Morte Violenta sbuca tra gli insetti del suo compagno:
«Mi dispiace, capo, ma il caprone lì sotto… è stato più intelligente…» risponde, arreso.
Subito dopo l’Occhio di alabastro di Thanatos si rivolta, mostrando la nera pupilla, e le anime di Ade, iniziano a convogliarvi, per quanto questo, urlante di rabbia, cerchi di arrestare il processo.
Ares, sorpreso, approfitta del momento e attraversa il soffitto del Palazzo.
Giunto al Trono, ai suoi occhi si presenta una scena drammatica: macerie, resti di statue e sangue ovunque, due corpi immobili, uno dei quali è Chimera, e in mezzo a tutto ciò l’unico ancora in piedi e in movimento, in fiamme e brutalmente mutilato: Ade, ancora.
“E’ impossibile! – pensa – ho appena lasciato la sua anima! Come fa il suo corpo a muoversi senza?”
Ma poi, sommerso da terra e rocce avvista il proprio corpo, ancora fortunatamente integro.
Nel frattempo il Corpo di Ade sta tranquillamente recuperando i suoi pezzi dispersi dallo scontro, la testa, l’avambraccio inchiodato al pavimento dalla spada non più in fiamme di Chimera e la pala, poi, infine, soffoca il fuoco che l’ha consumato in una nuvola di terra, e quando ne esce le sue carni e la sua pelle divina stanno già riparando i danni.
Ares si decide e si fionda verso il suo cadavere, nello stesso istante il Corpo di Ade si volta proprio verso di lui e inizia a correre per anticipare le sue intenzioni:
“Può vedermi!?” esita il Dio.
Ade arriva per primo al corpo e lo afferra, sollevandolo sopra la testa come un fantoccio.
«Non oserai!» urla Ares, arrestando la sua corsa, persuaso che se può vederlo può anche sentirlo.
Ma Ade, senza proferire parola, sembra comunque avere intenzione di fare a pezzi il corpo del Dio della Guerra.
In quel preciso istante delle urla, da dentro il Palazzo: Cerbero, Sfinge e Leone galoppano e volano verso il Trono cacciando spaventose urla da battaglia.
«Ha il corpo di Ade!» nota il Leone, incalzando la carica dopo aver visto la meta.
Poi lo sguardo si Sfinge finisce sul corpo esanime del fratello quando ci giungono vicino
«Cos’hai fatto a nostro fratello! La pagherai cara!» urla fuori di sé, senza fermarsi ma anzi, se possibile accelerando di più e, quando la trova a portata di mano, stacca un’ascia ad una statua sulla strada pronta ad usarla contro il Re degl’Inferi.
“Bene, è il momento giusto!” pensa Ares, convinto di poter sfruttare la distrazione dell’avversario. Fa per riprendere la picchiata verso il suo cadavere, ma proprio in quella il Corpo di Ade, con un unico, potente strattone, stacca la testa di Ares dal resto del corpo tirandola per i capelli.
«NO!» urla il Dio della guerra, fermandosi nuovamente e guardando le sue sembianze orribilmente mutilate.
Forse l’urlo è stato così forte e disperato che sono riusciti a sentirlo anche i vivi, gli Echidnidi, oppure si sono fermati per la truculenza della scena, fatto sta che arrestano la loro carica a pochi passi dal nemico nonostante le lacrime di Sfinge per il fratello siano lungi dall’essere asciugate.
Il Re degli Spiriti, o la sua effige almeno, ora fa penzolare il corpo decapitato di Ares reggendolo da una sola gamba col braccio destro, mentre nell’altro impugna la sua testa come un trofeo.
«No…» scuote le teste Cerbero, sottovoce.
«Non capisco…» sgrana gli occhi la Sfinge.
«Il suo corpo… non è più integro…» commenta Leone.
«E un’anima, anche quella di un Dio, non può tornare nel suo corpo se non è integro! Aahahah!» finisce la voce gracchiante della Persefone cadaverica, non molto distante.
Gli Echidnidi non si smuovono minimamente nemmeno per scoprire chi ha proferito quelle parole.
Il tempo sembra essersi fermato.
«Questo significa…» inizia Sfinge
«Che è finita…» conferma il Leone.
Realizzano in quell’istante che, sebbene siano tre dei mostri più feroci temuti persino fra gli Dei, né Chimera, il più agguerrito di tutti, né perfino Ares, immortale Dio della Guerra, sono riusciti a fare nulla contro Ade.
E in un istante l’oscurità che li circonda sembra farsi più fredda e stretta.
Ma il Corpo di Ade non ha finito di divertirsi e, all’improvviso, lancia in aria, altissima, la testa del Dio. Ares cerca di prenderla al volo, ma, come già sapeva, quella gli passa attraverso senza fare una piega.
Poi Ade, sempre con lo stesso sorriso immobile, come la smorfia del rigor mortis sulla faccia di un morto, inizia ad agitare i resti di Ares come fosse un’arma.
Sfinge viene presa in pieno e scaraventati di lato, mentre i suo fratelli evitano gli attacchi senza rispondere, per non compromettere ancora di più il corpo, come se si potesse recuperare.
Il Re degli Spiriti, poi, tira di nuovo fuori la sua pala e, al volo, colpisce la testa che stava tornando a terra come fosse una palla, spedendola via nell’oscurità.
Butta via il resto del corpo come una pezza vecchia e si appresta a fare sul serio coi suoi avversari, quando all’improvviso, dalla stessa oscurità, spunta fuori una delle colossali teste dell’Idra e lo ingoia intero.
«Idra» fa Cerbero, come a voler fermare il fratello, come a volergli dire che è tutto inutile.
Ma altre teste spuntano e una di queste allunga la lingua sulla quale è adagiata la testa di Ares che aveva precedentemente preso al volo.
Sfinge, che si è rialzata, la prende, la ripulisce dalla saliva e va ad adagiarla al suo posto sopra il corpo, ma è talmente distrutta da non accorgersi nemmeno che questo è a pancia in giù mentre la testa è rivolta in alto. Poi, senza proferire parola, va ad accasciarsi di fianco al cadavere del fratello.
La testa dell’Idra che ha ingoiato Ade, intanto, inizia a rantolare, come sbattuta di qua e di là, e più volte cozza col pavimento. Alla fine il Corpo di Ade le apre a forza le possenti fauci.
«Non mi importa se moriremo, ma il Leone di Nemea non se ne andrà senza combattere, questo è quello che avrebbe voluto Chimera!» urla il Leone e, con un ruggito, colpisce il Dio che ancora regge le zanne sopra la testa, catapultandolo nuovamente in profondità nella gola da serpente del fratello.
«Hai ragione!» eruttano anche le teste di Cerbero all’unisono prima che questo parta alla rincorsa, faccia un cenno a Idra e salti direttamente nella sua gola dopo che quello ha spalancato la bocca appositamente.
Già normalmente delle interiora non dovrebbero essere un posto comodo, figurarsi per uno della taglia di Cerbero, ma comunque questi avanza nell’oscurità più assoluta, viscida e inzuppata di saliva e fluidi corporei, finché non sente una mano fermargli una testa.
«Perdonami, fratello» dice, prima di sputare tutte le sue fiamme sul Corpo di Ade, illuminando al contempo le budella, anch’esse danneggiate gravemente dall’attacco.
Infatti i lamenti di dolore subito dopo vengono dall’Idra e non dal Corpo dello Zeus Ctonio, che continua imperterrito a ghignare perfino tra le fiamme.
Anche l’altra sua mano raggiunge la testa di Cerbero ed entrambe iniziano ad esercitare una tremenda pressione, come volessero frantumargliela.
Delle lunghe zanne, da destra e da sinistra, bucano repentinamente le pareti della gola e affondano nelle carni in fiamme del Dio: è lo stesso Idra costretto a mordere le sue carni!
Il Corpo di Ade, però, non si scompone e, mollando la presa su Cerbero, stacca le grandi zanne conficcate nelle sue braccia e le usa per squarciare la parete e creare un’uscita, tra altri versi di dolore dell’Idra.
Né fuoco né veleno, ma gli Echidnidi non potevano saperlo. Eppure Leone sembra preparato all’eventualità e inizia a caricarlo appena spunta tra le squame dell’Idra.
Il Corpo di Ade non si fa attendere e, dopo aver recuperato anche la fidata pala, parte a testa bassa, evitando qualche affondo delle altre teste che si schiantano al suolo.
Ad un solo passo di distanza, Leone esplode uno dei suoi ruggiti più potenti.
La corsa di Ade si arresta, ma poi questi solleva lo sguardo ad incontrare quello incredulo del nemico, poco prima di abbattere la sua pala sul suo cranio, infossandolo con violenza inaudita nel suolo e riempiendo il palazzo di un greve rintocco funebre.
Il Leone non si muove più.
«Leone!» urla disperato Cerbero, emerso dall’Idra giusto in tempo per vedere la scena.
Anche lui parte quindi alla carica, e anche a lui Ade destina uno sguardo terrificante, poi affonda la sua pala nel terreno e scaglia contro l’avversario un enorme pezzo del suolo che ne ricava.
Una testa d’Idra si para davanti al fratello giusto in tempo, ma quando si sposta, Ade non è più al suo posto.
Ha raggiunto Sfinge ed ora la tiene sollevata a testa in giù per la coda, lei che ha gli occhi vuoti, persi, le ali una volta bianche abbandonate senza forze sul pavimento.
Il Dio impugna la pala di taglio e si assicura che il mostro sia in una buona posizione per assistere alla scena.
Ma prima che possa caricare il colpo, un frastuono, come di massi che si smuovano, e poi una porta si apre sotto i suoi piedi, inghiottendolo e perdendolo in mezzo a violenti flutti di un mare infuriato comparso inspiegabilmente nel cuore del Palazzo Oscuro, nelle viscere più tristi di Gaia, in un rettangolo di terreno grande giusto quanto chi vi è caduto dentro.
Tre rintocchi, come una bussata, poi quella specie di porta si richiude, lasciando dell’acqua fredda sul pavimento di marmo.
«Scusate il ritardo» fa una vecchietta, che sembra essere apparsa insieme alla porta.

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Capitolo 44
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 35: La Signora degli Usci ***


LIBRO III - Capitolo 35 La Signora degli Usci Lo sguardo attonito di Cerbero, di tutte e tre le sue teste, fisso su quell’insolita figura. Il tempo sembra essersi fermato.
La vecchietta, dal corpo nodoso e grinzoso quanto il suo bastone da passeggio, ha un braccio che termina proprio in legno, da cui è ricavata una torcia accesa.
Si muove lentamente, ma non sembra degnare il putiferio che la circonda e gli Echidnidi.
«Persefone! Figliola!» fa invece rivolta al corpo che tutti avevano ignorato, disteso poco distante, con tono sinceramente preoccupato ma senza riuscire a contrarre la faccia in modo da dimostrarlo o senza poter affrettare il passo.
Ares, invisibile presenza ancora sospesa sulla scena della battaglia, aveva osservato tutto, silenzioso, non che qualcuno potesse sentirlo.
Continuamente questa storia riesce a sorprenderlo: chi era ora quella figura così lontana dal conflitto che aveva risolto, quasi inconsapevolmente?
E Persefone, non l’aveva notata prima d’ora: era sempre stata nella sala del Trono? Dov’era allora prima, quando vi era stato condotto da Thanatos?
Forse… era lei quel tepore caldo che aveva avvertito quella volta?
Eppure adesso da lei non sembra provenire che freddo, come di una fiamma consumata dalla notte.
La metà che ancora conserva la bellezza del mondo dei vivi e dell’Olimpo in cui è nata sta scomparendo; la sua pelle bellissima e delicata divorata dalla sua controparte cadaverica nel modo in cui normalmente un cadavere viene logorato dal tempo e dai vermi.
«Cosa ti è successo?» fa la vecchietta, giunta al capezzale della donna e vedendole il sangue sgorgare dalla ferita all’addome.
«Ade…» risponde debole la sua parte viva, ma con un piccolo sorrisetto soddisfatto.
«Hai fatto bene a chiamarmi» commenta la vecchietta, accennando ad un ciondolo a mo’ di piccola porta che la dea regge nella mano sana.
«Qualcuno mi vuole spiegare cosa sta succedendo?» ruggisce Cerbero.
«Come osi rivolgerti in questo modo alla Signora degli Usci?» alza la voce Persefone.
«Ecate – la interrompe quella – Potete chiamarmi Ecate»
«Lei ha il potere di viaggiare ovunque in questo Mondo, persino tra il Regno dei Morti e quello dei Vivi. E’ stata lei la mia via di fuga da questa prigionia in tutti questi anni e lei la prima ad avvisare mia madre della prigionia! E’ la vostra via di fuga, unica speranza di salvezza!»
«Già, perché sicuramente quello stupido Dio della Guerra non ha pensato a come farvi uscire di qui!» ride sprezzante il cadavere della Dea, corrodendo sempre di più la sua bellezza come ruggine sul ferro.
Ares in effetti non ci aveva pensato, e la frecciata lo coglie in pieno. Per dipiù chi l’aveva lanciata per un attimo sembrava l’avesse guardato: che anche lei potesse vederlo? Da morto a morto?
«Che senso ha!? – urla Cerbero – E’ finita! La Guerra è persa prima di essere cominciata! Ares è perso, il suo corpo in pezzi, e mio fratello è morto!»
«No, non è morto… sentiamo ancora la sua energia vitale, per quanto debole» lo rassicura la bella Persefone.
«Tu! Piccola meretrice!» le urla contro il suo cadavere, in qualche modo oltraggiata.
D’un tratto Ecate sferra un deciso colpo di bastone alla tempia incancrenita della sua protetta, facendo svenire la sua parte morta senza apparenti ripercussioni su quella immortale.
«Mi stava proprio stufando» commenta la Signora degli Usci.
«Ecate, sai che ora sarai considerata nemica dell’Olimpo, vero? Verrai perseguitata e combattuta alla stregua di loro alleata»
«Non mi importa, non riusciranno a prendermi. E se questo è il fato che mi spetta per aiutare far felice te e tua madre, così sia»
«Scusatemi! – interrompe ancora Cerbero, stupito della calma delle due donne – Sono felice di sapere che mio fratello è ancora vivo, ma non è ancora fuori pericolo, per non parlare di Ares sarà fra le grinfie di Thanatos e che non ha più un corpo!»
«Ares è qui – risponde Persefone, finalmente rivelando di poterlo vedere – Ma la questione del corpo…»
«Beh, una soluzione ci sarebbe… - inizia Ecate - … Ares ha bisogno di un corpo… mentre vostro fratello di uno spirito talmente forte da tenere in vita il suo… L’anima immortale di Ares potrebbe sanargli le ferite…»
«Ma il corpo del mostro non si può dire propriamente “integro”…» interviene Persefone.
«Sono sicura che un’anima forte come la sua riuscirà a soprassedere alla mancanza di un braccio…»
«Hai sentito Ares? Dovrai impossessarti del corpo del tuo alleato! Un piccolo trucchetto da spettri…»
Il Dio della Guerra, finalmente tirato in causa, viene colto alla sprovvista come uno spettatore che venga tirato su a forza dalla platea e condotto sul palco durante una tragedia.
Certo, entrare nel corpo di qualcuno non si addice ad un Dio, ma è l’unica speranza.
«Aspettate un attimo! Cosa succederà a mio fratello?»
«E’ privo di sensi e debole ora, non se ne accorgerà, e una breve esposizione ad un’altra anima, per quanto quella di un Dio, non dovrebbe intaccare la sua psiche…»
Preso un bel respiro, come un mortale che si tuffi nell’acqua gelida e profonda, Ares si tuffa nel corpo immobile di Chimera.

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Capitolo 45
*** LIBRO II - La discesa nell'Ade -- Capitolo 36: Porte e Cancelli ***


LIBRO II - Capitolo 36: Porte e Cancelli «Hai paura?» chiede Ecate, premurosa, a Persefone.
Le labbra raggrinzite e marce stanno risalendo sempre più fino all’angolo di quella sua bellissima bocca, rossa come le rose più belle, cancellando lentamente il luminoso sorriso, ultima stella del mondo infero.
«Sì… tanta…» risponde tremando la fanciulla.
«Ma si può sapere cosa sta succedendo?! – chiede delucidazioni Cerbero – Insomma, è un’immortale, non può morire!»
«Sta zitto, stupido cagnone tricefalo» fa brusca la Signora degli Usci, mentre stringe forte la mano alla Regina.
«Ormai il mio tempo qui è finito… per favore, assicurati che non succeda nulla a mia madre, ma fa che il destino di Ares si compia…»
«Mi dispiace che debba finire così… Ma la porta che stai varcando è troppo sconosciuta persino a me…»
Le guance putrescenti affogano il blu di quei meravigliosi occhi in un oceano di morte e angoscia, i bellissimi e lunghi capelli fluenti abbandonano il capo pallido come petali di rosa alle porte dell’inverno. L’Ade reclama il fiore più bello, afferrandolo in una fredda morsa per le sue radici e trascinandolo in lande senza sole, cancellando il colore dalla sua corolla.
Poi cala il silenzio.
Cerbero fissa la scena, ancora confuso, così come sembrano farlo le innumerevoli teste dell’idra che lo circondano, mentre ancora Sfinge giace al capezzale del fratello, entrambi immobili, e Leone ha ancora la testa conficcata nel pavimento.
«No, hai ragione… non può morire… - inizia lentamente a spiegare Ecate – ma quello che l’attende è peggio della morte… diventerà della morte servitrice, sua sposa e schiava, perderà il senno è diverrà solo i resti in continua putrefazione di quello che era il suo bellissimo corpo… è il modo che ha la Morte di vendicarsi su quanti sfuggano alla sua gelida morsa… Beati voi che un giorno morirete e darete finalmente pace alle vostre membra, e non dovete vivere col terrore di diventare un giorno così…»
Poi, all’improvviso, le membra di Chimera, prima inermi, iniziano a muoversi, scalciare, come nascendo di nuovo da un utero invisibile.
Si fionda dritto, senza dire una parola, e proprio come in un parto, tutti i presenti sono in apprensione, aspettando la prima voce del nascituro, e come questa tarda a farsi sentire, accresce il timore nei presenti.
Ma poi, di nuovo all’improvviso, un urlo squarcia la tensione e Chimera, o Ares per lui, si accascia a terra, tremante dal dolore.
Già, dolore fisico! Il Dio della Guerra! Mai ne aveva fatto esperienza.
Come freddi artigli conficcati in quella nuova carne, calda e pesante come nemmeno l’acciaio più rovente del suo vecchio corpo, gronda insieme al sangue portandosi via con esso l’energia vitale. Il braccio mozzato, il busto passato da parte a parte.
«Alla buon’ora» commenta, cinica, Ecate, ancora dandogli le spalle, ancora riversa sul corpo della fu Persefone.
Tra le lacrime che affollano i suoi occhi, Ares scorge la macchia cremisi che deve essere il moncherino dell’ora suo braccio e incomprensibilmente la sua mente riesce a formulare pensieri mentre assorbe tutto quel gelo: facile fare il Dio della Guerra senza avvertire dolore! Invece Chimera, Chimera come aveva fatto a continuare a combattere nonostante tutto ciò? E tutto per lui poi!
Poi un calore inizia a farsi largo tra il freddo, e moncherino e addome iniziarono a formicolare e vibrare, ma ciò non significava sollievo, tutt’altro: altro dolore, ancora più grande.
«La tua anima immortale sta iniziando a sanare le ferite… però dovrai soffrire e non poco… – spiega la Signora degli Usci – Ma ora non c’è tempo per lamentarsi, la Guerra è ormai ufficialmente iniziata e sospetto che vorrai sfruttare a tuo favore l’elemento rapidità…»
«N-no – la interrompe Ares, rantolando al suolo – v-voglio – ogni sillaba aumenta il dolore – voglio andare giù»
«Giù!?» sussulta Ecate.
«S-si… ho visto… ho visto qualcosa… prima…»
«Ma… ma non sei nelle condizioni…» fa l’anziana, per la prima volta stranamente turbata.
Ma Ares si rimette in piedi, lento, pesante, pianta gli zoccoli sulla fredda pietra. Sputa sangue, mortale. Ma si regge in piedi. Con la zampa sana si preme la ferita sull’addome mentre l’altro braccio, nello spettacolo orripilante della sua guarigione, penzola inerme. Ma avanza, e parla.
«Sono un Dio, vecchia! Il Dio Ribelle! Ho la forza per dichiarare guerra all’Olimpo, non saranno certo un paio di ferite a fermarmi!»
«Chimera! – Sfinge si sveglia dal suo sonno fiondandosi sul corpo del suo fratello – Sei salvo!»
Ma Ares la respinge via con una zampata.
«Non è il momento Sfinge»
Cerbero raggiunge la sorella, rimasta al suolo, fa per spiegarle l’accaduto, ma con un battito d’ali quella è in piedi e, con sguardo corrucciato e terribile, si fionda di nuovo verso Ares.
«Vieni fuori dal corpo di mio fratello, lurido olimpico! Non oltraggiare la sua memoria!»
Ma, senza nemmeno voltarsi, una delle code del corpo di Chimera, nonché piccole copie in miniatura delle teste di Idra, la avvolge bloccandola a mezz’aria.
«Ripeto… non è il momento» poi le spire mortali si stringono intorno al suo corpo leonino.
«Ares! Cosa stai facendo!» tuona Cerbero.
«Anche se fosse… non mi servirebbe più… l’ho solo usata per arrivare a voi altri… non ha alcuna utilità in battaglia… – poi Sfinge perde i sensi e Ares la rigetta a terra – ma non ti preoccupare, l’ho solo messa fuorigioco, ci sarà tempo per farla rinsavire»
Ecate bussa tre volte a terra col piede destro, e subito la pavimentazione prende vita ridisponendosi da solo a formare una porta.
«Spero che tu sappia sceglierti bene gli alleati, Enialo, e che non faccia qualcosa di stupido… io non potrò seguirti laggiù…»
«Non ce ne sarà bisogno» il Dio trascina le sue membra mortali, a fatica, verso il varco appena creato, e vi entra scendendo delle scale aperte nella roccia.
Poco dopo sbuca nell’enorme stanza che aveva visto in forma di spirito, ma non dall’alto, come si aspettava, bensì da un’altra porta aperta nel pavimento.
Non si ferma più di tanto a riflettere sul potere della Signora degli Usci, data la gigantesca struttura che gli si propone alla vista: la stanza, perfettamente quadrata, è più vasta di qualsiasi singola stanza egli abbia mai visto e, probabilmente, occupa tutta la pancia dell’isola retta dall’Ecatonchiro, grande quanto il Palazzo al di sopra di questa.
Ma una delle pareti è sostituita da un enorme Cancello, probabilmente in bronzo, cinto da innumerevoli catene e strisce di carta che recano rune arcane e antichissime, come quelle della forma divina di Ares stesso o incise sulla falce di Thanatos. Dietro il Cancello solo buio, il più denso e impenetrabile mai visto.
Davanti a questa imponente cancellata spunta dal pavimento un busto, lo stesso che aveva trovato sotto al Tempio di Delfi: Gea. Eppure non ricordava di averlo visto quando combatteva contro Ade…
Il Dio si avvicina alla statua che sembra accoglierlo rimanendo immobile, come fosse stata creata proprio per questo.
E, come si aspetta, una voce viene fuori dal nulla:
«Ares… Finalmente hai ripensato alla mia proposta?» la titanessa non sembra confusa da quel suo nuovo corpo.
L’Enialo si immobilizza, cala la testa, il respiro ancora pesante per il dolore che gli proviene da quel corpo alieno.
«La Guerra non è ancora cominciata e già sono stato quasi distrutto… Sono qui, ridotto ad occupare il corpo di un mostro, a chiedere consiglio ai Titani…»
Poi il buio davanti a lui si muove, dagli angoli della parete spunta un bianco accecante che inizia a guadagnare terreno, lasciando al buio una nera e gigantesca pupilla, che, come tale, si sposta su Ares.
«Dio della Guerra – esordisce una voce potente, surclassando quelle dei due interlocutori – Benvenuto ai Cancelli del Tartaro, luogo della nostra eterna prigionia. E bada che eterna rimanga»
«Titano, non vuoi essere di nuovo libero? Dare di nuovo battaglia all’Olimpo?»
«Ma, Olimpico, io non l’ho mai fatto… Credi forse di parlare con Crono o uno dei suoi fratelli? No, io sono molto più antico di loro, sono il Primo Titano, sono loro Padre, Urano»
«U-Urano?» Ares non aveva contemplato la possibilità di trovarsi di fronte un’entità talmente antica che nessun Olimpico l’aveva mai incontrata.
«Mio figlio, compagno di cattività, è troppo schiavo del suo orgoglio per chiedere la libertà, ma così facendo lascia a me l’opportunità di redarguirti, dato che io sono ormai troppo lontano da ogni logica fuori da questo mondo d’oscurità perché possa importarmene qualcosa»
«E allora perché vuoi aiutarmi?»
«Non sto aiutando te, che sei solo una pedina, ma il Destino»
«Io sarei solo una pedina?!»
«Non stare ad ascoltarlo! – interrompe Gea – I Titani hanno la forza per soverchiare il regno di Zeus! Liberali!»
«I Titani sono incontrollabili, Ares, lo sai benissimo. Ma c’è un’altra forza ancestrale, creata solo per distruggere Zeus e l’Olimpo, figlio dell’Odio e del Destino. Il suo nome fa tremare Titani e Dei. Ha già tentato di adempiere al suo ruolo naturale, e ha fallito, ma col tuoi aiuto e quello degli Echidnidi potrebbe farcela: il suo nome è Tifone»
«La prigionia ti ha reso folle, Urano!» erompe Gea, per la prima volta fuori controllo.
«Ma dove posso trovarlo?» chiede Ares, incalzando.
«La sua prigione è l’Etna, e il suo guardiano Efesto che lì ha la sua fucina divina, ti basterà superare quest’ultimo ostacolo e la Guerra sarà vinta»
«Come potevo pensare che tu, stupido Dio della Guerra, potessi essere il nuovo Re degli Dei?» Gea è ormai infuriata, quando Ares getta nuovamente uno sguardo al suo busto, questo è completamente diverso: una nuova espressione, minacciosa, e le braccia protese verso di lui, ma ancora orribilmente immobile.
Tutto intorno la terra comincia a tremare, crepe si aprono sulle pareti di roccia e piccoli detriti iniziano a venire giù dal soffitto.
«Vai e adempi al tuo destino» chiude Urano, prima che una mano afferri il piede di Ares e lo trascini dietro un’altra porta, che si chiude bruscamente.
Il Dio si ritrova in una galleria, abbastanza grande da farci stare Ecate, ma soprattutto Cerbero, che sulla groppa trasporta i corpi inermi del Leone e di Sfinge.
«Come previsto, stavi per farti ammazzare… e ovvio che non hai idea dei rischi che corra un corpo mortale…» lo sgrida la Signora degli Usci mentre, senza perdere tempo, avanza in quella buia galleria, illuminandola con il suo braccio-torcia.
«Spero che tu ora sappia come procedere» fa Cerbero, rinunciando a capire tutto quello che sta succedendo.
«Credo di avere un asso nella manica…» sogghigna quello.
«Ma mio fratello Idra?» chiede l’Echidnide.
«Mi sa che dovrò tornare indietro e creare un portale molto più grande, ma ci vorrà del tempo…» fa Ecate, evidentemente scocciata.
«A proposito – interviene Ares – ma se volessi, potresti creare una porta per il Tartaro?»
Un istante di silenzio.
«Mi dispiace, quello era un Confine già esistente… io posso creare passaggi per ogni punto del mondo, ma temo che il Tartaro non appartenga a questo Mondo…»
 
Sul tetto del Palazzo Thanatos ha risucchiato quasi tutte le anime dei morti, ma ancora Ade non demorde e si fa scudo di quelle rimaste.
«E’ inutile capo, è così che deve andare!» fa Ker.
«No! Sono io il vostro padrone, il Re degli Spiriti!» urla Ade.
Poi decide di fare la sua mossa: invece che tentare di fuggire dalla sua morsa, l’anima del Dio si getta fra tutte le altre fino a raggiungere il corpo del Demone Ancestrale, tuffandovisi dentro.
«Vuoi-vuoi prendere possesso della Morte!? – chiede Ker, sconcertato – Ma… non è così che deve…»
«Non è così che deve andare?» la labbra inesistenti di Thanatos si sono mosse, e ne fuoriesce la voce di Ade.
Silenzio. Le anime dei defunti rimaste si disperdono e il mulinelli di spiriti inghiottiti dal demone cessa all’istante.
«Che strano corpo… disgustoso… ma potente…»
«Tutto questo non finirà bene…» commenta il Demone della Morte Violenta…
«Sì… sono io l’unico padrone del mio destino… Aspetta, ma questo cos’è? – si interrompe Ade, parlando da solo – cosa vuol dire tutto questo… è… è già scritto? E chi sono costoro? Io… io non capisco…»
«Non finirà per niente bene…»
«E’ tutto… E’ tutto uno scherzo – la voce rotta ma quasi felice – Sì, è uno scherzo! Che senso ha! Che senso ha!»
«Gente nata nelle trame del Tempo non dovrebbe vedere la storia da fuori…»
Ade esplode in una grassa risata, rimanendo lì immobile, sul tetto del suo Palazzo, dimentico della sua storia e troppo piccolo per capacitarsi di quella di tutti.






Cantuccio: e con la pazzia di Ade si chiude il libro II. Spero vi sia piaciuto perché ora arriva il terzo e ultimo. In realtà ce ne sarebbe dovuto essere un "II e mezzo" ma ci ho messo 2 anni e più per arrivare a questo punto e direi che è ora di dare una fine a questa storia ;)

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