Jade+

di _ivan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** capitolo 2.0 ***
Capitolo 3: *** capitolo 2.1 ***
Capitolo 4: *** capitolo 2.2 ***
Capitolo 5: *** capitolo 3 ***
Capitolo 6: *** capitolo 4 ***
Capitolo 7: *** capitolo 5.0 ***
Capitolo 8: *** capitolo 5.1 ***
Capitolo 9: *** capitolo 6 ***
Capitolo 10: *** primo intermezzo ***



Capitolo 1
*** capitolo 1 ***



JADE+

~ Il Pianeta Verde ~







PRIMA PARTE

~ DA QUESTO CIELO ALL'UNIVERSO ~
 

*

«La verità è che, nel momento in cui l’intero pianeta cambiò, io avevo un dito nel naso ed una mano sul telecomando…»




CAPITOLO I

[ il testo è presente anche in formato pdf, più ordinato e pulito. questo è il link > http://tat.altervista.org/BLOG_Jade/JADE_CAP_1.pdf ; buona lettura! ]

L‘aria della camera era gravida dell‘odore speziato della cena, che come al solito sarebbe stata servita in perfetto orario alle nove meno un quarto, senza un solo minuto in più o un minuto in meno.
Quel semplice petto di pollo, incredibile ma vero, era un simbolo come un altro di ciò che in realtà fosse a quei tempi la mia vita, nient’altro che una tabella di orari da rispettare e che mi erano stati imposti, da sempre e dai miei genitori, senza la benchè minima disponibilità a trattare. Otto meno dieci: colazione con padre e fratello. Mezzogiorno e quaranta: pranzo con la famiglia. Due e quindici: registrazione su cd del talk show preferito di mamma, rigorosamente con i tagli ad ogni pubblicità.
E guai a sgarrare.
Forse non avevo ancora idea di cosa avrei fatto ‘da grande’ o quali dei miei amici mi sarebbero realmente rimasti fedeli con il passare degli anni, tuttavia avevo l’indiscutibile fortuna di sapere con precisione dove sarei stato tutte le sere alle otto e quarantacinque.
Ammirevole.
Talvolta mi sembrava di essere sottoposto a regole talmente ferree da fare concorrenza a quelle imposte nei campi di concentramento. Vedevo egoisticamente l’incontro domenicale con i miei parenti con lo stesso piacere con il quale probabilmente, prima di me, Anna Frank aveva visto gli agenti dell’SS.  Mi chiedevo se i miei genitori non avessero preso lezioni direttamente da loro, per rendere la mia vita impossibile e la loro più lineare.
La sera della festa di fine anno, tanto per citarne una, fui costretto a stare a casa perché, a detta loro, sarebbe stato fin troppo scortese non presenziare al compleanno di nonna Margareth, organizzato nel nostro salotto.
Lessi fumetti per cinque ore, prendendo sonno con la convinzione che tutti i miei amici probabilmente stessero passando la serata migliore delle loro vite - cosa che, tra l’altro, mi fu confermata nei giorni a seguire.
Sotto il mio sguardo imparziale, tutto questo era permeato da un insostenibile senso di ingiustizia.
A qualcuno di esterno alle vicende, invece, la situazione non sarebbe risultata diversa da quella che potremmo trovare, ancora oggi, in numerose altre famiglie rette da genitori un po’ troppo esigenti.
Tutto ciò, ad ogni modo, mi aveva reso avverso alle oppressioni, e da allora mi è sempre piaciuto credere che fosse quello il motivo per il quale non avessi ancora avuto una vera e propria relazione sentimentale con una ragazza.
Ribellarsi a quella condizione sarebbe certo stata la soluzione migliore, è vero, ma ben presto imparai ad evitare gli scontri in mare aperto: durante il mio quindicesimo Natale osai alzarmi da tavola nel mezzo della cena, stufo di sentire zia Genie ripetere le cause che portarono all’esportazione del suo grosso bitorzolo sulla guancia, e di cui ormai conoscevo ogni singolo particolare. Avevo raggiunto la soglia della sala da pranzo, quando papà mi afferrò per un braccio e mi diede uno schiaffo con una tale energia da farmi tremare le ossa.
Da allora non osai più oppormi ad una sola imposizione, tuttavia mi applicai per escogitare serie di accorgimenti che, l’ottanta percento delle volte, permettevano a me di prendere delle silenziose rivalse, e a loro di dormire ugualmente sonni tranquilli.
Al loro ostentato bisogno di dominio rispondevo sì con accondiscendenza, ma anche con totale mancanza di interesse, di gratitudine e - perché no - di energia.
Non potevo alzarmi da tavola il giorno di Natale, è vero, ma nessuno mi vietava di ignorare tutti e per tutto il tempo. Io ero felice perché riuscito a portare a termine quello che era un mio volere, loro perché avevo fatto presenza come era giusto che fosse.
Era un perfetto compromesso.
Neutralizzavo i loro sforzi di fare di me un buon modello comportamentale sprecando il mio tempo di fronte al televisore, al computer o a facebook, dove la vita di chiunque, seppur presentata in due righe abbozzate su una pagina, sembrava più entusiasmante della mia. Vagavo, all’interno della mia stanza, da un apparecchio elettronico all’altro, con lo stesso spirito d’iniziativa di un‘anima intrappolata nel Limbo. In tutto ciò ero riuscito ugualmente ad avvertire un piccolo cambiamento, una maturazione: all’alba dei miei ventun’anni, avevo cominciato a reputare i videogiochi inadatti al mio modo di pensare, ormai sempre più lontano dall‘adolescenza e proiettato verso l‘età adulta - o almeno così credevo.
La cosa peggiore di tutto questo, però, è che non sembravo rendermi minimamente conto della mia posizione di inetto.
Nella mia inferiorità, che mi auto convincevo fosse imposta e richiesta dalle circostanze, mi reputavo migliore di tutti gli altri. Vivevo senza uno scopo perché dovevo, perché non avevo altra scelta, non perché la mia forza di volontà rasentasse la suola di entrambe le mie scarpe. ’Se solo lo volessi potrei diventare un uomo di successo’, era ormai il mio mantra.
Per l’appagamento e la realizzazione mi bastava la consapevolezza di avere un gran cervello, che tutti gli altri sembravano non vedere e disprezzare. Quel cervello che non stavo sprecando, bensì solo preservando in attesa di una situazione che, ne ero certo, sarebbe presto arrivata strisciando per bussare alla mia porta.
Ero talmente convinto di me da risultare cieco nei confronti del mondo intero. Cieco e invisibile.
A ripensarci ora, quasi me ne vergogno.
 
Ero sdraiato sul mio letto, immerso nella calda penombra illuminata dai bagliori del dodici pollici. Ricordo di aver avuto un lieve mal di testa, perché era consueto che socchiudessi per lunghi momenti gli occhi, a causa della miopia che mi attanagliava e che rifiutavo di accettare.
Mentre con l’indice della destra esploravo una narice alla ricerca di tesori perduti, con la mano libera ero impegnato in una seduta di zapping selvaggio che, come al solito, avrebbe reso la mia serata un po’ meno noiosa ma a dir poco inconcludente.
Quando una schermata blu interruppe la proiezione della pubblicità inarcai un sopracciglio.
Ci scusiamo per il disagio. I programmi riprenderanno al più presto’.
Fissai la tv nell’immobilità della mia stanza, perdendomi di fronte ad un fiume di pensieri inutili.
Un breve fischio annunciò il ripristino del collegamento, ma a riprendere il suo corso non fu il film interrotto poco prima.
Quando il presidente degli Stati Uniti comparve prepotentemente sullo schermo, lo fissai con sguardo indagatore.
I polpastrelli dell’indice e del pollice strofinavano lentamente l’uno contro l’altro, per appallottolare quello che avevo trovato e che ben presto avrebbe toccato il pavimento.
Mi permisi di pensare che avesse un aspetto sciupato, inadatto a rivestire il ruolo che i cittadini gli avevano assegnato.
Faticava a guardare dritto in camera, tant’è che le numerose pause tra una frase e l’altra mi parevano più degli espedienti atti a trovare le parole giuste, piuttosto che vere e proprie strategie dialettiche. Il suo atteggiamento, mi dissi, era molto più conforme a qualcuno di impreparato finito di fronte al professore, piuttosto che ad un uomo di potere in mondovisione.
Quando apriva bocca sembrava non convincere neppure sé stesso. I suoi occhi non mi erano mai sembrati così grandi come allora.
A breve mi convinsi che io, a differenza sua, sarei risultato sicuramente splendente, dietro quella torretta di legno con affissa la bandiera americana.
Era il colmo.
Ad ogni modo, dal momento che la politica non aveva mai fatto parte delle mie priorità, e che gli Stati Uniti d’America erano troppo lontani dalla mia posizione per poter rientrare nel mio ventaglio di interessi, cercai più e più volte di cambiare canale. Rinunciai all’idea di dedicarmi ad altri programmi solo quando, con mio stupore e -ahimè - disappunto, mi resi conto che la diretta da Washington sarebbe stata trasmessa da tutte le reti disponibili. Avrei potuto continuare a fare zapping per ore ed ore, senza mai incappare in nessun programma di cabaret o in uno di quei talk show dai toni violenti che tanto mi divertivano.
Mi fermai dunque al canale cinquantaquattro, quando ormai l’attuale presidente d’America aveva terminato le scuse per le brusche interruzioni, e si stava ora rivolgendo alla popolazione mondiale imbastendo una fastosa introduzione, fondata su discorsi riguardo l’unità e la necessità di tutti noi di tirare fuori quella forza che, in millenni di storia, era arrivata a porci alla supremazia di tutto il nostro pianeta.
In quel momento, però, io non stavo ascoltando.
Per mia fortuna nei giorni seguenti, il discorso in versione integrale fu ritrasmesso più e più volte sulle reti nazionali, a scanso d’equivoci.
Era il cinque marzo 2014, ovvero quello che gli storici chiamano ‘Giorno della Rivelazione’, e che diede inizio alla nuova era, al nuovo anno zero, seppur questa fu una variazione nella numerazione che, solo due anni dopo, la scienza decise di adottare.
Ancora oggi col senno di poi non saprei dire se, il fatto che sia avvenuto esattamente nel pieno della gioventù della mia generazione, sia per me stato una fortuna o piuttosto una sventura. Nessuno, ad ogni modo, discorda nell’ammettere che quello fu il giorno più importante per l’intera umanità dalla nascita di Cristo o - per i meno religiosi - dalla nascita del mondo.
Mi costrinsi ad ascoltare.
«…E’ dunque strettamente necessario,» disse l’uomo nella mia tv « che l’intera popolazione mantenga uno stato di quiete, affinchè gli enti governativi possano lavorare e collaborare per la salvaguardia di voi tutti, da sempre priorità massima di ogni manovra politica interna ed esterna ai nostri confini… ».
Fedele alla mia fama di ragazzo con il peggiore livello di concentrazione dell’universo, per un attimo mi persi in quell’ammasso di forme tonde che costituivano il suo viso: cerchi abbozzati e ripresi negliocchi, nelle gote, nelle narici, talvolta perfino nella posizione assunta dalle labbra, che mi pareva ricordassero vagamente uno stretto canale di scolo dalla quale fuoriuscivano le parole.
«Da sempre, gli Stati Uniti d’America…», una mosca si posò sulla fronte del presidente, unica forma luminescente nella penombra della mia camera. Io, sdraiato sul mio letto, mi concessi uno sbadiglio annoiato e mi grattai una guancia. Non capivo di cosa si stesse parlando: forse ci sarei riuscito, se solo mi fossi applicato per almeno tre minuti di seguito, tuttavia trovavo paradossalmente molto più interessante l’agitarsi di quell’insetto attorno allo schermo piuttosto che le parole cariche di significato, che costituirono il discorso più importante della storia dell’umanità.
Mi voltai verso la finestra, sull’altro lato della stanza, incuriosito dall’inconsueta assenza di rumori al di là del vetro. Vivere nel centro di Londra è un po’ come essere immersi nel brodo primordiale, gravido di essenza in continuo sviluppo, in perpetuo movimento ed evoluzione. Si cresce in un turbinio caotico che presto diventa talmente familiare da risultare muto.
Il rumore c‘è.
Non ci si fa caso, ma questo non esclude che esista ancora.
In quegli interminabili minuti, piuttosto, mi parve di essere finito al centro di un basalto, incastrato nelle profondità di chissà quale monte ai confini della Terra, attorniato solo da silenzio statico e geologico.
Aprii la finestra che dava sulla strada, ed il semplice fatto che anche il vento sembrava essersi fermato mi lasciò sconvolto. Col senno di poi credo si trattasse di mera suggestione, ma allora ebbi l’impressione che tutti, anche la natura, si fossero interrotti per ponderare su ciò che da lì a qualche ora sarebbe accaduto. Non potevo saperlo ma nulla, neppure l’aria che stavo respirando, sarebbe rimasto lo stesso.
«Mamma!» urlai abbandonando la mia posizione ed affacciandomi sul corridoio, là dove una corsia di foto di mio padre in tenuta da pesca sembrava fissarmi con critica attenzione. Distolsi timidamente lo sguardo, andando piuttosto a cercare la bocca delle scale, messa in risalto dalla pallida luce del televisore nella stanza di sotto.
Non ricevetti risposta, cosicché fui costretto a raggiungere il salotto, rabbrividito dal contatto dei miei piedi scalzi con la viva pietra del pavimento.
«Mamma»
«Shhhht» fui immediatamente zittito.
Per un secondo riuscii a impormi al centro dell’attenzione di tutti i membri della mia famiglia, assiepati sul nostro divano e non certo felici di notare la mia presenza.
Fui l’unico a sedersi sul tappeto, camminando con la stessa attenzione che, probabilmente, avrei impiegato solo se il terreno fosse stato cosparso da mine antiuomo.
Mai come allora mi sentii così diverso da loro, seduti in fila, tutti con lo stesso sguardo concentrato, i lineamenti affilati, le labbra sottili arricciate per lo sforzo, con il loro interesse e la loro cultura.
Io, abbandonato a me stesso sul tappeto, mi grattavo distrattamente la barba incolta e fissavo ciò che, forse per mia fortuna, non sarei mai diventato. Mi chiedevo - e non per la prima volta - dove fossi finito. Chi fossi realmente.
Questa è l’immagine della mia vita famigliare che tutt’ora mi porto nel cuore.
L’atmosfera di ansia febbrile che traspariva dallo schermo ventiquattro pollici sembrava essersi aggrovigliata attorno a tutti, meno che a me.
Annusai l’aria ed immaginai che, mio malgrado, la cena in cucina stesse ormai bruciando. Guardai mia madre di sottecchi e schiusi le labbra, per un attimo seriamente tentato di farglielo presente. Era completamente rapita. Erano le nove meno dieci, e per la prima volta nella mia vita la cena non era stata servita.
Mi costrinsi così ad ascoltare.
«Dalla nascita della National Intelligence nel 1947, numerose questioni di sicurezza nazionale sono state classificate a livello talmente elevato da non consentire alcuna pubblica dichiarazione in merito. Tra gli argomenti di vitale importanza cito le questioni di terrorismo internazionale, di proliferazione nucleare e di conflitti armati globali, assegnati ognuno ad un protocollo specifico, e che per decenni sono stati nascosti perfino a chi, come me, ricevette il ruolo di portavoce del popolo. Un compito che viene dal sacrificio dei nostri padri e più indietro dei nostri antenati. Tra le questioni di sicurezza nazionale in merito, particolare attenzione viene riposta nella ricerca ufologica che, a sostenimento di ciò che in molti tra voi hanno creduto, al momento attuale è il soggetto a più alta classificazione di segretezza del governo USA».
Trascorse un breve attimo di silenzio. Assieme a lui, anche io mi scoprii a riprendere il fiato.
«Sono notizie reali, e io sono qui ad ulteriore conferma che, ormai da tempo, esistano protocolli specifici ed archivi contenenti prove inconfutabili del ritrovamento di reperti alieni sul nostro pianeta. Avvistamenti ed incontri del terzo tipo sono solo la punta di un iceberg che fino a quarantotto ore fa perfino io, nonostante il potere che i miei stessi concittadini mi hanno assegnato, ignoravo. In anni recenti sono trapelate diverse notizie relative all’esistenza di vita extraterrestre, primo tra tutti l’Eisenhower Briefing Document, risalente a data 18 novembre 1952 e contenente sensazionali notizie relative ai cosiddetti UFO. Ad oggi, si era arrivati a possedere circa duemila testimonianze comprovate, non solo relative alla presenza di organismi ignoti nei nostri cieli, ma anche sulla nostra stessa terra e nei nostri mari. Le implicazioni in termini di sicurezza nazionale sono state gestite dalla comunità di Intelligence ed oggi, cittadini del mondo, è giunto il momento di dare giustizia ad una politica trasparente che metta Voi al centro di tutto.
Ad oggi, quindi, non abbiamo altra scelta se non quella di informarvi riguardo ad importanti e recenti successi riscontrati.
Tutto ciò è certo, reale, concreto.
Davanti a noi, adesso, si apre una nuova era, fatta di responsabilità e prosperità. Dobbiamo essere forti. Dobbiamo rimboccarci le maniche e non avere paura. Tutti noi ci ricordiamo con vergogna le disgrazie che colpirono le nostre città il 20 dicembre 2012, durante la ‘Notte della Folla’.
Nessuno di noi desidera che ciò acca-…»
Sorrisi, stupito del fatto che realmente non avessero la benchè minima intenzione di citare quella che, in realtà, i cittadini chiamavano la ‘Notte della Follia’.
La questione sollevata sul calendario Maya era patrimonio del mondo intero.Allora, tutti erano a conoscenza della presunta sorte che avrebbe fatto il pianeta.
Nessuno ne sembrava realmente convinto, tuttavia man mano che ci si avvicinava alla data prescelta, lo scetticismo sembrò risultare sempre più un lusso concesso a pochi.
Seppur si respirasse un clima di tensione, tutto rimase tranquillo fino allo scoccar della mezzanotte che diede inizio al 21 dicembre. Le reazioni furono delle più disparate: ci fu chi decise di stare coi propri familiari a godere di attimi di costretta tenerezza, chi scese in piazza per manifestazioni pacifiche e di fratellanza, chi optò per l’inaugurazione di nuove ere, imbastendo feste di benvenuto per presunti alieni in arrivo, chi partecipò - come prevedibile - ad immense feste orgiastiche.
Ricordo che la mattina seguente lessi un articolo sul giornale che spiegava, con toccante ironia, come si fosse scelto di inserire il nome ’Folla’ non relativamente a quella riversatasi nelle strade ma piuttosto a quella ammassatasi nei magazzini, per godere in gruppo dei piaceri della carne.
Io ricordo di aver passato la notte intera sdraiato sul tetto di casa, in compagnia di tre amici intimi ed in completo silenzio, in attesa della venuta dal cielo di quelli che allora vedevamo come salvatori.
Se tutto ciò si fosse chiuso qui non ci sarebbe stato alcun motivo per parlarne, tuttavia la storia del dicembre 2012 ebbe non pochi risvolti oscuri.
Ci fu chi, in preda al panico, all’incertezza e alla paura dell’ignoto, preferì il suicidio. Chi approfittò del caos per commettere stupri, violenze e rapine. Chi inspiegabilmente appiccò incendi o organizzò rivolte contro gli enti governativi, approfittando della distrazione generale.
Il nero bilancio dei crimini compiuti rimase per sempre un’incognita, messo a tacere per volere di gran parte delle nazioni europee. Girò la voce che solo a Londra, furono stati circa mille morti e quattromila feriti.
Una parentesi oscura che da allora tutti cercavano di ignorare, presidente degli Stati Uniti compreso.
Sgranai gli occhi e sbadigliai, tornando ad ascoltare la tv con le ginocchia abbracciate e poggiate al petto, il mento incassato tra le rotule.
«…Il messaggio che deve dunque essere cristallino, che deve essere recepito, diffuso ed assolutamente non sottovalutato, è che il nostro pianeta non sia in alcun modo in pericolo. La situazione è sotto controllo, e la sicurezza dei cittadini tutti resterà inviolata…»
Mi concessi il lusso di pensare che stessero palesemente mettendo le mani avanti, nonostante non si capisse ancora per quale motivo.
Il presidente tirò un lungo sospiro, abbassò lo sguardo e quando lo risollevò, qualche secondo più tardi, fu di nuovo pronto a parlare. Le cornee arrossate per l’incontro di troppi flash.
«Ringrazio la NASA, che ha sempre svolto un egregio servizio per la nostra Nazione. Innumerevoli sono i successi riscontrati nel corso della storia. Altissimo è il livello di preparazione dei suoi componenti, nostri fratelli e fonte d‘orgoglio per tutti noi. Ricordiamo i viaggi che hanno portato l’uomo sulla Luna e su Marte, dove di recente si è dato il via ai progetti di costruzione di insediamenti che vedranno il loro completamento nel 2030. Ed è proprio grazie ad uno di quegli avamposti che oggi sono qui, a rivolgermi a voi con l’umiltà e il rispetto che contraddistinguono il nostro paese.»
Per la prima volta si concesse un fugace sguardo al foglio di fronte a lui.
«In data 28 febbraio, alle ore quindici e zerosette, le apparecchiature hanno riscontrato quella che inizialmente fu classificata come semplice anomalia nel funzionamento strutturale. I radar e i satelliti adibiti allo studio dell’ambiente extraterrestre hanno subito diverse alterazioni. Alcuni, nelle ultime ore, hanno smesso completamente di funzionare. Su una frequenza generalmente non utilizzata dalle apparecchiature umane, un messaggio è stato diffuso…spedito, ricevuto da un nostro satellite su Marte, e solo in seguito decriptato da validi scienziati di tutto il mondo, chiamati a raccolta per valutare e confermare l’apparente inconfutabilità del reperto. Non ne siamo certi, ma il messaggio pare essere stato lanciato da un punto del nostro sistema solare distante circa centomilioni di chilometri da Saturno, non che ad una distanza di circa un miliardo di chilometri dal nostro pianeta, novecentomilioni dal pianeta rosso. Si parla di un messaggio che abbiamo ragione di credere sia stato spedito decine d’anni, se non secoli fa. La differente frequenza sul quale ha viaggiato ha impedito ai nostri ricercatori di stabilire, ad oggi, con certezza matematica la sua origine spazio-temporale. Siamo in mancanza di dati specifici, ma possediamo le prove del contenuto vero e proprio dell’annuncio, espressione della palese intenzionalità di cinque razze aliene di visitare il pianeta Terra.»
Non potevo crederci.
Intesa finalmente la vera entità del discorso che stava per essere affrontato, i giornalisti si agitarono come formiche, riversando un baluginare di flash sul volto accecato del presidente che, invano, cercò di riportare al silenzio le persone in sala.
«Mamma» mio fratello aprì la bocca.
«Non ora, tesoro.»
«Mamma» fu il mio turno. Motivi probabilmente diversi, tempismi identici.
«Shhht. Zitto.»
La fissai per un istante.
«La tua cena del cazzo sta andando a fuoco» non era quello che volevo dire, ma quando faceva delle preferenze così palesi mi faceva imbestialire.
Trasalì, notando solo ora il puzzo della cena e quel dito di fumo denso che aleggiava ad altezza minima dal pavimento. Sparì in cucina con passo svelto, mentre l’occhio severo di mio padre si inchiodò al mio volto.
Mi costrinsi ad osservare lo schermo, seppur con la mente assaggiai già in parte quello che mi avrebbe atteso da lì a qualche decina di minuti.
«La verità tanto cercata nei secoli dell’intera esistenza umana è ormai nelle nostre mani. L’infinito universo non ospita solo noi. Non sappiamo se hanno bisogno dell’acqua e dell’ossigeno per vivere, non sappiamo nemmeno se la stessa parola “Vita” significhi qualcosa di diverso per loro, non sappiamo nemmeno se respirino, non sappiamo niente.
Non sappiamo se abbiano dei figli, mogli, padri, presidenti, eroi. Sappiamo però che possiedono il senso e il significato della pace e della fratellanza, e che in onore di questi valori cercheranno un contatto con la popolazione terrestre. Non sappiamo con quali mezzi, ma i dati recuperati ci danno modo di pensare che tale avvenimento coinciderà con l’avvento dell’eclissi solare del 23 ottobre 2014»
Un secondo boato interruppe il discorso. Ci vollero diverse decine di secondi prima che il silenzio tornasse.
«Tale eclissi sarà visibile esclusivamente in America del Nord.
Il mondo cambia, e noi dobbiamo cambiare con lui. Non dobbiamo avere paura. Non dobbiamo lasciare che il terrore dell’ignoto raggeli i nostri cuori. C'è una forza che ha elevato le nostre anime e la nostra specie dalle proprie origini, e quella forza è il coraggio. Continuiamo a esistere nel desiderio di emergere, di conoscere, di amare, di sognare, di sperare, di Vivere. Tutto andrà per il meglio. Dio vi benedica.»
Il caos di flash e urla che ne seguirono fu frastornante. La diretta rimase aperta per il tempo necessario a mostrare la sortita del presidente.
Ci scusiamo per il disagio. I programmi riprenderanno al più presto’.
 
Mi voltai verso il divano alle mie spalle, incrociando per un attimo il profilo di mia madre rimasta in piedi sulla soglia della cucina.
«Papà…» dissi in cerca di risposte, rifacendomi alla sua spiccata cultura.
«E’ pronta la cena.» rispose, lasciandosi scappare un sospiro. Spense la tele quando la schermata azzurra lasciò spazio al film interrotto. Un cowboy schiamazzava all’interno di un saloon.
Voluttuoso fumo passò di fronte allo schermo, assumendo affascinanti sfumature di luce.
Annusai l’aria, alzandomi dal tappeto e camminando verso la cucina, risvegliato dal freddo pungente del pavimento.
Ci sedemmo a tavola e cominciammo a mangiare cibi freddi nel più totale ed imbarazzante silenzio. Mio fratello, così come me prima di lui, cercò di aprire invano l’argomento, senza ricevere risposte.
«Theo» mio padre ruppe il silenzio. Mi stava fissando.
Poggiai la forchetta nel piatto, ricambiando lo sguardo in attesa di un seguito.
«Non t’azzardare mai più ad usare quel tono con tua madre. Spero di esser stato chiaro».
Lo sapevo.
Mi alzai masticando ancora un pezzo di formaggio, sistemai la sedia sotto al tavolo e mi allontanai dalla cucina con lo stomaco vuoto. Mia madre alle mie spalle scatenava su di me, urlando, l’ansia che aveva creato l’intera situazione.
Mentre mi chiudevo in camera, girando due volte la chiave nella serratura, mi domandai il significato di ciò che avevo appena ascoltato in televisione.
Oddio, il vero significato mi sembrava a dir poco lampante, ma ora cosa sarebbe successo?
Da primo esponente del buon partito della network generation, chiusi la finestra, spensi il televisore lasciato acceso e presi posto alla mia scrivania. Digitai su pochi tasti sporchi, illuminato esclusivamente dalla luce del mio schermo. Fuori, i primi rumori cominciavano a ravvivare la strada.
Facebook si rivelò una completa delusione: a parte il tripudio di link riguardanti il futuro incerto e lo sgomento attuale non trovai nulla degno di nota. Fu comunque interessante analizzare le varie reazioni alla notizia: come previsto, i catastrofisti andavano per la maggiore. In pochi sembravano davvero fidarsi delle parole rassicuranti del presidente in persona.
Vogliamo le prove!’, ‘urlava’ qualcuno.
Prima i Maya, ora la NASA’, diceva qualcun altro.
Google non fu da meno: suppongo fosse tutto dovuto al fatto che il discorso era terminato da troppo poco tempo, perché a parte i video della diretta, nulla era ancora stato caricato.
Mi persi così in ricerche sull’eclissi d’ottobre, su Saturno e perfino sugli insediamenti che avevano cominciato ad essere costruiti su Marte, argomento di cui avevo sentito parlare ma che non mi aveva mai interessato particolarmente, prima d’allora.
Andai a letto verso le tre di notte, con la testa fumante, gli occhi arrossati ed un’enorme stanchezza addosso.
Per quell’ora le prime recensioni erano comparse, tuttavia nessuna sembrava distanziarsi eccessivamente dall’altra. I dati a disposizione erano troppi pochi.
Mi infilai sotto alle coperte.
Fissai il soffitto buio.
Mi parve di sentire, fuori, un uomo urlare qualcosa di inerente alla fine del mondo, tuttavia ero troppo rintronato per prestarvi particolare attenzione.
Persi conoscenza pensando al mio futuro.

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Capitolo 2
*** capitolo 2.0 ***



!! ringrazio coloro che hanno cliccato su 'segui' o 'ricorda' o qualunque altro comando disponibile. spero di non deludere le aspettative.
faccio un piccolo appunto: la versione 'originale' prevede una suddivisione dei capitoli meno frammentaria ( per intenderci: ogni capitolo dovrebbe durare tra le 15 e le 20 pagine )
tuttavia per non 'pesare' troppo sulle vostre menti ( ammesso che qualcuno leggerà mai tutto quanto ), su questo sito dividerò alcuni capitoli in più parti.
questo è il caso ad esempio del capitolo 2, che dividerò in 2.0, 2.1 e 2.2. buona lettura!

*


CAPITOLO II.0

[ il testo è presente anche in formato pdf, più ordinato e pulito. questo è il link > http://tat.altervista.org/BLOG_Jade/JADE_CAP_2.0.pdf ]

L‘atmosfera che si respirava nel cafè sotto casa era quella di sempre: fatta esclusione per il volume del televisore oltre il bancone, che talvolta sfiorava i duemila decibel di potenza, la gente, gli odori, i sapori, il caos dei piatti proveniente dalla cucina, il menù e i movimenti goffi dei camerieri restavano gli stessi.
Per un attimo il ricordo di ciò che avevo visto e sentito la notte prima mi sembrò pallido e appartenente a un sogno.
Guardai, oltre il tavolo, il volto di Cassie coperto da un paio di lenti da sole. Sbirciai alla mia destra il cielo oltre la grande vetrata: il sole del mattino era coperto da spumose nuvole grigiastre.
L’odore di bacon mi strappò un sorriso.
«Hai sentito…?» dissi sfogliando distrattamente il menù, mentre l’unica cameriera presente ci riempiva le tazze di caffè bollente.
«Cosa, che dovresti tagliarti i capelli…?»
«Smettila.» liberai il polso destro dal piccolo elastico, col quale feci un codino alto dietro la testa.
«Ah, ti riferisci a quel brufolo?» alzò per un secondo gli occhiali.
«Stronza. Dai, sai di quello che parlo.»
«No. Non lo so.» Bevve un sorso di caffè.
«Credo che tu sia l’unico essere umano disinteressato alla faccenda, davvero. Non esiste qualcosa che ti importi veramente? A volte mi domando come…»
«Ci penserò quando sarà il momento.» disse interrompendomi  «Fino ad allora credo che spegnerò il televisore e mi limiterò a leggere le notizie su internet, seppure il novanta percento delle pubblicazioni siano solo spazzatura. Contento?»
«Ma tu ci credi…?»
«Vedi…?» alzò il Times e lo sventolò a mezz’aria, prima di gettarlo nell’angolo più lontano del tavolo rispetto alla sua posizione «spazzatura travestita da immondizia.»
«Non mi hai risposto.» stavo cominciando ad irritarmi.
«Ah non l’ho fatto?» passò una mano tra i suoi curati capelli castani, raggruppandoli sul lato sinistro e facendoli cadere sul petto. Chiamò la cameriera e le sorrise. «Cream tea e scones per me, grazie».
Mi rassegnai all’idea di dover rimandare la risposta. Sospirai e raggruppai i menù per porgerli alla ragazza. «Bacon. Niente uova, grazie.» La seguii con lo sguardo, prima di tornare con l’attenzione puntata su Cassie.
«…Allora?» tornai all’attacco.
«Sì. Ci credo. Ma aspetterei a cantar vittoria» si abbandonò allo schienale della sedia, incrociando le braccia sotto ai suoi seni acerbi «Fossi un alieno troverei ben poco di interessante negli umani, lo dico sinceramente. Dai, sii serio: non crederai davvero che vogliano venire qui a riempirci di regali, vero? Voglio pensarli un po’ meno scemi. Lo dico per loro. Trovo molto più credibile il fatto che, piuttosto, siano interessati a schiavizzarci e venderci a qualche tratta intergalattica, o a sterminarci per rubare le risorse più importanti del pianeta» sospirò e sollevò le spalle «non lo so».
Solo quando sfilò del tutto gli occhiali per poggiarli sul tavolino notai le vistose occhiaie che le appesantivano il volto. Così, riusciva addirittura ad apparirmi brutta.
«Pensa però che figo sarebbe,» dissi «se ci donassero la loro tecnologia. O se si portassero dietro alcuni di noi!» cercai di forzare il mio entusiasmo nella speranza di contagiarla, nonostante sapessi che sarebbe stata un’impresa pari a quelle affrontate da Ercole prima di me.
«Theo a volte mi sembri un coglione. Grazie.» sorrise alla cameriera con le nostre ordinazioni, si sistemò sulla sedia e per un attimo osservò gli scones. «Questi non dovrei mangiarli» disse poco dopo, cacciandosene uno tra le labbra sottili.
«Secondo te che forma avranno?» non avevo intenzione di gettare la spugna.
«Sei davvero convinto che possano essere interessati ad uno come te?» in effetti, ci speravo «senza offesa, ma non sei esattamente il prototipo di ragazzo che penserei a portare per primo sul mio pianeta distante anni luce da qui» studiò con minuzia il cream tea, passandosi più volte la lingua sui denti per liberarli da qualche fastidiosa briciola.
«La smetti di fare la stronza?»
«Dico solo quello che penso. Lo sai. E comunque che si dice in casa Hughes?»
«Si sono chiusi in silenzio stampa» infilzai una striscia di bacon con la forchetta, quindi la adagiai su una fetta di pane croccante e diedi un grande morso. Il grasso caldo si sciolse sul palato, mentre quel connubio di sapori bruciacchiati ed odori intensi mi ricordavano perché fossi tanto felice di poter consumare ogni giorno la mia colazione in Inghilterra.
Cassie sorrise, poggiando la tazza sul tavolino ed incastrando il mento tra i palmi sollevati delle sue mani. «Immagino già i tuoi a discutere accesamente della questione, durante il loro importante meeting di sesso in camera da letto. Oh, sì tesoro, così, ancora, gli alieni arriveranno verso ottobre, devo far trovare la casa pulita, ancora, sì…!»
Le prime persone cominciarono a voltarsi stranite nella nostra direzione. Cassie non era certo tra le persone più silenziose e discrete che conoscessi.
«DAI! Razza di cogliona! Non sei divertente! Che schifo, cazzo!»
Scoppiammo entrambi a ridere, dimentichi di tutti i turbamenti che avrebbero dovuto attanagliarci.
 
Una volta tornato a casa mi gettai in maniera scomposta sul divano, complice il fatto di essere completamente solo e privo del pericolo di incorrere in uno dei numerosi rimproveri di mia madre.
Mi allargai sui cuscini e afferrai con la destra il telecomando.
Benedicendo l’esistenza della tv satellitare, cominciai a far scorrere sullo schermo diversi programmi delle reti americane.
L’inconfondibile volto di Oprah Winfrey fu inquadrato per lunghi secondi, nel momento esatto in cui si stava dilungando in un discorso inerente all’intervento del presidente avvenuto meno di ventiquattro ore prima.
Il suo indiscusso ruolo di Opinion Leader americana la poneva obbligatoriamente in una posizione di favoritismo nei confronti del governo.
Aveva il potere di avvalorare qualunque articolo di cui parlasse, e fu lei la persona che coniò il termine ’Giorno della Rivelazione’, poi adottato da tutto il mondo, a furor di popolo.
La sua voce, insomma, era in grado di incantare le masse: uno strumento eccellente, se posto nelle mani giuste.
«Sento dunque il bisogno» stava appunto spiegando « di riporre la mia fiducia in coloro che hanno difeso noi e le nostre famiglie. Che ci hanno assistiti durante i terremoti, hanno ricostruito la nostre case dopo gli uragani, che ci hanno difesi dai terroristi e che ci hanno sempre offerto un pezzo di pane, quando la crisi ci impediva di andare avanti e di sfamare i nostri figli. Se volete sapere cosa ne penso io, fratelli e sorelle, ci potete scommettere che gli alieni arriveranno sulla Terra!» un grande sorriso si allargò sul suo viso raggiante, mentre lo scroscio di applausi di un pubblico prevalentemente di colore gonfiava a dismisura il suo ego.
«Li inviterò personalmente a dire la loro!» rise, mentre il pubblico festoso veniva inquadrato dall’alto. Mi sembrò piuttosto che stessero parlando, tutti felici, della sagra dello zucchero filato. Dubitai del fatto che si rendessero realmente conto della massima serietà di ciò che stavano, o meglio avrebbero dovuto trattare.
«Oggi» proseguì la donna più potente d’America «alcuni frammenti degli archivi della CIA sono stati divulgati alla stampa. In questo episodio i protocolli, tenuti finora nascosti per il Nostro Bene e per questioni di sicurezza nazionale, verranno analizzati in studio da tre dei più importanti ospiti che abbiamo mai avuto » altri applausi interruppero il discorso.
«Buoni, buoni. Ecco a voi Shinobu Tanaka, Generale della Japan Air Self-Defense Force, l’attuale aeronautica militare del Giappone. Anatoliy Kuznetsov, ricercatore dell’Agenzia Spaziale Russa…»
Il clangore provocato dalla porta di ingresso e dalle chiavi di mia madre rovinò miseramente la mia concentrazione, nel mentre i volti seri degli ospiti d‘onore venivano ripresi in primo piano.
Mi persi dunque quella che poteva apparire come la semplice presentazione di tre personaggi illustri, ma che fu in realtà l’inizio simbolico di una collaborazione e coalizione mondiale tra potenze che, fino ad allora, avevano vissuto di confronti e concorrenza.
Stati Uniti, Giappone, Russia e Cina erano finalmente uniti dalla stessa importante causa.
     Mia madre, sulla soglia del soggiorno, mi guardò come se fossi appena uscito da chissà quale film dell’orrore.
«Non dovresti essere a studiare?» mi sembrava strano non l’avesse ancora detto.
«Ho ventun’anni, saprò anche da solo quando, quanto e come studiare, non credi?»
«Siediti bene, se non vuoi una gobba ora dei trent’anni.»
«Com’è andata al lavoro?» cambiai argomento, evitando una sfida verbale che mi avrebbe assicurato una sonora sconfitta. Mi sedetti in maniera composta, dandomi anche una sistemata ai capelli per anticipare la sua prossima eventuale mossa.
«Male.» lanciò le chiavi nello svuota tasche e sparì in cucina, alzando il tono di voce per farsi sentire «la gente ha sempre meno voglia di lavorare. Pensa che per il mese di ottobre si sono messe in ferie già dodici persone. Di questo passo faremo prima a chiudere l’azienda» la vidi tornare in soggiorno con uno yogurt tra le mani. Con rigidità robotica si imboccò con il cucchiaino. Attese di aver ingoiato, prima di riprendere a parlare.
«Te lo dico io: la gente non aspettava che un’occasione, proprio come questa storia degli alieni. Non aspettavano altro che una scusa per dare di matto e mollare tutto» c’era del disappunto nel suo tono di voce. Inarcai un sopracciglio, studiando le sue reazioni all’avvenimento. Restai in silenzio.
«Hai sentito di zio Arden?» continuò «mi ha chiamata la zia questa mattina, ha detto che non sa assolutamente cosa fare. Quello stupido si è messo in testa ieri notte di convertire la cantina in bunker antiatomico. Questa mattina ha iniziato a martellare. Hanno cercato di spiegargli l’inutilità di un riparo simile, contro un’invasione aliena, ma è testardo come un mulo. La zia e Sammy si sono trasferiti dalla nonna.»
La notizia, ammetto, mi lasciò turbato.
«Cosa guardi..?» proseguì. Si sedette al mio fianco, snack alla mano, dando un rapido sguardo al televisore.
«Niente, c’è Oprah…» ero certo del fatto che da lì a un secondo mi avrebbe fatto spegnere.
«Immondizia travestita da spazzatura.» mi anticipò, spegnendo da sé la tv.
«Dio, ma vi siete messe d’accordo?»
«Uhm…?»
«Niente, lascia perdere» mi alzai e incamminai verso le scale, con mamma che esprimeva ad alta voce pessimi pensieri riguardo al mio solito look sciatto.
Accesi il pc e feci il log in su facebook. Zero notifiche.
Decisi di scrivere uno status.
Avete visto Oprah? Ecco dov’è avvenuto il reale cambiamento: non nella cameriera, non nell’impiegato, non nel menù del cafè e non nel mio bacon. E’ qualcosa di talmente grande da aver rischiato, paradossalmente, di passare inosservato. Il mondo, inteso come insieme di governi e non di popolazioni, ha cominciato finalmente ad unirsi sotto un unico stendardo’.
Collezionai ben undici ‘mi piace’. Abbastanza per gonfiare il mio ego.
Cassie lasciò un commento: ‘Come filosofo sei fallito in partenza!’. Sorrisi.
Cedric, un mio amico, fece lo stesso: ‘Fidati. C’è gente che ci è uscita scema’.
Fissai lo schermo. Ripensai a mio zio. Il sorriso svanì.
‘Mi piace’.

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Capitolo 3
*** capitolo 2.1 ***



!! ringrazio chiunque abbia letto i capitoli precedenti e si stia approcciando alla lettura di questo ennesimo frammento di testo. spero solo di non annoiarvi.
faccio un piccolo appunto: la versione 'originale' prevede una suddivisione dei capitoli meno frammentaria ( per intenderci: ogni capitolo dovrebbe durare tra le 15 e le 20 pagine )
tuttavia per non 'pesare' troppo sulle vostre menti ( ammesso che qualcuno leggerà mai tutto quanto ), su questo sito dividerò alcuni capitoli in più parti.
questo è il caso ad esempio del capitolo 2, che dividerò in 2.0, 2.1 e 2.2. buona lettura!

*


CAPITOLO II.1

[ il testo è presente anche in formato pdf, più ordinato e pulito. questo è il link > http://tat.altervista.org/BLOG_Jade/JADE_CAP_2.1.pdf ]

Nei primi mesi che seguirono la situazione rimase pressoché stabile, seppure ci furono non pochi mutamenti nella società e nella filosofia adottata dalle persone.
La stessa condizione della mia università era radicalmente cambiata: i corsi che prima vantavano la presenza costante di trecento teste venivano ora seguiti appena da una decina di studenti. E non era così solo per economia, ma anche per medicina, architettura, giurisprudenza e informatica.
Ci fu, in compenso, un boom di iscrizioni alla facoltà di ingegneria aerospaziale e alle varie accademie militari sparse sul territorio, considerate le due attività del futuro.
Questa pioneristica preventiva non aveva torti, ma dal canto mio pensavo che, in un mondo che fosse pre o post invasione, gli economi sarebbero risultati ugualmente indispensabili, a maggior ragione ora che se ne sarebbero formati molti meno.
Non che la questione, tra l’altro, mi interessasse poi così tanto, dal momento che ero solito prendere la questione universitaria sotto gamba, ma mi piaceva pensare di essere riuscito a non lasciarmi sopraffare dalla corrente e di essere rimasto fermo nelle mie precedenti non-decisioni.
Tra marzo ed ottobre videro la luce trentasette nuove religioni, nessuna delle quali fu riconosciuta a livello nazionale e delle quali, oggi, solo quattro sono sopravvissute al tempo.
Non furono pochi coloro i quali decisero di abbandonare cristianesimo, protestantismo, buddismo e le altre religioni, al fine di gettare un occhio su quelle che venivano chiamate le ‘nuove dottrine’ e che, paradossalmente, formando connubi tra religione e scienza suscitavano più interesse ed erano in grado di dare ben più spiegazioni di quelle fornite dai vecchi dogmi e i libri di fede.
Degni di nota furono i ‘Seguaci del Flusso’, a cui capo si pose Abraham Price, cinquantaquattrenne statunitense che, dopo un’esperienza di adduzione avvenuta nel 2004, rimase in stretto contatto telepatico con gli esponenti di una razza aliena tra quelle che presto sarebbero approdate sul nostro pianeta. O almeno così si diceva.
Riconosco che Price, voce sulla Terra dei Visionari ( antica popolazione pacifica della Galassia di Andromeda ), nonostante l’adozione di metodi discutibili quali la richiesta continua di ingenti offerte da parte dei ‘fedeli’, contribuì a calmare gli spiriti di innumerevoli persone.
Price fu uno dei pochi personaggi di spicco che si prodigò nel divulgare messaggi di pace e speranza pregni di positività, che si rivelarono fondamentali per affrontare il crescente senso di smarrimento che si era andato a creare nel corso dei mesi passati.
‘Ci aiuteranno con le ricerche in campo medico’.
‘Ristruttureranno la nostra società e saremo più felici’.
‘Non ci saranno più guerre, la fame nel mondo sarà solo un ricordo’.
Belle promesse che accesero focolai di speranza negli animi di molti.
Mio cugino Barrie si unì alla ‘Chiesa del Flusso’ e partì per gli Stati Uniti il 6 giugno 2014. Da allora non si ebbero più notizie sul suo conto.
In questo guazzabuglio di sovrannaturale e fantascientifico, si rivelò impossibile enumerare i medium che vennero alla luce millantando conoscenze d’ogni genere.
Lo stesso avvenne con gli avvistamenti di ufo, orbs e altre attività paranormali. Si accennò a circa duecentomila segnalazioni in tutto il mondo ogni giorno, con una percentuale massima dello 0,4% di casi confermati dagli esperti.
 
L’estate 2014 la trascorsi interamente a casa. Era triste immaginare che, nonostante potessero essere gli ultimi mesi della mia vita, io dovessi rimanere segregato tra le quattro mura della mia abitazione, tuttavia non avevo alternative se volevo portare a compimento il buon proposito – o l’illusione – di riuscire a studiare per passare i cinque esami universitari che, ahimè, a suo tempo non ero stato in grado di superare.
D’altronde chi semina vento raccoglie tempesta.
     Tornando a casa in un caldo pomeriggio di luglio trovai nel cortile anteriore mia madre, intenta a lanciare ordini verso il cielo con il suo tipico fare da generale della marina militare.
Alzai lo sguardo verso il tetto. Tre operai stavano posizionando grossi pannelli voltaici esattamente là dove un tempo c’erano delle neutre tegole grigiastre.
«Mi spieghi esattamente Cosa. Sta. Succedendo?»
«Shht, non ora, Theo. Mamma sta dando ordini a degli operai incapaci.»
Non si voltò neppure a guardarmi, presa com’era dallo sbirciare in alto, assumendo posizioni assurde in maniera tale da sfruttare al meglio l’ampio ventaglio di angolature che il corpo umano può offrire.
«Vorrei sapere perché tre stronzi stiano sfondando il tetto di casa mia, con permesso.»
Si voltò e mi trafisse con lo sguardo. Non c’era bisogno di altro per capire che quel ‘casa mia’ l’avesse contrariata e non poco. Per non parlare del tono di voce che avevo appena usato.
«Sì, insomma…» ritrattai «in quella camera ci vivo io!»
Sospirò rassegnata, prima di passare alle spiegazioni, addirittura più sbrigative di quanto immaginassi.
«Tuo padre ha deciso di far installare pannelli voltaici.»
«Adesso?»
«Sì. Adesso.»
Mi sembrava assurdo che, a pochi mesi dall’arrivo di razze aliene sul pianeta, mio padre pensasse a ridurre l’importo della sua bolletta. Varcai la soglia di casa mollando mamma sul vialetto. Mio fratello, in cucina, stava consumando crema al formaggio, spalmandola ordinatamente su piccoli crackers.
«Hai visto?» dissi.
Non si girò. A quanto pare era una peculiarità della mia famiglia. Gettai nell’ingresso la borsa a tracolla e mi avvicinai al tavolo. Annuì.
«Secondo me» continuai «mamma e papà sono completamente rincoglioniti. Come zio Arden, ti ricordi?»
«Lo zio è tornato a casa. Aveva avuto un crollo nervoso. La zia dice che ha smesso col fai-da-te ed è tornato a lavorare» sbocconcellò la sua merenda, sollevando le iridi verdi nella mia direzione. L’odore di formaggio mi costrinse ad un passo indietro. La luce calda alle sue spalle lo faceva apparire come un essere etereo, un’apparizione rivelatrice.
«Non lo sapevo.» presi posto al tavolo.
«Mh. E comunque ho parlato con mamma. Dice che papà sia convinto che presto spegneranno tutte le centrali nucleari, e che in molti resteranno senza elettricità.»
«Perché mai dovrebbero?»
«Non è difficile, zucca marcia.» sospirò, altra caratteristica di famiglia «Comincio a pensare che quando accenderai il cervello pioveranno struzzi. Riflettici. Nel caso in cui dovessimo ricevere un attacco, cosa pensi che punterebbero?»
Riuscii ad immaginare a stento l’esplosione a catena di tutti i reattori nucleari della Terra. Ammesso che il pianeta fosse riuscito a restare integro, con molta probabilità non sarebbe stato lo stesso per il genere umano.
In silenzio lasciai mio fratello e mi diressi verso le scale.
Se mio padre era arrivato ad immaginare una situazione simile, perché non avrebbero dovuto farlo i migliori scienziati e ricercatori del mondo?
Non si poteva non riconoscere, comunque, che quell’uomo fosse sempre un passo avanti.
Varcai la soglia di camera mia, dove trovai ogni piccolo angolo ricoperto da sottile pulviscolo bianco.
Rimasi lì, incredulo e immobile, mentre i lavori all’esterno delle quattro mura inondavano la stanza di rumore e forti vibrazioni.
Tossii e andai a chiudere del tutto la finestra, lasciata incoscientemente semi-aperta.
Bestemmiai, mano alla bocca per evitare che ogni sorta di detrito mi entrasse nei polmoni.
Senza pensarci due volte decisi di andare a dormire da Ervin, il mio migliore amico.
 
«Erv, quante volte l’hai visto…?» mi voltai verso il ragazzo di colore e grassottello che era gettato sulla poltrona, a una distanza minima dal televisore.
«Mh. Quattro. Ma è bello!» rimase con lo sguardo fisso sullo schermo, dove il dvd di ‘Cannibals&Aliens’ stava proiettando per l’ennesima volta le stesse scene splatter: un cowboy zombie stava divorando la testa di un alieno, masticando con denti affilati un cervello verdastro sanguinolento.
Spazzatura.
Frugai nel grosso pacco di pop corn caramellati che tenevo stretto tra le ginocchia.
L’idea di sporcare i pantaloni del pigiama non mi preoccupava.
Quella di sporcare il divano o il tappeto, ancora meno.
«Ma quindi?» disse Ervin, finalmente deciso a scoprire cosa fosse accaduto.
«Niente. I miei hanno pensato bene di distruggere le pareti di casa per poterci piazzare dei tipo di…cazzo di pannelli fotovoltaici. Il bello è che non mi hanno detto niente, così io mi sono ritrovato gli operai in camera mia, con attrezzi e macerie sparse ovunque»
Mi guardò inarcando un sopracciglio, confuso.
Stavo calcando la mano sulla storia, ma ero disposto a tutto pur di avvalorare la mia irritazione.
«E perché adesso?» domandò.
«E’ la stessa cosa che mi sono chiesto anch’io» guardai nello schermo della tv un’orda di zombie fare breccia in una navicella aliena atterrata, « mio fratello dice che lo abbiano fatto per…evitare di restare senza elettricità quando spegneranno le centrali nucleari »
Erv lasciò scorrere lunghi attimi di silenzio e arricciò le labbra. Lo faceva sempre, quando si concentrava.
«Non le spegneranno» disse tornando a guardarmi dritto in faccia.
Rimasi in silenzio, con chiara espressione di chi non stesse capendo.
«Siamo a settembre, Theo. Hai idea di quanto ci voglia a spegnere completamente una centrale nucleare?» allungò un braccio verso il tavolino e si versò un bicchiere d’acqua. Bevve un sorso, prima di continuare «sono tipo forni. Cioè…se spegni un forno, continua a produrre calore per un po’ di tempo. Le centrali elettronucleari funzionano alla stessa maniera: nonostante lo spegnimento le si deve continuare a raffreddare per lunghi periodi, prima dello smantellamento. Quindi un missile a centrale accesa ed un missile a centrale spenta farebbe ben poca differenza. Si lascerebbe mezzo mondo senza elettricità per precauzioni minime se non inutili.»
Mi sembrò parlasse con cognizione di causa. In fondo studiava ingegneria. Chi meglio di lui poteva sapere certe cose?
«E poi» continuò, sistemandosi sulla sedia «le centrali nucleari sono iper-protette. Forse la cosa più protetta al mondo dalle forze militari. Non ci si può neppure volare sopra. Se gli alieni riuscissero a colpire quelle significherebbe solo due cose: che sono troppo forti per noi e che sono ostili. Quindi ci distruggerebbero. Non cambierebbe molto, tra morire per effetto del nostro nucleare o sopravvivere per un paio di giorni, prima di essere carbonizzati dai raggi laser» il ragionamento non faceva una grinza «no…?»
Annuii, pensieroso e restio al pensiero che mio padre potesse sbagliare anche una sola mossa.
Fissai Ervin con sguardo sorpreso.
A volte dimenticavo che, dietro la facciata da nerd ingenuo, si celasse in realtà un enorme cervello. Non per niente aveva sempre ottenuto il massimo dei voti in tutte le discipline.
«Come fai a sapere ste cose?»
«L’ho studiato di recente, per un esame. Non è farina del mio sacco» mi sorrise.
«Hai visto in tv?» disse poi, cambiando argomento «Hanno mostrato le immagini esclusive di un avvistamento avvenuto tipo…tipo nel Kansas» si voltò e mi guardò. Dietro le piccole lenti da vista rettangolari, i suoi occhi acquistarono la luce della curiosità «c’era questa enorme astronave, e si vedeva un po’ sfuocata, perché comunque le riprese le hanno fatte tipo dalla cabina di controllo di alcuni jet statunitensi. Però ti assicuro che erano immagini vere. Era una figata. Immensa! E aveva tutte queste luci…e sembrava davvero una di quelle dei film!»
Non si poteva certo dire che avesse lo stesso genere di entusiasmo di Cassie, anzi.
Allungai un braccio ed afferrai una rivista di cinema. Il titolo in caratteri gialli e cubitali attirò la mia attenzione: ‘Il boom sci-fi! Tutte le trame dei film intergalattici di questo autunno’.
Film e libri ormai non parlavano d’altro.
«E tra l’altro» continuò Ervin, alzando il tono di voce per riacquistare la mia totale attenzione «il presidente ha fatto un discorso per confermare la veridicità delle fonti.»
Riposi il giornale e sospirai.
«Erv, il presidente ormai fa un discorso al giorno.»
«Perché ci sono un mucchio di novità!»
«Tanto si sa. Ti dicono quello che vogliono. E le robe che ti fanno vedere il tv sono quelle che possedevano già negli archivi. Le mostrano una alla volta per tenere buoni tutti quanti fino ad ottobre. Vedrai. Lo fanno per loro, mica perché ci tengono che tu lo sappia.»
Sembrava toccato dalle mie parole, ma ero conscio del fatto che ci sarebbe voluto più di questo per portarlo dalla mia parte.
Ervin era un irriducibile. Non per niente gennaio e febbraio li aveva trascorsi all’interno di una chiesa dell’Astro, una setta inseritasi in un casolare oltre i confini di Londra. Rimase lì fino a quando i suoi genitori non lo andarono a prendere con la forza, per rimandarlo a calci al college.
«Quindi cosa intendi dire?» mi domandò poco dopo, tornando con lo sguardo sullo schermo, ma lasciando l’attenzione nelle mie mani.
«Ieri sera» dissi «ho letto su internet che un casino di aziende in tutto il mondo stanno convertendo le loro produzioni, trasformandosi in industrie di armi. Lo sapevi?»
«No.»
«Strano. Il presidente non ne ha parlato?»
«Magari son cagate.» stava pensando il contrario. Lo vedevo chiaramente.
«O magari son cagate quelle che senti tu.»
«Stai diventando uguale a Cassie. Non mi piace come parli.»
«Guarda che non sto dicendo niente. Mi sta solo sul cazzo che tu ti beva il cervello dietro a tutte quelle stronzate.»
Rimase in silenzio un attimo, prima di tornare a parlare.
«C’è stata un’altra rivolta, hai visto?»
«Non ho la tv. Lo sai.» presi una manciata di pop corn e me la gettai tra i denti «dai, dimmi.»
«Ma niente, praticamente erano partiti da Piccadilly per fare una delle solite manifestazioni con cartelloni e cortei. Era a favore di una maggiore e migliore divulgazione di informazioni da parte del governo americano.»
Rimasi in silenzio. Ne sapeva di sicuro più di quanto volesse far credere.
«Praticamente» continuò «delle persone incappucciate si sono nascoste tra la folla ed hanno approfittato della situazione favorevole per…sì, insomma, hanno devastato tutto. Ho sentito dire che hanno anche danneggiato un distributore di benzina. Ci pensi? Che coglioni, nemmeno pensano al fatto che se esplodesse li farebbe fuori tutti » scosse la testa e sospirò. Si sistemò gli occhiali spingendoli in alto, sul naso. «Ne hanno tipo arrestati una ventina. Ovviamente la polizia era già sul posto. Sai, per le manifestazioni ne mandano sempre alcuni a far presenza.»
«Scusa ma, perché?»
«I soliti cretini.» sollevò le spalle «Sai, sono quelli che ce l’hanno con la polizia, col sistema monetario, le banche in generale, la politica…non credo nemmeno che tutto questo c’entrasse minimamente con la storia dell’invasione»
«Quanto manca…?»
Non ci fu bisogno di spiegazioni. Afferrò al volo.
«Tre mesi esatti.»
«Non oso immaginare cosa succederà tra un po’. Si vede che ci stanno scappando di testa, no…?»
Non so se in quel momento Ervin ripensò al suo stesso sbandamento, che l’aveva condotto all’interno di una setta religiosa. Non so se nella sua famiglia fossero accaduti avvenimenti come quello di zio Arden, o magari anche peggiori.
Non sapevo molte cose, eppure notai dell’amaro nel suo sguardo.
Capii che mi stava dando - suo malgrado - ragione.
«Allora…?» dissi forzando un sorriso «Mi fai vedere il nuovo gioco?»
Gli allungai il barattolo dei pop corn, dentro ai quali cominciò immediatamente a frugare.
«Saturn shock attack II?» sul suo volto tornò il sorriso ed io, nel mio piccolo, mi sentii un po’ meglio. Annuii.
Passammo il resto della nottata davanti allo schermo della tv.

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Capitolo 4
*** capitolo 2.2 ***



!! ringrazio chiunque abbia letto i capitoli precedenti e abbia speso parte del suo prezioso tempo per darmi delle dritte.
apprezzo enormemente il vostro gesto, e vi ringrazio per il supporto e i consigli che mi avete dato. a proposito di questo: seppur alcuni di questi consigli fossero
giustissimi, non ho corretto i capitoli precedenti per un mero discorso di pigrizia ( se rileggo quello che ho scritto ancora una volta giuro che vomito. ), ma prometto
che prima o poi lo farò. potesse cadermi in testa un fulmine. spero vogliate continuare questo percorso con me, e che possiate affezionarvi alla mia scrittura per-molti-ampollosa.
ennesimo piccolo appunto: la versione 'originale' prevede una suddivisione dei capitoli meno frammentaria ( per intenderci: ogni capitolo dovrebbe durare tra le 15 e le 20 pagine )
ecco il motivo di questo 2.0, 2.1 e 2.2, che nella mia mente malata dovrebbero formare un unico capitolo, il 2.
questa è - dunque - la fine del cap 2, e per questo è un frammento piuttosto corto.

*


CAPITOLO II.2

[ il testo è presente anche in formato pdf, più ordinato e pulito. questo è il link > http://tat.altervista.org/BLOG_Jade/JADE_CAP_2.2.pdf ]
[ questo è il testo in pdf di tutto il capitolo 2, ovvero 2.0, 2.1 e 2.2 > http://tat.altervista.org/BLOG_Jade/JADE_CAP_2_INTERO.pdf ]

Ottobre non tardò ad arrivare.
Nel tempo trascorso superai due dei cinque esami universitari che avrei dovuto portare a compimento, e le centrali nucleari non interruppero la loro attività neppure per un giorno. Mi preservai dall’infierire sull’orgoglio - già minato - di quel saccente cervellone di mio padre, seppur la tentazione di sottolineare una sua mancanza fosse notevole.
Quando il 12 ottobre aprii gli occhi erano le sette e trentacinque del mattino, due ore e cinque minuti prima dello scattare della mia sveglia.
A svegliarmi fu il frastuono delle sirene provenienti dalla strada, un suono inconfondibile ma che sul momento attribuii all’antifurto di qualche villa del quartiere.
Stropicciai gli occhi spalancando la bocca in un grande sbadiglio.
Mi concessi lunghi attimi di stasi, fissando il soffitto in completo stato catatonico.
Fu quando sentii le urla disperate di una donna che cominciai a prestare maggiore attenzione a ciò che stava succedendo al di fuori delle mura di casa mia.
Infilai i piedi in vecchie pantofole, quindi mi trascinai verso la finestra, appesantito dal sonno e dal brusco risveglio. Diedi un occhio all’orologio, quindi mi concessi un ennesimo sbadiglio.
Sbirciai oltre il vetro lo sciamare agitato di una decina di persone. Un agente di polizia stava dando direttive scuotendo la mano in gesti che mi apparivano incomprensibili, a qualche metro dal cancelletto di casa mia.
«Mammaaaaa!» urlai andando verso il corridoio, a braccia conserte per sostenere al meglio il freddo dovuto al recente risveglio.
Nonostante mia madre dovesse trovarsi ancora in casa, nelle stanze del piano inferiore non trovai segni di vita. Diedi una seconda sbirciata al quadrante dell’orologio.
Sette e quarantuno.
«Mammaaaa!» urlai di nuovo, dirigendomi in cucina ed afferrando una bottiglia d’acqua lasciata sul tavolo. Bevvi un sorso a canna, per togliermi dal palato il saporaccio del sonno.
Più mi svegliavo, più cominciavo a rendermi conto della criticità della situazione.
A passo svelto andai verso l’ingresso. Inchiodai lo sguardo sulla borsa di mia madre, a terra vicino alla porta.
Abbassai la maniglia e feci capolino all’esterno, punto dal freddo ed accecato dall’improvvisa luce del mattino.
Mossi i primi passi sul vialetto in ciottolato che tagliava a metà il mio giardino, non curante dell’aspetto terribile che potessi avere.
Assottigliai lo sguardo, scorgendo nel baccano i profili di diversi agenti di polizia sparsi lungo la strada. Assiepate di fronte al cancelletto del signor Humpsey, tre volanti della polizia ed un’ambulanza lanciavano bagliori rossi e blu con le sirene finalmente spente. Il brusio di una folla incuriosita riempiva la zona come un sommesso ronzio d’insetti.
Un agente mi fece cenno di avvicinarmi.
«Lei ha visto o sentito qualcosa?» mi domandò dall’altra parte del piccolo cancello in ferro battuto. Era un uomo sulla quarantina, con un naso che sembrava la punta di una lancia ed il fisico di qualcuno che aveva chiaramente dedicato una vita a mangiar male.
«Scusi…» dissi, riscoprendomi con una voce graffiata. Tossii un paio di volte, prima di riprendere «cosa sta succedendo?»
«Non si preoccupi. Ha visto o sentito qualcosa di anomalo provenire da quella casa?» indicò sbrigativamente e con un cenno della testa la villettadi fronte alla mia.
«E’ degli Humpsey. No. Non mi sembra. No.» non capivo cosa fosse successo, men che meno cosa avrei dovuto sentire. Spari? Urla? Pianti? Bombe?
Cercai mia madre con lo sguardo, senza ottenere risultati.
«Torni in casa. Nel caso le venisse in mente qualche particolare, contatti le autorità competenti.»
Annuii ed incassai il petto nelle spalle. La temperatura della mattina mi travolgeva e pungeva. Il suo profumo mi faceva galleggiare.
Feci un primo passo all’indietro, mentre nel mezzo della strada degli agenti di polizia intimavano allo sgradito pubblico di tornare alle proprie case.
‘Eccolo!’ gridò poi un uomo, indicando con l’indice nella direzione in cui – così mi sembrò di vedere - due agenti di polizia stavano scortando un uomo, in manette, verso la volante della polizia.
Mi misi in punta di piedi e stropicciai gli occhi, nella speranza di far fronte alla mia lieve miopia.
‘Bastardo!’ azzardò qualcuno, sovrastando lo sciabordio di rumori che ripresero a turbinare ad appena pochi metri dalla mia posizione.
Inchiodai lo sguardo sull’uomo trascinato fuori dalla casa degli Humpsey: un agente lo teneva per un braccio, uno per le spalle. Oppure no, aveva le mani dietro la schiena ed un atteggiamento indomabile, ribelle. Con strattoni e talvolta qualche colpo al fianco, i poliziotti tentarono invano di tenerlo tranquillo nel tragitto verso la volante.
Il silenzio calò sulla strada. Una folla intera stava trattenendo il respiro.
«Lasciatemi!» urlo l’uomo che non era il signor Humpsey.
Cercai invano di riconoscerne i lineamenti del viso.
«Sono innocente!» continuò «Non sono stato io!» un altro colpo, questa volta tra le spalle, lo zittì per un istante.
«Me l’hanno detto loro!» riprese poco dopo. Incespicò in un gradino. Sentii il suo ginocchio strisciare sui ciottoli prima che gli agenti lo rialzassero bruscamente da terra.
«Sono stati loro. Me l’hanno ordinato! Gli alieni, ve lo giuro! Vi prego! State sbagliando. Aiuto!»
Si avvicinarono alla volante, e dunque alla mia posizione.
E fu solo allora che i miei occhi mi permisero di notare.
Una grande chiazza scarlatta risaltava sul turchese chiaro della sua camicia da ufficio. I pantaloni, zuppi di sangue, rilucevano come glassa sotto al sole del primo mattino.
Un brivido mi percorse la schiena, mentre il mondo attorno a me cominciò a ruotare.
Ho sempre mal sopportato la vista del sangue. Sono molte le volte in cui svenni vedendo il rosso colarmi dal naso.
In questo caso, fui costretto ad appoggiarmi alle sbarre del cancello per evitare di crollare a terra svenuto. Le ginocchia avevano ormai smesso di funzionare.
«Theo…» mia madre, da qualche parte, mi stava chiamando.
Una voce lontana, ovattata.
Mi sentii scuotere con forza. Le immagini che perdevano consistenza, il sudore freddo che imperlava la mia fronte.
«Il ragazzo sta male.» diceva qualcuno
«Ragazzo, è tutto ok?» diceva qualcun altro «Ragazzo!»
«Theo!»
«Ambulanza!»
«Theodore!»
Tutto divenne nero.
E il nulla si aprì davanti ai miei occhi.

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Capitolo 5
*** capitolo 3 ***



!! questa volta scrivo in punti:
_ grazie, grazie, grazie, grazie. siete stati tutti gentilissimi e g i u r o che non appena avrò un po' meno pigrizia addosso mi metterò a correggere
i capitoli precedenti. faccio tesoro di ogni singola parola che mi dite;
_ a proposito di cambiamenti: nel cap. 1 è comparsa la dicitura 'prima parte'. questo perchè ho completato l'altro giorno quello che mi è sembrato un 'ciclo',
dunque ho optato per una macro-partizione in parti oltre che in capitoli;
_ a proposito di traguardi: vorrei festeggiare con voi il superamento della soglia delle 100 pagine di racconto, il fatto che abbia finito la prima parte,
che abbia ricevuto 10 recensioni e che abbia superato le 100 visite per il primo capitolo. non lo avrei m a i immaginato;
_ la mia è una narrazione lenta, lo so. per spiegare questo punto citerò una cosa che io stesso ho scritto in risposta ad ely79:

'io scrivo innanzitutto perchè mi rilassa farlo. non scrivo per fare colpo sugli altri. non scrivo perchè punto ad una commercializzazione, ed è per questo che - lo riconosco - la
mia narrazione è a tratti piatta e poco adrenalinica. è la scrittura di una persona che prova immenso piacere nel cancellare il mondo esterno per identificarsi
in quello nuovo che è stato in grado di plasmare, e che dunque si perde in emozioni e descrizioni introspettive ed ambientali.
'
ennesimo piccolo appunto: questo capitolo andrebbe diviso in 3.0 e 3.1..ma per evitare che non succeda nulla di interessante..ve l'ho messo tutto.
più avanti ho lasciato una piccola divisione, così se volete leggerlo a tappe sapete dove è meglio interrompere. buona lettura.

*


CAPITOLO III

[ il testo è presente anche in formato pdf, più ordinato e pulito. questo è il link > http://tat.altervista.org/BLOG_Jade/JADE_CAP_3_INTERO.pdf ]

La notte del 22 ottobre fu lunga e travagliata.
Mentre i credenti di religioni neonate si riversavano sulle strade inneggiando a un nuovo inizio, mentre i catastrofisti si stringevano alle loro mogli temendo l’arrivo dell’alba, mentre i primi irriducibili avevano cominciato a puntare gli occhi al cielo, io sprecavo le mie probabili ultime ore dormendo profondamente.
E mentre tutto ciò accadde, feci un sogno.
    
Mi trovo ai piedi di un’immensa scalinata di pietra, color ambra e bagnata dai raggi di un Sole d’avorio.
E’ sempre stato di quel colore, il Sole?
Mi volto alle spalle, verso il profilo di una titanica cattedrale di splendente marmo.
Don. Don.
Il campanile rintocca. Non conto quante volte, ma mi sembrano comunque troppe.
Dall’alto di torreggianti picchi acuminati di pietra, gargolle e angeli fissano il vuoto.
Assottiglio lo sguardo e torno al mondo di fronte a me, infinita distesa erbosa mossa da un vento che non sento sulla pelle.
So di dover andare.
Aspetta, ma dove?
«Andiamo!» urla Cassie da lontano, confermando i miei pensieri.
Ma dov’è?
Eccola, è lì! Un puntino in movimento sulla cima delle scale alle mie spalle. «Nonno Clement ci aspetta!»
Nonno? Cosa c’entra nonno? Come fa a conoscerlo?
Nonno è morto quindici anni fa. Non può aspettarci.
Don. Don.
Mi alzo e comincio a correre verso Cassie. Uno, due, tre, cinque, sette, dieci, ventiquattro. I gradini non finiscono più, a differenza delle mie energie. Le linee degli scalini si confondono e diventano un’unica macchia di colore. Inciampo due volte battendo il ginocchio. Le fitte di dolore mi costringono a gemiti soffocati.
«Dai! Muoviti! Sei peggio di un parto!» sento l’inconfondibile risata di Cassie, ancora infinitamente distante nonostante i miei sforzi per raggiungerla.
Mi sale l’ansia, respiro male.
Tic tic. Tic tic.
Cos’è?
Mi guardo attorno. E’ una bomba che sta per esplodere. Sì.
E’ una bomba!
Non la vedo ma so che c’è.
Tic tic. Tic tic.
Dov’è? Devo correre.
Non mi muovo. Vado nel panico.
Cassie! Aiuto! Cassie! Esplodiamo!
Non riesco a parlare! Cassie!
«Theo, la famiglia è ovunque.»
Nonno?
Tic. Tic.
No!
 
     Mi svegliai di soprassalto, in un bagno di sudore.
Scattai in avanti, ritrovandomi seduto e con gli occhi spalancati.
Tic Tic.
Gli occhi schizzarono sulla destra, dove la sveglia sul mio comodino stava suonando, segnando le nove e quarantacinque.
«Fanculo…» bofonchiai allungando un braccio e spegnendo con un buffetto il piccolo apparecchio blu. Sospirai, tornando a sdraiarmi sul materasso divenuto improvvisamente scomodo. Tra i pochi raggi del sole che attraversavano le persiane semi-chiuse vidi danzare granelli di polvere dalle sfumature dorate.
Passai una mano sul volto, sbadigliando e cercando di abbandonare una volta per tutte il mondo dei sogni.
L’aria, irrespirabile, era gravida del puzzo della mia biancheria sporca gettata in un cesto accanto all’armadio, sull’altro lato della stanza.
Pessimo risveglio.
Poi il pensiero giusto mi colpì il cervello come un fulmine.
Allungai una mano verso il cellulare sul comodino e diedi un’occhiata allo schermo: 23 ottobre 2014.
C’eravamo. Il giorno atteso era finalmente arrivato.
Con il cuore improvvisamente in gola e l’eccitazione nelle vene, scostai le coperte e mi alzai dal letto.
Cominciavo a pentirmi di aver dormito così a lungo: mi promisi che non mi sarei mai perdonato nel caso in cui mi fossi già perso qualcosa di irripetibile. Il pensiero, poi, di aver buttato con incoscienza le eventuali ultime ore della mia vita non faceva altro che sotterrare ulteriormente la stima che avevo nei riguardi di me stesso.
Il pavimento freddo contribuì a risvegliarmi del tutto, e per uscire dal bagno e mettermi una tuta ci misi solo una manciata di minuti.
Mi scoprii talmente emozionato da non riuscire a star fermo.
Attraversai la mia stanza nel mentre mi legavo i capelli con un piccolo elastico nero.
Aprii così la finestra e parte delle persiane, in modo da far circolare l‘aria nella stanza. Il pungente schiaffo del gelo mattutino mi fece rabbrividire, mentre lo sguardo si perse in un muro di fitta nebbia oltre il quale il mondo aveva perso le sue reali fattezze. Il ciliegio spoglio nel cortile anteriore della villa dei Knowles mi apparve come una mano dalle dita ossute, nascosta nell’ignoto e pronta a ghermire il mondo.
«Londra di merda…» bofonchiai lasciandomi tutto alle spalle e incamminandomi verso il corridoio.
Se fosse rimasta la nebbia con molta probabilità non si sarebbero viste le astronavi aliene, e addio anteprima. Ammesso poi che l’Inghilterra venisse coinvolta: avevamo smesso da anni di essere globalmente riconosciuti come potenza mondiale; un disinteresse nei confronti del Regno Unito non credo avrebbe suscitato gran clamore.
Ammesso che, poi, fossero venute davvero delle astronavi dallo spazio.
E se non fosse arrivato nulla?
Mi fermai a pensarci realmente per la prima volta in sette mesi, e improvvisamente mi sentii uno stupido.
Per poco non ruzzolai giù per le scale, assorto com’ero nel mio coinvolgente vaneggiamento. Arrivai al pian terreno pochi istanti dopo, reggendomi allo scorri-mano in ottone.
Quando attirato dal suono di più voci entrai nel soggiorno, trovai ad attendermi nella stanza vuota solo lo schermo del televisore acceso. Rimasi a fissare la giornalista in tv per qualche istante, prima di muovermi verso il telecomando per spegnere l’apparecchio. Era la prima volta dopo il giorno della rivelazione che la tv tornava a essere accesa tra le mura della mia villa.
In cucina, alle mie spalle, qualcuno stava trafficando con piatti e posate.
«Mamma e papà…?» domandai a mio fratello Martin restando sul ciglio della porta della cucina, con una spalla poggiata allo stipite in ciliegio.
Cercava evidentemente un cucchiaio. In mano la tazza, in bocca un biscotto.
Il piccolo televisore della cucina era acceso sullo stesso canale intravisto in soggiorno: alle spalle dell‘avvenente giornalista, l‘immagine della navicella di Star Trek invase lo spazio.
Due tv in funzione potevano solo significare che mamma non fosse a casa.
Martin aspettò di sedersi a tavola prima di rispondermi, in un complesso di masticate e di deglutizioni.
«Sono andati al lavoro. Lo sai che sono degli irriducibili, no?» mi sorrise, e mi sentii in dovere di ricambiare. Lungo il lato destro del tavolo, una spropositata quantità di quotidiani era disposta in un‘ordinata fila.
Mi avvicinai al frigorifero, lo aprii e ne fissai per qualche attimo il suo interno senza realmente farci caso. Richiusi l’anta senza ricordarmi neppure uno dei prodotti passati sotto il mio sguardo vacuo.
«Dicono che da noi arriveranno domani, sai?» disse Martin, girando il cucchiaio nella tazza di quello che mi sembrò latte.
«Come…?» aprii la dispensa e mi sentii Dio quando riuscii a trovare ben tre merendine al cioccolato. Una non aveva propriamente un aspetto fresco ma mi dissi che sarebbe ugualmente andata bene, data la mia fame mattutina.
«Lo dicono sia in tv che sul giornale: l’eclissi sarà visibile in America verso le undici di sera, il che vuol dire che per il fuso orario da noi sarà notte fonda…e un nuovo giorno.»
Più che dall’argomento in sé, restai stranito dall‘improvvisa loquacità di mio fratello. Non stetti a sindacare, attribuendo il merito al fatto che attualmente potessi essere l’unico con cui condividere un po’ di entusiasmo per l‘accaduto.
L‘alternativa a me probabilmente doveva essere il parlare con la mobilia. E a quel punto mi sentii lusingato dalla sua scelta.
«Che due coglioni…» bofonchiai prendendo posto di fronte a lui e scartando la prima piccola brioche. L’odore di cioccolato risvegliò la salivazione.
«Già. Anche se per alcuni tutto questo non significa nulla. Nel senso…il fatto è che, in base a quello che hanno detto, tutto dovrebbe accadere durante giorno dell’eclissi, giusto? Non necessariamente Durante l’eclissi. Non è detto quindi che in America scendano alle undici di questa sera» Martin bevve un lungo sorso dalla sua tazza guardandomi negli occhi. Forse si aspettava una risposta.
«Io questo pomeriggio vado da Cassie.» dissi io, semplicemente.
«Mh. L’hai detto a mamma che non vai in università?»
«Hanno sospeso le lezioni» Non sapevo nemmeno perché stessi mentendo a mio fratello che in fin dei conti era l’unico a non potermi fare nulla. Forse lo feci solo per il gusto di farlo.
«Sarà.» disse «io resto a casa. Mamma ha detto che posso starmene qui. Anzi, tecnicamente vorrebbero restassimo a casa entrambi, papà mi ha chiesto di dirtelo prima che te ne andassi…»
«Papà?» la cosa mi puzzava.
Annuì nel mentre pensavo che, probabilmente, anche i miei genitori potessero aver pensato che girare per la città durante un giorno simile potesse risultare pericoloso.
Afferrai il Times e diedi una sbirciata alla prima pagina. ‘Stanno Arrivando!’. Sorrisi.
«Certo che si sarebbero potuti impegnare anche un po’ di più per il titolo…» dissi riprendendo a guardare altrove, in balia della mia capacità di facile deconcentrazione.
«Vero?» mi sorrise di nuovo. Questa sua disponibilità era quasi inquietante.
La nebbia ammantava la solida struttura della nostra casa, occultando la visuale oltre la finestra della cucina. Al di là di quelle quattro mura, i clacson delle macchine riempivano la metropoli.
«Non hanno ancora finito…?» domandai a mio fratello sfogliando senza interesse un quotidiano di second‘ordine.
«No. C’è ancora mezza strada bloccata dalle macchine dei giornalisti. Hanno suonato alle otto qui a casa. Dovevi vedere la faccia di papà quando gli hanno chiesto, mentre andava al lavoro, di dire qualcosa di carino sugli Humpsey» ridacchiò divertito «Non è stato molto disponibile.»
Da quando il figlio degli Humpsey aveva assassinato i due anziani a coltellate, la via del nostro domicilio era diventata l’epicentro di un’attività mediatica fuori dal comune.
Suppongo che allora i media spendessero così tante energie sul caso, più che per amor di cronaca, per far defluire e focalizzare altrove tutta la tensione generata dalla questione extraterrestre, che oramai possedeva l‘indiscusso monopolio dell‘informazione globale.
Per quanto potesse sembrare impossibile, tenere le giuste distanze dal bombardamento mediatico che si era portato dietro il ‘ciclone alieno‘, poteva dimostrarsi l‘unica via di scampo per evitare una perdita prematura del senno. Senza andare troppo lontani, era in fondo quello che avevano fatto i miei stessi genitori staccando le prese dei televisori, e di questo ne sono grato.
«Certo che era proprio schizzato forte, eh…?» dissi con un mezzo sorriso, aprendo la seconda merendina. Fissai la superficie lucida e zuccherina della piccola ciambella ed improvvisamente mi sentii meglio. Il mio stomaco mi ringraziò con un gorgoglio sommesso.
«Chi, Algernon?» chiese lui.
Annuii.
«Io lo avevo visto una volta, sai? Nel senso…lo avevo incrociato quando sono andato a potare i rami del castagno che gli Humpsey hanno sul retro. Cioè, avevano. Nel senso…c’è ancora, il castagno. E’ che non ci sono più loro.»
Lo fissai, ammetto, un po’ divertito per la sua impacciataggine.
«Mi era sembrato un tipo normale» continuò, facendo spallucce «dicono verrà rinchiuso in qualche istituto…Ma c‘era da aspettarselo. Ha accoltellato diciotto volte la madre e trentasei il padre, poi ha chiamato la polizia e ha detto che glielo sarebbe stato ordinato da una voce nella sua testa.»
Alzai le spalle, rimasto senza parole di fronte a quell’ennesima dimostrazione di come gli uomini in realtà facessero schifo.
Possibile che qualcuno potesse realmente essersi interessato alla nostra esistenza?
E così restai in silenzio, deludendo con molta probabilità le sue aspettative. Per me la conversazione finiva lì.
Sbirciai il quadrante del mio orologio da polso.
Martin cercò ancora due volte di proseguire la conversazione, chiedendomi come avessi dormito e se avessi spento la tv in soggiorno. Risposi a monosillabi, ignorando la sua esplicita bramosia di contatto.
Fino ad allora non avevo fatto altro che desiderare un’opportunità del genere, e ora che ne avevo sentito il profumo, ero fuggito con indifferenza. Come sono strane le persone.
E oggi, ripensando a quella scena che ho ancora chiara nella mente, non provo altro che pentimento.
Mi alzai dal tavolo con l’ultimo snack intatto tra le mani.
Cartacce e briciole erano sparse sulle pagine del Times.
Stanno Arrivando!’.


CAPITOLO III.1

 
Aspettare Cassie di fronte al cancello di casa era sempre uno spiacevole e snervante deja vu. Come una vera star da red carpet, di tanto in tanto poteva capitare che uscisse dalla porta d’ingresso dopo venti o addirittura trenta minuti di ritardo. Il tutto, ovviamente, senza mai la mancanza di una buona dose di disinvoltura.
Quando dal citofono la signora Molly, la madre di Cassie, mi rassicurò sul fatto che la figlia stesse per uscire in quel preciso istante, tirai un sospiro di sollievo. Come al solito la stava spalleggiando, ma generalmente una frase del genere significava che avrei dovuto aspettare solo una decina di minuti scarsi.
La prospettiva di restare immobile di fronte alla cassetta della posta di casa Fitcher non è mai stata troppo allettante, ma dal momento che avevo imparato a convivere con questa ricorrenza - per puro istinto di sopravvivenza - avevo trovato diversi escamotage per ammazzare il tempo in attesa dell’arrivo di Cassie.
Quel giorno in particolare, con una sola cuffietta nell’orecchio, stavo ascoltando a ripetizione Pain dei Three Days Grace.
La villa dei Fitcher sorgeva a Sutton, nella zona meridionale di Londra, in quinta fascia e dunque abbastanza lontana dal centro vivo della metropoli da far pensare di averne varcato i confini.
Il grande edificio in stile vittoriano aveva la facciata principale color porpora e tre torrette merlate che svettavano verso il cielo. La villa spiccava così sul resto delle case del quartiere, caratterizzate invece da uno stile moderno ugualmente piacevole ma decisamente più standardizzato. Non conosco esattamente la storia di quella casa, ma il suo aspetto magnetico contrastante con il resto dell’ambiente faceva pensare a priori che avesse posseduto un passato ricco di misteri dal fascino non indifferente.
Mi guardai attorno respirando a labbra schiuse, con un piede che a tempo di musica picchiettava il cemento.
Le condensa di fronte al mio viso si unì alla nebbia circostante. L‘alto tasso d‘umidità rendeva la respirazione difficoltosa e gravida d‘una spiacevole sensazione d‘oppressione.
Nonostante stessi indossando un pesante maglione dal gusto natalizio, fui costretto ad incassare il petto tra le spalle per far fronte al freddo pungente di un inverno in arrivo.
Intorno a me, la città si era tinta dei colori e delle sfumature di un romanzo gotico.
Mi voltai quando venni richiamato dal rumore secco del grosso portone in legno, all‘ingresso della villa.
«Hey Cassie!» sfoderai uno dei sorrisi migliori che le guance congelate potessero concedermi.
Alzai anche una mano in segno di saluto, sentendo l’intorpidimento delle dita arrossate per il freddo.
«Ma come cazzo sei vestito?» disse Cassie, chiudendo la porta alle sue spalle e avvicinandosi con passo svelto.
«Cosa c’è che non va?» fissai il maglione che stavo indossando e che, ai miei occhi, non sembrava davvero avere nulla di strano. Tolsi la cuffietta dall’orecchio sinistro e infilai tutto nella tasca posteriore dei pantaloni.
«Natale è tra due mesi…e non sei una donna, quindi il rosso potresti risparmiartelo. Anzi, facciamo che te lo risparmi anche a Natale, ok…?» dopo un abbraccio sbrigativo si incamminò verso la sua macchina, una vecchia Opel parcheggiata fuori dalle linee guida bianche.
La seguii e decisi di non domandarle il motivo del ritardo.
«Simpatica come sempre, eh?» le dissi stirando un sorriso sghembo «hai le palle girate?»
«Un po’» rispose lei. Le luci arancioni della macchina lampeggiarono nel grigiore della strada.
«Dove stiamo andando…?» chiesi aprendo la portiera ed entrando nella vettura.
Raggomitolato sul sedile, osservai Cassie inserire le chiavi nel quadrante e cominciare, poi, a trafficare con le cianfrusaglie nella sua grossa borsa in cuoio, tra le ginocchia.
Per l’ennesima volta il suo abbigliamento era impeccabile, connubio ben riuscito tra il gusto vintage e lo stile hipster. Gli orecchini in resina nera a forma di teschio, lasciati scoperti dallo chignon laterale e morbido, sbatacchiavano contro il suo collo longilineo catalizzando spesso e in quel punto la mia attenzione.
«Hey, mi ascolti?» trasalii, appunto, quando Cassie aprì la bocca.
Ero talmente catturato dai miei pensieri da non essermi reso conto del fatto che aveva messo in moto l’auto e che aveva cominciato a parlarmi.
«Cazzo Theo,» disse ancora «a volte sembri davvero su un altro pianeta. Altro che alieni…»
«Sì, scusa. Dicevi?» mi passai una mano tra i capelli, un po’ stranito.
«Niente, quella stronza della mia finta madre mi ha chiesto di comprare il latte.» sospirò «‘certo mammina» disse scimmiottando una voce acuta, imitazione di sé stessa «tanto ci saranno tutti i negozi aperti! Sai com’è, oggi dovrebbero solo arrivare sei popolazioni aliene a conquistare il pianeta Terra!’»
Ridacchiai. Cassie era un’attrice nata, specialmente quando si trattava di caricature e situazioni ironiche.
«Comunque…cinque» aggiunsi quando poco dopo calò il silenzio, portando lo sguardo oltre il cruscotto.
«Cinque di cosa» rispose lei.
«Cinque popolazioni aliene. Non sei. Tu hai detto sei. Sono cinque»
«Oooh, Theo, non rompere, ok?» agitò una mano a mezz’aria sbuffando «non ti ci mettere anche tu con questa storia. Cinque, sei, chissene frega. Non fare il nerd come Ervin, per favore.»
Mi guardò storto, quindi mi lanciò la borsa tra le gambe e uscì dal parcheggio.
Trascorsero cinquanta minuti prima che Cassie decidesse di posteggiare l‘auto: quando indicò l’ingresso di quello che mi sembrò un vecchio garage inarcai il sopracciglio, stranito.
Varcammo l’ingresso camminando uno accanto all’altra.
In completo contrasto con il suo aspetto esteriore, l’ambiente interno era caratterizzato da una cura nei dettagli impressionante: le lunghe file di scaffalature metalliche erano disposte in maniera simmetrica nella zona interna del locale. Grandi frigoriferi dall’anta vetrata seguivano invece il perimetro della piccola sala, illuminata da ingombranti lampade da soffitto al neon che per merito della loro luce biancastra conferivano al tutto un aspetto asettico, freddo e ospedaliero.
Era un modesto negozio di alimentari di quartiere, di quelli sempre più difficili da reperire da quando i grandi centri commerciali si erano imposti sul commercio. Nell’aria, il profumo di frutta matura e zuccherina.
Vicina all’ingresso, una signora sulla cinquantina dalle forme pronunciate e il naso a patata mi guardò sorridendo. Incorniciato da lisci e corti capelli ramati, il suo viso mi sembrò tondo e la sua espressione simpatica.
«Questo posto mi mette ansia.» disse Cassie muovendosi verso l‘interno «Secondo me lo mette in ordine uno psicopatico.»
Prese tra le mani un piccolo cestello blu e, avvicinatasi ai dolciumi, cominciò a studiare con attenzione il retro di tre barrette di cioccolato.
«Come mai sei nervosa?» azzardai la domanda fingendo un interesse solo vago e prendendo goffamente tra le mani una grossa confezione di merendine al latte.
In risposta, come previsto, ottenni inizialmente un suo sguardo che mi sembrò in bilico tra l’irritato e l‘incredulo. Potevo guardarla con la coda dell’occhio, ma tanto mi bastò a farmi gelare il sangue nelle vene.
Nel silenzio più assoluto - di quelli che uccidono -, rotto solo dal ticchettio del registratore di cassa alle nostre spalle, afferrò una stecca di cioccolato bianco e la gettò nel cestello.
«E’ per mia sorella.» disse poco dopo, con una sfumatura nel tono di voce che mi sembrò nel complesso amareggiato.
Riprese a camminare mentre riposi la confezione di merendine. Ebbi l’impressione che i suoi gesti stessero diventando più veloci, tuttavia non mi fu ben chiaro se il tutto fosse dettato dall’agitazione o se, piuttosto, avesse semplicemente l’intenzione di ottimizzare il tempo a nostra disposizione.
Piccolo excursus: la sorella di Cassie si chiamava Lara, e personalmente non la vidi mai neppure una volta. 
Figlie di Molly Grounds - direttrice d’orchestra - e Robert Fitcher - archeologo riconosciuto a livello internazionale - le due bambine assunsero i nomi di due donne della mitologia greca: Cassandra, veggente catastrofista, e Lara, una ninfa punita dagli Dei con il mutismo, per aver desiderato il corpo di una creatura del suo stesso sesso.
Il caso, imprevedibile e bizzarro, fece poi il resto. Sembra il colmo che dunque Cassie fosse cresciuta nella convinzione di aver sempre ragione e che Lara, purtroppo, crescendo si fosse dimostrata affetta da un’acuta forma di autismo che la rendeva gestibile ma assolutamente non autonoma.
Cassie non amava parlare della sua vita e ancor meno di sua sorella, neppure con me, ma da quello che capii con il passare degli anni, quella tra le quattro mura di casa sua non doveva affatto essere una situazione facile da sopportare.
Questo era il motivo principale per il quale non fosse gradita la presenza degli ospiti ed estranei in casa Fitcher, e per il quale fossi costretto ad attendere ogni volta in prossimità del cancello.
Questo era anche il motivo per il quale, dietro la dura maschera di Cassie, si nascondesse in realtà un gran dolore.
E io di tanto in tanto sembravo dimenticarmene.
Ogni volta, ad ogni piccolo assaggio anche solo una briciola della sua quotidianità, finivo col restare irrimediabilmente con una spiacevole sensazione a gravarmi sulle spalle.
Eppure, aldilà dell’amaro in bocca, di fronte ai suoi problemi perfino il rapporto conflittuale con la mia famiglia riusciva a risultarmi meno aspro di quanto in realtà non mi apparisse solitamente, e questa era senz’altro una nota positiva.
Anche questa volta, comunque, rimasi a corto di parole.
«Capisco» mi limitai a mormorare.
Desiderava forse che le facessi qualche altra domanda? O dovevo aspettare che fosse lei a parlarmi per prima?
Mi avvicinai goffamente a un bricco dell’unica marca di latte venduta in quel posto, quindi lo sollevai e agitai a mezz’aria.
«Latte! Era ora.» dissi forzando un sorriso, nel disperato tentativo di glissare.
Mi fissò per un attimo. Sul suo viso un’emozione lasciava spazio all’altra con caotica rapidità.
Alla fine ricambiò il mio sorriso e mise la confezione di latte nel cestello pieno per metà.
«A volte ti invidio, Theo.» disse riprendendo a camminare al mio fianco «Anche io vorrei essere un po’ più cogliona. Un po’ più spensierata e leggera.»
La guardai stranito.
«Vorrei essere un po’ come te…» continuò «che non pensi a niente e perdi tempo con i videogiochi, internet e i pensieri stupidi»
«Hey hey hey» la fermai, alzando una mano a mezz‘aria e inarcando un sopracciglio «fammi capire: questi sarebbero complimenti? Perché in tal caso ti dovresti impegnare di più, sappilo.»
«…che ti illudi» proseguì senza nemmeno rispondermi «di poter fare un viaggetto su qualche pianeta alieno. Oppure già ti immagino, a pensare tipo al fatto che potrebbero regalarci chissà quale potere sovrannaturale» ridacchiò appena, guardandomi negli occhi e avvicinandosi alla cassa con passo lento. «Mi domando come tu faccia ad essere così spensierato. Ecco tutto.»
«Non è vero» dissi mentendo a lei e a me stesso, dopo un breve attimo di silenzio.
La verità è che, in quei giorni più che mai, la mia attenzione era rivolta alla possibilità per me di cambiare completamente vita.
Un’occasione irripetibile stava per bussare alla mia porta, e ci credevo con tutto me stesso.
L’eventualità di lasciarmela sfuggire non era contemplata.
Egoisticamente non mi interessavo delle ripercussioni che l‘arrivo degli alieni avrebbe portato sulla società, di quello che sarebbe successo alla scuola, ai miei amici, alla famiglia e alla mia città.
C’ero solo io, con i miei sogni, i miei desideri, i miei pensieri e le mie ambizioni.
Io volevo andarmene lontano, o magari diventare talmente potente da non dover più pensare a nulla e a nessuno.
«Probabilmente» disse Cassie risvegliandomi bruscamente dal brainstorming «se ci dovessero dare dei poteri io pregherei per avere il controllo del fuoco. Sai che figo…?» ridacchiò appena, allungando una manciata di sterline alla cassiera.
Per un attimo fissai quella donna. Mi sorrise di nuovo, e non potei che apprezzare il fatto che regalasse così, con estrema naturalezza, un pezzo del suo cuore a due perfetti sconosciuti.
E mentre quel sorriso mi faceva pensare che tutto sarebbe andato alla grande, la sirena di una volante della polizia squarciò la nebbia all’esterno del piccolo negozio.
La macchina bianca e la sua striscia arancione sfrecciarono oltre la vetrina un istante dopo, a una velocità molto probabilmente superiore a quella consentita in città.
Aspettai che tornasse il silenzio prima di parlare. «Che ore sono?»
Cassie diede una fugace occhiata al quadrante dell’orologio da polso, mentre a tentoni con una mano sola infilava la spesa nel sacchetto.
«Sono le cinque e tredici. Se non c’avessimo impiegato nove ore a trovar parcheggio, magari» sospirò «…oh ma cosa cazzo succede oggi?» sbuffò dunque guardando oltre la vetrina, dove una seconda macchina con sirena accesa irruppe nella calma della periferia.
Cercai di fare mente locale seppur non mi risultasse ci fosse una centrale di polizia nei paraggi.
Salutammo, ritirammo lo scontrino, il resto e ci apprestammo a uscire, tuttavia non arrivammo neppure alla grande porta in vetro che una terza volante seguì la precedente.
Io e cassie ci guardammo straniti, mentre qualcosa cominciava a puzzarmi.
«Dev’essere qualcosa di grosso» disse Cassie con un sorriso sulle labbra, precedendomi. Aperta la porta, uscimmo dal piccolo locale e inspirammo l’aria satura d’umidità. La nebbia sembrava essersi lievemente diradata, distesa, come maglie di una rete ammorbidite dal tempo.
Il freddo ci avvolse in un abbraccio pungente.
Nel quartiere riecheggiava il rumore lontano e acuto di sirene in movimento: una cacofonia che rimbalzava presuntuosa sulle pareti degli edifici dell‘ante-guerra, e nella quale riconobbi il suono di un’ambulanza e di una camionetta dei pompieri. Forse due.
Sentii il cuore colpito da una spiacevole pesantezza.
Restammo l’uno accanto all’altra, immobili per un attimo di fronte all’ingresso di quel piccolo negozio d’alimentari.
Avvolto dalla nebbia, mi persi nel dedalo della mia mente.
Immaginavo sarebbe successo tutto diversamente: pensavo che una volta giunto il fatidico attimo sarei stato agitato, sì, ma ugualmente immensamente felice.
Sono sicuro di averlo percepito dentro l’anima prima ancora di averne avuto realmente la conferma. E credo di non essere stato l’unico. Credo che allora, in quell’istante, tutti gli uomini della Terra abbiano avuto il presentimento, il sesto senso che, stesse per succedere qualcosa. Qualcosa di grande.
Chiamatelo istinto di sopravvivenza, pessimismo, megalomania, suggestione, chiamatelo come volete.
Io lo s a p e v o.
Fu allora che alzai gli occhi al cielo, verso la coltre grigia che incombeva sulla città.
E il mio corpo andò in frantumi.
Il sacchetto della spesa scivolò dalla mano di Cassie, impattando contro la punta della mia scarpa destra, tuttavia non ricordo di aver provato dolore.
Il tempo doveva essersi fermato.
Era lì, oltre la nebbia e forse oltre i limiti del cielo. Un mostro nero che sovrastava il quartiere, forse l’intera città o forse l’intero stato. Quanto era grande? Mi apparve titanico, nonostante le sue linee, i suoi colori e perfino le sue dimensioni fossero relative in quel vaporoso muro che separava noi uomini dall’immensità dello spazio e dei suoi segreti.
Limiti sfuocati resi informi dal voluttuoso manto grigio.
Al centro del disco, un’enorme luce bianca, pura, abbagliante. Un nuovo Sole coi colori della Luna.
Socchiusi le palpebre per sopportarne la vista, mentre invano cercavo di quantificare la dimensione di quel demonio volante.
Ci avrebbe schiacciati?
Mi guardai attorno con la timidezza tipica dell‘incredulità, insicuro sul fatto che stesse succedendo Davvero.
Con la coda dell’occhio vidi Cassie, accanto a me, pizzicarsi un braccio. Sorrisi.
‘Visto?’ volevo dirle, ‘così impari a non crederci!’.
Rimasi però in silenzio, mentre la gente per strada alzava gli occhi al cielo, tra stupore e spavento.
Una donna corse nella macchina parcheggiata di fronte a noi, mise in moto e se ne andò in tutta fretta. Qualcuno, nel freddo di quella strada, urlò al telefono. Sopra le nostre teste, i volti delle persone affacciate alle finestre erano puntati sulla magnificenza di qualcosa che, nonostante si fosse palesata, per via della bruma restava ancora parzialmente nell’ignoto. Sull’altro lato della strada tre ragazzi erano immobili in contemplazione di ciò che fino a ieri era per tutti l’impossibile.
Mi voltai verso Cassie, inchiodando il mio sguardo alle sue iridi dilatate e color nocciola.
«Cassie» dissi, lasciandomi andare ad un profondo e rumoroso respiro «sono arrivati.»
«Theodore» disse lei.
Mi chinai, afferrai il sacchetto e tornai a guardarla in silenzio.
«PORCA PUTTANA».
Non riuscii neppure a sorridere.
Già. Porca puttana.

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Capitolo 6
*** capitolo 4 ***



!! lo so, ho già detto molto all'inizio del capitolo 3..ma devo aggiungere qualcosina:
grazie a cup of tea, prima a commentare, prima a motivarmi a continuare.
grazie a candycotton, selenek e lord stefanius, le vostre parole mi riempiono il cuore, la vostra abilità mi spinge a migliorare.
grazie ad ely79, con i migliori auguri per un futuro proprio come lo desideri.
grazie a quarantotto, motore della mia anima, benzina del mio fuoco.
e un grazie a theo, perchè quando vedo quanto è inetto mi rendo conto di non voler esser come lui..
e per questo mi getto nella v i t a.

*


CAPITOLO IV

[ il testo è presente anche in formato pdf, più ordinato e pulito. questo è il link > http://tat.altervista.org/BLOG_Jade/JADE_CAP_4_INTERO.pdf ]

«Dai, sbrigati!» sorprendendomi, Cassie afferrò il mio braccio destro e mi trascinò a passo svelto in direzione della macchina parcheggiata.
Goffamente cercai di starle dietro senza inciampare.
Alle nostre spalle, la pingue proprietaria del negozio di alimentari e un cliente sulla quarantina erano entrambi col naso all’insù, estasiati e inquietati dinanzi alla magnificenza di ciò che è estraneo.
Guardai di fronte a me il mondo scorrere veloce.
I miei occhi scivolarono così sulla sagoma di un camioncino dalla carrozzeria mimetica che, superata una macchina con le quattro frecce, sfrecciò via incurante della scarsa visibilità. Nella parte posteriore, interamente scoperta, otto soldati armati attendevano seduti l’arrivo nella postazione a loro assegnata.
«Mollami, cazzo!» urlai cercando di sottrarmi alla sua presa.
Il sacchetto di plastica sbatacchiò a destra e a manca, colpendo più volte la mia gamba.
Cassie non rispose, trattenendo anzi con più energia il mio braccio. Sentii le unghie curate e smaltate d’azzurro graffiarmi la pelle.
Mi liberò dalla sottile presa delle dita affusolate solo qualche attimo più tardi, una volta giunti di fronte alla piccola utilitaria rosso fuoco.
Mi mollò lì, entrò in fretta e furia nella macchina e mise in moto il motore. Salii con rapidità impacciata, sollecitato dal rumore secco causato dai suoi ripetuti pugni sul clacson.
Mi sembrò tutto dannatamente assurdo.
Immaginavo che Cassie - come me - intendesse fuggire il più lontano possibile, o che quanto meno desiderasse tornare a casa dai suoi familiari.
Mentre fissavo il mondo oltre il parabrezza appannato, pensai quindi a quanto paradossale potesse essere il fatto che, invece, noi due ci stessimo muovendo verso l‘occhio del ciclone.
Avrei dovuto immaginarlo. Era solo l’ennesima situazione nella mia vita in cui qualcun altro aveva scelto anche per me. In questo caso specifico Cassie non mi aveva dato altre opzioni.
Mi sentii come fossi condannato al patibolo.
Il cellulare squillò nella tasca dei miei jeans, ma non vi prestai la minima attenzione.
Io, che fino a quel momento ero stato fermamente convinto del fatto che gli alieni sarebbero giunti sul pianeta Terra con l’intenzione di aiutarci, me la stavo facendo sotto al pensiero che, ora, potesse invece scoppiare una guerra che ci avrebbe sicuramente visti sconfitti.
Mi dissi che forse il mondo si era preparato in maniera adeguata, o che forse otto mesi erano stati troppo pochi, forse ne sarebbero bastati tre, o forse non ne sarebbero bastati mille. In fondo cosa pretendevo di saperne io di preparazione in campo militare?
Cercai invano di guardare attraverso la nudità della nebbia, attraversata dall‘intensa luce bianca che, come una nuova stella polare, ci indicava la via. Sforzai gli occhi al punto da sentire dolore alle tempie.
«Dannazione…» bofonchiò accanto a me Cassie, con una mano sul volante e l’altra nella borsa tra le sue ginocchia.
Un occhio lo teneva sulla strada, uno tra le cianfrusaglie e un altro - perché le donne sanno incredibilmente fare sempre tutto contemporaneamente - in alto, nella foschia.
Lei, mio esatto contrario, nonostante per otto mesi avesse predicato le teorie catastrofiste, si stava ora affannando per arrivare in tempo sull’altro lato di Londra, nella speranza di osservare meglio il fenomeno. Sembrava come se si fosse dimenticata di tutto, impavida e forse anche un po’ stupida. In un certo senso non potevo che capirla.
«Potresti guardare la strada? Con tutti e due gli occhi, grazie.» dissi indicando l’Audi nera di fronte a noi e in prossimità di uno stop.
«Non rompere. Dove l’ho messo…» frenò pigiando un po’ troppo il pedale, quindi ne approfittò per gettarsi con entrambe le mani nella borsa, come al solito sempre troppo piccola per contenere tutto ma sempre troppo grande per essere pratica.
Quando finalmente tirò fuori il cellulare, me lo porse con una foga che non lasciava spazio a rifiuti. La guardai con sguardo interrogativo.
«Filma tutto.» disse agitando una mano a mezz’aria «Sbrigati. La telecamera si mette con…credo con il tasto laterale, quello a destra.»
Mentre ripartiva, leggermente piegata in avanti per avere una visuale migliore di ciò che ci fluttuava sulla testa, io cominciai a filmare il cielo grigio oltre il parabrezza.
«Ce ne saranno miliardi di video di questo genere,» dissi  «e di sicuro migliori del tuo. Possibile che ti venga in mente youtube in momenti come questo? Poi dici a me.» incredibile ma vero, ero io a pronunciare quelle parole.
Il mio unico pensiero era di tornarmene a casa a ripararmi sotto la scrivania. O forse saremmo potuti andare dallo zio. L’idea del bunker in cantina non mi sembrò più tanto stupida quanto la prima volta che la sentii.
«Zitto tu.» rispose dandomi un buffetto sulla gamba «Secondo te dove sono? La luce sembra sul Palazzo.»
Guardai meglio. Effettivamente il grande globo di luce bianca sembrava essere in linea d’aria con la zona di Buckingham Palace, seppur il fatto che si piazzassero esattamente su casa della Regina mi sembrò di gusto fin troppo scontato e Hollywoodiano.
«Sì, anche a me» dissi poco convinto, annuendo mentre il cellulare che reggevo con la destra continuava a filmare e registrare le nostre voci.
Alla mia destra, oltre quella foschia sempre più sciolta e rada, vidi un groviglio di corpi nudi sull’erba di un parchetto comunale. Saranno stati una ventina, in lento movimento come fossero stati un’unica creatura, o in contrazione per l’arrivo dell’estasi. Dimentichi delle leggi nazionali, venivano lasciati completamente stare dalle volanti della polizia che, passando loro accanto, tiravano dritto verso altri obiettivi.
Filmai anche quello, ovviamente, restando a bocca aperta e preferendo non invitare Cassie alla distrazione.
Sulle strade la gente ammassata si spintonava e urlava. Vidi qualcuno uscire da un piccolo negozio con un televisore in mano. Le macchine, sempre di più, ostacolavano il passaggio dei pedoni che spesso furono costretti a passare sopra i cofani caldi.
Cercai di distrarre la mente da ciò che stava turbinando all’esterno della nostra macchina. Mi accertai che tutte le sicure fossero inserite nelle portiere, ringraziando per la prima volta il fatto che, una volta giunti sulla strada principale, Cassie avesse notevolmente aumentato la velocità di marcia.
«Ma tu» chiesi dunque, mentre il mondo sfrecciava oltre i finestrini confondendo i suoi colori e le sue forme «non eri quella che credeva ci avrebbero inceneriti con i raggi laser? Sei scema a voler andare lì sot-…ATTENTA!» una sterzata mi incollò bruscamente al sedile. Il colpo di frusta mi fece cadere di mano il telefonino, mentre i freni e le gomme sull’asfalto fischiarono a tal punto da far pensare che fossero sul punto di scoppiare.
Il muso di un enorme tir proveniente dal lato sinistro venne evitato per una manciata di centimetri.
Il veicolo sterzò talmente tanto da rischiare di ribaltarsi.
La macchina evitò l’impatto e invase la corsia nell’altro senso di marcia. Per un attimo pensai che ci saremmo schiantati frontalmente con la macchina che ci stava puntando. Quando per ritornare nella nostra corsia Cassie sterzò nuovamente, la mia testa andò a sbattere contro il finestrino della macchina.
Mi ci volle una manciata di secondi per realizzare che eravamo vivi: eravamo sulla corsia giusta e il mio cuore - così come tutti i miei arti - era al suo posto.
Ero ancora completamente attaccato al sedile, diventato improvvisamente come una mia seconda pelle. Mi riscoprii anche in apnea, così ricominciai lentamente a respirare, tenendo la sinistra sul bracciolo interno della portiera e gli occhi sbarrati.
«Colpa mia, scusa.» disse Cassie nello stesso in quell‘istante.
Il fatto che volesse atteggiarsi a persona non scalfita e completamente tranquilla mi irritò alquanto. Per sua sfortuna, la voce leggermente tremolante la tradì.
«SEI RINCOGLIONITA?!» urlai io dandole fuoco con lo sguardo, cominciando solo allora a rilassare i muscoli.
Mi voltai alle nostre spalle, dove un ingorgo stradale andava aumentando di secondo in secondo. Oltre la foschia vedevo i profili scuri di decine di macchine disposte in maniera del tutto caotica. Vidi qualcuno aiutare il conducente del tir a scendere dal mezzo, in posizione trasversale rispetto al senso di marcia. Poi tutti furono inghiottiti dal grigiore della bruma.
Presi un respiro profondo cercando invano di calmarmi.
«Potevamo morire!» urlai quindi puntando l’attenzione sullo sguardo apparentemente tranquillo di Cassie «E fermati!»
«Uh come la fai grossa!» mi interruppe, alzò una mano a mezz’aria e sospirò teatralmente «E poi non era nemmeno del tutto rosso! Sono passata giusto mezzo secondo dopo, capirai! Se quel cretino fosse andato un po’ più lento non sarebbe successo niente.»
Non credevo alle mie orecchie.
Avevamo rischiato di morire per colpa s u a.
Sentii scoppiarmi le vene dalla rabbia.
«Cassie fermati.» dissi con fare atono, covando tempeste.
Sbuffò.
«CASSIE.FERMATI!» tuonai tirando un pugno al cruscotto con una forza tale da far aprire il cassetto. Cd e vecchi fogli stropicciati scivolarono tra i miei piedi.
Di quel gesto incondizionato mi stupii io stesso, appena un decimo di secondo dopo averlo fatto.
Il rumore secco e la violenza dimostrata richiamarono Cassie, la lasciarono di stucco e la convinsero ad accostare sul lato sinistro della carreggiata.
«Hey, calmati un secondo, ok…?» mi disse con voce controllata e apprensiva. Se avesse avuto una coda, sarebbe certo stata tra le gambe.
E certo, ora faceva la carina.
Poggiò timidamente una mano sul mio ginocchio, forse con la paura che potessi tirare un pugno anche a lei, ora che non avrei compromesso la sua guida.
«Scusa, non volevo.» dissi prendendo un respiro profondo «Mi sono spaventato. E poi non dovremmo andare lì…L’hai detto anche tu che ci uccideranno, no?»
Annuì e abbassò di due dita il finestrino sul lato del conducente. Uno spiffero di aria fredda mi accarezzò il viso, aiutandomi in parte a riprendermi e calmarmi. I rumori all’esterno della macchina irruppero, seppur ovattati, dentro l’abitacolo.
«Insomma è che…» disse «…sono curiosa. Tu no? Cioè, se fosse vero che vogliono farci saltare in aria, non credo che tornare a casa cambierebbe molte cose. Moriremmo comunque, Theo. Lo sai anche tu. Quindi, anche se sembra stupido, tanto vale andare a vedere. No? Insomma, non credo tu abbia una camera a prova di laser atomici, o cose così. Ho paura anche io, ma vorrei quanto meno capirci qualcosa. Non voglio essere talmente stupida da farmela addosso e morire senza aver visto con i m i e i occhi cosa sta succedendo. Preferisci schiattare davanti alla tv? E’ una cosa troppo grande, Theo. Insomma, cazzo, sono a l i e n i. E sono lì, dannazione!» indicò oltre il parabrezza, nello stesso punto in cui stavano guardando attentamente decine di altre persone sui marciapiedi.
Effettivamente, vista così, non sembrava poi una cosa tanto stupida. Rimasi in silenzio.
Tolta la cintura e chinatomi in avanti, raccolsi alla bell’e meglio gli oggetti caduti e li riposi nel portaoggetti che si era aperto. Mi accorsi di sentire un leggero dolore alla mano con la quale mi ero sfogato poco prima. Il cellulare lo poggiai sul cruscotto che avevo di fronte, senza disattivare la modalità ‘telecamera’.
«O forse non ci uccideranno neppure» dissi cercando di rasserenarmi e auto-convincermi per l’ennesima volta. Accennai un sorriso sghembo e imbarazzato, vergognandomi ancora del gesto violento che la situazione estenuante mi aveva spinto a fare.
«Ma non sarebbero dovuti partire gli air-bags?» dissi inarcando un sopracciglio e sorridendo in maniera più distesa. «E credi che abbiano preso la targa?» aggiunsi mettendomi composto sul sedile, nuovamente con la cintura e pronto a ripartire. Cassie mise la freccia e tornò sulla corsia.
«Lo spero.» disse Cassie ridacchiando «Tanto chissene frega. La macchina è intestata a mia nonna, pensa come se la farebbe addosso» sghignazzò con quel suo fare sempre fuori luogo, eppure dannatamente buffo e contagioso.
Forse era perché eravamo appena scampati alla morte, o forse semplicemente per l’immagine della povera nonna di Cassie in imbarazzo e difficoltà di fronte ai poliziotti, fatto sta che scoppiammo entrambi a ridere.
E ridemmo fino al momento in cui, imbottigliati in un traffico fuori dal comune, fummo obbligati a fermarci ad appena un chilometro da Buckingham Palace.
Quando il tachimetro arrivò a segnare le zero miglia orarie mi voltai verso Cassie. Di fronte a noi, un taxi fermo con le quattro frecce. Di fronte a questo, altre cinque macchine completamente ferme e con le portiere aperte. Oltre, la nebbia.
Abbassai il finestrino, inspirando l’aria appesantita dall’umidità e dallo smog. La sirena di una volante della polizia urlava tra gli edifici rinascimentali. In lontananza, vibrava il suono delle pale di diversi elicotteri. Mi sembrò d’essere in prossimità d’un formicaio. La folla in tumulto pulsava nervosa nella direzione che noi stessi eravamo intenti a seguire.
«Che macello…» bofonchiai mentre abbassavo il finestrino.
Slacciai la cintura e mi sporsi con metà busto. Assottigliai lo sguardo, mettendo a fuoco all’inizio della fila un posto di blocco con poliziotti e membri dell’esercito.
Ciò che mi lasciò sconvolto fu la quantità immensa di persone che si erano riversate nelle strade. Intravidi nastri gialli tesi e sbatacchiati dal leggero vento.
«C’è la polizia.» dissi tornando seduto.
«Che palle» rispose Cassie, lasciandosi andare a uno sbuffo «lo sapevo che avrebbero vietato di andarci.»
«Vedi?» continuò «è sempre così: ci dicono che vogliono renderci partecipi di questo e di quell’altro, poi va a finire che nel momento fatidico ce lo mettono in quel posto. Non me ne frega niente se lo fanno per il mio bene! E se io mi volessi buttare in mezzo ai casini?» aveva lentamente alzato il tono di voce, frullando qua e là le mani a mezz’aria. Ogni tanto smetteva di parlare per sistemarsi i capelli, e lo faceva con una frequenza maniacale.
«Che razza di democrazia sarebbe questa?» continuò, fissandomi in cerca di conferme. «Se io voglio andare a morire lì, sotto al culo degli alieni, devono permettermi di farlo! Io posso fare quel cazzo che voglio! No?»
«Uhm…Cassie» dissi posando una mano sulla sua spalla «credo che tu stia confondendo la democrazia con l’anarchia…»
«Senti, non ti ci mettere anche tu, Theo, che non è proprio il momento.» e così mise fine al discorso.
Per le donne non era mai il momento giusto. Forse gli alieni un giorno ci avrebbero fornito la risposta a questi dubbi.
Cassie slacciò la cintura di sicurezza, accese le quattro frecce, afferrò la borsa e aprì la portiera.
«Hey! Hey! Scendi o t‘ammazzo!» urlò Cass quando, nel mentre innescava l’antifurto della macchina, un ragazzino sui sedici anni cercò di salire in piedi sul cofano per riuscire a vedere più in lontananza.
Vidi il teenager alzare il dito medio e scappare via a gambe levate.
«Assurdo…» continuò Cassie.
Il mio telefonino squillò nuovamente nella tasca dei pantaloni. Controllai lo schermo, seppur avessi già in mente una mezza idea di chi potesse essere all’altro capo della cornetta.
E infatti: mamma.
Lasciai suonare e, in compagnia della mia amica, seguii il flusso di persone che in maniera disordinata, su marciapiedi e corsie stradali, si andavano ad assiepare nei dintorni delle volanti della polizia.
«Tanto non ci lasceranno passare.» dissi alzando gli occhi al cielo.
Mi stupii di non sentire, in quel bailamme acustico, alcun rumore provenire dalla mostruosa costruzione che montava sulle nostre teste. Il cielo sopra di noi era completamente dominato dalla figura estranea che incombeva sulla nostra insignificanza. Da quel punto intravidi dettagli che fino ad allora mi erano sfuggiti: attorno alla principale luce bianca, di intensità maggiore, danzavano come lucciole file di più piccole luci cremisi.
Ignorai l’utilità di quella corolla di rubini, ma mi risultò spontanea l’inquietante associazione a tanti piccoli occhi attenti, ostili e celati nell’oscurità.
Rabbrividii.
Venni richiamato alla realtà dalla mano di Cassie, che mi afferrò il braccio e cominciò a spintonare la gente per aprirsi un varco nella folla senza controllo.
L’agitazione della massa mi diede una spiacevole sensazione di oppressione e di ansia.
«Non lasciarmi la mano!» urlò facendo scivolare la mano più in basso, nella speranza di intrecciare le dita alle mie.
Cercai di allungare il collo per guardare oltre i presenti, verso i poliziotti che costituivano un insormontabile ostacolo. Qualcuno mi tirò una gomitata. Mi sentii tirare i capelli, impigliati in qualcosa o qualcuno. Cassie urlò bestemmie per qualcuno che le schiacciò il piede. Sentivo il mio cuore battere forte, sovrastando inspiegabilmente tutto quel caos.
Fermammo i nostri goffi e travagliati passi ad appena un metro dai nastri gialli della polizia. Da lì la situazione mi risultò più chiara: oltre alle tre volanti posizionate di traverso lungo le due corsie, i membri di una quarta si stavano mobilitando per impedire agli abitanti della via di restare nella zona off-limits, sgomberando gli appartamenti con l’aiuto e l’autoritario sostegno di un capannello di membri dell’esercito.
Camioncini blindati soprassedevano in ordine sparso l’intera zona.
«Hey! Attenti!» cercai invano di urlare, sentendomi spingere da dietro. Mi impegnai con tutto me stesso per non perdere l’equilibrio, convinto del fatto che in tal caso sarebbe stata la mia fine.
Poi una voce si impose su tutto e tutti, riuscendo a richiamare l’attenzione a tal punto da far cadere i presenti in un religioso silenzio.
«La situazione è in mano alle forze dell’ordine e all’esercito.» disse la voce greve e maschile attraverso un megafono che non riuscii a inquadrare. «Un’ordinanza in vigore in linea Ufficiale da Questo Preciso Istante» continuò «Vieta Categoricamente a Tutta la popolazione civile di oltrepassare il Confine delimitato dalla segnaletica. Chi non rispetterà il limite imposto sarà considerato d’ostacolo al lavoro delle forze dell’ordine. Ogni altro tentativo di disturbo sarà considerato atto Grave di Terrorismo, e per questo subirà altrettanto Gravi Conseguenze.»
Gravi conseguenze? Il sangue mi si raggelò nelle vene.
Seppur tramite film di terz‘ordine, avevo già assistito a scene simili, spesso finite con una pioggia di pallottole sulla folla inferocita.
«Tornate nelle vostre case!» continuò la voce estranea, cominciando a ripetere il copione appena terminato «Un’ordinanza in vigore in linea Ufficiale…»
Nello sciamare di voci che si venne a creare, qualcuno si fece sentire urlando.
«Bastardi! Fateci vedere!»
«Non potete fermarci!»
«Zitti, o ci uccideranno tutti!»
Cassie strinse la mia mano un po’ più forte. Qualcuno mi stava schiacciando un piede, eppure cercai di non farci caso. Qualche pioniere cominciò ad allontanarsi. Lentamente la folla diminuì, come le fronde di un albero nelle settimane d’autunno.
Mi sporsi verso l‘orecchio di Cassie.
«Andiamocene, dai» proposi. Lei annuì distrattamente.
Ci allontanammo dai nastri gialli con una certa difficoltà e lo sguardo rivolto di tanto in tanto al cielo.
Cassie lasciò andare la mia mano quando, finalmente, potemmo tornare a respirare liberi dalla pressione dei corpi altrui.
«Andiamo a casa, giusto?» disse forzando un sorriso. Avrei dato l’anima pur di riuscire a entrare nella sua testa per un solo minuto.
Con la confusione in testa per lo stormire degli avvenimenti, controllai lo schermo del telefonino che aveva cominciato a squillare per la terza volta.
Mamma.
Mi decisi a rispondere. Nel mentre, accennai un ‘sì’ con la testa a Cassie. Adesso? Sarei andato a casa e avrei atteso la salvezza o la distruzione del mondo?
Non ebbi neppure il tempo di rispondere al telefono: appena accettata la chiamata, mamma cominciò a dare di matto all’altro capo della cornetta.
«Dove diavolo eri finito?» disse urlando «ancora un attimo e avrei mandato tuo padre a cercarti. Sai quanto gli scocci girare per Londra. Oddio, anche quell’altro. Comunque perché sei uscito? Ti avevamo fatto dire che non saresti dovuto andare in università!»
Fase uno: la rabbia.
«Mamma…» cercai di dire io, esasperato.
«Perché non rispondevi? Theodore, lo sai che non devi fare così, sapessi quanto ero preoccupata. E tuo padre, poi…»
Fase due: il vittimismo.
Sapevo - o almeno, pensavo - che in realtà fosse molto più infastidita dal fatto in sé che non le stessi rispondendo, piuttosto dal pensiero che qualcuno potesse essere in procinto di banchettare con il mio cervello.
Non risposi, e la cosa non le piacque.
«Senti Theodore, non mi va di discutere. Torna a casa, capito? SUBITO. Non farmelo ripetere ancora.»
«Mamma sono in giro con Cassie, tra poco torno.» scambiai uno sguardo d’intesa con Cass, che prontamente fece finta, gesticolando, di impiccarsi.
Cercai di non ridacchiare al telefono.
«Quante volte ti ho detto di non frequentare quella ragazza?» continuò «Non mi piace. E’ maleducata, e poi dicono che sua madre non sia…bè, sì…normale.»
Sentir pronunciare quella frase di cattiveria e superficialità mi spiazzò. Lottai contro il desiderio di risponderle male e riagganciare.
«Theo,» disse «non accetto scuse. Aspetta, suonano alla porta.»
«Ok.»
Allontanai il cellulare dall’orecchio e sospirai. Mi passai una mano sul volto, pigramente. Cassie rimase in silenzio, ma sapevo che avendo inteso il fulcro della chiamata fosse già in procinto di rientrare in macchina. In fin dei conti tornare a casa faceva già parte dei nostri piani.
Passammo a passo sostenuto accanto ad un’erboristeria: un dolciastro e caldo profumo di fiori mi accarezzò le narici. Fiori di pesco, forse.
Riavvicinai il telefono all’orecchio, ma quando mamma tornò a parlare, il suo tono di voce mi fece gelare il sangue.
«Theo» disse. Bastò quell’unico secondo di attesa al centro della frase per farmi capire che non si stava più scherzando «devi tornare a casa. Sul serio. C’è qui la polizia che ti cerca.»
Lo spaventò mi paralizzò.
Sentii la testa svuotarsi e diventare improvvisamente leggera. Il cuore schizzò perforandomi la gola. Smisi di camminare.
Cassie inarcò un sopracciglio curiosa, confusa e preoccupata.
«La polizia…?» ripetei, scoprendo di riuscire ancora a parlare.
Cassie spalancò le labbra sottili.
Il brainstorming elaborò una ventina di immagini differenti nel giro di due secondi appena.
Nella mia testa frullava l’idea che le forze dell’ordine potessero essere risalite a me in qualche modo per le faccende inerenti al mancato incidente stradale di appena mezz’ora prima.
Ostacolo al traffico. Mi avrebbero accusato di questo, credo.
E nel caso in cui ci fosse stato un morto? O forse due? Qualche danno a dei negozi? Avrei dovuto pagare tutto. Mi vidi in carcere.
«Mh…Sì.» disse mamma dopo pochi minuti di silenzio. Ripresi a camminare a passo talmente rapido che per un momento temetti di sollevarmi da terra. Intorno a me, lo sciamare delle persone agitate per l’arrivo degli alieni. Qualcuno se ne stava rendendo conto solo ora. Vidi tre infermieri caricare una donna su una barella e trasportarla lontana dalla mia posizione.
«Non mi vogliono dire perché siano qui.» disse mamma. «Magari è per la storia degli Humpsey.»
Presi un respiro profondo. Nelle sue parole trovai uno spiraglio, un appiglio al quale immediatamente mi aggrappai.
Sentire mia madre realmente preoccupata mi strappò un piccolo pezzo di cuore.
«Ok mamma» sospirai ancora «Arrivo.» Riagganciai. Giunti alla macchina aprii la portiera e presi posto sul sedile. Il nostro era l’unico veicolo rimasto immobile sulla corsia. Ormai anche sui marciapiedi erano rimasti pochi presenti. Le sirene, ormai spente, avevano lasciato lo spazio al ronzio degli elicotteri che nonostante la scarsa visibilità sorvolavano la città.
«Un figlio di puttana mi ha fatto la fiancata» ringhiò Cassie, entrata in macchina e con le chiavi nel quadrante. «Spero che sia il primo a morire…Allora?»
«Allora niente. Non so un cazzo. Mamma dice che la polizia mi aspetta a casa. Credo sia per i miei vicini…spero. Dici che potrebbe trattarsi dell’incidente di prima?» fissai lo sguardo sul mondo in movimento: frullava senza alcun senso, mischiandosi coi colori freddi della nebbia e sfuggendo di fronte allo sguardo vacuo e pensieroso.
Cassie sorrise, come al solito fuori luogo.
«Ma che bella giornata, Hughes. Non ti invidio affatto.»
«Cassie, non sei divertente.»
«Scusa. Non lo faccio apposta.»
Sperai che si trattasse davvero degli Humpsey.
Lo sperai con tutto il cuore.

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Capitolo 7
*** capitolo 5.0 ***



!! piccole note:
grazie chiunque abbia recensito: mi motivate a continuare e mi aiutate a migliorare ( e cosa c'è di più importante? ).
scusate l'assenza ma ho scritto altri racconti ( con i quali ho sperimentato nuovi stili e nuovi argomenti ) e il sito di EFP mi dà non pochi problemi con il caricamento.
sì, ci sarà un capitolo 5.1 della durata di 8 pagine circa. per il momento..buona lettura!

*


CAPITOLO V

[ il testo è presente anche in formato pdf, più ordinato e pulito. questo è il link > http://tat.altervista.org/BLOG_Jade/JADE_CAP_5.0_EFP.pdf ]

«Non ricordo molto del viaggio di ritorno.
Cassie sfrecciava sulle strade con la presunzione di chi è convinto d’essere immortale, approfittandone del fatto che salvo qualche irriducibile le strade si fossero del tutto svuotate.
Tenemmo abbassati entrambi i finestrini d’un paio di dita. L’aria fredda pungeva il mio viso, risvegliandomi di tanto in tanto dal mio fare trasognante. Dopo un paio di tentativi di conversazione andati a male, Cassie accese l’impianto stereo facendo partire il cd sulla traccia tredici.
Ascoltammo i Foals fino a quando non ci fermammo di fronte al cancello d’ingresso della mia villetta. Trovai la via, per la prima volta dopo settimane, finalmente sgombra da tutti i giornalisti che erano stati impegnati con l’omicidio degli Humpsey.
Cassie spense la musica e mi guardò accennando un sorriso. A qualche metro dal muso della nostra automobile vi era una volante con le sirene spente. Oltre il parabrezza, invece, la nebbia che cominciava a diradarsi rivelò una vastità di sfumature rosate sospese nel cielo, come una cappa alla quale non riuscii a dare una forma.
«Preferirei farmi lobotomizzare dagli alieni» disse Cassie, prima di ridacchiare.
«Non è divertente.» dissi.
«Eccola» aggiunsi poi,  assottigliando lo sguardo per sbirciare oltre Cassie e il suo finestrino. Scorsi, nonostante la miopia, la figura sfocata di mia madre sul ciglio della porta d’ingresso aperta.
Sospirai in risposta al fatto che cominciò a sventolare il braccio a mezz’aria con fare isterico.
«Ha paura di passare inosservata?» sottolineò Cass con un sorriso «Qualcuno le spieghi che tanto la gente percepisce la sua negatività a distanza» scoccò un’occhiata oltre il finestrino, in direzione di mia madre che cominciò a scendere i gradini poco prima della porta.
«Dai, ci vediamo» disse ancora Cassie, forse temendo un incontro-scontro con mamma «se non muoriamo tutti, domani andiamo sulle colline fuori città. Li si dovrebbe vedere tutto, credo. E fammi sapere se sono qui per la storia dell’incidente di prima. Ok?» si concesse un attimo di silenzio, quindi si sporse e lasciò un bacio caldo sulla mia guancia.
I suoi capelli profumavano di buono.
     Contro ogni aspettativa mamma rimase in silenzio.
Per inciso, la sua ira funesta era data dieci a uno.
Quando sui gradini mi abbracciò cercai di mascherare lo stupore schiarendomi la voce con un piccolo colpo di tosse.
invitandomi a raggiungere in soggiorno gli agenti della polizia e mio fratello.
Investito dal caldo domestico alzai le maniche del maglione.
Annusai l’aria e raggiunsi il soggiorno in un incontrollabile vorticare di pensieri.
I poliziotti erano due. Quando col petto incassato tra le spalle mi avvicinai per stringere loro la mano sentii il peso dei loro sguardi sul mio corpo.
Mi presentai all’agente Rowney con un sorriso cordiale. Era un uomo sulla cinquantina con la faccia tonda e la calvizie pronunciata. Mi diede l’impressione d’essere una di quelle persone che dopo il matrimonio si lasciano andare a stili di vita più oziosi e malsani. Con la goffaggine di un orso si alzò dal divano, sorrise e mi strinse la mano con moderata forza.
Accanto a lui, in piedi dal primo istante, un uomo dall’aspetto rigido mi fissò con fare austero.
La postura eretta, probabile eredità di un intenso addestramento militare, lo faceva apparire più alto di quanto già non fosse. Un colosso, rispetto al suo pacato collega.
La sproporzione tra i due era bizzarra, seppur davano l’impressione d’esser complementari.
Rowney, nonostante la sua mole, sembrava piccolo come una mosca sul culo di una vacca.
«Sergente Hunnings» disse con tono fermo. Temetti di restare senza braccio, quando con grande energia lo scosse per presentarsi.
Rowney, tornato seduto, avvolse con entrambe le mani una capiente tazza di the caldo e se la portò alle labbra. Succhio rumorosamente un lungo sorso, quindi la ripose accanto ad un bicchier d’acqua ancora intonso.
La televisione zittita dall’opzione ‘muto’ riportava le immagini violente di una rivolta cittadina che riuscii a sbirciare solo con fugaci occhiate. Un uomo dai tratti orientali lanciava sassi contro un soldato dell’esercito.
«Siamo venuti» disse il sergente Hunnings scorrendo lo sguardo su tutti i presenti «perché abbiamo ricevuto la richiesta di portarvi in centrale. Dobbiamo fare degli accertamenti e interrogarvi su una questione particolarmente importante. Mi faccia finire, signora» alzo una mano per zittire preventivamente mia madre, che chiuse le labbra e si accoccolò ai cuscini della poltrona.
«I suoi figli non hanno commesso alcun reato e non verranno trattenuti in centrale oltre il tempo necessario a svolgere tutte le indagini. Non c’è nessun problema per Theodore, tuttavia avremmo bisogno di una sua firma per confermare la sua disponibilità a far sì che il minorenne venga con noi.»
Afferrata una valigetta nascosta dal tavolino, la aprì tenendola con il palmo sollevato d’una mano e ne estrasse un fascicolo di carta. Tenne in mano solo i documenti, quindi li sfogliò nel più completo silenzio alla ricerca di qualche particolare, inumidendo di tanto in tanto il polpastrello dell’indice, tra le labbra.
Mi voltai verso Martin, nel più completo silenzio, con le braccia incrociate e con la spalla poggiata allo stipite della finestra. Sospirò, quindi sbirciò oltre il vetro, distratto.
«Mh…Martin Hughes…» lesse Hunnings con poca enfasi, frullando a mezz’aria la mano libera «…e che dichiara la sua completa autonomia e attendibilità, dichiarandolo in grado di fornine informazioni valide anche a livello legale in caso di eventuali processi in tribunale.»
Porse il foglio a mamma, che lo accettò con diffidenza.
In silenzio cominciò a leggere, sotto lo sguardo attento di Hunnings e talvolta di quello più accidioso di Rowney.
«Fate sempre così?» dissi io.
«Come, scusi?»
«Fate sempre firmare questi fogli?»
«E’ una procedura comune, sì.»
«E perché dobbiamo venire?» parlavo con la sfrontatezza di chi è sicuro di essere nel lecito.
«Non siamo tenuti a fornire questo genere di informazioni.» continuò Hunnings «Lo scoprirete in centrale.»
Incrociai lo sguardo con quello più di mia madre. A nulla probabilmente erano servite le rassicurazioni del sergente: con molta probabilità nella sua mente eravamo già finiti drammaticamente in carcere.
«Siete sicuri che non sia nulla di grave, vero?» chiese lei.
Hunnings annuì.
«E perché non ne potete parlare?»
Hunnings roteò gli occhi. Probabilmente pensava che ci sarebbe voluto molto meno tempo. Ripetè la frase sull’impossibilità di fornire informazioni e tornò al silenzio.
Pensai che se avessero avuto bisogno di noi per rispondere alle solite domande sugli Humpsey non avrebbero avuto motivo di tenere nascosta la motivazione della procedura, e che se fossero venuti lì per la questione dello scampato incidente stradale non avrebbero richiesto la presenza di mio fratello. Oltretutto Cassie non era stata chiamata da sua madre, e il fatto che potessi essere rintracciato dalle forze dell’ordine prima io di lei lo reputavo alquanto improbabile.
Chiesero anche a me di firmare tre moduli. Non persi tempo a leggere, scarabocchiai le mie firme e con il loro permesso anda a concedermi una tregua in cucina ed un bicchiere d’acqua fresca.
     Quando per tornare in soggiorno trovai tutti nel disimpegno di casa sentii categoricamente rifiutata la proposta mossa da mia madre di poterci accompagnare personalmente in centrale.
Venni stritolato dal suo abbraccio quando, con sofferta rassegnazione, ci lasciò andare verso la volante della polizia.
Mia madre era la personificazione dell’esagerazione: un’alternanza di fasi di menefreghismo che ti danno a credere che neppure ti reputi suo figlio, e fasi di esagitato nervosismo dovuta ad un’eccessiva premura e sfiducia nei confronti di tutto il mondo. Non aveva vie di mezzo, e la cosa personalmente non mi piaceva.
E’ così che, neppure fossimo stati in procinto di intraprendere l’avventura della nostra vita, ci caricò le spalle – e le orecchie – di raccomandazioni, sotto ai miei occhi imbarazzati e quelli divertiti di Rowney.
Ringraziai Dio quando riuscii a raggiungere i sedili posteriori della volante e soprattutto perchè riuscii a farlo in meno di cinque minuti. Con un sospiro di sollievo cercai oltre il finestrino inferriato le linee dell’astronave aliena in lenta sparizione nel buio della sera.
 
«Guarda!» urlò Martin con emozione infantile.
Sembrava non accettare il fatto che i finestrini posteriori fossero bloccati. Con la testa assumeva posizioni scomode nella speranza di carpire col suo sguardo fazzoletti di cielo scuro.
A separarci dagli agenti c’era una grata metallica dalle maglie larghe circa due dita. Vi premetti contro le ginocchia alla ricerca – vana - di una posizione comoda.
Un profumatore d’auto a forma d’albero pendeva dallo specchietto retrovisore, sbatacchiando ad ogni curva senza ormai più emettere alcun odore.
«Hai visto?» disse l’agente Rowney, seduto nel posto assegnato al passeggero.
Si reggeva con la sinistra alla maniglia di sicurezza poco al di sopra della sua testa.
«Non c’è nessuno.» continuò «È uno vero schifo. E pensare che avevo detto a mia moglie che sarei rimasto a casa, oggi. Mi sarei dovuto mettere in malattia.» sospirò e si sporse in avanti.
Io, dietro di lui, ne vedevo solo la nuca.
«Se non altro non siamo sotto a quell’affare come tutti gli altri. Dio ci salvi tutti quanti, Robert. Quelli dell’esercito sapevano tutto, sai? L’ho sentito alla radio. Io ho sempre odiato l’esercito. Una volta ho dovuto-…»
Smisi di ascoltare, fedele alla mia impossibilità di mantenere la concentrazione.
Spostai lo sguardo oltre il finestrino alla mia sinistra. Le strade e i marciapiedi erano  vuoti. Completamente.
Fino ad allora avevo creduto che Londra e la sua gente fossero diventati ormai un’unica entità inscindibile, un mostro millenario in continuo tumulto.
Il formicaio, invece, questa volta era stato abbandonato. Una visione raccapricciante.
«Hai visto il tg?» disse Martin cogliendomi alla sprovvista.
Mi voltai e lo guardai.
La sua innocenza lo rendeva impavido: invidiai il fatto che riuscisse a restare estraneo all’ansia del momento.
Scossi la testa.
La risposta sembrò piacergli. Sorrise, dunque si voltò meglio nella mia direzione, poggiando un ginocchio sul sedile, di lato.
«Sono enormi.» l’entusiasmo lo portò a gesticolare. Aprì le braccia per quanto gli fu concesso dagli spazzi ridotti della volante.
«E sono arrivate in tutto il mondo, sai?» continuò «Le astronavi, intendo. Hanno mandato una tempesta di filmati in diretta. Youtube è in sovraccarico. Quella su New York City sembra un serpente immenso! Sono uscite anche dal mare. E Sai come? Erano invisibili. Da un momento all’altro sono comparse nel cielo. Invisibili, semi-visibili, visibili. Ci pensi? Sono praticamente su tutte le città più importanti del mondo.»
«Prendi fiato.» gli tirai un buffetto sulla spalla, pensieroso.
«Invisibili ai radar?» disse Hunnings, intromettendosi con la voce gelida di chi vuole mantenere distacco e autorevolezza.
«Invisibili!» rispose Martin «era come se…come se lentamente da invisibili diventassero visibili, no? Come se per un attimo fossero quasi invisibili, trasparenti, ecco. Si vedevano solo i contorni. Poi lentamente hanno assunto colore, mostrandosi del tutto. La cosa assurda è che non abbiano interferito con i voli delle linee aeree. Nessun incidente. Oddio, è vero che i voli fossero stati drasticamente diminuiti da un paio di giorni, però è comunque strano, no? Come se lo sapessero. Ah, in Arabia hanno provato a lanciare dei missili contro un’astronave. Quella era diversa da quella di New York, sembrava un uovo…ma tutto rossastro. Sembrava di roccia, e piccole luci vi ruotavano intorno. Era visibile per quello; sai, lì è tipo notte. Non si sa a cosa possano servire, ma sembrano seguire…come delle orbite. Comunque è scoppiato il putiferio: tutti temevano un contrattacco, invece niente. I missili si sono distrutti senza recare danni e gli alieni non hanno risposto. Non si sono neppure fatti vedere. Dicono che quindi sia la dimostrazione che non sono ostili, altrimenti ci avrebbero già distrutti, no? Ma io non so se crederci, sinceramente.»
Rowney tirò un sospiro di sollievo e Hunnings lo ammonì con lo sguardo. Fuori dalla vettura il mondo scorreva veloce.
Sembrava tutto irreale.
Prima dell’arrivo in centrale Martin riuscì a spiegare come gli eserciti di mezzo mondo si fossero mobilitati per la difesa delle capitali interessate dall’episodio. Solo a Beijing si contavano ventimila soldati di fanteria. La marina militare degli Stati Uniti d’America, invece, aveva impiegato tutte e dodici le portaerei a disposizione, spargendole nell’Oceano Atlantico.
     Quando scendemmo dalla macchina la sera era calata sulla città. Illuminata dalla luce calda di un lampione, una donna senza-tetto e seduta a terra con le spalle contro un muro osservava il cielo. Sbirciai verso l’alto, dove nel buio della prima sera una luce puntiforme azzurra vibrava nell’aria tracciando lentamente cerchi concentrici nel cielo.
Varcammo la soglia della centrale di polizia in compagnia degli agenti, a due passi di fronte a noi. Sentii sul corpo lo sguardo attento di chiunque ci incrociasse nei corridoi, come carcerati che sbirciano da dietro le sbarre la marcia di un condannato a morte.
Il minimalismo estetico dell’edificio nella sua parte esterna era ripreso anche all’interno, nel suo arredamento scarno, vecchio e prevalentemente metallico. L’asetticità e la neutralità dei colori non contribuivano certamente a rendere l’esperienza più gradevole.
Ci fermammo in un corridoio del primo piano, dove sia io che Martin prendemmo timidamente posto su due sedute, al primo cenno di Hunnings.
I minuti passarono nel silenzio. Ad interromperli fu un uomo in completo nero, dall’aria severa ed elegante, che aprì la prima porta da destra e si avvicinò alla nostra posizione.
La sua voce, nel mentre scambiava due parole con i due agenti, mi arrivò roca come quella dei fumatori incalliti.
     Non mi piacque l’idea di lasciare mio fratello, tuttavia fui costretto dalle circostanze. ‘Gli interrogatori avverranno in separata sede’, aveva detto la nuova comparsa, l’agente Kirchner, prima di separarci e condurre Martin nella sala all’estrema sinistra.
Era un uomo dall’aspetto ordinario, se non per il mento troppo prominente e folte basette brizzolate.
Io lo seguii fin dentro la stanza da cui era uscito.
Era una sala di una ventina di metri quadrati, dalle pareti bianche macchiate dall’umidità e il tempo, e con un’unica lampadina al centro della stanza, nuda come i cavi che la sorreggevano a mezz’aria. L’unico calorifero presente non riscaldava abbastanza la sala.
Ad accogliermi, seduta all’unico tavolo presente al centro della stanza, una donna bellissima. L’agente Kirchner chiuse la porta mentre io prendevo posto sulla sola sedia libera rimanente.
Io e la ragazza ci osservammo in silenzio per un lungo attimo poi, con grazia, si sporse in avanti mi offrì la piccola mano. Le sue labbra carnose, rinforzate da un corposo rossetto scarlatto, disegnarono un sorriso perfetto che formò una fossetta ad altezza della guancia sinistra.
I grandi ed espressivi occhi azzurri, la pelle diafana e i lunghi capelli corvini mi ricordarono l’aspetto grazioso di Zoey Dechanel, una delle mie attrici preferite. Si presentava da Dio nel suo tailleur con piccoli ricambi bianchi sugli orli.
Avevano entrambi più l’aspetto di due avvocati piuttosto che di due agenti di polizia.
«Diana Stirling,» disse mentre strinsi piano la sua mano «piacere di conoscerti, Theo. Posso darti del tu, vero? Forse un bicchier d’acqua potrebbe tornarci comodo, che ne dici?»
«Volentieri.»
Mi domandai se anche Martin avesse ottenuto il privilegio di questa cordialità o se, piuttosto, stesse avendo a che fare con agenti uguali al mite Kirchner.
Quest’ultimo uscì dalla stanza nel più totale silenzio; fu allora che Diana riprese la parola, più distesa.
«Cosa fai di bello nella vita, Theo?»
«Come…?»
«Sì, insomma, studi, lavori…cose così.»
Di fronte al mio momentaneo silenzio, Diana sembrò intuire i miei pensieri.
«E’ per sciogliere un po’ il ghiaccio.» incalzò, con un sorriso «vorrei che tu fossi a tuo agio, che non ti preoccupi, ecco. In fondo sei giovane e non siamo qui per fare il tribunale della Santa Inquisizione» ridacchiò, quindi accavallò una gamba sull’altra.
Mi cadde l’occhio e spontaneamente sorrisi anche io.
«Studio economia all’università.» dissi, abbandonandomi allo schienale della sedia, disteso e irretito dal suo fascino.
«E i tuoi familiari…?» continuò «Di là c’è tuo fratello, se non mi sbaglio»
«Giusto. ..Niente, è una famiglia normale. Non vado molto d’accordo con i miei genitori ma non credo sia poi tanto strano, no?»
«Capisco…» disse lei, seppur mi diede l’impressione di non aver neppure ascoltato la risposta.
«Senti Theo, cosa ne pensi di tutta questa storia degli alieni?»
Kirchner rientrò, richiuse la porta alle sue spalle e poggiò di fronte a me un bicchiere di plastica ricolmo d’acqua. Qualche bollicina risaliva sulla superficie. Ingollai due primi lunghi sorsi, freschi. Kirchner si mise in piedi accanto a Diana, con le mani intrecciate dietro il bacino.
«In che senso?» dissi.
«Hai paura?» tornò composta, poggiò gli avambracci sul tavolo e si sporse in avanti. Non mi sfuggì la luce dell’interesse nei suoi occhi.
«No.» risposi «Cioè, bè, sì, forse un po’ sì. Ma è normale, no?»
Annuì.
«Theo noi siamo agenti del dipartimento dei servizi segreti della Gran Bretagna, e siamo qui per una questione piuttosto importante. Aspetta prima di fare domande.»
Bevvi di nuovo, fino all’ultima goccia.
Servizi. Segreti. Della. Gran. Bretagna.
«Il governo degli Stati Uniti» riprese a dire lei, senza mai schiodare gli occhi dai miei «non ha raccontato esattamente tutta la verità. Avrai seguito anche tu le vicende in televisione, no? Sai che hanno mostrato numerosi reperti tenuti nascosti in passato, che hanno rivelato la vera posizione dell’area51 e la sua funzione primaria – effettivamente relativa al mondo extraterrestre -, che hanno divulgato nastri e filmati che prima di tutto questo trambusto erano considerati di massima segretezza.»
Un nodo allo stomaco mi causò una sgradevole sensazione di nausea.
«Ebbene,» proseguì «ci sono altri particolari rimasti nell’ombra. Quello che non è stato detto è che il governo degli Stati Uniti fosse in realtà a conoscenza già da quattro anni di ciò che sarebbe successo, che abbia avuto ripetutamente occasione di intraprendere contatti diretti e indiretti con le razze aliene e che, nel corso del tempo, si sia giunti a numerosi accordi in grado di giovare gli interessi di ambo le parti. Se si è giunti alla situazione di oggi…non è certo per volere solo di non-umani. Era programmato. Capisci?»
Annuii.
«Oltre ad aver accettato uno scambio totale di culture, materiali, conoscenze e strumenti, che porteranno ad un’elevazione della specie umana oltre i limiti dell’immaginabile, è stata stilata una dettagliata lista di persone alle quali sarà presentata l’opportunità di lasciare in via definitiva il pianeta Terra, al fine di trasferirsi permanentemente su altri pianeti.»
Sussultai e mi aggrappai con entrambe le mani al tavolo.
Un fremito di adrenalina vibrò lungo la mia colonna vertebrale, facendomi girare la testa e contorcere le budella.
«Theodore.» tagliò corto Diana, con una mano a mezz’aria. «Qui non si parla di un giro a Disneyland.»
«Ho capito bene?» la luce nei miei occhi anticipava il mio entusiasmo «Posso…?»
Fanculo i richiami e fanculo gli invidiosi come lei. Perché ne ero certo: Diana mi invidiava, anche se si nascondeva dietro una coltre di sorrisi e buone maniere. Non si parlava di un viaggio a Disneyland, appunto: questo era molto di più. Molto più di una proposta allettante di lavoro o di una vittoria alla lotteria; questo era molto più di t u t t o. Sarei partito per un altro pianeta, avrei cambiato vita, magari sarei diventato un esponente di spicco di una colonia di esseri umani in terre straniere, avrei incontrato alieni, tecnologie superiori, avrei acquisito superpoteri, sarei stato invincibile, magari immortale.
Esistevo solo io. Io e il mio sogno sul punto di divenire realtà.
Me lo sentivo che sarebbe successo.
Avrei voluto alzarmi e gridare al mondo che Theodore Hughes lo sapeva fin dall’inizio.
«Fammi finire. Rimandiamo le domande a dopo» disse lei. Sospirò e lanciò un rapido sguardo al suo collega, in religioso silenzio «sono state stilate cinque liste, ognuna delle quali comprende esattamente mille persone, tra bambini, adolescenti, adulti e anziani. Tra questi ci sono uomini di scienza, artisti, persone che nel corso della loro vita hanno sviluppato particolari caratteristiche, come i detentori di record mondiali, ma anche malati terminali, pericolosi criminali, individui psicologicamente instabili...e poi ci siete tu e tuo fratell. Ti prego, Theo, di prendere in considerazione ogni aspetto della proposta, analizzandola alla perfezione. Non lasciarti prendere dall’entusiasmo.»
«Accetto.»
Chi di voi avrebbe agito diversamente? ‘non lasciarti prendere dall’entusiasmo’ era un concetto impossibile da attuare in quelle condizioni.
Pensai per un secondo a Martin. Mi ero dimenticato di lui. Chissà come stava agendo.
Quando l’agente Kirchner uscì per la seconda volta dalla piccola sala io e Diana restammo a fissarci in silenzio per una dozzina di secondi.
«Theo, ti parlo come se fossi amico mio» disse passandosi una mano tra i capelli, a sistemare qualche ciocca setosa dietro l’orecchio sinistro. Percepii la sua buona fede. In quel momento condividemmo entrambi un pezzo del nostro cuore.
«Se accetterai» disse «non siamo in grado di dirti a cosa verrai sottoposto. Hanno detto che vengono in pace, ma…nulla è dato per certo, ok? Non sappiamo in quali terre verrai condotto, le scene alle quali dovrai assistere, il modo in cui verrai trattato, le conoscenze che ti verranno trasmesse, il ruolo che ti verrà assegnato una volta che sarai con loro. E soprattutto non tornerai mai più a casa. Mai più.»
Non sapevo cosa rispondere. La porta si aprì e l’agente Kirchner si avvicinò al tavolo per poggiarvi sopra una valigetta robusta in cuoio nero.
«Ok…» riuscì a dire prestando attenzione a non incrociare il suo sguardo. Diana stava rivestendo l’infame ruolo della coscienza. Col senno di poi non posso che ringraziarla.
Clic. Clic.
Seguii con gli occhi le dita affusolate di Diana che afferravano un fascicolo rilegato. Riuscii a sentire il profumo della carta appena stampata, di quando la prendi in mano e ne senti ancora il calore sulle dita. Lo posizionò di fronte a me ed ebbi l’occasione di leggere i caratteri cubitali che siglavano la prima pagina.
 
PROJECT OMEGA – TOP SECRET
 
Questa volta a prendere la parola fu l’agente Kirchner, rimasto in piedi accanto alla sedia di Diana che, dopo aver sfogliato per me le prime due pagine del fascicolo, si mise a fissarmi in silenzio e con le gambe elegantemente accavallate.
«Che lei decida o meno di prendere in considerazione la proposta,» disse l’uomo guardandomi dall’alto «siamo obbligati a metterla a conoscenza di tutti i dettagli implicati. Innanzitutto è Assolutamente Impossibile offrire l’opportunità sia a lei che a suo fratello Martin. E’ un aut aut di cui non conosciamo i motivi e sul quale potrete confrontarvi una volta concluso questo colloquio.»
Annuii in silenzio per confermare la mia attenzione, stranamente duratura.
Per nulla al mondo avrei lasciato a Martin l’opportunità di soffiarmi tutto questo da sotto il naso. Mai.
«Le raccomando di leggere tutto il fascicolo con estrema attenzione, Mr.Huges.»
Deglutii cercando di non tirare le somme prima del dovuto. ‘Pensa positivo’, mi dissi. Una parte di me era convinta che una qualche fregatura mi stesse aspettando al varco, ormai proprio dietro l’angolo.
«Arriviamo al punto fondamentale della questione.» disse Kirchner intensificando – se possibile – il suo sguardo sulla mia pelle. Mi sentii come scavato da una larva invisibile, proprio ad altezza della fronte.
«Tutto ciò di cui le stiamo parlando dovrà restare assolutamente segreto. Immagino che, da buon cittadino quale sarà, non vorrebbe mai scatenare il malcontento del popolo e la sfiducia nei confronti del governo. Nascerebbe allarmismo, e dopo quello partirebbe una corsa all’oro. Dopo la corsa all’oro probabilmente si arriverebbe a rivolte e forse anche vere e proprie guerre. Senza contare l’invidia, poi. Se si sapesse che lei ha un posto già pronto sulla prima nave in partenza, molto probabilmente si ritroverebbe impiccato a un albero prima della prossima alba, se Dio ci concederà un altro giorno.»
Diana incrociò le braccia sotto ai seni acerbi e restando con il corpo poggiato allo schienale prese prepotentemente la parola.
«Theodore,» disse «non possiamo permetterci che tu ne parli con nessuno al mondo. Nessuno, capisci? Neppure ai tuoi genitori o ai tuoi migliori amici. Nessuno. Avremo mezzi a sufficienza per assicurarci che tu rispetterai questo semplice patto, e in caso di infrazione abbiamo l’ordine di intervenire immediatamente per impedire una diffusione delle informazioni.»
In altri termini: in un modo o nell’altro mi avrebbero fatto sparire dalla faccia della Terra. Era una minaccia velata. La storia del Patto era una stronzata. Mi sentii oppresso; schiusi le labbra per respirare profondamente.
«Quindi» provai a dire riscoprendomi con la gola secca. Tossii due volte, quindi tornai a parlare «come farò ad andare via? Cosa dirò ai miei genitori?»
Allungò un braccio, sfogliò il fascicolo di fronte a me e mi mostrò, a pagina 23, le stampe in bianco e nero di foto di casa mia. Osservai senza parole gli scatti in apparenza rubati da dietro un grosso albero, in direzione della mia casa prima senza pannelli solari, poi durante i lavori ed infine con tutti gli implementi montati sul tetto.
In basso a destra mamma di spalle dava indicazioni a un operaio che in cima al tetto sistemava i pannelli. Poco più in alto, mio padre cercava qualcosa nella cassetta della posta.
Stavano scattando dal giardino degli Humpsey. In un paio di scatti si intravedevano manciate di giornalisti che puntellavano la zona, interessati all’omicidio.
Da quanto tempo ci stavano pedinando?
Sentii girare la testa.
Mentre chinato in avanti fissavo le immagini riempiendo la mia testa di domande irrisolte, Diana riprese a parlare.
«Sappiamo della recente installazione di quei pannelli solari sul tetto della vostra casa, esattamente su quella che dovrebbe essere camera tua, è corretto?»
Annuii distrattamente. In una foto di sinistra Martin stava tornando a casa con lo zaino sulle spalle.
«Nel caso in cui tu dovessi accettare, domani mattina i tuoi familiari verranno chiamati in caserma. Tu verrai prelevato da dei nostri agenti e portato all’aeroporto di Gatwick. Indurremo un corto circuito negli impianti di immagazzinamento dell’energia elettrica, e questo causerà un incendio con consecutivo crollo del tetto. Ostacoleremo l’arrivo dei rinforzi che, raggiungeranno casa tua quando per te sarà già troppo tardi.»
Rimasi in silenzio. Il cuore martellava nel mio petto. Quasi mi sentii cedere la cassa toracica, dalla violenza di quel ritmo. Capivo perfettamente quello che voleva dire.
Diana riprese a parlare.
«Da domani mattina, Theodore, tu per il mondo intero sarai morto. Nessuno saprà della tua dipartita. Si conta che il resto della casa resterà intatto. I tuoi genitori verranno risarciti dall’assicurazione.»
Pensai al dolore che avrei dato loro.
«Non ti è permesso portare nulla, chiaro?» continuò la donna «Non il telefonino, non un peluche, non un lettore mp3, non un libro. Niente. Tutto dovrà sembrare assolutamente normale e nessuno dovrà aver modo di pensare che tu in realtà sia andato via di casa. Tutto chiaro? Devi andartene di casa nelle stesse condizioni in cui saresti durante una morte accidentale. Ti faremo avere tutti i dettagli non appena possibile. Una volta scortato a Gatwick ti forniremo tutto il necessario per la tua sopravvivenza.»
Rimasi sconvolto dalla facilità con la quale, in questo mondo, fosse possibile far sparire completamente un essere vivente.
Semplicemente non sarei più esistito.
Kirchner si riappropriò della parola tolta. «E’ vietato lasciare biglietti d’addio e fare qualunque altro tipo di azione che possa suscitare sospetti in terzi. E’ vietato avere ripensamenti. Dal momento in cui siglerà questi moduli lei si dichiarerà disponibile a collaborare con gli enti governativi per gli scopi che le sono stati esposti. Dal momento che verrà consegnato, lei smetterà definitivamente di essere un cittadino d’Inghilterra, d’Europa e del mondo. Lei diventerà un elemento a sé stante, un essere in transizione. Gli organi competenti si dissociano da ogni genere di azione alla quale lei verrà sottoposto e non si assume la responsabilità di quello che le succederà.»
«E se dicessi di no…?» la domanda mi uscì così spontaneamente che mi ritrovai a domandarmi se l’avessi solo pensata o se piuttosto l’avessi realmente pronunciata. Una parte remota di me forse voleva rifiutare. O forse mi stavo informando per Martin, non so; in quel guazzabuglio incomprensibile riuscivo a scindere e riconoscere ben poche delle mie emozioni.
Il sorriso dell’agente Kirchner mi prese sinceramente alla sprovvista. Probabilmente capì che mi stavo già immaginando in una fossa comune scavata nel cuore della foresta amazzonica, eliminato perché d’intralcio.
«Non la uccideremo» disse «se è quello a cui sta pensando. Certe cose succedono solo nei film. Nella realtà di tutti i giorni esistono metodi più economici e in ugual modo sicuri. Non le possiamo dire nulla a riguardo, ma le assicuro che non succederà nulla alla sua salute né tanto meno a quella dei suoi familiari. Ha la mia parola.»
Suppongo si capisse fin troppo bene che no, non me ne facevo un cazzo della sua parola.
«C’è scritto tutto nel paragrafo quattro del fascicolo rilegato» disse infatti poco dopo.
Nel silenzio che si venne a creare potevo quasi sentir macchinare il mio cervello. Un brusio di elaborazione di dati e informazioni che mi avevano colto alla sprovvista, travolgendomi e lasciandomi senza fiato. Cercai di lasciarmi il coinvolgimento emotivo alle spalle analizzando con metodo scientifico tutte le eventualità, tuttavia non ci volle molto prima che la curiosità, l’egoismo e la speranza mi spinsero a gettarmi verso il fruttuoso ignoto che mi stava tentando nascosto nell’ombra dell’inganno. Nella mia mente c’era un’unica certezza: ora che potevo fare qualcosa, che potevo essere qualcuno, che potevo vivere, non avrei rinunciato per nulla al mondo. La paura del nulla mi inquietava, ma dentro di me sentii il ruggito della determinazione.
Trassi un profondo respiro. Lo sentii gonfiarmi i polmoni, riempirmi la mente poco dopo svuotarla. Chiusi gli occhi e annuii.
«Ok.» dissi.
Un’opportunità da non lasciarsi scappare.
Il mio futuro in un secondo.
Quell’unica parola ardeva viva nella mia gola «Accetto.»
Nei secondi di silenzio che seguirono la mia frase aprì gli occhi. Diana stava sorridendo guardandomi in viso.
«Non puoi farlo.» disse scuotendo appena la testa, trovando in risposta la mia titubanza «Devi prima parlare con tuo fratello, ricordi?» aggiunse.
«Ah già. Martin.»
«Mi dispiace. Vedrai che farete in fretta.» mi sorrise, si alzò dalla sedia e mi strinse la mano. «In bocca al lupo, Theodore. Sembri un ragazzo per bene, non fare cavolate, ok? Dio, sembri mio fratello. Non so cosa farei al posto tuo…Né se tu fossi lui.» scosse la testa. Mi alzai anche io dalla sedia. La guardai in silenzio.
Fece un profondo respiro, quindi girò intorno al tavolo e mi abbracciò. «Andrà tutto bene» mormorò al mio orecchio.
Sentii la carezza delle sue labbra rosse sul mio lobo.
Il calore di quel gesto mi riempì il cuore.
Andrà tutto bene.

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Capitolo 8
*** capitolo 5.1 ***



!! piccole note:
grazie a chiunque abbia recensito: mi rendete più felice di quanto già non sia..!
grazie a quelle persone con cui sono riuscito ad instaurare un rapporto di stima reciproca fatto di tanti consigli, sorrisi e complimenti.


*


CAPITOLO V.1

[ il testo è presente anche in formato pdf, più ordinato e pulito. questo è il link > http://tat.altervista.org/BLOG_Jade/JADE_CAP_5.1_EFP.pdf ]

Devo fermare Martin. Devo andarci io. Non mi hanno detto tutto: si capiva a colpo d’occhio che nascondo qualcosa. Ci mandano al macello, lo so, si procurano vittime sacrificali proprio come nei film. Hanno promesso uomini in cambio della salvezza del pianeta. Magari diventeremo loro schiavi. Va sempre a finire così. O forse dicono il vero. Forse potrei realmente finire su un pianeta diverso. E poi? Poi cosa farei? Sono un idiota: non riesco nemmeno a passare l’esame di microeconomia e voglio tentare la scalata al successo universale. Ma devo andarci, sarebbe da scemi non farlo. E mamma e papà? Soffriranno. Cassie. Mi mancherà. Oddio, forse mi piace.Cassie. Sarebbe una cosa buffa. Erv. Erv, già, chissà come morirebbe d’invidia se lo sapesse.E poi tanto mamma e papà con i soldi che riceveranno dall’assicurazione non soffriranno troppo. E se non li pagassero? In fondo non posso saperlo. Eppure Diana sembrava sincera, magari è davvero in buona fede. E se mentisse? E se fosse una spia? Ha detto che io e Mart siamo gli unici senza una motivazione. Cosa c’entriamo? Basta, devo andarci. E se è una fregatura? Non importa, almeno morirei di fronte agli alieni. Morirei facendo qualcosa. Certo che faccio proprio ridere: voglio fare il temerario e non convinco nemmeno me stesso.
Ci stavano pedinando. Il governo stava nascondendo tutto. Sapevano già ogni cosa. Mentono ogni giorno a tutto il mondo. E se stessero nascondendo anche altro? Potrebbero eliminarci tutti. Ci muovono come stupide pedine. E io dovrei fidarmi di loro? Certo che se però fosse vero…Devo accettare. Devo fermare Martin. E se ci stessero ingannando? Vado.
O ora o mai più.
Sapevo cosa dire.
 
Nel silenzio avvolgente di quella fredda stanza, ogni masticata risuonava come una valanga in una valle dell’Antartide.
«Martin la vuoi finire?» dissi alzando lo sguardo su mio fratello che, dall’altra parte del tavolo, sbocconcellava da un pacchetto di crackers salati.
Dopo il colloquio con Diana e Kirchner fui accompagnato nella stanza adiacente, assieme a Mart.
Ci lasciarono soli con per farci accordare sul da farsi. ‘Soli’ in termini polizieschi significa inscatolati in una stanza con un’intera parete a specchio, oltre la quale vieni osservato costantemente come un animale durante un safari. Pensai fosse più una trovata per studiare le nostre reazioni più che pper darci la vera opportunità di  trovare un punto d’incontro.
Tra le cinque sedie a disposizione intorno ad un tavolo di metallo rettangolare e senza spigoli, io scelsi l’unica che mi poneva di fronte a Martin e con le spalle verso il mio riflesso. Allungai la presa su un bricco di succo di frutta lasciato appositamente per noi al centro del tavolo, assieme a qualche pacco di crackers ed una bottiglietta d’acqua. Quando Martin accartocciò il pacchetto vuoto facendolo scricchiolare, il primo rinfrescante sorso di succo alla pera stava scendendo lungo il mio esofago. Il ronzio di un grande condizionatore riempiva con monotonia i tempi morti.
Le idee di Martin sull’intera questione erano piuttosto confuse. Toccò a me dar loro un ordine in vista di una decisione definitiva.
«Quindi…?» disse a fatica, una volta smesso di tirar via con la punta della lingua le piccole briciole rimaste incastrate tra i denti.
«E quindi te l’ho detto, Mart.» dissi dopo una manciata di secondi di silenzio, attento a pesare ogni parola «dovresti restare a casa. Ci vado io, è la decisione migliore per tutti, anche per mamma e papà.»
Entrambi i nostri ‘sì’ erano dettati dall’incoscienza e dal capriccio. Anche allora, mentre parlavo, non mi rendevo realmente conto della serietà e gravità della situazione. La vedevo lontana e artefatta, come quando si vede una notizia al telegiornale, ce se ne dispiace ma non si riesce ugualmente a comprenderla in tutte le sue sfumature.
«Ma io voglio andarci.» corrugò la fronte, caricato non tanto dalla sicurezza delle proprie idee, quanto dalla presunzione e cocciutaggine infantile. Non credo ne fosse realmente convinto, ed il pensiero di potermi lavorare la sua mente già indecisa mi rincuorava dandomi vive speranze di successo.
«Hai sentito cosa hanno detto, giusto? Non sanno nemmeno se ci tratteranno come cavie da laboratorio. Potremmo finire in chissà quale pianeta orribile, costretti a…a fare quello che ci sarà ad attenderci. Metti che dobbiamo fare le vittime sacrificali? C’hai pensato? Hanno detto che il governo ha sempre nascosto e sta continuando a nascondere tutto. Magari adesso stanno raccogliendo gente che, con accondiscendenza, sia disposta a immolarsi sull’altare per…che ne so. La salvezza dell’universo.»
«Allora tu perché vuoi andarci?»
Touchè.
«Perché sì!» dissi alzando la voce. Cominciavo a perdere la pazienza «Fatti i cazzi tuoi! Senti Mart, ci vado io, ok? Sono il più grande, litigo sempre con mamma e papà, non mi piace andare in università, non ho tanti amici e non ho voglia di fare un cazzo. Tu sei un successo unico. E’ giusto che resti qui.»
Mio malgrado la verità era una sola, ed ora la stavo fronteggiando a carte scoperte: al momento preferivo la prospettiva di diventare uno schiavo su un pianeta popolato da alieni, dove nessuno poteva vedere il mio insuccesso, piuttosto che quella di restare un fallito totale sul pianeta Terra sotto gli occhi di tutti.
«Voglio andarci, e tu non me lo impedirai.» disse.
Stronzo.
Sospirai e abbassai lo sguardo. Ci volle una manciata di secondi prima che il dolore che volevo mimare si impadronisse di me. Pensai alla morte di mamma, alla solitudine, al fallimento. Pensai alla malattia e alla fame. Pensai all’impossibilità di muoversi, alla prigionia. Mi immedesimai con così tanto trasporto che una parte di me si convinse della concretezza di quella tristezza in realtà immotivata. Sentii gli occhi gonfiarsi di pianto. Questa era la carta vincente, l’asso pigliatutto.
«Mart,» dissi senza alzare lo sguardo «la verità è che io ne ho bisogno. Ne ho bisogno per davvero. Ho…fatto sesso con Cassie, cinque mesi fa.»
Cercai il suo sguardo e trovai la sua titubanza.
«Ho contratto il virus dell’HIV. Cassie era malata e non ne avevo idea. Credevo di sapere tutto. Così prendo le medicine da due mesi, e potrò vivere, ma…sarò costretto ad assumere farmaci per tutta la vita e…»
Sospirai di nuovo. Incredibilmente mi sentii il peso della malattia addosso nonostante il mio corpo fosse completamente sano dal giorno della mia nascista. Il potere della suggestione.
«Io» dissi «…insomma, Erv mi ha detto che secondo lui ‘loro’ potrebbero possedere le tecnologie giuste per guarirmi. Tipo potrei tornare sano. Capisci? Così io ne ho davvero bisogno, Mart. Non lo faccio per capriccio.»
Il silenzio che seguii le mie parole mi diede l’occasione di sentir martellare il cuore nel petto. Il mio corpo scandiva il tempo con prepotenza.
«Mi stai mentendo» disse. Incrociai il mio sguardo con il suo, iniziando un silenzioso singolar tenzone.
«No, Mart.»
«Quando l’hai presa?»
«Quattro mesi fa.»
«Prima hai detto cinque.»
«Cinque cosa?»
«Prima hai detto ‘cinque mesi fa ho fatto sesso con Cassie’, me lo ricordo.»
«No, ho detto quattro. E comunque non c’entrano i numeri, non fare il bambino.»
«E quando te l’hanno diagnosticato?»
«Due mesi fa. Ho fatto le analisi del sangue per l’università.»
«Non chiedono esami del sangue.»
«Mart non mi far girare il cazzo. Cosa ne sai tu, che in università non ci vai nemmeno?»
«Mamma e papà…?»
«Ecco, appunto, non l’ho ancora detto a mamma e papà. E…ho paura, perché non vorrei essere una delusione per loro. Mi faccio schifo.»
«Ma anche io voglio andarci.»
«Mart, per favore…davvero.»
«Mamma si arrabbierà molto.»
«Lo farà anche se ci andrai tu. Anzi. E poi hai sentito, non possiamo dire nulla. Sarà figo anche qui, vedrai. Ci saranno un mucchio di cambiamenti: si vivrà come nei Jetson.»
«Non dare per scontato che abbia accettato di mandare te.»
«Potresti rischiare di morire. Io sono pronto, ma tu hai davvero voglia di rischiare?»
Silenzio.
«Sei malato veramente? Theo non prendermi per il culo.»
«Lo giuro su mamma e papà.»
Silenzio, ancora. Non avevo sensi di colpa.
«Forse hai ragione tu» disse finalmente. Il suo sguardo era basso, la sua voce intristita, il suo volto incupito.
«Sì» continuò, cercando di convincersi della decisione che stava strisciando nella sua mente «Hai ragione tu. Sì. E’ meglio che io resti qui. E poi la mia vita mi piace. Ora che ci penso non vedo il motivo per cui dovrei rischiare, quando posso dedicarmi alla pacchia più totale per il resto dei miei giorni.»
Sorrise, e lì per lì sorrisi anch’io, volendogli bene come mai prima d’allora. Stava provando dispiacere per tutto: per la mia malattia (che malattia non era), per la rinuncia a un’occasione irripetibile, e per la consapevolezza che volente o nolente lui mi stava perdendo così, da un giorno all’altro, senza poter fare nulla per impedirlo.
Scavai nei suoi occhi e vi trovai amore e preoccupazione, rassegnazione e premura. Realizzai che gli volevo bene, e che forse lasciare casa sarebbe stato più difficile di quanto immaginassi.
Feci un profondo respiro, prima di lambire nuovamente con le mie labbra la punta della cannuccia.
Sentii un peso al cuore. Un sesto senso urlava che stavo facendo la scelta sbagliata.
Provai dolore di fronte alla consapevolezza di aver perso vent’anni dietro a stupide discussioni. Volergli bene mi piaceva. Se solo me ne fossi accorto prima…
«Mi lasci la tua playstation, vero?»
Le sue parole mi spiazzarono.
Quando ridacchiai, un istante dopo, rischiai di farmi andare di traverso il succo alla pera. Piegandomi in avanti scoppiai in qualche colpo di tosse.
«Scemo…» dissi portando entrambe le mani tra i capelli, per sistemare la piccola coda legata con l’elastico. Scossi la testa senza aggiungere altro.
«E adesso cosa succederà?» chiese ancora.
Feci spallucce guardandomi attorno alla ricerca di una risposta nell’aria. Sbirciai in direzione del vetro riflettente, ma vi trovai solo il mio viso scavato dalla stanchezza.
«Non so.» dissi prima di fare l’ennesimo sospiro «Suppongo che ti faranno firmare delle carte per costringerti a non parlarne con nessuno. L’hai sentito, no? Non si possono lasciar trapelare le informazioni.»
Sperai che il peso di quel segreto prima o poi non lo avrebbe fatto impazzire. Nei film succedeva così.
«Dici che tornerai a trovarci?» disse.
«Non credo.»
«Fai attenzione, ok?»
«Non sono mica uno smidollato come te, Mart. Io ho i coglioni.»
«Ti piacerebbe. Fai attenzione.»
«Ok. Ma adesso smettila di fare l’effeminato sentimentale. Lo sai che non lo sopporto.»
«Scusa.»
Sospirai, estenuato dalla situazione nella sua schiacciante totalità. Non ne potevo più. Bevvi l’ultimo lungo sorso di succo, prima di alzarmi dalla sedia e girare attorno al tavolo.
«Dai abbracciami, scemo.» dissi costringendolo a farsi stringere tra le mie braccia. Sorrisi facendolo accoccolare al mio petto. Strinsi con così tanto amore da sentirlo entrare nel mio petto, riempirmi il cuore. Il suo odore pervase le mie narici, il suo battito si sincronizzò con il mio.
Fu l’unico saluto che riuscii a dare, l’unico addio che mi fu concesso, quello che ancora oggi mi porto nel cuore.
 
Il fatto che l’agente Kirchner fosse entrato appena un minuto dopo la fine del confronto con mio fratello mi diede la conferma che cercavo: ci stavano tenendo d’occhio dalla sala adiacente.
Salutai Martin e sotto invito uscii dalla stanza per seguire Kirchner. Fu allora che lo vidi: un uomo dal viso asciutto e appuntito, con occhiali troppo bassi su un naso adunco da condor, capelli corti e secchi, d’un color fuliggine in tinta col completo elegante, tirato a lucido e portato con atteggiamento inorgoglito, severo. Nella mano destra, un’anonima ventiquattrore di pelle nera sbatacchiava contro la sua gamba ad ogni passo deciso.
Era un agente come gli altri?
Chiamatela suggestione ma quando incrociando i nostri passi nel corridoio ci scambiammo uno sguardo fugace, mi parve di vedere sul suo viso severo un piccolo sorriso compiaciuto e poco incoraggiante. Un taglio perfettamente orizzontale nel viso, tra labbra sottili e troppo chiare. E chiamatelo sesto senso ma lì per lì provai un’incosciente stato di inquietudine. Non avevo affatto un buon presentimento.
Varcammo contemporaneamente le soglie delle due piccole sale umide, lui nella sua, io nella mia. Sospirai pensando a Martin.
 
Quando dopo quasi un’altra ora misi il primo piede fuori dalla centrale, nel mondo esterno, mi sentii così confuso da percepire i conati di vomito.
Scesi la scalinata di pietra disorientato, con lo stesso spirito di un carcerato che per la prima volta dopo anni varca la soglia della prigione.
Il frullìo lontano delle pale di un elicottero animava il silenzio della metropoli, apparentemente abbandonata. Una fresca brezza serale mi scompigliò ciuffi di capelli sfuggiti all’elastico. Osservai la strada e i marciapiedi: l’insegna accesa di un pub illuminava l’asfalto scuro. Nell’ombra, un gatto frusciò contro una parete sgattaiolando tra le ruote di una macchina.
Nel cielo, una suggestiva danza di luci artificiali coronava la gigantesca luce bianca, un oblò verso mondi alternativi. Le stelle erano sparite, inghiottite da quello spropositato sfoggio di tecnologia.
Con le mani nelle tasche e il peso della stanchezza sulle spalle, mi incamminai verso la volante della polizia che mi attendeva col motore già acceso .
Volevo solo dormire.
Sentivo le dita della mano destra leggermente indolenzite Avevo smesso di contare dopo aver scritto la diciottesima firma, almeno mezz’ora prima della mia liberazione. Accarezzai la maglietta con estrema cura. La pelle ad altezza del cuore prudeva appena, là dove con dello scotch era stato attaccato un piccolo microfono.
Non lo tolga fino a quando non le sarà stato ordinato di farlo’ mi avevano detto Kirchner ‘ci servirà a monitorare i suoi spostamenti e a verificare che tutto proceda secondo gli accordi. È una faccenda seria, signor Theodore. Si ricordi che noi sapremo qualunque cosa farà nelle prossime ventiquattro ore.Qualunque cosa dirà, ovunque andrà, cosa mangerà. Qualunque cosa. Non faccia scherzi.
Aprii la portiera della vettura e mi gettai sul sedile. Ad attendermi, oltre ai due agenti alla guida nei posti anteriori (non più Hçunning e Rowney), c’era Martin che fissava oltre il finestrino. Inizialmente non sembrò neppure accorgersi del mio arrivo, completamente immerso nei suoi innocenti pensieri.
Oltre il parabrezza, nella penombra, una signora sul marciapiede fissava nella nostra direzione.
Mi stavano già spiando? Forse era una di loro.
«Hey Mart» dissi con un sorriso stanco «Com’è andata?»
Lui si voltò, mi sorrise e mi guardò tranquillo. I suoi occhi erano diversi, ignari. Capii da subito.
«Bene! Per ore non hanno fatto altro che chiedermi le solite cose. Sai, per la storia degli Humpsey. Due palle. Ti sembra normale che mi abbiano fatto sprecare un interopomeriggio per questa cazzata? Comincio ad odiare il figlio degli Humpsey, giuro.» sbuffò sincero. Il mondo alle sue spalle prese a scorrere veloce al di fuori del finestrino.
Mi sentii svuotare.
«Mart» lo guardai «cosa ti hanno fatto?»
Temetti la risposta.
«Perché, a te no? Due palle. Mamma aveva ragione.»
Era chiaro. Mi si raggelò il sangue. Cercai nei suoi occhi il barlume della ragione, la forza della conoscenza e della condivisione. Quel bene che ci eravamo confessati e voluti fino ad appena un’ora prima. Non trovai nulla se non il vuoto.
Qualunque cosa gli avessero fatto, ero solo.
Nessuna parola era mai pesata così tanto sul mio cuore.
Solo.
Quando Martin tornò a fissare oltre il finestrino, a sentirsi fu solo il rumore del motore.

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Capitolo 9
*** capitolo 6 ***



!! piccole note:
grazie a chiunque ha recensito e mi ha donato il suo sostegno. chissà se ci sono anche lettori anonimi, là fuori.
questa è praticamente la fine della prima parte ( ci sarà una piccola aggiunta ma..non anticipo nulla! )


*


CAPITOLO VI

[ il testo è presente anche in formato pdf, più ordinato e pulito. questo è il link > http://tat.altervista.org/BLOG_Jade/JADE_CAP_6.pdf ]

L‘aria della cucina era gravida dell‘odore speziato della cena, che come al solito era stata servita in perfetto orario alle nove meno un quarto, senza un solo minuto in più o un minuto in meno. Certe abitudini – ahimè - sono dure a morire, in grado di sopravvivere anche alla peggiore delle sventure.
Forse tutto ciò mi sarebbe mancato, un giorno, da qualche parte.
«Fuori discussione Martin, hai sentito tua madre: domani non andrai da nessuna parte.»
«Dai papà, ti prego…»
«La risposta è No.»
Mentre Mart sbuffava, io rimestavo col cucchiaio la minestra di zucca nel piatto. Osservavo le pieghe sulla superficie cremosa e vi cercavo chissà quali forme suggestive, perso nei miei pensieri. Spinsi la punta della posata tra le mie labbra, bagnandole appena col cibo ormai freddo. Il profumo dolciastro mi riempiva le narici. Il caldo sprigionato dai fornelli - spenti da poco - mi si era appiccicato alla pelle.
Martin continuava a parlare, tuttavia la sua ostinazione si trasformò ben presto nelle mie orecchie in un ronzio di sottofondo, fuso bene alle parole ovattate di mia madre, che dal canto suo era al telefono con la zia nella stanza adiacente. Seguii pigramente e con lo sguardo il ronzìo di una zanzara intorno alla lampadina, nuda e appesa al soffitto.
«Theo, sto parlando con te.» la voce di papà giunse da un posto lontano, scuotendomi e facendomi tornare con i piedi e la mente a terra.
«Eh?»
«Ci senti? Ti ho chiesto com’è andata oggi.»
Cercai lo sguardo complice di mio fratello, ma trovai solo un ragazzino affamato intento a sbocconcellare crackers col formaggio. Possibile che non ne avesse mai abbastanza?
Cercai supporto nel cibo e cominciai a mangiare la minestra, forse per guadagnare i secondi di tempo necessari a riordinare le tante idee che mi frullavano nella mente.
«Mh…bene, sì. Solite cose.» alzai le spalle fingendo distacco e disinteresse.
«E’ assurdo che non pensino ad altro.» lo vidi accendersi «Humpsey qui, Humpsey lì. C’è qualcuno in ufficio che ne parla ancora nonostante gli alieni ci siano appena planati sul culo.»
«Tesoro, il linguaggio.» mamma, tornata in cucina, prese posto come capotavola e si riempì il bicchiere d’acqua.
«Ma’» quando Martin aprì bocca piccole briciole di crackers gli scivolarono dalle labbra sul tavolo.
«Niente da fare, Martin» lo precedette lei. Bevve un sorso d’acqua celando appena il suo volto irrigidito, quindi tornò a parlare «tu domani resterai a casa. E lo stesso discorso vale per tuo fratello, è chiaro?»
Annuii, e presto si rassegnò a farlo anche mio fratello, senza tuttavia nascondere la sua contrarietà.
«Non mi sembra il caso che tu vada a scorrazzare in periferia.
A fare cosa, poi? Resta a casa e studia, ottimizza i tempi e approfittane della sospensione delle lezioni.»
«Fai come tua cugina Lizzie.» invece aggiunse papà. Io sorrisi.
«Papà» dissi «Ancora con questa storia…Lizzie si è laureata almeno quattro anni fa.»
«Appunto. Visto? Ha studiato.»
«Voi potete uscire di casa e io no?» si intromise Martin.
«Esatto.» rispose papà.
«Esatto.» fece eco l’altra.
Mart sospirò rassegnato. Era stato sconfitto. Ancora.
«Theo cosa c’hai?» fu mamma a farmi una domanda, questa volta.
«Niente, sono solo un po’ stanco.»
«Ci credo, vi hanno tenuti in questura almeno tre ore, è impensabile! Dovrei mandare una mail di richiamo. Sì, penso che lo farò.»
«Mamma, non ce n’è bisogno.»
«Decido io quando c’è bisogno di qualcosa oppure no. Mangia, che si fredda.»
«E’ già freddo.»
«E allora scaldalo!»
«Non mi va.»
«Ho lavorato tutto il giorno, Theodore. Hai idea di quanto la gente sia impazzita per questa storia? No che non ne hai idea, te lo dico io. Mamma ha lavorato tutto il giorno e nonostante questo si è fatta in quattro per prepararvi la cena. E ora mi ringrazi in questo modo?»
«E ti saresti pure dovuta fare in quattro per cucinare questa cazzo di zuppa acquosa?»
«NON PARLARMI IN QUESTO MODO, THEODORE! Calv digli qualcosa!» cercò aiuto in mio padre, come sempre.
«Hai sentito tua madre.» si limitò a dire lui, come sempre, afferrando con le mani simili a ruspe una manciata di french fries al centro della tavola. Era la sua spalla perfetta.
«Non ho più fame.» dissi alzandomi da tavola «Posso andare?» presi il piatto.
«Fai come ti pare. Tanto fai sempre come ti pare. Ormai io e tuo padre abbiamo perso le speranze. Sempre in giro con quell’altra ragazza che Dio solo sa chi l’ha educata. Hai sentito come ride? E come parla! Non si addice ad una ventenne, sembra più una camionista. Ma che dico camionista, una boscaiola! Oh Calv, dovresti sentirla, la prima volta sono rimasta sconvolta…»
In tutta franchezza non seppi neppure più se stesse continuando a parlare con me o meno. Ebbi l’impressione che non le importasse più di tanto; in fondo a mamma bastava parlare, e solo raramente esigeva di essere ascoltata.
Parlare, imporsi e criticare. Beata lei che ne aveva voglia.
Ne avevo avuto abbastanza di questi teatrini, davvero. Il pensiero che il giorno seguente sarei sparito definitivamente mi fece sentire leggero, vivo.
Martin mi guardò di sbieco chiedendo silenziosamente aiuto.
‘Non lasciarmi solo’, mi diceva con gli occhi mentre mamma continuava a parlare. Un tumulto di parole, come massi che rotolano giù dalla fiancata di una montagna. Mamma lo tirò dentro al discorso obbligandolo a darle una conferma di ciò che stava blaterando, non ricordo a quale argomento si fosse agganciata.
Vidi Martin annuire addomesticato e affondare la testa nel piatto già vuoto.
Mollai tutto e me ne andai al piano di sopra.
Ad ogni scalino consumavo un pensiero.
Ad ogni scalino realizzavo un nuovo desiderio.
 
Sdraiato sul letto di camera mia, fissavo per l’ultima volta il soffitto sotto al quale avevo sprecato la maggior parte del mio tempo da terrestre. Sospirai, seriamente poco convinto di tutte le decisioni prese fino a quel momento, nonché esasperato dall’idea di non poter più tornare indietro. Chiusi gli occhi lasciandomi cullare dai rumori provenienti dall’esterno, per lo più fruscii di foglie e sporadici passaggi di automobili. Non avevo voglia di accendere la tv. Non ancora. Per il momento ne avevo avuto fin troppo. Ero in sovraccarico.
Stupida mamma’. ‘Stupido papà, stupidi tutti’.
Accarezzai la maglietta là dove sulla pelle mi avevano attaccato, con del nastro adesivo, piccoli microfoni e ricetrasmittenti. Sbirciai in direzione della finestre con il presentimento – e la paura – che da un momento all’altro chiunque sarebbe potuto entrare per potermi spiare, aggredire o peggio ancora portar via prima del dovuto.
Cosa succederà domani?
Sollevai appena il bacino per poter tirar fuori dalla tasca posteriore un foglio spiegazzato. Lo aprii e lo portai sopra il mio viso, parallelo al corpo sdraiato.
Osservai l’elenco scritto ordinatamente su tutto il foglio, cominciando dalla metà che non avevo ancora letto:
 

NON è ASSOLUTAMENTE PERMESSO PORTARE CON Sé ALCUN EFFETTO PERSONALE CHE POSSA DESTARE SOSPETTI IN TERZI;
NON è ASSOLUTAMENTE PERMESSO PARLARE DELLA PROPOSTA CON TERZI, IN NESSUN MODO E CHIUNQUE ESSI SIANO;
NON è ASSOLUTAMENTE PERMESSO FAR SORGERE DUBBI IN TERZI, DI NESSUNA NATURA E CHIUNQUE ESSI SIANO;
NON è ASSOLUTAMENTE PERMESSO AVERE RIPENSAMENTI O INDUGI;
NON è ASSOLUTAMENTE PERMESSO LASCIARE LETTERE, SEGNALI, MESSAGGI D’ALCUN TIPO;
NON è ASSOLUTAMENTE PERMESSO SALUTARE TERZI PRIMA DELLA DIPARTITA;
 
OGNI VIOLAZIONE DEI PUNTI SOPRACITATI VERRà PUNITA IN MANIERA ESEMPLARE E DEFINITIVA.

 
In maniera esemplare e definitiva.
In. Maniera. Esemplare. E. Definitiva.
All’estremità più bassa, nell’angolo destro, la mia firma scarabocchiata siglava il tutto.
Sospirai, ripiegai il foglio e lo infilai nella tasca anteriore dei pantaloni. Scesi dal letto e mi incamminai verso il corridoio. Lì mi fermai a circa metà, alzai lo sguardo e spinsi il corpo verso l’alto, per poter afferrare un anello metallico dipinto di bianco, lo stesso colore del soffitto.
Con il clangore di un antico argano la botola rivelò una piccola scala verticale e di legno: il passaggio verso la soffitta.
Come sempre mi premurai di saltare il secondo gradino ricordandolo poco sicuro. Sentii scricchiolare sotto ai miei piedi il quinto e inaspettatamente anche il settimo, segnato dal lasso di tempo trascorso dall’ultima mia visita. Da quanto tempo non ci salivo? Forse troppo.
Quando raggiunsi la soffitta mi ritrovai inghiottito dalle tenebre. Oltre alla luce proveniente dal piano inferiore, che illuminava appena la zona circostante la botola, a dar vita alla stanza erano anche i raggi dei lampioni esterni, magistralmente filtrari dal vetro sudicio dell’unica finestra presente, sul lato opposto a quello in cui mi trovavo.
Era una grande sala, polverosa e buia.
Inspirai l’odore di umidità e di legno marcio, di vecchio e di stantìo. Lo sentii chiaramente prudere nelle narici. Portai lo sguardo sullo scatolone di fronte ai miei piedi e lo aprii. Una coltre di polvere mi costrinse a tossire, mentre col tatto distinsi nella scatola vestiti di tessuti differenti e probabilmente di mamma e papà. Quando mossi qualche passo in direzione della finestra, urtai una sedia a dondolo e mi piegai in avanti perdendo l’equilibrio. Feci un gran baccano. La mia mano schiacciò con forza la superficie sporca di un comodino alla mia destra, quindi vi strisciò sopra. Sentii le dita ingarbugliarsi in una rete filamentosa, solleticate e pizzicate da quella sensazione spiacevole che mi scosse fin lungo la colonna vertebrale. Schiaffeggiai la mano sporca con quella pulita. Lo feci in maniera isterica, compulsiva, sentendomi già ricoperto di ragni dalla testa ai piedi.
Affrettai il passo per raggiungere, in una cacofonìa di scricchiolii incerti, il lato opposto della sala. Mi fermai sotto alla finestra e la aprì, felice di venire a contatto – seppur indirettamente – col mondo esterno. Alle mie spalle le ombre danzarono nascondendo chissà quali segreti.
Ho sempre amato andare in soffitta, specialmente da piccolo. Un luogo così con la giusta creatività può tramutarsi in un lussuoso bazar delle Mille e Una Notte.
Quando correvo in quella stanza non ero più Theodore. Quando ero Indiana Jones potevo fare qualunque cosa, dal salvare il mondo intero al non essere giudicato da mamma e papà. E quando dissotterravo qualche magnifica reliquia, che nella realtà altro non era che una vecchia latta impolverata, tra le mie mani assumeva le fattezze di vecchi gioielli sepolti dal tempo. E allora mi sentivo importante, unico, invincibile.  E non importava cosa pensasse la gente, perché dentro di me sorridevo. ‘Se solo sapessero chi sono realmente’, pensavo con la mia mente da bambino ‘cambierebbero idea’.
A distanza di anni mi ritrovai a pensarci in quella stessa soffitta. Tante cose erano cambiare da allora. Io in primis non ero più lo stesso.
Se solo sapessero chi sono realmente’ pensai mentre sbirciavo il cielo nero oltre la finestra ‘forsegli alieni  non  mi vorrebbero portare con loro sull’altro pianeta. Non sono poi così speciale’.
Pensai a mamma e papà, a Martin e Cassie e Erv e i miei compagni dell’università.
Se solo sapessero chi sono realmente’ pensai scavalcando la finestra e mettendo il primo piede sulle tegole rese scure dalla notte ‘forse tutti loro capirebbero che sotto sotto posso essere importante anch’io. Se gli alieni mi hanno voluto è perché sono speciale. Forse miimpedirebbero di  partire. Forse piangerebbero. Forse.
Perché tutto questo? Perché adesso? PerchéIo?
 
Gattonai lentamente, muovendomi di un solo metro in un minuto circa. Ora potevo sentire il ronzìo delle pale degli elicotteri che riempiva la notte.
Mi sdraiai sul tetto, quindi strofinai la schiena contro le tegole per una decina di secondi prima di trovare la posizione più comoda. Le sentivo premere dure e porose contro la pelle. Ad una manciata di metri alla mia sinistra, i pannelli solari mi pareva emettessero un sottile e flebile sibilo, come se stessero respirando immersi in un sonno profondo.
La luce gialla dei lampioni irrorava la strada in maniera fioca, conferendo all’ambiente un aspetto fumoso e suggestivo. Respirai a fondo e fissai il non-cielo sulla mia testa: se non avessi saputo della presenza dell’astronave forse avrei potuto scambiarla per una normale notte senza stelle. Il globo bianco alla mia destra, tuttavia, come un faro nella tempesta mi richiamava con l’attenzione verso Buckingham Palace.
Che stessero parlando con la regina proprio in quell’istante?
Mi grattai il ginocchio, forse punto da una zanzara. La frescura della notte mi costringeva di tanto in tanto a rinchiudermi su me stesso. Dopo tutto era pur sempre ottobre.
Ci misi un po’ a capire che quello sul ciglio della strada non era un oggetto ma bensì una persona: il connubio miopia-penombra non mi veniva certo in aiuto. Proprio lì, appoggiato al cancello della villa degli Humpsey ormai spogliata dei nastri gialli della polizia, un uomo in un pesante cappotto scuro stava fumando un sigaro. O forse era una donna corpulenta, e quella era una pipa.
Mi sembrò di vederlo alzare il viso nella mia direzione. Mi sembrò anche di scambiarlo per uno spettro, un’ombra inquietante. Mi sembrò qualunque cosa, perché alla fine di quella giornata infinita non ne potevo davvero più di tutto ciò che mi aveva travolto e stravolto.
Che fosse uno di loro? Mi stavano tenendo d’occhio?
Col fiato pesante, diedi un’occhiata attorno: dietro la tenda dei McCoughney forse qualcuno mi stava guardando. Dentro la macchina posteggiata lì, in fondo alla via, qualcuno poteva scattarmi delle foto. E poi dietro al bidone dell’immondizia, sulla cima dell’albero nel giardino sul retro, perfino nella cuccia del cane dei Carvey, nonostante da lì non riuscissi neppure a vederla.
La verità è che potevano essere dappertutto, che potevano fare di me quello che volevano. La consapevolezza mi burciava dentro. Quella situazione mi stava stretta. Quella Pelle mi stava stretta. Quella stessa pelle che cominciai a grattare attraverso la maglia, proprio lì sul petto dove il nastro adesivo tirava i pochi peli bruni.
Sono in gabbia.
Mi faranno sparire.
Mi faranno sparire.
Mi faranno sparire.
«THEODORE HUGHES!»
La voce di mia madre mi riportò così bruscamente alla realtà da farmi sobbalzare. Dio solo sa come feci a restare sul tetto senza scivolare giù, dritto tra i vasi di gerani.
«E stai attento!» mi rimbeccò «Theo, perché devi sempre farmi preoccupare in questo modo, eh? Lo sai che non voglio che tu salga qui, quante volte te lo devo dire? Vieni qui. Cosa ci fai sul tetto, siete tutti impazziti, forse? Aveva ragione tuo padre.»
Sbuffai sconsolato e già tristemente consapevole che questa mia ennesima battaglia guerra sarebbe finita con una sconfitta. Privo di energie per poter ribattere, gattonai verso la finestra e feci per rientrare in mansarda.
«Si può sapere cosa stavi facendo?»
«Niente, mi riposavo»
«E mi spieghi perché allora abbiamo speso i soldi per un letto, se per riposare te ne vai là fuori?» la sentii sospirare sconsolata, nella penombra rischiarata dalla luce esterna. Mi riempii nuovamente le narici dell’odore di marcio. Vidi mille emozioni scambiarsi il posto sul volto di mia madre, segnato da rughe espressive che da sempre avevo attribuito al suo continuo imbronciarsi. I riflessi dorati dei lampioni le bagnavano la pelle conferendole un aspetto esotico, etereo.
«Theodore…cerca solo di non fare così. Non in questi giorni, almeno.»
«Non ho fatto un cazzo!»
«Ecco, non si può parlare con te! Ti stavo dicendo una cosa in maniera tranquilla!»
«Tu non sei mai tranquilla!»
«Sono tua madre, e tu non mi rendi di certo il compito più semplice. Cosa vuoi che faccia se vedo mio figlio sul tetto, i salti di gioia? Pensavo volessi buttarti! Theodore è un periodo difficile.»
«Non chiamarmi Theodore. Mi dà fastidio.»
«Ecco, vedi? Adesso nemmeno più col tuo nome posso chiamarti.»
«Senti ma cosa vuoi, eh? Non potevi lasciarmi a fare i cazzi miei sul tetto?»
«Modera il linguaggio, Theodore, resto pur sempre tua madre.»
«Sì insomma, hai capito.»
«Ti ho portato da mangiare.»
Seguii il suo sguardo e vidi il toast nell’ombra, poggiato in un largo piatto, su un comodino polveroso e sgangherato. Da lì, non ebbi più il coraggio di rialzare gli occhi. Mi concentrai piuttosto sulle mie budella, in pieno cataclisma. Le sentii aggrovigliarsi come serpenti, mosse dal rimorso, annodarsi e contorcersi sotto pelle. Mamma si era mossa per me e io mi ero ostinato come sempre a trattarla nel peggiore dei modi.
Sentii pesare sul mio viso il silenzio afoso e polveroso di quella stanza.
Ma in fondo non era colpa mia. Era colpa sua, che aveva aperto il discorso con quel fare brusco. In alternativa non avrei fatto così. Io mi ero solo adattato, ecco cosa avevo fatto.
Eppure…
«Grazie.» dissi soltanto, sentendo la mia coda strofinare tra le gambe.
«Vedi di finirlo, ok? Non hai mangiato niente a cena.»
L’aria si era distesa, riappacificata.
«Grazie mamma.» ripetei.
«Ah, adesso mi dici grazie. Dovresti chiedermi scusa, altro che.»
Di primo acchito mi venne da rispondere male, ma per amor di quiete mi trattenni e strinsi le dita contro il bordo arrotondato del piatto piano. Mi costrinsi ad un respiro profondo e silenzioso, quindi accennai un sorriso e guardai oltre la finestrella.
«Mamma, mi vuoi bene?»
Forse per suggestione, percepii la sua sorpresa pur non guardando il suo volto o i suoi movimenti. Sentii la sua energia vibrarmi contro il corpo.
«Che domande fai? Io e papà ti vogliamo bene, lo sai.»
«Non papà. Tu. Tu mi vuoi bene?»
«Tesoro, il fatto che discutiamo è…insomma, hai un carattere difficile, ma non vuol dire che non ti voglia bene.»
Sentii i nostri cuori in sintonia, ma non era abbastanza. Per me non era mai abbastanza. Non ho mai saputo quando fermarmi.
«Ma preferisci Martin.» dissi trattenendo lo sguardo verso l’esterno.
«Theo, non fare il bambino. Siete tutti e due miei figli.»
«Ma preferisci Martin.» dissi ancora.
«Non è che preferisca Martin, però…»
«Ok dai. Grazie per il toast.»
Però. Aveva detto ‘però’.
La guardai in viso e scavai nei suoi occhi immersi nell’ombra.
La odiai, seppur solo per un momento.Lo stress mi stava cambiando. O forse stava solo facendo emergere quello che ero realmente?
Il suo sguardo dispiaciuto incontrò il mio, e allora capii che nonostante tutto mi voleva bene, questa volta per davvero. Oltre le parole, oltre le preferenze ed oltre i danni.
Sospirai e feci per scavalcare nuovamente la finestra.
«Non farti male, mi raccomando. Non farmi preoccupare.»
Annuii, felice del fatto che avesse deciso di lasciarmi andare.
Ero libero di andare. Ero libero. Libero.
La vidi allontanarsi mentre mi sporsi con la parte superiore del mio corpo verso l’interno, per recuperare il piatto e portarmelo fuori.
«Ah, mamma.»
«Sì? Dimmi!»
Era speranza quella che avevo sentito?
«MhNiente…domani vado con Cassie sulle colline, volevo dirtelo.»
Sentii il suo sospiro nella polvere.
«Ok. Proverò a dirlo a tuo padre. Fai come vuoi, Theo. Basta che fai attenzione, ok? Io mi fido di te, so che sei un ragazzo intelligente, anche se a volte ti perdi un po’ in quello che fai e non usi propriamente un linguaggio educato. Se solo non facessi così…»
«Mamma, va bene. Basta, davvero. Grazie.»
«Mh. Prego. Dai, buona notte. Mangia.»
Seguii i suoi passi fino a quando lo sguardo me lo permise. Ne saggiai l’essenza anche con l’udito, prima di tornare completamente all’esterno e strisciare verso la posizione assunta prima del suo arrivo. Addentai il toast e sentii il formaggio fuso rafreddato appiccicarsi al palato. Il cuore del pane ancora tiepido contrastava con il freddo della spessa fetta di prosciutto. Sembrava gomma, ma era dannatamente buono. Il toast più buono che ricordo d’aver mai mangiato.
Mamma mi voleva bene. Mamma si fidava di me.
E quello era stato il mio addio.
Sentii il cuore svuotarsi e lo stomaco riempirsi mentre, con gli occhi assottigliati, sbirciavo in direzione della strada.
E lui era lì: l’uomo col cappotto mi stava guardando.
 
Quando il cellulare suonò nella tasca dei miei pantaloni per poco non ebbi un infarto. Era Ervin, e salvo i saluti iniziali mi persi gran parte dei suoi discorsi, concentrandomi piuttosto sul frinire di una cicala, un rumore atemporale e pieno di sfumature.
«E quindi niente, è andata così.» disse dall’altro capo della cornetta, mentre con lo sguardo mi perdevo nel grande manto nero del cielo. Talvolta sporadiche luci colorate facevano capolino nella notte, disegnando figure geometriche in flotte ordinate. Mi parve di riconoscere triangoli e qualche volta anche dei quadrati.
«Mi stavi ascoltando?» disse Erv, richiamando la mia attenzione.
«Eh? Sì, la festa a Kensington Gardens.»
«Vedi allora che non mi ascolti? Non è una festa, è una gran noia, e dicono che la festa comincerà presto, ma alla fine mi sa che conviene andarsene altrove. Ho sentito che hanno organizzato un ritrovo qui vicino. L’ho letto su uno dei miei forum, è ad Hyde Park e pare ci siano anche esponenti importanti, addotti e cose del genere. Tipo che allora potrebbero realmente mettersi in contatto con gli alieni, no? Qui pensa che non hanno neppure le antenne, o comunque le apparecchiature adatte. E pensare che ho pagato cinque pounds per questa merda e un paio di quadretti di pizza pessima. Potevano prenderla a Da Spago, che è qui dietro, già che c’erano. Ci siamo stati insieme, no? Quella pizzeria molto cozy…»
«Erv, mi stai facendo sanguinare le orecchie, giuro.»
«Sei sempre il solito. Comunque ti avevo chiamato per chiederti se ti andava di fare un giro insieme, domani. Potremmo andare nella zona del centro. Ah, hai saputo quella roba sugli Stati Uniti?»
«Sì, ho letto su internet. Che gran macello.»
«Ah, e Avery è finito in carcere: dicono abbia picchiato a sangue la madre.»
«Avery chi?»
«Avery Abbott, quello dell’erboristeria sotto casa tua.»
«Come fai a conoscere…lascia perdere, ho capito. Comunque non dovresti stare in giro tutta la notte a inseguire gli alieni. Ai tuoi cosa hai detto?»
«Che sono da te, ovvio.»
Già.
«Come ho fatto a non pensarci?» dissi alla cornetta, facendo ruotare gli occhi «Che stupido. Comunque io te l’ho detto, poi non dirmi che non avevo ragione.»
«Come sei pesante, Theo. Prima non eri così.» sentii Erv sbuffare.
«Comunque domani quando…?» dissi
«Cosa?»
«Il giro.»
«Di mattina, no…?»
Quando dovevo uscire con Cassie.
Mi concessi qualche attimo di silenzio, durante il quale mi resi conto del fatto che, chissà da quanto, non si sentivano più gli elicotteri volare nel cielo.
«Quindi?» incalzò mettendomi fretta.
«Ok, ok, vada per domani mattina.»
«Ok. Vado, che qui sta cominciando la festa. C’è…Oh mio Dio, che figata!»
«Cosa?»
«Sìììììì!»
Fine chiamata.
Osservai lo schermo retroilluminato del telefono con un’aria piuttosto confusa e sconsolata. Così dicevo addio anche ad Ervin, dopo una vita trascorsa insieme. Se solo non avessimo gettato via i nostri migliori anni dietro ai videogiochi.
La luce si spense. Fissai lo schermo nero nel nero della notte.
Se solo avessimo condiviso più esperienze assieme.
Se solo avessi accettato di andare insieme in campeggio l’anno prima, in Galles.
Se solo non fosse stato Così stupido da mettere fine Così presto alla chiamata, forse lo avrei potuto salutare meglio.
Sapevo benissimo di aver già accettato l’invito di Cassie, ma perché dare buca al proprio amico quando si è sicuri di morire il giorno dopo? Gli avevo risparmiato una delusione, almeno per quella volta. Aveva ragione: senza volerlo nell’ultimo periodo ero irrimediabilmente cambiato nei suoi confronti.
Erv, se solo avessi capito.
Oh, Ervin, così ingenuo e così buono.
Cassie, così bella, così indispensabile.
Martin, così odioso e così mio.
Mamma, così dura e così motivata ad esserlo.
Papà, così in ombra e così impegnato.
Londra, così magnifica e così totalizzante.
Cosa sarebbe rimasto di me a tutti loro? Cosa sarebbe rimasto di me nel futuro della Terra?
Sarei solo svanito nella polvere per rinascere altrove.
No. No di certo. Non ero un eroe. Allora ero solo un ragazzino smarrito alla ricerca della mia strada.
Oh, Vita, così veloce e così imprevedibile.
 
Questo fu il mio addio.
Così morivo e così rinascevo.
 
Sms - Numero Sconosciuto - h. 22.57
Torna in casa e non destare sospetti. Stai esagerando. Non tirare la corda. Vai a dormire. Domani mattina qualcuno verrà a prenderti. Lascia tutto così com’è. Verrai rifornito di tutto il materiale necessario. Non portare con te nulla. Chiaro? Da questo momento non esisti più. Buona fortuna.

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Capitolo 10
*** primo intermezzo ***



!! piccole note:

quando cominciai a scrivere jade+ non avrei mai pensato che, un giorno, sarei finito a scrivere dei ringraziamenti simili. a dire il vero non avrei nemmeno mai pensato di essere effettivamente in grado di scrivere qualcosa con abilità ( quella poca che gli dèi mi hanno concesso ) e costanza. la verità è che nella vita spesso e volentieri sono uno che rinuncia, quello che gli inglesi chiamano 'quitter'..è per questo che per me questo 'libro-che-non-reputo-libro' ha molta più importanza del normale. la fine della prima parte è un traguardo che ho bramato e temuto..ed ora ho paura di non riuscire più a continuare. spero solo di riuscire a trovare la forza.
con questo piccolo intermezzo si dovrebbe capire in linea generale l'andamento del mondo in seguito all'arrivo degli alieni sulla terra; ho pensato non fosse giusto concentrarsi solo sulla vita di theo che, in fondo, è inserito in un contesto molto più ampio.
ringrazio infinitamente le 350 persone che hanno aperto la pagina del primo capitolo, le 40 che forse lo avranno letto, e tutti coloro che hanno proseguito con la lettura anche se solo per qualche capitolo, prima di stufarsi. ringrazio gli irriducibili che sono invece riusciti ad affezionarsi a theo e a me: non posso che dire che anche io mi sono affezionato a loro. ringrazio chi mi ha fatto forza con le recensioni e a lord stefanius che è l'unico ad esser stato sincero-a-costo-di-sembrare-antipatico mettendo una bandierina bianca.
ringrazio 48 per i motivi già espressi, arianna che mi ha fatto scoprire la scrittura e ale per i consigli validi.
ringrazio anche gli amici che in piccola parte mi hanno deluso senza mai leggere nulla - o quasi - e non capendo quanto questo fosse importante per me. alla faccia vostra ce l'ho fatta.

!! mi fermerò con questa storia per qualche mese, giusto il tempo di scrivere un paio di capitoli - speriamo - e non costringere la gente ad aspettare mesi e mesi tra la pubblicazione del primo e del secondo ( della seconda parte ). theo finalmente partirà per mondi alieni! solo un dubbio: dite che dovrei mettere la noticina 'completa', visto che si tratta di una prima parte fatta e finita?
ah, grazie anche a tutti coloro che mi hanno corretto gli errori, provvederò al più presto a sistemare tutto!
un fortissimo abbraccio,
ivan
ps: se avete qualche citazione carina che vorreste aggiungere, o qualche idea, o qualcosa riguardante altri settori dell'umanità che con queste quattro righe non ho toccato ecc. suggeritemelo pure..provvederò ad aggiungerlo e a mettere il vostro nome al personaggio che ha pronunciato quelle parole!

*


PRIMO INTERMEZZO

[ il testo è presente anche in formato pdf, più ordinato e pulito. questo è il link >
http://tat.altervista.org/BLOG_Jade/JADE_PRIMO_INTERMEZZO.pdf ]



TRATTO DA “ENCICLOPEDIA DEL VECCHIO MONDO – usi, costumi e testimonianze prima e durante il contatto”
Scritto da Terrence Sebastian Finnigan, presentato alla Prima conferenza globale del Nuovo Mondo.
Repubblica di Barillhia – vecchia Indo-Cina
23 ottobre 2024 d.C. – 10 d.I.
 
 
 
«Siamo tutti figli dello stesso Dio, tutti frutto dello stesso Creato, tutti fratelli d’amore e di fede»
Papa Pio XIII, Piazza San Pietro, Roma
 
«Il governo tedesco conferma: “usciremo dall’Europa e ci prepareremo da soli alla difesa”»
Ansa, ottobre 2014
 
«Volo non autorizzato finisce in tragedia: la collisione con un’astronave causa un’esplosione sui cieli del Colorado. 200 passeggeri morti, 4 persone uccise dalle lamiere piovute a terra e 2 gravemente ferite. L’astronave non sembra aver riportato danni.»
Ansa, ottobre 2014
 
«Lo ammetto, sono stati loro a suggerirmi il testo, convincendomi a diffondere il messaggio prima ancora del loro arrivo. Credo siano sempre stati nella mia testa, ora me ne sono resa conto e posso dirlo senza timori. Sono un’addotta.»
Katy Perry su “E.T.”, canzone del 2011
 
«Parliamone: chi non ne vorrebbe uno come ospite?»
David Letterman, David Letterman Show, settembre 2014
 
«Potrebbe trattarsi di un particolare sistema per generare immensi campi magnetici, o forse potrebbero piegare le particelle di luce per generare campi di forza invalicabili. Non possiamo sapere altro, dal momento che le nostre conoscenze sono primitive rispetto alle loro. Per non parlare del materiale col quale sono costruite: quella particolare pietra sulla Terra non esiste neppure. Ammesso che sia pietra.»
Archibald McNeary, scienziato NASA, ottobre 2014
 
«Tutti abbiamo perso qualcosa di prezioso, casa, sogni, amici. Ma noi non siamo morti, e il mondo è nostro. Unendo le forze avremo una nuova dimora e nuove ambizioni. Tutto quello che so è che il viaggio sarà duro, ma abbiamo tempo. Insieme costruiremo il nuovo mondo. La strada ci aspetta, iniziamo a percorrerla da oggi. E ancora una cosa: i compagni persi, i sogni svaniti…non dimentichiamoli mai.»
Incisione sulla Tavola dell’Unione, New York City, Anonimo
 
«The. Time. Has. Come.»
Graffito sulla metropolitana di Londra, Anonimo
 
«Ce lo sentivamo che prima o poi le tutine degli eroi dei fumetti avrebbero fatto tendenza. Lo vedrete nella prossima stagione: lo stile Global è un connubio di fantascienza ed eccentricità dal gusto raffinato. Resterete senza fiato.»
Domenico Dolce e Stefano Gabbana, 2014
 
«Pechino, Catturato esemplare alieno: le foto subito online. Realtà o bufala?»
Sito di notizie online, ottobre 2014
 
«Cani e gatti impazziti, forse influenzati dalle energie sprigionate dalle astronavi sospese nel cielo. Gli scienziati dichiarano: “l’evento influisce su tutta la fauna mondiale e forse anche la flora”»
Sito di notizie online, ottobre 2014
 
«Poi realizzai che era tutto vero, e il mondo mi crollò sulle spalle. ‘Non posso morire!’, pensai, ‘Devo ancora sposarmi!’. Lasciai l’ufficio e scelsi di fuggire in macchina da mia moglie Sarah. Lei, ancora una volta, mi avrebbe fornito la soluzione a tutto. Non riuscii neppure ad immettermi nella strada, impossibilitato com’ero dal flusso di civili impazziti che si erano riversati nella città. C’era chi gridava, chi guardava il cielo, chi sgomitava, chi piangeva, chi cercava il figlio, il marito, i nipoti, la nonna, il cane. In quel bailamme infernale solo una cosa era certa: nulla sarebbe mai più stato come prima.»
Da “Diario di uno scettico qualunque”, Pierre Legrand, 2015
 
«Il mondo intero è rimasto sulle spine per cinque ore, a seguito del lancio missilistico avvenuto la notte scorsa a Riyad, Arabia Saudita, e con obiettivo l’astronave ormai nota a tutti col nome di ‘Octopus IX’. Le cariche, esplose prima ancora di collidere con l’obiettivo, non hanno sortito l’effetto desiderato. Immediate le minacce di  provvedimenti esemplari da parte delle nazioni estere. Per il momento nessuna risposta da parte degli invasori.»
The New York Times, 26 ottobre 2014

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