Sangue corsaro

di Satomi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una lunga notte ***
Capitolo 2: *** Chiarimenti ***
Capitolo 3: *** Il valore delle cose ***
Capitolo 4: *** Al cospetto dell'almirante ***
Capitolo 5: *** Confronti e sotterfugi ***
Capitolo 6: *** Corrispondenze ***



Capitolo 1
*** Una lunga notte ***


1. Una lunga notte

 


Il cozzare dei boccali era l’unico rumore che poteva udirsi, lì alla posada de la Luz. L’uomo al bancone aveva preso a lustrarli uno dopo l’altro, lavorando di straccio e olio di gomito, ma quella sera nessun cliente avrebbe giovato di recipienti sì abilmente ripuliti, rari da trovare nelle osterie di Maracaibo.
Alvaro Marìn, solo nel raccolto ambiente che era la sua locanda, non aveva trovato altro modo per tener a bada il nervosismo. “Cosa non si fa per le piastre sonanti...” mormorò a mezza voce rivoltando un boccale tra le dita smagrite, insolite per un taverniere. Il giorno prima non si era trattenuto dall’esultare, quando clienti che avevano tutta l’aria d’essere dei ricconi si erano presentati alla sua porta; era certo che il suo collega e rivale, proprietario della vicina posada, fosse schiattato d’invidia alla sola vista, e tale idea l’aveva fatto sorridere di soddisfazione. Lui, lo sapevano tutti, era un uomo che viveva tranquillamente dei suoi modesti guadagni, senza tentare di rimpinguarli con disdicevoli attività.
“Che vada alla malora, lui coi suoi galli!” aveva borbottato quella sera, al vedere una considerevole folla riversarsi nella taverna d’El Toro. Augurandosi al contempo che gli avventori, imbaldanziti dal vino e dalle scommesse, riducessero il locale a un tale stato da levargli dai piedi la concorrenza per un pezzo.
Mai però avrebbe creduto che quella maledizione, pronunciata forse in un attimo estremo di rancore, avrebbe finito per rivoltarglisi contro.

Carrai! Sono già qui!” pensò Marìn all’udire dei passi frettolosi fuori dal locale, seguiti da un furioso bussare. Chiunque vi fosse fuori l’uscio doveva essere molto impaziente, e ciò spinse il locandiere ad accorrere per aprire; si vide dinanzi, come tra l’altro aveva temuto, i visi corrucciati di alcuni soldati. “Desiderate?” domandò, cercando di frenare il tremito della voce.
“Ohe, oste!” l’apostrofò uno del gruppo, venendo innanzi. “È forse tua abitudine tenere gli ospiti sulla porta?”
“Oh no, signor soldato!” replicò in gran fretta Marìn. “Accomodatevi, vi prego.” E scostò il suo magro corpo per permettere ai tre di passare; uno di essi, senz’altro il capo, gettava occhiate intorno con molta attenzione, gli occhi stretti come capocchie di spillo.
“Posso... posso offrirvi qualcosa, signor sergente?” azzardò il locandiere.
“Risparmiate il vino, señor Marìn, e rispondete invece.”
“Dite pure.”
“Immagino abbiate udito anche voi quant’è accaduto alla locanda vostra vicina.”
“Se l’ho udito? Diavolo!” si ritrovò a pensare il taverniere: il tuonare d’un buon paio di cannoni sarebbe passato inosservato in mezzo a un tale fracasso. “Il señor Rubio non sa tener a bada i suoi avventori” si limitò a dire.
“Rispondete alla domanda.”
“Ebbene sì, ho udito e a stento ho potuto chiudere gli occhi, al pari dei miei poveri clienti.”
“Eppure non dormivate quando siete venuto ad aprire” commentò il sergente guardandolo fisso. “Forse che vi attendevate il nostro arrivo?”
Il taverniere deglutì, ma cercò di mostrare una faccia più che contrita. “Sono un uomo onesto, sergente, che non ha conti in sospeso colla giustizia” brontolò.
“Siete certo che non sia giunta qui una qualche... visita inaspettata?”
La domanda fu sparata a bruciapelo, ma Marìn riuscì suo malgrado a conservare il sangue freddo. “Non capisco di cosa parliate. Qui vi sono solo io, assieme ai miei clienti.”
“Che clienti?” chiese il sergente.
“Dei gran signori, che non gradirebbero per nulla il vostro disturbo.”
Uno dei soldati scoppiò a ridere. “Por Dios, il nostro oste tira fuori le unghie!” A un cenno del superiore venne avanti, spingendo via dalle scale il proprietario. “Largo, amigo, abbiamo fretta.” Marìn era pallido come un cencio lavato. Avrebbe voluto protestare, ma temeva che altre parole mettessero ulteriormente in sospetto il sergente.
Quest’ultimo, che per indole pareva assai diverso da molti suoi commilitoni, si sentì quasi in dovere di fornire qualche spiegazione. “Non siamo qui per mettervi a soqquadro il locale, o in cerca di qualche ubriacone” disse. “I nostri obiettivi sono delle spie.”
Carrai! Spie!”
“E pericolose, anche.”
“Qui non vi sono spie, ve l’assicuro, sergente.”
“Forse no, ma alla taverna d’El Toro sì. Abbiamo ricevuta un’interessante segnalazione, così ci siamo affrettati ad accorrere.”
“E li avete presi?” domandò il taverniere trattenendo a stento i timori che in quel momento provava. Il sergente stava forse per rispondere quando dei passi improvvisi al piano di sopra gli fecero volgere in alto lo sguardo. “Ebbene?” domandò al sottoposto appena comparso in cima alle scale.
Quest’ultimo pareva alquanto imbarazzato, a giudicare dalla foga con cui si grattava la nuca.
“Non rispondi, Blanco?”
“Permettetemi di farlo al posto suo, signore.”
Una seconda figura comparve al fianco del soldato, per poi superarlo e prendere a scendere le scale, lasciando che la luce delle candele illuminasse meglio la sua persona. “Una donna!” pensò stupito il sergente. Si trovò d’improvviso il fiato corto nel vedere chi gli si era appena fermato dinanzi, sorridendogli con cortesia.
Mostrava trentacinque anni o poco più; la figura minuta era ammantata in un abito scuro che esaltava maggiormente la tinta candida della sua pelle, e che diveniva più rosea sulle guance. Un grazioso orecchino di perle le pendeva da un orecchio, mentre l’altro era tenuto saldo nella mano di lei, assieme a un elegante girocollo. “Buonasera, signori” salutò chinando appena il capo in direzione dei presenti. “Mi stavo preparando per la notte, quando ho udito i vostri discorsi.”
Il soldato di fianco al sergente batté le palpebre, come se fosse d’improvviso instupidito; Blanco profittò di quell’attimo di tregua per scendere in tutta fretta, badando a non urtare la signora.
Il sottufficiale si decise a prendere la parola, forse confortato dalle maniere tutt’altro che altere di lei. “Ci ascoltavate, signora?” disse mentre si scopriva il capo e accennava un breve inchino.
“Perdonate, ma non ho potuto farne a meno. Avevo preso a girare in corridoio, sperando che ciò mi aiutasse a ritrovare la tranquillità; ammetto d’essermi inquietata al frastuono di poche ore fa.”
“Ah! L’ha udito anch’ella!” pensò trionfante il sergente, deciso a ottenere qualche altra informazione, se poteva. “Potrei sapere il vostro nome?” chiese.
“Doña Carmen Miranda y Torres” rispose la donna. “E voi, signore?”
“Sergente Bernardo Muñoz, per servirvi.”
“Siete cortese, sergente” commentò lei, fissandolo coi suoi occhi dai riflessi color dell’acciaio. “Una dote non comune tra i nostri soldati.”
“Vi ringrazio, signora. Potrei parlare con vostro marito?”
“Non è qui, sergente. Posso rispondere io a tutte le vostre domande.”
“Mi è lecito sapere dove si trova?”
“A una cena.”
“Perché non l’avete seguito?”
“Stamane ho avuto un improvviso malessere che mi ha costretta a letto, e mio marito non ha voluto stancarmi più del necessario; d’altronde si trattava di una cena d’affari.”
“Ah!” fece Muñoz in tono dispiaciuto. “Perdonate per avervi disturbata, allora.”
“Vi preoccupate troppo. Come vedete sono perfettamente ristabilita.”
“Siete sola, dunque?”
“Oh, no. Con me vi sono i miei servi e mio nipote.”
“Vostro nipote?”
“Sì, sergente. Ora è in camera sua, a riposare.”
“Sta male, forse? È... ferito?”
La domanda fece sgranare gli occhi alla bella signora. “Che cosa dite, sergente?” fece lei mentre si portava una mano al cuore. “Perché mai dovrebbe esserlo?”
“È giovane vostro nipote?”
“Ventott’anni appena compiuti.”
“Non sarà estraneo dunque al vino e al giuoco.”
“Dov’è finita la vostra cortesia, sergente?” domandò doña Carmen, la voce fattasi d’improvviso secca. “Ora insinuate che mio nipote frequenti posti di malaffare. Ebbene sì, questa sera ha girato per Maracaibo, città che d’altronde non ha mai veduto, ma posso assicurarvi che è tornato qui tutto intero e per nulla ubriaco. E non s’è diretto alla locanda d’El Toro, se è questo che intendete.”
Il sottufficiale assorbì in silenzio quelle parole, pronunciate con cortesia ma fermezza al tempo stesso. “Non volevo offendere né voi né un vostro parente, signora” mormorò. Lei, con suo stupore, gli sorrise nuovamente, anche se con molto meno calore rispetto a prima. “Sembrate una persona seria che fa bene il suo dovere” disse. “Dunque avrete i vostri buoni motivi.”
“Li ho, signora, credetemi. Io e i miei soldati cerchiamo delle spie.”
“Qui non vi sono spie” replicò lei ripetendo le parole di Marìn. “Sono uomini pericolosi?”
“Pensiamo si tratti di filibustieri, signora.”
Quelle parole ottennero un intenso effetto su doña Carmen: il sergente la vide indietreggiare di scatto fino a cozzare col tacco contro il primo scalino, la mano libera dai gioielli a coprirsi le labbra sottili. “I filibustieri qui...” l’udì poi a mormorare con voce malferma.
“Sì, signora. Capirete dunque la mia urgenza.”
“E non li avete presi! Non sareste qui a domandare, altrimenti.”
“Uno solo, signora. L’altro è stato aiutato a fuggire da tre loschi figuri, comparsi all’improvviso nella taverna d’El Toro.”
“Mio nipote non è stato lì, ve l’assicuro” mormorò la donna, il labbro tremante; la notizia dei corsari in città, temutissimi in tutto il Golfo, l’aveva molto colpita.
“Li prenderemo, signora, è solo questione di tempo” garantì Muñoz rimettendosi il cappello in capo; non avevano più nulla da fare. Si girò, rivolgendosi al taverniere che per tutta la durata della conversazione era rimasto lì, teso come una corda di mandolino. “Badate di sbarrare porte e finestre; quei maledetti hanno un ferito, potrebbero cercare rifugio in posade come questa.”
“Che Dio ce ne scampi!” esclamò a mezza voce Marìn.
“Non è possibile” replicò la donna, che pur spaventata seguitava a mantenere la calma. “Siamo troppo vicini a quella locanda, questo è il primo posto dove sarebbero venuti.”
“Anche questo è vero, signora.” Il sergente, che s’apprestava a uscire seguito dai suoi uomini, non potè non notare un particolare. “Tremate” disse.
“Temo per mio marito” mormorò doña Carmen. “E se li incontrasse sulla via del ritorno? Lui non è uomo di spada!”
“Non spaventatevi, signora; vi assicuro che faremo quanto è in nostro potere per prenderli quanto prima. Vi porgo i miei omaggi.”
“Buona fortuna” augurò lei, e lasciò che i soldati uscissero in gran fretta.

Non occorse molto prima che nella posada de la Luz tornasse il silenzio. Solo allora due pesanti sospiri di sollievo si levarono nel locale. “Siete stata magnifica, contessa” disse Marìn asciugandosi dalla fronte alcune stille di sudore freddo. “Credevo davvero che fosse finita per me e per voi!” Lei si limitò a sorridere appena, la bella mano che si posava sul cuore dal battito ancora frenetico.
“Avete simulato sì bene il vostro spavento!”
“Oh, credetemi, signore. Il mio timore era tutt’altro che finto” replicò lei; d’un tratto pareva nuovamente preoccupata. “Non è ancora tornato” disse, e la sua voce quasi si spezzò.
“Non ancora, contessa, ma sarete la prima a saperlo quando accadrà. Ora andate di sopra a riposare, apparite stanca.”
“E come potrei? Mio marito è lì fuori, a comportarsi come quel giovane che non è più!” esclamò lei, a metà tra l’arrabbiato e l’ansioso. “No, non posso riposare in un momento come questo” disse poi, più a se stessa che al proprio interlocutore, affrettandosi a salire le scale. La luce delle candele non giungeva fin lì, eppure la donna non faticò a distinguere due figure acquattate nell’angolo, ciascuna a un lato della scala. “Posate le armi” intimò. “Non vi è più pericolo.”
Una delle due persone cui era rivoltò l’ordine si alzò, rivelando la figura slanciata di un giovane di non più di trent’anni, dalla pelle appena abbronzata. “Avete recitata la vostra parte egregiamente, zia” disse dopo aver rinfoderato la lunga spada. “Astuto, non rivelare il vostro titolo.”
“Una contessa in un’umile posada? Quel sergente avrebbe raddoppiate le domande, e non potevo permetterlo.”
“Siete la degna moglie dello zio.”
L’ultima parola fece alzare vivamente il capo alla contessa. “Che cosa avete fatto?” domandò secca, stringendo il pugno non impegnato. “Cosa avete fatto voi due, anzi voi tre?” E accennò all’ombra che ancora si teneva celata, come se non volesse in alcun modo rivelarsi.
“Impedire che accoppassero due poveri diavoli” rispose con tranquillità il nipote della contessa.
“Sollevando nientemeno che un vespaio! Vi staranno cercando in tutta la città!”
“Non ci hanno veduti in volto e non sanno chi siamo. Altrimenti temo che Sua Signoria il governatore” e qui il giovane strinse le labbra, come se provasse tutt’altro che simpatia verso la più importante personalità di Maracaibo, “ci avrebbe rovesciata indosso tutta la guarnigione.” 
Lei abbassò il capo: sembrava quasi si sentisse in colpa. Suo nipote s’affrettò a porgerle un braccio. “Ch’ulel!” chiamò poi. “Accendi la bugia.”
Si videro alcune scintille, poi il baluginio d’una fiammella, alla cui luce si rivelò un secondo uomo: alto e ben piantato, i lunghi capelli neri lasciati ricadere sulle forti spalle, la pelle di una tonalità ramigna. “Vi lascio con lui” disse il giovane abbandonando il braccio della zia. “Preferisco stare di sotto a tener d’occhio la porta. Non appena arriverà lo zio v’avviserò immediatamente.” Tuttavia, nel profondo del suo animo, sapeva che la donna non avrebbe mai abbassata la guardia, non prima d’aver avuto di nuovo il marito al suo fianco.
“Ch’ulel” disse poi la contessa rivolgendosi all’altro uomo, che a occhio e croce mostrava solo qualche anno meno di lei. “Tu mi sei sempre stato fedele.”
“Certo, mia signora” affermò lui chinando brevemente il capo; gli occhi neri, però, non s’abbassarono mai; v’era fierezza nel suo sguardo, una fierezza che la servitù non aveva spento. “Sapete che darei la vita per voi.”
“Rispondi solo a questa domanda: dov’è andato?”
Ch’ulel s’irrigidì appena. “Chi?”
“Lo sai bene: mio marito, il tuo signore.”
“Voi sola siete la mia signora, come un tempo siete stata la mia regina” replicò il servo. “Sono fedele a lui perché lo sono a voi.”
“È per questo che non l’hai seguito?” chiese la contessa in tono di rimprovero.
“No, mia signora, è stato lui a chiedermelo e io ho preferito rispettare la sua decisione.”
“Lasciandolo solo!”
“Il signor conte ha il braccio robusto, e non teme i soldati.”
“Ah!” gemette la contessa. “Dunque li ha seguiti!”
“Voleva vedere di persona dov’erano diretti. Quanto a me, ho creduto di essere più utile a vostro nipote: non ce l’avrebbe fatta a difendersi e a trasportare al contempo quel corsaro.” Ch’ulel si avvicinò maggiormente alla contessa senza tuttavia toccarla: quella donna, per lui, era ben più di una padrona. “State tranquilla; vostro marito sa quello che fa, ed è uomo prudente.”
“Ultimamente tendo a dubitarne” mormorò lei.
E mai avrebbe voluto pronunciare quelle parole.

*


“Oh!” Il carrettiere tirò con forza le redini, lasciando che il mezzo si arrestasse dinanzi al palazzo del governatore. “Caramba!” sbottò uno dei quattro soldati trasportati. scendendo con un balzo. “Quella tua bestia è un cavallo o un asino?”
“Un cavallo vecchio, signor soldato” fu la risposta appena mormorata. “Gli avete chiesto anche troppo.”
“Bah! È vivo, no?”
“Ma ancora poco e me l’avreste accoppato!”
“Smetti di lamentarti” lo rimbeccò un secondo soldato, l’unico ad aver in capo un elmetto con piume degne di tale nome. “Piglia le piastre e sparisci, tu e il tuo dannato ronzino.”
“Non posso, è troppo stanco e...”
“Vattene al diavolo, Perez. Pedro, Alonzo!” sbottò il soldato rivolto agli ultimi commilitoni. “Fate alzare quel cane!”
“Hai sentito, hijo de puta? Sta’ ritto!” Quattro mani afferrarono con forza l’ultimo uomo sul carro, l’unico a non vestire la divisa di Spagna; a coprirgli le robuste membra erano abiti piuttosto sgualciti, da avventuriero, e in più punti macchiati di sangue fresco; la fascia rossa che gli stringeva i fianchi aveva certo retto un’arma bianca e un buon paio di pistole, che i soldati dovevano avergli sottratto dopo la cattura.
“Muoviti!” La spinta fu tale che per poco il prigioniero non rovinò giù dal mezzo; riuscì miracolosamente a stare in piedi, più grazie alla forza di volontà che a quella fisica. Con uno sforzo tirò su le spalle, apparendo più alto di una buona spanna rispetto a tutti i presenti.
“Ancora qui?” borbottò all’indirizzo del carrettiere il soldato dall’elmo piumato. L’interpellato non rispose, limitandosi a indicare il proprio cavallo che fumava come una zolfatara. E maledicendosi per aver voluto, quella sera, deviare dal solito giro per andare a farsi un bicchiere alla taverna d’El Toro; se così non fosse stato, avrebbe certo evitato il frastuono furioso creatosi all’interno del locale, una tremenda lotta di spadaccini al suo ingresso e soprattutto quei soldati che gl’ingiungevano di trasportarli al palazzo di Sua Eccellenza. L’uomo che i quattro avevano catturato s’era divincolato a tutta forza, e solo un buon colpo alla nuca l’aveva costretto a crollar sul fondo del carro, semi-svenuto.
I soldati stavano ancora discutendo tra loro quando una voce imperiosa s’impose su tutte. Dal palazzo fuoriuscì un ufficiale alto e assai magro, gli occhi grigi che subito corsero a fissarsi sui sottoposti, irrigiditi nel saluto militare.
“Capitano Valera.”
“Avete fatta buona presa?”
“Eccome. Eccolo qui.” E il prigioniero fu spinto innanzi senza troppi complimenti; l’uomo che rispondeva al nome di Valera lo fissò freddamente per qualche istante, con una sorta di scintilla beffarda negli occhi. Pareva tutt’altro che soddisfatto, però. “Dov’è l’altro?” domandò secco.
Il soldato dall’elmetto piumato s’irrigidì. “L’altro, capitano?” fece debolmente, la sua sicurezza che sfumava d’un colpo.
“Sì, Alcazar, l’altro! Il vecchio notaio aveva parlato di due filibustieri, e io qui ne vedo uno solo!” Il capitano Valera percorse con un solo sguardo il gruppo. “Eravate partiti in dodici e siete tornati in quattro” constatò. “Stento a credere che due soli uomini, quantunque figli del diavolo, vi abbiano tenuto testa così bene.”
“Non erano soli, capitano” intervenne un soldato.
“No? Questa istoria mi giunge nuova.”
“È la verità.” In questo caso fu Alcazar a prendere la parola. “Tre uomini ci hanno sorpresi all’ingresso della taverna e ci hanno assaliti menando stoccate come pazzi; siamo riusciti a far prigioniero uno solo dei filibustieri, prima d’incrociare il carro del señor Perez, che passava di lì, e servircene per tornar qui in tutta fretta.”
“Fuggiti!” borbottò a denti stretti il capitano Valera. “Credevo, Alcazar, che un Bardabo come te preferisse morire sul posto piuttosto che arrendersi.” L’interpellato arrossì a quelle parole, ma conscio d’avere dinanzi un superiore ritenne opportuno non rispondere. “Durante la strada abbiamo incontrato il sergente Muñoz con due soldati” disse poi con voce soffocata. “Ho deciso d’informarlo subito dell’accaduto.”
“In effetti non è tornato dal suo giro” rifletté il capitano.
“Sarà ancora impegnato nella ricerca; gli ho detto di recarsi alla taverna d’El Toro, nella speranza di ritrovar lì il corsaro che ci è sfuggito.”
“I suoi soccorritori l’avranno condotto al sicuro.”
“Era ferito, non possono aver fatto tanta strada.” Il capitano Valera gettò un’occhiata di sbieco al prigioniero: lo vide sussultare, segno che nutriva non poche preoccupazioni per la sorte del suo camerata. “Che sai dirmi di quei tre misteriosi uomini?” chiese poi.
“Due di essi erano tremendi spadaccini, capitano. Nell’impeto del primo attacco hanno gettato a terra ben tre dei nostri.”
“E l’altro?”
“Credo fosse un selvaggio, un caraibo forse o un arawako.”
“Cosa te lo fa pensare?”
“Non maneggiava la spada ma arco e freccia, tenendosi a distanza.”
“Sapresti riconoscerli, se li rivedessi?”
“Non credo, capitano. Dopo il primo attacco ci hanno spinti in un vicolo buio, inoltre avevano tutti il volto coperto; erano alti, i due uomini bianchi vestiti di scuro e il selvaggio a torso nudo, ma altro non saprei dirvi.”
“Spero che il sergente Muñoz sia più fortunato, allora.” Valera stava per ordinare di condurre il prigioniero a palazzo, quando decise di prendere in mano la situazione: s’avvicinò al filibustiere, afferrandolo pel collo della casacca e costringendolo a voltarsi verso la piazza. “Sai dove ti trovi?” domandò, certo tuttavia di non ottenere risposta.
“Sei a Plaza Mayor, un tempo Plaza de Granada. Parecchi dei tuoi hanno lasciata la pelle qui, penzolando come si conviene ai ladroni come voi.”
Ancora silenzio.
“Tra essi vi erano quei cani di Corsaro Rosso e Verde, se non ricordo male.”
Le mani del filibustiere si strinsero convulsamente, lì dietro la sua schiena.
“Peccato che il governatore d’un tempo non sia riuscito a condurre alla forca anche l’ultimo di quella pessima razza; sarebbe stato piacevole vederlo a scalciare in aria con mezzo palmo di lingua fuori.”
Il corsaro attese la fine della frase prima di controbattere, ma a modo suo: uno sputo colse il capitano spagnuolo in pieno volto. Valera, seppur sentisse il sangue ribollirgli dentro, ebbe la forza di sorridere. “Allora li hai, gli orecchi. Ti credevo sordo” commentò sprezzante.
Prima di assestare un violento calcio nello stomaco dell’altro; a giudicare dall’urlo strozzato doveva aver toccato, con sua soddisfazione, qualche ferita ancora fresca. “Portatelo via” disse poi, lasciando che i sottoposti lo raccogliessero da terra, non ancora riavutosi dal colpo di poco prima.
E solo allora tirò fuori di tasca un fazzoletto, asciugandosi con cura la guancia da cui colava lentamente un denso grumo di saliva misto a sangue.

Il carrettiere attese che la piazza fosse nuovamente deserta prima d’incitare il suo cavallo, ormai riposato, al passo. “Si torna a casa, vecchio mio” disse imboccando la via del ritorno, le mascelle che quasi gli si slogavano a furia di sbadigli. Era stanco, a tal punto da non accorgersi di un’ombra che a poca distanza da lui aveva iniziato a prendere vita.
L’ombra, o meglio l’uomo che si era celato in essa, si sporse appena dall’angolo della casa che fino a pochi istanti prima era stato il suo rifugio. Da lì, oltre che vedere, aveva potuto cogliere ogni singola parola dei soldati spagnuoli, che certo non s’erano curati di tener basse le voci.
Per ben due volte la mano, sebbene ormai percorsa da più d’una ruga, era corsa all’elsa della spada colla celerità che l’aveva distinto in gioventù; avrebbe dato qualunque cosa per poter conficcare la sua lama dritta nella gola di quel maledetto capitano, o per correre in aiuto di quello che una volta era stato un suo fedelissimo.
Non era riuscito a trattenere un fremito d’impotenza mista a gratitudine, quando l’aveva veduto reagire a dispetto delle ferite, incapace di far restare impunita un’ingiuria all’onore del suo antico comandante.
L’uomo si ravvolse nel suo mantello, pronto ad allontanarsi. Non prima di fare a se stesso una promessa che avrebbe mantenuto a tutti costi.
“Avrete presto mie nuove, conte di Medina.”

*

“Un altro.”
Marìn fissò dubbioso il giovane seduto al bancone. “È il quarto” constatò. L’altro sorrise, di un sorriso diritto e lucido. “Sono uomo di mare, signore, e come tutti coloro degni di tale titolo ho la gola spesso asciutta; suvvia, non lesinate il vino, son pronto a pagarvelo.”
“Se lo dite voi” disse con un’alzata di spalle il taverniere. Stava empiendogli nuovamente il bicchiere quando due forti colpi risuonarono alla porta. Il giovane s’alzò in piedi con uno scatto, mettendo mano alla sua arma bianca. “Correte a vedere” ordinò a Marìn che pure s’era alzato, anche se con minor impeto.
“Chi... Chi vive?” balbettò il taverniere, le labbra a un soffio dall’uscio sbarrato.
“Aprite, svelto. Sono io.”
Il giovane s’illuminò a quelle parole. “Lo zio! Finalmente!” esclamò. E un grido di gioia l’avvisò che anche la contessa, al piano di sopra, aveva appresa la ben lieta notizia.

“Avevi ragione, Enrico.” Quella fu la prima frase compiuta pronunciata dal nuovo arrivato dopo il suo ingresso nella posada; il respiro corto causato dalla corsa improvvisa fin lì, nonché l’abbraccio della moglie, avevano minato per un breve tempo le sue facoltà oratorie. “L’hanno condotto... al palazzo del governatore...”
“Zio, riprendete fiato” l’invito il giovane vedendo come il suo parente, stretto al braccio della consorte e seduto su uno sgabello, ansimasse ancora. “Avete tenuto dietro a un carro in corsa!”
“Una testuggine sarebbe andata più veloce di quel cavallo. In caso contrario li avrei perduti alla prima svolta.”
“Ora cos’hai intenzione di fare?” intervenne piano la contessa. Il marito la fissò con uno sguardo indefinibile e intenso, color dell’inchiostro, l’istesso che un tempo aveva fatto calare più d’un capo pel timore e il rispetto. “Nulla.” La sua voce era roca, venata d’impotenza. “L’azione di stasera ha gravemente compromesso la nostra posizione.”
“Dunque siete pentito di quanto abbiamo fatto” obiettò suo nipote.
“Non ho detto questo, Enrico. Ma anche tu hai compreso come Maracaibo sia divenuta pericolosa per tutti noi; non possiamo più girare liberamente, alla ricerca di altre informazioni.”
“Non occorre; conosciamo già la più importante” replicò Enrico. “Ovvero che Jolanda è qui, sotto la custodia del governatore.” A quelle parole la contessa tremò, le mani a coprirle il volto, mentre il marito s’alzava di scatto. “Sciocca!” esalò. “Sciocca e imprudente! Come ha potuto solo pensare  di ottenere da sola ciò che volesse!”
“Basta così” intervenne la moglie. “Rimpiangere il passato non giova a noi né a nostra figlia; siamo giunti fin qui collo scopo di liberarla, ed è quello che faremo.”
“Temo che il nostro piano iniziale sia saltato, zia” intervenne Enrico scuotendo il capo. “Qualora ci rivelassimo e tentassimo la via diplomatica, il governatore saprebbe all’istante che dietro la lotta alla taverna ci siamo noi. E state sicura che impedirebbe qualunque trattativa.”
“Allora tutto è perduto!”
“No” intervenne il conte. “V’è rimasta ancora una via: quella delle armi.” La moglie lo fissò come se avesse appena pronunciata la peggiore delle pazzie. “Maracaibo non è più quella che attaccasti diciott’anni orsono” disse difatti.
“E non vi è la flotta dell’Olonese e del Basco ad appoggiarci” aggiunse Enrico. “O avete intenzione di servirvi della nostra nave?”
“La  Nuova Castiglia è solida, ma solo un folle la manderebbe all’attacco contro un’intera città armata di cannoni. No, nipote, se vogliamo liberare Jolanda e sperare nella riuscita dell’impresa ci occorre aiuto, un aiuto che forse abbiamo a portata di mano.”
“Cosa dite, zio?”
Il conte guardò fisso il nipote. “L’aiuto di cui parlo è nella tua stanza” disse. “Andiamo di sopra. Signor Marìn, tenete d’occhio la porta ancora per un po’.”

Fu Ch’ulel ad aprir l’uscio della camera del giovane Enrico, permettendo ad egli e ai suoi zii di entrare. Lo sguardo del conte cadde subito sul letto nell’angolo, ove giaceva un uomo addormentato. “Come sta?” domandò accorato.
A rispondere fu la persona che in quel momento forniva assistenza al ferito; era una fanciulla di venti o forse ventidue anni, una serva senz’altro, i cui tratti ricordavano molto quelli di Ch’ulel. “Non temete, padrone, le ferite di costui non sono gravi” disse. “Domattina sarà già in grado di rispondere alle vostre domande.”
“Sempre che non vogliate interrogarlo ora” intervenne l’altro indiano.
“No, lasciate che riposi” replicò il conte. “Merita un po’ di tranquillità, dopo quanto ha passato.” S’appressò al letto a passi lenti e silenziosi, come temesse di svegliare il ferito; gli si sedette accanto, prendendogli una mano inerte tra le proprie: era rugosa e coperta di calli, la mano d’un uomo avvezzo al remo e alla spada. “Avrei voluto rincontrarti in tutt’altro modo, mio povero Carmaux” mormorò con voce triste. Sua moglie, in piedi nell’angolo assieme al nipote e alla serva indiana, non era meno dispiaciuta.
“Dite che quest’uomo può esserci utile” esordì Enrico, sia per sincero interesse che per distogliere in parte lo zio dai suoi gravi pensieri. “Come?” L’altro si girò a guardarlo prima di rispondere: “Credi tu che lui e Wan Stiller siano giunti fin qui col solo scopo di bere qualche bottiglia di Alicante? Da quando li ho veduti entrare in quella taverna non ho fatto che tenerli d’occhio dalla finestra: ricordo bene che, a un certo punto, avevano avvicinato un uomo panciuto, forse un piantatore o un ricco borghese, intento a scommettere sul combattimento di galli.”
“Dunque?”
“Cercavano informazioni, Enrico! E le avrebbero ottenute se una spia, che sia maledetta, non li avesse traditi!”
“Informazioni su cosa?”
“Questo lo ignoro.”
“Svegliate quell’uomo, zio” esortò Enrico accennando a Carmaux. “Sono impaziente di saperne di più.”
“No” fu la secca risposta. “Manca poco all’alba, e non saranno certo alcune ore d’anticipo ad avvantaggiarci.”
“Ma...”
“Enrico, ascolta tuo zio” intervenne la contessa prendendo il nipote per un braccio. “Hai veduto quel poveretto: ha battuto il capo, la sua memoria potrebbe essere confusa. Lasciamo che dorma e riacquisti un poco le forze.”
Un roco gemito fuoriuscì dalle labbra del ferito; il conte, che subito gli aveva dedicate le proprie attenzioni, lo vide tremare appena prima di voltare il capo dall’altra parte. “Gli hai preparato qualcosa, Ch’ulel?” domandò al servo indiano.
“Sì, signore, un infuso di passiflora per aiutarlo a dormire.”
“Eppure il suo sonno è agitato.”
“La passiflora è solo un sedativo, signore; non può portar via gli incubi.”
“Che spero lo lascino in pace, almeno per questa notte” disse il conte. Alzò per un attimo il lenzuolo che gli celava alla vista buona parte del corpo di Carmaux; il petto e la spalla destra erano stati abilmente fasciati, e in più parti le bende erano punteggiate di sangue. “Sei stanco, Ch’ulel?” chiese.
“No, signore.”
“Allora scendi di sotto e tieni a guardia la porta; quel povero oste cascherà dal sonno. Ti daremo il cambio fra due ore.” Il conte s’alzò in piedi. “Cerchiamo di chiudere gli occhi” disse. “Enrico, mi rincresce che le circostanze t’abbiano privato del letto...”
“Mi contenterò d’un giaciglio di fortuna” rispose il giovane con un sorriso. “Sono un uomo di mare avvezzo a dormire anche sul ponte, come voi.” Suo zio avrebbe voluto sorridere a sua volta, ma non ne ebbe la forza. Non coi terribili pensieri che gli s’erano annidati nell’animo.
Sua figlia e un suo vecchio marinaio erano prigionieri del governatore; la prima tenuta sotto custodia ma forse, sperava, ancora incolume, mentre il secondo sarebbe stato ben presto interrogato e torturato, qualora l’occasione l’avesse richiesto.
“È stata una lunga notte” rifletté con amarezza il conte, mentre si ritirava nella propria stanza. E sua moglie, che gli si era stretta al braccio, parve pensare la stessa cosa.


Note introduttive: inizialmente avevo deciso di tenere questo lavoro per me, almeno per un po’. Niente, non resisto XD Come si dice, la speranza è l’ultima a morire. Qualche anima pia potrebbe sempre inciampare qui e farmi segno della sua presenza.
Ci tengo a fare due precisazioni: pur essendo una what if? del romanzo salgariano, la mia storia ne riprenderà spesso molte situazioni, cambiate più o meno a seconda dell’occasione. Lo stesso dicasi dei personaggi: esclusa qualche new entry (in questo capitolo Marìn, Blanco, Muñoz - e i soldati vari -, Ch’ulel, Chtilali e Perez), tutti gli altri appartengono rigorosamente a Emilio Salgari.
Seconda precisazione: nella mia idea “Sangue corsaro” conclude idealmente il ciclo delle Antille; dunque non si terranno minimamente in considerazione gli ultimi due libri, “Il Figlio del Corsaro Rosso” e “Gli ultimi filibustieri”. Mi sono accontentata di riciclare due personaggi, di cui uno ha già fatto la sua comparsa in questo capitolo, il secondo apparirà in seguito - pur essendo un semplice personaggio di contorno. Entrambi, però, sono stati ripresi come soggetti del tutto slegati agli avvenimenti di quei romanzi, per adattarsi alle mie esigenze.
Satomi

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Capitolo 2
*** Chiarimenti ***


2. Chiarimenti

 


I primi raggi del sole provenienti dalla finestra aperta portarono con sé un refolo di vento caldo; ma le carte posate sulla pesante scrivania, tenute da un elegante fermacarte, non ne risentirono.
“Vostra Signoria?” La voce proveniente da dietro l’uscio spinse l’interpellato ad alzare il capo, fino a quel momento chino su un fascio di documenti. “Avanti” rispose, chiedendosi al contempo cosa fosse più irritante tra la burocrazia spagnuola e il soldato, sempre il medesimo, che si ostinava a chiamarlo da fuori anziché limitarsi a bussare.
Che indecenza.
“Signor governatore” salutò il nuovo arrivato. “La signorina è qui.”
“Non facciamola attendere allora.” Il soldato, dopo essersi ritirato, lasciò entrare una fanciulla di non più di sedici anni. “Sedete, signorina di Ventimiglia” l’invitò il governatore di Maracaibo porgendole una sedia. Lei accettò in silenzio, le labbra strette e gli occhi fermi sulle mani in grembo.
“Gradirei essere fissato in volto, quando parlo.” La ragazza tirò su il capo  con uno scatto di belva ferita; il suo sguardo era tagliente senza tuttavia apparire sfrontato.
“Spero che queste notti vi abbiano portato consiglio.”
“Più di quanto immaginiate, signor conte” rispose lei con voce pacata ma fredda. “Purtroppo per voi non faccio che giungere alle medesime conclusioni.”
“Ossia?”
“Voi, conte di Medina, siete nel torto e per ben due volte: mi trattenete qui senza alcun diritto, facendo leva sulla vostra carica e i vostri privilegi, inoltre v’ostinate a pretendere da me ciò che non vi spetta in alcun modo.”
Il governatore di Maracaibo arricciò, non visto, le labbra per l’irritazione, prima di porsi alle spalle della fanciulla. “Siete testarda, signorina” disse a denti stretti. “Credevo non gradiste essere... mia ospite.”
“Non se ciò accade contro la mia volontà.”
“Mi sembrava di avervi già spiegato quali sono le mie condizioni.” Con un movimento repentino il conte di Medina tornò alla scrivania, sfilando colla rapidità dovuta all’abitudine un solo foglio su cui erano già vergate alcune righe. “Tutto ciò che vi chiedo è una firma, signorina, una firma con cui rinunciate ai beni ereditari che pretendete di riscuotere, lasciando che a beneficiarne sia la città di Maracaibo.”
“O  voi, signor conte?” L’allusione fece arrossare il volto dell’uomo, un rossore che sapeva più di rabbia che di nobile orgoglio ferito. “Non abusate della mia pazienza, signorina di Ventimiglia” minacciò.
“E voi non insultate la mia intelligenza.” Era chiaro come anche la fanciulla fosse irritata, tuttavia seppe mascherarlo molto meglio del suo interlocutore, mostrando un’apparente calma e compostezza. “Io pretendo ciò che è mio e della mia famiglia. Per anni mia madre, duchessa di Wan Guld e ora contessa di Ventimiglia, ha reclamato i beni di suo padre in quanto unica erede, ma senza risultato; ricevendo per risposta scuse sempre più ridicole.”
“Vi sembra ridicolo che una città pretenda un cospicuo risarcimento pei danni che il vostro rispettabile padre ha inflitto a essa, diciott’anni orsono?” V’era una vena ironica non indifferente in quelle parole, e Jolanda non tardò ad accorgersene; tuttavia, se brillò per intuito, questa volta peccò in calma, punta com’era stata sul vivo. “Mio padre non ha mai riscosso una sola piastra dalle conquiste cui ha partecipato!” esclamò ferita.
“Piastre che hanno ingrossato le tasche dei suoi marinai.”
“Tutto questo non ha niente a che vedere coll’eredità di mio nonno!”
“Signorina, le vostre parole mi annoiano” replicò con tranquillità il conte di Medina. “È troppo chiedervi di abbassare la voce e comportarvi come si conviene a una pari vostro?” Jolanda, rossa in volto, strinse con forza le mani a pugno. “Non potete trattenermi qui in eterno” disse una volta riacquistata la calma.
“Se ciò si riterrà necessario sì. Ma confido sul vostro buonsenso.”
“Io invece ho smesso da tempo di confidare sul vostro senno.” La fanciulla sorrise appena. “Dio non voglia che un qualche cavaliere debba giungere fin sulla luna per recuperarvelo.”
Un pugno deciso s’abbatté sulla scrivania. “Vi burlate di me, signorina di Ventimiglia?” scattò il governatore di Maracaibo.
“No, signor conte, riportavo alla mente le mie letture. Avete mai udito a parlare di messer Ariosto?”
Prima che l’altro potesse rispondere un paio di colpi discreti risuonarono alla porta.
“Avanti.”
Il nuovo arrivato altri non era che il capitano Valera. “Nulla da fare, signor conte, non vuole...” prese a dire, ma un gesto frettoloso del governatore gli interruppe la frase sulle labbra. “Conducete la signorina nella sua stanza, poi ritornate da me.” Jolanda s’alzò lasciandosi condurre fuori senza protestare, il capo tenuto alto con dignità. “La tua ritrosia non è destinata a durare a lungo, ragazzina” pensò il conte prima di vederla dileguarsi in corridoio.

Le prime parole che Valera, tornato precipitosamente nella stanza, si udì rivolgere furono di secco rimprovero. “Preferirei non parlaste di tali faccende dinanzi alla ragazza. Non voglio che si metta strane idee in capo.”
“Non vi seguo, conte.”
“Maledizione, capitano, credete voi che l’improvvisa ricomparsa dei filibustieri qui a Maracaibo, dopo diciott’anni, sia casuale?”
Lo spagnuolo si carezzò la barba. “Che sappiano già ch’ella è qui?” domandò, quantunque dubbioso. “Mi sembra impossibile: l’intero equipaggio della nave su cui la ragazza s’era imbarcata è stato passato a fil di spada, dal primo all’ultimo uomo.”
“Ne siete certo?”
“Dubitate della mia fedeltà, conte?”
“Se vi è un uomo di cui mi possa davvero fidare siete voi, capitano Valera” replicò il governatore. “Altrimenti non vi avrei scelto come confidente; tuttavia non posso scartare nessuna ipotesi.”
“Ora che mi ci fate pensare, signore, la rotta di quel galeone era alquanto strana” rifletté l’ufficiale. “Più che pel Venezuela la sua rotta puntava alla Giamaica, o a Santo Domingo.”
“E perché non alla Tortue?” propose il conte di Medina.
“Che la figlia del Corsaro volesse chiedere protezione ai vecchi amici di suo padre?”
“Mi sembra più che plausibile. Quella ragazza non è una sciocca, dubito che sarebbe giunta qui pensando di contare solo sulle proprie forze.”
“E a chi avrebbe voluto chiedere aiuto?
“Lo domandate anche? A quella canaglia di Henry Morgan” rispose con stizza il governatore. “Sapete anche voi come quel devastatore, quel figlio di Satana sia stato un tempo il luogotenente del Corsaro Nero; chi meglio di lui avrebbe potuto raccogliere l’appello di Jolanda di Ventimiglia?”
“E voi dite che in qualche modo, a dispetto del nostro intervento, sia riuscito a sapere di lei?”
“Sì, capitano. Ma abbiamo bisogno di conferme, ed è qui che entra in scena il nostro prigioniero.” Il conte di Medina scosse il capo. “O così pensavo prima della vostra venuta.”
“Da quell’uomo non otterremo nulla, signore. Ho già avuto a che fare con gente della sua risma, da prima che arrivaste a Maracaibo: si farebbero tagliare pezzo per pezzo e non usa sola parola uscirebbe dalle loro labbra.”
“Tengono in così poco conto la vita?”
“Sì, perché sanno che in nessun caso uscirebbero vivi dalle nostre mani.”
“E cosa si fa, dunque?”
“Li si appicca e si offre lo spettacolo al popolo” fu la secca risposta di Valera. “Sono più utili come fantocci penzolanti che come fonte di informazioni.”
Il conte di Medina si prese il mento, coperto da una corta barba bionda, tra le dita. “Per questo avevo insistito affinché fossero catturati entrambi” disse poi. “Avremmo potuto servirci di uno per ricattare l’altro.”
“Dunque, signor conte? Do ordine ai soldati d’innalzare la forca in Plaza Mayor?”
“No, capitano. Può esserci ancora utile” rispose il conte di Medina. “Se non possiamo far leva sul suo cameratismo, spingeremo su altri sentimenti. Fate convocare don Turillo.”
“Quel vecchio pauroso d’un notaio?” fece lo spagnuolo, accompagnando le parole con una breve risata. “Ieri poco mancava che venisse meno dinanzi a noi; mi chiedo dove abbia trovato il coraggio di denunciare quei due.”
“Il desiderio di vendetta ha prevalso sulla paura. D’altronde anch’io, se mi venisse fatta saltare la casa, nutrirei ben più d’un risentimento verso i colpevoli.”
“Manderò dunque un paio di soldati presso la sua abitazione, sperando che non gli si fermi il cuore al solo vederli” concluse sprezzante il capitano Valera.
“Prendete le dovute precazioni. Ho intenzione di portare fino in fondo la mia idea.” Gli occhi del conte di Medina scintillavano di determinazione.
Gli occhi acuti d’un rapace, dai riflessi color dell’acciaio. 

*


Maracaibo aveva ormai aperti gli occhi. I neonati raggi del sole rimbalzavano sui muri e i tetti delle case, conferendo loro un denso alone dorato. Il silenzio notturno, interrotto solo dal marciare delle ronde o dai canti sguaiati d’un qualche ubriaco, s’era ormai diradato lasciando il posto ai più classici suoni del mattino: l’aprirsi dei battenti, il chiacchiericcio che si riversava nelle strade assieme agli abitanti, il passaggio dei carri carichi delle mercanzie più svariate, buona parte dei quali era diretta al mercato cittadino.
“Largo, señores, largo!”
“Ohe, bricconi che non siete altro, giù le zampe dalla mia roba!”
“Vi faccio un prezzo di favore, doña Luisa.”
“Qualcuno ha visto Perez?” domandò d’improvviso una voce tra la folla di clienti e venditori.
“Chi?” gridarono alcuni.
“Come chi, pezzi d’asini? Ernesto Perez, quello col carro delle frutte.”
“Sarà a letto a smaltire l’ubriacatura” azzardò uno che si faceva largo col suo mezzo. “O a curarsi le ossa ammaccate; ieri pareva che alla locanda d’El Toro fosse giunto il diavolo!”
“Macché, Perez non è uomo da frequentare quei postacci” negò un altro. “Scommetto le piastre che ho in tasca che c’entra quella bruja  di sua moglie! Gli avrà giuocato un tiro birbone dei suoi.”
“Eh, Gonzalo, la tua è una fissazione!”
“Vi dico che è una strega” ribatté con energia Gonzalo mentre si segnava rapidamente. “Non per nulla vivono al margine della città, e i buoni cristiani badano a starci ben lontano.”
In verità il señor Perez non era ubriaco, né tantomeno vittima di chissà quale malefico sortilegio; semplicemente la sera prima aveva fatto più tardi del solito, avendo incontrato sulla strada quei quattro soldati spagnuoli che necessitavano di condurre al più presto il prigioniero corsaro al palazzo del governatore. Alla stanchezza s’era sommato inoltre un gran bello spavento: mai il pacifico fruttaiolo avrebbe creduto di portar nel suo carro niente meno che un filibustiere, figlio di quella razzaccia partorita da Satana in persona.
Nel medesimo istante in cui, al mercato, svariati colleghi s’interrogavano circa il suo ritardo, lui aveva preso a alzarsi dal letto, scuotendosi tutto a suon di stiracchiate e sbadigli. “Buon Dio, che nottataccia!” pensò mentre si dirigeva, anzi si trascinava verso la camera ov’era solito pranzare colla famiglia. Vi trovò la consorte, vestita coll’abito di tutti i giorni e intenta a pulire un cespo di lattuga. “Potevate svegliarmi” brontolò al suo indirizzo, accorgendosi di come l’alba fosse ormai passata.
“Stanotte sembravate un morto che cammina” fu la replica di lei. “E quando vi sveglio personalmente siete intrattabile; non avevo voglia di sorbirmi le vostre male parole.” Un altro marito con maggior polso si sarebbe irritato, ma Perez era avvezzo all’irriverenza della sua consorte. Compensata, d’altronde, da altre migliori doti.
“Passatemi un boccone, svelta. Ho da preparare il carro.”
“Il carro è carico e Azogue ha mangiato; ho provveduto personalmente.”
“Toh! Non m’attendevo un simile favore da parte vostra.”
“Sono vostra moglie” rispose con semplicità la donna, portandogli una ciotola di farinata che l’altro vuotò in poche cucchiaiate. “Quando vi garba” borbottò Perez una volta finito, la mano che corse a carezzare la natica ancora soda di lei. “Adagio, signore” si udì dire mentre l’oggetto del desiderio si scostava rapidamente. “Stanotte eravate troppo stanco; questa sera, se rincaserete a un orario decente, saprò soddisfarvi.”
“Sfacciata.”
“Ne eravate cosciente anche quando m’avete sposata.” La donna portò via la ciotola vuota, preparandosi a tornare alle sue faccende.
“Un momento! Non vedo la bambina.” S’udì un rumore di piccoli passi provenienti dal retro, poi comparve una figuretta intenta a sbocconcellare un pezzo di pane, mentre coll’altra mano si stropicciava vigorosamente gli occhi ancora gonfi di sonno. “Ecco! Me l’avete stancata di nuovo!” sbottò Perez mentre la piccola sbadigliava.
“Ieri sera necessitavo di aiuto” replicò asciutta la donna.
“Per le vostre diavolerie!”
“Non vedo perché voi dobbiate scarrozzarla in giro tutti i santi giorni senza che io possa protestare.”
Caramba! Lo sapete, che mi porta fortuna!”
“Sciocchezze!”
Lo sguardo ancora assonnato della piccola guizzava dall’uno all’altro genitore. Non pareva però molto turbata, simili liti erano all’ordine del giorno in casa. “Bah! Non ho punto voglia di discutere con voi” concluse Perez.
“Siete stato voi a iniziare.”
“Tacete, donna.” Gli occhi del fruttaiolo si posarono sulla figlia. “Su, niña, da’ un bacio a tuo padre” l’invitò benevolo, chinandosi per porgerle la guancia lanosa. “Preparati, svelta, t’attendo fuori.”
“Vieni qui, Sol” la chiamò di subito la madre, una volta che il consorte fu uscito; le rassettò il vestito con pochi e rapidi gesti, allacciandole dapprima il grembiule, versione in miniatura del proprio, ai fianchi e poi la cuffia sotto il mento. “Stanotte è accaduto qualcosa, in città” mormorò tanto a se stessa quanto alla figlia, d’improvviso fattasi attenta. “Tieni gli orecchi aperti più che puoi, in special modo quando giungerete a palazzo. Mi hai capito?” La bambina annuì, prendendo dalle mani della madre la cesta per la colazione.
“Nora, in nome del Cielo!”
“D’accordo, d’accordo. Va’, su, prima che prenda a scalpitare.” E Nora accompagnò la figlia fin sulla porta di casa, lasciando poi che corresse verso il carro pronto a partire; Sol s’issò, come di consueto, sul bordo mancino restando colle gambe penzoloni. L’aria del mattino, insolitamente fresca quel giorno, sembrava averla svegliata.
“A stasera, moglie” salutò Perez.
“A stasera, marito” fece la donna sullo stesso tono, le braccia conserte e i lunghi capelli scuri tenuti sciolti sulle spalle. “E badate a voi.” Attese che il carro s’allontanasse fino a sparire alla vista, prima di ritirarsi in casa.
Perez, le redini strette in mano, gettò un’occhiata all’indietro. “Ah! Ma guardati, la mia niña... caschi dal sonno” commentò scuotendo il capo. “Vieni vicino a me, Dio non voglia che ruzzoli giù sulla strada e batta quella tua testolina.” Sol non se lo fece ripetere due volte, muovendosi con cautela sul bordo del carro fino ad affiancare il padre; i movimenti del mezzo e il rumore delle ruote sul selciato, cui lei era avvezza fin da piccola, sembrarono conciliarle quel sonno che si faceva sempre più tiepido e invitante. Sol, incapace di resistere ancora, chiuse gli occhi poggiando il capo in grembo al padre; udì uno sbuffo, poi un braccio familiare le cinse il corpo minuto.
“Credo proprio che oggi Azogue farà un giro più lungo.”
La bambina sorrise, mentre tornava felice nel mondo dei sogni.
 

*


Nella posada de la Luz, invece, un’altra persona stava lentamente tornando alla realtà.
“Guardate, padrona. Riacquista i sensi.” La contessa accorse subito al richiamo della serva indiana, ordinandole di scendere dabbasso e avvisare il marito. “Fa’ presto, Chtilali” l’esortò prima che scomparisse in corridoio. Si rivolse poi al ferito che aveva aperti gli occhi, volgendo tutt’attorno sguardi confusi. “Vi siete svegliato, per fortuna. Eravamo... No!” esclamò al vedere come l’uomo tentasse con poco successo d’alzarsi, facendo leva sulle membra doloranti. “In nome del Cielo, Carmaux, state giù!” E spinse piano sulle sue spalle per convincerlo a stendersi ancora, ottenendo in risposta più d’un gemito di dolore. “Avete dimenticato le vostre ferite?”
Il vecchio marinaio si fissò il petto e la spalla fasciati, come se non potesse capacitarsi di tutto ciò; posò quindi sulla donna gli occhi non ancora lucidi del tutto. “Chi siete voi?” domandò debolmente. “Come sapete il mio nome?”
Prima che l’altra potesse replicare, la porta s’aprì e il conte entrò precipitosamente nella stanza, accompagnato dal nipote e da Ch’ulel. “Emilio, finalmente” disse la contessa lasciando al marito la sedia accanto al letto. “Stavo per...”
Un grido soffocato le interruppe la frase: Carmaux era riuscito a mettersi seduto a dispetto del dolore, facendo leva sui gomiti e ignorando del tutto le proteste di chi si era appena accostato a lui, preferendo puntargli indosso due occhi carichi di stupore. “Tuoni e fulmini!” esclamò a mezza voce. “Sogno io, forse?”
“Io credo invece che tu sia ben sveglio, vecchio mio” replicò con un mesto sorriso il conte. “Un po’ provato forse, ma di certo lucido.”
“No” disse invece Carmaux scuotendo il capo. “No, io sogno ancora... Ciò che vedo non può essere vero...”
“Cosa credi di vedere?”
“Il signore di Ventimiglia.” E il marinaio parve commuoversi mentre pronunciava quelle parole. “Il mio antico comandante.”
“Allora non sogni. Son proprio io.”
“Voi!” esclamò Carmaux, ritrovandosi le mani strette tra quelle del conte. “Voi qui, mio capitano! Ma come... come è possibile? Dopo tutti questi anni...”
“È una lunga istoria, amico mio, ma son qui per raccontartela” rispose Emilio di Ventimiglia.
“Un istante solo, signore.” Carmaux rivolse all’unica donna nella camera quello che voleva essere un sorriso di scusa. “Voi, contessa Honorata” mormorò. “Perdonerete la mia pessima memoria?”
“Siete più che scusato; son passati diciassette anni, in fondo.” Anche la signora di Ventimiglia sorrise. “Mi credete se vi dico che non siete poi molto cambiato? Apparite solo un po’ più grigio di come vi ricordavo.”
Lei invece sì che era cambiata, almeno così pensava il marinaio: la ricordò fanciulla che, con un solo sguardo, ringraziava lui e i suoi amici per averle permesso di raggiungere l’uomo che amava; poi giovane donna in boccio circondata da un popolo non suo e che, con un gesto e poche parole, decideva della sua vita. Il tempo non aveva fatto che giovare alla contessa di Ventimiglia, donandole quella bellezza decisa e matura che solo la maternità è in grado di dare.
Colui che una volta era stato il Corsaro Nero sentì d’improvviso un peso sulla spalla, lì ove s’era posato un capo reso ormai grigio dagli anni. “Hai chiesto troppo al tuo corpo” disse al suo antico braccio destro mentre l’aiutava a stendersi; Carmaux si lasciò docilmente andare, mormorando un ringraziamento. “Dove siamo?” chiese poi.
“Alla  posada de la Luz” rispose il conte. “Ti abbiamo portato qui subito dopo lo scontro.”
“...cosa?...”
“Non ricordi? La taverna d’El Toro, la battaglia coi soldati spagnuoli...”
“Piano, Emilio” intervenne Honorata. “Può darsi che non abbia ancora recuperata la memoria.”
“No, io...” fece Carmaux. “...credo di ricordare...” Si strofinò vigorosamente la fronte col palmo della mano. “Sì, ora ricordo tutto! La taverna, i galli... quel don Raffaele... l’irrompere delle guardie... la lotta e... ventre di pescecane!” gridò poi, un ricordo che gli esplodeva in testa colla forza d’una granata; si sarebbe alzato di nuovo se solo il conte non l’avesse tenuto fermo.
“Wan Stiller! Dov’è? Signore, contessa, parlate!”
A intervenire fu inaspettatamente Enrico. Il giovane si fece avanti mentre Ch’ulel, che fino a quel momento l’aveva affiancato, rimase in disparte; si vide indosso due occhi smarriti e preoccupati. “Quando siamo intervenuti la situazione era già compromessa” spiegò con voce amara. “Quattro soldati, al vederci irrompere, preferirono fuggire vigliaccamente piuttosto che affrontarci; e con loro portarono via il vostro compagno.”
“Tu eri già svenuto quando riuscii a raggiungerti” continuò il conte di Ventimiglia. “Ti lasciai in mani fidate prima di correr dietro al carro che aveva condotto via Wan Stiller; era ancora vivo, di questo sono più che certo.”
“Il governatore non cerca uomini da appendere a una forca, bensì prigionieri da interrogare” disse ancora Enrico.
“Credetemi, signore.” Il filibustiere deglutì, cercando di frenare il dolore che certamente provava. “Preferirei dieci, cento volte di saperlo morto, piuttosto che sopportare l’idea che... che lo facciano a pezzi, pur di farlo parlare.” Si volse verso il giovane e suo zio. “Vorrei rammaricarmi di non poter condividere la sua sorte, come tante volte abbiamo fatto; vorrei dire che rimpiango di non esser lì con lui, ma così mancherei di rispetto a voi, che avete rischiata la vostra vita per salvare la mia. E per questo non potrò mai cessare d’esservi riconoscente.”
“Taci, Carmaux” disse l’ex-Corsaro; sua moglie avrebbe giurato d’aver udito, seppur con stupore, la voce di lui incrinarsi. “Avrei potuto fare molto di più.”
“Forse, mio comandante... ma avete impedito che ci prendessero entrambi e ci usassero l’uno contro l’altro; e a quel punto, forse, sarebbe stato più difficile tener annodata la lingua, e avremmo compromesso la missione. Wan Stiller...” E anche la voce di Carmaux si spezzò per un attimo. “...non ha nulla da perdere, se non la vita. Morirebbe pur di non tradire il segreto, e io farei lo stesso al suo posto.”
“Pover’uomo!” pensò Honorata, afflitta. “Dio solo sa quanto gli siano costate queste parole!”
Enrico, pur colpito da ciò che il vecchio marinaio aveva detto, seppe mantenere un maggior distacco: non conosceva Carmaux, sebbene ne avesse udito a parlare molto, e ciò l’aiutò a conservare la lucidità che si conveniva a un tale frangente. “Di quale segreto parlate?” domandò. Il francese lo fissò colla curiosità che si riserva alle persone di cui si vorrebbe conoscere l’identità. “Chi siete, voi?” chiese a sua volta, una domanda che avrebbe fatto anche prima se le rivelazioni e i sentimenti non l’avessero travolto.
“Sono Enrico di Ventimiglia.”
“Fulmini di Biscaglia! Il figlio del Corsaro Rosso!”
“Toh! Mi conoscete?” fece il giovane con stupore. “Forse che lo zio vi parlò di me, quand’ancora era corsaro?”
“Non lui, signore, ma vostro padre in persona, che ho avuto l’onore di servire prima di vostro zio. Il giorno precedente alla sua esecuzione, e prima che ci portassero in celle differenti, mi rivelò che a tenerlo ancorato al suo passato non era solo la vendetta, ma una lettera, l’unica che avesse mai ricevuta dopo ch’era partito per l’America; una lettera ch’era per lui fonte di gioia e dolore insieme perché, se gli annunciava la nascita di suo figlio, gli rivelava anche che la sua amata moglie era morta nel darvi alla luce.” Gli occhi di Enrico si velarono di malinconia a quelle parole; suo zio si contentò di abbassare il capo, l’espressione fattasi più cupa al ricordo del fratello scomparso.
“Quando morì aveva ancora quella lettera?” chiese il figlio del Corsaro Rosso.
“No, signore; mi rivelò d’averla bruciata poco prima che gli spagnuoli ci catturassero; forse già aveva il sentore di ciò che sarebbe accaduto, e temeva che potessero scoprirgliela indosso, venendo a sapere della vostra esistenza.”
“Tuo padre voleva proteggerti, Enrico” mormorò Honorata. Suo nipote pareva profondamente commosso. “Credevo... che il suo ultimo pensiero fosse stato solo per la sua vendetta che non era riuscito a portare a termine.” Sorrise per un attimo. “Non mi ha dimenticato, pur non avendomi mai conosciuto.”
“Perché credi conservasse gelosamente quella lettera?” intervenne il conte. “Tu eri il suo talismano, Enrico, il pensiero che gli impedì di sprofondare nell’odio al contrario di me e Federico, che nulla avevamo lasciato in Europa, se non un fratello assassinato a tradimento.” Sospirò. “Forse lui, più di me, meritava di sopravvivere. Ma è impossibile per noi sapere cosa Dio e il destino ci riservino.”
Nella camera cadde, per qualche minuto, il silenzio. A interromperlo fu Ch’ulel, rimasto fino in quel momento in un angolo ma senza perdersi una sola parola della conversazione. “Ho un dubbio, signore” disse al conte di Ventimiglia.
“Quale, Ch’ulel?”
“Che il segreto cui l’uomo bianco si riferiva sia proprio questo.”
“Santo Cielo!” gemette Honorata. “Dio non voglia che il governatore venga a sapere anche di Enrico! Non farebbe che aumentare il suo odio e il suo desiderio di ritorsioni verso la nostra famiglia!” La contessa si pentì subito di quel breve sfogo, giacché si coprì la bocca colle mani mentre il marito le faceva cenno di tacere. Ma Carmaux non parve accorgersi di tutto ciò: la sua attenzione s’era fermata alle parole dell’indiano. “Ti sbagli, amico” disse infatti. “Ciò che il governatore non deve sapere è tutt’altro.”
“Cosa?” domandò il conte di Ventimiglia.
“Capitano, non credo siate giunto fin qui per ricordare i vecchi tempi; qualcosa di più importante vi ha spinto a tornare a Maracaibo.” Carmaux sospirò. “Vostra figlia, non è così?”
“Un momento!” scattò Enrico, mentre anche i suoi zii nulla fecero per trattenere il loro stupore. “Come fate a sapere di Jolanda? Il conte di Medina avrà prese tutte le precauzioni per non diffondere una simile notizia! E poi, di che segreto parlavate? Qual era la vostra missione?”
“Ohe, messere, quante domande tutte insieme!”
“Perdonalo, vecchio mio” intervenne l’ex-Corsaro. “Mio nipote è irruento, come d’altronde lo sono i giovani.” Anche lui era ben impaziente di sapere, ma attese che il marinaio sistemasse meglio il capo sul cuscino e si bagnasse la gola secca con una tazza d’acqua.
“Io e Wan Stiller dovevamo raccogliere il maggior numero di notizie circa le fortificazioni della città, nonché conferme sulle sorti della contessina.”
“Fortificazioni?” domandò con un filo di voce Honorata, che pure cominciava a capire.
“Sì, contessa. Vi sarete accorta anche voi che Maracaibo non è più quella d’una volta.”
“I filibustieri vogliono assalire la città, dunque?” chiese a sua volta il conte di Ventimiglia.
“Sì” confermò il marinaio. “La notizia della cattura di vostra figlia ci ha spinti in molti a prendere il largo; il vostro nome, capitano, è ancora ricordato alla Tortue.”
“Avete udito, zio?” sembrò quasi esultare Enrico. “Si progetta un attacco! Ora sì che avremo l’aiuto che ci occorre!” Il conte, seppur felice alla notizia che i suoi vecchi compagni sarebbero giunti in soccorso suo e della sua famiglia, restò in silenzio a riflettere; sua moglie l’aveva affiancato, posandogli le mani sulle spalle. “La baia di Amnay, non è così?” disse poi. “Il luogo ideale per nascondere una flotta.”
“Esatto, capitano” rispose Carmaux.
“Si è progettata una vera impresa.”
“Che non ha nulla da invidiare a quella che organizzaste voi, l’Olonese e il Basco diciott’anni orsono.”
“Chi è l’almirante?”
“L’istesso uomo che ha mandato me e Wan Stiller in missione, nonché mio attuale comandante.”
“Lo conosco, forse?”
“Fin troppo bene, signore” sorrise il marinaio. “Sto parlando del signor Morgan.”

*


Lo stretto corridoio che conduceva ai sotterranei del palazzo del governatore era assai buio, almeno fin quando il capitano Valera non s’affrettò ad accendere un paio di torce; ne tenne una per sé, porgendo l’altra al conte di Medina che aveva voluto seguirlo. “Andiamo” disse quest’ultimo spingendo innanzi i due uomini appena convocati, e che tremavano come foglie. “È proprio necessario?” domandò il più attempato di essi, un ometto incartapecorito che gettava occhiate timorose tutt’intorno.
“Vi ho già spiegate le mie ragioni, don Turillo, non ho intenzione di ripeterle” replicò secco il governatore.
“E se colui tentasse...”
“Suvvia, signor notaio, non correte alcun pericolo. Vi saranno le sbarre a separarvi dal filibustiere.”
“E io?” intervenne l’uomo che affiancava il notaio, e non era meno impaurito di lui. “Come credete che possa rendermi utile, signor conte?”
“Non era da voi che quei due corsari cercavano di carpire informazioni?” disse Valera, che camminava in testa al gruppo.
”Ma io non avevo idea di chi fossero! E poi vi ho già detto quanto sapevo!”
“Accelerate il passo, señor, state rallentando il conte.” O è troppo per la vostra pancia?, avrebbe voluto aggiungere il capitano, pensando alle forme dello spagnuolo che tanto lo facevano rassomigliare a una botte. Di ricchi e grassi borghesi come quel don Raffaele Tocuyo ve n’erano a bizzeffe, lì a Maracaibo, e tutti a ronzare attorno al governatore nella speranza di allargare i proprio privilegi; fosse stato per lui li avrebbe spediti dritti nelle piantagioni che loro stessi mandavano avanti, ma il conte era troppo gentiluomo e, in fondo, ingraziarsi i pezzi grossi della città non poteva che essere un vantaggio per lui.
“Eccoci” disse il capitano fermandosi nei pressi della prima cella; ordinò con un’occhiata al soldato di guardia di farsi da parte, mentre il conte di Medina lo affiancava. Il lezzo di sangue e escrementi dipinse sul volto del nobile un’espressione di disgusto. “Qui si stenta a respirare” pensò alzando la torcia; il prigioniero era seduto in terra nell’angolo meno in vista, le braccia robuste a circondargli le ginocchia. Un rivolo scarlatto gli scendeva da un taglio sul sopracciglio, fino a perdersi nella folta barba di un biondo rossastro.
“Venite qui, don Turillo” ordinò il governatore, ma occorse una buona spinta del capitano per convincere il vecchio notaio a farsi avanti. “Sì, sì, vi ho già detto che è lui” fece sbrigativamente gettando un’occhiata oltre le sbarre. “Era uno dei tre che accompagnavano il Corsaro Nero, quel giorno sventurato in cui perdetti la casa e buona parte delle mie sostanze.” Quelle parole fecero sì che nell’animo del notaio il rancore prendesse il sopravvento sulla paura.
“Tre, avete detto?” chiese il capitano.
“Sì. Vi era anche un negro di statura gigantesca, ma sono più che certo che non vi fosse ieri sera; l’avrei notato subito, altrimenti.”
Un fruscio proveniente dalla cella bloccò un’altra domanda di Valera: il prigioniero s’era alzato con uno scatto, per quanto gliel’avessero permesso le ferite che gli bruciavano le carni. Il conte di Medina fu lesto ad alzare la torcia: vide un volto angoloso contratto dalla rabbia e due occhi chiari come i suoi, seppur di diverso colore, puntare dritti sul notaio.
“Tuoni d’Amburgo! Tu!” l’udì a sbottare.
“Ah!” fece il governatore. “Odo la vostra voce, finalmente!” Ma Wan Stiller non gli badò affatto: la sua attenzione era tutta rivolta a don Turillo, scartato all’indietro per l’ispavento. “Vecchio ingrato!” continuò con forza. “Avremmo dovuto lasciarti affumicare nella tua maledetta casa, piuttosto che preoccuparci di salvarti la pelle! Ringrazia queste sbarre che ti separano da me, altrimenti avrei già provveduto a sbudellarti colle mie mani.”
A giudicare dalle occhiate spaurite che gettava al filibustiere, il vecchio notaio non desiderava altro che andarsene via da quel posto; don Raffaele, tirando fuori un briciolo di coraggio, gli si parò dinanzi come a proteggerlo da un’eventuale minaccia. “Miserabile!” fece. “Farete ben presto la fine che meritate!”
Ottenne in risposta, e con suo stupore, una risata. “Anche il piantatore qui” commentò Wan Stiller, la rabbia che aveva lasciato il posto al divertimento. “Quale sorpresa! Avete compiuto anche voi il vostro dovere di buon cittadino?”
“Siete una canaglia! Voi e il vostro compagno volevate ingannarmi, per poi rapirmi!”
“Oh, errate, señor; si voleva aiutarvi a guadagnare un buon gruzzolo di piastre. Peccato che le guardie siano giunte a rovinarci la festa.”
“Lieto di vedere che abbiate voglia d’ischerzare” commentò il conte di Medina. “E soprattutto che abbiate la lingua; cominciavo a credere che vi fosse caduta da qualche parte.” L’amburghese gli gettò un’occhiata gelida, cessando all’istante di parlare.
“Ebbene? Non vi garba conversare con me?” Il governatore di Maracaibo alzò le spalle con sufficienza. “Pazienza. Torniamo su, capitano, gli odori di questo posto mi asfissiano.” Aveva sperato di ottenere qualcosa dal filibustiere facendo leva sulla sua rabbia improvvisa, ma disgraziatamente aveva fallito.
“Noi possiamo andare?” La voce fioca del notaio, stretto al braccio di don Raffaele, si fece sentire ancora.
“Non prima d’aver fornito al capitano una descrizione degna di questo nome circa l’altro corsaro” rispose il conte. “Ricorderete anch’egli, no?”
“Certo, era...”
“No!”
Il grido improvviso fece voltare tutti i presenti. “Taci, miserabile vecchio!” gridò l’amburghese, le mani strette convulsamente attorno alle sbarre della cella. “Giuro che la pagherai cara, se aprirai ancora quella tua dannata bocca!”
“Comincia a tacere tu, canaglia” lo rimbeccò il capitano Valera; il manico della torcia che reggeva traversò, con un abile colpo, le sbarre battendo con un tonfo sordo contro le costole del prigioniero; Wan Stiller trattenne a stento un mugolio di dolore mentre cadeva in ginocchio.
Il conte di Medina parve molto soddisfatto a quella vista. “Ora comprendete le mie ragioni, capitano?” domandò. “Una volta ottenuta la descrizione manderete due squadre a pattugliare qualunque posto sospetto; quell’uomo va trovato a ogni costo.”
“No...” gemette l’amburghese, ancora piegato in due per il violento colpo ricevuto.
“Vi vedo preoccupato, signore. Temete per la sorte del vostro compagno? O avete compreso quanto sarà difficile per voi, una volta preso anche lui, tenere ferma quella vostra lingua?”
“Non l’avrete” replicò l’altro in tono di sfida. “Sarà già fuggito.”
“Credetelo pure. Andiamo, capitano.” E il conte prese a salire le scale, imitato dai due spagnuoli; il capitano, prima di seguire gli altri, preferì sostare ancora qualche istante dinanzi alla cella. “Me ne occuperò personalmente, una volta che l’avremo trovato” disse. “Gli aprirò il ventre davanti ai vostri occhi.”
“Tacete!” mormorò secco Wan Stiller.
“Lo farò a pezzi fin quando non vi deciderete a parlare. Pensateci, señor.”
“Prima dovrete trovarlo, capitano.”
L’ufficiale gli rivolse un sorriso beffardo. “Buenas noches, caballero” disse semplicemente prima di prendere a sua volta le scale.


Note dell’autrice: la storia della lettera ricevuta dal Corsaro Rosso è una totale invenzione della sottoscritta. Spero che i lettori più “puristi” me la facciano passare, come pure eventuali pecche nella caratterizzazione di personaggi che, in questa storia, muovo per la primissima volta: Honorata - già comparsa nel primo capitolo -, Jolanda, il notaio di Maracaibo.
"Sangue Corsaro" presenta, al momento, due personaggi che non mi appartengono: Ch'ulel, già comparso in una mia storia, è liberamente ispirato a un personaggio della mia migliore amica, che mi ha concesso di usarlo; la piccola Sol invece si ispira liberamente a una persona realmente esistente, cui va tutto il mio affetto.



TITOLI NOBILIARI - Note
I signori di Ventimiglia posseggono il grado nobiliare di conte - leggasi a proposito “Il figlio del Corsaro Rosso”. Ne “Il Corsaro Nero” all’omonimo protagonista viene dato il titolo di cavaliere, in quanto figlio cadetto e dunque impossibilitato a ereditare il titolo di conte che spettava al primogenito maschio (così perlomeno andava per la maggiore nel diciassettesimo secolo, con poche eccezioni). Il problema è che, ne “Il figlio del Corsaro Rosso”, Salgari dà a Enrico il titolo di conte, sebbene sia primogenito maschio sì, ma di uno dei fratelli cadetti, il terzogenito per la precisione. L’unica spiegazione che riesco a dare a ciò - non ho trovato fonti precise a riguardo - è che Enrico, essendo l’unico maschio superstite dell’intera famiglia, l’abbia ottenuto per impedire che andasse disperso.
Qualcuno potrebbe chiedersi allora perché non abbia assunto il titolo lo stesso Corsaro Nero, che dopo la morte del fratello maggiore diventa l’erede dell’intero patrimonio; a mio parere questo non avviene perché Emilio parte per le Americhe subito dopo l’accaduto, e quindi non ha il tempo di “ufficializzare” la cosa.
Per “Sangue corsaro” mi sono regolata così: Emilio, vivo e vegeto, è tornato in patria e ha assunto il titolo di conte. Suo nipote Enrico, non più unico superstite maschio della famiglia, non è conte a sua volta ma eredita il titolo di cavaliere del padre. Honorata, duchessa di Wan Guld - ereditaria del titolo del padre, a quanto pare - sposandosi diviene la contessa di Roccanera, retrocedendo così di grado nobiliare visto che il conte è inferiore al duca. Jolanda, in quanto figlia femmina, è semplicemente signorina di Ventimiglia.

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Capitolo 3
*** Il valore delle cose ***


3. Il valore delle cose

 


“Por Dios!
Ferma!”
Una donna, facendosi largo tra la folla ammassata presso il mercato, fu lesta a raggiungere suo figlio e a trascinarlo via, prima che due pesanti zoccoli lo schiacciassero. Pur tentata di assestare sulla guancia del pargolo imprudente un sonoro ceffone, preferì prendersela col colpevole che la stava fissando con occhi sbarrati, lì sopra il carro fermato appena in tempo.
“Ohe, donna!” A Ernesto Perez non occorse molto per riaversi dalla sorpresa. “Badate a tener d’occhio vostro figlio piuttosto che gridare come una cornacchia!”
“Locotròn!” gridò lei prima di scomparire tra la folla, trascinandosi dietro un bambino alquanto riluttante. “Gentaglia” borbottò il carrettiere mentre faceva ripartire Azogue. “Come se non conoscessi quel disgraziato! Era lui che l’altro giorno cercava di soffiarmi due mangli, n’è vero, Sol?” La bambina, svegliatasi da poco, annuì vigorosamente: ricordava bene, visto che era stata lei a far fuggire il ladro lanciandogli un sasso; era stato molto buffo vederlo ruzzolare in strada colpito dritto negli stinchi. Perfino suo padre, poco propenso a vederla comportarsi come una monellaccia, aveva dovuto ammettere ch’era stato un colpo da maestro.
Comunque, per sicurezza, preferì empirsi le tasche con un paio di pietre quando il carro si fermò al solito posto; v’era sempre qualcuno pronto a profittare delle distrazioni del venditore per portar via un cocco o un ananasso. Suo padre, poveretto, non era più giovane e più d’una volta aveva la testa tra le nuvole, come quel giorno che era tutto intento a contemplare qualcosa appena tolta di tasca.
“Che sarà mai questo affare?” stava pensando Perez, mentre faceva rimbalzare sul palmo della mano un oggetto assai singolare: era composto di una sottile cannula che s’ispessiva a un’estremità e terminava con una sorta di piccola sfera cava. L’aveva trovato la sera prima, mentre tornava a casa, sul selciato nei pressi della taverna d’El Toro, ancora sottosopra dopo la lotta che ivi s’era scatenata. “Dubito che qualcuno potrebbe reclamarlo” concluse; stava per metterlo via quando si vide indosso un paio di occhi curiosi.
“Che hai, niña?” Sol non rispose, fissando con insistenza il piccolo oggetto tra le dita del padre; luccicava al sole, e questo l’aveva attirata. “Bah! Non ha valore alcuno. Prendilo, se lo vuoi” disse Perez con un’alzata di spalle, porgendoglielo; la bambina si passò attorno al collo la sottile catena qui il suo nuovo giuoco era attaccato, eccitata come dinanzi a un sacchetto di dolciumi. “Non perderci troppo tempo” la rimbrottò il padre. “E bada alle frutte.”
Non occorse molto prima che il lavoro quotidiano lo travolgesse: il frastuono della folla, le grida lanciate per attirar clienti, le contrattazioni, la mente forzata per tener dietro a tutti i conti; un paio di mani ladresche s’avventarono fameliche sui banani prima d’esser di subito allontanate. In verità Perez non vide tutto ciò di persona, occupato com’era con due vecchie conoscenti, ma fu certo d’aver udito un chiaro mugolio di dolore. “Se solo i clienti fossero di più” pensò afflitto; tornò a gridare, sebbene la gola avesse preso a fargli male.
E in quel momento un fischio acuto lo fece sobbalzare. “Buon Dio!” esclamò sturandosi l’orecchio mancino; Azogue, che oltre a essere vecchio era anche mezzo sordo, non fece un piega e seguitò ad agitare la coda per scacciare le mosche. “Che è stato?” domandò Perez alla figlia, seduta sul bordo del carro e con in bocca lo strano oggetto; lei lo fissò birichina, soffiando nella cannula e ricavandone ancora il suono di prima. Più d’un curioso si fermò a fissarla mentre forzava i suoi piccoli polmoni per suonare quel bizzarro strumento.
“Begli ananassi, señor. Quanto costano?”
Chissà, magari quella sarebbe stata una giornata migliore del solito.
 

*


Ch’ulel dispose accanto a sé, colla cura e la precisione dovuta all’abitudine, un fascio di bende pulite e un vasetto contenente un qualche preparato; solo allora s’avvicinò al ferito, prendendo a mettergli a nudo il petto. “Dove avete trovato costui?” domandò Carmaux al conte di Ventimiglia che gli sedeva accanto. Enrico e Honorata erano scesi giù per la colazione, essendo ormai il sole già alto in cielo.
L’ex-Corsaro sorrise. “In verità è stato lui a trovare me e mia moglie” rispose poi.
“Non capisco.”
“Ricordi quando, diciassette anni orsono, naufragammo sulle coste della Florida e fummo fatti prigionieri dai Caraibi?”
“Fulmini! Saremmo diventati il banchetto di quei diavoli se l’allora duchessa non ci avesse riconosciuti!”
“Ch’ulel era uno di essi, sebbene a quei tempi fosse ancora un ragazzo.” Ignorando, almeno in apparenza, l’occhiata sbigottita del marinaio, il conte continuò a narrare: “Quando io e Honorata, dopo aver preso il largo con una delle canoe, sbarcammo per riposarci, ci accorgemmo che un’altra imbarcazione ci aveva seguiti: era Ch’ulel che, per fedeltà a quella che per lui continuava a essere la sua regina, non aveva voluto abbandonarla. Ci chiese di portarlo con noi, assieme a sua sorella che allora non aveva che pochi anni, e noi accettammo. E debbo ammetterlo, fu una felice decisione.”
“Grazie, signore” disse Ch’ulel che, pur lavorando, non s’era perduto una parola del racconto; stava per applicare sulle ferite di Carmaux il proprio composto, un olio di iperico molto utile alla cicatrizzazione, quando si accorse che il marinaio era prossimo a scansarsi. “L’uomo bianco ha paura di me?” domandò quasi ironico.
“Ventre di pescecane! Sei uno di quelli che volevano banchettare colle mie carni!” Carmaux gettò al suo antico capitano un’occhiata preoccupata. “Signore, vi è da fidarsi di costui?” chiese, un po’ timoroso.
“Non temere, mio bravo” fu la tranquilla risposta. “Se può esserti di consolazione, sappi che Ch’ulel non ha sangue caraibo nelle vene; venne accolto in quella tribù dopo essere fuggito dalla propria, devastata dalla furia spagnuola. In verità è un figlio del Darien, che ha ereditate dai suoi antenati eccellenti doti mediche.”
“Però non s’imbarazzava a divorare dei poveri naufraghi!”
“Ho abbandonate da tempo quelle abitudini” disse Ch’ulel. “Ora sta’ fermo, uomo bianco.” L’olio di iperico, spalmato con abilità sul petto e la spalla dolorante, diede a Carmaux una piacevole sensazione di benessere che lo spinse a lasciarsi andare, socchiudendo gli occhi, mentre l’altro terminava di fasciarlo. “Ottimo” sentì dire dall’ex-Corsaro. “Va’ di sotto, ora, e di’ a tua sorella di portare qualcosa da mangiare; il nostro amico ha bisogno di rimettersi in forze.”
Carmaux sorrise appena. “Non ho molta fame, in verità” ammise poi con voce triste. Il conte di Ventimiglia, che aveva appena chiusa la porta, sospirò. “Se non sapessi delle preoccupazioni che s’annidano nel tuo animo” disse, “stenterei a riconoscere in te il mio vecchio marinaio.”
“Ah, capitano! Il mio appetito è ancora robusto, credetemi, ma...”
“Lo so, Carmaux. Ma non sentirti in colpa, perché non sei responsabile di quanto è accaduto.”
“Voi avete ragione, mio capitano” mormorò il filibustiere. “E io ci provo, perché i se son buoni solo a rodersi l’animo.” Sorrise ancora, sebbene non vi fosse che un’ombra della sua consueta allegria, ma ciò non sminuì l’ammirazione del conte nei suoi confronti: un altro, forse anche lui stesso, avrebbe perduta ogni speranza nel sapere il proprio compagno in mano nemica e con poche possibilità di uscirne vivo. Carmaux, invece, era ancora pronto a lottare.
“Il capitano Morgan deve sapere quanto prima” disse il marinaio dopo alcuni istanti di silenzio. “Saremmo dovuti partire iersera col nostro ostaggio.”
“Era nei nostri progetti raggiungere la Nuova Castiglia questa sera stessa” rispose il conte. “Ma viste le tue condizioni...”
“Allora partiremo stasera” affermò l’altro con decisione.
“Non forzare le cose, mio bravo. Non ti sei ancora ripreso.”
“Sto meglio, signore; non possiamo attardarci ancora, e da qui alla baia di Amnay occorrono quasi diciotto ore di navigazione. Una baleniera non può fare di più.”
“Ma una fregata sì.”
“Capitano, riflettete. Se puntiamo dritti verso la baia colla vostra nave ci prenderanno a cannonate prima ancora di poter reagire; crederanno d’aver a che fare con un qualche vascello spagnuolo.”
“Hai ragione, Carmaux” annuì il conte di Ventimiglia. “Hai dunque intenzione di precederci per informare Morgan e la sua flotta circa la nostra presenza?”
“Proprio così, signore.”
“Sia, ma mi rifiuto di lasciarti andare solo; sei ferito, potresti venir meno durante il viaggio e senza un adeguato soccorso... no, hai bisogno d’un compagno, e quel compagno sarò io.”
“Voi, capitano!” esclamò il marinaio.
“Odo stupore nella tua voce, Carmaux. Non mi ritieni adatto ad affiancarti?” Le labbra dell’ex-Corsaro si curvarono in un lieve sorriso. “Sono ancora uomo di mare, in fondo.”
“Oh no, signore, non oserei mai! Ma... non credete sia imprudente lasciare la fregata senza comandante?”
“Sei in errore, vecchio mio. La Nuova Castiglia ha già il suo capitano.”
“Chi è?”
“Enrico, mio nipote” fu la semplice risposta. “La nave è sua, e lui stesso ha scelto personalmente l’equipaggio; sono stato io ad appoggiarmi a lui per quest’impresa, non il contrario.” A interromperlo intervenne un discreto bussare sull’uscio. “Ah, dev’essere Chtilali colla tua colazione. Avanti!”
In effetti era proprio la serva indiana, che entrò nella camera con una ciotola fumante in mano. “La padrona vi attende di sotto” disse all’ex-Corsaro. “Prima che si freddi tutto.”
“Anche mia moglie ha le sue ragioni.” E il conte s’alzò con uno scatto repentino che non si sarebbe immaginato in un uomo che, a giudicare dai capelli striati di grigio in abbondanza, aveva ormai passata la cinquantina. “Mangia, Carmaux, e cerca di riposare.”
“Lo farò, capitano.”
“Allora a questa sera.”
 

*

Il signor Perez stava per far avviare il carro quando sentì qualcuno tirargli la manica. “Ebbene?” borbottò all’indirizzo del seccatore. “Oh, voi Gonzalo” disse dopo averlo riconosciuto. “Fate in fretta, mi attendono a palazzo.”
Gonzalo si morse il labbro prima di rispondere. “È stata lei, n’è vero?” mormorò all’orecchio di Perez con tono da cospiratore.
“Lei chi?”
“Vostra moglie. A farvi far tardi stanotte.”
“Eh, magari!” fece il fruttaiolo con un sospiro. “Avrei avuto un risveglio più piacevole.” Gonzalo, consapevole dell’equivoco, non ebbe tempo di spiegarsi giacché l’altro si stava già allontanando, una mano che s’agitava in segno di saluto. “Quel giovanotto ne ha di fissazioni: sempre a far domande su Nora” rifletté. “Non nego ch’ella sia una donna ben strana, ma diavolo, ne ho di sale in zucca da capire se ho dinanzi una strega o meno!” Diede un sonoro colpo sul dorso di Azogue per fargli accelerare il passo, ottenendo in risposta un nitrito che tanto sapeva di fastidio.
“Quel Gonzalo non sa cosa sia la riconoscenza, questa è la verità” rimuginò poi Ernesto Perez. “E pure credevo che la guarigione di sua moglie gli fosse servita di esempio. Ohe, Sol!” chiamò poi verso il retro del carro. “Che ha combinato stanotte quella briccona di tua madre? Ancora coi suoi decotti?” Non ottenendo risposta si girò, vedendo come la figlia fosse fin troppo occupata per sprecar parole con lui.
“Ah, monella!” sbottò, allungando una mano all’indietro per afferrare il cesto della colazione. “Monella e ladra! Volevi soffiarti tutto il pranzo?” La ragazzina, con in bocca un generoso pezzo di frittata, avrebbe volentieri risposto se il padre non l’avesse frenata. “Ah, taci! Non si parla colla bocca piena, maleducata.” Si contentò quindi di scoccargli un’occhiata imbronciata.
“Ma guardala, ora mi mette anche il muso!” borbottò Perez. “Se non le volessi un bene dell’anima, l’avrei già riempita di quelle carezze che si convengono alle monellacce come lei.” Addentò di malavoglia un biscotto, mentre la figlia ben si guardava dallo stargli vicino, temendo forse di buscarsi uno scapaccione.
“Oh, eccoci finalmente!” esclamò vedendo dinanzi a sé il palazzo del governatore. “Ferma, Azogue!” Più che il richiamo occorse una buona tirata di redini per frenare il semi-sordo cavallo. Perez si stiracchiò in tutta la sua lunghezza, tirando poi per un braccio Sol affinché scendesse con lui. “Se ti lascio qui col cesto non trovo nulla al ritorno, golosa come sei.” E con un dito stuzzicò la pancia della ragazzina, strappandole un gridolino irritato. “Ah, taci! Metti tutto qui e niente qui” replicò picchiettando col medesimo dito sul suo capo. “Quando ti deciderai a crescere?”
“Ohe, señor! Vogliamo far notte?”
Perez sospirò, rispondendo al richiamo della corpulenta donna comparsa sulla soglia della porta che dava sul retro. “Il sole è ancora alto, Juanita” replicò poi.
“Non se continuate a muovervi con quel vostro passo da tartaruga!”
Por Dios! Siete una serva o no? Dunque state al vostro posto!”
“Non arruffate le penne, señor” fu la pronta risposta di Juanita. “Non siete più nobile di me.” La serva gettò un’occhiata al carro di frutte. “È meno pieno del solito” constatò.
“Oggi ho venduto di più.”
“Ogni tanto Dio si ricorda di voi.”
Perez alzò le spalle, una mano che si posava sulla testa della figlia. “Un po’ di merito è anche suo” si disse, pensando a come la ragazzina, col suo curioso oggetto che mandava fischi, avesse attirato parecchi clienti. “Perlomeno sua madre la smetterà di lamentarsi perché la porto con me.”
In quel momento Juanita batté con forza le mani, facendo sì che due robusti negri accorressero per scaricare le frutte. Perez ne approfittò per entrare, e subito un insieme di odori assai vari gli solleticò le nari: la cucina del palazzo era così, il regno dei fumi e dei vapori che aleggiavano nel già angusto ambiente, riempiendolo di una calda e odorosa nebbia. Il ben di Dio che ogni volta gli si presentava dinanzi era tale che non poteva biasimare, né rimproverare due piccole mani che spesso e volentieri sottraevano qualcosa dai tavoli; fosse stato più piccolo, ci avrebbe provato anche lui.
Nel viavai di gente spuntò fuori la capocuoca, il ventre già pieno di suo dilatato dai vapori. “Il solito?” domandò all’indirizzo del fruttaiolo, una volta che fu a portata dei suoi orecchi.
“Come sempre.”
“Ecco qua” disse lei mentre gli porgeva il sacchetto col compenso pattuito. “Questo è da parte mia” aggiunse poi posandogli due monete sul palmo aperto. “Il mio povero stomaco sta meglio grazie a quelle erbe; ringraziate vostra moglie.”
“Riferirò.”
“Quella donna è stata la vostra fortuna, señor.” La capocuoca inclinò il capo abbronzato, i pugni grassocci ben stretti sui fianchi. “Prima che arrivasse lei eravate un poveraccio qualunque, e ora rifornite nientemeno che il palazzo del governatore.”
“Lo so.”
“Cercate di non dimenticarlo.”
“Ohe, d’improvviso siete diventata amica di mia moglie?’” domandò Perez, sospettoso. Ottenne in risposta una risata. “Sapete meglio di me come Nora parli poco” disse la capocuoca. “Non ha amici né tantomeno confidenti, causa certe brutte voci che girano. Bah! Una strega, se tale è, non porta fortuna e non fa del bene alla gente.”
Il fruttaiolo si grattò il capo ormai ingrigito, mentre pensava alla donna che anni orsono s’era legata a lui, portando seco una discreta dote. Secondo alcuni aveva operato su di lui un qualche sortilegio, pur d’accalappiare qualcuno che l’impalmasse e la rendesse rispettabile. Ma Perez era troppo sicuro del suo buonsenso da credere d’esser stato stregato: Nora aveva mostrato interesse per lui e gli aveva donato la figlia che aveva sempre desiderato, lì dove la precedente moglie aveva fallito. Tanto gli bastava.
Mentre pensava a Sol gli venne spontaneo girarsi verso di lei: la vide colle guance innaturalmente gonfie, non dissimili da quelle d’una rana. “Manda giù e posa le mani, prima che te le faccia tagliare dai servi” minacciò la capocuoca facendolo sobbalzare; la ragazzina inghiottì i due datteri con una foga tale da rischiare di soffocare.
“Attendimi fuori” le disse il padre e lei non esitò a obbedire, pur rammaricandosi di non aver potuto riempirsi le tasche. Pensò che la vita doveva esser davvero strana, se quelli come lei avevano sempre fame e le riccone, stando a ciò che diceva la mamma, mangiavano come uccellini. E sì che godevano di tutto quel ben di Dio!
Sol, ancora tossicchiando per via dei datteri ingeriti in tutta fretta, gettò un’occhiata fuori: i negri che stavano presso il carro non avevano terminato di scaricare le frutte, e lei preferì non avvicinarsi; quei grossi uomini color carbone le facevano tanta paura, come ogni volta che ne incontrava uno al mercato. Decise così di restare nel palazzo, e profittando del fatto che il padre era ancora occupato colla capocuoca prese la scalinata che portava al piano superiore, in genere usata dai servi. Sua Eccellenza non scendeva mai, solo qualche soldato veniva lì, agguantava una sguattera e se la portava in un angolo; a farci cosa, non lo sapeva. Se provava a chiederlo al padre lui le mollava uno scappellotto dicendo che non era roba per lei.
Il suo sguardo cadde subito sul tappeto che copriva il pavimento; non era la prima volta che lo vedeva, eppure a ogni occasione si perdeva a fissare quei motivi colorati e geometrici che tanto le piacevano. Si riscosse solo quando udì il passo cadenzato d’un soldato, e s’affrettò a nascondersi dietro il consueto mobile nell’angolo; i movimenti silenziosi e il suo corpo minuto le permisero di non farsi scoprire, come sempre.
Sol avrebbe voluto addentrarsi nei meandri del palazzo, per scoprire dov’era tenuta la ragazza che aveva visto arrivare una settimana prima. Aveva lunghi capelli neri che le scendevano sulla schiena, l’abito tutto bianco e un cappellino piumato che tanto avrebbe voluto possedere anche lei; una principessa senza dubbio, bellissima come quelle dei racconti della mamma. In quei giorni era salita col desiderio di poterla rivedere, anche solo per un attimo, ma era sempre stata delusa, come in quel momento. Stava per tornare giù, imbronciata, quando la sua attenzione cadde su una porta in fondo al corridoio; non era chiusa, contrariamente al solito, e questo la spinse ad avvicinarsi, non prima di aver controllato con cura che non vi fosse nessun soldato nelle vicinanze.
La sua curiosità sfumò quando s’accorse che oltre la pesante porta di ferro vi erano delle scale che conducevano verso un buio fittissimo; preferì non proseguire, impaurita, ma delle voci le giunsero agli orecchi e questo la spinse a restare sulla soglia socchiusa, in ascolto.

A un gesto del governatore il soldato lasciò andare il prigioniero, che cadde con un tonfo sul pavimento della cella.
“Resta a guardia della scala.” Il conte di Medina fu prontamente obbedito, e solo allora riprese a parlare: “Siete caparbio, signore.”
Wan Stiller non rispose, ansimante, contentandosi di sputare qualcosa che alla luce della torcia somigliava tanto a un dente.
“Tenere la bocca chiusa non vi gioverà.”
“Come gli odori di questo posto non gioveranno al vostro nobile naso.”
“Meno spirito, non siete nelle condizioni di farlo.”
“Se vi fosse qui Carmaux!” pensò con un lieve sorriso l’amburghese; lui sì che avrebbe fatti saltare i nervi a un’intera guarnigione, come quella volta a Puerto Limon, con cinquanta soldati dietro la barricata e lui a fumarsi un sigaro e a pigliare pel naso il capo del drappello. In quel momento, però, era più che contento di non avere con sé il suo compare.
Wir konnten… einen Pakt machen.”  (*)
Wan Stiller, all’udire dopo tanto tempo quella lingua ch’era sua, non potè trattenersi dal sobbalzare, pur tentando di trattenere quella reazione improvvisa. Il governatore, con suo rammarico, se ne accorse comunque. “Mi avete inteso?” domandò infatti.
“No.”
“Mentite; nessun uomo dimentica la sua lingua natale, e voi non siete diverso dagli altri, Herr Wan Stiller. Oh, eccovi a sobbalzare ancora” constatò il conte: questa volta era stato più difficile, per l’amburghese, celare lo sbigottimento che certamente provava. “La luce è fioca, ma sul vostro volto vedo sorpresa e timore.”
“Come...”
“Mastico un po’ la vostra lingua, abbastanza da riconoscerne l’accento quando lo odo; quanto al vostro nome, credo l’abbiate capito da solo.”
Wan Stiller imprecò sonoramente, ingoiando le maledizioni che avrebbe voluto lanciare all’indirizzo del notaio, quel dannato vecchio dalla memoria di ferro ch’era stata la rovina sua e di Carmaux. “Parlavate di un accordo” mormorò.
“Siete divenuto d’un tratto ragionevole; me ne rallegro” commentò con un sorriso il conte di Medina. L’amburghese reagì con uno scatto che gli provocò un intenso dolore alla spalla mancina; se la strinse, trattenendo un gemito. “Non ho detto... che avrei parlato...”
“Lo farete, e presto, perché la vostra collaborazione significa la salvezza del vostro compagno.” Al governatore bastò fissare il prigioniero negli occhi per essere certo d’aver colpito nel segno. “Ditemi ciò che desidero sapere e potrei... dimenticarmi di lui.”
“Tuoni! Dovrei fidarmi della vostra parola?”
“Sono un gentiluomo e un nobile, signore.”
Per tutta risposta l’amburghese sputò in terra un grumo di sangue. “Pensate a una proposta più convincente” replicò poi con disprezzo. Il governatore di Maracaibo sospirò, richiamando con un gesto il soldato sulla scala. “Procedete” ordinò.
“Sì, signor conte.”
“Nessuna pietà.”
“Come comandate.” A quelle parole l’amburghese scartò per istinto, pur consapevole di non poter fuggire né sottrarsi in qualche modo alla tortura; e s’accorse, con suo stupore, che il soldato stava percorrendo il resto del corridoio, senza pensare di entrare nella sua cella. “Tuoni d’Amburgo! Che significa ciò?” pensò, inquieto. A interrompere le sue riflessioni intervenne un urlo strozzato, che lo fece sobbalzare quasi avesse ricevuto lui stesso il colpo. “Cosa significa questo?” esalò; il conte di Medina lo fissò con uno sguardo intenso ma impenetrabile, del tutto ignaro del disgraziato in quel momento sotto i ferri.
“Quando parlavo di dimenticarmi del vostro amico, intendevo dire che l’avrei lasciato in pace nel suo fetido buco anziché farlo torturare dai miei uomini.” Wan Stiller sbiancò, il cuore che lasciava la collocazione originale per perdersi nei meandri dei suoi intestini. “Voi mentite” replicò. “Se davvero... l’aveste preso... avrei udito tutto!”
“Eravate incosciente quando l’abbiamo condotto qui, legato e imbavagliato per impedirgli di gridare; s’era rintanato in una locanda, ma dei suoi misteriosi soccorritori neanche l’ombra. L’avranno abbandonato per evitare di trascinarsi appresso un peso inutile.”
“Mentite!” sbottò con maggior forza il filibustiere. Le grida dell’altro prigioniero gli trapanavano il cervello, ma lui si fece forza per impedire a un solo, terribile pensiero di insidiarsi nella sua mente. “Volete costringermi a capitolare coll’inganno!”
“Forse.”
Wan Stiller non poteva credere ai suoi orecchi. “Tuoni! Vi burlate di me?” scattò, livido.
“Niente affatto, signore; ma non posso certo costringervi a dar peso alle mie parole. Libero di credere che quel poveraccio sotto i ferri sia un ladrone qualunque, e non il vostro amico.” Un urlo più forte squarciò l’aria ma il governatore, al contrario del prigioniero, non se ne curò.
“Non è lui...” mormorò febbrile l’amburghese. “Non è lui, tuoni d’Amburgo, lo riconoscerei se è lui!”
“Anche colla lingua mozzata?” Il conte di Medina si sentì indosso due occhi sbarrati per lo stupore, il dolore e, sperava, la disperazione.
“Non collaborando correte un rischio” disse. “Non tradite la vostra missione, ma al contempo mettete a repentaglio la vita del vostro compagno.”
“Non è lui.”
“Parlate, o quelle sue urla finiranno solo una volta che sarà morto.”
“Non è lui! Mostratemelo, se dite il vero!”
“Preferisco lasciarvi il beneficio del dubbio.”
“Che siate maledetto!”
“Parlate, miserabile, o giuro su Dio che una volta finito non sarete più in grado di riconoscerlo!”
“No!”
“Chi vi ha mandato? Qual era la vostra missione? Parlate!”
“No!” gridò ancora Wan Stiller, quando un oggetto traversò le sbarre fino a rimbalzare contro la parete; lo prese senza rifletterci, i polpastrelli che ne percorrevano la superficie lucida ma consumata dal tempo e si fermavano sull’incisione appena abbozzata in un angolo. L’amburghese la riconobbe all’istante, perché era stato lui stesso a eseguirla.
E si sentì morire.
“Aufhort!” (**)

I muri del corridoio le correvano ai lati, tremuli e sfocati. Sol non era del tutto sicura di aver imboccato la via del ritorno, tuttavia non cessò di correre, desiderosa solo di allontanarsi il più possibile da quel posto, di lasciarsi alle spalle quelle grida che l’avevano tenuta inchiodata dietro la porta, sopraffatta dalla paura eppure incapace di andarsene. Almeno fin quando quell’ultima parola, incomprensibile per lei, non le aveva sciolto le gambe addormentate.
Corse e corse ancora, le guance rigate di lacrime, finendo per cozzare contro qualcosa; rimbalzò all’indietro e inciampò nel tappeto a lei tanto familiare, mentre una mano calava sul suo braccio per bloccarla; un’altra, più decisa, le tappò la bocca per impedirle di gridare. “Shhh!” le sussurrò una voce ferma ma rassicurante; Sol sbatté gli occhi per liberarli dalle ultime lacrime, posandoli infine su un volto maschile dalla carnagione assai abbronzata. “Eccoti qua, briccona” disse l’uomo mollandole un buffetto. “Tuo padre è in cucina a tirar giù i santi; presto, prima che si trascini appresso tutto il paradiso.” Quelle parole ebbero il potere di tranquillizzare la ragazzina, anzi quasi riuscirono a farla ridere, mentre s’immaginava una schiera di frati barbuti che precipitava sul capo di suo padre.
Padre che non appena la vide le corse incontro, scuotendola come una bambola di pezza. “Cos’hai in quella tua testa, eh? Dove ti eri cacciata?” La fissò per bene in volto. “E perché piangi, Santo Cielo? Sembra tu abbia veduto il diavolo in persona!”
“Non proprio, señor” intervenne l’uomo che aveva ricondotto Sol indietro. “Gironzolava al piano di sopra quando l’ho trovata; deve averla spaventata una delle armature in corridoio.”
“Ah, monella che non sei altro! Quante volte ti ho detto di non salire?” Perez avrebbe volentieri schiaffeggiato la figlia, ma conscio di star dando spettacolo riuscì a trattenersi. “Grazie per averla trovata, tenente” disse chinando il capo all’indirizzo dell’altro uomo. “E perdonate il disturbo.” L’ufficiale agitò una mano, come a dire che non era stato nulla. “Vostra figlia è ancora un po’ provata” disse poi. “Lasciatele qualche minuto per riprendersi.”
“Oh, d’accordo. Vado a preparare il carro” convenne Perez. “E guai a te se vai ancora in giro!” minacciò poi all’indirizzo della figlia, mentre usciva sbuffando. Lei non rispose, il labbro che le tremava leggermente; a distrarla intervenne qualcosa che il tenente le posò in mano: era rosso, lucido e piacevole al tatto. “Una mela” spiegò lui. “Viene dalle terre della Normandia, in Europa; mordila, è buona.” Lei non si lasciò pregare e addentò subito il frutto di cui aveva udito a parlare dalla mamma, senza averlo mai veduto; il sapore dolce della polpa, asciutta ma saporita, le piacque subito.
“Sbrigati, Sol.” La voce del padre riscosse la ragazzina, che inghiottì il boccone e scappò via in tutta fretta per raggiungere Perez sul carro; l’ufficiale attese di vederli entrambi allontanarsi prima di rientrare. “Permettete?” fece alla capocuoca mentre prendeva un’altra mela dal cesto sul tavolo della cucina.
“Eh, non facciamoci l’abitudine” borbottò lei. “Ho rispetto di voi, ma...”
“Avete ragione, d’ora in poi terrò a freno il mio stomaco, parola di El Moro.”
“Bel soprannome che v’hanno affibbiato, i vostri commilitoni.”
“A me non dispiace; lo trovo, come dire, appropriato.”
La capocuoca non poté non essere d’accordo: con quella pelle scura, il tenente pareva davvero uno di quei mori che molti anni orsono avevano occupata la terra dei suoi avi. Non era un sangue blu castigliano, certo, ma anche lui aveva la sua porzione di nobiltà nelle vene.
“Era da un po’ che non vedevo quella bambina” esordì l’ufficiale dopo aver dato più d’un generoso morso al frutto. “Non è cresciuta molto, in verità.”
“Sol è minuta per la sua età” rispose la capocuoca, intenta a ripulire un ripiano.
“Quanti anni ha?”
“Dovrebbe averne undici.”
“Avete ragione, sembra più piccola. D’altronde neanche suo padre è un campione d’altezza.” A quelle parole parecchie risatine soffocate si diffusero nell’ambiente; El Moro alzò un sopracciglio in segno di disappunto. “Non mi pare d’aver detto qualcosa di divertente” obiettò.
“Perdonatele, tenente, sono null’altro che delle sciocche” fece sbrigativamente la capocuoca, gettando un’occhiataccia al gruppo di serve che la circondava; ma attese che l’ufficiale fosse uscito prima di rimproverarle aspramente. “Stupide! Non sapete mai tenervi a freno!” sbottò.
“Oh, Ana, ma lo sanno tutti!” fece Juanita, per nulla turbata.
“Sanno cosa?”
“Che quel Perez è più sterile d’un mulo!” E giù una risata che la fece tremolare tutta.
“Lei era già incinta quando venne a Maracaibo” aggiunse un’altra serva coll’aria di chi la sapeva lunga. “Me lo disse la moglie del fornaio che a quei tempi era sua vicina, e certo non è una che racconta frottole!”
“Avrà avuto la bambina da un qualche vagabondo di strada come lei” continuò Juanita.
“E una volta qui ha fatto in fretta a trovare il gonzo da accalappiare!”
“L’avete finita?” scattò la capocuoca, seccata da quelle chiacchiere inutili. “Tornate alle vostre faccende, svelte!”
“Bah!” sbuffò Juanita. “Sua Signoria non avrà appetito neanche stasera.” Anche l’altra serva convenne, annuendo vigorosamente.
“Ma sono certa che i soldati ne hanno da vendere.” A quelle parole entrambe si chinarono sui rispettivi lavori, sotto gli occhi vigili di Ana.

Il capitano Valera ascoltò con attenzione il resoconto del governatore: se inizialmente s’era mostrato scettico circa il metodo da adottare col prigioniero, ora non poteva negare che avesse avuto un certo successo. “Non sapevo parlaste tedesco” iniziò.
“Sono nato e cresciuto a Coro, dove quella lingua è ancora parlata, sebbene l’influenza dell’impero non vi sia più da un pezzo.”
“Siete stato molto abile, signor governatore.” 
“Buona parte del merito è anche vostra; se non m’aveste data quella bussola che avete raccolta dinanzi alla taverna, dopo lo scontro, dubito che sarebbe capitolato.”
“È caduto dritto nel tranello che gli avete teso.”
“Era provato per via delle torture e delle emozioni; ben pochi avrebbero retto. Il vedere l’oggetto appartenuto al suo amico è stato il colpo di grazia.”
“Perlomeno sappiamo di aver a che fare con un uomo in carne e ossa, e non con un figlio di Satana come si dice in giro” disse con sprezzo l’ufficiale. “Avevate ragione, signor conte” aggiunse poi, tornando serio. “Son venuti qui per la ragazza. Ma come hanno fatto a venirne a conoscenza?”
“Non l’immaginate, capitano?” Gli occhi del conte di Medina erano gelidi.
“In verità no, governatore.”
“Grazie a uno dei marinai della nave olandese su cui Jolanda era imbarcata.”
“Cosa?” Valera era sinceramente sorpreso. “Impossibile! Diedi io stesso l’ordine di ucciderli tutti!”
“Uno di essi si nascose sotto un gruppo di cadaveri, sfuggendo all’esecuzione. Quando, qualche giorno dopo, il suo veliero in balia delle onde incontrò un legno filibustiere, uscì allo scoperto a dispetto della debolezza e raccontò tutto, ottenendo di farsi condurre alla Tortue; da lì non fu difficile venire in contatto con Morgan per informarlo dell’intero accaduto.”
“E ora quel cane d’un corsaro si prepara a venirci addosso.”
“Sì, capitano, pronto a distruggere la città come fecero diciott’anni orsono l’Olonese, il Basco e il Corsaro Nero. Ma questa volta non ci faremo sorprendere” fece con convinzione il governatore di Maracaibo; si sedette alla sua scrivania, il mento poggiato sulle mani intrecciate. “Faremo a pezzi quelle dannate navi prima ancora che possano avvicinarsi a noi.”
“Permettete una parola, signor conte?”
“Parlate pure.”
“Ritengo che affrontare di petto la flotta di Morgan sia come gettarsi in bocca al lupo; in mare avrebbe senz’altro la meglio.”
“Oh, al diavolo!” esclamò seccato il conte. “Non sono invincibili, questi filibustieri!”
“Nel loro elemento sì, e ne hanno data prova in più d’un occasione. Da terra avremmo più speranza di sopraffarli.”
“Se lasciassi la mente correre a episodi come Veracruz e Portobello, vi assicuro che la mia sicurezza sfumerebbe.”
“Allora che avete intenzione di fare?”
“Certo non arrendermi” rispose con decisione il governatore. “Ho fiducia in questa città, nel suo forte e nei suoi soldati; Morgan troverà un osso ben duro da rodere, e se crede di potermi strappare la ragazza, si sbaglia di grosso.”
“Era ciò che volevo sentirvi dire, signor conte” convenne soddisfatto il capitano Valera. “Quali sono i vostri ordini?”
“Che nessuna nave sospetta raggiunga il porto senza che ne sia avvertito; raddoppiate la sorveglianza lì, e fermate chiunque non sia provvisto di permesso per sbarcare o imbarcarsi.”
“Sarà fatto.” L’ufficiale rifletté per qualche istante prima di riprendere a parlare. “Che ne facciamo del prigioniero?” domandò. Gli occhi del conte di Medina s’accesero subito di una luce sinistra. “Non ci è più di alcuna utilità” decretò.
“Do ordine di farlo appiccare?”
“No. Che resti in quella cella, in balia dei suoi stessi escrementi e senza cibo. Quando sarà morto, gettatelo nelle fogne.” L’astio in quelle parole era tale da sembrare addirittura sospetto. “Come facevate a conoscere il suo nome?” domandò Valera “Il notaio non disse nulla in proposito.” L’altro gli lanciò un’occhiata obliqua. “Le memorie di mio padre” rispose poi con voce sorda.
“Credevo... fossero andate perdute al momento della sua morte.” L’ufficiale era rimasto alquanto spiazzato.
“Non le aveva con sé quando la sua fregata saltò in aria” precisò spiccio il conte di Medina. “Le aveva lasciate presso il suo intendente, a Puerto Limon, difatti la narrazione s’interrompe prima della partenza per Veracruz.” Sospirò, stringendo con forza un pugno. “Per tutto il resto, non ho potuto basarmi che sulle testimonianze altrui.”
“C’è il nome di quell’uomo nel diario di vostro padre?”
“Sì, vi dico, assieme a quello del suo dannato compagno. Carmaux e Wan Stiller, i due filibustieri che fuggirono il giorno prima dell’impiccagione del Corsaro Rosso e che, col Corsaro Nero, inseguirono mio padre tra le foreste di Gibraltar. Il nome di Emilio di Ventimiglia, che sia maledetto, è quasi sempre accompagnato dai loro.”
“Abbiamo dunque tra le mani uno dei fedelissimi del Corsaro Nero” concluse Valera.
“E uno dei responsabili della morte di mio padre” aggiunse secco il governatore di Maracaibo. “Non ho nessuna intenzione di mostrare clemenza nei suoi confronti.”
“Che facciamo coll’altro, signore? Continuiamo le ricerche?”
Il conte sospirò, passandosi una mano sugli occhi. “Gli uomini ci servono altrove, pel momento. Che scappi, il coniglio, o si nasconda; non mi dannerò l’anima per un miserabile che potrebbe essere già morto, o che comunque morrà sotto i nostri cannoni.”
“Però vi dannate l’anima per quella fanciulla.”
Gli occhi del governatore lampeggiarono. “Tacete, capitano” impose. “V’impedisco di andare oltre.” L’ufficiale obbedì, pur conservando le proprie convinzioni.
Sapeva fin troppo bene come tra il suo signore e la figlia del Corsaro ci fosse ben più che una semplice eredità contesa.
 

                                                                                                                                   *

Ch’ulel si passò una mano dietro la nuca, nervoso. Era vestito con abiti spagnuoli che celavano del tutto le sue sembianze indie, tuttavia non si sentiva tranquillo, non col compagno che il conte di Ventimiglia gli aveva detto di portare con sé. Restare tutti insieme, dopo quanto era accaduto alla taverna e colle ronde a ronzare in città, era troppo rischioso.
“Lascia il mio braccio, amico. Mi reggo in piedi anche senza di te.” A interrompere il flusso dei suoi pensieri vi pensò la voce di Carmaux, che a dispetto delle ferite era assai riluttante a farsi assistere da un indiano. “E smetti di guardarmi il ventre.”
“Sei meno appetibile di quanto credi, uomo bianco” rispose Ch’ulel, riprendendo a camminare. “Non è la mole che conta, ma la carne.”
“Ohe, mi hai preso per quel don Raffaele, per caso?”
“Adagio, uomo bianco, non è il momento di offendersi.”
“E perché?”
“Due sentinelle puntano dritte verso di noi.” Il marinaio avvertì alcune gocce di sudore freddo bagnarli la fronte, nonché una maggiore presa dell’indio sul suo braccio. “Attento” sentì che gli sussurrava all’orecchio. “Se vieni meno adesso siamo finiti tutti e due.”
“Non sono un moribondo, corpo d’uno squalo!”
L’arrivo dei due spagnuoli, entrambi armati d’alabarda, li costrinse a tacere. “Dove andate?” domandò spiccio il più alto dei due.
“A prendere una boccata d’aria” rispose il vecchio marinaio, ignorando le fitte che le ferite ancora gli provocavano. “Come due buoni cittadini.”
“Non siete di Maracaibo” intervenne l’altro alabardiere guardando fisso lui e Ch’ulel. “Non vi ho mai veduto.”
“Eh, questa città non è piccola.”
“Vi servo abbastanza da conoscere molta gente.”
“In effetti sono giunto da Panama un paio di settimane fa.”
“Assieme al vostro amico?”
“Sì” intervenne Ch’ulel. “Di rado viaggiamo separati; si potrebbe dire che ci conosciamo da sempre.” Ignorò l’occhiata strana che Carmaux gli aveva lanciato, preoccupandosi più di parlare uno spagnuolo degno di questo nome.
“Il vostro nome.”
“Rafael Luz.”
“Il vostro amico si sente poco bene?” La domanda fece sussultare, anche se di poco, Carmaux mentre l’indiano non fece una piega. “In effetti...” cominciò.
“Dunque?” l’incalzò l’alabardiere più alto.
“In verità è un po’... alticcio.”
“Non sembra.”
“Cerca di non darlo a vedere, ma vi assicuro che ha alzato il gomito; glielo dico sempre che non dovrebbe, alla sua età, ma è un uomo testardo.”
“Va bene, va bene” disse il suo interlocutore, risoluto a sbrigarsela presto. “Potete andare, e badate a voi.”
“Se posso, signore...”
“Cosa c’è ancora?”
“Potreste aiutarmi a condurlo a casa? Voglio un gran bene al mio amico, ma non è... ecco... molto leggero; se crollasse avrei qualche problema a trascinarlo.”
“Ma andate al diavolo!” Entrambi gli alabardieri si allontanarono rapidi, decisi a non farsi rintronare da quell’uomo che pareva aver molta voglia di chiacchiere. Ch’ulel sorrise, soddisfatto, evitando al contempo un piede irritato che stava per pestare il suo. “Possiamo andare, uomo bianco” disse poi riprendendo a camminare.
“Ventre di pescecane! Cosa ti frullava in quel tuo cervello da antropofago?” sbottò a mezza voce il marinaio. “Mettersi a chiacchierare con quegli spagnuoli quando entrambi rischiamo la vita!”
“Credi tu che se avessimo mostrato d’aver fretta ci avrebbero lasciati in pace?” Carmaux non tardò a capire il rischioso, ma abile giuoco dell’indiano: mostrandosi propenso alle chiacchiere aveva spinto gli alabardieri a liberarsi di loro, facendo credere d’aver a che fare con due tranquilli borghesi andati a bere qualche bicchiere insieme.
“Sei furbo, Rafael Luz” mormorò compiaciuto.
“Sono Ch’ulel, uomo bianco.”
“Preferisco il nome spagnuolo, suona meglio. Come l’hai pensato?”
“Mi sono limitato a unire i primi nomi che mi sono venuti in mente: quello del tuo amico piantatore e quello della posada.”
“Non era mio amico, era la mia preda, per tutti i diavoli! E l’avrei accalappiata come si deve se...” Il marinaio s’interruppe, un’ombra che gli offuscava lo sguardo. “Maledetta spia!” borbottò poi. “Se l’avessi tra le mani...”
“Non ora, uomo bianco.” L’indiano riuscì a convincerlo ad aumentare il passo, di poco per tema d’affaticarlo. “Il conte ci attende al porto colla sua famiglia. Dobbiamo far presto.”


(*) Potremmo metterci d’accordo.
(**) Basta!


Note dell’autrice: non sapendo un benemerito nulla di tedesco sono stata assistita dalla mia consulente favorita, alias Chandrajak -w- Tuttavia l’uso stesso di questa lingua nella versione moderna sarebbe di per sé una forzatura storica: difficile che il tedesco del XVII secolo fosse uguale a quello attuale - il francese moderno, per esempio, si andava lentamente formando proprio in quel periodo.
La presenza tedesca in Venezuela è invece attestata storicamente: la stessa Coro si è trovata sotto il governatorato dell’impero nel XVI secolo, salvo poi tornare nelle mani spagnole nel 1545 e diventare prima provincia del Venezuela. Dubito, dunque, che in cento anni il tedesco sia scomparso del tutto da quella zona. Che Coro sia la città natale del conte di Medina, invece, è una mia totale invenzione.
Il personaggio di El Moro, al pari di Ch’ulel e Sol, si ispira liberamente a un personaggio appartenente a Chandrajak - se non soddisfa le sue aspettative, ha il permesso di bastonarmi v_v E per quanto riguarda il nome fittizio di Ch'ulel, non è affatto casuale: è infatti il vero nome del personaggio cui liberamente si ispira.
E visto che ho avuto la bella pensata di pubblicare il 31 dicembre, ne approfitto per augurare a lettori, recensori e a passanti eventuali un felice 2012 ^_^
Satomi

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Capitolo 4
*** Al cospetto dell'almirante ***


4. Al cospetto dell’almirante


Ernesto Perez non dormiva ancora. Nora sapeva ormai distinguerne il genuino russare dal semplice respiro pesante, dopo più di dieci anni che condivideva con lui il medesimo letto; restò dunque immobile lasciando che la sua mano familiare le carezzasse la schiena nuda, quasi a volerla compensare pel piacere che gli aveva dato quella sera.
“Siete sveglio.”
“Anche voi” rispose lui in un borbottio sommesso, mentre con un braccio le circondava la vita; lo trattenne appena in tempo, la mano che correva a recuperare la veste ai piedi del giaciglio. Un soffio infastidito sulla nuca l’avvertì dell’assai scarsa predisposizione del consorte a lasciarla andare. “Credevo d’avervi soddisfatto...” mormorò. Si girò, mentre un sorriso si distendeva sul volto di Perez. “Eh, donna, non mi conoscete ancora.”
“Vi conosco abbastanza da sapere quando il vostro corpo ha dato tutto.”
“Ah! Impertinente che non siete altro!” Nora si sentì spingere sul materasso da due braccia decise, non abbastanza forti tuttavia da impedirle di divincolarsi. “Vossignoria mi concede una parola?” chiese mentre s’impadroniva finalmente della camicia da notte; un brontolio irritato le giunse agli orecchi. “Vi burlate di me, moglie?”
“Non fate il permaloso, non vi si addice. Dunque?”
“Sia, ma spicciatevi” replicò l’uomo, le cui mani erano subito corse ad accendere un mozzicone di candela: non amava parlare al buio. “Non ho voglia di chiacchiere.”
“Per questo mi avete nascosto quanto è accaduto ieri notte?” Il volto di Perez si contrasse in una smorfia di evidente disappunto. “Non vi facevo tanto curiosa” fece.
“Odio venire a sapere da altri ciò che riguarda mio marito” replicò secca Nora, incrociando le braccia sul seno che portava i segni dell’allattamento, ma poteva ancora dirsi prosperoso. “Certo non sono stata felice di scoprire che il motivo del vostro ritardo non riguardava Azogue.”
“Non volevo turbarvi, ecco” sbuffò Perez.
“Lo eravate molto di più voi quando siete rincasato; non deve capitare tutti i giorni di trasportare sul proprio carro un Fratello della Costa.” Nora, alla fioca luce della candela, s’accorse dell’occhiata interrogativa lanciatale dal consorte. Sbuffò a sua volta. “Filibustiere, figlio di Satana, scegliete voi come chiamarlo.” L’uomo si segnò rapidamente. “Non avevo più in corpo una sola goccia di sangue” confessò con un brivido.
“Uh? Faceva tanta paura quell’uomo?”
“Avrei voluto veder voi al mio posto, con un diavolo o poco meno sul carro e quattro archibugi puntati contro! Maledetti soldati... non fosse stato per loro avrei tirato dritto a dispetto del fracasso dinanzi alla taverna.”
“Avete reso un favore al vostro paese; il governatore ve ne sarà grato.”
“Bah! Quell’uomo s’agitava come un pazzo, Dio solo sa come non mi sia saltato addosso per sgozzarmi.”
“Perché avrebbe dovuto?”
“E lo chiedete? Sono stato io a portarlo a palazzo!” Perez deglutì. “Ringraziando il Cielo ora non può più nuocere ad alcuno; chissà, magari domani a mezzodì penzolerà da una corda come tanti altri prima di lui.” E detto questo si rannicchiò dalla sua parte: quella chiacchierata aveva risvegliato in lui ricordi spiacevoli, e ciò che voleva in quel momento era solo dormire e dimenticare.
Un colpetto sul braccio lo riportò bruscamente alla realtà. “Che c’è ancora?” scattò. “E spegnete quella candela!” Nora non si fece intimidire. “Che non vi salti il ticchio di portare ancora Sol con voi” replicò. “Se davvero appiccheranno quel poveraccio, non voglio che lei assista a un simile spettacolo.”
“Oh, per amor del Cielo! Se vivrà a lungo in questa città dovrà farci l’abitudine.”
“Non comincerà ora.”
“Bah! Proprio quando cominciava a portarmi ancora più fortuna, con quel suo manda-fischi...”
“Intendete  questo, forse?” A quelle parole Perez tornò d’un colpo verso la moglie; nella sua mano qualcosa di familiare rifletteva la fiammella alimentata dal moccolo. “Toh! Siete riuscita a sottrarglielo” commentò.
“Gliel’ho sfilato quando si è addormentata, tutto qui.” Le dita di Nora giocherellarono pensosamente colla catenella in metallo. “Gliel’avete dato voi?”
“Sì; l’ho trovato l’altra notte tornando a casa.”
“Un oggetto raro.” La donna serrò il pugno non appena s’accorse dello sguardo del marito, fattosi d’improvviso più attento. “Caramba!  Avessi saputo di ciò che avevo tra le mani, non l’avrei mai lasciato alla bambina.”
“Ho detto che è un oggetto raro, signore, non che abbia un qualche valore.”
“Cos’è, dunque?”
“Un fischietto da nostromo” spiegò brevemente Nora. “Alcuni di essi se ne servono per mandare appositi segnali agli altri marinai; tuttavia l’ho visto indosso a pochissimi di loro.”
“E dite che non ha valore.”
“Non è di un materiale pregiato ed è privo di decorazioni, se si esclude quest’incisione qui.”
“Bah! È tutta consumata. Forse avete ragione voi, non ne vale la pena.” Perez sbadigliò vigorosamente prima di tornare a stendersi, e Nora s’affrettò a imitarlo, il corpo stanco al pari del marito ma la mente ancora in piena attività, anzi fuor di controllo: senza che lei lo volesse prese a riordinare ricordi e informazioni, seguendo un filo logico che a Nora stessa sembrava assurdo.  
Ripensò alle voci raccolte al mercato, in particolar modo da coloro che alla taverna d’El Toro c’erano stati davvero. Un brutto tipo d’avventuriero, alto, la barba bionda... malvestito, ma neanche il compagno era messo meglio...
Io l’avevo capito subito ch’era gentaglia, non come quel gonzo di don Raffaele...
Filibustieri, carrai, non riuscivo a crederci! Qui in Maracaibo! Dei folli senza dubbio...
Quando l’hanno condotto via l’altro urlava come un pazzo, poi ha taciuto d’un colpo... forse l’avranno accoppato...
Ma no, dicono che sia stato portato in salvo da altri compagni, e che si sia nascosto... Dio ce ne scampi!
Ripensò alle parole di Sol, ai suoi occhi scuri ancora pieni di timore. Gli stavano facendo male, tanto. Gridava e gridava, ma loro non smettevano...
Avevo tanta paura, lui gridava e anch’io sentivo male, qui e qui, ma non riuscivo ad andare via...
Madre, cosa vuol dire “affò”?
“Non ne ho idea” rifletté Nora, il pollice che pel nervosismo sfregava la superficie liscia del fischietto, trovando attrito solo nel punto in cui il metallo era stato inciso senza troppa maestria.
Bah! È tutta consumata...
“No.” Il pensiero colpì la donna all’improvviso. “No, l’incisione non è consumata. È incompleta.
Incompleta perché la mano di chi l’aveva eseguita s’era mossa per semplice sfogo, non per senso dell’arte o qualunque altra cosa. E di questo Nora era più che certa: mosse ancora il pollice, il piccolo disegno che prendeva forma nella sua mente.
L’aveva veduto altre volte e sempre, rigorosamente incompleto.
Dopo così tanto tempo.... Che sia davvero...?
 

*

“Carmaux...”
Le nubi che già da qualche tempo offuscavano i sensi del marinaio non tardarono a diradarsi, all’udire quella familiare voce. “Cosa... ah, voi capitano...” Sbatté le palpebre, rendendosi d’un tratto conto di essere rimasto sdraiato presso la poppa d’una baleniera fino a quel momento. “Fulmini!” esclamò. “Io dormivo, signore!”
“Non posso negarlo” affermò l’ex-Corsaro che gli era dappresso.
“Da quanto...?” Non occorse che l’altro gli rispondesse: il sole alto in cielo era fin troppo eloquente. “Diavolo!” mormorò tra sé Carmaux, assai contrariato per aver riposato tutte quelle ore: ricordava chiaramente che, poco dopo aver lasciato la Nuova Castiglia a bordo della scialuppa, aveva chiesto al conte di chiudere gli occhi per qualche minuto, sopraffatto dalla stanchezza che la corsa fino al porto gli aveva provocato.
“Perché non mi avete svegliato, capitano?”
“Ho preferito che recuperassi appieno le forze, piuttosto che stancarti inutilmente” rispose con semplicità l’altro. “Ch’ulel non avrebbe dovuto spingerti a quella corsa sfrenata.”
“Temevamo di far tardi all’appuntamento, signore.”
“Cosa che, fortunatamente, non è accaduta.” Il conte di Ventimiglia tornò a scrutare l’orizzonte, la mano stretta con fierezza sulla barra del timone; aveva indosso vesti di panno grigio tipiche dei marinai, al pari di Carmaux, così da poter meglio ingannare eventuali navi di passaggio. “Abbiamo oltrepassato l’isola di Zapara” spiegò prima che l’altro potesse domandare.
“Allora giungeremo alla baia al tramonto. State lontano dalla costa, capitano, meglio evitare i bassifondi.”
“Grazie del suggerimento.” Restarono in silenzio, la baleniera che spinta dal vento scivolava rapida tra i flutti; a pelo d’acqua, verso tribordo, si poteva scorgere un buon numero di zucche legate tra loro da delle liane. “Un ingegnoso metodo di caccia adottato dai Caraibi, che vivono su queste coste” disse il conte. “Lo sapevi tu, Carmaux?”
“Oh sì, capitano. Ricordo che lo spiegai a Wan Stiller durante il nostro viaggio d’andata, quando me lo domandò.” Al gentiluomo italiano non sfuggì il tono velato di tristezza con cui quelle parole erano state pronunciate. Con molto tatto, preferì lasciar correre.
“A proposito di anitre... mi pare di averne scorta una arrostita nella cassetta delle provviste.”
“Eh, capitano, risale a due giorni fa. Sarà un po’ dura pei vostri denti.”
“Dubito che lo sarà più di quel maracaya che mangiammo tra le foreste di Gibraltar.” L’ex-Corsaro notò con piacere un sorriso distendersi sui lineamenti marcati del vecchio marinaio. “Avete ragione, quella carne era coriacea per davvero” confermò quest’ultimo.
“Eppure ricordo che, a dispetto del parere di tutti, la definisti eccellente.”
“Ventre di pescecane! Avete un’ottima memoria, signore!” Carmaux esordì in una breve risata. “Quel gattaccio mi fece passare un ben brutto quarto d’ora! Oh, ecco qua” annunciò una volta finito di divedere le provviste in parti uguali. “Siete avvezzo a ben altro, lo so...”
“Mi contenterò, non temere” rispose il nobile con un sorriso.
“Lasciatemi pure la barra, signore, penserò io a guidare la scialuppa; oh, dovreste prestarmi la vostra bussola, la mia l’ho perduta quasi senz’altro durante lo scontro fuori dalla taverna.” I due uomini si scambiarono in fretta di posto, profittando d’un colpo di vento per meglio orientare le vele e prendere maggiore velocità; continuando di quel passo sarebbero giunti ben presto nei pressi della flotta filibustiera.
Carmaux puntò risolutamente la prora verso est, gli occhi fissi sulla bussola d’ottone del conte e un generoso pezzo d’anatra in bocca. “Permettete una parola, comandante?” domandò una volta aver ingollato il boccone.
“Certo.”
“Il matrimonio colla duchessa vi ha giovato.”
Il signore di Ventimiglia sorrise per un istante. “Honorata ha contribuito molto alla mia felicità” disse. “Non posso che ringraziare Dio per averla ritrovata, quel giorno di diciassette anni fa.”
“Una fortuna davvero, signore, altrimenti saremmo finiti nei ventri dei compari di Ch’ulel e magari anche nel suo.”
“Anche se molto in ritardo, ti porgo le mie scuse per aver lasciate quelle coste senza un messaggio per te e i tuoi compagni.”
“Avevate degli ottimi motivi per sparire, comandante. L’importante è che tutto si sia risolto nel migliore dei modi.” L’ex-Corsaro si lasciò sfuggire un breve sospiro, a quelle parole. “Testarda” mormorò secco.
“Chi?”
“Mia figlia. Testarda ma ingegnosa, debbo ammetterlo. Né io né tantomeno mia moglie potevamo immaginare che, dietro la sua richiesta di far visita a delle amiche a Genova, vi fosse ben altro; aveva progettato tutto da mesi, eppure io non ebbi il benché minimo sospetto.”
“Non è stata colpa vostra.”
“Sì, in parte. Non avrei mai dovuto raccontarle del mio passato e far sì che si scaldasse il capo.”
“Ma l’eredità...”
“Ah, Carmaux!” esclamò il conte trattenendo un gesto di stizza. “Sai tu che non ho mai badato alle ricchezze, avendone in abbondanza nelle mie terre. In nome della pace e della tranquillità della mia famiglia ho preferito rinunziare a quei milioni, e Honorata è sempre stata d’accordo con me; d’altronde a nulla sono valsi i suoi tentativi di riscuotere ciò che le spettava.” Il marinaio ascoltò in silenzio quell’improvviso sfogo, poi disse: “Voi avete le vostre ragioni, capitano, ma in parte le ha anche vostra figlia. È giovane, e come anche voi avete detto i giovani sono irruenti. Non ha pensato fino in fondo alle conseguenze del suo gesto.”
“Lo credo. Ah, pazza che non è altro! Ma è mia figlia, non avrei mai potuto abbandonarla.”
“Vi capisco benissimo, signore. Anch’io non avrei esitato un secondo, se al suo posto vi fosse stata...” D’improvviso Carmaux s’interruppe, fissando con maggior attenzione l’orizzonte. “Ah, ecco la baia!” esclamò felice mentre manovrava la scialuppa in modo che s’insinuasse nell’insenatura della costa. I profili di un buon numero di navi erano ormai facilmente scorgibili.
“La flotta di Morgan?” domandò l’ex-Corsaro con un certo stupore.
“Sì, signore. Il vostro antico luogotenente ne ha fatta di strada.”
“Non l’avrei mai messo in dubbio. Morgan ha sempre avuta la stoffa del condottiero” disse il conte di Ventimiglia prima di fissare, e con un certo occhio critico, il suo vecchio marinaio. “Mia figlia è pazza, ma tu non sei da meno” lo rimproverò vedendo come avesse ammainato la vela e messo mano ai remi. Carmaux sorrise. “Non sono che pochi metri.”
“Sei ferito.”
“Cose da nulla, comandante, non datevi pensiero.” E ignorando le proteste prese a tagliare l’acqua con poderose vogate; a sentire le ferite stirarsi strinse i denti, diminuendo di poco il ritmo di battuta. I flutti sotto di lui riflettevano una tenue luce rosata, segno che ormai il sole era in procinto di tramontare.
“Basta così, Carmaux. Sei pallido come un cencio.”
“Non più di voi, signore.”
“Il dolore ti rende insolente, marinaio?”
“Forse” mormorò con un sorriso tirato il filibustiere. “Oh, non occorre che mi diate il cambio; ecco l’ammiraglia.” E ottenne con sollievo che l’altro distogliesse da lui le sue attenzioni, il capo fisso sulla fregata cui s’erano accostati. Si frugò nel petto alla ricerca di qualcosa, ma con suo disappunto non trovò nulla. “Fulmini! Anche il fischietto ho perduto!” borbottò. “Non sarà facile rimediarne un altro. Ma pazienza, vedo che mi hanno notato.” Scorse difatti un lume oltre la fiancata: un marinaio di guardia li aveva ormai scorti.
“Chi vive?”
“Carmaux, Fratelli della Costa.” A quelle parole una scala di corda fu gettata fuoribordo, in attesa d’esser fissata alla baleniera. Il conte di Ventimiglia lasciò la precedenza al marinaio, poi salì a sua volta, mentre lo sguardo gli cadeva per caso sul nome che campeggiava a lettere dorate sulla fiancata del veliero. “Morgan è ben lungi dal dimenticare i suoi vecchi trascorsi sul mio brigantino” pensò con un filo d’orgoglio, sebbene quella fregata somigliasse assai poco alla vecchia Folgore. Si riscosse, accorgendosi di come Carmaux fosse ormai giunto sul ponte; a giudicare dal mormorio concitato di alcuni marinai, aveva preso a narrare delle sue disavventure.
Si ricredette non appena giunse oltre il bordo della fiancata e s’accorse, con sgomento, del corpo del marinaio inerte sulla tolda e circondato da un nugolo di filibustieri.
“Ehi, tu!” l’apostrofò con forza uno di essi quando posò i piedi sul ponte. “Chi diavolo sei?”
Al vedersi parecchie armi puntate contro l’ex-Corsaro ritenne opportuno, seppur con disappunto, alzare le mani.
 

*

Sol stropicciava i piedi all’angolo della via, non poteva averne ancora per molto. “Ne siete certo?” domandò ancora una volta Nora, stringendosi ancora di più nella mantella; il vicolo era buio, ma le precauzioni non erano mai troppe.
“Sì, vi dico. Trascorro a palazzo buona parte del mio tempo, cosa credete?”
“Dell’altro che ne è stato?”
“Mi sembrava foste interessata solo al prigioniero.” L’interlocutore della donna, avvolto anch’egli in un mantello, pareva d’un tratto reticente. Nora sospirò. “D’accordo, che nessuno possa mettere in dubbio la vostra fedeltà al paese” disse sbrigativa. “Avete intenzione di aiutarmi?” L’altro si schiarì brevemente la voce, gettando un’occhiata oltre l’angolo. “Sapete cosa vi debbo” rispose con semplicità.
“Non siete voi ad esser in debito con me, ma vostra...”
“È la stessa cosa. Sta bene, dunque, ma se mi scoprono...”
“Non accadrà se mostrerete prudenza. E credetemi, non desidero che rischiate più del necessario.”
“Quando?”
“Non oggi. Non vi è fretta, d’altronde.” Un breve fischio fece sobbalzare entrambi. “Cominciamo a dare nell’occhio, temo” mormorò Nora.
“Allora è meglio che vada.”
“Aspettate. Volete dimenticarvi la cosa più importante?” E mise tra le mani dell’uomo una piccola fiala di vetro, ben sigillata. “Sapete come servirvene.”
“Sì, me l’avete spiegato. Attendete qualche minuto prima d’allontanarvi, se non vi dispiace; la gente...”
“Lo so, lo so” borbottò Nora, abbozzando un saluto prima di vederlo allontanarsi. Non dovette attendere molti istanti prima di scorgere Sol imboccare il vicolo e raggiungerla; la strinse, respirando assieme a lei nella penombra. “Questa faccenda non deve riguardare tuo padre” intimò, e avvertì il capo della ragazzina annuire tra i suoi seni. “Vieni, andiamo” le disse non appena fu certa che il viavai di gente in strada era intenso abbastanza da permettere loro di confondersi senza problemi. Uscì con Sol che la seguiva in silenzio, i passi più affrettati per star dietro alla madre. “Tarda a fiorire” pensò Nora, il suo sguardo che percorreva la figura minuta della figlia. “Al contrario di me che invece sono maturata fin troppo presto! Ma forse è meglio così.”

“Dove siete stato?”
La domanda cadde come un fulmine a ciel sereno sul capo di Bernardo Muñoz. “In città, signor tenente” rispose con un filo di voce. El Moro sbuffò. “Siete pregato di evitare ovvietà, sergente” replicò tranquillo, ma i suoi occhi palesavano irritazione. “E di essere più chiaro; ho dovuto sostituirvi pel turno con un altro vostro commilitone, e la cosa mi è seccata alquanto.”
“Ho tardato solo pochi minuti!”
“E gradirei sapere il perché. In assenza del capitano Valera dovete rispondere a me, come ben sapete.”
“Avevo un affare... privato da sbrigare.” Muñoz si mordicchiò il labbro con un certo nervosismo. “Era la mia ora libera, non ho mancato ai miei doveri.” La mano corse in un gesto inconsapevole al tascapane; per sua sfortuna il tenente se ne accorse. “Che avete lì?” si sentì infatti domandare.
“Nulla.”
El Moro  non tardò ad avvertire puzza di bruciato; il sergente aveva varie qualità, ma certo era un pessimo mentitore. “Aprite e mostratemelo; la vostra reticenza non fa che insospettirmi” disse.
“Ma...”
“È un ordine.” Con una lentezza esasperante Muñoz tirò fuori una boccetta sì piccola che non gli occupava un palmo per intero. “Cos’è?” domandò seccamente. L’altro deglutì, a disagio senz’altro. “Mia... moglie...” lo sentì mormorare.
Por Dios, che c’entra ora vostra moglie!”
“Credo... che... non mi sia del tutto fedele.” El Moro fece tanto d’occhi a quella risposta. “E volete avvelenarla?” azzardò, pur non credendoci in cuor suo: il sergente non era uomo da compiere un simile gesto, e difatti sbiancò esclamando: “Ma cosa dite, in nome del Cielo!”
“Allora a che vi serve quella...?” Il tenente si bloccò, finalmente consapevole; sospirò, commentando: “Dubito che quell’intruglio vi gioverà in qualche modo.” Era incerto se ridere o provare sincera compassione pel suo sottoposto.
Quest’ultimo parve essersela presa a male. “Debbo pur tentare” borbottò. “E mi hanno detto che funziona.”
“Se deste retta a tutti i ciarlatani di questa città...”
Lei non è così.” El Moro alzò le spalle: non era cosa che lo riguardava, in fondo. “Mettete via quella fiala” ordinò stancamente.
“Farete rapporto al capitano?”
“I vostri problemi... matrimoniali non riguardano né lui né me. Abbiamo altro pel capo.”
“Grazie, signor tenente” disse Muñoz con un sospiro di sollievo. “Avete ordini per me?”
“Altroché. Salite dalla signorina di Ventimiglia e conducetela qui; ordini del governatore.”

*

Emilio di Ventimiglia osservò con attenzione l’uomo che aveva dinanzi, e che pareva alquanto imbarazzato per la sua presenza; magro come un’aringa, cosa insolita per un filibustiere, si stuzzicava sovente i sottili baffi color sabbia. “Sono... mortificato, cavaliere” si sentì dire.
“Conte, se non vi dispiace. Ho assunto anni orsono il titolo appartenuto a mio padre e a mio fratello maggiore.”
“Perdonate, conte.”
“Non importa. Potete ripetermi il vostro nome? Prima, durante la confusione, m’è sfuggito.”
“Pierre le Picard” rispose con prontezza l’altro.
“Mi avete tolto da un bell’impiccio, signor le Picard.”
“I marinai di questa nave sono per la gran parte della nuova leva, signor conte, e pur avendo udito molto a parlare di voi non vi hanno mai veduto di persona.”
“Al contrario di voi.” Il filibustiere sorrise dicendo: “Ho avuto l’onore di servire sotto l’Olonese, e partecipai alla fortunata presa di Maracaibo. Per questo non ho esitato a riconoscervi.” Un improvviso tramestio sopra di loro costrinse entrambi gli uomini ad alzare il capo. “Ah, il capitano dev’essere tornato” annunciò Pierre le Picard. “Attendetemi qui.”
“Un momento. La Nuova Castiglia...”
“La vostra nave, volete dire? Ho già dato ordine alle navi sentinelle di considerare come amico il veliero colle caratteristiche che mi avete fornite. Non temete.”
“Ne avevate il potere?” domandò con un certo stupore l’ex-Corsaro.
“Sono il comandante in seconda, signor conte, e il capitano ha piena fiducia in me” rispose con orgoglio, ma senza superbia il filibustiere. “E come vedete ho presa la decisione giusta.” Abbozzò un inchino in segno di saluto, prima di lasciare la cabina. Il gentiluomo s’alzò dalla comoda seggiola su cui era stato seduto fino a quel momento, prendendo a passeggiare per la stanza; gli era bastata un’occhiata per riconoscere i gusti e l’innato senso pratico del suo antico secondo: armi bianche e da fuoco erano state appese alle pareti, mentre la scrivania era coperta di appunti vari e carte nautiche.
“Voi... qui, signore?”
Il conte alzò gli occhi, incontrandone un paio nerissimi e fieri che non si trattennero dal mostrare stupore misto a sincero piacere. “Capitano Morgan” salutò formalmente chinando il capo. L’altro sembrava non credere ai suoi orecchi. “Proprio voi, comandante...” mormorò con un sorriso imbarazzato.
“Non lo meritate, forse? Mi avete superato, signore, giacché mai io ho avuto l’onore di guidare un’intera flotta.”
“La scuola che ho fatta sotto di voi mi ha giovato” ammise l’inglese. “E comunque, voi non avevate bisogni di simili oneri per farvi conoscere; anche ora, dopo più di quindici anni, non v’è un solo filibustiere della Tortue che non ricordi il vostro nome.”
“Bah!” sospirò l’ex-Corsaro. “Ho detto addio a quella vita molto tempo orsono e, perdonate la franchezza, avrei preferito non tornarvi.”
“Lo so, capitano, come so cosa vi ha spinto a riprendere il mare.” E detto questo Morgan strinse vigorosamente la mano dell’ex-Corsaro. “Libereremo vostra figlia, avete la mia parola.”
“Vi ringrazio” rispose il conte ricambiando la stretta. Il contatto tra i due sembrò allietare in misura maggiore l’almirante  della flotta filibustiera. “Avevo ordinato a Carmaux e Wan Stiller di portarmi una buona fonte di informazioni, ma mai avrei immaginato che mi avrebbero condotto voi in persona” disse quest’ultimo. “A proposito, dove sono?”
“Carmaux è dal chirurgo” intervenne le Picard, rimasto fino a quel momento in rispettoso silenzio. “Vado a chiamarlo, se volete.” Quelle parole adombrarono di subito il comandante. “Chirurgo? È ferito, forse?” domandò, la voce d’un tratto alterata; anche l’ex-Corsaro s’era oscurato in volto.
“Nulla di grave, capitano.”
“E Wan Stiller?”
“Catturato” intervenne una voce amara. Tutti i presenti si voltarono, mentre Carmaux lasciava la soglia della cabina ed entrava, una mano stretta sulla spalla ferita ma il passo risoluto. Morgan lo fissò con sguardo indagatore. “Cosa hai detto?” chiese, preoccupato.
“L’hanno preso, signore, e condotto al palazzo del governatore.”
“Ma come...?”
“Qualcuno ci ha traditi.”
“Maledetto! Chi?”
“Questo lo ignoro, capitano.”
“Qualcuno che ben doveva sapere di voi” rifletté le Picard. “Vi conosco, e non siete uomini da agire senza prudenza.”
“Voglio sapere tutto” esigette Morgan, gli occhi lampeggianti; la mano corse inconsapevolmente a stringere, per la foga, la spalla ferita del marinaio, che a stento trattenne un gemito. “Perdonami, vecchio mio” mormorò il comandante, subito pentito di quel gesto improvviso. “Siedi ora, e racconta ciò che sai.” Carmaux non tardò a obbedire mentre gli altri gli si disponevano intorno, compreso il conte che già era a conoscenza dell’accaduto.
“Io e Wan Stiller ci eravamo diretti verso una delle taverne più frequentate, adocchiando quasi subito un grasso piantatore che pareva fare al caso nostro. Ero appena riuscito a prender confidenza con lui, discorrendo circa un combattimento di galli che ivi si stava tenendo, quando una dozzina di soldati piombarono dentro dritti verso di noi, dandoci delle canaglie e ordinando di seguirli. Noi, profittando dell’improvvisa confusione sorta tra la folla, cercammo di forzare il blocco e di guadagnare la porta, ma quei cani restarono fermi sul posto e presero all’istante a battagliare contro di noi.
Erano dodici, signor capitano, e noi due soli. Le cose sarebbero andate ancora peggio se il qui presente conte, di passaggio anche lui a Maracaibo e che aveva preso a seguirci dopo averci riconosciuti, non fosse intervenuto.” Carmaux sospirò, i pugni stretti convulsamente sui braccioli della seggiola. “Quei maledetti, certi di non poter sbrigarsela più senza ulteriori perdite, batterono in ritirata, ma decisi a non tornare a mani vuote agguantarono Wan Stiller, rimasto isolato nella lotta, e lo condussero via su un carro che passava di lì ed era stato costretto a fermarsi. Cercai di raggiungerlo per aiutarlo, ma le ferite mi tradirono e mi fecero venir meno sul selciato; mi risvegliai solo la mattina dopo, nella locanda cui il conte e la sua famiglia avevano trovato rifugio.”
Morgan aveva ascoltato l’intero racconto in silenzio, torturandosi di tanto in tanto la folta barba e mostrando evidente nervosismo man mano che la narrazione procedeva. “La situazione si complica” disse a denti stretti. “Non ho ottenuto le informazioni che volevo, uno dei miei uomini migliori è in mano nemica e, peggio ancora, ormai il governatore è certo della nostra presenza qui. Non ci voleva, maledizione, non ci voleva!” imprecò, prima di rivolgersi al conte: “Signore, a questo punto mi sorge spontanea una considerazione.”
“Dite pure.”
“Voi siete giunto fin qui del tutto ignaro del nostro progetto.”
“È così.”
“Posso sapere dunque come speravate di risolvere la questione senza l’ausilio delle armi? La vostra sola nave non sarebbe mai bastata a dar addosso a una città come Maracaibo.”
“La vostra riflessione è corretta, capitano Morgan” affermò il gentiluomo italiano. “Tuttavia sono convinto che a rispondere a questa vostra domanda debba essere mia moglie.” L’almirante spalancò gli occhi. “Vostra moglie!” esclamò con stupore.
“Sì.”
“La duchessa di Wan Guld qui!”
“Lei, senz’ombra di dubbio.”
“Non credevo che l’avreste condotta con voi.”
“Jolanda è anche figlia sua, non avrebbe sopportato di restare a Ventimiglia senza sapere.”
“Questo è vero ma... comandante, la vostra venuta qui comporta dei pericoli. Se avete esposto la vostra consorte a essi, un motivo ci deve essere. Vi sarà forse utile in qualche modo?” Il conte di Ventimiglia alzò le mani in segno di resa. “Quasi avevo dimenticato il vostro intuito e senso logico” ammise. “Non vi si può nascondere nulla, signor Morgan.”
“Ho imparato da voi” ammise con modestia l’almirante. “Suppongo che ora non ci resti che attendere l’arrivo della signora.”
“Detto fatto, comandante.” La voce di le Picard, allontanatosi per un attimo, si fece sentire nuovamente in cabina. “Sono tornato sul ponte e ho appena scorto la Nuova Castiglia, cui è stato fatto segno di avvicinarsi.”
“Molto bene” disse Morgan. Finalmente avrebbe avuto le risposte che cercava.
 

*

Jolanda tremò, stringendosi nel mantello. “Non credevo che il conte avrebbe dimenticata sì presto la mia posizione” pensò amaramente, badando a non agitarsi più del dovuto: bastava anche il più piccolo movimento a far frusciare la paglia su cui s’era seduta. E non aveva alcuna intenzione di svegliare il suo ospite che giaceva nell’angolo più buio della cella, al contrario di lei che s’era scelta il punto meglio illuminato dalla torcia in corridoio. “L’ha pensata bene, la mia punizione” pensò ancora la signorina di Ventimiglia, gli occhi stretti per la rabbia e il timore: quando il sergente s’era presentato nella sua stanza per condurla dal governatore, mai avrebbe immaginato cosa avesse escogitato per lei quell’uomo. “Ho creduto bene di trattarvi col rispetto che si conviene a una signora del vostro rango” le aveva detto con voce tagliente. “Tuttavia queste mie premure non sono state tenute in considerazione, anzi da voi non ho ricevuto null’altro che disprezzo. Spero che una notte in cella basti a smussare la vostra alterigia, signorina di Ventimiglia.”
“Quale uomo!” pensò la fanciulla stringendo le labbra. Non contento, aveva lasciato che il sergente la chiudesse nell’unica cella occupata: passi pel freddo che le stringeva le membra e il fetore cui cercava di sfuggire tappandosi il naso con un lembo del mantello, ma restare lì in compagnia d’un criminale di cui non conosceva le intenzioni... Era troppo.
Tacque, il respiro pesante ma irregolare del prigioniero che le giungeva agli orecchi con insistenza. Le membra le si erano ormai addormentate per via della scomoda posizione accovacciata, ma non osava ancora muoversi per tema di fare rumore. Non sapeva quanto fosse profondo il sonno di lui.
“Mio Dio! Si sveglia!” pensò con un sussulto nell’udire la paglia stridere sotto il corpo dell’uomo; una sagoma robusta si mosse nell’ombra, e Jolanda si pentì amaramente di essersi messa nel punto più visibile; forse, se fosse stata al buio anch’ella, lui non le avrebbe badato. Non proferì parola, decisa a non dargli corda in alcun modo: un brivido di paura le percorse la schiena, ma s’impose di controllarsi. “Mio padre non avrebbe timore” pensò, sperando che quel pensiero le infondesse un po’ di coraggio.
Un’esclamazione roca fuoriuscì dalle labbra dell’uomo; Jolanda poteva giurare che si trattasse di stupore. “Certo costui non s’attendeva visite” rifletté. Ne vide il corpo riemergere pian piano dal buio, avanzando verso di lei a carponi, ma non si scostò: era nel punto più lontano possibile, colle sbarre gelide che le premevano sulle scapole, non aveva senso tentare di allontanarsi. Fissarlo in volto equivaleva a sfidarlo, dunque abbassò lo sguardo sperando che si decidesse a lasciarla in pace.
“Voi...” La voce dell’uomo mostrava evidente sorpresa, ma non solo. La sua, pensò la fanciulla, era una voce che trasudava dolore. Cosa, e quanto, aveva dovuto sopportare durante la sua permanenza lì?
“Tuoni d’Amburgo! Voi... signorina di Ventimiglia?” Jolanda non seppe resistere a quel richiamo che tanto l’aveva colta alla sprovvista. Alzò il capo, incontrando due occhi che la fissavano con un misto di stupore, curiosità e, avrebbe osato dire, preoccupazione; occhi curiosi anch’essi, d’un verde pallido tendente all’azzurro e che parevano l’unica cosa davvero viva in quel corpo ferito e sanguinante, seppur ancora vigoroso. “Vi spavento?” azzardò ancora l’uomo, forse cosciente del timore che lei provava. Lo vide accennare a tornare indietro, nell’ombra. “No.” Era lei a parlare, tuttavia la sua voce le suonò estranea. “Mostratevi, non vi temo. Se... se aveste voluto farmi del male non avreste esitato.”
Un risata triste le giunse agli orecchi. “Ridotto come sono, posso farvi ben poco” disse l’uomo, lasciandosi scivolare contro il muro alla sua destra.
“Come...?”
“Come so chi siete, volete dire?”
“Ecco... sì.” Jolanda, cosciente d’aver dinanzi un uomo in vesti stracciate che lasciava gran parte del torso in bella vista, abbassò pudicamente il capo. “Io non vi ho mai veduto.” Di nuovo quella risata, forse meno triste rispetto alla precedente. “Neanch’io, ma le vostre sembianze parlano chiaro” rispose il prigioniero. “Siete... il ritratto di vostro padre.”
“Conoscete mio padre?” Sospettando che vi fosse una guardia nei pressi della scala, la fanciulla ritenne opportuno abbassare la voce.
“Sì, signorina. Ho avuto l’onore di servirlo, molti anni orsono.”
“Mio Dio! Un Fratello della Costa!” quasi gemette Jolanda; era stata una sciocca a non pensarci prima. E di subito si pentì del timore e del ribrezzo che in minima parte aveva mostrato; proprio lei, ch’era giunta in America per chiedere protezione ai vecchi amici del padre. “E siete qui per…?”
“Per voi, signorina.”
“Me?”
“Tuoni… d’Amburgo!” rise l’uomo, di una risata che gorgogliava di sangue. “Credete voi che avrei lasciata nelle mani degli spagnuoli la figlia del mio antico comandante?”
“E siete venuto solo?”
“Con un compagno, per raccogliere informazioni.”
“E lui dov’è, ora?” Jolanda notò con dispiacere gli occhi di lui intorbidirsi. “Non lo so” si sentì rispondere con voce malferma. “Potrebbe essere morto a poche celle di distanza da me, torturato senza pietà… o ancora in istrada, perduto chissà dove… non lo so, né so se abbia ancora importanza.”
“Parlate di quello spagnuolo che catturarono iersera?” Quelle parole sortirono un ben bizzarro effetto sul prigioniero, che si rizzò sulle ginocchia a dispetto delle ferite. “Spagnuolo, avete detto?” domandò, gli occhi spiritati e attenti.
“Credo che fosse tale. Diceva di chiamarsi Pedro Raminez, o un nome simile, forse un ladro o...”
“Ne siete certa?”
“Così mi è parso di udire dalla soglia della mia camera; faceva parecchie voci, perciò sono stata in grado di ascoltare.”
“Ma siete sicura che fosse spagnuolo?”
“Oh, questo sì. Ne ho riconosciuto l’accento” affermò Jolanda, mentre l’uomo lasciava andare il capo contro il muro, un pesante sospiro di sollievo che gli fuoriusciva dalle labbra screpolate. “Quel... cane d’un governatore...” ansimò. “Mi ha giuocato per bene, e io ci sono cascato come un pollo! Ah, che stolto!” Si volse verso la fanciulla. “Grazie, signorina; mi avete tolto un gran peso dal cuore. Io ho commesso un grave sbaglio, ma forse non tutto è perduto...” Strinse con forza un oggetto di forma ovale, forse una scatola, nel palmo della mano. “Sì... non tutto è perduto...”
“Di cosa parlate?”
“Shhh!” intimò piano il filibustiere. I suoi occhi guizzarono sulla ciotola d’acqua nell’angolo, in una muta richiesta che Jolanda colse al volo: la prese tra le mani e s’avvicinò, badando a non versarne il contenuto. Era un liquido torbido che lei mai avrebbe osato bere; ma al vedere quell’uomo sorbirlo avido e senza ribrezzo alcuno le si strinse il cuore. Ne ebbe pietà, ma si curò di celarla al meglio.
“Voi conoscete il mio nome. Potrei io sapere il vostro?”
“Ha importanza?”
“Sta a voi deciderlo” mormorò Jolanda, e anche la risposta che ottenne non fu che un fioco sussurro. Un grido sottile, sorpreso, le uscì dalle labbra suo malgrado prima che l’altro le imponesse di tacere con un gesto; in verità il suo dito stava per sfiorarle le labbra prima d’esser trattenuto a tempo: sembrava che lui avesse pudore a toccarla, un pudore che non doveva essere frequente nei fieri sì, ma ruvidi uomini della filibusteria. “Voi! Non avete forse accompagnato mio padre in Florida, dopo l’esplosione del vascello di mio nonno il duca? Voi e il vostro...”
“Giù quelle mani, figlio d’un cane” intervenne in quel momento una voce. “O te le taglio.”
Jolanda s’alzò con uno scatto, fissando accigliata colui che aveva appena parlato. “Avete inteso male, signor tenente” replicò, il calore rivolto al filibustiere che svaporava in un colpo. “Costui non mi ha neanche sfiorata, al contrario dei vostri uomini.” El Moro strinse le labbra. “Qualcuno ha osato mancarvi di rispetto?” domandò. “Ditemelo e sarà punito.”
“Lasciate perdere, il mio onore di donna è ancora illeso. Cosa volete?”
“Farvi uscire di lì.”
“Come?” fece la fanciulla ironicamente, fingendosi stupita. “Credevo che il governatore volesse farmi passare qui la notte.”
“Ha più cuore di quanto crediate. Ora seguitemi.”
“Solo un attimo.” Jolanda si sfilò dalle spalle il mantello. “Prendete, Wan Stiller” disse porgendolo gentilmente al filibustiere. “Tremate di freddo.” Lui la fissò con evidente stupore. “Ne siete certa, signorina?”
“Certissima.”
“È un vero peccato. Finirò per sporcarvelo.”
“Suvvia, non siate sciocco” replicò con maggior veemenza la fanciulla. “Serve più a voi che a me.” El Moro si limitò a guardare senza intervenire, preferendo dire la sua una volta condotta la fanciulla lontano da quel posto. “La vostra pietà è ammirevole” commentò, guadagnandosi in risposta un’occhiataccia; fossero stati colpi di pistola, a quell’ora i soldati di palazzo sarebbero stati decimati. “Il vostro buon cuore, se preferite.”
“La vostra lingua taglia più della vostra spada, signor tenente.”
“Non mi avete mai veduto in battaglia.”
“Non ci tengo, grazie.” L’ufficiale celò a stento una smorfia di disappunto. “Trattenete la vostra insolenza, signora” disse con voce pacata ma gelida. “Sono nobile come voi, e non vi permetto di mancarmi di rispetto.”
“Mi chiedo perché siete qui, dunque.”
“Perché questo è il destino dei figli cadetti” replicò amaramente El Moro mentre apriva la porta della camera di lei. “Il militare o il convento. Grazie al Cielo, mio padre era piuttosto tiepido in fatto di fede.”
“Ai miei occhi siete un carceriere al pari di tutti gli altri” disse Jolanda. “Non vedo perché debba trattarvi meglio di loro.”
“Non so cosa mi trattenga dallo schiaffeggiarvi come meritate.”
“La vostra innata cortesia, forse.” Quelle parole furono accompagnate da un sorriso, tutt’altro che ironico però. L’ufficiale alzò gli occhi al soffitto, cosciente d’esser stato provocato di proposito. “Toccato” ammise.
“Riconosco un gentiluomo quando lo vedo, signor tenente” riprese la fanciulla. “Abbia agli indosso una divisa o un pomposo abito di gala. Un’altra volta, se lo vorrete, discorreremo dei nostri rispettivi avi; per ora vi do la buonanotte.” E porse la bella mano affusolata, lasciando che l’altro se la portasse alle labbra con un solo, elegante gesto. “Quale donna!” pensò l’ufficiale una volta solo. “Darà un bel daffare al suo futuro marito!”
E il pensiero lo fece sorridere.

*

Di rado il suo quadrato ufficiali era mai stato così affollato, pensò Morgan una volta fatti accomodare tutti i suoi ospiti; se si escludevano le sedute di guerra, ovviamente. “Spero non vi dispiaccia se ho condotto con me uno dei miei servi” esordì Honorata alludendo a Ch’ulel, in piedi al suo fianco.
“Affatto, signora, anzi credevo che li avreste portati tutti e due.”
“Non so perché, ma questa frase mi suona familiare” disse la duchessa con un sorriso, una mano che stringeva con affetto quella del marito; quest’ultimo glissò con molta grazia sull’amichevole presa in giro della consorte. Perlomeno la battuta aveva provveduto a sciogliere l’atmosfera fattasi tesa. “Signora contessa” cominciò l’almirante, “da quanto ho potuto capire voi avete un ruolo non indifferente, in questa istoria; non mi spiego altrimenti la vostra presenza qui.”
“È così, signor Morgan” affermò Honorata. “Se ho insistito per seguire mio marito a Maracaibo, pur conscia dei pericoli e del peso che avrei potuto essere per lui, è perché conosco personalmente il responsabile di tutto ciò."
“Intendete il governatore di Maracaibo?”
“Esattamente, anche se è trascorso molto tempo da quando l’ho veduto l’ultima volta.”
“Non era che un fanciullo” intervenne accorato il conte.
“Un fanciullo che mostrava affezione per me, Emilio” replicò sua moglie, seria. “Certe cose non si dimenticano.”
“Sai qual è il mio pensiero.”
“Lo so, ma non abbiamo scelta.”
“Qual è la vostra idea?” si decise a chiedere Morgan.
“Lasciare che io mi rechi a Maracaibo in qualità di messaggero” rispose decisa Honorata.
“Sola?”
“Accompagnata da alcuni vostri marinai, se così credete, muniti ovviamente di bandiera bianca. Se avrò fortuna, il conte di Medina rinuncerà alle sue mire su Jolanda.”
“E la vostra eredità?”
“Può anche trattenerla, pur non avendone il diritto” disse accorata la contessa di Ventimiglia. “Ciò che più mi preme è riavere mia figlia sana e salva; firmerò qualunque carta lui desideri, garantendogli anche che Jolanda, in futuro, continuerà a rispettare la mia decisione.”
“Potrebbe non bastare” rifletté Morgan. “Gli porterete anche un messaggio scritto di mio pugno; se accetterà di lasciare libera vostra figlia, io rinuncerò ad attaccare la città colla mia flotta.”
“Lo fareste?” fece con stupore Honorata.
“Dubitate della mia parola?”
“No, ma so che a spingere in mare i vostri uomini non è stato solo il nome di Jolanda” replicò lei con semplicità. “So chi sono i filibustieri della Tortue; e sono ormai trascorsi i tempi di Ilio, in cui si combatteva per amore d’una donna. Tutti i marinai sarebbero disposti a rinunciare a un sì grande cumulo di ricchezze?”
“Sì” replicò con sicurezza il comandante della flotta. “Sappiate, signora contessa, che alcuni dei capitani si sono spinti fin qui proprio per rendere un favore alla memoria del Corsaro Nero, che tutti ancora ricordano; senza contare che ho un notevole ascendente su costoro. Rinunceranno a Maracaibo, se sarò io a chiederglielo; sanno che sono in grado di condurli ovunque.”
“Anche a Panama?” intervenne Enrico con un sottile velo d’ironia che lo zio non riuscì a impedirgli di usare. Ma Morgan non sembrò essersela presa a male. “Perché no?” disse difatti. “Un giorno, forse.”
“Ammiro sinceramente il vostro zelo; ne servirebbe, agli uomini della Marina di Sua Maestà.”
“Permettete una parola?” intervenne a sua volta Carmaux.
“Parlate pure” l’invitò Honorata.
“Credete voi che il legame di amicizia che avete col conte basterà?”
“Oh no” rispose con un sorriso triste la bella gentildonna. “A legarci... è molto di più.” E detto questo strinse il braccio del consorte, come a cercare forza e conforto. Enrico e Ch’ulel, che già sapevano tutto, non fecero una piega, al contrario di Morgan e Carmaux, alquanto confusi. “Cosa intendete, signora?” azzardò il primo. “Cos’è che avete in comune?”
“Il sangue, signor Morgan” fu la mesta risposta. “Il sangue di nostro padre.”
“Di vostro... cosa?”
“Ventre di pescecane!” esclamò Carmaux, livido, facendo un passo indietro. “Volete dire che...?”
“Proprio così” convenne Honorata. “Il conte di Medina è mio fratello.”


Note dell’autrice: il riferimento di Honorata all’Iliade nasconde una velata “critica” della sottoscritta nei confronti del romanzo originale salgariano. Mi spiego: mentre, nei libri precedenti, si vedeva come L’Olonese o il trio de Grammont - Laurent - Wan Horn partissero alla conquista di Maracaibo e Veracruz per perseguire i propri scopi, così come il Corsaro si accodava a loro per seguire la sua vendetta, in “Jolanda” sembra quasi che Morgan si metta in mare sempre e solo per il bene della fanciulla - o per il suo amore, come è evidentissimo per la conquista di Panama. Visto che in pratica sto riscrivendo il romanzo secondo i miei gusti, ho creduto bene di “aggiustare” un po’ il tiro in questo senso.
Il mio timore maggiore è che “Sangue corsaro” finisca per essere un mero riciclo di avvenimenti aggiustati un po’ qua e là a seconda delle circostanze. So che in pratica tutto questo è un gigantesco What if?, ma ci tengo comunque a mettere sempre qualcosa di mio - che siano OC o comunque scene del tutto originali.
Il riferimento al maracaya è ovviamente preso da “Il Corsaro Nero”, in cui effettivamente il signore di Ventimiglia e i suoi uomini hanno a che fare con questo felino - scambiato da Carmaux per un giaguaro. Io credo che sia la figuraccia peggiore che fa nel romanzo, dopo quella del surrilho XD -. Inoltre, quando Honorata dice che la frase di Morgan le suona familiare, si riferisce a quando, sempre ne “Il Corsaro Nero”, il cavaliere le dice qualcosa di molto simile circa l’aver portato una serva anziché due.
Un doveroso ringraziamento lo merita l’autrice Chandrajak che, sempre sia lodata, mi recensisce, mi segue e mi sostiene. Spero di non deluderla con El Moro, che sembra piacerle molto come personaggio.
Satomi

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Capitolo 5
*** Confronti e sotterfugi ***


5. Confronti e sotterfugi

 


“Il duca di Wan Guld ha lasciato un figlio!”
“Fulmini! Avete un fratello?”
Queste le parole che fuoriuscirono dalle labbra di Morgan e Carmaux, rimasti sbigottiti a una simile rivelazione.
“Fratellastro, in verità” precisò il figlio del Corsaro Rosso, facendo così scattare la signora di Ventimiglia. “Enrico!” I suoi begli occhi mandavano bagliori irritati.
“Suvvia, zia, non è forse così? Vostro padre non lo ebbe certo dalla sua moglie legittima, ma da una marchesa messicana; per questo gli fu imposto un titolo diverso da quello che in circostanze diverse avrebbe potuto portare.”
“Non nego nulla” ammise Honorata. “Ma per me tutto questo non ha mai contato.”
“Non era lo stesso per tuo padre” aggiunse il conte di Ventimiglia, e sua moglie annuì tremante. “Ai suoi occhi Luis è sempre rimasto un... un bastardo” disse, la voce che assunse un tono ancora più amaro nel pronunciare l’ultima parola. “Un errore che aveva rischiato di comprometterne l’onore. Fece in modo che non gli mancasse mai nulla, questo è vero, ma lasciò che crescesse quasi in segreto, lontano dalla sua stessa madre. Lei era molto giovane a quei tempi, e suo fratello le stava combinando un importante matrimonio; se l’istoria fosse uscita fuori, sarebbe scoppiato uno scandalo.”
“E le nozze sarebbero andate a monte” concluse Morgan.
“Come in effetti accadde, seppur per altri motivi. Sarebbe passato altro tempo prima che la marchesa riuscisse a sposarsi.”
“Fino a quando durarono i vostri rapporti col conte?”
“Il mio ultimo incontro con lui risale a diciotto anni fa” rispose Honorata. “Ricordate quando la Folgore attaccò il galeone su cui ero imbarcata? Stavo tornando a Maracaibo da Veracruz, dove avevo fatto visita a mio fratello; purtroppo non mi era concesso di vederlo spesso, mio padre era molto severo a riguardo. Lui, invece, si recava a trovare Luis con una frequenza maggiore, prima a Coro e poi a Veracruz, quando lo fece trasferire lì; ma non saprei dire i motivi che si celassero dietro quelle visite.”
Il conte di Ventimiglia scosse il capo. “Io invece riesco facilmente a immaginarlo” disse poi, gli occhi che lampeggiavano di ira malcelata. “Gli serviva qualcuno da riempire del suo odio, che si facesse carico di vendicarlo qualora io e i miei fratelli fossimo riusciti a raggiungerlo.”
“Emilio, no!” protestò la donna. “Non ricominciare con questa...”
“E perché?” scattò l’ex-Corsaro. “In nome di Dio, Honorata, pensaci! Se davvero il primo obiettivo di tuo fratello fosse l’eredità, non avrebbe esitato a farci sapere della cattura di Jolanda per ricattarci! E invece la tiene nascosta, perché dentro di sé non ha alcuna intenzione di restituirle la libertà! Vuole vendicarsi di me attraverso di lei!”
“Se davvero è così” intervenne Carmaux, che era rimasto colpito dalle parole del suo antico comandante, “non c’è un minuto da perdere. Quel maledetto governatore sarebbe capace di farla sparire.”
“Attacchiamo subito, capitano Morgan” aggiunse Pierre le Picard. “Prima che ci renda impossibile ritrovarla.” L’almirante guardò pensieroso fuori da un sabordo, tirandosi nervosamente la folta barba nera. Poi i suoi occhi tornarono a posarsi sulla contessa, racchiusa nell’abbraccio del marito; ripensava al piano che lei stessa gli aveva proposto. “Siete certa che il presentarvi a lui possa avere un qualche risultato?” domandò.
“ No” replicò con forza l’ex-Corsaro, stringendo ancora di più la sua sposa. “Mia figlia è nelle mani di quell’uomo, non lascerò che si prenda anche mia moglie!”
“Ti prego, caro” mormorò Honorata, il capo posato sul petto di lui. “Occorre qualcuno che porti il messaggio di Morgan.”
“Quel qualcuno non sarai tu!”                            
“Ma non capisci? Io sola posso tentare di far ragionare Luis, d’impedirgli di seguitare nella sua pazzia!” La donna si scostò per fissare negli occhi il suo consorte; la preoccupazione per le sorti della figlia non mascherava la sua determinazione. “Lasciami andare, Emilio: sono sua sorella e una nobildonna. Non oseranno farmi del male.” Il conte continuava a scuotere il capo, ma un buon osservatore si sarebbe accorto subito della mera meccanicità di quel gesto: gli occhi indicavano che, seppur con lentezza e a malincuore, il signore di Ventimiglia si stava arrendendo all’unica persona davanti a cui, nell’arco intero della sua esistenza, aveva ceduto le armi.
“Se c’è un altro modo…”
“Non credo, signore” intervenne piano Morgan. “Io medesimo avevo intenzione di servirmi d’un ostaggio per portare il mio messaggio al governatore; grazie alla vostra signora avremmo qualche speranza in più. E credetemi” aggiunse mentre si avvicinava al suo antico capitano, “desidero quanto voi che la contessa non sia messa in pericolo più del necessario.”
Se avesse dato retta al suo cuore, mai il signore di Ventimiglia avrebbe lasciata andare la sua consorte, sia pure sotto la protezione dei filibustieri; ma non era quello il momento di farsi sopraffare dai sentimenti. “Sia come vuoi, dunque” mormorò, le mani della moglie che lente scivolavano via dalle proprie. “E Dio non voglia che il bastardo di Wan Guld sia anche la tua rovina.” Honorata frenò l’irritazione, limitandosi a stringere le labbra. “Il biglietto, signor Morgan” disse poi.
“Subito. contessa.” Per qualche istante si udì una punta di penna d’oca stridere sulla carta, il tempo necessario all’almirante  per scrivere un messaggio conciso ma chiaro. “Tenetelo con voi e badate a consegnarglielo personalmente, se vi sarà concesso” disse poi porgendolo alla donna. “Mi fido poco degli intermediari.”
“Lo farò” confermò lei. “Ritengo sia giusto partire subito” aggiunse dopo aver gettato un’occhiata al di fuori del sabordo; l’oscurità era ormai calata da un pezzo.
“Sì, non vi è un solo istante da perdere. Pierre le Picard!”
“Capitano.” Il luogotenente della nuova Folgore fu lesto a rispondere al richiamo.
“Corri in coperta e ordina di calare la barcaccia; vi salgano otto marinai, tutti ben armati e pronti a salpare.”
“Sarà fatto.” E le Picard lasciò in gran fretta il quadro.
“Capitano Morgan...”
“Parla, Carmaux.”
“Chiedo di poter accompagnare la contessa.”
In quel caso tutti i presenti furono d’accordo nell’esprimere il proprio disappunto.
“Siete sopravvissuto a stento a un agguato e già volete tornare allo scoperto?” fece Enrico. “Ammiro il vostro coraggio, ma non penso sia il caso di esporvi nuovamente a un sì grande pericolo.”
“Mio nipote ha ragione” intervenne l’ex-Corsaro, una sua mano che si posava sulla spalla sana del filibustiere. “A Maracaibo staranno ancora cercandoti.”
“Avrei preso le dovute precauzioni, signor conte. Inoltre...” E qui la voce di Carmaux si ridusse a un sussurro, in modo da farsi udire solo da chi più gli era vicino. “...credevo sareste stato più tranquillo, con un uomo di vostra fiducia al fianco della signora.” Il gentiluomo italiano sospirò e scosse il capo senza proferire parola: non dubitava della sincerità del suo antico braccio destro, ma al contempo aveva compreso il motivo primo che si celava dietro la proposta di seguire Honorata. E l’aveva compreso anche Morgan, a giudicare dalle parole che gli sfuggirono dalle labbra una volta solo.
“Ora come ora sarebbe meglio occuparsi dei vivi, e non già dei morti.”
Uno scricchiolio lo costrinse ad alzare il capo dalle carte che stava guardando: s’era sbagliato, il conte era ancora nella stanza, la mano stretta con forza sul bordo della porta. “Credevo foste salito anche voi” mormorò l’almirante con un certo imbarazzo. L’altro non rispose, limitandosi a fissarlo con intensità; e fu proprio quello sguardo, in cui poteva leggersi facilmente una nota di rimprovero, a spingere Morgan a parlare ancora. “Non sono indifferente all’idea che un mio uomo di fiducia sia in mano nemica” disse difatti con voce accorata. “Ma guardiamo in faccia alla realtà: gli spagnuoli non esitano ad appiccarci quando si presenta loro l’occasione, e voi lo sapete meglio di me.” Alludeva certo ai fratelli minori del signore di Ventimiglia, che al ricordo strinse con forza i pugni.
“Torniamo in coperta, signor Morgan. Ci attendono."

Entrambi misero piede sulla tolda nel momento in cui Honorata era in procinto di salire sulla barcaccia. “Tutto è pronto” mormorò la contessa, le mani strette sul seno come a volerlo trattenere.
“Sii prudente” le disse il marito, accogliendola tra le braccia un’ultima volta.
“Questo è un avvertimento che dovrei rivolgerti io.” La signora di Ventimiglia sorrise. “Non inquietarti, vi sarà una persona di fiducia assieme a me.”
“Ch’ulel?” intervenne con un certo stupore Carmaux, che vide l’indigeno e sua sorella farsi avanti. “Vi era anche lui nell’attacco in taverna. E se lo riconoscessero?”
“Oh, non sarà lui a venire, ma Chtilali.”
“La ragazza?” Il vecchio marinaio squadrò con occhi dubbiosi la figura sottile della fanciulla, che subito affiancò la padrona. “E di che aiuto può esservi?”
“Vi assicuro che in caso di emergenza saprà difendere se stessa e anche la mia persona.” Chtilali sorrise a quelle parole, nascondendo tra le pieghe della veste qualcosa di sottile e acuminato. Carmaux non sembrava ancora convinto, ma il cenno di assenso del conte lo rassicurò in parte.
Le dita sottili di Honorata si strinsero attorno ai bordi della biscaglina, prima che il marito l’aiutasse a scavalcare la fiancata della Folgore per posare i piedi sulla scala di corda. “Non temere. Tornerò” sussurrò alle orecchie di lui, la cui mano ancora non si decideva a lasciarla andare.
“Lo spero, come spero che tutto questo non si riveli una pazzia” replicò con amarezza il conte.
“Abbi fiducia in me.”
“Non sei tu a preoccuparmi, ma tuo fratello. È il sangue di Wan Guld a scorrere nelle sue vene.”
“Come nelle mie, ma questo non t’impedì di amarmi.” Le labbra della contessa intervennero a troncare sul nascere una probabile replica. Fu l’ultimo saluto che l’ex-Corsaro ottenne dalla sua sposa prima di vederla inghiottita dall’oscurità, interrotta solo dalla lanterna che uno dei marinai sulla barcaccia teneva alto. Chtilali seguì la padrona, lesta come un gatto.
“Fulmini!” esclamò a mezza voce Carmaux, che a fianco dell’ex-Corsaro e di Morgan seguiva l’imbarcazione allontanarsi sempre più. “La signora ha avuto coraggio, ad andarsi a gettare nella tana del lupo!”
“Speriamo che le sue facoltà persuasive ci siano di qualche aiuto” disse l’almirante. “Recuperare la signorina senza spargimento di sangue sarà tanto di guadagnato.”
“Non per tutti” intervenne Enrico, gli occhi nerissimi come quelli dello zio che percorrevano pensosi le figure di alcuni marinai: sui loro volti dai duri lineamenti non v’era timore per la battaglia sanguinosa che poteva tenersi di lì a pochi giorni, quanto eccitazione. E avidità pel bottino che avrebbero guadagnato in caso di vittoria.
Morgan alzò le spalle. “Ci rifaremo in altri modi” disse semplicemente. L’ex-Corsaro badò poco a quei discorsi, avvicinandosi gradualmente al suo antico braccio destro, immobile coi gomiti sulla fiancata e gli occhi persi all’orizzonte.
“Carmaux...”
“Sì, signor conte?”
“Se vi è anche solo una remota speranza di poter recuperare Wan Stiller, ti giuro che farò quanto è in mio potere per tirarlo fuori di lì... vivo.”

*


Il viso lentigginoso e chiazzato di fuliggine che sporgeva dalle imposte non appariva molto incoraggiante. “Sì?”
“Vi ho portato il...”
“Non qui”  soffiò la donna, spiandosi intorno come se stesse commettendo una qualche azione illegale. “La porta sul retro, svelta.” Nora non riuscì a trattenere uno sbuffo di frustrazione, ma decisa a non avere storie lasciò la facciata principale dell’abitazione e svoltò nell’angolo, evitando più d’un mucchio d’escrementi; il piccolo uscio era ancora sbarrato, segno che la padrona di casa non si faceva scrupolo a farla attendere. Un esattore delle tasse sarebbe stato trattato meglio.
“Bah!” sospirò la guaritrice, gettando un’occhiata al suo fianco; un cane di taglia media, il muso a macchie bianche e marroni, la fissava coi suoi occhi liquidi e più intelligenti, la donna ne era certa, di gran parte delle persone con cui aveva a che fare giornalmente. “La tua padrona non ti tratta granché bene.” L’animale si stiracchiò in tutta la sua lunghezza, esponendo in misura maggiore i fianchi smagriti; Nora gli avrebbe volentieri dato qualcosa, ma non aveva nulla di commestibile con sé. “Finalmente” disse al vedere la cliente aprire la porta. “Stavo per andarmene.” La donna esibì una smorfia irritata, le mani affondate in uno strofinaccio non troppo pulito. “L’avete?” chiese a mezza voce.
“Prima il mio compenso.”
“Fate la difficile, ora?
“Come voi la maleducata.” La cliente borbottò qualcosa che gli orecchi di Nora non riuscirono ad afferrare, ma le sue mani tolsero di tasca un sacchettino; la guaritrice contò le piastre con una lentezza che l’altra giudicò esasperante, senza tuttavia lamentarsi. Solo allora le porse un piccolo contenitore in terracotta. “Una tazza al giorno per quattro giorni.”
“E funzionerà?”
“Potrebbe.” Gli occhi sbiaditi della donna, stretti tra le rughe, sembrarono farsi ancora più piccoli. “Come sarebbe a dire?”
“L’infuso che vi ho dato aiuterà vostro marito a risvegliare le sue... doti, ma non posso garantire altro. Io non faccio sortilegi, né miracoli: per quelli dovete rivolgervi a una vera strega.” Detto questo Nora le volse le spalle senza tanti complimenti. “E date da mangiare a quella povera bestia.” Dietro di lei il cane uggiolò.
“Non sono affari vostri.”
“Buona fortuna col vostro consorte, signora.” La signora, se tale poteva essere chiamata, lanciò al suo indirizzo una sfilza di imprecazioni prima di rintanarsi in casa con uno scatto dell’uscio.

Era appena passato il tramonto, e gradualmente la folla in Plaza Mayor  tendeva a diradarsi. Nora procedeva a capo chino, ben lieta di non doversi muovere a gomitate come invece era richiesto quando usciva in pieno giorno. Si strinse nel mantello, lasciandosi scivolare via come acqua i chiacchiericci vari che le cadevano intorno; ma alcuni di essi le restarono ancorati alla mente, come uncini acuminati.
“...forche...”
“....qualche canaglia...”
Uncini  dolorosi.
“Di cosa parlate?” s’azzardò a chiedere a un paio di uomini che discutevano a poca distanza da lei, nei pressi d’una bottega del pane. Il più vecchio dei due ridacchiò. “Siete cieca, forse? Non vedete la cravatta che penzola dal capestro?” Nora deglutì, volgendo il capo lì dove un dito calloso e avvizzito indicava: era vero, qualcuno salito sulla piattaforma delle impiccagioni era intento ad assicurare un cappio. La donna quasi sentì quel medesimo nodo scorsoio stringerle in gola. “A chi tocca?” riuscì a domandare, forzando per rimanere impassibile.
“Filibustieri, mi sembra chiaro... ma dove scappate?” Senza dare retta a quell’uomo fuggì, incerta su cosa fare ma colle membra tremanti e impazienti di agire; come, non riusciva ancora a immaginarlo. Sapeva solo che l’improvvisa decisione del governatore mandava all’aria il suo piano per intero.
“Non capisco... eppure mi era stato detto che...” Si bloccò, scorgendo in uno stretto spazio tra due case il suo contatto, intento a fumarsi una sigaretta. Prima che potesse controllarla sentì una rabbia gelida invaderla e concentrarsi sulle mani, corse inconsapevolmente all’impugnatura del coltello che portava sempre con sé; i suoi stessi piedi si mossero, decisi a condurla verso l’uomo che le aveva fornito informazioni errate o, nella peggiore delle ipotesi, l’aveva ingannata.
Nora strinse le labbra, attendendo che l’altro le voltasse le spalle prima di percorrere di corsa gli ultimi venti passi; la lama andò con piacere a pungere la schiena del malcapitato, preso del tutto alla sprovvista. “Ma che diavolo...?” sbottò, più sorpreso che spaventato in verità. “Sei capitato male, amico, non ho...”
“Tacete!” intimò a mezza voce Nora, spingendolo nel vicolo; fortunatamente nessuno aveva badato all’improvvisa aggressione. L’uomo sussultò. “Voi! Siete uscita di senno, per caso?”
“Risparmiate il fiato per darmi le dovute spiegazioni.”
“Prima mettete a posto quell’arnese.” La donna rinfoderò con un gesto secco il coltello. “Avete mentito” disse con voce accorata. “Mi avevate assicurato che il governatore l’avrebbe lasciato nella sua cella, e ora scopro che si prepara un’appiccagione!”
“Non è come credete...” tentò di dire l’altro.
“No? Finché fosse rimasto prigioniero avevo qualche speranza, ma non posso aiutarlo se l’attende la forca!” Nora si morse il labbro e una minuscola goccia di sangue le scivolò lungo il mento. “Ho udito a parlare di più di un’esecuzione. Hanno preso anche il suo amico?”
“Forse.”
La donna sbiancò. “Siate più chiaro. E sbrigatevi, non abbiamo molto tempo.”
“Sulla costa è sbarcata una scialuppa con otto filibustieri, meno di due ore fa; venivano da parte del loro comandante in qualità di parlamentari.” L’uomo scosse il capo. “Una volta informato il governatore ricevemmo l’ordine di arrestarli tutti, non prima d’aver fatto loro posare le armi. Verranno appiccati domani stesso.”
“Senza processo, s’intende” mormorò Nora a denti stretti.
“Per delle siffatte canaglie non occorre perder tempo, dovreste saperlo.” L’uomo la fissò con un certo interesse. “O forse la cosa vi turba?” L’allusione la fece arrossire, ma occorse poco affinché Nora tornasse lucida. “Appiccheranno anche lui?” domandò.
“Questo non saprei dirvelo.”
“Allora tornate a palazzo e agite subito; non v’è un solo minuto da perdere” replicò con decisione la guaritrice. Lui si carezzò pensosamente il mento.“Vostro marito e vostra figlia dovrebbero esservi per il solito carico di frutte, a quest’ora” constatò.
“E con questo? Non hanno niente a che vedere con noi.”
“No?” esclamò lui con un certo stupore. “Credevo agiste in accordo con vostro...”
“Lui non deve saper nulla di questa istoria” fu la secca risposta della donna, e la cosa fece ulteriormente insospettire il suo interlocutore. “Voi non me la contate giusta” disse quest’ultimo.
“D’accordo” s’arrese l’uomo.
“Anche se mi dovreste parecchie spiegazioni.”
“A tempo debito, quando sarà tutto finito” assicurò la donna; vi era ancora una speranza che il piano andasse come previsto, ma questo non le impedì di sentirsi il cuore in gola per l’ansia. L’idea che un condottiero filibustiere avesse mandati i suoi uomini nella tana del lupo senza garanzia alcuna non le piaceva affatto.
Oppure costui non mi ha raccontato tutto. Non poteva escluderlo.
“La dose che vi ho data basta per due persone.” Le parole le uscirono a stento a causa della gola secca, ma perfettamente udibili. E fuori dal suo controllo.
L’uomo, in procinto di andarsene, si voltò con un’evidente espressione di stupore. “Se anche vi riuscissi” disse con voce pacata, “la cosa salterebbe subito all’occhio.”
Per favore, avrebbe voluto dire Nora; ma tacque, decisa a non destare altre domande nel giovane uomo in divisa, fin troppo curioso e sveglio. Ma i suoi occhi dovevano aver parlato chiaro, a giudicare dalla risposta che ottenne. “Sia. Vedrò se tra i nuovi arrivati vi è anche quel... il suo nome?”
“Carmaux.”
Mio Dio, Fabien, pensò poi la donna, i pugni che si serravano sotto il grembiule, dimmi che non sei stato così pazzo da tornare.

*

“Resta qui.”
Sol fissò con sguardo deluso e interrogativo il padre, che aveva appena pronunciato quella frase.
“Ne hai combinate fin troppe la volta scorsa, monellaccia.”
“Non è giusto” pensò la ragazzina mentre Perez scompariva oltre la porta sul retro assieme a Juanita: lui lo sapeva benissimo che quei negri che scaricavano le frutte le facevano paura, eppure la lasciava lì tutta sola. Si rannicchiò sul sedile del carro, i passi degli schiavi che si facevano sempre più vicini; lo sguardo basso percorreva le volute brune sul legno o, di tanto in tanto, il profilo degli orecchi di Azogue, al contrario di lei mansueto e del tutto indifferente ai due uomini che, passandogli accanto, gli menavano sonore pacche sul dorso. Era ormai troppo vecchio per scalpitare.
“Muta la topolina, eh?”
“Non badarci.”
Sol rimpianse con tutto il cuore di non avere sassi nelle tasche, colpa di suo padre che non s’era fermato per nulla lungo il tragitto, e soprattutto di non essere coraggiosa abbastanza da mollare un qualche calcio nello stinco del seccatore. Ma arrivava colla testa al fianco di entrambi, grossi com’erano avrebbero potuto usare il suo grembiule come tovagliolo, dopo aver fatto di lei un solo boccone. Deglutì e si spostò con cautela sul bordo del sedile, scendendo con maggiore lentezza e silenzio possibile; lo sguardo le cadde sulle braccia di uno dei negri, due tronchi ben torniti che non si sarebbero trovati imbarazzati a sollevare un albero, figurarsi un paio di meloni. Si rassettò la gonna con gesti noncuranti prima di prendere le briglie e costringere Azogue ad abbassare il muso; gli carezzò nervosa le froge, guadagnandosi due sbuffi tiepidi in viso. Chissà, forse stava tentando di rassicurarla. Socchiuse gli occhi, passando la mano lungo la criniera di Azogue che lei stessa pettinava ogni mattina, quando qualcosa le strusciò contro la gamba.
Abbassare gli occhi, identificare l’intruso e cacciare uno strillo fu un tutt’uno.

“Vostra Signoria” mormorò Honorata, eseguendo un breve inchino all’indirizzo di un alquanto esterrefatto conte di Medina. “Vi trovo bene.” Vuoti convenevoli che in quegli istanti disprezzava, ma cui s’aggrappava per mantenere la calma e la lucidità necessarie per affrontare al meglio quel confronto.
Il governatore di Maracaibo, sopraffatto per un attimo dai sentimenti, non fece nulla per nascondere il suo stupore. “Quando mi dissero chi s’era presentato qui, non volevo crederci” ammise con voce roca.
“Oh, anch’io stento a credere che proprio voi, che un tempo dicevate d’essermi affezionato, abbiate potuto farmi un sì grave torto.” La stilettata partì rapida e sicura e, a giudicare dal lampo che scorse negli occhi del fratellastro, la contessa di Ventimiglia fu certa d’aver ottenuto l’effetto sperato: conosceva quello sguardo, gliel’aveva veduto tante volte quando, fanciullo, veniva colto in fallo dalle fantesche senza mostrare segno di voler cedere. Ma ora si trattava di ben altro che d’un capriccio.
O forse no.
Honorata concentrò le proprie attenzioni sull’ufficiale che affiancava il governatore; gli occhi grigi svegli ma sfuggenti che le si posarono in volto le misero dentro uno strano senso d’inquietudine. Non doveva essere una persona di cui fidarsi ciecamente, eppure suo fratello mostrava il contrario.
“Lasciateci soli, capitano Valera” disse tuttavia il governatore di Maracaibo, e di questo non poté che essere lieta; al contrario del diretto interessato, ovviamente. “Ne siete certo, signor conte?” domandò infatti gettando un’occhiata sospettosa alla contessa e a Chtilali, che mai aveva lasciato il suo fianco.
“Non saranno due donne ad assassinarmi, se è questo che pensate.”
“No, ma...”
“Allora non vi è da temere.” Honorata trattenne a stento un sospiro di sollievo quando il capitano abbandonò la stanza: non si sarebbe sentita tranquilla con quegli occhi obliqui indosso. A un cenno del governatore prese posto su una sedia, le mani che lisciavano le pieghe dell’abito; era l’unico segno di nervosismo che si permise, mentre si curò di mantenere un’espressione distesa e distaccata.
“So perché sei qui” esordì il conte di Medina.
“Mi sarei stupita del contrario.” Honorata s’accorse subito che, al contrario di lei, l’altro appariva nervoso e corrucciato. “Che c’è?”
“La tua schiava; mi fissa in modo strano.”
“I tuoi soldati l’hanno reputata innocua; e data la sua condizione non ha più orecchi del tuo tavolo di mogano.”
“In fondo hai ragione.”
“Risposta sbagliata, Luis” replicò perentoria la contessa di Ventimiglia, facendolo sobbalzare. “Una persona resta tale qualunque sia il suo grado sociale; hai commesso lo stesso errore di nostro padre, che dimentico dei sentimenti d’una schiava sottovalutò il suo odio e il suo desiderio di vendetta.”
“Cosa vuoi dire con questo?” scattò il governatore.
“Che la tua capacità di valutazione presenta molteplici falle; altrimenti ricorderesti che io mai considererei una mia serva alla stregua d’un mobile. Non posso negare di essere cambiata, ma non fino a questo segno.” Honorata intrecciò le belle mani affusolate. “Al contrario di te.” Alzò lo sguardo. “Cosa sei diventato, Luis?” domandò secca; una volta con quel tono avrebbe fatto abbassare il capo al suo fratellastro, convincendolo a chiedere scusa pel suo errore. Ma chi aveva dinanzi era ormai un uomo, che s’era lasciate dietro le sue origini illegittime per scalare i vertici del potere e giungere lì, a quel posto che un tempo era stato di suo padre.
Il giovane Luis avrebbe cincischiato colla penna giustificandosi a stento; il conte di Medina carezzò colle dita le barbe della piuma d’oca prima di posarla e rivolgersi a lei, la sua sorellastra, uno sguardo sottile e tutt’altro che insicuro. “Ho fatto allontanare il capitano per avere un colloquio più... intimo, Honorata” mormorò con voce carezzevole. “Una chiacchierata tra fratelli, come quelle che riuscivamo ad avere a Coro quando sfuggivamo al controllo delle fantesche; non costringermi a cambiare le cose e a farti interrogare dai miei uomini, ne avrei ogni diritto.”
“Non occorre. Sono qui per darti ciò che vuoi.” Il conte di Medina alzò un sopracciglio.
“L’eredità di nostro padre. È questo che t’interessa, no?” riprese con forza Honorata. “Prenditela. Firmerò qualsiasi carta vorrai, non ho intenzione di trattenere nulla. Ma libera mia figlia e metti fine alla tua pazzia, Luis; conviene a entrambi, e lo sai.”
“È una minaccia?” replicò freddo il governatore di Maracaibo. “Minacci di lanciarmi addosso gli amici di tuo marito, che non vedono l’ora di depredare questa città? Begli alleati che ti sei scelta.”
Honorata impallidì. “Credi che l’avrei fatto se non mi avessi costretta? Sono giunta qui colla speranza di concludere questa ignobile faccenda pacificamente...”
“E pel tuo onorevole consorte ‘pacificamente’ equivale a mettere a soqquadro una taverna e seminare lo scompiglio in città?” La contessa ammutolì; Chtilali, dietro di lei, strinse con forza la spalliera della seggiola fino a far scricchiolare il legno.
Il conte di Medina sospirò. “Stolto che sono stato” disse scuotendo il capo, “a non pensare subito che ci fosse lui dietro quella istoria. Il Corsaro Nero che tenta di salvare dalla cattura i suoi vecchi fidi.” Sorrise, di un sorriso gelido che tagliava come la lama della spada che gli pendeva al fianco. “Invano, visto che è riuscito a portarne via soltanto uno; l’altro... avevo intenzione di farlo marcire in cella, ma un cappio in più da aggiungere agli altri sette non sarà un grande dispendio. Dillo pure a tuo marito, quando tornerai da lui per riferirgli quanto sia stata inutile la tua missione.”
Honorata scattò in piedi, incapace di trattenersi ancora. “Sei un vigliacco, Luis!” esclamò. “Un vigliacco che fa mettere i ferri a dei disgraziati che hanno appena deposte le armi, e li fa appiccare senza processo!”
“Non occorrono simili formalità per uomini di quella risma.”
“Hai intenzione d’abbassarti al livello di coloro che tanto disprezzi?”
“Non farmi la predica, Honorata! Non l’accetto da chi ha sposato un fuorilegge!”
“E Jolanda?” Al pronunciare il nome della figlia la voce della contessa si incrinò. “Che colpa ne ha lei? Con che diritto la trattieni qui?”
“Ha sangue corsaro nelle vene” fu l’implacabile risposta. “E la disgrazia di non somigliarti affatto.”

“Quei figli di cane! Catturarci dopo averci fatte abbassare le armi!”
“E accolti come messi di pace.”
“Miserabili!”
“Che il diavolo se li porti tutti!”
“Basta!” s’impose una voce su tutte quelle che, da un po’ di tempo, s’accavallavano nell’angusta cella. “Gridare come cornacchie farà solo accorrere le guardie.”
“Bah! Meglio sprecare fiato ora che tenerselo per quando verrà il momento” sputò uno dei filibustieri. “Alla sola idea che quei cialtroni di spagnuoli rideranno al vedere la mia lingua di fuori... preferirei crepare ora.”
“Che ridano, Leroy” disse a mezza voce l’uomo che prima aveva imposto il silenzio. “Sta’ pur certo che non lo faranno all’irrompere dei nostri compagni. Conosci tu il capitano Morgan; e ora zitti.”
“...Cox?”
Più che l’invito di Cox fu quel richiamo ad ammutolire i quattro filibustieri. Proveniva dalla cella alla loro destra, e fu sulla parete di collegamento che il filibustiere interpellato pose l’orecchio. “Chi vive?” azzardò.
“Cox, sei tu?” domandò ancora la voce, flebilmente.
“Che l’inferno m’inghiotta!” scattò Leroy. “Ma è l’amburghese!”
“Wan Stiller?” saltò uno, stupito.
“È vivo ancora?”
“Sssshhhh!” Ancora una volta Cox dovette intervenire per far tacere i suoi compagni; l’ultima cosa che voleva è che i due ufficiali sulla scala venissero a origliare i loro discorsi. “Ohe, amico, sei ancora lì?” disse poi a mezza voce, le labbra a un soffio dalla parete umida. Ottenne in risposta una manciata di colpi di tosse tra cui era possibile distinguere un . “Diavolo! Ti davamo già per morto, sulla Folgore!
“Bah! Che mi facciano marcire qui o penzolare da una cravatta di canapa, non mi tocca più” rispose Wan Stiller. “Ma tu... cosa fai qui?”
“Inviato come messaggero dal signor Morgan assieme ai miei compagni, e catturato nonostante la bandiera bianca.”
“Quanti siete?”
“Sette, quattro qui con me e tre in un’altra cella.” Cox sospirò tristemente. “Avrei preferito crepare sotto i cannoni nemici, in verità. Spero che la signora di Ventimiglia abbia più fortuna.”
“La signora... Jolanda...?”
“No, sua madre.”
“Tuoni d’Amburgo! La duchessa di Wan Guld?” A giudicare dal rumore Wan Stiller doveva essersi meglio accomodato sulla parete di collegamento. “Che istoria mi racconti, Cox? Com’è possibile che lei sia qui?”
“Credi che avrebbe lasciata la figlia in mano del governatore? Si dice che lo conosca personalmente, per questo...” E a quel punto Cox ridusse a un sussurro la voce, appena udibile solo pei suoi compagni. “...suo marito acconsentì a lasciarla andare.”
Wan Stiller, a quelle parole, si abbandonò contro la parete divisoria, gli occhi spalancati e il respiro corto. “Il Corsaro qui...” Il pensiero che in un primo momento gli appariva folle guadagnò senso logico in pochi secondi: no, non era una follia, lui medesimo, in quei giorni trascorsi in quel buco tra il lezzo degli escrementi e l’odore di sangue aveva rimuginato su quanto era accaduto alla taverna... e sì, una di quelle figure giunte in soccorso suo e di Carmaux, col mantello ravvolto attorno alla persona e la spada che saettava contro i punti deboli del nemico, poteva essere lui, il signore di Ventimiglia.
Un pensiero lo colpì all’improvviso. “Cox!”
“Che hai?”
“Carmaux... hai notizie di lui?” Se davvero era stato il Corsaro a soccorrerli, forse v’era qualche speranza che il suo compare fosse stato tratto in salvo.
“Non temere, è al sicuro.”
“Ferito?”
“Graffiature, per uno del suo calibro. Ma se non fosse stato pel Corsaro e il capitano Morgan sarebbe qui a tenerci compagnia.”
“Per finire appiccato assieme a noi” pensò l’amburghese, lasciandosi sfuggire un sospiro di sollievo; aveva una fortuna del diavolo, quel francese, a scampare alla forca e al governatore di Maracaibo per la quarta volta in diciott’anni. A lui non era andata altrettanto bene. Peccato. “Bah!” si disse ancora Wan Stiller. “Che non si faccia accoppare durante l’attacco, piuttosto; ha una famiglia da cui tornare.” Anche lui, in effetti, ma era l’ultima cosa cui voleva pensare in quel momento.
Un rumore secco lo fece sobbalzare. Alzò gli occhi che le sbarre ancora tremavano dopo il calcio dello spagnuolo.
“Mi auguro abbiate finito di ciarlare” disse con uno sbuffo il sergente Muñoz.

Alzare gli occhi, identificare il responsabile degli strilli di sua figlia e lanciare un’esclamazione di stupore fu per Perez un tutt’uno. “Un... gatto?"
“Un gatto” confermò lo schiavo negro che aveva agguantata la bestiola, color del carbone al pari di lui, per la collottola. “Non è la prima volta che viene, il birbante, a cercare un qualche avanzo dalle cucine.” Il colpevole lanciò un lungo miagolio, tentando invano di liberarsi dalla presa: la mano di chi l’aveva catturato era ben più grossa di lui.
Perez ancora stentava a crederci. Certo ricordava che Sol, da piccola, aveva avuto brutte esperienze con un felino che le si era arrampicato sulla schiena, ma a giudicare dalle grida che aveva udito prima era convinto che come minimo fosse finita sotto gli zoccoli di un imbizzarrito Azogue.
Il negro lo fissava con sospetto. “Che c’è?” fece con un’alzata di spalle. “Credevate che me la stessi mangiando? Sono un negro, eh, non un antropofago.”
“Altrimenti avremmo già fatto un solo boccone della topolina” esordì l’altro schiavo con una risata che lo scosse tutto. “Spolpandola fino alle ossa e...”
“Kato!”
“Che ho detto?”
Perez ebbe il suo bel daffare a calmare una piagnucolante Sol che gli s’era aggrappata ai calzoni e lanciava occhiate terrorizzate ai due negri; già ne aveva timore per le loro stazze di tutto rispetto, con quelle loro ridicole istorie di antropofagi non avrebbe più avuto il coraggio di seguirlo durante i suoi giri. “E addio fortuna” pensò con un sospiro. “Su, su, niña, non fare così... celiavano.”
“Certo. È troppo piccina per me” garantì Kato con una nuova risata che gli scoprì la robusta dentatura bianca. “Guarda che coscette.”
“Kato, continua e ti farò diventare più basso di lei... a colpi di mazza” minacciò l’altro schiavo, senza tuttavia alzare la voce: i suoi occhi di ossidiana erano fin troppo espliciti.
“E va bene, va bene.”
“Ohe, voi! L’avete finita? È ormai buio.”
Perez sospirò di sollievo. “Oh, voi, tenente” disse nel vedere El Moro raggiungerli col consueto passo marziale, una torcia in mano. “Tutto a posto, abbiamo terminato.”
“Prima ho sentito un gran baccano. Quei due vi hanno dato problemi, señor?” E l’ufficiale fissò con durezza gli schiavi, in cui la loquacità e la baldanza precedenti sembravano essere sfumate: Kato era immobile cogli occhi bassi, mentre lo schiavo più anziano aveva lasciata la presa sul gatto, permettendogli di abbandonare l’area con pochi salti, e metteva mano a un piccolo otre che portava a tracolla.
“No, no, è questa monella di mia figlia che si è spaventata per nulla... una bazzecola, davvero.”
“Non è vero!” A El Moro occorse qualche secondo per capire che a parlare era stata Sol: non vi erano altri presenti in zona cui potesse appartenere quella voce femminile, da ragazzina in boccio. “Ah, no?” fece, fingendo di stare al gioco. Lei, rossissima in viso alla luce della torcia, allargò le braccia mimando qualcosa dalle notevoli dimensioni.
“Era un gatto grosso così, cogli occhi rossi...”
“Tanto grande? Allora era un giaguaro.”
“Sì, proprio quello, e voleva strapparmi una gamba” asserì Sol con sicurezza.
L’ufficiale non ebbe il tempo di divertirsi al vedere la ragazzina mentire colla massima faccia tosta, suo padre piantarsi un palmo in fronte per lo scoramento e il vecchio schiavo quasi strozzarsi col suo intruglio, giacché una voce familiare lo stava chiamando dalla porta di servizio. “Sergente Muñoz” fece quando l’ebbe raggiunto. “Cos’avete? Sembra urgente.”
“Credevo fosse più giusto avvisare voi e il capitano, prima di Sua Eccellenza.”
“Ebbene?”

“Ebbene, Honorata? Sono stato abbastanza chiaro?”
La contessa di Ventimiglia ansimò, la gola secca come se avesse trascorsi gli ultimi minuti a cacciare fuori la rabbia, il timore e la frustrazione che le premevano nel cuore. “Stai commettendo un errore, Luis” disse accorata, una volta riacquistata la lucidità. “Lo stesso errore di mio marito.”
“Eppure a lui hai perdonato” replicò con astio il governatore di Maracaibo.
“Perché è stato in grado di uscirne.”
“Solo dopo aver assassinato nostro padre.”
“No!” quasi gridò lei. “Fu lui a farsi saltare in aria colla sua fregata, lui ad accendere la miccia e a sacrificare il suo stesso equipaggio pur di eliminare il suo rivale!”
“Non vi sono testimoni a riguardo.”
“E invece sì.”
“E chi?” domandò con voce beffarda il conte. “Tuo marito, forse? I suoi uomini? Avrebbero avuto ogni ragione per mentirti.”
“Emilio non l’avrebbe mai fatto. Per anni il suo cuore era stato soffocato dall’odio e dal desiderio di vendetta, ma sapeva bene che per ottenere il mio incondizionato amore avrebbe dovuto essere sincero, in tutto e per tutto; un’unione basata sulla menzogna non è degna di essere vissuta.” Honorata alzò gli occhi grigi su quelli del fratellastro, gemelli dei propri. “Ma tu, Luis, dai ascolto solo a ciò che vuoi  credere e ti fa comodo credere, per dare una parvenza di giustifica al tuo operato verso mia figlia.” Le mani della contessa si strinsero a morsa sul bordo della scrivania, mentre il capo si chinava verso quello del governatore. “Emilio ha sempre avuto ragione e io, stolta, ho creduto fino all’ultimo che la vendetta non c’entrasse nulla, che volessi solo ciò che pensavi ti spettasse di diritto.”
“Oh, non credere che i milioni di nostro padre non mi facciano gola” fece il conte di Medina.
“E allora prenditeli!”
“Se anche facessi firmare quelle carte a te, tua figlia potrebbe impugnarle alla prima occasione.”
“Non lo farebbe se fossi io a chiederglielo.”
“Tua figlia ha uno spirito indomito, Honorata” replicò secco il governatore. “Me ne sono avveduto in queste settimane; disgraziatamente, ha nelle sue vene il sangue marcio di un corsaro.”
“Taci, Luis” intimò Honorata. “Non una parola di più.”
“Perché mai?” fu la melliflua replica. “Credevo che a quell’uomo andasse il tuo amore incondizionato; o forse intravedi nelle mie parole un fondo di verità?”
“Basta!” La contessa si lasciò andare su una sedia, il cuore che batteva frenetico e le membra incapaci di rispondere. “È Emilio che vuoi far soffrire? È lui che vuoi colpire? Allora prendi me!” scattò. “Prendi me e lascia andare Jolanda.”
“No” rispose secco il governatore. “Non potrei mai.”
“Perché, Luis? Nostro padre non ha mai fatto nulla per farsi benvolere da te! A che scopo tutto questo?”
“Lui non c’entra, Honorata. Sei tu.” La frase fu pronunciata in un soffio, prima che il conte di Medina si rizzasse in piedi, come pentito di quell’improvvisa confessione. “Vattene” intimò. “Riprendi il mare col filibustiere incaricato di portare il mio messaggio a quel cane di Morgan.” La stessa contessa aveva assistito alla scrittura di quelle due, sfrontate righe indirizzate all’almirante della flotta corsara.
Aspetto a Maracaibo i filibustieri della Tortue per impiccarli tutti.
Strinse le labbra. “Condanni alla distruzione la medesima città che dovresti proteggere” mormorò.
“Questo è tutto da vedere. Il nostro forte non è quello che capitolò all’ultima incursione di quei dannati, e i nostri cannoni frantumeranno le loro navi.”
“Attendo di vederti sugli spalti colle armi in pugno, dunque” disse con sfida la signora di Ventimiglia. “O alle prime avvisaglie di disfatta fuggirai vigliaccamente come fece nostro padre, diciott’anni orsono?” Non attese alcuna risposta, dirigendosi a fronte alta verso la porta con Chtilali che la seguì, silenziosa e solidale come sempre. Aveva già chiesto, invano, di poter vedere sua figlia almeno una volta, ma le era stato negato con forza; pregò, con tutto il cuore, che stesse bene.
Fuori dall’uscio, a poca distanza, il capitano Valera attendeva nell’ombra. “Possiamo andare” gli disse, sbrigativa.
“Solo un attimo, contessa. Vogliate scusarmi.” E l’ufficiale la sorpassò per raggiungere il governatore.
“Ebbene?” sentì che diceva il suo fratellastro. “Le forche sono state erette in Plaza Mayor?”
“Sì, conte, ma ho dato ordine di togliere un cappio.”
“E perché mai?”
“Non occorre più. Quel cane d’un corsaro è spirato or ora nella sua cella.”
Non un solo grido fuoriuscì dalle labbra di Honorata. La notizia in sé, nonché il peso di dover riferire un sì grave messaggio al diretto interessato, bastarono ad ammutolirla.

*

Alcazar, seduto sul bordo del patibolo, fissò con occhio critico i sette cappi, ombre scure nell’aria immobile. “È la corda delle vostre, mastro Saro?” domandò all’uomo dal volto sanguigno che s’era adoperato per fissarli ai capestri.
“Sua Signoria non ha mai avuto occasione di lamentarsi” fu la risposta del boia, intento ad arrotolare la corda che sarebbe dovuta servire per l’ottavo cappio. “S’è ucciso, quel disgraziato che sarebbe dovuto pendere assieme agli altri?”
“Oh no, credo siano state le ferite e le torture; questi figli di Satana sono meno robusti di quanto sembrino.” Lo sguardo del soldato cadde su qualcosa che era appena scivolato di tasca al suo superiore. “Quella è vostra, signore?” domandò indicandola.
El Moro, in piedi cogli occhi persi all’orizzonte, si riscosse. “Sì” rispose fissando la boccetta che gli era rotolata ai piedi. “Ma non ha alcuna importanza.”
E con un colpo di tacco la mandò in frantumi.


Note dell’autrice: dopo quasi quattro mesi dall’ultimo capitolo riesco a terminare questo. Non ci credo o__o
Avevo ormai deciso di congelare aggiornamenti e post di nuove storie, ma ritengo che lasciare dei lavori incompiuti sia sciocco da parte mia, quindi continuerò a mettere i nuovi capitoli man mano che li scriverò (e che l’ispirazione sia con me).
Non ho appunti sul capitolo da fare, se non che il messaggio scritto dal conte di Medina appare pari pari anche in “Jolanda, la figlia del Corsaro Nero”: come già detto in precedenza, la mia storia riprende molte situazioni del romanzo originale ma rielaborandole o inserendole semplicemente in un nuovo contesto.
Ringrazio Chandrajak, che ha sempre recensito e sostenuto questa storia, Stray che ha mostrato il suo apprezzamento proprio in queste settimane e infine Crow F che, pur non avendo recensito, ha inserito la storia tra i preferiti.
Al prossimo capitolo.
Satomi

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Capitolo 6
*** Corrispondenze ***


6. Corrispondenze

 


Nora sospirò. “Sei un caso disperato, figgetta”  disse abbassando la camiciola della figlia fin sotto le ginocchia; non era la prima volta che la scopriva a dormire gambe all’aria, causa quell’indumento ormai troppo corto per lei; ma da un mese era ai ferri corti colla sua sarta di fiducia e lei stessa non ci aveva mai saputo fare con ago e filo, come non mancava di ricordarle il consorte quand’era di pessimo umore.
Sol non si accorse delle mani che, materne ma frettolose, la sistemavano meglio sul giaciglio; quella notte il suo sonno era più profondo del solito. “Ha fatto effetto” si disse la donna, pensando all’infuso che lei stessa aveva fatto quella sera, una tazza per la figlia e una pel marito che russava sommessamente a pochi metri di distanza. Sorrise per un attimo al ricordo di Perez che gli si abbandonava al fianco: non era la prima volta che gli preparava qualcosa per dormire meglio, ma mai la dose era stata tanto concentrata.
Non posso permettere che si svegli e si accorga della mia assenza; non questa notte.
Le erbe che aveva usate, per fortuna, non lasciavano al risveglio il benché minimo segno di ottundimento, e non avrebbe dovuto giustificarsi. Fece leva sulle ginocchia per alzarsi, la mano che correva sul viso della figlia in un’ultima, pacata carezza; appariva sereno, quasi sorridente, e Nora avrebbe fatto di tutto per conservarlo tale il più a lungo possibile.
Il tempo di avvolgersi nel mantello, raccogliere la bisaccia e uscì, impaziente di raggiungere chi l’attendeva.

*


“Il bicchiere o la bottiglia?”
“Il bicchiere, signor conte. Una piccola dose, ma se l’avesse vuotato tutto...” e accennò all’oggetto ancora semipieno nella mano di Carmaux, “avrebbe fatto effetto prima.”
“Non importa.”
“Ha minacciato di bastonarmi, quando si sveglia.” Il signore di Ventimiglia non riuscì a trattenere un sorriso, mentre sfilava il bicchiere dalle dita ormai inerti del marinaio; assieme a Ch’ulel riuscì a stenderlo sulla sua branda senza troppo sforzo. “È ancora provato per via delle ferite, e non solo” disse con un sospiro. “Tentava di tranquillizzarmi e sostenermi sebbene fosse teso quanto me, se non di più.”
“In effetti neanche voi avete una bella cera, signore.” Il conte prese mentalmente nota di non assumere alcun tipo di liquido nelle successive ore; se Ch’ulel gli era fedele, era anche vero che non lo considerava affatto il suo padrone, e la sua concezione di “favore” era alquanto elastica. Dormire era l’ultima cosa che desiderava, in quel momento.
“Resta con lui” disse all’indio.
“Devo proprio?”
“Hai timore di qualche colpo di bastone?”
“Affatto, signor conte, ma non vorrei provocargli un brutto risveglio colla mia presenza: nei primi attimi potrebbe accusarmi di avergli sgranocchiate le falangi nel sonno.” Un’occhiata del gentiluomo fece capire all’indigeno che non era proprio il caso d’ischerzare, in quel frangente.

Quando l’ex-Corsaro tornò in coperta, si avvide di una figura alta e slanciata che gli correva subito incontro. “Sei già tornato, Enrico” disse. “Hai sistemate le cose col tuo equipaggio?”
“Vi dirò, zio, non sono entusiasti all’idea di restare colle mani in mano quando infurierà la battaglia.” Il conte di Ventimiglia strinse con forza i pugni. “Sei già convinto che l’ambasciata di Honorata sia stata del tutto inutile?” domandò, secco.
“Come lo siete voi” replicò il nipote, facendolo sussultare. “Se quel conte ha anche un solo briciolo dello spirito del duca fiammingo, non cederà alle nostre richieste, anche a costo di sacrificare Maracaibo.”
“Eppure hai taciuto quando mia moglie espose la sua idea a Morgan.”
“La zia appariva decisa a tutto, e chi ero io per fermarla? D’altronde sono convinto, come lei, che il governatore la lascerà tornare sana e salva; il sangue, zio, è un richiamo irresistibile.”
“O una maledizione?” si chiese amaro il conte di Ventimiglia. “Perché è questo che si sta rivelando per Jolanda.”
“Non addossatevi colpe che non avete. La responsabilità va all’irruenza di mia cugina e alla follia d’un uomo che vi odia; e io, signore...” E a quelle parole gli occhi di Enrico s’accesero di quella furia giovanile che tanto gli era propria, “farò di tutto per strappargli Jolanda. Sono anch’io un Ventimiglia, e non mi mostrerò da meno di mio padre.”
“Che finì la sua esistenza su una forca” completò amaro l’ex-Corsaro. “Lui non avrebbe mai voluto che ripercorressi la sua strada, come non lo voglio io.”
“Zio” riprese il figlio del Corsaro Rosso, “vi ho promesso che non avrei lanciata allo sbaraglio la Nuova Castiglia  perché occorre che la zia sia tenuta al sicuro e lontano dalla battaglia; ma non chiedetemi di restarne fuori, perché non lo farete neanche voi.”
“Credi che mi sorrida l’idea di tornare a combattere sotto quel nome che ho accettato per anni, pur odiandolo ogni istante?” L’indice del conte picchiò con un piccolo tonfo sordo sul petto del nipote. “Renderò conto a Dio delle mie scellerate azioni quando sarà il momento, ma non ne andrò mai fiero.” E il gentiluomo si sporse oltre la fiancata della nuova Folgore, lasciando che il vento notturno e carico di salsedine gli portasse un po’ di sollievo.
Enrico affiancò lo zio, e mai come in quel momento i due apparvero tanto simili, nella posa come nei lineamenti; a differenziarli solo i piccoli ma significativi segni nella vecchiaia, presenti in uno e ancora dormienti nell’altro.
“Voi avevate giurato.” Quella grave affermazione fece abbattere un pugno rabbioso sul legno della fiancata. “E che io sia maledetto per questo!” scattò il conte di Ventimiglia. “Dio avrebbe dovuto fulminarmi ogniqualvolta ho osato chiamarlo in causa per le mie follie!”
“Zio...”
“Giurai di vendicare a ogni costo mio fratello assassinato a tradimento, vagando per oltre dieci anni pei mari come fuorilegge e perdendo gli altri due. Giurai di distruggere la famiglia di Wan Guld, e per questo sacrificai la mia amata alla furia d’una tempesta. Prima di partire, ho giurato a Bianca che...” Si fermò e strinse le labbra, come se si fosse fatto scappare un pensiero di troppo. “Ancora non ho imparata la mia lezione” concluse amaramente. E ripensò alle parole accorate che Carmaux gli aveva rivolte poche ore prima, in privato, quando entrambi s’erano decisi a non fissar più l’orizzonte in febbrile attesa d’una risposta che avrebbe tardato a giungere.
Non giurate più, mio capitano. L’ultima volta vi si è spezzato il cuore, per questo, e ora... e aveva taciuto, guardandolo fisso con quei suoi occhi tristi, ma non ancora abbattuti. E lui aveva capito: quello sguardo diceva non promettete qualcosa che potreste non mantenere.
E una volta di più, si era sentito impotente.
 

                                                                                                                               *

El Moro s’affrettò a trattenere Kato pel collo della camicia sbrindellata che indossava, prima che inciampasse su una pietra sporgente della strada. “Fa’ attenzione” gli soffiò all’orecchio, e ottenne uno sbuffo seccato. “Eh, io non ho i vostri occhi di gatto, señor, abbiate pazienza; potreste anche accendere una torcia.”
“Per farci notare dalle guardie?”
“Come se non fossimo già vistosi abbastanza” replicò lo schiavo, riprendendo a camminare nell’oscurità. “L’amico qui non è propriamente invisibile.” E indicò il negro più anziano accanto a lui, che portava qualcosa di grosso e pesante.
“Bah! Uno schiavo con un peso indosso non è da temere.”
“E se...”
“Taci, o ti taglio la lingua.” Kato, per timore verso il tenente che non era uomo di minacciare invano o perché temeva che li scoprissero, preferì obbedire; il suo amico invece appariva molto più taciturno, gli occhi bassi e fissi sulla strada. Di rado un qualche gemito gli sfuggiva dalle labbra, quando si raccomodava meglio il sacco sulla spalla larga e robusta.
“Aspetta” ordinò El Moro, riparandosi all’angolo di un vicolo e prontamente imitato dai due schiavi. La via era deserta e l’oscurità così fitta che non si vedeva a oltre trenta passi di distanza. “Tu” fece all’indirizzo di Kato. “Tornatene a palazzo.”
“Solo?”
“Sì, lui viene con me, mi serve per portare il corpo.”
“E se domandassero...”
“Lui, al contrario di te, è un mio schiavo che ho avuto la bontà di cedere temporaneamente a palazzo, dato che uno dei vostri è morto e gli altri due si sono ammalati; dunque ho il diritto di servirmene per essere scortato.”
“Come se ne aveste bisogno” borbottò Kato, gettando un’occhiata obliqua alla cintura dell’ufficiale, che reggeva spada e pistola.
“Va’, ora.”
“Prima il mio compenso. Non v’ho aiutato a recuperare quel cadavere per nulla” replicò l’altro agguantando l’ufficiale per un polso, ma non ebbe il tempo di aggiungere ulteriori parole: una stretta robusta lo inchiodò al muro, un braccio a bloccargli il collo. “Non osare toccarmi, sporco negro” minacciò El Moro, prima di cacciargli qualcosa in tasca. “E bada di non fare parola di questo con alcuno, o mi occuperò personalmente di te.”
Kato, seppur intimorito, non seppe trattenere un sorriso di scherno. “Non vi appartengo.”
“Pagherò il tuo misero prezzo a chi di dovere, allora. E adesso vattene.”
Lo schiavo più anziano non aveva mostrato il benché minimo interesse per quell’alterco: conosceva il suo padrone e sapeva che non sarebbe andato oltre le minacce verbali; a dispetto del suo orgoglio di nobile, non era uomo da accoppare qualcuno senza che ve ne fosse davvero bisogno. Preferì dunque puntare gli occhi sulla via deserta, che ben presto non fu più tale.
“Eccola.”
“Ne sei certo?” domandò El Moro, ma occorse poco per capire che lo schiavo aveva ragione: la voce grave ridotta a un bisbiglio e il lieve aroma di zenzero non potevano che appartenere a Nora Perez.
“Ho fatto più in fretta che ho potuto” disse la donna, riprendendo fiato; doveva aver fatta una bella corsa fin lì. “L’avete?”
“Sì, e sta massacrando la spalla del mio schiavo” rispose con uno sbuffo l’ufficiale. “Dovremmo sbrigarci.”
“Sta bene, seguitemi.”
“Un momento” la fermò El Moro, d’improvviso insospettito. “La foresta è dalla parte opposta.”
“Siamo in tre e potremmo esser scorti dalle pattuglie; non possiamo lasciare la città.”
“Dunque siamo diretti a casa vostra?”
“No, non saprei dove nasconderlo e come giustificare la cosa a mio marito.”
“Allora dove, por Dios?”

Nora stirò le labbra in un lieve sorriso. “Andiamo, Javier” mormorò. “Vostra madre ci attende.”
La guaritrice aveva ben saputo approfittare dello stupore del giovane per riprendere il cammino, seguito dalla schiavo che portava con sé il corpo di Wan Stiller. Peccato che la tregua non durò più d’un minuto. “Avete coinvolta anche lei!” scattò a mezza voce El Moro. “Senza farne parola con me!”
“Immaginavo la vostra reazione.”
“Non avreste dovuto, perché non ne avevate il diritto!”
“Lei ha accettato senza remore d’aiutarmi. D’altronde, Javier, non dimenticate che è  lei ad esser in debito con me, più di voi.”
“E voi siete ben lieta d’approfittarne ad ogni occasione” sibilò l’ufficiale.
“Stimo vostra madre abbastanza da evitare di coinvolgerla nei miei impicci, se non lo impongono le circostanze” replicò Nora. “Una marchesa rispettata, la cui famiglia per generazioni...”
“...ha fornito uomini che sono stati di lustro al Paese, vi prego, basta mio padre ad ammorbarmi con tali storie.”
“Appunto; la dimora d’una donna di tale prestigio è l’ultimo posto ove i soldati verrebbero a ficcare il naso, sempre che si preoccupino della sparizione d’un cadavere. Ora hanno ben altro di cui occuparsi, se non vado errato.”
El Moro scosse il capo. “Siete una strega davvero, voi.”
“Oh no, solo una donna che ragiona.” Nora sospirò. “Che sarebbe la medesima cosa, in fondo.”
Pur parlando il gruppo curò di non rallentare il passo, e presto giunse in un quartiere ben diverso da quello che s’erano lasciati alle spalle: non vi erano più modeste abitazioni borghesi, ma ville in robusta muratura e circondate da ampi giardini; Nora si sentì giungere agli orecchi il fruscio familiare delle foglie di palma, mentre il profumo dei gelsomini notturni le solleticava le nari.
“Deve essere Jalisco” mormorò lo schiavo, scorgendo un uomo dinanzi all’unico cancello aperto della via; la fiamma della sua bugia non era che un puntolino arancione nel denso manto scuro che li avvolgeva tutti. “La padrona vi attende” disse semplicemente, la luce che evidenziava la larga fessura lasciata dagli incisivi mancanti e scivolava liquida sulla pelle ramigna.
“Presto!” E Nora riprese a correre, facendo crepitare la ghiaia del selciato sotto i piedi; sapeva di essere al sicuro, ma l’ansia accumulatasi durante il tragitto stentava ad abbandonarla. Come anticipato da Jalisco, sulla soglia della villa trovò la padrona di casa, avvolta in una lunga veste da camera dai riflessi rosati; ai fianchi, due schiave mulatte sorreggevano un candeliere ciascuna. “Vi hanno seguito?” domandò la signora quando le si fermò dinanzi.
“Non credo, ce ne saremmo accorti.”
“Molto bene. Seguite Jalisco sul retro, sa dove condurvi.”
“Marchesa, io...” E Nora chinò il capo in segno di rispetto. “...non potrò mai ringraziarvi abbastanza.” La donna, ormai sulle soglie dei cinquant’anni ma la cui bellezza non era ancora sfiorita, scosse piano il capo. “Voi mi avete salvata la vita, riuscendo lì dove altri medici più titolati e meno esperti fallirono” disse con semplicità. “E questo non potrò mai dimenticarlo.” Alzò il mento verso Jalisco e il vecchio schiavo che percorrevano a grandi passi il giardino. “Ora andate, penserò io a Javier.”
Nora non se lo fece ripetere e, dopo un breve inchino, volse le spalle alla marchesa per raggiungere i due uomini. “Mi occupo io del resto” sentì che lo schiavo più anziano diceva a Jalisco, prima di posare in terra il corpo di Wan Stiller. Ansimava vistosamente. “Hai forzato troppo” constatò la guaritrice, notandone la pelle madida di sudore alla luce della bugia che il mulatto le aveva lasciato. “Bah! Qualche istante e riprenderò il fiato” replicò lo schiavo prima di fissarla: doveva essersi accorto del sorriso che le era spuntato in volto, inconsapevolmente. “Ebbene?” chiese, un po’ piccato.
“Nulla” fece Nora. “Pensavo solo che... non è la prima volta, per te.”
“Cosa?”
“Che porti sulle spalle un filibustiere per mezza Maracaibo, intendo.”
Il negro fece una smorfia. “Il Corsaro Rosso era più leggero” replicò, massaggiandosi la spalla dolorante.
“E tu avevi diciott’anni di meno.”
“Anche quello.”
Nora decise d’aiutare lo schiavo a trasportare l’amburghese, ma la sua schiena non era d’accordo e prese a protestare non appena ebbe provato a sollevarlo. L’uomo rise, mettendo in mostra la dentatura insolitamente affilata. “Sarò anche invecchiato, ma resto ancora un gigante” fece, liberando la donna dal peso. “Un gigante color carbone, come mi chiamavano i compari bianchi.” Sospirò tristemente, le braccia che si chiudevano con insolita gentilezza attorno al corpo di quello che, un tempo, era stato suo amico e compagno di molteplici scorrerie.
Nora portò una mano al capo e sciolse con un gesto deciso la folta capigliatura castana. Aveva ancora tante cose da fare, poco tempo a disposizione e un solo, vero aiutante su cui fare affidamento. Più della marchesa, più dello stesso El Moro.

Alla luce soffusa dei candelieri il volto della marchesa, seduta su un sofà di velluto, appariva segnato. “Siete stanca, madre” disse con voce pacata El Moro. “Dovreste tornare a letto.”
“Lo farò quanto prima” rispose lei con un sorriso, mentre la mano correva a stringere i lembi della veste da camera; l’altra s’affrettò a richiamare con un gesto una delle mulatte. “Di’ a Jalisco di accompagnare Eleonora, quando tornerà a casa; non mi fido a lasciarla andar sola di notte.”
“Oserei dire che lei stessa sia una creatura notturna” fece con un brivido la serva.
“Almeno dinanzi a me risparmia simili considerazioni” replicò la marchesa, secca, facendo sussultare la donna. “Perdonatemi, padrona, io non...”
“Sei ancora qui? Va’ e non perder tempo.” Non appena la mulatta ebbe lasciato il salottino, la nobildonna sospirò pesantemente. “Già so le voci che circolano su quella povera donna” disse.
“Che sarebbe ancora per strada col suo consorte se non fosse stato per voi” replicò El Moro.
“Era il minimo che potessi fare, avendomi lei strappata alla morte.”
“E credete di non aver ancora estinto il vostro debito?” Il tono velatamente polemico del giovane ufficiale fece irritare la marchesa, che fu rapida a rispondere: “Ho i miei motivi per volerla aiutare ancora una volta.”
“Madre, se vi è una cosa che detesto è l’essere usato, e lo stesso vale per voi. Credevo d’esser l’unico coinvolto nella faccenda, e invece scopro che non solo quella donna si è consultata con voi senza avvertirmi, ma ha anche preso accordi con quel vecchio schiavo.”
“Moko?”
“Lui. Andrebbe frustato, ha dimostrato uno spirito d’iniziativa che quelli come lui non dovrebbero avere.” El Moro sbuffò seccato, come se l’atteggiamento assai poco consono dello schiavo l’offendesse personalmente. “Non avreste mai dovuto acquistare un cimarron.”
“Ha buone doti e una stazza che molti nostri vicini ci invidiano.”
“Utile per lavorare nelle piantagioni, non già per servire una nobildonna di città.”
“L’averlo usato a palazzo ha dati i suoi frutti, non puoi negarlo” fece con un sorriso la marchesa. L’ufficiale non rispose, preferendo rigirarsi tra le dita un pregiato sigaro cubano preso da una scatola che sua madre soleva tenere sul tavolino intarsiato, per offrirne ai suoi ospiti; tuttavia non dava segno di volerlo accendere. “A proposito di questo, madre” riprese, “ritengo sia giusto che...”
“No, Javier.”
El Moro  trattenne a stento la frustrazione. “Non potete rischiare di farvi sorprendere da quei diavoli di filibustieri! Vi rendete conto del rischio che correte?”
“Non ho nessuna intenzione di scappare e di lasciare le mie proprietà in balia dei saccheggiatori” replicò con fierezza la marchesa. “L’oro e i preziosi sono al sicuro; quanto alla villa, è solida e potrà sostenere un assedio.” Una mano s’allungò a stringere quella del figlio. “Mi chiedi di fuggire quando tu resterai qui, a mettere in gioco la tua vita?”
“Sono un soldato, madre.”
“Per volere di tuo padre” replicò lei con amarezza. “Avrei mille volte preferito saperti in convento.”
“Per farmi fucilare dai nostri stessi compatriotti, come a Portobello, quando quei frati furono usati da Morgan come scudo lungo le mura?” fece El Moro, la voce che trasudava disgusto. “Grazie, ma preferisco morire colla spada in pugno, anziché col rosario.”
La marchesa sorrise ancora, seppur con amarezza. “Un giorno sarei andata fiera del tuo orgoglio.”
“Un giorno?”
“Sì, quando ancora ero giovane e amavo percorrere la sala dei ritratti, rimembrando le gesta di ciascuno dei nostri antenati. Ma ora, figlio mio, mi basta ammirare il tuo, di volto, e desiderare di rivederlo qui, dinanzi ai miei occhi, non su una tela destinata a corrodersi nel tempo.”
Sulle gote scure del giovane ufficiale, ancora imberbi come quelle d’un ragazzo, apparve un lieve rossore. “Madre...” mormorò compunto, mentre lei si alzava per posargli affettuosamente le mani sulle spalle. “La nostra patria necessita di valorosi.”
“Ma non di stupidi.”
“Credevo aveste una maggiore considerazione di me.”
“Oh, non credere che non l’abbia” fece la marchesa, piccata, prima di rispondere con un sorriso ironico: “Ma il mio prediletto resta Tulio.”
“Chissà perché lo immaginavo” fece l’ufficiale, stando al gioco. “Ora, però, non è il momento di pensare al mio sanguigno fratello maggiore, bensì a un uomo che può arrecarci altrettanti fastidi.”
“Parli di quel disgraziato che Nora ha salvato dalla forca?”
“Abbiamo prese le dovute precauzioni, ma se si accorgessero della scomparsa del suo cadavere e quel chiacchierone d’un negro, quel Kato, si facesse scappare qualcosa...”
“Non oseranno incolpare un rampollo d’antica famiglia quale sei tu” replicò la marchesa. “A me preme che il nostro coinvolgimento nella faccenda giunga alle orecchie d’un altro uomo.”
El Moro aveva ormai compreso il pericoloso gioco di sua madre: se gli stessi filibustieri fossero venuti a sapere che lei s’era prodigata per sottrarre al capestro uno di loro, l’avrebbero lasciata in pace. “E su chi contate per far giungere la voce agli orecchi giusti?”
“Anche in questo frangente Moko potrà esserci molto utile.”
“Speriamo allora che la pozione di Nora abbia funzionato” disse El Moro. “Sarebbe meglio restituire a Morgan un filibustiere malconcio, piuttosto che un morto.”
“Non mi riferivo a lui, Javier” replicò piano la marchesa.
“No? E a chi?”
“Al Corsaro Nero.”

Nora passò il dorso della mano sulla fronte umida di sudore. “Passami l’altro secchio” ordinò al vecchio schiavo che l’assisteva, lì nel piccolo capanno adibito all’uso della servitù; fu presto esaudita, ritrovandosi un recipiente colmo di acqua limpida in cui tuffò senza esitare la spugna. Non aveva idea del tempo trascorso da quando s’era inginocchiata da molto, tuttavia le rotule cominciavano a protestare, e non solo quelle; stirò la schiena, per dare un po’ di sollievo ai muscoli indolenziti.
“Continuo io, se volete.”
“Non importa.” La donna riprese a strofinare le membra insanguinate dell’amburghese, con una foga dovuta in parte al nervosismo; si impose di rilassarsi, mentre raccoglieva una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Il corpo steso accanto a lei era stato accuratamente spogliato e i vestiti, ormai ridotti a cenci irrecuperabili, gettati nel focolare che gli schiavi usavano per cuocersi i pasti. Il colorito della pelle era terreo, appena violaceo sulle labbra.
“Sembra morto davvero.”
Nora guardò di sottecchi lo schiavo. “Sembra?” fece, quasi stupita. L’altro incrociò le braccia, gli occhi d’ossidiana che la fissavano indagatori. “Avreste rischiato così tanto per ucciderlo voi stessa?” domandò.
“Meglio per mano mia che appiccato ed esposto come un pubblico trofeo.”
“Davvero? Conosco le vostre abilità in fatto di erbe, infusi e veleni.”
“Perché le condividi.”
“Non sono abile quanto voi, ma me ne intendo abbastanza.” Nora fece cadere la spugna e si lasciò andare contro il muro alle sue spalle, come se le forze le fossero state d’improvviso prosciugate; le mani strinsero il capo, febbrili, a mettere in mostra la debolezza fisica e mentale della donna. “Potrei averlo ucciso davvero, Moko” mormorò. “Il veleno che ho usato può esser retto da un uomo adulto e robusto, ma... guardalo!” E indicò tremante il corpo le cui ferite erano state accuratamente suturate e bendate. “È stato torturato, affamato...”
“So che il signor Javier, dietro vostro ordine, riuscì a passargli del cibo di nascosto.”
“Potrebbe non essere bastato.” Nora si passò con forza una mano sul volto, gli occhi che riacquistavano la precedente sicurezza. “Se entro l’alba non avrà mostrato segni vitali, allora potrò dire d’aver ampiamente contribuito alla sua fine.”
“In caso contrario?”
“Assistilo, possibilmente aiutato da qualcuno.”
“Jalisco è uomo fidato.”
“Allora quando il sole sarà alto verrai in piazza, secondo gli accordi.” La voce di Nora assunse una sfumatura severa. “Non ti rimangerai la promessa, nevvero?”
“Quando Moko promette, mantiene.” E lo schiavo africano si mostrò quasi triste nel pronunciare quelle parole; non era la prima volta, in fondo. “Tornate a casa” disse poi, una volta che si fu riscosso dal fluire di ricordi ormai lontani. “Se vi mostrerete troppo stanca al mattino, vostro marito potrebbe insospettirsi.”
“Bah!” fece lei con un’alzata di spalle. “Lo scoprirà, prima o poi. Ma ciò che mi preme maggiormente è che lui e Sol escano incolumi dalla battaglia che presto si scatenerà qui; ho conosciuto i filibustieri della Tortue, e so di cosa sono capaci.” Il suo tono era neutro, privo di odio o rabbia, mentre la mano si posava sul capo di Wan Stiller. “Sono più radi di quanto ricordassi” disse in un sussurro, mentre faceva scivolare le dita tra i capelli che fuoriuscivano dalla benda. “Anche se non hanno perduto il loro colore; d’altronde, son passati dodici anni.” Quando alzò lo sguardo, si avvide di Moko che la fissava con maggiore attenzione. “Non gli somiglia molto” disse lo schiavo.
“Chi?”
“Vostra figlia.”
 

*


Da un po’ di tempo a quella parte il ritmo di battuta era diventato più incostante e faticoso; per Chtilali, rannicchiata a prua accanto alla sua padrona, non fu difficile accorgersi anche del respiro affannoso del marinaio, delle sue spalle che a ogni minuto tremavano maggiormente. E sì che aveva sentito parlare del valore dei filibustieri nel remo, inferiore solo a quella della sua gente.
“Anf.” A un gemito più sonoro del solito la contessa di Ventimiglia non resse più e alzò il capo, gli occhi finalmente liberi da quel velo di apatia e tristezza che li aveva coperti nelle ultime ore; non aveva chiuso occhio, povera signora. “Basta così” intimò mentre giungeva dinanzi al marinaio. “Avete remato tutta la notte e siete a pezzi. Volete farvi scoppiare il cuore?”
“Ma... signora... se non... il capitano Morgan deve sapere...”
“E lo saprà, non ne dubitate; ma sono già morti otto dei suoi marinai, non ho intenzione di condurgli il cadavere del nono prima che ancora sia iniziata la battaglia. Chtilali” ordinò poi alla schiava. “So che sei in grado di condurre questo canotto; lasciamo che questo pover’uomo riacquisti le forze.”
“Sì, padrona.” E l’india prese senza indugio il posto del filibustiere che, a dispetto delle proteste, non era poi così contrario a concedersi un po’ di riposo. Di solito era Ch’ulel a condurre la barca quando accompagnavano il cavaliere Enrico, la signorina Jolanda e la signorina Bianca sul Nervia, per permettere al primo di andare a caccia di anitre e alle seconde di godersi un pomeriggio di quiete, lontano dal protocollo di palazzo che la condizione sociale imponeva loro; ma suo fratello le aveva insegnato molte cose, compresa l’arte del remo in cui i suoi antenati erano maestri.
Dietro di lei, sentì il filibustiere lasciarsi cadere sul fondo della scialuppa. “Solo qualche minuto... signora contessa...”
“Quanto vi occorre, Riley.” La voce della sua signora tremava; certo si sentiva in colpa per la sorta di quei disgraziati che, a quell’ora, stavano già penzolando dai rispettivi capestri. Non le era stato neanche permesso di vedere la figlia, e sì che a quel governatore non sarebbe costato nulla; non avere alcun riguardo verso una sua parente, che crudeltà inutile. “Povera signora” pensò Chtilali mentre tendeva i muscoli e inarcava la schiena all’indietro. E povera anche la signorina Bianca, che era stata lasciata a dei parenti e certo a quell’ora stava crucciandosi per la sorella, cui voleva un gran bene. Suo padre, il signor conte, le aveva giurato di ricondurre la figlia maggiore sana e salva ma, a giudicare dalla piega presa dagli eventi, Chtilali cominciava a dubitare che le cose si sarebbero risolte bene.
 

*


Nora aprì gli occhi con un grumo di pensieri a bollirgli il capo e l’impressione di aver dormito per un paio di decadi, da come si sentiva le membra pesanti. S’era occupata di Wan Stiller il più possibile, prima che Moko la costringesse praticamente a levare le tende e con altrettanto zelo, dietro ordine della marchesa, la facesse scortare da Jalisco fin sulla porta di casa. Era tornata che Perez e Sol dormivano dalla grossa, grazie al Cielo, e lei stessa era crollata a dispetto delle preoccupazioni.
Un colpetto sulla spalla la svegliò del tutto. “Buon Dio, marito, potreste anche sbrigare le vostre faccende da...” S’interruppe nel vedere accanto a lei Sol, che la fissava col capo inclinato e una banana sbucciata in mano; benedetta bambina, ne avesse avuta la possibilità avrebbe mangiato a tutte le ore. Girandosi, s’accorse che il giaciglio dalla parte del consorte era vuoto... e freddo. Un sospetto la fece trasalire. Ma che ore sono? La luce che veniva dalla piccola finestra era fin troppo eloquente. Non aveva dormito due decadi, ma buona parte della mattinata sì! E perché il marito non l’aveva svegliata? “Sol! Dov’è tuo padre?”
“Al mercato.” La piccola ben sapeva che la madre, quando domandava, pretendeva risposte verbali e non gesti.
“E perché non mi ha svegliato?”
“Ha detto ch’eravate agitata e tremavate, perciò ha voluto lasciarvi nel letto.” La ragazzina masticò rapida un boccone, guardandola fisso. “State bene, madre?” Ma la donna non le dava più retta, presa com’era a correre da una parte all’altra della casa a raccogliere oggetti vari e provviste, che raccolse in un grosso involto preparato sulla tavola del desinare. Guardando fuori aveva notato che il sole non era ancora alto in cielo, ma l’appuntamento con Moko era a mezzodì e non potevano permettersi di ritardare.
“Madre?” La ragazzina le si avvicinò incerta, una seconda banana in mano. “Sol” la rimproverò Nora.
“Ho fame.”
Tutta suo padre. Anche lui, da come lo ricordava, si sarebbe spolpato un cinghiale intero senza batter ciglio, curandosi d’innaffiarlo con un buon paio di bottiglie di Porto; ci somigliava eccome, sebbene Moko la pensasse diversamente. Anche se... Il pensiero la fece sorridere, ma a farla ripiombare nell’ansia vi pensò un improvviso tramestio nell’ingresso. “Maledetto cavallo, proprio oggi doveva perdere un ferro...” La voce di Perez era accompagnata da un buon numero di borbottii, segno che era di pessimo umore; sarebbe stato difficile farsi ascoltare. Sol, intuendo la mala parata, ebbe la prontezza di mettere il suo frutto tra le provviste ammucchiate dalla madre.
“Oh, siete sveglia finalmente!” fece l’uomo all’indirizzo della moglie. “Non avevate una bella cera, e non era il caso che avvelenaste qualcuno a causa della stanchezza.” Le passò svelto una mano sul viso, la voce fattasi più comprensiva. “State meglio?” Nora non ebbe il tempo di stupirsi, né di godere del gesto affettuoso del marito: quando lo sguardo gli cadde sull’involto che stava preparando, ritornò quello di sempre. “Ohe, che state combinando? Che istoria è questa?”
“State quieto e ascoltatemi.”
“Sempre la solita solfa, mh? Io vi ascolto sempre, moglie, bell’allocco che vi siete trovato, invece voi...”
“Tacete!” Quel giorno era il peggiore per mettersi a discutere, e Nora pensò di farlo intendere al marito non solo alzando la voce, ma piantandogli le mani sulle spalle; Sol le si era messa al fianco, silenziosa ma cogli orecchi tesi. “E ascoltatemi, per una volta, senza discutere. Ne va della vita di tutti noi.”
Ernesto Perez impallidì. Di rado sua moglie era stata tanto seria e lapidaria, e tanto bastava per averne timore.
 

*


Honorata fu lesta a salire sulla scialuppa che una delle navi di vedetta, lì a controllo della baia di Amnay, aveva mandata. “Vi attendevamo con ansia, signora” disse il marinaio a capo di quella dozzina d’uomini. “State bene?”
“Io sì” rispose la contessa di Ventimiglia, mentre gettava un’occhiata accorata a Riley che s’era afflosciato a poppa, tra le braccia dei commilitoni. Ma bastarono pochi minuti, nonché qualche generoso sorso di rhum, a farlo riprendere quando giunsero sotto la Folgore. E fu lui stesso il primo a salire, senz’altro per dare a Morgan la notizia della sventurata fine dei suoi marinai. Honorata era appena a metà della biscaglina quando sentì il grido dell’almirante  attraversare la tolda.
“Impiccati!”
“Per ordine del governatore” stava narrando il filibustiere con voce affannosa; le voci si facevano più forti man mano che s’avvicinava, come diventava più grande il viso di suo marito ch’era rivolto verso di lei, le braccia tese.
“Malgrado la bandiera bianca?”
“Che hanno subito stracciata sotto i nostri occhi, dopo d’averci fatti sbarcare e d’averci accolto come parlamentari.”
Il resto del discorso non giunse ai suoi orecchi: l’abbraccio del marito, le sue labbra sottili tra i capelli, bastarono a sottrarla al resto del mondo.

Morgan si considerava uomo freddo e estraneo a forti sentimenti, ma la notizia appena recatagli dall’unico marinaio superstite della spedizione l’aveva fatto andare su tutte le furie; e a coronare la cosa quel biglietto vergato con parole sprezzanti, che non aveva esitato a stracciare con pochi gesti irati, lasciando che i frammenti si disperdessero col vento. “Maledetto!” sbottò. “Che veniamo pure a prenderla se ne abbiamo il coraggio, eh? E noi ne abbiamo, di coraggio! Parola mia, conquisteremo quella maledetta città e libereremo la signorina, fosse l’ultima cosa che faccio. Pierre le Picard!”
“Capitano” rispose subito il secondo.
“Comunica a tutte le navi di tenersi pronte a salpare; prima di domani sera, parola mia, Maracaibo sarà in mano nostra.”
“Capitano Morgan.” Carmaux, che aveva da poco raggiunta la coperta assieme a Ch’ulel, fu lesto ad affiancare il suo comandante. “Il governatore, sapendo di noi, potrebbe chiedere rinforzi.”
“Non arriverebbero in tempo. Anche se io credo, mio bravo, che questo governatore abbia in corpo boria sufficiente a credere di potersela cavare senza aiuti: il suo biglietto era fin troppo esplicito.”
“Abbiamo a che fare con un osso duro, signore.”
“È il bastardo di Wan Guld, non m’attendevo nulla di meno.” Mentre i marinai attendevano ai rispettivi compiti, dietro lo sguardo vigile di Carmaux che sulla nave aveva funzione di nostromo, Morgan s’avvicinò all’ex-Corsaro, che fino a quel momento era rimasto immobile colle braccia serrate attorno alla moglie. “Dunque si darà battaglia, signor Morgan” mormorò il conte con voce alterata.
“Non abbiamo altra scelta.”
“Saremo dei vostri anche noi” intervenne Enrico che aveva affiancati gli zii. “Un gruppo di miei uomini darà manforte alla vostra nave, se sarà loro concesso.”
“Dei valorosi sono sempre ben accetti” affermò l’almirante.
“Sta bene. Ma la Nuova Castiglia resterà in disparte; zia, dovreste salirvi quanto prima.”
“Sì, certo” mormorò con un filo di voce la contessa di Ventimiglia. Il marito la prese per le spalle, fissandola bene in volto. “Honorata” disse, il tono fattosi secco e vibrante, “se hanno osato toccarti...”
“No, Emilio, sto bene.”
“E Jolanda? Ti è stato concesso di vederla?” Il cenno di diniego della moglie lo riempì di rabbia, ma decise di contenersi quando s’accorse dei suoi occhi umidi di lacrime. “Non so neanche se... se sta bene...” balbettò la donna. “La mia missione è stata... del tutto inutile...”
“Non fatevene una colpa, signora” tentò Morgan, conciliante. “Avete tentato, ma vostro fratello non ha mostrato il benché minimo rispetto pel suo stesso sangue.”
Honorata si passò rapida una mano sugli occhi, vergognandosi per la sua debolezza. “Se qui vi è un colpevole sono io, signor Morgan” disse semplicemente. “A causa mia sono morti otto dei vostri uomini.”
“Avrebbero potuto perdere la vita sotto i colpi di cannone nemici, signora. Ciascun filibustiere sa che la sua sorte è appesa un filo, ogni giorno.”
“Sì, ma...”
“Otto?”
Un brivido percorse la schiena della contessa di Ventimiglia nel riconoscere quella voce, quegli occhi scuri che la fissavano smarriti. “Riley è tornato” continuò Carmaux, incerto. “A finire appiccati sono stati sette.”
Honorata non riuscì a proferire parola, ma non occorse: vide l’uomo dinanzi a lei perdere colore, come se gli fosse stata sottratta mezza pinta di sangue; il cambiamento fu così repentino che Ch’ulel, nei pressi assieme alla sorella, si sentì in dovere di stringergli un braccio come se temesse di vederlo rovinare sulla tolda, com’era accaduto solo due giorni prima. Carmaux si liberò con uno strattone, un lampo d’insofferenza che gli attraversò gli occhi resi più oscuri dalle pupille dilatate, a tal punto da inghiottire quasi le iridi. E furono quegli occhi torbidi a fissarsi su di lei. “L’hanno appiccato?” Un mormorio roco che sarebbe passato inosservato in condizioni normali; ma l’equipaggio intero s’era zittito, e con esso anche il vento.
La mano di Honorata corse a quella del marito per cercare un po’ di conforto, ma invano: le dita posate sulla sua spalla erano fredde e inerti. “No.” Disse solo questo. E pregò che il marinaio non andasse oltre, che non si facesse ancora del male...
“Fucilato?”
“No. È... È spirato in cella, da sé.”
Avrebbe voluto schiaffeggiarsi a sangue: due minuti, due errori, e se il primo era in qualche modo giustificabile - lui l’avrebbe saputo comunque - il secondo era semplicemente crudele. Ancora di più perché involontario.
Carmaux si limitò a sorriderle, e lei ne ebbe paura e pietà insieme perché quelle labbra stirate nascondevano un abisso, al pari di quegli occhi senza luce. “Un uomo robusto, che ha affrontato mille battaglie, non muore da sé, signora contessa” mormorò piano. “Ma un uomo torturato, piegato, spezzato...” S’interruppe, trattenendo un singulto, mentre rivolgeva l’attenzione al signor Morgan.
“Capitano... mi concedete qualche minuto?”
“Tutto il tempo che vuoi, Carmaux” fu la mesta risposta. E Morgan, come tutti i presenti, si ritrovò suo malgrado a prestare ascolto a quei passi lenti, sofferenti del marinaio prima di vederlo scomparire sottocoperta.
Honorata si riscosse solo quando sentì il marito abbandonare la presa su di lei, per seguire la stessa direzione. “Emilio, io non credo sia il caso” disse. “Quel poveretto necessita di star solo.”
“Credetemi, signore” intervenne l’almirante. “Conosco Carmaux da più di vent’anni, e non è uomo da fare pazzie, anche se...”
“E voi credete a me, signor Morgan” replicò il signore di Ventimiglia, “quando dico è stato proprio lui a chiedermi di seguirlo, con quei suoi occhi.” Che mai, neanche nei momenti più bui, aveva mai veduto.

Il liquido rosso scuro ondeggiava quieto, al ritmo della mano che teneva il bicchiere senza dar segno di volerlo alzare affinché due labbra secche lo vuotassero. Il signore di Ventimiglia non se ne stupì: da quando era tornato a Maracaibo dopo diciott’anni, fin troppe cose avevano presa una piega inaspettata.
“Una volta vi dissi...” Fu Carmaux a interrompere il silenzio che s’era formato in quell’angusto ambiente che era la sua cabina, “...di non aver mai veduto nella mia vita il fondo d’un bicchiere." La mente dell’ex-Corsaro tornò rapida a una sera di molti anni prima; un austero comandante ancora perso nella vendetta e nel rimpianto, un marinaio più ciarliero del solito, due boccali di Alicante.
“Ricordo; ti è sempre stato facile vederlo pieno, in qualunque occasione, e Dio solo sa quante il tuo innato ottimismo ci abbia giovato.”
“Guardatemi ora, invece.” E Carmaux alzò il bicchiere con uno scatto tale che un po’ di vino gli gocciolò lungo il polso. “Tremo all’idea di vuotarlo; perché se lo facessi, signor conte, non vedrei un fondo, ma un baratro.” Il metallo sotto le sue dita quasi si deformò per via della stretta febbrile. “Fulmini! Non avrei mai detto che sarei giunto a un tale segno!” E mandò un lungo sospiro. “Perdonatemi, sono uno sciocco.”
“Non dirlo neanche.”
“Signor conte, io...”
“Basta, Carmaux. Niente titoli, niente onori, non da te; non più.” Lo disse di getto, ignorando lo stupore del’uomo. “Non sei un mio marinaio, un mio servo o un mio sottoposto; solo un amico.”
“Un amico che può ardire di trattarvi da pari perché ora sa, come voi, cosa significa sopravvivere a un fratello?” L’ex-Corsaro dubitava fosse stato il vino, bevuto tutto d’un fiato, a infondergli coraggio per quella frase che, una volta, mai avrebbe osato pronunciare dinanzi a lui.
Ma a quei tempi Wan Stiller era ancora vivo.
“Posso farti una domanda?”
“Chiedete pure senza riserbo.”
Il signore di Ventimiglia prese posto sull’unica sedia rimasta libera, decidendo sul momento di essere diretto e di non avere alcuna esitazione. “Mi è giunta voce che tu, prima di questa spedizione, avessi lasciata da un anno la filibusteria.”
Silenzio.
“E con te anche Wan Stiller.” Il bicchiere tra le mani del marinaio prese a curvarsi in maniera allarmante. “Il signor Morgan ha la lingua più lunga di quanto credessi” fu la fredda risposta.
“Non fu lui a parlarmene.”
“Ah... mi pareva strano.”
“...perché?”
“Intendete perché ho lasciata la Giamaica, mia moglie, i miei figli...”
“I tuoi - cosa?”
“...per tornare in mare a rischiare la vita?” Il bicchiere ormai deformato cadde a terra, mentre le mani di Carmaux correvano a tenergli il ventre che tremava per le risate. L’ex-Corsaro avrebbe data metà della sua anima perché smettesse, perché facesse cessare quella risata che sapeva solo di tristezza e delusione.
“Se mi conosceste solo un briciolo di quanto credete, sapreste che voi, per me, siete stato molto più di un comandante; per anni vi ho seguito, affiancato, consigliato e supportato. Restare sordo all’aiuto di cui necessitava vostra figlia sarebbe stato un insulto diretto alla vostra persona, e io mai più avrei potuto dire d’essere stato un vostro fedele marinaio. Ditemi, signore...” mormorò Carmaux. “...trovate deprecabili i miei motivi?”
“Io ti sono profondamente grato” rispose il signore di Ventimiglia. “Ma non chiedermi di non pensare che, a causa mia...”
“Non ritenetevi responsabile di quanto è accaduto a Wan Stiller. Non è colpa vostra né mia, se mi azzardassi a pensarlo so che verrebbe a perseguitarmi pel resto dei miei giorni, dal posto in cui quei maledetti spagnuoli l’hanno spedito a suon di frustate.” Il volto del marinaio, in piedi dinanzi al suo antico comandante, si contrasse. “Corpo d’uno squalo! Mi manca già, quell’amburghese....” Sospirò, cacciandosi pollice e indice ai lati delle palpebre. “Che gran torto mi ha fatto! Andarsene senza di me...” Sussultò appena quando avvertì la mano del conte stringergli piano la spalla sana.
“Sii, forte, Carmaux” si sentì dire, e sorrise ancora. “Questo ve lo dissi anch’io, diciott’anni orsono” ricordò.
“Ma io mi dimostrai molto meno forte di te.”
“Forse. Ma ora dobbiamo esserlo tutti e due; voi avete vostra figlia da riprendervi, e io voglio tornare dai miei sano e salvo.” Il marinaio si diresse con passo deciso verso la porta della cabina. “Siete con me, signore?”
La forte stretta di mano che ricevette non potè confermarlo meglio.
"Bene. Perchè abbiamo una città da riconquistare." 


Note dell’autrice:
  solo ieri sono riuscita a terminare una cross-over che mi ha tenuto sulle spine per la bellezza di quattro mesi, e oggi termino un capitolo altrettanto spinoso (e un po’ più lungo dei precedenti). Me felice e soddisfatta ^_^
Oddio, felice. L’ultimo pezzo è stato un parto, giuro, non so quante volte me lo sono rigirato in testa prima di scriverlo; è la prima volta che mi trovo con Carmaux alle prese con sentimenti simili. Appigli all’opera salgariana non ne ho trovati, perché nell’unico momento in cui il marinaio crede che il suo migliore amico sia morto e c’era la possibilità di analizzare il suo stato d’animo, Salgari sposta la scena su Morgan e Jolanda. Due sole frasi lasciano trapelare qualcosa: “Anche Carmaux aveva perduta la sua consueta allegria, pensando alla miseranda fine del suo inseparabile compagno, il povero amburghese”, che io personalmente trovo molto meno banale di quanto sembri: perché Carmaux non perde mai il suo caratteristico buonumore, neanche nelle situazioni peggiori. E poi c’è quella frase che lui stesso pronuncia: “Ah, mio povero Wan! Andarsene senza di me!”, che mi fa piangere il cuore ogni volta che la leggo. Sul serio. Non potevo non riprenderla.
Per passare a qualcosa di più allegro... nel capitolo è presente uno spoiler grande come una casa. E no, non è quello che sembra v__v Se riuscite a beccarlo e volete “conferma” da me, chiedete privatamente, mi raccomando ^_^
Oh, le frasi sottolineate sono prese integralmente dal romanzo.

Chi devo ringraziare? Crow F e Chandrajak, naturalmente, che ci tengono a farmi sapere cosa ne pensano di questa storia; chiedo perdono alla prima perché avevo promesso un chiarimento che non è arrivato, ma il capitolo (e Carmaux) mi hanno preso la mano più del previsto.
E vorrei ringraziare anche Charlie, su EFP SHUN DI ANDROMEDA. Non fosse stato per lei, forse questo lavoro sarebbe ancora in stand-by, assieme a molti altri. Un abbraccio a una fan salgariana degna di questo nome.
Satomi

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