love is violence

di shesafeandsound
(/viewuser.php?uid=148261)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Please, stop. ***
Capitolo 2: *** chapter two ***
Capitolo 3: *** chapter three ***
Capitolo 4: *** chapter four ***
Capitolo 5: *** chapter five ***
Capitolo 6: *** chapter six ***
Capitolo 7: *** chapter seven ***



Capitolo 1
*** Please, stop. ***


La sabbia bianca della California scivolava fuori dalle mie mani passando per le fessure delle mie dita. La mia mano sinistra la smuoveva e la riprendeva e la feceva scivolare di nuovo a terra. Ho sempre amato questo: sentire la sabbia fra le mie dita, sul mio corpo. Aveva il potere di calmarmi. Si cominciò ad alzare il vento e fui costretta ad appiattirmi a terra per evitare che la sabbia mi arrivasse sulla schiena e mi pungesse come aghi conficcati nella pelle. Aprii il mio libro e mi persi nella lettura. Lanciai un'occhiata al mio telefono che si era illuminato, lo presi fra le mani ed aprii il messaggio.
 
"ti rivoglio a casa fra venti minuti."
 
Feci fatica a trattenere le lacrime ma, a quel punto, mi alzai e raccolsi il mio asciugamano, il libro e misi il cellulare dentro la tasca dei pantaloni che non mi ero mai tolta, così come la maglia. Gettai tuto dentro la borsa e cominciai a correre.
 
"oh, scusi!" urlai, voltandomi, ad una signora a cui avevo tirato della sabbia.
 
Continuai la mia corsa ed una volta che fui fuori dallo stabilimento mi precipitai in macchina. La schiavai, lanciai la borsa blu nel sedile del passeggero e trattenni un grido quando mi misi seduta e una volta lasciato passare il dolore, uscii dal parcheggio senza curarmi troppo delle macchine che avrebbero potuto venirmi contro. Non vedo molta differenza fra essere morta e condurre la vita che facevo io.
Un auto mi suonò e, quando mi sorpassò, ricevetti un bel dito medio come omaggio.
Spinsi l'accelleratore e mi sbrigai ad arrivare davanti al cancello di quella casa che tanto odiavo e da cui non vedevo l'ora di andarmene. Schiacciai il bottone a sinistra sul telecomando e quell'ammasso di ferro cominciò a muoversi. Quando la distanza fra la prima e la seconda colonna fu abbastanza ampia, entrai dentro. Spensi la macchina davanti il garage, presi la borsa e scesi dal mia vecchia chevrolet. Feci entrare quanta più aria possibile nei polmoni e poi la rigettai tutta fuori con uno sbuffo. L'incubo ricominciava.
 
"Dove cazzo sei stata?" urlò mio padre alzandosi dalla sedia.

Si alzò così velocemente che la sedia cadde sotto il suo corpo. Si avvicinò a me e mi stampò uno schiaffo a piene dita sulla mia guancia sinistra. Ingoiai il mio urlo di dolore, abbassai la testa e corsi in camera. Avevo fatto solo dieci scale ma il fiatone cominciava già a farsi sentire: un po' per la paura, un po' per l'esasperazione.

 
"Scendi subito!" continuò a gridare.

Lo sentii salire le scale. Entrai in camera, e cercando di fermare le mani tremanti, cercando di mantenere quanta più calma possibile, riuscii ad impugnare la chiave e a girarla per inchiavarmi in un posto sicuro. Lui cominciò a tirare pugni sulla porta imprecando

 "Tanto dovrai uscire da questa maledetta stanza!" gridò queste ultime parole e poi calò il silenzio.

Aveva ragione, sarei dovuta uscire prima o poi e in quel momento mi avrebbe picchiata così forte da accentuare ancora di più i miei lividi e da farmeli venire altri. Mi lasciai scivolare lungo la porta e sentii la paura entrare di nuovo nella mia mente. Potevo già sentire il dolore di nuovi schiaffi, di nuovi calci. Un lamento di dolore uscii dalla mia bocca e crollai in un pianto struggente. Ogni sera era così, da due mesi ad allora.
Strisciai fino al letto, mi spogliai e misi a nudo il mio corpo che era coperto per lo più da lividi verdi-violastri. La mia pelle si poteva solo intravedere sotto i bozzi dei capillari danneggiati, sotto i tagli e le cicatrici. Presi il pigiama sotto il cuscino. Infilai la maglia ed emisi un gemito di sofferenza al contatto dei vestiti con i tagli sulla schiena. Era un dolore che mi faceva chiudere la gola. Ogni volta potevo rivivere quella scena e diventava molto semplice smettere di respirare, a quel punto. Chissà quanti pezzi di vetro rotto avrò avuto conficcati nella schiena. Adagai la borsa sulla scrivania e misi le scarpe fuori dalla finestra.
Mi infilai nel letto cercando di non gemere troppo per il dolore. Dormivo scoperta perchè le coperte si posavano sul mio corpo pieno di ferite in un modo così violento da farmi vedere le stelle.
La sveglia suonò alle sei  meno un quarto. Da tre giorni avevo capito che mio padre si svegliava alle sette e quindi, se non volevo essere picchiata anche la mattina, dovevo uscire prima da casa e tornare più tardi possibile. Mi vestii, guardai il calendario: 
 
4 luglio
 
Presi la borsa ed indossai un paio di scarpe. Coprii i segni della violenza sulla faccia con un po' di fondotinta e mi preparai ad un altro giorno di torture.
Feci un enorme respiro e pregai che non fosse dietro alla porta. Girai la chiave più sileziosamente possibile ma lo scattare della serratura mi tradì e lo vidi uscire dal bagno. Mi si congelò il sangue nelle vene e, per un attimo, morii dentro.
 
"Dove vai, puttana?" urlò sbattendo la porta del bagno.

Lui era alla fine del corridoio mentre io solo all'inizio. Davanti a me c'erano le scale e dovevo solo correre per evitare un altro massacro.
Mi diedi uno strattone, infondendomi coraggio, corsi giù per le scale che non mi erano mai sembrate così lunghe e complicate da percorrere. Ogni scalino era un bagno di sudore e sentivo il fiato mancarmi sempre di più. Lo sentii avvicinarsi e con lui sentii la mia caviglia cedere, caddi dalle scale ma, quando lo vidi dietro di me, troppo vicino a me e alla mia incolumità, mi alzai senza far caso al dolore che la caviglia mi provocava e schiavai il portone più velocemente possibile. Mi prese per i capelli e quando capii di essere in trappola cominciai a dimenarmi. Mi arrivò un pugno dietro alla schiena. Mi mancò il respiro per alcuni secondi, rivissi la scena tante di quelle volte che il dolore si amplificò. I miei occhi erano fissi su quel portone aperto da cui non riuscivo ad uscire. Tirai un calcio pur sapendo che se l'avessi mancato lui mi avrebbe fatto pagare quell'affronto con maniere molto più aggressive. Lui lasciò la presa per il dolore ed io feci in tempo ad uscire, chiudere il portone e salire in macchina. Una volta là dentro mi sentii al sicuro e mi concessi due minuti per riprendere fiato e per capire che ero ancora viva. Appoggiai la testa sul volante, cercando di ristabilizzare il battito.Accesi la macchina ed uscii da casa. Vidi dallo specchietto retrovisore mio padre  sbracciarsi e  muovere la bocca da cui saranno uscite bestemmie ed insulti.
L'autostrada era vuota. Guardai l'orologio. Le sei meno dieci. Erano passati solo cinque minuti eppure quando cercavo di sopravvivere pensavo stessero passando ore ed ore.
Mi diressi all'ospedale. Era la prima volta che ci andavo ma non dovevo far vedere le ferite, o almeno, non era il mio scopo principale.




*Writer's space 
ciao a tutti :) questa è la mia prima storia che scrivo che non è una ff quindi, devo dire che sono uscita molto dal mio tipico modo di scrivere e soprattutto questo è un argomento diverso dai soliti che scrivo, spero che vi piaccia e spero di vedere i vostri commenti in qualche recensione. se vedrò che questa storia piace continuerò a scriverla altrimenti la fermerò qui! Un bacio, Noemi. 
@shesafeandsound su twitter :D

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** chapter two ***


"dovrei fare un ecografia" dissi alla ragazza dello sportello.
"certo, si accomodi. la dottoressa arriverà fra qualche minuto" rispose la ragazza su una ventina di anni, che indossava un camice bianco con delle scarpe infermieristiche. La vidi allontanarsi e questo mi fece solo piacere. Avevo paura potesse leggere la mia espressione da cane bastonato e chiedermi a cosa fosse dovuta. Mi sedetti su una sedia bianca che era posta davanti alla porta dello studio della dottoressa e cominciai a massaggiarmi la caviglia dolorante.
"Buongiorno" mi disse una donna affacciandosi dalla porta davanti a me. Era una bella donna, capelli biondi fermati in una treccia, occhiali neri con montatura rettangolare e abbigliamento solito da dottori.
"Si accomodi" mi invitò dentro aprendo tutta la porta.
"Buongiorno" risposi sedendomi davanti ad una scrivania. Una smorfia di dolore si disegnò sulla mia faccia quando il corpo aderì alla sedia.
"Allora, prima di fare l'ecografia deve darmi un po' dei suoi dati personali" mi informò lei in tono gentile mettendomi a mio agio. Io annuii ed aspettai le sue domande.
"mi dica un po' tutto di lei: nome, cognome, età, abitazione, provenienza, lavoro e cose simili" disse posizionandosi bene gli occhiali sul naso.
"mi  chiamo April Lee, ho 17 anni e a settembre frequenterò il quarto liceo qui in California. Vivo in via E Weldon Ave con mio padre." pronunciai quest'ultima frase con disprezzo ed ostilità. Quella bestia non era mio padre.
"perfetto." esclamò inserendo tutti i dati sul computer. "April Lee, ha detto?" mi chiese per conferma. Io annuii silenziosamente.
"bene, si può spogliare!" disse invitandomi ad alzarmi in piedi "faremo una visita generale per poi passare all'ecografia" mi informò.
Visita generale? Spogliarmi? no questo non era nei miei piani. Avrebbe dovuto farmi stendere sul lettino con la pancia scoperta che sarebbe stata l'unica parte del corpo dove non ho segni di contusione e non avrei dovuto raccontare nulla di mio padre. Come diavolo potevo uscirne fuori da questa storia? non potevo togliere i vestiti e mostrare i miei lividi e le mie cicatrici. 
"sta bene?" mi chiese la dottoressa vedendo il mio sguardo perso nel vuoto.
"cosa?" chiesi scuotendo la testa e ritornando al mondo reale "ah, sì ... ecco, è che preferirei non spogliarmi." ammisi dietro un velo di vergogna ma che avrebbe coperto la vergogna più grande:mostrare i segni di violenza sul mio corpo.
"non si vergognerà, vero? siamo fra donne" esclamò portandosi la mano davanti la bocca per nascondere la risata. le sue dita, però, non nascosero dei denti perfetti che disegnavo un sorriso dolcissimo. "dai, si spogli" mi disse porgendo le mani davanti a me "mi dia i vestiti"
Non vidi altra via d'uscita e comincia a toglierarmi i vestiti. Le mie mani avevano imparato ad avere un tocco leggero sulle mie ferite, sapevo trattarmi bene e sapevo amarmi cosa che quella bestia di uomo non era più stato capace di fare.
"oh madre del cielo, ma cosa ha fatto?" mi chiese la dottoressa alla vista del mio corpo di colore verdastro. certo, tutti quei segni non passavano inosservati, erano la prima cosa che si notava e, solo sotto, si poteva individuare uno strato di pelle bianca.
non risposi. non volevo rispondere, non potevo rispondere. 
"cosa hai fatto, April?" continuò a domandarmi, questa volta alzò la voce ma pronunciò tutto in modo confidenziale, passando da darmi del lei a darmi del tu.
"sono stata ..." deglutii e cercai il coraggio di pronunciare quella parola.
"cosa? sei stata cosa?" mi chiese impaziente con aria scioccata. 
"picchiata. sono stata picchiata!" esclamai, prima, alzando la voce ma che servì solo a nascondere la mia disperazione, infatti, dopo alcuni secondi crollai in un pianto interrotto da singhiozzi e da affanno. le lacrime cominciarono a rigare il mio viso e le ferite sotto il fondotinta cominciarono a bruciarmi.
"da chi?" mi chiese sempre più esterrefatta. allungò le mani ma non mi toccò. sapeva che se lo avesse fatto avrei tirato un urlo di dolore.
"da chi? April, da chi?" mi chiese con gli occhi lucidi.
Era assurdo, non la conoscevo e già si preoccupava tanto per me. Vidi uno scintillio nei suoi occhi: era una lacrima intrappolata nell'occhio che fece fatica a scendere ma che, una volta che ebbe bagnato lo zigomo, fece supplicare la donna per avere una mia risposta.
"da ... mio padre" risposi incerta. "per favore, non dirlo a nessuno" questa volta ero io a supplicarla fra i singhiozzi e le lacrime.
"come può tuo padre averti fatto questo?" domandò incredula. le lacrime erano scomparse e nella sua voce si riusciva a percepire un filo di rabbia.
"tutto è cominciato da quando seppe che ero rimasta incinta, circa due mesi fa, cominciò a picchiarmi per punizione. prima era un padre amorevole, poi quando morì mia madre divenne freddo ed insensibile e poi ... divenne un mostro" mi interruppi perchè era finita la storia ma anche perchè era finito il fiato. ero ancora più disperata di prima ma, da una parte, mi aveva fatto bene parlarne con qualcuno.
"forza vieni qua. medichiamo queste ferite" mi disse cercando di fermare le mie lacrime.
Feci un cenno d'accordo e rimasi in piedi, nuda, in mezzo allo studio. Mi coprii con le mani cercando di estraniarmi dal resto del mondo. Aspettai che ritornasse dentro con le bende e cose simili.
Cominciò a passare dell'ovatta morbida sulle ferite più ostili, quelle che stavano lì da un mese e che non si volevano chiudere perchè venivano ricalcate ogni giorno da un nuovo pugno, che cominciarono a bruciarmi e dovetti pregarla di smetterla per quanto dolore mi provocava il disinfettante sul corpo.
"Shh" sussurrò per calmarmi "ora passa tutto" continuò con voce comprensiva e dolce.
Era da tre anni che qualcuno doveva parlarmi con queste parole gentili. Da quando era morta mia madre nessuno pensò più a me, dovetti imparare a prendermi cura di me stessa, a capirmi e ad affrontare anche le paure più stupide fidandomi solo del mio cervello e, spesso, neanche di quello. Ero in guardia dalle mani di quella donna, ma allo stesso tempo mi trovavo a casa fra di esse perchè, il suo tocco premuroso e delicato, mi ricordava quello di mia madre e così, cominciai a fidarmi, tanto non avrebbe potuto farmi più male di quanto non avesse già fatto mio padre. 
fissò qualche cerotto sui tagli ancora aperti e poi smise di torturarmi, lasciò la mia pelle ed io sospirai sollevata.
"bene, ora possiamo fare l'ecografia. accomodati! attenta a non farti troppo male" mi disse facendo segno di salire sul lettino.
Mi sistemai cercando di non spingere troppo sui tagli dietro la schiena così la inarcai e spinsi tutto il peso sulla testa e sui piedi.
La dottoressa Hayes, così c'era scritto sul cartellino della sua divisa, mi alzò la maglia e cominciò a fare il suo lavoro.
Si pulì le mani e ritornò dietro la scrivania. A quel punto scesi dal lettino e, evitando di pesare ancora sulle ferite, rimasi in piedi vicino alla sedia.
"Allora, il bambino, stranamente, è in buone condizioni. Scusa ma tu hai questa creatura in grembo da tre mesi ..." capii subito cosa intendeva.
"sì,lo so. mio padre lo ha scoperto,dopo un mese,che sono incinta" mi spiegai meglio.
"va bene, ora cerca di denunciare tuo padre o di fare qualsiasi altra cosa ma non continuare a farti picchiare" mi disse alzandosi dalla sedia. Mi porse un foglietto bianco con qualcosa scritto sopra e poi mi congedò.
"arrivederci" esclamai cordialmente. Ricambiò il saluto e si chiuse nel suo studio.
Facile dirlo, per lei che avrà avuto un padre amorevole come molti altri. Io, se lo avessi denunciato lo avrebbero arrestato e sarebbe andato tutto bene ma poi io dove sarei andata? non ho familiari. I miei sono entrambi figli unici e i miei nonni sono morti, eccetto uno che è malato di cancro e che non poteva di certo badare a me ed andare in una casa famiglia era l'ultima delle mie volontà.
Fra un anno avrei potuto denunciarlo, comprarmi una casa e vivere da sola ma fino ad allora avrei dovuto vederlo ogni giorno. Solo un anno. April ce la puoi fare. Ormai questa era l'unica frase che mi faceva tirare avanti.
Presi il telefono dalla tasca che aveva cominciato a vibrare in un modo talmente forte che non poteva essere ignorato, o forse stava solamente sbattendo su un livido della gamba provocandomi dolore.
 
Celine 
 
"pronto?" risposi uscendo dall'ospedale. Il vento soffiava forte alle sei e un quarto della mattina, cominciò a passare in mezzo ai miei capelli disegnando giochi di onde con le mie ciocche biondo cenere.
"april, ti ho svegliato?" mi chiese con tono preoccupato.
"no, tranquilla, dimmi!" credo che mi avesse chiamato a quell'ora della mattina perchè fin da piccola mi svegliavo prestissimo,non avevo mai smesso di farlo e lei, ormai, lo sapeva. piuttosto, lei mi sorprendeva. Celine non era mai stata una mattiniera eppure oggi era in piedi nemmeno alle sette.
"organizziamo una cena di classe, ti andrebbe di venire?"
"quando?" chiesi molto esaltata, dovevo nascondere la mia disapprovazione così, quando lei me lo avrebbe detto, io avrei potuto mettere in atto le mie doti teatrali e fingermi molto dispiaciuta dal fatto che avessi avuto da fare e quindi avrei dovuto rifiutare l'invito.
"sabato sera!" rispose con un tono allegro, troppo allegro per quell'ora.
cominciai a borbottare qualcosa, mi calai nel personaggio e risposi "cavolo, sabato non posso devo andare via con mio papà. mi dispiace tantissimo. semmai organizzeremo un' altra cena, che ne dici?" chiesi infine aprendo con la mano destra la macchina. non potevo accettare l'invito perchè la cena sarebbe finita tardi e mio padre sarebbe rimasto ad aspettarmi sveglio pronto ad usare le mie mani che sanno picchiare su di me come ferro caldo. ormai, dovevo prendere questo tipo di decisioni ricordandomi che qualsiasi cosa avrei fatto sarebbe andata a mio discapito. solo un anno. April ce la puoi fare.
"oh, va bene. dispiace anche a me. ciao, bellissima"
"ciao, ciao" esclamai attaccando il telefono e salendo in macchina.
di nuovo,fitte di dolore pervasero il mio corpo e per riprendere il controllo dei miei muscoli mi servirono cinque minuti buoni. era come ricevere tante spade conficcate nel corpo tutte nello stesso momento, come se qualsiasi limite del dolore fosse stato cancellato ed io ero all'apice della sofferenza. era in momenti come questi che mi mancava una mano da stringere, a cui attaccarmi, e stringere, e stringere finchè il dolore non se andava, finchè il mio corpo non ritornava sotto il mio controllo. mi costrinsi a tirare indietro le lacrime.una fitta mi riempì la tempia e nell'attimo impiegato per dire "mi fa troppo male" ero con la testa sul volante pregando che quell'emicrania passasse presto.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** chapter three ***


mi fermai al bar della stazione, e spinsi con tutto il peso del corpo per aprire la porta di vetro del locale.
"ciao, April" esclamò allegramente Mike, un uomo sulla cinquantina, sventolando la mano.
"ciao!" risposi ancora più entusiasta. quell'uomo mi infondeva una pace ed una felicità assurda, forse era merito della sua pancia che nasceva come una montagnetta sotto la sua maglia a righe. "attento, il caffè!" dissi velocemente indicando la caffettiera che stava bollendo, facendo uscire tutto il caffè al di fuori.
"oh, che sbadato, grazie mille! cosa ti do?" mi chiese gentilmente spengendo il gas.
ricordo che il suo bar era uno di quelli vecchio stile, che richiamava molto gli anni 80 o 90. di cose elettriche ce ne erano ben poche: veniva fatto tutto a mano, a partire dai cocktail per finire ai panini riscaldati.
un sombrero dominava la parete in fondo al locale, davanti alla cassa c'erano quattro tavolini, tutti con quattro sedie a disposizione. posti davanti al bancone, dove venivano tenuti i panini e le varie paste, c'erano altri tre tavolini. le pareti erano dominate da cartoline, quadri  e vecchie stampe. il colore che predominava era il rosso, un rosso tendente al bordeaux. quel luogo odorava di buono, di tranquillità, di pace ... di casa.
"del succo d'ananas" risposi appoggiando i gomiti sul bancone, gli angoli della bocca si piegarono in una smorfia di dolore ma lasciai correre, cercando di trasformarla in un sorriso, e attesi silenziosamente il succo e qualche domanda da parte di Mike, che sarebbe sicuramente arrivata.
"allora, è finalmente finita la scuola! devo vederti da una vita, che fine avevi fatto?" mi domandò, come programmato, stappando la bottiglietta e versando il contenuto liquido nel bicchiere di vetro, passandomelo sul bancone di legno e aggiungendo una cannuccia verde.
lui lo sapeva, il verde era il mio colore preferito e lo faceva fin da quando ero piccola, aggiungeva sempre una cannuccia di quel colore per mettermi ancora più a mio agio.
quanto avrei desiderato un padre come lui. un papà con la pancetta e con quell'accenno di barba. un papà che mi conoscesse. un papà che mi amasse e che amasse suo nipote senza cercare di ucciderlo quando era ancora un feto. un papà che facesse semplicemente il papà, senza troppi pregi ma che, per me, sarebbe stato l'uomo migliore del mondo.
"ho avuto molto da studiare e finchè non è finita la scuola sono rimasta chiusa dentro casa!" spiegai portando la cannuccia vicino alla bocca. la feci roteare a lungo lungo il bordo del bicchiere, prima di avvcinarla alle labbra. il succo era così freddo che fece solleticare le mie corde vocali. assaporai ogni singola sfumatura di sapore dell'ananas e lo riportai sul bancone. 
"ho capito, e brava la mia April. magari mio figlio fosse come te, quello due bicchieri di birra la sera ed è contento" esclamò scuotendo la testa, sbattendo un panno umido sul bancone per pulirlo. sospirò e si tirò il panno sulla spalla.
il modo in cui diceva "la mia April" era così dolce nonostante la sua voce fosse rauca e rovinata dall'età che incombeva alla porta della sua vita.
"non ci puoi fare nulla" dissi ricopiando il suo sospiro. "ora vado" esclamai battendo la mano sul bancone, come per darmi una spinta, e poi, una volta che ebbi sentito il suo saluto, uscii dal locale.
sarei rimasta con lui tutta la vita, lo avrei supplicato di adottarmi, tanto so benissimo che l'avrebbe fatto, se non fosse stato per mio padre pronto ad aspettarmi a casa, come sempre.
"il treno 05869 è in arrivo sul binario 2" informò l'altoparlante leggermente troppo alto.
un fischio precedette la comparsa del treno che da lontano era solo un punto nero nel verde del bosco, situato a nord della stazione..
vidi arrivare il treno e il cigolio dei freni mi portò ad attappare le orecchie tanto mi dava fastidio. il vento fece sollevare i miei capelli e la maglia si attaccò alla mia pelle mostrandone ogni curva. rimasi un secondo immobile e poi, senza pensarci troppo, rientrai nel bar.
"Mike, mi dai un biglietto per il treno? dammi quello che costa di più, quello con cui posso andare più lontano" dissi agitando le mani e sperando che il treno non ripartisse.
"certo" esclamò staccandone uno dalla lunga lista di biglietti che teneva tutti piegati, uno sull'altro, a mo' di fisarmonica, vicino alla cassa.
gli diedi velocemente i soldi, e, dopo aver visto il modo strano in cui mi guardava, scoppiai a ridere divertita.
"ciao, Mike" dette queste parole ed uscì.
fuori del locale c'erano le macchinette per timbrare i biglietti, così, introdussi il mio all'interno ed aspettai un "tic" e il mio biglietto venne sputato fuori in qualche secondo.
mi ritrovai davanti quell'ammasso di ferro, spinsi il bottone grigio contornato di blu della prima porta che mi ritrovai davanti, il tasto si illuminò di verde ed aspettai che si aprisse. saltai sopra con un balzo atletico, non credevo di esserne più capace.
la porta si chiuse dietro di me con un cigolio ed io cominciai ad attraversare un vagone, cercando un posto libero e, possibilmente, un luogo solitario.
la ricerca non sembrava proseguire bene, nessun posto mi andava genio ed avevo appena preso il treno di punta dove tutte le persone si schiacciavano per salire, dove le gomitate facevano da sfondo nelle varie porte centrali.
alla fine, smisi di cercare troppo e mi sedetti in un posto libero che si trovava in un vagone pieno.
mi misi vicino al finestrino ed espirai lentamente, contenendo le espressioni di dolore, per poi espirare più silenziosamente possibile.
cominciai ad osservare il panorama, il cielo era di un azzurro così intenso che mi ricordava i pomeriggi passati con mia madre a far volare gli aquiloni, prima di preparare il pranzo.

"mamma, mamma, guarda!" esclamai allungando il filo dell'aquilone.
"attenta, l'albero" esclamò mia madre divertita per poi avvicinarsi a me, mi aiutò a dirigerlo in un punto più sicuro. lo avevo strappato tante di quelle volte che ora, anche lei, era stanca di ricucirlo.

c'erano delle case che dominavano tutta la visuale e, da qualche parte, su delle altalene dei bambini. istintivamente mi portai la mano alla pancia e mi tranquillizzai.
una voce all'altoparlante ci informò delle varie mete del treno.
 
"California, Emeryville, Illinois e Chicago. buon viaggio a tutti i passeggeri."
 
non sapevo bene dove andare, il più lontano possibile da mio padre, forse, proprio a chicago. sì, ma una volta lì cosa avrei fatto?
scossi la testa e cercai di eliminare qualsiasi oscuro pensiero dalla mia mente e mi concentrai solo su una cosa che sapevo certa, e che fece salire l'adrenalina nel mio corpo: destinazione sconosciuta.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** chapter four ***


Il treno partì e vidi il panorama spostarsi, lasciando lì, definitivamente, le altalene dei bambini per dirigersi verso la città.
all'inizio il treno procedeva lentamente ma quest'andatura fu sostituita, in qualche minuto, da una molto più veloce e il panorama divenne solo una rapida successione di immagini sfocate.
 
"é occupato?" mi chiese un ragazzo con un ciuffo biondo che gli copriva gli occhi, indicando il posto libero davanti a me.
"oh,no,no" risposi ritornando sulla terra.
studiai a lungo il ragazzo mentre sistemava i suoi bagagli sul sedile accanto al suo.
sarà stato alto all'incirca un metro e ottanta, aveva i muscoli nei punti giusti ed era davvero un bel ragazzo. inclinai la testa verso destra e, sì, aveva anche un bel fondoschiena. dopo qualche pensiero non proprio casto sorrisi capendo quanto fossero squallidi i miei pensieri ma quando si girò e si mise seduto di fronte a me divenni subito seria.
non parlammo mai lungo il viaggio eccetto qualche osservazione sul tempo e su quanto facesse caldo in quest'ultima settimana.
tirò fuori un libro da una borsa marrone e si perse nella lettura. lo interruppi un secondo e gli chiesi se sapeva dove fossero le cuccette, mi mostrò la strada e poi lo congedai cortesemente.
mi chiusi là dentro intenta a non uscirne finchè non fossi arrivata a destinazione . mi gettai sul letto e solo dopo aver sentito un dolore risalire lungo la schiena mi ricordai che i tagli e le cicatrici erano ancora lì. l'ultima cosa che volevo fare era affogare nei ricordi quindi tirai fuori dalla tasca il mio telefono vecchio, ed ormai troppo scrauso per essere rivenduto ed avere un po' di soldi, e cominciai a giocare a snake. il mio amato snake in bianco e nero da cui ero diventata dipendente e che riusciva a salvarmi dai momenti di noia. dopo aver maledetto abbastanza i vari muri su cui andavo ripetutamente a sbattere, il telefono si spense prima ancora che potessi lanciarlo da qualche parte, lontano da me. bene, ora ero da sola. cominciai a rigirarmi nel letto con l'intento di addormentarmi così mi misi in ginocchio ed accostai le tendine rimanendo nel buio più cupo.
ora che non dovevo aver paura che mio padre entrasse o che qualcun'altro entrasse per picchiarmi potevo addormentarmi tranquilla. a quel proposito, mi alzai, girai la chiave nella serratura e mi buttai di nuovo sul letto.
i ricordi cominciarono ad affiorare, soffocandomi nella disperazione più totale. 
 
"mamma, ho freddo" urlai mentre la febbre saliva nel mio corpo.
sentii mia madre correre dalla cucina verso la mia camera ed una volta arrivata, mi rimboccò le coperte e si mise seduta vicino a me, mi prese la mano e cominciò a raccontarmi di quando lei era piccola
"sai, quando io avevo la tua età, 8 o 9 anni mio papà mi mandava sempre a cogliere  i limoni che crescevano nel pezzo di terra che aveva comprato quando era più giovane, così io mi incamminavo ed un giorno sai cosa mi ritrovai davanti?" mi chiese con un'espressione scioccata che lasciò poi spazio ad un dolce sorriso. mi guardò con quegli occhi verdi, grandi e dolci che fecero nascere un riso sul mio faccino ancora innocente.
"no, cosa?" domandai mettendomi seduta con la schiena appoggiata alla spalliera.
"e va bene, allora te lo dico, mi ritrovai davanti un enorme serpente che però, non mi mise paura, così lo avvicinai con un bastone ed una volta che si fu arrampicato lo presi fra le mani. sai? sembrava quasi il gattino che ogni tanto, qua di fuori ci passa a salutare, reclamando cibo. sì, proprio così, quel serpente mi fece innamorare ed io lo portai sino a casa" continuò a raccontare sistemandosi il grembiule con le mani poi si alzò e mi incitò a sdraiarmi di nuovo nel letto, mi tirò su le coperte fino al collo e si sedette sul letto proprio dove io le lasciai il posto spostando le mie gambe
"quando papà lo vide urlò così tanto per sgridarmi che la voce gli mancò per due giorni buoni e ancora adesso, se accenno a questa storia mi maledice e sai mia mamma cosa fece qua..." si interruppe quando vide i miei occhi chiusi, mi diede un bacio sulla fronte e mi sussurrò "dormi, piccola stella" lasciò scivolare i miei capelli lisci fra le sue mani e poi socchiuse la porta.
 
i singhiozzi cominciarono a soffocarmi, non riuscivo a respirare senza cadere in un pianto disumano. lo sguardo di mia madre era così puro e così vero che sembrava una bambina che non è capace di nasconderti nulla, mi raccontava tutto ed io facevo lo stesso. era la mia migliore amica. non mi aveva mai tenuto segreto nulla se non la cosa più importante: il suo cancro. così lei morì ed io per un anno credetti alla storiella "tua mamma è salita in cielo in modo che quando tu non starai a casa lei ti potrà vedere e ti proteggerà anche quando non sarete insieme. dovresti esserne felice"
fra i singhiozzi e i respiri forzati mi addormentai. fui svegliata dalla voce del capotreno che annunciava la fermata. "siamo arrivati a Emeryville" disse. quindi schiavai la porta e presi il cellulare. uscii dalla cabina e la luce che c'era sul treno mi bruciò gli occhi tanto che cominciai a strofinarmeli.
decisi che sarei scesa alla fermata dopo giusto per allontanarmi ancora di più da casa. mi misi a sedere su di un sedile vicino ad un signore, almeno potevo leggere di nascosto il libro che stava sfogliando e non mi sarei annoiata.
 
il treno si fermò bruscamente e mi fece alzare gli occhi dalla pagina del libro di quel signore- dovevo ricordarmi a chiedergli che libro fosse; mi piaceva molto- e dall'altoparlante l' annunciò della fermata si diffuse su tutti i vagoni "siamo arrivati in California." 
I miei occhi si dilatarono. com'era possibile? la folle idea di aver dormito per tutto il viaggio si infilò nella mia mente e capii, solo quando il signore seduto accanto a me, si alzò e mi salutò alzando il cappello, che alla fine quel mio pensiero non era poi così folle. il mio biglietto ormai era scaduto, andava bene solo per un'andata ed un ritorno così mi feci forza, sollevai il mio fondoschiena dal sedile e scesi dal treno. restai immobile a vederlo ripartire con tutte le mie speranze di cambiare vita. stupido sonno che mi aveva distratto da ciò che volevo fare. calciai un sasso lontano dal mio piede e mi avviai verso il parcheggio dove avevo lasciato la mia macchina. un sorriso si fece spazio sulle mie labbra...almeno avevo potuto dormire in santa pace senza la paura che quel mostro mi picchiasse, diciamo che per ora andava più che bene. entrai in macchina e appoggiai delicatamente la mia pelle alla stoffa del sedile, rimasi con le mani sul volante a darmi della stupida per aver sprecato un'occasione del genere.
ed ora cosa mi rimaneva da fare? l'unica cosa che potevo fare, a quell'ora di tarda serata, era tornare a casa. diedi uno sguardo al mio telefono che avevo gettato sul sedile del passeggero, si stava illuminando. era mio padre che chiamava, lo presi velocemente, risposi "sto arrivando a casa" e riattaccai senza sentire nemmeno la sua voce.
girai la chiave e partii pronta a sentire di nuovo le sue mani sulle mie ferite, ancora una volta, ancora da cicatrizzare, ormai ci ero abituata anche se ogni sua violenza contro di me diventava ogni giorno più cattiva e mi faceva sempre più male.
aprii il cancello e vidi due macchine nel cortile, cosa significa? mio padre non ha amici!
entrai dentro casa e mi ritrovai davanti ad una tavola apparecchiata e piena zeppa di roba da mangiare, ma cosa stava succedendo? era evidente che mi dovessi ancora svegliare, stavo ancora dormendo sul treno.
una donna uscii dalla cucina e mi rivolse un saluto plateare.
"oh ma guarda come sei diventata grande, April! E, oh mio dio, sei stupenda! mi ricordo quando eri piccola, piccola. tu non ti ricordi di me perchè eri davvero uno scricciolo! ma in ogni caso sono Katerine Pierce, una grande amica di tua madre. Guarda- disse tirando fuori il portafoglio e mostrandomi una foto in bianco e nero- queste eravamo io e tua madre, solo il cielo sa quanto mi manchi quella donna. ma tu, tu, tu sei il suo ritratto giovanile, osserva, siete uguali" dopo quel monologo che mi mise in imbarazzo e in soggezione mi accolse in un abbraccio calorosissimo, mi cinse tutte le ferite e mi riportò in uno di quei periodi di pace e serenità che vivevo quando mia madre era ancora in terra. non riuscii a nascondere un sorriso. nonostante non mi ricordassi minimamente di quella donna so che potevo fidarmi delle sue mani premurose.
si distaccò dal mio corpo, facendo respirare le mie cicatrici e mi prese il viso fra le mani 
"dio, sei tutta tua madre!" mi sussurrò per poi sorridermi, mi scostò una ciocca di capelli davanti al volto poi si girò ed urlò a tutta voce "Eduardo, Eduardo, guarda chi è arrivata!" si fece avanti un uomo sulla sessantina, piuttosto affascinante con i capelli brizzolati e della barba ancora corta che gli incorniciava tutto il viso e lo rendeva ancora più misterioso e attraente.
"non vorrai dirmi che lei è quella piccola fanciulla di April?" chiese allargando gli occhi e facendo spazio ad un dolce sorriso sul suo viso che smorzò la sua aria dura e da uomo vissuto. delle rughe di espressione solcarono la sua pelle e subito si mostrò sotto ai miei occhi con una luce diversa, sapevo di averlo già rivisto, un ricordo entrava ed usciva dalla mia mente ma era così distante da me da non poterlo mettere a fuoco. feci un sorriso educato per dare una risposta alla sua domanda indiretta, lui fece dei passi avanti e mi porse la mano, io la strinsi e subito dopo mi ritrovai la sua barba pungente sulla mia guancia. rabbrividii quando la sua mano si poggiò sulla mia schiena, non so perchè quell'uomo mi facesse quell'effetto.
"sono Eduardo Pierce, un ex compagno di classe di tua madre. sei uguale a lei" mi disse mentre un luccichio si aggirò nei suoi occhi. 
 
che strano nessuno me lo aveva mai detto se non loro due. questa cosa, di assomigliare tanto a mia madre, mi colmava di gioia.
 
entrò in sala anche quell'energumeno di mio padre che con un tono tanto finto quanto subdolo mi salutò e mi abbracciò. quando fu abbastanza vicino al mio oreccchio il suo tono si fece cupo e minaccioso "dove cazzo sei stata? vedi di farmi fare bella figura" poi mi stampò un bacio sulla guancia.
che uomo assurdo e poco credibile. ero davvero schifata, se non fosse stato per l'educazione impartitami da mia madre sarei corsa immediatamente al bagno a lavarmi la guancia con la varecchina e il disinfettante ma abbozzai un mezzo sorriso e feci finta che tutto ciò fosse normale.
"con permesso, vado un attimo in camera mia a cambiarmi. scusatemi ma non sapevo che avremmo avuto visite" mi affrettai a spiegare. lanciai un sorriso a Katerine e me ne andai più educatamente possibile. salii tutte le scale e mi chiusi in camera mia. presi dall'armadio un paio di calzoni neri e ci abbinai una delle mie maglie più eleganti, d'altronde dovevo reggere il confronto con l'amica di mia madre che era vestita dai più grandi stilisti tutt'ora in vita. aveva molta classe, dovetti ammetterlo.
sentii suonare il campanello da di sotto così mi affrettai a scegliere le scarpe, indossai un paio di tacchi neri, mi sistemai i capelli e scesi le scale.
mi ritrovai davanti uno dei più bei ragazzi che io avessi mai visto: alto, due spalle enormi, fisico da dio greco, abbronzato, con i capelli biondo cenere, occhi azzurri ed un sorriso smagliante, vestito elegante ma senza cadere nel ridicolo. mi dovetti tenere al corrimano per non cadere alla vista di quella visione angelica. mi accorsi che il ragazzo che avevo visto in treno, quello seduto davanti a me, non era nulla di speciale in confronto a lui.
"Buonasera madre, buonasera padre" disse educatamente rivolgendosi ai suoi genitori, poi si girò verso mio padre e gli fece i complimenti per la casa deliziosa. la definì proprio così. 
il suo modo di muovere le labbra era qualcosa di assolutamente perfetto e...oddio, ero ancora su quel gradino. scesi le ultime scale e attirai la sua attenzione, si voltò verso di me e mi salutò cordialmente. "piacere, April" dissi allungando la mano, quando fui abbastanza vicino a quello spettacolo della natura. si passò una mano fra i capelli e poi strinse la mia che tremava dall'agitazione. un brivido salì dai miei piedi fino al collo. "piacere, sono Nathan Pierce" si presentò sfoggiando uno dei suoi migliori sorrisi. sono quasi sicura che un tacco si stesse per rompere da quanta pressione facevo sul pavimento per tenermi in piedi. mi venne quasi da ridere 'questa famiglia ha l'ossessione per il proprio cognome' pensai.
ci sedemmo tutti a tavolo e dopo alcuni minuti mi ritrovai davanti ad una delle cene più abbondanti di tutta la mia vita.
"cosa studi?" mi chiese  Nathan poggiando il bicchiere di vino, a tavola, dopo un lungo sorso.
"faccio ancora il liceo e te?" domandai di conseguenza, arrotolando i spaghetti sulla forchetta.
"oh, davvero?" domandò perplesso "quanti anni hai?" continuò. attese una mia risposta fissandomi per almeno dieci secondi.
ingoiai il boccone di pasta e mi pulii la bocca con il tovagliolo, cercai di rispondergli senza far notare che uno spaghetto era rimasto incollato alla mia gola.
"17 a settembre" lo informai per poi tossire. finalmente avevo ingoiato anche quello spaghetto.
"pensavo fossi più grande!" ammise alzando un sopracciglio. quel gesto lo fece apparire ancora più sexy di quanto già non fosse, dovevo smetterla di sudare altrimenti non sarei più riuscita a tenere in mano la forchetta.
"wow!" improvvisai "e tu, invece, cosa studi?" gli riproposi la domanda a cui non mi aveva ancora dato una risposta.
"oh, sì, scusami. sono al secondo anno di medicina all'università alla Johns Hopinks" esclamò con un tono neutrale come se frequentare l'università più prestigiosa di tutti gli stati uniti fosse una cosa per tutti.
"bene, ho capito" dissi intimidita da tutto quel lusso che si potevano permettere lui e la sua famiglia, a cominciare  dall'abbigliamento così ricco ed elegante di sua madre, a finire dai suoi studi. sicuramente non se la passavano male.
sorseggiai l'acqua e poi rivolsi la mia attenzione alla conversazione che stavano tenendo Eduardo e mio padre.
ogni tanto lanciavo uno sguardo fugace a Nathan ma lui non si degnava neanche di un sorriso, rimaneva incollato a parlare con sua madre ed io lì che morivo dalla voglia di portare avanti una conversazione con lui per scoprire ogni sua singola bellezza, ogni suo gesto anche quello più piccolo, per capire il suo intelletto che lo aveva spinto a studiare medicina, per capire chi fosse veramente.






***
buonasera ragazzuole.
dopo una pausa di quanto? -un mese? due? ho perso addirittura il conto!- sono tornata con il quarto capitolo e spero che vi piaccia. se così sarà, vi prego, ditemi tutto ciò che volete dirmi, consigliarmi o correggere, con una recensione e con un tweet (sono @shesafeandsound) 
grazie mille per tutte le letture e le recensioni ♥
un bacio, Noemi :)

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** chapter five ***


 
ogni tanto la cena si interrompeva per fare delle domande sul mio futuro, su possibili traslochi e tante altre cose che non mi interessavano particolarmente. 
 
"potresti passarmi il sale?" mi chiese Nathan indicando la saliera vicino la bottiglia d'acqua. 
 
"subito!" risposi in modo troppo allegro. un sorriso si fece spazio sulle sue labbra e mi accorsi di essere stata ridicola ad usare quel tono, come se non aspettassi altro che sentire la sua voce.

presi la saliera ed allungai il braccio sinistro, la prese in modo delicato, come se fosse una delle cose più preziose al mondo e poi mi ringraziò cortesemente. salò l'insalata che aveva nel piatto e poi passò il sale a sua madre.

 
"Allora, April, ti è piaciuta la cena che ha preparato Katerine?" mi chiese mio padre.
 
"oh ma davvero hai preparato tutto te?" gli domandai esterrefatta, lei annuì in segno di risposta ed io mi affrettai a riempirla di complimenti "è veramente tutto delizioso, sei una cuoca eccellente!" esclamai  lasciando andare la forchetta per poi pulirmi la bocca con il tavogliolo di stoffa bianco.

ci alzammo dal tavolo. io e Nathan aiutammo a portare tutti i piatti sporchi in cucina ed ogni tanto ci scambiavamo delle battutine, lui mi guardava ed io abbassavo lo sguardo per non arrossire. mi sentivo come nuda sotto i suoi occhi azzurri e profondi.

 
"vi va di andare a prendere un gelato?" chiese sua madre sistemando una sedia per poi illuminare tutta la sala con un sorriso immenso. ma dove la trovava tutta quella vitalità, quella donna?
 
alla fine ci sembrò una buona idea ed uscimmo. ci incamminammo verso la gelateria più vicina a casa nostra e io e il dio greco camminavamo lontani dai nostri genitori perchè loro erano troppo lenti, per i nostri gusti. stavo amando quella serata, mi sembrava tanto una di quelle che vivevo quando avevo una famiglia unita senza problemi.
 
"comincia a fare fresco" notò Nathan passandosi la mano fra i capelli per poi guardarsi attorno.
 
"un po' sì ma diciamo che ormai l'estate comincia ad abbandonarci" risposi cercando di mantenere viva la conversazione.
 
"purtroppo è vero. allora il prossimo anno farai il quarto, giusto?" domandò puntando gli occhi sulle mie mani che si sfregavano contro le braccia per riscaldare la pelle nuda. "hai freddo? vuoi che entriamo in un locale dove si sta meglio e tira meno vento?" mi chiese preoccupato.
 
"oh no, no stai tranquillo! un po' di fresco non mi farà male" esclamai sorridendo "comunque si, il quarto. mentre...te?"
 
"va bene, come vuoi ma se cominci a starnutire entriamo da qualche parte e non ci muoviamo finchè non si calma il vento" disse.

colsi un po' di comicità in quella sua frase come se non volesse dimostrare che si preoccupava per me poi così tanto. mi rivolse un sorriso dolce e poi continuò il suo breve discorso
"io quest'anno farò il terzo anno d'università. ma sai che sembri molto più grande?"
 
"davvero?" chiesi con stupore. mi piaceva il fatto che mi avesse osservato tanto da farsi un'idea sulla mia età.
 
"sì...non so, sembri più matura" 
 
"bhe grazie, lo prendo come un complimento" dissi sorridendo, dovetti alzare testa e occhi in alto per vederlo tanto era alto.

da quaggiù era ancora più bello. potevo seguire con lo sguardo il disegno del suo volto, vedere la punta del naso che era leggermente quadrata, il suo labbro inferiore che era più grosso di quello superiore e poi c'erano quei suoi occhi così intimidatori che erano leggermenti incavati ma per quanto erano luminosi risaltavano subito. quando si accorse che stavo studiando ogni piccola parte della sua faccia mi sorrise, lasciò uscire dalla sua bocca un accenno di risata e si massaggiò il mento con l'indice. era bello e sapeva di esserlo. tutto ciò mi intrigava da morire.

 
"non ti ho mai visto in giro, eppure questo quartiere non è grande" mi disse per smorzare la tensione.
 
"esco molto poco e quando esco vado il più lontano possibile" gli spiegai.
 
"ah sì?" mi domandò divertito. "e dove vai?"
 
"lontano, in qualche posto che mi restituisca la calma e mi rimetta in pace con il mondo" esclamai abbozzando una risata.
 
"quindi scappi" mi fece notare continuando a sorridere. evidentemente, questa conversazione lo stava divertendo molto.
 
"si, credo si possa chiamare anche così"
 
"e perchè scappi?" domandò piegando leggermente la testa per guardarmi meglio.
 
"quante cose che vuoi sapere!" sbottai. va bene che sei bello ma non puoi farmi il terzo grado.
 
"ok, scusa, non pensavo ti desse fastidio parlarne" ammise con un tono colpevole.
 
"no, stai tranquillo, semplicemente preferisco cambiare argomento, ci penso tutti i giorni a questo." spiegai riprendendomi dall'uscita poco cortese di prima
 
proseguimmo la nostra camminata silenziosamente, guardavo le macchine correre a destra e a sinistra, fermarsi ai semafori rossi e, spesso, ignorarli del tutto. c'era chi sbraitava al telefono e chi era seduto su una panchina con in mano chissà quale romanzo. urla di bambini risuonavano nel quartiere, era tutto così... vivo. da troppo tempo non uscivo fuori dai miei problemi, da troppo tempo non guardavo più fuori dalla finestra sperando in giorni migliori, semplicemente mi ero arresa che le mia vita sarebbe rimasta tale fino al giorno in cui qualcuno avrebbe avuto pietà di me e mi avrebbe chiamato a vita oltreterrena.
Nathan mi toccò il braccio e chiamò il mio nome, io mi girai di scatto e ci ritrovammo più vicini di quanto mi aspettassi, più di quanto avessimo mai potuto programmare.
 
"stai bene?" mi chiese dopo il momento più imbarazzante e più bello della mia vita. il suo alito profumava del vino che suo padre aveva portato come omaggio per la cena. delizioso.
 
"sì, sì scusami. mi ero immersa troppo nei miei pensieri... mi capita spesso" ammisi più come una riflessione personale che come una risposta
 
"solo gli stupidi non si perdono nei loro pensieri" esclamò sorridendo. "a cosa pensavi? se non oltrepasso troppo il confine, ovvio"
 
"pensavo che è da troppo tempo che non mi fermo a guadare fuori dalla finestra, non mi ricordo neanche da che parte gira il mondo!"
 
Nathan sorrise e mi indicò la gelateria, quindi ci mettemmo in fila.
 
"dovresti pensare un po' più a te stessa e a scoprire cose che non sai, è questa la chiave della felicità, signorina April." mi consigliò con un tono nettamente superiore, molto adatto alla sua nobiliare classe d'appartenenza ma dietro questa facciata c'era una ragazzo simpatico, a cui brillavano gli occhi e che non voleva rimanere confinato nelle quattro mura della sua dimora.
 
"ha pienamente ragione, signor Pierce" improvvisai.
 
"è per questo, signorina, che vorrei invitarla, la prossima settimana, alla mia solita e noiosa domenica che potrebbe essere allietata dalla sua presenza...cosa ne dice?"
 
"ne sarei estremamente onorata, mio signore" 
 
continuammo ad improvvisarci personaggi di altri tempi della classe aristocratica, non curandoci degli sguardi strani che venivano scambiati dalle persone che erano in fila. mi stavo divertento come mai prima, forse ridevo solo perchè ero troppo nervosa ma non mi importava, non volevo sapere la motivazione. una volta tanto, stavo bene.
 
"ok, tornando seri...che gusti prendi?" mi chiese mantendendo il sorriso stampato in faccia.
 
davanti a noi c'erano tantissimi gusti, dal cioccolato nocciolato alla macedonia e, come mio solito, ero indecisa quindi chiesi a lui di scegliere per entrambi.
 
"va bene...allora... -anche lui, per una volta, sembrava indeciso, sembrava non sapere cosa dire- prendiamo due coni grandi entrambi con doppia panna, cioccolato fondente, fragola e fior di latte."

prese i due coni in mano e mi chiese di prendere il portafoglio dalla tasca dei suoi pantaloni. quella davanti a destra. nel prendere il portafoglio, la mia mano si fermò a studiare la sua coscia da sopra il tessuto, mi veniva già un nodo alla gola. gli chiesi di poter pagare io ma lui si oppose ripetutamente e a quel punto, solo perchè la gente dietro di noi cominciava a sbuffare, dovetti cedere e consegnare i soldi che io stessa presi dal suo portafoglio. ci facemmo strada fra la lunga fila di persone impazienti di avere il loro gelato e ci sedemmo su una panchina verde rovinata qua è là. Il gelato era buono.

 
"ti piace?" mi chiese curioso.
 
"sì" esclamai imitando il sorriso felice di una bambina che scarta il suo primo vero regalo di natale. 
 
lui non disse nulla si limitò solo ad abbozzare un sorriso, il migliore di tutta la folla. c'era qualcosa nei suoi occhi che mi riportava a quella libertà perduta. 
'scappiamo e non torniamo più, non mi importa ciò che sei o ciò che fai, voglio solo andarmene via con te, acquistare di nuovo fiducia negli uomini e ritornare a vivere. ' per tutta la sera pensai solo a questo. 
cominciò una musica imbarazzante, io lo guardai e scoppiai a ridere 
 
"e questa cosa sarebbe?" domandai divertita
 
"è la mia suoneria" tirò fuori il telefono, mentre con l'altra mano teneva in mano il gelato,  "e questa è mia mamma!" 
 
"pronto?" rispose al telefono e si alzò in piedi, allontanandosi da me. 
 
"era mia mamma, ha detto che loro sono tornati a casa. andiamo?" 
 
"va bene" risposi cercando di non far trasparire la mia delusione e mi alzai in piedi.
 
il cammino verso casa fu più breve di quanto mi aspettassi, finimmo i nostri gelati e ci concedemmo una chiacchierata sulla politica. nulla era noioso con lui. arrivammo a casa e mentre stavo per suonare il campanello la porta si aprì ed uscirono Katerine ed Eduardo. 

"Oh finalmente eccovi" esclamò la madre di Nathan sistemandomi una ciocca di capelli che mi era caduta davanti agli occhi. "bene noi andiamo. è stato un onore conoscerti. spero di rivederti presto."
 
"certo, domenica verrà a giocare a golf con noi!" la informò Nathan.
 
"non vedo l'ora di trascorrere altro tempo con te. ciao, stammi bene fino a domenica" mi diede due baci sulla guancia, si girò verso mio padre e lo ringraziò per poi avviarsi verso il cancello. 
 
io intanto mi misi sull'uscio della porta, salutai anche Eduardo con una stretta di mano e poi venne il momento di Nathan. mi strinse la mano e mi diede due baci 
 
"ci vediamo domenica! ti passo a prendere io verso le 9:30" il suo tono non ammetteva nessuna contraddizione e mi andava benissimo, non mi sarei tirata indietro per nulla al mondo.
 
"va bene! grazie mille. buonanotte" esclamai guardandolo allontanarsi.

non feci in tempo a realizzare che se ne stava andando e che non l'avrei visto fino alla domenica successiva quando la paura di rimanere di nuovo sola con mio padre si insinuò nella mia mente. inspirai ed espirai. chiusi la porta e mi girai cercando di andare subito in camera mia, quando mi arrivò un suo schiaffo all'altezza della guancia, sentii l'aria lacerare anche il mio occhio.
 
"dove sei stata eh? dove pensi di andare?" mi domandò con tutta la collera che poteva usare, mi teneva la faccia con il pollice, l'indice e il medio di una sola mano.

sentii il suo fiato annebbiarmi la vista, la testa cominciava a girarmi e mi dovetti appoggiare con la schiena alla porta per non cadere. la sua mano si posò di nuovo sulla mia guancia ed un lamento uscii dalla mia bocca. 

 
"sei una puttana, non farai mai nulla in questa vita ed ora vediamo se sei capace di farti portare al letto pure da quello"
 
quando disse quelle cose qualcosa scattò nel mio cervello, gli diedi uno spintone e lo allontanai dal mio corpo, salii il primo gradino delle scale e mentre lo vedevo avvicinarsi di nuovo a me dissi una cosa che avevo tenuto nascosto per me fino a quel momento
 
"guarda che sei tu quello stronzo che mi ha messo incinta, quanto mi hai violentata. io ero vergine. il figlio è tuo. fanculo" corsi lungo tutte le scale chiudendomi in camera, prima ancora di riuscire a prendere fiato, crollai sul letto in un pianto disperato. 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** chapter six ***


  Ero lì immobile con il petto che si alzava e si abbassava alla ricerca di un respiro profondo. rimasi lì finchè non si prosciugarono anche le ultime lacrime, finchè i miei occhi non cominciarono a bruciare. mi feci forza sulle gambe che tremavano e mi alzai, spostai la sedia e la misi vicino alla finestra. cominciai a scrutare il cielo: una distesa infinita di stelle messe lì per illuminare la vita di qualcuno- forse non la mia- dipinte su quella tela nera come l'ultima speranza prima del buio totale. 
 
"scappiamo e non torniamo più, non mi importa ciò che sei o ciò che fai, voglio solo andarmene via con te, acquistare di nuovo fiducia negli uomini e ritornare a vivere."
 
sorrisi al riflesso sulla finestra di una ragazza con gli occhi stanchi; avevo veramente pensato quelle cose mentre ero con lui? continuai a scrutare il mio riflesso: lunghi capelli castani che scendevano fino al seno e finivano con dei boccoli ribelli, occhi marroni, sì, certo, ma forse il colore ormai passava inosservato, se non erano sommersi di lacrime erano stanchi o nascosti dietro alle lenti degli occhiali da sole. non mi ero mai reputata una ragazza brutta, mia mamma mi aveva insegnato l'eleganza e la femminilità e avevo imparato a prendermi cura di me stessa e a piacermi ma ora ero solo un mostro messo al mondo per capire quanto la pazzia di un matto possa far male sulla propria pelle. non tolsi mai lo sguardo dalla finestra, ogni tanto smorzavo un sorriso e scuotevo la testa come per ricordarmi che tutto ciò che facevo non andava bene, come per non dimenticare che anche stare lì a non fare nulla era sbagliato. 
 
  Chissà perchè la cieca speranza di scappare via con Nathan avesse attraversato il mio cervello? non sono mai stata il tipo di ragazza che ha bisogno di un uomo per essere salvata o di un principe azzurro che la conduca al castello, ho sempre avuto un modo molto menefreghista di affrontare l'amore e forse ho concesso il mio corpo anche a dei ragazzi che non volevano altro che la mia carne. ho sempre comandato io in questo gioco, sì, perchè l'amore è un gioco che devi saper giocare e di cui devi conoscere le regole e se cominci a giocare solo perchè qualcuno ti ha incitato a provare a tirare i dadi, sperando in un numero fortunato, ti ritroverai sull'uscio della tua porta di casa a guardare il vuoto, con nulla nelle mani, ridendo di te stessa, perdente inesperta. credo che, se l'amore è una battaglia sanguinosa che non risparmia nessuno, tutte quelle donne che all'età di 40 anni vivono con i loro gatti abbiano capito come sopravvivere. ed io in tutto questo cosa sono? in questo campo di battaglia la mia pedina che ruolo ha? sono solo una cavia per testare gli amori alternativi fra genitori e figli? 
 
  Aprii la finestra, allungai le mie gambe ed appoggiai i piedi sul davanzale della finestra, spostai il peso indietro sulla sedia e lasciai che le gambe anteriori si alzassero. inspirai la brezza fresca che cominciava ad entrare. quando sentii le mani diventare fredde decisi di chiuderla e di rifugiarmi nel letto. mi spogliai e mi lasciai addosso solo il reggiseno e gli slip, mi guardai allo specchio. quel corpo marchiato da segni indelebili non si riprenderà mai più ed io vedrò questa debolezza tutte le volte, questo sarà il mio riflesso ogni volta, anche quando i lividi saranno scomparsi, anche quando le ferite si saranno guarite, il ricordo rimarrà e quello sarà il dolore peggiore che non riuscirò a lasciare andare. 
chiusi gli occhi e in un attimo il mio fisico era perfetto, forse anche un po' troppo bianco ma sempre meglio pallido che nero per le contusioni e la violenza.li riaprii e quel riflesso fece più male di prima, quella era una figura troppo esile per riuscire a rimanere in piedi senza forza di volontà: non era un corpo, era una carcassa. mi voltai e mi infilai nel letto cercando di essere più delicata e più cauta che potessi. 
 
  La notte arrivò in fretta prima ancora che la mia mente potesse liberarsi dei ricordi, prima che io potessi trovare la mia pace interiore e forse aspettai le prime luci dell'alba per chiudere gli occhi ed addormentarmi, ma che importa? alla fine la pace era arrivata, strisciando lentamente, ma era arrivata. 
quando i miei occhi si aprirono dalla finestra cominciò ad entrare della luce premurosa. mi portai le mani agli occhi, li sfregai incurante di quanto potessero essere delicati e mi stirai le gambe affogando in uno sbadiglio. tirai via le coperte e rimasi sul letto in quel modo nuda, con solo due pezzi di cotone addosso, a guardare un gelido soffitto bianco che faceva a pugni con il blu dei miei lividi. mi alzai, presi il primo vestito che trovai e me lo infilai, misi le infradito e, dopo uno sbuffo, scesi di sotto. venni avvolta dal silenzio più totale, il silenzio più spaventoso e rilassante che avessi mai sentito. mi diressi in cucina. vuota. mi guardai intorno, non c'era nemmeno l'odore del mostro, in casa. salii di nuovo al piano superiore, aprii tutte le porte delle stanze. nessuno. niente. silenzio. vuoto assoluto. 
 
ti prego fa che si sia ucciso o qualcosa del genere.







*buonasera. scusate l'assenza, sì, lo so dall'ultima volta che ho aggiornato sono passati secoli ma la scuola mi sta uccidendo.
comunque questo, da come avrete visto, è un capitolo molto, molto breve e molto strutturato, nel senso: frasi molto corte e ben precise, senza troppe cose inutili, solo le riflessioni e le descrizioni di ciò che sta provando la protagonista. spero che vi piaccia, grazie mille a tutti :) 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** chapter seven ***


  Scesi di nuovo al piano inferiore e andai in cucina. scelsi fra tutte le mele, posate nel cestino di ferro disposto vicino al lavandino, quella più rossa che era in bilico fra cadere e rimanere su per fortuna. la addentai e scoprii che era succosa e buona al palato. inspirai la calma che in quella casa, o forse nella mia vita, mancava da troppo tempo quindi mi misi a sedere su uno dei 4 sgabelli: un braccio sul tavolo, con la mano destra tenevo la mela e le gambe sul piolo della sedia. tranquillità che forse non avevo mai conosciuto. allungai il braccio, presi il telecomando ed accesi la televisione, c'era un tizio che stava ridendo a crepapelle e dietro di lui altre persone che erano impegnate in qualcosa di, evidentemente, particolarmente esilarante. decisi di cambiare canale. 
 
telegiornale, no. pubblicità, oh ti prego non sopporto gli spot pubblicitari. televendita, per l'amor di dio, no. talk show, oddio non sopporto la conduttrice.

rinunciai all'idea di vedere qualche cosa in televisione e continuai a mangiare la mia mela silenziosamente. mi alzai e buttai il nocciolo e un pezzo che non mi andava più di fuori: sarebbe sicuramente passato qualche gatto nei dintorni e gli avrebbe fatto piacere trovare qualcosa da mangiare.
rimasi lì, vicino alla finestra, ad osservare il panorama. una mano, istintivamente, mi andò sulla pancia e solo in quel momento realizzai che lì c'era una creatura, cosa a cui non avevo mai dato veramente importanza, non ci avevo mai riflettuto: stavo portando in grembo una vita e dovevo proteggerla. mi circondai la pancia con le braccia e scrutai il giardino: c'era un forte sole, segno che, anche se i mesi passavano, l'estate non voleva lasciare il posto al freddo e alla caduta delle foglie. questo mi rendeva particolarmente felice perchè ho sempre odiato l'inverno e il freddo, e da piccola, quando cominciarono a spiegarmi il motivo per cui accade l'alternarsi delle stagioni, credevo anche di poter inclinare l'asse terrestre e di portare l'estate eterna. 

 
  Mi incamminai verso il soggiorno, lo superai ed aprii la porta di casa, era caldo ed io non volevo perdermi una giornata così quindi corsi su per le scale, indossai un paio di zeppe abbastanza basse, mi truccai un po', giusto per darmi un aspetto sano, e poi mi affrettai ad andare alla porta, presi la borsa ed il cappotto, controllai che ci fosse tutto ed uscii. chiusi la porta a chiave e mi avviai fuori. la via di casa mia era semi deserta ma il sole batteva caldo sull'asfalto. svoltai l'angolo a destra e mi ritrovai davanti ad un bar in cui ero solita andare qualche anno fa, prima di entrare a scuola, con tutte le mie compagne di classe.
il muro era sempre rimasto di un azzuro tenue che donava allegria e calma al resto del paesaggio, in alto vi era attaccata un'insegna nera e gialla, scritto in bella calligrafia il nome del bar: "cafè california". fuori c'erano delle sedie e dei tavoli in ferro nero e da una vetrata rettangolare, che mostrava l'interno e che correva lungo tutto un buon pezzo di parete, potevi scorgere le vite di alcuni passanti entrati lì per caso o solo per prendersi una pausa dalla frenetica quotidianità.
decisi di entrare e, una volta varcata la soglia, mi sembrò di tornare in un altro secolo, forse per i ricordi che quel posto emanava, che sembravano così lontani dal presente, o forse perchè era tutto estremamente romantico e vintage che potevi sentirti immediatamente una qualche lady di qualche secolo neanche troppo lontano da noi. mi avvicinai al bancone di legno ed ordinai un cappuccino, il cameriere mi sorrise ed andò a prepararlo, intanto pagai in cassa. quando il mio ordine fu pronto mi fecero un segno ed io presi la tazzina, ringraziando, e mi sedetti fuori, in uno di quei graziosi tavolini.
 
 
"abbassa quel mignolo!" mi disse mia mamma con severità ma quel costante luccichio in quegli occhi verdi che faceva sembrare tutto più dolce, non cessava di esistere.
 
"ma perchè? è così che fanno le vere signore!" replicai imitando la voce di una donna anziana che avevo visto in qualche pubblicità. continuai a tenere la tazza di tè con il dito alzato perchè era così che avevo letto si doveva fare per sembrare una donna raffinata e très chic.
 
"no, tesoro, questo sono le solite stupidaggini che raccontano e a cui tu credi" e con l'indice, abbassò il mio mignolo, sorridendo. 
 
"e allora cosa devo fare per essere bella come te?" chiesi con tanta innocenza e molta curiosità.
 
"niente devi essere solo te stessa, essere educata e gentile con gli altri e vedrai che diventerai più bella, molto più bella di me" 
"più bella di te?" domandai stupita.
 
"certo!" mi osservò e sorrise, mi accarezzò il viso, spostandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio per poi incitarmi a bere il mio tè.
 
 
posai la borsa sulla sedia accanto e mi tolsi il cappotto: il sole splendeva, faceva molto caldo e sarebbe stato impossibile rimanere coperti senza sudare. versai lo zucchero nel cappuccino e girai con il cucchiaino lentamente, osservando tutto quello che mi circondava. portai la tazzina alla bocca e ne bevvi a piccoli sorsi. 
nella mia mente la domanda persisteva e batteva come un martello: "dove sarà mio padre?". non riuscivo a darmi una spiegazione, non riuscivo ad immaginarmi un posto dove lui si potesse nascondere: fino ad allora quella che si nascondeva ero io, lui rimaneva a casa ad aspettarmi adirato per poi condividere con me la sua ira, peccato che in tutto questo ero io quella che saliva in camera con le lacrime agli occhi e i lividi su tutto il corpo. 
mi pulii la bocca con il fazzoletto posto sul piattino e poi mi alzai, presi la borsa e ne tirai fuori gli occhiali da sole. tenendo il cappotto sulle braccia, riportai dentro la tazzina e ringraziai. 
 
  Le strade erano, come sempre, confusionarie e piene di vita; non c'era nemmeno un centimetro vuoto. persone che uscivano dai negozi con tante buste quanti erano i soldi che avevano speso, bambini che si rincorrevano, nonne che tenevano la mano al loro marito custodendo il segreto del vero amore e cani che abbaiavano ad altri loro simili. realizzai che tutto quel macello, quando nella mia vita c'era un barlume di pace, era la cosa migliore a cui io avessi mai preso parte.
mentre cercavo di scivolare in mezzo a quella folla, qualcuno mi urtò una spalla.

 
"oh scusami" mi disse velocemente un ragazzo, talmente veloce che non feci in tempo a rispondere, nè tanto meno a memorizzare tutti i suoi tratti. mi girai per dirgli che non si doveva preoccupare, che non c'era nessun problema ma se ne era già andato via, perso fra le altre sagome che svanivano a loro volta in quel caos. continuai allora a camminare finchè non mi voltai di nuovo, lo cercai fra la gente ma non c'era. rimasi ferma con le persone mi camminavano vicino e rimurginai nei miei pensieri decidendo così di tornare indietro e di ritrovarlo, non so bene il motivo però lo feci. non avevo nessun posto dove andare e se questo avrebbe reso la giornata un po' più insolita non mi sarei di certo tirata indietro.
accellerai il passo ed intanto catturai nella mia mente quell'istante, l'unica cosa che ricordavo erano due labbra carnose che scandivano quelle rapide parole di discolpa e una maglietta bianca che scomparve in un secondo. non sapevo perchè ma lo conoscevo, non so, era scattato qualcosa in quei pochi secondi ed ora non volevo perdere quella sensazione. 

  Vidi una persona alta con una maglia bianca, era lui. ne ero sicura. corsi verso di lui e quando fui abbasta vicina ritornai al mio passo normale facendo finta di essere stata lì da sempre. ci fermammo ad un semaforo rosso ed io presi in mano il telefono fingendo di mandare un messaggio ed intanto, da sotto le lenti oscurate studiai attentamente quel ragazzo: non so bene se mi si gelò il sangue o se le farfalle ritornarono nel mio stomaco ma, era lui, lì davanti a me.
 
"April? ma sei te?" esclamò guardando verso la mia direzione.
 
feci finta di nulla, alzai la testa e poi feci trapelare tutto il mio stupore. rimasi a bocca aperta e lui sorrise, mi venne ad abbracciare e rise. ci stringemmo forte, come eravamo soliti fare. le ferite bruciavano ma non mi importava, io continuai a stringerlo fra le mie braccia e lui non mi lasciò andare. 
 
"sei tornato?" chiesi ingoiando le lacrime che stavano salendo. 
 
"sì" e mi strinse di nuovo. crollai in un pianto e mi lasciai andare come solo fra le sue braccia sapevo fare.

  Il semaforo divenne verde ma noi rimanemmo lì uniti in un abbraccio.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1103449