Hamburg.

di LadySherry
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** ? ***
Capitolo 16: *** 15. ***
Capitolo 17: *** 16. ***
Capitolo 18: *** 17. ***
Capitolo 19: *** 18. ***
Capitolo 20: *** 19. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Capitolo 1.

Ho sempre saputo di attirare catastrofi, disgrazie e qualsiasi altro tipo di calamità, ma oggi credo di dover dare un taglio alla mia flessibilità.

Primo, perchè ho davvero esagerato.

Secondo, perchè per una cosa così non ne vale davvero la pena.

Come diamine ho fatto a cacciarmi in un pasticcio del genere?

Osservo la mia macchina e quella che ho indubbiamente rovinato con aria di sconforto. Tutte a me.

Se c'è qualcuno, mi va bene chiunque, che esiste, lassù...ti prego, guarda in basso e dammi un segno.

Osservo il cielo ricoperto da un mantello di nuvole grige, apparentemente cariche di pioggia.

Qualcosa mi bagna il viso, poi di nuovo, di nuovo ancora...sta piovendo.

Okay, non era questo il genere di segnale che avevo chiesto, ma per lo meno qualcosa è arrivato.

Ritorno a fissare la mia attenzione sulla macchina ipotizzando i possibili danni che la mia assicurazione sarà in grado di coprire (si spera) e piangendo al solo pensiero dei danni subiti all' altra auto.

Nonostante la macchina abbia un' aria decisamente familiare, si può dire che, in ogni caso, di così in giro se ne vedono poche.

Recupero l' ombrello dal cruscotto e lo apro, tornando a vigilare con aria attenta la strada nella speranza di vedere il proprietario dell'auto avvicinarsi.

Qualcuno uscirà a recuperare questa poveretta prima o poi, no?

E' così piccola, sembra quasi indifesa e in confronto alla mia non si può parlare di modeste differenze.

Vale tre volte il mio umile mezzo se non di più, mi dispiace solo per l' ammaccatura frontale.

« Che è successo alla mia macchina? » urla qualcuno alle mie spalle.

« Aaaaaah! » urlo, voltandomi di scatto.

Scoppio a ridere, per una ragione sconosciuta perfino a me.

Mi guarda senza capire, lanciando varie occhiate preoccupate alla sua auto.

« Ho tamponato l' auto di Tom Kaulitz! Mamma mia, che colpo! ».

« Ti sembra una cosa divertente? » domanda, accigliato.

« Be', in tutta sincerità, sì ».

Scuote la testa e fissa più da vicino il danno subito alla sua auto.

Poi torna a fissarmi, sorridendo.

« Mi dispiace guastarti il divertimento...o forse no, non mi dispiace. Ma in ogni caso, devi pagare i danni ».

« Io non pago, paga la mia assicurazione ».

« Tutto ciò mi è indifferente. Tu hai fatto il danno? Tu? Bene. A te il piacere di trovare una soluzione ».

« Ma ti ho appena detto che paga la mia assicurazione! » rispondo, infastidita dalla sua...cocciutaggine.

Tom Kaulitz è cocciuto, con la testa dura, più dura del marciapiede su cui cammino tutti i giorni.

« Bene. Tira fuori i documenti, allora ».

« Tirali fuori pure tu, carino. Non sono mica l' unica ».

« Il carino era scontato, in ogni caso ».

« E' pure orgoglioso, adesso. Bene ».

« Come scusa? ».

« Nulla. Tom Kaulitz, io andrei di fretta, non sono come te che riposo tutti i giorni dell' anno ».

Finiamo quella noiosissima pratica. Ci scambiamo i documenti, dopodiché salgo in macchina senza ricambiare i suoi saluti.

Fisso dal finestrino la sua auto mentre si allontana. Mi guardo allo specchietto retrovisore e scoppio a ridere.

Nessuno avrebbe il coraggio di ridere di fronte a una soluzione simile, ma io sono io e di stupirsi non ne vale neanche lo sforzo.

A casa, racconto tutto alla mia coinquilina, che rimane sconvolta ma non così tanto sorpresa.

« Cioè...gli hai riso in faccia? » mi chiede, sconvolta.

« Ma non ridevo di lui ».

« E di cosa ridevi, allora? ».

« Non lo so, ma come situazione era divertente. Ho tamponato la macchina di Tom Kaulitz. Fico, no? ».

Scuote la testa e si alza dal divano.

« Prendi da bere anche per me » urlo, per farmi sentire fino in cucina.

« Certo, scema ».

« Io non sono scema ».

« Hai tamponato la macchina di Tom Kaulitz e gli sei scoppiata a ridere in faccia. Certo che sei scema! » mi sorride, forzata.

Sbuffo.

« Ma secondo te sparlerà di me con suo fratello? » chiedo, guardandola.

« E' una domanda stupida, lo sai? ».

« No ».

« Non ne sono sorpresa ».

Momento di pausa, lei guarda la televisione e io il mio bicchiere vuoto. Come ho fatto a berne il contenuto senza averlo bevuto davvero?

« Ma questo bicchiere è sempre stato vuoto? ».

« Sì perchè? ».

« Oh...così ».

Torna a fissare la televisione. Mi alzo e vado a controllare se nel mio pc c'è posta.

Nessun messaggio.

Perfetto, adesso si sono addirittura dimenticati di me.

Torno in salotto e mi siedo di fianco a lei.

« E comunque, non hai ancora risposto alla mia domanda ».

« Quale? » chiede, guardandomi senza capire.

« Secondo te Tom sparlerà di me con suo fratello? ».

« Ti azzoppo, se me lo chiedi di nuovo ».

Note: Ditemi se vi piace, se non vi piace. Cosa vi piace e cosa non vi piace. Sono moooolto apprezzati i commenti, positivi e negativi, purchè non contengano insulti :) Questo è solo l'inizio, fatemi sapere se devo continuare!

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Capitolo 2
*** 2. ***


Capitolo 2.

 

La faccenda della macchina si era risolta abbastanza in fretta e sì...Tom ha sparlato di me con suo fratello. Ma c'è da dire che al posto suo avrei fatto la stessa cosa anche se dubito che ci sia qualcuno, qui, in questa vita, capace di andare addosso alla mia macchina. Tutti sanno guidare meglio di me, perfino i cani.

« Chiara, che fine hanno fatto i miei jeans scuri? ».

Entra in camera mia a razzo e si posiziona davanti al letto, con le braccia incrociate al petto.

« Di che jeans stai parlando? » biascico, ancora mezza addormentata.

Mi alzo fino ad appoggiarmi con la schiena allo schienale del letto e la guardo, con aria assonnata.

« Quelli che ti ho fatto vedere ieri e che tu ti sei provata...e che poi non mi hai più ridato » sbuffa, mentre alza gli occhi al cielo.

Sospiro, guardandola male.

« Cercali tu, io devo dormire ». E mi rimetto sotto le coperte.

Chiudo gli occhi e stringo tra le dita i lembi delle lenzuola, in caso decidesse di togliermele con un gesto veloce senza avvisarmi.

Ma ciò non accade.

Borbotta qualcosa di insignificante e se ne esce dalla mia camera, sbattendo la porta.

Guardo l' orologio. Sono le otto e nemmeno quando ho il giorno libero riesco a dormire quanto voglio. Siamo messi bene.

Sospiro sorridendo e mi sistemo meglio (più comoda) sul materasso.

Calma. Pace. Tranquillità.

C'è così tanto silenzio in questa casa che potrei giurare di essere sola.

...Ma io sono sola in casa!

Giulia è al lavoro e non abbiamo un cane perciò...

Meglio di così non potrebbe andare.

Penso alla meta che probabilmente sceglierò per le vacanze estive, sorrido beatamente e sul più del bello del mio bellissimo sogno, squilla il telefono.

Mi copro la testa con il cuscino per non sentire rumore, ma a quanto pare l' ignobile essere umano che mi sta chiamando non ha alcuna pietà nei miei confronti.

Mi alzo di scatto e afferro il telefono, premendo il tasto verde e portandolo direttamente al mio orecchio.

« Chiunque tu sia, non ti hanno mai insegnato che dopo dieci squilli se una persona non ti risponde o è impegnata o non è in casa? ».

Attendo una risposta da colui che mi chiama ma che non arriva.

« Parlo con la signorina Chiara Mill? ».

« Sì, chi è? ».

Le scuse da parte mia sarebbe cascate a pennello ma non mi andava di interagire proprio adesso con uno sconosciuto.

« Chiamo dall' ufficio del suo capo. Desidera un colloquio con lei oggi stesso ».

Riconosco la voce di Jessica e mi domando come mai non mi ha abbia ancora sbattuto il telefono in faccia.

« Oddio, scusa Jess. Stavo dormendo ed è squillato il telefono. Oggi? Proprio oggi, nel mio giorno libero? » sbuffo, scompigliandomi i capelli.

« Mi hanno chiesto di fissare un appuntamento con te entro le cinque di questo pomeriggio. Per che ora puoi venire? ».

« Tra un' ora? ».

« Perfetto, fisso subito l' appuntamento e riferisco. Tranquilla, nulla di grave ».

Prima ancora di darmi la possibilità di salutare, chiude la conversazione. Rimango per un secondo di fronte al telefono, rimpiangendo il fatto di non avere un' attività tutta mia nella quale l' unico capo che può comandarmi sono io stessa.

Mi tolgo il pigiama e mi infilo sotto la doccia. L' acqua calda scorre veloce, dandomi la possibilità di svegliarmi completamente.

Mi asciugo i capelli, mi pettino, mi vesto e subito dopo sto avviando la mia macchina, pronta per andare a questo colloquio con il mio gentilissimo capo.

Metto piede nel grande edificio e il solito via vai di persone – tutte facce che tra l' altro conosco fin troppo bene – ingombra l' ingresso.

Dico di annunciare il mio arrivo dalla segretaria dell' ufficio informazioni. Faccio passare veloce la scheda magnetica sotto la macchina e mi infilo nell' ascensore insieme ad altre tre persone.

Ci salutiamo, ormai qui dentro siamo tutti fratello e sorella. Un po' come nei conventi, solo che non è prevista alcuna restrizione a livello...ci siamo capiti.

Mi avvicino alla scrivania di Jessica, mentre sorride verso di me.

« Il capo ti aspetta. Auguri » dice, indicando con la penna la porta semi aperta di fronte.

« E' tanto arrabbiato? » chiedo, implorante.

Scuote la testa, sorridendo nuovamente.

« Non più del solito, ma in ogni caso, non ce l' ha con te ».

Annuisco e, raccogliendo una buona dose di coraggio, mi avvicino alla porta e busso.

« Avanti ».

Entro nell' ufficio del capo e saluto con un sorriso. Mi fa cenno di sedermi nella grande sedia di fronte e io ubbidisco senza dire nulla.

« Mi hanno chiamato dicendo che intendeva avere un colloquio con me. Mi dica ».

« Bene. Lei sa perfettamente quali erano le mie considerazioni nei suoi riguardi quando è arrivata a far parte del nostro team. Ebbene, volevo informarla che, dando un' occhiata al lavoro svolto fino ad oggi, sono molto sorpreso dei progressi che ha fatto. Mi aspetto da lei molto di più, nei prossimi giorni! ».

« Che cosa intende dire, precisamente? ».

« Intendo dire che ho deciso di...premiarla. Che ne dice di un trasferimento? ».

Mi guarda sorridendo. Se per lui un trasferimento era una bella notizia, la cosa era paragonabile a un gatto con le ali.

« Un trasferimento...dove? ».

« Ad Amburgo. Un dipendente ha chiesto l' aspettativa di due anni per...motivi personali e hanno bisogno di qualcuno con le sue potenzialità e capacità ».

« Ah » riesco a dire, sorpresa.

Questo significava trasferirsi, cambiare casa e vedere raramente Giulia e la cosa non mi piace.

« Chiaramente non è obbligata ad accettare, però tutti noi crediamo che lei serva molto più là che qui ».

« Posso avere qualche giorno per pensarci? ».

« Certamente. Diciamo che entro settimana prossima dovrebbe darmi conferma ».

« Perfetto, le farò sapere. Grazie per aver apprezzato il mio lavoro svolto fino ad adesso ».

« E' un piacere averla in squadra ».

Esco a velocità razzo e mi avvicino alla scrivania di Jessica.

« Mi ha chiesto se voglio trasferirmi ad Amburgo. In sede, praticamente ».

« Lo so, secondo me è una buona opportunità ».

« Dici? ».

« Certo, al posto tuo accetterei ».

Mi strizza l' occhio e io annuisco, pensierosa.

La lascio lavorare e mi avvio verso l' uscita.

Il tragitto fino a casa sembra essere più corto del solito, forse perchè i mille pensieri che mi stanno affollando la testa mi hanno completamente distratta dalla strada.

Riesco a trascorrere la mattinata facendo le pulizie di casa e cucinare il pranzo.

Quando Giulia rientra, la obbligo a sedersi in cucina ad ascoltarmi.

« Cosa? Ad Amburgo? Perchè? ».

« Perchè un dipendente ha chiesto l' aspettativa di due anni e vogliono mandare me come sostituzione. Dicono che sarei molto utile, là ».

« E mi abbandoni? ».

Piego leggermente la testa di lato, verso destra, e la guardo con un misto di tenerezza e tristezza.

« Ma non ti abbandono. Solo per lavoro...poi passerò a trovarti ogni volta che potrò ».

« Ma sarai lontana... Amburgo è una città lontana ».

« Non così tanto e sono convinta che la tua macchina saprà arrivarci in meno di un' ora » sorrido.

« Può darsi, sperimenterò appena possibile ».

Guardo fuori dalla finestra. Le goccioline di pioggia bagnano l' esterno dei vetri. Rilasso le spalle e, senza dire nulla, mi avvio in cucina. Tiro fuori l' occorrente per fare una buona cena.

Infilo le patate nel forno e le lascio arrostire.

« Ma la casa te la danno loro o ti tocca trovartela? » chiede, facendo irruzione in cucina.

« Quelli sono dettagli che formalizzeremo dopo, quando firmerò il contratto ».

« Capisco. E credi che, una volta ad Amburgo, tornerai mai a Berlino? -.

« Certo! ».

Qualsiasi persona sarei diventata, le mie intenzioni erano comunque quelle di tornare, prima o poi.

Ero spinta dal desiderio di cambiare; nuova aria, nuova vita, nuova esperienza lavorativa.

Sarei rimasta sempre la stessa o...sarei cambiata?

 

 

 

Note: commentate donzelle, commentateee :)

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Capitolo 3
*** 3. ***


Capitolo 3.

 

Amburgo non è una brutta città, ma a ogni passo che faccio la tentazione di tornare a Berlino è tanta.

Per oggi non ho il trasporto e mi tocca andare a piedi fino all' ufficio.

Giro l' angolo e mi soffermo all' inizio delle strisce pedonali, mentre attendo che qualche santo si fermi e mi lasci attraversare la strada.

Stringo la borsa ancora di più, mentre comincio a battere ritmicamente il piede sull' asfalto per scaricare la tensione.

Arriva il momento di attraversare e mi fulmino immediatamente dall' altra parte della strada.

Cinque minuti dopo, sono in ascensore.

Un uomo e una donna sulla quarantina mi scrutano attentamente come fossi un giocattolo nuovo.

Probabilmente mi credono un' imbecille.

E il fatto che io sia qui dimostra che c'è del vero nascosto dietro quell' espressione.

Non sono sicura di riuscire a sopravvivere, ma sono certa del fatto che, se proprio andrà male, saranno loro a cacciarmi via.

Non posso fuggire da dove mi trovo adesso.

Esco dall' ascensore senza rivolgere uno sguardo ai miei due compagni di viaggio – per giunta sconosciuti – e mi incammino verso l' ufficio del capo di questa sede.

« E' arrivata la signorina Mill. La faccio entrare? Certo, come vuole ».

Una donna mi fa cenno di entrare nell' ufficio e, prima di andare in pasto alla belva, busso.

« Venga, si accomodi ». Indica la poltrona di fronte a me e, senza dire nulla, mi siedo.

« Benvenuta ad Amburgo, spero si trovi bene. Oggi avrà il compito di assicurarsi che le persone che ora le indicherò, svolgano per intero il loro lavoro. Mi spiego meglio. Qui ci occupiamo di tenere sotto controllo il lavoro dei nostri...dipendenti, per così dire. Ora, lei non dovrà fare altro che telefonare a questa persona e assicurarsi che i lavori siano a buon punto -.

Guardo il foglio che mi ha appena dato e osservo attentamente il nome inciso e il numero di telefono.

David Jost.

Il nome non mi è nuovo, il numero invece sì.

« Quindi io dovrei chiedere al menager dei Tokio Hotel a che punto sono con la registrazione? Tutto qui? Lei mi sta dicendo che dovrò fare solamente una telefonata in tutta la mattinata? ».

Mi guarda sorridendo, beffardo.

« Certo che no. Lei sarà...lei dovrà visionare il lavoro e assicurarsi che il materiale ci venga inviato in tempo ».

« Certo... » biascico, stringendo il foglietto nella mano destra.

« Bene, quando ha finito, voglio che scriva una relazione su quanto detto. Più tardi le verrà assegnato di controllarli più da vicino, ma questo sarà da vedere ».

« Mi metterò subito al lavoro ».

A dirla tutta, non ero affatto convinta che quello che mi era stato assegnato fosse un lavoro, ma non avevo alternative.

Arrivai alla mia scrivania e presi in mano il telefono.

Composi il numero, mezza spaventata all' idea di poter turbare un uomo a quest' ora del mattino.

Un menager non può svegliarsi così presto.

Ma evidentemente, questo menager, era diverso.

« David Jost, chi parla? ». Una voce squillante dall' altra parte del telefono mi fa crollare le spalle.

A quanto pare non è normale.

« La chiamo dagli uffici dell' Universal, sono Chiara Mill ».

« Sì, mi hanno informato della sua chiamata. Bene, ora le spiegherò brevemente il lavoro svolto fino ad... ».

« Non può spiegarmi brevemente, devo farne una relazione! » strillo, irritata.

Mi rendo di aver alzato eccessivamente la voce dal suo sospiro.

« Come vuoi. Posso darti del tu, no? ».

« Cambierebbe qualcosa? ».

« No ».

« Appunto, ti do del tu allora ».

Respiro profondamente, cercando conforto psicologico per quello che sembrava essersi dimostrato il più arduo dei compiti: andare d' accordo con il famoso menager dei Tokio Hotel.

La cosa mi spaventa, ma non dico nulla per evitare eventuali litigate e cose simili.

« Bene. Con le registrazioni siamo a buon punto, direi. Abbiamo inciso e registrato per intero due brani. Bill ha molte idee per i testi e Tom per le musiche e le composizioni, perciò ci sarà ancora molto lavoro da fare...ma direi che entro la fine dell' anno sarà finito ».

Annuivo e scrivevo, mentre lui si dilettava a parlare. Non era poi così male.

Non stavo facendo assolutamente nulla di faticoso.

« E poi stiamo pensando di progettare nuove idee per il palco e lo scenario per il nuovo tour. Ma direi che queste sono cose di cui ci occuperemo, eventualmente, una volta terminato il lavoro, o almeno quando avremo in mano qualcosa di più concreto ».

Continuo a scrivere, senza sosta.

« Non sai quanto è frustrante l' idea di dover rendere conto a una bambina del lavoro che svolgo con i ragazzi ».

Rimango accigliata di fronte alla parola bambina.

Mi ha definita una bambina.

« Non sono una bambina. Tra un mese esatto avrò 20 anni e lei mi sta definendo una bambina » rispondo, irritata.

« Ho esattamente diciotto anni in più di te, potresti essere mi figlia ».

« Ma ringraziando Dio non lo sono » sbuffo, mentre la rabbia man mano si affievolisce.

In fondo aveva la risposta pronta sempre, così come l' avevo io e ciò non faceva che rendere sempre più difficile intraprendere una conversazione normale.

Ammesso e non concesso che le conversazioni normali esistessero.

« Passerò nei prossimi giorni per consegnare di persona il materiale. Pensate voi della sede ad inviare alle altre sedi negli altri paesi? ».

« Lo chieda al capo, io sono solo una bambina, no? » rispondo, con sarcasmo.

Ride e fa una piccola pausa, ma poi riprende.

« Sì, sei soltanto una bambina ».

Chiude la telefonata e rimango un altro po' a fissare il telefono che emette quel lieve “tu tu tu tu” snervante.

Lo rimetto apposto e comincio a scrivere la relazione. La invio via mail al capo, anche se si trova dalla parte apposta del corridoio del mio nuovo ufficio.

Uno scatolone grande e uno piccolo sono appoggiati accanto all' appendiabiti.

Dentro ci sono le mie cose, quelle che ho fatto trasferire qui per evitare di perdere tempo con il trasloco della casa.

Comincio a sistemare le varie cartelle sugli scaffali, la foto della mamma sulla scrivania l' ho accuratamente sistemata accanto a quella della nonna.

Sembra un vero ufficio e mi chiedo come io abbia ottenuto un posto così adesso.

Ero entrata nel team della sede di Berlino come apprendista, e ora ho un ufficio tutto mio.

Giuro sul cane di mia nonna che non ho corrotto nessuno.

Bussano alla porta.

La segretaria di prima entra con un piccolo bicchiere di plastica in mano.

Anche lei giovane, non avrà più di trentacinque anni.

« Ho pensato che ne avessi bisogno » dice, appoggiando il bicchiere sulla scrivania.

« Grazie, anche se non ho fatto praticamente nulla. Ho chiamato un menager esaurito e mi sono fatta spiegare il lavoro che sta svolgendo con la band. Ho scritto la relazione al capo e glie l' ho spedita via mail, così non ho avuto nemmeno la scusa per alzarmi da questa sedia. E non ho avuto ordini precisi per le prossime quattro ore » sbuffo, sorseggiando il caffè.

Sospira e si siede sulla sedia di fronte alla mia.

« All' inizio è così, ma poi ti ci abitui » risponde, con un sorriso.

« E' molto che sei qui? » chiedo, curiosa.

« Non molto, a dire la verità. Sono arrivata cinque anni fa ».

Wow, cinque anni. L' idea di rimanere per un tempo così lungo è quasi spaventosa.

« E come hai fatto a sopravvivere nei momenti di noia come questi? ».

Ero sempre più curiosa di saperne di più sui suoi metodi di sopravvivenza. In fondo potevano servire anche me.

« Ti assicuro che non tutti i giorni, qui dentro, sono uguali. Ci son giorni che entri e ti spediscono dall' altra parte della città per incontri da parte del direttore. Altri in cui stai seduto a questa scrivania per ore senza fare assolutamente nulla. Le segretarie del piano di sotto si fanno i giri su facebook. Ma ti sconsiglio di fare una cosa così. Sei nuova e il capo ti controlla. Ci sono giorni in cui, invece, hai talmente tanto da fare che per fare pipì devi aspettare di vedere il bagno di casa tua, non so se mi spiego ».

Sapevo perfettamente come si svolgeva il lavoro, ma i ritmi erano certamente diversi qui.

« Grazie...anche a Berlino capitavano giorno di questo tipo, ma non così spesso ».

« Buona fortuna. Ora devo andare, la mia pausa sta per finire e credo che stia per iniziare la tua » dice, alzandosi dalla sedia.

Annuisco, dando un' occhiata veloce all' orologio.

« Ne approfitto per chiamare a casa. Mia mamma è in ansia per ogni minuto che trascorro in questa città ».

« Non le piace Amburgo? » domanda, alzando il sopracciglio.

« No, non è quello il problema, ma mia mamma è più il tipo che preferirebbe tenerti sotto la sua ala a vita piuttosto che vedermi scappare in un' altra città ».

« Ma tornerai a Berlino, no? ».

« Appena il collega o la collega rientra io me ne torno a casina » affermo, con un sorriso.

Esce dall' ufficio e sprofondo di nuovo sulla poltrona.

Sbuffo, guardandomi in torno. Non mi piace per niente. La persona che aveva preso posto prima di me non possedeva il benché minimo senso estetico.

Lo schermo del computer si illumina. E' arrivata un' email.

E' di Giulia. Scoppio a ridere notando la foto che ha allegato.

 

Mentre tu te ne rimani felice ad Amburgo, io mi devo sorbire...guarda che disgrazie!

 

La foto ritraeva lei con ricoperta di neve. Probabilmente Ste si era divertito parecchio a lanciarle palle di neve.

 

Comunque, le cose procedono abbastanza bene, nulla di strano o losco.

Però si sente la tua mancanza e perfino il pesce rosso si rifiuta di mangiare. Dimmi che cosa devo fare!

Al lavoro tutto okay, hanno licenziato un paio di persone e spero di non far parte dei prossimi cinque. In alternativa ti toccherà mantenermi. No scherzo, comprerò un cane – se questo dovesse succedere, di licenziarmi intendo – e andrò a fare la barbona.

Allettante come prospettiva, no?

Ti saluto che ora devo uscire a fare la spesa. Il frigorifero è praticamente vuoto!

Ti voglio bene,

Giulia.

 

Decido di rispondere dopo, una volta arrivata nel mio appartamento.

Prendo la borsa e mi avvio al bar. E' l' ora della pausa.

Quando passo davanti alla segretaria di prima, mi fa cenno di avvicinarmi.

« Dimmi ».

« Il capo ti vuole nel suo ufficio, dopo. Stavo chiamando infatti per avvisarti ».

« Ok, grazie » sorrido e mi allontano, dirigendomi verso le scale.

Scendo i gradini con calma, tanto non ho alcuna fretta.

Mi siedo al tavolino e ordino il solito cappuccino con brioche.

 

 

 

Note: Ci tenevo a precisare una cosa. Questa è una storia che ho scritto qualcosa come due anni fa e che ho deciso di riprendere in mano. E' vecchia io non amo particolarmente riprendere i vecchi scritti, ma è una delle prime e un po' mi dispiaceva lasciarla segregata in un angolo del pc. Spero possa piacere comunque, nonostante gli errori/orrori :)

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Capitolo 4
*** 4. ***


Capitolo 4.

 

I giorni che seguirono non furono meglio del primo, ma almeno non avevo più avuto a che fare con il signor menager-dei-miei-stivali.

Ora potevo intraprendere una conversazione con chiunque a proposito di musica, contratti discografici e una marea di altre cose che riguardano la musica. Avevo anche imparato a prendere un po' più sul serio il lavoro all' interno di un' industria come questa.

Lo schermo del mio computer si illuminò e capii che era appena arrivata una mail.

Aprii la busta che nel frattempo continuava a lampeggiare senza sosta.

Era Giulia.

 

Oh, immagino tu ti stia “divertendo” al lavoro. Mi sono presa l' influenza e devo stare chiusa in casa per almeno dieci giorni.

Non sai che noia, stare tutto il tempo sotto le coperte con mamma che gira per casa tutta presa dai lavori domestici.

Giuro che appena tornerai a Berlino ti farò pentire di avermi abbandonata tra le sue grinfie.

Per il resto, è tutto okay.

Te, invece? Spero bene...il fantomatico menager ha chiamato ancora?

Devo essere sincera: immaginarti al telefono con questo signore che ti da della bambina e tu che ti innervosisci...è uno spasso!

Ora devo andare.

Chiamami quando hai finito il turno.

Un bacio.

Giu.

 

Ragazza folle. Molto folle.

Salvo l' email con l' intenzione di risponderle durante la pausa pranzo.

Esco dall' ufficio, decisa a sgranchirmi le gambe visto che stare seduta di fronte a una scrivania per attendere un telefono che non ha la minima intenzione di squillare, non porta a nulla di buono per la mia saluta mentale.

In fondo al corridoio vedo la porta del' ufficio del grande capo aprirsi, mentre ne esce lui e un uomo, leggermente più basso.

Si salutano, proprio come vecchi amici.

« Oh, vieni, ti presento il nostro ultimo acquisto. Prima lavorava nella sede di Berlino ».

Il grande capo mi indica, posando una mano sulla spalla dell' amico.

« Lei è Chiara Mill. Lui è David Jost. Sai chi è no? ».

Oh sì, mi ha dato della bambina. Come posso scordarmi un nome come il suo?

« Certo, abbiamo parlato al telefono qualche giorno fa » dico, stringendo la mano al menager.

Lui, con un sorriso da ebete, ricambia la stretta.

« Sì, ricordo. Una ragazza molto professionale, devo dire. E' stata molto gentile » mormora, guardandomi.

Se non fossero stati per i trenta centimetri di differenza, probabilmente l' avrei preso a testate.

« Bene. Io scendo un attimo, per la pausa » mi dileguo, allontanandomi appena.

« Certamente, vada pure ».

Il grande capo fa cenno di consenso e poi riprende la sua chiacchierata con il menager.

 

* *

 

« Chiara, posso sapere perchè non rispondi alle mie mail? »

Giulia, furiosa, si lamenta con me.

Ho dimenticato di rispondere alla sua mail due giorni fa e ora, giustamente, reclama.

« Scusami, ho avuto parecchio da fare ultimamente. Sai, il fantomatico manager è tornato all' attacco. Davanti al grande capo, tra l' altro. 'Sto scemo. Mi ha presa in giro. Giuro, se non fosse stato per l' altezza io... ».

« Alt! Fermati. La violenza non si usa, dovresti saperlo ».

E scoppia a ridere.

Giuro, sto tentando di capire cosa ci sia di così tanto divertente in quello che ho detto...m non trovo nulla.

« Giu, non c'è per niente da ridere. Non lo sopporto ».

« Ma non lo consoci nemmeno ».

« E non ne ho neanche l' intenzione ».

« Quanto sei scema ».

« Io non sono scema ».

Mi stava dando dell scema. E non era la prima volta.

« Sì che lo sei. E poi...mica devi sposarlo. Hai parlato con lui al telefono, per questioni di lavoro tra l' altro, soltanto una volta. E l' hai visto, per la seconda, due giorni fa e per di più in presenza del tuo capo. Non ti sbranerà, credimi ».

Non aveva tutti torti. Anzi, aveva pienamente ragione. Ma è così difficile ammettere di aver sbagliato,per chi ha un carattere orribile come il mio.

«Vuoi sentirti dire “sì, hai ragione tu!” ? Okay, hai ragione tu. Ma io l' ho sempre detto che hai sbagliato a frequentare quel corso di filosofia al quarto anno di liceo. Ricordi? Ora non saresti così saggia da superarmi » sbuffo, sistemando una ciocca di capelli che era caduta sull' occhio.

« Sei gelosa, non è così? » afferma, con tono soddisfatto.

« Scherzi? No, non sono gelosa ma certe pillole di saggezza potresti tenertele per te. Mi mandi in confusione il cervello! ».

Dopo una lunga discussione passata a litigare su chi fosse più intelligente, più filosofo, più scaltro o più buffone, chiudo la telefonata.

 

* *

 

« Quindi...lei ora lavorerà come assistente del signor Jost. Non è una buona notizia per lei? ».

Il grande capo, con un gesto della mano, mi indica, con un sorriso esageratamente ampio stampato sul volto.

Oh sì, fantastica. Proprio, sì.

« Quando dovrò andare? » chiedo, cercando di mantenere un tono gentile.

« Da domani. Va allo studio, conosce meglio i ragazzi, fate conoscenza e dalla settimana prossima comincia a lavorare. Tutto chiaro? ».

« Certamente, tutto chiaro ».

Come potevo non aver capito? Mi stava mandando al patibolo; anche uno stupido se ne sarebbe accorto.

Questo significa vivere a stretto contatto (o quasi) con delle star.

Cosa poteva andarmi più storto di così, adesso?

 

 

 

Note: un grazie a chi segue, a chi legge, a chi recensisce questa storia :)

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Capitolo 5
*** 5. ***


Capitolo 5.

 

Possibile che mi metta paura l' idea di entrare in macchina? Questa è la prima volta che starei volentieri a casa piuttosto che andare al lavoro. Le indicazioni che il grande capo mi ha inviato per email per arrivare direttamente al loro studio – uno dei tanti – sono in bella mostra sul volante della mia macchina.

Okay, ora devo girare a destra. Peccato che, alla mia destra, ci sia un muro di cemento.

E' un modo molto fine e indiretto che ha usato per mandarmi a morire?

O ero io che semplicemente stavo leggendo la cartina al contrario?

La risposta è la numero due. Io stavo leggendo male la cartina.

Feci retromarcia e tornai al punto di partenza. Ora, tecnicamente, dovrei imboccare la strada giusta.

Come avrebbe fatto sicuramente qualsiasi essere umano con condizioni psichiche normali, avrei dovuto accendere il TomTom e farmi dire direttamente la strada. Ma solo il nome mi faceva irritare; poi non avevo alcuna idea di dove mettere le mani, perciò era comunque impensabile questa alternativa.

In ogni caso, comunque, riuscii ad arrivare allo studio.

Parcheggiai praticamente di fronte all' entrata (unico posto libero di parcheggio), visto che un' Audi r8 occupava l' altro lato del viale.

Scendo dalla macchina, togliendomi gli occhiali da sole e aumento la presa sulla mia borsa.

Giungo davanti alla porta.

Potrei bussare oppure suonare un campanello che noto solo ora come inesistente. Non c'è nessun campanello.

Un ragazzo biondo, un po' cicciotto, si piazza di fronte a me. Lo guardo dal mio misero metro e sessanta con aria innocua. Più o meno.

« Sono Chiara Mill e... ».

« Sì, lo so. Vieni, entra. Gli altri sono già in riunione » dice, spostandosi dalla porta per farmi entrare.

Tolgo il cappotto e lo appoggio insieme alla borsa sull' appendiabiti.

Seguo Gustav fino alla sala riunioni, o almeno così l' aveva definita lui.

Appena entrata, noto che tutti sono seduti attorno al tavolo rettangolare al centro della stanza.

Gustav si mette a sedere accanto a Georg e io contemplo, per qualche secondo, la scena.

Un sedia vuota era stata piazzata tra il menager e Bill, che intuii come la mia.

« Eccoti. Stavamo per iniziare la riunione » dice il manager, voltandosi verso di me.

Tutti si girarono a guardarmi, come se fossi il...giocattolino nuovo.

« Riunione? » chiedo, incerta.

« Sì, ci siamo riuniti per discutere di alcuni dettagli riguardanti l' album. Siediti, abbiamo lasciato la sedia apposta per te ».

Possibile che mi sentissi una stupida?

Con una lentezza snervante, mi sedetti al mio posto. Sentii addosso gli sguardi di tutti, compreso quello del cane che se ne stava sdraiato bello comodo sul cuscino del divanetto.

« Io sono Bill, piacere ».

Una voce alla mia destra mi fa voltare, quasi sobbalzando.

« Oh, ciao. Io sono Chiara » dico, ricambiando la stretta di mano.

« Io sono Tom, ti ricordi di me, no? » dice l' altro, strizzando l' occhio.

« Io Gustav, ma ci siamo già presentati prima ».

« Io Georg ».

Sì, certo, come se non lo sapessi.

Salutai tutti quanti e poi tornai al manager, che sfogliava tutto preso i fogli di fronte a sé.

« Bene, direi di cominciare. Bill, che hai portato oggi? ».

« Ho qui un paio di testi. Tom sta lavorando sugli arrangiamenti, dopo potremmo provare » comincia Bill, tutto serio.

Sto per scoppiare a ridere ma mi trattengo.

« Sì, poi abbiamo avuto delle idee sulla copertina dell' album » continua il fratello, rivolgendosi al menager.

« E dovremmo discutere sul primo singolo da far uscire » aggiunge Gustav, pensieroso.

« Sì, mi piacerebbe venisse fuori come...come se fosse una specie di film, ecco ».

David annuisce e annota sul suo computer.

Mentre rifletto sul mio compito da svolgere oggi, la loro conversazione va avanti.

« Mi piacerebbe potermi confrontare con il regista con cui abbiamo parlato qualche mese fa. Ha avuto delle idee che mi interessano parecchio ».

Sembrano tutti molto presi da questa conversazione. Immagino che al mio posto vorrebbero esserci un sacco di fans che là fuori non aspettano altro che qualche gossip.

Ah, ma mi dispiace, i retroscena me li godo solo io, stavolta.

Stupide mucchine in calore.

Espressione che generalmente veniva usata da Giulia per definire le fans ai concerti dei Tokio Hotel.

Finalmente, si degnano di dare un senso alla mi presenza qui.

« Vedi, qui noi annotiamo tutte le idee. Poi le riguardiamo, ne buttiamo giù di nuove e infine si passa ai fatti. La settimana prossima i ragazzi avranno uno shot e tu potrai vedere come funzionano queste cose. Praticamente, il tuo compito sarà quello di aiutarmi a coordinare i lavori ».

Sei soltanto una bambina.

Eccerto.

« Oh bene. Ehm, volevo chiedere, ma dovrò venire in tour pure io? ».

Mi fissano per qualche secondo, sembrano sull' orlo di una crisi isterica di risate.

« Tesoro, certo che verrai con noi in tour. Mi sarai molto più utile in giro per il mondo che qui » mi fa osservare il manager, con un sorriso tirato.

Okay, probabilmente la mia domanda è stata in modo devastante fuori luogo, ma cosa potevo farci se mi ignoravano completamente senza darmi spiegazioni?

Dopotutto, ero stata mandata qui senza alcuna specificazione sul mio lavoro da svolgere, a parte “sarà l' assistente del signor Jost”.

« Bene, ora facciamo una pausa » annuncio David, chiudendo la cartellina blu.

Guardai l' orologio. Erano passati esattamente dieci minuti da quando ero lì dentro e avevano appena iniziato. Se ogni dieci minuti fanno una pausa – pausa intesa come, molto probabilmente, una lunghissima pausa – forse entro domani sarei tornata al mio accogliente appartamento.

Forse.

Guardai gli altri alzarsi, sorridermi, e uscire dalla stanza. David mi fece segno di seguirlo ed entrammo tutti e sei in una stanza poco illuminata, che intuii come la sala registrazione.

« Chi viene a giocare a ping pong con me? » urla Tom, avvicinandosi a un' altra porta.

« Vengo io. Mi devi una partita » risponde Georg, seguendolo.

La porta si richiude e io rimango sola con Bill, Gustav e David.

Mi sentivo un piccolo folletto in confronto a loro.

Sono così esageratamente alti.

« Bene, vuoi che ti mostri tutto lo studio? ».

Mi volto. Bill mi sorride, con aria gentile.

« Certo, uhm...d' accordo » esclamo, forse con troppo entusiasmo.

Devo avergli fatto l' impressione di una psicopatica.

« Nella stanza di prima registriamo. Di solito ci sono i tecnici e gli addetti, ma oggi è il loro giorno libero. Io e Tom abbiamo una piccola stanza di registrazione dentro casa, ma preferiamo registrare qui. Là proviamo e basta » comincia, gesticolando con le mani.

Io annuisco, seriamente curiosa.

« Questa è la sala prove, io mi metto lì, al centro dove c'è il microfono. Gli altri si siedono ai loro posti e suonano. A volte capita che le idee vengano mentre suoniamo, perciò non è detto che una canzone esca da qui nelle stesse condizioni con le quali è entrata » ammicca, sorridendo.

« Wow... » riesco finalmente a dire.

« Già, siamo così fortunati. Qui c'è la cucina, o almeno ci assomiglia, più o meno. Il fornello non lo usiamo mai, perchè siamo troppo pigri per cucinare. Ordiniamo le pizze e le scaldiamo nel forno. E' molto più semplice ».

« Magari un giorno vi cucino qualcosa io » improvviso, sorridendo.

« Sì, magari... » risponde, sorridendo a sua volta.

Usciamo ed entriamo in un' altra stanza, più grande della precedente.

« Qui ci riposiamo, anche se forse il termine riposare non è tra i più appropriati. Visto che riposiamo ovunque ».

Scoppio a ridere. Inciampo in qualche filo e improvvisamente mi ritrovo a una decina di centimetri dal pavimento.

« Devo ricordare a Tom di rimettere a posto l' amplificatore ».

« Gran bella presa, comunque ».

« Ho dei buoni riflessi, io » specifica, sottolineando quel “io” con una certa enfasi.

« Anche io ho i riflessi buoni » borbotto, sistemandomi la felpa.

Mettiamo da parte il discorso e proseguiamo, salendo le scale al piano di sopra.

Miseria, è solamente uno studio di registrazione, non può essere così grande!

« Qui, beh...ci sono tutti gli strumenti ».

Apre la appena di fronte alle scale.

Rimango sorpresa dall' infinità di strumenti all interno della stanza.

Chitarre, bassi, una batteria e, a sinistra, un pianoforte.

« Li teniamo tutti qui, per non ingombrare la sala prove ».

« Perchè, vorresti dirmi che portate da un piano all' altro il pianoforte? » domando, quasi ridendo.

« No, abbiamo un pianoforte anche in sala prove. Non l' hai visto? ».

« No. Ma allora perchè lo tenete qui, se ne avete già uno là? ».

« Semplicemente perchè ogni tanto ci piace venire a suonare anche qui »

« Oh, capisco... ».

Finalmente scendiamo e ritorniamo in sala registrazione.

David è rimasto sempre seduto al solito tavolino, con gli occhi concentrati sullo schermo del suo portatile.

« E' molto grande, per essere uno studio »

« Ci piacciono i posti grandi ».

« Manie di grandezza, dunque... ».

« Purtroppo sì » sorride, sedendosi su una poltroncina poco distante.

David sembra essersi accorto della mia presenza solo ora.

« Chiara, potresti andare a chiamare Tom e Georg, per favore? » chiede, guardandomi.

« Se qualcuno mi dice dove sono, sì » sbuffo, senza dare a vedere la mia irritazione.

Se il mio compito era fare a loro da baby sitter...

« Nella stanza di là » mi informa, indicando la porta di prima.

« Ok ».

Entro nella stanza al di là della porta.

Tom e Georg sono visibilmente presi dalla loro partita per accorgersi dell mia presenza.

« Georg, arrenditi, ho vinto io » urla Tom, alzando le mani in alto.

« Un' altra » dice, ritornando al posto di partenza.

Mi avvicino, con calma. Non vorrei che nella foga di giocare mi arrivasse una racchetta in testa.

« Ehm...scusate, dovreste tornare di là » dico.

Finalmente si voltano e mi guardano, interrompendo il gioco.

« Ciao. Sì, certo. Straccio per l' ennesima volta Georg e arriviamo » risponde Tom, tornando al tavolo da gioco.

« Okay ».

Faccio inversione e torno alla stanza di prima, dove ad attendermi trovo i soliti tre.

« Tom deve stracciare per l' ennesima volta Georg, poi arrivano » annuncio, sedendomi sulla prima sedia che mi capita sotto mano.

Di fronte a me, trovo un sacco di bottoni, tutti diversi. Sembrava la base di comando di qualcosa.

« Con questi regoliamo i suoni, le voci e tutto il resto » dice, una voce alle mia spalle.

« Oh, sì, certo » annuisco, osservando la piccola stanza al di là del vetro.

Il pomeriggio passò in fretta. Non era poi così male visto che, apparentemente, sembravano umani.

Tornai a casa e mi buttai sul divano a peso morto.

Avevo i piedi intrappolati nelle converse da quasi sette ore e ora gridavano pietà. Come dar loro torto...

Mi levai le scarpe e le gettai da qualche parte nella stanza. Colpirono un vaso, credo.

In televisione non davano niente, perciò la spensi quasi subito.

Non sapevo cosa fare; d' altra parte, dopo un pomeriggio passato in loro compagnia, anche la cosa che più riusciva ad esaltarmi sembrava apparire insignificante ai miei occhi.

Mi addormentai così, sul divano del mio salotto, meditando una scusa decente da dare a Giulia per giustificare il mio voler rimanere qui ancora un po'.

 

 

 

 

Note: ringrazio tutti quelli che recensiscono questa storia o che semplicemente l'hanno messa tra i seguiti; anche chi la legge soltanto!

Volevo ricordare, come sempre, che questo capitolo, forse più degli altri, ha un sacco di errori soprattutto grammaticali; purtroppo in questo periodo non riesco a dedicare molto tempo a tutte le mie storie, quindi a correggerle, ma provvederò presto!

Un bacio,

Sere :)

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Capitolo 6
*** 6. ***


Capitolo 6.

 

« I ragazzi hanno un' intervista tra esattamente...ventidue minuti » dico, guardando l' odiosissimo orologio al posto.

« Poi? » mi chiede David, mentre ci incamminiamo lungo il corridoio per raggiungere il camerino dei Tokio Hotel.

Sposto il primo foglio e lo porto dietro al secondo.

« Dopo avranno una pausa di circa mezzora. Ho fatto preparare l' auto con la sicurezza fuori da qui per quando avranno finito. Andremo in albergo, dopodiché avranno la seconda e ultima intervista della giornata ».

Entriamo nel camerino. I ragazzi si stanno preparando, anche se non riesco a capire tutta questa agitazione per una semplice intervista.

Sento il cellulare vibrare nella tasca dei jeans. Che infarto.

Lo prendo e mi allontano appena. Poi rispondo.

« Pronto? ».

« Ciao Chiara, sono Giulia ».

Tiro un sospiro di sollievo. Credevo fosse mia madre. Per la trentesima volta. E non è un modo di dire.

« Ciao Giu. Credevo fosse mia madre » sospiro, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l' orecchio.

Ride. « Perchè? ».

« Mi ha chiamata trenta volte da questa mattina e non sto scherzando » sbuffo.

« Povera. Beh, come vanno le cose a Parigi? ».

« Procedono abbastanza bene. Faccio un lavoro fico, sai? ».

Silenzio. Ho ucciso Giulia, me lo sento.

« Fico? Tu non usi mai la parola “fico” » esclama, quasi sconvolta.

« Fico? E' fico, no? ».

Sospira. Segno di resa.

« Lasciamo perdere, ho capito. Frequenti troppa gente che frequenta troppo i Tokio Hotel ».

« Eh? ».

« Nulla. Mi hanno licenziata, sai? ».

Scoppia a ridere.

Ma è scema?

« Ti hanno licenziata e ridi? ».

« Sì, perchè mi hanno assunta ieri da un' altra parte » ride di nuovo.

Mi rilasso, dopo un breve shock.

« E dove lavori, adesso? ».

« Da Dior ».

« Ah be'... ».

Dopo averla saluta, ritorno ai miei polli.

Quando arriva l' intervistatrice, io esco assieme al resto dello Staff, tranne le loro guardie del corpo che rimangono dentro con loro.

Il peso del viaggio comincia a farsi sentire solo adesso. Certo, le prime volte è fantastico. Giri, vedi tre città in sole 24 ore e di per sé la cosa è meravigliosa. Ma poi bisogna guardare il lato opposto del nastro. Non stabilisci legami da nessuna parte, non hai un posto in cui identificarti.

Io mi consolo sapendo che la Germania mi aspetta; tra soli cinquantatré giorni ritornerò a casa. Già, Berlino o Amburgo?

Ho sempre dovuto fare la spola tra queste due città e non mi sono mai lamentata, ma mi piacerebbe stabilirmi per sempre ad Amburgo, anche se a Berlino c'è tutta la mia vita.

Sono talmente immersa nei miei pensieri che non mi accorgo nemmeno dell' arrivo dei ragazzi.

Ridono, giusto per fare qualcosa che non fanno mai oltre a sempre.

« Bene. Ora andremo in albergo, poi avrete l' ultima intervista. Dopo potete anche andare a zoccole, non mi interessa » li informa il manager, riponendo il portatile nella valigetta.

Usciamo dall' edificio. I ragazzi vengono fermati per qualche minuto dalle fan che sono rimaste fuori ad aspettarli. Guardo di nuovo l' orologio.

Se entro dieci minuti non salgono nella loro auto li prendo per le orecchie e li trascino di peso. Rischiamo...o meglio, rischiano, di far saltare l' intervista. Dopodiché, David presumo mi farà decapitare.

Finalmente raggiungono l' auto e posso finalmente tirare un sospiro di sollievo.

In albergo, ringraziando il Signore, non si fermano a firmare autografi.

Mentre attendono seduti ai divanetti della hall, mi avvicino alla reception per farmi dare le tessere magnetiche delle rispettive stanze.

Venti tessere magnetiche.

Le distribuisco a tutti e mi accorgo che la mia stanza è in mezzo a quelle dei Kaulitz.

Oh, fantastico!

Casino a destra più casino a sinistra uguale notte insonne.

« Ehi Mill, abbiamo le stanze vicine! » urla Tom, osservando il numero della mia stanza e della sua.

« Già, Kaulitz » sbuffo, riprendendomi la tessera.

La faccio passare nel dispositivo e la mia porta si apre.

Faccio per chiuderla ma sento qualcosa che la impedisce. La apro leggermente e trovo un Tom parecchio sconvolto con una mano sulla faccia.

« Stronza, m' hai quasi ucciso » brontola, allontanandosi.

Scuoto la testa, impassibile.

« Tra dieci minuti avrete un' intervista. Ti conviene cambiarti e scendere nella hall – urlo, per farmi sentire.

Si chiude nella sua stanza senza rivolgermi alcun insulto.

Mi vien da ridere.

Prima tento di distruggere la sua macchina. Ora, in modo molto diretto, ho tentato di distruggere lui.

Povero Tom Kaulitz, che qualcuno preghi per la sua incolumità.

 

**

 

Mi rotolo nel letto per la millesima volta. A ogni mio movimento sento il materasso scricchiolare.

Tiro fuori la testa da sotto le lenzuola e guardo la sveglia che avevo messo, poco prima sdraiarmi, sul comodino. Le una e mezza.

Tra esattamente sette ore mi ritroverò su un aereo diretto in Italia e so già per certo che non avrò alcuna possibilità di riposare.

Consideriamo questa cosa su due aspetti: il primo, come diavolo si fa a dormire con la consapevolezza di essere sospesi in aria? Secondo, come posso essere tranquilla se avrò dietro un manager nevrotico intenzionato a rovinarmi le giornate fino alla fine del tour?

E sono sicura che non c'è alcun motivo sensato per il quale lo fa; deve provarci un qualcosa di sadico nel vedermi sgambettare tutto il giorno con fogli in una mano, il cellulare nell' altra mentre vado a avanti e indietro con i capelli conciati nella peggiore condizione che esista al mondo.

Probabilmente, in una qualche vita futura, una ricompensa arriverà.

Quante cose si possono fare in un albergo alle una di notte senza passare per psicopatica o sonnambula?

La cosa migliore è rimanere nella mia stanza, accendere la televisione beccando sicuramente, vista l' ora, un porno, e aspettare che gli occhi si chiudano. Aspettare...aspettare invano perchè i miei non si chiuderanno tanto facilmente.

Accendo la luce, guardandomi attorno.

Che cosa stupida, è ovvio che non c'è nessuno qui dentro a parte me. Forse ho qualche speranza di scovare i topi sotto il letto, ma non mi azzarderei mai, adesso, a controllare.

Mi infilo i pantaloni della tuta, una felpa leggera ed esco.

I corridoi sono illuminati da una luce bassa, in modo vedere quel che basta per non andare a sbattere contro chi, magari, viene dalla parte opposta.

Incontro Zac, in fondo al corridoio, una delle tante guardie del corpo.

« Dove deve andare a quest' ora? » mi chiede, senza fare tanti sorrisi.

« Oh, un giretto per l' albergo » rispondo, stringendomi nelle spalle.

Mi guarda, perplesso, poi torna a osservare in giro nella speranza di dare un senso (pure lui) al suo lavoro.

Secondo me spera di imbattersi in una qualche fan isterica o pazza per movimentare un po' la serata. Non c'è niente di meglio nel vedere una guardia del corpo immedesimarsi completamente nel suo ruolo.

Scendo al piano di sotto (senza prendere l' ascensore) e anche questo sembra deserto.

Evidentemente, l' unica cretina in questo albergo sono io.

Torno al piano di sopra, decisa a tornare in camera.

Un Tom tanto incazzato mi viene in contro, con passi da gigante.

« Dove diavolo sei stata? » domanda, senza accennare a un sorriso.

« In giro... » rispondo, vaga.

« In...giro? ». Sembra sconvolto.

« Sì, certo. Serve qualcosa? » chiedo, avviandomi verso la tua camera.

Mi guarda, come se avessi appena detto un' eresia. Ma è scemo?

Forse è sonnambulo...

Mi fermo e lo guardo.

« No, aspetta, sei sicuro di essere sveglio? ».

« Mi stai dando del sonnambulo? ».

« Non lo so, prima di dire se lo sei o no voglio assicurarmi, tutto qui » scrollo le spalle, mentre faccio passare la tessera magnetica nel dispositivo.

« Bene, buona notte eh » dico, chiudendomi la porta alle spalle.

Scoppio a ridere, buttandomi a pancia in giù sul letto.

Tom Kaulitz è uno scemo.

Alzi la mano chi osa dire il contrario.

 

**

 

« Spero vivamente che non abbiate dimenticato nulla nella vostra stanza » dico, rivolgendomi ai quattro addormentati in piedi di fronte a me.

« Perchè? » domanda Georg, visibilmente seccato.

« Perchè poi tocca a me chiamare il proprietario d' albergo, spiegare loro che non sto scherzando, che lavoro sul serio con voi e che non voglio accaparrarmi un souvenir dei Tokio Hotel per poi venderlo su e-Bay. Perchè poi sono io che devo occuparmi di tutto questo casino. Perchè poi se mi fate arrabbiare faccio arrabbiare anche a voi, che a vostra volta fate arrabbiare a me. Ti basta come spiegazione o devo proseguire? L' elenco è ancora bello lungo » sbuffo, allontanandomi.

Gli effetti di una notte passata insonne cominciano a farsi sentire e sono tutt' altro che un bello spettacolo.

Sento borbottare qualcosa alle mie spalle, ma evito di voltarmi. Perdere il lavoro adesso non mi sembra un' idea geniale.

Mi avvio senza degnare nessuno di uno sguardo verso l' auto che mi è stata assegnata.

Girare per la città di prima mattina non è un cosa favolosa, ma forse è meglio così.

All' aeroporto, sicuramente, ci saranno un sacco di fan per salutarli.

Mi vengono i brividi solo al pensiero di dover passare attraverso una folla inferocita con la certezza praticamente nulla di arrivare al check-in illesa.

Fare la star è eccezionale, con l' unico inconveniente per farla bene devi mettere a rischio la tua vita.

Nessun artista ha tutto il casino che hanno dietro loro.

Già, ma gli altri non fanno parte dei Tokio Hotel.

 

**

 

L' aereo ormai si trova a quota...non voglio saperlo, rischio l' infarto.

Mi ritrovo sospesa in aria diretta a Milano.

« Se stringi ancora un po', si sbriciolerà tra le tue mani ».

Una vocina fastidiosa almeno quanto irritante mi arriva all' orecchio. Sbuffo e mi volto, senza mollare (ovviamente) la presa.

« Ti crea qualche problema? » borbotto, acida.

« No, affatto » sorride, tranquillo.

Lo guardo senza capire. Prima viene a cercarmi a notte fonda in giro per l' albergo e non mi spiega il perchè, ora si preoccupa del bracciolo che sto stringendo.

Ma c'è o ci fa?

Nessuna delle due, ne sono convinta.

« E allora non rompermi le palle! » sbuffo, voltandomi.

Ride, ma non ci do peso.

David, di fianco a me, sembra non essersi nemmeno accorto della mia presenza.

Sfoglia una rivista dal nome sconosciuto (a me). Guarda le figure e non sono certa che stia leggendo pure i paragrafi scritti affianco.

Come fanno ad essere tutti così tranquilli? Io sto letteralmente nel panico.

« Ma perchè Milano è così lontana? » sussurro, con una certa ansia, senza rivolgermi a qualcuno in particolare.

Guardo fuori dal finestrino, cercando di non guardare in basso.

Sento a testa girare e un senso di nausea avvolgermi. Chiudo gli occhi e mi appoggio di nuovo allo schienale della poltroncina.

« Non manca molto. Tra mezzora atterriamo ».

L' hostess si allontana. Non mi ero nemmeno accorta della sua presenza di fianco al menager. Aveva portato da un bere dell' acqua e poi è sparita.

Devo essere parecchio sconvolta per non accorgermene.

Prima di scendere dall' aereo controllo di non aver dimenticato nulla.

Generalmente lascio sempre una traccia del mio passaggio praticamente ovunque.

Mentre i Tokio Hotel firmano, come abitudine, i soliti autografi, io rimango indietro, appiccicata a un omone che di statura fa due metri. Sono sicura che adesso nessuno mi ammazzerà.

Finalmente, dopo un' attesa snervante, saliamo in macchina, immergendoci nel caotico traffico milanese di metà mattina.

 

 

 

 

Note: Mi sembra che questo capito sia migliore dei precedenti, anche a livello di grammatica. Non so, ditemi voi :) Ringrazio ancora quelle che recensiscono, che leggono e che seguono questa storia!

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Capitolo 7
*** 7. ***


Capitolo 7.

 

L' Italia...la mia Italia. Se non fosse per il magnifico lavoro ad Amburgo e Giulia a Berlino, pianterei radici qui, sul serio.

Finalmente mi hanno concesso tre ore libere, da sprecare come voglio e con chi voglio.

Zac, la guardia del corpo dell' altra sera, si è offerto di farmi da guida turistica, visto che ha abitato a Milano per più di cinque anni e che gli altri non hanno bisogno di lui per il resto della giornata.

« Non è che potresti togliere la targhetta che hai spillato sulla maglia? Mette una certa soggezione» dico, indicandogli la spilla sulla maglia.

Dopo essermi accertata che non indossasse nulla che potrebbe portare le menti di alcune ragazze (eccessivamente astute) a collegarlo ai Tokio Hotel, chiamo un taxi.

Per la prima volta, dopo due settimane dall' inizio del tour, riesco a girare per una città e ammirarla come io mi intendo. Visto che, di Parigi, ho visto soltanto l' albergo e l' aeroporto.

Entro ed esco dai negozi, seguita da un Zac visibilmente stanco. Povero, costretto a trasportare tutti i sacchetti con i vestiti e accessori vari. Si è offerto lui ma sono sicura che non avrebbe mai immaginato di arrivare a tanto.

Torniamo in hotel dopo neanche due ore e io mi chiudo nella mia stanza a sistemare per bene le cose nella valigia.

Nella stanza di fianco sento Tom che ride, seguito a ruota da su fratello e quello che riconosco come Georg, dalla risata quasi isterica.

Qualcuno bussa alla porta e, dopo essermi sistemata i capelli, vado ad aprire.

David, senza nemmeno salutare, entra a razzo seguito da Benjamin.

« Ciao » borbotto, chiudendo la porta.

«Hai chiamato per confermare l' impegno della settimana prossima?».

«Certo, ho chiamato ancora ieri» affermo, sedendomi sulla sedia.

«Ben, perchè Bill non è ancora qui?» sbuffa il menager, sbuffando.

«Dovrebbe arr...».

Non fa nemmeno in tempo a finire la frase che bussano alla porta.

Ovviamente è Bill, seguito da Tom (altro ovviamente!).

«Eccomi. Sì, confermiamo per il servizio fotografico» afferma, sorridendo.

«Ovviamente ci sarò anche io» sorride Tom, quasi orgoglioso della sua scelta.

Sì, devono aver adibito la mia stanza come sala riunione, mentre ero fuori a fare shopping.

«Chiara, io non avrò tempo di andare con loro, e deve esserci un membro dello Staff presente » afferma Ben, guardando David.

«Ma non va già Natalie, scusa?» chiedo.

«Ma lei è la truccatrice, non la mia assistente» sbuffa David, come se avessi fatto una domanda stupida.

Forse sarebbe meglio fare una modifica al mio contratto e togliere l' incarico da assistente e modificare con la voce “baby sitter”, penso, cercando di non fare facce strane.

«Eddai, sarà divertente» afferma Bill, con un sorriso.

«Sì, come l' ultima volta, immagino» sussurro, con un certa ironia.

«Esattamente».

Evidentemente non ha colto l' ironia delle mie parole.

Sta di fatto che, divertente o no, al set fotografico dovrò andare. Che mi piaccia oppure no.

Dopo che se ne sono andati tutti quanti controllo l' orologio.

Devo chiamare Giulia.

«Pronto?».

«Indovina?».

«Chiaraaa. Ero qui da mezzora e mi chiedevo quando ti saresti decisa a chiamare, visto che non vuoi che sia io a chiamarti» sbuffa, anche se non è arrabbiata.

«Sono altissimi i costi, lo sai» le ricordo, con un sorriso.

«“E tu fai il lavoro più fico del mondo e ti finanzia la Universal”. Sì, me l' hai già detto» risponde, imitando la mia voce. O almeno, ci prova.

Sorrido. A volte mi mancano i momenti in cui io e lei sedevamo in salotto con i pop corn, la coca cola e qualche film divertente o romantico o di avventura.

Poi parlavamo di tutto, prendevamo in giro qualche collega e la giornata passava in fretta.

«Comunque, come vanno le cose a Berlino?» chiedo.

«Molto bene. Al negozio è tutto fantastico, le ragazze sono simpaticissime vedessi la gente che entra» risponde, euforica.

«Tesoro, lavori da Dior, chi ti aspettavi che entrasse in un negozio simile? - dico, alzando gli occhi.

Sono circondata da gente mica tanto normali. Ci farò l' abitudine e, prima o poi, perderò la normalità pure io.

«Sì, lo so, ma è tutto magnifico! Pensa, ho lo sconto dipendenti su qualsiasi capo d' abbigliamento del negozio».

La sento ridere e automaticamente sorrido anche io.

Pazza donna.

«Io oggi ho fatto shopping per Milano» aggiungo.

«Oh, magnifico. E' bella come città?».

«Tesoro, è stupenda. I negozi sono bellissimi, un giorno ti ci porto».

«Non vedo l' ora. Chiara, ora devo andare, devo finire di compilare delle carte. Ah, dimenticavo, se ti serve qualche vestito di Dior dimmelo, te lo trovo fuori e te lo compro, visto che ho lo sconto».

«Certo, grazie. Te lo dirò, ora che me l' hai ricordato. Preparati! Ciao, a domani».

Okay, la conversazione con Giulia è terminata e ora?

Qualcuno bussa alla porta.

Di nuovo.

Se è Jost lo prendo e lo butto giù dal balcone.

Invece no.

«Ciao» mi saluta, con un sorriso.

Lo squadro dalla testa ai piedi, perplessa.

Deve essere completamente impazzito. Ne sono fermamente convinta.

Guardo fuori dalla porta per accertarmi che il corridoio sia libero, dopodiché lo faccio entrare.

«In camera mi annoiavo» borbotta.

Si siede sulla sedia accanto alla scrivania. Chiaro, lui fa tutto senza chiedere il permesso a nessuno.

«E hai deciso di venire ad annoiare me» rispondo, acida.

Sorride.

«Se la vuoi mettere così...sì, sono venuto qui per annoiarti».

«Oh, dovrei esserne felice?».

«Un sacco di persone lo sarebbero al posto tuo».

«Ah già, lui è la star internazionale, certo».

Scuoto la testa e mi butto sul letto a pancia in giù.

«Caspita, non così in fretta» scoppia a ridere.

Eh?

Alzo la testa per guardarlo e mi basta vedere quella strana scintilla negli occhi per capire quella vaga perversione che il suo lato perverso tende sempre a evidenziare.

«Ma cosa hai capito? Razza di stupido. Sono stanchissima!» borbotto, disperata.

Non smette di ridere nemmeno quando gli lancio il cuscino addosso, colpendolo in pieno sulla faccia.

«Hai finito di ridere?» sbuffo, sistemandomi a gambe incrociate sul letto.

«Okay, va bene. Ho finito» biascica, dando un colpo di tosse per evitare di ridere di nuovo.

«Bene, era ora».

Rimaniamo un attimo in silenzio.

Lui fissa il pavimento mentre io mi guardo i piedi.

Nulla di così divertente.

«Prima non c' eri...» dice, tutto d' un tratto.

«Ero uscita a fare shopping» sorrido, rievocando l' immagine del povero Zac.

«Divertita?».

«Abbastanza».

Cala di nuovo il silenzio, quel silenzio imbarazzante in cui nessuno dei due dice niente.

Effettivamente non mi stupisco.

Lui si annoiava. Io mi annoiavo. Adesso ci annoiamo insieme.

Che noia.

«Kaulitz, ho pensato...guardiamo un film?».

Mentre lo dico scoppio a ridere. E' un' idea così assurda voler vedere un film insieme a lui.

Mi guarda perplesso, con il sopracciglio alzato.

«Che film?» chiede, senza troppo entusiasmo.

«Oh, qui ce ne sono tanti. Io vado un attimo in bagno. Prendi quello che vuoi».

Corro in bagno e mi guardo allo specchio.

Che fine ha fatto la ragazza che diceva sempre “il lavoro è solo lavoro”?

Ritorno in camera e noto che Tom si è già messo comodo sdraiato sul letto.

Mi siedo per terra poco distante dalla tv.

Sedersi sul letto è decisamente fuori discussione.

Il film, devo ammetterlo, non è per niente male.

Certo, qualche scena decisamente spaventosa mi ha costretto più volte a chiudere gli occhi, m dopotutto è un film che cattura.

Può fare schifo quanto vuoi, ma non puoi non arrivare alla fine.

«Possiamo spegnere se fa troppo schifo per i tuoi gusti» interviene, calmo.

«No, posso farcela» dico, facendo “sì” con la testa almeno un milione di volte.

«Non è necessario fare la coraggiosa» sbuffa, spegnendo la tv.

«Ma perchè hai spento? - borbotto, alzandomi da terra e, con passo di carica, avvicinandomi a lui. «Io volevo continuare vederlo» aggiungo, guardandolo furiosa.

«Ma se eri sconvolta!» si difende, alzando le mani. «Okay, riaccendo».

Prende di nuovo il tasto play.

Una testa, che fino al secondo prima era attaccata al resto del corpo, schizza via finendo dall' altra parte della strada, gettandosi con tanto di rimbalzo sopra una catasta di corpi massacrati.

Questa volta, a spegnere il televisore, sono io.

«Te l' avevo detto» borbotta, scuotendo la testa.

«Come fai ad essere tu, invece, così sadico?».

«Mi hai detto di scegliere il film che più mi piaceva e io ho eseguito il tuo ordine. Devo continuare a fare di testa mia? Perchè se fosse così, a quest' ora, sarei di là in camera mi ad annoiarmi da solo».

«Nessuno ti ha chiesto di venire ad annoiarti con me!».

«Questo non vuol dire nulla!».

«Oh sì, invece. Questo vuol dire che sei molto annoiato, che stai annoiando anche me e che ci stiamo annoiando insieme. Questo vuol dire che adesso ci stiamo annoiando anche se facciamo di tutto per trovare il modo di non annoiarci. E tutto ciò non ha senso, per questo ci annoiamo».

Mi guarda perplesso, come se non avesse capito il mio discorso.

Effettivamente, il mio discorso non ha alcun senso. E' noioso quanto questa situazione.

«Okay, dobbiamo fare qualcosa...» dico, sospirando.

«Sì».

«Tuo fratello?».

«Andiamo ad annoiare anche lui?» chiede, improvvisamente illuminato dalla sua idea geniale.

Ci dirigiamo quasi correndo verso la camera di Bill.

Bussiamo finché non viene ad aprire.

Ci buttiamo senza salutare dentro la stanza e sorridiamo, rivolgendoci a lui.

Ci guarda piuttosto confuso.

«Va tutto bene?» chiede.

«Certo, ci stavamo annoiando e volevamo annoiare anche te» interviene Tom, con un sorriso enorme stampato in faccia.

«Ah» riesce a dire Bill, dopo un po'.

Ci accomodiamo, senza chiedere il permesso, sul letto di Bill.

Bill ritorna al suo portatile e cala il silenzio.

Io sbuffo e mi alzo in piedi.

«Okay, così non funziona però. Bill, tu ti stai divertendo, noi ci stiamo annoiando e dovresti essere annoiato pure tu».

Tom scoppia a ridere e Bill mi guarda, perplesso.

«Non hai da lavorare, tu?».

«No, fino a domani ho giornata libera».

Sospira e ritorna al pc.

«E se andassimo ad annoiare anche Georg e Gustav?» mi illumino, guardando Tom.

Lui annuisce e si alza, tornando accanto a me in piedi.

«Bill, andiamo ad annoiare gli altri due?» dice Tom, rivolgendosi al fratello.

«Georg è in compagnia della sua ragazza, non so se...».

«Andiamo a salvare quella povera ragazza allora» dice Tom, tirandomi per un braccio.

Bill ci segue pregandoci di non disturbarli.

Lui non lo ascolta e nemmeno io.

Bussiamo alla camera di Georg.

Dopo un po' una ragazza bionda apre la porta e tutti e tre ci affrettiamo ad entrare.

Da quel momento, credo che Georg abbiamo decisamente cominciato ad odiarmi.

Rimaniamo per quasi due ore, a chiacchierare allegramente come se niente fosse.

«Manca solo Gustav, adesso» affermo, fissando Tom.

«Giusto Andiamo tutti da Gusti».

Ci dirigiamo tutti e cinque verso la sua camera.

Bussiamo di nuovo. Quando Gustav apre, ci buttiamo letteralmente dentro la stanza.

«Dai, che ci fate tutti qui?» sbuffa, sistemando la borsa caduta dal tavolo a causa di uno spintone di Tom.

«Siamo venuti ad annoiarti, Gu» dico, scoppiando a ridere.

Che scemi.

«Ma io mi chiedo: che cavolo avevo in mente quel giorno che ho firmato il contratto con la Universal, me lo dite?» sbuffa, mettendosi le mani nei capelli.

Lo guardiamo tutti sorridendo, con sguardi inquietanti.

«Tu!» dice, indicando Georg. «Da te mi sarei aspettato un po' di solidarietà» urla, guardando me, Tom e Bill.

«Hanno arruolato me e lei senza farcelo esplicitamente sapere» alza le spalle, difendendosi.

Scoppiamo tutto a ridere, sotto gli sguardi accusatori di Gustav.

«Dai, adesso ci divertiamo tutti insieme » sogghigno, lanciando un' occhiata agli altri.

Annuiamo tutti insieme e, dopo un' ultimo sguardo d' intesa, ci buttiamo in massa addosso a Gustav.

Ciò che ne rimane – ammesso e non concesso che ne rimanga qualcosa – non ve lo so dire.

 

 

Note: Eccomi qui! Scusate per il ritardo e per l'inconveniente. Non mi ero accorta che in realtà non avevo postato niente ._. Comunque, ringrazio tutti quelli che hanno messo questa storia tra i seguiti e i preferiti, e anche a chi commenta!

Un saluto.

Xo xo

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Capitolo 8
*** 8. ***


Capitolo 8.

 

Mi sveglio all' improvviso, con la fronte imperlata di sudore.

Mi guardo attorno. Okay, sono ancora nella mia stanza e non in una prigione umida e fredda come nel sogno.

E accanto a me non c'è alcun boia che mi minaccia con un' ascia di tagliarmi la testa se non firmo il permesso per uccidermi.

Tutto ciò ha un che di fantascientifico.

Non è colpa mia, ma di quel cretino di Tom Kaulitz e del suo film di paura.

Scommetto che se avessi sognato lui al posto mio mi sarei svegliata col sorriso.

Guardo l' ora della sveglia sul comodino accanto al letto.

Le sei e venti del mattino.

Tanto vale rimanere svegli. Tra mezzora mi sarei dovuta comunque alzare, dal momento che alle otto abbiamo un aereo per Madrid.

Tutto questo viaggiare mi ha messo lo stress addosso e, secondo la bilancia, sono dimagrita tre chili negli ultimi due mesi.

Ancora venti giorni e si torna a casa, per passare le vacanze di Natale in compagnia della famiglia. Mamma e papà vengono ad Amburgo per vedere come mi sono sistemata, così abbiamo deciso di fare la cena della vigilia e il pranzo di Natale a casa mia.

Devo pensare a un modo per cucinare qualcosa di commestibile senza ammazzare tutta la famiglia.

Chiamerò la nonna per farmi dare qualche ricetta e, se ha l' intenzione di cucinare lei per me, non mi tirerò certamente indietro. Sarebbe da folli, nelle mie condizioni.

Dunque, mi alzo e mi dirigo in bagno.

Mi butto direttamente in doccia e faccio scorrere l' acqua bollente su di me.

Alle sette e un quarto sono già pronta per dirigermi nella hall, dove a breve mi raggiungeranno anche gli altri.

Quando esco dall' ascensore, Zac mi conduce nella sala della colazione, dove ad attendermi c'è Gustav, Georg e la ragazza (di cui non conosco il nome, non ancora), David, Natalie e un paio di guardie del corpo, tre con Zac.

«Buon giorno» li saluto.

«Buon giorno» ricambiano, con un' imitazione pessima del sorriso.

Non mi arrabbio, sono mezzi addormentati e, conoscendoli, non succederebbe nulla di buono se solo provassi a discutere.

«Gli altri due?» chiedo, sedendomi nel tavolo rotondo di Georg, la ragazza e Gustav.

«Dovrebbero arrivare, sai che sono sempre gli ultimi» risponde, Gustav, con un sorriso.

Deve essersi svegliato alle cinque, questa mattina. Ha un' aria troppo sveglia e allegra.

«Sì, lo so» sorrido, versandomi del succo alla pesca nel bicchiere.

Non faccio neanche in tempo ad assaggiare la brioche formato gigante alla crema, che già il cellulare comincia squillare.

«Pronto?» rispondo.

«Posso sapere perchè tutte le volte che busso alla tua porta, tu non ci sei?».

Un Tom piuttosto arrabbiato mi sta gentilmente chiedendo dove sono.

«Non è vero, ieri c' ero quando sei arrivato» gli ricordo, ridendo.

Sbuffa. «Sì, al secondo colpo».

«Posso sapere qual è il problema?».

«Non trovo la mia sciarpa viola».

Rischio quasi di sputare il succo in faccia a Gustav.

«E questo dovrebbe essere un mio problema?».

«Sì!» urla.

Questo. Ragazzo. Non. E'. Normale.

«Senti, Tom, prova a cercare nella valigia dove tieni tutte le sciarpe, oppure magari l' hai infilata nella valigia sbagliata. Diamine, possibile che riesci a perdere la roba che indossi? » sbuffo, alzando leggermente la voce.

Gustav alza il sopracciglio confuso. Faccio spallucce come a dirgli “Non è normale”.

«Senti, fino a due secondo fa l' avevo in mano, ora non c'è più!».

Sembra quasi in preda al panico. Per una stupidissima sciarpa viola. Con tutte quelle che ha si deve per forza fissare su quella?

«Prova a cercare in bagno o tra le coperte del letto che magari nella confusione...».

«ODDIO!» urla.

  • Tom...? -.

Cala il silenzio. O è svenuto o ha trovato la sciarpa.

«Tom...?» lo richiamo.

Non mi risponde.

«Cavolo Tom, posso sapere dove...?».

«L' ho trovataaaa».

E' euforico, beato lui.

«Dove l' hai trovata?».

«Oh, nulla di che, ce l' avevo addosso».

E chiude la telefonata.

Guardo Gustav e scoppio a ridere.

Anche gli altri, David e guardie del corpo comprese, mi fissano.

«Tom...Tom...ahahahah, sta invecchiando».

«Perchè?» domanda Georg, divertito.

«Mi ha chiamato per sapere dove fosse la sua sciarpa viola. Hai presente quando va in crisi di panico, no? Ecco. Dopo cinque minuti mi dice che l' ha trovata e indovina dove? Ce l' aveva addosso!» e scoppio nuovamente a ridere.

Tutti i presenti scoppiano in una sonora risata insieme a me.

Dopo neanche mezzo minuto, due mani mi chiudono gli occhi da dietro.

«Tom, leva le tue manacce. Mi sono lavata la faccia venti minuti fa» sbuffo, spostando le sue mani.

Si siede accanto a me.

«Che peccato, non me le ero lavate dopo aver fatto pipì, sai?».

Lo guardo disgustata, toccandomi la faccia a scatti.

«Dovevo pur vendicarmi in qualche maniera. Dovresti vedere la tua faccia. Mi basta così. Ah, ovviamente non è vero, me le sono lavate le mani, prima» aggiunge, con un sorriso.

La giornata stava cominciando male, ma per fortuna era solo l' inizio.

Senza badare troppo ai discorsi delle persone che ho attorno, finisco la mia colazione.

Madrid ci aspetta.

 

**

 

L' aereo decolla, lasciandosi alle spalle l' Italia.

E' così piccola vista da quassù. Chissà a che quota siamo. Meglio non chiedere, rischierei l' infarto.

«Come passerai il Natale, allora?».

Bill, accanto a me, sorride.

«Rimango in città, vengono i miei da Amburgo» rispondo. «Te?».

«Tutta la famiglia si riunisce, non so se mi spiego».

«Sì, ti spieghi alla grande».

Guardo nuovamente fuori dal finestrino. Le nuvole, sotto di noi, mi impediscono di vedere la Terra.

Stringo più forte il bracciolo della poltroncina. Bill sogghigna.

«Hai paura?».

«Leggermente. Non riesco a vedere terra».

Deglutisco, cercando di non pensare al vuoto sotto ai miei piedi.

«Dopo un po' ti ci abitui, è questione di tempo».

«Certo, facile parlare per te...» sbuffo, guardando il soffitto.

«A me gli aerei non fanno tutta questa paura. Se il pilota non fosse competente, non lo avrebbero messo alla guida dell' aereo, no? Certo, i guasti al motore possono capitare, ma non si può dare la colpa al pilota. Prima di partire, ho sentito dire che questo aereo aveva un piccolo guasto, ma adesso sembra funzionare abbastanza bene, no? -.

Lo guardo sconvolta, cercando di ricordare al mio cervello di collegarsi ai polmoni per respirare.

Bill scoppia a ridere, divertito.

«Stavo scherzando, Chiara. Questo aereo è sano e forte, non ha avuto alcun guasto» sogghigna.

Maledette star.

«E comunque, non vedo che gusto ci trovi nel scherzare su una cosa del genere. Se faccio un infarto, sappi che farò il tuo nome. Potrei chiederti il risarcimento per danni morali» lo minaccio, puntandogli il dito contro.

«Ma dai...» sbuffa, senza perdere il sorriso.

«Non scherzo, Kaulitz. Senti come batte il cuore, zio fagiano! E' tutta colpa dei tuoi stupidissimi scherzi» dico, prendendo la sua mano.

Poso la sua mano sul mio cuore, per dimostrargli quanto esso sia vicino a scoppiare.

Sorride, di nuovo.

Ma che cavolo ha da sorridere?!

«Scusa, dai, se hai così tanta paura non lo farò più» si scusa.

«Scuse accettate».

Tolgo la sua mano e mi appoggio completamente alla poltroncina.

Non vedo l' ora di scendere da questo coso, mettere piede sull' asfalto e poter urlare a squarciagola “Terra!”.

Mi chiedo come facciano, solo, a sopportare.

Tutto questo per me è nuovo, è una novità. Sono sempre stata abituata a spostarmi di massimo dieci chilometri per lavorare, ad Amburgo.

Ora nel giro di due mesi ho visitato tutta l' Europa.

 

**

 

Madrid. Spagna. Dove si parla lo spagnolo.

E io non parlo spagnolo.

All' aeroporto, le fans stanno aspettando che loro escano.

Mentre passo per arrivare alla macchina, mi soffermo a guardarne alcune.

Già, loro ci sperano. Sperano davvero che arrivi uno di loro a prendere, a portarle via dicendo che sono tutta la sua vita.

Mi viene quasi da ridere.

Prima di salire, mi volto indietro a guardare i ragazzi.

Cercano di firmare tutti i fogliettini volanti, ma non ce la faranno mai.

«Qual è il programma della giornata?» mi chiede David.

Tiro fuori dalla borsa la mia agenda.

«Dunque, adesso ci dirigiamo in hotel, così avranno il tempo di farsi una doccia o di sistemarsi. Tra un' oretta arriveranno i giornalisti. Ho fatto una selezione tra i tanti, farli entrare tutti significava arrivare in ritardo, poi, al programma televisivo. Ho pensato di spostare alcune interviste, ma tu mi hai detto che hanno altri impegni, perciò non ho fissato altro dalle quattro del pomeriggio in poi...».

Annuisce. I ragazzi mi guardano, come se fossi seriamente malata di mente.

«Non guardatemi così, ho dovuto litigare in una lingua sconosciuta per farmi capire con alcuni giornalisti» sbuffo, chiudendo l' agenda.

«Se ci ammazzi i giornalisti siamo fottuti» interviene Gustav, seguito poi dalle risate dei suoi amici.

Simulo una risata finta e prendo in mano il cellulare.

Mando il consueto messaggino a mamma che sono sopravvissuta all' ennesimo volo ad alta quota, poi quello a Giulia per informarla che nonostante l' ansia e il panico non ho ammazzato nessuno.

E' difficile dover rendere conto di tutto quello che si fa a persone che ti dicono “se tutto va bene e non ti fai male, avvisami”.

E scoprire quanta fiducia ti danno non è una poesia.

 

**

 

La mia stanza d' albergo è enorme. Penso che tutto lo staff potrebbe starci comodamente.

Squilla il telefono, tanto per cambiare.

«Chiara Mill».

«Sono Bill, come va?».

Scoppio a ridere. L' ultima volta che l' ho visto è stato esattamente venti minuti fa.

«Esattamente come andava prima. A te?».

«Anche a me. Ti va se ti faccio compagnia, finché non andiamo?» chiede, parlando molto (troppo) velocemente.

Ci penso un attimo. «Okay, ti aspetto».

Chiudo la telefonata e corro ad aprire la valigia. Devo mettermi qualcosa di decente. Questa tuta assomiglia moltissimo al mio pigiama.

Non faccio nemmeno in tempo ad arrivare alla valigia che già è arrivato.

Vado ad aprirgli e, senza degnarlo di uno sguardo, torno ad occuparmi della vicenda “vestiti”.

«Non si saluta più?» domanda, accigliato.

«Sì, scusa. Devo cambiarmi o la gente penserà che avete assunto una barbona» dico, mentre apro la valigia.

Annuisce e si siede sul letto.

Io entro in bagno e indosso un paio di jeans, una maglietta decente e una felpa che lascio aperta.

Esco dal bagno e ributto tutto dentro la valigia.

«Eccomi. Che facciamo adesso?» chiedo, guardandomi attorno.

«Potremmo parlare».

Poi dicono che l' alta quota non provoca danni alla saluta mentale e psichica.

«Di cosa?».

«Boh...non ti manca casa tua?».

La domanda, così, all' improvviso, mi lascia spiazzata.

Se mi manca? Da morire...

«Da morire, Bill. Ho sempre pensato che viaggiare fosse la cosa più bella al mondo, nonostante io non mi sia mai mossa nemmeno di dieci chilometri, fino a qualche mese fa. Ora in pochissimo tempo ho visto quasi tutta l' Europa, visitato città bellissime delle quali conoscevo solo il nome. Però a lungo andare...ci sono sere in cui seriamente prenderei il primo volo e tornerei a casa. Non ad Amburgo ma a Berlino anche se, pensandoci un attimo, non riuscirei ad allontanarmi da Amburgo per più di qualche giorno».

«Perchè?».

«A Berlino ci sono la mia famiglia e Giulia, ma ad Amburgo c'è tutta la mia vita».

Sorride, guardando fuori dalla grande vetrata.

«Ti capisco...».

«Sì, effettivamente tu ne sai qualcosina, più di me, anche» mormoro, sorridendo più a me stessa.

Cala il silenzio.

Possibile che con un qualsiasi Kaulitz il silenzio fosse inevitabile?

Deve essere una cosa genetica; oppure il problema sono io.

«Bill, posso chiederti una cosa su tuo fratello?».

Ci pensa, poi mi guarda, divertito.

«Se vuoi sapere cose sulla sua vita privata, sappi che...».

«No, ma che cosa stai dicendo? Ma no, figurati. La sua vita è sua e francamente è meglio così. No, sinceramente, mi piacerebbe sapere se da piccolo ha preso a testate un muro».

Scoppia a ridere. Ecco, lo sapevo.

No, ma dietro a questa domanda c'è una teoria del tutto fondata, eh!

Secondo la mia teoria, Tom è così deficiente perchè ha picchiato un muro dal nervoso.

«Sì, una volta. Da bambino. Ha picchiato un muro dal nervoso, prendendolo a testate».

Rimango sconvolta di fronte a quella stessa verità.

Ma io stavo solo ipotizzando!

«Conferma la mia teoria. Perfetto, grazie».

«Perchè volevi saperlo?».

«Ogni tanto ha dei comportamenti strani» sussurro.

Si avvicino e mi guarda.

«Perchè sussurri?» dice, abbassando la voce come ho fatto io.

«Non lo so, perchè tu sussurri?» chiedo, senza alzare la voce.

«Perchè stai sussurrando anche tu».

«Ah, okay» sussurro, allontanandomi.

Sembriamo due cretini, ma va bene lo stesso anche così.

Prendere o lasciare.

Io lascio.

 

 

 

 

Note: Grazie a tutte per aver commentato! Scusate se non rispondo personalmente ma ho davvero un sacco di cose da fare! Appena ho un attimo giuro che rispondo!

Ecco qui l'ottavo capitolo, spero vi piaccia!

Un grazia ancora a chi segue questa storia, a chi la commenta e a chi la legge! Spero di vedere un po' più di recensioni, giusto per vedere cosa ne pensate, cosa c'è di bello e di osceno in questa storia ;D

Xo xo

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Capitolo 9
*** 9. ***


Capitolo 9.

 

L' attesa è snervante, perfino per me.

Posso sentire anche da qui le urla euforiche delle fans che, impazienti, attendono l' arrivo dei ragazzi sul palco.

Quel caffè che prima fumava dalla mia tazza, ora sembra essersi completamente congelato.

Guardo l' orologio. Tra venti minuti inizierà il concerto e tra tre ore potrò finalmente buttarmi di peso sul letto della stanza d' albergo.

Le luci dei lampioni e delle insegne illuminano li città che, silenziosa, mi tiene compagnia.

Ogni tanto qualche macchina passa e mi guarda, come se vedessero una ragazza per la prima volta.

Be', il fatto che io sia seduta su un muretto appena poco distante dalla porta del backstage non aiuta di certo la mia reputazione.

«Non fa un po' troppo freddo per starsene seduti su un muretto di marmo?».

Una voce mi arriva da dietro e mi volto, automaticamente.

Ma chi è costui?

«Come, scusa?» chiedo, accigliata.

«Non ti si è congelato il sedere? E' quasi un' ora che te ne stai lì seduta».

«Mi stavi spiando?».

«In un certo senso».

Ma guarda un po' che faccia tosta!

Uno sconosciuto mi spia e io non riesco nemmeno ad assumere uno sguardo irritato. Neanche arrabbiato, ma irritato.

«Hai intenzione di dirmi come ti chiami o dove sporgere denuncia contro ignoti?».

«Mi chiamo Leo, ciao» mi saluta, alzando la mano con un cenno.

«Io sono Chiara, ciao».

«Come l' alba».

«Pessima battuta».

Sorride, guardando basso. Poi si avvicina e si siede sul muretto accanto a me.

«Allora, vuoi dirmi perchè mi stavi spiando? ».

«Ho accompagnato mia cugina al concerto dei Tokio Hotel, ma mi sono rifiutato di entrare. Le ho promesso che se fosse uscita, poi, l' avrei anche riportata a casa. Mia zia questo non lo sa, ma immagina un povero ragazzo solo e indifeso al concerto di quattro babbuini».

Non sono babbuini, sono miei amici, avrei voluto rispondere.

Avrebbe cambiato qualcosa questa affermazione?

Forse avrei ricevuto solamente un pugno e l' unica cosa a cambiare sarebbe stata la mia bellissima faccia.

«Sì, immagino. Ma non sono babbuini, in fondo sono simpatici. Tom è un rompi palle, ma dopo un po' ci si convive bene. Hai presente?».

«Li conosci?».

Merda.

Mi sono fatta scoprire da sola, tanto vale confessare tutto e supplicarlo di mantenere il segreto, almeno con sua cugina.

«Sì, sono...ecco, lavoro con loro. Sono l' assistente del manager».

«Così giovane?».

«Grazie del complimento, ma ho venti anni e un papà che sa essere persuasivo, immagino».

Mi guarda senza dire nulla. Immagino sperasse di aver incontrato una ragazza normale.

Rimaniamo un altro po' in silenzio, poi mi decido a parlare.

«Non sono così male, davvero. Bisogna solo cercare di guardare al di là di ciò che appaiono e non lo fa quasi nessuno».

«Capisco, ma davvero...la loro musica non è il mio genere».

«Non ti prendo a pugni, va bene?».

«Troppo gentile».

Scoppio a ridere, mentre mi affretto a finire l' ultimo sorso di caffè ghiacciato rimasto.

«Come mai un ragazzo spagnolo conosce il tedesco»-.

«Sono qui dalla nascita, ma i miei genitori sono tedeschi. Passavo tutte le estati da mia nonna, in Germania. Adesso non più».

«Di dove, precisamente?».

«Berlino».

«Anche io abitavo a Berlino, ora però mi sono trasferita ad Amburgo per motivi di lavoro. Magari un' estate puoi passare a trovarmi».

«Nelle vacanze di Natale cosa fai?» mi chiede, quasi illuminato.

«Rimango ad Amburgo, vengono i miei familiari e gente varia, perchè?».

«Non ho nulla da fare, posso venire a trovarti ai primi di Dicembre, che dici?».

Ci penso un attimo, al fatto che, forse, sto prendendo troppa confidenza. Ma una distrazione dal lavoro ce l' hanno tutti, no? Io posso avere la mia.

«Sì, non sarebbe una cattiva idea. Ora devo tornare dentro. Sai, non vorrei rimanere a Madrid perchè mi licenziano. Ti lascio il mio numero».

Mi passa il suo cellulare e io scrivo il mio numero. Lui fa lo stesso con il mio.

Prima di andarmene, mi volto a guardarlo.

«Vorrei chiederti un favore...» chiedo, titubante.

«Certo, dimmi» sorride.

«Potresti non far parola a nessun di tutto questo, specialmente a tua cugina? Sai, non vorrei dover lottare tutta la vita per difendermi da un gruppo di pazze psicopatiche » azzardo, con un sorriso.

Sorride anche lui, malgrado io abbia dato della mucca in calore, molto indirettamente, a sua cugina.

«Certo, non ti preoccupare».

Sorrido un ultima volta, per poi aprire la porta del backstage.

La chiudo alle mie spalle e mi avvio ad attraversare il lungo corridoio.

 

**

 

«Concerto spettacolare, a mio parere» esclama Tom, buttandosi di peso sul divanetto.

«A tuo modesto parere, direi» sbuffa Bill, levandosi la giacca spinosa.

Be', dopotutto, si vogliono bene.

Controllo l' ora sul cellulare. Le undici e mezza. Ce la siamo cavata abbastanza in fretta, questa volta.

Fisso le mie converse nere ormai vecchie, ma proprio perchè sono passate continuo ad indossarle. Ispirano di più.

«Eccoti, ti ho trovata. Prima non c' eri, ti ho cercata ma nel backstage ma non ti ho vista».

Mi volto. Questa volta è David, che si siede accanto a me e mi mostra dei fogli.

«Sì, scusami, ero fuori e mi sono intrattenuta un attimo. E' successo qualcosa?» chiedo, quasi agitata.

Ecco, ho combinato un disastro e mi vuole licenziare.

Devo preparare il discorso da fare a mia mamma per spiegarle il motivo del mio così precoce fallimento in campo lavorativo.

«No, nulla di grave. Devi spostare l' impegno del giovedì al lunedì, mentre quello del sabato al mattino lo sposti a dopo pranzo. Qui, vedi...».

Sospiro, tranquilla.

«Certo, domani mattina, prima di partire, faccio qualche telefonata» annuisco, prendendo in mano i fogli.

«Bene, puoi tornare in albergo, se vuoi. Qui abbiamo finito».

«Certo».

Mi alzo e mi infilo la giacca, sollevata.

«Non erano giornalisti quelli con cui hai parlato, vero?» chiede David, serio.

«No, era solo un ragazzo. Niente giornalisti, sarei scappata urlando, non preoccuparti» sorrido, dirigendomi verso la porta.

Sento addosso gli occhi di quasi tutti i presenti, ma due occhi, in particolare, mi scrutano più degli altri.

 

**

 

«Ma dai, smettila!» rido, sedendomi sul letto.

Leo mi sta raccontato del suo rapporto non del tutto idilliaco con alcuni suoi compagni di classe alle scuole medie.

Porto il cellulare all' altra orecchio.

«Non sto scherzando. E' stato un periodo terribile!» sbuffa, quasi divertito.

Cammino avanti e indietro per la stanza, senza fermarmi.

Se mi filmassero e mettessero il video su youtube, riceverei più visite dei Tokio Hotel, questo è sicuro. Non lo faccio per bontà.

Ma, voglio dire, chi è che non lo fa?

«A me è sempre piaciuto andare a scuola» confesso, con un sospiro.

«Secchiona».

«Ma smettila... Andavo d' accordo con quasi tutti i miei compagni e professori. Se tu non attacchi loro, loro non attaccano te, tutti qui».

«Sì, certo».

«Vaffanculo Leo. Vaffanculo. Vaffanculo. Vaffanculo!».

Ripeterlo velocemente mi divertiva, anche se la pronuncia non è mai stata delle migliori.

«Parli anche italiano?» domanda, divertito.

«No, ma questa è l' unica parola che conosco e che ricordo, fatalità, nei momenti giusti» sbuffo, tornando a sedermi sul letto.

Bussano alla porta.

Eccheccavolo.

«Leo, scusa, c'è qualche cretino che bussa alla porta. Ci sentiamo, buona notte».

«Certo, buona notte e sogni d' oro».

Riattacca.

Sogni d' oro. Sogni d' oro.

Sorrido come una deficiente, dimenticando completamente la porta.

Al centesimo colpo sulla porta mi risveglio dallo stato di trans e vado ad aprire.

Toh!

«Che vuoi?» sbuffo, allontanandomi per farlo entrare.

Chiude la porta e mi guarda, serio.

«Chi è?» domanda, senza guardarmi.

Ma è diventato pazzo?

«E a te cosa importa?».

Non risponde subito, evidentemente sta cercando una scusa decente da darmi.

Lo guardo, mentre aspetto. Mi verrebbe da prendere quel bellissimo vaso blu e tirarglielo in testa.

«Non si è mai sentito che in orario di lavoro una persona gironzoli per i fatti suoi, dimenticandosi di quello che deve fare» risponde, acido.

Sconvolta, allargo le braccia.

«Stai scherzando? David non mi ha sgridato e vieni a farlo tu? E poi tu mi hai chiesto “Chi è?” e non “Dove sei stata?” come fai sempre. Non posso rendere conto a te di tutta la mia vita, Tom. Io non vengo a domandarti chi è la ragazzina che ti porti a letto tutte le sere. Quindi, mi fai il santissimo favore di farti gli affari tuoi?» urlo.

Per non prenderlo a pugni, mi concentro sulla mia valigia.

Giro per la stanza e metto in ordine, con lui ancora in piedi a metà strada che mi guarda.

«Okay, forse non ho il diritto di sapere quello che fai, ma se non nascondi nulla di losco, puoi anche dirmi chi è quel...ragazzo, no?».

«Sì chiama Leo, contento adesso?».

«No, ma facciamo finta di sì».

Prende ed esce dalla porta.

Rimango a fissare un attimo lo spazio vuoto davanti a me e scoppio a ridere.

Sembrerò indelicata, ma è buffa come situazione.

Okay, lui pretende di trovarmi sempre a sua disposizione. Pretende che io risolva tutti i suoi problemi e non mi riferisco solamente alla sciarpa viola. Si arrabbia con me perchè mentre lui si dimena a suonare la chitarra sul palco io conosco gente.

Si lamenta perchè le mie risposte non sono sufficientemente esaustive per lui.

Un ricovero in un centro di recupero per malati mentali? Ci sta.

Faccio spallucce e comincio a svestirmi; mi avvicino alla valigia in cerca del pigiama. Lo trovo tutto raggomitolato su sé stesso. Ricordo di aver buttato la roba a caso, infatti.

Mi rimbocco le coperte fino al mento e chiudo gli occhi, sospirando.

Domani sarà un altro giorno, forse migliore o forse sarà un disastro come oggi. Ma ci sarà sempre quel particolare, quel dettaglio in più che renderà unico e perfetto qualsiasi giorno.

Dicono che non bisogna mai pensare al domani.

Ma per me che lavoro con quattro deficienti, un esaurito e decine di gorilla, non funziona.

 

 

 

 

Note: grazie ai nove che hanno messo questa storia tra le seguite, a chi l'ha messa tra le preferite e a chi commenta. Se vi va, fate un salto sull' altra storia mia dei Tokio Hotel “C'era una volta Anguria Kaulitz”. Fino ad adesso c'è il prologo e il primo capitolo. Se ne avete voglia, recensite e fatemi sapere cosa ne pensate.

Anyway, spero che questo decimo capito vi sia piaciuto, aspetto recensioni a riguardo ;D

Xo xo

Lady

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Capitolo 10
*** 10. ***


Capitolo 10.

 

Ho sempre odiato gli inviti che richiedono un vestito elegante. Ed è per questo che tutte le volte rifiutavo categoricamente.

Ma in questo caso, non credo di poter fare lo stesso.

Non sarebbe per nulla carino non presentarsi alla propria festa di compleanno, che tra l' altro non ho organizzato io.

Avrei dovuto saperlo che non organizzare nulla avrebbe fatto scattare in Bill la sua vena artistica per le feste, trasformando un semplice compleanno in una festa esageratamente festosa.

Purtroppo, per mia sfortuna, non posso tornare indietro.

La festa si svolgerà qui ad Amburgo, nel loro studio, e fortunatamente sono riuscita a ridurre il numero degli inviati fino ad arrivare a 264, di cui il 99% sono tutti sconosciuti, per me.

«Bill, ascolta, ti ho dato il permesso di fare una festa, non un evento straordinario» sbuffo, appoggiando i gomiti sul tavolo.

«Ma il DJ non può mancare, capisci? Non sarebbe una festa!» sussurra, a denti stretti.

«Okay, mi arrendo».

Passiamo il pomeriggio intero a litigare sulle luci, sui festoni e cose varie.

«Bill, la festa è mia o tua? No perchè, tu 20 anni li hai già compiuti. Io li compio domani e non mi sembra il caso di lasciar fare tutto a te».

«Ma se lasciassi tutto nelle tue mani non verrebbe fuori una vera festa» sbuffa, incrociando le braccia al petto.

Mi lancia un occhiataccia e si volta dall' altra parte, dandomi le spalle.

E lui avrebbe 20 anni?

La porta della stanzetta si apre ed entra Gustav, accompagnato da Tom.

«Bill, già imbronciato?» scherza Tom, appoggiando le chiavi della macchina sulla mensola.

«Pretende di decidere lui tutti i dettagli della festa di domani, la mia» intervengo.

«Non è vero, ti do solo dei consigli».

«Consigli che, per altro, mi imponi».

«Questo lo dici tu».

«Io dico solo la verità».

«Non è vero».

«Sì».

«No».

«Sì».

«BASTA!».

Ci voltiamo entrambi e vedo Tom, con le braccia incrociate al petto che ci fissa, serio in volto.

«Piantatela o i dettagli della festa li decido io».

«Ma la festa è mia!» sbuffo.

«Non mi interessa di chi è la festa, piantatela di urlare e di scannarvi a vicenda. Guardate, persino il cane è stufo di ascoltarvi».

Osservo il cane sdraiato ai piedi del divano con le zampe che gli coprono gli occhi.

Mi vien quasi da ridere.

«E va bene Bill, organizza quello che ti pare. Vuoi mettere le cubiste ai lati della sala? Fallo. Vuoi il pesce al posto della carne? Perfetto. Vuoi le luci argento invece di quelle blu? Benissimo. Ma ora scusami, vado a recuperare Leo all' aeroporto» dico, alzandomi dalla poltroncina.

«Leo?».

«Sì, ho invitato anche lui. Non è un problema, vero?».

«No...certo che no».

«Bene».

Saluto tutti, accarezzo il cane che mi fissa anche lui mezzo terrorizzato e mi avvio verso la mia macchina.

Povera me.

 

**

 

«Leo!» esclamo, alzando la mano per farmi vedere.

Mi sorride e mi viene incontro, trascinandosi dietro la sua valigia.

«Chiara» mi saluta, con un abbraccio.

Non era potuto venire per le vacanze di Natale, così per farsi perdonare l' ho obbligato a venire per il mio compleanno.

«Fatto un bel viaggio?» chiedo, mentre ci avviamo verso la mia macchina.

«Oh sì, l' hostess che andava avanti e indietro continuava a fermarsi davanti a me, trattandomi come se fossi uno che ha bisogno della minima cosa ogni due secondi. “Vuoi qualcosa da bere?” “Posso esserti utile?”. Guarda, l' avrei presa a pugni se non fosse stata così carina» ammicca.

Gli do una gomitata e scuoto la testa.

Sono circondata da cretini.

«Domani c'è la mia festa di compleanno» sbuffo, avviando la macchina.

«Davvero? Posso venire?» si illumina, con un sorriso.

«Scherzi, vero? Se puoi...tu devi assolutamente venire, è diverso. Ho avuto la pessima idea di lasciare l' organizzazione del tutto nelle mani di Bill».

Scuoto la testa, sorridendo a me stessa per quella scelta degna di una persona irresponsabile.

Proprio come me.

«Ti sosterrò moralmente domani, dai. Tranquilla» sorride, sfiorando appena la mia mano.

Aumento la stretta sul volante, sorridendo appena.

Arriviamo a casa mia e lo aiuto a sistemarsi nella stanza degli ospiti.

Osservo i vestiti all' interno della cesta del bagno e mi accorgo di essermi dimenticata di caricare la lavatrice.

Fatemi un applauso.

«Devo caricare la lavatrice. Tu sistemati, fatti una doccia, fai quello che vuoi. Quando è pronta la cena ti chiamo» sorrido, avviandomi verso l' uscita

«Se aspetti una ventina di minuti ti aiuto».

«Come vuoi» annuisco, uscendo poi dalla stanza.

Avvio la lavatrice e prendo il cellulare per chiamare Giulia.

«Ciao scema, sono io».

«Ecco, la vagabonda ogni tanto si fa sentire» sbuffa.

«Eddai Giu, non te la prendere. Sono talmente impegnata. Domani c'è la mia festa di compleanno, che organizzerà Bill e mi sono già pentita di avergli detto sì. Mi dispiace tantissimo che non ci sarai, però» sbuffo.

«Lo so, ma sono incasinata almeno quanto te. Ci sarà Leo a fari sostegno morale, no?».

«Sì ma non sarà la stessa cosa».

Odio questi momenti di eccessivo affetto l' una nei confronti dell' altra.

Rischio di impazzire se riesco a rendermi conto che potrei piangere da un momento all' altro.

Okay, sono completamente deficiente.

«So di essere indispensabile, grazie».

«Vuoi un pugno nell' occhio? Decidi tu se destro o sinistro, per me è indifferente».

Scoppia a ridere e non sembra essere intenzionata a fermarsi. Almeno non per il momento.

Rimaniamo a discutere un altro po' su quale fosse l' occhio da eliminare per primo, su cosa avrei dovuto mettermi per la mia festa e, cosa più importa, come mi sarei sistemata i capelli.

Anche se, dei miei capelli, non me ne può fregar di meno.

 

**

 

«Dai, chiuditi santo cielo! Chiuditi!» piagnucolo, mentre tento di chiudere la zip del “vestito”.

Comincio a saltellare in giro per la stanza nel tentativo disperato di chiudere questa maledetta cosa.

«Serve una mano?».

Leo, appoggiato allo stipite della mia porta, sorride.

Mi volto di scatto e lo guardo, implorante.

«Chiuderesti la zip dietro, per favore?» sbuffo, avvicinandomi.

«Certo» annuisce.

Mi giro e lui, con un gesto secco, chiude quella tortura.

«Grazie» sussurro.

Rabbrividisco al contatto delle sue mani fredde con la mia pelle.

Rimaniamo in silenzio per un attimo, poi mi giro a fissarlo, notando quel suo sorriso così bello ancora stampato sulla faccia.

Mi accarezza una guancia, delicato.

«Il vestito ti sta benissimo».

«Grazie, anche tu sei molto carino con questa camicia ».

«Oh no, tu sei molto, molto più bella di me questa sera».

Si avvicina di qualche centimetro, fino a che le sue labbra non si posano delicate sulle mie.

Rimango interdetta per una frazione di secondo, indecisa sul da farsi.

Le sue mani cingono i miei fianchi e le mie braccia automaticamente finiscono incrociate attorno al suo collo.

«Forse è il caso se ci avviamo» dico, allontanandomi per interrompere il bacio.

«Sì, forse è meglio» sorride e si infila la giacca.

Cerco le chiavi della macchina sul tavolino della sala ma non le trovo. Eppure, di solito le metto sempre lì. Di solido. Evidentemente oggi no.

«Hai visto le chiavi della mia macchina?» chiedo, rivolgendomi a Leo.

«Sì, ce le ho io in tasca. Non vorrai guidare il giorno della tua festa di compleanno!».

Sbuffo, irritata al solo pensiero di arrivare a quella festa.

«E se non andassi alla mia festa?» domando, più a me stessa che a lui.

«Non penso sarebbe una buona idea».

«Appunto».

 

**

 

Arriviamo allo studio, contro ogni mia aspettativa. Ho passato il tragitto fino a qui a scongiurare Leo di cambiare direzione, senza riuscire a convincerlo.

Scendiamo dalla macchina e io, un po' barcollante per via dei tacchi, mi appoggio al braccio di Leo.

Entriamo e a momenti faccio un infarto.

Il salone adibito alla festa è pieno di persone, che conosco e che, come la maggior parte, non conosco.

«Oh, finalmente».

Bill ci viene incontro allargando le braccia, mentre sul suo viso rimane dipinto quel sorriso terribilmente terrificante. Tipico di lui.

«Ciao» borbotto, senza guardarlo.

«Non fare così, Chiara. Qui tutti mi hanno fatto i complimenti per l' organizzazione splendida...».

«Scusa, Chiara, ma ha ragione. L' organizzazione è fantastica» dice Leo, guardandomi sorridendo.

Sbuffo. Ma perchè tutti contro di me?

«Io sono d' accordo con lui» si difende Bill, facendo ridere anche Leo.

«Bravi, cospirate contro di me e tu, Leo, non mi avvisi nemmeno. Mentre tu, Bill, aspetta solo che riprenda il tour. Ti lascio da solo all' aeroporto in balia delle fans. E' una promessa!».

Mi allontano lasciandoli lì, a continuare a prendermi in giro.

Mi verso nel bicchiere l' unico analcolico presente: la Coca Cola.

La festa, dopotutto, non è così male. Conoscendo Bill, effettivamente sarebbe potuta andare molto, molto peggio. La musica non è nemmeno troppo alta. Qui sono sicura che c'è lo zampino di Tom.

Con una mano ricambio il saluto di Gustav e Georg, poco lontani da me.

Due mani mi cingono i fianchi da dietro. Di scatto, mi volto.

«Auguri» dice, con un sorriso.

«Grazie» ringrazio, con un sorriso.

Ci sediamo su due sedie poco distanti, lontani quanto basta dalle casse per poter parlare senza urlare.

«Leo ti ha abbandonata?» scherza.

«No, sono io ad aver abbandonato lui insieme a Bill. Stavano confabulando contro di me e me ne sono andata. Ah, ma mi rifarò. Leo lo caccio fuori casa, a dormire, mentre Bill farò in modo di lasciarlo da solo in aeroporto con le fan, appena riapre il tour. Puoi scommetterci» borbotto, osservando il mio bicchiere.

Si guarda attorno.

«Be', a me pare che il tuo Leo si stia divertendo abbastanza» mi informa, indicandolo.

Leo, appoggiato alla parete, sta chiacchierando con una bionda alta e secca. Troppo secca.

Tolgo dal mio viso l' espressione irritata e mi giro verso Tom.

«E quindi? Meglio per lui se si sta divertendo, io non lo sto facendo per niente» strillo, in preda a una crisi di nervi.

Sorride divertito, mentre mi offre un altro drink.

Non mi va molto di pensare al fatto che non ho ancora preso a calci Tom Kaulitz. Forse è meglio così.

Un bicchiere. Due bicchieri. Tre bicchieri. Quattro bicchieri.

Al primo ero completamente fuori, adesso sono pressoché devastata.

La festa continua e non faccio molto presente all' ora o a Leo.

Può darsi che io abbia anche ballato con Tom; non ricordo molto delle due ore precedenti.

Mentre i miei quattro amici si danno da fare a sistemare tutto (da bravi ragazzi, li ho costretti a mettere in ordine, visto che a organizzare il tutto erano stati proprio loro), io rimango sdraiata pancia in su a guardare il soffitto, mentre Leo, per quanto gli è possibile, tenta di farmi star zitta.

«Perchè sai...ho pensato. No, cioè, un attimo. Non stavo pensando per niente. Volevo dire che, per quanto mi sia possibile, sto tentando di fare un ragionamento giusto. Ma non ci riesco, sapete? Io ci provo, ma è come se fossi su un altro mondo. Oh, quel muro ha una crepa, guardate!» biascico, completamente instabile.

Alzano tutti lo sguardo e osservano la parete indicata dal mio braccio penzolante.

Lo lascio sbattere per terra e scoppio a ridere, tenendomi la pancia.

«Sapete, non ho mi bevuto così tanto in vita mia! Leo, accendi la musica, voglio ballare ancora. Fino a domani mattina!» urlo.

Mi appoggio al divanetto per alzarmi e, barcollando, raggiungo il tavolino vuoto.

Ci salgo sopra e aspetto che la musica parti.

«Leo, accendi quella musica per favore» mi lamento, battendo i piedi.

«Non mi sembra il caso» interviene Tom, mentre con un braccio tenta di farmi scendere.

«Non toccarmi, idiota!» strillo, togliendo la sua mano dal mio fianco.

Ride e mi lascia, così io ne approfitto per tornare sul tavolino.

«Okay, visto che non volete accendere la musica, ballo lo stesso» sbuffo, cominciando a “ballare”.

Sempre che di ballare si possa parlare. Tutto quello che ne esce fuori sono movimenti così goffi, così ridicoli, che per un secondo soltanto mi sento una regina.

Ovvio, sono ubriaca dalla testa alla punta dei piedi.

Ma non me ne importa più di tanto, visto che non so nemmeno quello che sto facendo.

Mi tocco i capelli, che ho deciso, per questa sera, di lasciare ricci.

Osservo un boccolo con interesse, quasi affascinata dalla perfezione di esso.

«Bill, oddio. Bill!» urlo, saltando sul tavolino.

Bill, sconvolto, si gira a fissarmi, seguito dagli altri.

«Dimmi» dice, avvicinandosi.

«Bill, posso farti un regalone? Grande, ma grande tanto grande?» sussurro, fissandolo con occhi dolci.

Perplesso, senza capire, mi guarda. «Sì, certo -.

  • Ecco, visto che hai organizzato questa festicciola così carina, così graziosa, così...luminosa. Ho deciso che forse è il caso di premiarti. Ecco, vedi, ho pensato di dedicarti una cosa che io amo molto, che fa parte di me da sempre, anche se io spesso, questa cosa, la nascondo».

Tutti mi guardano, sconvolti. Si stanno chiedendo cosa io stia farneticando, molto probabilmente.

«Bene, Bill, questo è per te!» urlo, alzando le mani al soffitto.

Prendo tra le dita un boccolo dei miei capelli e glie lo faccio vedere, avvicinandomi a lui.

«Lo vedi questo bel boccolone? Ecco, te lo dedico, ti va? Sarà il Boccolo Bill. BB. Ti piace?». E scoppio nuovamente a ridere.

«Certo, molto gentile da parte tua. Adesso è il caso che tu vada a casa, però. Non sembri...molto in te» osserva, guardando gli altri.

«Ragazzi, io la riporto a casa. Mi spiace non potermi fermare per aiutarvi a sistemare» si giustifica Leo, mentre si allontana a prendere la sua giacca e la mia.

Mi ributto sul divanetto e chiudo gli occhi, provando in tutti i modi a non pensare troppo.

«La riaccompagno io, non è un problema» propone Tom.

La sua voce è un sussurro lontano. Sto per addormentarmi sul serio.

«Okay, come vuoi, ecco le chiavi della sua macchina».

«No, lascia stare, ho la mia».

Due braccia forti mi aiutano ad alzarmi, ma non riesco ad aprire gli occhi.

Il mio cervello, al contatto con l' aria fredda, riceve l' ossigeno necessario a dare l' ordine ai miei occhi di aprirsi.

«Tom Kaulitz, tu sei furbo. Dillo che volevi svignartela per non faticare a mettere a posto» biascico, reggendomi alla sua spalla.

«Può darsi» sorride, guardando altrove.

In macchina, nessuno parla, eccetto io che ogni tanto aprivo bocca per dire parole senza senso.

«Tu...ti sta molto bene il rosso, dico davvero» sussurro, concentrandomi sugli strani disegni della sua fascia.

«Grazie, anche tu sei molto bella stasera».

«Me l' hanno detto tutti» dico, con un sorriso ebete.

Scuote la testa, mentre torna a fissare la strada.

«Ora, però, dimmi la verità. Sei geloso di Leo».

«Sei tutta ubriaca».

«Oh, questo lo so».

«Brava».

«Ma non hai risposto alla mia domanda».

Non faccio in tempo ad ascoltare la risposta.

Sprofondo, lentamente, nel sonno.

 

 

 

 

Note: Okay, ecco qui il capitolo. Vi risparmio i convenevoli su quanto sia contenta delle recensioni perchè lo scrivo ogni volta e sappiate che, comunque, a me fanno piacere (:

Spero vi piaccia!

Xo xo

Lady

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Capitolo 11
*** 11. ***


Capitolo 11.

 

Non ricordo molto di ieri sera, solamente che la priorità non era più quella di uccidere Bill Kaulitz.

Dopotutto, poteva anche andare peggio.

Mi rigiro nel letto avvicinandomi al comodino per guardare l' ora dalla sveglia.

Le tre del pomeriggio. Fantastico. Mi giro dall' altra parte e sgrano gli occhi.

Ora non ho più tutto questo sonno. Scuoto il corpo accanto a me abbastanza energicamente da svegliarlo.

Il poveretto mi osserva come disorientato.

«Posso sapere cosa ci fai, tu, nel mio letto?» strillo, mettendomi le mani nei capelli.

Si strofina gli occhi e mi guarda, mezzo addormentato.

«Ieri mi hai implorato di rimanere» si giustifica, tornando a sdraiarsi per poi voltarmi le spalle.

Sbuffo e premo entrambe le mani sulla spalla, facendolo tornare con il viso rivolto a me.

«Non ci credo, non posso aver detto una cosa del genere. La Chiara intelligente e sana non lo farebbe mai» sbuffo, incrociando le braccia al petto.

Si alza fino ad appoggiarsi con la schiena al muro. Mi guarda perplesso, con il sopracciglio destro alzato.

«Be', ieri non eri molto in te, in effetti» concorda, annuendo.

«Ah! Quindi hai pensato di approfittarne!» aggiungo, sconvolta.

«Non è vero, ho solamente assecondato una tua richiesta. Seriamente, avrei voluto filmarti. Ti sei addormentata prima ancora di salire in macchina e quando ti ho svegliato per dirti che eravamo arrivati, hai cominciato a blaterare sul cielo e le costellazioni. Una volta in ascensore, ti sei letteralmente buttata addosso a me dicendo: “Grazie di essere qui con me, questa notte”. Quando, invece, ti ho portata in camera da letto, hai aggiunto: “Rimani qui? Da sola non mi va di dormire. Ti prego, Tom Kaulitz, io ti voglio bene”».

Rimango completamente allibita di fronte alla sua versione dei fatti. Dal momento che la mia non sarà mai fornita abbastanza da poterla confrontare, credo che dovrò accontentarmi della sua. Sbuffo, osservando le lenzuola del letto.

«E Leo non ha detto nulla?» chiedo, senza guardarlo.

«Leo, effettivamente, era abbastanza scocciato, dopotutto stavo per andarmi a coricare nel letto della ragazza di cui è visibilmente cotto. Neanche a me avrebbe fatto piacere che un ragazzo qualunque si fosse messo a dormire nel letto della ragazza che mi piace».

«Non è cotto di me, come io non lo sono di lui. Siamo solo amici»

«Certo, certo».

Sbuffo, tirandogli addosso il mio cuscino. Sorride divertito, riuscendo a schivare perfettamente il colpo.

«Vuoi smetterla di farti gli affari miei?» lo imploro e per poco non scoppio a piangere.

«Non è colpa mia se ciò che vedo ti da fastidio».

«E allora non guardare».

«Mi sembra un' osservazione abbastanza ragionevole» annuisce, pensieroso.

Mi alzo dal letto di scatto e guardo fuori dalla finestra.

Come al solito, nevica. Siamo in pieno inverno perciò non me ne preoccupo più di tanto.

Sento dei passi venire vicino a me e due secondi dopo io e Tom Kaulitz stiamo guardando entrambi fuori dalla finestra.

«A volte mi piacerebbe mollare tutto e tornare a Berlino» sospiro, continuando a guardare il paesaggio fuori.

«Così mi...ci abbandoni, però» scherza, facendomi sorridere.

«Non me ne andrei comunque. Ci sono troppe cose che mi legano ad Amburgo».

«Per esempio...?».

«Troppe. Prima di tutto, il lavoro. Poi non lo so, ad essere sincera. Ma sento questo posto come casa mia, anche se sono nata a Berlino ed è là che vive la mia famiglia e la mia migliore amica. Ma non riesco ad andare via, anche se a volte ho la tentazione di farlo».

«Credo di aver capito. Forse».

Ci guardiamo e scoppiamo a ridere.

«Forse è meglio avvisare Leo che siamo svegli. E' dalle dieci di questa mattina che entra a sbirciare e poi scappa» sbuffa, Tom.

«Già, direi di sì» sospiro, allontanandomi.

In cucina, ad aspettarci come previsto, c'è Leo.

«Vi siete svegliati» annuncia, con un mezzo sorriso.

«Sì» annuisco.

Leo lancia varie occhiate a Tom che, dandogli le spalle, si affretta a consumare la sua colazione in mia compagnia.

E' estremamente snervante il suo comportamento; non stiamo mica insieme, per la miseria!

Prima di cena Tom se ne va, lasciandomi sola con Leo.

Mentre apparecchia la tavola, io preparo la pasta.

«Come sei tornato a casa, ieri notte?» chiedo, per interrompere il silenzio.

«Con la tua macchina, dopo aver finito di aiutare gli altri a sistemare. Sono simpatici» annuisce, avvicinandosi alla mensola dei piatti.

«Sì, proprio delle brave persone» sospiro, mescolando la pasta nella pentola.

Dispongo il cibo in entrambi i piatti e ci sediamo a tavola. Prendo il telecomando e accendo la televisione. Ameno quella è una buona compagnia...

Fuori nevica, ancora. Ha nevicato ieri, l' altro ieri, la settimana scorsa.

Sono stufa della neve.

Quasi quasi, prendo e me ne vado in Polinesia.

«Domani prendo l' aereo e torno a casa. Ma prima volevo parlare con te...di una cosa...» annuncia, schiarendosi la gola.

«Certo, dimmi...».

«Riguardo al bacio di ieri...».

Mi blocco. Bacio? Quale bacio?

Sant' Iddio.

«Bacio?»chiedo, evitando di guardarlo.

«Sì, quello che ci siamo dati, diciamo, prima di andare alla festa...». Sospiro di sollievo.

Rimango qualche secondo in silenzio a fissare il mio piatto, prima di parlare.

«Leo, senti...» comincio, schiarendomi la voce.

«Tranquilla, è tutto okay. L' avevo capito che sei cotta di quel coso».

Coso. Coso. Coso.

Dopo qualche istante metabolizzai il tutto e capii che anche lui aveva intuito come, del resto, tutto gli altri.

Sorpresa! Non sono cotta del...ehm...coso.

«Non sono cotta di lui e non sono cotta di te» puntualizzo, bevendo un sorso d' acqua.

«Ah no? Dimostramelo».

«Come scusa? Io non devo dimostrare assolutamente nulla, né a te né a nessuno. Sicuro di non poter anticipare la tua partenza a tra qualche istante?» sbuffo, alzandomi da tavola.

Gli tiro via il piatto mezzo pieno e getto la pasta nel cestino. Prendo anche il mio e li metto nella lavastoviglie.

Mentre sparecchio l' intera tavola, lui non dice assolutamente nulla.

Con quel bel visino che si ritrova, potrebbe anche aiutarmi.

«Vado a preparare le valigie» sospira, alzandosi dalla sedia.

Faccio un applauso. Uno solo.

«Bravo».

 

**

 

La strada fino allo studio non mi è mai sembrata così lunga. Forse perchè l' ho sempre guardata con occhi diversi.

Che cazzo sto dicendo?

In ogni caso, arrivo giusto in tempo per potermi definire in anticipo. Adoro arrivare per prima, soprattutto perchè il coso mette sempre la macchina dove vorrei metterla io.

Come immaginavo, non c'è nessuno oltre a me.

Ne approfitto per gustarmi quei pochi secondi di pace all' interno dello studio.

Di solito c'è sempre così tanto frastuono...

 

«Io vado».

«Okay, ciao».

 

In fondo non ero stata così maleducata con Leo. Avevo anche avuto la cortezza e la gentilezza di salutarlo. Non tutti lo avrebbero fatto.

Mentre tento di convincere perfino me stessa dell' inaspettata generosità, accendo le luci, apro le finestre - solo quelle necessarie - ed entro in sala registrazione.

Tiro fuori il portatile dalla borsa e lo accendo.

Comincio a sistemare la griglia con gli orari dei loro impegni, raccolgo i fax arrivati e modifico alcuni impegni.

Mi giro di scatto, improvvisamente spaventata dal rumore di alcuni passi dietro di me.

«Già qui?» domano, alzando leggermente lo sguardo dallo schermo.

«Potrei farti la stessa domanda» risponde, con un sorriso.

«Questo è vero, peccato che la prima a chiederlo sia stata io».

Sorride abbassando lo sguardo, mentre si affretta a sistemare la sua giacca accanto alla mia.

Si siede senza badare molto alla finezza su una poltroncina e si copre il viso con le mani.

«Tom oggi non viene» biascica, senza scoprire il viso.

Deglutisco.

«Come mai?» chiedo, cercando di far suonare l mia voce come vaga.

«Ieri sera è tornato tardi e oggi pomeriggio preferisce esercitarsi al piano a casa» risponde.

«Quindi oggi niente prove» sussurro.

«Esattamente».

Potevano anche prendersi la briga di telefonare e avvisarmi.

Mentre penso a una frase decente degna di note per insultare Bill, squilla il telefono.

Mamma.

«Dimmi» rispondo.

«Tesoro, è morto Freddy, il tuo coniglietto. Mi dispiace tanto».

Sta piangendo. Il mio piccolo, tenero e amoroso Freddy non c'è più.

Mi si chiude la stomaco con una morsa, mentre tento di trattenere le lacrime.

«Quando?» chiedo.

«Poco fa. Vuoi che papà lo seppellisca in giardino?» chiede, premurosa.

«Certo, mi pare ovvio. Ora devo andare, ti chiamo stasera, okay?».

«Certo, tesoro. A dopo».

Click. Chiudo la telefonata e ritorno al pc. Apro la cartella con tutte le foto di Freddy da piccolo. La più bella decido di metterla come sfondo.

«E' successo qualcosa?».

«E' morto Freddy, il mio Freddy» sussurro, con le lacrime agli occhi.

«Il tuo cane?».

«No, il mio cricetino bello bellissimo, bianco bianchissimo. Puccio puccioso pucciosissimo».

«Mi dispiace» sorride, accarezzandomi una spalla.

Lo guardo, sconcertata. E' per caso uscito di senno?

«E sorridi?».

«Se vuoi posso fingere di piangere. Non è un problema, se mi lasci cinque minuti potrei...».

«Ma stai zitto Kaulitz» sbuffo. Chiudo il portatile e lo infilo nella borsa.

Mi rimetto il cappotto con calma.

«Ah, mio fratello mi ha raccontato dell' altra sera» interviene.

«E quindi?» chiedo, seccata.

«Mi domandavo se...».

«Se...? No guarda, so già a quali conclusioni stai traendo. Non sono innamorata di tuo fratello, nemmeno di Leo» sbuffo.

Annuisce, senza smettere di sorridere.

«Perchè ridi?».

«Niente, è buffo come tu riesca a mentire. Se non fossi a conoscenza della verità, probabilmente potrei quasi credere alla tua scenata, al tuo patetico tentativo di cambiare i fatti. Quasi, però».

«La volete smettere tutti quanti? Mi state dando sui nervi!» urlo.

Esco dallo studio sbattendo dalla porta. Alcune fans, appartate dietro ai cespugli, mi guardano, senza dire nulla. Sembrano quasi trattenere il respiro; probabilmente non volevano farsi beccare.

«E voi che avete da guardare?».

Salgo in macchina e mi allontano, aumentando di secondo in secondo la mia presa sul volante.

Giro automaticamente a destra e prendo la seconda via sulla sinistra. Ho un solo obiettivo, uno solo: demolire Tom Kaulitz.

Arrivo di fronte a casa sua e scendo dalla macchina. Il grande cancello è di fronte a me. Se suono il campanello...sarei scema, visto che non c'è il campanello.

Prendo in mano il cellulare e compongo il suo numero.

Risponde al secondo squillo.

«Scemo, apri, sono davanti a casa tua».

Un secondo dopo, sto già percorrendo il vialetto che porta all' ingresso.

Mi fiondo in casa sua senza degnarmi di chiudere la porta.

«Tu!» sussurro, a denti stretti.

«Buongiorno anche a te. Sono felice di vederti» sorride, beffardo.

Scemo. Scemo. Sei troppo scemo.

«Tu desso vieni qui e parliamo. Perchè tutti, e non dico tutti per enfatizzare il concetto di totalità. Dicevo, tutti sono altamente convinti che io sia innamorata di te e che tu sia geloso di Leo, ma sappiamo benissimo entrambi che non è così. Ora, dicevo, dovresti aiutarmi a convincere queste persone che, per l' appunto, le cose non stanno come pensano loro. Capito?».

Mi guarda, poi scoppia a ridere. Appoggia il bicchiere sul tavolino al centro della sala e si avvicina, lentamente.

«Dammi una valida ragione per fare una cosa del genere e io farò quello che mi chiedi, in meno di cinque secondi» sorride, incrociando le braccia al petto.

Sbuffo, stringendo i pugni. «Perchè se non lo fai...se non lo fai...ti demolisco. Ecco, sì. Se non lo fai ti demolisco» annuisco, sicura.

«Fammi capire. Dovrei avere paura di una ragazza alza un metro che vuole “demolirmi”?» chiede, trattenendo a stento una risata.

«E poi non sono molto d' accordo con te sull' ultima parte» aggiunge.

«Sarebbe?».

«Leo non mi è mai stato simpatico».

«Nemmeno a me» sbuffo, mentre il ricordo di ieri torna a galla.

Alza il sopracciglio sinistro, come sempre. Sbuffo e guardo la televisione accesa che trasmette un film vecchio, l' ultimo film che io ho visto in tv. E parliamo di parecchio tempo fa.

«Dunque, la cosa da fare è una sola» annuncia, sorridendo.

«Ovvero?» domanda, guardandolo di traverso.

«Si vede lontano mezzo chilometro che in un modo o nell' altro sei attratta da me. E non lo dico perchè io sono bellissimo, anche se è la verità. Lo vedo dal modo in cui mi guardi, dal modo in cui ti sforzi di insultarmi con frasi taglienti che devo ammettere, sono taglienti. Ma non spacchi, così, non mi butti giù. Confermi solo delle certezze, tutto qui».

Mi sento ribollire il sangue nelle vene; immagino il fumo che mi esce dal naso e dalle orecchie, come una macchina a vapore che sta per esplodere.

E io sto per esplodere.

Perchè tutti continuavano a ripetermi l' unica verità che io non volevo sentire?

Non poteva essere una cosa giusta. Io e Tom...bella barzelletta.

«Tom, piantala» sbuffo, voltandomi.

Mi tira per un braccio costringendomi a voltarmi verso di lui. Tempo un secondo e le sue labbra sono sulle mie.

Spalanco gli occhi ma non muovo un muscolo.

«Meno male» sorride, allontanandosi.

«Ti odio, Tom Kaulitz!».

«Mi piace come complimento. Vedi, non ti sono del tutto indifferente. Se arrivi ad odiarmi, chissà quali ragionamenti complessi avrai messo in atto. Chissà quanto mi hai pensato...» enfatizza, con un gesto teatrale della mano.

Senza degnarlo di uno sguardo esco da casa sua e salgo velocemente in macchina.

Con la rabbia che mi ribolle nelle vene, premo l' acceleratore e mi allontano.

Sì, decisamente.

Io odio Tom Kaulitz.

 

 

 

 

Note: Ecco qui! Comincia a muoversi qualcosa, come potete vedere (: Spero vi piaccia anche questo capitolo!

Xo xo

Lady

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Capitolo 12
*** 12. ***


Capitolo 12.

 

Non sono mai riuscita a riprendermi del tutto dallo shock barra istinto omicida della settimana scorsa.

Ho passato i seguenti sette giorni ad evitare il più possibile Tom. Conoscendomi, avrei corso il rischio di prenderlo a pugni fino a deformargli la faccia. Sarebbe stata una grande soddisfazione, comunque.

Il punto centrale è che più lo guardo e più mi viene il nervoso. Più mi viene il nervoso, più la tentazione di rubare il fucile di mio nonno aumenta.

Povero nonno. Azzarderei un povero Tom, ma non mi sembra il caso.

«Tu sei scema» aveva detto Giulia, al telefono, quella stessa sera.

«E perchè mai?».

«Tom ti bacia, pronuncia un “Meno male” e tu scappi . Ora pretendi di detestarlo? Sei l' unica ragazza sulla faccia della terra capace di un gesto simile».

Non potevo darle torto.

Potrei prendere una qualsiasi ragazzina urlante là fuori della saletta e portarla qui. Farebbe esattamente il contrario di quello che ho fatto io. Su questo non ho nulla da dire.

Ma io sono io e il mio io dice di odiare Tom Kaulitz.

Il motivo? Be', è molto semplice.

Aveva osato insinuare che io sono cotta di lui. E' stata la barzelletta più divertente che io abbia mai ascoltato, peccato che sia stata così irritante.

«Possiamo risolvere molte cose parlando» aveva detto, una sera, mentre attendevamo il decollo sull'aereo.

«Okay, ci sto. Tuffati nella lava. Se torni ne riparliamo» era stata la mia risposta, acida come sempre.

Aveva sbuffato e si era voltato dall' altra parte, incominciando una discussione con suo fratello che io, ovviamente, non stetti ad ascoltare.

Osservo da dietro il grande tendone la massa di fans urlanti, mentre il DJ le intrattiene. O almeno ci prova.

«Devo dire che hai scelto con grande attenzione il DJ» si complimenta David, con un sorriso.

«Ho ascoltato i pareri dei ragazzi e ho scelto in base a quelli. Dopotutto, è il loro show» rispondo, ricambiando il sorriso.

«Be', comunque, ti avevo sottovalutata, non pensavo fossi così...competente»

«Hai fatto di peggio. Mi hai dato della bambina» dico, fingendomi offesa.

«Mi scuso per l' imperdonabile offesa, signorina».

Scoppio a ridere, divertita. Che gran buffone.

Mi lascia da sola di fronte al tendone, mentre osservo, per l' ennesima volta, le fan. Sorrido di fronte a tutti quei cartelloni, simbolo del loro quasi patetico tentativo di attirare l' attenzione dei ragazzi. Se sapessero tutte le risate che si fanno, poi, a fine concerto, probabilmente i Tokio Hotel finirebbero di fare carriera.

E qui, nessuno, ha voglia di essere licenziato. Me compresa.

Lavorare con loro è un po' come lavorare un anno in una rivista di moda. Ti apre un sacco di porte che spesso, però, nessuno riesce a varcare.

Il mio obiettivo? Non ne ho idea, per il momento sto benissimo dove sono.

Irritazione esclusa. Fosse per quella, sarei capace di mandare a monte mesi di sforzi e di bocconi mandati giù a forza di ripetermi che tutto si sarebbe sistemato.

Non è il giusto modo per onorare il mio sudore e le mie fatiche, ma sono sicura che il buon Dio mi perdonerebbe comunque.

 

**

 

Immaginate una situazione imbarazzante pressapoco come questa: Io e Tom Kaulitz in macchina, da soli, mentre ci dirigiamo verso lo studio.

La mia macchina ha deciso di rompersi proprio ieri e ora l' unico modo per arrivare al lavoro è farmi venire a prendere da Tom, visto che lui e suo fratello sono i più vicini a casa mia. Piccolo ma gigantesco dettaglio: Bill oggi non viene, ha il raffreddore. Solo lui poteva farmi un torto del genere.

«Potresti anche sorridere ogni tanto. Non guasta» sbuffa, mentre cambia la marcia.

«Be', potresti farlo pure tu».

«Io lo faccio, sei tu l' incognita tra i due».

«Non è vero».

«Sì, invece. Continui a negarlo, quindi è vero».

Mi arrendo per l' ennesima volta; impuntarsi su qualcosa durante una discussione con lui è impossibile; riesce sempre a battermi. Come adesso.

«Arriverà il giorno in cui finalmente ammetterai quello che tutti hanno già confermato. Quando accadrà, ricordami che dobbiamo chiarire un paio di questioni. Farlo adesso sarebbe impensabile».

«Però l' hai pensato» ribadisco, confusa.

«In un certo senso speravo di sbagliarmi».

«Sei impossibile».

«Lo so, ma tu mi batti, di parecchio».

Sorrido. In fondo, quando mi da ragione e riesco a superarlo in qualcosa è divertente.

C' è persino la possibilità concreta, in quei casi, che Tom apparisca ai miei occhi simpatico. Ma solo per qualche frazione di secondo.

Arriviamo in studio e mi fiondo verso la porta. Reazione istintiva.

«Non vedi l' ora di lavorare, non è così?» mi prende in giro Tom.

«Esattamente» rispondo, secca.

La saletta me la ricordavo più grande, ma va bene lo stesso anche così, piccina piccina.

E' un' impresa far capire a Tom che il suo posto è stare seduto sullo sgabello a suonare la chitarra e non dietro la batteria. Ho provato a convincere Gustav a sedersi al posto di Tom, ma il tentativo di persuaderlo è stato chiaramente inutile considerando il fatto che lui, senza batteria, è praticamente inutile.

«Ragazzi, però, così non funziona. Tom, non puoi prendere il posto di Gustav. Se ci tenevi tanto, perchè non hai suonato la batteria invece della chitarra? Gustav, siediti al tuo posto e facciamola finita. Georg, qualche obiezione o hai deciso anche tu di provare l' emozione di sederti al posto sbagliato?».

Scuote la testa, sorridendo. Dopo vari momenti, finalmente si decidono a provare qualche canzone. Non sono molto credibili come prove, ma senza cantante non si può fare molto di più.

David non sarebbe contento se sapesse che le prove sono saltate solo perchè i ragazzi non sono in grado di star seduti ai loro posti.

«Okay, basta. Per oggi non si può fare altro, suppongo» sussurro, stiracchiandomi.

«No, direi che potremmo tutti tornarcene a casina» propone Tom, con un sorriso.

«Buona idea» acconsentono, gli altri.

Salutiamo tutti i tecnici e usciamo dallo studio.

Non che muoia dalla voglia di entrare nella macchina di Tom, ma fare a piedi la strada fino a casa non è nei miei programmi. O almeno non per il momento.

Allaccio la cintura con gesto automatico, e lui fa lo stesso dalla sua parte.

«Credo che sarebbe anche arrivato il momento di parlare. Non sei d' accordo?» esordisce, interrompendo il silenzio.

«No» rispondo, acida.

Sorride. Che ha da sorridere?

«Parlo io allora. Secondo Bill, io e te dobbiamo parlare» comincia.

«Di cosa?».

Prima cosa da fare la prossima volta che vedrò Bill: sfigurargli la faccia.

«Be', di tante cose. E io sono d' accordo con lui. Tipo, del fatto che ci scanniamo tutte le volte, che ci sono momenti in cui sembra che andiamo d' accordo...».

«Appunto, sembra» aggiungo, senza lasciarlo finire.

Sorride di nuovo, divertito più di prima.

«E poi dovremmo parlare del fatto che ci siamo baciati, ricordi? Non è successo molto tempo fa. Tu eri venuta a casa mia di corsa...».

Sorride al ricordo mentre io sbuffo, di rabbia.

Ancora a riprendere questo discorso. Che palle.

«Preciso che sei stato tu a baciare me. Io ero dell' intenzione di farti a pezzi».

«Non essere così cattiva con me».

«Chiedo scusa» sbuffo.

«Scusa accettate. Adesso mi lasci parlare o pensi di interrompermi ancora?».

Lo guardo e scoppio a ridere. «No prego, parla pure».

«Bene. Allora, io credo sia un problema di fondo, sai? Siamo partiti con il piede sbagliato, anche se più o meno è quello che facciamo sempre. E poi credo anche che se io e te ci impegnassimo riusciremmo ad andare d' accordo».

Fa una pausa e si volta verso di me, per vedere se ho qualcosa da dire. Il mio silenzio gli fa capire che può tranquillamente proseguire. Almeno per ora.

«Poi volevo chiarire quella piccola faccenda sul tuo amico Leo. Posso spiegarti perchè non mi è mai andato a genio. Semplicemente perchè non è riuscito, in tutto questo tempo e parliamo di parecchi mesi da quando vi siete conosciuti, a dirti che gli piaci da morire. O se lo ha fatto, questo non lo so, non ha usato le parole adatte. Sono convinto che non serva eccedere con i discorsi, con te».

Che lungo monologo...

«E poi dai...non è questa grande bellezza» conclude, con una smorfia.

Sorrido e mi giro verso di lui.

«Punto primo, se vuoi cominciare a partire con il piede giusto, con me, non tirare in ballo Leo. Punto secondo, mi ha baciata molto prima di te, ma stai tranquillo, l' ho cacciato via di casa».

«Non sono mi stato così tranquillo come adesso. E poi, lo sapevo; sei troppo intelligente per andare con uno come lui».

«Non vengo nemmeno con te».

«Su questo ci lavorerò un po', tranquilla».

Non sorrido, ma dentro di me sono quasi felice. In fondo come situazione è buffa; sarebbe fantastico avere ora a portata di mano uno dei cameraman che filmano tutto quello che loro fanno. Rivedere questa scena avrebbe fatto sorridere quasi tutti.

Finalmente l' auto si ferma di fronte a casa mia. Spegne il motore ma ho come l' impressione che scendere non sarà tanto facile.

«Eccoci» annuncia, sorridendo.

«Sì, certo, ora scendo» biascico, cercando di afferrare la maniglia.

Dopo assidue ricerche, la trovo. Apro lo sportello e butto la testa fuori, per controllare movimenti sospetti o altro.

«Ah, Chiara?» mi richiama.

Mi giro e lo guardo, mentre attendo che lui continui a parlare.

«Domani pomeriggio niente prove, ho sentito Bill prima. Perciò credo che non ci sarà bisogno di te in studio» mi informa.

«Come volete. Al massimo mi chiamate e io arrivo» annuisco, seria.

«E come fai ad arrivare?» domanda, perplesso.

«Kaulitz, siamo nel 2010. Esiste quella macchina che ti viene a prendere sotto casa che la gente generalmente chiama taxi» sbuffo, alzando gli occhi al cielo.

Sorride e scuote la testa, esasperato.

«Bene, io vado. Salutami tuo fratello». Lo saluto e scendo definitivamente dall' auto.

Quando l' auto è abbastanza lontana, apro la porta ed entro.

 

 

 

Note: Eccoci qui! Non sapevo se postare o meno ma, visto che è Pasqua, sono buona e vi faccio un regalo – spero sia apprezzato come i precedenti capitoli!

Da Verona con amore,

Lady

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Capitolo 13
*** 13. ***


Capitolo 13.

 

Ci sono cose che si risolvono con un semplice no.

 

Le cose non sono del tutto migliorate, ma stanno procedendo nell' ordine giusto.

Tutti sono contenti del fatto che da due settimane, io e Tom abbiamo smesso di insultarci.

E' facile, dopotutto. Basta non rivolgersi la parola.

L' avessi saputo prima...

«Che bello, domani pausa» afferma Bill, guardando fuori dal finestrino della macchina.

«Poi mercoledì ci spostiamo in Francia» annuisco, sfogliando la mia agenda.

Ho scoperto nuovi vantaggi del mio lavoro. Per esempio, posso pranzare, cenare e fare colazione ovunque. Mi basta dire per chi lavoro e viene tutto accreditato all' azienda. Fantastico.

Inoltre, ho ricevuto, con le paghe mensili, dei buoni sconto per qualsiasi negozio io decida di aver bisogno.

Anche se, fino ad adesso, non ho approfittato di niente di tutto ciò.

Ma sono più che sicura che le occasioni non mancheranno.

Arriviamo all' hotel. Io scendo per ultima, accompagnata da David al seguito.

«Be'...pausa per te...»aggiungo, tornando al discorso di prima.

«Tu no?» chiede, alzando il sopracciglio.

«No. Devo organizzarvi le prossime partenze» sbuffo, senza farmi vedere dal menager.

Sogghigna, divertito.

«Potreste anche organizzarvele da soli le partenze, no?» sussurro, con uno sbuffo.

«E tu che fai tutto il giorno? Dormi?».

«Non sarebbe una cattiva idea».

Salgo nella mia stanza, accompagnata dalle mie valigie che stanno trasportando quelli dell' albergo.

Dopo essere rimasta sola, mi fiondo sotto la doccia. Ne ho decisamente bisogno.

Ma non così tanto bisogno, non puzzo.

Mi asciugo i capelli e accendo il pc per mandare una mail a Giulia.

 

Buon pomeriggio, amica mia!

Sono appena tornata in albergo. Domani niente concerti per i quattro scemi, ma a me toccherà comunque “lavorare” per organizzare le partenze future. Maledetto lavoro arretrato. Poi vogliono che sia tutto perfetto e tu sai quanto io sia poco ordinata con le mie cose. Perciò sono leggermente in crisi su questo fronte.

Mi chiedevi di Tom nella mail precedente?

Non ho nulla da dirti, a riguardo. Ci parliamo di rado. Evidentemente tutte e due siamo d' accordo che se ci evitiamo la convivenza diventa più semplice.

Questa storia mi sa troppo da fan fiction, non ti pare? Hai presente quella che abbiamo letto non tanto tempo fa, poco prima che io ricevessi l' incarico di lavorare con loro?

Succede esattamente come nella fan fiction.

Ma adesso basta comportarsi da bambine deficienti.

Ti devo salutare.

Qualche scemo sta bussando alla porta da mezzora.

Ti voglio bene.

Un bacio.

Chiara.

 

Invio la mail e spengo il computer.

Apro la porta. Ti pareva...

«Oh, come mai qui?» chiedo, con voce angelica.

«Non posso entrare?» domanda, sorpreso.

«Puoi?».

Mi sposto dalla porta e lo faccio entrare. L' espressione da cane bastonato cominciava a darmi sui nervi.

Si siede sul letto, mentre io continuo indaffarata a cercare il caricatore per il portatile.

«Tra un po' esco a portare i cani a fare una passeggiata» dice, sospirando.

«Non li hai già portati fuori questa mattina?».

«Sì, ma hanno bisogno di uscire ancora. Per sgranchirsi, credo».

«Giusta osservazione» annuisco, sorridendo.

Ma dove caz... è il caricatore?

«Ti ho mai raccontato di quella volta che il cane mi è scappato?».

Mi volto e sgrano gli occhi.

«No!» strillo, indignata.

«Be', sì. Bill aveva dimenticato il cancello aperto e il cane è uscito. Per fortuna l' abbiamo trovato quasi subito. Ma non sai che spavento...».

«Immagino...».

Io non ho mai avuto la possibilità di tenere animali domestici in casa, dal momento che mamma è allergica al pelo di cani e gatti. H tentato con una tartaruga, ma è durata giusto il tempo di arrivare a casa.

«Tu non hai animali?».

«Negativo. Una volta, per il mio compleanno, mi sono fatta regalare una tartaruga, di quelle piccole, hai presente? Sono arrivata a casa ed era già morta. Credo abbia fatto un infarto o qualcosa del genere. A quel punto, ci ho rinunciato. Mi sarebbe piaciuto avere un cane o un gatto, ma mamma è allergica al pelo degli animali, perciò era fuori discussione. Potrei prenderne uno adesso, che abito da sola, ma chi si prenderebbe cura di lui? Giulia? Non è il tipo da prendersi cura delle cose sue, figuriamoci quelle degli altri» sospiro.

Scoppia a ridere e io rimango qualche secondo perplessa, rivalutando ogni singola parola del mio monologo.

«Perchè ridi?» sbuffo, voltandomi per dargli le spalle.

«Ti immagino a dodici anni mentre rimani delusa dalla tua tartaruga morta sul colpo, tutto qui».

«Non è stato affatto divertente. Ho avuto i sensi di colpa per mesi».

Sorride e si alza, sistemandosi le maglia sotto la felpa.

«Io vado. Ti serve qualcosa?».

Scoppio a ridere. Questa è una gran bella battuta.

«Lo sai che, tecnicamente parlando, sarei io a doverti fare certe domande?».

«E quindi? Non posso chiederti se ti serve qualcosa mentre sono fuori?».

«No».

«Sei impossibile».

«Oh, tu mi batti, fidati».

Mi saluta ed esce e io, finalmente, rimango da sola.

Riesco a trovare il caricatore del portatile, esattamente dentro alla valigia, di fronte a me.

Bussano nuovamente alla porta.

Hanno scambiato la mia stanza per Via Lourdes?

«Voi Kaulitz vi siete messi d' accordo?» sbuffo, allontanandomi dalla porta.

«No, perchè? E' passato mio fratello, prima?».

«Sì».

Possibile che quando qualcuno ha un problema viene sempre da me?

«Be', volevo chiederti come andavano le cose con mio fratello» comincia.

«Splendidamente, perchè? E' un po' che non ci insultiamo. Avreste dovuto notare la differenza» rispondo, sarcastica.

«Te lo chiedo perchè tanto sai cosa penso... cosa pensiamo tutti» ridacchia.

Sto per incazzarmi, lo sento. Adesso lo mangio vivo. Ma dubito ci sia abbastanza di commestibile.

«Tu e gli altri sapete come la penso io, però».

«Sì, ma sappiamo anche che non è vero».

«Devo per forza dire che mi piace Tom, giusto per farvi contenti?» dico, alzando la voce.

Fa spallucce. Respiro profondamente, cercando di mantenere la calma.

«Sei impossibile» sussurra, scuotendo la testa.

I Kaulitz sono tutti uguali.

«Me l' ha già detto tuo fratello» borbotto.

«Lo so. Ma sai, ti ho già detto che la pensiamo uguale su parecchie cose, no? Ora vado in camera mia che devo sbrigare alcune faccende. Ricordati di scendere per la cena, ci siamo tutti» mi avvisa, mentre si avvia verso la porta.

«Ok» sbuffo, immaginando già la scena.

Se il suo scopo è terrorizzarmi, c'è riuscito.

 

**

 

Mi vesto e mi avvio verso la sala che ci hanno riservato per cenare.

Non c'è ancora nessuno.

Mi siedo sul tavolo con la scritta riservato e mi guardo un po' attorno.

Certo che hanno una bella faccia tosta nel raccomandarmi di essere puntuale quando loro sono i primi ad arrivare in ritardo.

Sbuffo, cercando di scaricare il mio nervosismo muovendo i piedi.

Sento una mano picchiettarmi la spalla. Mi volto di scatto, spaventata.

Guarda caso...

«Dovresti essere abituata ad avermi tra i piedi, e invece ancora ti spaventi?» domanda, sbuffando.

«Non me l' aspettavo. Bill e gli altri?».

«Ma quali altri e Bill? Ci siamo solo io e te, questa sera»

Ecco, lo sapevo.

Ci sono due cose che sono riuscita a imparare.

La prima, mai fidarsi di nessuno. La seconda, mai fidarsi di Bill Kaulitz.

E' un dato di fatto.

«Dovresti esserne onorata. Non tutti cenano con me il mercoledì» dice, fiero.

«Mangiamo, che dici? Prima cominciamo, prima finiamo».

Mi guarda, perplesso.

«Non avevamo deciso una tregua?».

«Non avevamo deciso niente sorprese inaspettate?».

«Non ti capisco, davvero. Volevo soltanto passare un po' di tempo con te, per cercare di capirti, se vogliamo dirla tutta. E tu mi rispondi così, tutte le volte. Io ho pazienza, Chiara, ma ho anche dei limiti».

Mi sento sopraffatta dai sensi di colpa.

Chi sono, io, per trattarlo male?

«Scusa, non volevo. Forse è meglio se vado» dico, alzandomi dalla sedia.

Di scatto si avvicina e mi prende per il polso, bloccandomi.

«Non andare via... -.

«Non sono nessuno per trattarti male, Tom. Hai ragione» dico, mentre tento di trattenere le lacrime.

«Vorrei solo cercare di capire cosa ho fatto di male da farti comportare così nei miei confronti»

«Tu niente».

«E allora perchè?».

«Tutti dicono che sono pazzamente innamorata di te...compreso tuo fratello» borbotto, mentre scaccio una lacrima, veloce.

«Be', lo penso anche io, se è per questo».

«Ma tu pensi questo di qualsiasi persona fornita di tette e culo che ti circonda».

«Non è vero. Di Natalie non lo penso».

«Vaffanculo».

«Ti voglio bene».

Mi viene da piangere, ma cerco di trattenermi.

Mi accorgo, dopo qualche minuto, di essere ancora impalata di fronte a Tom, in piedi.

«E se ora ci sediamo e ordiniamo da mangiare?» propone, indicandomi il tavolo di fianco a noi.

«Non è una brutta idea» sorrido.

Ci sediamo e Tom con un gesto della mano fa capire al cameriere che dobbiamo ordinare.

Finito di mangiare, mi accompagna in camera.

«Entri?» domando, indecisa.

«No, vado nella mia a suonare un po' la chitarra. Lo so che non vedi l' ora di venire letto con me, ma andiamoci piano, okay?» mi provoca, trattenendo a stento una risata.

«Volevo solo essere gentile» borbotto, mentre lascio passare la tessera nell' apparecchio magnetico.

«Lo so. Be', io vado allora».

Mi da un bacio sulla guancia, sorride e si avvia verso la sua camera.

Sorrido come un' ebete, con la mano ancora sulla porta.

Mi riprendo dallo stato di trans ed entro.

Mi metto il pigiama e mi infilo sotto le coperte.

Sento il cellulare vibrare sul comodino.

Un messaggio. Lo apro e sorrido.

E' di Tom e dice: Buona notte.

 

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Capitolo 14
*** 14. ***


14 capitolo.

 

Okay, lo ammetto.

Sono momentaneamente attratta, almeno in parte, da Tom.

Ma solo perchè adesso andiamo decisamente più d' accordo di prima, e non in quel senso, gente.

No, o per lo meno non sono i livelli delle ragazzine urlanti là fuori.

La palazzina era piena e il backstage pullulava di tecnici da tutte le parti. Gente che va e che viene...se ne vessi la possibilità, scapperei all' istante.

Sento una mano picchiettarmi la spalla, mi volto e un Tom tutto sorridente mi si presenta davanti, con le braccia incrociate al petto.

«So che muori dalla voglia di scappare, ma almeno evita di farti vedere. Non voglio passare i prossimi venticinque anni a spiegare al mondo che tu non stai con nessuno di noi quattro, anche se immagino che la gente partirà dal presupposto che tu sia la ragazza di Hagen».

«Ma lei è bionda» sbuffai.

«Loro non lo sanno. Ora, per favore, potresti fare un paio di passi indietro?».

Effettivamente, lui se ne sta appoggiato a un muretto ad almeno sei metri da me, mentre io, senza neanche accorgermi, sto per finire sul palco.

Faccio quei quattro passi indietro, il doppio di quelli richiesti d Tom. Giusto per stare sicura che non mi vedano.

«Brava» si complimenta, annuendo.

«Grazie. Ti serve qualcosa?».

«Sì, mi chiedevo dove fossero finite le mie chitarre» sbuffò, fissandomi.

Il cuore comincia ad accelerare più del solito, più del dovuto.

Le chitarre?

«Non lo so. Di solito non le lasci ai tecnici che le sistemano accanto al palco?».

«Sì, ma non ci sono».

«E perchè, secondo te, dovrei sapere dove sono le tue chitarre?» sbuffo.

«Be', secondo il contratto sei tu quella che deve assicurarsi che sia tutto pronto e perfetto, accordarti con i tecnici e tutte queste cose. Ti avverto, di là la situazione sta degenerando. Bill sta impazzendo. Se non si trovano le chitarre, niente live».

I sensi di colpa cominciano a farsi strada dentro di me.

Se le chitarre non sono dove dovrebbero essere, la colpa è soltanto di una persona: io. Come ho fatto a dimenticarmi delle chitarre?

Cerco di mantenere la calma.

«Aspetta, ma io sono quasi del tutto certa di averle viste caricare nel camion» dico.

«Quasi? -.

«Tom, ti dico che quelle chitarre sono arrivate fino a qui. Questa mattina erano...».

La porta si aprì. Fu un attimo.

David, Bill e tutto gli altri mi si pararono davanti. Tom era leggermente nascosto dietro di loro.

Non ci sto più capendo niente.

«Tu. Sei. Licenziata».

Sgrano gli occhi, sorpresa. Licenziata?

David mi fissa furioso. Bill, invece, è impassibile.

Guarda il fratello e poi me, quasi a scatti. Ma il suo ultimo sguardo, mi incenerisce definitivamente.

«Non ho fatto nulla» sussurro, senza guardarli.

«Sì, invece. Hai mentito a tutti quanti. Credevi che non ce ne saremmo accorti, che io non l' avrei scoperto? Sappiamo cos'è successo alle chitarre di Tom».

A quel nome, scatto.

«Non so dove siano finite le chitarre, ma io le ho viste mentre venivano caricate sul camion e portate vie insieme agli altri strumenti» dissi, alzando la voce.

«Ian, vieni qui».

Un nome che non ho mai sentito.

Un uomo vestito con maglietta blu e pantaloni leggermente più scuri, mi si presenta davanti.

E' un tecnico, vista la targhetta attaccata alla maglietta.

«Sì, la signorina mi aveva pregato, questa mattina, di assicurarmi che le chitarre non arrivassero a destinazione» dice, guardando serio David.

«Ma è assurdo. Non è vero!».

Tom, dalle spalle di David, mi fissa, immobile.

«Continua» lo esortò David.

«Le abbiamo caricate comunque sul camion, visto che, ai suoi ordini, non dovevamo dare il benché minimo sospetto. Aveva detto che se tutto andava come i suoi piani, lei ci avrebbe ricompensati, alla fine».

Stanno per cedermi le gambe, poco ma sicuro.

Porto un mano sulla pancia, mentre a fatica tento di stare in piedi.

Mi manca aria. Non riesco a respirare.

«Non...è...vero...io...non ho....fatto niente di tutto ciò. Lo giuro» dico, implorante.

«Dice così perchè non vuole essere scoperta» aggiunge Ian, fissando David.

«Senza dubbio. E tu, raccogli la tua roba e sparisci, all' istante! Zac, Kevin, assicuratevi che abbandoni il palazzetto tra non più di dieci minuti».

Mi ritrovo in pochi istanti tra i due, mentre mi tengono uno per il braccio destro e l' altro per quello sinistro.

Non oso voltarmi per guardare gli alti, consapevole del fatto che non posso fare assolutamente nulla.

Posso dire qualsiasi cosa. Qualsiasi.

Troverebbero comunque il modo di usarla contro di me.

 

**

 

Fisso il paesaggio sotto di me. La città è come un puntino, vista da quassù.

Un lacrime scende lenta sul mio viso, fino a posarsi sul ginocchio, inumidendo appena i miei jeans.

Ci hanno messo poco a prenotarmi un volo di sola andata per Amburgo.

E questa volta sarebbe stata per sempre. Fatico a crederci, eppure è così.

Perchè a me? Cosa ho fatto di male per meritarmi tutto questo?

Ma soprattutto, a chi ho dato così tanto fastidio da mettermi in una situazione come questa?

Quando scendo dall' aereo, mi dirigo al ritiro bagagli.

Ad spettarmi c'è Giulia, arrivata di corsa dopo la mi telefonata.

Mi getto letteralmente tra le sue braccia, mentre un fiume di lacrime prende a scorrere rovente lungo le mie guance.

«E' stato orribile, Giu» singhiozzo.

«Tranquilla Chiara, risolveremo tutto. Ora andiamo a casa, ti fai una doccia e poi ne parliamo, okay?».

Lungo il tragitto fino a Berlino, nessuno parla.

Sto tornando a casa, e questa è l' unica nota positiva in tutto questo casino.

L' appartamento è proprio come me lo ricordavo; non è cambiato nulla.

Mi lavo e mi vesto con una tuta, giusto per stare comoda.

Torno in salotto, dove Giulia mi aspetta, quasi ansiosa.

«Dai, racconta» mi incita, sforzandosi di sorridere.

«Stavo osservando le fan nella palazzina da dietro il tendone del palco. Ad un certo punto è arrivato Tom, chiedendomi che fine avessero fatto le sue chitarre. Ero sconvolta. Ero sicura al cento per cento che fossero state caricare sul camion. Poi, dieci secondi dopo, è arrivato David con tutti gli altri e ha fatto parlare un certo Ian. Sì, si chiamava Ian e ha cominciato a dire che io avevo corrotto lui e i suoi colleghi per nascondere le chitarre di Tom per impedire il concerto di questa sera. Così mi hanno licenziata. Ci ha messo dieci minuti a prenotarmi un volo di sola andata per Amburgo».

Ricomincio a piangere, presa d una miriade di emozioni: odio, tristezza, rancore, frustrazione. Fatico ancora a credere che la mia vita sia stata distrutta in tre ore.

«Chiara, devi scoprire come mai ti hanno...incastrata così».

«Sinceramente, Giulia? Non mi va di affrontare lo sguardo di Tom e gli altri...non mi crederanno mai».

«Non puoi deludere Tom».

«L' ho appena fatto».

«Ma non hai fatto niente!».

Sospiro.

«Lui crede a tutta questa storia, ne sono certa».

«Te l' ha detto lui?».

«No ma...».

Il cellulare vibra da sopra la mensola, quella accanto alla finestra.

Lo prendo velocemente. Un messaggio.

Mi si gela il sangue.

«E' un messaggio di Tom» sussurro, con la mano tremante.

«Leggilo, no?».

Lentamente apro la casella dei messaggi.

 

Sinceramente, Chiara. Non riesco a credere come tu possa essere in grado di fare una cosa simile. Ti prego, dimmi che si sbagliano. Dimmi che è stato quell' uomo a mentire a tutti noi e non tu.”

 

Deglutisco, anche se mi rendo conto di avere la salivazione a meno diecimila.

«Mi prega di dirgli che Ian è quello che mente, e non io» dico, guardando Giulia.

«Visto che non è arrabbiato con te? Forza, rispondigli!».

 

Non sono stata io. Sono pronta a giurartelo...non sono stata io, non potrei mai, Tom.”

 

Inviai.

Il messaggio di risposta arriva tre minuti dopo.

 

Ne ero certo. Volevo sentirmelo dire, almeno da te. Non preoccuparti, le chitarre sono magicamente apparse nella tua stanzetta qui alla palazzina. Ti tirerò fuori da questo casino e potrai tornare a lavorare con noi, te lo prometto.”

 

Tom, non tornerò a lavorare con voi, anche se la verità dovesse venire a galla. Non riuscirei ad affrontare David, tuo fratello e tutto gli altri.”

 

Mio fratello non ce l' ha con te.”

 

Guarda che me la ricordo la sua occhiata di tre ore fa...”

 

Era arrabbiato, questo è vero. Ci abbiamo riflettuto ed effettivamente non puoi essere stata tu. Sei rimasta con me la maggior parte del tempo e non ti sei avvicinata in alcun modo ai tecnici. Proveremo che ti hanno ingannata, okay? Non preoccuparti.”

 

**

 

E' confortante scoprire che almeno un paio, forse poco più, di persone mi credono, ma è devastante lo stesso.

Mamma mi prega di andare a trovarla, per parlarne un po' con lei, ma non ne ho voglia. Papà rimane sulle sue e Giulia, invece, cerca di trascorrere ogni secondo possibile con me.

«Forse dovrei cercarmi un altro lavoro. Sono due settimane che rimango chiusa in casa...dovrei darmi da fare» dico, a cena.

Giulia annuisce, sorridendo.

«Se vuoi posso chiedere se il posto da Dior è ancora libero...».

«Non sarebbe male...grazie».

In fondo, mi dà molto più di quello che merito.

Non sento Tom dal suo ultimo messaggio e ormai do per scontato il fatto che si sia totalmente dimenticato di me. Non lo incolpo di questo; dopotutto, è circondato da persone che sostengono la mia colpevolezza nell' accaduto e gli avranno fatto il lavaggio del cervello.

Ma la vita non è così male, anche se non faccio più parte del “Tokio Hotel team”.

Sparecchia la tavola e saluto Giulia che ha il turno di pomeriggio.

Passo le prime tre ore a guardare uno stupidissimo programma in televisione, poi decido che è ora di cambiare pagina.

Mi vesto di tutto punto ed esco di casa.

Scendo dalla macchina e mi avvio per le strade di Berlino. Questa città mi era mancata tantissimo, anche se con il tempo ho finito per rimpiangere Amburgo.

Quando ero in tour con la band, sentivo la necessità di un posto stabile e mi sentivo come se non avessi più una residenza e a quel punto, mi sarei accontentata di tornare alla casa di Amburgo.

Entro nel parcheggio del grande centro commerciale, in cerca di un posto dove sostare con la macchina.

Dopo venti minuti abbondanti, arrivo a varcare per miracolo la soglia dell' entrata.

Mi do alle spese pazze. Compro una borsa, due paia di jeans e una felpa.

Solo alla fine mi rendo conto di aver fatto fuori il mio stipendio di un mese.

Ma non sono preoccupata nemmeno di quello. A breve troverò un nuovo lavoro, no?

Sono quasi le sei e ormai fa buio. Forse è il caso di tornare a casa.

Parcheggio la macchina di fronte al cancello e scendo

«Chiara!».

Mi volto, quasi spaventata dal sussurro del mio nome.

«Bill?».

Aggrotto le sopracciglia, del tutto sorpresa.

«Sì, ehm...sono io. Non dovrei essere qui, ma ci sono lo stesso».

«Vedo».

Apro il cancello senza degnarlo di uno sguardo.

«Posso entrare? Devo parlarti».

«Io non ho niente da dire»

«Io sì, invece».

«Okay».

Giulia non è ancora rientrata. Il negozio chiude alle otto, stasera.

«Dimmi quello che vuoi dirmi e poi vai via. Domani ho un colloquio e non posso permettermi di non andarci a causa delle tue fan accampate qui fuori» sbuffo, dandogli le spalle.

Apro il frigorifero e tiro fuori le lasagne che Giulia ha preparato per questa sera. Le metto in forno e le scaldo.

«Volevo solo farti sapere che ti crediamo, io e Tom...».

«Bastava un sms».

«Non avresti risposto».

«Lo so...» ridacchio, tra me e me.

Conoscendomi, avrei eliminato il messaggio ancor prima di leggerlo.

«E poi un' altra cosa. Quando sei andata via hai dimenticato questa...».

Mi porge una foto, che ritrae me e gli altri appena scesi dall' aereo, in Francia.

L' aveva scattata Georg, giusto per farmi un dispetto e per dimostrare quanto i miei capelli, la mattina, fossero peggiori dei suoi. Casualmente erano venuti nella foto anche Bill, Tom e Gustav, anche se si intravede una piccola ciocca di capelli di Natalie.

«Non l' ho dimenticata...» sussurro, guardandola.

«Be' dai, è carina. Dopotutto, sono tutte bellissime creature nella foto, no?».

Scoppio a ridere.

«Sì, direi di sì».

«Tom mi ha detto che non vuoi tornare a lavorare con noi, anche se dovessero ammettere che la colpa non è tu ma di altri. Mi spieghi il perchè?».

«Non c'è molto da spiegare. In molti, comunque, avrebbero una certa diffidenza nei miei confronti...compresi voi».

«Non è vero» esordì, sicuro.

Scuoto la testa, decisa a non proseguire la conversazione. Mi domando come mai non si sia ancora alzato dalla sedia.

«Bill, senti, non ho intenzione di discutere ancora sull' argomento. Ve la caverete anche senza di me, come avete sempre fatto» sospiro.

Mi guarda, sbattendo le palpebre più volte.

«Okay, come vuoi. Ma io non mi arrendo, non ancora» dice, sicuro.

«Insisti quanto vuoi. Non cedo e vincerò io».

«Io non perdo mai».

«Mai dire mai».

Scoppiamo a ridere insieme.

«Tra una settimana riprendiamo il tour, perciò ci tenevo a salutarti anche per questo. Tom sarebbe venuto, ma sai com'è. Poi la sua macchina si nota molto più della mia, anche se è più piccola. Non ci offenderemo se ogni tanto ci farai uno squillo, così, giusto per farci sapere che esisti ancora e che non hai preso la disperata decisione di porre fine alla tua vita. Sì, insomma...».

Si stringe nelle spalle, come se stesse dicendo una cosa ovvia, che io già so.

«Credi davvero che prenderò una decisione così drastica? Ma soprattutto, sei realmente convinto che vi farò sapere della mia ancora piena esistenza?».

«Sì».

Okay, è inutile discutere con Bill Kaulitz.

Inutile.

 

 

 

 

Note: ho notato che le recensioni stanno scarseggiando... (:

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Capitolo 15
*** ? ***


Sto seriamente pensando di sospendere questa fan fiction, visti i risultati ._.

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Capitolo 16
*** 15. ***


Capitolo 15.

 

Mi manca Amburgo.

Mi manca alzarmi la mattina e sapere che da lì a poche ore avrei rivisto i ragazzi.

Mi manca guardarmi allo specchio e notare il mio costante sorriso sulle labbra.

Ma soprattutto, mi manca il mio lavoro.

Sistemare vestiti firmati su degli scaffali non è mai stata tra le mie più grandi aspirazioni, eppure so perfettamente che questa è la cosa giusta da fare. Andare avanti, mettercela tutta e tornare alla mia vita di sempre. Quella vita senza problemi, senza complicazioni, senza superstar tra i piedi e senza uno skaterboy a farmi la morale su un amore che non conosce nemmeno lui.

Lo skaterboy in questione, purtroppo, non si è più fatto sentire, motivo in più per confermare quanto ripetevo in passato: tra me e lui non ci sarà mai niente.

Bill mi ha chiamato due giorni fa, ripetendo fino allo sfinimento quanto sia bella e fantastica la visuale dalla sua camera che dà su un giardino ricco di fiori di pesco.

L'Italia. Quanto mi manca, l'Italia.

Niente, ora come ora, mi impedirebbe di tornare a Milano. Eppure, con la fortuna che mi ritrovo, finirei per alloggiare nel loro stesso hotel. Finirei per incontrare Gustav e Georg, gli sguardi taglietti del signor Jost e di tutto il resto della squadra.

Non riuscirei a sostenere un simile groppone. E' troppo perfino per me.

Asciugo una lacrima con uno scatto veloce della mano, tornando poi in salotto a rimpinzarmi di gelato alla vaniglia.

Ultimamente piango spesso. Lo faccio involontariamente, senza pensarci. A volte mi ritrovo in mezzo alla strada con gli occhi velati di lacrime senza una motivazione precisa.

La televisione trasmette le solite, noiose sitcom che hanno il solo e unico scopo di farti venire la depressione. Premo il pulsante rosso all'istante e torna a regnare il silenzio.

Mi guardo attorno con la speranza di trovare qualcosa di storto da riaggiustare, qualche imperfezione da coprire o cose simili. Niente.

Questa casa è perfetta, in un modo quasi malato e ossessivo. Giulia non mi sopporta più, infatti cerca sempre di stare fuori casa il più a lungo possibile. Questo mi fa male, ma ancora una volta so perfettamente che è la cosa giusta.

Devo abituarmi all'idea di essere tornata alla normalità di sempre, dove tutti hanno i loro impegni e di certo il loro ultimo pensiero è quello di aiutare una semi-disoccupata in cerca di conforto e amore.

Senza pensarci due volte, prendo il mio cappotto ed esco di casa, assaporando un po' di sana aria berlinese. Le luci dei lampioni sono appena accennate, il giorno sta facendo spazio alla notte. Una notte come tutte le altre, una notte all'insegna delle domande. Chiedersi “Cosa starei facendo ora, se lavorassi ancora per loro?” oppure “Mi pensano?”.

Scaccio questi pensieri e continuo a camminare, fino ad arrivare quasi davanti alla Porta di Brandeburgo. Se penso che molti vorrebbero essere qui, ora e al mio posto, mi vengono i brividi. Io non vorrei essere nei miei panni, proprio no.

Mi fermo alla fermata dell'autobus approfittandone della piccola panchina per sedermi – l'unica libera, per altro.

Sento il cellulare vibrare nella tasca dei jeans e lo tiro fuori, sperando di non notare il nome di mia madre spiccare sul display. Ultimamente mi chiama spesso, non dico ogni due ore ma quasi.

E' Giulia, ringraziando il Cielo.

«Chiara, devi tornare a casa!» dice, in tono fermo e pacato.

Guardo l'ora. Sono passati venti minuti da quando ho lasciato l'appartamento e sono sicura di non aver lasciato il gas acceso, per cui non può essere saltato in aria o chissà che altro.

«Che succede?» chiedo, provando a capire.

Sbuffa, infastidita. Tipico di lei quando non vuole che le si facciano troppe domande.

«Vieni a casa. Ora. Subito!».

E riattacca.

Alzo gli occhi al cielo, esausta.

Ormai sono abituata a queste sue scenate, a questi suoi colpi di scena. Un po' me lo aspetto sempre, non mi faccio mai trovare impreparata.

A malavoglia mi alzo dalla panchina e mi avvio verso casa, con le mani nelle tasche della giacca e mille pensieri a occuparmi la testa.

Un po' deprimente, ma mi ritrovo a scavare nei ricordi più recenti. Ricordo la sera prima di quel maledetto concerto, ricordo che il mio rapporto con Tom stava migliorando. Ricordo come questa barriera si sia sgretolata alla velocità della luce, come sabbia tra le dita.

Ricordo i suoi messaggi rassicuranti e poi ricordo il vuoto. Il suo silenzio.

Le sue parole mi mancano, i suoi sguardi taglienti e le sue facce buffe, mi mancano.

Arrivata davanti a casa, apro il portone del palazzo e salgo le scale prendendo due scalini alla volta. In circostanze normai avrei preso l'ascensore, ma qualcosa mi dice che così faccio prima.

Faccio girare la chiave nella serratura ed entro, quasi in punta di piedi.

«Sono a casa!» urlo, per farmi sentire.

Sento dei passi pesanti farsi sempre più vicini e provo a capire il suo grado di arrabbiatura.

Chiara si avvicina con le braccia incrociate al petto e lo sguardo serio, determinato a farmi fuori anche senza parlare. Quando mi è davanti, però, sorride.

«Non sapevo che dal vivo fosse così carino» ammicca.

Allunga un braccio dietro di me per afferrare la giacca dall'appendiabiti e recupera le chiavi da sopra la mensola alla mia destra.

«Esco con Joe. Fate i bravi, mi raccomando. Al ritorno voglio tutti i dettagli!».

Mi fa l'occhiolino ed esce, lasciandomi impalata all'ingresso.

Il mio cuore inizia a battere impazzito, mentre a fatica provo a fare quei dieci passi che mi separano dal salotto.

I miei occhi saettano da una parte all'altra in cerca di indizi che mi possano portare alla verità con qualche secondo di anticipo.

Noto solo le chiavi con il ciondolo dell'Audi attaccato.

Gran bell'indizio, borbotto tra me, provando a non gridare.

Arrivo in salotto e il mio cuore si ferma. Inchioda dopo una serie innumerevole di battiti e mi abbandona definitivamente.

«Ciao» esclama Tom, quasi come se fosse sorpreso di vedermi.

«Che ci fai qui?» chiedo, senza pensarci.

Brava, Chiara! Complimenti! Tu sì che sai accogliere le persone in casa tua. Tra l'altro, non vorrei metterti ansia, ma lavoravi per lui fino a poche settimane fa!

Provo mentalmente a scacciare la vocina nella mia testa e sorrido, anche se son sicura di dare l'impressione di una ragazza abbastanza depressa.

«Vuoi qualcosa da bere? Dovrebbe essere del tè, succo alla pesca, una Coca Cola, una lattina di aranciata o non lo so. Giulia ha il vizio fastidioso di sbafarsi qualsiasi cosa piaccia anche a me!».

Ma che stai dicendo? Sei forse impazzita?

Tom sorride, scuotendo la testa. «Non preoccuparti, sono a posto così. La tua amica mi ha rifilato una birra cinque minuti fa» risponde, tranquillo.

«Ah!».

Mi siedo sul divano e strofino per un po' le mani sulle ginocchia, nervosa.

«Ho delle novità, riguardo all'episodio sulle chitarre...» inizia, buttandosi all'indietro per appoggiare la schiena allo schienale della poltrone. «Ricordo quel gruppo di ragazze fuori di testa che seguivano me e Bill un po' di tempo fa? Quelle specie di stalker?».

«Sì, ho presente».

«Pare siano state loro, sai? David vorrebbe...».

Non lo lascio finire di parlare. Scuoto la testa in segno di dissenso. «Non tornerò a lavorare per voi, Tom. Fattene una ragione!» dico, con la lacrime agli occhi.

Le asciugo veloce con una mano e cerco di nascondermi per quanto posso. Lui sorride, come se trovasse divertente il fatto che io stia piangendo per colpa sua e dei suoi amici del cuore.

Si alza dalla poltrone e mi raggiunge, mettendo un braccio attorno alle mie spalle, attirandomi appena a sé.

Lo lascio fare, non mi oppongo anche perchè sarei una pazza.

«Ehi, sto solo cercando di chiederti scusa, per quanto possibile» sussurra al mio orecchio.

«Scuse accettate» borbotto, mentre tento nuovamente di fermare le lacrime.

Sembro un fiume in piena. Odio piangere. Odio farlo per qualcuno che non merita le mie lacrime. Odio farlo, soprattutto, davanti a quel qualcuno.

Avvicina la sua mano alla mia guancia e con il pollice scaccia via una lacrima.

«Non devi piangere. Si sistemerà tutto, vedrai».

Annuisco, più per farlo contento che per altro.

Non tornerò a lavorare per loro, su questo ne sono sicura. Non sarei io se facessi una cosa del genere, andrei contro tutti i miri principi morali.

Mi attira ancora un po' a sé e mi ritrovo a poggiare la testa sul suo petto. Non sono mai stata così vicina a lui, credo di non averlo mai abbracciato in tutto il tempo che ho lavorato per loro – anche perchè erano più le volte che trascorrevamo le ore a litigare che altro.

Istintivamente circondo il suo petto con il braccio sinistro e chiudo gli occhi, provando a fissare nei ricordo il suo profumo.

Mi lascia un piccolo bacio sulla fronte e rimaniamo così in silenzio, come fossimo una vera coppia.

La cosa peggiore è che, purtroppo, l'idea di un futuro insieme mi piace anche troppo.

 

 

 

 

 

Note: Intanto ringrazio tutte quelle che hanno risposto al post che ho lasciato. Non rispondo a tutte quante perchè avete detto più o meno la stessa cosa e dovrei fare sei copia incolla e mi si incricca la mano destra (: Vi ringrazio perchè mi avete dato n po' al forza per andare avanti con questa fan fiction. Mi rendo che il capitolo è più corto degli altri ma, come avete notato, le cose si sono ben evolute e quindi può essere considerato come un “capitolo di grande passaggio!”.

Spero vi piaccia come i precedenti! Farò di tutto per continuare a pubblicare i capitoli fino alla fine. (Potrei avere già in mente un seguito, ma non assicuro niente!).

Ci vediamo al prossimo!

Xo xo,

Lady

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Capitolo 17
*** 16. ***


Capitolo 16.

 

Fortuna fortuna... tu sei capricciosa, io ci conto!
So che che non lo terrai lontano tanto tempo.
So che lo rimanderai da me.”

(W. Shakespeare)

 

 

Ho sempre pensato che inizi ad amare una persona seriamente quando chiudi gli occhi e te la ritrovi nei sogni, negli incubi, in ogni fase REM.

Il guaio più grande è che Tom non ha alcun bisogno di essere “chiamato”. Lui è sempre lì, nella mia testa, in ogni momento della giornata mentre mi affretto a piegare nella maniera più decente un golfino color panna o rosso cremisi o mentre cucino la pasta senza dover necessariamente bruciare il ragù.

La cosa peggiore, comunque, non è avere la consapevolezza di ritrovarlo di fronte alla porta di casa alla fine di ogni tour, ma sapere che l'orda spietata di ragazzine mi dà la caccia pronta a squartarmi viva.

Tom ride ogni volta che provo a fargli capire la serietà della situazione e io ormai ci rinuncio. Bill mi ascolta, o almeno, fa finta. Il che potrebbe addirittura bastarmi.

Giulia non mi è d'aiuto più di quanto lo sia Tom, nel senso che lei mi vedrebbe più su un'isola esotica con un bicchiere di succo alla frutta con tanto di cannuccia e ombrellino. Il problema è che, malgrado rischi la morte ogni volta che tento furtivamente di entrare in casa sua, su quell'isola ci andrei solo con lui.

Io e Tom non abbiamo mai parlato di questo né di cosa siamo adesso. Stiamo insieme? Forse. Siamo amici con qualcosa in più? Probabile.

Ciò che mi manca è una risposta e sono perfettamente consapevole che da questa risposta potrò ricavare la mia felicità o la mia infelicità. E' strano come, ad un tratto, la mia vita dipenda da qualcuno che fino al mese prima credeva gli avessi rovinato l'esistenza

Sento il cellulare squillare e corro in salotto a recuperarlo.«Pronto?».

Speranzosa, tento di dare una sbirciata al display per vedere se le mie ragioni sono fondate.

Sì, è lui.«Ciao, dolcezza!» mi saluta, con la sua solita aria da super figo.

La sua unica fortuna, l'unica cosa che gli permette di avere un atteggiamento del genere, è che in fondo interpreta solo sé stesso.

«Ciao, scemo!» ricambio, senza però accennare al suo stesso tono scherzoso.

Sento in sottofondo il rumore fastidio di macchine e camion che sfrecciano per la strada. Se c'è una cosa che odio sentire quando parlo al telefono è proprio quella! E dire che, il centro di Berlino, non è esattamente il posto più tranquillo al mondo a livello di traffico, durante le ore di punta,

«Si può sapere in che parte di Parigi sei? C'è un frastuono impressionante!».

«Eh, in effetti c'è un po' di traffico...» vaneggia, senza dare troppe spiegazioni.

Non che gli argomenti di discussione siano il nostro primo problema, ma non mi piace quando fa il sospettoso. Sento se mi nasconde qualcosa e ogni volta che tento di scoprirlo, puntualmente si arrabbia e mi sbatte il telefono in faccia.

Per questo, negli ultimi due mesi, ho imparato a farmi gli affari miei – in quel senso. Dopo aver appurato che il fattore tradimento non rientra affatto tra i suoi principi, posso stare tranquilla.

Anche se, visto il modo piuttosto “ambiguo” con il quale ci siamo lasciato – un bacio sulla guancia piuttosto affettuoso e un “sei importante” - ogni dubbio è lecito.

Comunque, so che non mi tradirebbe mai, questo è l'importante.

«Com'è andata l'intervista?» chiedo, spezzando il silenzio.

Il suono del clacson di un camion sembra rispondere per lui e sorrido, immaginando la classica scena dei rotoli di paglia che scivolano lungo la collina.

«Piuttosto bene, le solite domande, il tour, il nuovo album... L'intervistatrice, poi! Hai presente quelle bellezze orientali, con gli occhietti un po' allungati, lisci e setosi capelli neri, naso a...».

«Ma lo fai apposta? Cristo, Tom, non sei divertente!» sbraito, agitando la mano libera per poi buttarmi sul divano. «Sei uno stronzo e ti odio per questo! Hai per caso dato un'occhiata anche al suo fondo schiena?» continuo, senza abbassare il tono di voce.

Faccio una pausa, mentre lui sembra troppo preso dalla sua risata per potermi rispondere.

Decido di rimanere in silenzio finchè non si accorgerà che esigo una risposta. E la esigo in fretta, o rischierà di parlare un quarto d'ora da solo senza rendersi conto di star parlando da solo perchè gli ho sbattuto il telefono in faccia.

«No, ma se mi apri la porta posso esaminare per bene il tuo» dice, lasciandomi per un attimo interdetta, con la mano libera a mezz'aria e l'altra che inizia a sudare, rischiando di far finire il mio iPhone spiattellato al pavimento.

Corro all'ingresso e spalanco la porta, trovandomelo davanti più bello che mai. Appoggio il telefono sulla mensola e gli salto in braccio, circondando le braccia attorno al suo collo e le mie gambe attorno alla sua vita.

Lo stringo così forse che a momenti credo di ucciderlo, ma sembra piuttosto compiaciuto visto che sento la sua risata sul mio collo. Ci lascia sopra un bacio e mi guarda negli occhi, mentre entriamo in casa.

Scendo – anche se in braccio a lui potrei starci tutta la vita – e mi avvio in cucina, saltellando di gioia.

«Non dovevi tornare la settimana prossima?».

«No, è saltata la prossima intervista e non avevamo ragione di restare a Parigi» mormora, scrollando le spalle per poi sedersi sulla sedia a capotavola.

Sorrido, divertita. «Be', è una bella città...».

«Magari un giorno ci andiamo, io e te. Se ti va, naturalmente».

Abbassa lo sguardo tentando di nascondere il lieve rossore sulle sue guance.

Lo raggiungo e lo abbraccio da dietro. «Tom Kaulitz è arrossito!» ridacchio, schioccandogli un bacio sulla guancia.

Mi afferra per i gomiti e finisco inevitabilmente per sedermi sulle sua ginocchia.

«Se non lo dici a nessuno ti pagherò il volo».

Alzo la mano aperta e aspettò che mia dia il cinque. «Andata!».

Quando finalmente si rende conto che deve mettere la sua mano sopra la mia e batterla leggermente, annuisce e finalmente risponde al gesto, ma concludendo intrecciando le sue dita alle mie.

Punta i suoi occhi sui miei e rimaniamo per qualche secondo a fissarci, senza dire una parola.

Poi sussurra quelle parole, che ho sognato spesso.

«Dobbiamo parlare».

 

 

 

 

 

 

 

Note: scusate se è corto, ma allungandolo di altre due pagine veniva troppo noioso. Preferisco fare ottocento capitoli corti e fatti bene che trenta capitoli lunghissimi che non rendano nulla! :)

Fatemi sapere, un bacio!

Lady

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Capitolo 18
*** 17. ***


Capitolo 17.

 

 

Si può non amare e tuttavia essere amati.

Ma quando le carte vengono scoperte e tutto viene svelato,

chi sarà il primo a deporre le armi?

 

 

 

Mia mamma diceva sempre quando si vuole una cosa non dobbiamo far altro che allungare una mano ed afferrarla. Ma, prima di afferrarla, dobbiamo assicurarci di avere tutte le carte a posto per non finire nei guai.

Il problema del suo sorriso è che non sempre riesce a scatenare in me reazioni positive. Perciò ogni volta che mi irrita vorrei allungare le mani per afferrare il suo collo e ucciderlo.

Ciò che mi frena rimane, appunto, il lato desiderabile che mi impedisce di finire in galera.

Mi alzo dalle sue ginocchia e mi avvicino al ripiano per afferrare la lattina di Coca Cola lasciata lì sopra prima di venire interrotta dalla sua improvvisa apparizione.

Lo guardo di sottecchi per fargli capire che sono pronta a tutto, come sempre. Pronta a sentirmi dire che non sono abbastanza, che sono tutto, che non sono nemmeno un puntino, che non sono niente.

Pronta a sentirmi dire “ehi, sei troppo bella perfino per me”.

Senza togliersi quel dannato sorriso si sistema meglio il cappellino sulla testa. «Ci ho pensato per tutto il tempo che sono stato via. Ogni volta che vedevo spiccare il tuo nome sul mio cellulare era un po' come immaginarti qui adesso. Mi sono sentito un idiota, un cretino. Io non sono mai stato così, Chiara. Io non sono questo. Io non mi innamoro mai».

Aggrotto le sopracciglia, confusa. «Cosa stai cercando di dirmi?».

Sospira, rassegnato. «Non lo so, ma ho un grande macello in testa».

«Prova a partire dall'inizio, di solito si fa così» lo incoraggio, abbozzando un sorriso.

Scuote la testa, abbassando lo sguardo. «Non mi sento me stesso.»

«Continuo a non capire. Hai degli squilibri di personalità?».

«No, sei tu che mi squilibri. Ti odierei se provassi almeno un briciolo di rancore nei tuoi confronti. Ho almeno un miliardo e mezzo di motivi per farlo, eppure appena parlano di te non riesco a non pensare che vorrei averti accanto a me. Ma poi ripenso a ciò che sono – o almeno, a ciò che ero – e capisco che non potrò mai essere abbastanza. Tu sei fantastica, giuro. Potrei campare altri cent'anni senza pentirmi di aver approvato la tua assunzione, quel giorno. Tutto questo macello non era previsto».

Fa una pausa. Decido di non parlare, visto che continuo a non capire. Non capisco ciò che sta disperatamente cercando di dirmi. Non capisco se prova affetto nei miei confronti, se è ciò che vuole o ciò che non avrebbe mai voluto desiderare.

Non capisco se sono un bene io.

«Se non fosse successo l'episodio delle chitarre, tu...».

«Preferirei non parlarne, Chiara. E' un fatto chiuso e risolto».

«Se lavorassi ancora per te, se fossi ancora l'assistente di David, tutto questo sarebbe mai successo?».

«E' inevitabile, non mi dire che ti stupisce!».

Mi torna in mente la sera in cui David mi cacciò via dal palazzetto, con tanto di lettera del licenziamento e un biglietto aereo per Berlino.

Ricordo che provai rabbia, dolore, disperazione. Ricordo che Tom fu l'unico a credermi, sin dal primo momento.

«Cosa vuoi da me?» chiedo, incrociando le braccia al petto, appoggiandomi al ripiano dietro di me.

Si alza in piedi e mi raggiunge. Sento la stoffa dei suoi jeans solleticare appena le mie caviglie, segno che è vicino, troppo vicino.

Inchioda i suoi occhi ai miei e rimaniamo così per dei secondi che a me appaiono infiniti, senza un limite.

Dio, se mi abbandoni adesso divento laica, penso, mentre tento con tutte le forze di non cedere a quel piccolo contatto.

«Dimmi che la lontananza per te è troppa. Dimmi che non ce la fai a starmi lontana, che vorresti vedermi tutti i giorni, baciarmi, addormentarti con me al tuo fianco nel letto di casa tua. Dimmi che hai bisogno di me e che non mi lascerai mai andare. Dimmi che il mio lavoro ci impedisce di stare insieme e che per questo tutto ciò è sbagliato e fa male a entrambi».

Posa le sue mani sui miei fianchi e sembra non voler assolutamente staccare il contatto tra i nostri occhi. Mango giù il groppone che mi era formato in gola durante il suo discorso.

Come può chiedermi di allontanarlo, di odiarlo, di far finta di niente?

«Non ha senso, perchè dovrei?» mormoro, abbassando lo sguardo, non trovando più la forza di sostenere la sua disperazione negli occhi.

«Perchè stai rendendo tutto dannatamente difficile. Se ti dicessi che mi piaci, che muoio dalla voglia di baciarti, quanto credi cambierebbero le cose?».

Si allontana e inizia a fare avanti e indietro per la cucina. Non credo di averlo mai visto così agitato, ma fa veramente paura, soprattutto perchè è sempre stato bravo a controllarsi, a non rendere partecipi gli altri delle sue emozioni.

Il fatto è che più lo conosco e più mi viene voglia di dirgli “sì” tutta la vita, per qualsiasi cosa.

Se un giorno mi chiamasse e mi dicesse: “Tu da domani porterai le minigonne”, probabilmente andrei al negozio d'abbigliamento in fondo alla via e ne comprerei cinque di colore diverso, giusto per cambiare, anche se non sono esattamente nel mio stile.

Se mi chiedesse di mollare tutto e di partire, probabilmente farei anche quello.

«Cambierebbe abbastanza da far crollare quella specie di muraglia che hai costruito negli ultimi vent'anni della tua vita!» sbotto, uscendo dalla cucina.

Raggiungo camera mia e sbatto la porta, lasciando Tom in mezzo alla cucina con le braccia ancora a mezz'aria.

Mi butto sul letto e copro la faccia con il cucino, soffocando l'urlo che tenta in tutti i modi di uscire dalla mia bocca. La voglia di tornare di là e prenderlo a pugni è tanta, ma sono fermamente convinta che un po' di silenzio – come se no ce ne fosse mai stato abbastanza, tra me e lui – questa volta farà bene a entrambi.

Sono talmente concentrata che cado nel sonno senza nemmeno accorgermene.

 

 

 

Borbotto qualcosa mentre mi giro nel letto sdraiandomi sull'altro fianco.

Noto che le coperto sono state tirate su fino a coprire le mie spalle. Sorrido.

Come posso odiare quel cretino patentato quando mi stupisce con gesti del genere? Dovrò fare due chiacchierate con Giulia, giusto per farle capire che non è così rozzo come sembra. Apro gli occhi e a tentoni cerco la sveglia sul comodino. Le sei e mezza. Ho dormito quattro ore ed è quasi ora di cena, seguendo le mie abitudini.

Scendo dal letto e mi avvio in salotto dove spero di trovare Tom, ma in casa sembra regnare il silenzio assoluto.

«Tom?» provo a chiamarlo, ma non risponde nessuno.

Sbuffando, entro in cucina, trovando poi un foglietto ripiegato sul tavolo della cucina.

Perfetto, come sempre ha trovato il modo migliore per chiudere una conversazione. Non che questo mi stupisca perchè effettivamente è in pieno stile Kaulitz. Almeno è rimasto sé stesso.

Apro il foglietto e le mie labbra si stendono in un automatico sorriso.

Vuoi essere la mia ragazza? Facciamo come alle elementari, barra la casella del o del no”.

Prendo la penna lasciata accanto al messaggio e, senza esitare, barro la casella giusta.

 

 

 

 

 

 

Note: dovevo postarlo domani, ma non ho resistito!

Buona lettura ;)

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Capitolo 19
*** 18. ***


Capitolo 18.

 

 

Veniamo al mondo che non abbiamo niente,

eppure otteniamo sempre tutto.

 

 

 

E poi ti ritrovi nel salotto di casa tua con la nonna intenta a svuotare una valigia piena di regali made in Australia.

Ho sempre amato stare in sua compagnia, specialmente negli ultimi anni quando mi ha ritenuta abbastanza grande da poter comprendere il peso della sua età.

Che poi non è mai stata una di quelle nonne noiose che passano il proprio tempo a ricordare il periodo della guerra, la crisi, la povertà e tutte le altre cose. Non riesco a immaginarla, sinceramente, alleata di quel tale pazzo coi baffetti, ma nemmeno in un campo ad arare la terra.

Da come è cresciuta mia mamma immagino abbia sempre fatto “la bella vita”, considerando che dieci anni fa, dopo la morte del nonno, ha deciso di partire per l'Australia e circondarsi di koala.

«Tieni, questo è per te!» dice tutta contenta, consegnandomi un piccolo pacchetto dalla stoffa blu. Lo apro e verso il contenuto nella mia mano. Un braccialetto di cuoio con piccole conchiglie bianche, alternate a dei nodi sempre in cuoio. L'ho sempre detto che ha il buon gusto.

«Grazie, nonna. E' bellissimo» dico, alzandomi per raggiungerla sul divano e abbracciarla.

Mi stringe a sé e capisco quanto mi sia mancata, quando avrei voluto averla sempre accanto a me. Non che mi dispiaccia andarla a trovare in Australia, ma a volte hai quella sensazione che i consigli della nonna siano migliori di quelli degli altri, persino di quelli che ti dai spontaneamente.

«Allora, devi raccontarmi di questo Tim» dice ad un tratto, staccandosi a me e guardandomi negli occhi, con fare indagatore come solo lei può.

«Si chiama Tom, nonna. Niente, suona la chitarra, è bello, gentile ed educato. Tutto qui».

«Tutto qui? Ragazza mia, io alla tua età non mi limitavo al “buono, gentile ed educato”» esclama, dandomi una gomitata e scoppiando a ridere.

Alzo il sopracciglio, perplessa. «Che intendi dire?» chiedo, avviandomi poi in cucina.

Mi segue e si siede sulla sedia, mentre io accendo il pentolino del tè.

«Ai miei tempi si andava fino in fondo!» sorride, battendo una mano sul tavolo.

Il suo strano accento americano rende la cosa ancora più imbarazzante. Appoggio le mani al ripiano per cercare di non cadere, mentre le mie guance si tingono di uno strano rosso porpora.

Mi volto e sgrano gli occhi. «Non eravate tutte santarelline casa e chiesa?».

«A tua nonna piaceva andare contro il sistema» risponde, scrollando le spalle.

Ecco, lo sapevo. Ora riesco a capire da chi ho preso la vena del “questa cosa non la faccio perchè la fanno tutti!”.

«Ad ogni modo, quando me lo presenti?».

Guardo l'orologio appeso al muro, scuotendo la testa. «Tra un po' sarà qui».

«Viene da Amburgo, giusto? Che caro ragazzo! Dovreste trovare un punto d'incontro, magari potresti tornare là. Non lavoravi ad Amburgo, prima?».

«Sì, nonna, ma ti ricordo che sono stata cacciata...».

«Per degli errori che non hai commesso! Piccola mia, fatti valere o ti mangeranno!».

Scoppio a ridere, sinceramente divertita. Ho sempre pensato di non avere una nonna normale, nel senso che non è mai stata come quelle delle mie amiche, ad esempio. Sono sempre stata libera di parlare di qualsiasi cosa in sua presenza, senza dover mettere quegli assurdi paletti che di solito le persone fissano in famiglia. Non mi piace nasconderle le cose, preferisco dirle tutto e sorbirmi i suoi insulti, piuttosto che mentirle.

«Nonna, credo di amarlo» sbuffo, versando il tè nelle due tazze per poi raggiungerla sul tavolo.

Lo sorseggio piano, mentre la nonna riempie la tazza di una quantità infinita di zucchero.

«E allora dimostraglielo, fagli vedere che di te si può fidare. Fagli vedere che non deve avere paura, che le distanze non dividono, ma rafforzano i legami. Tesoro, se ami una persona non devi far altro che dare tutta te stessa e sperare che ricambi».

Rimango un attimo spiazzata, ma poi annuisco.

Mia nonna ha ragione, devo dimostrargli che sono pronta anche all'Inferno, per lui.

«Quando ero giovane, tuo nonno mi disse che mi amava al secondo appuntamento».

«Io pensai lo stesso di Tom, ma la prima volta che lo vidi».

Sorrise. «Erano altri tempi, ma devi capire che l'amore non ha età e non parlo della differenza sostanziale di anni tra uomo e donna. Sono passati quasi cinquant'anni e non c'è giorno in cui mi penta di averlo scelto. Anche se penso di essermi lasciata scegliere. E' lui che ha scelto me.»

«Non avevi paura? Ti sei sposata giovanissima, avevi la mia età...».

Sospira, senza però smettere di sorridere.

Uno degli altri motivi per cui amo mia nonna è che quando mi parla del suo passato, lo fa sempre con la dose giusta di amore e tristezza, mettendo in mostra ciò che di più bello e più brutto ha dentro.

Credo che non parli di queste cose nemmeno con mia madre.

«Ero sicura, Chiara. Bisogna essere sicuri, nella vita. Sempre!».

«Già... Vai a trovare la mamma, più tardi?».

Provo a sviare il discorso. Tutto questo parlare di amore, di passato e quindi di Tom mi ha fatto venire il mal di stomaco.

Annuisce, alzandosi. «E' meglio che vada, prima che cambi idea. Sono sicura che ci sarà un'altra occasione per conoscere il tuo Tom, magari migliore di questa.»

Dopo averla salutata e infilato il suo braccialetto al sicuro nel cassetto sotto al telefono, inizio a mettere un po' in ordine la casa. Non che mi interessi averla perfetta al suo arrivo, ma ho sempre pensato a come potrebbe vedermi se vivessi nel caos più totale. Forse non gli importerebbe granchè, considerando le pessime condizioni di camera sua.

Mentre mi affretto a gettare – in senso letterale – delle riviste dentro a un cassetto a caso del salotto, il campanello annuncia quasi trionfante il suo arrivo.

Mi precipito alla porta e con troppo slancio la spalanco, trovandomi davanti Tom in tutti i suoi centonovanta centimetri.

«Ciao» sorrido, come un'ebete.

«Ciao» ricambia, facendo un paio di passi in avanti per entrare.

Chiudo la porta e mi avvicino a lui, abbracciandolo. Appoggio la testa a suo petto e senza rendermene conto inspiro il suo profumo. Dopo dieci giorni di astinenza da quel profumo credo di meritarmi almeno la boccetta vuota.

«Nonna Eva è tornata?» chiede, accarezzandomi la schiena con una mano, tenendo l'altra ferma sul mio fianco.

«E' andata via da qui poco fa. Credo che un giorno te la presenterò».

«Le starò sicuramente simpatico, non preoccuparti. Da una certa età in poi mi amano tutte!» ridacchia.

«Ti amano anche quelle da prima di quella certa età, sai?».

«E' un modo carino e alternativo per dirmi che mi ami?».

«Suonerebbe strano?».

«Affatto. Dovresti ripetermelo più spesso, per almeno un milione di volte» sussurra al mio orecchio.

Sorrido, alzando appena la testa per potergli lasciare un piccolo bacio sulle labbra.

Credo di avere, in un certo senso, paura di lui. Paura di legarmi a lui di nuovo, di vederlo partire senza voltarsi a guardarmi, di vedere di nuovo nei suoi occhi quella nota di amarezza, di tristezza, di delusione, di rabbia, la stessa di quel giorno al palazzetto.

«Ti odio quando mi fai sentire la tua mancanza, sai? Ma ti odio ancora di più quando mi dici che il tempo passerà in fretta e tornerai da me presto, molto presto!» borbotto, ancora tra le sue braccia.

«Torna ad Amburgo. Torna da me. Non è difficile» dice, come se fosse un'ovvietà.

«Me l'ha detto anche la nonna. Secondo lei dovrei tornare da voi...».

Scoppia a ridere, divertito. Mi stacco e mi allontano raggiungendo il divano. Mi ci siedo sopra si peso e incrocio le braccia al petto.

Mi piacciono questi momenti, dove litighiamo e poi facciamo pace...a modo suo. Anche se non abbiamo mai fatto esattamente a modo suo... ma questa è un' altra cosa.

«Non ci trovo niente di divertente. E' una cosa seria, Tom».

«Lo so, infatti ero serio quando ti ho detto di tornare ad Amburgo».

Lo guardo e per un secondo rimaniamo a fissarci negli occhi senza dire una parola.

Poi non resisto, e gli salto letteralmente addosso incrociando le mie braccia attorno al suo collo.

«Dovrei?».

«Dovresti, sì».

«Devo cercare un appartamento e chiedere a David – anzi, supplicarlo – di ridarmi il posto. E dovrei prima parlarne con Giulia e...».

«Per la casa non c'è problema. Vieni a vivere da me e Bill, no?».

«Come una vera coppia?».

«Esattamente» dice, facendomi l'occhiolino.

«Ma se non abbiamo mai nemmeno dormito nello stesso letto!».

Scrolla le spalle. Evidentemente per lui non sarebbe affatto un problema. D'altra parte è abituato, no? Non gli farebbe alcuna differenza, visto che è capace di adattarsi a qualsiasi cosa.

Eppure... Abitare insieme vorrebbe dire condividere il letto, il bagno, la tv, i cereali la mattina, le bollette, il giardino, la piscina...

«A David ci penso io, tu vedi di fare la valigia in fretta!» mi incoraggia, scoccandomi un bacio veloce sulle labbra.

Annuisco, alzandomi dal divano.

Vado in camera e mi guardo attorno, cercando con gli occhi un posto dove nascondere le borse e dirgli che lo ho perse, quindi impossibilitata a venire ad Amburgo.

Poi il mio sguardo si posa sul letto. A parte me, lì dentro non è mai entrato nessun altro. L'idea di condividerlo con Tom mi mette paura, ansia, consapevolezza che forse è stato uno sbaglio aspettare o essere così precipitosi.

Scuoto la testa ed esco dalla camera, chiudendo poi la porta.

Torno in salotto e mi siedo accanto a Tom, sul divano.

«Che ne dici di fermarti da me, stanotte?».

 

 

 

 

 

 

Note: Scusatemi il ritardo, ma ho davvero avuto un sacco di cose da fare, tra scuola e le guide di patente. Ho notato che sono un po' diminuite le recensioni... Ah, ho fatto un attimo un riepilogo e direi che siamo vicini alla fine di questa fan fiction. Ma non temete, ho già in mente il seguito :) Direi che mancano ancora circa due o tre capitolo più l'epilogo!

Questo capitolo l'ho scritto Domenica, dopo aver passato la nottata sveglia per colpa di quelle maledettissime scosse di terremoto! Io sono di Verona, per fortuna non è stato come a Ferrara e dintorni... Ma l'ansia mi ha stimolato i neuroni del cervello e alla fine ho scritto questo coso. Non sono sicura che renda abbastanza, ma spero vi arrivi come è successo con i precedenti!

Xo xo,

Ladys

 

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Capitolo 20
*** 19. ***


Capitolo 19.
 
Non che non amassi tutte le attenzioni di Tom, ma è dall’era giurassica che si dice che quando un uomo è troppo gentile con una donna è perché nasconde qualcosa di importante, molto importante.
E a me i segreti non sono mai piaciuti. Primo, perché si finisce sempre col mentire in qualcosa e fa parte del codice morale di ognuno non mentire. Secondo, non ne vedo l’utilità. Via il dente via il dolore, no?
No, secondo Tom Kaulitz.
«Amore, domani vengono a cena mamma e Gordon, che ne dici?» mi urla dal salotto, dove è comodamente stravaccato sul divano a guardare il Jersey Show.
«Dico che potevi dirmelo con un pizzico di anticipo in più. Domani sono via tutto il giorno, non avrò il tempo di cucinare e lo sai!» borbotto.
«Amore, non ti preoccupare. Ci penso io» dice, affacciandosi alla porta della cucina.
«Sì, certo. Pizza e patatine» rido, alzando gli occhi al cielo.
«Non puoi chiedermi di più, mi spiace».
Da due giorni a questa parte, Tom non fa che iniziare ogni frase con “amore” o “cucciola” o “piccola”. Se fino a un anno fa non poteva vedermi, ora deve avermi scambiato per una Dea. Non che la cosa mi dispiaccia, anzi, ma ero abituata al suo essere rude e grezzo anche nelle situazioni, come dire, sdolcinate. Invece di dirmi “ti amo”, una volta preferiva dirmi “sei la prima cosa che viene dopo la musica, mio fratello, la mia famiglia e le chitarre”. Ero questo il massimo del suo romanticismo e io, da brava “fidanzata” ci avevo pure fatto l’abitudine.
Sento due braccia cingermi i fianchi da dietro e sobbalzo, per la sorpresa.
«Quanto ti manca?» chiede, senza staccare le labbra dall’incavo del mio collo.
«Abbastanza, perché?».
«Ho fame» dice.
Lo sento sorridere e tento, per quanto possibile, ti tirargli un piccolo schiaffo sulla testa. «Idiota».
«Tu ami questo idiota, fattene una ragione».
«Prenderò le tue parole alla lettera, ma poi non ti lamentare se deciderò di abbandonarti in mezzo alla strada perché diventi troppo sdolcinato!».
«Ti piacciono gli uomini aggressivi, ho capito!».
Mi gira fino a guardarlo negli occhi, poi inizia a farmi il solletico.
Mi divincolo e, dopo aver saggiamente abbandonato il cucchiaio sporco di sugo sul ripiano della cucina e non per terra, inizio a scappare.
Mi rincorre per tutta la casa finché le sue gambe chilometriche riescono a raggiungermi e le sue braccia, troppo forti perfino per me, non mi catturano imprigionandomi con la schiena al muro.
«Tutta la tua ginnastica sta facendo effetto, vedo» sussurra, col fiatone.
«Sono molto soddisfatta, in effetti».
Mi guarda negli occhi per un periodo tempo che mi pare interminabile. Come sempre, come ogni volta, finisco per contemplare i suoi occhi nemmeno fossi stata soggiogata. Non è che sono stupida – almeno lo spero – ma i suoi occhi sono veramente qualcosa di…illegale.
«Mi nascondi qualcosa» dico, prima di avvicinare le mie labbra alle sue.
Si stacca e sorride, con quel suo sorriso sghembo che lo fa tanto sembrare idiota, in effetti.
«No».
«Sì».
«No».
«Sì e sai perfettamente che è così!» sbuffo, incrociando le braccia al petto.
«D’accordo, ma non è niente di grave, amore. Davvero…!».
«Dimmelo!».
Abbasso lo sguardo e milioni di dubbi mi invadono la mente, mandandomi nel panico. Immagino le cose più assurde, più sconvolgenti, catastrofi in arrivo e vari cataclismi.
Poi, con un sussurro quasi impercettibile, dire: «A fine anno ci trasferiremo a Los Angeles».
 
 
Note: scusate il ritardo, ma tra vari impegni non ho avuto tempo! Buona lettura ;D

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