Fioritura in La Bemolle. di Lucy_lionheart (/viewuser.php?uid=134218)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Strawberry Fields. ***
Capitolo 2: *** 2. The Librarian. ***
Capitolo 3: *** 3. Start Over ***
Capitolo 4: *** 4. Reborn. ***
Capitolo 1 *** 1. Strawberry Fields. ***
1.
Strawberry
Fields.
La pioggia cadeva rumorosa, fitta, migliaia di gocce sottili come aghi.
Sotto essa respiravano bocche di uomini e donne che fuggivano
sull’asfalto
bagnato, riempiendosi le scarpe, i pantaloni o le calze di schizzi di
sporcizia. Le strade erano un vorticare di ombrelli dai mille colori,
le
macchine non si muovevano di un centimetro e tanti erano quelli che,
spazientiti, premevano con rabbia sul clacson.
L’odore dell’acqua era irraggiungibile, soffocato
dalle fognature traboccanti,
dalla benzina e dal fumo delle sigarette.
Quello, le urla delle macchine, il vociare di chissà quante
persone e la calca
umida che andavano a comporre, stavano ospitando un qualcosa.
Ma nessuno lo sapeva, tranne questo qualcosa, o meglio, qualcuno, che
si faceva
spazio a spallate nella massa: niente ombrello , i vestiti
completamente
bagnati e il cappuccio che calava sul viso femminile, sulle labbra
sporche; la
lingua guizzò fuori da esse, le leccò e la
giovane arricciò il naso, disgustata
dal sapore del ferro e da quello della pioggia sporca.
Doveva arrivare a casa, immediatamente.
Corse ancora, le converse finirono più volte in pozzanghere
paragonabili a
laghi e le ginocchia continuarono a tremare sempre di più,
per la stanchezza di
una corsa che durava da più di un chilometro e, soprattutto,
per la paura.
Svoltò ancora e ancora, entrò in una via
illuminata da poche insegne e fatta di
più mattoni e, una volta arrivata davanti ad una scalinata
tutta in ferro e a
zig-zag, si mise a saltare quei gradini quasi due a due, una mano ben
stretta
alla ringhiera bagnata.
Aveva troppo timore per ciò che stava stringendo contro il
petto per
preoccuparsi di qualcosa come cadere di sotto.
Fatte almeno sei rampe, finalmente, si fermò e
infilò la mano sinistra nella
tasca; la chiave, la chiave, dov’era la chiave!?
“ Eccola! ”
Disse a se stessa, tirando fuori il mazzo e infilando la chiave
più grossa
nella porta accanto a lei. Fattò ciò non si
preoccupò nemmeno di chiuderla, ma
tirò a dritto perl corridoio tappezzato, fino a giungere ad
un’ennesima porta,
laccata di verde.
Aprì anche questa, ma una volta entrata in un salotto buio,
vide bene di
chiuderla, girando la chiave nella toppa ben due volte; solo allora si
voltò e
quasi colpì l’interruttore della luce, rivelando
un appartamento distinto e dai
grandi pavimenti in parquet, sulla quale le gambe esauste si
abbandonarono.
Il cuore non le era mai battuto tanto, nemmeno quando aveva dato il suo
primo
bacio.
“ Sono al sicuro. ”
Scandì mentalmente e più di una volta, come a
volersi tranquillizzare.
Solo allora staccò dal petto quello che aveva protetto per
tutto il viaggio, la
causa della sua corsa senza fine, e lo gettò sul pavimento:
era una borsa di
plastica.
Una borsa di plastica in grado di sbranare la
camicia sulla quale era
stata premuta fino ad allora.
La ragazza si tirò giù il cappuccio, rivelando
dei capelli che, se non fossero
stati zuppi d’acqua, avrebbero avuto una tinta rosso
brillante e una piega
riccia, anzi, ribelle.
Oltre a questo c’erano due occhi azzurri contornati da ciglia
scure, che adesso
seguivano, seri e concentrati, ogni mossa che avveniva dentro quel
sacchetto di
plastica bianco del supermarket.
Qualcosa si stava muovendo, sì.
Si muoveva alla continua ricerca dell’apertura e, al
contempo, emetteva versi
striduli che facevano rizzare i peli sulla pelle di lei.
Un’altra mossa, più
violenta, che fece spostare tutto di una decina di centimetri, e
ciò che
agitava la busta fece capolino da essa con un gemito soddisfatto.
« Cosa diavolo sei. »
Spirò con voce tremante, osservando quello che, ad una prima
occhiata, altro
non sembrava che un giglio bianco e violetto, sbarbato da
terra
con tutte
le radici. Radici che si muovevano, facendogli compiere passi incerti e
infantili, mentre sbatteva delle grandi ciglia trasparenti poste sui
due petali
laterali.
Le grandi iridi gialle, dopo aver lanciato sguardi strabici alla
stanza, si
ritrovarono addosso alla rossa, la quale ricambiò con uno
sguardo a dir poco
inquieto.
Sulla corolla si aprì un sorriso innaturale, composto da
tante fila di dentini
appuntiti.
« Camille. » Disse il fiore, con voce stridula e
disumana. « Camille, Camille.» Ripeté.
La stava cercando; quell’orrenda bestia sapeva dire solo il
nome di colei che
aveva di fronte e, nemmeno un’ora fa, l’aveva colta
da terra.
Camille amava fare molte cose e tra queste c’erano le
passeggiate. Central
Park, lo spazio verde per antonomasia di New York City, era
indubbiamente il posto
adatto e non passava una settimana senza farvi visita almeno tre o
quattro
volte. Si portava dietro i compiti, l’mp3 o un libro e si
stendeva nei pressi
di Strawberry Fields, in onore dei suoi tanto amati Beatles.
Quel giorno, però, si era fermata un po’
più in là, in una zona un po’ meno
affollata; doveva studiare un capitolo di storia settecentesca e non
voleva
distrazioni.
Stesa sul telo che si era portata dietro, aveva alzato gli occhi solo
dopo che
Robespierre, in una scritta in grassetto a pagina 478, era stato
ghigliottinato.
Nell’acceso verde monotono di quel posto, spuntava, quasi
facendo male agli
occhi, un fiore bianco e viola, con i petali appuntiti.
Lei avrebbe voluto tornare a Robespierre, se non fosse stato che
un’altra cosa
che amava era il giardinaggio e una che odiava, la storia.
Ricordava come si fosse inginocchiata vicino a quel fiore con il
coltello che
aveva portato da casa per sbucciare il suo spuntino,
un’arancia, e avesse
iniziato a scavare attorno ad esso, fino a tirar fuori le radici e una
bella
zolla di terra. Tornata a casa, l’avrebbe piantato in un vaso
vicino a quello
delle margherite.
Soddisfatta, aveva portato il naso a pochi millimetri dai petali e
dalla
corolla, per annusarne la fragranza.
Ma quello non profumava, il suo odore era tutto fuorché
gradevole. Sbigottita,
realizzò che sembrava carne marcia.
Fu in quel momento che gli occhi gli si aprirono e i denti graffiarono
il
labbro di Camille, un secondo prima che lo allontanasse con un urlo
terrorizzato.
Quello che le era sembrato un fiore da coltivare, ora batteva i due
occhi
verticali e la fissava, mentre attorcigliava le radici intorno al suo
polso,
stringendo tanto da farle male.
Allora Camille aveva agito d’istinto e, ficcata la mano nella
busta, aveva
iniziato a colpire, provocando le grida raggelanti di quella piante
maledetta.
“Devo andarmene.”
Aveva pensato, notando che quelle urla avevano attirato sguardi
curiosi.
Era così che aveva deciso di finire quello che aveva
iniziato nel suo
appartamento, dove ora si trovava insieme a quel… mostro.
Il fiore rise, mostrandole le fauci, e Camille, con orrore, vide tra
esse i
brandelli a quadri della sua camicia, il rosso del sangue delle sue
labbra e le
bucce dell’arancia.
Guardò dentro il sacchetto: si era mangiata pure il coltello.
« Camille, Camille. »
Chiamò ancora, facendo cadere fuori dalla bocca la lingua
biforcuta. Ma Camille
ovviamente non rispondeva, presa a pensare come diavolo potesse
risolvere
quella situazione.
Come poteva ucciderla?
Di certo non con un’arma, figurarsi, si era mangiata un
coltello! E se per due
pugni aveva gridato in quel modo, chissà che avrebbe fatto
se avesse provato, per
ipotesi, a bruciarla.
Abitava in un condominio, poco ma sicuro che qualcuno avrebbe chiamato
le
autorità pensando che la figlia dei vicini stesse
assassinando un’amica che
l’aveva tradita.
« Camille, Camille! »
« Basta… »
Disse, con i denti serrati, prima di fare l’ultima corsa,
quella verso camera
sua.
Poteva udire chiaramente, dietro la porta, il mostro continuare
a
chiamare il suo nome.
Girò e rigirò la chiave, mettendo una sedia sotto
il pomello. Non pensava che
quel coso avesse la forza necessaria e, soprattutto,
l’intelligenza per aprire
la porta, ma verso le quattro del mattino, quando sentì
qualcosa grattare
contro di essa, realizzò che le sue radici lo portavano
ovunque
esso desiderasse.
__________________________________________________________________________________________________________________*
Zam zam,
ecco il prologo.
Che cos'è
l'essere nel sacchetto?
Tutto si
scoprirà nel prossimo capitolo. ♥
Chiedo scusa per l'impostazione più "da libro" (senza
spaziare i dialoghi, per capirci ), ma c'è un motivo per cui
l'ho lasciata così... Nel caso risulti estramente scomodo da
leggere, ditemelo, rimedierò.
Spero che abbia
incuriosito qualcuno e, soprattutto, di ricevere commenti ecc...!
Baci!
_Valkyrie.
|
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Capitolo 2 *** 2. The Librarian. ***
2.
Topo
da biblioteca.
Quando si svegliò ( per quanto avesse
potuto
dormire), la mattina dopo, il fiore era sparito.
Camille non aveva perso altro tempo e, preso lo zaino e le chiavi, era
corsa a
scuola. Non si era lavata e nemmeno pettinata, era riuscita giusto a
cambiarsi
i vestiti sporchi, visto che l’armadio era in camera sua, e
alla terza ora era
stata colpita da una stanchezza così forte che il professore
l’aveva spedita
prima a prendersi un caffè e poi in infermeria.
Tutti si erano accorti che qualcosa non andava; Camille Jennyson era
una
ragazza estremamente curata nell’aspetto, invidiata per i
vestiti
floreali e particolari che indossava con naturalezza estrema, per le
scarpe
taccate su cui riusciva a correre.
Oltre a ciò era anche un’ottima studentessa,
seppur estremamente silenziosa,
una persona serena, ma con un bel caratterino.
Quella mattina, nel liceo femminile sulla Trentanovesima, sembrava che
ci fosse
una copia sbiadita e mal fatta della Camille che tutti conoscevano.
La riccia, seduta ad uno dei tavoli della mensa assieme al suo solito
gruppo,
scansava svogliatamente la carne dello spezzatino, mangiando solo i
pisellini.
Aveva deciso da circa due mesi di diventare vegetariana e
ciò dava alle amiche
un’ottima causa dalla quale far derivare quella stanchezza.
«Dovresti mangiare almeno i bocconcini!»
«Non è la carne, ragazze.»
«E cosa?»
«Boh, avrò donato troppo sangue.»
Mentì, inforcando l’insalata. Solo allora, mentre
masticava un pomodorino, i
suoi occhi si posarono due tavoli più in là:
seduta con la sola compagnia di un
grosso libro e alcuni muffin, stava una ragazza mai vista prima.
Indossava una felpa e portava gli occhiali, di cui poteva scorgere la
montatura
spessa, come andava di moda ultimamente.
Solo quello le era concesso vedere, visto che la testa era sempre china
su quel
volume e che i suoi lunghi capelli mori, tagliati davanti con una
grossa
frangia, le coprivano il volto.
«Chi è lei?»
Chiese, mentre prendeva un sorso d’acqua.
«Ah, dici quella? E’ arrivata quest’anno,
pare sia della California. Però non
so come si chiama.»
«Io la conosco! Era nella mia classe di letteratura
straniera, nessuno andava
bene come lei. Si è offerta pure per fare la custode della
biblioteca, però non
parla molto.»
«Sembra timida.»
«Lo è, Cam, in compenso scrive.»
«E’ una scrittrice?»
«Boh, forse lo vuole diventare. Nello scorso compito di
letteratura del
trecento ha preso il massimo.»
«Un topo da biblioteca, insomma!»
«Eh, brava, Liz, il tipo è quello.»
Ormai le ragazze si erano impossessate di quel discorso che Camille
aveva smesso
di ascoltare dopo il “boh”, tornando con la
mente al Problema.
I suoi genitori erano via, quindi nessuno avrebbe potuto trovare quello.
Doveva sbrigarsela da sola.
Di dirlo alle ragazze non se ne parlava, avrebbero detto che
aveva le
travergole o si sarebbero spaventate da morire.
Però il sentir parlare della biblioteca le aveva fatto
venire in mente che,
forse, in quel luogo avrebbe trovato qualcosa d’interessante.
Così si era
inventata l’ennesima scusa ed era corsa nel lato est
dell’edificio, dove si
trovava il posto che aveva catturato la sua attenzione.
La biblioteca della loro scuola era stata da sempre estremamente
fornita e
polverosa; non a caso un’ottima scusa per evitare il turno da
bibliotecari era
dire di essere allergiche agli acari.
Camille si aggirò tra le file di scaffali in legno scuro,
guardando le lettere
in alto.
Dove avrebbe dovuto cercare? Alla “M” di
“mostri”? No, lì era tutto diviso per
autori, non certo per generi! Magari un’enciclopedia, libri
di piante… l’unica
cosa che era riuscita a pensare era che quell’orrore fosse
una specie di pianta
carnivora.
« Ti serve aiuto?»
La voce alle sue spalle la sorprese così tanto da farla
sussultare; era
talmente presa dai suoi pensieri da non essersi accorta della figura
che,
timidamente, la stava osservando almeno da cinque minuti buoni e solo
ora aveva
avuto il coraggio di parlarle.
Con una certa sorpresa, Camille riconobbe la ragazza che poco prima era
stata
il centro del parlottare delle sue amiche.
Giusto, le avevano detto che era l’addetta alla biblioteca.
In un primo momento fu tentata di rispondere dicendo che stava
solo
riflettendo su cosa prendere, ma poi realizzò che senza un
valido aiuto non
sarebbe mai riuscita a cavare un ragno da un buco.
«Sì, ad essere sincere.»
Rispose, sorridendo a quella che le era stata presentata come la
maggiore
esperta letteraria della scuola. Pensò che era meglio
presentarsi, visto che la
ragazza, di cui ora poteva vedere gli occhi azzurri come il cielo
estivo,
avrebbe dovuto sottostare alla sue strambe richieste.
«Io mi chiamo Camille, tu sei nuova…?»
«Sì e no, ma qui sembra che vi conosciate tutti.
Sono Lucy, piacere.»
Disse, con una voce non troppo alta, mentre si aggiustava gli occhiali.
Lucy
aveva tutto meno che l’aria della
“sottuttoio”, sembrava, invece, una
ragazza di campagna ben lontana dalla realtà della Grande
Mela.
Anzi, ben lontana dalla realtà e basta.
«Cos’è che cerchi?»
Camille aprì e chiuse le labbra come
un pesce rosso. Doveva
inventarsi qualcosa.
«Ho sognato una cosa molto particolare e mi piacerebbe
riuscire a trovarla.»
«Oh, e che cosa? Vuoi qualche manuale di
Freud…?»
«No, no. Era… » Camille
esitò. «Una creatura mostruosa.»
Gli occhi della bibliotecaria sbatterono velocemente, ma le pupille non
contenevano timore e la sua faccia non sembrava affatto dire qualcosa
come:
“Ecco l’ennesima pazza”.
Tutt’altro, pareva… incuriosita.
«Oh. Potresti descrivermi…?»
Chiese, posando le mani e il sedere su uno dei grandi tavoli,
completamente
vuoti, e ticchettandoci sopra i tre anelli che portava al medio.
Camille
riportò facilmente alla sua mente l’immagine di
due grandi occhi gialli che la
fissavano.
«Sembrava un fiore, ma aveva due occhi sui petali, e la bocca
era una fila di
denti aguzzi, un sessantina o su di lì. E la voce era
stridula, odiosa. »
Lucy non batté ciglio, ma, senza esitazioni, si
limitò a dire una sola parola:
«Mandragola.»
«…Mandragola?»
Ripeté, Camille, stupita da quella risposta immediata e
confusa da quella parola
sconosciuta; Lucy annuì e le fece segno di seguirla.
«Non so se la scuola ha dei bestiari, ma io ne ho letti,
quindi posso dirti di
cosa si tratta.»
«Ma i bestiari non sono testi del 1300?» Chiese,
ricordandosi di una lezione di letteratura
sull’Italia
dantesca. «Pensavo fossero introvabili.»
«Un mio zio ne possiede alcuni.»
Rispose l'altra, mentre, ritta su una scala, faceva scorrere dita e
occhi sui
volumi.
«Niente!» Fece, con aria tutt’altro che
sorpresa, scendendo la scala cigolante
in due salti. «Ti dovrai accontentare di quello che
so.»
«Va bene, mi basta… Ti ringrazio, Lucy.»
«Di nulla.»
La ragazza esitò per un momento.
« … Posso chiederti una cosa, però,
Camille?»
Camille, entusiasta per avere trovato quell’aiuto, non fu
capace di dirle di no
e il sorriso di Lucy si piegò in un modo del tutto diverso
da quello avuto fino
ad allora.
«Diversi studi psicologici hanno ormai reso
un’ovvietà che noi sogniamo ciò che
abbiamo visto almeno una volta, anche in elementi diversi. Ma la tua
è l’esatta
descrizione di una mandragola.»
Fece una pausa, guardando Camille negli occhi. La riccia si era fatta
scura in
viso, capendo dove il sorriso inaspettatamente furbo
dell’altra volesse andare
a parare.
« L’hai veramente sognata, Camille?»
Camille cercò di sciogliere il nodo che le si era formato in
gola deglutendo,
ma non ci riuscì, totalmente spiazzata dalla calma quasi
inquietante di quella
che, a una prima vista, le era sembrata solo una ragazza timida e senza
amici,
ma che si stava rivelando, forse, la sua Chiave di Volta.
Non riuscì a mentire, il suo silenzio l’aveva
già fatta scoprire.
«Hai ragione.. è vero.» Disse, senza
trovare il coraggio di
guardarla negli occhi. «Ma
sei pregata di non dirlo a nessuno.»
«Non potrei mai e, anche volendo, non saprei proprio a chi
dirlo.»
La solitudine trapelante da quella risposta riuscì a
tranquillizzare Camille
che, dopo aver preso un grosso respiro, parlò:
«E’ in casa mia. L’ho trovata a Central
Park e, pensando che fosse un fiore
qualunque, l’ho tolta da terra. Poi… »
«Ti ha morso, vero?»
Camille portò d’istinto una mano al labbro
inferiore, dove stava un graffio
scuro che le sue amiche avevano scambiato per un herpes.
«Senti,
Camille. Capisco che è maleducazione da parte mia,
ma… ti dispiacerebbe se
venissi a vederla?»
La cortesia di
quella domanda azzerò ogni cattiva idea su Lucy; forse era
solo un’appassionata
di occulto, come le dark della scuola.
Le sorrise.
«Certo che puoi! Che ne dici di andare ora? Tanto
c’è ginnastica, se la saltiamo
nessuno se ne accorge.»
Lucy acconsentì e, presi gli zaini, le due scivolarono per i
corridoi, fino
alla porta.
Per tutto il tragitto parlarono di ogni argomento sfiorabile, tranne di
ciò che
le aveva fatte conoscere, accorgendosi di avere simili gusti e anche
una certa
affinità caratteriale, tanto che le risate non mancarono.
Poi
la porta dell’appartamento si aprì e il volto di
Camille tornò serio.
«Dov’è?»
Chiese, Lucy, gli occhi che vagavano per la stanza.
«Non so. Questa mattina non l’ho vista, ma ho
trovato la porta di camera tutta
graffiata… Già non volevo farlo, ma quello mi ha
fatto passare tutta la voglia
di mettermi a cercarla.»
Lucy sorrise, comprensiva, a quel sarcasmo, continuando a cercare la
bestia;
dal canto suo, Camille sperava che fosse caduta ed affogata nel water.
Tale speranza si volatilizzò nell’esatto momento
in cui avvertì uno sguardo
seguirla e darle i
brividi. Si voltò di
scatto e, come si aspettava, la vide.
Ma la vide nel posto in cui assolutamente meno la desiderava.
«Camille, Camille!»
«Merda, no!»
Camille si precipitò sul pianoforte sulla quale la pianta
aveva attorcigliato
le radici fino a sfiorare l’ultimo tasto della tastiera.
«Togliti! Levati da qui!»
Ma quella, ovviamente, non capiva e, imperterrita, continuava:
“Camille,
Camille!”
La rossa, con gli occhi pieni di rabbia, portò le mani alle
radici con
l’intento di strapparle via dal suo pianoforte, ma venne
fermata da Lucy ancor
prima che il mostro stringesse gli occhi per urlare.
«Lasciala, Camille! Se la strappi, quella ti
ammazza!»
Camille staccò immediatamente le mani, indietreggiando, al
contrario di Lucy,
che si avvicinò, mettendo un dito di fronte a
quell’essere, gli occhi fissi nei
suoi, senza timore.
«Se viene strappata produce un urlo che provoca la morte di
chi le è attorno. Non
è morta prima perché tu l’hai
dissotterrata con l’abilità di un
giardiniere.»
Disse, con una calma quasi spaventosa, muovendo l’indice
vicino alla corolla;
il mostro schiuse le fauci e le mostrò i canini.
«Oh
sì.» Asserì, Lucy, con un
mezzo sorriso. «E’ proprio una mandragola. Non
pensavo che ne crescessero anche qui e a questi tempi.»
«E dove dovrebbero?»
Lucy non rispose, ma si sedé sullo sgabello del pianoforte,
senza distogliere
lo sguardo dalla mandragola. Camille ripeté, allora.
«Come ha fatto a crescere…?»
« La mandragola germoglia dai cadaveri e, beh, New York mica
è tanto
tranquilla. Sai cosa ci vuole a uccidere qualcuno e seppellirlo
lì, aspettando
che diventi concime per l’erbetta.»
Camille fu percorsa un brivido; non si sarebbe mai, mai più
andata a stendere a
Central Park.
Sospirò, guardando quello che aveva pensato fosse solo un
bel fiore pulirsi i
denti con la lingua da serpente.
«E’ tutto vero?»
Lucy spostò lo sguardo dalla mandragola a lei. Aveva di
nuovo quel sorriso
furbo.
«Non penso che tu ti possa permettere il lusso di scegliere
se credere o no.»
La riccia sospirò ancora, passandosi una mano tra i capelli;
Lucy aveva
ragione, c’era poco da fare le finte tonte.
«Però quello che voglio io è che
sparisca.»
Disse, facendo sibilare la lingua e lanciando uno sguardo di puro odio
verso
quell’essere che aveva cercato di mangiarle un labbro e che
ora si era
rampicato sulla cosa a cui più teneva.
Lucy annuì, comprensiva.
«Non è la cosa più facile del mondo. Ci
può volere anche parecchio tempo.»
Sbadatamente, la castana posò il gomito sui tasti
d’avorio del piano, emettendo
un La bemolle.
Fu allora che la mandragola mandò un versetto ben diverso
dagli altri: era…
soddisfatto.
Quasi sembravano gli urletti che le ochette della scuola mandavano
quando i
ragazzi della squadra di calcio del liceo privato venivano a giocare
nel campo
di fronte all’edificio scolastico.
Gli occhi di Lucy
s’illuminarono.
«Aspetta, aspetta…»
Insisté su quel tasto, ne provò anche altri e
vide come la mandragola
continuava a mugolare, soddisfatta.
Aveva lo sguardo eccitato di chi aveva capito tutto, la californiana,
ma, di
fronte a lei, stava l’altra con la faccia di chi navigava
nell’ignoranza.
Quasi si sentiva tagliata fuori dal “rapporto” tra
Lucy e la mandragola.
«Ci sono!» Esclamò, battendo le mani,
come a volersi dare da sola il cinque. «Ho
capito perché si è arrampicata sul
piano!»
«Perché?»
Chiese, Camille, impaziente di capire le cause per la quale quel mostro
aveva
scelto proprio quel luogo. Lucy le sorrise.
«Mi prenderai per pazza.»
« Ho una mandragola in casa, penso che ormai poche altre cose
mi possano
sorprendere.»
La castana volse nuovamente gli occhi ai tasti neri e bianchi, pensando
che
l’altra non immaginava neanche quanto poco ancora avesse
visto.
«Si è innamorata del pianoforte.»
La riccia sgranò gli occhi. No, a quello veramente non
poteva credere.
«Non
prendermi in giro.»
«Non lo sto facendo. La mandragola si è innamorata
a causa del rumore che
emette. Capisci che per un essere le cui strilla sono letali, il suono
del
piano è qualcosa di paradisiaco.»
«E quindi?»
La voce di Camille si stava facendo ancor più impaziente; le
interessava una
soluzione, non le faccende amorose di una pianta di mandragola, che,
tra l’altro,
non dovrebbe nemmanco esistere.
Lucy la guardò e sorrise con l’aria di chi aveva
la soluzione in mano e sapeva
che ormai era fatta.
«Bisogna purificarla. E per purificarla non devi fare altro
che suonare il
pianoforte, nulla di più.»
«Non posso.»
La risposta fu così seria da far sobbalzare la castana, che
si era appena
rilassata, facendole corrucciare il viso, come c’era da
aspettarsi.
Ma Camille pareva irremovibile, con lo sguardo piantato a terra e i
pugni
stretti.
«Io non posso suonare il pianoforte.»
«Non ne sei capace?»
«Sì, ne sono capace. Ma non posso,
semplicemente.»
Lucy, che fino a quel momento aveva mantenuto una calma quasi inumana,
fu
visibilmente innervosita da tale risposta e ciò era anche
comprensibile. Le
veniva a chiedere aiuto e poi non l’ascoltava?
«Camille, è l’unico modo.»
«Ce ne sarà un altro!»
«No, non c’è!»
La voce di Lucy si alzò troppo e anche la sua proprietaria
se ne accorse,
portando una mano a coprire il labbro inferiore in un movimento
totalmente
involontario.
«Scusa.»
Disse immediatamente, ottenendo come risposta uno scuotere di spalle
che per
Camille significava “non ti preoccupare”.
«Mi spiace aver alzato la voce, ma
l’unico modo per risolvere la
faccenda è questo. Decidi tu.»
Camille abbassò lo sguardo.
«Ho i miei buoni motivi per non suonare.»
«Non ne dubito, ma ti ripeto che è
l’unico modo.» Si alzò, guardando un
po’ i
libri, un po’ i divani. «Pensaci, ti
prego.»
Camille annuì e ci fu un momento di silenzio.
« … Come stai messa per domani?»
« A cosa?»
«Boh, con la scuola.»
La rossa fu ben grata a Lucy per il cambio di argomento.
«Per domani bene, tutto ok. Dovrei anticiparmi con una
ricerca, però… »
«La Harwick ha dato anche a voi da svolgere uno studio sulla
letteratura
italiana del trecento, per caso?»
«Sì!»
Esclamò, Camille; in quel momento la mandragola pareva
sparita da lì. «Ho scelto
Dante, “Vita Nuova”.»
« Oh, l’incontro con Beatrice.»
Disse, facendo passare le dita sottili sulla coda del piano, con un
sorriso
nella quale Camille scorse, forse, un qualcosa tipo malinconia. La
lingua di
Lucy schioccò appena.
«Lui aveva adulato un poco, quasi nulla, altre donne,
Beatrice era venuta a
saperlo da quelle due belle vipere con cui girava sempre insieme e,
offesa, gli
aveva negato il saluto. Ne fu tremendamente affranto per quasi un mese,
nemmeno
i suoi amici, i pochi che erano, lo sopportavano
più.»
Camille fu stranamente confusa da quella malinconia che sembrava
portare molte
rughe, tutte quelle che invece non c’erano sul viso di Lucy.
«Certo che ne sai parecchie.»
Fu l’unica cosa che riuscì a dire,
nell’intento di far sparire un po’ di quella
tristezza. La cosa, fortunatamente, andò a buon fine e Lucy
tornò a sorridere
con tutta la sua gentilezza.
«Merito di zio e dei suoi libri. Comunque, anch’io
faccio Dante, ti andrebbe di
svolgere la ricerca insieme?»
Camille annuì con decisione; con una come lei avrebbe preso
il massimo e poi
era simpatica, tralasciando qualche stranezza.
«Ci vediamo da qualche parte? Non a Central Park,
però, non vorrei trovare la
sua famiglia.»
Indicò quindi la mandragola senza nemmeno guardarla, tenendo
le braccia
consorte e muovendo solo l’indice destro, prima di rificcarlo
sotto il braccio
a esso opposto.
«C’è una biblioteca che fa anche da
caffetteria, qui a Manhattan. Non è lo
Starbucks, ma ci sono i libri e evitiamo di portarceli dietro
noi.»
«Va benissimo, penso che avremo bisogno di calma.»
Le due si lasciarono dopo essersi segnate l’appuntamento e
baciate la guance.
La mandragola, intanto, faceva scivolare i petali innaturalmente ruvidi
sul
legno del pianoforte, in una carezza ricambiata col silenzio
indifferente
dell’oggetto.
_____________________________________________________________________________________*
Ed ecco il
secondo..!
Adesso abbiamo scoperto cos'è la pianta ed è
entrata in scena un'altra figura misteriosa, Lucy, ma, cosa
più importante, con la negazione di Camille è
venuto fuori il nodo della vicenda.
Devo ammetterlo, qui il soprannaturale e il mistero fanno "da sfondo" a
quello che è il vero centro e il messaggio che ho voluto
lasciare alla mia migliore amica, per la quale l'ho scritta, un paio di
mesi fa...
Ho ricevuto due bellissime recensioni nello scorso capitolo, spero di
non aver deluso nessuno con questo...!
E spero anche di
ricevere altri commenti ecc...!
Un bacio,
Valkyrie.
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Capitolo 3 *** 3. Start Over ***
3. Start Over.
«
Hai trovato le Rime Petrose? »
« Il
signore della biblioteca le sta cercando! »
«
Allora vieni, dai, che sennò si fredda il the. »
Camille
andò da Lucy, che stava seduta al tavolo più
vicino alla grande finestra a vetri del secondo piano, dove si
trovavano scaffali e scaffali pieni di classici stranieri molto
più vecchi della stessa biblioteca e mangiucchiati dai tarli
della metropoli, con una tazza fumante di the ai mirtilli in mano.
Il sole
bagnava i capelli ad entrambe, facendo risplendere i riflessi tanto
quanto le tazze, che luccicavano come se fatte della più
fine porcellana, e i grandi occhiali di Lucy.
« Ci
vieni spesso qui? »
«
Praticamente ci passo i pomeriggi.»
Confessò,
con un ché di timidezza che fece sorridere Camille. Se si
metteva da parte quello strano lato caratteriale che aveva assunto
vicino alla mandragola, Lucy era una ragazza decisamente dolce.
Erano quasi
due ore che le ragazze stavano lì, immerse nel profumo della
carta e del the, a leggere della malinconia di Alighieri, e arrivate a
quattro pagine di stesura avevano convenuto che una pausa non avrebbe
fatto loro male.
«
Ti sembrerò un’impicciona, lo so. »
Iniziò
Lucy, facendo distrarre Camille dall’attenta operazione di
non versare nemmeno un granello di zucchero lungo il percorso
zuccheriera-tazza.
«
Penso di aver capito cosa vuoi sapere. »
Rispose la
riccia, abbandonando il cucchiaino nella tazzina e osservando lo
zucchero cadere lento verso il fondo.
«
Non è della decisione che voglio sapere… Ma del
motivo per cui non vuoi suonare più. » Lucy
pronunciò quest’ultima frase mettendoci tutto il
timore che avrebbe dovuto mostrare di fronte alla mandragola.
« A casa tua mi è caduto lo sguardo su parecchi
premi, certificati e diplomi in pianoforte, tutti con date che non
vanno oltre il 2011. E’ strano che tu ora lo rifiuti
così totalmente. »
Camille rimase
in silenzio, non aprendo le labbra morbide nemmeno per farci passare
l’aria. Lo sguardo si perdeva sulla superficie
rossastra del the, che, nel frattempo, aveva smesso di fumare e
appannare e i suoi sottili occhiali da lettura.
L’odore
era diventato stucchevole, fastidioso come quella domanda
così sensata.
«
Fino a poco fa il mio sogno era quello di suonare per tutta la vita.
Hai presente quelle grandi orchestre, quella schiera di persone vestite
elegantemente…? Volevo esserci pure io, lì, a
scaldare la soffitta di un teatro con le note del mio piano.
Me lo sognavo
tutte le notti e tutti i giorni ad occhi aperti. »
Camille
sorrise, ma il suo sorriso era amaro come il vecchio limone che avevano
loro servito.
«
Poi, però, tutti hanno ben visto di aprirmeli veramente, gli
occhi. »
E quelle
stesse pupille scivolarono sulla vetrata, su New York, che ruggiva
sotto di loro, isolate in quella bolla di malinconia e libri ingialliti.
«
Sai quanto guadagna un’orchestrante? Una miseria o qualcosa
di più. E sai quanto deve studiare? Tanto, troppo, un
mucchio di anni chiusa in conservatorio.
Io ero
rafforzata dall’avere tutti quegli attestati appesi in casa,
ma non aveva pensato di non essere l’unica. »
Lo ricordava
bene, quel giorno.
Ricordava il
sorriso quasi compassionevole della sue professoressa di musica, la
quale, posato il metronomo, con una dolcezza che si riserva al
più sciocco dei bambini, le aveva detto:
“Sei
proprio sicura?”
Lei, seppur
interdetta, aveva risposto che sì, ne era convinta.
Da
lì tutto era cominciato a crollare: crollavano i moduli per
il conservatorio, crollavano le sopracciglia di amici e professori, in
un’espressione delusa, quando lei diceva che voleva fare la
pianista. Crollava la sua fiducia quando sentiva per sbaglio
l’insegnante di piano dire a sua madre
d’indirizzare la figlia verso qualcosa “di
più proficuo”.
Tutto, poi,
era finito in misera cenere dopo un piccolo dialogo con sua sorella.
Discutevano
spesso, Camille e Jade, nate con quattro anni di differenza, e svariate
volte si erano prese a brutte parole, ma avrebbe preferito qualunque
insulto rispetto a quello.
La riccia la
poteva vedere, ora, contro le vetrate, mentre, seduta sul divano di
casa, scandagliava le bollette. Sentiva la sua voce lamentarsi di tutti
quei soldi spesi per un hobby e poi udiva la propria, a dir poco
risentita, che controbatteva che quello non era uno svago, ma un
impegno per il suo futuro.
La ferita che
fino allora aveva cercato di chiudere si aprì
dall’alto al basso del suo cuore, al ricordo di come Jade
aveva spostato gli occhi su di lei, con una faccia di bronzo che il suo
cervello aveva fotografato.
“Ancora
con questa storia?”
Quattro parole
che le avevano bruciato tutta l’aria nei polmoni.
Ma la sorella
non si era fermata e, tirando un sospiro di pazienza, aveva continuato:
“Anch’io
da piccola volevo fare l’attrice, Camille. Ma la differenza
che separa il “desiderare” dal
“concretizzare” non è tanto sottile e
tu, vista la tua età, avresti dovuto già
vederla.”
Quella stessa
sera i suoi genitori le parlarono con finta spensieratezza di un
college dagli interni candidi e il nome di un medico famoso.
« Ho
firmato il modulo. Ho firmato tutti quelli che mi hanno passato, ho
detto sempre sì. Quasi tutte facoltà di medicina,
niente psicologia, però, lì ce ne sono troppi.
»
La voce di
Camille era piatta come il silenzio che regnava sovrano attorno a loro.
Non si udiva nemmeno il vecchio padrone, forse addormentatosi sulla
poltrona rossa che aveva visto all’entrata e doveva fungere
solo come decorazione.
« So
che se sfiorassi di nuovo il pianoforte, allora ricomincerei.
»
« A
fare cosa? »
Quella era la
prima frase emessa da Lucy dopo il lungo monologo di Camille.
« A
suonare. »
Rispose
l’altra, meravigliata da una domanda tanto ovvia; ma le
labbra di Lucy si piegarono nuovamente in quel sorriso segnato dalla
furbizia di migliaia e migliaia di rughe invisibili.
«
No, riprenderesti a sognare. »
La gola di
Camille si seccò come nell’episodio prima
raccontato, ma la causa dell’incendio, quella volta, era ben
diversa.
Avvertiva
ardere qualcosa con chiarezza tra lo stomaco e il cuore e tra
il lobo destro e sinistro: era un desiderio che aveva soffocato con
violenza.
Capì
troppo tardi che non era nessuna tubatura bucata a gocciolare nel suo
ormai imbevibile the.
Lucy non disse
una parola, ma lasciò che Camille piangesse in silenzio
tutte le lacrime che aveva lasciato a stagnare in una laguna marcia
dentro di sé.
Quasi non
capiva perché quel mare salato stesse traboccando tutto
insieme, o meglio, non voleva capirlo. Non voleva ammettere a se stessa
quanto Lucy e quel suo sorriso invecchiato avessero ragione.
«
Non ti preoccupare per la ricerca, la finisco io. »
Le aveva
detto, alla fine, con un sorriso tanto gentile da far interrompere
momentaneamente le lacrime di Camille.
«
Tanto manca solo il Paradiso, è la parte più
facile. »
Camille non
disse che per lei quella era proprio la più difficile,
bensì accettò e si lasciò accompagnare
a casa.
Strusciò
gli occhi azzurri più forte contro il fazzoletto che Lucy le
aveva dato; ora, guardandola meglio, notò che le loro
pupille avevano lo stesso identico colore.
Tal
osservazione riuscì, buffamente, a darle quel poco di
allegria che bastava per fermare il suo pianto, ma i pensieri, tutto
ciò che fino ad allora aveva nascosto, continuavano ad
agitarsi in lei anche dopo aver tolto la chiave e acceso le luci del
suo appartamento.
Camille
procedé a piccoli passi, in silenzio, mentre la luce
filtrava dalla finestra del salotto; come se fosse un qualcosa di
lontano dal caso, un filo di essa scivolò sui petali della
mandragola e sul bordo sottile del pianoforte a coda.
Le
gambe, senza che lei potesse minimamente opporsi, si fermarono proprio
di fronte allo strumento. La mandragola, svegliatasi da un sonno
annoiato, la fissava con uno sguardo assonnato, ma Camille non aveva
occhi che per il leggio.
Su di esso era
stato lasciato un quaderno pentagrammato, aperto su di un brano di
Debussy nella quale, tra crome e pause, stavano mille granelli di
polvere.
A Camille
prudevano le mani.
Non
l’avrebbe vista nessuno, nessuno sarebbe andato a ricordarle
tutta l’inutilità della cosa. Perché
lei sapeva che era inutile, totalmente inutile e non producente.
Se lo ripeteva
migliaia di volte mentre sfogliava il quaderno alla ricerca di quattro
fogli che si ricordava molto bene, gli ultimi quattro che le sue mani
avevano toccato.
Li vide
subito, piegati in mezzo a Beethoven, l’ultimo strappato in
due pezzi, diagonalmente.
Su quella
carta sfigurata c’era tutta la rabbia che aveva vissuto.
Aveva iniziato
a scrivere quella composizione nel gennaio passato, fermandosi a poche
battute dalla fine, quando aveva avuto la lite con sua sorella.
Le note erano
state scritte più volte, a matita, marcando i tondi neri e
chiudendo le battute con decisione.
Camille si
sentì orrendamente colpevole mentre si sedeva sullo sgabello
messo di fronte al pianoforte e il suo senso di colpa urlò
quando sfiorò con gli indici la base in abete della
tastiera. Solo adesso notava che l’avorio era ingiallito.
Si sentiva
alla stregua di un’assassina che sceglieva l’arma
del delitto, perché ormai le sue mani si erano posizionate
spontaneamente, anzi, erano corse sulla tastiera, con la foga di due
amanti ricongiuntisi dopo tanto tempo.
Guardò
la prima nota: La bemolle, come si ricordava. E si ricordava anche come
finire quella cinquina di battute mancanti, ma….
No, non
poteva; invece che la musica, nella sua testa non facevano che
vorticare le voci di sua sorella, della sua insegnante, dei sui
professori, di mamma e di papà.
Ma in
quell’uragano di pena e delusione un’altra voce,
una tutta nuova, si fece sentire sopra ogni altra: era quella di Lucy.
“
No, riprenderesti a sognare.”
Stavano
così le cose? Aveva paura di sognare ancora, di staccare un
piede dalla realtà alla quale si era incatenata?
Forse, non lo
sapeva. In quel momento, sotto tutta quella coltre di parole, viveva
come mai la voglia di suonare.
I piedi si
posarono sui pedali, chiuse gli occhi. La mandragola fremeva con
l’aria di chi aspetta un bacio.
Le prime crome
suonarono, poi le seconde, e anche le semicrome, le minime e le
semiminime, alcune percosse leggermente, altre con
impetuosità.
I tasti
d’avorio ed ebano si abbassavano, inchinandosi alle dita
sottili di Camille, regine che vi danzavano sopra.
Presto le note
scritte sull’ultimo foglio finirono, ma ne vennero altre,
nate spontaneamente dal sangue che le scorreva nelle mani e arrivava
dritto dal cuore.
Fu come se non
avesse mai smesso di suonare, fu la rinascita di un sogno…
….
E anche la salvezza di un incubo.
Quanto
l’ultima nota di perse nel petto di Camille e nelle
mura dell’appartamento, la ragazza aprì gli occhi
e, sorpresa, non trovò nessun paio di pupille gialle e
verticali a fissarla.
Solo un seme
grande quanto il suo pollice.
I vicini, quel
giorno, furono ben contenti di sentire nuovamente il suono dolce del
piano di Camille dopo tanto tempo, ma preferirono non commentare la
discutibile performance canora di chi la stava accompagnando.
_____________________________________________________________________________________________*
Omamma,
scusate, mi ero dimenticata di aggiornare! Che scema...
Beh, siamo alla fine, il prossimo sarà l'ultimo capitolo!
Spero che qualcuno mi faccia sapere la sua opinione...!
Baci!
_Valkyrie.
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Capitolo 4 *** 4. Reborn. ***
4. Reborn.
«
Crescerà normalmente? »
«
Alla perfezione, se con le giuste cure. »
Camille e Lucy
osservarono lo spazio di terra smossa sulla quale erano chine, nel
giardinetto dietro il condominio della prima ragazza.
Il sole del
tramonto bagnava le loro spalle e infuocava i capelli già
fiammeggianti di Camille.
Lucy si
stiracchiò, togliendosi poi i guanti sporchi di terra che
sia lei che l’altra avevano; seppur tendesse a nasconderlo,
la sua faccia tradiva una certa soddisfazione.
« E
così hai ripreso a suonare. »
Camille
annuì, ma non rispose con altro che una domanda:
«
Perché si è… trasformata? »
« Si
è purificata ed è tornata alla sua forma base, un
seme. Diventerà un bel mandorlo, credo. »
« Ma
non sarebbe dovuta diventare un fiore…? O una mandragola
“buona”, non so… »
«
Umh. » Lucy alzò gli occhi
sull’orizzonte di cemento. « Come te lo spiego.
Diciamo che si tende a cercare un qualcosa di simile a quello che si
è stati. Se fosse stata, non so, un grifone, avrebbe scelto
un falco o qualche altro felino, ti è chiaro? »
«
Diciamo di sì. Quindi è come se fosse morta e
nata un’altra volta? »
«
Esattamente, direi che sono le parole giuste. »
Camille non si
dilungò di molto su quest’argomento che ancora le
pareva più nei libri che fuori.
Cosa esisteva?
Cosa no? Meglio lasciar stare e fare le finte tonte, decisamente.
« Ho
inviato la domanda per il conservatorio. C’ho allegato anche
la composizione. »
«
Davvero? »
«
Quanto è vero che quando i professori e i miei amici lo
scopriranno verrà loro un infarto. »
«
L’importante è che tu ne sia felice,
però »
Camille
sorrise, poi gli occhi le caddero sulla cassa con gli strumenti da
giardino che Lucy stava rimettendo in ordine.
Oh, tu guarda.
«
Metti sempre le cose in ordine a gruppetti di tre. Anche a mensa,
quando ti ho vista la prima volta, avevi tre bracciali e tre anelli, e
in biblioteca schematizzavi e organizzavi a punti di tre in tre. Sei
fissata! »
Camille vide
il volto di Lucy dipingersi di stupore, prima che tornasse a piegarsi
in un sorriso gentile.
«
E’ più forte di me. Ce l’ho da quando
sono… da quando sono nata. »
La rossa
passò sopra lo strano tono con la quale l’altra
aveva pronunciato la frase, ma notò nuovamente il triplo
degli anni di Lucy nel suo sorriso.
«
Ah, ti devo chiedere un altro favore! Quando quest’estate
andrai da quel tuo zio, mi potresti mandare quei bestiari? Mi hai fatto
interessare! »
Magari era
come Harry Potter, pensò, Camille.
Una risata
uscì dalle labbra di Lucy, che si passò una mano
tra i capelli.
«
Non posso, Cam. »
«
Tuo zio non te li presta? »
«
No, il punto è che non li ho. Né quelli
né tutti gli altri. »
Camille
aggrottò le sopracciglia.
« Li
hai presi da internet? »
« Ne
dubito, il testo sulle piante mostruose che ho letto a diciannove anni
è andato perso in un incendio. »
Se lo sguardo
di Camille prima era confuso, adesso si poteva definire parecchio
sbigottito.
Lucy e lei
erano coetanee, tutte e due nate nel 1994.
« Tu
non hai ancora diciannove anni, Lucy. »
« Ne
sei così sicura? »
La castana
sorrise nuovamente in quel modo e, come quando le era stato svelato
della mandragola, un brivido percorse la schiena di Camille.
« Il
discorso che ti ho fatto sulla “trasformazione”
della mandragola non vale solo per una creatura del genere. Il mondo
non vieta nulla a nessuno e anche noi umani, se abbiamo fortuna,
possiamo fare il bis. » Lucy si passò una mano tra
i capelli; la sua voce tremava appena. « Nel 1300,
però, la pensavo un po’ diversamente. »
Le
informazioni vorticarono nella testa di Camille a gran
velocità.
Rivide Lucy
nella biblioteca darle il verso delle Rime Petrose da sottolineare
senza guardare sul testo, la vide girare gli occhi in “Vita
Nova” e rivide anche le compagne, mentre parlavano di lei,
dicendo come la sconosciuta dimostrava, in un’interrogazione
a sorpresa, di conoscere a menadito l’Inferno.
«
… Non hai il naso aquilino, però »
« E
menomale. Sono anche diversa come carattere, grazie al cielo!
»
« A
questo… A questo posso scegliere se credere o no? »
«
Oh, fa’ come vuoi, tanto a me non cambia nulla. »
Lucy rise di
cuore e, con un’allegria che non le aveva mai visto indosso
fino a quel momento, saltò in piedi.
«
Hai fatto venire voglia anche a me, Cam! »
« Di
cosa? »
« Di
sognare! »
«
Non lo facevi? »
Lucy
salì sul muretto vicino, provando il brivido di trovarsi a
otto centimetri d’altezza.
«
Non per me. Sai, quando ho capito perché avevo poesie in
fiorentino piantate in testa nonostante io sia nata in California, mi
sono detta: perché non faccio una bella cosa? Indovina cosa!
»
Camille fece
spallucce.
« Si
vede che non hai studiato, Cam. Insomma, ho pensato che questa era
l’occasione che aveva sognato scrivendo cento canti e quindi
mi sono messa a cercare lei, Beatrice. Ma sai, è un
po’ complicato capire dove sia andata a finire. »
Saltò, salì di nuovo, procedé a
zig-zag.
«Quindi
è meglio se inizio a sognare per me. Cosa potrei fare?
Magari la scrittrice, con tutti questi paroloni che ho in
testa…! »
Si
lasciò nuovamente scivolare. Rivelando quel suo segreto, che
quasi rendeva la mandragola una cosa “normale”,
Lucy sembrava un’altra, ben più leggera e allegra
rispetto a quella vista la prima volta nella mensa a
rosicchiare muffin.
«
Però mi sembrerebbe quasi uno sfruttamento, se non un
ladrocinio. »
«
Potresti fare la psicologa. »
Commentò
Camille, sedendosi accanto a lei.
« Ce
ne sono troppi! »
« Se
è per questo, allora ci sono anche troppi pianisti.
»
Si sorrisero;
in pochi giorni si era creata tra loro un’amicizia tanto
forte da far spavento.
«
Beh… » La voce di Lucy si perse dietro lo scoccare
della sua lingua. « Per ora potrei provare. Nel
caso vada male, sognerò qualcos’altro! »
Accavallò
le gambe e, puntando lo sguardo verso la punta del Rockfeller Center,
iniziò ad immaginarsi seduta in uno studio e con un perfetto
sconosciuto steso su una bella poltrona rossa, simile a quella del
bibliotecario.
Camille le
sorrise e rimase in silenzio, a osservare il punto dove il seme
dell’ex mandragola era stato piantato.
Pure
quell’essere aveva avuto un sogno, che si era esaudito poche
ore prima.
Lucy aveva
ragione, pensò; avrebbe sognato e sognato, senza farsi
bloccare da nessun limite, avrebbe lottato per realizzare i suoi
desideri.
Se dal
conservatorio sarebbe arrivata una risposta negativa, allora avrebbe
provato ancora, oppure cambiato strada e pensato
qualcos’altro che non “doveva”, ma
“voleva”.
Avrebbe creato
milioni di sogni, esaudendoli, abbandonandoli, ma senza più
chiuderli in antri oscuri.
Avrebbe messo
se stessa in ognuno di loro.
Così,
arrivata ad un certo punto, anche a novantotto anni, si sarebbe
guardata indietro e avrebbe visto tutte le strade che lei, lei e
nessun’altro, aveva scelto, che fossero con o senza sbocco.
E, fatto
ciò, con il sorriso sulle labbra, avrebbe capito cosa voleva
dire vivere appieno.
_________________________________________________________________________________________________________________end.
Et woila, è
finita.
L'avevo nel pc da
tantissimo, ma mi sono dimenticata di aggiornare...!
Spero vi sia piaciuta.
Ma, soprattutto, spero che il suo messaggio sia arrivato.
Non smettete mai di
credere.
Baci!
_Valkyrie.
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