Fioritura in La Bemolle.

di Lucy_lionheart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Strawberry Fields. ***
Capitolo 2: *** 2. The Librarian. ***
Capitolo 3: *** 3. Start Over ***
Capitolo 4: *** 4. Reborn. ***



Capitolo 1
*** 1. Strawberry Fields. ***


1. Strawberry Fields.





La pioggia cadeva rumorosa, fitta, migliaia di gocce sottili come aghi.
Sotto essa respiravano bocche di uomini e donne che fuggivano sull’asfalto bagnato, riempiendosi le scarpe, i pantaloni o le calze di schizzi di sporcizia. Le strade erano un vorticare di ombrelli dai mille colori, le macchine non si muovevano di un centimetro e tanti erano quelli che, spazientiti, premevano con rabbia sul clacson.
L’odore dell’acqua era irraggiungibile, soffocato dalle fognature traboccanti, dalla benzina e dal fumo delle sigarette.
Quello, le urla delle macchine, il vociare di chissà quante persone e la calca umida che andavano a comporre, stavano ospitando un qualcosa.
Ma nessuno lo sapeva, tranne questo qualcosa, o meglio, qualcuno, che si faceva spazio a spallate nella massa: niente ombrello , i vestiti completamente bagnati e il cappuccio che calava sul viso femminile, sulle labbra sporche; la lingua guizzò fuori da esse, le leccò e la giovane arricciò il naso, disgustata dal sapore del ferro e da quello della pioggia sporca.
Doveva arrivare a casa, immediatamente.
Corse ancora, le converse finirono più volte in pozzanghere paragonabili a laghi e le ginocchia continuarono a tremare sempre di più, per la stanchezza di una corsa che durava da più di un chilometro e, soprattutto, per la paura.
Svoltò ancora e ancora, entrò in una via illuminata da poche insegne e fatta di più mattoni e, una volta arrivata davanti ad una scalinata tutta in ferro e a zig-zag, si mise a saltare quei gradini quasi due a due, una mano ben stretta alla ringhiera bagnata.
Aveva troppo timore per ciò che stava stringendo contro il petto per preoccuparsi di qualcosa come cadere di sotto.
Fatte almeno sei rampe, finalmente, si fermò e infilò la mano sinistra nella tasca; la chiave, la chiave, dov’era la chiave!?
“ Eccola! ”
Disse a se stessa, tirando fuori il mazzo e infilando la chiave più grossa nella porta accanto a lei. Fattò ciò non si preoccupò nemmeno di chiuderla, ma tirò a dritto perl corridoio tappezzato, fino a giungere ad un’ennesima porta, laccata di verde.
Aprì anche questa, ma una volta entrata in un salotto buio, vide bene di chiuderla, girando la chiave nella toppa ben due volte; solo allora si voltò e quasi colpì l’interruttore della luce, rivelando un appartamento distinto e dai grandi pavimenti in parquet, sulla quale le gambe esauste si abbandonarono.
Il cuore non le era mai battuto tanto, nemmeno quando aveva dato il suo primo bacio.
“ Sono al sicuro. ”
Scandì mentalmente e più di una volta, come a volersi tranquillizzare.
Solo allora staccò dal petto quello che aveva protetto per tutto il viaggio, la causa della sua corsa senza fine, e lo gettò sul pavimento: era una borsa di plastica.
Una borsa di plastica in grado di sbranare la camicia sulla quale era stata premuta fino ad allora.
La ragazza si tirò giù il cappuccio, rivelando dei capelli che, se non fossero stati zuppi d’acqua, avrebbero avuto una tinta rosso brillante e una piega riccia, anzi, ribelle.
Oltre a questo c’erano due occhi azzurri contornati da ciglia scure, che adesso seguivano, seri e concentrati, ogni mossa che avveniva dentro quel sacchetto di plastica bianco del supermarket.
Qualcosa si stava muovendo, sì.
Si muoveva alla continua ricerca dell’apertura e, al contempo, emetteva versi striduli che facevano rizzare i peli sulla pelle di lei. Un’altra mossa, più violenta, che fece spostare tutto di una decina di centimetri, e ciò che agitava la busta fece capolino da essa con un gemito soddisfatto.
« Cosa diavolo sei. »
Spirò con voce tremante, osservando quello che, ad una prima occhiata, altro non sembrava  che un giglio bianco e violetto, sbarbato da terra con tutte le radici. Radici che si muovevano, facendogli compiere passi incerti e infantili, mentre sbatteva delle grandi ciglia trasparenti poste sui due petali laterali.
Le grandi iridi gialle, dopo aver lanciato sguardi strabici alla stanza, si ritrovarono addosso alla rossa, la quale ricambiò con uno sguardo a dir poco inquieto.
Sulla corolla si aprì un sorriso innaturale, composto da tante fila di dentini appuntiti.
« Camille. » Disse il fiore, con voce stridula e disumana. « Camille, Camille.» Ripeté.
La stava cercando; quell’orrenda bestia sapeva dire solo il nome di colei che aveva di fronte e, nemmeno un’ora fa, l’aveva colta da terra.
Camille amava fare molte cose e tra queste c’erano le passeggiate. Central Park, lo spazio verde per antonomasia di  New York City, era indubbiamente il posto adatto e non passava una settimana senza farvi visita almeno tre o quattro volte. Si portava dietro i compiti, l’mp3 o un libro e si stendeva nei pressi di Strawberry Fields, in onore dei suoi tanto amati Beatles.
Quel giorno, però, si era fermata un po’ più in là, in una zona un po’ meno affollata; doveva studiare un capitolo di storia settecentesca e non voleva distrazioni.
Stesa sul telo che si era portata dietro, aveva alzato gli occhi solo dopo che Robespierre, in una scritta in grassetto a pagina 478, era stato ghigliottinato.
Nell’acceso verde monotono di quel posto, spuntava, quasi facendo male agli occhi, un fiore bianco e viola, con i petali appuntiti.
Lei avrebbe voluto tornare a Robespierre, se non fosse stato che un’altra cosa che amava era il giardinaggio e una che odiava, la storia.
Ricordava come si fosse inginocchiata vicino a quel fiore con il coltello che aveva portato da casa per sbucciare il suo spuntino, un’arancia, e avesse iniziato a scavare attorno ad esso, fino a tirar fuori le radici e una bella zolla di terra. Tornata a casa, l’avrebbe piantato in un vaso vicino a quello delle margherite.
Soddisfatta, aveva portato il naso a pochi millimetri dai petali e dalla corolla, per annusarne la fragranza.
Ma quello non profumava, il suo odore era tutto fuorché gradevole. Sbigottita, realizzò che sembrava carne marcia.
Fu in quel momento che gli occhi gli si aprirono e i denti graffiarono il labbro di Camille, un secondo prima che lo allontanasse con un urlo terrorizzato.
Quello che le era sembrato un fiore da coltivare, ora batteva i due occhi verticali e la fissava, mentre attorcigliava le radici intorno al suo polso, stringendo tanto da farle male.
Allora Camille aveva agito d’istinto e, ficcata la mano nella busta, aveva iniziato a colpire, provocando le grida raggelanti di quella piante maledetta.
“Devo andarmene.”
Aveva pensato, notando che quelle urla avevano attirato sguardi curiosi.
Era così che aveva deciso di finire quello che aveva iniziato nel suo appartamento, dove ora si trovava insieme a quel… mostro.
Il fiore rise, mostrandole le fauci, e Camille, con orrore, vide tra esse i brandelli a quadri della sua camicia, il rosso del sangue delle sue labbra e le bucce dell’arancia.
Guardò dentro il sacchetto: si era mangiata pure il coltello.
« Camille, Camille. »
Chiamò ancora, facendo cadere fuori dalla bocca la lingua biforcuta. Ma Camille ovviamente non rispondeva, presa a pensare come diavolo potesse risolvere quella situazione.
Come poteva ucciderla?
Di certo non con un’arma, figurarsi, si era mangiata un coltello! E se per due pugni aveva gridato in quel modo, chissà che avrebbe fatto se avesse provato, per ipotesi, a bruciarla.
Abitava in un condominio, poco ma sicuro che qualcuno avrebbe chiamato le autorità pensando che la figlia dei vicini stesse assassinando un’amica che l’aveva tradita.
« Camille, Camille! »
« Basta… »
Disse, con i denti serrati, prima di fare l’ultima corsa, quella verso camera sua.
Poteva udire chiaramente, dietro la porta, il mostro continuare a chiamare il suo nome.
Girò e rigirò la chiave, mettendo una sedia sotto il pomello. Non pensava che quel coso avesse la forza necessaria e, soprattutto, l’intelligenza per aprire la porta, ma verso le quattro del mattino, quando sentì qualcosa grattare contro di essa, realizzò che le sue radici lo portavano ovunque esso desiderasse.


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Zam zam, ecco il prologo.
Che cos'è l'essere nel sacchetto?
Tutto si scoprirà nel prossimo capitolo. ♥
Chiedo scusa per l'impostazione più "da libro" (senza spaziare i dialoghi, per capirci ), ma c'è un motivo per cui l'ho lasciata così... Nel caso risulti estramente scomodo da leggere, ditemelo, rimedierò.

Spero che abbia incuriosito qualcuno e, soprattutto, di ricevere commenti ecc...!


Baci!


_Valkyrie.



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Capitolo 2
*** 2. The Librarian. ***



2. Topo da biblioteca.

Quando si svegliò ( per quanto avesse potuto dormire), la mattina dopo, il fiore era sparito.
Camille non aveva perso altro tempo e, preso lo zaino e le chiavi, era corsa a scuola. Non si era lavata e nemmeno pettinata, era riuscita giusto a cambiarsi i vestiti sporchi, visto che l’armadio era in camera sua, e alla terza ora era stata colpita da una stanchezza così forte che il professore l’aveva spedita prima a prendersi un caffè e poi in infermeria.
Tutti si erano accorti che qualcosa non andava; Camille Jennyson era una ragazza estremamente curata nell’aspetto, invidiata per i vestiti floreali e particolari che indossava con naturalezza estrema, per le scarpe taccate su cui riusciva a correre.
Oltre a ciò era anche un’ottima studentessa, seppur estremamente silenziosa, una persona serena, ma con un bel caratterino.
Quella mattina, nel liceo femminile sulla Trentanovesima, sembrava che ci fosse una copia sbiadita e mal fatta della Camille che tutti conoscevano.
La riccia, seduta ad uno dei tavoli della mensa assieme al suo solito gruppo, scansava svogliatamente la carne dello spezzatino, mangiando solo i pisellini. Aveva deciso da circa due mesi di diventare vegetariana e ciò dava alle amiche un’ottima causa dalla quale far derivare quella stanchezza.
«Dovresti mangiare almeno i bocconcini!»
«Non è la carne, ragazze.»
«E cosa?»
«Boh, avrò donato troppo sangue.»
Mentì, inforcando l’insalata. Solo allora, mentre masticava un pomodorino, i suoi occhi si posarono due tavoli più in là: seduta con la sola compagnia di un grosso libro e alcuni muffin, stava una ragazza mai vista prima.
Indossava una felpa e portava gli occhiali, di cui poteva scorgere la montatura spessa, come andava di moda ultimamente.
Solo quello le era concesso vedere, visto che la testa era sempre china su quel volume e che i suoi lunghi capelli mori, tagliati davanti con una grossa frangia, le coprivano il volto.
«Chi è lei?»
Chiese, mentre prendeva un sorso d’acqua.
«Ah, dici quella? E’ arrivata quest’anno, pare sia della California. Però non so come si chiama.»
«Io la conosco! Era nella mia classe di letteratura straniera, nessuno andava bene come lei. Si è offerta pure per fare la custode della biblioteca, però non parla molto.»
«Sembra timida.»
«Lo è, Cam, in compenso scrive.»
«E’ una scrittrice?»
«Boh, forse lo vuole diventare. Nello scorso compito di letteratura del trecento ha preso il massimo.»
«Un topo da biblioteca, insomma!»
«Eh, brava, Liz, il tipo è quello.»
Ormai le ragazze si erano impossessate di quel discorso che Camille aveva smesso di ascoltare dopo il “boh”, tornando con la mente al Problema.
I suoi genitori erano via, quindi nessuno avrebbe potuto trovare quello. Doveva sbrigarsela da sola.
Di dirlo alle ragazze non se ne parlava, avrebbero detto che aveva le travergole o si sarebbero spaventate da morire.
Però il sentir parlare della biblioteca le aveva fatto venire in mente che, forse, in quel luogo avrebbe trovato qualcosa d’interessante. Così si era inventata l’ennesima scusa ed era corsa nel lato est dell’edificio, dove si trovava il posto che aveva catturato la sua attenzione.


La biblioteca della loro scuola era stata da sempre estremamente fornita e polverosa; non a caso un’ottima scusa per evitare il turno da bibliotecari era dire di essere allergiche agli acari.
Camille si aggirò tra le file di scaffali in legno scuro, guardando le lettere in alto.
Dove avrebbe dovuto cercare? Alla “M” di “mostri”? No, lì era tutto diviso per autori, non certo per generi! Magari un’enciclopedia, libri di piante… l’unica cosa che era riuscita a pensare era che quell’orrore fosse una specie di pianta carnivora.
« Ti serve aiuto?»
La voce alle sue spalle la sorprese così tanto da farla sussultare; era talmente presa dai suoi pensieri da non essersi accorta della figura che, timidamente, la stava osservando almeno da cinque minuti buoni e solo ora aveva avuto il coraggio di parlarle.
Con una certa sorpresa, Camille riconobbe la ragazza che poco prima era stata il centro del parlottare delle sue amiche.
Giusto, le avevano detto che era l’addetta alla biblioteca.
In un primo momento fu tentata di rispondere dicendo che stava solo riflettendo su cosa prendere, ma poi realizzò che senza un valido aiuto non sarebbe mai riuscita a cavare un ragno da un buco.
«Sì, ad essere sincere.»
Rispose, sorridendo a quella che le era stata presentata come la maggiore esperta letteraria della scuola. Pensò che era meglio presentarsi, visto che la ragazza, di cui ora poteva vedere gli occhi azzurri come il cielo estivo, avrebbe dovuto sottostare alla sue strambe richieste.
«Io mi chiamo Camille, tu sei nuova…?»
«Sì e no, ma qui sembra che vi conosciate tutti. Sono Lucy, piacere.»
Disse, con una voce non troppo alta, mentre si aggiustava gli occhiali. Lucy aveva tutto meno che l’aria della “sottuttoio”, sembrava, invece, una ragazza di campagna ben lontana dalla realtà della Grande Mela.
Anzi, ben lontana dalla realtà e basta.
«Cos’è che cerchi?»
Camille aprì e chiuse le labbra come un pesce rosso. Doveva inventarsi qualcosa.
«Ho sognato una cosa molto particolare e mi piacerebbe riuscire a trovarla.»
«Oh, e che cosa? Vuoi qualche manuale di Freud…?»
«No, no. Era… » Camille esitò. «Una creatura mostruosa.»
Gli occhi della bibliotecaria sbatterono velocemente, ma le pupille non contenevano timore e la sua faccia non sembrava affatto dire qualcosa come: “Ecco l’ennesima pazza”.
Tutt’altro, pareva… incuriosita.
«Oh. Potresti descrivermi…?»
Chiese, posando le mani e il sedere su uno dei grandi tavoli, completamente vuoti, e ticchettandoci sopra i tre anelli che portava al medio. Camille riportò facilmente alla sua mente l’immagine di due grandi occhi gialli che la fissavano.
«Sembrava un fiore, ma aveva due occhi sui petali, e la bocca era una fila di denti aguzzi, un sessantina o su di lì. E la voce era stridula, odiosa. »
Lucy non batté ciglio, ma, senza esitazioni, si limitò a dire una sola parola:
«Mandragola.»
«…Mandragola?»
Ripeté, Camille, stupita da quella risposta immediata e confusa da quella parola sconosciuta; Lucy annuì e le fece segno di seguirla.
«Non so se la scuola ha dei bestiari, ma io ne ho letti, quindi posso dirti di cosa si tratta.»
«Ma i bestiari non sono testi del 1300?» Chiese, ricordandosi di una lezione di letteratura sull’Italia dantesca. «Pensavo fossero introvabili.»
«Un mio zio ne possiede alcuni.»
Rispose l'altra, mentre, ritta su una scala, faceva scorrere dita e occhi sui volumi.
«Niente!» Fece, con aria tutt’altro che sorpresa, scendendo la scala cigolante in due salti. «Ti dovrai accontentare di quello che so.»
«Va bene, mi basta… Ti ringrazio, Lucy.»
«Di nulla.»
La ragazza esitò per un momento.
« … Posso chiederti una cosa, però, Camille?»
Camille, entusiasta per avere trovato quell’aiuto, non fu capace di dirle di no e il sorriso di Lucy si piegò in un modo del tutto diverso da quello avuto fino ad allora.
«Diversi studi psicologici hanno ormai reso un’ovvietà che noi sogniamo ciò che abbiamo visto almeno una volta, anche in elementi diversi. Ma la tua è l’esatta descrizione di una mandragola.»
Fece una pausa, guardando Camille negli occhi. La riccia si era fatta scura in viso, capendo dove il sorriso inaspettatamente furbo dell’altra volesse andare a parare.
«
L’hai veramente sognata, Camille?»
Camille cercò di sciogliere il nodo che le si era formato in gola deglutendo, ma non ci riuscì, totalmente spiazzata dalla calma quasi inquietante di quella che, a una prima vista, le era sembrata solo una ragazza timida e senza amici, ma che si stava rivelando, forse, la sua Chiave di Volta.
Non riuscì a mentire, il suo silenzio l’aveva già fatta scoprire.
«Hai ragione.. è vero.» Disse, senza trovare il coraggio di guardarla negli occhi. «Ma sei pregata di non dirlo a nessuno.»
«Non potrei mai e, anche volendo, non saprei proprio a chi dirlo.»
La solitudine trapelante da quella risposta riuscì a tranquillizzare Camille che, dopo aver preso un grosso respiro, parlò:
«E’ in casa mia. L’ho trovata a Central Park e, pensando che fosse un fiore qualunque, l’ho tolta da terra. Poi… »
«Ti ha morso, vero?»
Camille portò d’istinto una mano al labbro inferiore, dove stava un graffio scuro che le sue amiche avevano scambiato per un herpes.
«Senti, Camille. Capisco che è maleducazione da parte mia, ma… ti dispiacerebbe se venissi a vederla?»
La cortesia di quella domanda azzerò ogni cattiva idea su Lucy; forse era solo un’appassionata di occulto, come le dark della scuola.
Le sorrise.
«Certo che puoi! Che ne dici di andare ora? Tanto c’è ginnastica, se la saltiamo nessuno se ne accorge.»
Lucy acconsentì e, presi gli zaini, le due scivolarono per i corridoi, fino alla porta.
Per tutto il tragitto parlarono di ogni argomento sfiorabile, tranne di ciò che le aveva fatte conoscere, accorgendosi di avere simili gusti e anche una certa affinità caratteriale, tanto che le risate non mancarono.
Poi la porta dell’appartamento si aprì e il volto di Camille tornò serio.
«Dov’è?»
Chiese, Lucy, gli occhi che vagavano per la stanza.
«Non so. Questa mattina non l’ho vista, ma ho trovato la porta di camera tutta graffiata… Già non volevo farlo, ma quello mi ha fatto passare tutta la voglia di mettermi a cercarla.»
Lucy sorrise, comprensiva, a quel sarcasmo, continuando a cercare la bestia; dal canto suo, Camille sperava che fosse caduta ed affogata nel water.
Tale speranza si volatilizzò nell’esatto momento in cui avvertì uno sguardo seguirla e darle i brividi. Si voltò di scatto e, come si aspettava, la vide.
Ma la vide nel posto in cui assolutamente meno la desiderava.
«Camille, Camille!»
«Merda, no!»
Camille si precipitò sul pianoforte sulla quale la pianta aveva attorcigliato le radici fino a sfiorare l’ultimo tasto della tastiera.
«Togliti! Levati da qui!»
Ma quella, ovviamente, non capiva e, imperterrita, continuava: “Camille, Camille!”
La rossa, con gli occhi pieni di rabbia, portò le mani alle radici con l’intento di strapparle via dal suo pianoforte, ma venne fermata da Lucy ancor prima che il mostro stringesse gli occhi per urlare.
«Lasciala, Camille! Se la strappi, quella ti ammazza!»
Camille staccò immediatamente le mani, indietreggiando, al contrario di Lucy, che si avvicinò, mettendo un dito di fronte a quell’essere, gli occhi fissi nei suoi, senza timore.
«Se viene strappata produce un urlo che provoca la morte di chi le è attorno. Non è morta prima perché tu l’hai dissotterrata con l’abilità di un giardiniere.»
Disse, con una calma quasi spaventosa, muovendo l’indice vicino alla corolla; il mostro schiuse le fauci e le mostrò i canini.
«Oh sì.» Asserì, Lucy, con un mezzo sorriso. «E’ proprio una mandragola. Non pensavo che ne crescessero anche qui e a questi tempi.»
«E dove dovrebbero?»
Lucy non rispose, ma si sedé sullo sgabello del pianoforte, senza distogliere lo sguardo dalla mandragola. Camille ripeté, allora.
«Come ha fatto a crescere…?»
« La mandragola germoglia dai cadaveri e, beh, New York mica è tanto tranquilla. Sai cosa ci vuole a uccidere qualcuno e seppellirlo lì, aspettando che diventi concime per l’erbetta.»
Camille fu percorsa un brivido; non si sarebbe mai, mai più andata a stendere a Central Park.
Sospirò, guardando quello che aveva pensato fosse solo un bel fiore pulirsi i denti con la lingua da serpente.
«E’ tutto vero?»
Lucy spostò lo sguardo dalla mandragola a lei. Aveva di nuovo quel sorriso furbo.
«Non penso che tu ti possa permettere il lusso di scegliere se credere o no.»
La riccia sospirò ancora, passandosi una mano tra i capelli; Lucy aveva ragione, c’era poco da fare le finte tonte.
«Però quello che voglio io è che sparisca.»
Disse, facendo sibilare la lingua e lanciando uno sguardo di puro odio verso quell’essere che aveva cercato di mangiarle un labbro e che ora si era rampicato sulla cosa a cui più teneva.
Lucy annuì, comprensiva.
«Non è la cosa più facile del mondo. Ci può volere anche parecchio tempo.»
Sbadatamente, la castana posò il gomito sui tasti d’avorio del piano, emettendo un La bemolle.
Fu allora che la mandragola mandò un versetto ben diverso dagli altri: era… soddisfatto.
Quasi sembravano gli urletti che le ochette della scuola mandavano quando i ragazzi della squadra di calcio del liceo privato venivano a giocare nel campo di fronte all’edificio scolastico.
Gli occhi di Lucy s’illuminarono.
«Aspetta, aspetta…»
Insisté su quel tasto, ne provò anche altri e vide come la mandragola continuava a mugolare, soddisfatta.
Aveva lo sguardo eccitato di chi aveva capito tutto, la californiana, ma, di fronte a lei, stava l’altra con la faccia di chi navigava nell’ignoranza.
Quasi si sentiva tagliata fuori dal “rapporto” tra Lucy e la mandragola.
«Ci sono!» Esclamò, battendo le mani, come a volersi dare da sola il cinque. «Ho capito perché si è arrampicata sul piano!»
«Perché?»
Chiese, Camille, impaziente di capire le cause per la quale quel mostro aveva scelto proprio quel luogo. Lucy le sorrise.
«Mi prenderai per pazza.»
« Ho una mandragola in casa, penso che ormai poche altre cose mi possano sorprendere.»
La castana volse nuovamente gli occhi ai tasti neri e bianchi, pensando che l’altra non immaginava neanche quanto poco ancora avesse visto.
«Si è innamorata del pianoforte.»
La riccia sgranò gli occhi. No, a quello veramente non poteva credere.
«Non prendermi in giro.»
«Non lo sto facendo. La mandragola si è innamorata a causa del rumore che emette. Capisci che per un essere le cui strilla sono letali, il suono del piano è qualcosa di paradisiaco.»
«E quindi?»
La voce di Camille si stava facendo ancor più impaziente; le interessava una soluzione, non le faccende amorose di una pianta di mandragola, che, tra l’altro, non dovrebbe nemmanco esistere.
Lucy la guardò e sorrise con l’aria di chi aveva la soluzione in mano e sapeva che ormai era fatta.
«Bisogna purificarla. E per purificarla non devi fare altro che suonare il pianoforte, nulla di più.»
«Non posso.»
La risposta fu così seria da far sobbalzare la castana, che si era appena rilassata, facendole corrucciare il viso, come c’era da aspettarsi.
Ma Camille pareva irremovibile, con lo sguardo piantato a terra e i pugni stretti.
«Io non posso suonare il pianoforte.»
«Non ne sei capace?»
«Sì, ne sono capace. Ma non posso, semplicemente.»
Lucy, che fino a quel momento aveva mantenuto una calma quasi inumana, fu visibilmente innervosita da tale risposta e ciò era anche comprensibile. Le veniva a chiedere aiuto e poi non l’ascoltava?
«Camille, è l’unico modo.»
«Ce ne sarà un altro!»
«No, non c’è!»
La voce di Lucy si alzò troppo e anche la sua proprietaria se ne accorse, portando una mano a coprire il labbro inferiore in un movimento totalmente involontario.
«Scusa.»
Disse immediatamente, ottenendo come risposta uno scuotere di spalle che per Camille significava “non ti preoccupare”.
«Mi spiace aver alzato la voce, ma l’unico modo per risolvere la faccenda è questo. Decidi tu.»
Camille abbassò lo sguardo.
«Ho i miei buoni motivi per non suonare.»
«Non ne dubito, ma ti ripeto che è l’unico modo.» Si alzò, guardando un po’ i libri, un po’ i divani. «Pensaci, ti prego.»
Camille annuì e ci fu un momento di silenzio.
« … Come stai messa per domani?»
« A cosa?»
«Boh, con la scuola.»
La rossa fu ben grata a Lucy per il cambio di argomento.
«Per domani bene, tutto ok. Dovrei anticiparmi con una ricerca, però… »
«La Harwick ha dato anche a voi da svolgere uno studio sulla letteratura italiana del trecento, per caso?»
«Sì!»
Esclamò, Camille; in quel momento la mandragola pareva sparita da lì. «Ho scelto Dante, “Vita Nuova”.»
« Oh, l’incontro con Beatrice.»
Disse, facendo passare le dita sottili sulla coda del piano, con un sorriso nella quale Camille scorse, forse, un qualcosa tipo malinconia. La lingua di Lucy schioccò appena.
«Lui aveva adulato un poco, quasi nulla, altre donne, Beatrice era venuta a saperlo da quelle due belle vipere con cui girava sempre insieme e, offesa, gli aveva negato il saluto. Ne fu tremendamente affranto per quasi un mese, nemmeno i suoi amici, i pochi che erano, lo sopportavano più.»
Camille fu stranamente confusa da quella malinconia che sembrava portare molte rughe, tutte quelle che invece non c’erano sul viso di Lucy.
«Certo che ne sai parecchie.»
Fu l’unica cosa che riuscì a dire, nell’intento di far sparire un po’ di quella tristezza. La cosa, fortunatamente, andò a buon fine e Lucy tornò a sorridere con tutta la sua gentilezza.
«Merito di zio e dei suoi libri. Comunque, anch’io faccio Dante, ti andrebbe di svolgere la ricerca insieme?»
Camille annuì con decisione; con una come lei avrebbe preso il massimo e poi era simpatica, tralasciando qualche stranezza.
«Ci vediamo da qualche parte? Non a Central Park, però, non vorrei trovare la sua famiglia.»
Indicò quindi la mandragola senza nemmeno guardarla, tenendo le braccia consorte e muovendo solo l’indice destro, prima di rificcarlo sotto il braccio a esso opposto.
«C’è una biblioteca che fa anche da caffetteria, qui a Manhattan. Non è lo Starbucks, ma ci sono i libri e evitiamo di portarceli dietro noi.»
«Va benissimo, penso che avremo bisogno di calma.»
Le due si lasciarono dopo essersi segnate l’appuntamento e baciate la guance.
La mandragola, intanto, faceva scivolare i petali innaturalmente ruvidi sul legno del pianoforte, in una carezza ricambiata col silenzio indifferente dell’oggetto.



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Ed ecco il secondo..!
Adesso abbiamo scoperto cos'è la pianta ed è entrata in scena un'altra figura misteriosa, Lucy, ma, cosa più importante, con la negazione di Camille è venuto fuori il nodo della vicenda.
Devo ammetterlo, qui il soprannaturale e il mistero fanno "da sfondo" a quello che è il vero centro e il messaggio che ho voluto lasciare alla mia migliore amica, per la quale l'ho scritta, un paio di mesi fa...
Ho ricevuto due bellissime recensioni nello scorso capitolo, spero di non aver deluso nessuno con questo...!

E spero anche di ricevere altri commenti ecc...!

Un bacio,

Valkyrie.

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Capitolo 3
*** 3. Start Over ***


3.  Start Over.







« Hai trovato le Rime Petrose? »
« Il signore della biblioteca le sta cercando! »
« Allora vieni, dai, che sennò si fredda il the. »
Camille andò da Lucy, che stava seduta al tavolo più vicino alla grande finestra a vetri del secondo piano, dove si trovavano scaffali e scaffali pieni di classici stranieri molto più vecchi della stessa biblioteca e mangiucchiati dai tarli della metropoli, con una tazza fumante di the ai mirtilli in mano.
Il sole bagnava i capelli ad entrambe, facendo risplendere i riflessi tanto quanto le tazze, che luccicavano come se fatte della più fine porcellana, e i grandi occhiali di Lucy.
« Ci vieni spesso qui? »
« Praticamente ci passo i pomeriggi.»
Confessò, con un ché di timidezza che fece sorridere Camille. Se si metteva da parte quello strano lato caratteriale che aveva assunto vicino alla mandragola, Lucy era una ragazza decisamente dolce.
Erano quasi due ore che le ragazze stavano lì, immerse nel profumo della carta e del the, a leggere della malinconia di Alighieri, e arrivate a quattro pagine di stesura avevano convenuto che una pausa non avrebbe fatto loro male.
 « Ti sembrerò un’impicciona, lo so. »
Iniziò Lucy, facendo distrarre Camille dall’attenta operazione di non versare nemmeno un granello di zucchero lungo il percorso zuccheriera-tazza.
« Penso di aver capito cosa vuoi sapere. »
Rispose la riccia, abbandonando il cucchiaino nella tazzina e osservando lo zucchero cadere lento verso il fondo.
« Non è della decisione che voglio sapere… Ma del motivo per cui non vuoi suonare più. » Lucy pronunciò quest’ultima frase mettendoci tutto il timore che avrebbe dovuto mostrare di fronte alla mandragola. « A casa tua mi è caduto lo sguardo su parecchi premi, certificati e diplomi in pianoforte, tutti con date che non vanno oltre il 2011. E’ strano che tu ora lo rifiuti così totalmente. »
Camille rimase in silenzio, non aprendo le labbra morbide nemmeno per farci passare l’aria. Lo sguardo  si perdeva sulla superficie rossastra del the, che, nel frattempo, aveva smesso di fumare e appannare e i suoi sottili occhiali da lettura.
L’odore era diventato stucchevole, fastidioso come quella domanda così sensata.
« Fino a poco fa il mio sogno era quello di suonare per tutta la vita. Hai presente quelle grandi orchestre, quella schiera di persone vestite elegantemente…? Volevo esserci pure io, lì, a scaldare la soffitta di un teatro con le note del mio piano.
Me lo sognavo tutte le notti e tutti i giorni ad occhi aperti. »
Camille sorrise, ma il suo sorriso era amaro come il vecchio limone che avevano loro servito.
« Poi, però, tutti hanno ben visto di aprirmeli veramente, gli occhi. »
E quelle stesse pupille scivolarono sulla vetrata, su New York, che ruggiva sotto di loro, isolate in quella bolla di malinconia e libri ingialliti.
« Sai quanto guadagna un’orchestrante? Una miseria o qualcosa di più. E sai quanto deve studiare? Tanto, troppo, un mucchio di anni chiusa in conservatorio.
Io ero rafforzata dall’avere tutti quegli attestati appesi in casa, ma non aveva pensato di non essere l’unica. »

Lo ricordava bene, quel giorno.
Ricordava il sorriso quasi compassionevole della sue professoressa di musica, la quale, posato il metronomo, con una dolcezza che si riserva al più sciocco dei bambini, le aveva detto:
“Sei proprio sicura?”
Lei, seppur interdetta, aveva risposto che sì, ne era convinta.
Da lì tutto era cominciato a crollare: crollavano i moduli per il conservatorio, crollavano le sopracciglia di amici e professori, in un’espressione delusa, quando lei diceva che voleva fare la pianista. Crollava la sua fiducia quando sentiva per sbaglio l’insegnante di piano dire a sua madre d’indirizzare la figlia verso qualcosa “di più proficuo”.
Tutto, poi, era finito in misera cenere dopo un piccolo dialogo con sua sorella.
Discutevano spesso, Camille e Jade, nate con quattro anni di differenza, e svariate volte si erano prese a brutte parole, ma avrebbe preferito qualunque insulto rispetto a quello.
La riccia la poteva vedere, ora, contro le vetrate, mentre, seduta sul divano di casa, scandagliava le bollette. Sentiva la sua voce lamentarsi di tutti quei soldi spesi per un hobby e poi udiva la propria, a dir poco risentita, che controbatteva che quello non era uno svago, ma un impegno per il suo futuro.
La ferita che fino allora aveva cercato di chiudere si aprì dall’alto al basso del suo cuore, al ricordo di come Jade aveva spostato gli occhi su di lei, con una faccia di bronzo che il suo cervello aveva fotografato.
“Ancora con questa storia?”
Quattro parole che le avevano bruciato tutta l’aria nei polmoni.
Ma la sorella non si era fermata e, tirando un sospiro di pazienza, aveva continuato:
“Anch’io da piccola volevo fare l’attrice, Camille. Ma la differenza che separa il “desiderare” dal “concretizzare” non è tanto sottile e tu, vista la tua età, avresti dovuto già vederla.”
Quella stessa sera i suoi genitori le parlarono con finta spensieratezza di un college dagli interni candidi e il nome di un medico famoso.
« Ho firmato il modulo. Ho firmato tutti quelli che mi hanno passato, ho detto sempre sì. Quasi tutte facoltà di medicina, niente psicologia, però, lì ce ne sono troppi. »
La voce di Camille era piatta come il silenzio che regnava sovrano attorno a loro. Non si udiva nemmeno il vecchio padrone, forse addormentatosi sulla poltrona rossa che aveva visto all’entrata e doveva fungere solo come decorazione.
« So che se sfiorassi di nuovo il pianoforte, allora ricomincerei. »
« A fare cosa? »
Quella era la prima frase emessa da Lucy dopo il lungo monologo di Camille.
« A suonare. »
Rispose l’altra, meravigliata da una domanda tanto ovvia; ma le labbra di Lucy si piegarono nuovamente in quel sorriso segnato dalla furbizia di migliaia e migliaia di rughe invisibili.
« No, riprenderesti a sognare. »
La gola di Camille si seccò come nell’episodio prima raccontato, ma la causa dell’incendio, quella volta, era ben diversa.
 Avvertiva ardere qualcosa  con chiarezza tra lo stomaco e il cuore e tra il lobo destro e sinistro: era un desiderio che aveva soffocato con violenza.
Capì troppo tardi che non era nessuna tubatura bucata a gocciolare nel suo ormai imbevibile the.
Lucy non disse una parola, ma lasciò che Camille piangesse in silenzio tutte le lacrime che aveva lasciato a stagnare in una laguna marcia dentro di sé.
Quasi non capiva perché quel mare salato stesse traboccando tutto insieme, o meglio, non voleva capirlo. Non voleva ammettere a se stessa quanto Lucy e quel suo sorriso invecchiato avessero ragione.
« Non ti preoccupare per la ricerca, la finisco io. »
Le aveva detto, alla fine, con un sorriso tanto gentile da far interrompere momentaneamente le lacrime di Camille.
« Tanto manca solo il Paradiso, è la parte più facile. »
Camille non disse che per lei quella era proprio la più difficile, bensì accettò e si lasciò accompagnare a casa.
Strusciò gli occhi azzurri più forte contro il fazzoletto che Lucy le aveva dato; ora, guardandola meglio, notò che le loro pupille avevano lo stesso identico colore.
Tal osservazione riuscì, buffamente, a darle quel poco di allegria che bastava per fermare il suo pianto, ma i pensieri, tutto ciò che fino ad allora aveva nascosto, continuavano ad agitarsi in lei anche dopo aver tolto la chiave e acceso le luci del suo appartamento.
Camille procedé a piccoli passi, in silenzio, mentre la luce filtrava dalla finestra del salotto; come se fosse un qualcosa di lontano dal caso, un filo di essa scivolò sui petali della mandragola e sul bordo sottile del pianoforte a coda.
Le  gambe, senza che lei potesse minimamente opporsi, si fermarono proprio di fronte allo strumento. La mandragola, svegliatasi da un sonno annoiato, la fissava con uno sguardo assonnato, ma Camille non aveva occhi che per il leggio.
Su di esso era stato lasciato un quaderno pentagrammato, aperto su di un brano di Debussy nella quale, tra crome e pause, stavano mille granelli di polvere.
A Camille prudevano le mani.

Non l’avrebbe vista nessuno, nessuno sarebbe andato a ricordarle tutta l’inutilità della cosa. Perché lei sapeva che era inutile, totalmente inutile e non producente.
Se lo ripeteva migliaia di volte mentre sfogliava il quaderno alla ricerca di quattro fogli che si ricordava molto bene, gli ultimi quattro che le sue mani avevano toccato.
Li vide subito, piegati in mezzo a Beethoven, l’ultimo strappato in due pezzi, diagonalmente.
Su quella carta sfigurata c’era tutta la rabbia che aveva vissuto.
Aveva iniziato a scrivere quella composizione nel gennaio passato, fermandosi a poche battute dalla fine, quando aveva avuto la lite con sua sorella.
Le note erano state scritte più volte, a matita, marcando i tondi neri e chiudendo le battute con decisione.
Camille si sentì orrendamente colpevole mentre si sedeva sullo sgabello messo di fronte al pianoforte e il suo senso di colpa urlò quando sfiorò con gli indici la base in abete della tastiera. Solo adesso notava che l’avorio era ingiallito.
Si sentiva alla stregua di un’assassina che sceglieva l’arma del delitto, perché ormai le sue mani si erano posizionate spontaneamente, anzi, erano corse sulla tastiera, con la foga di due amanti ricongiuntisi dopo tanto tempo.
Guardò la prima nota: La bemolle, come si ricordava. E si ricordava anche come finire quella cinquina di battute mancanti, ma….
No, non poteva; invece che la musica, nella sua testa non facevano che vorticare le voci di sua sorella, della sua insegnante, dei sui professori, di mamma e di papà.
Ma in quell’uragano di pena e delusione un’altra voce, una tutta nuova, si fece sentire sopra ogni altra: era quella di Lucy.
“ No, riprenderesti a sognare.”
Stavano così le cose? Aveva paura di sognare ancora, di staccare un piede dalla realtà alla quale si era incatenata?
Forse, non lo sapeva. In quel momento, sotto tutta quella coltre di parole, viveva come mai la voglia di suonare.
I piedi si posarono sui pedali, chiuse gli occhi. La mandragola fremeva con l’aria di chi aspetta un bacio.
Le prime crome suonarono, poi le seconde, e anche le semicrome, le minime e le semiminime, alcune percosse leggermente, altre con impetuosità.
I tasti d’avorio ed ebano si abbassavano, inchinandosi alle dita sottili di Camille, regine che vi danzavano sopra.
Presto le note scritte sull’ultimo foglio finirono, ma ne vennero altre, nate spontaneamente dal sangue che le scorreva nelle mani e arrivava dritto dal cuore.
Fu come se non avesse mai smesso di suonare, fu la rinascita di un sogno…
…. E anche la salvezza di un incubo.
Quanto l’ultima nota di perse nel petto di Camille  e nelle mura dell’appartamento, la ragazza aprì gli occhi e, sorpresa, non trovò nessun paio di pupille gialle e verticali a fissarla.
Solo un seme grande quanto il suo pollice.

I vicini, quel giorno, furono ben contenti di sentire nuovamente il suono dolce del piano di Camille dopo tanto tempo, ma preferirono non commentare la discutibile performance canora di chi la stava accompagnando.
                                                                         
























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Omamma, scusate, mi ero dimenticata di aggiornare! Che scema...
Beh, siamo alla fine, il prossimo sarà l'ultimo capitolo!
Spero che qualcuno mi faccia sapere la sua opinione...!

Baci!

_Valkyrie.












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Capitolo 4
*** 4. Reborn. ***


4. Reborn.




« Crescerà normalmente? »
« Alla perfezione, se con le giuste cure. »
Camille e Lucy osservarono lo spazio di terra smossa sulla quale erano chine, nel giardinetto dietro il condominio della prima ragazza.
Il sole del tramonto bagnava le loro spalle e infuocava i capelli già fiammeggianti di Camille.
Lucy si stiracchiò, togliendosi poi i guanti sporchi di terra che sia lei che l’altra avevano; seppur tendesse a nasconderlo, la sua faccia tradiva una certa soddisfazione.
« E così hai ripreso a suonare. »
Camille annuì, ma non rispose con altro che una domanda:
« Perché si è… trasformata? »
« Si è purificata ed è tornata alla sua forma base, un seme. Diventerà un bel mandorlo, credo. »
« Ma non sarebbe dovuta diventare un fiore…? O una mandragola “buona”, non so… »
« Umh. » Lucy alzò gli occhi sull’orizzonte di cemento. « Come te lo spiego. Diciamo che si tende a cercare un qualcosa di simile a quello che si è stati. Se fosse stata, non so, un grifone, avrebbe scelto un falco o qualche altro felino, ti è chiaro? »
« Diciamo di sì. Quindi è come se fosse morta e nata un’altra volta? »
« Esattamente, direi che sono le parole giuste. »
Camille non si dilungò di molto su quest’argomento che ancora le pareva più nei libri che fuori.
Cosa esisteva? Cosa no? Meglio lasciar stare e fare le finte tonte, decisamente.
« Ho inviato la domanda per il conservatorio. C’ho allegato anche la composizione. »
« Davvero? »
« Quanto è vero che quando i professori e i miei amici lo scopriranno verrà loro un infarto. »
« L’importante è che tu ne sia felice, però »
Camille sorrise, poi gli occhi le caddero sulla cassa con gli strumenti da giardino che Lucy stava rimettendo in ordine.
Oh, tu guarda.
« Metti sempre le cose in ordine a gruppetti di tre. Anche a mensa, quando ti ho vista la prima volta, avevi tre bracciali e tre anelli, e in biblioteca schematizzavi e organizzavi a punti di tre in tre. Sei fissata! »
Camille vide il volto di Lucy dipingersi di stupore, prima che tornasse a piegarsi in un sorriso gentile.
« E’ più forte di me. Ce l’ho da quando sono… da quando sono nata. »
La rossa passò sopra lo strano tono con la quale l’altra aveva pronunciato la frase, ma notò nuovamente il triplo degli anni di Lucy nel suo sorriso.
« Ah, ti devo chiedere un altro favore! Quando quest’estate andrai da quel tuo zio, mi potresti mandare quei bestiari? Mi hai fatto interessare! »
Magari era come Harry Potter, pensò, Camille.
Una risata uscì dalle labbra di Lucy, che si passò una mano tra i capelli.
« Non posso, Cam. »
« Tuo zio non te li presta? »
« No, il punto è che non li ho. Né quelli né tutti gli altri. »
Camille aggrottò le sopracciglia.
« Li hai presi da internet? »
« Ne dubito, il testo sulle piante mostruose che ho letto a diciannove anni è andato perso in un incendio. »
Se lo sguardo di Camille prima era confuso, adesso si poteva definire parecchio sbigottito.
Lucy e lei erano coetanee, tutte e due nate nel 1994.
« Tu non hai ancora diciannove anni, Lucy. »
« Ne sei così sicura? »
La castana sorrise nuovamente in quel modo e, come quando le era stato svelato della mandragola, un brivido  percorse la schiena di Camille.
« Il discorso che ti ho fatto sulla “trasformazione” della mandragola non vale solo per una creatura del genere. Il mondo non vieta nulla a nessuno e anche noi umani, se abbiamo fortuna, possiamo fare il bis. » Lucy si passò una mano tra i capelli; la sua voce tremava appena. « Nel 1300, però, la pensavo un po’ diversamente. »
Le informazioni vorticarono nella testa di Camille a gran velocità.
Rivide Lucy nella biblioteca darle il verso delle Rime Petrose da sottolineare senza guardare sul testo, la vide girare gli occhi in “Vita Nova” e rivide anche le compagne, mentre parlavano di lei, dicendo come la sconosciuta dimostrava, in un’interrogazione a sorpresa, di conoscere a menadito l’Inferno.

« … Non hai il naso aquilino, però »
« E menomale. Sono anche diversa come carattere, grazie al cielo! »
« A questo… A questo posso scegliere se credere o no? »
« Oh, fa’ come vuoi, tanto a me non cambia nulla. »
Lucy rise di cuore e, con un’allegria che non le aveva mai visto indosso fino a quel momento, saltò in piedi.
« Hai fatto venire voglia anche a me, Cam! »
« Di cosa? »
« Di sognare! »
« Non lo facevi? »
Lucy salì sul muretto vicino, provando il brivido di trovarsi a otto centimetri d’altezza.
« Non per me. Sai, quando ho capito perché avevo poesie in fiorentino piantate in testa nonostante io sia nata in California, mi sono detta: perché non faccio una bella cosa? Indovina cosa! »
Camille fece spallucce.
« Si vede che non hai studiato, Cam. Insomma, ho pensato che questa era l’occasione che aveva sognato scrivendo cento canti e quindi mi sono messa a cercare lei, Beatrice. Ma sai, è un po’ complicato capire dove sia andata a finire. » Saltò, salì di nuovo, procedé a zig-zag.
«Quindi è meglio se inizio a sognare per me. Cosa potrei fare? Magari la scrittrice, con tutti questi paroloni che ho in testa…! »
Si lasciò nuovamente scivolare. Rivelando quel suo segreto, che quasi rendeva la mandragola una cosa “normale”, Lucy sembrava un’altra, ben più leggera e allegra rispetto a quella vista la prima volta  nella mensa a rosicchiare muffin.
« Però mi sembrerebbe quasi uno sfruttamento, se non un ladrocinio. »
« Potresti fare la psicologa. »
Commentò Camille, sedendosi accanto a lei.
« Ce ne sono troppi! »
« Se è per questo, allora ci sono anche troppi pianisti. »
Si sorrisero; in pochi giorni si era creata tra loro un’amicizia tanto forte da far spavento.
« Beh… » La voce di Lucy si perse dietro lo scoccare della sua lingua. «  Per ora potrei provare. Nel caso vada male, sognerò qualcos’altro! »
Accavallò le gambe e, puntando lo sguardo verso la punta del Rockfeller Center, iniziò ad immaginarsi seduta in uno studio e con un perfetto sconosciuto steso su una bella poltrona rossa, simile a quella del bibliotecario.
Camille le sorrise e rimase in silenzio, a osservare il punto dove il seme dell’ex mandragola era stato piantato.
Pure quell’essere aveva avuto un sogno, che si era esaudito poche ore prima.
Lucy aveva ragione, pensò; avrebbe sognato e sognato, senza farsi bloccare da nessun limite, avrebbe lottato per realizzare i suoi desideri.
Se dal conservatorio sarebbe arrivata una risposta negativa, allora avrebbe provato ancora, oppure cambiato strada e pensato qualcos’altro che non “doveva”, ma “voleva”.
Avrebbe creato milioni di sogni, esaudendoli, abbandonandoli, ma senza più chiuderli in antri oscuri.
Avrebbe messo se stessa in ognuno di loro.
Così, arrivata ad un certo punto, anche a novantotto anni, si sarebbe guardata indietro e avrebbe visto tutte le strade che lei, lei e nessun’altro, aveva scelto, che fossero con o senza sbocco.
E, fatto ciò, con il sorriso sulle labbra, avrebbe capito cosa voleva dire vivere appieno.

























_________________________________________________________________________________________________________________end.


Et woila, è finita.  
L'avevo nel pc da tantissimo, ma mi sono dimenticata di aggiornare...!
Spero vi sia piaciuta. Ma, soprattutto, spero che il suo messaggio sia arrivato.


Non smettete mai di credere.


Baci!


_Valkyrie.


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