Seguendo i gabbiani

di Tenar80
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 - Mondo perduto ***
Capitolo 2: *** Il mago del re ***
Capitolo 3: *** 3 - Come un fortunato animale domestico ***
Capitolo 4: *** 3 - Seguire i gabbiani ***



Capitolo 1
*** 1 - Mondo perduto ***


SEGUIRE I GABBIANI

 

 Con fatica, il mago apre gli occhi. Ci mette un poco a mettermi a fuoco.

 - Perché sei venuta nella mia stanza? - chiede.

 - Per ucciderti. - rispondo, mostrando il pugnale.

*

 Il mio nome è Ehlohe, Gabbiano, un nome comune nei villaggi sulla riva del mare, dove il verso del gabbiano è spesso il primo suono che si ode al mattino e l’ultimo che saluta la sera. 

 Nell’Arcipelago i giorni hanno tutti più o meno la stessa lunghezza e non siamo soliti misurare il tempo in anni, ma nel corso della mia vita le balene erano già tornate quindici volte a innalzare i loro canti d’amore davanti all’Isola Lunga, quando arrivarono gli Uomini Luminosi.

 Sapevo che esistevano, naturalmente, come sapevo che i draghi volano alti sopra le isole, nella loro eterna ricerca, e che esistevano terre lontanissime dove fa talmente freddo che l’acqua a volte si fa solida come roccia. 

 Di tanto in tanto un mercante ci portava dei gioielli di quella sostanza colorata e trasparente chiamata vetro, prodotta dagli Uomini Luminosi, e ci parlava delle loro città fatte di pietra, della loro pelle chiara come il ventre di uno squalo e delle strane paure delle loro donne, che non potevano farsi vedere nude. A volte qualcuno sussurrava di isole lontane dove gli Uomini Luminosi erano arrivati in forze, con magie potenti e avevano imprigionato tutti gli abitanti per obbligarli a cercare il metallo giallo dei nostri fiumi. Chiacchiere di delfini, le definiva mio padre, tutti sapevano che quel metallo era inutile se non per farci gingilli e non valeva certo una guerra. Noi avevamo il pesce delle nostre acque, le foreste per trovare il miele e la frutta. Nessuno poteva minacciarci: eravamo ricchi e forti e avevamo persino uno stregone.

 Una volta lo vidi davvero usare la magia del sangue, quando mio padre si ruppe la gamba. 

 Era caduto malamente cercando di raggiungere un favo troppo in alto, sui rami fragili, l’osso si era fratturato in più punti e quando lo avevano portato a casa aveva già la febbre. 

 Lo stregone era arrivato quasi subito. 

 Gli fece bere una pozione e poi prese un coltello e si fece un taglio su ognuno dei polsi, dove aveva già molte cicatrici in rilievo. Il sangue cadde sulla frattura mentre il vecchio cantava e io vidi mio padre riaprire gli occhi, sorpreso, mentre la gamba riprendeva la sua forma naturale. Poi mia madre fu svelta a fasciare i polsi del vecchio e gli fece bere del latte caldo col miele e pretese che passasse la notte con noi. Quella sera noi bambine non riuscivamo a staccare gli occhi dalla sua barba lunga, intrecciata con vertebre di pesce e strisce di foglie di palma. Quando mia sorella ebbe l’ardire di chiedergli come aveva fatto, lui rispose soltanto:

 - Una goccia per trovare. Due gocce per guarire. E nulla vale tre gocce di sangue.

 Io avevo visto, però, che aveva usato ben più di due gocce.

 

 Il giorno in cui arrivarono, io ero fuori dal villaggio. 

 I pescatori avevano trovato un banco di Sili, un pesce dalla carne insipida e il fegato puzzolente dal quale si estrae, però, un potente antisettico. 

 Spremere il fegato di Sili è un lavoro affidato alle ragazze, perché sono così belle che possono permettersi anche di puzzare, secondo quanto dicono gli adulti. Andavamo in una baia sottovento dove prima della mia nascita si era spiaggiata un’enorme balena e sedute su quelle grandi ossa bianche lavoravamo e chiacchieravamo fino a sera.

 Eravamo in cinque e stavamo seguendo i gabbiani, come si dice da noi, lasciando correre liberamente i nostri sogni e ognuna diceva all’altra, ridendo, quale tra i ragazzi ci piaceva di più. 

 Di colpo i gabbiani veri, che si erano avvicinati sentendo l’odore del pesce, si alzarono tutti in volo e subito dopo si udì un boato. Oltre le dune, dove c’era il villaggio, si levava il fumo denso di un’incendio e si sentivano, attutiti, rumori e grida.

 

 Lasciammo tutto il sili nei cesti vicino alle ossa di balena e corremmo per vedere quello che succedeva.

 

 Gli Uomini Luminosi ci trovarono in cima alle dune. 

 Ne vedemmo un primo che stava sopra un grande animale, più alto di un bufalo, col manto dello stesso colore. 

 Come ci avevano raccontato, l’uomo era vestito di metallo che luccicava sotto il sole. Aveva la faccia chiara e occhi freddi e ci gridò parole in una lingua che non conoscevamo. 

 Subito ne arrivarono altri a piedi, vestiti con meno metallo e più cuoio, ma avevano armi metalliche, spade, con le quali ci minacciavano. Uno di loro provò a prendermi per i capelli, ma l’uomo sull’animale lo fermò.

 - Queste sono per gli ufficiali. - disse, ma io non sapevo cosa significasse.

 

 Ci condussero al villaggio, dove tutte le capanne erano bruciate, tranne quella dello stregone. Intorno a quella c’erano molti uomini morti, avevano affrontato gli Uomini Luminosi con le lance e gli scudi di legno. Tra loro c’era mio padre.

 I cadaveri lontano dalla capanna dello stregone erano disarmati. Alcuni avevano tenuto in mano gli scudi, ma erano sbriciolati, come fossero fatti di segatura. E c’erano i vecchi e i bambini che ancora non camminavano che erano stati sgozzati e lasciati vicino alle macerie delle capanne, cose abbandonate e senza valore.

 Ricordo le immagini. Una per una. Ci dev’essere stato rumore. Le grida dei soldati che ci portavano attraverso il villaggio e il mio pianto e quello delle mie compagne e il crepitare del legno che ancora bruciava. Ci dev’essere stato l’odore, quello del sili e del sangue. Ma io ricordo di essere passata attraverso un villaggio muto, come in quegli incubi in cui tutto tace e quello che vedi non riesci a toccarlo o a sentirlo.

 

 Fuori dal villaggio c’era il recinto dei bufali e dei maiali. Avevano spostato gli animali e ci avevano messo le persone. Buttarono dentro anche noi e cademmo nello sterco e nel fango.

 Trovai mia madre e mia sorella, avevano lividi sul viso e sul corpo e la veste strappata. Non chiesi perché, né chiesi di mio padre o di mio fratello più piccolo. Volevo piangere e non ci riuscivo.

 Mi dissero che di colpo tutte le capanne avevano preso fuoco e tutto il legno si era sbriciolato, solo le capanne vicina a quella dello stregone erano state risparmiate. Lui era morto dissanguato, cercando di disfare la magia che ci aveva attaccato. Lì gli uomini avevano cercato di combattere, con il legno contro il metallo e lì erano morti, liberi. C’era invidia per quella sorte. 

 

 Al mattino vennero a prenderci. Tirarono fuori dal recinto me e le mie compagne, ci fecero togliere la veste e ci fecero stare in piedi, nude e sporche, davanti a uomini che, da quanto sapevo, non potevano guardare le donne nude. E da quello compresi che non ci consideravano davvero esseri umani.

 Tutti gli uomini luminosi avevano facce strane e innaturali. Bianche, senza barba, come quelle dei bambini. Avevano capelli dai colori insoliti, persino rossi. Pochi quel giorno indossavano effettivamente il metallo. Per lo più portavano una corazza di cuoio e abiti di tela consumati e sporchi. Puzzavano anche se non avevano passato la notte nello sterco.

 I capi, però, erano vestiti di metallo e portavano un copricapo con in cima strani pennacchi colorati. All’ombra dell’elmo i loro occhi chiari brillavano e sembravano i più crudeli di tutti. 

 Tra loro c’era un uomo diverso. 

 Portava una lunga veste rossa ed era più basso e più esile degli imponenti uomini vestiti di metallo. Come un vecchio, usava un bastone, ma era invece giovane. Aveva capelli color dell’erba secca sopra un viso da ragazzo stanco.

 Due uomini, di quelli vestiti di cuoio e di tela, mi presero. Mi scelsero per prima, compresi poi, perché mi ritenevano la più bella. Lo fecero per le stesse ragioni per cui tra le mie compagne ero considerata la più brutta, perché ero troppo alta e snella, senza fianchi floridi, e avevo occhi troppo chiari, come il mare vicino alla riva. 

 Mi buttarono a terra ai piedi del giovane vestito di rosso. 

 Molti degli altri risero, applaudirono e fecero dei gesti osceni, come se si aspettassero che lui mi prendesse lì, sullo spiazzo, davanti a loro. L’uomo in rosso fece un gesto sprezzante e uno dei capi disse alcune secche parole che zittirono tutti. 

 Si fece avanti un uomo che conoscevo. 

 Era uno dei mercanti che di tanto in tanto giungeva alla nostra isola. Aveva i tratti di uno di noi, aveva colore delle rocce e della pelle delle balene, le nostre sorelle marine. Portava la barba florida e riccia, come si conviene ad un adulto, ma indossava le vesti di tela e di cuoio degli invasori.

 - Sei fortunata, Ehlohe. - mi disse, nella mia lingua - Sarai la schiava del mago del re.

 Io non conoscevo il significato della parola “schiava” e sbattevo gli occhi, stupida e arrabbiata.

 - Dovrai servirlo, fare quello che ti sarà detto e compiacerlo, come una moglie con il marito.

 Mi vendeva, uno della mia gente, come fossi un oggetto.

 Mi alzai in piedi e gli sputai in faccia, un gesto banale e inutile.

 Mi bloccò un uomo che non portava armi, ma era abbastanza forte da trattenermi e mi trascinò via. Dietro di noi venne il giovane mago del re, qualsiasi cosa questo volesse dire, appoggiandosi al bastone.

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Capitolo 2
*** Il mago del re ***



Qualche nota: è la prima storia che posto qui, per cui sono ancora piuttosto maldestra, specie per quel che riguarda la conversione del file.
Amo scrivere storie fantasy nelle quali, spesso, non accade nulla di fantasy, qui almeno c’è un po’ di magia. Mi rendo conto che Ehlohe non è forse un gran personaggio, ma mi piace il modo in cui si sforza di essere oggettiva nel raccontare una storia che, in fondo, è sua solo in parte.
Chiunque vorrà lasciare un commento è, ovviamente, benvenuto.
Non ricordo cosa pensavo e cosa mi aspettassi. Ero oltre la speranza e la paura, credo. 
 Il mondo era finito. 
 La ragazza che ero stata non esisteva più. 
 Sulla spiaggia, dall’altra parte della penisola su cui sorgeva il villaggio rispetto alla baia delle ossa di balena, c’era l’accampamento degli Uomini Luminosi. Vi erano ancorate navi più grosse dei più grandi tra i cetacei e c’erano tende colorate sulle dune. L’uomo vestito di rosso si diresse ad una tenda, dicendo qualche stanca parola a quello che mi conduceva.
 Fui portata nel torrente e fatta lavare e poi mi fu data una veste non tinta di una stoffa ruvida che pungeva sulla pelle.
 Quando entrammo nella tenda, il mago del re dormiva. Vidi che aveva i polsi coperti da larghe strisce di cuoio. 
 L’ambiente era semplice, uno spazio per i giacigli, due casse, un focolare. C’era un cesto di pesce fresco e della frutta e l’uomo che mi aveva in carico mi fece segno di preparare un pasto.
 Così ebbe inizio la mia vita di schiava. Non rividi più mia madre o mia sorella. Non so se siano ancora vive o se sia meglio per loro che non lo siano. 
 Rimasi nel campo per un tempo che ora misurerei in mesi.
 Avevo compiti semplici. Pulivo la tenda, preparavo il cibo, andavo al torrente a lavare le vesti. I primi giorni, il mago non fece altro che dormire. Poi, piano, riprese ad alzarsi e da come lo trattava l’altro uomo era chiaro che era stato malato. Tutti, però, nel campo lo trattavano con deferenza e passava molto tempo a parlare con gli altri capi, a leggere e a scrivere, cose che io non avevo mai visto fare.
 Appresi che il suo nome era Azel e quello del servo Pollok. Azel era brusco con me. Mi dava ordini a gesti, scandendo bene una parola. La volta successiva ripeteva quella parola, senza il gesto, e se non capivo subito si irritava. Non gli piaceva come cucinavo e annusava le vesti che gli avevo lavato e rammendato prima di metterle. Non mi toccava mai, ne per picchiarmi, ne per portarmi nel suo letto. Le altre ragazze dicevano che ero fortunata.
 Di tutta la mia gente, vedevo solo le altre quattro ragazze che quel giorno erano state con me a pulire il sili. Insieme andavamo a fare il bucato al torrente, parlavamo la nostra lingua e cercavamo di capire cosa fosse accaduto.
 Essendo state trovate da uno dei capi lontano dallo scontro, i soldati non ci avevano toccato, per questo eravamo state scelte per diventare schiave dei capi. La nostra gente, invece, era stata portata all’interno, verso le montagne, per lavorare all’estrazione del metallo giallo. Era stata la magia del mago del re, mi dissero le altre, un portento più forte di quelli del nostro stregone, a far bruciare le capanne e a distruggere le nostre armi di legno.
 Con i giorni, l’impazienza di Azel iniziò a cambiare forma. Mi indicava le cose e ne pronunciava il nome nella sua lingua, poi me faceva ripetere la parola, infine mi mostrava come scriverla sulla pergamena e spesso mi obbligava a ricopiarla. Io, però, ero troppo apatica e triste per essere una buona allieva, così lui si spazientiva subito e mi mandava via.
 - Solo una perdita di tempo. - borbottava.
 Credo siano state le prime parole in questa lingua che io abbia compreso.
 Quando non leggeva, non scriveva, non era fuori con gli altri capi e non si irritava con me, preparava strani miscugli in ampolle di vetro, mescolando polveri e liquidi che tirava fuori da una cassa che non mi era permesso toccare. 
 Ci volle del tempo, però, prima che gli vedessi fare una vera magia.
 Si stava costruendo qualcosa più a monte, dove erano stati portati gli altri del villaggio e i capi andavano e tornavano da là al campo. Un giorno, uno dei capi più importanti fu portato su una barella nella nostra tenda. Qualcosa gli era caduto su un piede, che adesso era solo una massa di sangue e di carne. Vederlo così, indifeso e sofferente, mi fece sentire bene.
 Azel lo fece sistemare nel suo giaciglio e si tolse le fasce di cuoio dai polsi. Come lo stregone del villaggio, aveva molte cicatrici, rosse sulla pelle bianca. Alcune, due per ogni polso, si stavano appena chiudendo e Azel fece una smorfia quando con un coltello ne dovette riaprire una. Del sangue cadde sul piede ferito, meno di quanto lo stregone ne aveva usato per mio padre. Non cantò e non disse niente. Chiuse gli occhi e tenne la mano sopra il piede. E questo guarì. 
 Azel, però, era sudato e tremava e Pollok borbottò parecchio mentre si occupava del suo polso.
 - Non avrebbe dovuto usare il sangue così presto, neppure per il comandante. - mi disse quella sera.
 Ormai capivo abbastanza la lingua per seguirlo e Pollok sembrava soddisfatto di avere qualcuno con cui parlare. Mi chiamava “bambina” e mi trattava proprio come se fossi piccola, parlandomi piano e spiegandomi lentamente i concetti.
 Era soddisfatto di essere il servo di un mago. Mi spiegò la differenza tra lui e me. Lui era un servo, riceveva una ricompensa per il suo lavoro, dei pezzi di metallo giallo, e, se avesse voluto, avrebbe potuto lasciare il servizio. Io ero come un oggetto, appartenevo in tutto e per tutto ad Azel.
 - Ma come una cosa preziosa e fragile, che deve essere trattata con cura. - aggiungeva.
 Seppi che Azel aveva ventitré anni ed era giovane per essere un mago del re. Si era imbarcato per aiutare un mago più anziano, ma questi era morto durante il viaggio, così Azel si era trovato a compiere magie che non avrebbe dovuto fare da solo e, dato che ogni portento aveva un prezzo di sangue, Pollok era preoccupato per lui.
 Per tutto quel tempo non pensai mai di fuggire. Avrei potuto farlo. Ero sulla mia isola, avrei potuto andarmene di notte e cercare di raggiungere uno dei villaggi dall’altra parte della montagna, che forse erano ancora liberi. Forse.
 Facevo fatica a mettere a fuoco i pensieri. Di notte avevo incubi che non ricordavo, di giorno tremavo per ogni rumore forte o piangevo, senza sapere bene il perché, mentre pulivo il pesce o rammendavo un abito.
 Senza volerlo, mi abituavo ad Azel, mente lui si abituava a me. Più lo capivo e più lui aveva pazienza a spiegarmi le cose. Gli piaceva insegnare e io appresi allo stesso tempo a parlare, a leggere e a scrivere in una lingua che mi era estranea. 
 Capii che i suoi intrugli erano per lo più medicine e che gli piaceva curare, con le erbe o con la magia. A volte, però, doveva andare verso la montagna per compiere magie del sangue che non erano di guarigione. 
 Tornava debole e irritabile e anche lui aveva gli incubi nelle notti seguenti.
 Arrivò una notte in cui entrambi non riuscivamo a dormire. Pioveva, la pioggia rabbiosa dell’Arcipelago, un rumore quasi insopportabile.
 - Perché la tua magia è stata più forte di quella del nostro stregone? - chiesi.
 - Anche il tuo stregone usava la magia del sangue? - chiese lui.
 Gli raccontai di mio padre e della sua gamba e nel farlo piansi. 
 Per la prima volta, lo vidi imbarazzato.
 - Perché noi sappiamo calcolare il coefficiente di moltiplicazione. Sappiamo calcolare quanto sangue esattamente serve per moltiplicare la nostra forza di volontà. La magia è stata elevata dalla scienza alla massima efficienza.
 - Una goccia per trovare, due gocce per salvare. Niente vale tre gocce di sangue. - ripetei.
 Lui fece un sorriso amaro.
 - Avevate uno stregone saggio. Noi invece abbiamo un re avido. 
 Infine, venne il giorno in cui altre navi enormi giunsero nella baia. Ne scesero altri uomini, soldati, ufficiali e tre uomini vestiti di rosso che passarono molto tempo a parlare con Azel. 
 Pollok era entusiasta.
 - E’ arrivato il cambio. Presto torneremo a casa. - mi disse.
 Ma la mia casa era stata bruciata.

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Capitolo 3
*** 3 - Come un fortunato animale domestico ***



Ecco la terza parte della storia, in cui termina il racconto di Ehlohe. Un grazie a tutti quelli che hanno voluto leggere. A presto l’epilogo della vicenda
Forse, il giorno in cui ci imbarcammo fu quello in cui tornai a vivere.
 La mia isola non esisteva più. 
 Quella che lasciavo era una terra di morti, dove ogni notte gli spiriti della mia gente, che non erano stati accompagnati nel giusto modo nell’aldilà, tornavano a graffiarmi. Quello che restava della mia famiglia era da qualche parte, sulla montagna. 
 Stavano peggio di me, eppure io stavo male.
 Il viaggio durò a lungo e io ero una schiava. Ma ero la schiava del mago del re e nessuno mi importunava. Pulivo la cabina, rassettavo le vesti. Pollok era allegro, nonostante avesse paura delle tempeste. Azel compiva pochissime magie di cura e mi faceva leggere da alta voce libri che parlavano del mondo verso cui stavamo andando, che non sembrava composto da persone peggiori di quello del mio villaggio. Mi spiegava le parole che non conoscevo e mi parlava della città dove saremmo approdati, che aveva torri più alte delle palme più alte della mia isola. Avremmo vissuto in una di esse, sopra strade lastricate di pietra su cui passavano carrozze trainate da cavalli. 
 E mentre parlava con quella voce calma e dolce era così facile dimenticare che era stato lui a incendiare le capanne del mio villaggio.
 Arrivammo nel porto nella stagione che chiamate inverno e c’era del bianco che scendeva dal cielo, l’acqua solida di cui avevo sentito parlare, tanto tempo prima, sulla riva di un mare diverso.
 La città era grigia, con davvero le torri alte come palme e odori strani. Quando scendemmo, il porto era pieno di gente pallida dalle vesti esotiche. Indicavano gli ufficiali di ritorno dalla spedizione e il mago del re. Indicavano anche me.
 - E’ perché sembri una principessa di un paese straniero, bimba. - mi sussurrò Pollok.
 Mi aveva fatto indossare un mantello foderato di pelliccia di Azel, un indumento lussuoso e caldo.
 Mi domandai dove fossero le altre ragazze, quelle che erano state con me, tanto tempo prima, a ridere sulle ossa di balena. Nessuna di loro era imbarcata sulla nostra nave. 
 Da allora sono trascorsi due anni.
 Viviamo in una delle torri, nel centro della città, con altri servi oltre a Pollok e a me. 
 A volte vado al mercato a fare compere e sento gli strani profumi di questa terra fredda e grigia. La gente mi guarda passare, ma non fa commenti. Nessuno fa commenti sui maghi del re e sulle loro proprietà. Nessuno in assoluto fa commenti su un mago del re che è disposto a curare anche la gente del popolo.
 Aiuto Azel a preparare le sue pozioni. Lo assisto quando cura i malati e, quando deve usare il sangue, fascio i suoi polsi. 
 A volte, mentre mi spiega qualcosa o gli passo un oggetto, le nostre mani si sfiorano e suoi occhi verdi indugiano un istante in più sulla mia pelle. Poi, però, riprende quello che stava facendo e io non so se esserne dispiaciuta o sollevata. Nessuno mi tratta come una schiava e penso che se volessi andarmene, dovrei solo chiederlo. Ma non lo desidero.
 Solo a volte, quando sento il gabbiano gridare, mi ricordo il significato del mio nome e il luogo da dove provengo. E mi sento infinitamente meschina perché non ho neppure una cicatrice sul mio corpo... 
 Vorrei almeno poter seguire i gabbiani, come diceva mio padre, ma non so quali sogni dovrei fare e quali desideri esprimere. Il mio passato è morto e non vedo alcun futuro. 
 Vivo solo il presente, come un fortunato animale domestico.
 Fino a tre giorni fa.

 Azel è stato chiamato in udienza dal Commissario Reale, sulla cima della torre più alta di tutte.
 Quando è tornato, era corrucciato e triste.
 - Mi è stato ordinato di partire in una nuova spedizione di conquista. Sono un mago del re, non posso rifiutarmi. - ha detto.
 Mi ha guardato a lungo, come se mi dovesse una spiegazione.
 - Sono anche io uno schiavo, in un certo senso. - ha aggiunto.
 Ho ricordato il suono della mia lingua. Il vento caldo e le piogge che duravano una notte e lasciavano l’aria pulita. Ho ricordato i lividi sul volto di mia madre e il corpo di mio fratello, che ancora non sapeva parlare, mezzo bruciato nella polvere. Ho ricordato i polsi di Azel e le parole dello stregone. Nulla vale tre gocce di sangue.
 Nella tenda e sulla nave dormivo su un giaciglio accanto a quello di Azel. Da quando sono nella torre, ho una stanza tutta mia, dove Pollok fa tenere il fuoco del camino sempre acceso, anche quando per gli altri fa caldo. 
 Ho preso un coltello in cucina e l’ho nascosto sotto il cuscino. 
 Ce l’ho ben saldo nella mia mano, mentre piano apro la porta della stanza di Azel, non la chiude mai a chiave. 
 Non provo rabbia, solo tristezza. 
 La porta si apre.
 Azel non è nel suo letto e neppure seduto al tavolo, come avevo temuto.
 E’ a terra, al centro della stanza, il corpo scosso da convulsioni. Nell’aria, l’acre odore del veleno.

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Capitolo 4
*** 3 - Seguire i gabbiani ***



Avevo giurato che non avrei mai più ucciso, eppure per poco non ho tradito il mio giuramento, uccidendo me stesso.
 Quand’ero giovane e ignorante delle cose del mondo, mi hanno detto che quelli dell’Arcipelago non erano che animali in forma umana: hanno la pelle del colore del manto dei cervi, o dei buoi, e girano nudi o quasi, mangiano il pesce crudo e non sanno lavorare il metallo.
 Li ho uccisi con la tristezza di chi non ama far del male alle bestie.
 Quando mi hanno dato come ricompensa una schiava, ho pensato solo che puzzava. L’ho fatta lavare dal mio servo, ma odorava ancora e non sopportavo di averla intorno, mi ripugnava l’idea di toccarla.
 Il piccolo gabbiano, che mi ha salvato.
 So che è un mago che sta leggendo queste pagine, ci vuole un poco di sangue per farle apparire. Una goccia per trovare, come diceva lo stregone saggio del villaggio di Ehlohe. E so che manderanno un mago ad indagare sulla sparizione di un mago, dato che siamo pochi e preziosi.
 Forse un giovane a cui hanno detto che la gente delle isole non è che una mandria di animali, da sterminare e schiavizzare, secondo i desideri del nostro re.

 Ehlohe è stata rapida a riconoscere il veleno e a somministrare l’antidoto. Con la vigliaccheria che mi è propria, non volevo soffrire a lungo e non avevo lesinato con le dosi.
 Quando ho riaperto gli occhi ci ho messo un poco a capire dove fossi e chi era lei. Ancora di più ci ho messo a ricordare che sono un uomo libero.
 Ho aiutato ad uccidere e a fare schiavi. 
 Ma io sono libero, a vincolarmi c’è solo un giuramento. Ubbidire al re per il bene della Nazione. Lo sterminio non credo faccia bene a nessuna nazione.
 Sono giovane, sono ricco e sono un mago del sangue, ho nelle mie vene tutto quello che serve al mio lavoro.
 La gente dell’Arcipelago dice di chi persegue i propri sogni oltre ogni logica che “segue i gabbiani”. Ebbene, io ho il mio gabbiano da seguire.
 Mentre leggete, sono già per nave, vi sono rare imbarcazioni che giungevano all’Arcipelago già assai prima che il re decidesse di conquistarlo. So quanto ci mette a mobilitarsi una spedizione militare. Saremo già lì, quando arriveranno.
 Da quello che dice Ehlohe, vi sono stregoni capaci di usare la magia del sangue, nell’arcipelago, con più saggezza che conoscenza. Non sarà difficile spiegare loro come calcolare il coefficiente di moltiplicazione e come contrastare un incantesimo.
 Saremo già lì.
 Quanto a te che stai leggendo, è venuto il tempo di decidere se aiutare a plasmare il mondo secondo i desideri del re, o se non desideri invece imparare a seguire i gabbiani per costruire un mondo che sia degno di essere sognato.
Se fossi una vera scrittrice fantasy, forse avrei iniziato a raccontare la storia da qui, ma finisco sempre per essere affascinata dai silenzi che precedono l’azione, piuttosto che dallo scoppiare degli incantesimi.
Grazie a tutti quelli che hanno voluto leggere. Chi volesse recensire è, ovviamente, il benvenuto.

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