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Lista capitoli: Capitolo 1: *** La tartaruga del tempo *** Capitolo 2: *** Tornare in cima *** Capitolo 3: *** Gli occhi di Shinichi *** Capitolo 4: *** Ricordi di un sole che muore *** Capitolo 5: *** Come due corvi appollaiati su un ramo *** Capitolo 6: *** Il coraggio di credere nella verità *** Capitolo 7: *** Kahlua: gusto caffè e vaniglia *** Capitolo 8: *** Vicolo cieco ***
a
te, fratello infelice, crudelmente mi ha tolto.”
(Catullo)
1. La tartaruga del tempo
Per quel giorno avevano previsto pioggia. E in
effetti il cielo grigio che Ran intravide attraverso la
tenda leggermente scostata non lasciava prevedere nulla di buono.
Non
pioveva da quasi due settimane. La primavera era ormai al termine e l'estate
sembrava essere scoppiata di botto. Negli ultimi giorni il sole si era
impossessato del cielo e aveva fatto prigioniera Tokyo. I maglioncini avevano
lasciato il posto alle magliette a maniche corte, i sandali avevano spodestato
gli stivali e gli ombrelli erano stati accantonati nell'angolino più buio di
casa. Ma quel giorno no, quel giorno il sole non c'era. Aveva deciso di
nascondersi dietro qualche nuvola, per schiacciare un pisolino indisturbato.
Tutti hanno bisogno di riposarsi prima o poi.
Ran si alzò piano, controllando
l'ora. Erano solo le sette di mattina.
Non
aveva dormito granché, eppure non aveva sonno. Non aveva più avuto sonno da due
mesi a quella parte. Due mesi. Sessantadue giorni che le erano strisciati
addosso lentamente, nel ricordo di chi non c'era più e nell'attesa di chi non
voleva decidersi a tornare. Non era vero che il tempo volava. Il tempo non
passava mai. Scorreva lento come una piccola tartaruga, che, alla faccia di
Zenone, Achille aveva già superato da un pezzo. Ran
si sentiva come un sassolino incastrato nel guscio della tartaruga del tempo. E
il mondo, l'Achille dal piede veloce, correva più rapido del tempo, divorandosi
freneticamente la vita. Il più lento è destinato a rimanere indietro: era
questo che Ran aveva imparato in quei due mesi.
Sì,
se le avessero chiesto di descrivere con un solo aggettivo la sua vita, avrebbe
detto che era lenta. Terribilmente lenta.
Si
inoltrò nell'appartamento semibuio, cercando di non calpestare qualche lattina
di birra lasciata per il corridoio da suo padre. Nell'ultimo periodo beveva più
del solito, e aveva preso la cattiva abitudine di lasciare tutte le scorie del
suo vizio in giro per casa.
Ran sospirò, raccogliendo uno dei
reperti, per poi scaraventarlo nel cestino non appena giunta in cucina. Nella
casa regnava un silenzio di tomba, disturbato solo dal russare regolare di Kogoro, che, attraverso la porta chiusa e a più di un
corridoio di distanza, le sembrava solo il ronzio di una mosca.
Il
silenzio non era una peculiarità di quella mattina. Da quando Conan non c'era
più, in quella casa regnava la tristezza. Il lavoro andava male e Kogoro perdeva sempre più velocemente il suo prestigio.
Presto persino i clienti più affezionati si sarebbero stancanti, e avrebbero
cambiato agenzia. E allora sì che sarebbero iniziati i guai.
La
ragazza cercò di non pensarci, mentre preparava velocemente il suo caffè
mattutino. Di guai ne aveva già passati tanti, e non aveva voglia di pensare ai
guai futuri. Quale futuro, poi? I guai erano il suo presente. Non aveva senso
parlare di passato e futuro in quel momento. La sua vita era diventata un
interminabile presente.
Bevve
tutto d'un sorso. Non aveva fame, ma mandò giù a forza qualche biscotto. In
quel periodo stava mangiando decisamente troppo poco, e stava dimagrendo a
vista d'occhio. Ripensò alle parole che Sonoko le
aveva detto la sera prima:
“Se
non ricominci a mangiare, dovrò costringerti con la forza. Guarda che non sto
scherzando, Ran. Forse stare in quella casa ti fa
male. Perché non vieni qui da me? Anche a tempo indeterminato: per te la mia
porta sarà sempre aperta.”
Andare
via da quell'appartamento? Sì, ci aveva già pensato. Forse le avrebbe fatto
bene, eppure non se la sentiva di abbandonare suo padre proprio ora che le cose
andavano via via peggiorando. Le sembrava un
comportamento da codardi.
Si
fece una doccia e scelse i primi vestiti che le capitarono sottomano. Lasciò un
biglietto sul tavolo per suo padre, ben sapendo che comunque al suo ritorno
l'avrebbe molto probabilmente ritrovato ancora addormentato.
Vado
a trovare Conan.
Ran
In
quella domenica grigia senza scuola le strade non erano particolarmente
affollate. Forse perché erano appena le otto, o forse perché il sole aveva
deciso di portarli tutti lassù con sé, dietro le nuvole.
Passò
accanto al parco di Beika, e si fermò per raccogliere
qualche fiore. Non voleva andare da lui a mani vuote. Si sentì un tuono in
lontananza. Eppure ancora non pioveva.
Con
un gesto ormai meccanico, tirò fuori dalla borsa il cellulare, per controllare
se aveva ricevuto una chiamata, un'email, un
messaggio.. qualsiasi segno di vita.
Niente.
Shinichi non accennava a farsi sentire da due mesi.
Non era mai rimasto in silenzio per così tanto tempo. Era come se con Conan se
ne fosse andato via anche lui. Eppure lei ci sperava ancora, nonostante tutto.
Sperava che fosse implicato in un caso difficile, e che, una volta risolto,
potesse tornare da lei. Aveva cercato di parlarne con il dottor Agasa, ma con due occhi pieni di lacrime lui le aveva
detto: “Forse è meglio la speranza della certezza.”
E
basta. Non era riuscita a sapere nient'altro.
Aveva
provato a chiamare Yukiko, la madre di Shinichi. La voce di lei le era sembrata spenta,
terribilmente priva di voglia di vivere. Così diversa dalla Yukiko
di sempre. Aveva affermato di non aver avuto nuove notizie da parte del figlio,
e alla fine, prima di salutarla, le aveva detto: “Chissà, essere al tuo posto
sarebbe forse meglio.”
Ma
perché? Perché la facevano sentire come una privilegiata quando invece era
l'ultima tra le schiave? L'ansia la stava corrodendo da dentro. Che fine aveva
fatto Shinichi? E soprattutto, perché, anche se tutti
non avevano più sue notizie, nessuno sembrava intenzionato a cercarlo?
“Dove
sei?” si ritrovò a dire, gli occhi al cielo, sola al parco di Beika.
Sentì
le lacrime avvicinarsi e cercò di reprimerle. Non voleva piangere, almeno non ancora.
Si incamminò, i fiori in mano e la tristezza dietro che la seguiva come il più
fedele dei cani. Arrivata davanti al cimitero, tirò un respiro e si fece forza.
Entrò, salutando il custode che ormai la conosceva. Era sempre la prima a
recarsi lì ogni domenica mattina. E le piaceva farlo da sola, per scambiare in
pace qualche parola con Conan.
Giunta
davanti alla lapide ricercata, si sedette e sostituì i fiori lasciati una
settimana prima.
“Ciao.”
disse, osservando la foto del bambino occhialuto. La scritta sottostante, Conan
Edogawa, la fece rabbrividire. Le faceva sempre
effetto leggere il nome di lui su quella pietra fredda.
“Come
stai? Spero che almeno tu stia riposando tranquillo. Io sto sempre peggio.”
Si
zittì per un po', come se lui potesse risponderle. In fondo, un po' ci sperava.
Sperava che quella foto iniziasse a parlare.
Era
successo tutto troppo in fretta, e lei non aveva nemmeno avuto il tempo di
rendersene conto. Stavano camminando per le strade del centro, lei, Conan e Kogoro, alla ricerca di un nuovo cellulare per il
detective. Improvvisamente Conan si era fatto pensieroso, e aveva cominciato a
fissare qualcosa, che Ran aveva identificato con una
Porche ormai inconsueta parcheggiata sul ciglio della strada. Tutto d'un
tratto, Conan le aveva detto: “Ran, mi sono appena
ricordato che il dottor Agasa mi aveva chiesto di
fare una commissione per lui.. faccio una corsa fino ad un negozio qui vicino!
Ci sentiamo!”
Ed
era scappato via, senza nemmeno consentirle di rispondere. Ran
non ricordava nulla di particolare, solo quella vecchia Porche. Aveva tentato
di seguire Conan, ma lui si era velocemente dileguato. E non si era fatto più
sentire.
Ran ricordava tutto perfettamente:
l'ansia, la preoccupazione, la paura di quei giorni. Cosa poteva essere
successo a Conan? Perché non tornava a casa? Il cellulare rimaneva spento, e il
dottor Agasa sosteneva di non avergli affidato alcuna
commissione. Perché Conan si era allontanato con quella scusa? Cosa o chi aveva
visto? Era sempre stato un bambino curioso. Un po' troppo curioso. La
preoccupazione si era trasformata in dolorosa certezza quando, due giorni dopo,
il corpicino del bambino era stato ritrovato dall'altra parte della città, in
un vicolo buio vicino al porto. Qualcuno gli aveva sparato. Ma chi?
Era
questa la domanda che la tormentava e a cui la polizia non riusciva a trovare
risposta. Chi poteva uccidere un bambino? E soprattutto, perché? E come aveva
fatto Conan ad arrivare dall'altra parte della città?
Shinichi. Forse lui avrebbe potuto
trovare la soluzione dell'enigma. Lui, il giovane genio del Giappone, ce
l'avrebbe fatta. Ma era sparito nel nulla. Anche lui scomparso da due mesi
esatti. Ma a nessuno sembrava importare: o meglio, nessuno sembrava seriamente
intenzionato a cercarlo.
“Mi
sento sola da quando non ci sei.” si ritrovò a dire.
Solo
allora si accorse che aveva cominciato a piovere. I capelli bagnati le si
attaccavano alla fronte e i jeans ormai fradici le pesavano sulle gambe. Aveva dimenticato
l'ombrello. Meglio così: la pioggia le avrebbe lavato via la tristezza di
dosso.
“Scusami.
Vengo qui e sono solo capace di darti cattive notizie.”
Perché
era successo tutto veramente? Perché non poteva essere solo un brutto sogno?
Non
era sicura di saper affrontare la prova che aveva di fronte: andare avanti
giorno per giorno con la certezza della morte di Conan e l'insicurezza sulla
sorte di Shinichi.
“Tra
una settimana cominceranno le vacanze estive.” disse, quasi senza accorgersene,
“Sai, Heiji è tornato a casa giusto la scorsa
settimana. E' rimasto qui più di un mese, per cercare di capire cosa ti fosse
successo. Ma neanche lui ce l'ha fatta.”
Stava
pronunciando frasi sconnesse, una dopo l'altra, senza riuscire a fermarle.
Sentì
che aveva gli occhi lucidi. Le lacrime lottavano per uscire. Ma non voleva
piangere lì, davanti a Conan. Si raggomitolò su se stessa, stringendo con le
braccia le gambe al petto e lasciò che la testa sprofondasse in mezzo alle
ginocchia. Restò in quella posizione per qualche minuto, la pioggia che le
sferzava addosso senza pietà. Quando, improvvisamente, non sentì più quel
martello d'acqua sbatterle sopra. Alzò lo sguardo spaesata, e vide un ombrello
sopra di sé. Si girò, per controllare chi fosse quel passante generoso venuto a
soccorrerla, e vide una bambina dai grandi occhi azzurri sorriderle
leggermente. Era Ai.
“Ciao.”
le stava dicendo, sedendosi accanto, in modo che l'ombrello riparasse entrambe,
“Anche tu sei venuta qui per scambiare qualche parola con Conan?”
Ran annuì, osservando attraverso le
ciglia fradice di pioggia quella bambina un po' troppo grande per la sua età.
Ai era stata profondamente colpita dalla morte di Conan: ma Ran
aveva sempre avuto l'impressione che lei sapesse, che sapesse qualcosa di più.
Quando Ran le aveva dato la notizia della morte di
Conan e del ritrovamento del corpo in un vicolo nei pressi del porto, Ai era
impallidita e aveva incominciato a tremare. Le lacrime erano venute subito
dopo. E poi c'era stata una frase, che Ran non aveva
mai compreso appieno, ma su cui non aveva mai avuto il coraggio di indagare.
Una frase sussurrata velocemente, a bassa voce, tra un singhiozzo e l'altro:
“Tra poco toccherà a me.”
Una
frase che aveva il sapore della rassegnazione. Ed era quello che caratterizzava
Ai da due mesi a quella parte: la rassegnazione. Ran
aveva quasi l'impressione che la bambina fosse scesa dall'autobus della vita,
per accomodarsi alla fermata in attesa che un altro autobus la passasse a
prendere.
“Da
quando Conan non c'è più, mi sembra che il filo conduttore che mi teneva legata
a Shinichi si sia spezzato.”
Ran aveva pronunciato quelle parole
tra sé e sé, quasi pensando ad alta voce. E non poté non notare il sussulto che
avevano provocato nella bambina.
Già,
perché Ai sapeva tutto, ma non aveva trovato il coraggio per dirle la verità.
Non voleva coinvolgere Ran in quella brutta faccenda.
Conan aveva probabilmente assistito a qualcosa che non doveva vedere, gli
Uomini in Nero se n'erano accorti, e tutto era finito come era finito. Ai aveva
paura di essere la prossima. Senza più Conan con lei, si sentiva sola e
abbandonata. Si sentiva impotente davanti al nemico.
Per
quanto comprendesse la sofferenza di Ran, aveva
deciso di tacere. Raccontarle la verità su Conan significava anche raccontare
la verità su di lei. Significava andare troppo oltre, e compromettere
l'incolumità della ragazza. Ai cercava di affievolire i sensi di colpa pensando
che anche Shinichi avrebbe voluto così. La vita di Ran andava messa al primo posto. Ma era davvero giusto
lasciarle quell'illusione?
Nel
frattempo, Ran aveva continuato a parlare:
“Alle
volte mi viene in mente di mollare tutto. Di partire e di cercalo.”
La
bambina ebbe un altro sussulto. Questa era decisamente la peggiore delle idee.
Muovere le acque intorno alla sorte di Shinichi era
come mordere la coda al cane che dorme.
Doveva
parlare. Doveva dire qualcosa. Dirle tutto era la soluzione più semplice,
eppure non se la sentiva. Meglio la certezza o la speranza?
Strinse
la mano della giovane.
“La
speranza dà la forza di andare avanti.”
Che
frase stupida, pensò. Aveva detto quelle parole senza pensarci.
“La
speranza non può durare in eterno, Ai. Prima o poi lascia il posto alla
rassegnazione.”
Ran sospirò, mentre guardandosi
intorno vide che aveva smesso di piovere. L'arcobaleno brillava in un cielo che
andava via via rischiarandosi.
Ai
le aveva chiesto di sperare, eppure lei si sentiva sempre più vicina alla
rassegnazione. Se continuava ad aspettare, presto o tardi sarebbe anche lei
scesa dall'autobus, per accomodarsi alla fermata accanto a quella bambina che
ora fissava la foto di Conan con un velo di tristezza negli occhi.
Ran aveva sperato, Ai si era già
rassegnata. Speranza e rassegnazione. Ecco cos'erano loro due. Ma in quel momento
Ran capì che la totale passività stava pian piano
uccidendo la speranza. Bisognava fare qualcosa, in un modo o nell'altro, per
tenere viva quella speranza. Perché al mondo niente è eterno, e ci tocca
lottare anche per un unico sentimento.
Angolino
autrice:
Salve a tutti, fan di Detective Conan!
Dopo un bel po’ di tempo, ritorno con una
nuova long. L’idea è nata da un semplice pensiero: ma se a Conan dovesse
sfortunatamente (facciamo corna) succedere qualcosa, cosa ne sarebbe di Ran? Insomma, come reagirebbe lei davanti all’improvviso
silenzio di Shinichi? E Ai e gli altri le direbbero
la verità? Ecco, questa è l’idea di base della storia. Una fan fiction che
vorrei dedicare a tutti coloro che mi hanno sempre sostenuta e a chi vorrà
leggerla.
Non ho messo l’avvertimento OOC, anche se
penso che in parte sia implicito in una “Whatif..?” . Nel caso secondo voi sia indispensabile metterlo,
potreste dirmelo? Così provvedo a modificare gli avvertimenti :)
Un grazie speciale va a Kikari_ , che mi ha dedicato la sua
meravigliosa one-shot “Aria”. Spero che tu possa
passare di qui e leggere questa piccola dedica!
Ok, penso di aver detto tutto. Grazie a
tutti coloro che hanno letto :)
“Quello che conta tra amici non è ciò che si dice,
ma quello che non occorre dire.”
(Albert Camus)
2. Tornare in cima
“Si
può sapere cosa stai facendo?”
Sonoko
aveva strabuzzato gli occhi e pronunciato con voce alquanto stridula quell'inutile
domanda. Poteva vedere benissimo da sé cosa Ran stesse facendo: preparava una
valigia, buttandoci dentro alla rinfusa i primi vestiti che le capitavano sotto
mano. Sembrava anche leggermente affannata, nonostante dalla finestra aperta
entrasse una leggere brezza che rendeva la camera non estremamente calda.
A
quelle parole Ran sussultò. Solo allora Sonoko si accorse che l'amica non
l'aveva nemmeno sentita entrare.
“Mi
ha aperto Kogoro.” si affrettò a giustificarsi, “E mi ha detto che ti avrei trovata
in camera.”
Ran
la guardò, sorridendole stancamente. Notando i pacchetti che l'amica aveva in
mano, immaginò che fosse nel bel mezzo di un pomeriggio a base di shopping.
“Ho
pensato che magari andare in giro per negozi ti avrebbe aiutata a rilassarti un
po'.” disse, sollevano il sacchetto di un negozio di scarpe, per farlo vedere
meglio all'amica “Che ne dici? Ora che la scuola è finita abbiamo finalmente i
nostri beati pomeriggi liberi.”
Sì,
ora che la scuola era finita avevano intere giornate per sé. Ma era quel finalmente
che a Ran non andava a genio. La scuola era l'unica cosa che, in quel
periodo, dava ritmo alla sua vita. Ora non aveva più nulla su cui concentrarsi,
nulla che la aiutasse a distrarla. Aveva avuto paura di scivolare nell'apatia più
totale. Ed era per quello che aveva preso una decisione netta.
“Devo
finire di preparare la valigia.” rispose, piegando una maglietta verde che
proprio Sonoko le aveva regalato qualche mese prima.
L'amica
le si avvicinò, strappandole di mano la maglietta, con un fare forse
eccessivamente violento.
“Valigia?
E dove vorresti andare?”
Ran
si lasciò sedere sul letto, sospirando. Non aveva ancora comunicato a nessuno
questa sua scelta e sapeva che non tutti l'avrebbero accettata facilmente.
Soprattutto Sonoko e Kogoro.
“Vado
a cercare Shinichi.”
Le
parole, pronunciate lentamente e con tono cadenzato, trasmettevano in realtà
una grande insicurezza. Ran, fino ad un attimo prima sicura come non mai della
sua decisione, si ritrovò a dubitarne. Era davvero la cosa giusta da fare?
Partire così, senza nemmeno un appiglio.
Tutta
la rabbia di Sonoko si sciolse in un attimo. L'amica le si sedette accanto, e
le prese una mano fra le sue.
“Ran..
lo capisco cosa provi. Ma non puoi abbandonare tutto così, da un giorno all'altro.
E tuo padre? Non hai detto che volevi rimanere accanto a lui? Questo è un
periodo difficile anche per Kogoro..”
Ran
sentì la stizza crescerle dentro. Oltre che apatica, era diventata anche
terribilmente nervosa. Sonoko le stava forse facendo la predica? Lo sapeva
benissimo che quello era un periodo difficile anche per suo padre. Sonoko non
riusciva a capire quanto quella decisione le fosse costata? Non era facile
lasciare il certo per l'incerto: ma il desiderio di ritrovare Shinichi era
troppo grande. L'amica sosteneva di comprendere i suoi sentimenti: ma come
poteva? Nessuno avrebbe potuto capirla in quel momento. Forse perché non
riusciva a capire nemmeno lei i suoi sentimenti e quale fosse la scelta giusta
da prendere.
“No,
ormai ho deciso. Non ce la faccio più.”
Riprese
a preparare freneticamente la valigia. Non vedeva l'ora di essere da sola e
lontana da quella casa.
“Ma
Ran..”
“Niente
ma. Partirò domani stesso.”
Cercava
di chiudere la cerniera lampo della tasca interna della valigia, ma sembrava essersi
bloccata. Provò e riprovò, ma la stoffa doveva essersi incastrata all'interno
del meccanismo. Accidenti. Anche quella dannata cerniera sembrava avercela con
lei. Le veniva da piangere. Aveva un groppo in gola, senza sapere perché. Pensò
di essere sull'orlo di un esaurimento nervoso.
“Verrò
con te. Non ti lascerò andare da sola.”
La
voce di Sonoko sembrava risoluta, mentre prendeva tra le sue mani la valigia e
aggiustava la cerniera, chiudendo tranquillamente la tasca.
“Lo
faremo insieme questo viaggio.”
Ran
scosse la testa. Sonoko stava cercando di aiutarla, ma lei in quel momento
aveva solo bisogno di stare da sola. Sola con i ricordi e la speranza di
ritrovare Shinichi. Per mantenere viva quella speranza, doveva partire alla
ricerca di lui.
“Non
voglio lasciarti andare così.. io potrei aiutarti, darti una mano con le
ricerche...”
L'amica
esitava, nel tentativo di elencare le cose per cui avrebbe potuto essere utile.
“Basta,
Sonoko. Ti ho detto che voglio andare da sola.”
Ran
sentì la sua voce eccessivamente dura che colpiva l'amica, facendola rabbuiare.
Forse aveva esagerato con il tono. Si affrettò a scusarsi.
“Perdonami.
Non è un bel periodo.”
Il
tono era insicuro, le parole rotte dalle lacrime che presto non avrebbe più
trattenuto. Aveva ricominciato a piangere.
“Perdonami..
non volevo.. ma io..”
Tra
un singhiozzo e l'altro, Ran cercava di spiegarsi. Sonoko sorrise lievemente, e
abbracciò l'amica, attaccandosi a lei nella speranza di poter prendere un po' di
quella sofferenza che stava distruggendo Ran. Loro erano migliori amiche,
avevano sempre condiviso tutto. E ora che Sonoko voleva condividere anche quel
dolore, per farlo pesare di meno sulle spalle di Ran, trovava la sua amica
totalmente chiusa. Ran voleva e non voleva allo stesso tempo privarsi di quel
sentimento. Forse perché era l'unico filo che, debolmente, la legava ancora a
Shinichi.
“Dove
sei finito? Perché non ti fai vivo?” pensava Sonoko, mentre cercava di
consolare l'amica in lacrime. Solo Shinichi avrebbe potuto porre fine al dolore
di Ran. Ma lui dov'era ora?
Prese
un fazzoletto dalla sua borsa e iniziò piano ad asciugare il viso della
ragazza, con la dolcezza di una madre che stringe a sé la sua bambina. Ran era
così inerme. Ce l'avrebbe fatta da sola ad affrontare quel viaggio?
“Mi
chiamerai, vero?” le chiese.
Ran
annuì.
“Mi
terrai aggiornata, vero?”
L'altra
annuì di nuovo.
“Ti
ricorderai sempre di me, vero? Quando sarai triste, pensa ad una delle mie
idiozie. Riderai di sicuro.”
Ran
sorrise, un sorriso che sembrò più un sussulto in mezzo a quelle lacrime.
“Mi
mancherai tanto, Ran.”
La
giovane si asciugò il viso con il dorso della mano.
“Anche tu mi mancherai, Sonoko. Grazie di tutto.”
Ebbero
entrambe la strana sensazione che quelle parole fossero un inequivocabile
addio. Ma nessuna delle due ebbe il coraggio di dirlo.
Il fischio del treno in partenza le fece portare
istintivamente le mani alle orecchie. Aveva sempre odiato i suoni troppo acuti.
Si allontanò velocemente, facendo scorrere il trolley rosso sulle rotelle e
sistemandosi la borsa a tracolla. Non era quello il binario di partenza del suo
treno.
Aveva
riflettuto molto sul luogo da cui iniziare la ricerca. Inizialmente, aveva
pensato di recarsi da Heiji e Kazuha, passare a salutarli e metterli al
corrente della sua decisione. Ma subito dopo, aveva ritenuto opportuno evitare
di immischiare anche loro in quella faccenda. Era già stato difficile
convincere Sonoko a lasciarla andare, e, nel rivelare le sue intenzioni a
Kogoro, si era sentita la figlia più degenere del pianeta.
Gli
aveva parlato con calma, dicendogli che non se la sentiva più di rimanere a
Tokyo con le mani in mano. Tutto sembrava andare storto in quel periodo, e
prima di toccare il fondo voleva cercare di aggrapparsi con tutte le sue forze
a quella parete scoscesa che era diventata per lei la vita. Voleva tornare in
alto, sulla cima della montagna, per riuscire nuovamente a guardare il futuro
che, giovane com'era, aveva davanti. Continuare a scivolare lungo la parete le
consentiva solo di rimanere intrappolata nel passato. Bisognava trovare la
forza per reagire.
Ad
onor del vero, Kogoro, stupito forse in parte dalla maturità che dimostrava sua
figlia giorno dopo giorno, aveva acconsentito e, in cuor suo, si era ripromesso
di trarre esempio da quella piccola grande donna che aveva davvero molto da
insegnargli. Un abbraccio, la promessa di chiamare a casa il più spesso
possibile, qualche lacrima, e poi Ran, la mattina successiva, si era recata
alla stazione. Kogoro avrebbe voluto accompagnarla, ma Ran aveva preferito
procedere da sola. Non voleva che l'addio risultasse più difficile. Ma perché
addio? Si era ripromessa di non stare lontana da casa per più di un mese.
Eppure anche con Sonoko era stato lo stesso: tutto le sembrava un addio, più
che un arrivederci. Forse era per quello che aveva preferito non prendere il
treno per Osaka. Non voleva provare nuovamente quella sgradevole sensazione
anche con Heiji e Kazuha.
Tornò
nel salone principale della stazione e si soffermò a guardare il tabellone
delle partenze e degli arrivi. Che treno poteva prendere? Non immaginava
minimamente dove potesse essere Shinichi. Magari non era nemmeno più in
Giappone.
In
quel momento la sua scelta le parve del tutto insensata. Che cosa le era
saltato in mente? Forse più che una ricerca la sua era semplicemente la fuga.
In fondo al suo cuore, sapeva che le possibilità di trovare Shinichi erano
davvero poche. Ma forse quel viaggio l'avrebbe aiutata a ritrovare la se stessa
che aveva perduto. Basta, doveva provarci. Non poteva permettersi di lasciare
qualcosa di intentato.
Volse
nuovamente lo sguardo al tabellone e decise di prendere il primo treno
possibile. Passò velocemente in rassegna gli orari ed ebbe chiara la sua meta:
il primo treno in partenza era quello per Tottori. Avrebbe lasciato la stazione
di Tokyo da lì ad un'ora. Si affrettò a prendere il biglietto, dato che
fortunatamente ce n'erano ancora disponibili. Poi si avviò verso il binario
quattro, da cui il treno sarebbe partito.
Il
gigantesco serpente artificiale era già parcheggiato sui binari e alcuni
passeggeri avevano preso posto. Ran scelse un posticino singolo, vicino al
finestrino. Sistemò la valigia sullo scompartimento in alto, appoggiò la borsa
sulle ginocchia e ne estrasse un sottile plico di fogli tenuti insieme da un
elastico. Aveva portato con sé molte foto di Shinichi, alcune di Conan e altre
dei suoi cari, come Eri, Kogoro e Sonoko. Accanto a queste c'erano cartine e
mappe delle più importanti città del Giappone, insieme ad una cartina del paese
stesso. Non ne aveva alcuna di Tottori, ma poco importava, l'avrebbe comprata
lì. Pensò che da Tottori avrebbe poi potuto raggiungere Kyoto, che aveva
visitato una sola volta nella sua vita, quando era piccola e i suoi genitori
erano ancora una coppia felice. Ricordava vagamente i maestosi templi della
città dichiarata patrimonio dell'umanità, reliquie di un Giappone non ancora
infestato dallo smog delle metropoli e dai fumi invisibili delle centrali
nucleari.
Sì,
sarebbe tornata a Kyoto. Un po' perché voleva semplicemente rivederla, un po'
perché, essendo un importante centro universitario e di studi, poteva comunque
essere un luogo da cui Shinichi, smanioso com'era di conoscere sempre nuove cose,
era passato.
Il
treno era ormai in partenza. Ran si guardò intorno, ma la sua carrozza di
seconda classe non era particolarmente affollata. Due anziani signori leggevano
un libro. Una coppia di sposini osservava una cartina, indicando le mete più
interessanti. Un uomo sulla quarantina lavorava al suo computer, completamente
estraniato dall'ambiente che lo circondava.
Anche
Ran aveva bisogno di staccare un po' dalla realtà. Prese il suo mp3, caricato
il giorno prima, e lasciò che la musica la avvolgesse. Chiuse gli occhi e
appoggiò il capo al finestrino. Dal tremolio del vetro capì che il treno aveva
cominciato a muoversi. Ma non aprì gli occhi per vedere Tokyo che si
allontanava sempre di più dietro di lei.
Non
voleva che anche l'arrivederci alla sua città le sembrasse un addio definitivo.
Angolino
autrice:
Eccomi qui con il secondo capitolo! E’ un
po’ corto, lo so, ma purtroppo nella divisione finale dei vari capitoli questo
ci ha rimesso un po’.. spero che vi sia piaciuto lo stesso!
Prima di tutto, vorrei ringraziare chi ha
recensito il primo capitolo, cioè 88roxina94,
mangakagirl, Crystal Alchemist,
Aya_Brea, AliHolmes,
Yume98, Silver Spring, Kikari_.
Grazie mille, le vostre recensioni mi hanno davvero fatto piacere!
Ringrazio poi chi ha la storia tra le
seguite, cioè 88roxina94, Aya_Brea, MarissaAtwood, I_Am_She, BlackFeath,Kikari_. Grazie davvero!
Un ultimo ringraziamento grandissimo a Silver Springe
Kikari_ che hanno aggiunto la storia tra le
preferite :)
Piccola comunicazione: le prossime due settimane non sarò a
casa, per cui non potrò aggiornare fino al 7 di luglio.. spero che continuiate
lo stesso a seguirmi! Mi spiace tantissimo, ma non avrò un computer a
disposizione.. :(
Quasi dimenticavo … Grazie anche a chi si
limita a leggere!
Un bacione,
Flami
PS: Un grandissimo in bocca al lupo ad
eventuali maturandi/universitari/esami di tutti i generi! :)
“Chi mai amò che non abbia amato al primo sguardo?”
(Marlowe, “Ero e Leandro”)
3. Gli occhi di Shinichi
Erano
ancora le dieci di mattina, ma quel sole bollente di inizio estate aveva già
occupato prepotentemente il cielo. Dalla finestra aperta della sua camera Ai
poteva sentire un leggero venticello entrare e scompigliarle leggermente i
capelli. Lavorava al suo computer, nonostante ormai le sembrasse un tentativo
senza senso. Stava continuando le ricerche sull'antidoto dell' APTX. Lei non
voleva tornare grande, no, questo no. Ma non completare le ricerche le sembrava
un oltraggio alla memoria di Conan o, meglio, di Shinichi.
Si era ripromessa di arrivare al termine prima che quegli uomini
dall'impermeabile nero trovassero anche lei.
In
realtà, le possibilità di essere scoperta non erano per nulla aumentate. Conan
era rimasto ucciso solo perché si era esposto troppo. Gin doveva averlo notato
e non aveva esitato due volte ad ucciderlo, nonostante fosse solo un bambino.
Che mostro.
Molto
probabilmente, l'Organizzazione non sapeva niente dell'effetto che l'APTX aveva
avuto su di lei e Shinichi. Eppure, da quando il
detective non c'era più, si sentiva sola, insicura, inerme.
Incontrare
Ran al cimitero qualche settimana prima le aveva
lasciato una gran tristezza nel cuore. Quella povera ragazza si affidava con
tutte le sue forze alla possibilità che Shinichi
fosse ancora vivo. Ai si sentiva terribilmente in colpa a lasciarle
quell'illusione: eppure avevano deciso così, lei, Agasa,
Heiji e i genitori di Shinichi.
A Ran non andava rivelato nulla, per proteggerla. Se
fosse venuta a conoscenza della verità, si sarebbe di sicuro esposta troppo,
rischiando di rimanere intrappolata prima o poi nella tela di quei ragni neri.
Ma
davvero era giusto così? Meglio la speranza della certezza? Ai non ne era più
tanto convinta. Ritrovarsi davanti gli occhi carichi di malinconia di Ran l'avevano davvero fatta sentire un diavolo davanti ad
un angelo. Forse sarebbe stato meglio confessarle tutto, finché poteva. Sì,
finché poteva, perché aveva il terrore che gli Uomini in Nero arrivassero da un
giorno all'altro e la portassero via sotto il loro mantello. Una bimba che
scompare catturata dagli uomini cattivi. Come quelle storie che si raccontano
ai bambini per farli stare buoni. Viveva nella paura costante, faticava a
dormire, le sue orecchie erano sempre tese a captare ogni singolo rumore.
Smise
di digitare sulla tastiera del computer e si affacciò alla finestra, che dava
sul retro della casa. Gli uccellini cinguettavano sugli alberi e le persone
camminavano tranquillamente per la strada. Era brutto vedere che il mondo era
incurante dei suoi problemi. Vedere come tutto andasse comunque avanti anche se
lei si era fermata, le faceva percepire tutta la sua inutilità. Aveva la mente
occupata da tutti questi insensati pensieri, quando improvvisamente sentì un
rumore. Uno scatto. Qualcuno aveva aperto il cancello principale. Ma chi poteva
essere? Agasa aveva detto che non sarebbe stato di
ritorno fino al primo pomeriggio. Un botto. Il cancello era stato richiuso con
violenza. Passi concitati sulla ghiaia. Qualcuno stava camminando di fretta per
arrivare alla porta della casa.
Il
cuore di Ai perse un battito. Il primo pensiero che le attraversò la mente come
una scheggia impazzita fu quello degli Uomini in Nero. Che fossero loro? Da
quando in qua agivano in pieno giorno? Mentre sudava freddo, la probabilità
andava pian piano trasformandosi in certezza nella sua testa. Le mani le
tremavano, ma si impose di restare calma. Aprì piano la porticina della sua
stanza e tentò di scendere le scale a passi felpati. La paura le impediva di
compiere le azioni più banali, tanto che scivolò più volte e rischiò in
più
di un occasione di rotolare fino al pianerottolo come una bambola di pezza
lasciata cadere. Si fermò all'ultimo gradino, il muro che la nascondeva agli
occhi di chiunque avesse aperto la porta. Prese la prima cosa che le capitava
sotto mano, pronta a colpire. Affannata com'era, non si accorse nemmeno di aver
scelto un vasetto di cactus che non avrebbe spaventato neanche un insetto. Era
talmente sudata che la maglietta le si era ormai attaccata alla schiena. Il
cuore le batteva a mille. Tumtum,
tumtum. Sembrava un
martello.
“Stai
tranquilla, Ai. E' solo il tuo corpo che reagisce, aumentando la produzione di
adrenalina. Ti sta preparando a combattere.”
Un
pensiero che a tutti sembrerebbe assurdo, ma che alla piccolo scienziata fu
utile per recuperare almeno in parte le sue facoltà mentali. La aiutava ad
imparare a controllare i sintomi tipici della paura.
Ma
il cuore non la smetteva di battere. Soprattutto ora che qualcuno stava
infilando qualcosa nella serratura. Maledizione. La porta si apriva in
maniera dannatamente lenta. Avrebbe fatto un infarto.
Quando
finalmente vide spuntare due baffi e una folta chioma grigia, pensò che sarebbe
svenuta. Che ci faceva già lì il dottor Agasa? Era
uscito appena un'ora prima. Si innervosì leggermente, ma capì subito che la
colpa non era dell'anziano signore: era lei che stava diventando paranoica.
Le
venne da ridere notando la piantina di cactus che stringeva fra le mani. Voleva
abbattere Gin, alto il quadruplo di lei, con quella microscopica piantina? Non
aveva ancora decisamente imparato a controllare la paura.
Uscì
dal suo nascondiglio, decisa più che mai ad essere la solita Ai. Non voleva
mettere il dottor Agasa al corrente delle sue fobie.
“Dottore!
Come mai già di ritorno?”
“Ai!”
esclamò subito di rimando. Solo allora la bambina notò che Agasa
era pallido, e sembrava terribilmente preoccupato.
“E'
successo qualcosa?”
Il
dottore chiuse la porta e andò a sedersi sul divano.
“Si
tratta di Ran.”
“Ran? Che è successo a Ran?”
“E'
partita.”
“Cosa?
Che vuol dire? Si spieghi meglio per favore!”
Ai
era diventata incalzante.
“Per
Shinichi. Si è messa in testa di ritrovarlo ed ha
lasciato Tokyo per cercarlo.”
“Mi
dica che non è vero..”
“Abbiamo
sbagliato noi, Ai. Dovevamo dirle la verità.”
La
bambina sembrava non aver nemmeno sentito quest'ultima frase: “Se, non
trovandolo, dovesse contattare i giornali o la televisione... sarebbe la fine.”
“E'
tutta colpa nostra, Ai.”
“L'abbiamo
fatto per proteggerla. Proprio per evitare di smuovere le acque.”
“Non
abbiamo tenuto abbastanza in considerazione i suoi sentimenti. Abbiamo fatto
dei calcoli, e basta. Ma l'amore non è calcolo. Penso che Ran
non si arrenderà finché non avrà trovato Shinichi.”
“Ma
non lo troverà mai!” esclamò Ai, in preda alla disperazione.
“Chi
gliel'ha detto?” aggiunse poi.
“Kogoro.”
“E
Ran è ancora a casa?”
“Era
andata alla stazione. Non so se sia ancora lì.”
Senza
aspettare un secondo di più, Ai si fiondò fuori di casa.
“Ehi,
Ai..?!”
“Non
c'è più tempo dottore!”
Iniziò
a correre a più non posso in direzione della fermata della metropolitana più
vicina. Prendere l'autobus per arrivare fino alla stazione sarebbe stato un
suicidio. Dato il traffico cittadino della metropoli più affollata del
Giappone, avrebbe perso più di un'ora. Mentre il vento, unito alla sua folle
corsa, le sferzava addosso, cercò di ricordarsi la linea giusta per arrivare
fino alla meta. Si intrufolò nel sottopassaggio, sgattaiolando tra le borse
altrui e sgomitando per farsi strada. Riuscì a superare le biglietterie. Fare
le fila per comprare il biglietto le avrebbe rubato troppo tempo. In fin dei
conti, aveva fatto parte della più grande organizzazione criminale del
Giappone. Che cos'era, a confronto, prendere per una volta la metro senza il biglietto?
La
sua corsa era giusto in arrivo. Tirò un sospiro di sollievo e, quando il treno
arrivò, si intrufolò velocemente, per non rischiare di rimanere fuori. A Tokyo
una delle cose più complicate era riuscire ad entrare in una metropolitana. Per
fortuna, ce l'aveva fatta.
Quando
la voce meccanica annunciò la sua fermata, scattò fuori, rischiando di
trascinare via con sé molte valigette ventiquattrore, insieme a qualche
imprecazione.
Risalì
fino in superficie alla velocità della luce e, una volta alla luce del sole, si
ritrovò con il fiatone davanti alla stazione di Tokyo. Era un via vai continuo
di persone. Entravano ed uscivano turisti, pendolari, ragazzi, studenti,
famiglie. Cercò di farsi strada tra quella folla che si muoveva in maniera del
tutto scomposta da una parte all'altra del grande salone. Dove poteva essere Ran? Si sentì persa. La stazione era talmente affollata
che, dal basso del suo metro e venti, riusciva a malapena ad osservare il
tabellone con gli orari delle partenze e degli arrivi. Trovare Ran era praticamente impossibile. Non poteva nemmeno
chiamarla, dato che nella fretta aveva anche dimenticato il cellulare a casa.
Cosa poteva farle? Nient'altro che tornare a casa. Aveva agito troppo
d'impulso.
Lanciò
un'ultima occhiata sconsolata al tabellone. Era appena partito il diretto per Tottori.
Ran si sdraiò sul letto,
percependone subito la scomodità. Il materasso era terribilmente duro e le
molle cigolavano ad ogni suo movimento. Le sembrava di essersi stesa per terra.
Poco importava, doveva già ritenersi fin troppo fortunata ad aver trovato un
hotel a poco prezzo per quella notte.
Prese
il cellulare dalla borsa, per scrivere al padre e a Sonoko
che il suo primo viaggio era trascorso senza tante complicazioni. Appena
illuminò, notò subito un paio di chiamate perse da un numero non registrato in
rubrica e che pure le pareva familiare. Corrugò la fronte e si fermò un attimo
a riflettere. Quel numero.. ma certo, era la casa del dottor Agasa! Cosa voleva il dottore? Forse aveva saputo della sua
partenza e voleva telefonarle per chiedere come stava. Pazienza, lo avrebbe
richiamato più tardi. Ora aveva solo voglia di fare una bella doccia e di
mangiare qualcosa. Aveva giusto visto un fast-food nei pressi dell'hotel, nella
piazza adiacente alla stazione.
Doveva
confessare che, appena arrivata a Tottori, si era
sentita persa. Era la prima volta che viaggiava così, tutta sola, e Tottori, seppure non fosse una città poi così grande
rispetto alla sua Tokyo, le aveva comunque dato l'impressione di essere un
labirinto inestricabile. Attorno a lei c'era solo gente sconosciuta. Non voleva
ammetterlo, ma si sentiva un po' sola. Come per dare uno scossone ai suoi
pensieri, si girò di botto, sdraiandosi supina. Le molle del letto protestarono
per quel gesto inaspettato, mentre invece quella trave di legno camuffata da
materasso sembrava del tutto disinteressata al movimento improvviso di Ran.
Si
alzò piano, cercando di non fare rumore, nonostante nessuno potesse di fatto
sentirla. Il bagno sembrava pulito e alcune asciugamani erano riposte con cura
su uno sgabello. Non male per quanto aveva pagato. Lasciò che i vestiti le
scivolassero addosso, e si diede ad una doccia rinfrescante, evitando di
bagnare i capelli che aveva lavato giusto quella mattina.
Pensava
a come avrebbe potuto iniziare le ricerche di Shinichi.
Non era facile attraversare un'intera città con una foto in mano, chiedendo
alla prima persona che le capitava davanti se avesse per caso visto il suo
amico. Forse avrebbe dovuto contattare qualche televisione o mettere qualche
annuncio sul giornale. Eppure una prospettiva del genere la faceva sentire un
po' in colpa nei confronti di Shinichi: ogni volta
che si era fatto sentire, lui le aveva chiesto di non dire a nessuno delle sue
telefonate e delle sporadiche visite. Ma perché? Da cosa o chi si nascondeva?
Forse anche adesso Shinichi continuava a nascondersi.
E non le si mostrava per non metterla in pericolo.
Ma
insomma, perché fantasticava così tanto? Tutta quell'acqua le aveva
infradiciato i neuroni. Si asciugò piano e prese alcuni vestiti dalla valigia.
Prima di uscire diede un'occhiata veloce allo specchio e si accorse delle
occhiaia scure che le contornavano gli occhi. Accidenti, era davvero
impresentabile. Cercò di migliorare la situazione con un filo di matita, e notò
con piacere che il nero che le contornava gli occhi faceva risaltare l'azzurro
delle iridi. Appoggiò la matita sul comodino e sorrise amaramente allo
specchio. Ora era truccata, sì. Ma chi doveva vederla quella sera? Nessuno, a
parte qualche abitante di Tottori che le sarebbe
passato accanto senza nemmeno notarla.
Uscì
in fretta, cercando riparo dalla sua solitudine nelle vie semi affollate della
città. Quando passò davanti alla reception, l'uomo che sedeva davanti al
computer la chiamò, porgendole i suoi documenti.
“Grazie.”
disse Ran.
“Buona
serata, signorina.” rispose quello, sorridendo. Doveva avere poco meno di una
trentina d'anni. Ran passò avanti, non potendo fare a
meno di notare gli sguardi continui che il ragazzo le lanciava e i sorrisi
sdolcinati che le riservava. Ma a lei non importava. Non le importava di nessun
ragazzo a parte lui.
Cenò
al fast-food, un panino, qualche patatina, un sorso di Coca-Cola, e poi via,
nuovamente fuori tra le vie della città. Nonostante fosse un normalissimo
giorno feriale, c'era chi non rinunciava ad una passeggiata in una sera di
inizio estate. Alcuni negozi erano ancora aperti, e quelli già chiusi avevano
comunque le vetrine illuminate, con vestiti, scarpe, giocattoli, o cosa per
essi, in bella vista. Ran si fermò ad osservare un
delizioso vestito a fiori, indossato divinamente da un manichino un po' troppo
magro. Dalla vetrina poteva vedere il riflesso di tutte le persone che le
passavano dietro, tante piccole formichine in cerca di un po' di relax. E fu
allora che le sembrò di vederlo. Gli stessi capelli, la stessa camminata: mani
in tasca, passo sicuro. Era lui. Si girò, il cuore che batteva a mille. La
figura che aveva intravisto stava cominciando a svanire, inghiottita dalla
folla che procedeva sul marciapiede. Eppure poteva ancora vedere quella testa
sbucare fra un centinaio di altre teste.. no, non poteva permettersi di
perderlo. Non più. Cominciò a sgomitare per passare oltre, per riuscire a
inseguirlo. Shinichi!, avrebbe voluto urlare, ma la
voce le si strozzava in gola. La bocca secca testimoniava la sua emozione.
Ecco, lo rivedeva chiaramente. Era davanti a lei, ma le dava le spalle.
Cercando di controllare il fiatone, afferrò il braccio del ragazzo.
“Shinichi!” esclamò a mezza voce.
Il
giovane di voltò. E quello che Ran vide fu un colpo
al cuore. Quel ragazzo aveva due grandi occhi castani. Quelli non erano gli
occhi di Shinichi. Lui li aveva azzurri, come il mare
quando non ci sono tempeste. Come il cielo in una mattina d'estate.
Ran si accorse che il ragazzo la
stava guardando con un'espressione accigliata e leggermente infastidita. Forse
le aveva anche chiesto cosa volesse, ma lei non aveva sentito.
“Scusami.
Ti ho scambiato per un'altra persona.”
Ora
aveva anche le allucinazioni? Sognava di vedere Shinichi,
di rincontralo? Ritrovava qualcosa di lui in qualunque persona le passasse
accanto. Perché l'aveva abbandonata? La stava facendo impazzire. Si accorse
che, in fondo al suo cuore, un po' lo odiava. Lo odiava perché l'aveva lasciata
sola, non facendosi più sentire. Lo odiava semplicemente perché ne era talmente
innamorata da non poterne fare a meno. Avrebbe mai potuto perdonarlo per quanto
la stava facendo soffrire?
Si
voltò e ricominciò a camminare verso l'albergo. Non aveva più voglia di stare
in giro. Quella città non le piaceva. Sarebbe partita il giorno seguente,
prendendo il primo treno per Kyoto. Si strinse nel suo maglioncino di cotone,
nonostante non facesse per niente fresco.
Quella
sera, nel buio della sua stanza, faticò ad addormentarsi. Troppi pensieri le
affollavano la testa. Aveva spento il cellulare, per non essere disturbata. Non
aveva voglia di parlare con nessuno. Ma si era completamente dimenticata di
chiamare il dottor Agasa.
Angolino
autrice:
Eccomi
qui con enorme ritardo causa vacanze! Spero che questo capitolo vi sia piaciuto
:) .. ho aggiornato il prima possibile!
Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno
commentato, cioè KaityAya_Breamangakagirl Silver SpringAliHolmes I_Am_She e Kikari_
! Grazie mille, i vostri commenti mi hanno davvero fatto piacere:)
Grazie a Kikari_ e Silver Spring che hanno la storia tra
le preferite, a Kaity
che l’ha inserita fra le ricordate e a chi la segue, cioè 88roxina94, Aya_Brea, Melinda Malfoy, I_Am_She, BlackFeath,Kikari_, AliHolmes, Yume98,
Toru85, _MyOwnForgottenWorld_ . Grazie davvero!
Spero di non aver dimenticato nessuno!
“La memoria è il diario che ciascuno di
noi porta sempre con sé.”
(O. Wilde, “The importance of being Earnest”)
4. Ricordi di un sole che muore
Ed eccola lì, di nuovo in una stazione. Ad un solo
giorno dall'inizio della sua ricerca, stava già cominciando a scoraggiarsi.
L'esperienza della sera prima, poi, era riuscita a turbarla in particolar modo:
per un attimo, per un solo piccolo istante, aveva provato la gioia di averlo
finalmente ritrovato. E invece no, quegli occhi marroni un po' contrariati
avevano mandato in frantumi la sua felicità.
Era
di nuovo al punto di partenza. Da sola, alla ricerca di un treno che non ne
voleva sapere di comparire sul tabellone degli orari. Almeno c'era del rumore
intorno a lei. Il silenzio stava incominciando a spaventarla. Quando, la sera
prima, si era ritrovata nel buio della sua camera d'albergo, il silenzio
l'aveva avvolta. L'unica interruzione era il ronzio di una zanzara che le
girava intorno con fastidiosa intermittenza. E si era sentita abbandonata. Il
rumore intorno a lei, le chiacchiere della gente riuscivano almeno in parte a
cancellare questa sensazione. Meglio essere sola in mezzo agli altri che sola
senza nessuno accanto. Almeno la prima ipotesi dà l'illusione di avere
compagnia.
Oh,
ecco. Il suo treno era finalmente comparso. Binario quattro, partenza di lì a
venti minuti. Destinazione: Kyoto. Un tuffo nel passato giapponese.
Sapeva
che Shinichi era particolarmente attratto da quella
città. Ricordava un giorno in cui, ancora bambini, fermi sulla terrazza a
guardare il tramonto, avevano iniziato a fare progetti per il futuro. Un
avvenire che loro immaginavano chiaro, limpido, tranquillo, senza nessun
ostacolo. Cosa può saperne un bambino dei problemi della vita? Lui vive cullato
nel mondo delle fiabe. E in fondo, è giusto così. Davanti al sole che moriva,
loro avevano fatto progetti di vita. E sognavano di viaggiare per il Giappone:
da grandi, insieme, mano nella mano.
“Mi
piacerebbe vedere altre città.” aveva detto Ran,
senza distogliere gli occhi dall’orizzonte.
“Io
ne ho già viste tante. Sono stato a New York e ho girato l’America” aveva
risposto Shinichi, un po’ perché era vero, un po’
semplicemente per farsi bello davanti alla sua amica.
Lei
aveva sbuffato, un po’ contrariata: “Uffi, tu viaggi e
io resto sempre qui.”
“Allora..”
aveva iniziato lui, lasciando la frase in sospeso.
“Allora?”
aveva chiesto impaziente Ran, voltandosi verso di lui
e guardandolo con due occhi trepidanti e curiosi.
“Allora
viaggeremo insieme, appena potremo. Ti porterò a Kyoto. Quella città è un
capolavoro. E poi andremo a Osaka. E poi Pechino. Poi l’Europa, Madrid, Londra,
Roma, Berlino, Mosca. E poi l’America..”
Che
fine aveva fatto quel sogno? Dov’erano rimasti quei progetti? Shinichi le aveva
chiesto di iniziare il loro viaggio da Kyoto. Ebbene, lei avrebbe iniziato la
sua ricerca da Kyoto.
Si
avviò a passi decisi verso il binario quattro. La banchina era abbastanza
affollata, e gli aspiranti passeggeri sembravano in gran parte turisti. Il
treno doveva ancora arrivare, e una voce meccanica annunciava di allontanarsi
dalla zona gialla, in quanto da lì a breve sarebbe sfrecciato sui binari un
treno ad alta velocità che non faceva sosta a Tottori.
Ran
si accorse di essere giusto al limite della zona segnalata come pericolosa. Che
sbadata, stava controllando l’ora sullo schermo del cellulare e non si era
nemmeno accorta di dove metteva i piedi. Indietreggiò di qualche passo, senza
nemmeno guardare se qualcuno stesse passando dietro di lei. Mossa sbagliata.
Andò a sbattere contro un uomo sulla cinquantina, inciampando sulla pesante
valigia che si trascinava dietro. Riuscì in qualche modo a tenersi in
equilibrio, ma nel tentativo le sfuggì il cellulare di mano. Il portatile volò
per terra, scivolò lungo la zona gialla e andò a posarsi sui binari. L’istinto
di andare a riprenderlo fu tenuto a bada dalla sua razionalità. Si limitò a
fissare quell’oggetto così vicino eppure imprendibile. Sembrava un’ebete. Non
sentì nemmeno le parole poco simpatiche che l’uomo le rivolse, continuando poi
a camminare.
Quel
cellulare era ciò che la legava a Shinichi. La legava al telefono di lui, muto
da due mesi a quella parte.
Non
poté staccare gli occhi nemmeno quando il treno annunciato le sfrecciò davanti.
Qualche secondo dopo, sul binario non c’era più nulla, a parte qualche piccolo
frammento.
Il
filo si era spezzato.
Appoggiò
sconsolata il viso al finestrino. Era in viaggio ormai da un’oretta, e ben
presto sarebbe arrivata a destinazione. Pensò che la prima cosa da fare una
volta arrivata sarebbe stata quella di chiamare il padre, per avvertirlodell’atroce fine toccata in sorte al suo
cellulare. L’unico numero di telefono che ricordava a memoria era quello
dell’agenzia: avrebbe chiesto a Kogoro di avvertire anche Sonoko, prima che la
poveretta facesse un infarto constatando che non rispondeva più al cellulare. E
poi, magari, dopo aver trovato un albergo dove alloggiare per qualche notte,
avrebbe fatto un giro per la città antica, tra templi e leggende. Anzi no, si
riservò il giro turistico per il giorno successivo. Quel pomeriggioavrebbe passeggiato per il quartiere
universitario, le foto di Shinichi a portata di mano, chiedendo tra bar e
negozi se qualcuno l’avesse per caso visto passare. Anche se a prima vista non
poteva sembrare, Shinichi era assetato di sapere all’ennesima potenza: un
piccolo topo di biblioteca. C’erano buone possibilità che fosse passato per uno
dei centri di studio più importanti del Giappone. E poi, avrebbe dovuto
comprare anche un telefono nuovo.
Sbuffò,
mentre una voce meccanica annunciava che il treno stava ormai per entrare alla
stazione di Kyoto. Prese il suo bagaglio, sistemato nello scomparto in alto, e
si avviò verso l’uscita. Aveva voglia di respirare un po’ di aria: dentro quel
treno le sembrava di soffocare. Non sopportava l’aria condizionata: le sembrava
finta, rarefatta, più soffocante dell’afa che l’attendeva al di là delle porte
del vagone.
La
stazione di Kyoto la sorprese. Si aspettava una valanga di turisti in giro nel
salone d’attesa e invece trovò molta meno gente che a Tottori. Meglio così,
pensò. Vide ben presto uno sportello informazioni per turisti e si avvicinò per
chiedere informazioni su qualche hotel consigliato a poco prezzo.
La
signora dall’altra parte del vetro sembrava un tantino annoiata e quel sorriso
di circostanza che rivolse a Ran era decisamente poco convincente. Nel
tentativo di trattenere uno sbadiglio, le lacrimarono leggermente gli occhi.
Ran si accorse che aveva profonde occhiaie scure, come se non dormisse da più notti.
Poverina, forse aveva qualche preoccupazione particolare. Ran era quasi tentata
di chiederlo, ma si rese subito conto di poter sembrare una ficcanaso. Nessuno
a questo mondo pensa mai ai problemi di chi gli passa a fianco: perché lei
avrebbe dovuto farlo? Forse voleva avere la certezza di non essere l’unica a
soffrire. Comunque sia, alla fin fine si limitò a dire: “Mi scusi, vorrei
un’informazione.”
L’hotel
che, tra quelli proposti, la convinceva di più, era proprio vicino alla città
antica. Costava leggermente più degli altri che la signora le aveva
consigliato, ma comunque il prezzo era più che accettabile. Sorrise e se ne
andò, augurando silenziosamente alla signora dello sportello di risolvere
presto ogni suo problema.
Non
ci volle molto per trovare la linea giusta della metropolitana, e, in poco meno
di venti minuti, raggiunse il suo futuro albergo. Era una piccola palazzina se
paragonata ai grattacieli di Tokyo, saranno stati quattro piani in totale. Su
ogni balcone erano disposti con cura alcuni vasi di fiori e, dalle finestre più
alte, si potevano scorgere gli antichi templi per cui la città era famosa.
Fortunatamente,
nonostante l’alta stagione per quanto riguardava il turismo, riuscì a trovare
una stanzetta al primo piano. Non avrebbe visto i templi, ma poco importava. Il
posto sembrava confortevole, il bagno era pulito, le lenzuola profumavano. Che
meraviglia. Si sentiva rilassata, quella strana atmosfera che sembrava
collegarla con il passato la faceva sentire meglio. E quel profumo di fiori che
entrava dalla finestra aperta…
Per
un attimo le sembrò di aver dimenticato tutto. Il telefono perso, il motivo per
cui si trovava lì, le preoccupazioni degli ultimi mesi. Kogoro, Shinichi,
Conan, Sonoko.. le sembravano solo nomi lontani. Ma fu un attimo. Poi, la
realtà tornò a bussare con insistenza alla porta. E per quanto lei non volesse
aprire, prima o poi la realtà si stufava di aspettare. Estraeva la chiave di
scorta e apriva la porticina della sua mente, irrompendo come un fiume in
piena.
Raggruppò
tutte le forze che aveva e incominciò a frugare nella sua borsa, lasciando in
camera ciò che non le serviva e tenendo dentro solo le cose indispensabili.
Quando
fu nuovamente fuori, si avviò alla ricerca di una cabina telefonica. Non tardò
a trovarla, ma dovette aspettare un bel po’ prima che si liberasse. Era
occupata da un ragazzo che avrà avuto più o meno la sua età. Ran lo osservò.
Aveva i capelli castani, era mediamente alto e, cosa che la colpì più di ogni
altra, aveva gli occhi azzurri. Il suo cuore perse un battito. Le era sembrato
di nuovo di rivedere Shinichi in qualcun altro. Quando le sarebbe passata?
Abbassò lo sguardo e aspettò paziente di fianco alla cabina.
Nel
frattempo, il giovane continuava a parlare. Dalle parole dolci che Ran poteva cogliere,
attutite dal vetro, capì che stava parlando con la sua ragazza. Dovevano essere
una coppia felice. Come ce n’erano tante. Ran fissò i suoi piedi, sforzandosi
di non piangere: era lei l’eccezione, quella che non era mai riuscita a portare
a buon fine il suo amore.
Quando
finalmente la cabina di liberò, dopo un quarto d’ora buono, si affrettò a
comporre il numero dell’agenzia. Rassicurò il padre sulle sue condizioni, gli
disse che si trovava a Kyoto e raccontò poi dello spiacevole episodio del
cellulare. Dato che Kogoro minacciò di andare a riprenderla se non ne avesse
comprato subito uno nuovo, Ran dovette promettere che lo avrebbe acquistato al
primo negozio di telefonia che avesse incontrato per la sua strada. Gli disse
poi di salutare Sonoko e il dottor Agasa, che l’aveva chiamata varie volte il
giorno precedente ma a cui lei si era completamente dimenticata di telefonare.
Un bacio, la promessa di stare attenta, e poi mise giù il telefono.
Appena
uscita, chiese informazioni su come giungere il più velocemente possibile al
quartiere universitario. Erano solole
tre e mezza e aveva un pomeriggio interno davanti a sé. Si ricordò solo in quel
momento di non aver nemmeno pranzato. In effetti, lo stomaco cominciava a
brontolare. Decise quindi di fermarsi a mangiare del sushi in un piccolo
ristorante a qualche metro da lei, prima di iniziare la sua ricerca nel vero
senso della parola.
Seduta
davanti ad un piccolo tavolino, mangiò con appetito quel sushi delizioso che le
avevano preparato. Quanto le sarebbe piaciuto avere Shinichi accanto a lei.
Loro due lì, in un piccolo ristorantino di Kyoto, a mangiare del semplice
sushi. Come una coppia normale.
Ma
tutto questo non era possibile. Non per loro.
Angolino
autrice:
Salve a tutti! Ecco qui il quarto capitolo..
è un po’ corto, ma dal prossimo i capitoli saranno più lunghi e ci sarà un po’
più di azione.. :)
Siamo a metà della fan fiction, sono otto
capitoli in totale.
Vorrei ringraziare tantissimo chi mi
sostiene, e in particolare chi ha recensito lo scorso capitolo, cioè Aya_Brea, mangakagirl e AliHolmes! Grazie mille!
Grazie poi a chi ha la storia tra le
seguite, cioè 88roxina94, Aya_Brea, Melinda Malfoy, I_Am_She, BlackFeath,Kikari_, AliHolmes, Yume98,
Toru85, _MyOwnForgottenWorld_. Grazie a Kikari_ e Silver Spring che hanno la storia tra
le preferite, a Kaity
che l’ha inserita fra le ricordate. Grazie anche a tutti i lettori silenziosi che
leggono senza commentare :)
Capitolo 5 *** Come due corvi appollaiati su un ramo ***
Searching
“… Che son queste
Cose grinzute in così sconce
vesti
Che non paiono gente di questa terra
Eppure ci stanno sopra?...”
(Shakespeare, “Macbeth”)
5. Come due corvi appollaiati su un ramo
Un
leggero venticello fresco le faceva ondeggiare i capelli. Dopo giorni di piena
calura estiva, l’aria era finalmente tornata a muoversi, sferzando almeno in
parte quell’odiosa umidità che aveva caratterizzato quella settimana. Ran,
leggendo assorta la guida che aveva comprato, cercava informazioni su quel
maestoso tempio che aveva di fronte. Quello era il suo secondo pomeriggio a
Kyoto.
Nonostante
le ricerche del giorno precedente non avessero portato ad alcun successo, non
si sentiva scoraggiata. Aveva camminato in lungo e in largo per il quartiere
universitario, si era fermata ad ogni negozio, bar, biblioteca per chiedere se
per caso Shinichi fosse passato di lì. E ogni volta aveva ricevuto un segno di
diniego. I ragazzi sostenevano di non averlo mai visto, tranne uno che aveva
esclamato: “Ehi, ma questo qui… ma sì, certo, una volta ho visto la sua foto
sul giornale!” . I proprietari dei ristoranti non ricordavano il suo volto.
Solo il bibliotecario ci aveva pensato un po’, prima di affermare che,
vedendosi passare davanti centinaia di ragazzi al giorno, non avrebbe potuto
dire con sicurezza né di averlo visto né di non averlo visto. Insomma, tutto
restava nel dubbio. Eppure Ran non si arrendeva. Avrebbe continuato il suo
viaggio finché non avesse trovato qualche certezza. La certezza le bastava: non
le importava, in quel momento, che fosse buona o cattiva. Tutto era meglio
dell’insicurezza.
Nel
frattempo, si concedeva quel pomeriggio di pausa, lasciandosi trasportare
lontano dalle leggende che avvolgevano i templi della città. In quel momento
fantasticare l’aiutava ad andare avanti. La guida turistica era estremamente
dettagliata e forniva interessanti informazioni riguardo ai singoli monumenti e
alle molte storie a cui essi erano legati. Leggende di amori spezzati della
guerra, di principesse che attendevano per anni i loro principi, e, non
vedendoli più tornare, si lasciavano morire in quei lussureggianti giardini,
senza più toccare né cibo né acqua. Ran era simile a loro: anche lei stava
attendendo il ritorno del suo principe. Eppure non riusciva più a stare ferma,
aspettandolo. Aveva deciso di compiere lei un passo, per venirgli incontro.
Sorrideva tristemente nel leggere di come spesso l’unica consolazione di quelle
principesse a malincuore abbandonate fossero i loro figli. Quei bambini in cui
rivedevano gli occhi dei loro amati.
Ran
non aveva più nemmeno Conan, quel bambino curioso tanto simile a Shinichi. Un
assassino se l’era portato via, senza un’apparente ragione. Sospirò, cercando
di cacciare via dalla testa i brutti pensieri. Si sedette su un muretto,
sprofondando nella lettura della sua guida turistica. Dopo una manciata di
minuti, l’occhio cadde su una pagina che riportava in alto il titolo: “La
leggenda dei due corvi neri.”
Qualcosa
in quell’ intestazione la attirò, e cominciò a leggere. La storia parlava di un
giovane principe, figlio di un feudatario, che aveva sposato una ragazza di
nobile famiglia, molto bella e dai lunghi capelli neri. Il loro non era un
matrimonio combinato: i due, amici d’infanzia, si amavano e avrebbero voluto
passare il resto della vita insieme. Ma arrivò la guerra, come un vento
violento che tutto spazza, a portare via i loro sogni. Il giovane principe
dovette assumere il comando dell’esercito e partì, lasciandosi dietro le
lacrime della sua amata. La donna, che portava in grembo il loro primo figlio, partorì
qualche mese dopo. E che gioia poter guardare quegli occhietti così curiosi,
così vivi, che tanto le ricordavano quelli del suo amato principe! Passarono i
mesi, passò un anno. Il bambino cresceva, imparava a sorridere, pronunciava già
qualche parola strascicata. Ma il principe non tornava. La guerra non voleva
saperne di finire, e i morti si contavano ormai a migliaia. Del principe più
nessuna notizia, nessuna sicurezza che potesse confortare la donna. Passò un
altro anno. Il bambino cominciò a camminare, pronunciava ormai in maniera
distinta molte parole. Di una sola non era a conoscenza: papà. Dov’era il suo
papà, a cui il bambino somigliava ogni giorno di più? La principessa era sempre
più triste, e si intratteneva spesso con il suo figlioletto negli enormi
giardini del palazzo, spingendosi fino alle mura di cinta, nella speranza di
veder rientrare il suo amato. Un giorno si sedette sotto un grande albero, il
bambino fra le braccia. Pian piano il cielo cominciò ad oscurarsi, il sole
andava a nascondersi dietro le nuvole che erravano per l’etere. Poi, si sentì
un gracchiare. Due corvi si erano appollaiati su uno dei rami dell’albero, e
cantavano la loro stonata canzone di morte. La donna, spaventata, si alzò,
prendendo per mano il bambino. E fu allora che i corvi spiccarono il volo,
spiegando le loro ali nere. E il figlioletto, fissandoli estasiato, sfuggì alla
presa della madre, inseguendoli in una corsa sfrenata e scomparendo ben presto
dalla vista della donna. La principessa corse e corse, nella speranza di
raggiungerlo. Ispezionò il giardino, passo per passo, ma del bambino nessuna
traccia. Dov’era finito? A nulla valsero le ricerche. Quel suo dolce piccolo
era sparito. Passarono alcuni mesi, in cui la donna faticò a toccare cibo e a
uscire dalla sua stanza: avrebbe voluto morire, allora, in quell’istante. La
vita le aveva tolto tutto: che senso aveva continuare? Quel che salvò la
principessa fu la sua fermezza d’animo e la sua incapacità di arrendersi. Alla
fine decise di partire, alla ricerca del proprio amato e del loro figlio. Da
allora anche lei scomparve. La leggenda narrava che fosse ancora in giro per il
mondo, cercando disperatamente i suoi cari.
Quando
staccò gli occhi dalla pagina, Ran faticò a trattenere una lacrima. Quella
storia le ricordava terribilmente la sua. Shinichi, risucchiato da un
complicatissimo caso, Conan, che aveva inseguito qualcosa o qualcuno ed era
rimasto attratto da quella Porsche, nera come quei maledetti corvi.
Improvvisamente
percepì tutto il caldo della giornata. Il vento aveva smesso di soffiare e
l’aria era tornata afosa. Sentì che di lì a poco sarebbe scoppiata di nuovo a
piangere, lì, come una stupida. Una stupida che piange su un muretto
dimenticato dal mondo. Balzò giù. Avrebbe preso l’antidoto alle lacrime che più
aveva funzionato in quei giorni: stare in mezzo alla gente e fingere, almeno
formalmente, di non essere sola. Si incamminò a passo svelto verso un bar che
si trovava sul marciapiede opposto. Attraversò la strada pedonale brulicante di
turisti, ed entrò. Un campanellino posto sopra la porta informò del suo
ingresso. Si avvicinò al bancone e ordinò un the freddo e una brioche. Cercò
con lo sguardo un tavolo vuoto e, una volta individuato, si sedette. Non che il
bar fosse particolarmente affollato: anzi, tutt’altro. La maggior parte della
gente era fuori, a godersi il proprio giro turistico.
Si
guardò intorno. Dall’altra parte della sala, un vecchietto sorseggiava un
bicchiere di acqua fresca e giocava a carte con un altro signore, discutendo
del più e del meno. Ran non poteva sentire le loro parole, ma i due sembravano
in confidenza. Dovevano essere del posto. Accanto al loro tavolo, erano seduti
due ragazzi: sembravano aspettare qualcuno, tanto che uno dei due continuava a
guardare il cellulare. Quando una ragazza entrò nel locale e si avvicinò al
loro tavolo, Ran capì di averci azzeccato. Sorrise con malinconia. Anche lei
aveva la stoffa del detective.
Poi
si voltò, osservando la parte della sala dove si trovava il suo tavolo. Aveva
scelto una postazione vicino alle vetrate d’ingresso, così da poter meglio
vedere gli altri clienti del locale. Il suo sguardo cadde subito su un tavolo
appartato. Due figure erano sedute l’una di fronte all’altra, e parlavano a
bassa voce. Erano due uomini, entrambi vestiti di nero. Portavano un cappello e
sembravano insensibili al caldo di quel giorno. Che strani tipi, pensò. Stava
per cercare qualcun altro da osservare, quando improvvisamente ebbe una sorta
di flashback. Quei due uomini vestiti di nero … lei li aveva già visti da
qualche parte. Tanto tempo fa. Sì, ma dove e quando? Fissò su di loro i suoi
occhi azzurri. I due confabulavano, e sembravano non essersi accorti di essere
osservati. L’uomo di cui poteva vedere il volto era magro, dai lineamenti
spigolosi. I due occhi verdi, contratti in una sorta di macabra concentrazione,
erano velati da una sottile malignità. Ciocche di capelli biondi gli ricadevano
sulla fronte e sulle spalle. Non era particolarmente robusto: ma sembra alto.
Più alto dell’uomo che gli sedeva di fronte, e che dava le spalle a Ran. Era
corpulento, forse anche leggermente in sovrappeso. Le sue mani massicce
stringevano con vigore il bicchiere di vetro che stava per portarsi alle
labbra. Cosa stava bevendo? Sembrava un superalcolico.
Ran
sentì un brivido percorrerle la schiena. Quei due uomini.. sì, sembravano
proprio due corvi appollaiati su un ramo. Come quelli della leggenda. Due corvi
portatori di morte. Eppure non riusciva a staccare lo sguardo. Era come
ipnotizzata. Li fissava, e non sentiva altro che il battito del suo cuore
rombarle nel petto. Qualche gocciolina di sudore le imperlava la fronte.
Improvvisamente, le pupille dell’uomo biondo saettarono nella sua direzione. Ran
sussultò, e si affrettò a distogliere lo sguardo. Ma ora era lei a sentirsi
osservata. Con la coda dell’occhio vide che il biondo aveva comunicato qualcosa
all’uomo grosso, che a sua volta si era girato verso di lei. Portava degli
occhiali da sole ormai fuori moda, e il labbro inferiore leggermente sporgente
gli conferiva un che di stupido.
“Signorina,
ecco la sua ordinazione.”
Il
cameriere poggiò sul tavolo il bicchiere di the e la brioche, comunicandole poi
il conto. Ran si affrettò a cercare il portafogli nella sua borsa e, quando lo
aprì, le cadde sul tavolo una delle tante foto di Shinichi che aveva portato
con sé. Perché no, si disse, poteva provare a mostrarla al cameriere.
“Mi
scusi, per caso ha mai visto questo ragazzo?”
La
sua voce suonò leggermente traballante. Sentiva ancora lo sguardo di quegli
uomini puntato su di sé. Accidenti, forse si erano irritati perché li aveva
fissati con insistenza. Altro che detective, si era fatta scoprire come una
principiante.
“Mi
spiace, non mi pare che questo ragazzo sia mai passato di qui.”
“Grazie
lo stesso.”
Il
cameriere sorrise e se ne andò, portando con sé il soldi che gli spettavano.
Ran richiuse il portafogli e lasciò la foto sul tavolo. Era pur sempre come
avere Shinichi accanto.
Bevve
un po’ del suo the e mandò giù a fatica un pezzettino di brioche. Non aveva più
così tanta fame. La sensazione di sentirsi osservata le faceva attorcigliare lo
stomaco.
Poi,
si verificò ciò che non avrebbe mai voluto. Sentì dei passi. Passi estremamente
pesanti. Erano loro. Si erano alzati e camminavano verso le vetrate
dell’ingresso. Ran incassò la testa tra le spalle, sperando vivamente che i due
fossero intenzionati ad uscire. E invece, si fermarono proprio accanto al suo
tavolo. Le gambe presero a tremare. Dov’era Shinichi? Aveva bisogno di lui.
Quegli uomini la mettevano in soggezione.
“Buongiorno,
signorina.”
A
parlare era stato l’uomo biondo. Ran alzò con cautela lo sguardo, sperando di
aver immaginato tutto, di non avere nessuno davanti a sé. No, i due uomini
erano lì. E sembravano anche in attesa di una risposta.
Ran
non sapeva cosa dire. Non li conosceva. Ricordava vagamente di averli visti una
volta, ma era solo una foto confusa e sbiadita dell’album della sua memoria.
Cosa volevano? Decise che non era il caso di fare la timida. Tanto valeva
mostrarsi forte. Forse quegli uomini volevano solo impaurirla e, se l’avessero
vista risoluta, l’avrebbero lasciata stare.
“Ci
conosciamo?” chiese, con aria retorica.
L’uomo
grosso sembrò infastidito da quella risposta che sapeva di sfida. Fece per
avanzare, ma l’uomo biondo lo bloccò. Quest’ultimo sembrava quasi.. divertito?
Si inumidì le labbra con la lingua, mentre scostava una sedia vuota e si sedeva
al tavolo di Ran.
“A
dire il vero,” iniziò, piantandole gli occhi addosso, “ho intravisto questa
foto che ha mostrato al cameriere. Potrei darci un’occhiata?”
Istintivamente
Ran buttò la mano avanti, nel tentativo di riprendersi la fotografia.
Quell’uomo non le piaceva. Poteva aver a che fare con Shinichi? Un dubbio le si
insinuò nella mente: forse quei due erano implicati nel caso a cui Shinichi
stava lavorando? Ma qualcosa le diceva che non erano dalla parte del suo amico.
Anzi, semmai ne erano i diretti avversarsi. L’uomo però fu più veloce di lei, e
prese tra le mani l’immagine. La osservò con attenzione, e lo stesso fece il
suo complice.
“Me
la ridia, per favore.” disse Ran, porgendo la mano con il palmo alzato.
Il
suo interlocutore ignorò l’invito e tornò a fissarla negli occhi. Quello
sguardo aveva l’effetto di paralizzarla. E lui lo sapeva, sapeva di fare
quell’effetto. Ran glielo leggeva in faccia. Cercò di mostrarsi il più sicura
possibile.
“Stai
cercando questo ragazzo?” le chiese, smettendo di darle del lei. Ogni parvenza
di cortesia era scomparsa. Quella domanda esigeva
una risposta.
“Non
vedo perché la cosa potrebbe interessarla.”
L’uomo
sorrise con fare di superiorità e le si avvicinò ancora di più: “Lo conosco.”
Quelle
parole spruzzarono fuori odore di nicotina e alcool.
Ran
corrugò la fronte. Forse non aveva fatto cilecca. Forse quegli uomini erano
davvero implicati nel caso a cui Shinichi stava lavorando. Quanto poteva essere
pericoloso dar loro retta?
Dato
che non rispondeva, il biondo continuò: “Il suo nome è Shinichi Kudo. Non mi
sbaglio, vero?”
Ancora
quell’odore di fumo e alcool. Ran si allontanò disgustata. Quell’essere le
sembrava un animale. Un animale un po’ troppo intelligente, però.
“Cosa
sai di lui?”
Anche
l’altro uomo si era seduto. Aveva addirittura iniziato a mangiare la brioche
quasi intatta di Ran, totalmente incurante dello sguardo allibito che la
ragazza gli aveva lanciato.
“So
dov’è. Posso portarti da lui, se vuoi.”
Non
sta dicendo la verità, non fidarti. Una vocina nella sua testa le stava
sussurrando quelle parole. Eppure, per la prima volta, si sentiva più che mai
vicina alla verità.
“Dov’è?”
chiese, la gola secca che le rendeva arida la voce.
Il
biondo si alzò, e fece cenno al suo complice di fare altrettanto. Quello, dal
canto suo, sembrò leggermente infastidito dal fatto di non essere nemmeno
riuscito a finire la brioche.
“Seguici.”
le disse poi l’uomo alto. Tra i due, doveva essere lui il capo.
Sapeva
di non potersi fidare di quei due sconosciuti. Ma avevano riconosciuto
Shinichi: qualcosa dovevano pur sapere. E Ran voleva conoscerla, quella dannata
verità. Non poteva tirarsi indietro.
Si
alzò a sua volta, senza dire una parola. I due sorrisero soddisfatti, e
uscirono, con Ran dietro di loro. Camminarono per circa duecento metri, fino a
raggiungere la fine della zona pedonale. Una volta lì, si fermarono davanti ad
una Porsche nera 356A. Il capo porse le chiavi all’altro, che salì al posto di
giuda. Poi aprì la portiera posteriore e fece cenno a Ran di salire. Da parte
sua, la ragazza continuava a fissare la macchina. Era quella, sì, era la
macchina che si era fermato a guardare Conan. Era tutta una coincidenza? Che
fossero quelli gli uomini che aveva seguito Conan? Cercando di racimolare tutte
le sue forze, salì a bordo, e l’uomo biondo prese posizione accanto a lei.
“Metti
in moto, Vodka. Andiamo alla vecchia base.”
“Agli
ordini capo.”
La
macchina partì, il motore che tamburellava sotto di loro. Ran fissava la città
scorrere oltre il finestrino. Cercò di convincersi che aveva fatto la scelta
giusta.
Angolino
autrice:
Ed eccoli qui i nostri MIB .. fanno il loro
ingresso trionfale in scena :)
Come avevo già dettoa qualcuno di voi, la storia ha ora preso la
piega che la porterà alla fine.. spero che continuiate a seguirmi, mancano solo
3 capitoli! :)
Purtroppo non potrò aggiornare fino a
domenica 29.. lo so, sono un disastro, perdonatemi!
Ci tengo a ringraziare coloro che hanno
recensito il capitolo 4, cioè 88roxina94,
AliHolmes, Coffee_stains, Aya_Brea, mangakagirl. Grazie
mille per avermi lasciato il vostro parere sulla storia <3
Grazie poi a chi segue la storia, cioè: 88roxina94,
Aya_Brea, Melinda Malfoy,
I_Am_She, BlackFeath,Kikari_,
AliHolmes, Yume98, Toru85, _MyOwnForgottenWorld_, Creativeloving, ciachan, aquizziana, ShellingFord.
Grazie a Kikari_, Silver Spring e Coffee_stainsche hanno la storia tra le
preferite, a Kaity
che l’ha inserita fra le ricordate.
Capitolo 6 *** Il coraggio di credere nella verità ***
Searching
“Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense.”
(Dante, Inferno – Canto V)
6. Il coraggio di credere nella verità
Uscirono
ben presto dalla città antica, e si avviarono verso al periferia. Ran continuava a guardare fuori dal finestrino, cercando di
orientarsi in quel labirinto di vie sconosciute. Con la coda dell’occhio
lanciava uno sguardo all’uomo alla guida, che di tanto in tanto imprecava,
maledicendo chissà quali divinità ogni qualvolta imboccava la via sbagliata.
Forse nemmeno loro erano del luogo.
Non
aveva il coraggio di girarsi ed incrociare nuovamente gli occhi dell’uomo
biondo, seduto accanto a lei. Si limitava ad osservare il riflesso di lui sul
vetro. Stava immobile, le braccia conserte, guardava fisso davanti a sé. Tutto
quello che Ran poteva sentire era quell’odiosa puzza
di nicotina e alcol, impregnata in ogni singolo angolo della vettura.
Alla
fine, giunsero a destinazione. O almeno, così pensò la ragazza, dal momento che
la macchina si era fermata.
“Scendi.”
le ordinò il capo, smontando a sua volta. Ran non
fiatò, limitandosi a fare ciò che le era stato richiesto. Una volta fuori, i
suoi dubbi furono confermati. Si trovavano in un vicolo buio, contornato da
alti palazzi che impedivano ai raggi del sole di filtrare fino a terra. Davanti
a loro si stagliava un edificio abbandonato, decorato da qualche crepa. Ad
un’analisi più attenta si dimostrava davvero pericolante. Le finestre erano
sbarrate e, dove non lo erano, si potevano osservare in bella vista le persiane
abbassate. Una serranda appena sollevata da terra sbarrava la porta d’entrata.
No,
Shinichi non poteva essere lì. Quegli uomini
l’avevano tratta in trappola. Ma di che si stupiva? Lo sapeva benissimo che
correva quel rischio. Cosa volevano farle? Erano due uomini, molto più alti e
robusti di lei. Il karate non l’avrebbe salvata. Sperò solo che non avessero
intenzione di fare quello.
Rabbrividì, e si massaggiò automaticamente le braccia per cercare di frenare la
pelle d’oca.
L’uomo
biondo doveva aver capito i suoi pensieri. Lo vide sorridere, mentre osservava
il suo gesto e il suo sguardo che cercava di mascherare l’apprensione e la
paura. Ma in fondo, era stata lei a cacciarsi in quel guaio. Sapeva i rischia cui era andata incontro.
Con
una pedata l’uomo grosso, che da quanto aveva capito di faceva chiamare Vodka,
sollevò la serranda a sufficienza per permettere loro il passaggio. Poi la
prese per un braccio e la buttò dentro con violenza, tanto che Ran faticò a restare in piedi.
All’interno
regnava il buio più assoluto, eppure i due uomini si muovevano agilmente.
Dovevano essere già stati lì. Quello grosso la caricò sulle spalle, mentre lei
iniziava a scalciare e strepitare, tirandogli pugni sulla schiena totalmente
alla cieca.
“Ehi,
capo, questa qui è violenta!” disse sghignazzando. L’altro non sembrò gradire
la battuta.
“Zitto
e scendi queste dannate scale.” fu la sua risposta.
Ben
presto arrivarono in quella che doveva essere una sala sotterranea. Ran sentì lo scatto di un interruttore e la stanza fu
inondata dalla luce. Non ebbe tempo di alzare lo sguardo che quel bestione la
scaraventò a terra. Nell’urto si scorticò il gomito. Si alzò a sedere, notando
di aver lasciato una piccola striscia rossa sul pavimento: la sbucciatura
doveva essere abbastanza profonda. Sentì un forte bruciore.
La
stanza era spoglia. Nessun mobile, a parte un grosso armadio chiuso con un
lucchetto, situato giusto vicino alla porta da dove erano entrati. Per il
resto, assolutamente niente. Sembrava di stare in un capannone abbandonato: un
po’ come quelle vecchie fabbriche ormai smantellate.
Si
sentì improvvisamente tirare per un braccio e fu costretta a rimettersi in
piedi. Scalciò nel tentativo di sfuggire alla presa dell’uomo con gli occhiali.
Ma era troppo forte per lei.
Nel
frattempo, l’altro uomo le si era avvicinato. Teneva una pistola nella mano
sinistra, puntata verso il pavimento. Ran si chiese
per quanto ancora quell’arma sarebbe rimasta puntata verso il terreno.
Istintivamente, cercò di indietreggiare, ma la sua mossa ebbe solo l’effetto di
far rafforzare la presa dell’energumeno.
“Allora,
cara la nostra signorina. Si può sapere perché stai cercando ShinichiKudo? E’ una storia
vecchia, e non vale la pena muovere le acque. Non trovi?”
La
voce dell’uomo biondo faceva gelare il sangue nelle vene. Ma il nome di Shinichi le aveva dato coraggio. Cosa avevano fatto quelle
persone al suo amico? L’uomo la fissava con quei suoi occhi verdi. Ancora quel
fetore di alcool e nicotina. Lo odiava. Con tutta se stessa. Non aveva più
paura, provava solo rabbia. Senza nemmeno pensarci, sputò per terra.
“Va
all’inferno.” sibilò. Non avrebbe detto una parola su Shinichi,
non avrebbe permesso loro di trovarlo. A costo della vita.
Un
lampo di stizza attraversò gli occhi del suo aguzzino. Poi, Ran
sentì la canna fredda della pistola poggiata sotto al mento.
“Provaci
di nuovo e ti faccio saltare in aria questo bel visino.”
Deglutì,
cercando di fermare il tremito che aveva iniziato a correre su e giù per le
gambe. Si era sbagliata. Aveva paura. Sì, ma chi non ne avrebbe avuta al suo
posto? L’importante era trovare il coraggio e la fermezza. Cercò di prendere
tempo.
“Che
cosa volete sapere?” chiese, tutto d’un fiato. La bocca si era fatta ormai
secca.
“ShinichiKudo non c’è più da più
di un anno ormai. E non ci va a genio che tu vada in giro a parlare di una
faccenda scomoda. Per cui …” lasciò volutamente in sospeso la frase,
avvicinando l’indice sinistro al grilletto.
Ran
ormai sudava freddo. E quella notizia era stata come un colpo al cuore. Shinichi era morto da più di un anno? Ma com’era possibile?
Lei l’aveva incontrato l’ultima volta appena un mese prima della scomparsa di
Conan! Shinichi non poteva essere morto, non era
vero. Convinta ormai che l’uomo stesse per spararle, chiuse gli occhi e attese.
Ormai non sentiva più le gambe tremolanti. Si irrigidì.
“Aspetta,
capo. Mi è venuta in mente una cosa.”
La
voce profonda dell’uomo con gli occhiali la fece sciogliere di colpo. Le gambe
si fecero improvvisamente molli, e sarebbe caduta rovinosamente a terra se quel
bestione non l’avesse sostenuta.
Il
biondo sembrò infastidito: “Che diavolo c’è, Vodka? Sbrigati, mi sta prudendo
il dito dalla voglia di premere il grilletto.”
Il
compagno si affrettò a spiegare, volendo evitare di far innervosire ancora di
più il suo capo. Nel frattempo, Ran cercava di
riprendere fiato. Non aveva respirato per tutti quei secondi di silenzio, in
cui credeva che davvero sarebbe finita all’altro mondo.
“Ti
ricordi il bambino dell’altra volta, Gin?”
“Cosa
vuoi che me ne freghi di un bambino, ora?”
Era
davvero stizzito: Vodka valutò se continuare o meno. Alla fine, dato che ormai
si era imbarcato, optò per iniziare a remare.
“Il
bambino di Tokyo. Quello che abbiamo incontrato nei pressi di Beika e che ci ha seguiti fino al porto. Saranno stati due
mesi fa.”
Ran
sentì nuovamente un tuffò al cuore. Un bambino? Tokyo? Beika?
Due mesi prima? La Porsche nera? I due corvi? Quegli uomini? Il porto?
Tutte
immagini che diventavano vive nella sua mente, una dopo l’altra. Scorrevano
veloci come pagine strattonate dal vento. E poi, una figura su tutte, netta,
chiara, nitida come non mai: quella di Conan. No, non era tutta una
coincidenza. Tra Conan e quegli uomini c’era un legame. Tra Shinichi
e quegli uomini c’era un legame. Tra Conan e Shinichi
c’era un legame. Ed anche stretto.
Che motivo avrebbe avuto Conan per seguire quegli uomini? Era sveglio, sì, ma
era pur sempre un bambino. E quelli non sembravano dei criminali dilettanti.
Maneggiavano armi e sapevano come mettere alle strette le persone. Si
chiamavano con nomi in codice e vestivano alla stessa maniera. Dovevano
appartenere ad un’organizzazione più ampia.
Gin
sembrò capire. Inarcò le sopracciglia, come per riflettere. Continuava a tener
puntata la pistola su Ran.
“Quel
bambino, è vero. La somiglianza con ShinichiKudo era notevole.”
Sì,
la loro somiglianza era davvero notevole. Non solo fisicamente, ma anche nei
modi di fare. Nel modo di atteggiarsi, di parlare, di ribattere ad
un’affermazione, nel modo di mangiare, di ridere, di arrabbiarsi, di fingersi
imbronciati: Ran rifletteva su tutto questo e
considerava le cose sotto una nuova luce. Paradossalmente, non sentiva nemmeno
più la pistola puntata su di sé. Era troppo presa dai suoi pensieri. Troppo
sconvolta da una verità che stava cominciando pian piano a manifestarsi.
Nel
frattempo, Gin aveva ripreso a parlare, sorridendo beffardo: “Ma che pensiero
stupido, Vodka. Un adolescente non può essere contemporaneamente un bambino.
Nemmeno Houdini era capace di simili trucchi.”
Era
davvero impossibile? Ran non ne era più così sicura.
Conan era comparso quando Shinichi era sparito. Conan aveva uno stretto rapporto con
il dottor Agasa. Conan era straordinariamente
intelligente per la sua età. Conan era fin troppo autonomo per la sua età.
Conan che non c’era mai quando Shinichi veniva a
trovarla. Conan che non c’era mai quando Shinichi le
telefonava. Conan che aveva seguito quei due uomini, che era scappato un
giorno, di punto in bianco, così come aveva fatto Shinichi.
D’improvviso,
un’immagine le attraversò come un flash la memoria. L’omicidio del Luna Park,
proprio il giorno della “scomparsa” di Shinichi. Ecco
dove aveva visto quei due uomini che amavano chiamarsi con nomi di
superalcolici. Erano saliti sulla loro stessa giostra e avevano una gran fretta
di tagliare la corda. Erano loro che il suo amico aveva seguito? Non trovava
altra soluzione.
Conan
era comparso quando Shinichi se n’era andato. E con
Conan, si era improvvisamente zittito anche Shinichi.
E poi c’era qualcosa, qualcosa che Agasa, Ai, Heiji e Yukiko sapevano, ma che
non avevano voluto rivelarle. Cos’erano quelle misteriose frasi dette a metà?
Qualcosa tipo “è meglio l’incertezza della sicurezza”? Come se loro si fossero
ormai rassegnati sulla sorte di Shinichi. Come se lui
fosse morto con Conan.
Fu
un attimo. Una specie di intuizione sovrannaturale, che le chiarì una verità
totalmente paradossale, che sfiorava l’assurdo. E bisognava avere coraggio per
credere in quella verità. Era come essersi scervellati a lungo su un problema
e, tutto d’un tratto, arrivare alla soluzione, maledicendosi per essere stati
così stupidi da non esserci arrivati prima. Urlare “Eureka!”, come aveva fatto
Archimede, capire ciò che ci è sempre davanti agli occhi.
Come
aveva potuto non capire quegli sguardi che Conan a volte le riservava? Come
aveva potuto non capire la voglia di proteggerla che manifestava nella maggior
parte delle occasioni? Come aveva potuto fraintendere il suo diventare rosso
ogni volta che lei lo abbracciava? Come aveva potuto essere così cieca, sorda,
così stupida, avere la mente talmente annebbiata dall’abitudine alla normalità
da non trovare una soluzione che andasse oltre ciò che comunemente vedeva?
Conan
eraShinichi.
E lei stava cercando un fantasma.
Non
le importava come avesse fatto a tornare bambino. Sapeva solo che era così. Era
stato tutto chiaro, in un solo istante. Ma quegli uomini c’entravano. Loro
avevano rovinato la vita di Shinichi. E stavano
distruggendo la sua.
Vendetta.
Ecco cosa provava in quel momento. Un vivo, ossessivo desiderio di vendetta,
che si diffondeva come linfa vitale nel suo corpo. Chi commette ingiustizia
merita di subirne una peggiore. Guardò fisso negli occhi l’uomo biondo che
aveva di fronte. Tutto quel male che aveva commesso.. lei glielo avrebbe
ritorto contro. Sì, ecco cosa avrebbe fatto.
Ran
non ragionava più, la sua mente ottenebrata dall’ira e dal rancore pulsava,
animata da un desiderio quasi animale. Voleva fare giustizia da sé, una
giustizia più simile a quella fra bestie che fra esseri dotati di ragione. La
rabbia è follia, e l’odio perpetuo è pazzia. Il risentimento non la faceva più
ragionare. Dov’era finita la Ran dolce, solare, buona
e gentile di solo qualche ora prima? Era stata soppiantata nell’arco di qualche
secondo da una donna aggressiva, risoluta, ferma nel suo proposito di vendetta.
Sentiva che niente l’avrebbe più fermata. Ma non aveva molto tempo, doveva
agire in fretta. Prima che Gin sparasse.
“Shinichi non è morto.” disse piano, quasi scandendo le
parole. La sua voce era priva di sentimento: sembrava un automa. Gli occhi
vitrei non lasciavano trasparire emozione alcuna.
“L’ho
visto.” continuò imperterrita,notando che lo sguardo dell’uomo si faceva
interessato.
“Quando?”
chiese quello, di rimando.
Hai
abboccato, pensò.
“L’ultima
volta un mese fa. Poi, è sparito. E’ per questo che ho iniziato a cercarlo.”
L’uomo
ripose in tasca la pistola. Fece cenno al compagno di lasciare la presa sulla
ragazza. Non appena Ran fu libera, si sgranchì le
braccia, che formicolavano. Ma fu un attimo: Gin l’afferrò per l’avambraccio
destro con tanta forza da farle male. Avvicinò il suo viso a quello della
ragazza, facendole sentire tutto il fetore minaccioso del segugio.
“Se
stai mentendo per cercare di aver salva la vita, sappi che non ti servirà a
molto.”
Ran
si mantenne lucida. Non aveva più paura. Non aveva più niente da perdere.
“Non
sto mentendo.” disse sprezzante, “Non ne avrei motivo.”
Gin
mollò la presa, facendola barcollare. Riuscì in qualche modo a mantenere
l’equilibrio. Aveva sull’avambraccio i segni rossi di quegli artigli.
“Perché
non collaboriamo? Stiamo cercando la stessa persona.”
L’uomo
biondo si accese una sigaretta, senza calcolare minimamente la sua frase. Forse
fu per quello che l’altro si sentì autorizzato a parlare: “Ehi ragazzina, come
ti permetti di…”
“Sta
zitto, Vodka. Sentiamo cos’ha da dire.”
Fece
un cenno con la testa, come per autorizzarla a parlare. Ran
strinse i pugni. Quell’uomo sapeva di avere un vantaggio su di lei: quello di
poterla fare fuori in qualsiasi momento.Doveva agire nella maniera giusta. Ogni errore le sarebbe stato fatale.
“Potrei
esservi utile. Shinichi è un mio amico di infanzia,
lo conosco sin da quando eravamo in fasce. Entrambi lo stiamo cercando: insieme
possiamo arrivare a lui.”
Gin
mordicchiava la sua sigaretta, continuando a fissarla. Buttò fuori il fumo.
“C’è
una cosa che non mi convince. Non penso che stiamo cercando quel detective per
lo stesso motivo.”
“Diciamo
che il fine comune è a grandi linee lo stesso. A me importa solo ritrovare Shinichi. A qualsiasi mezzo.”
Ran
sperò di averli convinti. Cercava di mantenersi fredda e calma.
I
due uomini si lanciarono uno sguardo. Il bestione non osava parlare. Quella era
una decisione importante e le decisioni importanti spettavano al capo. Si
limitò ad accendersi a sua volta una sigaretta e aspettò che Gin prendesse la
parola. Quello fece qualche passo verso Ran. Sputò
fuori la sigaretta, pestandola sotto il tacco dei suoi stivali.
“Perché
no.” disse alla fine, “diventerai una di noi. Almeno fino a quando ci
servirai.”
Le
ultime parole suonarono come una minaccia, ma Ran non
le calcolò. Perché nella sua mente era lei che si sarebbe servita di loro, fino
a mettere in atto la sua vendetta. Doveva solo cogliere l’occasione giusta.
Loro
avevano ucciso Shinichi. Lei avrebbe ucciso loro.
Non
rispose nemmeno. Il suo assenso era sottointeso. L’uomo biondo le voltò le
spalle e si avviò verso l’uscita. Sembrava soddisfatto.
“La
nostra nuova compagna ha parlato un po’ troppo. Falle fare un riposino, Vodka.”
Ran
non fece nemmeno in tempo a girarsi. Sentì un forte colpo alla testa. Poi tutto
prese a girare vorticosamente, come in una spirale infinita.
E
fu quello l’inizio della fine.
Angolino autrice:
Ed ecco
qui il sesto capitolo.. ok, so che le cose stanno prendendo una piega
decisamente strana, ma il mio inconscio mi ha guidato in questo senso mentre
scrivevo .. spero che il capitolo vi sia piaciuto :)
Vorrei
ringraziare chi ha recensito il capitolo 5, cioè Aya_Brea Silver Night IAm_SlightlyMadmagakagirl 88roxina94AliHolmes.. grazie mille
davvero! Scusate ma oggi sono un po’ di fretta, per cui non riesco a
ringraziare personalmente chi ha la storia tra le preferite, ricordate o
seguite.. vi mando un abbraccio e un ringraziamento generale!
(tratta dal film “Sogni e delitti” di Woody Allen)
7. Kahlua: gusto
caffè e vaniglia
Quando
riaprì gli occhi, ci mise un po’ per mettere a fuoco ciò che la circondava. Era
stesa su un letto e si trovava in una stanza che non aveva mai visto. Si
massaggiò piano la testa, e scoprì di avere un grosso bernoccolo. Almeno non
era ferita.
Sollevò
piano il capo dal cuscino. La stanza era in penombra, pochi raggi di luce
filtravano dalle tende leggermente scostate. Era una luce flebile e biancastra.
Sembrava l’alba.
Si
girò in cerca di altri indizi e notò una sveglia digitale appoggiata su un
comodino: erano le cinque e mezza di mattina. Aveva dormito per tutta la notte.
Probabilmente dovevano averle somministrato qualche sonnifero o un farmaco del
genere. Provò ad alzarsi, ma era ancora intontita. In più, la testa le doleva
ad ogni santo movimento. Sbuffò e si lasciò nuovamente andare sul cuscino.
La
stanza dove si trovava era disadorna. Quel piccolo comodino di brutta fattura
era l’unico mobile, insieme al letto su cui provava a rigirarsi freneticamente,
nel tentativo di osservare nel miglior modo possibile quella che sembrava a
tutti gli effetti una cella.
L’intonaco
del muro era scrostato, e qua e là si intravedeva una crepa. Sugli angoli
c’erano anche evidenti segni di muffa.
Ma
dove si trovava? O meglio, dove l’avevano portata?
Alzò
gli occhi a guardare il soffitto e notò una lampadina che pendeva pericolante,
attaccata ad un filo rosso. Chissà se funzionava.
Chiuse
gli occhi e inspirò profondamente quell’aria che sapeva di prigione. Ripensò
agli ultimi avvenimenti, cercando di mettere ordine nella sua mente.
La
sua decisione di cercare Shinichi, il viaggio a Tottori e Kyoto, l’incontro con quei due uomini. La
scoperta della vera fine di Shinichi e del suo essere
Conan, la sua decisione di vendetta. Per un attimo si sentì persa.
Ma
cosa stava facendo? Si era infilata in una guaio troppo grosso, da cui non
sapeva se sarebbe riuscita ad uscire. Aveva agito di impulso, facendosi
trascinare dal rancore. Ma insomma, Shinichi non le
aveva insegnato nulla? Lui non avrebbe mai voluto che lei compisse un gesto del
genere.
Eppure,
più ci ripensava e più la rabbia cresceva. Quegli uomini le avevano tolto
tutto: che diritto avevano di restare impuniti? Nessuno. Perché dovevano sempre
essere i più deboli a soffrire? Ran cercò di farsi
forza, stringendo tra le dita quelle lenzuola ruvide. Ormai era in ballo e
doveva ballare. Anche se quella danza era a prima vista troppo difficile per
lei.
Ripensò
a tutto quello che si stava lasciando dietro. Suo padre, Sonoko,
i suoi amici. L’avrebbero cercata, ma non sarebbero mai arrivati alla verità.
Quegli uomini sembravano abili ad occultare ogni tipo di prova. Capiva
perfettamente che si stava imbarcando in una sorta di azione suicida: ma la
forza della disperazione la spingeva, la faceva andare avanti e avanti, sempre
di più. L’avrebbe spinta anche oltre l’orlo del baratro? Questa era la
questione. Ma ora non le importava. Voleva l’obiettivo: il prezzo sarebbe
arrivato dopo.
Così,
persa nei suoi pensieri, stava quasi per riaddormentarsi, quando vide la
maniglia della porta abbassarsi. Qualcuno stava aprendo con lentezza. Con estrema lentezza. Il suo cuore non poté
evitare di accelerare il battito e i suoi occhi non furono in grado di
staccarsi da quel rettangolo marrone che pian piano si scostava.
Ancor
prima di vederlo, ne sentì l’odore. Una sbuffata di alcool e nicotina, portata
da un vento inesistente. Era lui.
I
capelli lunghi e biondi e l’impermeabile nero confermarono la sua ipotesi.
Inizialmente
l’uomo non sembrò considerarla. Si avvicinò alla finestra e scostò piano le
tende, per poi aprire leggermente un’anta. Ran lo
ringraziò mentalmente, per poi pentirsi subito di quello strano pensiero. In
effetti, però, l’aria stava davvero diventando soffocante.
L’uomo
si girò, appoggiò le spalle al muro e si accese una sigaretta. Ecco perché
aveva aperto la finestra, pensò Ran. Un gesto di
altruismo era incompatibile con quell’uomo nero. Lei si limitò a fissarlo con
odio per qualche minuto. Anche lui la fissava. Uno sguardo che non le piaceva
per niente.
“Dove
siamo?” chiese poi, ansiosa di porre fine a quel silenzio. Gli occhi dell’uomo,
doveva ammetterlo, le facevano paura.
Lui
inspirò profondamente prima di rispondere.
“Non
ti interessa.”
“Invece
direi di sì, dal momento che abbiamo deciso di collaborare.”
Lo
sguardo di lui si fece ancora più penetrante.
“Senti,
ragazzina, non prenderti troppe libertà. Qui comando io, non tu. Ricordatelo.”
Non
si lasciò intimidire. Lottando contro il mal di testa e i postumi del
sonnifero, si alzò a sedere. Quell’uomo non era certo venuto per una visita di
cortesia. C’era dell’altro. Senza pensarci due volte, decise di chiederglielo.
“Perché
sei venuto? Cosa devo fare?”
Gin
spostò la sigaretta a un lato della bocca, mordendola mentre iniziava a
parlare. Solo allora Ran si accorse che portava con
sé una grossa sacca. Sembrava un borsone da sport. Rabbrividì, mentre le
peggiori ipotesi le attraversavano la mente: forse voleva farla fuori e poi
chiuderla in quella dannata borsa. Scacciò il pensiero dalla testa.
“Prima
di tutto, prendi questo.”
Buttò
il borsone sul letto, con grande sollievo di Ran, che
vide del tutto abbattuta la sua ultima ipotesi. Pensò di doverlo aprire. Fece
un po’ di fatica con la zip leggermente difettosa, ma alla fine riuscì ad
estrarre il contenuto. Si trattava di un tailleur nero, gonna stretta appena
sopra il ginocchio e giacca dello stesso colore. Si chiese se il suo ruolo
sarebbe stato quello di recarsi perennemente a dei funerali. Lo guardò con fare
interrogativo.
“Quelli
sono i tuoi nuovi vestiti.” disse l’altro, a mo’ di spiegazione, “Mentre il tuo
nome sarà Kahlua.”
Strinse
leggermente gli occhi, e sul volto gli si dipinse un sorriso sadico, mentre
sputava a terra la sigaretta. Poi aggiunse: “Kahlua:
dolce, ma forte abbastanza da far girare la testa.”
Ran
inarcò le sopracciglia, ripensando a quel liquore messicano di cui aveva
sentito parlare qualche volta. Un misto di caffè, zucchero, sciroppo di mais e
vaniglia. Tutto sommato, non era neanche così male come nome. Gin interruppe
nuovamente i suoi pensieri.
“Tra
poco ci sarà il tuo primo lavoro.”
Sussultò
e si girò a guardarlo. Che intendeva?
“Devo
essere sicuro di potermi fidare almeno in parte di te. Qui non c’è posto per
gente che si fa scrupoli.”
Spostò
nuovamente il suo sguardo sul tailleur. Per un attimo, le tornò in mente il
volto di Shinichi. Quel visto le provocava due
emozioni opposte: in primo luogo, una gran rabbia nei confronti di chi aveva
spento quel sorriso sicuro e birichino, un forte desiderio di vendetta. Ma poi,
subentrava uno strano sentimento. Shinichi che le
insegnava come la vendetta fosse inutile, come un bravo detective debba sapersi
distinguere dall’assassino. Cosa ne sarebbe stato di lei, ora? Sarebbe
diventata una criminale, esattamente come loro. Eppure lei non voleva uccidere
nessun altro. Voleva solo spegnere quel sorriso malvagio che caratterizzava
Gin. Era lui, l’uomo che le aveva portato via Shinichi.
Strinse
i pugni. Era troppo tardi per tornare indietro.
“Cosa
devo fare?” chiese, cercando di mantenere fermo il tono di voce.
“Sai
usare questa?”
Gin
estrasse una pistola dalla tasca del cappotto. Non era quella che aveva usato
contro Ran il giorno prima. La ragazza capì che era
destinata a lei.
Annuì,
mentendo spudoratamente. In realtà, una volta al commissariato le avevano
spiegato come si usava una pistola e il meccanismo con cui essa era innescata,
ma di fatto non l’aveva mai utilizzata.
“Allora
vestiti. Passerò a prenderti a mezzogiorno e ti illustrerò i dettagli. Nel
frattempo sei libera di girare per l’appartamento.”
Ripose
la pistola nella tasca e se ne andò a passo lento e cadenzato. Ran rimase immobile, seduta sul letto, fino a quando non
sentì la porta chiudersi con uno scatto. Solo allora si alzò, traballando un
po’ per il male alla testa, e iniziò a curiosare in giro. L’appartamento era
composto da quella squallida stanza, un bagno e un piccolo angolo cottura.
Niente di più. Che razza di postaccio, pensò, mentre entrava nel bagno. Almeno
quello sembrava pulito. C’era un asciugamano che profumava di nuovo poggiato su
uno sgabello, vicino al lavandino. Nell’angolo opposto c’era una doccia. Senza
pensarci due volte, si spogliò e si lasciò accarezzare dall’acqua. Il flusso
non era un granché, ma meglio di niente.
Ritornò
nella stanza avvolta da quell’asciugamano un po’ troppo piccolo e si decise ad
indossare i vestiti che l’uomo le aveva portato. Accidenti, non era abituata a
portare delle gonne così strette, le impedivano i movimenti. In corridoio trovò
uno specchio e si soffermò a guardarsi.
Quella
era davvero lei? Una donna stretta in un tailleur da funerale, con profonde
occhiaia scure che le contornavano gli occhi. E poi era pallida, molto pallida.
Un candore che contrastava nettamente con il nero degli abiti. In cosa si stava
trasformando?
Notò
che accanto allo specchio c’era la sua borsa. Lì, buttata per terra. E anche
aperta. Quei maledetti dovevano aver frugato alla ricerca di qualche
informazione. Iniziò a cercare, per vedere se mancasse qualcosa. Trovò tutto,
tranne il portafogli, con la carta d’identità e tutto il resto. Il cellulare
doveva ancora ricomprarlo, per cui non trovò strana la sua mancanza. Afferrò il
suo kajal e contornò di nero gli occhi. Giusto per
rimanere in tinta. Che cos’altro poteva fare? Erano più o meno le otto di
mattina. Si lasciò andare su una sedia e attese, cercando di non pensare a
quelle mille preoccupazioni che le martellavano il cervello.
Quando
sentì la serratura della porta scattare, Ran era
sull’orlo di una crisi di nervi. Il silenzio assoluto e la noia più totale che
le avevano fatto compagnia per quelle quattro ore erano ormai diventati
insopportabili. E in più, la sua mente continuava ad essere affollata da brutti
pensieri. Aveva paura di muoversi, sapendo di essere probabilmente circondata
da microspie e telecamere. I film polizieschi le avevano insegnato qualche
metodo dei criminali. E essere tanto amica di Shinichi
le aveva fatto imparare a tenere ben aperti gli occhi.
Gin
si fermò sulla soglia.
“Seguimi ” disse soltanto.
Ran
infilò le scarpe con i tacchi che aveva trovato nel borsone e si incamminò. Ci
mise un attimo a trovare l’equilibrio giusto. Non usava i tacchi da mesi e non
li aveva mai messi così alti. Maledizione. Quell’abbigliamento era quanto di
più scomodo ci fosse.
L’uomo
nero sembrava divertito dalla sua iniziale difficoltà. Avrebbe voluto tirargli
uno schiaffo ma, non sapendo nemmeno lei come, riuscì a trattenersi.
Scesero
la rampa di scale che li separava dall’uscita e approdarono in un vicolo semi
disabitato. La solita Porsche nera era parcheggiata davanti all’ingresso. Il
biondo salì in macchina e Ran immaginò di dover fare
lo stesso. Prese posto davanti, cercando di ignorare quell’odioso odore che
infestava l’automobile. Gin ingranò la prima, e partì.
“Dove
andiamo?” chiese, provando ad orientarsi.
“Ti
ho già detto che fai un po’ troppe domande?”
Che
situazione esasperante. Se almeno quell’uomo fosse stato un po’ meno
enigmatico.
“Andiamo
nei pressi della città antica. Devo farti vedere una persona.” rispose lui,
dopo qualche minuto. A quanto pareva, voleva solo tenerla sulle spine.
Arrivati
in vista dei templi, Gin accostò al lato di una stradapoco frequentata. Pochi metri più avanti, c’era
un incrocio.
“Aspettiamo
qui. A breve dovrebbe passare una macchina decapottabile e parcheggiarsi
davanti quell’hotel. Lo vedi?”
Ran
annuì. Da quella piccola via riuscivano a vedere uno spaccato della strada
principale. Compresa l’entrata dell’hotel. Sembrava un albergo di lusso.
“Osserva
bene l’uomo che scenderà dal sedile posteriore. E’ il nostro. Anzi no.. è il
tuo.” si corresse, accendendosi un’altra sigaretta.
“Chi
è?” chiese lei, incominciando a capire cosa avrebbe dovuto fare.
“Il
capo di una grossa azienda. Sa un po’ troppe cose e non possiamo correre il
rischio che le vada a dire in giro.”
“Sa
di essere sotto tiro?”
Ran
cercava di calarsi nel ruolo nel miglior modo possibile. Non poteva permettersi
errori.
“Probabilmente
sì.”
“E
allora perché se ne va in giro con una macchina decapottabile?”
“E’
sempre stato un uomo stupido.”
Gin
inspirò avidamente, e poi si girò a guardarla: “Sei intelligente, Kahlua: inizio a pensare che potresti esserci utile anche
una volta risolta la pratica Kudo.”
La
ragazza sentì il sangue ribollirle nelle vene. La pratica Kudo. Da quando in qua la vita
di qualcuno era una pratica? Le
veniva la nausea. Stare vicino a quell’essere era un qualcosa di
insopportabile. Cercò di dissimulare i suoi pensieri e andare avanti con la
conversazione.
“E
io cosa dovrei fare?”
“Non
fingere di non aver capito. Ti conviene mettere da parte quel poco di bontà che
ti resta.”
Questa
volta non poté trattenersi. Che ne sapeva di lei? Come poteva parlare della sua
bontà o di altre qualità? Non poteva giudicarla. Non la conosceva.
“Tu
non sai niente di me.” sibilò.
“Hai
accettato di collaborare. Questo mi fa pensare che tu non sia uno stinco di
santo. Tuttavia, non sembri molto felice di svolgere il tuo primo lavoro.
Ricorda,” iniziò, piantando i suoi occhi in quelli di lei, “o la sua vita, o la
tua. Scegli.”
Ran
rabbrividì. Tornò a guardare la facciata dell’hotel. Non sapeva cosa
rispondere. Per fortuna, la famosa auto decapottabile arrivò e si parcheggiò
esattamente dove Gin aveva detto. Dal sedile posteriore scese un uomo di mezza
età. Capelli scuri chiaramente frutto di una recente tinta, baffetti, vestiti
distinti.
“E’
lui?”
Gin
emise un grugnito, che probabilmente corrispondeva ad un sì. Ran preferì non indagare oltre. Nel frattempo, l’uomo aveva
salutato un altro signore seduto sul sedile anteriore. Poi, l’auto era
ripartita e la preda era entrata nell’hotel con un accompagnatore.
“Lo
farai stasera.” disse Gin, lasciando andare il capo sul poggiatesta.
“Stasera?”
chiese Ran. Una domanda che sapeva più che altro di
sorpresa. Lei non voleva uccidere quell’uomo. Cosa le aveva fatto?
Assolutamente niente. Doveva sbrigarsi. Mettere in atto il suo piano prima di
dover davvero compiere il lavoro che Gin le aveva assegnato. Ce l’avrebbe fatta
in meno di dieci ore?
“Non
c’è occasione migliore. Il nostro uomo sarà a cena fuori. Dopo la cena,
dovrebbe tornare in albergo, ma è solito recarsi .. come dire.. in case poco
raccomandabili. Lo seguiremo fin lì. Il quartiere dove si trova quel posto è
malfamato, e nessuno farà caso a noi. Al massimo potrà vederci qualche ubriaco che
si scorderà di noi già la mattina dopo. Quando uscirà dal locale, tu farai
quello che devi fare. E poi ce ne andremo.”
Aveva
esposto il suo piano con una tranquillità assoluta.
“E
se dovessi fallire il colpo?”
“Ci
sarà un cecchino di fiducia appostato nelle vicinanze. Interverrà nel caso in
cui tu fallisca. E poi ci sarà Vodka nei paraggi. Tranquilla, non c’è
possibilità che il nostro uomo veda l’alba di domani.”
Che
razza di mostro, pensò Ran. Si limitò ad annuire,
girando il volto verso il finestrino. Le veniva da piangere e urlare. Si era
infilata in un mondo che non era il suo. A tratti si sentiva davvero persa.
Da
parte sua, Gin ingranò la prima e partì. Accese una piccola radiolina portatile
poggiata sul cruscotto. Forse voleva ascoltare il notiziario? La voce di una
donna stava annunciando le previsioni del tempo. Per quella notte e per il
giorno successivo era prevista pioggia. Gin si morse il labbro.
“Accidenti.”
“Con
la pioggia il tuo cecchino sarà inutilizzabile.” disse Ran,
più a se stessa che a lui. Aveva sentito qualcosa del genere in un telefilm
poliziesco, in cui la pioggia arrivava sempre in tempo per salvare la vittima
designata.
“Non
importa. Non è un’operazione difficile. Andremo avanti lo stesso.”
Un’operazione.
Sembrava tutto un calcolo. Gin trattava le persone come se fossero cose. Ran strinse i denti. Come poteva quell’uomo non comprendere
il valore di una vita? Avrebbe voluto tirare un pugno al vetro. Spaccare tutto,
compresa la faccia di quel mostro.
Ma
si limitò semplicemente ad ascoltare le previsioni del tempo.
Angolino autrice:
Ecco
qui il settimo capitolo! Spero che vi sia piaciuto :)
Ci ho
messo un secolo a trovare un nome in codice per Ran,
e alla fine la mia scelta è caduta proprio su Kahlua
.. che ne dite? A me sembrava uno dei migliori. Spero di non aver preso un
colossale abbaglio!
Ci
tengo moltissimo a ringraziare chi ha recensito lo scorso capitolo, cioè Aya_Brea, IAmSlightlyMad
e xthesoundofsea . Grazie mille davvero, leggere
i vostri commenti mi spinge sempre a scrivere e ad andare avanti per
migliorarmi!
Grazie
anche a chi ha la storia tra le preferite, seguite e ricordate e a chi si
limita a leggerla.
Ci si
risente al prossimo capitolo, che è anche l’ultimo. Alla fine della fan fiction
spenderò qualche parola sulla storia, così da chiarire magari alcuni punti
interrogativi.
L’orologio
digitale appoggiato sul comodino segnava le undici. Fuori era buio ormai da due
ore, e a tratti alcune raffiche di vento fresco portavano via con sé l’afa
della giornata. Ran osservò la pistola poggiata ai
margini del letto. Gliel’aveva lasciata Gin quando l’aveva riportata
all’appartamento. Per cosa poi? Quell’aggeggio era ancora scarico. Dovette
ammettere che, se così non fosse stato, durante quell’interminabile pomeriggio
l’avrebbe forse puntata contro di sé. Per mettere fine a tutto, senza causare
la morte di altre persone. Per poter finalmente tornare da Shinichi.
Lui le mancava così tanto. A volte immaginava di essere tra le sue braccia, di
sentire il tocco leggero di lui sulla sua pelle. Immaginava di poterlo baciare,
come mai aveva fatto. Ed era allora che la tristezza lasciava posto alla
rabbia. L’odio verso chi le aveva portato via ogni speranza. Verso quel
maledetto corvo biondo. Ci aveva riflettuto a lungo, ed era arrivata alla
conclusione che gli uomini dell’Organizzazione avessero somministrato a Shinichi qualche strano farmaco, in grado di farlo tornare
bambino. Aveva sentito qualche volta in alcuni documentari che ormai i grandi
scienziati e ricercatori erano in grado di creare pillole capaci di dar luogo
ad effetti impensabili per le persone comuni. Forse quegli uomini avevano al
loro servizio qualcuno di questi scienziati.
Ran
si soffermò ancora qualche minuto a pensare a Shinichi
nei panni di Conan. Quando doveva aver sofferto, standole sempre accanto e non
potendole rivelare la verità. Perché non era stata in grado di capirlo? Sentì
un fitta stringerle il cuore. In fin dei conti, era stata una stupida.
Lo
scatto della serratura della porta d’entrata interruppe il flusso dei suoi
pensieri. Era il momento. Nascose la pistola sotto la giacca e uscì dalla
camera. Gin era lì, ritto in piedi.
“E’
ora. Andiamo.”
Ran
lo seguì senza fiatare. I loro passi risuonavano pesanti sulle scalinate che
conducevano al portone di quella palazzina disabitata e malridotta. Prima di
uscire, Ran si guardò indietro. Aveva la strana
sensazione che non sarebbe mai più ritornata lì. Non sapeva se interpretarla
come un bene o come un male: per il momento, decise di non pensarci.
Si
lasciò sprofondare sul sedile anteriore della Porsche e osservò quelle vie male
illuminate scorrerle davanti. Si stavano probabilmente dirigendo verso il
quartiere malfamato di cui Gin le aveva parlato quel pomeriggio. Doveva avere
più informazioni possibili sulla posizione degli altri uomini
dell’Organizzazione: solo in quel modo poteva sperare di riuscire nel suo
intento. Sparare a Gin prima di dover sparare a quell’imprenditore che, per
quanto libertino, era pur sempre innocente. Almeno per quanto ne sapeva. Ebbe
un’altra fitta di rimorso, unita ad un fastidioso senso di colpa. Le bastò
guardare Gin perché la rabbia prendesse nuovamente il sopravvento. Quell’odioso
essere avvolto dal mantello nero le faceva ancora più ribrezzo ora che il buio
della notte non le permetteva di scorgerne distintamente i lineamenti.
“La
mia pistola è scarica.” disse, tanto per non insospettirlo con il suo silenzio.
E poi, una pistola non funzionante non le sarebbe servita ad un bel niente.
“La
caricheremo a tempo debito.” rispose lui.
Ran
si sentì persa per un istante. E se lui avesse capito tutto?, pensò. No, non
poteva essere. Forse sospettava qualcosa, ma di sicuro non poteva leggere i
suoi pensieri. Non era il caso di darsi per vinta.
Fece
nuovamente silenzio e ricominciò a guardarsi intorno. Stavano attraversando
strade malridotte e le continue buche la facevano sussultare sul sedile. L’uomo
invece sembrava impassibile.
Non
c’erano molte persone in giro. Qualche gruppo di ubriachi o qualche donna dai
tacchi alti e dalle minigonne da capogiro camminavano su quei marciapiedi
sporchi. Di tanto in tanto si intravedeva anche qualche uomo che si guardava
intorno con aria circospetta, fermando ogni persona che gli capitasse a tiro e
chiedendole qualcosa che Ran non poteva sentire.
Immaginò che fossero spacciatori. All’improvviso vide un omone camminare,
vestito di nero e con gli occhiali da sole. Era Vodka, non c’era dubbio. Gin
doveva aver sguinzagliato i suoi scagnozzi in giro per l’isolato. Le
probabilità che il suo piano riuscisse erano davvero basse.
Accostarono
circa cinquecento metri più avanti, nei pressi di una casupola da un cartello
luminoso. Un locale notturno. Doveva essere quello il posto.
Gin
spense la macchina e i fari. Poi si accese una sigaretta, mentre Ran si guardava intorno. C’erano solo palazzi bassi in
quella via. Dove poteva essere il famoso cecchino?
“E
allora, dov’è?”
“Chi?”
rispose lui, senza nemmeno guardarla.
“Il
tuo cecchino.”
Inspirò
profondamente prima di rispondere. “La possibilità che piova è troppo alta. Ho
preferito schierare i miei uomini a terra, dove potranno essere più utili.
Dammi la tua pistola.”
Ran
la estrasse dalla giacca e gliela porse. Come immaginava, Gin prese a caricargliela.
Ci mise meno di un minuto. Sembrava abituato a fare cose di quel genere. Ran, da parte sua, non si stupì più di tanto. Quando la
riprese, notò che l’uomo la stava guardando di sottecchi. Uno strano sguardo,
come a dire “non fare brutti scherzi”. Che stupida. Forse l’ansia e la paura le
stavano facendo immaginare tutto.
“Qual
è il piano?” si affrettò a dire, per scacciare ogni tipo di pensiero.
“Entreremo
nel locale, lo attireremo vicino all’uscita sul retro. Non è sorvegliata. Lì
farai quello che devi. E poi ce ne andremo così come siamo venuti. Nulla di più
facile.”
Ran
si chiese se la stesse prendendo ingiro. Come poteva essere facile
ammazzare una persona?
Si
limitò ad annuire ed entrambi scesero dalla macchina. Gin camminava avanti e Ran lo seguiva. L’uomo imboccò una via laterale adiacente
all’entrata e Ran immaginò che volesse entrare dal
retro. Effettivamente, dopo poco trovarono una porticina chiusa. Era l’entrata
di servizio.
“Hai
le chiavi?” chiese lei, a cui l’ansia faceva fare anche le domande più stupide.
Gin non la calcolò nemmeno. Con un colpo di pistola fece saltare la serratura.
Il silenziatore evitò che qualcuno nelle immediate vicinanze potesse sentirli.
Ma comunque, in quel quartiere un colpo di pistola notturno non doveva essere
qualcosa di raro.
Entrarono.
Si ritrovarono in un piccolo corridoio. La musica assordante del locale
giungeva fin lì ovattata, come se si trovassero in una enorme bolla di sapone.
Sul corridoio davano alcune porte, tutte socchiuse. A giudicare da quanto si
poteva intravedere, dovevano essere i camerini delle ballerine. In fondo, vi
era una porta leggermente più spessa. Ran pensò che
si trattasse dell’accesso diretto al locale.
“Ora
zitta e ascoltami.” iniziò lui, “Ci penso io ad attirarlo qui. Basterà dare
qualche soldo ad una ballerina per convincerla a portare il nostro uomo nel suo
camerino. Nasconditi lì.” disse, indicando la prima porta, la più vicina a
quella principale, “terrai la porta socchiusa. Giusto lo spazio per guardare e
sparare. Ora ascoltami attentamente. Una volta tornato, io andrò a posizionarmi
nel camerino più vicino alla porta sul retro. Ci penserò io a finire l’uomo nel
caso in cui tu fallisca. E’ tutto chiaro?”
La
osservava con quei suoi occhi verdi e penetranti. Lei ebbe la sgradevole
sensazione che lui stesse provando a frugarle nell’anima. Non poté fare altro
che annuire, nonostante si sentisse tutto tranne che pronta. Andò a nascondersi
nel camerino indicatole, socchiudendo la porta, mentre Gin si dirigeva
all’interno del locale. Per un attimo la musica assordante le colpì
direttamente le orecchie. Poi, quando l’uomo richiuse l’uscio dietro di sé, i
suoni tornarono di nuovo attutiti. Ora poteva sentire chiaro e distinto solo il
battito del suo cuore, un martellare continuo che le squarciava il petto.
All’interno
della piccola stanzetta c’era un divanetto pieno di vestiti scollati e
parrucche. Scarpe dai tacchi alti erano buttate qua e là sul pavimento. Un
tavolino pieno di matite per occhi, ombretti aperti e rossetti si trovava nell’angolino,
davanti ad uno specchio sporco. Qualche foto era attaccata alla parete.
Ran
strinse la pistola nelle mani sudate e ripassò mentalmente le istruzioni che
aveva sentito quella volta, al commissariato di polizia. Ce l’avrebbe fatta. Si
tolse le scarpe scomode e le buttò fra le tante che erano sparse per la sala.
Sarebbe fuggita a piedi nudi, per correre più veloce. Se fosse riuscita a
fuggire.
Aveva
ormai deciso il momento in cui la sua vendetta avrebbe dovuto consumarsi. Gin
sarebbe rientrato di lì a poco e le avrebbe dato le spalle, per andare a
nascondersi nel camerino in fondo al corridoio, vicino all’entrata. Aveva solo
qualche secondo a disposizione. Non c’era tempo per i ripensamenti. Che
cos’altro poteva fare? Le opzioni erano tre: sparare a Gin, sparare
all’uomo-preda, o sparare a se stessa. Poteva farcela. Doveva farcela.
Quando
sentì la porta che dava sul locale aprirsi, ebbe un fremito. Era il momento. Si
mise in posizione, l’occhio appoggiato sulla fessura tra la porta e lo stipite,
la pistola puntata. Riconobbe i passi dal suono lento e cadenzato. Era lui. E
non sembrava nemmeno tanto preoccupato, a giudicare dalla calma con cui
camminava. Mentre sentiva i passi avvicinarsi, tutta la sua vita le scorse
davanti. Tutta la sua vita, che era stata caratterizzata da una sola persona. Shinichi. Il suo
compagno di giochi, il suo migliore amico, quello che lei si era accorta di
amare troppo tardi per poterlo riavere. I loro pomeriggi al parco da bambini,
quando avevano ancora tanti sogni, che credevano di poter realizzare insieme. I
primi casi in cui Shinichi era stato coinvolto e lei
sempre al suo fianco, nel tentativo di aiutarlo a risolverli. Le loro serate al
cinema, con Shinichi perennemente in ritardo per
essersi fermato troppo al commissariato. Le lavate di capo di suo padre, quando
lei, certe sere, faceva un po’ troppo tardi per avere solo sedici anni. I
pomeriggi passati sui libri, nel tentativo di studiare, che sfociavano poi
sempre in una marea di scherzi e risate. Le prese in giro di Sonoko, che li chiamava i “due piccioncini”. La loro vita
tranquilla e normale, fino a quando non era stata sconvolta dal volo funesto di
quel dannato corvo. E tutto che si concludeva con un piccolo corpicino
abbandonato nei pressi del porto.
Bastardo,
pensò. La sagoma nera era appena passata oltre il suo camerino. Si era fermata.
Si stava girando. Le mani le tremavano. Non era paura, era solo rabbia e
dolore. Strinse più forte la pistola. Lui si stava ancora girando.
Non
avrebbe saputo dire quando incominciò a sparare. Era come in trance. I tre
colpi partirono netti, senza una mira precisa. La vista annebbiata dalle
lacrime le impediva di vedere correttamente. Sentì un tonfo sordo. L’uomo era
caduto a terra. Aprì piano la porta, con la pistola ancora in pugno. Ciò che
vide le provocò un conato di vomito.
Il
Corvo era lì, a terra, un grosso buco all’altezza del collo. Gli occhi
sbarrati, la bocca contorta nel silenzio della morte. Era come un fantoccio, il
volto immerso in una pozza scura. Non poté trattenere il conato. Cadde in
ginocchio, il rancore era sparito come neve al sole. Che cosa aveva fatto? In
quale mostro si era trasformata? Aveva ucciso. Proprio come aveva fatto loro.
Che cosa poteva ora distinguerla da quegli uomini? Le lacrime iniziarono a scorrere.
Era sconvolta, ritornata finalmente in sé dopo due giorni di totale trance. In
che cosa può trasformare l’odio?
A
riscuoterla dai suoi pensieri arrivò il suono della porta che si apriva. Ran alzò lo sguardo. La ballerina ingaggiata da Gin stava entrando,
seguita dalla vittima dell’Organizzazione. Quando la donna vide quell’orrido
spettacolo, lanciò un urlo. Ran prese la pistola,
poggiata a terra, e iniziò a correre, dandosi alla fuga tramite la porta sul
retro.
Correva
all’impazzata per quelle stradine buie. Si sentiva seguita, sapeva che ben
presto Vodka e gli altri scagnozzi si sarebbero accorti di tutto e l’avrebbero
cercata, anche in capo al mondo. L’urlo della donna continuava a riecheggiarle
nella mente e il corpo di Gin, pallido in quel lago di sangue, era
continuamente davanti ai suoi occhi.
Sentiva
il freddo dell’asfalto sui piedi nudi e più di una volta un forte bruciore
intervenne a distrarla dai suoi pensieri senza filo logico. Doveva essersi
tagliata, correndo in quelle strade sporche senza alcuna protezione. Imboccò
una piccola stradina laterale e continuò a correre, incurante dei topi che le
tagliavano a tratti la strada. Poi, d’improvviso, sbatté contro un muro. Quello
era un vicolo cieco. Era lì che l’avevano portata le sue azioni? In una strada
senza via d’uscita? Sorrise amaramente, nascondendosi dietro un barile alto
circa la metà e di lei, e poggiando le spalle al muro. La pistola era ancora
lì, nella sua mano.
Cosa
ne era stato dell’adorabile figlia del detective Mouri?
Della ragazza dolce e gentile, conosciuta da tutti per la sua bontà? Ora era
un’assassina nascosta in un vicolo che puzzava di marcio quanto la sua anima
macchiata.
Si
sentiva al capolinea. E pensare che solo una settimana prima non avrebbe mai
immaginato nulla del genere! La verità l’aveva distrutta e il rancore l’aveva
portata a commettere la peggiore delle azioni. Forse sarebbe stato davvero
meglio non sapere nulla, come diceva Yukiko.
Si
ritrovò a piangere. Quanto le mancava Shinichi.
Avrebbe voluto averlo lì con lei. Eppure ora non si sentiva più degna di lui:
aveva ucciso. E, per quanto la sua vittima fosse stato il più deplorevole degli
uomini, il suo gesto non era giustificabile.
“Perdonami,
Shinichi.” mormorò piano, la voce spezzata dalle
lacrime, “Perdonami. Perché io non ho saputo perdonare loro.”
Le
sembrò di sentire dei passi pesanti nei pressi della stradina dov’era nascosta.
Un omone si stava probabilmente avvicinando. Forse era Vodka o forse era
semplicemente un ubriaco. Si sporse leggermente, per guardare oltre il barile
che la nascondeva. Una figura imponente si stagliavacirca cento metri più avanti. Strinse i denti
e la pistola, preparandosi a combattere la sua ultima battaglia. I piedi
feriti, la mani sporche di sangue e l’anima in mille pezzi.
Un
bagliore improvviso illuminò il vicolo. Poi un suono sordo e potente. Un tuono.
Già, pensò Ran. Per quel giorno avevano previsto
pioggia.
Angolino
autrice:
La scorsa estate ho letto un libro, ma lo
ricordo in gran parte come se l’avessi letto ieri. Ero arrivata all’ultimo
capitolo con una voglia matta di scoprire come l’autore avesse deciso di porre
fine alla storia: ho letteralmente divorato le ultime pagine. Finito il
capitolo, sono rimasta di sasso. Il libro terminava con il protagonista
nascosto tra gli alberi su una collina, con una ferita che gli impediva di
muoversi. Aveva fatto fuggire la sua amata, ma lui non aveva scampo, il nemico
stava arrivando e l’avrebbe presto trovato. E il libro finisce così: lui, steso
e ferito, che imbraccia il fucile e prende la mira contro il comandante nemico.
Nulla di più nulla di meno.
Per qualche interminabile minuto ho
odiato l’autore. Come poteva lasciarmi così? Poi, ho riflettuto un po’ meglio
su quel finale. La parte razionale e cosciente di me mi diceva che ormai il
protagonista era bello che spacciato: anche se fosse riuscito a colpire il
comandante, gli altri l’avrebbero trovato. E comunque, con quella ferita non
sarebbe andato lontano. Eppure, la parte più irrazionale e sentimentale di me
mi diceva che forse, chissà, c’era ancora qualche speranza per lui. E ancora
oggi, a un anno di distanza, quel libro è sempre qui, nel mio cuore, e io penso
a cosa possa essere successo a quel soldato. Dopo aver odiato l’autore per quei
primi minuti, ora lo amo incondizionatamente per aver scelto quel finale che, anche se in fin dei
conti implicitamente lapidario per quanto riguarda la sorte del protagonista,
lascia al lettore la possibilità di sperare, di fare quel libro un po’ suo. Non
cito il titolo del romanzo, per non rovinare la sorpresa a chi eventualmente
avesse intenzione di leggerlo.
Tutto questo per spiegare la fine che ho
voluto dare a questa fan fiction. Anche in questo caso il finale è
oggettivamente lapidario. Eppure c’è ancora la possibilità di sperare: siete
liberi di immaginare ciò che volete sulla sorte di Ran.
Ho voluto che questa storia fosse anche un po’ vostra.
Quando l’ho scritta, circa un mese fa,
dopo aver concluso questo capitolo, mi sono detta: “Basta. Finisce qui.” . Non
so se vi capita, quando scrivete: a volte è la storia stessa che vi dice quando
è giusto terminarla. Spero che sappiate in qualche modo apprezzare la
conclusione che ho scelto.
Per quanto riguarda la fan fiction in sé,
forse devo spendere qualche parola per spiegare il perché di questa trama
assolutamente fuori dagli schemi. Insomma, dopo averla scritta, ho pensato:
“Accidenti. Questo è tutto quello che vorrei non succedesse nel manga.”
Come mai quindi ho scritto una cosa del
genere? Diciamo che in generale in ogni mia storia mi piace sempre inserire un
filo conduttore: se in “Gocce di Sherry” era la libertà, qui è l’odio, il
desiderio di vendetta, il rancore. Ho voluto provare a mostrare come spesso
l’odio può cambiare totalmente un uomo, e come il rancore sia il sentimento più
difficile da vincere. Perché ci domina e ci sottomette, fino a farci diventare
degli strumenti nelle sue mani. Queste riflessioni sono partite da una frase
che ha pronunciato una volta una persona che conosco: “E’ proprio vero che
l’odio comune unisce più di qualsiasi altra cosa.” E purtroppo ha ragione. E’
sempre così: nelle guerre mondiali come nelle storie di vita quotidiana. Se
aggiungiamo il fatto che ho passato un anno di scuola a studiare tragedie greche,
potrete ben capire il mix da cui questa storia è saltata fuori.
Forse, però, ho rappresentato una Ran un po’ tendente all’OOC. Non saprei giudicare, quindi
mi piacerebbe sapere il vostro parere a riguardo: ritenete indispensabile l’
avvertimento OOC?
Spero di essere riuscita a trasmettervi
qualcosa con questa fan fiction. Un ringraziamento grandissimo va a chi ha
recensito, a chi l’ha seguita, a chi l’ha messa tra le preferite o ricordate.
Penso che il grazie più grande vada a Aya_Brea, che ha recensito ogni singolo capitolo e che mi
sostiene sempre. Grazie, Ayetta <3
E questo è proprio un disegno di Ran “Mibbica” che ha fatto lei
dopo aver letto il capitolo 7:
Scusate per queste note finali così
lunghe, ma volevo spendere qualche parola sulla storia. Un’ultima cosa.. chi di
voi ha notato qualcosa riguardo alla frase finale? Mi piacerebbe proprio sapere
se vi siete accorti di una cosina..:)
Grazie ancora a tutti coloro che mi hanno
seguita!