Forte come la morte

di margheritanikolaevna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


 
 
Questa è la mia prima fic su Criminal Minds: ho cercato di documentarmi al meglio anche leggendo alcune storie presenti qui su efp e spero di essere riuscita a rispettare l’atmosfera della serie e i lineamenti fondamentali dei personaggi. Se così non fosse, prego i lettori esperti di Hotch&co. di segnalarmelo, perché ve ne sarò immensamente grata.
Grazie alla carissima stilla_scarlatta che mi ha aiutato fornendomi informazioni senza le quali non sarei riuscita ad andare avanti e lubylover per essere stata, con la sua passione per un telefilm in particolare, involontaria ispiratrice di parte della trama.
E, ovviamente (ma questo è scontato), grazie a chiunque avrà voglia di leggere e lasciarmi un suo parere.
 
 
Forte come la morte è l’amore
 
Capitolo primo
 
“Che altro è la vita dei mortali se non una specie di commedia nella quale gli attori, che si travestono con vari costumi e maschere, entrano in scena e recitano la loro parte finché il regista li fa scendere dal palcoscenico?”.
Erasmo (1)
 
 
Mettimi come sigillo sul tuo braccio/
 Mettimi come sigillo sul tuo cuore…”
 
La voce di Aaron Hotchner risuonava limpida, eppure carica di emozione, sotto le alte volte della cattedrale di Saint Matthew; la penombra solenne delle vaste navate neoclassiche era rallegrata dalle bianche composizioni floreali che ornavano i due lati dell’altare e gli scranni di legno lucido. Nell’aria precocemente tiepida si mescolavano il profumo dei fiori, l’odore dell’incenso e quello delle candele accese.
 
Perché forte come la morte è l’amore/
 Tenace come gli inferi la passione”
 
Guardò uno per uno i visi delle persone che erano intorno a loro, ordinatamente sedute nelle due file di panche davanti all’altare: i suoi familiari, gli amici, i colleghi, tutti erano accorsi per condividere con lui il momento più felice della sua vita.
David, senza nessuna delle sue tre ex mogli ma con un magnifico sorriso a rischiarargli il volto e accanto a lui Reid, con la sua solita espressione timida che rivelava però chiaramente quanto fosse felice di trovarsi lì in quell’occasione.
Jessica, che stringeva la manina di un Jack fierissimo del suo completo blu con tanto di cravatta di seta, versione uguale e ridotta di quella del papà, Sean con la moglie e persino Sam Cooper che, non volendo assolutamente mancare, era riuscito a liberarsi per un giorno dei suoi numerosi impegni di lavoro.
E ancora Will con in braccio il piccolo Henry, il quale aveva preso molto sul serio il compito affidato a lui e a Jack, vale a dire spargere petali di rosa lungo la navata principale al passaggio degli sposi; JJ accanto a lui che tentava senza successo di sistemarsi l’elegante cappellino color albicocca, mentre quello non ne voleva sapere di rimanere al suo posto e le scivolava di continuo sulla fronte.
Morgan senza la fidanzata in carica forse perché - si sa - le migliori conoscenze si fanno proprio ai matrimoni degli amici; Ashley che invece rigirava tra le mani, fissandolo con malcelata curiosità, il libretto dalla copertina marmorizzata sul quale erano stampate le parole della liturgia.
Penelope, infine, l’aveva vista seduta qualche fila più indietro mentre sembrava discutere animatamente con Kevin, il quale aveva tutta l’aria di implorarla di abbassare il tono della voce; non notare il look della ragazza  - e soprattutto il suo sgargiante abito verde pistacchio a fiori rosa - sarebbe stato a dir la verità piuttosto difficile come al solito, ma ciò che abitualmente gli appariva contrastante, anzi quasi stonato, rispetto alle situazioni cupe che erano costretti ad affrontare per lavoro, adesso si presentava invece perfettamente intonato al momento.
Sebbene con addosso quegli abiti eleganti e sul viso un’espressione compunta gli dessero quasi l’impressione di essere degli estranei, si trattava dei suoi più cari amici, di coloro che negli anni precedenti avevano rappresentato quasi la sua unica famiglia, i suoi più intensi rapporti con il mondo.
Era abituato a vedere quelle persone alle prese con quanto di più atroce il genere umano riuscisse a partorire, costantemente immerse in un’atmosfera oscura e opprimente; con loro aveva diviso la fatica quotidiana dell’esistenza, i problemi, la stanchezza e a volte persino la disperazione. Quel giorno invece mangiavano alla stessa tavola il pane di una nuova speranza, bevevano dal medesimo calice una seconda promessa di felicità.
Eh no, stare con lui non era mai stato semplice per nessuno, a volte nemmeno per lui stesso; tutto ciò che Foyet gli aveva fatto e, ancor di più, la tragica morte di Haley avevano peggiorato ulteriormente le cose, trasformando il suo guscio in una corazza durissima da penetrare. C’erano stati momenti in cui non avrebbe mai pensato di poter essere di nuovo felice perché, in fondo, era convinto di non meritarlo nemmeno. Momenti interminabili nei quali si era sentito immensamente fortunato per il solo fatto che gli fosse rimasto almeno Jack da amare e aveva creduto che quel bambino potesse essere l’unica fonte di gioia, per tutto il resto della sua esistenza. 
Eppure, pensò con malinconica dolcezza, la vita alla fine è più forte di tutto: i morti che ci sono cari lasciano dietro di sé un’eco gentile, ma è solo un’immagine lontana, che mentre la guardi impallidisce fino quasi a scomparire.
 
“Le grandi acque non possono spegnere l’amore/ 
Né i fiumi travolgerlo”
 
Continuò.
Per un attimo distolse lo sguardo dalla donna che gli sorrideva, in piedi di fronte a lui, e che tra pochi minuti sarebbe diventata sua moglie. Un rumore di panche smosse e un diffuso brusio di sorpresa avevano attirato all’improvviso la sua attenzione: un uomo di mezza età, con indosso un abito forse un po’ troppo informale per l’occasione, aveva appena attraversato la navata centrale, cercando di fare meno rumore possibile, ed era andato a sedersi in una delle prime file.
Hotch l’aveva riconosciuto immediatamente e subito aveva pensato che quello era il regalo di nozze più bello che potesse aspettarsi; i loro sguardi si erano incrociati per un istante e sul volto abbronzato e segnato dal tempo del nuovo arrivato era apparso un ampio sorriso. Jason Gideon era autenticamente felice per il suo ex collega e non ne faceva mistero.
Come fosse riuscito a saperlo - pensò lo sposo - restava un mistero, dato che nessuno della sua squadra aveva più notizie di lui da anni; da quando cioè era stato visto l’ultima volta in un bar del Nevada, in procinto di lasciare lo Stato e la sua vecchia vita per cercarne una nuova.
Era emozionante rivederlo: anche se era passato tanto tempo, sentiva che il loro legame era rimasto intatto e che quel momento non avrebbe avuto lo stesso sapore senza di lui.
Tornò a guardare la donna al suo fianco, sua moglie, colei cui aveva deciso di legare la sua vita per sempre. Sua moglie… d’ora in avanti per lui quelle due parole non sarebbero state come in passato il sigillo di un dramma, due cicatrici di lettere impresse nella sua anima, bensì nuova speranza, nutrimento nuovo.
Forse a qualcun altro sentir pronunciare una seconda volta quelle solenni formule rituali avrebbe provocato una strana sensazione, un misto di nostalgia e di rimpianto. Non era così, invece, per Aaron Hotchner che si trovava esattamente nell’unico posto al mondo dove avrebbe voluto trovarsi, ebbro della speranza che il matrimonio tornasse ad essere per lui ciò che era per la maggior parte delle persone: gioia, progetto, a volte routine, ma certo non straziante perdita. 
Alcuni dei presenti avrebbero scommesso che tra loro due sarebbe andata a finire così; per quasi tutti gli altri, al contrario, quel matrimonio era stata una vera sorpresa. E lui? Probabilmente dentro di sé aveva sentito fin dal primo momento la forza e la potenza di quel sentimento, anche se poi  - per una infinità di motivi assolutamente ragionevoli e del tutto sbagliati - aveva impiegato troppo tempo per rendersene conto e agire di conseguenza.
Adesso era il sacerdote a parlare: “Vuoi tu, Aaron Hotchner, prendere questa donna come tua legittima sposa per amarla, onorarla e rispettarla tutti i giorni della tua vita, in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà, finché morte non vi separi?”.
“Sì, lo voglio” rispose il federale, scandendo le parole una ad una.
“E tu, Emily Prentiss, vuoi prendere quest’uomo come tuo legittimo sposo per amarlo, onorarlo e rispettarlo tutti i giorni della tua vita, in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà, finché morte non vi separi?”.
Parole che erano veramente sigillo sul suo cuore: un nuovo amore, una seconda occasione per tutti e due.
Una promessa di felicità assolutamente sorprendente.
Lei sorrise e le sembrò di averlo fatto per la prima volta nella sua vita: era un sorriso appena nato, lucente e vergine dell’unica verginità che gli avrebbe donato, quella del suo cuore. Un sorriso dolce come quando le nuvole si disperdono in un soffio, lasciando apparire il cielo azzurro e la luce alla stessa velocità con cui gli angoli della bocca si sollevano e quelli degli occhi si assottigliano; un sorriso puro, radioso, così disarmante da commuovere, sano e innocente.
“Sì, lo voglio” disse, con una voce che rivelò chiaramente a tutti i presenti la profonda emozione di quel momento solenne e insieme assolutamente intimo.
“Con questo anello io ti sposo, per amarti, onorarti e rispettarti tutti i giorni della mia vita, in salute e in malattia, in ricchezza e povertà, finché morte non ci separi”.
“Con questo anello io ti sposo, per amarti, onorarti e rispettarti tutti i giorni della mia vita, in salute e in malattia, in ricchezza e povertà, finché morte non ci separi”.
“Per il potere conferitomi dalla Chiesa vi dichiaro marito e moglie. Che l’uomo non separi ciò che Dio ha unito.
Ora può baciare la sposa!”
Ecco, era fatta.
Stava per scendere la sera, ma l’aria era ancora tiepida: era uno di quei momenti toccanti in cui la terra è così ben intonata agli uomini che sembra impossibile che tutti non siamo felici.
Aaron guardò ancora una volta Emily; sapeva che aveva accettato di sposarsi così per amor suo sebbene, dopo la morte del suo amico Matthew, la Chiesa e tutto ciò che essa rappresentava costituissero per lei una presenza quasi inquietante. Amandolo, aveva capito quanto contasse per lui presentarsi insieme agli occhi del mondo e rafforzare il loro vincolo con un giuramento solenne davanti a Dio.
In fondo anche se conservava i suoi dubbi e le sue paure, lei era felice di averlo fatto, dividendo quella giornata indimenticabile con tutte le persone alle quali voleva bene. Sorrise al pensiero di sua madre: non si era smentita nemmeno stavolta, arrivando in chiesa a cerimonia già iniziata e attraversando la navata sui suoi tacchi ticchettanti in maniera da far voltare tutti gli invitati. 
Emily sospirò: c’erano alcune cose che non sarebbero mai cambiate.
Ma per fortuna ce n’erano altre - e ben più importanti - che potevano cambiare, evolversi, mutare.
Quando aveva conosciuto Aaron, tanti anni prima, lui era all’inizio della sua carriera e aveva ricevuto l’incarico di svolgere una ricerca proprio sulla sicurezza dello staff dell’ambasciatrice Prentiss: quindi, per un singolare scherzo del destino, se l’uomo che quel giorno aveva sposato era entrato nella sua vita lo doveva al lavoro di sua madre!
Dapprima si erano studiati con reciproca diffidenza, acuita in seguito dal suo improvviso trasferimento alla BAU e dalle manovre sotterranee della Strauss per spingerla a sabotare la carriera di Hotch;  quando però lei aveva preferito rassegnare le dimissioni per non tradirlo, mettendo così a repentaglio la sua stessa carriera, si era resa conto che c’era qualcosa di profondo che la legava indissolubilmente a quell’uomo serio, schivo, all’apparenza freddo e distaccato.    
Da quel momento la loro confidenza era cresciuta: lui si era esposto di persona per aiutarla a risolvere un caso che le stava molto a cuore, cercando di ottenere l’indagine sebbene non rientrasse strettamente nelle competenze della loro squadra, lei era stata la prima a insospettirsi per la sua assenza, a correre a casa sua e a trovare le tracce della spietata vendetta di Foyet. Emily tentò di scacciare quelle immagini atroci dalla mente: inutile, aveva ancora davanti agli occhi tutto quel sangue, il suo sangue, sparso sul pavimento…
Anni dopo, quando Ian Doyle l’aveva quasi uccisa, lui era stato il solo insieme a JJ a sapere che la sua morte era stata una messinscena, accettando di sopportare il peso di un segreto terribile e di mentire a tutti i suoi amici per proteggerla.
Tutti e due avevano il corpo e l’anima segnati da cicatrici, alcune quasi scomparse, altre che non sarebbero mai guarite completamente.
Eppure entrambi volevano vivere ed essere ancora una volta felici, nonostante tutto il male, a dispetto di tutto il dolore.
Emily sorrise, guardando le loro mani intrecciate e il semplice anello d’oro che lui le aveva appena messo al dito e che avrebbe racchiuso, nella sua piccola circonferenza, in uno spazio tanto breve una così grande felicità.
Dio sa se non aveva voluto innamorarsi di lui e quanto era stato difficile ammetterlo.
Eppure, Dio sa come se n’era innamorata!
“La porta dell’avvenire sta per aprirsi davanti a noi” pensò tenendolo per mano.
“Sta aprendosi lentamente. Io sono sulla soglia; c’è soltanto questa porta e ciò che vi è nascosto dietro, ma io non ho paura”.
 

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


Capitolo secondo
 
SEI MESI DOPO
 
“La luce crede di viaggiare più veloce di ogni altra cosa, ma si sbaglia. Per quanto veloce viaggi, la luce scopre che l’oscurità arriva sempre per prima ed è lì che l’aspetta” (Terry Pratchett) (2)
 
Aaron Hotchner, con uno dei gesti misurati che gli erano propri, posò tre fotografie ben in vista sul piano di plastica lucida esattamente davanti all’uomo che era seduto, i polsi stretti dalle manette, dall’altra parte del tavolo.
Circa quarant’anni, né alto né basso, qualche capello bianco, nessun segno particolare, un volto assolutamente comune: una persona facile da dimenticare o da non notare nemmeno.
Peccato che con ogni probabilità quell’uomo comune fosse anche l’assassino delle tre giovani donne raffigurate nelle fotografie che il poliziotto gli aveva appena mostrato: ragazze che non si conoscevano tra di loro e che non avevano nulla in comune tranne l’età, scomparse tutte da piccoli borghi del Montana nell’arco di un paio di mesi, otto anni prima, senza lasciare traccia, senza un messaggio di addio alle famiglie né alcuna spiegazione plausibile che lasciasse credere a un allontanamento volontario. Casi archiviati perché non era stata trovata nessuna prova che rivelasse se erano ancora vive o, invece, morte.
Questo finché un gruppo di escursionisti, durante una passeggiata in un bosco, non aveva visto qualcosa di insolito sporgere dal terreno dilavato dalle piogge, quell’inverno particolarmente abbondanti.
Le ossa rinvenute appartenevano a tre scheletri completi, la conformazione del bacino aveva chiarito che trattavasi di individui di sesso femminile e la struttura delle articolazioni rivelava che, al momento della morte, tutte e tre le vittime non avevano più di venti anni. I poveri resti erano sepolti assieme in un’unica buca poco profonda, scavata accanto al capanno che l’uomo occupava durante le sue occasionali battute di pesca.
Risalire a lui non era stato difficile, ma ora restava da capire come quel tipo si sarebbe mosso e se sarebbero riusciti a cavargli qualcosa di bocca; e qui entrava in gioco l’abilità dell’ex pubblico ministero Hotchner a condurre gli interrogatori.
“Allora, signor Irving…”  esordì il federale con voce atona, sedendosi senza alcuna tensione apparente proprio di fronte all’uomo che, invece, lo fissava con un’espressione carica di nervosismo. Toccò con l’indice l’immagine di uno di quei tre volti ignari e sorridenti come erano stati in vita e riprese, senza distogliere lo sguardo da quello dell’altro.
“ Guardi queste…”.
Non completò la frase perché all’improvviso la luce si spense davanti ai suoi occhi per una frazione di secondo. Buio. Buio totale.
Aaron Hotchner sbatté le palpebre incredulo e boccheggiò in cerca di ossigeno. Cercò di riprendersi ma non ci fu niente da fare: era completamente bloccato, le parole non gli uscivano.
Il tutto non durò che pochi - eppure interminabili - secondi alla fine dei quali l’investigatore, col respiro spezzato, si alzò di soprassalto evitando di incrociare lo sguardo sbalordito del sospettato e uscì precipitosamente dalla stanza.
Non riusciva a ragionare lucidamente, sentiva solo il bisogno di restare da solo per qualche minuto e tranquillizzarsi. E tentare di capire cosa gli stesse accadendo tutt’a un tratto.
Percorse quasi di corsa il corridoio che lo separava dal bagno degli uomini. Poche decine di metri lungo i quali incontrò David Rossi che, immaginandolo intento a torchiare il signor Irving, gli rivolse un’occhiata interrogativa e aprì la bocca per dirgli qualcosa; il gesto frettoloso con cui il collega lo bloccò, continuando il suo percorso senza fermarsi neppure un istante per parlare con lui, convinse l’ex scrittore che c’era qualcosa che non andava.
Chino con i gomiti, lasciati scoperti dalle maniche della camicia arrotolate, appoggiati sul lavandino, Aaron Hotchner aprì il rubinetto e si frizionò energicamente il viso con l’acqua fredda; il contatto con il liquido gelato lo riportò sulla terra, schiarendogli all’istante il cervello.
Respirò profondamente senza tuttavia riuscire a calmare i battiti accelerati del cuore. Una domanda angosciante gli attraversò la mente: cosa gli era successo pochi minuti prima?
 
***
 
Emily Prentiss era seduta alla sua postazione e sfogliava senza troppo entusiasmo i documenti contenuti in una delle tante cartelline gialle che giacevano impilate sulla scrivania, accanto alla tazza di caffè ormai gelato che quel giorno aveva costituito il suo unico pranzo.
Davanti ai suoi occhi scorrevano le pagine di un’autopsia: non era certo la prima che leggeva e anzi - con il tipo di lavoro che si era scelta e con tutto ciò che aveva visto durante gli anni che aveva trascorso alla BAU - l’ultima cosa che si sarebbe aspettata di provare facendolo fu l’improvviso e violentissimo attacco di nausea che l’assalì, facendola piegare in due e riempiendole la bocca di saliva.
Si alzò in piedi di scatto, ma immediatamente comprese che non era stata una buona idea: vacillò, migliaia di lucine colorate le offuscarono la vita e forse sarebbe caduta a terra se JJ, che era nella stessa stanza, non fosse subito corsa accanto a lei e non l’avesse sorretta, facendola poi sedere di nuovo.
 
***
 
“Non è necessario, JJ, ti prego, andiamocene” disse Emily all’amica “Tra l’altro mi sento molto meglio! Sarà stata solo un’ipoglicemia, dato che oggi ho saltato il pranzo”.
L’altra scosse la testa e le sorrise; le due donne erano sedute, l’una accanto all’altra, nella sala d’attesa dello studio della ginecologa che aveva seguito l’agente Jareau mentre era in attesa di Henry. La camera non era molto vasta, ma era piena di luce e dalle grandi fotografie appese alle pareti tinteggiate di un vivace giallo ranuncolo faceva capolino almeno una decina di bellissimi neonati: maschi e femmine, bianchi, di colore, asiatici, ma tutti ugualmente incantevoli.
“Quando io ho avuto giramenti di testa e nausea ho fatto il test …” rispose JJ con intenzione.
“Ma non è possibile!” ribatté l’altra, le mani giunte in grembo e l’espressione perplessa.
Questa volta la bionda rise di gusto.
“Come sarebbe a dire che non è possibile? Sei tornata da pochi mesi dal tuo viaggio di nozze e non credo che Hotch sarebbe contento di sentirti dire una cosa del genere!” esclamò di rimando.
Emily abbozzò un sorrisetto e distolse lo sguardo.
“No, cioè ” rispose, esitante e un tantino imbarazzata “è possibile tecnicamente, ma … e poi questo mese ho avuto il ciclo” concluse.
“Beh, magari erano solo delle perdite” fece l’altra, stringendosi nelle spalle “e comunque tra non molto lo sapremo!”.
***
“Signor Hotchner, sono il dottor Bancroft e questo è il radiologo, il dottor Reiting”.
Il neurologo, un signore sulla sessantina con una gran massa di capelli bianchi e un sorriso aperto, strinse la mano al nuovo paziente che era appena entrato nel suo studio e allo stesso tempo indicò con un cenno del capo il collega, di qualche anno più giovane e con una strana voglia violacea che gli copriva il lato destro del viso, che era accanto a lui.
Dopo che si furono seduti tutti e tre il dottor Bancroft iniziò a parlare.
“Oltre a ciò che mi ha raccontato a telefono, ha avuto qualche altro sintomo di recente? Disturbi alla vista, emicrania?” chiese.
Hotch ci pensò un istante e poi rispose: “Niente di rilevante, qualche dolore articolare perché mi sto allenando intensamente per una gara di triathlon e un po’ di mal di testa … alcuni anni fa sono rimasto coinvolto in un’esplosione e da allora mi capita, a volte”.
“È sotto stress in questo periodo?” domandò ancora il medico.
L’altro accennò un lievissimo sorriso che era quasi una smorfia pensando che, se quel dottore dall’aria bonaria avesse saputo che lavoro faceva, senza dubbio non gli sarebbe mai venuto in mente di fargli una domanda del genere. La sua risposta, che suonò più secca di quanto non fosse nelle sue intenzioni, fu solo: “E chi di noi non lo è?”.
“Va bene” concluse l’altro alzandosi in piedi, seguito subito dagli altri due uomini.
“Da quello che mi ha detto, potrebbe trattarsi di un’emicrania atipica o di cerebrite” aggiunse guardando il collega: “Ma comunque facciamo una TAC per essere sicuri”.
 
***
“Ecco fatto, signora Prentiss!” disse la dottoressa Angela Di Maio sciogliendo il laccio emostatico dal braccio di Emily e poi riversando il sangue che le aveva appena prelevato dalla siringa in una boccetta col tappo bianco.
“Nel giro di qualche giorno avremo i risultati anche se, sulla base di ciò che mi ha appena raccontato, è estremamente probabile che lei sia incinta”.
“Dottoressa…” esclamò la poliziotta, sistemandosi la manica della camicia che aveva tirato su pochi minuti prima; fece per dire qualcosa, ma poi si fermò.
L’altra percepì la sua esitazione e le chiese se per caso avesse qualche altra domanda da rivolgerle.
“Ecco” disse Emily dopo un attimo di silenzio durante il quale cercò lo sguardo di JJ come per ottenerne sostegno nel rievocare gli attimi dolorosi del suo scontro con Ian Doyle “Non molto tempo fa ho subito un’aggressione, sono stata ferita gravemente all’addome e allora i medici mi dissero che questo poteva forse rendere più difficile un’eventuale gravidanza…”.
La donna sorrise dolcemente e le mise una mano sulla spalla.
“Non è tanto infrequente che uno di noi sbagli!” replicò in tono gioviale “Comunque se si stende sul lettino, signora Prentiss, adesso facciamo un’ecografia, così saprà immediatamente…”
 
***
 
Disteso perfettamente immobile all’interno dell’apparecchio per la TAC, Aaron Hotchner tentava di mantenere la calma, sforzandosi di ignorare quanto quell’angusto abitacolo somigliasse già a una tomba; trasse un respiro profondo e s’impose di razionalizzare la paura. In fondo, le possibilità che fosse qualcosa di veramente grave erano pochissime: era un uomo ancora giovane, sano, aveva praticato sport con regolarità… certo, suo padre era morto di cancro, ma la malattia aveva aggredito i polmoni e comunque non era dimostrata l’incidenza della familiarità nei tumori al cervello. Deglutì a vuoto. Gli doleva un po’ la testa e si sentiva vagamente nauseato.
In quel momento - pensò, rasserenandosi appena - gli avrebbe fatto comodo avere intorno Reid con la sua sconfinata cultura enciclopedica: certamente il ragazzo sarebbe, infatti, riuscito a citare qualche dato statistico sulla percentuale di sviluppo del cancro in soggetti di sesso maschile e di età inferiore ai cinquant’anni e quelle nude cifre, magari, avrebbero finito col calmarlo. O almeno lo avrebbero distratto per il tempo necessario a concludere quella tortura.
 
***
Un’ecografia transvaginale non è mai un’esperienza particolarmente piacevole e lo è ancor meno se, come nel caso di Emily Prentiss, la si associa a ricordi dolorosi provenienti da un passato lontano ma mai dimenticato.
Stesa sul lettino, gli occhi strettamente serrati, le gambe sui sostegni, il manipolo freddo come il ghiaccio che entrava dentro di lei provocandole un senso di leggero fastidio, l’agente attese con ansia che sullo schermo alle spalle della ginecologa comparissero le prime immagini. Ma più veloce di esse  - e infinitamente più rivelatore - fu il suono che subito riempì la stanza: era un tamburellare ritmico, rapidissimo, quasi precipitoso.
Prima che la dottoressa parlasse Emily aveva già capito e l’emozione l’aveva travolta: un piccolo cuore nuovo di zecca pulsava dentro di lei, una nuova vita fioriva nel suo ventre!
Lacrime di felicità le offuscarono la vista: come era possibile - pensò confusamente - che lo stesso identico evento che venti anni prima le era apparso un incidente di percorso, solo uno sfortunato accidente da risolvere al più presto, adesso invece riuscisse a colmarle il cuore di una gioia tanto intensa che doveva faticare per non mettersi a ridere come un’isterica?
Certo all’epoca aveva quindici anni, era una ragazzina sola e confusa, sperduta in un paese straniero…ora al contrario aveva sposato l’uomo che amava e quel bambino era esattamente ciò che mancava per rendere la loro vita perfetta.
Perfetta.
Era stato Declan a farle scoprire di possedere un istinto materno, ma quella era stata una cosa completamente diversa… con lui, col figlio di Ian, chi poteva dire dove finiva la compassione per una creatura sfortunata e dove cominciava l’affetto?
No, stavolta sarebbe stato tutto differente. Meravigliosamente differente.
Non era mai stata una persona religiosa e anzi, dopo ciò che era accaduto a Matthew, il suo disinteresse per la fede si era addirittura trasformato in astio nei confronti di coloro che la rappresentavano; eppure, nonostante ciò, in quell’istante Emily Prentiss rivolse un pensiero di gratitudine a Dio per averle concesso quella seconda opportunità, per averla evidentemente perdonata più di quanto non fosse riuscita a fare lei stessa.
 
***
Il dottor Bancroft non aveva paura di parlare con i malati terminali; apprensione era la parola più adatta. Prima doveva respirare profondamente e poi cercare di essere “aperto”, di sentire le vibrazioni nella stanza e di rispettare i tempi dei pazienti. Dire la verità, senza creare false aspettative, ma allo stesso tempo tenendo pur sempre viva almeno una speranza: c’erano pazienti dominati dalla paura di sapere e altri che invece avevano bisogno di ascoltare un parere assolutamente sincero.
Però, come aveva sperimentato nei suoi lunghi anni di carriera, la maggior parte delle persone non muore pacificamente: vi è un'angoscia tremenda che non c'entra niente con la malattia, ma è la pura paura della morte, dell'ignoto, della fine. E, lo sapeva, in questo non fa differenza l’essere credente oppure no.
Ora guardava l’uomo seduto di fronte a lui e pensava a come dirgli che stava per morire.
“Qual è il verdetto?” chiese Aaron Hotchner.
Al dottor Bancroft era sembrato un uomo estremamente razionale, controllato, persino freddo, eppure in quel momento non era riuscito a nascondere del tutto il tremito che gli incrinava la voce.
Il medico guardò ancora una volta le lastre, come sperando che il loro contenuto potesse magicamente cambiare tutt’a un tratto.
Poi rispose: “Purtroppo c’è una massa di circa quattro centimetri e mezzo nel lobo temporale e la TAC ha rivelato anche un’altra formazione, più piccola, nel lobo frontale”.
L’altro non disse nulla e non aprì nemmeno la bocca per parlare, come inebetito dal colpo appena ricevuto.
Il medico riempì il silenzio di ghiaccio che era calato nella stanza.
“Occorrono chiaramente altri esami ma, in base alla risoluzione delle immagini e tenuto conto della forma e della dimensione delle masse, io e il dottor Reiting riteniamo possa trattarsi di un glioblastoma multiforme”.
“Masse”… “glioblastoma” queste parole turbinavano confusamente nella mente sconvolta di Aaron Hotchner.
Concatenazioni di lettere vuote, prive di significato…
Se non fosse che ciò che quelle parole descrivevano l’avrebbe ucciso. Perché di questo era certo, l’aveva visto con chiarezza negli occhi del medico mentre gli stava parlando: era troppo abituato a leggere nell’animo di chi aveva davanti, tanto che si trattasse di un pericoloso S.I. quanto di un medico dall’aria gentile.
Strinse convulsamente le mani intorno ai braccioli della sedia e deglutì, serrando le mascelle.
“Quanto è grave?” domandò tuttavia, spinto dalla speranza di essersi sbagliato.
L’altro represse un sospiro e distolse lo sguardo.
“Le consiglio di sentire anche un altro parere, domani sarà in studio un collega oncologo e potremo chiedere a lui un consulto…”.
“No” pensò Hotch, scattando all’improvviso in piedi “Non voglio essere ingannato. Devo sapere la verità!”.
“Qual è la prognosi?” insisté, le mani strette a pugno, la bocca contratta in una smorfia di dolore.
Il medico attese un istante prima di rispondere e quando lo fece scelse le parole una a una, con estrema attenzione: “La speranza di vita media è di tre-sei mesi. Del 10% dopo un anno”.

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Capitolo 3
*** Epilogo ***


Epilogo
 
Quella sera
 
Il posto in cui amiamo è la casa, la casa che i nostri piedi possono lasciare, ma non i nostri cuori” (Oliver Wendell Holmes) (3)
 
L’agente speciale supervisore Aaron Hotchner esitò un istante prima di infilare la chiave nella toppa ed entrare nel suo appartamento; in verità - non riuscì a impedirsi di pensare - quando lui ed Emily si erano sposati lei si era semplicemente trasferita a casa sua per non modificare le abitudini di Jack, che adorava quel quartiere e aveva lì tutte le sue amicizie. Tuttavia, il loro progetto era di comprare una casa più grande, avevano anche discusso qualche volta di come sarebbe stata…
Progetti, speranze.
Tutto svanito, polverizzato, cancellato all’improvviso.
Quel pomeriggio, sebbene in ufficio avessero bisogno di lui per sbrogliare il caso Irving, non era riuscito a trovare la forza per tornarci e affrontare la sua squadra, i suoi amici, con la morte nel cuore; voleva bene a quelle persone, si fidava di loro, eppure ancora una volta non era riuscito a condividere il suo privato.
Certo, presto o tardi avrebbe dovuto farlo: forse tra poco non sarebbe riuscito a nascondere il suo stato, però prima doveva parlarne con Emily. Era giusto così.
Aveva guidato per un po’ senza meta ma poi, quando la tensione si era fatta insostenibile, si era fermato in un caffè e, servendosi del suo portatile, aveva fatto una cosa che solo fino a poche ore prima avrebbe giudicato stupida e puerile. Pericolosa persino.
Era terrorizzato, ma l’incertezza era peggio di tutto: doveva sapere, aveva bisogno di capire.
Su internet aveva scoperto che il glioblastoma multiforme era il più maligno dei tumori della glia, un piccolo infido figlio di puttana ad alto rischio di recidiva e molto resistente alle terapie; l’unica speranza era un intervento chirurgico ma, date le dimensioni e la collocazione delle masse, il rischio di non uscire vivo dalla sala operatoria era piuttosto elevato.
E poi come si sarebbe ridotto? Col passare dei mesi avrebbe progressivamente perso la vista, la parola, la coscienza? O, peggio ancora, sarebbe rimasto fino alla fine cosciente ma incapace di muovere un solo muscolo?
La mente - la sua mente brillante - sulla quale aveva sempre fatto affidamento l’avrebbe ben presto tradito, offuscata dal male.
Com’era inevitabile, il pensiero corse a Jack e a Emily: lei si era dimostrata in passato una donna incredibilmente forte e coraggiosa, sarebbe riuscita a riprendersi, ma Jack, Jack era ancora così piccolo! Aveva già affrontato la morte della madre e adesso avrebbe perso anche lui.
Una rabbia folle lo travolse a quel pensiero; si passò una mano sul viso pallido e stravolto e dovette chiamare a raccolta tutte le sue residue energie per non mettersi a urlare.
Dannazione, perché? Perché era toccato proprio a lui?
Era un uomo onesto, aveva cercato di agire sempre correttamente, facendo del bene e combattendo il male anche quando ciò aveva significato mettere a repentaglio la propria vita e quella dei suoi cari! Innumerevoli volte si era trovato faccia a faccia con avversari crudeli, folli, spietati; ma erano pur sempre esseri umani, individui che potevano essere fermati grazie a un’indagine ben condotta o a un colpo di pistola. Aveva vinto sempre, con loro.
Invece ora che il suo nemico era il proprio stesso corpo lui, l’agente speciale supervisore Aaron Hotchner, ex pubblico ministero, ex SWAT, uomo di eccezionali abilità investigative, sarebbe stato sconfitto. Aveva perso. Aveva già perso. 
Attese ancora un istante e poi aprì la porta.   
Emily.
Quel nome gli attraversò la mente all’improvviso.
Era riuscito fino ad allora a tenere a bada il desiderio di chiamare sua moglie e raccontarle tutto: che senso avrebbe avuto darle una notizia del genere per telefono? Ma adesso l’avrebbe vista, stretta tra le braccia, avrebbe diviso con lei la sua paura e la sua angoscia. E forse accanto a lei e a Jack sarebbe riuscito a trovare un po’ di conforto.
 
***
Quando entrò in casa, trovò Emily intenta a tirare fuori la spesa da due ampi sacchetti di carta, traboccanti di ogni ben di Dio.
Hotch si guardò intorno e, sentendo che l’appartamento era insolitamente tranquillo e silenzioso, le chiese dove fosse Jack.
Emily gli si avvicinò con dipinta sul viso un’espressione indecifrabile.
“Jack è andato a studiare a casa di Jessica e mi ha chiesto il permesso di rimanere a dormire dai cuginetti” rispose “ho pensato che non ci fosse niente di male, il tuo cellulare era spento e quindi gli ho detto di sì”.
Poi, notando l’espressione del marito aggiunse, quasi timorosa: “Ho fatto male?”.
L’uomo scosse debolmente il capo.
“No, non preoccuparti, hai fatto bene” rispose. La sua voce suonò strana, quasi stonata.
“Emily, devo dirti una cosa…” aggiunse.
“Anch’io!” esclamò lei all’improvviso e, prima che lui potesse dire altro, gli afferrò la mano e lo trascinò verso il tavolo dove aveva appoggiato la borsa; ne tirò fuori una specie di foto confusa in bianco e nero e gliela mostrò con aria trionfante. Allo stesso tempo, guardandolo esattamente negli occhi, disse: “Ascolta, so che siamo sposati da pochi mesi, che Jack è ancora piccolo e che forse non è il momento più adatto, ma” esitò un istante, travolta dall’emozione.
“Sono incinta! Questa è l’ecografia!”.
Lo gridò e gli gettò le braccia al collo. Hotch ricambiò il suo abbraccio e anzi la strinse a sé più forte che poteva aggrappandosi disperatamente a lei come se, facendolo, avesse potuto sperare di non perderla; gli occhi colmi di lacrime di felicità e di dolore, nel cuore gioia e disperazione egualmente mischiate come non avrebbe mai creduto possibile.
“Ti amo, ti amo tanto” mormorò.
Sorrise, mentre il suo cuore segretamente si consumava.
Emily notò quel turbamento e un po’ se ne sorprese; anzi, le parve meraviglioso che un uomo come lui si commuovesse tanto per una notizia del genere.
“Sono così felice!” gli bisbigliò all’orecchio “E sono certa che anche Jack lo sarà!”.
“Tesoro” gli disse poi, carezzandogli dolcemente il volto “Tu invece cosa dovevi dirmi?”.
Per tutta risposta lui la strinse ancora di più, le baciò piano le labbra e rispose: “Non preoccuparti, non era niente d’importante”.
 
***

 

 
Era notte fonda, eppure Aaron Hotchner era perfettamente sveglio; sdraiato su un fianco, il gomito appoggiato sul cuscino, fissava la donna accanto a lui, invece profondamente assopita. Emily dormiva, con un braccio leggermente sollevato dietro la testa in una posa graziosa e le labbra appena dischiuse, sul volto un’espressione di piena serenità.
Lui se ne stava lì cercando di non far rumore e la guardava, ascoltando il ritmo regolare del suo respiro e il battito del suo cuore.
Era conosciuto come un uomo che nessuno aveva mai visto piangere, eppure per la seconda volta in quel giorno le lacrime gli bagnarono le ciglia; le asciugò col dorso della mano e si avvicinò alla moglie. Si chinò su di lei, l’abbracciò piano e accostò il mento al suo viso.
“Dio sa quanto vorrei svegliarti in questo momento, quanto avrei bisogno di raccontarti tutto… eppure il cuore mi dice di non farlo. Lo farò domani, o forse no. Perciò dormi, io non ti sveglio” mormorò dolcemente contro la sua spalla.
“Dicono che per quelli come noi una notte di sonno tranquillo, a riparo dagli incubi, abbia un valore inestimabile; per gli altri magari non è molto, ma è tutto ciò che posso darti adesso. Tu mi hai regalato un’immensa felicità e io in cambio una notte di buon sonno. 
Dormi bene, amore mio, e sogna il futuro che non avremo, la vita che non avrai insieme a me”.
Hotch si alzò dal letto cercando di fare meno rumore possibile, attraversò silenziosamente l’appartamento, giunse nel salotto e aprì appena la finestra, sporgendosi poi per guardare fuori; l’aria fresca della notte e un vento leggero che portava i suoni della città gli accarezzarono il viso.
Negli ultimi minuti doveva essere caduto un lieve scroscio di pioggia: l’atmosfera era umida e greve, tutt’intorno ai lampioni tremolava una nebbiolina iridescente e i marciapiedi deserti qua e là rilucevano.
“Forse questo è tutto ciò che avrò ora dalla vita. Forse questa è la mia vita e, invece di durare settant’anni, durerà sei mesi, o forse tre. Centottanta giorni, o forse solo novanta.
È possibile vivere una vita piena in sei mesi? In tre mesi? Sei mesi come se fossero sessant’anni?”.
Il pensiero giunse a Jack, a Emily, al bambino che sarebbe nato e del quale probabilmente non avrebbe mai neppure visto il viso; ripensò a ciò che aveva vissuto accanto ad Haley e a come fossero stati, almeno all’inizio, veramente felici.
E di nuovo a Jack: a Jack neonato col suo visino d’angelo mentre dormiva, le lunghe ciglia, la delicata pelle bianca totalmente indifesa e il suo odore infantile. A Jack che correva dietro al pallone, gridando a squarciagola, gli occhi raggianti di entusiasmo.
E a Emily, oh, Emily…
“Sei uno sciocco, smettila!
La maggior parte delle persone non ha mai avuto la fortuna di amare qualcuno; tu invece l’hai avuta e non solo una volta, ma addirittura due.
E questa, che duri tutta la vita o solo sei mesi, è la cosa più importante che possa capitare a un essere umano; è vero, tu la possiedi e sei fortunato, anche se tra poco morirai.
Questo è ciò che accadrà, che sta già accadendo. Devi riconoscerlo e capire che non avrai nemmeno più un anno accanto a lei: non un lungo percorso, non vivere insieme, non tutto ciò che la gente si sente in diritto di desiderare.
Non tempo, non felicità, non vecchiaia.
Non vacanze in campagna, nessun altro Natale davanti al camino.
Niente svegliarsi insieme, né addormentarsi l’uno accanto all’altra.
Come ha detto il prete? “In ricchezza e in povertà, in salute e malattia, finché morte non vi separi”. E così sarà: sei mesi, tre mesi forse, per amare, onorare e rispettare fino a che la morte non ci separerà.
Un’intera esistenza in pochi mesi.
Ami questa donna e davvero l’avrai per tutta la tua vita; anche se la tua vita durerà solo sei mesi.
Se allora il tuo futuro scambierà i suoi settant’anni con sei mesi, con tre mesi, con un mese solamente, almeno ora hai tutto questo e hai anche la fortuna di esserne consapevole.
Per te non esiste più “il resto della vita”, è un’espressione che non ha più senso: c’è solo oggi, non c’è più domani. E allora meglio apprezzare ogni momento.
Se non c’è futuro, c’è almeno il presente”.
Aprì di più la finestra e guardò in alto: proprio sopra di lui, tra le nubi color inchiostro, balenava come un piccolo foro turchino, immensamente profondo.
Lo fissò e all’improvviso si accorse - e fu per lui come se ciò avvenisse per la prima volta -  dell’incredibile altezza del cielo.
 
 
“Siamo nati soli, viviamo soli, moriamo soli. Solo attraverso l’amore e l’amicizia possiamo creare l’illusione, per un momento, di non essere soli”. (Orson Welles) (4)
 
FINE.

 
 (1) la frase è pronunciata da  Hotchner  nella puntata 3x6;
 (2) la frase è pronunciata da Reid nella puntata 4x20;
 (3) la frase è pronunciata da Hotchner nella 5x10;

 

 (4) la frase è pronunciata da Rossi nella puntata 7x3.

Note: questa fic intende da un lato rispettare la “forma” della serie sia dal punto di vista delle sotto-trame che per le citazioni che scandiscono le varie parti della storia e, dall’altro, mostrare invece qualcosa che non c’entra nulla con i casi con i quali i protagonisti devono confrontarsi quotidianamente. Qui il male e il dolore non sono da addebitare a un S.I. sadico, ma a qualcosa di infinitamente più subdolo, che nemmeno la persona più forte, razionale e composta riuscirebbe ad affrontare senza crollare.
Insieme al male, come spesso accade, arriva però il bene: in questo caso, il bene aumenta il tormento e il rimpianto oppure allevia il male?
Nel finale riemerge la forza del protagonista, anche di fronte a un’inaccettabile ingiustizia; l’amore, la consapevolezza di non essere comunque solo costituiscono l’unico conforto possibile.
Chiaramente Beth non esiste o, quanto meno, non ha nessun particolare peso nella vita di Hotch; la ff dovrebbe collocarsi nella settima stagione di CM, una volta risolta la questione Doyle e immaginando - come dicono alcuni spoiler -  il ritorno di JJ nella squadra. Ho quindi eliminato Ashley dal contesto lavorativo (rimane solo come amica), ipotizzando appunto il rientro dell’agente Jareau al suo posto.
La cattedrale di Saint Matthew è situata a Washington.
Le frasi della liturgia sono tratte dal “Cantico dei Cantici” di Re Salomone (epilogo).
Segnalo un lievissimo spoiler di un aforisma pronunciato nella 7x3.

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