A midnight tale

di KatnissGrey
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Growin' up ***
Capitolo 2: *** Memories ***
Capitolo 3: *** My mum's story ***
Capitolo 4: *** Best friends are like air. ***



Capitolo 1
*** Growin' up ***


La notte ed il buio non rasserenavano affatto la piccola Elizabeth. Continuava a lamentarsi con la madre, e a chiederle di andar via da quel brutto posto. Il cimitero di notte non era affatto una buona idea, e perfino una bambina di undici anni ne era pienamente cosciente.
-Mamma, mamma andiamo via per favore.- Chiedeva da mezzora alla donna. Ma la madre, impassibile, ogni volta le rispondeva con lo stesso tono piatto e freddo di sempre. –Resta dietro le mie spalle, e non ti muovere. Non possiamo andar via.-
La stessa cantilena durava ormai da un po’, quando Elizabeth decise di voltarsi e muovere le gambette agili ed esili via dal cimitero, trascinando con sé la madre. Ma forse, voltarsi, è stata la scelta peggiore per la bambina. Nel momento esatto in cui si voltò, qualcuno, o qualcosa, non avrebbe saputo dirlo, aggredì la madre, che cadde di colpo a terra, come svenuta. Senza nemmeno accorgersene, Elizabeth prese a correre, il più veloce possibile e quando arrivò al cancello lo scavalcò, per poi correre di nuovo fino alla città.
Per svariato tempo, fu ricoverata in ospedale, poi venne il padre a prenderla per portarla a casa, al sicuro e lontano da lì.
Correva il 1950,ed io, Elizabeth Stone, ho visto mia madre morire. Adesso voglio scoprirne la causa, e non mollerò facilmente.


Primo capitolo-Growin’ Up



E’ il 1958, ho ormai diciassette anni e frequento il penultimo anno al liceo classico della mia città. L’anno prossimo mi trasferirò, per l’università, ed il mio amorevole padre ha deciso di accontentarmi. Frequenterò, con mia grandissima felicità, la facoltà di Medicine and Surgery a Londra! Londra è la città dai mille misteri, la città che ho amato fin da quando avevo tredici anni. Non è stato il mio primo viaggio, quello a Londra, ma è stato di certo quello che mi ha colpito di più. Non la ricordavo così, assolutamente no. Eppure, è la mia città natale, la città che ha ucciso mia madre. Ma ora, alla luce dei fatti, sono sempre più convinta che sia la città dove mia madre è stata uccisa.
I ricordi di quella notte sono sfuocati, ma il dolore è ancora acceso e forte, e non si è mai attenuato. Cosa l’abbia uccisa, non l’ho capito, ma ho lottato per vedere il suo cadavere. Una bambina di appena undici anni, in questi casi, viene classificata come “incapace di intendere e di volere”, ma io ne ero capacissima! Pensando che fossi in preda ad una pazzia post-traumatica, mi ricoverarono in psichiatria per un po’ di tempo. E fu da lì che io scappai, una notte, passando inosservata agli occhi di tutti, per arrivare nell’obitorio dove era stata rinchiusa mia madre. La sua pelle era diafana, le sue carni fredde, i suoi occhi vuoti. Quelle bellissime carni bianche non avevano più vita, le iridi verdi erano come spente.. la donna che conoscevo era davvero andata via. Ma nello sfiorarle il collo, in un pianto sommesso, mi accorsi che vi erano delle imperfezioni.. come dei..buchi. Sì, due buchi gemelli erano lì, ormai scoloriti in un certo senso. Il sangue raggrumato era stato pulito, ed ora rimanevano solo due buchi grigi. Come si può essere uccisi da due fori? Quanto sangue aveva perso quella notte la mia cara madre? E chi le aveva fatto questo? Mi allontanai spaventata da lì, sbattendomi la porta alle spalle e con in testa una miriade di domande che, per il momento, non avrebbero ricevuto alcuna risposta.

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Capitolo 2
*** Memories ***


Secondo Capitolo-Memories

 
 
Quella notte, fui colta di sorpresa da mio padre. In un primo momento, nella foga della corsa e dello spavento, con tutte quelle domande che mi frullavano per la testa, non mi accorsi di essere osservata da lontano nella mia fuga dall’obitorio. Quando mi schiantai sulla pancia di una persona, alta rispetto a me, ma in realtà che sfiorava appena il metro e settantacinque, mi spaventai ancora di più. Nel buio, mio padre sembrava un omone minaccioso e cattivo che troneggiava con uno sguardo truce rivolto a me. Dopo ciò che era successo alla mamma qualche notte prima, fui presa da tremendi tremori, e non riuscii nemmeno ad urlare dalla paura. Dalla mia boccuccia rosea di bambina non uscì nemmeno un po’ di fiato, e rimasi per un po’ lì, immobilizzata ma allo stesso tempo tremante, con la bocca aperta come un pesce lesso. Poi, l’omone si avvicinò a me, e si abbassò alla mia altezza. Allora capii che non si parlava di un malintenzionato, e che la mia prima impressione era sbagliata. Quell’uomo panzuto, alto (per me) e baffuto, con degli scintillanti occhi azzurri, era mio padre, che era lì per farmi tornare in camera. Sapeva bene, immagino, quale fosse la mia meta.
-Beth- mi disse, con aria sconsolata, accovacciatosi davanti a me, -la mamma è andata via, e questo lo sai.- mi spostò una ciocca di capelli per accarezzarmi il viso paffuto –Ma lei non avrebbe voluto che tu stessi così, non avrebbe voluto che tu l’andassi a cercare in posti così brutti come il posto dove sei andata tu questa notte. Avrebbe voluto che tu continuassi a vivere la tua allegra vita. E soprattutto che gonfiassi palloncini per lei.- concluse poi, strapazzandomi una guancia e tentando di farmi sorridere. Gonfiare palloncini era, infatti, una mia passione fin da bambina, insieme al pattinaggio. Ma la mamma non amava il pattinaggio, lo riteneva pericoloso. La mamma era molto apprensiva, questo è certo, ma nonostante ciò  avevo sempre continuato a praticare quello sport che mi piaceva tanto, e proprio quell’anno avevo vinto il primo premio in una gara di corsa che si era svolta nel parco della mia città. Comunque, alla mamma piaceva che io addobbassi la casa con mille palloncini. E così era ogni domenica. Ed ogni domenica i colori erano diversi: una volta blu, una gialli, una verdi, e così via.
Annuii, asciugandomi il viso dalle lacrime che erano cadute a fiotti e smettendo di tremare.  –Voglio dei palloncini rossi.- dissi a mio padre, -voglio decorare la mia cameretta.-
Rossi, come il sangue. Nessuno avrebbe mai saputo il motivo per cui, quella notte, chiesi palloncini rossi a mio padre, tranne me. Il rosso era l’ultimo ricordo che associavo a mia madre ed ogni notte si ripresentava nei miei incubi, puntualmente. Mi riscuotevo sempre sudata, reduce da una corsa disperata che in realtà non era mai avvenuta, e mio padre doveva cambiarmi la camicia da notte ogni notte. Il rosso mi riconduceva alla chiazza di sangue, sparso attorno al corpo esanime di mia madre, che vidi come ultima cosa prima di prendere la rincorsa verso l’uscita del cimitero.
Ebbi quei palloncini rossi. E non appena mi arrivarono, iniziai a gonfiarli in maniera ossessivo compulsiva tutto il giorno. Papà me ne aveva comprati due pacchetti. –Così puoi gonfiarne un po’ oggi ed un po’ domani, piccola Beth.- mi aveva detto. Ma io gonfiai palloncini tutta la notte, tanto che la mia stanza non era più azzurra pallida, come è tipico di una stanza di ospedale, ma i muri erano nascosti da centinaia di palloncini rossi. Per la prima volta mi scappò un sorriso, che non durò che un secondo, poiché il secondo dopo caddi addormentata come una pera.  Erano notti, ormai, che mio padre sorvegliava il mio sonno, e dormiva solo poche ore a notte per lasciar dormire me. Un giorno, a questo proposito, gli dissi: -Perché non dormi anche tu? Non faccio più incubi ormai, da quando ho gonfiato quei palloncini.- E da quella notte, perfino quell’omone riuscì a dormire.
Il funerale fu organizzato per quella domenica, giorno in cui sarei uscita dall’ospedale. I medici avevano dichiarato che ero di nuovo capace di ragionare come una bambina sana, di undici anni. Ma era poco, davvero poco, ciò che riuscivano a capire davvero di me. Partecipai alla messa, anche se non me lo volevano lasciar fare, mio padre li convinse. Ma tutti concordarono che fosse meglio per me non andare al cimitero. Allora, rimasi a casa con una baby sitter affittata da papà per l’occasione, ma che non sopportavo. E a quanto pareva la cosa era reciproca. Mi chiusi nella mia camera dopo aver recuperato un grande album di foto di famiglia (più grande anche di me),mi misi sul letto stesa comoda, ed iniziai a sfogliarlo, per recuperare tutti i momenti più belli della vita di mia madre.

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Capitolo 3
*** My mum's story ***


Terzo capitolo- My mum’s story

 
 
Alexandra Wood è morta all’età di soli 38 anni, giovane e bella. Così si chiamava mia madre, quando si è spenta nel fiore dell’età. Alta un metro e ottanta, aveva i capelli rossi e gli occhi di un verde smeraldo così bello che con un solo sguardo era capace di ammaliare. Era una professoressa di Storia e Filosofia, e lavorava da dieci anni in una scuola di Londra. I colleghi e le colleghe l’hanno sempre descritta come una donna affascinante, carismatica, simpatica. Gli alunni l’hanno sempre amata, sia come professoressa, che come amica. Per me era la madre perfetta. Lei e mio padre mi hanno cresciuta nella completa armonia fin da quando ero in fasce. Il nome Elizabeth  mi è stato dato per una tradizione familiare, infatti è lo stesso nome della mamma di mia madre, mia nonna. Anche mia nonna si è spenta a 38 anni, per motivi ignoti a tutti. Questa coincidenza, a pensarci adesso, mi fa tremare. Ma quando sfogliavo l’album di famiglia stesa sul letto non potevo in alcun modo capire che ci fosse qualche legame tra la sorte della nonna e quella della mamma. E che forse la stessa sorte sarebbe capitata a me, quando avrei raggiunto i 38 anni d’età. Nessuno mi aveva mai parlato della morte della nonna, e quando sull’album di famiglia lessi la data di nascita abbinata al necrologio, me la stampai bene in testa, per ricordarla sempre. Non avrei mai pensato di trovarci un significato nascosto, un indizio per salvaguardare il mio futuro.

-Non andrò mai più in un cimitero.- mi ripeto questo ormai da anni, convinta che ciò che ha ucciso la mamma, la bella Alexandra, non possa uccidere me a meno che io non vada volontariamente in un cimitero. Non andarci significa anche non poter mai andare a trovare mia madre, ma lei sono sicura che capirà. Non è mai stata particolarmente credente, anche se,  per non fare uno sgarbo alla nonna, andava sempre in Chiesa la domenica. Ma il tutto si fermava lì. Né lei né mio padre mi hanno mai iniziata a nessuna religione, né mi hanno voluto inculcare dogmi vari. Sono sempre stati convinti che, con l’andare del tempo, mi sarei fatta delle mie idee, e che quelle sarebbero valse come giuste. Ed in effetti è proprio così. Io non credo che mia madre sia nel cosiddetto “Paradiso”, che contiene tutte le anime buone, ma nemmeno in un posto che contenga tutte le anime cattive. Preferisco credere che sia qui, accanto a me, come è sempre stata, e mi protegga, o piuttosto mi aiuti a non fare scelte sbagliate. A distanza di sei anni dalla sua morte ho avuto molto tempo per rifletterci, e queste sono le mie conclusioni. Probabilmente un cristiano mi considererebbe o eretica, o particolarmente fedele. Loro credono in una specie di spirito, se non erro, che chiamano “angelo custode”. Quindi sì, dal punto di vista cristiano mia madre sarebbe il mio “angelo custode”.

La sera del suo funerale, quando ero stesa sul letto con l’album di fotografie in mano, notai una cosa. Era ormai notte inoltrata, ed io sfogliavo per la centesima volta l’album. Mia madre da piccola, i suoi sorrisi, la sua adolescenza, il diploma, la laurea, il matrimonio, mi scorrevano davanti agli occhi da più di due ore. Ero quasi convinta di conoscere a memoria quell’album. Ma mi ostinavo a sfogliarlo ancora perché, infondo infondo, c’era qualcosa che non mi convinceva. Sfogliandolo un’altra volta, l’ennesima, capii. In ogni foto, fin da quando la piccola Alexandra era in fasce, sullo sfondo c’era qualcosa, che non era mai associabile ad una cosa concreta. Sembrava vagamente una persona, ma nel buio era difficile distinguerlo. Le uniche foto dove quest’ “ombra”, se così si può definire, non era presente, erano quelle scattate di giorno, come la foto della prima comunione, della laurea e alla fine della messa del matrimonio. Ma era presente in quasi tutte le altre. C’era anche nella foto di mia madre e mio padre che sorridono all’obiettivo il giorno della mia nascita. –Qualcosa non quadra.- mi dissi allora. Avevo undici anni quando me ne resi conto. Adesso, con i miei diciassette anni capisco: quella cosa ha a che fare con la morte di mia madre. Non so in che modo, non riesco ancora a cogliere la relazione che possa avere con lei, ma è stata quell’ombra nascosta a causarla. E se ho ragione, nella vecchia casa di Londra troverò che quest’ombra, o una simile, è presente anche nelle foto di nonna. Non resta che aspettare, ma intanto posso indagare con l’aiuto di mio padre.

-Papà- dico, scendendo in cucina dalle scale che portano dalle stanze da letto al piano terra. –Ho bisogno di chiederti alcune cose, saresti disposto ad ascoltarmi?-

-E’ il momento di farlo, immagino. Sono tutt’orecchie, vieni, siediti di fronte a me.- mi risponde, e da questo capisco che sa cosa sto per chiedergli. Mi conosce bene, mio padre, e sa che di me si può fidare. Io mi fido ciecamente di lui, e non sbaglio quando penso di far bene. Non sarebbe capace di nuocere nemmeno ad una mosca, proprio come mia madre.

-Voglio tornare nella casa di Londra il prima possibile.- affermo. Questa non è una domanda, è vero, ma fa parte dell’interrogatorio che ho intenzione di fare.

-Per quale motivo? Se mi è concesso saperlo.- chiede mio padre, con fare indagatorio.

-Ho bisogno di sapere se ho ragione sulla morte di mia madre. Papà, hai mai osservato con attenzione le foto dei vostri album? In particolare quelle scattate di notte?- Ecco, così ha inizio la sfilza di dubbi che mi tormenta da anni. Mi tiro indietro le ciocche di capelli biondi che mi sono ricaduti sul viso, e sono pronta ad ascoltare le parole di mio padre.

-Sì, le conosco a menadito.- dice, senza chiedere nessun perché. La cosa mi fa capire che probabilmente sa già tutto ciò che IO ho bisogno di sapere.

-E non hai notato nulla di strano?-

-Molte cose sono strane. Cos’hai visto tu? I tuoi occhi possono vedere cose diverse dai miei o da quelli di altre persone.- afferma, prorompendo con una sua “pillola di saggezza”. Al che prendo una foto dalla tasca della vestaglia, la mia foto preferita. L’ho sempre conservata con amore da quella notte, perché la reputo la più bella in assoluto. Vi sono ritratti mia madre in braccio a mio padre, con il vestito da sposa, sorridenti nella loro prima notte di nozze, intenti ad aprire la loro camera d’albergo. Chi abbia scattato loro questa foto rimane ignoto, ma suppongo sia opera di un funzionario dell’albergo. Il sorriso bianco lampeggiante di mia madre mi fa sempre sorridere di conseguenza, perché sembra perfettamente abbinato con il colore del vestito e del sorriso di mio padre. Quella foto sprigiona tanta tenerezza. A parte il solito, piccolo, particolare. L’ombra. E’ dietro di loro, quasi invisibile, a rovinare quel quadretto di un matrimonio perfetto che stava per compiersi nel gesto d’amore che si sarebbe consumato quella notte, nella migliore delle tradizioni. Non so cosa sia successo dopo, ma non è storia che mi interessa e non sono qui per chiedere i dettagli di una notte d’amore.

-Questo..cos’è?- chiedo a mio padre, indicando l’ombra. –E’ quasi invisibile, ma si distinguono chiaramente i suoi contorni. So di non essere pazza.-

Mio padre sbianca di colpo. Non si aspettava che anche io notassi che nella foto c’era qualcosa di strano, o cosa? Non è un buon segno che io la veda? Non  vuole che io sappia? Tantissime cose mi frullano per la testa mentre cerco di interpretare gli occhi sbarrati di mio padre davanti a quella foto ed il suo improvviso sbiancare. Poi, me la strappa di mano con fermezza, senza nemmeno lasciarmi il tempo di reagire. Mi ribello con forza, tentando di riprendermela, ma capita una cosa che non era mai capitata in tutto questo tempo. Mio padre si arrabbia, e sul serio. Il suo viso sprigiona paura e rabbia insieme, come se nemmeno lui sappia che dire o che fare. Ma mi dà un ordine, secco, che non prevede una risposta negativa.

-Va’ in camera tua! E stasera voglio che tu mi restituisca quell’album di foto che nascondi sotto il letto.-

Non voglio sapere cosa vuole farne. Ma so per certo che non starò in camera mia, per nessun motivo. Andrò da chi mi saprà ascoltare, perché a quanto pare nemmeno mio padre ne è più capace. E porterò con me il MIO album di foto.

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Capitolo 4
*** Best friends are like air. ***


4-Best friends are like air.

 
 
Album di foto sgualcito ed in disordine sottomano, avvolta in una giacchettina leggera grigia con cappuccio, con indosso un paio di pantaloncini jeansati, esco dalla porta del retro, diretta in un luogo ben preciso. Il cappuccio è perfetto, perché fuori piove e di certo non sono così sconsiderata da non coprirmi almeno un po’. Nonostante abbia fatto seriamente caldo quest’ultimo mese di maggio, appena è scoppiata l’estate è andato via il caldo, come se il tempo volesse prenderci tutti quanti in giro. Le pioggia è fitta e noto con piacere che si sta alzando un pochino di vento, unica cosa buona di tutto ciò. Non amo particolarmente la pioggia, specialmente quella fitta che ti si infiltra sotto gli abiti senza che tu nemmeno te ne renda conto, facendoti arrivare a casa bagnato fradicio. Comunque, questo non è il mio problema, perché la fermata del bus dove mi piazzo ad un angolo da casa ha un pratico tettuccio dove mi posso riparare, senza rischiare di bagnarmi completamente. Seduta lì al riparo ad aspettare il bus, non sono sola. Accanto a me ci sono una vecchietta innocua che si appisola e si sveglia in continuazione, appoggiata al suo bastone, un signore in piedi che sembra andare molto di fretta ed un ragazzo giovane, forse sulla ventina, di cui non riesco a vedere il viso perché sepolto sotto un giornale, immerso nella lettura. Non vedendo alcuna faccia conosciuta intorno a me, decido di aprire l’album di foto in attesa che arrivi il bus. Sfogliandolo vedo mille foto bellissime, di una famiglia sorridente e felice. Sembra che nulla possa turbare la nostra armonia quando mia madre mi allatta al suo seno, sorridendo felice alla macchinetta fotografica con cui mio padre sta scattando la foto ed immortalando quel felice attimo. E l’allegria diventa più grande nella foto in cui due genitori sorridenti tengono per mano una bimba di cinque anni che entra a far parte della prima elementare, un anno prima del dovuto perché ormai aveva imparato a leggere e scrivere. Nel giorno della comunione mia madre e suo padre mi stringono tra le loro braccia, e le mie guance sono rosse rosse per l’imbarazzo, in profondo contrasto con il bianco del mio vestito. E poi..

-Scusi, mi sa dire a che ora passa il numero 14?- Una voce maschile profonda e tenebrosa mi distrae dai bei ricordi della mia famiglia di colpo, tanto da farmi sobbalzare sul posto. E’ il ragazzo che leggeva il giornale fino ad un secondo fa che mi si rivolge con questo tono pacato e profondo allo stesso tempo. Ha i capelli neri, di media lunghezza, che contornano un viso aggraziato ancora da adolescente. Due occhi azzurri come il cielo mi fissano, evidentemente impazienti di una risposta, e sul suo viso vi è stampato un bianco sorriso. Mi sono evidentemente imbambolata, perché il ragazzo deve riportarmi all’attenzione con un cortese –Signorina?- accompagnato da un altro sorriso.

-Mi scusi..ehm sì, dovrebbe passare..- guardo l’orologio, impacciata. Devo aver anche assunto un colorito roseo sulle guance –dovrebbe passare proprio ora. Oh, guardi, è arrivato.- dico, alzandomi. Il ragazzo dagli occhi azzurri prende il mio stesso pullman, evidentemente. Gli sorrido, e poi entro nel pullman, seguita da un suo –Grazie.- molto gentile. Dopodichè mi siedo. Il ragazzo si siede qualche posto avanti a me e ritorna ad essere immerso nella lettura del suo giornale.

Dopo un paio di fermate, scendo dal pullman, che porta con sé il ragazzo del giornale. Chissà se è di qui o è solo di passaggio.. Con questo pensiero in testa e l’album di foto ben stretto tra le mani, mi avvio verso una villetta fin troppo conosciuta. Una volta arrivata davanti al cancello, suono il campanello, ed un ragazzo della mia età, ma molto più alto di me che sono una nanetta di un metro e un tappo, si affaccia ad una finestra, mi sorride, e mi apre, gridandomi un –Vieni su!- allegro. Evidentemente è contento di vedermi, anche perché, tra la scuola e quant’altro, quest’anno ci siamo visti ben poco. Mi è venuto a trovare all’anniversario della morte di mia madre, poi nulla. Ma lo perdono, lo perdono sempre. Con lui sono cresciuta, lo conosco meglio di quanto io conosca me stessa, è il mio migliore amico e gli perdono tutto. Dopotutto anche lui mi perdona tante cavolate che faccio. Senza di lui non so come farei, parlo sul serio.
Claudio mi accoglie in camera sua tutto sorridente. E’ solo a casa, tanto per cambiare i suoi genitori saranno in viaggio da qualche parte per affari. Hanno, infatti, una società in comune, e fanno affari in tutto il mondo. Motivo per cui non sono quasi mai a casa, e ormai Claudio è diventato pienamente autosufficiente, come se vivesse già da solo.
Mi abbraccia forte, annusandomi per qualche motivo x anche il collo, come un cagnolino che riconosce una persona dall’odore.

-Cos’è, sei diventato un cane?- dico, ridendo e dando così voce ai miei pensieri.
-Ma no, ma no.- risponde lui, ridendo per contro. –E’ che non ti vedo da così tanto tempo che mi sono dimenticato anche il tuo profumo.-

Devo dire che Claudio non è un brutto ragazzo, altro un metro e novanta, capelli biondi, ricci, occhi verdi, fisico niente male, attrae ragazze come mosche. Ma da un po’ di tempo a questa parte credo di essere autorizzata a pensare di piacergli. Quando sto con lui è sempre molto dolce, cosa che ho per lungo tempo attribuito alla nostra grande amicizia, ma che a diciassette anni non può più chiamarsi tale. Comunque, per me rimane un amico, un grande amico. Non so se sarei mai capace di essere la sua ragazza.

-Che dolce zucchero.- gli dico io, sorridendogli come per dire “ti sto prendendo in giro e lo sai.”
-Ah-ah. Piuttosto, passiamo a te. Come mai sei qui? Non ti vedo dalle parti di casa mia da…non lo so, ma da molto tempo. Immagino sia qualcosa di serio.- dice lui, adesso con aria sospettosa. Ha fiutato qualcosa, mi conosce, e sa che non andrei mai in giro con un album di foto tra le mani solo perché mi piace farlo.
-Ah, ehm, sì, in effetti c’è un motivo..- rispondo io, un po’ tentennante. Ma che tentenno a fare? Il mio migliore amico è qui davanti, quale migliore occasione per raccontargli tutto per filo e per segno? Non penserà di certo che io sia una fissata, altrimenti non mi vorrebbe bene come dice, sarebbero tutte balle.
-Se vuoi raccontarmi ciò che è successo, perché di certo è successo qualcosa, sappi che io sono qui. Non ti lascio mica sola.- mi dice, con tono affettuoso. Ha gia capito che c’è qualcosa sotto, e che ho molto da raccontargli. So che, qualsiasi cosa accada, lui non mi lascerà mai da sola. Quindi mi siedo sul letto accanto a lui ed inizio a raccontargli tutto. Gli mostro qualche foto dove io affermo di vedere un’ombra, una figura, una cosa del genere, ma lui in tutte quelle che indico afferma di non vedere niente, a parte mia madre, mio padre, me, mio nonno eccetera. Non dice che sto farneticando o inventando cose, perché sa che non è così, ma inizia a sembrare piuttosto turbato, glielo si legge in faccia.

-Scusa, non volevo turbarti..- gli dico, con aria preoccupata, abbassando mestamente la testa –ma è solo ciò che mi sembra di vedere.. Insomma, non credo di essere pazza.-
-Tu cosa?! Non sei affatto pazza Beth! Io ci credo alle tue parole, solo che non vedo ciò che vedi tu.- mi risponde, allarmato, prendendomi il mento tra le mani e sollevandomi il viso così da poterlo guardare negli occhi. –Sappi che anche quando sarai una vecchia bacucca un po’ pazza sul serio io ti sarò accanto, anche se avrai le visioni. Quindi non dire stupidaggini.- e detto questo, mi abbraccia, come solo lui sa fare, facendomi scoppiare a piangere senza nemmeno saperne il motivo.

E’ proprio vero che gli amici sono importanti. Ma i migliori amici sono importanti come l’aria che respiriamo. Vi immaginate un mondo senza aria da respirare? 

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