Young Sherlock Holmes

di KatherineGrey
(/viewuser.php?uid=188918)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO I ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO II ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO III ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO IV ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO V ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO VI ***



Capitolo 1
*** CAPITOLO I ***


John Watson guardava dalla finestra del suo dormitorio la carrozza su cui stavano salendo un signore piuttosto robusto insieme a una donna minuta che teneva un cagnolino bianco in braccio. Quando il cocchiere chiuse lo sportello della carrozza, il ragazzo sentì una morsa gelida al cuore: quindi fu con un certo sollievo che osservò il viso della madre far capolino tra le tende del finestrino e dedicargli un ultimo sorriso. Poi la carrozza partì, imboccando il breve selciato del cortile e sparì oltre il muro di cinta della vecchia scuola.
Un nuovo anno, pieno di esperienze, progressi, soddisfazioni- sperava l’aspirante medico. Suo padre era stato chiaro: testa poggiata solo sui libri, niente più avventure insensate insieme a tipi pericolosi come il suo amico dell’anno prima. Ma il ragazzo, che in parte riconosceva tutta la ragionevolezza insita nell’esortazione paterna, non riusciva a non ripensare alla grande avventura che aveva condiviso con Sherlock Holmes, solo l’anno prima. I mesi dopo il loro ultimo incontro erano trascorsi veloci e nonostante il giorno del loro commiato John avesse sentito quasi una promessa nell’aria che la sua vita non sarebbe più scaduta in fatti mediocri, da quel momento in poi nessun evento emozionante bussò in prossimità della sua esistenza. Nei pochi ritagli di tempo libero che lo studio gravemente arretrato, ovviamente per essere stato messo in secondo piano, gli concedeva, Watson si era perfino impegnato ad andare incontro alla fortuna, rovistando tra i necrologi e gli articoli di cronaca nera in cerca di elementi misteriosi; oltre a girovagare in continuazione nella scuola, per studiare movimenti sospetti di studenti e professori. Tuttavia, gli bastava acquisire qualche elemento di conoscenza in più su un possibile caso, che il ragazzo arrivava tutte le volte alla medesima conclusione che in realtà non vi era nessun mistero, nulla di indagabile. E tornava ai suoi compiti sempre più voluminosi.
Era stato sul punto di contattare più volte Holmes, ma il ricordo di quanto l’amico fosse stato determinato a lasciare la scuola e tutto ciò che essa racchiudeva, anche in senso metaforico, lo aveva sempre dissuaso. Poteva intuire che delle ferite così profonde avevano bisogno di essere dimenticate per cicatrizzare bene.
E quindi, eccolo di nuovo lì, nel dormitorio della scuola; il letto di Sherlock Holmes ora sarebbe stato occupato da qualcun altro- rise al ricordo di quei pomeriggi durante i quali gli improbabili virtuosismi del suo violino avevano quasi sfinito il sistema nervoso di entrambi. Chissà, forse adesso era già diventato almeno orecchiabile!
John sapeva che con tutta probabilità quello sarebbe stato un anno di molto studio e pochissime emozioni. E, forse, di completa solitudine. Negli ultimi mesi del precedente anno scolastico, nonostante fossero nate diverse simpatie, soprattutto per l’eco delle sue gesta, non aveva potuto legare bene con nessuno, visto che Dudley era sempre vigile in tal senso, premurandosi ogni volta di ‘ricordare’ agli altri quanto John Watson fosse un tipo ridicolo e dai modi rurali.
- Lo dico per voi, potrebbe nuocere alla vostra immagine farvi vedere con un tipo del genere.- buttava lì il pallido ragazzo, il quale era sempre stato un nemico imperterrito di Holmes, ovviamente per ragioni di invidia, né aveva dimenticato chi fosse stato la sua spalla adorante ai tempi in cui quest’ultimo frequentava ancora la scuola, primeggiando compiaciuto su tutti.
Fu perciò con un certo nodo alla gola che vide andar via i suoi famigliari, che con tutta probabilità sarebbero state le uniche persone ad avergli rivolto parole gentili quell’anno.
John Watson si allontanò dalla finestra e si avvicinò al suo letto per depositarvi la giacca. Non poté fare a meno di notare che sul letto accanto c’era ancora la targhetta con le incisioni S.H., benché il nuovo occupante sarebbe dovuto arrivare insieme a tutti gli altri due giorni dopo. Già, perché Watson era stato costretto ad anticipare il ritorno a scuola visto che suo padre era stato chiamato a testimoniare in un processo proprio l’indomani.
Stette un po’ a ciondolare nell’enorme stanzone, riordinò i libri nel baule, tirò fuori la giacca e la cravatta della divisa, senza tuttavia indossarli, quindi si distese sul letto, non sapendo che altro fare prima delle sei, ora in cui era chiamato a scendere in refettorio. Chiuse gli occhi, e complice la stanchezza del viaggio, si addormentò.
Dei nitriti insistenti lo svegliarono. Si alzò di soprassalto, preoccupato per l’ora. Consultò l’orologio nel taschino del suo gilet.
- Ma come, ho dormito tutto questo tempo? Per fortuna, é ancora presto per la cena … - disse ad alta voce. Si alzò comunque, e si affacciò alla finestra. Nel piazzale c’era nuovamente una carrozza, ma questa era una più elegante di quella con la quale aveva viaggiato lui, una piccola carrozza da città, e anche i cavalli che la trainavano sembravano molto ben tenuti. Accanto si scorgeva un giovane uomo con indosso un leggero cappotto nero; aveva un piede fisso sul primo scalino della carrozza, come sul punto di salirvi dentro.
- Si tratta di Mycroft, mio fratello!- disse ad un tratto una voce dietro le spalle di John Watson. Il ragazzo si girò all’istante, con un’espressione così confusa che Sherlock Holmes non poté fare a meno di schernirla.
- Oh Watson, ti ricordavo perfettamente così.
- Holmes!- riuscì a pronunciare a mezza voce Watson.
I due ragazzi si strinsero forte la mano, e una felicità pura abbracciò i loro occhi amici.
- Scusi, signore!- disse l’uomo che era dietro ad Holmes; portava un pesante baule sulla schiena.
- Oh, le chiedo scusa!- fece Holmes. – Qui, la metta pure qui, grazie!
- C’è altro signore?
- No, ma la prego scenda più in fretta che può: mio fratello non vede l’ora di ripartire per casa. Grazie.
Dopo che l’uomo li lasciò soli, Watson aggredì subito l’amico con un discorso entusiastico:
- Non posso crederci, di nuovo qui … Aspetta che lo sappia quel codardo di Dudley! Oh, la risposta alle mie preghiere! … Volevo tanto scriverti quest’estate, ma poi ho pensato … Io sono sempre pronto all’avventura, Holmes …
- Sono felice di saperlo!- sentenziò Holmes, mentre da fuori si udirono gli zoccoli dei cavalli che iniziarono a trainare veloci la carrozza verso la salvezza di Mycroft.
-  Tuo fratello ti ha costretto a tornare qui?
- Oh, no Watson! Mi ha semplicemente aiutato con la domanda di riammissione.
- Sei stato tu a voler tornare?- Watson era incredulo.
- Come ho appunto detto, sono felice che tu voglia ancora essere il mio compagno di avventure, Watson, perché ce ne sarà presto una molto interessante. Ed è per affrontarla che sono tornato!
Una scintilla di eccitazione perturbò le iridi nere e fredde del ragazzo. E Watson pensò che quel giorno di qualche mese addietro aveva tenuto ampiamente fede alla sua promessa.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** CAPITOLO II ***


- Oh, Holmes!- esclamò il nuovo preside della scuola, il giovane Lord Cumbernould, mentre andava incontro al ragazzo nel suo appartamento privato, situato nell’ala più tranquilla della scuola.
Il giovane investigatore si sentì preso alla sprovvista quando vide l’uomo porgergli la mano con fare confidenziale.
- Su, non ho una stretta così poderosa!- scherzò quest’ultimo vedendo l’esitazione del suo studente. Holmes gli sorrise imbarazzato e gli diede la mano.
- Onorato, professore!- disse con tono reverenziale.
- In realtà, sono io ad essere onorato di conoscerti! Scuserai se ti do del tu, vero? Nonostante quel bricconcello di Lestrade si sia preso tutti i meriti, qui da noi abbiamo avuto notizie di prima mano e sappiamo chi in realtà ha sbrogliato l’intera matassa. Ma prego, accomodati! Raymond, puoi portarci il tè, per favore?
L’inserviente, che aveva fatto accomodare Holmes ed aveva atteso che il preside gli desse disposizioni, si piegò in un piccolo inchino e si allontanò in direzione della cucina.
Sherlock Holmes si guardò attorno, constatando che erano state apportate delle modifiche dall’ultima volta che era stato lì, il giorno che aveva lasciato la scuola. Ad esempio, la carta da parati, sempre verde smeraldo,  era certamente stata cambiata perché lucida e priva di increspature e di bolle; i ripiani degli scaffali erano pieni di enciclopedie e minacciosi tomi filosofici, ma comprendevano anche libri di narrativa e saggi sull’arte, e un po’ ovunque spiccavano souvenir di chiara manifattura esotica. Infine, i suoi occhi si posarono sui quadri, nessuno appartenente allo stile neoclassico o romantico, come solitamente erano quelli appesi alle austere mura della scuola. Si trattava prevalentemente di ritratti a carboncino che rappresentavano nudità femminili. Holmes non riuscì a scansare lo sguardo abbastanza presto da quei disegni. Il preside se ne accorse e rise:
- Dei bei capolavori, vero? Beh, forse dovrei essere più modesto, essendone io l’autore, ma ne vado troppo fiero. Non devi vergognarti di apprezzarli! Sei un adolescente, comprendo! Anzi, trovo così mortificante l’atteggiamento provinciale dei nostri collegi inglesi. Bisognerebbe insegnare ai giovani come te anche le cose della vita. Lo so che ci sono i padri e i bordelli per questo, ma dal punto di vista intellettuale? Anche l’erotismo fa parte della nostra interiorità, è intrinseca al nostro stesso intelletto: dovremmo coltivarlo soprattutto come un importante aspetto mentale. Non sei d’accordo con me?
Il ragazzo si schiarì la voce, decisamente sconvolto da quelle parole. Watson, quando Holmes lo informò di essere stato invitato dal preside per il tè, aveva espresso una certa ammirazione per quest’ultimo, definendolo un innovatore a passo con i tempi e un provvidenziale complice quando gli studenti si mettevano nei guai con qualche professore. Ma di certo, Holmes non immaginava che Lord Cumbernould fosse così all’avanguardia.
- Tutto è una questione mentale, per me!- disse alla fine.
- Lo vedi? siamo perfettamente d’accordo! Oh, ecco mia moglie nonché la modella dei miei lavori su tela!
Una donna sulla trentina era appena entrata nella stanza; i suoi passi erano silenziosi, tanto che i due interlocutori si erano accorti di lei solo quando l’avevano vista emergere dal corridoio. Holmes ne notò i lineamenti orientali: gli zigomi pronunciati, il taglio a mandorla degli occhi, i capelli scurissimi, la pelle olivastra. Un viso intenso, forse addirittura sensuale. Il suo corpo era minuto e snello, con indosso un semplice abito, indubbiamente non rimodellato dal corpetto.
Il ragazzo si alzò e nonostante fosse inevitabilmente arrossito, riuscì a mantenere il suo solito atteggiamento disinvolto.
-  Buonasera, Lady Cumbernould!
- Mia cara, lui è Sherlock Holmes!
Gli occhi della donna sembrarono studiarlo un attimo.
- Oh, sì, ha lo sguardo analitico!- affermò. – Buonasera, signor Holmes!
La signora si sedette vicino al marito e fece segno al ragazzo di riaccomodarsi.
- Mia moglie era così desiderosa di conoscerti!- disse il marito prendendo tra le sue la mano della consorte.
Intanto venne servito il tè.
- Voi siete un personaggio davvero ammirevole!- disse Lady Cumbernould rivolgendo i suoi occhi obliqui all’indirizzo del ragazzo. – Siete riuscito a battere addirittura il vostro insegnante di scherma, uno che non era certo l’ultimo della sua categoria. Siete anche un valido sportivo, dunque?
- Sono certo portato per la scherma- ammise Holmes – ma il mio avversario era piuttosto malconcio, devo essere sincero.
- Su, non siate modesto: dal vostro fisico, mi sembra che voi siate un tipo molto atletico!- affermò la donna percorrendo con lo sguardo la figura del ragazzo.
Il marito rise.
- Beh, sì- farfugliò Sherlock Holmes – pratico la scherma con una certa serietà, in quanto è un ottimo esercizio per la concentrazione.
- Assolutamente!- affermò il preside.
La moglie accavallò le gambe e l’orlo della gonna si alzò scoprendo i suoi piedi nudi.
- Ovviamente, quest’anno abbiamo un nuovo insegnante di scherma, uno speriamo un po’ più bravo del precedente!- continuò l’uomo con voce ilare.
- Perché siete tornato in questa scuola?- chiese improvvisamente la donna poggiando la sua tazza sul tavolino e rimanendo inchinata verso il ragazzo, seduto di fronte a lei.
Holmes sapeva che nei giorni successivi si sarebbe sentito rivolgere spesso quella domanda.
- Per i ricordi che mi legano ad essa!- disse velocemente.
- Suvvia cara, non tocchiamo questo argomento!- tagliò corto Lord Coumbernould, il quale, bisognava dargliene atto, era attentissimo a intercettare gli umori dei suoi ospiti.
La donna abbassò lo sguardo, in segno di accondiscendenza.
- Ah, Holmes!- disse il preside trovando all’istante un punto per ravviare la conversazione. – Ho saputo dal tuo amico, John Watson, che tu frequentavi assiduamente il laboratorio del professor Waxflatter. Mi ha informato bene, immagino. Per questo, quando il consiglio scolastico stava discutendo se destinarlo ad un altro uso, poco dopo che mi era giunta la tua lettera, mi sono opposto con decisione. Troverai il laboratorio esattamente come lo hai lasciato lo scorso inverno.
Il volto del ragazzo si infiammò:
- Posso entrarci?
- Tutte le volte che vuoi. Ho già dato disposizione al custode di riservarti la chiave; devi solo chiedergliela!
Holmes ringraziò.
- No, non devi. Andava fatto! Tu sei uno sperimentatore e il nostro laboratorio di chimica, con la direzione dell’ansioso professor Abrahams, non è adeguatamente attrezzato per esperimenti a rischio deflagrazione.
- Tu per me rappresenti una grossa responsabilità, sai Holmes!- disse poi l’uomo raddrizzando la schiena sulla spalliera della poltrona. – Insomma, abbiamo il privilegio di occuparci della tua educazione e questa scuola deve fare il suo meglio per affinare in modo superlativo le tue potenzialità intellettuali. Non puoi essere lasciato nella fila arretrata dei tuoi compagni, nonostante io li stimi molto talentuosi. E quindi, quello che io ho in mente per te è di lasciarti più spazio e libertà che posso, certo nei limiti dei rigidi regolamenti scolastici che non sono ancora riuscito a scalfire. Ma per il resto, spero di poterti essere utile!
Sherlock Holmes continuò a ringraziare, un po’ lusingato e un po’ stupito di fronte alle parole di quel bizzarro personaggio.
- E per chiudere, visto che immagino vorrai prepararti per la cena, non so se ti sei mai accorto che la porta della lavanderia, nel seminterrato, ha una maniglia difettosa e spesso non si chiude bene; mi hanno chiesto di farla sostituire, ma non penso che lo farò nell’immediato. Lì, c’è una piccola finestrella, proprio ai piedi della strada, con una grata scoperchiabile … Bene, mi pare che ci siamo detti tutto, per ora.
Il preside si alzò, seguito da Holmes.
- Tornerete a trovarmi? – chiese Lady Cumbernould, porgendogli una mano.
Il giovane fece un impacciato e frettoloso baciamano.
- Tutte le volte che il preside avrà piacere di avermi qui.- rispose.
- La città- disse il preside accompagnando il ragazzo verso la porta – è la migliore palestra mentale. Buono studio, Holmes!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** CAPITOLO III ***


Quella sera, lo spopolato refettorio della scuola era permeato da un’atmosfera cupa e opprimente, un po’ per la mancanza della consueta orditura di risa, bisbigli e tintinni corali di stoviglie, un po’ per i numerosi tavoli vuoti, i quali, ammantati da semplici lenzuola bianche e macchiati di ombre dalle corone di fiammelle degli ossuti candelabri, avevano l’aspetto di sinistri altari.
I professori sedevano in fondo alla stanza, ad un imponente tavolo su cui scintillava l’argento di bicchieri e candelabri; le loro facce, mentre si chinavano a raccogliere i primi cucchiai di minestra, sbucavano in modo grottesco attraverso la nuvola di luce delle candele.
Holmes e Watson avevano preso posto vicino ad uno dei finestroni che davano sul cortile.
La cameriera, una giovane ragazza di quindici anni, tornò nella sala per servire i due studenti.
- Il preside non cena qui?- chiese Holmes improvvisamente.
Watson, completamente distratto dalla vicinanza della cameriera, trasalì bruscamente alla domanda dell’amico.
- Cosa? Oh, il preside! No, non è mai sceso in refettorio per i pasti. Grazie- aggiunse poi rivolto alla ragazza quando lei prese congedo con un imbarazzato inchino.
- Non mi pare- constatò Holmes con un velo di perplessità nello sguardo- che l’anno scorso la scuola avrebbe permesso un simile comportamento da parte del proprio preside.
- Beh, te l’ho detto: il preside Cumbernould è uno spirito libero e sta apportando molti cambiamenti nelle regole del nostro istituto. A proposito, come ti è parso?- chiese Watson mentre affondava nel piatto fumante dei tocchetti di pane.
- Non lo so, è un personaggio insolito.
- Pensavo che ti avrebbe fatto una buona impressione!- ribatté Watson sinceramente stupito. – Insomma, è molto simile a te: razionale, senza pregiudizi, avventuroso e interessato alla criminologia.
- Non è una questione di impressioni, anche se onestamente dubito che bastino questi pochi tratti comuni a farci simili!- disse Holmes con un pizzico di amor proprio ferito.  -Semplicemente, sto constatando il fatto che lord Cumbernould non è certo tagliato per la sua carica!
L’umore di Watson s’incupì all’istante, come se gli avessero negato un vassoio di irresistibili pasticcini.
- Perché, quali doti dovrebbe avere un perfetto preside di scuola? Forse, un’ottusa obbedienza a regolamenti secolari o il disinteresse per il futuro dei propri studenti?- ribatté con una traccia di polemica nella voce. – Ci manca solo che tu mi dica che rimpiangi il signor Snelgrove! Lord Cumbernould al posto suo ti avrebbe difeso, ne sono sicurissimo.
Il brusio continuo sul tavolo dei professori si interruppe e Watson si accorse che aveva alzato la voce più del dovuto. Dopo aver adocchiato furtivamente in quella direzione si ritirò sulla sedia cercando di assumere una posizione quasi invisibile.
Sul volto di Holmes si dipinse un’espressione divertita.
- Non mi interessa eleggere il miglior preside della Victoria Queen Institute, Watson. Sto cercando semplicemente di capire. Perché se da una parte comprendo che un innovatore come lui abbia voluto divenire preside di una scuola tradizionalista come la nostra, per poter lavorare sulle morbide frange giovanili del pensiero, dall’altra mi sorprende che il nostro senato scolastico abbia esaudito il suo desiderio.E, comunque, Watson, se c’è qualcosa che ho imparato l’anno scorso è che anche chi ti mostra cordialità e sostegno, può alla fine dimostrarsi indegno della tua fiducia e della tua ammirazione; quindi, perdonami se ti consiglio di non rischiare di fare il mio stesso, madornale, errore di valutazione, ridimensionando la tua incondizionata stima per Lord Cumbernould.
John Watson, cogliendo il riferimento al professor Rathe, colui che aveva rappresentato per Holmes forse anche più di un eccellente docente, non gli rispose.Disse invece:
- Perché ti stupisce il fatto che sia diventato il preside della nostra scuola? In realtà poteva esserne il padrone!
Holmes gli lanciò un’ occhiata interrogativa.
- Suo nonno era sir Kettering!– aggiunse allora Watson, pensando così di aver detto tutto.
- Quindi?
- Quindi? – ripeté confuso Watson, poi il suo cervello venne punto da un sospetto. – Immagino tu sappia chi era, vero?
- No!- la risposta secca e tranquilla di Holmes.
Watson ebbe un sussulto per lo stupore; poi disse:
- Bé, quanto meno ti dovrebbe suonare familiare! Comunque, sir Kettering era il nonno materno del nostro preside e ha fatto parte della Camera dei Lord. Ma, soprattutto, è stato anche il proprietario di questo edificio fino ad un ventennio fa; nel salotto delle armi, c’è ancora il suo ritratto. E’ sconvolgente che tu non lo sappia!
Watson raccontò ad Holmes che la loro scuola in passato era stata una vecchia proprietà privata della corte reale. Poi, nel 1802, sir Kettering l’aveva acquistata facendola diventare una scuola militare per cadetti. Dopo qualche anno la bella figlia, Virginia, sposò l’affascinante e ricco Edward Steven Paul Cumbernould, figlio del Duca di Cumbernould, con un eccellente guadagno di prestigio e di denaro per la casata paterna. Tuttavia, dopo solo un decennio, nacquero alcuni dissapori famigliari che portarono la coppia al divorzio. Ciò ebbe delle drammatiche ripercussioni: la povera Virginia si ammalò di depressione e il padre decise di chiudere la scuola per starle vicino. Dopo molti anni, nel 1848, il nobile morì ed il suo testamento indicò l’Associazione Culturale Reale di Londra, fondata dalla Regina Vittoria, come unica beneficiaria delle sue intere proprietà, estromettendo dall’eredità anche il nipote, che aveva deciso di vivere con il padre. La regina Vittoria diede disposizione che l’edificio ospitasse nuovamente una scuola, ma questa volta pubblica e di istruzione secondaria.
- Questa è la parte della storia che conoscono tutti- disse l’aspirante medico, puntualizzando: - eccetto te.
- E quella più interessante?- chiese Holmes.
- Arriva per bocca di Jordan Flytter, quindi è senz’altro attendibile!
Jordan Flytter era il portinaio dell’istituto e il fatto di essere il crocevia di tutte le visite e il filtro della corrispondenza tra la scuola e l’esterno ne faceva una vera sorgente di informazioni. Flytter, normalmente, non era molto espansivo, ma il caso Lord Cumbernould gli sciolse la lingua, quando tutti gli studenti si chiesero perché mai il preside Snelgrove era stato destituito.
- Ragazzi miei, sono stati i soldi: così va’ il mondo!- il preambolo del portinaio alle sue dettagliate rivelazioni.
- Per fartela breve- continuò Watson – in questi anni, dopo la morte del padre, pare che Lord Cumbernould abbia fatto ingenti donazioni alla nostra scuola; del resto le nostre rette non sono mai state abbastanza alte da mantenere da sole il livello di servizi di cui usufruiamo, quindi, riflettendoci, secondo me il custode sa il fatto suo. Tu eri già andato via, quindi non sai il vespaio che si è creato nella scuola dopo la fine delle vacanze, quando gli studenti sono tornati accompagnati dai loro genitori. Le proteste volavano come i dardi dalle cerbottane dei Ramethep e miravano tutte sul nostro vecchio preside, accusato di aver permesso ad un anglo- egiziano di insegnare ai loro figli, senza indagare sul suo passato, né controllando i suoi spostamenti. Molti di questi genitori avevano deciso di trasferire i loro figli in un’altra scuola.- Watson non aggiunse ‘forse seguendo il tuo esempio’- E le pre-iscrizioni al primo anno furono tutte annullate.
- E quindi, ecco Lord Cumbernould che entra trionfalmente in scena come un deus ex machina!
- Secondo Flytter, lui si è offerto di salvare la barca che affondava e la scuola non ha potuto far altro che accettare. Beh, Flytter l’ha messa sul pesante, ma più o meno penso anch’io che le cose siano andate così.
- Chi ha i soldi ha il potere!- commentò ironico Holmes, solo per strappare un’altra occhiata di dissenso a Watson.
- Possiamo metterla come vuoi, sta di fatto che Lord Cumbernould ha abbassato la retta ad un livello popolare, ha rimesso in sesto il campo da cricket e, per me di notevole importanza, grazie a lui Dudley non ha potuto più insinuare che portassi iella alle scuole che mi ammettevano. Inoltre, il fatto che il preside sia un nobile ha avuto sicuramente un certo fascino: anche mia madre lo reputa una cosa importante da ricordare a chicchessia chieda notizie su quale scuola frequento. La scuola, grazie a lui, è rinata. E’ vero, lui ha il potere e i soldi, ma li mette al servizio di cose lodevoli, invece di sperperarli in viziucci da ricchi.
- Insomma, il fine giustifica i mezzi!
- In questo caso, il fine mi pare troppo meritevole.- disse Watson, infastidito dal fatto che l’amico non volesse riconoscere il palese valore delle azioni di Lord Cumbernould!- Senza poi contare che Lord Cumbernould ha dimostrato anche un evidente rimorso nei confronti della madre e del nonno che lui ha abbandonato.
- Vuoi dire quando ha seguito il padre in America?
- Te lo ha raccontato lui?
- No, l’ho dedotto dalla sua libreria. Alcuni volumi sono di case editrici americane: si tratta di saggi scolastici e narrativa, libri che solitamente vengono utilizzati alla nostra età. Ma non si è fermato in America: so per certo che è stato in Africa, in Oceania e nei Tropici.
- Spiegami, come l’hai intuito?- disse Watson, che riscoprì quanto entusiasmanti fossero per lui le prove deduttive dell’amico; il leggero astio si dissolse istantaneamente a contatto con quell’entusiasmo.
- Sulla sua mano destra ho notato, mentre me la stava porgendo, la macchia di un vecchia lesione provocata dal batterio Nocardia brasiliensis, che è endemico dei Tropici. Nel suo appartamento, inoltre, ci sono molte statuine di chiara manifattura africana; può essere benissimo che le abbia acquistate in qualche negozietto di Londra, ma visto che è un viaggiatore, penso sia più probabile che si tratti di souvenir.
Fece una breve pausa, per compiacersi della reazione ammirata dell’amico, quindi concluse:
- L’Oceania, infine, l’ho dedotta da Lady Cumbernould! I suoi tratti somatici sono inconfondibili!
- Però potrebbe essere cresciuta in Inghilterra.
- Acuta osservazione, Watson! Dal suo modo di abbigliarsi, diciamo ‘tralasciando’ alcuni elementi, si può dedurre che è stata abituata a vestire in modo più libero rispetto alle donne inglesi! Tuttavia, sua madre é, od era, sicuramente inglese, e anche una donna della buona società, probabilmente figlia di un proprietario terriero: Lady Cumbernould, infatti, ha una pronuncia inglese molto buona, quindi almeno uno dei suoi genitori dev’essere inglese; inoltre, i suoi modi di fare e di esprimersi indicano che ha avuto un’ attenta educazione femminile. Suppongo anche che la madre sia stata, almeno in gioventù, quello che si dice romanticamente uno spirito libero e probabilmente la figlia ha preso esempio da lei.
- Che intendi dire?
- Che la madre di Lady Cumbernould non si sarà unita al suo indigeno con la benedizione del padre: questo denota certamente un carattere forte e anticonformista, tanto più che si trovava anche in un Paese straniero, dove aveva solo la sua famiglia come punto di riferimento e non sarà stato certo uno scherzo voltare le spalle a quella sicurezza.
- Invece, Lady Cumbernould?
- Beh, a giudicare dai suoi … - stava aggiungendo ‘ritratti’, quando si frappose un latrato insistente.
- Uncas!- esclamò Holmes affondando i suoi occhi nello scorcio di parco incorniciato dall’alta finestra.
- No, Uncas è con i miei, ricordi? E’ il cane del preside, Cherry … – Watson si interruppe, vedendo che sugli occhi dell’amico il riverbero della candela pareva più umido.
John Watson l’anno prima aveva osservato la strana abitudine di Holmes durante i pasti serali. Il ragazzo era solito portarsi dietro un libro e cercava di sedersi sempre all’angolo più distante del tavolo; quindi apriva il libro, frapponendolo tra lui e la finestra, e rimaneva chino sulle pagine, fino a quando da fuori sopraggiungeva la voce di Elizabeth che tentava di richiamare Uncas. Allora sollevava il volto, seguendo il passaggio della ragazza. Watson non poteva vederlo, ma intuiva quale fosse il suo sguardo: quello di un ragazzo profondamente innamorato e speranzoso di condividere il suo futuro insieme a lei.
- Holmes … - sussurrò Watson.
L’amico chinò gli occhi sulla minestra, ancora quasi intatta.
- Sì, dimmi.
- Che ne dici se domani andiamo al cimitero? Possiamo prendere la carrozza delle sette.
Il viso di Holmes rimase un attimo privo di espressioni, come se quella domanda non avesse ancora un senso per lui.
- Io ci sono andato spesso, l’anno scorso. Il custode tiene tutto molto curato.- continuò Watson.
- D’accordo!- rispose atono l’altro. – Che ne dici se adesso ci concentriamo sulla cena?
- Certo!- rispose Watson, preso un po’ alla sprovvista da quel tono brusco.
Consumarono il resto della cena in silenzio , quindi risalirono nel loro dormitorio, dove, finalmente, Holmes avrebbe svelato all’amico il motivo del suo ritorno.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** CAPITOLO IV ***


Watson, abbottonata la camicia da notte e appoggiati gli occhiali sul bordo della scrivania, si posizionò comodamente sul letto, con le gambe incrociate; aveva atteso quel momento tutto il pomeriggio ed ora era predisposto ad ascoltare il resoconto dell’amico come da bambino la sua favola preferita.
- Allora?- domandò.
Ma Holmes nel frattempo si era avvicinato alla finestra e guardava qualcosa fuori. Il suo volto triste macchiava il vetro con il suo riflesso, che sembrava sprofondare in quel nero anfratto senza luna. I suoi occhi stavano rintracciando l’impronta sbiadita di due ampie vetrate, quelle della soffitta dove avevano vissuto Elizabeth e il professor Waxflatter. In passato, grazie alla laboriosità notturna di quest’ultimo, erano rimaste spesso accese fino a tardi, portando il ragazzo a spiarle, dopo che i suoi compagni si erano addormentati, con la speranza di scorgervi l’ombra della sua amata.
- Allora, Holmes?- ripeté Watson, inconsapevole dei malinconici pensieri dell’amico.
Il riflesso di Holmes si scollò dal vetro bruscamente, mentre il ragazzo si voltava verso Watson; i suoi occhi ora erano nuovamente impenetrabili, come se la loro nostalgia fosse evaporata nell’aria notturna. Si sedette di fronte a lui, mettendosi una mano nella tasca interna del gilet e facendo apparire una busta giallognola, macchiata da residui di cera scura.
- Qualche mese fa- disse Holmes – ho ricevuto questa.
La grata della stufa accesa inondava la stanza di ombre vacillanti, che a tratti scomponevano i volti dei due amici insinuandosi sulle pieghe della loro pelle.
Holmes sfilò e spiegò il foglio che vi era contenuto e la bugia che il ragazzo le avvicinò rese la sua filigrana quasi trasparente.
- E’ una lettera! Chi te l’ha mandata?- chiese Watson, nonostante non ritenesse che il mittente poteva essere importante quanto il suo contenuto; lo disse più che altro perché sapeva che l’amico avrebbe apprezzato quel modo così ordinato di procedere mentalmente. Ma la risposta di Holmes fu una vera sorpresa per lui:
- Un Ramethep!
- Cosa?- farfugliò Watson.
- Ma non c’è l’intestazione! – disse constatando che il foglio recava solo le leggere increspature di un’elegante calligrafia.
- Sì, un Ramethep! O per essere più precisi, un suo legale. L’ho ricevuta qualche mese fa’, a Nottingham. Sta a sentire cosa mi ha scritto.
 
 
                                                                                                                                                                                                     Londra, maggio 1871
 
Gentile signor Holmes,
 
confido nel Signore che voi non buttiate via questa mia missiva e che abbiate il buon cuore di leggere le parole di un dannato, che tanto dolore vi ha arrecato. Purtroppo, intuisco che chiedervi perdono, soprattutto dopo così breve tempo, sarebbe accolto come un azzardo e un’irriverenza, dunque mi limiterò a dirvi solo che sono profondamente addolorato e che non c’è giorno che io non riviva e patisca le mie scelte e le conseguenze di queste. Scrivo questo perché so bene che vi potrà essere di qualche consolazione sapere che anch’io ho una coscienza e che questa potrà torturarmi fino all’ultimo dei miei giorni.
Posso solo dire che in questi ultimi anni non ero in me: la disperazione e l’uso di droghe mi hanno fatto divenire un mostro, ma ora che il cappellano mi ha fatto incontrare il Vangelo, sono tornato finalmente un uomo, mister Holmes.
Ed è per questo che ora vi scrivo. Voglio tornare a Dio privo di uno scrupolo che mi sta divorando, perché potrei mettere in luce un atto criminoso che altrimenti sarebbe gravemente sottaciuto per sempre. Ed è per questo che io vi chiedo aiuto!

 - Non interrompere, Watson!
 
Cinque principesse sono state uccise in nome del Ramethep, ma almeno per una di queste io so che c’era un mandante che non faceva parte della nostra setta: si tratta di una persona danarosa, potente, che ci ha ingaggiati per rapirla e sacrificarla. Non posso scrivere il suo nome in questa lettera, né confessarlo a Scotland Yard: non ho prove e le mie accuse passerebbero solo per calunnie. Questa persona, poi, ha conoscenze ovunque: ho paura che riponendo male la mia fiducia, qualcuno potrebbe zittirmi prima che cali su di me la forca.
La mia unica speranza è riposta in voi, voi che siete riuscito ad arrivare alla nostra setta e ad uccidere Eh- tar, liberandomi da quell’infausta piramide. So che avete un’integrità non meno solida del vostro coraggio e della vostra intraprendenza. Vi prego, venite a trovarmi in carcere, così potrò raccontarvi ogni cosa. Vi dirò il nome di chi ha ordinato la morte della povera ragazza e voi, ne sono sicuro, troverete tutte le prove della sua colpevolezza.
Vi supplico di fare la scelta giusta, se non per la mia coscienza, per dare giustizia a quella povera vittima.
Vi ringrazio per aver tollerato di  leggere le mie parole.
 
                                                                                                                                                                     W.J.Steven
 
 
- Ma è disgustosa!- commentò Watson che mentre il suo amico andava leggendo si era fatto sempre più paonazzo.
- Disgustosa?- chiese Holmes ripiegando il foglio.
- Sì, dall’inizio alla fine. Già come si rivolge a te, parlando del tuo dolore: ma come si permette? Poi, il suo modo furbo di dire ‘no, non voglio perdono, non lo merito, però giuro che sto soffrendo tanto’! Per non parlare del fatto che arriva perfino ad inventarsi un misterioso e ricco mandante che non ha un nome né un movente- e non penso per le ragioni che ti ha menzionato lui! E’ chiaro che ti voleva incontrare sperando che tu cambiassi idea sul suo conto e lo salvassi dalla fine che ha fatto!
- Non ha fatto quella fine, Watson.- disse Holmes rimettendosi in piedi.
- Cioè? Non mi dirai che gli hai salvato la pelle?
- No, perché ce l’ha rimessa ancor prima che ci pensasse la giustizia. Non hai letto i giornali in questi mesi?
- In continuazione!- rispose l’amico, cercando di ricordare l’assassinio di un Ramethep in mezzo alla miriade di articoli inutili.
- Non ricordo nessun Ramethep assassinato.
- Semplice, secondo le autorità e la stampa non si è trattato di omicidio, ma di suicidio. Che congettura assurda!
- Beh, molti preferiscono farlo da soli … Ho letto in alcuni libri di guerra che chi cadeva in mano nemica …
- No, il nostro ex conoscente voleva togliersi un peso dalla coscienza prima di morire e, stranamente, le sue parole circa una sua morte prematura sono state addirittura profetiche. Se lo sentiva che c’era qualcuno di cui non poteva fidarsi!
Watson era talmente esagitato che inforcò nuovamente gli occhiali. Dopodiché sbottò:
- Ma non sei felice che sia morto! Stava per sacrificare Elizabeth insieme a tutti gli altri.
Nessun turbamento scosse il volto di Holmes, così come il tono della sua voce era rimasto inalterato mentre leggeva le prime righe di quella lettera che si rivolgevano a lui così intimamente.
- Ero felice che presto sarebbe morto, Watson – disse tranquillamente - ma avrei preferito prima sentire quello che aveva da dire!
- Andiamo, saresti veramente andato a trovarlo in carcere?
- Ci sono andato!- corresse Holmes – Solo che lo avevano trovato morto quella stessa mattina; non ti pare un’altra strana coincidenza?
Watson stava per aprire bocca, ma il suo amico non era veramente interessato alla sua opinione, certo della propria.
- Un uomo vicino alla sua fine- continuò infatti Holmes - difficilmente mente: lui non aveva più nulla da perdere e le sue colpe erano troppo gravi perché la sua collaborazione con la giustizia potesse attenuare la sua posizione. Purtroppo, quel giorno non sono stato molto fortunato: il suo legale era fuori città e subito dopo è partito per le Indie. Ma adesso è nuovamente a Londra e lunedì possiamo andare a scambiarci quattro chiacchiere: ho già preso l’appuntamento!
- Possiamo?
- Non volevi condividere questa avventura con me, come ai vecchi tempi?
- Sì, ma se si tratta di un uomo così influente, cosa possiamo fare noi da soli? Forse, sarebbe meglio lasciar fare a Scotland Yard. Hai la lettera, no? E poi c’è l’avvocato: Lestrade non può fare sempre orecchie da mercante!
- Lestrade è un nodo iniziale, superato il quale non è detto che le indagini procederebbero molto più in là, nell’ ipotesi, non confutabile, che uno dei suoi superiori sia corrotto.
Il ragazzo fece una pausa, quindi avvicinandosi a Watson disse:
- Io penso che valga la pena indagare, Watson!
L’amico lo guardò con aria delusa.
- Mi aspettavo qualcosa di diverso, Holmes, qualcosa di veramente avventuroso e misterioso.
Watson, di fatto, in quelle ore aveva lavorato molto di fantasia, immaginando di essere trascinato in mirabolanti inseguimenti tra le nebbie londinesi, cercando di acciuffare ladri della fama di Arsenio Lupin, o di trovare i loro nascondigli segreti dove recuperare una preziosissima refurtiva. E queste fantasie avevano sempre un epilogo trionfale, con tanto di premiazione da parte della Regina Vittoria e lo sguardo commosso di suo padre.
Di fronte a tutto questo, era chiaro che la prospettiva di rincorrere i fantasmi cari ad Holmes non lo allettavano granché. Sì, perché Watson aveva il sospetto che l’amico desiderasse ristagnare nei suoi ricordi: l’aveva osservato giù in refettorio ed ormai era sicuro che il vincolo con Elisabeth, invece che dissolto o attenuato, era rimasto inalterato. Anche Watson aveva sofferto molto: la perdita di Elizabeth era stata per lui un’esperienza atroce, la prima di quelle che inevitabilmente impartisce la vita. Ma lui poteva gestire meglio il suo filtro emotivo, accettando di trattenere nei suoi pensieri solo ciò che voleva- e non voleva assolutamente rivivere quel tracciato di morte e disperazione che lo avevano toccato così da vicino.
Ma Holmes non stava seguendo il filo ombroso delle sue impressioni. Tutto entusiastico, continuò:
- Non ti pare stimolante assicurare il mandante di un assassinio alla giustizia? Secondo me, invece, sarà un caso veramente interessante: dovremmo indagare nella sfera privata delle quattro ragazze uccise dai Ramethep e sappiamo fin d’ora che la nostra preda è una persona molto influente e senza scrupoli; non sarà una partita facile, assolutamente!
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** CAPITOLO V ***


Muoio ma quando la tomba opprimerà
Il cuore che a lungo ti è stato caro
Quando le cure terrene non mi daranno angoscia
Né le gioie terrene avranno peso per me
 
Non piangere, pensa che prima di te
Ho attraversato un mare di tenebre
Ho gettato l’ancora e che ora riposo
Dove né lacrime né pianto possono giungere
 
Io dovrei piangere, io che ti lascio
A navigare su questo oceano fosco
Tra l’infuriare delle tempeste e la paura
E non una luce a mostrarti la riva
 
Ma sia lunga o breve la vita
Può forse paragonarsi all’eternità?
Ci separiamo quaggiù per incontrarci in alto
Dove secoli di gioia non muoiono mai.
                                   (Emily Brontë)
 
 
 
Un cielo nero intingeva delle sue fosche velature i monumenti in pietra del cimitero londinese, risaltando per contrasto i riverberi ferrigni degli alberi e le bianche stradine che li circondavano. Le inferriate delle tombe brillavano di umidità  mentre i lumini sui gradini delle cappelle e i lanternini saldati ai muri dei loculi irradiavano piccole macchie di luce, contorte pericolosamente dalle fredde folate di vento. Molte foglie chiazzate di ocra erano grondate sui brulli dossi delle sepolture, intrappolandosi tra i fusti delle eriche e delle ginestre o nascondendo piccoli vasi rinsecchiti dall’abbandono. Non era però il caso dei due giacigli di terra davanti ai quali Holmes e Watson si erano fermati a pregare, completamente ripuliti da foglie ed erbacce. Il custode, Francis Richmond, dietro il compenso di tre scellini mensili che Holmes gli faceva recapitare puntualmente da che era stato via, provvedeva a tenerle in perfetto stato, come se fossero state appena occupate. Anche la giovane pianta di rose bianche, che cresceva a un lato di una delle due croci, era stata ben seguita: le pallide ed eleganti corolle avevano un velluto perfettamente sano, i germogli rossi si stavano aprendo vigorosi e il disegno dei rami era stato tenuto ordinato da passate ed esperte potature che avevano reciso i fusti interni laddove lo sviluppo li avrebbe intrecciati. Il custode aveva provveduto anche a lustrare le incisioni di ottone, liberandole dalle incrostazioni di fango e terriccio, consentendo così ai nomi di Rupert Nigel Waxflatter ed Elizabeth Sophie Hardy di scintillare impeccabilmente contro il marmo annerito dalle piogge. Non che poi quelle tombe fossero state considerate più di tanto, a parte le visite mensili e sbrigative di Watson e quelle più rade del signor Cragwitch: nessun collega che sentisse nostalgia del professor Waxflatter e nessuna amica londinese che potesse ricordarsi di Elizabeth.
Il custode, comunque, aveva svolto bene il compito che gli era stato affidato.
Era un uomo basso e dalla postura sghemba, per colpa di una tenace artrite al ginocchio. Nonostante ciò, si spostava velocemente di qua e di là, soprattutto quando c’erano dei visitatori a cui dare una mano o un’indicazione. Sapeva esattamente le locazioni di tutti i defunti e imparava subito le facce dei loro famigliari superstiti. Era, quindi, molto stimato per la sua efficienza da tutti i Londinesi, che ancora di più, però, lo apprezzavano per quel suo modo coinvolto e sincero di far parte dei loro lutti. Il signor Richmond, infatti, era uno che ascoltava: ascoltava il pianto, silenzioso e antico quanto le vedove dalle quali scaturiva, quello segretamente folle, pieno di insani intenti, dei genitori che avevano perso un figlio, quello feroce e capriccioso, il più straziante, dei bambini, nel giusto sdegno di aver perso la propria madre o un affettuosissimo nonno, quello desolato e tenero, il più poetico, di un vecchio o giovane uomo abbandonato dalla propria metà.

- Era proprio una bella ragazza! Che aspetto dolce!- aveva sentenziato il signor Richmond guardando la foto di Elizabeth, il giorno che il ragazzo lo aveva portato sulla sua tomba.
- Lo era!- aveva annuito Holmes, anche lui guardando con la stessa attenzione quell’immagine amata. 
- Mi dispiace davvero tanto, ragazzo, anche per te. – aveva continuato l’uomo risistemandosi sui ricci arruffati e sottili il berretto che si era rovesciato in mano in segno di rispetto.
Holmes era in preda ad una strana agitazione. Stava lasciando Londra e il suo baratro di ricordi e prevedeva che non sarebbe più tornato indietro. Eppure, non si sentiva triste: nella sua mente rivivevano possenti le parole che il sacerdote aveva utilizzato nell’omelia per Elizabeth:
‘La morte è sì uno strappo, in questo mondo fatto di pura materia. Eppure, il giro di vite è breve e solchiamo veloci questa terra verso la stessa meta. Se non vediamo solo con gli occhi, intorno a noi, tutto- ogni luogo, ogni situazione- porta in sé dei punti di sutura tra la nostra vita terrena e la superficie radiosa di quella che presto vivremo, di nuovo tutti uniti.’
Holmes aveva sollevato lo sguardo verso il custode, rispondendo:
- Non deve. Infondo, ci separa un punto sottilissimo, che può essere cancellato con estrema facilità. E quando ciò avverrà, sarà come se questa separazione non ci fosse mai stata.
- E’ triste sentirti parlare così, alla tua età! Non vuoi sistemarti?
- Ora non più!
- Un domani sono sicuro che ne avrai voglia, invece!
- Non varrà la pena con nessun’altra. Rimarrò legato a lei.
I seri occhi del ragazzo, che sembravano piegati oltre il profilo della realtà, avevano colpito l’uomo.
- Ci si trova male a convivere con i fantasmi, credimi. Non fare il mio stesso errore!
Aveva poi aggiunto, mentre Holmes aveva ricomposto sui suoi occhi un’espressione attenta:
- Qui vicino, ho seppellito uno dei miei figli: aveva 7 anni quando morì di consunzione. Non ho voluto lasciarlo andare, pensando che prima o poi sarei guarito da quella follia e che quel vuoto sarebbe sparito da sé, ma non c’è stato verso! E’ sempre rimasto piantonato qui- così dicendo si era posato una mano sul bavero del giaccone, vicino al cuore.- Nulla è riuscito a scollare via dalla mia vita questo dolore. E’ come uno spazio invisibile, dentro la propria esistenza, che continua a crescere, ad acquisire un peso, fino a confinare con tutto ciò che rimane della vita. Per metà sono qui, a parlare con te, e per l’altra metà sono rimasto indietro, all’ultimo giorno di mio figlio su questa terra. E pensi che questa sia la felicità? No, la felicità è ciò che c’è ancora, ciò a cui possiamo essere ancora utili. I miei nipotini, loro sì rischiarano questo rudere!- si era battuto ancora sullo stesso punto.
- In breve, ragazzo, perdonami se insisto, lo so che è troppo presto perché tu mi creda, ma vorrei solo farti scivolare nelle orecchie le mie parole, sperando che più in là possano acquisire un valore per te. Quello che vorrei dirti, semplicemente, è che non dobbiamo certo dimenticarci di coloro che abbiamo perso, ma dobbiamo anche lasciarli chiusi nei loro feretri. Perché altrimenti si cade nel mio delirio e si rischia di vivere solo in parte.
Holmes aveva seguito quelle parole con estremo interesse, ma non come avrebbe voluto il custode.
 
Nei primi due giorni dopo la morte di Elizabeth, prima che si svolgessero le esequie, Holmes non mostrò nessun segno di shock: il suo dolore era lucido e sconsolato, insopportabile.
Rivisse continuamente il suo addio a Elizabeth, le ultime carezze che aveva tributato alla sua salma, nel dimesso obitorio del SB Hospital; sentiva, in quei momenti, come se il tatto della sua mano si rincollasse a quel gelido e liscio substrato di guance, fronte e mani;  un vorace freddo iniziava a diramarsi nelle sue vene, rodendo dall’interno il naturale calore delle sue carni, e penetrava denso nel suo cuore, seccandolo all’istante. Tutto di lui, allora, diveniva un attrito di dolore e meraviglia, come se delle ragnatele pesanti gli avvolgessero le membra, soffocandogli la voce e incapsulandogli le lacrime, che faticavano a scendere, e arrestando i suoi pensieri appena sull’abisso di un’inutile disperazione.
Rimaneva con la sensazione di un’illusione smascherata, individuando  il suo destino nella matrice incompiuta di quei freschi sentimenti, che erano stati intense sfumature, estese nel dinamismo della vita, ed ora erano rigide e rimpiante scene che non potevano più divenire, appese unicamente agli occhi nella penombra dei ricordi.
Tuttavia, l’incontro con il sacerdote e con il custode aveva messo in moto un ingranaggio nascosto nella mente di Holmes, che lui stesso non aveva mai sospettato di possedere. Era sempre stato un ragazzo pratico e razionale, troppo interessato a osservare per immaginare. Ma ad un certo punto, la sofferenza gli aveva sortito quello che gli pareva essere un grande dono. Sapeva che era una mistificazione, e anche patetica, ma l’avrebbe saputa dosare nel modo giusto, quel tanto che gli bastava per rendere i giorni futuri meno detestabili.
 
Il suo primo istinto era stato quello di fuggire e trovare un luogo vergine dei passati ricordi, dove poter scompaginare la sagoma della sua amata dagli sfondi menzogneri di Victoria Queen Institute; si era convinto così di poterla scrostare da quei rigagnoli di sangue, che sembravano essere stati segretamente disposti sulle sue vesti il giorno stesso che lei aveva messo piede in quell’odiato posto.
Come aveva detto il sacerdote, in qualche modo era percepibile l’aldilà, insieme alla presenza di coloro che vi erano già approdati. I due mondi, secondo l’unica radice intima e debole della mente di Holmes, potevano intersecarsi, se lui avesse fatto spazio alla sua amata nel suo vivere quotidiano. Infondo, cosa poteva impedirgli di renderla ancora viva, per lo meno in quello spazio segreto e immaginario, come aveva fatto il custode con il suo bambino? Le conseguenze pericolose di cui l’aveva avvertito l’uomo non lo intimorivano, giacché lui era sicuro di poter fare a meno di quel tipo di calore, tanto desiderato dalle altre persone. Lui aveva bisogno solo della sua dolce Elizabeth.
Nella Saint Andrew School di Nottingham, tutto era molto diverso dalla sua precedente scuola, dall’architettura all’arredo, dall’ambiento umano al tepore dorato che annebbiava le stanze esposte all’esterno. Gli era sembrato il luogo più adatto per intraprendere quella nuova e strana convivenza con Elizabeth.
Voleva udirla ridere, anche di lui, voleva vederla passeggiare per i corridoi delle aule e infilarsi tra i banchi per seguire le sue stesse lezioni e voleva ricostruire sulle labbra il palpito leggero del suo bacio.
Ma non fu affatto così: Elizabeth era sì dappertutto, ma era anche lontana, estranea a quel posto, e le sue visioni si fecero più rarefatte, come un’ombra che si assottiglia quando il corpo che l’ha evocata nella luce modifica il suo percorso.
Eppure, Holmes non la stava assolutamente dimenticando, anzi: il pensiero di lei sfarfallava breve e profondo come un fremito nella sua mente, quando il ragazzo si rilassava un momento nell’anonima festa di conversazioni e risa che gli si creava attorno; o diventava quasi una partitura melanconica, che chissà un giorno lui forse sarebbe stato in grado di comporre, nei momenti in cui era avvolto dal silenzio. Eppure, il suo viso gli appariva sempre più imprecisato. Questo perché lei era sempre stata una ragazza solare- aveva sorriso anche durante il suo commiato dal mondo- eppure lui aveva continuato a immaginarsela dolente, imprigionata, angosciante. Non era la sua Elizabeth, non era quella del passato.
Quando Lady Cumbernould gli aveva chiesto perché fosse tornato, aveva risposto quello che si era preparato a rispondere razionalmente: sapeva che in una scuola di buone maniere era riprovevole mancare di tatto in cose del genere e che non ci sarebbero state altre domande inquisitorie. Ma la sua risposta non era forse stata la più sincera? Perché aveva deciso di tornare a Londra? Davvero solo per assicurare alla giustizia il freddo mandante di un assassinio? Non voleva rispondersi, eppure fin da subito, varcando il cortile della vecchia scuola e adocchiando la finestra su cui lei in un giorno triste aveva osato dichiarargli il suo amore attraverso una umida scritta, aveva provato come una fitta piacevole al cuore. Non era lui un tipo da evocare ricordi particolareggiati, ma lì l’ingrediente di luci, suoni, odori, che erano stati tanto famigliari a entrambi, pareva ancora una volta riunirli.
Elizabeth non era più un fantasma, tormentato e pigro, e consapevole della sua fine brutale, ma l’essenza stessa di quel posto, qualcosa di tangibile, rintracciabile attraverso una fitta mappa di ricordi; questi, poi, non si risolvevano semplicemente in statiche immagini passate, ma erano vive esperienze di sensi, che sortivano le stesse emozioni di quelle sulle quali erano calcate.
Ecco che, a differenza di quanto aveva inizialmente temuto Holmes, in quella buia scuola lei era rimasta la amata e serena Elizabeth. E nonostante ogni ricordo lo rendeva malinconico, il suo cuore si sentiva nuovamente riempito, saggiamente consapevole che gli rimaneva qualcosa di Elizabeth che poteva ancora fargli compagnia- e non sapeva immaginare nulla di così prezioso.
Quelle meravigliose esperienze proustiane, così, vivevano gelosamente custodite nelle intercapedini temporali nelle quali scaturivano.
La sua Elizabeth non era lì, calata in quel tenebroso tumulo, che rappresentava per Holmes una parentesi distruttiva da tenere il più possibile compressa nella sua mente.
Dedicò un’occhiata superflua al decoroso insieme delle due tombe e si immerse nella rispettosa liturgia di preghiere, priva di pensieri e di emozioni, come spesso gli succedeva nella cappella della scuola.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** CAPITOLO VI ***


In un quadrato di cielo e pietre dipinti, Macbeth e sua moglie erano impegnati in un drammatico confronto.
- Il mio spirito è stato avvelenato dalle profezie di quelle immonde e la maledizione della gloria ha stregato i miei passi verso un sentiero di sangue e violenza. Ed eccomi, un mostruoso assassino, non di nemici, ma di amici e bambini, in questo enorme patibolo di pietra e tenebre della mia torre. I fuochi e i canti di battaglia che si levano all’orizzonte mi stanno circondando. Oh, canaglia di moglie, infida tentatrice, è alla più tremenda disfatta che ci hai condannati.
- Nessuno potrà vincere colui che hanno designato le stelle come il grande re di Scozia. 
- Taci, quarta strega! Ah, è orribile annusare la fresca innocenza dell’aria notturna, essere immersi nell’immensa giara di stelle, e pensare che tutta questa purezza entra nei miei sensi, infettati dalle peggiori empietà. Non sono degno di avere sul mio castello il divino stendardo degli astri. Meriterei un’aria perennemente rossa e grumosa di nubi, guastata dal puzzo di una vallata di cadaveri. Questa sarebbe l’unica mia patria!
- No, Macbeth. Le stelle scintillano dov’è la grandezza, dov’è il coraggio di unirsi al proprio destino. Tutto il sangue che abbiamo versato era prestabilito. Ti arrenderai dunque a Malcolm, Barone di Cawdor?
- Cosa mi chiedi? Sai bene che le mie spade son affilate e pronte. Un combattente conosce un solo modo di morire.
- E sia, allora, combatti e mozza la regale testa di Malcolm! Allora la corona sarà tua!
- Come il suggello di sangue che mi legherà alla mia irrequieta coscienza. Hai fiele nel tuo corpo nella stessa dose della bellezza. Il sangue corrode anche te.
- Che vai dicendo? Non porto macchie sul candore della mia pelle.
- Sì, ti trafiggono come delle nere ferite.
- Non le vedo!
Così dicendo, Lady Macbeth si guardò i palmi delle mani e una vernice rossa, di sicuro effetto, scaturì tra le sue dita! 
 
- Che impressione!- esclamò Mrs Orwitt ripensando a quell’effetto speciale. – Ma secondo te era sangue? Voglio dire, sangue di un povero animale?
- No, era troppo rosso e brillante!- rispose il marito, mentre passeggiavano a braccetto nel cortile del Lyceum Theatre, dirigendosi verso lo spiazzo delle carrozze.
Il signor Orwitt e la sua consorte avevano seguito anche quel sabato sera un elegante programma: avevano cenato fuori, al ristorante del Bethram's Hotel, poi avevano partecipato a un breve incontro di beneficenza al The Law Club, dove l’avvocato aveva potuto stringere un paio di contatti di probabile rilievo professionale, e quindi si erano recati a teatro per la consueta conclusione culturale. La signora Orwitt ci teneva a fare quelle uscite mondane, soprattutto dopo la loro lunga permanenza in India, dove le serate scadevano in monotone partite a bridge tra i pochi vicini civili e il massimo del diversivo era osservare dalla finestra lo spettacolare alterco nel folto degli alberi, quando i monsoni arrivavano con le loro correnti di pioggia.
Erano sposati da poco e, molto giovani entrambi, non avevano ancora maturato l’idea di mettere su famiglia. Il signor Orwitt voleva affermarsi nella carriera e sua moglie, ormai compresa la natura sociale delle donne, cercava di fare del suo meglio per sostenerlo. Per questo, non si era mai lamentata della scomoda vita che avevano patito in India, né del fatto che il marito aveva sempre poco tempo da dedicarle. Le bastava avere quelle serate di evasione, nelle quali tornare a condividere con lui gli interessi culturali che li avevano subito uniti ai tempi dell’università.
Per fortuna il tempo si era rimesso bello, quasi provvidenzialmente. La coltre fumosa delle nubi, infatti, si era completamente dissolta nell’impetuosa tempesta del pomeriggio e il globo pallido della luna irradiava come un sentiero iridescente nella volta celeste, nonostante lo smog cancellasse molti dei puntini luminosi di quest’ultima.
Le strade però rimanevano cosparse di pozzanghere vitree in cui la luna si era disseminata in minuscole copie, spesso frammezzate in coriandoli luccicanti al passaggio veloce di qualche carrozza.
- Cara, tu rimani qui. Non vogliamo mica rovinare già gli stivaletti nuovi?
- Lo sai che non mi piace quando mi fai sentire impedita!- disse lei con un finto broncio.
- E tu, invece, non sai quanto sia merce rara e preziosa la galanteria del famoso avvocato Orwitt!- e dopo aver allungato lo sguardo verso l’asse del marciapiede per assicurarsi che i gruppetti di persone lì fermi fossero troppo impegnati a scambiarsi impressioni e giudizi sullo spettacolo per notarli, si avvicinò all’orecchio della moglie e lo inumidì con le labbra.
- Su, vai!- disse la moglie discostandosi all’istante e dedicandogli il suo amabile sorriso infantile.
Il signor Orwitt continuò a fissarla. Era compiaciuto della sua bellezza e, soprattutto, dell’effetto che questa produceva sugli altri gentiluomini. Anche la sua giovane consorte contribuiva a renderlo un uomo invidiabile e questo era per lui la qualità più importante della signora Orwitt.
Dopo aver scambiato un ultimo sguardo d’intesa con la sua signora, attraversò la strada, facendo attenzione alle pozzanghere, ed entrò nel posteggio delle carrozze. Queste erano in fila, sotto i padiglioni, formando con i loro telai scuri come una sorta di minaccioso sipario. Alcuni conducenti gli rivolsero un cenno di saluto, pensando che sarebbe salito sulla loro carrozza. L’avvocato, invece, continuò a muoversi accanto ai fianchi delle carrozze, in cerca della sua, fintanto che un’ ombra gli sbucò davanti, leggermente più chiara dello sportello da cui era scivolata. Il signor Orwitt non ebbe il tempo di dire nulla, neanche di comprendere quanto fosse pericolosa. Un velo nero cadde sui suoi occhi e sugli altri sensi.
 
Il signor Orwitt concluse che sarebbe morto presto. Perché il bollore alla testa, che continuava a schiacciargli ogni muscolo, nervo e lembo di cervello in essa racchiusi, era diventato ormai quasi intollerabile. Sentiva gli arti come residui estranei, dove a tratti tremava qualche nervo. I battiti cardiaci strepitavano con ostinazione nel nero calice del torace, investendolo di spasmi dolorosi. Il respiro stava iniziando a compromettersi e sempre meno aria riusciva a scivolargli dentro ai polmoni. La grezza benda annodata nella sua bocca, fradicia di saliva, sembrava graffiare con le sue pieghe l’indifesa arcata del palato e ormai scottava come fosse stata stesa su una brace.
Quanto poteva ancora tirare avanti? Era sicuramente questione di poco, ma quanti ancora dolorosissimi, insopportabili respiri?
Un sommesso ronzio gli girava attorno, prodotto dalle catene sospese che gli ammanettavano polsi e caviglie. Aste di torce sfavillavano come appese nel vuoto di quel grigio ammuffito ma non precisavano nessun dettaglio circostante, sovraccaricate dalle ombre che scendevano sulle pareti come spaventosi sudari.
Ad un certo punto udì dei passi, dietro di lui. Intravide un lungo scintillio argentato, vicino al suo orecchio. Allora la sua agonia sarebbe finita prima del previsto? Chiuse gli occhi, quasi grato.
Il suo ultimo pensiero non fu per la signora Orwitt, né  per la discendenza che non avrebbe potuto avere. Stranamente, la sua mente aveva rimuginato sul fatto che lì non ci fosse una finestra, da dove spiare un lembo di esterno o sentirsi benedire dai raggi di quella magnifica luna piena che stava splendendo sui lucidi tetti di Londra; come se avesse potuto avvertire la sua carezza, come se quell’astro avesse potuto essere un regale accompagnatore nel suo trapasso, o quel tuffo di città garantire un’ultima repentina passeggiata terrena alla sua anima! Immaginò quindi di volare libero e leggero, come diluito nell’inchiostro notturno, verso quella luna salvifica. Una sensazione di estatica bellezza inondò il suo spirito riassorbendo nel suo nobile spessore ogni paura, acquietando per il suo breve corso anche la percezione violenta del dolore.
Ma ecco che una punta di ferro fremette su un lato del suo collo, affiorando dura in quella sensazione fredda e piacevole, quasi consolatoria, prodotta dal suo materiale. E venne giù lo squarcio, disegnandosi sotto uno zampillio carminio in un rigo curvo e scuro contro la striscia pallida del collo. Il signor Orwitt riaprì gli occhi, bruscamente, li fece dondolare assieme a tutto il volto, mentre la sua voce vinceva il bavaglio e fuggiva via come un interminabile latrato.
La mano assassina attese quei pochi minuti di agonia, quindi iniziò ad operare sul corpo della sua povera vittima.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1041548