A new dawn

di _Hysteria_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


A NEW DAWN

 

Prologo

 

Questa è una storia come tante. Niente di eccezionale o particolarmente emozionante, ecco.

 È la storia di una problematica quasi-diciassettenne che non ha avuto mai niente dalla vita, se non la vita stessa. Ed ecco che, alla vigilia dei suoi diciassette anni, decide di prendere in mano la sua vita come nessuno aveva mai fatto quando ancora non ne era in grado.

 È seduta alla sua malridotta scrivania a fumare una sigaretta ‘di contrabbando’ per quel posto, nella sua malridotta stanza in quel fottuto e malridotto orfanotrofio. Lei è Hope. Nome un po’ assurdo da dare ad una bambina che abbandonerai al suo quinto giorno di vita, no?

 Hope non ha avuto un passato che riesca a ricordare prima dell’ingresso in quell’orfanotrofio; le uniche cose che lo precedono sono la sua nascita, il suo nome, ed una madre troppo poco materna ma con un ottimo senso dell’ironia.

 Hope, nonostante il suo nome, è cresciuta con quasi nessuna speranza riguardo la sua vita. Una donna che era stata in quell’orfanotrofio assieme al marito per adottare un bambino che altrimenti non avrebbero potuto avere, infatti, dopo il primo incontro con la bambina le disse “Cancella quella speranza dai tuoi occhi, cara. Le tue speranze verranno sempre spazzate via da qualcuno o qualcosa… o dalla vita stessa.” e terminò la sua sentenza aggiungendo “Non sei tu la bambina che desideriamo.” e poi, rivolgendosi con un sorriso freddo alla donna che gestiva quel triste luogo “Troveremo qualcosa di meglio, ne son sicura.”.

 Fu così che Hope, all’età di 5 anni, si vide portar via l’unica speranza che coltivava fin da quando riusciva a ricordare: una famiglia che l’amasse.

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Capitolo I

 

 Non si chiede più il perché delle cose, Hope. Non nutre speranze, non vive come vorrebbe… Beh, in realtà non vive. Esiste e nient’altro. Non ama nessuno là dentro; non prova emozioni eccetto una: l’odio verso chiunque passi per la sua vita senza lasciarle mai niente di positivo.

 Entrano ed escono dalla sua vita manco fosse un bagno pubblico e ci lasciano solo il male che si portano dietro.

 In quell’orfanotrofio arrivano tanti bambini che lei guarda dapprima con pietà, che si trasformerà in disprezzo poco dopo al pensiero che loro avranno ciò che cercano. Avranno amore e felicità, avranno quella famiglia che a lei è stata negata e non saranno costretti a stare là dentro fino alla maggiore età.

 Hope è l’unica ragazza di diciassette anni o giù di lì a vivere ancora in quel dannato ostello obbligatorio. Anzi no, in realtà c’è un’altra ragazza. Ha sedici anni appena ed è là dentro da circa otto anni. Ce l’hanno abbandonata i suoi genitori, troppo impegnati a pensare alle apparenze anziché aiutare la figlia a superare quegli strani problemi che la sua mente malata dava a tutti loro.

“ È pazza”, hanno detto cedendola per sempre al reparto psichiatrico di quell’enorme orfanotrofio, “ Curatela e… trovatele una sistemazione, se volete. Noi non possiamo prenderci carico di un fardello simile.”

 ‘Fardello simile’?  pensò una confusa e piccola Hope origliando dietro la porta dell’ufficio della direttrice. E poi la vide seduta su una poltrona in disparte. Vide la bambina ‘pazza’; si chiamava Maria e aveva dei lunghi e lisci capelli biondi che incorniciavano il suo viso perfetto. Grandi occhi grigi pieni di tormento, labbra rosse e secche dalle troppe parole che sarebbero volute uscire ma si fermavano proprio lì. Indossava un vestitino celeste che cadeva perfettamente sulla sua pelle diafana e su quelle spalle fin troppo esili, quelle di una bambina fragile. Sembrava una triste Alice nel Paese dei Tormenti. Hope quasi si spaventò da tanta bellezza e tanto strazio; ebbe un sussulto e l’altra bambina si accorse di lei sollevando lo sguardo fino ad incrociarlo col suo. Hope non riuscì a sopportare quella vista e corse via per andare a rinchiudersi nella stanzetta che, vista la sua poca disponibilità ad essere cordiale col prossimo, non divideva con nessuno.

 Quella, oltre che la prima, fu anche l’ultima volta che vide quell’angelo tormentato. Venne rinchiusa nel reparto di psichiatria al quale nessun ‘ospite’ dell’orfanotrofio poteva accedere.

 Hope, quindi, si ritrovava sola anche circondata da tante persone. Era sola dentro, non aveva niente o nessuno dentro il suo giovane cuore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Angolino personale

 

 Eccoci al 1° capitolo di ‘A new dawn’ che ho iniziato a scrivere solo ieri. :3

 Innanzitutto vorrei ringraziare Isaby94 per aver recensito così positivamente il prologo di questa storia e non avermi fatta sentire troppo arrugginita nello scrivere. Spero continuerai a leggermi e recensirmi (positivamente e non, sia chiaro)! J Alla prossima, se vorrai!

 

 E poi vorrei spingere le altre persone che hanno letto che, anche se non vi è piaciuto il prologo e/o qualunque altra cosa in esso contenuta, potete comunque dirmelo. Io non mi offendo :3  

 Beh, fatevi sentire! ALLA PROSSIMA! ;)

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Capitolo II

 

 Ormai è cresciuta, ormai è matura, ormai le manca ‘solo’ un altro anno dentro quell’orfanotrofio e poi, se vorrà, potrà andar via da lì.

 Tutti sanno che lo farà il giorno stesso del suo diciottesimo compleanno, Hope non è una ragazza che si può tenere legata più del consentito. Lei odia il posto in cui è cresciuta e non ne ha mai fatto un segreto con nessuno. È considerata una ‘ribelle’, il frutto marcio che non sono riusciti a risanare, ‘Sarà nata già così. ’ dicono ‘Una piccola e fastidiosa insolente in fasce. Magari è come quella donnetta che la portò qui. Ce l’avrà nel sangue.’.

 Son tutti degli stronzi, là dentro. Tutte donne tranne il custode che fa anche da giardiniere ad un giardino che non viene calpestato da nessun bambino. ‘Fanno schifo dal primo all’ultimo! Non sanno cosa sia la gioia, cosa sia l’amore…’ pensa Hope, accorgendosi in ritardo che non lo sa nemmeno lei e, forse, somiglia a quelle persone più di quanto non voglia ammettere.

 Ma lei ha già un piano in mente: scapperà via da quel lurido posto. Sa a cosa va incontro, o meglio, lo immagina. Sa che probabilmente per i primi tempi vagherà senza meta e senza un soldo, dovrà trovarsi un lavoretto in nero e ci saranno dei rischi da affrontare, ma… Potrà vivere. ‘La peggiore delle vite vissute in libertà è sempre meglio della prigionia in quest’orfanotrofio’

 Non ha aspettative, sa che sarà dura. Non spera in niente, non spera di conoscere nessuno di buono che possa aiutarla. Non spera. Ed è questo il suo punto di forza… o la sua fonte di debolezza, dipende dai punti di vista.

 Là dentro non ha legami, pensa, nessuno ne sentirà la mancanza. Ma dovrà correre più veloce del vento ed essere più ‘invisibile’ del solito perché, nei primi giorni dalla sua fuga, quelli dell’orfanotrofio chiameranno sicuramente la polizia per denunciarne la scomparsa. È legge. E lei dovrà correre e nascondersi per bene, dovrà riuscire a sfuggire alle ricerche se vuole essere libera.

 Ancora non sa come farà con la sua identità quando sarà fuori da lì. Lei conosce solo il giorno della sua nascita e il suo nome. Ma non ha cognome, non ha una residenza propria, niente! Lei per il mondo non esiste ancora. Questo sarà un vero problema, ma lo supererà. Ne è convinta. Lotterà per ottenere ciò che vuole. La sua vita e la sua libertà.

 Mancano solo poche ore al giorno del suo diciassettesimo compleanno. Mancano solo poche ore al giorno del suo addio a quel posto, alla sua fuga.

 Hope prende una vecchia sacca che sta in quell’armadio da quando ne ha ricordo e ci mette i suoi effetti personali… Che son ben pochi, diciamocela tutta! Parte con la biancheria intima, un paio di jeans abbastanza usati e le poche magliette che ha. Lascia fuori quello che indosserà per scappare di lì: un altro paio di jeans chiari e strappati, una maglietta a maniche corte rossa ed una felpa nera; di notte fa ancora freddo anche se siamo praticamente a fine Aprile. Mette in borsa una saponetta e ci infila anche dentifricio e spazzolino. Stava quasi per dimenticare la parte migliore: la sua matita per occhi, nera, ed il suo diario.

 Bene, la sua ‘valigia’ è pronta. Lei è pronta, e sta per dire addio all’unico posto in cui sia mai stata e che odia di più.

 ‘Au revoir, carissimi!’ pensa mentre una luce si accende nei suoi occhi neri come la pece, ‘A mai più, figli di puttana!’.

 Si siede sul suo letto, accende una sigaretta che neanche dovrebbe avere e aspetta. Mancano 4 ore, ormai.

 La vita si fa sempre più vicina e la speranza di farcela, anche se, come ben sa, non dovrebbe coltivarne alcuna, si fa più viva e ardente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Angolino personale

 Ehilà! :3
 Eccomi tornata col secondo capitolo di questa storiella!
 Come l’altra volta ringrazio Isaby94 per aver letto e recensito anche lo scorso capitolo in modo molto dettagliato. Spero continuerai a seguirmi!

 E ringrazio anche Stradlin (chissà perché mi sembra di conoscerti, cara ;3 ) per aver aggiunto la storia tra le ‘preferite’!

 

 Al prossimo capitolo! Baci! :)

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Capitolo III

 

 3 ore e 42 minuti dopo.

 

 Hope si trova ancora nella sua stanza, sul suo letto, stavolta accovacciata in posizione fetale.

 Piange… e ciò non succedeva da anni, ormai. Ha smesso di piangere che era ancora una bambina. “Le lacrime non servono!” le urlò contro una suora dell’orfanotrofio quando la bambina, piangendo, si lamentava di un taglio sul ginocchio. A quanto pare la disturbava con quelle sue lacrime, la disturbava in qualunque modo. Non poteva giocare, cantare, ridere, leggere nient’altro che non fosse ‘La Sacra Bibbia’ ( le cui copie sommergevano quell’orfanotrofio), ascoltare della musica… Adesso non poteva neanche provare dolore, non poteva piangere. Le rimase l’odio. Nessuno poteva impedirle di odiare qualunque individuo si aggirasse là attorno.

 Ed ora, dopo anni che quelle gocce d’acqua salate non rigavano più il suo volto, si ritrova lì, distesa, a piangere per ‘non sapeva bene cosa’.
 Hope non capisce il perché di quelle lacrime; stava pensando a come sarà una volta lontana da quel posto ed è scoppiata a piangere, stupendo se stessa. Non sa perché, forse perché là fuori sarà sola. Sola fisicamente, pensa. O perché non saprà dove ripararsi dalla pioggia battente, perché nessuno le rivolgerà la parola, perché per chiunque lei sarà NESSUNO.

 Sta addirittura singhiozzando, sembra che niente la possa tranquillizzare.

 “Se solo avessi qualcuno” pensa. E continua a piangere maledicendo sua madre, il giorno in cui l’ha messa al mondo e quello in cui l’ha abbandonata; maledice la direttrice di quello schifosissimo ed infernale posto e tutte quelle suore vecchie e ormai senza fede; maledice il custode di quel’orfanotrofio che continua a lanciarle sguardi espliciti da quando aveva quattordici anni ed iniziava ad assomigliare ad una donna ma che, per fortuna, non l’ha mai sfiorata con un dito; maledice tutti i bambini che entrano là dentro, perché simili ma diversi da lei, ma soprattutto maledice quelli che da lì usciranno mano nella mano con i loro ‘nuovi’ genitori. Infine maledice se stessa, il suo carattere, il suo destino. Il suo essere così dannatamente sbagliata che la porta solo a fare errori, a odiare e farsi odiare da tutti.

 Maledice la sua stessa vita ma, in fondo, la ama talmente tanto da rischiarla per poterla avere in pugno e, finalmente, vivere davvero.

 Ma ormai è quasi ora di andare, lasciare quel posto e correre il più possibile lontano da là. È già vestita; tira su la zip della felpa, mette in spalla la sua sacca e scende le scale che dal dormitorio portano all’atrio principale al piano terra.

 Non può uscire da lì, deve trovare una porta secondaria. Allora entra nelle cucine e tenta di aprire la porta che da sulla parte laterale del giardino. Sembra bloccata, è una porta abbastanza vecchia, in fondo. Bene, dovrà metterci più forza e… STRAM! La porta si apre facendo un trambusto assurdo a seguito del quale sente qualcuno, sicuramente una delle suore addette alla cucina, che si muove nelle stanze adiacenti a questa.

 È in quel momento che, seppur presa dal panico, capisce che deve fare una sola cosa: correre. Più veloce che può.

 Attraversa il grande giardino correndo a perdifiato, col cuore in gola, e tenta di arrampicarsi sull’enorme cancello nero all’entrata mentre il custode e due suore azzardavano una stanca corsa per raggiungerla. Urlavano il suo nome e pian piano tutto l’orfanotrofio si è risvegliato illuminandosi e illuminando maggiormente il giardino.

 Non mi prenderete, stronzi! pensa Hope mentre continua a scivolare sul ferro umido. Aveva paura di non farcela, ma era determinata. E oltretutto confidava nell’odio che la legava a quella gente che non avrebbe messo troppo impegno nell’impedirle la fuga. Ma continuavano a correre e lei non riusciva ad arrampicarsi. Poi, col panico che le velava gli occhi e la mente, si diede una spinta con braccia e gambe e riuscì a ‘scalare’ l’umido e freddo ostacolo che la teneva lontana dalla sua libertà. Giunta il cima lo scavalcò e saltò giù atterrando con dolore sulle gambe. Doveva continuare a correre, stavano facendo aprire il cancello: il dolore non poteva fermarla.

 Correre, correre, correre, Fin quando le gambe reggevano, fin quando i polmoni glielo permettevano. Non sapeva dove sarebbe arrivata e non le importava gran che. L’importante era arrivare il più lontano possibile dal quieto inferno nel quale era cresciuta.



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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV

 

 Corse tutta la notte fermandosi solo per prendere fiato. Aveva la gola secca (era stata stupida a non portarsi appresso una bottiglia d’acqua, effettivamente) e quando provava ad ingoiare sentiva il sapore del sangue. In un certo senso quel gusto ferroso le dava energia e la spingeva a continuare. Le era sempre piaciuto il sapore del sangue, sapeva di sfida, di sofferenza… di vittoria.

 Continuò a correre fino all’alba, quando, raggiunta la città e trovato un vicolo cieco ben nascosto, si era buttata a terra. Era esausta, non ce la faceva più e… puzzava. Dio, che cosa insopportabile! pensò facendo una faccia disgustata. Non era sicuramente abituata a correre tanto e a non avere una doccia a portata di mano.

 Beh, non le importava. Poteva resistere e dormire un po’ prima di andare alla ricerca di una doccia. Prima di tutto riposarsi, poi cercare un posto in cui fare qualche soldo almeno per mangiare e poi trovare una stanza. Era sfinita e si addormentò in un lampo.

 Si risveglio circa due ore dopo, il trambusto della vita di città l’aveva svegliata. Non aveva dormito per niente bene; in fondo una strada non era sicuramente comoda quanto il suo bel letto pulito lì all’orfanotrofio. Beh, sarebbe sicuramente sopravvissuta! L’importante era non rimettere piede in quel dannato luogo.

 Si mise a sedere, poggiò la schiena contro il muro che era il ‘retro’ di un night club e chiuse gli occhi sospirando. Cosa ne sarebbe stato di lei? Cosa avrebbe fatto, adesso? pensò.

 - E adesso che hai intenzione di fare?- una voce maschile diede voce a parte di suoi pensieri facendola sobbalzare.

 Si voltò e vide l’uomo (o il ragazzo?) a cui apparteneva quella voce. Era appoggiato anche lui contro il muro, ma era in piedi. Stava accanto all’uscita secondaria del night club e fumava una sigaretta. Dio, quanto ne vorrei una! pensò guardandogliela bruciare tra le dita.

 - Ehy, ne vuoi una?-

 Ma questo è fissato! Mi legge nel pensiero?! Lo fissava con faccia incredula.

 - Dai, ti si legge negli occhi! Hai bisogno di nicotina, eh?- continuò lo sconosciuto. – Prendi- e le avvicinò il pacchetto di Lucky Strike rosse da cui faceva capolino una sigaretta.

 - Grazie.-  disse prendendola. - Hai d’accendere, per favore?-

Le passò un accendino Zippo con sopra il logo dei Ramones. Le si illuminarono gli occhi e si accese la sigaretta.

 - Ti hanno brillato gli occhi. I Ramones piacciono anche a te, eh?- le disse con un ampio sorriso.

 - Veramente non li ho mai potuti ascoltare, ma ho letto di loro in qualche rivista ‘di contrabbando’.- rispose, virgolettando con le dita l’ultima parte della frase.

 - Addirittura ‘di contrabbando’?- rise lui – E da dove vieni, se posso? Non ti ho mai vista da queste parti!-

 - Lunga e noiosa storia. – gli rispose accennando un sorriso. Si toccò la pancia che brontolava da circa 10 minuti, aveva fame.

 - Beh, potrai raccontarmela in qualche tavola calda, se vorrai. Sembra proprio che tu abbia una certa fame. Non è così?- le sorrise e le porse una mano per aiutarla ad alzarsi.

 - Ma…- tentennò lei, poi gli prese la mano facendosi tirare su. – Non so neanche come ti chiami e se posso fidarmi. E poi… Beh, non ho un soldo. Non mi posso permettere niente. Dovrei prima trovarmi un lavoretto.-

 - Offro io! Mi hanno appena pagato la terza settimana da buttafuori qui dentro.- disse indicando con un cenno della testa al night club. – E comunque io sono Will, tu?-

 Adesso che ci faceva caso, quel ragazzo aveva veramente un gran fisico. Per non parlare del viso! Era armonioso come pochi. Gli sorrise e…

 - Va bene, Will. Accetto!- disse – Ma prima o poi ricambierò il favore, sappilo! E… Hope, piacere.-

 - Signorsì, signora!- le rispose ridacchiando mentre le stringeva la mano.

 Hope prese la sua sacca e seguì ‘William Lo Sconosciuto’ verso una tavola calda a pochi minuti da lì. Aveva fatto bene a fidarsi di uno sconosciuto che lavorava come buttafuori in un night club?

 Dio, come ho fatto ad essere così cretina?! Si torturava mentre seguiva lo sconosciuto verso il fantomatico luogo di ristoro. E se fosse un maniaco? Un ladro? Se fosse un assassino?!

 - Ehy, cos’è quello sguardo? Hai forse paura di me?- le disse scherzando e rivolgendole un sorriso quasi angelico.

 

 

 

 

 

 Angolino personale:3

 

 Questo capitolo è un po’ diverso dai precedenti, infatti mi sembrava giunto il momento di farle incontrare qualcuno anziché far continuare l’ “introspezione” e… chissà! ;)

 Al prossimo capitolo :D

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