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Lasciate che vi dia un
consiglio. Se siete in una situazione piena di potenziale negativo – bere o no
la vernice per scommessa, tirare giù o no i pantaloni al prof di filosofia,
lanciare o no un sasso contro la vetrina e poi incolpare vostro fratello –
mollate tutto e andate a casa. Può sembrare una cosa da smidollati e, in
effetti, fino a poco tempo fa ne ero convinta anch’io. Poi ho capito che era
solo buonsenso. Anch’io mi sono trovata in una situazione del genere e ovviamente
ho fatto la scelta sbagliata. Detta così sembra un’inezia, ma
quella volta le cose hanno preso una piega non esattamente piacevole, e ho
imparato a mie spese il prezzo della stupidità. D’accordo, ci do un taglio e ve
la racconto, così facciamo prima.
*
* *
«Ci si vede, ragazzi!» Bacio un paio di persone a caso e saluto il
resto del gruppo con la mano. Traballo un po’, perché tacchi e alcol non sono
un mix intelligente, ma poi recupero l’equilibrio e mi dirigo verso casa.
«Ciao Aly!» urlano gli altri, traballanti al pari di me.
«Vuoi che ti
accompagni?» mi chiede Dave, l’unico assieme a Nicky
che non tocca mai un drink. Povero Dave, sono mesi
che mi viene dietro e ancora non ha capito che non gliela darò mai. A uno così
noioso e sfigato? Ma per
piacere. L’unica cosa figa che ha è il soprannome, e quello gliel’abbiamo dato
noi.
«Figurati, sono
neanche trecento metri, ma grazie lo stesso» rispondo,
un po’ impietosita perché è sempre gentile e io lo tratto male.
Gli altri stanno già
andando ai motorini; ho una mezza tentazione di farmi accompagnare da qualcuno
– uno a caso… Eddy – ma ho appena rifiutato l’offerta di Dave,
quindi ciccia. Mi tengo i tacchi e la camminata.
Arranco in direzione
di casa mia – fa sempre comodo abitare a due passi dal lungomare, tranne quando
si hanno i piedi doloranti. Poi una lampadina sotto forma di cartello si
accende davanti ai miei occhi. Il parco! Così posso tagliare, e dare un po’ di
tregua ai miei piedi sull’erba.
Non mi fermo a pensare
quanto sia stupido attraversare un parco di notte e mi ci addentro,
spensierata. Don’t trythisat home.
Il parco è un grande
spiazzo rettangolare con boschetti, stagni e sentieri in mezzo alla città.
Diciamo che è un’imitazione scadente di Central Park,
adattata a questo buco noioso altrettanto scadente in cui vivo.
Arrivata al prato,
tolgo le scarpe e tiro un sospiro di sollievo. Mentre
sto lì, avvolta da una musica celestiale – levarsi i tacchi è
l’equivalente di un’ascensione in paradiso per me – vedo delle luci tra gli
alberi, che spariscono subito. Confusa, non faccio in tempo a chiedermi se ho
bevuto troppo quando le rivedo: minuscole pozze di luce che danzano tra i
cespugli, avvampando per un istante prima di svanire nell’oscurità. E sembrano
allontanarsi.
Presa dalla curiosità
e ovviamente senza riflettere, mi dirigo verso quel
punto. Non è che sia del tutto priva di buonsenso – infatti
ho detto di no a Dave – è che non gli do molto retta.
È come un guastafeste che avvisa i genitori perché qualcuno ha corretto il
punch.
Quando giungo in mezzo
agli alberi, non trovo niente. C’era da dubitarne? Ma
se non ho nemmeno bevuto tanto, giusto un paio di drink e qualche shot. Saranno state delle lucciole.
Un po’ irritata, mi
volto per andarmene, e bam! Mi
schianto contro qualcosa e finisco gambe all’aria.
Il bosco risuona delle
mie imprecazioni. Quando ho finito, guardo meglio l’oggetto che mi ha
aggredito, che per l’impatto mi è finito in grembo. Ma
che cavolo è? Ho sbattuto la testa contro una specie di frutto. È tondo e
violaceo, con la buccia pelosa. Sembra un incrocio tra una pesca e un mirtillo.
Non ho mai visto un frutto così. Che sia qualche OGM? Sarà velenoso?
Tocco la sua
superficie vellutata, e mi assale un desiderio irrefrenabile di assaggiarlo.
No, “desiderio” non è la parola adatta. È come se stessi morendo di sete e
quello fosse l’unico bicchiere d’acqua sulla Terra, è come se trovassi una
borsa di Prada con il 95% di sconto, è come se m’imbattessi in Johnny Depp
bisognoso d’indicazioni stradali. Fallo!
Fallo! Fallo!
Questa volta è più
difficile mettere a tacere la voce guastafeste.
Diamine, persino io so che è una cosa stupida e insensata. Ma
quel frutto mi attira come una sirena, e ora capisco cosa deve aver provato Eva
nel giardino dell’Eden. Al diavolo! La mia volontà non è certo più forte della
sua. Perciò lo strofino sul vestito e gli do un morso.
Faccio appena in tempo
a sentire che è squisito, delizioso, che le mie papille gustative sono in
festa, quando tutto diventa nero.
Mi risveglio con la sensazione che un treno mi sia passato sopra
Mi risveglio con la
sensazione che un treno mi sia passato sopra. Ho un mal
di testa atroce e tutte le ossa indolenzite. Con un gemito, apro gli occhi… e
vedo tutto rosa.
Non è esattamente il
colore più adatto. Un verde vomito o un rosso squillante si accorderebbero
meglio a come mi sento.
Mi trovo in una specie
di stanzino circolare, con le pareti rosa. Il soffitto è nero, mentre il
pavimento è schifosamente spugnoso, e ricoperto di qualcosa che somiglia a
erbaccia. Al centro c’è una specie di scultura postmoderna che punta verso
l’alto, una sorta di colonna che si assottiglia fino a dividersi in tanti
palloncini che pendono come un lampadario.
Abbasso lo sguardo e
mi accorgo di essere nuda.
Ma bene. Qualche altra
rivelazione che mi convinca di non essere nell’antro di un maniaco?
Cercando una via
d’uscita, mi avvicino alle pareti e mi rendo conto che sono
morbide al tatto. Devono essere delle specie di stuoie. Mi affanno a trovare un
buco e alla fine riesco a scostarne due l’una dall’altra. Mi affaccio
cautamente…e rimango a bocca aperta.
Sono ancora nel bosco.
Ecco in lontananza il prato e, ancora più oltre, l’ingresso
al parco. Erano così distanti? Ecco intorno gli
stessi alberi, solo enormi e impassibilmente alti. Cos’è successo?
Da dov’è spuntata questa gabbia rosa?
E poi guardo in basso,
e ho voglia di urlare. Perché laggiù, sull’erba – come se stessi guardando dal
tetto di un condominio –, vedo una specie di tendone, e delle strutture color
argento. Il mio vestito! Le mie scarpe! E quella… quella è la mia borsetta?
Disperata, mi
arrampico sulla stuoia, che s’inclina dolcemente come per facilitarmi. Arrivata
in cima – praticamente una piattaforma orizzontale
sospesa nel vuoto – mi guardo intorno.
Sono su un fiore. Un
enorme fiore rosa.
Non sono pareti, ma petali. E quell’orrida scultura in realtà è il
pistillo!
Okay, era un frutto
allucinogeno.
Come cavolo ho fatto a ritrovarmi dentro a un fiore? Non c’è qualche
stupida legge della fisica che lo proibisce?
E se quel frutto mi avesse rimpicciolita?
Ma va là, è più
probabile che l’alcol combinato al frutto mi faccia
fare un gran viaggione.
Stufa della mia
nudità, scivolo giù dal petalo e mi dedico a staccarne uno. Non è difficile:
viene via di buon grado, così me lo avvolgo intorno a
mo’ di vestito. Non sarà chic come quello di prima, ma può andare.
Ho appena finito di
coprirmi – mi sento molto figlia dei fiori – quando percepisco dei rumori.
Forti ronzii accompagnati da clamori. E che cos’è? Mi arrampico di nuovo sul
fiore per vedere.
Delle luci si
avvicinano; credo siano quelle di prima. Allora
esistono! Sembra uno sciame di lucciole che si accendono e spengono, solo che
le lucciole non volano così compatte e veloci. Mi nascondo dietro a un petalo e
sbircio la situazione.
Il primo a sbucare
dall’oscurità è un grosso insetto luccicante. Credo sia un coleottero. Bleah,
mi hanno sempre fatto schifo quelle bestiacce. È di un bel nero cangiante: i
riflessi dello sciame di lucciole che lo segue lo rendono
un minuscolo arcobaleno notturno. Perché sono veramente lucciole, e non solo:
ci sono anche falene, libellule e farfalle – pensavo che queste ultime due
fossero diurne. E tutti questi insetti trasportano qualcosa.
Poi realizzo di cosa
si tratta, e provo solo una blanda sorpresa. Credo di essere
arrivata al punto di non stupirmi più di nulla.
A bordo di quegli
schifosi insetti ci sono persone.
Su ogni lucciola ce
n’è solo una, così come sulle falene e farfalle più
piccole. Su quelle più grandi, oltre che sulle libellule e sui coleotteri, ce
ne sono di più; in particolare, sul primo coleottero, il più grande, ci sono
almeno cinque persone, o meglio, ragazzi.
Sono vicini quel tanto
che basta a distinguerne il ronzio: non è affatto
fastidioso o insensato come mi era sembrato in un primo momento, ma… ritmico.
Giurerei di riuscire a coglierci una melodia. Oddio, non sapevo che esistessero
coleotteri musicali.
Sopra quell’originale
veicolo ci sono cinque persone: due davanti – di cui uno
regge le antenne dell’insetto come un volante – e tre dietro. Sono
incredibilmente esaltati: urlano e ridono e le due ragazze dietro si
abbarbicano in modo equivoco al maschio stravaccato in mezzo. Stessa scena per
il seguito di persone: chi vola a zig-zag, chi grida, chi canta. Sembrano degli
ubriachi che vanno in discoteca.
Non mi sembra il caso
di fare la schizzinosa, così, non appena sono in vista, salto in piedi e
comincio a urlare: «Ehi! Voi! Venite
qua un momento!», sbracciandomi come un’ossessa.
All’inizio sembrano
non vedermi, poi quello dietro si riscuote dalle due escort e urla qualcosa al conducente.
Quello fa fare al coleottero un giro della morte con
doppio avvitamento, e si fermano davanti al mio fiore.
«Ehi, tesoro, vuoi
farti un giro? C’è posto» mi dice un biondino accanto
al guidatore. I ragazzi sghignazzano, le ragazze lo guardano male.
Nel frattempo il
grosso dello sciame ci sfreccia accanto, e uno a bordo di una lucciola sfinita
– poverina, la sua luce è così debole – grida: «Oh, che si fa?»
«Andate avanti, vi raggiungiamo alla festa» risponde l’autista, un tizio grande
e grosso con la testa fitta di riccioli neri.
«Allora, baby? Che
dici?» m’incalza il biondino.
«Senti, baby, non ci tengo per niente» replico,
scocciata. «Piuttosto, mi potreste dire dove sono?»
«Su un fiore» risponde
il moro al volante, e stavolta tutti e cinque scoppiano a ridere.
«Grazie mille, Capitan
Ovvio» ribatto inferocita. «Avete capito cosa intendo.
Potete darmi una mano?»
«Anche due» dice il
biondino. «Salta su e ne parliamo mentre andiamo al rave.»
Dio, che allupato. Lo
ignoro e mi rivolgo al tipo dietro, che non ha ancora spiccicato parola. «Ho mangiato un frutto e mi sono risvegliata qui. E io di solito sono più grande di un fiore. Mi sai dire
com’è successo?»
Lui si raddrizza e
allontana le due ragazze, che mi fissano imbronciate. Sembra interessato. «Che
genere di frutto?» indaga.
«Viola e peloso. Poi
sono svenuta e quando mi sono svegliata mi ero, ehm,
rimpicciolita. Quelli laggiù» indico il tendone per terra, «sono i miei
vestiti.»
Loro guardano in basso
e il biondino fa un fischio.
«Caspita» fa il moro. «Hai mangiato il frutto Waka-Waka. Quindi
sei un’umana?»
Waka-waka? Ma che razza di
nome è?
«Guardate, non ha
neanche le ali! È proprio un’umana!» esclama il biondo, e le ragazze, una dai
lunghi capelli rossi e l’altra biondi, ridono di
nuovo, stavolta con evidente malizia.
«Qualche problema?»
ribatto, anche se non ho la più pallida idea di cosa stiano parlando.
«Il problema ce l’hai tu, cara» mi dice la rossa, «dato che non sei una
fata.» E mi dà le spalle. E infatti, sulla schiena ha
due piccole alucce iridescenti, che tremolano leggermente. Assomigliano a
quelle di una farfalla, ma sono traslucide e attraversate da sottili venature
come le ali di una libellula.
E anche gli altri ce le hanno, identiche, solo diversamente colorate.
Fate.
«Siamo il popolo di
Faerie» spiega il ragazzo seduto tra le due, dai riccioli castani che gli
cadono sugli occhi e sulla nuca.
«Conosci qualcun altro
che viaggia a bordo di coleotteri?» aggiunge il moro, e di nuovo tutti ridono. Ma si crede così spiritoso?
Guardo meglio il loro
abbigliamento. Le ragazze indossano striminziti vestitini fatti di fiorellini e
piume, mentre i ragazzi hanno il petto nudo e calzoncini di pelle morbida. Il
biondo porta anche un gilet di pelliccia: l’ultimo grido, immagino.
«D’accordo» replico,
senza scompormi più di tanto. Era scontato che il parco sotto casa mia
ospitasse il regno delle fate, dopotutto. «Siete fate.
Non m’interessa un fico secco se siete esseri mitologici o il frutto della mia
immaginazione. Sapete come posso fare per tornare della mia taglia normale?»
«Certo» risponde il
biondo, rendendosi inaspettatamente utile. «Basta che
vai dalla regina Titania. Lei ha tutti i rimedi.»
Il ragazzo seduto
dietro ha un gesto d’insofferenza.
«Che sbatti» ne
approfitta subito la rossa – la bionda sembra troppo oca
per saper parlare. «Sylvan, andiamo alla festa.»
«Liam?» chiede il
moro.
L’altro pondera un
po’. «Sì» conclude. «Ho voglia di ubriacarmi.»
«Ehi!» protesto. «E io?»
«Che dite, la
portiamo?» fa il biondino, eccitato. «Un’umana alla
festa di compleanno del principe! Quando mai si è visto?»
La rossa mi guarda e
fa un verso eloquente.
«Non ci voglio venire,
al vostro stupido rave» esclamo. «Dove posso trovare questa regina?»
Buonanotte. Sto ancora
parlando, quando Sylvan dà un colpetto al coleottero, che si riscuote e parte a
razzo. Mentre sfrecciano via a tutta velocità, il ragazzo di nome Liam mi
grida: «Per di là» e indica la direzione opposta da cui sono arrivata, verso il
folto del boschetto che ormai mi sembra la foresta equatoriale.
«Andate a quel paese,
voi e il rave» borbotto furibonda, e cerco di trovare un modo per calarmi giù
da questo stupido fiore.
Alla fine, con
acrobazie alla Tomb Raider, separo due petali alla base e scendo, poggiando
precariamente i piedi su un sepalo. Scivolo giù e mi ci afferro, per poi
cominciare a dondolarmi come una cretina fino ad avvolgere le gambe intorno al
peduncolo. A quel punto mi ci aggrappo con le mani e comincio a scendere. Detto
così sembra una cavolata, ma rischio di morire almeno
in cinque occasioni, e perdo il conto di quante volte mi scivola la presa.
Arrivata a terra, mi
ritrovo nel pieno della giungla. Alta un pollice come sono, persino i fili
d’erba mi sovrastano! Sentendomi Indiana Jones, mi faccio
strada tra il sottobosco fino a raggiungere la mia borsetta. Non so nemmeno che
ore sono. E se i miei si fossero accorti che non ci sono? Meglio
controllare il cellulare, prima d’intraprendere il cammino verso la fantomatica
regina Titania. Caspita, chissà quanto tempo potrei
metterci!
Con qualche difficoltà,
riesco a spalancarla e la rovescio; poi prendo il cellulare e lo apro – stupidi
modelli a conchiglia, non sono più così comodi se sei alta
cinque centimetri.
Porca miseria! Sono le
due e mezzo. Quanto ci vorrà a trovare questa stupida regina? Spero di rientrare
a casa prima che i miei si sveglino, se no mi ammazzano.
Adesso sono pronta
alla missione. Copro la mia roba con il vestito – non sia mai che qualche
barbone mi fotta il cellulare – e m’inoltro verso il
folto della foresta.
Non sono del tutto tranquilla.
Che animali potranno esserci nascosti nell’oscurità? Sono così piccola e
indifesa. Pur consapevole dell’inutilità del gesto, prendo un bastoncino e lo
affilo con un ciottolo. Ecco, sono tornata all’età della pietra. Così
equipaggiata, m’incammino verso l’ignoto.
Cammina cammina,
comincio a stufarmi. Ho le gambe indolenzite e nessuna garanzia che quel Liam
non mi abbia preso per i fondelli come i suoi compari. Che rabbia quella
roscia! Vorrei averla davanti, adesso che sono armata.
Mi siedo su un sasso,
stanca. Avrò fatto sì e no qualche metro, ma non è consigliabile essere alti un
dito quando si vogliono coprire lunghe distanze. Avessi un coleottero anch’io.
No, che schifo. Facciamo una farfalla.
«Dannate fate con i
loro frutti del cavolo» brontolo. «Stupida roscia. Stupido biondino. E stupida
me che non mi fermo mai a pensare!»
«Di tutto quello che
hai detto, l’ultima è la più intelligente» dice una voce accanto a me.
Sobbalzo, con uno
strillo. «Chi c’è?» Brandisco il mio inutile rametto.
«Il topino dei
dentini. Che domande sono? E fa’ attenzione con quello, potresti cavare un
occhio a qualcuno!»
Altro che topino dei
dentini! C’è un enorme topo grigio accanto a me che mi guarda torvo. Ditemi se
questi non sono gli effetti di un frutto allucinogeno.
«Tu parli?» gli
chiedo, incredula.
«Non solo, ma dico
anche le parolacce. Vuoi sentire?»
Che topo maleducato,
però. Glielo faccio notare.
«Ha parlato la regina
della finezza. Non eri tu quella che imprecava a tutto spiano, prima?»
«Sì, be’, io ho un sacco
di problemi, sai.»
«Ma non mi dire. Be’,
ragazza, benvenuta nel mondo. Qua intorno è pieno di gatti randagi, ma ti
sembra che io me ne stia a lisciarmi i baffi piangendomi addosso? Datti una
mossa e risolviteli.»
Santo cielo, com’è
scorbutico. «Grazie per questa perla di saggezza, maestro Splinter. Ascolta,
devo assolutamente vedere una certa regina Titania. Per caso sai dove abita?»
«Per caso sai dove abita?» mi rifà il verso. «Ragazza, con chi credi
di parlare?»
«Lo sai o no?»
«E tu come fai a non
saperlo?»
«Non sono una fata.
Sono umana.»
«Umana!» ribatte, con
disprezzo. «L’ultimo umano che ho visto era un po’ più grande. Che hai fatto,
ti sei ristretta in lavatrice?»
«Cosa ne sai delle
lavatrici, tu?»
«So un sacco di cose, io. Sono un topo d’appartamento.»
«Se era una battuta,
non faceva ridere. Allora, me lo dici o no?»
«Sono tentato di
dirtelo solo per levarti di torno… Ma credo proprio che non lo farò.»
«Ma se sei tu che sei
venuto a darmi fastidio! Va bene, non fa niente. Troverò qualche animaletto più
simpatico che saprà aiutarmi.»
«Ecco il solito
razzismo contro i topi!» esclama, alzando teatralmente le zampette al cielo.
Essendo un topo, risulta piuttosto comico.
«Non ce l’ho con i
topi, ce l’ho con te.»
«Come no. Se fossi uno
scoiattolo, ti comporteresti diversamente.»
«Qualcuno mi ha
chiamato?» interloquisce una vocetta acuta dall’alto. Poi sento un piccolo
fruscio, ed ecco che accanto a noi si materializza un grazioso scoiattolo dal
pelo fulvo e gli occhietti frementi.
«Oh, no» borbotta il
topo. Poi, a voce più alta: «Ciao, Rusty! Come mai sulle zampe a quest’ora?»
«Sentivo un gran
parapiglia quaggiù, perciò sono venuto a vedere» risponde Rusty. Non sembra
contrariato, solo stillante curiosità.
«Niente di che, solo
una discussione con una visitatrice.»
«Non direi proprio»
ribatto. Poi mi rivolgo direttamente allo scoiattolo. «Ciao, Rusty, io mi
chiamo Alisea. Mi sono persa e il tuo amico topo non mi vuole aiutare. Tu puoi
darmi una… ehm, zampa?»
«Oh, Bernie!» lo
rimprovera Rusty. «Non è un comportamento da buon cittadino. Dimmi, Alisea, di
cosa hai bisogno?»
«Bah» brontola Bernie.
Lo ignoro. «Sto
cercando la regina Titania. Mi hanno detto che ha un rimedio per le persone
rimpicciolite dal frutto Waka-Waka.»
«Allora è questo il
tuo problema?» sbuffa il topo. «Dovresti ringraziare, ragazzina. Voi umani
siete così ridicolmente ingombranti.»
«Su, Bernie, se è
quello che vuole, dobbiamo aiutarla» afferma Rusty. «La regina Titania abita
assieme al re Oberon nel palazzo reale, che si trova al centro di Faerie.»
«Cioè, al centro del
parco?» domando, confusa.
Bernie ridacchia. «Al
centro del parco! Per Apollo Sminteo, ragazza, certo che sei proprio ignorante.
Faerie non è un semplice parco. È il reame fatato.»
«E allora perché mi
hanno detto di andare per di là?» Sono sempre più perplessa. Sta’ a vedere che
quel Liam mi ha veramente preso in giro.
«Ogni direzione è
quella giusta» risponde lo scoiattolo, «così come ogni foresta è Faerie.»
Attendo
un’illuminazione, ma non arriva. «Non ci capisco niente» dichiaro.
«Certo, perché non te
lo stanno spiegando nella maniera giusta» interviene una voce nuova. Si sente
un frullo d’ali, e un bel merlo nero viene a posarsi su un basso cespuglio lì
accanto.
«Ma è peggio di una
riunione di condominio!» grugnisce Bernie.
«Anch’io sono contento
di vederti, Bernie» ribatte il merlo. «Scusate, ma non ho potuto fare a meno di
sentire.»
«Potreste per favore
spiegarmi come faccio ad arrivare al palazzo reale?» chiedo, disperata.
«Se non capisci come
funziona il regno delle fate, è impossibile» ammette Rusty. «Perry, tu sapresti
spiegarglielo?»
«Penso di sì» replica
il merlo. «Vedete, gli umani non pensano come noi. Loro sono abituati a punti
di riferimento stabili. Invece» si rivolge a me, «Faerie non funziona così. La
magia delle fate è in tutta la natura, e si manifesta secondo i tuoi bisogni e i tuoi desideri. Se ti serve che ci sia, c’è. Ed è come se fosse
sempre stato lì.»
«Ma è impossibile»
dichiaro.
«Dolcezza, sei più
bassa di me» mi fa notare il topo, in tono antipatico. «Ha ancora senso parlare
di impossibile?»
Devo ammettere che non
ha tutti i torti. Sto parlando con un merlo, uno scoiattolo e un topo che mi fa
lezioni di filosofia. L’impossibile è stato superato da un pezzo.
Mi sforzo di tirare le
somme. «Perciò, se io desidero trovare Faerie, non importa dove vado, prima o
poi la troverò?»
«Diciamo di sì»
risponde Rusty, «ma dipende.»
«Dipende dalla tua
volontà e dalla tua concentrazione» aggiunge Perry. «Puoi pensare di volere una
cosa, mentre in realtà desideri tutt’altro.»
«Che faccenda
complicata» mi lamento.
«È vero» conviene lui.
«Per noi animali è più semplice: i nostri desideri sono sempre chiari.»
Caspita, la cosa si
sta facendo veramente filosofica. «Ora che so queste cose, posso arrivarci?»
«Certo» mi rassicura
Bernie. Strano. «Sempre che tu non abbia fretta» dice poi, come ripensandoci.
«Perché?»
«Perché mi sembri
parecchio confusa. Forse in un paio di mesi dovresti farcela.»
«Ma è troppo!»
protesto, indignata. «Io devo vedere la regina subito!»
Perry scuote la testa
– vedere quel gesto in un merlo è surreale, malgrado tutto ciò che ho visto
stasera. «Due volontà combinate non funzionano bene» risponde. «Si rischia di
girare in tondo perché non ci si riesce a mettere d’accordo.»
Non m’interessa. Sono
sicura che la mia volontà è abbastanza forte. «Allora andrò da sola» affermo.
«Vi ringrazio delle spiegazioni, ma ora vado.»
«Se rimarrai ben
concentrata, non dovresti avere difficoltà» mi dice Rusty. «Non dare ascolto a
Bernie.»
Li saluto e
m’incammino di nuovo. Altroché confusa. Mi è venuto il mal di testa, dopo
questa assurda discussione. Posti che compaiono a seconda dei desideri e magia
delle fate… Che razza di viaggione. Sarei dovuta andare a quel rave con gli
equivalenti truzzi delle fate.
Dopo qualche tempo che
cammino senza meta comincio a preoccuparmi. Quell’antipatico di Bernie ha detto
un paio di mesi! Dai, sono sicura che mi stava prendendo in giro.
E se invece fosse vero?
Morirò in questa assurda allucinazione? Che sbatti!
Sono talmente assorbita dai miei macabri pensieri che non guardo nemmeno
dove metto i piedi
Sono talmente
assorbita dai miei macabri pensieri che non guardo nemmeno dove metto i piedi.
Riesco ancora a stupirmi, però, quando scivolo su qualcosa e ruzzolo gambe
all’aria.
«Ma
porc…!» esclamo, irritata.
«Scusa tanto» dice una
vocina flebile, «è tutta colpa mia.»
Mi rimetto in piedi e
per poco non mi prende un colpo. Davanti a me c’è una lumaca orribilmente
viscida. Già mi fanno schifo in mini formato; a queste
dimensioni – è grande quasi quanto me – è come un incubo che si materializza.
«Figurati» riesco a rispondere. «Sono io che
non guardo dove metto i piedi. Ti ho pestato la coda?»
«No, io sto bene» mi
rassicura. «Sei scivolata sulla mia scia. Mi dispiace
tanto.»
«Ehm, fa niente.»
Bleah! Resisto alla tentazione di strofinarmi come un’ossessa. «Piacere, io mi
chiamo Alisea.»
«Io sono Lily»
risponde, sorridendo. Se volete sapere com’è il sorriso di una lumaca, è meno
viscido di quanto ci si aspetti.
«Non sei una fata»
soggiunge lentamente, come arrivandoci in quel momento. Immagino che le lumache
non brillino per sveltezza.
«Già, altrimenti non
andrei a piedi» replico, e lei fa una risatina, una specie di colpetto di tosse
umidiccio.
«Sto andando al
palazzo. Sai se questa può essere la strada giusta?»
«Anch’io!» dice lei
illuminandosi. Intendo letteralmente, impallidisce come se brillasse. «Se sei convinta, è la strada giusta. Se vuoi
possiamo andarci insieme!» Mentre parla, comincia a strisciare lentamente, molto lentamente. A questo ritmo ci arriverò
in un paio d’anni, altro che un paio di mesi.
Tento di rifiutare con
tatto. «Mi dispiace, ma ho piuttosto fretta. Se no mi
sarebbe piaciuta davvero un po’ di compagnia.»
«Non avere fretta di
arrivare a palazzo, Alisea» risuona una voce cavernosa. «Potresti non trovare
quello che ti aspetti.»
Guardo in alto,
inquieta, e all’inizio non vedo niente. Poi noto due occhi gialli che brillano
nell’oscurità. Con un saltello, il gufo si sposta su un ramo più vicino,
uscendo dal buio fitto tra la chioma.
«Perché dici così?»
gli chiedo.
«Oh, lascia perdere Oscar» s’intromette un’altra voce. «Tende a
essere pessimista.» È un riccio che sta parlando, un sorriso sul musetto
simpatico, gli occhi neri scintillanti d’allegria.
«In altre parole, gli
piace gufare» dico io, e poi scoppio a ridere. D’accordo, so che è piuttosto
infelice, ma quando mi ricapita di fare una battuta così a un gufo vero?
Il riccio guarda
Oscar, perplesso.
«È solo una
battutaccia che fanno gli umani su di noi» ribatte lui sdegnoso. «Creature ignoranti.»
«Oh, un’umana!»
esclama il riccio, eccitato. «Come mai da queste parti?»
«Giro turistico. No, in
realtà ho avuto qualche problema con il cibo delle fate.»
Gli spiego gli effetti del frutto Waka-Waka e lui annuisce, comprensivo.
«È sempre così, con i
frutti di Faerie» dice. «Sembrano tanto belli e buoni,
e poi bam! T’infilano la fregatura da
qualche parte.»
«Avuto brutte
esperienze anche tu?»
«Una volta» risponde,
malinconico. «Sembrava un’innocua fragolina di bosco,
e invece era il frutto Fiki-Fiki. Mi sono caduti tutti gli aculei e ho dovuto
girare un mese liscio e rosa come un neonato, prima che ricrescessero. Una
faccenda piuttosto dolorosa.»
Che razza di nomi
danno le fate ai loro frutti? Sembra roba da cartoni animati. Annuisco alle
nostre comuni disgrazie.
«Purtroppo io non penso
di ricrescere, quindi sto andando dalla regina Titania per un rimedio» spiego.
«Sai se è possibile?»
«Con la regina Titania
tutto è possibile» mi assicura il riccio. «Quindi vai
a palazzo, eh? Roger ci è andato proprio la settimana scorsa… Roger! Ehi,
Roger, vieni fuori!»
Vedo un tremolio
dietro un albero, e poi un coniglio fa capolino. «Lasciami stare,
Donnie, voglio dormire.» Sembra scocciato, e ti credo, saranno le tre di notte.
Non ci credo.
Finalmente qualcuno che ci è stato davvero, in questo palazzo delle meraviglie.
Mi avvicino, trepidante. «Scusa, ti posso chiedere una cosa?»
Lui apre un occhio e
mi scruta. «Spiacente, tesoro» dice alla fine. «Non
faccio queste cose. Chiedi al riccio, lui sì che ha gusti strani.»
«Ma come ti permetti?!» strillo, scandalizzata. Quello però ha già richiuso
l’occhio e non mi calcola più.
«Quel coniglio è un
maniaco!» grido, una volta tornata da Donnie fumante di rabbia.
«Non prendertela» mi
dice lui. «È un coniglio, sai come sono fatti. Hanno
solo una cosa in testa.»
Sto per ribattere, ma
una voce lamentosa c’interrompe. «Si può sapere cos’è tutto questo chiasso?!»
Poco
più in là, da una buca nel terreno, spunta la testa di una vecchia talpa. Gli mancano solo gli
occhiali da sistemarsi sul naso per sembrare un nonnetto incavolato, mentre si
guarda intorno alla ricerca della fonte del rumore.
«Siamo qui, Al» dice
il riccio rassegnato. Mi guarda come per dire: non preoccuparti, me ne occupo
io.
«Donnie? Sei tu?» fa Al, poi finalmente lo individua. «Allora, cos’avete da bivaccare? Lo sapete che ore sono?»
«Hai ragione, Al, ma è
un’occasione speciale» risponde il riccio. «C’è un’umana che vuole andare dalla
regina!»
«Un’umana? E dove?»
«Sono qui, signore»
dico, facendo un passo avanti.
Al mi guarda
strizzando gli occhi nel tentativo di mettermi a fuoco; poi sbuffa. «Quella non è un’umana. Li conosco io gli umani. Sono
cinquanta volte più alti e molto più colorati.»
«Ma
veramente…» obietto.
«Lascia
perdere, ti dico. Badate a far silenzio. Quanto chiasso per una fatina
azzoppata!» Detto questo, sparisce sotto terra, sempre
brontolando.
«Che tipo!» commento.
«Al
è buono come il pane» mi assicura Donnie. «Bisogna solo prenderlo per il
verso giusto.»
«Non oso immaginare
quale sia» borbotto. Poi aggiungo, a voce più alta: «Grazie
mille della chiacchierata, ma ora devo andare. Un topo scorbutico mi ha detto
che, se non mi concentro, dalla regina Titania ci arriverò fra due mesi.»
Donnie sbuffa.
«Dev’essere Bernie.»
«Creature ottuse, i
topi» interviene Oscar il gufo. «Me le mangio a colazione.»
Apro la bocca per
fargli notare che anche questa è una battuta infelice, ma in quel preciso
istante tutti s’irrigidiscono. Donnie drizza gli aculei, Roger apre gli occhi e
tende le orecchie, Oscar arruffa le penne. Persino Lily, che è rimasta a bocca
aperta tentando di seguire la conversazione, s’immobilizza, le antenne ritte.
E poi spariscono.
Colgo solo un fruscio di ali e il sussurro del gufo: «Fuggi, ragazza», e il
sottobosco è improvvisamente deserto, senza che sia riuscita a capire dove
siano finiti tutti. Almeno Lily non sarà corsa via gambe in spalla!
Con un’imprecazione,
mi accingo a proseguire – o a nascondermi, anche se non so perché – quando una
voce mi trattiene.
«Bene, bene… un’umana
in formato mini, tutta sola nel bosco. Interessante.»
Mi giro, indispettita.
«E tu chi saresti, il lupo cattivo?»
«Ti prego di non
scambiarmi per quelle bestiacce così prive di raffinatezza.» C’è un grosso
gatto tigrato che mi sorride pigramente. Assomiglierebbe allo Stregatto, se non
fosse così minaccioso.
Allarme rosso, allarme rosso, impazza una sirena
nella mia testa. Questo qua mi sta guardando come io guardo un barattolo di
Nutella, e la sensazione non è affatto piacevole.
«Solo perché ti fanno
paura» ribatto, cercando di mostrarmi sprezzante. Una specie di maschio Alfa,
come dicono in quegli stupidi documentari. Non ho idea se con i gatti funzioni
o se è qualcosa di prettamente canino; inutile dire che fallisco miseramente il
tentativo.
Il gatto piega la
testa da un lato, sornione. «Alquanto improbabile, dal momento che qui non ce
ne sono» replica. «Di cosa dovrei avere paura?»
«Ehm… dei lupi
mannari?» suggerisco.
«Oh, ma a loro
interessa solo la carne umana.» Gli vibrano i baffi, come se stesse ridendo.
«Non posso dar loro torto.» Si passa la lingua sul muso.
«Pensavo che voi gatti
mangiaste i topi» dico, arretrando un po’. «Sai, un po’ più indietro ne ho
visto uno. Era grassissimo e stufo di vivere, e diceva di odiare i gatti,
specialmente quelli tigrati. Dovresti dargli una lezione.»
«Bel tentativo»
risponde. «T’informo che noi gatti in genere ci limitiamo a ucciderli. Sono
giocattolini divertenti, finché corrono.» Le sue pupille verticali sono fisse
su di me, e ora so come si sentono le eroine dei film horror quando si trovano
il maniaco con il coltello davanti.
«Sono magra e
stoppacciosa» affermo. «Non ti divertiresti con me, e non ti sazierei.»
«Un aperitivo da
sgranocchiare è quello che ci voleva. E poi, lo so anch’io che non si gioca con
il cibo. È così crudele.»
Si avvicina, finché il
suo muso è a pochi centimetri da me. Ecco, adesso morirò tra i denti di un
gatto psicopatico, e sarà tutta colpa delle fate. Non ci potrebbe essere la
roscia al posto mio? Ma certo, lei ha quelle stupide ali, le basterebbe volare
via. Io invece sono inchiodata alle mie maledette gambe, e ridotta al ruolo di
una patatina.
«Ti farò venire una
terribile indigestione» minaccio. «Vomiterai palle di pelo per una settimana.»
«Non preoccuparti. Ho
mangiato cose più indigeste di te.» Si acquatta, scoprendo i denti
scintillanti, e io, con l’istinto irrazionale della preda, mi preparo a correre
via, anche se sono perfettamente consapevole che non servirà a un bel niente.
E poi una voce ci
blocca entrambi.
«Perché non te la
prendi con qualcuno della tua taglia, Willie?»
Un animale sinuoso,
dal muso aguzzo, si frappone fra me e il gatto omicida. Si scuote come un cane,
ma con più grazia, e anche se alzo le braccia per proteggermi mi ritrovo zuppa.
Neanche il gatto sembra gradire la doccia: sibila e indietreggia.
«Hai paura di un po’
d’acqua, micetto?» lo stuzzica lei.
Willie – che nome
stupido! Adesso capisco perché è diventato un serial killer – ringhia, i canini
in vista. Per tutta risposta, anche l’altra spalanca le fauci aguzze, e si
rannicchia.
«Sei fortunata che non
abbia voglia di affondare i denti nella tua pelliccia puzzolente» dice il
gatto, sprezzante.
«Corri a leccare un
po’ di latte» ribatte lei, «finché non ti passa la paura.»
Willie soffia un’altra
volta, poi si defila.
L’animale si volta
verso di me. È una lontra, con gli occhi scuri e intelligenti, e mi fissa
curiosa.
«Si può sapere che ci
fai qua da sola, e rimpicciolita?» mi chiede.
Non sono esattamente
in grado di rispondere, quindi mi limito a guardarla come una stupida.
«Che hai?» domanda
lei. Poi sospira. «Ah, Willie ti ha spaventato. Te la sei vista brutta, eh? E
non è ancora finita.»
Sorride e lo sguardo
mi cade sulle sue zanne acuminate. Deglutisco nervosamente. «Mi vuoi mangiare
anche tu?»
«Pensi che ti abbia
salvato per tenerti per me?» Scoppia a ridere – una risata da lontra, tutta
fauci e sibili. «È un’idea. Sai che non ci avevo pensato?»
«E allora perché l’hai
fatto?»
«Tra ragazze ci si
deve aiutare.» Mi strizza l’occhio, e io finalmente respiro.
«Grazie» dico. «Non ci
tenevo a diventare l’aperitivo di quello psicopatico.»
«Figurati» risponde
lei. «È sempre un piacere dare una lezione a un gradasso. Ah, io sono Katie.»
«Alisea. Piacere.»
«Non per farmi gli
affari tuoi, ma c’è una ragione apparente per il tuo vagabondare?»
Per la centesima volta
in questa notte, ripeto le mie dis-avventure e la mia volontà di andare al
palazzo della regina delle fate.
«Se vuoi, ti ci
accompagno io» si offre Katie.
«Ma un merlo mi ha
detto…»
«Ah, lascia perdere i
merli» m’interrompe lei. «Sempre a riempirsi il becco di chiacchiere. Fidati e
salta su. Basta che pensi a quel tale di nome Liam, e io farò il resto.»
«Perché?» chiedo,
stupita.
«Oh, sono certa che lo
scoprirai» risponde, sibillina.
Ecco, sta’ a vedere
che mi porta dritto nella sua tana e mi sbrana. Ma dopotutto, che alternative
ho? Quel maniaco di Willie potrebbe anche essere appostato nell’oscurità, in
attesa di divorarmi.
Mi arrampico sul dorso
della lontra, che è sorprendentemente asciutta, al contrario di me. Non è
freddo, ma non è piacevole indossare un petalo bagnato. Ha la brutta tendenza a
sfaldarsi.
«Tieniti forte» dice
Katie, e poi via! Balza in avanti come una Ferrari. Faccio appena in tempo ad
aggrapparmi alla sua pelliccia prima di essere sbalzata in aria come un burattino.
La lontra è
velocissima: sfreccia nel sottobosco rapida e silenziosa tra cespugli e rametti
che ci passano accanto a velocità mortale, ogni volta mancandoci di un soffio.
Corre, balza, striscia senza mai fermarsi o esitare, valutando perfettamente le
distanze e i passaggi migliori.
Io mi stringo
convulsamente al pelo del suo collare, cercando di non essere scaraventata via
a ogni sobbalzo. Mi ritrovo ben presto indolenzita – per non parlare del mio
povero sedere, ormai diventato un unico enorme livido.
«Non potresti
rallentare?» grido, tentando di sovrastare il frastuono del vento e delle
piante.
«Non avevi fretta?» fa
lei di rimando, e io chiudo la bocca, concentrandomi sul rimanere viva.
Dopo un po’ comincio a
perdere il senso del tempo. Quanto sarà lontano questo palazzo? Dopotutto il
parco non è così grande.
«Non ti stai
concentrando» sbuffa Katie, saltando per evitare un ramo.
Cavolo, l’avevo
completamente scordato. Sarà per colpa mia che ci stiamo mettendo così tanto? Basta che pensi a quel tale di nome Liam.
Mi ci applico subito, cercando di richiamare alla mente il coleottero e i suoi
sgradevoli occupanti.
Ok. Liam. Visualizzo
riccioli castani e una fascetta che gli cinge la fronte, ma oltre non riesco ad
andare. Non ricordo nemmeno se fosse particolarmente carino. Mmm, mi pare che
tutti i ragazzi non fossero niente male – sarà una caratteristica delle fate,
beati loro – quindi penso proprio di sì. La roscia la ricordo meglio. Che odio!
Con quei suoi stupidi capelli fulvi e quella spruzzata di lentiggini sul viso
perfetto. Probabilmente si crede la bella del reame. Meno male che lei e quegli
svitati dei suoi amici sono andati a quello stupido rave, almeno non c’è il
rischio di incontrarli, al palazzo.
E non appena penso
“palazzo”, con tutte le immagini che esso implica – la regina Titania, Oberon,
fatine, polvere magica eccetera – noto che il sottobosco comincia a diradarsi.
Oltre gli ultimi cespugli c’è un gran chiarore.
«Alleluia» sospira
Katie, e rallenta fino a camminare.
E poi sbuchiamo nella radura
più graziosa che possa immaginare. Ogni filo d’erba scintilla, la rugiada
spruzza di diamanti i petali dei fiori selvatici; l’aria è pervasa di fragranze
e luccichii e la luce argentea della luna bagna un’atmosfera di vera e propria
magia. Dove poteva vivere la regina delle fate, se non in un tale locus amoenus?
Al centro di quella
meraviglia troneggia un’enorme quercia secolare. (Un po’ prevedibile, a mio
parere. Perché non un tasso, un albero della pioggia, una palma da cocco, una
sequoia canadese, o un baobab? Ecco, il baobab ce l’avrei visto bene. Vabbe’,
non voglio polemizzare sulle scelte di vita delle fate.) I suoi rami nodosi si
estendono in tutte le direzioni, e solo osservandoli bene noto che ospitano una
struttura fantasiosa, a cui non saprei dare un nome né una forma. È fatta dei
più disparati materiali: corteccia, foglie, fiori, rametti, ragnatele, liane,
resina così antica e lucente che penso possa essere ambra. Ci sono torrette,
piattaforme, terrazze, ponticelli, disposti a casaccio, da quel che vedo;
eppure l’insieme è incantevole e armonioso. Un po’ in ritardo, realizzo che il
famoso palazzo reale è questo.
Devo fare i
complimenti all’architetto.
«Bello, eh?»
interviene Katie, con le fauci aguzze che brillano alla luce della luna, e io mi
riscuoto dalla contemplazione.
«Ha il suo fascino.»
Salto giù dal suo dorso, con le giunture che scricchiolano. Una lontra sarà
anche un mezzo veloce, ma di sicuro non è il più comodo.
Comunque… wow. Ci sono
davvero. Mi trovo nel centro di Faerie. Chi l’avrebbe mai detto?
«Grazie davvero,
Katie» dico. «Mi hai salvato la vita due volte. Ti sono debitrice. Come potrò
mai ringraziarti?»
«Oh, qualcosa
troverò.» I suoi baffi vibrano, e lei sbuffa. Immagino stia ridendo. «Buona
fortuna con la regina Titania. Sono sicura che non avrai problemi.» Mi strizza
l’occhio, poi si volta e si dilegua fra i cespugli.
Ora che sono rimasta
sola, faccio un bel respiro per trovare il coraggio. Basta arrivare alla
quercia e chiedere di parlare con la regina. Quanto potrà mai essere difficile?
Su un albero nelle
vicinanze un usignolo comincia a cantare, facendomi trasalire. Cinguetta un
motivo pieno di virtuosismi, lungo e complesso, per chiudere con un acuto che
termina in un vibrato. Santo cielo, neanche Mariah Carey si pavoneggia così.
«Sborone» commento.
«Rosica, tesoro»
ribatte quello dall’alto, e con un frullo d’ali se ne va.
Ecco, bella figura.
Facendo finta di niente, mi dirigo verso la quercia, chiedendomi cosa mi
capiterà adesso.
Da lontano non si vedeva, ma man mano che mi approssimo noto una strana
struttura che si arrampica per tutta la lunghezza del tronco
Da lontano non si
vedeva, ma man mano che mi approssimo noto una strana
struttura che si arrampica per tutta la lunghezza del tronco. Sembra una
carrucola da pozzo corredata di piattaforma. Sarà una specie di ascensore? E
certo: non tutti gli esseri soggetti al reame fatato sanno volare. Come quel maniaco di Roger il coniglio.
Arrivata
all’ascensore, lo fisso, chiedendomi cosa dovrei fare. Montarci sopra e dare
una strizzata alle liane, come nei film? Dannazione, potrebbe esserci almeno
una reception a cui chiedere.
Oh, magari è una
piattaforma magica che si muove da sola. Ormai tutto mi sembra possibile. Meglio tentare che stare qui ad ammuffire.
Sollevo un piede e
faccio per posarlo sulla pedana, ma una voce m’intima: «Altolà!»
Strillo e balzo
all’indietro. Che colpo! Avrò perso dieci anni di vita.
Un tizio è appena
sbucato da dietro una radice, brandendo una lancia parecchio aguzza. Neanche
lui sembra tanto amichevole. È grosso e nerboruto, ha le guance dipinte di
colori scuri e sembra in tutto un selvaggio pronto a farmi la pelle. La vista
delle ali che ha dietro le spalle non mi rassicura più di tanto, ma almeno mi
fa capire che non è altro che un gorilla delle fate.
Alzo le mani. «Peace and love,
amico. Non ho fatto niente.»
M’ignora, continuando
ad agitarmi la lancia sotto il naso. «Dichiara la tua identità.»
«Non credo che ci
conosciamo. D’accordo!» esclamo, notando che non è affatto
in vena di battute, come dimostra la punta della lancia che luccica
minacciosamente vicina alla mia gola. «Datti una calmata, però, se non vuoi
pentirtene.» Non credo che i capi fatati sarebbero
contenti se questo esaltato facesse fuori una turista innocente: dopotutto le
fate non sono esserini amichevoli e pucciosi?
Questo qua non mi
sembra per niente amichevole e puccioso, però.
«Devo vedere la
regina!» affermo, sebbene un po’ meno decisa di prima. Non è piacevole essere
minacciati tanto a lungo. Non ci sono abituata.
«Dichiara la tua
identità» ripete il gorilla. Ma gli si è incantato il
disco?
«Mi chiamo Alisea e
sono umana. Contento? Ti si è spalancato un mondo? Adesso, gentilmente, toglimi
questo coso dalla gola e fammi salire. Non ho tempo da perdere.»
«Dichiara il tuo
intento» pretende lo sbirro. Comincio a sospettare che non abbia abbastanza
cervello da variare il suo repertorio.
«Complimenti per l’originalità,
eh. Sei davvero un tipo minaccioso. C’è un premio
speciale per lo sguardo più assassino?»
Per tutta risposta,
torna ad agitarmi la lancia a due centimetri dal viso.
Mi ritraggo. «Ok, ok, ho capito. Mi hanno detto che dovevo trovare la
regina, se no non sarei potuta tornare a casa mia.»
«Chi te l’ha detto?»
Oh mio Dio, allora sa
parlare. «E che ne so? Mica li conosco. Erano dei
pazzi esaltati.» Non c’è altro modo per descrivere
quei truzzi fatati.
Mi fissa, e giuro di
non aver mai visto uno sguardo più ostile. Ma dovevo
proprio beccare un guardiano antipatico? Altro che “non avrai
problemi”. Katie mi ha decisamente portato sfiga, per
non parlare di quel gufo di Oscar.
Poi il gorilla sembra
prendere una decisione. Senza staccare gli occhi da me, fa un breve fischio
modulato e subito un altro suo collega si materializza accanto a lui. Il
guardiano gli sussurra qualcosa; quello annuisce, sale su un’ape legata lì
vicino e s’invola nell’oscurità.
Il primo, senza
accennare a mettere via l’arma, mi fa un cenno verso la piattaforma. «Sali.»
«Sei tu il capo»
replico, e obbedisco. Pur di vedere questa regina e tornare della mia taglia
normale sono disposta anche a sopportare la maleducazione di questo tipo senza
dirgliene quattro.
Perciò salgo
sull’ascensore, tallonata dal gorilla, che allunga una mano per tirare una
specie di corda. Poco dopo la carrucola si muove, e noi cominciamo a salire.
Dopotutto, non è una
piattaforma magica.
Per tutto il tragitto,
il mio guardiano se ne sta ostinatamente zitto. Non apre bocca nemmeno in
seguito a certi miei simpatici commenti, come «Ma ti pagano molto per essere
così scorbutico?» oppure «È guano quello che hai in faccia?» Mi stufo molto
prima di essere arrivati in cima e chiudo la bocca anch’io.
Infine l’ascensore si
arresta dolcemente davanti a una passerella. Il mio accompagnatore, sempre
molto loquace, mi apostrofa: «Scendi.»
«Agli ordini, Mr.
Simpatia» borbotto, e smonto, sempre con il suo fiato sul collo. «Adesso vedrò
la regina?» chiedo, senza aspettarmi davvero una risposta, che infatti non si fa sentire. Sospiro e mi avvio lungo la
passerella.
Non ho fatto nemmeno
cinque passi, però, che una voce diversa m’ingiunge: «Ferma!» e improvvisamente
vengo attorniata da un circolo di lance.
Sgrano gli occhi e
m’immobilizzo.
Un tipo dall’aspetto
piuttosto autorevole avanza tra le guardie: ha capelli scuri stretti in una
coda e uno sguardo inflessibile che non promette nulla di buono.
«Chi sei, e cosa
vuoi?» Non sembra neanche una domanda, ma un ordine, con il sottinteso: “E se
non rispondi, ti facciamo il culo a strisce”. E
scusate la volgarità.
«Ancora?» esclamo, frustrata. «Ma siete duri
d’orecchi o cosa?»
C’è un movimento fra
le lance che m’induce a chiudere la bocca.
«Rispondi,
criminale.»
«Piano con gli
insulti» protesto. «Non ho fatto niente di male.
Adesso, per favore, è una questione di vita o di morte:
fatemi vedere la regina e fingerò che non sia successo niente.»
«Ci stai minacciando?»
prorompe il capo, se possibile ancora più ostile.
«Cosa?» dico,
allibita.
Il tizio autoritario
fa un cenno al mio gorilla di prima, che si è unito alla schiera di fate che incombono
su di me. «Ainsel, riferisci le parole della
terrorista.»
Lui si fa avanti. «“Datti
una calmata, se non vuoi pentirtene”» cita, imitandomi alla perfezione. «“Dei
pazzi esaltati mi hanno detto che dovevo trovare la regina, se no non sarei potuta tornare a casa mia”. “È una questione di vita o di morte”.»
Okay, detto così fa
una gran brutta impressione, devo ammetterlo.
«È sufficiente.
Gettatela in prigione» ordina il capo, perentorio.
Sono le strisce di luce che cominciano a disegnarsi sul pavimento a
riscuotermi
Sono le strisce di
luce che cominciano a disegnarsi sul pavimento a riscuotermi.
Mi trovo in una cella
dalle pareti in legno, con il pavimento ricoperto di
stuoie. C’è un’unica finestrella a gettare luce – ora – sull’ambiente, ed è
formata da un reticolo di liane robustissime. Non appena mi hanno gettato qui dentro ho provato a spezzarle, o almeno ad allentarle –
mica scema – ma probabilmente avrei più fortuna se tentassi di spostare
telepaticamente l’intera maledetta quercia. E nessuno che si degni di darmi la
più misera spiegazione del perché mi stiano trattando
in questo modo, nonostante mi sia venuta la voce roca a forza di strillare. Non
ho diritto almeno a un avvocato d’ufficio?
Neanche fossero sordi,
tutti gli sbirri fatati mi hanno ignorato bellamente mentre passavano davanti
alla mia porta; e alla fine mi sono arresa e mi sono accucciata sul pavimento
della cella, carica di furia omicida.
Adesso, osservando la
luce farsi sempre più intensa, comincio a preoccuparmi. Saranno ormai le cinque
del mattino e io, in questo momento, ho tante speranze
di vedere la regina Titania quante sono le possibilità di farmi crescere un
paio d’ali con la forza del pensiero.
Mi riattacco alle
liane che formano la porta della prigione, nella vana speranza che qualcuno
abbia cambiato idea. «Ehilà» chiamo, ma nessuno mi calcola. «Non
so se avete notato, ma è mattina. Oltre a liberarmi, potreste farmi la cortesia
di portarmi un caffè?» Ovviamente i pochi secondini presenti m’ignorano,
perfino quando mi metto a scuotere le sbarre come una scimmia ululando: «Voglio
un avvocato!»
Improvvisamente, però,
mi zittisco. C’è del trambusto fuori dal mio campo visivo che mi sembra
provenire dal corridoio che porta al carcere.
«…non è sicuro…»
rimbomba una voce, che a fatica riconosco come quella del tizio che mi ha arrestato.
Un’altra voce più
bassa risponde qualcosa che non riesco a distinguere, ma il solo pensiero che
qualcuno stia venendo qui mi riempie di speranza.
Magari qualche fatina buona si è commossa e mi vuole aiutare!
«Aiuto!» comincio infatti a gridare. «Sono
innocente! Salvatemi da questi psicopatici!»
Stavolta uno dei
carcerieri m’intima di chiudere il becco, sotto la minaccia di conciarmi per le
feste. Poiché non fatico a crederci, obbedisco.
Finalmente i due
entrano nella prigione, e non riesco a evitare un’esclamazione di sorpresa che
presto diventa indignazione.
«Tu!» sbotto, avventandomi sulle sbarre. «Se non fosse stato per te
e i tuoi compari, adesso non sarei qui!»
Liam mi fissa,
sembrando altrettanto stupito di vedermi. Perché è proprio uno di quegli
stupidi truzzi sul coleottero che ho incontrato all’inizio di questa allucinante nottata, per la precisione il ricciolino
dietro tra le due escort – che,
stranamente, non sono presenti: avrei giurato fossero creature simbiotiche,
tipo cozze.
Le guardie mi
richiamano all’ordine, ma questa volta sono io a ignorarli. «Se invece di andare
a quel dannato rave vi foste degnati di darmi un passaggio, non starei qui a
marcire…» continuo a inveire, finché il capo non m’interrompe.
«Conoscete questa
terrorista?» chiede sbigottito al ragazzo.
Lui pare restio ad
ammetterlo – devo sembrare una pazza furiosa – ma alla fine dice: «Sì, l’ho già vista. Perché è in prigione?»
«L’abbiamo scoperta
mentre cercava di attentare alla vita di Sua Maestà la regina.»
«Ma siete fuori di testa?» esclamo. «Non è
vero! Sono umana e cercavo la regina per tornare normale!»
«È la verità» conferma
Liam. «Ha mangiato il frutto Waka-Waka. Voleva vedere
la regina per un rimedio.»
«Visto?» esplodo,
trionfante.
Il capo sembra scettico,
ma per qualche motivo non mette in dubbio le parole del ragazzo. «D’accordo, è sufficiente. Liberatela.»
«Alla
buon’ora» brontolo, mentre un secondino apre la porta. «Avete un sacco
di problemi in materia di giustizia, lo sapete?»
«Ci dispiace per il
fraintendimento» dice lo sbirro per tutta risposta, imperturbabile, e poi si
allontana. Mi sa che di scuse decenti non ne sentirò.
«Vieni, usciamo da
qui» esorta Liam, dirigendosi fuori.
«Alt» lo blocco,
seccata. «Non so nemmeno chi diavolo sei. Mi pare di
avere avuto abbastanza avventure stanotte. Dimmi solo dov’è questa fantomatica
regina.»
Lui apre la bocca per
rispondere, ma in quel momento si riavvicina il tizio autoritario, che non ha
smesso di guardarmi male. «Principe Liam, c’è qualche problema?»
Adesso sono io ad
aprire la bocca. Principe Liam?
«No, capitano, va
tutto bene» risponde lui. «Adesso ce ne andiamo. La
porterò io stesso da mia madre.»
L’altro fa un profondo
inchino. «Arrivederci, Vostra Altezza.»
Vostra Altezza? Sento gli occhi che mi stanno per cadere dalle
orbite.
Liam mi fa un cenno e io, imbambolata per la sorpresa, non posso fare altro che
seguirlo.
Dopo che siamo usciti, abbiamo attraversato un ponticello e siamo giunti
a una specie di lunga balconata, riesco finalmente a riavermi
Dopo che siamo usciti,
abbiamo attraversato un ponticello e siamo giunti a una specie di lunga
balconata, riesco finalmente a riavermi. «Tu sei un principe?»
«Già» replica Liam con
indifferenza. «Titania è mia madre.»
Non mi viene in mente
proprio niente da dire. Insomma, qualcosa come “E la corona?” oppure “Pensavo
che i principi si vestissero meglio” è da escludere. Alla fine mi colpisce un
pensiero. «Oddio, sono stata troppo insolente? Scusa! Cioè, volevo dire… ti
devo chiamare, ehm, vostra maestà?»
Lui ride. «Lascia
stare! Sono io che mi devo scusare. Mi sono sentito piuttosto in colpa per
averti mollato lì, sai… almeno una volta passata la sbronza.»
«Ah già, la festa.
Aspetta!» Oggi sono così perspicace da mettermi spavento. «La tua festa?»
«Sì, per il mio
compleanno. Rave nel cavo di un albero con tutti i giovani di Faerie.»
«Ehm… auguri!»
«Grazie.»
È davvero stupefacente che si sia ricordato di me
nonostante il rave. Non riesco neanche a immaginare che roba giri tra le fate,
con tutta la loro conoscenza delle erbe.
Lo guardo meglio. Ha i
capelli arruffati, i vestiti stropicciati e la faccia sbattuta quanto un uomo,
ma per il resto non barcolla neanche. Caspita, che resistenza.
«E come facevi a
sapere che ero in prigione?» gli chiedo.
«Be’, non capitano
spesso terroristi, da queste parti.»
«Siete parecchio
sospettosi lo stesso» commento. Non mi è ancora passata del tutto la stizza.
Lui alza le spalle.
Mentre parliamo, siamo
passati per mille porte, corridoi, scalinate, terrazze – mi sono decisamente
persa. Ma quanto è grande questo palazzo?
«Dove andiamo?»
domando. Va bene che è il principe, ma ho imparato a non fidarmi delle fate.
«Dalla regina, no?
Devo pur rimediare. Di solito la fila è un po’ lunga, ma dopotutto io sono suo
figlio.» Sorride sarcastico.
E vai con le
raccomandazioni! Da re. «Oh, grazie!»
«Figur…» S’interrompe
e mi fissa. Mi squadra dalla testa ai piedi come se fino a questo momento non
mi avesse mai guardato. Aspetto, perplessa.
«Forse è meglio fare
una deviazione» dice alla fine, e riprende a camminare.
«Che c’è?»
«Ehm… non discuto sui
gusti, ma diciamo che per farti avere un colloquio con la regina bisogna prima
metterti a posto.»
Mi esamino il vestito,
o meglio, il petalo. In effetti è talmente sfaldato che comincia a strapparsi.
Per non parlare dei miei piedi, o… non oso neanche immaginare lo stato dei miei
capelli.
D’accordo, sembro
un’aborigena, ma queste sono fate, cavolo! Non pensavo avessero problemi con un
look natural.
«Be’, non ho avuto
molta scelta. Non mi sembra di essere più scoperta delle tue amichette,
comunque» ribatto seccamente.
«Eh eh» fa lui con
sguardo ebete – starà ripensando alle grazie poco nascoste della roscia. Poi si
riscuote e mi getta un’altra occhiata. «Potevi anche venire alla festa,
dopotutto.»
Oddio, è più marpione
del biondino. Comincio a preoccuparmi.
«Eccoci arrivati»
annuncia poi. «Le mie stanze.»
Prima che possa
interpretare male le sue parole, davanti a noi si materializza una fatina
talmente sgargiante che devo sbattere le palpebre per guardarla. Ha i capelli
fucsia raccolti in un’acconciatura bizzarra, tutta ciuffi e treccioline, e un
vestito fatto di fiorellini dei più svariati colori che la fa sembrare un
arcobaleno vivente.
«Liam!» cinguetta,
baciandolo sulle guance. Poi mi guarda. «Chi mi hai portato?»
«Un’umana» risponde
lui. «Riesci a renderla presentabile per un colloquio con la regina?»
Mentre mi ripeto che
se lo prendessi a sprangate molto probabilmente mi rimetterebbero in prigione,
lei trilla: «Un’umana! Che cosa eccitante! Ma tu hai sempre avuto gusti
eclettici. Fidati di me, tesoro!»
«Ehi!» protesto. «Non
sono mica…»
«Su, vieni»
m’interrompe. «Ci vorrà un po’» dice poi a Liam. «Tu va’ a farti un giro,
tesoro.»
«Obbedisco» sogghigna
lui, e si defila.
Di malavoglia, mi
sottometto alle cure di Yuna, come m’informa di chiamarsi.
«Prima di tutto»
tintinna, «ci sbarazziamo di questo.» E con un gesto repentino mi strappa di
dosso il petalo e lo getta letteralmente fuori dalla finestra.
«Ma…» faccio, sbalordita.
«Silenzio, tesoro» mi
redarguisce Yuna, per poi gorgheggiare, battendo le mani: «Ariel! Caelia!»
Due fate spuntano
all’improvviso da non so dove – probabilmente erano appostati dietro le tende.
Uno lo definirei un metrosexual con
un ciuffo biondo platino immobile a causa del gel – o di qualche altra sostanza
più fatata, immagino – e sopracciglia disegnate che terminano in uno svolazzo;
l’altra somiglia a una scene queen
dai lunghi capelli azzurri e un trucco così pesante che il suo volto sembra
composto solo di tre macchie nere – due occhi e una bocca. Entrambi mi
sorridono entusiasticamente.
«Siamo i look maker della famiglia reale» trilla
Yuna. «Ariel è l’hair stylist, Caelia
è la make-up artist e io sono la fashionist.»
«Questi termini li
avete presi da una rivista di moda, suppongo» commento.
«Be’, a volte qualcosa
degli umani ci piace» risponde lei.
Dopodiché chiudo la
bocca, perché vengo sottoposta a raffinate torture degne di Lady Gaga. Ho una
paura folle che questi tre mi riducano come loro, ma dopo venti minuti di
trucco, parrucco e vestizione – nonostante tutto sono velocissimi – quando mi
trovo davanti allo specchio non urlo né mi ritraggo. Anzi… sono persino carina!
Ho i capelli pettinati a onde, un trucco leggero ma figo e un vestitino bianco
che mi ricorda un po’ una tunica greca, ma molto chic. E fiori ovunque: tra i
capelli, alla cintura e ai polsi. Be’, sono pur sempre fate.
«Wow!» esclamo. «Posso
tenermi il vestito?»
«Certo, tesoro»
replica Yuna, «ma quando sarai tornata della tua taglia non ti servirà a
granché.»
«Già… peccato.» Be’,
posso sempre copiarlo. «Dov’è Liam?» chiedo poi. «Doveva accompagnarmi dalla
regina, giusto?» Do un’occhiata fuori. Il cielo si è schiarito parecchio: ormai
sta per sorgere il sole.
«Oh, so io dov’è»
cinguetta Yuna. Ariel e Caelia ridacchiano. «Vado a chiamartelo.» Si dirige non
verso la porta ma verso la finestra, e vola via.
Io rimango da sola con
Ariel e Caelia, che continuano a sorridere in maniera inquietante. Tento di
sorridere in risposta, ma quello che esce suppongo somigli a un sintomo del
tetano.
Il silenzio è
imbarazzante, così lo rompo nel modo più banale possibile. «Allora» esordisco,
«vi piace fare i look maker per la
famiglia reale?»
«Oh, sì!» squittisce
Ariel, rivelando una S piuttosto blesa. «Ci sono talmente tante occasioni… non
ci annoiamo mai!»
«Specialmente per il
principe!» aggiunge Caelia. Ha una voce calda e suadente che contrasta con il
viso da bambolina di porcellana. «È sempre in giro per feste. Lui e i suoi
amici sono modelli perfetti.»
La roscia! Ecco perché
si dava tante arie. È la concubina favorita di questo principe donnaiolo, anzi,
fataiolo. «Strano che non siano con lui» butto lì casualmente. «Si staranno
riposando dopo la festa, suppongo.»
«Se hanno ripreso
conoscenza!» precisa Ariel, ridacchiando. «È difficile stare dietro al
principe.»
«Che principe degno di
ammirazione!» sospiro, sarcastica, ma loro non colgono l’ironia e tra molte
moine si dichiarano d’accordo.
Parlando del diavolo,
il suddetto compare improvvisamente assieme a Yuna. Si è cambiato anche lui:
ora indossa un paio di calzoncini che a dire la verità sembrano dei boxer stretti
da una cintura fatta di minuscole foglie d’edera – o almeno spero sia edera –,
cerchi alle braccia, un lungo ciondolo al collo e una fascetta d’oro in fronte.
È esattamente come m’immaginerei fosse un principe delle fate. (Yuna non ha poi
tutta questa fantasia.) Entra pavoneggiandosi come a una sfilata.
«Carino» commento,
impaziente. «Andiamo?»
Lui mi guarda e fa
un fischio, di quelli modulati che emettono i muratori in pausa pranzo a una
donna in minigonna che passa. «Anche tu non scherzi! Sicura di avere fretta?»
«Tu e il biondino
siete gemelli separati alla nascita o tutti i maschi fatati sono dei
debosciati?» replico, uscendo dall’appartamento. Con mia somma soddisfazione,
lui mi viene dietro come un cane al guinzaglio.
«Modestia a parte,
Tael non ha certo le mie doti di seduttore» dichiara Liam, mettendosi davanti a
me e appoggiandosi al muro con il gomito. Solleva persino un sopracciglio. Dio,
che banalità!
Sorrido e appoggio
una mano sul suo avambraccio. «Non fatico a crederci» sussurro. Mentre gongola
con aria ebete, gli do una spintarella e lui, che non se l’aspetta, scivola dal
muro e barcolla miseramente.
«Meglio per lui,
non credi?» aggiungo, continuando a camminare.
«Sei tosta» dice,
raggiungendomi. «Mi piace.»
«Senti, perché
scocci proprio me? Non ti bastano le tue amichette del coleottero?»
«Mi manca giusto una mora» ghigna lui, e
stavolta mi giro per tirargli un pugno – al diavolo la prigione.
Liam mi blocca la
mano. «La vuoi vedere o no, la regina?»
«Giusto un pelino
di più che spaccarti la faccia» replico, stizzita. «La smetti di rompere e mi
porti da lei, per piacere?»
«Come vuoi, ma
sappi che lo rimpiangerai per tutta la vita.»
«Ne dubito
fortemente.»
Finalmente chiude
la bocca e si limita ad accompagnarmi da Titania.
Dopo essere saliti per una lunga scalinata, ci ritroviamo di fronte a
una grande porta riccamente decorata a motivi vegetali, davanti alla quale
stazionano due bodyguards
Dopo essere saliti
per una lunga scalinata, ci ritroviamo di fronte a una grande porta riccamente
decorata a motivi vegetali, davanti alla quale stazionano
due bodyguards.
Somigliano vagamente a quell’antipatico che ho incontrato all’ascensore: hanno
gli stessi segni dipinti in faccia ed entrambi brandiscono una lancia.
«Ehilà, ragazzi»
dice Liam. «Devo vedere mia madre.»
Loro s’inchinano.
«E lei?» chiede uno dei due.
«Mi accompagna.»
I due si scambiano
uno sguardo eloquente, poi aprono la porta. Possibile che queste fate mi devono
sempre credere o una criminale o una prostituta?
Calma e sangue
freddo. Sono a un passo dal completamento della missione.
Liam entra, e io lo seguo. Cerco di mantenere un’espressione
imperturbabile, ma sono un po’ intimidita: come sarà questa regina? A giudicare
da com’è cresciuto il figlio…
C’inoltriamo in una
grande sala circolare a cielo aperto. Dev’essere il punto più alto del palazzo,
perché sopra di noi ci sono solo la chioma della quercia e la luce dell’alba
che vi filtra attraverso. La sala è delimitata non da
pareti in legno ma da liane cui s’intrecciano
rampicanti di ogni tipo. Il pavimento è talmente disseminato di fiori da non
lasciarsi nemmeno intravedere.
Mentre mi guardo
intorno a bocca aperta, Liam si dirige sicuro dritto davanti a sé. Incespicando
un po’, lo tallono; e finalmente vedo la regina Titania.
È seduta mollemente
su un trono d’ambra, con una gamba adagiata su un bracciolo. Indossa una lunga veste
cangiante che le lascia scoperte le braccia e un mantello intessuto di fiori.
Sembra giovanissima e tuttavia senza età: ha lunghi capelli biondi così chiari
che paiono d’argento, e occhi luminosi color oro scuro. Sulla testa porta una
sottilissima corona.
All’approssimarsi
del figlio, Titania gira la testa con indifferenza e lo guarda.
«Salve, madre»
inizia Liam. «Ti trovo in ottima forma. Com’è andato
il… ehm… qualsiasi cosa tu abbia fatto ultimamente?»
Lei sospira. «Sai,
Liam, dovresti interessarti di più a quello che faccio, dal
momento che disgraziatamente sei mio figlio e il principe di Faerie, e
non solo quando ti serve un favore.»
«Madre, così mi
offendi. Sai che non vivo che per la luce dei tuoi occhi e che, ehm, la mia somma
gioia è accontentare ogni…»
«Oh, finiscila» lo
interrompe la regina. «Queste litanie lasciale a tuo padre.»
«Non mettermi in
mezzo» interviene un’altra voce, e sia io che Liam
sussultiamo.
Poi lui dice: «Oh, sei tu, padre. Non ti avevo visto.»
«Guarda che sono di
fronte a te» ribatte Oberon seccamente. In effetti non
mi spiego perché io non l’abbia notato prima. Occupa un trono gemello accanto
alla regina e anche lui è vestito maestosamente, con un mantello porpora e una
corona decisamente più vistosa di quella di Titania
che gli cinge la fronte. Eppure accanto alla moglie passa del
tutto inosservato.
Dalla sua
espressione indispettita sul volto un po’ da satiro
direi che ne è consapevole.
«Allora, che vuoi?»
domanda Titania. «Hai messo incinta un’altra fatina sprovveduta?» Poi il suo
sguardo cade su di me. «Non sarà quella, vero? Ti ho detto di non portare le tue sgualdrinelle
nella sala del trono.»
Questo è troppo.
Fumante di rabbia, faccio un passo in avanti. «Scusate tanto, signora, ma solo
perché siete la regina non significa che potete
trattare la gente come vi pare. Quindi fareste meglio a chiedermi chi sono,
prima d’insultarmi.»
Lei mi guarda
stupefatta. Mi sa che l’aiuto me lo dovrò sudare per bene. E va be’, ormai siamo in ballo, e balliamo.
«Mi chiamo Alisea e
sono umana» continuo. «Per sbaglio ho mangiato il
frutto Waka-Waka e sono rimpicciolita. Mi hanno detto che l’unico modo per
tornare normale era venire da voi e chiedervi un rimedio. Mi potete aiutare?»
Dopo una lunga
pausa, lei replica gelida: «E perché dovrei aiutare una mortale insolente come
te?»
«Dai, madre»
interviene Liam. «Cosa ti costa?»
«Sì, Titania, non
fare l’egocentrica come al solito» afferma Oberon.
«Tu sta’ zitto» sbotta lei. «Non mi venire a
fare lezioni di morale dopo la storia dell’asino. Che, per inciso, era
comunque più bello di te.»
«Così impari, tu e il tuo trovatello indiano» ribatte lui
immediatamente. Poi sospira. «Vai ancora a rivangare
queste cose? È successo secoli fa!»
«Sì, e siamo ancora
lo zimbello dei mortali per questo!» esplode lei.
«Oh, cosa ne sapevo
io che quello scrittore stava origliando?» protesta Oberon.
Di fronte a questo
battibecco, guardo Liam, incerta. Lui alza le spalle con aria rassegnata.
«Madre, padre» li
richiama poi. «Noi stiamo aspettando.»
«E va bene!» sbuffa
Titania. «Cos’è che vuoi?» mi chiede. «Un paio d’ali o la pozione per tornare
della tua grandezza?»
«Come, un paio
d’ali?»
«Puoi diventare una
fata, se lo vuoi» mi spiega Liam, e poi ammicca.
«Ehm… no, grazie»
rispondo. Se le fate sono tutte così scoppiate, non ci tengo. «Finiamola con queste scempiaggini alla Frodo Baggins.
Voglio solo tornare normale.»
«D’accordo» dice
Titania sbrigativamente. «Dov’è Puck quando serve?» mormora poi, fra sé. «Puck! Dove diavolo sei finito? Puck!»
Con un forte
schiocco, un folletto dalla faccia dispettosa compare a mezz’aria. «Sì,
maestà?»
«Puck, portami la
boccetta con la pozione viola dalla stanza dei rimedi» ordina la regina.
«Quella con
l’estratto del fiore Waka-Waka, maestà?»
«Esatto.»
Lui annuisce e
scompare.
«Di nuovo
Waka-Waka?» chiedo con sgomento.
«Mai sentito
parlare di omeopatia?» replica Titania, tagliente.
Dio mio, che
antipatia. Ma come ha fatto Oberon a sposarla? E
soprattutto a starci assieme per l’eternità?
Poi Puck ricompare
e mi distrae dai miei pensieri velenosi. Porge una boccetta alla regina dei
ghiacci, che la stappa e l’annusa.
«È questa»
dichiara, e me la tende. Allungo una mano e l’afferro
tremante, quasi incredula di esserci davvero riuscita. Ho recuperato il
rimedio. Tornerò normale.
«Ora sparite»
ingiunge Titania. «È quasi ora d’incominciare le udienze.»
«Grazie, Vostra
Maestà» le dico, nonostante l’antipatia.
«Bah» fa lei. Non
credo se la sia bevuta.
Io e Liam usciamo
dalla sala del trono e, una volta che la porta si è chiusa alle nostre spalle,
do libero sfogo al mio entusiasmo. «Oh mio Dio! Ce l’ho
fatta! Yeah!» Mi metto a
saltellare come un’invasata.
«Okay» fa Liam,
osservandomi perplesso. «Ehm, stai bene?»
«Grazie!» lo investo, esaltatissima. «È tutto merito tuo!» Non resisto e
gli getto le braccia al collo anche se è uno sfrenato
libertino. Molto stranamente, non ne approfitta: devo averlo sconcertato
parecchio con i miei strilli isterici.
Rimane rigido come
un baccalà finché non lo mollo. «Scusa» dico ansante,
ancora infervorata. «È che sono davvero contenta. Ce l’ho fatta! Tornerò normale!»
La sua faccia mi
ricorda da vicino Edward Mani di Forbice, perciò gli
chiedo, un po’ preoccupata: «Tutto bene?»
«Ehm…» Sembra incerto su cosa dire. «È che io…»
«Che c’è?»
«Io non… non ho mai…»
«Che cosa?»
«Non ho mai… ricevuto… ricevuto un abbraccio.»
«Come scusa?!»
«Nessuno mi ha mai abbracciato.»
«Mai?» ripeto, scioccata. «In tutta la vita?
Neanche i tuoi?»
«Mai» conferma, con aria smarrita. «E poi li hai visti, i miei.»
Non posso dargli tutti i torti. Non mi hanno dato proprio
l’impressione di genitori amorevoli. Poveraccio! Dev’essere parecchio
complessato. Chissà, forse la sua carenza d’affetto
potrebbe spiegare la sua satiriasi.
«Che cosa bisogna fare?» chiede titubante, aggravando la
mia preoccupazione. Esisteranno psicoanalisti tra le fate?
«Non è difficile» spiego, intenerita. «Devi mettere le
braccia intorno a me, come faccio io.» Poiché non
accenna a muoversi, gli prendo le mani e le sposto sulla mia schiena. «Visto? Non c’è niente di complicato.»
La sua aria disorientata mi commuove. Sotto sotto è un ingenuo. Poveretto, dopotutto
ha avuto un’infanzia difficile.
E poi… mi tocca il sedere.
«Ma che diavolo fai?!» strillo,
balzando via come un cobra.
«Scusa, sono ancora inesperto» sghignazza, e
improvvisamente capisco.
«Mi hai ingannato!»
strepito, inviperita. Gli pesto un piede con tutta la forza che ho.
«Ahia! E dai, te la prendi troppo.»
Per tutta risposta, gli centro la faccia con una sberla. E adesso datemi pure l’ergastolo!
«Che violenza!» esclama lui divertito, massaggiandosi la
guancia. «Di’ la verità, ti piaccio.»
«Se non la pianti, ti avverto: finirò in prigione per
omicidio, stavolta!»
«È colpa tua» sogghigna. «Mi hai offerto il tuo sedere su
un piatto d’argento.»
«Brutto maniaco!» grido, indignata. «Mi hai fatto pietà!»
«La pietà è un’arma micidiale, non sottovalutarla.»
«Appunto! Sei solo pietoso!»
Liam continua a ridere, per nulla offeso. «Io ottengo
sempre ciò che voglio.»
«Sei peggio di Roger il coniglio!»
«Non lo conosco, ma dev’essere un’offesa pesante, eh?»
Sento la bile invadermi il cervello e togliermi la facoltà
di parola, così apro e chiudo la bocca parecchie volte, come un pesce, senza
che mi venga in mente nulla di davvero terribile da dire.
«Allora» fa lui, «vuoi rimanere qui a pensare a come
insultarmi, oppure ti riaccompagno dove hai lasciato i
vestiti? Non vorrai bere quella roba qui e rovinarmi il palazzo.»
«Forse dovrei, così potrei spiaccicarti con un dito»
sibilo.
«Raffredda i bollenti spiriti e seguimi.»
Che odio! Ma mi ha fregato. Non mi
resta che andargli dietro.
Dopo una breve marcia carica – da parte mia – di un gelido
silenzio pieno d’indignazione, arriviamo a una grande terrazza bagnata di
rugiada e della tenue luce dell’alba. Prima che possa godermi lo spettacolo,
però, noto del movimento: realizzando di cosa si tratta, dapprima rimango
immobile, inorridita, e poi strillo con tutto il fiato che ho.
La terrazza brulica d’insetti. Coleotteri,
api, falene, lucciole, bombi, e ancora mantidi, libellule, farfalle.
Alcuni sono posati e sembrano sonnecchiare; altri zampettano in giro; altri
ancora fanno brevi voli sopra la balconata, per posarsi dopo qualche secondo.
Oh mio Dio. Che schifo!
«Che c’è?» mi chiede Liam, perplesso.
«È pieno d’insetti!»
strillo istericamente.
«E allora?»
«Come, allora? E cacciali via, no?!»
«Perché dovrei? E poi come ci muoveremmo?»
A quel punto ricordo lo sciame di bestiacce che ho visto
quando ho incontrato le fate per la prima volta e chiudo il becco. Dev’essere
una specie di parcheggio. Peròbleah! E le api poi? E se pungessero? Lo chiedo a Liam.
«Macché, sono buonissime. Anzi, sono molto utili per la
difesa del palazzo. Le usano soprattutto le guardie.»
Mentre si fa strada tra quello zoo
degli orrori mi appiccico a lui, raccapricciata. Tutti questi ronzii e
schiocchi mi fanno trasalire. Passando, gli occhi – o almeno quelli che
immagino essere gli occhi – degli insetti sembrano seguirmi, come se
attendessero un mio passo falso per piombarmi addosso tutti
insieme.
Poi Liam si ferma. «Eccoci» annuncia, «prendiamo Sasha.»
Sasha si rivela essere il coleottero nero che guidava prima il
suo amico moro. Solo che adesso che ce l’ho davanti mi
rendo conto che è enorme. Gigantesco. Due volte più grande
di me.
«Sasha è quello che voi chiamate
un cervo volante» spiega Liam, dandogli qualche colpetto sulla testa. «Per via delle corna, immagino. In realtà sono le sue
mascelle.»
Buono a sapersi. Sasha schiocca un paio di volte le sue
enormi mandibole – che potrebbero stritolarmi senza nessuna difficoltà – e io deglutisco.
«Non ti preoccupare, è innocuo» aggiunge Liam.
«E io dovrei salirci sopra?»
esalo.
«Non mi offendere Sasha. È comodo, velocissimo e ha pure un
ritmo che spacca. Sasha» dice poi rivolto alla bestia, «ti presento Alisea. È
antipatica e diffidente, ma tu non badarci.»
Sghignazza a mio beneficio.
«Si può sapere perché voi fate
dovete circondarvi di queste bestiacce? Non avete quelle stupide ali?» ribatto.
«E allora si può sapere perché voi umani dovete usare quelle
robacce di metallo? Non avete quelle stupide gambe?»
mi rimbecca.
«Non è la stessa cosa.»
«E invece sì, solo che noi siamo amici delle creature che ci
accompagnano. E poi vuoi mettere quanto fa figo guidare Sasha?»
Accetto la sconfitta sul piano verbale e psicologico e mi
accingo a montare sulla cosa. Poi esito. «Ehm, cosa dovrei fare?»
«Ti dà una mano Sasha, se glielo chiedi per favore»
risponde Liam con un sorrisino affettato.
«Smettila di prendermi in giro.»
«È la verità. Sbrigati, che sta perdendo la pazienza.»
Con un sospiro, incredula di fronte agli abissi in cui sono
caduta, mi avvicino all’animale. «Ciao, Sasha.»
Lui schiocca le mascelle a un millimetro dal mio viso e io faccio un salto all’indietro.
«E piantala di fare la fifona, ti
stava solo salutando» esclama Liam.
Stringo i denti e mi riavvicino. «Per favore» dico
all’insetto – non sono pazza, non sono
pazza – «mi aiuti a salire?»
E, roba da non crederci, lui stende una zampa e fa scattare
un’altra volta le mascelle.
Vedendo la mia incertezza, Liam suggerisce: «Usala come scalino.»
Così mi afferro al dorso del coleottero e poggio un piede
sulla sua zampa. In quel momento Sasha mi dà una spintarella verso l’alto e io mi ritrovo seduta sopra di lui.
Intanto anche Liam si è arrampicato sulla sua groppa.
«Bravo» dice, accarezzandolo, e Sasha schiocca di nuovo le sue ganasce in
quello che suppongo essere un gesto di soddisfazione.
«Che gentile» osservo, stupefatta.
«Che ti credevi? Ha preso tutto da me.»
«Sono scettica» replico, con uno sbadiglio. Non vedo l’ora
che questa lunga nottata finisca: ho un gran bisogno di una bella dormita. Mi
sento uno straccio.
«Faresti meglio a tenerti stretta» mi avverte Liam, e poi
dà un colpetto a Sasha che spalanca le ali e prende letteralmente il volo.
Altro che la lontra. Questa volta rischio seriamente di
finire con il sedere per terra, se Liam non mi afferrasse per un braccio. Il
fatto è che i coleotteri non volano dritti. Fanno dei minuscoli scarti a
zig-zag e anche in verticale, che quando si è più piccoli di loro si notano eccome.
E poi va veloce! Sento l’aria investirmi con violenza e
scompigliarmi i capelli acconciati con tanta cura da Ariel – dubito che anche
il suo gel resisterebbe – al punto che fatico a tenere
gli occhi aperti. Per non parlare della rapidità con cui muove le ali. Il
ronzio è talmente forte da superare persino il volume spaccatimpani
che mettono su i miei amici per andare in discoteca,
sebbene la melodia che produce non sia poi così diversa.
Tutto sommato, però, è una figata pazzesca.
Mi sembra troppo presto quando Liam tira leggermente le
antenne a Sasha, che rallenta e comincia a volare in cerchi sempre più piccoli
fino a planare dolcemente sull’erba.
«È stato fighissimo!» esclamo con entusiasmo. Sasha
schiocca le mascelle, compiaciuto, e io mi arrischio a
dargli un paio di colpetti sul dorso.
«E non hai visto niente» afferma Liam, scivolando giù. «Dovresti assistere alle gare clandestine che facciamo nel
sottobosco. Lì sì che Sasha dà il meglio di sé.»
«Grazie mille, Liam» gli dico. «Sarai anche un depravato e
un presuntuoso, però sei stato davvero gentile.»
«Mi farai arrossire» ribatte lui, avvicinandosi per
aiutarmi a smontare. Tende le braccia per prendermi; io appoggio le mani sulle
sue spalle, pronta a saltare, ma proprio in quell’istante Sasha si muove e io casco come un sacco di patate, finendo addosso a Liam.
Che, con molta disinvoltura, piega la testa e mi bacia.
Devo onestamente ammettere che questa volta non mi passa
neanche per la testa di pestargli un piede, tirargli un ceffone o dargli una
ginocchiata all’inguine. Il che, se mi soffermassi a pensarci, sarebbe decisamente un controsenso, considerando tutti gli insulti
che gli ho rivolto.
Quando ci separiamo, lui mi fa un sorrisetto saputo, poi si
avvicina a Sasha e lo accarezza. «Bravo Sasha» gli dice, «oggi
hai fatto proprio un ottimo lavoro. Conosco una femmina di carabo che ti farà
felice stanotte.» Sasha fa schioccare le mascelle,
soddisfatto.
Sollevo un sopracciglio, sdegnata. «Non mi dirai che Sasha
è il tuo ruffiano!»
«Diciamo che mi aiuta nelle situazioni difficili» replica
Liam divertito.
Arrabbiarmi di nuovo è perfettamente inutile, quindi lascio
perdere. Tiro fuori la bottiglietta con la pozione di Titania. «Addio, principe
dei miei stivali» dico, e poi lo bacio sulla guancia.
«Grazie.»
«Torna a trovarmi quando vuoi» risponde lui ammiccando,
prima di risalire sul coleottero.
Scuoto la testa, divertita, e m’incammino verso i miei
oggetti, che giacciono intatti poco lontano. Alle mie spalle sento il ronzio
melodioso di Sasha che si allontana nell’oscurità.
Guardo per un attimo la boccetta che ho in mano. Sembra
fatta di cristallo lucente, con il collo allungato e una gemma d’ambra incastonata
nel tappo. Il liquido che gorgoglia al suo interno è di un bel viola vellutato
e piuttosto denso.
Ormai è inutile farsi venire dubbi sulla buona fede di
Titania, quindi m’infilo dentro il mio vecchio vestito – evitiamo altri shock,
come quando mi sono risvegliata nel fiore –, stappo la bottiglietta e la mando
giù in un sorso.
Faccio appena in tempo a sentire che è disgustoso,
ripugnante, che le mie papille gustative soffrono atrocemente, quando tutto
diventa nero.
Quando mi risveglio, mi sfugge un
gemito. Mi sento uno schifo. Mi sembra di avere le ossa triturate, ho un saporaccio
nauseante in bocca e la testa pesante.
Aprendo gli occhi, metto a fuoco le chiome degli alberi che
si stagliano contro la luce del sole nascente. Mi rendo conto di essere stesa
supina sull’erba, accanto alla mia borsetta e alle scarpe.
Che caspita è successo?
Ricordo vagamente di essermi tolta le scarpe e di aver
fatto una passeggiata nel parco. Poi tutto è confuso. Ho come dei flash:
lucciole, topi… una cella… fate.
Mi rimetto in piedi barcollante, cercando di schiarirmi le
idee. Ricordo che avevo sbevazzato un po’ e poi… che ho mangiato un frutto. Ma tutto quello che mi viene in mente dopo è irreale,
allucinato, una visione distorta e fantastica.
È stato tutto un trip mentale?
All’improvviso un grosso insetto nero mi sfreccia davanti
al viso, e io faccio un balzo indietro. Ma quello è già scomparso nel folto degli alberi.
Resto immobile per un attimo; poi, con un sospiro, raccolgo
scarpe e borsa e m’incammino verso casa, nel chiarore dell’alba.
*
* *
Forse è meglio che lo modifichi,
il consiglio. Se vi trovate in una situazione rischiosa, sì, ma piena di
promesse, infischiatevene dei pericoli. Si vive una volta sola. Perciò fatelo,
vivete, afferrate l’essenza di ogni momento senza essere continuamente
trattenuti dal timore delle conseguenze. Perché potrebbero essere tanto
inaspettate quanto meravigliose.