Trip di una notte di mezza estate

di Leyla
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte 1 ***
Capitolo 2: *** Parte 2 ***
Capitolo 3: *** Parte 3 ***
Capitolo 4: *** Parte 4 ***
Capitolo 5: *** Parte 5 ***
Capitolo 6: *** Parte 6 ***
Capitolo 7: *** Parte 7 ***
Capitolo 8: *** Parte 8 ***
Capitolo 9: *** Parte 9 ***
Capitolo 10: *** Parte 10 ***
Capitolo 11: *** Conclusione ***



Capitolo 1
*** Parte 1 ***


Trip Di Una Notte Di Mezza Estate

Trip Di Una Notte Di Mezza Estate

 

Lasciate che vi dia un consiglio. Se siete in una situazione piena di potenziale negativo – bere o no la vernice per scommessa, tirare giù o no i pantaloni al prof di filosofia, lanciare o no un sasso contro la vetrina e poi incolpare vostro fratello – mollate tutto e andate a casa. Può sembrare una cosa da smidollati e, in effetti, fino a poco tempo fa ne ero convinta anch’io. Poi ho capito che era solo buonsenso. Anch’io mi sono trovata in una situazione del genere e ovviamente ho fatto la scelta sbagliata. Detta così sembra un’inezia, ma quella volta le cose hanno preso una piega non esattamente piacevole, e ho imparato a mie spese il prezzo della stupidità. D’accordo, ci do un taglio e ve la racconto, così facciamo prima.

 

* * *

 

«Ci si vede, ragazzi!» Bacio un paio di persone a caso e saluto il resto del gruppo con la mano. Traballo un po’, perché tacchi e alcol non sono un mix intelligente, ma poi recupero l’equilibrio e mi dirigo verso casa.

«Ciao Aly!» urlano gli altri, traballanti al pari di me.

«Vuoi che ti accompagni?» mi chiede Dave, l’unico assieme a Nicky che non tocca mai un drink. Povero Dave, sono mesi che mi viene dietro e ancora non ha capito che non gliela darò mai. A uno così noioso e sfigato? Ma per piacere. L’unica cosa figa che ha è il soprannome, e quello gliel’abbiamo dato noi.

«Figurati, sono neanche trecento metri, ma grazie lo stesso» rispondo, un po’ impietosita perché è sempre gentile e io lo tratto male.

Gli altri stanno già andando ai motorini; ho una mezza tentazione di farmi accompagnare da qualcuno – uno a caso… Eddy – ma ho appena rifiutato l’offerta di Dave, quindi ciccia. Mi tengo i tacchi e la camminata.

Arranco in direzione di casa mia – fa sempre comodo abitare a due passi dal lungomare, tranne quando si hanno i piedi doloranti. Poi una lampadina sotto forma di cartello si accende davanti ai miei occhi. Il parco! Così posso tagliare, e dare un po’ di tregua ai miei piedi sull’erba.

Non mi fermo a pensare quanto sia stupido attraversare un parco di notte e mi ci addentro, spensierata. Don’t try this at home.

Il parco è un grande spiazzo rettangolare con boschetti, stagni e sentieri in mezzo alla città. Diciamo che è un’imitazione scadente di Central Park, adattata a questo buco noioso altrettanto scadente in cui vivo.

Arrivata al prato, tolgo le scarpe e tiro un sospiro di sollievo. Mentre sto lì, avvolta da una musica celestiale – levarsi i tacchi è l’equivalente di un’ascensione in paradiso per me – vedo delle luci tra gli alberi, che spariscono subito. Confusa, non faccio in tempo a chiedermi se ho bevuto troppo quando le rivedo: minuscole pozze di luce che danzano tra i cespugli, avvampando per un istante prima di svanire nell’oscurità. E sembrano allontanarsi.

Presa dalla curiosità e ovviamente senza riflettere, mi dirigo verso quel punto. Non è che sia del tutto priva di buonsenso – infatti ho detto di no a Dave – è che non gli do molto retta. È come un guastafeste che avvisa i genitori perché qualcuno ha corretto il punch.

Quando giungo in mezzo agli alberi, non trovo niente. C’era da dubitarne? Ma se non ho nemmeno bevuto tanto, giusto un paio di drink e qualche shot. Saranno state delle lucciole.

Un po’ irritata, mi volto per andarmene, e bam! Mi schianto contro qualcosa e finisco gambe all’aria.

Il bosco risuona delle mie imprecazioni. Quando ho finito, guardo meglio l’oggetto che mi ha aggredito, che per l’impatto mi è finito in grembo. Ma che cavolo è? Ho sbattuto la testa contro una specie di frutto. È tondo e violaceo, con la buccia pelosa. Sembra un incrocio tra una pesca e un mirtillo. Non ho mai visto un frutto così. Che sia qualche OGM? Sarà velenoso?

Tocco la sua superficie vellutata, e mi assale un desiderio irrefrenabile di assaggiarlo. No, “desiderio” non è la parola adatta. È come se stessi morendo di sete e quello fosse l’unico bicchiere d’acqua sulla Terra, è come se trovassi una borsa di Prada con il 95% di sconto, è come se m’imbattessi in Johnny Depp bisognoso d’indicazioni stradali. Fallo! Fallo! Fallo!

Questa volta è più difficile mettere a tacere la voce guastafeste. Diamine, persino io so che è una cosa stupida e insensata. Ma quel frutto mi attira come una sirena, e ora capisco cosa deve aver provato Eva nel giardino dell’Eden. Al diavolo! La mia volontà non è certo più forte della sua. Perciò lo strofino sul vestito e gli do un morso.

Faccio appena in tempo a sentire che è squisito, delizioso, che le mie papille gustative sono in festa, quando tutto diventa nero.

Con buona pace della mia stupidità.

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Capitolo 2
*** Parte 2 ***


Mi risveglio con la sensazione che un treno mi sia passato sopra

Mi risveglio con la sensazione che un treno mi sia passato sopra. Ho un mal di testa atroce e tutte le ossa indolenzite. Con un gemito, apro gli occhi… e vedo tutto rosa.

Non è esattamente il colore più adatto. Un verde vomito o un rosso squillante si accorderebbero meglio a come mi sento.

Mi trovo in una specie di stanzino circolare, con le pareti rosa. Il soffitto è nero, mentre il pavimento è schifosamente spugnoso, e ricoperto di qualcosa che somiglia a erbaccia. Al centro c’è una specie di scultura postmoderna che punta verso l’alto, una sorta di colonna che si assottiglia fino a dividersi in tanti palloncini che pendono come un lampadario.

Abbasso lo sguardo e mi accorgo di essere nuda.

Ma bene. Qualche altra rivelazione che mi convinca di non essere nell’antro di un maniaco?

Cercando una via d’uscita, mi avvicino alle pareti e mi rendo conto che sono morbide al tatto. Devono essere delle specie di stuoie. Mi affanno a trovare un buco e alla fine riesco a scostarne due l’una dall’altra. Mi affaccio cautamente…e rimango a bocca aperta.

Sono ancora nel bosco. Ecco in lontananza il prato e, ancora più oltre, l’ingresso al parco. Erano così distanti? Ecco intorno gli stessi alberi, solo enormi e impassibilmente alti. Cos’è successo? Da dov’è spuntata questa gabbia rosa?

E poi guardo in basso, e ho voglia di urlare. Perché laggiù, sull’erba – come se stessi guardando dal tetto di un condominio –, vedo una specie di tendone, e delle strutture color argento. Il mio vestito! Le mie scarpe! E quella… quella è la mia borsetta?

Disperata, mi arrampico sulla stuoia, che s’inclina dolcemente come per facilitarmi. Arrivata in cima – praticamente una piattaforma orizzontale sospesa nel vuoto – mi guardo intorno.

Sono su un fiore. Un enorme fiore rosa.

Non sono pareti, ma petali. E quell’orrida scultura in realtà è il pistillo!

Okay, era un frutto allucinogeno.

Come cavolo ho fatto a ritrovarmi dentro a un fiore? Non c’è qualche stupida legge della fisica che lo proibisce?

E se quel frutto mi avesse rimpicciolita?

Ma va là, è più probabile che l’alcol combinato al frutto mi faccia fare un gran viaggione.

Stufa della mia nudità, scivolo giù dal petalo e mi dedico a staccarne uno. Non è difficile: viene via di buon grado, così me lo avvolgo intorno a mo’ di vestito. Non sarà chic come quello di prima, ma può andare.

Ho appena finito di coprirmi – mi sento molto figlia dei fiori – quando percepisco dei rumori. Forti ronzii accompagnati da clamori. E che cos’è? Mi arrampico di nuovo sul fiore per vedere.

Delle luci si avvicinano; credo siano quelle di prima. Allora esistono! Sembra uno sciame di lucciole che si accendono e spengono, solo che le lucciole non volano così compatte e veloci. Mi nascondo dietro a un petalo e sbircio la situazione.

Il primo a sbucare dall’oscurità è un grosso insetto luccicante. Credo sia un coleottero. Bleah, mi hanno sempre fatto schifo quelle bestiacce. È di un bel nero cangiante: i riflessi dello sciame di lucciole che lo segue lo rendono un minuscolo arcobaleno notturno. Perché sono veramente lucciole, e non solo: ci sono anche falene, libellule e farfalle – pensavo che queste ultime due fossero diurne. E tutti questi insetti trasportano qualcosa.

Poi realizzo di cosa si tratta, e provo solo una blanda sorpresa. Credo di essere arrivata al punto di non stupirmi più di nulla.

A bordo di quegli schifosi insetti ci sono persone.

Su ogni lucciola ce n’è solo una, così come sulle falene e farfalle più piccole. Su quelle più grandi, oltre che sulle libellule e sui coleotteri, ce ne sono di più; in particolare, sul primo coleottero, il più grande, ci sono almeno cinque persone, o meglio, ragazzi.

Sono vicini quel tanto che basta a distinguerne il ronzio: non è affatto fastidioso o insensato come mi era sembrato in un primo momento, ma… ritmico. Giurerei di riuscire a coglierci una melodia. Oddio, non sapevo che esistessero coleotteri musicali.

Sopra quell’originale veicolo ci sono cinque persone: due davanti – di cui uno regge le antenne dell’insetto come un volante – e tre dietro. Sono incredibilmente esaltati: urlano e ridono e le due ragazze dietro si abbarbicano in modo equivoco al maschio stravaccato in mezzo. Stessa scena per il seguito di persone: chi vola a zig-zag, chi grida, chi canta. Sembrano degli ubriachi che vanno in discoteca.

Non mi sembra il caso di fare la schizzinosa, così, non appena sono in vista, salto in piedi e comincio a urlare: «Ehi! Voi! Venite qua un momento!», sbracciandomi come un’ossessa.

All’inizio sembrano non vedermi, poi quello dietro si riscuote dalle due escort e urla qualcosa al conducente. Quello fa fare al coleottero un giro della morte con doppio avvitamento, e si fermano davanti al mio fiore.

«Ehi, tesoro, vuoi farti un giro? C’è posto» mi dice un biondino accanto al guidatore. I ragazzi sghignazzano, le ragazze lo guardano male.

Nel frattempo il grosso dello sciame ci sfreccia accanto, e uno a bordo di una lucciola sfinita – poverina, la sua luce è così debole – grida: «Oh, che si fa?»

«Andate avanti, vi raggiungiamo alla festa» risponde l’autista, un tizio grande e grosso con la testa fitta di riccioli neri.

«Allora, baby? Che dici?» m’incalza il biondino.

«Senti, baby, non ci tengo per niente» replico, scocciata. «Piuttosto, mi potreste dire dove sono?»

«Su un fiore» risponde il moro al volante, e stavolta tutti e cinque scoppiano a ridere.

«Grazie mille, Capitan Ovvio» ribatto inferocita. «Avete capito cosa intendo. Potete darmi una mano?»

«Anche due» dice il biondino. «Salta su e ne parliamo mentre andiamo al rave.»

Dio, che allupato. Lo ignoro e mi rivolgo al tipo dietro, che non ha ancora spiccicato parola. «Ho mangiato un frutto e mi sono risvegliata qui. E io di solito sono più grande di un fiore. Mi sai dire com’è successo?»

Lui si raddrizza e allontana le due ragazze, che mi fissano imbronciate. Sembra interessato. «Che genere di frutto?» indaga.

«Viola e peloso. Poi sono svenuta e quando mi sono svegliata mi ero, ehm, rimpicciolita. Quelli laggiù» indico il tendone per terra, «sono i miei vestiti.»

Loro guardano in basso e il biondino fa un fischio.

«Caspita» fa il moro. «Hai mangiato il frutto Waka-Waka. Quindi sei un’umana?»

Waka-waka? Ma che razza di nome è?

«Guardate, non ha neanche le ali! È proprio un’umana!» esclama il biondo, e le ragazze, una dai lunghi capelli rossi e l’altra biondi, ridono di nuovo, stavolta con evidente malizia.

«Qualche problema?» ribatto, anche se non ho la più pallida idea di cosa stiano parlando.

«Il problema ce l’hai tu, cara» mi dice la rossa, «dato che non sei una fata.» E mi dà le spalle. E infatti, sulla schiena ha due piccole alucce iridescenti, che tremolano leggermente. Assomigliano a quelle di una farfalla, ma sono traslucide e attraversate da sottili venature come le ali di una libellula.

E anche gli altri ce le hanno, identiche, solo diversamente colorate.

Fate.

«Siamo il popolo di Faerie» spiega il ragazzo seduto tra le due, dai riccioli castani che gli cadono sugli occhi e sulla nuca.

«Conosci qualcun altro che viaggia a bordo di coleotteri?» aggiunge il moro, e di nuovo tutti ridono. Ma si crede così spiritoso?

Guardo meglio il loro abbigliamento. Le ragazze indossano striminziti vestitini fatti di fiorellini e piume, mentre i ragazzi hanno il petto nudo e calzoncini di pelle morbida. Il biondo porta anche un gilet di pelliccia: l’ultimo grido, immagino.

«D’accordo» replico, senza scompormi più di tanto. Era scontato che il parco sotto casa mia ospitasse il regno delle fate, dopotutto. «Siete fate. Non m’interessa un fico secco se siete esseri mitologici o il frutto della mia immaginazione. Sapete come posso fare per tornare della mia taglia normale?»

«Certo» risponde il biondo, rendendosi inaspettatamente utile. «Basta che vai dalla regina Titania. Lei ha tutti i rimedi.»

Il ragazzo seduto dietro ha un gesto d’insofferenza.

«Che sbatti» ne approfitta subito la rossa – la bionda sembra troppo oca per saper parlare. «Sylvan, andiamo alla festa.»

«Liam?» chiede il moro.

L’altro pondera un po’. «Sì» conclude. «Ho voglia di ubriacarmi.»

«Ehi!» protesto. «E io?»

«Che dite, la portiamo?» fa il biondino, eccitato. «Un’umana alla festa di compleanno del principe! Quando mai si è visto?»

La rossa mi guarda e fa un verso eloquente.

«Non ci voglio venire, al vostro stupido rave» esclamo. «Dove posso trovare questa regina?»

Buonanotte. Sto ancora parlando, quando Sylvan dà un colpetto al coleottero, che si riscuote e parte a razzo. Mentre sfrecciano via a tutta velocità, il ragazzo di nome Liam mi grida: «Per di là» e indica la direzione opposta da cui sono arrivata, verso il folto del boschetto che ormai mi sembra la foresta equatoriale.

«Andate a quel paese, voi e il rave» borbotto furibonda, e cerco di trovare un modo per calarmi giù da questo stupido fiore.

Alla fine, con acrobazie alla Tomb Raider, separo due petali alla base e scendo, poggiando precariamente i piedi su un sepalo. Scivolo giù e mi ci afferro, per poi cominciare a dondolarmi come una cretina fino ad avvolgere le gambe intorno al peduncolo. A quel punto mi ci aggrappo con le mani e comincio a scendere. Detto così sembra una cavolata, ma rischio di morire almeno in cinque occasioni, e perdo il conto di quante volte mi scivola la presa.

Arrivata a terra, mi ritrovo nel pieno della giungla. Alta un pollice come sono, persino i fili d’erba mi sovrastano! Sentendomi Indiana Jones, mi faccio strada tra il sottobosco fino a raggiungere la mia borsetta. Non so nemmeno che ore sono. E se i miei si fossero accorti che non ci sono? Meglio controllare il cellulare, prima d’intraprendere il cammino verso la fantomatica regina Titania. Caspita, chissà quanto tempo potrei metterci!

Con qualche difficoltà, riesco a spalancarla e la rovescio; poi prendo il cellulare e lo apro – stupidi modelli a conchiglia, non sono più così comodi se sei alta cinque centimetri.

Porca miseria! Sono le due e mezzo. Quanto ci vorrà a trovare questa stupida regina? Spero di rientrare a casa prima che i miei si sveglino, se no mi ammazzano.

Adesso sono pronta alla missione. Copro la mia roba con il vestito – non sia mai che qualche barbone mi fotta il cellulare – e m’inoltro verso il folto della foresta.

Non sono del tutto tranquilla. Che animali potranno esserci nascosti nell’oscurità? Sono così piccola e indifesa. Pur consapevole dell’inutilità del gesto, prendo un bastoncino e lo affilo con un ciottolo. Ecco, sono tornata all’età della pietra. Così equipaggiata, m’incammino verso l’ignoto.

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Capitolo 3
*** Parte 3 ***


Cammina cammina, comincio a stufarmi

Cammina cammina, comincio a stufarmi. Ho le gambe indolenzite e nessuna garanzia che quel Liam non mi abbia preso per i fondelli come i suoi compari. Che rabbia quella roscia! Vorrei averla davanti, adesso che sono armata.

Mi siedo su un sasso, stanca. Avrò fatto sì e no qualche metro, ma non è consigliabile essere alti un dito quando si vogliono coprire lunghe distanze. Avessi un coleottero anch’io. No, che schifo. Facciamo una farfalla.

«Dannate fate con i loro frutti del cavolo» brontolo. «Stupida roscia. Stupido biondino. E stupida me che non mi fermo mai a pensare!»

«Di tutto quello che hai detto, l’ultima è la più intelligente» dice una voce accanto a me.

Sobbalzo, con uno strillo. «Chi c’è?» Brandisco il mio inutile rametto.

«Il topino dei dentini. Che domande sono? E fa’ attenzione con quello, potresti cavare un occhio a qualcuno!»

Altro che topino dei dentini! C’è un enorme topo grigio accanto a me che mi guarda torvo. Ditemi se questi non sono gli effetti di un frutto allucinogeno.

«Tu parli?» gli chiedo, incredula.

«Non solo, ma dico anche le parolacce. Vuoi sentire?»

Che topo maleducato, però. Glielo faccio notare.

«Ha parlato la regina della finezza. Non eri tu quella che imprecava a tutto spiano, prima?»

«Sì, be’, io ho un sacco di problemi, sai.»

«Ma non mi dire. Be’, ragazza, benvenuta nel mondo. Qua intorno è pieno di gatti randagi, ma ti sembra che io me ne stia a lisciarmi i baffi piangendomi addosso? Datti una mossa e risolviteli.»

Santo cielo, com’è scorbutico. «Grazie per questa perla di saggezza, maestro Splinter. Ascolta, devo assolutamente vedere una certa regina Titania. Per caso sai dove abita?»

«Per caso sai dove abita?» mi rifà il verso. «Ragazza, con chi credi di parlare?»

«Lo sai o no?»

«E tu come fai a non saperlo?»

«Non sono una fata. Sono umana.»

«Umana!» ribatte, con disprezzo. «L’ultimo umano che ho visto era un po’ più grande. Che hai fatto, ti sei ristretta in lavatrice?»

«Cosa ne sai delle lavatrici, tu

«So un sacco di cose, io. Sono un topo d’appartamento.»

«Se era una battuta, non faceva ridere. Allora, me lo dici o no?»

«Sono tentato di dirtelo solo per levarti di torno… Ma credo proprio che non lo farò.»

«Ma se sei tu che sei venuto a darmi fastidio! Va bene, non fa niente. Troverò qualche animaletto più simpatico che saprà aiutarmi.»

«Ecco il solito razzismo contro i topi!» esclama, alzando teatralmente le zampette al cielo. Essendo un topo, risulta piuttosto comico.

«Non ce l’ho con i topi, ce l’ho con te.»

«Come no. Se fossi uno scoiattolo, ti comporteresti diversamente.»

«Qualcuno mi ha chiamato?» interloquisce una vocetta acuta dall’alto. Poi sento un piccolo fruscio, ed ecco che accanto a noi si materializza un grazioso scoiattolo dal pelo fulvo e gli occhietti frementi.

«Oh, no» borbotta il topo. Poi, a voce più alta: «Ciao, Rusty! Come mai sulle zampe a quest’ora?»

«Sentivo un gran parapiglia quaggiù, perciò sono venuto a vedere» risponde Rusty. Non sembra contrariato, solo stillante curiosità.

«Niente di che, solo una discussione con una visitatrice.»

«Non direi proprio» ribatto. Poi mi rivolgo direttamente allo scoiattolo. «Ciao, Rusty, io mi chiamo Alisea. Mi sono persa e il tuo amico topo non mi vuole aiutare. Tu puoi darmi una… ehm, zampa?»

«Oh, Bernie!» lo rimprovera Rusty. «Non è un comportamento da buon cittadino. Dimmi, Alisea, di cosa hai bisogno?»

«Bah» brontola Bernie.

Lo ignoro. «Sto cercando la regina Titania. Mi hanno detto che ha un rimedio per le persone rimpicciolite dal frutto Waka-Waka.»

«Allora è questo il tuo problema?» sbuffa il topo. «Dovresti ringraziare, ragazzina. Voi umani siete così ridicolmente ingombranti.»

«Su, Bernie, se è quello che vuole, dobbiamo aiutarla» afferma Rusty. «La regina Titania abita assieme al re Oberon nel palazzo reale, che si trova al centro di Faerie.»

«Cioè, al centro del parco?» domando, confusa.

Bernie ridacchia. «Al centro del parco! Per Apollo Sminteo, ragazza, certo che sei proprio ignorante. Faerie non è un semplice parco. È il reame fatato.»

«E allora perché mi hanno detto di andare per di là?» Sono sempre più perplessa. Sta’ a vedere che quel Liam mi ha veramente preso in giro.

«Ogni direzione è quella giusta» risponde lo scoiattolo, «così come ogni foresta è Faerie.»

Attendo un’illuminazione, ma non arriva. «Non ci capisco niente» dichiaro.

«Certo, perché non te lo stanno spiegando nella maniera giusta» interviene una voce nuova. Si sente un frullo d’ali, e un bel merlo nero viene a posarsi su un basso cespuglio lì accanto.

«Ma è peggio di una riunione di condominio!» grugnisce Bernie.

«Anch’io sono contento di vederti, Bernie» ribatte il merlo. «Scusate, ma non ho potuto fare a meno di sentire.»

«Potreste per favore spiegarmi come faccio ad arrivare al palazzo reale?» chiedo, disperata.

«Se non capisci come funziona il regno delle fate, è impossibile» ammette Rusty. «Perry, tu sapresti spiegarglielo?»

«Penso di sì» replica il merlo. «Vedete, gli umani non pensano come noi. Loro sono abituati a punti di riferimento stabili. Invece» si rivolge a me, «Faerie non funziona così. La magia delle fate è in tutta la natura, e si manifesta secondo i tuoi bisogni e i tuoi desideri. Se ti serve che ci sia, c’è. Ed è come se fosse sempre stato lì.»

«Ma è impossibile» dichiaro.

«Dolcezza, sei più bassa di me» mi fa notare il topo, in tono antipatico. «Ha ancora senso parlare di impossibile?»

Devo ammettere che non ha tutti i torti. Sto parlando con un merlo, uno scoiattolo e un topo che mi fa lezioni di filosofia. L’impossibile è stato superato da un pezzo.

Mi sforzo di tirare le somme. «Perciò, se io desidero trovare Faerie, non importa dove vado, prima o poi la troverò?»

«Diciamo di sì» risponde Rusty, «ma dipende.»

«Dipende dalla tua volontà e dalla tua concentrazione» aggiunge Perry. «Puoi pensare di volere una cosa, mentre in realtà desideri tutt’altro.»

«Che faccenda complicata» mi lamento.

«È vero» conviene lui. «Per noi animali è più semplice: i nostri desideri sono sempre chiari.»

Caspita, la cosa si sta facendo veramente filosofica. «Ora che so queste cose, posso arrivarci?»

«Certo» mi rassicura Bernie. Strano. «Sempre che tu non abbia fretta» dice poi, come ripensandoci.

«Perché?»

«Perché mi sembri parecchio confusa. Forse in un paio di mesi dovresti farcela.»

«Ma è troppo!» protesto, indignata. «Io devo vedere la regina subito!»

«Non dirlo a me» brontola il topo.

«Non potreste semplicemente accompagnarmi?» supplico.

Perry scuote la testa – vedere quel gesto in un merlo è surreale, malgrado tutto ciò che ho visto stasera. «Due volontà combinate non funzionano bene» risponde. «Si rischia di girare in tondo perché non ci si riesce a mettere d’accordo.»

Non m’interessa. Sono sicura che la mia volontà è abbastanza forte. «Allora andrò da sola» affermo. «Vi ringrazio delle spiegazioni, ma ora vado.»

«Se rimarrai ben concentrata, non dovresti avere difficoltà» mi dice Rusty. «Non dare ascolto a Bernie.»

Li saluto e m’incammino di nuovo. Altroché confusa. Mi è venuto il mal di testa, dopo questa assurda discussione. Posti che compaiono a seconda dei desideri e magia delle fate… Che razza di viaggione. Sarei dovuta andare a quel rave con gli equivalenti truzzi delle fate.

Dopo qualche tempo che cammino senza meta comincio a preoccuparmi. Quell’antipatico di Bernie ha detto un paio di mesi! Dai, sono sicura che mi stava prendendo in giro.

E se invece fosse vero? Morirò in questa assurda allucinazione? Che sbatti!

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Capitolo 4
*** Parte 4 ***


Sono talmente assorbita dai miei macabri pensieri che non guardo nemmeno dove metto i piedi

Sono talmente assorbita dai miei macabri pensieri che non guardo nemmeno dove metto i piedi. Riesco ancora a stupirmi, però, quando scivolo su qualcosa e ruzzolo gambe all’aria.

«Ma porc…!» esclamo, irritata.

«Scusa tanto» dice una vocina flebile, «è tutta colpa mia.»

Mi rimetto in piedi e per poco non mi prende un colpo. Davanti a me c’è una lumaca orribilmente viscida. Già mi fanno schifo in mini formato; a queste dimensioni – è grande quasi quanto me – è come un incubo che si materializza.

«Figurati» riesco a rispondere. «Sono io che non guardo dove metto i piedi. Ti ho pestato la coda?»

«No, io sto bene» mi rassicura. «Sei scivolata sulla mia scia. Mi dispiace tanto.»

«Ehm, fa niente.» Bleah! Resisto alla tentazione di strofinarmi come un’ossessa. «Piacere, io mi chiamo Alisea.»

«Io sono Lily» risponde, sorridendo. Se volete sapere com’è il sorriso di una lumaca, è meno viscido di quanto ci si aspetti.

«Non sei una fata» soggiunge lentamente, come arrivandoci in quel momento. Immagino che le lumache non brillino per sveltezza.

«Già, altrimenti non andrei a piedi» replico, e lei fa una risatina, una specie di colpetto di tosse umidiccio.

«Sto andando al palazzo. Sai se questa può essere la strada giusta?»

«Anch’io!» dice lei illuminandosi. Intendo letteralmente, impallidisce come se brillasse. «Se sei convinta, è la strada giusta. Se vuoi possiamo andarci insieme!» Mentre parla, comincia a strisciare lentamente, molto lentamente. A questo ritmo ci arriverò in un paio d’anni, altro che un paio di mesi.

Tento di rifiutare con tatto. «Mi dispiace, ma ho piuttosto fretta. Se no mi sarebbe piaciuta davvero un po’ di compagnia.»

«Non avere fretta di arrivare a palazzo, Alisea» risuona una voce cavernosa. «Potresti non trovare quello che ti aspetti.»

Guardo in alto, inquieta, e all’inizio non vedo niente. Poi noto due occhi gialli che brillano nell’oscurità. Con un saltello, il gufo si sposta su un ramo più vicino, uscendo dal buio fitto tra la chioma.

«Perché dici così?» gli chiedo.

«Oh, lascia perdere Oscar» s’intromette un’altra voce. «Tende a essere pessimista.» È un riccio che sta parlando, un sorriso sul musetto simpatico, gli occhi neri scintillanti d’allegria.

«In altre parole, gli piace gufare» dico io, e poi scoppio a ridere. D’accordo, so che è piuttosto infelice, ma quando mi ricapita di fare una battuta così a un gufo vero?

Il riccio guarda Oscar, perplesso.

«È solo una battutaccia che fanno gli umani su di noi» ribatte lui sdegnoso. «Creature ignoranti.»

«Oh, un’umana!» esclama il riccio, eccitato. «Come mai da queste parti?»

«Giro turistico. No, in realtà ho avuto qualche problema con il cibo delle fate.» Gli spiego gli effetti del frutto Waka-Waka e lui annuisce, comprensivo.

«È sempre così, con i frutti di Faerie» dice. «Sembrano tanto belli e buoni, e poi bam! T’infilano la fregatura da qualche parte.»

«Avuto brutte esperienze anche tu?»

«Una volta» risponde, malinconico. «Sembrava un’innocua fragolina di bosco, e invece era il frutto Fiki-Fiki. Mi sono caduti tutti gli aculei e ho dovuto girare un mese liscio e rosa come un neonato, prima che ricrescessero. Una faccenda piuttosto dolorosa.»

Che razza di nomi danno le fate ai loro frutti? Sembra roba da cartoni animati. Annuisco alle nostre comuni disgrazie.

«Purtroppo io non penso di ricrescere, quindi sto andando dalla regina Titania per un rimedio» spiego. «Sai se è possibile?»

«Con la regina Titania tutto è possibile» mi assicura il riccio. «Quindi vai a palazzo, eh? Roger ci è andato proprio la settimana scorsa… Roger! Ehi, Roger, vieni fuori!»

Vedo un tremolio dietro un albero, e poi un coniglio fa capolino. «Lasciami stare, Donnie, voglio dormire.» Sembra scocciato, e ti credo, saranno le tre di notte.

Non ci credo. Finalmente qualcuno che ci è stato davvero, in questo palazzo delle meraviglie. Mi avvicino, trepidante. «Scusa, ti posso chiedere una cosa?»

Lui apre un occhio e mi scruta. «Spiacente, tesoro» dice alla fine. «Non faccio queste cose. Chiedi al riccio, lui sì che ha gusti strani.»

«Ma come ti permetti?!» strillo, scandalizzata. Quello però ha già richiuso l’occhio e non mi calcola più.

«Quel coniglio è un maniaco!» grido, una volta tornata da Donnie fumante di rabbia.

«Non prendertela» mi dice lui. «È un coniglio, sai come sono fatti. Hanno solo una cosa in testa.»

Sto per ribattere, ma una voce lamentosa c’interrompe. «Si può sapere cos’è tutto questo chiasso?!»

Poco più in là, da una buca nel terreno, spunta la testa di una vecchia talpa. Gli mancano solo gli occhiali da sistemarsi sul naso per sembrare un nonnetto incavolato, mentre si guarda intorno alla ricerca della fonte del rumore.

«Siamo qui, Al» dice il riccio rassegnato. Mi guarda come per dire: non preoccuparti, me ne occupo io.

«Donnie? Sei tu?» fa Al, poi finalmente lo individua. «Allora, cos’avete da bivaccare? Lo sapete che ore sono?»

«Hai ragione, Al, ma è un’occasione speciale» risponde il riccio. «C’è un’umana che vuole andare dalla regina!»

«Un’umana? E dove?»

«Sono qui, signore» dico, facendo un passo avanti.

Al mi guarda strizzando gli occhi nel tentativo di mettermi a fuoco; poi sbuffa. «Quella non è un’umana. Li conosco io gli umani. Sono cinquanta volte più alti e molto più colorati.»

«Ma veramente…» obietto.

«Lascia perdere, ti dico. Badate a far silenzio. Quanto chiasso per una fatina azzoppata!» Detto questo, sparisce sotto terra, sempre brontolando.

«Che tipo!» commento.

«Al è buono come il pane» mi assicura Donnie. «Bisogna solo prenderlo per il verso giusto.»

«Non oso immaginare quale sia» borbotto. Poi aggiungo, a voce più alta: «Grazie mille della chiacchierata, ma ora devo andare. Un topo scorbutico mi ha detto che, se non mi concentro, dalla regina Titania ci arriverò fra due mesi.»

Donnie sbuffa. «Dev’essere Bernie.»

«Creature ottuse, i topi» interviene Oscar il gufo. «Me le mangio a colazione.»

Apro la bocca per fargli notare che anche questa è una battuta infelice, ma in quel preciso istante tutti s’irrigidiscono. Donnie drizza gli aculei, Roger apre gli occhi e tende le orecchie, Oscar arruffa le penne. Persino Lily, che è rimasta a bocca aperta tentando di seguire la conversazione, s’immobilizza, le antenne ritte.

E poi spariscono. Colgo solo un fruscio di ali e il sussurro del gufo: «Fuggi, ragazza», e il sottobosco è improvvisamente deserto, senza che sia riuscita a capire dove siano finiti tutti. Almeno Lily non sarà corsa via gambe in spalla!

Con un’imprecazione, mi accingo a proseguire – o a nascondermi, anche se non so perché – quando una voce mi trattiene.

«Bene, bene… un’umana in formato mini, tutta sola nel bosco. Interessante.»

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Capitolo 5
*** Parte 5 ***


Mi giro, indispettita

Mi giro, indispettita. «E tu chi saresti, il lupo cattivo?»

«Ti prego di non scambiarmi per quelle bestiacce così prive di raffinatezza.» C’è un grosso gatto tigrato che mi sorride pigramente. Assomiglierebbe allo Stregatto, se non fosse così minaccioso.

Allarme rosso, allarme rosso, impazza una sirena nella mia testa. Questo qua mi sta guardando come io guardo un barattolo di Nutella, e la sensazione non è affatto piacevole.

«Solo perché ti fanno paura» ribatto, cercando di mostrarmi sprezzante. Una specie di maschio Alfa, come dicono in quegli stupidi documentari. Non ho idea se con i gatti funzioni o se è qualcosa di prettamente canino; inutile dire che fallisco miseramente il tentativo.

Il gatto piega la testa da un lato, sornione. «Alquanto improbabile, dal momento che qui non ce ne sono» replica. «Di cosa dovrei avere paura?»

«Ehm… dei lupi mannari?» suggerisco.

«Oh, ma a loro interessa solo la carne umana.» Gli vibrano i baffi, come se stesse ridendo. «Non posso dar loro torto.» Si passa la lingua sul muso.

«Pensavo che voi gatti mangiaste i topi» dico, arretrando un po’. «Sai, un po’ più indietro ne ho visto uno. Era grassissimo e stufo di vivere, e diceva di odiare i gatti, specialmente quelli tigrati. Dovresti dargli una lezione.»

«Bel tentativo» risponde. «T’informo che noi gatti in genere ci limitiamo a ucciderli. Sono giocattolini divertenti, finché corrono.» Le sue pupille verticali sono fisse su di me, e ora so come si sentono le eroine dei film horror quando si trovano il maniaco con il coltello davanti.

«Sono magra e stoppacciosa» affermo. «Non ti divertiresti con me, e non ti sazierei.»

«Un aperitivo da sgranocchiare è quello che ci voleva. E poi, lo so anch’io che non si gioca con il cibo. È così crudele

Si avvicina, finché il suo muso è a pochi centimetri da me. Ecco, adesso morirò tra i denti di un gatto psicopatico, e sarà tutta colpa delle fate. Non ci potrebbe essere la roscia al posto mio? Ma certo, lei ha quelle stupide ali, le basterebbe volare via. Io invece sono inchiodata alle mie maledette gambe, e ridotta al ruolo di una patatina.

«Ti farò venire una terribile indigestione» minaccio. «Vomiterai palle di pelo per una settimana.»

«Non preoccuparti. Ho mangiato cose più indigeste di te.» Si acquatta, scoprendo i denti scintillanti, e io, con l’istinto irrazionale della preda, mi preparo a correre via, anche se sono perfettamente consapevole che non servirà a un bel niente.

E poi una voce ci blocca entrambi.

«Perché non te la prendi con qualcuno della tua taglia, Willie?»

Un animale sinuoso, dal muso aguzzo, si frappone fra me e il gatto omicida. Si scuote come un cane, ma con più grazia, e anche se alzo le braccia per proteggermi mi ritrovo zuppa. Neanche il gatto sembra gradire la doccia: sibila e indietreggia.

«Hai paura di un po’ d’acqua, micetto?» lo stuzzica lei.

Willie – che nome stupido! Adesso capisco perché è diventato un serial killer – ringhia, i canini in vista. Per tutta risposta, anche l’altra spalanca le fauci aguzze, e si rannicchia.

«Sei fortunata che non abbia voglia di affondare i denti nella tua pelliccia puzzolente» dice il gatto, sprezzante.

«Corri a leccare un po’ di latte» ribatte lei, «finché non ti passa la paura.»

Willie soffia un’altra volta, poi si defila.

L’animale si volta verso di me. È una lontra, con gli occhi scuri e intelligenti, e mi fissa curiosa.

«Si può sapere che ci fai qua da sola, e rimpicciolita?» mi chiede.

Non sono esattamente in grado di rispondere, quindi mi limito a guardarla come una stupida.

«Che hai?» domanda lei. Poi sospira. «Ah, Willie ti ha spaventato. Te la sei vista brutta, eh? E non è ancora finita.»

Sorride e lo sguardo mi cade sulle sue zanne acuminate. Deglutisco nervosamente. «Mi vuoi mangiare anche tu?»

«Pensi che ti abbia salvato per tenerti per me?» Scoppia a ridere – una risata da lontra, tutta fauci e sibili. «È un’idea. Sai che non ci avevo pensato?»

«E allora perché l’hai fatto?»

«Tra ragazze ci si deve aiutare.» Mi strizza l’occhio, e io finalmente respiro.

«Grazie» dico. «Non ci tenevo a diventare l’aperitivo di quello psicopatico.»

«Figurati» risponde lei. «È sempre un piacere dare una lezione a un gradasso. Ah, io sono Katie.»

«Alisea. Piacere.»

«Non per farmi gli affari tuoi, ma c’è una ragione apparente per il tuo vagabondare?»

Per la centesima volta in questa notte, ripeto le mie dis-avventure e la mia volontà di andare al palazzo della regina delle fate.

«Se vuoi, ti ci accompagno io» si offre Katie.

«Ma un merlo mi ha detto…»

«Ah, lascia perdere i merli» m’interrompe lei. «Sempre a riempirsi il becco di chiacchiere. Fidati e salta su. Basta che pensi a quel tale di nome Liam, e io farò il resto.»

«Perché?» chiedo, stupita.

«Oh, sono certa che lo scoprirai» risponde, sibillina.

Ecco, sta’ a vedere che mi porta dritto nella sua tana e mi sbrana. Ma dopotutto, che alternative ho? Quel maniaco di Willie potrebbe anche essere appostato nell’oscurità, in attesa di divorarmi.

Mi arrampico sul dorso della lontra, che è sorprendentemente asciutta, al contrario di me. Non è freddo, ma non è piacevole indossare un petalo bagnato. Ha la brutta tendenza a sfaldarsi.

«Tieniti forte» dice Katie, e poi via! Balza in avanti come una Ferrari. Faccio appena in tempo ad aggrapparmi alla sua pelliccia prima di essere sbalzata in aria come un burattino.

La lontra è velocissima: sfreccia nel sottobosco rapida e silenziosa tra cespugli e rametti che ci passano accanto a velocità mortale, ogni volta mancandoci di un soffio. Corre, balza, striscia senza mai fermarsi o esitare, valutando perfettamente le distanze e i passaggi migliori.

Io mi stringo convulsamente al pelo del suo collare, cercando di non essere scaraventata via a ogni sobbalzo. Mi ritrovo ben presto indolenzita – per non parlare del mio povero sedere, ormai diventato un unico enorme livido.

«Non potresti rallentare?» grido, tentando di sovrastare il frastuono del vento e delle piante.

«Non avevi fretta?» fa lei di rimando, e io chiudo la bocca, concentrandomi sul rimanere viva.

Dopo un po’ comincio a perdere il senso del tempo. Quanto sarà lontano questo palazzo? Dopotutto il parco non è così grande.

«Non ti stai concentrando» sbuffa Katie, saltando per evitare un ramo.

Cavolo, l’avevo completamente scordato. Sarà per colpa mia che ci stiamo mettendo così tanto? Basta che pensi a quel tale di nome Liam. Mi ci applico subito, cercando di richiamare alla mente il coleottero e i suoi sgradevoli occupanti.

Ok. Liam. Visualizzo riccioli castani e una fascetta che gli cinge la fronte, ma oltre non riesco ad andare. Non ricordo nemmeno se fosse particolarmente carino. Mmm, mi pare che tutti i ragazzi non fossero niente male – sarà una caratteristica delle fate, beati loro – quindi penso proprio di sì. La roscia la ricordo meglio. Che odio! Con quei suoi stupidi capelli fulvi e quella spruzzata di lentiggini sul viso perfetto. Probabilmente si crede la bella del reame. Meno male che lei e quegli svitati dei suoi amici sono andati a quello stupido rave, almeno non c’è il rischio di incontrarli, al palazzo.

E non appena penso “palazzo”, con tutte le immagini che esso implica – la regina Titania, Oberon, fatine, polvere magica eccetera – noto che il sottobosco comincia a diradarsi. Oltre gli ultimi cespugli c’è un gran chiarore.

«Alleluia» sospira Katie, e rallenta fino a camminare.

E poi sbuchiamo nella radura più graziosa che possa immaginare. Ogni filo d’erba scintilla, la rugiada spruzza di diamanti i petali dei fiori selvatici; l’aria è pervasa di fragranze e luccichii e la luce argentea della luna bagna un’atmosfera di vera e propria magia. Dove poteva vivere la regina delle fate, se non in un tale locus amoenus?

Al centro di quella meraviglia troneggia un’enorme quercia secolare. (Un po’ prevedibile, a mio parere. Perché non un tasso, un albero della pioggia, una palma da cocco, una sequoia canadese, o un baobab? Ecco, il baobab ce l’avrei visto bene. Vabbe’, non voglio polemizzare sulle scelte di vita delle fate.) I suoi rami nodosi si estendono in tutte le direzioni, e solo osservandoli bene noto che ospitano una struttura fantasiosa, a cui non saprei dare un nome né una forma. È fatta dei più disparati materiali: corteccia, foglie, fiori, rametti, ragnatele, liane, resina così antica e lucente che penso possa essere ambra. Ci sono torrette, piattaforme, terrazze, ponticelli, disposti a casaccio, da quel che vedo; eppure l’insieme è incantevole e armonioso. Un po’ in ritardo, realizzo che il famoso palazzo reale è questo.

Devo fare i complimenti all’architetto.

«Bello, eh?» interviene Katie, con le fauci aguzze che brillano alla luce della luna, e io mi riscuoto dalla contemplazione.

«Ha il suo fascino.» Salto giù dal suo dorso, con le giunture che scricchiolano. Una lontra sarà anche un mezzo veloce, ma di sicuro non è il più comodo.

Comunque… wow. Ci sono davvero. Mi trovo nel centro di Faerie. Chi l’avrebbe mai detto?

«Grazie davvero, Katie» dico. «Mi hai salvato la vita due volte. Ti sono debitrice. Come potrò mai ringraziarti?»

«Oh, qualcosa troverò.» I suoi baffi vibrano, e lei sbuffa. Immagino stia ridendo. «Buona fortuna con la regina Titania. Sono sicura che non avrai problemi.» Mi strizza l’occhio, poi si volta e si dilegua fra i cespugli.

Ora che sono rimasta sola, faccio un bel respiro per trovare il coraggio. Basta arrivare alla quercia e chiedere di parlare con la regina. Quanto potrà mai essere difficile?

Su un albero nelle vicinanze un usignolo comincia a cantare, facendomi trasalire. Cinguetta un motivo pieno di virtuosismi, lungo e complesso, per chiudere con un acuto che termina in un vibrato. Santo cielo, neanche Mariah Carey si pavoneggia così.

«Sborone» commento.

«Rosica, tesoro» ribatte quello dall’alto, e con un frullo d’ali se ne va.

Ecco, bella figura. Facendo finta di niente, mi dirigo verso la quercia, chiedendomi cosa mi capiterà adesso.

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Capitolo 6
*** Parte 6 ***


Da lontano non si vedeva, ma man mano che mi approssimo noto una strana struttura che si arrampica per tutta la lunghezza del tronco

Da lontano non si vedeva, ma man mano che mi approssimo noto una strana struttura che si arrampica per tutta la lunghezza del tronco. Sembra una carrucola da pozzo corredata di piattaforma. Sarà una specie di ascensore? E certo: non tutti gli esseri soggetti al reame fatato sanno volare. Come quel maniaco di Roger il coniglio.

Arrivata all’ascensore, lo fisso, chiedendomi cosa dovrei fare. Montarci sopra e dare una strizzata alle liane, come nei film? Dannazione, potrebbe esserci almeno una reception a cui chiedere.

Oh, magari è una piattaforma magica che si muove da sola. Ormai tutto mi sembra possibile. Meglio tentare che stare qui ad ammuffire.

Sollevo un piede e faccio per posarlo sulla pedana, ma una voce m’intima: «Altolà!»

Strillo e balzo all’indietro. Che colpo! Avrò perso dieci anni di vita.

Un tizio è appena sbucato da dietro una radice, brandendo una lancia parecchio aguzza. Neanche lui sembra tanto amichevole. È grosso e nerboruto, ha le guance dipinte di colori scuri e sembra in tutto un selvaggio pronto a farmi la pelle. La vista delle ali che ha dietro le spalle non mi rassicura più di tanto, ma almeno mi fa capire che non è altro che un gorilla delle fate.

Alzo le mani. «Peace and love, amico. Non ho fatto niente.»

M’ignora, continuando ad agitarmi la lancia sotto il naso. «Dichiara la tua identità.»

«Non credo che ci conosciamo. D’accordo!» esclamo, notando che non è affatto in vena di battute, come dimostra la punta della lancia che luccica minacciosamente vicina alla mia gola. «Datti una calmata, però, se non vuoi pentirtene.» Non credo che i capi fatati sarebbero contenti se questo esaltato facesse fuori una turista innocente: dopotutto le fate non sono esserini amichevoli e pucciosi?

Questo qua non mi sembra per niente amichevole e puccioso, però.

«Devo vedere la regina!» affermo, sebbene un po’ meno decisa di prima. Non è piacevole essere minacciati tanto a lungo. Non ci sono abituata.

«Dichiara la tua identità» ripete il gorilla. Ma gli si è incantato il disco?

«Mi chiamo Alisea e sono umana. Contento? Ti si è spalancato un mondo? Adesso, gentilmente, toglimi questo coso dalla gola e fammi salire. Non ho tempo da perdere.»

«Dichiara il tuo intento» pretende lo sbirro. Comincio a sospettare che non abbia abbastanza cervello da variare il suo repertorio.

«Complimenti per l’originalità, eh. Sei davvero un tipo minaccioso. C’è un premio speciale per lo sguardo più assassino?»

Per tutta risposta, torna ad agitarmi la lancia a due centimetri dal viso.

Mi ritraggo. «Ok, ok, ho capito. Mi hanno detto che dovevo trovare la regina, se no non sarei potuta tornare a casa mia.»

«Chi te l’ha detto?»

Oh mio Dio, allora sa parlare. «E che ne so? Mica li conosco. Erano dei pazzi esaltati.» Non c’è altro modo per descrivere quei truzzi fatati.

Mi fissa, e giuro di non aver mai visto uno sguardo più ostile. Ma dovevo proprio beccare un guardiano antipatico? Altro che “non avrai problemi”. Katie mi ha decisamente portato sfiga, per non parlare di quel gufo di Oscar.

Poi il gorilla sembra prendere una decisione. Senza staccare gli occhi da me, fa un breve fischio modulato e subito un altro suo collega si materializza accanto a lui. Il guardiano gli sussurra qualcosa; quello annuisce, sale su un’ape legata lì vicino e s’invola nell’oscurità.

Il primo, senza accennare a mettere via l’arma, mi fa un cenno verso la piattaforma. «Sali.»

«Sei tu il capo» replico, e obbedisco. Pur di vedere questa regina e tornare della mia taglia normale sono disposta anche a sopportare la maleducazione di questo tipo senza dirgliene quattro.

Perciò salgo sull’ascensore, tallonata dal gorilla, che allunga una mano per tirare una specie di corda. Poco dopo la carrucola si muove, e noi cominciamo a salire.

Dopotutto, non è una piattaforma magica.

Per tutto il tragitto, il mio guardiano se ne sta ostinatamente zitto. Non apre bocca nemmeno in seguito a certi miei simpatici commenti, come «Ma ti pagano molto per essere così scorbutico?» oppure «È guano quello che hai in faccia?» Mi stufo molto prima di essere arrivati in cima e chiudo la bocca anch’io.

Infine l’ascensore si arresta dolcemente davanti a una passerella. Il mio accompagnatore, sempre molto loquace, mi apostrofa: «Scendi.»

«Agli ordini, Mr. Simpatia» borbotto, e smonto, sempre con il suo fiato sul collo. «Adesso vedrò la regina?» chiedo, senza aspettarmi davvero una risposta, che infatti non si fa sentire. Sospiro e mi avvio lungo la passerella.

Non ho fatto nemmeno cinque passi, però, che una voce diversa m’ingiunge: «Ferma!» e improvvisamente vengo attorniata da un circolo di lance.

Sgrano gli occhi e m’immobilizzo.

Un tipo dall’aspetto piuttosto autorevole avanza tra le guardie: ha capelli scuri stretti in una coda e uno sguardo inflessibile che non promette nulla di buono.

«Chi sei, e cosa vuoi?» Non sembra neanche una domanda, ma un ordine, con il sottinteso: “E se non rispondi, ti facciamo il culo a strisce”. E scusate la volgarità.

«Ancora?» esclamo, frustrata. «Ma siete duri d’orecchi o cosa?»

C’è un movimento fra le lance che m’induce a chiudere la bocca.

«Rispondi, criminale.»

«Piano con gli insulti» protesto. «Non ho fatto niente di male. Adesso, per favore, è una questione di vita o di morte: fatemi vedere la regina e fingerò che non sia successo niente.»

«Ci stai minacciando?» prorompe il capo, se possibile ancora più ostile.

«Cosa?» dico, allibita.

Il tizio autoritario fa un cenno al mio gorilla di prima, che si è unito alla schiera di fate che incombono su di me. «Ainsel, riferisci le parole della terrorista.»

Lui si fa avanti. «“Datti una calmata, se non vuoi pentirtene”» cita, imitandomi alla perfezione. «“Dei pazzi esaltati mi hanno detto che dovevo trovare la regina, se no non sarei potuta tornare a casa mia”. “È una questione di vita o di morte”.»

Okay, detto così fa una gran brutta impressione, devo ammetterlo.

«È sufficiente. Gettatela in prigione» ordina il capo, perentorio.

«Cosa?! No!» esclamo, incredula. «Avete frainteso! Io…»

«Taci, attentatrice!» dice una guardia, e mi trascinano via.

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Capitolo 7
*** Parte 7 ***


Sono le strisce di luce che cominciano a disegnarsi sul pavimento a riscuotermi

Sono le strisce di luce che cominciano a disegnarsi sul pavimento a riscuotermi.

Mi trovo in una cella dalle pareti in legno, con il pavimento ricoperto di stuoie. C’è un’unica finestrella a gettare luce – ora – sull’ambiente, ed è formata da un reticolo di liane robustissime. Non appena mi hanno gettato qui dentro ho provato a spezzarle, o almeno ad allentarle – mica scema – ma probabilmente avrei più fortuna se tentassi di spostare telepaticamente l’intera maledetta quercia. E nessuno che si degni di darmi la più misera spiegazione del perché mi stiano trattando in questo modo, nonostante mi sia venuta la voce roca a forza di strillare. Non ho diritto almeno a un avvocato d’ufficio?

Neanche fossero sordi, tutti gli sbirri fatati mi hanno ignorato bellamente mentre passavano davanti alla mia porta; e alla fine mi sono arresa e mi sono accucciata sul pavimento della cella, carica di furia omicida.

Adesso, osservando la luce farsi sempre più intensa, comincio a preoccuparmi. Saranno ormai le cinque del mattino e io, in questo momento, ho tante speranze di vedere la regina Titania quante sono le possibilità di farmi crescere un paio d’ali con la forza del pensiero.

Mi riattacco alle liane che formano la porta della prigione, nella vana speranza che qualcuno abbia cambiato idea. «Ehilà» chiamo, ma nessuno mi calcola. «Non so se avete notato, ma è mattina. Oltre a liberarmi, potreste farmi la cortesia di portarmi un caffè?» Ovviamente i pochi secondini presenti m’ignorano, perfino quando mi metto a scuotere le sbarre come una scimmia ululando: «Voglio un avvocato!»

Improvvisamente, però, mi zittisco. C’è del trambusto fuori dal mio campo visivo che mi sembra provenire dal corridoio che porta al carcere.

«…non è sicuro…» rimbomba una voce, che a fatica riconosco come quella del tizio che mi ha arrestato.

Un’altra voce più bassa risponde qualcosa che non riesco a distinguere, ma il solo pensiero che qualcuno stia venendo qui mi riempie di speranza. Magari qualche fatina buona si è commossa e mi vuole aiutare!

«Aiuto!» comincio infatti a gridare. «Sono innocente! Salvatemi da questi psicopatici!»

Stavolta uno dei carcerieri m’intima di chiudere il becco, sotto la minaccia di conciarmi per le feste. Poiché non fatico a crederci, obbedisco.

Finalmente i due entrano nella prigione, e non riesco a evitare un’esclamazione di sorpresa che presto diventa indignazione.

«Tu!» sbotto, avventandomi sulle sbarre. «Se non fosse stato per te e i tuoi compari, adesso non sarei qui!»

Liam mi fissa, sembrando altrettanto stupito di vedermi. Perché è proprio uno di quegli stupidi truzzi sul coleottero che ho incontrato all’inizio di questa allucinante nottata, per la precisione il ricciolino dietro tra le due escort – che, stranamente, non sono presenti: avrei giurato fossero creature simbiotiche, tipo cozze.

Le guardie mi richiamano all’ordine, ma questa volta sono io a ignorarli. «Se invece di andare a quel dannato rave vi foste degnati di darmi un passaggio, non starei qui a marcire…» continuo a inveire, finché il capo non m’interrompe.

«Conoscete questa terrorista?» chiede sbigottito al ragazzo.

Lui pare restio ad ammetterlo – devo sembrare una pazza furiosa – ma alla fine dice: «Sì, l’ho già vista. Perché è in prigione?»

«L’abbiamo scoperta mentre cercava di attentare alla vita di Sua Maestà la regina.»

«Ma siete fuori di testa?» esclamo. «Non è vero! Sono umana e cercavo la regina per tornare normale!»

«È la verità» conferma Liam. «Ha mangiato il frutto Waka-Waka. Voleva vedere la regina per un rimedio.»

«Visto?» esplodo, trionfante.

Il capo sembra scettico, ma per qualche motivo non mette in dubbio le parole del ragazzo. «D’accordo, è sufficiente. Liberatela.»

«Alla buon’ora» brontolo, mentre un secondino apre la porta. «Avete un sacco di problemi in materia di giustizia, lo sapete?»

«Ci dispiace per il fraintendimento» dice lo sbirro per tutta risposta, imperturbabile, e poi si allontana. Mi sa che di scuse decenti non ne sentirò.

«Vieni, usciamo da qui» esorta Liam, dirigendosi fuori.

«Alt» lo blocco, seccata. «Non so nemmeno chi diavolo sei. Mi pare di avere avuto abbastanza avventure stanotte. Dimmi solo dov’è questa fantomatica regina.»

Lui apre la bocca per rispondere, ma in quel momento si riavvicina il tizio autoritario, che non ha smesso di guardarmi male. «Principe Liam, c’è qualche problema?»

Adesso sono io ad aprire la bocca. Principe Liam?

«No, capitano, va tutto bene» risponde lui. «Adesso ce ne andiamo. La porterò io stesso da mia madre.»

L’altro fa un profondo inchino. «Arrivederci, Vostra Altezza.»

Vostra Altezza? Sento gli occhi che mi stanno per cadere dalle orbite.

Liam mi fa un cenno e io, imbambolata per la sorpresa, non posso fare altro che seguirlo.

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Capitolo 8
*** Parte 8 ***


Dopo che siamo usciti, abbiamo attraversato un ponticello e siamo giunti a una specie di lunga balconata, riesco finalmente a riavermi

Dopo che siamo usciti, abbiamo attraversato un ponticello e siamo giunti a una specie di lunga balconata, riesco finalmente a riavermi. «Tu sei un principe

«Già» replica Liam con indifferenza. «Titania è mia madre.»

Non mi viene in mente proprio niente da dire. Insomma, qualcosa come “E la corona?” oppure “Pensavo che i principi si vestissero meglio” è da escludere. Alla fine mi colpisce un pensiero. «Oddio, sono stata troppo insolente? Scusa! Cioè, volevo dire… ti devo chiamare, ehm, vostra maestà?»

Lui ride. «Lascia stare! Sono io che mi devo scusare. Mi sono sentito piuttosto in colpa per averti mollato lì, sai… almeno una volta passata la sbronza.»

«Ah già, la festa. Aspetta!» Oggi sono così perspicace da mettermi spavento. «La tua festa?»

«Sì, per il mio compleanno. Rave nel cavo di un albero con tutti i giovani di Faerie.»

«Ehm… auguri!»

«Grazie.»

È davvero stupefacente che si sia ricordato di me nonostante il rave. Non riesco neanche a immaginare che roba giri tra le fate, con tutta la loro conoscenza delle erbe.

Lo guardo meglio. Ha i capelli arruffati, i vestiti stropicciati e la faccia sbattuta quanto un uomo, ma per il resto non barcolla neanche. Caspita, che resistenza.

«E come facevi a sapere che ero in prigione?» gli chiedo.

«Be’, non capitano spesso terroristi, da queste parti.»

«Siete parecchio sospettosi lo stesso» commento. Non mi è ancora passata del tutto la stizza. Lui alza le spalle.

Mentre parliamo, siamo passati per mille porte, corridoi, scalinate, terrazze – mi sono decisamente persa. Ma quanto è grande questo palazzo?

«Dove andiamo?» domando. Va bene che è il principe, ma ho imparato a non fidarmi delle fate.

«Dalla regina, no? Devo pur rimediare. Di solito la fila è un po’ lunga, ma dopotutto io sono suo figlio.» Sorride sarcastico.

E vai con le raccomandazioni! Da re. «Oh, grazie!»

«Figur…» S’interrompe e mi fissa. Mi squadra dalla testa ai piedi come se fino a questo momento non mi avesse mai guardato. Aspetto, perplessa.

«Forse è meglio fare una deviazione» dice alla fine, e riprende a camminare.

«Che c’è?»

«Ehm… non discuto sui gusti, ma diciamo che per farti avere un colloquio con la regina bisogna prima metterti a posto.»

Mi esamino il vestito, o meglio, il petalo. In effetti è talmente sfaldato che comincia a strapparsi. Per non parlare dei miei piedi, o… non oso neanche immaginare lo stato dei miei capelli.

D’accordo, sembro un’aborigena, ma queste sono fate, cavolo! Non pensavo avessero problemi con un look natural.

«Be’, non ho avuto molta scelta. Non mi sembra di essere più scoperta delle tue amichette, comunque» ribatto seccamente.

«Eh eh» fa lui con sguardo ebete – starà ripensando alle grazie poco nascoste della roscia. Poi si riscuote e mi getta un’altra occhiata. «Potevi anche venire alla festa, dopotutto.»

Oddio, è più marpione del biondino. Comincio a preoccuparmi.

«Eccoci arrivati» annuncia poi. «Le mie stanze.»

Prima che possa interpretare male le sue parole, davanti a noi si materializza una fatina talmente sgargiante che devo sbattere le palpebre per guardarla. Ha i capelli fucsia raccolti in un’acconciatura bizzarra, tutta ciuffi e treccioline, e un vestito fatto di fiorellini dei più svariati colori che la fa sembrare un arcobaleno vivente.

«Liam!» cinguetta, baciandolo sulle guance. Poi mi guarda. «Chi mi hai portato?»

«Un’umana» risponde lui. «Riesci a renderla presentabile per un colloquio con la regina?»

Mentre mi ripeto che se lo prendessi a sprangate molto probabilmente mi rimetterebbero in prigione, lei trilla: «Un’umana! Che cosa eccitante! Ma tu hai sempre avuto gusti eclettici. Fidati di me, tesoro!»

«Ehi!» protesto. «Non sono mica…»

«Su, vieni» m’interrompe. «Ci vorrà un po’» dice poi a Liam. «Tu va’ a farti un giro, tesoro.»

«Obbedisco» sogghigna lui, e si defila.

Di malavoglia, mi sottometto alle cure di Yuna, come m’informa di chiamarsi.

«Prima di tutto» tintinna, «ci sbarazziamo di questo.» E con un gesto repentino mi strappa di dosso il petalo e lo getta letteralmente fuori dalla finestra.

«Ma…» faccio, sbalordita.

«Silenzio, tesoro» mi redarguisce Yuna, per poi gorgheggiare, battendo le mani: «Ariel! Caelia!»

Due fate spuntano all’improvviso da non so dove – probabilmente erano appostati dietro le tende. Uno lo definirei un metrosexual con un ciuffo biondo platino immobile a causa del gel – o di qualche altra sostanza più fatata, immagino – e sopracciglia disegnate che terminano in uno svolazzo; l’altra somiglia a una scene queen dai lunghi capelli azzurri e un trucco così pesante che il suo volto sembra composto solo di tre macchie nere – due occhi e una bocca. Entrambi mi sorridono entusiasticamente.

«Siamo i look maker della famiglia reale» trilla Yuna. «Ariel è l’hair stylist, Caelia è la make-up artist e io sono la fashionist

«Questi termini li avete presi da una rivista di moda, suppongo» commento.

«Be’, a volte qualcosa degli umani ci piace» risponde lei.

Dopodiché chiudo la bocca, perché vengo sottoposta a raffinate torture degne di Lady Gaga. Ho una paura folle che questi tre mi riducano come loro, ma dopo venti minuti di trucco, parrucco e vestizione – nonostante tutto sono velocissimi – quando mi trovo davanti allo specchio non urlo né mi ritraggo. Anzi… sono persino carina! Ho i capelli pettinati a onde, un trucco leggero ma figo e un vestitino bianco che mi ricorda un po’ una tunica greca, ma molto chic. E fiori ovunque: tra i capelli, alla cintura e ai polsi. Be’, sono pur sempre fate.

«Wow!» esclamo. «Posso tenermi il vestito?»

«Certo, tesoro» replica Yuna, «ma quando sarai tornata della tua taglia non ti servirà a granché.»

«Già… peccato.» Be’, posso sempre copiarlo. «Dov’è Liam?» chiedo poi. «Doveva accompagnarmi dalla regina, giusto?» Do un’occhiata fuori. Il cielo si è schiarito parecchio: ormai sta per sorgere il sole.

«Oh, so io dov’è» cinguetta Yuna. Ariel e Caelia ridacchiano. «Vado a chiamartelo.» Si dirige non verso la porta ma verso la finestra, e vola via.

Io rimango da sola con Ariel e Caelia, che continuano a sorridere in maniera inquietante. Tento di sorridere in risposta, ma quello che esce suppongo somigli a un sintomo del tetano.

Il silenzio è imbarazzante, così lo rompo nel modo più banale possibile. «Allora» esordisco, «vi piace fare i look maker per la famiglia reale?»

«Oh, sì!» squittisce Ariel, rivelando una S piuttosto blesa. «Ci sono talmente tante occasioni… non ci annoiamo mai!»

«Specialmente per il principe!» aggiunge Caelia. Ha una voce calda e suadente che contrasta con il viso da bambolina di porcellana. «È sempre in giro per feste. Lui e i suoi amici sono modelli perfetti.»

La roscia! Ecco perché si dava tante arie. È la concubina favorita di questo principe donnaiolo, anzi, fataiolo. «Strano che non siano con lui» butto lì casualmente. «Si staranno riposando dopo la festa, suppongo.»

«Se hanno ripreso conoscenza!» precisa Ariel, ridacchiando. «È difficile stare dietro al principe.»

«Che principe degno di ammirazione!» sospiro, sarcastica, ma loro non colgono l’ironia e tra molte moine si dichiarano d’accordo.

Parlando del diavolo, il suddetto compare improvvisamente assieme a Yuna. Si è cambiato anche lui: ora indossa un paio di calzoncini che a dire la verità sembrano dei boxer stretti da una cintura fatta di minuscole foglie d’edera – o almeno spero sia edera –, cerchi alle braccia, un lungo ciondolo al collo e una fascetta d’oro in fronte. È esattamente come m’immaginerei fosse un principe delle fate. (Yuna non ha poi tutta questa fantasia.) Entra pavoneggiandosi come a una sfilata.

«Carino» commento, impaziente. «Andiamo?»

Lui mi guarda e fa un fischio, di quelli modulati che emettono i muratori in pausa pranzo a una donna in minigonna che passa. «Anche tu non scherzi! Sicura di avere fretta?»

«Tu e il biondino siete gemelli separati alla nascita o tutti i maschi fatati sono dei debosciati?» replico, uscendo dall’appartamento. Con mia somma soddisfazione, lui mi viene dietro come un cane al guinzaglio.

«Modestia a parte, Tael non ha certo le mie doti di seduttore» dichiara Liam, mettendosi davanti a me e appoggiandosi al muro con il gomito. Solleva persino un sopracciglio. Dio, che banalità!

Sorrido e appoggio una mano sul suo avambraccio. «Non fatico a crederci» sussurro. Mentre gongola con aria ebete, gli do una spintarella e lui, che non se l’aspetta, scivola dal muro e barcolla miseramente.

«Meglio per lui, non credi?» aggiungo, continuando a camminare.

«Sei tosta» dice, raggiungendomi. «Mi piace.»

«Senti, perché scocci proprio me? Non ti bastano le tue amichette del coleottero?»

 «Mi manca giusto una mora» ghigna lui, e stavolta mi giro per tirargli un pugno – al diavolo la prigione.

Liam mi blocca la mano. «La vuoi vedere o no, la regina?»

«Giusto un pelino di più che spaccarti la faccia» replico, stizzita. «La smetti di rompere e mi porti da lei, per piacere?»

«Come vuoi, ma sappi che lo rimpiangerai per tutta la vita.»

«Ne dubito fortemente.»

Finalmente chiude la bocca e si limita ad accompagnarmi da Titania.

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Capitolo 9
*** Parte 9 ***


Dopo essere saliti per una lunga scalinata, ci ritroviamo di fronte a una grande porta riccamente decorata a motivi vegetali, davanti alla quale stazionano due bodyguards

Dopo essere saliti per una lunga scalinata, ci ritroviamo di fronte a una grande porta riccamente decorata a motivi vegetali, davanti alla quale stazionano due bodyguards. Somigliano vagamente a quell’antipatico che ho incontrato all’ascensore: hanno gli stessi segni dipinti in faccia ed entrambi brandiscono una lancia.

«Ehilà, ragazzi» dice Liam. «Devo vedere mia madre.»

Loro s’inchinano. «E lei?» chiede uno dei due.

«Mi accompagna.»

I due si scambiano uno sguardo eloquente, poi aprono la porta. Possibile che queste fate mi devono sempre credere o una criminale o una prostituta?

Calma e sangue freddo. Sono a un passo dal completamento della missione.

Liam entra, e io lo seguo. Cerco di mantenere un’espressione imperturbabile, ma sono un po’ intimidita: come sarà questa regina? A giudicare da com’è cresciuto il figlio…

C’inoltriamo in una grande sala circolare a cielo aperto. Dev’essere il punto più alto del palazzo, perché sopra di noi ci sono solo la chioma della quercia e la luce dell’alba che vi filtra attraverso. La sala è delimitata non da pareti in legno ma da liane cui s’intrecciano rampicanti di ogni tipo. Il pavimento è talmente disseminato di fiori da non lasciarsi nemmeno intravedere.

Mentre mi guardo intorno a bocca aperta, Liam si dirige sicuro dritto davanti a sé. Incespicando un po’, lo tallono; e finalmente vedo la regina Titania.

È seduta mollemente su un trono d’ambra, con una gamba adagiata su un bracciolo. Indossa una lunga veste cangiante che le lascia scoperte le braccia e un mantello intessuto di fiori. Sembra giovanissima e tuttavia senza età: ha lunghi capelli biondi così chiari che paiono d’argento, e occhi luminosi color oro scuro. Sulla testa porta una sottilissima corona.

All’approssimarsi del figlio, Titania gira la testa con indifferenza e lo guarda.

«Salve, madre» inizia Liam. «Ti trovo in ottima forma. Com’è andato il… ehm… qualsiasi cosa tu abbia fatto ultimamente?»

Lei sospira. «Sai, Liam, dovresti interessarti di più a quello che faccio, dal momento che disgraziatamente sei mio figlio e il principe di Faerie, e non solo quando ti serve un favore.»

«Madre, così mi offendi. Sai che non vivo che per la luce dei tuoi occhi e che, ehm, la mia somma gioia è accontentare ogni…»

«Oh, finiscila» lo interrompe la regina. «Queste litanie lasciale a tuo padre.»

«Non mettermi in mezzo» interviene un’altra voce, e sia io che Liam sussultiamo.

Poi lui dice: «Oh, sei tu, padre. Non ti avevo visto.»

«Guarda che sono di fronte a te» ribatte Oberon seccamente. In effetti non mi spiego perché io non l’abbia notato prima. Occupa un trono gemello accanto alla regina e anche lui è vestito maestosamente, con un mantello porpora e una corona decisamente più vistosa di quella di Titania che gli cinge la fronte. Eppure accanto alla moglie passa del tutto inosservato.

Dalla sua espressione indispettita sul volto un po’ da satiro direi che ne è consapevole.

«Allora, che vuoi?» domanda Titania. «Hai messo incinta un’altra fatina sprovveduta?» Poi il suo sguardo cade su di me. «Non sarà quella, vero? Ti ho detto di non portare le tue sgualdrinelle nella sala del trono.»

Questo è troppo. Fumante di rabbia, faccio un passo in avanti. «Scusate tanto, signora, ma solo perché siete la regina non significa che potete trattare la gente come vi pare. Quindi fareste meglio a chiedermi chi sono, prima d’insultarmi.»

Lei mi guarda stupefatta. Mi sa che l’aiuto me lo dovrò sudare per bene. E va be’, ormai siamo in ballo, e balliamo.

«Mi chiamo Alisea e sono umana» continuo. «Per sbaglio ho mangiato il frutto Waka-Waka e sono rimpicciolita. Mi hanno detto che l’unico modo per tornare normale era venire da voi e chiedervi un rimedio. Mi potete aiutare?»

Dopo una lunga pausa, lei replica gelida: «E perché dovrei aiutare una mortale insolente come te?»

«Dai, madre» interviene Liam. «Cosa ti costa?»

«Sì, Titania, non fare l’egocentrica come al solito» afferma Oberon.

«Tu sta’ zitto» sbotta lei. «Non mi venire a fare lezioni di morale dopo la storia dell’asino. Che, per inciso, era comunque più bello di te.»

«Così impari, tu e il tuo trovatello indiano» ribatte lui immediatamente. Poi sospira. «Vai ancora a rivangare queste cose? È successo secoli fa!»

«Sì, e siamo ancora lo zimbello dei mortali per questo!» esplode lei.

«Oh, cosa ne sapevo io che quello scrittore stava origliando?» protesta Oberon.

Di fronte a questo battibecco, guardo Liam, incerta. Lui alza le spalle con aria rassegnata.

«Madre, padre» li richiama poi. «Noi stiamo aspettando.»

«E va bene!» sbuffa Titania. «Cos’è che vuoi?» mi chiede. «Un paio d’ali o la pozione per tornare della tua grandezza?»

«Come, un paio d’ali?»

«Puoi diventare una fata, se lo vuoi» mi spiega Liam, e poi ammicca.

«Ehm… no, grazie» rispondo. Se le fate sono tutte così scoppiate, non ci tengo. «Finiamola con queste scempiaggini alla Frodo Baggins. Voglio solo tornare normale.»

«D’accordo» dice Titania sbrigativamente. «Dov’è Puck quando serve?» mormora poi, fra sé. «Puck! Dove diavolo sei finito? Puck!»

Con un forte schiocco, un folletto dalla faccia dispettosa compare a mezz’aria. «Sì, maestà?»

«Puck, portami la boccetta con la pozione viola dalla stanza dei rimedi» ordina la regina.

«Quella con l’estratto del fiore Waka-Waka, maestà?»

«Esatto.»

Lui annuisce e scompare.

«Di nuovo Waka-Waka?» chiedo con sgomento.

«Mai sentito parlare di omeopatia?» replica Titania, tagliente.

Dio mio, che antipatia. Ma come ha fatto Oberon a sposarla? E soprattutto a starci assieme per l’eternità?

Poi Puck ricompare e mi distrae dai miei pensieri velenosi. Porge una boccetta alla regina dei ghiacci, che la stappa e l’annusa.

«È questa» dichiara, e me la tende. Allungo una mano e l’afferro tremante, quasi incredula di esserci davvero riuscita. Ho recuperato il rimedio. Tornerò normale.

«Ora sparite» ingiunge Titania. «È quasi ora d’incominciare le udienze.»

«Grazie, Vostra Maestà» le dico, nonostante l’antipatia.

«Bah» fa lei. Non credo se la sia bevuta.

Io e Liam usciamo dalla sala del trono e, una volta che la porta si è chiusa alle nostre spalle, do libero sfogo al mio entusiasmo. «Oh mio Dio! Ce l’ho fatta! Yeah!» Mi metto a saltellare come un’invasata.

«Okay» fa Liam, osservandomi perplesso. «Ehm, stai bene?»

«Grazie!» lo investo, esaltatissima. «È tutto merito tuo!» Non resisto e gli getto le braccia al collo anche se è uno sfrenato libertino. Molto stranamente, non ne approfitta: devo averlo sconcertato parecchio con i miei strilli isterici.

Rimane rigido come un baccalà finché non lo mollo. «Scusa» dico ansante, ancora infervorata. «È che sono davvero contenta. Ce l’ho fatta! Tornerò normale!»

La sua faccia mi ricorda da vicino Edward Mani di Forbice, perciò gli chiedo, un po’ preoccupata: «Tutto bene?»

«Ehm…» Sembra incerto su cosa dire. «È che io…»

«Che c’è?»

«Io non… non ho mai…»

«Che cosa?»

«Non ho mai… ricevuto… ricevuto un abbraccio.»

«Come scusa?!»

«Nessuno mi ha mai abbracciato.»

«Mai?» ripeto, scioccata. «In tutta la vita? Neanche i tuoi?»

«Mai» conferma, con aria smarrita. «E poi li hai visti, i miei.»

Non posso dargli tutti i torti. Non mi hanno dato proprio l’impressione di genitori amorevoli. Poveraccio! Dev’essere parecchio complessato. Chissà, forse la sua carenza d’affetto potrebbe spiegare la sua satiriasi.

«Che cosa bisogna fare?» chiede titubante, aggravando la mia preoccupazione. Esisteranno psicoanalisti tra le fate?

«Non è difficile» spiego, intenerita. «Devi mettere le braccia intorno a me, come faccio io.» Poiché non accenna a muoversi, gli prendo le mani e le sposto sulla mia schiena. «Visto? Non c’è niente di complicato.»

La sua aria disorientata mi commuove. Sotto sotto è un ingenuo. Poveretto, dopotutto ha avuto un’infanzia difficile.

E poi… mi tocca il sedere.

«Ma che diavolo fai?!» strillo, balzando via come un cobra.

«Scusa, sono ancora inesperto» sghignazza, e improvvisamente capisco.

«Mi hai ingannato!» strepito, inviperita. Gli pesto un piede con tutta la forza che ho.

«Ahia! E dai, te la prendi troppo.»

Per tutta risposta, gli centro la faccia con una sberla. E adesso datemi pure l’ergastolo!

«Che violenza!» esclama lui divertito, massaggiandosi la guancia. «Di’ la verità, ti piaccio.»

«Se non la pianti, ti avverto: finirò in prigione per omicidio, stavolta!»

«È colpa tua» sogghigna. «Mi hai offerto il tuo sedere su un piatto d’argento.»

«Brutto maniaco!» grido, indignata. «Mi hai fatto pietà!»

«La pietà è un’arma micidiale, non sottovalutarla.»

«Appunto! Sei solo pietoso!»

Liam continua a ridere, per nulla offeso. «Io ottengo sempre ciò che voglio.»

«Sei peggio di Roger il coniglio!»

«Non lo conosco, ma dev’essere un’offesa pesante, eh?»

Sento la bile invadermi il cervello e togliermi la facoltà di parola, così apro e chiudo la bocca parecchie volte, come un pesce, senza che mi venga in mente nulla di davvero terribile da dire.

«Allora» fa lui, «vuoi rimanere qui a pensare a come insultarmi, oppure ti riaccompagno dove hai lasciato i vestiti? Non vorrai bere quella roba qui e rovinarmi il palazzo.»

«Forse dovrei, così potrei spiaccicarti con un dito» sibilo.

«Raffredda i bollenti spiriti e seguimi.»

Che odio! Ma mi ha fregato. Non mi resta che andargli dietro.

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Capitolo 10
*** Parte 10 ***


Trip di una notte di mezza estate

Dopo una breve marcia carica – da parte mia – di un gelido silenzio pieno d’indignazione, arriviamo a una grande terrazza bagnata di rugiada e della tenue luce dell’alba. Prima che possa godermi lo spettacolo, però, noto del movimento: realizzando di cosa si tratta, dapprima rimango immobile, inorridita, e poi strillo con tutto il fiato che ho.

La terrazza brulica d’insetti. Coleotteri, api, falene, lucciole, bombi, e ancora mantidi, libellule, farfalle. Alcuni sono posati e sembrano sonnecchiare; altri zampettano in giro; altri ancora fanno brevi voli sopra la balconata, per posarsi dopo qualche secondo.

Oh mio Dio. Che schifo!

«Che c’è?» mi chiede Liam, perplesso.

«È pieno d’insetti!» strillo istericamente.

«E allora?»

«Come, allora? E cacciali via, no?!»

«Perché dovrei? E poi come ci muoveremmo?»

A quel punto ricordo lo sciame di bestiacce che ho visto quando ho incontrato le fate per la prima volta e chiudo il becco. Dev’essere una specie di parcheggio. Però bleah! E le api poi? E se pungessero? Lo chiedo a Liam.

«Macché, sono buonissime. Anzi, sono molto utili per la difesa del palazzo. Le usano soprattutto le guardie.»

Mentre si fa strada tra quello zoo degli orrori mi appiccico a lui, raccapricciata. Tutti questi ronzii e schiocchi mi fanno trasalire. Passando, gli occhi – o almeno quelli che immagino essere gli occhi – degli insetti sembrano seguirmi, come se attendessero un mio passo falso per piombarmi addosso tutti insieme.

Poi Liam si ferma. «Eccoci» annuncia, «prendiamo Sasha.»

Sasha si rivela essere il coleottero nero che guidava prima il suo amico moro. Solo che adesso che ce l’ho davanti mi rendo conto che è enorme. Gigantesco. Due volte più grande di me.

«Sasha è quello che voi chiamate un cervo volante» spiega Liam, dandogli qualche colpetto sulla testa. «Per via delle corna, immagino. In realtà sono le sue mascelle.»

Buono a sapersi. Sasha schiocca un paio di volte le sue enormi mandibole – che potrebbero stritolarmi senza nessuna difficoltà – e io deglutisco.

«Non ti preoccupare, è innocuo» aggiunge Liam.

«E io dovrei salirci sopra?» esalo.

«Non mi offendere Sasha. È comodo, velocissimo e ha pure un ritmo che spacca. Sasha» dice poi rivolto alla bestia, «ti presento Alisea. È antipatica e diffidente, ma tu non badarci.» Sghignazza a mio beneficio.

«Si può sapere perché voi fate dovete circondarvi di queste bestiacce? Non avete quelle stupide ali?» ribatto.

«E allora si può sapere perché voi umani dovete usare quelle robacce di metallo? Non avete quelle stupide gambe?» mi rimbecca.

«Non è la stessa cosa.»

«E invece sì, solo che noi siamo amici delle creature che ci accompagnano. E poi vuoi mettere quanto fa figo guidare Sasha?»

Accetto la sconfitta sul piano verbale e psicologico e mi accingo a montare sulla cosa. Poi esito. «Ehm, cosa dovrei fare?»

«Ti dà una mano Sasha, se glielo chiedi per favore» risponde Liam con un sorrisino affettato.

«Smettila di prendermi in giro.»

«È la verità. Sbrigati, che sta perdendo la pazienza.»

Con un sospiro, incredula di fronte agli abissi in cui sono caduta, mi avvicino all’animale. «Ciao, Sasha.»

Lui schiocca le mascelle a un millimetro dal mio viso e io faccio un salto all’indietro.

«E piantala di fare la fifona, ti stava solo salutando» esclama Liam.

Stringo i denti e mi riavvicino. «Per favore» dico all’insetto – non sono pazza, non sono pazza – «mi aiuti a salire?»

E, roba da non crederci, lui stende una zampa e fa scattare un’altra volta le mascelle.

Vedendo la mia incertezza, Liam suggerisce: «Usala come scalino.»

Così mi afferro al dorso del coleottero e poggio un piede sulla sua zampa. In quel momento Sasha mi dà una spintarella verso l’alto e io mi ritrovo seduta sopra di lui.

Intanto anche Liam si è arrampicato sulla sua groppa. «Bravo» dice, accarezzandolo, e Sasha schiocca di nuovo le sue ganasce in quello che suppongo essere un gesto di soddisfazione.

«Che gentile» osservo, stupefatta.

«Che ti credevi? Ha preso tutto da me.»

«Sono scettica» replico, con uno sbadiglio. Non vedo l’ora che questa lunga nottata finisca: ho un gran bisogno di una bella dormita. Mi sento uno straccio.

«Faresti meglio a tenerti stretta» mi avverte Liam, e poi dà un colpetto a Sasha che spalanca le ali e prende letteralmente il volo.

Altro che la lontra. Questa volta rischio seriamente di finire con il sedere per terra, se Liam non mi afferrasse per un braccio. Il fatto è che i coleotteri non volano dritti. Fanno dei minuscoli scarti a zig-zag e anche in verticale, che quando si è più piccoli di loro si notano eccome.

E poi va veloce! Sento l’aria investirmi con violenza e scompigliarmi i capelli acconciati con tanta cura da Ariel – dubito che anche il suo gel resisterebbe – al punto che fatico a tenere gli occhi aperti. Per non parlare della rapidità con cui muove le ali. Il ronzio è talmente forte da superare persino il volume spaccatimpani che mettono su i miei amici per andare in discoteca, sebbene la melodia che produce non sia poi così diversa.

Tutto sommato, però, è una figata pazzesca.

Mi sembra troppo presto quando Liam tira leggermente le antenne a Sasha, che rallenta e comincia a volare in cerchi sempre più piccoli fino a planare dolcemente sull’erba.

«È stato fighissimo!» esclamo con entusiasmo. Sasha schiocca le mascelle, compiaciuto, e io mi arrischio a dargli un paio di colpetti sul dorso.

«E non hai visto niente» afferma Liam, scivolando giù. «Dovresti assistere alle gare clandestine che facciamo nel sottobosco. Lì sì che Sasha dà il meglio di sé.»

«Grazie mille, Liam» gli dico. «Sarai anche un depravato e un presuntuoso, però sei stato davvero gentile.»

«Mi farai arrossire» ribatte lui, avvicinandosi per aiutarmi a smontare. Tende le braccia per prendermi; io appoggio le mani sulle sue spalle, pronta a saltare, ma proprio in quell’istante Sasha si muove e io casco come un sacco di patate, finendo addosso a Liam.

Che, con molta disinvoltura, piega la testa e mi bacia.

Devo onestamente ammettere che questa volta non mi passa neanche per la testa di pestargli un piede, tirargli un ceffone o dargli una ginocchiata all’inguine. Il che, se mi soffermassi a pensarci, sarebbe decisamente un controsenso, considerando tutti gli insulti che gli ho rivolto.

Quando ci separiamo, lui mi fa un sorrisetto saputo, poi si avvicina a Sasha e lo accarezza. «Bravo Sasha» gli dice, «oggi hai fatto proprio un ottimo lavoro. Conosco una femmina di carabo che ti farà felice stanotte.» Sasha fa schioccare le mascelle, soddisfatto.

Sollevo un sopracciglio, sdegnata. «Non mi dirai che Sasha è il tuo ruffiano!»

«Diciamo che mi aiuta nelle situazioni difficili» replica Liam divertito.

Arrabbiarmi di nuovo è perfettamente inutile, quindi lascio perdere. Tiro fuori la bottiglietta con la pozione di Titania. «Addio, principe dei miei stivali» dico, e poi lo bacio sulla guancia. «Grazie.»

«Torna a trovarmi quando vuoi» risponde lui ammiccando, prima di risalire sul coleottero.

Scuoto la testa, divertita, e m’incammino verso i miei oggetti, che giacciono intatti poco lontano. Alle mie spalle sento il ronzio melodioso di Sasha che si allontana nell’oscurità.

Guardo per un attimo la boccetta che ho in mano. Sembra fatta di cristallo lucente, con il collo allungato e una gemma d’ambra incastonata nel tappo. Il liquido che gorgoglia al suo interno è di un bel viola vellutato e piuttosto denso.

Ormai è inutile farsi venire dubbi sulla buona fede di Titania, quindi m’infilo dentro il mio vecchio vestito – evitiamo altri shock, come quando mi sono risvegliata nel fiore –, stappo la bottiglietta e la mando giù in un sorso.

Faccio appena in tempo a sentire che è disgustoso, ripugnante, che le mie papille gustative soffrono atrocemente, quando tutto diventa nero.

Speriamo bene, stavolta.

 

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Capitolo 11
*** Conclusione ***


Quando mi risveglio, mi sfugge un gemito

Quando mi risveglio, mi sfugge un gemito. Mi sento uno schifo. Mi sembra di avere le ossa triturate, ho un saporaccio nauseante in bocca e la testa pesante.

Aprendo gli occhi, metto a fuoco le chiome degli alberi che si stagliano contro la luce del sole nascente. Mi rendo conto di essere stesa supina sull’erba, accanto alla mia borsetta e alle scarpe.

Che caspita è successo?

Ricordo vagamente di essermi tolta le scarpe e di aver fatto una passeggiata nel parco. Poi tutto è confuso. Ho come dei flash: lucciole, topi… una cella… fate.

Mi rimetto in piedi barcollante, cercando di schiarirmi le idee. Ricordo che avevo sbevazzato un po’ e poi… che ho mangiato un frutto. Ma tutto quello che mi viene in mente dopo è irreale, allucinato, una visione distorta e fantastica.

È stato tutto un trip mentale?

All’improvviso un grosso insetto nero mi sfreccia davanti al viso, e io faccio un balzo indietro. Ma quello è già scomparso nel folto degli alberi.

Resto immobile per un attimo; poi, con un sospiro, raccolgo scarpe e borsa e m’incammino verso casa, nel chiarore dell’alba.

 

* * *

 

Forse è meglio che lo modifichi, il consiglio. Se vi trovate in una situazione rischiosa, sì, ma piena di promesse, infischiatevene dei pericoli. Si vive una volta sola. Perciò fatelo, vivete, afferrate l’essenza di ogni momento senza essere continuamente trattenuti dal timore delle conseguenze. Perché potrebbero essere tanto inaspettate quanto meravigliose.

Ok, ho finito di annoiarvi.

 

Fine

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