It's changed since the first time I saw you.

di bomerhalder
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Just another beginning ***
Capitolo 3: *** 2. Fear and tears ***
Capitolo 4: *** 3. Don't try ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Sospirai rigirandomi nel letto. Mi ritrovai a fissare il muro azzurro, coperto di scritte e parole con la solita calligrafia tipica di un'adolescente, per l'ennesima volta.
Succedeva sempre più spesso, di recente, e il guaio era che non sapevo dare nemmeno una spiegazione razionale a tutto quello.
Era sempre la solita storia: mi stavo innamorando di una persona che probabilmente non avrebbe mai saputo della mia esistenza, passavo tutto il mio tempo ad ascoltare canzoni deprimenti e a scrivere, aspettando che qualcuno arrivasse, si arrampicasse sul davanzale e mi costringesse a scappare da lì e tirarmi via dall'orlo della pazzia.
La soluzione a tutto quello, in realtà, era l'unica scelta che non ci pensavo nemmeno lontanamente a prendere in considerazione.
Forse era per il fatto che fin da quando ero solo una bambina tendevo a scegliere sempre la strada più tortuosa, quella che mi portasse a procurarmi le famose 'sbucciature alle ginocchia' e diventare così una masochista.

DIMENTICADIMENTICADIMENTICA.

Era una di quelle voci interiori pressanti ed insopportabili, che me lo suggeriva, oltre alla metà delle parole che intravedevo al buio, riportate su quella parete che oramai sapeva ogni parola racchiusa in tutti i miei silenzi, che conosceva meglio di chiunque altro a chi erano rivolte tutte le parole, le frasi scritte di mille colori.
Ma, come ho già detto, amavo il complicato, anche perchè pensavo che tutte le cose belle non sono alla fine così belle se non ci si mette un po' di fatica, amore, forza, lacrime e notti insonni, per raggiungerle.
Cercai di scacciare via dalla mia testa quelle voci, calciando via le lenzuola. Mi rigirai e tornai a fissare il soffitto, tirando indietro un ciuffo di capelli color miele che mi era ricaduto sul volto.
Rimasi in ascolto del silenzio: l'unico rumore che interrompeva quell'atmosfera quasi irreale, era il mio respiro.
Perchè era toccato di nuovo a me?
Mi sfregai le mani sul volto e mi sedetti mantenendo il volto tra le mani. Il sole stava per sorgere su Roma, la città eterna, come la chiamavano tutti.
Provai a pensare a quante persone, in quelle case, avessero passato una notte insonne come me, quante avessero avuto la loro occasione per dire alla persona che amavano quanto l'amassero veramente, quante invece si erano addormentati con le lacrime lasciando i sogni e le speranze sotto il cuscino zuppo di lacrime.
Nonostante la sveglia a forma di rana segnasse appena le quattro e quarantacinque del mattino e mancassero ancora un bel po' di ore prima di scuola, decisi di alzarmi e trascinarmi in bagno per prepararmi: d'altronde ero sempre stata un po' ritardataria negli appuntamenti di ogni tipo.
Le prime luci del mattino cominciarono a oltrepassare le tende d'organza azzurro oceano e l'aria fresca cominciava a riempire la stanza che sembrava un piccolo pezzo di una grotta marina. Anche quella mattina, come sempre, lo scrosciare della doccia lavò via i segni di una notte come un'altra che sapeva di nostalgia e ricordi.

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Capitolo 2
*** 1. Just another beginning ***


Il venerdì era il mio giorno preferito dell'intera settimana: tutta la fatica, il peso e l'ansia di un compito in classe, le interrogazioni, il preoccuparsi se il trucco fosse in ordine, non esistevano più.
Avevo sempre pochi compiti da fare per il week-end, uscivo prima da scuola e potevo passare a casa di Alice a discutere per l'ennesima volta dell'ultima partita giocata dalla Juve, anche se l'avevamo vista e commentata 'live' pur stando sedute una accanto all'altra.
Cosa si puo' chiedere di più dalla vita?
Anche la gente per strada sembrava sorridere di più rispetto agli altri giorni.
Persino gli uomini in giacca e cravatta sembravano avere qualcosa da raccontare, con quelle valigette nere di pelle contenenti cartacce che avrebbero cambiato la vita di molte persone: fatto piangere la notte molti e gioire altrettanti.
Una vecchietta dall'altro lato della strada, grassoccia e tarchiata, aveva un cagnolino al guinzaglio e avvolta nel suo vestito rosa corallo senza maniche, nonostante fosse ancora Maggio, mi fece ricordare la nonna quando si preparava per andare in chiesa, come stesse andando alla festa dell'anno o del secolo.
Sorrisi inconsciamente, mentre raddrizzandomi la bretella della borsa azzurra ripresi a camminare. Solo allora realizzai che mi ero fermata.
Non avrei dovuto sorridere. Stavo per andare in quella che era considerata la prigione per eccellenza da ogni adolescente, eppure ero inspiegabilmente felice. O forse...
Sentii un impazzare di clacson e mi chiesi cosa stesse succedendo.
«Hei, guarda dove vai!» gridò un uomo sporgendosi dal finestrino.
«Scusi, dice a me?»
«Fino a prova contraria non sono io quello al centro della strada, nel momento in cui tutti i semafori del passaggio pedonale sono rossi!» fece quello.
«In realtà sono sulle strisce pedonali, e il semaforo ora è verde. Quindi se mi investisse dovrebbe anche pagare i danni» dissi sollevando leggermente una gamba di lato, in un gesto teatrale, ferma ancora dov'ero.
Raggiunsi il marciapiede con un sorriso malizioso e provai a pensare al linguaggio colorito che probabilmente, quell'autista, non mi avrebbe risparmiato.
Era vero: c'era poesia in tutto, anche il venerdì mattina. Anche gli automobilisti erano dei poeti, solo che non lo sapevano perchè nessuno glielo aveva mai detto.
Camminai dritta a scuola facendomi accarezzare il viso bianco e tempestato dalle lentiggini da quel che rimaneva di un vento primaverile. "Buongiorno a te, mondo."


«Azzurra!» una voce interruppe i miei pensieri.
Mi resi conto di essere arrivata davanti quell'edificio così odiato da tutti eppure la seconda casa per molti di loro, me compresa.
«Alice!» mi voltai sorpresa e la salutai con un sorriso. Per tutta risposta mi abbracciò.
«Avanti, racconta» feci alzando gli occhi blu scuro al cielo.
Alice era la mia migliore amica da quando avevo iniziato il liceo: quando avevamo bisogno di dirci qualcosa lo facevamo con gli abbracci, alternativa i bigliettini nelle magliette che scomparivano sempre chissà dove durante le ore di fisica e matematica.
Era bella, lei, ed era anche il mio esatto opposto.
Anche se eravamo entrambe alte, lei era mora e portava un taglio a carrè, aveva la carnagione olivastra e gli occhi verdi: tutti i ragazzi del liceo avevano puntato su di lei, ma a tutti quanti era sfuggito che era fidanzata.
«Dopo gli esami partirò a Milano. Mamma mi ha già trovato casa lì per quando andrò all'università. Non sai quanto sono felice!»
Lo disse tutto d'un fiato, ma quello fu il tempo sufficiente per farmi riprendere i sensi scombussolati dalle poche ore di sonno e stravolgermi.
«Che c'è? Non sei contenta?»
"Contenta? Ma scherzi" pensai tra me "sarei più contenta se adesso mi dicessero che siamo tutti bocciati e dobbiamo ripetere cinque anni di percorso scolastico."
«Vie' qui. Fatti abbracciare.» Sforzai un sorriso e l'abbracciai. Non dissi nulla.
La campanella mi salvò da quel momento di dolore, nostalgia e perdita che anche se non era ancora avvenuta era lì sotto i miei occhi, tra le mie braccia. Eppure servì solo a farmi sentire più vuota.


La classe era già mezza sgombra e nessuno degli assenti sembrava fregarsene del fatto che quell'anno sarebbe stato quello decisivo, il loro anno.
La prima ora fu tragica, come tutte le prime ore della settimana.
La prof di greco continuava ad interrogare una ragazza, con una coda di capelli neri ben tirata, sull'ennesima versione che non era riuscita a studiare il giorno precedente.
Io non feci altro che pensare ad Alice che sarebbe andata via: chi mi avrebbe abbracciato quando avrei pianto? Chi avrebbe guardato insieme a me tutte le partite della Juve? Chi avrebbe preso in giro i passanti, affacciandosi dal balcone di casa?
«Dài, su. Lo sai che questo è un verbo passivo...» sentivo che diceva rassegnata la prof.
"Vorrei solo per un giorno che la mia vita non dovesse essere come uno di quei verbi" pensai.
«Psst!» mi fece Alice alle spalle.
«Che c'è?» mi voltai sussurrando.
«E' passato» annuì. La guardai con sguardo interrogativo, poi capii.
«Ha sorriso?» chiesi guardando il pavimento presa dall'ansia accennando appena un sorriso. Sorrise anche lei e annuì.
«Non ci siamo! Quando ti metterai a studiare, Dana?» abbaiò la prof, facendoci sobbalzare.
Un ragazzo che dormiva in fondo alla classe cambiò solo il braccio su cui poggiare la testa.
La ragazza con la coda stava per scoppiare a piangere, quando tornò al banco e quella le rifilò l'ennesimo '4' sul registro.
Forse tutto quello non sarebbe potuto durare per sempre, ma per lo meno durò fino al suono della campanella: era il tempo necessario per cambiare una vita alle superiori.
Capii quanto anche i piccoli gesti, quando si sa che si sta per perdere qualcuno, che sia una classe durata cinque anni, una materia mal sopportata ma che si ha imparato ad amare, un anno scolastico, un'amica, o qualsiasi altra cosa importante o meno che possa essere diventano improvvisamente di un'importanza amplificata almeno di tremila volte e quando non si ha più niente da fare, come Dana e il greco, l'unico lusso che ci si puo' permettere sono solo le lacrime.

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Capitolo 3
*** 2. Fear and tears ***


Letteratura inglese.
Era quella la lezione che avrei avuto la seconda ora. Attendevo l'arrivo di quella lezione da ben due giorni ma man mano che si avvicinava l'attimo dell'ingresso della mia vecchia professoressa sentivo qualcosa che iniziava a divorarmi dall'interno, che cercava di attanagliarmi lo stomaco riuscendoci alla grande.
Alcuni la chiamavano "paura", io non avevo nemmeno un modo per chiamarla.
Il motivo di tutto quel gran caos che regnava dentro me era solo uno studente universitario di appena ventitré anni che avrebbe affiancato la nostra professoressa d'inglese fino alla fine dell'anno scolastico nell'intento di apprendere qualcosa di più riguardo il mestiere di insegnante.
Era un ragazzo come un altro: non avrei nemmeno saputo dire con certezza cosa mi avesse colpito di lui, sta di fatto che era successo e purtroppo sembrava che quel suo arrivo mi aveva lasciato un segno indelebile addosso, come un livido.
"Affascinante, dolce...il mio tipo ideale". Era questo che chiunque avrebbe potuto sentire passeggiando nei corridoi della scuola da ogni ragazza, perché era questo che più o meno ogni ragazza bisbigliava all'amica non appena lui le passava davanti magari accennando un sorriso e girava l'angolo perdendosi e mimetizzandosi fra gli altri, quasi volesse sparire, sfuggire alla realtà e mescolare la sua vita a quella degli altri studenti.
Questo, per me, era solo fare il misterioso e comportava il guadagnarsi il titolo di 'antipatico del momento'.
Forse era il suo modo per dire: "vorrei non dover continuare ad andar via per colpa dell'ingenuità".
E, alla fine, proprio per questo, avevo avuto quasi paura di ammettere quanto in realtà avesse lasciato il segno dentro me anche se non andavo a bisbigliarlo nelle orecchie delle mie compagne, rimanevo immobile sulla soglia della classe durante l'intervallo e lui era lì, fermo a sorseggiare il suo caffè ad occhi chiusi, lasciandosi cadere addosso valanghe di apprezzamenti indesiderati in attesa di quello dalla persona giusta, semmai fosse passata di lì.


Avevo tirato fuori il quaderno e la mia copia in lingua originale de "Il buio oltre la siepe", quando la prof entrò seguita dal ragazzo che mi era rimasto stampato addosso come un livido permanente.
I suoi occhi azzurri, quasi trasparenti, fecero il giro della classe e trattenne a stento un sorriso non appena tornò a fissare il pavimento in preda chissà a quali pensieri. Era proprio un tipo strano.
I capelli corvini sembravano quasi avere dei riflessi blu alla luce del sole. Si sedette come al solito accanto la sedia dei prof dietro la cattedra, in silenzio, e io sospirai cercando la pagina dove avevamo sospeso la lettura l'ultima volta.
Mi sentivo incredibilmente Boo Radley, il protagonista, ed ero convinta che avesse solo il terrore di uscire di casa a causa dei pregiudizi della gente di quel paesino dimenticato da tutti. Forse, per me, le cose non è che funzionassero poi in maniera così diversa.
Aprii il libro in attesa di qualche comando da parte della prof: non osavo alzare gli occhi oltre il confine del mio banco, non in quell'ora.
«Ragazzi, oggi leggeremo le vostre composizioni, come previsto. Su, vediamo cosa avete combinato, stavolta!» annunciò la prof, scatenando il terrore che si poteva benissimo vedere strisciare tra le file dei banchi in tutti quei ragazzi che avevano dimenticato di avere il primo e unico compito d'inglese da svolgere in quell'anno.
La prof sospirò segnata dalla certezza che quella classe era stata sempre un disastro.
«Azzurra» accennò.
«I-io?» balbettai.
Quella annuì e nemmeno mi diede il tempo di replicare che mi ritrovai a leggere la mia frase che, nella mia mente, una ragazza innamorata diceva al suo ragazzo.

"It's changed, you know. The sky looks like changed, now.
It's the regret that I have since the first time I saw you: I looked at the sky and I thought: 'I'll love this person because even the sky looks like changed, now'
"



La lessi tutta d'un fiato cercando di non sbagliare la pronuncia diventando paonazza per la vergogna. Mossa sbagliata: non arrossivo mai, specie durante le ore di Inglese in cui la mia sicurezza superava le cime dei miei capelli.
Cercai il suo sguardo, per capire se ero veramente riuscita a trasmettere qualcosa e vidi che mi fissava con le labbra semichiuse e gli occhi che brillavano, quasi avesse voluto dirmi qualcosa.
Non lo fece.
Sulla classe era calato il silenzio più assoluto, che fu interrotto dalla ragazza con la coda che sghignazzò.
«Complimenti, cara la nostra vecchia poetessa!» cominciò sardonica «Cos'è? Dormi ancora sugli allori e piangi sugli amori vecchi e nuovi che non vivrai mai, semplicemente perché sei noiosa, prolissa, troppo romantica e non hai un briciolo di forza per affrontare una vera relazione e non una fatta di fogli e inchiostro?»
«Signorina, la smetta o...» cercò di intervenire la prof.
«O cosa? E' la verità. Azzurra deve ancora crescere e crede di guadagnarsi il primo posto in classifica solo perché ha dei begli occhioni blu e un paio di lentiggini e sa incantare tutti con le sue belle parole copiate chissà da chi e ha un fratello malato. Dovrebbe solo crescere e vergognarsi!» civettò ancora quella. «Signorina!» gridò stavolta la prof, mentre io, tutto cio' che volevo fare era piangere come una bambina.
Quegli occhi azzurri che evitavo di incrociare, cercarono il mio sguardo, ma tutto cio' che incontrarono furono un paio di occhi stretti e i pugni contratti.
Dana mi aveva odiata sin dal primo giorno in cui avevo messo piede in quella scuola per chissà quale ragione e da allora non si era lasciata sfuggire nemmeno una sola occasione per mettermi in cattiva luce con tutti in ogni situazione. Ma non potevo lasciare che mi umiliasse davanti la prof, Alice, il prof, l'intera classe parlando di me e mio fratello in quel modo, non quel giorno.
Raccolsi tutte le mie cose e le buttai alla rinfusa nella borsa che, nella foga, rimase aperta.
Mi alzai.
Passai velocemente davanti la cattedra evitando di incrociare lo sguardo di quel ragazzo, che solo avesse potuto decidere dove essere a quell'ora avrebbe risposto: "ovunque, ma non qui", anche sentendolo addosso, trattenendo a stento le lacrime. Quello era il mio modo per chiedergli scusa di averlo tirato in quella situazione incresciosa.
Per una volta non mi preoccupai di quello che avrebbero potuto dire o pensare, né delle conseguenze che quel gesto avrebbe potuto riscuotere su di me: avevo solo bisogno di stare da sola, lontana dalle persone orribili, con il mio dolore e piangere, piangere, piangere fino a quando non avrei avuto nemmeno più una lacrima e le guance non fossero diventate rosse.
Successe prima che tutti i presenti avessero il tempo di realizzare quanto stesse accadendo e quando se ne resero conto ero già fuori il corridoio.
Quando la prof mandò il ragazzo a vedere se ero ancora lì, mentre lei provvedeva ad annotare una nota disciplinare a Dana, la quale sorrideva soddisfatta, lui si affacciò sulla soglia. Troppo tardi: ero già sparita dietro l'angolo. Non un profumo che testimoniasse il mio passaggio da lì, come accade spesso nei film; solo l'odore del dolore e la vecchia copia de "Il buio oltre la siepe" immobile sul pavimento di uno di quei corridoi che, di storie come quelle, ne aveva assaporate per ben cinquant'anni.

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Capitolo 4
*** 3. Don't try ***


La prof stava ancora riflettendo su quanto fosse accaduto pochi istanti prima, mentre la sua penna scorreva inesorabile sullo spazio bianco riservato alle note disciplinari, quando quel ragazzo, il quasi-prof d'inglese la ridestò.
«Sarà meglio che vada a cercarla.»
Quella si interruppe, i ragazzi dietro ai banchi spalancarono gli occhi.
«Come?» chiese spaesata.
«Vado a cercare la ragazza.»
Prima che la professoressa potesse rispondere qualcosa, il ragazzo uscì dalla classe lasciando tutti allibiti. L'unica a dimostrarsi disinteressata alla vicenda era Dana che masticava tranquillamente una chewing gum.
Alice non capiva più cosa stesse accadendo, ma sapeva con certezza che l'atmosfera in quella stanza era diventata pressante e la stava soffocando.
Il ragazzo in fondo la classe si era svegliato e aveva alzato timidamente la mano.
«Cosa c'è?» gli chiese la professoressa seccata e amareggiata per quanto accaduto prima.
«Prof, posso andare in bagno?» chiese il ragazzo.
«Vai, Pietri» disse abbandonandosi sulla sedia dietro la cattedra.
Il ragazzo si alzò incredulo e i compagni fissavano la prof che, in cinque anni, aveva azzeccato un cognome per la prima volta.
Quando il Pietri uscì dalla classe, vide il quasi-prof che si chinava a terra per raccogliere qualcosa che non riconobbe e quando si tirò su, si salutarono con un sorriso e un cenno della mano, proseguendo per vie opposte.









Me ne stavo seduta sulle scale del retro di quella vecchia scuola, visto che era il posto in cui nessuno sarebbe venuto a cercarmi solo avesse voluto cercarmi.
Quella situazione, mi distruggeva da ben cinque anni e, specie nell'ultimo periodo, era diventata insopportabile: non solo Dana continuava a scoccare le sue frecciatine, insultando mio fratello gravemente malato di leucemia, ma anche a casa, vivevo in un clima tutt'altro che sereno a causa di mia madre, e l'unico luogo dove potevo rifugiarmi erano solo quattro mura che delimitavano uno spazio di qualche metro quadro e quel posto.
La solitudine era diventata la mia miglior amica e se non fosse stato per quelle occasioni in cui vedevo Alice, il suo ragazzo, Francesco, e il suo amico Andrea, durante quelle ultime sere da liceali, per un'uscita nel locale più rinomato del paese o per vedere una partita sul divano della mia miglior amica, avrei potuto benissimo morire per il dolore che tutto quel niente, quel vuoto, mi portava.
Alzai lo sguardo sull'edificio di fronte, con gli occhi gonfi e le lacrime che cercavano di lavare via quel qualcosa di sbagliato che tutti sembravano odiare di me mentre io non riuscivo nemmeno a vederlo, e mi persi nei colori dei graffiti, delle dediche, delle bestemmie, pensando a quanto fosse stato difficile quell'anno fino a quell'istante, a quanto sarebbe stato difficile il “dopo”, senza nemmeno contare quanto fosse difficile l' “adesso”.
Sentivo che avrei dovuto combattere più di quanto non avessi fatto in ben cinque anni, ma che qualcosa in me stava cambiando, si stava sgretolando e che la corazza che avevo passato a costruire per tutta una vita, altri non era che un'armatura dietro cui nascondermi dalla solitudine che avevo cercato di mascherare con un sorriso, dalla mancanza di ascolto.
Era come se stessi tornando indietro nel tempo, a quando le mie preoccupazioni più grandi erano il dover discutere per ore nelle assemblee di classe o d'istituto senza arrivare da nessuna parte.
Anche se ormai le assemblee erano finite da un mese e quelli che erano rimasti a parlottare nell'angolo in fondo al cortile, non avevano smesso, così come quelli che fumavano alle finestre e chi invece si rifugiava in classe con la propria ragazza.
E io ero rimasta da sola, a parlare, a sbattergli in faccia la verità riguardo alla vita che ci aspetta, al “dopo”, al dolore, ma nessuno lo avrebbe mai saputo perché nessuno avrebbe mai ascoltato: così come accade sempre quando a qualcuno si dice la verità, semplicemente perché c'è sempre qualcosa di più importante a cui pensare.
Ricordando cio' che era stato di quell'anno, cominciai a piangere, in silenzio.
Gli occhi fissi davanti a me, ad immaginare quali amori rivoluzionari, quale felicità si nascondesse dietro quelle opere d'arte che la gente definiva '"atti vandalici", non avevano paura di mostrarsi al mondo ed essere criticate, pur essendo le più sofferte e desiderate al tempo stesso.

«You must cry for yourself, only when you really need, but not now. Only when there will be a flaw in the sky and the universe will fall upon you



Sussultai, sentendo quelle parole e prima che potessi alzare lo sguardo capii chi fosse.
Non era stato uno di quei miei pensieri aggrovigliati fino a formare un gomitolo simile a quello che usava la nonna quando si imputava col fatto che avrebbe dovuto farmi una sciarpa.
Forse non ero così pazza come credevo fossi, almeno non ancora.
Era lui. Il ragazzo che rimanevo a fissare in silenzio quando sorseggiava il suo caffé alla finestra.
Senza dire nulla, si sedette su quei gradini accanto a me. Non so perché, mi alzai di scatto. Lo stesso fece lui.
Buffo” pensai.
Mi risedetti e si risedette.
Bizzarro.
Sorrise.
Solo molto dopo, mi resi conto di quanto quel sorriso avrebbe potuto cambiare la mia vita più di quanto non avesse fatto da quando era arrivato lì.
Probabilmente dovevo avere un'espressione a metà tra lo stravolto e l'indignato, quasi come se il suo arrivo avesse violato qualcosa di particolarmente personale che, in quel caso, equivaleva al soffrire da sola.
Ma non si lasciò intimidire, non era il tipo, lo si vedeva benissimo lontano un miglio, e così sorridendo, mi porse la mano.
«Io sono Alessandro» sentenziò.
Alessandro. Era così che si chiamava, allora.
La sua mano era ancora immobile a mezz'aria, in attesa di stringere la mia, in attesa che la mia vita si intrecciasse alla sua e ci facessimo promesse che ci permettessero di sentirci meno soli.
Notai che nell'altra, reggeva il mio libro, che solo allora realizzai di aver perso durante la mia fuga verso la libertà.
Indugiando, lentamente, alzai anch'io la mia mano e gliela porsi in modo tale che me la stringesse.
«Azzurra. Ma questo, presumo, lo sappia già» dissi con gli occhi ancora pieni di lacrime.
Lui la strinse, ma era una stretta debole: di chi ha voglia di sentirsi il 'più', spezzare il mondo e tutto cio' che riesce a fare, si riduce al restarsene in disparte dalla falsa felicità che tutti quelli che si conosce sembrano vivere con spensieratezza.
«Stai bene?» chiese gentilmente, interrompendo il silenzio che si era venuto a creare dopo che i miei pensieri avevano iniziato a prendere forma.
«Credi che lo sia?» chiesi di rimando, senza nemmeno aspettare che finisse di formulare la domanda.
La voce man mano si stava rompendo.
«Mi odiano tutti, lì dentro» cominciai «...e poi a nessuno piace quel libro, eccetto me» accennai alla sua mano.
Lui guardò il libro e sorrise.
«A me. A me piace questo libro» annuì.
«Mi sembrava giusto venire a riportartelo» disse, poi, continuando a fissare la copertina.
Distolsi lo sguardo e mi resi conto di star sorridendo anch'io. Forse erano passati mesi da quando avevo sorriso in quel modo, l'ultima volta, e per un attimo desiderai vedermi allo specchio, anche se non avevo mai avuto un buon rapporto con lui.
«Pagina 276. Pie' di pagina» dissi prima che me lo restituisse.
Mi guardò perplesso e intuii che non doveva aver capito.
«Pagina 276. A pie' di pagina ci trovi una frase» ripetei.
L'attimo dopo mi pentii di averlo detto, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro. Tornai a fissare il nulla davanti a me.
Sentii che faceva scorrere le pagine sotto le sue mani di chi si finge forte per non essere tormentato e schiacciato dal peso della vita quotidiana.
Cominciò a leggere la mia scrittura minuscola e tonda da adolescente: «It's changed, you know. The sky looks like changed, now...» si interruppe riconoscendo le parole che poco tempo prima avevo letto in classe e mi guardò.
Non mi voltai in cerca del suo sguardo, ma sentivo già gli occhi inumidirsi.
«Va' avanti, ti prego.»
Esitò un attimo.
«Solo se mi prometti che non piangerai.»
Cercai di sorridere e lui lo interpretò come un “sì”.
«It's the regret that I have since the first time I saw you: I looked at the sky and I thought: 'I'll love this person, because even the sky looks like changed, now'» concluse.
Ci fu un attimo di silenzio e arrossii violentemente.
Non potevo credere a tutto quello: il ragazzo che avevo passato mesi ad osservare nei corridoi, quello che non si sarebbe mai potuto accorgere di me, era lì a leggermi una delle mie frasi che passavo a scrivere gran parte delle mie giornate e nottate.
Sentirlo accanto a me, in quel momento, mi donava un senso di sicurezza e pace assurda al punto tale che temevo che qualunque cosa avessi detto o fatto, avrebbe potuto sgualcirlo e mandarlo in frantumi.
Eppure avevo paura.
Ma non la solita paura che si ha quando si è da sole con un ragazzo, non l'ansia, ma vera e propria "paura di non essere all'altezza di meritarsi una persona".
Fu lui a rompere quel silenzio, stavolta.
«E' la frase più bella che abbia mai sentito in tutta la mia vita. L'hai scritta davvero tu?» mi chiese.
Non lo guardai come se fosse scemo, come se avesse solo voglia di prendermi in giro.
Gli risposi soltanto: «Sì, è mia. Il dolore che ho provato vivendo tutto cio' che ho vissuto per ben cinque anni, per quanto paradossale possa sembrare, mi ha permesso di imparare a credere in qualcosa in cui poche delle persone che conosco credono veramente. Peccato che non sia così forte come credevo di essere, e non potermi permettere di crederci di meno e divertirmi un po' stuzzicando i miei sentimenti. Così come fanno tutti i ragazzi della mia età, adesso.
E non mentire, riguardo quella» dissi indicando la frase sulla pagina. Lui non abbassò lo sguardo e mi fissò con i suoi occhi azzurri e limpidi ancora persi nel significato delle parole che avevo detto poco prima.
Sorrisi e distolsi lo sguardo imbarazzata.
«Non mentire, perchè se ci provi parti con il piede sbagliato. Così come parti con il piede sbagliato se consideri Bukowski un pazzo egocentrico, me che adoro il calcio un maschiaccio e gli Script una band commerciale da due soldi» provai a rimproverarlo trattenendo a stento la voglia di ridere.
«Non provarci.»
«Cos'hai detto?» chiesi voltandomi di scatto verso lui fissandolo incredula.
«E' scritto sulla tomba di Bukowski.» annuì divertito.
«Lo so che è scritto sulla tomba di...aspetta. Quindi non mi consideri un maschiaccio?» mormorai.
«Perché dovrei? Anche io tifo una squadra» annuì divertito dall'effetto sorpresa che doveva aver lasciato i segni sul mio viso.
Sorrisi.
«Sì, ma tu sei un ragazzo.»
«No, giura!»
Come lo disse, quasi mi fece sappare una risata.
«Che squadra tifi?»
«Una che a te sta antipatica» annuii convinta.
Mi guardò con quello sguardo che si ha d'intesa mista a rassegnazione con qualcuno.
«E dai. No, la Juve no.»
Risi.
«Oh, sì, la Juve sì!»
«Meglio il Milan.»
«Ma piantala! Siamo noi, siamo noi, i campioni dell'Italia siamo noi!, ricordi?» canticchiai scoppiando a ridere
Rise anche lui. Poi il silenzio calò.
«C'è più cose da scoprire di te che di tutti quelli che conosco da una vita» riflettei ad alta voce e quando me ne resi conto mi misi una mano sulla bocca: troppo tardi.
Avrebbe pensato che fossi solo l'ennesima ragazza che cerca di attirare la sua attenzione, mentre l'unica cosa che desideravo di più al mondo, in quel momento era solo potermi fidare di lui e alleviargli il dolore che si intravedeva tra gli spazi delle dita delle mani, nonostante soffrissi anch'io in silenzio.
«Se ci pensi, le persone che crediamo di conoscere da una vita, alla fine sono quelle che scopriamo non conoscere affatto.»
Mi voltai a guardarlo. Aveva appena detto cio' che io avevo capito in tutta una vita.
Si accorse che lo stavo fissando e sorrise timidamente.
«Che c'è?» chiese divertito, come se non l'avesse saputo.
«E' la cosa più vera che abbia sentito da quando sono lì dentro. Peccato che me l'abbia detto una persona che pur essendoci entrata e ritornata adesso, e non uno dei miei insegnanti che parlano parlano, ti riempiono la testa di regole, quando poi esci lì fuori e capisci che le regole non servono a nulla, nella vita. E questo succede perché mai nessuno si rende conto che la vita non va mai secondo i piani: che si soffre, che non si è mai felici come vorremmo, che siamo tutte marionette di qualcun altro. Che ci si sente così tremendamente soli. Queste cose non te le insegnano, a scuola» dissi senza pensarci troppo.
Era quello che progettavo di dire da sempre, solo che adesso avevo finalmente trovato le parole giuste.
«Ma potrei insegnartelo io. Potremmo tagliarci via i fili che usano gli altri per manovrarci. Possiamo essere amici.»
Sorrisi melanconicamente.
«Non potremmo. Saremmo più soli di quanto tu stesso creda» dissi cercando di convincere più me stessa, che lui.
Ma la sua espressione diceva già: "troppo tardi."
«E' una cosa idiota: che tu lo voglia o no, noi siamo già amici» annunciò un attimo dopo.
«Se fossi stato un mio amico, a quest'ora, non saresti qui e io sarei finita già davanti il comitato scolastico» dissi amaramente.
Era vero, in fondo. Se qualcun altro mi avesse trovata lì, mi avrebbe trascinata dritta dentro senza tanti complimenti.
«Ma sei qui, adesso.»
Restammo in silenzio: qualsiasi parola sarebbe stata inadatta, probabilmente, troppo insignificante per descrivere tutto cio' che stavamo vivendo. Così persi la cognizione del tempo. Era incredibile quanto una persona potesse farti dimenticare tutto cio' che c'era stato di negativo, durante una giornata qualsiasi, per quanto avesse potuto esser negativa lei stessa.
Una leggera brezza fredda, nonostante fosse l'inizio di Maggio, ci sferzò la pelle e io mi strinsi nella giacca beige e tirai le mani dentro a mo' di cinese. Sfregai le mani sui jeans per scaldare le gambe magre e cercai di non guardarlo: sapevo che sarei arrossita, altrimenti.
«Hai freddo?» mi chiese sorridendo.
Credetti fosse stato solo il vento, talmente lo disse piano. Ma quando vidi che mi guardava con un sorriso, capii che non era stata solo la mia immaginazione.
«Come? Cioè, sì. Un po'.» risposi impacciata.
«Vieni, ti porto via per un po' da questo posto pieno di ipocrisia.»
Si alzò, mi tese la mano e mi sorrise.
Cosa avrei dovuto fare? Di sicuro, non ero così stupida da andare con un perfetto sconosciuto chissà dove.
«Dovrei?» chiesi fissandogli la mano.
«Signorina, vuole che la riporti dentro a forza?» scherzò.
«Alternativa?»
«Andiamo per le strade del paese tutto il giorno. O al mare» annunciò.
Sorrisi.
«Va bene. Vada per il mare» aggiunsi poi senza porgergli la mano; non ero ancora convinta della mia decisione.
«Fidati di me.»
Ma il tono che usò per dirmi quelle tre parole, mi suggerì che potevo star sicura che non avrebbe fatto nulla, se non proteggermi da me stessa e costruirmi una corazza nuova di speranze.
Così lasciai che la mia mano scivolasse nella sua e mi aiutasse a rialzarmi, che per me equivaleva a cominciare tutto daccapo.

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