It's in the pills that bring you down... di _vally_ (/viewuser.php?uid=18200)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Capitolo 1
CAPITOLO 1
28 gennaio, h
17.00
Ufficio di
House
“Bisogna farle una risonanza
magnetica, adesso!”
“La macchina è occupata, ed è
prenotata per le prossime tre ore dal Dr. Kryke.” Cameron aveva il tono pacato e
rassegnato di chi sa dove andrà a parare questa discussione.
“Io ho bisogno adesso di quella
macchina! La mia è un’urgenza vera, le sue no!”
“Questione di punti di vista…”
Chase commentò a bassa voce, ma non abbastanza da non essere udito. Lo sguardo
di House si posò pochi istanti su di lui, abbastanza per fargli capire di aver
fatto un errore, l’ennesimo dell’ultimo periodo, tutti errori che il suo capo
gli avrebbe fatto pagare. “Cameron, prendi la paziente e portala a fare la
risonanza…” “Ma…” “…e portati Chase, Quell’accento inglese oggi mi è
intollerabile, lontano da me!” “Australiano…” Errore numero due della giornata.
“Inglese o australiano…l’importante è…zitto!”. Stava per replicare qualcosa ma
la mano di Cameron si appoggiò sul suo braccio e capì che era meglio lasciare
perdere. Si voltò e seguì la collega.
“Foreman tu…” House si voltò
verso il neurologo. “State esagerando” replicò lui, interrompendo House.
Sospirò. “Vai a casa della donna.”. Foreman scosse la testa e usci dall’ufficio
di House.
Lui rimase qualche secondo a
fissare la porta, soprappensiero. Poi alzo la cornetta e chiamò Wilson,
“Pronto”
“Vai dalla Cuddy”
“Perchè?”
“Dille che deve ordinare a Kryke
di stare a cuccia mentre i miei fanno la risonanza alla mia paziente.”
“Kryke ti odia, non t farà mai un
favore.”
“Ecco perché sarà la Cuddy a
tenerlo a bada”
“Ma perché non vai tu a parlare
con lei?!”
“…”
“House?”
“Devo dare da mangiare a
Steve”
e riattaccò.
Wilson posò la cornetta. Questa
non ci voleva. Doveva pensare in fredda ad una scusa per non andare da lei.
Gliene venne in mente una che gli sembrava ottima e richiamò subito House.
Dopo due squilli fu salutato dal
“Si che ci vai invece” di House.
“Ma come facevi a sapere
che…”
“Che non vuoi avvicinarti
all’ufficio della Cuddy?”
“No…che ho avuto un’emergenza,
devo cercare un chirurgo per un’operazione urg…”
“bla bla bla…non prendermi in
giro”
“urgente”
“ma smettila.” Wilson non poteva
vederlo, ma House aveva un sorrisino perfido…si stava divertendo a torturare
l’amico.
Wilson d’altra parte era
visibilmente scosso. Decise per una soluzione che non era da lui, ma fu l’unica
che gli venne in mente al momento. Riattaccò.
House rimase qualche secondo
perplesso a fissare la cornetta. Aveva messo in difficoltà il suo amico diverse
volte, e di solito il siparietto si concludeva con Wilson che confessava le
reali motivazioni di qualche suo comportamento insolito che tentava invano di
nascondere ad House, lui lo prendeva in giro per un po’, l’altro si fingeva
offeso, e il giorno dopo era tutto come prima.
La cornetta riattaccata così
brutalmente fu un segnale di stop per House.
Richiamò l’amico.
“House, ho da fare, occupati tu
dei tuoi pazienti”
“Si, vado io dalla Cuddy”
Wilson però lo sapeva, la tregua
al placcaggio non sarebbe durata a lungo.
House si avviò verso l’ufficio
della Cuddy, ma incontrò Cameron nel corridoio. “Chase sta facendo la risonanza”
“E Kryke?”
“Gli ho chiesto un favore, con
gentilezza, e mi ha permesso di far passare avanti la paziente.”
“Semmai glielo avrai promesso un
favore…” insinuò passando oltre la dottoressa.
Cameron incassò la battuta
sorridendo, ormai riconosceva una forma di affetto nel continuo tormentarla di
House.
“Vado a casa, fatemi sapere se
trovate qualcosa!” le urlò ormai lontano da lei.
28 gennaio, h
21.00
Casa di
House
Il telefono di House squillò; era
Foreman.
“Ho trovato una cosa”
“Dove? Cosa?” gli rispose una
voce assonnata.
“House, sono Foreman, mi hai
mandato a casa della signorina Pivet, la paziente semiparalizzata, e ho trovato
una cosa interessante”
“Mmm…”
“Ma mi stai ascoltando?”
“No! Ti richiamo io.”
E riattaccò.
Foreman era abituato agli sbalzi
d’umore di House, ma ultimamente il Plaisboro sembrava una gabbia di matti. Il
telefonino squillò dopo pochi secondi.
“Pronto”
“Cos’hai trovato?”
“Placenta.”
“Placenta?”
“Si, qualcuno ha partorito da non
più di 48 ore in questa casa…”
“Non la paziente, le abbiamo
fatto tutti i controlli giusto?
“Si, l’ha visitata Chase. Se ne
sarebbe accorto se…”
“Ok, ok. Ma ci sono una donna e
un neonato in circolazione che potrebbero avere bisogno d’aiuto, e la nostra
paziente sa qualcosa.”
“Sono a 3 ore di auto
dall’ospedale e…”
“Chiama Cameron”
“Chase è di turno”
“Chiama Cameron e dille che ci
vediamo nel mio ufficio tra un’ora”
“Chase è di turno”
“Ti si è incantato il disco?!
Richiama se trovi altro d’interessante, come un cadavere di neonato o roba
simile.”
E riattaccò.
La versione suscettibile del suo
già suscettibile capo era decisamente odiosa.
“E’ un ottimo medico, è un ottimo
medico…” questa filastrocca ripetuta tra sé e sé era un ottimo calmante per
Foreman.
28 gennaio, h
22.30
Ufficio di House
“Sei in ritardo” House era
appoggiato alla parete del suo ufficio, con le luci spente.
“Lo so, ho fatto prima che
potevo. Ma c’è Chase di turno perché mi hai fatto chiamare?” Cameron era
visibilmente scocciata. “e…ma perché è tutto buio?” e si avvicinò
all’interruttore.
“No!” House la bloccò col suo
bastone.
“Che succede? Ancora
emicrania?”
“No. Vieni più vicina.”
La scocciatura lasciò spazio alla
sorpresa e un po’ di timore. Il cuore incominciò a battere più veloce, e il
ricordo di sensazioni forti che si credevano dimenticate si affacciò alla mente
di Cameron. Ma durò solo un’istante.
Si avvicinò di qualche passo e
appena fu abbastanza vicina House la prese per un braccio e la tirò vicino a
lui, facendo segno di stare in silenzio. Niente dichiarazioni d’amore o baci
mozzafiato, House voleva qualcuno che giocasse a nascondino insieme a lui. Ma a
lei andava bene così, giusto? Ormai le era passata… A volte non ne era così
sicura, ma il dubbio durava sempre poco.
“Cosa stiamo facendo?” chiese
sussurrando.
“Sta arrivando Chase”
“E’ lui che conta?”
House la guardò con espressione
perplessa, evidentemente non aveva capito il suo accenno a un gioco da bambini
forse ormai dimenticato.
Chase entrò in ufficio accendendo
la luce. “Perchè state al buio?” chiese sorpreso.
Cameron stava per rispondere ma
fu interrotta da House: “Ehm…così!” disse fingendosi imbarazzato, e si diresse
in fretta verso la lavagna.
Cameron subì in silenzio
l’occhiataccia di Chase e un’idea sulle intenzioni di House cominciò a farsi
largo nella sua testa.
Bastardo manipolatore.
“Foreman ha trovato una cosa
insolita a casa della Pivet: placenta.” Esordì House.
“Placenta?! Umana?” chiese
Cameron.
“Non credo che Foreman abbia
interrotto la mia serata divanobirratv per il parto di una gattino. Lui ci tiene
a me, e al suo lavoro…”
“Ho visitato io la paziente, non
ha avuto gravidanze, né tanto meno un parto in casa poche ore fa!” disse Chase
irritato.
“Come sei sulla difensiva! Non
sto dicendo che è stata la Pivet a partorire. Ma qualcun altro si, e a casa sua.
Dobbiamo scoprire chi e perché non è andata in ospedale; e soprattutto, che fine
ha fatto.”
“Potrebbe avere qualcosa a che
fare con la malattia della nostra paziente?” chiese Cameron.
“Scopriamolo subito. Chase,
inizia tu. Vai a parlare con la donna.”
Chase uscì dall’ufficio.
“E io cosa sono venuta a
fare?”
“Tu sei la mia attaccante di
riserva. Se Chase commette fallo, entri tu che hai un gioco più morbido e
risolvi la partita.”
“…”
“Si lo so che non capisci le
metafore sportive! Se la donna vuole parlare, ce la caviamo in pochi minuti con
Chase. Se oppone resistenza, vai a seminare un po’ di solidarietà femminile e
torni al tempo del raccolto con le risposte. Nel frattempo però un neonato
potrebbe morire. Quindi provo prima con Chase.”
L’odioso, perfido altruismo di
House…
29 gennaio, h
8.00
Ufficio di
House
Foreman arrivò puntuale come
sempre (o quasi) e trovò House che dormiva sdraiato sul pavimento. Lo fissò
finchè non aprì gli occhi, sentendosi osservato.
“Spione depravato!” esclamò, e si
alzò in piedi.
“Ho portato la placenta in
laboratorio. Non ho trovato altre tracce di un parto. Non c’è sangue né niente.
Nella casa sembra viva solo lei.”
“Non credo. Ci dev’essere
un’altra donna. Quella che ha partorito. Se vedi vestiti da uomo nell’armadio di
una donna sola, o si traveste o va a letto con Wilson…”
Foreman accennò un sorriso e finì
la sua frase “…ma se c’è un’altra donna non ci sono molti indizi che lo
indicano. Lo so.”
“Potresti aver notato un
guardaroba molto fornito…” tentò House.
“No. Pochi vestiti, un solo letto
singolo. Niente spazzolino, il suo è qui in ospedale. Vive sola.”
House si fermò a riflettere
qualche secondo.
“Dove sono Cameron e Chase?”
chiese Foreman.
“Cameron è a casa, le ho lasciato
mezza giornata libera, è rimasta fino alle 4 di mattina a tentare di scucire
qualche informazione alla paziente. Chase è in giro.”
“Perché non hai provato a
torturare tu la paziente? Di solito è una cosa che ti piace fare”
“Fatto. Ho finito un’ora fa.
Niente da fare, sostiene di essere figlia unica da quando è morta la sorella 5
anni fa, niente amiche gravide o cose simili. L’unica persona che entrava in
casa sua era la donna delle pulizie. Ma ha 60 anni e non ha più le chiavi di
casa. Quindi è da escludere che abbia affittato il bilocale della signorina
Pivet come sala da parto con cucinotto a qualche nipote in dolce attesa.”
“Quindi?”chiese Foreman.
“Che domande! Ha mentito!
Dobbiamo scoprire da dove viene quella placenta…” e uscì dall’ufficio lasciando
Foreman pensieroso a fissare la solita lavagna.
Dopo pochi minuti arrivo
Chase.
“Ehi, già in giro per l’ospedale!
Non lo vuoi un caffè?” chiese Foreman al collega.
“Ne ho già bevuti cinque di caffè
per stare in piedi tutta la notte”
“Ma non è rimasta Cameron a
parlare con la paziente?”
“Si ma…sono rimasto anch’io. Ho
preferito, potevano avere bisogno di me.”
“E allora perché House non ha
dato anche a te la mezza giornata libera?”
“Perché rimanere è stata una mia
scelta…e poi figurati se quel bastardo mi fa un favore del genere. Solo Cameron
ha certi privilegi.”
“Aspetta aspetta…” disse Foreman
avvicinandosi al collega “mi spieghi cosa sta succedendo?”
“Niente che non succeda già da
mesi…”
“No. Da un paio di settimane tu e
House vi punzecchiate più del solito, ma stranamente sembra non essere lui a
portare avanti questo gioco malato. Sei tu, ti accanisci su di lui, e ne subisci
le ovvie conseguenze…”
“Non sopporto più la sua
arroganza”
“Chase” disse Foreman guardandolo
negli occhi “qualunque problema tu abbia risolvilo in fretta, perché non credo
House abbia un limite in quello che ti può far passare qui dentro.”
Entrò House.
“Oh eccoti qui! Puoi passare una
giornata fuori dall’ospedale!” disse dando una pacca sulla spalla a Chase.
“Cioè?”
“Cioè vai a farti un giro nel
quartiere della signorina Pivet, a cercare notizie di una donna che fino a un
paio di giorni era incinta e ora non lo è più!”
“Ma cosa te ne frega di questa
donna, sempre che esista?!” urlò Chase.
House si bloccò e lo fissò per
qualche secondo. “Non ti scaldare” disse con voce pacata “Foreman,vai con
lui.”
I due si avviarono fuori
dall’ufficio, ma arrivati vicino all’uscita dell’ospedale, Chase cambiò
strada.
“Dove vai?” chiese Foreman.
“Dalla Cuddy”
“Ma cosa vuoi fare? Lascia
perdere, Chase.”
“Continua pure a fare il
cagnolino di House, io mi sono rotto i coglioni.”
Chase entrò dalla Cuddy e gli
disse quello che gli era stato ordinato di fare. “Io sono un medico, devo
lavorare con i pazienti! Non devo andare in giro a fare l’investigatore!”
La Cuddy lo osservò perplessa,
spostò lo sguardo su Foreman che alzò le spalle come per dire “non ci capisco
niente neanch’io”
“Va bene Robert” disse con
tranquillità la Cuddy “non andare, non è un tuo dovere.”
Chase era imbestialito, e nessuno
capiva a pieno perché. House non era peggio del solito, era cambiato qualcosa in
lui allora. Uscì dall’ufficio mugugnando un grazie e sparì nei corridoi.
“Ma che sta succedendo?” chiese
la Cuddy a Foreman.
“Bella domanda!” rispose e si
avviò verso la porta.
“Chiamami se queste stramberie
durano troppo a lungo, conosco bene House, magari riesco a capire cosa sta
combinando.”
“Credo dipenda anche da Chase
stavolta” rispose, e uscì.
29 gennaio, h
9.30
Ufficio di Wilson
Wilson entrò nel suo ufficio, si
chiuse la porta alle spalle e vi si appoggiò chiudendo gli occhi.
Quando gli riaprì trovò un House
divertito che lo fissava con un mezzo sorrisino, roteando il bastone.
“Che stai combinando Wilson?”
“Cosa vuoi dire?” ribattè lui
fingendo indifferenza. Girò attorno alla scrivania dov’era appoggiato House e si
sedette. House non si girò e dandogli le spalle disse, quasi stesse parlando con
se stesso: “E’ successo qualcosa in ospedale…non fai più le tue gite di piacere
in giro per i corridoi ad osservare il sedere delle infermiere.” continuava a
roteare il bastone “Arrivi sempre un po’ in ritardo, vai via un po’ prima, e ti
porti addirittura da mangiare da casa.” si girò lentamente “inizi e finisci le
tue visite in studio, non offri neanche il caffè ai tuoi pazienti come ami tanto
fare…” appoggiò le mani alla scrivania e fisso l’amico. “Cosa stai combinando
Wilson?”
“Sei paranoico” disse lui
distogliendo lo sguardo “e forse fai anche bene, ma stai dirigendo la tua
paranoia dalla parte sbagliata!”
“Cosa vuoi dire?” chiese House
leggermente spiazzato.
“Uno dei tuoi sta dando i
numeri”
“Chase?”
“Si, l’ho sentito parlare con
un’infermiera. Si lamentava di non so che ordine che gli avevi dato e che lui
non ha svolto.”
House alzò gli occhi al cielo,
poi tornò a guardare Wilson.
“Chase non è comunque un mio
problema, so perfettamente quello che gli passa per la testa. Sei tu che mi
nascondi qualcosa…”
“Pensala come vuoi, ma vai a
riflettere su quello che sto tramando alle tue spalle da un’altra parte. Ho un
appuntamento con un paziente.” Disse Wilson alzandosi e indicando ad House la
porta.
“Mi stai cacciando?!”
“Si. Ho un paziente.”
“Ma io sono un amico, sono più
importante!”
“In questo momento sei solo un
bastardo. Ci vediamo dopo.”
“Pranzi con me?”
“Va bene” rispose Wilson
sospirando
“Frego il pranzo a Kryke e vengo
qui, così non devi uscire e non rischi di prenderti tutte quelle brutte malattie
contagiose che girano negli ospedali!”
Wilson sorrise di risposta
all’amico e lo accompagnò alla porta.
Sapeva che il pranzo sarebbe
stato il terzo round, e House l’avrebbe avuta vinta.
House tornò nel suo ufficio, si
mise davanti alla lavagna, e incominciò a giocare col suo yoyo.
Donna.
26 anni.
Impiegata statale.
Single.
Vive in un bilocale tenuto con
tanta cura, in un quartiere ordinato e pulito.
E’ arrivata in ospedale per un
tremore che continuava da quasi cinque ore ormai, e si era esteso dalla mano
destra fino a prenderle tutto il braccio. Nell’arco di 12 ore si era esteso a
tutta la metà destra del corpo, anche i muscoli del viso avevano incominciato a
contrarsi in modo incontrollato. Spasmi muscolari, tremore, convulsioni…il caso
era arrivato a lui perché tutto questo si presentava in continua sequenza su
tutta la metà destra della paziente. E non c’era modo di calmarle. Si potevano
bloccare le convulsioni con farmaci contro l’epilessia, ma dopo pochi secondi si
ricominciava: spasmi. Fermavi quelli ma qualche forma di contrazione continuava.
Ed erano dolorose.
Quando ormai stavano pensando di
mandare la paziente in coma farmacologico, per permetterle almeno di riposare
mentre loro cercavano una soluzione, il tremore era scomparso.
Pochi minuti in cui la signorina
Pivet quasi gridava al miracolo e poi il crollo.
Paralisi.
Le contrazioni avevano lasciato
il posto a una calma piatta.
Gli esami avevano evidenziato
solo un’anomalia nel flusso sanguigno cerebrale, un dato troppo generale per
portare a qualche ipotesi probabile.
E poi quella placenta. Cosa
poteva significare?
Chase aveva ragione, sembrava non
esserci nessun collegamento con la paziente. E non era vero che voleva trovare
la donna che aveva partorito solo per poter aiutare lei e il bambino. Il motivo
reale è che sentiva che c’era qualche legame con la malattia della Pivet, anche
se non aveva idea del quale. Ma era il suo istinto a parlare, e lui si fidava
ciecamente del suo istinto.
Sentì un rumore e si voltò. Era
Cameron.
“Tu ti fidi del mio istinto?” le
chiese a bruciapelo.
“Si…bhe…certo.”
“Allora convinci Chase ad aiutare
Foreman a cercare quella donna. Sono sicuro che sai come fare.”
“Pensi che vada in giro a
dispensare favori sessuali a tutti per farti ottenere quello che vuoi?!” chiese
lei fingendo di essere indignata. In realtà era divertita, aveva imparato a
giocare con House.
“Si! A proposito, ho bisogno che
la Cuddy mi paghi tutti gli spostamenti che sto facendo fare ai tuoi colleghi
negli ultimi giorni…”
“Vai al diavolo!” disse lei
ridendo.
In quel momento passò Chase.
Cameron uscì dall’ufficio e raggiunse il collega.
“C’è bisogno che tu vada a dare
una mano a Foreman, nel quartiere dove vive la paziente.” tentò lei.
“Sei il braccio destro di House
adesso?” Chase era sulla difensiva anche con lei.
“Sapere qualcosa su quel parto
potrebbe aiutarci a scoprire cos’ha Margie che non va”
“Usi il nome di battesimo…molto
commuovente!”
“Chase quella donna sta morendo.
E soffre. Se trovare quell’altra donna può darle una speranza, devi
provare!”
“Ma chi sei tu per dirmi cosa
devo fare?!” il tono di voce di Chase si alzò fin quasi ad urlare, e sguardi
perplessi del personale dell’ospedale si posarono su di loro. “Certo, vado
subito! Così tu puoi restare indisturbata a scambiarti battutine idiote con
House!”
Si allontanò lasciando Cameron da
sola in corridoio, a fissare il pavimento imbarazzata.
Quando alzò lo sguardo si accorse
che House aveva assistito alla scena e la guardava divertito.
“Manipolatore bastardo” pensò, e
continuò per la sua strada.
29 gennaio, h
14.00
Ufficio di Wilson
Bussarono. Wilson andò ad
aprire.
Era House, e aveva tra le mani un
cestino da campeggio.
“Non ci speravo più…” disse
Wilason in realtà pensando “Ma cos’hai lì?”
“Scusa il ritardo, ma proprio
oggi era il compleanno di non so che infermiera, e tutti quegli idioti hanno
lasciato a casa il pranzo per farselo offrire da lei! Ho dovuto rubare il pranzo
di un’intera famigliola in visita alla nonnina morente!”
“Ma…”
“Ho dovuto aspettare che morisse!
Ha tirato le cuoia mezz’ora fa. E’ passata la fame a tutta la famiglia, e io gli
ho voluto evitare la triste visione dei loro panini preparati con tanto amore
che ammuffivano in questo grazioso cestino. Bello vero?” chiese mettendolo sotto
il naso di Wilson, che lo guardò disgustato.
House posò il castino sulla
scrivania di Wilson, e incominciò a tirare fuori il suo contenuto.
Improvvisamente si voltò e guardò
il suo amico negli occhi.
“E’ la Cuddy.”
“Smettila House!” James si tradì
non riuscendo a reggere lo sguardo dell’amico.
“Bingo!” esclamò, addentando un
panino.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
CAPITOLO 2
29 gennaio, H
14.15
Ufficio di
Wilson
“E’ la Cuddy”
“Smettila House!” James si tradì
non riuscendo a reggere lo sguardo dell’amico.
“Bingo!” esclamò, addentando un
panino.
In quel momento bussarono ancora
alla porta.
Wilson, ringraziando nella mente
Dio di averlo ascoltato, si catapultò verso di essa.
“Ehi, che scatto atletico!
Scommetto che qualcuno che ci interrompe è la cosa migliore che poteva capitarti
in questo momento…” lo prese in giro House.
Wilson aprì. Era la Cuddy.
Wilson ritirò mentalmente i suoi
ringraziamenti e House aggiunse tra i denti: “Oggi sei particolarmente
fortunato…”
“Ciao” lei era visibilmente
imbarazzata e quando vide House alle spalle di Wilson, che la guardava divertita
sopra il suo panino, dimenticò improvvisamente il discorso che si era imparata a
memoria.
“Si risponde: ciao Lisa, entra
pure.” disse House, scendendo dalla scrivania dove era seduto, in modo un po’
troppo agile per essere un uomo che deve camminare con il bastone. Si avvicinò a
Wilson, che stava ancora in piedi davanti alla porta, con la maniglia in una
mano e il panino nell’altra.
“State mangiando, torno più
tardi.” Disse la Cuddy, facendo un gesto di saluto e si voltò per andarsene.
“Se eri preoccupata sul perché
Wilson non esce più dal suo ufficio neanche per fare pipì puoi rimanere, stavo
proprio lavorando su questo. Potresti darmi qualche suggerimento sulla causa…”
le urlò dietro mentre si allontanava in fretta.
Fu fulminato da uno sguardo di
Wilson, e decise che forse era meglio restare ancora un po’ da solo con lui. Il
suo amico non era tipo da andare in panico per una donna, e le sue reazioni
degli ultimi giorni alle sue provocazioni indicavano che stava perdendo il
controllo per qualcosa.
Lasciò andar via la Cuddy, staccò
la mano di Wilson dalla maniglia e richiuse la porta.
“Bhè?” chiese all’amico,
indicando con un gesto la porta.
“E’ successo…una settimana fa.
Era tardi, ero rimasto in ufficio un po’ di più perché dovevo studiarmi quel
discorso per il convegno di venerdì. Ogni volta che ci sono questi incontri
noiosissimi mi costringono a parlare almeno un’ora e…”
“Pensi che possa desistere? Non
te la caverai cambiando discorso. Ho tanto tempo io!” House si lasciò cadere
sulla poltrona e Wilson si sedette di fronte a lui su una sedia.
“Ok. Ci siamo baciati.”
House si protese verso di lui e
fece gesto di andare avanti.
“Basta. Tutto qui.” disse
lui.
“Si, certo! Sei capace di
portarti a letto una paziente coi giorni contati e invece hai deciso di andarci
piano col diavolo del Plaisboro! Hai paura che si innamori di te, Don
Giovanni?”
Wilson si mise la testa tra le
mani e aspettò in silenzio qualche altra battuta sarcastica del suo perfido
amico.
“James?” House punzecchiò l’amico
col bastone “sei narcolettico?”
Wilson aveva ottenuto ciò che
voleva: House aveva capito che era alle prese con qualcosa di importante e stava
cercando di rimediare un po’ alla sua crudeltà. “Dai raccontami cosa è successo.
Ho bisogno di materiale per ricattare la Cuddy. Lavoro ancora qui grazie a cose
come queste.” ma il tono di voce tradiva l’ironia delle sue parole. Il suo lato
di amico fidato usciva raramente allo scoperto, ma ne valeva la pena.
“Ok. Dicevo…”continuò Wilson
guardandolo finalmente negli occhi “ero rimasto in ufficio fino a tardi, e stavo
tornando a casa quando ho visto le luci del suo ufficio ancora accese. Allora
sono passata a salutarla. Sono entrato, guardava fuori dalla finestra e stava
piangendo.”
Sospirarono entrambi pensando al
discorso che avevano fatto pochi mesi prima: quel bisogno di Wilson di donne che
avevano bisogno di lui…
“Le ho chiesto cosa c’era che non
andava ma rimaneva in silenzio. Allora mi sono avvicinato e…l’ho
abbracciata.”
“L’eterno consolatore…” mugugnò
House alzando gli occhi al cielo.
“La volevo solo abbracciare!
Insomma, è un’amica, era triste! Io…”
“Ok, ok, vai avanti.”
“Niente. Mentre l’abbracciavo mi
è venuta voglia di baciarla e l’ho fatto.”
“E questo lo chiami niente?!
Presumo lei fosse consenziente…se no a quest’ora saresti da qualche chirurgo a
elemosinare un trapianto di testicoli…”
Wilson rise sommessamente. “Si,
era consenziente. Anzi, era molto coinvolta. E anch’io…”
“Tu non hai paura che lei si
innamori di te! Hai paura per te stesso!” esclamò House puntandolo col
bastone.
“Si, no, non lo so…” balbettò
Wilson.
“Ma se eravate così coinvolti
perché…?”
“Perché non siamo andati a letto
insieme?”
House annuì.
“N…non lo so…lei…” Wilson
sembrava davvero confuso.
Anche House lo era. Non sapeva
bene perché ma quella situazione lo metteva in imbarazzo.
Per fortuna il suo cercapersone
suonò.
Cameron. I ragazzi avevano
trovato qualcosa. Se avesse dovuto compilare una lista con le telefonate più e
meno opportune, Cameron sarebbe comparsa in entrambe le colonne.
“Devo andare” si alzò.
Wilson era stupito “E’
un’emergenza?”
“Diciamo di si” e si avviò verso
la porta.
“Non hai niente da dirmi?” chiese
Wilson all’amico.
“Ti consiglio di vestirti un po’
più sportivo, magari l’uomo classico le fa passare la voglia.” e si chiuse la
porta alle spalle.
Wilson rimase perplesso a
guardare nel vuoto per qualche secondo, poi andò alla sua scrivania e cercò di
concentrarsi sul lavoro.
29 gennaio, h
16.00
Ufficio di House
House entrò in ufficio, la sua
squadra era al completo.
“Abbiamo trovato la donna che ha
partorito” disse subito Foreman.
“Bene, chi è?” si voltò verso
Chase che era appoggiato alla parete a braccia conserte e aveva uno sguardo
tutt’altro che amichevole.
“ Chiedendo un po’ in giro siamo
fini…” incominciò a raccontare Foreman ma su interrotto da un gesto di
House.
“Sei andato anche tu?” chiese a
Chase.
Lui annuì senza smettere di
guardarlo.
“Sei corso da mamma Cuddy, hai
cercato di impietosire metà ospedale e poi sono bastate due parole della dolce
Allison a farti cambiare idea.” Disse divertito avvicinandosi a Cameron. Le mise
un braccio intorno alle spalle e l’attirò a sé. Il cervello di Cameron le disse
di opporsi al giochino sadico del suo capo ma il suo corpo si rifiutava di
ascoltarlo. Aveva ancora le braccia conserte ma la forze con cui lui l’aveva
attirata a sé le aveva fatto perdere l’equilibrio e il suo corpo ora aderiva
perfettamente a quello di House: spalla sul suo cuore, braccio lungo il suo
petto, gamba in contatto appena percepibile con la sua, il braccio di House
sulle sue spalle, la mano che le aveva sfiorato il collo quando le era passata
dietro la schiena… In pochi istanti fece un viaggio lungo la sua pelle e il
calore di quella di House, anche se percepito solo attraverso i vestiti, le fece
un effetto che come donna era perfettamente in grado di riconoscere.
Incontrò lo sguardo di Chase.
Prima era arrabbiato, offeso. Ora vide un lampo di tristezza passare nei suoi
occhi.
Manipolatore bastardo.
Appoggiò una mano sul petto di
House e lo allontanò da lei, lentamente ma decisa. Lui la lasciò fare.
C’era una tensione palpabile in
quella stanza, la percepiva lei, la percepiva House. Chase probabilmente sentiva
solo il suo odio, o forse il suo dolore. Foreman lesse tutto questo nella
trasparenza degli occhi di Cameron e con decisione riportò tutti coi piedi per
terra.
“House” lui si voltò verso il
neurologo “la donna che ha partorito è una barbona che ha conosciuto la paziente
fuori da un supermercato, mentre chiedeva l’elemosina…” House fece gesto di
andare avanti. “Jo, la mendicante, dice che la Pivet l’ha avvicinata e si è
informato sullo stato della sua gravidanza. Dopo qualche giorno è tornata da lei
e le ha offerto dei soldi per avere la sua placenta, subito dopo il parto.”
House aggrottò le sopracciglia.
“Questa Jo ha idea di cosa voleva farci?”
“No. Ha detto che era una bella
somma di denaro e l’ha accettata senza fare troppe domande. Ha detto alla
paziente dove avrebbe partorito e che avrebbe mandato uno dei suoi amici ad
avvisarla quando fosse successo. Così è stato. Jo ha mandato un suo vicino di
cartone ad avvisarla e lei in persona è andata a ritirare la “merce”. Ha
ringraziato e non si è fatta più vedere. Dimenticavo, il bambino sembra stia
bene…”
“…se sparisce dalla sua camera
sappiamo dove cercarla. Il reparto maternità pullula di gustosissime placente…”
mormorò House.
“Dobbiamo farci dire dalla
paziente cosa aveva intenzione di fare con la placenta di quella donna.” disse
Cameron, col cuore che finalmente aveva ricominciato a battere regolarmente.
“Io so già cosa voleva farci.
Quello che dobbiamo scoprire è se l’ha fatto veramente.”
“Credi volesse mangiarla?” chiese
Chase, sforzandosi per concentrarsi sul lavoro.
House annuì impercettibilmente,
soprappensiero.
“Anche se l’avesse mangiata prima
di venire in ospedale, ormai non ci saranno più tracce nello stomaco e…” iniziò
Cameron.
“Prova a parlare con lei.” la
interruppe House, guardando nel vuoto.
Cameron si avviò verso la porta.
“No, non tu.” La fermò House, e
alzò lo sguardo verso Chase che uscì senza dire una parola. “Credi che dirà la
verità?” chiese Foreman in tono ironico.
“Ovviamente no. Ma voglio che
sappia che noi sappiamo…” e appoggiandosi al suo bastone lasciò la stanza.
Foreman e Cameron rimasero soli
in sala equipe. Lei si appoggiò lentamente a una sedia e guardò Foreman. “Grazie
per aver interrotto quel momento imbarazzante” gli disse.
Lui l’aveva fatto per lei, perché
si sentiva un po’ in colpa. Non per quella storia dell’articolo, ma per quello
che le aveva detto poi. Le aveva detto che era solo una collega. Non era vero,
la considerava un’amica; se n’era reso conto troppo tardi, e ora voleva
rimediare come poteva. Ad esempio rendendole più facile la quotidianità vicino
ad House.
“Cameron, questa storia,
qualunque essa sia, sta creando dei problemi…”
“Lo so…credo che House stia
facendo un gioco sadico con Chase e…” le salì un moto di rabbia: che diritto
aveva House di sconvolgere così lei, Chase e tutti quelli che incontrava? Scosse
la testa ad occhi bassi.
“Non è solo House” disse Foreman
“E’ anche Chase. E’ tu sei in mezzo. Ti conviene chiarire la tua posizione con
Chase, parlare con lui.”
“Che posizione?” chiese lei.
“Ecco appunto. Se le cose stanno
così chiariscigli che non c’è nessuna posizione. Che siete due colleghi e
basta.” Un pensiero gli attraversò la testa “O amici” si corresse. “Sempre che
le cose stiano così.”
Lei lo guardò per qualche
secondo, “Si, stanno così. “ gli disse “E Chase lo sa. Non ci sarebbe nessun
problema se House non si divertisse continuamente a stuzzicarlo…”
“Sai che non è solo quello” la
interruppe Foreman. Le appoggiò rapidamente una mano sulla spalla, quasi a farle
una carezza, un tentativo impacciato di farle un po’ di coraggio, e uscì anche
lui dalla stanza.
Cameron rimase qualche secondo
immobile, persa nei suoi pensieri.
Poi sentì dei passi vicini a lei
e alzò lo sguardo.
“Cercavo House” era Wilson.
“Non c’è, credo sia dalla
paziente” disse lei confusamente.
Wilson annuì, ma non accennò ad
andarsene. Lei notò nell’oncologo, sempre così calmo e sicuro, un’insolita
agitazione.
“Tutto bene?” la domanda uscì
dalla bocca di entrambi contemporaneamente. Cameron abbassò lo sguardo
sorridendo, Wilson si portò le mani al viso, anche lui con un sorriso.
“Ci vediamo Allison” le disse, e
tornò nel suo ufficio.
30 gennaio, h
3.20
Camera della Signorina
Pivet
La paziente giaceva nel suo
letto. Occhi chiusi, respiro regolare.
Ad un certo punto incominciò a
muove le braccia, sempre più rapidamente. Entrambe le braccia. Sembrava che esse
seguissero il movimento di una corsa immaginaria. Dopo pochi minuti anche le
gambe incominciarono a dimenarsi. Tutto questo durò neanche un minuto, poi più
niente, il respiro ancora regolare.
Spalancò gli occhi. Li richiuse.
Li aprì di nuovo.
Mosse tutti gli arti e un sorriso
appena percepibile si dipinse sul suo volto. Era bella, nonostante i segni della
malattia: il pallore, le occhiaie, gli occhi rossi.
Si sedette sul letto, spense il
cardiomonitor e si staccò con calma tutti i fili collegati al suo corpo. Si
guardò in giro. Trovò la sua borsa, cercò il portafoglio: aveva abbastanza
soldi.
Uscì dalla camera, guardandosi
intorno. Individuò le infermiere di turno, stavano bevendo un caffè e
chiacchierando sommessamente tra loro. Approfittò del momento e si allontanò in
fretta dalla sua camera.
Ci mise un po’ ad arrivare
all’uscita dell’ospedale senza esser vista. Varcò la porta e si allontanò nella
neve.
30 gennaio, h
5.00
Casa di House
Il telefono squillò. House, come
al solito, lo lasciò fare.
Scattò la segreteria
“Tra un po’ sentirete un bip.
Fate un po’ come volete, se avete tempo da perdere lasciate un messaggio. Tanto
non rispondo, né vi richiamo.”
Bip.
“House sono io.” l’inconfondibile
voce autoritaria di Lisa Cuddy! House si mise un cuscino sopra la testa.
Lei, come se avesse intuìto il
suo movimento, continuò quasi urlando: “Rispondi, è un’emergenza!”
Sapeva che non bastava così poco
a convincere House ad alzare la cornetta. Fece un lungo sospiro e aspettò. “La
tua paziente non è più nella sua camera. E’ scappata. Con le sue gambe.” Il tono
di voce sempre alto, per far sì che lui sentisse anche da sotto il cuscino.
Aveva colto nel segno. House
allungò una mano fino al ricevitore. “Impossibile.” disse di saluto alla Cuddy
“è più facile che sia volata dalla finestra.” la voce impastata dal sonno...
“Abbiamo le telecamere in questo
ospedale House! Camminava, ho controllato di persona.”
“Arrivo.” e riattaccò.
30 gennaio, h
5.45
Ufficio di Cuddy
La Cuddy sentì arrivare House
almeno un minuto prima che varcasse la soglia del suo ufficio. Ascoltava molto
quello che accadeva intorno a lei, e così aveva imparato a riconoscere le voci,
le risate, e anche i passi di chi lavorava nel suo ospedale. Per lui non era
difficile, grazie al suo bastone riconosceva la sua andatura anche nel caos
dell’orario di visite.
Infatti poche manciate di secondi
e House entrò come una furia nel suo ufficio.
“Dov’è quell’idiota che l’ha
lasciata scappare?” urlò.
“Calmati.” disse lei, alzando
appena lo sguardo dallo schermo del computer.
“Quella donna rischia di morire!
Dovresti essere preoccupata anche tu! Non per il fatto che una giovane donna
muoia in solitudine in una buia notte invernale, ma perché il tuo ospedale va
nella merda se questo accade.”
Lei lasciò il mouse e posò lo
sguardo su di lui.
“Conosco ogni tecnica per
catturare tutta la tua attenzione! Mai puntare sulla tua umanità, sempre e solo
sui possibili problemi legali per l’ospedale! Ce l’hai già un manuale
d’istruzioni? Se no ci penso io a scrivertelo!” continuò House sarcastico.
“Ho già avvisato la polizia. Non
sarà difficile trovare una donna in camice d’ospedale e ciabatte in una notte
innevata. Sicuramente l’avrà già notata qualcuno, è questione di poche ore e
sarà ancora nella sua camera, pronta per soddisfare le tue curiosità su come ha
fatto una persona semiparalizzata ad evadere da qui.” Ribattè lei con un
sorriso.
“Non ne sono così sicuro.” disse
House “Hai avvisato la mia equipe?” chiese.
“Perché avrei dovuto?”
“Come perché?! Perchè loro
adorano andare in giro di notte a cercare le pazienti fuggitive! Soprattutto
Chase!”
“A proposito di Chase…”
approfittò lei.
“Lascia perdere” disse lui
voltandosi e avviandosi verso la porta. Poi si fermò, e si voltò.
Lei lo guardò con aria
interrogativa.
“Non sono neanche le 6 di
mattina..” le disse.
“E allora?” sembrava
spaesata.
“Perché mi hai chiamato,
Cuddy?”
“Perché…una tua paziente è
scappata… Non ti sembra una buona ragione?”
“Non hai bisogno di me, né della
mia squadra. Hai chiamato la polizia e sei sicura che loro la trovino a breve.
Infatti sei tranquilla per la faccenda della Pivet.”
Fece qualche passo verso di lei.
La Cuddy si alzò.
“Ho pensato che…” fermò qui la
frase, le mani in grembo, le dita intrecciate. House le guardò per qualche
secondo, poi risalì con lo sguardo lungo il suo corpo, arrivando finalmente agli
occhi.
“Sei nervosa…” fece ancora un
passo verso di lei. “E hai pianto.”
Lei aprì la bocca quasi per dire
qualcosa, poi la richiuse.
“Cosa ti affligge dottoressa?
Soffri per non essere riuscita a far abbassare i pantaloni a quell’oncologo che
da giorni non esce più dal suo ufficio? Devi averlo spaventato a morte…”
Lei tentò ancora di dire
qualcosa, ma era sconvolta. House era un bastardo ma non immaginava fino a
questo punto. “Gli hai chiesto qualche prestazione strana? Sai, lui è abituato
con le donne, se ne porta a letto un sacco. Ma di solito sono malate in fase
terminale, quelle si accontentano del repertorio di base.”
Dallo sciogliersi delle mani di
lei, da come lentamente le appoggiò alla scrivania, da come si protese verso di
lui, House capì che era furiosa.
“Esci immediatamente da qui.” gli
disse scandendo bene le parole.
Lui non se lo fece ripetere due
volte.
30 gennaio, ore
8.00
Ufficio di House
“Ancora!?” esclamò Foreman
entrando e vedendo House coricato sul pavimento, come il giorno precedente.
“Se mi risveglio un’altra volta
vedendo la tua faccia come prima cosa giuro che le prendo tutte in una volta!”
disse House agitando il suo flacone di Vicodin. Poi ne estrasse una e se la
cacciò in bocca.
“Perché qui anche stanotte?”
“La Cuddy aveva bisogno di un
amico con cui parlare.” rispose spostandosi verso la lavagna.
Poi prese un pennarello e tirò
una riga sulla parola “paralisi”.
“Ha ripreso a muoversi?!” chiese
stupito Foreman.
“Esattamente!” rispose House
“Cammina perfettamente ed è stata anche in grado di fare il gesto dell’ombrello
agli infermieri di turno mentre fuggiva stanotte.”
“Cosa?! E’ scappata?”
“Si. Alla 4 del mattino, vestita
solo del camice e di un paio di ciabatte. La temperatura è sotto lo zero, fuori
ci sono 15 centimetri di neve e non sembra voler smettere di nevicare.” Disse
spostando le persiane col suo bastone per mostrare il cielo bianco a Foreman.
“Secondo te quante possibilità ha di arrivare viva a colazione?”
Lui scosse la testa.
“Ah! Dimenticavo! Le ciabatte
sono di pelo! Forse questo potrà farci guadagnare qualche ora!” nel sarcasmo di
House, Foreman notò una nota di preoccupazione.
Quella paziente rischiava
veramente di morire, e non solo per il freddo. Non avevano ancora capito cosa
avesse, sarebbe potuto venirle qualunque cosa là fuori. O avrebbe potuto
attaccare la sua malattia a qualcuno, nel caso fosse stata contagiosa. Ma non
sapevano ancora nulla di certo.
“Ma la Cuddy….” iniziò
Foreman,
“La Cuddy ha sguinzagliato un po’
di poliziotti, ed è sicura che le porteranno a breve la preda.”
“Non ne sono così sicuro” disse
lui soprappensiero.
“Siamo in due.”
“Siamo in tre.” Intervenne
Chase.
“Credi che saresti in grado di
scomparire altrettanto improvvisamente di come sei comparso ora?” lo apostrofò
House.
Foreman lo fulminò con lo
sguardo, che poi rivolse a Chase. “Noi sappiamo dove cercarla” gli disse.
“Bravi, è proprio lì che volevo
arrivare.” disse House. “Andate a cercarla.”
“E tu?” chiese Chase.
“Io cosa? Volete andare a caccia
con un invalido a seguito?” ribattè House.
“Ha ragione Chase. Cosa rimani a
fare in ospedale? Il tuo caso non è più qui! Se la Pivet non salta fuori a breve
la Cuddy incomincerà a preoccuparsi e verrà a sfogarsi con te…” disse
Foreman.
“Non tentare di convincermi con
questi stupidi giochetti.” Ingoiò un’altra pillola. Guardò fuori dalla finestra
per qualche secondo poi si avvicinò al suo cappotto. “Ok, ve la siete cercata.
Zoppo al seguito. Facciamo che io sono la mente, e quando la trovo, voi fate le
gambe e l’acciuffate!”
“Sarebbe un gioco da ragazzi
anche per te, inseguire una donna assiderata e con residui di una paralisi”
intervenne Cameron, ancora chiusa nel suo cappotto “Allora partiamo?” e fece
saltare da una mano all’altra le chiavi della macchina.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
CAPITOLO 3
30 gennaio, h
9.30
On the
road
“Quanto manca?” chiese House
impaziente, battendo ritmicamente il suo bastone contro il cruscotto. Cameron,
al volante, lo osservava con la coda dell’occhio e incominciava ad essere
infastidita dal nervosismo del suo capo.
“Siamo a metà strada…” disse
Chase, scambiandosi uno sguardo d’intesa con Foreman. Entrambi erano d’accordo
che la prossima volta non gli avrebbero chiesto di venire con loro. Era almeno
la quinta volta che chiedeva a che punto del viaggio erano.
“Devo fare pipì.” questa era la
seconda volta.
Cameron si voltò a guardarlo “Ma
la vuoi finire?!” disse ormai irritata.
House la guardò negli occhi, lei
dovette posare i suoi ancora sulla strada. Sapeva che comunque non sarebbe
riuscita a reggere quello sguardo.
“Quando guidi mi piaci di più.
Così decisa…” la provocò lui.
Cameron sospirò, e continuò a
guidare in silenzio.
“Non puoi andare un po’ più
veloce?” continuò a punzecchiarla House.
Lei non rispose, gli occhi fissi
sulla strada. Ad un certo punto sentì la mano di House sulla sua, posata sul
cambio. La ritirò di scatto, e il movimento brusco fece sbandare la
macchina.
“Ehi stai attenta!” Chase non si
era accorto del perché lei avesse perso il controllo della macchina.
“Scusate.” Disse lei, cercando di
respirare lentamente per calmare la rabbia, e non solo quella.
House sorrise compiaciuto, mentre
dal sedile di dietro Foreman guardava preoccupato la scena.
30 gennaio, h 11.00
Brian’s
Market
“Finalmente!” disse House
scendendo dalla macchina e stiracchiandosi.
Gli altri si strinsero nei loro
cappotti. La temperatura era ormai sotto lo zero e il vento sbatteva
violentemente la neve che cadeva contro i loro visi.
“Sbrighiamoci o moriremo
congelati.” disse Chase tra i denti, e si diresse verso il supermercato. Cameron
lo seguì, procedendo a passi incerti sulla superficie quasi ghiacciata. Foreman
aspettò che House lo precedesse; non è facile per un uomo col bastone camminare
con il terreno in quello stato.
“Tranquillo, non cado.” Gli disse
House voltandosi. “Non gliela do questa soddisfazione.” Proseguì indicando Chase
con un cenno del capo.
Arrivarono tutti e quattro
all’angolo indicato da Foreman. “Jo sta qui a chiedere l’elemosina” disse “a
circa 50 metri in quella direzione” continuò indicando un punto non visibile per
la neve che cadeva sempre più fitta “ci sono dei capannoni abbandonati. Vive lì.
Con questa bufera in arrivo non sarà andata lontana. Sarà anche il caso di dare
un’altra occhiata al bambino.”
“Benissimo.”disse House “Chase,
vai a cercare quella donna e il suo pupo, tanto prima o poi qualche assistente
sociale glielo porterà via.”
Chase fece per ribattere qualcosa
ma House lo interruppe. “Foreman vai con lui, assicurati che quei barboni
cattivi non rapiscano il nostro angioletto dai capelli d’oro.” Poi si voltò
verso Cameron.
“Vado con loro.” lo precedette
lei, e si avviò nella direzione indicata dal neurologo.
“Io vado a cercare una toilette!”
House sparì dentro al supermercato.
Foreman guardò Chase. “La prossima
volta...” incominciò quest’ultimo. Foreman annuì, battendogli amichevolmente una
spalla. La priorità, ora, era trovare la paziente; meglio cercare di mettere a
tacere i conflitti tra loro. Anche se sapeva che non sarebbe riuscito a tenere
questo vulcano quieto ancora a lungo.
House fece un rapido giro del
supermercato, prese al volo una scatola di preservativi e si diresse alla
cassa.
“Solo questo?” chiese
distrattamente il cassiere.
“Si. Le donne non le compro in
giro, preferisco il servizio a domicilio.”
Il commesso gli sorrise
complice.
“Senta…Brian giusto?” l’uomo
annuì soddisfatto “Per caso ha mai fatto caso a una mendicante che sta spesso
qui fuori a chiedere l’elemosina?” chiese House, allungando una banconota da 10
dollari in più al cassiere.
“Si, Jo. La conosco.” Rispose lui
ripassandogli i soldi. “Per un’informazione non c’è bisogno di pagare, signore.
Li tenga per il suo servizio a domicilio.”
House si rimise i soldi in tasca
sorridendo.
“L’ha vista negli ultimi giorni?”
continuò. E’ vero, doveva cercare la Pivet, non quella barbona. Ma il suo
istinto gli diceva che doveva andare in quella direzione.
“L’ho vista oggi!” esclamò Brian.
“Aspettava qui fuori l’apertura del negozio. Le ho chiesto cosa diavolo faceva
in giro, sa, ha partorito pochi giorni fa.”
House annuì.
“Non mi ha detto granchè, stava
sulle sue. Ma quella gente è un po’ strana, anche se la conosci da anni, e Jo
sono anni che chiede l’elemosina qui fuori…”
“Ha comprato qualcosa?” indagò
House. Un’idea incominciava a farsi spazio nella sua testa.
“Si, stranamente aveva dietro un
po’ di soldi. Ha comprato un bel po’ di viveri, dei pannolini e delle garze…e
poi, cosa più strana, uno spazzolino! Cosa se ne farà mai una donna di strada
con uno spazzolino…”
“La ringrazio!” disse House
dirigendosi in fretta verso la porta.
“Ehi! Ma cos’è lei? Una specie di
poliziotto infiltrato…qualcosa del genere?”
“Lei è molto perspicace!” esclamò
House, prima che la porta si chiudesse alle sue spalle.
Quando House uscì dal market la
sua equipe stava tornando indietro.
“Non avete trovato nessuno…” li
precedetto House.
“Non esattamente. C’era un uomo
che ha detto che Jo è venuta stamattina a prendersi le sue cose e poi è
scomparsa col bambino.” disse Foreman.
“Istinto materno…” esordì House.
“Se qualcuno ti offre un tetto per il tuo bambino sei disposta a vendere anche
la tua anima da mendicante…Andiamo!”
“Dove?” chiese Cameron.
“A casa della paziente.” rispose
House, e si diresse alla macchina, tendendo una mano verso Cameron. “Mi dai le
chiavi?”
Lei guardò la sua mano e,
ignorandolo, si mise alla guida della sua auto.
30 gennaio, h
12.00
Abitazione della signorina
Pivet
“Non credi che la polizia avrà
già controllato?” chiese Chase al suo capo.
“Sicuramente. Ma troppo presto.
La troppa efficienza a volte è un ostacolo al raggiungimento di uno scopo.
Foreman, questa segnatela, potrebbe risultarti utile per un’autoanalisi.”
Si diressero tutti e quattro
verso la palazzina dove abitava la signorina Pivet, camminando a fatica
controvento. Stava arrivando una vera e propria bufera.
“E’ all’ultimo piano” disse
Foreman, chiamando l’ascensore.
Chase si avviò per le scale e
Cameron, dopo un breve momento di indecisione, decise di seguirlo.
“House non può fare le scale!
Vuoi che chiami Foreman così puoi prendere l’ascensore sola con lui?”
l’apostrofò subito lui.
“Chase smettila.” gli disse lei,
tentando di stargli dietro mentre saliva gli scalini due alla volta “Hai un
atteggiamento ridicolo, non capisco cosa ti sta succedendo.”
Lui si fermò e si voltò di colpo.
Cameron non fece in tempo a fermarsi e andò a sbattere contro il suo petto.
Chase la prese per le spalle e lei alzò il viso. Negli occhi di Chase vide tanta
rabbia ma anche tristezza.
“Allison, siamo stati a letto
insieme…” le disse lui a bassa voce.
“Io…” lo interruppe Cameron.
“Lasciami finire.” Le disse, e
lasciò lentamente le sue spalle, conscio che ormai era riuscito ad attirare
l’attenzione della collega. “E’ stata una sola volta ed è stata una situazione
particolare.”
Lei lo guardava immobile, sapeva
che quello che Chase stava facendo, gli costava molta fatica. Era una persona
introversa e molto sensibile, a suo modo.
“Il fatto che quello che è
successo sia stato indifferente per te, il fatto che tu riesca a comportarti con
me nello stesso modo di prima, il fatto che sembra tu abbia dimenticato quella
notte…non significa che sia lo stesso per me.” tremava. Per la tensione, data da
un miscuglio di sensazioni che andavano dal senso di umiliazione, alla rabbia,
alla felicità per averla così vicina. “Ok?” le chiese lui.
“Ok.” Fu l’unica cosa che riuscì
a ribattere Cameron.
Non sapeva cos’altro dire. Era
stupita di se stessa, di come non aveva dato nessun peso a quell’avventura, di
come non aveva tenuto conto dei sentimenti di Chase, con un’indifferenza che non
faceva parte del suo carattere.
Questo la fece pensare, le creò
confusione. E non riuscì a dire nient’altro che “Scusa.”
“Lascia stare.” Disse lui
voltandosi, e riprese a salire le scale.
“Allora, avete finito di limonare
sulle scale?” urlò House dall’ultimo piano.
I due, senza neanche rendersene
conto, allungarono il passo e in pochi secondi raggiunsero i colleghi sul
pianerottolo.
“Bene.” si limitò a dire House,
senza neanche guardarli.
Chase però sapeva che la sua aria
scossa non sarebbe passata inosservata al suo capo. Si sentiva in imbarazzo,
forse non avrebbe dovuto parlarle…
“Ehi, bell’addormentato!” Chase
alzò lo guardo e House gli era pericolosamente vicino e lo stava squadrando da
capo a piedi.
Lo prese un improvviso moto di
rabbia. “Ma cosa vuoi?!” gli urlò, e lo spinse lontano da lui, non violentemente
ma con decisione. House barcollò un po’, Foreman gli fu subito dietro, ma riuscì
a non cadere.
Cameron fu presa dal panico,
voleva intervenire, fare o dire qualcosa, ma era completamente bloccata. Non si
riconosceva più, non riusciva a capire cosa voleva, cosa provava.
House distolse lo sguardo da
tutti per qualche secondo, dal pavimento lo fece passare al soffitto.
“Dimmi un po’ Chase...” solo
poche parole di House, l’inizio di una frase, bastarono a intimorire tutti e tre
i ragazzi, che lo guardavano immobili, trattenendo il respiro.
Gli occhi di House si posarono su
quelli di Chase, un azzurro più gelido dell’altro. “…sei stato a letto con la
dottoressa Cameron, giusto?”
Chase non rispose, non mosse un
muscolo.
Foreman voltò impercettibilmente
il viso verso Cameron, per vedere la sua reazione.
Anche lei era immobile, ma il suo
respiro diventava sempre più veloce, le gote si stavano arrossando, gli occhi
sempre più lucidi.
Improvvisamente fece un passo
avanti e si frappose tra House e Chase, catturando lo sguardo del suo capo. Lei
capì perché Chase non era stato capace di ribattere nulla: quegli occhi non
stavano semplicemente fissi sui tuoi, ti entravano dentro.
“Lascialo stare House.” riuscì a
dire con un filo di voce.
L’espressione di House si
trasformò da seria e inquisitoria, a divertita. Un sorriso beffardo si affacciò
sul suo volto.
“Sei ridicola.” le disse “Perché
devi fare sempre la crocerossina e metterti a difendere uno che ti sei portata a
letto una volta, solo perché è il primo che ti è passato davanti in un momento
di” fece un ampio gesto con una mano “diciamo…attacco ribelle?”
Il fatto che la stesse accusando
di leggerezza e superficialità le dette molto fastidio. Ma mai come il fatto che
aveva completamente ragione. Questo la fece arrabbiare davvero. Si sentiva
vulnerabile: House riusciva a vedere sempre chiaro dentro di lei, e non poteva
controllarlo. Non poteva averlo. Ogni forma di attrazione o sentimento per il
suo capo furono, in quell’attimo, spazzate via dalla sensazione di sentirsi
completamente indifesa, e dalla paura e rabbia che ne conseguivano.
“Quello che io faccio al di fuori
dall’ospedale non ti deve riguardare in nessun modo.” gli disse. Il tono di voce
più alto del solito, ma calmo. Un fuoco negli occhi che House non aveva mai
visto. “E questo comprende anche le persone con cui vado a letto.” concluse lei,
mettendo nelle sue semplici parole, tutto il miscuglio di sentimenti che aveva
dentro.
L’energia che emanava Cameron in
quel momento travolse Chase, Foreman, e anche House. Quest’ultimo, per qualche
breve istante, sembrò vacillare: la mano con cui si appoggiava al bastone si
mosse leggermente, distolse lo sguardo da lei, ma fu solo un attimo, poi
tornarono alla carica. Tornarono ad immergersi nella sua testa.
Tutto questo era stato forse un
appena percettibile segnale di insicurezza di House? Segnale che forse, questa
volta, qualcuno era riuscito a lasciarlo senza parole, buttandogli in faccia le
proprie emozioni, anche se mascherate da banali frasi? Foreman non avrebbe
saputo spiegare il perché, ma sapeva che questo momento sarebbe rimasto a lungo
nei ricordi di tutti e quattro, sottoforma di film: le parole erano superflue, i
corpi parlavano chiaramente.
Ovviamente però, furono solo
pochi istanti.
“Molto carina la scenetta, grazie
Cameron!” le disse, con un sorriso deliberatamente falso. “Comunque: primo, non
parlavo con te. Secondo, se Chase non riesce a lavorare lucidamente per causa
tua, è affare mio eccome. Terzo…” avvicinò lentamente il viso al suo, e con un
sussurro percepibile solo a lei aggiunse: “stai tremando.” e, fatto un cenno a
Foreman, si avviò verso la porta dell’abitazione della signorina Pivet.
Cameron constatò che il suo corpo
continuava a non voler collaborare nel suo progetto che prevedeva il disfarsi,
il più rapidamente possibile, di quella scomoda cotta per il suo capo.
30 gennaio, h
12.00
Ufficio di Cuddy
La Cuddy stava leggendo dei
documenti: la testa china sulla scrivania, una mano che reggeva gli occhiali,
l’altra abbandonata sul tavolo. Nonostante avesse riletto quei fogli almeno una
decina di volte, non ci aveva capito niente. Non era un problema dei documenti,
era un problema che veniva da lei: il continuo lavorìo del suo cervello le
impediva di concentrarsi.
Questo era uno dei suoi segreti:
era un po’ ossessiva. Se c’era qualcosa che la preoccupava, non riusciva a non
pensarci. A volte doveva ricorrere a un ansiolitico per permettere al suo
cervello di riposarsi un po’, per riprendere il controllo. Ma solo in rari casi:
lei era moderata nei suoi vizi. Questo non vuol dire che non ne avesse.
“Lisa…ti disturbo?” Wilson si
affacciò alla porta del suo ufficio.
“No figurati, entra pure.”
rispose lei con un lieve sorriso. Si portò le mani in grembo. Se ci fosse stato
House davanti a lei avrebbe colto subito il suo nervosismo, tradito da quel
gesto.
Ma Wilson non era House.
Per fortuna.
“Ieri sei passata nel mio
ufficio. Volevi parlarmi?” Wilson si sentiva un’idiota.
“Si. Ma c’era House con te…” le
sensazioni della Cuddy su se stessa non erano da meno.
“Si. Ehm…” Wilson si sedette
davanti a lei. La scrivania li separava forse solo di un metro, ma tra di loro
c’era un abisso. Non sapeva come
avvicinarla, ma sentiva che doveva farlo. Aveva bisogno di chiarire quello che
era successo, qualunque cosa fosse venuta fuori.
Si voltò per assicurarsi che non
ci fosse nessuno nei paraggi, poi si rivolse ancora a lei: “ Per quello che è
successo l’altra sera…” gli si annebbiò la mente. Le uniche azioni che riuscì a
partorire furono stamparsi in faccia un sorrisino ebete, scuotere la testa e
guardarsi la punta delle scarpe.
Dall’altra parte della scrivania,
la Cuddy si stava tormentando le mani cercava invano una frase sensata nella
confusione che aveva in testa.
Fu Wilson il primo a riprendere
il controllo.
“Sei il mio capo.” le disse.
Lei lo guardò perplessa.
“Lavoriamo insieme. Forse è per
questo che siamo così imbarazzati.” continuò lui.
Lei annuì sospirando e
costringendosi a calmarsi: era Lisa Cuddy, capo di quell’ospedale, medico,
forte, decisa.
Non funzionò.
“Comunque…Quando sono passato
l’altra sera, stavi piangendo.” cambiò discorso lui.
“Si” rispose la Cuddy. “Mio padre
è gravemente malato. Sta morendo. Sono un po’ scossa in questo periodo.” Odiava
parlare dei suoi sentimenti, delle sue fragilità. Ma questa volta fu un
sollievo, visto il terreno da cui si era spostato il discorso.
“Mi dispiace.” fu la risposta
scontata di Wilson. “Posso…” si alzò “posso fare qualcosa per te?”
“No, grazie lo stesso.”
mentì.
Wilson rimase qualche istante
indeciso sul da farsi, poi borbottò un “ci vediamo” e lasciò la stanza.
Alla Cuddy venne ancora da
piangere; ultimamente le succedeva troppo spesso.
Aveva imparato a convivere con la
malattia di suo padre, e pensava che il suo essere medico l’avrebbe protetta in
parte dalla sofferenza di vederlo spegnersi lentamente. Credeva di poter battere
il dolore con la razionalità che la contraddistingueva.
Questo non era accaduto.
Sapeva che avrebbe dovuto
parlarne con qualcuno, aveva tanti amici, ma la sua corazza, che la proteggeva,
la imprigionava anche.
Poi c’era Wilson.
Dire che non aveva mai pensato a
lui come qualcosa di più che un medico del suo ospedale, significava mentire a
se stessa. Lei cercava di non farlo mai.
Le era sempre piaciuto: un
bell’uomo, dai modi gentili.
La attraeva.
Ma quello che era successo
l’altra sera l’aveva scossa parecchio. Non per il bacio, quello era stato una
piacevole sorpresa, ma il fatto che lui le si fosse avvicinato così quando era
in quello stato.
Aveva paura della compassione.
Aveva anche paura che il suo dolore la spingesse a buttarsi nelle braccia del
primo che le offriva un sostegno.
Questo non poteva permetterselo,
soprattutto nel caso di un medico dell’ospedale.
Era già successo una volta…
D’altra parte però si conosceva
bene, e anche se in quel periodo era poco lucida, sapeva che non era stato solo
il bisogno della vicinanza di qualcuno a farle accogliere quel bacio.
Poi c’era House che complicava il
tutto.
Decise di non fare nulla.
Non era in grado di prendere
decisioni obiettive.
La sua razionalità ebbe la meglio
e le permise di concentrarsi su quei dannati documenti.
30 gennaio, h 12.00
Abitazione della signorina
Pivet
Foreman scassinò la serratura, e
i quattro medici entrarono nell’abitazione.
La loro attenzione fu subito
catturata da un pianto soffocato. Il pianto di un neonato.
Cameron corse nella direzione da
cui proveniva quel lamento: un bambino di pochi giorni giaceva sull’unico letto
della casa, circondato da coperte e cuscini, nel probabile intento di non farlo
cadere per terra.
“Il bambino di Jo.” Disse Foreman
arrivando alle sue spalle. Si avvicinò al bambino, che sembrò calmarsi. Il suo
colorito era bluastro, faceva fatica a respirare.
“Ha un attacco d’asma” disse
Foreman.
“Non respira?” chiese
Cameron.
“Si, respira ancora abbastanza.
Ma se continua a piangere a breve soffocherà, bisogna calmarlo e somministrargli
il più in fretta possibile dei broncodilatatori.” ripose Foreman.
Cameron prese in braccio il
bambino e Foreman andò a cercare qualcosa di utile nell’armadietto dei
medicinali,che ricordava di aver visto in bagno.
House si avvicinò al bambino, e
lo osservò attentamente. “Ha un rash.” Disse mostrando a Cameron il braccino del
piccolo “E’ asma allergica, se eliminiamo la fonte starà subito meglio.”
Si voltò verso Chase e Foreman,
che era tornato in camera senza aver trovato nulla: “Portate il bambino in
macchina, fuori da qui si sentirà subito meglio.” disse sollevando un ciuffo di
peli da terra. “La signorina Pivet ha un gatto?” chiese rivolto a Cameron, che
aveva fatto l’anamnesi.
“Si, ora se ne sta occupando una
vicina.” rispose lei. Aveva imparato, per esperienza, a chiedere ai pazienti
anche dei loro animali domestici.
“Ma il suo pelo è ancora qui.”
disse mostrandolo ai colleghi. “Dev’essere questo, è una delle cause più comuni.
Andate in macchina col bambino” ordinò di nuovo ai due “e se vedete che
peggiora, portatelo all’ospedale più vicino.”
“Credi che la madre l’abbia
abbandonato?” chiese Cameron.
“No” rispose lui “Credo che
l’abbia visto diventare blu, si sia spaventata, e sia corsa a cercare l’aiuto
della sua benefattrice. Tornerà presto, se siamo fortunati con la Pivet.”
“Non possiamo portare
direttamente il bambino all’ospedale più vicino?” chiese Foreman.
“Se quel bambino arriva in un
ospedale, sua madre non lo rivedrà più.” rispose House soprappensiero.
“Cerchiamo di evitarlo se è possibile. Quel bambino può servirci.”
Chase si avvicinò a Cameron e
prese il bambino dalle sue braccia, guardandola negli occhi. Lei era
imbarazzata: House aveva chiesto a Chase e Foreman di scendere in macchina, lei
sarebbe rimasta sola con lui. Tutto questo con l’unico scopo di far imbestialire
ancora di più Chase, e prendersi gioco di lei.
Nonostante fosse certa di questo,
l’aspettativa di restare un po’ da sola con lui, in quel luogo sconosciuto ad
entrambi, le metteva addosso una sensazione di timore, ma piacevole.
“Rimanete di guardia in macchina,
se vedete arrivare le donne avvisateci sul cercapersone.”
Foreman annuì e si diresse verso
la porta d’ingresso. Chase coprì il neonato con una coperta e seguì il collega.
Non aveva più la forza di combattere.
30 gennaio, h
12.30
Ufficio della
Cuddy
Squillò il telefono.
“Pronto?” disse distrattamente
Lisa Cuddy, concentrata ancora sulle carte che aveva davanti.
“Sono l’agente Dereck.”
“Salve agente.” disse lei,
spostando l’attenzione sulla telefonata “Ci sono novità?”
“Si, ma non buone.”
Lisa si passò la mano sulla
fronte. Ci mancava pure questa.
“Abbiamo trovato il camice
indossato dalla signorina Pivet vicino alla sua abitazione, in un cassonetto.
Dev’essersi cambiata. Probabilmente qualcuno l’ha aiutata a scappare.” continuò
il poliziotto.
“Ma era sola, ho visto
personalmente le videoregistrazioni delle telecamere.”rispose lei.
“Allora c’è qualcuno che la sta
aiutando a rimanere nascosta. Abbiamo controllato in casa sua e non è passata di
lì, quindi dev’essere ospitata da qualcuno. Voi, quando ricevete una caso,
dovete svolgere l’anamnesi, giusto?”
“Si, è stata fatta dalla
dottoressa Cameron.” disse la Cuddy prendendo in mano la cartella della
Pivet.
“Bene. Le risulta qualche parente
che vive nei paraggi? Oppure, ha parlato di un fidanzato, o di qualche amico che
le è vicino?”
La Cuddy fece scorrere
velocemente lo sguardo sui fogli, cercando qualche indizio.
“Qui dice solo che i genitori
abitano dall’altra parte dell’oceano, la sorella è deceduta e lei vive sola.”
disse dopo qualche secondo.
“E’ venuta a trovarla qualcuno
quando era ricoverata?” la voce del poliziotto era particolarmente ansiosa;
troppo per un semplice caso di persona scomparsa.
“No, non mi risulta. Ci sono
altre informazioni relative alla paziente che mi deve dare?” chiese Cuddy,
percependo l’agitazione dell’uomo dall’altra parte del telefono.
“No. Sappiamo solo che si è
cambiata i vestiti e che c’è qualcuno che la sta aiutando a nascondersi. Abbiamo
interrogato il vicinato e non hanno visto niente di strano nei paraggi. Ma era
notte, quindi è comprensibile.”
Un’idea cominciò a farsi largo
nella mente della Cuddy: le sembrava di sentir parlare della caccia ad un
assassino più che della ricerca di una donna malata. Lei aveva chiesto aiuto
alla polizia perché non si sapeva che malattia avesse e, per precauzione dei
rischi di contagio, in questi casi le era d’obbligo avvisarli. Ma era solo una
formalità e il fatto che si stessero impegnando così tanto per trovare quella
donna le fece capire che l’agente le stava nascondendo qualcosa.
“La fuga della signorina Pivet
dall’ospedale è pericolosa per lei stessa, agente Dereck, e per nessun’altro. I
rischi di contagio sono bassissimi, capisco che abbiate fretta di trovarla, ed
io sono la prima a rivolerla il più presto possibile in ospedale, ma lei ne
parla come se fosse un grave pericolo per gli altri…” sperò che la sua frase
contorta avesse fatto capire al poliziotto cosa voleva dirgli.
“Dottoressa Cuddy, purtroppo ci
sono delle informazione riservate relative al caso che non posso darle. E’
indispensabile però trovare quella donna il prima possibile, e lei ci deve dare,
senza riserve, tutte le informazioni che ha su di lei.” rispose lui duro.
“Certo…” non era più così
tranquilla come quella notte…un’altra preoccupazione!
“Ho bisogno di parlare con quella
dottoressa che ha fatto l’anamnesi con la paziente, come prima cosa. E se non ci
saranno progressi nelle indagini entro oggi, dovrò interrogare anche gli altri
medici che sono entrati in contatto con lei, e se ha parlato con altri pazienti,
dovrò fare qualche domanda anche a loro.”
“Per i medici non ci dovrebbero
essere problemi. Per i pazienti invece la pregherei di evitare se possibile…”
tentò lei, cercando di difendere l’ospedale da un’invasione di sbirri.
“Dottoressa Cuddy., stiamo
facendo un’indagine su quella donna, e lei deve collaborare. Se dovrò parlare
con i pazienti ci parlerò. Se non mi darà il permesso mi procurerò un mandato.”
la voce gentile, ma ferma, del poliziotto le diede la conferma che avevano per
le mani qualcosa di più grave di una donna malata.
“Certo, l’ospedale è a vostra
disposizione” rispose accasciandosi ancora di più sulla scrivania.
“Bene. Mi faccia contattare il
prima possibile dalla dottoressa…”
“Cameron. Allison Cameron”
“C-a-m-e-r-o-n. Perfetto. Aspetto
sue notizie. La ringrazio, buona giornata.”
“A lei.” rispose la Cuddy.
Appoggiò il viso tra le mani,
come faceva a scuola quando doveva fare un test e non le veniva la
soluzione.
“Merda” disse in un soffio e,
alzatasi, si diresse velocemente fuori dal suo ufficio.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
CAPITOLO 4
30 gennaio, h 12.50
Princeton Plaisboro Teaching Hospital
La Cuddy salì in fretta le scale
e attraversò rapidamente i corridoi dirigendosi all’ufficio di House. Passando
di fianco alla sala dell’equipe si accorse che non c’era nessuno. Spalancò la
porta ed entrò: tutto in insolito ordine, niente giacche buttate in giro, niente
tazze di caffè abbandonate sui tavoli. Solo il feticcio di House, la sua
lavagna, e quella parola sbarrata.
Incominciò a temere che non
sarebbe riuscita a trovare nessuno dell’equipe in ospedale e, di conseguenza,
incominciò ad arrabbiarsi.
Riprese ad attraversare i
corridoi, questa volta più rapidamente, tanto che gli infermieri si scostavano
bruscamente vedendola passare.
Andò a controllare in
laboratorio, sperando di trovare almeno Cameron al lavoro.
Niente.
“Qualcuno ha visto House o
qualcuno della sua equipe questa mattina?” quasi urlò a un gruppetto di
specializzandi.
“No, dottoressa.” rispose
timidamente uno di loro.
Tornò nel suo ufficio e prese il
telefono.
Digitò rapidamente il numero di
cellulare Cameron. Il telefono squillò a lungo, ma non rispose nessuno.
House, spento.
Foreman non rispose.
Chase idem.
C’era solo una persona che poteva
sapere dove fossero finiti tutti.
Posò la cornetta, fece un bel
respiro per farsi coraggio e si diresse in fretta all’ufficio di Wilson.
Wilson, dopo quello scarno
scambio di vedute con la Cuddy, era tornato nel suo ufficio, aveva chiuso la
porta a chiave e si era sdraiato comodamente sulla sua poltrona. Aveva un’ora di
tempo prima della prossima visita e aveva bisogno di pensare.
“Sono un idiota” era il pensiero
predominante e gli impediva di ragionare sui fatti. Dopo qualche minuto decise
di lasciare perdere: ci avrebbe pensato quella sera, magari dopo un paio di
birre. Magari avrebbe chiesto ad House di andare da lui, avrebbe riprovato a
parlargliene. Gli sembrò una buona idea e andò alla scrivania per chiamare
l’amico.
Si sedette e lo vide: un
biglietto stropicciato e coperto con l’inconfondibile e illeggibile scrittura di
House. Ci mise un po’ a decifrarlo.
“I ragazzi mi portano in gita. Se
la Cuddy si accorge che siamo spariti, pensaci tu a distrarla… Se ci sono novità
sulla Pivet chiama sul cellulare di Cameron. Andiamo a cercarla.”
In quel momento bussarono alla
porta, poi la maniglia si abbassò.
Si era dimenticato di aver chiuso
a chiave.
“Chi è?” chiese dirigendosi alla
porta.
“Sono io.” disse la Cuddy
dall’altra parte.
“Adesso no…” pensò, forse ad alta
voce. Per fortuna, lei non sentì.
Aprì la porta e la fece
entrare.
“Perché ti sei chiuso dentro?”
chiese lei.
“Avevo bisogno di un po’ di
tranquillità.” rispose, a disagio, stringendo nel pugno il biglietto di
House.
“Scusa allora, ma ho un problema
e forse tu mi puoi aiutare. Ho bisogno di parlare urgentemente con Cameron, ma
lei, House e gli altri due, non sono in ospedale.”
Wilson cercò di fare
un’espressione sorpresa ma dalla faccia di lei capì che era stato poco
convincente.
“Hai provato a chiamare?” disse
la cosa più ovvia che gli veniva in mente.
“Certo. Non rispondono.” Rispose
lei, e lo sguardo le cadde sulla mano di Wilson, nervosamente chiusa a
pugno.
Lui, d’istinto, se la portò
dietro la schiena.
“Ne sai qualcosa?” chiese lei,
avvicinandosi di un passo a Wilson.
“No, niente.” mentì.
“Cos’hai in mano?” si avvicinò
ancora di più.
“Niente, spazzatura.” e così
dicendo fece per buttare il foglietto nel cestino.
La Cuddy lo prese al volo, lo
aprì con cura e incominciò a leggerlo ad alta voce: “I ragazzi mi portano in
gita.” fece una faccia perplessa. “Se la Cuddy si accorge che siamo spariti
pensaci tu a distrarla…” guardò rapidamente Wilson ma abbassò subito gli occhi
ancora sul foglietto, imbarazzata.
Finì di leggerlo silenziosamente,
poi lo consegnò a Wilson.
“Mi ha chiamato l’agente che si
occupa delle ricerche della Pivet.” disse seria “ha detto che vuole tutte le
informazioni che abbiamo qui su quella donna. Devo farlo chiamare da Cameron il
prima possibile, ho bisogno di contattarla.”
Wilson si avvicinò al telefono,
compose il numero di Cameron e attese. Non rispose neanche stavolta.
“Non risponde.” disse alla Cuddy
scotendo la testa.
Lei sembrò persa nei suoi
pensieri per qualche secondo, poi disse all’oncologo: “Se House sa qualcosa che
la polizia non conosce, e si fa beccare a caccia di quella donna, potremmo
passare guai seri.”
“Non mi sembra così grave, è il
suo medico. Potrebbero pensare che sia un po’ fuori di testa, ma non farebbe
niente di male…” provò a convincerla Wilson.
“No.” disse lei decisa “Quella
donna deve avere qualche problema con la legge, la cercano con troppo zelo. Sono
faccende che non ci riguardano, dobbiamo starne fuori.” aggiunse.
In quel momento suonò il telefono
di Wilson, che rispose subito.
“E’ Cameron?” chiese la Cuddy
sottovoce.
“House.” le labbra di Wilson si
mossero senza che vi uscisse alcun suono.
Lei allungò una mano per farsi
passare la cornetta ma Wilson, appoggiando distrattamente le sue dita sul palmo
di lei, gliela abbassò.
30 gennaio, h
12.10
Abitazione della signorina
Pivet
Wilson e Chase lasciarono la casa
della signorina Pivet.
House e Cameron rimasero nella
stanza da letto di quella casa sconosciuta, una di fronte all’altro, a qualche
passo di distanza.
“E adesso?” chiese lei
nervosamente, rendendosi conto mentre la pronunciava, che una domanda come
quella era un invito a nozze per House.
“Facciamo sesso!” disse infatti
lui, spalancando le braccia in tono teatrale.
Lei alzò gli occhi al cielo
incassando la battuta, ma nel frattempo le si strinse il cuore. Ormai si era
resa conto che i suoi sentimenti per House, nonostante la rabbia che lui le
faceva, erano ancora forti. Questo suo continuo prenderla in giro, il suo
prendersi gioco di Chase, le facevano male.
Le venne da piangere e si odiò
per questo. Riuscì a resistere.
“Non è quello che vuoi?” aggiunse
House, avvicinandosi di qualche passo.
“No!” disse lei decisa, facendo
qualche passo indietro.
“Non ci credo.” insistette lui,
avvicinandosi ancora.
Il suo cuore ricominciò a battere
troppo velocemente, le venne ancora da piangere e probabilmente, visto
l’espressione divertita di House, stava diventando rossa. Il suo corpo non
collaborava, non riusciva a controllarlo. Questo la fece arrabbiare ancora di
più. House si stava divertendo ad illuderla, a farla arrabbiare, a denudarla di
ogni difesa. Che diritto aveva di farlo? La trattava come un’alunna con una
stupida cotta per il suo professore, ma lei era una donna. Di questo House,
probabilmente, non si era mai accorto.
Con un grosso sforzo di volontà
riuscì a riacquistare il controllo di sé.
Fece due lunghi passi e fu di
fronte ad House.
L’aveva fatto anche pochi minuti
prima, ma questa volta si bloccò a pochi centimetri da lui. Percepì per la
seconda volta, quel giorno, che House perdeva per qualche istante la sua
imperturbabilità, per riappropriarsene comunque prontamente.
“House, devi finirla di
provocarmi, non è divertente.” gli disse seria.
Il sorrisino di lui faceva
trasparire, al contrario, che si stava divertendo un sacco, mentre la guardava
dall’alto del suo metro e novanta, senza lasciar andare i suoi occhi neanche per
un istante.
Si fissarono per qualche secondo
senza muovere neanche un muscolo. Questi secondi furono ore per Cameron, che
sentiva il gran baccano fatto dal suo cuore, dal suo respiro, dai suoi nervi
tesi.
La sua mano si mosse ed andò a
posarsi su quella di House, con cui si reggeva al bastone. Sentì in lui un
attimo di tensione, ma non poteva allontanarla, o avrebbe perso l’equilibrio e
avrebbe dovuto appoggiarsi a lei. Anche se quella mano fosse stata di fuoco,
sarebbe bruciato piuttosto che farsi aiutare da Cameron, piuttosto che mostrarle
una sua debolezza. Lei lo sapeva, e giocò su questo.
“Questo è mio. Me lo vuoi rubare?
Se me lo togli di mano ti cadrò addosso…non ti sembra un modo un po’ subdolo per
avermi sopra di te?” le disse non smettendo di guardarla negli occhi.
“Sei un bastardo.” gli disse lei,
riuscendo a fatica a non interrompere quel lunghissimo sguardo che la stava
divorando. “Sei un bastardo manipolatore, stai giocando con i miei sentimenti e
con quelli di Chase. Perché?” fu la domanda più ovvia che le venne in mente,
gliela fece in un sussurro.
“Perché mi annoio! Perché
riuscire a prevedere esattamente le vostre reazioni ad ogni mio comportamento,
mi fa sentire onnipotente! Perché ho sempre la segreta speranza che capiate
qualcosa della vita, e la smettiate di…” House sembrava quasi arrabbiato;
gesticolava con la mano libera. L’altra non la mosse, la tenne quieta sotto
quella di Cameron. “……” lasciò cadere la frase.
“La smettiamo di fare cosa? Di
provare dei sentimenti? Di essere felici, tristi, arrabbiati, inteneriti? Di
essere umani? Sei incredibile!” Cameron parlò con trasporto, stringendo la mano
del suo capo sotto la sua, senza neanche rendersene conto. “Sei convinto che la
tua visione della vita è giusta, e che la nostra è patetica e infantile. Ma chi
ti credi di essere per venire a insegnare a me come è giusto vivere?! Non sono
una bambina, non sono un ragazzina, ho una vita alle spalle di cui tu non sai
niente!” era furiosa.
House abbassò lo sguardo e lo
posò sulle loro mani. “Mi stai facendo male.” disse, anche se con poca
convinzione.
“Sei imbottito di Vicodin dalla
mattina alla sera! Hai uno scudo per ogni tipo di dolore. Sei un codardo, non
affronti la sofferenza. Neghi il tuo lato vulnerabile, lo scindi dal tuo Io e lo
proietti su di me, su di noi. Ciò che non sopporti del mio carattere è quello
che non riesci ad affrontare del tuo.” continuò Cameron, ormai gettando addosso
ad House le sue parole, come un fiume in piena.
“Oddio, ancora Freud…”commentò
lui sarcastico.
“Non è Freud.” ribattè lei.
“Sei pat…”
“E non dire che sono patetica!”
questa volta urlò, gli occhi sempre più lucidi. Erano però lacrime di
frustrazione, era un qualcosa che si era accumulato dentro di lei nel tempo e
che aveva bisogno di essere riversato su di lui.
“Eccolo finalmente.” disse
House.
“Cosa?” chiese lei.
“L’odio. La rabbia. Quello che
hai dentro e che neghi. Lo scindi dal tuo Io e lo proietti su di me. Dice così
il tuo amico strizzacervelli, giusto?”
“Non è odio.” disse lei,
ignorando la sua domanda.
“Cos’è allora? Amore?”
l’espressione di House tornò ad essere divertita, l’ironia nella sua voce. Quasi
disprezzo.
“No, non è neanche amore. Sono
emozioni forti. Non so di che tipo…” rispose lei, abbassando per la prima volta
lo sguardo. Non lo sapeva veramente. Provò a guardarsi dentro ma era tutto
confuso.
Tolse lentamente la mano da
quella di House e la lasciò cadere lungo i fianchi.
Era stanca, si sentiva
svuotata.
Si sentì stringere la spalla. Era
la prima volta che House la toccava di proposito, senza l’intenzione di
prenderla in giro.
Rimasero così, vicini. Lei a
testa bassa, lui che si reggeva al bastone, con l’altra mano appoggiata a
lei.
Le venne ancora da piangere, ma
si impose di non farlo e ci riuscì. Il suo corpo incominciava ad ubbidire.
Fece quel passo che la separava
da lui, appoggiò la fronte al suo petto e gli passò le braccia intorno alla
vita. Lui avrebbe potuto allontanarla, farle qualche battuta sarcastica,
deriderla, o qualunque altra cosa. Non le importava, aveva bisogno di quel
contatto fisico e se lo prese.
House non disse nulla.
Muovendosi il più lentamente
possibile, quasi avesse paura che si rompesse quell’equilibrio tra vicinanza e
lontananza tra loro, le fece passare la mano dietro il collo e l’abbracciò. Non
la strinse, la tenne e basta. Lo sguardo perso sulla parete bianca.
Squillò il telefono.
Trasalirono entrambi, House
scostò bruscamente il braccio da lei, Cameron indietreggiò portandosi la mano
alla tasca dei jeans. Estrasse il cellulare e guardò il display.
“E’ la Cuddy…” disse, facendo per
rispondere.
“No, non rispondere.” la bloccò
lui.
Lei lo guardò con aria
interrogativa.
“Ci avrà cercato in ospedale e
non ci avrà trovato…” ipotizzò lui. “Ora proverà a chiamare me e troverà il
telefono spento…mi fischiano già le orecchie per gli insulti. Proverà con Chase
e Foreman, che hanno il mio ordine di non risponderle. Quindi andrà di corsa da
Wilson e gli chiedere di chiamarti.” Lei osservò d’istinto il suo telefono.
Rimasero così per un minuto abbondante, entrambi con lo sguardo fisso sul
piccolo cellulare nella mano di Cameron. Nonostante se lo aspettassero, quando
il numero dell’ufficio di Wilson incominciò a lampeggiare sul display e il
telefonino incominciò a suonare, trasalirono ancora entrambi.
“Ora rispondo?” chiese lei al suo
capo.
“No.”
Lo lasciarono squillare.
Quando smise House interruppe il
silenzio, che entrambi percepivano come imbarazzante: “Ora la Cuddy chiede a
Wilson se sa qualcosa, lui nega, lei non gli crede ma lascia perdere e se ne va
sbattendo la porta. Passamelo.” Disse a Cameron, indicando il telefonino.
Lei glielo passò e lui fece
rapidamente il numero dell’ufficio di Wilson, forse l’unico che conosceva a
memoria.
“Pronto?” disse lui al primo
squillo.
“E’ andata via? Se è ancora lì
non dire niente.”
Il silenzio del suo amico gli
fece capire che questa volta si era sbagliato: i suoi calcoli sul comportamento
umano, per una volta, avevano fatto cilecca.
30 gennaio, h
13.00
Ufficio di
Wilson
“Wilson, ho bisogno di parlare
con loro, immediatamente!” insistette la Cuddy, mettendoci, questa volta, tutta
l’autorità del suo ruolo.
Evidentemente colpì nel segno.
“E’ qui, deve parlarvi urgentemente.” disse Wilson al telefono, e senza
aspettare la risposta dall’altra parte, passo la cornetta al suo capo.
“House.”
“Mmm…” mugugnò lui dall’altra
parte.
“Dove sei?”
“Al luna park, visto che la mia
paziente è temporaneamente assente ho portato i bambini a divertirsi un po’.”
rispose lui.
“Smettila di dire cazzate e
ascoltami. Primo: la polizia si sta occupando di trovare quella donna, tu e la
tua squadra dovete stare qui, in ospedale, dove posso controllarti! Secondo: la
Pivet potrebbe essere pericolosa, probabilmente ha già guai con la polizia, e
loro ci hanno chiesto di collaborare nelle ricerche…”
“Appunto! Sono qui apposta!”
provò a inserirsi House.
“Stai zitto per una volta!
Vogliono tutte le informazioni che abbiamo, non che gli mettiamo i bastoni fra
le ruote andando in giro a fare i detective.”
“Veramente abbiamo appena salvato
un neonato asmatico. Ma questo non aiuterebbe il tuo ospedale nel difendersi
dalle accuse della polizia, quindi non ti interesserà…” ritentò House.
“Un neonato? Spero che ora sia al
sicuro in qualche ospedale lì vicino…”
“…”
“House?!”
“Si, Chase e Foreman l’hanno
portato in ospedale.” mentì lui, considerandola comunque una bugia a fin di
bene.
“Bene. Cameron è con te?” disse
la Cuddy arrivando al punto.
“Si, ma aspetta che si sta
rivestendo… Eccola!” e passò la cornetta a Cameron, che la prese un po’
intimorita.
Infatti la Cuddy attaccò anche
lei: “ House è un irresponsabile, ma ho bisogno che almeno voi, che almeno tu,
abbiate un comportamento da…medici! Questo ospedale ha delle regole!”
Wilson, nel frattempo, fece finta
di interessarsi a delle cartelle che aveva davanti.
“Si, ma…” tentò di ribattere
lei.
“Niente ma. La prossima volta che
segui House nelle sue follie ti riterrò pienamente responsabile e sarai
sospesa!” la Cuddy si stava sfogando su di lei, sapeva che almeno da Cameron non
avrebbe ricevuto nessuna rispostina sarcastica e imbarazzante. Infatti
dall’altra parte del telefono ci fu solo silenzio.
“Tu hai fatto l’anamnesi della
Pivet, giusto?” chiese all’immunologa, ricomponendosi.
“Si.”
“Devi contattare l’agente Dereck
che ha delle domande da farti sulla paziente. Ti lascio il suo numero, chiamalo
subito.” detto questo dettò a Cameron il numero del poliziotto; lei se lo annotò
rapidamente su un pezzo di carta.
“Va bene.” rispose Cameron.
“Ora prendete la macchina, il
treno o l’aereo, o qualunque mezzo abbiate usato per spostarvi fin lì,
recuperate Chase e Foreman e tornate in ospedale. Vi voglio nel mio ufficio
appena arrivate.” detto questo riattaccò.
Si voltò verso Wilson, che
ignorandola di proposito continuò a sfogliare le sue cartelle.
“La prossima volta che House ti
lascia un biglietto del genere, scendi nel parcheggio e gli buchi le gomme della
moto. Sono stata chiara?”
Lui annuì. La conosceva, aveva
bisogno di sbollirsi, ogni discussione adesso non avrebbe portato a nulla di
costruttivo.
Lo osservò per qualche secondo,
poi si voltò e uscì dalla stanza sbattendo la porta.
In quei minuti Wilson capì due
cose: primo, che era terribilmente affascinato da lei. Secondo, che il prossimo
bacio avrebbe dovuto sudarselo.
30 gennaio, h
13.05
Automobile di Cameron
“Come ti sembra?” chiese Foreman
a Chase, che stava scrutando attentamente il bambino.
“Sta meglio. Respira quasi
normalmente. Tra pochi minuti si addormenterà.” rispose lui, guardando in
neonato con tenerezza. I bambini così piccoli gli avevano sempre fatto un
effetto strano e non capiva perché.
“Jo!” esclamò Foreman ad un
tratto.
“Cosa?” disse Chase, guardando
fuori dalla macchina.
“Eccola, la vedi?” il neurologo
indicò una donna malvestita che camminava in fretta verso la palazzina della
Pivet.
“Si, avvisiamo House e Cameron.”
detto questo Chase prese il cercapersone e contattò i colleghi.
30 gennaio, h
13.05
Abitazione della signorina
Pivet
“Cosa ti ha detto?” chiese House
a Cameron appena chiuse la chiamata.
“Che se sparisco ancora
dall’ospedale senza avvisarla mi sospende…” rispose lei sconsolata. “Mi ha dato
anche questo.” Continuò passando il bigliettino ad House. “E’ il numero
dell’agente che segue le ricerche della Pivet. Ha detto di contattarlo subito
che deve parlarmi.” House le ripassò il foglietto e Cameron incominciò a
digitare il numero sul cellulare.
Stava per far partire la chiamata
quando i cercapersone di entrambi si misero a suonare.
Li estrassero rapidamente dalle
tasche, guardarono il display e poi si guardarono l’un l’altro.
“Che facciamo?” chiese lei al suo
capo.
House riflettè per qualche
istante poi si diresse, appoggiandosi sul suo bastone, verso il bagno.
Cameron lo seguì. “E se viene in
bagno?” chiese lei.
“Voglio parlarle, ma non voglio
che abbia noi davanti nel momento in cui si accorgerà che il suo bambino non è
più qui. Non potrei sopportare di essere oggetto di un altro sfogo d’ira oggi,
il tuo mi è bastato.” le rispose.
Lei ignorò la frecciatina, e si
chiuse la porta del bagno alle spalle.
“Guarda un po’ se dal buco della
serratura si vede qualcosa.” le disse, ingoiando al volo una pillola di Vicodin.
“Si, si vede l’ingresso della
camera.”
“Bene.” House trovò l’armadietto
dei medicinali e incominciò a frugarci dentro.
“Cosa fai?” chiese lei,
voltandosi ripetutamente tra House e lo spioncino della porta.
“Qui si possono trovare un sacco
di cose utili!” rispose, mettendosi un paio di flaconcini nella tasca della
giacca.
Ad un certo punto sentirono
aprirsi la porta d’ingresso ed entrambi rimasero immobili.
Si sentirono dei passi
affrettati, che passarono accanto a loro e proseguirono verso la camera.
Con un gesto House fece capire a
Cameron che doveva osservare cosa stava succedendo dal buco della serratura.
Lei vide passare la donna ancora
davanti a loro, questa volta con un’andatura che esprimeva il panico che si
stava impossessando di lei. “Matthew!” gridò infatti, dalla cucina. Incominciò a
piangere. Cameron la vide avvicinarsi velocemente alla porta del bagno e fece
appena in tempo a scostarsi, quando Jo la spalancò.
Il panico era visibile nei suoi
occhi. Rimase immobile a guardarli per qualche secondo.
“Dov’è mio figlio?” urlò poi
loro.
“Si calmi signora.” tentò lei,
visto che House non apriva bocca.
“Ridatemi mio figlio!” fece per
scagliarsi contro di lei, ma House la bloccò alzando il suo bastone.
“Suo figlio sta bene e lo rivedrà
presto.” disse alla donna, con un tono di voce che a Cameron fece venire la
pelle d’oca, ma che riuscì a sedare Jo.
“Siete poliziotti?” chiese lei,
con odio negli occhi.
“No, siamo i medici della
signorina Pivet.” rispose House “Siamo venuti a cercarla perché è scappata
dall’ospedale, ed è molto malata. Rischia di morire.”
Lei lo osservava con gli occhi
spalancati.
“Abbiamo trovato suo figlio.
Aveva un attacco d’asma. E’ allergico al pelo di gatto. Ora è con altri medici,
e sta meglio.”
“Lo voglio vedere! Me lo
porteranno via!” disse Jo, più tranquilla ma ancora spaventata.
“Riavrà il suo bambino, e pure le
medicine per l’asma, se ora collaborerà.” continuò lui. “ La signorina Pivet è
venuta da lei dopo che è scappata dall’ospedale, mi deve dire dov’è.”
“Sta bene.” disse lei come in
trance “Non ha bisogno di voi.”
House e Cameron si guardarono per
un istante, perplessi.
“Ha un grave disturbo signora…”
“Jo.”
“Jo. Si è ripresa stanotte, ma è
solo un miglioramento temporaneo. Potrebbe sentirsi ancora male da un momento
all’altro e se non sarà soccorsa subito potrebbe morire.” provò a spiegarle
Cameron.
“Non morirà. Non può accadere.
Dovete credermi.” insistette lei.
“Jo.” House richiamò l’attenzione
su di lui. “Non si tratta di credere o non credere. Io voglio trovare quella
donna, tu vuoi riabbracciare il tuo bambino…” lasciò cadere la frase.
Jo spostò lo sguardo su Cameron,
così carico di dolore e confusione che quest’ultima non riuscì a reggerlo.
“Vi porterò da lei.” disse Jo,
come se quelle fossero le ultime parole di una grave presa di decisione. “Ma
solo quando avrò il mio bambino tra le braccia.” detto questo avvicinò le
braccia al corpo, come se stesse dondolando un bambino invisibile, e incominciò
a cantare una ninnananna sottovoce.
Cameron guardò House con aria
interrogativa, lui fece spallucce: probabilmente Jo era un po’ suonata.
Questa scena mise però, addosso a
Cameron, una strana inquietudine.
“Scendiamo.” disse House
dirigendosi fuori dal bagno, verso la porta d’ingresso.
Le due donne si guardarono per un
istante poi, senza dire una parola, lo seguirono fuori dall’abitazione.
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
CAPITOLO
5
30 gennaio, h 13.15
Automobile di Cameron
“Non è il caso che saliamo a dare
un’occhiata?” chiese Chase al collega, visibilmente preoccupato.
“Aspettiamo ancora un paio di
minuti, non credo avranno grossi problemi, Jo è una donna tranquilla.” rispose
Foreman.
“Lo dici basandoti su un unico
incontro con lei?! A me non sembrava tanto a posto.” insistette Chase.
“Si che ti è sembrata a posto,
solo che non riesci ad andare oltre i tuoi pregiudizi che ti fanno vedere le
persone di strada come gente pericolosa…Comunque c’è House con lei, con Cameron
intendo; non le succederà niente.” ribattè il neurologo rivolgendo un sorrisino
malizioso al collega.
“Grazie, ora sono più
tranquillo…” rispose lui, stando al gioco.
Poi l’attenzione di entrambi fu
richiamata da House, che si stava dirigendo verso di loro, camminando a fatica
nella bufera di neve. Pochi passi dietro di lui c’era Jo, che lo seguiva docile.
Alle spalle di lei, Cameron stretta nel suo cappotto.
“Hai visto? Tutto liscio.” disse
Foreman, facendo per scendere dalla macchina. Cameron gli fece gesto di rimanere
al posto di guida. Salì dietro di lui dicendo: “Guida tu, per favore.” con voce
stanca. Lui si voltò e la fissò qualche secondo. “Sto bene!” rispose lei alla
domanda che Foreman le stava facendo con gli occhi; poi prese in braccio il
bambino che dormiva, esausto, sul sedile posteriore, raggomitolato nella
coperta.
Chase scese dall’auto, tenne
aperta la portiera ad House, e aspettò che Jo salisse in macchina. In quei pochi
istanti House fece in tempo a fare l’occhiolino al collega e a dirgli in un
soffio “E’ fantastica.” prima di scivolare sul sedile anteriore. Un moto di
rabbia prese Chase per l’ennesima volta quel giorno, ma si aspettava una
provocazione del genere, quindi si sforzò di rimanere calmo.
Appena entrata in auto, Jo prese
il bambino dalle braccia di Cameron e se lo strinse al petto piangendo
sommessamente. Chase si sistemò al suo fianco e, chiudendo la portiera, disse:
“Tra un po’ le strade saranno impraticabili, dobbiamo muoverci.”
House si voltò verso Jo :
“Allora?” le chiese.
“Torniamo verso il Brian’s
Market.” disse a Foreman, che partì rapidamente.
30 gennaio, h
13.15
Luogo indefinito.
Circa mezza dozzina di persone
erano raggomitolate intorno ad un fuoco. Intorno a loro, le pareti di un vecchio
fabbricato abbandonato, probabilmente un’industria o qualcosa di simile.
L’odore della legna bruciata si
confondeva con la puzza di umido che quelle vecchie pareti sprigionavano.
La signorina Pivet era seduta in
mezzo agli altri, l’unica vestita con abiti classici in mezzo a persone vestite
di stracci. Guardava fisso il fuoco, senza quasi sbattere gli occhi, come in
trance. Quest’unica luce che la illuminava le dava un’aria spettrale, ma la sua
bellezza non ne veniva sopraffatta.
La forza ipnotica che il fuoco
aveva sulla Pivet, era esercitata da lei stessa sugli uomini e donne che le
stavano accanto. Lei catturava i loro occhi allo stesso modo, ogni suo minimo
movimento faceva trasalire quelle persone.
Il tremore alla mano era ripreso
da ormai quasi un’ora, e se lo sentiva salire lungo il braccio.
Ad un certo punto incominciò a
muovere impercettibilmente le labbra, come se stesse pregando. Lo stesso fecero
le persone accanto a lei, senza mai distoglierne lo sguardo.
In pochi secondi un canto
sommesso si alzò dal gruppetto attorno al fuoco. Una melodia struggente.
Le altre due donne sedute attorno
al fuoco erano visibilmente incinte. Per una il parto non doveva essere lontano.
C’erano poi due uomini avanti con l’età, e un ragazzino che avrà avuto suppergiù
12 anni. Quest’ultimo stringeva tra le mani una strana sostanza…era
placenta.
Lentamente la mano della donna in
avanzato stato di gravidanza si mosse e si appoggiò dolcemente sul ginocchio del
ragazzino. Lui si voltò per guardarla. La donna, senza dire niente, indicò la
mano della Pivet, che tramava in modo sempre più violento.
Il ragazzino smise di cantare, si
alzò, e si diresse verso la donna. Le si sedette accanto e le toccò una spalla.
Lei si voltò verso di lui e gli sorrise. “Mamma, la tua mano.” le disse,
posandoci sopra la sua.
“Non ti preoccupare Elliot, tra
poco starò meglio.” rispose lei.
Detto questo prese la placenta
dalla mano del ragazzo e la se la posò sul cuore. Il canto si interruppe e
Elliot tornò al suo posto.
Con una mano prese il braccio
opposto e se lo mise in grembo; un lampo di tristezza attraversò i suoi occhi.
Ormai erano mesi che era paralizzato.
30 gennaio, h 13.30
On the road
“Dove stiamo andando?” chiese
Chase alla donna seduta accanto a lui, che stava allattando il neonato.
“Da loro.” rispose lei,
prestandogli poca attenzione.
Chase incrociò lo sguardo
perplesso di Foreman nello specchietto retrovisore.
Poi guardò Cameron, che stava
fissando la neve che cadeva, fuori dal finestrino.
Desistette e si appoggiò
sconsolato al sedile.
“Giri a destra dopo quel palazzo
rosso.” disse Jo rivolta a Foreman, dopo qualche minuto.
Lui ubbidì, e si ritrovarono in
una via più stretta.
“Alla seconda via dovrà voltare a
sinistra, e poi lascerete lì la macchina. Bisogna proseguire a piedi.” continuò
lei.
D’istinto, tutti e quattro
guardarono fuori dai finestrini: la neve cadeva sempre più fitta.
“E’ un breve tratto, non
preoccupatevi.” li rassicurò Jo.
Visto il freddo che penetrava
anche nell’auto, nonostante fossero in cinque, stretti l’uno all’altro e col
riscaldamento acceso, l’idea di avventurarsi là fuori non piaceva a nessuno.
“Io resterò in macchina col
bambino.” fu ancora Jo a rompere il silenzio.
“No, tu e il bambino venite con
noi.” rispose House, e la durezza delle sue parole non ammetteva replica.
Foreman seguì le indicazioni
della donna e si ritrovarono in una via sterrata.
Spense la macchina quando la
strada terminò, bloccata da una vecchia sbarra arrugginita.
Si apprestarono a scendere.
“Ehi, fermatevi un attimo!”
esclamò ad un tratto Chase.
Tutti lo guardarono aspettando
che si spiegasse.
“Ma cosa ci facciamo qui?!”
continuò, osservando principalmente Foreman, l’unico da cui si aspettava un
minimo di attenzione. “Siamo medici, dobbiamo curare la gente. Questo non vuol
dire che dobbiamo andare a caccia di pazienti nelle case stregate!”
“Resta qui se hai paura.” gli
disse Cameron con tranquillità.
“Non ho detto che ho paura!”
replicò lui irritato. “Ho detto solo che non ha nessun diritto di trascinarci
nelle sue pazzie!”
“Stai parlando di me?” chiese
House spuntando rapido dal sedile anteriore. “Sai…mi fischiavano le orecchie.
Veramente, è tutto il giorno che mi fischiano le orecchie.”
“Se la Cuddy si accorge che siamo
spariti rischiamo la sospensione!” continuò Chase guardando Foreman e Cameron,
che abbassò lo sguardo “Tu no, sei il suo cocchino” si rivolse ad House “ma noi
non abbiano nessuno che ci para il culo! Non siamo assicurati e”
“Finiscila!” lo interruppe House
“Mi stai facendo venire il mal di testa, smettila di piagnucolare. Andiamo.”
concluse scendendo dalla macchina.
Gli altri fecero lo stesso.
Chase si parò di fronte ad House:
“Me la paghi.” Gli disse prima di allontanarsi dietro a Jo.
“Non vedo l’ora…” fece in tempo a
rispondergli il suo capo.
Cameron, dall’altro lato
dell’auto, li guardava preoccupata.
Jo, con il bambino in braccio,
fece strada ai medici, che la seguirono arrancando, in silenzio, fino a una vecchia fabbrica
abbandonata.
“Fa venire i brividi.” commentò
Cameron rivolta a Foreman, che le era stato accanto per tutto il tratto di
strada. Lui annuì, senza distogliere lo sguardo dalla costruzione.
“Forse Chase non ha tutti i
torti.” le disse, stando attento a parlare a bassa voce.
“Mi fischiano ancora le
orecchie!” urlò House, notando i due colleghi parlare a bassa voce.
“Shhh” fece Jo “Sono là dentro.”
e indicò una porta arrugginita.
Ad un certo punto si sentì un
rombo crescente provenire dalla via sterrata che avevano appena percorso.
D’istinto, Jo si strinse il
bambino al cuore e si guardò subito attorno, cercando una sicura via di fuga.
House l’afferrò per un braccio, per impedirle di scappare.
“E’ la polizia!” disse lei
“Porteranno via il mio bambino. Vi ho portato da lei, ora lasciatemi andare.” La
neve fitta che cadeva impediva ad House di vedere chiaramente i lineamenti della
donna, ma dalla voce capì che era nel panico. Se non l’avesse lasciata
probabilmente sarebbe diventata violenta.
Mollò la presa sul braccio della
donna e lei sparì in pochi secondi, in mezzo alle sterpaglie.
Nel frattempo il rumore confuso,
era diventato il rombo distinto di due moto; in pochi secondi furono visibili
anche le luci delle sirene che si riflettevano sul bianco della distesa di neve.
“Cosa facciamo?!” chiese Foreman, che incominciava a preoccuparsi per le
possibili conseguenze in ospedale, se li avessero trovati lì.
“Non devono trovarci.” rispose
House, e incominciò a camminare nella direzione che aveva preso Jo pochi secondi
prima.
I tre medici si guardarono.
Era un’idea folle, ma l’unica che
la paura crescente permise loro di partorire: seguirono in fretta il loro
capo.
30 gennaio, h
17.00
Ufficio di Wilson
Suonò il telefono.
“Pronto” rispose lui, dopo pochi
squilli.
“Pronto proprio a tutto?” il tono
ironico di House non riuscì a nascondere l’affaticamento nella sua voce.
“Cos’è successo?” chiese Wilson
allarmato.
“Non vado più in gita coi
ragazzi. Non hanno rispetto per le persone disabili…” House fu interrotto da un
“per favore” supplicato da Cameron, probabilmente accanto a lui.
“Sei con Cameron?” chiese Wilson
all’amico, cercando di capire la situazione.
“Si, anche con Chase e Foreman
purtroppo, non si può mai avere un po’ di privacy…” questa volta si sentì un trambusto
notevole dall’altra parte del telefono, House protestò qualcosa e, dopo qualche
istante, la voce di Cameron raggiunse l’oncologo.
“Wilson, sono io.” Cameron
sembrava agitata. “Ascoltami attentamente. Siamo al Leonardo Cafè, a circa un
chilometro dall’ospedale. Siamo fradici e congelati. La mia macchina è rimasta
in una stradina abbandonata, siamo dovuti scappare dalla polizia, siamo riusciti
a trovare un taxi solo dopo aver camminato per quasi un’ora e il taxi ci ha
lasciato mezz’ora fa a minimo tre chilometri da qualsiasi cosa.” disse in un
soffio. “Le strade sono impraticabili, non abbiamo modo di tornare a casa e se
ci presentiamo conciati in questo modo in ospedale, è la buona volta che la
Cuddy ci licenzia in tronco tutti e quattro…”
Wilson, che l’aveva vista poco
prima aggirarsi furiosa per i corridoi, non si sentì di darle torto.
“…” Cameron lasciò cadere la
frase.
“Cosa devo fare?” chiese
Wilson.
“Non lo so” rispose lei quasi
piangendo. Era stravolta.
“Io avrei una soluzione!” si
sentì esclamare House accanto a lei.
La cornetta fu ancora nelle sue
mani e Wilson sentì chiara la voce dell’amico. “Siamo proprio a qualche minuto
da casa tua…” disse all’oncologo.
Wilson sospirò. “Va bene. Vengo a
piedi, se no rischio di rimanere bloccato anch’io. Ci vediamo tra mezz’ora a
casa mia.”
Riattaccò e incominciò a pensare
a una buona scusa per la Cuddy.
30 gennaio, h
17.10
Ufficio della Cuddy
Lisa Cuddy era preoccupata: da
ore non aveva notizie di House e della sua equipe, e neanche dall’agente Dereck.
Queste due cose assieme non la rendevano tranquilla.
Sarebbe volentieri andata da
Wilson, per parlare un po’ con lui, ma vista la situazione degli ultimi giorni,
non se la sentiva di chiedere il suo aiuto.
Era arrabbiata e nervosa.
Questo le permise però, forse, di
tenere per un po’ la mente lontana dalla malattia di suo papà.
Decise di chiamare il
poliziotto.
“Pronto.” rispose la voce dura
dell’uomo.
“Buonasera agente Dereck, sono
Lisa Cuddy del Pla…”
“La stavo per chiamare
dottoressa.” la interruppe lui, e il tono con cui lo fece bastò ad agitare
ancora di più la Cuddy.
“Ho due notizie, una brutta e una
bella.” continuò il poliziotto. “Quale vuole sapere prima?”
Aveva sempre odiato quella
domanda.
“La bella.” rispose subito, non
sarebbe stato in grado di reagire a una brutta notizia in quel momento; aveva
bisogno di una boccata di positività.
“Abbiamo trovato la donna.”
“Benissimo!” esclamò
rincuorata.
“E’ in arresto, ma ha bisogno di
cure. A breve sarà in ospedale, ma sarà tenuta sotto controllo dai nostri agenti
24 ore su 24.”
“Va bene.” Rispose lei, aveva già
affrontato procedure del genere e le sarebbe bastato poco per organizzare
l’ospedale per l’accoglienza della paziente. A parte il fatto che mancavano i
suoi medici…
“Manca la brutta.” l’agente
Dereck si intromise nei suoi pensieri.
“Mi dica.”
“Allison Cameron è una delle
dottoresse che si occupavano della paziente giusto? Quella che doveva
contattarmi per parlare dell’anamnesi?”
“Si. Le ho lasciato il suo numero
ore fa, non l’ha contattata?” chiese la Cuddy stupita. Cameron era una delle
persone più efficienti e attenta alle regole dell’ospedale, le sue pecche erano
dovute solo alla vicinanza di House…
“No. Sa dov’è adesso?” chiese
impaziente il poliziotto.
“A casa credo. Oggi non è potuta
passare in ospedale, credo si sentisse poco bene.” mentì lei.
Si accorse che fuori dalla porta,
Wilson le stava facendo dei gesti. Le chiedeva se poteva andare a casa, perché
si sentiva poco bene. Lei annuì distrattamente, aveva altro di cui occuparsi in
quel momento.
“Non è rimasta a casa, dottoressa
Cuddy. Abbiamo trovato la sua automobile a qualche centinaio di metri dal luogo
di ritrovamento della Pivet.”
La Cuddy appoggiò la fronte a una
mano e chiuse gli occhi. Temeva di sentire il resto.
“Ma non c’era traccia di lei
nella vecchia fabbrica dove abbiamo trovato la paziente. I casi sono due: o la
vostra dottoressa è complice della Pivet, o si trovava in quel luogo per qualche
motivo, e in quel caso voglio una spiegazione dettagliata di quello che è
successo oggi, tutti i movimenti di Allison Cameron, e…”
“Cameron non è complice di
nessuno!” lo interruppe la Cuddy, poi abbassò la voce e cercò di spiegare la
situazione all’agente. “Credo che i dottori che avevano in cura la signorina
Pivet siano andati a cercarla, e che probabilmente, a questo punto, l’abbiano
rintracciata. Non avevano idea delle sue attività fuorilegge, così come non ne
avevo idea io.”
“I suoi medici sono andati in
giro a cercare la paziente?! E lei glielo ha permesso?! Le avevo detto di farmi
avere qualunque informazione…” Dereck era arrabbiato.
“Senta, ha perfettamente ragione.
Io non sapevo nulla della loro iniziativa, né delle informazioni che avevano a
disposizione per rintracciare quella donna. Sono ottimi medici, ma hanno qualche
problema di…” non le venivano le parole, era seriamente preoccupata per le
possibili conseguenze che l’ospedale poteva subire a causa di questo casino.
“…disciplina?” Dereck completò la
sua frase.
“Diciamo di si.” disse lei
sospirando.
“Le credo, sono certo che quella
dottoressa non c’entra nulla, ha la fedina penale pulita ed è lontana dai giri
di quella gente. Avrò però bisogno di parlare con lei e con gli altri medici.
Anche con lei, dottoressa. In serata arriverà la signorina Pivet con degli
agenti di scorta. A causa delle strade impraticabili, sarà necessaria ancora
qualche ora. C’è già un medico con lei, comunque.
Domani mi presenterò al Princeton
Plaisboro Teaching Hospital per parlare con tutti voi di persona. Vedete di
farvi trovare. Sono stato chiaro?”
“Si.” rispose la Cuddy.
“Bene, a domani dottoressa.” e
riattaccò.
Cercò di mantenere la calma.
Per prima cosa doveva dare agli
infermieri le istruzioni per l’accoglienza della Pivet e della sua scorta.
Chissà cosa aveva mai fatto
quella donna…
Poi doveva assolutamente
rintracciare House e tutta la sua equipe. Dovevano essere in ospedale nel
momento in cui la paziente sarebbe arrivata e anche l’indomani. Li avrebbe
costretti a rimanere tutta la notte, a costo di chiuderli a chiave nel suo
ufficio e controllarli di persona.
Rincuorata di avere un piano
d’azione, si avviò verso la reception.
30 gennaio, h
17.45
Abitazione di Wilson
Wilson girò nella sua via e,
appena vide in lontananza i colleghi, fermi davanti all’ingresso del suo
palazzo, affrettò il passo.
Le loro condizioni erano davvero
pietose. Tutti e quattro erano completamente bagnati, Cameron aveva i capelli
appiccicati al viso e le labbra blu. L’aspetto degli altri non era migliore.
“Voi siete matti.” disse aprendo
in fretta il portoncino e guardando torvo House. La colpa era, come sempre,
principalmente sua.
Stranamente lui non rispose
nulla, si limitò ad entrare faticosamente nel palazzo. Quei chilometri, per lui,
erano stati molto più faticosi che per gli altri.
L’appartamento che occupava da
solo, ormai da quasi un mese, era al piano terra di quella palazzina. Aprì in
fretta la porta e fece entrare i medici.
“Vi cerco dei vestiti puliti.”
per prima cosa dovevano togliersi di dosso quegli stracci bagnati.
“Grazie mammina.” House ci mise
poco a riprendersi. “Per prima cosa, però, occupati della dottoressa Cameron che
non ha un bell’aspetto…”
Wilson si rivolse a Cameron:
“Vieni con me.” le disse, e la precedette in bagno.
Aprì l’acqua della doccia e prese
un asciugamano.
“Questo è pulito. Fatti una
doccia calda, sei quasi assiderata.”
Lei annuì tremando.
“Non ho vestiti da donna…cerco
qualcosa che ti puoi mettere. Stendi i tuoi abiti sul calorifero intanto, si
asciugheranno in fretta.”
Lei annuì ancora senza dire una
parola.
“Sicura che stai bene? Posso
lasciarti sola o…vuoi una mano?” Wilson era imbarazzato a chiederglielo, ma
l’aspetto di lei era davvero preoccupante.
“No, è ok.” rispose lei con un
filo di voce, dalle labbra tremanti.
“Ok.” disse lui sollevato, e uscì
dalla stanza chiudendo la porta.
Andò in camera da letto e prese
dei maglioni e qualche paio di pantaloni; poi tornò dagli altri tre.
“Cercate qualcosa che vi venga.”
disse, passando i vestiti ai suoi colleghi. “Vado a preparare qualcosa di
caldo.” si allontanò verso la
cucina.
“Ordina delle pizze!” gli urlò
dietro House, poi prese un paio di pantaloni e un maglione e andò a cambiarsi in
camera di Wilson. “Non mi piacciono le occhiate da spogliatoio.” mugugnò agli
altri due, uscendo dalla stanza.
“Se non ci prendiamo una broncopolmonite
questa volta…” bofonchiò Chase, levandosi i vestiti inzuppati.
“Io, appena riesco a trovare un
taxi disposto ad avventurarsi in mezzo alla neve, me ne torno a casa.” disse
Foreman categorico, scegliendo un maglione pesante dal mucchio di abiti.
Wilson mise a bollire dell’acqua
per il tè, poi si avvicinò alla porta del bagno.
Bussò lievemente. “Cameron, tutto
ok?”
Non rispose.
“Allison? Ci sei?”
insistette.
Si sentiva solo lo scrosciare
dell’acqua nella doccia.
Aprì di poco la porta e dette
un’occhiata dentro.
Cameron si era tolta cappotto e
scarpe, ed era raggomitolata per terra, ancora coperta dai suoi abiti
bagnati.
Entrò e si chiuse la porta alle
spalle.
“Stai male?” le chiese apprensivo
avvicinandosi.
“No.” disse lei debolmente “Ho
freddo, e sono stanca.”
“Devi toglierti questa roba, se
no non ti scaldi.”
Lei non rispose, la testa
appoggiata al muro dietro di lei.
“Non ci riesci?” chiese lui
titubante.
“Ho freddo.” riuscì a rispondere
lei in un soffio, ricominciando a tremare.
Wilson si guardò in giro
imbarazzato, non sapeva cosa fare.
“Torno subito.” le disse, e uscì
in fretta dal bagno.
Raggiunse gli altri in salotto,
House si era cambiato. I suoi pantaloni gli stavano un po’ corti e anche il
maglione era piccolo. Era decisamente buffo, ma preferì non commentare.
I tre medici lo guardarono con
l’aria interrogativa.
“Cosa c’è?” gli chiese Chase.
“C’è bisogno di qualcuno che
spogli Cameron.” disse lui in fretta, indicando confusamente la porta del
bagno.
Gli altri tre si guardarono
perplessi.
“Qualcuno deve aiutarla, è
paralizzata dal freddo, credo abbia la pressione sotto le scarpe…” continuò
lui.
House e Chase si guardarono, ma
nessuno si mosse.
“Allora?” disse Wilson.
“E’ una delle scene più patetiche
che abbia mai visto.” disse House muovendosi verso la porta.
Suonarono alla porta.
“Le pizze!” esclamò Foreman,
aprendola.
“Non le ho ordinat…” tentò di
dire Wilson, ma si bloccò quando si trovò davanti la Cuddy, visibilmente
irritata.
“Io vado da Cameron!” disse in
fretta Chase, superando House, entrando in bagno e chiudendosi la porta alle
spalle.
La Cuddy entrò in casa e si
chiuse lentamente la porta alle spalle, senza staccare gli occhi da House.
“Questa volta ti licenzio…” disse
minacciosa. “Sei un…” quando era molto arrabbiata faceva fatica a trovare le
parole, cosa che House sapeva e di cui si approfittò immediatamente.
“Raggio di sole!” le disse
andandole incontro sorridente.
“Non ci provare! E trova dei
vestiti della tua taglia.” gli rispose lei acida, spostandosi verso Wilson.
“Cosa state combinando? Siamo
nella merda, lo sapete? Domani verrà la polizia, vogliono interrogarci. Questa
volta non ve la faccio passare liscia. Tu devi controllarlo!” disse a Wilson,
indicando House. “Non devi parargli il culo quando fa le sue pazzie!”
“Mamma, papà, non litigate!” si
intromise House, piagnucolante.
Foreman si lasciò cadere sul
divano, coprendosi il viso con le mani. “Sono tutti pazzi…” disse tra sé e sé.
Nel frattempo Chase era entrato
in bagno e si era avvicinato a Cameron, che non aveva neanche aperto gli
occhi.
“Ti do una mano.” le disse,
incominciando a sfilarle il maglione.
Lei lo lasciò fare.
“Ehi, ci sei?” gli sembrava poco
presente.
“Sono stanchissima Chase, ho la
pressione bassa e”
“Ok, ok, non parlare.” le scostò
i capelli appiccicati al viso e la guardò per qualche secondo.
Era bellissima. Probabilmente non
ne era innamorato, ma sarebbe rimasto a guardarla così per ore.
Era…bellissima, l’unica parola
che gli veniva.
Glielo disse.
“Chase, non è il momento…”
ribattè lei.
“Lo so, scusa. E’ che…”
incominciò a sbottonarle la camicia. “…posso?” si fermò un attimo.
“Si, toglimi questa roba gelida,
e in fretta.” la voce di Cameron era debolissima.
“Avrei preferito sentirmi dire
queste cose da te in un altro momento…” scherzò lui.
“Non è divertente, sto
congelando.”
“Scusa.”
Le tolse la camicetta.
La porta si aprì ed entrò la
Cuddy.
“Fuori di qui.” disse sgarbata a
Chasse “L’aiuto io.”
Conoscendola, decise di ubbidire
senza opporsi.
“Ok…” si alzò e lasciò la
stanza.
La Cuddy aiutò Cameron a
spogliarsi e ad entrare in doccia.
“Non ho chiamato il poliziotto.”
accennò lei.
“Dopo ne parliamo, ora cerca di
riprenderti.” la interruppe cercando di apparire dura. In quel momento però,
Allison le faceva solo tenerezza.
Sapeva cosa significava provare
quell’adorazione per House, e non riusciva rimproverarle il suo seguirlo senza
riserva.
“Resti qui ancora qualche minuto?
Non sto ancora molto bene.” le chiese Cameron prima di entrare in doccia.
“Va bene.” Rispose la Cuddy,
prendendo i suoi abiti fradici e sistemandoli sul calorifero.
Nell’altra stanza, nel frattempo,
i quattro uomini stavano cercando di tranquillizzarsi.
L’arrivo improvviso della Cuddy
aveva destabilizzato un po’ tutti, e c’era un clima di nervosismo.
“Questa volta passeremo dei guai
seri.” disse Foreman con voce grave. “E’ incazzata come una iena, domani verrà
la polizia, e dobbiamo avere anche la lucidità di occuparci della paziente.”
“La Cuddy è l’ultimo dei nostri
problemi.” disse House. “Intendo di noi tre.” continuò rivolto a Wilson. “Nel
tuo caso, è diverso.”
“Grazie.” disse il suo
amico, con un sorriso forzato.
“Perché?” chiese Chase
rivolgendosi all’oncologo.
“Lascia perdere.”
rispose lui.
Suonò il cellulare
della Cuddy.
I
quattro medici si guardarono.
“Che
facciamo?” chiese Foreman.
House prese il
telefono. “E’ l’ospedale.” disse passandolo a Wilson.
Rispose, allontanandosi
dal gruppo.
Dopo
pochi secondi ritornò.
“Hanno chiamato per avvisare che
tra meno di un’ora la paziente sarà in ospedale. Dobbiamo tornare lì, e in
fretta.”
Si sentì fischiare il bollitore
dell’acqua.
“Neanche il tempo per un tè?”
chiese House.
Tutti e quattro si alzarono
contemporaneamente e si diressero in cucina.
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
CAPITOLO 6
30 gennaio, h
18.30
Abitazione di
Wilson
Wilson bevve il suo tè, poi andò
a controllare come stava Cameron.
Bussò alla porta del bagno, che
si aprì leggermente.
La Cuddy avvicinò il viso allo
spiraglio della porta, Wilson, dall’altra parte, fece altrettanto.
“Cosa c’è?” chiese lei, ancora
stizzita.
“Come sta?” volle sapere
Wilson.
“Meglio.” si limitò a rispondere
lei.
I loro visi erano a pochi
centimetri di distanza. Wilson abbassò lo sguardo sulle labbra della donna,
involontariamente. Appena se ne rese conto, lo riporto ai suoi occhi.
Lei aveva colto questo
riferimento implicito al loro bacio, e le fece piacere. Ma era ancora arrabbiata
con lui, con tutti quanti, quindi cercò di trattenere il sorriso che le saliva
spontaneo alle labbra.
“Gli altri stanno bene?” chiese
lei per rompere quell’imbarazzante silenzio.
“Si, solo un po’ infreddoliti.
Ascolta, ha chiamato l’ospedale. Tra poco arriverà la Pivet, bisogna tornare
indietro.”
La Cuddy si guardò l’orologio al
polso. “E’ presto, Dereck mi ha detto che ci avrebbe messo qualche ora.”
“Da quello che ho capito, la
bufera si è calmata, e la stanno portando in elicottero.”
La Cuddy si voltò verso Cameron,
avvolta nell’asciugamano: sembrava stare meglio, ma non se la sentiva di farla
tornare subito a lavoro.
“Va bene.” disse a Wilson. “Per
favore, prendimi qualcosa di caldo da far mettere a Cameron, è meglio che si
metta un po’ a letto, è molto debole. Puoi ospitarla per qualche ora?”
“Certo.” rispose lui.
“Bene.” disse lei chiudendo la
porta.
“Noi torniamo in ospedale, tu
resti qui.” disse, rivolta a Cameron.
“Ce la faccio a tornare…” tentò
di opporsi lei.
“No.” la bloccò la Cuddy decisa.
“Domani avrai una giornata molto intensa, ti voglio al massimo della lucidità.
Resterai qui qualche ora a riposarti, poi ci raggiungerete in ospedale.”
“Raggiungerete?” chiese
Cameron.
“Si, House resta qui con te. Non
posso farvi entrare in ospedale conciati così…” disse indicando gli abiti di
Cameron, ancora inzuppati, appesi alla rinfusa al calorifero.
“Chase e Foreman si occuperanno
di fare tutti gli esami alla Pivet, e quando li raggiungerete ragionerete
insieme sul da farsi.” il tono della Cuddy non ammetteva replica.
Wilson bussò alla porta, e passò
dei vestiti alla Cuddy: “Provate con questi, a me stanno piccoli.”
“Ce la fai a vestirti, Allison?”
chiese alla dottoressa, facendo per uscire.
Lei annuì e la Cuddy raggiunse
gli altri in cucina.
“Tu e Cameron restate qui.” disse
ad House, che aveva chiuso gli occhi e sembrava stesse dormendo, appoggiato alla
sedia.
“Perché?” chiese lui, confuso dal
sonno.
“Lei deve riposarsi, e tu sono
due notti che passi in ospedale. Devi dormire qualche ora, non saranno giorni
facili i prossimi. In più…” lo indicò. “…i tuoi vestiti…”
House si guardò i pantaloni. In
effetti, era abbastanza ridicolo.
“Vi lascio qualche ora.
Aspettiamo che si asciughino i vostri vestiti e che riposiate un po’. Noi
pensiamo all’accoglienza della paziente e a tutti gli esami.” continuò rivolta a
Chase e Foreman.
Loro annuirono.
“Bene,andiamo.”
Prese il suo cappotto e li
precedette alla porta d’ingresso.
Prima di uscire, Wilson si voltò
a guardare l’amico e, con un gesto del capo, gli indicò la porta del bagno. “Va
da lei.” gli disse, attento a non farsi udire, soprattutto da Chase.
House si limitò a chiudere gli
occhi e gettare la testa all’indietro.
Quando gli altri furono usciti,
Cameron uscì dal bagno, indossando una tuta un po’ troppo grossa per lei, e un
maglione che le copriva le mani.
Si affacciò in cucina.
“House.” disse a bassa voce.
Lui aprì gli occhi e la squadrò
per qualche secondo: “Come sei sexy…” le disse in tono ironico. “Ti preferivo
con i capelli appiccicati alla faccia e le labbra blu.”
Cameron era stanchissima, non
aveva là forza di continuare quel gioco sadico col suo capo.
“Io vado a sdraiarmi un po’ di
là.” si limitò a dirgli, e andò a coricarsi sul letto di Wilson.
House guardò per qualche secondo
nella direzione in cui lei si era allontanata, poi si alzò e andò a gettarsi sul
divano.
Chiuse gli occhi e si
addormentò.
30 gennaio, h 19.30
Princeton Plaisboro Teaching
Hospital
La paziente arrivò in ospedale
pochi minuti dopo di loro.
Chase e Foreman fecero appena in
tempo ad indossare il camice, e a dare una sbirciata veloce alla sua
cartella.
La Cuddy la fece sistemare in una
camera un po’ lontana dalle altre, così che i poliziotti di guardia non dessero
nell’occhio. Questi si presentarono a lei con poche cerimonie, chiesero dov’era
la macchinetta del caffè, e si sistemarono su due sedie subito fuori dalla
stanza.
“Dobbiamo solo assicurarci che
non lasci l’ospedale.” spiegarono rapidamente alla Cuddy “Non è pericolosa per i
suoi medici.”
“Grazie.” si limitò a rispondere
lei, e andò a parlare col medico che l’aveva accompagnata fin da loro.
Questi le disse solo che la Pivet
aveva un tremito incontrollato ad un braccio, che negli ultimi minuti sembrava
incominciare a prendere anche la gamba dello stesso lato. Tutte cose che la
dottoressa si aspettava.
Riferì a Chase e Foreman, che si
apprestavano a visitare la paziente.
“Dobbiamo assicurarci che non
abbia preso medicinali o altri tipi di sostanze in queste ore. Le facciamo un
po’ di esami per confrontarli con quelli di due giorni fa.” disse Foreman alla
Cuddy. “Il suo disturbo si era aggravato precipitosamente, poi è scomparso, e
ora sembra essere ritornato. Cerchiamo di capire cosa può aver provocato questo
andamento altalenante del sintomo.” Continuò rivolto a Chase, che annuì.
“Bene, fatemi sapere se ci sono
novità.” disse lei ai medici, e tornò nel suo ufficio.
Era stanca, anche lei aveva
passato la notte insonne e, vista la condizione delle strade, era impossibile
tornare a casa.
Doveva preparare tutti i
documenti in loro possesso sulla Pivet, da consegnare l’indomani alla polizia, e
doveva anche preparare un discorso convincente per difendere l’ospedale, House e
la sua equipe.
Decise di occuparsi di queste
cose, e poi di cercare un albergo nelle vicinanze per dormire qualche ora.
Bussarono alla porta.
Wilson le fece un cenno di saluto
ed entrò.
“E’ andato bene il ricovero della
Pivet?” chiese alla dottoressa.
“Si.” rispose lei, sospirando.
“Ora devo prepararmi per domani.”
“Hai tanto da fare?”
“Un po’.” gli rispose. “Ma tu
perché sei tornato? Chase e Foreman si occuperanno della paziente, tu vai pure a
casa.” gli disse, tornando a posare lo sguardo sulle carte.
“E’ la seconda notte che passi
qui.” le disse Wilson, sedendosi su una sedia, dall’altro lato della
scrivania.
“Con questo tempo, non riuscirò a
tornare a casa stasera. Finisco qui, aspetto che Cameron si riprende per
scambiarci due parole, e poi me ne vado in albergo a dormire un po’.” disse lei,
senza alzare gli occhi dai documenti.
Wilson la guardò qualche secondo.
Ne era sempre più affascinato, la voglia di baciarla ancora diventava sempre più
forte.
Lei alzò lo sguardo su di lui.
“Non vai a casa?”
“No. Lasciamo a quei due un po’
di privacy, ho sempre la segreta speranza che Cameron riesca a penetrare un po’
la corazza di House.” le rispose Wilson, sorridendo.
“Forse è l’unica che può
riuscirci…” commentò la Cuddy, restituendogli il sorriso.
“Resto a darti una mano.” disse
lui, prendendo alcuni fogli dalla scrivania. “Così finiamo più in fretta,
raggiungiamo House e Cameron a casa mia, vi mettete d’accordo per domani, e poi
loro possono tornare qui a risolvere il caso di questa strana donna.” continuò
sventolando la cartella della Pivet. “E tu…puoi restare da me a dormire. Se ti
va…” incominciò a scrivere nervosamente qualche appunto sulle carte della
paziente.
“Va bene, grazie.” rispose lei
imbarazzata, dopo qualche secondo di silenzio.
Si guardarono per alcuni
lunghissimi istanti poi, entrambi, abbassarono lo sguardo sui documenti che
avevano davanti e incominciarono a lavorare.
30 gennaio, h
21.15
Abitazione di Wilson
Cameron aprì gli occhi, con una
strana sensazione.
House era seduto sul letto,
accanto a lei.
Piegato su di lei.
Le sue labbra premevano
lievemente sulla sua fronte.
Rimase immobile, ma il suo
respiro incominciò a farsi più veloce.
Lui se ne accorse.
Si staccò da lei, di poco, quel
poco che bastava per guardarla negli occhi.
“Hai la febbre.” le sussurrò,
rimanendo immobile a pochi centimetri dal suo viso.
Cameron era paralizzata dalla
confusione: aveva aperto gli occhi e lui era lì, così vicino a lei. La febbre
doveva essere alta, si sentiva stordita. O forse non era la febbre ma era solo
la vicinanza di House.
Lui, con un movimento
impercettibile, le alzò un po’ il maglione che Wilson le aveva prestato, e fece
scivolare la mano sulla sua pancia.
Il contatto della mano di House
sulla sua pelle, la fece trasalire.
Lui sorrise arrogante, senza
togliere la mano, o spostare il viso dal suo. Sentiva l’alito caldo di Cameron
sulla pelle, percepiva i brividi che le percorrevano la pelle.
“Sei bollente.” le disse, con
quel tono di voce che a Cameron faceva venire la pelle d’oca.
“E’ la febbre.” fu la prima cosa
che le venne in mente, e lo disse con un filo di voce.
“Sicura?” chiese lui
malizioso.
La stava prendendo in giro, si
divertiva ancora a provocarla, era sicura fosse così. Ma era stanca, aveva la
febbre, non aveva la forza di arrabbiarsi.
Dolcemente, fece passare una mano
dietro alla nuca di House, e lo avvicinò a sé, di quel poco che bastava a far
incontrare le loro labbra.
Quando ci fu il lieve contatto
fra le loro bocche, la mano di House, dalla sua pancia, si spostò lentamente,
attorno alla sua vita e la strinse a sé.
Il cuore di Cameron batteva
rapidissimo, non riusciva a rendersi conto di quello che accadeva, la febbre le
annebbiava il cervello.
Continuò a tenerlo su di sé e,
finalmente, dopo qualche secondo in cui entrambi sembravano troppo stupiti dal
contatto tra le loro labbra per agire, le loro lingue si incontrarono.
Fu un bacio lungo e tenero, poi
House si alzò a sedere bruscamente.
“Hai la febbre.” le disse
confuso, ritirando la mano da lei, come se la sua pelle scottasse tanto da
fargli male. Indugiò qualche istante, sfiorandola con i polpastrelli. Poi
interruppe quel contatto e la ricoprì col maglione che aveva scostato.
“Hai paura che te l’attacchi?”
disse lei sorridendogli dolcemente.
“Devi prendere qualcosa.” disse
lui serio, alzandosi e andando verso il bagno.
Cameron temeva una reazione del
genere in House.
Chiuse gli occhi qualche secondo
e cercò di riprendersi.
Si alzò a sedere sul letto e si
guardò nello specchio davanti a lei: i suoi occhi erano lucidi, la pelle rossa.
La febbre doveva essere alta.
Tornò con una scatola di pillole
e un bicchiere d’acqua.
Senza avvicinarsi le lanciò la
scatola, che lei prese al volo. Appoggiò il bicchiere d’acqua sul comodino.
“I miei vestiti si sono
asciugati.” le disse, parlandole dall’altra stanza. “Torno in ospedale. Se stai
male chiama l’australiano, che corre più veloce di me.”
Tentò di ignorare il doppio senso
di quella frase e di concentrarsi su quello che stava succedendo. Era sconvolta,
non riusciva a spiegarsi quell’improvviso cambiamento di House.
Meccanicamente, prese due pillole
e le ingoiò con un po’ d’acqua.
“House?” lo chiamò.
Lui si affacciò alla porta.
“Tranquilla, non ti denuncio per molestie!” le disse “A meno che non tenterai di
fermarmi mentre scappo da qui.” continuò, indossando il cappotto in fretta.
“Sei impazzito?” gli domandò lei,
incredula, con un filo di voce.
“No. La mia gamba è pazza, ma non
quanto i tuoi ormoni.” si mise il basco e lasciò rapidamente casa di Wilson.
Cameron si alzò lentamente,
reggendosi alla parete. Si sentiva debole, ma l’incredulità stava facendo posto
alla rabbia, e questo le dette la forza di raggiungere il bagno e mettersi i
suoi vestiti, ormai asciutti.
Andò in cucina e aprì il
frigorifero per cercare qualcosa da mangiare.
Trovò qualcosa che assomigliava a
una mousse al cioccolato. Bomba calorica, ma erano ore che non mangiava e voleva
evitare di svenire lungo la strada per il Plainsboro.
Si sedette al tavolo a
mangiare.
Dopo pochi minuti sentì aprirsi
la porta d’ingresso.
“Cameron? House? Disturbiamo…?”
disse Wilson titubante.
“Sono qui.” rispose Cameron,
alzandosi. “Scusa se ho preso qualcosa da mangiare, ma mi sentivo svenire.”
“Hai fatto bene.” rispose
l’oncologo.
“Dov’è House?” chiese la Cuddy,
spuntando dietro di lui, mentre si toglieva il cappotto.
“Ehm…” Cameron si sentì
improvvisamente a disagio. “…è andato via. Credo stia tornando in ospedale.”
“Tu non ti senti ancora bene?” le
chiese la Cuddy avvicinandosi a lei e posandole una mano sulla fronte. “Hai la
febbre.”
“Si, ma ho preso qualcosa e ora
sto meglio. Tra poco mi passerà. Raggiungo gli altri in ospedale, possiamo
parlare domani mattina per la deposizione alla polizia.” disse Cameron,
prendendo il suo cappotto.
Si aspettava che la
costringessero a rimanere ancora a casa, ma in risposta ebbe solo un imbarazzato
silenzio.
Guardò Wilson e la Cuddy e le
venne da sorridere.
Riconosceva quel tipo di
imbarazzo, quell’imbarazzo che ultimamente sentiva spesso nell’aria quando loro
due erano assieme.
“Io vado.” disse, non riuscendo
questa volta a trattenere un sorriso.
La Cuddy abbassò lo sguardo, e fu
la prima volta che Cameron glielo vide fare.
Si sentì intenerita da loro, ma
nello stesso tempo le venne un po’ di tristezza per se stessa.
Cercò di non pensarci, doveva
concentrarsi sulla paziente ora.
Si chiuse la porta alle spalle e,
rabbrividendo, si buttò per l’ennesima volta, quel giorno, nel gelo del mondo
attorno a lei.
30 gennaio, h 22.00
Princeton Plaisboro Teaching
Hospital
House arrivò come un tornado nel
suo ufficio.
Lanciò il bastone a Foreman, che
lo prese poco prima che gli finisse in faccia, e incominciò a togliersi il
cappotto.
“Allora, voglio un riassunto di
tutto quello che avete scoperto da quando la Pivet è tornata tra noi.”
“Gli esami…” incominciò
Chase.
“No, non tu. Sono già abbastanza
nervoso, vai a prepararmi un caffè.” lo interruppe House sprezzante.
Chase non si mosse.
“Mi hai sentito? Sono il tuo capo
e voglio un caffè, vai a prepararmelo.” urlò quasi lui.
Chase rimase spiazzato
dall’aggressività del suo capo, e andò a preparare il caffè senza dire una
parola, e odiandosi per questo.
“House, ti sembra il caso di
trattarlo così?” si intromise Foreman.
“Dimmi della paziente.” lo ignorò
lui.
“La devi finire di umiliarlo, non
hai nessun diritto di…” insistette il neurologo.
“Pensa ai tuoi di diritti,
Mandela, o qui torniamo all’apartheid. Dimmi della paziente.” House lo
interruppe ancora con durezza.
Anche Foreman decise che era il
caso di fare come diceva lui, quando era fuori di sé non c’era verso di
ragionarci.
Sospirò e, ripassando il bastone
al suo capo, disse: “Niente di nuovo, tranne che ha ingerito della placenta.
Sembra che questo non abbia avuto nessuna conseguenza sul suo organismo. Il
disturbo, a quanto dice lei, era completamente scomparso. Da qualche ora però è
ricominciato il tremore, in modo graduale com’era iniziato la prima volta: mano,
braccio, piede, gamba. Siamo fermi qui per ora.”
“Perché è stata arrestata?”
chiese House.
“Non lo so, parla a fatica.”
rispose Foreman.
Arrivò Chase, che passò
riluttante la tazza di caffè ad House.
“Fai un sorso tu, prima.” disse
lui, ripassandoglielo.
“Perché? Hai paura che ti
avveleni?” chiese Chase, sarcastico, facendo un sorso dalla tazza e
porgendogliela ancora. “Sei paranoico, e forse non hai tutti i torti ad
esserlo.”
House lo guardò con espressione
stupita. “Era una minaccia?!” chiese incredulo e divertito.
“Insomma…tu mi odi, Cameron mi
ama. Come faccio a sapere se sono buono o cattivo?!” lo prese in giro House.
“Foreman, tu?” chiese rivolgendosi al neurologo.
“Io…ho scoperto che la Pivet ha
avuto una gravidanza!” tentò di cambiare discorso, e fortunatamente riuscì nel
suo intento.
House rifletté per qualche
secondo, poi uscì dal suo ufficio.
“Dove vai?” chiese Foreman,
rincorrendolo.
“Devo parlare con quella donna.”
rispose lui, senza fermarsi.
Aveva lasciato il suo caffè sul
tavolo. Chase si avvicinò, prese la tazza e finì di berlo.
Poi, con apparente tranquillità,
scagliò la tazza contro il muro. I cocci schizzarono ovunque.
“Ma sei impazzito?!” lo aggredì
Foreman, controllando, poi, che
House non avesse sentito quel trambusto.
Chase lo guardò e, senza dire una
parola, lasciò la stanza.
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
CAPITOLO 7
30 gennaio, h
22.15
Princeton Plaisboro Teaching
Hospital
Cameron camminava con passo
veloce, le braccia conserte per proteggersi dal freddo. La febbre la indeboliva,
flash di immagini di House che la baciava, dei suoi occhi così vicini e del
calore della sua pelle la stordivano. Provava gioia, mista a qualcosa che
assomigliava alla paura.
Poi era arrabbiata, per come
l’aveva trattata dopo quel bacio, per come se n’era andato lasciandola così…
Tutte emozioni forti, che la
turbavano.
Svoltò nella via dell’ospedale, e
vide il grosso edificio in lontananza.
Finalmente era arrivata.
Ormai le strade erano
praticabili, avrebbe dovuto chiamare un taxi.
Quel tratto di strada percorso a
piedi, però, le aveva permesso di scaricare un po’ di tensione.
Entrò al Plaisboro, accolta dal
tepore e dalla familiarità di quel luogo.
Era il suo posto di lavoro ma a
volte lo preferiva a casa sua: lì c’era sempre qualcuno con cui scambiare anche
solo qualche frase di circostanza, c’erano delle voci da sentire, dei gesti da
cogliere.
Case sua ,a volte, era così vuota
che la spaventava.
Ad un certo punto vide arrivare
Chase verso di lei, o almeno così sembrava. In realtà la superò, non guardandola
neanche.
“Ehi! Dove vai?” chiese al
collega.
“Me ne vado a casa.” rispose lui,
senza voltarsi. Uscì dalla porta da cui lei era appena entrata.
Cameron si chiese se era
veramente lei la causa degli strani atteggiamenti di Chase dell’ultimo
periodo…le sembrò improbabile, probabilmente c’era dell’altro.
Prese l’ascensore e si diresse
nella camera dove pensava di trovare la Pivet: era già capitato che un paziente
di House avesse una scorta a seguito, e la Cuddy aveva predisposto una camera un
po’ isolata adatta per occasioni di questo tipo.
Infatti vide due uomini fuori
dalla stanza, con caffè in una mano e giornale nell’altra: inconfondibili.
“Ha bisogno, signorina?” le
chiese uno di loro vedendola avvicinarsi.
“Sono uno dei medici che ha in
cura la signorina Pivet.” rispose.
“Il suo nome?” chiese lo stesso
uomo, prendendo una foglio dalla tasca. Era una cosa seria, avevano anche una
lista delle persone che potevano avvicinarsi alla donna.
“Allison Cameron.”
“Bene, può entrare. Con quel
visino, l’avrei però fatta entrare anche solo in cambio di un sorriso…” disse
languido il poliziotto.
Era abituata a questo genere di
commenti, ma non era di umore adatto.
Non lo degnò neanche di uno
sguardo e fece per entrare nella stanza.
Stava appoggiando la mano sulla
maniglia, quando qualcuno, dall’altra parte, la precedette.
Si trovò di fronte House.
“Cosa ci fai qui?” le chiese
sgarbato, impedendole di entrare.
“Sono venuta a vedere come sta la
paziente…” rispose lei indecisa.
“Sta bene. E’ qui perché le piace
l’arredamento. Vieni.” si chiuse la porta alle spalle e fece gesto a Cameron di
seguirlo.
Percorsero i metri di corridoio
che separava la stanza della Pivet alla sala equipe in imbarazzante
silenzio.
Con sollievo di entrambi, in
ufficio trovarono Foreman, che stava aggiornando la lavagna.
“Fermo!” urlò House appena lo
vide.
Foreman si spaventò e si voltò
guardandolo incredulo.
“Dammi quel pennarello.” glielo
tolse bruscamente dalla mano. “Questa” disse indicando la lavagna “è mia! Ok?”
Foreman annuì con gli occhi
sgranati, poi si avvicinò a Cameron “Ma che hai fatto a questi due?” le sussurrò
con un sorriso malizioso.
Cameron fece finta di non
sentire, scossa dall’aggressività di House.
“Allora. Il ciclo dei sintomi si
sta ripetendo.” disse House, tracciando un cerchio col pennarello. “Se è
identico, tra un po’ si ripresenterà la paralisi.”
I due annuirono.
“Foreman, racconta un po’ alla
nostra piccola fiammiferaia cosa sappiamo di nuovo sulla Pivet.”
Foreman si voltò verso Cameron
“Mi ha detto di avere avuto una gravidanza, parlava confusamente di un figlio
che la deve proteggere. Non so se la storia del figlio è reale, è molto confusa
e fa fatica a parlare. Ho fatto dei controlli però, e la gravidanza c’è stata
veramente.”
“Bene.” si inserì House “Ha
parlato con me e posso confermare la mia tesi che terrorizzando un paziente, si
ottengono un sacco di informazioni interessanti. Ha avuto la gravidanza 12 anni
fa. Dice di avere un figlio, di 12 anni appunto, in circolazione: in giro, in
strada. Mi ha raccontato una storia commuovente sul perché l’ha abbandonato
eccetera eccetera, ma le ho detto di risparmiarsi le lacrime per te, che ci godi
un sacco.” concluse sorridendo sarcastico a Cameron.
“Quindi ha un figlio di 12 anni?”
chiese Foreman.
“Si, e vi dirò di più. La Pivet è
disperata perché…” alzò gli occhi al soffitto, cercando di ricordare il nome del
bambino. Ovviamente non ci riuscì. “…il ragazzo, udite udite…”
Cameron e Foreman lo guardavano
sulle spine.
“…ma dov’è il terzo
moschettiere?” chiese improvvisamente House, guardandosi attorno.
“Ehm…” iniziò Foreman.
“L’ho visto che usciva
dall’ospedale, ha detto che andava a prendere un po’ d’aria.” mentì Cameron, ma
solo in parte…
House scosse la testa,
visibilmente irritato.
“Il ragazzo ha un braccio
paralizzato.” disse poi.
“Chi? Il figlio della Pivet?”
chiese Foreman.
“No, il mio!” rispose ironico
House.
“E tu le credi?” gli chiese
Cameron.
“Si, ma non vi spiego perché,
occuperei i vostri cervellini con troppe informazioni. Mettiamo che il figlio
della Pivet ha lo stesso disturbo della madre. Quindi?”
Cameron e Foreman incominciarono
a elencare una serie di ipotesi sulla malattia che poteva aver colpito la Pivet
e suo figlio.
“Se avessimo qui il ragazzo
sarebbe tutto più semplice.”disse Foreman ad un certo punto “Magari il suo
disturbo non ha nulla a che fare con quello della paziente! Rischiamo di
allontanarci dalla soluzione se seguiamo le tracce sbagliate!”
“Bravo Watson!” esclamò House. “Lo
sapevo che ci saresti arrivato da solo...”
“No House, non pensare di
mandarmi ancora dall’altra parte della città!”
“Non ora.” disse lui
rabbuiandosi. “Sarebbe impossibile. Domani.”
Posò il pennarello.
“Andate a casa. Riprendiamo
domattina.” disse.
Foreman, scocciato, si mise il
cappotto e si diresse verso la porta. “Foreman” lo fermò House “non dire a
Wilson che ti ho chiamato Watson. Sai com’è…è un nomignolo che di solito dedico
a lui, potrebbe ingelosirsi.” Foreman annuì sconsolato, fece un cenno di saluto,
e se ne andò.
“E tu?” chiese House a Cameron,
che non si era mossa.
“Ci siamo baciati.” disse lei,
serena.
“Si, c’ero anch’io.” rispose
lui.
Lei gli sorrise.
“Cosa significa per te?” provò a
chiedergli lei.
“Che ci siamo baciati.” rispose
House, dandole le spalle e mettendosi il cappotto.
“House…”
Si voltò e la guardò per qualche
istante. “Non lo so.” le disse, e lasciò la stanza.
Cameron sospirò.
Pensava che dopo quel bacio che
aveva tanto desiderato, tutto sarebbe stato più semplice, più chiaro.
Si sbagliava.
30 gennaio, h
21.20
Abitazione di Wilson
Appena Cameron lasciò la casa di
Wilson, un silenzio imbarazzante cadde su di loro.
“Vuoi…qualcosa da bere?” le
chiese Wilson esitante.
La Cuddy annuì, sollevata per il
fatto che avesse rotto il silenzio.
“Vino va bene?” le chiese
mostrandogli una bottiglia di rosso.
“Mi vuoi far ubriacare?” rispose
lei, fingendosi offesa.
La cosa triste per Wilson, fu che
aveva pensato seriamente di ubriacarsi: non si era mai sentito tanto impacciato
con una donna e aveva bisogno di qualcosa che lo rendesse un po’ meno
inibito.
Sentì ancora quell’irrefrenabile
voglia di parlarle di quello che era successo tra loro.
“Lisa, per quel bacio…” le disse,
porgendole il bicchiere.
“Wilson…” lo interruppe lei.
Posò il bicchiere sul tavolo
dietro e lo guardò negli occhi. “Non dobbiamo parlarne se è imbarazzante.”
continuò la Cuddy, sorridendogli.
“No, bhe…” Wilson si interruppe,
capendo cosa intendeva dire lei con quella frase.
Le restituì il sorriso,
avvicinandosi.
La strinse forte a sé e la
baciò.
Fu un bacio lungo e intenso, che
riuscì a cancellare quell’imbarazzo che li divideva e fece capire ad entrambi
che, questa volta, l’unione delle loro labbra sarebbe stato soltanto l’inizio di
una lunga notte.
31 gennaio, h
7.15
Abitazione di Wilson
Suonò la sveglia.
Wilson aprì subito gli occhi,
allungò una mano per spegnerla e si sedette sul letto, pronto per iniziare la
sua giornata.
Si accorse che era nudo, e che
non era solo.
Si voltò e la guardò: vederla
dormire, vederla indifesa, lei che combatteva ogni giorno per portare avanti, da
donna, un ospedale, e una vita…
Le fece tenerezza.
Ma era confuso, cosa avrebbero
fatto adesso?
La Cuddy aprì gli occhi,
trovandolo che la fissava.
“Buongiorno.” gli disse,
sorridendo imbarazzata.
“Ciao.” non smise di
guardarla.
“Tutto bene?” gli chiese lei.
Lui annuì. “Dobbiamo alzarci, o
arriveremo tardi.” le disse.
“Va bene.” si tirò su, sedendosi
sul letto. Nel far ciò cercò di coprirsi goffamente con il lenzuolo, cercando di
nascondere almeno in parte la sua nudità.
“Scusa, ti lascio preparare.”
disse Wilson, ridestandosi improvvisamente e rendendosi conto che forse voleva
un po’ di privacy. Si mise in fretta i boxer e un paio di pantaloni, e uscì
dalla camera da letto.
“Non è tua moglie…” disse a se
stesso, dirigendosi verso la cucina.
La bottiglia di vino era lì,
completamente vuota.
Si rese conto che era
stanchissimo.
Era stata una notte lunga:
avevano bevuto, scherzato tanto e fatto l’amore diverse volte.
Si rese conto che era da tanto
che non si trovava così bene con una donna.
Ma era il suo capo…era la
Cuddy!
Cercando a non perdersi nella
confusione dei suoi pensieri, preparò il caffè.
La sentì entrare in bagno e
aprire la doccia.
Per una frazione di secondo pensò
di raggiungerla, poi ricordò la sua espressione di qualche minuto prima, e
decise di lasciarla un po’ sola.
Arrivò alcuni minuti dopo,
vestita e truccata di tutto punto, pronta per andare a lavorare.
“Wow, che velocità! Ho preparato
il caffè.” le disse Wilson.
“Grazie.” prese la tazza dalle
sue mani e incominciò a bere.
“Puoi sederti…” le disse lui,
indicandole il tavolo.
“No, grazie. Forse è meglio che
io incominci ad andare in ospedale. Devo sistemare ancora qualcosa per Dereck, e
devo parlare con Cameron.” rispose la Cuddy, sempre più imbarazzata.
“Va bene.” disse Wilson, cercando
di essere comprensivo per tranquillizzarla.
Posò la tazza sul tavolo, andò a
cercare il suo cappotto e tornò in cucina.
“Ti ho chiamato un taxi, sarà qui
tra pochi minuti.” la precedette lui.
“Grazie…io, incomincio a scendere
allora.”
Wilson era appoggiato al tavolo,
a torso nudo, a braccia conserte; la osservava incuriosito, cercando di capire
cosa le passasse per la testa.
“Ok, a dopo.” le rispose.
Lei sorrise e si voltò per
andarsene.
“Lisa.” Wilson la chiamò e lei si
girò ancora verso di lui, con aria interrogativa.
“Niente…ci vediamo tra un po’.”
disse lui infine, voltandosi per prendere il suo caffè.
“Ciao.” rispose lei, e poi
uscì.
31 gennaio, h 8.00
Princeton Plaisboro Teaching
Hospital
Cameron entrò in ospedale, e andò
diretta nell’ufficio della Cuddy.
Le persiane erano chiuse.
“Strano.” pensò.
Bussò.
La Cuddy le aprì la porta.
Il suo aspetto non era dei
migliori.
“Ciao.” la accolse, facendole
gesto di sedersi.
“Tutto bene? Ti vedo un po’
sbattuta…” le disse Cameron.
Poi si ricordò della sera
precedente, e le venne da ridere; si trattene a stento.
“Scusa, intendevo dire…” provò a
rimediare.
“Lascia stare.” rispose lei,
facendo capire che l’argomento era chiuso. “Allora, l’agente Dereck mi ha
avvisato che arriverà in tarda mattinata. Se ci va bene chiederà di parlare solo
con te e me, se va male vorrà parlare anche con House. Voglio essere ottimista
perché non ho la forza passare la mattinata dietro ad House per convincerlo a
dire e fare le cose che voglio io, quindi…” sembrò perdere il filo del discorso.
“…scusa…cosa stavo dicendo?” chiese a Cameron.
“Che speri chieda di parlare solo
con noi due.” rispose lei, guardandola perplessa.
“Si, ecco. Quindi…” incominciò a
frugare in mezzo a delle carte sparse sul suo tavolo.
Cameron la guardava sempre più
perplessa, non l’aveva mai vista così confusionaria.
“Ma dov’è?” la Cuddy continuava a
cercare. “Ecco!” esclamò ad un tratto, con un’enfasi esagerata per la
situazione.
Passò il foglio a Cameron. “Ti ho
scritto quello che assolutamente non devi dire. Tienilo pure e imparalo a
memoria.”
“Grazie…” lo piegò per metterselo
in tasca.
“No!” la fermò la Cuddy “Tienilo
fuori. Ora simuliamo il colloquio con il poliziotto, e tieni il foglio a portata
di mano. Dopo proviamo senza.”
Cameron la guardava con gli occhi
sbarrati. “Stai scherzando…”
“No, perché?” chiese la Cuddy,
realmente sorpresa.
“Non siamo mica a scuola. Non c’è
bisogno che mi fai l’interrogazione di prova.”
“Cameron, questa faccenda è
seria. Se dici qualche cazzata, andiamo tutti nella merda. Chiaro?” ribattè lei,
guardandola negli occhi.
“Chiaro.” rispose Cameron,
rassegnata.
“Bene, partiamo. Dov’eri ieri
notte, verso le 4?” le chiese la Cuddy.
“A casa a dormire.”
“C’è qualcuno che può provarlo?”
continuò la Cuddy.
“Ma che domanda è?! Non sono mica
accusata di averla fatta scappare, dobbiamo parlare della paziente, non di me!”
rispose Cameron risentita.
“Hanno trovato la tua macchina
abbandonata nello stesso luogo dov’era la Pivet, non escludo che ti facciano
domande di questo tipo. Quindi, per favore, rispondi e basta.” la Cuddy cercava
di stare concentrata sulla discussione, ma i suoi gesti facevano intendere che
era agitata per qualcosa.
“No, vivo sola, non c’è nessuno
che può provare che a quell’ora ero nel mio letto.” Rispose Cameron
controvoglia. “Sicura di stare bene?”
“Si. La mattina sei arrivata a
lavoro e…?” la Cuddy respinse ancora la sua domanda, infastidita, e continuò con
l’interrogatorio.
“…e ho incontrato te
all’ingresso, che mi hai detto che la paziente…” Cameron incominciò a raccontare
la sua giornata, omettendo qualche particolare qui e là.
La Cuddy la ascoltava e
interrompeva se qualcosa non la convinceva, ma Cameron continuava a credere che
i suoi erano solo tentativi di mantenere i suoi pensieri lì, e di non farli
volare alla notte precedente. Per lei la situazione non era molto diversa.
31 gennaio, h
8.30
Ufficio di Wilson
Wilson aprì la porta del suo
ufficio ed entrò.
Notò subito che c’era qualcuno ad
aspettarlo: ne fu contento.
“Buongiorno.” gli disse
House.
“Buongiorno.” rispose Wilson,
tirando giù i piedi dell’amico dalla sua scrivania.
“Non sei stupito di trovarmi
qui?” chiese House, contrariato perché si aspettava una reazione diversa
dall’oncologo.
“No. Sono solo stupito di averti
trovato sveglio. Hai dormito sulla mia poltrona?” gli chiese distrattamente.
“No! Ho dormito a casa mia.”
rispose House, fingendosi offeso.
“Allora si che sono stupito…che
ci fai già a lavoro? Non hai pagato una prostituta e lei ha occupato casa tua,
sbattendoti fuori?” chiese, sedendosi dall’altra parte della scrivania.
“Quel genere di battute vengono
bene solo a me, lascia perdere.” ribatte House “Tu piuttosto…” piegò la testa di
lato, studiandolo attentamente.
“Io cosa? La smetti di fissarmi
così?!” incominciò ad irritarsi.
“Sei stato a letto con la Cuddy.”
sentenziò.
“Cosa te lo fa pensare?
Sentiamo…” chiese Wilson provocatorio, ma in realtà contento della perspicacia
di House, che gli permetteva di risparmiarsi l’imbarazzante momento della
confessione.
“Due cose. Uno: stamattina ho
visto la Cuddy ed era vestita come ieri. Quindi ha passato la notte fuori casa.
Visto che le strade ieri sera non erano messe così male, non ha dormito fuori
per necessità, ma per piacere…” rispose House, malizioso.
“Secondo motivo? Il primo non
spiega perché sono coinvolto anch’io.” lo incoraggiò Wilson.
“Secondo: sono le 8.30. Tu non
arriveresti mai in ritardo di mezz’ora a meno che…non fossi sicuro di non
ricevere un cazziatone dal tua capo…e tu sei tranquillo e rilassato. Proprio
perché ora che il tua capo è la tua amante, credi di avere dei privilegi, come
quello di arrivare in ritardo senza essere ammonito. Per la cronaca: ti
sbagli.”
“In che senso?” chiese lui,
stupito dall’ultima frase.
“Nel senso che l’andarci a letto
non ti porterà ad avere delle riduzioni sull’orario di lavoro.”
“Quello l’avevo capito. Quello
che non capisco è perché me lo dici con tanta sicurezza.” Wilson lo guardava con
sospetto.
“Allora ci sei stato a letto o
no?” gli chiese House, sporgendosi verso di lui.
“Sei convinto di avere ragione
come sempre, la mia risposta non cambierà nulla. Hai eluso la mia domanda.”
rispose Wilson, appoggiando i gomiti sulla scrivania come aveva fatto il suo
amico.
“Tu hai eluso la mia. Voglio
sentirtelo dire.” lo sfidò House.
“Lo sai che è successo, perché
devi fare questi giochetti sadici? E comunque voglio una spiegazione per quella
tua frase.” Wilson non demorse.
“Si, sappiamo tutti e due che è
successo, ma voglio che lo dici. E’ importante, capirai perché.” insistette
House.
“Sei un sadico bastardo…” disse
Wilson, abbassando lo sguardo sulla scrivania.
“Forza.” lo incitò House.
Wilson alzò gli occhi al
soffitto, poi guardò fisso l’amico.
“E va bene… Sono stato a letto
con Lisa Cuddy.” continuò a fissare House, che incominciò a sorridere.
“Oh mio dio…House, sono stato a
letto con la Cuddy!” esclamò dopo qualche istante Wilson. Si portò le mani alla
bocca, pensieroso.
House aveva un’espressione
divertita. “Visto? Finché non lo dici ad alta voce è come se non fosse reale…Ora
lo è!” disse soddisfatto. “Almeno tu hai un amico come me che ti dà indicazioni
su cosa fare in questi casi…”
“E’…” Wilson non trovava le
parole, ed era a disagio, ma aveva bisogno di confrontarsi con qualcuno. “E’
stata fantastica! Tutta la notte…”
“Tutta la notte?! Allora potevate
invitarmi, sarei passato con un po’ di popcorn! Sai quanto mi costa un’intera
notte di web-donnine?!” lo interruppe House, alzandosi.
“Che fai? Te ne vai? Che razza di
amico sei?!” anche Wilson si alzò, e gli bloccò la strada. “Ora stai qui e mi
ascolti.” ordinò ad House.
“Ti prego Wilson, ho
un’immaginazione molto fervida, ho appena fatto colazione. La Cuddy nuda posso
reggerla, ma tu e lei assieme…” fece una faccia disgustata.
“Va bene, niente particolari.
Però siediti e ascoltami, sono un po’ confuso.” disse Wilson, spingendolo ancora
verso la sedia.
House si sedette, sospirando.
“Non capisco…” iniziò lui.
“Bla bla bla, va bene Wilson. Non
capisci cosa provi per lei, molto originale. Dai, cerca di stupirmi.” lo
interruppe House, con aria annoiata.
“Stamattina, è stato strano.”
riprovò Wilson.
“Certo! Di solito la vedi in
tailleur quando arrivi in ospedale. L’hai trovata nel tuo letto, nuda, appena è
suonata la sveglia! E’ destabilizzante, ti capisco.” disse House serio.
“Mi capisci?” Wilson tornò a
guardarlo circospetto.
“Già…” rispose House,
distogliendo lo sguardo e grattandosi la barba con fare distratto.“Quando poi,
la mattina, tenta di coprirsi…è una contraddizione alla notte
passata…destrutturate…” guardò l’amico.
Wilson capì che House era a
disagio e un’idea incominciò a farsi strada nella sua testa. Gli vennero in
mente vecchi ricordi…
“House, devi dirmi qualcosa?”
31 gennaio, h
8.40
Ufficio di
Cuddy
Era la seconda volta che la Cuddy le faceva ripetere la sua
“deposizione”. Stava diventando estremamente frustrante: lei cercava di
concludere rapidamente quel siparietto, ma la Cuddy non riusciva a concentrarsi,
era distratta e irrequieta, non riusciva a
seguirla.
“Lisa, cos’hai?” le chiese
improvvisamente Cameron, questa volta in modo abbastanza risoluto da impedirle
di ignorare la domanda.
La Cuddy la guardò,
pensierosa.
“Devo dire una cosa a Wilson…” le
rispose seria.
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
CAPITOLO 8
31 gennaio, h
8.40
Ufficio della
Cuddy
“Devo dire una cosa a Wilson.” le
rispose seria la Cuddy.
“A proposito di ieri notte?”
tentò Cameron.
Lei annuì, persa nei suoi pensieri.
“Se vuoi parlarne…” sapeva che
lei e la Cuddy non erano amiche, ma la vedeva talmente turbata che provò ad
offrirle il suo aiuto.
La Cuddy la fissò qualche
secondo, forse indecisa se accettare quella mano tesa oppure no.
“Scusa Cameron, forse è meglio
che riproviamo il confronto tra un’oretta.” si limitò a dire, congedandola.
“Scusami.” Queste seconde scuse non erano solo per l’interrogatorio, ma anche
per il suo tenerla così a distanza.
Cameron lo capì. “Non ti
preoccupare.” le rispose, alzandosi. “Anche io stamattina non sono tanto lucida.
Prendiamoci il tempo per un altro caffè e poi ci riproviamo.” le sorrise,
comprensiva, e uscì dall’ufficio.
La Cuddy rimase qualche secondo a
riflettere, lo sguardo nel vuoto.
Avrebbe dovuto parlargliene
prima.
Improvvisamente le vennero in
mente le ultime parole di Cameron: “anch’io stamattina non sono tanto
lucida.”
Sarà stato per la febbre?
No, sapeva che non si riferiva a
questo.
Si ricordò la sera prima, quando
aveva ordinato a lei e House di rimanere da Wilson. A riposarsi.
Aveva fatto bene a non parlarne
con Cameron, in quel momento sarebbe stata la persona peggiore con cui avrebbe
potuto confrontarsi.
Lentamente, prese tutti i fogli
che aveva sparsi sulla scrivania e ne fece una pila ordinata.
Guardò l’orologio: sicuramente
era già nel suo ufficio.
Si alzò e lasciò la stanza.
31 gennaio, h
8.40
Ufficio di Wilson
“House, devi dirmi qualcosa?” il
tono di Wilson era cupo.
House si guardò attorno:
l’ufficio di Wilson era ordinato, pulito. Quella perfezione gli diceva tanto sul
suo amico.
“House! Rispondimi.” lo guardava
con un’espressione grave negli occhi, intuendo già cosa lo aspettava.
“Wilson, non fare l’idiota. Hai
capito cosa voglio dirti.” House finse di essere scocciato.
“Si, ma voglio sentirtelo dire.”
lo provocò lui, ormai visibilmente arrabbiato.
House decise di stare al gioco,
sperando che quella conversazione si concludesse il prima possibile.
“Sono stato a letto con Lisa
Cuddy!” esclamò in modo plateale. “Tanti anni fa, un paio di volte. Niente di
serio, quattro salti tra amici. Ciao.” sollevato della confessione, si alzò
ancora, dirigendosi verso la porta.
“Sei un bastardo House, perché
non me l’hai detto?!” Wilson gli bloccò la strada.
“Cosa sei, il mio diario segreto?
Devo tenerti aggiornato su…”
“No.” lo interruppe Wilson. “Sai
benissimo a cosa mi riferisco. Dovevi dirmelo l’altro giorno, quando ti ho
raccontato quello che era successo tra noi!”
“Sei ridicolo.” gli disse House
puntandogli il dito contro “Ora dimmi una cosa: se io te lo avessi raccontato,
sarebbe cambiato qualcosa? Non saresti andata a letto con lei?”
Wilson sembrò sorpreso dalla
domanda, ragionò qualche secondo.
“No, probabilmente non sarebbe
cambiato niente.” disse titubante. “Ma…”
“Ma un corno!” gli tolse la
parola House. “Non sarebbe cambiato nulla e basta. Questa tua scenata è solo il
risultato di un’inutile lotta tra il tuo voler essere moralista e ciò che sei
veramente!”
Wilson stava per ribattere, ma
l’attenzione di entrambi fu attratta dalla porta che si apriva. La Cuddy entrò,
spalancandola.
Appena vide la situazione capì
cosa stava accadendo. Si pentì di non essere rimasta nel suo ufficio a parlare
con Cameron.
“Raggio di sole!” House girò
agilmente attorno a Wilson, prendendolo di sorpresa, e raggiunse la Cuddy.
Le mise una mano dietro la
schiena e incominciò a spingerla verso l’amico. “Che bello averti qui!”
La Cuddy non si aspettava di
trovarli insieme, non sapendo cosa fare si fece trascinare da lui di fronte a
Wilson, che la guardava spaesato.
“Stavo proprio dicendo al nostro
caro amico, che quello che c’è stato tra noi anni fa è stata solo una parentesi
di poca importanza, ormai chiusa e dimenticata.” la incoraggiò House. “Bene! Ora
vi lascio un po’ soli. Ci vediamo più tardi.” si avvicinò alla porta.
“Ero venuta per parlartene.”
disse lei titubante, rivolta a Wilson.
“Cuddy, per favore!” House tornò
verso di loro. “Perché dovete farne una questione di stato? E’ stato solo del
sesso occasionale, senza capo né coda! La volete finire di complicarvi la vita?
Andate a chiudervi in qualche armadio!”
“Ha ragione.” disse la Cuddy
rivolta a Wilson. “Stacy se n’era appena andata, e io stavo passando un brutto
momento. E’ stato solo un piangerci addosso.”
“Detto così…” si intromise House,
ma incontrò lo sguardo di Wilson, e decise di lasciar perdere.
“Va bè…buona continuazione, io
vado. Sono un medico: ho un caso. Fantastico, no?” si chiuse la porta alle
spalle.
Le discussioni nell’ufficio di
Wilson, stavano diventando troppo impegnative per lui.
31 gennaio, h
8.45
Ufficio di House
Entrò nel suo ufficio, Cameron
stava riordinando delle carte.
“Segnati questo appunto e
ricordamelo ogni giorno: stare lontano dall’ufficio di Wilson.” le disse
entrando.
“Non sono la tua segretaria.”
ribatté lei, senza smettere di studiare i fogli che aveva davanti.
House appoggiò il bastone alla
parete e incrociò le braccia, fissandola.
Dopo qualche secondo, sentendosi
osservata, alzò lo sguardo su di lui. “Cosa c’è?” gli chiese, cercando di
ignorare la vampata che l’aveva presa nel momento in cui i loro occhi si erano
incrociati.
“Niente.” rispose il diagnosta,
avvicinandosi alla scrivania e appoggiandovi le mani.
Lei cercò di concentrarsi ancora
sul suo lavoro. House incominciò a tamburellare con le dita sulla superficie del
tavolo.
Cameron non poté fare a meno di
guardare le sue mani. Le venne in mente quando l’avevano stretta la sera prima.
Cercò di scacciare quel pensiero, di rimanere calma.
“Ti rendi conto che non riesci a
starmi vicino senza perdere il controllo?” la istigò House.
Lei alzò ancora lo sguardo su di
lui; rimase senza parole per la sua sfacciataggine.
“Buongiorno; era ora!” l’ingresso
di Foreman fece sobbalzare entrambi. “Abbiamo delle novità sulla paziente.”
“Tu che ci fai qui?” gli chiese
House “Non ti avevo detto di andare a cercare quel ragazzino?”
“Si, ma Chase ha insistito per
andar lui, e allora…” alzò le spalle, in segno di discolpa.
“Quando è iniziata
l’autogestione? Ora vi metterete anche a creare barricate con le barelle e a
cantare inni comunisti?” disse House, rivolto ad entrambi.
Cameron si alzò, avvicinandosi a
Foreman. “Raccontaci della Pivet.”
“Il sintomo si sta comportando in
maniera diversa dall’altra volta.”
Bastò questo ad attirare
l’attenzione di House. “Cioè?” lo incitò questi.
“Cioè il tremore persiste lungo
tutto il lato destro, la paralisi non si è ancora presentata. In più, sembra che
anche il lato sinistro del corpo incominci ad avere spasmi.” disse Foreman.
House si avviò verso la lavagna,
gli altri due lo seguirono.
“Per adesso prendono la gamba. E’
curioso, perché mentre per il lato destro era partito tutto dall’arto superiore,
qui sembra il contrario. In più i disordini motori implicati sono di diverse
specie. Solo tremito, ormai, al lato destro; spasmi alla gamba sinistra.”
continuò Foreman.
“Il mio neurologo riformista cosa
dice?” gli chiese House.
“Dev’essere il cervelletto.”
rispose lui.
“Un’infezione?” ipotizzò
Cameron.
“Con un’infezione al cervelletto
ce la giochiamo in pochi giorni. Non mi piace.” rispose House.
“Non ti piace perché non è una
buona idea o non ti piace perché così la Pivet muore, e tu perdi?” chiese
seccata Cameron.
“Non mi piace perché se la
paziente muore, i poliziotti fanno casino con la Cuddy, che viene a cercare me.
E io ti ho detto che voglio stare lontano da Wilson per un po’.” precisò House,
rivolto a Cameron.
“Mi sono perso qualche
passaggio…” disse Foreman confuso. “Che c’entra Wilson?”
“Lascia stare.” replicarono
insieme House e Cameron.
“Comunque l’infezione al
cervelletto non è così impensabile, anche se intralcia la mia vita privata.”
disse House, riprendendo il filo del discorso. “Fatele una PET-TC e vediamo se
c’è qualcosa di anomalo.”
Foreman annuì e andò a preparare
la donna per gli esami.
Cameron aspettò che uscisse e si
avvicinò ad House, così tanto che lui, preso di sorpresa, indietreggiò di un
passo.
“Ho detto -fatele una PET-TC-,
significa che, a meno che Foreman non racchiuda in sé la trinità, e non credo
perché quello potrei essere solo io, devi andare anche tu.” l’apostrofò
House.
“Mi pare che anche tu non riesca
a mantenere poi tanto il controllo quando mi sei vicino.” disse lei, ignorando
la sua ammonizione, “Visto ieri sera…”
“Sono un uomo.” si limitò a dire
House.
Cameron si sforzò di non perdere
il contatto coi suoi occhi, avvicinandosi a lui ancora di qualche centimetro.
Questa volta House rimase immobile.
“E io sono una donna.” gli
disse.
Lui non reagì in nessun modo.
Rimasero immobili così, a pochi
centimetri l’uno dall’altra.
A Cameron incominciò a girare la
testa, sentì che non avrebbe retto a lungo quello sguardo.
Infatti, dopo alcuni lunghissimi
istanti, si voltò e fece per andarsene.
“Hai visto? Sei tu che non riesci
a starmi vicino senza perdere la testa.” le disse House.
“Sei un bambino House.” gli
rispose infastidita, senza neanche voltarsi, mentre usciva dal suo ufficio.
31 gennaio, h
10.30
Luogo indefinito
Chase era partito prestissimo
quella mattina.
La rabbia che aveva dentro gli
diceva che doveva mollare tutto e starsene a casa, ma Foreman, con una lunga
telefonata, l’aveva fatto ragionare: non poteva perdere il lavoro per un
qualcosa che era solo temporaneo. La cotta per Cameron sarebbe passata e il suo
capo sarebbe tornato ad essere, per lo meno, tollerabile.
Così decise di andare a cercare
il ragazzino al posto di Foreman; questo gli permetteva di fare il suo lavoro,
stando almeno per un giorno lontano dall’ospedale.
Quella mattina aveva conosciuto
diverse persone, ascoltato tante storie tristi, visto parecchi visi magri e
devastati dal tempo, allungato tante banconote e offerto diversi caffè. E non
erano neanche le 11 di mattina.
Era stato faticoso per lui
immergersi, da solo, in quell’ambiente, tra la gente di strada. Ma ci era
riuscito, e aveva raggiunto il suo scopo.
Quel ragazzino, il presunto
figlio della Pivet, era davanti a lui: seduto accanto ad un fuoco, in una
vecchia fabbrica abbandonata, uguale a tutte le altre.
Era da solo, le spalle appoggiate
svogliatamente contro la parete. Leggeva un libro che reggeva con una mano,
l’altra, notò subito Chase, era abbandonata in grembo.
Se non fosse stato per i vestiti,
sporchi e troppo grossi per lui, poteva sembrare un bambino qualunque.
“Ciao” gli disse, non
avvicinandosi troppo per non spaventarlo.
Lui alzò lo sguardo spaventato,
ma sembrò tranquillizzarsi subito appena vide che Chase era da solo e, dal suo
aspetto, non sembrava né un poliziotto né un assistente sociale. Infatti il
medico aveva avuto cura di vestirsi nel modo più informale possibile.
“La conosco?” chiese il
ragazzino.
“No. Mi chiamo Robert Chase, sono
un medico. Posso sedermi?”
“Prego.” rispose il ragazzo,
facendogli spazio accanto a lui.
Il modo di fare educato e formale
del ragazzino, era in contrasto col luogo in cui si trovavano e col suo aspetto.
Tranne gli occhi: erano svegli e intelligenti, grandi ed espressivi. Chase vi
riconobbe subito una forte somiglianza con quelli della Pivet.
“Come ti chiami?” gli chiese.
“Elliot, signore.”
“Bel nome.”
“Grazie, signore.” Elliot lo
guardava, aspettando che Chase gli raccontasse come mai era lì.
“Non chiamarmi signore, non è
necessario.” disse Chase, sorridendo al ragazzo.
“Va bene, sig…” anche Elliot
sorrise. Chiuse il libro e lo posò accanto a sé, poi si rivolse ancora al
medico. “Perché mi ha cercato?”gli chiese.
“Come fai a sapere che ho cercato
proprio te?” gli chiese Chase.
“La voce che qualcuno stava
chiedendo in giro di un ragazzino della mia età, mi è arrivata già un paio d’ore
fa. Sono il più piccolo da queste parti, mi proteggono tutti.” rispose lui,
serio.
“Fanno bene. A 12 anni
bisognerebbe avere una famiglia, una casa, andare a scuola e giocare a football.
Questo non mi sembra l’ambiente adatto ad un ragazzino.” gli disse Chase,
pentendosene subito: non era lì per fare la predica al ragazzo.
“Ho tutto quello di cui ha
parlato, dottor Chase.” rispose tranquillo Elliot, dimostrando di non esserne
infastidito.
Anche se sembrava improbabile,
Chase non riuscì a non credergli. Nei suoi occhi c’era una sincerità che aveva
visto raramente sul viso di qualcun’altro.
“Non sono venuto qui per
criticare il tuo modo di vivere, comunque.” tagliò corto il medico. “Devo
chiederti una cosa.”
Elliot annuì.
“Conosci questa donna?” Chase gli
mostrò la foto della Pivet.
“E’ mia madre.” rispose il
ragazzino, distogliendo subito lo sguardo dalla foto e posandolo su Chase.
Quest’ultimo era disorientato: si aspettava che negasse di conoscerla, o che si
mostrasse sorpreso; che si mettesse a piangere o qualcosa del genere. Invece
rimase impassibile, con la stessa serenità negli occhi di qualche minuto
prima.
“Ma tu…non vivi con lei.” disse
la prima cosa che gli venne in mente.
“No, io sto bene qui.” si limitò
a dire il ragazzo, pacato.
Chase decise di non approfondire
il discorso, era lì per avere delle informazioni sulla salute del figlio della
sua paziente, nient’altro.
“Va bene. Devo dirti una cosa
Elliot: tua mamma è malata. Potrebbe guarire presto, oppure no. Non sappiamo
cos’abbia, stiamo cercando di aiutarla.”
Elliot annuì, per niente sorpreso
da quello che gli stava raccontando.
“Sapevi che stava male?” gli
chiese allora.
“Si.” disse in un soffio, e a
Chase parve di vedere, per una frazione di secondo, un lampo di tristezza negli
occhi del ragazzo. “Ma voi non potete fare molto.” disse poi.
“Cosa vuoi dire?” gli chiese il
medico, stupito da quella frase. “Tua mamma è ricoverata in uno dei migliori
ospedali del paese, ha degli ottimi medici che la seguono…”
“Deve portarmi da lei.” Elliot
sembrò, improvvisamente, avere almeno vent’anni in più dei suoi.
“Vuoi…vuoi venire a trovarla?”
gli chiese.
“Devo riuscire ad avvicinarmi a
lei, dottor Chase. Sapevo che sarebbe venuto, sapevo che mi avrebbe cercato, e
so che ora mi porterà da lei.” Elliot parlava con una sicurezza nella voce,
insolita per un ragazzino.
“C’è la polizia con lei. Quando
ti vedranno ti porteranno sicuramente in un istituto.” gli rispose Chase,
esitante.
“Non mi vedranno, faremo in modo
che non mi vedano. La prego dottor Chase, è molto importante.” Elliot appoggiò
una mano sul braccio del medico, che lo guardò confuso.
“Il tuo braccio…” Chase ricordò
improvvisamente perché era lì.
“Non si muove da tanti anni.”
disse il ragazzo.
“Dovremo farti qualche analisi.
Potresti avere un disturbo simile a quello di tua madre.”
“Ve bene. Mi porti con lei,
allora.”
Chase annuì e si alzò.
Il ragazzo fece lo stesso, poi
prese della terra e spense il fuoco.
Prese il libro e se lo infilò nel
giubbotto: “Sono pronto.”
31 gennaio, h
10.45
Ufficio di House
“Tutto negativo.” disse Foreman,
posando la cartella sulla scrivania di House, che alzò lo sguardo su di lui.
“Niente infezione, solo questo.” porse un foglio al suo capo.
“Tutto questo, lo chiami solo
questo?” chiese lui, alzandosi e dirigendosi alla lavagna.
“Non ha apparentemente nulla a
che fare con i disordini motori.” disse il neurologo.
“Anch’io, grazie a questo
bastone, sono apparentemente un povero, innocuo, zoppo.” House lo alzò,
puntandolo al viso di Foreman, che fece un passo indietro. “Messaggio ricevuto.”
disse.
“Quindi, cosa può dirci questa
lesione all’area di Broca, unita al fatto che la paziente non sembra avere
disturbi del linguaggio?” chiese House al neurologo.
“Così, senza sapere a quando
risale la lesione, non saprei dire.” rispose Foreman. “Bisogna anche accertarsi
che la paziente non abbia disturbi del linguaggio. Quel poco che ha detto a noi,
non può essere abbastanza per escluderli.”
“Ecco perché ti ho assunto, a
volte sei così…” House sembrò non trovare le parole. “…autosufficiente!”
“Vado.” rispose Foreman,
uscendo.
House aggiunse un appunto sulla
lavagna, poi si guardò attorno.
C’era un insolito vuoto
ultimamente, attorno a lui.
La sala equipe era il luogo
dov’era difficilmente solo, dove c’era sempre Foreman o Chase o Cameron, che lo
infastidivano con la loro presenza.
Era tutto troppo tranquillo; ma
dov’erano tutti?
Riflettè qualche secondo e si
rese conto che, forse, quel vuoto veniva dai buchi della sua anima, che da
autolesionista si procurava, strappando con violenza, fuori da sé, qualunque cosa gliela toccasse.
31 gennaio, h 10.50
Princeton Plaisboro Teaching
Hospital
Cameron stava camminando per i
corridoi del Plaisboro, cercando la Cuddy per mettersi d’accordo sulla versione
finale della sua deposizione.
Aveva chiesto a Foreman di
occuparsi da solo della paziente quella mattina, dicendogli che la prospettiva
di dover parlare con quel poliziotto la agitava, e che aveva bisogno di
concentrarsi solo su quello per adesso.
Foreman non le aveva creduto, ma
si era offerto comunque di fare tutti gli esami da solo.
Il cellulare di Cameron
squillò.
“Pronto?”
“Sono Chase.” disse la voce
profonda del suo collega, dall’altra parte.
“Ciao, com’è andata?” chiese lei,
distrattamente.
Chase avrebbe voluto chiamare
Foreman, ma il suo telefono era spento, probabilmente era impegnato in qualche
esame. Cameron era l’unica alternativa, House era fuori discussione.
“Ho trovato il ragazzo, è qui con
me.”
“Bene. Quindi esiste veramente?”
chiese Cameron, cercando un luogo silenzioso per poter parlare col collega.
Scelse le scale, dove difficilmente passava qualcuno.
“Già. Ascolta, lo sto portando al
Plaisboro, per fargli delle analisi.”
“Benissimo.”
“C’è un problema però.”
“Dimmi pure.”
“Il ragazzo vive in strada. Se
qualcuno lo vede rischia di finire in istituto, dobbiamo predisporre tutto in
modo che non venga notato.” disse Chase serio.
“Vuoi farlo venire in ospedale,
fargli qualche analisi, e rimandarlo in strada?” Cameron era allibita.
“Lì c’è sua madre.” disse
Chase.
“Si, che lo ha abbandonato anni
fa, sa che è ancora vivo, e lo lascia a morire di freddo in qualche vecchio
capannone. Dobbiamo fare la denuncia, Chase.”
“No. Non conosci Elliot e non conosci la loro storia, quindi
evita di fare questo tipo di sentenze.” ribatté Chase, duramente. “Arriveremo
verso le 14.00, ti chiamerò e mi raggiungerai all’ingresso. Sanno tutti che non
ho fratelli né altri parenti in vita, porterai il ragazzo dentro l’ospedale con
te, dicendo che è un tuo nipote o qualcosa del genere.”
Cameron ascoltò, incredula, gli
ordini del collega. “Ma sei impazzito?!” gli disse alla fine.
Chase sospirò, dall’altro lato
del telefono. “Allison, per favore, fidati di me.” le disse.
Cameron fu colpita dalla
sincerità di quelle parole. “Va bene.” rispose “Aspetto la tua chiamata.”
“Grazie, a presto.”
riattaccò.
Cameron rimase a riflettere
qualche minuto sulle scale. Quel caso li stava portando ad andare oltre la loro
professione di medici, stava mettendo in discussione tante cose. Sembrava che la
follia che traspariva dalle persone coinvolte, la confusione, la paura, la
disperazione, stesse penetrando dentro di loro, stesse invadendo come un cancro
le loro vite. Anche i rapporti tra loro ne erano condizionati. Stava diventando
tutto più intenso.
Sentì dei passi, qualcuno stava
salendo le scale. Aspettò, trattenendo il fiato, e non sapendo neanche lei
perché.
Era Wilson.
Vedendola si bloccò.
“Tutto bene?” la domanda uscì,
per la seconda volta in pochi giorni, ad entrambi nello stesso momento.
Questa volta risero entrambi,
nervosamente.
Wilson le si avvicinò. “House è
un’idiota.” le disse.
“Si, Jimmy, lo è.” rispose
Cameron, rassegnata.
“E’ accaduto qualcosa, ieri
sera?” le chiese, notando che la prendeva una strana agitazione.
Lei annuì, abbassando lo sguardo.
Poi tornò a guardare l’oncologo. “Un bacio.” gli disse.
“Ora capisco cosa faceva House
nel mio ufficio alle 8 di mattina…” disse Wilson, pensieroso.
“Non credo abbia significato
molto per lui. Sembra averlo già dimenticato, si comporta come prima. Sarà stato
nel tuo ufficio perché è terribilmente curioso e voleva sapere di te e Cuddy.”
continuò lei, rattristata.
“Non credo..” rispose pensieroso
Wilson, riuscendo finalmente a mettere insieme alcuni pezzi che non gli
tornavano.
“Che vuoi dire?” chiese,
incuriosita, Cameron.
“Lasciami un po’ di tempo.” disse
alla ragazza, stringendole amichevolmente un braccio.
Lei annuì, sorridendogli.
Non aveva molta fiducia nella
possibilità che Wilson potesse capire cosa stava passando per la testa ad House,
ma apprezzò il suo gesto.
“Grazie.” gli disse.
Dopo uno sguardo comprensivo,
entrambi si congedarono.
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
CAPITOLO 9
31 gennaio,h 11.50
On the road
Chase guidava ormai da quasi
un’ora, e Elliot non aveva smesso neanche un minuto di studiare attentamente i
suoi movimenti.
D’altra parte, lui osservava con
la coda dell’occhio il ragazzino: il suo modo di fare, le sue espressioni,
ricordavano tristemente quelle di un adulto. A volte però, la sua età era
tradita da qualche gesto o da qualche parola, che faceva trasparire l’ingenuità
e l’innocenza infantili. Non capiva bene perché, ma quel ragazzo lo colpiva
molto.
“Ti piacciono le auto?” chiese ad
Elliot, per rompere il silenzio, che incominciava a pesargli.
“Non lo so, ci sono salito
pochissime volte e quando era più piccolo. Non ricordavo che bisognasse fare
tutte queste cose per farla andare.” rispose lui, senza smettere di seguire con
lo sguardo i suoi gesti.
A Chase venne da sorridere:
Elliot sembrava un piccolo alieno.
“Dice che un giorno potrò guidare
anch’io?” chiese al medico.
Probabilmente no, pensò questi;
all’handicap del braccio paralizzato, si sommava la situazione in cui
viveva…temeva che il ragazzo avrebbe passato tutta la sua vita in strada.
“Si, un giorno, quando sarai più
grande.” mentì.
“Guardi che io lo capisco quando
dice cose diverse da quelle che pensa. Non mi tratti come un bambino.” replicò
Elliot, guardandolo negli occhi.
Chase si voltò qualche secondo, e
la trasparenza di quello sguardo lo impressionò. Cercò di concentrarsi sulla
guida.
“Prima di andare in ospedale ci
fermeremo in qualche negozio a comprarti qualche vestito pulito.” disse al
ragazzo, che si osservò distrattamente i jeans strappati e il giaccone
macchiato.
“Dirà che sono il nipote di
quella sua amica?” chiese Elliot, riferendosi alla conversazione telefonica
ascoltata poco prima.
“Si. E’ un altro medico che segue
tua madre. Dovrai reggere il gioco, credi di esserne capace?”
“Certo…” rispose, guardando fuori
dal finestrino. Chissà quante volte aveva mentito in vita sua.
Finalmente Elliot sembrò
rilassarsi e Chase decise di lasciarlo riposare un po’.
Un ragazzino così piccolo,
cresciuto in una situazione difficile, che ora vedeva star male sua madre. Quel
senso di impotenza…
Chase divenne improvvisamente
cosciente del perché Elliot gli risultasse così familiare e lo colpisse così
tanto.
A 12 anni non era molto diverso
da lui.
31 gennaio, h
12.00
Ufficio della Cuddy
L’agente Jeson Dereck bussò alla
porta dell’ufficio della dottoressa Cuddy, ed entrò senza aspettare il suo
invito.
Bastò questo per far capire a
Lisa con chi aveva a che fare.
“Buongiorno dottoressa.” disse il
poliziotto, prendendo subito posto sulla sedia davanti alla sua scrivania.
“Buongiorno agente Dereck.”
rispose questa, tendendogli la mano. “Lisa Cuddy.”
“Si, ho letto sulla porta.”
l’insolenza del detective avrebbe reso tutto più complicato.
“Allora scriverlo lì è servito a
qualcosa…” mugugnò la Cuddy tra i denti.
“Prego?” chiese lui, sporgendosi
verso la dottoressa.
“Niente, lasci perdere.” rispose
quest’ultima, sorridendo nel modo più cordiale possibile.
“Allora…” incominciò Dereck
“faccia subito chiamare la dottoressa…” fece gesto alla Cuddy di aiutarlo.
“Allison Cameron.” intervenne
lei.
“…si, brava. Nel frattempo che
arriva ho bisogno di scambiare due parole con lei.”
La Cuddy avvisò Cameron sul
cercapersone, di presentarsi tra qualche minuto nel suo ufficio. Erano riuscite
a provare velocemente la versione dei fatti ed quindi era sicura che, almeno con
lei, sarebbe andato tutto bene.
“Sarà qui tra pochi minuti.”
disse all’agente “Mi dica pure.” incrociò le mani in grembo.
“Devo darle qualche informazione
sulla paziente, informazioni strettamente riservate che però è necessario che
sappia. Pare che la donna gestisca una sorta di setta di barboni, una setta che
venera la funzione generatrice della donna, o qualcosa del genere. Cazzate,
insomma.” l’atteggiamento arrogante del poliziotto incominciava ad
irritarla.
“Ed è in arresto per questo?”
chiese lei.
“No. Ci sono stati fenomeni
strani negli ultimi mesi, nella zona dove è stata ritrovata la Pivet. Alcune
donne incinte hanno portato a termine in strada la gravidanza, cosa che accade
spesso, ma non si sono mai visti i bambini. C’è stato poi uno strano giro di
soldi… Ma questo non è affar suo. Quello che deve sapere è che quella donna è
molto furba, e molto probabilmente è implicata in affari sporchi. E’ importante
che la facciate parlare il meno possibile e che la curiate in fretta. Ho bisogno
di portarla in carcere; devo riuscire a spaventarla abbastanza da farmi dire
quello che sa.” disse l’agente Dereck.
“Purtroppo il disturbo della
signorina Pivet sembra essere molto serio e non abbiamo ancora una diagnosi.”
disse la Cuddy, porgendo la cartella della paziente al poliziotto. “L’equipe del
dottor House, uno dei migliori medici dell’ospedale, sta facendo il possibile
per…”
L’agente Dereck le ripassò la
cartella, senza neanche degnarla di uno sguardo. “Senta, non capisco niente di
questa roba e non mi interessa cos’ha quella donna. Voglio solo che sia in piedi
il prima possibile, per poterla portare fuori di qui, nel mio territorio. Sono
qui adesso solo perché quella sua dottoressa ha lasciato la macchina nel luogo
del ritrovamento, perché i suoi medici se ne sono andati in giro a fare i
detective invece di fare il loro lavoro. Quindi ora…”
“Cuddy…” Cameron entrò
nell’ufficio, attirando l’attenzione del poliziotto.
Lisa ringraziò mentalmente
Cameron di essere arrivata al momento giusto: ancora qualche parola dell’agente
Dereck e lo avrebbe sbattuto fuori dal suo ospedale a calci, fregandosene delle
conseguenze legali.
“Cameron, vieni pure. Ti presento
l’agente Dereck.” la dottoressa strinse la mano all’uomo. Gli occhi piccoli, che
la squadrarono da capo a piedi, le ispirarono tutt’altro che fiducia.
“Salve. Stavo appunto dicendo
alla dottoressa Cuddy che dovrebbe preoccuparsi di tenere i suoi medici in
ospedale e di non farli andare a spasso per la città…” Dereck istigò subito
Cameron, che però si era preparata a una provocazione del genere.
“Le condizioni della paziente
erano veramente molto gravi, agente Dereck. Pensavamo solo che qualche persona
in più in giro a cercarla, sarebbe stata solo d’aiuto e avrebbe reso più rapido
il ritrovamento.” rispose infatti, come da copione.
L’agente Dercek fece un sorriso
tutt’altro che amichevole e si rivolse alla Cuddy. “Scusi dottoressa, può
lasciarci soli? Questo genere di interrogatori devono essere svolti a
quattr’occhi. E’ la prassi…”
Lisa rimase immobile per qualche
secondo, indecisa sul da farsi. Poi decise di evitare di fare polemica: il suo
scopo era liberarsi di quell’uomo nel più breve tempo possibile, e il modo più
rapido per farlo era eseguire i suoi ordini.
“Va bene, vi lascio soli.” disse
e, lanciato uno sguardo incoraggiante a Cameron, lasciò la stanza.
Decise di cercare House. C’era il
rischio che quel poliziotto odioso chiedesse di lui, e in quel caso sarebbe
stato difficile evitare una strage.
Salì al piano di sopra.
Lo trovò che si aggirava
nervosamente tra il suo ufficio e la sala equipe, guardandosi in giro.
Quando lei varcò la soglia, stava
cercando qualcosa sotto la scrivania.
“House, hai perso qualcosa?” gli
chiese, divertita.
“Dov’è Cameron?” disse di rimando
lui, continuando a cercare, ora in mezzo a dei libri.
“La cerchi sotto la scrivania?”
“Si, ho retrocesso la sua
funzione qui a quella di stagista.” rispose lui.
Cuddy alzò lo sguardo al
soffitto, incassando la battuta. “Devo parlarti…” cercò di attirare la sua
attenzione, ma House continuava a spostarsi da una stanza all’altra, spostando
rabbiosamente tutto quello che trovava.
“Ti ho chiesto dov’è Cameron.”
insistette.
“Ora è impegnata…posso aiutarti
io?” gli chiese, bloccandogli la strada tra l’ufficio e la saletta.
“No, può aiutarmi solo lei.” le
disse, dirigendosi verso l’altra porta. “E’ impegnata dove?”
“Nel mio ufficio. Ti devo parlare
House!”
Ma lui aveva già raggiunto
rapidamente l’ascensore, che si chiuse davanti alla Cuddy.
Lei sospirò e si diresse verso le
scale.
“Cuddy!” la chiamò una voce alle
spalle.
Era Foreman. “Ho bisogno del tuo
aiuto. “ le disse. “Quegli energumeni che fanno da guardia alla Pivet mi fanno
storie quando devo trasportarla da uno studio all’altro. Io non posso lavorare
con loro che mi mettono i bastoni tra le ruote.”
“Ci parlo io.” disse lei
seguendolo.
La prospettiva di poter sfogare
la rabbia accumulata per colpa di quell’arrogante dell’agente Dereck, le fece
dimenticare House.
31 gennaio, h
12.10
Ufficio della Cuddy
L’interrogatorio fu più
impegnativo di quando Cameron e la Cuddy avessero previsto. L’atteggiamento
provocatorio e autoritario dell’agente Dereck stava turbando Cameron, che faceva
fatica a mostrarsi tranquilla e rilassata come avrebbe dovuto.
Il modo di fare del poliziotto la
innervosiva e questo confondeva la sua versione dei fatti.
“Quindi è stata un’idea comune
che vi a spinto ad andare in giro a cercare la paziente scomparsa? Molto
democratico…e altrettanto impensabile. Mi dica chi ha avuto la brillante idea di
giocare ai detective.” la istigò il poliziotto.
“Le ho detto che è stata un’idea
comune. La paziente era molto grave e…” ripeté lei per l’ennesima volta.
In quel momento sentì aprirsi
violentemente la porta dell’ufficio, dietro di lei. Si voltò.
House entrò speditamente,
ignorando il poliziotto.
“Dov’è la mia tazza?” le chiese
esasperato.
“Cosa?” rispose lei confusa.
“Voglio sapere dove diavolo è
finita la mia tazza. Ieri sera era sulla mia scrivania, oggi scomparsa. Sei tu
che hai la sindrome della massaia, e sei tu la diretta responsabile del mio
caffè. Voglio sapere dov’è finita.”
“Non l’ho vista stamattina…”
rispose Cameron, perplessa per l’agitazione di House.
Lui sospirò e rimase immobile.
Sembrava non aver notato l’uomo seduto di fronte a lei.
“Scusi, lei chi è?” chiese
questi, rivolgendosi al diagnosta.
House lo osservò qualche secondo,
cercando di capire cosa stava accadendo. Ad un certo punto sembrò ricordarsi del
colloquio che Cameron doveva fare col poliziotto.
Agganciò col bastone una sedia,
l’avvicinò e si sedette.
“Io sono il dottor House, capo di
questa graziosa fanciulla.” la indicò con un gesto della mano.
“Bene dottor House, se non le
dispiace ho bisogno di parlare da solo con la dottoressa.”
“Se non le dispiace, io rimango.
Se le dispiace, rimango lo stesso.Quindi non stia a dirmi se è dispiaciuto
oppure no, mi farebbe sentire in colpa inutilmente.” rispose House,
inamovibile.
Dereck sembrò voler replicare
qualcosa, poi si bloccò. Evidentemente aveva trovato il modo di sfruttare la
situazione a suo vantaggio.
“Bene, allora farò qualche
domanda anche a lei.” disse rivolgendosi ad House.
Cameron incominciò a
preoccuparsi.
“La sua collega mi stava parlando
del momento in cui è stato scelto di andare a cercare la paziente. Volevo sapere
chi ha preso questa decisione.”
“Nessuno, è stato un caso!”
rispose House deciso.
“Un caso?” chiese perplesso il
detective.
“Esattamente agente. Eravamo
usciti tutti insieme per festeggiare la fuga della paziente, sa, in questi casi
abbiamo la giornata libera e non accade di frequente, quando, girando alla
ricerca di un luogo appartato per sparare i fuochi d’artificio…”
“La smetta di prendermi in giro!”
lo interruppe Dereck, capendo dove voleva arrivare House.
Cemeron si passò una mano sulla
fronte, sconvolta.
“Non ho tempo da perdere, esca
subito da questa stanza e mi faccia terminare il colloquio con la dottoressa
Cameron.” ordinò Dereck al medico.
“No, la dottoressa Cameron lavora
per me, quindi finché non risolve il mio problema, le impedisco categoricamente
di sollazzarsi con altre attività, come quella di conversare con lei,
agente.”
Cameron lo guardava
incredula.
“Io sono un poliziotto e questo è
un interrogatorio!” esclamò Dereck, alzandosi. “Esca subito di qui!”
“Lei viene con me.” rispose House
alzandosi, e tirando Cameron per un polso, per farle fare lo stesso.
Lei, non sapendo esattamente cosa
fare, non oppose resistenza e si alzò.
“Bene.” disse il poliziotto,
riacquistando il controllo di sé “credo di aver capito da dove è venuta l’idea
di cercare la Pivet. Ora però devo sapere come mai l’avete trovata prima di noi
e perché non ci avete avvisato delle indicazioni che avevate, nonostante la
dottoressa Cuddy avesse avuto l’ordine di riferirci ogni nuova
informazione.”
“La Cuddy?” chiese House, senza
lasciare il polso di Cameron. “Ha provato a contattarci ma non le abbiamo
risposto. Sa, è una tale scocciatura…”
“Quindi avete ignorato le
chiamate del vostro capo. Bhè, le conseguenze di questo non sono affar mio.”
disse Dereck “Ora spiegatemi come avete fatto a trovare la donna, poi vi lascio
andare a cercare la vostra tazza scomparsa.” continuò, sprezzante.
“Abbiamo incontrato una barbona
che ci ha guidato da lei e poi è scappata.” Cameron precedette House, cercando
di migliorare la situazione.
“Avete incontrato una barbona…per
caso?” chiese sospettoso Dereck.
“No, è una prostituta che, in
quanto suo fedele cliente, mi ha voluto dare una mano nelle ricerche.” si
intromise House.
Cameron, con uno strattone, si
liberò della presa di House. “Era una barbona che abbiamo incontrato per caso
chiedendo un po’ in giro nei pressi dell’abitazione della Pivet.” disse al
poliziotto tutto d’un fiato “Ha detto di aver visto una donna aggirarsi in
camice ospedaliero alle prime luci dell’alba e che questa le ha offerto dei
soldi per andarle a comprare dei vestiti. Ci ha portato dove l’aveva vista
l’ultima volta ed è lì che avete trovato la mia macchina.”
Dereck annuì. “E perché non avete
recuperato la macchina?” chiese alla donna.
House sembrò voler dire qualcosa,
ma Cameron lo precedette: “Perché ci siamo spaventati per l’arrivo della
polizia. Sapevamo che quello che stavamo facendo andava al di fuori delle nostre
competenze, quindi siamo tornati in taxi.” Questo, almeno, si avvicinava alla
verità.
“Va bene.” disse il poliziotto.
“Tralascerò il fatto che mi ha esposto la sua versione come se l’avesse imparata
a memoria. E’ ora di pranzo e ho fame. Quello che mi ha detto, basta a far
terminare il mio lavoro qui.”
Si avvicinò ad House. “Spero
vivamente di non incontrarla in futuro. Quindi veda di far guarire in fretta la
Pivet, così che io non debba più tornare qui ad approfondire la vostra giornata
di ieri e a rivedere la sua brutta faccia.”
Detto questo uscì rapidamente
dall’ufficio della Cuddy, senza permettere ai due di replicare.
“Ti rendi conto che hai rischiato
di farci andare tutti nella merda?” lo aggredì Cameron, appena il poliziotto si
fu allontanato.
“E’ solo un pallone gonfiato…”
rispose sprezzante, ignorando la collera della collega.
“House! Hai rischiato di mandare
a monte tutto, abbiamo fatto una stronzata a cacciarci nella situazione di ieri,
e c’è il rischio che se la prendano sia con noi che con l’ospedale!” ribatté
lei.
“La Cuddy ha iniziato anche te al
sacrificio in nome di questo edificio?” le chiese House.
Lei tentò di obiettare qualcosa,
ma lui la anticipò: “Mi vuoi dire dove hai messo la mia tazza?”
“Non me ne frega niente della tua
dannata tazza! Sei un idiota! Sei un bambino…” le lacrime spingevano per uscire
allo scoperto, ma lei le ricacciò indietro.
House si voltò a guardarla; era
evidente che la rabbia che aveva davanti, per l’ennesima volta in pochi giorni,
non derivava dal comportamento che aveva avuto con il poliziotto.
“Calmati.” le disse
dolcemente.
Vedendo che lei continuava a
tenere i pugni serrati e a respirare a fatica, nel tentativo di trattenere le
lacrime, le appoggiò una mano sulla spalla.
Cameron la allontanò via da sé
bruscamente.
Questo gesto colpì House, che non
si aspettava un rifiuto così deciso da parte sua.
“Smettila di fare la bambina
offesa!” la provocò.
“Stai zitto.” gli ordinò lei, a
denti stretti, guardando lontano da lui nel tentativo di calmarsi.
Il tono risoluto della sua voce
stupì ancora House.
Passarono pochi istanti in cui
non accadde nulla, poi House, destabilizzato dalle reazioni della donna, si
voltò e se ne andò senza dire niente.
31 gennaio, h
12.30
Ufficio di House
House entrò nel suo ufficio,
lasciò cadere in terra il suo bastone e si abbandonò sulla sedia, portandosi la
testa tra le mani. Rimase così diversi minuti, finché la voce di Wilson non lo
fece sobbalzare.
“Tu sei nei guai amico mio…” gli
disse, raccogliendo il suo bastone e punzecchiandolo con questo.
House si tirò su di scattò e
tolse bruscamente il bastone dalle mani dell’amico. “Molla.” gli disse,
guardandolo torvo.
“Ho capito che facevi alle 8.30
di mattina nel mio ufficio oggi.” disse Wilson, sorridendo. “La piccola, dolce
Allison ha rapito cuore del suo burbero capo!”
“La Cuddy ti ha dato alla testa?
Vedi il mondo tutti a cuoricini. Fossi in te andrei a farmi una doccia gelata.”
ribatté House, poco convinto.
Wilson rise: “Ma guardati! Sei
sconvolto.”
“Smettila di ridere, razza di
mostriciattolo fastidioso. Si può sapere come faccio a liberarmi di te? Ho
bisogno di stare un po’ da solo per fare chiarezza nei miei pensieri.” disse
House, buttando la testa indietro sulla sedia e coprendosela con la giacca.
“E pensi di riuscirci? Se ti
lascio qui da solo tra qualche minuto concluderai che non è successo niente, che
quel bacio è stato solo un caso e che la sua è solo una cotta da ragazzina o
qualche stronzata simile.”
House si tolse la giacca dal viso
e guardò l’amico.
“Come diavolo fai a sapere che mi
ha baciato?”
“TI ha baciato?” chiese Wilson,
fingendosi sorpreso.
“Si, mi è praticamente saltata
addosso.”
“House, io non so com’è andata,
ma non credo che Cameron sia il tipo da…”
“No? Chiedi a Chase.” lo
interruppe lui, sarcastico.
“Già, la sua avventura con Chase!
Vedi che c’era qualche pezzo del puzzle che mi mancava. Ora mi è più chiara la
tensione tra voi negli ultimi giorni…” Wilson non demorse.
House rimase in silenzio, la
giacca copriva ancora il suo volto.
“Ehi, ci sei?” chiese Wilson,
alzando leggermente un pezzo di stoffa.
“Vattene!” fu la sola parola che
arrivò da lì sotto.
Wilson scoprì rapidamente il viso
dell’amico.
“Questa non è violazione della
privacy! E’ un vero e proprio attacco con tutta la cavalleria! Ma cosa vuoi?!”
House sembrava davvero seccato.
“Ok, scusami.” disse Wilson,
sedendosi di fronte a lui. Le maniere forti andavano bene fino a un certo punto
con House. “Raccontami cosa è successo.”
“Te l’ho già detto oggi che non
sei il mio diario segreto, o sbaglio?”
“Si, me l’hai detto. Ma
stamattina eri venuto nel mio ufficio a raccontarmi qualcosa, e non era la tua
avventura di qualche anno fa con Lisa.” disse Wilson, serio. “Eri venuto a
parlarmi di Cameron.”
“Dopo che ci vai a letto,
incominci a chiamarle per nome?!” replicò House, con fare beffardo.
“Si. Dai racconta quello che
volevi dirmi.”
House sospirò: era indeciso tra
il cacciare l’amico e il tentare di fuggire dalla stanza. In entrambi i casi,
non l’avrebbe avuta vinta. Quando Wilson si metteva in testa che lui aveva
bisogno di confidarsi, lo tormentava finché non riusciva a scucirgli qualcosa.
Tanto valeva tagliare la testa al toro…
“Volevo solo dirti che è il caso
di cambiare le lenzuola del letto…” gli disse, sorridendo.
“Cosa?! Ci sei stato a letto? Nel
mio letto?!” chiese Wilson,
indignato.
“No…scherzavo.” rispose House,
continuando a sorridere.
“E allora perché quel sorrisino?”
“Dovresti vedere la tua faccia.
Dalla tua espressione deduco che anche tu hai un’immaginazione fervida come la
mia…”
“House per favore, arriva al
dunque.”
“Ci siamo baciati. Basta, tutto
qui.”
“Ti è saltata veramente
addosso?”
“No. Io mi sono avvicinato troppo
e lei…non s’è fatta scappare l’occasione.”
“E perché ti sei avvicinato?”
“Per sentire se aveva la
febbre.”
Wilson lo guardava perplesso.
Rimasero qualche secondo in
silenzio.
“E’ bella.” disse House ad un
certo punto.
“Si, molto.” rispose Wilson.
“Ehi…” House si finse offeso.
“Scusa! Volevo dire…tu cosa
volevi dire?” chiese all’amico.
“Che lei è una bella donna,
giovane e pazza di me. Io sono un uomo e…è normale che mi attiri.”
Wilson non rispose, continuando a
guardarlo pensieroso.
“Non è normale?” gli chiese
House.
“E’ normale che tu ci voglia
andare a letto, ma non che ti venga voglia di avvicinarti a lei e guardarla
mentre dorme. Per quanto tempo l’hai osservata prima che si svegliasse?”
“Mmm…un po’.” rispose House,
distogliendo lo sguardo dall’amico.
Wilson annuì.
“Lo sai che sei davvero odioso
quando fai così?! Forza, spara la tua sentenza e poi fuori di qui, devo
lavorare.”
Il limite di tolleranza di House
ai discorsi seri era stato raggiunto. Se alzò per congedare l’amico.
“Secondo me” disse Wilson
alzandosi e dirigendosi verso la porta. “dovresti provare a lasciarti andare con
lei. Non devi permettere alla tua paura di soffrire, di impedirti di vivere le
cose belle che hai attorno.”
“Si, molto suggestionante come
frase. Me la scrivo, promesso. Ora fuori dai piedi.”
Wilson scosse la testa
sorridendo, poi se ne andò.
31 gennaio, h 13.30
Princeton Plaisboro Teaching
Hospital
Cameron stava cercando Foreman in
giro per l’ospedale.
Voleva essere aggiornata sul
caso, voleva mettere tutte le sue energie a servizio del suo lavoro.
Si rendeva conto che era piena di
rabbia e di frustrazione, che l’avrebbero solo logorata. Doveva dirigere tutta
questa forza verso qualcosa di produttivo.
“Domani hai da fare sei ore di
ambulatorio.” House la raggiunse da chissà dove e si mise a camminare al suo
fianco.
“Cosa?! Perché?” chiese lei,
bloccandosi.
“Chese non ha fatto le sue, e
domani avrò bisogno di lui. Quindi lo sostituisci tu.” House non smise di
camminare.
Lei lo raggiunse accelerando il
passo. “Cosa significa? Puoi chiedere benissimo a qualcun altro di sostituirlo,
abbiamo un caso importante.”
“Lo so. Ma tu mi hai dato
dell’idiota, del bambino e mi hai ordinato di stare zitto. Tutto quanto in…più o
meno 15 secondi. Visto che sono il tuo capo, questa è l’arma che ho per
vendicarmi. Oltre al mio bastone, ma se mi becco un’altra denuncia per
aggressione, chi la sente la Cuddy? Non ne vale la pena…” rispose lui,
continuando a camminare, impassibile.
Cameron lo afferrò per un
braccio, costringendolo a girarsi verso di lei.
Prima che potesse aprir bocca
però, House le mise un dito sulle labbra e le disse: “Ssshhh. Stavo scherzando.”
spostò lentamente il dito dal suo viso.
Lei lo guardava incredula. “Si
può sapere che razza di gioco sadico stai facendo con me, House?” gli chiese,
con voce tremante.
Lui sembrò studiarla per qualche
secondo. “Sei bella.” le disse poi. “Lo sai, vero?”
Cameron era confusa; balbettò un
“si” poco convinto.
“Perché pensi che stia giocando
con te?” le chiese poi.
Cameron rifletté un po’ prima di
rispondergli: “Mi provochi. Sai che provo qualcosa per te e ti diverti a giocare
coi miei sentimenti. A me non piace provare rabbia nei tuoi confronti. Tu fai in
modo che succeda, e spesso. Non capisco perché… Preferivo il rapporto più
distante e neutro che avevamo sviluppato da qualche mese, mi permetteva almeno
di concentrarmi sul lavoro.”
“Stai mentendo.” le disse
lui.
“Non è vero” ribatté lei.
“Si invece. Non è vero che sei
infastidita dalle mie provocazioni. Ti danno un alibi per arrabbiarti con me,
per sfogare in qualche modo i tuoi istinti nei miei confronti. Ed è un bene,
pensa un po’ a cosa è accaduto nel periodo in cui non ti punzecchiavo
continuamente.”
“Cosa intendi dire?”
“Sei finita a letto con
Chase.”
“Non c’entra nulla.”
“Si invece.”
Cameron sorrise.
Questo destabilizzò House.
“House, smetti per un po’ di
analizzare me, e guardati dentro.”
“E’ tutto buio. Tu invece sei
trasparente, un libro aperto.”
“Se fosse così non continueresti
a tormentarmi. Se lo fai è perché c’è qualcosa in me che ti attira, e non è solo
la bellezza.” la sicurezza nella voce di Cameron contrastava il leggero tremore
delle sue labbra.
“Ehi, non stiamo volando un po’
troppo in alto? Stai peccando di superbia, dottoressa.”
“Non sono una suora House, né una
bambina. Questo mettitelo bene in testa. Se io sto al gioco ci sarà un motivo,
hai ragione. Non credo sia molto diverso da quello che spinge te a continuare a
giocare.” Cameron era terrorizzata da quello che stava facendo. Stava al suo
gioco, ma si era calata nella parte di House: lo stava provocando. Sperava di
non tradirsi, di non far trasparire il timore che aveva dentro.
“Se abbiamo un buon motivo tutti
e due” disse House, squadrandola da capo a piedi “non vedo perché smettere. Più
si va avanti, più si alza la posta in gioco.”
“Sarebbe ora.” concluse lei,
maledicendosi mentalmente per quelle due parole che aveva pronunciato.
Il suono del telefono di Cameron
fece trasalire entrambi. Un’altra volta.
“Pronto?” rispose.
“Siamo arrivati, esci.” disse
Chase, e riattaccò.
“Devo andare…” disse lei al suo
capo e, voltandosi, si diresse verso l’uscita dell’ospedale, cercando di
riprendere a respirare regolarmente.
Entrambi
andarono per le loro strade pensando a quanto paradossale fosse stata quella
loro conversazione.
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
CAPITOLO 10
31 gennaio, h
13.45
Parcheggio del Princeton Plaisboro Teaching
Hospital
Cameron scese nel parcheggio
dell’ospedale e, individuata la macchina di Chase, vi si diresse
rapidamente.
Il medico stava riponendo
qualcosa nel bagagliaio, un ragazzino stava in piedi accanto a lui, osservando i
suoi movimenti.
Questi si voltò a guardarla
quando fu accanto a loro, e le sorrise. Cameron non poté fare a meno di
rispondergli allo stesso modo: la dolcezza di quel bambino la colpì dal primo
momento, così come la strana luce nei suoi occhi. Non poteva essere altri che il
figlio della Pivet.
“Buongiorno Allison.” disse
Chase, chiudendo il bagagliaio. “Lui è Elliot.”
“Ciao.”
“Buongiorno signora.” Elliot
porse la mano a Cameron, che gliela strinse, notando contemporaneamente l’altro
braccio, inerme lungo il fianco dal ragazzino.
“Elliot è un concentrato di buona
educazione e cortesia.” disse Chase, appoggiando una mano sulla spalla del
ragazzo e sorridendo. Cameron non lo vedeva così di buon umore da settimane.
“Hai avvisato qualcuno del suo
arrivo?” chiese alla collega.
“No. Ho avuto il colloquio con
l’agente Dereck e…diciamo che non ho avuto tempo.”
“Non è un problema. Se lo
spacciamo per tuo nipote possiamo portarlo in giro per l’ospedale
tranquillamente.” rispose Chase, guardando il ragazzino con espressione
rassicurante.
“Ti lascio in ottime mani,
Elliot. Dovremo farti una tac al braccio, tanto per cominciare. Vado a preparare
la macchina, sperando che sia libera. Nel frattempo Cameron può farti una visita
veloce in ambulatorio, che dici?”
Elliot sembrava preoccupato,
quell’ambiente così diverso dal suo incominciava a metterlo a disagio. “Va bene
dottor Chase, se è necessario. Non si dimentichi che ha promesso di farmi
incontrare presto mia madre.” rispose serio.
“Certo. Per questo è però
necessario che la allontaniamo dai poliziotti, dobbiamo studiare un modo per
farlo.” disse Chase, rivolto a Cameron.
Lei esitò qualche secondo. “Non
sarà facile, non la perdono d’occhio neanche un istante.” replicò perplessa.
Sembrava che Chase avesse già deciso cosa fare, senza tener conto della
situazione in ospedale. Quel ragazzino sembrava stargli molto a cuore.
“Entro stasera ti porto da lei,
promesso.” ribadì, rivolto al ragazzo.
“Tienilo sempre con te, non
lasciarlo con House o con nessun’altro.” disse serio a Cameron.
“Dovrò dire ad House e Foreman
che è il figlio della paziente, e spiegargli la situazione.” ribatté Cameron,
osservandolo attentamente.
Sembrava che quella gita di mezza
giornata avesse allontanato da lui tutto il rancore e la rabbia che aveva
dentro. Non lo aveva mai visto interessarsi tanto a una persona,
responsabilizzarsi fino a questo punto per un paziente.
“Si, certo che devi dirglielo.
Voglio però che stia sempre con te.” Elliot si allontanò per prendere qualcosa
rimasto nell’auto. “Ha 12 anni. E’ solo un ragazzino, anche se in gamba”
continuò abbassando la voce “Si fida di me e gli ho detto che può fare
affidamento su di te. Non voglio che si senta abbandonato in un luogo che non
conosce. Mi prometti che non lo lascerai un secondo?”
“Va bene Chase, ti prometto che
resto sempre con lui.” rispose
Cameron, titubante.
“Grazie.” Si voltò verso Elliot
“Io devo andare, ci vediamo dopo.”
“Va bene dottor Chase, a
dopo.”
Il medico si diresse rapidamente
verso gli ascensori.
“Il dottor Chase dice che posso
fidarmi di lei.”
Cameron sorrise. “Andiamo” disse
dolcemente al ragazzo, incominciando ad incamminarsi.
“So che ha ragione, i suoi occhi
sono trasparenti, dottoressa. Io so che lei è una persona buona. Non deve avere
paura a portarmi con sé, non succederà nulla di male.” proferì il ragazzino,
camminando al suo fianco.
Senza che fosse conscia del
perché, un brivido percorse la schiena di Cameron.
31 gennaio, h
14.15
Ufficio di House
House aveva posizionato una sedia
davanti alla lavagna, e stava cercando di riflettere. Aveva bisogno di
reimmergersi nel suo lavoro, nel suo ruolo.
Era un medico e aveva un caso:
questa era tutta la sua vita, da anni.
Ciò che era accaduto negli ultimi
giorni, a lui e a tutte le persone accanto a lui, lo avevano allontanato
dall’unico scopo delle sue giornate che riteneva importante: trovare la diagnosi
corretta.
La paziente aveva bisogno che
tutta l’attenzione del diagnosta fosse su di lei, per sopravvivere.
Probabilmente House stesso aveva bisogno della medesima cosa, per non finire in
balia di strani pensieri e strani sentimenti, tutte cose che non era bravo a
gestire.
Un paziente si, invece. Quello
poteva gestirlo benissimo.
Lato destro del corpo in preda a
tremore incontrollato, spasmi alla gamba sinistra: probabile disturbo a livello
cerebellare. Lesione all’area di Broca, cicatrizzata da anni e che non sembrava
avere conseguenze sul linguaggio. Probabilmente risaliva all’infanzia, e la
plasticità cerebrale aveva permesso che le funzioni linguistiche fossero
completamente recuperate. La paziente però negava di aver avuto disturbi del
linguaggio in passato. House non la considerava comunque attendibile: i suoi
ricordi risultavano confusi, probabilmente era una donna che mentiva spesso e
ora, indebolita dalla malattia, stava perdendo il filo che teneva insieme tutte
le sue bugie.
Secondo Foreman, e secondo la
logica medica, quella lesione cicatrizzata era un elemento a sé stante, non
correlato ai disturbi motori, e completamente innocua.
Il suo istinto gli diceva che
invece qualcosa c’entrava, anche se gli mancavano le argomentazioni per
convincere il neurologo o chiunque altro. Ma questo non era mai stato un
problema per lui, quelle si sarebbero presto fatte strada nella sua testa.
Poi c’era l’andamento ciclico del
sintomo. Era successo qualcosa che l’aveva fatto scomparire e qualcos’altro che
l’aveva fatto tornare, accompagnato dagli spasmi al lato sinistro. Inoltre,
c’era la paralisi che non si era ripetuta.
House lasciò cadere il suo yoyo
sul pavimento e incrociò le braccia sul petto, senza smettere di guadare la
lavagna.
Brancolava nel buio, e questo lo
sconvolgeva.
“House?” Foreman si affacciò
nella sala equipe.
“Novità?” chiese lui, senza
distogliere lo sguardo dalla lavagna.
“Si. Labirintite. Qualunque cosa
abbia la Pivet, ora ha raggiunto anche il tronco encefalico.”
“Scrivilo lì.” disse House al
neurologo, porgendogli il pennarello.
Foreman lo prese titubante e
aggiunse il sintomo alla lista.
“Ora prendi una sedia e mettiti
accanto a me.”
Foreman fece come gli diceva.
“Cosa stiamo facendo?” chiese al suo capo, una volta seduto.
“Aspettiamo l’illuminazione.”
rispose quest’ultimo, lo sguardo perso sulla lista di termini di fronte a
lui.
“Mi prendi in giro?”
“No. Stiamo andando alla cieca,
Foreman. Dobbiamo fermarci un attimo a pensare. Pensare solo a lei, solo alla
malattia, per un po’.”
Il neurologo
lo guardava perplesso: l’aveva visto diverse volte passare ore ad osservare la
lista di sintomi per poi arrivare a una soluzione, ma non aveva mai coinvolto
nessuno di loro. Venivano spediti a fare esami e tentare terapie varie, venivano
obbligati a fare ad alta voce qualunque ragionamento. Questa pausa che House gli
imponeva gli fece capire che quella volta il suo capo aveva veramente le idee
confuse.
Stettero
alcuni minuti in silenzio, cercando entrambi di mettere insieme i pezzi di quel
complicatissimo puzzle.
Ad un certo
punto House si voltò verso Foreman: “Dov’è Cameron? Dovrebbe essere qui a
fondersi il cervello assieme a noi.”
“Non lo so, è
da un po’ che non la vedo.” rispose il neurologo.
“Non l’hai
chiamata tu, pochi minuti fa?”
“No.” rispose esitante Foreman
“Non la vedo da stamattina.”
House rifletté qualche
secondo.
“Chase?” chiese poi.
“Credo sia ancora in giro a
cercare il ragazzo. Sempre che esista…”
House annuì pensieroso. “Non si
sta male, solo io e te.” disse al neurologo. “Si riesce a pensare meglio.”
“E a concludere la metà” replicò
Foreman alzandosi. “Non puoi permettere che i vostri problemi personali
interferiscano in questo modo col lavoro, House! Questo caso è difficile,
abbiamo bisogno di lavorare tutti e quattro assieme, di comunicare!”
“E’ sempre così: prima si smette
di comunicare, poi cala il desiderio sessuale…Dovremmo chiedere alla Cuddy di
pagarci uno psicologo per risolvere i nostri problemi familiari…” ironizzò
House.
“Il problema sei solo tu. Il tuo
comportamento sta mandando in confusione Cameron, e sta facendo incazzare Chase.
Ti conviene darti una calmata, se vuoi riuscire a capire cos’ha questa donna.”
disse con trasporto Foreman, indicando la lavagna davanti a loro “Non sto
neanche a dirti quello che penso sulla motivazione che ti spinge a provocare i
miei colleghi, servirebbe solo a ricevere una risposta acida e a essere preso di
mira per un po’. Spero solo che tu abbia un minimo di consapevolezza del gioco
che stai facendo, perché a breve ti renderai conto che non stai giocando solo
con i loro dei sentimenti, ma anche con i tuoi.” Foreman smise di parlare e
rimase a guardarlo in silenzio, aspettandosi un aspro contrattacco.
“Amen.” si limitò a dire invece
House, rimettendosi ad osservare la lavagna.
Il neurologo rimase qualche
secondo in piedi, incredulo davanti all’apatia del suo capo.
“So che guardarmi dall’alto in
basso ti fa sentire terribilmente potente e adori quella posizione…ma ho bisogno
che ti siedi qui con me e che continui a ragionare sul disturbo della Pivet.”
disse House con voce neutra.
Foreman, disorientato dal
comportamento del suo capo, ubbidì al suo ordine senza dire una parola.
31 gennaio, h 14.30
Princeton Plaisboro Teaching
Hospital
Cameron aveva fatto una visita
generale ad Elliot, che sembrava essere in ottima salute, a parte quel braccio
paralizzato dalla spalla in giù, e completamente insensibile.
Il ragazzino, da quando era
entrato nell’ospedale, era diventato silenzioso e teso. Cameron aveva provato a
parlargli per tranquillizzarlo, ma le rispondeva a monosillabi e sembrava anche
imbarazzato dal fatto che lei lo stesse visitando. Decise allora di lasciare
perdere e finire il più in fretta possibile.
Quando uscirono dall’ambulatorio
e salirono al primo piano, dove c’erano molte meno persone in giro per i
corridoi, sembrò calmarsi un po’.
“Dove stiamo andando?” chiese
Elliot ad un certo punto, alzando il viso per guardarla.
“A cercare gli altri due medici
che si occupano di tua mamma. Bisogna avvisarli del tuo arrivo.” rispose lei,
guardandosi in giro. Sembrava che nessuno prestasse molta attenzione a loro,
meglio così.
“Come mai è così turbata?” chiese
il ragazzino, continuando a guardarla mentre camminavano.
“Io…? Non sono turbata.” rispose
confusamente Cameron.
“Quando mi ha detto che mi
portava dagli altri medici sembrava preoccupata per qualcosa.” disse
candidamente Elliot. Il suo tono di voce era pacato, come se volesse
tranquillizzarla per qualcosa: improvvisamente si sentì come se fosse lei la
bambina, in quella situazione.
Decise di essere sincera con lui:
“Il dottor House ha un caratteraccio. A volte è un po’ sgarbato…ma non ti
preoccupare se ti tratterà male, è un bravo medico e anche una brava persona in
fondo.” le ultime parole le disse con poca convinzione.
Elliot si avvicinò di più a lei e
le prese la mano, continuando camminare al suo fianco. Quei gesti infantili
contrastavano con l’aria adulta che assumeva a volte: quel bambino era
decisamente fuori dal comune.
Arrivarono davanti alla sala
equipe: Cameron scorse Foreman e House seduti davanti alla lavagna. Quella scena
le sembrò davvero insolita.
Entrò nella stanza, tenendo
Elliot ancora per mano.
House si voltò e guardò perplesso
l’insolita coppia.
“E’ nostro? Come vola il tempo…”
disse, rivolto a Cameron “Temo però di essermi perso il divertente e
fondamentale momento del suo concepimento.”
Cameron fu sollevata dalla
battuta di House, temeva di aver esagerato con lui durante la conversazione di
prima; fu contenta che non era cambiato niente.
“Lui è Elliot, il figlio della
signorina Pivet.” disse lei.
“E ha 12 anni, quindi evitiamo di
parlare di concepimento o cose simili.” aggiunse Chase, spuntando alle sue
spalle.
“Oh guarda chi si vede!” lo
accolse House, poi si rivolse ad Elliot con aria complice: “Chiedigli di
imitarti il canguro. Lo fa benissimo, è uno spasso. Sai…ce l’ha nel sangue!”
“Ho preparato la macchina per la
TAC, se ci sbrighiamo evitiamo di incontrare qualcuno.” Chase ignorò House e si
rivolse al ragazzo. “Va bene, dottor Chase” rispose questi con un filo di
voce.
“Ehi ehi ehi, forse è il caso che
spieghiamo al ragazzo un paio di cose: zio Greg è il capo qui dentro, quindi non
si esegue nessun ordine che non sia venuto dalla bocca di zio Greg, chiaro?”
chiese House avvicinandosi ad Elliot.
Cameron sentì che le stringeva la
mano un po’ più forte, ma la sua voce uscì limpida e sicura come sempre:
“Chiaro, signore. Ma è importante che io venga visto da meno persone possibili
qui dentro, o potremmo finire tutti nei guai, lei compreso. Quindi forse è il
caso di fare come dice il dottor Chase, non crede?”
House si avvicinò ancora di più
ad Elliot, guardandolo incuriosito. Col bastone separò la sua mano da quella di
Cameron. “Credo che tu sia più furbo di quanto sembri. Questo non vuol dire che
tu non sia un bravo ragazzo. Ma io tendo a fidarmi poco delle persone furbe, per
principio. Quindi…si, vai a fare la TAC e ci vai col dottor Foreman. Io devo
scambiare qualche parola col tuo nuovo fratello maggiore.” disse House
sprezzante.
Elliot alzò lo sguardo su Chase.
“Vai con Foreman.” gli disse quest’ultimo, sorridendogli per rassicurarlo.
“Se mi chiedono chi è?” chiese il
neurologo ai colleghi.
“Dì pure che è mio nipote e che
mi stai facendo un favore.” rispose Cameron.
“Avete già preparato un piano
particolareggiato…senza di me.” borbottò House.
Foreman precedette il ragazzino
fuori dalla stanza, Cameron fece per seguirli.
“No, tu e il tuo istinto materno
restate qui con me.” la fermò House.
31 gennaio, h
14.30
Ufficio di Cuddy
Wilson bussò ed entrò
nell’ufficio della Cuddy.
“Ciao.” disse lei,
sorridendogli.
“Ciao, com’è andata col
poliziotto?” si sedette.
“Insomma. Ho incontrato l’agente
Dereck in corridoio, incazzato a morte perché un certo dottor House aveva
sabotato il suo colloquio con Cameron.” Wilson alzò gli occhi al soffitto. Lei
continuò: “Dice di aver ottenuto tutte le informazioni che gli servivano per il
suo rapporto, ma che…praticamente ci odia e se facciamo qualche altra cazzata
finiremo in guai seri. Spero che House risolva in fretta il caso così da
liberarci di quella donna e di tutto il suo seguito di problemi, una volta per
tutte.”
“Non sei arrabbiata con House?”
chiese Wilson.
“Si, molto. Ma sinceramente non
ho la forza né il tempo di sostenere una conversazione con lui, adesso. Dereck
mi ha chiesto una dichiarazione scritta di quello che è successo…è il caso che
mi concentri su questa, sperando di migliorare le cose.” rispose la Cuddy,
tornando a posare le dita sulla tastiera del computer.
Wilson la guardò pensieroso per
qualche secondo. “Sicura che il tuo non volerci discutere non ha niente a che
fare col fatto che oggi è saltata fuori la vostra relazione di tempo fa?” le
chiese.
“No…” lei sembrò esitare. “Anche
se a dirti la verità, mi ha imbarazzato un po’ quella situazione. Non avevamo
mai fatto nessun accenno a quello che c’era stato tra noi. Niente di niente.
Doverlo tirar fuori in quel contesto non è stato facile per me, ma era
importante parlartene.” lo guardò, cercando di capire dalla sua espressione se
era rimasto ferito.
“A dirti la verità non mi ha
stupito sapere che ci eri stata a letto. Mi ha stupito però che entrambi non me
ne abbiate mai parlato. Ma non importa Lisa, sono passati tanti anni e
preferisco non pensarci.” detto questo Wilson si alzò, la Cuddy riprese a
scrivere, pensando che stesse per lasciare la stanza.
In realtà si diresse alla vetrata
e chiuse le persiane; poi tornò verso di lei e le prese una mano, facendola
alzare.
Si baciarono con passione, le
mani di lui le percorsero tutto il corpo.
La Cuddy si rese conto che poteva
entrare chiunque, ma non riusciva a fermarlo.
Wilson la prendeva tantissimo;
sapeva che aveva corteggiato e sedotto tante donne e questo le faceva un po’
paura ma, nello stesso tempo, l’affascinava.
D’altra parte,il modo in cui a
volte era impacciato con lei, la inteneriva.
Lui la spinse dolcemente contro
la parete, continuando a baciarla.
Ed un tratto sentirono aprirsi la
porta.
D’istinto, si separarono e si
voltarono verso di questa.
Sulla soglia c’era Foreman, che
li guardava sconcertato, a fianco a lui un ragazzino con gli occhi spalancati.
Dopo pochissimi istanti in cui
rimase immobile, Foreman tirò dietro di sé il ragazzo, balbettò uno “Scusate” e
richiuse la porta.
Wilson e Cuddy si guardarono
disorientati, poi lui non riuscì a trattenersi dal ridere. Lisa, rendendosi
conto di quanto erano stati fortunati che fosse stato Foreman ad aprire quella
porta, si passò le mani nei capelli scuotendo la testa.
Wilson si avvicinò ancora a lei,
prendendola per la vita, ma lei lo respinse, mettendo le mani sul suo petto. “Ho
già abbastanza casini, Wilson.” gli disse.
“Va bene” le disse, abbassando lo
sguardo ed allontanandosi da lei.
In quel momento avrebbe voluto
abbracciarlo, o dirgli quanto volentieri avrebbe chiuso quella porta a chiave e
passato tutta la giornata là dentro con lui.
Ma riuscì solo a guardarlo in
silenzio mentre lasciava il suo ufficio.
31 gennaio, h
14.40
Ufficio di
House
“Perché hai detto quelle cose ad
Elliot?” chiese Chase ad House, appena gli altri furono usciti. “E’ in un posto
che non conosce, sua mamma sta morendo, è già abbastanza spaventato di suo!”
fece il possibile per rimanere calmo.
House lo guardava impassibile,
allora lui continuò. “Non dovevi lasciarlo andare da solo con Foreman. E’ meglio
che io o Cameron restiamo con lui, gli avevo promesso che sarebbe stato così.
Rischia di perdere sua madre e non ha nessun’altro. Hai idea di come si sente
solo?” le ultime parole le pronunciò con particolare enfasi.
Anche Cameron notò che il
coinvolgimento di Chase era eccessivo e non disse nulla, limitandosi ad
osservarlo, leggermente a disagio.
“Chase, quel ragazzino vive da 12
anni in strada e parla come una persona laureata…credo non solo che ci sia
qualcuno che si occupi della sua sopravvivenza, ma anche qualcuno che lo abbia
educato e che gli abbia insegnato a dire alle persone quello che si vogliono far
sentir dire.” disse House, insolitamente tranquillo.
“Sei paranoico, come fai a vedere
una minaccia in un bambino di 12 anni?!” Chase incominciava a perdere la
pazienza.
“Non ho detto che è una minaccia,
ho detto solo che è molto furbo. Mi dispiace dirtelo, ma nonostante tu ti
identifichi così tanto in Eric…”
“Elliot.” lo interruppe
Cameron.
House la fulminò con lo sguardo,
poi andò avanti a parlare: “…Elliot, ti assicuro che c’è una cosa di lui che ti
manca considerevolmente: ed è proprio la furbizia.”
“Cosa vuoi dire?” chiese Chase,
confuso.
“E’ vero che quel ragazzo si fida
ciecamente di te e il motivo è uno solo: ha capito che lo difenderai a qualunque
costo, così come difenderesti un fratello o un figlio, o come difenderesti te
stesso…” House si voltò verso Cameron: “Forza psic, tu adori queste cose, non
dirmi che non hai avuto la mia stessa impressione.”
“Non so se è il caso…è una cosa
delicata.” disse lei, titubante.
“Appunto, e se non lo dici tu con
la tua delicatezza, lo dico io…” rispose lui.
“Ok, ok.” disse subito Cameron
“Chase…” lui si voltò verso la dottoressa, con sguardo interrogativo. “…forse la
storia di Elliot ti ricorda un po’ la tua. Insomma, anche tu ti sei trovato con
tua mamma che stava morendo quand’eri giovanissimo, e tuo papà era ormai
lontano. Magari senti la sua sofferenza come tua, ti senti l’unica persona che
può capirlo…” disse Cameron, cercando di mettere più tatto possibile nelle sue
parole.
“Mi credete così stupido? So
benissimo di ritrovarmi in alcuni aspetti della storia di Elliot, ma questo non
vuol dire che non sia obiettivo! Questo quadretto è veramente patetico.” rispose
Chase, indignato.
“Lo so. E immaginavo anche che
fossi cosciente delle tue proiezioni, identificazioni o quel che è. Però ero
curioso di vedere la scenetta che veniva fuori tra te e Cameron in questo
quadretto tragico. La crocerossina non si smentisce mai…ci mancavano solo
l’abbraccio e il grattino in testa” disse, arrogante, House.
“Sei un bastardo.” constatò
Chase, ma senza aggressività. Ormai si era rassegnato alle provocazioni del suo
capo, aveva capito che facevano più male a House stesso che a lui.
Si scambiò uno sguardo rapido con
Cameron, che sembrava stesse per scoppiare: Chase sperò che si trattasse di uno
scoppio d’ira e non di pianto. Non voleva che lei mostrasse le sue debolezze
davanti al suo capo, sapeva che se ne sarebbe poi vergognata a lungo.
“Raggiungo Foreman.” disse,
lasciando la stanza.
House nemmeno se ne accorse,
impegnato com’era ad osservare le espressioni che si susseguivano sul volto di
Cameron. C’era stata la sorpresa, poi un lampo di tristezza, poi la frustrazione
e poi la rabbia, più forte di tutti i sentimenti precedenti. Aveva le lacrime
agli occhi, lacrime d’ira però, la sofferenza era ormai sepolta sotto uno spesso
strato di rancore. Così come quel che di positivo avesse mai provato per
lui.
Per la prima volta si rese
pienamente conto di come, attivamente, combatteva contro i sentimenti buoni che
le persone provavano per lui, per paura di ricambiarli e di rimanere poi
deluso.
Cameron era il suo opposto: lei
continuava a crederci, e continuava a rimanere ferita. Ma non rinunciava.
Tranne forse che con lui; sentì
che questa volta era riuscito a convincere anche Cameron che con lui non c’era
niente da fare. Invece di provare un senso di vittoria, si sentì solo triste. Si
era fatto del male di nuovo; questa non poteva essere una vittoria, ma solo
l’ennesima sconfitta.
Si voltò dandole le spalle,
pronto a respingere in modo sprezzante i suoi tentativi di manifestargli la sua
rabbia o a vederla andare via senza dire una parola.
Cameron ebbe la forte tentazione
di prendere a pugni quella schiena, di urlargli in faccia quanto male stesse
facendo a lei, e a se stesso.
Già…anche a se stesso. Cercò di
ragionare un minuto: le sue dimostrazioni d’ira verso House non avevano mai
portato a nulla, non aveva senso fare una scenata.
Fece due grossi respiri per
calmarsi, poi si avvicinò a lui.
Gli posò una mano sul collo e la
fece scorrere lungo la sua spina dorsale, fino a fermarla sulla parte bassa
della schiena. Sentì che questa volta era lui a rabbrividire; questo le diede un
po’ di sicurezza.
House si voltò e la guardò
qualche secondo, disorientato. Poi le sorrise malizioso: “Devi avermi a
qualunque costo, vero Cameron?”
“Già.” si limitò a dire lei,
ricambiando il sorriso.
“Sei disposta a mettere a tacere
la tua dignità per questo?” la provocò lui.
“Non sto mettendo a tacere la mia
dignità. Sto mettendo a tacere le parole, quelle che sento da te e quelle che mi
viene voglia di dirti.” non smise di sorridergli, la mano sempre appoggiata
sulla sua schiena.
“Cosa c’è di più importante delle
parole?” gli chiese lui. Se ne accorse però mentre faceva quell’inutile domanda.
In quel momento le loro bocche dicevano qualcosa e i loro corpi si comunicavano
tutt’altro. Probabilmente era sempre stato così.
Aveva in mente tante frasi
taglienti con cui allontanarla definitivamente, ma la sua bocca si rifiutava di
aprirsi.
Fece passare un braccio dietro le
sue spalle e l’attirò a sé.
Non smisero di guardarsi mentre
si avvicinavano l’uno all’altro e, entrambi col cuore che scoppiava d’emozioni
indefinite, si baciarono.
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
CAPITOLO 11
31 gennaio, h
14.45
Ufficio di
House
Nei primi attimi, in cui le loro
labbra si sfiorarono, non smise di guardarla negli occhi. Voleva essere sicuro
di non vedere in lei compassione, o sensi di colpa. Ci vide qualcosa di
completamente diverso, e di intenso. Dal modo in cui Cameron lo tirava verso di
sé, decise che poteva essere desiderio. In realtà sapeva benissimo che non era
solo quello, e questa prospettiva per la prima volta non lo spaventò, ma lo rese
un po’ felice. Solo un po’.
Sapeva che non sarebbe durato a
lungo, sapeva che il suo masochismo lo avrebbe portato a farsi ancora del male.
Sentiva già i primi dubbi attanagliargli il cervello…
La prese per le spalle e la
allontanò.
“Cosa c’è?” disse lei,
disorientata.
“Non mi sembra un a buona idea.”
disse guardandosi in giro.
“Non ti sembra una buona idea qui
o non ti sembra una buona idea e basta?” chiese lei, con pacatezza, come se
parlasse a un bambino.
Questo incominciò ad irritarlo;
l’averla così vicina lo metteva a disagio.
Fece un passo indietro, cercando
di posare il suo sguardo su qualunque cosa tranne che sul suo viso, sul suo
corpo.
“Perché non mi guardi?” chiese
lei.
“Perché non so se saprei
trattenermi dal saltarti addosso.” rispose lui.
Cameron abbassò lo sguardo,
imbarazzata.
“Ti piacerebbe, vero?” continuò
House, sarcastico.
Sentiva di aver recuperato quella
supremazia che cercava di mantenere sempre su di lei, e su quasi tutti.
Tranne Wilson, forse.
Metterla in soggezione era
l’unico modo per non sentirsi minacciato da lei.
“House…” disse l’immunologa
esasperata, e si lasciò cadere su una delle sedie poste davanti alla
lavagna.
“Non combatti neanche un po’?!”
la stuzzicò lui “Forza, dimostra quanto ci tieni a me, che sei disposta a tutto
per avermi!”
“Credi davvero sia così?” le
chiese lei a bruciapelo.
Questa domanda lo disorientò; non
riuscì a trovare una risposta pronta e tagliente da rifilarle e Cameron
approfittò del suo silenzio: “Sei stato tu a baciarmi adesso.” precisò.
“Quindi non credi che ci sia
bisogno di combattere?” le chiese House.
“Credo solo che non c’è fretta,
che col tempo riuscirai a fidarti di me.” la sicurezza di questa affermazione
colpì lei stessa, tanto quanto House.
“Illusa…” la schernì lui.
Prese la cartella della Pivet dal
tavolo e gliela lanciò. “Smetti di pensare a tutte quelle sconcezze sul mio
conto e renditi utile. Se non ti viene in mente niente, trova almeno la mia
tazza. Potrei ricompensarti con qualcosa che ti piace…” si avvicinò alla
porta.
Lei lo guardò con un’espressione
sconcertata.
“Parlavo dell’ambulatorio…” disse
lui, canzonatorio. “Se trovi la tazza, ti abbono un turno.”
“E se trovo la diagnosi?” chiese
lei.
“Bhè in quel caso…no, direi che è
impossibile.” si voltò e sparì nel corridoio.
31 gennaio, h
15.00
Stanza macchinario
TAC
Chase raggiunse Foreman ed
Elliot.
Il neurologo aveva già preparato
il ragazzino, e stava per far partire l’apparecchiatura.
Chase gli fece cenno di fermarsi
e si avvicinò ad Elliot. “Sei pronto?” gli chiese.
“Si.” rispose lui.
“Forse Foreman te l’ha già detto,
comunque volevo assicurarti che non sentirai nulla, questo esame è completamente
indolore.” gli disse Chase.
“Grazie. E’ andato tutto bene col
suo capo?” chiese Elliot al medico.
Lui annuì. “Stai tranquillo, è
tutto a posto.” rispose.
Chase raggiunse Foreman, che fece
partire il macchinario.
“E’ un ragazzino coraggioso.”
disse al neurologo. “Che ne pensi?”
Foreman non rispose, era assorto
nei suoi pensieri.
“Ehi, Foreman! Tutto bene?” gli
chiese Chase, toccandogli un braccio per attirare la sua attenzione.
Il neurologo trasalì e si voltò
verso il collega.“Si…scusa.”
“Perché così pensieroso?” chiese
Chase.
Foreman rise sommessamente,
scuotendo la testa. “E’ che…ho visto una cosa, pochi minuti fa.”
“Cosa hai visto?” chiese Chase,
incuriosito.
“Ho visto Wilson e Cuddy che si
scambiavano effusioni appoggiati alla parete dell’ufficio di lei.”
“In che senso si scambiavano
effusioni? Stavano…” Chase fece gesto a Foreman di completare la sua frase.
“Si stavano baciando. Ma credo
che se fossi arrivato qualche minuto dopo avrei trovato i loro vestiti sparsi
sul pavimento.” disse lui, sorridendo malizioso.
“Oh mio dio…Wilson e la Cuddy?!
Questa non me l’aspettavo proprio…” disse Chase, sbalordito.
“Neanch’io. Infatti ci ho messo
qualche secondo a reagire, spero che il ragazzo non sia rimasto
impressionato.”
“Elliot? Che stavi andando a fare
con Elliot nell’ufficio della Cuddy?” chiese sospettoso all’amico.
“Secondo te? Credi che possiamo
fare esami su esami a un vagabondo minorenne senza avvisare Cuddy? Hai idea di
cosa ci fa quella donna se ci scopre? Noi non abbiamo il fascino di House. Se ci
va bene ci sospende, se ci va male ci troviamo in mezzo alla strada.” rispose
Foreman, serio.
“E’ solo una TAC! Vuoi
denunciarlo? Vuoi che finisca in un istituto?” Chase era indignato dalle parole
del neurologo.
“No. Voglio solo avvisare la
Cuddy. Se le spieghiamo come sta la situazione ci lascerà un po’ di tempo prima
di avvisare la polizia. Avrei trattato. Funziona.” Foreman sembrava sicuro di
quello che stava dicendo.
“Dovevi prima parlarne con me, ho
io la responsabilità di quel ragazzino.”
“L’unica responsabilità ce l’ha
sua madre, Chase. Gli hai promesso che non andrà in istituto e faremo in modo
che non succeda. Ma tu credi veramente che trovare un tetto sotto cui dormire, e
magari una famiglia, non gli farebbe bene?” Foreman lo guardò negli occhi,
finché Chase non resse più lo sguardo e abbassò i suoi.
“Non lo so.” disse,
abbattuto.
“Ne parleremo con Cuddy, è meglio
per tutti.” disse Foreman, ricominciando a studiare le immagini sullo
schermo.
“Ehi, cos’è che andate a dire
alla mamma, senza il mio permesso?!” House spuntò alle loro spalle.
“La mamma ti tradisce, House…” lo
schernì Chase.
“Già, e con il tuo migliore
amico!” rincarò la dose Foreman.
“Quegli idioti si sono già fatti
beccare?” chiese House, facendo gesto a Foreman di lasciargli il suo posto
davanti al computer.
“Sapevi che avevano una
relazione?” chiese Chase, meravigliato, mentre si spostava per lasciar
appoggiare il neurologo al suo sgabello.
“Si, ho detto a Wilson che gliela
cedevo per un po’, mentre io mi davo all’incesto…” guardò malizioso Chase, e
vedendo che non accoglieva la provocazione continuò “Io sono generoso: se
conosco una donna bella e brava a letto, la passo volentieri agli amici, senza
fare tante storie.” dopo aver dato una breve occhiata al monitor, si voltò
ancora verso Chase.
“Sei stato veramente a letto con
la Cuddy?!” chiese Foreman, sconcertato.
“Credete che vi abbia portato la
cicogna?” ironizzò House, poi si voltò nuovamente verso lo schermo. “Qui non c’è
niente. La paralisi viene dal cervello. Il ragazzo ti ha parlato di spasmi o
tremori avuti in passato?” chiese rivolto a Chase.
“No, mi ha detto solo che è
paralizzato da quando era molto piccolo. Non si ricorda com’è successo.”
“Peccato…Facciamo una risonanza
magnetica al cervello, anche se temo sarà inutile.” disse House.
“Dici che ha lo stesso disturbo
della madre?” gli chiese Foreman.
“Si, quindi non troveremo nulla
che spiega la paralisi.”
“E allora perché vuoi fare lo
stesso la risonanza?” domandò Chase.
“Perché magari troveremo, per
coincidenza, una macchia nel suo lobo temporale, come nella madre. Sempre per
coincidenza ovviamente!” disse, rivolto a Foreman.
“Sei ancora convinto che quella
lesione all’area di Broca c’entri qualcosa con i disturbi motori?!” chiese,
esasperato, il neurologo al suo capo.
“Già. Facciamo così: se non
troviamo la lesione, io lascio perdere la mia ipotesi e ti tolgo anche un turno
di ambulatorio. Se però la troviamo, mi sostituisci per tutta la settimana.”
disse House, porgendo la mano a Foreman.
“Non mi sembra uno scambio tanto
equo, comunque…” affermò, stringendo la mano al suo capo “…sono assolutamente
convinto che non troveremo niente nel lobo temporale, quindi accetto.”
“Fantastico…” disse House,
voltando le spalle ai colleghi.
“Ora lasciate quel bambino in un
posto dove non può vederlo nessuno, e raggiungetemi in sala equipe. E che
nessuno apra bocca con la Cuddy, aspettiamo che passi ancora un po’ di tempo con
Wilson, vi assicurò che diventerà più malleabile e ne trarremo tutti vantaggio.”
continuò, mentre si avviava lungo il corridoio.
“E’ veramente stronzo!” disse
Foreman, rivolto a Chase, che osservava il suo capo allontanarsi. “Credi sia
stato a letto con la Cuddy?” gli domandò il neurologo.
“Naaa” disse Chase, “Parla tanto
ma poi…” scosse la testa e andò a prendere Elliot.
Foreman non ne era così certo, ma
preferì lasciare il collega in balia delle sue convinzioni.
31 gennaio, h
15.15
Camera della signorina
Pivet
La paziente giaceva in
dormiveglia sul suo letto. Le avevano dato dei sedativi per permetterle di
riposare, ma la violenza degli spasmi e dei tremori le impediva di
addormentarsi.
In più ora c’era anche quel
giramento di testa costante; le bastava chiudere gli occhi per non capire più se
era sdraiata, in piedi o a testa in giù.
Aveva paura ma non smetteva di
sperare.
Sentiva che Elliot le era vicina,
sapeva che avrebbe cercato un modo di avvicinarla.
Questo la faceva felice ma la
spaventava allo stesso tempo: quello era un luogo ostile e sconosciuto al suo
bambino. Sapeva che lui non avrebbe avuto paura, ma temeva che qualcosa andasse
storto.
C’era la polizia, lei era in
arresto.
Cercò di non pensare a queste
cose e di concentrarsi.
Doveva pregare con tutte le sue
forze la Dea Madre di aiutare Elliot a raggiungerla, e a salvarla. Quel mal di
testa le impediva di sentire la voce del suo bambino che percepiva di tanto in
tanto, nella testa.
Incominciò a respirare più in
fretta, sperando che in questo modo le sarebbe arrivato più ossigeno al cervello
e sarebbe riuscita a concentrarsi.
Ad un certo punto spalancò gli
occhi e la bocca. Non respirava più.
Le macchine al suo fianco
incominciarono a fare un suono che non aveva mai sentito, che la terrorizzò.
Questo profondo terrore fu
l’ultima cosa che provò prima di perdere conoscenza.
31 gennaio, h
15.15
Ufficio di
House
Tutti e quattro i medici si
riunirono nella sala equipe; Elliot sedeva per terra, nascosto dietro la
scrivania di House, e leggeva un libro.
“Quando ti ho detto di lasciarlo
da qualche parte dove non può vederlo nessuno, intendevo in bagno o in qualche
sgabuzzino, non nel mio ufficio.” protestò House, rivolto a Chase.
“Così possiamo tenerlo d’occhio,
vista la sua furbizia non possiamo rischiare di lasciarlo in giro da solo per
l’ospedale. Potrebbe uccidere un infermiere, rubargli i vestiti ed entrare nella
camera della madre eludendo la sorveglianza, non credi?” lo canzonò questi di
rimando.
House lo fulminò con lo sguardo e
si voltò verso Foreman. “La risonanza?”
“Ora la macchina è occupata, tra
mezz’ora, un’ora al massimo, si potrà fare.” rispose.
“Cameron, tu hai concluso
qualcosa durante la nostra assenza, oltre a crogiolarti nei tuoi sogni erotici?”
le chiese il suo capo.
“Si House…Questa macchia nel lobo
temporale…” attaccò la lastra alla lampada apposita.
House gettò uno sguardo
provocatorio a Foreman.
“…credo che possa avere a che
fare col disturbo.” disse la dottoressa. “Questo tessuto cicatrizzato, oltre ad
essere una lesione, è una massa compatta che avrebbe potuto nascondere
qualcosa…”
“Credi che ci sia un tumore?” le
domandò Chase.
“No, credo che ci sia qualcosa
che possa essere cresciuto lì indisturbato e poi possa essersi diffuso in altre
zone del cervello, o nel cervelletto.” concluse Cameron.
“E hai idea di cosa possa essere
questo qualcosa oppure è un’ipotesi scaturita dalle tue fantasie infantili,
mentre quelle adulte erano impegnate a pensare ad altro…?” le chiese House
guardandola incuriosito. Lei stava per ribattere ma lui le fece gesto di stare
in silenzio, riflettendo.
“Intendevi dire che ci può essere
un parassita, ad esempio, che può essere cresciuto lungo la lesione al lobo
temporale per poi diffondersi e…” le disse, soprappensiero.
“…e provocare tutti quei danni.
Si, pensavo a qualcosa del genere. Solo che non mi risultano esserci parassiti
che si possano muovere così in fretta.” asserì Cameron.
“Abbiamo fatto un sacco di esami,
se c’erano tracce di un parassita ce ne saremmo accorti.” tentò di replicare
Foreman.
“Si, di un parassita qualunque,
ma non di uno che agisce così in fretta. Magari un animaletto insolito che non
siamo abituati a trovare nel cervello della gente.” disse House.
“Mi sembra un’ipotesi un po’
azzardata…” tentò di ribattere Chase.
“Lo è. Ma è l’unica a sembrare
almeno lontanamente probabile. L’unica luce in fondo al tunnel che abbiamo.”
disse House, togliendo la lastra dalla lampada.
“Quindi cosa facciamo? Come si fa
a trovare un parassita sconosciuto nel vasto cervello di una donna adulta?”
chiese Foreman, scettico.
“Per adesso non facciamo niente.
Abbiamo aspettato fino ad ora e la paziente non sembra in imminente pericolo di
vita. Vediamo prima il risultato della risonanza del ragazzo.” ordinò House,
indicando Elliot con un gesto della testa.
Il ragazzino continuava a
leggere, apparentemente tranquillo.
Ad un certo punto i quattro
cercapersone incominciarono a suonare contemporaneamente.
“La Pivet.” disse Cameron,
prendendo il suo.
“Muoviamoci.” esclamò Foreman,
dirigendosi verso la porta.
Chase sembrò esitare.
“Elliot?”
“Resto io con lui.” disse
House.
Chase continuò a non muoversi,
indeciso se fidarsi o meno.
“Andiamo Chase, starà bene, non è
un mostro.” gli disse Cameron, tirandolo leggermente per un braccio.
“Sei veramente un tesoro…”
sussurrò House tra sé e sé, sarcastico.
Chase esitò ancora qualche
secondo ma poi seguì i colleghi, lanciando un rapido cenno al ragazzino.
Il diagnosta si voltò verso
Elliot che, lasciato cadere il libro tra i piedi, lo fissava con un sorriso che
inquietò anche l’imperturbabile House.
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Capitolo 12 *** Capitolo 12 ***
CAPITOLO 12
31 gannaio, h 15.30
Ufficio di
House
House raggiunse il ragazzino nel
suo ufficio, e gli fece gesto di alzarsi.
Lui ubbidì, tenendo con un
braccio il libro, l’altro ciondolante al lato del corpo.
Si avvicinò e lo afferrò per il
braccio paralizzato.
Elliot sembrò trasalire, ma lo
lasciò fare senza protestare.
House gli sollevò il braccio e
poi lo lasciò cadere; fece così alcune volte.
“Cosa sta facendo, dottore?”
chiese ad un certo punto Elliot.
“Ti sto distraendo in modo che tu
non mi chieda dove sono corsi Chase e gli altri.” gli rispose, sedendosi e
trovandosi così alla stessa altezza del ragazzino. “Perché dovrei risponderti
che tua madre ha avuto un arresto respiratorio, e questa è una bruttissima cosa.
Tu ti metteresti a piangere, e io mi irriterei e ti porterei dalla crudele zia
Cuddy per farti spedire in qualche orfanotrofio.”
Elliot lo guardava serio. “So che
mia mamma sta molto male, dottor House. E so che non morirà. I suoi medici la
faranno respirare, adesso è già fuori pericolo.”
In quel momento Foreman si
affacciò alla porta “Arresto respiratorio, i polmoni sono paralizzati. L’abbiamo
intubata ma…” si fermò, incontrando lo sguardo del ragazzino.
“…ma non potrà durare così a
lungo. Si, lo so. Dillo pure davanti ad Elliot, tanto è una roccia.” concluse
House, tirando una pacca sulla spalla del ragazzo, talmente forte che gli fece
perdere l’equilibrio.
“Stai attento, è un bambino!” lo
ammonì Foreman.
“Siete una massa di ingenui…”
disse House tra sé e sé.
“Io vado a preparare la macchina
per la risonanza. Tra poco ti vengo a prendere, Elliot.” Il ragazzino annuì
rivolto al neurologo. “Nel frattempo…cercate di nascondervi. Se vi vede Cuddy
dovremo raccontarle qualcosa.”
Foreman se ne andò e House si
alzò dalla sedia.
“Vieni” disse al ragazzo,
prendendo il giaccone di Foreman e gettandoglielo addosso. “metti questo.”
Uscirono sul balconcino,
chiudendosi la porta alle spalle.
Aveva ricominciato a nevicare e
il freddo era pungente: difficilmente qualcuno si sarebbe avventurato là
fuori.
“Ora ti aspetteresti che io ti
chiedessi come mai sapevi che tua mamma era ormai fuori pericolo…” disse House
al ragazzo “…ma non te lo chiedo, perché ce l’ho già una risposta. Tu sei
cresciuto in mezzo alla strada, quindi per sopravvivere probabilmente avrai
dovuto rubare, oppure chiedere l’elemosina o roba simile. Sei molto sveglio, e
soprattutto furbo. Hai anche una capacità che ho anch’io; quella di osservare
molto bene la gente e capire quindi tante cose. Poi sei colto. Non sei un
barbone qualunque insomma…sei un barbone intelligente, Elliot.”
“E’ la seconda volta che mi
chiama per nome, dottore. Lei non ricorda mai i nomi dei pazienti.” replicò
Elliot “Questo significa o che si è particolarmente affezionato a me, oppure che
io la spavento. Non credo che si tratti della prima motivazione.”
“Tu non mi spaventi, piccolo
mostro presuntuoso. Il tuo nome me lo ricordo perché è quello del bambino che si
era portato a casa ET, e tu me lo ricordi. Non il bambino, l’alieno.” disse
House, fingendosi offeso.
“Forse non la spavento io, ma la
spaventa il modo in cui i suoi colleghi mi guardano. Soprattutto il dottor
Chase.” insistette il ragazzo. “Ha paura che io possa manipolarli, vede in me
una minaccia.”
Le ultime parole di Elliot erano
vere. House temeva che quel ragazzino, se avesse voluto, avrebbe potuto
raggirare Chase e Cameron come voleva. Foreman forse no, ma non ne era così
certo.
“Anche se fosse vero, tu non sei
una minaccia per me. Ti tengo d’occhio ragazzino, ogni tua mossa sarà sotto il
mio controllo.” gli disse House, ostile.
“Io voglio solo vedere mia madre,
dottor House.” rispose Elliot quietamente, guardandolo negli occhi.
L’aria innocente che aveva il
ragazzo in questo momento suggerì ad House il fatto che forse non era così
pericoloso come sembrava. Pochi istanti dopo si rese però conto che
quell’immagine di bambino indifeso era quella che vedevano i suoi medici, quella
che faceva abbassare la guardia.
Lui non voleva farlo.
C’era la possibilità che quel
ragazzino fosse innocuo, solo molto suggestionante.
Ma il suo istinto gli diceva che
non era solo quello.
“Hai freddo?” gli chiese,
burbero.
“No dottore.”
“Bene. Resta qui finché non viene
Foreman a prenderti, io ho delle cose da fare.”
Detto questo rientrò nel suo
ufficio, chiudendosi la porta alle spalle e lasciando Elliot sotto la neve.
31 gennaio, h 15.40
Princeton Plaisboro Teaching
Hospital
Foreman stava camminando nel
lungo corridoio che portava alle sale coi macchinari.
Sentì dei passi veloci e decisi
provenire da dietro di lui e si voltò quando lo raggiunsero.
“Ciao Foreman.”
“Ciao Cuddy.”
Il neurologo non poté fare a meno
di sorridere, ma lei tentò di ignorare la sua espressione.
“Avevi bisogno di qualcosa…prima,
quando sei passato…” la Cuddy era molto imbarazzata, ma cercava di nasconderlo
usando il suo solito tono di voce autoritario.
Foreman fu preso alla sprovvista;
aveva dimenticato che Cuddy probabilmente aveva visto Elliot.
Decise comunque di mentire, ormai
riteneva anche lui indispensabile fare quegli esami al ragazzo, e la
responsabilità di quello che stava accadendo sarebbe comunque ricaduta su
House.
“No, niente di importante…”
disse.
“C’era un bambino con te.”
replicò lei.
“Si…l’avevo trovato lì nei
paraggi, si era perso. Visto che non c’era nessuna infermiera disponibile avevo
pensato che potesse essere qualcuno
che tu conoscevi.” fu la prima cosa che gli venne in mente ed era una pessima
scusa, ma la Cuddy era troppo presa da altri pensieri per far caso al fatto che
lui stava mentendo spudoratamente.
“Ah…no, non l’ho mai visto.”
rispose lei, confusa.
“Si, ma non ti preoccupare. L’ho
affidato a un’infermiera, sicuramente avranno trovato i suoi genitori.” disse
lui, poco convinto.
“Bene.” asserì lei, sorridendo
mentre si tormentava le mani.
Anche Foreman sorrise, ma
entrambi restarono immobili, uno di fronte all’altra.
“Comunque, per quello che hai
visto...” disse ad un tratto Cuddy, prendendo coraggio, ma senza riuscire a
terminare la frase.
“Non ti preoccupare, è colpa mia,
dovevo bussare.”
“Si, quello sicuramente.” rispose
lei, con tono severo. “Però…” la sua voce tornò ad essere esitante “..vorrei che
non ne parlassi con nessuno, per favore.”
Il silenzio di Foreman fece
capire alla Cuddy che era troppo tardi…
“E’ che House lo sapeva già.”
disse Foreman, cercando di scaricare la colpa.
La Cuddy alzò gli occhi al
cielo.
“Va bene, almeno fate in modo che
non lo sappia nessuno al di fuori della vostra equipe, chiaro?” la fermezza
della sua domanda fece pentire Foreman di averle mentito riguardo al bambino. Se
gli avesse scoperti sarebbero finiti nei guai.
“Certo, sono affari vostri, ci
mancherebbe.” rispose al suo capo.
Cuddy sembrò tranquillizzarsi. “A
dopo.” mormorò e, fatto dietro front, tornò sui suoi passi.
31 gennaio, h
15.45
Ufficio di House
Foreman preparò la macchina e
andò a prendere Elliot.
House l’aveva lasciato sul
balcone, sotto la neve, mentre lui si era rimesso a studiare attentamente la
lavagna.
“Ma sei impazzito?!” gli disse,
aprendo la porta del balcone per far rientrare il ragazzo.
“Non si preoccupi dottor Foreman,
gli ho detto io che poteva lasciarmi qui. Grazie al suo giubbotto non ho
sofferto il freddo.” Elliot passò il giaccone a Foreman, sorridendogli.
“Visto? Non farei mai del male a
qualcuno senza il suo consenso. Lui me l’ha dato il consenso…” disse House,
compiaciuto.
Foreman preferì evitare di dire
qualunque altra cosa e, fatto cenno al ragazzo di seguirlo, andò a fargli la
risonanza.
Dopo pochi minuti Wilson entrò
nel suo ufficio.
“House.” toccò una spalla
all’amico.
Questi sobbalzò, preso alla
sprovvista.
“Ti eri addormentato?!” chiese
Wilson.
“No...” rispose House, assonnato.
“E’ che faccio fatica a concentrarmi.”
“Come mai?” Wilson prese una
sedia e si mise tra lui e la lavagna.
“Vuoi anche farmi sdraiare su un
lettino?” chiese House ironico, alzandosi per preparare il caffè.
Wilson lo seguì con lo sguardo.
“Foreman ha visto me e Lisa che ci baciavamo.”
“Si lo so. Siete due idioti.”
rispose House.
“Hai solo questo da dirmi?”
“No, ma al momento è l’unico
pensiero che mi passa per la testa.”
“Grazie, se non avessi un amico
come te, non so come farei.” Wilson scosse la testa, prendendo la tazza di caffè
che House gli stava passando.
Quest’ultimo tornò a sedersi di
fronte a lui.
“Quella non è la tua tazza.”
disse Wilson, notando l’oggetto a cui House stava portando le labbra.
“La mia tazza è scomparsa.
Aspetto 24 ore prima di dare l’allarme ufficiale. Cameron comunque si sta già
dando da fare nelle ricerche. Con quello che le ho promesso...” rispose il
diagnosta, facendo un sorso di caffè.
“Stai bevendo dalla tazza di
Cameron.” osservò Wilson.
“Già, non so perché ma l’idea di
appoggiare le labbra dove hanno appena fatto lo stesso Foreman o Chase mi fa un
po’ senso. A te no, a quanto vedo.”
Wilson guardò la sua tazza poi
fece spallucce. “E’ solo una tazza.” disse, incominciando a bere.
Finirono in silenzio il loro
caffè.
“L’idea di appoggiare le labbra
dove l’ha fatto Cameron vedo che però non ti dispiace.” lo provocò Wilson.
“E’ successo ancora.” disse
House, pensieroso.
“Cosa?” chiese l’oncologo.
“Ci siamo baciati. Anzi
precisiamo, come ha fatto lei: io l’ho baciata.” disse House, appoggiando la
tazza sul tavolo.
“Qui?” chiese incredulo
Wilson.
“Si, ma non era in programma. Mi
ha preso alla sprovvista.” vedendo che Wilson non diceva niente andò avanti “Le
avevo detto qualcosa di cattivo, per farla arrabbiare. Lei invece di incazzarsi
o andarsene si è avvicinata e mi ha abbracciato. E’ una ruffiana…non me
l’aspettavo, me la sono trovata addosso…” House sembrava confuso.
Wilson sorrise. “Brava Cameron.”
disse tra sé e sé.
“Cos’hai detto?” gli chiese
House, sporgendosi verso di lui.
“Niente, lascia stare. Bhè,
cos’hai intenzione di fare?” chiese all’amico.
“E’ strana…dici che dovrei
licenziarla?”
“Cosa?! Se ti limitassi ad
invitarla ad uscire?” tentò Wilson.
“No…Siamo già usciti insieme , è
andata male. Poi probabilmente rifiuterebbe.”
“Stai scherzando?! Non era pazza
di te?”
“Lo è. Però…è cambiato qualcosa:
si comporta in modo incoerente.” House sembrò riflettere qualche secondo; Wilson
preferì non interromperlo.
Passarono alcuni minuti, in cui
l’oncologo rispettò il silenzio dell’amico.
“House? Posso chiederti una
cosa?” gli chiese poi.
“Basta che non si tratti di un
altro prestito!” replicò House.
“Com’è andata tra te e Lisa?
Cioè…com’è che siete finiti a letto assieme?” chiese Wilson ignorando la sua
battuta.
“Sei masochista.” asserì il
diagnosta.
“Si, ma rispondi per favore.”
“Qualche sera dopo che Stacy se
n’è andata, sono andato a casa della Cuddy. Sapevo che avevano parlato, e volevo
sapere cosa si erano dette. Lei non voleva neanche farmi entrare…”
Wilson gli fece cenno di andare
avanti.
“Insomma…una parola tira l’altra.
Un bicchiere di vino tira uno di rum…”
“Eravate ubriachi?” chiese
Wilson, perplesso.
“Già, la prima volta si. Questo
ti solleva?” gli domandò House, di rimando.
“A dirti la verità si… Ma non è
per questo che ti ho chiesto com’era andata.”
“E perché allora?” gli chiese
House.
“Perché magari potresti andare a
trovare Cameron una sera di questa. Con una scusa qualunque…so che non ti
sarebbe difficile trovarla.” consigliò Wilson all’amico.
“Mi stai spingendo spudoratamente
tra le sue braccia! Ma da che parte stai?”
“Non è una guerra House. Se lo
fosse, comunque, starei dalla tua parte.” gli disse Wilson, alzandosi e
posandogli una mano sulla spalla.
“Buttati. Se poi ti fai male, ci
sono io.” continuò.
“O la Cuddy…” ribatté House,
malizioso.
“So che non lo faresti.” disse
l’oncologo, con sicurezza.
“Io non ne sarei tanto sicuro…”
insistette House.
“Io si.” Wilson posò la tazza
accanto a quella di Cameron, e lasciò la stanza.
31 gennaio, h
16.00
Camera della signorina
Pivet
La paziente era stata incubata,
il suo torace si alzava e si abbassava, con ritmo regolare.
Cameron era seduta accanto a lei,
e osservava attentamente il monitor che indicava il suo battito cardiaco e la
pressione.
Chase era ai piedi del letto, e
guardava le due donne.
“Cameron” disse alla collega “Non
credi che Elliot le assomigli davvero tanto.”
La dottoressa posò lo sguardo
sulla Pivet. “Si. Se qualcuno vedesse il ragazzino, lo collegherebbe facilmente
a lei. Chase…scusa per prima, non volevo offenderti.”
“Non ti preoccupare. Dal primo
momento che hai visto me ed Elliot assieme, ti è venuta in mente la storia della
mia infanzia. Hai fatto bene a dirmelo: è brutto quando so cosa sta passando
nella testa delle persone, ma tutto viene taciuto e non se ne può parlare.”
Cameron lo guardò perplessa: non
aveva mai sentito parlare così il suo collega.
“Ti trovo strano oggi. Quel
ragazzino sembra ti abbia scioccato parecchio.” Cameron decise di non
nascondergli quello che pensava.
“Lo ha fatto.” rispose Chase,
assorto. “House si è accorto che la sua tazza è sparita?” chiese
improvvisamente, cambiando discorso.
“Si. Ha ordinato anche a te di
cercargliela?” gli chiese Cameron, divertita.
“No. Però so che fine ha fatto.”
Chase non poté fare a meno di sorridere.
Cameron gli rivolse uno sguardo
interrogativo.
“Ieri sera mi ha fatto veramente
incazzare…ho preso la sua tazza e l’ho lanciato contro il muro. E’ andata in
mille pezzi.” confessò Chase.
Cameron continuò a guardarlo
senza parlare, ora sbalordita.
“E’ solo una stupida tazza. Io ho
perso tante cose davanti a lui: la mia dignità, il mio onore…cosa vuoi che sia,
in confronto, quell’inutile oggetto?” le domandò lui.
“Capisco cosa intendi dire.”
rispose lei, soprappensiero. “Credo però di aver capito che non è così: a te
sembra di star sacrificando la tua dignità, ma in realtà è solo quello che lui
ti fa credere. In ogni sua battuta tagliente, c’è un lato nascosto, difficile da
vedere…” tentò di spiegare Cameron “Ad esempio ti prende spesso in giro per le
ipotesi fantasiose che tiri fuori mentre cerchiamo di fare una diagnosi…però non
le scarta mai senza ragionarci su. Insomma: ti considera, ti stima…è che non è
in grado di ammetterlo neanche a se stesso.”
“Molto fantasiosa come teoria…”
disse Chase, mettendosi dietro di lei e appoggiandole entrambe le mani sulle
spalle. “Per lo stesso motivo, ad esempio, potrebbe allontanare una bella donna,
ma solo dopo averle dedicato un sacco di battutine pungenti. Così le
dimostrerebbe che le piace, ma che non lo vuole ammettere a se stesso..” Chase
abbracciò la collega da dietro. Cameron percepì una certa tenerezza in quel
gesto.
“Allison, sei innamorata di lui,
lo sei sempre stata.” le disse, senza smettere di tenerla stretta.
Lei sorrise, appoggiando le mani
sulle sue.
“Non sono sicura sia questo
Chase, ma ho bisogno di stargli vicino per capire.” si voltò per guardarlo negli
occhi. “Tu mi piaci molto, davvero. Ma è un’altra cosa….”
“Lo so, dottoressa Cameron.” le
rispose, sciogliendo l’abbraccio a sedendosi di fronte a lei, sul letto della
Pivet. “Mi va bene così. Mi sono tolto lo sfizio di venire a letto con te e
ora…mi accontento del nostro rapporto professionale.”
“E della mia amicizia.” aggiunse
lei, sorridendogli.
“Certo, e della tua amicizia.”
rispose al suo sorriso.
I loro cercapersone suonarono,
per la seconda volta in pochi minuti.
“Torniamo alla base.” disse
Chase, rivolto alla collega.
Entrambi lasciarono rapidamente
la stanza.
31 gennaio, h
16.15
Ufficio di House
“Foreman ci porta buone nuove!”
gli accolse House, mostrando loro il risultato della risonanza magnetica.
“Guardate un po’ qui.” Indicò una macchia sulla lastra.
“Chase, Cameron, salutate il
vostro fratellone! Foreman passerà molti dei suoi prossimi giorni al piano di
sotto!”
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Capitolo 13 *** Capitolo 13 ***
CAPITOLO 13
31 gennaio, h
16.20
Ufficio di House
“Stessa macchia, stesso posto!”
esclamò House, vittorioso. “Ho vinto la scommessa!”
Foreman scosse la testa
rassegnato, osservando la lastra.
“L’elenco dei miei turni della
settimana è sulla scrivania, prego.” House indicò al neurologo una pila di
scartoffie.
“Va bene House, farò i tuoi
turni. Smettila di gongolare come una bambino però, sei ridicolo.” Foreman
sembrava molto seccato.
“E’ il sapore della vittoria, ha
un effetto…inebriante!” insistette House.
“Come fai a sentire il sapore
della vittoria, quando hai una paziente che sta morendo senza che tu sia
riuscito neanche a capire di che genere di patologia si tratta?” gli chiese
Chase.
“Guastafeste!” esclamò House,
voltandosi verso quest’ultimo. “Vai a sfogare le tue frustrazioni da qualche
altra parte! A proposito…” lo avvicinò di qualche passo “…tu sai qualcosa della
mia tazza?”
“House, per favore…” Foreman era
esasperato.
“No, non ho visto la tua tazza.”
mentì Chase. “Ora cosa facciamo?” chiese poi, accennando alla lastra del
ragazzo.
House strinse gli occhi e sembrò
studiarlo per qualche istante, poi si voltò anche lui verso la lampada.
“Rivoltatelo come un calzino…” disse alla sua equipe.
I tre medici si guardarono
perplessi, senza accennare a muoversi.
“Cosa?” chiese titubante
Cameron.
“Prendete quel ragazzino e
fategli tutti gli esami possibili, il più in fretta possibile. Dobbiamo capire
perché in lui quella macchia ha provocato solo la paralisi ad un arto, mentre
sta uccidendo sua madre.” spiegò House, guardandoli serio.
“Quindi adesso la macchia, da
qualcosa che può avere a che fare col disturbo è diventata quella che
ha provocato il disturbo?! Ma ti sembra possibile che una lesione all’area
di Broca possa aver provocato tutto quello?” Foreman era spazientito
dall’ostinazione del suo capo.
“No, ma l’ipotesi di Cameron
sembra sempre più possibile. Può essere qualcosa che si è nascosto dietro a
quella cicatrizzazione e che ad un certo punto ha incominciato il giro turistico
del cervello. Nel bambino però ha preso casa nel primo luogo confortevole che ha
trovato; nella Pivet invece sta facendo l’interrail…e lascia qualcosa di sé
ovunque passa…” disse House, riflettendo ad alta voce.
“Oppure si prende un
souvenir…ovunque passa.” disse Cameron, anche lei assorta.
Chase e Foreman si guardarono
dubbiosi.
“Questa metafora fa schifo, puoi
spiegarti meglio?” chiese Wilson, apparendo all’improvviso dietro i medici.
House non rispose, sembrava
assente: era perso nei suoi pensieri.
“Pensavamo ad un parassita, che
si è diffuso nel cervello e sta distruggendo il sistema nervoso. In questo caso
il cervelletto della paziente…e ora sembra essere arrivato al tronco
encefalico.” spiegò Cameron all’oncologo.
“E’ in dirittura d’arrivo…”
commentò Wilson.
“Già. Potrebbe agire diffondendo
qualcosa nel cervello oppure…avevo pensato che magari potrebbe sottrarre
qualcosa…” tentò Cameron, guardando il suo capo.
“Non capisco, Allison, cosa
potrebbe sottrarre per provocare sintomi come quelli che stiamo vedendo.” chiese
l’oncologo a Cameron.
“Ehi ehi ehi! Non permettergli di chiamarti
per nome, ok?” sboccò House, rivolto alla dottoressa.
Questa posò confusamente lo
sguardo prima sul suo capo, poi su Wilson e ancora su House. “Perché?” chiese
titubante.
“Chiedilo a Lisa.” disse Foreman,
ridendo.
Cameron sembrò non capire e,
ignorandoli, cercò di andare avanti
a spiegare la sua ipotesi: “Credo che se fosse un parassita potrebbe…”
“Basta così.” la interruppe
House. “Ho capito cosa intendi e può essere un’idea interessante. Brava.”
Lei abbassò lo sguardo, in
imbarazzo. Non ricordava di aver mai ricevuto un complimento così diretto dal
suo capo, per il suo lavoro.
“Adesso però fate tutti gli esami
necessari al marmocchio, e coi dati in mano organizzeremo un piano
d’azione.”
“Va bene generale.” disse Chase,
prendendolo in giro.
House lo guardò torvo. “Tu stai
lontano dal ragazzino, ti occuperai di tenere in vita la Pivet. Dov’è?” chiese
poi House, guardandosi in giro alla ricerca di Elliot.
“L’ho lasciato in bagno.” disse
Foreman.
“L’hai lasciato solo?” chiese
House, sconcertato.
“Dai House, è un ragazzino, cosa
vuoi che faccia?”
“Sei un idiota. Andate a
prenderlo e fategli subito un prelievo, tanto per cominciare.”
I tre medici uscirono dalla
stanza, ognuno col suo compito.
Wilson guardava House,
sorridendo.
“Cosa vuoi?” gli chiese
questi.
“Le hai detto che è brava. Tu non
dici mai a qualcuno della tua squadra che è bravo. E’ una questione di
principio: solo insulti, niente complimenti. Hai paura che si abituino troppo
bene.”
“E’ vero. Ti ha disorientato?”
chiese House all’amico, incuriosito.
“Si. Incominci a perdere il
controllo.” rispose Wilson, dando una pacca sulla spalla del diagnosta.
“Ti sbagli. Lei sta giocando a
disorientarmi…voglio fare lo stesso.” asserì House, lo sguardo perso verso la
porta da dove era appena uscita Cameron.
“Quando la finirai di fare il
bambino e prenderai di petto i tuoi sentimenti?” gli chiese Wilson, esasperato
dal suo comportamento.
“Ma smettila di fare la
femminuccia!” lo insultò House, con finto disprezzo.
Wilson scosse la testa
sconsolato, facendo per andarsene.
In quel momento si sentirono dei
passi veloci avvicinarsi all’ufficio.
Entrambi i medici alzarono lo
sguardo verso la porta.
“Elliot.” disse Foreman,
ansimando per la corsa. “Non lo
troviamo.”
31 gennaio, h 16.50
Princeton Plaisboro Teaching
Hospital
“Bisogna avvisare la Cuddy.” era
la terza volta che Foreman tentava di convincere il suo capo ad avvisare Lisa
della scomparsa del ragazzo.
“Se tu non l’avessi lasciato
solo, a quest’ora avremmo già i risultati degli esami e staremmo curando sua
madre!” Chase appariva molto ansioso, ed aggredì Foreman.
“E se tu non fossi nato in
Australia non avresti un accento così fastidioso.” si inserì House, rivolto a
Chase. “Ma tu sei nato lì e la tua voce è terribilmente irritante. Smettila di
fare la mamma isterica e continua a cercare!”
“Abbiamo guardato ovunque.
Bisogna avvisare la Cuddy, ci farà guardare le registrazioni e…” ritentò
Foreman.
“No!” gli tolsero la parola House
e Chase assieme.
“Se lo dici alla Cuddy chiamerà
la polizia e Elliot finirà in un istituto.” disse Chase, a bassa voce.
“Se lo dici alla Cuddy chiamerà
la polizia e non potremo più mettere sotto sopra quel ragazzo per vedere
cos’ha!” neanche la motivazione di House convinse il neurologo.
In quel momento arrivò Cameron,
con passo svelto.
“Ha tentato di avvicinarsi a sua
madre?” le chiese House.
“No. Io non sto più a fare la
guardia ai poliziotti che fanno la guardia alla Pivet! Manda qualcun’altro.” la
dottoressa sembrava molto nervosa.
“Sicura che non l’hai visto?”
insistette House, insospettito dalla sua irrequietezza.
“No.” ribadì lei, guardandolo
negli occhi. “E io lì non ci torno.”
“Perché?” chiese Foreman
spontaneamente.
“Perché sono stufa…” indicò
confusamente la direzione da cui era venuta.
“I poliziotti stanno esagerando
con gli apprezzamenti?” le chiese House.
“Decisamente.” si limitò a
rispondere Cameron, tentando di trattenere lacrime di rabbia.
“Scusa, non ci avevo pensato. Ora
ci va Chase, se vanno pazzi per le more, un biondino così lo lasceranno in
pace.” disse House, mettendole una mano sulla spalla, comprensivo.
Cameron lo fissò qualche secondo,
disorientata dal suo insolito comportamento, almeno tanto quanto gli altri due
medici.
“Ehi, io non vado dalla Pivet. Ci
sono già i poliziotti. Io continuo a cercare Elliot.” protestò Chase.
“Siamo in quattro…” disse
Foreman.
“Cinque, c’è anche Wilson.” lo
interruppe House.
“…cinque.” proseguì il neurologo
“In cinque a cercare un ragazzino in questo immenso ospedale senza poter
chiedere se qualcuno l’ha visto in giro, perché c’è il rischio che si capisca
che lo stiamo cercando? House, ti rendi conto che basta vederti girare per i
corridoi per allarmare la Cuddy? Se lo scopre da sola non ci sarà modo di
ragionarci, se invece glielo diciamo noi… Dobbiamo dirlo alla Cuddy!”
“Dovete dirmi cosa?” Lisa
comparve accanto ai medici, prendendoli di sorpresa. Tutti e quattro
trasalirono.
“E’ incinta!” esclamò House,
prendendo Cameron per un braccio e spingendola di fronte alla Cuddy. “Non
sappiamo chi è il padre…ne stavamo discutendo. Foreman sostiene che potresti
esser tu ma…gli stavo appunto assicurando che sei una donna.”
Il neurologo guardò House,
sconvolto.
“Cosa state combinando?” disse la
Cuddy, ignorando il diagnosta. “Un paio di infermiere mi hanno avvisato che c’è
il dottor House che gira a piede libero per l’ospedale insieme alla sua
equipe…non so perché ma quando ti muovi troppo si crea un allarmismo generale
qui in ospedale, che arriva sempre alle mie orecchie.” la Cuddy gli sorrise, ma
tutt’altro che amichevole.
Vedendo che House non rispondeva,
si voltò verso gli altri tre medici. “Vi prometto che, se non mi dite entro
dieci secondi cosa sta succedendo, vi licenzio in tronco tutti e tre e procuro
ad House un’equipe nuova di zecca.” disse, mantenendo quel sorrisino
minaccioso.
“Ricordi quel ragazzino…?” esordì
Foreman.
“Ah-ha” lo incoraggiò lei.
“E’ il figlio della Pivet.”
La Cuddy fece scorrere lo sguardo
su tutti e quattro i medici, ma nessuno sembrava voler dire di più.
“State scherzando? Quella donna
ha 26 anni.” tentò di ribattere lei.
“Ed Elliot 12. E’ figlio suo,
Cuddy. Basta guardarlo.” disse Chase, impaziente. “Bisogna trovarlo.”
“Avvisiamo la polizia! Abbiamo
due poliziotti in ospedale, possono esserci comodi, no?” ribatté la Cuddy,
incominciando a camminare lungo il corridoio, verso la camera della Pivet.
Chase l’afferrò bruscamente per
un braccio.
Lei si voltò e lo guardò
incredula, ma lui non mollava la presa.
“Non avvisare la polizia, Elliot
vive in strada, lo porteranno in istituto.” le disse, guardandola negli
occhi.
House posò la mano su quella di
Chase, scostandola dal braccio del loro capo. “Ti consiglio di trovare modi più
gentili per attirare la sua attenzione, se vuoi che il tuo Elliot ti riconosca a
fine giornana.” disse al medico.
“Cuddy.” lei si voltò verso il
diagnosta. “Ci serve Elliot per curare la Pivet. Non sappiamo cos’ha.” House
sospirò e la guardò intensamente negli occhi. “Non riesco a capire che cos’ha.
Non so più a cosa pensare. Mi serve quel ragazzino perché ha un disturbo simile
alla madre. In lui c’è la chiave di questo mistero. Dammi qualche ora, poi ti
consegno il ragazzo e puoi farci quel che vuoi.”
La Cuddy lo fissò qualche
secondo, ragionando sul da farsi.
“Vi lascio la giornata. A
mezzanotte avviso l’agente Dereck. Trovatelo e fategli gli esami che dovete
fare, compreso quello del DNA. Se scopro che non è il figlio della Pivet il
costo di tutti questi test verrà scalato dai vostri stipendi.”
House annuì. “Ci dai una mano a
trovarlo?” le chiese.
La Cuddy alzò gli occhi al
soffitto.
“Mi faccio portare le
videoregistrazioni di oggi, vi avviso appena sono nel mio ufficio.”
“Grazie.” risposero in coro tutti
e quattro.
Lei li guardò perplessa, poi si
voltò e tornò sui suoi passi.
31 gennaio, h
17.30
Ufficio di House
House rientrò nel suo ufficio,
insieme a Wilson.
Si sedette alla sua scrivania e
chiamo Cameron sul cellulare. “Novità?” le chiese.
“Niente. Abbiamo cercato ovunque.
Chase e Foreman si danno il cambio davanti alla camera della Pivet. La Cuddy ha
detto che le videoregistrazioni non le sono ancora arrivate. Wilson…l’ho perso
di vista da un po’.”
“E’ con me.” disse il
diagnosta.
“House, il ragazzino potrebbe
essersi spaventato e potrebbe semplicemente essere scappato!” disse lei.
“No. E’ escluso. E’ qui da
qualche parte.” replicò lui. Notò il libro del ragazzino, abbandonato a terra,
in sala equipe. Fece cenno a Wilson di andarglielo a prendere. Questi lo afferrò
da terra e lo passò all’amico, che lo aprì.
“Cosa facciamo?” chiese Cameron,
impaziente.
“Continuate a cercare.
Dev’essersi nascosto da qualche parte, prima o poi uscirà allo scoperto. La
paziente?”
“E’ stabile.” rispose lei,
sospirando. Poi riattaccò.
House sfogliò distrattamente il
libro. “Ma che roba è?” disse ad un certo punto, passando la mano su una
pagina.
Wilson si mise alle sue spalle,
guardando incuriosito il libro. “Sembra…unto.” disse. “Che schifo. Chissà da
quante mani poco lavate è passato quel libro.”
“E’ strano però…vedi? I contorni
della macchia sono ben definiti e le scritte sono scolorite…E’ come se ci avesse
tenuto qualcosa di unto per un po’…” ipotizzò House, ragionando ad alta
voce.
“Si, magari un filetto di carne
rubato da qualche piatto in mensa?! Cosa vuoi dire?” gli chiese Wilson.
House lo fissò per qualche
secondo, senza dire niente. “Siamo degli idioti.” affermò poi. “La
placenta!”
“La placenta cosa?” gli chiese
l’oncologo, confuso.
“La placenta è…tutto! Come
abbiamo fatto a non tener conto di un particolare così…stravagante?! Come ho
fatto a non pensarci?” House chiuse bruscamente il libro ed alzò la cornetta del
telefono.
“Chi chiami?” Wilson era sempre
più disorientato.
“La Cuddy. Tu chiama Foreman e
digli di non muoversi dalla stanza della Pivet.” gli ordinò.
Wilson telefonò al neurologo
comunicandogli la direttiva di House.
“Cosa vuoi?” rispose ostile la
Cuddy, visualizzando il numero di House sul display.
“Fatti portare le registrazioni
del giorno precedente alla scomparsa della Pivet.” le disse il diagnosta.
“Cosa?! Perché?” chiese lei.
“Quel piccolo bastardo è già
stato qui, è già stato in questo ospedale! Il giorno in cui sua madre si è
miracolosamente alzata dal letto ed è fuggita.” disse il diagnosta,
concitatamente.
“House, stai delirando…” replicò
la Cuddy.
“No. E’ la placenta il punto. Il
giorno che la paziente si è ripresa, lui è stato qui e le ha portato la
placenta, gliel’ha fatta mangiare.”
“La placenta ha fatto scomparire
il sintomo?!” chiesero contemporaneamente la Cuddy e Wilson, che seguiva
sconcertato la telefonata.
“Si. Non chiedetemi in che modo,
ma è quello il fattore che ha modificato il sintomo.” House sembrava convinto
della sua tesi.
“Stai vaneggiando.” disse decisa
la Cuddy, dall’altra parte del telefono.
House sospirò, irritato, e passò
la cornetta a Wilson. “Convincila a procurarsi quelle registrazioni, e
guardatele assieme. Trovate quel ragazzo. Credi che sapresti riconoscerlo?”
“Si, credo di si.” rispose
l’oncologo, prendendo la cornetta dalle mani dell’amico.
“Bene.” House prese il libro e
lasciò la stanza.
31 gennaio, h 17.30
Princeton Plaisboro Teaching
Hospital
Chase stava ripercorrendo, per
l’ennesima volta in un’ora, la rampa di scale del Plaisboro.
Voltato un angolo, si trovò
davanti improvvisamente Elliot.
Fece un salto indietro per lo
spavento. “Elliot! Ma dov’eri finito?!” gli chiese, andandogli incontro.
“Deve aiutarmi a raggiungere mia
madre.” gli disse il ragazzino, guardandolo serio.
“Certo. Prima però dobbiamo farti
degli esami. La tua risonanza magnetica ci ha evidenziato una lesione nel
cervello che ha anche tua mamma. Se capiamo quello che è successo al tuo
braccio, probabilmente riusciremo a guarirla.” gli spiegò Chase, avvicinandosi
fino a trovarsi davanti a lui.
“Niente esami. I vostri esami non
servono a niente.” obiettò Elliot, con aria cupa.
“Ma cosa stai dicendo? Sei venuto
qui per permetterci di aiutarla.” disse il medico, titubante.
“No, io sono venuto qui per
salvare mia mamma. Lei deve solo permettermi di avvicinarla. Deve far spostare
quei poliziotti.” il tono di voce di Elliot era troppo autoritario, e
contrastava la sua figura gracile di ragazzino.
Qualcosa in lui incominciò ad
spaventare Chase. “Ok. Ora raggiungiamo gli altri e troviamo un modo di fartela
incontrare…” gli disse, posandogli una mano sulla spalla.
Elliot indietreggiò di un passo,
allontanando bruscamente la mano del dottore. “Non mi tocchi, dottor Chase, e
non mi prenda in giro. Ora lei va nella stanza di mia madre, dice ai poliziotti
che deve farle un esame urgente e la porta fuori di lì.” il tono della voce del
ragazzino fece venire i brividi a Chase, che incominciò a sentirsi stranamente
debole e disorientato. I suoi occhi non riuscivano a staccarsi da quelli di
Elliot.
“No…perché?” si rese conto di
essere in stato confusionale e sentì che doveva allontanarsi il più presto
possibile da lui, ma ci riusciva.
“Ora, dottor Chase, tu vai nella
camera della signorina Pivet, dici hai poliziotti che la porti a fare un esame e
fai in modo di trovarti solo con lei.” ribadì il ragazzino.
Lui annuì debolmente; ormai aveva
perso il controllo di quello che stava accadendo.
Improvvisamente, la porta che
dava sulle scale si aprì e Cameron si trovò davanti Elliot e Chase, che si
fissavano negli occhi a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altro.
“Chase! L’hai trovato?” disse,
chiudendosi la porta alle spalle ed avvicinandosi alla coppia.
Il medico sembrò come
risvegliarsi: si guardò intorno confuso, posò lo sguardo su Cameron, poi su
Elliot, e si rese conto di quello che il bambino stava facendo con lui.
Lo prese con forza per un
braccio. “Piccolo bastardo.” disse tra i denti.
Elliot però si dimenò
violentemente e, prima che Cameron o il collega potessero reagire in nessun
modo, tirò un pugno allo stomaco di Chase, con tutte le sue forze. Questi, preso
alla sprovvista, mollò la presa e si piegò in due dal dolore.
Elliot si voltò e sparì in pochi
secondi sulla rampa di scale.
“Chase, tutto bene?” chiese
allarmata Cameron, correndo accanto al collega e aiutandolo a sedersi.
“Si,
quel figlio di puttana…” entrambi si voltarono nella direzione in cui Elliot era
scappato, ma di lui non c’erano più tracce.
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Capitolo 14 *** Capitolo 14 ***
CAPITOLO 14
31 gennaio, h
17.45
Ufficio della Cuddy
“Va meglio?” chiese Cuddy a
Chase, che era seduto sul divano nel suo ufficio e la guardava con
un’espressione distrutta.
“Si, era solo il pugno di un
ragazzino.” le rispose, cercando di stare dritto per non dar a vedere il male
che lo stomaco gli faceva.
“Quel ragazzino prima ti ha
conquistato con la sua aria innocente e la sua storia da film dossier, poi ti ha
manovrato come un burattino e infine ti ha lasciato a terra sanguinante. Non sei
neanche un po’ arrabbiato?” lo provocò House, seduto accanto a lui.
“Sono incazzato nero con quel
mostro.” gli rispose Chase, guardandolo negli occhi.
“Guarda che non devi dirlo solo
per compiacermi…” insistette House.
“House finiscila di provocarlo.”
disse Wilson, osservandolo da sopra lo schermo del computer, dove stava
esaminando, insieme a Cameron, le registrazioni delle telecamere.
“Ho già guardato io quelle
registrazioni, la notte che la Pivet è scappata.” disse Cuddy, per l’ennesima
volta.
“Ti sarà sfuggito qualcosa, sono
sicuro che è stato qui. Spiega anche perché riesce a nascondersi così bene
nell’ospedale: non è la prima volta che lo fa.” House continuava a sostenere
cocciutamente la sua tesi.
La Cuddy sospirò, guardando
l’orologio. “Perché abbiamo smesso di cercarlo?” chiese poi al diagnosta.
“Perché se non vuole essere
trovato non si farà trovare.” disse questi, posizionandosi alle spalle di
Cameron per osservare anche lui le videoregistrazioni. “E’ uscito allo scoperto
perché voleva parlare con Chase.”
“Parlare?! Quel bastardo mi ha
ipnotizzato!” esclamò Chase.
“Già…ora capisco perché mi
inquietava così tanto…” disse House, soprappensiero.
“Anche a me.” confidò Cameron,
voltandosi verso il suo capo. “Non riuscivo a capire perché, ma mi faceva venire
la pelle d’oca.”
“L’effetto magico della
suggestione…” precisò lui. “L’ipnosi è una tecnica di condizionamento come tante
altre, solo molto più potente.”
“Dillo che sei geloso. Ti ha
rubato il primato.” lo schernì Wilson.
“Lui avrà una tecnica speciale
per influenzare i poveri medici con traumi infantili” disse House, indicando
Chase che lo guardò accigliato “ma è pur sempre solo una bambino. Io sono più
grande, ho più esperienza. Ho manipolato almeno dieci volte il numero di persone
che ha manovrato lui.”
“Wow! Scrivetelo sul curriculum!”
lo apostrofò Cuddy.
“Intendevo dire che è bravo a
fare quello che fa, ma che non può fregare me.” chiarì House.
“Quando finisce questa danza
dell’autoelogio e ci spieghi cosa dobbiamo fare adesso?” Chase sembrava
impaziente.
“Voglio capire come ha fatto ad
avvicinare la madre il giorno prima che lei scappasse. Saperlo ci potrà aiutare
a trovarlo, che a sua volta ci permetterà di analizzare lui e la placenta che
sicuramente ha con sé, e a guarire la Pivet.”
“Piano perfetto! Peccato che
quella donna potrebbe avere da un momento all’altro un arresto cardiaco.”
replicò la Cuddy.
“C’è sempre il ragazzino. Dai,
non vi incuriosisce quel malefico genietto?” chiese House ai colleghi, che lo
guardarono perplessi, senza aprir bocca.
“House, devi guarire quella
donna. Ti sto lasciando fare perché capisco quanto quel ragazzino possa esser
importante a raggiungere il nostro scopo. Ma stiamo rischiando grosso con la
polizia. Non posso permetterlo.” disse seria la Cuddy.
“Lo so. I nostri patti non
cambiano: lasciami la giornata.” replicò lui.
Lei annuì e si avvicinò a Chase.
“Fammi vedere lo stomaco.”
“Sto bene.” disse lui, sulla
difensiva.
“Ok, ma fammi vedere.” Chase si
alzò la maglietta controvoglia e la Cuddy gli tastò il torace.
House si voltò verso Wilson, che
li osservava pensieroso.
“Geloso?” gli chiese, a bassa
voce per non farsi sentire.
“No. Io sono decisamente meglio.”
rispose lui, stando al gioco.
Cameron si voltò verso
l’oncologo, seduto accanto a lei, sorridendogli complice.
“Ehi, ma lo sanno proprio tutti!”
House, ancora in piedi dietro a Cameron, posò le mani sulle spalle della
dottoressa e fece l’occhiolino a Wilson.
Questi preferì ignorarlo e
riprese a osservare lo schermo del computer.
House e Cameron fecero lo stesso,
anche se la dottoressa faceva fatica a concentrarsi sentendo la lieve pressione
delle calde mani del suo capo sulle sue spalle.
Lentamente lui fece scorrere una
mano lungo il suo collo, e incominciò a massaggiarglielo delicatamente. “Come
sei rigida.” le disse, in un sussurro.
Lei sembrò non reagire e continuò
a guardare le immagini che si susseguivano nella videoregistrazione.
Wilson percepì la tensione che si
stava creando tra i due e decise di cambiare aria.
“Bene, pensateci voi ai video.”
disse, alzandosi. “Io per sicurezza faccio un altro giro per l’ospedale. Vieni
con me?” chiese alla Cuddy.
Lei lo guardò perplessa. “Ma…”
tentò di protestare. Lui si avvicinò, la prese per mano e la fece alzare dal
divano. Poi si rivolse a Chase: “Raggiungi Foreman. Meglio stare a coppie, nel
caso Elliot tentasse ancora di adescare uno di noi.”
Chase all’inizio non capì la
presa di posizione di Wilson, ma poi incrociò lo sguardo di Cameron e, superando
l’iniziale morso di gelosia, decise di fare come lui gli diceva.
“Ok” rispose all’oncologo,
alzandosi a fatica dal divano.
Wilson lo aiutò, senza smettere
però di stringere la mano del suo capo.
“Siete adorabili.” li canzonò
House.
I due si separarono e, mentre
tutti e tre lasciavano l’ufficio della Cuddy, quest’ultima si girò: “Anche voi.”
disse al diagnosta, sorridendogli.
House e Cameron rimasero soli, ma
lui continuò a restare in piedi dietro l’immunologa, le mani ferme su di
lei.
“Resti lì?” gli chiese lei,
voltandosi leggermente.
“Si, da qui ho un’altra
prospettiva, magari noto qualcosa nel video che tu non vedi.” rispose House,
conscio di quanto scadente fosse quella scusa.
Cameron infatti rimase a
guardarlo qualche secondo perplessa, prima di volgersi ancora verso il computer.
Sospirò: non riusciva proprio a capire cosa passasse per la testa del suo
capo.
Trasalì quando lui riprese a
massaggiarla.
“Una settimana fa non mi avresti
mai massaggiato il collo. Non mi avresti mai toccata.” gli disse.
“Ti dà fastidio?” le chiese lui,
conoscendo già la risposta.
“No, lo sai che non è così.”
“Allora stai zitta. Mi viene più
facile andare oltre le parole, se non ne sento.” House usava ancora quel tono di
voce che dava i brividi alla dottoressa.
Lei sorrise. Visti i precedenti,
quel breve scambio di battute portato a termine senza che lui la offendesse e
quel breve accenno a quello che provava, era da considerare un grosso
progresso.
Tentò di rilassarsi e chiuse gli
occhi, sicura che, nonostante il momento, House non si sarebbe perso neanche un
secondo delle registrazioni che stavano guardando.
“Aspetta!” esclamò infatti, ad un
tratto.
Tolse le mani dalle spalle di
Cameron, che percepì uno strano vuoto, in quel momento. Cercò però di
riprendersi subito, e di prestar attenzione a quello che le mostrava House.
Questi si sedette accanto a lei,
e fece tornare indietro il video di qualche fotogramma.
“Guarda qui!”
L’immagine riprendeva il via vai
nel corridoio, durante l’orario delle visite.
House posò il dito sullo schermo
del computer, indicando due figure al limite del campo visivo della
telecamera.
Un’infermiera, che Cameron
riconobbe, stava parlando con un ragazzino. Questo compariva solo in alcuni
fotogrammi, perché per la maggior parte della scena rimaneva all’esterno del
campo visivo della videocamera.
Nonostante non fosse chiaro
quello che stava succedendo, quel ragazzino era indubbiamente Elliot.
“E’ lui.” confermò Cameron, presa
ancora da quella strana inquietudine che il bambino riusciva a trasmetterle.
“Ho capito.” disse House, dopo
qualche minuto in cui si concentrò unicamente sul filmato.
L’immunologa gli rivolse uno
sguardo interrogativo.
“Cuddy non ha notato niente di
strano perché si è limitata a vedere se qualcuno di sospetto si avvicinava alla
Pivet! Nessuno, al di fuori del personale dell’ospedale, le si è avvicinato.
Ok?”
Cameron annuì, ascoltandolo
attentamente.
“Però qualcuno di sospetto,
nonché di terribilmente subdolo, si è avvicinato a una delle infermiere che se
ne occupava.”
House si alzò in piedi, e
incominciò a camminare irrequieto per la stanza.
“Elliot ha avvicinato
quell’infermiera e ha fatto sul suo cervello quel simpatico lavoretto che ha
tentato di fare su Chase. Scommetto che se ci mettessimo a guardare tutte le
registrazioni, troveremmo un filmato in cui quella donna dà alla Pivet qualcosa
di strano…che scopriremmo essere placenta!”
“Dici che Elliot ha ipnotizzato
quell’infermiera e l’ha convinta a portare la placenta alla Pivet?!” chiese
Cameron. La teoria del suo capo sembrava inverosimile ma, visto quello che stava
accadendo, era molto probabile che fosse andata così.
“Si.”
“Perché allora questa volta ha
cercato di convincere Chase a portare sua mamma lontana dai poliziotti? Perché
non gli ha semplicemente ordinato di darle la placenta, come ha fatto la prima
volta?” domandò la dottoressa, cercando di crearsi un chiaro quadro della
situazione.
“Perché è pur sempre uno stupido
bambino, che ama la sua mamma, nonostante questa l’abbia fatto crudelmente
crescere in mezzo a una strada. Lei è in arresto e anche se guarirà,
probabilmente non la rivedrà per molto tempo. Sarebbe l’ultima occasione dare
l’addio a mammà…”
Cameron rimase in silenzio,
riflettendo sulle parole di House.
“E’ andata così, Cameron! Non fa
una piega…” tentò di convincerla lui.
“Va bene. Ma cosa facciamo
adesso?” gli domandò lei.
“Sono sicuro che non lascerà
l’ospedale senza aver provato a salvare sua mamma. Se vede che non può
raggiungerla e non può usare nessuna marionetta, tra un po’ sarà preso dal
panico e farà qualche cazzata…”
“Aspettiamo? Ancora?! House
quella donna non resisterà a lungo.” Cameron sapeva che potevano considerare un
miracolo il fatto che la Pivet fosse stabile da ormai diverse ora, visto il
rapido peggioramento che aveva avuto durante la notte.
“Lo so. Allora faremo così:
lasceremo un solo poliziotto davanti alla camera della Pivet, e ci terremo tutti
lontani da lei per un po’. Il ragazzino coglierà l’occasione e proverà ad
entrare nella stanza di sua madre, ma qualcuno di noi sarà là dentro, pronto a
catturarlo!” spiegò House, alzando infine il suo bastone, in modo plateale.
“House, sai che io posso anche
darti ascolto. Ma dovrai convincere la Cuddy…” gli disse esitante Cameron.
“Andiamo.” le appoggiò una mano
tra le scapole, sulla schiena, accompagnandola verso la porta.
“Cos’è? La tua versione personale
di abbraccio?” chiese lei, divertita da quel gesto.
“E questa domanda è la tua
versione personale della frase: quanto mi piace quando mi tocchi?” ribatté lui,
aprendole la porta.
Cameron decise di rispondere con
quel silenzio che lui, implicitamente, le chiedeva. I loro sguardi si
incrociarono per qualche istante, e bastò questo.
Si chiusero la porta alle spalle
e si prepararono ad affrontare il diavolo del Plaisboro.
31 gennaio, h
18.00
Ufficio di House
“Dove siete?” House, dopo aver
cercato invano per i corridoi, aveva chiamato Wilson.
“All’ultimo piano, ci sono
novità?” chiese l’amico.
“Si, scendete. Vi aspettiamo nel
mio ufficio.” House riattaccò e si voltò verso Cameron, in piedi davanti a lui.
“Chase e Foreman?” chiese
lei.
“Lasciamoli a controllare la
paziente, per adesso. Se Elliot riesce a raggiungerla prima che noi organizziamo
un piano per catturarlo, sarà tutto inutile.”
“Cavoli House, siamo medici!
Sembriamo una squadra dell’F.B.I!” esclamò la dottoressa, appoggiandosi alla
parete e incrociando le braccia.
“Cavoli?!” le fece il verso
House, con tono beffardo. “Non sei per niente convincente. Le mie idee ti
piacciono un sacco, ti eccitano...”
Le si avvicinò. “…e non solo
quelle.” concluse, trionfante.
Lei distolse lo sguardo da lui,
senza riuscire a trattenere un sorriso.
“Allora?” Cuddy e Wilson
entrarono con passo spedito, interrompendo quello strano momento.
House spiegò rapidamente il suo
piano ai colleghi.
“Ma sei impazzito?!” House aveva
previsto questa reazione da parte della Cuddy “Credi di essere in una caserma
d’addestramento per militari? Hai creato un piano per incastrare un bambino,
usando come esca un poliziotto! Se gli agenti scoprono quello che già sappiamo,
se il ragazzino raggiunge la madre, se…qualunque cosa andasse storta, andiamo
nella merda House! Tu, io, tutto l’ospedale, tutti i pazienti! Non posso
permettermi di rischiare una cosa del genere. Richiama tutta la tua equipe,
mettetevi davanti alla tua lavagna e risolvete il caso come fate per tutti gli
altri. Io avviso la polizia e racconto del ragazzino, manderanno qualcuno a
cercarlo.”
Ci fu qualche secondo di
silenzio; la Cuddy credette quasi di averla avuta vinta, per una volta.
Dallo sguardo del suo capo, House
capì che l’angoscia della donna per le conseguenze sull’ospedale era sincera:
non era arrabbiata per l’insubordinazione o per le sue idee stravaganti, ma era
seriamente preoccupata che qualcosa andasse storto.
Tuttavia, la sua convinzione che
il piano era perfetto, che non poteva sbagliarsi, gli fece superare come al
solito ogni dubbio.
“No, Cuddy. Devi permettermi di
fare come ho detto. Hai detto che mi lasciavi la giornata, sei una donna di
parola, giusto?”
Lei sospirò. “Piuttosto continuo
personalmente a cercare quel ragazzino insieme a Wilson, mentre tu e la tua
squadra pensate a salvare la Pivet. Aspetto mezzanotte ad avvisare la polizia,
come avevamo accordato. Ma questa follia della trappola non ti permetto di
farla.”
“Si certo.” disse House,
avvicinandosi un po’ troppo a lei. “Continui a cercare come stavi facendo poco
prima, giusto?
“Si. Cosa vuoi dire?” la
vicinanza di House e la sua aria minacciosa, misero a disagio la Cuddy che,
istintivamente, fece un passo indietro.
“Lisa. Non stavate cercando
Elliot, eri imboscata in qualche meandro dell’ospedale a fare sesso con uno dei
tuoi dipendenti! Quindi smettila di recitare la parte del buon capo tollerante
ma giusto, e dammi retta un attimo.” House le si avvicinò di nuovo, guardandola
negli occhi.
Cameron incrociò lo sguardo
sconfortato di Wilson e poi tornò ad osservare la Cuddy che, rossa in viso,
cercava di combattere tra la voglia di tirare un pugno ad House, l’imbarazzo per
la situazione creatasi e il bisogno di rimanere lucida e prendere la decisione
giusta.
“Foreman si nasconde nella stanza
della Pivet, qualcuno controlla in tempo reale le videoregistrazioni delle
telecamere, facciamo allontanare uno dei poliziotti e vediamo che succede. Tu te
ne stai tranquilla nel tuo ufficio, se va storto qualcosa non ne sapevi niente.
Ok?” cercò di convincerla il diagnosta. “Ti prego…” insistette, visto che lei
non rispondeva.
“Come penseresti di allontanare
il poliziotto?” gli chiese ad un certo punto.
“A quello ci pensa Cameron.” fu
la pronta risposta di House.
“Cosa?!” esclamarono insieme le
due donne.
“Dai, ha un debole per te.” disse
House, rivolto all’immunologa “Dovresti semplicemente invitarlo ad offrirti un
caffè. Fallo per me.” la guardò con occhi dolci.
“Sei un bastardo.” ribadì lei. In
quei giorni quella parola si ripresentava nei loro discorsi un po’ troppo
spesso.
“Però lo farai.” constatò lui,
tornando poi ha parlare con la Cuddy. “Andrà bene Cuddy, quel ragazzino ci
cascherà, sta impazzendo dalla voglia di riabbracciare sua mamma!”
“Ti faccio portare a termine
questa pazzia, House, ma ascoltami attentamente: comunque vada a finire, anche
se andasse tutto com’è previsto dal tuo piano, questa me la paghi.”
Lo superò e lasciò il suo
ufficio, visibilmente arrabbiata.
“Non credi di avere esagerato?”
gli chiese Wilson.
“No, perché?” rispose House,
fingendosi stupito.
“Non devi rivolgerti a lei così,
è pur sempre il tuo capo.”
“Non è la prima volta che lo
faccio.”
“E’ vero. Ma questa volta l’hai
fatto davanti a me e Cameron” precisò l’oncologo “non credo te la farà passare
liscia.”
House fece spallucce e cambiò
discorso. “Vado a spiegare a Foreman cosa deve fare. Tu e Chase controllerete le
videoregistrazioni.”
“…e io mi prostituisco. Tu cosa
farai?” chiese Cameron.
“Non esagerare, è solo un caffè.
A meno che tu non voglia andare fino in fondo…Io sto qui e coordino
l’operazione. Non mi vorrete in azione con una gamba fuori uso?! Vi sarei solo
d’impaccio…” disse House con falsa modestia.
Si lasciò cadere sulla sua sedia,
prese lo yoyo e incominciò a giocare. “Su, andate!”
Wilson e Cameron si guardarono
l’un l’altro e poi uscirono dalla stanza.
Entrambi percepirono un
collegamento tra quello che Elliot aveva cercato di fare con Chase e quello che
House aveva appena fatto con tutti loro, ma in House c’erano dei precedenti che
il ragazzino probabilmente non aveva: non sbagliava mai.
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Editor
com
Ciao ragazzi, volevo avvisarvi che partirò per una
decina di giorni e, non avendo il collegamento internet in montagna, non potrò
aggiornare fino al 10 gennaio.Colgo l'occasione per farvi tantissimi auguri e,
soprattutto, ringraziarvi per le recensioni!!! Sono quelle che mi spingono ad
andare avaanti! A presto, ancora augurissimi!!!!!!
Vale
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Capitolo 15 *** Capitolo 15 ***
CAPITOLO 15
31 gennaio, h
18.30
Princeton Plaisboro Teaching
Hospital
Era tutto pronto.
Chase e Wilson erano nella
saletta della security, da soli, seduti davanti a un monitor dove potevano
vedere in diretta le immagini delle telecamere. C’era solo uno schermo, e
dovevano passare dalla ripresa di una telecamera a quella di un’altra cambiando
manualmente il canale: il sistema di sicurezza del Plaisboro non era certo
quello di una banca.
Cuddy si limitò a ordinare agli
uomini della sicurezza di andare a farsi una passeggiata. Le chiesero
spiegazioni ma lei poteva permettersi di non darne, e non lo fece. Gli agenti
preferirono non insistere e colsero quell’occasione al volo, andandosi a bere
una birra nel locale vicino all’ospedale. La dottoressa si sedette allora alla
sua scrivania e cercò di fare qualunque cosa non le facesse pensare a quello che
stava accadendo al piano di sopra. Dopo qualche minuto trovò un’occupazione
interessante: avrebbe ragionato su come vendicarsi per l’impertinenza di House.
Questa volta non voleva fargliela passare liscia: si era sempre preso confidenza
con lei, come con tutti, ma mancargli di rispetto davanti a qualcuno della sua
equipe era troppo.
Foreman era nella stanza della
Pivet e controllava per l’ennesima volta i suoi valori, aspettando che Cameron
distraesse i poliziotti per nascondersi nell’unico armadio presente nella
camera. Si sentiva un idiota. Sapeva che una volta nell’armadio si sarebbe
sentito idiota il doppio. Questa volta House aveva superato il suo limite di
follia…e la Cuddy lo aveva assecondato! Chissà come faceva a manovrare così
quella donna, che riusciva a gestire da sola un ospedale con decine di
dipendenti mantenendo sempre il controllo della situazione. Uno dei tanti
misteri che giravano intorno ad House.
Il diagnosta non si era mosso dal
suo ufficio, e non aveva smesso di giocare col suo yoyo. Aveva chiamato Foreman
sul cercapersone e gli aveva spiegato cosa doveva fare. Ogni suo tentativo di
protesta era stato bloccato aspramente. Ma sapeva che questa volta stava
esagerando.
Fece il punto della
situazione.
La Cuddy era incazzata con lui,
ma non come al solito: le aveva mancato di rispetto davanti a Cameron e davanti
a Wilson e lei si sarebbe vendicata. Ne era sicuro.
Foreman era esasperato, a breve
si sarebbe dovuto subire una delle sue rare ma penetranti prediche.
Chase, comunque sarebbero andate
le cose, avrebbe avuto una delle sue crisi emotive: quel ragazzino l’aveva
coinvolto troppo.
Wilson…bhè, Wilson gli avrebbe
perdonato tutto. Gli venne da sorridere. Era bello avere un amico là dentro, era
fondamentale per sopravvivere. Sapeva che, però, queste riflessioni sarebbero
rimaste per sempre solo sue. Era un suo amico ma questo non voleva dire che
poteva permettergli il lusso di un complimento; quelli erano rari e servivano
solo a portarsi a letto una bella donna. Non era certamente il suo caso.
Infine c’era Cameron… Pensava che
avrebbe reagito diversamente a quello che le aveva ordinato di fare; si
aspettava una scenata drammatica, un discorso sul rispetto della sua persona o
stronzate simili. Si era arrabbiata, ma poi aveva accettato l’incarico
liquidandolo con un atteggiamento sarcastico che non aveva mai visto in lei. Le
mille sfaccettature che aveva presentato negli ultimi giorni lo stavano
confondendo: si era trasformata in un puzzle. Irresistibile, per lui.
I giorni seguenti sarebbero stati
molto intensi.
Tentò di non pensarci. Il suo
cercapersone era posato sulla scrivania; doveva limitarsi a far andare su e giù
il suo yoyo finché non avesse suonato.
Sarebbe andato tutto per il verso
giusto, ne era sicuro.
Cameron si chiuse in bagno.
Posò le mani sul lavandino e si
guardò allo specchio.
Lacrime silenziose le bagnavano
il viso.
Se le asciugò col dorso della
mano, sistemandosi poi il trucco che era leggermente colato.
Era orgogliosa di se stessa,
perché era riuscita a non crollare davanti ad House e Wilson. Poi, però, non ce
l’aveva più fatta: le aveva chiesto di fare una cosa che per lei era immorale,
ed aveva accettato. Era disgustata. La relativa indifferenza che era riuscita a
mantenere davanti ad House era stata il risultato di un grosso sforzo di
volontà, e ora ce ne sarebbe voluto un altro, ancora più grande, per portare a
termine quello stupido piano.
Tentò di non pensare più di
tanto. “Prendilo come un gioco, una recita.” sussurrò a se stessa, guardandosi
allo specchio e sorridendo. “Forza Allison.”
Fece un profondo respiro ed uscì
da quel fragile rifugio.
In fondo al corridoio, i due
agenti della polizia erano assorti nella lettura delle pagine sportive di un
malconcio giornale. “Certo che se stanno di guardia in questo modo…” pensò
Cameron, avvicinandosi.
Prima che i poliziotti la
notarono, buttò lo sguardo dentro alla camera della Pivet. Foreman le fece
l’occhiolino, incoraggiante.
Si sentì un po’ meglio.
“Ciao bellezza!” l’accolse uno
dei due poliziotti, appena la vide, in piedi davanti a loro. L’altro agente
chiuse subito il giornale, sorridendole. “C’è già il tuo collega dentro, tu puoi
restare un po’ qui con noi, che ne dici?”
“Ero appunto venuta a chiedere
se, a uno di voi, va di accompagnarmi gentilmente a prendere un caffè. Odio fare
la pausa da sola, e sono tutti troppo indaffarati per dedicarmi 5 minuti.” Lei
adorava fare la pausa da sola, e odiava mentire. Si pentì di quello che stava
facendo, ma era troppo tardi.
“Stiamo lavorando dolcezza, sai
che ti adoriamo ma non possiamo lasciare il nostro posto qui davanti.” Cameron
non si aspettava quel rifiuto, ma si rese conto che era debole e che sarebbe
bastata un’altra sua parola a far cambiar idea al poliziotto.
“Ma siete in due…” disse
esitante, cercando di sorridere. Probabilmente le uscì solo un’amara smorfia, ma
gli agenti non sembrarono badare a questo dettaglio.
“Bhè, non posso rifiutare un
invito simile, mi pentirei per tutta la vita.” disse uno dei poliziotti,
alzandosi.
L’altro lo guardò accigliato, ma
non protestò. “Non stare via un’ora.” si limitò a dirgli, riprendendo subito a
leggere il suo quotidiano, senza degnare la dottoressa di uno sguardo.
Evidentemente uno dei due
poliziotti era un tipico uomo che parlava tanto, ma stava al suo posto nel
momento in cui si rischiava di andare oltre le parole. Cameron ne fu
immensamente sollevata: l’ultima cosa che voleva in quel momento, era una
discussione tra i due per decidere chi l’avrebbe accompagnata.
“Andiamo, bellissima!” le disse
l’agente che si era offerto di accompagnarla, precedendola lungo il corridoio.
Cameron si voltò ancora rapidamente verso la stanza, ma vide solo la Pivet.
Foreman aveva evidentemente colto
l’occasione del suo arrivo per nascondersi.
“Posso sapere il tuo nome?” gli
chiese Cameron, cercando di mettere un briciolo di umanità in quell’amorale
siparietto.
“Mike. Chiamami Spender però,
solo mia moglie mi chiama per nome.” le rivolse un sorriso ambiguo.
A Cameron venne voglia di
vomitare.
“Torna sulla camera della Pivet.”
disse Wilson a Chase, che cercava
di seguire, con le telecamere, Cameron e il poliziotto.
“Guardala, è sconvolta. Non
avrebbe dovuto accettare, quell’uomo potrebbe essere pericoloso.” commentò
Chase, seriamente preoccupato per la collega.
“E’ un poliziotto ed è di turno.
La cosa peggiore che Cameron rischia è qualche apprezzamento un po’ troppo
pesante. Se la caverà, dev’essere abituata a questo genere di approcci, no? Con
quel corpo…”
Chase si voltò, scandalizzato,
verso l’oncologo.
“Ma cosa stai dicendo?!” lo
ammonì. “Stai parlando di Cameron!”
“Sto scherzando Robert, non te la
prendere.” Wilson si rese conto di aver provocato Chase, cosa che rimproverava
sempre ad House. Però era così divertente…
“Volevo solo dire che è una donna
adulta, molto carina, alla quale sarà capitato diverse volte di ricevere della
avance. Gestirà benissimo la situazione.” tentò di rimediare l’oncologo.
Chase non sembrò molto convinto,
ma tornò a visualizzare la schermata che dava sull’ingresso della camera della
Pivet.
Passarono una decina di minuti,
durante i quali, comunque, non persero di vista Cameron e il poliziotto.
Sembravano parlare tranquillamente e lei pareva essere più rilassata. Questo
tranquillizzò anche loro: se la conversazione fosse continuata così,
probabilmente avrebbero avuto più tempo di quanto speravano.
Cambiarono ancora canale e lo
videro: Elliot era in piedi davanti al poliziotto rimasto di guardia, e gli
stava parlando. Questo lo osservava con un’espressione perplessa, ma non staccò
neanche per un secondo gli occhi dal ragazzino. Il giornale gli pendeva tra le
mani, e ad un certo punto cadde a terra, senza che se ne accorgesse.
Elliot si chinò, senza perdere il
contatto visivo con l’uomo, e raccolse il quotidiano col braccio sano,
rimettendoglielo tra le mani. Il “grazie” del poliziotto fu l’unica parola che i
due dottori riuscirono a capire. Poi questo si alzò e si allontanò.
Chase si voltò verso Wilson.
“Cristo…ma hai visto?!”
L’oncologo annuì, e prese il suo
cercapersone. “Arriva.” scrisse, e inviò il messaggio a Foreman.
L’ultima cosa che videro fu
Elliot entrare nella stanza di sua madre; purtroppo all’interno non vi era una
telecamera utilizzabile.
“Che facciamo? Non possiamo
lasciare da solo Foreman con quel mostro.” disse Chase.
“No, hai ragione. Tu resta qui.
Vado io.” L’oncologo si alzò e lasciò la stanza.
“Arriva.” lesse Foreman sul
display del suo cercapersone.
“Fantastico.” pensò.
Aprì leggermente un’anta, per
dare un’occhiata fuori.
Elliot si guardava intorno
furtivo, mentre si avvicinava al letto.
Si accorse che stava piangendo.
Un ragazzino così piccolo, con un braccio paralizzato e in lacrime…e lui doveva
catturarlo come se fosse stato un ladro; questa House gliel’avrebbe pagata.
Ad un certo punto Elliot tirò
fuori qualcosa da sotto il maglione. “Che schifo.” pensò Foreman,, quando si
rese conto che lì teneva parte della placenta che aveva trovato a casa della
Pivet, o magari quella di un altro parto…
Decise che era il momento di
agire: rapido, uscì dal suo nascondiglio e prese il ragazzino alle spalle.
Questi fece una cosa che il
neurologo non si aspettava: urlò.
“Merda.” disse Foreman, in un
sussurro, tappando la bocca al ragazzo con una delle sue grandi mani. Non si
aspettava una reazione del genere; pensava che avrebbe lottato in silenzio, per
non farsi notare da qualcun altro, ma, effettivamente, se gli avessero scoperti
non sarebbe stato Elliot a passare dei guai, almeno finché non si fosse chiarita
la situazione.
Vide che qualcuno si avvicinava e
si gettò ancora nell’armadio, senza lasciare la presa sul ragazzino. Questo
lottava come un dannato, dimenandosi continuamente e cercando di mordere la mano
di Foreman.
Lui però era più forte di Chase,
e non ebbe grosse difficoltà a tenerlo immobile.
Una volta chiuso nell’armadio
però, con Elliot che incominciava a piangere di nuovo, non seppe più cosa fare.
Se il poliziotto fosse tornato?
Sentì dei passi.
Trattenne il respiro e spinse
ancora di più la mano sulla bocca del ragazzo, attento a lasciargli il naso
scoperto per respirare.
Ad un certo punto la porta
dell’armadio si spalancò e, ai primi istanti di paura, seguì il sollievo per
aver davanti a sé solo Wilson e House. “Dobbiamo sbrigarci.” disse il primo.
Elliot ricominciò a dimenarsi,
con ancora più forza.
Rapidamente, House estrasse una
siringa da chissà dove, e fece una puntura al ragazzo, sotto gli occhi sconvolti
di Foreman, Wilson e di Elliot stesso.
“Ma cosa fai?!” chiese il
neurologo al suo capo.
“Ti evito una denuncia per
pedofilia.” rispose questi secco. “Forza, prendetelo e usciamo da qui prima che
torni il poliziotto.”
Il ragazzino giaceva inerme tra
le braccia del neurologo: House gli aveva iniettato una bella dose di
sedativo.
Lo sollevò, prendendolo in
braccio e, sperando di non dare troppo nell’occhio, si diressero verso l’ufficio
di House.
Chase vide uscire i suoi colleghi
dalla stanza della Pivet: Foreman teneva in braccio Elliot, che sembrava
addormentato.
Cambiò l’immagine dello schermo,
passando alla telecamere che riprendeva Cameron e il poliziotto: il loro caffè
era finito da un pezzo, ma erano ancora seduti a parlare fittamente. Non poteva
sentire quello che dicevano, ma dalle loro espressioni sembrava stessero
discutendo di qualcosa di molto importante. Ad un certo punto, vide avvicinarsi
lentamente a loro un’altra figura, che riconobbe essere l’altro agente.
Entrambi si voltarono verso di
lui e lo guardarono spaesati. Chase notò l’espressione sul volto di Cameron, che
passò dalla perplessità alla consapevolezza, in pochi secondi; sembrò capire che
il piano aveva funzionato, e sembrò sollevata.
Chase spense il monitor e si
avviò, anche lui, verso l’ufficio del suo capo.
31 gennaio, h
19.00
Ufficio di House
Elliot giaceva
su un letto improvvisato con delle lenzuola rubate chissà dove e qualche sedia.
Avevano spostato la macchina del caffè e l’avevano nascosto là dietro. Per
sicurezza, House aveva anche chiuso le persiane.
“Ora dovremmo
essere al sicuro.” concluse Wilson, quando fu tutto pronto.
Chase entrò in
sala equipe. “Dov’è Cameron?” fu la prima cosa che House gli chiese.
“Nell’area
ristoro, con tutti e due i poliziotti. Uno è decisamente sotto shock. Cameron
sembra aver capito che può smettere di fare la carina con loro, tra poco ci
raggiungerà.” rispose al suo capo.
“Come ti è
sembrata?” insistette lui.
“Fantastica!
Magari tra lei e quel poliziotto è nato veramente qualcosa! Sembravano stare
bene assieme.” Chase si rese conto di quanto falsa fosse la frase che aveva
appena pronunciato, ma fu un leggero desiderio di vendetta a spingerlo a farlo,
e sapeva che questo ad House avrebbe fatto male.
Infatti lui
sembrò essere colpito dalle sue parole, e rifletté qualche secondo prima di
ricominciare a parlare.
“Bene. Chase e
Foreman, voglio tutti gli esami mancanti sul ragazzo e un’analisi di quella
placenta.” Si voltò verso l’oncologo. “Tu vai dalla Cuddy e tranquillizzala un
po’.” gli disse, con un sorriso malizioso.
Wilson aspettò
che gli altri due medici lasciassero la stanza, per andare a prendere una
barella con cui trasportare Elliot, e si rivolse all’amico: “Non credi sia
meglio chiamare Cameron e dirle di tornare qui? Magari non ha capito che il
gioco è finito…”
“O magari si
sta divertendo e non vuole smettere di giocare.” replicò House. Dal suo tono di
voce, Wilson capì che quella prospettiva lo preoccupava, e non poco.
“Certo, c’è
anche quella possibilità.” Decise di non rassicurare l’amico, forse quel po’ di
gelosia avrebbe smosso un minimo la situazione. “Ma chiamala, dai.” Sollevò la
cornetta del telefono, porgendola al diagnosta.
Questo la
guardò qualche istante, poi scosse la testa. “Farò di meglio: vado a prenderla.
Al telefono potrei solo parlarci; quando si tratta di me e Cameron, le parole è
meglio tenersele per sè.”
Wilson guardò
meravigliato House che lasciava, zoppicando, il suo ufficio.
“Me e
Cameron?!” pensò. Altro che progressi…questo era un miracolo!
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cap 15
Sono riuscita a scrivere un altro capitolo di volata, ma
tra qualche ora parto, quindi il seguito tra almeno una settimana! Ciao a tutti
e...attendo i commenti!!!
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Capitolo 16 *** Capitolo 16 ***
CAPITOLO
16
31 gennaio,
h 18.55
Area ristoro del Princeton
Plaisboro Teaching Hospital
“Ma cosa ci
fai qui?!” esclamò l’agente Spender, quando il collega li raggiunse alle
macchinette del caffè.
L’altro
poliziotto non rispose, guardandoli spaesato.
“Ehi, Jack!
Dobbiamo controllare quella donna, non possiamo andarcene a spasso tutti e due!
Sono via da neanche mezz’ora! Lasciami ancora qualche minuto.”
Cameron intuì
che se il poliziotto si trovava lì con loro in quel momento, era perché Elliot
l’aveva convinto a lasciare il suo posto di guardia: forse l’enorme sacrificio
che aveva fatto organizzando quella scenetta sarebbe valsa a qualcosa.
“Jack, ci
sei?!” l’agente Spender si alzò e si avvicinò al collega. “Sono venuto a bere un
caffè.” rispose questo, con uno strano tono di voce cantilenante. “Sono stanco e
potrei non svolgere bene il mio lavoro. Ho bisogno di un caffè per svegliarmi un
po’.”
Cameron
osservava l’uomo con un misto di timore e curiosità: era decisamente fuori
controllo, ripeteva parole che gli erano state dette poco prima, senza neanche
rendersene conto.
“Ma stai
bene?” Spender incominciò ad accorgersi che c’era qualcosa che non andava.
Jack annuì,
avvicinandosi ulteriormente alla macchinetta del caffè. “Devo prendermi un caffè
perché sono stanco e potrei non svolgere bene il mio lavoro.” ripeté per la
seconda volta in pochi secondi.
L’agente
Spender si voltò verso Cameron. “Ma cos’ha? Sembra sotto shock.”
“Forse è
davvero stanco e ha bisogno solo di un caffè.” rispose lei, alzandosi. Nel caso
avessero poi scoperto che il poliziotto era stato ipnotizzato, voleva essere
sicura che non sospettassero del fatto che lei sapeva il rischio che correva o
che,addirittura, avesse contribuito a far cadere il poliziotto nella trappola
del ragazzo.
Jack, nel
frattempo, tastava invano i bottoni della macchinetta.
“Qualcuno si è
dimenticato di dirle che deve mettere delle monetine nella fessura, per avere il
suo caffè?” House spuntò alle loro spalle.
“Lasci perdere
dottore, è solo un po’ confuso.Turni di guardia così lunghi sono snervanti.”
l’agente Spender si avvicinò al collega, mise i soldi nella fessura e premette
il tasto corretto. “Ora ti bevi questo caffè e te ne torni alla camera della
donna, ok Jack? Io devo finire di parlare con Ally.” dette una pacca sulla
spalla del collega e si avvicinò a Cameron, mettendole un braccio intorno alle
spalle e sorridendole.
Lei fu presa
alla sprovvista e rimase immobile, tesa, sperando che quell’abbraccio terminasse
il prima possibile. Quel gesto di confidenza le fece provare ancora più disgusto
per quell’uomo, ma il primo istinto che ebbe fu quello di sfogarsi contro House,
che li guardava impassibile, fermo davanti a loro, e che era la causa primaria
di quell’imbarazzante situazione.
Sperava che
House la cavasse fuori da quell’impiccio richiamandola per questioni di lavoro,
e temeva, allo stesso tempo, di essere messa ancora più in imbarazzo da qualche
battuta sarcastica delle sue.
Quello che
invece il suo capo fece, lei proprio non se l’aspettava: alzò il suo bastone e
lo puntò alla spalla del poliziotto, allontanandolo con una spinta da lei.
“Ma cosa
diavolo fa, è impazzito?!” l’agente Spender si stupì dell’aggressività di quel
gesto: non era certo il tipo di affronto che si aspettava da quello scorbutico
medico zoppo.
“Si prenda
questo rimbambito del suo collega e tornate a fare il vostro lavoro. Lei deve
tornare a fare il suo.” disse House autoritario, indicando con un gesto del capo
Cameron.
“Dottore, le
lasci ancora qualche minuto di pausa, ci sono un sacco di medici ad occuparsi di
quella donna, lasciate a questa povera ragazza un po’ di respiro!” l’agente
Spender tornò all’attacco, rimettendo il braccio intorno alle spalle di Cameron
e rivolgendo ad House un’accattivante sorriso.
L’immunologa
guardava il suo capo, curiosa di vedere la sua reazione.
House pensò
che era già nei guai con la Cuddy e tanto valeva aggiungere alla lunga lista di
denunce una per aggressione a pubblico ufficiale: gli mancava. Sollevò il
bastone e spinse ancora il poliziotto lontano da lei, questa vola in modo più
deciso.
“Ok, ok.”
disse Spender ridendo, e alzando le mani in segno di scusa. “Le lascio il
bocconcino più appetitoso della sua equipe.” poi si rivolse a Cameron: “Pensavo
che avessi una storiella col biondino prestante che ti abbracciava poco fa, non
con questo psicopatico bellicoso. Comunque sia, non venire più a parlare a me di
fedeltà e di correttezza, fatti un esame di coscienza prima.”
Cameron sentì
lo sguardo del poliziotto su di lei, carico di disprezzo, e nonostante il
sentimento fosse reciproco, ne fu ferita.
Spender prese
per un braccio il collega, che era rimasto ad osservare la scena in insolito
silenzio, e si volse ancora verso House. “Le è andata bene, poteva beccarsi una
denuncia per aggressione, o finire in una rissa con due uomini decisamente più
forti di lei. Ringrazi la sua buona stella che sono un tipo tranquillo.”
“Se non
tornate subito a fare il vostro lavoro chiamo mammina Cuddy e faccio dire a
papino Dereck di togliervi le munizioni dai giocattoli.” ribatté House,
scimmiottandolo.
“Lei è
completamente suonato.” bofonchiò Spender e, trascinandosi dietro il collega,
sparì lungo il corridoio.
Cameron si
portò le mani ai fianchi, guardandolo. “Bhe?” gli chiese.
“C’è bisogno
di te, abbiamo preso Giucas Casella.”
“Non
giustifica il tuo comportamento di poco fa.”
House la
squadrò: mani sui fianchi, testa leggermente inclinata, uno sguardo di sfida
negli occhi. Poi i suoi capelli, che si ribellavano alla presa del mollettone e
le cadevano prepotenti sulla fronte e sul collo. Gli venne una gran voglia di
toccarli.
“Pensavo fossi
in difficoltà, volevo solo liberarti da una situazione sgradevole.” mentì.
“C’è modo e
modo. Bastava il cercapersone.” Cameron era decisa a non lasciar cadere il
discorso. Quella scenata, forse un po’ infantile, era per lei un tentativo di
House di comunicarle qualcosa, che non voleva lasciarsi scappare. Anche a costo
di passare per arrogante e presuntuosa, anche a costo di scoprire che era tutto
nella sua testa.
“Il biondino
prestante ha detto che sembravi particolarmente coinvolta in una conversazione con quell’idiota
munito di pistola, e avevo un bisogno urgente di te.” Quell’urgente lo calcò in
modo particolare, e a Cameron vennero i brividi. “Volevo essere sicuro che
corressi al lavoro.”
“Stavo
cercando di tenerlo occupato il più a lungo possibile, come mi hai ordinato.”
Sottolineò le ultime parole, protendendosi verso di lui “Il tuo intervento ha
rischiato di creare un casino più grosso di quello in cui ci troviamo già, e lo
sai. Perché lo hai fatto?” insistette Cameron.
“Andiamo.”
House tentò di troncare una discussione che sarebbe degenerata, e si diresse
all’ascensore.
L’immunologa
lo osservò allontanarsi, ma quando si voltò verso di lei, fu come se
l’agganciasse con i suoi occhi, obbligandola a seguirlo.
Così fece,
cercando di pensare a un modo di rompere quel muro di ghiaccio che li divideva.
Aveva bisogno di farlo perché il ghiaccio è gelido e robusto, ma è anche
trasparente: vedeva il sentimento e il calore che c’erano dietro, imprigionati,
e sentiva che non poteva lasciarli lì. Doveva liberarli, doveva farlo per sé
stessa, prima di tutto. Se avesse soffocato un’altra volta i suoi sentimenti
sarebbe andata meglio forse per un po’, ma poi sarebbe ricominciato tutto: il
cuore che batteva, lo sfarfallio nello stomaco, gli sbalzi d’umore, i pianti
soffocati dal cuscino e la rabbia verso se stessa.
Riuscire ad
avvicinarsi a lui, superando l’ostacolo delle sue battute acide e del suo
cinismo estremo, era l’unico modo di spezzare quel circolo vizioso; sarebbero
stati bene, o sarebbe stato un disastro, questo non poteva prevederlo. Ma aveva
bisogno di toccare il cuore di House, solo per un momento, solo per vedere cosa
succedeva ad entrambi.
Il “din”
dell’ascensore la distolse dai proprio pensieri.
Entrarono
senza dire una parola.
House la
osservava con la coda dell’occhio: si aspettava di vederla ripartire all’attacco
da un momento all’altro, e non voleva essere preso di sorpresa. Aveva cercato
lui quella situazione, un confronto, e ora lo temeva, così come allo stesso
tempo la desiderava: quel coinvolgimento emotivo lo stordiva.
Appena le
porte dell’ascensore si chiusero, i loro sguardi si incontrarono.
Cameron
sospirò, portando una mano dietro la schiena.
Afferrò
saldamente il bottone di stop e, cercando di non pensare a quello che avrebbe
dovuto fare dopo, lo tirò con decisione.
L’ascensore si
fermò di colpo, facendoli sobbalzare entrambi.
Lo sguardo
sorpreso di House passò rapidamente dalla mano di lei, posata ancora, colpevole,
su quel grosso bottone rosso, al suo viso: la serietà di quei occhi lo
disorientò.
Il lato
infantile di Cameron, che lui prendeva tanto in giro, e che la rendeva familiare
e prevedibile, era rimasto fuori da quella manciata di metri quadrati in cui
erano chiusi insieme.
Il rimanere
solo, con quel lato ignoto di lei che lo attirava tanto, gli fece provare una
deliziosa paura.
31 gennaio,
h 19.10
Ufficio
della Cuddy
Wilson bussò
e, nonostante nessuno rispose dall’altra parte della porta, decise di
entrare.
La Cuddy era
seduta alla sua scrivania, il viso nascosto dalle mani, immobile.
“Lisa…” disse
l’oncologo in un soffio, avvicinandosi a lei rapidamente.
Visti i
precedenti, ebbe l’accuratezza di far fare prima un giro alla chiave della
porta.
Prese una
sedia e la portò vicino a lei, dietro la scrivania.
La Cuddy stava
piangendo sommessamente, ma senza sosta.
Le mise un
braccio dietro alle spalle e l’avvicinò a sé. Lei lo lasciò fare, senza smettere
di piangere.
“Cos’è
successo?” le chiese, conoscendo già la risposta.
“Mio padre…”
riuscì a dire lei, separandosi da Wilson.
Si guardarono
qualche secondo, entrambi non sapevano cosa dire.
Lisa era
sconvolta, il viso rigato dalle lacrime, le mani che le tremavano leggermente:
Wilson non l’aveva mai vista così…fragile.
Ebbe voglia di
stringerla ancora, di tenerla accanto a sé per proteggerla da quel dolore, ma si
trattenne: temeva che lei interpretasse il suo gesto come dettato dalla pena,
mentre in realtà era ben altro. Ma aveva paura a dirlo.
“Mi dispiace.”
si sentì un idiota; era tutto quello che riusciva a dire!?
Lei annuì
confusamente. “Forse è meglio che stia un po’ sola.”
Wilson obbedì,
alzandosi. Poi però cambiò idea, e tornò sui suoi passi.
Si sedette
ancora accanto a lei e le prese la mano. “Sto qui con te.”
Un accenno di
sorriso, tra le lacrime di dolore del suo capo, bastarono per fargli capire che
forse, per una volta nella vita, aveva fatto la cosa migliore che poteva
fare.
31 gennaio,
h 19.10
Ascensore
del Princeton Plaisboro Teaching Hospital
Era stato un
gesto coraggioso, quello di tirare quel bottone, un gesto che aveva stupito più
lei stessa che House.
Un effetto
rilevante lo doveva aver avuto anche su di lui: per una volta, da tutto il tempo
che lavoravano insieme, House non aveva commentato, ma era rimasto in religioso
silenzio ad osservarla, la bocca leggermente aperta.
Cameron si
rese conto che doveva spiegare in qualche modo il suo gesto.
“Quella di
poco fa era una scenata di gelosia.” disse, cercando di sembrare più sicura e
decisa possibile.
“Può essere.”
Si aspettava
tutto, tranne un’ammissione del genere, da lui.
Disorientata,
abbassò lo sguardo.
“Questo invece
cos’è?” le chiese House.
Cameron aveva
ancora la mano su quel bottone, e pensò che un’ottima soluzione sarebbe stato
premerlo, e fuggire da lì.
Avrebbe però
distrutto tutto quello per cui aveva lavorato in quei giorni.
Sciolse
faticosamente la presa dal bottone, e si avvicinò a lui.
I suoi occhi
blu non le si staccarono di dosso neanche per un istante, sentì che la stavano
studiando, che cercavano di penetrare nella sua testa. Questo le impediva di
pensare, e non poteva permetterselo. Per una volta voleva essere lei ad avere il
controllo della situazione.
Senza neanche
rendersene conto gli fu davanti, le mani sulle sue spalle, le labbra premute
sulle sue. Chiuse gli occhi.
House rimase
immobile, divertito e incuriosito da quel bacio leggero e improvviso.
Quando Cameron
riaprì gli occhi, e si trovò quelli di House così vicini, spalancati, che non
avevano smesso nemmeno per un secondo di osservarla, vacillò.
Lui non aveva
risposto al suo bacio, ma non l’aveva neanche respinta.
“Sei
testarda.” le disse.
“Anche tu. Ti
ostini a tenermi lontana da te…”
Le loro frasi
erano sussurrate; le loro bocche erano a pochi centimetri di distanza ed
entrambi ebbero ancora la sensazione che parole e corpi si comunicavano cose
completamente diverse.
Come a
confermare queste sensazioni, House si piegò su di lei e la baciò a sua volta.
Fu un bacio sfuggente, che Cameron non ebbe il tempo di assaporare.
“Due pari.”
disse lui, con un’espressione ironica.
Tra di loro
sempre pochi centimetri, e la tensione rendeva quegli invisibili atomi, danzanti
di elettricità.
Lei sorrise a
sua volta, un sorriso aperto, decisamente diverso da quello ambiguo del
diagnosta.
“…o ad
avvicinarti in modo imprevedibile. Continui a giocare con me.”
“Non sembra
che il gioco ti dispiaccia.”
“La novità non
è che a me non dispiace, ma che te non puoi più farne a meno.”
La sicurezza
negli occhi di Cameron lo contagiò: in effetti era l’unica cosa che, insieme al
suo lavoro, lo faceva divertire e lo emozionava.
In quel
momento però, quelle sensazioni forti non lo spaventarono. Averla così vicino,
vederla rapita dai suoi occhi, gli permise di lasciarsi andare, pensando che il
dolore della separazione non sarebbe mai arrivato.
“Quindi?”
House ruppe il silenzio con quell’inutile domanda.
Il sorriso di
Cameron non scemò, e si dischiuse solo nell’ennesimo bacio.
Questa volta
però, House lasciò andare il bastone, che cadde con un tonfo sordo sul pavimento
metallico, e le cinse la vita sottile, tirandola verso di sé.
Quel contatto
fu liberatorio per l’immunologa che, col cuore che batteva all’impazzata, gli
fece passare le mani dietro al collo e si sollevò ancora di più sulle punte dei
piedi, stringendosi a lui.
Non voleva
perdere neanche un istante di quel bellissimo momento, e assaporò ogni movimento
delle labbra di House sulle sue, e delle sue mani sul suo corpo.
Una,
lentamente, passo dalla sua vita lungo la schiena, perdendosi nei suoi
capelli.
Non immaginava
quanto fosse importante per House toccarglieli, come tante volte aveva
desiderato.
La delicatezza
di quel loro momento insieme, sorprese tutti e due.
Passarono
pochi interminabili minuti, in cui non smisero di baciarsi, entrambi tenendo
serrati gli occhi, forse per paura di scorgere nello sguardo dell’altro,
qualcosa che assomigliasse al dubbio.
Ma quando
House ebbe finalmente il coraggio di aprirli, e si separò lentamente da lei,
quello che vide fu solo un sorriso sincero e un’espressione adorante; era
raggiante, era felice. Che lo fosse anche lui?
31 gennaio, h
19.15
Princeton Plaisboro Teaching
Hospital
Foreman si
stava occupando di Elliot, Chase del pezzo di placenta che avevano trovato.
Quest’ultimo
era in laboratorio, lo sguardo fisso sullo schermo del computer, dove sarebbero
tra breve apparsi i risultati delle analisi.
Non stava
bene.
La testa gli
pulsava e aveva nausea. Forse erano le conseguenze dell’ipnosi, malessere che
veniva dalla sua mente, non dal suo corpo. Psicosomatico.
Come medico
avrebbe dovuto essere immune a questo genere di disturbi, avrebbe dovuto
razionalizzare e liberarsene, ma non ne era in grado.
Gli capitava
spesso, quando stava male nell’animo, di avere problemi fisici, così come gli
capitava di credere nei miracoli e nella fede.
Tutte cose che
difficilmente trovava nei suoi colleghi. Ma lui non era un medico fino in fondo,
lo era solo a metà. Non sapeva bene perché ma aveva sempre avuto questa
fastidiosa sensazione, insieme alla convinzione che tutti intorno a lui se ne
accorgessero.
Scosse la
testa, cercando di scacciare quegli scomodi pensieri, e si concentrò sui dati
che stavano apparendo davanti a lui.
Si aspettava
di non trovare nulla di strano, com’era stato per il precedente campione, preso
da Foreman a casa della Pivet.
Questa volta
invece trovò qualcosa: i valori della materia organica erano tutti sballati.
Prelevò un
campione della placenta e preparò il microscopio: dai tanti casi strani che
aveva affrontato da quando lavorava con House, aveva imparato che osservare ad
occhio nudo da un vecchio modello di microscopio, poteva a volte esser meglio di
tutte le analisi approfondite che si potevano svolgere con gli strumenti
avanzati del Plaisboro.
Infatti lo
vide: un parassita.
Non aveva mai
visto niente di simile; era evidente che era un parassita, ma non lo
conosceva.
Probabilmente
House si aspettava di trovare qualcosa di simile, era difficile
sorprenderlo.
Decise
comunque di avvisare subito i colleghi.
31 gennaio,
h 19.15
Ascensore
del Princeton Plaisboro Teaching Hospital
“Tutto bene?”
lo sguardo fisso di House e il suo silenzio, dopo un abbondante minuto,
incominciarono a preoccupare la dottoressa.
Lui, in
risposta, distolse gli occhi da lei, e si piegò a raccogliere il suo
bastone.
Cameron non se
la sentiva di affrontare il suo sarcasmo che si ripresentava puntuale dopo quei
momenti; sperò che questa volta sarebbe stato diverso.
Quando House
si alzò, e lei poté vedere l’espressione serena sul suo viso e un’insolita
tranquillità nei suoi modi, capì che da quel giorno, forse, sarebbe stato tutto
più semplice.
“Ogni volta
che vuoi baciare qualcuno fai così? Lo inchiodi al muro o lo chiudi in un
ascensore con te?!”
Come non
detto…
“Ottima
tecnica. Punti sull’effetto sorpresa! Nessuno si aspetterebbe dalla dolce e
pacata Cameron un gesto del genere.”
Cameron
incrociò le braccia, e si guardò le scarpe, un po’ demoralizzata. Una domanda le
passò rapidamente per la testa: chi aveva messo in giro la notizia
dell’avventura tra lei e Chase, con tanto di particolari? Bhè, tenendo conto che
lei non ne aveva parlato con nessuno…
“Mi spieghi
cosa hai detto a quel poliziotto per fargli passare ogni impulso aggressivo?”
La dottoressa
tornò a guardarlo, avvilita dal comportamento di House, che sembrava tornare,
come al solito, rapidamente sui suoi passi.
Il diagnosta
lesse lo sconforto negli occhi di lei, e invece di esserne irritato, come
accadeva abitualmente, ne fu terribilmente intenerito. Alzò una mano e le
accarezzò la guancia. “Sto scherzando.” disse, sorridendole.
Lei sembro
rincuorata da quella semplice carezza.
Improvvisamente, l’ascensore
riprese a muoversi.
Entrambi si
guardarono attorno, finché le porte non si aprirono sul corridoio. Un ometto in
tuta da lavoro li guardò perplesso.
“Siete
liberi.” disse sorridendo, anche se intuì che sarebbero rimasti volentieri là
dentro ancora un po’.
“Non sa quanto
le sono grato!” disse House con eccessivo trasporto, passandogli accanto “Questa
donna è una mantide religiosa…stava per mangiarmi!”.
L’uomo della
manutenzione posò gli occhi su Cameron, che rosse in viso e chiaramente
imbarazzata, sembrava tutt’altro che una minaccia.
Scosse la
testa e, fatto un cenno di saluto a quella strana coppia, sparì tra le porte
dell’ascensore.
Il cellulare
di House squillò.
“Rispondi tu.”
disse, passandolo a Cameron.
Lei osservò la
parola Australian lampeggiare sul display e, alzando gli occhi al cielo, aprì lo
sportellino.
“Cameron.”
Ci fu un
istante di silenzio dall’altra parte della cornetta, poi Chase parlò senza
esitazione.
“Ho trovato
qualcosa nella placenta che Elliot stava portando alla Pivet.”
“Che
cosa?”
“Un
parassita.”
“Che genere di
parassita?”
La
conversazione aveva evidentemente attratto l’attenzione di House che, senza
tante cerimonie, strappò di mano il telefono alla dottoressa.
“Non credo tu
lo conosca.” disse a Chase.
“Infatti non
l’ho mai visto. Se sapevi cosa andavo a cercare, potevi anche parlarmene.”
“Non so
neanche io cos’è. O almeno credo…devo vederlo per sicurezza.”
“Ti aspettavi
che trovassimo un parassita sconosciuto?!”
“No, mi
aspettavo che trovassimo un parassita che noi non conosciamo, perché di solito
lavoriamo con gente sopravvissuta alla nascita.”
“Cosa vuoi
dire?” Chase incominciava ad essere confuso, e il mal di testa pulsante non lo
aiutava di certo a stare dietro al delirio del suo capo.
“Ti
raggiungiamo in laboratorio.” disse House, riattaccando.
Si voltò verso
Cameron, che lo guardava con aria interrogativa.
“Un parassita.
Come avevamo ipotizzato.”
Lei annuì.
“Passiamo
dalla Cuddy a prendere una cosa, poi raggiungiamo Chase in laboratorio.” Detto
questo si avviò verso l’ufficio del suo capo, mentre Cameron camminava dietro di
lui, tentando di mettere insieme i pezzi di quell’intricato puzzle che era la
mente del suo adorato House.
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Capitolo 17 *** Capitolo 17 ***
CAPITOLO
17
31 gennaio,
h 19.20
Ufficio
della Cuddy
Qualcuno bussò
alla porta, dopo aver abbassato la maniglia invano.
Wilson guardò
tra le persiane.
“E’ House.”
disse, rivolto alla Cuddy.
Lei si asciugò
gli occhi nervosamente, col dorso della mano.
“Fallo
entrare.” ordinò all’oncologo, sperando di essere presentabile.
L’ultima cosa
che avrebbe potuto sopportare in quel momento era qualche sarcastica battuta del
più impegnativo dei suoi medici.
Wilson girò la
chiave e aprì la porta, incontrando lo sguardo perplesso di House e Cameron.
“Abbiamo
interrotto qualcosa?” chiese lei.
“Entrate.”
Wilson incrociò lo sguardo di House e ci lesse qualcosa di…non riusciva a
definirlo in nessun’altro modo se non “insolito”.
“Ti permette
di fare sesso con lei in ufficio? Allora è una cosa seria! Questo posto è sacro
per la regina del Plaisboro…” le ultime parole gli morirono in bocca, quando i
suoi occhi si posarono sul viso distrutto della Cuddy. “E’…colpa mia?”.
Aveva umiliato
e maltrattato la Cuddy diverse volte, e lei più volte si era arrabbiata, gli
aveva urlato dietro e si era vendicata. La discussione di poco prima nel suo
ufficio era sicuramente un buon motivo per fargli passare qualche giorno chiuso
in ambulatorio, ma addirittura piangere…
“Non sei il
centro del mio mondo House.” rispose lei acida, alzandosi e avvicinandosi a
loro.“Cosa vuoi ancora?”
“Lisa…stai
bene?” Cameron si rese conto che doveva essere successo qualcosa di grave per
ridurre in quello stato la Cuddy.
“Dille di no,
se vuoi regalarle qualche momento di piacere estremo. Ma aspetta che io esca di
qui, si creerebbe una scenetta patetica che mi farebbe venire il volta stomaco.”
House si diresse verso la fornitissima libreria addossata alla parete
dell’ufficio. “A meno che non vogliate abbracciarvi, baciarvi, o qualcosa di
simile. In quel caso rimango!”
“Mi dici
perché sei qui?” l’impazienza nella voce della Cuddy e il suo leggero tremore,
fecero capire a Wilson che non avrebbe trattenuto a lungo le lacrime, e che
voleva liberarsi dei due ospiti nel più breve tempo possibile.
“Mi serve un
libro…” rispose distrattamente House, incominciando a scorrere i titoli dei
testi.
“Cameron vieni
a darmi una mano. Tanto non ti butterà addosso i suoi dispiaceri, non è tipo.
Dopo ti lascio un po’ sola con Chase, quel bambino l’ha sconvolto e tra breve
crollerà. La madre morta alcolizzata, il papà che lo ha abbandonato…vedi come ti
diverti!”
La dottoressa
si avvicinò a lui, e lo fulminò con lo sguardo.
“Hai visto?
Non sono un tipo geloso.” mormorò il diagnosta, ma la sua attenzione era ormai
concentrata interamente su un grosso volume incastrato sotto diversi libri.
“Cosa stai
cercando?” Wilson si avvicinò agli altri due medici, sperando di affrettare la
loro uscita di scena.
“Trovato!”
House afferrò saldamente il tomo e tirò con forza. Come aveva previsto, gli
altri libri caddero rovinosamente a terra, facendo una gran baccano.
“Hai
un’assistente, o qualcosa del genere vero? Fai mettere a posto a lei.” House si
avviò svelto verso l’uscita, facendo gesto a Cameron di seguirlo.
Arrivato alla
porta però si voltò di scatto. “Ma non mi dici niente? Non urli? Non mi
minacci?Sai che ho bisogno di certe attenzioni io…” disse esasperato, rivolto
alla Cuddy.
Wilson si
voltò a guardarla, preoccupato. Si rendeva conto che in un momento come quello,
House non era la persona migliore da avere attorno.
“E’ morto mio
padre, l’ho saputo pochi minuti fa.” Lisa fece un grande sforzo per pronunciare
queste parole, che spiegavano tutto e nello stesso tempo niente.
House abbassò
lo sguardo; sapeva che suo papà era malato, avrebbe dovuto capire quello che era
successo appena entrato in quella stanza. Quei minuti in ascensore gli avevano
confuso i sensi, e il suo acuto spirito d’osservazione era temporaneamente fuori
uso.
Cameron rimase
immobile, senza dire niente. Fosse stata in un’altra situazione avrebbe avuto
per lei qualche parola di conforto, forse l’avrebbe abbracciata. Ma temeva il
giudizio di House, e non voleva ispirare qualche battuta delle sue, che avrebbe
potuto ferire ulteriormente la Cuddy.
“Bhè, allora
pensaci tu. Fare un po’ d’ordine qui dentro potrebbe essere un buon modo per
distrarti.” House non riuscì a guardarla negli occhi, ma posò lo sguardo per
qualche istante in quelli di Wilson. “Occupati di lei.” voleva dirgli.
Sentì con
sicurezza che l’amico aveva colto il messaggio.
Lasciò la
stanza, rendendosi conto solo a qualche metro dall’ufficio, che stava tenendo
Cameron per mano. L’aveva tirata dietro di sé, quando si era accorto che era
rimasta impietrita a fissare la Cuddy.
“Ti sembra una
cosa da dire in questi momenti?” chiese l’immunologa, sciogliendo la presa, e
guardandolo indignata.
Sentì ancora
quel moto di tenerezza nei suoi confronti. Quei comportamenti che prima lo
irritavano, ora gli facevano venire voglia di baciarla e di stringerla; era
decisamente nei guai.
“Mi sono reso
conto che la reazione migliore è stata la tua, ma non volevo fregarti l’idea. E’
tuo il copyright sul rimanere imbambolati a fissare le persone.”
“Non…”
“Andiamo in
laboratorio.”
31 gennaio,
h 19.25
Laboratorio
del Princeton Plaisboro
Teaching Hospital
Chase era
assorto nei suoi pensieri, gli occhi al microscopio, cercando di identificare
quello strano parassita. Gli ricordava qualcosa, ma non sapeva dove l’aveva già
visto. Forse durante i primi anni di medicina…
Il tonfo sordo
fatto dal grosso libro che House lanciò in malo modo sul tavolo accanto a lui,
lo fece sobbalzare.
“Scusa non
volevo spaventarti.” scosse la testa “Non riesco proprio a mentire…volevo
decisamente spaventarti!”
“E ci sei
riuscito.” disse Chase, buttando l’occhio sulla copertina del libro. “Patologie
pre-natali? A cosa ci serve?”
“A
identificare quel parassita.” House si avvicinò al microscopio. “Ahhh…sono
troppo vecchio. Cameron prova tu.”
Anche la
dottoressa osservò il parassita. “E’ insolito ma…mi è familiare.”
“Già, primo o
secondo anno di medicina. Parassiti che possono uccidere ma…un feto. Se ce
l’hai, non arrivi neanche alla nascita. Nella placenta però si può trovare
qualche sua traccia…”
“Ma sei
sicuro?” Cameron lo guardava perplessa.
“No! Per
questo che ci serve questo libro. Dobbiamo identificare il parassita e le sue
proprietà. Sono sicuro che qui c’è.”
“Ma ci sono
elencati...quasi cento parassiti” Chase sfogliò rapidamente l’indice.
“Bene. 15
secondi a parassita fanno…” House ragionò per qualche istante “…25 minuti! E
siete anche in due, pensate che fortuna! Cameron, confronta la foto con
l’immagine al microscopio, Chase scorri rapidamente i sintomi che può provocare.
Tutto ciò che riguarda convulsioni, paralisi e problemi motori in generale, così
come arresto respiratorio dato da paralisi polmonare, ci riguardano.” Sollevò il
volume e lo lasciò cadere tra le braccia di Cameron, che per poco non cadde
sotto quel grosso peso. “Ci vediamo tra massimo 25 minuti in ufficio. Buon
divertimento!”
Sotto gli
occhi sbalorditi dei due medici, House lasciò il laboratorio senza aggiungere
una parola.
31 gennaio,
h 19.30
Ufficio di
House
“Ti stavo
cercando.” Foreman andò incontro ad House, appena questo varcò la soglia del suo
ufficio.
“Anch’io. Non
sai quanto sono contento di vederti…”
“Cosa?!”
“Lascia
perdere. Ti avevo scambiato per il mio spirito guida. E’ un santone africano
morto qualche secolo fa…” House non aveva mai capito a pieno il perché, ma
Foreman aveva la capacità di tirarlo coi piedi per terra in pochi secondi, e ora
ne aveva proprio bisogno. “Ci sono novità?” chiese, cambiando discorso.
“Eccome!”
l’entusiasmo del neurologo per quel caso lo contagiò immediatamente.
House si
complimentò mentalmente con se stesso per averlo assunto, e non era la prima
volta che lo faceva.
“Dov’è il
ragazzino?”
“Lì.” Foreman
indicò un ammasso di lenzuola nascoste dietro ad alcune sedie “Gli ho fatto
un’altra dose di sedativo, ma non dormirà ancora a lungo.”
Un’altra dose
di sedativo a un bambino? Senza farsi venire sensi di colpa? Si, senza dubbio:
lo adorava!
“Ho trovato
qualcosa: un parassita. Non sono riuscito ad identificarlo però…”
“Ci stanno
pensando i tuoi fratellini.”
“Sapevi del
parassita?”
“Chase ne ha
trovata una colonia nel campione di placenta che ha analizzato.”
“Cos’è?”
“Non lo
sappiamo ancora. Chase e Cameron stanno facendo una ricerca bibliografica. Sai,
come alle elementari…” guardò l’orologio. “Tra massimo un quarto d’ora saranno
qui.”
Il neurologo
annuì, pensieroso.
“Ah! Una cosa
importante.” Foreman si illuminò. “Non è vero che il braccio è paralizzato da
anni…è solo qualche mese.”
“Come l’hai
scoperto?”
“Gli ho fatto
qualche domanda tra una dose di sedativo e l’altra. E’ stato molto
collaborativo, non credo abbia mentito. Non era molto lucido…”
Torchiare il
ragazzino sfruttando gli strascichi narcotici del periodo post-sedativo.
Geniale…
Un sorriso
appena percepibile si formò sulle labbra di House.
Sentiva che
stava arrivando alla soluzione di questo caso; i pezzi del puzzle incominciavano
a mettersi insieme.
“Aggiorniamo
la lavagna” non vedeva l’ora di tornare a giocare un po’ coi suoi
pennarelli.
“Già
fatto.”
Ecco come
perdere cento punti in pochi istanti.
House lo
fulminò con lo sguardo, ma si trattenne dal dirgli cattiverie. Alla fine aveva
fatto un buon lavoro.
“C’erano tanti
elementi nuovi…ero qui a fare niente...” Foreman tentò di giustificarsi ma,
vedendo che House non era andato oltre un’occhiataccia, lasciò perdere.
“Il parassita
era morto. Questo può spiegare perché la malattia non è degenerata nel corpo di
Elliot.”
House
annuì.
“C’è un
elemento che non torna però.”
“Meno male! Se
spieghi tutto tu, io cosa faccio? Mi sentivo già un vuoto dentro…” House si
massaggiò lo stomaco. Forse il vuoto veniva da lì, visto che non aveva mangiato.
O era il cuore che aveva perso qualche battito quando Cameron aveva tirato quel
bottone? Cercò di concentrarsi sul caso.
“Ho trovato
anomalie nel flusso sanguigno del cervello di Elliot, come in quello di sua
madre, ma qui limitate solo alla corteccia motoria.”
“Bene.
Corteccia motoria, disturbo motorio. Più logico di così…” commentò House.
“Troppo
logico, e troppo semplice. Le aree della corteccia che presentano anomalie in
Elliot sono diverse da quelle danneggiate nel cervello della Pivet. Ma c’è un
elemento in comune: cicatrizzazione nell’area di Broca.”
I due medici
si guardarono per qualche secondo.
“Oddio, ma
cosa sta succedendo? Ci siamo scambiati i cervelli?! Io ho detto una frase tua,
tu una mia! Io non voglio risvegliarmi nel tuo corpo! E’…nero!”
Foreman
spalancò gli occhi. “House, ma stai bene?”
Il diagnosta
si passò una mano sulla fronte. “Si, ho solo bisogno di un caffè.” Si avvicinò
alla macchinetta, guardandosi in giro. “Nella mia tazza! Voglio la mia
tazza!”
Foreman
abbassò lo sguardo, sperando che cambiasse in fretta discorso.
Questi sbalzi
d’umore erano tipici di House, ma di solito passava da uno stato depressivo a
uno aggressivo/sarcastico, e viceversa. Il suo lato isterico era una novità.
Lui rimaneva
fermo nelle sue convinzioni… L’aveva visto perdere il controllo così solo in un
periodo, ed era quello in cui era tornata Stacy. Ora Stacy era lontana, ma lui
si era accorto di come il suo capo guardava Cameron, da quando aveva saputo
della sua avventura con Chase…
“La vuoi
finire di fissarmi?” il tono irritato di House distolse il neurologo dai suoi
pensieri. “Beviamoci questo caffè, avremo bisogno di essere nel pieno delle
forze quando il piccolo psicopatico si sveglia.”
Foreman
incominciò a preparare il caffè, tenendo d’occhio House con la coda dell’occhio.
C’era decisamente più di uno psicopatico in quella stanza…
Dopo pochi
minuti, Chase e Cameron entrarono rapidamente in sala equipe.
L’immunologa
reggeva a fatica l’enorme libro.
“Che
cavaliere!” commentò House rivolto a Chase, mentre liberava la dottoressa dal
grosso peso.
“Grazie.”
mormorò lei, un po’ stupita da quel gesto gentile. Quando le loro mani si
sfiorarono, percepì come una scossa elettrica.
House se ne
accorse e ne fu felice.
Felice?!
Diciamo
compiaciuto…
“Ah, scusami
Allison.” ma Chase era concentrato su tutt’altro.
Elliot era
seduto tra le lenzuola, e lo guardava in silenzio. I capelli scompigliati, la
faccia stropicciata: sembrava un normale bambino appena svegliatosi.
“Avete
scoperto cos’ha mia mamma?” domandò a bruciapelo, come se stesse continuando una
conversazione iniziata in sogno.
“Tua mamma è
morta.” disse House serio, catturando il suo sguardo.
Il bambino lo
fissò, e lentamente un sorriso si fece largo sul suo viso. “Sta mentendo.”
“Sei un
mostro.” ribatté il diagnosta, rispondendo al suo sorriso, con uno ancora più
ambiguo.
Cameron aveva
la pelle d’oca.
Foreman si
avvicinò al ragazzo e gli prese il polso. “Ti senti debole o strano?”
“No dottor
Foreman, sto bene.”
House si
avvicinò ai due; il neurologo non si spostò, non si fidava a lasciare il ragazzo
nelle sue mani: erano due soggetti pericolosi, ed il suo capo era più
grosso.
House prese il
giaccone di Foreman e glielo gettò addosso. “Facciamo lo stesso gioco che
abbiamo fatto prima, quello dove io lavoro e tu stai sul balcone a guardare i
fiocchi di neve che cadono, senza ipnotizzare nessuno.”
Questa volta
Foreman non si sentì di replicare nulla. Rimasero tutti in silenzio mentre
Elliot indossava il giubbotto e usciva sul terrazzo, accolto da una folata di
vento gelido.
“Non so se è
il caso…” tentò di protestare Cameron, ma si bloccò dopo aver incrociato gli
occhi di Chase.
“E’ un
barbone! E’ abituato! Anzi, magari si sente più a suo agio coi piedi congelati.
Lo faccio per lui!” House e i sensi di colpa erano come due rette parallele, che
non si sarebbero incrociate mai… “Allora?!”
“Pagina 2.149”
Chase aprì il libro. “Iplexya crocorum.”
“Sembra una
marca di crackers!”
“Invece è un
raro parassita, che uccide il feto entro l’ottava settimana.” intervenne
Cameron. “Attacca il cervello, si sposta rapidamente distruggendo la corteccia.
Produce uova, che si diffondono attraverso il flusso sanguigno, rendendolo più
denso.”
“Arriva al
cervelletto?” chiese Foreman.
“Non sembra.
Il feto non sopravvive che pochi giorni al suo attacco, probabilmente non fa in
tempo ad arrivare fino lì.” Chase spostava nervosamente lo sguardo dal neurologo
alla portafinestra che dava sul balcone.
House ci si
avvicinò e chiuse le persiane.
“Se scappa
ancora?!” chiese Chase.
“Da lì non va
da nessuna parte. Ho chiuso a chiave l’ufficio di Wilson e l’unica altra via che
ha è il cielo…dite che sa anche volare?”
“Direi di no.”
tagliò corto Foreman. “Allora? Come mai il cervelletto della Pivet perde colpi
così in fretta?”
Il diagnosta
si mosse lentamente verso la lavagna e incominciò ad estrarre il suo yoyo dalla
tasca della giacca.
Gli altri tre
medici si scambiarono uno sguardo complice; House si stava mettendo al lavoro
seriamente.
“Andate a
farvi un giro.” disse come tra sé e sé.
Chase, Cameron
e Foreman uscirono dalla stanza senza esitazione.
Appena loro
lasciarono l’ufficio, House alzò gli occhi al soffitto e fece un bel
respiro.
Si rimise lo
yoyo in tasca e guardò distrattamente la lavagna: non ci riusciva.
Aveva là
soluzione in testa, ma era frammentata, non riusciva a dargli forma. Tra un
frammento di diagnosi e l’altro…Cameron.
Aveva appena
fatto un test, l’aveva lasciata solo con Chase in laboratorio.
Il test non
era per lei, era per se stesso, ed il risultato era stato fallimentare:
gelosia.
Wow.
Era stato
sincero con se stesso!
Doveva correre
a dirlo a Wilson, sarebbe stato orgoglioso di lui.
Sentì bussare
alla finestra.
Aprì di
qualche centimetro. “Cosa vuoi?” chiese ad Elliot, in piedi di fronte a lui.
“La ama?”
House gli
chiuse bruscamente la finestra in faccia.
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Capitolo 18 *** Capitolo 18 ***
CAPITOLO
18
31 gennaio,
h 20.10
Ufficio di
House
Non si era
calmato, ma tra uno strano pensiero e l’altro era riuscito a mettere insieme
qualcosa che assomigliava a una soluzione. Ora veniva quel momento del suo
lavoro che adorava: stupire la sua equipe, e qualunque altro spettatore fosse
disponibile, con il racconto di come è arrivato alla diagnosi, fingendo che sia
stata la cosa più semplice e naturale del mondo.
Temeva che
questa volta però non sarebbe apparso così sicuro di sé: aveva ancora dei dubbi,
e la diagnosi non era tutta sua…era stata Cameron la prima a parlare di
parassiti.
Ma almeno ora
sapeva da che parte incominciare ad agire.
Gli venne da
sorridere: lei era veramente in gamba per essere così giovane e, cosa più
importante, aveva quella giusta dose di umiltà e determinazione che le
permettevano di imparare in fretta.
Era testarda,
e vinceva.
Anche con lui
aveva vinto.
Questo non
significava che fosse stato lui a perdere, anzi…
Aveva ragione
Wilson, non era una guerra.
L’ingresso di
Cameron, seguita dagli altri due medici, lo distolse dai suoi pensieri.
Le
sorrise.
Cameron non
riconobbe in quel sorriso la solita ironia o la solita sfida. Era solo un
sorriso dolce e sincero. Le venne volta di buttargli le braccia al collo, ma non
era di certo il momento né il luogo. Era sicura che ci sarebbe stato tempo per
tutto.
“Hai avuto
l’illuminazione?” chiese Foreman.
“Certo, senza
voi attorno i dilemmi si risolvono da soli nella mia testa.”
“Mi chiedo
cosa ci hai assunto a fare…” replicò Chase.
“Una sorta di
passatempo per rendere il lavoro più leggero.”
“Gentile come
sempre…Elliot?” Chase si avvicinò alla finestra e aprì le persiane,
Il ragazzino
era seduto per terra e stava leggendo il grosso libro che avevano utilizzato per
identificare quel parassita.
“Mi ha chiesto
qualcosa da leggere…speravo di scoraggiarlo, invece pare che gli piaccia. Dopo
lo interrogo. Se ha imparato quello che sta leggendo, lo assumo al posto tuo. Io
e un ragazzino prodigio, insieme, potremmo dominare il mondo!”
“Certo, due
manipolatori sono più forti di uno.” mormorò Chase.
“Geloso?”
Chase scosse
la testa, non sarebbe mai riuscito ad avere l’ultima parola col suo capo.
“Allora, cos’hai scoperto?” cambiò discorso.
“Ho scoperto
che la chiave di questo caso è la placenta.”
“Cioè?” chiese
impaziente Foreman.
Cameron era
appoggiata con la schiena alla parete e non aveva perso un solo movimento di
House, seguendolo con lo sguardo in ogni suo gesto. Lui se ne accorse e
quell’attenzione lo mise un po’ a disagio. Cercò di evitare il suo sguardo per
concentrarsi solo sulla diagnosi.
“Credo che la
Pivet, così come il moccioso e sicuramente qualche altro barbone satanista,
avessero la cattiva abitudine di cibarsi di tanto in tanto di quella roba.”
“Potrebbe
essere a causa di quello strano culto che seguono. Fanno parte di una specie di
setta, no?” Cameron fece quella domanda futile con il solo scopo di avere lo
sguardo di House su di lei per qualche istante. Ne aveva bisogno.
Non riuscì ad
ottenere quello che voleva, lui continuò a parlare passando rapidamente dalla
lavagna a Chese e Foreman, evitandola.
“Si, ma non ci
interessa il motivo. Di solito si cibano di placenta di bambini nati a termine,
ma qualche mese fa è capitato che una donna di strada, del loro giro, ha
abortito spontaneamente.”
“Davvero?”
chiese stupito Foreman.
“Sto
ipotizzando…ci vuole un po’ di fantasia! Dicevo…” sentiva bruciare lo sguardo di
Cameron su di lui. “Elliot e la Pivet mangiano questa placenta, che contiene il
nostro caro animaletto di pagina 2.149.”
Foreman
tentava di seguire il ragionamento del suo capo, la fronte aggrottata. Era
impaziente di arrivare alla fine, dove si smetteva di parlare e si agiva.
“Il parassita
trova un buon nascondiglio nel cervello: un’area cicatrizzata, delle cellule
morte che lo possono ospitare nell’attesa che le uova si schiudano e arrivi la
cavalleria.”
“Ma quale
sarebbe l’origine della cicatrizzazione?” Foreman incominciava a capire, ma
voleva assicurarsi che non gli sfuggisse niente.
“Quello me lo
devi dire tu! Ci sono difetti genetici che possono provocare questo tipo di
cicatrizzazioni nel cervello?”
“Si certo. Ma
mi sembra improbabile che si sia formata nella stessa area in entrambi…”
“Ma essendo
madre e figlio, qualche probabilità c’è.”
“Si, può
essere, ma…”
“Mi basta il
può essere.” gli fece cenno di smettere di parlare “Quindi il giovane parassita
appena emigrato…chiamiamolo RinTinTin per la sua intelligenza acuta ma limitata
in quanto animale, se ne sta buono buono nel lobo temporale, mentre il flusso
sanguigno si addensa. Ma questo non allarma nessuno.”
Cuddy e Wilson
avevano raggiunto l’equipe e, in rispettoso silenzio, ascoltavano House
descrivere la sua fantasiosa teoria. Fantasiosa, ma con quella sfumatura di
realismo e possibilità che ti impediva di smettere di seguire affascinato il suo
delirio.
“Quando le
uova si schiudono, e incominciano ad arrivare i rinforzi, RinTinTin incomincia a
muoversi, per raggiungere il resto della squadra, seminata per il cervello. In
Elliot si è mosso verso la corteccia motoria e, per sua fortuna, si è fermato
lì.”
“E perché si è
fermato?” Wilson osservava l’amico, come si illuminava quando aveva tra le mani
la sua diagnosi, la sua adorata diagnosi. Teneva il braccio attorno alle spalle
di Lisa, che ancora molto scossa, si era abbandonata a quell’abbraccio
fregandosene di quello che potevano pensare di lei, di loro. Era un suo diritto
essere coccolata ed amata, era una donna prima di essere l’amministratrice di
quell’ospedale. Era una donna che soffriva, e aveva bisogno di un uomo.
Indipendentemente da tutto, era Lisa Cuddy e aveva bisogno di Wilson. Dagli
occhi con cui l’oncologo la guardava, si capiva che era ricambiata dello stesso
dolce sentimento.
“Si è fermato
perché Elliot non ha più mangiato quella placenta. La Pivet si però, lei ha una
casa, un frigorifero, l’avrà conservata…”
Un’espressione
disgustata si fece largo sul volto di tutti i presenti.
House provava
sempre un sottile piacere a impressionare le persone, sia in positivo che in
negativo. Anzi, forse in negativo gli piaceva ancora di più: quelle facce
disgustate gli fecero piacere. “Che razza di pervertito che sono!” pensò, in
realtà orgoglioso di se stesso.
“La colonia
nel cervello di Elliot non si è ulteriormente moltiplicata, perché gli è mancato
il cibo. Sono parassiti che nascono e si moltiplicano nella placenta, nutrendosi
di sostanze contenute in essa, che nel nostro organismo sono contenute a livelli
troppo bassi.”
“Quali
sostanze?” chiese Chase.
“Ma la smetti
di rompere?! Non so di che sostanze sto parlando, però è andata così.”
Chase fece
spallucce, mentre la Cuddy si passava una mano sulla fronte: se non avesse
conosciuto House, sentir parlare così un medico sarebbe bastato a farglielo
licenziare in tronco.
“Quindi Elliot
rimane con un braccio paralizzato, ma non peggiora. Sua madre invece continua a
cibarsi della placenta infetta, permettendo a RinTinTin a ai suoi figli, nipoti
e cugini, di nutrirsi, di crescere e moltiplicarsi, continuando ad andare a
spasso, in questo caso per il cervelletto.”
“Perché la
corteccia motoria in Elliot e il cervelletto nella Pivet?” chiese Foreman.
“Non lo
so.”
I medici si
guardarono perplessi.
“E perché la
Pivet è migliorata tanto da tornare a camminare e poi è peggiorata ancora?”
“Questa
domanda è decisamente più interessante!” disse House entusiasta. “Credo che la
Pivet quella notte non sia semplicemente migliorata, ma sia guarita del
tutto.”
Foreman
spalancò gli occhi, incredulo. “Dici che l’abbiamo curata in qualche modo e poi
si è riammalata quand’era fuori di qui?!”
“No.” House si
spostò verso la porta finestra, la aprì, e fece cenno ad Elliot di entrare.
“Questo
piccolo genietto l’ha curata, facendole mangiare della placenta non infetta che,
evidentemente, contiene anticorpi che possono distruggere RinTinTin, e così è
stato.”
Tutti
guardarono Elliot, con un misto di timore e ammirazione. Era davvero un bambino
curioso.
“Non credo
sapesse cosa stava facendo…” disse Foreman; l’idea che un ragazzino di 12 anni
conoscesse la cura per un disturbo che gli aveva impegnati per giorni senza
farli nemmeno avvicinare alla soluzione, lo irritava terribilmente. “Se avesse
saputo che bastava della placenta non infetta a curare la madre, si sarebbe
curato anche lui.”
“Già..” disse
House, sorridendo al ragazzino, che lo guardava diffidente.
Appena Elliot
si volse verso Chase, del quale cercava lo sguardo appena poteva, House lo
afferrò per il braccio sano, torcendoglielo dietro la schiena. Gli spinse poi il
bastone sulla gola, tentando di soffocarlo.
Tutti i medici
accennarono un passo verso di loro, spaventati dal comportamento del diagnosta,
ma si bloccarono non appena fu Elliot, da solo, a liberarsi da quella presa,
separando con forza il bastone dal suo collo…usando il braccio paralizzato.
Evidentemente non lo era più.
Sguardi
confusi passarono ripetutamente dal ragazzino ad House, che aveva una nota
espressione di vittoria sul volto.
Elliot
ansimava, cercando di recuperare l’ossigeno che gli era mancato per qualche
secondo.
“Evidentemente
le sue doti di abile ipnotizzatore non erano sufficienti per convincerti a
portarlo qui in ospedale.” spiegò House, rivolto a Chase, che sembrava
sconvolto. “Serviva anche un elemento che interessasse a noi, come un sintomo in
comune con la madre. Mamma e figlio avevano un piano d’emergenza.” si rivolse al
ragazzino. “La tua capacità di osservare ti ha permesso di capire che era nella
placenta la soluzione del disturbo di tua madre, e del tuo. Tua mamma è però
meno furba di te, e appena è tornata a casa ha fatto colazione con gli avanzi
congelati della placenta infetta, e si è ammalata ancora.”
Elliot lo
guardava ancora ansimando, senza accennare nessun movimento. Era sicuro che, se
avesse fatto qualche mossa falsa, quel dottore psicopatico non avrebbe esitato
questa volta a soffocarlo veramente.
“Ma…ora che
facciamo? Basta farle mangiare della placenta non infetta per farla guarire?”
chiese Cameron, confusa.
“Con la
paziente in questo stato non ne sono sicuro, ma probabilmente si.” finalmente
posò lo sguardo su di lei.
Dio, com’era
bella.
“Non è una
pratica medica consona…” tentò di protestare la Cuddy, sicura che sarebbe stata
brutalmente interrotta dal diagnosta.
“Hai ragione,
non si può fare.” disse invece lui “Non mi permetterei mai di evadere qualche
regola del Plaisboro, temo troppo la tua ira vendicativa.”
“Ma
finiscila…” Cuddy capì che aveva in mente qualcosa.
“No, davvero!
Magari mangiare la placenta la salverebbe, o magari no. Ma anche se la
salvasse…noi non conosceremmo comunque l’azione del parassita. Insomma, come fa
a provocare quei sintomi, fino alla paralisi?”
“House quella
donna sta morendo, se c’è una cosa che può salvarla…” Chase trovava
inconcepibile che il bisogno di sapere del suo capo venisse prima della vita di
quella donna.
“Non la
ucciderò.”
“Deve darle
quella placenta!” urlò Elliot improvvisamente, scagliandosi contro di lui.
“Deve
dargliela subito! Non può farla morire per la sua sete di conoscenza!” Elliot
incominciò a prendere a pugni House, che tentava di tenerlo fermo come poteva.
Foreman e Chase intervennero per aiutarlo, mentre gli altri li guardavano
disorientati. Quel bambino passava da uno stato di calma e tranquillità che
sfioravano l’apatia a quegli attacchi violenti con una velocità strabiliante.
A fatica lo
separarono da House. Continuava a dimenarsi, con sempre più violenza. Era
difficile tenerlo fermo anche per due uomini forti come loro.
Dopo un minuto
abbondante si bloccò di colpo; Chase e Foreman si guardarono perplessi, senza
lasciare la presa.
“Se continui a
urlare così darai nell’occhio…” disse House, verbalizzando le sue paure. “Ma
ormai credo che neanche lo stare tranquillo ti eviterà l’istituto.”
Chase osservò
grave il suo capo. Nonostante tutto quello che aveva combinato quel giorno,
sentiva per quel ragazzino ancora una forma di affetto, che gli impediva di
tradirlo così. “Aspettiamo a prendere decisioni affrettate, House.”
“Di quello che
bisogna fare col ragazzo me ne occupo io.” disse decisa la Cuddy. “Ora però
voglio che guarite quella donna, il prima possibile. Non mi interessa che metodi
userete, ma la voglio fuori da qui. Capito House?”
Lui annuì,
apparentemente docile.
La Cuddy
sapeva che avrebbe fatto comunque tutti i suoi test per scoprire cos’aveva la
Pivet, era inutile combattere con la sua sete di sapere. Gli si avvicinò di
qualche passo, per non farsi sentire da Elliot. “Almeno non farla morire.” gli
sussurrò.
House si baciò le dita incrociate.
“Promesso mamma.”
“Cosa ne
facciamo di lui? Chiamo la polizia…”
“No aspetta.
Potrebbe tornarci ancora utile, il suo cervello è guarito.”
“House…”
“Dobbiamo
aspettare la mezzanotte! Non vorrai rompere quel patto…”
Lei sospirò.
“E va bene, ma intanto?”
House guardò Chase. Era un
idiota: quel bambino aveva tentato di manipolarlo e l’aveva pure picchiato. Come
faceva a tormentarsi ancora per quella stupida promessa? Elliot gli stava ancora
a cuore, era preoccupato per la fine che avrebbe fatto. Che razza di…
Incrociò lo
sguardo di Cameron, che lesse in lui tutto il disprezzo per il collega. La
dottoressa si avvicinò ai suoi capi. “House, lascialo un po’ di tempo con
Chase.”
“Perché?”
“Perché non
farà nulla, ormai non tenterà più di avvicinare sua madre, né scapperà.”
“Rischia di
finire in istituto, certo che scapperà.” disse la Cuddy.
“No, ha
ragione Cameron. Non proverà più ad avvicinarla, e non sparirà. Ha ancora paura
che io non la curi in fretta, rischierà l’orfanotrofio piuttosto di farmela
ammazzare. Che cosa scomoda l’amore filiale.” si girò verso Chase. “Occupati tu
di Elliot, però lo voglio lontano da me.”
Il medico lo
guardò sorpreso, non si aspettava certo che lo affidassero a lui. Nello stesso
tempo era contento, e non si riusciva a spiegarselo: quel ragazzino era un vero
bastardo.
Anche Foreman
sembrava perplesso, ma in quel momento la paziente gli interessava decisamente
più del bambino, ormai guarito, e non vedeva l’ora di poter decidere con House
cosa fare con la Pivet.
“Va bene.”
rispose Chase dopo qualche secondo di esitazione.
“Fuori di
qui.” ordinò House, rivolto a tutti e due.
Elliot si
avvicinò a testa bassa a Chase, e insieme lasciarono la sala equipe.
“Che facciamo
con la Pivet?” chiese Foreman, irrequieto.
“Sei proprio
un insensibile! Non ti importa proprio niente di quel povero ragazzino, né del
tuo patetico collega in preda ai sensi di colpa.” lo prese in giro House.
“Se quella
donna muore il ragazzino si metterà a piangere e Chase si fustigherà. Lo faccio
per loro.”
House sorrise,
quel cinismo tra le labbra del suo neurologo era musica per le sue orecchie.
“Falle un esame istologico alla materia grigia. Dobbiamo trovare l’anomalia
specifica che provoca le paralisi e i disturbi motori. Fai in fretta, non vorrei
morisse mentre aspettiamo i risultati. Cameron, tu analizza il campione di
placenta rimasto. Voglio sapere tutto ciò che contiene. Tutto.”
I due medici
uscirono rapidamente dalla stanza.
Quando furono
lontani, House si voltò verso Wilson. “Sono nella merda fino al collo.” gli
disse in un soffio.
La Cuddy lo
osservò stringendogli occhi, come per studiarlo, cercando di capire a cosa si
riferisse. Conosceva almeno una dozzina di motivi per cui House poteva essere
nella merda fino al collo.
Wilson scosse
la testa, sorridendo. “Te la caverai.”
“Se non fosse
per lei avrei risolto questo caso ore fa. Mi distrae, mi impedisce di
pensare.”
“Non è colpa
sua, è tua. Se ti rilassassi e accettassi i tuoi sentimenti senza andare in
panico, non interferirebbero più col tuo lavoro.”
Cuddy guardò
il diagnosta con meraviglia.
“Cameron?”
chiese, divertita.
“Tu stai zitta
per favore.”
Le venne da
ridere, vedere House così agitato era uno spettacolo davvero insolito.
“Non sopporto
l’idea che sia stata a letto con Chase.”
A Lisa venne
in mente un ricordo, di tanti anni fa. Un medico arrivato da poco aveva offerto
un caffè a Stacy, mentre lei stava aspettando che House finisse di lavorare. Era
sempre così: lui non aveva orari, ma lei passava sempre in ospedale dopo il
lavoro, e c’era sempre un sorriso per lui quando finalmente la raggiungeva.
Stacy aveva accettato con piacere quel caffè, e aveva parlato un po’ con
quell’uomo, per passare il tempo. Quando House l’aveva saputo, non le aveva
quasi rivolto la parola per giorni. La sua forte gelosia era in contraddizione
con l’indifferenza e la freddezza con cui trattava di solito le persone, anche
le sue donne. Ne sapeva qualcosa.
“Sei geloso, è
normale.” provò a dirgli la Cuddy.
Lui si voltò
verso di lei. “E’ normale?!” chiese irritato.
“Si, tu eri
geloso di Stacy. Sei geloso delle persone che ami.”
Wilson
osservava l’amico con un mezzo sorriso, la spalla appoggiata alla porta. Se
avesse provato a fuggire, gliel’avrebbe impedito. Doveva affrontare il discorso,
o si sarebbe portato avanti questa storia per giorni, forse settimane, senza
concludere niente.
“Io non amo
nessuno. A parte Steve.” Cuddy lo guardò perplesso. “Il mio topo!” precisò
lui.
“Smettila di
fare il bambino House, sei un uomo e sono anni che sei solo.” Lisa gli parlava
decisa, le braccia incrociate, come faceva quando sapeva di avere ragione.
“Cameron ti adora. E’ bella, dolce e anche forte. Ha un tipo di forza che tu non
conosci, ma sai che ce l’ha. Sei attratto da lei dal giorno che l’hai assunta, e
l’unico motivo per cui non te la sei ancora portata a letto è che non si tratta
di semplice attrazione sessuale.” House fissava il suo capo, senza avere il
coraggio di fermarla. Era impressionante come fosse tutto così semplice e
lineare visto dall’esterno. “Hai paura che ti coinvolga troppo.”
“Quand’è che
siamo diventati così intimi noi?” le chiese ironico, incrociando a sua volta le
braccia.
“Quando sei
venuto a casa mia, distrutto, dopo che Stacy ti aveva lasciato. O quando siamo
stati a letto insieme…” rispose lei, con quel tono di sfida che lui conosceva
bene.
“Ma l’hai
addestrata tu a mettermi in difficoltà?!” House si rivolse a Wilson; di solito
era lui a sbattergli in faccia la verità quando mentiva a se stesso.
“No, House. E’
talmente palese che se ne accorgono tutti. Va’ da Allison, stai un po’ con lei.
Viviti qualche momento di gioia, rinuncia al tuo masochismo per una volta.
Magari ci prendi gusto.”
House aveva
almeno un centinaio di battute sarcastiche con sui distruggere l’atmosfera
imbarazzante che pesava su di lui in quel momento. Ma alla fine aveva davanti
gli unici due amici degni di quell’appellativo, gli unici che aveva accettato e
che lo accettavano. Forse avevano ragione, forse era ora che smettesse di
distruggersi. Stacy l’aveva lasciato per…
“Stacy ti ha
lasciato per colpa tua, House.” era la prima volta che qualcuno diceva ad alta
voce questa terribile verità che lo tormentava da anni, e fu contento che fu il
suo migliore amico a farlo. “Ti sei fatto del male e ne hai fatto a lei. Non ha
senso continuare così, sono passati tanti anni…Cerca di perdonartelo e concediti
un po’ di felicità.”
“E concedila
anche a quella povera ragazza.” continuò la Cuddy. “Cameron ti vuole bene, e sa
di essere ricambiata. Che senso ha tenerla così lontana da te?”
“Sapete che
insieme le vostre peggiori caratteristiche non si sommano? Si moltiplicano!
Saranno tempi duri per me ora che incomincerete a fare coppia fissa!” House gli
avrebbe abbracciati, se fosse stato in grado di avere un gesto d’affetto per
qualcuno che non fosse il suo topo.“Ritenetevi responsabili di qualunque
stronzata che farò.”
“Va bene.”
risposero entrambi. Lisa sorrideva, ma House notò quell’ombra dei suoi occhi.
“Cuddy.” la
chiamò quando erano entrambi sulla porta, pronti a lasciarlo un po’ solo coi
suoi tormentati pensieri.
Lei si
voltò.
“Mi dispiace
per tuo papà.” le disse, senza riuscire però a reggere il suo sguardo.Gli faceva
paura leggere una sofferenza così grande in una persona così vicina a lui.
“Grazie.” si
limitò a dire lei.
Poi entrambi
si allontanarono, camminando vicini, con quella complicità che li avrebbe uniti
a lungo, forse per sempre.
31 gennaio,
h 23.15
Parcheggio
del Princeton Plaisboro Teaching Hospital
Avevano
risolto il caso.
Cameron aveva
trovato gli anticorpi che bloccavano la riproduzione del parassita nella
placenta sana, gli avevano somministrati alla Pivet e sembrava stesse
funzionando. Ovviamente non avrebbero avuto risultati certi se non tra qualche
ora, ma era già scomparsa la labirintite e House era sicuro che tra poco la
donna avrebbe ricominciato a respirare da sola.
Non aveva
ancora capito precisamente come agiva il parassita, ma c’era il campione
prelevato con l’esame istologico, e avrebbe avuto i prossimi giorni per fare
tutti gli esami che voleva. Sapeva che non sarebbe stato solo in quell’inutile
ricerca della verità: Foreman era curioso quanto lui, e avrebbero svolto in
silenziosa compagnia tutti i test, arrivando poi alla soluzione di quell’enigma
e accorgendosi, ancora inesorabilmente insieme, che non aveva più la minima
importanza.
Era riuscito a
scucire ai poliziotti qualche informazione sull’arresto della Pivet. Pareva che
fosse coinvolta in un brutto affare di commercio di bambini. C’erano coppie
sterili che offrivano molto denaro per avere un bambino, senza dover subire il
lungo iter delle adozioni, e c’erano persone pronte ad approfittarsi della
situazione. La Pivet gestiva un culto che venerava la femminilità, la maternità,
e con tecniche di suggestione simili a quelle usate dal figlio, convinceva molte
delle donne di strada che rimanevano incinte, a cedere il oro bambino. In cambio
dava uno piccola somma di denaro, e qualche preghiera. Il grosso dei soldi lo
intascava lei.
Forse si
sarebbe meritata di morire.
Raggiunse
Cameron all’aperto, nel parcheggio.
La dottoressa
era appoggiata alla sua macchina, le braccia incrociate per proteggersi dal
freddo, che a quell’ora della sera era ancora più pungente. La luna piena, il
cielo scoperto e il gelo, rendevano il cielo di uno strano colore rossastro.
Allison
guardava il divertente spettacolo davanti a lei: la macchina di Chase procedeva
a tentoni, tra improvvise accelerazioni e brusche frenate, continuando a girare
in tondo nel parcheggio semivuoto.
House si
appoggiò a sua volta, vicino a lei, più vicino di quanto entrambi si
aspettassero.
“Cuddy ha
chiamato i servizi sociali, stanno venendo a prenderlo.”
“Lo so.”
rispose lei, continuando a guardare dritto davanti a sé. “Non ho il coraggio di
dirglielo.”
Rimasero
qualche secondo in silenzio, a riflettere.
Di tanto in
tanto arrivavano a loro le risate di Elliot e Chase. Quest’ultimo aveva deciso
di far fare al ragazzino qualcosa che lo distogliesse per un po’ dal mondo che
si stava sgretolando attorno a lui. Sapeva che avrebbe voluto provare a guidare,
e gli permise di farlo, conscio di quanto sarebbe servito a lui, da ragazzino,
un amico che lo distraesse in quei momenti in cui la realtà gli sembrava troppo
grande e minacciosa per lui.
Lo vide come
una sorta di riscatto.
“Prima glielo
diremo, più tempo avrà Elliot per salutare sua mamma. Non la rivedrà per molto
tempo.” a queste parole di House, Cameron si voltò finalmente a guardarlo.
Il diagnosta
si accorse che aveva le lacrime agli occhi.
L’istinto fu
quello di andarsene senza dirle una parola, ma decise di bloccare quell’impulso
codardo. Decise di farlo per il bene di entrambi.
“Perché
piangi?” le chiese. Non c’era nessuna nota sarcastica nella sua voce, solo reale
preoccupazione.
Lei si passò
le dita sotto agli occhi, cercando di asciugarsi l’ennesime lacrime della
giornata, senza rovinarsi il trucco. “E’ solo un bambino. Poi Chase…non la
prenderà bene. Adesso è…guarda com’è felice. Si è affezionato a quel
ragazzino.”
Cercò di
sorridergli. Aveva le gote arrossate dal freddo e gli occhi le brillavano per le
lacrime. “So che il mio commuovermi ti sembra patetico, ma non ci posso fare
niente.”
Lui scosse la
testa, tornando a guardare verso l’auto. Elliot era riuscita a parcheggiarla,
sfiorando di poco un albero. Dopo pochi secondi entrambi scesero, ma si
bloccarono appena videro lui e Cameron.
House fu certo
che avevano capito cosa stava per accadere.
Chase posò una
mano sulle spalle del ragazzo, e camminarono insieme verso di loro.
“Non sei
capace a parlare agli alberi per convincerli a spostarsi?” chiese House ad
Elliot, appena furono di fronte a loro. “Ti servirebbe, perché se guidi così da
schifo non andrai molto lontano.”
“No dottore,
ma forse è il caso di imparare. Lei può insegnarmelo?”
House rise
sommessamente.
Chase non
staccava gli occhi da Cameron, dai suoi occhi lucidi.
“Stanno
venendo a prenderlo?” le chiese.
Lei annuì.
“Puoi andare a salutare tua mamma se vuoi.” disse poi, rivolta ad Elliot.
“Grazie.”
disse lui, mentre una lacrima gli scendeva per la guancia.
“Accompagnalo
tu, Cameron.” disse House alla dottoressa. Nessuno protestò e l’immunologa si
impose di smuovere in fretta quella situazione: si alzò in piedi e tese la mano
ad Elliot. “Andiamo?” gli chiese.
Elliot si
voltò verso Chase. “Grazie per avermi fatto guidare, dottor Chase.” disse,
tentando di sorridere tra le lacrime.
Chase aveva
gli occhi rossi ma sia Cameron che House erano sicuri che non avrebbe mai pianto
di fronte a loro. Ebbe però il coraggio di abbassarsi e abbracciare forte il
bambino. “E’ stato un piacere Elliot, vedrai che la prossima volta il parcheggio
andrà un po’ meglio.” Continuò a tenerlo stretto per qualche secondo, dando
l’ultimo saluto a un piccolo amico/nemico, e forse anche a quel bambino ferito
che stava accucciato dentro di lui. Poi si alzò e lo guardò allontanarsi finchè
non scomparve, la sua piccola mano in quella della persona di cui più si fidava
là dentro, della sua bellissima amica e collega, Allison Cameron.
Quando si
ridestò dai suoi pensieri, si accorse che House era ancora appoggiato all’auto
dell’immunologa, e lo fissava impassibile.
“Io vado. Ci
vediamo domani, buonanotte.” disse rapidamente, poi si voltò e incominciò a
camminare verso la sua macchina, miracolosamente integra.
“Chase.” il
diagnosta lo chiamò, e poi lo raggiunse con la sua andatura zoppicante.
Sembrava quasi
imbarazzato e questo mise Chase a disagio.
“Potrai andare
a trovarlo.” gli disse alla fine.
Chase era
scosso, ma riuscì a cogliere qualcosa che assomigliava a delle scuse, nascoste
nella banale frase del suo capo.
“Già. Ma non
credo che andrò.”
House annuì.
Fece per tornare sui suoi passi.
“House.”
questa volta fu il turno dell’intensivista. “Il prossimo Natale ti regalerò una
tazza nuova.”
House alzò gli
occhi al cielo. “Sei un bastardo.” disse rivolto alle stelle, ridendo.
“Dev’essere un
gran complimento da parte tua.”
“Questa me la
paghi.”
“Come pago
ogni tuo sbalzo d’umore.”
“Sei l’unico
che riesce a sopportare certe pressioni. Cameron si metterebbe a piangere e
Foreman correrebbe a parlare con la Cuddy.”
“Anche questo
è un complimento?” chiese lui, aggrottando la fronte.
“Sparisci.”
allontanò Chase spingendolo col suo bastone, come aveva fatto qualche ora prima
con quel poliziotto. Quel gesto era però, questa volta, libero da ogni forma di
aggressività. Forse era un gesto amichevole. O almeno così lo intese Chase che,
sorridendo, raggiunse la macchina e si allontanò.
Dopo pochi
minuti Cameron uscì ancora dall’ospedale e si diresse verso la sua auto. House
vi era appoggiato, nella stessa posizione in cui l’aveva lasciato.
Senza nessuna
esitazione, gli lanciò le chiavi della sua macchina.
Lui le prese
al volo, e la guardò stupito, colto alla sprovvista dalla spontaneità di quel
gesto.
“Non mi vorrai
far guidare fino a casa da sola, con le strade in questo stato?” disse al suo
capo, fingendo indignazione. La luce nei suoi occhi esprimeva, allo stesso
tempo, quanto desiderasse che lui accettasse quell’invito, che lui accettasse
quello che entrambi volevano.
“Ma non
spettarti che ti apra la porta, o cretinate simili.” disse lui, sedendosi al
posto del conducente.
Si
allontanarono dal Plaisboro.
I loro cuori,
che battevano così veloci, mescolavano insieme tutte le intense sensazioni delle
ultime giornate, consapevoli che l’emozione più grande gli avrebbe travolti tra
poco, quando finalmente sarebbero stati l’uno tra le braccia dell’altra.
A meno che…
Si svegliò con
la sua piccola mano appoggiata sullo stomaco.
I capelli
erano abbandonati sul cuscino, le labbra semiaperte.
Appoggiò la
sua mano su quella di lei, chiedendosi quante volte le aveva baciate quella
notte.
Centinaia di
volte.
Aveva
incominciato a stringerla a sè prima che raggiungessero la porta d’ingresso, non
aveva resistito.
Lei aveva
risposto con una voracità che sembrava impensabile per un essere così
delicato.
Le scostò una
ciocca di capelli dal viso, sperando che si svegliasse.
Aveva bisogno
di essere sicuro che non fosse solo un sogno, aveva bisogno di sentire quella
voce che gli aveva provocato sensazioni così diverse da quando la conosceva:
irritazione per le sue frasi ingenue, tenerezza per la tenacia con cui gli
imponeva i casi che le sembravano interessanti, turbamento per le sue
ammonizioni etiche, eccitazione per come aveva ripetuto il suo nome quella
notte…
“House…”
Finalmente
aveva aperto gli occhi, finlamente lo stava guardando.
Lei gli
sorrise, lui le rispose allo stesso modo.
“Voglio
dormire ancora un po’.” mormorò , tornando a chiudere gli occhi.
Lui la lasciò
fare.
Cameron non
voleva dormire, voleva solo godersi fino in fondo quel momento di pace.
Voleva tenere
ancora per un po’ la mano sotto il tocco leggero della sua, sentirlo respirare
accanto a lei.
Aveva ancora
addosso il languore di quella lunga notte.
In quel
momento desiderava più di ogni altra cosa che la gioia che aveva nel cuore non
la abbandonasse mai.
Era stato
tutto più bello di ogni sogno che avesse mai fatto, e lei sognava tanto. Sognava
tanto di lui.
House si
sentiva calmo, sereno.
Era una
sensazione che non provava da anni.
Ma non era
solo quello.
Aveva paura a
dirlo, anche a se stesso.
Come se stesse
seguendo il corso dei suoi pensieri, una semplice domanda uscì flebile dalle
labbra di Cameron.
“Sei
felice?”
Lui sorrise, cercando di cogliere in ogni
sua sfumatura quella stupenda emozione che forse non aveva mai conosciuto a un
livello così puro.
Si.
Era
felice.
FINE
Vally
Ce l’ho fatta, l’ho finita!
E’ stato difficile per me, mi
piaceva scrivere questa storia.
Ma il finale è venuto da solo, la
conclusione si è fatta da sé.
Sarà una cosa che scrivono tutti
ma, data l’importanza, non posso non farlo anch’io.
GRAZIE GRAZIE GRAZIE a tutti
quelli che hanno letto e recensito questa fanfic.
Vi ringrazio di cuore, il merito
di quello che di bello c’è in questo racconto è anche vostro.
Il mio modo di ringraziarvi sarà
quello di impegnarmi a leggere le vostre fanfic, come sto già facendo, e di
commentarle in modo sincero.
Credo che alcuni di voi sappiano
quanto è entusiasmante leggere una recensione positiva da parte di qualcuno che
ammirate, da parte di qualcuno che scrive come piace a voi. A me è capitato con
alcuni di voi, che…ringrazio davvero tanto, a costo di ripetermi.
Un abbraccio forte anche a tutti
quelli che non scrivono, ma leggono con passione.
Una nota finale, prima di
salutarvi.
Contrariamente a quanto si
aspetteranno alcuni di voi, io non sono cotton candy!
Adoro però il personaggio di
Cameron, che trovo sia quello delineato meglio nella serie, dopo House. E’ ricco
di sfumature e di possibilità… Quindi mi è piaciuto scrivere di loro.
Mha…in realtà mi affascinano
tutti i protagonisti e spero di averlo dimostrato dando spazio a ognuno di
loro.
Ora vi saluto e, come al solito,
attendo con ansia le vostre recensioni.
Vally
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