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Non so che ore erano quando il telefono squillò, pur non sapendo l’ora una
voglia omicida mi indicava che era presto, troppo presto per chiamare a casa.
Mio malgrado ero solo come un cane, anzi no, c’era Ekips,
ero solo CON un cane. Odio i cani, quando ti servono mai una volta che tirino
fuori il loro pollice opponibile, nemmeno per rispondere al telefono
quando il loro padrone dorme. Ad ogni modo mi alzai o meglio rotolai giù
dal letto e mi alzai da per terra, mai più di quel
momento ho desiderato la presenza di un altro individuo in casa, cosa che,
partendo dal presupposto che non sono autistico, dice
tutto. Alzai il cordless e me lo portai all’orecchio,
come pesava quel giorno non aveva mai pesato, un po’ come le donne, sorreggerle quando balli è facile, ma quando svengono e devi
sostenere ttto il peso morto li sono cazzi.
Dal telefono uscì una voce
che mi salutava come se fosse mezzogiorno, l’avrò maledetta
miliardi di volte prima di chiedermi a quale stupidissima bocca apparteneva, ma
alla fine lo chiesi:
“chi è?”
“lorè,
so io!”
“mi sono appena svegliato,
non so nemmeno se sei maschio, femmina o un alieno che vuole entrarmi nel
cervello e conquistare il mondo e vista l’ora mi auguro per te che sia la terza
opzione”
“ma
no! Lorè! So io! Giulietta!”
era una donna, o meglio, questo divulgava l’anagrafe,
io non ci avevo mai creduto tanto, aveva più baffi di me, ma la cosa più bella
sta nel fatto che il suo vero nome era Giulietta quant’è
vero che era una donna attraente, infatti si chiamava Valeria.
Valeria era una mia quasi
amica che avevo conosciuto quasi due mesi prima, una di quelle persone più
patetiche di un cantante alcolizzato, dico solo che per soddisfare il suo ego,
ormai seppellito da anni cento metri sotto la Fossa delle Marianne,
si era autoproclamata Giulietta e aveva osato
nominare ME il SUO romeo.
Trovo però che sia doveroso
aggiungere a questo punto che oltre a essere di
discutibile bellezza era anche di dubbia intelligenza, insomma, si poteva
distinguere tra migliaia di ippopotami perché era la più brutta e stupida.
Tornando alla telefonata dopo
aver scoperto l’identità dello scorticatore di scroto una parte di me mi suggeriva di riattaccare e tornare a dormire mentre
l’altra, probabilmente ancora in fase di dormiveglia, era curiosa di sentire
cosa aveva da dirmi Valeria, purtroppo, vinse la seconda.
“che
vuoi a quest’ora?”
“ma
quale ora che so le dieci”
Come in un baleno mi ricordai
che ieri avevo fatto tardi e che le serrande non facevano passare luce per via
della mia fotosensibilità. Ripresi tentando di non
far notare la mancanza del mio orologio biologico:
“ah… allora che vuoi e basta”
“niente lorè,
volevamo sapere se tu potev…”
“volevamo chi?”
“io e Benedetta”
“no.”
Dopo aver riattaccato mi
avviai alla finestra della mia camera e, tirando occhiatacce al cane, alzai le
serrande.
“sai benissimo che è colpa
tua èh?” le dissi “ieri avevamo concordato che stava
a te alzare le serrande stamattina”
Ekips non rispose, un po’ perché sapeva che la colpa era
sua e con me nessuna difesa tiene e un po’ perché era un cane.
Dato che al mondo l’idea di
lasciarmi in pace non piace affatto il telefono suonò
nuovamente, quando risposi mi trovai di nuovo a parlare con Valeria:
“lorè,
però nun fa cosi, ‘o sai che
me pija a male quando me riattacchi senza motivo”
“un motivo c’era, ad ogni
modo cosa volevi?”
“volevo solo sapè se eri libero il trentuno ottobre, stavamo aorganizzà una pizza per Allouìn”
“Allouìn
è una festa che non appartiene al nostro paese, in quanto non mi sento in
obbligo di prendere parte a questi festeggiamenti inutili e poi se proprio devo
fare una festa creata per scacciare gli spiriti maligni di certo non la celebro
mangiando pizza con uno di loro”
“sei popo
cattivo lorè”
“e
tu non sei più fica se parli romanaccio”
Dopo questa frase gli
riattaccai, non sono maleducato ma trovo che i
convenevoli di saluto siano un privilegio da riservare per chi mi chiama dopo
colazione. La giornata era già partita molto male e sarebbe proseguita peggio
me lo sentivo, è come il cellulare: quando lo compri nuovo
può non cascarti per mesi, ma la prima volta che ti si sfrange
per terra sai già che è solo l’inizio di una lunga serie di schianti che lo
porteranno a rompersi nel giro di poche settimane.
Mi avviai in cucina con passo
lento e confuso, penso di aver preso botte contro la
metà dei mobili che si annidano in casa. Come ogni domenica aprii il
frigorifero e come ogni domenica lo trovai vuoto, dopo essermi espresso con
termini molto poco idonei a un testo come questo mi
avviai di nuovo in camera mia per accendere il computer per svagarmi chattando e fissando il mio desktop. Dopo una mezz’oretta il mio computer, che è famoso per essere veloce come
Achille nel paradosso di Zenone, si accese.Come ogni mattina l’hard disk del mio computer
emetteva un rumore molto simile a quello di un dj che
remixa una canzone rep.
Appena accesa la scatola
magica misi della musica dopodichè entrai su msn. L’ora non era delle migliori e non c’era un cane
connesso o meglio, un cane c’era, era un mio compagno di classe, uno di quelli
che una volta mi aveva detto “nella mia vita al primo
posto metto la persona che amo, al secondo il MOTORINO, al terzo i miei amici e
al quarto la mia vita”. Ora io personalmente non ho nulla in contrario al motorino ma dubito seriamente che qualcuno si ammazzerebbe
per salvare il suo ciclomotore.
A un certo punto alzando la mano dal mouse notai che
sotto il mio gomito c’era un bigliettino attaccato sulla scrivania bianca piena
di cianfrusaglie varie che non ho mai avuto il coraggio di rimuovere. “siamo
usciti che ancora dormivi, torneremo per l’ora di cena il cibo è in frigo da
riscaldare, spero che Ekips ti faccia compagnia,
baci, mamma”.
Una volta
letto il biglietto mi girai a
destra verso il mio letto dove Ekips stava ancora
sonnecchiando.
“ti va di fare due
chiacchiere?” gli chiesi
non rispose.
“mamma, speri male” dissi
alzando gli occhi al cielo “al cane non va nemmeno oggi di parlare”.
Appena conclusi
di vaneggiare in questa triste maniera mi balenò in testa l’idea di mangiare la
pasta riscaldata al microonde, lo facevo spesso, ma mi disgustava sempre. Per
un attimo pensai che forse avrei dovuto imparare a cucinare qualcosa di più dei
wurstel bolliti, ma poi mi ricordai delle rare volte che avevo provato a farmi
un piatto di pasta da solo… “corro al microonde”
pensai.
Dopo 5 minuti avevo finito di
pranzare, non perché avessi trangugiato tutto, ma perché avevo lasciato circa
la metà del cibo. Mi ricordo ancora cosa mi diceva la mia baby sitter quando
non mangiavo a pranzo, era dieci anni fa, ma ancora me lo ricordo: “questo”
diceva indicando il piatto “te lo riscaldo per cena”. Non gli piaceva cucinare,
ma gli piacevano molto i bambini, un po’ come a MichealJackson.
Ad ogni modo era ormai l’una
e mi resi conto che dovevo fare qualcosa del mio pomeriggio, ero molto propenso
a cimentarmi in un giro in bici, premetto che io adoro
la bicicletta, mi piace veramente tanto, per me farmi un giro in bici è una
gioia immensa, un orgasmo sportivo.
Ma mentre stavo fantasticando
sulla mia passione mi tornò in mente un episodio
accaduto due giorni prima, mi ricordai che stavo sfrecciando per la discesa che
porta a casa mia, poi mi ricordai di un gruppetto di ragazzi alcuni più piccoli
di me, altri più grossi. Mi alzai la maglietta del pigiama e guardai i vari
lividi che tempestavano il mio ventre “però ne sono
uscito vivo” mormorai “la prossima volta che un gruppo di giovanotti mi chiede
la bicicletta gliela darò senza fare storie, in più il mio coraggio non mi
aveva aiutato, la bicicletta l’avevano presa comunque, l’avevo solo barattata
con una decina di cazzotti sui reni”.
Nonostante
al pronto soccorso mi avevano
offerto delle polpette che erano la fine del mondo, non ero ancora riuscito a
riprendermi dallo sconforto: non tolleravo il furto e non tolleravo
l’umiliazione. Proprio in quel momento mi sentii carico di una nuova energia, un’ energia forte, di quelle che ti fa sentire immortale, un
po’ come quando ti fai di steroidi prima di una gara di atletica.
Tornai in camera mia guardai
il mio cane dritto nelle orecchie perché dormiva “Ekips, vado a riprendermi la bicicletta!”
Ekips non rispose, in compenso sollevò la testa e mi guardò
come si guarda un uomo che si è messo in ginocchio a
piangere dopo aver ballato nudo in metropolitana.
“è inutile che fai cosi,
cane! Tu non capisci, ho subito troppe ingiustizie, è come avere Alice, la
prima volta che si rompe gliela passi, la seconda lo
porti a far vedere, ma la terza frulli il modem dalla finestra!”
Bene, a quel punto sapevo
cosa fare del pomeriggio, rimaneva un solo piccolo interrogativo, COME?
L’idea di andare a
riprendermi la bicicletta mi elettrizzava, mi sentivo stupido come non ero mai
stato. Ad ogni modo quando mi avevano massacrato per prendermi la bici tra una
cascata e l’altra avevo contato più di cinque persone
e date le mie condizioni in quel momento il numero spaziava da sei a
cinquantotto: non potevo andarci da solo.
Ripresi il cordless e iniziai a digitare il numero di Michele: il mio
migliore amico. Michele era molto colto, spesso simpatico, ma se toccavi i suoi
gatti era capace di farti implodere a ceffoni. A parte questo
inconveniente da lui c’era sempre qualcosa di nuovo da imparare,
qualcosa di bello e interessante, in genere era solito salutarmi offrendomi una
citazione filosofica o cose del genere.
Il telefono cessò di
squillare e si fece largo la sua voce: “pronto?”
“pronto! Sono Lorenzo”
“oh, ciao! Ho scoperto che il
maiale ha un orgasmo di trenta minuti!!!”
…filosofia…evidentemente
quella mattina non si era alzato sofista, pazienza.
“ma davvero?!”
esclamai come se mi avesse rivelato i segreti dell’universo
“si! Ti rendi conto? A
saperlo nascevamo tutti maiali, ti immagini quand…”
“AD OGNI MODO” lo bloccai “ti
ho chiamato per chiederti se oggi sei libero”
“forse” rispose lui un po’
seccato “per cosa?”
“per andare a cronometrare
l’orgasmo dei cavalli”
“davvero?”
“No” Michele era intelligente ma era molto carente di senso dell’umorismo
“volevo provare ad andare a riprendermi la bicicletta che mi hanno fottuto”
“fottuto?” chiese lui con fare stupito “ma non era un
baratto?”
“si, bicicletta contro
cazzotti, la voglio andare a riprendere solo perché i cazzotti non erano
trattabili”
Michele, che probabilmente si
era reso conto di aver superato l’orlo del patetico si
ricompose e disse: “non posso”
“come mai?”
lui a questa domanda spiazzante stette qualche istante in
silenzio pensoso e poi esclamò: “devo portare a spasso il cane”
“non hai un cane.”
“ho troppi compiti”
“ma se domani hai assemblea?!”
“devo andare del barbiere”
“di domenica è chiuso”
“c’è il funerale di mia
madre”
“Michele, so che è viva.”
“devo spegnere la luce in
bagno”
“ah, ok,
pazienza sarà per un’altra volta” EVIDENTEMENTE Michele non poteva (o_O)
Dopo averlo salutato guardai Ekips con far scoraggiato, lei, che era aggomitolata sul
letto, alzò il muso e mi fissò a sua volta.
“persino tu, stupido
quadrupede, sei più bravo a inventare scuse di
Michele”
lei riabbassò la testolina vuota e si rimise a dormire.
Dopo essermi seduto affianco
a lei sul bordo del letto inizia a comporre il numero di Raffaele, ma
all’improvviso Ekips prese ad abbaiare, per lo
spavento lasciai andare il telefono che si sfranse per terra e scivolò sotto il letto.
“guarda cosa hai combinato”
dissi al cane dandogli un affettuoso cazzotto sulla testolina, Ekips non parlò ma dopo la botta
dalla sua testa scaturì un lieve rimbombo.
“ottima acustica!” mi
complimentai e dopo aver verificato con altre pacche che non era
stato un caso scesi dal letto e iniziai a raccogliere le parti della cornetta.
Un tempo quel telefono non si
rompeva cosi facilmente, invece ora cadeva a pezzi come Mike
Buongiorno, per prendere la batteria di quel aggeggio
cosi malandato mi infilai sotto il letto. Quel fazzoletto di pavimento sotto il
largo letto matrimoniale era secondo in presenza di
polvere solo alla testa di Zidane, ma in compenso
vantava una pari durezza.
Ricomposto il telefono e
passata la crisi allergica riprovai a chiamare
Raffaele, ma a casa sua squillava a vuoto e il suo cellulare lo aveva sepolto
sotto la sabbia questaestate. Peccato
Raffaele era abbastanza grosso, sicuramente più di me, io ero cosi magro che molti scienziati mi volevano catturare perché
su di me si poteva studiare anatomia senza aprirmi.
A questo punto non mi
rimaneva che chiamare l’ultima spiaggia: Matteo, un individuo storto come una
radice quadrata: angolo dei piedi 180 gradi; semplice come la proprietà
transitiva: sai cosa farà cinque minuti prima che lui
inizi a pensarci; intelligente come un bongo
(tamburo) in pelle di lucertola con la lebbra: un analfabeta che si è appena
sparato due bottiglie di rum e pera lo può battere a scacchi; utile come un
preservativo bucato e bello come Maria De Filippi.
Ripensandoci era meglio non
accorrere all’ultima spiaggia, aggrottai le sopracciglia, mi ero appena accorto
che sarei dovuto andare da solo.
Mi misi le scarpe, gli
occhiali a specchio (essendo fotosensibile non potevo uscire di
casa senza occhiali), aprii la porta con decisione e uscii. La cosa iniziava
bene, ero molto carico, iniziai a scendere le scale dopo aver dato una
spintarella alla porta di casa perché si chiudesse, ma all’improvvisocome in un lampo di
lucidità mi fermai.
“cazzo,
sono in pigiama”
la porta si richiuse dietro di me con un tonfo
“cazzo,
le chiavi”
Ero rimasto
fuori casa, in pigiama e senza possibilità di rientrare per vestirmi, era la fine (?).
Per una sorta di fortuna
perversa sapevo bene che c’era una chiave di scorta: mia madre, che mi
conosceva da sedici anni, essendo a conoscenza del mio ritardo mentale aveva
preso le dovute precauzioni.
La chiave di scorta si
trovava in garage (ma non ditelo ai vicini), messa su
una mensola alla quale nessuno si sarebbe avvicinato per paura delle pantegane. Effettivamente devo ammettere che il mio garage
è abitato da ratti cosi grandi che a volte entrando ti trovi la macchina parcheggiata
da un’altra parte. Per raggiungere il garage non dovevo far altro che scendere
una rampa di scale, uscire sulla strada, svoltare a sinistra per due volte e
scendere per la discesa che portava al paludoso terreno del parcheggio del
condominio. Fare tutto questo sarebbe stato facilissimo per un essere umano
vestito, purtroppo io, essendo in pigiama, avrei anche dovuto fare attenzione a non farmi vedere da nessuno: non mi
avrebbe fatto piacere trovarmi nella situazione “cosa fai in pigiama” “non lo
sai? Oggi è carnevale e io sono vestito da rincoglionito”.
Non sarebbe stato un problema
scendere le scale, il mio era un palazzo abitato principalmente da anziani
cristallizzati nei loro appartamenti (altra cosa da non dire ai vicini) quindi
le probabilità che, scendendo una ventina di gradini, si
verificasse un incontro erano praticamente nulle, in pratica bisognava
essere più sfigati di un protagonista di una tragedia greca. Cosi,
sicuro di me stesso, scendo il primo gradino e alzando lo sguardo noto alla
fine della rampa il signor Giovannini che mi guarda
come se andassi in giro in pigiama.
“buongiorno” sillabo mentre
gratto nervosamente i piedi sul marmo in un patetico tentativo di sotterrarmi
“come va?”
Il signor Giovannini
continua a guardarmi come se dovessescannerizzarmi per qualche istante e poi esclama
“buongiorno giovanotto” nelle sue parole notavo una vena di imbarazzo che ci
mise poco a diventare sdegno: “dove vai cosi conciato?”
“ehm…” farfuglio mentre mi guardo i piedi “in realtà sto andando a correre e questa è
la mia tuta” esclamo inventando e sperando che l’uomo non conosca l’inglese.
“come mai allora sopra al
gufo c’è scritto che sei un animale notturno?”
Sapeva l’inglese.
In un istante mi resi conto
che tutto era perduto cosi dissi rimpicciolendo “èh,
c’è scritto perché lo sono, ehm, si, sono un gufo..”
Dopo aver ricevuto
un’occhiata di patetica compassione e aver fatto qualche rapido saluto continuai la mia discesa fino a raggiungere il portone di
casa.
Prima di aprirlo con molta
prudenza controllai la strada, nessuno, allora aprii il portone e con
l’accortezza di un elefante russo in un campo di ginestre mi misi a correre
verso il garage, non appena superata la saracinesca ripresi
fiato e mi resi conto che forse ero riuscito davvero a non farmi vedere.
Raccolsi tutto il mio
coraggio, avventurarsi nei meandri di quel posto senza armi da fuoco poteva
essere molto pericoloso, già immaginavo le pantegane assetate di sangue che mi spellavano vivo e si
facevano dire minacciandomi con un’accetta dove fosse il pentagono e poi…
E i loro eserciti uscirono dal tevere
E la loro grandezza era impressionante
E il loro numero era grande
E arrivarono al pentagono
E arrivarono alla nasa
E di tutto si impadronirono
Nessuno rimase vivo dopo di loro
Invece con
mia immensa sorpresa presi le chiavi senza che nessun topo gigante mi
aggredisse per conquistare il mondo.
Prese le chiavi non mi
rimaneva che effettuare il viaggio di ritorno, cosi,
sempre più sicuro di me stesso mi incamminai. Avevo quasi raggiunto il portone quando mi sentii chiamare, la voce veniva da dietro
ed era troppo familiare per essere ignorata: Marzia.
“Lorenzo!”
Non appena sentito il grido esitai
un po’ prima di voltarmi, lo feci molto lentamente e sul mio viso era dipinta
la faccia che poteva avere Napoleone durante la sua vacanza all’isola d’Elba.
Marzia era una bravissima
ragazza, assolutamente, ma aveva un po’ il vizio di essere
molto pettegola: credo che gridasse più cose lei ai quattro venti di quante ne
furono gridate durante la rivoluzione francese.
“Ciao Marzia, che bello
vederti” mentii “ora però ho molta fretta devo tornare
a casa”
lei mi guardò per qualche secondo e poi, un po’ incerta e
imbarazzata cercando un appigli di discussione esclamò “che belle scarpe che
hai!”
“èggià,
molto belle, non sono nemmeno costate tanto…”dopo un breve
attimo di silenzio ripresi a parlare “bèh, allora, alla prossima èh? Ciao!”
Marzia mi rivolse un cenno
con la mano prima di voltarsi e continuare per la sua strada.
Finita questa conversazione
più patetica di “affari tuoi” presentato da Pupo, correndo ero tornato a casa e
tutto quello che dovevo fare era vestirmi. Dovevo mettermi addosso
roba decorosa ma non troppo costosa, se si fosse sporcata di sangue
sarebbe stato un peccato, perciò scelsi un maglietta corta di pochi euro e
degli jeans più tarocchi dei filmati sugli alieni che mandano in onda su Televita.
Avevo deciso di non portare
con me il celulare, non volevo correre il rischio che
lo prendessero dal mio cadavere, ma ero comunque
pronto ad uscire.
Aprii la porta dopo aver
controllato di essere vestito, rivolsi un ultimo saluto al mio cane che stava
guardando la TV che avevo acceso mentre mi vestivo,
lui nemmeno mi diede l’imbocca al lupo quindi uscii molto offeso sbattendo la
porta dietro di me.
Desidero scusarmi per il
ritardo della pubblicazione di questo quarto capitolo, non mi starò a inventare scuse, semplicemente non mi andava di scriverlo,
ma oggi mi è presa bene quindi siete(s)fortunati.
Un grazie per le bellissime
recensioni, continuate cosi che mi date un briciolo di
voglia di proseguire, detto questo ci vediamo alla prossima pubblicazione,
commentate numerosi!
Era un’ora imprecisata del
pomeriggio, mi ricordo solo questo e dato che sono io
che scrivo vi dovrà per forza bastare. Non aveva ancora fatto buio nonostante
l’inverno fosse in agguato dietro l’angolo del ponte dei morti, scendendo le
scale pensavo a come avrei fallito nel tentativo di riprendermi la bicicletta,
ma soprattutto a come l’avrei trovata.
Dovevo escogitare un piano a
questo scopo, purtroppo non ero affatto bravo in
questo: l’ultima volta che avevo escogitato un piano era stato quando avevo
provato a raggiungere da Roma la mia ragazza che vive in Calabria senza pagare
il biglietto del treno. E’ difficile scordarselo perchè avevo
progettato di trascorrere le cinque ore di viaggio rannicchiato nello spazio
tra gli schienali dei sedili, spazio riservato ai bagagli più ingombranti… Un
piano perfetto. A Frosinone ero stato buttato fuori
con una multa di 102 Euro, mi ero tradito perché una simpatica signora aveva
dovuto inserire nel mio spazio una gabbietta con dentro un altrettanto
simpatico persiano bello pieno di acari. Il
controllore mi aveva trovato che ancora stavo
starnutendo come un assatanato.
Senza lasciarmi scoraggiare
dagli eventi passati iniziai a frustare la mia salamandra
gigante del Giappone che risiedeva nel mio cranio con lo scopo preciso
di mettere in funzione il mio cervello qualora gli venisse richiesto. Aspetta
qualche secondo, ma niente da fare: il cervello non ne voleva sapere di illuminazioni divine e anche questa volta fu la
salamandra a pensare per me. La sua idea, come sempre, mi piacque molto, cosi
mi avviai verso Piazza Guadalupe per metterla in
pratica.
Insieme alla grande e viscida
sapienza della salamandra c’era dalla mia parte anche la fortuna, infatti appena uscito di casa avevo subito visto l’autobus
correre verso il piazzale, avrebbe fatto la rotonda li e sarebbe tornato dalla
mia parte a prendermi per portarmi in qualche minuto dritto alla mia meta. Cosi
avevo raggiunto la fermata e in attesa mi ero dedicato
a dare un’occhiata alla gente che mi circondava, a quell’ora
del pomeriggio tutti i romani hanno appena finito il caffè
e si stanno dedicando alle fragole con la panna quindi non c’era quasi nessuno
alla fermata eccetto un uomo che non era vistosamente in grado di apprezzare
delle fragole con panna.
L’uomo guardava i bidoni
della spazzatura dall’altra parte della strada con l’aria fiera che una madre assumerebbe mentre dice “quello è mio figlio!” indicando un
giovanotto con un megafono che fomenta risse davanti scuola.
Aveva un grosso naso, di
quelli che somigliano a dei simpatici antistress, la faccia era tonda e
grossoccia, ma anche molto rugosa. I capelli erano circa tre, ma abilmente
pettinati per farli sembrare cinque, la bocca era semi aperta
a indicare stupore o stupidità, ma, a mio parere, c’era poco da essere stupiti
guardando i cassonetti.
L’uomo indossava un giubbotto
di pelle marrone vecchio e dei pantaloni in velluto verde marcio, coronati da
delle scarpe che sembravano uscite da una trattoria: scaciate
e gonfiate. [spiegazioni esaurienti: scaciate: scaciate significa più
o meno come sono delle scarpe uscite da una trattoria.]
Vuoi perché barcollava, vuoi perché puzzava di birra, l’uomo sembrava uscito da un
pub, peccato che l’unico pub del quartiere si chiama “la tana” e nel weekend è
chiuso per “mala frequentazione”.
Mentre osservavo la strana
figura l’autobus asprì velocemente le porte mentre
frenava verso la nostra fermata, cosi entrai con il mio compagno di viaggio, la
cosa inquietante è che nell’autobus c’eravamo solo io, lui e il conducente.
Mentre il bus sfrecciava alle velocità stratosferiche di 15
chilometri orari, l’individuo inquietante si voltò verso di me e mi guardò in
faccia sgranando gli occhi come se non mi vedesse bene. Dopo qualche istante apri lentamente la bocca mostrando i denti ingialliti dal
tempo e dal fumo…
Scusate il ritardo nella
pubblicazione (che poi forse è un bene), ma mi sono
dovuto assentare per molto tempo causa natale in Israele con mio padre e
epifania a Pisa con la mia ragazza. In seguito degli attacchi di pigrizia e
inedia mi hanno impedito la pubblicazione. Sono certo
che riuscirete a farvene una ragione ad ogni modo per chi voglia sollecitarmi
nella pubblicazione potete trovare la mia e-mail e contatto msn
sotto la voce “sito nel mio profilo.
Se volete
recensite, sarebbe inutile dirvi “recensite numerosi” perché non
accadrebbe, buona lettura, vado a bere una spremuta.
Era li,
sbracato su un sedile di fronte a me, lasciando ondeggiare le spalle
assecondando le brusche curve dell’autobus, il misterioso uomo continuava a
guardarmi come se di fatto non gli avessi mai chiesto niente. Dopo circa trenta
secondi dalla mia domanda aprì finalmente di nuovo
quella che sembrava una bocca…
“come so il tuo nome?
Semplice, ti vedo tutti i giorni”
“mi pedini da anni seguendo
ogni mia mossa per potermi stupire in autobus?” chiesi con una grossa vena
sarcastica “o sei semplicemente un mio vicino di casa
di cui io non mi ricordo?”
“ti pedino da anni seguendo
ogni tua mossa per poterti stupire in autobus” mi rispose lui sicuro di se
stesso come una mosca quando sbatte addosso al vetro
per uscire dalla finestra.
“tu sei ubriaco.”
“no”
“e
quel nasone rosso? Raffreddore?” gli chiesi io puntando il dito contro la montagnozza che aveva in mezzo agli occhi.
“si”
“se
non sei ubriaco perché barcolli?”
“problemi di
equilibrio”
Dal primo impatto visivo non
lo avrei mai giudicato cosi sveglio “e le guance
rosse?”
“ho le vampate” mi rispose
convinto.
“sta andando in menopausa
anziana signora?” gli domandai con tono piuttosto sfottente. Lui sentendosi
scoperto mugugnò un altro si, ma era molto meno convinto di se stesso, non c’è da rinfacciarglielo, quale uomo ammetterebbe con
convinzione una cosa del genere?
“e
l’alito ti puzza di birra per problemi di stomaco dovuti all’eccesso di pillole
anticoncezionali? Oppure sei semplicemente un mio
vicino di casa sbronzo?”
“si, sono sbronzo” ammise “ma non sono un tuo vicino di casa”
Il fatto di ignorare chi fosse lo sbronzo con il quale stavo parlando tutto sommato
iniziò ad annoiarmi quindi decisi di tagliare corto: “ora che ho scoperto in
che stato penoso sei posso chiederti anche chi sei senza sentirmi dire che sei
un alieno venuto qui da galassie lontane per farmi andare in overdose da
supposte?”
Il brillissimo
sconosciuto dopo essere esploso in una risata isterica annuì solennemente.
“chi sei?”
“il padrone
dell’alimentari sotto casa tua”
Era il signor Antonio, ma io
come facevo a riconoscerlo se non lo vedevo da mesi? Già a stento mi ricordo
chi è il misterioso individuo che mi fissa come se non si ricordasse chi sono quando sono davanti allo specchio.
“ah, come no? Il signor
Antonio, mi fa piacere, ma ridendo e scherzando siamo
arrivati alla mia fermata quindi ora scendo e ci si vede la prossima volta”
detto questo mi avvicinai alle porte dell’autobus per
precipitarmi fuori appena si fermò. Ero parecchio nervoso, e francamente non
sapevo bene perché avevo deciso di affrontare i teppisti del mio quartiere solo
per recuperare una bicicletta, ma dovevo comprendere che pur di evitare la noia
di un giorno a casa bisognava essere pronti a tutto.
Dopo un breve pezzo a piedi
ero finalmente in piazzaGuadalupe.
I pgv come al solito erano
tutti seduti sul muretto in fondo alla piazza con i loro motorini parcheggiati
sul marciapiede, c’era ogni sorta di mezzo a due ruote su quel marciapiede, le
uniche due cose che non c’erano e non potevano esserci erano la mia bicicletta
e i pedoni.
Da un profondissimo pensiero
ricavai che, se gli avessi chiesto gentilmente dov’era la bicicletta che mi
avevano rubato perché me la volevo riprendere, la cosa non sarebbe
finita nel modo migliore, anzi. Quindi sarebbe
stato meglio osservarli, ascoltarli e, se proprio fosse stato necessario,
seguirli per un po’. Tanto per farmi un’idea di dove potesse
essere stata messa la mia mountain bike. Da questa luminosa conclusione
scaturiva un’altra domanda, come fare ad osservarli senza destare sospetti? Dai
film che avevo visto conclusi che c’erano solo due modi per farlo, ma
sfortunatamente, non avendo a disposizione il binocolo satellitare corsi a
comprare un giornale per usare il vecchio trucco del “leggo
ma non leggo”…