Meant To Be

di _Light_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Dalton Academy ***
Capitolo 2: *** Presentazioni ***



Capitolo 1
*** La Dalton Academy ***


Titolo: Meant To Be

Pairing: Kurt/Blaine end-game

Rating: Arancione

Spoiler: (se così si possono più chiamare ormai) fino alla 2x6, accenni alla 2x8

Disclaimer: I personaggi e i luoghi citati sono di proprietà della Fox. Quello che c’è di mio è solo la fantasia.

Nota: Questa storia è iniziata esattamente un anno fa, il 3 luglio del 2011 ed è per questo che, a un anno di distanza, mi sono finalmente decisa a postare il primo capitolo. Avendola scritta prima della terza stagione non credo sia necessario dirvi che non ne tiene conto (a parte qualche piccolo, microscopico dettaglio). Quello che c’è d’importante da dire è che questa fan fiction inizia con il trasferimento di Kurt alla Dalton e che tiene conto degli eventi accaduti fino a quel momento solo in parte: Kurt e Blaine, pur essendosi incontrati alla Dalton, non sono mai diventato amici. Vi anticipo solo, tanto per rassicurarvi ;) che tutti i cambiamenti avvenuti saranno presentati tra questo e il prossimo capitolo.


Meant To Be

 Capitolo 1: La Dalton Academy


La prima volta che Kurt vide la Dalton Academy fece caso a molte cose.

La scuola era invisibile dalla strada principale, persa nel verde degli alberi, un aspetto che al tempo stesso lo sorprese e lo affascinò: dava al luogo un’atmosfera tranquilla e fresca, umida anche, come quella di un bosco.

Il cancello nero in ferro battuto e la targhetta d’ottone con inciso il nome della scuola erano gli unici elementi a mostrare che oltre quel muretto, che sembrava non finire mai, ci fosse un posto unico e diverso da tutti gli altri.

La strada pavimentata che conduceva dal cancello all’entrata della scuola durava quasi un minuto in macchina. Lentamente le fronde si facevano più rade e gli alberi si distanziavano tra di loro, lasciando filtrare ritagli di cielo e fasci di luce, fino ad aprirsi sulla facciata della scuola. Il viale terminava girando intorno ad una fontana in pietra grigia dalla base circolare, liscia e lineare, il cui bordo si confondeva con la superficie limpida dell’acqua.

Circondato da erba verde, siepi curate e da alberi che andavano perdendo le foglie e che sembravano estendersi all’infinito, l’edificio toglieva il fiato: alto tre piani, era stato realizzato con mattoni in pietra grezza e irregolare di un color marrone rossiccio - coperti sul lato sinistro dell’edificio da un leggero manto d’edera rampicante; le finestre dagli infissi chiari erano scandite, sulla facciata del pian terreno, da semicolonne rettangolari in marmo e anche il portone principale in legno scuro era incorniciato dallo stesso marmo grigio; l’ampia e lunga scalinata antecedente il portone lo collegava, infine, al vialetto, da cui era rialzato di quasi mezzo metro da quello che sembrava, dall’esterno, un seminterrato.

Dall’entrata principale era impossibile capire la forma precisa all’edificio o dedurne l’ampiezza.

La prima volta, Kurt rimase a fissare il paesaggio a labbra dischiuse, lo sguardo incapace di contenere tutta quella bellezza. Non era il suo stile, ma gli tolse comunque il fiato.

Ora, in macchina con suo padre, tutto ciò che vedeva era il riflesso del cielo nuvoloso e grigio sul vetro del finestrino.

I suoi occhi si focalizzarono sul proprio riflesso, sul viso, le guance, il naso, la pelle pallida, poi i suoi occhi.

Fissò se stesso e cercò di evitare l’amarezza e la delusione riflessa.

Distolse lo sguardo e suo padre parcheggiò la macchina di fronte all’entrata, ignorando i parcheggi che si aprivano ai lati del piazzale i quali, sebbene affollati, avevano ancora dei posti liberi.

“Siamo arrivati,” disse con lo stesso tono che usava per svegliarlo quando Kurt era ancora bambino e si addormentava in macchina.

Entrarono e anche se era già stato qui prima – con suo padre e senza – lasciò che fosse lui a far strada e guidarlo per i vari corridoi e scale. Prima che se ne rendesse conto, si ritrovò nell’ufficio del preside, seduto nella stessa poltrona dell’ultima volta. L’uomo seduto dall’altra parte della scrivania stava parlando con suo padre e nonostante da seduto non si notasse, Kurt sapeva che non era un uomo alto. Affatto. Era più basso di lui, probabilmente anche più basso di Rachel, ma questo non sembrava affatto dare problemi al suo carisma. Non era il genere di persona che indossava un sorriso dolce e studiato in ogni circostanza, ma piuttosto il tipo affabile, che tra strette di mano e pacche sulla spalla, era capace di mostrare uno sguardo gentile.

“Non si preoccupi. Se ha dubbi telefoni pure. Lasciamo ai nostri studenti libero uso di telefoni cellulare e computer portatili fuori dall’orario delle lezioni. Può chiamare suo figlio quando vuole,” disse il signor Turner. “So di averlo già detto, ma i finesettimana sono liberi. Gli studenti tornano a casa spesso. Anche se vorrei ricordarvi che la Dalton non è affatto una scuola semplice e ogni minuto di tempo libero può tornare utile per studiare.”

Burt annuì sorridendo grato. Sapeva che questo era un luogo sicuro per Kurt. Un’ottima scuola, con un programma eccezionale, insegnati competenti e quello che sembrava essere un preside cui interessasse davvero il futuro dei propri studenti e il loro benessere. Nonostante questo, la Dalton era lontana da casa. Era lontana da lui. Burt sapeva di poter proteggere suo figlio meglio di chiunque altro, sapeva che non avrebbe affidato quel compito a nessun altro se le circostanze fossero state diverse,  ma l’ambiente scolastico sembrava un mondo fuori dalla sua portata e la Dalton sembrava la migliore soluzione. Kurt era un ragazzo intelligente e meritava di poter fare il suo lavoro nella stessa tranquillità mentale che era garantita a tutti gli altri studenti.

“Bene. Ora suggerirei un giro dell’edificio: le classi, i laboratori, la sala da pranzo, la libreria e l’aula magna. E ovviamente i dormitori. Penso che poi possa lasciarvi a disfare i bagagli. Avete portato qualcosa con voi, vero?” Il Sg. Turner ripose un plico di fogli; Kurt non era certo cosa fossero, ma immaginava avessero a che fare con il suo trasferimento.

“Sì. Non molto. Giusto quello che entrava in macchina,” Burt guardò con la coda dell’occhio suo figlio che se ne stava seduto immobile sulla poltrona, la gamba sinistra accavallata sulla destra, le mani unite sopra le ginocchia. Lo sguardo fisso.

Era rimasto un po’ perplesso quando aveva visto Kurt portare con sé solo una parte dei propri abiti, sistemandoli in un’unica valigia. Ma poi aveva capito che non era affatto facile decidere cosa portare - e quanto - non sapendo con precisione lo spazio che aveva a disposizione nel dormitorio; e lasciare indietro una parte nel suo guardaroba voleva dire anche -  e soprattutto – che Kurt sarebbe tornato presto a casa. Non poteva che esserne felice.

“Bene. Allora è meglio che ci affrettiamo. Abbiamo poco più di un’ora e mezza e la scuola è grande,” disse il preside sorridendo e alzandosi dalla propria poltrona dietro la scrivania. Burt seguì subito il gesto e si alzò, riabbottonandosi la giacca. Entrambi in piedi guardarono Kurt, che solo dopo qualche secondo si rese conto di essere osservato. Sbatté le palpebre un paio di volte prima di guardare in alto, prima verso suo padre e poi verso il preside, e infine alzarsi.

Usciti dall’ufficio del preside, il signor Turner intavolò una semplice conversazione sull’origine dell’edificio, i vari architetti che contribuirono alla sua costruzione, l’arredamento degli interni, un’importante statua donata da un gruppo di ex alunni.

Il continuo chiacchiericcio del preside e la mano di suo padre che ogni tanto gli stringeva la spalla lo tennero attento, tanto che riuscì a capire di trovarsi al primo piano. Il preside spiegò che insieme alla presidenza e alla segreteria erano collocati nella parte nord dell’edificio anche i vari laboratori. Nell’ala ovest e a sud si trovavano le aule dove si tenevano le lezioni, mentre nell’ala est del primo piano e del piano terra si trovava la biblioteca.

Mentre il preside si dilungava nella descrizione delle varie sezioni della biblioteca, Kurt si ritrovò a guardare fuori dalle finestre che si affacciavano dal corridoio. Quello che vide furono soltanto alberi: alcuni dal tronco talmente scuro da sembrare nero e le foglie di un giallo dorato, altri argentati già quasi completamente spogli; i più erano dei sempreverdi dal colore verde cupo. Alberi di diverse forme e colori, alcuni più spogli di altri per via dell’autunno, ma pur sempre alberi.

E monotonia.

Rientrò nella conversazione quando il Sg. Turner menzionò le varie scale presenti nell’edificio e la loro collocazione. Kurt riconobbe con uno strano brivido sulla pelle quella da cui stavano scendendo in quel momento. Non era la stessa che avevano usato l’ultima volta che erano stati qui lui e suo padre. No, era quella che Kurt si era ritrovato a scendere quasi un mese prima, in una scuola che non conosceva affatto, chiedendo aiuto a un ragazzo che sostava qualche gradino più in basso rispetto a lui e che da allora aveva rivisto soltanto una volta1.

“Bene. Al pian terreno si trovano la sala da pranzo, nell’ala ovest, e l’entrata per la biblioteca, in quella est,” proseguì il preside facendo strada nei corridoi deserti e silenziosi. Si fermò di fronte a una targhetta dorata cesellata da una scritta in corsivo e una freccia verso sinistra: “Sala da pranzo”. Dall’altra parte del corridoio una targhetta identica con una freccia che puntava verso destra riportava la scritta “Biblioteca”. Kurt capì di trovarsi nel corridoio principale che attraversava tutto l’edificio.

“Percorrendo il corridoio verso nord troverai l’infermeria e la caffetteria. Suppongo di averlo già detto, ma le lezioni iniziano alle otto e mezzo. A mezzogiorno e quaranta inizia la pausa pranzo di mezzora, poi le lezioni proseguono fino alle tre e trequarti,” spiegò l’uomo tenendo le mani unite dietro la schiena.

“Poi fino alle diciassette ci sono le attività extrascolastiche. Ti consiglierei di scegliere almeno un club cui unirti. Qui alla Dalton guardiamo molto all’interazione tra studenti,” disse questa volta volgendosi direttamente a Kurt che annuì semplicemente.

“Bene. Vediamo… Cosa manca? Ah, sì, nella zona sud si trovano le sale comuni lasciate a disposizione dei club,” concluse il signor Turner riprendendo a camminare.

“Immagino che i dormitori si trovano al secondo piano,” prese la parola Burt seguendo l’uomo. Kurt rimase a qualche passo di distanza, sforzandosi ora di capire dove stessero andando. Se prima aveva cercato di prestare attenzione, ora si guardava intorno cercando di orientarsi e di capire se per quel corridoio c’era già passato.

Avvicinandosi alla parte nord dell’edificio la luce nel corridoio si fece più intensa e quando giunsero alla fine capì perché. Su gran parte della parete di fondo si trovavano porte finestre che si affacciavano sull’esterno, dove Kurt notò delle stradicciole pavimentate che portavano ai campi da gioco esterni.

“Questa, infine, è l’aula magna,” disse il preside poggiando la mano sulla porta di legno, con intarsi lungo i bordi a forma di grappoli d’uva e foglie di fico, le maniglie in ottone. Una targhetta dorata, come le precedenti, riportava la scritta “Aula Magna”.

“Viene usata per feste, conferenze, assemblee e ovviamente nel giorno dei diplomi,” disse con un sorriso. Kurt non poté far a meno di notare come vicino a suo padre il preside sembrasse ancora più piccolo, avvolto in una giacca gessata verde scuro, che faceva da completo con i pantaloni.

Rivolgendosi a suo padre, il preside continuò a parlare. “All’esterno abbiamo un campo da baseball, un campo da football, uno d’atletica e uno da tennis. Il campo da basket si trova insieme alla palestra interna nel seminterrato della scuola. E abbiamo anche una piscina, non molto grande, ma sufficiente per le lezioni di nuoto.”

Il sorriso genuino del preside si accordava perfettamente con l’espressione sorpresa e al contempo colpita dipinta sul volto di suo padre, l’uno davvero orgoglioso della propria scuola, l’altro soddisfatto di mandarci suo figlio.

“Bene. Ora ci dirigeremo al secondo piano, dove sono collocati i dormitori,” disse il preside iniziando a camminare di nuovo, rivolgendosi a Kurt. “I dormitori sono divisi in base all’anno accademico. Il dormitorio del terzo anno si trova nell’ala est.”

Giunti all’ultimo piano e attraversati un paio di corridoi Kurt cominciò a capire la struttura della scuola che, sebbene molto grande, era perfettamente geometrica e regolare.

Il preside si fermò di fronte una porta e, infilata la mano nella tasca interna della giacca, ne estrasse una chiave e la porse a Kurt, che la prese e la rigirò tra le dita.

“Come tutte le stanze qui alla Dalton, anche questa è una doppia. Il tuo compagno di stanza sarà a lezione e probabilmente non lo incontrerai prima del tardo pomeriggio, ma è stato informato del tuo arrivo. Sono sicuro che andrete d’accordo, è un ottimo studente,” disse il preside sorridendo rassicurante a suo padre.

“C’è un orario per il coprifuoco?” chiese allora l’uomo. Burt non poteva fare a meno di preoccuparsi per questo genere di cose: aveva cresciuto Kurt con il rispetto verso certe regole e temeva che agli studenti fosse lasciata troppa libertà senza genitori a rimetterli in riga in una scuola così grande.

“Certamente. Alle dieci di sera il responsabile di dormitorio controllerà che tutti gli studenti siano in stanza,” rispose il preside sorridendo ancora una volta a suo padre. Ne aveva visti tanti di genitori apprensivi e comprendeva perfettamente il loro atteggiamento, a maggior ragione quello del signor Hummel, dopo tutto quello che suo figlio aveva dovuto subire nella sua vecchia scuola.

“Terrei a informarla che gli studenti non sono gli unici a risiedere nei dormitori. Oltre ai responsabili, anche il personale scolastico e alcuni professori hanno assegnate delle stanze all’interno di ciascun dormitorio, in modo da controllare che l’orario del coprifuoco sia rispettato e che non si faccia baldoria la notte. Gli studenti non sono mai lasciati a se stessi, ma sono continuamente sorvegliati,” e con un sorriso continuò, “Ovviamente non possiamo punire i nostri studenti se rimangono alzati per studiare o ripassare o finire di scrivere un saggio. La Dalton è una scuola competitiva e stimolante. Sta poi agli studenti decidere se passare la notte in bianco o riposarsi per affrontare meglio le lezioni.”

Burt sembrò finalmente soddisfatto della risposta e rilassò la fronte che fino a quel momento era rimasta corrucciata e solcata da rughe.

“Bene. Penso che sia tutto. Ora vi lascerei liberi di sistemare i bagagli. E, signor Hummel, non si faccia problemi a chiamare. Davvero,” disse con un ultimo sguardo rivolto all’uomo, stendendo la mano destra.

Burt si avvicinò con un leggero sorriso che gli tirava gli angoli delle labbra. Gli afferrò la mano e la strinse, lasciando poi che il preside ripetesse il gesto con suo figlio.

“Benvenuto alla Dalton, Kurt,” e poi si congedò, voltando l’angolo da cui erano venuti.

Rimasti soli lui e suo padre, Kurt si affrettò ad aprire la porta. Anche se all’apparenza la porta di legno sembrava pesante e un po’ datata, i cardini non cigolarono.

“Sembra una bella stanza,” disse suo padre.

Kurt si concesse un momento per guardare quella che sarebbe stata di lì in avanti la propria camera. 

La parete opposta alla porta si apriva sull’esterno tramite una larga finestra, per la maggior parte celata da pesanti tende blu navy. Solo una striscia di luce penetrava nella stanza, ma era sufficiente a illuminarla.

Sulla parete di destra erano posti, l’uno di fianco all’altro, due letti singoli in legno, l’alta testata contro la parete. Ai lati di ciascun letto si trovavano un comodino e un piccolo comò con quattro cassettoni, entrambi in legno lucido.

Dai vari libri che poggiavano in precario equilibrio sul comodino del letto più vicino alla finestra e dai vari oggetti presentì sul piano del comò, Kurt capì che quello doveva essere il lato della stanza occupato dal suo compagno di stanza.

Al centro della parete di sinistra, invece, erano presenti due porte di legno chiaro. Ai lati erano collocate due scrivanie, affiancate da due alte e strette librerie, in legno scuro e venato.

Come per il letto, anche la scrivania più lontana dalla porta su cui sostava Kurt era coperta da libri, raccoglitori, fogli mezzi scritti e da quello che sembrava un notebook della Apple.

L’ambiente nell’insieme non era male, ma era anni luce dal suo stile. La sua stanza, a Lima, dalle pareti grigio Dior e la moquette color bianco neve, il comò in legno con la specchiera e tutti i suoi prodotti per il viso e per il corpo, l’armadio a muro immenso con i suoi vestiti… Nulla poteva scostarsi di più da quella che d’ora in poi sarebbe stata la sua stanza: la carta da parati blu oltremare, il parquet in legno lucido, ma consumato, il tappeto che si trovava tra i due letti e che Kurt non voleva neanche iniziare a pensare che fosse un persiano.

Era sempre più convinto che la Dalton fosse rimasta un paio d’anni – facciamo cinquanta? – indietro rispetto ai nuovi trend dell’arredamento. Ma, stranamente, riuscì a trovare piacevole quei toni scuri e quell’uso massiccio del legno. Confortante quasi. Davvero in sintonia col proprio umore. Ciò non toglieva che probabilmente dopo una settimana ne sarebbe uscito esasperato.

“Non voglio immaginare quale sia la retta intera per questo posto.” La voce di suo padre, che intanto si era mosso all’interno della stanza, lo riportò alla realtà.

“Senti, che ne dici se io vado a prendere le tue cose e tu intanto cerchi di… Non so, ambientarti? Vedere dove mettere le tue cose?”

Kurt distolse lo sguardo dal copriletto blu e polveroso che ricopriva il suo letto e che non lo rendeva affatto invitante e si girò verso suo padre.

“Vengo a darti una mano.”

Nah, sono apposto. Non hai portato tanto roba. Un paio di viaggi e credo di riuscire a portare tutto,” disse, ma il suo sguardo scese al braccio destro di suo figlio e al tutore blu che portava.

“Papà, non dovresti affaticarti,” disse, ma senza fermento, perché sapeva già dallo sguardo avvilito di suo padre che protestare sarebbe stato inutile.  

Quando finalmente riuscì a risollevare lo sguardo, Burt cercò di sorridere. “Mi dici sempre di fare più attività fisica,” disse e uscì dalla stanza, lasciando la porta aperta.

Kurt sospirò e abbassò lo sguardo. Gli occhi gli caddero sul tutore rigido che gli bloccava tutto l’avambraccio. Risollevò immediatamente lo sguardo, la bocca storta in un’espressione amara, e lo fermò sulle due porte chiuse, dirigendosi verso quella più vicina a lui. A tentoni cercò l’interruttore per la luce, dato che la stanza era buia e non aveva finestre.

Quando lo trovò, gli occorsero circa sette secondi per capire perché ci fossero tutti quei ripiani di legno e gli sportelli e le grucce.

Era una cabina armadio. Una cabina armadio!

Fissò con occhi sgranati l’ambiente dalle pareti coperte da pannelli di legno nocciola e la moquette blu al suolo. La parte destra della stanzetta era piena di magliette, giacche, cardigan, camicie - tante camicie, e pantaloni. Quella di sinistra era vuota. La parete di fondo, invece, era piena di sportelli - che Kurt scoprì formavano una scarpiera.

Cercò di nascondere l’entusiasmo, serrando forte le labbra, e ripetendosi che la Dalton non doveva piacergli, che non voleva cambiare idea e che era da superficiali farlo per una cosa così stupida; ma una cabina armadio era il sogno della sua vita e non poteva impedire che una parte di lui si entusiasmasse tanto all’idea.

Con le sopracciglia corrucciate, uscì dalla stanza e si diresse verso l’altra, che scoprì essere un bagno. Un bianchissimo e lucidissimo bagno, con tanto di doccia, vasca – su cui passò lo sguardo per ben due volte, giusto per essere sicuro di non immaginarsela – sanitari, cesti per la biancheria sporca e un piano immenso con due lavandini e uno specchio, affiancato da due armadietti.

Come al solito, solo un armadietto era pieno di boccette e prodotti, lasciando l’altro libero perché Kurt potesse riporci le proprie cose.

Mentre cercava tra gli armadietti sotto il lavello, Kurt si ritrovò a pensare che il suo compagno di stanza dovesse essere o estremamente maniaco dell’ordine, o una persona davvero gentile. O perlomeno educata. E vedendo il disordine della scrivania, Kurt si ritrovò stranamente a sperare che fosse davvero per quest’ultima. Sapeva che era un comportamento da persona civile lasciargli libero il suo spazio, ma Kurt non era abituato ad essere trattato civilmente e non se lo aspettava più neanche. Ma era questo il vanto della Dalton, dopotutto: nessun tipo di discriminazione, nessun favoritismo, duro lavoro, disciplina e rispetto.

Con un’esclamazione di vittoria, Kurt trovò lo spray per pulire le superfici di legno e una pezza usata.

Quando Burt ritornò in stanza con il trolley dei vestiti, il borsone delle scarpe e uno scatolone chiuso, trovò suo figlio a pulire una delle stanze adiacenti alla camera.

“E questa che sarebbe?”

Kurt smise di strofinare e si girò di scatto verso suo padre, sorpreso. “Papà! Mi hai spaventato,” esclamò, una mano alzata a mezz’aria. A parte lo spavento, il suo viso era rilassato, le labbra distese, gli angoli quasi incurvati in un sorriso e suo padre ne rimase piacevolmente sorpreso.

“E’ una cabina armadio. Non è bella?” chiese, passando lo sguardo sulle superfici di legno appena pulite.

Burt guardò la stanza e corrugò le sopracciglia. “Vuoi dire che ti cambierai i vestiti nella stessa stanza con un altro ragazzo?”

Kurt si fermò: non ci aveva pensato. Abbassò lo sguardo, la fronte di nuovo corrugata. Una stretta al petto che conosceva ormai molto bene agitò il suo umore, ma cercò di non darlo a vedere.

“Non dobbiamo cambiarci insieme. E sarebbe stato peggio se ci fossero stati semplicemente due armadi nell’altra stanza,” disse. “E poi c’è sempre il bagno. E’ nell’altra stanza.”

Suo padre annuì e sospirò, non potendo evitare di seguire ogni movimento del figlio con la coda dell’occhio. Sapeva che Kurt non era contento del suo trasferimento alla Dalton, come invece aveva sperato; Burt stesso non ne era entusiasta, ma sapeva di star facendo la cosa giusta per suo figlio. Vedere che il posto almeno un po’ gli piaceva lo sollevava almeno in parte dal peso che lasciarlo in quella scuola, lontano di casa, comportava.

“Ho portato su un po’ di roba,” disse togliendosi il cappello da baseball e strofinandosi la testa.

“Papà, non avresti dovuto portare tutte quelle borse in una volta sola,” disse Kurt, che nel frattempo aveva posato lo sguardo sul mucchio di roba che suo padre aveva già portato in camera.

“Dovresti stare più attento alla tua salute,”  la voce gli tremò verso la fine, mentre lo stomaco si serrava in una stretta quasi dolorosa. Un po’ era il senso di colpa per aver lasciato suo padre fare il viaggio da solo mentre lui se ne stava a pulire la sua nuova stanza, un po’ perché pensare alla salute di suo padre lo faceva agitare, ancor più se pensava che d’ora in avanti non sarebbe potuto più stare al suo fianco, controllandolo e accertandosi che stesse bene.

Inghiottendo il nodo che gli si era formato in gola, disse con la voce più ferma che riuscì a racimolare: “Avanti, ti accompagno.”

Burt cercò di spiegargli che non era un problema, visto che si era fatto dire dove fosse l’ascensore, ma Kurt scrollò il capo, continuando a camminare per i corridoi silenziosi.

Lasciando che suo padre portasse un solo scatolone per volta, accorsero tre viaggi ai due per svuotare completamente il Van. Ora non restava altro se non disfare pacchi e valigie e trovare a tutto una collocazione.

Dopo ben due ore la stanza era tornata come quel mattino - senza più scatoloni svuotati sparsi per terra, valigie e borsoni aperti sul letto – con l’aggiunta, però, delle cose che Kurt si era portato da casa. A vedere tutto così in ordine, si rese conto per la prima volta di quanta poca roba si fosse effettivamente portato, rispetto a quella che riempiva la sua stanza. Aveva rinunciato a molti dei propri vestiti, consapevole che a scuola ci sarebbero state ben poche occasioni per sfoggiarli, e così era stato per le proprie scarpe e per gli stivali, per i propri accessori – le miriadi di spille e bracciali e catenine, insieme alla selezione di cappelli, sciarpe e guanti che aveva pronta da luglio per quest’autunno-inverno. L’unica cosa su cui era stato completamente intransigente erano stati i suoi prodotti per il viso e quelli per il corpo ed i capelli.  

La mano gentile e calda che suo padre gli posò sulla spalla non lo spaventò, anche se inaspettata, né lo fece irrigidire come gli accadeva ormai di solito con chiunque. Kurt alzò il proprio sguardo, incontrando quello di Burt, che era preoccupato anche se cercava di non darlo a vedere.

“Vedrai, la scuola è bella e sono sicuro che riuscirai ad ambientarti subito,” disse e il sorriso che rivolse a suo figlio, pieno di affetto e calore, era talmente sincero che Kurt si ritrovò ad abbracciare suo padre più velocemente di quanto si aspettasse. Burt ricambiò l’abbraccio, stringendolo un po’ più forte quando Kurt inspirò forte dal naso, rilasciando un sospiro tremulo. Passò le mani dure e callose sulla sua schiena del figlio, cercando di calmarlo e rassicurarlo, stando però ben attento a non scombinargli i capelli. Dopo qualche minuto Kurt alzò il capo e rivolse un sorriso tremulo all’uomo.

“Mi mancherai,” bisbigliò.

Burt alzò un angolo della bocca, stringendo le spalle di suo figlio. “Mi mancherai anche tu, ragazzino,” disse, piegandosi un po’ per fissare suo figlio dritto negli occhi. “Ma, Kurt, questa è la decisione giusta e anche se non la pensi così al momento, ci sarà un giorno in cui, mettendoti nei miei panni, capirai.”

Kurt distolse lo sguardo da quello di suo padre, perché, veramente, non riusciva a capire. Tutte le promesse del mondo non erano bastate per convincere suo padre a farlo restare a casa, vicino a lui, vicino a Carole e Finn. Non erano valse a farlo tornare al McKinley, dove sì, c’erano i bulli, ma dove c’erano anche i suoi amici. Dove c’erano Tina e Mercedes. Negargli tutto questo avrebbe dovuto farlo sentire meglio? Perché non era così. Perché in realtà si sentiva sconfitto. Sentiva di aver deluso suo padre e anche di aver perso parte della fiducia che l’uomo aveva sempre riposto in lui, perché non lo credeva più capace di badare a se stesso. 

Burt, vedendo l’espressione contrita sul suo volto, lo avvolse ancora una volta in uno stretto abbraccio. “Kurt, davvero, mi sento molto più tranquillo sapendoti qui al sicuro.”

E non c’era nulla che Kurt potesse fare per cambiare questo. Suo padre stava meglio sapendolo lontano, fuori dal suo occhio vigile, ma credendolo al sicuro e questa sarebbe dovuta essere la cosa più importante. Questa era la cosa più importante: la salute di suo padre.

Così, con un sospiro, Kurt scivolò dalla stretta di Burt, imponendosi di sorridere e di sembrare sereno e se suo padre non notò che quel sorriso non raggiungeva i suoi occhi, o semplicemente si fece bastare lo sforzo che ci mise, Kurt non lo capì, perché suo padre semplicemente gli sorrise di rimando.

Quando, inevitabilmente, giunsero all’entrata della scuola e si scambiarono un ultimo abbraccio, con la promessa di rivedersi quello stesso finesettimana,  Kurt sentì un’improvvisa stretta allo stomaco, perché suo padre sembrava davvero più sereno e tranquillo ora, vedendolo sistemato in quella scuola. Stringendo i denti, cercò di non mostrare il nodo che lentamente gli si stava formando in gola e ricambiò con la mano il saluto – l’ultimo – che suo padre gli fece, prima di salire in auto e confondersi, lentamente, tra le fronde degli alberi, fino a sparire oltre il cancello della Dalton.


Note: 1 ho pensato che fosse necessario fare una nota qui per spiegare il mio punto di vista. Nel telefilm, sempre nella puntata 2x06, vediamo Kurt che va a spiare i Warblers e incontra Blaine sulla scalinata, poi Kurt che viene preso da parte da Wes, David e Blaine per parlare. Secondo me, Kurt va alla Dalton in due giorni diversi (infatti, indossa due outfit diversi) e così ho scritto sopra. Il problema è che non tutti la vedono così e perciò ho pensato di farvi capire come ho interpretato io il telefilm ^^   

A parte questo, spero che il capitolo vi sia piaciuto. C’ho messo tanto impegno per metterlo giù e fino all’ultimo sono stata indecisa se tagliarlo o meno (sono quasi 5000 parole), ma poi ho deciso di lasciarlo come avevo progettato in origine. Per l’aggiornamento temo che dovrete aspettare fino al 17 luglio, perché, finiti gli esami, mi faccio una settimana di vacanza, finalmente :D

Fino ad allora,

Un bacio, Light


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Capitolo 2
*** Presentazioni ***


capitolo 2

Titolo: Meant To Be

Pairing: Kurt/Blaine

Rating: Arancione

Spoiler: (se così si possono più chiamare ormai) fino alla 2x6, accenni alla 2x8

Disclaimer: I personaggi e i luoghi citati sono di proprietà della Fox. Quello che c’è di mio è solo la fantasia.

Nota: Un’infinità di scuse per il ritardo! So che avevo stimato di postare questo capitolo entro luglio, ma ho sopravvalutato me stessa; dopo gli esami e una settimana in vacanza (:D), credevo che scrivere non sarebbe stato assolutamente un problema, anche se nel frattempo mi sarei dovuta togliere un dente del giudizio. Diciamo che non è andata esattamente così… -.-

Un grande grazie va a Yuma_29, perché mi ha spronato a scrivere questo capitolo e postarlo prima che lei parta, e un grazie va ai Barcelona e alle loro “Please don’t go” e “Come back when you can”, che sono state di grande ispirazione per questi due capitoli e credo anche per i prossimi a venire.

Spero che il capitolo vi piaccia e ringrazio ancora tutti quelli che hanno commentato e quelli che hanno letto ^^


Meant To Be

 Capitolo 2: Presentazioni


Quando la macchina di suo padre era diventata indistinguibile all’orizzonte da ormai qualche minuto, Kurt aveva sospirato e se n’era tornato in camera – la sua nuova camera – e si era seduto sul letto. Senza neanche accorgersene, aveva passato ore a fissare le pareti, memorizzando le increspature della carta da parati, per poi passare alle venature del parquet e ai motivi del tappeto tra i due letti. Aveva poi iniziato a girovagare per la stanza, sistemando le pieghe del copriletto, spostando le foto che aveva sul comodino e riorganizzando le boccette di creme per il viso e lozioni per il corpo; alla scrivania aveva controllato ancora una volta se avesse portato tutti i libri e, confermato che sì, c’erano tutti, li aveva poi sistemati sui ripiani della libreria.

Solo quando si fermò al centro della stanza senza più niente da risistemare, spostare o riordinare, lasciò andare un lungo sospiro e chiuse gli occhi.

Non voleva pensare a casa, a suo padre sulla strada per il ritorno, a quando avrebbe varcato la soglia e Carol l’avrebbe salutato con un leggero bacio sulla guancia, un “Sto preparando la cena. Che ne dici dei broccoli?” e gli avrebbe rivolto uno sguardo affettuoso, quando l’unica risposta che Burt le avrebbe dato sarebbe stato un grugnito.

Già, non voleva pensarci.

Riaprì gli occhi quando un raggio di sole gli scivolò sul viso. La luce aranciata e tiepida del pomeriggio passava dallo spiraglio tra le tende e Kurt si mosse per andarle a scostare e ammirare il panorama. C’erano molti alberi, come aveva già visto dalle finestre al primo piano, ma cercò di non fissarsi su quel particolare; anche quand’era piccolo non gli era mai piaciuto andare in campeggio e in generale il contatto con la natura incolta e selvaggia gli faceva storcere il naso. E, ora come ora, aveva già abbastanza motivi per non farsi piacere la Dalton, non c’era bisogno di aggiungerne altri.

Così, strizzando gli occhi, osservò meglio il paesaggio, accomodandosi sulla seduta imbottita della finestra. Notò che nell’angolo a destra riusciva a scorgere parte del parcheggio per gli studenti che non alloggiavano a scuola e in quello sinistro un sentiero che portava a un campo da football, forse, ma non riusciva a vedere nulla oltre agli alti spalti. Sotto la propria finestra, invece, c’era un giardino curato: il prato di un color verde brillante, l’erba perfettamente tosata, le aiuole potate, ma non più in fiore. Ecco, questo andava decisamente meglio: nessun insetto, né vermiciattolo, né foglie umidicce e rattrappite.

Sospirò.

Tutto in questa scuola aveva un’aria antiquata, rigida e anche un po’ pomposa. Forse erano i pavimenti di marmo, le pareti affrescate – e quando non lo erano, erano ricoperte da pannelli di legno – o forse i lampadari dorati che pendevano dai soffitti; sapeva soltanto di sentirsi fuori posto, come se la Dalton fosse un mondo troppo distante da lui.

Troppo distante da casa, pensò con una stretta bruciante al petto e subito dopo si rimproverò quel pensiero. Doveva smetterla di essere egoista e pensare solo a sé: suo padre- la sua famiglia aveva fatto molti sacrifici per garantirgli un’istruzione migliore, una vita migliore! Anche se non era ciò che voleva, anche se gli riusciva difficile essergli grato, doveva accettare i loro sforzi e ignorare l’orgoglio e la parte di sé rimasta bambino, che non desiderava altro che allungare la mano e afferrare quella di suo padre.

Un rumore alle sue spalle lo distolse dai suoi pensieri e lo fece voltare di scatto verso la porta; sulla soglia stava il suo compagno di stanza, con indosso la divisa blu navy della scuola, la mano ancora stretta intorno alla maniglia della porta.

Kurt rimase seduto a fissarlo, le labbra dischiuse, i pensieri un caos sotto shock. Per tutto il pomeriggio aveva evitato di pensare all’eventuale arrivo del suo compagno e ora ne pagava le conseguenze; in quel momento non sapeva cosa dire, cosa fare, come salutarlo.

Riuscì solo a seguirlo con lo sguardo mentre si muoveva all’interno della stanza, avvicinandosi a lui, strizzando un po’ gli occhi per scorgerlo meglio in controluce. Kurt sapeva che si sarebbe dovuto alzare, salutare l’altro, magari stringergli la mano, o semplicemente spostarsi dalla luce ambrata del tramonto, proveniente dalla finestra dietro di lui. Ma non ci riusciva, non aveva il coraggio di alzarsi in piedi, perché… perché non poteva essere vero.

“Kurt…”

Fu sentire il suo nome pronunciato a voce alta che fece scattare le sue ginocchia come una molla. Si ritrovò in piedi, lo sguardo stupefatto fisso sul viso dell’altro, che espressivo mostrava sì, stupore, ma anche felicità e gentilezza.

“Sei tu,” bisbigliò il castano, la voce che gli tremava per lo sforzo di far uscire le parole dalla gola, stretta in una morsa.

Non poteva essere vero, non poteva essere lui il suo compagno di stanza, non poteva essere così fortunato. Ma l’altro gli stava sorridendo con calore, gli occhi che danzavano per la stanza curiosi e pieni di gioia, assorbendo tutti i cambiamenti apportati da Kurt.

Blaine.

“Non posso credere che tu sia davvero qui,” stava intanto dicendo il moro, ormai arrivato a pochi passi da lui. “Quando il preside mi ha detto che presto avrei avuto un compagno di stanza, ero contento, perché non vedevo l’ora di avere qualcuno qui con me. Ma non avrei mai immaginato fossi tu,” pronunciò le ultime parole molto lentamente, mentre il volto perdeva parte della sua lucentezza, come se una nuvola ci fosse passata davanti. Fu un attimo, e in quello dopo era già scomparsa.

“Sono davvero, davvero felice che tu sia qui,” disse e gli occhi gli tornarono al lato della stanza ora occupato da Kurt.

Kurt fece un piccolo sorriso, più di circostanza che veramente di felicità. “Sono contento anch’io, anche se questo non me lo aspettavo neanche io,” rispose con più calma, ora che l’iniziale momento di sorpresa e agitazione era passato. “Voglio dire, immaginavo di vederti per i corridoi o a lezione, ma qui,” continuò, facendo con la mano un gesto alla stanza. “Sono piuttosto sorpreso.”

Blaine sorrise di nuovo e si mosse per andarsi a sedere alla finestra, nel posto in cui Kurt non era stato che qualche secondo prima. Quando fu seduto, lo sguardo gli cadde inevitabilmente sul tutore che Kurt portava al braccio. Inevitabilmente, perché era proprio davanti ai suoi occhi. Kurt non cercò neppure di nasconderlo, non aveva senso se avrebbero condiviso la stanza; anche se non poteva evitare di sentirsi imbarazzato, come tutte le volte che qualcuno lo fissava troppo a lungo. Blaine, almeno, lo fece discretamente, distogliendo lo sguardo quando la sorpresa e la curiosità furono svanite e si rese conto di fissarlo in silenzio. Alzò lo sguardo fino a incrociare il suo e lo sorprese quando non gli pose nessuna domanda, ma gli fece solo un cenno col capo perché si sedesse di fianco a lui. Cosa che Kurt si apprestò a fare con sollievo.

“Da quanto sei arrivato?” chiese e Kurt ebbe l’impressione che non ci sarebbero stati momenti imbarazzanti o discorsi pesanti tra di loro quel giorno: Blaine voleva semplicemente dargli il benvenuto alla Dalton con un sorriso e una piacevole chiacchierata. Kurt non poté che essergliene grato.

“Non molto,” rispose e poi corrugò le sopracciglia. “In effetti non so nemmeno che ora sia.”

“Ormai saranno le cinque. Vuoi fare un giro della scuola o al preside piace ancora dare un tour completo?” scherzò.

Kurt ridacchiò. “Sì, gli piace ancora. Anche se ad essere sincero non credo di aver ascoltato molto di quello che ha detto.”

Blaine annuì. “La Dalton può essere di per sé molto… intensa.”

“E immensa,” aggiunse Kurt. “Sono abbastanza sicuro che almeno per la prima settimana mi perderò per andare da qui a lezione e da lezione in sala pranzo.”

Fu Blaine a ridacchiare questa volta. “Non saresti né il primo né l’ultimo,” disse, dandogli una leggera spallata, anche se, essendo Blaine qualche centimetro più basso, fu il suo bicipite che colpi.

Kurt sorrise lievemente al gesto e sospirò.

Blaine era il suo compagno di stanza; Blaine, l’unico ragazzo che conosceva alla Dalton, era anche quello con cui avrebbe passato la maggior parte del tempo e non poteva che sentirsene rassicurato. Infatti, quasi gli sembrò di sentire il proverbiale peso sullo stomaco sollevarsi alla realizzazione che tutto sarebbe andato bene, che non ci sarebbero state conversazioni forzate per conoscersi meglio, confessare che sì, era gay, e che sperava non fosse un problema, preparandosi però all’inevitabile freddezza e distanza che chiunque gli avrebbe riservato da quel momento in poi.

Con Blaine, invece, tutto sarebbe stato più semplice, perché già si conoscevano - più o meno. Con lui era facile parlare di qualunque cosa e ritrovarsi a confessare, inaspettatamente, segreti che sarebbe stato reticente a condividere con qualcun altro. Senza riuscire a spiegarselo, Kurt sentiva che Blaine avrebbe compreso i suoi stati d’animo meglio di chiunque altro, perché già l’aveva fatto un’altra volta, quel giorno quando gli aveva chiesto se ci fossero problemi alla sua vecchia scuola. E forse non era neppure il fatto che fossero entrambi gay a farli essere così in sintonia, ma il semplice essere se stessi.

Così rimasero a chiacchierare un altro po’ della scuola, dei corsi, dei professori, dei club… E Kurt si rese conto che Blaine adorava la Dalton e il bozzolo sicuro che offriva, e si ritrovò ad apprezzarla un po’ di più anche lui, vedendola attraverso le sue parole, guardandolo gesticolare e gli occhi brillare di entusiasmo.

“Dobbiamo andare assolutamente a dirlo a Wes e David,” esordì a un certo punto il moro, alzandosi immediatamente in piedi. Poi, quasi ripensandoci, si voltò verso Kurt e chiese, un po’ imbarazzato. “Ovviamente, solo se ti va.”

Kurt fu quasi sul punto di scusarsi e dire che li avrebbe salutati un’altra volta, perché era stanco e si voleva riposare e non aveva voglia di incontrare nessuno, davvero. Tuttavia, si ritrovò ad annuire, perché Wes e David erano le uniche altre due persone che conosceva a scuola ed entrambi sembravano abbastanza composti ed educati, specialmente Wes, quindi non credeva che gli avrebbero rinfacciato di essere andato a spiarli. O almeno così sperava.

Percorsero il tragitto in silenzio e Kurt lasciò che Blaine lo guidasse, senza neanche chiedere dove fosse il dormitorio per gli studenti dell’ultimo anno: tempo due minuti e non se lo sarebbe più ricordato, trauma cranico o meno.

Dopo aver voltato l’angolo di un altro corridoio, si fermarono davanti alla seconda porta sulla destra. Blaine bussò, non prima, però, di avergli rivolto un sorriso rassicurante e pochi istanti dopo la porta si aprì. Sulla soglia si presentò la figura di David.

Kurt aveva incontrato il ragazzo solo una volta, per neanche più di un’ora, ma si ricordava bene di lui: alto, pelle scura e occhi ancora più scuri, sembrava il tipico liceale americano giocatore di football. Tuttavia, le similitudini finivano lì e David era una delle persone più gentili che Kurt avesse mai conosciuto. Quel pomeriggio, mesi prima, quando Blaine l’aveva sorpreso di nuovo a scuola, David aveva cercato di metterlo subito a suo agio, col suo sorriso bianchissimo e smagliante.

“Hey, David.”

“Blaine,” rispose l’altro con un cenno del capo. Il suo sguardo si spostò poi su Kurt, che era rimasto fermo di fianco al moro, anche se qualche passo più indietro.

“Kurt!” esclamò stupito. “Che sorpresa! Cosa ci fai qui?”

Kurt abbassò lo sguardo, un po’ incerto su cosa dire e in imbarazzo al pensiero che David credesse fosse lì per spiarli ancora una volta. Tuttavia, non ebbe il tempo di rispondere e farfugliare che no, non era lì per spiarli, ma che si era trasferito veramente questa volta, perché David sembrò arrivarci da solo.

“Non dirmi che sei tu il nuovo compagno di stanza di Blaine?” e per cercare conferma gettò un’occhiata al moro che annuì, sorridendo.

Al cenno, David sembrò animarsi e uscì nel corridoio per avvicinarsi a Kurt, che fissava sorpreso il sorriso genuino dell’altro, i denti bianchi e perfetti come se li ricordava.

“Non sai quanto sono contento! Ero un po’ preoccupato dopo che te ne sei andato,” disse, avvicinandosi. Kurt fece appena in tempo a ringraziarlo prima che David gli stringesse la spalla in un gesto amichevole, e forse accadde perché le sue mani erano davvero molto grandi, o forse perché aveva una stretta decisa, ma Kurt non poté evitare d’irrigidirsi, diventando consapevole fin nel più piccolo particolare della presa dell’altro, osservando attentamente ogni minima espressione del viso.

La stretta non durò che pochi secondi, anche se Kurt riuscì a malapena a trattenersi dallo scrollare le spalle e allontanarsi. Ma né David, né Blaine sembravano essersi resi conto del suo disagio e lentamente riuscì a calmarsi, ma fu più di tutto il sorriso aperto di David a fargli sciogliere il nodo d’ansia allo stomaco.

Nonostante ciò, studiò con discrezione il volto dei due ragazzi, per scrupolo, giusto per essere sicuro di non starsi sbagliando, ma nessuno dei due sembrava fissarlo stranamente; anzi, Blaine non lo stava guardando affatto, sorridendo verso David, che invece aveva continuato a parlare. E si sentì immensamente sollevato.

 “… I professori sono eccezionali, ma secondo me il fiore all’occhiello della scuola sono gli studenti stessi. Sono sinceramente convinto che le amicizie che si creano in questa scuola dureranno tutta la vita, perché da nessun’altra parte troveresti mai delle persone così gentili e disponibili, ma soprattutto sincere.”

Sebbene lo sguardo di David fosse onestamente sincero, Kurt non riuscì a credere davvero alle sue parole, ma non lo contraddisse, sorridendogli flebilmente di rimando, al che l’altro gli rispose con un sorriso ancora più luccicante.

“Ah, certo, non sono tutti così,” aggiunse, come se avesse captato il suo scetticismo, e lanciò uno sguardo d’intesa a Blaine, che scosse semplicemente la testa. “Strada facendo ti daremo la lista degli ‘Inavvicinabili’.”

Anche Kurt rivolse uno sguardo a Blaine, ma il suo era più che altro preoccupato. “Gli Inavvicinabili?” chiese.

Blaine scosse di nuovo il capo, come per dirgli che non era qualcosa di cui si sarebbe dovuto preoccupare, ma David lo batté sul tempo, rispondendo con faccia impassibile, “Figli di papà.”

Kurt fissò il ragazzo più grande sbattendo le ciglia, sorpreso dal commento un po’ cattivello uscito da una persona gentile come David. Forse fu per questo che ridacchiò e rispose, “Ci conto,” e l’altro ricambiò con un ghigno complice.

“E’ quasi ora di cena,” disse allora Blaine, sorridendo anche lui, sebbene pochi istanti prima sembrasse voler rimproverare l’amico. “Perché non andiamo a chiamare Wes?”

Il tragitto questa volta fu breve. A quanto sembrava, la stanza di Wes si trovava solo tre porte oltre a quella di David. Questa volta, quando Blaine bussò, la porta si aprì immediatamente e Kurt si ritrovò a chiedersi se il ragazzo stesse aspettando il loro arrivo. Tuttavia, Wes sembrò sorpreso di trovarli lì e subito alzò la manica della giacca per guardare l’orologio.

“Mancano ancora dieci minuti alle sei. Non vi sembra un po’ presto per andare a cena?” chiese, riportando lo sguardo sui tre ragazzi fermi sulla soglia, e solo allora sembrò accorgersi di Kurt.

“Kurt,” disse, distendendo le labbra in un sorriso. “Che sorpresa vederti di nuovo alla Dalton. Sei venuto a trovarci, finalmente?”

Il tono cordiale di Wes sorprese di nuovo Kurt, come la gentilezza di David aveva fatto poco prima. Non riusciva a capire se i due stessero fingendo di non ricordare le circostanze in cui si erano incontrati la prima volta, oppure se fossero sinceramente gentili nei suoi confronti. O forse, rimuginò infine tra sé e sé, magari aveva a che fare per la prima volta con delle persone educate.

“Non esattamente,” rispose dopo qualche istante, stupito ancora all’idea che Wes credesse fosse lì per una visita di cortesia. “In realtà mi sono trasferito alla Dalton.”

Se il ragazzo fosse sorpreso dalla notizia, non lo diede a vedere. Semplicemente gli sorrise, allungando la mano destra perché Kurt la stringesse. “Buon per te. Benvenuto a bordo,” disse, e la stretta di mano non durò che un secondo, tanto che, dal sollievo di non essere diventato una statua di sale un’altra volta, Kurt si ritrovò a sorridere ai tre ragazzi.

Blaine sembrò poi ricordarsi di qualcosa e sbirciò all’interno della stanza. “Lucas è rientrato?”

“No, credo sia ancora agli allenamenti di lacrosse,” rispose Wes.

Di comune accordo, decisero di andare in mensa, anche se era presto, e strada facendo decisero di fare una deviazione per mostrare a Kurt, ancora una volta, dove si trovavano le aule e i laboratori.

Mentre percorrevano i corridoi semi deserti, Kurt aveva seguito le loro conversazioni senza prendervi parte, nonostante gli sforzi di Blaine. C’era qualcosa che lo bloccava, un pensiero che gli dava noia, punzecchiandolo fastidiosamente. Sentiva che, finché non avesse aperto la bocca e chiesto quello che più gli premeva non sarebbe riuscito a essere se stesso. E doveva ammetterlo, loro erano le uniche persone che conosceva alla Dalton e con cui avrebbe mai fatto amicizia. Non poteva aspettare, doveva affrontare la questione e mettere subito le cose in chiaro.

Fu per questo – e per una larga dose di testardaggine – che si fermò nel bel mezzo del corridoio, richiamando subito l’attenzione degli altri ragazzi.  

“Sentite,” iniziò, e nonostante la sua voce non suonasse delle più sicure, il suo sguardo lo era. “Vorrei chiedervi una cosa.”

I tre annuirono e Blaine fece qualche passo verso Kurt, cercando di metterlo più a suo agio.

“Volevo chiedervi se fosse tutto a posto,” e allo sguardo interrogativo di Wes si affrettò a continuare. “Per quanto riguarda… Per quella volta che sono venuto a spiarvi.”

David fu il primo a reagire con una risata e un ampio sorriso, tale da accentuargli le rughe agli angoli degli occhi, mentre Wes fece solo un cenno col capo, tendendo leggermente gli angoli della bocca.

“Non ce l’abbiamo mai avuta con te per quello che è successo,” disse Wes, col suo tono di voce da reporter, parlando velocemente e scandendo perfettamente le parole. “Perciò, sì, è tutto a posto.”

Kurt sorrise, ma sul volto doveva aver mostrato la sua titubanza, perché Blaine gli si fece ancora più vicino e sfregò con delicatezza la mano sul braccio di Kurt in un gesto di conforto.

“Non ti devi preoccupare. E’ acqua passata, davvero,” disse, e Kurt internamente sospirò quando finalmente il moro abbassò la mano. “E nessun altro lo sa.”

A quelle parole Kurt sbatté le ciglia più volte, sinceramente sorpreso. Fissò in viso Blaine, poi spostò lo sguardo su David e Wes e, se possibile, fu ancora di più sorpreso nel costatare che erano sinceri, che stavano dicendo la verità.

Ma perché non l’avevano detto a nessuno? si chiese.

“Io e David, come membri del consiglio, non abbiamo ritenuto fosse necessario informare i Warblers dell’accaduto,” disse Wes, il volto disteso in un sorriso sincero. “Farlo avrebbe creato solo tensione e portato a un generale livello di deconcentrazione; per non parlare delle assemblee straordinarie che i Warblers avrebbero voluto convocare, cancellando di conseguenze le prove.”

Kurt inclinò la testa di lato, sopraffatto dallo sproloquio di Wes, che invece non aveva sortito alcun effetto sugli altri due. In un angolo della sua mente, Kurt si chiese se Wes facesse parte anche del club di dibattito, ma quel pensiero svanì quando Kurt comprese il senso generale di quello che gli era stato appena detto.

“Neanche io ho mai detto ai ragazzi del mio vecchio Glee club di essere stato qui.”

Wes sembrò sinceramente sorpreso, dato il modo in cui sollevò le sopracciglia.

“Come mai?” fu David a chiederlo, e anche lui sembrava sorpreso. “Voglio dire, non era quello lo scopo?”

Kurt sospirò. “Sì, ma non era stata una mia idea sin dal principio, perciò non dirglielo è stato un po’ per ripicca. Però,” cercò lo sguardo degli altri ragazzi, assicurandosi di avere la loro attenzione, “non mi sembrava giusto, specie poi quando siete stati così comprensivi nei miei confronti.”

Kurt sperò che gli altri cogliessero quel Grazie che non aveva pronunciato, ma che era sottinteso in ogni singola parola; e a giudicare dai loro sorrisi e dai cenni del capo di conferma, probabilmente l’avevano colto.

Quando arrivarono in mensa erano ormai le sei passate e alcuni studenti avevano già preso posto ai tavoli di legno, disposti regolarmente per file, l’uno a pochi passi dall’altro.

Mentre seguiva gli altri per mettersi in coda, Kurt si guardò in torno. Il salone era ampio, illuminato da grandi vetrate e lucernai e nel complesso aveva un’aria semplice e informale che mancava al resto della scuola – anche se i pavimenti erano sempre in marmo e i lampadari dorati pendevano comunque dal soffitto. Tuttavia, non era grande quanto la sala mensa del McKinley, e per la prima volta, Kurt realizzò che, con molta probabilità, non c’erano neanche altrettanti studenti, il che aveva senso, considerando che la Dalton era una scuola privata. In un certo modo, quel pensiero lo rincuorò.

Un colpetto al braccio lo riportò alla realtà e vide Blaine sorridergli e porgergli un menù plastificato, che Kurt accettò con occhi sgranati. Ovviamente, gli studenti ormai lo conoscevano a memoria e forse non la trovavano più neanche una cosa strana, ma Kurt non poté che meravigliarsi, e si sentì quasi commosso nel costatare che almeno un giorno la settimana era previsto pesce, e che c’erano talmente tante alternative di frutta e verdura da fornire persino un menù alternativo per vegetariani. Certo, non che lui lo fosse, ma questo voleva dire che non sarebbe stato costretto a mangiare cibo spazzatura come nella sua veccia scuola.

Quando finalmente furono seduti, Wes gli presentò il tavolo dei Warblers, al momento occupato solo da loro quattro, dato che la maggior parte degli studenti non sarebbe arrivata prima delle sei e mezzo.

“Anche se non fai parte del club, puoi sempre unirti a noi come membro onorario,” gli concesse David.

“Non saresti il primo,” aggiunse Wes, che sembrava più che altro rassegnato all’idea.

Kurt non ebbe il tempo né di essere sorpreso dell’offerta, né di ringraziarli per il gesto, perché fu interrotto da una voce, proveniente dalle sue spalle.

“Come mai a cena così presto, ‘stasera?”

Quando il castano si voltò, nel suo campo visivo comparve un ragazzo biondo, alto e snello, i capelli scompigliati e senza divisa. Lo vide sorridere a Wes e David, per poi chinarsi verso Blaine. Quando le sue labbra sfiorarono la guancia del moro in un bacio affettuoso, Kurt sentì il sangue gelarsi nelle vene e senza rendersene conto si distanziò dai due, scivolando sulla panca.

Di fretta si guardò attorno, per vedere quanti li avessero visti, e quanti li stessero fissando torvi, magari pronti a lanciare qualche insulto, o peggio. Il fatto che nessuno li stesse in effetti fissando non lo tranquillizzò, né gli fece riprendere a respirare normalmente.

“… è il mio nuovo compagno di stanza. Kurt, questo è Lucas.”

Al suono del suo nome, Kurt si voltò verso il moro, che stava sorridendo, tranquillo, mentre alle sue spalle il biondo allungò il braccio per stringergli la mano.

“Kurt Hummel,” disse, in automatico, lanciando delle occhiate furtive intorno. Di sfuggita colse il sorriso di David, mentre Wes aveva ripreso a mangiare.

“Lucas Berkof,” rispose l’altro, lasciando la presa. “Spero che ti troverai bene alla Dalton.”

Sbattendo più volte le palpebre, come gli capitava quando era sorpreso, Kurt guardò con più attenzione gli studenti che erano seduti ai tavoli vicino al loro. Nessuno li stava guardando. Nessuno gli stava prestando attenzione.

Il sospiro che gli lasciò le labbra lo liberò anche dalla tensione e quando si voltò verso Blaine, si ritrovò a sorridergli. Il moro ricambiò il gesto, inclinando la testa, come per porgli una domanda, ma Kurt scosse semplicemente il capo.

“E’ il tuo ragazzo?” chiese e Blaine annuì, come se fosse la cosa più semplice del mondo da ammettere, e cinse con un braccio la vita del biondo, come se non avesse niente di cui aver paura.

E probabilmente era così.

Blaine non aveva paura di mostrare il proprio affetto. Lucas era il suo ragazzo, stavano insieme e non avevano paura di mostrarlo. E nessuno sembrava infastidito, o contrariato, o schifato dai loro gesti, dall’affetto palese in ognuno di essi.

Nella sua vecchia scuola, Kurt era tormentato per ciò che era, per ciò che voleva e accettava di essere. E non lo andava sbandierando per i corridoi che era gay; il fatto che si vestisse più alla moda dei normali adolescenti di Lima non era un modo per palesare la sua omosessualità. Nonostante ciò, veniva discriminato, insultato e picchiato, come se la sua sola esistenza fosse un affronto personale.

Blaine era gay come lui. Anche lui era stato vittima di bullismo alla sua vecchia scuola, ed era per questo che si era trasferito alla Dalton. Per molto tempo, le parole che Blaine gli aveva confessato quel pomeriggio erano state l’unico conforto, l’esistenza stessa di un ragazzo adolescente gay come lui era stata di conforto; e ora Blaine aveva un ragazzo, i suoi amici ne erano felici e quelli che non lo conoscevano non ne sembravano infastiditi o oltraggiati. E questo era più che confortante. Era come aver scalato una montagna ed esserne arrivati in cima. Era come aver raggiunto un traguardo.

La Dalton rappresentava quel traguardo. Per la prima volta, le parole “nessun tipo di discriminazione” pronunciate da Wes avevano davvero un senso, e non era più solamente astratto, ma tangibile, perché Kurt riusciva a sentirlo in tutto ciò che lo circondava.

E per la prima volta, Kurt sentì di poter essere felice alla Dalton.


Note: Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto, anche se ci ho impiegato un casino di tempo per postarlo. Ho cercato di non farlo esageratamente lungo, ma inutilmente: è tale e quale al capitolo scorso. Attendo solo le vostre reazioni ^^

Un bacio, Light

 

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