What colour is the snow?

di Willow Gawain
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La città della neve ***
Capitolo 2: *** L'etica del riccio ***
Capitolo 3: *** L'ingresso del re ***
Capitolo 4: *** Brindisi col diavolo ***
Capitolo 5: *** La ragazza con le trecce rosse ***
Capitolo 6: *** Auror Von Halfen ***
Capitolo 7: *** Turn away ***
Capitolo 8: *** Fantasmi ***
Capitolo 9: *** Tra fede e ragione ***
Capitolo 10: *** Il dolore che lenisce l'animo ***
Capitolo 11: *** La congiura ***
Capitolo 12: *** Uno scherzo di cattivo gusto ***
Capitolo 13: *** Angeli ***
Capitolo 14: *** L'altra faccia ***
Capitolo 15: *** Gioco di coppia ***
Capitolo 16: *** Il popolo del suono ***
Capitolo 17: *** Di baci e di bugie ***
Capitolo 18: *** Nuovo inizio ***
Capitolo 19: *** Calma apparente ***
Capitolo 20: *** Persona significa maschera ***
Capitolo 21: *** La Bella e la Bestia ***
Capitolo 22: *** Danse Macabre ***
Capitolo 23: *** La quiete dopo la tempesta ***
Capitolo 24: *** Sturm und Drang ***
Capitolo 25: *** Buon ultimo compleanno! ***
Capitolo 26: *** Il mondo buio di Damon ***
Capitolo 27: *** Georgiana o del Tradimento ***
Capitolo 28: *** Persona protagonista dell'opera ***
Capitolo 29: *** L'ultimo segreto ***
Capitolo 30: *** Il colore della neve ***



Capitolo 1
*** La città della neve ***


- 01

What colour is the snow?

- Prologo -

Hidel, villaggio di mercanti; Northumberland, Inghilterra - 07 Dicembre 1852.

La luce della luna illuminava l’intero villaggio; i suoi raggi, timidi ed incerti, sembravano accarezzare dolcemente i tetti delle case, rendendo il paesaggio più morbido e ingentilendone i tratti forti. Hidel, un minuscolo paesino sperduto tra le fredde montagne della Gran Bretagna, sognava i suoi sogni più tranquilli. Lì, all’estremo nord del mondo, niente e nessuno sembrava costituire una minaccia abbastanza grande da impedire ai paesani di dormire sonni sereni.

Quel piccolo angolo di mondo era coperto dalla neve tutto l’anno e durante la stagione dei raccolti la temperatura sfiorava i dieci gradi; in tutto, meno di ottanta famiglie lo abitavano, che si aiutavano a vicenda, sostenendosi le une con le altre per sopportare la dura vita di ogni giorno.

Attorno al villaggio non vi erano altro che radure e foreste, che si alternavano per chilometri e chilometri fino a raggiungere Terren, una delle principali città della regione, luogo di pellegrinaggio per gli abitanti del paese, essendo questi in prevalenza mercanti di stoffe ed altri prodotti artigianali.

Così come le lande che facevano da sfondo al villaggio, nemmeno la foresta aveva un nome. Né di giorno né di notte i raggi luminosi riuscivano a penetrare la barriera di tronchi e rami, conferendo così alla selva un qualcosa di crudele e al contempo mistico. Appariva come un luogo vietato ai comuni mortali, e così era. Chiunque si addentrava in essa correva enormi rischi: tra le sue cortecce, infatti, si annidavano esseri di diverso tipo, ma tutti ugualmente pericolosi per un essere umano.

Anche quella notte la foresta era in attesa di qualche stolto villico che, per diletto o per chissà quale motivo, vi si addentrasse; ma come ogni sera sarebbe stata un’attesa vana. Infatti gli abitanti di Hidel non erano stupidi e si erano attrezzati per attraversare la boscaglia: una lunghissima via, chiamata “Via della luce”, la attraversava da parte a parte. Il nome era stato scelto con accuratezza: simboleggiava la sicurezza di quella strada che, perennemente illuminata, non permetteva attacchi a sorpresa da parte di animali o briganti. Ovviamente non veniva mai attraversata da una persona da sola, difatti tutti i mercanti del villaggio si mobilitavano in massa durante determinati periodi dell’anno per raggiungere Terren, dove avrebbero venduto i loro prodotti nelle grandissime fiere che si tenevano durante l’anno.

“Un posto davvero carino.”

Una figura si muoveva con agilità ed eleganza tra le ombre della foresta, tra i rami caduti e i cumuli di neve fresca. Muoveva passi serpentini e fermi, di chi sa quello che vuole fare. Si avvicinò velocemente alla piccola cittadina con passo leggero, sembrava quasi che stesse fluttuando. La luce osò avventurarsi sul suo mantello bianco mentre egli si faceva più avanti, volendo osservare più da vicino il luogo. Il suo viso venne illuminato, rischiarato per un attimo; in esso si notava una bellezza molto particolare.

«Hidel…» mormorò con voce profonda, fredda e tagliente, dal tono virile. Scoccò un’ultima occhiata in direzione della cittadina, mentre il suo chiaro volto veniva illuminato ancora, non dalla luce, bensì da un sorriso divertito.

«E’ tempo.»

Poi, com’era apparso, scomparve nel nulla.

 

 

- Capitolo 01: La città della neve -

 

La debole luce del sole faticava ad attraversare la finestra. La piccola stanza era quasi completamente al buio, nessun rumore sembrava in grado di spezzare il meraviglioso silenzio istauratosi la sera prima. Pochi metri di stanza per un’adolescente che ora giaceva sotto le coperte, annidata nel suo letto di calda paglia, sotto la piccola finestra. Respirava molto profondamente, stava ancora dormendo. Immersa nei suoi sogni inaccessibili, ignorava completamente il fatto di essere in tremendo ritardo.

Il silenzio quasi sacro fu interrotto da un bussare impaziente alla porta da parte di un ragazzo, che fece poi irruzione premurandosi di fare quanto più rumore possibile.

«Ann, svegliati! Sei in ritardo!» avvertì il giovane dai begli occhi azzurro scuro, fermandosi sulla porta ad aspettare che la sorella finalmente desse segni di vita «Datti una mossa, topo!» la spronò, rassegnato all’evidenza: ogni mattina era quasi impossibile svegliare la giovane contadinella.

«Uhm…» da sotto le coperte venne un debole mugolio, accompagnato dallo spostarsi di una folta chioma corvina; la ragazza si era finalmente svegliata.

«Gabriel… ancora un minuto…» pregò una vocina scocciata e assonnata, interrotta però da un sospiro desolato da parte del fratello.

«Sbrigati, ti aspettiamo di sotto per fare colazione.» la avvertì, quindi fece un passo all’indietro uscendo dalla stanza. Si premurò di chiudersi la porta alle spalle con forza, così da dare un maggiore incentivo alla sorella, anche se sapeva bene che non sarebbe servito a granché.

 

Maledetto Gabriel e maledetta porta! Spostai piano le coperte, scoprendo il corpo, avvertendo immediatamente il freddo pungente attraversarmi la schiena, brividi che correvano veloci. Mi stiracchiai alzando le braccia, svegliando i muscoli ancora intorpiditi dal sonno; strofinai gli occhi ancora impastati di sonnolenza, alzando poi lo sguardo per guardarmi attorno. Niente da fare, la mia piccola e anonima stanzetta non aveva proprio nulla a vedere con le meravigliose stanze dei castelli dei miei sogni. Era così… vuota, fredda, quasi quanto la temperatura fuori dalla casa. Ma dopotutto, noi Nevue eravamo una famiglia un po’ povera, come tutti a Hidel, e non avrei mai osato chiedere ai miei genitori un inutile spreco di soldi per me. Mi accontentavo del mio minuscolo spazio in quella casa, per quanto vuoto fosse.

Poggiai i piedi sul freddo pavimento di legno, avvertendo una nuova  scossa di brividi. Dannazione, che sonno…

Rivolsi un ultimo sguardo nostalgico al mio caldo letto, rimpiangendo il momento in cui avevo annunciato a mio padre che ero pronta a mettermi sotto anch’io, lavorando per la famiglia. Mi avvicinai all’unico mobile della cameretta: una cesta di legno in cui tenevo i vestiti; sfilai la camicia da notte vecchia e logora dalla testa, rimanendo sotterrata da quella massa di capelli neri che era la mia maledizione. Tirai un lungo sospiro di sollievo quando riuscii a dar loro una sistemata, afferrando poi una veste a caso. Infilai la lunga gonna blu, richiudendo quindi i bottoni della maglia di lana bianca. L’unico sfizio che mi concedevo sempre era una fascia per capelli nera con merletti bianchi, confezionata da mia madre. Diedi un’occhiata fugace al frammento di specchio poggiato sulla cesta, adocchiando il mio aspetto: come sempre orrendo. Cioè, tutti mi dicevano che ero una ragazza carina, ma io ero troppo abituata alle bellissime principesse dai lunghi capelli biondi delle fiabe, per giudicarmi “carina”. Sarà una cosa normale tra noi giovani adulti, no?

Forse era quel mio essere continuamente la stessa, monotona, noiosa Ann. Portavo sempre i capelli sciolti, sin da quando ero bambina. Erano neri, molto lunghi, un vero inferno da pettinare. Come ogni membro della mia famiglia avevo grandi occhi blu mare. Accidenti, non credo di poter fare questo paragone: io non ho mai visto il mare; Hidel si trova in una parte abbastanza interna della regione, e la costa è molto lontana. Infine, come ogni abitante delle mie terre, la pelle chiara, tipica di chi vive tutto l’anno in un luogo dove il sole batte poco o niente. Ma altre cose odiavo nel mio aspetto: innanzitutto la mia altezza, infatti sfioravo il metro e sessanta scarso, e per questo mi ero meritata il soprannome di “nana”, “topo” per gli amici. Infine… beh, lasciamo perdere.

Mi diressi a grandi falcate verso la finestra, aprii piano il vetro lasciando entrare uno spiffero d’aria ghiacciata. Con un movimento lento, ancora intontito dal sonno, portai dietro l’orecchio una ciocca di capelli, sbadigliando svogliatamente.

«Annlisette! Vuoi darti una mossa o no?!»

Ecco, quando mio padre comincia a urlare non è un buon segno.

«Arrivo!» gridai a mia volta, sperando che la mia vocina giungesse al piano di sotto. Lasciai malvolentieri la mia camera a grande velocità, uscendo dalla porta e scaraventandomi giù dalle scale con un rumore tonante. Quando Annlisette Nevue scendeva le scale la mattina, tutti nella casa lo sapevano.

Finalmente giunsi in cucina, cercando di riprendermi dal fiatone – saltare tre gradini alla volta non è salutare -, quindi sorrisi al resto della famiglia. Mia madre serviva del pane a tavola, sistemando la brocca d’acqua al centro del tavolo un po’ malconcio.

«Buongiorno!» salutai allegramente, sedendomi poi accanto a mio fratello.

«Buongiorno, Annlisette.» mi sorrise la mamma, sedendosi anch’ella proprio davanti a me. Come ogni mattina, era bella come il sole. Ammiravo immensamente la mia dolce mamma, era il mio modello: dolce, buona, bellissima, niente la scoraggiava mai. Era sempre felice, pronta a donare il suo immenso amore e ad aiutare il prossimo.

«Meglio tardi che mai.» mio padre era tutto il contrario di lei. Come sempre, il simpaticone non mancò di mettere il dito nella piaga. Se sbagliavi te lo faceva pesare per giorni. E considerando che io ero in ritardo ogni mattina… beh, ripeto: lasciamo perdere.

La colazione fu piuttosto sbrigativa e noiosa, come ogni monotono giorno in quel monotono villaggio in cui si consumava la mia monotona vita. Uscii di casa molto presto: quella mattina dovevo far visita al negozio del macellaio e a quello della sarta.

Presto sarebbe stato il mio compleanno – presto… in realtà mancavano ancora venti giorni, ma a Hidel fanno le cose in grande in queste occasioni! -, e mamma e papà volevano far festa. Ovviamente una festa che rientrasse nelle nostre già precarie condizioni economiche.

Aprii la porta, avvertendo il solito vento gelato entrare in casa, uscii poi, meravigliandomi: la nevicata notturna era stata peggiore del solito, e ancora non accennava a fermarsi. Piccoli e bianchi fiocchi di neve scivolavano dalle nuvole, poggiandosi delicatamente su ogni cosa. Ne spostai malamente uno che aveva scelto un luogo molto brutto per atterrare: il mio naso. Scossi la testa, sentendo qualche brivido. Nemmeno quell’estate era stata calda come la famosa estate del 1840, quando, secondo i racconti di papà, si era toccata la meravigliosa temperatura di diciotto gradi. Doveva essere stato davvero caldissimo. Lì ad Hidel eravamo abituati al clima letteralmente ghiacciato; la neve spadroneggiava sulle nostre lande per buona parte dell’anno, senza darci possibilità di scampo. Il mio sogno proibito era quello di viaggiare e trovarmi in un luogo più caldo di quello sperduto villaggio in cui vivevo da sedici anni. Ma si sa… i sogni son sogni…

«Buongiorno, Annlisette.»

Di tutte le voci che avrei voluto sentire, quella di Doralice Clokie era decisamente l’ultima, e, ovviamente, se mi trovavo alle spalle l’oca più oca del villaggio poteva significare solo due cose. Uno: oltre ad ella c’era il gruppo delle cosiddette “represse”, che da circa tre anni si divertivano a tormentarmi; due: erano lì per tormentarmi. Mi voltai mostrando una faccia poco amichevole, già pronta a inventarmi qualche velenosa risposta.

«Buongiorno a voi.» sorrisi beffarda. Come si dice: far buon viso a cattivo gioco.

«Dove vai?»

Doralice era ritenuta la ragazza più bella del paese: lunghi riccioli biondi terminanti in boccoli da principessa, occhi verde smeraldo, alta, formosa. Odiavo quel maledetto neo sotto l’occhio di cui si vantava dalla mattina alla sera.

Era convinta che chiunque le rivolgesse la parola avesse una cotta per lei. Dunque circa tre quarti di villaggio – a detta sua - erano pazzi di lei. In una parola: oca.

«Compro alcune cose.» risposi lapidaria, come mio solito. Non riuscivo mai ad essere gentile con lei, lo ammettevo. Ma come darmi torto?

«E’ vero, tra poco fai gli anni… ehm, quindici?» un coro di stupide risate si alzò alle sue spalle. L’incredibile simpatia di Doralice era talmente tanto sottile che io, povera contadinella, non riuscivo a coglierla.

«No, Doralice. Sono più grande di te, ricordi?» era vero; avevamo la stessa età, c’era solo una piccola differenza di qualche mese, ma sapevo come colpire nel segno – non sopportava di essere più piccola di me - e gustai appieno le facce sconvolte delle oche mentre offendevo a morte il loro capo. Sorrisi di rimando all’occhiata rancorosa che mi venne rivolta, orgogliosa di me stessa. Dopotutto, avevo un po’ pena di quelle povere sceme che non riuscivano a imporsi e dovevano nascondersi sempre dietro l’altra povera scema che si credeva il loro “capo”. Girai i tacchi, decisa ad andarmene. In fondo quelle erano solo stupide ragazzine di cui non ci si doveva spaventare. Quelli di cui bisognava aver timore erano altri, ovvero i tre bulli del villaggio, e chiunque avesse meno di diciotto anni aveva paura di loro. Avevano diciannove anni, esempio di persone irrecuperabili.

Il freddo si stava intensificando, mi facevano un po’ male le ossa… E’ possibile avere i reumatismi a soli sedici anni? Sbraitai, voltandomi poi ad osservare il sentiero che stavo percorrendo. Fortunatamente quelle oche noiose non mi avevano seguita.

Entrare nel negozio del macellaio era come addentrarsi nelle zone artiche della nazione.

«F… Fred… do…» battevo i denti come sempre, sentendo quella morsa ghiacciata tipica del negozio di Guy prendermi il corpo. Lui, il macellaio del paese, sosteneva che più la carne veniva conservata al freddo più era buona. Ma là dentro la situazione era tremenda! E, sinceramente, non potevo fare a meno di chiedermi se il padrone del negozio fosse ancora vivo o si fosse congelato assieme alla sua amata carne. Avanzai pian piano tremando come una foglia.

 Tenevo le braccia attorno al corpo, cercando invano di riscaldarmi.

«G… G-g-guy…!» mi sforzai di chiamarlo.

«Oh!» il vocione del macellaio mi fece letteralmente sobbalzare per lo spavento. Tentai di fare un sorriso di circostanza, alzando una mano per salutarlo.

«La piccola Ann! Anche se ormai dovrei dire grande!» mi sorrise l’omaccione. A prima vista poteva incutere timore, con quel suo viso canuto e cadaverico e la stazza enorme. Era alto quasi due metri ma la cosa più inquietante di lui era che – nonostante  fosse una persona di tutto rispetto - se ne andava sempre in giro con uno dei suoi coltellacci enormi e perennemente sporchi di sangue animale.

«B-b-buongiorno!» esclamai con fare allegro, anche se faticavo a parlare. Come accidenti faceva il macellaio a passare tutte le sue giornate chiuso in quella stanza congelata? Come sempre mi sarei limitata a dire il necessario, era meglio uscire il più in fretta possibile da quel posto «Sono q-qui per la carne che i-ieri papà ti aveva c-chiesto.»

«Ah sì, aspetta un attimo.» rispose l’omone, per poi addentrarsi nel negozio.

Oh no, pensai, quando si cacciava là dietro perdeva un sacco di tempo. Il suo concetto di “attimo” non era esattamente uguale a quello del resto dell’umanità! Sarei morta surgelata. Sicuro. Ma, incredibilmente, per una volta Guy non impiegò i soliti venti minuti. Dopo cinque minuti buoni tornò portando in mano un bel po’ di carne di non so quali animali. Rimasi sbigottita: da quando avevamo i soldi per permetterci quella gran quantità di cibo?

«Guy… sicuro che non ci sia q-qualche errore?» domandai, inclinando il capo e alzando un sopracciglio.

«Sicurissimo. Diciassette anni sono importantissimi, Ann. Per una ragazza segnano il passaggio all’età matura, e tuo padre intende fare le cose in grande.»  mi sorrise lui.

Lo fissai torva.

«Ma così rischiamo di i-indebitarci! O, peggio ancora, di sprecare tutto il ricavato dell’ultima stagione!» esclamai, stringendo i pugni.

Guy mi fissò come un padre fa con la figlia, con un sorriso troppo dolce, che non si addiceva per niente alla sua stazza.

«Ann, tuo padre ha solo due figli: te e Gabriel. Tuo fratello ormai è cresciuto e presto lascerà il nido, mentre tu… tu sei ancora la bimba di casa.» al solo sentire la parola “bimba” gli scoccai un’occhiataccia «Credimi, è normale che tuo padre voglia far entrare in grande stile la sua piccola nel mondo degli adulti. Ho sentito che vuole organizzare una cena per tutto il villaggio.»

La sola prospettiva mi fece rabbrividire. Odiavo essere al centro dell’attenzione, papà lo sapeva. E lui e la mamma volevano comunque organizzare una serata tutta per me? Certo il loro era un pensiero dolce, ma non volevo che si indebitassero solo per questo. Abbassai lo sguardo.

«E comunque…» riprese il macellaio «il vecchio Lazarus ha ordinato solo questo» sorrise disinvolto, dividendo poi la carne in due mucchietti. Quello più piccolo sarebbe bastato a far mangiare una decina di persone. A Hidel eravamo una cinquantina di famiglie.

Il mucchio più grande, decisamente meglio assortito… Solo allora capii, e scossi la testa «No, Guy. Se mio padre v-viene a sapere che ci regali del cibo mi ammazza. Sai che o-odia l’elemosina!»

«Elemosina?» rise fragorosamente il macellaio. Avevo paura che il locale cominciasse a tremare, tanto era forte la sua voce «Cara piccola Annlisette Nevue, prendilo come il mio regalo di compleanno!» rise, e a me si strinse il cuore. Non potei fare a meno di sorridergli. Era davvero un uomo dal cuore grande e caldo – che ironia -.

Sospirando, e tremando ancora per il freddo, annuii, prendendo la carne e lasciando delle monete sul tavolo, quelle che papà mi aveva dato. Intanto il macellaio imbustava la carne «Serve aiuto per portarla a casa?» mi domandò.

«No, tranquillo. Ce la faccio, al limite faccio chiamare Gabriel.» sorrisi. Dunque, facendomi carico di quel peso – e accidenti quanto pesava! - feci per uscire.

«Guy!» lo chiamai, poco prima di lasciare il negozio «Grazie.»

«Buona giornata, piccola Ann.» mi sorrise lui, quindi tornò al suo lavoro. Ed io al mio.

 

Una volta uscita dal negozio, la piccola Ann, carica di pacchi, si sentì ristorata. Hidel era un paese quasi perennemente coperto dal manto nevoso, ed ogni volta che usciva dal negozio del macellaio Guy era come se fosse passata da un ghiacciaio a una spiaggia tropicale. Tuttavia, quel mattino faceva più freddo del solito, e la ragazzina fu costretta a coprire per bene anche la bocca con la sciarpa confezionatale dalla madre, per evitare che le si formassero piccoli ghiaccioli sotto il naso. Il paesino, di solito placido, sembrava per una volta animato e vivace, come in attesa di qualcosa. Quelle poche persone che c'erano in giro correvano a destra e manca, chi col fiatone, chi nervoso, chi eccitato. La giovane, un po’ innervosita da quell’atteggiamento così strano, passò oltre, dirigendosi verso la seconda tappa del suo “viaggio”. La madre le aveva chiesto di passare dalla sarta per comperare alcune spagnolette. Chissà, magari sarebbe anche avanzato qualcosa e avrebbe potuto comprare un rocchetto in più di quel colore blu oltremare che tanto le piaceva. Così, con semplici pensieri in mente, si era allontanata dal centro del paese.

«Ann! Ann!»

Sentendosi chiamare, la ragazza si voltò. Aveva riconosciuto la voce di Krissy, una delle poche persone che considerava sue amiche al villaggio. Era una ragazzina dai capelli color rosso chiaro, così minuta da ispirare tenerezza. Poteva sembrare insignificante, in realtà era molto affascinante, forse per quella vena di purezza che le scintillava negli occhi verde intenso. La dolce ragazza le stava correndo incontro agitando le braccia.

«Ciao, Krissy.» la salutò, sorridendole «Come mai così di corsa?»

«Cosa?!» Krissy parve quasi offesa da quella domanda. Tenendo le mani davanti alla bocca, esclamò a gran voce «Che domande! Sto andando a vederlo, no?»

«Vedere cosa?» continuò Ann alzando un sopracciglio, senza capire.

La rossa sbuffò «Come sempre non sei informata, Ann!» per poi colpirla con un leggero pugno sulla testa, in risposta al quale la ragazzina mora cacciò fuori un “ahia!”. Krissy la ignorò e riprese «Lo straniero! E’ arrivato uno straniero!»

«E solo per questo mi hai dato un pugno in testa, razza di incosciente?!» Ann sembrava sul punto di voler picchiare la rossa, ma venne interrotta dall’amica, che riprese il suo discorso.

«E’ giunto stamane a dorso di un cavallo bianco. Dicono che sia davvero affascinante!» con aria sognante, quasi già immaginasse il suo matrimonio con “lo straniero”, continuò la sua spiegazione «Mi hanno detto anche che ha la pelle bianchissima e che probabilmente viene da un nord ancora più a nord di Hidel»

«Esiste un nord ancora più a nord di Hidel?» la vena scettica di Ann non demordeva. Che accidenti avevano messo in testa a Krissy? Hidel si trovava nella parte più settentrionale delle Nameless, in assoluto la parte più settentrionale della nazione. Non esisteva un nord più a nord di Hidel. Beh, almeno questo dicevano nei libri…

«Altrimenti come ti spiegheresti quella carnagione così chiara? Dicono che sia ancora più chiaro di te!»

«Non so, mica l’ho visto io, questo straniero…» rispose la mora «Forse si è lavato con la spazzola dei cavalli?»

Le due ragazze risero, immaginandosi la scena.

Ma la parola venne subito ripresa dalla rossa «Sul serio, Ann! Vieni anche tu. Ti aiuto a portare la carne a casa e poi andiamo.»

«No, Krissy, non posso.» rifiutò Ann «Devo ancora passare dalla sarta.»

«Ci passeremo dopo! Sai che sono timida.» la implorò l’amica «Senza di te mi sento persa, per favore!»

Ann non voleva arrendersi, ma Krissy sapeva cosa fare per convincerla. Quelle parole erano infatti come un colpo al cuore per la contadina, che sospirò annuendo «Va bene, va bene. Ma non perdiamo troppo tempo.»

«Evviva!» esclamò allegra Krissy «Stai tranquilla, e ora andiamo!» si fece carico di due buste, cominciando a camminare velocemente verso casa Nevue.

Durante il tragitto Ann provò a immaginare il nuovo arrivato. A dorso di un cavallo bianco… con la pelle chiarissima… Sembrava il principe azzurro.

«Che altro ti hanno detto di questo tipo?» domandò a un certo punto alla compagna.

«Biondo, alto e ben impostato. Insomma sembra un gran bell’uomo, anzi ragazzo!» si voltò a sorridere all’amica «Mary Blake sostiene che abbia tra i venti e i trent’anni, a giudicare dall’aspetto.» il suo sorriso divenne sognante «E infine… mi ha detto che ha gli occhi così blu da far girare la testa. Il principe azzurro!»

«Uhm…» Ann non parve molto entusiasta all’idea. Lei non era il tipo che passava le sue giornate a immaginare il principe azzurro. Era troppo realista e rifiutava parole come “principe azzurro”. Principesse, principi e magia erano favole, e come tali dovevano rimanere chiusi nei suoi sogni.

«Incredibile…» disse con falso entusiasmo, alzando gli occhi al cielo.

«Uffa, Ann!» la rimproverò Krissy «Datti una mossa, sei già in età da marito! Se non ti sbrighi resterai zitella!» dunque corse via.

Stava fremendo per andare a conoscere quel benedetto straniero. La mora, con un sospiro, la seguì accelerando.

 

«La casa della signora Dalia?!» l’esclamazione sorpresa e improvvisa fece spaventare un povero gatto che stava placidamente appollaiato sui gradini di una casa. Infastidito, se ne tornò dentro.

«Sì, sembra che i figli gli abbiano dato il permesso.»

Ann guardava Krissy contrariata. La vecchia signora Dalia era morta da qualche anno, e la sua casa non era stata toccata. Si trattava di una piccola catapecchia – come tutte quelle di Hidel -, ancora in buone condizioni. Un po’ piccola forse. A quanto pareva sarebbe stata la residenza dello straniero per un po’. A Hidel non c’erano locande che offrivano vitto e alloggio, c’era una sola taverna che ogni sera ospitava gran parte degli uomini del paese. Era strano che i figli della signora Dalia avessero accettato di prestare la casa a un totale sconosciuto.

Giunsero presso l’abitazione. Stava quasi per cadere a pezzi, probabilmente ci sarebbe stato da restaurare. Era abbastanza vicina alla grande foresta, in una zona isolata di Hidel dove l’unica padrona era la neve. Neve ovunque: sul letto, sulla ringhiera in legno, sulle scale che permettevano di raggiungere la porta, sui rami del grande e spoglio albero che distava dalla casa sì e no dieci metri, sul sentiero ormai invisibile che congiungeva la casa al resto del villaggio poco lontano. Insomma, un posticino alquanto desolato. Non si sarebbe offeso, quello straniero?

«Krissy, scusa la domanda ovvia, ma come faremo a parlare con questo tizio? Hai già in mente una scusa per attaccare bottone?» domandò Ann, ancora scettica riguardo il “piano” dell’amica.

Confermando i suoi sospetti, la rossa rispose «In realtà no…»

«Mi sembrava ovvio…» il morale già basso della giovane ora rasentava terra. Perché aveva accettato di seguire l’amica? Forse perché era l’unica ragazza in tutto quel paesino che teneva davvero a lei, ma in fondo… Cioè, cosa diavolo ci facevano loro due fuori da quell’abitazione? Avevano entrambe moltissime cose da fare, e non potevano permettersi di perdere tempo con un tizio qualsiasi. Possibilmente le dicerie sulla bellezza dello straniero erano bugie, e si sarebbero trovate davanti a un montanaro rozzo e antipatico.

«Io me ne torno a casa.» decretò  Ann.

«No!» esclamò l’altra, tentando di fermarla. La prese per un braccio «Non abbiamo fatto questo viaggio per fermarci a un passo dall’obiettivo! Ti prego!» tentò ancora di convincere l’amica. Con tutta la forza di cui era dotata cercò di tirarla indietro, ma Ann, ragazza fortissima di natura nonostante l’esile corporatura, avanzava senza problemi, trascinando dietro di sé la povera disperata.

«Me l’hai promesso!»

«Non ti ho promesso nulla, e la sarta mi sta aspettando.»

Annlisette non era certo il tipo che demordeva una volta deciso qualcosa e non sarebbe stata Krissy a farle cambiare idea, non quando già sapeva che una volta tornata a casa avrebbe ricevuto una bella lavata di capo per il ritardo. Continuò a strascicare la piccola e debole amica, sbuffando.

«Aaaaaaann  provò infine la rossa, disperando di ricevere un po’ di attenzione dall’altra. Rassegnata, cercò di strattonarsi dalla presa di ferro che inizialmente doveva essere lei a fare su Ann, ma che alla fine era stata Ann a fare a lei. Si tirò indietro, maledicendo la sua debolezza, mentre sul suo viso compariva un’espressione affaticata. L’altra, intanto, ridacchiava, fiera di essere riuscita a far cambiare idea a Krissy. Era un’inutile perdita di tempo, nient’altro.

Con somma sorpresa della mora però, la rossa riuscì a strattonarsi con un’improvvisa potenza che le fece perdere l’equilibrio; per un attimo si ritrovò dondolante su un piede solo, scivolando poi rovinosamente. Chiuse gli occhi aspettando di sentire il solito dolore che si prova quando si cade sulla neve dura e fredda. Ma questo non arrivò.

«Attenzione, mademoiselle

«Uh?» rendendosi conto di essere stata presa al volo da qualcuno, Ann aprì piano gli occhi. Sentiva freddo sì, ma probabilmente le era trasmesso dai vestiti della persona che l’aveva sorretta. Infatti la prima cosa che vide rimettendo a fuoco il mondo fu la veste nera sulla quale era atterrata, una specie di mantello. Alzando lo sguardo quasi le venne un colpo. Incontrò due sconosciuti occhi di un celeste simile a quello del cielo, tanto era chiaro. Ann sbatté le palpebre due volte per assicurarsi di vederci bene. Un giovane uomo che mai aveva visto la teneva per le spalle,  gli era caduta addosso. Lui, da sotto un ribelle ciuffo biondo, le sorrise tranquillamente «Tutto bene, milady?»

Ann attese qualche secondo per riprendersi del tutto da quel momento di disorientamento, quindi, senza nemmeno pensare, chiese «E tu chi diavolo sei?»

Probabilmente, il primo pensiero che attraversò la mente dello sconosciuto fu che fosse una maleducata. Ma non lo diede a vedere. Il sorriso tranquillo non abbandonò il suo viso, anche se alzò un sopracciglio guardandola un po’ interdetto «Direi che state bene.» scherzò. La rimise in piedi, e Annlisette si ritrovò accanto a Krissy, la quale continuava a far scorrere lo sguardo veloce, guardando prima l’amica e poi il biondino, imbarazzata.

Solo allora Ann realizzò che si trattava del famoso straniero. Si pentì per un attimo di avergli rivolto quelle parole davvero poco gentili, ma fu solo un attimo, lo stesso attimo che le servì per notare il sorriso beffardo che esibiva.

«Cos’è? Ironia?» lo attaccò, squadrandolo da capo a piedi. Non poteva negare che non fosse un bell’uomo, anche se si portava molto male. Notava le occhiaie abbastanza marcate di chi passa le notti sveglio, il viso un po’ scavato, i capelli molto disordinati. Non doveva passarsela tanto bene, eppure aveva un’aria intellettuale, forse un po’ misteriosa a causa di quella cappa nera svolazzante così in contrasto con la neve chiarissima. Peccato per quella risatina canzonatoria.

Voleva forse prenderla in giro?

«E’ maleducazione non rispondere alle domande.»

Lo straniero rise mettendo le mani in tasca. Era davvero molto alto. Un metro e ottanta – forse addirittura di più - contro il metro e sessanta di Ann «Potrei rispondervi la stessa cosa, milady.» la riprese serenamente, inchiodandola con le parole «Soggiungendo che è buona educazione dare del Lei alle persone più anziane» non sembrava stargli particolarmente simpatica «ma non lo farò.» affermò infine, avvicinandosi alle due ragazze minute.

Piegò il busto in un inchino prendendo con delicatezza prima la mano di Ann e baciandone il dorso, quindi fece lo stesso con quella di Krissy, ancora frastornata. Quindi si rialzò «Perdonate la scortesia. Il mio nome è Nathan Metherlance, incantato.»

«Kris…» Krissy faceva persino fatica a parlare. Lo straniero doveva averla messa in fortissima soggezione. Non che fosse una grande impresa.

«Krissy Scottfish.» disse, per poi nascondersi dietro Ann, troppo timida per aggiungere altro.

Il biondino la guardò di sbieco, sembrava chiedersi se avesse sbagliato qualcosa. Dunque tornò ad osservare Ann, che nel frattempo si era abbassata prendendo i lembi della gonna con le mani, improvvisando un formale inchino che le riuscì abbastanza male.

«Annlisette Nevue, perdonate la maleducazione, messer Metherlance, mi avete colta di sorpresa. Vi ringrazio della gentilezza nell’evitarmi una brutta caduta.» sembrava completamente diversa dalla Ann schietta e quasi irriverente di poco prima. Ma lei era fatta così, quando la situazione lo richiedeva sapeva mettere da parte la sua franchezza quasi aggressiva.

«Non scusatevi, milady Nevue. Piuttosto… avete bisogno di aiuto?» chiese allora gentilmente Nathan, muovendo un passo in avanti «Sono nuovo, sì, ma mi sembra che qui tutti si diano una mano, e non voglio essere da meno.» mise una mano dietro la testa «Il problema è che non so da dove cominciare…»

«Ehm…» Ann cercò un qualche modo per togliersi dai piedi quel tipo che le stava già abbastanza antipatico. La cosa assolutamente da non fare era parlare della sarta…

«Beh, dovremmo passare dalla sarta…»

L’occhiata carica di stizza che la mora lanciò all’amica fece raggelare quest’ultima, la quale si nascose ancor più dietro di lei.

«Credi che non sappia portare un po’ di stoffa da sola?» chiese con tono offeso.

«Ma… ma…. Ecco, io…» provò a scusarsi l’altra, ma infine, capendo che era meglio tacere, sospirò dopo aver mosso un passo indietro.

Davanti a loro intanto, quasi avesse capito il problema, messere Metherlance si tirò indietro annuendo «Lady Nevue sembra una persona molto forte. Ma se doveste avere bisogno di aiuto sapete dove trovarmi.»

Infine sorrise loro «Ora vogliate perdonarmi, sono arrivato stamane e ho ancora molte cose da sbrigare.»

«Non ne dubito.» riprese Ann con nonchalance, distogliendo da lui lo sguardo «Immagino che ci vedremo stasera a cena.»

«Di grazia?» lui parve un po’ confuso da quell’affermazione.

«Qui a Hidel…» spiegò placidamente la mora «abbiamo l’usanza di cenare tutti insieme nella sala maestra, una sala molto grande che viene usata anche per le riunioni cittadine.» tornò a guardare il biondino, sorridendo di sottecchi «Immagino che il capo villaggio organizzerà qualcosa in vostro onore, messere. Lo fa sempre.»

«Capisco.» Nathan mise una mano sotto il mento, riflettendo su ciò che gli era appena stato detto. Infine tornò a sorridere alle due «Allora ci vedremo stasera. Spero di non perdermi.» scherzò, suscitando una risatina appena accennata nelle ragazze «A stasera.» chinò il capo in segno di saluto, quindi si allontanò.

Quando scomparve dentro casa, Ann guardò Krissy di sbieco «Sei soddisfatta, ora?»

«Sìiiiii!» esclamò allegra la rossa, saltando fuori dal suo nascondiglio. Prese le mani dell’amica «Prova a dirmi che non è un…»

«Saccente, elegantone, montato e antipatico?» la interruppe Ann «Sì, lo è.» quindi prese a camminare in direzione del negozio della sarta. Era in ritardo. Krissy la seguì protestando contro le accuse della mora, e in breve sparirono tra il bianco della neve e le figure delle  case.

Fu proprio allora che, fissando con insistenza il punto in cui la coltre bianca aveva inghiottito le due giovani amiche, l’uomo tornò sui suoi passi.

Nel bianco della neve, il suo mantello nero svolazzava freneticamente, portato in volo dalla brezza invernale.

Il sorriso tranquillo e pacifico di messere Metherlance non sembrava voler abbandonare il suo volto, e lo stesso messere Metherlance non sembrava voler abbandonare Hidel. Si sarebbe trovato bene lì. Lo sapeva.

Lo sentiva. 

 

Note dell’Autrice:

Un calorosissimo benvenuto a tutti i lettori! Alcuni – pochi – già conoscono Ann e Nathan, ma alla maggior parte di voi sono nuovi personaggi, magari molto strambi o curiosi. E io? Mi presento. Sono Sely, e Snow è il mio secondo racconto lungo, ma il primo che pubblico in questa sezione.

Un paio di informazioni su questa storia.

What colour is the snow?” nasce dall’esigenza della sottoscritta di dare voce a un background di un personaggio di GdR by forum, per l’appunto Ann. Nathan, che inizialmente era solo un’ombra del passato di Ann, ha prepotentemente assunto non solo il posto di co-protagonista, ma anche un’altezza notevolissima nella scala dei miei pg. Ci sarà da ridere, sì. Ma non partite dal presupposto che vi trovate davanti a una coppia di Mary e Gary Sue, le apparenze ingannano, e andando avanti nella storia la vera, crudissima faccia dei nostri protagonisti verrà fuori.

What colour is the snow?” è continuamente soggetto ad aggiornamenti – lenti, lentissimi – e modifiche che, me ne rendo conto, possono urtare un lettore. Ciò che vi chiedo, se siete così volenterosi da buttarvi nella lettura della storia, è tanta pazienza e buona volontà. In cambio mi impegnerò per rendere questa storia accattivante! :)

La storia è betata da Kikyo-sama, che mi dà sempre ottimi consigli riguardo la trama, e da VeganWanderingWolf, gentilissimo e simpaticissimo – oltre che fantastico scrittore *invidiosa* - collega.

Dopo innumerevoli betaggi  - betaggi? Esisterà? -, il primo capitolo di Snow va finalmente online in versione – si spera – definitiva.

 

Non ho altro da dire, se non… benvenuti a Hidel. E attenti ai fantasmi.

Sely.

 

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Capitolo 2
*** L'etica del riccio ***


What colour is the snow

What colour is the snow?

- Capitolo 02: L’etica del riccio -

 

Secondo una vecchia e poco conosciuta leggenda, Hidel prendeva il suo nome da una montagna le cui caverne, nel lontano 1555, erano state fonte di rifugio per i protestanti in fuga dalle persecuzioni operate dalla regina Mary I.

In seguito alla successione alla corona da parte di Elizabeth I, alcuni dei sopravvissuti avevano eretto nella valle antistante al monte un piccolo villaggio che ne portava il nome.

Hidel si era sempre mantenuto esiguo, poco noto, così disperso in mezzo alla bianca neve che lo ricopriva quasi tutto l’anno.

Per portare avanti la discendenza, come in ogni piccolo paese, i villici si erano dovuti arrangiare tramite relazioni a distanza o, sebbene più raramente, con le famiglie che giungevano nel villaggio con l’intenzione di trasferirvisi. Quando questa fortuna non si presentava, venivano ad intrecciarsi alberi genealogici che già precedentemente si erano conosciuti.

Principalmente artigiani e mercanti, durante la stagione calda si improvvisavano contadini. Per secoli il villaggio era riuscito a mantenersi sulle sole gambe dei suoi abitanti, che ogni sera avevano l’abitudine di ritrovarsi nella grande sala comune, detta Sala maestra – la quale sorgeva esattamente al centro del villaggio -, per cenare tutti insieme. Ogni famiglia portava il cibo per sé da casa, si mangiava e parlava fino a un’ora dopo il tramonto, quindi si tornava a casa.

Questa tradizione era dettata principalmente da due fattori: un bisogno psicologico che imponeva a quella povera gente lontana dal mondo di stringersi tutti insieme attorno ad un unico focolare, e il reale pericolo costituito non solo dai famelici lupi che ogni notte, specialmente durante la stagione fredda, si addentravano nel villaggio, ma anche da ben altri pericoli di cui la gente si rifiutava di parlare apertamente.

Stando tutti insieme, i paesani si illudevano di poter fronteggiare anche il peggior nemico.

Il peggior nemico per essi era la strega che secoli prima aveva dettato la legge più importante che governava quel luogo: non lasciare il villaggio. Ma questa è un’altra storia che tratteremo più avanti.

Una delle caratteristiche più particolari del paesino era la sua forma circolare: alcuni l’avevano attribuita a una sorta di cerchio alchemico o magico, ma con l’andare del tempo le voci si erano dissolte nell’aria, e nessuno seppe più la verità.

Una verità che ben presto sarebbe tornata dalla tomba, per portarci dentro quegli ignari villici.

 

Una meraviglia, nient’altro da aggiungere. Una casa accogliente, calda e sicura. Beh, forse non era esattamente sicura, infatti le pareti non erano delle migliori, perdevano qualche pezzo e di tanto in tanto si intravedevano piccoli buchi, me era pur sempre una casa! E, in ogni caso, la sicurezza di una dimora non era data tanto dalla forza di quest’ultima, quanto piuttosto dalla forza di chi l’abitava. In questo caso, quella era una casa mediamente sicura.

Tralasciando questi inutili discorsi sulla sicurezza… non si può di certo dire che Nathan Metherlance non si stesse abituando molto in fretta allo stile di vita del villaggio.

Aveva passato mezza giornata ad Hidel, ma già conosceva quasi tutti, girava tranquillamente per il paese salutando e aiutando chiunque ne avesse bisogno. Insomma, un bravo ragazzo, ecco come era stato immediatamente additato. Da sotto il suo ciuffetto biondo, sorrideva con gli occhi. Gioviale, allegro, piaceva a tutti.

Ma non ad Annlisette Nevue, e l’antipatia era ricambiata. Se da un lato la giovane contadina considerava lo straniero troppo montato per scendere in mezzo ai comuni mortali, dall’altro lo straniero si chiedeva che cosa avesse fatto di male, che cosa avesse mai sbagliato per ricevere un trattamento così freddo da una ragazza con cui aveva parlato solo due volte.

Già, perché i due si erano rincontrati una seconda volta durante quella giornata. Del resto Hidel era talmente tanto piccolo ed i posti dove andare talmente pochi da rendere impossibile il non vedersi una media di due o tre volte al giorno con tutti.

Sicuramente Annlisette non era rimasta felice del loro secondo incontro, soprattutto perché in questa occasione la ragazza non era stata da sola, bensì col fratello. Costui, da quanto aveva capito Nathan, si chiamava Gabriel. Avevano più o meno la stessa età, ma erano di carattere ed aspetto completamente differenti.

L’uno castano, piuttosto basso ma forte sia caratterialmente che fisicamente, molto schietto e diretto, a volte anche burbero; l’altro invece alto e biondo, gentile e volenteroso, per non parlare delle buone maniere che già erano diventate il suo biglietto da visita. In breve, tra i due non era corso sin da subito buon sangue. L’unica cosa che i due avevano in comune era la giovane Ann, la quale però era dalla parte del fratello. Ed era cosa ben strana, in quanto quasi sempre Ann e Gabriel erano in disaccordo. Rarissime erano infatti le volte in cui i due potevano dirsi concordi su qualcosa. Ma i fratelli erano accomunati dall’antipatia verso il biondo straniero, il cui gentile sorriso aveva la strana abitudine di trasformarsi in canzonatorio solo per loro.

Ann non aveva a cuore tale esclusiva.

«Ma che bello… Ci incontriamo di nuovo.»

Queste erano le uniche parole che la ragazzina era riuscita a proferire nel momento in cui si era ritrovata faccia a faccia con Nathan. Il suo falso entusiasmo era talmente tanto ovvio da essere quasi palpabile.

Dal canto suo, Nathan sapeva benissimo che il suo sorriso mandava in bestia Ann. Dunque, ovviamente, non la smetteva di sorridere.

«È destino, lady Nevue…» aveva risposto di rimando, sottile.

Si trovavano davanti alla vecchia e fatiscente bottega del falegname, a sud del villaggio. Ann era lì per far aggiustare una grande e pesante cesta che, a detta sua, era stata mezza mangiata dai ratti.

«Ratti? Come fanno a sopravvivere con queste temperature?» aveva chiesto con fare sorpreso l’uomo, aiutandola  a portare il cesto ora più pesante a causa delle varie cose comperate.

«Ma in casa c’è caldo.»

Ann sorrise candidamente. Nathan, evidentemente preso in contropiede, non rispose, limitandosi a guardarla come si guarda qualcosa di molto strano. Si divertiva davvero così tanto a prenderlo in giro? O forse era una cosa che faceva con tutti?

La cosa non sembrava importare in realtà all’uomo, che si limitava a scortarla in silenzio.

Nel frattempo si guardava intorno, alla ricerca di continui punti di riferimento che lo potessero aiutare ad abituarsi alla geografia del villaggio.

La bottega del falegname, ad esempio, era particolarmente anonima: una casupola fatiscente, simile a quella che gli era stata prestata; dalla porta in vecchio legno perennemente aperta, quasi il muscoloso e bisbetico proprietario avesse smesso di soffrire il freddo ormai da tempo immemorabile, si udiva forte e chiaro il continuo e meccanico segare e tagliare e martellare.

Questa considerazione portò lo straniero a credere che avrebbe fatto meglio ad affidarsi soprattutto all’udito e all’olfatto finché restava a Hidel.

Si guardò intorno, e l’unica cosa che vide, tanto per cambiare, fu il pesante mantello bianco dell’inverno coprire uniformemente il marrone di quelle che per lui erano baracche.

«E voi, messere Metherlance?»

La vocina squillante di Ann lo ridestò dai suoi pensieri; alzò lo sguardo sulla fanciulla vestita di blu, e solo allora ricordò che per seguirla doveva muoversi, e che per muoversi doveva allungare prima una gamba e poi l’altra, e non perdersi nei suoi pensieri.

Una domanda ambigua, quella che gli era stata posta; una domanda facilmente raggirabile. Come lasciarsi scappare questa occasione d’oro?

Nathan piantò i piedi per terra, poi fece un mezzo sorriso come se stesse per rivelarle un grande segreto.

«Io vi seguo con costanza.»

Ann arrestò il suo incedere veloce ormai reso istintivo dall’abitudine, alzando poi un sopracciglio per guardarlo malissimo. Lo squadrò da capo a piedi, come a volerlo trapassare da parte a parte con un’occhiata di fuoco.

«Ovviamente, milady. Non so dove abitate.»

Metherlance inclinò il capo mantenendo quell’espressione beatamente infantile. L’aveva fregata. Uscendo poco prima dalla vecchia falegnameria lui si era offerto di aiutarla a portare a casa il pesante carico, e, non sapendo dove la ragazza abitasse, si era limitato a seguirla.

Ann invece aveva frainteso, cadendo in errore.

«Intendevo dire… come mai dal falegname?» si corresse la giovane contadina dal tono ora stizzito. Diede le spalle a Nathan, trattenendosi dal pestargli un piede. Tuttavia un sorriso le scappò. Doveva ammettere che quell’uomo era bravo con le parole, forse aveva trovato un degno rivale. E quella piccola dimostrazione di furbizia valse a far crescere l’esigua stima che la ragazza provava per lui.

«Dovevo rendere il martello al falegname. Me l’aveva cortesemente prestato per apportare alcune sistemazioni alla dimora che mi avete gentilmente dato in prestito.» sorrise ancora una volta lui, senza staccare gli occhi dalla strada che percorrevano.

Ann sbuffò, rimangiandosi tutto quello che aveva pensato fino a poco prima. Non solo usava frasi ambigue, non faceva altro che sorridere, ma addirittura metteva in mezzo a discorsi complicati un sacco di termini che lei conosceva a malapena. Si sentiva inferiore, ed era una cosa che il suo immenso orgoglio le faceva disprezzare.

«Avete un linguaggio troppo colto, messere, per una povera contadina…»

«Non dite così, milady.» ridacchiò allegramente lui. Alzò finalmente lo sguardo per incontrare i suoi occhi, ed Ann sentì l’impulso di prenderlo a pugni.

Quando avrebbe smesso di sorridere in quel modo?

«Vi prego, l’abito non fa il monaco, probabilmente avete ragione riguardo la questione del lessico, ma ciò non implica che voi non possiate imparare e raggiungere il mio livello di competenza linguistica, e chissà, forse addirittura superarlo. Dopotutto, il mondo è fuori da Hidel.»

«… Eh?»

Ann si bloccò, voltandosi a guardarlo come se avesse parlato un’altra lingua «Perché mi dite cose del genere, messere?» non capiva il senso di quel discorso. Dove voleva arrivare con quella frase su Hidel?

Nathan si fermò, incatenando con lo sguardo la ragazza. Lui aveva quel potere di riuscire a catturare talmente tanto l’attenzione da farti dimenticare tutto il resto. Un potere che la ragazzina aveva già sperimentato due volte, e che davvero non le piaceva. Nonostante ciò, non poteva certo negare che lui avesse dei bellissimi occhi.

«Andare oltre, milady. Nella vostra voce avverto un pizzico di rassegnazione.» si spiegò meglio il biondino, dando un piccolo calcio alla neve che faceva da sfondo alla scena «Non vorrei che vivere in un piccolo villaggio vi avesse fatto rinunciare alle vostre prospettive future. Capita spesso in situazioni simili. Brutta cosa, nascere nei villaggi come questo.»

Alzò lo sguardo al cielo, contemplando quel poco di azzurro che si poteva intravedere attraverso il bianco e grigio strato di nubi onnipresente, liberando Ann dall’incantesimo degli occhi.

«Non bisogna mai arrendersi alle avversità del fato.» decretò infine, con voce bassa, seriamente convinto di ciò che diceva.

Qualche secondo di assoluto silenzio passò, durante in quale Ann guardò Nathan come si guarda un pazzo. Non aveva capito niente di quel che il ragazzo le aveva appena detto, e non aveva la più pallida idea di cosa rispondere per togliersi da quella situazione imbarazzante.

Però una cosa l’aveva capita: le aveva consigliato di andarsene da Hidel perché credeva che lì dentro non avrebbe avuto futuro.

“Innanzitutto con che coraggio si azzarda a dirmi che me ne devo andare da qui? Arrendersi alle avversità del fato? Lo dice come se fosse una disgrazia essere nati qui! Ma guarda che… che pallone gonfiato!” pensò tra sé e sé, pronta a saltargli addosso per fargli rimangiare tutto.

Strinse i pugni e gonfiò le guance, come ogni volta in cui la stizza prendeva il sopravvento. Si costrinse a concentrarsi sul paesaggio intorno a loro pur di calmare l’adrenalina che le circolava in corpo.

Lanciò sguardi poco attenti alle case di legno, alle insegne dei negozi sbiadite dal tempo. Notava solo ora che il grande albero accanto al magazzino delle scorte comuni sembrava più smorto, probabilmente qualche folata di vento più forte durante l’ultimo temporale aveva rotto diversi rami che ora giacevano a terra, abbandonati sulla neve. Quella visione le diede un forte senso di solitudine che la fece calmare, ma che le mise addosso anche un po’ di malinconia.

Forse Nathan aveva ragione quando diceva che lì ad Hidel, in fondo, erano tutti abbandonati, proprio come quei rami. Probabilmente nella capitale nemmeno conoscevano quel paesino di nome Hidel.

Nathan tornò a guardarla. Attirò l’attenzione di lei schiarendosi la gola.

Ann lo accontentò, lasciando correre gli occhi dai rami di poco prima alla sua figura che, stavolta, aveva qualcosa di strano, di diverso. Sorrideva, sì, ma non era la solita espressione beffarda che lei avrebbe volentieri cancellato a suon di pugni, piuttosto pareva venato di sincero rammarico.

«Vogliate perdonare la mia sfrontatezza, lady Nevue. Non vi conosco, ergo non ho diritto di esprimere giudizi affrettati.» e tornò a guardare la strada, aspettando che Ann lo guidasse.

“Che ha fatto? Mi ha letto nel pensiero… ?” pensò la ragazzina, sospirando per poi scuotere lentamente il capo. Quell’uomo l’avrebbe fatta impazzire. Un attimo prima sembrava convinto di ciò che diceva, l’attimo dopo si scusava e si rimangiava tutto, neanche avesse avvertito la sua rabbia e la sua tristezza!

 «Spero di non avervi ferita in alcun modo.» concluse lui.

Ann, forte del suo orgoglio, mormorò un seccato «Per stavolta vi perdono…» 

Quando tornò a guardarlo, notò che il suo solito sorrisino da strapazzo aveva lasciato spazio a un’espressione davvero triste.

Le si strinse il cuore. Davanti a quello sguardo malinconico si sentì responsabile, e abbassò il suo.

«Non pensiamoci più…» riuscì a dire, nella speranza di vederlo tornare più sereno, ma ciò non avvenne, quindi riprese a camminare verso casa, guidando il ragazzo che portava la cesta.

Durante il tragitto nessuno dei due aprì più bocca. La ragazza credeva di averlo in qualche modo intristito. Non aveva capito assolutamente dove Nathan Metherlance volesse arrivare con le cose che le aveva spiegato, forse ciò lo aveva in qualche modo innervosito o qualcosa del genere, sicuramente lo aveva toccato.

Ma lei non poteva farci niente, e continuava a ripetersi che non era colpa sua. Lui se l’era cercata.

Raggiunsero in fretta l’abitazione della ragazza, una casa vecchia come tutte quelle di Hidel, organizzata su due piani. Da fuori, essa appariva scura e poco curata, tanto che Nathan la guardò accigliato.

Davanti alle scale che conducevano alla porta d’ingresso, Gabriel attendeva il ritorno della sorella, seduto sui gradini. Non appena vide sopraggiungere Ann accompagnata da uno sconosciuto scattò in piedi, avvicinandosi con passo veloce ai due.

Scoccò uno sguardo torvo a Nathan, chiedendosi chi accidenti fosse quel biondino che seguiva sua sorella portando in mano la cesta della madre Elizabeth.

«Mi sono perso qualcosa?» chiese alla sorella, molto più bassa di lui, che dovette alzare di molto il capo per guardarlo in faccia.

Ann mise una mano sotto il mento, come per pensare, quindi rispose scuotendo il capo «Uhm… no.»

«Ehm…» Gabriel la guardò truce, quindi indicò Nathan «A meno che qui i bambini non nascano adulti, costui è nuovo.» quindi si allontanò dalla sorella con un “bah”.

Avvicinandosi al biondo, gli porse una mano «Gabriel Nevue.»

Nathan, tra lo stupore dei due fratelli, liberò una mano dal peso decisamente grave della cesta, sostenendola con una mano sola, mentre con l’altra andava a stringere quella di Gabriel.

«Nathan Metherlance, e non sono nato adulto.»

Quell’affermazione, che doveva forse essere una battuta, bastò a suscitare l’antipatia di Gabriel. Non solo si presentava con la sua sorellina, in più lo prendeva in giro?

«Ma sono arrivato oggi qui, a Hidel.»

«Ah, ora si spiega tutto.» annuì il contadino, facendogli poi cenno di dargli la cesta «Beh, grazie dell’aiuto che hai dato a Annlisette, da sola si sarebbe sicuramente fatta male, e io non ho potuto accompagnarla.»

«Non è vero!» esclamò Ann stringendo i pugni davanti al viso, arrabbiata «Non sono debole!»

«Aiutare una giovane in difficoltà è un mio dovere.»

Nathan sorrise, e pian piano passò la cesta a Gabriel, il quale in un primo momento ebbe qualche difficoltà ad alzarla, ma subito dopo riuscì a recuperare l’equilibrio. La teneva ben stretta con entrambe le braccia.

Si rivolse a Nathan, chiedendosi come diavolo avesse fatto a tenerla con una mano sola «Visto che sei nuovo dovrei farti conoscere la nostra famiglia, nostro padre si occupa di molte cose nella gestione del villaggio, quindi, se devi restare qui per un po’, è necessario che tu lo conosca. Vieni, entriamo in casa.»

Il biondino annuì, annotando mentalmente che doveva rivolgersi al padre di Ann in caso di necessità. Sorrise placidamente in direzione di Ann, la quale gli si era accostata guardandolo dal basso verso l’alto. Nella sua mente la figura di quell’uomo era sempre più confusa.

La porta di casa Nevue non fece rumore mentre si apriva, cosa molto gradita a Nathan, che non aveva mai sopportato le porte scricchiolanti. Entrando in casa si veniva investiti da un calore meraviglioso, talmente tanto intenso che per un attimo il ragazzo pensò seriamente di togliersi quel mantello talmente pesante da risultare quasi insopportabile stando là dentro.

Ann lo superò sulla soglia, correndo al piano di sopra per una rampa di scale dall’aria molto vecchia e poco sicura, di fronte alla porta d’ingresso. Sentendosi un po’ fuori luogo, il giovane uomo cercò di non guardarsi intorno per non dare l’impressione di essere il ficcanaso di turno.

«E questo chi è?»

La voce colse di sorpresa Nathan, che per poco non sobbalzò. Era un timbro potente, di un uomo maturo, profondo e serio, ma anche molto burbero. Voltandosi verso destra, i biondino poté trovare risposta ai suoi interrogativi. Si trattava davvero di un omone alto molto più di lui, dalle spalle larghe e i muscoli di un contadino, con una camicia consumata dal tempo ma ancora ben resistente. Aveva uno sguardo buono, severo sì, e anche molto scocciato, ma i suoi occhi trasmettevano uno strano senso di sicurezza. Anche se quei baffoni neri poco curati non davano propriamente un tocco di classe…

Era il padre di Ann, ovvio. Ora capiva da chi doveva aver preso la moretta tutta quella schiettezza e franchezza quasi irriverenti.

Nathan piegò il busto in un decoroso inchino, chiedendosi come avesse fatto a finire in quella situazione. Come poteva Ann portare tutti questi guai?

Si rimise dritto per poi prendere la parola «Ossequi, messere Nevue. Il mio nome è Nathan Metherlance, sono giunto a Hidel stamane...»

«È nuovo, vecchio.» lo interruppe Gabriel.

Nathan accennò un sorriso sentendo il ragazzo rivolgersi a suo padre chiamandolo “vecchio”.

«Siccome starà da noi per un po’, ho pensato di presentartelo.» Gabriel si allontanò tenendo ancora in mano la cesta «Ha portato fin qui la cesta per aiutare Ann.» aggiunse infine, scomparendo nella stanza affianco.

«Ah, mi avevano parlato di un giovane uomo arrivato da poco.» riprese con tono serio messere Nevue, avvicinandosi a Nathan e porgendogli la mano.

«Lazarus Nevue, nel villaggio mi occupo delle lamentele. Se c’è qualcosa che non ti piace, dillo a me e troveremo una soluzione insieme.»

«Ah… grazie della disponibilità, messere Nevue.»

Nathan strinse con vigore la mano del padre di Ann. Era una situazione un po’ strana, sembrava una di quelle scene in cui il fidanzato della ragazza si presenta al padre di quest’ultima. Per fortuna non era finita con la classica “buttata fuori a calci” del pretendente. Anche perché Nathan non era assolutamente un pretendente di Ann, e nella sua mente la reputava piuttosto acida. E probabilmente non lo sarebbe mai stato, si disse, dopo aver conosciuto quell’enorme gigante dalla mano forzuta che si proponeva di aiutarlo a risolvere i problemi insieme. Non voleva sapere in che modo.

«Cosa ti porta nelle ghiacciate Lande senza nome, ragazzo?» chiese allora l’uomo, facendo cenno a Nathan si sedersi al tavolo al centro della cucina assieme a lui.

Compostamente, lo straniero fece come gli era stato detto, rispondendo nel frattempo «Ricerche, messere. Vivo a Terren, sono un ricercatore. Hanno detto che da queste parti si trovano delle rovine piuttosto interessanti, così mi sono catapultato alla prima occasione.»

«È vero.» confermò Lazarus «A nord, in mezzo ai monti. Ma è un luogo pericoloso.»

Abbassò la voce, stava parlando di qualcosa di molto serio «Devi sapere che Hidel sorge sul territorio di un branco di lupi molto famelici. Ogni tanto vengono di notte, sbranano qualcuno e se ne vanno. Quando riusciamo li cacciamo, ma sono spaventosi. Molto, molto più forti dei normali lupi.» notando una reazione confusa da parte di Nathan, si affrettò a spiegare «Crediamo che discendano da qualche branco giunto dalle montagne all’estremo nord, quelle che costeggiano il mare. Lì sopravvivere è molto difficile, penso che abbiano sviluppato nel corso delle generazioni una forza particolare. In realtà la cosa non mi è mai interessata più di tanto. Qui vige la legge del più forte: vivi o sopravvivi, ragazzo, o crepa.»

«Capisco…» il biondo capiva davvero: trovarsi davanti il branco significava morte, ma cominciava seriamente a chiedersi quanto fosse sicuro anche rimanere in compagnia di messere Nevue.

«E il luogo delle rovine è terreno di caccia?» davanti al cenno affermativo del padre di Ann, Nathan portò una mano al mento, pensando «Allora dovrò attrezzarmi per bene. Sono qui per quel luogo, non posso tornare a mani vuote o rischio di peggio dello sbranamento!»

Nathan ridacchiò, ma Lazarus non sembrava altrettanto propenso al risolvere quella complicata situazione con un battuta.

«Vedremo di trovare qualcuno abbastanza coraggioso da accompagnarti.» assicurò il contadino.

«No, messere, assolutamente no.»

Il biondo cambiò totalmente tono e alzò gli occhi, inchiodando il padre di Ann. Chissà se quella strana magia funzionava anche su un uomo forte e vecchio come Lazarus? A quanto pareva qualche effetto lo aveva, infatti riuscì a zittirlo «Non voglio coinvolgere nessuno in questioni pericolose. Non mi perdonerei mai se dovesse accadere qualcosa ad altri per colpa mia.»

L’altro lo fissò intensamente, forse mettendo a disagio Nathan, per qualche secondo.

Infine, con timbro serio, acconsentì «Come vuoi.»

Nathan sembrava preso dai suoi pensieri e congetture, forse stava pensando a come giungere alle rovine da solo senza rimetterci la pelle. Che gente strana arrivava lì a Hidel.

«Ma ti avverto che quelle vecchie pietre sono piene di scritte in latino. Qui nessuno lo conosce, anche se mia figlia è un’appassionata e lo studia per i fatti suoi da qualche tempo.»

«Di questo non deve preoccuparsi, messere.» intervenne il biondo con un sorriso «Conosco il latino come le mie tasche.» e davanti alla evidente curiosità di messere Nevue, che gli strappò una risata, si affrettò a spiegare «Ho detto che vivo a Terren, ma sono nativo di Arkata, una cittadina nella provincia di Francoforte. Ho avuto la fortuna di essere cresciuto presso una corte dove la conoscenza del latino era obbligatoria.»

Lazarus parve pensarci sopra, alzò gli occhi al soffitto della casa, borbottando «Arkata… mai sentita. Francoforte però mi pare di conoscerla. Uhm… Austria? Francia?»

«Germania.» lo corresse Nathan.

Sul viso dell’uomo moro comparve un sorriso marpione, ed esclamò a gran voce «Quindi abbiamo un “teteskien” tra noi!» e sbatté un pugno sul tavolo.

Il ragazzo biondo per un attimo si vide davvero sotto quel pugno, e, di nuovo, si costrinse a far buon viso a cattivo gioco «J-ja…»

«Devi avere una bella rendita per aver attraversato la Germania e l’Inghilterra per arrivare qui!» continuò messere Nevue, con tono che fece preoccupare lo studioso.

«Beh, ho la fortuna di discendere da una casata di conti abbastanza facoltosa…» provò a spiegare, ma uno sguardo fulminante del vecchio lo costrinse a zittirsi e schiacciare la schiena contro la sedia.

Messere Nevue sembrava sul punto di saltargli addosso e sbranarlo.

«Quindi potresti fare il dongiovanni con la mia bambina?!»

Che cosa aveva capito! Nathan strabuzzò gli occhi: lui che faceva la corte a quella acidissima ragazzina? Né ora né mai!

«Assolutamente no, messere! Non sarebbe decoroso da parte mia!» provò alzando le mani all’altezza del capo, come a volersi sinceramente scusare di qualcosa che non aveva fatto.

L’uomo tornò a sedersi. La quiete dopo la tempesta; Nathan tirò un lunghissimo e silenzioso sospiro di sollievo.

«Mi sembrava.»

La vociona del signor Nevue riportò il silenzio tra le mura dell’abitazione. Nathan, avendo capito di essere scampato a un’orribile morte per un pelo, si chiese in che razza di posto fosse andato a finire.

«Quindi…» riprese il vecchio bisbetico «Puoi fare da solo alle rovine, almeno per quanto riguarda il latino.»

«Cosa?! Sai il latino!?»

La voce di Ann fece irruzione nella stanza. I due uomini si voltarono, cercando la sua figura, ma realizzando poco dopo che la ragazza stava origliando la conversazione dal piano di sopra. Si era tradita con quell’urlo.

«Annlisette!» con tono scocciato, il padre la riprese.

«Sì, lo so!» lo interruppe la ragazzina «Non ascoltare le conversazioni altrui e dai del voi alle persone più grandi. Scusate, messere Metherlance!»

Nathan sorrise forzatamente per l’ennesima volta, rispondendole con tono gentile «Non c’è problema, milady. Comunque sì, come avete appena sentito, conosco il latino.»

«Invidia!» urlò Ann, quindi corse facendo un gran rumore, chiudendosi in camera sua dopo aver sbattuto forte la porta.

Nathan non sapeva più che pesci pigliare. Quella era una famiglia di pazzi!

Lazarus sospirò poggiando i gomiti sul tavolo «Scusala.» mormorò poi, mettendo una mano sulla fronte con fare rassegnato.

«Non ha fatto nulla per cui meriti biasimo.» “Dopotutto la mentalità di una contadina, è normale… credo…” completò la frase nella sua mente.

Doveva abituarsi e capire che quel posto era abituato da contadini che da chissà quante generazioni non abbandonavano il villaggio se non per pochi mesi all’anno, e che quindi erano piuttosto chiusi di mente.

«Quanto avete intenzione di restare?» chiese infine l’omone, lasciando cadere il discorso sulla figlia.

«Uhm…» Nathan tornò nella posizione di prima. Alzò gli occhi al soffitto facendo quattro calcoli e infine riportò lo sguardo sul suo commensale.

«All’incirca un anno.»

«Cosa?! E chi lo sopporta per così tanto!»

Lazarus sospirò, mentre Nathan nascondeva il proprio imbarazzo.

 

Al piano di sopra, intanto, Ann aveva chiuso ancora una volta la porta alle sue spalle, ignorando i rimproveri del padre.

Si gettò sul letto caldo, decidendo di prendersi una pausa dal lavoro. Dopotutto, per completare l’arazzo che durante l’estate sarebbe stato portato dal padre a Terren per la fiera, c’era tempo. Certo, era un processo lungo e difficile, ma era sicura di farcela per la data della consegna. Ora aveva ben altro a cui pensare, ad esempio come convincere quell’antipatico di Nathan Metherlance ad andarsene da Hidel.

Non era la prima volta che Ann intratteneva gli stranieri con inquietanti discorsi sulle cruente leggende di Hidel; non sarebbe stato diverso con messere Metherlance.

Sotto le coperte, al caldo, la ragazzina però si sentiva malinconica. Non riusciva a togliersi dalla mente quell’espressione afflitta di poco prima. Che cosa aveva detto di male? Era uno dei suoi difetti, quello di non riuscire a reggere un’espressione triste maturata per colpa di un suo comportamento.

“Oh, maledetto biondino pieno di te!” imprecò mentalmente rigirandosi tra le lenzuola vecchie e un po’ strappate, agguantandone un lembo col la mano destra.

“Sei arrivato solo oggi e sei già causa di problemi! Che cosa farai in un anno intero?”

Ann sospirò, ma non ne voleva proprio sapere di convivere con quell’antipatico per un anno. Scosse la testa, dopotutto non c’era bisogno che stessero sempre insieme. Sì, era vero che Hidel era troppo piccolo per non incontrare sempre le stesse persone, ma era anche vero che, secondo ciò che aveva detto, sarebbe stato impegnato quasi sempre con le rovine.

E chissà, magari i lupi l’avrebbero sbranato!

Ma quel pensiero non fece affatto ridere la ragazzina, anzi, la intristì ancora di più. Il ricordo dell’espressione affranta di lui non voleva saperne di abbandonare la sua mente, era come una maledizione. Si sentiva davvero in colpa, come ogni volta che si trovava in una situazione simile. Tirò forte sopra di sé il lenzuolo, sentendo freddo.

In quel momento sentì la porta d’ingresso aprirsi. La sua stanza si trovava sopra la cucina, quindi poteva udire tutti i rumori. Finalmente lo straniero se ne stava andando. Tuttavia, curiosa com’era, non poté resistere all’impulso di alzarsi per affacciarsi dalla finestra, aprendola poco. Voleva vedere se aveva ancora quell’espressione.

Il mantello nero del tedesco si distingueva bene, nonostante il marrone delle case e della legna lasciata in mezzo ai sentieri; ancora una volta quell’immagine ricorreva nella sua vita. Sporgendosi un po’ per vedere meglio, notò che teneva le mani in tasca. Doveva essere un vizio, infatti ricordava che lo aveva fatto anche quella mattina dopo averla aiutata. Le dava le spalle, quindi non riusciva a vederlo in faccia, ma voleva comunque tentare.

Si sporse quanto bastava per farsi vedere fino al busto, quindi lo chiamò «Mister Metherlance!» Nathan, sentendosi chiamare, si fermò e si voltò, notando la figura abbastanza lontana della piccola Ann.

«Ci si vede stasera!»

Esclamò la ragazzina, e lui estrasse la mano destra dalla tasca per salutarla con un mezzo sorriso, quindi tornò per la sua strada.

Ann invece tornò al caldo della sua stanza, richiudendo la finestra. Sospirò affranta, ancora non aveva eliminato dal viso quell’espressione malinconica nonostante le avesse sorriso, e lei non poteva fare a meno di chiedersi se fosse colpa sua.

Scivolò sotto le coperte nuovamente, lasciandosi scappare uno stizzito starnuto per il freddo preso poco prima.

“Beh” si disse “più tardi gli porgerò delle scuse. E farà meglio ad accettarle!”

E chiedere scusa per Annlisette Nevue significava perdere la faccia davanti a tutti, almeno nella sua visione di ragazza orgogliosissima. Ma almeno si sarebbe tolta un peso dalle spalle.

«Quanti problemi mi creerai ancora, Nathan Metherlance?»

 

«Quanti problemi mi creerai ancora, Annlisette Nevue?»

Il lamento di Nathan ruppe il silenzio della logora casa.

Richiuse la porta alle sue spalle, appoggiandovisi poi per lasciarsi andare ad un sospiro.

Almeno dentro l’abitazione c’era un po’ di caldo. Fuori, in paese, era quasi impossibile stare troppo a lungo per strada. Avrebbe dovuto procurarsi un mantello più pesante, anche se gli dispiaceva abbandonare il suo vecchio compagno di avventure. Quante ne aveva viste indossando quella cappa nera? Beh, non poteva di certo rischiare il congelamento in quelle benedette lande che persino sulle cartine geografiche non avevano nome.

Scivolando a terra, si sedette sul legno tiepido - incredibile come riuscisse a trattenere il calore -. Aveva lasciato il camino spento, e ora nella casa si respirava aria fredda, anche se di meno rispetto a fuori. Tutto il contrario di casa Nevue.

«Uhm…»

Avrebbe dovuto sistemare la casa? Beh, se davvero intendeva abitarla per un anno questo era il minimo, ma doveva parlarne con i due uomini che gliel’avevano prestata. Era una casetta molto piccola e carina, ma decisamente da restaurare e rendere meno… stalla.

Con un sorriso scoraggiato, Nathan si rese conto che era inutile parlarne. Trovare un’agenzia di restaurazioni a Hidel sarebbe stato un paradosso, era sicuramente più veloce prendere un martello, dei chiodi e mettersi a lavorare.

Eppure, rispetto agli altri tre villaggi di quella zona, Hidel era davvero il più tranquillo e piacevole. O almeno, questa era l’impressione che aveva avuto da quella prima giornata.

Se non fosse stato per quella Annlisette Nevue… 

 

Chissà se avrebbe ricevuto regali per il suo compleanno.

Ma che cosa le importava dei regali in quel momento? Ann scosse il capo, scacciando quei pensieri. Le succedeva sempre così: quando non aveva niente a cui pensare le venivano in mente le cose più assurde e fuori luogo.

In realtà non le importava assolutamente niente di ricevere regali per il suo compleanno, ma non aveva potuto evitare di pensarci, poiché era rarissimo che le succedesse. Generalmente, solo a Natale riceveva qualcosa dai genitori, ed ora… il passaggio all’età matura, cosa le avrebbe riservato? Sapeva solo che alla sua età già buona parte delle ragazze del villaggio erano fidanzate o addirittura sposare, mentre lei era ancora sola come un cane.

E non era un bene.

Una figlia non sposata era uguale a un peso inutile sulle spalle della famiglia. Spesso, l’arrivo di una neonata non era accolto felicemente quanto invece lo sarebbe stato quello di un maschietto; le ragazze richiedevano molte spese, particolarmente ingenti erano quelle matrimoniali, che potevano portare all’indebitamento; la dote era una tragedia per una famiglia povera.

Ma meglio essere indebitati che avere una figlia zitella!

Invece un figlio maschio era un capo nato, e non avrebbe mai creato problemi ai parenti. O almeno, questo era quello che ad Ann, come ad ogni altra ragazza di Hidel, di quella fascia di Gran Bretagna e forse dell’intero mondo, era stato inculcato sin da piccola.

Ovviamente i suoi genitori non le avevano mai fatto pesare di essere una ragazza, anzi l’avevano cresciuta più che bene, facendola diventare una donna fiera di essere ciò che era. Eppure c’era sempre quella consapevolezza che il genere femminile era reputato inferiore a quello maschile. Ma Ann non si lamentava, d’altronde era sempre stato così, e probabilmente lo sarebbe sempre stato.

«Tesoro, sei pronta?»

La dolcissima Elizabeth entrò nella stanza della figlia sorridendo radiosamente. Voltandosi verso di lei, la piccola ragazza non poté fare a meno di sorridere, estasiata dalla bellezza della madre, mista alla sua incredibile amabilità.

Elizabeth aveva trent’anni, era esattamente quindici anni più grande di Ann, e tredici di Gabriel. Un altro esempio di quanto la giovane moretta fosse in ritardo sulla tabella di marcia. Elizabeth non aveva mai perso quell’amore infinito per ogni cosa e la pietas che la caratterizzava. Insomma, era una persona a dir poco deliziosa.

«Sì, mammina!»

Esclamò di rimando la ragazzina. Si avvicinò alla porta, seguendo la madre giù per le scale.

Aveva una fame incredibile, talmente tanta che avrebbe volentieri divorato un cavallo. Eppure, lo stomaco era completamente chiuso. Se prima non avesse trovato il coraggio di chiedere scusa a messere Metherlance non sarebbe riuscita a cenare, ne era sicura.

Indossando il mantello di lana per coprirsi bene dal freddo pungente, Ann uscì di casa seguendo a ruota il fratello Gabriel e la madre. Lazarus uscì per ultimo, ma non si preoccupò di chiudere a chiave la porta d’ingresso dell’abitazione.

A Hidel tutti si conoscevano ed erano amici, non c’era bisogno di temere. Nessuno chiudeva mai le porte di casa, anche perché in caso di attacco da parte dei lupi, si sarebbero potuti rifugiare ovunque il più presto possibile.

Ann alzò gli occhi al cielo, e le sue pupille blu si colorarono di mille altri colori.

Chissà come aveva reagito Nathan uscendo di casa e scoprendo il segreto di Hidel, il motivo per cui molte delle tante famiglie del paese non abbandonavano quelle terre.

L’aurora boreale era più luminosa del solito quella sera. La sua forma sinusoidale si muoveva lenta, in mille sfumature di colori talmente varie da rendere impossibile contarle tutte. Sembrava davvero una magia.

Ma la magia non esisteva, e in questo Ann credeva fermamente nonostante tutte le leggende su uomini lupo, streghe, vampiri e maghi che andavano tanto di moda.

Con un sorriso nuovo sulle labbra, rincuorata da quella visione, la ragazzina si avviò. Certo, per una orgogliosa come lei ammettere una sconfitta era un oltraggio, ma sapeva anche che solo i forti hanno il coraggio di ammettere e pagare i propri errori. E davvero credeva che quell’espressione malinconica fosse colpa sua. Quindi avrebbe rimediato.

Nella notte, il cui buio avvolgeva ogni cosa, Ann provava spesso timore se doveva attraversare il paese.

Nemmeno la luce lunare era risparmiata dai cocciuti nuvoloni pesanti e statici, che lasciavano penetrare di rado qualche raggio, un barlume soffocato dalle tenebre; i paesani provvedevano ad ogni calar delle tenebre ad appendere lampade ad olio, le quali traballavano minacciosamente quando un soffio di vento più potente le investiva. Le fiamme allora si muovevano in una danza sfrenata, lambendo le pareti vetrose come se si stessero in realtà preparando a far irruzione fuori.

Ann aveva sempre preferito la neve di notte. Non che essa cambiasse particolarmente, solo assumeva quella colorazione bluastra che la giovane prediligeva. Ma di notte la neve era anche pericolosa; non facile da notare, facile era anche scivolarci sopra, e dura, durissima, era al contatto con la pelle. Per evitare brutte cadute che avrebbero potuto arrivare a rompere ossa – o causare anche di peggio -, i villici si adoperavano ogni inverno per spalarla, i sentieri erano dunque abbastanza liberi e sicuri.

Ciò che forse incuteva più timore negli stranieri che si ritrovavano a passeggiare di notte, era l’eco. I larghi sentieri di Hidel durante la sera erano quasi sempre vuoti, ed ogni passo produceva un’eco che rimbombava diverse volte.

Ann rideva di quei poveri sprovveduti che arrivavano a credere di essere seguiti, ma non esitava ad agguantare il braccio del padre quando quella suggestione notturna la soggiogava.

Giunsero finalmente presso la Sala Maestra, e la giovane notò che non erano i soli in ritardo; molte altre persone del paese si affrettavano solo ora per raggiungere il luogo, dal quale già si sentivano voci e risate.

Quella sera non faceva particolarmente freddo, e probabilmente avrebbero acceso il grande rogo appena fuori dal luogo di ritrovo. Ed Ann sarebbe rimasta a guardare, come sempre.

Era usanza nel piccolo villaggio accendere un grandissimo braciere davanti alla Sala maestra durante le sere meno fredde. Davanti al fuoco ci si riscaldava, si parlava e scherzava, si giocava a carte e si beveva, e soprattutto si ballava. Ma solo le coppie ballavano. Ergo, anche stasera la piccola mora sarebbe rimasta davanti al fuoco con Krissy a riscaldarsi mentre gli altri danzavano allegramente.

Quando giunsero davanti alla Sala, Gabriel confermò le supposizioni della sorella.

«Stanno preparando il fuoco. Stasera si balla.» sorrise, entrando nel caldo capannone, mentre pregustava già il ballo con la sua Louise.

Appena entrata, Ann sentì un incredibile caldo investirla, tanto che fu costretta a togliersi il mantello. Il legno non permetteva al freddo di entrare, e dentro l’ambiente era riscaldato in mille e uno modi diversi. Il profumo di ottimi cibi aleggiava nell’aria; sicuramente la carne era la portata della serata, almeno a giudicare dall’aroma. Avevano davvero preparato una cosa in grande per festeggiare l’arrivo dello straniero! Inoltre un forte odore di olio rendeva l’atmosfera gradevole.

Voci su voci, risate e moltissime parole mescolate davano fastidio alle orecchie più sensibili. Un gran numero di persone era presente quella sera; gli uomini erano divisi in gruppi, immersi nelle più svariate discussioni, mentre le donne si preoccupavano di apparecchiare il grande tavolo circolare che occupava il centro della Sala; su di esso si potevano contare decine e decine di bicchieri, piatti e posate, tutti provenienti da case diverse. E la moltitudine di colori, qualcosa che dava alla testa!

Un grande camino perennemente tenuto sotto controllo riscaldava l’ambiente. 

Come sempre, sarebbe stato arduo riuscire a trovare una persona precisa lì in mezzo.

Ebbe modo di scorgere e salutare il macellaio Guy, che ricambiò il suo saluto con una amichevole e dolorosa  pacca sulle spalle, Louise alla ricerca di Gabriel, i coniugi Clokie corredati della loro adorabile figlioletta, il falegname e il signor Scottfish, il quale però non sapeva dove si fosse nascosta la sua piccola Krissy.  

“Uhm…” rifletté la giovane “forse mi conviene aspettare la cena. Sicuramente a tavola sarà più visibile…”

Dunque, in attesa che il momento di cenare arrivasse, si sedette su uno sgabello in un angolo. Era un posticino abbastanza tranquillo, ed era anche il punto in cui lei e Krissy si ritrovavano ogni sera. Dopotutto, in che modo altro sarebbero mai riuscite a trovarsi in mezzo a quel putiferio?

Ma Ann non avrebbe raccontato all’amica il suo problema. Non voleva cadere così in basso anche ai suoi occhi. Le bastava già l’umiliazione di perdere la faccia davanti a quel biondino dall’aria superba.

Decisamente, le stava causando fin troppi problemi.

 

Le cose alla fine non andarono esattamente come aveva previsto Ann.

Nonostante l’avesse visto e seguito per tutta la sera con gli occhi, non era proprio riuscita ad avvicinarsi a Nathan, che a un certo punto era letteralmente sparito.

Il risultato era stato che la ragazza non era riuscita a mangiare tranquillamente, e lo stomaco le aveva urlato addosso tutte le maledizioni del mondo.

«Devo togliermi questo peso dallo stomaco…»  si lamentò a fine cena Ann, abbandonando il capo sul tavolo.

Krissy la guardò confusa, cercando di capire a quale peso si riferisse l’amica.

«Beh, il bagno è di là, lo sai…» la rossa indicò una porticina in fondo alla sala.

Ann alzò un sopracciglio, senza rispondere. Krissy non aveva il minimo senso dell’umorismo, ormai si era abituata.

«Sto cercando il sapientone.» si arrese la mora, rivelando le sue intenzioni.

«Dovevi dirmelo prima!» la rimproverò Krissy, stringendo i pugni davanti al viso e guardandola con espressione di rimprovero.

Ann alzò lo sguardo per guardarla.

«È fuori, a guardare il cielo!» esclamò allora l’amica.

«E non potevi dirlo prima?!»

«Ma che ne sapevo io che lo cercavi?»

«Eri tu quella fissata con lo straniero!»

«E ora perché ti interessa?»

La domanda della rossa zittì Ann. Di certo non poteva dirle il vero motivo. Purtroppo però, Krissy interpretò male il suo silenzio. Sorrise con fare furbo, come se avesse appena scoperto un segreto.

«Eh eh eh, lo trovi fuori, cara…»

La mora si alzò e guardò malissimo la ragazzina, come a volerle dire con gli occhi “Dopo facciamo i conti.”

Si avviò per uscire. Non fu propriamente facile né veloce, molte volte infatti fu costretta ad urlare per chiedere permesso, o ad attendere che il contadino di turno la notasse, le chiedesse in media due o tre volte cosa aveva detto, sbuffasse, si alzasse, spostasse la sedia e finalmente si togliesse anche lui dalle scatole, liberando così il passaggio.

“È meglio togliersi questa noia il prima possibile!” disse a se stessa, guardandosi intorno dopo essere finalmente uscita dalla Sala.

A quanto aveva capito mister Metherlance era una specie di poeta, o comunque una persona dagli interessi artistici, ed essendo la sua prima notte a Hidel doveva essere rimasto affascinato dall’aurora boreale, quindi c’era una buona probabilità di trovarlo ancora fuori.

Faceva freddo, ma meno rispetto al solito, soprattutto grazie alla presenza del falò. Il buio agguantava ogni cosa non illuminata dai getti di luce, rendendo difficile scorgere i sentieri che conducevano alle altre strade del paese. Qualche profilo di casa in lontananza veniva illuminato dalla luna appena visibile sopra l’aurora. Di tanto in tanto, assieme allo scoppiettare del fuoco, il verso di qualche animale notturno o un ululare lontano sferzava l’aria, dando ad Ann una sensazione di inquietudine a cui ormai era abituata.

Nonostante la cena si fosse conclusa, gli abitanti di Hidel non erano ancora usciti dalla Sala maestra, quindi non fu difficile per la ragazza scorgere il mantello nero illuminato dalle fiamme.

Come aveva immaginato, l’uomo era ammaliato dalle stelle. Guardava in alto senza muoversi, sembrava non respirare neanche. Seduto su una panca, con le mani in tasca e il naso all’insù, faceva quasi ridere.

«Ehm…» esordì la ragazza «Disturbo?»

Lui si voltò e, non appena la vide, le sorrise. L’espressione triste non c’era più. Ann sentì uno strano calore sulle guance, ma si costrinse a tenere alto lo sguardo.

«Assolutamente no, milady Nevue.» si fece un po’ da parte, facendo spazio ad Ann, invitandola a sedersi.

La ragazza considerò l’idea.

“Beh” si disse “almeno ha smesso di essere triste…”

A tal punto non aveva motivo di stare lì. Ma ormai quella discussione era sul punto di iniziare, tanto valeva non lasciarla in sospeso.

Si avvicinò a passi lenti e si sedette accanto al ragazzo, mettendo compostamente le mani sulle gambe. Si voltò a guardarlo, sembrava davvero stare meglio rispetto a quella mattina.

«Immagino che siate rimasto sorpreso dall’aurora boreale.» sorrise, cercando di non apparire antipatica come quella mattina.

«Sì, è meravigliosa.» confermò lui, poi rialzò il viso alla volta celeste, splendidamente illuminata «Mi hanno detto che qui è così ogni sera.»

Si stava sforzando di non usare più quelle parole ricercate che Ann tanto odiava in bocca ad un perfettino come lui. Era una cosa apprezzabile, che la ragazza gradì.

«Sì. Da dove venite voi non c’è la neve, messere?»

Nathan annuì, senza staccare gli occhi da quello spettacolo naturale «Sì, ma non avevo mai visto l’aurora boreale. Le descrizioni che ne fanno sui libri non rendono la sua magnificenza.» fece una pausa per afferrare con un gesto veloce uno dei tanti fiocchi di neve che cadevano, per poi contemplarne la semplice purezza. Infine risollevò lo sguardo ad Ann, sorridendole spontaneamente «È davvero bello Hidel.»

«Già.» e senza sapere per quale motivo, Ann aggiunse un po’ titubante «Ma messere, sbaglio o questo pomeriggio eravate piuttosto triste?»

La domanda parve sorprendere il ragazzo, che la guardò accigliato «Siete un’acuta osservatrice, milady.»

Quel complimento le piacque, molto.

«In effetti ero piuttosto stanco. Il viaggio mi ha provato duramente.» socchiuse gli occhi e guardò il fuoco. Dopo un attimo di silenzio tornò a sorridere in direzione della giovane «Ma dopo un bel pasto il malumore è passato. Sapete, quando si ha lo stomaco pieno si è in pace col resto del mondo.»

E finalmente, i due risero insieme. Era la prima volta che riuscivano a formulare una conversazione normale senza attaccarsi a vicenda o precipitare in discorsi strani. Forse era stata davvero la stanchezza a rendere quel primo impatto così glaciale.

«Meno male!» sorrise Ann inclinando il capo «Avevo davvero paura di aver detto qualcosa che vi aveva offeso.» ammise, togliendosi definitivamente quel peso dallo stomaco.

Nathan la guardò sorpreso per un attimo, poi abbassò lo sguardo sul fuoco sorridendo «Milady…» sorrise beffardamente «Davvero non vi facevo così sensibile.»

«Cosa?!» esclamò Ann contrariata, arrossendo visibilmente «Io sensibile?! Sono una donna, mica un vecchio bacucco zotico e cafone!»

Si voltò con le braccia incrociate, facendo l’offesa.

«È una bellissima qualità, la vostra.» avanzò gentilmente lui.

«Ne farei volentieri a meno. Essere sensibili significa soffrire per ogni minima cosa, e io voglio vivere una vita felice!»

Nathan la guardò da sotto il ciuffo biondo, sorridendo piano. Abbassò la voce «Annlisette…» mormorò il suo nome con estrema tranquillità, ma col tono di chi sta per dire qualcosa di segreto.

Ann lo guardò interessata.

Dopo un attimo di silenzio, il tedesco domandò di punto in bianco «Voi siete davvero felice qui?»

A quella domanda non vi fu una risposta.

Ann rimase per diversi secondi a guardare Nathan come se avesse qualche braccio in più del normale. Ricominciava con quelle domande assurde?

«Natha… ehm… messere…»

«Nathan va benissimo.» la interruppe lui «Scherzavo con la storia del dare del Lei alle persone più grandi.»

Alzò di poco il tono della voce, tornando a guardare Ann «Scusate queste domande. Avendo vissuto un’esperienza simile mi viene naturale cercare di confrontarmi con voi. Ma non ho diritto di chiedervi cose simili, milad…»

«Ann.» stavolta fu lei a interromperlo.

«Hm?»

«Vi chiamo Nathan solo se mi chiamate Ann.» riprese lei con naturalezza incredibile. Sembrava che avesse già dimenticato l’assurda domanda che le era stata posta poco prima.

Il biondino sorrise piano, quindi annuì «Ann.»

«Comunque…» Ann fece un’espressione indecisa «Mi sono sempre reputata felice. Mi piace Hidel, anche se…»

«Anche se?»

«Beh…» la ragazza alzò gli occhi al cielo «Mi piacerebbe viaggiare, vedere cose nuove… non sono mai uscita da Hidel.» si voltò verso di lui «Com’è il mondo fuori?»

Nathan ridacchiò. Gli sembrava davvero di essere davanti ad una bambina. Ann era davvero una contadina, lo dimostrava ampiamente, anche se, almeno per una volta, quel pensiero non venne formulato con malizia.

«Il mondo è bellissimo, ma anche duro da affrontare. È come il fuoco.» si alzò in piedi, fronteggiando l’ardente fuoco.

Lo fissò con intensità, mise sentimento in quello che disse in seguito, talmente tanta forza che persino Ann si sentì avvampare e crescere un fuoco dentro di sé.

«Domate il fuoco, Ann, o sarà il fuoco a domare voi.»

La ragazza rimase in silenzio. Da dove accidenti prendeva tutte quelle citazioni? Eppure, sapeva che aveva ragione lui. I problemi vanno affrontati; il fuoco stesso, che da sempre terrorizzava Ann, non doveva rappresentare un limite. Questo era quello che voleva dire Nathan, ed era davvero convinto di ciò che diceva. Ann abbassò lo sguardo, non sapendo che cosa rispondere. Si sentiva molto ignorante in confronto a lui, così giovane eppure così esperto…

«Ah, ragazzi!»

Una voce femminile attirò l’attenzione dei due. Si voltarono verso l’ingresso della Sala maestra, dove stava in piedi una donna. Era una signora piuttosto giovane, sui trentacinque anni, dalle lunghe ciocche castane che le raggiungevano le ginocchia. Aveva uno sguardo molto preoccupato, mentre cercava di scaldarsi come poteva sfregando le mani contro le spalle coperte da una maglia marrone.

«Avete visto mia sorella Dora?» chiese alzando la voce, per farsi sentire.

Nathan ovviamente non poteva sapere chi fosse Dora, quindi fu Ann a rispondere per entrambi, scuotendo il capo con decisione «Qui fuori non c’è.»

La donna sbuffò. Si guardò intorno incrociando le braccia «È da questo pomeriggio che è sparita. Dove accidenti si sarà cacciata?»

«Se lo desidera…» si propose il ragazzo «Posso aiutarla a cercare sua sorella, anche se non so che aspetto abbia.»

Sorrise un po’ a disagio, in effetti non era molto utile essere uno straniero in un villaggio dove tutti conoscono tutti.

«Vi sarei grata.» sospirò la donna.

Anche Ann si alzò, intenzionata ad unirsi alle ricerche. Di lupi non vi era traccia, per cui le possibilità di ritrovare un cadavere le sembravano poche.

Anche se… non era la prima volta che Hidel mangiava i suoi villici.

 

In lontananza Hidel sembrava molto pacifico. Un grande fuoco era stato acceso al centro del paesino, là dove la gente si riuniva la sera, e molto probabilmente tutti erano impegnati a cenare o a parlare.

«Che noia. Tutta questa tranquillità aumenta solo la mia voglia di far casino!» si lamentò una voce. Un figura incrociò le braccia con fare irritato, e il tono annoiato della sua voce confermò il suo stato d’animo poco propenso a portare ancora pazienza. Pareva incredibilmente ansioso; evidentemente aspettava qualcosa.

«Sta calmo, fratellone! Non è ancora il tuo momento!»

Una seconda figura riprese la prima, frapponendosi tra lei e il villaggio. A differenza dell’altro, questa sembrava essere molto calma e tranquilla, la sua voce femminile e musicale trasmetteva serenità.

«E quando sarà il mio momento?» sbottò il primo, nervoso.

«Quando sarà tu sai chi a volerlo.» assicurò l’altra «Ma per ora abbi pazienza, e lascia tutto in mano a Nathan…»

 

 

 

Note dell’Autrice:

Completata anche la revisione del secondo capitolo, si spera ora privo di errori ^^ ringrazio il mio beta reader, VeganWanderingWolf, per l’immensa pazienza dimostrata e il grandissimo e validissimo aiuto che mi sta dando!

Mi ha fatto una domanda che potrebbe interessare anche altri: a cosa si riferisce il titolo di questo capitolo? Ebbene, è una storpiatura. Poco tempo fa mi sono trovata a leggere Verga, per la precisione la raccolta di novelle ‘Vita dei campi’, alla quale è posta in appendice la novella ‘Fantasticheria’, in cui viene esposto ‘l’ideale dell’ostrica’. Tramite questo, l’autore illustra una teoria secondo cui nei piccoli paesini, Hidel nel nostro caso, si tende a stringersi nella comunità a mo’ di ostrica e vedere l’esterno, e in particolare la scienza, come un pericolo. Come l’ostrica che ha paura del palombaro e delle onde. Dunque penso che riprenda abbastanza bene Hidel, e l’ho ripreso modificandolo in ‘etica del riccio’ per la nostra Ann: chiusa nelle sue convinzioni e pungente con Nathan, che dovrebbe simboleggiare il progresso, e quindi il palombaro. Bene, finiti gli sproloqui xD

Dalla vecchia versione del capitolo riprendo il ringraziamento a Nimi_chan per la recensione, e, anche se ormai non è più registrata su EFP, spero che continui a seguire Snow come visitatrice ^^

A presto,

Sely.

 

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Capitolo 3
*** L'ingresso del re ***


What colour s the snow

What colour is the snow?

Capitolo 03: L’ingresso del re.

La notte non accennava a terminare.

Da molto tempo era ormai calato il buio, portando con sé quel gelo invernale che se accompagnato dall’oscurità sembrava divenire invincibile, quella malinconia che procurava ogni alito di vento e quella paura istantanea e agghiacciante che si provava quando un uccello notturno urlava il suo verso, facendo ronzare i timpani e sobbalzare il cuore in un secondo.

Quante volte era trasalita durante quella sera?

Ann sbuffava per la stanchezza, ma al contempo ringraziava che non le fosse stato affidato il compito di ispezionare la foresta. Solo gli uomini più forti avevano la facoltà di addentrarsi nella selva durante le ore notturne. Di conseguenza, a lei e a Krissy era stato assegnato un rapido giro del paese.

Dopo la scoperta della scomparsa di monna Dora, l’intero villaggio si era catapultato alla sua ricerca, fino ad allora senza risultati.

Inizialmente, Annlisette aveva fatto un rapido giro di perlustrazione assieme a Gabriel e al padre Lazarus. Nonostante i tre quarti d’ora passati a sgolarsi e a controllare ogni ombra ed ogni angolo, non avevano trovato nessuna traccia.

Successivamente si erano ritrovati ed avevano organizzato un secondo turno di ricerca; tra le nuove squadre ve n’era una composta da Ann e Krissy. Alla mora era sembrato di scorgere tra la folla anche suo fratello e messere Metherlance, costretti nella stessa squadra. Ridacchiò tra sé e sé al pensiero di Gabriel che si tratteneva dal fare l’acido – conoscendolo, non si sarebbe trattenuto affatto in verità -, prima di essere trascinata via da una Krissy decisamente desiderosa di tornarsene a casa il più presto possibile. Non le piaceva stare in giro di notte, soprattutto se erano sole.

«Secondo te perché è scappata?» domandò la rossa mentre si arrampicava su un albero vecchio e dall’aspetto poco sicuro, nella speranza di dare un’occhiata dall’alto.

«Krissy…» Ann, esasperata, sospirò pazientemente e sollevò il dito indice della mano destra, facendosi ben vedere dall’amica «Numero uno: non sappiamo con certezza se sia fuggita di sua volontà. Finché non troviamo qualche traccia o indizio non possiamo dare nulla per sicuro.»

Alzò dunque il medio esclamando «Numero due! Stai attenta; i rami spogli degli alberi sono più pericolosi di quelli con foglie, soprattutto se sotto c’è neve dura.»

«Grazie tante, mamma! Dopo quindici anni che ci cado sopra non potevo immaginarlo!» sbottò la piccola arrampicatrice, contrariata.

Per Ann fu la volta dell’anulare «E questo era il numero tre.»

Venne infine il pollice «Ultimo ma non meno importante, numero quattro…» squadrò accigliata l’amica, che finalmente era appena riuscita ad issarsi su un ramo abbastanza alto, e strillò per farsi sentire bene «Cosa accidenti speri di vedere da lassù?! Siamo nel bel mezzo della notte!»

In cima allo spoglio albero, seduta su di un cumulo di neve, Krissy rivolse gli occhi verdi a Hidel intorno a lei, e rispose serafica al rimprovero di Annlisette «La luce delle fiaccole mi aiuta.»

«La luce delle fiaccole la aiuta, certo…»

In realtà la luce delle fiaccole servì davvero poco. Tutto quello che Krissy riusciva a scorgere rimaneva nel raggio di pochi metri, ed era fittamente avvolto da una pesante oscurità. Non si trovava nemmeno così in alto da sovrastare i tetti delle buie case a due piani –che erano poche, per fortuna -. Spesso le capitava di notare persone che marciavano freneticamente per i sentieri, spesso inciampando e cadendo rovinosamente sul nevoso manto grigio, ma il più delle volte erano famiglie che si affrettavano a raggiungere le proprie case, bambini che credevano di vedere qualcosa che non c’era. Un paio di volte ebbe anche la spiacevole sensazione che flebili fasci luminosi attraversassero frettolosamente il suo campo visivo, lasciandole addosso brividi di paura fredda. In quei momenti serrava gli occhi e scuoteva il capo, ricordando a se stessa che era stanca e che i fantasmi stavano nei cimiteri, e che il cimitero era fuori dal villaggio.

Serrò la stretta attorno al rigido ramo con le bianche mani un po’ sbucciate e screpolate, poi inspirò a pieni polmoni per darsi una svegliata – quella lunga attesa aveva un effetto soporifero -, e guardò giù, attraverso la fitta rete di legno a tratti nero e a tratti bianco, in direzione di Annlisette.

«Ann?»

Quest’ultima, rimasta a terra, si era a sua volta data da fare come poteva, facendo attenzione ad ogni volto che passava e ad ogni rumore che spezzava l’aria quasi statica di quella serata.

«Niente di niente.» confermò a Krissy, stufa.

 “Peccato…” pensò la ragazzina ancora seduta “Speravo di rendermi utile per una volta…”

Sospirò delusa, Ann l’avrebbe di sicuro rimproverata per averle fatto perdere tempo, lo sapeva già.  Abbassò un piede su di un ramo facendolo scricchiolare e, proprio in quel frangente, mentre cercava una comoda posizione per scendere senza farsi male, i suoi occhi scivolarono su una figura molto furtiva che correva in mezzo alla neve. L’osservò attentamente, accigliata, poi, presa dall’agitazione esclamò «Ann!» facendo sobbalzare la mora «Il capannone delle provviste!»

A terra, Ann fece un’espressione confusa. A cosa si riferiva Krissy? Voltò il capo, e finalmente i suoi occhi si posarono su una persona che arrancava in mezzo alla neve, come se fosse la prima volta che vi camminava sopra.

“Molto, troppo sospetto…”

Krissy non ebbe neanche il tempo di scendere che scorse Ann avanzare a grandi falcate, completamente dimentica di lei che ancora tentava di tornare a terra senza farsi seriamente male.

«Mi lasci qui?!» le urlò, sapendo bene però che Ann non sarebbe tornata a prenderla.

La mora intanto sfidava il vento che proveniva dalla direzione opposta alla sua. Certamente correre nel vento non era un toccasana in un villaggio in cui si gelava tutto l’anno, e già immaginava che si sarebbe buscata un bel raffreddore. Il vero problema era l’oscurità, che sembrava quasi complice dell’inseguito.

«Fermo!» strillò la giovane, senza risultati. Tuttavia, quando lo vide addentrarsi nel capannone delle provviste, sul suo viso apparve un sorriso di sfida «Bene, si è messo in trappola da solo.»

Si fermò all’ingresso dell’edificio col cuore che le batteva forte e un dolore acuto al fianco sinistro. Il capannone era tra le strutture più grandi di Hidel, era facile usarlo come nascondiglio ma difficile uscirne senza essere trovati, poiché aveva una sola porta che veniva usata come entrata e come uscita, niente finestre. Interamente costruito in legno, aveva tre piani: nel primo venivano conservati i manufatti, al secondo le scorte di cibo, al terzo le armi; quest’ultimo piano era accessibile solamente agli uomini adulti.

Ann pensò che se l’intruso fosse riuscito a sfondare la porta del terzo piano si sarebbe messa davvero male. Avrebbe dovuto chiamare gli adulti, ma non c’era tempo: la persona che inseguiva sarebbe potuta scappare se lei si fosse allontanata. E poi non doveva dimenticarsi che fuori c’era Krissy, che sarebbe sicuramente corsa a chiamare aiuto.

Con questo pensiero e il cuore che le batteva a mille per la paura varcò la soglia, si chiuse la porta alle spalle con un rumore sordo, e si ritrovò immersa nelle tenebre.

Era tutto molto buio, e si distinguevano figure di grandi scatole e barili messi in ordine l’uno sopra l’altro. Trovare qualcuno lì dentro, in piena notte, era praticamente impossibile. Ma il suo piano non implicava di certo il trovare l’intruso: sarebbe stato un suicidio! Voleva semplicemente accucciarsi da qualche parte e assicurarsi che non scappasse prima dell’arrivo degli adulti. Un piano forse un po’ sciocco e pavido, ma mentre le sue dita sfioravano il nulla alla ricerca di nulla non trovava soluzioni alternative.

Si abbassò sui talloni, sentendo l’emozione trafiggerla. Aveva troppa paura di imbattersi in qualcuno più forte di lei – e ne era quasi certa – o, peggio ancora, qualcuno più forte e armato.

Ciò nonostante, la giovane aveva un vantaggio sull’avversario: conosceva benissimo il capannone. Sin da piccola vi si rifugiava quando litigava col padre, e negli anni aveva creato moltissime vie di fuga che solo lei conosceva. O almeno si illudeva che fosse così.

Avvalendosi dell’ausilio del buio, Annlisette strisciò fin quando non fu sotto due pile di scatoloni messe in una posizione tale da permetterle di ripararsi e dare occhiate furtive in giro; si raggomitolò su se stessa ed azzerò ogni rumore, limitando al massimo anche il respiro per paura di essere sentita.

Non udiva più niente, tanto che per un attimo temette di essere l’unica presenza lì dentro. Ma l’unica porta era chiusa, quindi era fuori questione che in qualche modo l’intruso fosse riuscito a uscire.

La ragazza avvertiva il corpo scosso da improvvisi brividi di freddo, mentre lo stomaco cominciava a ribellarsi e farle veramente male. Ogni alito di vento che penetrava da sotto la porta le faceva venire la pelle d’oca.

 “Cavolo, Ann, quando mai capitano cose così emozionanti in questo buco di paese? Tira fuori un po’ di coraggio!” si rimproverò di quel suo lasciarsi prendere dal panico.

Nel silenzio assoluto del magazzino, le parve di udire un rumore provenire da fuori, e questo la rincuorò: qualcuno stava forse arrivando a salvarla? Allora doveva resistere solo qualche altro minuto! Gettò veloci ma attente occhiate a cosa la circondava: bauli e panche impilati, grandi sacchi colorati e rattoppati che contenevano i ricami delle giovani tessitrici del villaggio, vecchi arnesi che non immaginava a cosa servivano – o forse non aveva voglia di ricordarlo, in quel momento era presa da ben altro -, altre sagome non distinguibili nella fitta oscurità del luogo. Un’asse di legno caduta da una vecchia cassa mangiata dalle tarme attirò la sua attenzione: sembrava ancora abbastanza dura, ma soprattutto aveva ancora il nero e arrugginito chiodo conficcato in un angolo. Sarebbe stata una buona arma, così allungò silenziosamente la mano scossa da forti tremiti.

Si bloccò.

Le dita fredde e tremanti si trovavano a pochi centimetri dall’oggetto, ma un semplice rumore di passi, di quelli che sentiva ogni giorno, ebbe il potere di farle gelare il sangue nelle vene. Passi sereni, tranquilli, di chi incede senza temere nulla.

Sbarrò gli occhi e con uno scatto afferrò la sua arma, tornando poi a chiudersi a riccio su se stessa, nell’angolino buio e coperto delle casse. Al contatto con la pelle, il legno duro e violento le diede un attimo di sicurezza, sebbene avesse il cuore in gola e lo stomaco che minacciava di spappolarsi volontariamente.

Si nascose meglio, addentrandosi nel labirinto di cassapanche, sacche e bauli alle sue spalle. Facendo mente locale, la ragazza ricordò che delle sue scorciatoie la più vicina era a due metri di distanza. Non era il caso di muoversi. Per il momento doveva cercare di capire da dove provenissero i passi. Chiuse piano gli occhi, concentrandosi sull’incedere dei passi. Lo sconosciuto era sfacciatamente calmo, lo si capiva da come si muoveva ritmicamente e con passi decisi. Probabilmente l’aveva vista in faccia e sapeva che era una ragazzina, dunque credeva di poterla battere facilmente. Ciò significava che era una persona forte, ed Ann si pentì amaramente del proprio falso eroismo.

La persona si avvicinava, ormai la sentiva a pochi metri, sempre più prossima. Ann si voltò verso la direzione da cui provenivano i passi e strinse tra le mani il paletto che le faceva da arma.

Cacciò la testa fuori dal suo nascondiglio e si guardò attentamente intorno, stando ben attenta a rimanere nel buio. Anche una minima luce poteva tradirla.

Si sollevò di qualche centimetro, quanto bastava per sovrastare con gli occhi una cassa che le faceva da muro. Nessuno.

“Dove accidenti…?”

«Ciao, bella bambina!»

Una voce adulta e profonda riecheggiò, assieme all’urlo di dolore della ragazzina, che sentì una possente mano afferrarle i capelli e trascinarla fuori dal suo nascondiglio. In preda al panico, cominciò ad agitare convulsamente gambe e braccia nel vano tentativo di trovare qualcosa a cui aggrapparsi.

Poi, come un lampo, le balenò in testa il pensiero del paletto, che, nella foga del momento, le era caduto di mano. Con gli occhi sbarrati, allungò ed agitò il braccio destro fino a trovare l’arma. La impugnò come se fosse l’ultima cosa che le rimaneva al mondo.

Portò violentemente all’indietro il pezzo di legno, dando il chiodo sul braccio dell’uomo che la teneva per la lunga chioma nera cercando ancora di tirarla fuori da sotto le casse. Allora i suoi incoraggiamenti a uscire si trasformarono in esclamazioni di dolore accompagnate da varie e colorite imprecazioni. Allentò velocemente la presa, permettendo così alla ragazza di divincolarsi e liberarsi.

La giovane cadde a terra ma si rialzò immediatamente, dandosi alla fuga. Quando era entrata nel capannone le sue gambe non pesavano così tanto, il fiato non era così mozzato, e non aveva neanche le lacrime agli occhi.

Inciampò contro qualcosa che non riuscì a distinguere bene e ruzzolò rovinosamente.

In breve l’intruso avvolto dalle tenebre la raggiunse, urlando rabbioso «Piccola disgraziata, vieni qui!»

Ann urlò terrorizzata e serrò gli occhi mettendo le braccia davanti al viso in posizione di difesa, raggomitolandosi, senza la forza di scappare.

“Sono morta! Sono morta!” si disse, rimproverandosi ancora di essere entrata in quel maledetto capannone, di non aver aspettato gli uomini, di aver voluto dare prova di sé, di…

Colpi, colpi di spada.

Il rumore del ferro che batteva contro il ferro quasi la fece svenire per lo shock. Non sapeva se essere ancora spaventata o felice che nessun colpo si fosse ancora abbattuto su di lei. La confusione era tale da renderla immobile come una statua di sale, incapace di pensare lucidamente.

Trovare il coraggio di aprire gli occhi e vincere la paura non le era mai sembrato così difficile, e quando lo trovò quasi se ne pentì.

«Tu!» esclamò quando si accorse di chi stava davanti a lei. E chi poteva essere se non quell’assurdo straniero privo di logica? Si ergeva tra lei e il suo aggressore e teneva una spada nella mano sinistra.

Come accidenti aveva fatto ad entrare senza che lei se ne accorgesse?

«Scappate, Ann!» le urlò lui lanciandole uno sguardo fulminante, come se fosse lei la vera intrusa lì dentro.

E lei non se lo fece ripetere due volte. Non riusciva a vedere che cosa le ostruiva il passaggio, e tra la paura e la fretta inciampava spesso, appendendosi alle prime cose che le capitavano a tiro pur di non cadere e maledicendo la sua lunga gonna che si impigliava in ogni dove.

Quando finalmente intravide il chiaro bagliore che passava sotto la porta, convinta di essere ormai quasi in salvo si fermò e si voltò verso i due, urlando a Nathan «Venite! Dobbiamo scap…»

Ma non riuscì a terminare la frase.

Il nemico aveva estratto una pistola da sotto il mantello, con un movimento troppo veloce perché lo straniero potesse in qualche modo ripararsi.

«Attento!»

Ann cercò di urlare, ma più sforzava la voce e più questa sembrava non voler uscire, riducendosi a un filo appena accennato.

Tuttavia, anche se fosse riuscita a strillare con forza la sua voce sarebbe stata coperta dal terribile suono di uno sparo che le riecheggiò diverse volte nelle orecchie.

Sbarrò gli occhi che sembravano pronti a rilasciare fiumi di lacrime, stringendo i pugni con forza mentre vedeva lo straniero venir colpito in pieno al petto.

Lui, con un ultimo sguardo supplicante che però non poteva battere il buio, si voltò verso la ragazzina e mormorò un ordine, prima di accasciarsi a terra «Vattene… !»

Fu come se il tempo si fermasse per Ann, la quale aveva lo sguardo fisso sul lago di sangue che si stava creando. Per colpa delle casse non poteva vedere il corpo dello straniero, ma era difficile che fosse ancora vivo. Il suo cuore mancò un palpito, e la ragazza si rese conto che doveva scappare.

Si rimise in corsa sentendo le lacrime rigarle le guance. Dietro di lei il nemico ancora la seguiva, ne sentiva i passi pesanti.

Fu allora che, per l’ennesima volta, inciampò, cadendo rovinosamente a terra. Credeva che stavolta non avrebbe avuto più la forza di alzarsi, oltretutto sentiva le gambe immobilizzate da qualcosa. Si alzò velocemente sui gomiti, ruotando il busto per cercare con lo sguardo quell’assassino, col cuore che batteva così forte da farle male ad ogni battito, terrorizzata.

Infine, il suo sguardo si posò sulla cosa che la imprigionava, e il suo stomaco decise che era il momento di rimettere.

Era inciampata su delle gambe umane. Seguendo la linea del corpo su cui era caduta, si accorse che questo era disteso proprio accanto a lei, e solo aguzzando la vista riuscì a intravederlo nelle tenebre.

Il volto atterrito di monna Dora era rivolto verso il soffitto, ed era stata brutalmente sgozzata.

E lei era sporca di sangue, del suo sangue.

Ann urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni.

 

Ann urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni, ma la voce le morì in gola.

Il buio della sua cameretta non le era mai parso tanto nemico, e i sogni non erano mai stati terribili come quello or ora sognato.

Non appena aveva aperto gli occhi, sudata e spaventata, ed aveva realizzato che era tutto un sogno, si era sentita invadere da un senso di gratitudine. Si sedette sul proprio letto, con le mani strette in una morsa di ferro attorno alle lenzuola ed un fiatone fin troppo simile a quello che aveva nell’incubo, tanto che si chiese se non stesse ancora dormendo.

La prima cosa che fece fu guardarsi intorno per assicurarsi che non ci fosse nessun mostro nella sua stanza – controllò diligentemente anche sotto il letto -, poi scaricò la colpa del suo cattivo riposo addosso a Nathan Metherlance. Da quando era arrivato quel tizio, la sua vita cominciava ad essere troppo movimentata. Tutto Hidel era movimentato. Ed Ann si chiedeva se fosse davvero un bene.

Non aveva davvero voglia di alzarsi quel giorno, così si girò verso il muro, sprofondando poi sotto le coperte per stare al caldo il più a lungo possibile.

Era il momento di abbandonare le speranze, così si diceva Ann, perché monna Dora era sparita ormai da una settimana. L’avevano cercata ovunque e a lungo senza alcun risultato, così si era ben presto arrivati alla conclusione che dovesse essere stata attaccata dai lupi, come spesso accadeva a Hidel: “si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato”, come aveva detto il capo villaggio.

Tuttavia, come il sogno le aveva ricordato, il capannone delle provviste non era stato ispezionato a fondo. Poteva chiedere a Krissy di accompagnarla e…

“No, meglio di no.” disse a se stessa, presa improvvisamente dalla paura “Quella imbranata mi farebbe solo spaventare ancora di più.”

Chiaramente non lo diceva con cattiveria, voleva infatti molto bene a Krissy, ma la giovane Scottfish era fin troppo goffa e maldestra, e sicuramente avrebbe combinato qualche guaio. Gabriel invece l’avrebbe sicuramente presa in giro se gli avesse raccontato dell’incubo chiedendogli poi di accompagnarla.

Rifletté tra sé e sé, quel giorno doveva andare a comprare dei chiodi, e il falegname non era molto lontano dalla casa di messere Metherlance, magari lui avrebbe accettato di accompagnarla.

In quella settimana i rapporti tra Ann e Nathan erano abbastanza migliorati. Durante le ricerche di monna Dora erano spesso andati insieme a fare sopralluoghi – inizialmente per costrizione -, ed erano riusciti ad appianare le divergenze, anche se continuavano a mantenere due visioni completamente diverse del mondo.

Ann era una ragazza molto impulsiva e spesso suscettibile, e in quella settimana il carattere bonario e pacifista di Nathan le aveva fatto evitare più di una rissa con Doralice Clokie,”Docalice”, come la chiamava Ann. Confuso dalla somiglianza tra il nome della ragazza e quello della donna scomparsa, lo straniero aveva chiesto ad Ann se le due fossero imparentate, ma la ragazza aveva risposto di no: il vero problema era che la gente di Hidel non aveva abbastanza fantasia. Da qui era nato un altro discorso sul mondo fuori dal villaggio, dal quale la mora si sentiva sempre più attratta ogni volta che Nathan le raccontava qualcosa di nuovo. Era davvero un pozzo di scienza quell’uomo!

A Hidel, come in ogni altro villaggio di quelle zone, la giornata lavorativa cominciava con il sorgere del sole e finiva col calare delle tenebre - anche se, in realtà, spesso si restava fino a tardi nella Sala Maestra. Dopotutto in un paese così piccolo c’era ben poco da fare, e tanto valeva tenersi tutti compagnia.

Dunque, non appena l’astro fu sorto, la giovane Nevue si catapultò giù dal letto e corse giù per le scale, sconvolgendo così la famiglia, che per la prima volta la vedeva in anticipo per la colazione.

«È successo qualcosa di grave, vero?» domandò Lazarus mentre le passava il pane.

«Assolutamente no.» assicurò Ann «Volevo solo provare il brivido dell’alzarsi presto.»

«Hai le tue cose?» intervenne sfrontatamente Gabriel, ricevendo in cambio uno schiaffone dalla sorella e una scoppola in testa dal padre.

Dopo la colazione, Ann, uscita per una volta in orario, si diresse immediatamente verso la casa di messere Metherlance, rimandando a dopo il comprare i chiodi.

Sinceramente, Ann non credeva di trovare monna Dora dentro il capannone: era a dir poco assurdo! Se mai si fosse realizzato un avvenimento simile, sarebbe stata costretta ad ammettere l’esistenza di sogni premonitori e chissà quanto altro. Roba che a lei non era mai interessata, perché, al di là della sua immensa curiosità, si reputava troppo razionale per lasciarsi abbindolare dalle credenze popolaresche.

Però il sogno le aveva fatto notare che davvero non si erano impegnati a fondo, dunque doveva rimediare. Possibilmente non da sola, o sapeva già che sarebbe morta di paura.

Sulla strada non incontrò quasi nessuno, e la cosa la fece insospettire. Nessun bambino che correva allegramente per i sentieri spalati da poco, nessuna ragazza intenta a cucire sui gradini di casa, nessun uomo che portava sulle spalle legna da ardere. Hidel, quella mattina, sembrava un villaggio fantasma. Ann deglutì ed affrettò il passo, rischiando di scivolare sulla neve fresca.

Era inquietante vedere il villaggio così vuoto, ma dopo la scomparsa della donna tutti si erano spaventati e avevano deciso di uscire solo se necessario - anche perché l’inverno era giunto quasi al culmine, e questo significava due cose: freddo come barriera insuperabile e attacchi da parte delle bestie della selva sempre più frequenti.

La ragazza aveva avvertito il padre di avere intenzione di passare da Krissy prima di tornare a casa, e lui aveva acconsentito a patto che rientrasse prima di mezzogiorno.

“Non ci metteremo molto. Dopotutto non c’è niente, lì dentro!” cercava di convincersi, senza però riuscire a scacciare la paura.

Giunta davanti alla casa dello straniero, bussò tre volte alla porta in modo deciso. Dopo dieci secondi di attesa sbuffò.

“Dai, non dirmi che non ci sei…” si lamentò tra sé e sé.

Bussò ancora, ma anche stavolta non ottenne risposta; infine sospirò.

“Dannazione! Sembra che dovrò andare da sola…”

Nonostante non avesse la minima voglia di affrontare in solitaria quel luogo sfondo di incubi, fece dietrofront con l’intenzione di andarsene. Fu allora che i suoi occhi, alzati al cielo in un’espressione delusa, incontrarono nuovamente quel manto troppo spesso di nubi che impedivano al villaggio una buona illuminazione da parte del sole. Fu come se il cuore le si stringesse in petto, e provò improvvisa malinconia: Hidel era perennemente avvolto nel buio, e lei avrebbe dovuto vivere per sempre nella tetra luce soffusa e sbiadita di quelle lande?

«Non bisogna mai arrendersi alle avversità del fato. Se si soccombe a se stessi si soccombe al mondo intero...» ripeté a bassa voce.

Ricordava bene quella frase dettale una settimana prima da Nathan. L’aveva colpita molto. Chissà se un giorno anche una contadinella come lei sarebbe riuscita a viaggiare e magari diventare una persona colta, si chiedeva, ma quando le riaffiorava in mente il motivo per cui le persone di Hidel non dovevano uscire da Hidel, non poté fare a meno di sentirsi ancora più abbattuta e lasciarsi andare a un sospiro afflitto.

«Vi è piaciuta quella frase, eh?»

Ann sobbalzò all’improvviso, distolta dai suoi pensieri troppo in fretta. Il ricordo del brutto sogno di quella notte, più vivo che mai, la assalì come un mostro, e lei si voltò di scatto serrando i pugni, pronta ad alzare le mani contro un possibile aggressore.

Quando però i suoi occhi incontrarono quelli di Nathan Metherlance sospirò, rilassandosi un po’.

«Intendete farmi morire di paura, messere?» chiese, cercando intanto di dare un freno al proprio cuore – e ai propri nervi.

Lui, che a sua volta aveva sussultato nel vedere quella reazione un po’ esagerata, le rivolse un sorriso di circostanza e borbottò imbarazzato «Ehm… Scusatemi, non volevo spaventarvi, milady.»

Aveva aperto la porta molto silenziosamente ed era rimasto sull’uscio, forse per non esporsi direttamente al freddo vento che spirava in strada.

Osservandolo, Ann si accorse che aveva una mano fasciata. Le balenò in mente l’immagine di lui che veniva colpito nel suo sogno, e sentì lo stomaco rivoltarsi.

«Vi siete fatto male?» chiese spiegazioni, cercando di apparire il più disinteressata possibile.

«Non è nulla di che, non temete!» assicurò lo straniero con quel suo solito sorriso obliquo, e per dimostrare la verità delle sue parole agitò per aria la mano, aggiungendo infine «Un semplice taglio trasformato in tragedia dal dottore.»

La ragazza annuì senza riuscire a trattenere una risata «È vero, mai farsi male davanti al dottor Ross, è capace di mandarti all’ospedale cittadino per un taglietto!»

«Voi, invece?» incalzò l’uomo «Mi cercavate?»

In quel momento la giovane villica si rese conto di un piccolo dettaglio: non aveva minimamente pensato a che scusa usare per convincerlo a mollare qualsiasi cosa stesse facendo e accompagnarla nel magazzino. La sua richiesta poteva sembrare non solo una mancanza di rispetto verso un uomo intento nel suo lavoro, ma persino un invito ambiguo. Insomma, un uomo e una donna dentro un posto buio… sentì le guance colorarsi di rosso, e capì che non avrebbe retto ancora a lungo.

Sbottò «Devo andare a controllare alcuni pizzi che ho lasciato nel magazzino, ma… ma… ho paura del buio!»

“Io non ho paura del buio, dannazione! Ho paura di quello che sta dentro il magazzino!”

«Volevo chiedervi un po’ di compagnia… ecco.» concluse, indirizzando lo sguardo altrove. Avrebbe di gran lunga preferito sembrava ambigua piuttosto che paurosa, ma ormai era andata. 

Dopo un attimo di indecisione, immancabilmente lui annuì «Ma certo. Giusto un secondo.»

Rientrò qualche minuto in casa, probabilmente aveva delle cose da sistemare prima di uscire. Ann ebbe finalmente il tempo di urlarsi silenziosamente tutti gli insulti che conosceva, ripromettendosi di essere più previdente in futuro.

Lo straniero varcò di nuovo la soglia di casa dopo un minuto, con addosso la sua solita pesante cappa nera e l’altrettanto solito sorriso gentile sul volto. Ma non gli veniva mai una paralisi facciale? Raggiuntala, le si affiancò ed attese che fosse lei a fare strada.

In quella settimana lo straniero si era quasi ambientato, dopotutto in un paesino minuscolo come Hidel ci voleva poco tempo per imparare ad orientarsi basandosi sui cinque edifici principali: la sala maestra a ovest, il capannone delle provviste a nord, la locanda a sud, la clinica a est, la chiesa al centro del villaggio.

Mentre camminavano, Nathan correva con lo sguardo sui vuoti sentieri invasi dalla neve e deserti di vita. Assottigliò gli occhi con fare serio e disse «Sembra che la gente cominci ad avere davvero paura.»

La ragazza gli diede ragione «Sono misure di sicurezza che prendiamo ogni inverno. Ai bambini è proibito uscire di casa, le donne escono solo per comprare il necessario, gli uomini sono gli unici a poter far tardi la sera.»

«Non sarà troppo restrittivo?»

Quella domanda ad Ann parve stupida. Inizialmente rivolse allo straniero un’espressione titubante e scettica, poi si disse che era normale che Nathan, giunto da terre molto più sicure e liberali, non capisse quanto era effettivamente pericoloso il mondo intorno a Hidel in quella stagione.

Sembrò rendersene conto anche lui, tanto che fece una risata e si corresse «Che cosa stupida ho detto!»

Alla sua risata si unì quella di Annlisette, sinceramente compiaciuta di vederlo per una volta ammettere di aver sbagliato. Sicuramente messere Metherlance non era una persona umile, ma forse sapeva riconoscere quando era in torto.

Calò nuovamente un sereno silenzio, rotto solo dal rumore dell’incedere poco udibile dei due sulla neve fresca e scivolosa. Di tanto in tanto qualche rumore giungeva da dentro le case: donne che chiamavano i figli, mobili spostati, attrezzi sbattuti con forza contro altri attrezzi; il vento spirava lento, sollevando pigramente i lunghi capelli della ragazza e il mantello dell’uomo.

«Ho fatto un sogno davvero strano stanotte.»

A parlare era stato lo straniero.

Ann, che fino a quel momento si era placidamente lasciata trasportare dal soffio del vento, alzò gli occhi al suo viso e aggrottò la fronte, curiosa e scettica. Davvero non era l’unica a far sogni strani in quei tempi?

Sebbene con un po’ di esitazione nella voce, confermò «Anch’io.»

Chissà, si disse, magari il sogno fatto da Nathan era impressionante quanto il suo?

«Sarà colpa dell’acqua di Hidel?» chiese allora lui, mettendo una mano sotto il mento.

«Che c’entra l’acqua?»

La ragazza inclinò lo sguardo senza capire, mentre nella propria mente ipotizzava tutte le possibili soluzioni per cui l’acqua di Hidel avrebbe potuto essere la causa di tutti quegli strani sogni.

Nathan rise, rise veramente di gusto, ma senza perdere la sua eleganza.

A quel punto la giovane, sentendosi derisa e in parte offesa, sbottò arrabbiata «Invece di ridere potreste dirmi cosa avete sognato, messere!»

«Uhm…» lo straniero sembrò insofferente al rimprovero, come sempre «C’era una riunione dell’intero villaggio. Per una questione urgente, almeno così mi avevate detto…»

«C’ero anch’io nel sogno?» ella frenò il passo e sussurrò con voce flebile, sorpresa. Era rarissimo che qualcuno la sognasse, ed era un avvenimento che le dava sempre una grande emozione.

Nathan annuì «Ma una volta arrivato lì…»

Fece un’espressione nervosa e lasciò la frase a metà, nutrendo la curiosità della ragazzina che ormai non avvertiva più neanche il gelido vento che, spirando ancora, le stava addormentando le dita nude.

«Arrivato lì…?» lo spronò a proseguire.

«Scoprivo che l’emergenza era che la signora Taylor aveva cucinato un rivoluzionario porridge con il sale e voleva farcelo assaggiare!»

Se l’etichetta non le avesse imposto di tenere le mani a posto, Ann gli avrebbe sicuramente dato uno schiaffone. Era rimasta ad ascoltarlo con talmente tanta attenzione e la delusione era stata tale da spingerla a ripetere in modo atono «… Rivoluzionario porridge con il sale?»

Lo straniero annuì con fare convinto, ed Annlisette si convinse che doveva essere proprio un idiota.

Si impose di lasciar perdere quell’uomo e le sue stramberie e, fattosi vivo il ricordo del capannone, riprese la marcia.

Fu seguita a ruota da lui, ne sentiva i passi nonostante fosse dietro di lei.

«Che c’è di male? Ero andato a letto senza cenare!» ridacchiò, con quella sua solita risata che le faceva venire voglia di piantarlo in asso lì in mezzo al villaggio e tornarsene a casa «E voi che avete sognato?»

«Uhm…» fece la vaga lei ­«Non me lo ricordo.»

«Avanti, vi ho raccontato il mio sogno assolutamente stupido, ora tocca a voi.»

«Beh…» tagliò corto la villica «Voi credete nei sogni premonitori?»

La domanda venne buttata lì come un vecchio pezzo di legno marcio sulla neve. Annlisette non si aspettava una risposta convinta né decisa, poiché se c’era una cosa che aveva imparato di Nathan era che non dava mai risposte chiare e complete. Forse si divertiva o pensava di apparire più misterioso, ma per lei tutte quelle frasi lasciate a metà erano decisamente irritanti.

«Uhm…» lui mise una mano sotto il mento, pensando bene alla risposta «No. Sono un tipo molto razionale, non credo nell’esistenza di roba come streghe, demoni, vampiri, fate e folletti… ancora meno nella fortuna o nel fato. Io credo che il destino ce lo costruiamo da soli.»

La neve che cadeva creava un bellissimo sfondo mistico al discorso dell’uomo, Ann doveva riconoscerlo. Ma era sua intenzione non lasciarsi incantare.

«Se il nostro futuro fosse già deciso, che senso avrebbe lottare per ciò che vogliamo?»

Quella domanda le riecheggiò varie volte nella mente prima di essere assimilata e compresa. La ragazza non intendeva dare ragione allo straniero senza prima aver riflettuto accuratamente, ma quello non era né il luogo né il momento. Inoltre era quasi in ritardo.

Scosse il capo con fare arrendevole e si strinse nelle spalle, per poi coprirsele meglio con la mantellina che indossava «Non lo so. Datemi tempo, Nathan.»

Nathan sorrise piano « Siete giovane e avete tutto il tempo del mondo, Ann. Scusatemi se vi infastidisco in qualche modo. Sono consapevole di quanto siano a volte sgradevoli i miei discorsi.»

«Ma no!» esclamò lei con voce sicura «Anzi, spesso mi spingete a ragionare in modo più… difficile. Siete una persona complicata, a volte irritante, ma non sgradevole!»

«Irritante? Beh, apprezzo la sincerità!» rise lui, riprendendo a camminare «Faremmo meglio a sbrigarci.»

 

Giunsero molto in fretta davanti al capannone. Nathan rimase stupito dalla sua grandezza – era la prima volta che lo vedeva alla luce del giorno, affermò -, disse che non pensava che esistessero edifici così grandi in quel paesino; Ann gli spiegò che la sua dimensione era logica, in quanto doveva contenere tutto il ricavato che in estate sarebbe stato portato a Terren, la città più vicina.

 Il grande portone di ferro si aprì con un rumore molto fastidioso, quello tipico delle grandi porte arrugginite. Un suono che fece rabbrividire la ragazza, e che la spinse a nascondersi dietro lo straniero, che entrò dunque per primo.

«Cosa dovete fare?» domandò Nathan, mentre cercava di abituarsi al fitto buio del posto.

«Controllare se il freddo ha gelato i miei pizzi.» rispose placidamente Ann, sgattaiolata dentro subito dopo di lui.

Alcune lanterne erano sparse qua e là, pronte ad essere utilizzate. Mentre Ann le accendeva, Nathan si guardò intorno con fare interessato e serio, quasi stesse cercando di memorizzare ogni cosa. Si fece spiegare la geografia interna, la disposizione delle provviste e del ricavato, e quando seppe che all’ultimo piano erano conservate molte armi cessò di parlare ed alzò lo sguardo al soffitto, cosa che fece un po’ inquietare Ann.

«Che cosa guardate, Nathan?»

«Le ragnatele… ce ne sono davvero tante.»

«Bleah, odio i ragni…» la ragazzina fece un’espressione schifata.

Lui, al contrario, manteneva un’espressione serissima, che la mise quasi a disagio «A me invece piacciono, mio malgrado. In passato mi hanno insegnato ad amarli.»

«… Chi può insegnare ad amare i ragni?» la giovane inarcò un sopracciglio.

Finalmente lo straniero abbassò lo sguardo, puntando i suoi occhi chiarissimi sulla figura della giovane immersa nella penombra «Magari un giorno ve ne parlerò. Ma adesso cerchiamo i vostri pizzi.»

Ann annuì, decisamente felice di tralasciare il discorso sui ragni, e si immerse nel putiferio.

«Non ricordo dove sono… Sono due piccoli sacchetti rosa con scritto sopra il mio nome.»

«Ho capito.»

Entrambi cominciarono a cercare con attenzione in mezzo alle pile di sacche e casse. Nathan i lavoretti di Ann; Ann una qualche prova in cui nemmeno lei credeva. Più di una volta la ragazza starnutì a causa della polvere, e persero molti minuti a lamentarsi delle pessime condizioni di quel luogo, tra cadute rovinose a causa del buio e brevi momenti di “Le ho trovate! Ah no… Non sono loro”.

Il tempo passava lentamente, e un’ora intera venne impiegata prima del ritrovamento delle famigerate sacche, un ritrovamento che però fu tutto tranne che felice.

«Nooooooo!» urlò disperatamente la ragazzina, buttandosi a terra davanti a un attonito Nathan.

Quest’ultimo si allarmò immediatamente «Che succede?! Siete ferita?»

«Si sono rovinati! Questo significa doppio lavoro fino alla prossima estate!»

Ann sembrava davvero sul punto di bruciare anche i pochi che si erano salvati e mollare tutto, ma lo straniero, con un gesto fulmineo, le sottrasse i lavori rovinati e le sorrise gentilmente.

«Che facete?» chiese la ragazza con le lacrime agli occhi.

«Ehm, si dice ‘fate’, Ann…» la corresse lui mentre il suo sorriso gentile diventava tirato.

«Sì, scusate…» la ragazza tirò su col naso.

«A questi ci penso io.» assicurò lui, sforzandosi di dimenticare quello strafalcione della ragazza che lo aveva fatto rabbrividire «Conosco alcuni rimedi che possono riportarli come nuovi, così non dovrete rifarli.»

Gli occhi di Ann si fecero grandi e luminosi, mentre guardava ammirata Nathan.

«Voi siete la mia salvezza!» e, in preda all’entusiasmo, si rimise velocemente in piedi e gli saltò al collo «La luce dei miei pizzi!»

Quell’improvviso scattò di gioia lasciò un po’ stranito lo straniero, che si limitò a sorriderle impacciatamente «Ehm… è il minimo per avermi aiutato ad ambientarmi.»

La giovane lo lasciò e si rimise dritta, soddisfatta. Non aveva trovato alcuna prova della veridicità del suo sogno, ma aveva trovato una cosa molto più importante: qualcuno che sapeva evitarle un sacco di lavoro extra. Quella visita al capannone era stata estremamente fruttuosa!

«Io sono in tremendo ritardo e dovrei andare. Quanto tempo ci vorrà per sistemarli?» chiese infine.

Nathan rimase un attimo in silenzio e sollevò gli occhi al soffitto, facendo calcoli tra sé e sé «Minimo tre giorni.» le sorrise «Ve li farò avere il prima possibile. Ora andate, avete fretta.»

«Grazie, grazie mille!» gli sorrise la giovane, prima di scappare via in modo un po’ imbranato, inciampando di tanto in tanto. Raggiunse l’ingresso e si chiuse la porta alle spalle.

Accompagnata da quel tonfo sordo, in Nathan nacque la consapevolezza di essere rimasto solo.

Ancora un po’ stupito per l’affettuoso gesto di Ann – non era per niente abituato a quel genere di gesti -, poggiò i pizzi sulla busta rosa, osservandoli. Erano davvero fatti molto bene, a Terren avrebbero di sicuro fruttato. Annlisette riservava mille sorprese, doveva ammetterlo.

Si diresse verso il portone, mentre i suoi passi riecheggiavano nel capannone con un’eco insistente. Con nonchalance si assicurò che la porta fosse ben chiusa.

Quando tornò a voltarsi verso l’interno del luogo, con gli occhi indagatori che scrutavano gelidi ogni oggetto, non sorrideva affatto. Anzi, il suo viso era una maschera di impassibilità feroce.

«Esci fuori, Damon.» ordinò.

Il suono di un qualcosa di pesante che si abbatteva per terra ruppe il silenzio.

«Dannazione! Quando mi hai scoperto?»

Una voce maschile si espanse nel luogo. Poco dopo fece capolino alla luce di alcune lanterne una figura alta, avvolta in un cappotto nero. Era un giovane ragazzo dai capelli dorati, più o meno come quelli di Nathan, ma più corti, chiari e meno ribelli, dalla pelle pallida e lo sguardo impertinente. Occhi sicuri e spavaldi di un intenso marrone tendente al rossastro. Sul viso aveva un sorriso obliquo e furbo, come una volpe in agguato. Nel complesso, dava l’impressione di essere uno scalmanato.

«Uhm…» Nathan poggiò le spalle al portone e portò una mano sotto in mento ed una in tasca.  Lo fissava accigliato, con tono quasi di rimprovero «Circa due giorni fa.»

«Oh, merda… E io che pensavo di essere migliorato nel nascondere le tracce!» si lamentò Damon con sguardo da bambino deluso, mettendo le mani in tasca. I suoi occhi particolari e vivaci caddero sui pizzi di Ann.

«Invece sei ancora imbranato; chiunque si sarebbe accorto di te.» Nathan sembrava convinto di quello che diceva, ma lasciò cadere il discorso quando notò l’interesse dell’altro verso i lavori di Ann «Non toccarli, finiresti col rovinarli.»

Il giovane sbuffò e lo provocò ironicamente «Non avere tutta questa fiducia in me, cuginetto.»

Nathan gli lanciò un’occhiataccia; quest’ultima fu di sprono a Damon per sfidare ulteriormente il cugino «Sono qui per divertirmi!»

«No!» intervenne l’altro «Il tuo divertimento è direttamente proporzionale ai tuoi danni, e i tuoi danni ricadono sempre sulle mie spalle!»

Damon fece per controbattere, ma venne anticipato.

«Per una volta rimani fuori.» lo ammonì Nathan, per poi aggiungere «Piuttosto, chi ti ha mandato?»

«Sei sordo?» fu la risposta «Ti ho detto che sono venuto a divertirmi! E poi togliti queste manie di protagonismo, Nate, perché anche se sei il Supervisore sei come tutti noi altri, e quindi vali meno di zero. Se non ci fossi stato tu gli Angeli avrebbero mandato un altro.

«Razza di…» Nathan riuscì a frenare le parole per un pelo. Si impose la calma con un profondo sospiro e riprese a parlare «Va bene, Damon, allora permettimi di riformulare. Chi ti ha dato il permesso di venire? Non dovresti essere con gli altri? Era lavoro mio questo villaggio, no?»

«Hm, sì. Ma sai, Nate…» cominciò l’altro con voce decisamente più tranquilla, avvicinandosi a passi lenti verso il cugino «Jen e Marcus hanno notato alcune cose che non sono proprio piaciute…»

«So a cosa ti stai riferendo, e ho già la risposta: non è mia amica né lo diventerà. È solo una stupida villica.» precisò subito Nathan.

«Esattamente quello che volevano sentirti dire!» sorrise allegramente Damon «Anche perché le trattative sono ancora all’inizio, ne avranno per molto, credo.»

Giunse davanti al cugino e con fare eccitato gli chiese «Hey, hey, posso restare con te?»

«Guardami, Damon.» Nathan sorrise gentilmente.

L’altro sembrò illuminarsi «È un sì?!»

«Ma certo!» esclamò lo straniero.

Il cugino spalancò la bocca, con occhi commossi «Davvero?!»

«No.» Nathan spiegò il mantello perché gli coprisse anche le mani dando le spalle al cugino, il quale era sul punto di saltargli addosso e fargli pagare amaramente quegli scherzi crudeli.

«Riuscirò a convincerli a farmi venire!» schiamazzò Damon fulminandolo con gli occhi, ferito nell’orgoglio.

Nathan, dopo aver recuperato i pizzi di Ann, si voltò un’ultima volta verso di lui, guardandolo placidamente da sotto il suo ciuffo ribelle «Te lo auguro. Un po’ di vera compagnia mi piacerebbe. A presto, Damon.»

Detto ciò, alzò una mano in segno di saluto e abbandonò a sua volta il capannone, lasciando entrare un po’ di vento freddo che sollevò dolcemente gli abiti dell’unica presenza rimasta.

Damon, nonostante tutto quello che era successo, sorrideva, soddisfatto della sua prima apparizione in quel paesino. Era stata una cosa piuttosto veloce e nascosta, ma presto si sarebbe rifatto.

La sua apparizione da vero re non era lontana, di questo ne era sicuro.

 

 

Note dell’Autrice:

E finalmente è stata completata anche la revisione del terzo capitolo! Ringrazio come sempre il mio beta-reader VerganWanderingWolf per il grandissimo aiuto, senza di lui non ce l’avrei mai fatta. Inoltre riprendo dalla vecchia versione i ringraziamenti a Nimi chan, aggiungendo anche quelli a Violacciocca e Cupcake_chan. Grazie mille dei commenti! :D

 

A presto!

Sely.

 

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Capitolo 4
*** Brindisi col diavolo ***


What colour is the snow

What colour is the snow?

Capitolo 04: Brindisi col diavolo.

La luna, quella notte, brillava più del solito, così tanto da prendersi per una volta una rivincita su quelle stelle per cui spesso veniva messa in secondo piano. Tuttavia, ai villici di Hidel non era permesso osservare quella bianchezza immacolata. Le nuvole, padrone egoiste di quelle terre, la nascondevano bene, avvolgendo il villaggio in una cappa buia.

Ancora una volta, i sentieri di Hidel erano ricoperti da nuova e fresca neve pulita, che cadeva senza sosta dal primo pomeriggio.

La volta celeste, per quel poco che era possibile intravederne, era monotona, e conservava cocciutamente il suo infinito nero. Veniva illuminata a brevi tratti da puntini luminosi che apparivano e scomparivano frequentemente, lasciandosi ammirare per pochi secondi e tornando subito dopo a nascondersi dietro il manto spesso di nubi, come gelose del proprio bagliore.

Il freddo si intensificava di minuto in minuto, prendendo la forma di piccole stalattiti che formavano splendidi ma pericolosi archi acuminati sui rami degli alberi spogli.

Hidel si era acquietato da diverse ore, col far delle tenebre.

In queste ultime, che avvolgevano ogni angolo, ogni oggetto lasciato per strada, ogni spiffero, e poi, più in alto, i tetti delle case, gli alberi spogli, la valle, le montagne e la notte intera, risuonò un feroce ululato agghiacciante.

Il branco si stava muovendo, e quello era il loro avvertimento per Hidel. La sua gente avrebbe fatto bene a proteggersi con tutti i mezzi che aveva, poiché l’inverno era la stagione fredda, quella in cui cacciare diventava impresa ancor più ardua; e dunque, avendone la possibilità, perché non fare una piccola scorreria, afferrare un indifeso villico, e sbranarlo tutti insieme?

Il tetro urlo animale si prolungò molto a lungo, dilaniando il tessuto notturno e svegliando molti padri, allertati da quella che alle orecchie degli esseri umani era una dichiarazione di guerra.

Era tempo di cominciare ad andare in giro con i pugnali.

L’ululato non accennava a fermarsi, attraversava i secondi, i minuti, fino a diventare quasi insopportabile…

«Gesù, che baccano!» esclamò con una certa irritazione una figura ammantata di nero mentre usciva cautamente da casa con sguardo assonnato, dandosi una rapida occhiata intorno.

Poggiò le spalle al freddo legno della porta e mise le braccia conserte, mentre il pavimento sotto i suoi piedi scricchiolava ogni qual volta che spostava il peso del corpo da un lato all’altro. La gelida temperatura incideva sulla sua pelle, dandogli una spiacevole sensazione di bruciore lungo le gote pallide. Da sotto un ciuffo molto spettinato, due lesti occhi celesti accerchiati da occhiaie - prova del brusco risveglio seguito ad un difficile addormentamento - scrutarono ciò che era visibile, alla ricerca della fonte di tutto quel fracasso.

Cercava davvero i lupi? Sperava forse di trovarseli davanti, magari con la bocca spalancata e le zanne ben in vista? O forse quella era semplicemente la scusa a cui attribuire la sua insonnia?

Solo una cosa sembrava abbastanza chiara: quello straniero era decisamente fuori di testa.

Quale sciocco uscirebbe mai da casa ben sapendo che fuori i lupi attendono in agguato? Un suicida, direte, oppure qualcuno abbastanza forte da poterli contrastare, o almeno convinto di esserlo. Fatto sta che Nathan Metherlance era lì, in piedi davanti alla porta di casa, e non poté fare a meno di abbandonarsi ad una risata intenerita, quando la “dolce e delicata vocina” di lady Nevue spezzò quel concerto tenuto dal regno animale.

«E fate silenzio, cagnacci rognosi!»

Un secondo dopo, logica conseguenza di quell’urlo in piena notte, si udì la terribile voce di Lazarus Nevue tuonare.

«Annlisette!»

«Oh, Ann, sapessi quanto ti stimo.» rise sottovoce lo straniero mentre faceva per rientrare in casa, ma non prima di aver lanciato un attento sguardo, improvvisamente serio, alla nera selva dove le bestie si nascondevano, complici dell’oscurità. Anch’esse si erano zittite all’urlo della ragazza.

Chissà, forse anche loro erano rimaste attonite, proprio come lui al loro primo incontro e a quel particolare: “E tu chi diavolo sei?”

 

«Siete stata fantastica, davvero.»

Borbottò così messere Metherlance, con voce stanca ed un mezzo sorriso. Di nuovo in piedi davanti alla porta di casa, con una mano intenta a strofinare le braccia per il freddo.

Non era propriamente salutare uscire di casa con indosso solo il pigiama, che, nel caso del povero, ma decisamente povero straniero, era costituito da una camicia mezza rattoppata e un paio di pantaloni scoloriti provati quanto lui dalla lunga nottata. Da quanto tempo non prendeva uno stipendio, il ricercatore?

«Sì, lo so.»

Dal suo lato, Ann non era esattamente ciò che si definisce “una ragazza modesta”.

«Ogni tanto ci vuole il pugno di ferro con quei lupacci.» scosse il capo e mise le mani sui fianchi, imbronciata «Di notte si dorme, non ci si mette ad urlare come pazzi!»

Se non fosse stato in una condizione di semi trance mattutina, Nathan avrebbe di certo fatto notare alla giovane che lei stessa si era messa ad urlare come una pazza in piena notte, ma in quel momento il senso di sonnolenza e il richiamo più forte che mai del letto lo frenavano.

La mattina era sempre difficile alzarsi, soprattutto per uno come lui, abituato a lavorare di notte.

Traballando a causa del legno ghiacciato sotto i piedi, fece cenno ad Ann di entrare in casa.

«Entrate, vi prego, o ci prenderemo un malanno…»

Lì per lì Ann rimase sulla soglia. Fino a quel momento aveva preferito non avvicinarsi troppo, ed aveva sostato sotto il portico, al riparo dalla neve che continuava a cadere implacabile, con le mani avvolte nelle pieghe della gonna e un coprispalle di lana pesante che la cingeva dal capo fino alla vita, lasciando alla vista solo il viso scarno e i lunghi capelli disordinati. Non negava di star soffrendo il freddo, ma non le sembrava il caso di accettare un invito simile.

Nel suo villaggio di puritani non era buona educazione entrare nelle case altrui, figurarsi in una casa dove vive un uomo scapolo se si è una ragazza nubile. Che diavolo poteva passare per la testa di un uomo? Eppure, forse per il sonno, forse per la stanchezza, quella mattina messere Metherlance non sembrava “pericoloso”, ma solamente molto incline ad addormentarsi in piedi, e questo pensiero spinse la ragazza a farsi coraggio.

Entrò in casa e Nathan chiuse alle sue spalle la porta.

La “dimora” sembrava migliore vista da fuori. Dentro, infatti, senza offesa per messere Metherlance, si notava quanto mancasse un tocco femminile. Evidentemente si era sforzato di trovare un certo ordine, infatti la libreria in fondo alla sala principale era ben ordinata, non c’era traccia di polvere sul tavolo posto accanto a un grande baule vecchio e scuro, e nel camino il fuoco fiammeggiante si agitava violentemente. Si poteva chiudere un occhio sulla moltitudine di volumi mal rilegati e strani oggetti che Ann non conosceva, praticamente sparsi in ogni angolo libero.

Le finestre erano socchiuse ed entrava poca luce, giusto quel poco che bastava per vedere dove si mettevano i piedi. Il tutto era immerso nella penombra.

Sembrava di essere entrati nello studio segreto dello scienziato pazzo.

Aprendo quello che doveva essere un cesto per le provviste, lo straniero tirò fuori del pane e del latte che poggiò sul tavolo con gesti lenti, essendo ancora intontito dal sonno; subito dopo si sedette ed invitò Ann ad accomodarsi.

La ragazza rise sottovoce e accolse il suo invito «Dov’è finita la vostra chiacchiera?»

Lui a malapena alzò uno sguardo supplicante, con due occhi talmente cerchiati da occhiaie da intenerirla.

«Sta ancora dormendo!» rise ancora la giovane, che nel frattempo si era accomodata sull’unica sedia libera, all’altro capo del tavolo, commentò ironicamente «Non vi pensavo abituato a svegliarvi tardi, Nathan.»

Il borbottio poco amichevole di Nathan fece divertire ancora di più Ann.

Lo straniero prese il pane e ne tagliò diverse fette con un vecchio coltello dalla lama decisamente affilata, e, dopo aver spalmato sul pane della marmellata e versato il latte in un bicchiere, passò il tutto all’ospite.

La ragazza accettò, sollevando però un sopracciglio «Non mi sembra di essermi invitata a colazione.»

A quelle parole lui si bloccò e poggiò il peso del capo sulla mano destra, guardandola male «Che razza di mostro sarei se facessi colazione senza offrirvi niente?»

«Eccole! Lo sapevo che non avreste resistito molto ancora!» scattò lei, alzando un dito nella sua direzione.

L’uomo, confuso, si agitò «Come? A cosa?»

«Alle buone maniere!» nel parlare, lei afferrò con mano lesta il pane che fino ad allora aveva lasciato giacere, per poi dargli un morso.

«Mangiate, mangiate, vi fa bene!» l’altro si sforzò di ignorare la frecciatina, e tornò a poggiare le spalle contro il duro legno della sedia.

«Sembrate quel vecchio bisbetico di mio padre!»

Al ricordo di Lazarus Nevue, Nathan scattò scuotendo il capo «No! Mi fa paura!»

Ann scoppiò a ridere e poggiò il pane sul tavolo «Ma perché dite tutti così? Va bene, è un vecchio rompiscatole di due metri e qualcosa, ma non è poi così cattivo!»

La colazione proseguì tranquillamente, accompagnata da frivoli discorsi che rilassavano entrambi: le abitudini dei contadini di Hidel, la cena della sera prima, l’ennesimo scontro dialettico tra Annlisette e Doralice.

Da un po’ di tempo a quella parte, Ann si divertiva stando con quello straniero, che con il suo essere eccentrico sapeva rendere le sue giornate più originali.

Abbandonato l’argomento Doralice, gli occhi della ragazza caddero su uno dei tanti piccoli bauli ammucchiati in un angolo buio, da cui usciva una pila di libri sul punto di perdere un equilibrio già precario. Non riusciva a leggerne distintamente i titoli, ma scorse alcune parole ben lontane dall’inglese.

«Leggete tantissimo, Nathan.» sorrise gentilmente la ragazza, inclinando lo sguardo.

Erano ancora seduti a tavola, ma ogni traccia di colazione era stata rimossa velocemente.

Ora che sembrava aver superato l’iniziale confusione del risveglio, Nathan appariva più reattivo e vivace.

Annuì alle parole della ragazza, per poi volgersi verso la pila oggetto di discussione «In realtà quelli sono libri di testo.»

«Libri di testo?» chiese sorpresa la giovane, alzando un sopracciglio con fare confuso.

«Sì, testi scolastici.» confermò lui «A Terren sono insegnante, ve l’ho già detto se ricordate. E non mi limito solo al latino, insegno diverse lingue.»

A conferma di ciò si mise in piedi e si diresse verso il mucchio, da cui prese il libro che era stato osservato a lungo dalla ragazza, per poi passarglielo.

«Ad esempio, questo è un manuale di lingua inglese.»

«La lingua nazionale…» mormorò la ragazzina, prendendo tra le mani l’oggetto.

Ne sfogliò con interesse crescente le pagine, senza però riuscire a capire granché. Fino a quel momento le era sempre bastata la sensazione delle vecchie pagine ingiallite tra le dita, il freddo della rilegatura sui palmi e l’odore della carta nelle narici, ma adesso, stranamente, tutto ciò non le sembrava abbastanza. Voleva qualcosa di più, voleva comprendere il significato di quelle righe e farlo proprio.

Ma non ci riusciva.

«Sì, la lingua nazionale. Qui usate solo il dialetto.»

La voce di Nathan la riscosse dai suoi pensieri in modo un po’ brusco, lasciandola disorientata per qualche secondo. Poi, inclinando il capo, disse «È davvero così diverso dalla lingua nazionale?»

L’uomo annuì in modo deciso.

Ann fece un gran bel sorriso.

Nathan ebbe un gran brutto presentimento.

Dopo un attimo di pausa, lei esclamò «Voi siete un insegnante!»

«Sì…» confermò lo straniero, decisamente poco entusiasta.

Ann sbottò allegramente «Quindi mi insegnami!»

Dopo un primo attimo di silenzio, l’uomo fu costretto a voltarsi di profilo e a trattenere una risata poco gentile che minacciava di esplodergli in gola. Annuì alle dolci aspettative della giovane, ridacchiando ancora tra sé e sé.

«Bene, prima lezione!»

«Di già?!» colta di sorpresa, la villica cominciò ad agitarsi.

«Non si dice “quindi mi insegnami”.»

«Oh…»

 

«Che cosa?!»

Quando Lazarus Nevue tuonava, i tuoni stessi impallidivano.

«Lezioni di inglese e latino dallo straniero?!»

Ann sentì le gambe cederle improvvisamente, e, suo malgrado, cominciò a scivolare sotto il tavolo, con lo stomaco che si chiudeva all’improvviso. Il pranzo poteva aspettare, anzi, era diventato troppo pesante quello che aveva già mangiato.

«Ehm… ecco… io…» balbettò con un sorriso tirato, capendo finalmente perché Nathan aveva paura di suo padre «Non ti piace l’idea di avere una figlia colta?»

«Oh, certo… Non avevo mai pensato quanto può tornare utile il latino quando coltivi. Se parli alla pianta in latino sicuramente lei crescerà meglio.»

L’omone poggiò pesantemente la schiena contro la spalliera in legno, e la sua enorme figura venne contornata appena dalla fioca luce delle fiamme che danzavano nel camino alle sue spalle.

Immersa nella penombra della casa, Ann sembrava ancora più piccola di quanto non fosse, con le spalle basse e sparita quasi per metà sotto il tavolo.

Rise in modo goffo, accompagnando la risata con uno stentato «Sapevo che avresti capito!»

Lazarus le indirizzò un’occhiata talmente severa da zittirla istantaneamente.

La giovane capì che forse, almeno per ora, era meglio rimandare l’argomento, così sospirò e si accasciò sul tavolo, come reduce da un terribile combattimento. Non aveva veramente creduto di essere in grado di convincere un uomo all’antica come suo padre, ma era rimasta comunque delusa.

Riprese a mangiare con un’espressione affranta sul volto, alternando sospiri a bocconi di porridge duro che non le piaceva affatto.

La visione della ragazzina così imbronciata non sembrava piacere però al vecchio Lazarus che, lasciati passare alcuni minuti di silenzio, iniziò un nuovo discorso mentre ticchettava pesantemente con il pollice sul tavolo.

«Durante l’ultima riunione del consiglio si è deciso di fare una festa.»

«Una festa?» Gabriel si voltò a guardarlo con interesse. Con tutti gli strani avvenimenti degli ultimi tempi il villaggio era diventato più restrittivo, e riusciva ad incontrare la sua fidanzata, Louise Bell, solamente a cena o in occasioni simili.

«Sì.» sorrise entusiasta Elizabeth, mentre carezzava amorevolmente i capelli della figlia seduta accanto a lei «Una gara gastronomica in coppie!»

La figlia brontolò sottovoce in direzione della madre «Io non so cucinare bene…»

Era una dura, durissima verità, di cui Annlisette e sua famiglia ormai si erano fatte una ragione. Una donna non capace di cucinare non andava proprio bene, ed Ann, per quante volte provasse, combinava solo pasticci.

«Puoi fare coppia con una persona che lo sa fare, sai?» le suggerì la madre con fare incoraggiante, per poi mettersi in piedi e cominciare a sparecchiare la tavola canticchiando sottovoce una melodia un po’ monotona.

«Papà, posso fare coppia con la mamma?» domandò speranzosa la giovane, con  occhi vivaci e voce emozionata: se poteva davvero far coppia con la madre non c’era più niente di cui preoccuparsi, aveva la vittoria in pugno!

Ma, come temeva, l’uomo scosse il capo, e lei tornò ad accasciarsi delusa sul bordo del tavolo.

«Possono partecipare solo i minori di ventitre anni.» spiegò il padre, che, nonostante fosse calmo, era dotato di un tono di voce così alto da farlo sembrare infuriato «È una gara per i giovani. Perché non chiedi a Krissy Scottfish? Sono sicuro che le farebbe piacere.»

L’idea venne accolta volentieri dalla giovane.

Partecipare a una gara di cucina non la entusiasmava per niente, ma era decisa a partecipare per un unico motivo: sicuramente anche Doralice avrebbe partecipato, e non avrebbe mancato di pavoneggiarsi anche solo per saper tenere correttamente in mano un cucchiaio. Annlisette avrebbe gareggiato solo per il gusto di vederla sconfitta.

Già ora, pregustandosi la scena, rideva quasi sadicamente davanti ai genitori e al fratello che si scambiavano vicendevolmente occhiate inquiete. Ann strinse un pugno davanti al viso, convinta di avere già la vittoria in mano, quindi scoppiò in una risata soddisfatta.

Deglutendo, Gabriel mormorò «La vedete anche voi, vero? Fermatela… mi fa paura…»

 

La mattina della gara l’alba venne annunciata allegramente dai galli di Mrs Harper, a cui metà Hidel avrebbe volentieri tirato il collo.

«Oh, dannazione! Una volta i lupi, una volta i galli… Come diavolo può sopravvivere un gallo con questo freddo?!»

La voce arrabbiata e ancora impastata dal sonno di Ann si espanse per la vuota e buia stanza, come un fulmine a ciel sereno. La giovane, ancora completamente avvolta nelle coperte vecchie e rattoppate, espresse il suo grande disappunto con un lungo e sommesso brontolio, dato che i muscoli sembravano ancora troppo addormentati per aiutarla a scaraventarsi fuori casa e andare a fare a pezzi quei galli. Inspirò profondamente, imponendosi di darsi una calmata, ma presto la stanchezza ebbe la meglio e abbandonò ogni proposito di vendetta.

Il risveglio non era stato dei migliori, come lo era ogni risveglio da diverso tempo. Ormai dormire serenamente, ma soprattutto svegliarsi serenamente, era davvero un sogno.

I lupi si facevano sentire sempre più frequentemente; forse perché dicembre, e quindi la stagione rigida, aveva portato nuove grandi difficoltà per gli animali selvaggi del Northumberland*.

Stranamente però, ancora non avevano attaccato Hidel. Buono o cattivo segno?

Ann allungò le gambe, stiracchiandosi svogliatamente. Non aveva voglia di alzarsi, non aveva voglia di cucinare, aveva solo una gran voglia di vedere la faccia sconvolta di Doralice quando avrebbe scoperto di essere stata battuta miseramente. Perché Ann era convinta di avere la vittoria in pugno, o, se non lei, un altro decisamente più meritevole di quella oca dalla vita fin troppo semplice.

«Forza e coraggio, Ann!» si spronò, serrando poi i pugni e tirando un piede fuori dalle coperte.

Un secondo dopo, però, vi si ritrovò nuovamente sotto, a tremare per il freddo.

«Dannazione, si gela…» si lamentò sottovoce.

Decise di passare altri cinque minuti al caldo, facendo mente locale su quello che avrebbe fatto durante la giornata. Innanzitutto si sarebbe recata alla sala maestra prima delle dieci, quindi avrebbe avuto il tempo di aiutare la madre con le pulizie, e magari anche di darsi una sistemata. Dopotutto quella era un’occasione importante, la sua occasione per umiliare la sua rivale!

La sera prima era rimasta d’accordo con Krissy di trovarsi al loro solito angolino per le dieci meno un quarto. A quanto aveva capito, avrebbero dovuto cucinare qualcosa prima di mezzogiorno, così le due avevano optato per una torta o dei biscotti. Non sapevano però se la giuria avrebbe avuto delle preferenze, dunque si erano preparate solo a parole.

«Annlisette! Svegliati!»

La sua stretta attorno al cuscino spiegazzato si fece d’acciaio, mentre cercava di scacciare dalla mente la voce di Gabriel, che la mattina le sembrava sempre più insopportabile.

 

Le poche ore che aveva a disposizione passarono molto frettolosamente.

La giovane ragazza venne sollevata dalla dolce madre dagli incarichi che potevano portarle via troppo tempo, così da potersi dedicare per una volta al suo aspetto.

Eppure, seduta sul suo letto completamente disfatto in mezzo ad una stanza disordinata, la giovane non aveva davvero idea di che cosa mettere quel giorno. Aveva davvero pochi vestiti, un po’ come tutti lì ad Hidel, e giacevano abbandonati nel baule aperto, in attesa di essere usati; tutti cuciti a mano, glieli aveva fatti la madre, e la maggior parte era riservata ad occasioni importanti. Avrebbe dovuto usare uno di quelli?

Inclinò il capo e si posò un dito freddo su una guancia altrettanto fredda, aggrottando la fronte mentre ciondolava pigramente le gambe.

Inizialmente aveva pensato al suo solito abito, in quanto avrebbe dovuto usare ingredienti che potevano sporcarlo, poi però, al pensiero dell’eterna nemica che sicuramente sarebbe sbucata con una veste principesca, ci aveva repentinamente ripensato. Prese quello che più le piaceva: un unico pezzo completamente azzurro, con una piatta gonna con un’unica balza poco sotto la vita, i bordi di pizzo, lunghe maniche allargate verso la fine che le rendevano più facile il lavoro, e un bel girocollo che l’avrebbe tenuta calda. Prima di uscire dalla stanza, afferrò al volo uno scialle di pesante lana poggiato sul bordo del piccolo baule: l’avrebbe protetta dal freddo.

Si sentiva un po’ frivola a dirla tutta, perché non era da lei perdere così tanto tempo per trovare l’abito da mettere, ma quella era un’occasione speciale, ed Ann non voleva essere da meno della sua eterna rivale.

Aprì la porta e si precipitò giù dalle scale, facendo un gran fracasso. Tutti gli abitanti della casa seppero all’istante che Ann stava per fare il suo ingresso in scena. Gabriel, che si stava occupando di ravvivare il fuoco scoppiettante nel camino della cucina, scosse il capo in direzione della madre, seduta lì accanto su una vecchia sedia a dondolo un po’ lamentosa. La donna rise serenamente e si voltò a salutare allegramente la figlia che, attraversata di corsa la stanza, si stava catapultando fuori.

Ann alzò una mano e fece un gran sorriso mentre afferrava il suo grande e caldo cappotto grigio «Ci vediamo dopo!»

«A dopo, tesoro! Vai e vinci!» la incoraggiò la donna.

«Spacca il naso a Docalice!» si unì al coro il fratello, ottenendo il pieno consenso della sorellina.

Appena messo un piede fuori dalla casa, la ragazzina realizzò immediatamente cosa chiedere a Babbo Natale quell’anno: un copri naso.

Tremando, si strinse nel soprabito e si coprì la testa con lo scialle; nessuno dei due tuttavia  riusciva a scaldarla.

Decisa a ripararsi al più presto, cominciò ad avanzare per la strada deserta, come al solito, dandosi fugaci occhiate intorno di tanto in tanto, alla ricerca di una qualche anima. Forse, però, quel gelo più pungente del solito aveva convinto tutti a non uscire di casa, oppure, alternativa decisamente più spaventosa, erano già alla sala maestra pronti ad assistere allo spettacolo. Accelerò il passo, persa dal timore di arrivare in ritardo.

Si chiese se sarebbe stato presente anche lo straniero.

La mattina prima, quando era andata a trovarlo, si era dimenticata di chiedergli se aveva da fare per l’indomani. Si diede della sciocca, poiché si era fatta scappare l’occasione di avere una compagnia durante la strada, così non sarebbe stata da sola davanti a quei sentieri semi deserti di Hidel che ultimamente le mettevano molto timore addosso. Ad ogni passo aveva la sensazione di essere osservata da lontano, che tutto il villaggio fosse spiato da lontano, e quell’orribile pensiero le faceva avvertire ancora più freddo, tanto che credeva che sarebbe potuta congelare viva. Scuoteva la testa in quei momenti, proprio come ora, e scacciava la paura dicendosi che era solo la sua stanchezza fisica e il bisogno di una bella estate tiepida.

Provò a distrarsi ed ingannare il tempo con la pallida visione di un messere Metherlance intento a fare il tifo per lei e Krissy. Sarebbe stato così buffo! Il pensiero le strappò una risata e le fece tornare il buon umore.

L’ultimo tratto di strada venne percorso dalla ragazza a gambe levate per paura di congelarsi, ma una volta entrata nella sala maestra tirò un sospiro di sollievo. Avevano accesso il fuoco nell’ampio camino e si stava abbastanza bene; era sicuramente meglio rispetto a fuori!

Il luogo, per quanto grande, sembrava già pieno per metà, e ciò le suggerì che probabilmente era in ritardo. C’erano un po’ tutti: anziani seduti a giocare a dadi, bambini che correvano tra le fila dei tavoli agitando le mani, madri che li riprendevano a volte duramente, mentre la gran parte degli uomini sembrava impegnata a discutere di qualcosa, sicuramente del frequente lamentare notturno dei lupi, poiché altri argomenti degni di nota a Hidel non ce n’erano.

Infine, in mezzo a quella calca di colori e visi diversi, c’era un gruppo che si distingueva: erano tutti giovani, seduti ai piedi del piccolo palco ligneo, e parlottavano tra di loro in evidente attesa dell’inizio della gara. Ann, affrettandosi verso di loro, capì che erano i partecipanti.

C’era Doralice con tutta la sua truppa; durante la gara la giovane Cloky sarebbe stata in coppia con la sua nuova “fiamma”. Girava da un po’ di tempo la voce che ella frequentasse un ragazzo più grande di loro, per la precisione il figlio di un’altra benestante coppia di Hidel. Insomma, “preservavano la specie”, così aveva spiegato Ann a Krissy.

La giovane bionda era davvero bella quel giorno, non sembrava aver considerato che cucinando il suo bel vestito rosa tutto pizzi e merletti avrebbe potuto rovinarsi; probabilmente era sicura di avere la vittoria in mano, e, al centro del suo gruppo intento a parlottare, sembrava più agguerrita che mai.

Annlisette, dopo essersi informata ed assicurata che le iscrizioni non erano ancora cominciate, iniziò a cercare Krissy. Passò anche accanto al gruppo della rivale, senza però degnarla di un’occhiata.

«Ooh, c’è Annlisette!» ci pensò Doralice a ricordarle della sua presenza, facendosi largo tra le amiche per raggiungerla. Le rivolse un’occhiata orgogliosa, di sfida.

«Ooh, Docalice! Non ti avevo vista in mezzo ad amiche così alte!» Ann, come sempre guerrafondaia, si voltò verso di lei pancia in dentro e petto in fuori.

«Mi chiamo Doralice, memoria corta?» l’altra, evidentemente offesa, la fulminò.

«Ah, giusto. Scusa, la mia povera mente di cittadina qualunque fa acqua da tutte le parti.» continuò con tono di presa in giro lady Nevue, con il capo leggermente inclinato e il viso occupato da un beffardo sorriso. Aveva imparato la tecnica del “sorriso canzonatorio” da una persona che non vedeva in giro, ma che avrebbe voluto incontrare.

«È che Docalice mi sembra più adatto, forse quel tocco di grazia dato dall’“oca”…»

«C-come ti permetti?!» la bionda strinse i pugni, colpita nell’orgoglio. Fece un passo per avvicinarsi a lei con l’evidente intenzione di ricorrere alle mani – nonostante le arie da gran donna, Doralice era manesca quanto Ann -, ma venne fermata dalla mano del ragazzo che frequentava: un giovane molto alto, con dei begli occhi verdi che si intonavano al soprabito marrone che indossava con eleganza.

«Non dar peso alle parole di certa gente, Dodo.» disse a voce abbastanza alta perché Ann potesse sentirlo.

Al soprannome “Dodo”, Ann fu costretta a mettere entrambe le mani davanti alla bocca per non scoppiarle a ridere in faccia.

«D-Dodo?!» sussurrò per poi abbandonarsi a una risata, scatenando l’ira di Doralice. La mora mise una mano sulla spalla della rivale, mentre continuava a ridere di gusto «Oddio, sei messa proprio male!»

La voglia di rivalsa era troppa, e Doralice non riusciva a contenerla tutta. Doveva contrattaccare. Gli occhi smeraldo caddero sul grembiule tenuto in mano da Ann, preso poco prima da un tavolo dove ne avevano ammucchiati un po’ per i partecipanti alla gara. Ottimo.

Sorridendo spavaldamente, disse «Anche tu partecipi, Ann? Se non ricordo male non sai cucinare.»

«Ricorda, Dodo.» Ann sapeva benissimo che d’ora in poi la sua arma principale contro la sua nemica sarebbe stato quell’abbreviativo a dir poco buffo. Accompagnò le seguenti parole con un occhiolino «L’erba del vicino è sempre più verde. E nel tuo caso… il vicino sono io, e l’erba più verde è la persona più brava a cucinare in questo paese!»

Dopo qualche attimo di esitazione, Doralice le scoccò un’occhiata sinceramente curiosa «E dov’è?»

Ann si bloccò. Doveva ammetterlo, su quel “piccolo e trascurabile particolare” Doralice aveva ragione. Dove accidenti si era cacciata Krissy?

«Vuoi di già rovinarti la sorpresa? Lo vedrai tra poco!» arrangiò come possibile una difesa e, senza dare alla rivale il tempo di replicare, si allontanò a grandi passi da quella zona, alla ricerca di Krissy.

La cercò a lungo, chiedendo anche più volte alle stesse persone, spingendo e facendosi spazio come poteva, incaricando i lesti bambini di ispezionare l’intera sala maestra, ma, giunte le dieci, capì che probabilmente le era successo qualcosa per cui non era potuta venire. Ecco, era pronta a disperarsi.

In quel momento si trovava accanto alla porta d’ingresso, fuori dalla confusione che si stava creando attorno al palco, e fu allora che notò Mr Scottfish fare il suo ingresso tutto trafelato. Era un uomo molto ansioso, ma in un certo senso ispirava tenerezza con quei suoi modi imbranati e gli occhi sempre presi da grandi pensieri.

«Annlisette! Che fortuna trovarti subito!» l’uomo la raggiunse di gran corsa, fermandosi davanti a lei «Mi manda Krissy. Si scusa, ma oggi non potrà venire.»

«Sta bene?» chiese allora la ragazza con sincera preoccupazione.

«Purtroppo no, ieri sera le è salita la febbre.»

L’uomo, subito dopo aver dato la notizia, si scusò con la ragazza che ormai considerava una figlia acquisita per non poter assistere alla gara, poiché doveva immediatamente tornare a controllare lo stato di salute della malata.

Ann, rimasta in disparte, poggiò le spalle alla parete dietro di sé e portò una mano alla tempia. Se Krissy non c’era, era nei guai nei fino al collo. Con l’amica eccezionalmente brava a cucinare non avrebbe avuto problemi, ma ora era sola.

Che disastro!

Si lasciò scivolare lungo la parete fino a sedersi, ignorando forzatamente la confusione che cresceva attorno a lei di in minuto in minuto; si stava radunando l’intero villaggio!

“Cosa posso fare?” domandò a se stessa, triste. Non ne voleva sapere di lasciare la vittoria a Doralice, che sicuramente l’avrebbe presa in giro per il resto dei suoi giorni, né di tradire le sue stesse aspettative. Brontolò con fare poco amichevole.

«Signori!» una voce tonante, dal timbro molto forte, spezzò il chiacchiericcio che si era instaurato. Ann la riconobbe subito: era il capo villaggio, quindi la gara stava per iniziare.

 Cercando di cancellare il dolore allo stomaco provocato dall’emozione, e magari anche la gente che si accalcava dentro il capanno facendola sentire ancor più insignificante, la giovane affondò il viso nelle mani.

“Che faccio?!”

«Annlisette?»

Illuminazione.

Ann alzò lo sguardo di colpo. Aveva riconosciuto la voce che l’aveva chiamata: Nathan. L’uomo era in piedi davanti a lei, col suo solito mantello nero sottobraccio e lo sguardo confuso, quasi preoccupato.

Ann, sentendosi rincuorata come non mai, scattò in piedi e sbottò «Nathan! Sapete cucinare?!»

«Cucinare?» lui alzò un sopracciglio, scrutandola curioso «Beh, diciamo che…»

«Ma che chiedo? Voi sapete fare tutto!» la ragazzina si diede una pacca sulla fronte, scuotendo il capo subito dopo.

Lui fece per controbattere qualcosa, ma venne zittito da un «Seguitemi!» che sembrava tanto un ordine.

Non c’era più tempo, dovevano sbrigarsi!

Mentre lo trascinava, la ragazza non si curava più della gente attorno a loro, non le importava più degli sguardi severi e dei rimproveri che le indirizzavano quando spingeva o passava tra due persone dedite ad una conversazione. Aveva un obiettivo, ovvero evitare di umiliarsi miseramente davanti alla sua eterna rivale, e magari batterla, anche se la sicurezza di vincere l’aveva abbandonata da un pezzo. Si appellava ormai allo straniero, che dietro di lei chiedeva scusa per ogni sgarro suo o della compagna.

Egli non fece domande, probabilmente perché aveva già capito le intenzioni della ragazza. Forse era stato convinto ad assecondarla da quella sua espressione a dir poco disperata che le aveva visto dipinta sul volto poco prima.

«Ci sono altri partecipanti?»

La voce del capo villaggio venne udita dai due che erano finalmente giunti a destinazione, ai piedi della piattaforma dove tutti aspettavano.

Doralice sorrideva serenamente, probabilmente perché sicura che Ann avesse deciso di ritirarsi prima di cominciare, e scambiava di tanto in tanto qualche parola col suo partner altrettanto tranquillo, come sicuro di vincere. Oltre loro c’erano parecchi altri ragazzi e ragazze; sembrava che l’idea avesse avuto successo.

«Avete meno di ventitre anni?» Ann si voltò un attimo verso Nathan, il quale annuì. Strano, a giudicare dalle occhiaie e dallo sguardo smorto gliene avrebbe dati una trentina o poco meno.

La ragazzina alzò una mano, ed esclamò a gran voce mentre lo trascinava sul palco «Noi due!»

«Oh, anche voi vi date da fare, messere Metherlance?» rise allora il sindaco, osservando il povero straniero.

Nathan, costretto controvoglia su quel palco, non rispose se non con un sorriso tirato.

“Beh, se non lo faccio Ann mi ucciderà…” avrebbe voluto dar voce ai suoi pensieri, ma sarebbe ugualmente andato incontro alla morte.

Vedendo Ann salire sul palco assieme allo straniero, molti concorrenti avevano cominciato a sussurrare pettegolezzi. E, considerando che ultimamente quei due erano spesso stati visti insieme, non era difficile immaginare che cosa mormorassero e quali pensieri passassero per la mente della gente lì dentro. Nathan si disse che se non l’ira funesta di Ann, sarebbe stata l’ira funesta di suo padre a ucciderlo, e maledisse le malelingue.

Anche Doralice era rimasta sorpresa da quell’inaspettato partner; pensava infatti che Ann avrebbe portato con sé Krissy, e in quel caso sarebbero stati guai, perché tutti sapevano che la piccola Scottfish, dovendo supplire al ruolo della madre scomparsa, aveva imparato a cucinare davvero bene.

E invece si era portata lo straniero. All’inizio anche lei aveva pensato di provare a legare con lui, ma quando aveva scoperto che non era uno ben piazzato, con un lavoro che non rendeva abbastanza per sostenere una famiglia, aveva lasciato perdere. Tuttavia, ora si chiedeva come accidenti avesse fatto una ragazzina presuntuosa e prepotente come Ann a convincerlo addirittura a partecipare ad una gara a coppie.

Beh, si disse Doralice, straniero o non straniero, avrebbero perso sicuramente. Lei aveva partecipato a quella gara unicamente perché era sicura che anche Ann l’avrebbe fatto, e non voleva assolutamente lasciarsi umiliare dalla sua eterna rivale.

Insomma, Ann e Doralice vi avevano preso parte per lo stesso motivo. 

Il sindaco, un uomo sulla cinquantina molto alto e con due spalle che non avevano nulla da invidiare a messere Nevue, si fece spazio tra la piccola folla di partecipanti e si posizionò al suo centro, cominciando a gesticolare, suo irrimediabile vizio, mentre parlava col suo vocione.

«Bene, ragazzi, la cosa è molto semplice. Dovete preparare un piatto a vostra scelta, purché sia un dolce. Troverete tutti gli ingredienti che siamo riusciti a mettere a vostra disposizione su quel tavolo.»

Istintivamente, tutta la comitiva allungò la testa verso un tavolo posto in fondo al palco, a ridosso del muro, completamente occupato da ciotole con uova, farina, latte, cioccolato e tutto il necessario per cucinare cose basilari come biscotti e torte.

«Avete due ore a partire da…» l’uomo richiamò l’attenzione su di sé. Da sotto la manica pulita e ben rifinita della giacca marrone che indossava, sbucò un orologio da polso molto semplice che segnava le diedi e un quarto. Sorrise ai ragazzi ed esclamò «Ora!»

La folla si spostò immediatamente al tavolo degli ingredienti, mentre poche coppie rimasero ferme a parlottare tra di loro. Inutile dire che tra queste vi erano anche lady Nevue e messere Metherlance.

Ann, così carica che sembrava per esplodere, strinse i pugni e ribadì al compagno «Un dolce!»

«Un dolce…» ripeté lui, mettendo una mano sotto il mento, preso dai suoi ragionamenti «Avete qualche dolce tipico, qui a Hidel?»

La ragazza mise le mani sui fianchi ed alzò gli occhi al soffitto, cercando di ricordare «Abbiamo piatti tipici, ma non dolci che io sappia. Dite che un po’ di salsa su un dolce sta male?»

Salsa sui dolci? A quelle parole il sangue di Nathan si gelò. Preso dal panico, le chiese, con tutta la gentilezza di  cui era capace «Ann cara, voi sapete cucinare… vero?»

A quella domanda però non vi fu risposta; Ann gli sorrise in modo poco rassicurante e gli prese il braccio per portarlo al tavolo degli ingredienti, mentre lo sentiva mormorare qualcosa.

«Siamo spacciati…»

 

I due giovani persero dieci minuti buoni davanti al tavolo, facendo considerazioni su quanti pochi ingredienti fossero rimasti e quante poche idee riuscissero a raccogliere pur essendo in due.

La maggior parte degli altri concorrenti si era già messa al lavoro, alcuni stavano già avendo addirittura i primi risultati. Nella sala si era instaurato un gran caldo, provocato dai forni accesi, e alcuni erano addirittura arrivati ad aprire alcune finestre per far arieggiare.

Di tanto in tanto, Ann scoccava occhiate cariche d’insofferenza a Doralice, la quale, già a un ottimo punto con la preparazione dei suoi biscotti al cioccolato, ricambiava con sorrisi soddisfatti.

Nathan era l’unico dei due a pensare seriamente a qualcosa da cucinare, in quanto aveva capito il vero motivo per cui la giovane si era iscritta. Sospirando, prendeva qualche ingrediente, riposandolo subito dopo: nemmeno lui era un esperto di cucina, aveva paura di confondere il sale con lo zucchero.

“Accidenti, ma come ho fatto a finire in questa situazione?” si lamentò con se stesso, mentre ticchettava con un dito su una delle uova rimaste intoccate.

Ann fulminò per l’ennesima volta l’avversaria, ma stavolta lo straniero fulminò lei; portava solo guai quella ragazzina, più tempo passava più ne aveva la prova!

Quando Nathan tornò a guardare il tavolo, il suo sguardo celeste calò su un ingrediente che aveva sempre amato: lo zucchero a velo. Ricordava quella meravigliosa torta che sua sorella maggiore preparava sempre quando erano bambini, prima di andare a giocare in quel prato fiorito, a Francoforte.

Uhm… com’era quella torta? Auror la faceva usando le uova e lo zucchero, mi sembra… ci metteva anche la panna, i biscotti… uhm…

Alla fine decise: avrebbero fatto la “torta neve neve” che la sua sorellina gli preparava sempre! Non ricordava assolutamente le dosi, ma che problema c’era? Avrebbero tolto quello che era in eccesso! Del resto, sembrava che tutti si stessero cimentando in cose molto comuni, almeno sarebbero stati originali.

Con quei pensieri prese la crema pasticcera, il cioccolato, lo zucchero a velo, i biscotti e la panna.

Solo allora Ann si accorse di quello che il suo partner stava facendo, e con un sorriso speranzoso unì le mani al petto, raccogliendo tutti gli ingredienti che poteva «Illuminazione?»

«Illuminazione.» confermò lui, facendole cenno di seguirlo al loro tavolo, in un angolo abbastanza appartato del palco, dove erano coperti dagli altri partecipanti «Faremo la “torta neve neve”.»

«La “torta neve neve”?» ripeté lei.

«Sì, la cucinava mia sorella quando ero piccolo. È una ricetta inventata da lei e battezzata da me.»

Il giovane uomo sparse gli ingredienti con fare professionale, sebbene non sapesse in realtà da dove cominciare.

Durante tutte quelle operazioni, Ann lo fissava curiosamente. Appena aveva pronunciato la parola “sorella”, Nathan era diventato improvvisamente malinconico, lo si vedeva da come faceva tutto con lentezza, quasi stesse ricordando qualcosa del suo passato.

Ma non era il momento di pensare a queste cose, anche lui se ne rese conto, dunque tornò a sorriderle mentre lei tirava su i capelli, legandoli con una cuffietta, e lui si metteva il grembiule. Con quell’affare addosso sembrava davvero…

«Una perfetta donnina di casa!» così fu definito da Ann, che rideva allegramente.

«E dovreste vedermi coi capelli sciolti!» ironizzò lui a sua volta, poi aggiunse con tono di comando  «Al lavoro!»

Furono due ore a dir poco massacranti per lady Nevue e messere Metherlance.

Ann aveva una testa molto dura e non sembrava proprio essere portata per la cucina, tanto che si versò il latte addosso più di una volta, e arrivò addirittura a far volare in faccia al suo compagno il tuorlo di un uovo, in mezzo alle risate generali.

Nathan si ritrovava spesso a fare il lavoro di due persone, e non nascondeva di preferirlo. Ann ai fornelli gli faceva paura.

Fu quando dovettero aprire il sacco della farina che Ann, con la sua forza fin troppo superiore a quella di una ragazza della sua età, spaccò il pacco creando un’onda che investì in pieno lo straniero, riuscendo addirittura a schiarire il biondo scuro dei suoi capelli fino ad albino.

Tra le prese in giro di Doralice e le risate del pubblico, moltissime volte pensarono di darsi davvero alla fuga, avevano addirittura progettato tutto mentre lavoravano. La giovane conosceva tutti i passaggi segreti di Hidel, sarebbe stato facile svignarsela senza essere visti, così aveva assicurato a Nathan mentre toglieva la buccia alle uova.

«Ann… perché togliete la buccia?» chiese un disperato Nathan.

«Non le posso mica mettere dentro con la buccia!» lo ribeccò lei, come se fosse una cosa ovvia.

Lui fece l’ennesimo sorriso forzato «A noi serve il tuorlo, cara, non l’albume… potete spaccarla a metà senza preoccuparvi della buccia e versare nell’impasto il tuorlo…»

Ann fissò l’uovo sbucciato che aveva in mano, e sentì lo strano bisogno di lanciarlo addosso a Doralice «Ah…»

Anche per quello ricevettero grandi risate, quindi ripresero a parlare sottovoce dei piani di fuga. Ma qualcosa, probabilmente la ferma decisione della contadina di svergognare la nemica, li fermò, costringendoli a dare il meglio di sé.

Il risultato dei loro sforzi fu una bianca torta, che forse avrebbe dovuto essere circolare ma che venne ovale, dall’aria molto invitante.

Quando Nathan finì di cospargere i bordi laterali della torta di panna, Ann si divertì per la prima volta a cucinare, infatti dovette disseminare di biscotti triturati tutta la superficie superiore del lavoro.

«Io adoro i biscotti!» esclamò allegramente.

Vantandosi, lo straniero mise le mani sui fianchi ed annunciò a gran voce «Questo sì che è cucinare!»

Ann rise delle sue parole, ma rise ancora più fragorosamente della sua figura bianca quanto la loro torta, forse un po’ meno invitante «Sei completamente bianco!»

Il ragazzo si fermò un attimo a guardarla con un sorriso deliziato sul viso: era davvero carina quando rideva così tranquillamente. Da quanto tempo non gli era concessa la soddisfazione di vedere qualcuno ridere così dolcemente, senza preoccupazioni? Davvero tanto, e per un attimo quasi si dimenticò del motivo per cui era lì, vedendo tutto sfocare attorno a quella ragazza così forte eppure delicata.

«Tutto bene, Nathan?»

Mettendo in piedi la prima scusa che gli venne in mente, lui annuì convinto «Sto facendo le prove per il pupazzo di neve vivente.»

Ann lo guardò stranita, senza però riuscire a trattenere una risata: quell’uomo era davvero assurdo! Ma al momento i suoi pensieri volgevano ad altro: avevano una torta da consegnare.

Gli sorrise, prendendogli di nuovo il braccio, mentre con l’altra mano afferrava da sotto il verde vassoio con sopra la creazione.

Chi avrebbe mai detto che sarebbero riusciti a cucinare davvero qualcosa? E pensare che durante la gara erano stati i più imbranati e dispersivi.

Mentre raggiungevano il tavolo della giuria, composta dal sindaco e da altri due uomini che non conosceva, Nathan si trovò a sperare con tutto il cuore che Ann non lasciasse cadere la torta.

Neanche a dirlo, la ragazza inciampò su una forchetta. Il tempo parve rallentare mentre la giovane perdeva l’equilibrio e scivolava di lato, mentre il vassoio le sfuggiva paurosamente di mano. Dalla folla arrivò un “ooh”, ma lei non vedeva niente se non la torta scivolare, e poi…

Uno strattone al proprio braccio che le evitò di cadere, anche se le fece male e la costrinse per un attimo a chiudere gli occhi; una mano ferma e veloce riuscì a recuperare miracolosamente il vassoio e a rimetterlo dritto, proprio un secondo prima che il dolce superasse la linea del bordo.

Un fracasso di applausi le risvegliò la mente, Ann sbatté le palpebre diverse volte prima di riuscire  a mettere a fuoco Nathan, che, con un gesto rapido, era riuscito ad evitare il peggio… peccato che ora sembrasse sul punto di spezzarsi a metà come un giunco, a causa di uno starnuto che cercava disperatamente di trattenere.

«Aiuto, aiuto, aiuto, aiuto…» le mormorò con sguardo supplichevole.

Ann si rimise in piedi facendo pressione sulle ginocchia doloranti e, ripresa e messa in salvo la torta, tra gli applausi lei si concesse a un sospiro di sollievo, lui a uno starnuto potente.

«Che eroe, messere Metherlance! Avete salvato una donzella e una torta, cosa si può volere di più?» commentò il sindaco ridendo allegramente quando portarono l’elaborato al tavolo.

Fu detto loro di rilassarsi dieci minuti, perché poi sarebbero arrivati i risultati. Erano gli ultimi a consegnare, e per poco non avevano ridotto in poltiglia il loro lavoro!

Mentre Nathan chiedeva cinque minuti per potersi pulire tutta quella farina di dosso, Ann si sciolse i capelli e, dopo essersi pulita il viso e le mani, raggiunse gli altri partecipanti.

Essi erano in piedi davanti al tavolo della giuria, e quando Nathan tornò, li trovò a complimentarsi tra di loro per l’ottimo lavoro svolto. Tutti tranne, ovviamente, Ann e Doralice.

Con un sospiro, decise di fare l’ultima buona azione della giornata e supplire la sua partner anche in quello, sotto lo sguardo di fuoco di Ann, che forse l’aveva preso come un alto tradimento.

«Siamo stati felici di essere in gara con voi.» furono le uniche parole dello straniero, accompagnate da un sorriso, rivolte a Doralice.

Lei, che forse non si aspettava tutta quella gentilezza, fu presa evidentemente di sorpresa e cominciò ad arrangiare sorrisi di circostanza «Sono sicura che vinceranno i migliori! S-Sì

Ann, che era lontana da loro e non riusciva ad udirne bene i discorsi, alzò un sopracciglio, confusa da quel modo di fare inusuale della sua rivale.

Presa dalla gelosia perché reputava Nathan superiore a quei ragazzi che si lasciavano abbindolare da un paio di begli occhi, le venne una voglia matta di riempire di pugni prima lui, poi lei.

Sbuffando, decide di mettere fine a quella scenetta che reputava patetica «Nathan! Venite qui, stanno per dare i risultati!»

Lui annuì, salutò Doralice e tornò di corsa dalla rispettiva partner.

«Hey, tutto bene?» le chiese con una vena di preoccupazione quando la vide così nervosa, ma non ottenne risposta. Allora inclinò il capo per incontrare il suo sguardo, ma lei si voltò ancora, come offesa. Anche lui allora tornò a fissare il palco, deciso a lasciarla stare.

Le donne erano troppo difficili per una mente abituata a compagni comprensibili come i libri.

Di tanto in tanto le scoccava qualche occhiata indagatrice, nella speranza che ella finalmente alzasse lo sguardo e sorridesse.

«Ann?» la chiamò infine, mentre il sindaco saliva sul palco, portando con sé i risultati.

«Cosa?» borbottò la ragazza, per poi rivolgergli uno sguardo torvo.

Lui le si avvicinò quando bastava per sussurrarle qualcosa senza che gli altri lo sentissero. La ragazza spalancò gli occhi, cambiando completamente espressione, quindi gli regalò un sorriso speranzoso, quasi felice. Di rimando, lui ridacchiò.

La voce del capo villaggio si fece spazio tra di loro «Finalmente, cari concittadini, annunciamo i vincitori della gara!»

«Lo farete?» furono le parole timide di lei.

«Certamente. Sul mio onore.» le assicurò lui.

«Promettetelo!» esclamò lei, allungando un dito mignolo.

Lui lo prese col suo, sorridendole «Promesso.»

«I vincitori sono…»

 

«Weeee-…

L’urlo a dir poco sovraumano venne ucciso sul nascere da Nathan, che tappò la bocca di Damon con ben poca delicatezza.

«Idiota! Ti sentiranno!» ringhiò sottovoce, dispensando generosamente occhiate furiose.

Dopo qualche secondo di dura lotta, il giovane riuscì a liberarsi dalla ferrea stretta del Supervisore, scattando immediatamente con voce offesa «Ma come?! Ero venuto a festeggiare la vostra vittoria e mi tratti così? Cugino antipatico!»

Mentre l’altro scuoteva il capo con fare rassegnato, Damon si lasciò cadere all’indietro su una delle sedie rumorose della casa del cugino. Accavallò le gambe coi suoi soliti modi da padrone di casa, e, dopo aver alzato il pollice in segno di vittoria, disse «Ottimo lavoro! Non immaginavo che fossi così bravo a cucinare!»

«Vuoi la verità? Nemmeno io lo sapevo! Vorrà dire che d’ora in poi cucinerò io al posto di Sogno.» rise il Supervisore mentre si toglieva di dosso il mantello, per poi poggiarlo allo schienale della sedia che aveva davanti. Era tornato a casa dopo aver festeggiato con Ann la grande vittoria, una vittoria del tutto inaspettata a dirla tutta. Ad attenderlo dietro la porta aveva trovato un entusiasta Damon, che, chissà come, aveva scoperto tutto.

«Sì! Costolette di lupo al sangue!» sogghignò Damon, per poi assottigliare gli occhi ed aggiungere malizia alla voce «Ma anche quella Ann è un bocconcino niente male, vero?»

«Hai ragione, lo ammetto.»

Nathan non voleva negarlo, ma mantenne sempre una certa freddezza, per sottolineare quanto la cosa lo toccasse poco. Lui era lì per lavorare, non per correre dietro alle ragazze.

E il suo lavoro l’aveva portato lì, in quella vecchia casa, per faccende abbastanza pesanti. Si allontanò di alcuni passi per dirigersi verso uno degli angoli più bui della baracca, dove la luce delle lucerne non riusciva a fendere l’oscurità: in quel punto Nathan teneva le cose che non dovevano essere viste. Diversi scatoli vi erano ammucchiati, molti dei quali vistosamente rovinati dal tempo e dai topi, altri dall’aspetto piuttosto nuovo. Si chinò sui talloni e, con voce molto seria, indirizzò al cugino, che stava ancora seduto davanti al tavolo libero, poche parole.

«Allora, Damon, che novità mi porti?»

«Oh, nulla di nuovo sotto il sole!» si lamentò Damon, poggiando i gomiti sul tavolo con fare annoiato «Sempre le solite storie… Ah, ho sentito che quel branco di lupi pericolosi si è avvicinato di brutto al villaggio, sembra che siano pronti ad attaccare da un momento all’altro.»

Nathan scattò, con una vena di rabbia «E questo lo chiami niente? Ci sono in gioco tutte le vite di questo paese, Damon!»

«Da quando in qua ti preoccupi delle vite degli altri, vecchio sadico?»

Nathan sbuffò «Mi darebbe rogne se il Tribunale Nero aprisse un’inchiesta col mio nome nelle prime righe. In ogni caso, saremo pronti, ma ci servirà anche il vostro aiuto.»

Damon scosse il capo con decisione «Non puoi chiedere il nostro aiuto, Nate! Sai meglio di me perché siamo qui! Fosse per me avremmo mosso guerra da un pezzo, ma Marcus vuole fare le cose pulite, e pulite le faremo.»

Nathan si rabbuiò e aggrottò la fronte. Sapeva bene che Damon aveva ragione, ma il suo era un ruolo delicato, e bastava una frase di troppo per gettare sui villici la terribile ombra del sospetto. Sarebbe davvero riuscito a nascondere loro tutto quello che stava accadendo?

Prese un sospiro penoso, quindi si voltò a sorridere gentilmente all’amico «Sì, è vero.»

«Nate mi dà ragione! La fine del mondo è vicina per davvero, aaah…» al tavolo, Damon si grattò la testa, fingendo sconcerto.

Nel frattempo Nathan aveva estratto da una delle scatole una vecchia bottiglia avvolta in un bianco lenzuolo, che poi usò per rimuovere pochi residui di polvere che rovinavano la trasparenza di quel vetro antico, senza alcuna etichetta. La posò sul tavolo, davanti agli occhi deliziati di Damon, mentre lui si occupava di prendere due bicchieri stretti ed alti, dal collo molto sottile. Ne passò uno al cugino, riempiendoli poi.

Quando il bicchiere fu pieno, Damon lo sollevò con aria soddisfatta ed esclamò «Alla prossima disfatta dei Demoni!»

Accompagnato dal suo solito sorriso, stavolta venato di cattiveria, Nathan si unì al brindisi, sibilando «Agli Angeli.»

 

 

Note:

#1: Il Northumberland è la contea più a nord dell’Inghilterra, al confine con la Scozia, ed è il luogo in cui si trova Hidel.

 

 

 

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Capitolo 5
*** La ragazza con le trecce rosse ***


What colour is the snow

What colour is the snow?

Capitolo 05: La bambina con le trecce rosse.

«Ma tu guarda… sei proprio senza speranza!»

Una voce molto irritante infastidiva il suo sonno.

Damon avvertì una ventata d’aria fredda e poco cordiale, mentre ciò che teneva stretto tra le braccia gli veniva violentemente strappato; con un mormorio non chiaro, socchiuse un occhio e si guardò intorno confuso per qualche secondo, prima di riconoscere davanti a sé la figura di Nathan. Quest’ultimo lo fissava con un’espressione severa ed il volto accigliato, come un adulto che rimprovera un bambino. Stava in piedi, con le mani strette a pugno sui fianchi; gli occhi, come sempre, cerchiati di nero ed assottigliati.

«Il risveglio più brutto di sempre…» si lagnò il biondo, per poi rigirarsi nel letto disfatto e freddo, spinto dal desiderio di togliersi davanti quella visione «Speravo di essere svegliato dalla bella Ann o dalla piccola Sogno, e invece mi trovo quel coso di mio cugino…»

«Tu sei da ricovero, Damon.» lo rimproverò aspramente Nathan; si diresse a passi pesanti verso la cucina e posò sullo sgombro tavolo la bottiglia che aveva appena strappato all’amico, chiaramente vuota.

Guizzando con le iridi chiare verso l’altra stanza, come se vedesse attraverso il muro, sollevò la voce per farsi sentire bene ed apostrofò l’altro «Non solo ti sei trattenuto tutta la notte col rischio di farti scoprire, ma ti sei addirittura addormentato abbracciato al fiasco!»

«Davvero?» sulla branda, ancora avvolto tra le coperte, Damon si convinse ad alzarsi; con lentezza riuscì a mettersi in piedi, non senza avvertire qualche vertigine.

«Ho bevuto così tanto?» domandò, quando trovò stabilità ed il mondo smise di vorticare.

Non ricevendo risposta da Nathan, capì che si era ubriacato di nuovo. Sbiancò lievemente: che vergogna per uno come lui non essere in grado di reggere una bevuta! Ecco perché ora aveva un grandissimo mal di testa!

«Dannazione… !» portò una mano alla tempia destra, massaggiandola per attenuare il dolore.

Raggiunse la stanza dove si trovava Nathan e si lasciò cadere su una delle sedie, chiedendosi se fossero aumentate di numero.

L’altro nel frattempo aveva riposto la bottiglia lì dove l’aveva presa la sera prima, ed in quel momento si stava preparando per uscire.

«Penso che tu sia ancora giustificabile: sei giovane.» asserì, in modo quasi del tutto disinteressato.

Damon era, in effetti, più giovane di Nathan, il quale non aveva più problemi a reggere le grandi bevute, ma che, per principio, non esagerava mai: odiava quella strana sensazione di allontanamento dalla sua adorata nuda e cruda realtà.

«Wah…»

Damon si mise in piedi, tenendo il capo tra le mani; poiché non prestava attenzione a dove andava, sbatté con il fianco contro lo spigolo del tavolo e perse l’equilibrio.

Nathan scattò e lo afferrò malamente per un braccio, evitandogli una brutta caduta; il più giovane lo ringraziò con un gesto della mano destra.

«Credo di dover tornare dagli altri…» disse infine, quando riuscì a tenersi in piedi da solo.

«Sì, lo credo anch’io.» annuì Metherlance con un’espressione più comprensiva, dandogli una pacca sulle spalle con fare amichevole.

Lo accompagnò sul retro della piccola casa, dove c’era una seconda porta che dava direttamente sui confini del villaggio: da lì, sgusciando tra gli alberi e prestando giusto un minimo di attenzione, chiunque sarebbe riuscito a raggiungere la foresta inosservato.

«Riprenditi.» sorrise in modo incoraggiante Nathan, facendo uscire l’amico dalla porta.

Una volta fuori, il biondo si guardò intorno per accertarsi che nessun villico fosse nei paraggi, e con sollievo notò che lì non c’era niente che non fosse immobile, rigido, senza un’anima e ricoperto di un velo bianco. Le uniche macchie di colore piuttosto forti erano date dalla steccato in legno scurissimo che circondava il villaggio delineandone i confini, e, in sfondo, dalla grande foresta, ancora immersa in un placido sonno.

Avvertiva abbastanza freddo quella mattina, sebbene fosse abituato a temperature molto rigide. Inspirò l’aria gelida a pieni polmoni, cercando di svegliarsi appieno; dunque, dopo essersi stretto meglio nelle sue vesti di lana marrone, si allontanò verso la foresta.

Non poteva immaginare che due occhi stessero vigilando su di lui.

 

Fu così che Damon giunse a destinazione senza alcuna preoccupazione; tra i pochi, futili pensieri su cui rimuginava, spiccava la curiosità di sapere cosa avrebbe mangiato per pranzo, e se, magari, quella bella ragazza nuova del gruppo avesse bisogno di compagnia.

In effetti sentiva un po’ la mancanza dell’amico Metherlance. Solitamente passavano molto tempo insieme: da un lato Damon, inguaribile dongiovanni, che si perdeva in lunghe esaltazioni della bellezza di quasi tutte le ragazze che incontravano; dall’altro Nathan, il perfetto soldato, sempre pronto a richiamare il cugino all’ordine.

Damon diceva di non sopportarlo, di stare meglio senza di lui; eppure ne doveva tante a quel cugino dalla lingua tagliente che spesso lo aveva tolto dai guai, e, a dirla tutta, non riusciva ad immaginare un’avventura senza il tedesco al suo fianco – al suo fianco, ovviamente, perché lui doveva essere al centro della scena.

«Hola, chicos! Bonjour, mes amis! Buongiorno, amici! Guten morgen, meinen Freunde esclamò a gran voce quando giunse presso l’accampamento, sfoggiando la sua decisamente scarsa conoscenza delle lingue europee, con la quale però sapeva fare comunque colpo.

Ricevette in cambio qualche risatina da parte dei presenti, che lo accoglievano sempre con benevolenza.

L’accampamento non era molto spazioso, non doveva infatti dare nell’occhio: avevano scelto una zona ricca di alberi adatti a coprire le poche tende, poste a ridosso di una grande centrale, dove risiedevano i capi del gruppo. La comunità non era popolosa: vi erano poco più di una cinquantina di tende nere, e in ognuna di esse risiedevano almeno tre persone.

La maggior parte di loro era giovane, abituata al silenzio e agli sforzi fisici; pur essendo giunti da poco si erano subito ambientati, infatti si davano una mano gli uni con gli altri, per agevolare la vita di tutti.

“I Notturni”, così erano stati denominati dai nemici, anche se loro preferivano farsi chiamare “gli Angeli”, a causa della loro peculiarità: portare la felicità a chi lo voleva, seppure per breve tempo. Regalare momenti indimenticabili agli altri e possibilmente farli diventare come loro, “Angeli” portatori di felicità, quello era lo scopo della loro vita.

Damon sorrise mentre entrava nella sua fredda tenda, attentamente seguito da numerosi sguardi curiosi: dove aveva passato la notte il giovane Darkmoon?

Lui, in mezzo a quegli Angeli, si divertiva un sacco. Stando con loro aveva anche conosciuto Nathan, suo “cugino”. In realtà non erano propriamente cugini, ma le loro famiglie si conoscevano da moltissimi anni ed erano sempre state in rivalità. Loro, dunque, avevano sviluppato un rapporto di amicizia e al contempo di inimicizia molto particolare; ma, nonostante i continui battibecchi, erano affezionati l’uno all’altro. O, almeno, Damon a Nathan era affezionato.

Metherlance era entrato negli Angeli più tardi rispetto a lui, eppure si era inserito molto meglio. Il biondo sospirò e, dopo aver fatto il suo ingresso nella propria tenda, si diresse verso la spoglia branda che gli faceva da giaciglio, inspirò profondamente l’aria fresca tipica della foresta e cercò di rilassarsi mentre vi si stendeva sopra. Gli era sempre piaciuto il particolare odore delle selve nordiche, eppure questa volta nemmeno quel toccasana riusciva a dargli pace, e continuava a girarsi e rigirarsi sul letto, volgendo gli occhi ora all’ammasso di vestiti e libri che aveva addossato in un angolo, ora alla lanterna spenta sopra l’unico piccolo tavolino privo di sedie, ora sulla sottile striscia di esterno che era possibile scorgere dall’entrata della tenda.

Sentiva uno strano dolore allo stomaco, e lo sentiva ogni volta che andava a trovare Nathan.

Si voltò stizzito ancora una volta, sospirando un arrendevole «Dannazione…»

Doveva ammettere la verità almeno con se stesso: era invidioso fino all’osso del cugino Metherlance. Lui, infatti, si era unito agli Angeli con grande ritardo rispetto a Damon, eppure non solo si era inserito meglio, ma era addirittura riuscito a farsi rispettare da tutti gli altri, a guadagnarsi la stima dei capi, a spiccare sempre e comunque grazie alla sua mente fine e all’intelligenza tenace mista a furbizia sottile.

Infine era stato mandato in missione: una missione molto importante.

E perché lui no? La cosa gli dava molto fastidio.

“Ma non posso farci niente…” pensò demoralizzato, prendendo tra le mani un cofanetto che il giorno prima aveva riposto con cura maniacale sotto il cuscino.

Ne estrasse una collana molto vecchia, con un pendolo a forma di Y sporco e quasi arrugginito, che mostrava i segni del tempo. Eppure Damon sorrideva guardandolo, un sorriso velato di fredda malinconia.

“Devo smetterla con queste scemenze. È una delle poche persone che mi restano…” pensò, consapevole del fatto di essere quasi completamente solo.

Poteva avere tutti gli amici e le donne che voleva sì, ma alla fine se ne sarebbero andati: così funzionava la loro società. Al contrario, il cugino Metherlance era dei pochi che non lo avevano mai abbandonato nel momento del pericolo, e ciò portava Damon ad essergli affezionato e al contempo a vederlo come il suo eterno rivale.

«Damon?»

Una voce femminile irruppe nella tenda ed il ragazzo, colto di sorpresa, sobbalzò, cacciando la collana sotto il cuscino con un gesto molto veloce, per poi scattare in direzione dell’entrata con un sorriso stampato in faccia.

A fare il suo ingresso era stata Jen, “l’angelo tra gli Angeli”, come l’aveva denominata lui. Ella apparteneva alla cerchia dei generali, ovvero i capi del loro gruppo, sebbene non dimostrasse più di trent’anni. Era maestosamente raffinata, elegante nel vestire e neanche troppo pudica; quel giorno indossava un lungo e pesante abito verde smeraldo che risaltava le sue lunghe ciocche corvine.

«Eccoti!» la donna gli rivolse un sorriso benevolente, ostentando una dentatura perfetta, incorniciata dalle labbra sottili e rosee.

Il ragazzo si sentì subito in soggezione.

«Oh, Jen!» esclamò, rendendosi conto di essere rimasto fermo a guardarla per dieci secondi senza dire né fare niente: insomma, la sua brutta figura l’aveva fatta. Le sorrise in modo tirato mentre si metteva in piedi, corse poi da lei, ma, purtroppo, inciampò nei suoi stessi piedi e rischiò di finire a terra. La caduta fu evitata per un pelo dopo una serie di imbarazzanti saltelli su una gamba sola, e il biondo, una volta ritrovato l’equilibrio, portò subito una mano dietro il capo, ridendo forzatamente.

La scena suscitò l’entusiasmo della bella donna, che rise ponendo una mano sulla guancia destra.

«Sei sempre il solito sbadato!» sibilò con la sua voce cristallina.

«Ehm eh… chiedo scusa!» esclamò lui, desiderando che la terra si aprisse e lo inghiottisse all’istante.

«Non devi scusarti di niente, caro.» lo corresse l’altra, avvicinandosi di qualche passo; nonostante la tenda fosse buia, lei sembrava quasi splendere dall’alto della sua bellezza.

Damon era cotto di lei, come lo erano tutti gli altri Angeli.

«Come stai?» chiese Jen.

A quella domanda il giovane non seppe come rispondere.

Si bloccò un attimo, considerando l’idea di mentire e dire che andava tutto per il meglio, ma poco dopo si rese conto che, probabilmente, a Jen sarebbe bastato uno sguardo per capire che non era vero, così optò per una mezza verità.

«Beh, potrebbe andare meglio…» sorrise mestamente.

Il viso della donna si contrasse in una smorfia di preoccupazione, ma questa venne subito sedata dal pronto intervento del biondo, che agitò una mano facendole cenno di non preoccuparsi.

«Siete venuta per qualcosa in particolare?» le chiese con tono più serio, tornando a sorridere col suo modo spavaldo, una mano sulla cintura e l’altra penzoloni.

Jen annuì, seppure con poca convinzione, poi inclinò il capo con occhi curiosi «Sei stato a trovare Nathan, per caso?»

“E ti pareva che non si parlava di lui…” pensò Damon, sbuffando silenziosamente tra sé e sé «Sì, stanotte.»

«E come se la sta cavando?» continuò la donna, spostando di tanto in tanto il peso del corpo da una gamba all’altra, un gesto indubbiamente provocante.

Il ragazzo si costrinse a distogliere lo sguardo da lei ed immergersi nei suoi pensieri, per evitare di apparire intimidito «Direi che se la sta cavando bene. Forse si annoia e basta…»

Pensò che sì, il lavoro di Nathan era sicuramente di grandissima importanza e anche un po’ rischioso, ma era inevitabile che si annoiasse da solo in mezzo a tutta quella gente così diversa da loro.

Jen sembrò prendersi qualche secondo per riflettere; mise una mano sotto il mento con lo sguardo perso nel vuoto, e dopo qualche attimo lo alzò su Damon «E con quella ragazza?»

Con un po’ di titubanza, il biondo chiese «Annlisette Nevue?»

«Sì. Non credo ci siano bisogno di raccomandazioni, Nathan mi sembra molto coscienzioso, ma sai…» la mora abbassò lo sguardo su di lui con un’espressione scaltra «Noi donne sappiamo essere letali.»

Parole di cui Damon comprendeva bene il significato, in quanto le aveva sperimentate in prima persona. Quell’allusione, accompagnata da un’occhiata incisiva e maliziosa della donna, fu capace di mandarlo nel pallone. Cominciò a roteare in modo buffo il capo, blaterando di essere alla ricerca di qualche cosa che non riusciva a trovare in mezzo a quel caos.

«Non vorrei che compisse azioni avventate.» riprese intanto l’affascinante donna, senza badare al suo misero tentativo di eludere il discorso «Soprattutto considerando la situazione difficile che stiamo affrontando.»

L’Angelo sospirò, capendo che non c’era proprio modo di sfuggire alla predica destinata a Nathan ma subita da lui. Tornò a guardarla, ignorando la sua espressione che era diventata fin troppo seria, ed annuì.

«C’è qualcosa che devo riferirgli?»

«Uhm… se gli è possibile, che torni qui per qualche ora alla prossima nevicata notturna. Abbiamo alcune cose di cui parlare.» Jen scoccò un’occhiata veloce al di fuori della tenda, dove la neve cadeva placidamente, infine tornò un’ultima volta a sorridere a Damon «Ora devo proprio andare. Stammi bene!»

Mentre la osservava allontanarsi, Damon tirò un lungo sospiro: tanto per cambiare, lui era rimasto in secondo piano.

 

Krissy aveva appena finito di fare colazione, ed ora si annoiava.

Riposta la vecchia tazza grigia che aveva usato, si era voltata verso l’ingresso di casa con un timido sorriso che faceva capolino da sotto il suo ciuffetto rosso: finalmente era guarita, e, per festeggiare, Ann sarebbe presto giunta da lei e poi sarebbero andate insieme a recuperare dei pizzi che l’amica aveva lasciato alle cure del signor Metherlance. Non era esattamente un modo esaltante per festeggiare, ma vivendo in un villaggio dalle prospettive così piccole il massimo del divertimento era passare del tempo con le persone a cui si voleva bene.

Come sempre suo padre era uscito molto presto per andare a lavorare, l’aveva lasciata con un bacio sulla guancia mentre lei ancora dormiva. Come ogni mattina, si era premurato di lasciarle la colazione pronta sul tavolo prima di andarsene, premura molto apprezzata dalla giovane.

Loro erano abituati a contare solo su loro stessi: la madre era morta alla nascita della figlia, non era riuscita a sopravvivere al parto. Era una cosa sempre più comune in quei tempi, e Krissy non era l’unica orfana di madre in Hidel.

Com’era sua abitudine, la ragazza sparse un po’ di sale sulla cucina, per allontanare la sfortuna e il malocchio. Sorrise in modo appena accennato: se Ann l’avesse vista fare una cosa simile l’avrebbe sicuramente rimproverata. L’amica, infatti, non credeva nella fortuna o nella cattiva sorte, nei fantasmi, nei mostri; in generale non credeva in tutto quello che non poteva vedere coi propri occhi e toccare con mano e da sempre cercava di convincere Krissy a fare lo stesso, senza avere fortuna però.

Tre colpi decisi risuonarono alla porta d’ingresso, irrompendo nella quiete della casa. Krissy prese al volo il suo mantello, avvolgendolo intorno al fragile corpo: doveva coprirsi bene, essendo di salute molto cagionevole.

Attraversò velocemente la piccola stanza calda e priva di arredamento, giunse alla porta e la aprì. La visione fu terribile: una Annlisette spettinata e coperta fino al naso, con un viso pallido e due occhiaie pesantissime sembrava quasi fluttuare davanti alla sua porta, come uno spirito.

«Buon… giorno…» mormorò Krissy, con l’entusiasmo che scemava di lettera in lettera «Brutto risveglio?»

«Odio mio padre…» mugugnò semplicemente la mora, poi prese Krissy per un braccio e la costrinse ad uscire di casa; sbadigliò sonoramente, mettendo una mano davanti alla bocca.

«Sei una dormigliona, Ann!» la rimproverò scherzosamente Krissy mentre si accingeva a chiudere alle sue spalle la scricchiolante porta di legno «Noi giovani dobbiamo essere scattanti e pronti!»

Ann, ricordando la faccia di Nathan la mattina antecedente alla gara, si domandò che razza di convinzioni avesse la sua amica; quasi per ripicca sbadigliò di nuovo, per poi borbottare l’ennesimo «Che sonno…»

Le due si avviarono sui larghi sentieri di Hidel, che, come ogni mattina, erano quasi vuoti. Era terribilmente tediosa quella visione così monotona di case di legno tutte uguali e strade imbiancate, così come ogni cosa intorno a loro, e neve che cadeva lentamente dal cielo andando a contribuire a quell’immortale ed eterno ritorno dell’uguale, rotto solamente di tanto in tanto da qualche figura ammantata – di colori generalmente scuri – che attraversava rapidamente la via, per poi rintanarsi in casa.

Nei piccoli villaggi si tende a far notizia di ogni piccola novità, così com’era stato per l’arrivo di uno straniero dalla grande città: ne avevano parlato così tanto che anche quello era diventato un argomento banale.

«Per fortuna la casa dello straniero non è lontana, altrimenti avrei finito col portanti in braccio!»

La voce di Krissy ridestò Ann dai suoi pensieri; distolse lo sguardo dalla sua inutile contemplazione di qualcosa che conosceva troppo bene e, con un sorriso arcuato, rispose a quell’ironia con l’ironia «Mi sembra che tu stia decisamente meglio, Krissy!»

La ragazzina rise, ma Ann non volle fermarsi dal continuare a scherzare «Stai diventando peggio di Dodo!»

L’intenzione era di rimproverarla, ma questa venne miseramente a cadere a causa della risata che suscitò nella mora il nome “Dodo”, l’affettuoso appellativo con cui definiva sempre la rivale Doralice, ormai battuta su tutta la linea.

Anche Krissy rise allegramente; era venuta a conoscenza dei fatti della gara di cucina dopo aver chiesto scusa in ginocchio all’amica per aver mancato la promessa, ed allo straniero per averlo coinvolto.

Quando raggiunsero la casa di Nathan, o meglio, la casa presa in prestito da Nathan, Ann bussò tre volte alla porta; dopo qualche secondo di attesa questa venne aperta.

Quella mattina l’uomo era decisamente più presentabile della volta precedente, pensò tra sé e sé Ann, con un pizzico di malizia.

Messere Metherlance rivolse loro un sorriso pacato, chinando leggermente il busto a mo’ di inchino «Buongiorno, madamigelle.»

Nathan sapeva che quella mattina le due sarebbero giunte per riprendersi i suoi pizzi, proprio per questo forse si era svegliato in anticipo e si era reso presentabile, continuò mentalmente la ragazzina. Eppure non sembrava solo arzillo, ma anche allegro.

«Buongiorno, Nathan! Sembrate vivace oggi, è per caso successo qualcosa di bello?» chiese Ann, con maggiore formalità dovuta alla presenza di Krissy.

Quest’ultima si avvicinò ai due, mormorò un saluto e sorrise gentilmente allo straniero, ricambiata con una prontezza che la spiazzò; abbassò gli occhi, un po’ intimidita non solo da quello sguardo molto intenso, ma anche dalla situazione, che vista da un terzo poteva apparire un po’ equivoca. Proprio per questo entrambe intendevano rimanere il meno possibile, sebbene potesse apparire sgarbato nei confronti di Nathan.

«Ho ricevuto la buona notizia che la via per le rovine è percorribile, almeno per ora.» rispose l’uomo, come se non stesse parlando di andare a far visita al territorio di caccia dei lupi.

Ann e Krissy lo fissarono come se fosse stato un pazzo, ma lui ignorò quegli sguardi e si fece di lato, invitandole ad entrare.

Ann non si fece troppi problemi - per i suoi pizzi avrebbe fatto questo ed altro -; Krissy invece rimase interdetta per alcuni attimi. Scoccò uno sguardo a Nathan ed istintivamente fece un passo indietro, sentendo il proprio cuore cominciare a battere molto velocemente. Era una sensazione che conosceva molto bene quella che la stava assalendo: l’imbarazzo.

Davanti alla gente che non conosceva aveva sempre reazioni simili.

Ma alla fine si fece forza, rialzò lo sguardo e seguì Ann, la sua unica guida in quel momento.

 

Una volta dentro, le due si sedettero al tavolo, mentre l’uomo  si affrettava a preparare qualcosa. Krissy non era mai entrata in quella casa e continuava a lanciare curiose ma pacate occhiate a ciò che la circondava; Ann, abituata al disordine estremo dello straniero, non vi faceva più caso e lo osservava muoversi da un lato all’altro della stanza per cercare qualcosa di digesto.

Le faceva un po’ tenerezza il vederlo così confuso su dove aveva messo il latte o il pane.

«Quindi presto comincerete gli studi?» chiese con naturalezza; poggiò i gomiti sul tavolo, scrutando il biondino nelle sue imprese culinarie.

«Esatto. E, a dirla tutta, non vedo l’ora!» la voce di Nathan mostrava pienamente la sua emozione «È la prima volta che mi capita un incarico così importante; all’università relegano noi “novellini” a faccende di poco conto…»

La rossa, che nel frattempo si stava accomodando su una delle sedie attorno al tavolo evitando di fare rumore, domandò «Voi lavorate in un’università, messere?»

«Krissy ha ragione! Non ve l’ho ancora chiesto!» esclamò Ann, annuendo alle parole dell’amica.

«Sì, sono un ricercatore, ricordate?» sorrise lui, come se stesse dicendo la cosa più ovvia del mondo; allungò verso il centro del tavolo quella che sembrava cioccolata avvolta in un fazzoletto candido.

Le ragazze osservarono in silenzio e con curiosità, lanciandosi una vicendevole occhiata di indecisione, come cercando l’una nell’altra una sicurezza di erano entrambe prive. Si potevano fidare?

«Il cioccolato riscalda.» spiegò allora il tedesco, con aria di chi sa quello che dice «Provare per credere.»

Ann non se lo fece ripetere due volte: la cioccolata era il suo punto debole. Ne afferrò un piccolo pezzo e lo mangiucchiò golosamente; alla fine mise una mano sulla guancia ed esclamò «Io amo la cioccolata! Se non fosse che… dà problemi alla pelle.»

Seguì un collettivo silenzio di pochi secondi alle parole della ragazza, durante il quale sui visi degli altri due presenti si formò dapprima un’espressione di sorpresa, sostituita l’attimo dopo da un divertimento sottile.

«Ann…» sussurrò Krissy, che tratteneva a stento le risa mentre appoggiava il resto del dolce sul fazzoletto «A che gioco giochi?»

«Beh, cara…» continuò la mora ad occhi socchiusi e sguardo venato di malizia, accavallando le gambe e giocherellando con una ciocca mora «Una donna bellissima deve prendersi cura di sé!»

«Ho capito!» affermò il tedesco, il viso gli si illuminò «Stai imitando quella ragazza bionda della gara! Come si chiamava? Doralì… uhm…»

Per venire incontro allo straniero, che non sembrava proprio ricordare – o non avere voglia di ricordare – il nome della biondina, Ann si fece in avanti col busto fino a poggiare contro il tavolo, e con espressione fierissima sentenziò «Dodo.»

«Ovvero Doralice!» intervenne tra le risate la seconda ragazza, per schiarire le idee al biondo.

Infine, quando Ann tornò a concentrarsi sulla sua cioccolata ed il discorso venne accantonato, Krissy, non riuscendo a sopportare quel pesante silenzio, tornò ad animare la stanza.

«Dunque, messere Metherlance, avete partecipato alla gara di cucina! Non vi facevo così giovane! Oh… volevo dire…» avvampò e portò le mani a coprire guance, pensando a come spiegarsi meglio mentre gli altri due non trattenevano una risata «Sembrate una persona matura, ecco tutto!»

“No, è solo che si veste come un barbone e non conosce il significato della parola pettine…” pensò ironicamente Ann; scoccò un’occhiata contrariata a Nathan «Krissy ha ragione, messere. Non sembrate davvero avere meno di ventitre anni. Avete l’espressione di chi ha visto la vita in ogni sua forma.»

«Era mio dovere aiutare una donzella in difficoltà, dico bene? Che sarà mai una piccola bugia quando ho appena venticinque anni?» rise lui, appoggiandosi con le spalle alla parete ed incrociando poi le braccia al petto, con il suo solito sorriso irriverente sul viso.

Ann tossì violentemente a quella cantonata senza precedenti, facendo preoccupare gli altri due; ma si riprese subito e gli rivolse uno sguardo stupito, completamente rossa in viso per lo sforzo di respirare.

«Non ci credo! Io ve ne davo almeno…» parlò a fatica, costringendo Nathan a versarle di corsa dell’acqua e ad avvicinarsi a lei per aiutarla.

«Grazie!» esclamò la mora, quando fu in grado di parlare regolarmente.

«Almeno?» la spronò lo straniero a completare quella spinosa frase, la sua espressione si era fatta corrucciata.

Ann si fece nuovamente rossa, ma stavolta perché quello che stava per dire non era carino «… Circa trenta, anno più anno meno…»

L’uomo fece una smorfia, storcendo il naso «Mi vedete davvero così vecchio? Accidenti… saranno i capelli lunghi?»

Era molto divertente vedere come, alla fine, persino quello squattrinato e trasandato viaggiatore avesse un minimo a cuore il proprio aspetto, ed Ann pensò che probabilmente in futuro lo avrebbero visto conciato un po’ meglio, per dimostrare quantomeno la sua età.

A quel punto lui le lasciò sole qualche secondo, annunciando che andava a prendere i pizzi di Ann, lasciati nella stanza adiacente. La ragazzina fremette per tutta la durata dell’attesa: era curiosa di sapere come e fino a che punto era riuscito a rimediare ai danni provocati dall’umidità.

Nathan fu subito da loro con in mano due sacchetti rosa con su scritto il nome di Ann; raggiunse la proprietaria e, con un sorriso, glieli porse cortesemente.

Ella le prese al volo e li aprì, tirandone fuori i suoi amati pizzi, ora come nuovi. Un enorme sorriso le si dipinse sul volto, e, al colmo della gioia, saltò giù dalla sedia e corse ad abbracciare con foga lo straniero, causando una risata divertita di Krissy.

«Grazie! Grazie! Grazie! Siete stato magnifico!» esclamò la mora, grata «Mi avete risparmiato un sacco di lavoro!»

La brutta sorpresa le arrivò quando alzò lo sguardo su quello dello straniero, che la stava osservando in modo tanto assente quanto terribile. Un rimprovero silenzioso, a mo’ di monito: “faresti meglio a non avvicinarti a me”.

Ed Ann seguì meticolosamente quel consiglio non pronunciato, lasciandolo andare immediatamente. Non capiva bene: Nathan non sembrava particolarmente fedele all’etichetta, non pensava di aver osato poi così tanto. Qualsiasi cosa lo avesse fatto arrabbiare non le importava, almeno non quanto quell’espressione gelida, quegli occhi leggermente socchiusi, che di sicuro non avrebbe dimenticato facilmente.

Krissy, invece, era l’unica che non sembrava aver capito la situazione; ridacchiava ancora della scena decisamente fuori luogo quando ricevette dall’amica uno sguardo rancoroso che la fece agghiacciare a sua volta.

Si bloccò improvvisamente, sentendo le guance percorse dal fuoco dell’imbarazzo.

“Ho sbagliato qualcosa?” si chiese mentalmente, immaginando mille ed uno motivi che avrebbero potuto scatenare quella reazione, ma nessuno di essi le sembrava sufficiente per giustificare uno sguardo simile. Da parte dello straniero non vi fu intervento, questi infatti era impegnato a chiudere la porta della stanza accanto, che poco prima aveva lasciato aperta.

Krissy pensò che la sua presenza fosse decisamente di troppo, così decise di togliere il disturbo; a come farsi perdonare avrebbe pensato più tardi.

«Ah, si è fatto tardi per me…» sussurrò piano, mettendosi in piedi con uno scatto «Credo di dover proprio andare. Con permesso…»

L’uomo passò dal chiudere la porta della stanza ad aprire quella d’ingresso, salutando piuttosto freddamente la rossa, che aveva intanto evitato accuratamente lo sguardo di Ann, e che, una volta fuori dall’abitazione, si diede alla fuga senza neanche preoccuparsi di mettersi prima addosso sciarpa e cappello.

Rimasti soli, Ann guardò Nathan, ma lui non la degnò di un’occhiata neanche fugace: sembrava preso da qualcos’altro, chiuso in un silenzio ostinato.

“Stavolta l’ho proprio combinata grossa…” pensò la giovane “Accidenti a quello strano uomo e alle sue strane reazioni!”

E poi, pensò, aveva sentito freddo nel momento in cui lo aveva abbracciato. Lui era dannatamente freddo, come se fosse rientrato in casa poco prima dell’arrivo delle due ospiti, dopo aver passato tutta la notte sotto la glaciale nevicata.

Fu uno dei tanti momenti in cui Ann ebbe paura di Nathan.

 

Scappata in fretta e furia, Krissy aveva deciso di recarsi nell’unico luogo in cui si sentiva al sicuro: la foresta. Contrariamente a tutto ciò che le aveva insegnato suo padre, ella si sentiva a casa in quel luogo, dove, nel periodo estivo, poteva scorgere uccelli che volavano alti nel cielo o volpi in cerca di piccoli animali: era il suo locus amenus, in cui si rifugiava quando aveva da pensare.

In quel momento, però, scappava.

Fuggiva da Ann? Neanche lei lo sapeva. Eppure i suoi piedi le imponevano di correre e correre, e lei corse, fin quando non fu costretta dal fiatone a fermarsi, piegarsi sulle ginocchia e guardare la neve sotto le scarpe.

Da sempre si reputava una ragazza fin troppo sensibile, ed ora l’affluire delle lacrime sotto le palpebre lo dimostrava; sentiva di aver offeso in qualche modo Ann, ma la cosa grave era che, dopo tutti i loro anni di amicizia, non riusciva a comprendere che cosa aveva fatto di così grave, come se fosse una totale estranea per la sua amica.

Sconsolata, non sapendo cosa fare, si sedette sul tronco tagliato più vicino, sospirando e asciugando le lacrime con un dito, mentre emetteva qualche singhiozzo sommesso.

Questa volta non c’era nessun uccellino a consolarla con il suo canto, nessun animale selvatico che passava con fare furtivo, nella speranza di non farsi notare; il vento non aveva nessuna fronda da scuotere, e soffiava in modo più tetro e minaccioso rispetto a quando, in estate, sembrava un potente e pacifico respiro che accarezzava la terra. Guardando gli alberi spogli e contorti, l’assoluta bianchezza del paesaggio che appariva in un ripetersi continuo di un groviglio di alberi ed arbusti, Krissy sentiva dentro di sé solo un grande freddo che andava ad alimentare la paura nei suoi singhiozzi.

Probabilmente furono proprio questi ad attirare Damon, il quale passava di lì per la sua passeggiata giornaliera – ovvero non aveva niente da fare e si crogiolava nella sacra arte del perdere tempo.

Quando gli giunsero alle orecchie quei mormorii così tristi, interruppe il suo vagabondaggio e si strinse nel lungo cappotto, quasi temesse che fossero i lamenti di una mamma orso che non trovava più il suo piccolo. Poi decise di seguire quei suoni, allungò il passo e quindi il collo non appena giunse in prossimità della ragazza: la prima cosa che notò fu una massa di capelli rossi, subito dopo due occhi smeraldini.

“Una bella giovincella in un’evidente crisi. Ci vuole uno come me, insomma!” pensò, modesto.

Avrebbe voluto correre a consolarla e tirarle su il morale con qualche battuta, ma un pensiero lo frenava: solo Nathan aveva l’ordine di mostrarsi alla gente di Hidel, i restanti Angeli dovevano rimanere nella foresta, coperti dalle tenebre.

Eppure non poteva lasciare quella ragazzina così indifesa da sola! Era contrario la sua idea di gentiluomo! Questo si disse, e forte di ciò uscì alla luce del giorno, o meglio, a quella pallidissima luce soffusa che illuminava a malapena le Lande Senza Nome, col passo pesante e un gran sorriso sulle labbra.

«Hey

Non c’è davvero modo migliore di cominciare un discorso, quando sei tecnicamente un fuori legge che trasgredisce la legge?

La prima reazione di Krissy alla vista di Damon fu ovviamente di grande sconcerto, ed istintivamente si ritrasse di qualche centimetro, chiudendosi a riccio.

Un uomo che non aveva mai visto, che non abitava a Hidel, che vestiva in modo troppo leggero per un luogo come quello e che le si presentava ridendo come se niente fosse!  

La sua mente corse immediatamente alla ricerca di tutti i sentieri che conosceva e che avrebbero potuto salvarla in caso di attacco, a meno che, chiaramente, non ci fossero altre persone nascoste lì intorno.

«Chi… chi sei?» mormorò in un sussurro che si perse nel vento, tanto era lieve la sua voce spaventata.

«Tranquilla!» esclamò Damon, mettendo le mani all’altezza del viso e muovendole piano, per farle segno di calmarsi «Non urlare, ti prego! Non voglio farti del male e non lo farò, promesso!»

Quelle parole calmarono un po’ la giovane, ma furono gli strani gesti dello sconosciuto a provocarle una risatina divertita.

Le sembrava di avere davanti qualcuno che faceva qualcosa di nascosto. Come lei, insomma.

«Va bene, se lo prometti mi fido.» sorrise, anche se era ancora piuttosto impaurita «Ma non ti avvicinare troppo, o mi spaventerò.»

Quel tipo non sembrava pericoloso, eppure la prudenza non era mai troppa, Krissy lo sapeva bene. Allo stesso modo sapeva di essere incredibilmente sconsiderata nel permettere che quella conversazione avesse luogo.

Damon acconsentì, fiero di essere riuscito a non farla scappare via urlando come un’isterica.

«D’accordo! Sono venuto solo per tirarti su il morale, sai?»

Le rivolse un’espressione molto comprensiva e sinceramente gentile, che venne intensamente ricambiata dalla ragazzina; quest’ultima inclinò il capo, guardandolo di sbieco mentre tornava a sedersi compostamente «Ma non ci conosciamo neppure…»

«Giusta osservazione!» annuì l’Angelo, poi le sorrise, esibendosi in un baldanzoso inchino a mezzo busto «Io sono Damon, piacere! Ora ci conosciamo!»

Krissy rise, colpita da quell’uomo così spigliato e, doveva ammetterlo, molto buffo «Krissy, piacere di conoscerti, Damon.»

Rimase ad osservarlo, non potendo fare a meno di associare quella figura sbucata fuori dal nulla col misterioso messere Metherlance, anche se non avrebbe saputo dare una spiegazione logica a questo involontario pensiero.

Chiese timidamente «Ma… tu vivi nella foresta?»

Damon incrociò le braccia al petto, guardandola torvo «Beh? Non ti fidi di uno sconosciuto che sbuca dal nulla, vive nella foresta, veste in un modo che non si addice per niente a queste terra e che parla con un accetto strano? … E ora perché mi guardi così? Non sono buffo, sono serio!»

Ma ormai era troppo tardi per cercare della serietà, fatta in mille pezzi dallo stesso ragazzo: Krissy stava già ridendo, colpita da quel suo carattere così spontaneo ed eccentrico.

Damon sbuffò e mosse ancora qualche passo in avanti, incurante del fatto che ad ogni passo la ragazza si faceva sempre più piccola.

«Ho detto che non ti devi avvicinare troppo, per favore!» puntualizzò la rossa, additandolo.

«Infatti ora mi siedo.» e lo fece, sedendosi sguaiatamente sulla neve dura a circa un metro da lei, mentre la guardava dal basso in alto «E comunque sì, vivo nella foresta, per ora.»

«E sei da solo?» proseguì lei, incuriosita e con gli occhi fissi su quelli dell’altro.

«No, ci sono altre persone con me…» Damon, tamburellandosi sul mento col pollice, soppesò attentamente le parole, poiché non voleva correre il rischio di rivelarle troppo «Posso dirti solo che ci chiamano Angeli.»

Krissy alzò un sopracciglio, con espressione quasi ebete.

«Angeli?» la cosa non le suonava propriamente corretta.

Damon non sembrava un Angelo a prima vista: era reale, non emanava luce né la rifletteva, e non era nemmeno serio come invece ci si aspetterebbe da un Angelo. Forse, pensò Krissy, quello era solo un modo di chiamare il suo “gruppo”.

Conseguentemente, la ragazza non poté fare a meno di chiedersi chi fossero, da dove venissero, e perché mai soggiornassero proprio lì, fuori da Hidel, senza far notare la propria presenza ai villici. Tuttavia decise di non chiedere, poiché il più importante dei suoi interrogativi venne risolto subito da Damon.

«Stai tranquilla, non siamo pericolosi.» le assicurò, con un sorriso smagliante davvero poco rassicurante.

«Ah, meno male…» fu l’unica cosa che Krissy riuscì a dire, avendo ormai completamente perso le redini del discorso e la mente piena di confusione. Inclinò il capo e strinse la gonna con le mani, quasi cercasse una sicurezza a cui aggrapparsi con tutte le sue forze.

«E come mai sei qui da sola?» ricominciò a parlare l’Angelo, per poi darsi una leggera spinta per sbilanciarsi, in modo da cominciare a dondolare; a differenza di Krissy, sembrava essere completamente a suo agio e fare volentieri a meno delle buone maniere che gli avrebbero imposto un formale ‘voi’ invece del più caldo ‘tu’.

«Ho avuto un piccolo… diverbio con la mia amica.» spiegò con pazienza la giovane, ora era lei a soppesare le parole.

«Ti tratta male?» chiese schiettamente l’altro, alzando un sopracciglio.

La domanda fu tanto rapida quanto inaspettata, e Krissy si dovette prendere qualche secondo di pausa per pensarci bene.

Ann era una ragazza molto franca e spesso non si rendeva conto di quanto la feriva, anche involontariamente. Però, quando se ne rendeva conto, le chiedeva sempre scusa; lei era fatta così, alla fine non era cattiva, anche se, a primo acchito, poteva dare questa impressione.

In fondo, Krissy sapeva benissimo quanto la sua amica fosse sensibile e che quel comportamento così fuori dagli schemi era un modo per schermarsi dalle sofferenze che avrebbe potuto provocarle il mondo, una sorta di prevenzione.

Peccato che solo Krissy l’avesse capito.

Tutti gli altri ragazzi della loro età la consideravano solo una stupida ed orgogliosa ragazzina che gioca a fare la dura. Era una cosa molto triste, appunto per questo Krissy si era ripromessa di restarle accanto.

Forte di ciò alzò lo sguardo verso Damon, rispondendo candidamente «No. È molto buona, ma ogni tanto le incomprensioni capitano tra tutti.»

Finalmente Damon ragionò prima di aprire bocca.

Gli venne subito in mente Nathan: non era esattamente la stessa situazione di Krissy, ma anche lui aveva qualche problema simile col cugino.

«Già… Anch’io ultimamente ho dei problemi con mio cugino.» confessò con un sospiro.

«Che genere di problemi, se posso chiedere?» domandò curiosa la giovane, domandandosi silenziosamente se anche il cugino di Damon si trovava lì, nella foresta.

«Sai, Krissy…» riprese lui con un po’ di malinconia, alzando lo sguardo al cielo coperto dalle nubi «Il problema è che mi sento così inferiore a lui!»

Damon sospirò con fare rassegnato, e la ragazza rimase a fissarlo. Era come guardarsi allo specchio: anche lei aveva sempre l’impressione di essere in secondo piano quando c’era Ann in giro.

L’Angelo riprese a parlare «È come la neve di notte… quando è buio e nevica, è la neve ad attirare tutta l’attenzione, mentre la notte, che normalmente è tanto decantata, resta sempre in secondo piano…»

Un paragone davvero fuori dal comune, ma la villica si trattenne dal farlo notare, limitandosi ad annuire «Un po’ ti capisco, credo.»

«Davvero?» il ragazzo scattò, irrigidendosi, per poi scrutare curiosamente la ragazza.

Quello sguardo così insistente fece arrossire Krissy, che non rispose, limitandosi ad indirizzare altrove gli occhi.

Damon era molto contento: quella ragazza sembrava simile a lui sotto certi aspetti.

Sarebbe stato carino vedersi ancora, pensò; diede immediatamente voce ai suoi pensieri.

«Ora devo andare, ma che ne dici di incontrarci anche domani?»

Quindi si rimise in piedi, scrollandosi la neve di dosso con il suo solito sorriso allegro sul volto.

Il cuore della ragazzina prese a palpitare con più forza: fare amicizia con un uomo? Come Ann e Nathan? Non era molto morale per una ragazza della sua età, ma Damon non sembrava cattivo. Perché negarsi il piacere di conversare pacificamente con qualcuno? Al limite, se la cosa non l’avesse convinta del tutto, avrebbe smesso di incontrarlo.

Così sorrise ed annuì «Va bene!»

«Evviva! Allora a domani, Krissy!» esclamò lui, raggiante, come se gli avessero appena dato la notizia del secolo.

Anche Krissy continuò a sorridere. Si sentiva sollevata.

 

 

Note dell’Autrice:

Ed ecco anche il capitolo cinque rivisto e corretto! Stavolta è stato davvero un parto, ringrazio quindi il mio beta-readerVerganWanderingWolf, per la pazienza con cui si sorbisce questa complicata storia! Questocapitolo è stato davvero faticoso da rivedere – vi parlo ora che ho quasi finito la storia -, in due anni il mio stile è cambiato radicalmente. Che vergogna notare gli strafalcioni che facevo due anni fa! Siamotutti cresciuti, eh? Rileggendo, noterete che gli stessi personaggi, come me, hanno un modo di pensare più maturo… Bene, riprendo dalla vecchia versione il ringraziamento a violacciocca per il commento, thank you!Sempre graditissimo! <3

 

A presto,

Sely.

 

 

 

 

 

  

 

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Capitolo 6
*** Auror Von Halfen ***


What colour is the snow

What colour is the snow?

Capitolo 06: Auror Von Halfen.

Accompagnate dal rumore della legna che scoppiettava, molteplici lingue di fuoco si scatenavano in una sensuale danza all’interno del camino, disegnando figure morbide ed evanescenti che facevano paura ad Annlisette.

La giovane era seduta su di una vecchia e scricchiolante sedia in legno, innanzi al focolare incassato nel muro di pietra. Manteneva una postura alquanto scomposta e ciondolava pigramente un braccio, la schiena affondata negli strati di coperte che l’avvolgevano, il capo lasciato a se stesso e gli occhi socchiusi, i piedi penzoloni, merito della sua adorata sedia a dondolo.

Il lento e monotono muoversi avanti e indietro della seggiola era in netto contrasto con la fulminea velocità con cui le fiamme divoravano il legname.

La ragazza teneva le mani strette attorno ad una tazza di porcellana poggiata in grembo, contenente della camomilla ormai fredda. Quella sera aveva avuto problemi a dormire, così, per disperazione, era scesa silenziosamente in cucina per prepararsi quella brodaglia che odiava ma che più volte, in passato, si era rivelata utile in occasioni simili.

La camomilla non era mai piaciuta ad Ann, che ad ogni sorso arricciava il naso con fare disgustato; purtroppo, in certi casi era necessaria, questo continuava a ripetere tra sé e sé per farsi forza.

Osservava distrattamente il fuoco muoversi con grazia, quando le sovvenne l’episodio in cui, da piccola, era scivolata per errore dentro quello stesso camino, bruciandosi i capelli e le mani. Per diversi anni non si era più avvicinata a quel luogo ormai reputato spaventoso, ed anche ora, nonostante le ferite fossero guarite, la paura la prendeva sempre davanti a quell’elemento, costringendola a mantenersi a debita distanza.

Scoccando uno sguardo all’orologio scoprì che erano le undici. Krissy se ne era andata alle sei, con un sorriso smagliante attribuito a qualche accadimento che la ragazza aveva voluto mantenere misterioso; l’unico punto su cui aveva ceduto riguardava l’incontro con un uomo misterioso.

Ann sbadigliò svogliatamente, rannicchiandosi ancor più nella sua sedia; posò la tazza sul pavimento, per poi darsi una serie di piccole spinte con le spalle nell’impresa di mettersi di lato, per poggiare la guancia destra sul cuscino.

La casa era completamente buia, ma non le faceva paura: lei, a differenza di molte altre bambine, non aveva mai avuto timore del buio. L’unica luce, oltre quella lunare che penetrava placidamente all’interno da una finestra, in un unico raggio che illuminava il pavimento fino a metà stanza, era quella emanata dalle fiamme. Ma, oltre tale fulgore, esse producevano anche un potente calore, capace di far credere alla villica che la coperta in cui era avvolta fosse decisamente di troppo.

Ci pensò l’irriverente ululare del vento gelido che sferzava il villaggio a ricordarle che era meglio non fare gli imprudenti e coprirsi bene per evitare raffreddori.

Quella sera la Sala Maestra era rimasta aperta come sempre, ma Ann non aveva voluto cenare assieme agli altri. Era rimasta in casa con Krissy, per provare a strapparle qualche parola in più circa l’accadimento che l’aveva così tanto colpita: la conversazione con lo sconosciuto, avvenuta nella foresta.

Per prima cosa l’aveva aspramente rimproverata per la sua imprudenza nell’allontanarsi così tanto e per aver dato confidenza ad una persona talmente sospetta; poi però, davanti all’ingenuità dell’amica, non aveva potuto fare altro che sospirare ed arrendersi. Le aveva fatto promettere di stare attenta a non cacciarsi nei guai, ma sapeva già che Krissy, che come le altre ragazze del luogo covava sogni d’amore decisamente troppo romantici, aveva ormai puntato quello strano figuro di cui non aveva voluto rivelare il nome.

Pensare che la sua amica provasse interesse verso qualcuno era incredibile. Da sempre, Krissy ed Ann erano cresciute contando l’una sull’altra, nell’ottica del “saremo migliori amiche per sempre”. Che qualcuno si frapponesse tra loro in futuro era impensabile, eppure era successo. Tutto sarebbe stato diverso, da quel momento in poi? Ann era combattuta: provava timore e preoccupazione nell’immaginare la sua compagna d’infanzia insieme ad uno sconosciuto; d’altra parte, non poteva fare a meno di riscoprire in sé una vena egoista che le faceva sperare che quegli incontri segreti non andassero avanti a lungo.

Ma non era solo questo il motivo che l’aveva condannata ad una brutta nottata in bianco, sospesa tra il fischio del vento e lo scoppiettare del legno. Tirò su delicatamente la coperta fino a raggiungersi il naso, quindi abbandonò nuovamente le braccia sulle gambe e socchiuse gli occhi.

Il suo secondo problema le fece aggrottare la fronte.

Era sempre lui, quel dannato Nathan Metherlance; lui e il suo essere maledettamente fuori dagli schemi. La reazione assurda di quel pomeriggio – quando lo aveva abbracciato e lui le aveva scoccato un’occhiata terribile - l’aveva lasciata attonita; infatti, era andata via subito dopo di Krissy, adducendo come scusa di avere qualche urgente commissione da fare.

L’aveva così lasciato solo, sotto il portico, con un’espressione indecifrabile dipinta sul viso.

“Che cosa ho sbagliato, stavolta?!” si lamentò tra sé e sé la giovane, sbuffando da sotto gli strati di lana. Era tutto inutile: finché Nathan Metherlance avesse continuato a tartassarla non sarebbe riuscita ad addormentarsi, tanto valeva riprendere il lavoro! Si scostò di dosso le coperte, stizzita ed accigliata, ed allungò un braccio con notevole sforzo verso una grande sacca di cotone, abbandonata accanto al camino. Ne estrasse un centrino lasciato a metà, e, incurante della poca luce a disposizione, riprese il lavoro.

Il tempo continuò a passare, scandito dal ritmico ticchettare dell’orologio appeso sopra la porta d’ingresso e dall’ululare sinistro del vento, instancabile. Concentrata sulla propria opera, la quale stava prendendo decisamente una brutta piega, forse a causa della stanchezza, forse per la poca illuminazione che le faceva strizzare gli occhi, Ann non udì la serie di leggeri passi provenienti dalla scala.

Così, quando Elizabeth fece ingresso nella stanza, avvolta nella sua lunga veste da notte e con i capelli sciolti e scompigliati, la domanda che le fu rivolta, «Non riesci a dormire?», la fece sobbalzare e scappare di mano il filo.

La madre si concesse una sottile risata, ma la figlia non sembrava altrettanto disposta a prenderla con una risata!

«No…» si lamentò, voltandosi giusto quell’attimo necessario a scoccarle un’occhiataccia offesa «E la camomilla fa schifo!»

La donna le si avvicinò a passo lento, gli occhi saettavano vivacemente da un elemento all’altro della scena: una piccola Annlisette malamente seduta, coperte alla rinfusa, una tazza dal contenuto ormai freddo, il cotone in attesa di divenire parte di un lavoro completo.

«Se lavori significa che sei proprio disperata.» disse sorridendo, quando le fu abbastanza vicina per accarezzarle amorevolmente il capo.

«Già…» dovette ammettere la giovane, consapevole delle proprie mancanze: lavorava solo se non c’era altra scelta, pigra com’era.

Lasciò che qualche altro secondo di silenzio accompagnasse quelle adorabili coccole che reputava più calde del fuoco stesso, e che avevano la capacità di calmarla là dove la camomilla, rimedio naturale tradizionalmente sicuro, aveva fallito.

La madre si piegò sulle ginocchia, per esserle più vicina ed indicarle un paio di errori che stava commettendo; poi le chiese gentilmente «C’è qualcosa che ti assilla, Ann?»

«Hm…»

Senza distogliere gli occhi dal suo lavoro, che stava opportunamente correggendo, la ragazzina mugolò piano. Era indecisa: parlare o non parlare con la mamma dei pensieri che la tormentavano? Di certo Elizabeth era un pozzo di saggezza e d’esperienza rispetto a lei, inoltre agiva nell’interesse della figlia, ma… poteva Annlisette Nevue mettere da parte l’orgoglio e dimostrare di avere, in fondo, le stesse banali preoccupazioni ed ininfluenti pensieri di una comune villica di Hidel? La mamma l’avrebbe capita, e questo pensiero la convinse a parlare.

«Come farò quando Krissy se ne andrà?» domandò, senza arrischiarsi a distogliere lo sguardo dal centrino. Non voleva sapere che espressione in quel momento adornasse il viso di sua madre, aveva paura di leggervi qualcosa che l’avrebbe fatta pentire di essersi aperta.

La donna sembrò esitare nel rispondere; forse, immaginò Ann, aveva anche lei passato un momento simile e si stava perdendo nei ricordi? Una visione un po’ troppo fantasiosa, ma che le fece per un attimo nascere un timido sorriso. Le sue mani si fermarono, le orecchie cancellarono ogni suono che non fosse quello della voce della madre, e gli occhi andarono a puntarsi sul suo viso, istintivamente.

«Vedi, Annlisette…» cominciò la donna, che nel frattempo la osservava con quello sguardo che non si sarebbe potuto definire altrimenti se non materno «Nella vita, a volte, ci sembra di essere soli. L’hai già provato anche tu, sbaglio?»

«È vero.» annuì la ragazzina, a malincuore.

«Nelle situazioni più buie ci rintaniamo in noi stessi, e non lasciamo a nessuno il permesso di aiutarci, anche se lo facciamo inconsapevolmente.» continuò Elizabeth, sicura di sé «Ti sentirai sola quando Krissy si sposerà, ti sentirai sola quando io e papà non ci saremo più, ti sentirai sola in moltissime occasioni.»

Le parole della madre potevano sembrare molto schiette ed insensibili, eppure qualcosa spingeva Annlisette a prenderle con le pinze, a misurarne la pesantezza ed estrapolarne un significato profondo.

Elizabeth avvolse le dita sottili attorno ad una sottile ciocca di capelli della figlia, portandogliela dietro l’orecchio; nella poca luce che allontanava il buio dal volto della giovane, scoprì così che ella  piangeva silenziosamente, e le diede quasi l’impressione di avere davanti una bambola di porcellana, tanta era la determinazione con cui Ann si imponeva di mantenere un’espressione incrollabile.

Intenerita da quella visione, la donna l’abbracciò, facendole poggiare il capo sul proprio seno.

«Eppure, ricorda che non sarai mai veramente sola. Quando Krissy se ne andrà, avrai la tua famiglia. Quando io e papà moriremo, avrai tuo marito. Quando tuo marito morirà, avrai i tuoi figli.» riprese il suo discorso un po’ troppo complicato per la ragazzina cui era diretto «Non siamo mai soli, Ann. Anche quando crediamo di esserlo, in realtà c’è sempre qualcuno vicino a noi, solo che non sempre ce ne accorgiamo…»

«E se non trovassi un marito?» piagnucolò Ann «Mi ritroverei con quello scemo di Gabriel!»

Entrambe si abbandonarono ad una piccola risata sollevata, ma i pensieri della giovane Nevue corsero subito all’unico uomo con cui attualmente aveva dei rapporti abbastanza stretti, ovvero quel Nathan Metherlance. Ma lui era così… così… così fuori da ogni logica! Era impossibile stare insieme a una persona talmente eccentrica! Non lo negava: aveva spesso provato fitte di gelosia nel vederlo insieme ad altre ragazze, ma le aveva sempre ricondotte a quello spasmodico desiderio di avere qualcuno tutto per sé, come del resto le accadeva con Krissy.

Tuttavia, Elizabeth sorrise di quella domanda, forse reputandola sciocca «Una splendida ragazza come te non potrà rimanere sola! Guardati, cara, oltre ad essere molto carina sei anche spigliata, hai un carattere forte ma sensibile, sei intelligente, e la determinazione non ti manca.»

Le posò infine un bacio sulla fronte, per poi farle l’occhiolino «E sei anche stremata dal sonno. Non sarebbe ora di andare a dormire?»

«Sì, ma non ci riesco…» mormorò la ragazzina, mentre si asciugava una lacrima con un gesto veloce. A proposito del discorso “uomini”, voleva sfogarsi una volta per tutte riguardo Nathan Metherlance, e quello sembrava essere il momento migliore. Così, tornata seduta composta e con lo sguardo diretto al fuoco, bofonchiò «Ah, e poi ho anche un problema col signor Metherlance.»

Elizabeth incalzò, l’espressione improvvisamente interessata «Non lo chiamavi Nathan?»

Ecco, la cara signora Nevue si era già fatta un’idea sbagliata, anzi, sbagliatissima.

Ann si affrettò a precisare in tono quasi scocciato «Gli do del voi, è lui che vuole che lo chiami per nome! Ma non è di questo che volevo parlare! È sempre così… strano! Non so come comportarmi con lui, ho paura di sbagliare e farlo arrabbiare; però non mi va di smettere di vederlo. È una persona curiosa, sa moltissime cose.»

Quelle parole sembrarono divertire parecchio Elizabeth, che non aveva mai sentito parlare Ann così esplicitamente di problemi, a suo giudizio, di cuore.

«In che senso strano, cara?»

«Non lo so, mamma…» rispose la figlia con un filo di voce, accigliandosi «Non riesco a capirlo… è sempre così distante, come se fosse in un altro mondo!»

Tornò ad instaurarsi un profondo silenzio, e mai come allora il soffio burrascoso della tramontana sembrò ad Annlisette talmente fastidioso e di troppo. Sospirò, decisa a tornare in camera e provare a dormire, ma proprio mentre si allungava di nuovo verso il sacco del cotone udì la madre esprimere il suo parere.

«Allora c’è solo una cosa da fare.» sentenziò Elizabeth.

Ed Ann le rivolse tutta la sua attenzione, al punto che si bloccò con le ginocchia mezze piegate «Che cosa?»

 

Il mattino dopo, Ann uscì di casa tutta trafelata, avendo, come sempre, mille cose da fare; nel caso in cui le fosse avanzato del tempo sarebbe passata da Nathan per chiarire circa lo strano comportamento del giorno prima. Il discorso di quella notte con sua madre l’aveva a dir poco illuminata!

Tuttavia, non aveva intenzione di chiedergli nulla riguardo il mistero che ancora l’assillava, ovvero la brutta sensazione di freddo che l’aveva colta nel momento in cui gli era stata vicino. Il primo pensiero che le aveva attraversato la mente era che il messere avesse passato molto tempo all’aperto, e la cosa la insospettiva; d’altra parte, però, non riusciva ad immaginare quell’uomo a far qualcosa di losco.

Nathan era strano, sì, non lasciava quasi mai trasparire con chiarezza che cosa pensava, ma non sembrava affatto una persona cattiva. Piuttosto, le sembrava una persona sola.

 

A metà mattinata incontrò Krissy, la quale si stava dirigendo verso la foresta.

«Ieri ho perso il mio braccialetto, così sto andando a cercarlo!» si giustificò la ragazza, inspiegabilmente vestita meglio del solito e con due guance così rosse da sembrare urlare alla menzogna.

Ann, scettica, inclinò il capo e le scoccò un’occhiata indagatrice «Oh, certo… e, dimmi, questa ricerca prevede anche uno spuntino?»

Con un dito indicò il cestino del pranzo di vimini che l’amica stava maldestramente tentando di nascondere dietro la schiena.

Krissy fece un sorriso tirato, ancora decisa a non cedere. Dondolava sulle punte con gli stivali affondati fino alle caviglie nella neve; le lunghe trecce rosse erano state annodate con molta cura, quella mattina  «Beh… No, ma potrebbe venirmi fame!»

«Krissy, stai attenta, per l’amor di Dio…» la mora sospirò arrendevolmente, poiché aveva capito che non poteva fare niente per far capire all’amica che si stava solo mettendo nei guai.

Quest’ultima scosse il capo con decisione e le promise solennemente che sarebbe tornata appena trovato il bracciale. Così si allontanò in direzione degli alberi, lasciandosi alle spalle una Annlisette profondamente preoccupata, che però non intendeva intervenire. Se la cavasse da sola, Krissy, così avrebbe finalmente capito che la foresta e gli sconosciuti erano pericolosi!

Con questo pensiero egoistico nascose la morsa di gelosia che le suggeriva di rincorrere la giovane Scottfish e chiuderla in casa a doppia mandata.

Tirò un profondo sospiro, decisa a tornare ai propri doveri.

 

Fu così che Ann si diede da fare per tutto il pomeriggio, giungendo solo un’ora prima del tramonto a casa di Nathan, stremata dall’immenso carico di commissioni che aveva sbrigato.

Rimase diversi secondi innanzi alla porta di casa Metherlance senza muovere un muscolo, semplicemente dondolandosi avanti e indietro; l’unica sensazione che sentiva era quella provocata dal vento gelido che le percorreva la pelle, pizzicandola in particolare sulle palpebre e sulle gote.

In un moto di spavalderia mosse qualche passo in direzione della casa, ma si fermò quasi immediatamente, pensierosa. In realtà, nemmeno lei sapeva che cosa dire con precisione allo straniero: che le dispiaceva? Che voleva dargli delle spiegazioni? Come sempre, avrebbe agito d’istinto e cercato di sfruttare a suo favore la situazione che si sarebbe creata.

Così, presa da un’innocente forza d’animo, avanzò più speditamente, salì la piccola scalinata e raggiunse il pianerottolo. Bussò alla porta tre volte, com’era solita fare, ma nessun suono provenne da dentro la casa; riprovò, ed ottenne di nuovo lo stesso risultato.

 “Non è in casa…” ammise, con un pizzico di delusione, abbandonando le braccia lungo il corpo mentre si concedeva un sospiro.

Eppure, pensò, era ancora molto presto per andare a cena. Le soggiunse l’illuminazione: forse si era recato alle rovine? Molto probabile, considerando che il giorno prima aveva ottenuto la notizia che la strada era percorribile; le tornarono in mente le parole di suo padre circa quella zona, terreno di caccia dei lupi, e fu assalita dal timore che all’uomo potesse accadere qualcosa di veramente brutto a causa della sua ossessione per quei pezzi di pietra malmessi.

Posò gli occhi blu sulla maniglia che ormai conosceva bene e si chiese se anche lo straniero avesse l’abitudine di lasciare la porta aperta, come tutti lì a Hidel. Per qualche secondo ebbe la tentazione di provare a entrare: chissà se poteva scoprire qualcosa in più su Nathan…

“No! Che cosa vai a pensare, stupida!” si rimproverò, indignata dal fatto che un pensiero simile le avesse attraversato la mente “È maleducato curiosare tra le cose della persona più misteriosa che tu abbia mai visto!”

Sapeva benissimo quanto fosse scortese un’azione simile, e dovette costringersi a fissare bene i piedi sul legno ed incrociare le braccia al petto, prima di arrendersi: la curiosità era troppa; così poggiò una mano sul pomello e diede una spinta secca.

La porta si aprì, come un varco che conduceva verso un mondo di oscurità. Per quanto fuori luogo, il primo pensiero che ebbe fu che qualcuno avesse costretto lo straniero a non chiudere a chiave: non ci credeva che messere Metherlance lasciasse così incustodita la soluzione a tutti i suoi enigmi!

Silenziosamente, fece il suo timido ingresso nella casa, accompagnata dal tetro scricchiolio della porta. Si guardò intorno un paio di volte, riuscendo a scorgere poco e niente attraverso il fitto buio, straziato solamente da un raggio di luce debole che entrava dalla porta aperta. Il solito tavolo, le solite scatole, il solito gelo che sembrava più presente del padrone di casa.

«Nathan?» provò a chiamarlo, ma non ebbe nessuna risposta in cambio.

Ora aveva la conferma che il tedesco era fuori, probabilmente davvero presso le rovine.

Il cuore le batteva vigorosamente mentre si chiudeva la porta alle spalle; ora era al buio. Aveva deciso: avrebbe dato solo un’occhiatina in giro e poi sarebbe sgattaiolata via, e se fosse stata scoperta avrebbe semplicemente affermato di essere lì ad aspettarlo per parlare di alcune cose importanti.

Si avvicinò al tavolo, sul quale aveva notato prima una lampada ad olio piuttosto grande, la accese e sfruttò la poca luce come calda compagnia in quell’abitazione fredda. Riuscì finalmente ad intravedere la porta che conduceva alla stanza che non aveva mai visto, la miriade di scatoloni che sembrava addirittura aumentata rispetto al giorno prima, con tutte le strane cianfrusaglie che per lei erano assolutamente incomprensibili, ed infine, poco lontano da questi, un piccolo armadio dove probabilmente lo straniero aveva riposto gli abiti. Chissà se aveva ventisette copie del suo solito, monotono mantello nero, si chiese Ann.

A giudicare dallo stato di abbandono di quel povero luogo, Nathan era probabilmente uscito di corsa subito dopo pranzo; sul tavolo, infatti, erano stati abbandonati una bottiglia piuttosto piccola contenente ciò che, a colpo d’occhio, Ann dava per vino, ed un tozzo di pane nero. Avrebbe voluto dare una pulita generale per fargli un favore, le sarebbe davvero piaciuto vedere la faccia di lui quando, una volta tornato, avrebbe visto per la prima volta la propria casa in ordine.

“Qui dentro c’è decisamente bisogno di un tocco femminile!” ridacchiò Ann.

Tuttavia, aveva deciso di non toccare nulla; era già abbastanza grezzo da parte sua entrare in casa di altri senza averne il permesso – sebbene a Hidel fosse consuetudine -, non voleva farsi rimproverare più del dovuto. Magari, pensò, sarebbe tornata in seguito per dare una sistemata, se messere Metherlance lo avesse voluto.

Mentre si aggirava per la casa in cerca di nulla in particolare, la ragazza fece scorrere lo sguardo su ogni cosa, con maggiore o minore interesse. Si avvicinò ai libri, scorgendo con difficoltà alcune copertine dai titoli interessanti, o almeno le davano l’impressione di essere interessanti; peccato che la maggior parte di essi fosse scritto in inglese nazionale, che lei non conosceva bene. Tuttavia, tra tutti quei titoli uno in particolare attirò la sua attenzione: “Tagebuch”*. Non le sembrava affatto una parola inglese quanto una tedesca, e questo le fece pensare che quella non fosse solo una barriera linguistica, ma anche una barriera tra il resto di quel gelido mondo e l’interiorità di Nathan Metherlance. Incapace di resistere, posò per terra la lampada ed allungò le mani per afferrare quel piccolo volumetto marrone non rilegato, apparentemente molto antico.

Era alquanto impolverato, e, mentre percorreva con il palmo della mano la copertina ruvida e rovinata dagli anni, ebbe l’impressione si starsi avventurando in qualcosa che era meglio non conoscere.

Lo aprì, e pensò di essere stata catapultata in un altro mondo, in un’altra epoca. La carta era vecchia ed ingiallita, molto rovinata sui bordi, sembrava così fragile che Ann aveva paura di toccarla. Sulla prima pagina erano scritte alcune parole incomprensibili, ma la stessa calligrafia rivelava che l’autore l’aveva utilizzata per dare una piccola, schematica introduzione di sé.

Name: Auror Von Halfen. Alter: 17. Stadt: Arkata, Frankfurt.”

Si accigliò, pur intuendo che Auror Von Halfen era sicuramente il nome della persona a cui apparteneva quel libricino; immaginava che il numero diciassette si riferisse alla sua età e, se ricordava bene, Nathan veniva proprio da Arkata, provincia di Francoforte.

Purtuttavia, non riusciva proprio ad immaginare per quale motivo Nathan tenesse un oggetto del genere in casa. Continuava ad avanzare di pagina in pagina, senza però trovare niente che le fosse comprensibile, non c’era una parola che non fosse scritta in tedesco. In compenso c’erano molti disegni: paesaggi, farfalle, fiori, una città avvolta da una strana cappa bianca che Ann immaginava fosse nebbia, dei bambini che giocavano. Auror, che doveva sicuramente essere una ragazza, non disegnava bene, molte volte i suoi erano più bozze che veri disegni, ma rendevano molto chiaramente l’idea di cosa l’autrice volesse trasmettere. Tra i vari schizzi, uno in particolare attirò la sua attenzione: un prato verde invaso da fiori gialli che sembravano ricoprirlo come un tappeto, il sole che tramontava dietro un lago, che occupava quasi interamente lo sfondo, e in primo piano tre figure che si tenevano per mano: una ragazza dai lunghi capelli chiari, un ragazzo davvero simile a lei ed un uomo adulto, completamente bardato di nero e con uno strano cappello a coprirgli la capigliatura scura ribelle.

Ann immaginò che la ragazza fosse la stessa Auror, e pensò che il giovane sembrava somigliare molto a Nathan, anche se lo straniero aveva i capelli decisamente più corti. L’identità del terzo uomo le era invece completamente oscura.

Girò ancora pagina, e le sue dita si imbatterono in un foglio un po’ più duro degli altri. Lo prese delicatamente in mano, avvicinandolo alla luce della lampada. Era un ritratto, raffigurava due bambini: una prima, visibilmente più grande, dai lunghi capelli biondi ed un sorriso dolcissimo, poi un secondo, non c’erano dubbi che fosse un piccolo Nathan, col suo solito ciuffo ribelle e gli occhi azzurrissimi pieni di vivacità. Si trovavano nel prato dello schizzo di Auror, e lei era impegnata nel legare una margherita al collo del povero bambino, che la osservava con lo sguardo di chi prega un po’ di contenimento.

Una lacrima cadde sulla pagina aperta, lasciando un segno indelebile del suo passaggio. Ann avvertì un tuffo al cuore: aveva macchiato il quaderno di Auror. Provò immediatamente a pulirla con la manica, ma l’unico risultato che ebbe fu di allargare ancora di più la zona macchiata; si sentì profondamente in colpa.

Decise che era ora di posare quel quadernetto e andarsene, perché non voleva sapere davvero altro. Si chiedeva se Auror non fosse un’amica d’infanzia di Nathan, o forse la sua fidanzata o chissà che. Insomma, non sapeva niente di quell’uomo! Eppure non riusciva a provare gelosia nei confronti di Auror: era una ragazza troppo pulita per suscitare un sentimento negativo.

Stava per posare l’oggetto portatore di ricordi, quando il suono della porta che veniva aperta le annunciò il ritorno del padrone di casa.

La figura di Nathan si stagliò nitida sull’uscio; aveva una mano stretta attorno al pomello e con l’altra reggeva una serie di fogli percorsa debolmente dal vento. Stava immobile lì, chiuso nel suo silenzio, con lo sguardo che tradiva sorpresa puntato su Ann.

Quest’ultima lo fissò con gli occhi sbarrati ed il cuore che batteva concitatamente, paralizzata al punto di non avere il coraggio di muovere un muscolo. Non sapeva che fare, ogni scusa che tra sé e sé si era preparata sembrava esserle sfuggita di mente. Esistevano solo lei, rigida come un blocco di ghiaccio, e lui, imperscrutabile.

Non sapendo cosa dire e temendo di essere buttata fuori a suon di urla, la ragazzina si affrettò a posare il diario di Auror sulla pila di libri, mormorando piano uno stentato e timido «Ah… chiedo scusa…»

Nathan sembrò riemergere dalla sua trance; entrò in casa, chiudendosi con un gesto secco la porta alle spalle, e le rivolse uno sguardo carico di disapprovazione e rimprovero che fece sentire Annlisette piccola e patetica.

«Mi sono sempre piaciute le persone curiose.» sibilò, duro «Ma preferisco quelle che sanno quando è il caso di mettere da parte la propria curiosità.»

Quelle due frasi le suonarono quasi come una condanna a morte, tanta era la stizza che sembrava emanare lo straniero. La ragazza cominciò ad arretrare istintivamente, finché non sentì la parete avvisarla di essere giunta al capolinea.

«Mi dispiace… mi dispiace davvero!» esclamò, non sapendo più che cosa fare. Avrebbe voluto alzarsi e riprendere il suo abituale contegno, promettergli che non sarebbe più accaduta una cosa del genere e che avrebbe pagato le conseguenze della sua bravata, eppure l’emozione provocata dal quaderno e dalla foto era ancora forte, ed unita a quella che le dava la vista di Nathan arrabbiato la faceva sentire terribilmente insicura e spaventata.

Abbassò gli occhi sul pavimento, esattamente l’opposto di ciò che avrebbe veramente voluto fare.

Nathan a quel punto si avviò verso di lei, e ad ogni passo in Ann cresceva la paura che lui volesse colpirla; i battiti del suo cuore cominciarono ad assumere il ritmo dell’incedere pesante dell’uomo, e quando questo si fermò davanti a lei, anche l’organo parve mancare un battito.

Il tedesco si abbassò fin quando non furono alla stessa altezza, abbandonò per terra i fogli, allungò un braccio e… glielo posò gentilmente sul capo.

La ragazza pensò di vederci male quando sollevò gli occhi ed incontrò il suo volto, disteso in un sorriso un po’ forzato, ma comprensivo. In un attimo, la paura di star per essere colpita che fino a poco prima l’aveva stretta, ora le sembrava la cosa più stupida del mondo.

In silenzio, ascoltò le parole di lui.

«Smettete di scusarvi, non è successo nulla di troppo grave.» la incoraggiò.

Quel tentativo di consolarla però ottenne l’effetto opposto, ovvero quello di commuoverla e quasi farla addirittura piangere.

«Scusatemi!» ribadì ancora lei.

«Basta scusarsi!» venne ripresa; Nathan scoccò un’occhiata fugace al quadernetto, appoggiato sopra la pila di libri «Mi dispiace che abbiate letto quella roba… Dovevo nasconderlo meglio.»

Ancora schiacciata dai sensi di colpa, Ann mormorò a bassa voce «È casa vostra, avete diritto di posarlo dove preferite… È stata colpa mia, che sono entrata senza permesso.»

«Non fate quella faccia triste, Ann. Dopotutto, qui è normale lasciare la porta aperta, no? Mi avete anche spiegato il motivo…» cominciò lo straniero, con quel tono che non lasciava presagire niente di buono.

Imbambolata, Ann lo fissò incuriosita, incerta su cosa dire.

«In realtà…» riprese lui, serio e composto «Eravate inseguita da un lupo, siete entrata in casa mia per ripararvi e, per ammazzare il tempo, avete afferrato il primo libro che vi è capitato tra le mani. So che è così, quindi non ammetto repliche.»

La ragazza rise, sollevata da quelle parole; sembrava quasi che Nathan si stesse sforzando di giustificare la sua condotta. Voleva dirgli che era molto gentile, ma una qualche ragione a lei sconosciuta glielo impediva.

Dovettero passare diversi minuti prima che Nathan, forse colto da un’idea geniale, si rialzasse e si allontanasse, tornando poco dopo con una coperta nella mano sinistra e una tazza di latte freddo nella destra; mise la prima sulle spalle della ragazza, poi le porse la seconda. Lei le accettò entrambe con un sommesso ringraziamento. Non le era mai piaciuto il latte, ma in quel caso lo bevve senza farsi problemi, sentendosi ristorare.

«Grazie…» disse alla fine la villica, quando poggiò il bicchiere per terra, tirando su col naso.

Lui le sorrise, l’aiutò ad alzarsi e le indicò una delle sedie vicine al tavolo, posto decisamente più comodo del pavimento.

«Dunque, immagino che vogliate farmi qualche domanda.» asserì quindi il tedesco, sedendosi a sua volta accanto a lei.

Lei annuì; nonostante la brutta scena appena trascorsa aveva davvero tanti dubbi per la testa, talmente tanti che non sapeva da quale cominciare. Anzi, forse lo sapeva.

«Chi è Auror Von Halfen?» chiese timidamente.

«Mia sorella maggiore.» rispose semplicemente l’uomo.

Ann strabuzzò gli occhi: non ci aveva pensato. Il fatto che avessero cognomi diversi le aveva fatto escludere una tale ipotesi, ma, pensandoci bene, potevano essere fratellastri o qualcosa del genere.

«Il mio vero cognome è Von Halfen.» spiegò Nathan, gli occhi sollevati come ad inseguire figure ormai lontane nel tempo «O almeno, lo era prima che incontrassi la persona che mi crebbe.»

La ragazza gli indirizzò un’espressione confusa, per cui si affrettò a chiarirsi.

«A sedici anni andai a vivere sotto l’ala protettrice di una donna, una Metherlance.»

«Come mai?» continuò la villica, che proprio non riusciva a capire quale motivo potesse spingere qualcuno ad abbandonare la propria famiglia per un’altra, per di più composta da un unico membro, a quanto sembrava. Appassionata da quel racconto molto misterioso, iniziò a dondolare le gambe sotto il tavolo, sbattendo di tanto in tanto contro i piedi della sedia.

Nathan si tirò indietro a quel punto, palesemente restio ad affrontare quell’argomento. Si chiuse in un duro silenzio con cui intendeva far capire che non avrebbe risposto a quella domanda, ed Ann si pentì di avergliela porta; del resto, immaginava che fosse già molto doloroso per lui ricordare la propria separazione dalla famiglia.

Alzò una mano e la mosse lentamente da sinistra a destra, con un sorriso comprensivo sul volto, per fargli capire che non era necessario che rispondesse.

Lui, capendo ciò che ella intendeva, le sorrise di rimando «Tutte queste premure mi lusingano.»

«Non ce n’è bisogno, davvero.» ribadì la giovane; poggiò i gomiti sul tavolo, aggiungendo poi «Mi dispiace di avervi fatto ricordare cose dolorose…»

A quel punto entrambi si concessero un sospiro, chi di rassegnazione e chi di sollievo, e, alzati gli sguardi per controllare se quella non fosse stata un’allucinazione uditiva, risero insieme. La mora era finalmente riuscita a ritrovare un po’ del suo abituale contegno, inoltre gli era davvero grata per aver risposto a quelle invadenti domande. Cercò di farglielo capire con uno sguardo rasserenato, leggendo negli occhi celesti dell’uomo la stessa tranquillità, cosa che era molto rara in uno come Nathan Metherlance.

«Beh, che altro dire?» disse infine il tedesco, mettendosi in piedi.

Ann lo imitò, intenzionata a reggergli il gioco.

Infine lui, accompagnato da uno sguardo curioso da parte della ragazzina, si mise in ginocchio come un vero cavaliere e le prese con delicatezza la mano destra «Permettetemi di ripresentarmi. Nathan Von Halfen, per servirvi.»

 

Note:

#1: Tagebuch in tedesco significa “diario”.

 

 

Note dell’Autrice:

Yeah, finalmente anche il capitolo sesto è (si spera) archiviato! Ringrazio del grandissimo aiuto con la revisione VeganWanderingWolf, al quale ergerò una statua d’oro alla fine di questa odissea! Inoltre riprendo i ringraziamenti a violacciocca ed Eletrical_Storm per le recensioni, graditissime come sempre :D

 

A presto!

Sely.

 

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Capitolo 7
*** Turn away ***


What colour is the snow

What colour is the snow?

Capitolo 07: Turn away.

 

† La neve si scioglie al Sole. †

 

Un passeggiare molto agitato riecheggiava nella casa. Una donna giovane si aggirava nervosamente di stanza in stanza; le lunghissime trecce castane che le raggiungevano le ginocchia erano scomposte e non curate, così come il viso della donna, orrendamente pallido e scarno. Nonostante infatti Cornelia fosse una donna di costituzione piuttosto robusta, da quando sua sorella Dora era scomparsa aveva perso ben venti chili. Inutile dire che da settimane non dormiva sonni tranquilli, mangiava a stento un piatto di pasta al giorno, girava e rigirava stanza per stanza, perennemente convita di essere spiata. Hidel ormai dava per morta la sua cara sorella, tuttavia Cornelia non si era arresa. Era convinta che Dora le fosse stata strappata per un motivo. La sorella minore era sempre stata una ragazza molto paurosa, dunque come avrebbe mai potuto immergersi da sola nella “foresta buia” in piena notte, come il resto del villaggio sosteneva?

No, non era possibile. Per questo motivo Cornelia non si era arresa, e continuava ad indagare senza sosta sulla scomparsa di Dora. Eppure, nonostante i grandi sforzi compiuti, non aveva scoperto niente.

Ed ora, terrorizzata, la donna stava fuggendo da Hidel. Forse si era spinta troppo in là, varcando il territorio di qualcuno che non voleva farsi scoprire.

Cornelia si voltò ancora, sfoderando il coltello da cucina che ormai era diventato la sua arma. Le mani tremanti colpirono il vuoto, e la donna si accigliò ancor più. Aveva avuto ancora una volta quella tremenda sensazione di essere spiata; poggiò il pugnale sul tavolo della cucina, tornando a concentrarsi sul vivande da portare con sé per sopravvivere al duro viaggio; una goccia di sudore freddo le attraversò la tempia sinistra.

Sentiva tutto il corpo fremere sotto il freddo velo di gelida paura che le era calato addosso, tanto che ogni minimo rumore la faceva sobbalzare e impugnare violentemente il coltello. Tremando da capo a piedi, cercò di convincersi che andava tutto bene, che era solo questione di tempo, che sarebbe giunta a Terren sana e salva, e, nel caso fosse morta lungo la strada, almeno sarebbe morta lontano da quel villaggio maledetto.

Era tutto pronto, ma prese qualche secondo per una veloce revisione. Il cibo era dentro la sacca, assieme a pochi abiti di riserva, due bidoni d’acqua. Fece altri rapidi calcoli; aveva contato che per arrivare a Terren avrebbe impiegato due settimane di cammino, se procedeva velocemente anche in una e mezzo. L’acqua sarebbe bastata? “Beh” si disse “considerando anche il mulo, è meglio portarne altri due fusti”. E così fece.

Verso ora di colazione, Cornelia era già pronta. Zaino in spalla, si stava dirigendo verso la stalla. Avrebbe attraversato la foresta in una giornata intera, senza dare riposo né a se stessa, né al mulo.

Prese con mano sicura ma tremante i due fusti, voltandosi.

-Andate via, madame?-

La donna raggelò. Rimanendo immobile, le servì qualche secondo per riprendersi dallo shock. Cercando di vincere la paura che l’aveva attanagliata, si costrinse ad afferrare il coltellaccio che portava al fianco e a puntarlo contro l’intruso. Abbassò di poco il capo, inarcando le sopracciglia e socchiudendo gli occhi nocciola in uno sguardo di odio puro. Il corpo tremava contro il suo volere, senza che la donna riuscisse a fermarlo, nonostante la sua testa le urlasse di non mostrarsi così esitante e impaurita, o avrebbe avuto la peggio. Distese le gambe, così da avere un baricentro più ampio così da rimanere in piedi in caso di attacco; la mente venne annebbiata dalla figura della sorella sorridente, come l’aveva vista l’ultima volta. Quell’intruso era lì per lei.

-Che cosa vuoi da me? Cosa hai fatto a Dora?- sibilò la donna con fare rabbioso, cercando di resistere all’impulso di scappare.

In risposta, l’uomo rise piano, sommessamente. Una risata che fece spaventare ancor più Cornelia, che si ritrasse lentamente di due passi. Ma più lei indietreggiava, più lei avanzava. E non era una buona idea quella di mettersi al muro.

-Vedete, madame…- cominciò l’altro con voce gentile, in netto contrasto con l’effetto che però aveva sulla povera donna. –il mio compito è quello di proteggervi, ma sei voi continuate ad ignorare i miei avvertimenti e vi spingete più in là di quanto dovreste…- ormai Cornelia era al muro. Con una risata sadica, l’uomo batté una mano contro il muro dov’ella era appoggiata, poco sopra la sua testa. La donna, vinta dalla paura, si lasciò cadere a terra tra singhiozzi e lacrime. –non mi resta che uccidervi- concluse.

Fu allora che, con un ultimo disperato sforzo, Cornelia sferrò il coltellaccio contro il nemico. Ma questo, con un movimento improvviso e veloce, riuscì a prevedere la sua mossa, abbassarsi e, per sommo orrore della povera vittima, bloccare il coltello con la mano. La lama penetrò nella carne con un suono sordo, ma l’arto non ebbe nemmeno un fremito, né il viso dell’intruso mostrò alcun segno di dolore, nonostante il sangue cominciasse a sgorgare con velocità impressionante. –Non si scappa-

 

Il tuonante “toc toc” di un insistente battere alla porta fece sorridere Nathan. Ann si riconosceva subito, anche solo ascoltando il modo in cui bussava. O forse era lui che si era abituato così tanto a quel battere frenetico da ormai riconoscerlo subito.

Posando molto serenamente sul tavolo un libro dalla rilegatura rossa riguardante l’antico greco, si diresse alla porta giusto in tempo per evitare che la ragazza la buttasse giù a suon di “gentili” battiti. A volte quella ragazzina era peggio di suo padre. “No” si disse il ragazzo “non esageriamo…

Aprì piano la porta, fermandosi sull’uscio ad osservare il viso estremamente rilassato di Ann. Doveva aver riposato molto bene per essere così allegra di primo mattino, al contrario di lui, che aveva faticato come al solito per alzarsi –Buongiorno- le sorrise.

-Giorno!- salutò lei a sua volta con vivacità –Stamattina hai da fare?- domandò curiosamente. Lui fece cenno di no con il capo –Allora vieni con me- com’era sua abitudine fece apparire come un ordine quella che in realtà era una semplice proposta. Ma Nathan era abituato a quel suo modo di fare, Ann sapeva che non si sarebbe alterato. Infatti, come immaginava –o forse sperava-, lui annuì, chiedendole dove sarebbero andati –solo una breve passeggiata- assicurò la ragazza.

 

-Allora, dimmi- la voce squillante di Ann riecheggiava tra gli alberi. Hidel si trovava in una valle grande diverse miglia accerchiata dalla catena montuosa che attraversava da est a ovest le Lande senza nome; non era strano dunque udire acutissime eco, soprattutto quando il branco dei famosi lupi del nord dava inizio alla stagione di caccia. –Quando andrai alle rovine?-

-Presto, almeno spero- rispose Nathan alzando gli occhi al cielo, il quale era più buio del solito nonostante fosse solo mattina –ieri ho dato un’occhiata alla strada, e sembra essere in buone condizioni. Devo solo sperare che il tempo mi assista nei prossimi giorni- sospirò con fare demoralizzato, scrollando le spalle –non posso di certo attraversare le Lande con questo cielo scuro e il rischio che nevichi-

Ann forzò un sorriso, ma questo scomparve subito dopo. Non poteva negare di essere preoccupata. Come il padre aveva detto, recarsi alle rovine in quel periodo non era saggio. Era territorio di caccia del branco. Si sarebbe volentieri offerta di accompagnare Nathan nel viaggio, infatti non aveva paura delle belve, anche perché sapeva destreggiarsi bene con i pugnali, ma era sicura che la sua famiglia non lo avrebbe permesso. Gabriel era quello che, tra tutti, aveva appreso con più stizza degli ottimi rapporti che intercorrevano tra la sua sorellina e lo straniero, e si opponeva fermamente ogni qualvolta che Annlisette era in procinto di andare a casa Metherlance. Quando la ragazza aveva confidato al fratello di comprendere le sue preoccupazioni, ma di essere sicura del buon animo dello strano biondino, Gabriel aveva tentennato, quindi, cercando di mantenere la calma, aveva spiegato i motivi che lo inducevano a non avere fiducia in uno straniero presentatosi dal nulla, solo con un nome e una certa missione, ovvero studiare le antiche rovine latine nei pressi del villaggio. Ann non aveva potuto negare che i sospetti del ragazzo non fossero più che giustificati –Ma bisogna avere fiducia nel prossimo- sorridendogli, rispose.

-Hidel diventerà famoso-

Tale affermazione fece strabuzzare gli occhi alla ragazzina, la quale però, subito dopo, rise –Hidel è stato cancellato dalle mappe- fece, prendendo in giro ciò che Nathan aveva appena detto.

-Pensaci, Ann- lui tornò a guardarla. Nonostante camminassero, non guardava mai avanti, piuttosto osservava il cielo per lunghi periodi, o la colloquiante con intensità avvolgente, che faceva dimenticare ad Ann che si trovavano soli in mezzo alla foresta, ad attraversare la freddissima Landa avvolti solo nei propri cappotti, mentre la neve cadeva piano attorno a loro, posandosi sui rami degli alberi, sul sentiero rettilineo che percorrevano, sui loro stessi corpi. Il silenzio era rotto solo dalle loro parole –una scoperta del genere vi renderà famosi in tutta la nazione. Giungeranno studiosi importanti; i vostri nomi saranno scritti sui libri di storia; in breve tempo Hidel potrebbe addirittura diventare una città importante e tecnologica-

Tutto quello aveva senso, e inizialmente fece molto piacere alla ragazza, che sentì il cuore battere più velocemente e le gote arrossire. Aveva sempre sognato di vivere in una grande città, eppure, neanche lei ne sapeva il motivo, quella possibilità la spaventava. La piccola Hidel che conosceva, fine solo a se stessa, scomparire sotto il cemento e il ferro di una città come Terren, o forse come Lilium, nelle Terre Azzurre di Sylvanth? No, sarebbe stato troppo per lei. In quel momento, senza accorgersene, si fermò, poggiando lo sguardo sul sentiero. Nathan, invece, continuò a camminare, avendo visto qualcosa che gli interessava.

La ragazza rimase diversi minuti ferma a provare a immaginare Hidel in versione Lilium o Terren, quando il ragazzo, scuotendola dai suoi pensieri, esclamò –Hey, Ann, vieni!- la ragazzina alzò lo sguardo, cacciando dalla mente quei pensieri, affrettandosi a raggiungerlo. Lo trovò chino su una piccolissima carcassa, mano a mano che si avvicinava sentiva odore di morto che si faceva sempre più forte, fin quando non fu costretta a mettersi una mano davanti al naso.

Si trattava della carogna di un orsetto marrone all’apparenza molto piccolo. Probabilmente era stato ucciso dai lupi che, per qualche misterioso motivo, ne avevano mangiato solo metà.

Sentendo il proprio stomaco rivoltarsi, la ragazzina scoccò uno sguardo languido al corpo del povero animale, sentendo una lacrima sotto le palpebre –E’ tremendo…- sussurrò.

-No, è natura- la corresse Nathan, che non aveva problemi a star chino sullo scheletro mezzo esposto e a scrutarne le viscere visibili. –Probabilmente l’hanno ammazzato i lupi, però…-

-Però cosa?- il tono della giovane si alzò, come se fosse irritata. Non le piaceva osservare il corpo di un animale morto, soprattutto se era un cucciolo. Distolse lo sguardo dalla carcassa, costringendosi a guardare gli alberi.

-Nulla- Nathan sorrise, e mise le mani addosso all’animale morto, sollevandolo. Sorrise a un’attonita Ann, che fremeva dalla voglia di scappare –credo che lo porterò al villaggio per un’autopsia. C’è qualcosa che non quadra nel modo in cui l’hanno ucciso?-

-Un’auto che? Cosa non quadra?- domandò lei alzando la voce e stringendo i pugni –A Hidel?! Ma che dici! Non puoi portarlo al villaggio!-

Stavolta fu il giovane studioso a rimanere allibito da quel comportamento. Inclinò il capo, scrutando Ann che sembrava colpita nel profondo. Le aveva forse fatto impressione quel gesto? –Perché?- chiese a sua volta.

-Come perché?!- alzò lei lo sguardo supplicante al ragazzo –E’ ingiusto nei suoi confronti!-

Nathan stavolta dovette davvero trattenere una risata. Distolse lo sguardo da lei, ribadendo con voce alquanto divertita –Ann cara, capisco quanto tu sia sensibile, ma questo orsetto è già morto. Se gli faccio qualche taglietto non è perché non gli voglio bene, ma perché voglio capire come è morto-

La ragazza fu davvero sul punto di dargli un pugno in faccia. Non lo fece solamente perché lui teneva in mano quella carcassa –Ma questa è casa tua! Tu non sei nessuno per venire qui a dettare legge!-

Quelle parole così dure colpirono davvero il giovane uomo, che si bloccò a guardare la piccola Ann. Perché si dava cotanta pena per un orsetto morto? Non riusciva proprio a capirlo. E poi, lui era andato a Hidel per ricerche e studi, non per dettare legge. –Questa è scienza, Ann. Scienza e natura spesso sono in disaccordo- provò allora a farle capire il suo modo di vedere le cose –ma è la prima che permette all’uomo di diventare qualcosa di più, e se per diventarlo necessitano sacrifici… beh, c’è sempre qualcuno pronto a farli-

-Non mi sembra che quell’esserino lo sia!- lo rimproverò ancora lei. Si avvicinò di un passo, sfidando Nathan a sostenere il suo sguardo accusatore –E poi è la natura che ci dà la possibilità di essere ciò che siamo! Non puoi pretendere di dominarla!-

-Non voglio dominarla!- si incupì allora lo studioso, facendo paura alla giovane, che si ritrasse. A lui non scappò questo particolare, così come non gli sfuggì la mossa veloce con cui ella si apprestava a voltarsi per scappare. Ma lui, come sempre, fu più veloce. Le afferrò saldamente il polso lasciando cadere sulla neve, con tonfo secco, il corpo esangue dell’animaletto morto –Aspetta!- esclamò, ricevendo però in cambio un’occhiataccia.

-Sei uno stupido e un antipatico!- esclamò Ann, dimenandosi per farsi lasciare. Come poteva un ragazzo così mingherlino avere tutta questa forza nelle braccia? –Non è giusto quello che dici, è una mancanza di rispetto nei confronti di Dio!-

-Mi dispiace, Ann, ma sono ateo- come la ragazza si aspettava, dopotutto.

-Visto?- urlò ancora lei, ma subito dopo la voce le si spense in gola, e fu costretta ad abbassare lo sguardo, calmando i muscoli. Fu appena un sussurro quello che seguì –Siamo troppo diversi, non potremmo mai essere…- il fiato le si spense.

Lui, forse confuso, forse interessato, si accigliò –Che cosa, Ann?- le chiese, ma non ottenne risposta. La ragazzina riuscì a strattonarsi dalla presa d’acciaio, scappando in direzione del villaggio.

 

Ann corse molto a lungo, alla ricerca della strada che aveva fatto. Voleva tornare di corsa ad Hidel. La mente si era spenta da un bel pezzo, da quando aveva capito che Nathan era uno dei “cani della scienza”, come li chiamava suo padre, ovvero quegli scienziati che non avevano rispetto per la natura.

Il suono delle scarpe che affondavano nella neve purissima; il paesaggio innevato in assoluta calma e tranquillità; qualche lontano rumore provocato dal vento che scuoteva i rami spogli degli alberi. Ann si fermò presso quello che sembrava un sentiero abbandonato da moltissimo tempo.

Asciugò una lacrima. Si diede della stupida. Pensava di aver trovato finalmente qualcuno di simile a lei, qualcuno con cui condividere qualcosa, diversamente dalle altre persone di Hidel, che nella sua vita erano sempre state come fantasmi. E inizialmente anche Nathan lo era stato, ma poi si era illuminato di una luce particolare. Ora però, la ragazza si rendeva conto di aver commesso un errore.

“Un errore…” rifletté a lungo su questa parola. Aveva sì fatto un errore di calcolo nel giudicarlo così presto, ma di certo i loro differenti pareri su diverse questioni non avrebbero impedito loro di coltivare un’amicizia anche salda. Dopotutto gli amici spesso hanno opinioni contrastanti. Dunque perché aveva usato la parola “errore”?

Ann uscì dalla selva guardando con stupore al grande lago che le si prospettava davanti. Non era a conoscenza del fatto che Hidel si trovasse nei pressi di un bacino. O forse, molto più probabilmente, invece di avvicinarsi al villaggio si era allontanata.

Asciugò una lacrima, mentre si sedeva sulla riva. Lì, stranamente, la neve non giungeva. Si poggiò sulla dura pietra, la quale si sarebbe ricoperta di erba durante l’estate. Osservò con molta attenzione il luogo in cui si trovava, scacciando, o meglio spingendo in un angolo della mente, il ricordo persistente di Nathan.

Non si trattava di un lago piccolo, anzi si estendeva per diversi chilometri, ed era costeggiato dalla foresta. In lontananza, al di là delle cime degli alberi, si intravedevano altissime montagne innevate, leggermente oscurate a causa della notte incombente. Qualche cristallo di neve si poggiava sull’acqua, ma lì, com’era nato, spariva. Il lago era completamente ghiacciato.

Insomma, un bel luogo per riposare dopo una frenetica corsa. Finalmente Ann poté ispirare a pieni polmoni l’aria fredda, contemplare in silenzio qualcosa che non fosse la solita e monotona neve, bensì qualcosa di nuovo e interessante. In quel momento le tornò in mente il discorso fatto con Nathan. La scienza serviva a dare cose nuove e interessanti all’uomo, e fin qui niente di sbagliato. Ma se la scienza valica la via della moralità, è giusto perseguire nell’obiettivo? Queste domande si poneva la ragazzina che, solo ora, si rendeva conto di essere stata ancora una volta presuntuosa e di non aver lasciato allo scienziato la possibilità di esporre le sue spiegazioni.

“Sono proprio un disastro…” sospirò poggiando il capo sulle ginocchia piegate al petto.

-E tu chi sei?-

La ragazza saltò in aria lanciando un urlo. Si voltò di colpo, con gli occhi sgranati, cercando qualcosa da usare come arma. Ma non ne ve fu bisogno. Davanti ad Ann si trovava un ragazzo apparentemente poco più grande di lei. Usciva dalla foresta, lo si notava dal fatto che aveva una mano poggiata contro la corteccia di un albero e un piede nascosto dallo stesso. La prima cosa che Ann fece vedendolo, fu un confronto con Nathan, anche se inconsciamente. Questo sconosciuto, a differenza dello studioso, non era molto alto, in compenso la giacca stranamente leggera che indossava faceva notare una massa fisica incredibile, tipica di un boscaiolo. Aveva una gran massa di capelli color cioccolato, spezzati da un’unica ciocca bianco latte perfettamente parallela alla linea marcata del volto dalla carnagione abbastanza colorata. Non sembrava di quelle parti.

Lui, da parte sua, parve rimanere altrettanto incantato quando posò gli occhi su Ann, che fu costretta a voltarsi imbarazzata per l’intensità dell’occhiata che le venne rivolta. A causa delle continue sfide con occhi celestiali di Nathan aveva perso quello smalto che aveva sempre avuto. –Io sono…- cominciò sottovoce. Solo a quel punto si rese conto di quanto fosse immotivato il battito accelerato del suo cuore. Dopotutto, non era lei lì l’intrusa. Rivolse uno sguardo severo al ragazzo –E’ buona educazione che siano gli uomini a presentarsi per primi!- lo rimproverò.

L’espressione sorpresa dello sconosciuto le ricordò quella di Nathan al loro primo incontro. Perché faceva questo continuo effetto ai maschi? Erano tutti dannatamente complicati. Tuttavia, a differenza del biondino, questo rise di gusto alle sue parole –Ma che bel caratterino che hai!- disse, e uscì dalla selva.

Ann si tirò in piedi, muovendo qualche passo indietro.

-Non voglio farti del male, tranquilla- le venne assicurato dallo sconosciuto. Egli si fermò a pochi metri di distanza, sulla pietra, scacciando con un gesto forte della mano la neve che gli cadeva attorno. Le sorrise cercando di calmarla. Alzò quindi l’arto con cui la salutò allegramente –Ciao! Mi chiamo Joshua- 

-Joshua, eh?- ripeté la mora sospettosa –E che cosa ci fai qui?- continuò l’interrogatorio.

-Cosa ci faccio io qui? Cosa ci fai tu qui!- rise ancora Joshua –Io qui vivo!- esclamò con tranquillità sconcertante.

Ann inclinò lo sguardo. Cosa voleva fare? Prenderla in giro, forse? Sapeva che oltre Hidel vi erano altri quattro villaggi nelle Lande senza nome, ma molto lontani l’uno dall’altro. E di certo lei non aveva camminato fino a Mnerva, il più vicino. Non viveva nessuno nella foresta, di questo era certa. –Io vivo a Hidel…- disse con tono basso, diffidando fortemente del ragazzo davanti a lei –mi chiamo Annlisette Nevue, e non ho mai sentito parlare di altri villaggi in questa zona-

-Ah, vieni dal covo del diavolo- annuì il ragazzo, lasciando la ragazza sconcertata –da noi chiamiamo così la valle- si affrettò a spiegare, vedendola così sorpresa –a causa di vecchia leggenda- ma più provava a spiegarsi, più ella sembrava rimanere attonita. Cominciò ad agitare le mani per aria –No, aspetta! Non piangere! Noi viviamo di leggende, non sentirti offesa!-

Joshua aveva cominciato a muovere così freneticamente le braccia da spaventare la ragazza, che temeva di essere colpita da un momento all’altro. Ma quando le scuse ammassate le une sulle altre si erano moltiplicate all’invero simile, Ann era scoppiata in una grande risata, sconvolgendo a sua volta Joshua. Forse fu quell’espressione stupita da parte di lui a convincerla ad abbassare le armi. Quel ragazzo, almeno a prima vista, sembrava davvero buono.

-Ma come parli?- domandò la ragazza calmando la risata. Sapeva quanto poteva risultare odioso quel tono che spesso usava sconsideratamente –Hai un accento e un modo di parlare molto singolari-

Il ragazzo inclinò il capo, come se non avesse capito bene la domanda di Ann. Solo allora ella notò il suo strano abbigliamento, tipico dei pellerossa che vedeva nei libri di storia. Che anche lui appartenesse a quella cerchia? Ciò avrebbe giustificato il suo modo di parlare molto elementare e quell’abitudinale ritrazione dell’accento che gli faceva sbagliare la pronuncia di due parole su tre.

-Non parli bene la mia lingua, eh?- sorrise allora lei, un po’ amareggiata. Per una volta che trovava una compagnia alternativa a Nathan, questa non parlava il suo dialetto…

-No, però vi guardo spesso, a voi della valle-

Nonostante non capisse molto di quello che diceva, Ann rimase meravigliata dal sorriso tranquillo che non voleva abbandonare il volto del giovane. Forse aveva capito che lei non rappresentava un grande pericolo. Mentre osservava il castano venire avanti, lei si ritraeva spontaneamente indietro. Uno strano senso di inquietudine la colse. Dopotutto non sapeva nulla di quello sconosciuto dall’aria simpatica, ma molto misterioso. Chi era? Dove viveva? Questi e altri mille interrogativi le occupavano la mente.

-Niente paura- cercò lui di tranquillizzarla, senza però ottenere l’effetto desiderato. Ann era una ragazza fin troppo diffidente, o almeno, lo era diventata. Se una cosa simile fosse accaduto qualche mese prima non avrebbe avuto difficoltà a stringere amicizia –non voglio farti male- provò ancora il giovane. Sembrava davvero che stesse parlando a un coniglio sul punto di scappare. Stranamente la ragazza si bloccò, forse aveva deciso di dargli un’occasione?

Joshua allungò una mano verso la giovane con l’intento di sfiorarle una guancia, ma il suo gesto venne improvvisamente bloccato.

Tagliando l’aria con una vibrazione paurosa, che fece accapponare la pelle di Ann, una lama sottilissima, appena visibile, si frappose tra il viso della ragazza e la mano del ragazzo. Tutti e due strabuzzarono gli occhi, la prima per la paura, il secondo per la sorpresa.

-Non azzardarti a toccarla- furono le sole parole, fredde come ghiaccio, che vennero proferite. I due giovani si voltarono verso la stessa direzione, ovvero quella della foresta, da cui un Nathan spaventosamente arrabbiato fece palpitare contemporaneamente il cuore e lo stomaco della ragazza. Forse per l’angoscia nel vederlo per la prima volta impugnare un’arma –uno stocco-, forse per l’espressione gelata ma tesissima che gli scuriva gli occhi chiarissimi, forse per il tono severissimo usato. Fatto sta che Ann ebbe ancora una volta paura dello straniero.

-Ann, vieni- fu l’ordine al quale ella obbedì senza fiatare, meravigliandosi di se stessa. Nascondendosi dietro di lui, lasciando attonito Joshua, la ragazza poggiò una mano sul braccio del biondo, sussurrandogli –Abbassa la spada, ti prego. Non è cattivo-

-Resta indietro- ancora una volta il tono duro e teso dello straniero impaurì la giovane mora, mentre lui con una spallata la costringeva esattamente dietro la sua schiena. Per poco Ann non inciampò nella dura neve, riuscì a tenersi in piedi aggrappandosi alla giacca del biondo, che si voltò a controllare che lei stesse bene. Quell’attimo di distrazione costò davvero molto ai due.

Con velocità pari a quella di Nathan, Joshua cacciò la mano nella tracolla che teneva sul fianco sinistro, estraendone un coltellaccio abbastanza grande, delle dimensioni di una piccola ascia. Questo aveva una lama molto grande e affilata, mentre il manico era in pelle e spago. Somigliava a uno strumento da caccia pesante.

Il suono dell’aria che si fendeva mise all’erta Nathan, che riuscì ad alzare lo stocco giusto in tempo per evitare che un fendente laterale gli sfregiasse il volto. Il rumore delle lame che si incontravano fece sobbalzare Ann, che lanciò un piccolo urlo, ritraendosi spontaneamente per lo spavento.

Cercando di prevalere in forza l’uno sull’altro, i due contendenti rimasero qualche secondo fermi, facendo leva ognuno sulla propria lama, affinché questa spezzasse quella dell’avversario.

Solo dopo una ventina di secondi Ann ritrovò il suo spirito, lanciandosi su Nathan nel disperato tentativo di placare l’ira dei due. –Fermi!- urlò –Che state facendo? Non siete nemici!- esclamò aggrappata al braccio del biondo, cercando di frenarlo. Non l’aveva mai visto arrabbiato, né aveva mai assistito a un suo combattimento, ma a giudicare dallo spasmo dei muscoli del braccio di lui mentre cercava con la forza di rimandarla dietro la sua schiena, doveva essere molto pericoloso quando impugnava la spada. Quella stessa spada che lei non aveva mai visto.

-Non metterti in mezzo, Ann- la ammonì lui, ritraendo lo stocco dallo scontro, ma rimanendo in posizione d’attacco, con entrambe le mani sull’impugnatura e la lama alta, addirittura alla stessa altezza del viso di Joshua. Questo invece aveva assunto un’espressione molto seria, talmente tanto che non lo si sarebbe mai considerato il simpatico ragazzo di poco prima. Evidentemente reputava Nathan un pericolo, ma ebbe l’accortezza di chiedere ad Ann –E’ un tuo amico?- mentre assumeva la propria posizione di riposo, una posa alquanto strana con gambe divaricate e piedi affondati nella neve, il pugnale all’altezza del fianco, pronto a scattare.

Nel freddo calar della sera le ombre si allungavano, agevolando Nathan, il quale si trovava proprio all’ombra possente degli alberi. I suoni erano pochi e contigui: il respiro dei contendenti e della ragazza, il vento che ululava lievemente, in lontananza qualche verso d’uccello.

-Sì!- si afferrò a mettere in chiaro la ragazza –Nathan, Joshua non ha fatto niente di male!-

-Ah, ha un nome il selvaggio- fu la risposta poco gentile del biondo, che intimorì Ann e che fece fremere Joshua.

-Sel… vaggio?- ripeté quello che poteva essere definito indiano. Inclinò di lato il capo, a conferma che non aveva capito cosa Nathan intendeva.

-Sì, selvaggio- ribadì il biondo annuendo –non civilizzato, villano, ignorante…- cominciò ad elencare.

Ann gli fu subito addosso, tirandolo per un braccio –Smettila! Non è una cattiva persona!- ma, come sempre, non ebbe successo. Nathan era dannatamente forte. Tirava, ma nulla.

Quella serie di parole non chiarivano il dubbio di Joshua, che comunque capiva di essere attaccato. Strinse il pugno attorno al pugnale, con lo sguardo animato da una ferocia che costrinse quasi lo straniero biondo a pronunciare l’ultima, fatica parola che fece traboccare il vaso –bestia- fu allora che l’indiano alzò di nuovo il coltello e, contemporaneamente, lo straniero preparò lo stocco ed Ann si ritrasse terrorizzata dietro Nathan, ascoltando solo i battiti del proprio cuore.

Un ululato terribile risuonò con varie eco distraendo tutti i presenti. Il branco dava inizio ad una notte di caccia. Veloce come il vento, Joshua fece un salto all’indietro spezzando il silenzio che si era instaurato nella radura. Scoccò un silenzioso sguardo ad Ann, che ancora era nascosta dietro il biondo, tremante e trepidante.

-And he’s gone…- disse Nathan.

Ann, che era già sul punto di saltargli addosso e picchiarlo per la gravità delle cose dette, si bloccò sentendo parole in una lingua assolutamente sconosciuta. Solo la curiosità riuscì a bloccare la voglia matta di pestarlo a sangue, ma in seguito alla curiosità si aggiunse un altro fattore totalmente inaspettato.

Lui si voltò e sorrise. Un sorriso appena accennato, ma che mise in difficoltà Ann. Una di quelle esternazioni di acquisita tranquillità che molto raramente aveva visto in quei mesi. Sembrava davvero tranquillo ora che l’aveva lì, e lo testimoniò carezzandole la guancia destra con la mano ghiacciata.

Normalmente ella si sarebbe sottratta a quel contatto, ma stavolta venne rapita da quel gesto tanto semplice quale era il sorridere quanto disarmante. Lui la guardò con occhi preoccupati, chiedendole con tono nuovamente gentile –Stai bene?-

-Sì…- la ragazza arrossì, gettando lo sguardo imbarazzato sull’erba, eludendo gli occhi indagatori di lui. Finse un tono arrabbiato e di rimprovero mentre esclamava –Sei stato molto maleducato!- ma, non ricevendo risposta, calò in un silenzio imbarazzato. Sentiva solamente il proprio respiro disturbato dallo sforzo di simulare sbuffi. Alla fine alzò il capo guardandolo severamente, nonostante gli occhi blu fossero ricolmi di lacrime –Mi hai fatto aspettare tanto…- ogni perché riguardo la strana e misteriosa fuga di Joshua era scomparso.

Sentì la mano di lui poggiarsi sulla sua testa, carezzandole una ciocca, mentre le sussurrava –Andiamo a casa- quindi, posando le mani sulle spalle della giovane, la fece voltare. La strada per Hidel era molto lunga, e probabilmente sarebbero tornati a notte fonda.

Bene, si disse Nathan, avrebbero avuto tempo per fare quattro chiacchiere. Diede un ultimo sguardo al luogo, imprimendolo a fuoco nella propria mente. Avrebbe dovuto riferirlo agli Angeli. Ma per ora doveva concentrarsi sul cammino e sul riportare a casa sana e salva Ann, altrimenti il suo piano sarebbe miseramente fallito…

 

 

Note dell’Autrice:

Ah, finalmente mi sono tolta anche questo capitolo! Per problemi personali si è trascinato a lungo, ma, fortunatamente, ho avuto del tempo libero e sono riuscita a completarlo prima della settimana dei compiti in classe –la prossima settimana ho un compito al giorno. Help!-

Viola, posso chiamarti così? xD ormai sono diversi mesi che ci teniamo compagnia a vicenda attraverso la storia di Ann e Nate. Che ne dici di Joshua? Grazie mille per aver letto e commentato anche l’ultimo capitolo, mi fa sempre un enorme piacere sapere che la storia ti coinvolge <3

Uhm… Sapete quei concorsi per scrittori esordienti? Pensavo di inviare questa fanfic una volta finita, chissà! ^^

E ora…

La strada per Hidel è molto lunga, Ann e Nathan sono solo al principio. Quali pericoli aspettano i nostri eroi? Chi è Joshua? Che cosa aspetta i nostri beniamini ad Hidel? Quale sarà l’ennesimo segreto di Nathan, un segreto che potrebbe distruggere in un solo attimo tutto quello in cui avete creduto da quando il vostro occhio si è poggiato sul titolo di questa storia!

Sì, è vero u_u ma immagino che già fosse abbastanza chiaro che questo segreto spaventoso lo svelerò solo alla fine xD

Okay, ora basta, è tardi e vado a nanna u.u

 

Kiss,

Sely <3

 

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Capitolo 8
*** Fantasmi ***


What colour is the snow

What colour is the snow?

Capitolo 08: Fantasmi.

 

-Ecco, non credo che la faccenda mi sia abbastanza chiara…-

Jen sospirò. Quante volte aveva rispiegato la stessa cosa fin ora? Quanta pazienza ci voleva con Damon? Troppa. –C’è stata un’aggressione ad Hidel. Sembra che due sorelle siano state uccise- sospirò demoralizzata, facendosi carico di tutta la tolleranza di cui disponeva. Ma Damon non accennava a rispondere, e questo le fece capire che ben presto avrebbe dovuto ridire quella frase per l’ottava volta.

Il ragazzo scrutò attentamente gli occhi bellissimi della donna con calma quasi serafica.

-Cosa?!- fu l’inaspettata risposta del biondo, che si alzò in piedi sbattendo i pugni sul tavolo che era frapposto tra lui e la donna. Il suo viso era padroneggiato da un’espressione sgomenta e incredula –Non penserete che sia colpa di Nathan, vero?!- continuò, avvicinando il viso a quello di Jen.

Ella intanto lo fissava cercando di emulare un sorriso col fine di calmarlo –Beh, non credo ci sia questo pericolo…- cominciò.

-Certo che c’è questo pericolo- una voce bassa, dal timbro duro, superò quella della donna. In quel momento, nella tenda di Damon, fece il suo ingresso un uomo adulto, ad occhio sui quaranta o poco più. Il viso molto chiaro scarno e dall’aria malaticcia faceva da sfondo agli occhi verde mare, mentre pochi reduci capelli neri apparivano da sopra le orecchie, in perfetto taglio tipico dei frati francescani. La lunga veste sfarzosa color dell’oro strascicava per terra con un rumore contiguo, era infatti giunto presso il tavolo ove stavano seduti l’Angelo e la Mistress. Lo sguardo fermo e glaciale che venne rivolto a Damon non si addolcì quando si posò sulla bella Jen –Sapete benissimo quanto è difficile reprimere i propri istinti, laddove la situazione sembra deporre a proprio vantaggio- asserì.

-Sì, Marcus, ma Nate non ci ha mai dato motivo di preoccuparci, no?- ribadì il ragazzo più giovane –Mi ha fatto moltissimi discorsi sull’autocontrollo, non riesco a credere che si sia lasciato vincere, dopotutto… dopotutto è un Angelo come noi!- alzò la voce. Subito dopo però, rendendosi conto dell’errore commesso, si fermò col pugno stretto a mezz’aria, abbassando gli occhi. Marcus era troppo in alto per lui permettersi tutta questa confidenza –Conosco mio cugino, non è un mostro simile. Uccidere senza motivo… Non ne è capace-

-Non è la prima volta che le sue mani si sporcano di sangue, Damon- la voce di Marcus colpì il biondo con la violenza di una lama a doppio taglio.

-Solo per l’onore degli Angeli- fu allora che l’intervento della saggia Jen salvò Damon dallo sbranamento. La bellissima donna si alzò in piedi, fronteggiando Marcus. Lei lo poteva fare. Lei ne aveva la facoltà –Non ti permetterò di infangare così la reputazione di Nathan Metherlance, Marcus- affermò con una decisione che Damon non aveva mai visto nei suoi occhi capaci di far girare la testa a chiunque.

-E dov’è ora, il nostro Angelo?-

Quell’unica domanda fu capace di zittire entrambi. Damon e Jen si scambiarono una fugace occhiata. Sapevano benissimo entrambi che il quel momento Nathan aveva abbandonato il villaggio di Hidel, spingendosi al nord, verso le zone ancora non esplorate. Zona delicatissime, infestate dai lupi. Tuttavia, che cosa fosse andato a fare lì, rimaneva un assoluto mistero. Proprio in quella sera, la famosa sera in cui sarebbero dovuti incontrare, in cui lui avrebbe dovuto fare rapporto.

Il silenzio instaurato venne bruscamente dissimulato da una risata sommessa da parte di Marcus, che uscì dalla tenda con un sorriso sulle labbra, orgoglioso della propria vittoria. I suoi passi riecheggiavano per il campo. Quando lui, il capo degli Angeli, passava in marcia attraverso l’accampamento, calava il silenzio. La notte fredda e dura giungeva pian piano al culmine. La luna illuminava il cielo tra le nuvole, e qualche live bagliore era di tanto in tanto appena visibile. Marcus si fermò accanto alla propria tenda, la più grande e la più a ovest, in direzione di Hidel. Alzò lo sguardo alla volta celeste illuminava dall’aurora boreale. Poggiò una mano sotto il mento, carezzando piano il pizzetto mentre la mente si immergeva in congetture. “La situazione è molto bendisposta… Chissà, magari la giovane Nevue potrebbe tornare utile al mio obiettivo. Devo solo assicurarmi che non si separi dal Metherlance…

 

-Ah!- esclamò Nathan, e il suo viso si tramutò in una maschera di tedio. Allungò una mano, poggiandola sul padiglione dell’orecchio destro –Mi fischia l’orecchio… che seccatura-

Ann rise mettendo una mano sulla bocca –Nella tradizione significa che qualcuno sta parlando male di te-

-Eh, credo di sapere chi sia quella gran malalingua- rispose lui con un sorriso, scherzando. Quella battuta fece sorridere entrambi.

Da poco tempo si erano allontanati dal lago dove avevano avuto quell’incontro non propriamente amichevole con Joshua. Lo strano ragazzo non si era più fatto vivo, ma ciò non impediva ai sospetti di Nathan di esaurirsi. Così continuava a lanciare sguardi furtivi ad ogni albero, ad ogni abisso nero di ombra e tenebra che li circondava. L’unico suono che accompagnava i passi dei due viaggiatori era il suono del vento che, gelido, spirava tra le fronde. La temperatura si era bruscamente abbassata, diventando troppo rigida per la piccola Ann, che continuava a starnutire.

Come c’era da aspettarsi, Nathan, comportandosi come sempre da cavaliere, slegò il fiocco rosso che assicurava alla sua gola il mantello nero che si portava sempre dietro.

-Fermo!- esclamò Ann bloccandolo per le mani –Non c’è bisogno che prendi freddo per…- ma non riuscì a completare la frase, poiché lui, facendo ricorso alla sua famigerata forza, le abbassò i polsi.

-Non ho mai detto di voler prendere freddo. Non sono un principe azzurro, Ann- facendo ancora pressione sui polsi della ragazza, la avvicinò a sé, facendola poggiare al proprio corpo, richiudendo poi a campana su entrambi la cappa –non faccio mai qualcosa per puro altruismo, né premetto gli altri a me stesso- uscì le mani dalla cappa, legando il fiocco rosso. A lui giungeva alla gola, ma ad Ann raggiungeva la punta dei capelli –E’ solo che tu sei tremendamente carina e buffa… e bassa- rise, ricevendo in cambio un calcio allo stinco da parte della ragazzina, completamente nascosta sotto il mantello –Ahia!- rise ancora il ragazzo.

-Così impari, spilungone!- esclamò di ricambio la mora con tono arrabbiato. Odiava essere presa in giro per a sua altezza… Ma forse a Nathan lo poteva perdonare. Si ammassò contro il suo petto, affondando il viso nella camicia di lui, mentre sentiva le sue braccia stringerla un po’. Di certo messere Metherlance non era un calorifero umano, ma il suo mantello sì. Quando ripresero a camminare, Ann finalmente libera, almeno il capo, dalla morsa della cappa, chiese –In che materiale è fatto?-

-Uhm… non lo so-

-Come no?!- esclamò incredula la ragazza, guardandolo confusa –Indossi qualcosa senza nemmeno sapere in che stoffa è cucita?-

-Beh… e-ecco…- la cosa mise evidentemente in imbarazzo l’uomo, che distolse lo sguardo. In effetti non era un comportamento normale. –Non mi curo molto di me stesso…-

-Sì, ho notato- la ragazza scosse la testa, ripetendosi che Nathan era davvero un caso senza speranza.

-Si nota così tanto?- il tono da lui usato fece alzare il viso alla giovane, che lo vide alquanto preoccupato –Sono… pauroso?- quella domanda del tutto inaspettata fece calare il silenzio. Ann rimase immobile, bloccando il passo. Lo guardò incuriosita. Credeva davvero di essere pauroso? –Sono forse… uhm… simile a un mostro?- un’altra domanda al contempo inquietante e terribile.

-Tu… ti vedi davvero così?- fu l’unica cosa sensata che la contadina riuscì a formulare.

-Io…- stentò lui.

Per la prima volta, Ann lo vide senza parole. Spesso aveva sperato di vederlo rimanere muto, ma non in un momento simile, non dopo domande del genere! E soprattutto, non in una situazione in cui nemmeno lei sapeva cosa rispondere.

Rimuginò a lungo. Cosa era un mostro? Nathan intendeva uno di quelli amorfi delle fiabe? In quel caso no, lui una forma l’aveva. Un ragazzo molto alto, biondo, con occhi azzurri capaci di incantare, la carnagione spaventosamente chiara e lo sguardo intelligente. Insomma, il classico principe azzurro. I modi garbati ma al contempo ironici e sottili, le vesti perennemente scure, quello sguardo che ispirava fiducia e che il momento dopo era in grado di trasformarsi in una maschera di totale indifferenza che spaventava. Non era normale. “Tu hai una doppia faccia, me ne sono resa conto da tempo” pensò tra sé e sé. Non sarebbe mai riuscita a dirgli una cosa simile con tale schiettezza, eppure lo guardava in viso mentre rifletteva. Anche se, in quel momento, gli occhi azzurri di lui non erano puntati su quelli blu di lei “Ma la cosa più paurosa di te, è che sembri esserne consapevole. Io non so chi tu sia in realtà, ma…” prese coraggio, inspirando e quindi pronunciandosi –Tutti siamo un po’ mostri-

Nathan sgranò gli occhi, sorpreso da quella risposta. Si voltò verso di lei, scorgendo uno sguardo determinato ma dolce, che per un attimo gli fece dimenticare perché era lì. Mai Ann lo aveva guardato così. Per quale motivo ora gli rivolgeva quelle parole accompagnate da quegli occhi languidi?

-Tu non sei un mostro- sussurrò il biondo, sorridendole. Quella discussione troppo seria sembrava aver turbato Ann, quindi era meglio porvi subito fine –sei solo bassa- le sorrise.

Un altro calcio negli stinchi. –Ahia!- si lamentò lui.

-Ecco cosa ci guadagni avere le gambe lunghe!- si lamentò lei. Aveva sbagliato a giudicare, dimenticandosi di una delle fondamentali qualità di Nathan: l’essere un grandissimo pallone gonfiato. –Non scherzare con me, Nathan Metherlance!- esclamò alzando un dito contro il suo viso, prima di venire ancora investita da un’onda di azzurro che la tramortì, senza farle tuttavia perdere quel tono irritato che si sforzava di simulare –Non hai idea di cosa posso fare se mi arrabbio!-

-Oh no, piccola Ann- la mano di Nathan venne portata sotto il mento di lei, alzandoglielo di poco, in modo che i loro volti si incontrassero, e quei colori dei loro occhi provenienti dalla stessa base, ma di sfumature opposte, si specchiarono gli uni negli altri, provocando un arrossamento delle gote della ragazza, che comunque era ben decisa a farlo passare per un effetto della rabbia –Tu non hai idea di cosa potrei farti…-  

Seguirono alcuni secondi di silenzio. La mente di Ann si era bloccata, offuscata da quei due lampi azzurri nel buio notturno, e al contempo colpita dalla cattiveria delle parole usate da lui. Quando finalmente ella riuscì ad abbassare lo sguardo, realizzò di avere paura. “Calmati tentò di dirsi, imponendosi di inspirare profondamente scacciando quel sentimento negativo che le avevano ispirato gli occhi azzurri di Nathan. “Tu non sei normale…” ripeté ancora una volta; provò a dar voce ai suoi pensieri, ma di nuovo la voce le morì in gola. “Non va bene… Tu hai qualcosa di strano… Nessuna persona normale può fare un simile effetto” a difficoltà, forte di quel coraggio che l’aveva sempre caratterizzata, alzò lo sguardo; notò che quello di lui era indirizzato altrove –Cosa potrebbe farmi la tua spada, piuttosto- ribatté con tono sfrontato.

-Uh?- sembrava che lo straniero stesse pensando a qualcosa, tanto si era alienato; quando venne richiamato alla realtà si sforzò di riprendere le redini del discorso, tuttavia non riuscì nell’impresa, non avendo ascoltato ciò che la contadina aveva detto, quindi passò alla sua arma principale: il sorriso da bravo ragazzo.

-Non te l’ho mai vista prima- continuò Ann –dove l’hai presa?-

Fortunatamente quelle parole fecero intendere all’uomo che ella si riferiva alla spada, sulla quale elsa poggiò una mano con fare possessivo, mentre le spiegava –Selescinder è mia da moltissimo tempo. Non la porto spesso con me, altrimenti rischierei di spaventare il primo che passa-

-A Hidel portiamo tutti armi in questa stagione- continuò la ragazza. Era decisa a far cadere una volta per tutte quella maschera.

-Sì, ma una cosa è un coltello, una cosa è una spada- puntualizzò lui.

La ragazza tacque. Non c’era modo di sostenere uno scontro verbale con Nathan. “Che nome assurdo Selescinder… Chissà cosa significa.”

Sin da quando era arrivato, lo straniero aveva portato con sé una sparizione e tantissime stranezze che, a primo acchito, sarebbero risultate sciocche e trascurabili, ma che avevano sempre insospettito Ann. “Forse ho sbagliato ad avvicinarmi così tanto a lui…” teorizzò mantenendo costante il passo.

I due, avvolti del caldissimo mantello buio, spezzavano l’aria gelida della notte, questa cominciava a farsi sempre più consistente, tanto era dura e presente, come un predatore che incombe sulla propria preda. Nonostante la cappa di Nathan fosse incredibilmente pesante – Ann cominciava davvero a chiedersi quanti strati di lana aveva dovuto cucire la povera sarta per ottenere quell’effetto -, il freddo iniziò a penetrare dentro il tessuto, dando una spiacevole sensazione di frescura alla giovane, che in quel momento preciso… non sentì più nulla sotto i piedi.

Non poté trattenere un urlo quando, ormai troppo tardi, si accorse che il buio aveva giocato loro un brutto scherzo, impedendogli di vedere un burrone. Fortunatamente il polso della ragazza venne afferrato al volo dalla mano ghiacciata di Nathan, il quale la tirò a sé con un gesto veloce.

Il tempo parve rallentare, ed ogni secondo per Ann acquistava il valore di un minuto, mentre il rumore dei sassi cadenti attorno a loro le rombava nelle orecchie, le mani di Nathan facevano presa su di lei così forte che quasi le facevano male e il cuore, preda della paura, batteva più forte ad ogni battito. Affondò completamente il viso nella giacca dello straniero, cercando di afferrare a sua volta i suoi vestiti. L’impresa le venne facilitata dal fatto che il resto del corpo si trovava sotto il mantello, anche se, in un moto troppo violento della scivolata, perse il controllo su un piede, che andò a sbattere in modo violento contro qualcosa che non riuscì a vedere, ma che sentì penetrare nella carne della gamba con impeto furioso. Si trattenne dal lanciare un altro urlo, ma poté sentire a causa di diverse scosse la gamba di Nathan ricevere lo stesso trattamento. E fu allora che la loro caduta finalmente si arrestò.

La paura provata era così grande che per diverso tempo Ann, invece di aprire gli occhi e guardarsi intorno, preferì rimanere poggiata allo straniero, con le mani strette a pugno attorno alla sua giacca con grande forza, quasi stesse per strappargliela. Stanca, lasciò cadere la mano, distese la gamba che sentiva essere percorsa da quello che sicuramente era sangue, poggiò il capo sul collo del compagno, sentendolo respirare a fatica. Le orecchie ancora le ronzavano, pervase dal rumore ancora vivo dei ciottoli che rotolano, delle foglie strappate e dei rami spezzati.

-Stai bene?- si sentì chiedere all’improvviso. La voce di Nathan era stanca quanto la sua, con la differenza che lui se l’era vista peggio.

-Credo di avere ancora due mani e due piedi…- si lamentò sonoramente quando cercò di aprire gli occhi, dovendoli richiudere a causa di un fortissimo mal di testa. Molto lentamente tornò a muovere le dita delle mani, tastando sotto i polpastrelli la stoffa della cappa in cui erano ancora avvolti –Nathan?- chiese ansimando, ancora scossa dalla paura.

-Io non ho il brevetto di principe azzurro…- fu la stentata risposta.

-Cos’è un brevetto?- venne altrettanto lentamente replicato.

-Te lo spiegherò…- cominciò lui alzando un braccio fino a portarlo sulla spalla di lei, per assicurarsi che fosse ancora lì e che il resto del corpo non lo ingannasse –quando il mio cervello ricomincerà a funzionare…- sospirò, toccando finalmente con mano il viso della ragazza. Aveva le gote ghiacciate, che però avvamparono quando vennero sfiorate. Capendo di darle fastidio, tornò a poggiare l’arto sulla spalla destra di lei, che ora si trovava addosso al suo petto, girata di profilo –Ti sei fatta male?-

-Sì- ammise lei, che intanto tentava di muovere la gamba malridotta. Lo sentì provare a muoversi, e fu così che si fece forza, aprendo gli occhi tra fitte alla testa. Portò una mano alla tempia, tirandola fuori dal mantello. Subito dopo aver tastato la propria fronte, toccò piano la spalla di lui, dicendo –non è niente, tranquillo-

Ma lui non volle sentire ragioni, come sempre. Si mise a sedere, stendendo Ann accanto a lui. –Tranquilla…- le disse solamente, per poi abbassarsi ad analizzare la gamba.

Finalmente la contadina poté guardarsi intorno. La prima cosa che vide fu la luna, alta nel cielo, visibile attraverso l’aurora boreale. Quella sera era piena, rotonda e piuttosto grassa, irradiava una luce troppo forte per i suoi occhi abituati a vedere nel buio delle tenebre notturne anche senza l’ausilio del fuoco delle torce. Poi, pian piano, riuscì a contornare gli alberi, distinguendone le punte e le fronde mosse dal vento. Stava riacquistando facoltà del suo stesso corpo. Si concentrò per riprendere il controllo sui cinque sensi. La vista era già stata testata. L’udito le diceva che il vento spirava piuttosto fortemente, portando con sé ululati molto lontani. Sembrava che in quel posto, almeno per ora, fossero soli. Inspirò profondamente l’aria gelata, sentendo l’odore degli alberi, della terra, il profumo di Nathan che solo lei sapeva captare; le sembrò che i polmoni si infiammassero di nuova vita. Col senso del tatto poté toccare il giovane studioso, e sentire subito dopo uno strano gelo nel punto in cui era ferita. Si alzò, sedendosi, ritrovandosi poco lontano da lui che, lesto, stava già medicando la sua ferita. Con la poca luce a disposizione, Ann poté scorgere della neve vicino a loro. Nathan aveva utilizzato l’acqua ghiacciata per pulirle la ferita, rivelando così un taglio abbastanza profondo causato dal conficcarsi di una scheggia saltata dal legno di un ramo, l’aveva poi fasciato con della stoffa strappata alla propria camicia.

La ragazza tentò di aprire bocca, sentendosi davvero colpita da quel gesto, ma si interruppe subito dopo, poiché si sentiva oltremodo in colpa.

Tal cosa non sfuggì all’occhio attento di Nathan, che, non appena ultimo il lavoro di fasciatura, le diede un buffetto sulla guancia, sorridendole –Va tutto bene. Siamo salvi, tranquilla-

-No- mormorò lei. Nella caduta era sicura di aver sentito la gamba di lui scontrarsi con lo stesso ramo che l’aveva ferita. Sostenne lo sguardo magnetico del ragazzo indicando la sua caviglia –anche tu ti sei fatto male- affermò; ricevette un cenno negativo e un’occhiata stranita da parte di lui. Rimase dapprima confusa, poi sbuffò –Perché fai finta che vada tutto bene? L’ho sentito chiaramente!- esclamò sentendo l’irritazione montare. Perché le mentiva?

-Non urlare, o attirerai gli animali notturni- la ammonì lui con fare severo, zittendola. Poi sospirò sorridendole, non voleva urtarla, sembrava già abbastanza provata dalla caduta, anche se provava a non mostrarlo, così decise di accontentarla. Alzò l’orlo del pantalone destro, mostrando per bene la tibia, un po’ arrossata a causa della scivolata, ma perfettamente sana; fece la medesima operazione con l’altra gamba, sorridendo poi ad Ann –Ti senti più tranquilla?-

La ragazza, ancora una volta, si ritrovò a dubitare di se stessa per colpa di Nathan. “Eppure ne ero sicura…” pensò un po’ delusa da quella propria mancanza. Annuì a malincuore; non le piaceva ammettere di aver torto, ma quando era con lui si ritrovava spesso a dover ammettere i propri errori, e, ancor peggio per il suo grandissimo orgoglio, la sua ignoranza. –E ora cosa facciamo?- chiese, poggiando la schiena a un albero dietro di lei. Non vi era molto da fare, avrebbero dovuto aspettare il giorno per rimettersi in cammino, la notte si era già dimostrata troppo inclemente.

-Non possiamo restare qui col pericolo dei lupi- le rispose Nathan, sicuro della sua idea.

-Ma mi fa male la gamba…- riprese la ragazza, abbassando lo sguardo sentendosi in imbarazzo –non riesco a camminare…-

-Riposiamoci qualche minuto- cercò lui di tirarle su il morale –poi proseguiremo- le sorrise.

In quei pochi minuti che le furono messi a disposizione, Ann cercò di rilassare i nervi e far mente locale. Si trovavano nella foresta buia, abbastanza lontani dalla via della luce, in territorio di caccia dei lupi, che quella sera, fortunatamente, sembravano essere abbastanza lontani. Inoltre erano senza acqua né cibo, all’agghiaccio, e con diverse ferite, delle quali, grazie al cielo, solo quella che deturpava la sua gamba sembrava essere piuttosto seria. Le facevano molto male i piedi, aveva sonno e fame; l’unica cosa che non mancava era l’acqua, del resto la neve fresca era ottima per dissetarsi o, come le aveva dimostrato Nathan, per dare una prima rapida lavata alle ferite.

A proposito di Nathan, anche lui sembrava abbastanza stanco. Le aveva poggiato metà mantello sulle spalle, sedendosi accanto a lei così da non far prendere freddo a nessuno dei due. Il suo viso alla luce lunare appariva ancora più pallido, talmente tanto che Ann si chiese se fosse affetto da una qualche malattia.

-Stai bene sul serio?- le venne spontaneo domandargli, ricevendo in cambio un semplice sorriso, uno dei tantissimi che lui faceva a tutti. –Perché sorridi sempre?- chiese allora –Tu non sei sempre felice, allora perché sorridi? E’ piuttosto stupido…- forse si era spinta troppo in là nelle parole, causando un rapidissimo cambiamento d’espressione dello studioso.

Improvvisamente divenne dapprima confuso, poi amareggiato. Egli voltò lo sguardo, evitando il contatto con gli occhi di lei. Quella, per Ann, fu una piccola vendetta personale per tutte le volte in cui lui l’aveva incantata coi suoi occhi turchesi. –E’ un’abitudine…- si limitò lui a rispondere, evasivo come sempre. Le sue risposte non soddisfacevano mai appieno le curiosità di Annlisette. –Senti, Ann- riprese –che cosa ti sei detta con quel tipo di poco fa?-

In effetti non ne avevano ancora parlato. Ann gli sorrise. Alla vista di Joshua, aveva notato negli occhi di Nathan una strana scintilla, e per un attimo aveva sperato che si trattasse di gelosia. –Beh, non mi ha detto niente a parte che vive da queste parti-

Nathan rise, una risata molto divertita, che suscitò contemporaneamente stizza e piacere in Ann. Che bel tono aveva quella risata! –Da queste parti? Che cosa singolare, considerando che Nnerva è abbastanza lontano, e non siamo poi così distanti da Hidel-

-Però…- riprese Ann, portando un dito sulle labbra, sottolineando il fatto che stava facendo serie riflessioni –se c’è un ragazzo devono esserci anche i genitori. Dove vivranno? Sono molto curiosa…-

Lo studioso le scoccò un’occhiataccia –Hai intenzione di tornare prossimamente al lago?- sussurrò con voce seria e grave.

Ann permase nel suo stato di quiete. Non voleva sbilanciarsi, almeno non finché non fosse stata al sicuro. Senza dubbio non sarebbe tornata da sola, era un viaggio troppo arduo per una ragazza –Beh, immagino che, quando verranno a saperlo, gli altri vorranno vederci chiaro-

-Gli altri non lo verranno a sapere-

Quelle parole così fredde spaventarono Ann. Voltò lo sguardo, venendo investita dallo sguardo celeste di Nathan. “No”, si disse “stavolta non mi lascerò intimidire” –Perché?- chiese determinata.

-Perché quel ragazzo, questo… Joshua, sembra essere un selvaggio-

-Non dire quella parola!- esclamò la ragazza –Hai forse voglia di litigare?-

-Non intendo offenderlo, lasciami spiegare almeno una volta- lui non alzò la voce. Aveva quel dono di riuscire a mantenere una serafica calma anche nelle situazioni più nere –se davvero c’è altra gente come lui, potrebbe ritenere la gente di Hidel un pericolo, e attaccarci. Sono armati, Ann, non dimenticarlo-

-Non solo loro!- controbatté lei –Da dove esce fuori quella spada? Non mi avevi detto di averla!-

Nathan rimase interdetto, e attese qualche secondo prima di rispondere –Perché avrei dovuto dirtelo?- Ann sembrò incurvarsi. Si era forse offesa? Lui non riusciva a capirla –E’ normale portare almeno un’arma quando si affronta un lungo viaggio, sarei stato uno sprovveduto se non l’avessi portata con me quando ho attraversato le Lande-

Seguì un lungo silenzio, durante il quale Ann sentì una sorta di forte indignazione montare. La presunzione di Nathan era qualcosa senza limiti. Ancora una volta si permetteva di dare del selvaggio a una persona che nemmeno conosceva. Ma la ragazza non osava nemmeno chiedergli il perché di questo accanimento insensato. Sapeva bene che avrebbe ricevuto un’altra risposta non gradita.   

Il freddo era davvero tanto, e la stanchezza ancora di più. Ann non avrebbe mai creduto di riuscire ad addormentarsi in un luogo simile, in una situazione simile. Eppure si sentiva talmente debole da non accorgersi nemmeno di aver poggiato il capo contro la spalla di Nathan, e assopirsi.

 

Note dell’Autrice:

Buona Pasqua! Sì, lo so, in ritardo, ma una donne deve sempre farsi attendere, non è vero? Ma veniamo a noi… Dunque, Ann e Nate si trovano ancora nella foresta, e la situazione non è decisamente delle migliori. Come avete notato, questo capitolo è perlopiù narrativo, e i nostri due beniamini non mancano di punzecchiarsi in continuazione xD  Non c’è molto da dire, purtroppo, ma non posso fare colpi di scena in ogni nuovo capitolo xD una questione: il titolo. Fantasmi. Ma non ci sono fantasmi in questa storia! Forse vi sarete chiesti il perché di questa strana intestazione, ebbene ve lo spiego subito. “Fantasmi” si riferisce al discorso tra Ann e Nathan riguardo i mostri, con questo input voglio vedere se riuscite a fare un collegamento ;)

Infine lancio un sondaggio! Da quando ho creato Nathan ho una disputa in corso con una persona, che sostiene che Nate si legge “Neit”, mentre io l’ho sempre letto “Nate”. Vorrei sapere chi legge Nate e chi Neit xD ma ora basta cavolate!

Ancora una volta grazie a Viola, che segue costantemente la fic <3 ti adoro! Tranquilla, alla fine tutti i nodi verranno al pettine! E KK, che voglio ringraziare anche qui ** la mia povera vittima che, con infinita pazienza, legge la storia di Ann e Nathan, anche se lei li conosce molto bene xD

Ora vi saluto. Ci vediamo al prossimo capitolo ^.^

 

Cookie a tutti,

Sely.

 

PS. Il mio nuovo nick “Ann Metherlance”… uhm… no spoiler.

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Capitolo 9
*** Tra fede e ragione ***


What colour is the snow

What colour is the snow?

Capitolo 09: Tra Fede e Ragione.

 

Le luci dell’alba si prospettavano all’orizzonte, incantevoli. Anche se se poca e tenue, quella luce riusciva ad illuminare la via quanto bastava per avanzare.

Accogliendo la notizia con un sorriso soddisfatto, Nathan aveva trovato la Via della luce, la famosa strada che attraversava la foresta giungendo ad Hidel. Nonostante Ann dormisse ancora profondamente –accidenti, quella ragazza era un vero ghiro!- non aveva avuto problemi ad attraversare gran parte della foresta. Egli avrebbe potuto giurare che Ann fosse una falsa magra. Chissà perché, gli aveva sempre dato questa impressione. Invece era riuscito a percorrere una grande distanza con lei in braccio, che dormiva beatamente. Di tanto in tanto le scoccava un’occhiata fugace, assicurandosi che fosse ancora cullata dalle braccia di Morfeo. Aveva avuto però bisogno di una pausa, durante la quale aveva poggiato la giovane contadina per terra con quanta delicatezza possibile. Si era dunque adagiato per terra, sospirando e alzando lo sguardo al cielo. Come sempre i raggi del sole non riuscivano a penetrare il manto nuvoloso. Quella zona delle Lande senza nome aveva mai conosciuto la vera luce, quella che inondava ogni giorno la sua Arkata? Probabilmente no.

Era stata davvero una grande fortuna cadere in quel burrone. Beh, non lo era stato sotto tutti i punti di vista, ma quel provvidenziale tiro della fortuna li aveva salvati da chissà quale destino. Infatti Nathan, non sapendo in che direzione procedere, si era limitato ad assecondare la via del burrone, ritrovandosi così sulla strada. Evidentemente quel lago si trovava ad una quota piuttosto alta rispetto al villaggio.

Un mugolio attirò la sua attenzione. Voltandosi, scoprì che Ann si stava lentamente svegliando. Sorrise spontaneamente. Era molto carina mentre si sforzava di aprire le palpebre, facendo ricorso alla forza di volontà per tentare una prima volta, senza però avere risultati soddisfacenti. Tentò una seconda, e una terza, sussurrando qualcosa senza senso ma molto dolce. Probabilmente era convinta di essere nel suo letto, magari giustificava quell’improvviso freddo come un’accidentale caduta delle coperte.

Al ragazzo sarebbe piaciuto assecondarla e cullarla in quella dolce illusione, ma la dura realtà era che si trovavano a breve distanza da Hidel e, con un po’ di buona volontà, presto sarebbero giunti a destinazione in un’ora di cammino, e forse mezz’ora di marcia.

–Ann?- quello del biondo fu appena un sussurro, ma bastò a ridestare nel modo peggiore la ragazzina. Evidentemente ella aveva ricordato ciò che bastò a farla svegliare spalancando gli occhi. Provò a dire qualcosa aprendo la bocca, ma l’imbarazzo fu tale che cominciò ad agitare le mani davanti al viso, allontanando da sé Nathan come poteva.

Davanti a quello spettacolo, il ragazzo non poté fare a meno di ridere di gusto –Faccio così tanta paura?-

-No! Ma che dici!- Ann finalmente si calmò, costringendosi a tirare un lungo sospiro –Dove siamo, piuttosto?- si guardò intorno. Non ci voleva molto per capire che Nathan l’aveva portata in braccio fino a quel momento, ma scoprire di essere addirittura sulla Via della luce fece da un lato gioire Ann, poiché casa si avvicinava, dall’altro però le procurava non poche preoccupazioni.

-Siamo poco lontani dal villaggio- lo straniero confermò le sue supposizioni –dovremmo raggiungerlo in meno di un’ora se ci sbrighiamo- le sorrise.

Quella notizia riscaldò il cuore alla ragazza, che si voltò con la gioia negli occhi. –Che aspettiamo?-

-Solo qualche minuto per riprendere le forze, per favore-

Ann si sentì profondamente in colpa. Non riuscì a parlare, lasciando che un’espressione a metà tra l’inquieto e il triste se adornasse il candido volto. Non era riuscita ad aiutare Nathan durante il cammino, anzi gli aveva solo dato pensieri in più, e la cosa le dava molto fastidio. Così non solo aveva procurato incomodi al ragazzo, ma aveva anche messo a repentaglio il proprio orgoglio. E, come ben si sapeva, per Annlisette l’orgoglio era una delle cose più importanti.

Nathan avrebbe voluto dirle qualcosa, ma poteva dire di conoscerla ormai abbastanza bene da sapere quando non era il caso di proferir parola. Non poteva certo negare che si trovavano lì per via della cocciutaggine della ragazza, ma, a conti fatti, non era solo colpa della giovane. Era un po’ colpa di tutti.

-Non mi hai ancora detto cosa ne hai fatto di quell’orsetto…- la voce di Annlisette si perse in un sussurro al vento. Che argomento spinoso aveva toccato.

-L’ho lasciato dove l’abbiamo trovato- la risposta fu immediata. Egli non mentiva, la si poteva notare dalla semplicità e dalla chiarezza con cui aveva pronunciato quelle parole. Qualche secondo di silenzio passò, dopo il quale la ragazza chiese il motivo di tale gesto.

-Sembravi sicuro di ciò che volevi fare-

-Non ho mai voluto insultare la natura, tutto ciò che faccio è in nome della scienza- ancora con quella scienza che infastidiva davvero tanto Ann –ma mi rendo conto che alcune cose vanno contro l’etica, la vostra etica. E’ colpa mia-

La mora sgranò gli occhi, voltandosi a guardare Nathan come se avesse appena pronunciato una blasfemie. Aveva ammesso di essere nel torto? Che cosa rara!

-Non guardarmi come se stessi bestemmiando- ridacchiò lo straniero –sono orgoglioso, ma so ammettere i miei errori. Impiego un po’ a comprenderli, ma alla fine ce la faccio-

-Quindi non farai più cose così immorali?- azzardò lei.

-Abbiamo due morali molto diverse, dettate dai nostri legami e i nostri approcci alla società che ci ha formati- lo sguardo dello straniero rimaneva fisso sulla di neve che si trovava davanti a loro. Ancora una volta Ann non capiva bene quello che diceva: aveva un modo di parlare non comune da quelle parti. Per non parlare di quell’accento provinciale che rendeva quasi buffa la sua parlata. Calcava troppo sulle b e sulle p. In compenso aveva sia la z che la r mosce. Finalmente lui si voltò a guardarla –cercherò di non darvi più fastidio- le sorrise, e lei ricambiò. Ora sì che cominciava a ragionare.

-Menomale! Mi sarebbe dispiaciuto chiedere a mio padre di buttarti fuori dal villaggio- rise la ragazza, ma la battuta non ebbe lo stesso effetto positivo su Nathan, che aveva un po’ di timore nei confronti del super uomo quale era il padre della giovane Annlisette.

Finalmente lui si mise in piedi, porgendo una mano alla giovane, che la afferrò con decisione, mettendosi in piedi.

Il viaggio riprese senza che ulteriori argomenti fossero affrontati. Ann era soddisfatta di ciò aveva sentito, sembrava che Nathan avesse finalmente compreso che, per quanto il suo modo di pensare fosse scientifico e le sue vedute larghe, si trovava pur sempre in un luogo dove le tradizioni regnavano sovrane, per non parlare della superstizione, quella che Ann detestava.

-E’ un piacere avere uno scienziato tra noi- sbottò a un certo punto.

-Come mai questa improvvisa affermazione?- lo studioso, che le camminava accanto, spostò lo sguardo su di lei. Anche se non lo dava a vedere era abbastanza stanco, e già sognava un bel letto e un po’ di sano riposo.

-Perché qui tutti sono estremamente superstiziosi- si lamentò la ragazza sbuffando sonoramente –persino Krissy sparge il sale in casa prima di uscire- si vergognava per la stessa amica. Anche lei si sentiva un po’ estranea rispetto al resto del villaggio sotto quel punto di vista.

-Uhm… da lady Scottfish me lo aspettavo, ma non da persone come tuo padre-

-E’ ridicolo!- sbottò la giovane, alzando gli occhi al cielo con fare esasperato –Crede nei fantasmi, negli spiriti elementari, persino nei succhia-qualcosa, nei lupi mannari…-

-Vampiri, cara Ann- la corresse Nathan con una risata.

-Come si può credere a dei morti che camminano e che vivono rubando il sangue agli altri?- la ragazza sembrava davvero esasperata –è semplicemente stupido, assurdo! Tu, ovviamente, non hai simili convinzioni, vero?- domandò. Era abbastanza sicura che lo studioso avesse la sua stessa idea, ma non si poteva mai sapere. Forse l’avrebbe stupita con l’ennesima imprevedibile risposta.

-Mia madre venne uccisa da un vampiro-

Infatti. Ann si bloccò, sentendo il sangue nelle vene congelarsi all’istante. Lo sguardo si perse un attimo sul profilo poco illuminato di Nathan, che ora la guardava sorridendo di profilo. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma in quel momento l’unica cosa che riuscì a fare fu socchiudere la bocca per scoprire che il fiato le moriva in gola. Perché stava credendo alle sue parole?

Nathan, capendo lo stupore della contadina, rise sommessamente com’era suo solito, quindi canticchiò –Scherzavo!-

Impossibile descrivere il sollievo provato da Ann in quel momento, la quale sembrava essere ringiovanita di anni. Espulse tutta quella agitazione in un unico potente sospiro, quindi scoccò un’occhiata torva al “simpatico” straniero, assestandogli l’ennesimo calcio al ginocchio –Disgraziato!- ora ricordava le sue parole una settimana dopo il suo arrivo ad Hidel. Le aveva detto di non credere negli esseri soprannaturali, ma lo aveva ricordato quando ormai era troppo tardi per evitare quella brutta figura.

Dopo il dolore iniziale che lo costrinse ad assumere un’espressione molto buffa, ridacchiò in direzione della ragazza –Hai ragione, questa era cattiva- aveva imparato una cosa nuova su Ann: sembrava nutrire un “leggero timore” dell’occulto.

La contadina passò qualche altro minuto a rimproverare Nathan di quel comportamento assolutamente sconveniente, usando gesti ed espressioni da gran donna che secondo lui non le si addicevano assolutamente, anche se non si sarebbe mai azzardato a dirlo per paura della decapitazione istantanea. Si limitò a sorriderle ed annuire ad ogni frase, con evidente compiacimento di lei, che finalmente si vedeva ascoltata da qualcuno –Ma ti sembra normale- dopo un tempo non ben definito di chiacchiere ininterrotte, Ann riprese il discorso di poco prima –che uno come mio padre, che crede nelle streghe e nei lupi mannari mette in dubbio il fatto che se parlo a una pianta in latino crescerà meglio?-

-La verità?- chiese Nathan, ottenendo un cenno affermativo da parte di lei –No- la assecondò con grande piacere della ragazza –se la pianta ha udito e mente fini è ovvio è che gradirà la cosa e crescerà con più voglia-

Ann annuì –Esattamente! Allora mi aiuterai a convincere mio padre a farmi dare lezioni private da te- e non era una domanda, né un consiglio.

Nathan si bloccò –Cosa?!- lo reputava davvero un povero pazzo in cerca di morte? Se c’era una cosa che aveva imparato era che messere Nevue non era assolutamente uno di quei classici giganti buoni delle favole. E non aveva la minima voglia di metterselo contro, considerando soprattutto che era padre proprio di Annlisette.

-Ci tenevo tanto a fare lezione con te…- sospirò abbattuta la giovane, e la recita le sarebbe riuscita benissimo se il suo stomaco non avesse cominciato a brontolare sonoramente in quel preciso momento, causandole un cambiamento di colorazione. In brevi secondi sviluppò varie e accese tonalità di rosso.

-Fame?- chiese ridacchiando il biondo, ricevendo in cambio un’occhiataccia –Ti capisco, anch’io ne ho- dopotutto non mangiavano dalla sera prima. –Manca poco- le assicurò lo straniero con un sorriso cordiale.

Ann si rabbuiò.

-Non devi avere paura- continuò allora lui –potremmo inventarci una scusa, non dobbiamo per forza dire che siamo usciti per fare una passeggiata tranquilla, ma un lupo ci ha scambiati per una deliziosa cena e siamo fuggiti nella foresta, e che coraggiosamente e prodemente ti ho protetta tutta la notte-

La ragazza lo fissò intensamente –Spero che tu sia consapevole di essere un bugiardo di prima categoria- e Nathan le rispose con un cenno affermativo del capo, suscitando in Ann una risata compiaciuta –grazie, mio coraggioso e prode principe azzurro!-

-Senza brevetto di cavaliere- ribadì per la seconda volta il professore, causando una risata generale. Finalmente sembrava essersi instaurato un clima più tranquillo tra i due, forse a causa dell’avvicinarsi di momento in momento del villaggio, dove, sicuramente, era padrone il panico. Ann si chiedeva a quante domande avrebbe dovuto rispondere, quante lavate di capo avrebbe dovuto subire, e soprattutto quando avrebbe finalmente potuto poggiare la testa sul suo adorato cuscino.

-Quindi racconteremo questo quando arriveremo…-

-Non credi sia una buona scusa?-

-No, anzi…- era una scusa fin troppo credibile –sono le conseguenze quelle che mi spaventano- sicuramente suo padre l’avrebbe chiusa in casa per anni. Già se lo vedeva sbraitare che non avrebbe più avuto il permesso di girovagare per la foresta da sola. Ann sospirò sonoramente, e pensare che aveva fatto una gran fatica per acquistarsi quel lusso a pochi concesso.

-Mi dispiace farti la paternale- rispose di rimando Nathan –ma la prossima volta eviterai di scappare e inseguire ragazzi sconosciuti-

La ragazzina sbuffò spostando lo sguardo ai lati della strada, stringendosi di più nel morbido mantello nero che aveva ancora indosso dalla sera prima. L’inverno era nel suo pieno, non c’era stagione peggiore per passare una notte all’agghiaccio.

-Lo so, ho imparato la lezione- ammise, mettendo da parte l’orgoglio. La mamma le ripeteva sempre che la vera forza sta nel saper ammettere i propri errori, ma sia la figlia che il marito erano così orgogliosi da risultare spesso presuntuosi. Ma Ann non voleva dare quell’impressione a Nathan, gli aveva già dato troppe cattive impressioni.

Calò un altro silenzio, anche se non si trattava di un silenzio imbarazzato o nervoso. Semplicemente avevano esaurito gli argomenti. Ad Ann non dava fastidio, le piaceva bearsi di quella visione che era il suo letto, ancora viva nella sua mente. Nathan, invece, era immerso nei suoi pensieri.

Dopo dieci minuti di camminata ininterrotta, proprio quando la ragazzina cominciava a disperare, Hidel si prospettò all’orizzonte come un sogno che diventa realtà.

 

Il ritorno fu senza dubbio in grande stile. Quando i due entrarono nel villaggio vennero accerchiati da una folla di concittadini preoccupati, tra i quali si fecero presto largo i Nevue. Per la prima volta Nathan vide Lazarus abbracciare calorosamente sua figlia e accertarsi delle sue condizioni col viso gioioso. Fu una visione che fece nascere uno spontaneo sorriso nel ragazzo, assieme però al rimorso di non aver mai avuto un padre che lo guardasse così. La madre e il fratello furono subito addosso alla giovane, coprendola di abbracci e carezze. Ann sembrava felice. Lo straniero si era perso ad osservare la scena, scorgendo poco dopo anche Krissy e perfino Doralice, la prima fu subito al collo dell’amica, mentre la seconda cercava di ostentare una falsa scocciatura, quando però le si leggeva chiaramente in faccia una rinnovata serenità. Dopotutto aveva corso il rischio di perdere la sua nemica storica.

Per qualche minuto il giovane studioso si sentì messo da parte, ma la cosa non gli dispiacque per niente. Era abituato a guardare da lontano, questo gli avevano insegnato gli Angeli. Attorno a lui la scena era quasi scomparsa sotto la coltre bianca della nuova nevicata che iniziava proprio in quel momento. Con una risatina, Nathan pensò che erano stati proprio fortunati a riuscire a tornare in tempo, prima che la nuova neve cadesse.

Fu poco dopo che lui venne messo al centro dell’attenzione, e trovarsi tutti quegli occhi addosso lo mise leggermente a disagio, tuttavia riuscì a sostenere ogni sguardo, elaborando con parole serene e accessibili a tutti ciò che aveva stabilito con Ann, riuscendo così ad impressionare ed esaltare il “pubblico”.

-Ragazzo, sei un eroe!- fu il primo commento che fece sobbalzare Nathan. Era stato fatto da una donna molto robusta, se ricordava bene era la signora Hurst. Il giovane alzò le mani improvvisando un sorriso –Ho fatto solo quello che chiunque avrebbe fatto, madame-

-Non fate il modesto, messere Metherlance- la voce cristallina di Ann fu come un campanello per Nathan, che si zittì voltandosi a guardarla. Era comodamente cullata dalle braccia della madre, serena come non l’aveva mai vista –siete stato un vero cavaliere- e stavolta il complimento venne accettato, anche se lo studioso si trovava in forte imbarazzo. Quando mai tra gli Angeli gli era capitato di essere apprezzato fino a quel punto? Non sapeva come comportarsi.

Quello che era certo era che da quel momento in poi la figura di messere Metherlance avrebbe avuto più lustro agli occhi dei cittadini di Hidel.

 

Ann, finalmente, si gettò letteralmente nel caldo letto. Si era lavata, aveva cambiato le vesti e cenato, e infine era riuscita a soddisfare quel bisogno estremo che aveva del proprio letto. Krissy aveva ottenuto dal padre il permesso di dormire a casa dell’amica, con la quale aveva decisamente molte cose di cui discutere. La mora le aveva fatto spazio, anche se il letto era abbastanza grande da farle entrare tutte e due confortevolmente. A Krissy piaceva stare da Ann, soprattutto quando si svegliava la mattina –sempre più presto rispetto all’amica- e aspettava che si svegliasse facendole le trecce. Ann quando dormiva non la svegliavano nemmeno i rombi dei tuoi.

-Dunque… una notte da sola con messere Metherlance- esordì ridacchiando.

-E non puoi immaginare che notte- annuì Ann –ho imparato molte cose su di lui-

-Tipo?- domandò curiosa la rossa, intrecciando i lunghi capelli della compagna, sorridendole.

-Beh…- la mora non sapeva da dove cominciare. Era troppo difficile descrivere uno come Nathan. Alzò la coperta, mostrando a Krissy la fasciatura lungo il polpaccio –è stato lui a darmi il primo soccorso. Siamo caduti da un piccolo dirupo, ma non mi sono fatta niente perché mi ha protetta- mormorò con voce molto stanca ma serena.

L’amica le rivolse uno sguardo sognante –Che gentiluomo! Da sposare!-

Ann sapeva benissimo dove stava per andare a parare…

-Dovresti farci un pensierino, Ann cara!-

Esattamente. Annlisette sbuffò nascondendosi sotto le coperte. Perché erano tutti convinti che tra lei e lo straniero ci fosse del tenero? Solamente perché erano sempre insieme? Ella sapeva benissimo quanto erano diversi, profondamente diversi, e non era sicura che un legame con Nathan potesse durare. Non voleva correre rischi, almeno per ora –E’ solo un amico- sbottò.

Krissy probabilmente capiva le inquietudini di Ann. Dopotutto si parlava di una persona lì per studiare, che presto o tardi avrebbe lasciato Hidel per tornare in città. –Ma ricorda che lui vive a Terren…-

-Appunto!- esclamò la mora uscendo a malapena la testolina da sotto le coperte –Chi me lo dice che non abbia una famiglia lì?- si tradì con quella domanda, ma se ne rese conto solo quando Krissy cominciò a ridere.

-Allora ammetti che un pensiero sullo straniero lo stai facendo…- l’aria furbetta della rossa era tanto rara quanto imbarazzante, e costrinse Ann a tornare sotto le coperte in un muto silenzio, lasciando l’amica a guardarla sorridente. Capiva bene i problemi di Annlisette, anche lei aveva sviluppato un interesse particolare verso un certo Angelo che aveva già rivisto un paio di volte. –Al cuor non si comanda- sussurrò con molta dolcezza, carezzando il punto di coperta attraverso cui si poteva delineare la sagoma dell’amica. –Buonanotte, Ann-

 

-Ben tornato, Nathan-

L’accoglienza presso gli Angeli era stata più fredda rispetto a quella della gente di Hidel, ma Nathan non si aspettava di meglio. Sapeva bene che quello che aveva fatto era stato correre un rischio abbastanza grande da meritarsi quei mesti saluti e quelle occhiate a metà tra il curioso e l’irato. Si era permesso troppo e aveva disubbidito agli ordini, allontanandosi dal villaggio assieme a una ragazzina e passando una notte fuori, lasciando così scoperto il territorio. Se i loro nemici l’avessero saputo avrebbero senza dubbio colto l’occasione. Almeno quello era il pensiero comune.

L’Angelo poté scorgere tra le fila una faccia amica, e finalmente notò qualcuno felice di vederlo: Damon. Il cugino gli fu subito accanto, con una mano sulla spalla –Ce ne hai messo di tempo, Nate!- esclamò, ricevendo in cambio un –Ho l’agenda piena così- risero assieme. Nonostante si prendessero in giro tutto il giorno, alla fine erano molto legati.

I due giunsero presso l’accampamento privato dei capi degli Angeli, e vennero accolti dal gioviale sorriso di Jen –Che gioia rivederti, Nathan- finalmente qualcuno oltre Damon a farlo sentire accettato in quel luogo, tanto che il biondo le sorrise, inchinandosi e facendole reverenza, com’era giusto fare –Mia signora, è un onore essere di nuovo tra voi. Chiedo perdono per il ritardo, ho dovuto aiutare qualche contadino- scherzò, suscitando una risata nella bellissima Jen –Le buoni azioni ci rendono Angeli, caro. Ma entrate entrambi, abbiamo molte cose di cui parlare- fece cenno ai due di entrare nella tenda.

La notte era calata sul campo, la scena era completamente buia, illuminata solo da qualche squarcio creato dai raggi lunari attraverso le fronte degli alberi e dalle torce che illuminavano l’interno delle tende. Quella di Marcus era completamente nera, e si mimetizzava benissimo col resto della foresta. La neve cadeva leggera, sfiorando le vesti dei presenti e fluttuando portata in volo dal debole vento, andando poi a confluire in quella massa che ricopriva la terra. Il sorriso di Damon e quello di Jen per un attimo fecero sentire Nathan davvero a casa, ma subito dopo si diede dello stupido. Quella non era casa sua, quelli non erano suoi familiari, né tantomeno quello era il suo mondo. Lui era solo un prigioniero come tanti, un prigioniero che aveva deciso autonomamente di entrare nella sua prigione, comprendendone le piccole dimensioni solo dopo.

Sorrise. Sorrise come solo lui sapeva fare. Quei messi sorrisi pieni di serenità che in realtà nascondevano l’inferno che si aggirava nella sua testa. Eppure, tutto quello era scomparso stando con Ann…

-Sì, sono pronto.-

 

 Note dell’Autrice:

Salve, bella gente! Sono stata veloce con questo capitolo? Beh sì, peccato che sia molto corto. Proprio mentre lo scrivevo mi consolavo dicendomi “Dai, altri cinque/sei capitoli e poi si entra nella parte cruciale della storia!”. Speriamo di arrivarci presto! xD

Midao: Se tutte le tue recensioni sono così, ti prego, ti supplico, mi prostro e mi genufletto, ma lasciami qualche altra recensione! Ti giuro che mi sono quasi commossa, è che adoro ricevere recensioni, e la tua mi ha emozionata. Sono felice di comunicarti che ci hai azzeccato sul fatto delle “barriere di Nathan”. Come vedrai in questo capitolo sono gli Angeli a costringerlo sotto questo punto di vista, ma anche lui è estremamente rigoroso nel proprio lavoro, quindi spesso eccede e combina guai! Riguardo Josh dovrai aspettare un po’, ma voglio darti qualcosa su cui riflettere. Come hai notato in questa storia si parla molto di Angeli, e presto anche di Demoni. Fai mente locale sui nomi “Joshua” e “Nathan” ;)

Kikyo: Mia adorata! Io ti ho già ringraziata su msn, ma voglio ringraziarti anche qui per la costanza nel seguire le mie contorte idee! Io non so quale strana mania autolesionista ti spinga a leggere questa storia con tutto che tu sai benissimo come va a finire, ma la cosa mi fa felice! E poi mi affido moltissimo ai tuoi giudizi perché puoi fare un confronto –tu sai su cosa xD- e quindi darmi consigli nel caso esageri. Insomma, la tua opinione è importantissima, mia collega nello sterminio delle Mary Sue! PS. La scommessa l’ho fatta con Locke xD

Viola: Il mio nuovo nick ti dà da pensare, cara? Perché mai? *fa la finta tonta* ^^ grazie per aver recensito anche il capitolo otto. Quindi anche tu lo leggi “Neit”, accidenti, io e un’altra ragazza siamo le uniche a leggerlo “Nate”, anche se spesso mi capita di dire prima “Neit” e poi “Nate” nella stessa frase o.o … Scemenze a parte! Anche a me piace moltissimo quando quei due si punzecchiano! Secondo me è questo il bello della loro coppia: essendo entrambi estremamente orgogliosi cozzano sempre, ma alla fine riescono a mettere l’orgoglio da parte grazie all’affetto reciproco! :D

 

Bene, ora vi saluto.

Al prossimo capitolo <3

 

Ann.

 

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Capitolo 10
*** Il dolore che lenisce l'animo ***


What colour is the snow

What colour is the snow?

Capitolo 10: Il dolore che lenisce l’animo.

Una nuova giornata stava per cominciare, e non si preannunciava una delle migliori.

Un brusco ed alterato bussare alla porta di casa aveva costretto Nathan ad una levataccia; si trovava sempre peggio a svegliarsi presto la mattina: si sarebbe mai abituato ai ritmi della gente normale? O forse era davvero il caso di tornare in città e rinchiudersi nelle amate biblioteche locali?

Bofonchiando qualche scocciata parola nella sua lingua madre, per una volta senza preoccuparsi di nascondere quell’assurdo e pesantissimo accento tipico della sua patria mescolato all’intonazione elegante e sottile a cui la madre lo aveva abituato, raggiunse la porta d’ingresso, che aprì lentamente, non senza preoccuparsi di indossare prima il suo pesante mantello.

«Buongiorno, messere Metherlance.»

La voce di mister Grant, membro del gruppo che si occupava della gestione del villaggio, era inconfondibile: secca, atona, come un sasso che cade per terra. Nonostante l’aspetto decisamente poco incoraggiante dato dalla possente muscolatura, gli occhi nerissimi e il viso perennemente adirato, era tuttavia una brava persona.

L’uomo stava ritto davanti alla porta, con il corpo nascosto fino alle ginocchia da un lungo mantello marrone in netto contrasto con le braghe verdi. Il viso, che sembrava non conoscere la stanchezza, era il ritratto della serietà.

«Buongiorno a voi.» sorrise Nathan, sforzandosi di sembrare già abbastanza sveglio da intrattenere una conversazione; la tenue luce che penetrava a fatica attraverso la folta coltre di nubi lo soccorreva ben poco.

«Perdonate l’orario, ma si tratta di una faccenda molto urgente.»

Quelle poche e concise parole bastarono a interessare Nathan, che annuì invitando l’uomo a parlare.

«C’è stata un’altra sparizione.» spiegò Grant, grave.

«Ancora!» lo straniero strabuzzò gli occhi «Due in un mese!»

L’altro annuì, precisando poi «Si tratta di mister Hurst…»

Il ragazzo fece una faccia addolorata; ricordava bene la signora Hurst, quella simpatica donna che tre mesi prima, al ritorno dalla foresta assieme ad Ann: lo aveva definito addirittura “eroe”.

«Mi dispiace, ma credo di non poter essere d’aiuto… non lo vedo da ieri sera a cena, quando eravamo tutti nella Sala Maestra.» affermò, per poi domandare con aria preoccupata «Quando è scomparso?»

«Stamane è uscito per andare a raccogliere della legna nella foresta; la cara Joanne, dopo averlo atteso per un’ora, si è precipitata a cercarlo, ma ne ha trovato solamente la giacca: era stesa per terra, in mezzo ad una piccola radura abbastanza lontana dal villaggio.» gli spiegò l’altro, senza accennare ad un cambiamento nel serio volto «Vi saremmo grati se ci aiutaste nelle ricerche.»

«Senza dubbio.» annuì il biondo.

Dopo qualche altro scambio di battute, durante il quale Nathan ebbe la netta impressione che l’uomo dubitasse di ogni sua parola e che lo additasse come potenziale sospettato, i due si separarono, ed il giovane poté rientrare in casa. C

hiuse la porta alle proprie spalle con un sospiro; due sparizioni in un mese, ben cinque da quando era arrivato: era ovvio che si sospettasse di lui!

Scoccò uno sguardo all’orario, scoprendo che era ancora abbastanza presto, ma sicuramente l’intero villaggio, o almeno una buona parte, era sveglio. Dunque si cambiò in fretta, decidendo di andare a far visita alla signora Hurst, che ormai poteva reputarsi vedova.

Nessuno degli scomparsi era mai stato ritrovato.

In molti si erano dati da fare già dalla prima sparizione, quella di Monna Dora, avvenuta poco dopo l’arrivo di Nathan. L’Angelo ricordava bene la nottata passata a cercarla, e ricordava altrettanto vividamente la sicurezza con cui la donna era stata data per morta poco dopo: sicuramente, si era pensato all’epoca, i lupi si erano spinti fin dentro il villaggio, approfittando delle tenebre, ed avevano trovato nella villica una buona cena.

Tali affermazioni erano miseramente cadute dopo l’assassinio della sorella di Monna Dora, Monna Dana.

«Ricordo che sin da quando ero piccola si prendevano sempre gioco degli altri scambiando i propri nomi. Era una cosa che amavano fare…» gli aveva detto Ann.

Negli occhi della ragazzina, Nathan aveva letto una grande tristezza, che lo aveva spinto ad offrire il proprio aiuto. Assieme al capo villaggio e a messere Nevue si erano dati da fare per fare un sopralluogo degno di questo nome, ma le uniche cose che erano riusciti a confutare era che la donna era stata sgozzata, che l’omicidio era avvenuto di mattina e che si stava preparando a partire senza avvertire nessuno: destinazione sconosciuta.

Nessuna arma era stata ritrovata, ed il povero stalliere che aveva scoperto il cadavere non aveva né visto né udito nulla.

 

«È permesso?»

«Sì…» una vocina indistinta annuì.

Nathan spinse con delicatezza la porta d’ingresso, muovendo un passo dentro casa Hurst. Dalla stanza principale, quello che sembrava il salone – anche se di salone aveva ben poco -, provenivano dei mugolii e dei lamenti: sembrava che qualcuno stesse piangendo. L’uomo sospirò, capendo bene quale grande dolore dovesse aver assalito così repentinamente quelle mura.

Era la prima volta che entrava in quel luogo, ma già gli piaceva: i colori della mobilia erano molto accessi e sgargianti, sicuramente merito dell’innata vivacità della padrona di casa e dell’amore immenso che il padrone nutriva nei suoi confronti, tanto da permetterle la qualunque.

Tutto sembrava essersi fermato, lì dentro; persino il famoso cardellino delle nevi, di cui i coniugi spesso vantavano il frizzante e acuto canto, si era acquietato in un angolo del suo trespolo, piegato a riccio su se stesso.

Una visione straziante, ma niente in confronto a quello che aspettava lo straniero nell’altra stanza.

Entrando nella  cucina, la prima cosa che poté notare fu un ordine quasi cinico: ogni cosa sembrava essere al suo posto. Il fuoco scoppiettava a intervalli regolari nel camino, illuminando la stanza abbastanza fredda; le imposte delle finestre erano appena socchiuse, quanto bastava a far penetrare qualche filo di luce. Ma la cosa che più colpiva della scena, oltre il buio quasi mistico, era il fatto che non si potesse avvertire alcun odore.

Tutto, in quella parte di casa, sembrava essere in uno stato di quiete quasi inquietante.

In un angolo, seduta sulla sedia a dondolo che faceva avanti e indietro con cupo rumorio ripetitivo, la sagoma di quella che un tempo era stata la signora Hurst faceva quasi paura a Nathan: non era più la donna che gli aveva accreditato quel titolo che lo aveva messo in imbarazzo, bensì una povera vecchia stanca, infelice, china su dei merletti, che cuciva incessantemente.

Lacrime amare le scorrevano lungo il viso, andando poi a bagnare i lavori ormai zuppi.

«Madame?» provò a chiamarla Nathan, ma la voce gli si ruppe, spezzata miseramente dalla pena che lo aggrediva in quel momento.

La donna sembrava quasi in uno stato di trance, tantoché non alzò il capo né emise alcun suono, limitandosi a piangere mutamente, mentre le dita scorrevano veloci sui ricambi, con abilità dettata dagli anni tale che, nonostante la pochissima attenzione che ella vi metteva, non si pungeva le dita.

«Madame…» riprovò ancora lui, avvicinandosi.

Si chinò dinnanzi a lei, rivolgendole uno sguardo preoccupato; non sapeva se aveva fatto bene a recarsi lì.

Fato vuole che Nathan somigliasse molto al signor Hurst da giovane, come spesso la donna gli ripeteva. Dunque era un male essersi recato lì, a ricordale un doloroso passato?

Aveva incontrato per strada alcuni che erano stati dalla donna, provando a consolarla e a dimostrarle la loro vicinanza, ma gli avevano raccontato che ella non si era aperta con nessuno. Forse con lui, che tanto ricordava il suo adorato marito, avrebbe avuto un comportamento diverso?

«Perdonate l’intrusione, madame, ero preoccupato per voi.» sospirò l’Angelo, estraendo dalla tasca della giacca un fazzoletto bianco che porse alla donna.

Nessun segno di ripresa: ella continuava a cucire, imperterrita.

Nathan sentì un nuovo moto di grandissima compassione, evidentemente non se la sentiva di parlare neanche con lui.

Tuttavia volle provare un ultimo gesto disperato.

Con lentezza, quasi stesse per attraversare un confine proibito, allungò il braccio, giungendo con la mano destra al viso della donna, della quale asciugò le lacrime con un gesto delicato, atto a non darle fastidio.

Ella ebbe un tremito che sembrò riscuoterla, e per un attimo tremò duramente, costringendo Nathan a bloccare ogni movimento. Infine, la donna alzò finalmente gli occhi, incontrando quelli del giovane studioso, e sorrise: sorrise di un sorriso dolce, che quasi fece sciogliere le membra di Nathan, che in quel momento si sentiva davvero un libro aperto a quegli occhi nocciola. Quegli occhi parevano riuscire a leggere nella sua anima, tanto che il giovane ritrasse la mano, come se si fosse scottato.

“Non fare lo stupido, Nate…” si apostrofò mentalmente “è solo suggestione. Tutto questo buio ti fa male…

Eppure non era solo merito dell’atmosfera pesante, dell’oscurità che li avvolgeva, dell’incessante scorrere delle dita piegate dall’artrosi che, nonostante i tremolii, cucivano fermamente, con una vena di cinismo.

«Finalmente sei tornato…» Joanne sorrise dolcemente, piegando il capo «William.»

Nathan sbarrò gli occhi.

Seguì qualche attimo di silenzio, durante il quale il giovane studioso si pentì amaramente di essersi recato in quella casa: come temeva nella peggiore delle ipotesi, era stato scambiato per il marito della donna.

E ora?

Non poteva di certo negare di essere sempre stato un ottimo attore, ma quella messa in scena si prospettava troppo macabra e crudele per metterla in atto; oppure era, molto in fondo, un’opera buona farla parlare un’ultima volta col “marito”? Come sempre, Nathan decise di rischiare.

«… Perdonami il ritardo, cara.» la sua voce era molto diversa da quella anziana del signor Hurst, ma confidava nell’illusione data dal proprio aspetto giovanile e dalle allucinazioni della fragile mente della donna.

«Hai trovato Alice, finalmente?» continuò speditamente l’anziana.

La sua voce aveva un’intonazione completamente diversa dal quella che ostentava di solito: quel dolcissimo e tenero tono era sempre stato riservato solamente al marito.

Era davvero convinta che Nathan fosse William.

“Il dolore è davvero capace di lenire l’animo…” pensò amaramente il tedesco, pensando che anche lui lo sapeva bene, perché anche lui per diverso tempo si era chiuso nel suo dolore dopo aver perso la persona più cara di tutte, in passato.

Rispose con un’inclinazione della voce più confidenziale «Sì, ed era bellissima.»

Sapeva chi fosse stata Alice: era la bambina degli Hurst, ma purtroppo era nata morta, glielo aveva raccontato Ann.

La donna riprese a piangere, ma stavolta sembravano essere lacrime di gioia. Annuì vivacemente, come una bambina, e a quella visione anche Nathan si sentì sollevato.

«Guarda, caro…» continuò lei, alzando il merletto a cui stava lavorando per mostrargli un centrino candido, che ritraeva una rosa «La rosa bianca è il tuo fiore preferito, vero?»

La prima immagine che balenò nella mente del ragazzo al nome del niveo fiore, fu Ann. Ella amava le rose bianche, ne avevano parlato molte volte, e spesso egli notava proprio quel fiore cucito sui vestiti della giovane, in particolare sulle gonne, all’altezza della vita. Solo ora si rendeva conto del fatto che probabilmente passava molto tempo ad osservarla inconsciamente se ricordava quei particolari.

La seconda immagine riguardava il campo fiorito dove giocava da bambino con Auror: lì poteva contare decine di fiori diversi, tra cui le rose bianche, bellissime.

«Sì… sono splendide.» annuì con un sorriso.

Joanne aveva ragione: erano davvero i suoi fiori preferiti.

La donna rise lievemente, porgendo il lavoro completo a Nathan.

«La nostra cara nipotina ama questi fiori, glielo donerai?» chiese, riferendosi al centrino.

«Certamente.» annuì lui, prendendo il dono.

Voleva provare a spingersi un po’ più in là: voleva provare a convincerla a sfogare il dolore che si portava dentro, nella speranza che ritrovasse la lucidità. La realtà era certo dura e terribile, ma non poteva continuare a vivere in una prigione fatta di illusioni.

«Ma credo che la nostra piccola Doralice sarebbe più felice se a donargliela fossi tu stessa.» effettivamente si chiedeva come l’avrebbe presa Doralice, la nipotina dei signori Hurst, davanti a un regalo da parte della zia datole dallo straniero.

Joanne scosse il capo, poggiando con fare stanco le spalle allo schienale della sedia a dondolo; il cupo scricchiolare del legno sembrava scandire il tempo.

«Questo tempo non è più il mio, caro. Mi dispiace così tanto lasciare queste lande…» la voce dell’anziana sembrava più leggera rispetto a prima «Hidel è la mia casa. Sai… il capo villaggio non è duro come sembra…»

Esordì così, e Nathan si mise in ginocchio davanti a lei, ascoltandola attentamente.

«Ricordo quando vi ubriacaste tutta la notte, il giorno dopo fu molto difficile togliere la puzza dell’alcool dai tuoi vestiti!» e risero insieme.

Il tedesco non sapeva di quell’episodio, ma non poté fare a meno di essere partecipe della gioia data dai ricordi alla signora Hurst.

«Ricordo anche quando Padre Richardson ci sposò… il giorno più bello della mia vita…» qualche nuova lacrima cominciò a farsi spazio lungo le gote pallide «Ed il matrimonio dei cari Elijah e Mary, la nascita di Doralice, il quinto compleanno della bambina, quando litigò con la piccola Annlisette Nevue per il possesso del fratello!»

Nathan rise: chi mai avrebbe pensato che all’origine della famigerata inimicizia tra Ann e Doralice vi fosse un’infantile lite per Gabriel? 

«Ricordo ancora Mary ed Elizabeth che rattoppavano abiti; erano così giovani quando insegnai loro a cucire, sapevano a malapena tenere in mano l’ago...» la donna faceva lunghe pause tra una frase e l’altra, come se respirare fosse diventato faticoso.

Nathan si mise in piedi, guardandola attentamente e con la paura di vedersela morire davanti di crepacuore. Sembrava stremata, non poteva andare avanti.

«Va bene così, cara.» cercò di rassicurarla con un sorriso «Ora riposati…»

In quel momento qualcuno bussò alla porta.

Nathan fu esortato ad aprire e lasciò la donna con un “torno subito”. All’ingresso, in piedi sul tappeto lo aspettava Doralice intenta a sfilarsi il cappotto; anche lei, come la zia, sembrava irriconoscibile: teneva il capo chinato, gli abiti erano molto stropicciati ed i capelli poco curati, ma nel complesso risultava comunque una bella ragazza.

Il suo sguardo languido incontrò quello di Nathan.

«Siete venuto a far visita a mia zia, messere?» chiese con intonazione grave mentre si chiudeva la porta alle spalle.

«Sì, sembra stare molto male.» lo straniero sapeva bene quanto fosse doloroso per la giovane ricevere una notizia simile in quel momento, ma non c’era tempo da perdere «Vado a chiamare il dottor Ross.»

Fece per uscire, quando la voce di Joanne lo fermò «Non fatemi aspettare…»

Fu un tenue sussurro, che però fece sentire Nathan in colpa per l’intenzione di abbandonarla proprio in quel momento critico.

«Venite…» li chiamò ancora; entrambi, dopo essersi scambiati un’occhiata carica di inquietudine ed indecisione, decisero di assecondare la vecchia donna.

Camminarono molto rapidamente attraverso il piccolo salone e senza scambiarsi neanche una parola, e quando raggiunsero la stanza poco prima lasciata da Nathan, Doralice esitò sulla porta. La visione della zia ridotta a quello stato la turbò profondamente, e per un attimo sembrò avere un mancamento, tanto che l’uomo dovette ricorrere alla sua prontezza di riflessi per reggerla prima che ella cadesse a terra.

«Sicura di voler andare oltre?» le mormorò mentre la aiutava a rimettersi in piedi.

«Sì, sì…» annuì la giovane che intanto cominciava a piangere, restando per qualche secondo aggrappata saldamente alla giacca dello straniero. Riuscì a reprimere le lacrime e sforzare un sorriso solo dopo diversi tentativi, quindi si rimise dritta ed avanzò a passi tremolanti verso l’anziana.

«Ciao, zia…» la raggiunse a fatica, fermandosi poi davanti a lei, lì dove Nathan si era inginocchiato poco prima.

Egli la raggiunse, sorridendo quindi a Joanne, che intanto alzava lo sguardo consumato e bianco come un cencio, tuttavia felice.

«Tesoro mio…» sussurrò dolcemente «Ho un regalo per te.»

Doralice parve confusa, ma Nathan sciolse i suoi dubbi porgendole il centrino di poco prima.

La ragazza arrossì, mormorando un timido «Grazie, zia… è bellissimo.»

In quel momento il giovane studioso poté notare qualche lacrima farsi di nuovo prepotentemente spazio sulle gote candide, anzi, pallide, della fanciulla: Doralice sembrava stare molto male.

Stava per consigliarle di andare a casa quando si sentì chiamare da Joanne «Messere Metherlance…»

«Ditemi.» si voltò, senza ragionare, e solo quando gli occhi ricolmi di affetto materno della signora Hurst si posarono sui suoi, capì di essersi tradito da solo. Istintivamente abbassò lo sguardo con un moto di vergogna.

La ragazza non capiva quello strano comportamento, tuttavia non riuscì a dire né fare niente, chiusa ermeticamente nel suo dolore.

Fu allora che entrambi si sentirono toccare una mano, e, alzando gli occhi, scoprirono con stupore che l’anziana donna aveva preso con le proprie mani quelle di entrambi, rivolgendo loro un evanescente sorriso.

«Grazie a entrambi per essermi stati vicini, ma ora devo andare…» sussurrò con fatica.

Istintivamente Doralice scoppiò in lacrime, sentì il cuore mancare un battito e, irrigidendosi, esclamò «No, zia! Non è vero!»

La donna strinse più forte la mano della nipote, lasciandola però poco dopo; lo stesso fece con l’altra con cui teneva Nathan.

«William mi attende sulla porta.» spiegò, e lanciò uno sguardo alle spalle dei giovani.

Forse a causa della troppa suggestione di quel luogo, entrambi si voltarono intimoriti, all’unisono, trattenendo il fiato.

Non c’era nessuno sulla porta.

Si rivolsero uno sguardo sollevato ma ancora un po’ intimorito, tornando poi a guardare la donna, ed il centrino che Doralice teneva in mano scivolò a terra assieme alla ragazzina che si abbandonava alle lacrime, mentre Nathan, nonostante fosse profondamente turbato, trovava la forza di poggiarle le mani sulle spalle, permettendole di sfogarsi, mentre rivolgeva un ultimo sguardo colmo di dolore in direzione della signora Hurst, morta.

 

 

Note dell’Autrice:

Capitolo in versione 1.5, ovvero rivisto da me ma non ancora visto dal mio beta reader :D

Dalla vecchia versione riprendo i ringraziamenti vivissimi a violacciocca, Midao e Kikyo per le recensioni!

 

A presto!

Sely.

 

 

 

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Capitolo 11
*** La congiura ***


What colour is the snow

What colour is the snow?

Capitolo 11: La congiura.

Nemmeno quella mattina si era mostrata clemente.

Delle nere nubi si addensavano in cielo, impedendo, come sempre, al sole di estendere i suoi raggi fino a sfiorare quelle terre fredde; sembrava prospettarsi un temporale coi fiocchi, ed i rombi dei tuoni in lontananza avvaloravano questa tesi. L’aria era talmente tanto carica di tensione che si aveva quasi l’impressione di poter prendere la scossa allungando una mano verso il cielo.

«Fratellone!» una gentile voce femminile lo riportò alla realtà.

«Sogno!» esclamò Damon voltandosi, sorridendo in direzione della giovane e bella biondina che gli si era avvicinata «Buongiorno, come stai?»

«Molto bene, grazie. Come mai quell’espressione?» Sogno scandiva bene le parole, il suo inglese era fluido e scorrevole, e spesso, nel completare una frase, aveva la singolare ma piacevole abitudine di cantare, nel vero senso della parola, l’ultima sillaba.

Rivolse uno sguardo innocente e curioso in direzione del “fratello”.

«Nulla di cui preoccuparsi, dolce Sogno.» rise l’Angelo.

Gli piaceva la compagnia di quella ragazza; nonostante si fossero conosciuti da poco, lei gli si era subito affezionata, cominciando addirittura a chiamarlo “fratellone”.

«È solo che…» commentò il ragazzo, con la voce piegata dall’indecisione.

«Che cosa?» incalzò lei, avvicinando il viso a quello di Damon.

Lui fece istintivamente un passo indietro e poggiò le spalle contro un albero, uno dei tanti rosi dal freddo e dal ghiaccio «È vero che c’è stata un’altra sparizione, al villaggio?»

«Sì.» confermò Sogno, con un sospiro demoralizzato.

Anche Damon sospirò, quell’ennesima brutta notizia gli dava molte preoccupazioni, tra le quali ne spiccava una in particolare.

«Dimmi la verità, dai…» lo implorò ancora la bionda, continuando a ciondolare spostando il peso del corpo dalla gamba destra alla sinistra e viceversa; era difficile vederla ferma troppo a lungo.

Ma Damon non ne voleva sapere di gettare la spugna; scosse con decisione il capo ed assicurò «Va tutto bene, davvero.»

«Sei preoccupato per il cugino Metherlance?» provò ancora Sogno «Ho saputo che Marcus ha qualche sospetto verso di lui.»

L’altro sbottò «E come dargli torto?!»

Quelle parole ebbero uno strano effetto su Sogno, che inclinò il capo, scrutando curiosamente Damon. Il suo viso, trionfo di placida innocenza, svelava ogni suoi pensiero: era stupita, non si aspettava una simile reazione dall’amico. Credeva che avrebbe difeso Nathan con i denti, invece sembrava quasi dare ragione a Marcus, il taciturno e troppo spesso esagerato capo in carica.

«Spiegami! C’è qualcosa che non so, fratellone?»

Damon esitò.

Il suo viso contrito in un’espressione indecisa; si era pentito di aver parlato troppo ed aver quasi svelato qualcosa che, invece, doveva rimanere segreto? Rimase in silenzio per qualche secondo, lasciando scorrere lo sguardo sui lineamenti dolci di Sogno, ma infine scosse il capo.

«No. Non preoccuparti, sorellina. Nathan è un tipo affidabile, è tutto sotto controllo. Non potrebbe andare meglio di così!» sicuramente anche un idiota avrebbe capito che stava mentendo, almeno di questo era convinto Damon.

Ma ecco che Sogno sorrise, annuendo con fare comprensivo. Era questo che l’Angelo amava nella ragazza: era capace di non fare domande, di accontentarsi di quello che le veniva detto senza fare troppe storie.

Era una persona semplice che al contempo sapeva colpire nel segno.

«Allora sei preoccupato per… uhm… non ricordo bene il nome… Kissy, forse?»

Sapeva colpire nel segno anche troppo bene.

«Krissy.» la corresse Damon, pigramente.

Sogno ridacchiò, e solo allora il ragazzo comprese il suo errore.

Scattò sul posto e sbarrò gli occhi, esclamando «… Come fai a saperlo?!»

La sua reazione provocò una risata divertita in Sogno, che annuì poco dopo alle sue stesse parole, rispondendo candidamente «Vi ho seguiti di nascosto! È così carina! Me la farai conoscere, vero?»

Sicuramente far conoscere Krissy a Sogno non era intenzione di Damon, tuttavia si sforzò di sorridere, capendo che, ancora una volta, si era fatto fregare da una donna: sapevano essere incredibilmente sagaci quegli esseri.

«Se proprio vuoi…» le concesse, non essendone neanche lui convinto del tutto.

«Evviva!» fece la ragazza con voce stridula, facendo poi l’occhiolino all’amico «Tranquillo, non dirò niente a nessuno!»

Detto ciò, soddisfatta e senza neanche salutare, gli diede le spalle e si allontanò a passi veloci, lasciando quella piccola radura immersa nella neve in cui aveva avuto luogo la loro discussione.

Rimasto solo, Damon sospirò ancora. Alzò lo sguardo al cielo, chiedendosi cosa sarebbe accaduto, e, in quel momento, un nuovo tuono rispose alla sua domanda.

«Tempi bui…»

 

La scelta dell’abito era un momento sacro.

Conscia di essere una delle pochissime ragazze di Hidel in grado di permettersi il lusso di avere più abiti per più occasioni, Doralice prendeva sempre quelli che reputava migliori per distinguersi senza però apparire troppo: le era sempre piaciuto essere diversa, la faceva sentire in qualche modo speciale; anche se, per diventare ciò che era, aveva dovuto far a pugni con la sua innata timidezza; ma alla fine era riuscita a metterla da parte.

Secondo lei la timidezza non portava a nulla di buono, lo aveva imparato dalla sua rivale storica, Annlisette. Di certo Ann non si era mai fatta problemi a dire le cose in faccia, forse era una persona un po’ grezza – del resto, pensava Doralice, come non esserlo in una famiglia come i Nevue? -, ma sapeva ciò che diceva; purtroppo, però, spesso lo diceva molto male, risultando insopportabile.

“Beh, affari suoi!” pensò la ragazza, non senza uno sforzo.

La scelta dell’abito era un momento sacro, ma non quando si deve andare a un funerale.

A dire la verità, se avesse potuto, non sarebbe andata; tuttavia sarebbe stata una mancanza di rispetto nei confronti della zia, dunque si sarebbe fatta forza.

Si guardò allo specchio, o meglio, a quella specie di strano specchio usato da tutta la famiglia; era un po’ sporco, notò, avrebbe dovuto pulirlo.

“Oh, non di nuovo…” si lamentò con se stessa “ancora la mania della pulizia. Troppa ansia… questo funerale mi stroncherà.”

Solo allora, dopo aver constatato che quel piccolo angolo pieno di polvere andava assolutamente pulito, si concentrò sul proprio volto: c’era ancora qualche residuo di occhiaie, per quello che il buio della camera le permetteva di vedere; i capelli erano un po’ spettinati, ma quello era normale se ci era appena svegliati.

Nella totalità, poteva definirsi soddisfatta del proprio aspetto e sorrise alla Doralice riflessa, pensando che a conti fatti stava un po’ meglio. La grande ferita era ancora aperta, ma era stata disinfettata dalla rassegnazione. Sapeva bene che era una cosa molto triste da ammettere, ma era l’unica strada per una ripresa quantomeno rapida.

Doveva ringraziare messere Metherlance.

La zia era morta davanti ai loro occhi, ma lui si era dimostrato subito pronto, portandola via e poi chiamando chi di dovere, senza però lasciarla neanche un momento da sola. Era stato oltremodo gentile, e Doralice sperava davvero di poter ricambiare un giorno o l’altro.

Beh, se Ann glielo avesse permesso; nel villaggio girava voce che tra i due vi fosse una certa sintonia, dunque Doralice si sarebbe divertita tantissimo a stuzzicare la sua rivale sotto questo aspetto.

Poiché il loro rapporto era fatto di continue piccole provocazioni, ormai era risaputo, ma, alla fine, non si volevano male – e neanche bene.

«Cara, sei pronta?» la voce di mamma non le era mai sembrata così dolce.

Cara mamma, che non le aveva mai fatto mancare niente, che le era sempre stata vicina, che però sembrava al contempo così distante, ora più che mai. Qualcosa, in Doralice, era cambiato, o forse si era aggiunto, e di questo doveva ringraziare la zia, ed anche il signor Metherlance.

«Sì, arrivo!» esclamò.

Infilò il cappotto e calò il cappello sugli occhi, nascondendo le emozioni. Aveva scelto la rassegnazione sì, ma quella mattina avrebbe dovuto sostenere non solo la sua scelta, ma anche una dura prova, quella del funerale.

La famiglia Clokie fu tra le prime a giungere in chiesa; Doralice poté notare la presenza del dottor Ross, dei cugini Beth e Nicholas e, ovviamente, del reverendo Stevenson.

Lasciò i discorsi più tetri agli adulti, spostando lo sguardo distratto alla bara sull’altare.

Nonostante i candelabri e le diffuse fiammelle, il luogo era ancora piuttosto buio e non si distinguevano le zone oltre l’altare, sebbene la zona riservata alle panche, vuota ed abbellita di tanto in tanto da qualche misero quadro o da statuine, fosse discretamente illuminata. Faceva freddo, moltissimo freddo, tutto ciò a causa dei portoni che sarebbero rimasti aperti fino all’inizio della messa.

La chiesa era l’edificio più grande di Hidel, conteneva addirittura un centinaio di persone, anche se spesso suo padre le aveva raccontato che in città vi erano chiese capaci di accogliere anche cinquecento credenti. Lei aveva visitato Terren diverse volte, eppure non ricordava di aver visto un luogo simile - forse perché la sua famiglia non era abbastanza credente.

Prima di concentrarsi sul feretro, il quale non incuteva più paura nel suo animo quasi placido, Doralice alzò gli occhi al crocifisso. Lo sguardo che rivolse al freddo legno in cui era stata intagliata la sagoma di Cristo fu interrogativo, pieno di curiosità; spesso aveva parlato a quel Dio, ma mai aveva ricevuto risposta. Sapeva bene che il Signore non rispondeva a tutti, ma il continuo richiamo della Chiesa ad una fede incrollabile non faceva altro che aumentare a dismisura la sua incertezza, e quindi il suo scetticismo.

Ormai la messa della domenica era per lei pura formalità, si dimostrava quasi apatica davanti alle prediche. Ed ora, quante domande avrebbe voluto rivolgere a quel legno duro ed immobile, che pretendeva senza dare?

«Buonasera.»

Quell’accento sarebbe stato riconosciuto da chiunque, a Hidel: solo lo straniero aveva la capacità di parlare il dialetto delle Lande senza nome mescolando leggerezza dell’inglese alla potenza severa del tedesco.

Doralice si voltò molto lentamente, distogliendo con fatica lo sguardo che ancora pretendeva risposte dal suo muto interlocutore, inquadrando poi la figura del biondino, come sempre avvolto nel suo mantello nero.

“Ha un aspetto così particolare… anche se un po’ malmesso.” pensò la ragazza.

In effetti le era sempre apparso molto affascinante: era il classico principe delle favole, con quegli occhi così chiari da sembrare quasi bianchi, i modi raffinati, le parole cortesi, e non solo; aveva qualcosa in più rispetto al solito principe: era misterioso.

Cosa ne sapeva la gente di Hidel riguardo lui? Sapevano solo che era un ricercatore presso l’università di Terren e che proveniva dal sud, dalle germaniche terre di Francoforte.

Ma chi era in realtà, quell’uomo? Questa era la domanda che continuava a porsi Doralice mentre lo vedeva avvicinarsi a lei con sguardo mortificato, come se si sforzasse di provare dolore al posto suo.

«Milady, ossequi.» la salutò con un cenno del capo quando le fu vicino. Aveva appena terminato di porgere le condoglianze al resto della famiglia, quindi era giunto da lei.

«Buonasera a voi.» sospirò lei, riemergendo dal suo stato di semi trance.

Forse si stava illudendo di essersi liberata dal dolore, forse faceva tutti quegli strani discorsi con se stessa per fuggire il pensiero della zia nella bara dietro di lei, forse non aveva capito nulla. Eppure una cosa le sembrava più che chiara: in quel momento la presenza di messere Metherlance quella che più desiderava, perché era stato con lei nel momento in cui la zia era venuta a mancare e, in un certo senso, pensava che lui potesse condividere lo shock di quel momento.

«Come vi sentite?» domandò l’uomo con fare apprensivo.

«Come ci si può sentire in momenti simili, naturalmente.» rispose lei, senza però rimprovero o rancore nella voce.

Nathan si accigliò, scrutandola con attenzione e in silenzio; quello sguardo intimorì la giovane, che si ritrasse spontaneamente: aveva paura che lui le leggesse dentro. Ma così non fu, almeno in apparenza.

Egli si voltò, dando attenzione alla nera cassa «Immagino quanto questo momento sia difficile, ma se avrete bisogno di sostegno, sarò a vostra disposizione.»

Doralice indirizzò gli occhi in alto, verso il tetto in legno, senza che questo però venisse minimamente sottoposto alla sua attenzione. In realtà stava solo cercando di fuggire gli occhi indagatori dell’uomo, e questo lo sapevano entrambi.

«Grazie, spero che non ce ne sarà bisogno.» disse, un po’ tetra.

Nathan sembrava avere fretta di allontanarsi da lì, per qualche motivo a Doralice sconosciuto; prima di avviarsi verso il fondo della chiesa, l’uomo completò il discorso.

«Anche il terreno fertile ha bisogno di due stagioni di riposo.»

La bionda aggrottò la fronte, non capendo inizialmente dove volesse arrivare. Ma tutto divenne chiaro quando le sorrise molto flebilmente, accennando appena una curvatura della bocca: le aveva davvero letto dentro.

La ragazza abbassò il capo sentendosi avvampare, con un piccolo moto di rancore nei confronti di quell’uomo che aveva indovinato troppo in fretta il suo malessere interiore. Ma presto sospirò e rialzò lo sguardo, sostenendo l’espressione imperscrutabile dello straniero.

Forte dell’immagine che con fatica si era costruita, rispose per le rime «Insegnate lingue o agricoltura, messere?»

Nathan ridacchiò, evidentemente sorpreso da quel cambiamento improvviso. Eccola, la solita Doralice!

«Insegno ciò che so, milady.» rispose, pacato come sempre.

La ragazza a quel punto gli diede le spalle, facendo però molta attenzione a non tornare con gli occhi sopra la bara. Non riuscì a rispondere per due motivi: il primo riguardava il fatto che, effettivamente, non sapeva che rispondere; il secondo era ricollegabile a chi aveva appena fatto il suo silenzioso ingresso in chiesa, la famiglia Nevue.

Tutti rigorosamente in nero, dal vecchio Lazarus alla moglie Elizabeth, raggiunsero subito i genitori di Doralice per porgere loro le condoglianze, mentre i due fratelli restavano in disparte.

Annlisette era inquietante: completamente bardata di nero, col viso per metà coperto da una grande sciarpa, i lunghi capelli corvini che le ricadevano lungo la schiena e sul viso. Sembrava una delle tante rappresentazioni della morte appena uscita da un quadro.

Anche Nathan doveva averlo notato, infatti andò subito da lei, lasciando Doralice sull’altare, di nuovo sola col suo interlocutore muto. La giovane rivolse al crocifisso un’espressione quasi annoiata.

“Qualcosa mi dice che più domande ti farò, meno mi risponderai.”

 

Entrando in chiesa, la prima cosa che Ann notò fu una smorfia di dolore sul viso di suo fratello. Ne poteva ben immaginare il motivo: Gabriel, in famiglia, era quello più legato alla signora Hurst, che lo aveva sempre accolto benevolmente.

Alzando lo sguardo verso l’interno del luogo poté comprendere anche il motivo secondario di quella smorfia: la bara era stata messa sopra l’altare e in bella mostra alla faccia della sensibilità comune, come usanza in tutti i funerali.

Davanti all’altare si trovavano Doralice e…

«Nathan?» mormorò la ragazzina, contrariata.

Suo padre le lanciò uno sguardo obliquo «Hai detto qualcosa, Annlisette?»

Lei scosse con decisione il capo, stringendosi nel cappotto «Nulla, papà.»

La famiglia si avvicinò ai Clokie, facendo loro le condoglianze. L’attenzione di Ann però era focalizzata altrove, precisamente su due elementi: il primo era il sarcofago, le faceva molta impressione pensare che lì giacesse la signora Hurst, che spesso le era stata accanto con quel suo perenne sorriso, che era in prima ad accogliere lei e Nathan al ritorno dalla foresta; il secondo erano i due sopra citati, in particolare lo straniero, che sembrava avere una certa fretta di allontanarsi da lì. Tuttavia, decisa ad ignorare entrambe le cose, tornò a concentrarsi sui discorsi degli adulti, nella speranza di distrarsi almeno un po’.

«Di William non ci sono ancora tracce?» chiese Lazarus al padre di Doralice con tono grave.

«Ancora no, e dubito che ne sapremo qualcosa.» rispose quello, posando con delicatezza una mano sulla spalla della moglie.

«È orribile…» la voce della madre di Doralice era a dir poco distrutta, sembrava sull’orlo di una crisi di nervi.

Ann la osservò bene: ella teneva in mano un fazzoletto, anzi, distruggeva un fazzoletto. Che peccato, bastava guardarlo per vedere quando fosse fatto bene, forse apparteneva a qualche bisnonna… era molto antico, lo capiva dal motivo del ricamo, ma, evidentemente, il dolore della signora Clokie era più forte di quel pensiero.

«Un’intera famiglia fatta a pezzi in una sola giornata…» pianse amaramente, ricevendo però subito buone parole da parte di Elizabeth.

In quel momento la ragazzina provò un forte senso di disagio e non poté fare a meno di chiedersi come la sua nemica storica avesse preso quell’avvenimento.

Aveva saputo che la donna era morta sotto gli occhi della nipote e dello straniero, ed aveva anche sentito che nel villaggio cominciava a circolare una certa diffidenza dei confronti di Nathan, cosa che Ann giustificava ma non condivideva con estrema sicurezza. Del resto Hidel era composto da persone che si conoscevano l’un l‘altra, era ovvio che i sospetti ricadessero su Nathan, che non solo era una presenza nuova che aveva portato con sé un mucchio di avvenimenti, ma che si comportava in modo strano.

O forse era solo lei a notare quell’atteggiamento spesso contraddittorio dello sfuggente professore?

Decise di mettere da parte quei pensieri per unirsi al dolore comune e porgere le condoglianze. Ricevette un triste ringraziamento da parte della signora Clokie, assieme ad un bacio sulla fronte e un sorriso malinconico.

Si poteva notare quanto stesse soffrendo, eppure sembrava volersi far forza con un misero tentativo di cambiare discorso.

«Sei diventata grande, Annlisette, e anche molto bella. Ma anche la mia Doralice presto sarà alla tua altezza.» le sorrise, buttandola sulla famosa rivalità tra le due ragazze.

«Lo è già, signora.» disse di rimando Ann, accettando i complimenti sia per buona educazione, sia per l’immensa pena che la donna le faceva.

Una famiglia a pezzi, aveva ragione.

Venne dolcemente abbracciata dalla madre di Doralice, che la lasciò con un singhiozzo e un mezzo sorriso; un po’ scossa da quel gesto improvviso, la ragazzina si affiancò alla madre, che le fece una gentile carezza di conforto. Il freddo, lì dentro, sembrava improvvisamente farsi più intenso.

Mentre la famiglia Nevue si disperdeva - chi pregava, chi cercava di confortare i Clokie -, Ann colse l’occasione per voltare lo sguardo a Doralice e Nathan, scoprendo che lo studioso si stava dirigendo verso di lei.

Quando furono vicini, Ann sentì lo strano impulso di farsi abbracciare; diede la colpa alla troppa commozione, tacendo quel desiderio.

«Stai bene?» le chiese lui, fermandosi a pochi passi di distanza.

Ella annuì senza troppa convinzione, rispondendo con un po’ di ironia nella voce «Per quanto si possa star bene davanti a una bara.»

Lo straniero annuì con espressione seria, senza però voltarsi verso l’altare. Ann immaginava che in qualche modo di gli ricordasse la morte di Auror, sua sorella, per questo cercava quasi di scappare da quella visione.

Chiese, con una certa indecisione nella voce «Posso parlare sinceramente con te, vero?»

«Certo, Ann.» fu la placida risposta.

Lo vide inclinare lo sguardo, e, come al solito, gli occhi riempirsi di… compassione?

Non era certo quello che Ann voleva, e fu questo a spingerla a ribadire con stizza «Non ho bisogno che mi guardi così, non voglio la tua pena.»

La cosa sembrò colpire Nathan. Evidentemente non si aspettava una reazione simile, ma la ricondusse al fatto che si trovavano ad un funerale e che la stessa Ann era molto scossa. Dunque fece un mezzo sorriso provando a ribattere, ma venne nuovamente interrotto.

«E non ho bisogno nemmeno dei tuoi soliti sorrisi strani!» esclamò la ragazzina, stavolta a voce un po’ più alta, ma stando sempre attenta a non attirare l’attenzione degli altri.

«Chiedo scusa, volevo alleggerirti il peso di essere qui, oggi.» il sorriso svanì dal viso dello straniero, lasciando posto a un’espressione seria e quasi di rimprovero.

«Te l’ho chiesto?» continuò la ragazza, che reputava la compassione una delle migliori armi per ferire il suo incrollabile orgoglio. Gli scoccò un’occhiataccia che venne ampiamente ricambiata – per un attimo ebbe l’impressione di essere tornata ai primi tempi, quando si erano conosciuti.

«No, ma reputo che tu ne abbia bisogno.» ribadì l’uomo, convinto di avere ragione.

«Ti sbagli.» e lì Ann concluse quella tagliente discussione, lasciandolo con un’espressione arrabbiata per poi andare a sedersi accanto a Gabriel, in terza fila sul lato destro.

«Cos’è successo?» domandò subito il fratello vedendola così rossa in viso.

«Niente!» esclamò la ragazzina mentre si sedeva pesantemente sul legno duro, affondando poi le dita nelle pieghe della gonna, con lo sguardo basso e il viso semi coperto dalla sciarpa.

«Raccontala a Nathan…» Gabriel alzò gli occhi al cielo, mentre affondava di più le mani screpolate dal freddo nelle tasche del pesante giaccone.

«Non fare quel nome!» scattò Ann.

«E tu non urlare in chiesa!» venne ripresa.

La maggior parte delle volte in cui parlavano finivano col litigare: nessun luogo e nessuna situazione faceva eccezione. Dopotutto erano fratello e sorella, così giustificavano entrambi il loro rapporto spinoso.

Calò il silenzio, durante il quale Annlisette borbottò astiosamente qualcosa per poi incrociare le braccia al petto con fare arrabbiato.

L’espressione indispettita della sorella provocò una risata in Gabriel, che si arrese: quando faceva in quel modo, Ann cercava attenzioni.

«Hai litigato ancora con lo straniero? Devo proprio picchiarlo?» suggerì, poiché l’idea gli garbava davvero.

Ann borbottò ancora, appoggiandosi col capo alla spalla del fratello.

«Sì… !» esclamò decisa, ma poi sospirò affranta «No… è stata colpa mia.»

Si era di nuovo fatta trasportare dalla sua ben nota testa calda.

Cominciò a gesticolare per spiegarsi meglio «Voleva solo aiutarmi, ma lo fa nel modo sbagliato. E io l’ho aggredito, e lui ha reagito e noi ci siamo litigati!»

«E noi ci siamo litigati?» Gabriel sollevò un sopracciglio scuro «Sicura che si dica così?»

«Certo che sì.» annuì Ann, convinta.

 

La cerimonia fu senza dubbio molto commovente e seguita; tutto il villaggio si era recato in chiesa per dare l’estremo tributo funebre alla signora Hurst.

Il tutto non fu molto lungo, ma toccante. Nathan ed Ann non si parlarono né si rivolsero sguardi: il primo era rimasto per poco tempo in chiesa, fin quando non il luogo non si era riempito quasi del tutto, a quel punto si era prima spinto in fondo alla navata centrale e, nel momento in cui nessuno guardava, si era defilato; la seconda in parte per tristezza dovuta sia alla situazione, sia alla recente sfuriata ingiustificata con Nathan.

Da quanto tempo la sua rivale e lo straniero erano così uniti? Questo si chiedeva.

Qualcosa non andava, Annlisette era inquieta: non le piaceva che tra i due vi fosse un rapporto troppo stretto. Si sentiva egoista, dunque cercava di giustificare se stessa e quel comportamento ripetendosi che Doralice stava molto male e forse aveva trovato in Nathan qualcuno che la capiva. Del resto quel ragazzo era molto bravo a comprendere la mente della gente nonostante fosse abbastanza giovane.

Ma allora, si chiedeva lei, perché non riusciva a trattenere la rabbia se ripensava alla scena che aveva visto entrando in chiesa?

Non appena la cerimonia venne conclusa, Ann si affrettò a tornare a casa accusando un improvviso malore. Non se la sentiva di accompagnare il corteo funebre fino al cimitero, soprattutto se ciò significava vedere ancora Nathan assieme a Doralice. Così, quando furono tutti fuori dalla chiesa, salutò cordialmente i Clokie e scappò a casa.

Nell’uscire dall’edificio le parve di scorgere lo straniero in mezzo alla neve: che cosa ci faceva lì fuori? Non aveva seguito la messa? Non ebbe voglia di pensarci e, stringendosi nelle sue misere vesti, la diede vinta al suo invincibile orgoglio che le urlava di andare a casa e lasciar perdere quello straniero dalla doppia faccia.

 

Doralice aveva pianto di nascosto per quasi tutta la cerimonia, e non appena era finita, con la scusa di voler prendere un po’ d’aria, si era affiancata al corteo che usciva dalla chiesa e si preparava ad accompagnare la bara al cimitero. Lì, dapprima aveva notato ed attirato l’attenzione di Nathan, che le si era avvicinato chiedendosi che fine avesse fatto il ragazzo che era con Doralice alla gara di cucina.

Entrambi avevano poi visto Ann, che si era affrettava a lasciare la zona, e Doralice non aveva atteso un solo momento per fargliene una colpa.

«Certa gente è così insensibile.» disse, con un pizzico di rabbia nella voce.

Il ragazzo abbassò lo sguardo su Doralice, uno sguardo serio; non aveva più osato sorridere a nessuno dopo la sfuriata di Ann, neanche in modo consolatorio «Non dite così, milady. Sono sicuro che abbia i suoi buoni motivi.»

Il gruppo si avviò, mentre il cielo, già coperto di nubi, cominciava ad essere a tratti illuminato da lampi che presagivano l’arrivo di una tempesta.

I due giovani erano rimasti abbastanza indietro; Doralice aveva reputato la scelta migliore quella di distrarsi e pensare il meno possibile a tutto ciò che stava accadendo: la sua poteva sembrare fastidiosa indifferenza, ma Nathan era convinto che si trattasse solo di un modo per nascondere il dolore.

In fondo, quella ragazza non era così cattiva come Ann gliel’aveva prospettata.

«Scusate se mi permetto, messere…» cominciò la bionda a bassa voce, sollevando su di lui lo sguardo «Ma prima mi è sembrato di vedervi litigare con Annlisette. Come mai continuate ad assecondarla?»

Sembrava che ella avesse sentito la conversazione ai piedi dell’altare. Avevano parlato con voce così alta?

«Perché Annlisette Nevue, come ogni essere umano, ha i suoi aspetti positivi che compensano quelli negativi. È una persona piacevole, con una grande voglia di imparare ed estremamente sagace; tuttavia è anche orgogliosa e sempre pronta al litigio.» spiegò l’uomo, mantenendo la voce bassa, in modo che solo lei potesse sentirlo.

«Appunto!» ribadì lei «Ammetto che anch’io non ho un carattere semplice, ma non mi sembra giusto da parte sua voler prevalere sempre su tutto e tutti. Inizialmente ci soffrivo, ma col tempo ho imparato a reggerle testa, anche a costo di apparire antipatica…»

«È davvero così importante per voi due avere la meglio sull’altra?» la interruppe lui, stuzzicato da quell’argomento.

Doralice non seppe rispondere a quella domanda. Rimase in silenzio, limitandosi ad alzare lo sguardo fin quando i suoi occhi verdi non si specchiarono in quelli celesti dell’uomo, scambiandosi a vicenda uno sguardo curioso.

Un nuovo fulmine squarciò il cielo, portando con sé un rombo fragoroso. I genitori della giovane Clokie si avvicinarono alla figlia e allo straniero, chiedendo a quest’ultimo di riportarla a casa: avevano paura che il temporale impazzasse improvvisamente, inoltre non volevano che Doralice si impressionasse alla vista della bara che veniva seppellita. La cosa venne accettata prontamente dall’uomo, ma di malavoglia dalla ragazza, che cominciò a lamentarsi del fatto che non voleva essere lasciata sola in un momento simile.

«Non sarai sola, cara!» le assicurò la madre «Il signor Metherlance ti terrà compagnia fin quando non torneremo.»

“Questo passaggio mi è sfuggito” pensò tra sé e sé Nathan, inclinando il capo, con una mano poggiata sul fianco.

Si costrinse a sorridere in modo rassicurante di rimando «Certamente, non la lascerò sola.»

E fu così che Nathan si ritrovò a dover fare da scorta a Doralice fino a casa.

Durante il tragitto parlarono del più e del meno: di come il tempo stesse rapidamente cambiando, di quanto Doralice non sopportasse Ann, delle rovine che Nathan doveva studiare.

«Quindi ve ne andrete questa estate?» chiese la ragazza senza nascondere un po’ di delusione.

«Immagino di sì, ma è stata molto piacevole la permanenza a Hidel. È un magnifico posto.» commentò di rimando lui, dopo aver annuito.

«Che cosa vi è piaciuto in particolare?» continuò lei, che finalmente aveva la sua occasione d’oro per scoprire qualcosa di più su quella persona così misteriosa.

Nathan cercò di fare mente locale: che cosa gli era piaciuto di Hidel? La neve? Sì, ma poteva vederla anche a Terren. Il silenzio? Anche, ma era decisamente troppo tetro. Poi, l’illuminazione…

«Beh, la gente, innanzitutto. Siete tutte persone gradevoli e buone, mi avete accolto come mai avrebbero fatto in città. In un certo senso siete diventati la mia famiglia.» rispose infine, accennando un sorriso.

«Non avete una famiglia nella vostra città, messere?» si informò allora la giovane.

«No.» fu la risposta lapidaria e concisa.

Doralice capì di essersi spinta troppo in là, ma la curiosità era grande, anche a costo di apparire un po’ impicciona «Che strano… di solito gli uomini della vostra età sono già sposati e con figli, oppure hanno una famiglia alle spalle.»

«Non possiedo né l’una né l’altra.» ribadì ancora lui, tenendo lo sguardo fisso verso la strada ora quasi libera dagli ultimi residui di neve, ammassati agli angoli e ai lati delle case, quasi tutte vuote.

«Insomma, siete innamorato del vostro lavoro.» concluse lei.

Il tedesco si trattenne dallo scoccare un’occhiataccia e chiederle gentilmente di farsi i fatti suoi: quella ragazza lo stava davvero urtando con quella specie di interrogatorio.

«Immagino di sì.» rispose, ancora conciso.

«Immaginate?»

Un sospiro da parte di Nathan; ormai aveva capito che la ragazza non si sarebbe fermata fin quando non avesse saputo quello che voleva. E cosa voleva? Informarsi circa la sua condizione sociale con evidenti doppi fini. Decise che l’avrebbe accontentata, ma solo a causa della pesante giornata che ella stava affrontando.

«L’amore più grande della mia vita l’ho provato per mia sorella, ma si è spenta all’età di ventidue anni, quando ero appena un diciottenne; mia madre morì poco prima di lei; di mio padre non so dirvi: non l’ho mai conosciuto. Non ho mai incontrato una donna che mi facesse dimenticare il passato, dunque mi sono buttato a capofitto nel mio lavoro, nel quale posso affermare di aver raggiunto livelli notevoli.» spiegò, evitando accuratamente di menzionare una quarta persona molto particolare, di cui non aveva parlato mai neanche ad Ann.

La confessione sembrava aver colpito duramente Doralice, che abbassò lo sguardo tacendo per qualche secondo.

Nathan lo notò, ma le sue seguenti parole non erano spinte tanto dal desiderio effettivo di consolarla quanto dalla semplice cortesia «Non sentitevi in colpa, milady. Così è stato, non c’è modo di cambiare il passato.»

«Mi dispiace molto, messere…»

Tuttavia, nella voce della ragazza c’era qualcosa che lasciava capire che ella non era ancora del tutto soddisfatta, una sorta di fretta. Voleva sapere qualcosa in particolare.

«Risponderò ad una domanda a scelta vostra: una sola, badate.» disse allora lui, come ultimo tentativo di andarle incontro.

Ella volle riflettervi sopra a lungo, poiché non voleva perdere l’ultima chance, e pochi secondi dopo alzò di nuovo gli occhi, scandendo bene «Perché un ricercatore di alto livello, studioso all’università, con un futuro in mano, affascinante e colto, oltre che capace di incantare la gente mettendo in fila quattro parole, è venuto qui, in un villaggio sperduto, a caccia di vecchi pezzi di roccia ricoperti di neve, pronto a rischiare la vita per una cosa che, sì, gioverebbe alla carriera, ma che non è indispensabile? Messere, ammetterete che è strano.»

Nathan si bloccò, quindi la osservò un po’ sorpreso.

Sorrise molto lievemente, un sorriso che non era più quello rassicurante di poco prima, ma stranamente inespressivo.

Doralice mosse un passo indietro.

«Milady…» le parole dello straniero risultarono altrettanto atone «Questa è un’ottima domanda, complimenti davvero.»

La ragazza inizialmente esitò ed aggrottò la fronte: che razza di situazione era, quella?

Dopo qualche momento di dubbio, proseguì lentamente «Allora fareste bene a rispondere…»

Nathan aveva sempre la risposta pronta, questo a Hidel lo avevano imparato tutti; era difficile trovarlo impreparato, nessuno aveva ancora avuto il piacere di vederlo senza parole. Neanche quella volta la sua voce si fece attendere.

«Perché spesso le nostre azioni non sono comandate dalla nostra mente, ma dai nostri fantasmi. E i miei fantasmi mi hanno costretto a recarmi qui, in un villaggio sperduto, a caccia di vecchi pezzi di roccia ricoperti di neve.»

Dopo quella domanda, che a Doralice parve leggera quanto quella neve che solitamente si posava su ogni cosa, lì a Hidel, l’interrogatorio terminò.

Fortunatamente casa Clokie era ormai nelle vicinanze, dunque il silenzio che pervase l’ultima parte di tragitto non fu molto pesante. La dimora si trovava alle spalle della chiesa, rivolta verso nord quindi, e bastavano cinque minuti di cammino per raggiungerla.

Giunta a casa, Doralice ringraziò lo straniero di averla accompagnata, chiedendogli di rimanere sola, accusando un malore dovuto alla tristezza accumulata durante il funerale.

Lui annuì, decidendo quindi di fare un giro d’ispezione per conto degli Angeli. Decise di cominciare dalla zona nord est, ovvero quella dove si trovavano casa sua e casa Nevue, per essere sicuro che certe persone non avessero la brutta idea di invadere il villaggio proprio nel momento in cui era deserto.

I villici erano quasi tutti riuniti fuori dal villaggio, nel cimitero comune, mentre dentro i confini di Hidel, ben chiuse in casa, c’erano Ann e Doralice e poche altre persone. Inoltre, il temporale aveva portato con sé una nebbia abbastanza fitta, che avrebbe coperto ogni movimento.

Insomma, non c’era momento migliore per svolgere qualche indagine.

La casa dei signori Hurst era già stata ispezionata in lungo e in largo e lo stesso valeva per la foresta nel raggio di mezzo chilometro: col buio e la neve nessuno aveva voluto correre il rischio di incappare nei lupi che scorrazzavano indisturbati per i boschi.

Ma per lui, magari col supporto di Damon, non era un problema; beh, essere circondato da un branco di lupi rognosi e bavosi non era certo il suo sogno nel cassetto, ma lo avrebbe fatto per rassicurare i villici.

Ora come non mai sperava che le trattative tra gli Angeli e quelli là finissero in fretta e con successo. Ma, si chiedeva, se proprio quelli là fossero stati gli assassini che stavano mettendo in ginocchio il villaggio?

Era appunto questo che voleva scoprire, e sapeva già cosa fare per scoprirlo.

“Devo parlare con Joshua…” si disse, anche se una collaborazione tra loro due sembrava quanto mai improbabile.

Ebbe da camminare altri dieci minuti prima di raggiungere casa sua, dalla quale aveva intenzione di prendere la sua fedele spada; la prudenza non era mai troppa, soprattutto in un villaggio dove la gente cominciava a sparire senza lasciare traccia.

Quando il vuoto sentiero ricoperto di neve lasciò spazio al legno dei primi gradini dell’abitazione, lo straniero si chinò per pulirsi di dosso alcuni strati di neve che gli avevano inumidito gli indumenti, e quando risollevò il capo…

“E quella…?”

Il flusso di pensieri di Nathan venne interrotto di colpo, quando un particolare che prima non aveva notato gli si prospettò davanti. Incrociò le braccia al petto, dimenticandosi del vento freddo che tentava senza ritegno di spingerlo dentro casa.

Aveva dimenticato di chiudere la porta d’ingresso?

 “Eppure ricordavo di averla chiusa…” disse a se stesso, rimproverandosi quella dimenticanza; non era ancora riuscito ad abituarsi all’usanza dei villici di Hidel di lasciare le porte aperte, e non aveva la minima intenzione di farci l’abitudine.

Scartò velocemente gli ultimi centimetri di distanza che lo allontanavano dalla soluzione del dilemma, afferrò con decisione la maniglia e la usò per spingere verso l’interno la porta. Attese pochi secondi per fendere l’oscurità del luogo, ma non fu per niente felice di quello che vide.

«Oh, Cristo…»

No, non aveva dimenticato la porta aperta.

 

Damon era annoiato come non mai.

Ciondolava da parte a parte dell’accampamento, ammiccando in direzione delle ragazze particolarmente carine e captando di tanto in tanto qualche frase sconnessa o lamentela annoiata. Del resto la vita lì era monotona; non era come in città, dove ci si poteva sballare ogni notte.

Marcus e Jen passavano spesso intere giornate nella grande tenda del Consiglio o addirittura fuori, per le trattative con quelli là. Nel frattempo, gli Angeli si annoiavano: erano come uccelli in gabbia, che più sbattono le ali, più consumano inutilmente energie.

La piccola Sogno giocava con delle amiche quando vide il fratellone passare.

Si alzò e corse verso di lui, affiancandolo «Posso farti compagnia?»

«Puoi solo annoiarti. Non ho niente da fare…» sospirò malinconico lui «Come invidio Nathan! A Hidel deve esserci da divertirsi!»

«Immagino di sì!»

Quando Sogno cantava il “sì” finale eseguiva un acuto così alto che Damon pensava che prima o poi le si sarebbero spaccate de corde vocali.

«Ma deve essere anche molto difficile, negli ultimi tempi. Insomma, deve coprire la nostra presenza…» continuò la ragazzina, mettendo un dito sulle labbra.

«Uhm…» l’Angelo parve riflettere su questo punto, ma subito dopo cambiò argomento, passando ad uno decisamente più interessante «Cosa c’è per pranzo?»

Sogno sorrise, inclinando il capo, mentre i suoi capelli lunghi venivano scossi dal vento un po’ forte «Ho creato una nuova ricetta!»

«Evviva!» esclamò Damon con un sorriso a trentadue denti «Oggi si mangia alla grande, allora!»

Nel frattempo, un mormorio si era diffuso nell’accampamento, una specie di ronzio di sottofondo; sussurri e sibili che attirarono l’attenzione dei due. Uno degli Angeli, un ragazzo molto giovane dagli occhi verdi, correva a perdifiato verso di loro, puntando palesemente a Damon.

Quando gli fu davanti, chiese frettolosamente «Sei tu Damon?»

«E tu sei quello nuovo, eh?» giocò il biondo con un sorriso di scherno «Si nota, sai?»

«Non scherzare!» il ragazzo lo guardò seriamente, contrariato «Ti cercano con urgenza: è arrivato un messaggio dall’Angelo a Hidel. Dice che ha urgentissimo bisogno di aiuto. Marcus e Jen non ci sono, così mi ha detto di chiamare te.»

«Il cugino Metherlance?» chiese innocentemente Sogno, inclinando il capo e prendendo con una mano il braccio di Damon «Lascia che venga anch’io, potrei esservi d’aiuto!»

Damon non le diede neanche il tempo di replicare: la prese in braccio e si lanciò nella corsa senza nemmeno ringraziare la matricola.

Se Nathan diceva di aver bisogno di aiuto, del suo aiuto, significava che era nei guai fino al collo. Non c’era un minuto da perdere.

Uscirono di tutta corsa dall’accampamento degli Angeli con tutti gli occhi puntati addosso, generando la curiosità collettiva.

Damon, di tanto in tanto, scivolava, rischiando di cadere, ma riusciva a mantenersi in equilibrio sbattendo al massimo con qualche ramo o corteccia. Sogno, invece, stava rannicchiata tra le sue braccia, emettendo un versetto spaventato ogni volta che il ragazzo prendeva in pieno un ostacolo.

Nonostante ciò, ben presto furono al limitare della foresta, ai confini del villaggio. Impiegarono ancora qualche minuto di corsa per raggiungere la zona in cui abitava il cugino Metherlance.

Fu allora che, dopo essersi accertati cautamente che non ci fosse nessuno nelle vicinanze, entrarono nel paesino silenzioso.

«Perché non c’è nessuno?» sussurrò Sogno mentre si nascondeva dietro una botte lasciata in mezzo alla strada.

«Non lo so… non vorrei che avessero scoperto che Nathan è uno di noi» le rispose lui, avvicinandosi. Le diede una paterna pacca sul capo «Mia dolce Sogno, sei pronta a sfoderare le tue magiche abilità?»

La ragazzina sorrise dolcemente, annuendo «Dove abita il cugino Metherlance?»

«Lì.» Damon le indicò una casetta che era più una baracca poco lontana.

I due si guardarono facendosi un cenno d’intesa.

Sogno fu la prima ad uscire dal nascondiglio con una vera e propria piroetta, posando appena la punta del piede. Damon sapeva che lei non sarebbe mai stata scoperta: era troppo brava a ballare. Di conseguenza era troppo brava a spostarsi nella massima velocità e discrezione. Con soli quattro salti eseguiti celermente e con la massima ampiezza di passo, riuscì a portarsi davanti alla casa. Salì velocemente le scale, bussando alla porta mentre si guardava intorno. Fece un cenno a Damon, che la seguì velocemente, ora sicuro che nessuno fosse nelle vicinanze.

La porta si aprì di pochissimo, quanto bastava a far entrare una persona di media corporatura.

Il cugino Metherlance, che non si era nemmeno affacciato, diede un’occhiata ai due, facendosi poi velocemente da parte per farli entrare «Tranquilli, sono tutti al funerale. E tu cosa ci fai qui, Sogno?»

«Se il cugino Metherlance ha bisogno di aiuto, la piccola Sogno e Damon corrono.» disse la ragazza con l’intenzione di essere seria.

Nathan annuì, e Damon, muovendo un passo verso l’interno, si affrettò a chiedere «Qual è il problema?»

«Lo vedrete. Mi raccomando, piccola Sogno, non urlare.»

La prima cosa che i due poterono notare fu l’odore del sangue misto a quello tipico della decomposizione, un insieme nauseante che costrinse Sogno a mettersi una mano davanti al naso per ripararsene. Il buio era molto fitto, molto più di quanto Damon ricordava: evidentemente Nathan aveva eliminato ogni fonte di luce. Riuscivano a malapena a distinguere gli angoli degli oggetti, dovendosi ancora abituare alla tenebra della casa.

Subito Nathan si avviò verso un comodino, dal quale estrasse una candela ed un fiammifero, accendendo poi la prima. La luce illuminò la casa, e Sogno, istintivamente, si accucciò dietro Damon, spaventata dal macabro spettacolo che le si prospettava davanti.

Del resto chi non avrebbe avuto paura trovandosi in una casa, al buio, con un cadavere seduto in fondo alla stanza principale, grondante di sangue e senza testa?

«Cos’è? Il tuo nuovo giocattolo?» fu l’unica frase che Damon riuscì a formulare davanti a quella orripilante visione, con il viso occupato da un’espressione di ribrezzo.

«Non esattamente, ma sembra che qualcuno si sia divertito alla grande prima di scaricarlo qui.» constatò Nathan con una freddezza incredibile, mettendo le braccia conserte e con gli occhi gelidi fissi sul morto.

«Questo è un bel problema…» continuò Damon mentre dava una spintarella a Sogno.

«Lo so.» annuì Nathan, avvicinandosi al morto «Appunto per questo vi ho fatti chiamare. Mi serve aiuto, è uno di noi.»

«Un Angelo?!» esclamò il giovane, visibilmente incredulo.

«Non so cosa fare…» pigolò Sogno, arrabbiata con se stessa. Così agitata faceva molta tenerezza «Bisogna avvertire Jen e Marcus?»

«Non lo so.» l’affermazione di Nathan spiazzò entrambi.

Nathan non sapeva cosa fare? Quando mai accadeva una cosa simile? Ma soprattutto, quando mai aveva pensato di non avvertire i superiori anche del più insignificante dettaglio?

«Li ho mandati a chiamare, è vero, ma se Marcus venisse a sapere che questa roba è stata ritrovata in casa mia… non voglio immaginarne le conseguenze.»

Damon e Sogno non potevano negare che ciò fosse vero: tutti sapevano che Marcus aspettava solo un buon motivo per scacciare Nathan, anche se i motivi di questa antipatia erano oscuri a tutti. Se, invece, si fossero rivolti a Jen, ella non avrebbe saputo mantenere il segreto col capo, questo era certo.

«Innanzitutto, cerchiamo di raccogliere quanti più indizi possibile.» suggerì Damon, ottenendo l’assenso degli altri due.

«Stamattina sono uscito verso le nove, il funerale è durato dalle nove e mezza alle undici meno un quarto.» cominciò Nathan, inginocchiandosi ad osservare per l’ennesima volta il cadavere, in cerca di qualcosa che, se c’era, non riusciva a trovare.

Damon gli si avvicinò, studiandolo a sua volta «È difficile determinare da quanto tempo sia morto…»

«Già…» ammise Nathan, mentre sentiva Sogno intrufolarsi sotto il suo braccio per avere il suo spazio «E non capisco neanche perché lo hanno lasciato proprio qui.»

«Ma chi è?» chiese Sogno con occhi grandi e pieni di paura, senza azzardarsi a sfiorarlo.

«Il leccapiedi di Marcus.» rispose immediatamente il tedesco, correggendosi subito dopo «Cioè, il suo consigliere personale.»

«Si accorgerà di sicuro che è sparito.» intervenne Damon, dando per scontato che l’altro avesse ragione.

«Sì, e nel caso venga a scoprire che il suo lecchino è morto stecchito in casa del cugino Metherlance…» la ragazza mise una mano davanti alla bocca, visibilmente turbata, senza cantare le ultime sillabe delle parole che pronunciava «Potrebbe arrabbiarsi davvero molto!»

«Sei nella merda, Nate.» borbottò Damon, posando una mano sulla spalla dell’amico.

«Odio queste espressioni volgari, Damon. Comunque sì, direi che qualcuno sta cercando di mettermi in cattiva luce.» sospirò il tedesco prima di rimettersi in piedi ed osservare gli altri due.

«Oppure di mandarti un avvertimento?» suggerì Sogno, cogliendo al volo l’occasione per rimettersi in piedi a sua volta e muovere qualche passo per allontanarsi.

«Ma cosa si potrebbe mai volere da un normalissimo Angelo?» sbottò l’uomo «Per di più un inviato a Hidel…»

«È una missione importante, cugino.» tornò a riflettere Damon, l’unico ad essere ancora in ginocchio.

«Ma non di vitale importanza, infondo devo solo tenere a bada i contadini durante le trattative. E anche se volessero far saltare le trattative sarebbe inutile prendere di mira me.» ragionò l’Angelo, anche se, effettivamente, c’erano diverse persone che lo volevano fuori dal grupppo… ma erano disposte ad arrivare a tanto per un capriccio? No, gli sembrava assolutamente irreale.

«Una cosa però credo che sia abbastanza sicura.» Sogno si infilò nella discussione «La persona che ha ucciso… come si chiamava il nostro morto?»

«Chi, il lecchino? Non ricordo…» Damon alzò gli occhi al soffitto, senza neanche sforzarsi di ricordare: era sicuro che a breve Nathan li avrebbe illuminati.

«Karl, ma non so il cognome.» infatti così fu, anche se in parte.

«Ecco, può darsi che l’omicidio di Karl, e quindi il suo assassino, sia collegato alle sparizioni di Hidel.» riprese la ragazza, illustrando la sua teoria.

Su quel punto tutti e tre concordarono, mentre Nathan passava ad esaminare l’intero corpo, sollevandolo e poi controllando le tasche, nelle quali non trovò nulla. Ne fu un po’ deluso.

«Qualcuno cospira contro tutti noi.» decretò Damon «Contro gli Angeli e contro Hidel.»

«E vuole far ricadere la colpa sul cugino Metherlance?» propose la ragazza, che di gialli non se ne intendeva affatto.

«Oppure…» suggerì allora Nathan «Vuole coinvolgermi in altro modo. In ogni caso è ancora presto per trarre conclusioni, andiamoci cauti.»

Sogno, rispettando il silenzio che si era imposto dopo le parole di Nathan, si sedette scrutando il collo privo di testa del cadavere, soffermandosi con disgusto sull’osso del collo sporgente ed insanguinato.

«Ma come fate a dire che questo qui è Karl? Cioè… non ha la faccia…» chiese con una smorfia.

Il tono con cui la ragazzina pronunciò quelle parole fu talmente buffo che fece scappare una risata divertita ai due Angeli. Il Darkmoon le scompigliò i capelli in modo consolatorio, il Metherlance, invece, si affrettò a spiegarle.

«Guarda qui.» afferrò la mano destra del cadavere, mostrandola a Sogno. Sul palmo era stato fatto un tatuaggio con un serpente arrotolato su se stesso «Il cattivo gusto di questo uomo non aveva limiti, non sei d’accordo?»

La biondina annuì «Dunque, fin ora abbiamo accertato chi è, che probabilmente è morto decapitato, che l’assassino è connesso alle sparizioni di Hidel…»

«Forse.» la corresse Damon.

«Forse!» Sogno chiuse i pugni, annuendo seriamente alle parole dell’altro, riprendendo il discorso «E poi… che vuole immischiare in questa storia il cugino Mether…»

La ragazzina venne di nuovo interrotta, ma stavolta da un bussare insistente alla porta. Furono tre colpi battuti con forza tale da far temere ai tre nuove brutte notizie. Si guardarono l’un l’altro, quindi Damon prese la parola.

«Nate…» sussurrò sottovoce «Non avevi detto che erano tutti ad un funerale?»

«Lo sono.» ribatté Nathan con una certa stizza.

«Non tutti sembrerebbe, e ora sono davvero guai! Cerca di mandarlo via, chiunque sia!»  

La piccola Sogno annuì alle parole di Damon.

Solo allora Nathan si ricordò che nel villaggio c’erano ancora alcune persone, di cui due molto più motivate delle altre a recarsi a casa sua: Ann e Doralice. Chi poteva essere, se non una di loro due? Si alzò, fece cenno ai due amici di non parlare e si accostò alla porta dopo aver posto la candela sul tavolo, ben lontana dal luogo dove si trovava il cadavere.

Con un gesto veloce aprì la porta ed uscì sul pianerottolo richiudendosela alle spalle, senza nemmeno accertarsi di chi avesse bussato: non poteva permettersi di far uscire l’odore di decomposizione.

Ad attenderlo fuori era Doralice, avvolta nel suo cappotto scuro, con un viso preoccupato.

Nathan le sorrise, ma mentalmente si chiedeva come facessero le donne ad avere una tale puntualità «Milady, non vi aspettavo! È successo qualcosa?»

La ragazza emise un mugolio guardando altrove, volendo fare la dura. Per un attimo gli ricordò Ann.

Poi ella tornò a guardarlo dal basso in alto «Volevo scusarmi per prima… non volevo dare fastidio con tutte quelle domande.»

«Nessun problema, figuratevi» annuì lui, con la fretta che sembrava dargli il tormento.

«E poi…» continuò la ragazza, imperterrita.

“Ma non lo capisce che ho fretta?”

«Non c’è bisogno di tutte queste formalità. Va bene anche Doralice.»

Nathan, che solitamente era un ragazzo educato e perbene, in quel momento si tratteneva dal salutarla malamente e tornare dentro. Si impose di mantenere rigore e di non lasciarsi sopraffare dalla tensione, sebbene in quel momento stesse rischiando davvero molto.

«Va bene, allora vi chiamerò Doralice, voi chiamatemi Nathan.»

Doralice gli sorrise, e lui si sforzò di fare lo stesso, sentendo le mani prudere. Che senso aveva rimanere lì fuori se doveva instaurarsi il solito silenzio che cala quando si esauriscono gli argomenti?

«Grazie ancora.» ringraziò lei «La vostra presenza mi è stata di conforto, poco fa.»

«Vi inviterei ad entrare, ma stavo proprio tornando alla collina.» affermò lui, inventando una scusa sul momento.

Lei annuì, colta nuovamente da un po’ di malinconia «Capisco. Però vorrei ricompensarvi…»

“Potresti andartene.”  suggerì mentalmente l’uomo, anche se non era sicuro che sarebbe stata una gentilezza farglielo notare.

«Ma non ho idee. Forse è perché in questo momento sono molto confusa, ma non mi viene in mente niente di utile.» alzò gli occhi al cielo la bionda, muovendo qualche passo verso di lui.

“Lo so, ma non è il momento adatto.” continuò lui il suo monologo interiore, aggrottando la fronte.

E alla fine gli scoccò un bacio, al quale, inutile dirlo, l’Angelo storse il naso. Fu un contatto di appena un attimo, un fugace bacio sulla guancia che spiazzò il professore, che istantaneamente mosse un passo indietro per interrompere per contatto che gli dava evidente fastidio.

Non ebbe nemmeno il tempo di dire qualcosa che la bionda scappò via, affondando i passi nella neve, sbilanciandosi spesso come una bambina imbranata, per scomparire poco dopo dietro una casa.

Nathan rimase a guardare il punto in cui era svanita, un po’ sottosopra.

Ma quello non era un villaggio di puritani? Cos’erano queste abitudini tipicamente cittadine?

Un nuovo rumore catturò la sua attenzione. Qualcosa che cade per terra con un tonfo secco, come un sacco di carta. L’uomo portò subito la mano alla spada, pronto ad attaccare, ma, voltandosi, scoprì l’unica cosa che sperava con tutto il cuore che non accadesse.

«Ann?»

Ed eccola, l’ultima persona che non avrebbe dovuto assistere a quella patetica scena: Ann se ne stava dall’altra parte del sentiero con lo sguardo fisso su di lui. Aveva un’espressione sorpresa quanto quella di Nathan, in più era scossa da un lieve tremore. Ai suoi piedi si trovava un sacchetto, uno di quelli pieni di spagnolette e rocchetti che si portava spesso in giro.

Lui mosse un passo, ma ella si voltò e scappò via senza dire una parola. Inutilmente Nathan fece per seguirla, infatti la consapevolezza di Damon e Sogno in casa lo bloccò; prima era meglio avvertirli di tornare immediatamente all’accampamento.

“Una cosa alla volta, Nate.” pensò con un sospiro, maledicendo la puntualità di Ann.

Diede le spalle alla scena e fece irruzione in casa di tutta corsa, sbattendosi alle spalle la porta.

«Dovete tornare all’accampamento, immediatamente.» ordinò ai due, rimasti immobili nelle loro posizioni fino a quel momento.

«Di già?» Sogno si alzò, avvicinandosi a lui con espressione confusa «E come facciamo col signor senza-testa?»

«Portatelo con voi e dategli una veloce sepoltura, ma che sia efficace per quel che serve, tanto si decomporrà in poche ore. Nel frattempo io mi occuperò di un altro problema.» cercò di tagliare corto Nathan, che quel giorno incontrava davvero solo donne che sapevano perdere tempo.

«Un altro, cugino Metherlance?»

«Sì!» esclamò lui con fare alquanto irritato, lanciandole un’occhiata di fuoco «Perché voi donne avete una puntualità incredibile!»

Damon rivolse uno sguardo serio all’amico «Che cosa facciamo? Lo diciamo a Marcus e Jen?»

Nathan rifletté prima di parlare, abbassò gli occhi al cadavere e li assottigliò; Marcus si sarebbe sicuramente accorto dell’assenza del suo leccapiedi, e, nel caso in cui non avessero detto nulla, avrebbero solo potuto peggiorare la loro situazione al momento della scoperta della verità. Perché la verità veniva sempre a galla, presto o tardi. Inoltre, se avessero ricevuto aiuto dagli altri Angeli avrebbero sicuramente scoperto qualcosa in più. La diffidenza nei suoi confronti sarebbe ovviamente aumentata, ma lui stava ben poco nell’accampamento e non potevano ordinargli di ritirarsi da Hidel troppo rapidamente, non fino alla fine delle trattative almeno: l’arrivo di un nuovo straniero sarebbe risultato troppo sospetto, soprattutto in un momento simile.

Con amarezza, Nathan si trovò a realizzare che non solo la gente di Hidel poteva sospettare di lui – del resto la prima sparizione era avvenuta una settimana dopo il suo arrivo -, ma che ora anche gli Angeli avrebbero avuto motivo per isolarlo.

“Qualcuno gioca sporco… contro di me.” pensò, ma non aveva scelta: quel qualcuno giocava troppo bene.

«Non dite niente a nessuno, per ora…» disse infine, decidendo di avere bisogno di più tempo per pensare alla cosa migliore da fare.

«Va bene.» annuì Damon.

I due approfittarono degli ultimi minuti a disposizione prima del ritorno dei villici per tornare nella foresta portando via il corpo del morto.

Quando le loro figure sparirono nel labirinto di alberi, il professore si lanciò alla ricerca di Ann.

Non aveva idea di dove potesse essere andata, ma la paura che ella, per qualche strano motivo, potesse tornare in quella zona pericolosissima dove aveva incontrato Joshua, lo intimoriva moltissimo.

Di una cosa era però certo: era entrata anche lei nella foresta.

Spada al fianco, cominciò la sua frenetica ricerca; il temporale presto sarebbe giunto, Ann era da sola in qualche luogo selvaggio dove le sarebbe potuto capitare di tutto.

Doveva correre, e in fretta.

 

 

Note dell’Autrice:

Ed ecco anche il capitolo undici in versione 1.5, come mi piace dire, ovvero rivisto da me ma non rivisto dal mio beta reader :D

Riprendendo i ringraziamenti, un grande grazie a violacciocca, Midao, Kikyo, cupcake_chan e Dahlia Astoria, che hanno recensito questo capitolo! ^_^ a presto – si spera- con la versione definitiva!

 

Sely.

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Capitolo 12
*** Uno scherzo di cattivo gusto ***


What colour is the snow

What colour is the snow?

Capitolo 12: Uno scherzo di cattivo gusto.

 

Mentre la notte avanzava portando con sé il buio, i cittadini di Hidel rientrarono nel villaggio. La cerimonia si era prolungata abbastanza, probabilmente per la grande commozione che la vista della cassa che veniva seppellita arrecava a tutti.

Sulla strada di casa, Lazarus Nevue consolava come poteva la povera moglie, che tentava disperatamente di trattenere le lacrime –Elizabeth, basta piangere. Spaventerai Annlisette- le aveva detto. Il povero uomo non poteva di certo immaginare che in casa avrebbe trovato tutto fuorché la figlia…

 

Ann avrebbe dato di tutto per essere a casa in quel momento. Sola, stanca, infreddolita, la foresta le pareva quasi viva intorno a lei. Dopo la lunga corsa si era rifugiata sotto un albero, non senza litigare con gli aghi di pino che facevano da pavimento in quel luogo. Ancora una volta si era smarrita.

“Dannazione… senso dell’orientamento zero, Ann” si rimproverava. Nella foga del momento, quando aveva visto la sua acerrima nemica avvinghiata a Nathan in perfetto stile sanguisuga, non aveva potuto far altro che imboccare il primo sentiero che le era capitato, senza ricordare però che il paese era interamente circondato dalla selva. Era certa di riuscire a trovare la strada, molte volte infatti si era rifugiata in quel luogo. Il problema vero era rappresentato dal buio. Nonostante sforzasse molto gli occhi, non riusciva a distinguere bene le figure.

Sospirò sconsolata, e il suo cupo respiro venne sovrastato da un tuono. Alzò gli occhi al cielo, sentendo nello stesso istante una goccia solcarle il viso –Piove… Benissimo. Ottimo lavoro, Ann!- si ritrovò a parlare da sola alzando le mani verso le nere nubi, imitando il gesto che faceva quando recitava il Padre Nostro. Avvertì i palmi bagnarsi a tratti e, sbuffando, scelse la strada più ragionevole: continuare a vagare cercando di ripercorrere il cammino fatto fin ora.

Mentre riprendeva ad errare, accompagnata di tanto in tanto da qualche lugubre verso di gufi –Gufi?- alzò lo sguardo, scorgendo nel buio la figura di un uccello. Quell’anno erano tornati prima. Effetto del… come lo aveva chiamato, Nathan? “Surriscaldamento golombare”? Beh sì, il succo del discorso era che faceva più caldo ovunque. Meglio così, si disse, la gente di Hidel in maniche corte doveva essere uno spettacolo.

La verità era che stava ingannando se stessa, e lo sapeva benissimo. Strinse un pugno contraendo i muscoli delle gambe in un passo più lungo della propria gamba, col risultato di perdere l’equilibrio. Sbuffò ancora, infastidita da quel suo essere oltremodo goffa. Con un gesto di stizza tirò i capelli all’indietro, calmando il battito del cuore.

-Tutta colpa tua, brutto…- strinse i pugni. Era arrabbiata come non mai con Nathan – di nuovo… -. Credeva di aver trovato un amico fedele e sincero, e ora si stava lasciando ammaliare da un paio di occhi verdi e qualche ciocca chiara? “Gli uomini sono tutti uguali!” continuò a lamentarsi.

Era sicura di non essere lontana da Hidel, del resto stavolta si era fermata in tempo, prima di inoltrarsi troppo nella selva come aveva fatto tre mesi prima. Era stato un miracolo se suo padre le aveva lasciato il permesso di vagare per la foresta – anche se solo a orari prestabiliti – e non voleva di certo correre altri rischi.

Andava avanti così da una buona mezz’ora, altalenando tra pensieri inerenti alla visione che l’aveva scossa e pensieri completamente fuori luogo, cercando di distrarsi in quanti più modi possibili. I passi pesanti riecheggiavano, ben presto accompagnati dal suono dell’acqua piovana.

Tuttavia la ragazza non volle fermarsi.

Si fece forza con un sospiro, stringendo i pugni. Si riparò la testa alzando il cappotto che si portava dietro da quella mattina, continuando ad avanzare sotto l’acqua. Avrebbe trovato un modo per giustificare il fatto che fosse bagnato una volta tornata a casa. Riprese a correre aguzzando la vista, riuscendo finalmente a scorgere quelli che sembravano contorni di case e camini. “Non devo più farmi cogliere di sorpresa così, la foresta è pericolosa di not…

Un ringhio profondo, pauroso, e soprattutto vicino la fece trasalire. Bloccò la sua avanzata sentendo tutto il corpo essere scosso da violenti spasmi. Con grande lentezza dettata dalla paura, voltò appena lo sguardo, quel poco che bastava per notare a meno di dieci metri da lei, avvolta nelle tenebre, la figura di un lupo. Era molto grande e alto, probabilmente di quei famosi che infestavano le lande a nord, gli artigli risplendevano alla luce della luna, così come il pelo folto, di un grigio sporco. Il muso era contratto in un’espressione rabbiosa, le fauci spalancate da cui colava un rivolo di saliva. Probabilmente si stava già mangiando con gli occhi la contadina.

Ann invece era rimasta immobile. “Sono morta…” formulò a malapena quel pensiero, sbiancando. Non sentì neanche il battito del cuore, non ne ebbe il tempo, né tantomeno riuscì ad afferrare il pugnale che portava al fianco, perché il lupo le fu letteralmente addosso in pochi secondi.

Lanciando un urlo terrorizzato, la ragazzina si lanciò di lato, atterrando dopo qualche giravolta. Ignorò il dolore al polso, che sembrava aver preso una brutta botta, correndo con mano tremante all’arma. La estrasse e per un attimo questa brillò alla luce lunare. I due nemici rimasero ad osservarsi, quasi studiarsi. La contadina riuscì a realizzare un’unica cosa: era troppo debole per combattere un lupo di quelle dimensioni, e in una gara di velocità avrebbe sicuramente avuto la peggio. Non le restava che salire su un albero. Fortunatamente il lupo cominciò ad avvicinarsi piano, lasciando così il tempo alla giovane di fare un disperato tentativo di colpirlo col pugnale. Lo lanciò addosso alla sagoma del nemico, mirando alla testa ma colpendo la spalla sinistra. La bestia lanciò un ululato di dolore, mentre Ann si rimetteva in piedi e, con una velocità che non credeva neanche fosse davvero sua, si arrampicava sull’albero più vicino. Purtroppo non fu abbastanza veloce da impedire al lupo di agguantarle le vesti coi denti, e si ritrovò appesa per una mano mentre la belva cercava di tirarla giù. Urlò ancora con tutto il fiato che aveva in corpo, rivendendo il proprio cadavere steso a terra. Sentì le lacrime scorrerle lungo le guance, il corpo tremare con violenza e la pelle essere percorsa da un gelo spaventoso. Con un suono secco, all’improvviso sentì tutto farsi meno pesante. Non cercò neanche di capire il motivo, si limitò ad agguantare con forza con entrambe le braccia l’albero, salendo su un ramo. Solo allora, sentendo un gran freddo alle gambe, capì che la veste le era stata strappata dalla foga del morso.

Cominciò ad arrampicarsi su per i rami, sentendo improvvisamente un nuovo sentimento simile alla speranza, ma la grande paura le faceva sudare e tremare le mani, così che spesso dovesse ripetere più volte lo stesso movimento per raggiungere la meta. Si fermò solamente quando raggiunse i rami più alti, più esili ma capaci di reggere un umano. Sotto di lei, avvolto nel buio, il lupo ancora ringhiava nervosamente, perdendo sangue.

Il respiro le tremava e faticava a formulare un pensiero decente, in quel momento poteva sentire solo gli spasmi violenti che le attraversavano il corpo, accompagnati dal battete violento dei denti dovuto al gelo notturno. Si attaccò con ferrea stretta al tronco dell’albero. Se fosse stato necessario sarebbe rimasta lì tutta la notte. Meglio morire di freddo che sbranata.   

 

Nathan aveva girovagato così a lungo che aveva cominciato a chiedersi se davvero Ann non avesse avuto la stupidissima idea di allontanarsi di nuovo in direzione del lago. In quel caso potevano rassegnarsi, infatti aveva sentito moltissimi ululati susseguirsi per tutta la serata. I lupi, nonostante la stagione, sembravano irrequieti.

“Dannazione alla puntualità delle donne…” imprecò scrutando quel poco di foresta che la torcia fiammeggiante che aveva con sé gli permetteva di vedere. Non solo ora si ritrovava col cappo al collo davanti agli Angeli, in più avrebbe avuto quella contadinella sulla coscienza. Ecco cosa accadeva quando Doralice si metteva in mezzo: guai a non finire. Ann aveva sempre avuto ragione.

Continuò ad avanzare nelle tenebre notturne, chiedendosi se fosse il caso di tornare indietro e avvertire i villici. Di certo avrebbe messo nei casini Ann, che si sarebbe vista revocare il permesso di entrare nella foresta di giorno. Beh meglio così, quel placet era troppo imprudente in mano a una ragazzina di sedici anni.

Fece dietrofront rinunciando a trovarla: da solo non ci sarebbe mai riuscito, la foresta era troppo grande, ormai lo sapeva bene. Ma, proprio mentre muoveva il primo passo, un arbusto ricolmo di fiori con spine gli artigliò il mantello, e ciò quasi gli costò una sonora caduta. Riuscì a mantenere l’equilibrio aggrappandosi a un tronco, ma nel farlo strappò parte del tessuto della cappa, cosa che lo fece infuriare. Se c’era una cosa che Nathan odiava, era che gli si strappassero o sporcassero i pochi vestiti che aveva. Dunque, arrendendosi all’evidenza di quella sfortuna persecutrice, si abbassò cominciando ad armeggiare per liberare il mantello.

Quella perdita di tempo fu davvero propizia. L’urlo inconfondibile di Ann riecheggiò nella foresta, abbastanza lungo da permettere al professore di carpirne la provenienza. Lasciò perdere il mantello, che si strappò un altro po’ prima di liberarsi.

“Ann, questa me la paghi” già cominciò a rimproverarla mentalmente, appuntandosi di farle ricucire la cappa. Mano alla spada, la Selescinder, cominciò con ironia a prepararsi psicologicamente all’ennesima battaglia.

Eppure, quando arrivò sul posto, non trovò niente. Se n’era già andata? Il buio era molto più fitto nonostante quel luogo fosse ancor più vicino a Hidel rispetto a quello dove si trovava lui prima. Poteva distinguere grazie alla torcia le sagome di alberi, altri maledetti arbusti spinati, pietre e tutto ciò che si addice a una foresta. Insomma ogni cosa meno che traccia di vita umana. Si guardò intorno più volte prima che un ramo di modeste dimensioni gli atterrasse addosso alla schiena.

-Tu dannata, dove sei?- s’irrigidì Nathan guardandosi intorno con stizza.

-Come hai fatto a riconoscermi?- la vocina spaventata eppure spavalda di Ann proveniva dall’alto.

Il ragazzo alzò lo sguardo, scorgendola in cima a un albero. Alzò un sopracciglio –Solo una persona è capace di tanta finezza, in questa foresta. Ora, a meno che tu non abbia intenzione di fare la scimmia, saresti così gentile da scendere?-

Ann scosse il capo con fare infastidito. Evidentemente, si disse Nathan, non aveva idea di cosa fosse una scimmia. –Non voglio diventare la cena del lupo dietro di te-

Lì per lì Nathan non ci pensò due volte prima di girarsi a controllare, ma niente era dietro di lui. Un alito di vento gli scompigliò il ciuffo “Proprio come a teatro, quando un personaggio fa una brutta figura”. Tornò a guardare con rabbia Ann. Erano tornati ai primi tempi, quando tra loro non c’era dialogo che non fosse ricolmo di insinuazioni e insulti velati? –Sai, credo che ti lascerò lì. E pensare che mi ero preoccupato-

Dalla cima del tronco, la ragazzina scosse la testa. O almeno, Nathan ebbe quell’impressione –E’ davvero dietro di te, nella boscaglia. Forse ha paura del fuoco? E dai, Nathan! Altrimenti perché sono qui sopra?-

-Si dice “altrimenti perché sarei qui sopra?”- la corresse lui con una nota di biasimo nella voce.

-Scusa, professore! Mi pento di essere solo una contadina che a stento riesce a leggere e scrivere!-

-Sbaglio o ti avevo proposto di aiutarti? Anzi, me l’avevi imposto tu. E dunque?-

-E dunque mio padre non si fida a lasciarmi andare a casa di uno sconosciuto da sola!-

-Dopo quasi un anno che vivo qui sono ancora uno sconosciuto?-

-Cosa pretendi? Questo è un villaggio di puritani, cominciano a considerarti parte di loro solo dopo anni e anni-

-Menomale allora che presto me ne tornerò a casa, in città-

-Città città e città, non fai altro che parlare della tua città! Perché non te ne vai subito se ti manca così tanto?-

-E tu perché non chiudi la bocca ogni tanto?-

-Io dico quello che mi pare!-

-Sì, e guarda dove sei e come sei ridotta in questo momento grazie alla tua testa calda-

-Sempre pronto a guardare agli altri e mai a voi stesso, messere Metherlance!-

-Non sono io quello che mette punti esclamativi a fine di ogni frase, milady Nevue-

Era a dir poco incredibile – se non vergognoso – come quei due riuscissero a litigare in qualsiasi situazione, anche con un lupo tremante per l’eccitazione dietro Nathan, pronto a saltagli addosso appena l’uomo avesse abbassato il fuoco. Ma sembrava non averne intenzione, e l’istinto del lupo ordinava di scattare in avanti e provare a coglierlo di sorpresa prima che anche la seconda preda salisse troppo in alto.

Fu così che, con un balzo, il lupo si ritrovò letteralmente sopra Nathan. Ann lanciò un urlo spaventato che riuscì ad avvertire in tempo lo straniero, che si spostò di qualche passo in avanti, finendo però sotto le zanne della bestia.

Ma Nathan non era uno sprovveduto, e quando si trovava in situazioni pericolose la sua stretta diventava ancora più ferrea, così si ritrovò con una mano bloccata sotto la zampa del lupo e l’altra che ancora brandiva il fuoco che scagliò contro l’aggressore.

-Attento! Così prendi fuoco anche tu!- gli urlò Ann da sopra l’albero, ma le sue parole gli arrivavano molto vaghe, sovrastate dai ringhi e dagli assalti del lupo, che cercava di azzannargli la testa. Lo straniero si spostò lateralmente, ma neanche la belva era stupida. Infatti sembrò capire che per quanti affondi facesse, l’uomo spostava sempre il capo dalla parte opposta, dunque fece per mordere la spalla, ma venne preceduto. Nathan gli posò addosso la torcia, scatenando così lingue di fuoco che in breve ricoprirono l’intera parte superiore del lupo. L’animale ululò di dolore, ma l’istinto ancora una volta gli disse di attaccare quello che credeva essere la fonte del suo dolore, ovvero lo straniero, che azzannò alla spalla destra, appena sotto il collo. Questa volta neanche Nathan riuscì a trattenere un urlo di dolore, perdendo la presa sulla torcia. Improvvisamente ogni cosa perse consistenza, forma o suono per lo straniero e tutto il mondo si focalizzò su quel dolore tremendo, sui denti del lupo che gli dilaniavano la carne, arrivando a toccare le ossa.

Forse accade qualcosa, questo lo straniero lo intuì. Attraverso qualche macchia di colore poté distinguere un vestito bianco su di lui e il lupo, ma non ebbe modo di formulare un pensiero.

L’unica cosa che gli venne in mente fu un fiore: una rosa bianca. Poi tutto cadde nelle tenebre e nel silenzio.

 

Ann aveva osservato tutto dall’alto, gettandosi a terra non appena aveva visto il lupo azzannare Nathan. L’urlo dello straniero le perforava ancora le orecchie, turbandola nel profondo. Ma doveva intervenire, voleva intervenire.

Arrivando a terra dopo quel breve volo, sentì le ginocchia farle molto male, ma strinse i denti e i pugni, guardandosi intorno alla ricerca di qualcosa da usare come arma. Afferrò un grosso ramo, sentendone la superficie ruvida sotto la pelle sudata. Le gambe le tremarono molto forte, forse per il dolore dovuto alla caduta, forse per l’adrenalina.

In quel momento, mentre provava a fare il primo passo, fermandosi subito dopo, paralizzata dalla paura, Annlisette si rese conto di quanto fosse debole. Improvvisamente si fece avanti la consapevolezza di essere un impiastro, e che quel sangue che vedeva scorrere sull’erba gelata, caldo quasi quanto il fuoco che ardeva sulla schiena del lupo, era dovuto al suo essere inetta. Sentì le lacrime farsi avanti, e si vergognò di se stessa quando capì di non avere la stessa forza di Nathan, la forza di buttarsi in battaglia a costo della vita. Notò che lo straniero stava perdendo conoscenza, e capì che tutto ora era nelle sue mani, mani grondanti di sudore e tremanti come prede di un attacco epilettico. Serrò gli occhi, costringendosi ad alzare un piede. Avvertì un male insopportabile a tutto il corpo, forse era qualcosa di pissicologico – o qualcosa del genere, non ricordava come l’aveva chiamato Nathan -. Dovette mettere a tacere la propria mente, e fu così che riuscì a trovare nella follia la forza per lanciarsi contro il lupo, agitando convulsamente la sua “arma”, senza avere la minima idea di come usarla. Colpì il muso dell’animale con violenza, costringendolo a staccarsi da Nathan. In quel momento la ragazza camminava in un piccolo lago di sangue che sgorgava copiosamente dalla ferita dello straniero.

Serrò le mani attorno al ramo mentre la foresta attorno a lei veniva illuminata a tratti dal lupo che correva a grande velocità accartocciandosi contro l’erba per cercare di spegnere il fuoco che ardeva sulla sua schiena. La ragazzina, inorridita dallo spettacolo della belva che veniva avvolta dalle fiamme mentre ululava disperatamente, lasciò cadere a terra il ramo, respirando affannosamente. La sua mente non le diceva niente, era come bloccata, costretta sotto i muscoli contratti. La temperatura iniziò a salire, ma Ann sentiva freddo, un grande freddo che le percorreva le ossa.

Incapace di sopportare quella vista si lasciò cadere a terra, abbracciando lo straniero come se sperasse che lui si potesse svegliare per proteggerli entrambi ancora una volta. Ma ciò non accadde.

Stringendolo, Ann poté sentire ancora una volta il corpo di lui freddo. Non come la famosa volta in cui era completamente gelato – e lei ancora sospettava che si trattasse a una misteriosa uscita notturna -, e stavolta era probabilmente dovuto alla perdita di sangue.

La ragazza si accovacciò, nascondendo il capo tra le pieghe del suo mantello, piangendo ancora. Cercò di estromettere dalla mente le terrificanti urla del lupo. Urla quasi umane. Poi, improvvisamente, tutto terminò. Tutto calò nel silenzio, un silenzio terrificante. L’unica cosa che lo spezzava era l’ardere del fuoco attorno alla carcassa della belva.

Per qualche minuto Ann restò in silenzio, tremando come una foglia al vento mentre piangeva silenziosamente. No, non era decisamente una donna d’azione, lei. Ancora una volta la sua mente si rifiutava di ragionare, e solo dopo diversi minuti trovò la forza – o forse rassegnazione – di alzare lo sguardo alla ferita di Nathan, approfittando della luce donata dal fuoco. 

Facendo molti tentativi, la ragazza riuscì a slacciare il fiocchetto che gli teneva il mantello fissato alla gola, spostando di lato il lembo. La camicia che portava sotto – con quella cappa se la poteva permettere – era totalmente rossa attorno al punto in cui era stato ferito. Fece per sbottonargli almeno i primi bottoni per accertarsi della gravità del morso, ma in quel momento sul viso dello straniero si formò un’espressione sofferente che la convinse a non perdere tempo. Doveva in qualche modo portarlo a casa “Se almeno ci fosse della neve in giro potrei lavare la spalla…” non solo era inetta, ma anche sfortunata. Come se non bastasse, il fuoco alle loro spalle minacciava di espandersi e scatenare un incendio.

Ormai confusa, incerta su cosa fare, la ragazza tornò a piangere stringendo con forza la camicia dello straniero –Mi dispiace… non mi sarei dovuta allontanare… avevi ragione- ammise. Non sapeva cosa fare. La forte e sicura Annlisette era miseramente a pezzi.

-Mi dispiace tanto…- ripeté avvicinando la bocca all’orecchio dello straniero –non so nemmeno in che direzione è il villaggio. Che cosa faccio? Aiutami, per favore- serrò i pugni abbandonata dalle gambe e poggiandosi addosso a lui.

Un rumore di fronde spostate la fece scattare in aria, col cuore che batteva forte. I suoi occhi vagarono sulla selva intorno a loro alla ricerca della causa di quel suono. Altri lupi? “Oh no…”

-Hey-

 Una voce maschile la sorprese e la ragazza si voltò verso destra. Si accigliò, facendo correre lo sguardo blu sulle figure di due persone che somigliavano vagamente a Nathan. Un ragazzo dai capelli corti e gli occhi scuri che teneva la mano su un ramo, permettendo così il passaggio a una ragazzina dai lunghi capelli oro e lo sguardo attento. Non appena gli occhi di lei si poggiarono sulla sagoma di Nathan, ebbe un sussulto, correndo in direzione di Ann.

-Chi siete?- chiese spontaneamente la contadina con una nota di paura. Prima Joshua, ora quei due, ma quanta gente abitava nella foresta? La bionda si fiondò accanto a lei. Portò la candida mano alla borsa che teneva a tracolla, armeggiando un po’ mentre l’altro uomo misterioso si avvicinava ai tre –E’ stato morso da un lupo?- osservò attentamente la scena, soffermandosi sulla carcassa dell’animale morto.

Ann annuì freneticamente, assecondando lo sguardo del biondo –Potete aiutarlo?- l’identità degli sconosciuti era passata in secondo piano, ora importava salvare la vita di Nathan.

-Certo!- la ragazza le rivolse uno sguardo deciso ma al contempo dolce, ed Ann sentì un improvviso calore invaderle il corpo, era la speranza.

-Ascolta, ragazza- la chiamò l’altro –Hidel non è lontano da qui, centocinquanta piedi a nord- e le indicò una direzione ben precisa da seguire –penseremo noi a spegnere l’incendio e a curarlo, ma tu non puoi assistere. Saresti solo un peso-

Quelle parole ferirono nel profondo Ann, che non ne voleva sapere di lasciare Nathan in mano a degli sconosciuti. Le sue preoccupazioni parvero giungere alle orecchie della biondina, che le mise una mano sulla spalla dopo aver poggiato per terra diverse boccette e strane erbe –Non preoccuparti, amica. Ti prometto che domani mattina sarà a villaggio. Devi solo dare il tempo a noi di agire, a lui di riposarsi, e soprattutto a te stessa di riprenderti dallo shock- ma vedendo Ann non ancora completamente convinta decise di aggiungere –se domani non sarà da te, non mi chiamerò più Sogno-

Sogno, ecco il nome della misteriosa ragazza. Ann sentì di potersi fidare di Sogno, dunque annuì asciugandosi le lacrime. Si mise in piedi dando un’ultima occhiata a Nathan. Sentì una serie infinita di sensi di colpa gettarsi sulle sue spalle mentre lo abbandonava alle cure di Sogno e dell’altro individuo, a cui rivolse un basso e stentato –Grazie…-

Dunque scappò via attraverso la foresta, nella direzione che le era stata indicata.

 

Damon osservò Ann sparire tra gli alberi, quindi sospirò spazientito –Cugino cretino! Devi sempre metterti nei guai, come se quelli che hai non siano abbastanza, eh?- sbuffò sonoramente sentendo Sogno ridacchiare a quelle parole, quindi ognuno tornò al suo compito.

L’Angelo dagli occhi scuri si armò di tanti rami e grandi foglie, cominciando a spegnere il fuoco pian piano il fuoco a suon di terra e vento artificiale. Sogno invece si dedicava alla cura della ferita di Nathan.

-Com’è?- chiese a un certo punto Damon.

-Piuttosto grave…- ammise a malincuore la ragazzina.

-Credi di riuscire a salvarlo davvero?- l’uomo tornò a sedersi accanto alla giovane. Si era un po’ affumicato e aveva il viso sporco di fumo, ma questo non provocò una risata in Sogno, ciò dimostrava quanto fosse seria la situazione.

-Ho promesso a quella ragazza che domani starà bene… Intendo mantenere questa promessa- rispose infine, tornando al suo lavoro.

Damon sospirò scoccando uno sguardo truce al cugino. Perché Nathan aveva quella fissa di mettersi nei guai in continuazione?

 

Quando Ann rientrò a casa tirò un lungo sospiro di sollievo. Nella corsa frenetica che l’aveva portata a Hidel, si era accorta che i villici stavano rientrando nel villaggio proprio in quel momento. Avrebbe potuto tenere tutto l’accaduto segreto, almeno fino all’indomani.

Si catapultò al piano di sopra, chiudendosi nella camera adibita a doccia. Posò per terra i vestiti con un fruscio, notando che erano in parte sporchi di sangue e che emanavano un olezzo disgustoso. Si guardò intorno sforzandosi di sfuggire i pensieri che volevano tormentarla. Li avrebbe ripresi dopo, ora doveva assolutamente calmarsi, come le aveva detto Sogno. Mise un mattone davanti alla porta, così da non permettere l’accesso a nessuno, tornando poi a cercare la bacinella che di solito usava sua madre per lavare i panni in inverno. La portò al centro della stanza, agguantando poi la cenere e l’acqua. Cominciò così a sgrassare, ringraziando quel meraviglioso potere che aveva la cenere di far sbiancare anche il sangue. Così, dopo dieci minuti ininterrotti di pulizia, Ann poggiò il vestito bagnato - di una nuova simpatica tonalità di rosa chiaro - per terra, strizzandolo per bene. Poi fu il turno del suo bagno, e mai come allora fu felice di lavarsi via lo sporco e la terra. Scoprì di avere diversi lividi sulle gambe, probabilmente dovuti alla brutta caduta dall’albero. Sperò che non fosse niente di grave, ma suo padre le aveva detto che quando ci si rompe un osso l’arto diventava nero e non si riusciva a muoverlo.

Nello stesso momento in cui si chiuse in stanza, la porta dell’ingresso si aprì e la voce tonante del vecchio Lazarus rimbombò per le stanze. Ann sospirò, per fortuna ce l’aveva fatta.

Dopo aver subito il terzo grado dal padre, la ragazza ebbe finalmente il permesso di andare a dormire.

-Ah papà- disse infine, restando sulla porta della sua stanzetta mentre il genitore si preparava a scendere le scale.

-Dimmi, Annlisette-

 -Com’è stata la cerimonia?-

Quella domanda sembrò spiazzare un po’ il vecchio padre. La figlia aveva paura dei cimiteri, per questo non la portavano mai a trovare i nonni, evidentemente le dispiaceva di non aver potuto assistere alla fine del funerale. Le mise la grande mano destra sul capo, coprendolo quasi per intero, scompigliandole i capelli –Molto triste. Hai fatto bene a non venire-

Ann annuì, consapevole del fatto che se egli avesse saputo che cosa lei aveva appena vissuto non avrebbe mai parlato così. Si avvicinò abbracciandolo alla vita, facendo una faccia triste. Chiaramente lui fraintese il motivo di quella mestizia, ma ad Ann non importava. Essere lì, abbracciare ancora suo padre e sorridere alla sua famiglia era un dono senza prezzo. Un dono che a persone come Nathan era stato rubato, per questo avrebbe tanto desiderato essere al suo fianco non appena si fosse svegliato. Ma il destino non lo voleva.

Lazarus le fece un’altra carezza dandole poi una pacca sulla schiena, intimandole di andare a dormire. Ma quella, per Ann, sarebbe stata tutt’altro che una buona notte.

La ragazzina raggiunse il suo giaciglio con nostalgia. Si raggomitolò sotto le coperte nascondendo completamente il capo. Non c’era tempo per rilassarsi, poiché mille pensieri le frullavano per la mente. Il suo lato razionale correva alle misteriose figure incontrate nella foresta. Chi erano? Aveva fatto bene a lasciare Nathan nelle loro mani? Sicuramente loro avrebbero potuto fare di più di lei, ma chi le assicurava che non erano in qualche modo imparentati con Joshua, il quale era scattato contro Nathan al primo sguardo?

Strinse il capo tra le mani ripetendosi che ormai quello che era fatto era fatto. Non poteva fare altro che attendere l’indomani e sperare che Sogno le avesse detto la verità.

Impiegò molto tempo per addormentarsi, e anche quando finalmente la finestra della sua mente sul mondo si chiuse, continuò ad essere perseguitata negli incubi da lupi, sangue, misteriosi individui e alberi molto alti.

 

Il risveglio al mattino dopo non fu dei migliori. Indolenzita dalla testa ai piedi, Ann capì che la fonte di quell’improvviso irrigidimento di tutti gli arti era la finestra dimenticata aperta la sera prima. Sbuffò sonoramente contro la sua sbadataggine mentre si massaggiava il capo. Si mise seduta a gambe incrociate e ripensò alla sera prima.

“Non era un sogno…” pensò con amarezza guardandosi le mani ricoperte di graffi. Fortunatamente non si notavano molto, quindi avrebbe potuto farli passare inosservati.

Un urlo dalla cucina la avvisò che era in ritardo. La ragazzina voltò il capo sospirando, scendendo dal letto e preparandosi per la giornata. Sogno non era stata molto chiara la sera prima, le aveva detto solamente che Nathan sarebbe tornato nella mattinata. Si arrese dunque all’evidenza: non poteva fare altro che aspettare. Prima di aprire la porta per scendere, il suo sguardo cadde sull’abito usato la sera prima, lo stesso che aveva lavato con la cenere. Era tornato candido e lindo. “Accidenti, quella cenere non scherza… Sembra che ieri sera non sia neanche stato usato…

La colazione fu un momento a dir poco esasperante. Ann faticò molto per tenere nascosti i taglietti sulle mani, ma qualunque cosa facesse le sembrava di essere scrutata dal resto della famiglia con occhi pieni di sospetto, e questo la innervosiva moltissimo, di conseguenza si comportava più bruscamente rispetto al solito. Rispose male tre volte alla madre, beccando un colpo in testa da parte del padre alla testa rispostaccia.

Quando venne lasciata libera di andare a fare qualche commissione, la ragazza venne seguita dal fratello.

-Posso fare da sola- mise subito ben in chiaro mentre si chiudeva la porta di casa alle spalle.

-Sicura?- domandò Gabriel.

Ann lo guardò come scocciata da tutte quelle attenzioni –Perché, come ho fatto fino ad oggi?-

-Ma gli altri giorni non avevi le mani ridotte in quel modo- incalzò il ragazzo, e la sorella tacque. Se ne era accorto, e probabilmente non era l’unico –certo che è stata una bella sfortuna-

Ann ci mise qualche secondo prima di rispondere con voce esitante –Che cosa?-

-Come?- Gabriel la fissò stranito –Mi riferisco a quando hai preso in mano quella cesta tutta rotta, ieri sera. Ti ha fatto proprio male, eh?-

La sorella si accigliò. Aveva davvero preso in mano una cesta la sera prima? “Beh, cogliamo l’occasione” –Sì, ma non credo ci sia bisogno di mettere bende. Passeranno presto- si guardò una mano, l’altra era occupata a portare pacchi. Davvero non ricordava di aver fatto una cosa simile, ma poco importava se le dava l’occasione di sfuggire a domande pericolose.

-Grazie, fratellino. Senti, hai da fare stamane?-

-Vuoi che faccia io le commissioni?-

Ann annuì cercando di fare il viso più dolce che poteva. Ricevette il consenso del fratello, a cui porse le buste –Grazie, Gabriel!- sorrise soddisfatta. Ora poteva andare a vedere se Nathan era già tornato.

Si allontanò di tutta corsa senza lasciare a Gabriel il tempo di aprir bocca. Il ragazzo la guardò allontanarsi, chiedendosi dove mai potesse andare con tutta quella fretta.

Mentre Ann correva verso la casa dello straniero, sentiva il cuore in gola. L’emozione era forte, la speranza grandissima. Se non l’avesse trovato dentro probabilmente sarebbe scoppiata a piangere chiedendosi con che coraggio l’aveva lasciato in mano a sconosciuti.

Sentiva attorno a sé l’aria più calda, sembrava che quell’estate stesse arrivando prima del previsto e soprattutto più calda del previsto. Meglio così, si disse Ann, avrebbe potuto chiedere a Nathan di farle qualche lezione all’aperto.

“Magari sotto un albero…” si illudeva stringendo i pugni “di matematica, o latino… o lingua nazionale, o geografia… ci sono tante cose che mi deve insegnare”, formulava quei pensieri per convincersi che sicuramente lui era in casa, che era stato curato e stava bene. Non che forse era morto e lei aveva contribuito. Ancora una volta si ritrovò a maledire la sua fretta nel raggiungere conclusioni affrettate. Dopotutto un bacio rubato non poteva essere un tradimento di un’amicizia, ma lo comprendeva troppo tardi…

Intravide la casa dello straniero poco lontano, e corse, corse con tutta la forza che aveva in corpo “Ti prego, Signore…” in quel momento come non mai sentì i sensi di colpa stringerle lo stomaco e posarsi sulle sue giovani spalle. Giunse sui gradini della casa col fiatone, ponendo una mano sul petto per costringersi a calmarsi. Si guardò intorno, salendo poi con frenesia la scalinata, aggrappata saldamente al corrimano per non scivolare. Bussò quattro volte alla porta di legno, tenendo l’orecchio in modo da captare ogni minimo rumore all’interno della casa.

Qualcosa cadde sul pavimento con un tonfo sordo, Ann lo sentì bene, e non poté trattenere le lacrime quando la porta si spalancò, mostrando Nathan che le sorrideva come sua abitudine –Buongiorno, Annlisette- la salutò allegramente.

La ragazza si affrettò ad asciugare le lacrime, ma troppo tardi per non essere vista dallo studioso –Tutto bene?- le chiese.

Lei annuì due volte con sicurezza nel viso, quindi fu invitata a entrare.

Dentro casa era tutto nel solito disordine tipico di Nathan. Strani oggetti tecnologici buttati e ammassati negli angoli, tavola sgombra se non per una scodella e un piatto mezzi vuoti.

-Scusa, ti ho interrotto mentre facevi colazione- disse la ragazza sedendosi.

-Figurati, preparo qualcosa anche per te? Hai fame?- domandò Nathan senza aspettare risposta, come suo solito. Infatti si stava già adoprando per prepararle latte e biscotti.

Ann rimase a guardarlo per qualche minuto con un enorme sorriso sulle labbra. Muoveva il braccio come se niente fosse, significava che –Sogno ha fatto davvero un ottimo lavoro…-

-Sogno?- Nathan voltò lo sguardo, scrutandola accigliato –Chi è Sogno?-

Ann rispose con un’espressione allegra, come se stesse dicendo qualcosa di ovvio –La donna che ti ha curato ieri sera, la bionda-

Non ricevette risposta da Nathan, solo un lungo silenzio misto a un’espressione confusa.

-Non… li hai visti? Sogno e l’altro ragazzo?- provò ancora Ann forzando un sorriso. Perché Nathan la guardava come se stesse parlando di cose dell’altro mondo? –Ti hanno curato loro ieri, dopo il lupo… te lo ricordi?-

Nathan si voltò completamente con espressione pensante –Ieri sera… ieri sera… Ann, ma a che lupo ti riferisci? Ieri sera sono venuto subito a casa dopo aver lasciato Doralice. Tra parentesi, quella ragazza mi sembra un po’… come dire, precoce?-

Ma Ann non lo ascoltava. La sua mente si era fermata a “dopo aver lasciato Doralice”. –Nathan…- la sua voce tremò un attimo –ieri sera siamo stati nella foresta e tu sei stato ferito da un lupo. Hai perso la memoria per lo shock?-

Eccola, l’ennesima occhiata confusa seguita da un silenzio.

-Se è uno scherzo è di cattivo gusto- la voce di Annlisette si fece più nervosa.

-Ann…- cominciò lo studioso guardandosi intorno, come se cercasse qualcosa –ieri sera non ci siamo proprio visti. Beh, in chiesa abbiamo parlato un po’, ma poi te ne sei andata presto. Io sono tornato a casa e ho letto questo libro- le indicò il manuale che si trovava sul tavolo –una bellissima sezione dedicata alle costellazioni. Davvero, non ci siamo visti, pensavo fossi troppo arrabbiata per parlarmi-

A quel punto, però, la ragazza era già calata nel panico. Agitò convulsamente le mani mettendosi in piedi –Ma che dici?! Abbiamo litigato mentre io stavo sull’albero e tu eri a terra! Hai dato fuoco al lupo che poi ti ha morso, e poi… poi sono arrivati quei due! Sogno e l’altro uomo vestito di nero! Hanno detto che avrebbero spento l’incendio e ti avrebbero curato!- si avvicinò a lui.

Nathan si sforzò di sorridere –Ann cara, sicura che Sogno sia una persona e non un sogno vero e proprio?-

Ann era senza parole. Lo guardò malissimo, scoppiando poi in uno stridulo –Io non sono una visionaria!- gli mise le mani addosso, suscitando nello studioso una reazione confusa, mentre si vedeva aprire la camicia. Ma là dove doveva esserci una fasciatura… non c’era niente. Neanche un graffio. La ragazza portò le mani alla bocca, pensando tra sé e sé che Sogno doveva avere delle tecniche di cura davvero miracolose! Era riuscita a cancellare in una notte non solo la ferita, ma anche la memoria.

Nathan le scoccò uno sguardo severo sistemandosi nuovamente la camicia –C’è altro o ti arrendi all’evidenza che hai fatto un brutto sogno?-

La ragazzina abbassò lo sguardo –Io non sono pazza…- mormorò tristemente. Gli prese una mano costringendolo ad andarle dietro –solo un’ultima prova a mio o a tuo favore. L’ultima davvero- lo implorò.

Lui sospirò rassegnato, consapevole che non c’era modo di fermarla –Va bene…- e si lasciò guidare fuori casa, alla volta della foresta.

Ann ricordava bene la posizione del luogo dell’incidente della notte precedente. Si trovava centocinquanta piedi a sud di Hidel, dunque non ebbe troppi problemi a trovare la via, anche se dovette faticare un po’ per ricordare la strada giusta per arrivarci.

Ma tutti quegli sforzi valevano se servivano a dimostrare a Nathan che non si era sbagliata, che la sera prima non aveva preso in mano nessuna cesta, che il vestito ora bianchissimo in realtà era stato sporcato di sangue. In quel momento si sentiva sola contro un mondo alla rovescia, dove tutti si erano dimenticati di qualcosa che invece era importante!

Persino la natura attorno a loro fremeva, sembrava tremare dall’ansia. Finalmente giunsero in quel luogo che Ann rivedeva malvolentieri. Era tutto esattamente come la sera prima, ma finalmente illuminato. Gli alti alberi tra cui quello su cui si era arrampicata, i colori sgargianti tipici di quella stagione, gli insetti che passeggiavano placidamente per terra tra le foglie e l’erba. Niente carcasse. Niente segni di bruciature dovute a un piccolo incendio. Niente sangue.

-Siamo arrivati?- le domandò Nathan giungendole al fianco.

Ann annuì tristemente, voltandosi a guardarlo con gli occhi pieni di lacrime –Io non sono una visionaria… sono sicura di quello che ho visto…-

Quella vista strinse il cuore allo straniero, che subito tirò fuori un fazzoletto per asciugarle le stille –Ne sono sicuro anch’io, per questo ti aiuterò-

-E come?- piagnucolò la ragazza con le gote rosse un po’ per l’imbarazzo, un po’ per la rabbia.

Nathan si calò finché i loro visi non furono alla stessa altezza, le passò una mano sulla guancia portandole una ciocca corvina dietro l’orecchio destro, sorridendole –Ascolta Ann, qui a Hidel sta succedendo qualcosa-

-Lo so…- annuì tristemente la giovane.

 

“Sembra che ieri sera non sia neanche stato usato…

-Mi riferisco a quando hai preso in mano quella cesta tutta rotta, ieri sera-

-Ann… ieri sera non ci siamo proprio visti-

 

-E ho paura che si tratti di qualcosa di pericoloso. Vorrei indagare- continuò Nathan con espressione seria –ma sono “lo straniero”, non tutti sono disposti a collaborare. Molti mi credono colpevole delle sparizioni-

La ragazzina annuì ancora, era consapevole di cosa accadendo: qualcosa di inspiegabile.

-Ma con il tuo aiuto potrei cavare un ragno dal buco, forse-

Ann abbassò lo sguardo. Aveva urgenza di parlare, ma non sapeva cosa dire. Stavano per ficcarsi in una faccenda pericolosa, una faccenda per cui molte persone avevano già perso la vita. Sarebbero stati i prossimi a sparire?

-Io non sono molto intelligente…- ammise a malincuore, sospirando –non so tutte le cose che sai tu, sono impulsiva e spesso questo mette nei guai le persone a cui tengo- voltò lo sguardo verso la zona dove era sicura di aver assistito la notte precedente al semi sbranamento di Nathan –sono un impiastro. Non ho saputo aiutarti-

Lui le sorrise ancora, come faceva sempre –Ma sono ancora qui, no? Significa che qualcosa per me l’hai fatta-

Quelle parole la colpirono nel profondo. Realizzò solo in quel momento che era stata lei a raccogliere quel ramo che le aveva strappato la pelle, lei a tremare, sempre lei a scagliarsi contro il lupo. Lei gli aveva salvato la vita. Non aveva saputo curarlo, ma aveva evitato che morisse. In quell’attimo si sentì talmente piena d’orgoglio che non poté fare a meno di sorridere –Mi insegnerai tutto quello che sai?-

Nathan rise –Ci vorrà molto tempo, e non ne abbiamo così tanto-

Ricette l’ennesimo calcio negli stinchi –Spilungone e superbo! Ma dove ti ho trovato!- rise allegramente Ann. Hidel stava impazzendo, la gente spariva, altra gente si dimenticava le serate prima, ma lei rideva, rideva perché era in compagnia del suo amico. E finché tra loro ci fosse stata quella sintonia, avrebbe continuato a ridere.

-Te l’ho detto, ragazzina- l’uomo si pulì i pantaloni tornando in piedi –sono il tuo principe azzurro senza brevetto né cavallo-

-Ma come?- esclamò la giovane –Non eri arrivato a Hidel in groppa a un fiero destriero color della neve?-

-Ehm…- lo studioso si guardò intorno –in realtà me l’hanno prestato, non è mio quell’animale ingordo e antipatico- sbuffò sonoramente. Osservò Ann ridere innocentemente, e anche lui non poté fare a meno di sorridere di rimando –sarebbe meglio se tu tornassi in paese, ora-

-E tu che fai?- chiese ancora la ragazza.

-Mi hai fatto venire un dubbio atroce che mi spingerà a salire sul colle per vedere se c’è ancora della neve- spiegò lui.

-Che dubbio ti ho fatto venire?-

Nathan pose una mano sul capo di una Ann un po’ stranita, sorridendole cortesemente, scompigliandole un po’ i capelli, dunque pronunciò parole che vennero appena colte dall’orecchio della ragazza, tanto quella lingua in cui vennero pronunciate le risultava aliena e incomprensibile, ma al contempo melodiosa e gradevole –What colour is the snow?-

Ann inclinò il capo confusa, ma infine sorrise. Anche se non capiva quella lingua, era sicura che prima o poi avrebbe capito quelle parole. Sarebbe stato lui a spiegargliele. Annuì complice, rincuorata da quelle poche parole così strane e singolari. Non se ne sarebbe certo dimenticate, non quel suono –Va bene, messere Metherlance. Allora buona ricerca-

-Grazie e buon ritorno a casa, milady- le fu risposto.

Ann sparì poco dopo tra la boscaglia e Nathan rimase solo. Sospirò sommessamente fissando il punto in cui la giovane era scomparsa, avvertendo un peso sul cuore.

Alzò lo sguardo al cielo, scrutando le nubi chiare attraverso cui penetrava qualche tenue raggio di sole, che tuttavia veniva bloccato dall’intrico di rami della foresta. Poggiò lo sguardo sulle proprie mani, ma subito dopo fu costretto a girarsi portando la destra sopra la spalla sinistra, poco sotto il collo, avvertendo un dolore che gli fece serrare la bocca. Faceva un male cane, tutto per colpa di quel dannato lupo. Le tecniche curative degli Angeli erano bastate, ma la strada verso la totale guarigione era ancora abbastanza lunga. Sospirò, arrabbiato con se stesso e con gli Angeli. Tutto quello era sbagliato, era tutto assolutamente ingiusto. Non era un comportamento da Angeli! Hidel impazziva, la gente spariva, Ann veniva presa per visionaria, qualcuno cercava di incolparlo di tutto quello che stava accadendo. E infine…

“Era davvero necessaria, questa bugia?”

 

 

Note dell’Autrice:

Okay lo ammetto, questo capitolo l’ho scritto tutto oggi. Infatti sto morendo di sonno xD

Bene, cosa abbiamo di nuovo? Qualcuno si diverte tantissimo alle spalle dei nostri eroi *osserva l’antagonista ridere di gusto sdraiato sul divano mentre mangia pop corn*

Tutti: Che bastardo, l’antagonista! °A°

Ragazzi, ovvio che è bastardo, altrimenti non sarebbe l’antagonista xD

Tornando all’argomento principale… L’ho scritto tutto oggi perché in queste settimane ho avuto problemi di salute piuttosto seri che mi hanno costretta intere giornate buttata dottori, dottori -.- spero di rimettermi presto in carreggiata. In più con cara Kikyo abbiamo appena aperto un forum di fanfic su forum community! *A* *messaggi subliminali* quindi sono ultra presa dal nostro forummino!

Ma rispondiamo alle recensioni…

 

La posta di Ann & Nathan:

Ann: Yeeee! Rieccoci! Finalmente in questo capitolo è stata la fatidica frase! “Uat color is de snò?”!

Nathan: Tradotto per noi comuni mortali, “What colour is the snow?” ^_^

Ann: Perché mi correggi se dici la stessa cosa?

Nathan: … Rispondiamo alle recensioni, che è meglio.

 

Midao: Qui Ann! Come sempre rispondo io alla prima recensione >o< che bello vedere che c’è qualcuno che ha preso in antipatia Docalice! E pensare che la nostra Autrice vorrebbe farla diventare uno dei personaggi più importanti! Mah… Piuttosto, hai visto a che stress pissicologgico

Nathan: *coff coff* Psicologico.

<_< sì insomma, quello! A che stress sono sottoposta in questo capitolo? Tutto per colpa di Nate! Per i misteri mi dispiace ma dovrai aspettare ancora un po’, perché la nostra Autrice vuole uccidervi, ovvero vuole svelare tutti i misteri tutti in una volta nel penultimo capitolo. Figurati che ha già deciso il titolo di quel capitolo o_O mi dice di ringraziarti perché hai una pazienza infinita nel leggere la nostra storia, e spera che i nuovi intrecci ti incuriosiscano ^-^ alla prossima! Ciah!

 

BrandNewSibyl: oh, una nuova vittima della nostra Autrice ^_^ vi stimo già, milady, per aver avuto la forza di leggere undici capitoli in una volta sola. Dovete avere una pazienza di ferro. L’Autrice vi invita a esporci tutte le domande che volete. In effetti ci piace molto essere sommersi dalle domande e cercare di dare in qualche modo “dritte” per far luce sui misteri di cui “What colour is the snow?” è sicuramente pienissimo. Inoltre l’Autrice ringrazia arrossendo per i complimenti. Fa la modesta, ma le fa piacere sentire che piace come scrive.

*L’autrice picchia Nathan*

 

Violacciocca: Un saluto dalla protagonista di questa storia!

Autrice & Nathan: Ancora con la storia della protagonista =_=

La nostra lettrice storica che non smetteremo mai di ringraziare ^-^ Sogno in effetti dà una bella sensazione anche a me, anche se la nostra Autrice dice “aspettate di conoscere sua figlia nel terzo racconto…” o.O sua figlia? Mah. Ah già, diciamo terzo racconto perché questa serie è composta da cinque storie ^-^ aaah già, ci siamo litigati nel primo capitolo, ma ora ci abbiamo fatto la pace ^^

*Nathan sbatte la testa contro il muro*

 

KikyoOsama: I praticissimi divani in pelle presto diventeranno a strisce di varie tonalità di rosso. Si capisce chi risponde alla recensione? *tiene per il collo James* ò_ò vade retro tu, i suoi divani e la tua macchina con le corna! Piuttosto arreda la casa di… di… Alkyius! Sono sicuro che quel posto dove abita ha bisogno di una riverniciata! Comunque… KK, grazie mille per gli errori, Sely dice che ti venera e che ti costruirà una statua d’oro con Manny e James nella posa che hai disegnato una volta di Apollo e Dafne. Il resto, beh… ce lo diciamo tutti i giorni su msn o.O quindi…

Ann: Ciaooooooooooooo!

Nathan: T_T mi ha rubato il saluto…

 

E anche questa è fatta! <3

Al prossimo capitolo!

 

Chu,

Sely,

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Capitolo 13
*** Angeli ***


What colour is the snow

What colour is the snow?

Capitolo 13: Angeli.

 

Poco dopo che Ann si fu allontanata dal luogo dove stava parlando con Nathan riguardo gli ultimi avvenimenti, il giovane uomo rimase per un periodo abbastanza lungo immerso nei suoi pensieri. Chissà per quale motivo non accennava a muoversi? Da dietro una siepe molto alta, una figura veniva occultata dalle fronde. Almeno agli occhi di Nathan.

-Buongiorno, capo!- la voce frizzante di Damon fece commettere a Marcus il grave errore di voltarsi con fretta, spostando qualche fronda e rivelando così la sua posizione all’occhio attento di Nathan.

-Buongiorno, Darkmoon- rispose acidamente il capo degli Angeli.

-Anche voi da questa parti?- il cugino Metherlance si era fatto avanti cogliendo al volo l’occasione. Ovviamente non dava a vedere che aveva capito che Marcus lo stava osservando, e Marcus non volle tantomeno affrontare l’argomento.

-Solita ispezione mattutina. E’ compito di un buon comandante constatare la sicurezza del territorio- l’uomo più anziano poggiò la schiena all’albero più vicino, incrociando le braccia.

I cugini si scambiarono una rapida occhiata complice, la quale non venne colta da Marcus, che in quel momento chiudeva gli occhi lasciando che il vento gli carezzasse il viso –L’estate è arrivata. Presto queste lande saranno bagnate dalla luce del sole. Sapete cosa significa questo, vero?-

-Si torna all’ovile, di nuovo- Damon mise una mano in tasca alzando lo sguardo al cielo. I suoi occhi scuri erano in netto contrasto con l’azzurro che vi si rifletteva. Era così strano vedere quel luogo durante l’inverno così morto e gelido ora, in estate, completamente privo di neve e ghiaccio, illuminato dalla debole luce del sole, scosso non più da un violento e urlante vento, bensì da una piacevole e fresca brezza. L’erba era pian piano ricresciuta, c’era anche chi provava a coltivare fiori, come Sogno… o Krissy.

-Partiremo in breve, tre settimane al massimo- annunciò con un sorriso ora più gentile il vecchio Marcus –ah, Metherlance- si rivolse a Nathan, che subito gli prestò attenzione –potresti usare la scusa della fiera per andartene dal villaggio-

-Che fiera?- chiese curiosamente Damon. Gli piacevano le fiere, avrebbe potuto portarci la piccola Sogno. Lei amava passare intere giornate in giro per botteghe a comprare abiti o dolci.

-Hidel è un villaggio di commercianti- cominciò a spiegare il cugino Metherlance.

-Commercianti? Ma se stanno tutto l’anno nel bel mezzo del nulla! Con chi commerciano, con l’abominevole uomo delle nevi e il tenebroso orso bianco delle terre di pinguilandia?-

Solitamente, quando Damon faceva battute stupide o lo interrompeva, Nathan lo riempiva di frecciatine e sguardi di ghiaccio, ma stavolta, alla parola “pinguilandia”, non poté fare a meno di scoppiare a ridere girandosi dall’altra parte per non farsi vedere. Persino Marcus rise di gusto, e il cuore di Damon si allargò. Riuscire a far ridere quei due era un’impresa, si sentiva davvero fiero della sua vena comica, come un bambino fiero della sua marachella.

-Se mi facessi parlare te lo spiegherei!- esclamò Nathan quando riuscì a contenere le risate. Tornò a guardare il cugino,si passò una mano tra i capelli biondi per perdere qualche altro secondo al fine di mettere a tacere le risate, quindi tornò a chiarire –Durante l’anno, i cittadini si adoperano in vari campi, soprattutto nella cucina e nella tessitura. Le stoffe e il formaggio di Hidel sono molto famosi fino alle terre azzurre e rosse-

-Addirittura? Pensavo che nelle terre di fuoco fossero troppo nobili per noi poveri ignoranti delle terre del vento e dell’acqua!-

Quell’affermazione suscitò un po’ di fastidio in Marcus, che proveniva appunto dalle terre di fuoco. Nathan lanciò un’occhiataccia a Damon, che si trattenne dal dire “Ne abbiamo l’esempio vivente qui davanti, poggiato a un albero”.

-E quindi?-

-Dunque, circa tre volte l’anno, quasi tutti gli uomini del villaggio si mettono in viaggio verso Terren portando tutte le scorte, per poi venderle al mercato cittadino-

-E le donne e i bambini non escono mai?-

-Credo di no-

-Che schifo…-

Nathan annuì. Era d’accordo con Damon su quel punto. Non era giusto rinchiudere i bambini nel villaggio, precludendo loro le moltissime alternative che la città era in grado di offrire. Ann prima tra tutti. La ragazza aveva un sacco di potenziale che non sarebbe mai stato sfruttato, e questo gli dava abbastanza fastidio.

-Quindi andrò con loro?- chiese Nathan a Marcus.

L’uomo annuì –Se non ci saranno cambi di programma, sì. Userai la scusa della fiera per giungere in città. Una volta lì verrai con noi-

-Uhm… Va bene. Una domanda, se mi è permesso- una domanda che gli stava molto a cuore. Marcus acconsentì –mi sarà permesso tornare a Hidel, o la mia missione può considerarsi conclusa?-

Damon si fece improvvisamente attento, smettendo di giocherellare con un rametto quasi spezzato che aveva sotto i piedi.

Il capo parve pensarci. Alzò gli occhi al cielo riflettendo, lasciando i che il vento gli scompigliasse i capelli scuri, dandogli sollievo. Tornò quindi a guardare Nathan con sguardo molto serio, tanto che i cugini si chiesero se si stesse preparando mentalmente uno dei suoi famigerati discorsi senza fine –Metherlance, da quando hai messo piede in quella città, qualcosa in te è cambiato-

Nathan non rispose, consapevole della veridicità di quell’affermazione. Si era addolcito fin troppo, e questo non andava bene.

-Noi Angeli abbiamo un compito molto delicato. I nervi saldi, il sangue freddo e soprattutto tanta pazienza sono indispensabili in un lavoro come il nostro-

I cugini lo sapevano bene. Moltissime volte si erano trovati in situazioni da incubo, dove solamente la loro ferma fede era riuscita a permettergli di trovare una soluzione –E Hidel, forse, è il caso più delicato che ci è fino ad ora capitato sotto mano- già lì Nathan intuì la risposta alla sua domanda. Una risposta che avrebbe volentieri evitato –non possiamo correre il rischio che tu perda queste caratteristiche, ragazzo. Nei mesi che passeremo lontani da Hidel dovrai rimetterti a lavorare sodo, per non perdere di vista la tua vera natura. Dovrai rifare l’esame-

-Cazzo…- sfuggì a Damon. Allora la cosa era più grave di quanto pensassero. Diede un’amichevole pacca sulla spalla del cugino, facendogli intendere che lui era dalla sua parte.

-Non c’è problema- Nathan abbassò lo sguardo tornando con le mani in tasca –mi dispiace che dubitiate di me, e non posso di certo negare il fatto che frequentare queste persone mi abbia in alcune occasioni fatto perdere di vista chi siamo e quali sono i nostri obiettivi- Marcus annuì alle sue parole, mostrandosi inaspettatamente comprensivo –dunque sarò ben disposto ad affrontare nuovamente l’addestramento e l’esame. Avete ragione, comandante, su tutto. Ma non mi farò abbattere, sia chiaro- Damon sorrise, sostenendo le parole del cugino –me ripresenterò più preparato di prima, supererò il vostro esame e tornerò a Hidel come supervisore, come ho fatto fino ad oggi-

-Questo è parlare! Quasi mi fai venire voglia di rifare l’addestramento con te!- rise Damon.

-Davvero?- scherzò Nathan.

-No- e i due cugini risero assieme.

-Lo spero davvero, ragazzo- sorrise Marcus, alzando poi una mano in segno di saluto –sicuramente torneremo. Speriamo intanto che i lupi non si mangino Hidel-

Se ne andò così, con quell’allusione che fece quasi gelare il sangue ai cugini.

-Lui ci scherza…- disse Damon –ma quei lupi sono davvero pericolosi, secondo me. Cioè, ti ricordi quando sei andato alle rovine?-

-Sì, fu davvero una fortuna non essere attaccati, ma li sentivo ululare in lontananza-

I due si sedettero cominciando a fare comizio. Nonostante passassero l’intero giorno a litigare, in fondo erano molto legati. Da un po’ di tempo il loro duo era diventato un trio, precisamente da quando la piccola Sogno si era infiltrata nella vita di Damon. Non era raro che si attardassero a discutere, sfottere e parlottare del più e del meno nelle tende, con Sogno che puntualmente si addormentava in braccio all’uno o all’altro. Anche se, da quando erano arrivati a Hidel, le occasioni di stare insieme erano diminuite.

Lasciarono passare dieci minuti parlando di cose di poco conto, seguendo la loro solita strategia: annoiare un eventuale spia. Infatti solo dopo essersi con occhiate fugaci che nessuno li stesse osservando, passarono ad argomenti più delicati.

-Come l’ha presa Ann, questa presa in giro?- s’informò Damon a voce bassa.

-Male, come poteva prenderla?- Nathan abbassò lo sguardo –le ho praticamente dato della visionaria, povera ragazza. Era così convinta delle sue idee, mi è dispiaciuto vederla disperarsi e poi andare in estasi per qualche parola gentile-

-E’ una ragazzina di quelle tipiche di questi villaggi: buona, innocente, casta, facile da corrompere e da ingannare. E tu sei un bastardo-

-Hai proprio ragione…-

-E’ una cosa che ti viene naturale, cugino, non prendertela-

Nathan gli scoccò un’occhiata di fuoco –Invece di fare l’idiota potresti dirmi se tu hai capito il motivo per cui mi hanno costretto a mentirle. Cioè, che bisogno c’era di inventarsi tutta questa storia assurda solo perché ha visto te e Sogno?- farfugliò, arrabbiato –Potevamo dirle che eravate legati a quel primitivo che abbiamo visto mesi fa. A proposito, notizie?-

-Ah sì, me lo stavo scordando- Damon si diede un colpo di palmo sulla fronte –forse abbiamo capito chi è… come hai detto che si chiama, Joshua?-

-Dimmi tutto-

-E’ una cosa quasi buffa, sai? Sua madre si chiama Mary e suo padre Joseph. Altro che puritani di Hidel, questi sono davvero convinti di essere il Signore in terra-

-Ridicolo…- Nathan gettò uno sguardo all’erba attorno a loro, contemplandone la semplice e piacevole colorazione.

-Ma non sembrano avercela con te, almeno questo problema te lo eviti-

Ma Nathan non stava ascoltando Damon in quel momento. Il suo sguardo era fisso sull’erba, stava ricordando una lezione importante che gli aveva insegnato Ann, una cosa riguardo l’elevarsi dell’uomo all’altezza di Dio. Quella novità riguardo Joshua permetteva a Nathan di comprendere finalmente ciò che la ragazza aveva cercato di trasmettergli –Damon…  Ho l’impressione che Marcus sospetti di me- sussurrò in modo che solo il cugino potesse sentirlo.

-Immagino di sì- confermò l’altro Angelo –Nate, Jen ci ha assicurato che ti avrebbe difeso, abbiamo lei dalla nostra. Ma dobbiamo muoverci, anche Sogno si sta preoccupando…-

Nathan annuì. Meglio non far agitare la piccola Sogno. Si mise in piedi –Ricordi quando ci fu quella gara di cucina?-

-Oh sì, che sbronza favolosa!- esclamò nuovamente allegro il cugino.

-Ho fatto una promessa ad Ann, poco prima dell’annuncio dei risultati- il vento fresco gli scompigliò i capelli, costringendolo a fermarli con una mano per impedire che gli offuscassero la vista –presto me ne andrò. E’ il momento di mantenere quella promessa.-

Damon gli sorrise facendo segno di vittoria col pollice –Anch’io ho una cosa da fare. Good luck, boy!-   

 

Guardare Hidel da lontano era una vera noia. Lì dentro sicuramente si divertivano alla grande, e invece loro, gli Angeli, dovevano restare fuori, a sorvegliare: impassibili, imperturbabili, immobili, la loro stabilità era quasi paurosa.

Non avevano il permesso di difendere il viaggio in caso di attacco, era tutto affidato alle mani del supervisore, un Angelo scelto con cura dai due capi, Marcus e Jen, un qualcuno di affidabile e abbastanza preparato da fronteggiare un’emergenza. Il supervisore scelto era Nathan Metherlance, che dunque non era cattivo, anzi, era il loro protettore.

Per entrare nel “gruppo” degli Angeli dovevi superare un addestramento e un esame che facevano venire i brividi. Gli Angeli avevano il compito di portare la felicità, ma non potevano innamorarsi. Era loro vietato, altrimenti sarebbero andati contro tutti i principi che asserivano che loro esistevano solo per far del bene al prossimo. Ma il loro potere era limitato. La felicità la portavano sì, ma solo per un periodo. “Niente è eterno, se non l’amore del nostro Maestro”, questo era il primo principio della dottrina degli Angeli. Seguivano tutti un “Maestro” che era stato riconosciuto in seguito come Dio. Ma non il Dio cristiano, un dio ben diverso, che comprendeva meglio i bisogni immediati degli esseri umani, che non aspettava che “i poveri morissero per conquistare il Regno dei Cieli” e bla bla bla…

Gli Angeli avevano dei nemici: i Demoni. Essi erano annidati ovunque, e un gruppo consistente di loro era stato rilevato fuori Hidel: volevano distruggere il villaggio. Dunque gli Angeli avevano cominciato delle trattative con i Demoni, in modo da negoziare la salvezza di Hidel. Era incredibile che qualcuno si preoccupasse della sorte di un paese così piccolo, ma gli Angeli non badavano a ciò: a loro importava solo completare la loro missione.

Gli Angeli erano il bene, i loro protettori silenziosi e invisibili. I Demoni si annidavano attorno a loro ed erano il male. Gli uni non potevano avere la meglio sugli altri: era scritto così. Nessuna delle due specie poteva distruggere l’altra, in quanto la lotta tra le due fazioni era ormai storica. Bene e male spesso si mescolavano, quello che contava, però, almeno nella visione di un Angelo, era far sì che la volontà del Maestro si compisse.

Krissy sbatté più volte le palpebre massaggiandosi il capo. Sospirò, tornando a specchiare i suoi occhi in quelli di Damon.

-Lo so, sembra assurdo… Immagino che tu non mi creda-

Neanche Damon sapeva perché aveva rivelato tutto a Krissy… beh, quasi tutto. Era un qualcosa che gli sarebbe costata l’espulsione dagli Angeli, che lo avrebbe macchiato a vita. Ma lui era già sicuro di essersi indelebilmente macchiato: si era innamorato. Aveva infranto una delle leggi portanti della dottrina degli Angeli.

-No, Damon, ti credo, ti credo davvero- la ragazza gli carezzò il viso col suo solito fare dolce e premuroso. Erano quei gesti così semplici ad aver conquistato il cuore dell’Angelo.

Damon non aveva aspettato altro che Nathan tornasse ad Hidel per correre a cercare Krissy. Presto se ne sarebbero andati, e le parole del cugino riguardo la promessa che aveva fatto ad Ann gli avevano fatto capire, assieme alla frase terrificante con cui Marcus si era congedato, quanto il villaggio fosse in pericolo, come una bambina che danza sull’orlo di un abisso.

Aveva deciso di non perdere tempo e di dire tutta la verità alla piccola Krissy, di portarla con sé se possibile. Sogno aveva predetto che ben presto, nel giro di qualche mese, una terribile tragedia si sarebbe abbattuta su tutti loro: Angeli, Demoni e umani avrebbero dovuto affrontare qualcosa di spaventoso.

L’Angelo carezzava dolcemente le ciocche rosso fiammeggiante della ragazza, chiedendosi quanta cura il Maestro mettesse nel creare le creature femminili. Era ancora molto scossa, aveva bisogno di tempo per pensare e decidere, questo Damon lo comprendeva pienamente.

Si arrabbiò con se stesso. “Nate non avrebbe mai fatto un’azione così avventata. Ma lui è troppo simile a loro, ha dimenticato cosa significa amare qualcuno…

Ironia della sorte, nessuno meglio di un Angelo poteva capire il significato della parola “Amore”. Parola che a loro era negata.

I due ragazzi si erano fermati sotto un albero, lei era seduta sulle gambe di lui, giocherellando con le pieghe dell’abito, amorevolmente coccolata e consolata.

-Mi dispiace tanto doverti dare tutte queste notizie sconvolgenti all’improvviso-

-No, dai- rise Krissy, una risata così tenera che le fece meritare un bacio leggero sulla fronte. Pur essendo completamente rossa in viso – quel colore si abbinava ai suoi capelli -, ridacchiò in modo ironico –mi stai solo dicendo che ben presto saremo coinvolti in una guerra dove potremmo morire tutti, e che tu e messere Metherlance sarete in prima fila-

-Per proteggere te ed Annlisette Nevue-

Krissy alzò lo sguardo fino a incontrare il suo –E tu come conosci Annlisette?-

-Me ne ha parlato Nate- annuì Damon, correggendosi subito dopo –anzi, ne parla sempre-

Krissy ridacchiò con fare timido. A quanto sembrava Ann aveva fatto breccia nel cuore di ghiaccio del messere.  –E che cosa ti ha detto?-

-Nate è nei guai alla grande- disse schiettamente l’Angelo. Con Krissy non si faceva più problemi, le raccontava tutto –qualcuno sta cercando di incolparlo di qualcosa di grave che lui non ha fatto-

La ragazza fece un’espressione preoccupata –Uno dei… Demoni?-

-Non lo so… non riesco a cavare un ragno dal buco- sospirò lui, rassegnato.

-Ma è semplice, Damon!- la ragazzina si mise in ginocchio davanti a lui, osservandolo con aria da maestra. Damon rimase a guardarla con tanto d’occhi, accaparrando per sé ogni piccolo particolare, ogni sillaba e ogni tono usato dalla dolce Krissy –Se sono vostri nemici potrebbero voler fare in modo che cominciate a sospettare di voi stessi, allontanandovi e litigando, diventando più deboli!-

Era tutto chiaro, limpido. Damon quasi si diede dell’idiota per non aver capito una strategia così ovvia. Volevano che gli Angeli si distruggessero da dentro.

-Qualsiasi cosa accada…- riprese Krissy con espressione seria prendendo delicatamente il volto dell’Angelo tra le mani –dobbiamo restare uniti e fidarci di chi siamo sicuri sia dalla nostra parte-

E Damon sapeva di chi fidarsi: Krissy, Sogno, Nathan e Ann, anche se con la ragazza mora aveva parlato una volta sola e per poco.

-Hai ragione, Krissy- le sorrise, colpito ancora una volta al cuore dalla dolcezza immensa di quella ragazzina. Doveva ricordarsi di ringraziare Ann la prossima volta che si sarebbero incontrati. Dopotutto era merito della ragazza se Krissy si era spinta fin dentro la foresta, quel giorno di tanti mesi prima.

Le carezzò una guancia afferrando delicatamente una ciocca rossa e portandogliela dietro l’orecchio –Ora ascoltami. La situazione si sta facendo pericolosa, qui- sì, Krissy se ne era decisamente accorta –devi farmi il favore di non uscire più dal villaggio se non è necessario. Se invece devi farlo a tutti i costi, portati Ann o tuo padre, e soprattutto non girare mai disarmata-

La ragazzina sorrise, prese la borsa con cui aveva portato, mostrando a Damon un angolo in cui teneva quello che sembrava essere un coltellaccio ben nascosto da delle bende. Lui annuì compiaciuto.

-Ma ci siete voi Angeli a proteggerci, no?-

A quel punto l’Angelo stentò. La voce gli si mozzò in gola e fu costretto ad abbassare gli occhi, mantenendo un lungo silenzio. La ragazza colse questo improvviso cambio d’umore, e lo ricollegò subito a qualcosa che non le era ancora stato rivelato –C’è qualcos’altro che devi dirmi?-

-Per un po’ andremo via…- Damon buttò fuori tutto in un solo sospiro.

-Ah…- fu l’unica cosa che Krissy rispose. Rimase per un po’ in silenzio, accoccolandosi poi tra le braccia del ragazzo.

Egli la guardò sorpreso.

-Starete via per tanto tempo?-

-Uhm… circa due mesi-

-Come mai?-

Bella domanda. Damon aveva una mezza idea del perché Marcus voleva a tutti i costi lasciare le lande, eppure gli sembrava una scelta troppo repentina per non insinuare il dubbio anche nei nemici.

-Ho capito, non me lo puoi dire- la ragazza sospirò amaramente, e l’Angelo si sentì molto in pena. Avrebbe volentieri fatto a meno di tenerle tutti questi segreti –mi spiace per Ann, si sentirà abbandonata- nemmeno allora Damon rispose. Come dare torto ad Annlisette? Soprattutto considerando che Nathan aveva tre probabilità su cinque di non rimettere più piede a Hidel. 

-Mi dispiace molto… io tornerò di sicuro, ma per Nate non è certo-

Krissy si voltò a guardarlo con tanto d’occhi. Se si parlava della sua amica era sempre vigile, era così altruista –Signore onnipotente, Ann ci starebbe malissimo-

Il ragazzo annuì, poteva ben immaginarlo. Anche Nathan, almeno secondo lui, sarebbe stato più malinconico nei mesi di lontananza. Ormai si era affezionato molto a Hidel –Se posso darti un consiglio… durante l’estate cerca di distrarre Ann-

-Certo che lo farò! Non la lascerò mai sola!-

-No, non intendevo questo…-

La ragazzina lo osservò curiosamente.

-Dovreste entrambe trovarvi un… ehm, compagno che non sia un Angelo- in quel momento Damon si sentì un traditore. Un traditore nei confronti di Krissy, di Annlisette e di Nathan. Ma era sicuro che il cugino avrebbe fatto la stessa cosa, la più assennata.

La reazione di Krissy fu però inaspettata: rise. E anche di gusto –Ed ecco Damon Darkmoon nella parte del tipico “cattivo e pericoloso” che si preoccupa per la sorte della donna che ama-

-Eh?!- il ragazzo saltò in aria –Io non sono cattivo!- poi voltò il capo socchiudendo gli occhi, con un sorriso appena accennato –Sono solo misterioso, affascinante…-

-Certo che lo sei- la giovane piegò il viso annuendo, e l’atteggiamento sfacciato di poco prima di lui si trasformò in un balbettio imbarazzato.

Quanto era raro per Damon sentirsi fare simili complimenti? L’unica che lo elogiava spesso era Sogno.

Abbassò gli occhi e Krissy, intenerita da quel gesto, lo abbracciò.

 

Nathan era fermo davanti a casa Nevue. Non c’era molta gente in giro, forse perché presto sarebbe stata ora di pranzo, dunque erano tutti indaffarati a completare il lavoro prima di tornare a casa e godersi qualche sana ora in compagnia della famiglia.

Il giovane studioso si chiese se fosse il caso di bussare ora, interrompendo la signora Nevue che, con tutta probabilità, era immersa in cucina; suscitando l’ira funesta di Gabriel, che gli lanciava occhiate da “prima o poi faremo i conti” ogni volta che si avvicinava a sua sorella.

Ma il tempo a disposizione era sempre meno, e Nathan aveva urgenza di parlare con messere Nevue.

“Allora perché sto fermo qui, come un cretino?”

Era una domanda retorica: era, in realtà, troppo impegnato a ricordare la prima volta che aveva poggiato gli occhi su quella casa. Bianca, completamente innevata, sembrava che il soffitto potesse cadere da un momento all’altro in testa ai poveri inquilini.

Casa Nevue non era molto grande, era più che altro alta. Due piani più mansarda, per un totale di cinque stanze, o almeno, così gli aveva raccontato Ann. Sapeva anche che c’era un passaggio segreto per raggiungere la sala maestra. Tutte le case, lì ad Hidel, avevano dei piccoli condotti sotterranei che fungevano da uscita di emergenza. Anche se non aveva ancora capito come potevano dei condotti sotterranei resistere per tutto quel tempo alle intemperie. In che cosa erano fatti?

“Spero vivamente che Damon e Sogno escano dalla foresta solo per darmi uno spintone verso quella casa…

Sospirò. Sapeva infatti che stava per scatenare le ire funeste del padre di Ann – e non era esattamente il suo sogno nel cassetto mettersi contro un omone di due metri, con due spalle mostruose, la voce grossa e i modi tutt’altro che fini e cortesi -, ma una promessa è una promessa…

“Hai sempre mantenuto le promesse, Nate. Non spezzare questa bellissima abitudine.

Così, finalmente, si incamminò verso casa. Batté tre volte sulla porta, aspettando. Provò a immaginare cosa avrebbe fatto se, dopo tutta questa lotta con se stesso, non ci fosse stato nessuno in casa, e si convinse che era meglio non pensarci.

La porta si aprì, e il sorriso gioviale della signora Nevue lo accolse come un vento caldo –Oh, messere Metherlance, che piacere avervi qui-

Era sempre così buona e dolce, quella tenera mamma –Perdonate il disturbo, avrò sicuramente interrotto qualcosa- Nathan chinò il capo in segno di saluto.

Elizabeth sorrise garbatamente –Stavo solamente preparando il pranzo, nessun problema, figuratevi. Ma prego, accomodatevi, non restate là fuori-

La donna gli fece spazio aprendo la porta, e Nathan accettò l’invito. Elizabeth gli scioglieva il cuore. Gli sarebbe piaciuto avere una madre così dolce, ma non era stato così –Vi ringrazio, madame-

-Immagino cerchiate Annlisette-

-In realtà cercavo vostro marito-

Elizabeth si mostrò sorpresa, ma subito dopo annuì –Dovrebbe tornare a breve. Se volete potete aspettarlo qui. Vi dispiace se intanto continuo a preparare il pranzo?-

-Solo se mi permettete di aiutarvi il più possibile-

Nel frattempo, al piano di sopra, Ann saltava sul letto.

Sua madre la rimproverava sempre, ma ormai era vizio della ragazza. La aiutava a distendere i nervi e soprattutto a pensare. L’incontro di quella mattina con Nathan, le scoperte riguardanti la notte passata, tutto non aveva più senso. E lei, razionale com’era, doveva trovarlo.

“Ricapitoliamo… hop!” saltò più in alto, rischiando di andare a sbattere la testa contro il muro “in qualche assurdo modo qualcuno ha messo in testa a Gabriel che ieri sera ho preso una cesta in mano e mi sono fatta male. Lo stesso qualcuno mi ha – gentilmente – pulito l’abito. Si è poi premurato di cancellare la memoria a Nathan.” Improvvisamente le venne in mente un altro particolare: i lividi sulle gambe. La cesta non c’entrava con quelli!

Si buttò sul letto alzando la gonna con una nuova speranza. Le si illuminarono gli occhi: aveva la sua prova. La pelle era liscia come se si fosse appena lavata, nessun segno di ferita… a parte un leggerissimo segno nero appena sopra la caviglia: era la ferita più grave. Evidentemente la miracolosa magia che gli era stata applicata non aveva funzionato completamente.

“Aspetta… non esiste la magia!”

Era molto in conflitto con se stessa. Non credeva assolutamente nella magia, nella superstizione e compagnia. Se vedeva un gatto nero non lo evitava, se la luna era rossa non significava che qualcuno era stato ucciso, almeno per lei. Poggiò una mano sotto il mento, gettandosi poi sdraiata sul letto a guardare il soffitto. Focalizzò la sua attenzione su una grande ragnatela in un angolo, appuntandosi che avrebbe dovuto distruggerla al più presto.

“Le erbe curano le ferite, e alcuni intrugli fanno sentire meno dolore. Ma esiste una medicina che fa guarire lividi e morsi grossi quanto una spalla di un uomo in una notte sola? Chissà se Nathan ne ha idea…”

Si girò dal lato della sua piccola finestra, osservando il cielo fuori. Che situazione strana: come se ne sarebbero usciti? Ci sarebbero state altre sparizioni?

Ann, lo ammetteva, non era affatto coraggiosa come diceva, e il pensiero di trovarsi in mezzo a una situazione simile, anzi, in una posizione di spicco, la innervosiva e spaventava parecchio. La persona che aveva architettato tutto, che forse era pure colpevole delle sparizioni, si era per qualche strano motivo concentrata su lei, e forse anche su Nathan. Che questa persona avesse un qualche controllo sui lupi? Che fosse anche colpevole delle cinque sparizioni e della conseguente morte della povera signora Hurst? Tutti quegli interrogativi restavano, appunto, interrogativi, nella mente sempre più confusa della ragazzina.

“E poi… se anche a qualcun altro è accaduta la mia stessa esperienza, sicuramente non l’ha raccontato a nessuno per paura di passare per pazzo. E’ normale. Non posso sapere se questa persona ce l’ha solo con me.”

Niente, era troppo complicato. Doveva far luce su quella faccenda, ma aveva bisogno di Nathan e della sua scienza ferrata.

Saltò giù dal letto e scese le scale.

-E tu che diavolo ci fai qui?-

Nathan le sorrise. Stava aiutando sua madre a cucinare.

-Oh, Ann- Elizabeth si voltò verso la figlia –messere Metherlance è venuto a cercare tuo padre, mi sta gentilmente aiutando nell’attesa che torni-

-E’ un piacere imparare qualche ricetta nuova- ammise Nathan.

-Non si trova tutti i giorni un uomo a cui piace cucinare. Ann, dovresti prendere esempio- affermò con dolcezza la donna.

-Non c’è bisogno- Ann si sedette al tavolo, guardandoli con un sorriso che la diceva lunga –a casa mia sarà mio marito a cucinare-

-Allora, mio caro messere Metherlance, dovrai imparare quante più ricette possibili- Elizabeth fece l’occhiolino ad Ann.

Inutile dire che la ragazzina scattò in piedi nello stesso momento in cui Nathan s’impuntò, urlando –Mamma! Ma che dici!-

-Signora, la prego, non corra troppo…- Nathan si sforzò di sorridere –Annlisette è ancora giovane… ah! Con questo non voglio dire che non sarebbe un’ottima moglie, ma… ecco… - cominciò a balbettare con fare imbarazzato, tanto che la madre rise di gusto mentre la figlia avvampava stringendo i pugni agitando le braccia, cercando di far cenno a Nathan di chiudere la bocca. Non l’aveva mai visto così agitato: sua madre aveva davvero colpito nel segno.

-Sono ancora giovane!- esclamò la giovane alzando la mano per aria, intervenendo in aiuto dell’amico.

-Già, certo- annuì lui di tutta corsa –e sicuramente merita di meglio di un ricercatore squattrinato-

-Siete troppo modesto, messere- rise ancora Elizabeth, tornando a condire il piatto del giorno.

-La prego, non mi dia del Voi. Nathan va più che bene-

-Che sia un modo per avvicinarsi alla nostra famiglia? Eh eh eh- tornò all’attacco la donna.

-Ma no!- Nathan ricominciò ad agitarsi –E’ solo che non me la sento di farmi dare del Voi da una persona che merita molto più rispetto-

Ann gettò la testa sul tavolo, arrendendosi al rossore che le stava divorando le guance.

-Ma che ragazzo galante, intelligente e soprattutto carino. Mi piacerebbe davvero averti in famiglia, Nathan-

La signora Nevue era davvero convinta di ciò che diceva! Ann si trovava in grandissimo imbarazzo. Alzò lo sguardo quanto bastava per guardare Nathan e, vedendolo così agitato, non poté fare a meno di sorridere. Le tornarono in mente le parole che Krissy le aveva detto quando era tornata dalla terribile notte passata nella foresta: “dovresti farci un pensierino, Ann cara!”

Annlisette sorrise timidamente. Sì, in effetti un pensierino ce lo stava già facendo da molto tempo. Ma non l’avrebbe mai rivelato ad anima viva, almeno per ora. Sarebbe stato il suo piccolo segreto, una leggera ossessione con cui consolarsi la notte. E finché lei era l’unica a sentire quel profumo stupendo che solo attorno a Nathan si poteva odorare, lo avrebbe respirato a pieni polmoni.

Avrebbe volentieri continuato a gongolare tra sé e sé beandosi delle poche ondate di profumo che le arrivavano, se la porta di casa non fosse stata spalancata da un gesto poco gentile accompagnato dal borbottio di messere Nevue.

-Siamo a casa… oh, buongiorno ragazzo. Come mai da queste parti?-

Gli ultimi due membri della famiglia entrarono. Da un lato Nathan fu loro grato, infatti Elizabeth lasciò immediatamente cadere l’argomento “matrimonio” per non scatenare le ire funeste del vecchio Lazarus, ma dall’altra parte gli dava alquanto fastidio essere osservato da Gabriel come se stesse per saltare addosso a Ann da un momento all’altro.

-Vi cercavo, messere Nevue. Avrei bisogno di parlare con voi- lanciò uno sguardo al pranzo già pronto –quando avete tempo, ovviamente-

Lazarus osservò la situazione -Il pranzo è pronto- sorrise. Forse era nelle sue intenzioni sembrare gentile, ma ottenne l’effetto contrario.

“Quando un omone di due metri per quattro ti sorride parlando di pranzo, non vorrà mica dire che tu sei il pranzo, vero?” pensò Nathan costringendosi a sorridere.

-Resta con noi a mangiare, ragazzo. Dopo il pasto parleremo con calma.-

 

 

 

Note dell’Autrice:

Buonasera! Come sempre, gli aggiornamenti di WCITS arrivano in tarda serata, ma, cara Sibyl, non lo faccio apposta per farti stare in piedi la notte, giuro!

In questo capitolo vengono rivelate molte cose sugli Angeli, spero di aver soddisfatto un po’ la vostra curiosità =) del resto non è giusto tenervi all’oscuro di tutto fino alla fine. Chissà che qualcuno non riesca a ricostruire il puzzle con gli indizi che do di tanto in tanto? Altrimenti arrendetevi all’evidenza e chiamate il dottor Layton.

Inoltre qui già si comincia a intravedere uno spiraglio… Ann aveva già parlato del profumo di Nathan, ma stavolta sembra esserne davvero inebriata xD vi anticipo che ci sarà un pezzo, tra pochi capitoli, dove il profumo prenderà il sopravvento xD ahia, che spoiler scottante!

 

La posta di Ann & Nathan:

Ann: Perché scrivo in modo diverso?!

Nathan: Perché l’Autrice ha cambiato font, Ann cara.

Ann: Ha cambiato fonte? Non le piaceva l’acqua di Hidel?

Nathan: … Diventerò stupido, me lo sento… ç_ç

 

Violacciocca: E stavolta il nuovo capitolo è arrivato in breve! Sìì! Grazie dei complimenti, carissima *_* non è stato facile buttarsi giù da quell’albero, abbiamo dovuto riscrivere la scena diverse volte perché scoppiavo a piangere! Inoltre sono felice che ti piacciano le mie parole speciali, Nathan dice che non devo sforzarmi di ripetere le parole difficili che dice lui, ma anch’io ho bisogno di esprimere concetti profondi… Grazie mille per passare a leggere questa storia, che, ti annuncio, finalmente è entrata nel vivo! Ben presto entreremo nella parte in assoluto più romantica di tutto il racconto ^^ ah, il link al forum lo trovi nella pagina autrice della nostra Sely. Dice che non può i link nelle FF, se no te lo dava volentieri. Basta che guardi nella sezione “sito web” nella paginetta personale di Sely. Baci, Annlisette.

 

BrandNewSibyl: Mi appello alla facoltà di non rispondere. … Che stelle dovrei vedere, io?! <.< popolo femminile ingrato!

Sely: Nathan! Accuccia!

Nathan: *addomesticamento 3%*

Ann: ^^ abbiamo introdotto la soglia di addomesticamento di Nate! Quando raggiungerà il 100% diventerà uke!

Nathan: *addomesticamento 1%*

Sely: °A° che calo brusco!

Nathan: <.<” dopo questa, pretendo il ruolo di protagonista-vittima.

Sely: Tu sei un grandissimo stronzo .-. non sei tagliato per fare la vittima. Bene basta, altrimenti continuiamo. Io e i miei personaggi riusciamo a fare discorsi senza fine, non chiedermi come. A volte li sento qui, accanto a me, a litigare dalla mattina alla sera.

Nathan: Riguardo la domanda “ragazzi, quando vi date una svegliata?”. Hm? Una svegliata riguardo cosa, Milady? °_°

Ann: >.< su quanto sono adorabile!

Sely: =.= ecco, appunto… Inoltre ti ringrazio per i complimenti, mi fanno sempre piacere <3 *arross* la coppia Nate x Ann è davvero strana, è vero. Lei è un vero maschiaccio ma paurosa e spesso piagnucolona, lui invece a prima vista è il perfetto Gary Stue, ma in realtà è tutt’altro che perfetto. Anzi… Datemi tempo e vi farò odiare il nostro Nate.

Nathan: O_O

Ann: ç_ç

No dai, odiare no. Però… mah, vedrete. Ormai non manca molto ;)

 

Midao: Veterana! In questo capitolo stiamo rispondendo tutti insieme alle recensioni. Innanzitutto Sely conferma che dovresti odiarla, e ti ringrazia di cuore per tutte le belle parole che spendi per ogni recensione. Dice che le fanno venire una voglia matta di scrivere e andare avanti! Come hai visto, in questo capitolo abbiamo svelato alcuni dei misteri che ruotano attorno agli Angeli, anche se ancora alcune domande – che tu stessa ci hai posto – non sono ancora state risolte. Da dove vengono? Chi li crea/come nascono? Qual è la cura miracolosa di Sogno? A proposito di Sogno, ti manda un sacco di abbracci per i complimenti e chiede perché il suo nome ti ha lasciata allibita xD Riguardo la faccenda del titolo leggi sotto, lo scriviamo per tutti. Grazie ancora del tempo che spendi con noi, alla prossima! <3

 

NadeshikoHolery: Milady *fa baciamano* onorato di rispondere alla vostra prima recensione. Eh sì, Damon mi ha rubato la battuta per fare la figura del figo. Aveva il mio copyright “abominevole Damon delle nevi, proveniente da pinguilandia”, ma considerando che mi ha aiutato a sconfiggere Sogno e Dono a pokémon, posso perdonarlo ^_^

Sely: *indica con mille frecce Nade* LEI HA CREATO DAMON E SOGN… EHM, YUME! Solo che poi io l’ho chiamata Sogno xD *coccola Nade* è la mia preziosa kohai <3

Nathan: ^_^ ma soprattutto, lei ha creato la piccola Nadeshiko *scompiglia capelli a Nade*

Ann: Ah ehm *si schiarisce la gola con fare scocciato*

 

Bene, considerando che tutti mi avete chiesto, rispondo alla domanda riguardo “What colour is the snow?”. I primi due racconti di questa serie di storie – salvo cambiamenti improvvisi di programma – hanno titoli di questo genere. “What colour is the snow?” e “What colour is the mist?” – titolo forse provvisorio. Comunque sia avrà per protagonista Nathan – basano il loro titolo su un malinteso comune. Di che colore è la neve? Bianca, risponderanno quasi tutti. E invece no. La neve è composta da minuscoli cristalli trasparenti, o almeno, questo all’inizio, poi tanti cristalli si aggregano assumendo la colorazione che tutti conosciamo.

E’ una sorta di indizio – come vedete comincio a dare indizi già partendo dal titolo xD – la neve, così come la nebbia del racconto di Nathan, vanno ben al di là di ciò che gli occhi vedono. E così anche i nostri protagonisti hanno ben altra faccia di quella che mostrano…

 

Bene, accontentata la vostra curiosità vi saluto e me ne vado a morire di caldo <3

Chu, Sely.  

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Capitolo 14
*** L'altra faccia ***


What colour is the snow

What colour is the snow?

Capitolo 14: L’altra faccia.

 

Annlisette Nevue non sapeva se ridere o piangere. Inizialmente aveva riso molto nervosamente, non riuscendo a credere che suo padre avesse davvero invitato a pranzo Nathan Metherlance, lo straniero, lo “strambo”, lo scienziato pazzo. Quando mai Lazarus si era dimostrato così gentile da addirittura invitare qualcuno a restare per il pasto? Anzi, quando mai aveva condiviso il pranzo suo - e soprattutto quello dei suoi figli – con un totale sconosciuto. Sua madre l’aveva forse corrotto? Anche suo padre si era fissato con la storia che tra loro c’era del tenero e aveva cominciato a considerarlo un genero? A confermare quelle ipotesi c’era l’atteggiamento di Gabriel, che non mancava di dimostrarsi antipatico e di lanciare a Nathan una serie sterminata di occhiate sospettose.

“La situazione sta precipitando…” pensava tra sé e sé la ragazza mentre erano tutti seduti a tavola. Non era andato tutto così tragicamente come aveva immaginato, lo straniero era infatti riuscito a instaurare un dialogo molto interessante sull’uso odierno del latino.

-Quindi tu mi dici che conoscere quella lingua apre molte strade- considerò Lazarus scrutando con curiosità Nathan. Quella discussione lo stava prendendo davvero.

-Sì, soprattutto se si opera nel mio campo: l’archelogia- continuò il giovane studioso –è una branchia della scienza che sta riscuotendo molto successo in questi anni, soprattutto grazie alle nuove scoperte in campo tecnologico. Grazie ai moderni treni, al sistema di illuminazione elettrica e…-

-Treni? Sistema di illuminazione elettrica? Di che accidenti stai parlando?- lo interruppe Ann alzando il viso dal piatto. Non aveva mai sentito nomi simili prima.

Nathan parve molto sorpreso, infatti passò lo sguardo celeste su tutta la famiglia che lo osservava con lo sguardo di chi non capisce, infine inclinò il capo –Davvero a Hidel non arriva nemmeno notizia di… non dico la luce elettrica, ma almeno dei treni? Esistono da… trent’anni, all’incirca-

-Ragazzo, in questa famiglia solo io esco da Hidel. Ogni volta che arrivo in città questa sembra sempre più forte, avanzata, ma anche divoratrice di menti. Noi villici evitiamo troppi contatti con questa società affamata- gli spiegò il padre, e lo studioso annuì. Poteva ben capire dove voleva andare a parare: lì non avevano la minima intenzione di progredire, e ciò, agli occhi di Nathan, era una cosa molto negativa.

-Sì, sì lo sappiamo! Ma ora dimmi cos’è un treni… o treno?- lo richiamò Ann dandogli piccole pacche sulla mano.

Il biondo le sorrise gentilmente, la trovava molto dolce quando tirava fuori questo lato così curioso –Treno. Certo, scusa se ti ho fatta aspettare. Un treno è un mezzo di trasporto pubblico, aperto a chiunque, lo possono usare i nobili come i servi, basta comprare un biglietto, e ti porta ovunque-

-E come ti ci porta? Può portarti anche dall’altro lato del mondo? E’ veloce?-

-Sì, è molto veloce. E’ capace di portarti da una punta all’altra di Kharlan in una settimana-

-Incredibile!- Ann scattò in piedi sbattendo le mani sul tavolo. Nathan fece un salto all’indietro, sorpreso da quella reazione così esagerata. Anche il resto della famiglia lo guardava come se stesse parlando di qualcosa di mostruoso.

Nathan annuì, sorridendo ancora. Gli faceva uno strano piacere portare un barlume di scienza in quella famiglia così chiusa in se stessa. Forse non era un pensiero carino da fare, ma lo faceva sentire in qualche modo potente –Sono alti come la sala maestra, grandi il doppio. Sono composti da tante carrozze che ospitano i passeggeri e viaggiano sulle rotaie. Le rotaie sono… come sei sentieri, le linee su cui possono viaggiare solamente i treni-

-Che cosa li muove?- chiese Lazarus.

-Il carbone- rispose subito il ragazzo.

-Quello che noi mettiamo nel fuoco quando papà lo porta dalla città?- chiese Ann con grandi occhi luccicanti.

-Esatto. Lo si brucia e si ottiene forza motrice, ovvero capace di muovere un enorme treno-

-Ma ci stai dicendo la verità?- chiese Gabriel inarcando un sopracciglio, scettico.

Quella domanda pose inizio a un silenzio. Ovviamente c’era sempre qualcuno che non credeva, ma Gabriel sapeva essere un avversario ostico, di questo ne era sicuro. Avrebbe dovuto dargli prove concrete –Sì, se volete posso mostrarvene uno-

-E come? Non possiamo andare in città- sospirò Ann accasciandosi sul tavolo, mettendo il broncio.

Lo straniero fece cenno di no col capo, rivolgendole uno sguardo tranquillo –Ho dette fotografie in casa mia-

-Fotografie?- per la prima volta fu Elizabeth a parlare. La donna teneva una mano davanti alla bocca, incantata da tutte quelle strabilianti rivelazioni.

Nathan si chiese se non lo stessero prendendo in giro. Dove era stato Hidel negli ultimi cinquant’anni? Abbassò lo sguardo un attimo, chiedendosi come avrebbe potuto mostrare cos’era una fotografia senza spaventarli –Vi dirò la verità- decise infine, tornando a guardarli tutti e quattro –la fotografia è una cosa prettamente scientifica. Ma la superstizione, come sempre, mina il mio campo, additando noi scienziati non come persone che tendono una mano verso il futuro, ma come fattucchieri di strada. Una fotografia viene scattata da una macchina fotografica, uno strumento capace di catturare e trasferire una scena su carta-

Nessuno aprì bocca, Ann era tutta orecchi. Nathan però sapeva già cosa volesse chiedergli la ragazza –All’interno ha un meccanismo. Ti metti davanti alla macchina fotografica, un’altra persona si mette dietro l’oggetto, aziona il meccanismo, la macchina fa un piccolo botto… e la tua immagine rimarrà per sempre sulla carta- le sorrise –ricordi quello strumento alto con tre piedi in casa mia?-

La ragazza annuì. Lo ricordava ammassato in mezzo ai libri, nell’angolino accanto al letto. Sbatté le palpebre diverse volte –Quella è una macchina fotografica!- esclamò con occhi spalancati.

-Esatto, e questa…- lo studioso mise una mano nella tasca dei pantaloni, dalla quale uscì un pezzo di carta che mostrò prima ai genitori, poi ai fratelli –è una fotografia-

Ann gliela prese di mano con un gesto veloce, accostandosi accanto a Gabriel, così da osservarla per bene.

Ritraeva Nathan seduto su un gradino dietro il quale si vedeva un fiume. Accanto allo straniero c’erano due persone: una donna visibilmente più grande di lui, dai lunghi capelli e gli occhi molto dolci, seduta composta mentre rideva del terzo individuo, a cui il vento aveva sbattuto in faccia un foglio evidentemente di passaggio. Sullo sfondo c’era un ammasso di case e, in lontananza, una cattedrale. Il tutto era in bianco e nero. Ann rimase incantata, tanto che il suo cuore cominciò a battere più velocemente. Era davvero reale quello di cui parlava Nathan. Improvvisamente sentì la prepotente voglia di uscire da Hidel e viaggiare, prendere un treno, fare fotografie e vedere la luce elettrica. La casetta calda e accogliente di famiglia non le era mai parsa più opprimente.

-Quello è il mio migliore amico- le spiegò Nathan riferendosi al tizio il cui viso era nascosto –la donna, invece, è il mio capo-

Solo allora Ann focalizzò la propria attenzione sulla donna a fianco del suo amico. Se quella fotografia non fosse stata fonte di nuove emozionanti scoperte, sicuramente avrebbe subito fatto caso a quel particolare, ingelosendosi come al solito. Tuttavia, stavolta frenò il rossore sulle guance –Come si chiama?-

-Jen- rispose subito lui.

I commenti ripresero. Lazarus si mostrava molto interessato alle novità della città, tuttavia non si sbilanciava troppo. Nathan cominciò a vederlo sotto una luce diversa. Aveva l’impressione che l’uomo fosse davvero incuriosito da tutto quello che Hidel precludeva ai suoi abitanti, ma che al contempo avesse quasi paura di allontanarsi da quel luogo che rappresentava un posto sicuro per tutti loro. Una casa, per quanto vecchia e malandata, è pur sempre una casa.

-Dicevi prima che la superstizione ha qualcosa a che fare con la fotografia- fece notare Elizabeth mentre sparecchiava.

-Giusto. Ho dimenticato di completare il discorso!- esclamò Nathan in imbarazzo, facendo ridere Ann e sua madre –Vi dicevo che c’è addirittura chi dice che le fotografie… mangino l’anima, o qualcosa del genere-

Ancora una volta tutti gli sguardi furono puntati su di lui, in silenziosa attesa di risposte che potessero smentire quella diceria.

-Ovviamente è una sciocchezza inventata da chi ha paura della tecnologia- riprese il giovane porgendo il proprio piatto alla padrona di casa –io ho fatto moltissime fotografie, e posso assicurare che l’anima ce l’ho ancora- rise.

Ann si unì alla sua risata. Almeno sotto quel punto di vista andavano sempre e comunque d’accordo. In realtà i punti di contatto tra loro due erano davvero molti, peccato che venissero sempre soppressi da argomenti più futili su cui si facevano guerra.

-Io aspetto ancora che mantieni la promessa che mi hai fatto- la ragazza voltò lo sguardo poggiando il capo su una mano, facendo un’espressione scocciata.

Nathan ridacchiò, quindi annuì –E’ proprio per questo che sono venuto qui-

-Davvero?- Ann tornò a guardarlo speranzosa. Forse era finalmente il momento di onorare la promessa fatta alla gara di cucina?

Osservò Nathan voltarsi verso il vecchio Lazarus esordendo con un semplice –Purtroppo le piante non crescono più rigogliose se parli loro in latino- Elizabeth sorrise, mentre Gabriel parve pronto a saltare addosso allo straniero per riempirlo di pugni: tutti avevano già capito dove voleva andare a parare.

-Immagino abbiate già capito che cosa ho promesso ad Ann, ma posso anche comprendere le preoccupazioni di una famiglia. Neanche io affiderei mai una figlia a uno sconosciuto. Beh… anche se mi conoscete da sei mesi in realtà…-

-Non si tratta di questo- lo interruppe Lazarus. Lasciò che le spalle si posassero sulla sedia con un sonoro cigolio. Le mani enormi, la stazza imponente, tutto nella sua figura incuteva un certo timore. Era incredibile pensare che Ann avesse avuto la grandissima fortuna di prendere la corporatura della madre. Nathan interruppe il discorso per prestargli attenzione. –Potrei anche farle prendere lezioni da te, ragazzo, ma considera che in questo villaggio tutte le tue belle parole, le tue fotografie, i treni e il resto, non servono a niente. Sarebbe solo toglierle del tempo che potrebbe usare per lavorare e aiutare la nostra famiglia-

-Questo lo so- rispose subito Nathan, consapevole di quanto fosse vero ciò che aveva detto messere Nevue –ciò implicherebbe che la ragazza uscisse da Hidel. Ann è sveglia, intuitiva, ha grandi potenzialità che potrebbero portarla in alto. La città di certo è più pericolosa di questo villaggio, c’è da confrontarsi sempre col prossimo, da guardarsi le spalle, ma è anche vero che lei non sarebbe sola-

-Uh?- Ann fece una faccia sorpresa. Le cose appena dette da Nathan l’avevano un po’ intimorita.

-Ovviamente ci sarei io con te-

A quelle parole, il cuore della ragazza si scaldò. Non solo per la loro gentilezza, ma anche per il sorriso premuroso con cui Nathan le aveva accompagnate. Gli sorrise di rimando, grata.

-Questo è consolante- Elizabeth prese la parola –io la penso come Nathan- notando lo sguardo torvo del marito ridacchiò allegramente –caro, lasciami spiegare- entrambi i ragazzi furono di nuovo attenti –conosco i valori di Hidel, li hanno insegnati anche a me. “Non uscire dal villaggio” è una delle nostre prime regole- disse rivolta a Nathan. Lo studioso sembrò a dir poco sconcertato, e la donna lo poteva ben capire –immagino tu abbia viaggiato e visto molte cose. Ti riesce difficile credere che esista una regola simile?-

-Ci credo, madame, anche troppo…- rispose Nathan senza che quell’espressione stupita.

Ann sbuffò –Stupidissima regola…-

-Le due regole di Hidel furono istituite dai nostri progenitori, coloro che crearono il villaggio. La prima è quella che ti dicevo prima, la seconda vieta di recarsi a nord est, oltre il lago-

Se non riusciva a capire il senso della prima, Nathan colse subito a cosa si riferiva la seconda. Come un lampo, nella sua mente, e probabilmente anche in quella di Ann, tornò vivida l’immagine del famoso e misterioso Joshua, proveniente da un luogo al di là del lago. Ann lanciò a  Nathan un’occhiata furtiva. “Sì” le rispose mentalmente lui. Qualsiasi cosa fosse a nord est era legata sia a Joshua che alla seconda regola di Hidel.

“Grazie alla mamma ora abbiamo un nuovo indizio” pensò Ann. Sicuramente Nathan non le avrebbe mai permesso di tornare lì, era troppo lontano dal villaggio e si era già mostrato un luogo pericoloso.

Tuttavia fu costretta a mettere da parte quei pensieri, almeno per il momento. Per qualche giorno voleva stare lontana dalle avventure, dai lupi e quant’altro. Magari passare un po’ di tempo con Nathan, a studiare…

-Tuttavia vorrei che Annlisette uscisse da Hidel e conoscesse il mondo- quelle parole stupirono Ann, che alzò lo sguardo sorridendo. Aveva trovato un solito appoggio nella madre –il mondo è fuori da Hidel, e Dio non ci ha creati per vederci chiusi ognuno in casa sua-

Nathan annuì –Immagino che preferisca vederci utilizzare le meravigliose facoltà del nostro cervello anche per progredire e migliorare la nostra condizione sociale-

Ann accennò un sorriso. Nathan usava sempre parole e frasi un po’ singolari, strane alle orecchie di una ragazza abituata alle frasi semplici e spesso ignoranti tipiche dei contadini. Era piacevole ascoltarlo, avrebbe passato volentieri molto tempo a sentirlo parlare, anche di cose che lei non conosceva assolutamente. Quante cose sapeva quello straniero? E quante gliene poteva insegnare?

-Farò doppi turni- le uscì spontaneo. Tutti gli sguardi furono puntati addosso a lei, ma lei aveva occhi solo per Nathan –non posso farmi scappare questa occasione. Tu sai troppe cose che io voglio conoscere, anche a costo di lavorare di notte- i due si scambiarono un sorriso. Per la prima volta, la ragazza vide nello studioso una nuova espressione, un nuovo modo di sorridere. Non più quella risata sorniona spesso atta a far imbestialire la gente,  bensì qualcosa di più gentile, comprensivo… quasi complice.

Tuttavia Lazarus non pareva ancora soddisfatto, e Gabriel non era da meno. Il fratello si mise in piedi con un veloce scatto, posando la mano sul tavolo con un gesto di stizza.

-Gabriel!- lo richiamò la madre, senza però ottenere risposta in cambio. Il giovane, infatti, salì in camera sua con un gran chiasso.

Nathan rimase qualche secondo a fissare il punto in cui era sparito, chiedendosi cosa avesse fatto di così grave anche stavolta. Era sua impressione o quel ragazzo era dannatamente geloso di sua sorella? Lo vedeva forse come una minaccia?

-Credo di non stargli troppo simpatico- disse in direzione dei genitori del ragazzo.

-Non farci caso, ragazzo- borbottò Lazarus esaminando con più attenzione del dovuto un cucchiaio. Ci trovava qualcosa di interessante o stava pensando a qualcosa?

Il silenzio calò. Ann odiava quei silenzi costretti, dove nessuno sa più cosa dire. Abbassò lo sguardo e poggiò le mani in grembo. “Stava andando tutti così bene… dannato Gabriel!”

Guardò in direzione di Nathan, sperando che almeno lui avesse una delle sue mitiche trovate da tirar fuori, ma anche lo straniero taceva. Sembrava molto a disagio.

“Così non va bene!”

La ragazzina prese al volo la fotografia che poco prima aveva esaminato, porgendola al proprietario –Che posto è questo?- domandò con tono impacciato.

L’aria, che fino a quel momento era stata tanto pesante da essere irrespirabile, le pareti improvvisamente troppo strette, i rumori amplificati che Gabriel produceva al piano di sopra, il lento ticchettare che spaccava i timpani, proveniente dall’orologio in un angolo, i pochi rumori che si udivano dall’esterno della casa, tutto questo e altro ancora sembrò pesare di meno quando Nathan riprese parola, sempre col suo tono cordiale –Questa, Annlisette, è Lilium, la capitale delle terre azzurre. Cosa sai di Lilium?-

Ann posò una mano sul mento, alzando gli occhi mentre cercava di ricordare –E’ una città sull’acqua? Ma non so come o perché-

-Inizialmente era una città come molte altre, ma il lento avanzare del mare l’ha inondata. Il livello del terreno era tre metri sotto l’acqua, dunque furono costruite strade galleggianti, ponti e quant’altro. Oggi è composta da una serie interminabile di piccoli fiumi su cui sono costruite case e vie-

-Dev’essere bellissima!- esclamò Ann immaginandola. Purtroppo però la sua mente aveva visto troppe poche cose per riuscire a figurare qualcosa di così imponente e complesso.

-E ti dirò di più- le sorrise Nathan –è completamente costruita con un materiale che splende alla luce del sole. Durante il giorno, quando il cielo è limpido, Lilium si illumina come un diamante-

-Wow! Accidenti! Meraviglioso!- la ragazzina ormai aveva le mani davanti alla bocca, lo sguardo sognante, tanto che i genitori si guardarono a vicenda trattenendo una risata.

Era difficile vedere Ann interessata a qualcosa. L’entusiasmo non era mai stato il suo forte, eppure quegli argomenti riuscivano a prenderla in un modo incredibile.

-E’ un vostro punto in comune, la passione per “ciò che c’è fuori Hidel”- sorrise Elizabeth.

-Abbiamo tanti punti in comune, anche se litighiamo sempre- rise Ann –e sempre per sciocchezze!-

-E’ vero- ridacchiò Nathan.

-Questo perché Nathan vuole sempre avere ragione- disse di rimando lei. E quella fu l’ennesima miccia.

-Non è vero, ti ho dato ragione un sacco di volte-

-E mi rimproveri sempre di essere una testa calda-

“Questo è vero” fu il pensiero collettivo di Lazarus ed Elizabeth, che li guardavano stupiti. Un attimo prima andavano d’amore e d’accordo, ora cominciavano a litigare?

-Non sono io quello che mette punti esclamativi a fine di ogni frase, milady Nevue-

Déjà vu.

Ann rimase il silenzio, osservando Nathan. Lui la osservò di ricambio con fare stranito. Tentò di fare mente locale. Dove aveva già sentito quella frase? Anzi, quando gliel’aveva detta?

-Ann, tutto bene?- si informò lui con sguardo preoccupato –Scusami, non era mia intenzione offenderti-

-Cara, sei pallida- la madre si alzò, raggiungendo la figlia, sulla cui fronte posò una mano.

Vedendo tutti così preoccupati, Ann si sentì in colpa. Sorrise scuotendo il capo –Sto bene, non c’è da preoccuparsi, ho solo… uhm… c’è un modo per dire quando hai l’impressione di aver già vissuto una situazione?- domandò a Nathan.

Lui annuì –Déjà vu- e in quel momento si rabbuiò. Che anche lui avesse avuto un’impressione simile? Ann non poteva dirlo con certezza. Forse era solo preoccupato o si sentiva in colpa.

Passò un altro quarto d’ora, durante il quale la ragazza venne accudita dall’amorevole madre. Nel frattempo, al tavolo, la “competizione” tra Lazarus e Nathan continuava. Il padre non sembrava del tutto convinto, ma lo straniero aveva promesso ad Ann che avrebbe provato a convincere il vecchio Nevue a lasciarle prendere alcune lezioni di cultura generale, dunque non demordeva. Sperava solamente che Lazarus non si stancasse e lo buttasse fuori a calci – e, in effetti, avrebbe avuto ragione a farlo -.

Quando scoccarono le quattro, orario in cui si torna a lavorare, Nathan si alzò dal tavolo –Chiedo scusa, mi sono trattenuto più del dovuto- purtroppo non era vittorioso. Ci aveva provato, la promessa l’aveva mantenuta. Notò che anche Ann era abbacchiata, probabilmente aveva creduto che davvero ce l’avrebbero fatta.

-Figurati, ragazzo, è piacevole parlare con te. Di solito parlo solo di capre e pecore, di fiere se si avvicina l’estate. E’ bello cambiare argomento ogni tanto- Lazarus si mise in piedi, stringendo con vigore la mano del giovane, facendogli un po’ male.

-Ah, dimenticavo una cosa importante!- esclamò Nathan. Ora arrivavano le note dolenti –Tra tre settimane partirete per la città, se ricordo bene- Lazarus annuì. Lo studioso concentrò la propria attenzione sull’uomo, al fine di non vedere la reazione di Ann quando riprese il discorso –verrò con voi. Le mie ricerche bastano, all’università mi hanno detto di rientrare-

-Oh, te ne vai?-

-Esatto-

Ann gli lanciò un’occhiata stupita, sentendo un tuffo al cuore. Ora ricordava dove aveva già sentito quella frase: Nathan gliel’aveva detta nella foresta, poco prima di essere attaccato dal lupo. E non solo. Ricordava anche che lui le aveva detto che presto se ne sarebbe andato. Era stato a far degenerare la lite!

“Significa che… mi ha mentito?”

Ora ne era sicura: lui ricordava tutto, le aveva detto una bugia. Forse, nella più remota delle possibilità,  non lo ricordava, ma ora sapeva che era successo. Ne aveva la prova. Altrimenti come poteva lei sapere che lui se ne sarebbe andato? Non c’era altra spiegazione: tutto era accaduto davvero, e Nathan stava cercando di nasconderlo. Non solo le aveva raccontato una frottola, ma le aveva pure dato della visionaria. E probabilmente conosceva sia Sogno che l’altro tipo che li aveva salvati dall’incendio. Stavano cercando forse di proteggere un qualche segreto? E Joshua, che tanto si era dimostrato ostile nei confronti di Nathan, poteva essere collegato a questo segreto?

-Tornerai prima o poi?- la voce grossa del padre la riscosse, facendole alzare lo sguardo.

-Non ne sono sicuro…-

“Come sarebbe a dire?! Certo che devi tornare!” la tristezza sopraggiungeva solo ora. Ora che si rendeva conto che lui se ne stava andando, che avrebbe portato via con sé non solo quel segreto, quelle bugie, quegli sguardi ambigui, ma anche quella strana luce che la aiutava a veder chiaro quando si trovava davanti a qualcosa di incomprensibile, e, soprattutto, si sarebbe portato via quel profumo che solo lei sentiva.

Abbassò lo sguardo evitando volutamente le occhiate dello straniero.

-Ho perso molto tempo, purtroppo, per onorare la mia promessa. Speravo di poterlo fare nel poco tempo che mi rimaneva- continuò lui, ma la ragazza non aveva più la forza di ascoltarlo. Con passi veloci, si allontanò salendo le scale, chiudendosi poi in camera sua.

-Stupido Nathan…- si fermò sulla porta, tenendo le spalle contro la parete, i pugni stretti e le guance ardenti, incapace di fermare quel calore che la pervadeva e le lacrime che si ammassavano sulle palpebre.

Era indecisa su cosa fare. Nella sua mente regnava il caos. Da un lato avrebbe voluto prenderlo per i capelli e costringerlo a confessare per poi mandarlo via malamente, dall’altro però sentiva di essersi ormai legata affettivamente troppo a lui, nonostante i continui battibecchi e le bugie. Anche se ormai aveva la certezza che lui era un bugiardo, che forse era tutta una messa in scena, capiva di non aveva più modo di scendere dal palco. Quella recita aveva funzionato benissimo, era riuscita a renderla quasi succube della presenza dello straniero.

E ora che lui sarebbe andato via… lei cosa avrebbe fatto?

 

Con un profondo sospiro, Nathan chiuse la porta di casa.

“Peggio di così non poteva andare…” chiuse gli occhi lasciandosi scivolare sul pavimento, sentendo il freddo legno sotto il palmi. Con fare stanco, di chi ne ha le tasche piene di ciò che giornalmente vede e sente, posò il capo contro la porta dietro di lui, un po’ consolato dall’oscurità onnipresente nella vecchia e logora casa affittata. Con lentezza aprì gli occhi, facendo scorrere lo sguardo celeste sulle assi di legno del soffitto, trovandole tutt’un tratto estremamente interessanti. In città non aveva mai visto case costruite così, pure da bambino era stato abituato a case in cemento. Non avevano nemmeno quello in quel villaggio dimenticato da Dio? “Ma dove accidenti sono finito… e tutto questo per quelle dannate trattative.”

Abbassò lo sguardo sulla propria mano, osservandola. Era una cosa che non faceva da molto tempo, un vizio che aveva sin da bambino. Dov’erano le forbici…?

“Non ora. E poi ho finito i peluche…”

No, non era proprio il momento di squartare peluche, anche se da sempre era una delle poche cose che riuscivano a fargli completamente dimenticare lo stress.

Sorrise.

Aveva commesso un errore tremendo, un errore che probabilmente gli era costato la copertura. Si era giocato la credibilità.

A questo punto non c’era più niente da fare. Se Ann non avesse mantenuto il segreto, in breve Hidel avrebbe saputo la verità, per lui non ci sarebbe più stato modo di tornare. Non che tra gli Angeli andasse meglio. Marcus era a dir poco furioso per la scomparsa del suo leccapiedi. Il fatto di essere tutto il giorno buttato in quel paese gli dava maggiore sicurezza rispetto agli altri Angeli, ma i sospetti su di lui c’erano sempre. Forse avrebbe dovuto pure allontanarsi dagli Angeli.

“No, Nate, ora basta pensieri pessimistici. Pensa, pensa…” si spronò. Se Ann avesse continuato a indagare sulla strada giusta, e non su quella su cui lui l’aveva indirizzata, avrebbe presto scoperto la verità su di loro. E a quel punto… la sentenza era semplice, non era la prima volta che gli Angeli si macchiavano di sangue innocente per proteggere il loro segreto. La sola idea che potessero fare del male ad Ann, che potessero costringere lui stesso a fare del male ad Ann, lo disgustava.

Tirò un altro sospiro massaggiandosi le tempie. Che situazione.

Proprio ora dovevo mostrare l’altra faccia? Che idiota.”

 

Da quel momento passarono tre giorni. Ann passava molto del suo tempo in camera, a lavorare ostinatamente, come se i fili di diversi colori e misure potessero finalmente fornirle le risposte ai suoi perché. Usciva solamente per i pasti e le visite di Krissy. In queste occasioni, infatti, la ragazza aveva modo di sfogarsi. Conosceva l’amica, sapeva che ella non avrebbe fatto parola ad anima viva delle cose che le confidava, per questo le raccontò ogni cosa. Partì dalla notte passata all’agghiaccio fuori Hidel, quella in cui avevano conosciuto Joshua, passando poi con dolore al periodo della morte della signora Hurst, quando aveva scorto Doralice rubare un bacio a Nathan, per poi passare al punto cruciale: la sera della battaglia contro il lupo e le bugie dello straniero.

Krissy ascoltava in silenzio, le braccia penzoloni sull’erba. Erano sedute sotto un albero a est del villaggio, appena fuori dai recinti che dividevano il territorio umano da quello animale. Il vento fresco le scompigliava i capelli dandole qualche fastidio di tanto in tanto. Un raggio di sole le illuminava debolmente, non riuscendo a sfondare la coltre di nubi di pioggia o cenere provenienti dalle montagne circostanti, in continua eruzione.

Il suo vestitino verde era in netto contrasto con quello rosa di Ann, ma spesso si univano in dolci onde di colore. La rossa sorrise dolcemente all’amica –Cara Ann, capisco che queste rivelazioni ti abbiano lasciato l’amaro in bocca e molti dubbi, ma non hai considerato un’opzione importante-

-Che cosa?- borbottò Ann concentrandosi ancor più sul suo uncinetto.

-E se queste bugie fossero solo un modo non troppo gentile di proteggerti da qualcosa?-

Quella domanda bloccò Ann. Era vero, non aveva considerato quell’ipotesi. Alzò lo sguardo all’amica, guardandola con attenzione, sperando in altre rivelazioni.

-So quando le bugie possano fare male- sospirò Krissy –ma a volte sono necessarie, me lo dicesti anche tu, quando eravamo piccole-

Ann fece per rispondere, ma quel momento tranquillo venne interrotto da un urletto femminile. Si guardarono entrambe intorno, non capendo da dove proveniva, quando un “ahia!” da parte di Ann chiarì tutto. Le era arrivato in testa un grosso gomitolo giallo. Alzò lo sguardo notando solo ora –Dodo! Che ci fai sull’albero?- la guardò sconvolta: quando mai Doralice saliva sugli alberi? Era qualcosa di troppo rozzo per lei. Poi un dubbio l’assalì: aveva ascoltato tutta la conversazione? Fortunatamente si erano fermate lì da poco, dunque avrebbe al massimo potuto sentire il discorso sulle bugie, ma era comunque preoccupante.

-Sto lavorando, no?- rispose la bionda mostrando il suo ultimo pezzo: una piccola tela con sopra l’immagine di Gesù bambino. Tornò a cucire –Tranquilla, non mi interessava il vostro discorso-

Ann però non si sentì rincuorata. Guardò Krissy, che ricambiò il suo silenzioso sguardo. Entrambe erano a disagio, e da sopra l’albero Doralice continuava a cucire in perfetto silenzio. Cambiare discorso, lo sapevano, sarebbe stato maleducato, ma rimanere in silenzio sarebbe stato ancora peggio.

-Che noia, i ragazzi- fu la bionda a spezzare la quiete, dondolando una gamba giù dal ramo su cui era seduta –non sai mai cosa gli passa per la testa-

-Per una volta sono d’accordo con te- annuì Ann restando a testa in su per osservarla.

-Noi donne riflettiamo molto, loro invece sono impulsivi, hanno una logica tutta loro che solo loro possono comprendere. E in più vogliono avere ragione se poi li rimproveri-

Le due amiche non risposero, chiedendosi cosa fosse accaduto di così grave a Doralice da farle dire quelle cattiverie. Di solito rivolgeva quel tipo di discorsi solo contro Ann.

 -Hanno un modo strano di farti capire che tengono a te- concluse, alzando il lavoro contro il pallido raggio di sole per tirare le somme: un bel lavoro.

Ann, intanto, rifletteva sulle sue parole. Che quello fosse un tentativo di Doralice di aiutarla in qualche modo? Molto più probabilmente stava solo esprimendo la propria opinione. Notò che Krissy sorrideva. Aveva forse capito qualcosa che a lei sfuggiva?

-Dodo ha ragione- annuì la rossa –è molto più saggia di quanto sembra-

Da sopra l’albero la bionda le lanciò un’occhiataccia seguita da un sonoro sbuffo –Non posso dimostrare un attimo di premura nei confronti della mia rivale?-

Ann, forse per la prima volta, quasi si trattenne dal dire che era carina a preoccuparsi per lei. Annuì –Grazie, Dodo- accennò un sorriso.

-E non chiamarmi Dodo!- la rimproverò l’altra. Da quando era morta sua zia, Doralice sembrava essersi calmata. Di certo i battibecchi con Ann non erano diminuiti, ma non si mostrava più superba e ostile come prima. Con un gesto molto goffo, di chi non è abituato a quel genere di esercizio, scese dall’albero atterrando come un macigno e facendo ridere sommessamente la rivale.

Dodo se ne andò lamentandosi per il dolore a un piede. Sembrava che avesse preso una storta nel brutto atterraggio, evidentemente quella voglia di salire sugli alberi le era venuta da poco.

Le due amiche rimasero ancora qualche minuto sotto l’albero –Dodo è strana da quando la signora Hurst se n’è andata- notò Ann.

-E’ solo maturata- sorrise Krissy –come tutti-

-Tu sei matura da un sacco di tempo. Tu sei nata matura!- la mora ripiegò in quattro il proprio lavoro, pronunciando quelle parole con un pizzico di invidia: anche lei avrebbe voluto essere matura come Krissy. Beh, a parte quando si parlava di superstizione.

-Ogni fiore è destinato a sbocciare, cara Ann- annuì l’amica ripassando una seconda volta un punto di merletto uscito grezzamente.

-A meno che qualcosa non li blocchi- le fece notare Ann.

La rossa restò un attimo in silenzio, pensando a come rispondere. Mise una mano davanti alla bocca alzando gli occhi al cielo, poi, trovata l’illuminazione, tornò a guardarla sorridendo –Appunto per questo serve il contadino, per eliminare ogni cosa che potrebbe bloccarlo. Gli amici servono a questo, no?- le diede un buffetto sulla guancia, una cosa che faceva sin da quando erano piccole, ma che ogni volta faceva arrossire Ann, che si vedeva trattata come una bambina, e reagiva di conseguenza.

-Non sono una mocciosa!- esclamò agitando un pugno davanti al viso, rossa e arrabbiata.

Krissy rise allegramente –Allora, se sei una ragazza forte e decisa, vai da messere Metherlance e dimostra chi sei-

Inizialmente Annlisette si ammollì, poi però, prendendola come una sfida, si alzò con fare determinato e puntò un dito contro l’amica –Vedrai se non lo faccio!- e, camminando con le gambe improvvisamente pesanti come macigni, si incamminò verso la casa dello straniero, lasciando Krissy che ridacchiava timidamente lanciando poi sguardi incerti verso la selva attorno al villaggio.

 

Ann giunse presso la casa di Nathan mantenendo un ritmo pesante e monotono nel camminare. Sembrava che stesse andando in guerra, più che a far visita a una persona. Tutta quell’emozione le dava un caldo asfissiante nonostante attorno il fresco si stesse trasformando in freddo. Ancora una volta le nuvole si addensarono, facendo scomparire il sole per la terza volta in quella mattinata. Durante la notte si erano uditi dei tuoni in lontananza, che fosse ora di un altro acquazzone? Di certo il tempo non era clemente, lì a Hidel.

“Ci manca solo la pioggia…” pensò amaramente la ragazzina “per una volta che usciva il sole!” si fermò a pochi passi dalla porta di casa, sui gradini. Il cuore le palpitava. Non si era preparata nessun discorso, non sapeva esattamente cosa dire né cosa fare. Era lì senza uno scopo preciso. Sapeva bene che Nathan non le avrebbe detto niente, era come una valigia sigillata, impossibile da aprire. Forse le avrebbe raccontato altre bugie, forse l’avrebbe ferita ancora. Forse le avrebbe detto in faccia che non le importava nulla di lei e che voleva solo tornarsene a casa “No, Ann, non devi pensare queste cose…” prese un sospiro “voglio solo fargli capire come mi sento.”

Fu inutile fare un altro passo, infatti la porta si aprì, rivelando un Nathan un po’ più pallido del solito, visibilmente addormentato.

Ann non poté fare a meno di sorridere. Non si era neanche preoccupato di dare una sistemata alla zazzera biondo scuro che gli dava un’aria stravolta –Non hai dormito?-

-Si nota così tanto?- sorrise lo straniero chiudendosi la porta alle spalle –Devo avere davvero un’aria terribile-

La ragazza rise –Non più del solito-

-Tante grazie!- esclamò lui prima di ridere assieme all’amica.

-Dove stavi andando?-

-Faccio un giro. Voglio assaporare gli ultimi giorni di aria di montagna-

Ann allungò lo sguardo altrove, per mostrare quella punta di imbarazzo che le colorava le guance –Ma sì, vengo con te. Non c’è bisogno che me lo chiedi-

Così cominciarono la loro ennesima passeggiata fino ad addentrarsi nella foresta. Il cielo si era inscurito nel frattempo, facendo calare una leggera cappa buia sull’intera zona. Di certo le temperature non urtavano più di tanto, ma un leggero fastidio lo davano. Ann camminava davanti, tenendo le mani dietro la schiena e il viso rivolto verso l’alto, osservando i pochi tratti di cielo che si potevano vedere attraverso l’intricata rete di rami contorti e nuovamente ricchi di foglie.

-E così torni in città…- esordì la giovane tenendo dritto il passo.

-Sì, penso che Hidel mi mancherà molto- annuì lui. La sua voce sembrava un po’ malinconica. Che stesse dicendo la verità? –La città è fantastica sì, ma manca di quella semplicità che qui è comune-

-Te ne vai senza scoprire la verità su Joshua, eh?- continuò lei, assumendo un tono neutrale.

Nathan non rispose. Decise di fare un altro tentativo –Ti porti via tante domande, Nathan. Ad esempio chi erano i due tizi della foresta, la mia serata dimenticata da tutti, la tua ferita miracolosamente guarita…-

-Smettila-

Ann si voltò con un sopracciglio alzato. Da quando le dava ordini? La guardava in modo strano, con durezza, come se si stessa trattenendo dal trapassarla da parte a parte. Tuttavia decise di non mollare, pronta ad affrontare l’ennesimo litigio –Hm? Co’è quella faccia, messere? Vi è morto il gatto?- insinuò, spavalda.

-Non sono stupido, Ann, e nemmeno tu lo sei- la riprese lui con tono fermo –sei cresciuta per queste messinscene-

La ragazza invece rise –Chi sta recitando una parte, tra noi due?-

Lui non le rispose. Rimase a guardarla per qualche secondo, abbassando poi il capo e sospirando. Cominciava a respirarsi un’aria pesante. “Perché non dici la verità nemmeno ora?” Ann gli lanciò uno sguardo d’accusa –Non provi neanche a difenderti?-

-Che cosa c’è da difendere?- Nathan scosse il capo con fare rassegnato. Si voltò, dandole le spalle –Te l’ho già detto: non sei stupida. Qualsiasi cosa dicessi troveresti un “ma”. Hai ragione, Ann, non avrei dovuto. Ma non posso fare altrimenti-

Da un lato la ragazza avvertì un peso che andava alleggerendosi: era riuscita a fargli ammettere le proprie colpe. Aveva vinto almeno quella battaglia, anche se era sicura che non le avrebbe rivelato niente. Tuttavia c’era ancora qualcosa che non andava, che le diceva di correre verso l’uomo. L’avrebbe fatto se i suoi piedi non fossero stati praticamente incollati a terra e le spalle non avessero pesato più del dovuto, come se improvvisamente un macigno le fosse caduto addosso. Conosceva bene quella sensazione, era la consapevolezza di aver intristito qualcuno. Una colpa insopportabile, soprattutto se quel qualcuno era Nathan.

Serrò con forza i pugni tirando su col naso e stringendo i denti. A quel carico di emozioni si erano aggiunte quelle provate quando aveva capito che lui le aveva mentito. Era combattuta tra la voglia di tirargli un pugno e quella di abbracciarlo. Alla fine, però, fu la parola ad avere la meglio –Sei così cattivo… io credevo in te, e invece mi hai raccontato un sacco di frottole…- sentì gli occhi pizzicanti.

Lui si voltò di scatto, come se fosse stato offeso da quelle parole. Era agitato, cosa molto rara –Se non fosse stato necessario non l’avrei fatto! Credi che non mi sia affezionato a Hidel, a quella gente, alla tua famiglia, a te, Ann? Come credi che mi senta?- quasi la aggredì. Alzò le mani all’altezza delle proprie spalle come se stesse cercando di toccare l’aria. La sua espressione era agguerrita, ma anche afflitta –Credi che mi faccia piacere mentirvi? Stare attento ad ogni parola? Quante volte sono stato sul punto di confessarti la verità? Quante di buttarmi in ginocchio e chiederti perdono anche se tu non sapevi niente? E come credi che mi sia sentito mentre ti dicevo che Sogno era un prodotto della tua immaginazione? E’ la mia amica più cara, non solo ho mentito e ti ho dato della stupida, ma ho pure rinnegato un’amica? Mi dispiace! Mi dispiace davvero!-

Ann aveva le lacrime agli occhi, le mani giunte davanti al petto, pietrificata da quell’improvviso sfogo. Quando mai aveva letto tutta quella sincerità in quell’uomo, quello stesso uomo il cui viso era sempre adorno di un sorriso canzonatorio, pronto a prendere in giro il prossimo? Rimase basita soprattutto quando lo vide posare una mano sulla fronte, con espressione arrabbiata. Forse era arrabbiato con se stesso per aver rivelato tutte quelle cose?

-Io…- la ragazza provò a dire qualcosa, ma ogni commento o risposta le sembrava fuori luogo in quel momento. Calò gli occhi sul terreno, sentendo una stretta allo stomaco che si faceva sempre più pressante. “Cosa posso fare?” pensò disperatamente –Mi dispiace tanto… non volevo ferirti…- mormorò chiudendo gli occhi. Avvertì una lacrima scapparle –E’ solo che… ci tengo tanto a te… non voglio che te ne vai!- scoppiò finalmente.

Ma, in quell’attimo, qualcosa la bloccò. Non le ci volle molto per capire che era stata abbracciata. Aprì gli occhi confermando quell’impressione, quindi si aggrappò quasi con rabbia alla giacca dell’uomo, affondando le piccole dita nel tessuto un po’ troppo pesante per quella stagione, almeno agli occhi di un abitante di Hidel. Sentì un braccio di lui stringerla alla vita, una stretta molto forte, quasi possessiva, mentre l’altra mano le cingeva il capo, carezzandole amorevolmente il capo. Commossa e agitata, diede sfogo a tutte le lacrime che aveva affondando il viso tra le sue braccia.

-Sono io a dovermi scusare…- lo sentì infine sussurrare al suo orecchio con voce stranamente calda, qualcosa che stimolò un tremito a percorrerle il corpo –ti chiedo scusa.-

Dopo qualche secondo di lotta con se stessa, la giovane trovò il coraggio di alzare lo sguardo, senza però accennare a mollare la presa sui suoi abiti. Annuì debolmente tre volte consecutive, improvvisamente sollevata.

Lui le sorrise, un sorriso appena percettibile, e nello stesso momento portò la mano con cui le aveva carezzato il capo le sfiorò una palpebra, portando via le lacrime –Sei davvero carina- ridacchiò –e pensare che all’inizio mi avevi dato l’impressione di una scalmanata attaccabrighe-

Ann gonfiò le guance –Prima di tutto non dirmi che sono carina! E poi non sono una scarattata… scammiciata… scalognata…- davanti a Nathan che rideva così serenamente, non poté fare a meno di sorridere a sua volta, sinceramente più rilassata. La sua mano, intanto, si era leggermente mossa, raggiungendo l’altezza del viso dell’uomo, che ancora però non osava sfiorare per qualche motivo –usi parole troppo difficili…- sussurrò inclinando il capo. Il cuore le batteva ancora forte, e sembrava che la temperatura fosse salita con velocità impressionante. Si sarebbe presa il raffreddore?

Egli avvicinò il viso al suo, guardandola dritta negli occhi –Scalmanata non è una parola difficile. Ma il tuo vocabolario è più divertente del mio- disse piano –divertente e dolce-

-Da quando mi fai tutti questi complimenti?- ridacchiò piano lei, arrossendo.

-Da quando fai espressioni tenere, ridi teneramente e arrossisci storpiando le mie parole- le carezzò l’altra guancia per levarle le lacrime, tenendola ancora stretta per la vita –sei così sincera, Annlisette. Ed è una cosa rara al giorno d’oggi. Qualunque cosa accada, qualunque cosa venga detta, Ann resta sempre Ann- notò che ella aveva un’espressione confusa, sembrava non capire bene –è qualcosa che ti rende speciale, più unica che rara- notava solo ora che erano molto vicini, in tutti i sensi –anche se a volte sei burbera, anche se litighiamo spesso per cose sciocche, ti ammiro-

-Addirittura?- sorrise lei –Mi sento onorata. Ma non mi dispiacerebbe avere le tue capacità di adattamento-

Lui scosse il capo con fare nuovamente rassegnato –No, spero che tu non diventerai mai così. E’ bene sapersi adattare alle situazioni, ma…- fece una smorfia –ma cosa sto dicendo! Non è questo il momento!-

Ann rise, rise a pieni polmoni di una risata cristallina. Ora che era così vicina a lui, sentiva di nuovo il suo profumo, quello che le piaceva tantissimo –Lo sai che adoro il profumo che usi?-

-Hm? Profumo?- Nathan le rivolse uno sguardo curioso, un po’ confuso forse.

-Sì- annuì lei –mi piace, è molto dolce, ma… non so come spiegarlo. Mi piace. Mi fa sentire protetta- concluse in tutta sincerità. Credeva che da un momento all’altro si sarebbe addormentata, tanto era bella quella situazione. Non immaginava che essere stretta e coccolata da Nathan fosse così piacevole.

-Allora… uhm…- borbottò lo straniero con fare imbarazzato –posso… posso proteggerti? Anche se questo significasse non rivelarti molte cose?-

Nemmeno Ann seppe per quale motivo annuì. Le bastava averlo lì, accanto a lei. Del resto se era protetta, che bisogno c’era di conoscere i minimi particolari di ogni cosa? Sarebbe andato bene anche così, ne era sicura.

-Mi permettete di essere il vostro principe azzurro, milady?- le fu sussurrato, ma nella sua mente Ann vedeva solo il sorriso dolce che le fu rivolto.

-Solo se mi permettete di essere la vostra principessa senza brevetto, messere- rispose candidamente.

E, infine, il mondo svanì. Hidel, le sue regole e misteri, l’oscuro Joshua e il lago, gli Angeli e i Demoni, tutto questo si sciolse come neve al sole, cancellato dal calore di un primo, dolce e passionale bacio che forse, finalmente, suggellò un nuovo inizio.

L’inizio di qualcosa molto di più grande di Ann e Nathan.

 

 

Note dell’Autrice:

Non voglio commentare xD in effetti era decisamente ora che si dessero una mossa! Guardate le coincidenze: nella mia prima, vera storia, “The nothing power”, i protagonisti si scambiavano il primo bacio nel capitolo 14, io e il mio ex ci siamo messi insieme il 14, e proprio nel capitolo 14 Ann e Nate… U.U

Io vivo di coincidenze! xD ma ora lascio la parola a…

 

La posta di Ann & Nathan:

Ann: Uau! Questo capitolo è stato difficilissimo da girare! Ho dovuto rifare tre volte la scena finale =3

Nathan: Sì, perché ogni volta che mi avvicinavo finivo con un piede di Ann in faccia.

Ann: Chissà perché! >.<

Nathan: Già. Chissà.

 

Milou: La nuova vittima! *-* Benvenuta nel circolo delle vittime di Meth’Story, come la chiama la nostra Nadeshiko. Tutti siamo felici per Damon e Krissy, e speriamo che lo sarai anche per me e coso!

Nathan: Coso a chi? o.o

 

BrandNewSibyl: Chissà perché sono sempre io a rispondere a Sibyl o.o milady ^_^ ma quanto avete ragione, ho come l’impressione che il mio matrimonio non sarà un matrimonio. Sarà una festa a sorpresa. «Ciao, Nate! Oggi ti sposi, lo sai?» E comunque no, è Gabriel che esagera u.ù

 

Viola: Chi non è felice per Krissy e Damon? Sono così carini! <3 beh, spero che questo capitolo possa esaudire la tua richiesta di qualcosa di più impegnato >.<

 

Nadeshiko: Milady ^_^ sì, parto con la pubblicità. Nadeshiko, signore e signori, ha pubblicato “What colour is the dark moon?”, una versione della nostra storia vista da Damon e Sogno. Noi facciamo pubblicità occulta gli uni agli altri ^_^ perché ci vogliamo bene! *tortura Damon appeso a un palo*

 

Midao: Carissima! Ancora qui ci chiediamo come fai ad avere tutte queste emozioni dalla nostra storia, ma ciò non può che renderci felici! Speriamo che anche questo capitolo ti abbia emozionata e che ti sia di incentivo per continuare a leggerci!

 

Scusate le brevi risposte, ma vado di fretta e furia xD ah, prima di chiudere due cose: ho messo nel mio profilo la “copertina”, diciamo, della storia, ispirata su idea di Kikyo. Mi date un parere? *O*

In secondo luogo, ho visto che alcune mie amiche hanno aperto piccoli blog su LiveJournal delle loro storie. Ebbene pensavo di aprirne uno anch’io con curiosità, sciocchezze varie o piccoli spoiler, ma solo appena raggiungo le 40 recensioni uwu voi che ne dite?

 

Chu,

Sely <3

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Capitolo 15
*** Gioco di coppia ***


What colour is the snow?

Capitolo 15: Gioco di coppia.

 

« C’era una volta, in un villaggio chiamato Hidel, una bambina. Il suo nome è andato perduto nel tempo, di lei ormai si tramanda solamente dei suoi occhi blu mare. Era una giovane contadina che nel tempo libero coltivava la propria cultura. Voleva viaggiare. Voleva uscire dai cancelli del villaggio e avventurarsi in quel mondo misterioso e pieno di magia.

Cresciuta, la ragazza aveva sviluppato una curiosità smisurata, la quale la portava ad esaminare ogni cosa che trovava, come se si trovasse davanti a un grande tesoro, alla scoperta che avrebbe cambiato per sempre la sua vita.

Si organizzò di tutto punto, decisa ad andarsene dal villaggio e trasferirsi definitivamente in città. Venne organizzata una grande festa, che si tenne nel migliore dei modi nella sala maestra. La gente era felice. Finalmente, infatti, una giovane decideva di affrontare il mondo e di portare notizia di quel piccolo agglomerato di case tra le valli e la neve.

La festa durò fino a notte, come accadeva soltanto per le cose più importanti. Ballarono, mangiarono, giocarono e chiacchierarono il più possibile, desiderosi di passare ultimi dolci momenti con la giovane neo viaggiatrice.

Scoccata la mezzanotte, però, qualcosa accadde. Una figura ammantata di nero giunse alle porte di Hidel, agitando spasmodicamente il bastone vecchio e logoro che teneva stretto nella callosa mano sinistra. Tutti accorsero, ma solo pochi coraggiosi ebbero il coraggio di avvicinarsi a quella vecchia che, da sotto il suo cappuccio grondante di neve che sembrava schiacciarla a terra per il suo peso, urlava con voce rauca e minacciosa parole incomprensibili, piene di magia nera.

La placida nevicata, che fino a quel momento aveva dato un po’ di fastidio alla serata, improvvisamente si trasformò in una bufera che costrinse la gran parte dei villici a rientrare nelle proprie case, terrorizzati dalla vecchia maga che sembrava essere malintenzionata.

Fu allora che l’anziana fattucchiera alzò con vigore la mano sinistra, dopo aver scaraventato per terra il bastone, puntando il dito piegato dall’artrosi e tremante per chissà quale altra malattia, contro la povera gente che era rimasta a guardare.

-Abitanti di Hidel!- urlò, ma la sua voce non proveniva dalla sua bocca. Sembrava tutta intorno a loro, insita in ogni cristallo di neve che si schiantava rabbiosamente per terra, sugli uomini, sulle case e tutt’intorno. –Io vi maledico! Maledico questo villaggio! Tutti coloro che proveranno a lasciare Hidel d’ora in poi, moriranno fatti a pezzi e divorati! Voi siete qui per restarci; guai a voi se provate a scappare, stolti!- e le sue terribili parole vennero accompagnate da un forte ululato proveniente dai meandri della foresta.

-Che cosa vuoi da noi, brutta strega?- solo la ragazza che voleva lasciare il villaggio l’indomani ebbe il coraggio di farsi avanti e affrontare il male faccia a faccia –Ritira la tua maledizione e vattene! Noi non ti abbiamo fatto niente!-

-Stupida pazza!- la rimproverò allora la vecchia, additandola –Tu per prima morirai! Domattina allo scoccare del mezzogiorno, e il tuo corpo verrà ritrovato a pezzi nel fiume Cadyga!-

Detto ciò, la strega andò via. Ovviamente la ragazza, molto coraggiosa per natura, ignorò quell’avvertimento. Tutti le consigliarono di restare, di non correre questo inutile rischio, ma lei non si fece convincere, e la mattina seguente si mise in marcia.

E non fece più ritorno. Tempo dopo dei ragazzini, curiosi, si spinsero al di fuori del villaggio, in direzione del fiume Cadyga, lo stesso che la vecchia fattucchiera aveva indicato come luogo dove sarebbe stato ritrovato il cadavere della ragazza. E fu proprio alla sua foce, là dove il delta si ramificava in torrenti così piccoli da risultare difficili da attraversare per un corpo umano, che trovarono i resti di un cadavere in decomposizione.

Fu accertato che si trattava di lei da quei pochi vestiti che furono trovati. E, da quel momento, nessuno osò più sfidare la volontà della strega e lasciare Hidel. Nessuno. »

 

-Mi è permesso ridere?- Nathan stava visibilmente faticando a trattenere le risate.

Stava seduto su un tronco mezzo marcio, poggiava una mano su una gamba e l’altra sulla corteccia, mentre ticchettava a tempi regolari col tallone contro le radici. Sul suo viso era dipinto il divertimento.

-E da questa leggenda nacque la prima regola di Hidel…- Ann, la quale stava dolcemente seduta al suo fianco con un dito a mezz’aria, venne interrotta prima che potesse recitare il fatidico dogma.

-Non uscire dal villaggio- recitò l’uomo ridacchiando sottecchi. Alzò la mano che teneva sulla gamba, scompigliando le lunghe chiome della giovane –e voi ci credete-

-Non rimproverarmi!- sbuffò lei gonfiando le guance e incrociando le mani al petto –Io vorrei uscire da questo buco! Però c’è questa stupida regola!- accavallò le gambe socchiudendo gli occhi, poi rivolse al compagno uno sguardo preoccupato –Chissà se questa cosa vale anche per te… dopotutto sei qui da tanto tempo…-

Quell’espressione così indifesa fece rilassare l’uomo, che scosse il capo per rincuorarla –Sicuramente no. Non sono nativo di questo villaggio-

-Vero, tu sei nato ad Arkata, l’antica capitale… mi chiedo che posto sia-

Diverse volte Ann aveva provato a figurarsi la famigerata ex capitale di Kharlan. Sapeva solo che si trovava in una posizione molto a sud, tra il deserto e la fredda piana di Terren, che era stato un luogo pieno di cultura e fiorente città sotto ogni punto di vista, circa cento o duecento anni prima, ma poi era stata distrutta da un grandissimo incendio. Le fiamme, in una sola notte, avevano falciato centinaia di vite. Ann non riusciva neanche a figurarsi una metropoli così grande, ancora peggio immaginarla andare completamente a fuoco. Doveva essere stato uno spettacolo al contempo affascinante e traumatico, supponeva.

-Com’è ora, quella città?- domandò, spinta dalla curiosità.

Nathan alzò lo sguardo al cielo, osservando la volta azzurro intenso.

“Piuttosto dimmi come hai fatto a rubare al cielo il suo colore” pensò involontariamente la ragazza, osservando quella particolare tonalità di azzurro. Nathan parlava, ma lei non lo sentiva. Arrossì un attimo, rimproverandosi subito dopo “Ann! Da quando sei così romantica? Stai coi piedi per terra!” –Scusami, non ti ascoltavo-

L’uomo abbassò gli occhi per osservarla. Sembrava essersi persa un’altra volta nei suoi sogni, ma appunto quella capacità di estraniarsi dalla realtà la rendeva simile a lui. Dunque le sorrise, per niente offeso dalla sua disattenzione, ricominciando il discorso –E’ un luogo magnifico, ti dicevo. Vorrei tanto farvi ritorno al più presto. Vorrei andare a trovare mia madre e mia sorella, e magari anche i Metherlance- Ann non capiva bene, ancora non aveva ben chiara la situazione attuale della famiglia di Nathan. Né lui né lei ne avevano più parlato, era un argomento tabù –sono sicuro che Sole sarebbe felice di rivedermi-

-Oltre Sole c’è qualcun’altro nella famiglia?- provò la ragazza. Le sarebbe piaciuto conoscere qualche dettaglio in più di quella storia. Forse perché la sua era la classica, noiosa e monotona vita di una contadina. Non le era mai successo niente di strano o grande, e solo parlando del passato di Nathan poteva capire quanto questo fosse un dono.

-Sì- annuì lui con fare allegro. Evidentemente gli faceva piacere parlare della sua seconda famiglia –Paul, il marito di Sole; Anita, una dolcissima ragazza che mi ha aiutato a diventare ciò che sono; e poi ci sono le gemelle malefiche- fece una smorfia –le uniche che non sopporto-

Ann rise di gusto –Le gemelle malefiche? Perché le chiami così?-

-Perché trovano divertente mettermi il pepe nel latte- 

La ragazza rise di gusto, alzando lo sguardo al cielo –Dovrò ricordarmi di farlo! Ti sta bene!-

-Donne!- esclamò l’uomo alzando le mani con fare esasperato. Ormai era abituato ad essere preso in giro da Ann. Ma non gli dava fastidio, anzi, era molto dolce mentre rideva. Gli faceva venire voglia di sorridere.

-Immagino che ti manchino molto. Sai, Nathan, c’è però ancora una cosa che non mi è chiara- riprese il discorso la giovane, alzando lentamente lo sguardo al cielo coperto da rami e nuvole chiare, da cui si intravedeva qualche tenero raggio. Accavallò le gambe assumendo un’espressione pensierosa, con una mano che le sfiorava il mento –beh, in realtà sono molte le cose che non mi sono chiare-

-Puoi chiedermi tutto quello che vuoi- sorrise l’altro.

-Bene, innanzitutto… perché hai questo accento mostruoso? Sembra un misto tra la parlata di un cafone e il tono snob di un signorotto!-

Dire che Ann fosse stata schietta è un eufemismo, e Nathan era molto suscettibile su questo argomento. Il suo accento era qualcosa si orribile, lo sapeva bene, e non poteva che metterlo in imbarazzo quell’argomento –Beh, sono cresciuto in una regione dove la gente parla in modo molto pesante. Calcano molto sulle doppie e sulle consonanti, intendo. Ma mia madre mi ha insegnato il suo dialetto, che è molto diverso per pronuncia. Così è uscito questo orrore- sospirò demoralizzato.

Ann gli sorrise –Non è orrendo, è solo… ehm… particolare-

Lui le scoccò un’occhiata di fuoco –E’ quello che dicono tutti quando non vogliono offendermi. Conosco i miei difetti, Ann- poggiò un gomito sulla gamba, piegandosi molto sulla schiena, guardando la ragazza con intensità –ti va un gioco?- sorrise poi, quel suo solito sorriso che faceva tanto venir voglia di riempirlo di cazzotti.

Anche stavolta Ann dovette trattenere un pugno ben assestato –Va bene, dimmi-

-E’ una sciocchezza che fanno le coppiette in città- già quel modo di cominciare fece arrossire la giovane.

Erano passati sette giorni da quando, proprio nelle fauci della foresta, si erano scambiati un bacio. In tutto restavano undici giorni prima che Nathan lasciasse Hidel.

Ora potevano considerarsi una “coppietta”? In quel caso, Nathan era il suo “fidanzato”? Quei pensieri la agitarono così tanto che decise di metterli da parte, concentrandosi sul gioco che, orgogliosa com’era, doveva vincere a tutti i costi.

Nathan si alzò, alto com’era la ragazza dovette alzare molto lo sguardo. Tra loro due l’altezza era un argomento molto spinoso. Lo ascoltò attentamente mentre illustrava le regole di quel gioco –Bisogna semplicemente dirsi in faccia quali sono i difetti dell’altro-

Ann rimase qualche attimo in silenzio, alzando un sopracciglio e sbottando in una smorfia. In quel momento anche il resto della foresta taceva, tutto era stato sconvolto dalla stranezza di quel “gioco” –Che razza di gioco è? Qui noi corriamo, ci ammazziamo sui prati, ci tiriamo la palla e saltiamo la corda… mentre voi, in città, giocate a sputarvi in faccia ciò che non sopportate?-

-In realtà- la riprese subito Nathan, con quell’espressione di chi deve cadere sempre in piedi –è un esercizio psicologico usato per i problemi coniugali-

-Ecco, comincio io- a quelle parole, Ann trovò subito la carica –non sopporto quando non vuoi ammettere di avere torto e usi le tue parole grosse per farmi confondere. Che razza di sleale!-

-Sono un tipo molto orgoglioso, ma non sono l’unico- ammise e al contempo attaccò lui.

La ragazza gonfiò le guance –E sei un grandissimo pallone gonfiato! Fai il galante con tutte! Il perfetto damerino! Tu sei troppo perfetto!-

Stavolta fu Nathan ad aggrottare la fronte, guardandola come se avesse appena detto una stupidaggine –Mi hanno insegnato ad essere educato e rispettoso. Capirei se facessi inchini baldanzosi o se proferissi paroloni solo per impressionare, ma mi limito a dare del voi agli sconosciuti e fare il baciamano alle donne. E’ buona etichetta, Ann-

-Rieccolo che proferisse paroloni solo per impressionare- sbuffò la ragazza, guardandolo di sbieco.

-Si dice “proferisce”- la corresse ancora lui.

-Mi correggi sempre!-

-Sbagli spesso-

-Sono solo una contadina, che vuoi da me?-

Quel gioco stava prendendo una brutta piega. In effetti non era stata una buona idea, si disse Nathan. Tuttavia aveva ancora il tempo di rimediare, prima che il tutto degenerasse. Piegò le gambe abbassandosi alla stessa altezza della giovane, ricominciando a parlare, stavolta moderando il tono in un gentile sussurro –Il fatto è che sei troppo intelligente per fare questi errori. Mi fa rabbia vedere una mente intuitiva e brillante come la tua, Ann, essere costretta a sbagliare verbi così facili. E tutto questo perché la gente di Hidel è troppo legata al passato. Perché il problema è questo, sostanzialmente. Hanno paura di ciò che c’è fuori, non delle profezie e delle maledizioni. Mentre tu, tu sei così coraggiosa…-

L’altra rimase alquanto sorpresa da quell’improvviso cambiamento di tono, ma sorrise annuendo –Grazie, Nathan- in fondo, tra loro non era cambiato granché da quando si erano baciati, ma notava una sorta di piccola apertura nell’uomo, come se si fosse tolto un peso molto grave dalle spalle. Le aveva rivelato si averle mentito su tante cose sì, ma sentiva che non era dovuto solo a quello. Nella sua voce, infatti, riusciva ad avvertire un tono più sollevato e a tratti dolce, cosa che prima non era mai accaduta.

Le parve quasi di averlo messo in imbarazzo con quelle parole sincere, mentre lui abbassava gli occhi guardando altrove –Secondo me sei anche un tipo molto romantico e timido, anche se non lo ammetterai mai-

Questa volta, sul volto del ragazzo apparve una risata divertita –Io? Romantico e timido? E’ vero che mi piace fare il galante, ma non mi definirei mai romantico. Quanto alla timidezza… una volta, forse. Molto tempo fa, da bambino, ero timido. Poi sono diventato schietto, arrogante da ragazzino, ora ho messo la testa a posto- rise, ed Ann con lui. Era strano immaginarsi un Nathan arrogante –ma dammi retta, Ann cara- le passò una mano sotto il mento, carezzandole delicatamente con un dito il lineamento della guancia, facendola arrossire un attimo –come tutti gli altri, sono ben lontano dall’essere perfetto. Non dimenticarlo. Altrimenti sarei un dio, no? O peggio, un vampiro!- continuò a ridacchiare.

Anche la ragazza rise –E andresti in giro solo di notte, in abiti principeschi, agguantando povere ragazze per saziare la tua sete di sangue- e provò a immaginarsi un Nathan non più umano, ma vampiro. Con la pelle diafana, gli occhi vitrei e le labbra sporche di sangue. Una visione al contempo spaventosa e seducente.

Indirizzò altrove lo sguardo, vergognandosi un attimo dei suoi pensieri.

Rimasero qualche secondo a ridere tra di loro, entrambi divertiti da quella visione che non poteva essere vera. Perché sia nel mondo cristiano di Ann, sia in quello scientifico di Nathan, creature come vampiri, streghe, lupi mannari o altre sciocchezze varie, non potevano esistere. Sarebbe stato come sconvolgere la natura e distruggere tutto quello in cui credevano.

Lui le prese la mano, lei gliela strinse. Un tacito accordo senza parole o gesti pomposi, qualcosa di semplice che nessuno avrebbe frainteso.

-Mi sta piacendo, questo tuo gioco- annuì la ragazza –continuiamo. Passiamo a me!-

-Bene- annuì lui –devo dire che inizialmente non mi avevi fatto una buona impressione, con quel “e tu chi diavolo sei?”- ridacchiò, forse quei ricordi gli davano piacere? O divertimento? –Mi ci è voluto molto per ricredermi, lo ammetto. Credo di aver cominciato a considerarti veramente solo quando… beh, quando hai scoperto il diario di mia sorella-

Ann annuì. Ricordava bene quell’episodio. Al tempo non si fidava per niente dello straniero, aveva avuto una paura terribile di essere picchiata per la sua curiosità invadente. Si era intrufolata senza permesso nella sua casa, leggendo incoscientemente il diario della giovane Auror, la sorella di Nathan.

-Ne abbiamo passate davvero tante insieme- notò con espressione assorta, completamente presa dai ricordi –dalla gara di cucina allo scontro con quel lupo. A proposito- abbassò lo sguardo su di lui, fissandolo con occhi grandi –non ti ho ancora ringraziato per avermi salvata per la… ehm… seconda o terza volta-

Il ragazzo rise, reggendole il gioco come sempre –E’ dovere di ogni buon principe azzurro proteggere la sua principessa- poi fece una pausa, tornando infine a ridacchiare divertito –ma, essendo io un principe azzurro senza brevetto, posso ammettere che, in effetti, sono stato perfetto. Già, è decisamente merito mio-

-Oh, ma non eri quello ben lontano dall’essere perfetto?- incalzò Ann, colpendo nel segno. Fece un’espressione furba, consapevole di averlo beccato in fallo.

-Non ci posso credere! Mi hai battuto!- scattò in piedi lui, rendendosi conto di aver sbagliato –Che offesa mortale!- si lagnò continuando quella recita che stava facendo ridere di gusto la ragazza.

Eppure, mentre rideva, la mente di Ann venne avvolta dalle tenebre del futuro. Un futuro che non voleva mostrarsi propizio. Infatti, di lì a breve Nathan sarebbe partito per la città. L’avrebbe lasciata lì, a Hidel, da sola. Non erano sicuri che sarebbe riuscito a tornare, e questo pensiero le opprimeva lo stomaco in una morsa gelata, che la costrinse ad abbassare lo sguardo, tornando seria, con espressione grave.

All’improvviso, tutta la foresta intorno a loro le parve più fredda. Forse una nevicata improvvisa? No, anzi, era estate. Ma allora cos’era tutto quel gelo che sentiva dentro? Lei non era esperta di questioni di cuore, non si era mai innamorata prima. “Innamorata… di Nathan?” pensò tra sé e sé, alzando lo sguardo fino alla figura dello straniero, il quale si era da poco abbassato a studiare con attenzione un fiore che sbucava in mezzo all’erba. Sembrava così sereno. Sorrise in modo impercettibile, lasciando scorrere lo sguardo su quell’uomo che un tempo avrebbe volentieri preso a pugni, sul suo sorriso per una volta non atto a far saltare i nervi a qualcuno, su quegli occhi forse un po’… li osservò bene, accigliandosi.

-Nathan- lo chiamò con un filo di voce. Aveva appena notato qualcosa a cui non aveva mai fatto caso. Si accigliò avvicinandosi a lui, che nel frattempo aveva alzato lo sguardo, uno sguardo già all’erta. Ma non c’era nulla di cui avere paura o preoccuparsi. Ann si fermò accanto a lui, calandosi all’altezza del suo viso. Inclinò il capo mentre tastava la fresca terra con le dita della mano destra. Sorrise quasi emozionata –ma tu… hai un occhio più scuro rispetto all’altro!-

Nathan rise sollevato, come se si fosse buttato alle spalle mille preoccupazioni –E te ne accorgi solo ora?-

Ma la ragazza era troppo impegnata ad osservare quella particolarità per ribattere. L’occhio destro era più scuro, di un intenso azzurro, mentre quello sinistro era più chiaro, di un dolce celeste. Tuttavia, le sfumature erano molto vicine, talmente tanto da risultare quasi uguali. Ann era sicura che pochi, a Hidel, se ne fossero accorti.

-Si dice “occhi eterocromi”- le sorrise l’uomo –anche se i miei sono pressoché identici. Infatti non me lo hanno segnato nemmeno sul passaporto-

Una nuova curiosità si accese in Ann. Stava per scoprire qualcosa in più sul mondo? –Passaporto?-

-Sì- annuì lui prendendole le mani con la dovuta delicatezza e sollevandola in piedi –è un libretto che serve per viaggiare. Per noi ricercatori è essenziale.

-Tu sei tutto strano, con gli occhi eternòcori, i passa porto e tutto il resto- ridacchiò la giovane –mi chiedo se tu abbia un vero difetto, soprattutto un difetto fisico- e prese a camminare. Era abbastanza tardi, forse era meglio cominciare ad avvicinarsi al villaggio.

Nathan le mise una mano sul capo, scompigliandole i capelli –Te lo chiedi perché non lo vedi. Tendo a nascondere i difetti, come tutti-

-E se io fossi curiosa?-

-Te lo mostrerei, ma sarebbe piuttosto brutto-

-E se volessi vederlo?-

-Ti chiederei se ne sei sicura-

-E se risponderei che lo sono?-

-Ti direi di passare da casa mia stasera. Ah, e aggiungerei che si dice “rispondessi”-

Quella di andare a casa sua, soprattutto di sera, non era di certo una delle maggiori ambizioni di Ann, che, cresciuta con mentalità tipica dei puritani, non vedeva di buon occhio la situazione in cui un uomo e una donna si trovano soli in una casa. Ma neanche la foresta faceva eccezione a questa regola. Dunque, levandosi quel peso dalle spalle, la ragazza realizzò di aver trasgredito a quella legge già da molto tempo.

“Non è la prima volta che vado a casa di Nathan” pensò per auto convincersi, ma la sua mente formulò automaticamente un altro pensiero “ma è la prima volta che vado a casa di Nathan dopo averlo baciato.”

Con un gesto quasi violento, si tirò le mani in faccia, arrossendo. Da quando era diventata così dannatamente emotiva?

I suoi rapidi cambiamenti non sfuggivano intanto a Nathan, che ridacchiava sommessamente per non farsi notare.

Sicuramente avrebbe preferito non mostrare alla povera Ann quello che era il suo vero difetto fisico, ma non poteva fare altro. Se lei era curiosa, non c’era motivo per non accontentarla. 

Ann invece, decisa a cambiare argomento pur di non sprofondare sotto terra per l’imbarazzo, esclamò –Ah! Senti, so che non puoi dirmi certe cose, ma potresti farmi un favore?-

-Certo, dimmi pure- le sorrise lui.

-Appena vedi Sogno, la potresti ringraziare da parte mia?- quella strana richiesta venne accolta volentieri, seppure con qualche incertezza. Ma Ann non si curò dell’espressione di Nathan, riprendendo il proprio discorso –Le devo tanto. Ti ha aiutato quando sei stato ferito per salvarmi, è stata davvero un Angelo-

Nathan smorzò una risata che gli uscì spontanea “E’ davvero un Angelo, piccola Ann”, pensò, rimproverandosi per aver solo accennato a pronunciare quella frase, anziché pensarla. Ann non ne aveva fatto cenno, ma lui sapeva bene quanto era grande la curiosità della ragazza nei confronti di ciò che lui le teneva segreto. Ma gli ordini degli Angeli erano inopinabili.

-Piccola Ann, ho un’idea. Potresti aspettare un attimo qui?-

-Certo-

 

Al campo base degli Angeli, nel frattempo, un gran putiferio interrompeva la solita tetra monotonia. Nuovi ordini erano giunti da Marcus e Jen, tra cui una missione d’ambasceria che avrebbe coinvolto in prima persona Sogno e Damon, scelti la prima come ambasciatore, il secondo come protettore. L’indomani si sarebbero dovuti svegliare presto per giungere presso l’accampamento nemico all’alba.

-La situazione sta peggiorando, fratellone?- chiese la piccola Sogno a Damon mentre si stiracchiava serenamente sulla branda. A lei non importava dei problemi riguardanti le trattative. Non le cambiava la vita fare quel benedetto accordo di pace con i Demoni.

Damon sbuffò sonoramente chiudendosi alle spalle l’entrata di stoffa della sua grande tenda –Dovresti saperlo tu, Sogno. Domani toccherà a te parlare- la rimproverò per poi sedersi di fianco a lei. Giocherellando con la croce che teneva al collo, cominciava a chiedersi quando se ne sarebbero andati da quel posto. Mattina presto? No, più probabile notte inoltrata. Avrebbe fatto in tempo a salutare Krissy, e magari a dare un ultimo sguardo alla ragazza che avevano salvato nella foresta, Ann?

Ormai il tempo stringeva davvero.

-Ti mancherà tanto Hidel, vero?- chiese Sogno a bassa voce.

Damon rispose con uno sbuffo. Non lo avrebbe ammesso, e Sogno lo sapeva.

-Fratellone, ultimamente sei così triste. Puoi sfogarti con la piccola Sogno, lo sai vero?-

Neanche stavolta l’uomo rispose. Prese al volo un libro da un mucchio che giaceva privo di ogni attenzione accanto alla branda, facendo finta di trovare improvvisamente interessante quella pagina piena di scritte che si riferivano alla seconda Crociata.

Sogno voltò il capo verso la parte buia di tenda, indirizzando lo sguardo che si era velocemente trasformato in una maschera di dolore, alle proprie mani, strette l’una nell’altra sul grembo. L’aria si era fatta troppo pesante per lei, il silenzio era calato come un macigno, spaccandole le parole mentre attraversavano la gola. Aveva paura di fare un passo falso, un passo che sarebbe potuto costare molto al suo caro amico. Che cosa poteva fare?

Proprio mentre cominciava a pensare di mollare tutto e chiudersi in se stessa, un rumore proveniente dall’ingresso della tendina fece contemporaneamente alzare lo sguardo a lei e a Damon.

-Cugino Metherlance!- esclamò tutta contenta la ragazza, nuovamente rincuorata.

Nathan entrò salutando, e Damon si mise seduto per accoglierlo. Sogno si fece avanti, chiedendosi quale motivo avesse spinto il giovane inviato a Hidel a recarsi nell’accampamento prima di notte. Era un evento molto raro.

In breve si ritrovarono seduti in cerchio. Sogno sulla brandina, compostamente seduta con le gambe a fare da appoggio al mento. Damon su una sedia con le gambe accavallate e l’espressione annoiata che tirava sempre fuori se c’era Nathan, quest’ultimo, invece, in piedi. Sembrava molto allegro. Chissà cosa gli era successo.

-Sogno, hai da fare?-

-No, ti serve compagnia?-

-Non a me- sorrise Nathan in un modo strano, che né lei né Damon gli avevano mai visto. Di solito i suoi sorrisi avevano la capacità di farti sentire preso in giro se eri normale, se eri Angelo  avvertivi anche una nota di nervosismo. Questo invece era incredibilmente calmo e pacifico. Sogno si fece più interessata, allontanando con la forza quel tedioso ronzio di sottofondo prodotto dal chiacchiericcio dei passanti.

-Cugino, che hai combinato?- Damon inarcò un sopracciglio, facendosi scuro in volto –Sembri ubriaco. Non avrai esagerato con quella roba?-

Ma il cugino Metherlance rise allegramente, una risata che fece davvero temere ai due Angeli per la salute mentale del loro amico. Era troppo, troppo strano vederlo allegro!

-Mi prenderete per pazzo- affermò Nathan poggiando le spalle alla tenda, sollevato come mai l’avevano visto.

-Ti stiamo già prendendo per pazzo, tranquillo- assicurò il Darkmoon, alzandosi e raggiungendo Sogno, tra i capelli della quale passò una mano, a mo’ di pettine, destreggiandosi col groviglio soffice dei riccioli intrecciati apposta per quell’importante occasione quale era l’ambasceria dell’indomani.

-Beh, diciamo che…- il Metherlance alzò lo sguardo a un angolo del rifugio, incrociando le braccia al petto –ho quasi detto la verità ad Annlisette-

Sogno sgranò gli occhi –Ora abbiamo la prova che anche il cugino Metherlance ha un cuore!- giunse le mani davanti agli occhi, in un’espressione sognante –E se la carissima Annlisette ha saputo la verità ed ora il cugino sorride, vuol dire che ella non è rimasta terrorizzata! Che coraggio ha la nostra amica!-

-Sogno, ho detto “quasi”. Non posso tradire il giuramento agli Angeli, ricorda- le appuntò l’amico con un sorriso gentile. Aveva notato che Damon se ne stava in silenzio, fissandolo torvo, ma preferiva non dargli troppo peso. Sapeva bene che al posto suo lui avrebbe fatto lo stesso.

Anzi, se anche Damon avesse avuto qualcuno a cui teneva veramente lì, ad Hidel, avrebbe spifferato tutta la verità già da tempo. Questo era sicuro. E Nathan non poteva nemmeno immaginare quanto fosse corretta quella considerazione –ho messo ben in chiaro che non le potrò dire molte cose, e non intendo far parola con nessuno né degli Angeli, né di altro. Ma le ho rivelato che voi due siete miei amici, così mi ha chiesto di ringraziare te, Sogno, per avermi salvato la vita-

Era chiaro dove voleva arrivare, gli occhi della dolce Sogno brillavano come smeraldi –E hai pensato “perché non lasciare che sia lei stessa a ringraziare la piccola Sogno?”- lo interruppe, ricevendo un cenno affermativo da Nathan, al quale scattò in un salto felice, ridendo vivacemente.

Il cugino Metherlance la osservò compiaciuto, ripetendosi che era stata davvero una buona idea.

-Nathan- lo chiamò Damon. E quando Damon lo chiamava per nome, c’era da preoccuparsi. L’altro gli rivolse uno sguardo serio. Eccolo, finalmente, il Nathan che Damon conosceva bene –senti… potremmo parlare, più tardi magari? Quando finisci tutto? Anzi no- si interruppe –Domani, quando tornerò dall’ambasceria-

-Dovrò fare domanda di abbandonare il villaggio per una notte intera, oppure ti bastano pochi minuti?-

-Ehm…- non era proprio una cosa facile da rivelare, aver spiattellato tutto a Krissy. Sicuramente Nathan si sarebbe arrabbiato. Già, ci voleva decisamente una notte intera.

-Ho capito- annuì il cugino –ma non sono sicuro che me la concederanno. Speriamo bene, dai- gli sorrise assestandogli una pacca fraterna sulle spalle –cugino, se hai combinato qualcosa di idiota ti pesto a sangue, lo sai?-

Damon sbuffò sonoramente, strattonandosi per allontanarsi da lui, guardandolo poi in cagnesco –Lo sai che potrei ricambiare? Che cazzo ti passa per la testa?! Andare a dire alla ragazzina che…- si interruppe, consapevole che quella messinscena sarebbe miseramente crollata non appena Nathan avesse saputo la verità. Insomma, erano nei guai fino al collo tutti e due.

Quel paesino era decisamente peggio di quella bellissima città musulmana in cui erano finiti una volta, quando si erano risvegliati in un harem, accerchiati da bellissime donne vogliose. Ah, che paradiso, che bei ricordi!

-Dai Damon, ormai il danno è fatto!- com’era strano sentire parlare Nathan in quel modo. Nathan, che era la prudenza fatta persona. Quasi non lo riconosceva più. Quella Annlisette sembrava essergli entrata fin nelle viscere e averlo cambiato radicalmente. Non sembrava più il sadico calcolatore di prima, pronto ad affettare chiunque con la fida Selescinder pur di eseguire gli ordini. In qualche modo, ora ragionava con la sua testa. Ma era pur sempre un sadico calcolatore, e i suoi ragionamenti erano pericolosi. Per lui e per gli altri.

Ma ora non erano più in due. Un tempo era Damon a combinare guai e Nathan, con la sua astuzia, a risolverli e a trarne vantaggio. Se la cavavano sempre per il rotto della cuffia.

Ma ora no, ora c’era Sogno, una fragile ragazza che entrambi volevano proteggere. Dunque avrebbero dovuto imparare a controllare l’uno il proprio istinto in perenne ricerca di pericolo e sballo, l’altro quella vena di follia che gli si leggeva nell’occhio scuro.

Avrebbero dovuto parlarne il prima possibile. Mettere in chiaro tutto e decidere sul da farsi, prima che, ancora una volta, tutto capitombolasse nell’ennesimo errore.

-Chiedi una serata, cugino. Avremo bisogno di molto, molto tempo…-

 

Annlisette, rimasta sola nella boscaglia, aveva scelto di ammazzare il tempo girovagando un po’ in giro. Non si era allontanata molto, anzi, aveva fatto attenzione a non perdere di vista il punto in cui Nathan le aveva detto di attenderla. Si chiedeva che fine avesse fatto, lanciando occhiatine cariche di curiosità mista a preoccupazione, la quale era tutta rivolta allo straniero.

Da quando aveva saputo che c’erano molte cose che non sapeva, aveva avanzato silenziosamente mille ipotesi, che però teneva solo per sé. Ormai era chiaro che il famoso Joshua era nemico di Nathan e del suo… gruppo? A parte Sogno e l’uomo che somigliava tanto al suo straniero, quante altre persone abitavano lì? Erano vicine o lontane da Hidel?

Inoltre, si era spesso chiesta come Sogno avesse medicato la ferita di Nathan, e tutte le volte aveva avanzato una nuova ipotesi. Ma tutte erano connesse da un fattore: la scienza. Quali miracolose medicine provenivano dal mondo estero? Farmaci capaci di curare in una sola notte una lesione di quella portata? Interventi su misura?

Normalmente, un cittadino di Hidel avrebbe prontamente risposto “pratiche rituali”, ma Ann non era il tipo che sparge sale, evita i gatti neri o si dispera se olio e sale cadono sulla tavola, questo era ben chiaro già da molto tempo.

Purtroppo, però, non le era dato ricevere delle risposte ai suoi perché. Chissà, forse sarebbe riuscita a strappare qualcosa di tanto in tanto, ma la fiamma della speranza di poter completare il puzzle era sempre più debole. Tornata lì dove Nathan le aveva detto di aspettare, la giovane archiviò quei pensieri con un sospiro. Quanto le sarebbe piaciuto scoprire la verità…

Un suono. Il rumore di fronde spostate e rametti calpestati.

-Sei tornat…- Ann si voltò mentre un sorriso spontaneo le si allargava sulle labbra. E il volto di Joshua fu l’ultima cosa che vide prima di ricevere un colpo in testa, un colpo molto forte, che le fece crollare le gambe.

 

 

 

Note dell’Autrice:

Ann, Nathan e compagnia sono andati in vacanza alle isole Bananas! O almeno, questo è il nome con cui le ha chiamate Ann xD una lunga vacanza! Per un po’ nella mia stanza ci sarà un meraviglioso silenzio. Dunque ne approfitto per fare un piccolo discorso con voi lettori.

Innanzitutto… finalmente ho cominciato a revisionare la storia. D’ora in poi, per quanto riguarda i vecchi capitoli, quando vedete la magnifica (*_*) intestazione presente in questo, saprete che è un capitolo revisionato e in forma definitiva. Ho rivisto anche questo, quindi non dovrebbero esserci orrori di grammatica etc. Lo spero! Altrimenti significa che la mia vista è scalata ancora di più!

Siamo arrivati al 15esimo capitolo, capitolo nel assistiamo all’avvenimento che segnerà la svolta: il rapimento di Ann. Inoltre, la partenza di Nathan è sempre più vicina, e Marcus non sembra intenzionato a lasciarlo rimettere piede a Hidel. Perché? Ah boh, io sto zitta, altrimenti che divertimento ci sarebbe? xD

Volevo ringraziare al profondo del cuore tutti voi lettori, recensori, e anche chi non commenta ma ha questa storia tra i seguiti/preferiti/da recensire. WCITS è una storia tormentata. Non ho mai avuto il coraggio di pubblicarla perché pensavo fosse scritta male. Pensate che il primo capitolo venne postato dopo sei mesi dalla stesura. E invece si è rivelata non solo la mia storia più popolare, ma anche la più complessa sotto molti punti di vista. Muovo sui GdR Ann da… uhm, quasi tre anni, Nathan da uno. Lo ammetto, muovere Nathan è più divertente xD ma non c’entra.

Sento il dovere di ringraziarvi sentitamente di continuare questo viaggio attraverso le Nameless, le lande senza nome, assieme a me, Ann e Nathan ^^ ricevere commenti è una cosa che mi fa battere il cuore e fa balzare a mille la mia voglia di scrivere. Ovviamente accetto anche le critiche, non sono perfetta (altrimenti sarei un vampiro, per citare Nate xD), e sono qui per migliorare sia come scrittrice che come persona ^^ è davvero bello parlare con tutti voi.

Ok, basta sproloqui. Ora veniamo alle notizie ò_ò oggi 23 agosto 2010, alle ore 14.38, WCITS ha 37 recensioni! Signori, ho ancora l’intenzione di aprire il blog su LiveJournal arrivata a 40 xD voglio assecondare le mie manie megalomani.

E ora vi saluto.

 

A presto,

Sely <3

 

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Capitolo 16
*** Il popolo del suono ***


What colour is the snow?

Capitolo 16: Il popolo del suono.

L’ora del pranzo era da poco passata, il cielo era ancora illuminato dalla solita tenue luce del sole. Metteva un po’ di malinconia pensare che quelle nuvole altostrati rovinavano i già lievi raggi persino durante l’estate. Tuttavia, l’illuminazione era decisamente maggiore rispetto a quella della stagione fredda, per cui si poteva girare con molta più sicurezza per le Nameless, le senza nome. L’aria era abbastanza calda, sempre mettendola a confronto con quella invernale. Inoltre, la foresta era rinata. L’erba sbucava timidamente creando vasti manti freddi e morbidi, i quali venivano di tanto in tanto attraversati senza cura da qualche coniglio in fuga dai lupi.

In quel momento, invece, ad attraversare quasi di corsa quel breve tratto di strada che intercorreva tra l’accampamento degli Angeli e Hidel, erano Nathan e Sogno, che conversavano allegramente tra un passo e l’altro, ridendo e scherzando sul più e sul meno.

Ogni tanto erano costretti a piccole pause, causate dalla gonna di Sogno, che sembrava provare uno strano gusto nell’impigliarsi in ogni arbusto spinoso che trovava.

-Ancora!- rise Nathan quando la vide armeggiare per la sesta volta.

La ragazzina sbuffò –Maledetta gonna! Voglio portare i pantaloni anch’io!-

-Lo sai che è vietato-

-Un giorno- alzò un dito contro il naso dell’amico –anche noi donne porteremo i pantaloni!-

Nathan non era propriamente maschilista, ma neanche femminista. Preferiva che le donne stessero al loro posto, lasciando taluni compiti o diritti agli uomini.

Annuì a quell’esclamazione porgendo gentilmente una mano alla ragazza, aiutandola a riprendere il passo.

Il luogo in cui aveva lasciato Ann non era lontano. Già se la immaginava seduta sotto un albero, magari mezza addormentata per la noia. Un sorriso gli nacque spontaneo sul viso mentre la figurava pronta ad alzarsi e additarlo “Mi hai fatto aspettare un sacco!” lo avrebbe giustamente rimproverato, calando poi il tono in uno sbadiglio tenero e innocente, che si sarebbe trasformato in un sorriso ancora più dolce non appena avrebbe poggiato gli occhi su Sogno. Un piccolo momento di serenità in quella che sembrava una situazione più che mai instabile e critica.

E poi… poi avrebbe sicuramente portato sul capo uno di quei bellissimi fiori che amava e che crescevano proprio lì dove l’aveva lasciata. Le rose bianche. Quelle che emanavano un profumo al contempo accattivante e gradevole…

Ma l’odore che sentiva nell’aria non era affatto gradevole.

Nathan e Sogno si fermarono istintivamente, guardandosi in volto prima di scattare come soldati, schiena contro schiena, il primo mano al fianco, dove, sotto il mantello, pendeva Selescinder, la seconda estrasse un coltello da dentro la manica sinistra, impugnandolo con troppa maestria per una donna. All’improvviso, quelli che poco prima apparivano come due allegri e imbranati amici, ora erano due mastini da caccia frementi, ansiosi di balzare bestialmente sulla preda.

-Demoni?- fu il sussurro della bionda, che lanciava occhiate nervose alla selva. Ogni movimento da parte delle fronde portate dal vento la faceva sussultare, tanto che Nathan le dovette far cenno di calmarsi.

-Resta qui- fece l’uomo per poi incamminarsi con passo felpato verso la radura. Ad ogni passo l’odore aumentava sempre più, diventando quasi insopportabile. E proveniva proprio da dove aveva lasciato Ann.

In quel momento sentiva il peso di sensi di colpa rendergli più difficile il cammino, rendendolo stranamente impacciato, combattendo in modo furioso con le procedure e gli insegnamenti propri degli Angeli. Fece irruzione nel luogo con la spada ben stretta tra le mani, pronto a giocare un elemento sorpresa… che si rivelò inutile. Non c’era nessuno. La prima cosa che gli venne in mente, ovviamente, fu che l’avessero portata via, ma si costrinse a calmarsi e ragionare. Ann non c’entrava niente in tutta quella faccenda, i Demoni non sapevano nulla di lei. Avevano appreso a malapena che c’era un Angelo inviato a Hidel e che…

-Joshua…- quello che gli uscì dalle labbra fu un poco più che un sibilo rabbioso, simile a quello di un serpente velenoso, carico di astio. Istintivamente, preso com’era dalla rabbia, scagliò lo stocco contro un albero, conficcando la lama nella corteccia con un suono secco, duro e soprattutto forte, merito della forza applicata nel movimento –quel figlio di un cane…- inveì nuovamente, abbassando lo sguardo che sembrava più una maschera di quelle usate per Halloween, tanto era accigliata e furiosa.

Sogno sopraggiunse poco dopo –Nate! Ho sentito un rumore! Stai bene?- e, notando la lama che quasi spezzava il povero pino, capì che qualcosa andava storto. Il cugino sembrava molto, molto arrabbiato. Lo capiva dal pugno talmente stretto da far pensare che si fosse conficcato le unghia nella carne. Sogno aspettava solamente di vederlo sanguinare, ormai. Si guardò intorno, capendo il motivo di tanta collera. Eppure non dovevano giungere a conclusioni affrettate, avevano bisogno di prove prima di dire che Ann era stata rapita. Gli mise gentilmente una mano sulla spalla –Cugino Metherlance, non possiamo esserne sicuri- lo incoraggiò.

Ma Nathan scosse il capo, alzando poi gli occhi su quelli dell’amica –Joshua… Damon ti ha parlato di Joshua?-

La ragazza fece cenno di no, forse un po’ offesa con i cugini per non averle rivelato un dettaglio che si stava rivelando importante. Fece per ribattere, ma venne ancora bloccata dal biondo, che le mise una mano sulla spalla cominciando a dar ordini con tono serio e determinato –Torna all’accampamento e avverti Jen che i Demoni hanno prelevato un civile-

Detto ciò le diede le spalle, inoltrandosi nel fitto della foresta. Sogno ebbe appena il tempo di urlare –Ma tu dove vai?-

Non ottenne risposta, o meglio, la ottenne, ma non la sentì. Quel sibilo indiavolato era troppo basso –A strappargli il cuore.-

 

La piccola Sogno, dopo una breve ma pesante corsa che la fece giungere con un gran fiatone e le ginocchia doloranti, non fece nemmeno caso alle ragazze che la salutavano amichevolmente vedendola tornare. Chi ammiccava, chi le faceva battutine a doppio senso sul fatto che era andata via insieme al Metherlance, chi semplicemente le rivolgeva sguardi distratti, tornando poi al proprio lavoro, tutti si accorgevano di quando qualcuno entrava nell’accampamento.

-Milady Jen!- esclamò facendo irruzione nella tenda del capo in seconda, non preoccupandosi di chiedere prima il permesso. E avrebbe dovuto… Non appena mise piede dentro, infatti, ebbe la netta impressione di essere avvampata.

La donna era sdraiata sulla sua branda coperta solamente dal lenzuolo leggero che lasciava intravedere le sue forme decisamente provocanti, abbracciata da un uomo che decisamente non era Marcus…

-Piccola Sogno!- eppure la bella generale sorrideva beatamente. Neanche fosse contenta dell’irruzione di Sogno.

-Mi perdoni, generale!- continuò con tono sommesso la povera ragazzina, non sapendo più come comportarsi. Ma Jen continuava a sorridere, e il pensiero del cugino Metherlance che inseguiva i Demoni per recuperare Annlisette la convinse a parlare con voce alquanto allarmata –I nemici hanno sequestrato un abitante di Hidel!-

Sul volto della donna apparve finalmente un segno di preoccupazione. Le rughe che si formarono quando corrucciò la fronte attestarono la sua reale età, quindi si mise seduta, premurandosi di coprire ciò che doveva rimanere coperto. Assunse un’espressione pensierosa, abbassando gli occhi sul lenzuolo candido.

-Non possiamo fare nulla, se non mandare uno dei nostri a chiedere spiegazioni- disse infine, alzando gli occhi a un’indecisa Sogno, la quale però annuì con vigore.

–Nathan è già andato-

-Perfetto, allora- riprese la donna. Dal suo viso si intuiva che si stava preparando a dar ordini, i quali sarebbero stati eseguiti alla lettera da tutti, senza neanche un attimo di esitazione. Lì, tra i comandanti, lei era sicuramente la preferita dalla maggior parte del gruppo –prepariamoci per l’ambasciata di domani, Sogno. Affronterai in primis questo argomento-

E, a quel punto, Sogno si vide costretta a cedere all’evidenza: non potevano in alcun modo essere d’aiuto a Nathan. In quel momento, mandare altri di loro in accampamento nemico significava far saltare il ponte che avevano costruito in quei mesi.

“E’ tutto nelle tue mani, Nate…

 

La prima cosa che fu in grado di percepire nonostante i sensi fossero ancora intorpiditi, fu un gran freddo. Lo stesso che di solito c’era a Hidel durante l’autunno. Era forse rimasta addormentata per due o tre mesi? La mente di Annlisette non riusciva a formulare un pensiero razionale o quantomeno concluso. Riflessioni, deduzioni, per ora rimaneva tutto in aria, senza un filo logico che li unisse. Si sentiva debole, e stanca.

Tentò di muovere le dita delle mani, accorgendosi che le punte erano intorpidite dal gelo. E così anche tutto il resto del corpo. Nessuno si era premurato di metterle una coperta addosso? Quando fu certa che le mani rispondessero ai comandi del corpo, decise di provare un’impresa più ardua: stirare i muscoli, così da assicurarsi di essere tutta intera. Riuscì dunque ad allungare le gambe, che si estesero senza che nulla le ostacolasse, sentì sotto i polpastrelli qualcosa di simile alla paglia. Non le era mai piaciuta la paglia, si infilava ovunque.

Arricciò il naso quando, pochi secondi dopo, il luogo dove si trovava venne raggiunto da un odore poco piacevole di ceci. Quei maledetti erano entrati in casa sua poche volte, e ogni volta aveva dovuto lottare con le unghie e coi denti per resistere all’impulso di sputare ogni boccone.

“Non solo mi hanno fatto male, mi hanno rapita e non mi hanno messo una coperta addosso… ora anche i ceci!” fu il primo pensiero che riuscì a formulare in modo corretto.

Fortunatamente, il dolore al capo era passato, ma ancora sentiva di tanto in tanto qualche leggera fitta.

Provò ad aprire gli occhi, e un nuovo dolore alle tempie le urlò addosso tutta la sua rabbia, facendole corrugare la fronte e aggrottare le sopracciglia.

In quell’attimo, intorno a lei, sentì risuonare voci confuse e indistinte che parlavano in una lingua sconosciuta. Ebbe un moto di paura, realizzando solo attraverso quei bisbigli soffusi che non era sola. Era davvero stata rapita.

Ann non era mai stata coraggiosa, dunque la prospettiva di far finta di essere ancora svenuta per  non vedere in faccia i suoi rapitori le sembrò molto allettante. Optò per questa pacifica alternativa, ma sembrava che i “nemici” non fossero tanto d’accordo con lei.

Una mano iniziò a schiaffeggiarla con fare decisamente poco delicato, chiamandola – o forse maledicendola – in quello strano modo di parlare di poco prima.

Lei si lamentò, un po’ per il dolore alle guance un po’ per la consapevolezza che doveva fare almeno un attimo di scena. Forse, se si fosse mostrata piccola e indifesa, i suoi rapitori l’avrebbero lasciata andare? Le sembrava molto difficile. Ma la cosa che più le faceva rabbia era pensare che non si sarebbe dovuta sforzare per sembrare impaurita. Stava già tremando lievemente.

Spinta dalla rassegnazione – era ben cosciente che non potesse trattarsi di coraggio -, aprì pian piano gli occhi, e il suo mondo tornò ad avere forme e colori.

Per un attimo credé di trovarsi in uno di quei racconti che si tramandano via orale, quelli provenienti dalla città e narranti di lontanissime e strane civiltà chiamate “indiani” o “pellerossa”. La persona, infatti, che si trovava davanti a lei, con la mano pronta a schiaffeggiarla di nuovo, era dannatamente simile a quelle paurose persone dedite ai riti strani e alle letture delle mani – o forse no e stava mescolando un po’ troppe leggende -.

Era una donna che si sarebbe potuta definire uomo, tanto erano larghe e possenti le spalle coperte da una veste di un colore spento, simile al beige, che la copriva interamente, finendo in una gonna che Ann vedeva a stento, a causa delle gambe muscolose e incrociate su cui sedeva pesantemente. Il viso aveva tratti duri e gote prominenti, mento poco pronunciato e fronte leggermente sporgente. Lisci capelli corvini erano intrecciati in una coda di cavallo a destra del capo, e scivolavano morbidi lungo il seno decisamente sviluppato, unica cosa che attestava con sicurezza che quello che aveva davanti non era un uomo.

La contadina si sentì improvvisamente ancora più scoraggiata e piccola. Si ritrasse spontaneamente dal giogo di quelle enormi mani simili a quelle di Lazarus – forse addirittura più grandi – che minacciavano ancora di farle male.

Rimanendo seduta, con le gambe piegate e una mano al petto, la ragazza strisciò indietro di qualche centimetro, andando però a sbattere contro qualcosa.

Alzando lo sguardo, notò un uomo, un vecchio uomo canuto e asciutto, che forse dimostrava anche più della sua effettiva età. I suoi occhi, tuttavia, erano così profondi e di un particolare giallo da farlo sembrare simile a un ragazzino curioso, guizzavano dalla donna alla ragazza, soffermandosi con particolare attenzione sul viso pallido e impaurito della seconda.

Le sorrise benevolmente –Sembra che nostra piccola amica ha paura- borbottò con voce vivace, eppure segnata dagli anni, in quella che sembrava un’imitazione non molto riuscita del dialetto parlato da Ann.

Quel buffo tentativo, soprattutto a causa dei suoi accenti completamente sbagliati, fecero scappare una misera risata alla ragazza, ma questa si ritrasformò immediatamente, e quello che doveva essere un risolino divenne un sospiro forzato e impaurito.

Spostandosi di lato, andò a poggiare le spalle contro qualcosa di duro che, per suo immenso sollievo, si rivelò essere un muro. Avrebbe potuto ancorarsi lì per un po’. Si piegò su se stessa, nascondendosi come poteva, anche se sapeva quanto tutto fosse perfettamente inutile. La vedevano benissimo a causa della luce emanata da un sistema di illuminazione a candele sparse un po’ ovunque. La ragazza desiderò che entrasse un soffio di vento abbastanza forte da spegnerle tutte. Se si solito era il troppo buio a far paura, stavolta era la troppa luce la sua avversaria.

La donna parlò ancora, e finalmente scoprì il suo secondo tratto femminile: una voce un po’ troppo acuta per quella corporatura mascolina. La sua espressione però non prometteva nulla di buono, sembrava infatti molto arrabbiata, forse era la presenza di quella contadinella a infastidirla?

“Se volete riportarmi a casa, a me va benissimo…” pensò silenziosamente la ragazzina, che solo ora si guardava intorno, scoprendo così il luogo dove si trovava. Dove l’avevano trascinata.

Si trattava di una grandissima tenda, tenuta su da almeno una decina di pali di legno decorati con colori allegri e caldi. Il colore dominante, infatti, era il cremisi. Il pavimento era costituito da paglia, sulla quale erano poggiati tappeti e tappeti, a formare una specie di pavimento multicolore. Vi erano grandi ceste che sembravano essere sul punto di esplodere, tanto erano piene zeppe. Un palo più alto e grande era posto al centro del loco, ed Ann poteva leggervi delle immagini che sembravano raccontare scene di battaglie furiose. Battaglie curiose. Degli uomini dalle ali bianche – Angeli? – che combattevano con spade e lance contro uomini cornuti, con una lunga coda e denti appuntiti. Che fosse una scena presa dalla Bibbia?

Riportò l’attenzione sui due, che confabulavano senza renderla partecipe di una conversazione che sicuramente la riguardava. Non che lei ci tenesse molto a farne parte, ma le sarebbe piaciuto sapere almeno perché era stata portata lì – lì dove? - e chi erano quei tizi.

L’uomo si voltò guardandola bonariamente, poi le rivolse quello che forse era un saluto. Alzò una mano descrivendo un cerchio a mezz’aria, sorridendole in modo caldo e gentile.

Si stava sforzando di farla sentire a suo agio, ma Ann, dentro di sé, implorava che suo padre o Nathan venissero a salvarla il prima possibile.

-Non vogliamo fare male a te, piccola donna. Niente paura- continuò l’anziano.

Ann si sforzò di ignorare tutti quegli accenti sbagliati, rispondendo con parole quanto più comprensibili –Mi avete rapita, portata in un posto che non conosco, e mi dite di non avere paura?-

L’uomo dovette capire tutto, perché abbassò il capo ridendo sommessamente, con un tono davvero sereno. Non sembrava cattivo, a differenza della donna che ora si alzava, lasciando i due soli. Aprì un lembo della tenda svelando un passaggio, attraverso il quale Ann riuscì a scorgere della neve. Si trovavano in alta montagna, allora. Ecco perché c’era tutto quel freddo.

-Tu sei intelligente e furba, piccola donna-

-Mi chiamo Annlisette- mise ben in chiaro lei con voce dura. Non le piaceva essere chiamata in quel modo. Era ufficialmente nel mondo dei grandi, lei.

-Annlisette- annuì il vecchietto –mi ricordo che da voi si saluta con mano- e ricordava bene. Le porse la mano destra, che  la ragazza dapprima guardò con occhi diffidenti, ma che infine decise di stringere. Era scheletrica, piena di rughe e con qualche segno di malattia della pelle. Come l’aveva chiamata Nathan? Derrisite? Pelitite? Dinamite?

Il filo di pensieri venne interrotto dalla voce pacata dell’uomo –Il mio nome è Joseph- si presentò. Le lasciò la mano, tornò a sedersi e a guardarla con quegli occhi che le mettevano un po’ di timore –Nostra tribù si è lasciata dietro lo vostro mondo. Un tempo anche noi parlavamo lingua nazionale, ora, invece, solo i capi sanno un po’-    

Ann scelse di collaborare. Quell’uomo si stava dimostrando molto più placido e aperto al dialogo della donna di prima, quindi avrebbe provato a lasciarsi alle spalle la paura, parlando con sicurezza, com’era solita fare. Però dentro di sé sentiva sempre più il bisogno di avere accanto suo padre, sua madre o Nathan. E non poteva fare a meno di chiedersi se anche lui era nei guai. Forse era stato catturato come lei, e ora si trovava in una tenda simile a quella? Sentì la preoccupazione crescere assieme al bisogno di verità, e ciò la spinse a farsi forza per cercare di estorcere ogni informazione possibile –Se la cava abbastanza bene, signore- annuì restando seria –quindi vi siete isolati sulle montagne delle lande senza nome?-

-Sì- rispose lui un sorriso, contento che la ragazza si fosse decisa a collaborare –la gente non ci ama. Noi non siamo cattivi, noi facciamo bene degli umani, ma umani non capiscono. Così ci siamo ritirati qui, decisi a non aiutare più nessuno e fare nostra vita-

-Gli umani molto spesso non capiscono chi li sta veramente aiutando- alla ragazza, cresciuta con un’educazione prettamente cristiana, venne in mente il sacrificio di Cristo –purtroppo non siamo intelligenti come diciamo-

-E invece lo siete- la apostrofò il vecchietto, convincendo Ann che doveva mancargli qualche rotella. Era davvero convinto di non essere umano? E cos’era? Un Angelo, forse? O uno di quei vampiri che derideva tanto in compagnia di Nathan? –Solo che vi lasciate convincere dalle voci malvagie che vi sussurrano agli orecchi-

Su questo aveva davvero ragione, tanto che la ragazza decise di non ribattere. Tenne lo sguardo fermo sulla figura dell’anziano dagli occhi limpidi, leggermente spaesata da tutta quella sincerità.

Quell’attimo di distrazione fu di incentivo al suo interlocutore, che riprese il discorso –Tu sei forte, piccola donna, ma come tutti gli uomini sei fragile in animo, e il male ha bussato a tuo cuore. Per questo ti abbiamo rapita, per salvarti da male-

Ann ormai non sapeva più se prenderlo per pazzo o credergli. Continuava a tornarle in mente quell’episodio biblico, e lei stava seguendo l’esempio degli ebrei che non credevano nel Messia. Eppure, quelli che gli avevano infine creduto, avevano avuto prove. Ed erano proprio quelle che si aspettava dal canuto uomo che diceva di non essere umano.

-Il male ha bussato al mio cuore?- ripeté la ragazza senza capire. Non le sembrava di aver fatto qualcosa di diverso dal solito. La sua vita procedeva come da routine.

L’uomo annuì con fare grave, pesante. Incrociò le braccia al petto per poi abbassare il capo, nascondendo sotto le palpebre quegli occhi particolari –E tu hai risposto di sì-

La giovane ormai rinunciava a capirci qualcosa, e, mentre il vecchio non accennava a parlare, scelse di guardarsi intorno ancora una volta e mettere insieme le poche idee che aveva. Date le dimensioni di quella tenda e il fatto che solo i capi in quel posto sapevano il dialetto, non le ci volle molto per capire che quello che si trovava davanti era un pezzo grosso, e che quella era “casa” sua.

In secondo luogo si trovava sulle montagne. Non doveva essere che tardo pomeriggio, in quanto aveva intravisto un filo di luce che tagliava la linea dell’entrata, disegnando una retta su uno dei tanti tappeti. Dunque, se era passato così poco tempo, non doveva essere lontana da Hidel. Forse si trovava sui monti ad est, vicino al sito archeologico dove Nathan aveva studiato le rovine romane.

E poi… poi ricordava il viso di quel ragazzo di nome Joshua che la portava nelle tenebre. Che fosse lui “il male che aveva bussato al suo cuore”? Magari aveva cercato di rapirla, ma poi erano arrivati quelli della tribù, come decise di chiamarli, e l’avevano salvata.

La curiosità era forte, ma la paura lo era ancora di più. Aveva rinunciato alla verità nel momento in cui aveva detto di sì a Nathan, ma ora… aveva detto di sì a Nathan?

“No, non può di certo riferirsi a lui…” provò a convincersi forzando una risatina nervosa. Era vero che lo straniero le teneva segrete molte cose, era stato lui stesso a dirle che non avrebbe mai potuto confessargliele, però era buono. Sì, Nathan era buono. Cosa diavolo stava andando a pensare? Quel luogo le metteva addosso troppa suggestione…

-Hai capito?- fu il sussurro fatto con tono furbo dal vecchietto, che socchiuse gli occhi per osservarla.

-No… credo di aver frainteso tutto- rispose lei, che in quel momento si trovava in forte disagio. Poggiò le spalle al muro, in attesa dell’ennesima sparata da parte del vecchietto.

-Parlo dell’Angelo biondo che sta sempre vicino a te-

E lì i sospetti di Ann vennero confermati. Sì, Angelo biondo, probabilmente non c’era altro modo per descrivere come lei vedeva Nathan, ma il modo in cui venne pronunciato dall’anziano lasciava a intendere che fosse un insulto. Sembrava quasi voler sputare sulla parola “Angelo”. E ora una domanda sorgeva spontanea.

-Ma cosa ne sapete voi di Nathan?-

-Molto più di te- rispose lui ancora placido. Non voleva che la ragazzina perdesse la calma, si vedeva –ma non crederai alle parole di un vecchio che non conosci- rise, quindi si alzò in piedi –ma forse crederai alle parole di mio figlio-

Suo figlio? Ann alzò un sopracciglio. Che si riferisse a Joshua? Dopotutto anche lui parlava la sua lingua, quindi non si sarebbe stupita più di tanto. Bene, aveva giusto un paio di cose da farsi spiegare. Annuì, sperando di non sbagliarsi.

L’uomo la salutò di nuovo col suo fare garbato, quindi uscì dalla tenda. Era rimasta sola. Finalmente sola.

Rimase dapprima ferma, come in attesa di un nuovo evento che sconvolgesse la sua vita. Ma questo non arrivò, e ciò la convinse a ispirare una grande boccata d’aria, rilasciandola poi con un sospiro pesante, gettando via lo stress.

“Che situazione… voglio la mamma…” si ritrovò a pensare. Forse non era un pensiero adatto a una della sua età, ma sentiva davvero il bisogno di una mano amica, lì, in quelle terre sconosciute e fredde.

Si guardò ancora intorno, sperando con tutto il cuore che la terza persona che avrebbe incontrato fosse meno manesca della donna e più comprensibile dell’anziano. Si piegò su se stessa, portando le gambe vicino al corpo, col capo basso e il mento poggiato sulle ginocchia, sentendo un pizzicore sotto le palpebre, quel tanto odiato segno di debolezza.

Doveva farsi forza invece, e affrontare con coraggio ciò che sarebbe accaduto in seguito. Come sempre aveva paura, ma sapeva che doveva metterla da parte. Se Nathan fosse stato lì, cosa avrebbe detto? Sicuramente qualcosa di imprevedibile e forse un po’ pizzicante, in modo da darle contemporaneamente un insegnamento e la forza di reagire.

Come potevano dire che lui era il male?

-Ciao, Ann- le sue aspettative non vennero deluse. Il figlio dell’uomo di poco prima era davvero Joshua, che entrava in quel momento facendo lo stesso segno di saluto del padre. Sembrava sereno, con quel suo sorriso gioviale, tutto il contrario di quello sarcastico di Nathan.

La ragazza ebbe davvero voglia di dargli un ceffone, ma mascherò la cosa attraverso uno sguardo penetrante e carico di diffidenza e rimprovero.

Lui, evidentemente a disagio, si sedette davanti a lei sforzandosi di sorridere –Ah… scusami per quella botta, non volevo che ti facessi male. Ho provato a dirglielo…- gli accenti sbagliati, le consonanti troppo marcate e la pesantezza nel parlare non tradivano i ricordi della ragazza, così come la lucentezza dei suoi occhi. Sembrava in ottima forma, ed ella si sforzò ancora di non cancellare quel buonumore ricambiando la botta in testa di poco prima.

Gli puntò un dito addosso con fare accusatorio –Ti devo un colpo di bastone! Che diavolo ti è saltato in mente, maniaco!-

Lui inclinò il capo con fare indeciso –Ma… niaco? E’ buono da mangiare?-

Sull’orlo dell’esasperazione, Ann scosse il capo sospirando –Sarei venuta se me l’avessi chiesto gentilmente. Non c’era bisogno di spaccarmi la testa-

-In realtà non sono stato io a farti male- disse, sorprendendola –avevo chiesto a mia madre un po’ di gentilezza, ma lei vuole fare sempre come vuole lei. L’hai vista prima, vero?-

Ora si spiegava tutto. Era tutto merito della mammina. La voglia di ricambiare la sberla le passò di colpo. Non voleva di certo rimetterci la vita!

-Sì, ho avuto il piacere di conoscerla- sbuffò ironicamente lei, senza che però Joshua cogliesse il senso di quella frase. Sembrava un bambino inconsapevole e spaesato, tanto che Ann si chiese come un giovane così innocente potesse essere figlio di quella donna assassina.

-Allora, mi sai spiegare in termini comprensibili perché mi avete trascinata fin qui?- borbottò senza abbandonare il tono di poco prima.

-Certo- sorrise lui, per poi ridacchiare –mio padre parla in modo difficile anche per te?-

-Un po’- ammise.

-E pensa che non sa bene la tua lingua. Immagina che razza di discorsi fa con una lingua che sa bene- e rise di gusto.

Ann capiva cosa intendeva. Doveva essere come Nathan quando cominciava a usare tutti quei termini sconosciuti. E, come sempre, Joshua dimostrava di conoscere il suo dialetto. Forse merito, come le aveva spiegato, delle giornate passate ad osservare le persone di Hidel?

Ma tutto questo doveva essere rimandato. Era tempo delle risposte.

-Ti ricordi che l’altra volta io e il tuo amico eravamo pronti a farci a pezzi?- chiese con espressione serafica. Ann annuì, e lui riprese –E’ perché facciamo parte di due gruppi nemici-

Dunque era vero, c’erano altre persone oltre lui, Sogno e l’altro tizio. Molte altre persone. Ed erano nemici con il gruppo di Joshua?

-E chi sono i cattivi?- chiese, dando però per scontato che non fossero quelli dalla parte di Nathan. Loro erano silenziosi e non l’avevano rapita.

Josh parve pensarci a lungo, alzò un sopracciglio e lo sguardo, pronto a chissà quale ragionamento –Io ti rispondo “loro”, ma anche loro ti risponderanno “loro”. Quindi è tutto a punti di vista. Siamo nemici e basta-

-Capisco. E perché siete nemici?- continuò la giovane.

-Loro non ti hanno detto niente?-

Ann era indecisa. Dire o no la verità? Poteva essere troppo pericoloso dire che li conosceva, forse quelli del gruppo di Joshua si aspettavano chissà quali rivelazioni da lei, ma sarebbero rimasti delusi. Scosse il capo –Conosco solo Nathan e Sogno. Mai visto nessun altro di loro- tralasciò il tipo nella foresta che somigliava al suo straniero.

-Si nascondono bene nell’ombra. Ma sono Angeli- forse il piccolo capo non si era reso ben conto di cosa aveva appena detto, scrollò le spalle davanti all’espressione confusa di Ann.

-Cosa hai detto?- la ragazzina scoppiò in una risatina nervosa, sicura che anche a lui mancasse qualche rotella –Angeli? E voi cosa siete, Demoni?-

L’altro accostò una mano al mento -Beh, loro ci chiamano così-

“Ottimo” pensò Ann “sono finita in mezzo a una guerra tra mentecatti”, sospirò. Incrociò le braccia al petto, decisa fino in fondo a prendere per sciocchezze le parole del ragazzo. Non riusciva a capire come lui potesse essere così tranquillo, come se fosse una cosa che affrontava ogni giorno. Non c’era nemmeno lo sforzo di fingere che fosse tutto vero “questo qui ci crede davvero… oh, Signore.”

-Quindi dovreste essere voi i cattivi, Josh- gli fece notare lei con tono paziente.

-Un nome non fa una persona, Ann. Non trovi che sia strano un Demone di nome Joshua?-

In effetti mettere il nome del Messia a un Demone era una scelta abbastanza strana e curiosa, considerò la giovane contadina.

-Così come un Angelo di nome Nathan-

-Hm? Nathan è un nome normale-

-E’ tutto un gioco di suoni, Ann. Il mondo è fatto di suoni-

-Lo so! Credi che sia stupida?- la ragazzina scattò, chiedendosi se fosse stata una buona idea abbandonare il vecchietto per suo figlio.

-Lascia che finisca il discorso!- la apostrofò il “Demone” mettendosi in piedi. Ann si interruppe tornando al suo posto, ascoltandolo parlare –Noi ci facciamo chiamare il popolo dei suoni appunto per questo. La divinità che noi adoriamo è creatrice di tutto, come il vostro dio, ma la nostra riesce a parlarci attraverso ogni suono. Il vento che ulula tra gli alberi, le onde del mare che si infrangono contro la roccia, la nostra voce. Ma capire il linguaggio dei suoni è troppo difficile per tutti, e soprattutto suona diverso per ognuno. A te piacciono i fulmini?- Ann fece cenno di no –Nella nostra lingua, il fulmine è segno di miracolo. La strada che collega gli uomini agli dei- la ragazza alzò un sopracciglio, scettica. “Oh sì” pensò “se un fulmine ti becca in pieno sta sicuro che ti apre la strada per gli dei”. Fortunatamente però i suoi pensieri non giungevano a Joshua –A me piacciono molto i fulmini. E i terremoti. Mi fanno sentire a contatto con la terra. Sono pericolosi, lo so - e non pensare che noi ci mettiamo a inseguirli perché ci portano agli dei, non vogliamo morire -, ma sono anche la prova di quanto la natura sia potente. Non trovi?-

-Stavolta sono d’accordo con te. Anche se preferisco vedere la sua forza attraverso un fiore-

-Hai mai sentito i fiori parlare?-

Quella domanda la spiazzò, rispose di no. Fino a questo punto non ci era mai arrivata.

-E’ una capacità del nostro gruppo, ma ho sentito dire che anche alcuni degli Angeli ci riescono. Loro sono più deboli di noi se si guarda a questo argomento-

-Spiegami meglio-

Joshua tornò a sedersi davanti a lei –Quando diventano Angeli, acquisiscono un potere speciale. Alcuni di loro riescono ad avere anche il nostro: sentire un suono in ogni cosa. Noi lo abbiamo dalla nascita-

Bene, ora si cominciava pure a parlare di poteri sovrannaturali. Ma dov’era finita? Il timore di essere davvero in mezzo a una battaglia tra Angeli e Demoni cresceva sempre più in lei. Anzi, non Demoni, meglio popolo del suono.

-Torniamo al discorso del suono, Josh- propose, volendo capire dove intendeva parare il ragazzo.

Joshua annuì, quindi si allontanò un attimo. Ann rimase a guardarlo mentre prendeva un foglio e bagnava il dito indice in un barattolo che sembrava contenere vernice blu. Tornò da lei sorridendole, quindi posò il grande foglio giallastro per terra, cominciando a disegnare simboli. Ann acuì la vista per imprimere bene nella mente come e cosa scriveva. Peccato che, ovviamente, non stesse usando il suo dialetto.

Tracciò una linea dritta al centro, da cui fece partire un altro tratto che si incurvava tre volte verso la fine, poi passò alla seconda lettera, una strana u con due puntini sotto, la terza fu scritta così velocemente che la ragazza riuscì solo a distinguere un insieme di cinque ghirigori l’uno dentro l’altro. L’ultima lettera, invece, era una rappresentazione di un uccellino di profilo, senza però becco e artigli. Joshua le mostrò la trascrizione finita –Questo è il tuo nome nella nostra lingua-

-Ma che carino! Mi piace!- esclamò tutta contenta lei, pensando già di portarselo a casa.

-Si legge “Hanaahu”- le spiegò con grande naturalezza lui, strappando il pezzo di pergamena dove aveva scritto e passandolo alla giovane, che lo conservò con un sorriso –significa “libertà”-

-Non pensavo di avere un nome così bello- rise la giovane conservando il piccolo tesoro nella tasca –e il tuo come si legge?-

-Hiez- continuò lui agitando il dito sul foglio –e significa “speranza”- cominciò a tracciare un nuovo disegno –ma se letto “Hiéz” significa “amore”-

Finalmente Ann capiva dove voleva arrivare il ragazzo con quel discorso sui nomi. Bastava un microbo come un accento per sconvolgere il significato di qualcosa, distruggere una vita. Tutto era davvero racchiuso in un suono.

Joshua ora aveva disegnato una linea dritta verticale, la cui coda si trasformava in un cerchio da cui partiva la seconda lettera, una epsilon rovesciata, accanto a questa aveva poi disegnato una specie di onda, due linee dritte e infine il fuoco –Il nome di mio padre, che voi leggete Joseph, noi lo leggiamo “Josè”, e significa “giustizia”- un altro bel nome da aggiungere alla collezione. Quell’argomento stava piacendo molto ad Ann, che indicò il nuovo disegno –Questo è il nome di tuo padre?-

Joshua scosse il capo, mostrandole bene il disegno. Le piaceva molto quel fuocherello finale, lo ammetteva –Questo è Satan, che voi leggete Nathan, e significa “fuoco nero”-

La prima reazione di Ann fu di stupore, che gettò fuori con una risata poco convinta. Ecco dove voleva arrivare davvero Josh. E lei voleva stare al suo gioco –E se lo leggessi Satàn?- rise.

-Non c’è altro significato-

-Questo sì che è un bel… come l’aveva chiamato Nathan… uhm… parnaddosso?- lasciò perdere le parole difficili, tanto Josh non le avrebbe capite –prima gli dici che è un Angelo, poi che porta il nome del Diavolo, ci credo che non ti sopporta!- rise. Eppure quel discorso l’aveva colpita, e Joshua sembrava comprenderlo pienamente. Lui le sorrise annuendo, forse non aveva ben capito il senso di quel discorso, ma il suo lavoro l’aveva fatto.

-Un nome non fa una persona, come ti ho detto. Ti abbiamo portata qui- riprese –perché non ti hanno dato la possibilità di scegliere. Noi vogliamo dartela. Puoi tornare a casa, a Hidel, e riprendere a parlare con quel tipo, ma le porte del popolo del suono saranno sempre aperte per gli innocenti, Hanaahu- le sorrise dandole una leggera e gentile pacca sul capo, laddove sua madre aveva colpito forte –ora tu sai la verità, non sarà più un altro a scegliere per te-

In qualche modo, Ann sentiva di essere riconoscente a Joshua per aver fatto chiarezza su quella storia così fitta di misteri. Pian piano stava davvero venendo fuori la verità. Annuì alle sue parole e sorrise –Ti ringrazio, Josh-

Passò un attimo durante il quale vi fu silenzio, ma Ann era sicura che in realtà Joshua stesse sentendo ancora qualche suono. Infine lui si rimise in piedi, aiutandola a fare lo stesso –Vuoi andare a casa?- lei annuì immediatamente –Mia madre si è offerta di aiutarti a tornare, per non farti andare da sola-

-Eh no!- esclamò Ann agitando le mani. Lei un altro viaggio con quella donna pericolosa non l’avrebbe fatto di certo –Faccio da sola! Non penserete che solo perché sono una donna non ce la farò?!-

Lui scosse la testa ridendo –Voi donne siete molto più forti di noi uomini-

-Farò da sola- assicurò la giovane. Non sapeva come, ma avrebbe fatto.

C’erano troppe persone che la aspettavano, primo tra tutti il suo Angelo biondo.

 

 

   

Note dell’Autrice:

Jooosh! *__* da quanto tempo non lo vedevo! *coccola Josh* ma quanto bene voglio a questo ragazzo? E’ mio u.u

Nathan: E Io? ç_ç

Josh: Io sono più puccioso ^-^

No dai, voglio bene anche a Nate *coccola anche Nate* in questo capitolo il nostro Nate è apparso poco e niente, ho lasciato molto spazio ad Ann. Mi sembrava anche giusto, visto che ultimamente l’ho un po’ lasciata indietro. Ma veniamo ai ringraziamenti! <3

 

Violacciocca: *va a prendere viola nell’angolino* grazie per quello che hai detto! Purtroppo sono una che non crede molto nelle sue capacità, e poi sono assillata da un dilemma: quando descrivo le emozioni dei pg se le approfondisco diventano pesanti e noiose, se non lo faccio risultano brevi e non coinvolgono. E’ il mio grande dilemma °_° ma passiamo ad altro… come hai visto, il nostro Nate ha candidamente deciso di strappare il cuore a Josh, sono così violenti questi ragazzi, non trovi? *Ann mangia patatine osservando i due che si scannano*

 

Midao: oh segnur, se ogni capitolo ti fa questo effetto, ho paura di farti seriamente del male entro la fine della storia! WCITS è completamente fatta da colpi di scena °° sarà che penso e ripenso alla trama buona parte del giorno tutti i giorni xD ho sempre paura di sbagliare qualcosa o di dare troppi indizi che potrebbero svelare il segreto di fondo! Riguardo la partenza di Nate, che ho visto che ti assilla parecchio, ti preannuncio che ho avuto una splendida idea *_* *modesta* vedrai vedrai!

 

Milou: Ti ho mai detto che hai un nick dolcissimo? Mi piace particolarmente ** ah ehm, non andiamo fuori tema… col tempo cambierai idea su Josh, è molto più dolce di quanto sembri ^^ l’unica pecca è che appare davvero poco in tutta la storia, quindi abbiamo poche occasioni per spupazzarlo xD spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto! :)

 

Vanilla: No cara Vanilla, Ann e Nate sono andati in vacanza xD io sono in vacanza a casa a studiare per l’inizio della scuola! *prende fazzoletto per piangere* Comunque, sono felice che la storia ti piaccia, benvenuta nel circolo delle mie vittime *_* spero che continui ad appassionarti <3

 

KK: *_* mia prediletta! E’ strano rispondere alla tua recensione mentre ti parlo su msn xD lo so, io a fine storia ti farò un monumento in oro per ringraziarti dell’aiuto e dei consigli preziosi ^^ bene, la storia di Josh te l’ho spiegata su msn mi sembra °° sì, sì mi pare di sì.

 

 

Bene, ora qualche parolina… se beccate errori di grammatica, a costo di farmi fare la figura dell’ignorante senza neanche la licenza elementare fatemelo notare! xD ringrazio Midao e Nade che mi hanno fatto vedere l’errore nel vecchio capitolo. Nathan la corrette e voi avete corretto lui xD

Infine… ho aperto il blog *_* assieme a Nadeshiko, ci metteremo dentro tante belle cose (oh, se ci fosse Locke coi suoi doppi sensi su Mushiking xD)!

Ho già una bellissima immagine con Nathan e Damon che posterò al più presto, e una con Ann dolcissima <3

Ecco l’indirizzo: http://kharlan.splinder.com/ su splinder perché su LJ non me lo faceva creare, boh ò.ò

Ora vi saluto, lasciateci un salutino >.< tanto non c’è bisogno di registrazione! *manda messagi subliminali*

 

Chu!

Sely.

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Capitolo 17
*** Di baci e di bugie ***


What colour is the snow?

Capitolo17: Di baci e di bugie.

La notte calava sui monti delle Nameless, portando sulle sue ali nere amarezza e buio gelido, che penetrava nelle ossa come una lama sottile e lunga. Le prime stelle in cielo lasciavano intuire che si stessero avvicinando le otto, orario in cui tutti, a Hidel, si ritrovavano presso la sala maestra per cenare insieme.

Ad occhio e croce, Ann avrebbe avuto massimo un’altra ora prima di essere considerata ufficialmente sparita. E in un’ora sarebbe riuscita ad attraversare la valle che la divideva dal villaggio?

Stava affacciata dallo spiazzo che mostrava il borgo poco lontano, accanto a lei si trovava Joshua, il cui viso era immerso quasi per intero nella penombra. Alla luce della luna appariva molto più affascinante, constatò la giovane.

-Come avete fatto?- aveva domandato con sommo stupore la giovane quando era venuta a conoscenza dell’ennesima sorpresa che il popolo del suono riservava ai viaggiatori: convivevano coi lupi.

Quei lupi enormi e paurosi, il cui pelo era più bianco della luna stessa, vivevano a contatto con quella gente serafici e amichevoli come cani e gatti.

-Anche loro hanno il nostro potere- le aveva spiegato il suo nuovo amico, carezzando dolcemente una di quelle bestie che Ann aveva sempre reputato fameliche. La ragazza non aveva avuto il coraggio di allungare una mano verso di loro, dopotutto lei non faceva parte di quella tribù, l’avrebbero potuta riconoscere come nemica e attaccarla. Proprio per questo motivo se ne teneva a debita distanza, sempre nascosta dietro l’amico quando uno di quegli animali le rivolgeva uno sguardo sospettoso.

-Davvero, Ann- sospirò il ragazzo pregandola per la decima volta –lascia almeno che uno dei nostri amici lupi ti accompagni, non ti farà del male-

-No- ribadì ancora la ragazza. Non se lo sognava di farsi accompagnare né da un lupo né dalla madre di Joshua –me la caverò da sola. Tranquillo-

Le avevano donato tutto ciò che poteva servirle per il viaggio: un mantello caldo, due panini, del latte, una lanterna. Se il cammino fosse durato tutta la notte, non avrebbe avuto di cosa preoccuparsi. L’unica cosa che non aveva accettato era una scorta. Anche se, a quanto aveva sostenuto la ragazza, la luce della torcia sarebbe stata la sua compagna e le avrebbe dato consiglio e coraggio.

E ora, da quello spiazzo, la ragazzina si preparava ad abbandonare quel popolo. Il vecchio Joseph le aveva sorriso con espressione gioviale, invitandola a tornare. Sua moglie si era congedata alzando una mano, un gesto che terrorizzò la contadinella.

-Un’ultima domanda, Josh- sussurrò stringendosi nella cappa calda.

-Dimmi- la invitò lui, cordiale.

-Come mai avete deciso di avvertirmi?- domandò a bruciapelo. Quella curiosità le tartassava la mente –Lo fate per chiunque venga a contatto con gli Angeli?-

Il ragazzo scosse il capo, i suoi passi si arrestarono. Si trovavano in uno stretto vicolo scavato nella roccia, una strada che conduceva alla foresta –In realtà solo tu hai stretto amicizia con gli Angeli. Eri troppo vicina a loro, così abbiamo scelto di dirtelo-

Un gesto molto gentile, ma le sue parole non la sorpresero. Era vero che a Hidel nessuno aveva stretto con Nathan quanto lei, né aveva conosciuto Sogno o altri Angeli. Sorrise candidamente –Grazie-

E così aveva ripreso il suo viaggio fatto di freddo, fronde mosse da un vento gelato e tanta solitudine. La foresta non le era mai parsa così buia. Aveva la sensazione che dietro ogni albero, ogni cespuglio, sotto ogni foglia che in quel luogo faceva da pavimento, si nascondesse un pericolo. E, al contempo, le leggende di Hidel non le erano mai sembrate così veritiere. Fantasmi, non-morti, vampiri, Demoni, tutto ciò che nei racconti dei grandi assediava il bosco, in quel momento forse fremeva eccitato dietro di te.

E spesso Ann si voltava di scatto, illuminando a tratti le tenebre, cercando di aguzzare spesso la vista per scorgere anche il minimo movimento.

“Oh, accidenti a te!” maledì un gufo che poltriva su un ramo, emettendo il suo verso annoiato e monotono, fissandola coi suoi occhi gialli. La ragazza gli scoccò un’occhiataccia riprendendo il cammino.

Cosa avrebbe fatto una volta arrivata? Niente di che, probabilmente. Quelle “passeggiate” nella foresta cominciavano ad essere frequenti, ma questa era la prima volta che ne faceva una per intero da sola. Se fosse riuscita ad arrivare a casa in tempo, probabilmente si sarebbe rintanata tra le braccia di mamma. Questa volta aveva davvero temuto di perdere la vita. E con Nathan cosa avrebbe fatto? Non aveva ancora deciso se seguire o meno i consigli della tribù del suono. Dopotutto, aveva appena scoperto che Hidel si trovava in mezzo a una guerra tra due gruppi di pazzi!

Tutto ora andava miseramente a pezzi: la copertura di Nathan, la storia dell’università per cui lavorava. Stando a sentire come parlava il vecchio Joseph, sembrava addirittura che il suo straniero non fosse umano.

Le uniche creature sovrannaturali in cui Ann aveva sempre creduto erano, per l’appunto, Angeli e Demoni. Ma cosa si fa quando gli Angeli ricorrono a sotterfugi che li fanno sembrare i Demoni, e i Demoni si dimostrano degli Angeli? Chi era chi, in quella battaglia?

“E’ tutto così dannatamente complicato…” si lamentò tra sé e sé la giovane.

“Attenzione, ragazze”, tutto era cominciato con un sorriso gentile, appena accennato, e con un lampo di due occhi azzurri di sfumature leggermente diverse. Ricordava bene il viso di Nathan che le evitava una brutta caduta sulla neve fresca. Chi mai avrebbe pensato che quello straniero così effimero ed evanescente, dal sorriso sornione, sarebbe entrato nella sua vita in modo così violento, sconvolgendola e rimettendola in piedi in una trama irta e particolare. Si immaginava in un quadro, un quadro che rappresentava una scena come quella del grande palo nella tenda di Joseph.

Angeli a destra, Demoni a sinistra, in uno scontro mortale di fiamme celesti contro fiamme rosse e nere. E lei in un angolino, coinvolta proprio da colui che portava il nome della fiamma nera. Ora c’era solo una cosa da capire: lui, e di conseguenza lei, stava a destra o a sinistra?

Da un lato era vero che la ragazza non voleva schierarsi dalla parte del male, ma non desiderava neanche dividersi da Nathan, che così tante volte l’aveva aiutata, salvata, le aveva fatto coraggio, le aveva dato motivo di alzarsi, di affrontare il fuoco che devastava la foresta e correre. Correre verso qualcosa, mossa dal coraggio. Lo stesso coraggio che da sempre le mancava, che ostentava ma che in realtà non possedeva, era lui a donarglielo.

Come avrebbe mai potuto rivoltarsi contro di lui? Però, nel caso Nathan fosse stato a destra, insieme alle fiamme celesti – che comunque, nella visione di Ann, sarebbero state sempre di un azzurro più scadente di quello degli occhi del ragazzo -, allora Joshua era a sinistra. Poteva davvero un giovane così gentile e disponibile al dialogo essere malvagio?

Improvvisamente ebbe il sospetto che i regali che le erano stati fatti potessero contenere un incantesimo nocivo per lei o a Nathan.

“Incantesimi? Ma cosa sto pensando!” si diede della stupida. Quando mai lei aveva creduto a cose simili? Tutta quella faccenda la stava prendendo troppo.

Così tanto da non accorgersi che il freddo le aveva gelato le ossa. Quando finalmente si accorse di essersi fermata poco lontana dall’albero del gufo per rimuginare, ormai era completamente avvolta dalla morsa ghiacciata. La mente, troppo stanca per reggere anche questo ulteriore corpo, scelse autonomamente di bloccarsi, conducendo la ragazza a un dolce e freddo sonno.

 

L’accampamento dei Demoni, lo sapeva bene, non era lontano. La prima volta che si era spinto in quelle zone con la scusa delle rovine aveva incontrato alcuni di loro assieme ai lupi, e non era stato un incontro piacevole.

Nathan teneva la mano stretta a pugno sulla Selescinder, illuminata dalla luce lunare che metteva in risalto non solo la sua finezza, la massima cura in ogni dettaglio, ma anche la pericolosità. Lunga, troppo lunga per essere un normale stocco, e affilata come la lama di un’ascia.

Procedeva a passo spedito, veloce, scoccando occhiate in ogni angolo, assicurandosi che nessun nemico fosse nelle vicinanze.

La spada era pesante, ma sulle sue spalle gravava un peso molto più oneroso, duro e spinoso: il senso di colpa. Chissà se stava correndo il aiuto di Ann per vendetta, senso dell’onore o altro, non gli importava, per adesso gli bastava correre. Era infatti deciso a rimandare ogni riflessione a dopo, mettendo ben in chiaro con se stesso un’unica cosa: non andava in suo aiuto per amore.

Severo com’era, chiaramente non poteva accettare di aver trasgredito alla regola principale degli Angeli. Beh, in realtà sapeva benissimo di aver spezzato quel piccolo giuramento e di aver donato un po’ troppo di se stesso a qualcuno. Ormai il danno l’aveva fatto. E, tra sé e sé, anche se non l’avrebbe mai ammesso davanti ad Ann, sapeva bene che Marcus non gli avrebbe permesso di tornare neanche dopo essersi di nuovo sottoposto all’addestramento. Probabilmente non avrebbe potuto rimettere piede ad Hidel per anni.

Ann sarebbe cresciuta, tutto sarebbe cambiato. Lei si sarebbe trovata un marito e tutto sarebbe andato per il verso giusto. Era proprio quello a cui mirava Marcus: evitare rogne. E faceva bene, faceva il gioco degli Angeli. Solo che questo gioco minava la felicità di qualcuno. Chissà come l’avrebbe presa quando avrebbe scoperto la verità. Avrebbe scaricato la colpa addosso a lui, questo era ovvio, forse addirittura facendolo andar via prima.

Tutto stava decisamente degenerando.

“Basta pensare, Nate. Guarda sempre avanti”, e guardò ancora avanti, ma quello che vide non gli piacque neanche un po’.

-Ann!- chiamò la ragazza che giaceva per terra. Per un attimo sentì una fitta, ma la scacciò prontamente, correndo da lei.

Era riversa a terra, non sembrava ferita. Portava addosso un mantello all’apparenza molto pesante che la copriva interamente. La prese delicatamente, passandole un braccio sotto la schiena, mentre con l’altro le tastava il viso. Era gelida, da quanto tempo era lì? Si guardò intorno per assicurarsi che non si trattasse di una trappola, stringendo poi la contadina –Hey, ti sembra il momento giusto per dormire?- domandò con voce di chi dà ordini, ma non ebbe risposta –Svegliati, insomma!- provò ancora malamente, e stavolta la ragazza arricciò il naso con fare infastidito. Lo straniero sospirò di sollievo, era ancora viva –Mi hai fatto spaventare, ragazzina…-

Ebbe l’istinto di carezzarle il viso, e per una volta non lo frenò, percorrendo con un dito l’intera linea della guancia, e un sorriso spontaneo gli nacque sul volto. E finalmente capì. Capì che, per quanto combatteva, certi sentimenti si potevano negare, ma restavano.

-Mi sono illuso un po’ troppo, vero?- domandò forse a se stesso, forse ad Ann, mettendola giù, sul morbido tappeto di erba bagnata. Si tolse il mantello, e il gelo gli fu subito addosso. Ma la strada per Hidel non era lunga, e la ragazzina ne aveva più bisogno di lui. Così glielo avvolse addosso, prendendola poi in braccio.

Riprese il cammino, stavolta con passo più svelto.

Grazie ai mesi passati in quel luogo, si era più o meno creato una cartina geografica mentale della zona, sapeva quale strada percorrere per raggiungere più velocemente il villaggio. Al buio, però, era tutto più difficile. La lanterna che aveva trovato vicino alla ragazza si era spenta, l’aveva dunque lasciata lì. Sicuramente gliel’avevano data i Demoni, quindi non si poteva mai sapere.

La temperatura era rigida, ma non così tanto da giustificare un’ipotetica ipotermia. Nathan pensava che lo stato della ragazza fosse dovuto più che altro alla stanchezza e allo shock dell’essere stata rapita. La teneva tra le braccia senza che lei emettesse il minimo suono. La cosa lo preoccupava parecchio, tanto che affrettò il passo.

Di tanto in tanto versi di gufi dilaniavano il silenzio, come terribili colpi di stocco che avevano il potere di bloccare persino l’avanzata dello straniero, che si guardava intorno cercando di localizzarli attraverso la flebile luce lunare. La selva, però, era irrimediabilmente buia, irta di pericoli, nei quali incorsero molte volte, e solo l’attenzione meticolosa dell’uomo evitò a entrambi rovinose cadute, incontri spiacevoli e quant’altro.

Nathan correva come un disgraziato, tanto che dopo una buona mezz’ora di corsa ebbe la necessità di fermarsi per riposare. Poggiò la sua donzella sulle radici di un pino, sedendosi poi accanto a lei. Mentre riprendeva fiato, avvertendo il gelo del tronco contro la propria schiena, prese con molta delicatezza la ragazza tra le proprie braccia, accertandosi che stesse ancora bene.

Il colorito di Ann era tornato normale, così come la temperatura. Le carezzò una delle paffute guance, sorridendo davanti alla smorfia che la ragazza fece inconsapevolmente.

Si chiedeva che cosa le avessero mai raccontato. Probabilmente le avevano svelato la verità, i Demoni, infatti, non sapevano che gli Angeli non avevano permesso nemmeno a un cittadino di venire a conoscenza della loro esistenza.

-Se solo potessi dirti la verità…- si ritrovò a sussurrare –ma non è possibile. Non mi è concesso- e quelle che suonarono tanto come scuse ebbero il potere di ridestare la ragazza.

Ann, tuttavia, non volle subito aprire gli occhi. Non le serviva la vista per capire che ancora si trovava nella foresta dei sussurri, dove il popolo del suono probabilmente sentiva molto più di ciò che percepiva lei. Non le serviva la vista nemmeno per capire che quelle braccia che la stringevano forte erano quelle del suo Angelo, e ciò fu in breve confermato da quella voce bassa e rassicurante, dall’accento pesante e quasi cacofonico che forse Nathan usava solo quando era da solo, senza curarsi di cercare di renderlo meno grave e più melodico… combinando, però, un disastro. E poi, anche senza l’ausilio di quegli elementi, avrebbe riconosciuto Nathan tra mille per via del suo profumo. 

Rilassò tutti i muscoli, avvertendo solo allora un tessuto che la avvolgeva da capo a piedi. Ricordò di avere indosso il mantello donatole dal popolo dei suoni, eppure faceva più caldo rispetto a prima. O erano scesi al livello di Hidel, o, molto più probabilmente, l’uomo le aveva gentilmente posato addosso la sua cappa dalla materia sconosciuta persino a lui.

Lo sentì ridacchiare, quella risatina bassa, appena accennata. Cosa lo stava divertendo così tanto? A gioco, forse, scelse di tenere gli occhi serrati.

-Aspetta, fammi ricordare…- borbottò lui con fare serio, ed Ann lo sentì armeggiare. La tirò su, e lei lo lasciò fare, fingendosi una marionetta totalmente in suo potere –il principe, senza brevetto nel nostro caso, svegliava la sua principessa, anch’essa senza brevetto, con un bacio. Giusto?-

La ragazza si sentì avvampare, ma ormai stava giocando, ed era sicura che Nathan non l’avrebbe lasciata fuggire dal gioco, ormai era tardi per ritirarsi. Sentì le sue labbra morbide poggiarsi sulle proprie per un periodo abbastanza lungo, al termine del quale lei, completamente inebriata da quell’odore di Angelo, aprì lentamente gli occhi annebbiati e languidi.

Per un attimo apparve dolce e indifesa. Ma fu solo un attimo.

-Perché ci hai messo una vita?- domandò con tono severo, con aria di sfida.

-Beh, sai- cominciò lui socchiudendo gli occhi, cominciando a darsi arie, come al solito –ho dovuto liberare la spada dalla roccia, scalare la montagna, fare irruzione nel castello, combattere i mostri, uccidere lo stregone, salvarti e scappare dal palazzo che cadeva a pezzi. Non sono un principe azzurro, tutte queste assurdità mi richiedono tempo…-

Ann gli scoccò un’occhiataccia –Ma perché perdo tempo a chiederlo… e non sei nemmeno romantico. Due fregature in una-

-Hey!- esclamò l’altro –Attraverso le Nameless in due ore per salvarti, e questo è il trattamento che ricevo? Sono io quello a cui hanno rifilato una fregatura!- fece l’offeso, sbuffando.

Seguì un attimo di silenzio, dopo il quale Annlisette rise in modo cristallino.

-Che c’è da ridere?-

-Sei così buffo! Sbuffi dalla mattina alla sera!- continuò lei saltandogli al collo, abbracciandolo forte. Sentì le sue braccia avvolgerla, quindi chiuse gli occhi –Grazie di essere venuto!- esclamò.

-Dovere di ogni buon principe-

-O di un buon Angelo- la gettò lì d’istinto, senza pensare. E non l’avesse mai fatto. Sentì all’improvviso il corpo di Nathan farsi rigido, come se gli avessero fatto una doccia fredda. Si sentì invadere dall’imbarazzo, forse avrebbe fatto meglio a tacere.

Lei non riuscì più ad aprire bocca, abbassò il capo chiedendosi se non l’avesse in qualche modo offeso.

Fu lui a rompere quel silenzio di ghiaccio –Che cosa ti hanno detto?- domandò, lapidario come poche volte lo era stato.

-Uhm…- balbettò un attimo lei, indecisa su cosa rispondere. Non voleva correre il rischio di farlo arrabbiare ancora di più –in realtà penso siano tante sciocchezze e altrettante cose vere, forse un po’ troppo… ehm… come si dice quando esageri col dire qualcosa?-

-Non preoccuparti- sussurrò Nathan tornando a stringerla, dandole un po’ di coraggio –ho capito. Quello che conta è che non ne parli con nessuno…-

-Di questo puoi starne certo- sorrise lei. Era ovvio che non ne avrebbe parlato con nessuno, altrimenti l’avrebbero presa per pazza.

Si sentì sollevare, e si ritrovò ancora abbracciata al collo dello straniero, che la stava gentilmente portando in braccio –Abbiamo ancora molte cose da fare…- cominciò. Lei chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dalla sua voce –arrivati a Hidel, una volta che ti sarai riposata, potrai farmi tutte le domande che vuoi. Cercherò di risponderti nei limiti- spiegò, carezzandole la chioma.

Quell’uomo doveva davvero avere una pazienza di ferro! Non l’aveva visto arrabbiato neanche una volta, beh, se non quando l’aveva beccata col diario di Auror. Ma nemmeno allora si era dimostrato violento o cattivo.

-Non voglio sapere niente- scosse il capo –non se significa metterti nei guai-

-Sei molto gentile…- lo sentì emettere una leggera risata.

-Che altro faremo una volta a casa?- domandò allora lei con voce impastata dal sonno.

-Uhm… beh, mi piacerebbe darti una lezione di latino prima di partire- la proposta venne accolta con entusiasmo dalla giovane, che lanciò un’esclamazione soddisfatta –e poi… voglio mostrarti le fotografie di cui ti ho parlato- e già Ann si immaginava le grandissime cose che le aveva descritto. I treni, la città, la magnifica Lilium che brilla al sole, tutto sembrava essere più vicino, finendo per emozionarla.

Tuttavia il ritorno ad Hidel aveva anche un retrogusto amaro, il quale la costrinse a stringere più forte l’uomo, sentendo la propria guancia sprofondare nell’incavo del suo collo. Socchiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal ritmico passo di lui, in pace con se stessa e col mondo. Ogni sospetto o indecisione, ogni dubbio, tutto era passato. Persistevano nella sua mente solo due cose: la volontà di riabbracciare i suoi genitori e l’acre consapevolezza che il giorno della partenza di Nathan era sempre più vicino.

Per quanto tempo ancora avrebbe potuto stringere con vigore quel corpo tra le proprie braccia? Cosa avrebbe fatto senza la sua voce dall’accento buffo ma dalla irreprensibile logica? A quale odore avrebbe lasciato spazio quel dolce e inebriante profumo che inspirava a pieni polmoni, forse in modo egoistico, quando si trovava così vicina a lui?

-Tutto bene, Ann?- le domandò lo straniero, facendo sorridere la ragazzina.

-Hai poi risolto quel tuo dubbio?-

-Quale?-

-Quello nella lingua assurda…- anche volendolo pronunciare, non ci sarebbe riuscita. Ricordava il suono di quella frase, ma non aveva idea di come pronunciarla.

-What colour is the snow?- sentì Nathan ridere.

-Ma è una cosa divertente o irriverente?- Ann alzò un sopracciglio, allentando la presa per guardarlo in volto.

-Ma no- le assicurò il biondino -mi ci vedi a dire qualcosa di sconcio?-

-In realtà no…-

-Io sì- rise, lasciando sbigottita la giovane contadinella. Un perfettino come Nathan che diceva qualcosa di volgare? Che accidenti significava “what colour is the snow?”?

-Scommetto che ti stai chiedendo cosa significa- la canzonò con suo solito sorriso, tanto che fece sbuffare la giovane, che gli assestò un leggero destro in piena fronte. Gli chiese di rivelarle il significato, ma lui scosse il capo con fare allegro –te lo dirò solo quando avrò la risposta-

Tuttavia Ann non poteva fare a meno di chiedersi se sarebbe mai davvero riuscita a saperlo. Nathan presto sarebbe andato via, e con lui anche la domanda misteriosa.

Scoccò un ultimo sguardo nostalgico alla montagna del popolo dei suoni, chiedendosi se mai avrebbe rivisto Joshua, il suo strano padre e la manesca madre. Con questi pensieri, stanca dalla lunga giornata, poggiò di nuovo il capo sulla spalla del ragazzo, sussurrando un debole –Il mio Nathan è venuto a salvarmi davvero…-

Poi, cedendo al bisogno di riposo, si riaddormentò.

 

Una volta lasciata Ann a casa, arrivata in leggero ritardo, Nathan aveva giustificato l’assenza della giovane dicendo che si era fermata da lui più del previsto, affascinata dalla cartina completa della geografia di Kharlan. Non si sarebbe risparmiata un rimprovero, questo era vero, ma era anche il minimo.

In seguito, l’Angelo si era avviato verso l’accampamento. Gli altri dovevano assolutamente sapere che cosa era accaduto, e poi voleva capire perché nessuno li aveva aiutati. Forse non avevano creduto alle parole di Sogno? 

Arrivato nei pressi dell’accampamento, mormorii agitati gli giunsero alle orecchie. Alzò un sopracciglio, accelerando il passo e inciampando di tanto in tanto tra le radici nodose. Come sempre, la radura degli Angeli era poco illuminata. Non dovevano attirare l’attenzione, dunque vi erano poche e sparse lanterne, appese malamente alle tende, a illuminare quel poco che potevano.

C’era un gran fermento, gente che correva di qua e di là, sacchi ammassati, tende smontate. Cosa significava tutto quello?

-Cugino Metherlance!-

-Sogno?- Nathan si voltò vedendo Sogno e Damon correre nella sua direzione. Prese la piccola tra le braccia, abbracciandola affettuosamente mentre lei scoppiava in lacrime.

-Per fortuna stai bene! Avevamo paura che ti facessero del male!- esclamò, staccandosi poi da lui per sorridere a entrambi i cugini –Anche Ann sta bene, no?- si informò subito.

-Certo. Dubitavi di me?- scherzò l’Angelo, rivolgendosi poi a Damon mentre la ragazza si tranquillizzava –Cosa succede?-

-Jen e Marcus non hanno preso molto bene questo casino…- spiegò il cugino sbadigliando. Aveva gli occhi cerchiati di nero e l’aspetto stanco –ci hanno mandati in missione immediatamente. Ma l’ambasciata è stata un disastro…-

-Cos’è successo?- Nathan ebbe quasi timore di quella domanda. Osservava il cugino, notando alcune ferite sparse qua e là.

-Ci hanno attaccati, un gruppetto di loro, sì insomma…- balbettò l’altro, non riuscendo a mettere insieme delle frasi sensate –ci hanno cacciati e hanno ucciso Baldassarre-

Sogno ricominciò a piangere sommessamente, stringendo il braccio del cugino. Nathan intanto ascoltava sgomento quel racconto. Quei maledetti Demoni avevano osato fin troppo, avevano ucciso Baldassarre. Nathan non lo conosceva bene, sapeva solo che Sogno aveva una gran cotta per lui. Strinse i pugni sentendo la belva dell’ira arrovellargli le budella. Cosa avrebbe fatto se solo avesse avuto il permesso…

-Che cos’è tutto questo fermento?- tagliò corto, lanciando uno sguardo agli Angeli che correvano frenetici.

-Marcus ha raggiunto un accordo col loro capo- annunciò Sogno alzando lo sguardo al cugino –loro non toccano Hidel, ma noi ce ne andiamo-

-E quando partiamo?-

-Domani-

Nathan sospirò. Quindi il rapimento di Ann era una scusa per affrettare le trattative e farli andare via. Ma per quale motivo volevano che se ne andassero a tutti i costi? Poteva davvero essere solo inimicizia? E ora come l’avrebbe detto a…

-Domani notte, comunque- le parole impacciate ed esitanti di Damon si rivelarono propizie. Aveva ancora ventiquattro ore. Nathan annuì, poi alzò lo sguardo al cielo, scacciando rabbiosamente dalla mente Angeli, Demoni doppiogiochisti, rapimenti e dolori, limitandosi a stringere a sua volta Sogno, che sembrava essere morta assieme a Baldassare.

 

La mattina dopo, Nathan preparò i bagagli. Secondo le istruzioni di Jen, avrebbe dovuto farsi trovare pronto per le diciotto. Era un azzardo, per cui sarebbe andato all’accampamento verso le tredici, in modo da non insospettire gli abitanti di Hidel.

Si chiuse la porta alle spalle, deducendo dal canto del gallo che era ancora molto presto, quindi si incamminò. Nonostante avesse ideato mille discorsi per spiegare ad Ann quell’improvvisa partenza, alla sola idea di vedere la ragazza triste gli si chiudeva lo stomaco. Sospirò rassegnato, lasciando da parte quei pensieri. Aveva tempo, ed ora doveva occuparsi di qualcos’altro.

Si era diretto verso est, appena fuori il paesino, al cimitero. Aveva una persona speciale da andare a trovare: la signora Hurst. Da quando era morta, Nathan si preoccupava di portarle dei fiori ogni domenica.

La famiglia Clokie aveva optato per qualcosa di semplice, come piaceva alla donna. Una spartana lapide con su incisa una preghiera alla Vergine. Davanti ad essa vi era un cesto con dei fiori rossi leggermente appassiti. Nathan si inginocchiò posandoli da parte, lasciando quelli nuovi. Rivolse un sorriso triste alla tomba –Credo che non ci rivedremo per un bel pezzo, madame- era una sua abitudine quella di parlare da solo davanti alle tombe, un vizio che non aveva mai perso –ma è meglio così, non pensate? Almeno Hidel non sarà più sotto perenne minaccia…-

Da quando era morta, la signora Hurst – o meglio, la sua lapide – era diventata la migliore confidente di Nathan. Spesso il giovane aveva infatti bisogno di sfogarsi, e trovava in quel pezzo di pietra tutto ciò che gli bastava per liberare l’animo: silenzio, voglia di ascoltare e non di giudicare.

Carezzò con una mano il profilo della dura lastra, sentendone la superficie ruvida sotto le mani, la quale gli ricordava le anziane mani segnate dal tempo con cui la donna lo aveva toccato un’ultima volta. Si sentì attraversare da un moto di commozione che gli fece accennare una risata, mentre posava ancora una volta con sguardo intenerito gli occhi sul nome impresso nella pietra –Tornerò, madame, e vi porterò ancora dei fiori. Delle rose bianche, delle bellissime rose bianche, ve lo prometto…-

 

Ann aveva cercato in lungo e in largo Krissy per tutta la mattina, ma dell’amica non vi era traccia. Chi le diceva che l’aveva vista correre con dei sacchi in spalla, chi nella foresta, insomma non si capiva che fine avesse fatto la ragazza. La mora sbuffò sonoramente tenendo le mani sui fianchi. Avrebbe voluto raccontarle le ultime novità, ma un minimo di collaborazione era necessario!

Tenendo in mano il cestino degli attrezzi, la ragazzina si guardava intorno con fare indispettito –Uffa!- esclamò, riprendendo a camminare a passo di marcia sbuffando e brontolando. Nella foga dell’avanzata, però, non si accorse di un ramoscello che si impigliò nella larga e pesante gonna, tirandola indietro e facendola inciampare. Allungò le mani serrando gli occhi, nella speranza di trovare qualcosa a cui aggrapparsi, ma l’unica cosa che sentì fu il morbido calore di una stoffa che ben conosceva…

Alzò lo sguardo sorridendo –Ammettilo che eri dietro l’angolo ad aspettare solo questo- rise in faccia a Nathan, che, per la seconda volta, le aveva evitato una brutta caduta parandosi dietro di lei.

-E va bene, lo ammetto- sorrise lo straniero, aiutandola a rimettersi in piedi.

Seguì un attimo di silenzio, durante il quale egli continuava a sorridere imperterrito. C’era qualcosa che non andava, non ci voleva molto a capirlo. Oppure stava solo mettendo in pratica il suo ennesimo metodo per farle saltare i nervi.

-Che c’è che non va?- domandò infine.

Nathan sospirò con espressione un po’ malinconica, suscitando in lei sincera preoccupazione. Le mise una mano sulla spalla con fare gentile, facendole cenno di seguirlo. La condusse lentamente attraverso il villaggio senza dir nulla – a parte quando le chiese se poteva portarle il carico della cassetta degli attrezzi -. Ann non era mai stata una ragazza paziente, e ad ogni passo le sembrava che lui fosse sempre più indeciso se dirle o no qualcosa.

“Ti ho promesso che non avrei più indagato sui tuoi segreti, ora sta tutto nelle tue mani…” pensò con amarezza la giovane abbassando lo sguardo sulla tenera e fresca erba “anche se mi fa male…”. Istintivamente passò il braccio attorno a quello dello straniero senza un motivo preciso, forse solo per sentirlo più vicino. Lui la accolse dolcemente, posandole un leggero bacio sulla fronte.

Si trovavano nei pressi della casa di lui, ai confini del villaggio. Di tanto in tanto qualcuno attraversava la strada senza dar loro peso.

-Pensavo che è stato davvero istruttivo l’anno passato qui- borbottò finalmente Nathan, alzando lo sguardo al cielo, seguito a ruota ad Ann –spero davvero di poter fare ritorno, prima o poi…-

-Ma hai ancora tempo prima di partire, no?- domandò la giovane. Corrugò la fronte, sentendo che stava per arrivare l’ennesima brutta notizia.

Lui tornò a guardarla, specchiando gli occhi in quelli di lei. Attese prima di aprire bocca, senza riuscire a dire ciò che voleva. Poi, con un sospiro, spezzando quel filo di tensione che aveva preso il controllo della ragazza, pronunciò piano -Purtroppo no… ho ricevuto nuove direttive, devo tornare oggi-

Sinceramente, Nathan si aspettava che Ann scoppiasse in lacrime o che gli urlasse addosso, invece la contadina si limitò ad abbassare lo sguardo, senza però che sul suo volto trasparisse qualcosa di simile alla rabbia o al dolore. In quel momento desiderò poter entrare nella sua testa, così da poter vedere che cosa ella pensasse veramente, invece dovette limitarsi ad abbracciarla.

Quello poteva essere un arrivederci, ma anche un addio. Ann lo capiva sicuramente. Ignorando i possibili sguardi carichi di rimprovero che potevano accarezzare violentemente le loro figure in quel momento, la tenne stretta a sé, in modo da consolarla da qualsiasi pensiero negativo. Lei lo lasciò fare mentre le passava una mano sul capo, posandole un altro bacio in fronte. In quel momento nemmeno il vecchio e pauroso Lazarus sarebbe riuscito a staccargliela dalle mani.

-Allora… ehm…- la sentì sussurrare, e solo in quel momento si rese conto che forse si era lasciato leggermente andare, così la lasciò, sorridendole gentilmente. Non sembrava triste, forse solo amareggiata.

Ann si sforzò di sorridere, anche se in quel momento cercava in realtà di farsi forza. In cuor suo, si augurava che un giorno si sarebbero rivisti, ci confidava molto. Bastava tenersi in contatto, cosa difficile, vero, ma non impossibile –ci sentiremo lo stesso, no?- chiese, quella era l’unica ancora di salvezza che le rimaneva.

-Certamente, ti scriverò ogni volta che ne avrò la possibilità- rispose lui con un sorriso, rincuorandola e spingendola a sorridere –anche ogni giorno se lo vorrai-

Lei rise –Non è necessario, tranquillo- tuttavia c’era ancora una cosa da fare prima di lasciarlo. Avrebbero dovuto rimandare tutte le cose che avevano programmato, ma una in particolare non si poteva tralasciare. Ci teneva troppo. Lo prese per mano, cercando di non lasciarsi vincere dalla malinconia. Ci avrebbe pensato dopo, ora voleva godersi al massimo gli ultimi minuti con lui –però c’è una cosa che vorrei farti vedere, hai un minuto?-

-Anche due- sorrise lui.

-Seguimi- ordinò la contadina annuendo alle sue stesse parole, quindi si apprestò a far strada.

Lo condusse attraverso la foresta, verso un luogo che lei conosceva bene. Ann lo chiamava “il suo luogo segreto”, anche se in verità era ben conosciuto da tutti i cittadini di Hidel. Ogni volta che era particolarmente triste o aveva bisogno di stare da sola, se era estate si recava lì. Solo Krissy lo sapeva, e Gabriel ovviamente, che gliel’aveva mostrato la prima volta, durante una passeggiata. Non era distante da Hidel, al sicuro da ogni essere che non amava la luce.

Durante il tragitto, Annlisette ascoltava con molta attenzione l’incedere dei passi di Nathan, che la seguiva attentamente in sommo silenzio. Diverse volte fu tentata dal girarsi e scoppiare in lacrime, ma fu capace di appellarsi alla sua forza d’animo e a quell’orgoglio smisurato che le imponeva di non lasciarsi andare, in primis perché avrebbe rovinato gli ultimi ricordi con Nathan, e poi perché avrebbe intristito lui.

Tuttavia le scappava di tanto in tanto qualche singhiozzo, e in quei momenti sentiva la mano di lui stringersi attorno alla sua, e lei ricambiava il gesto.

Più si guardava intorno, più la sua attenzione si focalizzava sullo straniero, dimenticandosi completamente della foresta, tanto che diverse volte fu costretta a esibirsi in risatine forzate affermando di aver sbagliato strada. Ma ogni volta lui le sorrideva comprensivo, e il suo sorriso forzato diventava sincero.

Finalmente giunsero, e quando Ann tenne più stretta la mano di lui, intimandogli di chiudere gli occhi, uscirono dalla boscaglia verde attraversando un grande spiazzo di pietra.

-Siamo usciti dal bosco?- si informò lui.

-Come l’hai capito?-

-Il terreno è duro. E’ pietra, giusto?-

Ann ridacchiò –Chissà!- esclamò poi, decisa a non dargli soddisfazioni. Il cuore le batteva forte, era più emozionata di lui, come una bambina che vuole mostrare a un adulto qualcosa di bellissimo e che spera lo stupisca –Tu non sbirciare!- e gli scoccava occhiate ridendo sottecchi, sentendo una nuova energia scorrerle sotto la pelle. Finalmente giunsero, e pronunciò con tono solenne –Bene, apri gli occhi-

Nathan, che già rideva tra sé e sé deliziato da quel comportamento un po’ infantile ma molto innocente, fece come gli era stato detto. Per una volta Ann poté leggere lo stupore sul suo volto, e lui non si preoccupò di nasconderlo, volendo darle estremo appagamento.

Era uno spiazzo di pietra che terminava con una punta, formando un triangolo. Loro si trovavano esattamente sulla sommità, dove soffiava una leggera e tiepida brezza ristoratrice, accompagnata dal profumo delle piante che occupavano la valle sottostante, occupata da un lungo e placido fiume. Ai lati, come guardiani impassibili, i monti innevati facevano da sfondo assieme al cielo azzurro vivido, intenso, di una meravigliosa sfumatura pacifica che distendeva i nervi. Nemmeno quel piccolo angolo di paradiso sfuggiva alle nuvole, che qui tuttavia erano rade e dai contorni morbidi, sembrava si rincorressero velocissime, portate in volo dal vento. In fondo, se si aguzzava la vista, oltre i freddi campi ancora bianchi di neve, si poteva scorgere il mare.

-E’ meraviglioso…- sorrise Nathan, che per la prima volta dopo mesi poggiava gli occhi sul sole, che gli bruciava talmente tanto le iridi da costringerlo ad abbassare lo sguardo per ripararsi da quella pericolosa luce –bravissima, Annlisette!- esclamò dandole un buffetto sulla guancia.

La ragazzina sorrise felicemente, saltandogli al fianco e abbracciandolo –Sapevo che ti sarebbe piaciuto!- disse –Quando tornerai, potrai venire qui tutte le volte che vorrai!- due grandi rossetti apparvero sulle sue guance, spingendo l’uomo ad annuire, deciso ad accontentarla in tutto e per tutto. Poi spostò gli occhi di nuovo sul panorama, ammirato –Ci torneremo insieme-

La contadina sollevò una mano, porgendogli il dito mignolo, che lui strinse con un sorriso.

Quello era l’ultimo panorama, l’ultima promessa, la quale fu seguita dall’ultimo bacio, per la prima volta, illuminato e incorniciato dalla luce del giorno.

 

Ann tirò un lungo sospirò dopo aver chiuso il libro dalla rilegatura rossa che teneva sulle gambe. Gliel’aveva regalato di recente Krissy, dopo averlo trovato in mezzo ai libri di sua madre. Era una storia d’amore molto sdolcinata e scritta in lingua nazionale antica, la stessa da cui proveniva il dialetto parlato nelle Nameless, ma molto più di difficile da comprendere se non si aveva un vocabolario ampio.

Prima di andarsene, Nathan le aveva fatto un grande favore: le aveva donato un manuale sulla lingua nazionale. Avrebbe avuto da fare durante la sua assenza: voleva imparare  quella maledetta lingua dai suoni belli e strani. O almeno, ci avrebbe provato. Avendo in progetto di viaggiare in lungo e in largo, doveva assolutamente imparare l’inglese! O era forse ignese…?

Guardò fuori dalla finestra il tramonto; a quell’ora Nathan era già molto lontano, le sarebbe mancato terribilmente. In compenso aveva quel libro, sul quale era rimasto impresso il profumo dello straniero. Sperava che col tempo quel peso che le gravava sul cuore si alleggerisse, ci confidava, non era sola. Ci sarebbero state le sue lettere a farle battere il cuore come il ricordo dei suoi occhi. Pensare che era solo un ricordo faceva male, molto male, ma era questione di tempo.

Lui le aveva detto di prendere quel periodo di assenza come una prova. Era stato molto vago, ma Ann aveva capito benissimo dove voleva arrivare: se, nonostante la lontananza, avessero continuato a sentire il proprio cuore diventare più morbido al ricordo l’uno dell’altra, avrebbero finalmente avuto la conferma che quello che nutrivano era amore.

Aveva trovato le risposte anche ai grandi interrogativi sugli Angeli e i Demoni. Non credeva che le persone che aveva conosciuto non fossero umane, ma in fondo non le importava. La cosa non la toccava più. Aveva scelto da che parte stare. Avrebbe seguito il suo Angelo.

Allungò una mano verso il comò per prendere tra le mani l’ultimo regalo che Nathan le aveva fatto assieme al libro: il diario di Auror. Lo strinse forte, e mai come allora si sentì vicina a quella giovane bionda del ritratto sul cui viso regnava un sorriso angelico.

-Ce la posso fare…-

 

Nathan tirò con forza il mantello perché lo coprisse fino al collo. Doveva tenere ben alto lo sguardo, altrimenti tra il cappuccio calato sugli occhi e la testa di quel cavallo dalla magica abilità di mettersi sempre in mezzo, non riusciva a scorgere cosa si trovava sulla sua strada.

-Mi è piaciuto davvero tanto Hidel!- esclamò con voce acuta la piccola Sogno, avvolta nella sua cappa bianca, stava in sella a un destriero scuro alla destra di Nathan. L’Angelo però sapeva bene quanto la piccola amica cercasse di nascondere la profonda ferita che le aveva lasciato la perdita di Baldassarre. Probabilmente pensava che parlarne avrebbe solo intristito qualcuno, e si chiudeva tutto dentro.

Damon, alla destra di Sogno, taceva. Ella ne conosceva il motivo: era molto triste per aver abbandonato Krissy. Ma si sarebbero rivisti tre mesi più tardi, dunque la preoccupazione e gli sguardi incerti della dolce ragazza andavano a Nathan, che aveva la certezza di non tornare per almeno un anno. Gli posò gentilmente una mano sulla spalla –Hey, Nate- lo chiamò, e lui si voltò ad ascoltarla –don’t worry, be happy. Non sei solo, ricordalo!- dichiarò con un sorriso appena accennato, ricevendo in cambio una carezza sulla guancia da parte del cugino –Ma certo, non lo dimenticherò. Right, Damon?- allungò il capo in direzione del terzo Angelo, che ricambiò le occhiate.

Dapprima parve piuttosto indeciso, poi tirò le redini del cavallo, costringendolo ad andare più lento per non distanziarsi dagli altri due. Fece una risata delle sue, di quelle allegre e spavalde –Mai soli! Come farebbero gli Angeli senza il loro re?-

Risero tutti insieme, ignorati e ignorando gli altri Angeli che passavano loro accanto, spesso sorpassandoli.

L’unica che lanciava occhiate furtive al gruppo era Jen, in groppa al suo destriero bianco, avvolta nel mantello dello stesso colore. Il suo sguardo incontrò quello di Nathan, al quale indirizzò un’occhiata intensa, che lo costrinse a voltarsi altrove.

Sguardi simili significavano guai, questo Nathan lo sapeva bene, dunque, istintivamente, cercò rifugio presso Hidel, ma la cittadina era già scomparsa tra le colline. L’unica cosa che era in grado di vedere era tanta, tanta vegetazione. Se ne stava andando davvero. Poco prima di salutare Ann, le aveva fatto promettere che non avrebbe corso rischi se si trattava di Joshua. Si malediceva per lasciarla così vicina a persone così pericolose e cattive, sperava con tutto se stesso che la ragazza sarebbe riuscita a discernere il bene dal male. Lui però, al primo richiamo, sarebbe giunto anche a costo di scontrarsi direttamente con Marcus.

Ma per ora Ann restava senza protezione…

Si sentì stringere qualcosa all’altezza del cuore, accarezzando un’ultima volta con occhi nostalgici la linea della valle in lontananza, della catena montuosa, del fiume e della foresta.

Il suo addio ai monti.

 

-          Fine prima parte -

 

Note dell’Autrice:

Non riesco a credere di aver finito questo capitolo! L’inizio della scuola mi ha succhiato via ogni energia, non ero davvero sicura di riuscire a completarlo entro la fine di ottobre, per fortuna stasera mi è saltata una pizzata e sono riuscita a scrivere l’ultima parte e revisionare tutto.

Molto bene, ci troviamo nel punto di svolta della storia. Dal prossimo capitolo vedrete cambiare molte cose, ma non vi anticipo niente. Sappiate solo che alla monotona vita di Hidel sostituirò la frenetica vitalità della grande e bella Terren. Comincia la seconda parte del racconto, decisamente molto più piacevole sia da scrivere che da leggere.

Quindi, restate con noi!

 

Vanilla_sky: Ann e Nathan sono appena tornati dalle Bananas, dovevi proprio vedere il nostro biondino con la camicia hawaiana – cosa c’entrano le Hawaii lo sa solo lui – e i sandali! Beati loro, qui comincia a fare davvero freddo! >_< comunque, mi fa piacere che continui a seguire la storia, è bellissimo vedere che la gente continua a leggere le avventure di questi due pazzi e della loro scrittrice ancor più pazza <3

 

Violacciocca: Solo oggi, grazie a Kikyo, ho finalmente capito che il tuo nome deriva da un fiore. Ed è davvero un bel fiore! Come si può immaginare leggendo WCITS, mi piacciono moltissimo i fiori, ma questo non lo conoscevo ed è stato una bella scoperta ^^ ma veniamo a noi… lo so, immaginavo che il capitolo 16 avrebbe sconvolto un po’ di persone xD come hai visto, qui tutti hanno una doppia faccia, e la sanno giocare bene ^^ ogni tanto è davvero difficile interpretare personaggi come Marcus e Nathan. Ann invece è molto più facile, forse perché lei, come dice Nate, è l’unica sincera. Un abbraccio!

 

Midao: Nate o Josh? Nate o Josh? Ahi ahi, che domanda. Nemmeno io saprei rispondere! Mi piacciono tanto entrambi! A quanto ho capito di te, ti piacciono gli intrecci amorosi, dico bene? Se sì, preparati. La seconda parte del racconto ne è strapiena. Non vedo l’ora di descrivere certe scene che faranno sbellicare delle risate, scene in cui è ovviamente Nate a fare certe figuracce… xD

 

Milou: Eh eh, ci hai azzeccato, Milou! La mia specialità è mescolare bene e male, in un vortice da cui solo alla fine emergerà la verità. Avrai ancora da attendere un pochino, questa FF si sta dimostrando abbastanza lunga, lo ammetto. Non pensavo che si sarebbe tirata così nelle lunghe. Pensa che Nathan doveva andarsene nel capitolo 11, alla fine si è deciso a levare le tende nel 17 o.o ma ora arriva la parte più divertente, quindi l’attesa del finale non sarà più stressante! Evviva! xD *è troppo felice perché si era dannatamente scocciata di Hidel*

 

Avverto che tanto per cambiare i siti di blog mi odiano =.= splinder non mi fa più accedere, quindi ho dovuto cambiare dominio al blog della storia, che è diventato un sito vero e proprio. Ma mi piace di più ora, è molto più ordinato del blog ^^ inoltre vi ho inserito anche una piccola anteprima di “What colour is the mist?”. Il link lo trovate nel vecchio capitolo e nella mia homepage di EFP. Ho postato lì descrizioni di tutti i pg fin ora apparsi e di quelli nuovi, trame, foto dei luoghi – sì, Hidel esiste davvero U.U anche se ha un nome diverso! -, e presto metterò anche le fanart che io e Nadeshiko passiamo il tempo a fare quando dobbiamo fare qualsiasi cosa che non sia studiare xD vero Nade?

Ora, visto l’orario, mi sento rimbambita, quindi vi racconto l’ultima. Stasera revisionavo il capitolo quando è entrato mio padre in stanza. Ha letto il titolo della storia e mi ha detto “qual è il colore della neve? Hm… è bianca, no?” e io urlando tipo pazza “ED E’ QUI CHE TI SBAGLI!” xD povero papà!

Ora vi saluto, un abbraccio a tutti!

 

Chu,

Sely.

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Capitolo 18
*** Nuovo inizio ***


What colour is the snow?

Capitolo 18: Nuovo inizio.

Era passato del tempo, molto tempo, ma non avrebbe saputo dire quanto. Sapeva solo che quella mano che a lungo aveva desiderato ora stringeva la sua; le dita intrecciate, calde, frementi di vita. E quel profumo dolceamaro aleggiava nell’aria.

Era tutto intriso di felicità, troppa per poter essere contenuta.

Sorrise, e le sorrise di rimando, lui, il suo Angelo.

Poi, all’improvviso, qualcosa cambiò radicalmente. Una tenebra dura, fredda di gelo invernale li avvolse. Le fu attorno, la strinse con vigore e la allontanò; urlò, strepitò con tutta la forza che aveva dentro, chiamò il suo nome, ma… lui era sparito, inghiottito dall’oscurità. Tutto fu nero, e lei si lasciò tirare verso il basso.

Ci era cascata. Ci era cascata di nuovo.

Annlisette aprì gli occhi, rendendosi conto che stava cominciando a diventare un’abitudine quella di accorgersi nello stesso sogno che in realtà stava solo sognando. I suoi sogni ultimamente erano così crudeli da farla svegliare in un bagno di sudore, con la mente annebbiata, gli occhi vacui, ma soprattutto il cuore asciutto, privo di voglia di alzarsi e vivere la giornata. Si tirò su, a sedere nel buio della sua stanzetta; si sentiva sola, dannatamente sola.

Faceva più freddo del solito da quasi due anni, dal fatidico giorno in cui aveva detto “a presto” a quell’uomo che così spesso era oggetto principale dei suoi desideri.

“Ho freddo…”

Si strofinò gli occhi, consapevole di avere un paio di occhiaie orribili: non dormiva bene da molto tempo, da quando erano cominciati quegli incubi. Stava arrivando qualcosa, lo sentiva nell’aria, eppure non aveva voglia di affrontarla, no. Non c’era più voglia di scoprire la verità, di lottare per la giustizia, di indagare per sete di sapere.

C’erano solo lei, il suo corpo freddo, la sua stanzetta fredda, il suo villaggio freddo.

Si mise una coperta addosso, ma sapeva benissimo che sarebbe riuscita a scaldare solamente il suo corpo, non la sua anima. Si voltò a scatti, i muscoli indolenziti dalla brutta posizione scelta per dormire, mentre osservava un raggio lunare entrare dalla finestra e posarsi con dolcezza sul suo letto - anche quello era freddo, e anche il letto.

C’era una cosa sola che possedeva ancora il potere di scaldarla.

Scese dal lettino a piedi nudi, sentendo il gelo del legno sotto le piante dei piedi; un brivido le salì lungo la schiena ed arricciò il naso, cercando di resistere alla tentazione di tornarsene a letto. Non lo avrebbe fatto, poiché sapeva che sarebbe stato solamente un rassegnato tornare alla sua monotona e irritante vita, mentre lei voleva dirigersi verso la cassettiera, aprire il secondo cassetto e prendere in mano un fascio di lettere all’apparenza vecchie, di un anno o poco meno.

Le strinse con forza, arrendendosi facilmente alle lacrime che cominciarono a pizzicarle sotto le ciglia.

«Mi dispiace, Nathan… non ce l’ho fatta… non sono forte come volevo farti credere.» sussurrò, aprendo a malapena la bocca «Mi dispiace… mi dispiace… ma mi manchi troppo!»

Quella, sapeva Annlisette, sarebbe stata solamente una delle tante notti di lacrime e rimpianto che ultimamente viveva troppo, troppo spesso.

 

Mia carissima Annlisette,

ormai quasi due anni sono trascorsi dal nostro ultimo incontro, del quale riesco ancora a rammentare ogni particolare. Nonostante la lontananza, le lettere che ci siamo scambiati sono spesso state per me un aiuto fondamentale per riuscire ad andare avanti ed affrontare le varie difficoltà di cui ti ho già accennato nelle mie precedenti missive.

Ma sembra che tutto questo non basti più, né a te né a me.

È con grande rammarico che ho letto tra le righe del tuo ultimo scritto di una potente solitudine. Forse dovuta all’imminente matrimonio di tuo fratello; forse per quel litigio con lo stesso di cui mi hai scritto; forse – ed è nelle mie speranze – per la mancanza del sottoscritto.

Parlo ancora in modo difficile, piccola Ann? Sei cresciuta, sei ormai una donna, una donna bellissima a giudicare dal ritratto che mi hai mandato con la penultima lettera, ed io non posso fare a meno di sentirmi sempre più egoista per averti coinvolta in una promessa che grava sulle tue fragili spalle. Sono ben a conoscenza di quanto tu sappia essere determinata, ma… d’accordo, lo ammetto, ho riscritto circa tre volte questa lettera perché non trovo le parole da usare in questa parte. Brutta cosa la formalità, non trovi? In effetti, sarà già tanto se questa lettera ti arriverà, considerando che l’inverno è alle porte, ed ogni inverno il nostro amatissimo postino sembra perdere le mie lettere, oltre che la strada.

Ma torniamo a noi… quello che voglio dire, in parole povere, è che sei giovane, avvenente, potresti davvero trovare di meglio di un “topo di biblioteca squattrinato”, come sono certo diresti tu. Te l’ho detto e ripetuto in tutti i modi possibili, ma la tua sicurezza nel voler portare avanti la nostra relazione nonostante la lontananza mi stupisce ogni volta, convincendomi che hai ragione.

Come ben sai, ancora non mi è permesso tornare ad Hidel.

Ma a te è ora permesso viaggiare.

Allusione a qualcosa, la mia? Chissà… è solo che presto qui, a Terren, si terrà un ballo a cui parteciperanno parecchie famiglie nobiliari, ed io, in quanto erede dei Metherlance – un nobile squattrinato. Sì, è davvero fantastico -, sono stato invitato – costretto – ad accettare l’invito, nonostante i miei numerosi tentativi di declinare.

Pensavo che l’idea di una figlia introdotta nella grande società a soli diciotto anni potrebbe interessare alla carissima Elizabeth; saresti la prima di Hidel a fare un vero ingresso in società, ricordo male? In più, presto sarà il tuo compleanno, e mi piacerebbe festeggiarlo insieme a te. Ho in serbo grandi cose, purtroppo, però, non potrò aiutarti a proporre l’idea all’egregio messere Nevue, al quale, tuttavia, intendo assicurare tramite questa missiva che mi assumerò ogni responsabilità, senza mai lasciarti sola o metterti in situazioni pericolose. Allego alla busta tre biglietti per Terren, due d’andata e uno di ritorno. Basterà raggiungere Nnerva, dove troverai la stazione. Due sarebbero per un eventuale accompagnatore, spero vivamente che toccherà a te quello di sola andata.

Con questa speranza ti saluto, Damon richiama la mia attenzione. Vuole davvero perdere la vita, quel ragazzo. Giusto, ti salutano sia lui che Sogno, aggiungendo che devi assolutamente venire.

È emozione pura quella che provo, riposta in una grande speranza. Una cosa che non mi capitava da anni, e che capita grazie a te.

 

Saluti,

Nathan Metherlance.

 

Hidel, villaggio di mercanti – 16/12/1854.

Inspirando a pieni polmoni, Krissy poté sentire l’aria gelata svegliarla dallo stato di trance in cui era caduta. Si guardò attorno, spaesata, rendendosi conto con suo grande rammarico di essersi addormentata nel bel mezzo del lavoro, con il merletto poggiato sulle gambe e l’ago pendente verso terra.

Arrossì abbassando lo sguardo, sentendo le guance avvampare. Eppure Elizabeth sorrise dolcemente, invitandola a non avere paura.

«Può capitare a tutti.» disse la donna, comprensiva come sempre «Hai lavorato fino a tardi, ieri sera. È molto gentile da parte tua voler completare anche il lavoro di Annlisette.»

«Non è un problema!» annuì la rossa.

Aveva avvertito una nota di malinconia nella voce della signora Nevue non appena aveva pronunciato il nome della figlia, ma decise di non calcare la mano sull’argomento. Era naturale che Elizabeth fosse preoccupata: Ann era partita.

Tornò a concentrarsi sui dettagli di quella foglia dai colori troppo sgargianti per il misero verde che le sue finanze le permettevano, lasciando che la mente spaziasse nel frattempo.

Era da un bel pezzo che Ann si mostrava inquieta, a volte assente, silenziosa.

Krissy sapeva quale fosse il motivo di tanta malinconia, appunto per questo evitava in tutti i modi l’argomento “messere Metherlance”; era partito da più di un anno, ma non aveva mai avuto l’occasione di fare ritorno. Ann era stata coraggiosa ed aveva accettato la cosa, tuttavia a tutto c’è un limite, senza contare le pressioni dei suoi genitori, che provavano a convincerla a lasciar perdere quell’uomo troppo lontano: era il momento di trovarsi un signorotto della zona, o magari un semplice ma affidabile contadino.

Ma Annlisette non aveva demorso, dando prova di sé e della sua profonda fiducia nei confronti di Nathan, anche quando, durante l’inverno, le sue lettere giungevano raramente.

Krissy non conosceva tutti i dettagli della storia, ma sapeva che la sua amica aveva stretto dei rapporti con i famosi “Demoni” di cui le aveva parlato Damon. Ovviamente, lei aveva fatto finta di niente, non essendo a conoscenza del fatto che in realtà la sua compagna sapeva bene quanto lei di trovarsi nei guai. Tutto Hidel era nei guai, e tutti tacevano.

Eppure, stando a quanto le aveva raccontato il suo Angelo, il villaggio era salvo: le trattative erano andate a buon fine. Si sarebbero rivisti un giorno, lei e Damon, se lo erano promessi. E Krissy ci credeva, per questo era pronta a rinunciare a tutte le proposte di matrimonio che le venivano fatte. Per questo comprendeva pienamente il sentimento che spingeva Ann a comportarsi così.

Tanto tempo era passato da quando gli Angeli avevano lasciato Hidel, concludendo le negoziazioni e salvando il piccolo paesino dalla distruzione totale. Non sarebbero tornati, Krissy ne era dolorosamente consapevole, però sperava che Damon tenesse fede alla parola data.

Lei ed Ann aspettavano i loro Angeli.

Ann però non era riuscita a resistere quando era giunta l’occasione di uscire da Hidel, di vedere finalmente il mondo, e quell’occasione le era stata data proprio da Nathan, la persona che amava. E chi non avrebbe colto la palla al balzo? La proposta era stata accettata di buon grado dalla madre, un po’ meno dal padre e dal fratello; quest’ultimo l’aveva accompagnata alla stazione di Nnerva, ed ora attendevano il suo ritorno.

Da un po’ di tempo Krissy passava gran parte del suo tempo in casa Nevue o assieme a Doralice, la quale era cresciuta molto in quell’anno e mezzo. Ora lei ed Ann riuscivano a conversare senza saltarsi addosso, anche se, ovviamente, il 90% delle loro discussioni era composto da frecciatine o piccole liti.

La casetta quel giorno sembrava più fredda del solito, eppure la stufa funzionava. Forse era la mancanza della voce frizzante di Annlisette a darle quella sensazione?

Osservò l’orologio in un angolo della rustica cucina grigia, rendendosi conto che era ora di pranzo. Doveva tornare a casa, o il papà non avrebbe trovato da mangiare al suo ritorno.

Si mise in piedi, riponendo nella busta marrone che aveva portato con sé il proprio operato, mentre la signora Nevue le chiedeva serenamente «Vai, cara?»

La giovane annuì.

«È tardi, ma tornerò nel pomeriggio per farvi compagnia.» chinò il capo in segno di saluto, e come al solito la marea di riccioli rossi le ricadde sugli occhi. Li spostò velocemente, infastidita.

Sarebbe tornata di sicuro; sapeva che la signora Elizabeth vedeva in lei una figlia, quindi aveva il compito di farle compagnia fino al ritorno di Ann. Era una strana sensazione avere una mamma…

Una volta fuori di casa poté constatare di aver sbagliato alla grande: altro che freddo, casa Nevue era un vero e proprio forno se confrontato a quello che c’era fuori! Guy aveva aperto le porte della sua macelleria-regno dei ghiacci? Tremando, cacciò la sciarpa sul naso, abbassò il cappellino verde fin quando non ebbe liberi solamente gli occhi, anche se la visuale le risultava oscurata in gran parte.

«Che freddo! Che freddo! Che freddo!» esclamò, cominciando a correre verso casa.

Non indirizzò volutamente lo sguardo verso l’alta rupe innevata che costeggiava Hidel, indirizzandovi però fugaci occhiate indagatrici. Sapeva di essere osservata, lo era ogni volta che entrava o usciva da quella casa; quella stessa casa era perennemente tenuta d’occhio, ma pensava che con la partenza di Ann anche quel ragazzo dai capelli castani sarebbe presto sparito. E invece no, stava sempre lì, in piedi, avvolto nella sua cappa di lana e pelo, scrutando il villaggio da un punto strategico, che sapeva essere poco osservato.

Allora non mirava ad Annlisette, si disse la rossa, bensì al villaggio in sé o ad un altro membro della famiglia. O forse quella posizione era, appunto, una scelta puramente strategica, difficile dirlo.

Krissy sospettava che si trattasse di uno dei Demoni, dunque, come suggerito da Damon, passava senza guardarlo, gettando raramente frecciatine con la scusa di dover sistemare i capelli o di aver perso qualcosa per strada.

Quella situazione era assurda!

“Ann, ti prego… non metterti nei guai.”

 

Dall’alto della rupe degli orsi bianchi, Hiez vagava con lo sguardo sul villaggio di Hidel.

Li osservava sempre da lì, da quel punto che sapeva essere poco controllato, da dove poteva vedere senza essere visto. La gente andava e veniva di continuo; sembravano piccole formiche, così dedite al proprio lavoro… solo la sera il villaggio si colorava, paradossalmente. Riuniti nella “grande casa”, come l’aveva denominata lui, cenavano insieme. Era un’usanza molto particolare, che avrebbe voluto adottare quando sarebbe diventato capo del popolo del suono.

Beh, se l’altra famiglia capostipite non gli avesse soffiato il posto…

Sapeva che Haanahu era andata via. L’aveva incontrata qualche giorno prima - uno dei loro rari incontri -, e lei lo aveva avvertito che sarebbe partita presto alla volta di Terren, la città più vicina a Hidel.

Che cosa andasse a fare lì era ovvio, ma lui aveva chiesto per gentilezza. Lei era stata evasiva, confermando le sue teorie: semplicemente, andava a trovare Fuoco Nero. Hiez, scrollando le spalle, non aveva detto niente né l’aveva nuovamente messa in guardia, limitandosi a lasciarle scegliere la strada che preferiva.

Aveva l’amara consapevolezza che quella povera ragazza era ormai legata indissolubilmente a Fuoco Nero, e che solo un evento terribile avrebbe potuto dividerli. E lui si trovava a sperare che questo accadesse, Hanaahu avrebbe potuto trarne solo vantaggio. Soprattutto considerando che agli Angeli era vietato tornare, essendo quello il loro territorio.

Diede un calcio con poca forza a un cumulo di neve lì vicino, scaricando la rabbia ma facendosi al contempo male.

“Dannazione alle mie ideacce! Che dolore!” si lamentò tra sé e sé, per poi rimettersi sulla strada del ritorno.

Diede un ultimo sguardo al villaggio, fugacemente, e notò una piccola figura che si aggirava senza molta convinzione vicino casa di Hanaahu. Chissà se quella ragazzina dai capelli rossi si rendeva conto che lui sapeva benissimo delle occhiate che gli lanciava.

Ed avrebbe fatto meglio a tenere il segreto, a meno che non volesse che il suo villeggio venisse spazzato via.

Amara verità. Ma lui non poteva farci niente.

 

Terren, città più vicina a Hidel – 16/12/1854.

«Oggi arriva Ann! Oggi arriva Ann! Party! Party!» canticchiava dolcemente Sogno, correndo da un lato all’altro della casa… senza curarsi del fatto di avere indosso unicamente una maglietta e le mutandine.

«Vestiti, o qualcuno ti vedrà dalla finestra!» la rimproverò Damon, lanciandole un’occhiataccia «Cazzo, si gela…»

Era appena entrato dalla porta d’ingresso dell’appartamento in cui abitava insieme alla ragazza, quando se l’era vista passare davanti come un’indemoniata. Era vestito in modo pesante, ma evidentemente aveva dimenticato il freddo violento di Hidel, riabituandosi alle giornate della capitale.

Si tolse il cappello scuro, poggiandolo su di uno scompartimento della cucina, sfilandosi poi la sciarpa con nonchalance, mentre sul suo viso appariva un’espressione evidentemente scocciata. Sbuffò e si lasciò cadere sul divano, dopo aver lanciato in un angolo il giaccone, borbottando qualcosa che non fu udito da Sogno.

La ragazza era corsa nel bagno, sgambettando allegramente con il sorriso sulle labbra. Era dalle sette che correva e urlava sistemando ogni cosa che le capitava a tiro: tutto per l’arrivo di Ann. Ecco spiegato il perché del malumore del povero Damon, costretto giù dal letto alle sette e venti del mattino, e costringere un Angelo a cominciare la sua giornata a quell’ora… era impensabile.

«Se la montagna non va da Maometto, è Maometto ad andare dalla montagna!» esclamò la ragazzina quasi urlando, per sovrastare il rumore dell’acqua che sgorgava dal rubinetto.

«Sarebbe al contrario, eh…» bofonchiò l’Angelo, lanciando un’occhiata all’orologio; era ora di pranzo e lui non aveva neanche fatto colazione, che vita.

Cominciò a ticchettare nervosamente con dito sul bracciolo del divano.

«Il cugino Metherlance è fortunato!» continuò la voce squillante dalla stanza accanto, e Damon non poté che darle ragione; anche lui avrebbe venduto l’anima pur di avere Krissy lì.

Alla fine nessuno di loro era tornato ad Hidel, dovevano rispettare gli accordi con quei maledetti Demoni, ma presto o tardi sarebbe tornato, ne era sicuro. L’aveva promesso alla piccola Krissy.

Un minuto dopo la dolce Sogno uscì mostrandogli com’era vestita, facendo un giro completo su se stessa.

L’uomo le sorrise amabilmente «Bellissima, sorellina!»

La lunga gonna marrone chiaro, la maglia di lana bianca dalle rifiniture arancioni, una mantellina pesante color oro con dei pellicciotti ai bordi, ma soprattutto il cerchietto con una piuma, a mo’ di poetessa, le stavano meravigliosamente; aveva inoltre legato i lunghi capelli biondi in una coda di cavallo con qualche perlina, come andava tanto di moda ultimamente.

«Ho la sorellina più bella del mondo!» sorrise ancora, e Sogno, felice dei complimenti, gli saltò al collo abbracciandolo, venendo cinta a sua volta dall’amico, che le passò una mano tra le chiarissime ciocche.

«Andiamo? Altrimenti arriveremo in ritardo.» sorrise, sinceramente rincuorato dalla dolcezza della sua Sogno, che alzò lo sguardo con un sorriso angelico, annuendo serenamente.

 

Nell’appartamento accanto a quello di Damon e Sogno l’aria non era altrettanto frizzante.

Dopo essersi alzata dal letto con uno sforzo immane, una giovane e bella donna dai lineamenti femminili e dalle curve molto provocanti si diresse nel salotto, fingendo di essere interessata alla temperatura che definì «A dir poco glaciale!»

Nathan le lanciò uno sguardo poco convinto, alzando gli occhi dalla scarpa che stava allacciando «Che cosa?»

La donna poggiò il peso del proprio esile corpo alla porta, intrecciando sensualmente una gamba all’altra, incrociando le braccia e scoccandogli uno sguardo dorato «Il tuo modo di fare. Non sai quanto è brutto svegliarsi, allungare un braccio verso il tuo lato e scoprire che non ci sei.»

L’uomo la fulminò con un’occhiata intransigente «Ti ricordo che oggi arriva Annlisette Nevue da Hidel, e, mia carissima, carissima» quell’ultima parola venne sottolineata per far intendere quanta ironia vi avesse messo «Angelica…»

«Angel, Angel!» lo interruppe lei, sbottando animatamente «Lo sai che preferisco Angel!»

«Angel.» si corresse lui, ostentando un tono fermo ma pacato «Non hai ancora precisato se intendi o no venire con noi.»

Quindi tornò ad armeggiare coi lacci troppo corti per essere allacciati decentemente.

Angelica si mosse con lentezza attraverso la stanza, ondeggiando volutamente i fianchi e lasciando che la camicia da notte decisamente troppo leggera per quel periodo – tanto che Nathan si chiedeva come mai non si fosse ancora trasformata in un angelico cubetto di ghiaccio – ondeggiasse, mettendo in rilievo le forme sviluppate.

SI sedette sul bracciolo del divano ed allungò le mani attorno al collo del biondo, fingendosi nuovamente assonnata «Uff, ci devi andare per forza?»

Nathan le lanciò l’ennesimo sguardo gelido « Certo che no, dopotutto l’ho solo invitata. Posso anche lasciarla alla stazione! E poi…» la scacciò malamente con dei colpi di spalle «Lo sai che non mi piace averti intorno. Tornatene a casa!»

Angel rise di gusto, accavallò le gambe, sfoggiando un sorriso astuto. Stuzzicare quell’uomo così serio era uno dei suoi passatempi preferiti, da quando lo aveva conosciuto «E invece, mio caro Nathan, ti piace eccome avermi intorno! Altrimenti non mi avresti invitata a passare la notte da te, no?»

Nathan sospirò, colpito. Angel sapeva benissimo dove andare a parare, e i suoi nervi iniziavano ad averne abbastanza. Evidentemente non serviva a niente provarci con le buone, per cui avrebbe usato le cattive.

Si alzò dalla sedia su cui era stato seduto fino a quel momento e le si avvicinò con un sorrisetto malizioso; appoggiò con delicatezza una mano sul suo fianco, mentre con l’altra le sfiorava la morbida gota.

«In effetti un motivo c’è…» cominciò, suadente «E sa qual è?»

La ragazza scosse lentamente il capo, facendo scivolare i lunghi capelli rosso fuoco sulle spalle. Ricambiò il sorriso, come se fosse certa di essere ormai prossima a far cedere l’Angelo.

In quel momento il sorriso di Nathan si spense e le venne rivolta un’espressione scocciata «Mi facevi pena sotto la pioggia, sola e abbandonata.»

Angelica brontolò, sbuffò e si liberò con uno strattone, tuttavia tra sé e sé rideva, divertita da quel gioco poco gradito all’Angelo.

«Arrenditi, i tuoi trucchi non funzionano con me.» la avvertì lui, prendendo poi la sacca con dentro i documenti ed i pochi soldi che aveva racimolato per l’occasione.

La giovane donna fece una smorfia offesa, dandogli le spalle «Che antipatico! Crudele! Non si tratta così una signorina!»

Nathan rise sottovoce, contento di averla avuta vinta su di lei; non era cosa facile far demordere Angel, ma ormai si era abituato. Indossò in fretta e furia il cappotto scuro che usava solo per le occasioni speciali «Ti sarei grato se evitassi di sconvolgere la piccola Ann.»

«Bah, una contadina puritana… si sconvolgerà di ogni cosa, e lo sai!»

«Cerca di non sconvolgerla troppo, allora.» incalzò, stringendosi la sciarpa attorno al collo.

Angel si mise in piedi, prese la lunga vestaglia rossa con motivi orientali che aveva lasciato a casa di Nathan poche sere prima, avvicinandosi a lui e alzando una mano «Potresti almeno pettinarti, mio caro.»

«Nei limiti del possibile, ma lo sai che è un’impresa.» si lamentò lui, che, per carità, passava anche troppo tempo col pettine in mano, pur ottenendo risultati disastrosi.  

Lei gli passò una mano tra le ciocche un po’ troppo mosse e ribelli, ma soprattutto troppo lunghe. Sorrise, per una volta senza malizia, allontanandosi infine dopo avergli dato un buffetto sulla guancia.

«Darò una sistemata a casa tua, anche se ci vorrebbe l’intero battaglione dei servi di Sua Maestà per pulire il tuo studio!» rise, mentre si allontanava a passi svelti attraverso la cucina, alla volta del bagno.

«Grazie.» egli chiuse l’ultimo bottone della giacca, quindi raggiunse ed aprì la porta d’ingresso «Ci si vede, stammi bene.»

Quando fu rimasta sola, Angel si perse nella contemplazione del paesaggio esterno, attraverso una delle due grandi finestre della casa. Qualche timido raggio di sole accennava ad illuminare la città, eppure nevicava; non aveva molto senso la cosa, appunto per questo le piaceva.

 

La lontano, la grande capitale sembrava ancora più grande, se possibile. Da quando era cominciato il viaggio, quella ragazzina dai lunghi capelli neri non aveva smesso di infastidire tutti con domande alquanto scoccianti: dove si ferma il treno? Quanto manca? Neanche fosse la prima volta che prendeva un treno!

Nonostante il freddo, Annlisette stava con le mani appoggiate al vetro della finestra, osservando lo scenario desolato e monotono delle colline innevate allontanarsi sempre più. Notava con gran piacere che più lontane erano le lande, più faceva caldo, tanto che a un certo punto era stata costretta a togliersi il giaccone, senza però capire il perché di tutti gli sguardi attoniti che le erano stati rivolti.

Ammetteva di non comprendere molto di quella strana gente, di quella strana situazione, di quello strano mondo, ma la cosa le piaceva un sacco. Sentiva di andare incontro ad una montagna di cose da imparare, ma soprattutto incontro a Nathan.

Pensava che il suo primo viaggio lontano da Hidel sarebbe stato traumatizzante, invece sentiva un’immensa eccitazione, una voglia incredibile di andare sempre più lontano. Desiderava che il treno accelerasse, mentalmente intanto ripassava tutto quello che aveva imparato sulla lingua nazionale.

Si sedette composta, cercando di comportarsi come si addiceva ad una signorina della sua età, ma la voglia di muoversi era troppa; si sentiva come una bambina davanti a un bellissimo gioco, aveva la smania di toccare tutto. Certo, c’era anche un po’ di paura, dopotutto stava andando all’avventura, per di più da sola. Era riuscita a convincere suo fratello a farle fare la tratta Nnerva-Terren in solitudine, e non se ne pentiva: tutto era grande, grandissimo.

Estrasse dalla borsa bianca che teneva a tracolla l’ultima lettera di Nathan, totalmente scritta in inglese. Ammetteva che alcune parole tutt’ora non riusciva a comprenderle bene, erano di un lignaggio troppo alto per lei, ma non c’era più bisogno di scavare nel vocabolario fino ad uccidersi gli occhi: sarebbe stato lo stesso Nathan spiegargliele quando si sarebbero rivisti!

Il suo cuore palpitò. Chissà se era cambiato! Dopotutto era passato un anno e mezzo, lei ora era più alta, più femminile secondo la mamma, aveva tagliato un po’ i capelli, osservato le proprie mani farsi più lunghe e tante altre piccole cose che sperava Nathan avrebbe notato.

Se lo immaginava avvolto nel suo solito mantello nero, trafelato e con le occhiaie, segno che aveva passato l’ennesima notte sui libri, con quei capelli biondo scuro tutti un groviglio; le avrebbe sorriso e detto che sarebbero stati insieme per molto, come ai vecchi tempi.

Se da un lato aveva tutte queste speranze però, dall’altro, la grande paura di essere cambiata troppo – o che lui fosse cambiato troppo – la affliggeva. In due anni mutavano molte cose, avrebbero avuto lo stesso rapporto di prima?

Avrebbe ancora continuato ad avere incubi? Il dubbio era forte, eppure, da quando quella bellissima lettera era giunta in casa, dormiva sonni tranquilli. Le occhiaie erano sparite, l’allegria era tornata, si sentiva come tornata in vita. E ancora una volta doveva tutto a quel ragazzo dall’aura misteriosa.

Questi pensieri vennero però immediatamente messi di lato dalla consapevolezza che finalmente avrebbe potuto stringere il suo Angelo invece del freddo cuscino, quando avrebbe avuto paura. Non avrebbe più pianto leggendo le sue lettere, non avrebbe più cercato la sua calligrafia in qualunque cosa le leggeva. Non avrebbe sentito più il cuore invaso dalla delusione ogni volta che si rendeva conto che lo straniero se ne era tornato a casa, lontano da Hidel, lontano da lei. Quei due anni di malinconia e false speranze sarebbero stati presto trasformati in un mese mese di pura felicità.

Certo, le dispiaceva non poter festeggiare il Natale con la sua famiglia, ma loro avevano capito… o forse era stata l’idea del ballo di corte ad allettarli. Beh, una figlia che entrava in società a diciotto anni non è una cosa da niente per una modesta famiglia di un villaggetto qualsiasi.

«Terren! Stazione di Terren!»

Dovette trattenersi dalla voglia di saltare in aria e cominciare ad agitarsi, per contenere l’euforia. Si mise di nuovo in piedi, facendo correre gli occhi alla figura della città che si avvicinava velocemente.

Il cuore cominciò a battere freneticamente al pensiero di quel sorriso beffardo che ormai era alle porte.

“Arrivo, Nathan!”

 

Una volta che il treno fu finalmente giunto presso la stazione, impiegò più del tempo necessario per fermarsi; o almeno, Nathan questa netta sensazione.

Fremeva a dir poco, il mazzo di fiori che teneva in mano – rose bianche, ovviamente – sembrava ardere di vita propria. Correva con gli occhi da un lato all’altro del mezzo, chiedendosi da quale vagone sarebbe scesa Ann. E se non l’avessero vista? Lei non sapeva mica dove andare!

«È così lento, accidenti!» si lamentò.

«Cugino… non ti sembra di esagerare?» domandò quasi schernendolo Damon; alzò lo sguardo sul cugino Metherlance che, per vedere meglio, era addirittura arrivato ad arrampicarsi sul tetto di una carrozza, dalla quale faceva da vedetta.

Sogno era accanto a lui, sulle punte e sotto lo sguardi sbigottiti dei passanti «Dobbiamo assolutamente trovarla prima che la confusione prenda piede!»

«Stiamo solo evitando di perdere tempo, Damon.» precisò il tedesco, incurante dei, seppure tenui, raggi di sole che lo raggiungevano e gli facevano lacrimare gli occhi.

«No, state solo facendo una figura di…» sbottò il terzo, facendo notare ai due le occhiate cariche di disappunto che fioccavano intorno.

Ma Nathan e Sogno non sembravano curarsene; a volte erano capaci di cose assolutamente impensabili, per fortuna c’era Damon a fargli notare quando esageravano. Altre volte – molte più volte – i ruoli dei due cugini erano invertiti. Anche se c’era da dire che da quando aveva conosciuto Ann, Nathan era cambiato radicalmente: ora era molto più aperto, gentile, in generale più piacevole di prima.

Ma soprattutto era capace di cose assolutamente folli, come quella che stava appunto facendo.

«L’ho vista! L’ho vista!» urlò Sogno, sovrastando la roca voce del giovane Darkmoon.

La ragazza puntò il dito verso una delle carrozze finali, mentre si esibiva in un acuto che spaccò i timpani ad entrambi i ragazzi. Damon stramazzò, urlandole contro; Nathan invece saltò giù dalla carrozza. L’acuto gli era arrivato fin dentro i timpani, ma lui non gli aveva prestato attenzione.

L’aveva vista per un attimo, ed ora le correva incontro a rotta di collo, come se la sua fosse una folle corsa verso la vita.

Annlisette, intanto, se l’era vista con tutti i santi per scendere dal treno. Chi si aspettava tutta quella confusione? Si guardò intorno, improvvisamente colta dalla preoccupazione. Dov’era Nathan? Ovunque si voltava vedeva volti sconosciuti; aveva un po’ di paura, la quale cresceva di minuto in minuto.

Alzò lo sguardo e improvvisamente si sentì piccolissima.

Le casette piccole e fatiscenti a cui era abituata avevano lasciato spazio a palazzi alti, quasi paurosi, dall’aria potente e indistruttibile; il cielo era sgombro dalle nubi come poche volte l’aveva visto; non nevicava più, anzi batteva un sole abbastanza leggero, che però le diede fastidio agli occhi - non era abituata a guardare il vero sole, quello che Nathan le aveva sempre descritto, lo stesso che a Hidel era sempre nascosto dietro un folto e spesso strato nuvoloso; e poi c’erano odori forti, pesanti, di carbone bruciato, strani profumi piacevoli: pane appena sfornato, fiori che non aveva mai visto; persone che urlavano, che si abbracciavano, felici di incontrarsi dopo tanto tempo.

Dov’era il suo Angelo?

Posò un piede su… sulla pietra? Non capiva in quale materiale fosse stato fatto quello strano marciapiede. Strinse forte il suo bagaglio al petto, come le aveva raccomandato Nathan, continuando a cercare ossessivamente con lo sguardo.

Tutta quella confusione e calca irriverente le fece per un attimo rimpiangere il freddo della sua stanzetta, capace di accogliere solo lei. Ma fu giusto un attimo.

«Ann! Ann!» una voce familiare la chiamò.

Ann voltò la testa, incontrando la figura di… Sogno su di una carrozza? La cosa non le parve molto strana: quegli Angeli avevano abitudini al limite dell’incredibile! Alzò un braccio per salutarla con un gran sorriso, facendosi strada tra la folla che si addensava. Era una situazione davvero anormale per lei; si sentiva incredibilmente stretta in mezzo a quella calca, ma ancora una volta non sapeva a quale sentimento cedere. Infatti molteplici emozioni si mescolavano dentro di lei in un turbine fortissimo: emozione, tantissima emozione, così tanta che credeva che sarebbe svenuta non appena i suoi occhi si sarebbero poggiati sulla figura a cui più tra tutte ambiva.

Se c’era Sogno, doveva esserci anche Nathan.

Cercò di farsi spazio approfittando del fatto che era di corporatura esile, creandosi piccole vie e curandosi di chiedere scusa se per errore pestava i piedi a qualcuno.

Poi, all’improvviso, un urlo.

«Annlisette!»

Quella voce le fece alzare il viso sul quale già regnava un’espressione di assoluta felicità, mentre il suo cuore aveva un sobbalzo all’indietro, poi uno in avanti, e poi cominciava a battere troppo velocemente, minacciando di collassare. Ma cosa le importava in quel momento, quando finalmente lo vide tra la folla, che si faceva spazio a fatica per raggiungerla?

Non poteva più contenere l’enorme sorriso che le era nato spontaneo, così come lo stridulo «Nathan!»

Sentì di arrossire velocemente, gli occhi si stavano già inumidendo. Quante volte aveva sognato quella scena: il momento in cui le sue gambe avrebbero corso più velocemente del solito, ogni passo così pesante da farle male, eppure leggero perché sapeva che la meta si avvicinava?

Allungò in avanti le mani, erano a pochi metri di distanza ed il tempo sembrava scorrere più lentamente.

Una lacrima le corse lungo il viso senza che riuscisse a fermarla; normalmente si sarebbe curata di lavarla via, avendo paura che lui fraintendesse la gioia con la tristezza, ma in quell’attimo ogni paura era totalmente azzerata. Il mondo intorno non era più ostile e grande, era invece caldo ed accogliente, e quelle braccia che la strinsero forte fino a farle male, quelle erano la casa che a lungo le era mancata.

«Ann!»

La chiamò di nuovo lui, affondando il viso nei suoi capelli mentre lei ricambiava la morsa di pura felicità. Ann sentì le lacrime scorrere come un fiume in piena, finalmente il suo profumo le riempiva le narici, inebriandola come un tempo. Il profumo del suo Angelo.

Si sentì sollevare e lanciò un’esclamazione stringendosi di più al collo di lui. Lo sentiva ridere, una risata felice come non l’aveva mai sentita. Era realtà o un altro sogno?

“No, no Ann” si disse “questa è la realtà. Ed è bellissima…”

La poggiò a terra e finalmente potettero guardarsi in viso; non era cambiato di una virgola, accidenti, era uguale a due anni prima! Le sorrise serenamente, passandole poi una mano sulla guancia per portar via una lacrima con un gesto delicato.

«Ma che fai? Piangi?» le chiese.

Lei avrebbe voluto rispondere, ma le parole le morivano in gola; apriva la bocca ma ne uscivano singhiozzi e balbettii, eppure continuava a ridere di gioia. Non si era mai sentita al contempo così felice e debole.

Evidentemente lui dovette capirlo, poiché le posò un leggero bacio sulla fronte, abbracciandola di nuovo.

«Non sforzarti, va bene così.» la rassicurò, stringendola di nuovo, e lei annuì freneticamente, serrando una morsa ferrea attorno al collo del suo cappotto.

Disse, con voce molle e tono basso, rotto dai singhiozzi «Mi sei mancato così tanto…»

Infine affondò il capo nell’incavo del suo collo. Finalmente ci arrivava, ora che era più alta, ora che era cresciuta, e lui non avrebbe più potuto prenderla in giro.

«Anche tu, angioletto.» la chiamò con quello strano appellativo che la fece sorridere ancora di più, tanto che temette che le si sarebbe paralizzata la faccia.

Non la smetteva più di sorridere, era più forte di lei: un’esigenza irrimediabile quanto lo era respirare.

Non lo avrebbe più lasciato, non si sarebbero più separati, non avrebbe sopportato la mancanza di lui di nuovo. E sapeva che egli la pensava allo stesso modo.

«Ora sei al sicuro…» le sussurrò.

Fu un sospiro molto basso, che però la ragazza udì distintamente. Intorno a loro ogni rumore era cessato, ora c’era solo la sua voce, e per quanto basso avesse parlato, lei lo avrebbe sempre ascoltato e sentito. Poi, all’improvviso la lasciò, e lei ebbe l’impressione che tutto il mondo avesse ripreso vita di punto in bianco, coi suoi suoni e colori.

«Andiamo a casa?» le chiese, sorridendo sereno come non lo aveva mai visto, quello straniero dall’aria sempre indaffarata.

Le strinse la mano e lei fece lo stesso, mormorando candidamente, leggera come la neve che cade «Sono già a casa…»

 

 

Note dell’Autrice: - Aggiornato al 21.02.2012

Ho dato una piccola revisione al livello geografico e stilistico al capitolo, anche se ci vorrà ancora molto tempo per la versione definitiva. In ogni caso, ora dovrebbe risultare più comprensibile ^_^ un sentito ringraziamento a coloro che hanno commentato questo capitolo: FallIntoU, Midao, Milou, violacciocca, NadeNyah e Kikyo-sama.

 

A presto!

Sely.

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Capitolo 19
*** Calma apparente ***


What colour is the snow

What colour is the snow?

Capitolo 19: Calma apparente.

-Li vedi?- finalmente Damon parlò. Da quando Nathan si era immerso nella massa dei cittadini erano passati circa dieci minuti, dieci minuti molto lenti, che lui aveva osservato passare con crescente noia mediante le lente lancette dell’orologio della stazione. Ogni tic toc che emetteva, coperto dal rumorio diffuso ma ben udibile dal suo fine udito di Angelo, sembrava una provocazione. Era come se quel coso gli stesse gracchiando contro un saccente “ah-ha, ti rode il fegato che loro passino tempo insieme e tu sia lontano da Krissy, vero?”.

-Ancora no…- la vocina di Sogno ebbe il magico – e provvidenziale – effetto di ridestarlo dalla voglia di distruggere che lo aveva preso all’improvviso. Sospirò ficcando rabbiosamente le mani in tasca, tagliuzzando con gli occhi la folla, finché la solita zazzera biondo sporco ben conosciuta non fu visibile –Yo! Nate, da questa parte!- urlò a pieni polmoni per sovrastare la calca confusa e irritata di uomini e parole che li separava.

Notò che Sogno si era messa in piedi per fare una sorta di strana segnaletica umana. Beh, meglio così, si sarebbero sbrigati prima. Voleva davvero andarsene da quel posto. Poi, con tutta la calma del mondo, avrebbe sorriso ad Ann, ci avrebbe fatto amicizia, magari. Ma ora dovevano assolutamente allontanarsi da quell’odore soffocante di umani.

La piccola Ann era cresciuta, era diventata una donna, ma il cambiamento maggiore, notò, si poteva riscontrare nello sguardo. Il viso arrossato dall’emozione, gli occhi curiosi, vogliosi di scoprire ogni cosa su quel mondo che probabilmente le risultava nuovo in ogni sfaccettatura. Si sarebbe divertita con Nathan, lui sapeva tutto. Beh, quasi tutto.

-Sogno!- esclamò la ragazzina uscendo dal nascondiglio che aveva trovato tra le braccia di Nathan, venendo sommersa da un caldo abbraccio di Sogno.

-Ann! Ann! Ann! Finalmente è arrivata Ann!-

Stettero un po’ così, a coccolarsi a vicenda, contente di rivedersi dopo tantissimo tempo.

-Scusate, eh, ma vorrei arrivare a casa per la cena, stasera c’è la partita- borbottò con un sorriso ironico Damon, aprendo la porta della carrozza che avevano affittato per far salire le due ragazze –prego, signorine- porse una mano ad Ann, che annuì tutta contenta entrando, seguita a ruota da Sogno.

-Prego, signorina- sorrise poi con fare provocatorio a Nathan, il quale gli ricambiò la gentilezza con un fraterno pugno in testa, costringendolo ad entrare mentre si teneva il capo dolorante –che donna manesca!- quando fu dentro, soffocato dal calore dell’abitacolo, si accomodò senza permesso tra le due donne, lamentandosi –Ragazze, proteggetemi da quel bruto!-

Entrambe risero, soprattutto mentre Nathan gli lanciava un’occhiataccia offesa dopo aver richiuso la portiera e avendo urlato al conducente – sperando questo che fosse riuscito a sentirlo – la destinazione: via Herpshire, 77.

-Damon, sono felice di conoscerti dal vivo!- Ann gli sorrise porgendogli una mano, mentre Nathan notava con grande delizia che il suo inglese era degno di nota per una semplice contadina.

-Onorato, chéri- lui le fece il baciamano, trasformandosi poi in un sol secondo da gentiluomo al Damon ben conosciuto da Sogno e Nathan –comunque si dice “Damòn”, non “Dàmon”-

Dire che Ann sbiancò è dir poco, tanto che abbassò il capo timidamente, sforzandosi di ridere –Eh eh… scusa… fino ad oggi l’avevo solo letto…- in realtà Nathan le aveva fatto una volta quel nome, ma la sua memoria faceva acqua nelle situazioni di grande emozione.

Il viaggio verso il palazzo dove abitavano i tre cugini fu molto vivace e colorato da mille discussioni su mille argomenti diversi. Ann raccontò come procedeva la vita ad Hidel, del fatto che i Demoni avevano mantenuto l’accordo e non si erano più registrati decessi o sparizioni – con grande sollievo di Damon ma grande disappunto da parte di Nathan, che si era legato al dito il tentavo di scaricare addosso a lui la colpa di quei terribili fatti -, quindi fu il turno di Sogno, che parlò delle giornate passate a studiare tutti insieme per l’esame annuale degli Angeli, rimanendo però molto sul vago, ben sapendo che Ann non doveva essere messa al corrente di certe cose. Le due ragazze parlottarono a lungo della città, di cosa avrebbero fatto insieme; Sogno progettava già di portare la sua nuova amica a fare un giro per negozi nei giorni successivi.

-Che te ne è parso del treno?- chiese a un certo punto Nathan, interrompendo le due.

Ann gli sorrise innocentemente –Bello, ma lento!-

Lui rise di gusto –Cosa? E’ il mezzo di trasporto più veloce al mondo!-

-Sarà il più veloce al mondo- la ragazza saltò in piedi per andare a sedersi accanto a lui, prendendogli una mano –ma io preferisco un bel giro in carrozza. Soprattutto se ci sei tu-

Damon fece un’espressione disgustata, trovando improvvisamente molto interessante qualsiasi cosa passasse fuori dal finestrino, mentre Sogno ridacchiava sottovoce dell’imbarazzo evidente di Nathan, che si limitava a sorriderle.

-Era ora che qualcuno insegnasse al cugino Metherlance a provare sentimenti- si lasciò sfuggire, ricevendo da entrambi i ragazzi un’occhiataccia, a mo’ di rimprovero –ops!- si corresse –Non che prima non ne provasse, però…- si impappinò cominciando a balbettare.

Venne in aiuto Damon, che poggiò i piedi sul sedile opposto, dove ora erano seduti  Ann e Nathan –A noi Angeli è vietato amare, Annuccia- le spiegò –come a voi è vietato uscire dal villaggio. A proposito, non c’era quella leggenda orribile che diceva che tutti morivano se uno usciva da Hidel?-

Si era rivolto a Nathan che, con espressione estremamente scettica, annuì –Qualcosa del genere-

-No, moriva solo chi lo lasciava- Ann prese la parola, sorridendo poi ai compagni –ma io sono viva, no?- seguì uno strano silenzio.

Sogno sembrava non avere il coraggio di aprire bocca, lanciava occhiate cariche di richieste di aiuto a Damon, il quale però aveva definitivamente voltato lo sguardo verso l’esterno, rifiutandosi di mettersi in mezzo. Quell’improvviso silenzio fece molta paura ad Annlisette, già abbastanza inquietata dalla rivelazione secondo cui gli Angeli non dovevano amare. Si voltò con sguardo improvvisamente contratto dalla paura verso Nathan –Vero?- egli, dopo un iniziale momento di indecisione, le mise una mano sulla spalla, sorridendole dolcemente –Ovvio che sì-

A quel punto Ann tirò un lunghissimo sospiro di sollievo, tanto lungo che non avrebbe saputo definire quanto se gliel’avessero chiesto. Strinse con poca forza i pugni che teneva in grembo, sentendo la calda stoffa della gonna piegarsi senza opporre resistenza, come un fuscello. Aveva la strana paura di divenire anche lei debole come quel fuscello per qualche motivo. Più stava con gli Angeli, più capiva quanto era debole ed ignorante in confronto a loro. Anche se le bruciava, aveva deciso di non fare domande. E soprattutto non ora che aveva appena rivisto Nathan.

Senza chiedere il permesso – cosa per cui sarebbe stata largamente biasimata se fossero stati in pubblico – si accomodò tra le braccia del suo straniero, poggiando il capo stanco al suo petto. Sorrise pensando tra sé e sé “Che ironia… ora sono io la straniera”. Già, avrebbe dovuto far i conti con quello che significava essere quelli fuori posto. Eppure sarebbe andato tutto bene, ne era sicura. Le bastava sentire le braccia del suo Angelo che la stringevano mentre le baciava la fronte.

-Ti troverai bene, vedrai- le sussurrò.

E lei annuì.

 

Una volta arrivati a casa, Damon e Sogno lasciarono “i piccioncini a fare le loro cosacce”, come disse con aria falsamente innocente la giovane. Ann era arrossita di getto, cose simili a Hidel non le avrebbe dette nessuno; ecco la prima differenza tra il modo di fare della città e quello del villaggio.

Fu invitata da Nathan ad accomodarsi, e la prima cosa che notò entrando fu un dolce calore. Una stufa era accesa in un angolo, riscaldando l’ambiente, forse un po’ incoscientemente –Se lasci la stufa accesa la casa va a fuoco- lo riprese ridacchiando.

Lui forzò una risata –Ah, l’ho dimenticata- si scusò andando ad aprire la grande finestra in fondo alla sala principale, il cui colore dominante era il marrone. Mobili d’antiquariato, polvere in grande quantità, libri, quintali di libri, ammassati su ogni superficie. Tipico di Nathan. Ann sorrise: era come essere tornati nella sua casa-laboratorio di Hidel, solo che questa volta aveva più spazio a disposizione, dunque più possibilità di far confusione.

-E’ davvero… uhm, un disastro- rise di gusto, sentendo il cuore più caldo.

-Hey, cosa pretendi da un uomo che vive da solo?- sbuffò lui –Ho bisogno di spazio per le mie ricerche. Hai fame?-

-Così tanta che mangerei di tutto, dimostrami le doti culinarie di cui ti sei sempre vantato-

-Stasera carne al sangue; cerbiatto o cervo?-

Quando Nathan si voltò, Ann era visibilmente sconvolta. L’uomo rise sparendo in cucina –Scherzavo!- canticchiò, ricevendo qualche parolina poco gentile dalla ragazzina.

-Prendimi pure in giro! Avrò la mia vendetta, uomo!- esclamò ridendo, per poi guardarsi intorno spaesata. Lasciò correre lo sguardo su uno scaffale dove erano poggiate delle fotografie, o almeno, tali sembravano. Ne aveva vista qualcuna in quegli anni, le riconosceva dall’alone giallastro che le caratterizzava. Alcune erano molto allegre, era molto ricorrente quel solito trio che ben conosceva, in alcune, invece, spuntavano visi nuovi. Spiccava lì in mezzo il famoso ritratto di quel dolcissimo Nathan bambino assieme alla sorella Auror. Come sempre, si perse con l’immaginazione andando avanti nel tempo.

Vedeva la casa più calda ed ordinata, con decorazioni natalizie qua e là, una musichetta allegra in sottofondo. Ovviamente fuori nevicava ed era buio. Dentro si respirava una dolce atmosfera familiare mentre tanti piccoli Nathanini ed Annuccie correvano di qua e di là tenendo la mamma incita per mano.

-Ann? Tutto bene?-

Ann batté le palpebre più volte, voltandosi poi verso Nathan. Lo guardò intensamente accorgendosi che era stato solo un frutto della sua fantasia, annuendo poi con fare convinto –Sì, sì. Stavo avendo un incubo ad occhi aperti-

-Un incubo ad occhi aperti?- lui alzò un sopracciglio guardandola di sbieco –Accidenti, mi spiace- sicuramente non aveva mai avuto di simili problemi, ma come si dice? Sorridere ed annuire.

Anche se dopo breve, notò Ann, il suo sorriso mutò. Non era più quello un po’ forzato e beffardo che esibiva come un biglietto i primi tempi ad Hidel; ora era più rilassato, gentile, insomma molto più sereno. All’inizio lo aveva preso per un poco di buono che si divertiva a prendere in giro la gente, ma col tempo aveva capito che dietro quella smorfia canzonatoria c’era di più.

Il suo sguardo, come sempre molto intenso, capace di mettere in soggezione – lo avrebbe chiamato “occhiata angelica” da quel momento in poi -, la imbarazzava –Che c’è?- chiese, sentendosi tutt’un tratto di nuovo la piccola e zotica contadina di un villaggio di frontiera.

-Nulla- le venne risposto. Le prese con delicatezza una ciocca di capelli tra le dita, sorridendole –notavo solo quanto ti sei fatta bella-

Nonostante dentro stesse letteralmente ribollendo d’imbarazzo, la giovane forzò una risata –Modestamente sono bellissima!- non era vero.

-E’ vero-

-Bene, bene! Dov’è che dormo?- cercò disperatamente di cambiare argomento, ben consapevole però che il suo rossore era pressoché plateale.

-Oh, giusto. Seguimi-

La condusse in una stanza da letto che non era meno caotica del resto della casa, forse solo un po’ più pulita. Evidentemente si era dato da fare per il suo arrivo – lo notava dal fatto che, stranamente, tutti gli strumenti di ricerca erano ammassati e non sparpagliati -, senza però ottenere grandi risultati. Ma Ann apprezzò lo sforzo.

Ora c’era un solo problema: perché il letto era un matrimoniale?

Nathan rise di gusto al suo fianco –Che c’è, devo dormire sul divano?- la provocò abbassandosi alla sua altezza, con un sorriso beffardo, da quanto tempo non lo vedeva? Ammetteva che un po’ le era mancato –Lasceresti davvero il tuo angioletto che ti ama tanto dormire su quel freddo divano?-

-Ehm… ma…- provò lei, sentendosi improvvisamente muta. Lasciò pesantemente cadere la valigia che aveva in mano. Oh, fosse per lei avrebbero dormito abbracciati, il problema era quel poco di etica puritana che le era rimasta. Dormire in un letto con un uomo prima del matrimonio senza nemmeno essere fidanzati, non era un po’ esagerato? Giusto un pochino…

Ma lui continuava a guardarla, e quello sguardo così malizioso le fece nascere uno spontaneo –Ma sei un Angelo o un Diavolo tentatore? Da quando i cattivi hanno gli occhi chiari e i capelli biondi?-

Lui rise di gusto, rimettendosi dritto –Al massimo un Demone sotto le spoglie di un Angelo. Hey, la gente si è stancata degli Angeli biondi dagli occhi chiari, sai? Sono innovativo, furbo, semplicemente geniale, e…- lasciò la frase in sospeso per raggiungere la valigia della giovane, che poggiò sul letto –e dormirò sul divano per immolarmi in nome del mio solo e vero amore-

Quella rivelazione da un lato fu un sollievo, dall’altro una delusione. In fondo ci sperava che lui dormisse nel suo stesso letto, sarebbe stato bello sentirlo così vicino in piena notte, al posto di quel freddo cuscino che aveva stretto così a lungo sperando che prima o poi si sarebbe magicamente – o miracolosamente – tramutato in lui. E poi, inutile dire quanto fosse grande il tuffo al cuore che aveva provato sentendosi chiamare “mio solo e vero amore”. Ancora non riusciva a dare un senso logico a quella situazione, era come essere in un magnifico sogno da cui non voleva più svegliarsi.

Davvero felice, gli si avvicinò attaccandosi al suo braccio con fare possessivo –Innovativo, furbo, semplicemente geniale, splendido sotto ogni punto di vista, se non fosse per quella lingua lunga…-

-Ognuno ha i suoi difetti-

-L’orgoglio, la testa dura, la presunzione…-

-Hey, vacci piano!-

-Il sorrisetto da “prendimi a schiaffi”…-

-Ma non puoi dire che non sia affascinante- rise, di nuovo malizioso.

-Oh se lo è, peccato per questo tuo ego… egocene…-

-Egocentrismo, dal greco ego “io”…-

-La tua fissazione col fare il saputello e una buona dose di…-

A quel punto le fece gli occhi dolci, una cosa che mai si sarebbe aspettata da lui. Lo osservò un attimo, bloccandosi. Quell’occasione non se la sarebbe fatta sfuggire –E fu così che il mondo seppe che Nathan Metherlance sa fare gli occhi dolci. E che li fa davvero malissimo-

-Che crudele…-

-E sai una cosa cosa?-

Inizialmente Nathan fece l’offeso, guardando altrove con le braccia incrociate, nonostante la ragazzina fosse ancora appesa a lui. Le rivolse un’occhiata di sbieco –Che cosa? Ho qualche altro difetto da aggiungere alla lista?-

-Sei irrimediabilmente, inesorabilmente, inoppugnabilmente…-

-Wow, dove hai imparato questo parolone?-

-Bello, vero? L’ho letto in quel libro bellissimo che mi hai mandato due mesi fa, ci ho impiegato ore per capire cosa accidenti significa. Dicevo… angelicamente adorabile e diabolicamente affascinante- sorrise, contenta di aver ritrovato la faccia tosta dei vecchi tempi.

-Santo cielo, quanti complimenti- Nathan le carezzò gentilmente la guancia –pensavo che la lista dei difetti sarebbe continuata in eterno. Grazie, Ann, sei la prima persona che mi dice cose simili-

-Che ti insulta alla grande?-

-No- sorrise lui, con gentilezza, forse ignaro di quanto le parole che stava per pronunciare avrebbero dato inizio a un lento, scivoloso, gocciolante processo verso l’abisso –che mi fa sentire umano-

 

Era notte fonda, la stanza attorno totalmente buia, se non per gli improvvisi bagliori provocati dai fulmini che squarciavano il cielo. Erano passati tre giorni da quando Ann era arrivata a Terren, durante i quali aveva visto e imparato più di quanto si aspettasse; ma era avara di sapere, voleva vedere ancora di più. Il mattino dopo Nate e Sogno avrebbero dovuto portarla a vedere la via dei negozi, ma il tempo non sembrava favorevole. Sperava che il temporale passasse prima dell’alba.

Lei, che aveva sempre avuto un leggero timore dei fulmini, si era rimasta barricata dentro la “sua” stanza per tutta la notte, rifiutandosi persino di andare a prendere l’abituale bicchiere d’acqua. Il quale era tutta una scusa, lo sapeva bene. In realtà si fermava per diversi minuti a guardare Nathan dormire. Come aveva sempre immaginato, era disordinato anche in questo. Ogni volta che gli passava davanti era messo in una posa sempre più buffa e sempre più scomoda, tanto che si chiedeva come facesse la mattina ad alzarsi senza essere tutto un dolore. Adorava lasciarsi cullare dal suo respiro regolare, dal profumo di Angelo che aveva sempre amato, un paio di volte le era parso pure di sentirgli borbottare qualcosa, ma probabilmente era sua impressione.

Sotto diversi strati di coperte dedite a proteggerla dal freddo, stringeva con poca forza il morbidissimo lenzuolo, sentendo il tessuto così caldo riscaldarle le dita. Da sotto i capelli scompigliati, rivolgeva occhiate poco sveglie alla finestra, contro cui la pioggia batteva forte, sempre più forte.

“Mi sa che domani non si va da nessuna parte… che peccato” pensò sbuffando, arrabbiata col tempo. Provò a immaginare che al posto di quel vuoto accanto a lei ci fosse lui, magari in una posa assurda, lamentandosi nel sonno del dolore agli arti.

Eppure Annlisette, nonostante si fosse ormai accertata di essere innamorata di lui e dopo aver promesso a se stessa che, per il suo bene, non avrebbe più ficcato il naso in faccende che non la riguardavano, non riusciva a togliersi dalla mente le sue parole.

“Sei la prima persona che mi fa sentire umano.”

Un fulmine spezzò l’aria, con un rombo assordante affettò il silenzio, violento.

Nathan, e non solo lui, ma anche Damon, Sogno, Joshua e tutta la sua famiglia e tribù, che cosa erano loro in realtà? Angeli e Demoni? Ma erano veramente Angeli e Demoni? Tutta quella storia la intrigava, nutriva un’immensa curiosità che desiderava soddisfare, ma Nate era stato categorico: scoprire la verità significava colpire lui. Se lei avesse davvero scoperto che cosa le nascondevano, che sarebbe accaduto? Avrebbero dovuto dirsi addio? Voleva chiedere, voleva affrontare di nuovo quello spinoso argomento, però…

“Sei la prima persona che mi fa sentire umano.”

Ricordava l’espressione con cui l’aveva detto, così malinconica e al contempo piena di speranza, mentre porgeva un ringraziamento scaturito dal cuore. E un Demone non può avere un cuore, di quello Ann ne era sicura. Perciò Nathan doveva per forza essere un Angelo, di conseguenza avrebbe accettato di essere messo davanti a quella fatidica domanda che la assillava sin da quando i loro sguardi si erano incrociati per la prima volta.

-Nate, che cosa sei tu…?-

 

-Ti sei mai accorto di avere un tic?- Annlisette stava bevendo quel poco di latte che restava nella tazza bianca di porcellana. Si trovavano a colazione, erano le otto e cinquantacinque e fuori splendeva il sole nonostante le nubi ancora incombenti, sarebbero andati in centro verso le nove e mezza.

-Davvero?- Nathan inclinò il capo, sinceramente sorpreso. Seduto all’altro capo del piccolo tavolo, puliva la tovaglia dalla marmellata che gli era caduta per errore.

-Sì- riprese la ragazza, gongolando come se avesse appena scoperto un grande segreto –dici spesso “hey”- ridacchiò, soddisfatta dell’espressione stupita che gli si disegnò sul volto.

-Non mi sembra, e poi, hey, che ci sarebbe di male? Tutti hanno i loro vizi- ribatté lui, confermando le supposizioni della giovane. Fu un gesto del tutto volontario, gli piaceva sentirla ridere, aveva un tono così dolce ed innocente quando lo faceva.

-Allora, milady Nevue, come si sta trovando qui a Terren? Riesce già a fare un confronto col bianco Hidel?- le chiese.

-Magnifico, casa non mi manca per niente. E’ tutto nuovo, interessante, e poi ci siete voi!- esclamò con fare eccitato, mettendosi in piedi. Fece un giro su se stessa, allegra come una bambina il giorno di Natale –oggi mi devo vestire elegantemente! Sogno me l’ha raccomandato cento volte. Cosa ti piacerebbe che indossassi?-

-L’abito bianco, il bianco ti sta benissimo. Sembri un fiocco di neve-

-Neve?- Ann, che era intanto scappata via, si voltò di nuovo verso Nathan. Si era ricordata una cosa –Hey, Nate!- richiamò la sua attenzione, sorridendogli mentre metteva le mani dietro la schiena –Hai poi scoperto “what colour is the snow?”?-

Lui parve pensarci seriamente, poi rispose con decisione –Ci sto lavorando. Te lo farò sapere appena lo saprò con certezza- sorrise con fare incoraggiante.

Tornata nella “sua” camera, Ann sospirò. Si era ripromessa che avrebbe posto all’Angelo quella fatidica domanda, ma non ci era riuscita, aveva ancora troppa paura di causare un danno. Con determinazione si guardò allo specchio. Strinse i pugni, giurando al suo stesso riflesso che, entro quella sera, gliel’avrebbe chiesto.

Indossò l’abito che era stato scelto da Nathan, quello bianco. Un maglioncino sopra per coprire per bene le spalle, un cappello per ripararsi dal sole e via. A un certo punto qualcuno suonò alla porta, e Nathan, che in quel momento era occupato a vestirsi, le chiese di aprire. A rotta di collo Ann raggiunse la porta, non curandosi di chiedere chi fosse. Erano le nove, poteva essere solo Sogno, e invece…

-E tu chi sei?- a parlare era stata una donna bella, anzi, bellissima. Ann rimase a guardarla a bocca aperta. All’istante provò grande ammirazione per quella cascata di capelli fiammeggianti, per l’altezza smisurata ma proporzionata alla linea sottile, la pelle chiara e curatissima, senza nemmeno un’imperfezione. La guardò senza rendersi conto di non aver risposto alla sua domanda, chiedendosi cosa ci facesse una principessa dei fiori in quel luogo di poveracci.

-Hey, little princess- continuò a chiamarla con voce melodica, risvegliando Ann che scosse il capo. Ad un tratto si sentiva incredibilmente insignificante –Ah… Ann, sono Ann- rispose, non realizzando che la sconosciuta non poteva sapere chi era Ann. E invece così non fu.

Le prese le mani rivolgendole un sorriso aggraziato –Ann! La piccola Ann! Mi avevano detto che saresti arrivata!- la abbracciò come se si conoscessero da sempre, con l’effetto di far arrossire la contadina, che rimase a guardarla come si guarda una statua di cristallo.  La sconosciuta le faceva le feste, ma lei non sapeva che fare, finendo così col lasciarsi stritolare dall’allegra e frizzantissima –Angelica Rodriguez, ma puoi chiamarmi Angel- si presentò lasciandola.

-Piacere- sorrise timidamente lei. Quella donna non solo aveva un fisico assurdo, ma pure il nome era bellissimo. Da quale parte del Paradiso scendeva? E soprattutto, come conosceva Nathan? Se era lì il motivo doveva essere sicuramente riconducibile al padrone di casa.

Come se si trovasse nella propria casa, entrò chiudendosi la porta alle spalle –Oh, sapevo che Nate non avrebbe nemmeno provato a dare una sistemata! Perdonalo, cara, è sempre così disordinato, ma non lo fa apposta-

Bene, era ufficialmente gelosa. Fece un sorriso tirato –Lo so- sottolineò.

-Nathan Metherlance! Esci dal tuo buco e materializzati in tutta la tua trascendentalità!- urlò con voce acutissima, tanto che Ann si chiese come mai non si fossero infranti i vetri.

-Stai lontana da lei, Angel- la voce borbottante e poco disposta a collaborare di Nathan fece capolino nella stanza assieme alla sua zazzera irrimediabilmente disordinata. I riccioli biondi gli calavano sugli occhi dandogli qualche anno in meno, evento molto raro. Notando che aveva la camicia aperta, la ragazzina fece per coprirsi gli occhi, come le era stato insegnato, invece Angel si avviò con passo deciso verso di lui, ancheggiando così bene che Ann si annotò di chiederle come faceva.

-Cattivo! Smettila di trattarmi male! Ero venuta a portarvi buone notizie, sai?- saltellò la bella. Versò dell’acqua in un bicchiere; Annlisette notò che ella sapeva perfettamente come muoversi e dove trovare ciò che voleva. Ciò significava che aveva abitato in quella casa oppure che ne era un’abituale frequentatrice. Sentì la gelosia correrle dentro come una fiamma sotto la pelle.

-Te ne vai? Abbandoni la città per sempre? Cancelli il mio indirizzo dalla rubrica?- la ribeccò acidamente Nate, unico spiraglio di luce in quel brutto inizio di giornata.

-Ma quanto sei crudele! Insomma, Nate, ti ho detto di bere la camomilla la mattina, non il caffè!- sbuffò sonoramente l’altra, piantando i tacchi nel tappeto –Sono stata da Jen, e mi ha detto che…-

-Angel!- la apostrofò pesantemente lui, lanciandole con uno sguardo di rimprovero.

-Che ti lamenti? Anche Ann sa degli Angeli, me l’hai detto tu, brontolone!-

-Sì, ma non affrontare certe discussioni davanti a lei-

-Se volete posso andarmene…- si offrì Ann con un sorriso tirato. Bene, forse era meglio evitare l’argomento “Angeli” con Nathan, ora ne aveva la conferma. Fece per andarsene, quando un “no” venne esclamato contemporaneamente dagli altri due. Scelse comunque di non disturbarli, sedendosi sul divano in silenzio mentre Angel riprendeva la discussione.

-Dice che vuole vederti, forse ha trovato il modo di convincere Marcus a farti rientrare a Hidel a marzo-

Ann aprì bene le orecchie. Un modo per tornare a Hidel? Lei sarebbe tornata verso febbraio, se Nathan avesse potuto raggiungerla a marzo sarebbe stato perfetto! Eppure il tempo, fuori, non sembrava essere coordinato all’umore della ragazza, infatti si stava riannuvolando e, in lontananza, poteva sentire già qualche tuono. L’aveva fregata di nuovo. Cercò di concentrarsi su quello, ignorando la conversazione dei due.

-Ovvero?- sentì Nathan chiedere.

La risatina di Angel riecheggiò nel luogo –Mio dolce e ingenuo Nate, non c’è niente che non possa essere comprato con il sesso-

Quelle parole fecero sbuffare Nathan e sprofondare Ann tra i cuscini del divano. Che imbarazzo incredibile l’aveva colta. Quella parola, a Hidel, era un tabù, ed Angel l’aveva pronunciata con una tale leggerezza!

-Non voglio tornare se bisogna ricorrere a mezzucci del genere-

-Devi andare da lei al più presto, Nate. E non ti lamentare, lo sai che per te farebbe questo e altro-

Ann, bruciando di gelosia, si chiedeva come diavolo facesse Nathan a conoscere tutte quelle donne.

 

Angel non era poi così antipatica come si era prospettata. Era bella, davvero molto bella, e mentre camminava per strada con Ann, tutti gli sguardi erano per lei. Aveva uno strano effetto sul sesso maschile, il che non sorprendeva per niente la ragazzina. Eppure non era la classica bella tipa tutta tette e niente cervello, aveva dimostrato di essere un’attenta intellettuale.

Dopo quella piccola frecciatina con Nathan, Angel l’aveva presa per mano e costretta a uscire di casa, portandola in giro per le vie. Aveva promesso all’uomo che l’avrebbe riportata sana e salva entro la sera, senza lasciare alla straniera l’occasione di ribattere o anche solo puntualizzare che aveva un appuntamento con Sogno. Eppure non se la sentiva di rinunciare a quell’uscita, Angel aveva dimostrato di sapere delle cose che le interessavano molto, inoltre voleva capire in che genere di rapporti fosse con Nathan.

La mattina avevano fatto un giro per Terren, fortunatamente il temporale sembrava non volersi abbattere nuovamente prima di qualche ora, infatti si udivano tuoni in lontananza.

Avevano visitato moltissimi negozi di vario genere, da quelli di sarti a quelli di fiori, dove Angel aveva regalato una rosa rossa ad Ann. La contadina non sapeva bene il significato di quel gesto, ma capiva che doveva essere un segno d’affetto. Angel la strapazzava, abbracciava e le faceva in continuazione le feste, affermando che “era così carina che era impossibile resisterle”.

In seguito si erano dirette alla biblioteca principale della città, dove la ragazza era rimasta a dir poco sconvolta davanti all’enorme vastità del luogo. Ogni scaffale era stracolmo di libri, talmente tanto che era difficile pensare che non sarebbe caduto da un momento all’altro.

Angel le trovò un libro che affermava le sarebbe sicuramente piaciuto: “The most excellent and lamentable tragedy of Romeo and Juliet”.

-Sembra una storia d’amore. Però non mi piacciono molto…- Ann si sedette con delicatezza sulla grande poltrona rossa al centro della stanza, avendo paura di strapparne il fine cuscino. Tutto in quella biblioteca era rosso e nero, forse erano colori simbolici.

Si trovavano in una grande stanza adibita a sala lettura, in fondo si trovava un camino acceso che riscaldava l’ambiente, un caldo tappeto peloso occupava tutto il pavimento, si trovavano diverse sedie e molti tavoli, quello delle due ragazze era pieno di romanzi.

-Leggilo, ti piacerà- le assicurò Angel con un sorriso dolce –Romeo e Juliet sono uguali a voi, così innamorati! E’ davvero fantastico!-

Ann le sorrise a sua volta –Di cosa parla?- chiese.

L’altra sprofondò nella sua sedia, assumendo un tono solenne, la sua figura, illuminata appena dalla luce circostante, sembrava mistica. Era una sorta di maga oscura pronta a pronunciare il suo incantesimo –Romeo e Juliet appartengono a due antiche famiglie in rivalità dai tempi dei tempi, ma sono profondamente innamorati l’uno dell’altra. Un amore impossibile, capisci?- si allungò verso Ann con sguardo complice.

Qualcosa si accese negli occhi della piccola contadina, che chiese con tono quasi emozionato –Il nostro amore… è proibito?- in effetti ricordava la legge a cui aveva accennato Damon durante il viaggio. Ad un Angelo era proibito amare.

-Bingo!- sorrise a trentadue denti l’altra, dandole una pacca sulla spalla –Te li scegli bene i maschi, little princess!-

Dopo qualche altro chiacchierio sottovoce, fu il momento di leggere. Le due si lasciarono trasportare dai propri libri, un’esperienza che Ann trovò davvero sublime. Il calore del luogo, la tenue luce che rendeva l’atmosfera romantica, la tragedia che si stava rivelando interessante, la vista del distante legno che scoppiava tra le fiamme, l’odore della carta antica e la sensazione della calda lana che le lambiva la pelle, tutto sembrava assolutamente perfetto.

Scoprì che l’amore tra Romeo e Juliet era davvero pericoloso per entrambi, perché i loro genitori non avrebbero mai permesso loro di unirsi in matrimonio e deporre l’ascia di guerra. Così Romeo si propone si fingersi morto, ma quest’azione ha terribili conseguenze, chiudendo a lutto la tragedia.

Il finale lasciò l’amaro in bocca ad Ann. Alzò gli occhi dall’ultima pagina prendendosela molto con Shakespeare per quel lieto fine mancato. Ma forse doveva prendersela solo con la sua fervida immaginazione, che l’aveva spinta ad impersonarsi con la protagonista. E non era stato bello vedere Nate morire.

-Questo libro è molto triste…- sussurrò, sentendosi molto stupida. Davanti a una donna colta come Angel avrebbe voluto dire qualcosa di intelligente, esprimere un giudizio quantomeno critico, e invece era riuscita a dire solo la cosa più ovvia tra tutte.

Voltò lo sguardo al camino acceso, dove ballavano le lingue di fuoco, lambendo insidiosamente la legna ormai bruciata. Angel intanto abbassò il suo volume, guardandola con apprensione, come una madre con la figlia, carezzandole con dolcezza la guancia.

-Non tutte le storie d’amore hanno un lieto fine, principessa-

 

Le parole di Angel avevano duramente colpito Ann. Non era mai stata il tipo di ragazza che fantasticava di amori proibiti che finivano con il solito “e vissero per sempre felici e contenti”. Lei non era mai stata una che crede nel “per sempre felici”. Nella vita c’erano sempre insidie, pericoli, e questa regola valeva per tutti. Forse erano un’eccezione soltanto i nobili, ma neanche loro ultimamente se la passavano molto bene.

Eppure ci aveva sperato veramente nel suo lieto fine. Ci sperava ancora a dir la verità, ma vedeva all’orizzonte nuvole nere, e non quelle che tuonavano, diluviavano, lanciavano fulmini rumorosissimi mentre attraversava la strada allagata, immergendosi nelle tenebre della vecchia Terren. Anche al buio quella città era particolare, nonostante assumesse tratti macabri e inquietanti. Con buio la splendente e prosperosa città lasciava spazio alla miseria e alla disperazione di chi camminava sotto l’acqua scrosciante senza ombrello, vestito di stracci, cercando con ben poca speranza un posto dove passare la notte, un posto possibilmente asciutto. Mutilati, vecchi, donne probabilmente non più grandi di sua madre ma che dimostravano sessant’anni, bambini scalzi, dai piedi neri e pieni di calli, dai visi scavati di chi non mangia decentemente da secoli, uomini che trattenevano le lacrime, ombre che si nascondevano tra i vicoli, in attesa di qualche sfortunato da derubare. Ma nessuno sarebbe passato di lì, perché durante quel temporale tutti stavano rintanati in casa con le imposte chiuse, da cui si intravedeva qualche spiraglio di luce.

La città era bella ma terribile. Ora Ann capiva cosa intendeva suo padre quando le diceva che Terren era ricca di povertà.

-Little princess, io vado. Salutami il vecchio brontolone- sorrise Angel da sotto il suo ombrello rosso, lasciando Ann all’entrata del palazzo numero 77 di via delle camelie.

-Stai attenta, mi raccomando…- la pregò lei, lasciandola con un cenno della mano.

Quando Angel sparì attraverso le tenebre, la ragazza corse come una matta verso l’ingresso del palazzo, chiudendosi la porta alle spalle. Le faceva paura la città di sera.

Erano solo le venti, eppure sembrava che fossero le due. Sospirò calmando il battito del cuore; non voleva più affrontare un solo secondo in quella città se da sola. Strinse con forza il pacchetto che teneva tra le mani, salendo le scale.

“Sei la solita codarda, Ann…” si rimproverò. Si sforzò quindi di pensare ad altro, facendo un riepilogo della giornata. Aveva capito che Angel non era un pericolo per la sua relazione con Nathan, anzi, sembrava piuttosto contenta di saperli insieme. La donna la adorava, la adorava davvero. Le aveva pure fatto un regalo. Inoltre aveva chiarito alcune perplessità, tra cui la prima riguardava la regola degli Angeli che vietava di amare, la quale scoprì essere stata fatta per un semplice motivo: un Angelo deve essere di tutti, ma nessuno deve avere un Angelo.

Angel l’aveva classificata come “semplice e ovvia spiegazione”, ma Ann non riusciva a capire che cosa ci fosse di così semplice e ovvio.

I suoi dubbi non avevano ancora avuto risposta insomma; non aveva scoperto chi erano Jen e Marcus, per quale motivo a Nathan non fosse permesso tornare a Hidel, che cosa accidenti volesse questa fantomatica Jen dal suo Angelo. Che cosa erano gli Angeli.

Quella giornata era stata ricca di sorprese e di novità, eppure le aveva anche messo addosso tanti dubbi, tante paure.

Saliva pesantemente i gradini, sentendosi sprofondare ad ogni passo. Quando arrivò al terzo piano, dove abitavano Nathan, Damon e Sogno, le fu quasi difficile suonare il campanello. Rimase a guardare il vecchio 12 inciso nella porta con poca professionalità, quando la porta si spalancò. Nathan era sottosopra più del solito.

-Ann!- le mise le mani sulle spalle –Stavo venendo a cercarti! Tutto bene?-

Lei annuì con fare poco convinto, quindi gli si avvicinò per abbracciarlo.

-Hey, che succede?- le sussurrò lui in modo comprensivo, stringendola con gentilezza per poi farla entrare in casa –Angel ha fatto qualcosa?-

La ragazza scosse il capo –Angel è stata dolcissima. E’ solo che… beh… - non sapeva esattamente come spiegargli la malinconia che l’aveva presa all’improvviso –ho letto “Romeo and Juliet”, ecco tutto…-

-Ah- era molto comprensibile l’espressione indecisa che lui le lanciò –non pensavo che potesse avere questo effetto devastante quel libricino…-

Ann scosse il capo, assicurandogli di nuovo che stava bene. In realtà aveva una gran paura. Lo prese per mano come per cercarne il conforto, che ricevette immediatamente, eppure non bastò. Lo abbracciò, ma non sembrava essere ancora abbastanza. E lui intanto si preoccupava, le chiedeva se aveva bisogno di qualcosa, e l’unica cosa che lei era in grado di rispondere era che aveva semplicemente bisogno di tenerlo stretto. Ma Nathan non capiva, ne era sicura. L’aveva detto Sogno, l’aveva confermato lui stesso.

Lui non era capace di provare sentimenti. Gli era vietato amare. Non si sentiva umano.

-Posso farti una domanda?- gli chiese a un certo punto, di nuovo insicura, restando accoccolata tra le sue braccia –Una domanda molto personale…- lui annuì, a quel punto lei trattenne il fiato –non voglio sapere che cosa siete voi, da dove venite o perché vi è vietato fare certe cose. Dimmi solo una cosa… tu mi ami davvero, Nathan?-

E fu silenzio.

L’espressione di lui la spaventò seriamente. Non ricordava infatti di averlo mai visto così stupito. L’aveva preso in contropiede, mettendolo al muro come lui mai aveva fatto con lei. Chi poteva mai immaginare che quattro semplici parole potessero fargli fare quell’espressione spaurita, come se gli avessero appena chiesto se aveva rinnegato tutto quello in cui credeva, dato alle spine tutto ciò per cui si era impegnato, le promesse fatte, gli impegni presi, le sfide vinte e perse.

Ann osservò i suoi occhi celesti farsi pieni di indecisione, tuttavia non riusciva ancora a leggerli chiaramente, era impossibile capire cosa accidenti stesse pensando lui. Si limitò dunque ad osservarlo sentendosi tutta un brivido, sperando che lui le salvasse la vita anche quella volta, metaforicamente parlando.

“Fai innumerevoli viaggi in mezzo alla foresta del popolo del suono, lotti contro lupi più grandi di un essere umano, attraversi le Nameless per andare a studiare dei massi antichi, tieni dei segreti che sembrano essere in grado di distruggere il mondo… e basta così poco per farti tentennare?”

-Io…- cominciò, prendendo finalmente parola, guardandola intensamente. Il suo sguardo, forse per la prima volta, era umano. O forse era il buio che li circondava a creare un’atmosfera troppo romantica, troppo da “Romeo and Juliet” –sediamoci…-

La invitò ad accomodarsi sul divano tenendole ancora le mani, seguendola poco dopo. Ann si aspettava una bomba da un momento all’altro –Ann… a noi Angeli è vietato amare-

-Lo so- confermò lei inclinando il capo, incoraggiandolo a guardare non alla legge, ma a se stesso –ma non mi interessa delle vostre leggi. Voglio sapere che cosa pensi tu, Nathan-

Egli parve ancora cercare le parole adatte, inciampando un po’ durante il discorso –Io penso che tu sia la persona che mi sta di più a cuore. Per te rischierei la vita, anzi, l’ho già fatto. Ed è una cosa che ho fatto solo per Auror; sono molto egoista, lo sai…-

Ann annuiva, ma non sapeva di questo episodio in cui aveva rischiato la vita per sua sorella. Intuiva che i due doveva esserci stato un legame fortissimo quando Auror era ancora viva, ma non capiva cosa c’entrasse con tutto quello.

-Ti ringrazio e ti ho già detto per cosa. Io credo che tu possa farmi provare sentimenti che mi sono stati negati poco prima della morte di Auror-

Lei alzò un sopracciglio, annuendo. Voleva forse farle capire che non si nasce Angeli, ma ci si diventa? Quel piccolo indizio andava ad aggregarsi al grande puzzle che era quella vicenda.

-Ma…- ecco, c’era sempre un ma –non mi sento ancora in grado di pronunciare quelle parole. Prima di dirlo voglio esserne sicuro-

Ann annuì e si sforzò di sorridere, anche se le faceva male. Lui lo capiva, per cui fece per stringerla in un abbraccio, ma lei si strattonò velocemente –Scusami, scusami davvero; non dovevo farti questa domanda-

-Avevi tutto il diritto di farmela, è normale che tu voglia sapere- le rispose con un’espressione malinconica, avvicinando un dito alla sua guancia, carezzandola con delicatezza –Ann, mi dispiace. Non voglio che tu pensi di aver fatto un viaggio a vuoto venendo qui…-

-Non sarebbe stato comunque un viaggio a vuoto- lo interruppe –sto imparando un sacco di cose. E’ giusto che io maturi. Non posso pretendere da te tutto e subito, l’ho capito leggendo “Romeo and Juliet”. Ci sono cose che potrebbero creare danni gravissimi se fatte con fretta-

-Con impeto- la corresse lui –era l’impeto dell’amore a spingere Romeo all’estremo atto di coraggio-

-Tu l’hai già fatto- annuì lei –e solo devi ringraziare solo Sogno se sei qui. Non voglio che tu finisca come Romeo. Non devi rispondere subito alla mia domanda, posso aspettare- poi abbassò lo sguardo, scura in volto –potrebbero farti del male se sapessero che…-

Lei si interruppe, e lui la guardò. Non riusciva a capire come Ann potesse provare emozioni così forti. Lui era stato allenato all’apatia e solo nei momenti di grave pericolo sentiva il peso delle emozioni gravargli sulle spalle. Ricominciò a carezzarle la guancia, sorridendole in modo comprensivo –Capisco che tu tema per me, non ce n’è bisogno, Ann. Troverò un modo. Deve esserci un modo. Dammi solo il tempo di capire con sicurezza, poi ti darò la mia risposta. Non preoccuparti di nessun’altro- le assicurò.

Marcus ci era riuscito davvero. Se nel periodo in cui era stato ad Hidel il suo carattere era diventato più irruento e meno logico, quell’anno e mezzo di lontananza era riuscito a farlo tornare il razionale e calcolatore Angelo che era stato prima che la valanga di emozioni di Ann lo contagiasse. In fondo però era meglio così.

Ann aveva ragione: dovevano agire con raziocinio e soprattutto prudenza. Lo aveva capito anche lei, nonostante il suo carattere spesso imprudente. Il minimo errore avrebbe potuto esser loro fatale, ma la piccola non lo doveva sapere, ci avrebbe pensato a farsi carico di questi problemi. Questo era ciò che pensava Nathan.

E forse il suo principale errore era appunto quello di voler fare tutto da solo.

-Come vuoi…- mormorò Ann, mettendosi in piedi con espressione ancora malinconica.

-Vai a letto?-

-Sì, ma stasera vorrei dormire da Sogno… è possibile?-

L’uomo annuì, ma la cosa non gli piaceva per niente. Immaginò che la ragazza fosse arrabbiata con lui, o forse aveva semplicemente bisogno di pensare, di stare da sola, di passare un po’ di tempo con un’amica, come faceva ad Hidel.

Anche lui si mise in piedi, deciso a fare anche quello pur di vederla un po’ sollevata –Ma certo- le disse –prendi i vestiti, vado ad avvertire i ragazzi-

Lei annuì, per poi guardarlo allontanare –Nathan- lo chiamò un’ultima volta, muovendo un passo in avanti. Lui la osservò, invitandola a parlare. La ragazza si dovette fare molta forza, ma… -… nulla, nulla, scusa-

Nathan rimase qualche secondo in silenzio, poi uscì dall’appartamento, lasciandola da sola in quella città spaventosa.

Ann sospirò stringendo il pacchetto che fino a quel momento aveva tenuto in grembo.

Non era riuscita a dargli il suo regalo né a fargli la domanda fatidica.

“Sei la prima che mi fa sentire umano.”

“Che cosa sei veramente, Nathan?”

 

 

Note dell’Autrice:

Come sempre, gli aggiornamenti di questa storia arrivano tardi, in tutti in sensi! Mi spiace di farvi aspettare così tanto, questo capitolo mi ha impegnata più del previsto, e poi, tra la scuola – quest’anno esami di maturità, figuratevi – e il mio forum – ultimamente uso Ann e Nathan più sul GdR che nella FF .-. -, il tempo che avanza è sempre poco.

Sono felice di annunciare che finalmente non mi devo limitare a fare due righe di risposta per ognuno di voi nelle note dell’autrice, grazie alla bellissima funzionalità di EFP infatti potrò rispondervi immediatamente *-* basta tenere d’occhio la pagina delle recensioni!

Colgo comunque l’occasione per ringraziare tutti i lettori, i recensori, e per invitare quella trentina di persone che seguono la fic a commentare, eh è_é ho bisogno di tanti pareri! *E fu così che Sely venne sommersa di critiche “costruttive”*

Piccola incidentale: ho disegnato Nathan versione allenatore di pokémon xDxD appena riesco a fare una scan vi posto il link xD è troppo coccoloso con la sfera poké!

Infine, una cosa personale. C’è una FF su questo sito che mi ha letteralmente fatta sognare, purtroppo rimasta incompiuta. Bellissima, davvero bellissima, non ho altri aggettivi. Mi sono lanciata una sfida: quella FF con 19 capitoli ha 62 recensioni, voglio vedere se Snow con 19 capitoli la raggiunge. E’ una cosa sciocca, lo so, è una sorta di stupida vendetta personale nei confronti di quell’autrice a cui ho rotto le scatole via mail ma che non continua più la storia U_U anche se già so che non sarò mai ai suoi livelli come scrittrice xD

Bene, anticipazione del prossimo capitolo. Come da contratto, ogni 9 capitoli, il 10 spetta totalmente a Nathan. Il nostro protagonista maschile mi ha già preannunciato di aver in mente qualcosa di molto grosso per il capitolo 20, mi ha pure detto il titolo, strano, davvero strano: “Persona significa maschera” .-. il che è tutto dire. Nate, ti prego, non farmi un bis del capitolo 10 alias la-tragedia-greca.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Chu,

Sely.

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Capitolo 20
*** Persona significa maschera ***


What colour is the snow

What colour is the snow?

Capitolo 20: Persona significa maschera.

Buio assoluto e silenzio tombale.

Se l’Inferno esisteva veramente, allora doveva essere in quel modo. Una stanza enorme, le cui dimensioni non avrebbe saputo definire con certezza, completamente soggiogata dalle tenebre, senza che neanche un solo raggio luminoso riuscisse a penetrarle e donare quel minimo di coraggio necessario a stringere i denti e non arrendersi davanti al timore non delle tenebre, ma di cosa si annidava in esse.

E all’improvviso una luce.

Tutto prese forma: la sala, il palco, l’uomo che si ergeva con coraggio innanzi al suo pubblico. Un vecchio che dimostrava molti anni di più di quanti probabilmente ne possedeva. Un riflettore lo illuminava da capo a piedi, mostrandone le umili vesti, i capelli imbiancati e la barba incolta, gli occhi socchiusi, contornati di occhiaie scure e rughe, eppure vivi, attenti, splendenti di una speranza che neanche l’avanzata età era riuscita a far decadere.

Teneva i piedi ben puntati a terra, come se le scarpe consumate dal tempo gli si fossero ancorate al pavimento in legno; la fronte alta, lo sguardo intenso.

Alzò una mano e il silenzio che fino ad allora era stato quasi sacro sembrò improvvisamente non appartenere più alla sfera dell’esistenza. Con un semplice e regolare gesto, la Persona era stata capace di imporre se stessa su ogni altra cosa presente.

-Tutti sappiamo cos’è la bellezza- parlò con voce profonda, sicura. Un uomo che sa farsi ascoltare è un uomo che deve essere ascoltato –ma cosa significa “godere della bellezza”? Qualcuno in questa sala è capace di darmi una risposta?-

Probabilmente nessuno, e anche se qualcuno l’avesse saputo non avrebbe potuto esprimerlo perché, molto semplicemente, non esisteva. C’era solo Persona, lei e la sua domanda a cui solo lei avrebbe potuto e dovuto dar risposta.

Mosse un passo lento verso la propria destra, tracciando una linea curva sul palco, mentre l’intensa eppure gelida luce lo seguiva fedelmente, come un cane col padrone. Una mano dietro la schiena, l’altra all’altezza del petto, aperta.

La pelle era screpolata all’inverosimile a causa della fredda aria che avvolgeva il luogo, entrando dentro, fino in profondità, conferendo a quella domanda ancora irrisolta una pesantezza glaciale. Ormai l’attesa era diventata insopportabile.

-Godere della bellezza secondo molti è osservare un fiore, un colore. Per altri è lasciarsi avvolgere e trasportare da una melodiosa sinfonia. Per altri ancora è soffermarsi ad osservare con meticolosità i dolci e amati tratti della persona con cui condividiamo la vita. Ma è giusto fermarsi a questo?- un’altra domanda.

Egli giocava su quel susseguirsi istantaneo e potente di domande e risposte; non concedeva agli esseri di cui era oggetto di studio, più di quel dovuto attimo di appagamento nello scoprire la risposta all’ultima domanda.

–Godere della bellezza è anche soffrire. Osservando un colore o i giovani tratti della donna che amiamo, il nostro animo matura la consapevolezza che siamo mortali. Godere della bellezza non significa solamente ammirarne i colori e le forme, ma avvertire il profondo dolore della consapevolezza che un giorno le nostre membra decadranno, gli occhi perderanno vivacità, il cuore batterà con fatica, in una lenta e inesorabile discesa verso l’abisso-

Ancora nessun suono, nemmeno un sospiro.

Persona tornò sui suoi passi, facendo così finire sotto la luce del riflettore una sedia apparsa dal nulla, o meglio, apparsa dalle tenebre. Vi si sedette con fare stanco, tirando un sospiro dopo aver poggiato i gomiti sulle ginocchia. Con la schiena così piegata sembrava anche più vecchio di prima.

Movimenti lenti, i suoi, curati e ragionati. Ogni suo battere di ciglia era colto con attenzione, ogni volta che apriva la bocca per parlare, richiudendola subito dopo, il mondo sembrava dapprima trattenere il fiato per poi afflosciarsi con cocente delusione.

-Molte persone colgono questo ragionamento; esse si dividono in due grandi gruppi: i vinti e i non  vinti- riprese il discorso, stavolta con toni più sentenziosi ed estremisti –analizziamo i secondi, decisamente meno interessanti: essi comprendono quanto detto sopra e, consci della propria caducità, tentano di godere quanto più possibile della bellezza. Questi uomini hanno preso molti nomi nel corso del tempo: artisti, poeti, intellettuali, filosofi; tutti accomunati dall’amore e l’interesse verso l’interiorità dell’uomo e della natura.

Facciamo un salto all’indietro e torniamo ai primi. Essi non accettano di perdere quel poco di tempo che ci è stato messo a disposizione nella ricerca di un qualcosa che non è possibile conoscere. Preferiscono accontentarsi della bellezza intesa puramente in senso estetico. Ma fino a che punto una bellezza esteriore rispecchia una bellezza interiore, che è invece propria degli appartenenti alla seconda categoria?-

Un ragionamento lineare, preciso, che rispondeva a modo suo a molti perché, ma ciò non sembrava bastare. Una pesante atmosfera aleggiava, e ciò provocò una risata divertita in Persona, che riprese a parlare.

Il tono stavolta era alto, solenne, quella era la conclusione.

–L’uomo è nato come bestia, e la bellezza è affascinante anche per la sua capacità di farlo tornare tale. Il bello, a volte, coincide col malvagio-

 

E tutto finì così com’era iniziato: nel silenzio.

Le luci si alzarono illuminando tutto il teatro, il cui principale colore era l’oro. Le sedie vecchie, sporche, con la tappezzeria addirittura strappata in certi punti; i muri invasi dall’umidità e dalle crepe. Insomma, sembrava che tutto il plesso si tenesse in piedi per miracolo.

Persona era rimasto sul palco, in attesa di un applauso. Fece un inchino a mezzobusto mentre il silenzio veniva spezzato, stroncato, violentato dal battere di un unico paio di mani, quelle del solo spettatore in quel teatro di fantasmi.

Gli occhi di Persona si poggiarono su quelli celesti del biondino che era stato il suo spettatore, cogliendone immediatamente l’eterocromia nonostante questa fosse pressoché invisibile.

Il battere ritmico delle mani, l’espressione concentrata di chi ha seguito tutto il ragionamento, ma non solo: la leggera inclinazione delle sopracciglia, la mascella serrata, i gomiti poco lontani dal busto, tutto in quel giovane lasciava indovinare il suo stato d’animo: una cocente frustrazione.

Mentre Persona si incamminava per uscire dalla scena, Nathan si alzò.

Colse con mano pesante il proprio cappotto, indossandolo con movimenti meccanici. Faceva freddo lì dentro, o forse era solo una sua impressione?

D’un tratto si bloccò, e lì rimase, statico come il pendolo di un orologio scarico.

Il suo animo era mosso da una serie di emozioni contrastanti, un vero turbine di sentimenti, che doveva riuscire però a tenere a bada. Strinse i pugni, imponendosi di sopprimere l’ira.

Mentre usciva da quel luogo diventato ormai opprimente, venne investito dall’aria gelida di Terren, che però non aveva niente a che vedere con quella di Hidel. L’atmosfera era fredda, proprio come lui in quel momento.

Si dice che la rabbia faccia ribollire il sangue nelle vene, ma per lui non era mai stato così. Quando si adirava, lui non sentiva mai caldo. Piuttosto avvertiva un incredibile freddo; era come se il sangue gli si raffreddasse all’improvviso, obbligandolo ad una razionale e glaciale riflessione su ogni minima cosa, persino su questioni assolutamente inutili.

Per questo era pericoloso quando era arrabbiato: niente gli sfuggiva. Un’ottima macchina da guerra, a detta di Marcus.

E le parole di Persona erano state talmente azzeccate che lo avevano colpito nel profondo della sua mente già scossa per la propria dimostrazione di debolezza appena avuta con Annlisette. Già, quella serata era cominciata male, e stava andando sempre peggio.

 

Nonostante abitasse a Terren da diversi anni, Nathan non aveva mai colto certe sfumature di quella città. Ma ora, con la mente congelata, che come al solito gli imponeva una fredda compostezza davanti alle situazioni complicate, riusciva a cogliere nuove immagini, nuovi volti, e capiva che forse lui, in realtà, di Terren ne sapeva davvero poco.

Aveva sempre pensato che la notte avesse un che di spaventoso in una città grande come quella, con tutti suoi vicoli bui e stretti che non erano mai cambiati, sin dai tempi dei cavalieri; pensava anche che molte brutte facce si aggirassero rendendola poco piacevole, pericolosa: malavita, gang, maniaci e prostitute; insomma, Nathan aveva sempre creduto che fosse decisamente meglio evitare di uscire di notte.

C’erano tuttavia molte cose a cui non era mai riuscito a dare risposta, e una di queste era quell’incomprensibile senso di appartenenza a quella seconda faccia di Terren.

Era possibile che un Angelo si trovasse a suo agio proprio lì, in mezzo all’oscurità di una città che di notte diventa cattiva?

Camminava guardando in avanti, senza però perdere nessun particolare di ciò che lo circondava. La pioggia gli batteva addosso ancora più fredda dell’aria, ma era una bella sensazione. La sentiva infiltrarsi attraverso il colletto del cappotto, qualche goccia riusciva addirittura a raggiungergli le spalle. Alzò il capo lasciando i bui vicoli per osservare il cielo. Le nubi erano davvero tante, nere, con qualche venatura rosse; sembravano veramente fatte di cotone. Il cielo totalmente coperto, ad eccezione di un piccolissimo spazio che si era ritagliata una grande, rotonda luna splendente di rosso, talmente luminosa da poterne distinguerne i vari crateri anche a quella distanza.

Di tanto in tanto quel magnifico scenario veniva reso ancora più potente dal calare impetuoso dei fulmini, che si aggrovigliavano tra di loro come serpenti. L’unione durava meno di un secondo, eppure erano ben visibili. Sembrava che giocassero; no, sembrava che si azzannassero violentemente.

Sul volto di Nathan apparve un sorriso mentre faceva quei pensieri.

–C’è un qualche timore reverenziale in tutto questo… o forse è solo desiderio di onnipotenza- disse a voce ben alta, consapevole che nessuno lo avrebbe udito. Era solo lì, mentre il cielo veniva squartato.

Un nuovo fulmine si abbatté poco lontano, facendo tremare la terra, e a questo punto il giovane rise tra sé e sé, spostando delicatamente con una mano una ciocca di capelli che gli era ricaduta in viso –oh sì, è decisamente voglia di onnipotenza-

Riprese a camminare per i vicoli a grandi falcate, sembrava quasi giocare a fare il passo più lungo della gamba senza cadere. E ci stava riuscendo. Osservava con intensità ogni cerchio d’acqua che i suoi passi creavano, riflettendo intanto su quanto il suo atteggiamento potesse risultare contraddittorio.

-C’è una diatriba- sentenziò senza che quel sorriso assorto gli abbandonasse il volto.

Rifletteva su quanto il suo modo di fare cambiasse quando si trovava in compagnia di Annlisette. All’interno degli Angeli era conosciuto, sì, per la sua grande sagacia, ma soprattutto per quella vena tipica dello scienziato pazzo che a volte lo portava a fare discussioni connesse tra di loro solo ai suoi occhi, o a chiudersi in un silenzio tombale per ore intere, prima di scoppiare a ridere senza un motivo. C’era persino che giurava di averlo visto giocare a scacchi da solo.

Eppure, questi atteggiamenti erano tanto strani quanto rari. Ognuno ha i suoi scheletri nell’armadio, che tende a nascondere mostrando una faccia allegra e posata davanti agli altri. Fin qui non c’era niente di strano, questo si diceva Nathan –Il mondo è folle, gira a testa in giù, e ognuno lo dimostra a modo suo-

Saltò una pozzanghera evitando così di bagnarsi ancora di più.

-Ma allora perché…?- perché quella sua facciata “folle, a testa in giù”, veniva soppressa dalla piccola Ann? Forse per la sua innocente sensibilità, priva della contaminazione della realtà nuda e cruda? Non riusciva a capirlo. Sapeva solo che con lei il suo lato umano riviveva, e questo non aveva bene agli occhi di molte persone.

Si fermò mettendo una mano in tasca, osservando la città intorno a sé. Si trovava ad un incrocio vuoto, nessuna carrozza in vista, nessuna persona a ore tre o due. Le fredde gocce d’acqua continuavano a battere incessantemente contro il lastricato e i mattoni delle case. Essendo notte fonda, tutte le finestre e le porte erano barricate, a parte una, ben illuminata dall’interno.

Si soffermò sull’insegna illuminata appena, leggendovi a fatica “Mastro birraio – taverna”. In effetti un caffè ci sarebbe stato bene, perlomeno gli avrebbe calmato un po’ i nervi.

-Dubito che farebbero entrare uno ridotto così- ridacchiò, realizzando che doveva avere proprio una brutta cera.

Era riuscito a calmarsi da poco, quando aveva finalmente buttato fuori tutti – o quasi - i suoi pensieri e li aveva espressi ed affrontati, eppure non sentiva di essere ancora giunto alla soluzione finale, quella che avrebbe risolto tutto e gli avrebbe finalmente permesso di capire cosa era giusto fare. Erano quelli i momenti in cui avrebbe dato qualsiasi cosa per un caffè.

Era quasi deciso ad entrare quando un’illuminazione giunse dal cielo sotto le spoglie di una prostituta.

La donna bardata di verde stava infatti uscendo in quel momento dalla taverna assieme a un uomo decisamente poco felice. Nathan aprì bene le orecchie, rimproverandosi quella curiosità.

-Juliet, ti prego!- urlava l’uomo, un ragazzetto dalle origini evidentemente umili. Muoveva le braccia coperte solo da un vecchio e logoro pastrano, affondando fino alle caviglie nelle pozzanghere.

-Taci, non voglio più saperne niente di te!- urlò quella con voce troppo profonda per essere quella di una donna.  Al contrario dell’uomo, ella vestiva una pelliccia sfarzosa volutamente aperta sul davanti, in modo da mettere in risalto le forme dell’abbondante seno. Il viso, truccato egregiamente, il portamento fiero, tutto in lei era molto sensuale. Beh, a parte la voce.

-Ma io ti amo, Juliet! Non posso vivere sapendo che lavoro fai!-

“Eh” sospirò Nathan “non vedo quale altro lavoro potrebbe fare…”

-Non me ne importa! Avevi detto che andava bene! E’ il mio lavoro, decido io, non tu!- urlò in risposta la giovane.

-Ma…-

-Niente ma! Se mi amassi veramente capiresti che è questo…-

Un fulmine colpì terra, impedendo a Nathan di sentire il resto della frase. Nella sua mente continuava a pensare che non potesse esserci lavoro migliore per una donna con un simile caratterino. Sarebbe stata una tragedia averla in casa.

Quei due avevano del tutto perso ogni interesse agli occhi dell’Angelo, che voltò le spalle facendo per andarsene, quando la voce dell’uomo gli giunse un’ultima, decisiva volta.

-Per te combatterei contro il Signore!-

Il biondo si fermò in mezzo alla strada, con un’espressione stupita sul volto. Dietro di lui la lite continuò a lungo, fin quando il povero uomo non venne malamente cacciato.

Juliet mise i polsi impreziositi da bracciali sui fianchi, tirando un lungo sospiro –Che giornataccia…-

Si lamentò a lungo, fin quando i suoi occhi castani non si posarono sulla figura avvolta dalle tenebre che stava più in là.

Inizialmente ne fu intimorita, avendola ricondotta a quel killer che da un po’ di tempo a quella parte si divertiva a far a fette la gente. Poi però la luce le permise di scorgerne i lineamenti maschili, i capelli spettinati biondo scuro. Era un essere umano, sì. Era un maschio, ovvero un possibile cliente.

Fu così che si avvicinò a Nathan dopo aver aperto l’ombrello. Avanzava nella notte con passi misurati e curati, ancheggiando in modo sensuale. Quando gli fu praticamente accanto, poté finalmente notare che si trattava di un tipo piuttosto affascinante. Ridacchiò “Forse questo bel bambino può rendere redditizia questa serataccia”.

-Ti bagnerai tutto, se continui così- sibilò condividendo il proprio ombrello, e finalmente poté vedere il suo viso per bene –la tua mogliettina potrebbe rimanerci male se torni a casa malato-

Nathan le lanciò un’occhiata inizialmente assente, come se fosse rimasto assorto nei suoi pensieri fino a quel momento. Ma fu questione di un attimo, infatti quello dopo stava già ridendo allegramente.

-Lo trovi buffo?- Juliet, presa in contropiede, alzò un sopracciglio.

La risata di lui si smorzò poco a poco, ma sul suo viso rimase uno splendido sorriso. Lo stesso di chi trova all’improvviso qualcosa che cerca da molto tempo.

-Assolutamente sì; ho penato come un pazzo, e la risposta era proprio la più ovvia! Grazie, Juliet! Ora ho capito-

-Oh, prego, amore. Ma non sta bene origliare, sai?- fece finta di rimproverarlo. Era il suo metodo per attaccare bottone, ma sapeva che stavolta sarebbe stata dura. Quell’uomo non sembrava una preda facile –Comunque… e qual è la risposta, mio caro?-

-O meglio, qual è la domanda- la corresse lui. Sembrava su un altro pianeta, questo si diceva la donna mentre lo ascoltava dire con fare entusiasta e concentrato –cosa si deve fare per rendere possibile l’amore tra un essere umano e un Angelo?-

Lei non rispose, lasciando che fosse lui a riprendere la parola. Eppure Nathan volle attendere, forse creare una sorta di suspense, nell’illusione che Juliet fosse realmente interessata. Ma anche lui lo sapeva che se quella donna era lì, in mezzo alla buia notte e al freddo gelido, a condividere il suo ombrello con lui contro la pioggia scrosciante, era solo per un motivo.

Sul suo pallido volto apparve un sorriso appena accennato, una di quelle smorfie degne delle migliori Personae.

E in quel momento un rumore li spazzò via il silenzio.

 

Ann guardava tristemente il paesaggio fuori dalla finestra. La stanzetta di Sogno era molto piccola e rosa, disordinatissima e calda. Buia com’era in quel momento, ogni pupazzo di pezza assumeva contorni abbastanza paurosi, per non parlare delle bambole di porcellana, che avevano terrorizzato la giovane contadina a prima vista.

Stesa sul letto, così immobile come una morta, la piccola Sogno pareva davvero una delle sue adorate compagne di giochi. Faceva un po’ impressione, con quella pelle così pallida e le ciglia lunghe, i capelli che ricadevano in tanti morbidi boccoli sulle lenzuola; ma la cosa più inquietante era che non pareva respirare, tanto che Ann diverse volte si era avvicinata per controllare che fosse ancora viva. Così aveva scoperto che la sua dolce amica aveva un respiro lievissimo: sollevava appena il petto quando respirava. Era davvero incantevole.

Ann avrebbe volentieri ceduto alla tentazione di addormentarsi lasciandosi cullare dalla sua principesca immagine, ma la grande preoccupazione che le attanagliava lo stomaco glielo aveva impedito.

Era infatti consapevole del fatto che Nathan fosse uscito da un pezzo e non avesse ancora fatto ritorno. Cosa era andato a fare in una notte tempestosa come quella? Aveva udito la porta dell’appartamento accanto aprirsi e chiudersi con un botto rabbioso, così aveva subito realizzato quanto dovesse essere nervoso.

Non l’aveva mai visto arrabbiato, né ci teneva. Riusciva solo a immaginare cosa era in grado di scatenare nei momenti d’ira un animo così portato alla pacatezza e alla riflessione.

Si sentiva molto in colpa, capiva che buona parte di quella rabbia era dovuta alla loro discussione, alle sue domande invadenti. Ma immaginava che Nathan fosse rimasto frustrato anche dalla propria indecisione, o almeno lo sperava; altrimenti le sarebbe toccato addossarsi tutta la colpa, ed era una cosa che il suo orgoglio le imponeva di rifiutare.

L’aveva guardato allontanarsi sotto la pioggia da solo, senza ombrello, come un’anima che non trova pace. Avrebbe voluto scendere, urlargli di non andarsene, aveva infatti paura che stesse per scomparire di nuovo, come aveva già fatto una volta, quando se n’era andato da Hidel, senza lasciare alcuna traccia del proprio passaggio.

Sembrava un fantasma, quell’uomo.

Ann aveva passato tutta la notte lì, alla finestra, poggiata contro il caldo muro. Di tanto in tanto il calore della grande e pesante coperta verde che le avvolgeva il corpo la induceva ad uno stato di incoscienza, ma si risvegliava poco dopo, rimproverandosi di quei minuti di mancata attenzione, per poi tendere l’orecchio ad ogni possibile suono. In cuor suo, sperava che Nathan fosse tornato già da un pezzo, rendendo vana quella sua attesa.

Di certo la ragazzina non immaginava che il giovane uomo stesse proprio in quel momento salendo le scale del palazzo. Completamente fradicio, al suo passaggio lasciava una scia d’acqua piovana. Il respiro concitato e il sorriso sulle labbra testimoniavano quanto fosse entusiasta.

Trascinava malamente qualcosa avvolto in una cappa marrone, anch’essa totalmente bagnata, come se fossero appena usciti da una vasca da bagno.

Saliti finalmente al piano abitato dai Metherlance e dai Darkmoon, Nathan infilò le chiavi nella toppa con un movimento infelice, spezzato di tanto in tanto da qualche parola rivolta alla cosa che si stava portando dietro.

Entrato dentro, dopo esser stato finalmente invaso dal calore ristoratore della casa, gettò per terra il mazzo e subito dopo anche la cappa, la quale rivelò finalmente il suo contenuto, che lo fissava con uno sguardo in cui collidevano ansia e feroce rabbia animale.

-Osi guardarmi così, animale?- rise a bassa voce l’Angelo, richiudendosi alle spalle il paletto della porta.

Anche se, a dirla tutta, in quel momento il vero animale era lui. E ne era consapevole.

-Non darti tante manie di superiorità, Angelo!- berciò rabbiosamente l’altro, quasi sputando su quell’ultima parola. Nel parlare aveva usato una lingua che non era l’inglese, piuttosto sembrava un dialetto nordico, di quelli tipici delle zone di Hidel.

Tentò di mettersi in piedi, ma ben presto il suo tentativo fallì a causa di una ferita piuttosto profonda alla coscia sinistra, che lo costrinse a terra, piegato dal dolore.

-Fa male, vero?- continuò Nathan con un sorriso crudele, rispondendo alle parole del suo avversario nella sua stessa lingua. Le parole di entrambi, ora, sembravano molto più leggere e sfuggenti di prima –E non hai neanche assaggiato l’antipasto-

-Che cosa vuoi da me?-

Gli occhi furenti della seconda persona parvero sul punto di prendere fuoco, tanto erano rossi di rabbia. Sicuramente non avrebbe avuto problemi a far a pezzi Nathan se fosse stato in buone condizioni fisiche, ma con una gamba grondante di sangue e una pallottola probabilmente piantata nel femore l’impresa sembrava ardua persino per un omone di due metri.

-Esattamente quello che tu volevi da me- rispose candidamente il biondo, avvicinandosi poi a quella che era diventata la sua preda –solo qualche risposta. Oh, ma non rispondere subito, perché, vedi, in questo momento ho proprio bisogno di torturare qualcuno-

 

Damon bussò alla porta d’ingresso diverse volte prima che il padrone di casa si degnasse di aprirla. Fu così che si ritrovò a imprecare mentalmente davanti ad un Nathan totalmente lindo e tranquillo, con tanto di tazza di caffè in mano e giacca addosso.

-Noi ci preoccupiamo tutta la notte… e tu ti fai il caffè. Fico, devo provarci anch’io- commentò sarcasticamente, entrando poi nella casa appena illuminata dalle imposte quasi del tutto chiuse. Mise le mani sui fianchi –Dovevi vedere Ann; ha passato tutta la notte alla finestra aspettando il tuo ritorno. Ci ha detto che sei uscito senza neanche un ombrello-

-E’ vero- confermò Nathan con una serenità invidiabile. Superò in cugino raggiungendo la cucina fredda sia nei colori che nella temperatura; posò lentamente la tazza sul tavolo, per poi sedersi con il placido sguardo ancora focalizzato sul cugino Darkmoon, che sembrava volerlo fare a pezzettini.

-Non essere così vitale, Nate-

-Cielo, Damon, sono le sette del mattino! Come vuoi che mi comporti?- borbottò esasperato, stiracchiandosi.

-Che siano le sette del mattino o le due di notte, mio caro e inesperto cuginetto, la preoccupazione di una donna è una cosa da prendere al volo!- lo ribeccò Damon avvicinandosi al tavolo e sedendosi poi come se si trovasse a casa sua, sistemando accuratamente i piedi sul banco –Insomma, devi coltivarti queste cose o resterai scapolo a vita, sai?-

-E tu resterai mutilato a vita se non togli quei piedi dal mio tavolo entro tre secondi. Due secondi, un sec…-

-Va bene, va bene!- proruppe Damon mettendosi composto sulla sedia. Fulminò Nathan con lo sguardo, ricevendo in cambio un altro totalmente disinteressato –Già di buon umore, vedo-

L’altro emise un sorta di “mhh-mh” che avrebbe dovuto essere un’affermazione, sorseggiando intanto il proprio caffè. Poggiò il gomito sul tavolo.

Anche se a giudicare dalle sue solite frasi poco cortesi poteva non sembrare, era davvero allegro quella mattina, e lo si poteva notare da due principali particolari: primo, si era fatto la doccia, ed era una cosa che faceva la mattina solo se era particolarmente di buon umore; secondo, non se ne era ancora uscito col suo solito sorriso beffardo.

-Allora?- lo spronò Damon, ma ricevette in cambio solamente un’espressione incuriosita –Che ti è successo di bello?-

-Hm!- finalmente Nathan staccò le labbra dal bordo della tazzina, lanciando un’occhiata entusiasta al cugino. Inghiottì e si mise a parlare –Me ne stavo dimenticando; guarda nel magazzino-

Damon non se lo fece ripetere due volte. Balzò in piedi con fare scattante, saltando il gradino che elevava la cucina al di sopra del salone, attraversando poi la stanza a grandi falcate, curioso di scoprire il motivo di tutta quella vitalità di quell’uomo solitamente così freddo e scostante.

Nella sua mente si avvicendarono molte ipotesi; se non ci fosse stata Ann sì e no cinque metri quadri più in là, avrebbe pensato ad una bella donna – anche se non avrebbe mai capito secondo quale criterio logico alla poverella fosse toccato proprio il magazzino -, ma, conoscendo Nathan, sicuramente la cosa in questione doveva essere legata al lavoro.

Immaginò un meraviglioso connubio in cui apriva la porta ritrovandosi davanti Jen vestita da danzatrice del ventre.

No, era troppo bello per essere vero.

Tuttavia ci sperò fino all’ultimo momento, quando, sotto il vigile sguardo del cugino dagli occhi celesti, afferrò vigorosamente la maniglia ferrosa della vecchia e pesante porta, aprendola con uno scatto fulmineo.

Beh, in un certo senso era sicuro di trovarsi davanti a qualcosa legato al lavoro, ma di certo non si aspettava una cosa simile!

In un primo momento indugiò sull’ipotesi fin troppo vezzosa di chiudere la porta e tornare a sorridere e scherzare come se niente fosse, ma fu costretto ad arenare ben presto quell’idea, in quanto un paio di occhi castani decisamente poco amichevoli si puntarono su di lui come a volerlo trafiggere.

-Fantastico. Hai ritrovato la tua vena sadica e crudele. Marcus ne sarà felice- commentò immobile.

Sentì Nathan ridere di gusto, quella sua solita risata appena udibile, forse ben più inquietante di quella dei cattivi delle fiabe.

Eppure ebbe sincera pietà verso quel povero ragazzo all’apparenza poco più grande di loro, dai lunghi capelli color pece, legato da capo a piedi, neanche fosse un animale. Sicuramente aveva commesso qualche passo falso che gli era valso un biglietto d’ingresso gratis per lo studio delle torture – il magazzino – di Nathan.

Era madido di sudore, sporco di terra, il viso grondava sangue. Gli aveva strappato un occhio. Chissà che cosa ne aveva fatto.

-Nate, non ti senti un po’ una bestia, ogni tanto?- chiese, sperando di trovare quel minimo di umanità nel cugino.

La risposta di Nathan fu immediata, quasi calcolata –E’ raro che qualcuno non mi faccia sentire tale- sì, forse Ann era davvero l’unica a riuscirci. Tuttavia si impose di non pensarci; non gli andava di cominciare male la giornata -Se c’è una cosa che odio sono le spie. Fatti dire ciò che ha detto a me-

-Spie?-

-Spie- ribadì –a quanto pare i Demoni vogliono guerra-

 

 

 

Note dell’Autrice:

Oddio, l’ho finito? L’ho finito davvero? Non è uno scherzo? E’ finito? … Banzaaaaaai! *saltella*

Non potete capire quanto sono stata su questo maledetto capitolo @@ mi ha dato tanti di quei problemi che diverse volte mi sono chiesta se sarei mai riuscita a finirlo! E ora che lo vedo completo mi sento realizzata!

Bene, finalmente si passa al capitolo 21, i cui eventi dovevano essere narrati esattamente nel capitolo 11 °w° cosa sarà mai slittare di dieci capitoli?

Spero vivamente che questo capitolo 20 abbia dato risposte e nuovi interrogativi. Ho finalmente svelato una sfaccettatura del carattere di Nathan che da molto tempo attendeva di esser messa in luce. Aww, mi piace questo personaggio, peccato che mi dia tanti problemi!

Ringrazio infinitamente per le recensioni che mi hanno permesso di vincere quella scommessa con me stessa, vi adoro! <3

Grazie mille ai lettori, ai commentatori e anche a chi si limita a tenere tra i preferiti/seguiti questa storia <3

Al prossimo capitolo!

 

Chu,

Sely.

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Capitolo 21
*** La Bella e la Bestia ***


What colour is the snow

What colour is the snow?

Capitolo 21: La Bella e la Bestia.

 

«Ricapitoliamo…»

La voce di Damon si espanse nella casa, rompendo il silenzio che da incombeva già da qualche minuto e che era diventato pressoché comico. Anche se la situazione in sé aveva davvero ben poco di buffo.

La povera vittima di Nathan, la quale si era presentata col nome di Korlea, altresì Cielo, giaceva ancora sul pavimento, con un rivolo di sangue colante lungo il viso.

Damon, seduto davanti a lui a gambe incrociate, tentava in tutti i modi di rendere meno opprimente quella situazione diventata ormai insostenibile, allentando di tanto in tanto l’invisibile morsa di ghiaccio di Nathan su Korlea con battute perlopiù pessime.

«Tu non fai parte dei Demoni che vivono a Hidel, hai detto?»

Korlea scosse la testa, infastidito «Per noi non c’è differenza tra chi vive in città e chi tra le montagne. Siamo tutti accomunati dalla stessa lingua.»

«Però tu l’inglese lo sai bene.» constatò Damon, mettendo una mano sotto il mento.

«Forse perché vivo in città, in mezzo alla gente, genio?» la risposta fu quanto più acida possibile. Korlea si voltò verso Nathan, scoccandogli uno sguardo pulsante d’astio «Persino il tuo amico torturatore è più sveglio.»

Il secondo Angelo, che forse costituiva il vero elemento comico della scena, stava spaparanzato sul divano, tenendo tra le mani una tazza che sorseggiava di tanto in tanto. Rivolse uno sguardo solare a Korlea, rispondendo candidamente «Il nostro ospite ha forse bisogno di nuove, amorevoli cure da parte dello zio Nate?»

Il Demone, dopo aver tentato varie occhiate torve nella speranza di intimidirlo – senza grandi risultati -, tirò un sospiro rassegnato, tornando a guardarsi in giro. Tentava di imprimere il più possibile nella mente ogni particolare di quella disordinatissima e scura casa.

Tenevano le tende accuratamente serrate, ipotizzò che tra i tanti motivi di tale scelta vi fosse quello di non mostrare che stavano torturando qualcuno.

«Quindi non fai parte del branco che c’è a Hidel…» tornò a ragionare Damon.

«Ah, ora siamo addirittura branco? Proprio degli animali ai vostri occhi, signori Angeli?» sputò velenosamente il Demone.

«Animali?» sentì Nathan ridere, ma non ebbe bisogno di volarsi per immaginare il ghigno sarcastico che gli illuminava il volto «Sei ottimista, amico.»

Korlea, che così legato non poteva neanche muoversi, immaginò quanto sarebbe stato fortunato il Demone che avrebbe affondato i propri artigli nel collo di quella serpe angelica, strappandogli in un sol colpo tutta la spina dorsale. Pregò di essere lui quel Demone.

«Suvvia, smettila di provare tutte queste emozioni così forti! Mi fai venire il mal di testa!» gli intimò Nathan.

Un sorriso compiaciuto gli comparve sul volto mentre, con lentezza, cercava di farsi spazio tra la sua grande massa di capelli, per inchiodare con uno sguardo divertito l’Angelo seduto sul divano «Oh-ho! Basta davvero così poco per metterti fuori gioco, biondino?» rise malignamente «Brutta cosa l’empatia, eh?»

E stavolta Nathan non rispose, almeno non subito. Si mise in piedi – e questo già non era un buon segno -, ignorando Damon che lo pregava di non far caso a quelle frecciatine. Raggiunse Korlea a passi lenti e misurati, per poi afferrare il colletto della sua camicia scoccandogli uno sguardo che pareva nato da uno strano mix tra malizia e perfidia, insomma, decisamente non un bello spettacolo, inquietante persino agli occhi del Demone.

«Non credo ci sia niente di più bello del sentire il terrore che cresce in voi, animali, mentre mi avvicino.»

Ripiombò l’ennesimo silenzio terrificante, che durò diversi secondi. Il tempo parve fermarsi, tutti i personaggi della vicenda erano statici, come statue di marmo. Persino i rumori che provenivano dall’esterno parvero ovattarsi sotto il peso di quell’aria insopportabile.

Nathan teneva ancora il suo sinistro sorriso fisso su Korlea, che gli rivolgeva intanto occhiate di autentico odio, insensibile al fatto che ogni suo sentimento si ripercuotesse sull’Angelo. Anzi, forse era proprio quello che desiderava: provare talmente tante emozioni da farlo impazzire. Ma credeva di essere arrivato troppo tardi: quell’Angelo pareva già folle, e forse era stato proprio il suo Dono a renderlo così.

«Sento l’elettricità nell’aria…» provò a drammatizzare il povero Damon, ricevendo in cambio un cenno di assenso dal cugino, che si rimise in piedi, allontanandosi poi.

Il giovane Angelo tirò un sospiro di sollievo mentre Nathan li lasciava soli, sparendo nella camera da letto.

«Fa sempre così?» chiese allora Korlea, riportando lo sguardo sul suo interlocutore.

«Di recente aveva smesso…» sospirò l’altro, pensando che Ann aveva proprio un effetto benefico sul cugino Metherlance. Stare lontano da lei lo rendeva così… così Nathan Metherlance.

«Allora, torniamo a noi…» tentò di riprendere quel discorso per l’ennesima volta, mettendo una mano sotto la guancia, come per sorreggersi «quindi vi hanno detto di tenerci d’occhio? Hanno paura che rompiamo il patto?»

Korlea sogghignò «E come dar loro torto se avete certi elementi tra le vostre fila?»

Beh, non poteva non dargli ragione. Eppure, Damon non era il tipo che si faceva mettere sotto così facilmente, e, come al solito, trovò nell’ironia la sua arma «Hey, amico, non è da grandi eroi della giustizia neanche spiare, sai?»

Il prigioniero non rispose, ma gli scoccò un’occhiata fulminante.

Damon invece tirò un sospiro stanco «Non costringermi a calcare la mano. Se mi ci metto non sono da meno rispetto a Nate, sai?»

Era alquanto difficile crederlo, forse per via di quell’aspetto un po’ troppo curato e pulito, oppure per quel tono di voce così fanciullesco. Nathan, col suo aspetto trascurato e la voce melodica, ipnotica come quella di un serpente velenoso, sembrava essere molto più adatto al ruolo dello “scienziato pazzo torturatore”.

«Non si direbbe, sai?» lo provocò ancora, ridacchiando «Sembri piuttosto stupido a dirla tutta.»

“Ignoralo, ignoralo… sta solo provando a farti perdere la pazienza…” si disse il Darkmoon, inspirando profondamente per calmarsi «Non do torto al cugino per averti ridotto così, sei proprio irritante. Resta qui.»

Comandò così, e si mise in piedi per raggiungere Nathan nella stanza accanto.

Mentre si chiudeva la porta alle spalle, sentì Korlea urlargli addosso «E dove vuoi che vada?!»

 

«Hey, Nate!»

Fece il suo ingresso nell’unica stanza che pareva leggermente più in ordine rispetto al resto della casa, facendo correre lo sguardo sul paio di pantaloni correlati di camicia e giacca che Nathan aveva lasciato sul letto. Si stava cambiando velocemente, ma dove diavolo voleva andare a quell’ora?

«Vado da Marcus.» quello, neanche avesse sentito i suoi pensieri – o molto più probabilmente la sua curiosità -, rispose al volo «Dovrei trovarlo ancora, credo.»

Non era un bene, non lo era assolutamente. Ma come fargli capire che non era il caso che andasse dagli Angeli in quel momento? Damon ci pensò molto.

Nathan era empatico, e tutti i sentimenti altrui si ripercuotevano su di lui. Non era difficile capire il motivo per cui fino a quel momento era stato così acido: l’odio di Korlea l’aveva contagiato. Quello che non capiva era invece perché quel Demone fosse lì, come lo aveva catturato, dove lo aveva trovato.

«Hm… senti, cugino…» provò, ricevendo in risposta un’occhiata interrogativa «ma dove hai trovato, quel tipo?»

«Nel distretto ovest, mi ha seguito tutta la sera.» gli spiegò Nathan mentre infilava la camicia «Te l’ha detto che ci devono spiare, no? Io ero stato affidato a lui. Probabilmente anche tu e Sogno siete pedinati, avvertila di stare allerta.»

Quella era senza dubbio una notizia tremenda, ma Damon cercò di non mostrarsi debole. Non voleva essere da meno di Nathan, che con quella sua freddezza sembrava imbattibile.

«Che iella, proprio quello più stronzo ti è capitato, eh?» ironizzò.

«Già.» fu la lapidaria risposta.

«Ma perché ti sei accanito così tanto? Di solito sei più… ehm, controllato.»

Nathan fece una smorfia di disappunto, cacciando fuori un sonoro sbuffo in direzione della porta «Ma lo vedi? È insopportabile! Mi fa venire voglia di staccargli la testa, altro che limitarmi a un paio di pugni…»

Il cugino sorrise; immaginava che Nathan fosse stato contagiato da quei forti sentimenti di odio di Korlea, di conseguenza aveva cominciato a farli suoi senza rendersene conto «È quello che ti rimprovera sempre Marcus, se ricordo bene.»

«Sì…» borbottò l’altro «mi faccio contaminare ancora. È come con Ann…»

Già, era come con Ann, quando non riusciva a capire se i sentimenti che provava erano i propri o quelli della ragazza. Era questo il brutto dell’essere così vicino a una persona per un empatico: i loro animi erano talmente in sintonia che i loro sentimenti correvano in rischio di fondersi. Ma Nathan non l’aveva mai considerato un bene.

Quando, infatti, i sentimenti di due persone arrivavano a collidere, uno dei due doveva necessariamente essere soppresso. E in quel momento nascevano i mostri. Nathan voleva assolutamente evitarlo, soprattutto perché sapeva che quello a dover sopprimere, per volere di forze maggiori, era sempre lui.

«Sai cosa, cugino?»

La voce squillante di Damon lo fece riemergere dai propri pensieri. Guardò l’altro Angelo con fare interrogativo.

«Ci vado io da Marcus, gli porto io il nostro amichetto!» esclamò Damon e, prima che Nathan potesse cominciare a ribattere in tutti i modi di cui era capace, aggiunse «Mi porto anche Sogno, così ci pensa lei a parlare. Dopotutto è lei la diplomatica, no? A me è toccato solo lo sporco lavoro di guardia del corpo…»

“Per fortuna…” pensò Nathan, senza però dar voce ai suoi pensieri. Sapeva che Damon aveva ragione: se fosse andato lui, probabilmente si sarebbe fatto contagiare ancora dall’odio di Korlea, combinando qualche macello.

Doveva innanzitutto riprendere il controllo delle proprie emozioni, ma soprattutto non doveva aver vicino quel Demone. Riusciva a sentire i suoi dannati sentimenti anche con una porta a dividerli.

«Hai ragione…» sospirò quindi, rassegnato.

Damon parve illuminarsi, tanto era raro sentirsi dire che si era nel giusto da parte di Nathan. Gli diede un’amichevole pacca sulla spalla, stringendo l’altra mano a pugno mentre esplodeva in uno dei suoi sorrisi un po’ sciocchi ma accattivanti.

«Non te ne pentirai! Tu intanto stai con Ann, aveva una faccia così mogia stamattina!»

«Da quando ti sei messo a dare consigli di cuore?» ironizzò Nathan scoccandogli un’occhiataccia.

Damon rise vivacemente, e quella sua allegria fu come un raggio di sole in mezzo alla tempesta delle emozioni altrui, per Nathan.

«Mi affiderò alla mia sibilla dell’amore.» decretò infine. E Damon gli fu addosso con tutti gli insulti che conosceva.

 

Nell’appartamento accanto, Sogno ed Ann erano in pieni preparativi. Si trovavano ancora nella stanza tutta rosa della piccola Sogno, che si cambiava l’abito avendo qualche problema col corsetto.

«Ma vedrai, Ann…» borbottava trattenendo il fiato tra una sillaba e l’altra «un giorno anche noi porteremo i pantaloni!»

Ann, che alle sue spalle l’aiutava a richiudere i ganci, fece un sorriso un po’ forzato «Non credo che noi vivremo abbastanza per vederlo, cara Sogno.»

«Sei sempre così pessimista!» la rimproverò la ragazza con la sua voce acuta, un po’ troppo acuta mentre cantava l’ultima sillaba, un’abitudine che era convinta si sarebbe portata fino alla morte.

«Realista.» la corresse la mora, lasciando finalmente il corsetto, sistemato «Oh, che incubo, questa robaccia!»

Si sedette sullo sgabello viola davanti allo specchio affisso al muro, così da non guardare Sogno che si infilava l’abito. Con espressione alquanto triste e molto pensierosa, spiegò le pieghe che le si erano formate sulla gonna, accertandosi poi che le caviglie fossero ben coperte da quel vestito che aveva comprato solo due giorni prima.

L’aveva preso con la sicurezza che sarebbe piaciuto a Nathan. Lui diceva che il bianco le stava bene; così, nonostante fosse un colore che si sporcava molto facilmente, lo aveva scelto. Purtroppo non aveva ancora avuto l’occasione di mostrarlo all’Angelo, e non era neanche sicura che lui volesse vederla.

«Ann…»

Sentì Sogno chiamarla, quindi si voltò.

«Non essere triste. Lo sai che il cugino Metherlance è un po’ lunatico, non ti abbattere!» la incoraggiò, stringendo i pugni davanti al viso e sorridendole radiosamente. Con quell’abito giallo e i capelli biondi, sembrava davvero il sole. Era decisamente raggiante.

Ann fu ancora una volta catturata dall’immensa dolcezza che le trasmetteva Sogno, per cui le annuì «Certo.» e infine sorrise.

Sogno la lasciò ben presto dicendo che sarebbe tornata subito, così la giovane contadina si ritrovò ancora una volta sola.

Quando la porta venne chiusa alle spalle dell’amica, poté chinarsi sul mobiletto dove si era poggiata poco prima, con le braccia conserte.

Osservò il proprio riflesso allo specchio e rise tra sé e sé. Aveva legato i capelli in un’unica grande coda di cavallo, indossato il più bel fermacapelli che aveva – una decorazione blu a forma di chiave di violino -, e aveva addirittura usato la cipria! Ma la cosa bella era che lo faceva ogni mattina da quando era arrivata a Terren, lei, che del proprio aspetto non se ne era mai curata.

In cuor suo, come una bambina, sperava che farsi bella sarebbe servito a ricevere qualche complimento in più da Nathan, anche se non l’avrebbe mai ammesso. Era troppo orgogliosa per farlo.

Aveva sempre considerato sciocco far cose simili, ma, ora che aveva trovato lui, capiva quanto fosse forte la necessità di essere sempre perfetta, per allontanare in qualche modo i sospetti che lui potesse incontrare una donna più bella e lasciarsi abbindolare.

E capiva anche che cosa significava essere gelosi, sentirsi egoisti al punto da avvertire il petto andare in fiamme quando lo vedeva accanto ad altre donne, ad Angel in particolar modo, con la quale sapeva che non sarebbe mai riuscita a reggere un confronto.

Posò il capo sulle braccia, accovacciandosi. Chiuse gli occhi, decidendo di mettere da parte quei pensieri. Cominciò a sognare.

Le sarebbe piaciuto sentire la porta socchiudersi appena con il suo solito suono antipatico, quasi stesse chiedendo un po’ d’olio. E poi passi leggeri, appena udibili; silenzioso come sempre, sarebbe giunto dietro di lei, e poi, con quei modi gentili che all’inizio le erano parsi saccenti e discutibili, avrebbe preso la spazzola che era poggiata sul tavolo, pettinandole con garbo quei capelli non abituati alle cure.

Le pareva quasi che tutto fosse vero, le pareva quasi di sentire i denti della spazzola insinuarsi tra le ciocche per poi stirarle, dandole anche qualche fastidio quando si imbattevano nei nodi.

E poi, finalmente, con quella voce dall’accento stranissimo e un poco pesante per il suo aspetto di principe azzurro, le avrebbe sussurrato «Che bei capelli che hai…»

Già, se solo fosse stato vero…

«Dico davvero.»

L’immaginazione le giocava strani scherzi…

«Dormi, Ann?»

«… A-ah!»

Ann sobbalzò spalancando gli occhi e irrigidendosi. Il suo sguardo cadde sullo specchio, notando alle sue spalle proprio quella persona che…

«Na-Nathan!»

Nathan inclinò il capo battendo le palpebre con fare sorpreso «Tutto bene?»

«Sì!» si affrettò a urlare la giovane, voltandosi a guardarlo in preda all’imbarazzo. Da quando i sogni diventavano realtà? E perché le era toccato scoprirlo in modo così traumatico?!

Lui non cambiò espressione per alcuni secondi, ma poi le sorrise. Sembrava aver capito tutto, come un mago. Ogni tanto Annlisette si chiedeva davvero se Nathan fosse un mago o qualcosa di simile. O magari, cosa molto più ovvia, era un vero Angelo.

«Sogno mi ha fatto entrare, mi ha anche detto che sei un po’ giù di morale.» le spiegò, trascinando verso se stesso la sedia più vicina. Si accomodò e sorrise alla ragazza, regalandole una lieve carezza sulla guancia «Immagino sia per colpa mia.»

«Niente affatto!» mentì Ann, incrociando le braccia al petto e facendo la voce grossa per nascondere l’imbarazzo «Sei troppo egocentrico!»

Nathan rise allegramente «È vero, lo sono. È uno dei miei tanti difetti.»

Ann non era una ragazza pronta a mentire per negare l’ovvio – Nathan era davvero egocentrico, molte volte! -, e stavolta era spinta anche dal proprio orgoglio, che le imponeva di dimostrarsi indignata e offesa.

«Non hai nemmeno avvertito, razza di maleducato! Per quanto ne sapevi potevo anche essere impresentabile!»

Nathan rispose spontaneamente «No, stai tranquilla: in quel momento io ci sarò sicuramente.»

Ann arrossì rimanendo allibita «… Na… NATHAN METHERLANCE!»

 «Di spalle, ovviamente, a farmi i fatti miei.» rettificò lui, aprendo le mani mentre si esibiva nell’ennesimo sorriso beffardo «Non oserei mai posare gli occhi su una signorina in pieni preparativi, sarebbe contro l’etichetta, oltre che maleducato.»

La ragazza fece per tirargli uno schiaffo, ma all’ultimo momento le mancò la forza.

Sospirò con fare afflitto, ammettendo l’ennesima sconfitta. Abbassò il capo «Non farlo mai più…»

«Una battutaccia di pessimo gusto come questa?»

«No…» sussurrò lei, alzando gli occhi per incontrare i suoi «andartene di notte senza il soprabito… potresti prendere l’influenza…»

Il sarcastico sorriso dell’uomo parve scemare lentamente, come se un’illusione si fosse appena dissolta davanti ai suoi occhi. Spostò lo sguardo altrove, come per fuggire quegli occhi che reputava troppo puri per uno come lui.

“Stupida Ann…”

«Sei molto premurosa, grazie.»

A pensare, forse, era stata la sua parte che molti chiamavano “angelica”, a parlare, forse, era stata la sua parte umana. O almeno, quello che ne rimaneva.

Inspirò profondamente dopo essersi messo in piedi, dandole le spalle.

«Damon e Sogno sono andati a sbrigare alcune faccende.»

«Angeli?»

La domanda fu schietta, ma Nathan rispose ribadendo ancora lo stesso concetto che esprimeva da fin troppo tempo «Mah…» tradotto per i comuni mortali: “non te lo posso dire”.

«Capisco.» Ann annuì, rimpiangendo ancora una volta di avergli fatto la promessa di non chiedere più nulla sugli Angeli. In quel momento, però, era sicura che essere a conoscenza della verità l’avrebbe aiutata ad alleviare le preoccupazioni dell’uomo.

Cadde il silenzio per qualche secondo, durante cui Ann si alzò per poi dare una sistemata al disordine che aveva lasciato sul tavolo.

L’occhio di Nathan cadde sulla sua figura; la osservò, la studiò, la contemplò. Inizialmente il suo fu un fare disinteressato, ma poi divenne sempre più accurato, un po’ insistente, e infine abbozzò un sorriso.

«Uno splendido abito. Ho sempre detto che il bianco ti sta bene.»

Ann ringraziò il caso di esser di spalle in quel momento, in modo da non essere notata mentre sorrideva innocentemente.

«Ho gusto per queste cose, modestamente.»

«Sì, hai ragione.» confermò lui, per poi cambiare argomento «Ma oggi sarà solo mia la delizia di vederti così.»

La giovane tornò a guardarlo, curiosa «Perché?»

«Perché tra qualche giorno ci sarà la festa.»

«E allora?» continuò lei, senza capire.

«E allora, mia cara Ann…» lui le sorrise, allungando una mano verso di lei «oggi ti insegnerò a ballare.»

 

A differenza di quanto sarebbe stato logico credere, il covo degli Angeli non era affatto luminoso.

Si trovava in una parte molto periferica di Terren, camuffato in modo da sembrare un tribunale in disuso ormai da molto tempo.

L’edificio cadeva a pezzi, letteralmente, e mai nessuno passando di lì o avventurandosi per diletto tra le sporche aule invase dalla vegetazione, avrebbe potuto immaginare l’esistenza di quella che sembrava la semplice statua di un gargoyle mezza distrutta, ma che in realtà, se toccata nel modo giusto, si rivelava un dispositivo in grado di aprire un passaggio segreto.

Il corridoio che scendeva per metri e metri sottoterra non sembrava avere mai fine, almeno fino a quando le pareti fredde ed umide, così piccole da causare spesso degli attacchi di claustrofobia ai poveri visitatori, non venivano invase da quello che inizialmente sembrava un ronzio, ma che in seguito si rivelava un vero e proprio mormorio continuo.

Nel covo degli Angeli l’unica luce splendente scaturiva da file e file di candele rosse poste in modo molto ordinato ai lati dell’unica via che permetteva di accedere alla Corte, ovvero la sala comune.

A Sogno quella larga via, illuminatissima e caldissima a causa delle centinaia di ceri, aveva sempre provocato un reverenziale timore. La porta in fondo alla via, alta e possente, le sembrava tanto il cancello dell’Inferno.

«Siamo arrivati?»

Ripeté Korlea per l’ennesima volta da quando si erano messi in viaggio. Essendo legato e bendato non poteva sapere dove si trovavano.

«Non ancora.» rispose Damon, strattonandolo con forza, come a volergli implicitamente dire “ma tu non stai mai zitto?”.

Sogno non capiva bene quella situazione. Damon si era rifiutato di spiegarle tutto, limitandosi a svelarle solamente che quel Demone aveva spiato Nathan ed era stato catturato e punito – e lei sapeva bene che cosa significava essere puniti dal cugino – e che ora andava portato da Marcus.

Era rimasta in silenzio come le era stato comandato, limitandosi ad annuire quando Damon le diceva di evitare questa o quella strada perché troppo affollata o ad accelerare il passo quando Korlea chiedeva, nuovamente, se erano arrivati.

Non riusciva sinceramente a comprendere tutta quella attesa del Demone: era nei suoi intenti incontrare Marcus? E se fosse stato tutto un piano messo a punto dai nemici? In quel caso ci erano ben cascati; ma Sogno era sicura di una cosa: se tutto quello si fosse rivelato un bluff, Korlea non sarebbe scappato una seconda volta a Nathan.

Attraversata la stanza in fretta e furia, ma senza perdere quella certa solennità ed eleganza che erano tipiche degli Angeli, la ragazza poggiò le mani sul tiepido ottone dei pomelli, spingendo con forza il portone.

Questo si aprì non senza qualche capriccioso suono, mentre il Demone contribuiva a rendere quell’effetto ancor più sgradevole con la sua irritante voce «Ma allora è vero. C’è anche una terza persona con noi.»

«Una bellissima ragazza.» scherzò Damon, mantenendo la calma nonostante il tono antipatico del nemico.

«Peccato che sia un Angelo… altrimenti un pensierino ce lo facevo.»

L’Angelo lo strattonò violentemente per intimargli di tenere la bocca chiusa. La giovane donna invece ignorò quelle parole, facendo il suo ingresso in sala seguita a ruota da Damon che portava sulla spalla il prigioniero.

L’interno era molto più freddo rispetto all’ambiente precedente, meno accogliente e sicuramente meno angelico. I colori dominanti erano infatti il nero e l’argento, che decoravano il pavimento a scacchi e la mobilia antica e sicuramente di valore. Nere dai bordi argentei erano le tende, le rifiniture dei divani, sui quali stavano comodamente appollaiate molte persone, tutte appartenenti al gruppo.

Gli abiti indossati dalle donne non erano poi tanto pudichi, anche se non si poteva dire che quelle ampie scollature che lasciavano intravedere seni e gambe non donassero loro: le rendeva, in qualche perverso modo, ancora più affascinanti e dava loro un’aura di sacralità.

Il silenzio regnava, che divenne ancor più pesante non appena gli occhi altrui, confusi e curiosi, si posarono sui tre appena arrivati.

Si avvicinò loro un Angelo abbastanza anziano e basso, vestito con una tunica verde e, scrutandoli da sotto le folte sopracciglia bianche, chiese gentilmente spiegazioni.

«Siamo qui per consegnare un prigioniero a Marcus e Jen.» annunciò la ragazza, non senza un po’ di timidezza. Non amava parlare in pubblico, ma quello era il suo lavoro…

L’uomo si accigliò per poi squadrare per qualche secondo Korlea legato e bendato, quindi annuì severamente. Diede loro le spalle, invitandoli a seguirlo attraverso la sala.

Il silenzio non pareva volersi rompere, nemmeno Korlea osava più aprir bocca, piuttosto sembrava in attesa, cosa che portò Sogno a credere sempre più fermamente nei propri sospetti. Aveva la brutta impressione che presto sarebbero caduti in una trappola.

Vennero accompagnati nella stanza superiore, alla quale era possibile accedere dopo aver superato una breve scalinata. L’ambiente intorno a loro pareva sempre più freddo, tanto che la ragazza si strinse nel cappotto che portava, alzando poi lo sguardo alla sala che le si prospettava davanti.

Come quella precedente, anche in questa regnavano il nero, l’argento e il silenzio. L’unico suono che di tanto in tanto si imponeva era lo scoppiettio del legno che ardeva nel camino, davanti ad esso, immobile come una statua di marmo, c’era Marcus di spalle.

Il capo degli Angeli era invecchiato nell’espressione durante quell’anno e mezzo; i suoi occhi erano contornati da pesanti occhiaie, le spalle piegate e le mani pesantemente appoggiate al bastone in legno antico che sembrava essere una rappresentazione del suo baricentro.

L’avevano evidentemente beccato in un momento sbagliato, infatti indossava una lunghissima e austera vestaglia che gli giungeva ai piedi. Nonostante tutto, Marcus era capace di un fascino di cui pochi potevano vantarsi.

Non si voltò sentendo entrare il gruppo, a lui non serviva voltarsi per vedere dietro di sé.

«Sogno e Damon Darkmoon…» sussurrò i loro nomi, con la sua solita voce profonda e roca «che cosa mi avete portato?»

Damon sentì il corpo di Korlea irrigidirsi al suon della voce del capo degli Angeli. Finalmente mostrava un po’ di paura, quel Demone dalla lingua lunga.

«Una spia, signore…» esordì Sogno, in uno slancio di coraggio, facendo un passo avanti «stava seguendo Nathan. Lui se n’è accorto e l’ha catturato.»

Quando parlava in pubblico, dovendo esibirsi nel suo lavoro di ambasciatrice e oratrice, aboliva l’abitudine di cantare l’ultima sillaba. Era qualcosa a cui Damon non era ancora riuscito ad abituarsi.

«Una spia porta sempre notizie.» sentenziò Marcus, voltandosi finalmente per poi inchiodarli con uno sguardo penetrante uno per uno. Fece poi cenno a Damon di lasciare il prigioniero, e Korlea venne scaraventato a terra con poca gentilezza, emettendo un verso di rabbia e indignazione.

Gli venne tolta la benda e finalmente poté guardarsi intorno, dopo aver battuto alcune volte le palpebre per abituarsi al profondo buio del luogo.

Quando il suo sguardo si posò sul capo degli Angeli, parve dapprima impallidire, ma subito dopo la sua espressione mutò in un connubio di disgusto ed astio. Marcus sorrise a quell’immagine, deliziato da quei sentimenti emanati dall’essere «Il tuo odio è potente, sciocco Demone. Che cosa ti ha spinto a seguire uno di noi?»

Il Demone ebbe la risposta pronta «Perché non lo leggi nella mia testa? Ce l’hai questo potere, no?»

Marcus sogghignò «Perché sono una persona gentile. Leggere la mente di qualcuno equivale a farlo totalmente impazzire. Ma se ci tieni, posso anche farlo.»

«Io non servo più.»

Quelle parole non vennero comprese da Damon, che rimase interdetto; Sogno invece le capì benissimo, e confermarono i suoi terribili dubbi: quel Demone era stato mandato apposta per essere catturato.

«Non sei una spia…» il capo degli Angeli diede voce ai suoi pensieri «sei un messaggio umano.»

Korlea rise, rise compiaciuto di se stesso, della sua recitazione e della stupidità che tutti avevano dimostrato: dal pazzo torturatore alla bambina ambasciatrice, dal biondo dalla risata facile al veterano, ci erano cascati tutti.

La notizia parve irritare parecchio Marcus, che non si trovava per la prima volta davanti a un messaggio umano, uno di quelli che si scambiavano di tanto in tanto e che erano facilmente sacrificabili. Era incredibile come a loro stessi non importasse della propria vita, ben sapendo che sarebbero stati uccisi subito dopo aver recapitato il messaggio.

Del resto, sarebbe stato assolutamente inutile tenerli e torturarli fino a farli parlare: loro non sapevano niente, erano educati e cresciuti all’oscuro di tutto, con l’unica ambizione di diventare messaggi umani. Semplici oggetti, niente di più, niente di meno.

«Allora riferiscici il tuo messaggio, Demone senza una vita.» ordinò Marcus con serietà. Fece poi cenno a Damon di prendere la spada poggiata su un divano poco lontano.

Lo sguardo del ragazzo corse all’oggetto preso in considerazione, immerso nelle tenebre della stanza, la cui lama rifletteva qualche raggio di luce proveniente dal camino.

Deglutì: non era la prima volta che gli veniva ordinato di uccidere qualcuno, ma ogni volta era orrendo. Tuttavia obbedì in silenzio, amareggiato e arrabbiato.

Sogno trattenne il fiato;  avrebbe voluto perlomeno voltarsi, ma ancora una volta la sua posizione di burocrate non glielo permetteva. Strinse furiosamente una mano attorno ad una piega della gonna per scaricare la tensione.

Ma non era possibile scaricarla: essa era ovunque, nell’aria, nei respiri dei presenti, nel volto soddisfatto di Korlea, l’oggetto umano, mentre sibilava come un serpente.

«L’abbiamo trovata, l’arma di quella leggenda. State lontani dal nostro territorio, Angeli, o distruggeremo Hidel per averla, e subito dopo sarà il vostro turno di perire. Fine.»

E un colpo secco fendette l’aria, seguito dal macabro suono di un oggetto che rotolò lontano, nel buio.

 

Il valzer era una danza nata da meno di cento anni, ma già tutti nel mondo civilizzato la conoscevano.

Resa famosa dai musicisti Strauss e Lanner, si era ben presto diffusa per tutta l’Europa fino alla vecchia Inghilterra, ed era considerato “il ballo dei balli”, anche se la Chiesa l’aveva etichettato esplicitamente come indecenza, poiché le coppie danzavano mantenendo un contatto fisico.

Tutto questo non era mai importato granché a Nathan, che aveva sempre trovato in quella bellissima danza un qualcosa di sensuale eppure puro, e, nonostante non fosse mai stato un amante del ballo, non rifiutava mai un giro di danze alle signorine senza cavaliere se si trattava di valzer.

Al contrario Ann, non appena aveva saputo che genere di ballo avrebbero studiato quel giorno, si era sentita ardere.

«Ma… ma il valzer è…» aveva cercato di controbattere.

«Emozionante, poetico, sensuale.»

Nathan era riuscito a bloccare ogni tentativo di farsi valere con una semplice frase, e così la giovane aveva dovuto arrendersi alla realtà: quel giorno avrebbe distrutto i piedi del suo compagno.

Circa mezz’ora dopo si cimentavano ancora nell’entrata in scena, nella quale Ann sembrava confondere seriamente i piedi del povero compagno con il pavimento.

«Scusa!» esclamò per la ventesima volta dopo essergli salita addosso.

Nathan forzò l’ennesimo sorriso, cercando di ignorare il dolore che cresceva di pestata in pestata «Non è nulla… anche se, mia cara Ann, ti pregherei di mirare all’alluce la prossima volta. Il mignolo implora pietà…»

La ragazza non seppe davvero se ridere o chiedere ancora perdono, così scelse la strada più facile: abbandonare ogni tentativo.

Con un sospiro rassegnato, si sedette sul divano di casa, posando lo sguardo su una toppa mal fatta. Nathan sapeva ballare bene, ma sembrava far a pugni con gli aghi: gran parte del divano era tappezzata malissimo.

«Non ti abbattere, piccola Ann.» provò a farle forza lui, sorridendole «Riposati un po’, intanto ti preparo un the.»

Detto ciò si allontanò attraversando la casa, in direzione della cucina. Ann si rilassò sul lenzuolo morbido, continuando a darsi dell’incapace. Era dura ammetterlo, ma non riusciva a fare di meglio per quanto si sforzasse. Mancavano pochi giorni al ballo, e non riuscire a ballare il valzer sarebbe stata una vera tragedia.

Ma non le si poteva dar molto torto: le ragazze di buona famiglia che partecipavano a manifestazioni del genere, solitamente imparavano a ballare da bambine. Non avendo da lavorare, passavano le loro giornate tra lezioni di bon ton, ballo, libri e pettegolezzi. Si rendeva sempre più conto di quanto la sua natura di povera contadina la rendesse inferiore a quella sfilza di oche, e per un attimo si ritrovò a pensare che probabilmente Doralice era simpaticissima se paragonata alle ragazze che avrebbe conosciuto quella fatidica sera.

Cominciava ad essere nervosa.

«Ci saranno tante belle dame?» chiese al alta voce, sperando che Nathan la sentisse.

Dopo qualche secondo arrivò la sua voce profonda e pacata «Sicuramente, ma tu non brillerai di meno.»

«È questo quello che mi spaventa…»

«Che hai detto?»

«Niente!»

Ann si fiondò tra i cuscini, volendo sprofondare. Emise un mugolio arrabbiato, cercando di scacciare tristi visioni delle sue probabili figuracce. Avrebbe disonorato non solo se stessa, ma anche Nathan.

«Ragazza notoriamente poco ottimista, Annlisette Nevue

Quel tono così sereno e scherzoso fece sentire ancora peggio la ragazza, eppure non poté trattenere un timido sorrisino quando sentì la mano di Nathan poggiarsi sul suo capo. Come ogni rara volta in cui lui si mostrava affettuoso, ebbe una piccola scintilla nel petto.

Tuttavia i pensieri neri erano agevolati dalla pioggia scrosciante fuori casa, e come se ciò non bastasse…

«Ci sarà anche Angel, sai?»

Ecco toccato il fondo della depressione. La giovane fece una rotazione del busto per lanciargli un’occhiataccia «Altre belle notizie, messere Metherlance

Nathan, che si era accomodato accanto a lei, rise allegramente per poi passarla la tazza che aveva portato «Ci saranno tutte le più alte cariche della città.» aggiunse poi, notando l’espressione nervosissima di Ann «Nessuno di troppo importante, non per noi. Si dimenticheranno dei nostri nomi dopo qualche minuto.»

La cosa non era di certo consolante, Ann non riusciva nemmeno a immaginare come sarebbe stato fare brutta figura davanti a quelle persone; il suo smisurato orgoglio le urlava di esercitarsi il più possibile per evitare ogni eventuale strafalcione, eppure, nonostante i corsi di galateo degli ultimi giorni e le lezioni di ballo, non si sentiva ancora pronta. Le mancava qualcosa, ma non sapeva dire cosa.

«Avverto la tua inquietudine.»

Si voltò verso l’uomo, che la osservava con espressione seria. Chissà, si chiese Ann, se era davvero in grado di avvertirla? A quel pensiero sciocco sorrise appena, cercando di rincuorare se stessa e lui «È solo un po’ di ansia, non ti preoccupare.»

«Non hai motivo di essere ansiosa» riprese l’Angelo regalandole un sorriso «non importa cosa diranno quelle malelingue, Annlisette, loro non ti conoscono, quindi avvalersi del diritto di giudicare li porterà solo a rendersi inferiori.»

La ragazza annuì per poi aggiungere «Lo so, ma non è questo che mi rende ansiosa…»

«E allora cosa?»

«Ehm…» faticò lei, arrossendo leggermente mentre cercava di guardare altrove, sperando che le sue parole non lo facessero ridere «è che non vorrei farti fare brutta figura…»

Nathan, che ormai conosceva Ann, stavolta fu preso in contropiede. Non aveva neanche pensato di ricondurre il motivo di quel nervosismo a se stesso. Prima la paura che si ammalasse, ora quella di fargli fare cattiva figura, Ann stava davvero mostrando un fortissimo affetto verso di lui.

«Insomma… tu non sei perfetto.» mise ben in chiaro lei, accompagnata da una risata forzata dell’uomo «È solo che a prima vista lo sembri!»

«Sei consapevole che questo è un insulto, vero?» incalzò lui con un sorriso beffardo.

«Ma no! È solo la verità!» esclamò la ragazza, con una punta d’irritazione «Io sembro una foca balbuziente!»

Seguì qualche secondo di assoluto silenzio durante il quale Ann rimase a guardare Nathan a pugni stretti. Egli, infine, con voce stranita sussurrò «F… foca balbuziente?»

«L’ho letto in un libro e mi è sembrato carino… così l’ho imparato a memoria.» spiegò lei, rilassando i muscoli e tornando seduta composta, ma sempre senza staccare da Nathan uno sguardo ben poco gentile.

L’uomo, all’improvviso, scoppiò in una grande risata. Inutile dire che la giovane avvampò, sentendo la forte voglia di prenderlo a pugni che le era sempre stata cara, ma ancora una volta si trattenne, limitandosi ad alzare la voce rimproverandolo «Ti sembra così divertente?!»

«Sinceramente sì.» rise ancora lui, calmandosi però subito dopo, consapevole che se avesse continuato avrebbe sicuramente scatenato le giuste ire della contadina. Si rilassò stendendosi sul divano, invitando Ann a fare lo stesso.

La giovane accolse l’invito senza troppo entusiasmo. Prese la tazza tra le mani, cominciando ad esaminarla e studiarne i tratti poco raffinati, il colore molto spento.

Non riusciva a perdonare all’uomo quella mancanza di tatto nei suoi confronti; se diceva di avvertire il suo disagio perché non rimediava?

Sogno aveva ragione: i maschi erano tutti dei caproni dalle corna molto, molto dure.

«Immagino che sia difficile…» stavolta fu Nathan a cominciare a parlare, con voce grave, che convinse la ragazza a donargli uno sguardo, sebbene fosse ancora offesa.

L’uomo riprese il discorso «Essere lontana da casa, da chi ti ha cresciuta, in un posto del tutto nuovo, con una persona che ti mette sempre nei guai e un gran ballo alle porte.»

Sì, lo era, ma Ann cercava di sopportarlo il più possibile, dopotutto l’aveva voluto lei. Peccato che non fosse mai stata una campionessa di pazienza.

«Nessuno ti obbliga, Ann. Tu dillo soltanto, ed io rifiuterò l’invito.»

La serietà con lui aveva pronunciato quelle parole colpì molto la ragazza, che rimase ad osservarlo. La proposta era ghiotta, questo era vero, ma c’era da aggiungere che un’occasione del genere era più unica che rara, senza contare che era la scusa con cui aveva proposto ai genitori il viaggio a Terren.

Ma c’era anche qualcos’altro… qualcosa che, a causa dell’immenso orgoglio che le palpitava nel petto, la costrinse a scuotere vigorosamente il capo «Io ce la devo fare, io ce la voglio fare.»

Nathan parve soddisfatto da quelle parole, ed allungò di nuovo una mano verso di lei «Tu ce la puoi fare. E anche se dovessi perdere fiducia in te stessa, non hai di che preoccuparti, e sai perché?»

«Perché?» domandò la mora con un piccolo sorriso, pronta ad una delle solite risposte imprevedibili tipiche di Nathan.

«Per quattro principali motivi.» cominciò l’Angelo. Alzò un primo dito, per numerare le cose che stava per dire «Avrai al tuo fianco il miglior cavaliere della sala.»

Ann rise dolcemente, inclinando il capo ­«Non essere così modesto!»

«Motivo numero due!» esclamò l’altro, alzando quindi il secondo dito «Il miglior cavaliere della sala ti guiderà nelle danze.» quindi fu la volta del terzo dito «Sarai la dama più affascinante per due sottomotivi!» sollevò l’altra mano, contando ancora «Ci sarà la piccola Sogno, suprema regina dell’estetica, a prepararti. E, inoltre, ti vestirai di bianco.»

«E tu come lo sai?» rise lei, che non aveva ancora deciso che abito indossare.

«Perché ho già provveduto a comprare l’abito più bello che ho trovato al Maxwell Shop.»

Ann rimase sbigottita, ma lui tornò ad enumerare i motivi per cui la serata sarebbe andata divinamente prima che ella potesse controbattere.

«Quarto motivo: hai oggettivamente un bel carattere, capace di accattivare le simpatie altrui, per cui ti basterà essere te stessa per risultare gradita.»

La contadina inclinò il capo a sinistra, sinceramente scettica. Non pensava che bastasse così poco per avere successo in una cosa simile. Però credeva di capire il filo logico su cui Nathan aveva basato quest’ultima affermazione: Sogno le aveva spesso raccontato della falsità delle donne a quelle feste, per cui una ragazza sincera sarebbe risultata più… particolare? Più normale? Ma chi era normale, alla fine?

No, forse non aveva affatto capito il ragionamento di Nathan.

Abbassò gli occhi con fare pensieroso, suscitando un sorriso addolcito nell’uomo, che raccolse una delle sue ciocche more con tocco delicato, carezzandola come se fosse stata pelle. Solo in quel momento Ann si rese conto che erano molto più vicini di quanto aveva notato fino a poco prima, o forse era l’oscurità che regnava nell’appartamento a renderla cieca?

Fatto sta che colse al volo l’occasione per fiondarsi tra le sue braccia in cerca di riparo, come spesso aveva fatto fino a quel giorno. Stranamente, quando si trovava così vicina e stretta a lui, ogni arrabbiatura spariva, e tutte le parole le morivano in gola. Ma forse non c’era bisogno di parole, andava bene anche così.

Lui la strinse, carezzandole il capo, passando le dita tra le onde di quel mare nero e morbido, capace di donargli serenità che in assenza di lei era assente del tutto.

Sorrise amareggiato: si era di nuovo fatto battere dai sentimenti di Annlisette. Quelli non potevano essere i suoi, perché agli Angeli era vietato affezionarsi a qualcuno, amare qualcuno…

Un amore tra un Angelo e un umano era vietato dalla legge. Non solo Marcus, ma molti altri avrebbero cercato di impedirlo, di fare del male a quell’innocente e fragile fiore che teneva tra le braccia.

La strinse con più delicatezza ma al contempo con fare possessivo, lasciando che il proprio corpo aderisse a quello di lei, che avvertiva essere in preda all’imbarazzo. Ciò lo fece sorridere, proprio come aveva fatto quando aveva sentito l’adrenalina scorrere come un treno a massima velocità nelle vene, quando aveva visto Korlea scappare. Aveva inseguito la sua preda, come un animale. E la sua preda in quel momento la teneva tra le braccia. Ma Ann non era solo una preda: era un bottino, un tesoro, un fiore candido che aveva bisogno di cure. Cure che solo un Angelo poteva dare.

Ecco cosa aveva scoperto la sera prima, quando il discorso tra quella prostituta e il suo amante l’aveva illuminato: il modo per rendere possibile l’amore tra un Angelo e un umano c’era, ed ora lui lo conosceva.

«Non ti preoccupare di nulla, Ann…»

Le sussurrò con voce suadente, tanto che la piccola ragazza cominciò a sentirsi stranamente impotente, totalmente in suo controllo. Tuttavia non le dispiaceva poi così tanto.

Alzò il capo per specchiare i propri occhi in quelli di lui, dove leggeva una nuova determinazione venata di qualcosa che non sapeva a cosa ricondurre.

Questo perché Ann, nella sua incauta ingenuità, non conosceva la malizia, altrimenti l’avrebbe riconosciuta.

«Ora che ho la chiave di tutto, non ci sarà più nulla da temere.»

Lei non li capiva i discorsi strani di Nathan, le sue chiavi di ragionamento, i suoi percorsi logici, per lei erano oscuri e incomprensibili. Come una bambina che cerca di giocare un gioco del padre, di quelli pieni di regole ed eccezioni, re e regine, scacchi matti e pedine distrutte, sacrificate.

Avvicinò le labbra a quelle di lui, concedendosi all’ennesimo bacio dolce ma stavolta strano, con un retrogusto amaro.

Ma a lei non importava: l’importante era restare al suo fianco.

E nemmeno a lui importava: l’importante era averla per sé.

“Solo io resterò al tuo fianco. E per rendere possibile l’amore tra un Angelo e un umano… distruggerò ogni cosa si frapporrà tra noi.”  

 

 

 

Note dell’Autrice:

Chiedo scusa per l’immenso ritardo ;__; non sto qui a giustificarmi, spero solo che non succeda più! Miei cari lettori, avete una pazienza di ferro se continuate a seguire questa storia non solo lenta, ma anche molto spesso inconcludente °° davvero, comincio a chiedermi quando smetterò di rendervi le cose difficili. Ma se non avesse più colpi di scena, Snow non sarebbe più Snow, non credete? Inoltre ammetto le mie colpe: ultimamente mi sono dedicata un po’ troppo ai GdR e un po’ troppo poco alla fic, I’m sorry :p è stato un periodo pieno di lavoro!

Ann: Dì la verità -.- ti stai dedicando troppo a un personaggio che non sono io!

COFF COFF… è vero ^^” ultimamente ho creato un nuovo personaggio a cui mi sto dedicando anima e corpo – e mi sa che ci scriverò pure una storia *_* -, e ho trascurato i miei due vecchietti xD *Ann e Nate la guardano male*

Un paio di cose… ho scoperto un modo per usare velocemente i segni «…» senza perdere ore in codici, per cui i dialoghi d’ora in poi li troverete così ^^ in modo da non confondervi con le parentesi, che io ho sempre indicato con gli stessi segni che usavo prima per i dialoghi.

In secondo luogo vi vorrei proporre un piccolo sondaggio, per vedere se il mio diabolico piano sta riuscendo xD domanda: qual è il personaggio che più amate e quello che meno sopportate? A Nadeshiko non pongo la prima domanda, lo so anche troppo bene che sbava dietro a Nathan da due anni xD *Lily spera che KK indichi lei* no, Lily, tu non ci sei in questa storia ò_ò *Lily ci rimane malissimo*

Tornando seri… spero che questo capitolo sia piaciuto ^-^ è un po’ più lungo e articolato degli altri, e direi che segna una svolta. Se tutto va come sperato, nel prossimo vedremo un po’ – un bel po’ -, di azione… anticipazioni? Ma sì, dai, sono in vena di pubblicità!

La sera del gran ballo è finalmente arrivata, ed Ann non ha mai sentito tante farfalle nello stomaco - *Ann non capisce e va in paranoia credendo di avere sul serio le farfalle nello stomaco* -, tutto sembra procedere per il meglio, quando… una chiamata sconvolge tutto, gettando i nostri eroi nel chaos. Chi ha colpito a tradimento il povero Damon? E chi ha puntato i suoi occhi assassini su Ann? Riuscirà Nathan a salvare la sua principessa prima che questa venga raggiunta da qualcuno che li vuole morti entrambi? *Angel mangia patatine a tradimento* Ah sì, anche lei ha una bella parte ^^ tutto questo e altro ancora nel capitolo 22 di Snow: Danse Macabre, non perdeterlo!

 

LoL xD

Sely.

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Capitolo 22
*** Danse Macabre ***


What colour is the snow

What colour is the snow?

Capitolo 22: Danse Macabre.

La stanza era molto buia; l’unica illuminazione proveniva dal fuoco che scoppiettava silenziosamente nel camino, illuminando a tratti l’antica e raffinata mobilia della stanza di Marcus. L’oscurità lambiva tutto ciò che poteva, competendo smaniosamente con la poca luce per solo qualche centimetro in più che però poteva fare la differenza.

In effetti un po’ di chiarore avrebbe fatto bene agli occhi del povero uomo che, dietro la grande scrivania in legno che occupava tutto lo spazio innanzi al camino, tentava di leggere un fascicolo che reggeva con la mano destra, accuratamente coperta da un guanto nero, così come il resto del corpo dell’individuo, avvolto in una cappa che lo confondeva meravigliosamente col buio circostante.

Tuttavia, egli non aveva bisogno veramente di aiuto, poiché i suoi occhi erano abituati all’oscurità, a lavorare in essa, con essa, e a farne la sua più preziosa alleata. Questo, dopotutto, era uno dei principi dei sicari.

E in quella specifica sera, quell’uomo dall’occhio destro deturpato da una cicatrice e dal volto piegato in una smorfia particolarmente disgustata, non sembrava davvero volerne sapere di lavorare, non a quel caso almeno.

«Non c’è niente di meglio per me?» borbottò con voce roca e bassa, alzando poi gli occhi alla figura che stava seduta a braccia conserte proprio davanti a lui.

Questa sorrise, quasi a schernirlo «Troppo facile? O forse troppo difficile per te, mio caro Walker

L’uomo sputò velenosamente «Opterei, se fosse possibile, di grazia, per qualcosa di più mirato. Dopotutto sono un professionista.»

«Intendi lasciare la tua firma, così che il tuo nome diventi leggenda tra quelli come te?» una risata seguì tale affermazione, mentre sul viso dell’assassino si disegnava un’espressione poco gentile.

«È un ambizioso progetto, il tuo. Sei sicuro di volerti cimentare in una prova che potrebbe essere più grande di te?»

In quella che ormai era diventata una sfida per il proprio onore – e Walker sapeva non solo di essere stato incastrato da quelle pesanti e serpentine affermazioni, ma che i guai se li era procurati con le sue stesse mani -, non c’era tempo per silenzi carichi di dubbi, per cui l’uomo annuì con un cenno deciso del capo.

Il suo superiore non smise di sorridere, evidentemente compiaciuto dalla scelta dell’assassino.

Nel silenzio, accompagnato dal leggero soffio dell’aria che si insinuava con leggerezza tra le pieghe del suo abito, la figura allungò una mano per aprire un cassetto della scrivania, dal quale poi estrasse un fascicolo finemente rilegato.

Lo porse a Walker.

L’assassino lo prese con mano ferma, notando che non vi era nulla sulla copertina. Né uno stemma, né un nome, né un semplice disegno; ciò denotava che doveva trattarsi di qualcosa di seriamente importante, e ne ebbe riscontro positivo quando il suo sguardo si alzò impercettibilmente, incontrando gli occhi ora severi del suo superiore.

E in un attimo capì, capì che tutta quella serata era stata in realtà un teatrino di marionette inconsapevoli di cui lui era il protagonista. Era stato attirato lì con una sciocca scusa, poi incastrato attraverso un abile gioco di parole. Avevano fatto leva sul suo orgoglio per spingerlo a pronunciare frasi che lo avevano messo con le spalle al muro. E adesso si ritrovava a dover scegliere tra un compito che poteva essere assegnato solo ai migliori o un’umiliazione che gli sarebbe costata la sua sudata carriera. Sinceramente, quella più che una libera scelta gli pareva un ricatto.

Aprì il dossier, e la prima immagine che gli si parò davanti agli occhi lo lasciò a dir poco allibito. Sbottò in una risata sarcastica, inarcando le sopracciglia.

«Devo ammazzare una ragazzina?»

La sua voce si perse nell’oscurità della stanza, svanendo in una folle corsa verso una risposta che non arrivò mai, poiché la figura, che fino a quel momento si era dimostrata carismatica e dalla risposta pronta, si era acquietata improvvisamente, denotando quanto fosse inappropriato in quel momento il modo di fare del killer.

Questo, dopo un verso stizzito, tornò alla lettura del fascicolo che aveva lasciato non appena i suoi occhi si erano poggiati su quel visino troppo giovane per essere realmente pericoloso.

Immaginò che si trattasse della figlia di un qualche potente Demone o di un qualche altro rivale degli Angeli, invece rimase ancor più sorpreso scoprendo che ella era una semplicissima umana, figlia di semplicissima gente, dedita al più semplice dei lavori.

Che cosa poteva rendere quella giovane dallo sguardo ingenuo così indesiderata?

Si soffermò per studiarne la figura attraverso la fotografia allegata. Ella si trovava in città, sorrideva portando in mano dei fiori, vivace come una bambina davanti a un giocattolo. Sembrava che ci volesse davvero poco per conquistare il suo ingenuo e sciocco cuore, eppure gli faceva in un certo senso pena: così giovane e già voluta morta.

Immaginò quanto dovessero essere morbide le sue ciocche corvine, provò anche a dare colore agli occhi, senza però riuscire nell’impresa: la fotografia in bianco e nero non gli permetteva di essere sicuro su quale fosse la loro vera tonalità.

Come ogni volta che si trovava davanti ad una potenziale vittima, un sorriso perverso gli si scatenò sul viso, e le sue dita corsero, sottili, a carezzare il profilo dei suoi lineamenti così fini, fanciulleschi.

E poi… il suo occhio cadde su un particolare. Alzò un sopracciglio scrutando con attenzione quella figura che veniva tagliata all’estrema sinistra della foto: un uomo che conosceva di vista. Quegli scompigliati capelli chiari perennemente legati in un codino dietro il capo, il sorriso bizzarro, gli occhi sottili, la figura tutto sommato elegante e dal portamento raffinato… era uno degli Angeli. Non ricordava precisamente il suo nome, e la sua curiosità lo spinse ad addentrarsi ancor più curiosamente tra le pagine del dossier, scoprendo così il nome di lui, Metherlance Nathan, la loro storia legata a sospetti secondo cui il Metherlance stesse cogitando di macchiarsi della peggiore delle colpe: tradire gli Angeli.

Per cui, era loro dovere fermare questa follia prima che si compisse.

Ecco il suo compito: uccidere quella ragazza dagli occhi vivaci, che stava per diventare l’ennesima trappola per uno dei loro compagni.

Quando tornò a guardare il suo superiore, aveva il viso dipinto con un’espressione estasiata.

«Accetto il lavoro.»

 

Diversi giorni erano passati dalla prima lezione di danza, durante la quale Ann aveva distrutto il piede sinistro del povero Nathan. Nonostante le grandi fatiche, i risultati non erano stati dei migliori, e la ragazza era fermamente convinta che tutta quell’ansia l’avrebbe quella sera spinta verso l’orlo di una crisi di nervi, costringendola a danzare peggio che mai.

«Sembrerò un manico di scopa…»

Annlisette stava seduta dentro la fredda e buia carrozza in preda ad una crescente angoscia. Aveva scelto il posto vicino al finestrino, nella speranza che il mondo esterno potesse distrarla, ma così era stato per poco. I vicoli e le strade di Terren sembravano ripetersi in un susseguirsi infinito, come in uno specchio.

Si mordeva le labbra, dondolava i piedi, agitava le dita delle mani, consapevole però che tutto questo non sarebbe stato in grado di calmare le farfalle che le svolazzavano spasmodicamente nello stomaco.

Più e più volte si costrinse a ripetersi i motivi e i sotto motivi per cui quella serata sarebbe andata bene, ma non servì a nulla. E così tornava a dare l’ennesima sistemata alla lunga gonna bianca dai fini ricami, poi si assicurava che i guanti fossero ben stirati nella parte dei gomiti, che le caviglie fossero assolutamente coperte e che il fermacapelli a forma di rosa non le desse un’aria infantile.

E poi si guardava allo specchio – che in realtà era il finestrino -, controllando il trucco appena accennato ed elegante che Sogno le aveva applicato, chiedendosi se non avessero esagerato con questo o quel cosmetico.

Lo sentiva: non sarebbe sopravvissuta a quella sera.

«Calmati.» provò allora Nathan, che stava seduto davanti a lei.

La ragazza alzò gli occhi per scrutare il suo compagno attraverso l’abitacolo scuro, e si soffermò sulla sua figura.

Per la grande occasione Nathan si era messo a nuovo, e per la prima volta Ann gli aveva sentito pronunciare la frase “anche l’occhio vuole la sua parte”. Quando lo guardava, si sentiva da un lato incredibilmente succube di lui – e la cosa non le piaceva affatto, essendo lei sempre stata fermamente convinta della propria individualità -, dall’altra inferiore, indegna di stagli accanto.

Così curato, ben vestito, elegante, supportato dalle sue immortali buone maniere, lui era davvero il principe azzurro. Sembrava tutta un’altra persona rispetto all’uomo disordinato che aveva conosciuto al villaggio. Avrebbe voluto rivolgergli un sincero “sei bellissimo”, ma non le sembrava un complimento esattamente adatto ad un uomo, quindi aveva preferito rimanere in silenzio.

«Dolce Ann…» sorrise lui, sedendosi accanto a lei per poi carezzarle gentilmente la lunga chioma scura ­­«Andrà tutto benissimo. Smetti di essere ansiosa, sei perfetta.»

«Io?» sorrise ironicamente la giovane «Sarò perfetta in ogni figuraccia, dalla semplice caduta… alla totale disfatta…» il tono andava sempre più intristendosi, fino a quando la giovane non si accasciò sul petto di lui, sospirando tristemente.

Nathan non poté fare a meno di sorridere divertito e un po’ ingentilito da quella perenne tenerezza sprigionata dalla sua piccola compagna. Le passò una mano attorno alle spalle, mentre con l’altra andava carezzandole la linea dei fianchi, in un modo che fece arrossire Ann.

«Ho fiducia in te. E anche tu dovresti averne, non è da te essere così insicura.» le sussurrò ancora, con quella sua voce avvolgente.

Le aveva ripetuto quella frase almeno un migliaio di volte, ed ogni volta riusciva a calmarla solo per pochi minuti, dopo i quali la giovane tornava a tormentarsi.

Nathan immaginava che per ella quella dovesse essere una grande prova, mentre per lui era solo l’ennesimo noioso ballo a cui avrebbe conosciuto gente superba, ascoltato discorsi poco interessanti sull’ultimo pettegolezzo riguardante qualcuno ovviamente non presente in sala, quindi ci sarebbe stata la parte più noiosa: i balli. Chissà per quale motivo, c’era sempre una ragazza sola, e l’etichetta gli imponeva ogni volta, essendo anche lui da solo, di invitarla a ballare. L’unica occasione in cui lo faceva volentieri era al momento del valzer.

Stavolta aveva una dama, quindi avrebbe finalmente avuto un buon motivo per ballare non solo un ballo, e magari si sarebbe anche divertito.

Un peccato era l’assenza di Sogno, che, non appartenendo a una famiglia di discreta importanza come i Metherlance, non era stata invitata. L’avevano lasciata a giocare a carte con la vicina del piano di sopra, e probabilmente le avrebbero trovate ancora dedite a rivincite su rivincite quando sarebbero tornati.

Sogno era una regina dell’imbroglio, e Josephine non se ne era mai accorta. Era convinta che l’amica vincesse per pura casualità, e non perché conosceva mille e uno metodi per barare.

Una volta tornati a casa avrebbero giocato anche loro a carte se Ann ne avesse avuto la forza, sarebbero stati tutti insieme e avrebbero riso e scherzato per tutta la notte; con questa promessa erano usciti di casa, diretti verso villa Stevenson, dove si sarebbe tenuto il ballo.

Tuttavia, per tutta la strada Ann si era dimostrata sempre più chiusa e indecisa, sembrava essersi pentita della scelta di accompagnare Nathan. Ciò lo spingeva a starle vicino e a stringerla con dolcezza, per consolarla e incoraggiarla.

«Shh… sarai fantastica.» le assicurò infine, per poi alzare lo sguardo al finestrino, incontrando così la figura della villa ormai in prossimità.

Erano arrivati.

 

Villa Stevenson era decisamente più un castello che una villa. Composta da quattro piani più una mansarda e tre torri la cui altezza era ben superiore rispetto al resto della casa, era caratterizzata da quello stile vittoriano che negli ultimi tempi si era affermato come la forma di architettura più chic del secolo. Presentava la classica facciata a tre archi, a cui Nathan guardava con aria torva.

«È davvero stupendo!»

Annlisette, che era a braccetto con lui, correva con gli occhi su ogni particolare del luogo.

Ammirava i giardini curati e puliti in perfetto stile inglese, scorgeva in lontananza rampicanti che creavano una barriera verde sui muri che circondavano la proprietà, osservava con curiosità le fontane bianchissime da cui l’acqua sgorgava allegramente, probabilmente gelida a causa dell’ora. Immaginava dame a cavalieri uscire dai libri di favole e, tenendosi per mano, entrare nel castello in abiti regali, pronti per una grande festa.

Esattamente quello che stavano facendo lei e Nathan ora. E lei non riusciva davvero a crederci. Se era tutto un sogno, pregava di non svegliarsi.

«Mi sembri molto emozionata…» le sorrise Nathan «Scommetto che stai pensando quanto sia incredibile per una ragazza di Hidel trovarsi qui, ora.»

Ann annuì vivacemente, con le gote rosse d’emozione.

«Non avrei mai creduto di… di entrare davvero in una favola…» sussurrò.

L’uomo rimase in silenzio, contemplando la facciata della casa con occhio attento.

Non era molto d’accordo con Ann riguardo l’entrare in una favola; lui conosceva quell’ambiente, sapeva quanto la corte sapesse essere sottile, quanto bisognava stare attenti ad ogni parola, soppesare un discorso prima di parlare. Aveva tentato di insegnarlo anche alla ragazza, non era sicuro di esserci ben riuscito.

«Suvvia, non sarai così imbronciato per tutta la sera?»

Lo stuzzicò ancora la ragazza, facendolo ridere.

«Giammai rovinerei la serata alla mia dama.» le sorrise, e sentì il braccio di Ann stringersi di più attorno al suo.

Lei aveva davvero a cuore la buona riuscita della fatidica festa, e proprio ora che si era finalmente calmata e lo stress l’aveva abbandonata, Nathan non voleva che niente potesse turbare ancora il suo rinnovato buon umore.

«Menomale, perché già basto io con la mia imbranataggine a farci fare una pessima figura.»

Forse aveva parlato troppo presto…

 

Angelica Rodriguez si trovava già all’interno della villa da circa venti minuti, precisamente nel salone dei ricevimenti, e conversava allegramente con altre damigelle della corte.

Per la grande festa aveva dato il meglio di se stessa quanto ad estetica, e molti l’avevano già definita la più bella donna della sala – con grande soddisfazione da parte sua -. Forse merito del lungo e semplice abito cremisi che accentuava le curve e metteva in mostra il fisico snello e slanciato, o forse dei lunghi capelli raccolti in una coda di cavallo che le giungeva fino a fine schiena, in un intrico di riccioli. 

Ammirata da tutti per la sua avvenenza ed educazione, sembrava davvero che almeno per quella sera non si sarebbe reso necessario l’intervento del suo protettore, ben nascosto in fondo alla sala. Già, forse per quelle poche ore i pregiudizi sulla sua splendida chioma fiammeggiante  si sarebbero dissolti, facendola passare dalla condizione di “figlia del Diavolo” a “magnifica dama”.

Con un sorriso sereno, fece segno al suo protettore che andava tutto per il verso giusto.

Dal fondo della sala Damon rispose con un cenno del capo.

Non era certo la sua massima aspirazione fare da guardia del corpo a quella donna così poco affidabile, capace di sparire e farlo impazzire in pochi minuti e che aveva costante bisogno di essere sorvegliata. Quando gli toccava l’ingrato compito di body guard di Angelica Rodriguez stava ben attento a farsi pagare il doppio, perché sapeva che neanche il triplo sarebbe stato una degna ricompensa per il duro lavoro che lo aspettava.

Non conosceva bene Angel, nonostante fossero passati diversi anni dal loro primo incontro, ma quel poco che sapeva gli bastava ed avanzava.

Poggiato a quel muro bianco che così tanto gli ricordava quello di un ospedale, teneva le braccia incrociate al petto e faceva scorrere lo sguardo da parte a parte della grande sala.

Essa era di pianta esagonale con una grandissima vetrata a nord che dava sul balco. Le pareti, fredde e pulitissime, erano ornate con splendidi quadri ritraenti paesaggi o scene di battaglia, secondo un certo ordine cronologico che raccontava la storia della famiglia Stevenson. Pregiate erano le stoffe dei grandi arazzi, raffinate le decorazioni dei rosoni, purpureo il rosso e brillante l’oro delle tende e degli ornamenti dei mobili, posti ai lati della sala, in modo da non dar fastidio agli invitati, che erano sparsi in modo eterogeneo.

Di coloro che avrebbero dovuto esserci molti non erano ancora presenti, ma i ritardatari sarebbero sicuramente giunti a breve, tra di essi ve ne erano due che Damon aspettava con particolare ansia, poiché si trattava delle uniche persone a cui poteva rivolgere la parola senza essere guardato come il più vile dei vermi.

E mentre il suo sguardo tornava a sorvegliare quella donna come gli era stato ordinato dagli Angeli, una domanda gli sorse spontanea: sarebbe riuscita la piccola Ann a far fronte alla serata a testa alta, con quella sicurezza che l’aveva sempre caratterizzata a Hidel?

 

«Damon mi ha detto che saranno tutti antipatici…»

Il sussurro di Ann fu appena udibile, mentre abbassava gli occhi serrando la presa attorno al braccio di Nathan.

Egli, con un sorriso, la corresse «Mai fare di tutta l’erba un fascio, carissima Ann. E poi ricorda che Damon è una guardia del corpo e tu un’invitata, quindi non riceverai il suo stesso trattamento.»

Erano entrati nel palazzo dopo aver porto gli inviti coi rispettivi nomi ai portieri, che avevano dapprima rivolto uno sguardo poco convinto alla ragazza, per poi lasciarli passare senza far storie. Ann, nella sua ingenuità, si era chiesta se fossero riusciti a leggere le sue umilissime origini con una sola occhiata.

Nel buio del corridoio dritto e freddo che li stava indirizzando verso il salone dove si sarebbe svolta la grande festa, la giovane si sentì invadere da un’inquietudine che le faceva prudere i palmi delle mani e stringere spasmodicamente il braccio del suo accompagnatore, che probabilmente stava raggiungendo la crisi di nervi, considerando che cercava di calmarla senza successo da circa tre giorni.

«Devo farcela… sì, devo farcela…» si ripeté ancora lei, a bassa voce, sperando che le altre persone che le passavano accanto non la sentissero.

«Puoi farcela.» asserì Nathan con voce sicura, di chi sa quello che dice.

Ma la sua voce non aveva più la capacità di calmare la ragazza, non quella sera. Improvvisamente il pesantissimo scialle di lana che le copriva le spalle sembrava lasciare libero accesso a un freddo che le scorreva sotto la pelle, mentre la mente smetteva di ragionare, limitandosi solo a seguire lo svolgimento degli eventi. Come una marionetta, si lasciava guidare da Nathan, che sembrava molto più padrone della situazione rispetto a lei.

Ovviamente perché lui stesso era abituato a quel genere di manifestazioni, mentre il massimo a cui lei aveva assistito erano state le feste di Natale a Hidel, dove si facevano balli di gruppo, si rideva, si scherzava e si beveva fino ad addormentarsi – o almeno questo facevano gli adulti, a lei era sempre stato proibito arrivare a certi livelli -.

Avrebbe raccontato della fantastica sbronza di Gabriel quando qualcuno le avrebbe chiesto come aveva passato l’ultimo Natale? 

Continuava a guardarsi timidamente intorno senza dare nell’occhio, notando donne dai bellissimi abiti, alcune dell’età di sua madre, altre sue coetanee, probabilmente anch’elle lì per il suo stesso motivo.

Nathan le aveva spiegato decine di volte come si sarebbe svolto il tutto. Prima doveva fare l’ingresso ed essere annunciata, seguivano le presentazioni con i più insigni nobili della serata, con cui avrebbe dovuto intrattenere discussioni di un certo livello – ed era questo che la spaventava seriamente -, Nathan le aveva suggerito qualche argomento: la recente apertura della National Portrait Gallery di Londra, la promettente Victoria Cross inaugurata dalla Regina, argomento particolarmente gradito ai “cani di lady Victoria”, come li chiamava Nathan, o in alternativa buttarsi nella politica con la guerra Anglo-Persiana o le ultime elezioni in America. Infine la parte più terrificante della serata: il ballo in sé.

«Il duca Edward Johnson e la marchesina Jessica Richmond.»

Una voce potente si impose sul silenzio che si era creato, giungendo alle orecchie di Ann come un pugno in faccia, spaventandola per un attimo.

Abbassò istintivamente il capo, fermandosi poi. Erano in fila, presto sarebbe stato il loro turno.

«Il conte Maxwell Williams e la contessa Emily Thompson.»

Le venne in mente, stranamente, sua madre. Elizabeth che l’aveva lasciata andare con delle semplici parole piene di emozione “la mia bambina sta per diventare una donna”. Lei sapeva molto bene che Ann in realtà si era recata a Terren per Nathan e non per l’ingresso in società, eppure l’aveva fatta andare. E quel gesto tanto altruista Ann voleva assolutamente ricambiarlo.

Quello che doveva fare era rilassarsi e impegnarsi. Il suo dovere l’avrebbe fatto, e questo bastava.

Così, pur avendo le gambe simili a lastre di ghiaccio, alzò il viso con espressione determinata, stringendo poi la mano di Nathan.

Prese un profondo respiro cercando di scacciare la sensazione di agitazione e imponendosi di calmarsi.

«Spacchiamo la faccia a tutti questi damerini.» decretò infine, suscitando nel compagno una risata seguita da un cenno d’assenso.

«Il duca August Renoir e la duchessa Virginia Colonna.»

I prossimi erano loro.

Con espressione ancora decisa ma ansiosa, Ann si lasciò investire da mille cose: dalla luce accecante della sala, a cui i suoi occhi non fecero in tempo ad abituarsi a causa della moltitudine di volti che la osservavano. Cinquanta, cento, duecento e forse anche di più. Ebbe un leggero giramento di testa e per un attimo le mancò il fiato, ma riuscì a reggere il tutto mentre la fredda voce dell’annunciatore le esplodeva nelle orecchie.

«Il conte Nathan Metherlance e la contessina Annlisette Nevue.»

Doveva aver sentito male, sì.

Potevano tornare indietro e rifare tutto?

«Andiamo.» le sussurrò Nathan con un sorriso, poi voltò lo sguardo alla platea.

“Ma sì… buttiamoci nella mischia!”

La giovane provava a farsi forza come poteva, ma alla fine si lasciò guidare di nuovo da Nathan, accantonando di lato la consapevolezza che lei non era una contessa. Probabilmente era stato un errore non voluto. In ogni caso avrebbero affrontato la questione in seguito.

La sala era davvero immensa, sembrava riuscire a contenere la miriade di persone che la occupavano dandole un tocco di dinamismo, creando un vivace quadro che non le dispiaceva affatto. Non c’era freddo come nel grande corridoio, si stava piuttosto bene, o forse si era semplicemente levata di dosso la gelida cappa dell’iniziale timore.

Mentre scendevano le scale lasciava correre lo sguardo veloce sui minimi particolari: il tappeto rosso che stavano calpestando, il bellissimo pavimento in marmo bianco, il lucido corrimano dello stesso materiale su cui posò finemente la mano, mentre con l’altra si lasciava accompagnare da Nathan.

Sollevò di poco lo sguardo, concentrandosi sulla folla che li osservava e provando molta emozione che sentì confluire in un arrossamento delle guance. C’erano giovani davvero belle, ma per una volta sentiva di poter reggere il confronto, perché lo voleva e lo poteva fare, così come le avevano ripetuto mille volte Nathan e Sogno.

Tenne ben alto il capo, nella speranza di far capire sin da subito che non era disposta a farsi mettere sotto facilmente – ignorando tuttavia che poteva essere scambiato per un segno di vanità -.

Ora che il primo, fatidico passo era stato compiuto, sentiva di essere in grado di reggere la serata e magari far anche una figura non troppo brutta.

Tra le varie facce sconosciute individuò quella di Angel, la cui straordinaria bellezza la fece sorridere, consapevole che il confronto con lei non sarebbe mai riuscita a reggerlo, ma che la stessa donna non l’aveva mai chiesto.

Angel le fece un sorriso e un cenno d’assenso, segno che stava andando alla grande, e sul viso di Ann si dipinse un’espressione entusiasta.

Sceso l’ultimo gradino, la ragazza aveva ormai smesso di domandarsi perché tutti quanti li guardassero con cotanta curiosità: sicuramente non stavano pensando tutti a come mangiarli, piuttosto a qualche pettegolezzo. Magari, Ann lo sperò vivamente, quelle attenzioni erano rivolte a tutti quelli che facevano in loro ingresso.

“Qualcosa tipo analizzare la carne fresca, come direbbe Guy…”  pensò distrattamente.

La folla finalmente catalizzò l’attenzione sulla nuova coppia che stava entrando, mentre Ann e Nathan si avviavano verso la seconda prova: il saluto alla famiglia Stevenson.

Durante il tragitto – la famiglia si trovava al lato opposto della grande sala – Ann ebbe modo di esporre al suo accompagnatore alcuni dubbi e considerazioni.

«Siamo andati bene?»

Lui le sorrise «Bene è un eufemismo, Ann. Non ti ho mai vista così regale.»

«Ed è… un complimento, giusto?» domandò ingenuamente lei, ricevendo un sorriso e un cenno del capo in cambio. Sorrise timidamente, felice di essere riuscita a tirare fuori il suo antico orgoglio, che per una volta si era rivelato utile.

«Ah, un’altra cosa!» richiamò ancora una volta l’attenzione dell’uomo «Perché mi hanno definita “contessa”?» 

Le parve di sentirlo ridacchiare sommessamente, e quel segno non le piacque affatto. Quando Nathan faceva in quel modo significava che gatta ci covava, dunque non era affatto una coincidenza quell’errore.

«Che hai fatto?» chiese, con una punta di irritazione mista ad innegabile curiosità.

«Niente di così grave.» rispose lui con noncuranza, posando su di lei gli occhi celesti, risplendenti ora di un lampo di furbizia maliziosa che la mise in imbarazzo «Ho solo detto che mancano… circa due mesi al nostro matrimonio.»

A quelle parole Ann per un attimo fermò la sua avanzata, e scoccò all’uomo uno sguardo allibito. D’accordo che in quel periodo i matrimoni d’interesse erano una consuetudine, d’accordo che ultimamente erano più le unioni tra persone di fasce sociali diversissime che quelli tra persone dello stesso rango, ma questo non era un po’ esagerato? Arrivare addirittura a mentire davanti ai nobili di Terren?

«Non preoccuparti…» riprese Nathan col tono di chi ha tutto sotto controllo «Non sanno niente della mia vita sentimentale, per cui non è parso loro strano che abbia rivelato tutto all’ultimo momento.»

La giovane riprese a camminare quasi istantaneamente, non volendo fare alcuna brutta figura agli occhi delle persone che li guardavano, ma mille pensieri le affollavano la mente. Tuttavia aveva già deciso che quella sera non si sarebbe lasciata scoraggiare facilmente, per cui sollevò il capo per reggere il gioco a Nathan e capovolgere la situazione a suo vantaggio.

«Ora che l’hai detto mi dovrai sposare veramente, lo sai?»

Stavolta fu lui a rimanere di stucco per qualche secondo, ma subito la sua solita espressione beffarda tornò ad illuminargli il viso «Il tempo porta consiglio, mia cara…»

Quel tentativo di far cadere l’argomento fece sorridere Ann, che però si appuntò mentalmente di tormentarlo una volta tornati a casa e, almeno in parte, fargliela pagare per non averle detto nulla.

La discussione cadde lì, poiché erano quasi giunti presso la famiglia Stevenson. Ann si prese qualche attimo per osservare uno per uno i membri che la componevano.

Al centro del quadretto stava il padre, rigorosamente vestito di scuro. Il viso canuto, un po’ asciutto e molto serio, i sottili occhi scuri e le mani ossute; da sotto i due grandi baffi bianchi pareva conversare sottovoce con la sua donna. Questa era molto truccata, probabilmente per nascondere qualche ruga di troppo che avrebbe compromesso la sua immagine. Squisitamente vestita, sembrava avere gusti raffinati e alla moda, oppure si era fatta consigliare bene per l’occasione. Incontrando i suoi occhi chiarissimi, che facevano da centro a un viso talmente bianco da sembrare albino, Ann si sentì quasi schiacciata, tanta era la forza e la durezza del viso della signora Stevenson.

Quello il cui sguardo la colpì positivamente fu invece colui che doveva essere il figlio, che sorrideva amabilmente dall’alto di una inaudita statura, sicuramente superiore persino a quella di Nathan. Gli occhi nocciola del signorotto, la cui età probabilmente si aggirava intorno ai venti o ai trent’anni, si posarono sulla figura di Nathan e successivamente su quella della sua compagna, alla quale regalò un gentile saluto.

Fu proprio il giovane ad accogliergli a braccia aperte, avvicinandosi a Nathan come se lo conoscesse da molto.

«Nathan Metherlance! Da quanto tempo non ti si vedeva da queste parti!» esclamò allegramente, poggiando una mano sulla spalla di Nathan, che ricambiò il saluto.

«Forze maggiori me l’hanno impedito, Edmund. Ti trovo bene.»

Annlisette in condizioni normali avrebbe studiato con attenzione il comportamento dei due per cercare di comprendere in che rapporti fossero, ma in quel momento si trovava troppo occupata ad osservare con espressione incantata l’abito del giovane principe. Le finissime decorazioni in un tessuto giallo che non riusciva a riconoscere erano così curate che si chiedeva seriamente quanto la povera sarta avesse lavorato per ottenere quel perfetto ricamo, simmetrico e lineare.

Il suo interesse parve non sfuggire agli occhi attenti del principe, che le rivolse uno sguardo rilassato e curioso.

«La tua dama sembra avere molto occhio per gli abiti, Nathan, o è una mia impressione?»

Colta di sorpresa, Ann fu costretta a ridestarsi improvvisamente, e alzò il capo in un’involontaria brutta figura, sussurrando un incerto «… Eh?»

La sua innocenza provocò una risata intenerita in Edmund, mentre Nathan si affrettava a spiegarle «Parlavamo della sua passione per i tessuti e gli abiti.»

«Oh, sì!» gli occhi della giovane si illuminarono a quelle parole. Si rivolse al principe con fare rispettoso ed entusiasta ­«Ammiravo i ricami del vostro gilet, principe. Sono davvero meravigliosi! Immagino che la vostra sarta sia una vera professionista!»

Solo dopo aver parlato Ann si rese conto di quanto fosse superflua l’ultima frase detta: era ovvio che un nobile avesse accesso solo al meglio. Lei, che era una poveraccia, non poteva però sapere cosa significasse.

Tuttavia il principe parve molto compiaciuto da quella franchezza, e Nathan ringraziò il cielo che Edmund avesse quel carattere così aperto. Subito dopo il nobile, come da etichetta, si presentò alla giovane per poi farle il baciamano. Ann si inchinò alzando timidamente i lembi della gonna, mentre il suo cavaliere osservava la scena con un sorriso sul volto, fiero di come la giovane stesse andando bene.

Il momento fatidico arrivò, e i due vennero condotti dal giovane Edmund al cospetto dei genitori. Ann si aspettava una fredda accoglienza da parte di entrambi, che invece si rivelarono due persone cortesi e pronte a discutere. La loro delicatezza fu tale da costringere la giovane a rilassarsi un po’ e discutere di tutto con discreta spontaneità, guadagnandosi sorrisi appagati. Insomma, la giovane poteva dirsi veramente entusiasta, e tutti i sospetti e le paure che aveva dentro si dissolsero nel nulla in breve, rendendola anche più sciolta.

Neanche quando si furono allontanati e messi al sicuro Nathan ebbe la forza di metterla in guardia e di rivelarle la verità, ovvero che tutta quella a cui aveva assistito era mera apparenza, che probabilmente la famiglia aveva cominciato a sparlare di lei nell’esatto momento in cui se ne erano andati, commentando malamente questo o quel particolare, l’accento inusuale, i movimenti poco raffinati, quella ciocca corvina che le ricadeva continuamente sul viso. Tutte caratteristiche che agli occhi di Nathan rendevano Ann ancora più piacevole e dolce, dunque non avrebbe mai permesso che ella arrivasse a vergognarsene solo per colpa delle malelingue.

«Sono andata bene?» chiese ad un certo punto la giovane, rivolgendogli un sorriso ingenuo.

Lui ricambiò «Splendidamente, mia cara. Splendidamente…»

 

Erano da poco scoccate le dieci, ma ancora non si accennava a voler dare inizio alle danze. La serata stava procedendo piuttosto bene, nonostante Annlisette avesse avuto modo di conoscere le persone poco simpatiche di cui a lungo Damon le aveva parlato. Ciò aveva soprattutto notato era la propensione naturale di molti nobili ad avere la puzza sotto il naso, a non saper accettare un complimento senza pensare subito che fosse una specie di… come l’aveva chiamata Nathan? “Captatio benevolentiae” o qualcosa del genere…

Aveva passato gran parte della serata in compagnia dapprima del suo compagno, che l’aveva gentilmente aiutata ogni volta che non ricordava un nome o una data, ogni volta che non sapeva a chi rivolgere la parola per primo, ogni volta che stava per fare una brutta figura.

Molto spesso era stato un semplice suo sorriso a farla tornare combattiva e vogliosa di mostrare la sua preparazione; tuttavia qualche strafalcione non era mancato, anche se era stato accolto con sorrisi e frasi come “non datevi pena, lady Nevue, siete nuova nell’ambiente. Vi abituerete presto”. Ma Ann, tra sé e sé, si diceva che non vi si sarebbe abituata mai, semplicemente perché si sentiva estranea a quel luogo.

Stranamente, per tutta la serata ebbe nostalgia di Hidel e dei suoi paesani poco formali e buontemponi. Cominciava a capire cosa intendeva suo padre quando le ripeteva che la città mangiava la gente, e in un certo senso Ann gli dava ragione.

Quella sera aveva conosciuto persone unicamente dedite alla propria immagine, ma non si poteva negare che proprio dalla città provenivano anche uomini umili e piacevoli come Damon, ragazze piene di aspettative e speranze come Sogno, ottime oratrici come Angel, o ancora persone come Nathan, che all’apparenza sembravano davvero divorate dalla fredda superficialità moderna ma che in realtà possedevano un animo saggio e paziente.

Era proprio il suo Nathan che Ann cercava mentre muoveva velocemente gli occhi per la sala. Aveva appena abbandonato una conversazione piacevolissima con Damon – non poteva permettersi di parlare con una guardia del corpo troppo a lungo, e lui lo capiva benissimo, per questo l’aveva subito lasciata andare -, e si era ritrovata sola.

Nathan non era lontano, stava discutendo attentamente assieme ad altri uomini di chissà quale argomento, ma Ann non se la sentiva veramente di andare a disturbarlo ancora una volta. Le pareva di essere diventata un peso, quella sera.

Nathan sembrava molto, molto preso dalla discussione, come se stesse parlando di qualcosa di veramente importante alla quale lei non doveva assolutamente assistere. Eppure rimase ad osservarlo, solo per sorridere spontaneamente davanti a quell’espressione assorta che le riscaldava il cuore. Molte volte l’aveva visto così preso nei suoi pensieri, raramente si mostrava spontaneo, e proprio a proposito di spontaneità, le tornò in mente un ricordo che da tempo l’aveva finalmente lasciata in pace, ma che era sempre in agguato, pronto a tornare con la solita prepotenza.

“Grazie, Ann. Sei la prima persona che mi fa sentire umano.”

«Cosa ci fa una dolce principessa da sola?»

L’inconfondibile voce della giovane Angel risvegliò Ann dalla sua trance. La ragazza portò lo sguardo sulla ben nota figura della bellissima donna, alla quale sorrise pacificamente.

«Osserva il suo principe cercare assieme ad altri principi il modo più veloce per uccidere un drago?» scherzò, anche se, considerata la situazione, non si sarebbe stupita se in mezzo ad Angeli e Demoni vi fosse stato anche qualche drago.

«I draghi e le streghe brufolose sono fuori moda ormai!» esclamò la rossa, avvicinandosi poi alla “contessina” per metterle una mano sulla spalla «Meglio un vampiro tenebroso, no?»

Ann si sforzò di sorridere, per quanto l’argomento “vampiri tenebrosi” le facesse calare il latte alle ginocchia al solo sentirli nominare «Noiosi. E poi non è mai piaciuta quella stupida leggenda riguardo il bere sangue…»

«Sai come difenderti da streghe e draghi, ma non da vampiri?»

Quella domanda fece alzare un sopracciglio ad Ann. Dove voleva arrivare Angel?

Concentrò per un attimo l’attenzione sul pregiato fermacapelli a forma di farfalla che la donna portava poco sopra l’orecchio destro. Quando doveva pensare, aveva bisogno di fissare qualcosa.

I vampiri non esistevano, questo era poco ma sicuro. Dunque Angel voleva far riferimento a qualcosa usando una metafora? Ma a cosa si riferiva? Un nuovo nemico? O forse i famigerati Demoni di Hidel? Dopotutto, per quanto ignorante in materia, pure Ann sapeva che i vampiri erano una razza di Demoni.

Sorrise per reggerle il gioco, improvvisando un sorriso da presa in giro, come se quello fosse tutto un gioco. E per lei lo era, essendosi promessa di star fuori da tutto quello che succedeva tra le due fazioni.

«Crocifisso? Acqua santa? Paletti? Aglio?»

Angel rise, una risata cristallina e femminile che da un lato fece arrossire Ann – che continuava a chiedersi quale strano potere permettesse a quella donna di essere così dannatamente perfetta in ogni, ogni situazione -, ma dall’altro le fece gonfiare le guance, come ogni volta in cui si sentiva presa in giro.

«Permettimi di insegnarti come si uccide un vampiro, mia dolcissima e inesperta compagna.» sibilò, prendendo quindi per mano Ann «Questa sala ne è piena, sai?»

Ancora una volta la giovane non riuscì a comprendere bene dove volesse arrivare la rossa, ma Nathan le aveva sempre raccomandato di non darle troppa retta – “Angel è un po’ fuori di testa”, queste erano state le parole di Damon, con cui persino la piccola Sogno si era dimostrata concorde -, ma tutto quel discorso la inquietava parecchio.

Insomma, non era rilassante sentirsi dire che il luogo in cui si stava era zeppo di mostri succhiasangue dalle manie ninfomani.

Tuttavia Ann si sentiva curiosa, non tanto per il discorso – che sinceramente reputava stupido – sui vampiri, quanto invece sul comportamento misterioso e spesso ambiguo di Angel, della quale non aveva ancora capito nulla, se non il fatto che passava fin troppo repentinamente da “amica” a “nemica” e viceversa.

Mentre veniva tirata in avanti attraverso la sala, il suo sguardo corse in cerca di Nathan, che era ancora impegnato. Lui non aveva notato niente di strano. Se ci fosse stato un qualche pericolo lui le sarebbe sicuramente stato accanto.

Con questo pensiero la mora si persuase a seguire Angel, affiancandosi a lei dopo qualche passo. Nel frattempo il direttore d’orchestra aveva ricominciato a battere velocemente la sua bacchetta, invitando i musicisti ad accompagnare la serata con un ritmo lento, adatto a far da sottofondo a piacevoli conversazioni.

Il basso ed avvolgente suono di un do minore suonato da un pianoforte riecheggiò nelle orecchie di Ann.

«Oh, la nostra prima cavia!» esclamò Angelica, dando un colpetto di gomito al braccio della ragazza.

Alzando lo sguardo, Ann intravide un uomo sulla trentina ben vestito, che, sentendosi osservato, incrociò lo sguardo delle due e sorrise loro. Entrambe chinarono il capo in segno di rispettoso saluto, per poi ricominciare a camminare verso una meta non precisata.

«Che aveva di strano? Mi è sembrato un uomo cortese…» esordì la giovane, alzando lo sguardo alla donna.

Ella, con fare esperto, affermò «È proprio da quelli che appaiono bene che ti devi guardare.» le fece poi l’occhiolino «Proprio per questo non hai di che preoccuparti con il nostro conte da brivido.»

Annlisette non riuscì a trattenere una sincera risata che le proruppe dal petto al sentire quella strana definizione di Nathan. E in effetti era vero: dicevano che il Diavolo si presentava sempre vestito bene, quindi Nathan era di quanto più lontano da esso potesse esserci.

«Tornando a noi…» riprese Angel, riconquistando l’attenzione della giovane «Il nostro sir Reinhold due anni fa ha sposato la marchesina Smith. Una donna deliziosa, sai? Almeno finché il marito non sperperò al gioco tutti i loro averi.»

Ann inclinò il capo, per poi scuoterlo «Incredibile…» disse, con aria di biasimo.

«Lei si è suicidata un anno fa.»

La ragazza rimase in silenzio, incassando la brutta notizia con animo forte. Tuttavia non poteva fare a meno di dannarsi a sua volta di rabbia pensando a quanto avesse dovuto patire quella poveretta prima di fare la scelta definitiva. Lei, al suo posto, non avrebbe mai avuto la forza di togliersi la vita. In parte perché la sua famiglia le aveva insegnato quanto fosse contro ogni morale cristiana, in parte perché non ne aveva il coraggio. La vita era una cosa preziosissima, appunto per questo la prendeva una grande pena quando si figurava quanto dovesse essere dura per quelle anime che sceglievano la morte.

Ma Angelica non parve curarsi molto della battaglia interiore di Ann, e dopo averle lasciato qualche secondo per pensare e dimenticarsi delle tante persone che attorno a loro camminavano o discutevano ridendo spensieratamente, riprese a sussurrare lanciando uno sguardo davanti a loro.

«Ecco, prendiamo lui. Lo vedi? Il vecchione allampanato vestito di verde?»

La vittima designata era il duca Defoe, secondo ciò che ricordava Annlisette.

La mora lanciò un’unica occhiata all’uomo di mezza età e annuì alle parole della compagna, senza interrompere l’incedere armonico e regolare.

Sul viso di Angel apparve un sorriso venato di malizia, e scandì bene «Quattro mesi fa la sua serva l’ha denunciato per violenza sessuale.»

Colpita e affondata, Ann non riuscì ad andare avanti. Sgranò gli occhi e bloccò la sua avanzata, con un’espressione incredula sul viso.

«Ovviamente nessuno le ha creduto…» riprese l’altra scrollando le spalle dopo averle dato una spintarella per costringerla a riprendere il cammino «Era solo una schiava.»

Il verbo essere al passato inquietò Ann, che le lanciò uno sguardo interrogativo. La rossa parve capire la sua incertezza, poiché puntualizzò «L’hanno trovata morta in un campo due mesi dopo.»

La giovane contadina rabbrividì, sentendo la pelle percorsa da un fremito gelido. Si impose di concentrarsi sullo studio della sala perfettamente simmetrica, delle scene buie e fredde ritratte nei quadri posti a grande distanza gli uni dagli altri, di qualsiasi cosa la aiutasse a distrarsi e a non figurarsi il cadavere della poveretta abbandonata a se stessa, in mezzo al freddo, sola…

«Ann, hai un colorito tremendo!» esclamò con fare allarmato Angelica.

La tentazione di rivolgerle un’occhiataccia e una risposta poco gentile era grande, ma ancora una volta Ann si impose la calma. Non era ad Hidel, non poteva permettersi certe cose. Si morse le labbra e poi chiese «E come si distrugge un vampiro come quelli che mi hai mostrato?»

Dopo un attimo di silenzio, Angelica rise di nuovo «Addirittura distruggere? Queste storie ti hanno proprio colpita!»

Ma davanti al serio silenzio di Ann, decise di tornare seria anch’ella, per quanto le fosse possibile «Sei una persona molto sensibile, Ann. Sono confortata dal fatto che Nathan ti sia accanto. Dai, seguimi.»

Detto ciò le fece una carezza sulla testa, alla quale la ragazza piccola e indifesa, cosa che non le era mai piaciuta. Sbuffò tra sé e sé, per poi seguire Angel.

Durante il tragitto, cercando per quanto possibile di evitare scontri con gli altri invitati che si muovevano velocemente, Ann cercò di cogliere il senso di tutto il discorso di Angel.

A quanto aveva capito, la donna stava cercando di darle un consiglio su come affrontare persone pericolose, oppure voleva semplicemente farla apparire stupida e inesperta. Era stata molto ambigua, soprattutto nella parte su Nathan. Per quale motivo era felice che lui le fosse accanto? Perché sapeva come difendersi da tali persone? Il problema era che Ann odiava appigliarsi agli altri, diventare una palla al piede, per questo era ben decisa a trovare una risposta alla sua domanda che non comportasse l’intervento né di Nathan né di nessun altro.

Una folata fredda la costrinse ad arricciare il naso e alzare lo sguardo: si stavano dirigendo fuori.

La bianca sala, con le sue persone dalla doppia faccia che le facevano paura, se la lasciò alle spalle, venendo investita dal vento invernale che quella sera spirava poco, formando una brezza leggera che scompigliava gli abiti e i capelli delle due.

Attraversò le enormi porte finestre che davano su un balcone in pietra grigio e spento, con due scalinate laterali che permettevano di raggiungere il giardino sottostante. Un dolce profumo di fiori le solleticò il naso ridandole un po’ di buon umore. A Hidel non c’erano fiori, per cui era molto inesperta sull’argomento e non avrebbe saputo riconoscere a quale specie appartenessero.

Raggiunse Angel, che nel frattempo aveva raggiunto il belvedere e si era appoggiata con la schiena alla ringhiera.

Da lì, Ann poté notare qualcosa che lasciò senza fiato per un attimo.

«Ma questo è…» sussurrò emozionata.

Angel sorrise «Un labirinto.»

Non era solo un labirinto, era il più grande labirinto che Ann avesse mai visto! La ragazza si sporse per osservarlo meglio, cercando invano di scorgerne la fine.

Là dove i giardini e i vialetti finivano, si apriva uno spiazzo al cui centro vi era una grande fontana in marmo. Questa si trovava esattamente davanti all’entrata di quell’immenso aggrovigliarsi di vie invase dalle tenebre e divise tra loro da alte pareti fittamente ricoperte di rampicanti. Faceva paura, molta paura.

Ann immaginò che trovandosi lì in piena notte, da sola, al freddo e al buio, il suo cuore non avrebbe retto.

«Che se ne fanno di un labirinto?» domandò, voltando il capo in direzione della rossa.

Angel stava poggiata di spalle alla ringhiera con nonchalance, con le braccia conserte e il viso rivolto alla giovane mora. Sorrideva placidamente, godendosi la compagnia della luce della luna piena in cielo e il dolce suono del violino che sferzava l’aria.

«La cerimonia per il passaggio all’età adulta, qui a Terren, si tiene una volta l’anno per tutti i ragazzi. Una delle prove di abilità che devono dare è trovare la via per uscire da questo labirinto. È un’antica tradizione, pensavo che Nathan te ne avesse parlato.»

«Uhm… no…» sussurrò l’altra, tornando a guardare curiosamente l’enorme ammasso di mattoni ed edere che aveva di fronte.

Passarono così altri minuti, in assoluto silenzio. Ann giocava a trovare la via per uscire dal labirinto con lo sguardo, ma la vastità del luogo e l’implacabile giogo delle tenebre le impediva di orientarsi attraverso quelle strade che si scorgevano appena, e che spesso erano addirittura coperte da veri e propri tetti vegetali.

Angelica intanto si lasciava trasportare dalla melodia che giungeva dall’interno, scoccando di tanto in tanto occhiate ad Ann, per accertarsi che la ragazzina fosse ancora lì.

Alla fine fu lei stessa a riprendere la parola, resuscitando il discorso di poco prima «Poco fa mi hai chiesto come difenderti da questi vampiri.»

«Ah!» esclamò la mora, restando con le braccia poggiate sulla ringhiera ma tornando a dare attenzione alla compagna con una torsione del collo «Accennavi a Nathan, giusto?»

Angel annuì, e mentre continuava il discorso un lieve alito di vento le mosse la fiammeggiante chioma, che le carezzò la siluette delicata e provocante.

«Sono rincuorata che lui stia insieme a te. Perché lui conosce un metodo infallibile per distruggere vampiri e fantasmi.»

«Anche i fantasmi?» la mora sollevò di nuovo un sopracciglio, guardando Angel come si guarda qualcuno che l’ha appena sparata grossa. Cominciava davvero a pensare che l’unica cosa da fare fosse annuire e sorridere. Quella donna, come le avevano detto, era totalmente fuori di testa.

Ella rise di gusto «È normale che tu non mi creda, credimi! E scusa il gioco di parole!»

«Scusa, scusa!» Ann si sentì improvvisamente in colpa, essendo stata scoperta così facilmente «È che… insomma, io sono come Tommaso, devo toccare per credere…»

L’altra le scoccò un’occhiata beffarda «Ann, non puoi toccare i fantasmi, lo sai?»

Inizialmente Ann rimase in silenzio, con un sorriso ebete dipinto sul viso. Provò a mormorare qualcosa per rimediare alla figuraccia che aveva appena fatto, ma riuscì a pronunciare solo monosillabi poco convinti che ebbero il potere di far ridere ancora di più Angel.

Spiazzata, un po’ stizzita con se stessa e amareggiata, la giovane si lasciò andare a un lungo e tetro sospiro, tornando a guardare in direzione dei giardini. Strinse i pugni raccomandandosi di evitare altre figure così stupide in futuro. E soprattutto si appuntò che Tommaso e i fantasmi non andavano d’accordo.

Ma doveva ammettere che quel discorso era interessante. Se si trattava di un gioco di metafore, i fantasmi potevano essere quei nemici che non sembrano tali.

La risata di Angel si esaurì presto, e le scostò di nuovo con delicatezza una ciocca di capelli neri che le era ricaduta sul viso.

«Rispetto la tua volontà, Ann.» le sorrise, sussurrando semplici parole che ebbero però il potere di rincuorare la ragazza, che si voltò ad osservarla «Quando vorrai sapere di più, saprai dove trovarmi. Per adesso affiderò tutto alle mani di Nathan.»

Ancora una volta un moto di noia attraversò Annlisette, che però annuì, volendo in fretta ibernare quel discorso.

Con un sorriso, Angel accusò di sentire freddo e di voler tornare dentro a prendere il copri spalle che aveva dimenticato.

«I giardini sono aperti?» chiese ingenuamente la ragazzina dopo aver inclinato il capo.

Mentre si allontanava, Angel annuì «Certo. Vai pure, io ti raggiungo tra poco, e magari porto anche il nostro biondone brontolone.»

L’ennesima strana definizione di Nathan che fece sorridere la giovane mora, che ora si trovava sola. Finalmente sola.

Con uno scatto raggiunse le scale in pietra e, ignorando il dolore che i tacchi le provocavano, le scese velocemente, ributtandosi nel passato, quando la mattina scendeva di gran corsa le scale di casa per andare a fare colazione.

Ma tutto era diverso ormai. Quel posto non era freddo come Hidel, ma in un certo senso era ancor più gelido. Gelide erano le persone che lo abitavano, gelido il marmo che era così ostentato in quello che era un castello di carte nella sua visione fantasiosa.

Tutto quel mondo era un enorme castello di carte pronto a cadere al primo soffio di vento.

Finalmente toccò terra, vera terra, e il profumo dei fiori, lì più forte, assieme a quei flebili aliti di brezza e al placido silenzio della notte, che aveva già inghiottito ogni suono prodotto dall’orchestra, la fecero sentire per un attimo davvero a casa. E in quell’attimo, provò un fortissimo moto di nostalgia che la costrinse a portare le mani al petto, a socchiudere gli occhi che pizzicavano, mentre dentro di lei un mucchio di emozioni contrastanti si combattevano.

Da un lato la felicità per aver sostenuto a testa alta l’ingresso in società, la commozione per essere diventata davvero una donna, di avere finalmente il diritto di stringere la mano di Nathan. Nuove porte si aprivano.

Eppure, dall’altro lato, le vecchie e malconce porte della sua passata vita la pregavano di attraversarle ancora una volta.

Immaginava la sua famiglia nella Sala maestra insieme a tutti gli abitanti di Hidel. Chissà che cosa faceva Krissy, chissà se Gabriel aveva già finito il ciondolo che voleva regalare a Natale alla sua Louise.

Riaprì gli occhi, dando uno sguardo al balcone: Angel non era ancora tornata. Cominciò a camminare dunque tra i vialetti, osservando con interesse tutte le piante che incontrava. Voleva raggiungere la grande fontana che aveva visto poco prima, riflettere un po’ per conto suo, senza la presenza di nessun altro. Perché sapeva di essere facilmente suggestionabile, e che bastava davvero poco per sconvolgere i suoi pensieri. Una cosa in cui Nathan era dannatamente bravo.

Camminando lentamente, lasciandosi accarezzare dal vento, finalmente giunse davanti al monumento che era la sua meta. Sorrise placidamente accarezzandone con gli occhi la grande maestria, degna del miglior artista della città.

Il suono delle acque che scorrevano e si avvicendavano in piccole onde era molto rilassante, per cui si convinse ad accomodarsi sul bordo in marmo, specchiandosi. Per poco non si riconobbe, quanto era cambiata in quegli anni!

Aveva voglia di togliersi quel poco di trucco che aveva messo addosso, riprendere i vecchi vestiti e rivedersi ancora una volta Ann, la piccola e ignorante contadina di Hidel. Eppure non disprezzava la sua condizione attuale.

Era stato suo desiderio uscire da Hidel, confrontarsi col mondo, e aveva scoperto che esso sapeva essere bellissimo e tristissimo. Ma qualunque fosse il mondo, lei era sempre se stessa, anche se il suo aspetto cambiata.

Questo non glielo aveva insegnato Nathan. Lo aveva compreso da sola.

Tornata a casa, si sarebbe rimessa i suoi vecchi e soliti abiti, e sapeva che Nathan, Sogno e Damon l’avrebbero apprezzato, perché lei non era una principessa, era solo una contadina che aveva voluto fare un’esperienza.

Sorrise al suo riflesso «Hey, sei sempre tu, ricordalo.»

«Ne siete sicura, milady?»

Una voce fredda e tagliente la fece sobbalzare. Ann, stretti i pugni e pronta ad usarli, scagliò lo sguardo nella direzione da cui aveva sentito provenire quella frase accompagnata da una risata maschile.

Poco lontano da lei, alla sua sinistra, stava in piedi un uomo avvolto in un lungo mantello nero. Era alto, molto alto, e paurosamente magro, dal viso smorto e scavato di chi non mangia bene da tempo. Sul suo viso pallidissimo gli occhi erano neri e profondi come due pozzi senza fondo. I capelli castani lunghi tenuti in una coda che gli scivolava lungo le spalle.

Sorrideva appena, in modo impercettibile, mentre riprendeva a parlare con quella voce roca.

«Alle persone piace illudersi di essere sempre le stesse, ma basta poco per cambiarle.»

Quell’uomo non poteva essere un invitato, era impossibile. Ann gli rivolse un’occhiata sospettosa, socchiudendo gli occhi e acuendo la vista per poterlo studiare meglio.

«E voi chi siete?» sibilò.

«Io?» l’uomo rise sommessamente, una risata cattiva, che ad Ann non piacque. Stava armeggiando con qualcosa sotto il suo mantello, lo si poteva vedere dalle pieghe che se ne facevano. La ragazza si mise in piedi nel momento stesso in cui lo vide, con un’espressione terribile, estrarre lentamente da una delle pieghe il primo revolver che lei avesse mai visto, e puntarlo con glaciale freddezza contro la figura di lei immobile, terrorizzata e imbalsamata dalla paura.

«Io, milady, sono il vostro assassino.»

E sparò.

 

Ann non aveva retto la vista di quell’arma tremenda, e quando si ritrovò a terra, stringendo spasmodicamente tra le mani alcuni sassi, ebbe serie difficoltà a costringere ogni muscolo a smettere di tremare senza criterio.

Si era gettata a terra, dietro la fontana, un momento prima che il pazzo caricasse il cane dell’arma. Il proiettile l’aveva visto attraversare l’aria per un momento, per poi perderlo di vista perché troppo veloce, ma le era parso di sentirlo cadere e rotolare per terra poco lontano.

A quel punto la sua testa aveva smesso di ragionare, si era alzata gettata in una fuga senza alcuna logica, credendo che bastasse la distanza per fermare il suo diabolico inseguitore.

Avrebbe voluto urlare, ma le mancava la forza, e la gola era troppo stretta in una morsa gelida che la costringeva ad emettere suoni lievissimi quando invece avrebbe voluto gridare a più non posso. Sudava freddo e le mani le tremavano aggrappandosi ad ogni cosa, facendo leva su tutto quello che capitava a tiro per svoltare, nascondersi, evitare una caduta, lanciare oggetti che nemmeno lei sapeva che cosa fossero contro il tizio in nero.

Eppure, nonostante tutto questo, la sua mente era totalmente occupata dal suono dei passi di lui che perfettamente coincidevano coi suoi, nemmeno si stessero muovendo contemporaneamente!

Aveva abbassato il capo da un pezzo, concentrandosi sull’evitare ogni cosa che potesse farla cadere. Correva così velocemente da sentire le gambe fare un male incredibile, così fredde e irrigidite da farla star male ogni volta che le divaricava.

Respirava affannosamente per il terrore che l’aveva presa tutta, facendola sprofondare nel nero timore di non avere speranza di salvarsi.

Non le interessava sapere perché quell’uomo la voleva morta, in quel momento desiderava solo fuggire lontano. Aveva bisogno di Nathan, sì, lui sapeva come uccidere i vampiri! Angel aveva detto che lui lo sapeva!

«Na-nathan!» cercò di urlare, ma ancora una volta il suo fu un flebile sussurrò tremolante e mozzato. Grandi lacrime le si addensarono sulle palpebre, e quando alzò finalmente lo sguardo vide quello che se giocato bene poteva essere la sua salvezza: il labirinto di poco prima.

Entrare lì dentro, finalmente la sua mente ricominciò a funzionare, poteva significare la salvezza o l’essere spacciati, tutto dipendeva dalla fortuna che aveva. Ma in quella situazione che non prevedeva alternative via d’uscita, non trovò altra cosa da fare se non lanciarsi a grande velocità dentro, venendo poi inghiottita dalle tenebre.

 

Forse lo stratagemma aveva funzionato. Dopo diversi minuti di corsa, Ann finalmente non aveva più sentito i passi del suo inseguitore.

Cominciò a ringraziare Dio mentre rallentava, riprendendo fiato sottovoce, con le gambe che tremavano così tanto da costringerla a reggersi con le mani ai rampicanti che ricoprivano i muri. Probabilmente, si disse, il tizio aveva imboccato un’altra via che li avrebbe a lungo tenuti separati, o forse era riuscita a seminarlo ma presto lui sarebbe tornato.

Quella prospettiva era stata così spaventosa da costringerla a un gesto folle: trovato un muro particolarmente ricoperto di flora, si era scavata un piccolo tunnel della grandezza di un bambino. Ferendosi le mani, tagliandosi un paio di volte, si era rifugiata in quel piccolo spazio, sperando che le tenebre giocassero il suo gioco.

Quindi, si era premurata di nascondere ogni traccia visibile dell’abito e si era accucciata tra le fredde foglie, piangendo in silenzio.

Se necessario, sarebbe rimasta lì fino al mattino dopo, no, fino alla prossima prova della maggiore età! Aveva troppa paura di uscire di lì, di ritrovarsi faccia a faccia con quell’uomo dall’espressione cattivissima.

Non riusciva a frenare le lacrime e di tanto in tanto qualche singhiozzo le scappava, allora, per paura di essere scoperta, stringeva ancora di più le gambe al petto, tratteneva il fiato e serrava gli occhi con forza. Una cappa glaciale le era calata addosso, e la immobilizzava costringendola a involontari tremolii.

Ogni senso era in allerta, soprattutto l’udito, che in quel momento poteva davvero salvarle la vita. Troppo buio per vedere, troppo freddo per avvertire, e quel forte odore di fiori creava un’orrenda cacofonia con l’intera situazione.

Nella sua mente continua a pregare, a supplicare un aiuto dal cielo, sperava che Nathan arrivasse a salvarla come aveva fatto tante volte, ma la dura consapevolezza che il rumore dello sparo era stato coperto da quello dell’orchestra era forte in lei, e la spingeva a disperarsi ancora di più.

Un suono. Un passo. Ann raggelò e si chiuse ancora più su se stessa, costringendosi a star zitta mettendo una mano sulla bocca.

Era lui, era lì.

Camminava lentamente, inspirando come un cane che segue un odore preciso. Quel pensiero la fece sussultare: avrebbe seguito il suo odore e l’avrebbe trovata?

Un passo dopo l’altro, e ad ogni passo la ragazzina veniva sempre più assalita dal terrore, che le risaliva lungo ogni arto, confluendo in un unico, potente mal di testa.

“Ho paura!” urlò nella propria mente, cominciando a tremare più forte man a mano che l’assassino si avvicinava al suo piccolo rifugio. Il tempo sembrava non scorrere mai, scandito dai lentissimi passi di lui che attraversava quel corridoio assolutamente uguale a tutti gli altri.

“Ti prego… fa che non mi trovi…” pensò ancora la giovane, mentre le sue guance venivano ancora rigate e gli occhi le bruciavano.

E, come nei migliori racconti dell’orrore, l’assassino si fermò proprio davanti al suo nascondiglio. Ann trovò molto ironica quella coincidenza che si ripeteva sempre in situazioni simili.

Avendo gli occhi socchiusi, poteva vederne i piedi e parte delle gambe, parzialmente coperte dalla cappa che indossava. Andava in giro tutto vestito di nero, come Nathan. Proprio quella considerazione le fece per un attimo pensare che forse quel tizio era in relazione con gli Angeli, ma non avrebbe mai saputo indicare un motivo valido per cui gli Angeli avessero dato un ordine come quello di farla fuori. L’unica cosa che aveva fatto era stare con Nathan, ma questo bastava a far decretare l’uccisione di una persona?

Tornò a serrare gli occhi e ridusse al minimo il respiro, facendo un’incredibile sforzo per smettere di tremare, ma…

«Ciao, principessa!»

Ann stavolta urlò, riuscì a urlare con tutto il fiato che aveva nei polmoni e forse più, almeno fino a quando una mano troppo grande e potente con le fu premuta contro la bocca, costringendola a zittirsi e rimangiarsi il grido che le esplose in gola, facendola tossire forte. Ma nemmeno l’aria provocata dal colpo di tosse riuscì a smuovere quell’arto, che sembrava pronto a scendere sul suo collo e strozzarla.

Si sentì afferrare per un braccio con inaudita violenza e serrò gli occhi ricominciando a piangere. Mentre veniva sollevata, agitava le gambe cercando di sferrare quanti più calci possibile, mentre con la mano libera agguantava quella che ancora le bloccava la bocca, cercando poi di graffiare e tagliare con le unghie il più possibile, in una lotta animalesca.

Lo sentì ridere, ma ben presto quella risata grottesca si trasformò in un lamento di dolore, quando la giovane riuscì a imprimere così tanta nella mano da conficcargli quattro unghie nella carne del braccio destro.

La bocca le venne finalmente liberata, ed Ann poté aprire gli occhi per guardarsi intorno mentre tossiva e respirava affannosamente, cercando di catturare quanta più aria possibile.

«Puttana!» lo sentì esclamare, prima di darle una sonora sberla che la fece cadere a terra.

L’atterraggio fu doloroso, ma le diede quel barlume di speranza che la spinse a liberarsi di corsa dei tacchi, per poi cominciare a camminare, stavolta a quattro zampe.

Ebbe però il tempo di allontanarsi di pochi metri che il suo boia le fu di nuovo addosso. Le mise una mano sulla spalla strattonandola, cercando di costringerla a voltarsi. La ragazzina, imprimendoci tutta la forza che le era rimasta, alzò un braccio e con la parte inferiore riuscì a spingere via la mano di lui dalla sua spalla, per poi sferrare con decisione un calcio alle sue gambe.

Tuttavia l’uomo era troppo forte, e riuscì a bloccarla ancora reggendo il dolore. Le afferrò il braccio e la costrinse a mettersi in piedi, seppure la giovane, per la troppa paura, ricadesse in continuazione sulle ginocchia, lanciando un urlo dietro l’altro.

Serrò ancora gli occhi tirandosi indietro, quando un sonoro colpo sferzò la gelida aria.

Ann fu lasciata andare e ricadde a terra con un tonfo. Le faceva male ogni osso ormai, e persino aprire gli occhi si rivelava difficile. Ma quando lo fece… non poté fare a meno di sorridere rincuorata.

Angel era arrivata, aveva mantenuto la sua parola ed era tornata, e aveva sferrato contro il mostro un potente colpo con un bastone sbucato fuori dal nulla. Ora il killer era lontano un paio di metri da loro, a terra e in procinto di rialzarsi.

«Stai bene?» chiese Angel ad Ann, che annuì benché non stesse affatto bene «Scappa! A questo gentiluomo ci penso io...»

Ed Ann non se lo fece ripetere due volte. Annuì freneticamente «Stai attenta!» le urlò, ma sapeva che non ve ne era affatto bisogno. Angelica era forte, era forte come un Angelo, probabilmente era davvero un Angelo. E se c’era lei c’erano anche Damon e Nathan, dovevano esserci!

Si alzò dando un ultimo sguardo alla sublime figura della donna che si preparava a fronteggiare il nemico, fece una preghiera perché se la cavasse e tornò a guardare davanti a sé.

Rifece la strada all’indietro, cercando di riconoscere le vie che l’avevano condotta a quel punto del labirinto. Tuttavia ogni stradina sembrava uguale alla precedente e alla successiva, e ogni parete pareva avere lo stesso rampicante nella stessa posizione. Tutto era assolutamente uguale lì dentro, per cui ben presto si perse di speranza e cominciò a correre senza una meta.

Ora che non aveva i tacchi non faceva più rumore, ma ogni sassolino le faceva dolere i piedi. A tutte le svolte si augurava di trovare davanti a sé Nathan, ma l’unica cosa che l’attendeva era una nuova folata di quel vento gelido. Si strinse attorno al busto il copri spalle, prendendo l’ennesimo respirò profondo. Doveva mantenere i nervi saldi!

Ben presto giunse in quello che doveva essere il centro del labirinto: uno spiazzo libero da pareti gelide e uniformi come quelle di prima, occupato da rovi e da una fontana eretta al centro della piazzetta, probabilmente per permettere a coloro che si addentravano nel luogo di riposare prima di riprendere la prova.

Al buio, illuminata solo dalla luce della luna che aumentava il potere suggestivo del luogo, la ragazza si avvicinò alla fontana, anch’essa, come la precedente, in marmo. Stavolta la statua al centro però non era una splendida sirena, ma un gufo dalla portentosa apertura alare, che la fissava con quegli occhi rotondi e grandissimi e vuoti.

Ann smise di avanzare, ma non per sua volontà. Le gambe, troppo stanche, avevano ceduto, e si ritrovò ancora una volta a terra, al freddo e terrorizzata.

In quel momento così nero, le nacque un sorriso amaro sul viso: le avevano sempre detto che prima di morire ci si vedeva passare tutta la vita davanti. La sua mente era vuota, immobile, aperta al vento che non portava alcun consiglio. Nessuna scena della sua vita le stava passando davanti agli occhi.

Aveva solo un desiderio: trovare per una volta il coraggio di reagire.

Rumore di passi, ancora. La ragazzina sollevò per l’ennesima volta lo sguardo, incontrando di nuovo quello di lui… lui che sorrideva da dietro la statua, come un incubo…

«Capolinea, principessa.»

Quelle parole le echeggiarono diverse volte nella mente, ma ormai era stanca, troppo stanca persino per chiedersi che fine avesse fatto Angel, dove fossero Damon e Nathan.

«Che significa ‘capolinea’…? Devo chiederlo a Nate…» sussurrò, a voce così bassa che nemmeno lui riuscì a sentirla.

Ann chiuse gli occhi e si lasciò scappare un singhiozzo. L’uomo alzò la pistola, caricò ancora una volta il cane, e da sotto il taglio nuovo e pulsante che gli deturpava il viso, sputò velenosamente «Rest in peace, principess-…»

Un urlo che ben presto venne strozzato squarciò la notte. Ann, presa di nuovo dalla paura, spalancò gli occhi e vide il proprio campo visivo invaso da una incredibile quantità di sangue. Sentì lo stomaco rivoltarsi e si costrinse a non rimettere portando una mano alla bocca con un gesto veloce.

A terra, davanti a lei, c’era una revolver. E accanto alla revolver c’era una mano. Solo una mano. Una mano mozzata, il cui indice aveva uno strano tic che lo faceva muovere freneticamente.

Stavolta non riuscì a trattenere il proprio stomaco e si voltò di lato. Altro che nervi saldi! Nella sua mente, però, non poté far altro che provare un’immensa stima per la persona che aveva mozzato quella mano salvandole la vita.

E chi poteva essere se non il solito conte da brivido, come l’aveva definito Angel?

Subito dopo aver tagliato la mano al killer, Nathan si era scagliato su di lui con violenza animale, come a volerlo fare letteralmente a pezzi: e lui poteva e voleva, l’aveva già dimostrato.

L’assassino rotolò a terra in seguito alla brutale forza del colpo, e il biondo gli fu ben presto addosso. Provò a ribellarsi, ma uno stocco dall’aria non molto sicura gli venne puntato a pochi centimetri dalla faccia, non lasciandogli scampo.

«Non muoverti, rifiuto umano.» intimò Nathan, il cui volto non aveva più niente di umano, tanto era piegato dalla rabbia. Sembrava davvero una bestia pronta a mordere.

L’omicida provò a dire qualcosa, ma fu preceduto dal biondo, che affondò la lama nella carne della sua spalla, provocandogli una contrazione del corpo. Trattenne a stento un urlo, mordendosi le labbra così forte da farle sanguinare. Intanto, sotto il mantello, la sua mano cercava spasmodicamente quell’altra…

«No. Qui le domande le faccio io, o giuro su Dio che ti uso come puntaspilli.» sibilò ancora quello che era diventato il vero boia. Continuò per qualche secondo ad osservare il tizio che aveva bloccato, e nella sua mente si fece spazio un’immagine «… Io ti conosco. Tu stai con gli Ange-…»

Non ebbe il tempo di completare la frase che un altro sparo fendette l’aria. Un buco nel mantello, che subito dopo venne spostato, mostrando la figura di una seconda revolver.

Nathan, colpito allo stomaco, avvertì il forte dolore solo dopo qualche secondo, e si vide costretto ad indietreggiare. Walker ne approfittò e lasciò un attimo la sua arma, il tempo che bastava per afferrare con mano sicura la Selescinder e, con un colpo secco, staccarla dal suo corpo e posarla di lato, con rabbia.

Si avventò quindi su Nathan, bloccandolo a terra e iniziando una lotta tra braccia. L’uno cercava di spingere l’altro da parte, l’altro cercava di tenere immobilizzato l’uno. Stranamente, nessuno dei due sembrava risentire troppo delle rispettive ferite.

Annlisette nel frattempo aveva avuto la forza di riprendersi. Il mondo aveva smesso di avere doppi contorni, si volteggiare e far strane capriole. Si era costretta a non rivolgere di nuovo lo sguardo alla mano mozzata.

La sua attenzione fu catturata da una scena che le gelò il sangue nelle vene.

L’omicida aveva bloccato a Nathan a terra, che sanguinava da un fianco, gli aveva poi assestato un potente colpo di gomito al capo, e il biondo aveva, per la botta, perso per qualche secondo l’uso della ragione e delle facoltà fisiche.

Quei pochi attimi di confusione bastarono all’assassino per voltarsi e afferrare con l’unica mano che gli era rimasta la pistola. Sul suo viso si leggeva un astio misto a desiderio di vendetta, il tutto incorniciato da un malevolo sorriso.

Avrebbe puntato la pistola contro la testa di Nathan e gli avrebbe sparato, e gli avrebbe fatto saltare il cervello. E poi avrebbe ucciso Ann. E forse aveva già ucciso Angel.

Ann agì d’istinto, e fu al contempo il più grande errore e la cosa più giusta che avesse potuto fare. Si gettò sulla revolver, ignorando la mano alla cui vista sentì lo stomaco rivoltarsi ancora. Afferrò l’arma con mani improvvisamente ferme, meccanicamente. La puntò contro il killer, e fece fuoco.

Il tempo, di nuovo, si fermò.

Ann vide l’uomo immobilizzarsi, come una statua di marmo, come tutte le statue in quella villa. Poi divenne ancora più bianco del marmo, mentre ancora permaneva nella posizione di poco prima, con l’arma nella mano e il busto mezzo girato.

Sul busto gli apparve una macchia, una macchia rossa, che andava ingrandendosi,  veloce. E infine lo osservò mentre cadeva all’indietro, dopo averle lanciato un’ultima occhiata. Sul suo viso vi era immortalata la stessa espressione di poco prima.

E cadde a terra, accanto a Nathan, che nello stesso attimo si rialzava mettendosi seduto, mentre con una mano si teneva il fianco sanguinante.

Nathan spostò lo sguardo su Ann, ma Ann non lo guardava. Ann non guardava assolutamente niente.

Le sue mani tremavano come foglie al vento, i suoi occhi erano sgranati, le gote pallidissime e le labbra semi aperte in una smorfia di incredulità.

Lui non disse nulla, ma le si avvicinò giusto in tempo per reggerla prima che crollasse a terra. Abbandonata l’arma, Ann abbassò lo sguardo. Non ebbe la forza di stringere Nathan, né di mettersi a piangere né di fare altro. Aveva persino smesso di tremare.

I suoi occhi continuavano ad essere fissi sul punto dove l’uomo con la cicatrice in volto giaceva, forse morente.

«Ho ucciso un uomo…» mormorò infine, a voce così bassa che Nathan credette di averlo immaginato.

«Non è morto, tranquilla.» le sussurrò prendendole il capo tra le mani, costringendola a spostare lo sguardo sul suo. La strinse, consapevole che tutto quello non sarebbe bastato a farla riprendere, non ora almeno «È finita, è finita.»

Ann provò a dire qualcosa, ma la voce le si era nuovamente bloccata in gola, anche se stavolta non c’era nessuno a costringerla al silenzio. Si lasciò scivolare contro Nathan, con lo sguardo lontano, perso.

“Ho ucciso il vampiro…” continuò nella sua mente, mentre il biondo la sollevava e la prendeva in braccio, stringendola tra le proprie forti braccia. Ann lo lasciò fare, osservando tutto come una spettatrice estranea alla faccenda. Era troppo stanca per parlare, per ragionare, per chiedersi perché oltre alla sua Selescinder Nathan avesse preso anche le pistole dell’uomo.

E poi… poi non seppe più niente. La stanchezza ebbe la meglio, e svenne tra le braccia del suo conte da brivido.

 

Ann e Nathan se ne erano andati. E lui aveva fallito la missione.

A terra, dolorante, Walker si chiedeva quanto ancora avrebbe dovuto sopportare quella lenta agonia prima di morire.

Maledì la persona che l’aveva ingaggiato, maledì la rossa e il suo protettore che si erano messi in mezzo, maledì il biondino che gli aveva portato via una mano e la “principessa” che gli aveva preso la vita. Non c’era più motivo di andare avanti: ridotto in quel modo non avrebbe mai potuto ricominciare il suo lavoro.

Intraprendere una nuova vita? Dove? Non c’era spazio per quelli come lui in quel mondo. Respirando affannosamente per lo sforzo, infilò una mano sotto il mantello, ancora, e ne estrasse una fotografia.

La luce fredda della luna illuminò per lui il volto dolce di una ragazza dagli occhi vispi e il sorriso tenero. Anche sul volto di Walker apparve un sorriso tenero, per quanto strano potesse sembrare.

«Mia piccola Victoria… perdonami… ma sembra che non potrò pagare più le cure per il tuo male… bimba mia… perdona il tuo stupido… stupido… pap-…»

E un dolore più forte degli altri se lo portò via.

La mano scivolò lungo il fianco, ricadendo per terra, il suo volto si rilassò in un’espressione finalmente tranquilla, serena. La foto di Victoria finì a terra, in mezzo ai sassi, mentre il cielo veniva squarciato da un fulmine.

Una mano raccolse la foto, una mano fredda e liscia. Due occhi insensibili si posarono sul viso della ragazzina malata, a letto, che stringeva un orso di pezza. E una voce sussurrò parole infernali.

«Sembra proprio che questa prova fosse più grande di te, caro Walker.» la figura rise «Ma il tuo sacrificio e quello della tua bambina non saranno vani. Ti ringrazio.»

Una risata si espanse, assieme al suono di poche monete che rimbalzarono per terra, posandosi accanto al corpo dell’uomo senza vita. La figura lasciò cadere la fotografia della piccola Victoria, e si allontanò confondendosi con l’oscurità circostante.

Pochi minuti dopo iniziò a piovere, a piovere forte. La luna venne nascosta dalle nere nubi e l’ennesimo temporale si abbatté su Terren.

Nessuno, mai, avrebbe scoperto la reale identità né di quell’uomo morto nel labirinto, né di quella persona immortalata in una foto consumata dalla pioggia.

 

 

Note dell’Autrice:

Che dire? Questo capitolo è stato veramente ‘macabre’, soprattutto l’ultima scena. E’ normale che l’autrice abbia pena nei suoi stessi pg? Ed ecco la storia di Walker, seconda delle tante vittime di questa long. Beh, non voglio anticiparvi niente, spero solo che questo capitolo, notevolmente più lungo degli altri, vi sia piaciuto ^_^

Ringrazio come sempre Viola, Milou, Midao e Nade per le recensioni, in particolare Nade per la segnalazione. Sinceramente, non penso che Snow possieda le caratteristiche adatte a una storia scelta – autostima sotto i piedi -, ma… ma è stato un gesto bellissimo! Un gesto che mi ha reso davvero tanto, tanto felice! >_< Quindi grazie! È bellissimo sentire la propria storia apprezzata fino a questo punto!

Ora smetto di annoiavi ^^ vi lascio con un’ultima notizia: sto effettuando una revisione grammatica, storica e geografica della storia, per cui, se tornate indietro di alcuni capitoli, noterete svelato finalmente il mistero dell’accento di Nathan, diventato ufficialmente tedesco! Mentre la nostra Annuccia è ufficialmente inglese!

 

Al prossimo capitolo! Baci,

Sely.

 

     

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Capitolo 23
*** La quiete dopo la tempesta ***


What colour is the snow

What colour is the snow?

Capitolo 23: La quiete dopo la tempesta.

Il campanello suonò, ed un trillo squillante riecheggiò per l’appartamento Darkmoon.

La piccola Sogno, che sino a quel momento si era concessa un sonno spesso interrotto dal battere violento della dura pioggia contro il freddo vetro delle finestre serrate, o dallo scoppiare urlante di un fulmine ben lontano, sobbalzò spalancando gli occhi. Ancora un po’ assonnata, e quindi poco lucida, fece correre i grandi occhi verdi sulle pareti della casa, cercando quell’orologio che ricordava essere affisso tra la porta del ripostiglio e il grande armadio di Damon. Finalmente le sue iridi pallide si poggiarono su quelle lancette che, pigramente, segnavano il lento procedere del tempo verso le ventitré e quaranta.

Avevano davvero suonato, o forse si era immaginata tutto? Riflettendoci bene, le pareva abbastanza strano che i ragazzi fossero già tornati, perché le feste di solito terminavano molto più tardi. Timidamente, guardò in direzione della porta, da cui non proveniva assolutamente nessun rumore.

“Forse me lo sono immaginato…” pensò, quando…

«Sogno!»

“Eek! Non me lo sono immaginato!”

La voce di Nathan era arrabbiata, allarmata, e Sogno scattò in piedi, rischiando di perdere l’equilibrio mentre inciampava nelle scarpe.

«Arrivo!» urlò, sebbene la sua voce, ancora un po’ assonnata, fosse più lieve del solito. Agitò le braccia per provare a ravvivarsi i capelli e l’aspetto, non volendo apparire come uno spaventapasseri davanti ai suoi amici splendidamente agghindati.

Immaginava già di trovarli perfetti come li aveva lasciati qualche ora prima, quando erano partiti per il ballo. Già, così immaginava la dolce Sogno. Di certo non si aspettava che quando avrebbe finalmente raggiunto la porta e, spalancatola di corsa e con un gran sorriso, si sarebbe trovata davanti ad uno spettacolo che mai avrebbe voluto vedere.

C’era al centro della scena Nathan – lui era molto spesso al centro delle cose -, con i vestiti e la pelle sporchi di sangue, che gli colava giù dal fianco e che aveva ormai conquistato la giacca e buona parte del pantaloni. Sul viso aveva un’espressione stanca ed affaticata, respirava male ed era più pallido del solito.

L’aveva in braccio, la sua Annlisette, addormentata; ella non sembrava essere ferita, almeno non fisicamente. Delle grandi lacrime le solcavano il viso, ed era pallida come un cencio.

Infine c’era Damon, malamente tenuto da Nathan per il colletto della camicia, posato per tre quarti a terra, inerme. Anch’egli aveva i vestiti sporchi di sangue, a tratti strappati; una lunga ed inquietante striscia rossa gli partiva da una tempia e gli raggiungeva mento.

Tutti e tre grondavano acqua e fango.

Sogno sgranò gli occhi ed emise qualche parola senza voce. Poi, però, non sembrò resistere alla scena; le gambe le cedettero ed il cuore le salì in gola, e a breve si ritrovò a terra… svenuta.

Nathan la fissò allibito, contemplando per qualche secondo l’immobile figura dell’unica persona che in quel momento avrebbe potuto dargli una mano, e che, invece, si era trasformata nell’ennesimo peso morto che si sarebbe dovuto trascinare fin dentro casa.

«Oh, magnifico!» commentò ironicamente, abbandonandosi a una smorfia di dolore.

 

Quella fu sicuramente una delle notti più lunghe e difficili della vita di Nathan Metherlance.

Tralasciando il fatto che qualcuno aveva deliberatamente cercato di uccidere la povera Ann – e, sebbene non sembrasse, quel combattimento aveva provato molto duramente tutti coloro che vi avevano preso parte, non solo la ragazza -, il momento più difficile della serata era venuto sicuramente più tardi, quando si era ritrovato all’improvviso a dover curare tre persone, di cui una gravemente ferita: Damon.

Il giovane Angelo dagli occhi vispi era intervenuto contro il killer non appena Angel si era lanciata dritta nella battaglia.

Aveva sostenuto uno scontro durissimo con l’uomo bardato di morte, che gli aveva inflitto numerose ferite, soprattutto un colpo molto potente alla nuca. Nathan aveva paura che si trattasse di trauma cranico, proprio a ciò era dovuta gran parte della sua agitazione.

Di certo non poteva portare Damon in ospedale! Gli Angeli non dovevano andare in ospedale!

Perciò aveva affidato ogni speranza a Sogno, la quale ora giaceva candidamente sul letto, ancora svenuta.

Si era quindi arrangiato come poteva, dapprima tamponando il sangue e poi fasciando la testa del cugino. Ogni barlume era ora proteso verso quell’esperienza vissuta a Hidel, che gli ricordava che gli Angeli guarivano molto, molto velocemente.

Tuttavia, nemmeno loro erano immuni al dolore, e questo poteva leggerlo sia sul volto di Damon che sul proprio. O meglio, sul proprio lo poteva solo immaginare, preso com’era dal tentare di estrarsi quel maledetto proiettile dal fianco con una pinza.

Non ci riuscì, per quanto provò a lungo. Alla fine, capendo che l’unica cosa che stava concludendo era imbrattare la tappezzeria di sangue e farsi ancora più male, e vinto da un forte capogiro, si sedette sul divano ormai mezzo rosso, accanto a Damon sdraiato ed ancora sofferente, che di tanto in tanto emetteva qualche mugolio contrito.

Nathan sentiva le forze mancargli e la vista appannarsi frequentemente. Non reputava di essere conciato malissimo, ma era consapevole di non essere nelle condizioni adatte per alzarsi e tentare ancora una volta di svegliare Sogno con un tocco poco gentile, o urlare il suo nome col rischio di svegliare tutto il palazzo – e non era assolutamente un bene far scoprire il sangue che colava lungo le scale prima di avere il tempo di pulirlo via.

Aveva disperatamente bisogno di Sogno.

«Sogno… !» provò, senza però ottenere risposta.

Un nuovo dolore al fianco lo costrinse a serrare i denti e piegarsi, per poi tentare di tamponare come poteva la ferita brutalmente aperta. Le percezioni si stavano affievolendo man a mano, e l’Angelo cominciò a chiedersi ironicamente come avesse fatto a sopravvivere ad un mezzo sbranamento, se ora si lasciava andare per così poco.

«Sogno, per le luci del Paradiso e il fuoco dell’Inferno, svegliati!» esclamò a voce più alta, e gli parve di sentire un mugolio dalla stanza ove Sogno giaceva.

Fece un debole sorriso, divertito dalla tragicomica assurdità di quella situazione.

«Se non arrivo a domani giuro che tornerò per pers-…»

L’invettiva venne però interrotta da un groppo che gli salì ferocemente in gola, costringendolo a bloccarsi per poi piegarsi in due e tossire violentemente. Portò una mano alla bocca - merito di qualche insegnamento di bon ton poco utile in quella situazione - e quando riaprì gli occhi, si accorse con crescente rabbia che anche questa era tinta di rosso vivido.

Il tempo cessava precipitosamente di esistere, e così anche lo spazio, in un vortice che gli dava la nausea. Quando avrebbe smesso di girare, quel mondo impazzito all’improvviso? Ogni cosa veniva inghiottita da una strana nebbia nera che tanto gli ricordava quella della bianca della sua Francoforte.

Udì qualcosa simile ad un gridolino femminile poco lontano, tuttavia non avrebbe saputo dire con certezza se fosse verità o qualche subconscia reminiscenza; poi un paio di braccia fragili che cercavano di sorreggerlo mentre cadeva in avanti… o una cosa simile, sì, insomma…

Ormai niente gli era più ben chiaro.

La visione della propria mano insanguinata aveva aperto uno squarcio nei suoi ricordi, e, mentre sveniva, gli parve quasi di trovarsi di nuovo in quella stessa situazione in cui…

 

La situazione non era decisamente delle migliori. Non lo era mai, da quando abitava in quel maledetto palazzo di marmo e polvere. Faceva caldo, troppo caldo per essere solo marzo. E nel palazzo dei Fideles c’era troppo rumore, troppo per le sue orecchie abituate a farsi cullare dal suono del vento.

Sbatté con rabbia la porta alle sue spalle.

«Nathan!» una voce femminile al di là della porta chiusa lo chiamò con fare concitato.

«Vattene via, Anita!» sbuffò il biondo, lanciando un’occhiata torva alla fredda porta in legno e ferro che faceva da muro tra lui e la giovane donna.

«Per favore!»

Anita non sembrava volersi arrendere; non si sarebbe arresa affatto, questo Nathan lo sapeva benissimo.

E gli dava un grande, enorme fastidio. Quella ragazza in sé, con tutte le sue manie di altruismo e di bontà verso chicchessia, gli dava un grande, enorme fastidio.

Brontolò malamente quando ella, caparbia, volle comunque entrare nella piccola e pulitissima stanza bianco opaco. Nathan aveva lasciato le grandi porte esterne aperte prima di uscire, e un forte vento caldo scompigliava i capelli chiarissimi della giovane dallo sguardo etereo, che avanzava timidamente tenendo strette le mani sulla lunga gonna rosa.

L’uomo la guardò severamente.

«Se mi hai seguito per metà palazzo solo per dirmi che devo portare pazienza con quella megera…»

«Quella megera è la tua padrona, Nate. Non devi portare pazienza, ma rispetto.» lo bloccò lei, avanzando di un passo sul pavimento così lindo da riflettere la sua immagine pallida e trepidante.

«Rispetto.» ripeté Nathan, sfidandola con un sorriso cattivo «Sì, hai ragione. Come ho fatto a non capirlo prima? Devo portare rispetto ad una persona che mi ordina di ammazzare la gente!»

Sbottò così, alzando la voce di parola in parola.

Anita continuava ad arretrare, visibilmente a disagio.

«Ancora con questa storia? Non ci è permesso ribellarci, lo sai…» volle provare ancora la giovane, con voce sempre più bassa «E non urlare contro di me! Sono l’unica dalla tua parte finché sei qui.»

Nathan rise amaramente «Oh, certo, l’unica dalla mia part-…»

Un colpo di tosse molto forte lo costrinse ad interrompersi; questo fu seguito da un secondo, poi da un terzo, che indussero il giovane ad appigliarsi al pianoforte che si trovava al centro della stanza.

Anita gli fu subito accanto per controllare le sue condizioni. Il ragazzo respirava affannosamente, con la schiena piegata ed il volto contratto in una smorfia di dolore. Lei gli scostò dal viso una lunga ciocca di capelli, per poi riprenderlo con voce piegata dalla rabbia e dalla tristezza «Oh, stupido, te l’avevo detto di non scendere in paese durante l’epidemia! Te l’avevo detto che Auror non aveva bisogno di cure! Perché non mi dai mai retta?»

«Chiudi la bocca…» la zittì lui, arrancando.

Anita poté riconfermare per l’ennesima volta che nemmeno in situazioni così gravi Nathan perdeva il suo tatto degno di un animale. Presa da un moto di ribellione, gli mollò una sonora sberla sul capo.

Il ragazzo si lamentò per il dolore e si massaggiò la parte colpita, poi le lanciò uno sguardo di fuoco. Anita ricambiò orgogliosamente, ed ebbe così inizio l’ennesima guerra di sguardi arrabbiati; da un lato Nathan, che sembrava voler scaricare addosso a lei tutta la sua frustrazione per quella situazione e la mestizia che non riusciva ad esprimere a parole; dall’altro lato Anita, immersa ormai da tempo immemorabile in un’opera che sembrava sempre più ardua: insegnare a quel ragazzo l’umile mestiere del Servant.

«Lady Metherlance deve esserne avvertita subito…» sussurrò la ragazzina ad un certo punto. Tenendo ancora le mani sulle spalle di Nathan a mo’ di sostegno, lo aiutò a rimettersi in piedi.

Sul volto della ragazza traspariva ancora tanta, tanta preoccupazione; Nathan la fissò.

Lui odiava far preoccupare gli altri, era fin troppo orgoglioso e convinto di essere autosufficiente, eppure, ironia della vita, sembrava essere perseguitato da gente che voleva proteggerlo da ogni soffio di vento: prima Lilien ed Auror, poi Alkyius, mister Ruskin – sebbene per motivi ben lontani dal puro desiderio di difenderlo… -, Anita… ma mai Sole Metherlance, la sua padrona, l’unica persona che avrebbe davvero dovuto prendersi cura di lui.

«Figurati…» borbottò con voce ancora affaticata, spostandola di lato con insolita delicatezza «Non servono le parole. Sicuramente l’avrà già capito da sé.»

Diede le spalle ad Anita e si diresse verso il grande balcone. Quando andava lì, era perché voleva stare da solo. La ragazza, comprendendo le necessità dell’uomo e dimostrando grande maturità, decise di non calcare ancora la mano col rischio di inferire su di lui, che a prima vista poteva sembrare molto bisbetico e presuntuoso, ma che in realtà era soltanto molto sensibile. Ciò Anita lo aveva capito da parecchio tempo, e forse era proprio per questo che lei era l’unica ad avere un vero rapporto con Nathan, lì, alla corte dei Fideles.

Silenziosamente, come un’ombra, si mosse all’indietro in quella stanza così bianca e pulita, e, dopo aver lanciato un ultimo sguardo e un sospiro affranto in direzione di Nathan e del suo destino segnato, uscì.

Rimasto solo, l’uomo poté finalmente dirsi sereno. Beh, quanto può essere sereno qualcuno che sa che morirà presto. Ma ormai se n’era fatto una ragione: la sua vita sarebbe stata breve, sì, ma intensissima.

Ripensò a tutte le cose assurde che gli erano capitate negli ultimi nove anni,  a quante ne dovevano ancora accadere. Era suo desiderio vedere le sue nipotine crescere, farsi grandi e belle, ritrovarsi assieme a Gray a pedinarle, entrambi pervasi da quella gelosia tipica di padri e zii apprensivi. E tornare con Auror nel campo dove giocavano da bambini, dove Alkyius gli aveva insegnato come usare la spada…

«Ahia…»

Si lamentò per una nuova fitta ai polmoni. In un moto di rabbia, sbatté la mano stretta a pugno sul petto, prima di doversi di nuovo appigliare al primo oggetto che gli capitò – la ringhiera – pur di tenersi in piedi. Nuovi colpi di tosse proruppero dalla sua gola, più violenti del solito.

Se fino ad allora Nathan aveva mantenuto viva una flebile speranza di sopravvivere alla tisi che aveva infettato metà città, in quel momento, mentre i suoi occhi sbarrati si posavano sulla sua mano macchiata di rosso e sentiva l’amaro miscuglio della saliva e del sangue in bocca, anche quel barlume si spense, consumato.

Fece un amaro sorriso, pensando che avrebbe dovuto sbrigarsi a far visita alla sua amata Auror finché poteva…

 

«Che nottata da dimenticare…»

«Cugino!»

La voce scocciata ed il tono grave di Nathan fecero alzare il capo alla piccola Sogno. La ragazza aveva passato delle ore terribili, durante cui aveva pensato seriamente diverse volte di star per perdere Nathan e Damon: il suo aspetto, sciupato e trasandato, l’abito spiegazzato e sporco di sangue in vari punti, le pesanti occhiaie e il viso pallido lo confermavano.

Guardarla, così seduta e fremente, mentre teneva stretta la mano di un Damon ancora addormentato e sepolto da coperte di vari colori, fece sentire Nathan in colpa. Aveva ceduto proprio quando ella aveva avuto più bisogno. Lui e Damon l’avevano lasciata sola. Era una cosa orribile.

«Sogno…» mormorò, forzando poi un sorriso.

La ragazza sorrise il modo dolce e rincuorato, com’era prevedibile.

Nathan si guardò intorno per fare mente locale; riconosceva la stanza da letto di Damon, con quella umidità che rovinava il soffitto e gli armadi, la solita porta che dava sul balcone aperta, anzi, spalancata. Sogno sosteneva che fosse un bene far arieggiare l’ambiente il più possibile, mentre Damon odiava tornare a casa e trovarla immersa in un gelo che avrebbe fatto invidia a Hidel.

L’uomo abbassò lo sguardo sul proprio fianco, che ancora gli trasmetteva qualche fitta di dolore, e fu preso per un attimo dalla stizza. Era a petto nudo.

Si guardò intorno un paio di volte e notò una delle sue camicie bianchissime poggiata poco lontano da lui. La afferrò con un gesto veloce e se la infilò, mentre sentiva Sogno ridacchiare.

«Cugino…»

«Non ridere.» la rimproverò lui «Fa schifo a me, figurarsi a una donna.»

«Ci sono abituata, e non mi ha mai fatto molta impressione…» ribadì lei, poi tornò a stringere la mano di Damon, che sembrava immerso in pacifici sogni.

Anche Nathan osservò a lungo Damon, ringraziando il cielo che almeno lui non stesse rivivendo brutti ricordi. Ma era visibilmente provato, molto provato; nonostante l’eccellente medicazione di Sogno, avrebbe dovuto attendere ancora un po’ di tempo prima di rimettersi completamente. Per adesso era meglio lasciarlo lì, a riposare sotto le calde coperte di mille colori. Faceva quasi tenerezza con quella benda legata a mo’ di turbante.

Sogno sorrise a Nathan, e quell’immensa dolcezza riuscì a trasmettergli un attimo di pace, prima che altre fitte tornassero a ricordargli che…

«Il sangue sulle scale?»

«Pulito!» sorrise Sogno.

«La pallottola?» continuò lui, con tono autoritario.

«Estratta!» esclamò la giovane con fare fiero, per poi indicare una vaschetta posta sul comò di legno dietro di sé.

Nathan annuì seriamente «L’analizzerò dopo. Ann?»  

«Sta bene.» annuì la bionda «Molto meglio di quanto pensavo. È di là, sta facendo colazione.»

Era davvero così presto? Il cielo scurissimo e coperto di nubi che si intravedeva dalla porta aperta non permetteva a Nathan di determinare con precisione l’orario. Passò accanto a Sogno e, dopo aver finito di infilare i bottoni nelle rispettive asole, le scompigliò i capelli con fare fraterno.

«Grazie, piccolina. Ti devo due vite.» sorrise, ingentilito da quella figura così semplice ed eterea.

Sogno ridacchiò sottovoce, correndo con la mente a quando, quasi due anni prima, lo aveva salvato dal morire dissanguato a causa di un lupo che l’aveva scambiato per la sua cena.

L’Angelo uscì dalla stanza da letto e si richiuse la porta di legno alle spalle con un rumore sordo, lasciando che Sogno si abbandonasse ad un sospiro, seguito da un sorriso apprensivo.

«È abbastanza triste…» sussurrò a bassa voce, chinandosi su Damon per potergli prendere teneramente anche l’altra mano «... pensare che anche in situazioni simili, lui pensa sempre e comunque prima al lavoro, e poi alle persone che ama…»

Dall’altro lato della parete, Nathan cercava Ann con lo sguardo.

Attraversò il corridoio stretto e alto di gran corsa, dando sfuggenti occhiate ad ogni stanza che gli si prospettava davanti. Sogno aveva detto che la ragazza stava facendo colazione, ma l’Angelo aveva seriamente paura che ella potesse commettere qualche improvvisa sciocchezza.

E come darle torto? Poche ore prima aveva ucciso un uomo!

Tuttavia, lui non gliel’avrebbe fatto pesare ed avrebbe anche tentato di non parlarne se fosse stato possibile. Odiava aver trascinato quella ragazzina così fragile in mezzo ad una guerra che nemmeno lui capiva, e non poteva fare a meno di addossarsi la colpa. Nathan però non era una di quelle persone che si auto compiangevano, il suo smisurato orgoglio non gliel’avrebbe mai permesso. Il passato era passato e non vi si poteva più lavorare per migliorarlo; nella propria mente, l’uomo sapeva già bene cosa fare.

Solo il suono dei suoi passi rumoreggiava per l’appartamento, e tutto quel silenzio non faceva che inquietarlo, mentre avanzava con passo fermo ma nervoso, sollevando i capelli chiari per legarli in una coda con un nastro nero che aveva recuperato da una delle tasche dei pantaloni.

La trovò proprio dove Sogno aveva indicato, la piccola Ann. Aveva sciolto le lunghe chiome corvine e si era lavata il sangue di dosso; si era anche cambiata ed ora indossava un abito da casa con qualche toppa qua e là sulla gonna.

Nathan si domandò di sfuggita se avesse deciso di buttare il vestito della sera prima, quello così bello da farla sembrare più Angelo di lui e tutti gli altri messi insieme. Successivamente si diede dello stupido, ricordandosi che il sangue non poteva essere cancellato, e che, ovviamente, non ci sarebbe stata scelta alternativa a quella di buttarlo.

Rimase sulla porta, correndo con gli occhi inespressivi sul profilo della ragazzina, che in quel momento spalmava con lentezza della marmellata sul pane duro del giorno prima. Poggiava i gomiti sul tavolo, fregandosene del galateo, con la rigida compostezza di un manico di scopa.  Era pallida, il viso appariva smorto e le occhiaie pesanti; Nathan rise amaramente, pensando che lui doveva essere anche peggio ridotto: l’avrebbe spaventata, uscendo dalle tenebre del corridoio come un fantasma?

Abbassò lo sguardo sul freddo pavimento, e quando lo rialzò, pochi secondi dopo, si mosse per raggiungerla.

Di tutte le cose sbagliate che avrebbe potuto dire in quel momento, quella che scelse fu probabilmente la peggiore.

«Buongiorno.» la salutò con un mezzo sorriso, come se niente fosse accaduto.

Si fermò a pochi passi da lei seduta, che alzava in quel momento il capo per ricambiare l’occhiata curiosa che le era stata lanciata.

Non un sorriso, non una reazione, e la cosa impensierì molto Nathan. Gli parve che ella stesse per aprire bocca per dire qualcosa, azione di cui si pentì immediatamente, annullandola. L’uomo inclinò il capo, rimanendo senza parole. Erano quelle le situazioni in cui davvero non si capacitava di come la sua celebre loquacità svanisse crudelmente.

Ann posò sul tavolo la bianca tazza calda che aveva tenuto tra le mani fino all’arrivo di Nathan, tornò a guardarlo e disse coi suoi occhi spenti «Buongiorno.»

Il tono piatto e asciutto fece sospirare l’Angelo, che si tratteneva dall’allungare una mano sul suo capo e carezzarle i capelli; sapeva che Ann non gradiva attenzioni e cure che potevano essere facilmente interpretate come compassione: se si voleva conquistare la fiducia di quella ragazza, bisognava trattarla come una donna. Ma la piccola Ann era così fragile ai suoi occhi… fragile come solo gli umani sanno essere.

Il primo istinto di Nathan fu quello di chiederle se stesse bene, solo dopo si rese conto dell’enorme errore che stava per compiere; optò per qualcosa di più consono alla situazione «Posso farti compagnia?»

La ragazza rimase a fissarlo per qualche secondo, dopodiché gli fece notare con voce atona «Lo faresti anche se ti dicessi di no.»

Nathan fece un mezzo sorriso ed infilò una mano nella tasca dei pantaloni «Sono così prevedibile?»

«No.» negò lei col capo, seguendolo con gli occhi mentre si accomodava sulla sedia all’altro capo del tavolo vecchio e triste «Al contrario, sei così imprevedibile da fare paura.»

«Ma davvero? Anche tu hai paura di me?»

Nathan la buttò lì, quella domanda, a bruciapelo, con il viso contratto in un’espressione di rassegnata consapevolezza, senza immaginare nemmeno quanti spunti avesse dato ad Ann con quelle poche parole. Ancora una volta confermava la sua natura non umana, o, se umana, decisamente poco incline all’umanità, ed ancora una volta era vago, non lasciava capire a chi diavolo si stesse riferendo. Chi, oltre lei, poteva avere paura di lui?

Normalmente Ann avrebbe dato sfogo a tutte le sue fantasie, creando ponti immaginari tra varie ipotesi che in realtà non stavano né in cielo né in terra, ma non quel giorno.

Quel giorno, era come se ogni cosa che le passava davanti fosse in bianco e nero.

Osservava Nathan, ma non riusciva a cogliere colori nella sua immagine, e così anche la sua voce non era chiara, ma ovattata e lontana, e le arrivava alle orecchie tramite un’eco ancora più smorzato.

Bevve un altro sorso dalla sua tazza di latte, facendolo volutamente attendere, mentre ripassava mentalmente alcuni eventi che aveva in passato catalogato come “sottigliezze”.

Nathan freddo come un morto il giorno dopo la morte di una cittadina di Hidel. Nathan vago nella foresta, che scatena la sua belva interiore contro uno sconosciuto. Nathan che viene ferito ed il giorno dopo è magicamente guarito del tutto. Nathan che le mente e le fa credere di essere pazza pur di proteggere gli Angeli. Nathan che la guida fuori dal villaggio, e che la porta in quella città, che, alla fine, se l’era divorata, quella piccola Ann.

Posò la tazza sul tavolo e gli occhi sulla tazza.

«A volte sì…»

Mormorò così, a malincuore; non poteva mentirgli. Nonostante tutto, sapeva di essere profondamente legata a quell’uomo, pur con tutte le sue stranezze e i suoi segreti.

Lo sentì sospirare, ed immaginò di averlo ferito. Le doleva molto, l’ultima cosa che voleva era dargli un dispiacere, ma tutti erano usciti feriti dalla battaglia della sera prima, e non erano ancora nelle condizioni di rimettersi a giocare col solito puzzle di frasi lasciate a metà e sguardi che dicono tutto e niente.

«Non devi dispiacertene.»

La voce dell’Angelo era ancora un’eco lontana nella mente appannata di nero di Annlisette, che si sforzò di alzare il capo, che quella mattina sembrava più pesante di un macigno.

Vederla ridotta in quello stato era davvero frustrante per Nathan, che non sapeva più quali carte giocare. Tenerla lontana da quei ricordi era davvero la scelta migliore? O forse bisognava affrontarli una volta per tutte? Combattere i problemi di petto era sempre stato nella natura di Nathan, ma la piccola Ann non sembrava poter reggere un eventuale scontro coi suoi ricordi, non ora perlomeno.

Avrebbe voluto dirle “Ti capisco, anch’io mi sono sentito così”, ma sarebbe stato davvero poco consolatorio; e di batoste, quella mattina, ne aveva davvero tante da darle.

Con che coraggio le avrebbe rivelato che…

«L’ho vista.»

A Nathan si gelò il sangue nelle vene ed alzò lo sguardo velocemente, impietrito.

«Il famoso tuo difetto fisico più grande, quello che mi dovevi mostrare quando eravamo a Hidel.»

L’uomo tirò un lungo, lungo sospiro; Ann lo interpretò come l’ammissione di una sconfitta, ma in realtà Nathan sospirava di sollievo, perché aveva per un attimo pensato che Ann si fosse ritrovata davanti a quell’altro spettacolo che doveva riferirle, ben peggiore di quello che si portava sulla schiena.

La osservò qualche secondo, in silenzio, cercando di cogliere nel suo sguardo la minima traccia di disprezzo, disgusto, qualsiasi cosa l’avrebbe aiutato a credere che non era l’unico a reputare la sua cicatrice come qualcosa di assolutamente nefasto, e non come una stupida prova di potenza.

«Da uno a dieci, quanto fa impressione?»

«Otto e mezzo.» rispose prontamente Ann, forse esagerando un po’.

L’uomo annuì con soddisfazione «Apprezzo la tua sincerità.»

Se non fossero stati reduci da quella orribile notte, Ann avrebbe domandato immediatamente e con la voce invasa dalla curiosità, interessatissima, come avesse fatto a procurarsi quella terribile ustione nera che gli invadeva la schiena dalla parte lombare alle spalle. La pelle, in quei punti, sembrava pronta per cadergli a pezzi.

«Molte persone mi dicono di reputarla come il prezzo di una vittoria contro un nemico.» spiegò l’uomo con ben poco entusiasmo nella voce «Io la reputo solamente come la prova di una sconfitta che non posso levarmi di dosso.»

Aveva provato a stuzzicare la curiosità di Ann, ma nemmeno quel tentativo aveva avuto successo. La ragazza sembrava immune a tutto, e Nathan cominciava a temere seriamente per la sua salute mentale; avrebbe dovuto portarla da un dottore?

«Mi fa impressione…» mormorò all’improvviso la ragazzina, guardandolo con sguardo basso ed occhi impauriti «Non scoprirla mai davanti a me, per favore…»

«Ann…»

Non poteva lasciarla lì, in quel modo, a soffrire in silenzio. Nathan si mise in piedi e la raggiunse, si abbassò fino a sedersi sulle ginocchia, quindi le posò una mano sulla guancia, carezzandola gentilmente «Hey, non è stata colpa tua.»

«Ah no…» rise velenosamente la ragazza «È stata “Ann 2” ad ammazzare quel tizio…»

«Quel tizio voleva ammazzarci tutti, Ann!» ribatté rabbiosamente lui, poi, con mestizia, soggiunse «E in parte ci è riuscito…»

In quel momento, i timori che fino a quel momento Ann aveva tenuto nascosti in un cassetto, uscirono con inaudita violenza, spingendola ad una reazione agitata. Mosse velocemente una mano, agguantando un braccio di Nathan «Angel?!»

Il volto di lui non fece una piega, ma non proferì parola.

Lei sentì una gran rabbia montare dentro.

«Smettila di essere così insensibile! Dimmi la verità, per l’amor di Dio! E dimmela subito!» esclamò la ragazza, con il viso contratto dalla tristezza e dalla rabbia, afferrò anche con l’altra mano il braccio di lui e lo strinse forte, come a volergli fare male per assicurarsi che fosse ancora in grado di provare emozioni.

«È morta.»

La risposta fu lapidaria e lasciò Ann sbigottita. Il mondo, che quella mattina era offuscato di nero, stava diventando ancora più scuro. Afferrò d’istinto un angolo del tavolo per evitare di cadere in ginocchio, e venne prontamente sorretta da una mano di Nathan che andò a stringersi attorno al suo avambraccio.

Avrebbe voluto rispondergli, chiedergli se era uno scherzo, e a quel punto Nathan le avrebbe fatto uno dei suoi soliti sorrisi beffardi, e le avrebbe sussurrato con malizia “ci hai creduto veramente?”. Sì, avrebbe pagato oro perché questo desiderio si avverasse.

Come ogni volta in cui si apprendeva la notizia della morte di una persona, Ann corse mentalmente all’ultima immagine che aveva di Angel: una fierissima e bellissima Angel illuminata dalla luce lunare, coi capelli rosso fuoco al vento e lo sguardo fermo, determinato nel minacciare quel maledetto killer, ma dolce quando le aveva rivolto l’ultimo sorriso, prima di invitarla a scappare.

Angel aveva combattuto valorosamente per proteggerla, ed era caduta sul campo di battaglia… per lei?

In modo masochista, la mente della ragazza galoppò oltre la sua volontà, mostrandole mille modi in cui il corpo, il bellissimo corpo della povera donna, potesse essere stato martoriato. Sentì le lacrime sgorgarle violentemente dagli occhi e le mani tremarle, abbassò lo sguardo, e pianse.

Tutta la fermezza mostrata fino a quel momento le scivolò via dalle mani, e i nervi saldi si spezzarono come un filo che molto a lungo era stato teso all’estremo, oltre le sue capacità.

Cercò rifugio tra le braccia di Nathan, che nemmeno allora le negò il suo conforto tramite leggere carezze sul capo ed una stretta vigorosa. La notizia più terribile era stata data, il peggio era passato.

Rimasero fermi così diversi minuti; la maschera di Ann era stata calata, ora poteva piangere quanto voleva per la morte di quella che aveva cominciato a reputare come una mentore. Angel così saggia, Angel così bella e misteriosa, Angel a volte inquietante, che però alla fine l’aveva protetta con tutta se stessa, e che le aveva fatto aprire gli occhi. E le aveva fatto capire che doveva imparare a uccidere i “vampiri”, come li chiamava lei, le persone malvagie.

Era quello il compito degli Angeli? Ed Angel faceva parte di loro, oppure il suo nome era solo una curiosa coincidenza?

Nonostante faticasse a parlare a causa dei continui singhiozzi che le mozzavano violentemente il respiro, la mente totalmente svuotata, lo stomaco avvolto in uno strano gelo e le mani tremanti, Ann si sforzò di articolare «Sono stati i Demoni?»

A quelle parole, Nathan corrucciò la fronte. Non aveva in realtà idea di chi fossero i veri mandanti del killer, anche se gli era parso di vederlo al quartier generale degli Angeli. Era solo un ricordo sfocato di un volto che avanzava rapidamente nel corridoio d’ingresso, quello invaso dalle luci che a Sogno spesso facevano paura.

«Non lo so, immagino di sì…» mentì, conscio che anche quella era una bugia a fin di bene. Del resto non poteva mica dire ad Ann che il gruppo a cui aderivano lui, Sogno e Damon, aveva così, di punto in bianco, deciso di farla fuori!

Ma una cosa era certa: lui si sarebbe recato dagli Angeli il prima possibile, ed in base alla risposta che gli sarebbe stata data, avrebbe deciso contro chi scatenare una guerra.

«Che ne avete fatto del corpo?» continuò lei.

La voce di Nathan si incrinò leggermente, segno che nemmeno lui era insensibile a quanto era accaduto, sebbene Angel non fosse nella lista delle persone che aveva a cuore «È stato portato via dagli Angeli, provvederanno loro a darle degna sepoltura.»

«Angel faceva parte degli Angeli?» fu la terza domanda della piccola Ann, che riuscì finalmente a trovare la forza di alzare il capo, asciugandosi nel frattempo una lacrima.

«No.» rispose lui, deciso «Era un’informatrice, nient’altro.»

«L’ha uccisa perché si è messa in mezzo?» provò allora lei, ma non ottenne risposta. Non c’era bisogno di una risposta per una domanda talmente retorica.

La figura dell’assassino era sempre più confusa agli occhi di Nathan, sebbene i tasselli del puzzle in suo possesso fossero diversi e numerosi.

L’informatrice collaborava attivamente con gli Angeli, ed era davvero un pozzo d’informazioni e dati, non avrebbe avuto senso ucciderla.

A meno che l’ordine impartito all’uomo fosse un semplice “uccidi chiunque ti troverai davanti”. 

No, non quadrava.

Quello non era un ordine tipico di Marcus. Marcus era troppo attento ad ogni dettaglio per farsi sfuggire una cosa del genere, e sicuramente non era nemmeno così sprovveduto da mandare contro di loro una persona conosciuta da Nathan.

“E se fosse una dichiarazione di guerra?” si chiese l’Angelo.

Marcus aveva tutti i motivi per non averlo in simpatia, ma cosa poteva avere contro Ann? Davvero avrebbe mosso tutto quel putiferio solo per quella stupidissima legge che vieta ad un Angelo di affezionarsi ad un umano? Non c’era altra spiegazione: nessuno sapeva che Ann era a conoscenza dell’esistenza di quella guerra.

Ma non gli sembrava credibile come scusa. Marcus, probabilmente, sarebbe stato più propenso a buttarlo fuori dal gruppo, oppure ad allontanarlo definitivamente da Hidel, come in effetti aveva tentato di fare, prima che Jen parlasse con lui…

«… Aspetta…» mormorò, senza rendersene conto, con espressione persa nei propri pensieri.

Ann alzò un sopracciglio mentre finiva di lavarsi le lacrime dal viso rosso «Che hai detto?»

«Ah, nulla.»

Nathan tornò a sorridere. Ann lo squadrò arrabbiata.

«Sì, nascondimi le cose, messere Metherlance. Andremo lontano senza dubbio…» lo riprese con poca voglia, ormai rassegnata a quel continuo eludere le sue domande.

Nathan la osservò qualche secondo, poi sospirò «D’accordo, d’accordo. Sediamoci e parliamo di tutto quello che vuoi.»

Sentendo la parola “tutto”, il cuore di Ann aveva fatto un piccolo balzo. Per un attimo aveva davvero sperato che le raccontasse tutto, ogni cosa, la tanto ambita verità.

Tirò un lungo sospiro anche lei e si accomodò sulla sedia dove poco prima aveva fatto colazione, sistemando poi le pieghe della lunga gonna per calmarsi. Era il momento di mettere da parte il dolore e farsi ancora forza, perché la situazione stava diventando troppo pesante. Di tanto in tanto un singhiozzo la scuoteva ancora, creando un pietoso contrasto col suo sguardo determinato e freddo, puntato saldamente su quello di Nathan, seduto dal lato opposto al suo.

«Allora… meglio se parti tu, io non so più dove metterci mano.» cominciò lei, conscia che non era il miglior modo per iniziare una conversazione di quel genere. Ma peggio di così non poteva andare, si diceva Ann, e doveva trovare un modo utile per sfogare la sua grande rabbia, e prendere a pugni qualcuno era molto più soddisfacente di uno stupido piangersi addosso.

Nathan poggiò i gomiti e le mani sul tavolo, congiungendo quindi i due arti screpolati dal freddo, con fare pensieroso e serio «Ti ho già parlato di Jen e Marcus, giusto?»

«Qualcosina…» Ann si sforzò di ricordare ed annuì «Sono i capi degli Angeli.»

«Esatto.» asserì lui; fece per aggiungere altro, ma venne interrotto da Ann.

«Nathan, ci ho ripensato. È il momento di sbottonare il collo della camicia*, ed è meglio che sia io stavolta a fare le domande. Mi sforzerò di calmarmi…» il tono della giovane era intransigente e teso, il suo sguardo, sebbene ancora arrossato dalle recenti lacrime, mostrava l’antica fierezza che l’aveva sempre caratterizzata «Una volta, a Hidel, mi dicesti che avrei potuto chiederti tutto quello che volevo. Ti prego, dimmi che non ho usato male i verbi…»

Nathan rise, rivedendo davanti ai propri occhi la piccola contadina che sbagliava spesso a parlare.

«Giustissimi, non preoccuparti. Vai avanti.» la invitò infine, con tono gentile.

«Ecco…» riprese Ann, un attimo incerta.

Aveva mille domande da fare, ma non sapeva da quale cominciare! Alla fine scelse e tornò a fissare con intensità Nathan, volendo stare abbastanza attenta a cogliere ogni cambiamento di espressione, tono o momento di incertezza. Quell’uomo era davvero bravissimo nel mentire in modo credibile, e lei ne aveva abbastanza di essere presa in giro.

«Gli Angeli sono un gruppo piccolo o grande? Come sono organizzati?»

«“Angeli” è il nome del nostro gruppo. Quelli come noi si dividono in gruppi, ed ogni gruppo ha un proprio nome, che serve come segno di riconoscimento per quando veniamo a contatto gli uni con gli altri.»

Quella risposta fece strabuzzare gli occhi alla ragazza, che esclamò «Io pensavo che foste veramente Angeli! Di quelli con le ali, le aureole e le arpe!»

Nathan rise di gusto, divertito da quell’ingenua idea «Sì, è una cosa che dicono in molti.»

«Quindi siete… umani?» l’ultima parola venne pronunciata da Ann con un filo di speranza. Trovarsi in una guerra tra pazzi era meno inquietante di trovarsi in una guerra tra forze celesti e demoniache!

«Hm…» eccolo lì Nathan, che si preparava ad un’altra delle sue risposte che dicono tutto e niente «Sotto certi versi sì, sotto altri no.»

“Non me vuoi dare vinta, eh? Non pensare che stavolta mi accontenterò, Nate. È morta Angel, non stiamo più giocando…” pensò la giovane, sovrapponendo parole a pensieri, in una mescolanza di fervida animosità «Tipo?»

«Guariamo velocemente se siamo feriti.» l’accontentò ancora lui, rifacendosi agli eventi di quella notte «Hm… abbiamo un forte ascendente sui comuni umani.»

Ann annuì “Come me”, quel discorso poteva essere collegato a quel bellissimo profumo che sentiva sempre quando gli stava accanto?

«Altre domande?» continuò lui.

«Chi sono i Demoni?» incalzò lei.

­«Il popolo del suono.» Nathan sorrise, ricorrendo immediatamente con la mente ai loro nemici «I nemici degli Angeli.»

«Perché sono nemici degli Angeli?»

«Perché vogliono una cosa che è custodita sotto Hidel, una cosa che vogliono anche gli Angeli. Gli Angeli vorrebbero ottenerla senza far del male ai villici, il popolo del suono preferisce sterminarvi tutti per averla.»

Ann raggelò. Ogni muscolo del suo corpo divenne di ghiaccio, la sua mente smise di ragionare, avvolta da un fumo fatto consapevolezza e paura devastanti. Istintivamente e senza controllo, la sua mente corse all’istante alla famiglia Nevue, a suo padre e sua madre, a Gabriel, a Krissy e al signor Scottfish, a Guy, persino a Doralice; strinse i pugni sulle gambe, rigidissima. Erano in pericolo di vita? Tutti gli abitanti di Hidel lo erano? Persino lei, che aveva vissuto lì con spensieratezza, senza sapere che c’era della gente che voleva distruggere quel piccolo e pacifico angolo di mondo?

Fino a quel giorno avevano vissuto nell’illusione che la montagna li proteggesse di nuovo, dunque?

Rivide Joshua ed i suoi genitori, che le avevano mostrato una gentilezza che gli Angeli non avevano mai neanche accennato, e si chiese se fossero veramente pronti a sterminare un intero villaggio solo per i loro scopi. Tutta quella cordialità era solo una maschera?

Per lungo tempo aveva pensato che gli Angeli fossero i veri cattivi della situazione, ma aveva ceduto per amore di Nathan. E ora, con quel discorso, lui stava rivoltando le carte in tavola, distruggendo castelli instabili che aveva dolorosamente costruito attraverso lacrime, scoperte, morti e sparizioni di persone vere, non di giocattoli.

Ebbe quasi timore di chiedere «… Perché allora mi hanno portata tra loro e mi hanno trattata così bene? Mi hanno detto che voi non mi avete dato la possibilità di sapere la verità, loro mi hanno detto subito tutto quello che volevo sapere!»

«Sei ingenua, Ann.» la voce di Nathan divenne improvvisamente più dura e affilata, e la colpì nell’intimo «È ovvio che ti abbiano portato nel loro villaggio solo per farti credere che siamo noi i cattivi, nella speranza che tu, presa dalla paura, dicessi agli abitanti di Hidel di noi e foste voi a cacciarci. Se attaccati da loro, noi possiamo reagire violentemente; contro Hidel… non possiamo fare niente, non senza incappare nelle ire dei gruppi più potenti del nostro.»

Tutto quel discorso spaventava Ann, che vedeva sgretolarsi sotto i suoi occhi l’immagine cordiale e amichevole di Joseph e Joshua. Tuttavia, non poteva fare a meno di notare quanto Nathan stesse cercando di inculcarle la verità degli Angeli, dando immediatamente per falsa quella del popolo del suono, cosa che questi ultimi non avevano affatto fatto.

«Joshua mi ha detto che loro riescono a sentire un suono in ogni cosa, e che voi acquisite poteri speciali quando diventate Angeli. È vero?» chiese allora, tentando disperatamente di fare un minimo di ordine in quel mostruoso disordine.

«Sì.» annuì lui, serio.

«Vorrei sapere quali avete tu, Sogno e Damon.»

Nathan ci pensò su, ma alla fine decise di accontentare anche quella curiosità «Sogno riesce a curare con l’imposizione delle mani. Damon… Damon può sollevare cose tre volte più pesanti di lui, ma spesso si distrae e finisce col cadere rovinosamente a terra.»

Entrambi si fecero scappare una risata di un attimo, poi si instaurò nuovamente il clima serio di poco prima. 

«Ed io…» Nathan parve un po’ indeciso se vuotare il sacco, ma alla fine completò la frase «Io sento le emozioni degli altri.»

Ann fece un sorrisetto nervoso e inclinò il capo «Scusa, devo aver sentito male. Puoi ripetere?»

«Sento le emozioni degli altri.» ribadì lui.

«Ehm… ridillo?»

«Sento le emozioni degli altri.» stavolta la guardò male, essendosi scocciato di ripetere sempre la stessa cosa.

«… Ah.»

Ann lo squadrò ancora, visibilmente confusa. Improvvisamente si sentì molto imbarazzata, e capì che Nathan stava esattamente sentendo quello che sentiva lei quando lo vide sorridere in modo comprensivo. E d’un trattò le vennero in mente le mille volte in cui si era mentalmente chiesta se lui avesse sentito le sue emozioni. E quella famosa volta, poco dopo il loro primo incontro, quando…

«La prima volta che sei venuto a casa mia eri tristissimo.»

«Sì.» confermò l’altro, facendo scivolare i gomiti sul tavolo per avvicinarsi un po’ a lei «Avevo sentito che ti avevo turbata profondamente e me ne sono rammaricato.»

Quante cose acquistavano finalmente senso, quante volte venivano finalmente spiegate! E quanti pugni avrebbe voluto dargli! Come si permetteva di sbirciare così spudoratamente nei suoi sentimenti?

«È una cosa che non posso controllare, mi dispiace. Non arrabbiarti.» provò ancora lui, con un mesto sorriso.

Ann abbassò lo sguardo sulle proprie mani strette in grembo, quindi sospirò affranta. La verità le stava solo confondendo le idee, anziché chiarirgliele.

D’ora in poi si sarebbe persino imbarazzata a provare emozioni. Quella rivelazione metteva in luce un nuovo aspetto di Nathan, e spiegava almeno in parte quella sua incredibile apatia: forse, a furia di sentire le emozioni degli altri, aveva smesso di provarne di sue. Doveva essere una cosa orribile, ed Ann si sentì in pena per lui. Ma avrebbero riaffrontato l’argomento in futuro, in quel momento voleva parlare di Hidel, dei suoi abitanti in pericolo, e capire che cosa poteva fare per proteggere almeno loro.

«Che cosa c’è a Hidel di così desiderato?» domandò infine, rialzando lo sguardo su Nathan.

Stavolta, però, lui fece cenno di no col capo «Mi dispiace, ma non posso dirlo.»

«Non stiamo più giocando, Nathan.» lo rimproverò lei.

«Sì, invece.»

Quelle parole la stupirono e la convinsero a guardarlo con fare spaesato.

«Giochiamo con pezzi sacrificali.» Nathan articolò lentamente quelle parole, con una freddezza negli occhi che fece quasi paura ad Ann.

La ragazza ormai lo conosceva abbastanza bene da dichiarare con sicurezza che quell’affermazione gli costava molto; lui stesso si annoverava sicuramente tra i pezzi sacrificali, entrambi lo erano, e non solo loro due, ma anche Sogno, Damon, Krissy e chissà quanti altri. Tutto ciò faceva rabbia ad Ann, che faceva scorrere lo sguardo dagli occhi di Nathan al freddo tavolo di legno, e di nuovo dal freddo tavolo di legno a Nathan. Si sentiva impotente, una sensazione che odiava.

“Devo fare qualcosa… non posso stare con le mani in mano ad aspettare che ci ammazzino tutti!” pensò, agitata, alla ricerca di stabilità e lucidità che l’aiutassero a calmarsi.

«Prossima domanda?»

«Ne ho ancora tre.» rispose prontamente Ann.

Sentì lo stomaco contrarsi e farle male, la pelle venire aggredita da un formicolio: era emozione. Quello che stava per chiedere… da quanto tempo pregava di avere l’opportunità di chiederlo?

Osservò lui annuire con la stessa impassibilità di una statua di marmo; Nathan non aveva idea della serietà delle tre domande che Ann stava per porgli, o forse sì?

Lentamente, soffermandosi in particolare sulla seconda parola, la ragazza lasciò che quelle parole fluissero.

«Che cosa sono gli Angeli?»

L’Angelo attese qualche secondo per rispondere. Parve sorpreso da quella domanda, e per una volta Ann ebbe la soddisfazione di vederlo confuso; lui corrugò la fronte e la sua espressione si fece più seria, quasi di rimprovero. Non poteva però rifiutarsi oltre di rispondere, aveva promesso tempo addietro che avrebbe detto la verità, la verità nei limiti del possibile.

Quando aprì finalmente bocca, Ann sentì una parte dell’enorme peso che per mesi si era tenuta sulle spalle cadere, come una frana.

Nathan accavallò le gambe, mise le braccia conserte e inclinò il capo, sorridendo.

«Gli Angeli sono Personae vive solo per metà

«Chiaro ed esauriente come sempre!» sbottò Annlisette, profondamente presa in contropiede. Lo fulminò con lo sguardo, non riuscendo a capire perché diavolo non smettesse mai di darle stupidi indizi lasciati a metà, frasi senza senso, enigmi. Credeva forse che lei si divertisse a sciogliere i suoi indovinelli?

Ma aveva ancora due carte da giocare. Avrebbe pagato oro per riuscire a cancellare quel sorriso beffardo dalla faccia di lui, e ci sarebbe riuscita, prima o poi.

Lasciò andare le spalle contro la sedia, scaricando sullo schienale il peso del suo corpo. Inspirò profondamente per calmarsi, chiedendosi se Nathan avesse afferrato almeno in parte la gravità di quello che stava succedendo.

Attese qualche secondo prima di rialzare gli occhi a lui, determinata.

«Lo so che sapere la verità significa mettermi in pericolo. Però, Nate, non lo faccio solo per stupida curiosità, come era invece prima, quando eravamo a Hidel; ora lo faccio perché mi sento in dovere di aiutare il mio paese e la mia gente.»

«Annlisette, non prenderla male…» prese la parola lui, allungando nel frattempo le braccia sul tavolo per mettersi più comodo ed avvicinarsi a lei «Ma un essere umano può fare davvero ben poco in una situazione del genere.»

Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso.

Ann, sentitasi colpita nell’orgoglio, scattò in piedi spostando la sedia con un colpo di bacino; batté poi i pugni sul tavolo e, con le gote rosse di rabbia, esclamò a voce alta «Non dire che sono inutile!»

«Non sto dicendo quest-…» provò Nathan, ma venne interrotto.

«Sì, invece!» il tono arrabbiato della giovane poteva essere ben udito persino da Sogno probabilmente «Tu mi tratti come una bambola, Nathan! Mi hai sempre girata e rigirata e ricoperta di bugie, ed io ti ho sempre creduto! Ma ora basta!»

La grande voglia di sferrargli almeno un pugno nella vita prese il sopravvento sulla contadina. Con passi veloci e irregolari si avvicinò a lui, percorrendo la breve distanza che si separava in pochissimi secondi; lo afferrò per il colletto della camicia, e con forza lo costrinse in piedi, mentre lo fissava con gli occhi pieni di risentimento «Sono stanca di essere trattata come una bambina che non deve sapere che le fate non esistono! Sono venuta fino a Terren perché ho fiducia in te!»

«Non lo metto in dubbio.» rispose prontamente lui, costretto in piedi.

Forse era intenzione di Ann addirittura sollevarlo a mezz’aria, ma c’erano più di ben trenta centimetri di differenza tra di loro, e questo giocava a sfavore di lei.

«Sto solo cercando di proteggerti.» continuò l’uomo.

La risposta arrivò immediatamente, animosa e concitata «Ma la vuoi smettere con questo ritornello?! E chi protegge te, messere Metherlance? Non sei così forte come vuoi apparire!»

Nathan rimase in silenzio.

«Se tu davvero fossi così forte come vuoi sembrare…» Ann riprese a parlare, ma di parola in parola la sua voce si affievoliva, stanca «… Io non avrei dovuto uccidere nessuno…»

Nemmeno stavolta l’uomo ebbe l’ardire di rispondere qualcosa, non ci riusciva davanti a quelle lacrime che le sgorgavano di nuovo dagli occhi. Eppure, ebbe ancora una volta stima di quella ragazzina, perché aveva il coraggio di non lasciarsi battere dalla tristezza, e continuava a lanciargli sguardi di fuoco, come una guerriera.

«Angel non sarebbe morta se tu fossi stato forte come dici di essere…» a quel punto la voce di Ann si spezzò definitivamente, e non riuscì più a dire nulla. Si ammutolì semplicemente, lasciando che fossero i suoi pugni, stretti con vigore attorno al colletto di lui, e lo sguardo ardente a parlare al posto suo.

Quanti pensieri passavano in quel momento per la mente di Nathan? Tantissimi; primo tra tutti la consapevolezza di essere davvero debole come aveva evidenziato Ann: lui che sembrava tanto forte ed imbattibile, in realtà non lo era affatto. Abbassò lo sguardo, non riuscendo più a sostenere quello di lei. Quella, era una delle poche volte in cui si sentiva davvero a corto di argomentazioni; in quei momenti si ricordava che aveva ancora così tante cose da imparare… 

«Tu non sei abbastanza forte per proteggermi, Nathan…» sussurrò ancora lei, e finalmente gli tolse le mani di dosso, per poi lasciarle scivolare penzoloni lungo il corpo. Non abbassò però gli occhi, sebbene ora la focosità precedente avesse lasciato posto ad una grande malinconia «Da solo non ce la farai mai. Lascia che ti aiuti, per l’amor di Dio!»

Calò il silenzio.

Ann attese pazientemente una reazione da Nathan: uno sbuffo, una pesante arrabbiatura, un sospiro demoralizzato o paziente, una risata divertita, come se la stesse prendendo in giro.

Attorno a loro, la casa stanza in silenzio; qualche rumore veniva prodotto dalla città che fuori viveva la sua giornata, totalmente insensibile alla tragedia che quelle due persone stavano vivendo non come protagonisti, ma come semplici pedine: pezzi sacrificabili.

La ragazza, in un certo senso, sapeva già che non avrebbe avuto risposta, dunque non si stupì quando si sentì rivolgere poche, fredde parole.

«Seconda domanda?»

«Restiamo sullo stesso tema della prima.» riprese a parlare lei, dopo essersi abbandonata ad un sospiro. Si lasciò cadere nuovamente sulla sedia su cui aveva fremuto fino a quel momento, sentendo i palmi delle mani brulicare insistentemente. Un mucchio di pensieri facevano a pugni per avere un posto prominente nella lista delle domande da fare; tante emozioni la attraversavano - probabilmente riversandosi come un mare in tempesta su Nathan, e ad Ann non dispiaceva affatto in quel momento -, prima tra tutti era la grande paura rivolta a quel piccolo villaggio sperduto, dove le persone che portava nel cuore vivevano ingenuamente, non sapendo di essere in costante pericolo. Da quel momento in poi, non avrebbe più guardato Hidel con gli stessi occhi.

Occhi che fece roteare un attimo, alla ricerca delle giuste parole per esprimere ciò che voleva senza apparire troppo violenta. La verità, giuntale in mente poco dopo, era che non poteva più evitare di essere violenta, perché essere violenti e farsi valere erano gli unici modi per vincere quella che era diventata una guerra.

Tornò ad inchiodare Nathan ed essere a sua volta inchiodata da un celeste sguardo nuovamente posato. L’Angelo aveva ritrovato la sua calma quiete, ed era pronto a riprendere quel duello verbale che equo non lo era proprio. Chissà che battaglia silenziosa si combatteva dentro di lui, ma Ann non desiderava farne parte, almeno per il momento.

«Come si uccidono gli Angeli e i Demoni?»

Anche stavolta Nathan attese per decidere se rispondere, e soprattutto con quanta completezza. Portò una mano sotto il mento, lo sguardo si fece concentrato, quasi assente.

Ad Ann piaceva osservarlo mentre pensava, aveva l’aria del filosofo, e anche quella volta venne quasi soggiogata da quel volto fermo ma indeciso, nonostante la grande arrabbiatura che continuava a portarsi dentro.

Alla fine, egli parlò con voce calma e seria, ricambiando l’occhiata della giovane contadina «I Demoni sono più duri da uccidere: una pugnalata al petto o un proiettile possono ferirli o stordirli, ma sono provvisti di una costituzione fisica molto robusta, che permette loro di riprendersi in fretta. Se vuoi andare sul sicuro, ti posso dare una delle pistole dateci in dotazione: hanno un particolare tipo di proiettili molto efficaci su di loro.»

Maneggiare una pistola? Ann si rabbuiò ed istintivamente si fece piccola, chiudendo le spalle a mo’ di riccio. Se avesse potuto, avrebbe volentieri evitato di prendere di nuovo in mano una pistola. Ogni volta che ci ripensava, le veniva in mente l’uomo che a causa sua era perito, ed il suo umore diventava davvero nero. Sarebbe stata capace di sparare di nuovo a qualcuno per proteggere chi amava? Voleva convincersi di no, voleva convincersi di essere ancora l’innocente bambina di Hidel, quella che non era stata divorata dalla grande città, come il vecchio papà aveva ammonito.

«E gli Angeli?»

«Andrei contro i nostri interessi se te lo dicessi…» rise Nathan, che non sembrava voler davvero dire nulla riguardo quell’argomento.

«Dimmelo e basta…» fece Ann, con voce flebile «Se uno di voi attaccasse, cosa dovr-…»

«No.» la interruppe lui, il tono duro ed irremovibile, fermo.

Ann lo osservò poco convinta e lui ricambiò, dapprima rigido, poi addolcendosi un poco.

«Di questo non ti devi preoccupare.» le assicurò, e la sua voce sembrava promettere bene.

Ma la ragazza aveva paura di lui quando faceva così. Nathan aveva la brutta capacità di cambiare tono ed espressione in pochi attimi, passando da un’espressione pacifica e placida ad una davvero poco raccomandabile.

In realtà, lei non ne voleva davvero sapere di alzare le armi contro qualcuno una seconda volta, ma si rendeva conto di essere un mezzo ad una guerra e di doversi adeguare. Non avrebbe mai preso l’iniziativa contro nessuna delle due fazioni, ma se Hidel o Nathan, Sogno e Damon fossero stati attaccati, lei sarebbe stata in prima fila. L’innocente Ann era perita la sera prima, doveva capirlo ed abituarsi al nuovo abito che avrebbe portato…

«Terza domanda.» sussurrò infine, dopo aver poggiato il gomito sul tavolo e la fronte sul palmo, con fare affaticato.

«Stai male? Ti senti stanca?» le domandò immediatamente l’Angelo, con tono più dolce e flessibile.

Il primo istinto di Ann fu quello di rispondere affermativamente per farlo preoccupare, magari sentire in colpa, ma poi si rese conto che Nathan, alla fin fine, voleva solo il bene suo e delle altre persone che amava, e solo per questo si comportava in modo così ambiguo. Una condotta che avrebbe dovuto seguire anche lei.

Così, si sforzò di sorridere per non farlo preoccupare, era davvero il momento di riposarsi, dopo l’inferno che avevano visto la sera prima; la quiete dopo la tempesta. Alzò gli occhi su di lui e cercò di rassicurarlo «Non ho dormito molto bene.»

Il suo sorriso venne ricambiato, e l’uomo corse con gli occhi all’orologio appeso alla parete, che segnava le nove del mattino. Anch’egli era molto intontito, come sul punto di addormentarsi da un momento all’altro, ma riusciva a reggere abbastanza bene.

«Nessuno ha dormito bene. Avremo tempo per riposarci, non temere.»  

La mora annuì, prendendo poi un sospiro profondo; quando il suo viso tornò ad indirizzarsi verso quello di Nathan, dopo aver scoccato una rapida occhiata al corridoio, nella speranza che Sogno e Damon non irrompessero mandando all’aria quella probabilmente irripetibile occasione, abbassò il tono, come chi sussurra un segreto, e diede voce a quella curiosità che da tempo le mangiava le viscere.

«Che cosa sei tu, Nathan?»

Sul viso di Nathan si allungò un sorriso obliquo; un rossore vistoso si allargò su quello di Ann.

«Io, mia dolce Annlisette, sono uno di quegli Angeli dimenticati da Dio

 

«Grrr!»

Quando quell’acuto verso rabbioso proruppe nella stanza, Sogno sobbalzò sulla sedia di vimini su cui era seduta da ormai troppo tempo, in attesa del risveglio di Damon. Con le piccole dita, stava intrecciando le strisce di legno del corbello* che avrebbe più tardi usato per trasportare la verdura dal mercato a casa, ma si bloccò non appena quella specie di ringhio selvaggio ruppe la calma della casa.

La porta di legno venne aperta con rabbia, ed una Ann furiosa fece irruzione a grandi falcate, col viso rosso di rabbia ed i pugni stretti, che agitava in maniera spasmodica.

«Luuuui! Quell’essere spregevole!» urlò ferocemente, in direzione di Sogno.

Quest’ultima non poté trattenere una risatina gentile, posò poi il corbello per terra e si rivolse ad Ann «Il cugino Metherlance ha brillantemente eluso l’ennesima domanda?»

«… Ugh…» la mora si bloccò con un pugno per aria, e alla fine sbottò «Lo ammezzerei!»

Sogno riprese a ridere, ringraziando il cielo che Nathan e Damon non fossero di quegli uomini che pretendevano di essere trattati con guanti dalle donne. Se così non fosse stato, si sarebbe persa davvero moltissime fantastiche scene.

«Quel… cafone!» esplose ancora la ragazzina.

«Oh, di chi parlate?»

Nathan entrò nella stanza a passo lento e sereno, col viso ancora occupato da un alone rosso sangue risalente alla sera prima e da un sorriso beffardo.

«Mah…» la ragazza gli scoccò un’occhiata di fuoco, mettendo poi le braccia conserte «Di un Angelo biondo superbo e odioso!»

L’Angelo rise «Certo che sì, chi dei mortali essendo superbo non è odioso?

Rieccoli, Ann, che cercava di sfogare la rabbia contro Nathan e le sue mille risposte lasciate a metà, e Nathan, con quei suoi sorrisi ed allusioni da presa in giro.

Sogno sorrideva pazientemente davanti alla scena, pensando che Ann era una ragazza molto più forte di quanto pensava, e Nathan era molto più debole di quanto pensava; insieme si sarebbero completati, ma l’uomo viveva una condizione psicologica per cui era convinto di poter fare tutto da solo, sembrava quasi avere ribrezzo dell’idea che qualcuno potesse provare a proteggerlo o dargli una mano. Sicuramente, si diceva Sogno, questa sua mancanza di volontà di cooperare era dovuta a qualche avvenimento legato a quel passato di cui lui non aveva mai rivelato niente né a lei né a Damon, probabilmente neanche ad Ann.

L’improvviso, un debole rantolo smosse il respiro dei presenti.

«Ugh…»

«Fratellone Damon!»

Un debole mormorio fu emesso da Damon, ancora steso sul letto, sotto chili e chili di calde coperte. Il giovane ragazzo corrugò la fronte e borbottò con voce roca di chi non beve da tempo «La finite di rompere? Dormivo così bene…»

L’euforia generale esplose: Sogno saltò al collo di Damon, abbracciandolo poi con fervore, mentre Ann, dimenticandosi all’improvviso tutta la rabbia nei confronti dell’allusivo Nathan, congiungeva le mani appena sotto il viso, esclamando in modo vitale «Damon! Stai bene, per fortuna!»

L’altro Angelo si abbandonò ad un sospiro sollevato, poggiando poi le spalle contro la porta «E se ricomincia a dire stupidaggini significa che sta proprio bene.»

«Cugino…» sospirò Damon «Vai dove sai tu, e restaci.»

Sogno impiegò molto tempo a coccolarlo amorevolmente e fargli domande su domande, chiedendogli se stesse bene, se avesse bisogno di qualcosa, cosa volesse mangiare a pranzo e se preferisse riposarsi ancora un po’ e mettersi in piedi solo quella sera.

Ann si domandò se fosse davvero necessario tutto quel riposo, aspettare addirittura la sera le sembrava un po’ eccessivo, ma l’esperta era Sogno, e non poteva che seguire le sue indicazioni.

Per tutto il tempo, Damon tenne gli occhi chiusi, giustificando questa scelta con un tremendo mal di testa e tanta voglia di quiete. Ciò convinse le due ragazze a lasciarlo da solo per qualche altra ora; esse uscirono parlottando fittamente tra di loro, come due amiche di vecchia data in piena rimpatriata.

Nathan si tolse di mezzo e le fece passare, per poi seguire intensamente con lo sguardo Ann e il suo viso finalmente più tranquillo. Il risveglio di Damon doveva essere stato un toccasana per la sua povera mente assediata dai dubbi e dalle incertezze. Sorrise, cercando di convincersi cocciutamente che tutto quello che faceva era solo nell’interesse di Ann, e che ella avrebbe capito, alla fine.

Quando le giovani sparirono dietro l’angolo ed una lieve corrente d’aria fredda si alzò, segno che una delle finestre era stata aperta – le solite manie di Sogno sul far arieggiare la casa -, l’Angelo ispirò profondamente, lasciandosi accarezzare da quel vento che era sempre stata una delle cose che più del mondo gli piacevano.

Quando tornò a squadrare con occhi seri ma gentili Damon, esordì con semplici ma enigmatiche parole «Sono alla tua destra, Damon. Accanto alla porta.»

Sentì Damon abbandonarsi ad un’amara, piccola risata «Sono riuscito ad ingannare la dottoressa, ma non il sensitivo.»

Nathan non rispose e lo osservò a lungo, aspettando una qualche razione che però non sembrava voler arrivare. Era tutto troppo strano. Mise una mano in tasca e spostò lo sguardo sulla porta finestra che dava sul porto di Terren.

«In realtà solo in parte. Posso sentire, sì, ma non sono onnisciente, anche se ho un’impressione.»

«Non è niente… sto bene.» provò l’altro, abbandonando una mano su una delle coperte.

La risposta fu immediata, ed il volto dell’Angelo più vecchio si oscurò di stizza «Allora alzati e vai ad abbracciare Sogno, è stata molto in pena per te.»

Mosse un passo pesante e fece per uscire, ma un sussurrò bloccò la sua avanzata.

«Non posso, Nathan.»

«Perché?» sibilò Nathan, come un cane che si prepara ad attaccare.

Damon posò un braccio sulla fronte con fare afflitto, aprì gli occhi e sorrise.

«Sono diventato cieco…»

«… Eh?»

 

 

Note:

#1: «Sbottonare il collo della camicia» equivale al moderno «Dire la verità».

#2: Corbello: piccolo cesto di vimini o stecche di legno, veniva usato per trasportare frutta e verdura.

#3: Citazione tratta dalla tragedia “Ippolito”, di Euripide, verso 94.

 

 

 

Note dell’Autrice:

Finalmente l’ho finito! Questo capitolo mi ha stremata davvero! Una grandissima mole di informazioni vengono rivelate, e ovviamente non sono mancate le nottate a pensare e ripensare se questo o quello poteva essere di troppo o indirizzarvi su una strada completamente sbagliata! Che dire, fonderò il club “Angel per sempre nei nostri cuori!”, quanto amo quel pg! ;__; e fonderò anche “Damon, siamo noi i tuoi occhi” e “Nathan, vai dove sai tu e restaci!”.

Prima di chiudere, voglio anticiparvi l’ingresso di due nuovi pg nel prossimo capitolo :) sì, siamo quasi a fine storia ed io continuo a mettere nuovi pg, sono proprio malata!

Inoltre… inoltre volevo esprimere tutta la mia felicità per l’inserimento di WCIT-Snow tra le storie scelte! Un enorme ringraziamento all’amministrazione, mi avete fatto il regalo di Pasqua più bello dell’anno! Ed un ringraziamento ancora più grande a Nadeshiko, che ha segnalato la storia! Dank! *Sely, Ann e Nate si inchinano*

Ed ora… non mi resta che rispondere ai vostri commenti, la cosa che in assoluto preferisco! *-*

 

Ci si vede presto!

Sely.

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Capitolo 24
*** Sturm und Drang ***


What colour is the snow?

Capitolo 24: Sturm und Drang.

 

Il dolce profumo della notte era qualcosa che gli era sempre stato gradito, specialmente in quel periodo che ogni anno scatenava l’attesa ed il fermento di tante persone: il Natale. Ancora una settimana, e la fatidica data sarebbe giunta.

A Nathan non piaceva molto il Natale; tuttavia, il giovane Angelo era sempre ben lieto di accomodarsi in balcone, su quella vecchia sedia di legno scuro un poco rovinata dal tempo e dal frequente uso, e, dopo essersi ritagliato per sé un pezzo di mondo costituito dal terrazzino disadorno e pulito del suo appartamento, abbassare gli occhi con sguardo un po’ superbo ma preso da una grandissima curiosità.

Faceva scorrere le pupille ora rilassate, ora più interessate, ora attentissime, sulle strade di Terren, che facevano da sfondo al suo solitario nido freddo.

Poco gli importava dei fitti strati di neve che si ammucchiavano attorno a lui: nei lati dove il pavimento incontrava e si scontrava col muro esterno della casa; sulla ringhiera sottile e alquanto corrosa dalla ruggine lasciata dalle piogge autunnali; su lui stesso, che tanto poteva apparire ad un certo punto come un buffo uomo di neve dallo sguardo corrucciato, statico nella sua posizione rigida e legnosa.

Quella sera, però, gli occhi di Nathan non vagavano sulle piccole formiche umane che sotto di lui si affrettavano per strada, scivolando sulla neve in una corsa contro il tempo per comprare gli ultimi doni – o, chissà, forse i primi -, invece soggiogavano il buio che lo circondava, spezzavano ogni barriera costituita dalla coltre pallida che cadeva rapida e decisa, a fiocchi tondi o spezzati, a volte goffa nella sua caduta libera.

Spesso, osservandola, si era chiesto se la neve provasse una strana realizzazione interiore nell’abbandonare la calma mansueta del cielo per cadere lì, in quel pezzo di Inghilterra caotico e disordinato.

Essa era simile, si diceva allora Nathan, a lui stesso, ed erano accomunati dall’aver preferito la sfrenata tentazione di vizi al pacifico vivere in cui avrebbero, altrimenti, lentamente consumato la loro esistenza.

Inspirò a pieni polmoni quell’aria ghiacciata, volendo sentire il petto dilaniato ancora una volta dal pungente taglio che aveva il potere di ridestarlo dai suoi silenziosi sogni interiori; voltò poi lo sguardo verso destra, passando così da uno scenario all’altro.

In quella direzione, infatti, era possibile scorgere il grande porto di Terren; quella casa era stata scelta apposta per quel motivo: Nathan amava i rumori del porto. In seguito si erano trasferiti lì anche Sogno e Damon, e l’amena serenità del suo piccolo mondo era stata sostituita da una vivace allegria che lo contagiava, che aveva il potere di smuoverlo dalla sua calma irreale che tutti avevano sempre considerato apatia.

E ora… ora che Damon aveva perso la facoltà della vista a seguito di quel terribile colpo alla testa, sarebbe stato tutto come prima, o forse sarebbe irrimediabilmente mutato? Tale domanda aveva avuto l’ardire di porre alla piccola Sogno, subito dopo essere usciti dalla camera in cui il giovane Darkmoon, inerme su un capezzale che gli era paurosamente apparso come un letto di morte, aveva dato voce a quella novella per nulla lieta.

«Non cambierà nulla.» così aveva risposto Sogno, dopo aver stancamente appoggiato le spalle contro la porta della stanza, abbattuta come Nathan non l’aveva mai vista, senza che neanche un mezzo sorriso le illuminasse il giovane e pallido volto, senza cantare l’ultima sillaba della sua frase. Oh beh, quell’abitudine l’aveva persa da tempo…

Nell’apprendere la notizia, Sogno ed Annlisette erano state molto coraggiose, nonché pacate. Non erano riuscite a sorridere in modo incoraggiante – e sarebbe stato inutile, considerando che colui che doveva essere incoraggiato avrebbe vissuto il resto dei suoi giorni in un mondo fatto di tenebre -, né a pronunciare parole di conforto degne di grande nota; tuttavia, avevano fatto forse la cosa migliore che si poteva fare in quel momento, e che Nathan non aveva nemmeno preso in considerazione: avevano preso le mani di Damon, fredde e screpolate dalla rigida temperatura, e gli avevano promesso che tra loro non sarebbe cambiato nulla.

Sogno aveva pianto, ma solo nel momento in cui aveva creduto di essere sola. Lui ed Ann l’avevano però sentita, con quei suoi singhiozzi violenti, e l’avevano vista, scossa da sottili tremori di dolore. Eppure aveva avuto la forza di resistere davanti a suo fratello, per il bene non solo di lui, ma anche di Ann e Nathan.

«Sogno è così forte…»

Così aveva commentato Annlisette, trovando in quella penosa scena un qualcosa che a Nathan sfuggiva, che non gli era permesso vedere in quanto Angelo. In seguito, Ann si era diretta dalla sua amica, l’aveva cinta e l’aveva baciata in fronte, suscitando in lei un triste, tristissimo sorriso.

Nathan, guardandole, si era sentito solo.

“Che giornata pesante…”

L’Angelo scrutava con espressione attenta il porto: nella notte, tutte le barche gli sembravano nere. A guardarle di giorno, tuttavia, non era molto sicuro che il loro colore sarebbe mutato, almeno ai suoi occhi. Era invece sicuro che se avesse chiesto ad Ann quante tonalità riusciva a contare, ella avrebbe espresso una lista lunga, lunghissima, e ciò fece sorridere l’uomo, che in quel momento cominciava a cogliere un nuovo odore, quello che Sogno definiva “il profumo del Natale”.

Nathan spostò lo sguardo all’orologio: le ventitre. Sollevò lo sguardo: poca gente in giro.

Il suo sguardo s’incupì: «È ora.»

Poi, in silenzio, quel tetro fantasma dal viso scarno e pallido scivolò nelle tenebre fino a dissolversi.

 

Quando venne investito dalla fredda e sferzante aria notturna, Nathan fece una smorfia.  Con uno strattone, sollevò il cappuccio del nero mantello fino a coprirsi il volto, quindi avanzò per le vie solitarie di Terren.

Il suo obiettivo era raggiungere il rifugio degli Angeli per raccontare loro le ultime novità, ma soprattutto per estirpare tutte le informazioni possibili; se Annlisette affermava che lui parlava in modo assolutamente enigmatico era perché non aveva mai avuto il piacere di dialogare con Marcus e Jen, generali capaci di dir tutto senza rivelare nulla. Per lui, che aveva sempre amato i rebus e le difficoltà – che, stando a quanto affermava, rendevano la vita più interessante – il più delle volte era stressante ascoltarli.

Camminava con incedere regolare e deciso lungo il lastricato invaso dalle ombre, stando ben attento ad evitare che i raggi della luna o dei lampioni lo illuminassero, rivelando la sua figura ad occhi estranei dalle sottili intenzioni.

Convocato d’urgenza – chiaramente gli Angeli sapevano che lui si era trovato in mezzo al terribile accadimento del ballo ed erano a conoscenza anche della morte di Angelica Rodriguez, ma ignoravano molti altri particolari -, gli era stato chiesto di indossare abiti eleganti, perché quella sera avrebbe conosciuto un appartenente a un’insigne famiglia francese. Non avevano specificato altro, e questo non piaceva a Nathan.

Costretto ad obbedire a quegli astrusi ordini – come potevano pensare a frivolezze del genere in mezzo all’orrore di ciò che stava accadendo? -, per la prima volta Ann aveva avuto il piacere di vederlo vestito di bianco.

«Ti sta molto bene.» aveva commentato la giovane contadina con fare ammirato, mentre lo aiutava a legare davanti al collo un laccetto nero, unica nota scura sul candido cappotto «Ma il mantello non c’entra niente.»

A quelle parole Nathan le aveva lanciato un’occhiata rapida, poi aveva afferrato la cappa giacente sulla sedia, liquidando l’argomento «Senza il mio mantello non sono più io.»

Non gli piaceva vestirsi di bianco, gli ricordava spiacevoli avvenimenti della sua vita passata; insomma, prima avrebbe raggiunto gli Angeli, prima avrebbe avuto le risposte che cercava e prima si sarebbe tolto quella roba di dosso.

Con questi pensieri avanzava col suo passo regolare e leggero di chi è abituato a non farsi vedere. O almeno, così credeva.

Sebbene Nathan non se ne fosse ancora reso conto, già da qualche minuto due paia di occhi si erano posati sulla sua figura, due paia di gambe avevano accelerato il passo nell’intento di seguirlo, e due mani si era posate, leste, su altrettante armi da taglio che le due figure ammantate di marrone portavano all’altezza della cinta.

Intorno a loro la strada era molto buia, a tratti leggermente illuminata dalla soffusa luce proveniente da lontane torce. Nathan sceglieva le stradine secondarie, i piccoli vicoli, quelli che potevano a stento permettere il passaggio contemporaneo di due persone; ai lati di questi, sdraiati sul freddo lastricato in pietra, macchiato e bagnato dalla recente pioggia, stavano accalcati fagotti deformi di quelle che un tempo dovevano essere state persone, ma che ora si erano ridotte a meri fantasmi, larve umane, tanto la fame aveva consumato le callose dita che facevano capolino dagli stracci che indossavano, tanto il freddo aveva screpolato quella pelle scarlatta e spesso tagliuzzata, tanto gli stenti avevano indurito i loro tratti giovani o vecchi, scavato le loro guance, riempito le fronti di brufoli e macchie dovuti allo sporco, che sembrava ormai essere parte integrante di loro, tanto quella gelida sera stringeva i loro corpi in una morsa invincibile, costringendosi a violenti tremori.

Avrebbero forse chiesto la carità se fossero stati in forze, ma da Nathan non avrebbero avuto neanche un soldo, non solo perché lui non era di indole generosa, ma anche perché ben sapeva che se avesse deciso di accontentarne uno solo, avrebbe poi dovuto accontentarli tutti, dilapidando le sue già modeste finanze per poi finire in mezzo a loro a chiedere la carità.

Un ragionamento freddo e insensibile senza dubbio, ma era quello lo sfondo sociale in cui vivevano: i ricchi si arricchivano, i poveri si impoverivano.

L’uomo continuava ad avanzare con passo sicuro, lanciando occhiate a ciò che lo circondava: ora alla locanda vuota e fatiscente mezza immersa nel buio; ora alle vecchie case – o meglio, topaie – dove erano costretti ad abitare gli sfortunati che si dovevano accontentare dei bassifondi; ora alle grosse ombre di pantegane nere e pelose che sfrecciavano da un lato della strada all’altro, ricambiando l’occhiata azzurra di Nathan con una altrettanto intensa, rossa fiammeggiante e vogliosa. Forse si chiedevano che sapore avesse quell’essere umano, chissà.

L’Angelo giunse ad un incrocio tra due strade piuttosto strette, si guardò intorno per assicurarsi che nessuno l’avesse notato e fu allora che finalmente scorse, sebbene per un solo attimo, quelle due figure dall’aspetto decisamente sospetto che nel sentirsi osservate si erano nascoste di tutta corsa.

Sospirò, dicendosi che in effetti si aspettava una qualche ripicca da parte dei Demoni – o, molto più semplicemente, che qualcuno prendesse il posto di quel Demone che l’aveva spiato fino a poche settimane prima, anche se gli pareva molto strano che ne avessero addirittura mandati due.

Alti e possenti, sicuramente molto più forti di lui fisicamente parlando, ammantati di un marrone abbastanza scuro da donare loro una certa capacità camaleontica, con cappelli a fare da maschera per visi praticamente impossibili da vedere. Nell’incedere non avevano leggerezza né sicurezza, caratteristiche proprie degli Angeli, ma solo una forza bruta e un’evidente fretta di concludere gli affari di quella notte il più frettolosamente possibile. Sì, erano decisamente Demoni. Almeno quello diede un po’ di sollievo a Nathan, che cominciava davvero a credere che fossero gli stessi Angeli a voler morti lui ed Annlisette.

Una cosa era certa: contro due tizi del genere non aveva chance.

Tuttavia, non ancora sicuro che stessero seguendo lui – Nathan si riconosceva fin troppo sospettoso, e ancor più egocentrico -, decise di metterli alla prova e percorrere qualche altra strada prima di darsi ad un’eventuale fuga.

“Probabilmente vogliono scoprire dov’è l’ingresso al covo…” si disse, mentre, mani in tasca, riprendeva serenamente la sua passeggiata.

La strada per il rifugio era dunque: sempre dritto, gira a destra, percorri il sentiero di St. John e poi gira a sinistra, due metri indietro e poi ancora sinistra.

Nathan andò sempre dritto, poi, arrivato ad un altro incrocio dove spiccavano dei cartelli di legno troppo malmessi per essere letti, per puro errore girò a sinistra.

Ops… ma come sono sbadato…” pensò tra sé e sé con un sorriso malsano, tenendo gli occhi sulla deserta e bagnata strada, fintanto che manteneva ancora lo stesso avanzare risoluto con cui era partito da casa e che non l’aveva ancora abbandonato: non doveva destare sospetti.

Attorno a lui le strade scorrevano tutte uguali, difetto di Terren e dei suoi sobborghi che ripetevano sostanzialmente sempre lo stesso scenario: piccoli vicoli dal lastricato mezzo distrutto o per nulla costruito, con mucchi di terra ai lati della strada; topi enormi e neri che sembravano fare a gara a chi correva più veloce – e che spesso distruggevano la quiete notturna con striduli “squit”, mentre, gioiosi, si gettavano addosso alla loro cena -; residui umani consumati da un’insensibile povertà che giacevano ammassati nei vicoli ciechi, che frugavano in mezzo ai rifiuti e nemmeno badavano ormai più alla gente che passava; immondizia, sporco; catapecchie dalle porte sprangate. Di tanto in tanto si vedeva anche qualche casa tenuta meglio, probabilmente di qualche famiglia in procinto di scappare verso il lato più sicuro della città.

Quanto tempo avrebbero impiegato quei tizi prima di rendersi conto che lui li stava facendo girare in tondo? Con un debole sospiro desolato, Nathan confermò la sua razzista visione secondo cui tutti i Demoni erano irrimediabilmente tardi. Ma non era quello che contava.

Raggiunse finalmente lo svincolo della Queen Mary II, una strada abbastanza importante a Terren, e si guardò intorno: qualche carrozza attraversava la grande strada. Allo stesso modo nemmeno le locande sembravano voler andare a dormire: la luce delle torce appese accanto alle insegne rendevano il luogo decisamente più luminoso dei precedenti vicoletti.

Estrasse con pazienza l’orologio da taschino dalla tasca destra del mantello, avvertendo una sensazione di freddo penetrare attraverso i guanti e raggiungergli la pelle. Bene, aveva ancora venti minuti prima di essere ufficialmente in ritardo.

“Credo di potercela fare…”

Soppesò con se stesso, spavaldo. Poi, com’era bravo a fare, s’insinuò nel grembo delle tenebre.

 

«Hey…»

Quando i due inseguitori raggiunsero la vecchia e trascurata banchina sulla quale avevano poco prima visto il biondino che stavano seguendo, non trovarono assolutamente più alcuna traccia di lui.

«Lo vedi?» chiese il più alto tra i due, dando un leggero colpo di gomito al collega.

Quest’ultimo alzò il capo per guardarsi intorno, scrutando coi suoi occhi scuri il cupo buio che li circondava «Non vedo un accidente. Dove diavolo è quel figlio di puttana?»

Hey, mia madre era pulitissima, razza di cafone!”

Nathan avrebbe davvero voluto ribattere alle parole dell’individuo, ma così sospeso sopra le loro teste, in bilico sul piccolo pezzo di cornicione che serviva a sorreggere l’insegna dell’albergo, in una posizione assolutamente precaria e con la sensazione di essere pronto a cadere da un momento all’altro… decisamente no, era meglio tenerli per sé ogni commento.

“Ed era anche una donna di tutto rispetto! Ha cresciuto da sola due figli, mentre mio padre faceva la bella vita chissà su che spiaggia tropicale, accerchiato da danzatrici del ventre!”

Sì, decisamente l’Angelo aveva un po’ di confusione in testa per dire che le danzatrici del ventre stanno sulle spiagge tropicali!

Sotto di lui, a meno di cinque metri dai suoi piedi, i due tizi continuavano a guardarsi intorno a vuoto.

Nathan, a meno di cinque metri sopra le loro teste, continuava a ridacchiare compiaciuto.

«Hey, tu! Scendi dall’insegna!»

L’esclamazione bassa e tonante giunse da sotto di lui, poco lontano dai due inseguitori: il padrone della locanda doveva essersi accorto di un inquilino che non aveva pagato per occupare l’insegna. Era un uomo di mezza età dalla folta barba nera, e lo indicava severamente con un dito e due occhietti irritati.

I Demoni lo notarono e seguirono la linea del dito, e quando i loro sguardi incontrarono quello di Nathan fecero un sorriso cattivo.

Nathan, al contrario, fece un sorriso tirato.

“Oh, la mia proverbiale sfortuna mi ama così tanto da inseguirmi ovunque vado…”

E si lanciò giù, letteralmente.

Mentre i due si organizzavano per trovare un modo per raggiungerlo, l’Angelo fece pressione sulla parte inferiore del corpo per darsi uno slancio e saltare, allentando e poi abbandonando definitivamente il contatto con la dura pietra a cui si era aggrappato fino a quel momento con le mani. Fortuna volle che in quel momento una carrozza grande e nera – nella notte ogni cosa gli pareva nera davvero! – passasse lì vicino, giusto in tempo perché lui, allungate le braccia, potesse aggrapparsi al tetto di essa in modo piuttosto goffo ed improvvisato, rimanendo con la parte superiore del corpo completamente sul tetto del mezzo e le gambe penzoloni.

I nemici, intuite le sue intenzioni, si lanciarono in una corsa contro la stessa carrozza. Uno di loro, più veloce dell’altro, riuscì a raggiungere Nathan mentre quest’ultimo tentava di arrampicarsi del tutto. Nonostante la corsa del mezzo di trasporto, l’uomo fu abbastanza pronto da allungare il possente braccio scuro – solo allora l’Angelo notò con la coda dell’occhio che il tizio aveva la carnagione scura tipica della Spagna, dell’Italia, dei Paesi nord africani -, sfiorare con le dita la gamba destra che Nathan non era ancora riuscito a tirare su e darle uno strattone.

Sulle prime, all’Angelo parve di essere un serpentello tirato da un gorilla: la forza con cui gli venne stretta la caviglia era tale da fargli provare sincero dolore.

Si aggrappò con entrambe le mani al tetto del veicolo, scalciando istintivamente con la gamba libera nella speranza di piantare un sonoro calcio nello stomaco di quell’uomo. E poi…

Una frenata, un colpo allo stomaco e un dolore capace di stordire anche una mente sveglia come la sua.

All’improvviso le ruote si arrestarono, il suono di zoccoli, che fino ad allora aveva torturato le orecchie di Nathan, cessò, sostituito da un pesante inspirare dei cavalli che, stremati dalla giornata di lavoro, reclamavano un po’ di riposo. Il colpo brusco costrinse inseguitore e inseguito a sbattere violentemente contro il retro della carrozza. L’Angelo, che dal busto in giù pendeva nel vuoto allo stesso modo di una goccia d’acqua dal rubinetto, sentì l’omone arrivargli addosso e schiacciarlo contro il freddo legno. Per un attimo fu come se lo stomaco gli fosse rimasto spappolato. Le gambe sbatterono così brutalmente e rimasero bloccate tra il peso dell’individuo e la cabina.

La botta e il dolore furono tali che perse per qualche attimo la sensibilità. Strinse i denti e si sforzò di concentrarsi sulla temperatura decisamente fredda, e non sul dolore.

La temperatura, sì, era calata all’improvviso, sembrava che si stesse preparando un Natale freddissimo… che dolore dell’Inferno!

«Vuoi staccarti, troglodita rimbambito?!» esplose infine Nathan, e fece quanta più forza poté sul corpo del Demone, riuscendo finalmente a spingerlo lontano da sé di qualche centimetro, quanto bastava per sfilare fluidamente – e dolorosamente – le gambe da quella prigione.

Quando riuscì infine ad arrampicarsi del tutto sul tetto della carrozza e a mettersi in ginocchio, emettendo ancora qualche verso per il male provato, voltò immediatamente gli occhi verso i due inseguitori.

Fu allora che udì una voce tagliente e gracchiante di un vecchio, l’ennesimo «Che diavolo state facendo?! Lontani dalla mia carrozza, o chiamo la polizia!»

Si trattava del cocchiere, che era sceso velocemente non appena aveva sentito lo strano e potente botto causato dai due. L’omino, che nonostante la scarsa altezza sembrava costituire un potenziale pericolo con quel frustino che agitava convulsamente, si rivolse prima a quelli che agli occhi di Nathan risultavano Demoni, poi alzò lo sguardo incontrando una mano che si teneva al tetto della sua vettura, ed alzò la voce con fare minaccioso mentre alzava il frustino con l’intenzione di colpire quell’arto.

«Anche tu!»

Il colpo dato non fu molto forte, l’uomo mirava ad impaurire e non a far male, ma ebbe comunque l’effetto di far imprecare Nathan a denti stretti, che quella sera ne aveva davvero abbastanza di essere pestato.

Tornò un’ultima volta a guardare i probabili Demoni: uno dei due - quello più smilzo – aveva palesemente ignorato i comandi del cocchiere, e, dopo essersi assicurato che il suo compagno fosse ancora tutto intero, avanzò a grandi passi col viso illuminato da un’espressione maligna, vendicativa.

Afferrò a sua volta il tetto della carrozza ed alzò un piede per arrampicarvisi.

La mente dell’Angelo agì il più frettolosamente possibile, sfornando una delle sue assurde trovate che alla fine si rivelavano geniali. Così, approfittando dei preziosi secondi che il cocchiere gli stava involontariamente dando da quando si era lanciato contro l’assalitore col suo frustino e parole poco gentili, si lanciò giù dal tetto del mezzo di trasporto, ficcò una mano sotto il mantello e, trovata l’elsa portatrice di sicurezza della sua Selescinder, sfilò la lama dal fodero. Saltò in sella a uno dei cavalli ancora fermi e, con un veloce movimento all’indietro del braccio che gli costò un po’ di dolore alla spalla, riuscì a recidere in un colpo solo le poche briglie che lo tenevano legato alla carrozza.

I due inseguitori strabuzzarono gli occhi.

«Sta scappando!» esclamò quello più piccolo, ormai mezzo arrampicato sul tetto.

L’altro, quello a cui Nathan aveva assestato un calcio nello stomaco, alzò il volto canino e inchiodò gli occhi azzurri dell’Angelo con i suoi piccoli e irritati.

«No che non scappa.» grugnì infine con voce roca e bassa. Diede uno spintone al povero cocchiere che, di dimensioni corporee nettamente inferiori, cadde sul freddo basolato senza però farsi seriamente male.

Si lanciò nuovamente all’inseguimento del biondo, che nel frattempo era riuscito a spronare il cavallo nero con un colpo di piede. L’animale, premendo in un’impennata sugli zoccoli anteriori, si lanciò poi in una corsa potente e veloce attraverso le vie di Terren.

Nathan ebbe giusto il tempo di rinfoderare la sua arma e di afferrare le briglie con mano ferma. Comandò al destriero diverse direzioni e svolte, prima di voltarsi all’indietro e scoprire che i due lo stavano ancora seguendo.

No, peggio: lo stavano inseguendo mentre rivelavano la loro reale natura.

Gli occhi gli si spalancarono per la sorpresa e la stretta sulle briglie si fece più dura. Erano dei poveri pazzi! Come potevano rivelarsi così, in mezzo a strade, sì, deserte, ma che potevano rivelare umani in qualsiasi momento? Erano disposti persino a questo pur di acchiapparlo? Per cosa, poi? Per vendicare Korlea? Per fargli rivelare ogni cosa sugli Angeli? Per mettere le mani su Ann, come già una volta i loro amichetti di Hidel avevano fatto?

«Più veloce!» urlò al cavallo, spronandolo ancora con colpi di scarpa allo stomaco, ma sapeva bene che un Demone nel pieno della sua potenza correva molto più velocemente persino di uno stallone inglese.

Quelli, intanto, si muovevano nelle ombre, prestando quel minimo di attenzione obbligatoria per non farsi scoprire. Li vedeva scivolare velocemente nel buio, quasi giocando con esso e disegnando profili nuovi, spaventosi, che avrebbero inquietato persino un animo temerario. Correvano sulle gambe possenti e muscolose temprate dalla natura, e digrignavano denti affilati, abbastanza forti da affondare nella carne e strapparla a pezzi, come fanno gli animali.

Di minuto in minuto si avvicinavano sempre di più, Nathan era ormai sicuro che non sarebbe riuscito a seminarli.

Doveva trovare un modo alternativo per toglierseli di dosso.

Inutile era pensare di saltare giù ed affrontarli: un Angelo è fisicamente meno forte di un Demone; se poi si trattava addirittura di due Demoni non c’era nemmeno da pensarci: era come andare al patibolo.

La velocità degli Angeli, però, era nettamente superiore alla loro: forse aveva ancora una speranza. Doveva giocare sulla propria lestezza, sul loro scarso ingegno e sul loro olfatto molto sviluppato.

In particolare il tizio più grosso, quello i cui occhi indiavolati ora vagano sulla figura dell’Angelo come se stesse già pregustando il sapore della vendetta, aveva avuto modo di stare a contatto fisico con la sua preda, di registrarne l’odore: era con lui che Nathan voleva giocare.

Nella notte, il vento pareva più freddo di ciò che era, la neve cadeva ancora lenta, creando ostacoli fastidiosi; si erano spostati nuovamente in una zona periferica, stavolta non lontana dall’ex pretura che simboleggiava la salvezza per un Angelo. L’aria aveva un odore pesante, probabilmente perché si trovavano vicino a delle campagne, e questo poteva essere d’aiuto al piano di Nathan.

Incitò un’ultima volta il cavallo ad infilarsi in una fittissima rete di vicoli ai cui lati stavano grandi e decadenti case spente. Attraverso le finestre, a Nathan sembrava di scorgere di tanto in tanto paia di occhi preda di paura o curiosità, ma l’alta velocità non gli permetteva di assicurarsene: qualche urlo alla vista degli inseguitori oscuri gli confermava che non erano sue semplici impressioni.

Girò a destra, poi a sinistra e ancora a sinistra, sperando che la strettezza dei passaggi desse del filo da torcere ai due Demoni: lo smilzo doveva sempre stare dietro a quello grosso ormai, perché Nathan li aveva quasi seminati, e basavano la scelta delle strade da prendere sull’odore del ragazzo e del destriero – nemmeno il continuo battere di zoccoli sulla terra era ormai molto udibile, soprattutto se coperto dal gran fracasso che facevano i due quando atterravano col loro ingente peso sulla nuda terra, di passo in passo.

L’odore dell’Angelo urlava loro di girare ancora una volta a sinistra, e così, presi dall’ebbrezza della corsa e con i petti che si alzavano ed abbassavano frettolosamente a causa della mancanza di fiato, raggiunsero finalmente un incrocio stretto, al cui centro stava il cavallo nero che avevano inseguito fino ad allora: l’Angelo doveva averlo abbandonato nella speranza di ridurre il rumore dei suoi spostamenti.

Il Demone inspirò a pieni polmoni quando finalmente, dopo essersi mosso con circospezione per quelle stradine buie e prive di ogni illuminazione - anche della più sporadica offerta da botteghe o locande -, raggiunse il destriero senza cavaliere.

Il suo compare mingherlino allungò una mano verso l’animale per accarezzargli la testa, nel tentativo di fargli dimenticare quel leggero nervosismo che lo faceva scalciare e voltare continuamente il muso.

«Lo senti?» domandò, ma la sua non era più una voce, era un ringhio profondo e rapido, quanto di più lontano  c’era da limpidezza e dalla chiarezza del parlare umano.

Tuttavia l’altro Demone lo capì appieno, ed annuì con un verso gutturale «Di qua.»

La condusse verso un vicolo cieco invaso da nebbia spessa e bianca, una coltre che sembrava giocare a favore dell’Angelo. Anche la recente pioggia e quel banco di foschia candida sembravano essere dalla parte del fuggitivo, di cui non avrebbe mai dimenticato il nome: Metherlance.

Quel bastardo che gli aveva portato via quell’idiota di suo fratello Korlea.

Korlea che era così fiero di essere un messaggio umano, che non capiva l’orrore di quel ruolo per cui si era proposto volontariamente. Korlea che veniva trascinato via per i capelli da Metherlance per essere portato al macello da quei mostri che si facevano chiamare “Angeli”, e che avevano la presunzione e la crudeltà di chiamare loro Demoni. Korlea era stanco di essere guardato dagli Angeli come un animale inferiore, indegno perfino di pulir loro le scarpe, dunque aveva colto la palla al balzo quando era stato annunciato che serviva uno dei messaggi umani per annunciare agli Angeli la loro imminente rimonta. E Korlea, in quel suo smisurato orgoglio adolescenziale, con quegli occhi così limpidi e vogliosi di rendersi utile alla loro società, si era lasciato mangiare dagli Angeli.

Era stato ordinato loro di non far nulla che potesse mettere il popolo del suono dalla parte del torto, ma come poteva un fratello maggiore rimanere impassibile, sapendo che la persona che aveva torturato brutalmente e condotto alla forca il suo fratellino era lì, a pochi metri di distanza, alla disperata ricerca di un modo per salvarsi la pelle?

Non era di certo per sadismo che aveva deciso di far fuori Metherlance: era l’unico modo per mettere pace al suo dolore, punto e basta.

«Vieni.» comandò al suo compagno, e fece ancora dei passi in avanti nella nebbia. Il suo incedere era pesante ed il respiro rumoroso, gli occhi bui e ansiosi vagavano su ogni particolare distinguibile: tre metri di larghezza per un vicolo prevalentemente occupato da bidoni, casse e rifiuti.

E d’un tratto lo sentì: l’odore del biondino. Era qualcosa di dolce ma con un retrogusto acre, come quelle piante carnivore bellissime a cui ti avvicini volentieri, solo che poi si rivelano mostri orrendi e ti mangiano in un sol boccone.

La nebbia era fredda, dannatamente fredda, e bianca, e spessa. Non gli permetteva di vedere a più di cinque metri di distanza, ma cinque metri erano più che sufficienti. Dietro di sé sentiva i passi nervosi ed irregolari del suo amico, che stringeva ancora in mano le uniche armi che erano riusciti a rubare al covo: due misere revolver vecchie e con pochi colpi.

Per uccidere un Angelo non era sufficiente di certo, ma era già qualcosa.

Avanzava anche lui con passo incerto, perché non riusciva a individuare con precisione la fonte di quell’odore: dove diavolo si era nascosto quel tizio? Ad ogni minuto lo sentiva più forte, e quando si prospettò a meno di sei metri la fine del vicolo fu contento.

Capolinea, si disse.

Come previsto, il biondo aveva provato a scappare fino alla fine, ma si era dovuto arrendere davanti al muro del palazzo a tre piani che precludeva ogni via d’uscita. Il suo odore era stato più forte solo nel momento in cui gli si era aggrappato saldamente alle gambe.

Sul viso gli si formò un sorrisetto nervoso, e i suoi occhi si puntarono su… un cassonetto. Si era nascosto là dentro. Il pensiero di quanto fosse caduto in basso quell’uomo che si dava tante arie gli suscitò una risatina isterica sommessa. Si avvicinò con circospezione, pistola alla mano e sensi all’erta.

Fece un segno col capo al suo amico, che annuì a sua volta; era tesissimo anche lui.

Il grosso si mise davanti al grigio cassonetto rettangolare, lo smilzo si frappose tra l’oggetto e il muro a destra.

Con uno sguardo d’intesa, si lanciarono contemporaneamente sul nascondiglio: il secondo afferrò con forza il grande coperchio di plastica e lo sollevò con uno scatto sordo, il primo sollevò la revolver con mano ferma e afferrò con lo sguardo il contenuto del cassonetto.

Un mantello nero. E basta.

Dopo un attimo di disorientamento, strabuzzò gli occhi un paio di volte ed allungò una mano per prendere la cappa con fare esitante, come se avesse paura che potesse esplodere da un momento all’altro, o rivelare qualche trucchetto “angelico”. Niente. Non accadde assolutamente niente.

Uno spasmo violento gli contrasse il volto improvvisamente scuro, e strinse con ferocia la stoffa nera che fino a quel momento Metherlance si era portato addosso, e che aveva abbandonato sapendo che l’odore della pioggia e la nebbia avrebbero coperto le sue tracce. L’aveva ingannato.

«È… solo un mantello?» domandò il suo compagno nella loro strana lingua, confuso.

E lui, a denti stretti, ringhiò «È solo un fottutissimo mantello…»

 

Nathan era nervoso, nervosissimo. Avrebbe volentieri fatto a pezzi la prima cosa che gli fosse capitata tra le mani.

Era stanco, totalmente in disordine, sporco, aveva addosso la puzza dei vicoli di Terren, i vestiti provati dalla corsa e dalle intemperie.

Ma soprattutto, aveva perso il suo mantello.

Aveva dovuto abbandonare il suo mantello, il mantello che gli aveva fatto Anita, il mantello con cui aveva affrontato mille peripezie, che simboleggiava il suo nuovo stile di vita: insomma, aveva perso un pezzo della sua vita. E la cosa lo rendeva facilmente irritabile. Certo era che l’avrebbe recuperato in un modo o nell’altro, a costo di fare irruzione nel covo dei Demoni, perché senza la sua fida cappa nera lui non intendeva starci, no.

Camminava in modo irregolare e spezzato da improvvisi slanci volti ad accelerare sempre di più, e mai si guardava indietro, perché era sicuro di aver seminato da un pezzo i suoi inseguitori. Aveva perso il mantello per farlo.

Avanzava sulla fredda terra bagnata, evitando prontamente pozzanghere di fango e acqua piovana, che più procedeva più erano frequenti. Questo perché si era allontanato dalla città, che ormai giaceva silenziosa alle sue spalle, presentandosi come un ammasso geometrico di palazzi e tetti grigi semi avvolti dalla nebbia, che aveva giocato un ruolo fondamentale nel tiro mancino appena compiuto ai danni dei Demoni.

Il sentiero che percorreva era stato abbandonato a se stesso molti anni prima, quando i progetti per il vecchio tribunale erano andati in fumo. Nessuna asfaltatura era stata fatta, nessun marciapiede costruito, nessuna illuminazione rendeva il procedere più agevole. Il buio quasi assoluto inondava quello scenario così quieto ed immerso nel cupo riposo notturno nevoso, distrutto rapidamente di quando in quando dalle stridule o grottesche grida di gufi o dal lamentoso miagolare di felini selvatici. Un tempo, quando erano stati piccoli, Auror gli aveva confidato di avere paura di quel verso in piena notte: le ricordava, diceva con quei suoi grandi occhi supplichevoli, il pianto dei bambini. Di conseguenza, ogni volta che un nuovo miagolio rompeva quel quadro di serenità, il sangue di Nathan per un attimo si gelava, e la sua mente ricorreva a mille orribili immagini di bambini che scoppiano in lacrime.

Accelerò ancora quella che ormai era una marcia. Aveva scorto al di là della grande curva l’edificio che un tempo doveva essere stato bianco, ma che ora appariva ricoperto di verdi e secchi rampicanti e annerito da un antico incendio che si era sviluppato nel bosco poco lontano. Il vento notturno soffiava più forte, e il rumore delle fronde in movimento, che di solito riusciva a calmare l’animo irrequieto di Nathan, ora aveva solo il potere di renderlo ancor più nervoso, irritato, poiché pensava di essere fin troppo simili a quegli eroi romantici che ultimamente andavano fin troppo di moda in letteratura.

Il suo animo ebbe tuttavia da calmarsi quando, dopo essere finalmente giunto all’ex pretura, aver sceso i gradini di quel sotterraneo a cui solo un Angelo sapeva accedere ed aver attraversato il corridoio delle candele, entrò infine nella sala comune del covo.

Strabuzzò gli occhi; era vuota.

Dov’erano finiti tutti?

Avanzò cautamente all’interno della grande sala deserta e fredda, scorrendo con gli occhi sul pavimento bianco e nero non calpestato da nessuno se non da lui. Si guardò intorno, dicendosi che non vedere nessuno poltrire sui grandi divani neri ai bordi della stanza ovale era davvero un evento. Di nuovo: dov’erano finiti tutti?

“E ora che cosa dovrei fare? Nessuno potrebbe offendersi se tornassi indietro.”

Così ragionando, continuò a lanciarsi occhiate sospettose intorno. Solo allora gli vennero in mente le parole dell’adepto che gli era stato inviato due sere prima: un esponente di un’aristocratica famiglia si sarebbe trovato lì quella sera, era dunque ovvio che nessuno fosse in giro. Giusto, era proprio per quello che era stato chiamato.

Diede una sistemata veloce – per quanto possibile – agli abiti, nel vano tentativo di far loro riassumere la stessa bianchezza di quando li aveva indossati, quindi si avviò verso la grande porta in ottone tre metri a destra rispetto a quella da cui era entrato: doveva trovare qualcuno.

 

Sfortuna volle che dopo tanto peregrinare all’interno del covo – che da Jen e Marcus era chiamato “Corte”, ma che tra tutti gli altri Angeli era conosciuto come “la gabbia degli uccelli” -, la prima persona che incontrò fu l’ultima che voleva avere il piacere di rivedere dopo tanto tempo.

Adam Forster lavorava da molto, moltissimo tempo presso gli Angeli, tanto che si diceva che lui e l’associazione avessero la stessa età, ma il suo nome era quasi sempre nuovo per quelli che l’udivano. Basso, dalla pelle bianca come quella di un cadavere, le mani scheletriche rovinate da quella cattiva artrosi così comune tra gli anziani della sua età – e tuttavia nessuno a guardarlo in volto sarebbe mai riuscito a dargli un’età.

Scrutava il mondo con occhi indagatori piccoli e serpentini, con una durezza e un forte disprezzo nello sguardo che lo rendevano antipatico ai più. Eppure, conoscendolo bene, ci si sarebbe resi conto che quegli occhi verdissimi erano pieni di esperienza, ormai saturi di vita, ma ancora vogliosi di novità. Conoscendolo bene, ci si sarebbe resi conto anche della scelleratezza di cui era capace, della sua totale mancanza di sensibilità e di scrupoli.

Avanzava così, con un buffo riflesso sulla testa calva, avvolto in un elegante abito verde scuro in stile orientale. Nathan, che aveva appena varcato la soglia di quel corridoio dopo aver controllato l’ennesima stanza – vuota -, si fermò d’istinto non appena i suoi occhi celesti si posarono su quelli duri e gelidi di Forster.

Anche Forster smise di avanzare, incrociò le braccia al petto e fulminò il giovane «Sei in ritardo, Metherlance.»

«Mi sono imbattuto in uno spiacevole contrattempo, signore.» rispose immediatamente Nathan, che ormai ben sapeva che lasciarsi mettere i piedi in testa da Forster una volta significava averli in testa per sempre.

Forster non rispose. Aveva le mani strette davanti al grembo e sul volto un’espressione che dava i nervi all’Angelo: un sorriso appena accennato, e gli occhi socchiusi in un’espressione di compassione, come se stesse cercando di fargli comprendere quanta pena provava per lui.

Nathan stette in silenzio, sinceramente a disagio. Provava un profondo disprezzo per quell’uomo così meschino, che dopo la brutta avventura appena vissuta sembrava la ciliegina sulla torta della sua brutta giornata.

«Sono qui principalmente per fornire le informazioni che ho riguardo-…»

«Sì, lo sappiamo, Metherlance.» lo interruppe l’uomo.

Quanti pensieri poco gentili avrebbe voluto formulare Nathan! Ma per quanto ne sapeva quel tizio poteva anche saper leggere nel pensiero, per cui si limitò ad aggiungere «… Riguardo i due Demoni che mi hanno braccato fino a pochi minuti fa.»

L’anziano rimase interdetto ed alzò un sopracciglio con fare stupito. Lo fissò come se avesse appena detto qualcosa di molto strano, qualcosa che non si aspettava, e questo fece pensare a Nathan che forse, dopotutto, gli Angeli erano davvero estranei a quella serie di brutti eventi.

«Andiamo di là.» ordinò Forster, riprendendo immediatamente il suo abituale contegno di persona abbastanza odiosa.

«Avremo modo di parlare di questi fatti dopo che ti avremo fatto conoscere lady Varens

Giusto, si disse Nathan, era lì anche per conoscere un aristocratico, anzi, un’aristocratica. Annuì seriamente, chiedendosi quanto notizie su strani movimenti da parte dei Demoni, sicari e tentati omicidi potessero realmente essere inferiori rispetto ad una nobildonna francese.

 

D’accordo, Forster lo aveva avvertito che dovevano incontrare una nobildonna francese, e così era stato. Nathan aveva davanti questa nobildonna francese… e ora si chiedeva: ma quanti anni aveva?

Dall’alto del suo metro e novanta, non poteva che provare una sorta di strana tenerezza guardando quella cosetta di un metro e sessanta scarso.

Stava seduta composta su una grande poltrona rossa, Georgiana Varens, una poltrona dove sarebbero potute entrare tre Georgiane. Con le piccole e scarne mani reggeva una tazza di porcellana bianca più o meno quanto la sua pelle, pallida come un cencio, un po’ come quella di tutti gli Angeli. Ogni suo arto pareva più quello di una bambina che di una ragazza in procinto di diventare una donna, soprattutto guardando al leggero tremolio che la percorreva. Chiunque l’avrebbe associato a una qualche forma di malattia, ma, osservandola, Nathan si sentiva investire dai suoi sentimenti, dalla sua emozione, dalla sua timidezza. Era la timidezza a farla tremare in quel modo.

“No, davvero, stiamo scherzando?” pensò ancora tra sé e sé quando i suoi occhi incontrarono quelli  grandi e rotondi della lady bambina, vivi e supplichevoli – sembrava davvero pregare che l’attenzione si spostasse su qualcun altro -, colorati di un verde pallido.

Assomigliava tantissimo a una bambola, lady Georgiana, e più Nathan la guardava più se ne convinceva; lei aveva appena posato la tazzina su un piattino che reggeva tra le flebili mani ora, e nello spazio tra il tavolo di vetro che le stava davanti e la poltrona agitava pian pianino i piccoli piedi rinchiusi in un paio di scarpette rosse, così come il resto del suo vestito semplice ma raffinato, sul quale ricadevano lunghi boccoli castani, che salendo venivano imprigionati da una cuffietta bianca.

Nel complesso, non le avrebbe dato più di quindici anni.

«È un piacere fare la vostra conoscenza, monsieur.» sillabò Georgiana finalmente, con una vocina debole ed acuta, che Nathan avrebbe davvero visto bene addosso ad una bambola, in un inglese zeppo di accenti sbagliati.

Gli suscitò un po’ di tenerezza, e questo lo spinse a rompere quel gelido ghiaccio instauratosi da quando era entrato in quella grande stanza color platino occupata solamente da lui, Forster, Jen e Georgiana. Marcus non c’era.

Le sorrise in modo affabile per poi inchinarsi, lei gli porse la mano e lui ne baciò il dorso.

«Enchanté, mademoiselle Varens.» le rispose in quel poco di francese che sapeva, perché non ci voleva molto ad intuire che la ragazza si trovava a disagio nel dover parlare una lingua che non era la sua.

Infatti, proprio come immaginava, la giovane a quelle parole ben conosciute fece una gran sorriso ingenuo e felice, ed esplose in vivaci parole con un nuovo accetto elegante e fine «Oh, parlez-vous français

E lui, dopo essersi rimesso in piedi, annuì «Comme ci comme ça, mademoiselle

Jen, che fino a quel momento era rimasta in silenzio seduta su una poltrona nera accanto a quella di Georgiana, batté allegramente le mani e sorrise estasiata «Che meraviglia! Non immaginavo che conoscessi il francese, Nathan!»

L’Angelo voltò lo sguardo a lei, che aveva salutato subito dopo essere entrato, e la corresse delicatamente «All’incirca, mia signora. Conosco i fondamenti della lingua, ma non sarei mai in grado di intrattenere una conversazione in corretto francese.»

E, in effetti, gli risultava già abbastanza arduo parlare in inglese col marcato accento tedesco che tradiva le sue origini, figurarsi una lingua piena di suoni molli come il francese!

«Lo scopo è insegnare a lady Varens l’inglese…» riprese la parola Forster, uscendo dall’oscurità della stanza in cui fino a quel momento si era rifugiato.

Fece scorrere lo sguardo sui due ospiti, e Nathan avvertì la paura di Georgiana quando fu il suo turno di essere squadrata: era davvero intimorita da quell’uomo, e l’Angelo non riusciva a darle torto.

«… Poiché dovrà rimanere a lungo in Inghilterra, a meno che gli Angeli non decidano di affidarle missioni in Francia. Impresa che, a mio dire, si prospetta molto ardua.» concluse così , a voce sempre più lenta e bassa, continuando a posare insistentemente lo sguardo sulla ragazzina.

Avvertendo il fortissimo disagio di lei – che abbassò il capo e si fece ancor più piccola – Nathan si frappose tra gli occhi di Forster e la sua flebile figura, chiedendo con fare leggermente sorpreso «Dunque è una di noi?»

A Forster non parve piacere quell’intervento; alzò quei suoi occhi serpentini su Nathan, e, gelido nella voce quasi quanto era rigido nei movimenti, sibilò «Così sembra.» e poi stette in silenzio.

Neanche il biondo seppe rompere quel momento di tensione, preso com’era dalla valanga di fortissime emozioni di Georgiana.

Bene, avevano fatto conoscenza, ora potevano parlare di quello che interessava a lui?

Voltò gli occhi a Jen, che sorseggiava comodamente seduta una tazza di the, e fece per parlare, ma lei lo anticipò, sollevando le lunghe ciglia con fare molto femminile «Lady Varens è appena arrivata tra gli Angeli, Nathan, e come vedi conosce ben poco l’inglese. Per questo ti abbiamo convocato.»

Allora, finalmente, Nathan capì quale sarebbe stato il suo compito: insegnare l’inglese a una francese. Che strazio. Era stato già abbastanza difficile con quella testona di Annlisette – che poi parlava un dialetto, neanche una lingua del tutto diversa.

«Accetterei volentieri, milady…»

«Ma?» lo interruppe lei, alzando un sopracciglio, come sfidandolo a sfidarla.

«Ma ciò comporterebbe una mia assidua presenza alla Corte. E, se vorrete ascoltare ciò che ho da riferirvi riguardo l’attentato di villa Stevenson, capirete quanto un frequente recarmi qui possa comportare seri rischi sia per me sia per voi.» conciso e determinato, come sempre andò a colpire al punto.

Se volevano il suo aiuto dovevano prima ascoltarlo.

La donna parve un attimo sorpresa da tutta quella determinazione, ma poi fece un sorriso gentile ed alzò la mano destra per indicargli una delle tre poltrone ancora libere «Ma certo. Accomodati e raccontaci tutto.»

E Nathan lo fece. Dopo aver preso posto ed aver lanciato un’ultima, titubante occhiata alla piccola Georgiana – sarebbe rimasta lì ad ascoltare quelle informazioni riservate? -, cominciò ad esporre gli accaduti: la sera del ballo, l’attacco del killer, la morte di Angelica Rodriguez – unico avvenimento su cui erano già stati adeguatamente informati; Jen si mostrò profondamente addolorata da quella terribile tragedia -, l’accecamento di Damon, infine l’inseguimento di quella notte che poteva forse ricollegarsi al Demone-messaggio umano che avevano ucciso poco tempo prima. Evitò espressamente di parlare di Ann: gli Angeli non sapevano che ella si trovava a Terren, e non osava immaginare che cosa avrebbe detto – o fatto - Marcus se l’avesse scoperto.

Alla fine del suo racconto, il silenzio prese il posto delle parole. Nessuno sembrava voler più proferire nulla riguardo quei terribili eventi: la comandante, seduta con le gambe a cavallo, picchiettava col dito sul tavolino davanti a lei ed aveva lo sguardo accigliato di chi sta pensando fittamente; Forster, il quale non aveva mosso un muscolo né detto alcunché durante il racconto, era rimasto in piedi accanto alla porta d’ottone, stava in attesa di una qualche reazione da parte di qualcuno. Tale reazione, ironia della sorte, venne proprio da colei aveva meno capito le parole di Nathan, e che era rimasta a dondolare le corte gambe con fare confuso. A un certo punto, Georgiana starnutì. Fu uno starnuto piccolo, acuto, buffissimo, che però distrusse in un attimo la pesante atmosfera creatasi.

Tutti gli occhi le furono addosso, la ragazzina arrossì violentemente ed abbassò il piccolo viso «D-désolé» si scusò timidamente.

Jen ridacchiò, Nathan le rivolse un sorriso gentile, Forster, beh… lui rimase in silenzio, ancora, senza fare niente di particolare.

«Sai, Nathan…» riprese la parola il capo degli Angeli, col viso ora illuminato di un’espressione più fiduciosa, sebbene fosse ancora visibilmente abbattuta per la mole di brutte notizie ricevute «Lady Varens può sembrare tanto piccola e indifesa, ma ti assicuro che è un asso nell’arte della spada.»

«È una notizia che mi rincuora.» le rispose lui, per poi notare quanto quelle parole di elogio – quelle le comprendeva, eh? – facessero piacere alla piccola Georgiana.

«Ammetto che tra gli Angeli ci sono persone che parlano il francese molto meglio di te.» continuò Jen, tornando a poggiare le spalle alla spalliera con fare ora più rilassato e meno grave «Hai un accento così… così… pesante.»

«Cafone.» la corresse Forster.

Nathan fece un verso contrariato, dispensando con generosità occhiate fulminanti. Georgiana rise teneramente.

«Non, non!» intervenne la francese, stavolta con fare più spigliato e spontaneo «Il suo francese è buono, molto buono!» e sorrise al biondo, guadagnandosi così molti gradini nella scala della simpatia.

«Merci, mademoiselle

Ma alle parole di lui, Georgiana tornò ad essere timida e imbranata, e si chiuse di nuovo in un silenzio ostinato.

Jen ne approfittò per riprendere parola «Dicevo, ora che Damon è stato messo fuori gioco – e comunque tranquillo, non verrà assolutamente allontanato da noi - servirà qualcuno per proteggere i nostri ambasciatori, tra cui se ben ricordo c’è anche la tua amica Sogno Darkmoon

«Posso pensarci io.» affermò con convinzione l’Angelo, che non aveva la minima voglia di farsi proteggere, o peggio ancora, scavalcare da una ragazzina che dimostrava a malapena quindici anni.

«Per ora.» incalzò la donna, e sorrise. Si acquietò, con quel sorriso strano sul viso che Nathan non riusciva a interpretare. La fissò a lungo prima che ella rispondesse finalmente ai suoi silenziosi perché «Beh, presto torneremo a Hidel…»

Un nome. Un nome bastò a riaccendere nel biondo un’antica speranza, a destare la sua attenzione come mai Jen era riuscita a fare, e lei lo notò. Quel villaggio poteva essere un’arma a doppio taglio contro quell’Angelo. Ed era vero: Angel gli aveva accennato che Jen si stava muovendo per convincere Marcus a farlo tornare al villaggio, ma fino a quel momento la sua era stata solo una speranza molto irreale.

«Dovrai ricominciare a fare il supervisore, no?» domandò infine, col suo risolino astuto.

«… Milady?» non riuscì a trattenersi lui. Poggiò i gomiti sulle ginocchia, piegandosi in avanti col busto, come chi parla di un grande segreto «Credevo che non avreste più acconsentito…»

Si bloccò. Non era il caso di ricordarle di Ann, non sarebbe stato saggio.

Lei rise allegramente, provocando un’espressione confusa in Georgiana, che probabilmente non capiva granché della loro discussione «Ma allora non mi conosci, Nathan! E ora ascolta il nostro piano.»

“Nostro?” si chiese l’Angelo, che ormai era abituato a cercare di strappare con le pinze ogni informazione possibile a Jen e Marcus. La domanda alla sua silenziosa risposta venne subito dopo da Forster, che si avvicinò a passi lenti - e ad ogni passo la paura di Georgiana aumentava. Nathan pensò che la ragazzina dovesse essere stata vittima di quel mostro per arrivare a quei livelli di inquietudine.

Si accomodò meglio sulla poltrona, rimettendosi composto e con le spalle contro la spalliera. Ammetteva di non fidarsi con sicurezza di quei due – paradossalmente, l’estranea Georgiana sembrava quella più degna di fiducia là dentro -, non voleva lasciarsi ingannare o sfuggire qualcosa.

La bella comandante riprese parola dopo aver allungato una mano sulla piccola testa di Georgiana per carezzarla dolcemente «Può non sembrare, ma Georgiana è perfettamente autosufficiente: sa cucinare, cucire, combattere se necessario, è una ragazza molto giudiziosa. I suoi difetti principali stanno nella sua immensa timidezza, che le impedisce un qualunque tipo di rapporto umano, e nella sua estraneità con l’inglese. In entrambi i casi, tu potresti darle un forte incentivo a migliorare.»

«Perdonate la scortesia…» la frenò l’Angelo, volendo mettere i puntini sulle i. Accennò a una risatina divertita «Ma non credo proprio di essere in grado di farle vincere la timidezza coi miei modi alquanto… glaciali.»

«Ed esigenti.» Jen alzò un dito, come riprendendolo «Appunto per questo confido che farai un ottimo lavoro nell’insegnarle l’inglese. A lei piace mettersi alla prova, e tu sei molto pretenzioso. Georgiana imparerebbe in fretta.»

Due cose non piacevano a Nathan in quella frase: quel “farai” che metteva in chiaro quanto Jen fosse irremovibile dalla sua posizione – aveva deciso che lui avrebbe fatto da insegnante e gliel’avrebbe imposto -, in secondo luogo quel cercare di riportare l’attenzione su Georgiana. Perché? Che diavolo avevano veramente in mente? Potevano benissimo affidarla a un altro, tra di loro molti parlavano entrambe le lingue senza difficoltà, e Georgiana avrebbe sicuramente ottenuto risultati migliori con loro. Quell’accenno a Hidel lo inquietava particolarmente: cominciava a temere seriamente che…

«Resta il problema del dovermi recare qui ogni giorno.» provò ancora.

Forster intervenne a questo punto, alzando gli occhi serpentini su di lui «No. La porteresti con te, a casa tua.»

Ecco, fu a quel punto che a Nathan si gelò il sangue.

«Vivi da solo, un’assistente potrebbe rivelarsi molto utile per uno scienziato come te.»

L’Angelo fece un tirato, tiratissimo sorriso «… Sicuramente.»

Ora il problema era uno solo: come avrebbe giustificato la presenza a casa sua di quella contadina di Hidel che lo aveva ficcato nei guai? Spostò lo sguardo sulla ragazzina castana. Non sembrava una ficcanaso né una traditrice, ma la natura degli Angeli era infida ed opportunista, questo lui lo sapeva bene, e non c’era mai da fidarsi completamente.

«Lo stesso vale per quando tornerai a Hidel.» riprese Forster «Avrai molto lavoro, Metherlance. Dovrai tenere gli occhi molto più aperti di prima, fare turni di guardia all’interno del villaggio; dei confini esterni ce ne occuperemo noi. Avrai sicuramente bisogno di un aiuto, e Georgiana Varens può dartelo senza dare nell’occhio.»

Nathan ora capiva fin troppo bene: volevano mettere Hidel sotto stretta sorveglianza, probabilmente mentre loro riprendevano quelle maledette trattative con i pazzi Demoni, nella speranza di evitare qualsiasi ripercussione sui villici. Il discorso di Forster, così ricco di pause logiche e frasi ragionate, non faceva una piega. Da solo non poteva farcela, questa era la dura verità. Doveva portare con sé Georgiana, che in caso di attacco avrebbe saputo combattere, raccomandare ad Ann di uscire il meno possibile da casa, inventarsi scuse per convincere i villici a non uscire di notte se possibile.

Annuì fermamente «Sì, avete ragione.»

Avvertì forte soddisfazione da entrambi i pezzi grossi, sollievo da Georgiana, e quei sentimenti lo inquietarono, perché per un attimo si sentì come un topo caduto in trappola. Si rabbuiò. Oh, se solo avesse potuto avvertire anche le loro vere intenzioni invece di inutili emozioni!

Jen batté le mani davanti al petto allegramente «Bene! Allora è deciso!»

Forster intervenne di nuovo, impedendo a Nathan di immergersi nei suoi ragionamenti - sembrava tutto perfettamente calcolato per non dargli il tempo di ragionare.

«La ragazza dovrà cambiare cognome.»

Georgiana sbiancò. Aveva evidentemente capito che cosa volevano da lei: che fosse del tutto irriconoscibile.

«Sì.» convenne il biondo, allungando lo sguardo verso di lei «È necessario se non vogliamo essere scoperti.»

La ragazzina parve molto indecisa. Fece scorrere lo sguardo su ognuno dei presenti, probabilmente alla ricerca di una parola di conforto, di un aiuto, ma non trovò niente se non totale indifferenza.

“Benvenuta tra gli Angeli” pensò velenosamente Nathan.

 

Georgiana Metherlance, ecco chi era diventata. Lei era Georgiana Metherlance, una cugina francese di Nathan Metherlance.

Camminavano per quelle buie strade di Terren - che a Georgiana facevano molta paura -, lei e monsieur Metherlance, al quale lanciava di tanto in tanto piccole occhiate indagatrici.

La ragazzina era avvolta in una pesante cappa rossa, indossava anche un paio di stivali molto alti, guanti neri, una sciarpa nera che la copriva fino al naso e un cappello di lana che provvedeva a coprire il resto, lasciando visibili solamente gli occhi. Nel complesso era molto buffa, e si capiva a colpo d’occhio che era una nobile, proprio per questo Nathan doveva prestare il triplo dell’attenzione ogni volta che qualcuno posava lo sguardo su di lei.

Georgiana tremava spesso nonostante tutta quella roba che aveva addosso. Da quando era giunta in Inghilterra aveva cominciato a soffrire quel nuovo tipo di freddo così duro e dilaniante, capace di entrare nelle ossa con insistenza pungente. Infine, tra le mani stringeva una valigia marrone che era il suo unico bagaglio da quando era giunta nella vecchia Inghilterra.

“Georgiana Metherlance”, continuava a pensare.

Era possibile veramente cancellare in una sola serata un intero passato? Lei ci avrebbe provato, perché era stato monsieur Forster a ordinarglielo.

Doveva accelerare il passo abbastanza spesso per riuscire a star dietro a Metherlance, che si muoveva molto velocemente.

«Attendez, monsieur!» lo pregava in quei momenti, quando rimaneva troppo indietro e doveva cominciare a correre per raggiungerlo.

A quel punto Nathan si voltava, si scusava e le diceva che avrebbe camminato più lentamente. Ma non lo faceva mai. Sembrava avere molti pensieri per la testa, mentre camminava con lo sguardo fiero verso avanti, senza mai guardarsi indietro.

Georgiana provava già grande stima per lui, ma non era sicura di riuscire a reggere i suoi modi di fare.

L’uomo non sembrava avere la minima intenzione di fare conversazione – forse pensava ancora a quello che avrebbe dovuto fare in quel posto che avevano chiamato Hidel, o magari volgeva la sua attenzione all’uomo di nome Damon di cui aveva chiesto le sorti poco prima di lasciare la Corte.

«Damon Darkmoon rimarrà dei nostri nonostante la sua cecità.» aveva detto Jen «Tuttavia, non possiamo correre il rischio di portarlo a Hidel, ci sarebbe solo d’intralcio. Rimarrà qui a Terren, a farsi curare. La cecità non sempre è permanente, magari, con un po’ di fortuna e le dovute cure, tra qualche anno potrebbe ricominciare a vederci.»

Georgiana si era interrogata a lungo su chi potevano essere le persone di cui avevano parlato durante l’incontro, ma nessuno le aveva risposto. E così, ancora una volta, non poteva far altro che abbassare la testa e, in triste silenzio, accelerare il passo per seguire qualcuno.

«Monsieur Metherlance!» lo chiamò ad un certo punto, quando si trovarono ad attraversare una buia strada stretta e molto lunga, che le faceva paura.

Nathan, che si era di nuovo immerso nei suoi pensieri, non poté fare a meno di pensare che quella ragazza pronunciava davvero bene il suo cognome. Chissà, forse il primo Metherlance era stato proprio francese? Si voltò e le rivolse stavolta uno sguardo più curioso.

«Ascoltate, milady.» le disse in inglese «Potete parlarmi in francese se preferite, ma io mi rivolgerò a voi solamente in inglese, lentamente e con precisione, così da farvi comprendere la pronuncia corretta.»

«Oui, merci.» riprese la ragazzina. Finalmente lo raggiunse, e, guardandosi intorno con fare spaesato, aggiunse col suo timido inglese «Posso chiedere dove siamo? Questo luogo mi mette un po’ paura.»

Gettò lo sguardo sulla muffa che ricopriva gli angoli in cui i muri delle case incontravano il lastricato bagnato, sui topi che attraversavano a grande velocità le strade, e quando il muso di uno di quelli si voltò verso Georgiana e un paio di piccoli occhietti rossi incontrarono i suoi, la ragazzina si voltò verso Nathan con grandi lacrime sulle palpebre.

«Questi sono i bassifondi, milady.» le spiegò lui, le mise una mano sulla spalla e cominciò a guidarla, stavolta a voce veramente bassa, essendo quelle informazioni riservate «È necessario passare da qui per raggiungere voi-sapete-cosa dal centro di Terren. Non siete mai stata a Terren?»

La bruna scosse il capo «Mai. Sono arrivata da pochi giorni. E… perché bisogna passare per i bassi… bassì-fondi

«Bassifòndi, milady.» la corresse lui: gli sembrava di essere tornato ai tempi in cui correggeva Ann.

Già, a proposito di Ann, da quanto tempo l’aveva lasciata sola? Durante la nottata il suo pensiero era spesso corso alla contadina: stava bene? Le era accaduto qualcosa in sua assenza? Sogno e Damon l’avrebbero sicuramente protetta in caso di attacco, ma si sentiva lo stesso in forte ansia.

Attraverso la nebbia, stavano attraversando il luogo dove era avvenuto l’inseguimento poche ore prima, tuttavia non poteva andare a recuperare il mantello – se c’era ancora -, perché aveva Georgiana con sé, e i nobili sono capaci di essere veramente odiosi davanti a un po’ di sporco.

«Perché nessuna persona assennata si sognerebbe mai di attraversare una zona malfamata come questa. È un modo per celare voi-sapete-cosa.» rispose finalmente alla domanda che gli era stata posta.

«Oh.» la ragazzina mise un dito sulle labbra, come se stesse pensando seriamente. Alzò infine lo sguardo a lui con espressione preoccupata «Quindi noi siamo… deassennati 

Quelle parole fecero ridere a bassa voce l’Angelo «Per quanto mi riguarda, sì.»

Attraversarono in fretta quella parte di città, presi com’erano lui dall’impellente bisogno di assicurarsi dell’incolumità di Ann, lei dalla voglia di uscire dalla fitta nebbia che li avvolgeva da quando erano usciti dal covo.

Georgiana non pensava che Terren fosse così paurosa. A Parigi, la sua patria, le avevano spesso parlato dell’antica e misteriosa Inghilterra, terra di fate, mostri e leggende. Nei racconti della sua cara madre – inglese, mentre il padre era francese, sposati per un matrimonio combinato -, figurava sempre come un luogo inquietante ed affascinante, dagli splendidi e selvaggi paesaggi e dalle cupe e fredde città. Georgiana Varens adesso si sentiva parte di quel mondo, e un po’ ne aveva paura. Dunque non poteva far altro che staccare a forza gli occhi dalle ombre dalle strane forme, dalle poche persone che passeggiavano quietamente per quelle vie notturne e fangose. Si rifugiava presso Nathan Metherlance, suo unico punto di riferimento in quel momento, ma nemmeno lui sembrava meno pauroso delle altre forme che quella notte le si avvicinavano troppo spesso.

«Siamo arrivati.» fu l’unica cosa che Nathan disse quando si fermarono davanti a un grigio e anonimo palazzo di quattro o cinque piani.

Mentre lui trafficava con le chiavi alla ricerca di quella giusta, Georgiana impiegò qualche secondo ad osservare il luogo, per imprimerlo meglio in mente.

Non era un posto brutto ma neanche bello, con quei muri un po’ ammuffiti, che di tanto in tanto sembravano pronti a perdere qualche mattone. La cosa preoccupava la ragazzina: era davvero agibile, quel palazzo? Le ringhiere sui vecchi balconi, per quel poco che riusciva a vedere, sembravano mangiate dalla ruggine – aveva sempre odiato la ruggine, le dava un forte senso di degradazione, di morte e di abbandono. Le avrebbe ridipinte lei quelle di casa Metherlance, ovviamente se ce ne fosse stato bisogno.

«Milady.» la chiamò Nathan, destandola dai suoi sogni.

Lei scattò sull’attenti, come a volersi scusare di quella distrazione «Oui

Lui aveva finalmente aperto la vecchia e pesante porta di ferro e vetro d’ingresso e la teneva ferma con una mano, invitandola con l’altra ad entrare «Prima di salire, c’è una cosa di cui vi vorrei parlare.»

«Vi ascolto.» annuì la ragazzina, sbattendo un paio di volte le palpebre. Mise le mani in grembo e cominciò a strofinarle contro la calda lana del cappotto, nella speranza di riscaldarle.

«Con me vive una ragazza.» esordì lui, catturando subito la sua attenzione «In realtà la sua è una permanenza assolutamente momentanea, ben presto tornerà al suo paese natale: Hidel, di cui abbiamo parlato poco fa. La sua è una visita di cortesia, e per pura casualità ha avuto modo di conoscere anche Sogno e Damon Darkmoon, che vi presenterò domattina. Non sa niente degli Angeli, niente di niente, perciò in sua presenza dovreste prestare il doppio dell’attenzione.»

Georgiana annuì con fare deciso, e quello per il momento bastava a Nathan, che tuttavia non si fidava. Era lui in realtà che avrebbe dovuto prestare il doppio dell’attenzione, non lasciare più Annlisette da sola, soprattutto se in compagnia di Georgiana. Per quanto ne sapeva lui, quella ragazzina dagli occhi spauriti poteva in realtà essere una spia degli Angeli – cominciava ormai a diffidare persino della propria ombra.

«Un’altra cosa.» aggiunse, notando che Georgiana si apprestava ad entrare.

L’attenzione di lei fu di nuovo assoluta.

«Potrà sembrare irriverente, ma considerando che siamo “cugini” potrebbe apparire strana tutta questa formalità.»

La ragazzina, capito al volo dove lui voleva arrivare, arrossì e scosse il capo «Excusez-moi, ce n’est pas possible

La cosa sembrava davvero non piacerle, ma Nathan era già preparato a dinieghi, e, dopo qualche tentativo, riuscì finalmente a trovare un accordo: avrebbero continuato a darsi del voi, tuttavia chiamandosi per nome quando si trovavano in compagnia di Ann - ovviamente avrebbero poi esteso la precauzione a tutti gli abitanti di Hidel. Con Sogno e Damon non sarebbe stato necessario.

Georgiana non se n’era ancora accorta, ma gli occhi di lui le erano perennemente puntati addosso, alla ricerca di un qualsiasi dettaglio che potesse etichettarla come persona pericolosa. Osservava con attenzione ogni movimento, cercando di capire se era dettato davvero dalla timidezza o dalla paura di essere scoperta, ogni espressione sembrava quella di una maschera, ogni parola poteva essere ben calcolata, e tutta quella apparente sincerità poteva rivelarsi una perfetta menzogna. Insomma, era decisamente poco propenso a farsi prendere in giro di nuovo, non ora che poteva mettere in pericolo anche Ann.

Fu così che quando entrarono in casa studiò ogni sguardo curioso lanciato dalla ragazzina all’ambiente, ai mobili, alle sedie, al balconcino, al tavolo su cui ancora erano poggiati disordinatamente tanti libri, ai mucchi di carte concentrati su una poltrona.

«Che confusione più che confusa!*» si lasciò scappare ad un certo punto.

Nathan le lanciò un’occhiata acre «Sono uno studioso, Georgiana.»

Non capiva proprio la necessità che tutti avevano di fargli notare quanto fosse disordinato. Il che non era neanche del tutto vero, perché lui nel suo disordine aveva creato un ordine universale solo a lui conosciuto, che lo faceva sentire in qualche modo più potente rispetto agli altri, che tentavano inutilmente di capire il motivo per cui su un libro di greco antico fosse poggiata la pianta del Crystal Palace*.

Mentre Georgiana si chiudeva in un silenzio imbarazzato, Nathan raggiunse un cassetto dove teneva le poche coperte di cui disponeva. Ne uscì una piegata in quattro e, con un gesto secco, l’aprì, mostrandola in tutta la sua semplicissima monocromia bianca. Sembrava molto pesante, e la ragazzina ne trovò conforto: avrebbe dormito al caldo, sperava. Posò silenziosamente il suo bagaglio sul pavimento.

«Mi dispiace, ma per stasera dovrete accontentarvi del divano.» annunciò lui, correndo con gli occhi al vecchio ammasso di molle, rattoppi e polvere.

La giovane non parve affatto triste, anzi, ringraziò della premura e chiese di potersi ritirare il più presto possibile. Lo disse con un’espressione così supplichevole che Nathan non riuscì a dirle di no, le sorrise e la lasciò sola.

«Bonne nuit.» la salutò, ricevendo un sorriso in cambio.

Immaginava che trovarsi da sola in un posto sconosciuto l’avesse duramente provata, non la biasimava assolutamente – dopotutto era ancora una ragazzina.

E poi… prima di chiudersi la porta alle spalle e lasciare che il visetto scarno sparisse nell’altra stanza, gli era parso di vedere qualcosa, una sorta di barlume di speranza negli occhi di lei. Non seppe interpretarlo, di nuovo. Perché già bene conosceva quel bagliore, lo aveva visto nello sguardo di tanti nuovi Angeli. Tuttavia era sempre intenso quando fulmineo, e si dissolveva con velocità spaventosa.

La stanza in cui Nathan era entrato era quella da letto dove riposava Annlisette, immersa in un sonno profondo. Che sollievo, stava bene. L’Angelo si concesse un’espressione ingentilito.

L’ambiente era buio, la notte regnava sovrana; solamente un raggio di luna penetrava attraverso le tende della porta che dava sul balconcino, illuminando la parte di camera occupata dall’armadio e da un comò che conteneva moltissime cose: da fotografie a progetti, da oggetti per la ricerca a stoffa per rattoppare, da libri ad armi – delle pistole in dotazione dagli Angeli che il biondo aveva nascosto molto bene, nella speranza che la curiosità di Ann non arrivasse perfino a farla scartabellare tra i suoi libri in tedesco.

Si tolse silenziosamente la giacca, sfilando prima l’una poi l’altra manica, per poggiarla quindi sulla sedia accanto al comò. La perdita del suo mantello era stata una cosa terribile ai suoi occhi – per lui era davvero come perdere una persona, per quanto assurdo potesse sembrare -, eppure quella rabbia covata fino a quel momento sembrava assopirsi mentre posava gli occhi sul profilo di Annlisette addormentata.

La ragazzina sognava quietamente stesa sul fianco destro, con un braccio nascosto sotto i caldi strati di coperte e un braccio fuori, posato sul guanciale. I lunghi capelli erano sparsi in modo selvaggio eppure elegante, ricordavano moltissimo a Nathan quelle tele di ragno che da bambino amava osservare per ore, cercando di carpirne i segreti di tanta semplicità capace di tanta bellezza. Ridacchiò tra sé e sé silenziosamente, pensando che forse Ann si sarebbe sentita offesa se avesse udito quel paragone.

Nel modo più raccolto possibile – quasi si sentì un ladro -, riuscì a cambiarsi ed infilarsi addosso qualcosa che non emanasse quell’orrendo fetore delle vie di Terren. Non si sarebbe mai sognato di avvicinarsi alla sua principessa in quel modo impresentabile.

Nel raggiungere il letto sciolse anche il fiocco con cui teneva legate la sua lunga zazzera disordinata e ribelle – eh sì, Ann poteva provarci quanto voleva a comandargli di tagliarsi quei capelli che lo facevano sembrare lo scienziato pazzo, ma non ci sarebbe mai riuscita.

Del resto, come imporre a uno scienziato pazzo di non essere più scienziato pazzo?

Silenziosamente, calò sul colpo della ragazza come un vampiro cala sulla sua vittima. A sua volta si stese su un fianco, allungò una mano per posarla delicatamente sulla spalla coperta di lei e carezzarla con garbo.

«Mmh…» si lamentò la ragazzina.

Aveva il sonno leggero? Nathan sorrise. Pensava che Ann fosse una di quelle ragazze che non venivano svegliate neanche dalle cannonate. O forse, molto più probabilmente, da quando il mondo le cadeva addosso lentamente aveva cominciato a rimanere in allerta anche durante il sonno.

«Shh, tranquilla, sono io.» le sussurrò all’orecchio con tono basso e rassicurante, e quando lei si sforzò di aprire un occhio offuscato dal sonno lui le sorrise.

Ad Annlisette, ancora completamente intontita dalla sonnolenza, parve di essere ancora dentro uno dei suoi sogni. Nathan non era mai entrato in quella camera di notte, nemmeno quando tornava alle prime luci del mattino. Non si era mai preoccupato di assicurarle che era rincasato e che stava bene, perciò quello doveva essere un sogno.

«Sto sognando?» chiese ingenuamente, suscitando in lui un mezzo sorriso.

«Può darsi.»

Fu la risposta, seguita da un freddo bacio sulla fronte. I baci di Nathan erano sempre freddi, soprattutto quando tornava a quell’ora, dopo aver passato tutta la notte chissà dove, in compagnia di chissà chi. Una cosa che accendeva la fiamma della gelosia nel piccolo cuore di Ann, che andò con la mano a stringere quella di lui posata sulla sua spalla.

«Stai bene? Non hai preso tanto freddo, vero?» aggiunse la ragazza. Incontrò i suoi occhi, che sembravano più bui del solito, e da quello capì che c’era qualcosa che lo angosciava.

Lui le assicurò che andava tutto bene, e ancora una volta lei portò pazienza, perché sapeva che era inutile combattere contro lui e le sue manie. E poi, se non riusciva a reggere un confronto verbale quando era nel pieno della lucidità, come doveva riuscirci in quel momento?

«Lo dici per non farmi preoccupare.» affermò comunque.

Lui rise ed annuì «È vero.»

Raramente Ann aveva avuto modo di osservare così da vicino Nathan al buio, ma ogni volta era un’emozione. Nelle tenebre, era come se il suo viso subisse una trasfigurazione, diventando la cosa più bella e desiderabile che avesse mai visto. O forse erano semplicemente gli effetti collaterali del sonno e del buio che nascondeva le imperfezioni, il che sarebbe stato molto più logico.

Anche se, a dirla tutta, in quella storia di cui si sentiva quasi protagonista c’era davvero ben poco di logico…

Sentì le dita di lui percorrere la pelle del suo braccio con lentezza, e quel tocco ebbe lo strano potere di trasmetterle emozioni e voglie che un cristiano non dovrebbe avere. Arrossì e si chiuse in un silenzio statuario, preferendo nascondersi tra le braccia del suo Angelo.

Lo sentì ridacchiare, e in quel momento si ricordò che…

«Smetti immediatamente di sentire le mie emozioni, disgraziato!» le parole le uscirono come un fiume in piena, allo stesso modo in cui le sue guance si colorarono così improvvisamente di un rosso così vivo da sembrare prese da un incendio.

Nathan allungò una mano per sfiorarle il mento, che sollevò piano «Lo sai che non è una cosa volontaria. E poi…» riecco il suo famoso sorriso beffardo «Perché te ne vergogni?»

«E tu perché ne ridi?» sbottò la ragazzina, fulminandolo con le occhiate più atroci del suo repertorio.

La mano di lui si sollevò ancora fino a raggiungerle una guancia, sulla quale posò una carezza «Perché il modo in cui cerchi in tutti i modi di mettere da parte ogni debolezza è molto dolce.» quindi, dopo una breve pausa, aggiunse «Sei una bella persona, non nascondere te stessa dietro un velo.»

Se fosse stata in grado di pensare, la giovane straniera sicuramente avrebbe riflettuto su quelle parole, ma in quel momento una profonda sonnolenza le impediva di mettere a fuoco ogni cosa che non era il suo amato Angelo.

Che fosse più spontanea, era questo che Nathan voleva? Dopo tutto quello che era accaduto, dopo la straziante morte di Angel che ancora anneriva le sue giornate, con la paura che Hidel potesse essere divorato da un momento all’altro, era davvero il caso di mostrarsi ingenua com’era sempre stata? Qualcun altro si sarebbe approfittato di lei, o peggio, si sarebbe accorta in tempo dell’ennesimo terremoto distruttore quando sarebbe arrivato?

Aveva tanta paura, era questo che non voleva ammettere, la consapevolezza che la faceva chiudere in se stessa.

Una nuova carezza le solcò il viso «Niente paura, principessa. Sei molto più coraggiosa di quanto credi…» lo sentì consolarla, e lei sollevò il viso per incontrare i suoi occhi «Ce la faremo sicuramente.»

Annlisette si sentì invadere il cuore da un grande calore, ed annuì ripetutamente mentre uno spontaneo sorriso le si allargava sul volto. Cercò ancora una volta riparo tra le braccia dell’unica persona di cui poteva fidarsi mentre era lì, a Terren, nelle sue carezze, nelle sue così rare ma intense affettuosità, nei suoi baci, nelle loro mani intrecciate, in un desiderio diverso da quelli provati fino a quel momento.

E in intanto, fuori, cadeva la neve.  

 

 

Note:

#1: Georgiana cita “Paradise Lost”, John Milton, II.

#2: Il Crystal Palace era un enorme edificio allestito nel 1851 per ospitare l’Esposizione Universale, a Londra. Fu smontato e ricostruito a Levisham nel 1854 – dunque nel tempo in cui è ambientata la nostra storia -, per poi essere definitivamente distrutto da un incendio nel 1936.

 

 

 

 

Note dell’Autrice:

Questo capitolo è arrivato con un po’ di ritardo, me ne scuso *inchin* come molti altri di voi, anch’io sono purtroppo presa dalla maledizione degli esami di maturità – mai odiato Seneca come ieri -.-“ -, quindi tra preparazione, ripasso, percorsi ed esami veri e propri questo capitolo ha subito un enorme ritardo. Anche perché, come avete visto, è un capitolo molto denso, dove finalmente sono stati introdotti Georgiana Varens e Adam Forster, due personaggi importantissimi all’interno della storia ^^ adoro Georgiana! Ho progetti grandissimi per lei, quasi ai livelli dei progetti che ho per Nathan! A proposito, ultimamente l’attenzione si è spostata su di lui, ma non abbiate paura, fan di Ann, perché la nostra eroina a breve lo butterà fuori dalla scena xD credo che per un po’ non vedremo più Nate – se non per brevissimi intermezzi -, per cui volevo farvi godere il nostro sadico angioletto un po’, prima di farlo sparire. Mi rendo conto che questi capitoli diventano sempre più lunghi, e la cosa mi fa paura! Il prossimo aggiornamento… eeeh, non saprei. Devo prima finire gli esami, poi mi butterò su Snow, nella speranza di finirlo a breve – eh sì, siamo quasi a fine storia! Che commozione! (Lettori: E menomale! Ti sei portata la testa!)

Bene, prima di lasciarvi, posto il link ad un disegno che ho fatto ai tempi del capitolo 21 e che puntualmente ho sempre dimenticato di farvi vedere xD è una cosina simpatica, magari vi strapperà un sorriso:

http://img641.imageshack.us/img641/6213/nathandamonannsogno.jpg

In ordine da sinistra verso destra: Sogno, Ann, Damon e Nathan – devo aggiungere Georgiana, così il gruppo dei protagonisti è al completo ^^

 

E ora mi immergo nelle tenebre dello studio.

Auf wiedersehen! *svolazza mantello*

Nathan: Il mio mantellooooooo! ç_____ç

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Capitolo 25
*** Buon ultimo compleanno! ***


What colour is the snow?

Capitolo 25: Buon ultimo compleanno!

 

C’era della neve, tanta bianca e fredda neve. Neve che cadeva dal cielo; neve che rendeva difficile avanzare; neve che ricopriva ogni cosa; neve che, se il sole fosse riuscito a penetrare il fitto banco di nubi che oscurava i cieli di Hidel, avrebbe riflesso la luce in modo abbagliante, tanto da costringerla a frapporre una mano tra gli occhi e il bagliore.

Ann sentiva un groppo alla gola e un vuoto allo stomaco, i deboli arti le tremavano appena e gli occhi si inumidivano, mentre, passo dopo passo, assisteva al delinearsi lento ed emozionante dei tratti del villaggio che a lungo non era riuscita a sopportare, ma che in quei mesi le era mancato come mai. L’esperienza di Terren era stata incredibile senza dubbio, l’aveva costretta a maturare una consapevolezza più adulta, e tornare in quel piccolo angolo di mondo era per lei come rivivere un sogno di ingenuità e inconsapevolezza. Tornare nel nido, tornare tra le braccia di chi avrebbe frapposto un muro tra lei e tutto il dolore che l’aveva accompagnata in quelle peregrinazioni.

Si voltò, lasciando che il freddo vento le sferzasse il volto già screpolato, e cercò con lo sguardo il suo accompagnatore. Nathan era dietro di lei, avvolto come sempre nel suo lungo mantello nero che lo rendeva quasi inquietante, le sorrideva in modo gentile, forse anche lui era felice di essere tornato a Hidel.

«Andiamo!» esclamò la ragazzina con fare raggiante, piena di quella vivacità caotica che aveva perso durante il periodo passato a Terren.

Allungò una mano attraverso l’aria, giungendo così a sfiorare la cappa dell’uomo, ma… egli si ritrasse, e lo fece con un’espressione amara, un sorriso mesto ed un cenno di diniego.

Il volto di Annlisette mutò radicalmente in una maschera di sorpresa, poi d’orrore nel vederlo camminare a ritroso attraverso il bianco manto immobile, come un fantasma evanescente.

La sua mano venne allungata ancora di più da un irrefrenabile desiderio di raggiungerlo, di afferrarlo, ma più si avvicinava, più le sembrava che lui si allontanasse.

Chiamò il suo nome, poi lo urlò con quanto fiato aveva nei polmoni, nella speranza che quella figura smettesse di dissolversi lentamente.

«Nathan!»

 

«Nathan… !»

Pigramente, il mondo che fino a quel momento era stato sfocato e dai contorni rotondeggianti assunse finalmente le sue forme naturali, in un crescendo di spigolosità che metteva a nudo la cruda realtà.

Era stato solo un sogno.

Ann si ritrovò a tendere una mano verso il soffitto mezzo mangiato dall’umidità che minacciava di caderle in testa. Strizzò gli occhi impastati di sonno un altro paio di volte, poi si sentì invadere da una dolceamara mescolanza di consapevolezza di essere ancora a Terren, ma di avere ancora Nathan accanto. Si sentì molto stupida per essersi lasciata soggiogare così facilmente da un semplice sogno, tuttavia, nel languido stato di dormiveglia in cui si trovava, non aveva alcuna voglia di rimproverarsi. Voleva invece tornare a sonnecchiare altri cinque minuti, solo cinque minuti.

Ritrasse quell’arto ancora teso a raggiungere il nulla, e quando la pelle le sfiorò il gelido piumino d’oca realizzò la corsa forse più sconvolgente della sua vita.

“Dov’è… il… oh, Signore… ooh, Signore!”

Le sue guance si tinsero istantaneamente di un vivido rosso e la sua mente scattò, più sveglia che mai, mentre gli occhi correvano intorno a sé, per capire innanzitutto perché non indossava alcun abito, perché vedeva un mucchio di vestiti maschili e la sua camicia da notte in un angolo appartato del letto, ma soprattutto perché il suo corpo nudo era avvolto dalle braccia di quella persona che, altrettanto svestita come lei, dormiva come un bambino al suo fianco! Lei realizzava una cosa tremenda e lui dormiva?!

Per un attimo credette di cedere alle lacrime per la confusione che aveva in testa, e, istintivamente, si liberò dall’abbraccio in cui era stata stretta. Realizzò solo allora, mentre le lenzuola le scivolavano addosso trasmettendole brividi di freddo, ciò che era accaduto la sera precedente, di come si fosse fin troppo lasciata andare, presa com’era dalla voglia di avere affetto, ma di affetto speciale.

Si bloccò al limite del letto e lanciò uno sguardo di fuoco a Nathan che sembrava essere immerso nei suoi sogni migliori, quasi fosse totalmente estraneo alla situazione. Oh, ma quando si sarebbe svegliato avrebbe dovuto pagare i conti! Oh, sì! Gliel’avrebbe fatta vedere lei e gli avrebbe insegnato che non si mettono le mani addosso alle signorine!

“Forse dovevo pensarci prima a farglielo capire… oh, che imbarazzo…”

Ad Annlisette non era mai capitato di sentirsi talmente piccola ed in soggezione. Da una parte sentiva l’immensa voglia di tirare i capelli al biondo e svegliarlo malamente – quando si rese conto di essere ancora vergognosamente nuda abortì l’idea -; d’altro canto, tuttavia, c’era qualcosa di diverso in lei quella mattina. Si sentiva come cresciuta.

Si impose di calmare il cuore che batteva così forte da farle credere che quel rumore avrebbe svegliato Nathan, poi, con lentezza dettata dalla grande confusione che avvolgeva la sua mente, saltò giù dal letto e dedicò qualche minuto al riprendersi e darsi una sistemata.

Come sempre, nella stanza di Nathan le tende erano accuratamente tirate per non permettere alla luce del sole di entrare. Ann conosceva bene il motivo: abituato a lavorare di notte, gli risultava molto difficile stare in piedi di giorno, quindi preferiva non essere svegliato dall’accecante luce diurna. Raccolse i suoi vestiti e li indossò, per poi avvicinarsi verso la bacinella* e lavarsi frettolosamente il viso.

Non riusciva a capacitarsi di quello che aveva fatto. Aveva perso il lume della ragione? D’accordo, era ben consapevole di essere in età da marito, anzi, le ragazze della sua età solitamente erano già felicemente sposate, mentre lei non era neanche fidanzata, era consapevole anche di essere stata mandata dai suoi genitori proprio nella speranza che finalmente messere Metherlance si desse una mossa e le facesse una proposta di matrimonio – neanche suo padre differiva molto dagli altri uomini dell’epoca; nonostante lei fosse la sua “topolina”, era un bene che si trovasse un marito, e in fretta -, eppure… eppure c’erano così tanti dubbi e problemi.

Tralasciando gli Angeli, il popolo del suono e dispute varie, a Nathan era permesso intrecciare relazioni di quel tipo? Sicuramente no. Gli Angeli l’avrebbero scoperto e ci sarebbero state pesanti ripercussioni su entrambi? La possibilità faceva paura ad Ann, e la spinse a voltare il capo all’Angelo che ancora dormiva beatamente con quel suo respiro talmente sottile da far pensare che non vi fosse affatto.

Ricordava che la sera prima aveva sentito il suo corpo molto, molto freddo. Aveva passato di nuovo buona parte della notte fuori, col gelo intransigente di Terren a fargli da compagno fedele. Quante volte lei aveva sperato di potergli dare un po’ del suo calore? E quella notte c’era più o meno riuscita, se ne rese conto timidamente.

Tuttavia, c’era una cosa che la turbava profondamente: non ricordava quasi niente. Aveva l’impressione di aver dimenticato qualcosa di importante. Qualcosa di più importante dell’aver fatto l’amore con Nathan? Stentava a crederci, ma ne aveva l’impressione.

Fantasticò, e la sua poca immaginazione le suggerì che quella notte aveva scoperto il segreto dei segreti, il più importante di tutti, ma che lui aveva fatto una potente magia che glielo aveva fatto dimenticare.

Ridacchiò tra sé e sé davanti all’idiozia di quel pensiero, e sfilò silenziosamente dal nero e grande baule che stava accanto all’armadio una crinolina*. Mentre la infilava pensò più razionalmente che la grande emozione doveva averle giocato uno scherzo.

Quella notte aveva portato con sé una sfilza di nuovi pensieri: innanzitutto doveva accettare l’idea di non aver seguito la norma per cui si doveva arrivare vergini al matrimonio; in secondo luogo doveva superare l’incredibile imbarazzo che sapeva l’avrebbe d’ora in poi colta quando si trovava sola con Nathan. E poi, beh, doveva sperare con tutto il cuore che quella fosse l’ultima mossa dell’Angelo prima di chiederle ufficialmente di sposarlo.

Il solo pensiero le fece girare la testa, tanto che si sforzò di scacciarlo con forza. Cielo, quanti problemi aveva portato quell’avvenimento!

Tuttavia, nonostante tentasse di rivolgergli meno pensieri possibili e concentrarsi sul presente, i ricordi che riaffioravano pian piano la facevano arrossire, le davano una grande felicità. Col cuore che batteva forte, poggiò le spalle alla porta e fece scorrere lo sguardo sulla figura dell’Angelo che dormiva beatamente. Fortunatamente aveva scoperto che loro non erano davvero Angeli, di quelli che scendono dal Paradiso volando, altrimenti avrebbe pensato di aver commesso un peccato mortale, un nuovo peccato originale.

Ann sapeva che avrebbero dovuto mantenere il segreto, perché una notizia simile poteva portare enormi guai ad entrambi, soprattutto a Nathan. I suoi genitori l’avrebbero sgridata, chiusa in casa per anni e sicuramente avrebbero costretto lo straniero a prenderla in sposa.

Chissà se egli considerava peggio essere punito dagli Angeli o sposare lei, questo si chiedeva Annlisette.

Abbassò timorosamente il capo, uno dei suoi rari momenti di sottomissione a Nathan, probabilmente dovuto all’accaduto molto imbarazzante, strinse i pugni sulla gonna, come a volerne arpionare la stoffa con le dita, ed infine, dopo essersi abbandonata a un lungo sospiro, uscì dalla stanza.

Percorse il buio e freddo corridoio dell’appartamento con una nuova vitalità nei lesti movimenti ed un sorriso luminoso. Ma giunta all’entrata del salone…

 

«Nate…?»

Nathan dormiva profondamente, quasi come un morto. La sera precedente era stata davvero spossante ed irritante, soprattutto a causa della perdita del mantello. Nel momento in cui aveva finalmente chiuso gli occhi al fianco di Ann – perché il divano era occupato da Georgiana, quindi a lui non rimaneva altra scelta se non metà letto o tutto lo spazio che voleva sul pavimento -, aveva finalmente trovato un po’ di pace, ma, come sempre da un po’ di tempo, era riuscito ad addormentarsi veramente solo alle prime luci dell’alba.

Di conseguenza, era riuscito a dormire poche ore prima che la vocina poco convinta di Annlisette cominciasse a chiamarlo con insistenza.

«Nate!»

«Non si può proprio rimandare…?» pregò lui con voce afflitta, ancora sepolto sotto strati di coperte e col viso ostinatamente riverso sul cuscino.

Nathan non aveva ancora realizzato assolutamente niente di quello che stava accendo in quel momento né di quello che era accaduto quella notte, e del reale motivo per cui non era riuscito ad addormentarsi prima dell’alba.

Ann, che stava in piedi accanto al letto e lo fissava accigliata, con le mani screpolate dal freddo cominciò a scuoterlo e a dargli leggeri pugni sulle spalle «Svegliati!»

L’uomo emise un qualche strano verso rassegnato, quindi aprì lievemente gli occhi celesti, puntandoli dopo un attimo di smarrimento su quelli preoccupati di Ann.

«Che succede?» domandò con la voce ancora impastata dal sonno.

«Faresti meglio a venire di là, in cucina.» continuò la ragazza.

«Perché?»

A bruciapelo quella disse «C’è una barbona che dorme sul tuo divano.»

E Nathan, che credeva sinceramente di stare in qualche modo sognando ad occhi aperti, dapprima borbottò uno scocciato «E lasciala dormi-…» infine sbarrò gli occhi «Georgiana!»

 

«Chi è Georgiana?»

Ann aveva continuato a ripeterlo ad intervalli di pochi secondi da quando Nathan aveva fatto quel nome. Si era catapultato giù dal letto – a stento si era ricordato un piccolo particolare: non aveva niente addosso -, aveva indossato dei pantaloni e una camicia, il tutto rigorosamente nero, il più in fretta possibile, e, seguito a ruota dalla giovane villica mezza imbarazzata per la scena appena vista e mezza furiosa per la presenza di quella terza ragazza, si era diretto immediatamente verso il corridoio.

Non dubitava certo della buona fede e della fedeltà di Nathan, ma le dava un po’ di fastidio pensare che probabilmente quella ragazzina era lì, a poche stanze di distanza, mentre loro facevano l’amore.

«Chi è Georgiana?» domandò per l’ennesima volta, sottolineando stavolta con un tono davvero poco amichevole.

«Una mia cugina francese che è arrivata ieri sera.» rispose frettolosamente lui.

«Oh certo, la cugina francese… un’Angelo, eh?»

Nathan le rivolse un sorriso tirato, colpito e affondato «Come hai fatto a capirlo?»

«Primo.» Ann lo raggiunse e si posizionò davanti a lui, impedendogli così di avanzare lungo il corridoio ancora buio. Alzò un dito e glielo mise davanti agli occhi «Tu sei tedesco, e mi hai detto che le tue uniche familiari erano tua madre e tua sorella, anche loro tedesche.»

«Hai buona memoria, piccola Ann.» continuò l’uomo, rimproverandosi di quell’errore fatale.

«Secondo.» la mora alzò un altro dito «Bugia deludente. Di solito le racconti meglio, le frottole…»

Fu una frase che diede molto dispiacere a Nathan e lo fece sentire un bugiardo di professione. Il suo sorriso divenne più malinconico «Sto cercando di essere sincero più che posso.»

Quella giustificazione sembrò bastare ad Ann, che annuì con fare incoraggiante per poi togliersi di mezzo.

I due raggiunsero la cucina dopo qualche secondo, con Nathan che teneva una mano sul fianco a causa di un piccolo dolore che gli ricordava puntualmente ogni giorno di non essersi ancora del tutto ripreso dalla ferita infertagli dal misterioso killer della villa Stevenson.

Georgiana si era svegliata, si strofinava gli occhi pigramente e si guardava intorno, cercando forse di ambientarsi nella pochissima luce che albergava nella stanza. Era seduta compostamente sul divano, con il viso occupato da un’espressione assonnata e confusa. Non appena notò la presenza dei due sorrise piano e mormorò un timido «Bonjour»

Ad Ann fece una gran tenerezza, anche se non lo disse apertamente. Basandosi su quel poco che sapeva di francese, provò a imitare l’accento della ragazza, finendo però col borbottare uno strano francese con cadenza inglese.

La cosa fece ridere Nathan, ancora in piedi accanto ad Ann «Il francese non fa per te.»

«Sentiamo come lo parli tu, sbruffone!» la ragazza, punta nell’orgoglio, gli scoccò un’occhiata di fuoco.

«Certi mi hanno definito ‘cafone’…» l’uomo, tornando con la memoria a quando Forster gli aveva dato del gretto a causa del suo accento, assottigliò gli occhi in un’espressione di indignazione.

Georgiana, che fino a quel momento aveva assistito in silenzio cercando di cogliere quante più parole possibile, ridacchiò sommessamente, non tanto perché aveva realmente capito cosa stessero dicendo, ma soprattutto per l’espressione dell’Angelo.

Si mise in piedi, traballando un po’ sulle gambe ancora molli, e poi si avvicinò lentamente ad Ann. Le si fermò davanti ed improvvisò un inchino «Piacere di conoscerla, mademoiselle»

«Annlisette Nevue.» si presentò la mora, ricambiando il cordiale saluto.

Nathan le osservò con un sorriso addolcito, ripetendosi che non doveva lasciarsi trasportare da quei momenti di dolcezza. Aveva già abbastanza pensieri per la testa che richiedevano una costante attenzione e serietà, non poteva certo lasciarsi andare cos-…

Fu allora che una lampadina gli illuminò la memoria, proprio come era successo ad Ann quella mattina, e sbiancò in volto.

«A-ah… Annlisette, potresti, ehm, raggiungermi nell’altra stanza appena… appena finisci di chiacchierare con Georgiana?» a fatica riuscì a formulare quella frase, e finì con l’aggrapparsi alla porta, prima di avere il terribile bisogno di cambiare aria. In breve sparì nel corridoio buio, lasciando le due da sole.

Georgiana parve molto preoccupata, tanto che domandò se fosse il caso di rimandare i convenevoli ed occuparsi di lui.

Ann, che non aveva mai visto Nathan così agitato ma sapeva benissimo per quale motivo tutt’un tratto sembrava aver perso ogni sicurezza, sorrise candidamente alla giovane.

«Non preoccupatevi. Sta bene, anche troppo.»

 

C’erano molte cose a cui Ann non faceva caso finché non era qualcuno a fargliele notare.

Non aveva ad esempio mai notato che le barche ancorate al porto avevano decine e decine di colori diversi, ed era servito che fosse Nathan a chiederle di elencargli tutte le tonalità che riusciva a contare.

«Dunque… lì c’è anche un blu più spento rispetto al blu più spento di prima… e lì un giallo molto acceso! Lo vedi? Lì! Sul fianco di quella che si chiama ‘James cavalcatore’!»

Si erano seduti sul balcone della stanza da letto per discutere di quanto era avvenuto la sera prima. Colti entrambi da forte imbarazzo, erano convenuti sul fatto che per il momento era decisamente meglio mantenere il segreto, anche se Ann si era lasciata scappare un «Lo sai che adesso dovrai sposarmi, vero?»

A quelle parole così schiette Nathan aveva sorriso in modo molto tirato, rispondendole «Se si dovesse venire a sapere… mi chiedo chi sarebbe più veloce a mettermi le mani addosso: gli Angeli o tuo padre? Spero gli Angeli, sembrano meno apocalittici…»

A quel punto un sorriso era nato sul volto di Ann, uno dei pochi fatti da quando era giunta lì a Terren.

Credeva che ci sarebbe voluto molto tempo per riprendersi dai tre grandi shock di quel periodo: l’essere stata quasi uccisa, la morte di Angel e soprattutto l’essersi macchiata le mani di sangue. Nonostante la forza che le infondevano i suoi amici, era sicura che la sua guarigione spirituale sarebbe stata molto più lenta rispetto al tempo che avrebbe impiegato Nathan per ricominciare a muoversi con agilità.

Nessuno aveva accennato a un funerale per Angel, il cui corpo era stato preso in custodia dagli Angeli, per cui Ann pensava che non ci sarebbe mai stata una cerimonia in stile “umano”, forse una cerimonia non c’era stata proprio, e se c’era stata lei sicuramente non era rientrata nella lista degli invitati.

I due avevano poi chiamato Georgiana a contare i colori delle barche assieme a loro. Per qualche strano motivo, Nathan sembrava tenerci davvero tanto a quella strana conta. Ann si era già arresa all’evidenza da molto tempo: per comprendere appieno i ragionamenti di quell’uomo si doveva essere fuori di testa, e lei non era fuori di testa, quindi si limitava ad assecondarlo ed aspettare che le spiegasse qualcosa, da brava donna.

Da quel balcone, doveva ammettere, la vista era davvero splendida. Affacciandosi anche poco, riusciva a scorgere il mare del Nord: blu, immenso, in un certo senso pauroso. Lei non aveva mai visto il mare, doveva ringraziare Terren se ora lo conosceva, se riusciva finalmente e farlo uscire dai suoi sogni e trasfigurarlo nella realtà.

Il porto era molto confusionario ed attivo ventiquattro ore al giorno; Ann si lasciava spesso trasportare dai suoi forti rumori e dai suoi stranissimi odori che non le piacevano per niente, ma che la incuriosivano.

E poi da quel balcone vedeva le strade, la gente che si affrettava o passeggiava, le donne che, sedute su vecchie sedie di legno, ricamavano tutte insieme, ricordando i bei tempi in cui, giovani, sognavano il matrimonio con un ricco marchese o un qualche duca di una contea a lei sconosciuta.

Ma era la mattina presto che lei amava correre lì, quando l’odore del pane appena sfornato nel panificio sotto casa si espandeva nell’aria, facendole venire una gran fame.   

Presa da quei ragionamenti, non ascoltava nel frattempo Georgiana aggiungere in francese colori su colori a quelli che avevano già contato, spesso ripetendone alcuni di cui non conosceva la pronuncia inglese.

«Blanche!»

«Giusto, ci eravamo dimenticati del più importante: il bianco.» sorrise Nathan, che, a differenza delle due ragazze, stava in piedi e poggiato alla vecchia ed arrugginita ringhiera.

«Uaiit !» provò a ripetere la brunetta, riuscendo nella pronuncia ma con un pessimo accento.

Ad Annlisette Georgiana piaceva molto, forse perché era più piccola di lei e le ispirava dolcezza. Le passò gentilmente una mano sui capelli, incoraggiandola a riprovare finché non sarebbe riuscita. La capiva, del resto nemmeno lei fino a due anni prima sapeva parlare un inglese corretto, ma solo il dialetto della sua zona, che somigliava molto più a una lingua a sé stante che al vero inglese.

Ann riuscì ad ottenere il permesso di uscire di casa solo dopo che ebbero contato ben quaranta colori diversi.

Nathan aggiunse l’ultimo, il quarantunesimo, con un sorriso enigmatico.

«I colori del porto hanno lo stesso colore della neve.»

«Il colore della neve!»

Ann sobbalzò: l’aveva assolutamente rimosso, quel dubbio che l’aveva a lungo attanagliata!

Provò a chiedere spiegazioni, ma Nathan diceva di non avere ancora i termini perfetti per svelare quel grande mistero, per cui avrebbe dovuto pazientare ancora un po’.

Dopo aver sospirato, la ragazza avvertì di avere intenzione di uscire: il sole era già stato nascosto da qualche ora dalle scure nubi, lasciando spazio ad un vento freddo che percorreva le vie della città spietatamente; nonostante fosse ancora ora di pranzo, sembrava che per quella giornata l’astro avesse già smesso di splendere.

Nathan insistette di volerla accompagnare, senza però rivelarle il motivo fin quando, lasciata Georgiana alle cure di Sogno e Damon, non furono da soli per strada.

A quel punto le venne svelato che cosa era successo la notte precedente, di come l’Angelo era stato inseguito da quei misteriosi uomini, di come avesse sacrificato il suo mantello, parte a cui dedicò decisamente troppo spazio, e del sospetto che tornassero per fare del male a qualcuno.

«Per questo preferirei che d’ora in poi ci spostassimo insieme.» concluse l’Angelo, guardando la strada prima di attraversare.

La giovane lo seguì fedelmente, annuendo alle sue parole «Sì, questa storia è molto strana. Gli Angeli che ne pensano?»

Giunti all’altro capo della strada, coi piccoli tacchi di Ann che scandivano il ritmo del loro incedere regolare, giunsero davanti alla meta della giovane: la chiesa.

«Gli Angeli pensano molto e dicono poco, mia cara. Tra quanto torno a prenderti?» domandò infine lui, alzando lo sguardo alla grande cattedrale che si ergeva davanti a loro.

Gli piaceva molto quello stile gothic revival che si era riaffermato negli ultimi decenni*; quella chiesa di San Patrizio sembrava reincarnare in modo abbastanza fedele gli ideali dello stile: fortemente simmetrica nel suo essere divisa perfettamente a metà da un’altissima torre merlata, che culminava in un crocifisso, ai lati di questa si ergevano altre due torri più basse, al cui interno, attraverso grandi finestre, si potevano scorgere le campane.

Il colore dominante della struttura era un marrone reso molto simile all’oro dalla forte illuminazione offerta dalla piazza sottostante, che risplendeva sulla facciata composta da una serie di sei archi a sesto acuto. Sopra il grande portone in legno, alto ad occhio e croce quattro metri, un rosone di vari colori probabilmente rifletteva all’interno della chiesa tutta quella luce, a mo’ di caleidoscopio.

«Non vieni dentro?»

La vocina intimidita di Ann risvegliò Nathan da quell’attenta analisi. Sì, comprendeva quanto dovesse sembrare strano alla ragazza che un “Angelo” si rifiutasse di entrare in una chiesa.

Sorrise in modo gentile, pronunciando poche parole con sincerità disarmante.

«Non dovrei.»

«Non… dovresti?» ripeté Ann, confusa.

Lei non volle però fare altre domande che potevano mettere a rischio l’uomo, per cui si limitò ad annuire e a chiedergli di non darle un tempo limite, perché voleva stare un po’ da sola e soprattutto riflettere, verbo di cui aveva dimenticato il significato da quando aveva lasciato Hidel.

Nathan la salutò e fece per andarsene, e in quel momento la ragazza allungò una mano per afferrargli con decisione la manica della giacca.

Quando lui si voltò verso di lei, rimase colpito dall’espressione preoccupata che ella aveva sul volto.

«Fai attenzione…» mormorò tristemente la giovane.

Nathan fece un sorriso intenerito e le posò un bacio sulla fronte, poi venne lasciato libero di andare.

Salutato l’uomo, che stava andando a recuperare il proprio mantello, ammesso che fosse ancora dove l’aveva lasciato, la giovane si incamminò per l’ingresso della chiesa, che distava sì e no dieci metri.

La grande piazza intorno a lei fremeva, piena di banchi dove i mercanti esponevano le loro merci e urlavano prezzi ridottissimi, di bambini che correvano urtandola di tanto in tanto per sbaglio, di madri che li richiamavano senza ottenere grandi risultati, e di ragazze come lei, dedite a scegliere questa o quella verdura, questa o quella stoffa, o semplicemente a spettegolare.

Tutti sembravano felici, o quanto meno sereni, e la cosa le alleggeriva il cuore.

Al contrario, la grande e cupa chiesa che le si ergeva davanti la intimoriva. Tuttavia, non poteva fare a meno di accelerare il passo quando si ricordava che in mezzo alla folla che la accerchiava potevano esserci le stesse persone che avevano inseguito Nathan il giorno prima.

Salì velocemente i gradini della bianca scalinata ancora incontaminata dal tempo, divorando la distanza che la separava dal luogo sacro in pochi secondi. Lì, si disse, per quanto piccola e spaurita, sarebbe stata al sicuro.  

Posò le dita sul grande portone, come l’ingresso a qualcosa di così grande da non essere alla sua portata, e lo spinse con fatica, per poi entrare.

La prima cosa che poté notare fu la gran quantità di persone, soprattutto donne, lì dentro riunite, ma ancora di più la colpì il profondo silenzio che rendeva quel luogo particolare a tutti gli effetti. Persino i passi di chi si muoveva sembravano non avere suono, e la cosa la mise leggermente a disagio. In secondo luogo, l’interno sembrava così ampio, con quei matronei finemente rifiniti e bui, e quelle sue tre navate e le possenti colonne ad archi che li dividevano.

Sollevò lo sguardo, curiosa di scorgere qualche particolarità del soffitto, ma le fu possibile solo per quanto riguardava le navate laterali e non quella centrale, tanto era alta ed immersa nelle tenebre. Dalle finestre del cleristorio, che ritraevano scene della Bibbia, entrava qualche tenue raggio di luce che andava a posarsi pigramente sui trifori e, più in basso, sulle gallerie.

La parte più luminosa di quella fredda chiesa era, ovviamente, l’altare, che Ann scorse da lontano senza osare avvicinarsi. Esso riceveva luce sia dalle candele accese lì intorno, sia dall’illuminazione della piazza esterna, che penetrava attraverso il rosone posto sull’ingresso, rendendo il tutto mistico, tanto che la ragazza provò un reverenziale timore e non ebbe neanche il coraggio di alzare gli occhi al ligneo crocifisso dall’aspetto fin troppo realistico, posto ad almeno quattro metri da terra e sorretto da invisibili fili.

Annlisette si sentì molto, molto piccola e impaurita, tanto da correre con la mente al lontano Nathan, alla ricerca di un aiuto che non poteva arrivare.

Strinse vigorosamente le mani attorno alla gonna, imponendosi la calma.

“Questo, Ann, è un luogo di Dio. Può far paura, ma la gente qui dentro non è tua nemica. Sono solo anime che non perdono la speranza, proprio come te.”

Così si disse, per poi avviarsi verso la fila di panche più lontana dall’altare, poiché non si confessava da molto tempo e si sentiva troppo sporca per avvicinarsi più di così. Pensò che doveva esserci da poco stata una messa, per questo tutta quella gente era ancora là dentro, china sulle ginocchia, a pregare.

Anche lei si piegò ed abbassò il capo, giunse le mani al petto e pregò.

Diede finalmente libero sfogo ai suoi pensieri, dopo tanto tempo che li teneva serrati nel suo cuore.

Pregò innanzitutto per Nathan, per cui provava fortissima preoccupazione, sapendolo da solo fuori da lì, braccato come un animale da chissà chi. Il suo più grande desiderio era che tutto finisse nel migliore dei modi, che il suo Angelo tornasse sano e salvo e che fosse loro permesso di vivere felicemente gli anni che restavano, magari in una piccola casa lontana dalla terribile Terren e dal pericoloso Hidel, nei pressi di Londra, o forse di Cardiff. Ma i suoi desideri venivano dopo, anche se non si fossero realizzati le bastava che lui fosse finalmente libero dalle catene che lo vincolavano.

E se, rivolse quelle parole spirituali alla croce, Nathan era davvero un Angelo come quelli della Bibbia, chiedeva penosamente perdono a Dio misericordioso per essersi innamorata di un essere del genere, perché a quegli occhi lei non sapeva proprio rinunciare.

“L’unico difetto di creature del genere è l’essere troppo desiderabili agli occhi di uno sciocco umano…” pensò umilmente, tornando a riflettere sulle sue preghiere.

Pregò per la sua famiglia e per tutto il suo paese, perché stessero bene ora e in futuro. Col pensiero corse a sua madre, che a quell’ora cucinava, cantando sottovoce, a suo padre, intento in chissà quale discorso al consiglio, a suo fratello, probabilmente in compagnia della sua futura sposa. Pregò in particolare per loro due, provò ad immaginare i nipotini che sarebbero venuti, al piccolo miracolo a cui Gabriel e Louise avrebbero dato vita.

Pregò perché Damon ricominciasse a vivere degnamente, perché non vedesse tanto con gli occhi quanto con la mente. Perché Sogno ritrovasse la serenità che era sempre stata barlume dei suoi occhi e che sapeva trasmettere a tutti quelli che le stavano attorno, e perché ricominciasse a cantare dolcemente ogni sillaba a fine frase.

Pregò anche per la piccola Georgiana, seppure l’aveva conosciuta da poco, dal momento che anche Ann bene o male conosceva gli Angeli e sapeva a che cosa la francese poteva essere sottoposta. Lo stress e la paura erano vivi nei suoi giovani occhi, e la straniera pregò affinché anche la bambina Angelo trovasse la pace.

Aggiunse una preghiera persino per gli Angeli stessi, perché trovassero il modo di contrattare col popolo del suono, in modo da garantire la lunga sopravvivenza di Hidel. Lei, nel suo piccolo, era già sicura che avrebbe agito in favore della pace, sebbene avesse grande paura di commettere altri imperdonabili errori.

Pregò per Angelica Rodriguez, che aveva considerato sua maestra di vita e sua buona amica, che non aveva avuto il tempo di ringraziare per averle salvato la vita. Una lacrima le scivolò lungo il viso. Di Angelica Rodriguez avrebbe per sempre mantenuto vivo il ricordo, e sarebbe rimasta in eterno una bellissima, fiera e potente donna, una forza della natura, la sua salvatrice.

La supplica più accorata e dolorosa di tutte venne rivolta per l’anima dell’uomo che aveva ucciso, peso che la opprimeva ormai da tempo, schiacciandola ferocemente. Ogni volta che la sua mente correva involontariamente alla sbiadita scena che aveva provato a cancellare in tutti i modi, le gambe le tremavano, la gola si seccava all’improvviso, gli occhi si inumidivano, un fuoco bruciava attraverso tutto il corpo, contemporaneamente raggelato dal terrore e dal rimpianto.

Lei era lì per questo, per spogliarsi di quel dolore.

Lentamente, stanca e demoralizzata, sollevò le stanche membra e si diresse verso la navata di destra. Lì, poco lontano dall’acquasantiera, aveva scorto mentre entrava il confessionale. Si trascinò fino alla buia struttura come un verme, e quando l’ebbe davanti le sembrò molto più minacciosa di quando l’aveva vista poco prima.

Il cuore le batté più forte, molto più forte, combatté follemente il dolore che le attanagliava lo stomaco e, come un condannato che va al patibolo, allungò una mano verso la porta, la aprì con uno scatto sordo e si lasciò inghiottire dall’oscurità della camera.

Era un ambiente piccolo, alto neanche due metri e mezzo e largo uno, con una panca in legno inchiodata sul lato interno. Vi si sedette e rivolse lo sguardo alla finestrella il cui interno era occupato da del metallo modellato a fiore.

Al di là di quel piccolo divisore c’era una luce, e al di là della luce un prete.

Lì dentro faceva caldo, ma Ann sentiva freddo, e ciò la spinse a tentare di scaldarsi malamente le braccia, per poi farsi il segno della croce.

Con voce rotta, mentre il viso si contraeva in un’espressione di dolore, sussurrò «Perdonatemi, padre, perché ho molto peccato…»

Seguì qualche secondo di silenzio, una profonda voce dal tono dolce riuscì a pugnalarle ancor più brutalmente il cuore già malato.

«Il Signore perdona ogni peccato, figliola.»

Quelle parole la colpirono duramente, tanto che socchiuse gli occhi e poggiò silenziosamente il capo contro il legno della parete divisoria, senza ascoltata attentamente le parole del prete, che rivolgeva preghiere perché la sua anima fosse udita e perdonata, come a inizio di ogni confessione.

«Confessa i tuoi peccati.»

Ann udì solo quella frase, e bastò quella a farla crollare. In silenzio, assistette impotente all’inoppugnabile rifiuto della sua mente di reagire, della sua bocca di parlare e del suo cuore di battere.

Si sentì gelida, come un corpo morto, e cominciò a tremare.

«Figliola?» la chiamò gentilmente la voce al di là della luce, ed Ann singhiozzò ripetutamente «Il dolore che porti nel cuore è così grande da farti piangere? Apri il tuo cuore a Dio.»

«I-io…» provò la ragazza, ma il dolore al petto era così forte da costringerla a piegarsi, a rilasciare fiumi di lacrime che le rigavano le guance, per poi cadere sulla sua gonna «Ho fatto una cosa orribile, padre, orribile… non sono degna di perdono…

«Eppure il tuo cuore mi sembra veramente pentito, figliola…» continuò serenamente l’altro, per spronarla a parlare.

«Lo sono! Lo sono!» quelle parole furono esclamate con voce più alta e maggior vigore, che però scemarono subito dopo, mentre un malessere generale la accaldava e la faceva entrare in panico. Intanto continuava a piangere come non aveva mai fatto.

«Hai forse spezzato la vita di qualcuno?»

Quella domanda, posta così repentinamente, ebbe la forza di bloccare istantaneamente ogni tremito, ogni singhiozzo, ogni gemito, e di farle sbarrare gli occhi, terrorizzati. Teneva ancora le mani strette a pugno sul petto, come nel tentativo di evitare che il cuore le spaccasse la cassa toracica.

Nel silenzio, una ciocca di capelli le scivolò dalla spalla sinistra, e lei rimase a fissarla mentre dondolava circolarmente.

«… Sì.»

Il suo sibilò durò appena un secondo, ma fu come se mille anni di vita le fossero tolti dalle spalle, spariti senza lasciare traccia. Aveva confessato il suo peccato mortale, e adesso le lacrime che continuavano a scorrere ininterrottamente avevano un altro sapore, più amaro ma meno velenoso.

Un sospiro giunse dall’altro lato, seguito da parole tristi, sussurrate con dolore «Per quale motivo l’hai fatto, bambina mia?»

La terribile scena le si ripropose davanti agli occhi.

 

Il mondo aveva appena smesso di girare freneticamente nel momento in cui era riuscita a sollevare gli occhi dalla mano mozzata che le era volata davanti agli occhi, e, appena alzati gli occhi, aveva visto una delle scene più terrificanti della sua vita.

Nathan era a terra, e guardava in faccia la morte, incarnata dall’uomo che voleva ucciderli entrambi e che aveva ucciso Angelica. In un attimo, aveva visto andare in frantumi il mondo intorno a sé, e nella cieca paura che proprio lui le venisse strappato aveva agito d’istinto e si era buttata a capofitto su quell’orribile revolver portatrice di morte.

L’alzò, la puntò sulla figura di quell’uomo il cui cuore batteva esattamente come il suo, e sparò.

L’aveva così strappato alla vita, condannando in un attimo delle persone sconosciute a una vita di sofferenza, a un destino di solitudine una povera vedova, al dolore di essere orfani chissà quanti figli. Aveva così mandato all’aria anni ed anni di vita che non le appartenevano.

Tremando, aveva infine lanciato un urlo, e poi non ricordava più niente.

 

«Lui aveva… lui stava per… uccidere la persona a me più cara… e così io…»  

Tutto quello che si era tenuta dentro fino a quel momento sembrava non voler assolutamente uscire. Piegata in due, nell’ingenua aspettativa che presto le sue lacrime avrebbero allagato lo stanzino, la ragazza cercava di formulare frasi complete e legate da un filo logico, ma la sua mente sembrava paralizzata, fissa sull’immagine della morte dell’uomo misterioso, ed il senso di disperazione era così grande da spingerla ad appoggiarsi stancamente alla parete separatoria, sussurrando poi con un filo di voce «Padre, io non mi merito… il perdono… ho fatto una cosa orribile e mi sono pentita, ma… non me lo merito comunque…»

«Figliola…» riprese il prete con voce mesta «Un’azione così terribile non è perdonabile da un essere umano come me, ma ho capito le motivazioni che ti hanno spinta a compierla, il desiderio di proteggere chi ami, e il tuo pentimento è grande e potente. Io, sebbene lo vorrei, non ho il potere di assolverti.»

Nonostante se le aspettasse, quelle parole le suonarono come una condanna a morte. La ragazza strinse spasmodicamente le mani attorno alle proprie braccia e si raccolse in posizione fetale, tremando. Il corpo venne scosso da un tremito freddo più potente dei precedenti, gli occhi cominciarono a bruciare ancora di più, ma ogni singhiozzo o gemito si acquietò all’istante, lasciando spazio al silenzio.

Il terribile silenzio che segue qualcosa che si spezza e ti uccide violentemente.

Posò le mani strette a pugno sul petto; le lacrime avevano smesso di fluire.

«Tuttavia…»

L’uomo tornò a parlare, e stavolta il suo tono sembrava più fiducioso, tanto che Annlisette, forse come ulteriore espiazione, scelse di illudersi ancora una volta che ci fosse salvezza per la sua anima, e che tutto il buio che troneggiava attorno a lei sarebbe presto stato dissolto dalla luce della candela al di là della finestrella.

«Dio misericordioso può perdonare ogni cosa, se lo ritiene giusto. La tua vita sarà segnata da questo peccato, figlia mia, ma non perdere mai la fiducia in Lui. E quando avrai bisogno di conforto, rifugiati in uno dei luoghi a Lui sacri, e non ti sentirai mai sola.»

La giovane sentì un tuffo al cuore, tanto che le lacrime ricominciarono a cadere, ma stavolta si trattava di lacrime di commozione, tanto era grande la riconoscenza verso quelle parole consolatrici e quell’uomo dall’anima così buona, ma soprattutto verso Dio.

«Mi sento meglio, grazie… non dimenticherò le vostre parole.» sussurrò, mentre sul viso le si allargava un piccolo e timido sorriso.

Immaginò che anche lui, al di là della luce, sorridesse appena.

Recitarono poi alcune preghiere di rito, alla fine delle quali le venne detto «Adesso torna al tuo posto e prega, figlia, farò lo stesso anch’io per te.»

Ancora preda della commozione, la giovane annuì freneticamente, non ragionando sul fatto che lui non poteva vederla. Si mise in piedi ed affrontò coraggiosamente le tenebre che la circondavano, trovando, grazie a qualche filo di luce, il pomello della porta.

Mentre usciva da lì dentro, venendo investita dai colori e dalla luce della chiesa, notò come tutto le sembrasse più sereno e meno pauroso rispetto a prima, forse perché le sue stesse spalle erano più leggere adesso. Si guardò intorno alla ricerca di un posto libero, e ne individuò uno quasi in fondo alla fila di destra nella navata centrale.

Vi si avviò a passo lesto, ora persino i suoi passi erano meno rumorosi, e si sedette compostamente. Ebbe finalmente modo di notare come il luogo si fosse svuotato quasi del tutto: quanto tempo era rimasta dentro il confessionale? Pochi minuti o diverse ore?

Si abbassò fino a toccare con le ginocchia la dura e fredda pietra del pavimento, quindi ricominciò a pregare.

Per diverso tempo rimase lì, alternando preghiere con momenti di silenzio spirituale in cui ripensava alle comprensive parole del prete, a quanto le avesse fatto bene recarsi lì, a quanto avrebbe voluto rimanerci per sempre. Ma presto sarebbe giunto Nathan e sarebbero tornati a casa, a combattere per la loro felicità. Quel pensiero la inquietava, le dava un senso di vuoto pensare che forse altre persone sarebbero rimaste vittime di quell’orribile battaglia, e lei intendeva impegnarsi per limitare al minimo le perdite.

In quel momento una ventata fresca le si posò sul capo chino, come un velo. La straniera aprì gli occhi un po’ imbarazzati e li alzò, incontrando la figura di un prete in nero; il suo viso anziano e stanco le sorrideva gentilmente e la sua mano era leggera e delicata, proprio come quella di un Angelo.

Le scappò un’ultima lacrima mentre sorrideva appena, per poi seguirlo con gli occhi mentre si allontanava a passi lenti. Lo osservò fino alla fine, quando scomparve attraverso la porta della sacrestia, in fondo alla navata destra.

Con cuore ricolmo di riconoscenza, tornò a pregare anche per lui.

 

«Signorina, state piangendo?»

Ad essere sinceri, Ann aveva smesso di piangere già da qualche minuto, ma non si era ancora premurata di asciugarsi le lacrime. Quelle parole avevano interrotto le sue preghiere e l’avevano colta di sorpresa, per cui rispose con fare impacciato «A-ah, no, è che… non ho con me il fazzoletto…»

«A questo si pone rimedio facilmente!» la voce che le aveva parlato sussurrò con una risatina sommessa.

Ann terminò il suo Ave Maria e fu libera di voltarsi verso chi l’aveva interrotta. Nel farlo, notò come la chiesa si fosse ancor più svuotata rispetto a prima, ormai rimaneva solo lei, la persona misteriosa e qualche altro uomo con lo sguardo perso verso l’altare.

Si rimise in piedi, poiché era rimasta in ginocchio fino a quel momento, e finalmente la vide.

Era una giovane ragazza dall’aspetto malaticcio, molto pallida e con un paio di occhiaie marcate attorno ai grandi occhi nerissimi, come due pozzi senza fondo; il viso era incorniciato da dei dolci boccoli castani, un po’ mosci a loro volta. Dall’abito che indossava, di un unico colore nero e senza nessuna rifinitura, sembrava essere molto povera. A giudicare dalla voce era molto giovane, forse anche più piccola di Georgiana, ma dall’aspetto pareva più grande della stessa Annlisette.

Tuttavia, il suo volto era irradiato da un tenero sorriso mentre estraeva dalla tasca del vestito un fazzoletto che porse alla ragazza in lacrime «Ecco, asciugatevi le lacrime!»

Ann ringraziò e fece come le era stato detto, constatando che anche la qualità di quell’oggetto era molto scarsa.

«Signorina, come mai piangete?» domandò allora la ragazza, con occhi preoccupati.

«Ah… in realtà avevo smesso di piangere.» spiegò la straniera, accennando un sorriso.

«Allora, come mai avete pianto?» rettificò l’altra, sempre più confusa «In un luogo simile non si piange, qui tutti vengono consolati, così mi ha detto mio padre.»

Colpita da quella dolce ingenuità, Annlisette annuì con sicurezza «Infatti è vero, le mie erano lacrime di gratitudine. E voi siete qui da sola?»

La giovane negò con altrettanta sicurezza «Io non sono mai sola, e vivo qui assieme a padre Elijah nella canonica.»

“Ah, è stata adottata…” pensò tra sé e sé Ann, dicendosi che non poteva esserci altra spiegazione per cui una ragazza così giovane viveva in una chiesa. Forse si stava preparando a prendere i voti, o forse era semplicemente stata presa in custodia dal sacerdote dopo la morte dei suoi genitori.

«La mia mamma è morta quando sono nata, e di recente anche il mio papà se n’è andato. Ma padre Elijah, che è da tanto tempo amico della nostra famiglia, ha voluto evitarmi un brutto destino e tenermi qui. Gli sono davvero molto grata!»

Senza che le fosse chiesto, la piccola sconosciuta chiarì le idee di Ann e cominciò a giocherellare con un orsetto di pezza che fino a quel momento aveva tenuto sulla panca, alla sua sinistra.

«Mi dispiace per tutto quello che vi è successo…» tristemente, Annlisette le passò una mano sul capo minuto per accarezzarla amorevolmente.

L’altra scosse piano il capo «Il papà faceva un lavoro pericoloso, lo sapevo che prima o poi non sarebbe tornato a casa. È stata molto dura e sto ancora molto male, ma alla fine io sono ancora qui, e continuo a vivere anche per lui.»

Nonostante tutto quello che aveva passato, quella ragazzina sembrava riuscire a reggersi sulle proprie gambe, ed Ann l’ammirò per questo. Provò orgoglio di lei, e sperò di riuscire a trovare quello stesso coraggio nelle situazioni difficili che avrebbe affrontato in futuro.

Le chiese «Che lavoro faceva il tuo papà?»

«Aaah, non lo so! Non me l’ha mai detto!» la bruna arrossì improvvisamente, imbarazzata da quella sua mancanza. Dondolò i piedi, dando di tanto in tanto qualche leggero colpo di tallone contro i sostegni della panca. Con le mani scheletriche e pallidissime, nel frattempo, torturava le orecchie rattoppate del vecchio e rovinato orsetto di pezza.

Alla fine aggiunse, alzando gli occhi verso Ann «Lavorava tantissimo però! Perché sai, sorellona, io ho una brutta malattia che non si può curare, ma lui non si è mai arreso!»

Quella notizia colpì profondamente Ann, ma diede un senso a quel quadro di gioventù appassita che era la ragazza quasi bambina con cui stava parlando.

«Mi ha fatta visitare da ogni dottore dell’Inghilterra, ma tutti hanno detto la stessa cosa. Ho viaggiato tantissimo, sai? Ho visto un sacco di posti meravigliosi… e il mio sogno è tornare nello Staffordshire e vivere in mezzo alle colline. Padre Elijah mi ha promesso che mi ci porterà quando sarà il momento!»

Sempre più sconcertata, Ann si chiedeva se la piccola si rendesse conto di stare parlando della propria morte con tanta leggerezza. Lei al suo posto sarebbe caduta in uno stato di perenne depressione, ne era sicura. Tuttavia, immaginava che la ragazza convivesse da così tanto tempo con quella consapevolezza, ed avesse visto così tanti luoghi splendidi nella sua breve esistenza da essere soddisfatta della propria vita.

Ritirò la mano con cui fino a quel momento le aveva accarezzato la testolina, forzò un sorriso e un tono tranquillo, decisa a non distruggere la stabilità della mente della ragazza.

«Io invece non l’ho mai visto. Ho sempre vissuto al mio villaggio, che è molto distante da qui, a nord, al monte Hidel. Questa è la prima volta che vengo a Terren, ma mi sta piacendo molto!»

«Terren è bellissima!» scattò la giovane «Ma ci sono posti molto più belli, sai? Conosco il monte Hidel, l’ho visto qualche anno fa, ma ho visitato solo Nnerva dei quattro villaggi ai suoi piedi.»

Parlarono dei quattro villaggi per diverso tempo, Annlisette era felice di poter rievocare piacevolmente tutto quello che sapeva riguardo la sua zona.

La ragazzina sembrava davvero curiosa ed espresse il desiderio di vedere Hidel coi suoi occhi, al che Ann, con fare buffo e misterioso, accennò alla terribile maledizione che colpiva chiunque lasciava il villaggio, così spaventando un pochino la bruna.

Anche lei credeva di esserne stata parzialmente colpita, viste le cose terribili che erano accadute ultimamente.

«Adesso credo sia proprio ora di tornare a casa.» sorrise Ann a un certo punto, mantenendo quel tono basso che avevano avuto per tutta la discussione, in modo da non disturbare quelle poche persone che c’erano.

«Sì, è tardi…» confermò la ragazzina ancora senza un nome, per poi mettersi in piedi, seguita immediatamente da Ann.

Proprio mentre la mora stava per andarsene, lei la chiamò.

«Sorellona! Sorellona! Come ti chiami?»

Voltandosi con un sorriso, Ann rispose «Annlisette Nevue.»

L’ultimo sorriso di quell’anima pura Ann lo impresse nella propria memoria, come immagine di una persona che non si lasciava sconfiggere dal destino, di una piccola guerriera che avrebbe affrontato la propria morte a testa alta, e allo stesso modo avrebbe per sempre ricordato quel nome forte e altisonante.

«Io sono Victoria Walker

 

L’incontro con quel prete e con Victoria Walker aveva alleggerito la brutta serata di Ann, che in quel momento tornava a respirare l’aria fredda della sera inoltrata. La piazza era ancora lì come se la ricordava, con tutti i suoi profumi e le persone che andavano e venivano come formiche.

C’era più buio rispetto a prima, per cui decise di rimanere sotto il portico della chiesa, con le spalle appoggiate al terzo dei tre portoni, quindi quello più a destra. Il clima troppo rigido la costrinse ad avvolgersi meglio nel suo scialle, arrivando a coprirsi anche il capo e parte del viso.

Si chiedeva quanto tempo avrebbe impiegato Nathan per tornare a prenderla, e non poteva nascondere una certa preoccupazione data dalla consapevolezza che erano passate almeno due ore e mezza da quando si erano lasciati. Che si fosse cacciato in qualche guaio? La terribile prospettiva cominciò a darle il tormento, tanto che decise di abbandonare la sua posizione e distrarsi un po’, girovagando per la piazzetta.

Scese velocemente la scalinata illuminata dai riflessi delle lanterne e, schivando appena in tempo un bambino che nel correrle accanto stava per urtarla, si immerse nella poca confusione.

A quell’ora tutto sembrava essersi acquietato; gli ultimi mercanti rimasti si preparavano ad andarsene, c’era anche chi sbadigliava pigramente e chi non riusciva a tornare a casa senza aver finito una lunga partita a scacchi, come due anziani ricurvi su una panchina accanto alla strada.

Impiegò dieci minuti passeggiando senza meta, dando di tanto in tanto qualche occhiata interessata a questa o quella mercanzia, chiedendone i prezzi per poi rifiutare, conscia di essere a corto di denaro e di doversi limitare allo stretto indispensabile.

Solo ad un capriccio non seppe resistere: una stilografica nera dal pennino bianco. L’aveva comprata per Nathan, anche se non aveva un motivo preciso. Sapeva che gli sarebbe piaciuta, ne era certa.

Fu mentre si piegava sulle ginocchia per osservare più da vicino una gabbietta piena di galline che lo notò.

Dalla piazzetta, se si prestava molta attenzione e ci si sporgeva verso la direzione giusta, era possibile scorgere poco lontano il condominio dove abitava Nathan, e ciò che notò Ann fu una potente luce che traspariva da ogni stanza dell’appartamento, come se il padrone di casa avesse acceso ovunque le lanterne.

“Sarà a casa…? O forse è Georgiana?” si chiese, indecisa sul da farsi.

Immaginò che l’Angelo avesse già finito tutto quello che doveva fare e fosse rincasato, deciso a darle più tempo prima di andarla a prendere.

Infilò la stilografica in fondo alla grande tasca della gonna, quindi si avviò. La strada era poca, di certo non le sarebbe accaduto niente di grave in venti minuti di marcia!

O almeno, così pensava Annlisette, infatti i suoi piedi erano di tutt’altro avviso. Nel giro di dieci minuti aveva già percorso a rotta di collo le quattro strade che la dividevano dalla meta, ed un paio di volte aveva rischiato di finire sotto le ruote di una carrozza.

Ma quando finalmente toccò il portone d’ingresso del palazzo fu come se ogni pericolo fosse improvvisamente svanito, e, certa di essere al sicuro, salì con tranquillità le tre rampe un po’ sporche e molto vecchie, le quali sapeva essere state sporcate col sangue di Damon e Nathan la notte della festa da ballo.

Fu tentata dall’andare prima a salutare Sogno e Damon e poi entrare in casa, ma pensò che era meglio avvertire che era rientrata per evitare a Nathan una camminata inutile. Proseguì dunque per il lungo corridoio marrone e privo di ogni ornamento, raggiunse la porta d’ingresso e notò che era aperta.

Quel segnale non le piaceva affatto, e, temendo seriamente che fosse successo qualcosa, la spinse  con la mano sinistra; lo spostamento fece lamentare i cardini.

«Nathan…? Sei in casa?»

Mosse un passo avanti ed entrò, rimanendo però all’istante pietrificata.

L’intero salotto, così come la cucina, era occupato da una serie di persone sconosciute, ma non le ci volle molto per capire che dovevano essere Angeli o Demoni. Erano circa una decina, tutti ugualmente ammantati di bianco fino al viso, tutti ugualmente grossi quanto a stazza, e tutti fissavano lei.

Ann si sentì improvvisamente piccola e indifesa, ed anche molto stupida. Era caduta in trappola come un’allocca.

Uno di loro chiuse con una certa gentilezza la porta alle sue spalle e le si fermò accanto, probabilmente pronto ad immobilizzarla se avesse tentato di fuggire.

La ragazza inspirò profondamente per calmare l’ansia che l’aveva presa all’improvviso, il cuore che batteva come un cavallo imbizzarrito, e quando alzò gli occhi diventati involontariamente languidi incontrò quelli di una persona che conosceva.

Anche lui era totalmente vestito di bianco, con un lungo mantello che sembrava uguale e opposto a quello di Nathan, e le sorrideva in modo ingenuo e dolce dalla poltrona su cui era seduto, con le gambe a cavallo.

Quella poltrone la usava sempre Nathan, questo Ann voleva rimproverarglielo, ma in quel momento la sua gola sembrava avere qualche problema a mandare segnali sonori.

«Ciao, Ann, aspettavamo giusto te!» rise furbescamente Joshua.

 

Nathan non era mai stato così felice di essersi recato nei bassifondi di Terren. Se solitamente li evitava volentieri, quel giorno vi si era recato con un motivo preciso: ritrovare il suo mantello. E ci era riuscito!

A lungo aveva pensato che i Demoni se lo fossero portato via per avere una traccia affidabile del suo odore in qualsiasi momento, ma sembrava che si fossero accontentati di strappare il cappuccio, lasciando il resto della cappa nel cassonetto dove l’Angelo era stato costretto ad abbandonarla.

Certo, al momento era fuori questione indossarlo – dopo una notte in mezzo alla spazzatura puzzava un po’ -, ma si sarebbe premurato di lavarlo immediatamente tornato a casa.

Ora si stava affrettando verso la chiesa di san Patrizio, dove avrebbe atteso Ann. Ammetteva che all’inizio non gli era andato proprio a genio che la ragazza volesse uscire dopo quello che era accaduto la sera prima, ma non appena aveva saputo che la meta era la chiesa si era rasserenato: lì dentro né gli Angeli né i Demoni potevano creare disordini senza essere severamente puniti da un giudice imparziale.

Quanto a lui, da molto tempo era abituato ad agire nell’ombra e allo stare all’erta anche per ore, ma fortuna volle che nessuno stavolta provasse a staccargli la testa. Raggiunse il vicolo dove era stato la sera prima, come sempre attraversando strade che sembravano i sentieri dell’Inferno, recuperò il mantello spiegazzato e maltrattato, che era stato abbandonato per terra, in mezzo a sacchetti di immondizia lacerati e invasi dalle mosche.

“Lo laverò almeno una decina di volte prima di metterlo…” pensò, mentre attraversava la grande ma vuota strada che lo avrebbe portato nella piazza della chiesa.

Ormai non c’era più nessuno, eccezion fatta per pochissimi mercanti intenti a riporre la loro mercanzia in grandi sacche. Tutti erano a casa, al sicuro, con porte e finestre sbarrate. Anche lui avrebbe voluto essere a casa con Ann e Georgiana, libero da ogni preoccupazione.

Scandagliò attentamente l’intera piazza e la scalinata dell’edificio, alla ricerca di una piccola figura nella penombra, che però non fu in grado di trovare. Si disse che lei doveva essere ancora dentro, così tirò un sospiro e, arrendendosi a passare chissà quanto tempo là fuori, cominciò a passeggiare senza una meta, facendo cadere di tanto in tanto l’occhio su quella poca mercanzia rimasta.

“La prossima settimana è il compleanno di Ann, ora che ci penso…” considerò, lui che memoria per i compleanni proprio non ne aveva.

Quel ricordo gli era stato provocato dalla visione di alcune boccette che il mercante di turno, un uomo smilzo e curvo dagli occhi gelidi, non aveva ancora posato. Poteva regalarle un profumo, perché no? Fino ad ora i suoi regali erano stati principalmente fiori ed abiti, era il momento di variare un po’.

Sicuramente appariva un po’ buffo mentre odorava una per una quelle boccette, fino a quando, sotto l’occhio quasi impaziente del venditore, non trovò quella che secondo lui era la migliore. Aveva un nome simpatico, “Orsacchiotto”, e fu proprio quel nome a strappargli un sorriso e convincerlo a comprare.

Proprio mentre riponeva in una piccola busta bianca l’ampolla trasparente, ecco che il suo occhio andò a posarsi sul proprio appartamento, immerso in un labirinto di palazzi troppo alti.

Alzò un sopracciglio ed aggrottò la fronte.

Le luci erano accese.

Che Ann fosse tornata senza aspettarlo? O forse era Georgiana?

Lanciò un ultimo sguardo ai gradini della chiesa, dove nessuna figura simile ad Annlisette Nevue passeggiava o borbottava annoiata o gli urlava di andare da lei.

Infilò la bustina nella tasca del mantello che poi strinse sotto il braccio e, quasi correndo, si diresse verso casa.

Ad aspettarlo dietro l’angolo, un grande uomo dal ghigno serpentino crocchiò le nocche.

 

«Accomodati, fai come se fossi a casa tua!»

Con un sorriso ironico, Joshua invitò la ragazza a prendere posto sul divano davanti a lui.

Ann non era intenzionata a muovere un passo, ma una spinta potente dall’uomo accanto a lei la costrinse ad obbedire. Raggiunse il sofà e vi si sedette sopra con attenzione, come se avesse paura di trovare degli spilli al posto dei cuscini.

Assottigliò gli occhi e parlò freddamente «Peccato che questa non sia casa né mia né tua…»

«Ogni luogo dove è presente un suono è casa mia.» la corresse lui, senza abbandonare quell’espressione serena e posata che aveva il potere di far infervorare Annlisette.

“Non me lo ricordavo così irritante…” pensò la giovane, poi disse «Dov’è Nathan?»

Joshua scrollò le spalle, mentre ticchettava con le dita sul bracciolo rovinato della poltrona, giocherellando come un bambino con alcuni fili rotti e mai ricuciti «Non lo so, non era compito mio occuparmi di lui.»

Da quelle parole la ragazza capì che c’era qualcuno incaricato, al contrario di Joshua, di occuparsi di Nathan. E, da quello che aveva imparato ultimamente, i Demoni con “occuparsi” non intendevano affatto “prendersi cura”.

La voce di lui la raggiunse nuovamente, facendole sollevare il viso.

«Eviterò i convenevoli e verrò al dunque, ti va?»

A quelle parole lei annuì con fare convinto; il semplice suono delle unghie del ragazzo che sfioravano il legno, unito al leggero ticchettare dell’orologio sopra la porta del corridoio era a dir poco snervante, tanto che Ann non era molto convinta di riuscire a resistere a tutta quella pressione.

Lui scivolò un po’ sulla sedia ed accavallò le gambe «È necessario che tu torni a Hidel con noi, subito.»

Quelle parole si spensero nel buio, lasciate senza una replica da parte della straniera. L’assalì immediatamente la paura che fosse accaduto qualcosa di terribile al suo paese e ai poveri abitanti, tanto che trasalì in modo visibile.

«Non è successo niente!» si affrettò a spiegarle l’altro, ponendo le mani davanti al viso, come se volesse frenarla, riuscendo così a calmarla. Poi aggiunse con tono più serio «Ma sta per accadere, per questo ci serve la tua collaborazione.»

Annlisette si accigliò, e con sguardo di sfida ribatté «Vi serve la mia collaborazione per sventarlo o per farlo accadere?»

Joshua si mise in piedi mentre lei parlava, cominciò a camminare in direzione della finestra che dava sul porto, arrivato lì, dandole ancora le spalle, parlò «Che cosa ti hanno detto gli Angeli riguardo la Kharlan?»

«Che cos’è la Kharlan?» domandò a sua volta lei, con le mani a pugno sulla gonna.

«Come temevo…» sospirò l’altro «Non ti hanno proprio detto niente.»

«Allora, dimmelo tu.» suggerì la giovane, che ben ricordava come i Demoni fossero stati sempre più disponibili a svelarle anche grandi pezzi di verità rispetto ai criptici Angeli; anche se, in realtà, lei dava poca fiducia alle loro parole.  

Seguì una lunga, lunghissima spiegazione. Joshua parlava fermandosi di tanto in tanto per riprendere fiato o trovare le parole; di frase in frase gli occhi di Ann si sgranavano e l’ansia aumentava fino a farle dimenticare la situazione, gli uomini pericolosi che la circondavano, Nathan in probabile pericolo.

In quel momento esisteva solo la voglia di allungare le braccia e proteggere Hidel.

«Tu sai che Hidel è costruito circolarmente, come un cerchio, e per orientarsi basta conoscere i cinque edifici principali…» Joshua accompagnò le seguenti parole sollevando gradualmente le dita della mano destra «La clinica a est, la locanda a sud, la sala maestra a ovest, il capannone delle provviste a nord, la chiesa al centro.»

Ann annuiva intanto alle sue parole, conscia che era la verità.

Lui si voltò e posò i suoi occhi verdi su quelli di lei «Sei mai scesa nei sotterranei della chiesa?»

La ragazza rifletté attentamente, ripercorse le tappe della sua vita e realizzò che no, lei non era mai stata nei sotterranei nella chiesa. Confermò le sue parole con un cenno di diniego.

Lui rise in modo gentile «Non mi sorprende: a nessuno è permesso entrarci.»

«Perché?» si fece subito avanti lei, sollevandosi un po’ con le spalle e il volto.

«Perché nelle sue fondamenta, all’insaputa di tutti meno che di pochi, c’è custodita la Kharlan.» il ragazzo poggiò le spalle contro la finestra senza fare troppa pressione, mise le braccia conserte e la osservò con espressione molto seria; le stelle sullo sfondo nero dietro di lui contribuivano a creare un quadro molto suggestivo «La Kharlan è un “qualcosa” di cui nessuno conosce la reale forma o natura. Si sa solo che è estremamente potente, e noi la vogliamo.»

Ann fu percorsa da un brivido che le attraversò velocemente la schiena, la mente la riportò a quando, pochi giorni prima, Nathan le aveva parlato di “qualcosa” sotto Hidel…

Vogliono una cosa che è custodita sotto Hidel, una cosa che vogliono anche gli Angeli. Gli Angeli vorrebbero ottenerla senza far del male ai villici, il popolo del suono preferisce sterminarvi tutti per averla.”

“Quindi l’obiettivo di entrambe le fazioni è quest’arma, la Kharlan…” pensò, oscurandosi.

Tutto cominciava ad avere senso, tutto andava al suo posto, componendo un puzzle. No, un vaso, il vado di Pandora, ma Ann aveva paura di ciò che avrebbe sprigionato quel vaso una volta aperto…

«Perché la volete?» domandò.

«Perché è nostra.» asserì lui, la sua voce tonante sembrava più convinta che mai, tanto da far dubitare Ann delle parole di Nathan «I nostri avi la nascosero sotto terra secoli fa; adesso gli Angeli vogliono rubarla e scatenarla contro di noi.»

“Questa parte mi mancava!”

Fu come se un velo freddo scendesse sopra Ann. Strinse con più vigore le mani attorno al lembo di gonna che stringeva spasmodicamente da cinque minuti, ma non abbandonò lo sguardo di Joshua. Non doveva prendere per oro colato quello che diceva, non voleva che i quadri che si era costruita in tutto quel tempo venissero distrutti di nuovo.

Provò a mantenere la calma, e con logica chiese «Se vogliono farlo hanno un motivo. Qual è?»

Il ragazzo si accigliò e scrollò le spalle «Non lo sappiamo. Sappiamo solo che è nostro compito proteggere il nostro territorio, che va dal monte Hidel al mare del Nord, ed è quello che intendiamo fare.»

Ora Ann aveva un quadro molto più completo di prima, ma la sua curiosità non era ancora stata pienamente soddisfatta: che cosa aveva spinto gli Angeli a raggiungere Hidel, a mandare al villaggio Nathan per sedare ogni sospetto, ad aprire una guerra contro avversari che avevano molto più diritto di loro di reclamare per sé la Kharlan? Cos’era la Kharlan? E qual era il gioco che lei avrebbe dovuto svolgere?

«Ed io a cosa vi servo?»

«Tu devi prendere la Kharlan per noi.»

Annlisette rise «Oh, certo…»

Joshua le si avvicinò con passo lento, sorridendo pacifico. Sembrava che niente potesse turbare la calma di quel volto così giovane e serafico «Anch’io voglio ridere! Fammi ridere!»

Le si sedette accanto, ed Ann si spostò istintivamente di qualche centimetro. Non era più quel ragazzo dolce e simpatico che aveva conosciuto al lago, non era più il sognatore che le aveva accennato al mistero del popolo del suono, adesso era una persona completamente diversa, una persona che non le piaceva e le incuteva timore.

Con espressione ironica, gli rispose «Beh, voi vi aspettate che io collabori con voi contro Nathan, non è buffo?»

Anche Joshua si unì alla risata, con quel suo modo di ridere cristallino ed eternamente ragazzino «Ma sai che hai ragione? Allora dovrei rincarare la dose e dirti che se non lo fai raderemo al suolo il tuo villaggio!»

Fu come se un macigno le si schiantasse sulle spalle; Ann smise di sorridere e sbarrò gli occhi, con un’improvvisa morsa allo stomaco. Tutto quello che stava accadendo doveva essere un brutto sogno, e Joshua non la stava veramente mettendo davanti a una scelta orribile: combattere contro Nathan e gli Angeli, o assistere alla distruzione della sua gente.

Abbassò il capo, lentamente, e pregò che Nathan entrasse di soppiatto dalla maledetta porta d’ingresso per porre fine a quella tortura.

Invece, ciò che le arrivò alle orecchie fu un sussurro di Hiéz, che nella lingua del popolo del suono significava ‘amore’.

«È tutto a tuo vantaggio, Hanaahu. Tu ci aiuti ad ottenere la Kharlan, noi scacciamo gli Angeli, il villaggio è salvo e tutto torna alla normalità. Ti preoccupi per il tuo Angelo? Credimi, un Angelo è meglio perderlo che trovarlo.»

«Sta’ zitto!» stizzita da quelle parole, Ann parve infervorarsi. Serrò i pugni ed alzò lo sguardo furioso su Joshua «Tu non sai niente! Lui non è come gli altri! È…»

Come dei flash, le tornarono in mente i momenti che più avevano inciso sul suo rapporto con Nathan.

La notte nella foresta.

«È gentile…»

Le tante volte in cui si era gettato nel pericolo per salvarla.

«È premuroso…»

Le altre in cui le era rimasto accanto per consolarla.

«È capace di buone azioni…» strinse le mani sul petto, e con convinzione inchiodò Joshua con uno sguardo di fuoco «Non ti permetto di parlare male di lui!»

Ciò che seguì fu sicuramente una delle scene peggiori della vita di Ann. Dacché il silenzio regnava in quella stanza e il viso di Joshua tradiva tutta la sua sorpresa, un coro di risate si levò alto, ricoprendola di vergogna. La ragazza parve farsi piccola e sprofondare sotto il peso dell’imbarazzo; il giovane accanto a lei, che era l’unico a non essersi abbandonato ad una risata, riprese la parola senza essere ascoltato dagli altri.

«Sembra che lui abbia tessuto proprio bene la sua tela, eh?»

Un altro flash attraversò la mente di Ann.

 

«Che cosa guardate, Nathan?»

«Le ragnatele… ce ne sono davvero tante.»

«Bleah, odio i ragni…» la ragazzina fece un’espressione schifata.

Lui, al contrario, manteneva un’espressione serissima, che la mise quasi a disagio «A me invece piacciono, mio malgrado. In passato mi hanno insegnato ad amarli.»

«… Chi può insegnare ad amare i ragni?» la giovane inarcò un sopracciglio.

Finalmente lo straniero abbassò lo sguardo, puntando i suoi occhi chiarissimi sulla figura della giovane immersa nella penombra «Magari un giorno ve ne parlerò.»

 

Quel paragone la fece raggelare, e si ritrovò a fissare gli occhi verdi di Joshua senza aprire bocca, incapace di reagire. Voleva andarsene da lì, voleva cancellare le risate di quegli uomini, le terribili rivelazioni, le iridi terrificanti del ragazzo che le stava davanti.

«E comunque…» riprese lui, rimettendosi in piedi e scrollando le spalle «Noi non ti faremmo del male, mentre gli Angeli stanno solo aspettando il momento giusto per staccarti la testa.»

«È una bugia…» stavolta Ann non fu in grado di urlarlo, poiché nemmeno lei era sicura della veridicità delle proprie parole. Quando parlava di Nathan poteva essere sicura di essere nel giusto, ma degli Angeli, così come dei Demoni, lei sapeva poco e niente…

Una carta però poteva ancora giocarla. Con più convinzione nella voce, esclamò «Voi avete mandato quel sicario alla festa!»

«Non so di cosa tu stia parlando, Hanaahu.» la zittì lui, con una convinzione e una sicurezza che la mandarono in confusione.

Fece correre lo sguardo all’orologio che ancora ticchettava sull’architrave della porta del corridoio: le diciotto; le puntò di nuovo addosso gli occhi, allungando una mano verso di lei «Andiamo?»

Era andato tutto troppo veloce, solo questo riusciva a pensare la giovane Ann. Il suo viso era pallido come un cencio, la sua pelle fredda come se avesse passato tutta la notte fuori, gli occhi umidi, il cuore stretto in una morsa dolorosa.

Nathan o Hidel?

Chi avrebbe sacrificato?

Il tempo per lei si fermò ancora. Hidel le splendeva davanti, quel villaggio maledetto da una strega tempo addietro, quel villaggio in cui era cresciuta e aveva vissuto in modo felice, dove la sua famiglia a quell’ora si preparava a raggiungere gli altri nella sala maestra, dove Krissy aspettava il suo ritorno.

“Quando tornerai mi racconterai com’è Terren!” con quelle parole Krissy l’aveva salutata, con quel sorriso timido e tenero che aveva sempre sul volto.

Il destino di tutte quelle parole era sulle sue spalle.

Chi era lei per decretare la morte di tutta quella gente buona e gentile?

E poi c’era Nathan, la persona più importante, l’Angelo solo per lei, che da quando era entrato nella sua vita aveva portato con sé moltissime cose, alcune gioiose e altre terribili, ma, più importante di tutte, aveva portato la sua presenza stessa. Con quella sua aura inizialmente misteriosa e poco credibile, poi più morbida e gentile, era riuscito a farsi strada nel suo cuore, ad insegnarle ad amare.

Lo rivide sorridere.

Tutto bene, milady?”  

Strinse un pugno sul petto, all’altezza del cuore. L’ultima cosa che le venne in mente furono i suoi stessi pensieri mentre era in chiesa: lei avrebbe dato un contributo a quella guerra a favore della pace, proteggendo quante più persone possibile.

Perdonami…

Afferrò la mano di Joshua.

 

Nathan entrò in casa spalancando rocambolescamente la porta. Trascinava malamente una gamba, che sembrava non avere più la forza di muoversi, e da sopra l’occhio più scuro una lunga ferita rigettava sangue, così come un altro taglio che tanto somigliava a un morso, stavolta lungo la gola.

Sembrava appena uscito da uno scontro terribile.

Quando entrò in casa, lasciò pesantemente cadere il mantello per terra. Non c’era più nessuno. Porte e finestre erano aperte; un vento freddo entrava da fuori, sollevando le pagine dei libri lasciati qua e là; il rumore dell’orologio che ticchettava instancabile era l’unico suono udibile.

Con voce smorzata dalla fatica, chiamò «Ann! Georgiana!»

Fu allora che un singhiozzo ruppe la quiete.

Nathan la riconobbe subito: era la voce della piccola Georgiana, e proveniva dal bagno. Si trascinò veloce attraverso quell’appartamento che gli sembrava più grande del solito, arrancò ed inciampò diverse volte sul tappeto che occupava il salone, fino a quando non raggiunse, stanco, la porta del bagno. La spalancò con un movimento secco che la mandò a sbattere contro il muro, e trovò ad attenderlo la bambina Angelo, raggomitolata su se stessa nello spazio tra il lavandino e il piccolo armadio.

Georgiana aveva il volto rigato dalle lacrime, e lo nascondeva tra le piccole mani tremanti. Quando lo vide il suo volto si illuminò.

Non appena Nathan si abbassò sui talloni in modo da essere alla sua altezza, lei gli saltò addosso e lo abbracciò con fare disperato.

«Monsieur! Per fortuna siete tornato! Ho avuto tanta paura!» esclamò.

«Tranquilla, è tutto passato.» le assicurò lui, accarezzandole gentilmente la piccola nuca.

Lei alzò il capo per guardarlo, e con occhi languidi «Siete ferito!»

«Non ti preoccupare, non è un problema.»

Nathan avrebbe voluto aiutarla di più, gli faceva troppa pena quella ragazzina perennemente spaventata da tutto, ma in quel momento la sua preoccupazione era tutta per Annlisette, quindi con fretta la afferrò per le spalle, la strattonò con un po’ di forza e le disse «Georgiana, cos’è successo qui?! Dov’è Ann?»

«Ils, monsieur, i Demoni!» esclamò lei con la sua piccola voce, cominciando ad agitare le mani per aria «Ho sentito che cosa dicevano, ma non sono riuscita a uscire da qui, avevo troppa paura! Erano così tanti!»

«Lo so, lo so...» cercò di farle fretta lui «Ma dove stanno andando? L’hanno detto?»

«Oui un paese chiamato Hidél, e hanno parlato di riportare alla luce la Kharlan…» sussurrò la ragazzina, che intanto aveva trovato la forza di mettersi in piedi.

«Che… cosa?» l’uomo parve inizialmente sbalordito, come se quella fosse l’ultima cosa che si aspettava. Poi, oscurandosi, si rimise in piedi a sua volta e sussurrò irritato «Quei cani…»

Si diresse verso il salone tenendo lo sguardo basso, con la mente impegnata a cercare una soluzione per uscire dal labirinto. La priorità ovviamente andava ad Ann, ma doveva anche pensare a come giustificare il viaggio con gli Angeli.

«Resta qui.» ordinò alla ragazzina, prima di darle le spalle e dirigersi con difficoltà verso la porta «E prepara i bagagli. Partiamo per Hidel immediatamente!» 

Come una bestia ferita, l’Angelo si trascinò fuori dall’appartamento verso quello di Damon e Sogno, tergiversando su chissà quali piani per togliersi in fretta di mezzo gli Angeli e la burocrazia.

Georgiana rimase sola, con quel suo sguardo ora atono e gli occhi spenti, le braccia lasciate penzoloni lungo il corpicino minuto. Una bambina lasciata sola, una bambina innocente.

Sollevò lo sguardo sull’orologio del salone, quell’orologio che aveva segnato il lento scorrere del tempo fino ad allora, e ora taceva.

Fermo.

Con voce adulta, la bambina sussurrò «Tutto procede secondo i piani.»   

 

C’era della neve, tanta bianca e fredda neve. Neve che cadeva dal cielo; neve che rendeva difficile avanzare; neve che ricopriva ogni cosa; neve che, se il sole fosse riuscito a penetrare il fitto banco di nubi che oscurava i cieli di Hidel, avrebbe riflesso la luce in modo abbagliante, tanto da costringerla a frapporre una mano tra gli occhi e il bagliore.

Ann sentiva un groppo alla gola e un vuoto allo stomaco, i deboli arti le tremavano appena e gli occhi si inumidivano, mentre, passo dopo passo, assisteva al delinearsi lento ed emozionante dei tratti del villaggio che a lungo non era riuscita a sopportare, ma che in quei mesi le era mancato come mai. L’esperienza di Terren era stata incredibile senza dubbio, l’aveva costretta a maturare una consapevolezza più adulta, e tornare in quel piccolo angolo di mondo era per lei come rivivere un sogno di ingenuità e inconsapevolezza. Tornare nel nido, tornare tra le braccia di chi avrebbe frapposto un muro tra lei e tutto il dolore che l’aveva accompagnata in quelle peregrinazioni.

Si voltò, lasciando che il freddo vento le sferzasse il volto già screpolato, e cercò con lo sguardo il suo accompagnatore. Joshua le camminava dietro, avvolto in un lungo mantello bianco che lo copriva dal collo ai piedi, sembrava un fantasma immerso nel pacifico paesaggio invernale, e sul suo volto viveva un sorriso altrettanto pacifico.

La ragazza bloccò la sua avanzata; il suo cuore era incapace di sostenere la vista del villaggio. Joshua le passò accanto e, con uno strattone, le tirò la mano fuori dal mantello bianco e la costrinse a proseguire.

«Andiamo.» ordinò, senza guardarla.

Ed Annlisette riprese la marcia verso Hidel.

Giusto in tempo per il suo ultimo compleanno.

 

 

Note:

#1: All’epoca era abitudine tenere nelle stanze da letto una bacinella ed una brocca.

#2: Sottogonna rigida utilizzata per rendere le gonne gonfie.

#3: Neogotico.

 

 

 

Note dell’Autrice:

Due mesi! Maledetto blocco dello scrittore! Pensavate che fossi sparita, eh? E invece no, e rieccomi con questo capitolo pieno di novità! :)

La parte più difficile è stata sicuramente la descrizione della chiesa, perché non ho mai fatto storia dell’arte e ho attinto a quel poco che sapevo e a ciò che ho trovato, ma spero che sia venuta bene. Ottimo, siamo entrati nella parte finale della storia, e voi siete ancora qui con me! È bellissimo! Sono così contenta di aver scritto questa storia! Eheheh, sorry, è l’ora tarda che mi fa delirare.

Ringrazio come sempre le mie fedeli lettrici, che mi lasciano sempre commenti che mi danno la voglia dare sempre il meglio!

 

Al prossimo capitolo,

Sely.

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Capitolo 26
*** Il mondo buio di Damon ***


What colour is the snow?

Capitolo 26: Il mondo buio di Damon.

Damon non si era mai sentito tanto inutile, tanto palla al piede in tutta la sua vita. Giaceva come un peso morto su una sedia da quando Nathan era entrato nell’appartamento; inizialmente non aveva neanche capito che si trattava dell’amico, non aveva ancora imparato a riconoscere le persone in base a particolari suoni, e solo la sua voce allarmata gli aveva fatto capire chi si trovava davanti.

«Torno a Hidel.» annunciò Nathan, senza dar loro il tempo di realizzare che cosa significasse «Hanno portato via Ann.»

Fu come se il mondo diventasse ancora più nero di com’era stato fino a quel giorno. Udì uno stridulo urlo soffocato da parte di Sogno ed istintivamente cercò la ragazza con le mani.

Tutto ciò che trovò fu l’aria: fredda, gelida, vuota.

«I Demoni?» domandò in modo retorico, tenendo il capo dritto.

Immaginò se stesso guardare un punto indefinito, probabilmente ben lontano dalle reali posizioni di Nathan e Sogno, ed ebbe pena di quel povero cieco che era diventato.

«La costringeranno a risvegliare la Kharlan, devo andare.»

Damon tentò con voce sicura «Veniamo con t-…»

«No.»

Quella terribile risposta fu come mille aghi che attraversarono il colpo dell’Angelo, lasciandolo esangue e smorto come una marionetta.

«No…» ripeté Nathan, stavolta con meno veemenza «Mi dispiace dirlo, ma mi rallentereste.»

Damon strinse con rabbia i pugni contro la pesante stoffa rovinata dei pantaloni, accigliandosi. Era vero, era dannatamente vero quello che Nathan sosteneva: come poteva andare a salvare quella ragazza se si doveva portare dietro un cieco? Perché Damon sapeva benissimo di essere lui il vero problema, infatti Sogno era sempre vissuta in mezzo alle avventure. Se si fossero di nuovo mossi insieme, la ragazza si sarebbe dovuta prendre cura di lui, e forse si sarebbero pure cacciati in grossi guai: Nathan non poteva badare a tutto, e li stava abbandonando per andare a salvare Ann.

Era una scelta più che logica.

Allora perché sentiva la rabbia ribollirgli dentro?

Sogno non stava emettendo neanche un fiato, Damon lo sentiva. Lui sentiva tutto ormai; da quando la vista lo aveva abbandonato, aveva cercato di sopravvivere affidandosi ai restanti sensi; aveva scoperto di possedere un udito fine, che gli permetteva di cogliere addirittura un sussurro.

«Quando parti?» ebbe finalmente la forza di domandare, con voce incrinata.

«Immediatamente. Porto Georgiana con me.»

Ed uscì dalla stanza, accompagnato dal leggero fruscio del vento che gli sollevava le vesti. Sentì poi i passi veloci e piccoli di Sogno che si lanciava al suo inseguimento, mentre lui rimaneva lì, solo col suo mondo buio.

 

Sogno raggiunse Nathan mentre quest’ultimo attraversava, trascinando la gamba ferita, lo stretto corridoio che divideva i loro appartamenti. Prima che l’Angelo potesse però varcare la porta della propria abitazione, la giovane si frappose coraggiosamente tra lui e l’ingresso, ignorando la terribile occhiata che le venne rivolta.

«Spostati, Sogno.» le intimò l’uomo, che non sembrava intenzionato a perdere tempo con le buone maniere.

«No, ora tu ragioni assieme a me.» controbatté lei, con le braccia ancora parate da parte a parte della porta per negargli l’accesso.

Dietro di sé sentiva lo sguardo indagatore di Georgiana, la bambina prodigio, e per un attimo sperò vivamente che se ne andasse per la sua strada e non ascoltasse i loro discorsi.

Abbassò la voce e riprese il suo discorso prima che Nathan la sollevasse di peso e la lanciasse via – lui ne era perfettamente capace.

«Ragiona. Innanzitutto sei ferito, non puoi andartene in giro così: vuoi andare in mezzo all’accampamento dei Demoni da solo? Non dureresti più di un minuto e daresti loro solamente una valida ragione per cominciare una guerra e coinvolgere la gente di Hidel.» spiegò ragionevolmente, con gli occhi supplicanti e gesticolando appena «Anch’io sono molto preoccupata per Ann, ma non è questo il metodo giusto, Nathan. Non solo, anche se tu riuscissi miracolosamente a salvare Ann e sventare la guerra, una volta tornato qui saresti sicuramente giustiziato dal Tribunale Nero!»

Nathan sapeva perfettamente che Sogno aveva ragione: non era da lui perdere la testa in quel modo, doveva calmarsi e ricominciare a pensare con lucidità.

Per evitare che Georgiana li sentisse – non era ancora del tutto sicuro delle intenzioni di quella strana bambina -, allungò una mano e chiuse la porta alle spalle di Sogno. Gli parve di scorgere gli occhi verdissimi della bionda lanciargli uno sguardo di gratitudine: evidentemente neanche lei si fidava granché della nuova arrivata. Rimase tuttavia fermo, a pochi centimetri di distanza, sussurrando per non farsi sentire.

«Non posso andare a dire agli Angeli che ho tenuto fino ad ora una villica in casa, disubbidendo agli ordini; mi manderebbero comunque al Tribunale Nero.» puntualizzò.

Sogno annuì, mentre ticchettava nervosamente con le unghie contro la parete mangiata dall’umidità «Lo so, ma possiamo inventarci che ci è arrivata una lettera dell’amica di Ann, come si chiama…»

«Scottfish?» suggerì Nathan.

«Sì, lei.» proseguì la bionda «Per avvertire che Ann è stata portata via da degli uomini, magari possiamo dire che li ha sentiti parlare di armi, di una certa “kharlan”.»

«È troppo irreale. Ci vuole tempo perché una lettera arrivi, gli Angeli potrebbero…»

Sogno lo afferrò con forza per le spalle, e la sua chiarissima pelle affondò fino a sparire nelle pieghe della maglia beige dell’uomo; lo strattonò poi con tutte le sue forze ed alzò la voce, quanto bastava per richiamarlo senza farsi sentire dai vicini.

«Nathan Metherlance, svegliati! Lo so che sei agitato, ma questo atteggiamento non migliorerà la situazione! Sei tu il cervello della squadra, fatti venire una delle tue idee malefiche! E ti prego…» aggiunse infine, con espressione implorante «Se possibile, permetti a Damon di accompagnarci… lui ha bisogno di Hidel.»

Sogno voltò altrove il capo per non incontrare l’espressione corrucciata di Nathan; quest’ultimo, dopo un primo momento di indecisione che decise di sopprimere, abbassò il capo per immergersi nei suoi pensieri.

Trovare una scusa per recarsi immediatamente a Hidel con tutte le forze disponibili dell’esercito degli Angeli, portare con sé sia Sogno che Damon, attaccare i Demoni e riprendersi Ann prima che la Kharlan fosse risvegliata: questo era l’obiettivo. Non doveva ingannare solo gli Angeli, ma anche qualcun altro.

Sollevò gli occhi verso la porta, al di là quella quale captava la presenza curiosa ma impaurita di Georgiana: una preda troppo facile, che davanti ad uno come Adam Forster sarebbe crollata ed avrebbe spifferato ogni cosa.

Nathan sospirò: lui non era una persona che faceva del male agli altri senza motivo, ma certe occasioni glielo imponevano.

Tornò a posare i suoi occhi su quelli di Sogno e, con voce fredda e bassa, ordinò «Prepara le tue formule, Sogno: cancelleremo Ann dalla memoria di Georgiana Varens. Riferiremo agli Angeli che tu e Damon avete sorpreso un gruppo di Demoni a parlare di un prigioniero di Hidel che risveglierà la Kharlan, quindi la situazione è di massima urgenza. Dovremo fare in modo di portare con noi Damon di nascosto. Una volta arrivati a Hidel ve la dovrete cavare da soli.»

«Vuoi dire che dobbiamo tenere nascosta la presenza di Damon?»

Nathan lanciò un’occhiata di sbieco alla ragazza, come se le stesse rimproverando di aver chiesto una cosa ovvia «Damon non mi chiama ‘il sensitivo’ senza un motivo, Sogno.»

La ragazza abbassò istintivamente lo sguardo imbarazzato, non sapendo come decifrare quelle parole. Le stava forse dicendo che lui sapeva della relazione tra Damon e Krissy? Attraverso la sua empatia poteva avvertire veramente i sentimenti provati dagli Angeli? Se era questo che cercava di dirle, le sue ferme condizioni sul fatto che nessun Angelo potesse provare amore venivano a crollare miseramente.

«Lui ha una persona particolare che ora si trova a Hidel, dico bene?» cercò conferma Nathan, mantenendo basso il tono di voce ed allungandosi di qualche centimetro verso di lei.

La ragazza annuì malvolentieri: non era il momento di tenere segreti a Nathan, dovevano collaborare tutti per la salvezza di Ann e di Hidel, ormai ufficialmente minacciato da quelli che per loro erano mostri.

Fece un’ultima, timida domanda «Possiamo fidarci di Georgiana?»

«Non ti devi fidare mai di nessuno, Sogno.» fu l’immediata risposta di Nathan, che nel frattempo si stava pulendo il sangue che continuava a sgorgare dal taglio sopra l’occhio destro «Sento che è sincera, ma potrebbe rivelare sorprese. Non lasciarla mai sola con Damon e guardati sempre da lei: è una ragazzina, sì, ma mi hanno assicurato che in combattimento è forte.»

«Non riesco a giustificare la sua presenza qui…» Sogno ci aveva provato in mille modi, ma non sapeva niente di quella Georgiana Varens.

«Non è difficile, Sogno.»

Alle parole del tedesco, lei alzò uno sguardo curioso.

«L’ha mandata Forster, proclamandola mia “assistente”, tuttavia lei è terrorizzata da lui. Sicuramente lui usa questa paura per manovrarla.»

«Una spia?» la ragazza sentì il sangue gelarsi nelle vene, e con la coda dell’occhio corse alla porta scura alle proprie spalle, come se avesse paura che da un momento all’altro l’interessata la spalancasse e le lanciasse una di quelle sue occhiate troppo profonde per essere quelle di una bambina.

Sicuramente era solo una sua impressione dovuta alla situazione troppo agitata, ma le sembrava quasi di avvertire la presenza di Georgiana dietro la porta, che li ascoltava in silenzio.

«Guardati.» ripeté Nathan, stavolta più flemmatico «Perché è riuscita rimanere in una casa piena di Demoni senza farsi scoprire. Dubito fortemente che sia in un qualche modo coinvolta con loro…»

«Jen e Marcus non lo permetterebbero mai!» si infiammò la giovane.

«Lo so. Mi fido abbastanza di Jen, ma non di Marcus.» sottolineò lui, schiacciandola con un’occhiata penetrante «Potrebbe anche possedere qualche potere che occulta la sua presenza… parlo di Georgiana.»

Era un’idea, ma non avevano il tempo di accertarsene: la priorità andava ad Ann, ad avvertire gli Angeli e partire subito per Hidel, prima che fosse troppo tardi.

 

«Coloro che si fanno chiamare Angeli torneranno sicuramente, ma noi saremo pronti a riceverli.»

La voce sicura e potente di Joseph era l’unico suono che spezzava il silenzio instauratosi dentro l’accampamento da dieci minuti.

L’uomo, che nonostante l’età deteneva ancora saldamente lucidità e potere, sembrava essere addirittura ringiovanito da quando quella guerra con gli Angeli si era fatta più cruda e prepotente del previsto: era priorità assoluta mettere fine a quel terribile pericolo costituito dal gruppo degli Angeli, il resto non contava.

«Sapevamo sin dal principio che erano gente pericolosa e corrotta, ma abbiamo tenuto fede agli insegnamenti dei nostri avi ed abbiamo dato loro una possibilità.»

«E loro l’hanno bruciata!»

Una voce si levò dalla folla non molto folta che lo accerchiava – circa un centinaio di persone -, suscitando poi un crescente mormorio di approvazione che mostrava il malcontento del popolo del suono.

Joseph sollevò la mano destra, ossuta e logorata dal tempo e dal freddo, e con quel solo gesto zittì pian piano tutti, ristabilendo l’ordine all’interno dell’accampamento.

La pesante oscurità portata dall’ora tarda impediva ai presenti una chiara visione dell’espressione terribile che occupava il volto dell’uomo, ma bastava il suo tono a far capire quanto fosse serio e profondamente adirato.

«Sì, l’hanno bruciata, per questo non avremo pietà di nessuno di loro. Chiunque di voi si trovi d’ora in poi davanti uno di quei mostri è autorizzato ad ucciderlo.»

Al suono di quelle parole così terribili la folla si infervorò, lasciandosi andare a soddisfatti gridi di approvazione.

All’interno della stessa tenda dove era stata trattenuta la volta precedente, Ann comprendeva la differenza che intercorreva tra l’essere ospite ed essere prigioniero secondo il popolo del suono. Se la volta passata le avevano offerto cibo e parole, stavolta era sola: nessuno si curava se le dolevano i polsi ferocemente legati dietro la schiena; aveva fame e sete, ma le venivano portati cibo ed acqua solamente tre volte al giorno.

Più volte si era ritrovata a lasciarsi sfuggire qualche lacrima e correre col pensiero a Nathan, pregandolo silenziosamente di raggiungerla in fretta ed alleggerirle il cuore che le faceva malissimo.

Si era amaramente pentita di quel misero gesto che aveva fatto: inizialmente pensava di essere stata spinta dal coraggio, ora si rendeva conto che la sua era stata una follia, che era semplicemente scappata dalla paura di non addossarsi delle responsabilità troppo grandi. Quando sentiva gli occhi inumidirsi, tuttavia, si sforzava di farsi forza, pensando che tutto quello che stava patendo avrebbe salvato la vita al suo amato villaggio e alla sua gente, e che presto tutto sarebbe finito immancabilmente bene.

Non si era mai sentita così piccola e spaurita.

Stava rannicchiata in un angolino della tenda, coi polsi e le caviglie legati ed una benda sulla bocca, in modo che le sue parole non potessero disturbare nessuno; tutti la guardavano senza prestarle attenzione, senza cattiveria ma neanche senza pietà. L’unico che puntualmente si fermava a chiederle se aveva bisogno di qualcosa e a dimostrare premura nei suoi confronti era Joshua, che però era troppo impegnato con i preparativi della missione e non aveva molto tempo da passare in sua compagnia. Non che ad Ann la cosa dispiacesse: provava ancora forte risentimento per quel ragazzo, ma non poteva fare a meno di pensare che anche lui era fermamente convinto di stare agendo nell’interesse della sua tribù.

In quei giorni di prigionia, Ann era giunta a diverse conclusioni: erano gli Angeli i probabili cattivi, ma nemmeno il popolo del suono era tanto pulito.

Erano stati gli Angeli ad invadere di punto in bianco quel territorio che da chissà quanto tempo era sotto il dominio del popolo del suono; erano arrivati ed avevano inviato Nathan a tenere a bada i cittadini di Hidel, probabilmente mentre loro si preparavano a rubare la famosa Kharlan sotto il naso dei giusti proprietari – forse era proprio il caro Metherlance quello che si sarebbe dovuto addossare il peso del furto -; il popolo del suono li aveva scoperti in flagrante e così erano cominciati i famosi ‘negoziati’ di cui aveva tanto sentito parlare, durante i quali il popolo del suono, che sembrava decisamente meno paziente degli Angeli, era arrivato a minacciare di distruggere Hidel per riprendersi la Kharlan se gli Angeli avessero fatto un passo falso. Questi, che, come le aveva spiegato Nathan, non volevano vittime per chissà quale motivo, avevano infine abbassato le mani e deciso la ritirata verso Terren, sparendo dalla circolazione per due anni. Di recente però era accaduto qualcosa, qualcosa che Ann non poteva immaginare essere il ritrovamento della stessa Kharlan, la cui posizione precisa all’interno di Hidel non era mai stata resa pubblica, almeno fino a quando, una notte in cui quasi tutti i cittadini erano incautamente usciti dal villaggio alla ricerca di due dispersi*, qualcuno non aveva avuto l’idea di approfittare della confusione generale per lanciarsi nella ricerca dell’arma. Grazie alle nuove scoperte, il popolo del suono aveva avuto l’incauta idea di minacciare gli Angeli di distruggere il villaggio se avessero provato a tornare.

I ‘Demoni’ erano dunque sicuri di avere il coltello dal lato del manico, ma gli ‘Angeli’ ne erano altrettanto convinti?

La giovane chinò il capo, rassegnata al fatto che non poteva neanche cercare di capire cosa stesse accadendo fuori, poiché tutti parlavano una lingua a lei sconosciuta. Aveva freddo, ma doveva accontentarsi delle sue vesti e di una coperta le aveva portato Joshua; aveva fame, ma era ancora lontana l’ora di cena; aveva sonno, ma con la potente adrenalina che sentiva scorrerle nel corpo non sarebbe mai riuscita a dormire; aveva paura, ed avrebbe dato qualsiasi cosa per essere a casa, stretta tra le braccia forti di suo padre, o accanto a Nathan, per assaporare ancora una volta il suo profumo di Angelo.

Risollevò lo sguardo per osservare fuori, rimuginando che, sebbene pensasse che fossero gli Angeli i veri colpevoli della situazione, lei era inesorabilmente dalla loro parte.

 

 

30/Dicembre/1854 – Hidel.

Il piano era molto semplice: tutto quello che dovevano fare era aspettare.

Sogno distese le braccia e le gambe, sentendo la fredda neve sfiorarle delicatamente la pelle e darle addirittura qualche brivido. Si guardò intorno con la paura che qualcuno sbucasse da un momento all’altro, ma accanto a lei c’era solo un Damon curvo su se stesso, poggiato contro un albero e mangiato vivo dall’ansia.

«Secondo te mi riconoscerà?» le chiese, il tono tenuto basso a fatica e molto concitato.

La ragazza gli lanciò un’occhiata poco convinta «Ovvio che ti riconoscerà, fratellone! Noi non possiamo invecchiare! Sei identicamente identico a quello che eri l’ultima volta che ti ha visto!»

Dopo un primo momento di forte indecisione, Damon si convinse che aveva ragione e si acquietò, tornando a perdersi nei suoi mille dubbi circa quell’incontro decisamente poco romantico. Ma questo era il massimo che potevano permettersi, c’era solo da sperare che Krissy riuscisse a raggiungerli, quella notte.

Erano giunti a Hidel da un giorno e con molta fatica erano riusciti a mantenere segreta la sua presenza per l’intero viaggio. Non appena arrivati, tutti si erano buttati a capofitto sulla strategia che avrebbero usato per attaccare i Demoni, mentre loro si erano defilati. Avevano in programma di rimanere pochi giorni al massimo, il tempo necessario per convincere Krissy a prendere le sue cose e scappare con loro, portando magari con sé suo padre.

Sì, quella sera Damon era intenzionato a dirle tutta la verità su che cosa erano veramente gli Angeli e i Demoni, e su che fine avrebbe probabilmente fatto Hidel era che si era scatenata la guerra.

Guerra, una parola terribile. La loro sarebbe restata una guerra silenziosa, appunto perché gli Angeli erano decisissimi a non venire meno ai patti col Tribunale Nero, e, quindi, Hidel doveva, nei limiti del possibile, rimanere incolume.

Questo perché il loro mondo non doveva mai venire a contatto con quello umano. Loro e tutti quelli come loro avrebbero continuato a calpestare la stessa terra degli umani per l’eternità, ma gli umani non dovevano mai e poi mai scoprire che quelle persone all’apparenza così normali in realtà erano…

«Eccola! La vedo!»

Damon sobbalzò ed istintivamente scosse il capo con l’intenzione di guardarsi intorno; non si diede neanche dello stupido, davvero non ne aveva tempo: la priorità andava alla terribile emozione che lo spingeva a fare cose idiote come cercare con gli occhi Krissy quando era totalmente cieco.

«Dove? Dove?» domandò alzando la voce, un attimo prima di avvertire sulla pelle le gelide mani di Sogno che gli spostavano il capo un po’ più a destra.

Le orecchie cominciarono a sentire un suono diverso da quello del vento tra i rami: il suono di passi, passi veloci e il più silenziosi possibile, mossi con timidezza, che affondavano nella neve e poi si risollevavano, come non volendo farsi sconfiggere da quell’ostacolo.

Se la immaginava come il primo giorno: con gli occhi verdissimi pieni di malinconia, le guance rosse piene di lentiggini, e quei capelli arruffati ed irrimediabilmente disordinati, che correva inciampando teneramente nell’immancabile lungo abito troppo plebeo per una principessa delle favole come lei.

Udì Sogno ridere, una risata addolcita, e a quel punto Damon fu sicuro di averci visto giusto.

A lui non servivano gli occhi per vedere Krissy.

«Damon!»

Eccola, sempre più vicina. Damon allungò le mani nell’oscurità, senza essere sicuro che quella fosse davvero la direzione giusta, ma era stata la voce di lei a guidarlo, e questo gli bastava a credere di aver esposto bene le mani.

Sogno lo lasciò, e al gelido tocco dell’Angelo si sostituì il gentile e caldo abbraccio di una presenza umana, completamente viva, con la sua pelle tiepida e i turbati singhiozzi che non sembravano volerle dar pace. Poi sentì delle lacrime contro la guancia, ma Damon non avrebbe saputo dire a chi appartenessero; le cinse le spalle con le proprie braccia, stringendola con vigore e con fare possessivo, come se fosse l’ultima cosa che al mondo gli rimaneva.

«Damon!» lo chiamò di nuovo lei, con la voce rotta dal pianto.

«Ma che fai, piangi in un momento simile?» le sussurrò lui, anche se non era del tutto sicuro di non stare piangendo a sua volta.

Gli sarebbe tanto piaciuto poterla guardare in volto, poter osservare i suoi occhi sicuramente lucidi, ma tutto ciò su cui poteva contare erano pallidi ricordi. Ora si pentiva amaramente di non aver mai prestato abbastanza attenzione alle forme e alle sfumature del mondo attorno a sé.

La sentì allontanarsi poco dopo, e lui assecondò quel movimento con lentezza, del resto rimanere senza un punto di riferimento per lui era come essere perso nel vuoto.

«Ho letto la lettera…» sussurrò Krissy, tirando su col naso.

Una risata da parte di Sogno «Ah, fratellone! Avessi visto la sua faccia quando mi ha vista arrampicata sull’albero fuori dalla sua finestra!»

Anche Damon rise, per poi assumere un tono più pacato «Non riesco a credere di essere di nuovo qui…»

Una delle dita calde di Krissy gli si posò sopra la palpebra destra, e lui per un attimo credé che volesse miracolarlo restituendogli la vista.

«Ho letto nella lettera che cosa è successo… mi dispiace così tanto per i tuoi occhi…»

Damon scosse delicatamente il capo, con l’intenzione di non permettere a quel dito di spostarsi troppo «Mi ci sto già abituando. Sono cresciuto, sai?»

«Lo so…» immaginava che Krissy stesse sorridendo commossa «Sei stato coraggioso, non come ringraziarti per aver protetto Ann…»

La abbracciò di nuovo, forte ma debole al tempo stesso, come se la presenza di lei gli facesse sentire di avere la forza di mille uomini ma al contempo fosse consapevole che era unicamente la sua presenza a dargli quella convinzione, e che, al di là di quel momento, lui era un povero cieco che non sarebbe riuscito a fare granché in caso di attacco.

«Penso che vi lascerò soli per un po’ e farò un giro, sapete, per essere sicuri che i nostri alleati non siano così poco romantici da interrompervi!»

Sogno aveva seguito la scena con autentica emozione: il profilarsi lontano della giovane Scottfish che correva verso di loro, con la lunga gonna blu che veniva piegata dal vento e i capelli nascosti sotto un grande cappello di lana; l’abbraccio di due persone che si volevano bene e che non si vedevano da tanto tempo, il quale era stato un po’ diverso da quello tra Ann e Nathan, ma comunque dolcissimo.

Non aveva davvero voglia di interrompere ulteriormente i due, proprio per questo aveva deciso di allontanarsi un po’ e lasciar loro la giusta intimità.

Nessuno dei due parve fare troppa attenzione a lei mentre si allontanava in silenzio tra gli alberi spogli – anche la neve non faceva troppo rumore, era sua complice.

Sarebbe tornata presto, si disse.

Quello fu il più grande errore di calcolo che Sogno fece in tutta la sua vita.

 

«Partiremo domani prima del tramonto, in modo da essere sul campo col sole ancora presente. Li coglieremo di sorpresa.»

Con queste parole Marcus aveva congedato il suo esercito, nella cui prima linea spiccava Nathan. Non gli piaceva affatto l’idea di ritardare così tanto l’azione, ma riconosceva che il potere degli Angeli di giorno era meno violento, mentre la notte era un momento assolutamente scontato.

Dunque quale migliore scelta del tramonto, quando gli Angeli erano creduti silenti e i Demoni si sentivano al sicuro? Era rischioso, sì, ma il pericolo era all’ordine del giorno nella vita di entrambe le razze.

Nathan sapeva già cosa fare, ed era la cosa più vile che potesse scegliere: avrebbe salvato Ann e sarebbe corso ad avvertire i villici raccontando loro la verità – esponendo anche prove se fosse stato il caso – ed intimando loro di fuggire immediatamente: il popolo del suono non avrebbe risparmiato Hidel dopo l’attacco da parte degli Angeli.

Stava mettendo a rischio la vita di un centinaio di persone per salvarne una sola, ma non se ne pentiva.

Da molto tempo non gli capitava di camminare con la Selescinder che gli pendeva dal fianco, e mentre attraversava l’accampamento per andare nella tenda di Jen, essendo stato convocato da lei, sentiva la spada trasmettergli la consapevolezza che stava trattenendo dentro di sé una rabbia capace di spingerlo a tagliare teste con la violenza di un animale: ancora poco, si disse, ed avrebbe scatenato tutta la sua rabbia contro tutti quei cani pezzenti.

Quella notte l’accampamento era in fermento; non c’era nessuno che riposasse o semplicemente stesse seduto, tutti erano impegnati in qualcosa: chi lucidava le armi, chi preparava le medicazioni, chi semplicemente si allenava. Ogni Angelo lì presente era conscio che l’indomani, al ritorno dalla guerra, sarebbero stati molti di meno, ma la tensione era egregiamente tenuta sotto controllo.

Il loro esercito sembrava possedere un autocontrollo senza confini.

I rumori erano tenuti sotto un certo livello, in modo da non attirare l’attenzione di nessuno; chi ne aveva il potere occultava la loro presenza, nascondendo l’accampamento sotto un velo di buia oscurità, in modo che nessuno dall’esterno potesse scoprirli. I colori dominanti, sempre atti a un piano di mimetizzazione estrema, erano il bianco niveo e il nero più scuro, lo stesso che oscurava il cielo, impedendo alle stelle di posare qualche tenue raggio sui visi seri e concentrati degli Angeli.

All’ingresso della grande tenda di Jen, Georgiana lo aspettava con il volto occupato da un’espressione molto penosa. Nathan non vi fece caso e la sorpassò senza degnarla di molta attenzione, venendo seguito a ruota dalla bambina che, a sua volta, non sarebbe scappata alla battaglia.

Georgiana, col capo chino sulle proprie mani strette in grembo, sopra la bianca stoffa dei pantaloni – anche gli Angeli donna dovevano utilizzare i pantaloni se andavano in guerra -, si nascose dietro di lui. Nonostante i rapporti tra loro fossero molto freddi e tesi, lei vedeva davvero in messere Metherlance non solo una guida e un maestro, ma anche l’unico amico che aveva.

L’interno della tenda di Jen era freddo, un po’ come tutto il resto dell’accampamento, ed occupato unicamente da un tavolo abbastanza lungo in legno, da alcuni bauli contenenti armi e da un Adam Forster che sembrava più un soprammobile che un essere tecnicamente vivo.

Vedendolo, ed essendo inchiodata da un’espressione gelida da parte di lui, Georgiana si nascose istintivamente dietro Nathan ed allungò altrove lo sguardo.

Jen stava in piedi dietro il tavolo, aveva i capelli raccolti in una lunga coda e delle vesti pesanti che la coprivano quasi interamente, probabilmente era in attesa che qualcuno finisse di lucidare la sua armatura nera.

«Ai vostri ordini.»

Nathan si fermò davanti a Jen e i suoi occhi azzurri incontrarono quelli smeraldini e attenti della donna, che a sua volta sembrava contenere con dovizia una serie di emozioni troppo complessa perché l’Angelo potesse analizzarla.

Il generale, dopo aver portato dietro l’orecchio una ciocca corvina, parlò con voce calma «Nathan, c’è stato un cambio di programma: voglio che tu domani faccia parte della prima linea laterale. Sono sicura che darai un ottimo contributo da quella posizione; non si aspetteranno di certo anche un attacco laterale, non sono a conoscenza del nostro numero.»

«Lo farò.» annuì lui.

«Il tuo compito…» proseguì la donna, soppesando le parole «Sarà proteggere Georgiana, che si occuperà di trovare e liberare l’ostaggio. Facciamo affidamento sulle capacità di Georgiana di rendersi invisibile. Liberato l’ostaggio, Georgiana fuggirà con lui, mentre tu resterai a combattere.»  

L’uomo annuì nuovamente, confermando al contempo quello che aveva sempre sospettato: Georgiana poteva nascondersi da qualsiasi sguardo con i suoi poteri, per questo era riuscita a non farsi scoprire dai Demoni quando avevano fatto irruzione in casa sua.

Quella bambina era dannatamente pericolosa, come una mina vagante preda di emozioni troppo forti che potevano farla vacillare.

«È tutto, puoi andare.» comunicò infine Jen, per poi dargli le spalle. Il suo sguardo si posò su quello di Forster, alla ricerca di un segno.

Nathan uscì a grandi falcate dalla tenda senza aspettare Georgiana, che si stava già affrettando a raggiungerlo.

«Georgiana.» la chiamò Forster, rivolgendole un’espressione severa ed autoritaria.

La ragazzina, colta istantaneamente dalla paura, si voltò verso di lui chiudendo le spalle e chinando il capo, con alcune delle lunghe ciocche castane che le scappavano dallo chignon e le ricadevano davanti al viso.

L’uomo le si avvicinò, le mise una mano sulla spalla e, dopo essersi accertato con una fugace occhiata che Nathan fosse abbastanza lontano per non sentirli, le parlò sottovoce «Mi raccomando, Georgiana. Non dimenticare quello che ti ho detto.»

Delle semplici parole dal significato molto vago, che però riuscirono a ridestare nella giovane tutta la paura che provava verso quell’uomo.

«S-sì!» esclamò, per poi scappare via, scossa da un leggero tremore.

 

Nathan non aveva volutamente lasciato indietro Georgiana, ma la sua ansia era così profonda che non riusciva a pensare ad altro che non fosse la povera Ann in mano a quei mostri. E più la immaginava, più la vedeva piccola, al freddo, affamata e lasciata a se stessa, mentre assisteva al prepararsi di una guerra.

Lui era sicuro che i Demoni avessero inscenato il rapimento per costringerli ad agire, per essere giustificati a fare una strage pur di recuperare quella maledetta Kharlan. Avevano spesso accusato quelli come gli Angeli di essere un popolo di anime perse e assetate di poche cose: una di queste era il potere; eppure, loro stessi sembravano esserne succubi.

Si era diretto ai limiti dell’accampamento, là dove pensava di poter trovare un po’ di pace, tra gli alberi immobili e gelidi; in lontananza udiva degli ululati, di quelli con cui aveva imparato a convivere due anni prima e che quasi ogni notte tormentavano il sonno della gente di Hidel. Quella povera gente… lo avevano fatto sentire quasi uno di loro, e ora li stava tradendo tutti.

A pensarci bene, però, lui non li aveva affatto traditi, perché li aveva presi in giro fin dall’inizio, compresa la piccola Ann per cui adesso li stava mettendo in pericolo. Se fosse accaduto il peggio, sarebbe riuscito a perdonarselo? Sì, ma solamente se Ann fosse stata salva.

«Nathan! Nathan!»

«… Sogno?»

La voce squillante e rotta dalla paura di Sogno lo raggiunse, e lui, voltandosi nella direzione da cui provenivano le urla, la vide avanzare correndo come una disperata tra gli alberi. Cosa poteva essere successo, ora?

Si mosse per raggiungerla, affondando ogni passo quasi in modo meccanico.

«I Demoni! Hanno attaccato Damon e Krissy!» esclamò la ragazza quando furono a pochi metri di distanza, fermandosi a recuperare le forze.

Sul volto dell’Angelo comparve la sorpresa «Che cos-…»

«Mi sono allontanata qualche minuto e quando sono tornata…» la giovane si interruppe, colta da una profonda agitazione, e alla fine proruppe «Seguimi! Forse non è troppo tardi!»

La bionda gli afferrò la mano e lo costrinse a muoversi: forse non era troppo tardi.

Nathan ne dubitava seriamente.  

 

Erano stati attaccati di sorpresa, attaccati e separati senza che nessuno di loro dimostrasse un minimo di umanità o di comprensione.

Damon si era sentito strappare Krissy dalle braccia senza che potesse fare niente: era stato bloccato, gli avevano legato i polsi con delle corde che gli facevano male, poi lo avevano fermato a terra e, quando avevano capito che era cieco, avevano cominciato a schernirlo.

«È un peccato che non puoi mettere le mani addosso a questa ragazzina, vero?»

Così aveva chiesto uno di loro, Damon sapeva di lui solamente che aveva una voce che non gli piaceva e che gli aveva messo un piede sulla testa.

«Lasciatela andare! Lei non c’entra!» urlò, pronto ad immolarsi se ce ne fosse stata la necessità.

Sentiva Krissy lamentarsi e piangere, ma non poteva né voleva immaginare che cosa le stessero facendo: il solo pensiero gli faceva andare il sangue alla testa.

«Che c’è, Angelo, sei arrabbiato perché ti abbiamo rubato la preda?»

Quelle parole gli fecero perdere il senno.

Con le poche forze di cui disponeva ed affidandosi a tutti i suoi sensi, prima fece talmente tanta forza sulla corda che gli imprigionava i polsi fino a spezzarla, poi si avventò come una belva su quello che fino a quel momento gli aveva tenuto un piede sopra la testa. Gli afferrò la gamba con entrambe le mani e, ignorando gli insulti e i tentativi del nemico di liberarsi, fece appello alla sua forza fisica brutalmente sviluppata per spezzargliela.

Il Demone lanciò un urlo, a quel punto Damon lo tirò a terra e fece vagare le sue mani sul corpo dell’altro, alla ricerca della testa. Sentì un paio di mani forti afferrargli le spalle e cercare di spostarlo, ma la sua velocità fu maggiore e, posta una mano sul cranio del primo Demone, fece abbastanza pressione da spaccarlo.

Pregò il Maestro che Krissy non lo stesse guardando, perché lui stesso provava ribrezzo della brodaglia composta da sangue, altri strani liquidi e cervello che sentiva sporcargli la mano.

«Dietro di te!» esclamò la ragazza, e Damon si ricordò che alle sue spalle qualcuno aveva cercato di tirarlo via poco prima.

Si mise in piedi e fece un giro sul posto, allungando le braccia verso il vuoto finché non trovò un ostacolo: lo afferrò, lo buttò a terra e lo pestò con violenza. Non sapeva se fosse morto o no, ma non sentendolo lamentarsi decise di passare al prossimo.

«Tu, brutto bastardo…»

Era una voce proveniente da destra.

Damon si voltò ancora, pronto a scattare all’attacco prima di sentire il suono di qualcosa che sbatteva con violenza inaudita contro qualcos’altro, probabilmente un albero. Seguì un rantolo femminile, e l’Angelo capì che la persona ad essere appena stata colpita era Krissy.

Esclamò il suo nome, che però si perse in un ringhio che si faceva sempre più basso e selvaggio, mentre le sue mani vagavano di nuovo alla ricerca del terzo uomo.

Questo si era però allontanato prima che lui potesse mettergli le mani addosso, sfruttando la cecità dell’Angelo.

Ma l’agitazione tradiva quest’ultimo combattente, facendogli commettere il grave errore di camminare pesantemente nella neve. Fu l’udito ad essere l’asso nella manica del giovane Darkmoon, che riuscì a individuarlo prima che questo potesse scappare: gli saltò addosso e fece per afferrargli il collo, ma due mani più grandi e potenti delle sue riuscirono a fermarlo e ad avvolgersi attorno al suo, di collo, e a fare pressione. Intendeva spezzarglielo? Probabilmente sì.

L’Angelo andò alla cieca, ma quell’uomo che sicuramente aveva una stazza superiore alla sua stava estendendo le braccia e riuscendo così ad allontanarlo, impedendogli di raggiungerlo. Le mani del nemico si posizionarono una all’altezza del suo mento e una alla base del collo, e a quel punto Damon capì che non intendeva affatto spezzarglielo, ma proprio staccargli la testa.

La paura si fece grande, soprattutto perché non sapeva che fine aveva fatto Krissy, e quando udì il suono di una lama che tagliava la carne, fu quasi sicuro di essere morto.

Incredibilmente, invece, nessun dolore lo trapassò, anzi, fu il suo assalitore a trasalire e a lanciare un mugolio, seguito poi dal veloce sciogliersi del nodo creato con le mani attorno al suo collo.

«Krissy!»

Riconobbe la voce di Sogno ed i suoi passi veloci, e quando una mano poco gentile lo costrinse ad alzarsi capì immediatamente che aveva davanti Nathan, e che era stato lui a uccidere l’ultimo Demone con la sua Selescinder.

Non ebbe però la forza di ringraziarlo: ogni suo pensiero correva alla povera Krissy.

«Come sta?» domandò con voce affaticata.

«Sta male…» rispose la voce di Sogno «Ha sbattuto forte la testa e perso tantissimo sangue…»

In quel momento Damon sentì le gambe cedergli, e solo l’intervento tempestivo di Nathan riuscì ad evitargli una caduta. Fu felice di essere cieco per la prima volta: non avrebbe mai retto una visione così cruda.

«Ma tuoi puoi salvarla… vero?»

Si disse di sì, certo che Sogno poteva salvarla! Sogno era in grado di salvare chiunque: se era riuscita a salvare Nathan quando era stato quasi divorato da un lupo poteva di certo salvare Krissy! Ma quel silenzio… quel terribile silenzio proveniente da Sogno sembrava essere una condanna a morte per ogni sua speranza.

Damon provò a ripetere la domanda, ma neanche stavolta la ragazza rispose.

Cominciò a piangere, sottovoce e con gli occhi ciechi sgranati, fissi sul nulla. Sentiva un terribile vuoto al petto, all’altezza della gola, e non riusciva più ad emettere fiato. Avrebbe voluto urlare, chiedere scusa per tutto quello che era successo, ma non riusciva a trovare la forza di parlare, le parole stesse gli sfuggivano, e si rese conto con estremo rammarico che quella tragedia era accaduta per colpa sua.

Lui voleva salvare Krissy, non condurla a morte: perché il destino gli aveva rivolto questo crudele scherzo?

Non vedeva niente, e anche se provava ad allungare le mani nella speranza che quelle della ragazza lo raggiungessero, nella speranza di rivedere il suo sorriso, sapeva che niente di tutto quello sarebbe accaduto.

Cominciò a tremare, a chiamare debolmente il nome della giovane Scottfish, accompagnato solamente dai singhiozzi di Sogno.

Stava per chiedere a Nathan, che ancora lo reggeva per le spalle, di aiutarlo ad avvicinarsi a lei, quando in lontananza echeggiarono delle voci che parlavano un perfetto inglese: erano gli Angeli, se fosse stato il popolo del suono avrebbero parlato nella loro lingua.

«Andatevene subito.» fu la sentenza di Nathan.

«No!» esclamò Damon, ma si sentì abbandonare dall’amico e passare in mano a Sogno – anche lei tremava.

«Sogno, portalo via immediatamente. Se vi scoprono siete perduti. Io mi occupo della ragazza.»

Damon provò a ribellarsi, ma nella sua mente debole continuavano a ripetersi le parole che Nathan aveva detto a Terren: “Mi dispiace, ma mi rallentereste”.

Nathan poteva ancora salvare Krissy? E lui… lui era un peso perché cieco e ferito?

Inconsciamente smise pian piano di opporre resistenza a Sogno che cercava di allontanarlo, ma non prima di aver portato una mano alla gola ed essersi sfilato la collana con la croce che era il suo tesoro più prezioso: la tese verso l’oscurità, parlando sottovoce «Nathan, dalla a Krissy, ti prego!»

Avvertì il tocco freddo dell’amico accettare la collana e togliergliela dalle mani: quella collana, quella che era l’ultimo ricordo della sua amata madre, Damon se la sentì strappare dalla carne viva con un dolore simile ma irrimediabilmente inferiore a quello con cui gli avevano strappato Krissy.

«Lo farò.» furono le parole di Nathan, venate di un tono ingentilito, e Damon immaginò che stesse sorridendo amaramente.

Alla fine si lasciò tirare indietro da Sogno, e il mondo che fino a quel momento era stato buio gli sembrò divenire un inferno.

Era entrato in scena come un re, ma ne stava uscendo come il peggiore dei pezzenti.

 

Dopo che Sogno e Damon sparirono tra gli alberi, Nathan riuscì finalmente a muovere un passo.

Fino alla fine era rimasto ad osservare gli occhi vacui e spaventati di Damon, che probabilmente stava combattendo una battaglia interiore tra ciò che era giusto – scappare prima di essere scoperti e mettersi così in guai terribili – e ciò che sentiva essere giusto – rimanere con Krissy fino alla fine. Nathan si sentì in dovere di non spostare gli occhi da loro fino alla fine, poiché sapeva che nella battaglia del giorno seguente avrebbe potuto trovare la morte.

Per quanto ne sapeva, quella poteva anche essere l’ultima volta che vedeva Sogno e Damon, i suoi unici amici.

Per un attimo sentì qualcosa muoversi nel petto, ma scacciò rabbiosamente ogni sentimento che non fosse l’odio per quei nemici e la voglia di ucciderli tutti fino all’ultimo.

Quando i due scomparvero, tornò a posare gli occhi sul corpo di Krissy Scottfish, accasciato gentilmente da Sogno per terra. Un lungo e profondo taglio le percorreva tutta la fronte, raggiungendo la guancia destra, e continuava a sanguinare copiosamente. Facendosi forza per reprimere gli istinti, l’Angelo si avvicinò alla povera ragazza e la prese in braccio, per poi spostare a suon di pedate uno dei corpi – quello senza testa – sulla macchia di sangue, così da evitare agli Angeli altri rompicapo inutili: ne avrebbero già avuti abbastanza trovando tre cadaveri senza assassino.

Dunque si allontanò; corse nel modo più silenzioso possibile attraverso la foresta, cercando di non produrre nessun suono ad ogni passo che affondava nella neve e facendo molta attenzione ad evitare di pestare rami o sbattere contro gli ostacoli, per lo più alberi.

Gli alberi della foresta di Hidel, a quante barbarie avevano assistito? Loro sapevano tutto e non parlavano, conoscevano i segreti di ogni abitante di quelle zone, eppure lo tenevano per sé. Nathan trovò il tutto molto triste.

Corse a lungo, finché non si trovò davanti a un fiume. A quel punto si guardò intorno: nessuno; ascoltò: solo il vento che spirava e l’acqua che scorreva. Si trovava in una zona della foresta uguale a molte altre, con altissimi alberi neri che proiettavano per terra contorte ombre inquietanti; la neve, come sempre, era poggiata un po’ su ogni cosa, dai rami alla terra, dalle pietre alle spalle dello stesso Nathan.

L’uomo posò per terra la ragazza e si avvicinò al fiume – era molto largo, almeno cinque metri, e sembrava essere anche profondo – e cacciò una mano nella gelida acqua, per poi provare a pulire la ferita della ragazzina. Sentiva che era ancora viva, lo notava dal lento abbassarsi e rialzarsi del petto, ma non sembrava cosciente, e la cosa era un bene.

Non poteva fare niente per salvarla, poteva solo assisterla fino alla morte: era quello che avrebbero voluto sia Damon che Ann, e solo questo pensiero lo spinse a non lasciarla lì da sola e andarsene per la sua strada. Sì, Nathan era sicuramente un mostro se riusciva ad essere insensibile anche in una situazione del genere, ma ogni suo pensiero correva ad Ann e Damon che stavano soffrendo, non a Krissy che, nel suo stato di incoscienza, avrebbe incontrato una morte non dolorosa.

Prese gentilmente il suo volto tra le mani, sollevandole la nuca per poi metterle attorno al collo la collana di Damon: l’ultimo dono che potevano farle. Lui non avrebbe nemmeno potuto darle una degna sepoltura, gli mancava il tempo e l’attrezzatura.

Voltò lo sguardo al fiume, decidendo che una volta morta l’avrebbe lasciata alle cure dell’acqua che abbeverava Hidel. Forse quel villaggio maledetto sarebbe stato clemente per una volta e avrebbe fatto da culla eterna a quella povera ragazza.

Lo ricordava ancora bene, il primo incontro con Ann: c’era anche Krissy. Era stata tutto il tempo nascosta dietro la sua spavalda amica, con gli occhi piegati dalla timidezza e dalla vergogna di dire qualcosa di sbagliato. A dirla tutta, ricordava anche di non aver inizialmente afferrato bene lo stranissimo nome della ragazza, sussurrato con la stessa leggerezza del vento che muove i fiori.

Era rimasto sorpreso nello scoprire che era Krissy la persona importante per Damon, ma non ci aveva fatto troppo caso: del resto lei era la migliore amica di Ann e Damon stava sempre con lui, quindi era un po’ un classico che i due si fossero vicendevolmente attirati.

«Tutto questo è maledettamente sbagliato…» sussurrò a denti stretti, in un moto di rabbia.

«Sono d’accordo con voi…»

Una vocina piccola e piegata dal dolore, ecco a cosa si era ridotta la voce di Krissy.

Nathan non si era reso conto che lei era cosciente, e quando spostò lo sguardo verso il suo corpo, incontrò per l’ultima volta quei timidi occhi verdi pieni di lacrime.

Avrebbe tanto voluto commuoversi e dire qualcosa di consolatorio, ma non avvertiva alcuna emozione. Cominciò a credere che Marcus avesse ragione e che si stesse di nuovo lasciando contagiare dalle emozioni altrui – eccezion fatta per la rabbia, quella era sicuro che fosse sua.

Non allungò neanche una mano per donarle una carezza, semplicemente continuava a guardarla con occhi atoni, che lasciavano trasparire solo una grande frustrazione repressa.

Krissy sorrise appena, forse riusciva a comprenderlo «Lo sa, messere… alla fine l’ho capito…»

«Che cosa, milady?» le chiese, senza premurarsi di dirle di non parlare: stava morendo, era inutile allungare la sua sofferenza.

«Che cosa siete voi Angeli… e cosa sono loro…» rispose la ragazza molto lentamente e fermandosi diverse volte, col volto segnato dal dolore.

Nathan accennò un sorriso: sì, era impensabile che ormai Krissy non avesse compreso la verità. Eppure non sembrava spaventata, forse perché sapeva che era giunta la sua ora.

«Siete molto coraggiosa.» le disse, quello era il suo omaggio a lei: un complimento da parte sua era una rarità, ma Krissy se lo meritava davvero. Un po’ gli dispiaceva di non essere in grado di darle altro.

Seguì un minuto di silenzio, che veniva spezzato solamente di tanto in tanto da un mugolio di dolore o dal fruscio del vento; la ragazza cominciò a diventare più rigida e fredda, la pelle da rosea stava divenendo pallida e il respiro si faceva più affaticato.

Con un ultimo sforzo, sollevò gli occhi e li posò di nuovo su quelli dell’Angelo, infine parlò «Nathan Metherlance… promettimi, no, giurami una cosa.»

Nathan ci pensò: non era stato in grado di darle niente se non un misero complimento e l’evitarle una fine molto più crudele per mano degli Angeli, lasciarla morire con l’anima in pace e la sicurezza che lui avrebbe eseguito la sua volontà gli sembrava il minimo che potesse fare, e questo lo portò ad annuire con convinzione.

Krissy fece un leggero sorriso, e dopo un altro interminabile minuto di sforzi riuscì a mormorare «Giurami che proteggerai Ann fino alla fine, non permetterai a nessuno di portartela via.»

Fino alla fine? Era un giuramento pesante. Nathan non sapeva quando sarebbe stata ‘la fine’; per lui poteva essere l’indomani stesso, ma poteva anche non arrivare mai: lui era un Angelo, la sua vita era incredibilmente più lunga rispetto a quella di un comune umano.

Fissò gli occhi di Krissy e vi lesse una profonda determinazione: non stava rivolgendo il suo ultimo desiderio ad un padre che sapeva che non sarebbe riuscito a riprendersi dalla scomparsa della figlia, ma lo stava rivolgendo a un’amica della sua stessa età, che aveva ancora davanti un futuro e che poteva essere felice.

Ann se lo meritava di essere felice, sì. E lui poteva darle la felicità, quella vera e perpetua?

No, ne era affatto sicuro.

Ma poteva vegliarla, fare in modo che lei la raggiungesse, e questa sarebbe stata una buona azione che avrebbe svolto al di là di ogni possibile – o improbabile – desiderio personale: lo avrebbe fatto per Krissy.

Avrebbe protetto Ann fino alla fine, e non avrebbe permesso a nessuno di portargliela via.

«Lo giuro.»

Aveva appena pronunciato il giuramento che lo avrebbe tenuto vincolato ad Ann per molto tempo, e che, Nathan non poteva neanche immaginarlo, lo avrebbe in futuro spinto ad azioni al limite dell’inumano.

 

Nathan non seppe mai dire se Krissy aveva sentito o no il suo giuramento: ella aveva chiuso gli occhi in fretta, senza dargli il tempo di parlare.

La salma, così come aveva deciso prima, la lasciò al fiume e la osservò allontanarsi nelle tenebre in silenzio; un altro ricordo che quegli alberi maledetti avrebbero gelosamente serbato per sé.

Quella sera era accaduto qualcosa di spaventoso, che doveva rimanere assolutamente segreto, poiché avrebbe potuto avere conseguenze non volute sull’azione dell’indomani, e loro non dovevano perdere tempo.

L’Angelo sollevò lo sguardo al cielo dopo aver salutato Krissy, e per un attimo le sue iridi celesti si persero in quei meandri bui e quasi completamente coperti da nubi.

“Resisti, Ann, resisti…

 

Il giorno dopo, al tramonto dell’ultimo giorno del 1854, ebbe inizio la guerra tra gli Angeli e i Demoni. 

 

Note:

#1: Ci si riferisce ai fatti narrati nei capitoli 7, 8 e 9. I due dispersi sono gli stessi Annlisette e Nathan.

 

 

 

Note dell’Autrice:

Ed eccoci arrivati al capitolo 26! La storia mi sta lentamente scivolando dalle mani, non perché non riesco a scriverla, ma perché mi rendo conto che ogni capitolo scritto è un passo verso la conclusione °°

Questo capitolo era particolarmente drammatico, mi è venuto un po’ difficile >.<” spero davvero che i prossimi aggiornamenti saranno più veloci, mi dispiace farvi aspettare così tanto!

Per quanto riguarda i ringraziamenti, mille grazie per le recensioni a cupcake_chan, KikyoOsama e Milou! Sempre gentilissime! <3

 

Al prossimo capitolo! :D

Sely.

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Capitolo 27
*** Georgiana o del Tradimento ***


What colour is the snow?

Capitolo 27: Georgiana o del Tradimento.

Il vento che tirava quella mattina era più freddo del solito, decisamente più freddo. La temperatura si era drasticamente abbassata negli ultimi giorni, imbiancando la zona di Hidel con uno strato di neve imprevisto, che però avrebbe sicuramente reso più agevole la battaglia agli Angeli. Facendosi scudo della cappa bianca che fluttuava liberamente in cielo, il loro attacco aereo sarebbe stato meno visibile ed avrebbe conferito alla loro azione un supplementare effetto sorpresa.

Nonostante il sole fosse ancora in fase di tramonto, l’accampamento era in trepida attesa: i preparativi erano stati ultimati, tutti erano pronti a partire.

Gran parte della base era vuota, con grandi cumuli di neve addossati ai lati dei sentieri, per permettere un passaggio rapido e sicuro a chi ancora si affrettava a raggiungere il luogo di ritrovo, ovvero la grande tenda dei generali.

Davanti ad essa, che col suo colore nero sembrava un pezzo di cielo caduto, si ergevano con sguardi terribilmente seri Marcus e Jen. Il primo indossava una fiera armatura grigia e lucida, di un materiale che non appariva molto prezioso ma che sembrava indistruttibile; gli copriva in modo uniforme il corpo intero, eccezion fatta per il capo, dal quale guizzava uno sguardo severo ed imperscrutabile. Al suo fianco destro, Jen aveva i capelli raccolti in uno chignon alto ed il viso privo di trucco - cosa assolutamente nuova agli Angeli, abituati a vederla perfetta in ogni occasione. Effettivamente, anche in quella occasione non era meno perfetta del solito: le lunghe ed agili gambe coperte da bianchi schinieri, il formoso petto protetto da una corazza del medesimo colore, con incastonate all’altezza del cuore delle piccole pietre preziose che formavano un quadrifoglio, simbolo a lei caro.

L’esercito era stato meticolosamente diviso in base alle capacità di ogni singolo.

L’attenzione sarebbe stata attirata dal primo gruppo, che sarebbe giunto via aria. Sfruttando l’effetto sorpresa ed una prima agitazione collettiva da parte del popolo del suono, i tiratori, appostati sulle colline che accerchiavano la zona avrebbero compiuto una prima strage. In seguito sarebbero scesi quelli che per primi si erano mostrati, sferrando un secondo attacco contro i rimasti. Infine, il colpo di grazia sarebbe stato dato dai fanti: prima un attacco frontale, poi si sarebbero aggiunti i laterali. Insomma, un piano perfetto, purtuttavia gli Angeli avrebbero avuto bisogno di una gran dose di fortuna per prevalere fisicamente contro il popolo del suono, e tale consapevolezza si avvertiva nell’accampamento.

«Comment allez-vous, monsieur?» domandò Georgiana, corrugando la fronte con espressione preoccupata.

Nathan batté le palpebre un paio di volte, come se fosse stato colto in contropiede da quella domanda così improvvisa. Non era un mistero quanto fosse assorto, quanto i suoi pensieri corressero ad Annlisette, a Sogno e Damon scappati chissà dove, alla situazione pericolosissima in cui si erano ficcati.

Come avrebbe potuto rispondere a Georgiana, “sono preoccupato perché non so se arriveremo a fine giornata”? Forse sarebbe apparso un po’ brusco, quindi si sforzò di farle un mezzo sorriso. L’ultima cosa che voleva era che Georgiana si allarmasse ed agitasse, dato che la riuscita del salvataggio di Ann dipendeva prevalentemente da lei.

«Sto bene, Georgiana, non preoccuparti.» le assicurò, sollevando una mano sul suo capo per farle una paterna carezza, alla quale la ragazzina sorrise timidamente.

Anche loro due erano in fila, stretti in mezzo a molti altri Angeli, coi piedi affondati nella neve e gli sguardi molto tesi. Georgiana sperava con tutto il cuore di rivedere tutte quelle persone sane e salve a fine scontro, ma era consapevole di quanto la sua speranza fosse sciocca e vana.

Un fiocco di neve le cadde sulla punta del naso e lei scosse con decisione la testa per mandarlo via. Poi corse con la mano sull’elsa della spada affilata che le pendeva dal fianco, ricordandosi che in quella battaglia lei aveva un ruolo troppo importante per permettersi di pensare anche agli altri. Doveva assolutamente portare a termine il suo compito, poi sarebbe potuta tornare in guerra ad aiutare gli altri o rintanarsi in un angolo e aspettare silenziosamente la fine dello scontro.

Si strinse nelle spalle, avvertendo lo sfregare della pungente lana contro la pelle – una sensazione che aveva sempre odiato – e sollevò in capo in direzione di Marcus, che in quel momento prendeva parola.

Il grande generale piantò un piede per terra con decisione, producendo un rumore sordo che attirò l’attenzione di tutti. Si schiarì la voce, quindi, con una mano sul fianco e l’altra rivolta al suo fedele esercito, cominciò il suo discorso.

«Quando varcammo il confine di queste terre, due anni fa, eravamo pronti alla guerra. Che cosa ci aspettavamo mai da questi selvaggi? Gente che non conosce le regole necessarie a vivere in una società equa e con sani principi e valori; gente che non sa cosa siano i diritti umani, la cui unica legge è quella del più forte! Abbiamo provato ad accostarci a loro in modo pacifico e senza giudicare il loro modo di vivere né tentare di cambiarlo, ma tutti i nostri sforzi sono stati ignorati.»

Dalla folla non si levava neanche un sospiro, eppure era chiaro quanto tutti fossero pienamente concordi con le parole del condottiero.

Georgiana, che non conosceva i fatti di due anni prima, faticava a star dietro al discorso; cercò una conferma nei volti delle persone che le stavano attorno, trovando tanto, tanto rancore. Immaginò quanto dovesse essere terribile dover affrontare quell’esercito, e non poté fare a meno di rintanarsi nell’ombra di Nathan, il quale non le aveva fin ora rivolto nemmeno uno sguardo.

«Non solo! Ci siamo ritirati confidando nella collaborazione che ci avevano garantito, rispettando così gli ordini del Tribunale Nero di non coinvolgere i civili, coloro che devono rimanere all’oscuro dell’esistenza di quelli come noi. E loro cosa hanno fatto? Ci hanno pugnalati alle spalle! La loro sete di potere li ha spinti a rapire uno dei villici di Hidel, con l’intento di mettere a ferro e fuoco il villaggio per recuperare la Kharlan e usarla contro di noi! Ed è per questo che noi, nel nome del Tribunale Nero, oggi porremo fine a questa follia!»

Marcus sollevò le braccia e la platea sollevò in un colpo solo gli occhi alla sua mano, aperta a mezz’aria, col palmo stirato rivolto verso l’esercito.

«Andiamo!» esclamò, la sua voce era più gelida e tagliente del vento invernale che piegava i rami della foresta intorno «Angeli!»

 

Mancavano davvero pochi minuti alla partenza, i soldati che avrebbero agito via terra erano già pronti ad incamminarsi; tuttavia due presenze mancavano all’appello: Georgiana Varens e Nathan Metherlance.

I due erano stati convocati d’urgenza da Jen e da Adam Forster e cominciavano seriamente a chiedersi quando sarebbe giunto il momento di sostituire l’ansia che antecedeva la battaglia con la concentrazione necessaria a vincere senza rimetterci la vita.

L’interno della tenda di Jen era incredibilmente ordinato, come se si trovasse a centinaia di chilometri dalla guerra pronta ad impazzare là fuori. La donna sostava innanzi all’ingresso, con una mano sollevata ad aprire il telo e lo sguardo concentrato, posato sulle truppe che stanziavano fieramente in ordinate file, in attesa dei suoi ordini.

Forster si era invece accomodato sulla sedia dietro il tavolo, sul quale erano ordinatamente raccolte in pile delle pergamene accuratamente vergate; appoggiato allo schienale e con un’espressione imperscrutabile, tamburellava le unghie sul legno del bracciolo.

Nathan provava un senso di spontanea antipatia verso quell’uomo che continuava a perdere tempo e che sarebbe rimasto nell’accampamento a vegliare sul niente, mentre i suoi sottoposti  sarebbero andati a morire.

«Poche parole, poi vi lascerò andare.» iniziò il vecchio, sollevando gli occhi spenti sulle figure dei due «Il vostro compito, come ben sapete, è portare in salvo il villico rapito dai nostri avversari.»

Georgiana annuì per entrambi, con un’espressione incerta ed un sottile timore che non mancava mai di provare in presenza di Forster, e che a Nathan non sfuggì.

«Ebbene, sarebbe troppo pericoloso per noi se quella persona tornasse al villaggio: potrebbe raccontare di noi.»

Il discorso filava, ma non piaceva affatto a Nathan, che già cominciava ad accigliarsi e a trattenersi dal bloccare Forster e mettere ben in chiaro che lui non intendeva uccidere Ann.

«Ragion per cui…» il vecchio, quasi avesse sentito i pensieri del tedesco, sollevò gli occhi sui suoi e li fissò con intensità «Dopo aver portato in salvo questa persona, la renderete una di noi.»

Quelle parole fecero calare un profondo silenzio; non proveniva eccessivo stupore da Georgiana, fu questa la prima cosa che Nathan notò e che lo spinse a credere che lei se lo aspettasse o ne fosse già a conoscenza.

Dovevano fare di Ann un Angelo, questo era l’ordine.

«Signore…» cominciò l’uomo, provando a far ragionare Forster «Un villico spaventato, catapultato nel nostro mondo e in un corpo che non è il suo… fino a che punto ci converrebbe? Propongo di allungare i tempi; un’azione così rapida potrebbe…»

«Da quando ti preoccupi per gli altri, Metherlance?» lo interruppe l’altro, scrutandolo con disappunto, per poi aggiungere «Credevo fossi stato scelto per il tuo sangue freddo e la poca propensione a ciò che potrebbe farti definire “umano”. O forse c’è dell’altro?»

Nathan corrucciò la fronte, ma non spostò lo sguardo: non intendeva cedere, e infatti fu Forster a farlo per primo, passando ad osservare Georgiana come un carceriere guarda un prigioniero.

La bambina scattò, ricordando un po’ a Nathan un giocattolo a molla. Sì, forse era proprio questa la definizione che più le calzava.

«È tutto chiaro?» l’intervento fu di Jen, che finalmente era tornata a guardarli con gravità «Non possiamo permetterci di indugiare. Non possiamo far tornare a Hidel quel villico, né abbiamo il permesso di ucciderlo. Non possiamo fare altro, Nathan, quindi non crearci altri problemi. Ora andate.»

Non c’era più niente da fare, tutto era stato deciso a tavolino: la vita di un essere umano e il suo destino erano stati decretati da persone che si erano prese la libertà di scegliere senza sapere nemmeno di chi stavano parlando.

I due convocati lasciarono la tenda in silenzio, con nuove consapevolezze sulle spalle: Georgiana aveva capito di non avere più scampo, si sentiva come un semplice pedone sacrificabile; Nathan provava una forte rabbia, nonché una pena grande verso Georgiana, ma immensa verso la povera Annlisette. Tuttavia, capiva in parte gli ordini di Jen e Forster: lui sapeva che Ann avrebbe mantenuto il segreto una volta tornata a Hidel, ma loro non potevano esserne certi, non la conoscevano come la conosceva lui. D’altra parte, ucciderla era fuori discussione, senza contare che non avevano il permesso del Tribunale Nero. Insomma, vista la gravità della situazione farla diventare un Angelo era la scelta più naturale.

Ma non era questo il modo in cui voleva mantenere la promessa fatta a Krissy.

Mentre partivano, nelle orecchie i passi pesanti che solcavano la neve fresca e negli occhi il cielo ferito da contorte dita di fulmini bianchi, Nathan ebbe una visione: vide Sogno e Damon.

Aveva raccomandato loro di andarsene, di scappare il più lontano possibile e di non farsi trovare in quelle zone dagli Angeli, che li avrebbero condannati senza dubbio alla morte se avessero saputo la verità. E invece gli avevano disubbidito – la cosa peggiore che potessero fare -; forse per assistere alla maestosa mobilitazione delle truppe, forse per dare il loro silenzioso addio all’amico, al “cugino Metherlance”, da lontano.

Stavano vicini, in piedi, in mezzo al labirinto di cortecce e buio che avanzava, avvolti in lunghi mantelli candidi che li nascondevano quasi interamente, eccezion fatta per gli occhi, cerchiati di viola e sgranati, come quelli di chi guarda qualcosa di meraviglioso e spaventoso. Sogno, il cui bagliore negli occhi giovani brillava appena, come un barlume senza forza, stringeva la mano di Damon, visibilmente a pezzi e col viso segnato dalla tristezza.

A Nathan, in ultima fila e col volto rivolto all’indietro verso i due, mentre tutti gli altri guardavano avanti, sembrò che lei aprisse la bocca per pronunciare sottovoce poche sillabe; non fu sicuro di averle letto correttamente le labbra, a causa della distanza.

“Fa’ attenzione.”

 

Dall’inizio di quella strana avventura, Annlisette Nevue aveva avuto paura di morire diverse volte: quando si era ritrovata ad arrampicarsi su un albero con a terra un Nathan in procinto di essere sbranato da un lupo; quando era stata rapita dal popolo del suono; quando, a Terren, un serial killer l’aveva braccata all’interno di un labirinto; e anche ora, che era nuovamente in totale balia del popolo del suono.

Chiusa tutto il giorno all’interno di una delle tante tende che componevano l’accampamento di quella strana gente, viveva ormai dei pochi e parchi pasti che le venivano portati due volte al giorno. Aveva stoicamente imparato a convivere con i polsi doloranti e le gambe formicolanti: sopportava, sopportava coraggiosa, poiché era convinta di star agendo per il bene delle persone che amava; tuttavia, dentro di sé, pregava con tutto il cuore che Nathan arrivasse presto a salvarla.

Lui sarebbe giunto, questo era sicuro, ma quando?

In parte, Ann sperava che Nathan non tornasse affatto – che non ne avesse la voglia o non gli fosse permesso, poco importava -, in quanto sapeva mancare davvero poco al risveglio di quell’arma a lungo ricercata, il motivo per cui tutto quello era cominciato, e pensava che una volta in mano ai “Demoni” questa sarebbe stata uno strumento di distruzione senza paragoni.

Ebbene, era quello il motivo per cui tutto era cominciato: per sete di potere, come insegnava la storia; era sempre la sete di potere a muovere conflitti così grandi, ma si era voluta illudere che tra “Angeli” e “Demoni” queste cose non accadessero, o che almeno fossero meno banali.

E invece no.

Non sapeva più cosa pensare. Chi diavolo erano quelle persone, alla fine? Chi di loro era “il cattivo”? Qual era la parte “giusta”? Capiva finalmente che tutte le domande che si era posta per due anni erano in realtà inutili, e che lei aveva solo tre punti di riferimento: l’affetto per il suo villaggio e la sua gente, l’amore per Nathan e la fede in Dio. La terza non poteva toglierla nessuno, ma era stata costretta a scegliere tra le prime due. Una piccola parte del suo spirito era orgogliosa di stare andando incontro ad un onorevole sacrificio – perché nessuno le aveva spiegato che cosa sarebbe stato di lei una volta recuperata l’arma – in favore della sua gente, ma il resto di lei – tutto ciò che era estraneo alla coscienza etica – invocava l’uomo che amava con tutta se stessa, pregava di poter tornare indietro nel tempo e scegliere lui, rimanere al suo fianco per sempre e dimenticare tutti quei problemi che li avevano divisi forse definitivamente.

Sollevò il capo, stanca, e si guardò intorno; la tenda era grande e buia, non si riusciva a distinguere granché attraverso il sottile muro oscuro instauratosi da quando il sole aveva cominciato a tramontare.

Aveva passato molto tempo ad osservare ogni cosa durante i suoi cinque giorni di prigionia: dai bassi tavolini in legno colorati di mille colori agli stranissimi strumenti a fiato che venivano di tanto in tanto portati e riposti in una grande cesta ricolma di paglia, alle alte lance dalla punta affilata e l’aspetto minaccioso che giacevano in un angolo, al palo al quale era legata, che si innalzava da terra fino al punto di massima altezza della tenda, su cui l’intera struttura si reggeva.

Ispirò profondamente, col fine di liberarsi almeno in parte dall’angoscia che l’attanagliava; si chiedeva se sarebbe riuscita ad accettare il suo destino e smettere di fantasticare sulle improbabili prodezze degli Angeli, che non sarebbero corsi a salvarla.

Come se quel pensiero avesse fatto da interruttore all’inizio della battaglia, dall’esterno cominciarono a levarsi voci che gridavano nella lingua che non conosceva ma che tutti parlavano, seguite dal rumore di passi veloci, di lupi che ululano, di ordini urlati con decisione.

“Che sta succedendo?” scattò, con l’improvvisa voglia di avere un qualche potere che le schiudesse il mondo al di là della tenda.

Un suono particolare attirò la sua attenzione; lo riconosceva: era quello di una freccia che fende l’aria. Non ebbe il tempo di rendersi conto di quanto fosse vicino l’oggetto in questione che lo sentì incunearsi il legno del suo palo.

Ann cacciò un urlo ed istintivamente tentò di ribellarsi alle funi che la imprigionavano, ma a niente valsero i suoi sforzi e il suo dolore; alzò gli occhi ed intravide nel buio il dardo, a meno di un metro dalla sua testa, affondato nel legno.

Le urla esterne, che fino a quel momento avevano somigliato tanto a quelle di soldati che si preparano alla guerra, divennero allora urla di dolore, accompagnate da lamenti e pianti. La villica cominciò a sentirsi seriamente impaurita e riprese a cercare di slegarsi, ma ancora una volta fu avvinta dalla forza di quella morsa opprimente.

Maledì a denti stretti le funi, mentre una goccia di sudore freddo le attraversava la pelle d’oca.

Tra i tanti rumori che le giungevano dal resto dell’accampamento, quello di passi sempre più vicini la avvisò che stava arrivando qualcuno; non ebbe alcuna reazione, se non quella di irrigidire spontaneamente tutti i muscoli del corpo.

Uno dei lembi della tenda venne alzato e fece il suo rocambolesco ingresso un Joshua dall’espressione nervosa ed agitata.

«I tuoi amici ci hanno attaccati!» esclamò, la voce ridotta quasi a un ringhio.

Annlisette non seppe se la sua espressione in quel momento stesse trasmettendo terrore o sollievo: gli Angeli erano davvero lì, ciò significava che Nathan sarebbe presto giunto a salvarla! D’altra parte, però, né il viso furibondo di Joshua né i modi come al solito violenti degli Angeli lasciavano presagire il meglio.

Il ragazzo la raggiunse in poche falcate – Ann ebbe l’impressione che si muovesse con una velocità quasi disumana -, si mise in ginocchio e, dopo aver estratto da una tasca dei pantaloni un pugnale smussato tranciò di netto le corde.

La ragazza ebbe l’impressione di essersi tolta dalle spalle un peso terribile, ma non ebbe neanche il tempo di tirare un sospiro di sollievo; venne afferrata per un polso e costretta in piedi.

«Forza, dobbiamo allontanarci! Ti porto via di qui, è troppo pericoloso.» spiegò il giovane uomo frettolosamente: evidentemente non c’era davvero tempo da perdere.

Qualcosa nella sua voce fece capire ad Annlisette che non lo stava facendo perché glielo avevano ordinato – o meglio, non solo perché glielo avevano ordinato -, sembrava piuttosto seriamente preoccupato per lei; persino il modo di tenerla stretta sembrava a suo modo gentile.

Joshua ebbe un’ultima premura: infilò una mano nella tasca dei pantaloni e ne estrasse una strana collana che porse ad Ann «Ecco, indossa questa.»

Lei la prese titubante: si trattava di una cordicella con un pendolo di legno a forma di croce. La osservò per diversi attimi, chiedendosi se non fosse una sorta di inganno da parte del popolo del suono: quale cristiano avrebbe mai pensato che una croce potesse celare un qualche incantesimo pericoloso? Tuttavia, non le fu concesso di replicare; un torvo sguardo dell’uomo la convinse ad indossare il pendaglio e seguirlo fuori.

Dopo aver oltrepassato l’ingresso della tenda si ritrovarono immediatamente in mezzo all’inferno, e la villica non poté fare a meno di sbarrare gli occhi, la sua mente si rifiutava di riflettere. Non riuscì più a muovere un passo né a rivolgere lo sguardo a qualcosa che non fosse quella orribile scena che si prospettava loro davanti. Lasciò che fosse Joshua stesso a condurla, dopotutto era ormai chiaro quanto lei fosse troppo sconvolta per agire senza essere guidata.

Ovunque si voltava vedeva solo due cose: sofferenza e distruzione.

L’accampamento era stato attaccato a tradimento: grandi quantità frecce continuavano a saettare fendendo violentemente l’aria, e ad ogni nuovo dardo scoccato un urlo si alzava. Non conosceva nessuna di quelle persone se non di vista, ma il vederli ridotti così, riversi a terra, chi ferito, chi morto, chi ancora vivo ed impegnato nel soccorrere i feriti, le provocava uno strazio interiore che la faceva sudare freddo e tremare.

Quella era la guerra? Come potevano Angeli e Demoni, ma anche gli umani stessi, essere così spregevoli da volerla? Chi sarebbe rimasto a piangere i deceduti se gli Angeli avessero continuato la strage? Lei era salva e con lei Hidel, non era questo che gli Angeli volevano? Bisognava fermarsi!

«Fermi… fermi…» balbettò senza voce, senza che nessuno le rispondesse.

Gli unici suoni che continuavano ad accompagnare la sua fuga erano le urla di dolore dei lesi e quelle di rabbia di chi tentava di rispondere agli attacchi nemici, il terribile sibilo delle frecce e, questo più basso e non udibile ad Ann, lo scorrere del sangue, che sgorgava dalle ferite e colorava il terreno.

La ragazza si costrinse a distogliere lo sguardo, troppo afflitta persino per maledire la propria debolezza, ma nel farlo si accorse di una serie di strane ombre che incombevano un po’ ovunque.

Sollevò il capo, ed il sangue le si gelò nelle vene, il cuore mancò un battito, il fiato le morì in gola, gli occhi si spalancarono come se stessero cercando di vedere al di là di un’illusione.

Aveva appena visto la cosa più scioccante della sua esistenza, e non aveva parole per descriverla.

Al di sopra delle loro teste, a circa dieci metri o forse più, c’erano degli uomini. Alati. E stavano volando. 

 

«Dio onnipotente…»

Ann non seppe dire per quanto tempo rimase a bocca aperta e la mente fuori controllo. Semplicemente non riusciva a staccare gli occhi da quella visione, era come incanta: uomini volanti. Quelli erano gli Angeli, non c’era alcun dubbio.

Le venne immediatamente in mente quando aveva esposto a Nathan la sua idea di “Angelo”; lui aveva riso garbatamente, assicurandole di non essere uno di quegli Angeli con le ali e le aureole. La soluzione, tuttavia, era per una volta alla sua portata, e si disse che forse, come egli poteva avvertire le altrui emozioni, c’era anche chi aveva acquisito un bel paio di ali dopo essere diventato un Angelo - anche se, a guardarle bene, quelle ali così spigolose, nere e a tratti taglienti erano ben lontane dalle sottili e piumate tipiche dei racconti.

Gli alati piombarono sull’accampamento con la violenza del mare in tempesta non appena si fu fermata la pioggia di dardi, e diedero inizio ad un vero e proprio rastrellamento. Fu come se uno stormo di colombe si trasformasse in uno di avvoltoi.

Il popolo del  suono, forte della sua bruta potenza fisica, rispose con la voracità della fiamma che divora senza pietà il legno, e così ebbe inizio lo scontro corpo a corpo. C’era chi combatteva con spade, chi con pistole, chi con lance, pugnali o semplicemente le proprie mani: l’importante era difendersi e ferire il prossimo.

In quel caos di corpi che si scontravano, che cadevano e venivano dilaniati, Ann si sentì più vicina alla morte persino di quando quell’uomo misterioso aveva provato a ucciderla nel labirinto di casa Stevenson.

Gli Angeli erano meno forti, ma più agili e veloci, e sfruttavano queste loro capacità per sfidare la forza di gravità ed eseguire mirabolanti acrobazie che un essere umano normale non avrebbe mai potuto fare; a loro volta, il popolo del suono sembrava una forza della natura inarrestabile, e più di una volta la ragazza vide un membro della tribù azzannare un Angelo con talmente tanta violenza da staccargli un arto.

In quei momenti lei distoglieva lo sguardo, ma dovunque lo andasse a posare lo scenario si ripeteva, indelebilmente. Quelle visioni di morte, di corpi che stramazzavano al suolo, il rumore delle armi che si scontravano e delle grida di guerra, l’ira ed il desiderio di uccidere che ardevano negli occhi dei combattenti dell’una e dell’altra parte, fecero sì che Ann si chiedesse perché si uccidevano a vicenda quando invece erano così simili: gli uni soffrivano come gli altri; gli uni, come gli altri, desideravano sopravvivere; gli uni bramavano la morte degli altri. 

Altri ordini vennero urlati, ma la ragazza non ebbe il tempo di assistere anche all’assalto delle ultime truppe angeliche, poiché Joshua l’aveva già trascinata via con la forza dal campo di battaglia, sul quale entravano in quel momento schiere di lupi dall’aspetto decisamente poco normale. Erano molto più grossi del normale, altissimi e dal pelo molto lungo – il colore cambiava a secondo dell’esemplare -, gli occhi avevano quasi un che di umano, ma al contempo ardevano disumanamente di voglia di uccidere.

Quella fu l’ultima cosa che vide prima di varcare il confine della foresta, con un Joshua invaso dalla fretta.

«Dove mi stai portando?» chiese lei, quando si fu ripresa abbastanza da ragionare con logica.

«A prendere quella maledetta arma!» urlò il ragazzo, che stava visibilmente trattenendo le lacrime «Il mio popolo sta morendo, devo fare qualcosa!»

Incredibilmente, Joshua non sembrava parlare con smania di vendetta, ma con premura verso le persone che amava e che voleva proteggere. Questo fece pensare ad Annlisette che forse c’era ancora qualcuno lì in mezzo che non odiava per principio.

Si inoltrarono nel folto della foresta, dove la neve costituiva un uniforme tappeto bianco nel quale, passo dopo passo, affondavano fino alle caviglie; fiocchi bianchi cadevano dal cielo senza velocità, pigri, insensibili a ciò che stava accadendo, imbiancando la vegetazione. Ora che il buio era calato, era abbastanza difficile distinguere le sagome dei rami prima di sbattervi contro.

Ann aveva molto freddo, indossava solamente il suo vestito – sempre lo stesso da quando l’avevano rapita – e nessuno si era curato di darle un mantello, un pastrano, uno straccio, batteva i denti ed osservava rapita le nuvolette di vapore che scandivano il ritmo dei suoi respiri. Aveva la mano sinistra stretta a pugno e premuta contro la stoffa spessa del vestito, nel vano tentativo di riscaldarla, mentre l’altra era guidata da Joshua.

Si costringeva a non pensare e a lasciarsi guidare, poiché sapeva che se avesse aperto la porta dei suoi pensieri delle scene terrificanti l’avrebbero aggredita: i volti dei villici di Hidel che andavano incontro a chissà quale destino, i ricordi dell’appena vissuta battaglia, di quella povera gente che moriva per una stupida causa, ma soprattutto il sospetto che il suo Nathan potesse trovarsi lì, in quel momento, in quel cimitero di distruzione. Non voleva pensarci, non sapeva cosa fare. Si sentiva talmente piccola, impotente e smarrita da non avere neanche la forza di arrabbiarsi, cosa che solitamente avrebbe fatto: voleva solo rintanarsi e piangere, dar sfogo al peso che le faceva dolere il cuore.

Si sentì tirare, arrancò e cadde per terra.

Inizialmente credette che la gonna si fosse impigliata in qualche arbusto, ma quando si rese conto che la pressione sul polso sinistro era una mano che la stringeva, si dovette trattenere dal cacciare un urlo. Per il semplice motivo che lì non c’era nessuno oltre lei e Joshua, e anche perché ormai poteva dire con certezza di non avere più piena sicurezza che i fantasmi non esistessero.

Più volte si guardò intorno senza scorgere nulla attraverso l’oscurità, cedette al panico e si ritrasse, riuscendo finalmente a liberarsi dalla morsa di Joshua.

Il ragazzo le lanciò un’occhiata incurante, poi urlò «Uscite fuori!» evidentemente si era accorto anche lui dell’accaduto.

Un alito gelido si avvicinò all’orecchio di Ann, ma quest’ultima non ebbe il tempo di mettersi a urlare o far altro che udì una vocina a lei conosciuta.

«Niente paura, mademoiselle! Sono qui per salvarvi!»

Era Georgiana, senza dubbio.

La sua voce le era giunta flebile e bassa, attutita forse dalle grida della battaglia che impazzava poco lontano, ed ebbe il potere di ridonarle la speranza: Georgiana era lì, invisibile forse, ma era lì. E se c’era lei c’era anche Nathan.

La piccola mano che l’aveva tirata poco prima si posò ancora una volta sulla sua con la stessa leggerezza di un velo di ghiaccio: stava cercando di farle capire che doveva mettersi in piedi. La villica eseguì quel silenzioso ordine, lo sguardo blu che vagava su Joshua ancora sospettoso ed irritato, concentrato sullo scrutare le tenebre intorno a loro alla ricerca del nemico o delle sue impronte nella neve – queste, stranamente, non c’erano. Fiutava l’aria di tanto in tanto, come un lupo.

La mano invisibile si strinse ancora attorno a quella dell’umana; era incredibilmente minuta, come quella di una bambola. Ann si rimise in piedi con circospezione.

Il giovane uomo ispirò profondamente, poi il suo viso si trasformò in una maschera di irritazione, quasi trasfigurandosi orribilmente: la fronte corrucciata, gli occhi sottili e venati di furia cieca, soffiò un paio di volte in direzione di Ann.

La ragazza si sentì tremare ed indietreggiò, facendo attenzione a non commettere qualche passo falso che la facesse cadere. Cadere in quel momento era la peggiore delle cose che poteva fare.

«Esci fuori…» ringhiò il bruno, gli occhi fissi su un punto alle spalle della villica.

Lei sentì le dita di Georgiana scosse da un tremolio. Doveva fare qualcosa, o prestissimo Joshua avrebbe individuato con precisione la ragazza e le avrebbe fatto del male.

Sfoderò un sorriso arcuato, quasi a schernirlo «Sono qui, Joshua. Non te ne verrai fuori dicendo che qualcuno di quegli uomini alati è seduto in agguato su di un ramo?»

L’effetto però non fu quello desiderato; il ragazzo le si scagliò contro, la afferrò per una spalla e le diede uno strattone, facendole perdere l’equilibrio e cadere rovinosamente, in ginocchio. La sensazione della mano fredda di Georgiana venne sostituita da quella della neve che le si insinuava tra le dita, e nel rialzare gli occhi poté vedere una finalmente visibile lady Varens, tenuta fermamente per la testa dal ragazzo.

«Lasciala!» la fronte di Ann si corrugò in un’espressione agitata, la sua voce, quando parlò, era molto arrabbiata. Come una furia, si slanciò contro le gambe di lui ed impresse tutta la sua forza in una spinta che avrebbe dovuto farlo cadere, almeno così era nelle sue intenzioni.

Contemporaneamente, la francese cominciò a sferrare calci alla rinfusa, colpendo involontariamente l’altra ragazza alle braccia diverse volte. Nonostante gli sforzi di entrambe, Joshua sembrava davvero troppo possente per essere sconfitto così facilmente.

Poi, all’improvviso, un suono di arbusti che si muovono, passi veloci nella neve, una spada estratta dal fodero… e la battaglia ebbe inizio.

Georgiana venne liberata e cadde a terra, scossa da forti tremiti e con gli occhi pieni di lacrime; Ann venne colpita dalle gambe dell’uomo e decise di allontanarsi, raggiungendo dunque la ragazzina ferita, che abbracciò con fare protettivo.

Nel voltarsi indietro, vide con sommo sollievo che i rumori di poco prima erano il presagio dell’arrivo di Nathan, che ora stava combattendo contro Joshua; quest’ultimo aveva estratto dalla bisaccia un coltellaccio di quelli che molto spesso aveva visto in mano agli uomini del popolo del suono. Pervasa dalla speranza, Annlisette pensò tra sé e sé che quello straniero non le era mai sembrato affascinante come in quel momento, avvolto nel suo lungo mantello nero e con in mano la spada che usava per proteggere lei. Il suo desiderio si era avverato: Nathan era arrivato per salvarla, gli Angeli avrebbero protetto Hidel e sarebbe finito tutto per il meglio.

Voleva crederlo.

«Toglietela…»

La vocina della francese richiamò l’attenzione di Annlisette. Tornò ad accertarsi delle sue condizioni, e la trovò molto spaventata, con la fronte aggrottata, gli occhi debolmente illuminati e gonfi; le indicò la collana che portava al collo.

«Dovete toglierla…» ripeté, affaticata «Subito!»

In preda all’ansia, Ann non se lo fece ripetere due volte. Pensò immediatamente che quella collana fosse stata sin da subito una trappola di Joshua, che probabilmente conteneva uno dei loro strani incantesimi che non si sarebbe mai abituata a vedere. Ne afferrò la croce di legno che faceva da pendolo e a sollevò, sfilandosela.

Il ragazzo del popolo del suono dovette assistere alla scena con la coda dell’occhio, per cui esclamò «Non farlo!»

Ma la sua voce venne sovrastata da quella di Nathan, che urlò «Scappate!»

Georgiana, ancora molto impaurita, annuì e, lesta, agguantò la mano di Ann e la costrinse a rimettersi in piedi.

Mentre si davano alla fuga, la mora dapprima si curò di conservare l’oggetto dentro la tasca dell’abito, per poi lanciare un ultimo sguardo ai due combattenti; aveva l’orribile impressione che uno di loro non sarebbe sopravvissuto a quell’ultimo scontro.

 

Lo ammetteva, era arrivato in “leggero” ritardo.

Aveva dovuto affrontare qualche piccolo imprevisto sulla strada, subito dopo aver perso di vista Georgiana – se di vista si può parlare, dato che ella era rimasta invisibile per tutta la durata del percorso -, dunque aveva dovuto faticare un bel po’ prima di ritrovarla, e con lei aveva ritrovato non solo Ann, ma anche Joshua.

Nathan era convinto che retata migliore di quella non fosse possibile.

Lanciato un ultimo sguardo in direzione delle due fuggiasche, con la speranza che trovassero un posto abbastanza sicuro per nascondersi sia dai Demoni che dagli Angeli, tornò a rivolgere tutta la sua attenzione verso Joshua, con sguardo sprezzante: eccolo lì, il suo nemico preferito.

Da molto tempo non avevano più avuto occasione di ritrovarsi faccia a faccia; quell’antipatia istintivamente scattata la prima volta che si erano incontrati per la prima volta sembrò tornare ad ardere con tutta la sua potenza nel petto di entrambi.

Ora che non c’era nessuno a tediarlo ed influenzarlo con stupide emozioni buoniste, Nathan doveva ammetterlo, si sentiva pienamente rinato.

Scoccò così un’espressione di sfida a Joshua, lo provocò «Su, fatti avanti, ragazzo. È quello che aspettavi da tempo, no?»

L’altro digrignò i denti, come se stesse pensando di azzannare il nemico, e in breve gli fu addosso. Dapprima combatterono coi modi di Nathan, ovvero l’uno con la spada e l’altro col coltellaccio; l’Angelo sembrava decisamente più padrone della situazione: parava, schivava e affondava con una precisione aliena all’irruento Demone. Quest’ultimo sembrava inoltre star cedendo progressivamente all’ira dovuta alla serie di insuccessi, dunque i suoi attacchi si fecero via via più violenti ed improvvisati, atti non a mettere in trappola il biondo, ma a ferirlo gravemente. Nathan fu costretto ad indietreggiare di qualche passo, con i piedi che affondavano fino alle caviglie nella neve. Quando trovava uno spiraglio nella scarsa difesa dell’avversario, eccolo però ributtarsi all’attacco e costringere Joshua ad indietreggiare.

Quest’ultimo affondò con la propria arma, ma l’Angelo si spostò di lato a grande velocità, per poi ripartire veloce; ripartì poi all’attacco, ma Joshua riuscì a parare all’ultimo momento. Ricominciò un altro scambio di assalti.

Se il bruno attaccava facendo della forza bruta la sua carta vincente, il biondo giocava soprattutto di polso, descrivendo con la punta della Selescinder una rotta lineare e calcolata, di chi ha tutto sotto controllo. Si scambiarono a lungo colpi taglienti, e quando Joshua, con le braccia ricoperte di tagli e lo sguardo venato d’ira tenuta a stento sotto controllo, si allontanò definitivamente, senza dare però le spalle a Nathan, questi rise in modo cattivo.

«Devi impegnarti di più.» lo schernì, consapevole che a breve sarebbe stato lui quello in difficoltà se Joshua avesse deciso di passare alle mani.

Scelse dunque di non dargli tregua e con un balzo agile superò la distanza che li divideva, si rilanciò all’attacco, marcando strettamente il giovane. Le due lame ricominciarono ad incontrarsi, con violenza sempre maggiore, e sotto uno dei colpi Nathan sentì il braccio tremargli a causa della forza impressa da Joshua.

La sua strategia stava nello stancare il suo avversario finché combattevano ad armi pari, così che fosse indebolito quando, immancabilmente come ogni Demone, avrebbe abbandonato il suo coltellaccio in favore del combattimento corpo a corpo. E sembrava che stesse funzionando.

Uno spiraglio più visibile nella difesa del Demone gli costò l’ennesima offensiva di Nathan, che riuscì a trapassargli la spalla destra.

Il ragazzo emise un mugolio e strizzò gli occhi, accasciandosi per terra.

L’Angelo a quel punto ritirò la spada, provocandogli ulteriore dolore.

Ora Joshua era a terra, la mano sinistra premuta sulla spalla lesionata, già perdente una copiosa quantità di sangue, che scendeva a fiotti lungo la schiena ed il petto, coperti dal pesante giaccone un tempo marrone, adesso marrone a strisce rosse. Il volto era una maschera di dolore, che però conteneva stoicamente; respirava a fatica, evidentemente stava cercando di riprendersi dal colpo per ripartire all’attacco.

Nathan però non ne aveva alcuna pietà, e l’osservava con occhi inespressivi, quasi stesse vedendo una statua priva di emozioni al posto del Demone. Eppure i suoi sentimenti lo toccavano, certo, lo attanagliavano: paura, rabbia, amarezza per non essere riuscito a proteggere il suo popolo e portare a termine il suo compito. Joshua si sentiva deluso da se stesso e in pena per le persone che amava e che stavano combattendo disperatamente all’accampamento; sapeva che la gran parte di loro sarebbe stata soppressa, e ciò lo schiacciava fino a fargli gemere il cuore.

Nathan trovava tutta quell’umanità assolutamente disgustosa.

«Smettila di tediarmi…» sussurrò assottigliando gli occhi, quasi in un ringhio.

In significato della parola “tedio” non era chiaro a Joshua, che dapprima sollevò gli occhi con sguardo interrogativo, ma che subito dopo tornò alla sua consueta espressione irata; strinse i pugni, sentendo la neve infiltrarsi tra le dita, delle quali aveva però già perso la sensibilità da qualche minuto. Tutto il calore presente nel suo corpo sembrava confluire nella ferita, che ancora non accennava a smettere di sanguinare.

La situazione attorno a loro sembrava essersi congelata. In lontananza si potevano ancora udire i rumori della battaglia, che procedeva inarrestabile e molto probabilmente ancora in favore degli Angeli; il cielo veniva solcato con discontinuità da fitte reti di fulmini, ma i rombi dei loro tuoni non arrivavano alle orecchie dei due contendenti, troppo presi dal nuovo e diverso genere di battaglia che avevano appena intrapreso: quella fatta di sguardi.

Negli occhi verdi di Joshua si specchiavano quelli celesti di Nathan, ma sarebbe davvero difficile definire chi dei due in quel momento sembrava il vero “cattivo”, se si può parlare in maniera assoluta: da un lato un uomo ferito, che non chiede pietà, forte del suo orgoglio, e che guarda in faccia la morte con disprezzo; dall’altro lato un uomo apparentemente senza valori morali, incarnazione di un giudizio superiore che non conosce misericordia, con in mano una spada che avrebbe dovuto simboleggiare la giustizia.

L’Angelo alzò l’arma, la cui lama non rifletté però alcuna mistica luce, e come un boia cala la scure sul condannato, lui fece per calare la sua arma sul bruno.

Ma una gamba cedette, e si ritrovò per terra.

Selescinder gli sfuggì di mano, andando a cadere con un suono sordo sulla neve, poco distante da lui. Nathan aveva gli occhi sbarrati e l’espressione stupita, corse con la mano immediatamente alla gamba traditrice… non la sentiva più. In compenso sentiva una risatina sommessa e un po’ gutturale, e non era difficile immaginare quanto Joshua si stesse godendo la scena.

Alzò gli occhi, aggrottati e quasi spiritati, sull’altro, che in quel momento estraeva da una tasca della giacca una piccola, insidiosa fialetta con un ago su una delle sommità.

«Fregato da un trucco banale!» sogghignò il bruno, e senza dargli il tempo di replicare passò a ciò che Nathan aveva in tutti i modi cercato di evitare: il duello basato sulla forza bruta.

Gli afferrò una spalla con una vigorosità tale da impedirgli ogni movimento e lo sbatté di lato, disteso su di un fianco; gli salì poi addosso, con le ginocchia affondate nella neve ed una mano intenta a bloccare ancora ogni movimento dell’Angelo.

Rabbiosamente, gli sferrò un pugno così potente da procurargli un lungo taglio che attraversava la guancia destra.

Il tedesco provò più volte a difendersi o a reagire, tuttavia aveva un braccio bloccato ed un ginocchio del Demone piantato nella mano, e come se non bastasse la testa cominciò a dolergli violentemente dopo il colpo ricevuto.

Nel subirlo si era voltato, scoprendo che la Selescinder non era troppo lontana, e che se fosse riuscito ad avere almeno il braccio libero avrebbe potuto afferrarla; si sforzò di pensare a qualcosa, ma un nuovo cazzotto lo distolse dall’obiettivo.

Si sentì percorrere così tante volte che si chiese se quel giorno sarebbe tornato a casa coperto di ematomi. Pensiero stupido: lui non poteva avere ematomi.

Non seppe per quanto tempo andò avanti così; sentiva la terrificante forza del ragazzo infliggerglisi addosso instancabile, senza nemmeno concedergli un sospiro, e la gamba addormentata finì col diventare il minore dei suoi problemi.

L’ultimo dritto lo sentì conficcarsi nella gabbia toracica, accompagnato dal respiro affannato del ragazzo - evidentemente usare tutta quell’energia riusciva a sfiancare anche uno come lui. Nathan invece non emise neanche un sibilo: non intendeva dargli la soddisfazione di sentirlo lamentarsi per il dolore. Riuscì finalmente a socchiudere gli occhi e rivolgergli un’occhiata carica di risentimento, un’implicita promessa di vendetta.

«Che c’è?» gli si rivolse il Demone, che stava ancora riprendendo fiato «Dove sono ora le tue parole cattive, bastardo?»

“Nello stesso posto in cui tu hai lasciato un uso più maturo della lingua inglese, selvaggio.”

Così avrebbe voluto rispondere Nathan, velenoso come non mai, ma preferì dare il meglio di sé attraverso un gelido sorriso, accompagnato da poche parole mozzate dal dolore «Le ho lasciate a casa tua» disse, non senza fatica «Dove i miei colleghi staranno sterminando la tua famiglia…»

Quella frase sortì l’effetto sperato; il fiato del bruno si fece più basso e silenzioso, dal volto scomparve l’espressione cattiva che aveva poco prima, lasciando posto alla sorpresa, poi alla preoccupazione allo stato puro.

E riecco, Nathan si sentì avvolgere ed invadere nuovamente da quei sentimenti umani che reputava odiosi; non volle tuttavia fermarsi, poiché era certo che fosse quella la sua carta vincente.

«E tu, che avevi il semplicissimo compito di portare via l’ostaggio, te ne stai qui a riempirmi di botte invece di rimediare al tuo fallimento!» rise, sinceramente divertito, anche sembrava un po’ ridicolo con quel lungo rivolo di sangue che gli calava dalla bocca «Davvero patetico!»

«Sta’ zitto!» gli fu ordinato, la voce del Demone tornava a somigliare ad un ringhio, mentre le mani correvano incaute al colletto del mantello dell’Angelo, sollevandolo ed avvicinandolo a sé, a pochissima distanza, quasi si stesse preparando per addentargli la testa.

«Resta in silenzio anche tu.» continuò a sorridere il biondo; avvicinò la mano destra al proprio orecchio, mentre la sinistra, silenziosa, correva e si poggiava sulla lama di Selescinder, essendo l’elsa troppo lontana.

Il viso di Joshua si contrasse per la rabbia, digrignò i denti, desiderando far sparire dal volto dell’altro quel sorriso che sembrava prenderlo in giro.

«Shh… Ascolta…» sibilò ancora Nathan, ed ebbe finalmente l’attenzione ed il silenzio del ragazzo del popolo del suono.

Ogni rumore prodotto dai due venne interrotto, ogni movimento bloccato; le orecchie impiegarono diversi attimi per abituarsi alla profonda assenza di suoni della foresta, ma quasi subito giunsero chiari in tutta la loro crudezza le urla ed i rumori della battaglia, provenienti dall’accampamento alle loro spalle. Entrambi non poterono fare a meno di correre con l’immaginazione alle scene più terribili: soldati che cadevano, uomini costretti a macchiarsi dei crimini più insopportabili pur di sopravvivere, famiglie distrutte, bambini coi visi rigati di lacrime, assenza di pietà per chiunque, ferito, malato, giovane o vecchio.

I muscoli di Joshua si irrigidirono, il suo sguardo si fece per un attimo assente. Era terrorizzato da quella situazione, si sentiva stupido ed inutile mentre perdeva tempo con quell’uomo piuttosto che tornare indietro a morire per proteggere il suo popolo.

Al calcolatore Nathan ciò non sfuggì, e non si fece scappare quell’occasione a lungo desiderata. In un solo movimento serrò la stretta attorno al filo della Selescinder, sentendo la pelle tagliarsi per il contatto con la lama, la sollevò, aprendo poi piano la mano in modo da farla scivolare fino a quando non capì di essere vicino all’elsa, e, sollevatola in un gesto lestissimo, la abbatté rudemente contro schiena dell’avversario, sulla parte sinistra, dove vi era il cuore.

Il ragazzo si contrasse e cercò di divincolarsi, ma Nathan non ebbe nessun momento di esitazione e calcò ancora di più, con più rabbia, imprimendoci tutta la sua forza.

Contemporaneamente, Joshua corse alla sua testa e vi avvolse attorno le mani, abbattendola brutalmente contro il terreno.

L’Angelo si accorse di star tremando, tanta era la pressione a cui era sottoposto, ma appena vide l’espressione di gelida paura che sembrava immortalata sul viso del bruno, si convinse ad affondare ancora di più Selescinder.

Pensò di essere veramente vicino alla morte ogni volta che una delle mani di Joshua lo tirava su e lo riabbatteva ancora contro terra, con il chiarissimo intento di fargli a pezzi la testa. Nel panico generale, il ragazzo del popolo del suono non sembrava nemmeno prendere in considerazione l’idea di storcere il braccio con cui l’avversario teneva l’arma, forse perché convinto che l’Angelo, già stremato dal pestaggio, avrebbe presto mollato, o forse perché aveva capito di non avere scampo e voleva dargli il colpo di grazia, con l’intenzione di portarselo all’Inferno.

Joshua riuscì a colpirlo altre tre volte, con intensità sempre minore, prima di cedere al forte tremolio che lo scuoteva ed accasciarsi, scivolando lentamente per terra, con la Selescinder ancora affondata nella schiena.

Nathan, dopo diversi minuti di smarrimento, riuscì a riaversi e come prima cosa cercò gli occhi del nemico; questi erano vacui, socchiusi, appannati, come se ormai non vedessero più niente. Il ragazzo del popolo del suono respirava a fatica e sommessamente, le vesti erano attraversate da rivoli di sangue che andavano a dare un nuovo colore alla neve.

Nella calma della foresta, anche il suo respiro si spense poco dopo; forse aveva finalmente trovato la pace, assieme alla sua gente.

 

Nathan rimase diverso tempo immobile, cercando semplicemente di recuperare le forze; si sentiva a dir poco distrutto, come se una diligenza gli fosse passata addosso per un’ora senza fermarsi.

Si rendeva conto di non poter raggiungere Ann in quello stato, ed il pensiero che lei fosse con Georgiana non lo rendeva certo più tranquillo, perciò decise di sostare ancora pochi minuti, quanti ne bastavano per riavere coscienza di sé, recuperare Selescinder e rimettersi in marcia.

Quella che aveva appena vinto era stata una sfida ardua, contro uno degli uomini che solitamente quelli come lui sarebbero riusciti a sconfiggere con molte, molte difficoltà. Era fiero di essere sopravvissuto ed aver terminato il suo nemico, rispettando così gli ordini che gli erano stati dati e portando a termine la sua missione; quel cadavere che gli giaceva affianco, bianco e freddo, non avrebbe smosso il suo animo insensibile, giammai.

Sorrise senza allegria, pensando che forse era vero che a furia di sentire le emozioni altrui aveva smesso di sentire le proprie.

“Tanto meglio.” rincarò la dose “Sono già abbastanza odiose quelle degli altri.”

In quel momento, l’assoluta assenza di suoni ed emozioni era come un balsamo.

Inspirò profondamente, non tanto per il gesto in sé quanto per sentire l’aria gelida invadergli i polmoni e svegliarlo dallo stato di intorpidimento in cui era calato. Sapeva di non aver ancora recuperato neanche un quarto delle energie con cui era partito quella sera, ma non aveva altra scelta che rimettersi in piedi e tornare a combattere per gran finale di quella battaglia.

Face dunque forza sui muscoli delle gambe per rimettersi in piedi - finalmente l’altra gamba aveva ricominciato a muoversi più o meno rigidamente -, con il corpo che si lamentava ed implorava qualche altro minuto di tregua. Un capogiro lo costrinse a portare una mano alla tempia e chiudere gli occhi, ma questo lo abbandonò dopo poco.

Infine si guardò intorno e, constatato che non c’era nessuno, lanciò un ultimo, penetrante e gelido sguardo in direzione del cadavere del suo rivale, afferrò la Selescinder per l’elsa con mano ferma e la estrasse bruscamente; la lama, ora rossa di sangue, gli era sembrata così minacciosa in poche altre occasioni da quando l’aveva impugnata per la prima volta.

«Cogli il lato positivo.» la sua voce si espanse in un sibilo, come un soffio di vento gelido «Nessuno piangerà la vostra morte.»

Così, lasciandosi alle spalle quel terribile spettacolo ed un accampamento ancora immerso nella lotta, dal quale provenivano sempre meno urla, cominciò a trascinarsi nella direzione verso cui si erano allontanate poco prima Ann e Georgiana, usando la spada come bastone nei momenti in cui la gamba sembrava essere sul punto di cedere.

 

Mentre la battaglia tra Joshua e Nathan si consumava violenta, Ann e Georgiana si davano da fare per allontanarsi da quella zona pericolosa. La francese procedeva velocemente, tenendo stretta la mano dell’inglese; quest’ultima, tuttavia, diverse volte si voltò indietro, nella speranza di intravedere un sano e salvo Nathan sbucare dal folto della foresta.

Si augurava che a Joshua non fosse destinata sorte diversa: non gli voleva male, non dopo quello che aveva visto poco prima, quando era stato palese il genuino desiderio del ragazzo di proteggere la sua gente dai nemici.  

Passo dopo passo, avvertiva il fiato cominciare a mancarle per la stenuante corsa e si vedeva costretta a rallentare, per poi essere immediatamente sollecitata da Georgiana a muoversi più rapida di prima. Si chiedeva come mai ella sembrasse così insofferente alla fatica della corsa, le sembrava strano, quasi preoccupante…

Ben presto ogni suono riconducibile alla battaglia venne soppresso dalla cupa quiete della foresta, e l’unico rumore udibile si ridusse al pesante respiro di Ann, al raro rimbombare dei tuoni e all’affondare nella neve delle due ad ogni nuovo passo. Le loro impronte lasciavano un marchio indelebile del loro passaggio.

«Georgiana…» chiamò finalmente l’inglese, con il respiro mozzato dalla fatica «Non ce la faccio più…»

La indusse così a rallentare fino a fermarsi, e non appena si arrestarono Ann sentì i muscoli delle gambe dolerle ed il cuore battere così freneticamente che sembrava volerle spaccare il petto. Per diversi minuti non fu in grado di parlare, troppo impegnata a riprendere fiato e forze, ma anche a cercare di resistere alla stanchezza che le provocava una stranissima sensazione di caldo sulla pelle ma gelo nelle ossa. Non avrebbe saputo cosa rispondere se in quel momento le avessero chiesto se aveva caldo o freddo, insomma.

Si appoggiò con le spalle contro la corteccia di un albero dai rami particolarmente nodosi, e quando finalmente il cuore ricominciò a battere regolarmente e la voce sembrò essere tornata, si rivolse a Georgiana sottovoce.

«Dove stiamo andando?»

La bruna non le aveva rivolto nemmeno uno sguardo fino a quel momento; con le mani strette al petto continuava a guardarsi ansiosamente intorno, come cercando qualcosa o qualcuno. Sul viso troneggiava un’espressione di preoccupazione, quasi paura.

Quel comportamento sembrava ad Annlisette immotivato ed allarmante.

«Georgiana!» la chiamò con più veemenza, e ottenne la sua attenzione.

«Ah!» esclamò la giovane, come se si fosse appena risvegliata da una trance; mosse dei passi verso Ann, rimanendo però a distanza da lei di un metro «Mademoiselle… ecco…»

Arrancò un paio di volte, nel tentativo di spiegare qualcosa che non sembrava avere alcuna intenzione di uscirle dalla bocca. Ann cominciò a guardare a lei con sospetto e serietà, poiché di atteggiamenti strani ne aveva visti molti addosso agli Angeli, ma quello in particolare non sembrava lasciar presagire niente di buono; inizialmente pensò che la ragazza volesse spiegarle che si erano perse e probabilmente giravano in tondo da un pezzo – e in effetti sarebbe stato molto facile e comprensibile perdere l’orientamento in quel dedalo; ovunque si guardasse lo stesso scenario si ripresentava immutato: alberi dai rami simili a dita le cui ossa spezzate si intersecavano in orribili deformazioni, bianchissima neve a far da glaciale lenzuolo ad ogni cosa e un cielo completamente buio, percosso violentemente da nubi di bufera e fulmini selvaggi.

Eppure Ann sentiva che non era quello che Georgiana voleva dirle, appunto per questo cominciava a sentire un sottile timore scorrerle addosso ed invaderla. Mosse qualche passo lateralmente, mentre metteva le mani dietro la schiena, col fine di afferrare il primo ramo più alto e forte degli altri per contrastare qualsiasi minaccia improvvisa.

«Mademoiselle…» la chiamò nuovamente la bambina.

Attraverso le tenebre Ann scorse il suo volto, e le parve di trovarsi davanti a una persona completamente nuova: Georgiana appariva quasi mistica, evanescente; aveva lo stesso fascino che assumevano Nathan, Damon e Sogno quando l’oscurità calava su di loro. Il volto pallido e leggermente emaciato, le lunghe chiome castane che ricadevano dolcemente sul corpo di bambola, gli occhi grandi e verdi come le foglie, ma soprattutto la voce: una voce non più di bambina, ma di adulta matura e consapevole, dotata di un qualcosa che la rendeva… attraente.

Ann non poté credere di aver formulato un simile pensiero riguardo una ragazza che sembrava addirittura più piccola di lei, ma a malincuore dovette ammettere che non c’era altro modo per definirla se non quello. Che cosa dava origine a quella pericolosa trasfigurazione?

Si sforzò di sorridere, nonostante fosse nervosa ed irritata «Cos’è quell’espressione seria, Georgiana? Mi sono ripresa, direi che possiamo andare!»

«Questo è il capolinea.» l’affermazione della francese bloccò ogni tentativo di fuga. Georgiana incrociò le braccia al petto, determinata in volto «Non c’è più un posto dove andare.»

«Non dite sciocchezze!» sbottò Ann, stanca di quei comportamenti assolutamente incomprensibili «Devo tornare a Hidel! La mia gente potrebbe essere in pericolo!»

«Non posso lasciarvi tornare a Hidel, Annlisette Nevue. Mi è stato ordinato di non permettervelo.»

In quel momento Ann si rese conto di essere seriamente in pericolo e di poter contare solo su se stessa, almeno finché Nathan non sarebbe arrivato. Era sicura che lui avrebbe trasgredito ad ogni regola se si trattava di lei: stava tutto nel resistere a Georgiana e alle sue ormai ben chiare cattive intenzioni.

Decise di perdere tempo come poteva.

«Oh…» rise allegramente, ma il sudore freddo le imperlava la fronte «Davvero encomiabile, non mi sarei aspettata di meno da un obbediente Angelo!»

La ragazzina mosse qualche passo avanti, arricciò il nasino e fece una smorfia; persino in quell’atto poco gradevole rimaneva comunque una piccola bellezza.

«”Angelo”, tse…» sibilò velenosamente, quasi irritata «Non ho mai sopportato quell’epiteto… Nessuno, tra quelli come noi, dovrebbe considerare un onore essere chiamati così.»

«Davvero? Eviterò di rivolgermi a voi con quella parola, dunque. Ma permettetemi una domanda…» convenne Ann, che di angelico in gente come Nathan, Damon o Georgiana trovava davvero poco «Perché vi fate chiamare così?»

Georgiana scattò, con gli occhi grandi e la voce piccola, come una bambina che accusa i genitori per una immotivata punizione «Perché sono i nostri comandanti a volerlo!»

“Forse a causa delle ali…” provò tra sé e sé la villica, ma dovette ammettere che era una scusa davvero povera per giustificare un soprannome così altisonante. Ad ogni nuovo passo dell’Angelo corrispondeva uno suo in direzione opposta, tanto che ebbe l’impressione che a breve si sarebbero messe a correre – Ann era la preda, ovviamente. Non aveva intenzione di lasciarsi mettere le mani addosso da quella bambina “demoniaca”, e le impronte sulla neve parlavano chiaro sulla loro posizione, Nathan sarebbe giunto presto e l’avrebbe salvata, questo continuava a ripetersi.

Un fulmine si abbatté poco lontano; il suo rombo fu così forte ed improvviso da lasciarla senza fiato e farla tentennare. I suoi occhi si serrarono spontaneamente per un millesimo di secondo a causa della sorpresa, e quando li riaprì… Georgiana era davanti a lei.

Ann lanciò un urlo e si slanciò all’indietro, incespicando fino ad allontanarsi di una decina di passi.

«Sta’ lontana!» esclamò, visibilmente spaventata.

I suoi occhi caddero su un ramo giacente per terra: era molto lungo ed abbastanza robusto per essere usato come arma. Lo afferrò e lo punto contro la francese, ripetendo a denti stretti «Sta’ lontana da me, Georgiana…»

Dimentica di ogni etichetta che le avrebbe imposto di dar del voi alla ragazza, Ann pensava ormai solo a salvarsi la vita.

«Non potete più permettevi di ignorare la verità.» cominciò l’altra, sovrastando la voce di Ann con la sua, ancora impassibile «Avete tutti gli elementi del puzzle, Annlisette, ma continuate a non capire. Io ho intenzione di aiutarvi, sono qui per questo.»

Ann aggrottò la fronte, sicura che quello che Georgiana stava dicendo non corrispondesse a verità; lei aveva a lungo cercato di riunire quel puzzle caotico e complesso, ma mai era riuscita nella sua impresa. I suoi pensieri sembrarono chiari alla francese, che le indirizzò un’occhiata penetrante.

«Due anni fa giunsero nel folto di questa foresta degli esseri denominati “Angeli”. Si insediarono ed iniziarono le trattative con i loro nemici, il popolo del suono, dagli “Angeli” rinominati “Demoni”. Una volta scoperto che i “Demoni” non erano “Demoni”, ma erano il popolo del suono, non vi ha neppure sfiorata l’idea che nemmeno gli “Angeli” fossero davvero “Angeli”?»

Ann tacque, poiché non sapeva realmente cosa rispondere. Le era infondo importato? No, in quel periodo aveva promesso a Nathan che non si sarebbe più intromessa in quella questione spinosa; aveva mantenuto la promessa fino alla morte di Angelica, quando la consapevolezza di non poter più restare a guardare si era manifestata in tutta la sua chiarezza.

«Avete mai visto un Angelo camminare per strada in una bella giornata di sole, milady?»

«No…» sussurrò Annlisette, presa un po’ in contropiede da quella strana domanda «Qui non c’è quasi mai il sole…»

Georgiana assottigliò gli occhi e fece un sorriso arcuato, mentre muoveva un nuovo passo davanti «Appunto. E a Terren?»

«Solo messere Metherlance, per pochi minuti…» ragionò ancora lei, spazientita. A Terren aveva visto pochissime volte il sole; le giornate scorrevano monotone, tutte ugualmente uggiose, soprattutto considerando che erano in piena stagione invernale.

Un ramo non molto vicino cedette al peso della neve che vi si era accumulata sopra, lasciandola capitolare a terra con un tonfo che fece paura alla villica. Lanciò una frettolosa occhiata in direzione del rumore, ma tornò immediatamente a sorvegliare Georgiana, poiché aveva forte paura di un’altra azione improvvisa come quella di poco prima.

La bruna incrociò le braccia al petto, ancora non soddisfatta «Questo perché monsieur Metherlance è un po’ più potente rispetto a persone come monsieur Darkmoon. Ma riflettete meglio, mademoiselle Nevue, e provate a ricordare. Ricordate qualcosa che monsieur Metherlance e mademoiselle Darkmoon hanno provato a farvi dimenticare, così come hanno provato a far dimenticare a me la vostra esistenza. Ricordate l’erreur di monsieur Metherlance…»

Ann sapeva dove Georgiana voleva andare a parare, ma non si spiegava come potesse essere a conoscenza di qualcosa che lei e Nathan avevano cercato di mantenere il più segreto possibile: la notte in cui lei era arrivata a casa Metherlance, la stessa notte in cui era successo qualcosa che lei non riusciva a ricordare. Ricordava solo di essersi lasciata andare al desiderio carnale e di essersi risvegliata frastornata, nuda e senza memoria.

Chinò il capo con gli occhi rivolti verso la neve, si strinse nelle spalle, intimorita ed infreddolita.

Qual era stato l’errore di Nathan?

«L’erreur di monsieur Metherlance fu cedervi, e rivelarvi così tutto ciò che non avreste mai dovuto scoprire.»

Fu come se il mondo attorno ad Ann si illuminasse all’improvviso. Le parole di Georgiana erano riuscite a darle l’input giusto perché i pezzi di puzzle che fino a quel momento erano stati confusionari andassero ciascuno al proprio posto in maniera perfetta, componendo l’immagine finale che per due anni aveva cercato e in cui si era imbattuta per pura fortuna una notte di poco tempo prima. Sbarrò gli occhi ricordando il modo in cui sia lei che Nathan avevano ceduto al desiderio, di come la situazione era sfuggita di mano… e pian piano cominciarono a farsi nitidi anche i dettagli più macabri, più paurosi, che persino lei era stata felice di dimenticare.

Si accorse di stare tremando, e non solo: le lacrime le scendevano dal viso, il cuore le sembrava essere sul punto di addormentarsi per sempre. Sentì farsi strada su di lei non solo il terrore nell’aver realizzato accanto a chi si era schierata e in chi aveva creduto, ma anche la delusione di essere stata così stupida da non accorgersene prima. Tutto tornata, tutto tornava terribilmente bene. Era un incubo.

Provò ad aprire la bocca, ma ne uscirono suoni stentati e privi di senso; strinse le mani al petto e cominciò istintivamente ad arretrare sempre più, con Georgiana che diminuiva al contempo le distanze.

«L’ordine è di farvi diventare una di noi, mademoiselle.» riprese a parlare la francese, con la voce ora venata di comprensione che ad Ann suonava come una condanna a morte «Solo per questo vi ho costretta a ricordare… so quanto fa male, lo capisco benissimo…»

«Io non voglio diventare come voi!» urlò senza ritegno l’inglese, ormai in balia del panico, con gli occhi sbarrati «Mostri! Siete dei mostri!»

In cielo, un’altra scarica di lampi illuminò la foresta, dando abbastanza tempo alla villica per osservare Georgiana con un’attenzione che mai aveva prestato prima. E notò la stessa cosa che aveva tradito Nathan in quella famosa notte: il respiro. Il respiro che non c’era, il cuore che non batteva, la vita che da chissà quanto tempo aveva abbandonato quella pelle fredda.

Georgiana non sembrò risentire di quell’affermazione, probabilmente vi era fin troppo abituata; le rivolse un potente sguardo indecifrabile, poi allungò il passo ed una mano verso di lei per afferrarla.

Ann cacciò un urlo e corse con una mano alla tasca della gonna, alla disperata ricerca di quella collana che poco prima Joshua le aveva dato, ma al posto della tasca incontrò una seconda mano, fredda. La sentì stringersi attorno ai suoi fianchi, cingerla con una delicatezza che fino a pochi secondi prima le avrebbe fatto credere di essere in salvo.

Ma quando torse il collo per guardare dietro di sé ed i suoi occhi incontrarono quelli di Nathan, non ebbe il tempo né la forza di ribellarsi a lui. Egli era lì, gelido come la volta in cui si era ingenuamente illusa che la sua temperatura corporea fosse dovuta ad un’uscita notturna, con gli occhi insensibili e disumani come quelli con cui aveva osservato il serial killer di Terren, con il suo sorriso enigmatico che un tempo aveva fatto da ponte tra loro.

Lo ricordò un’ultima volta come lo aveva visto quando, durante il loro primo incontro, le aveva evitato una brutta caduta sulla neve; ironia della sorte, quella stessa volta l’aveva stretta proprio come la stringeva ora. Quell’uomo trascurato e disordinato le parve un’illusione atta a coprire la sua vera faccia, che invece adesso le era pienamente mostrata.

Nathan la trasse a sé ed ella non si ribellò, forte ancora dei suoi sentimenti d’amore che ora, finalmente, cominciava a capire essere molto probabilmente a senso unico.

Non le rivolse neanche una parola prima di avventarsi su di lei, che intanto si scioglieva in lacrime e urla di rabbia, priva della forza psicologica necessaria ad opporsi.

A quell’uomo che a lungo aveva amato.

A quell’uomo che aveva protetto fino alla fine.

A quell’uomo che l’aveva sommersa di bugie.

A quell’uomo che non era affatto un Angelo, ma che sin dall’inizio di tutto era stato il vero mostro.

E che era lì per ucciderla.

 

 

Note dell’Autrice:

Questo capitolo è arrivato con un mega ritardo! Wow, ho segnato un nuovo record! Credo di avere più di un motivo per cui farei meglio a nascondermi, ahaha! Due parole su questo terribile ritardo, di cui mi scuso con tutti i lettori. Come avrete ormai capito siamo alla fine della storia – Snow conta un totale di 29 capitoli più un breve epilogo -, e questo, assieme al prossimo, è “l’arco dei misteri svelati”, per cui mi sto impegnando molto per scriverli al meglio (:

E ora due parole sul capitolo in sé… innanzitutto nella scena della lotta tra Nathan e Joshua, giuro, mi è sembrato di scrivere una yaoi violenta. Non chiedetemi perché. Ho tagliato e ritagliato moltissime parti per farla apparire meno ambigua, spero di aver fatto un lavoro accettabile XD

In secondo luogo, ormai avrete sicuramente svelato il più grande dei misteri di Snow, ovvero la reale natura di questi “Angeli” che tutto sono tranne Angeli! Se qualcuno non ci è ancora arrivato… state tranquilli, nel prossimo capitolo verrà detto esplicitamente e chiarirò uno per uno tutti i misteri della storia. Spero vivamente che nessuno mi odierà per questa rivelazione, che, dato il periodo di moda, ammetto può sembrare banale… e ciò mi dispiace con tutto il cuore. Snow è una storia che ho progettato da quattro o cinque anni, e sinceramente non volevo cambiare il finale e giocarmi tutto il ciclo delle quattro storie per eliminare l’elemento che ancora non mi è concesso pronunciare. Spero che mi capirete e apprezzerete comunque lo sforzo che ho fatto per scrivere una cosa molto impegnativa come questa storia. A tratti, muovere Nathan senza far capire cos’era in realtà è stato veramente stressante… @_@

 

Bene! Credo di non avere più niente da dire! Metto l’elmetto e spero che nessuno mi sbrani nei commenti XD ricordate che sono giovane e ho ancora molte storie da scrivere!

Un abbraccio affettuoso a tutti quelli che hanno recensito, che seguono e che mi aiutano a portare avanti il progetto. Ben presto mi butterò nella stesura del penultimo capitolo! è_é

 

A presto, Sely.

 

 

 

 

   

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Capitolo 28
*** Persona protagonista dell'opera ***


What colour is the snow?

Capitolo 28: Persona protagonista dell’opera.

Se c’era una cosa che Nathan Metherlance odiava era che la sua anima venisse a contatto con un’altra, estranea. Nathan Metherlance detestava profondamente il suo potere, la sua facoltà di far proprie le emozioni altrui, e per questo si era ripromesso di imparare a controllare la sua maledetta empatia, nella speranza di cominciare a distinguere le proprie emozioni – quelle poche che ormai gli era concesso provare – dalla tempesta inestinguibile che sentimenti più svariati che ogni giorno osservava, annoiato ed irritato.

Nel momento in cui, molti anni addietro, si era reso conto di essere rimasto vittima dell’epidemia di tubercolosi che aveva decimato la sua città, aveva per diverso tempo pensato di essere senza speranza: sarebbe morto, punto e basta. Fine dei giochi. Capolinea.

E invece… la vita gli aveva giocato quello strano scherzo, strappandolo alla morte e dandolo in pasto alla loro terza sorella, una sorta di strana entità a metà tra la vita e la morte, scherzosamente rinominata “non-vita” da qualcuno con un senso dell’umorismo distorto.

Come ciò fosse accaduto non gli era mai stato molto chiaro: ricordava di aver improvvisamente avvertito mancare, di essersi quindi accasciato al suolo, cedendo ad un nuovo tipo di sonno; poi aveva aperto gli occhi… ed era tornato a vivere come aveva sempre fatto, solo con qualche nuovo bonus e malus.

Incapacità di provare sentimenti, di resistere alla luce del sole per lunghi periodi e di cibarsi degli alimenti che prima consumava abitualmente, di specchiarsi, di toccare oggetti benedetti senza ustionarsi, di restare sveglio mentre il sole era alto; d’altra parte, era in grado di supplire alla quasi totale deficienza di emozioni proprie con quelle altrui, niente sembrava più in grado di ucciderlo con facilità, aveva sviluppato una forza ed una velocità inizialmente incontrollabili.

Unica vera pecca? Una sottile, innocente, incontrollabile sete di sangue.

Col tempo, in tutta la sua mancanza di senno, aveva imparato a sopportare per diverso tempo i raggi solari tramite l’esposizione volontaria a questi stessi, ed ora vi si poteva esporre per molti minuti prima di cominciare a star male; stesso discorso riguardava i cibi umani, che ingeriva senza rimanerci secco; la sua vena masochista era riuscita addirittura a dargli un certo vantaggio nell’osservare oggetti sacri senza dover immediatamente distogliere lo sguardo o nel restare sveglio di giorno, sebbene gli costasse molta fatica.

Insomma, Nathan aveva sempre creduto che tutte queste sue potenzialità, le quali si era fortemente impegnato per raggiungere, sarebbero servite a dargli un minimo di credibilità ai superbi ed alteri occhi delle persone come lui; con questo pensiero aveva lasciato la Germania, sua cara patria, e si era messo in viaggio verso l’Inghilterra.

Lì si era imbattuto negli “Angeli”, un clan dal nome decisamente poco appropriato, considerando che razza di mostri erano in realtà. Lo avevano convinto ad unirsi a loro, affermando che un elemento così eccellente sarebbe sicuramente servito nella campagna di pace che stavano preparando per ordine del Tribunale Nero, il massimo organo giuridico del loro segreto mondo. Forse per cupidigia, si era lasciato convincere ed era partito assieme a loro alla volta del Northumerland, la contea più a nord dell’Inghilterra, confinante con la Scozia.

Ora che però teneva tra le mani quel cadavere, Nathan Metherlance non era più molto sicuro di aver fatto la scelta giusta. Per carità, in tutta la sua vita non si era mai pentito di ciò che aveva fatto – la sua etica si basava sull’accettare il proprio essere come risultato delle proprie scelte, e lui era fiero di ciò che era diventato -, ma si rendeva conto stoicamente degli errori commessi, senza perdersi in inutili rimpianti o lamentele.

Si era davvero impegnato in quella missione, davvero! Dopo essersi introdotto a Hidel con la massima discrezione, aveva stretto rapporti con l’unico scopo di sembrare una persona quanto più normale possibile, si era sforzato di resistere alla sete ogni qual volta che si trovava in mezzo a molte persone.

Inizialmente, il rapporto stretto con Annlisette Nevue rientrava nel suo piano, alla voce “stringere rapporti umani per sembrare un comune umano”, e così, con un pizzico di irritazione e compassione per quella povera anima, l’aveva assecondata nei suoi giochi di donna, reputandoli morbosamente stupidi ed inutili. Col tempo, però, il continuo entusiasmo di Annlisette aveva avuto l’effetto collaterale di abbassare le sue difese, e così ne era stato contagiato ed aveva cominciato a credere di essersi veramente innamorato.

Amore? Uno come lui? No, anzi, riformuliamo: amore? Uno che, come lui, era stato rovinato proprio dall’amore? Nathan, se fosse stato in sé, avrebbe riso in faccia a se stesso per la propria immensa stupidità.

E ora, cosa gli rimaneva di tutto quel grande amore? Una promessa a tempo indeterminato ed un cadavere tra le braccia.

“Giurami che proteggerai Ann fino alla fine, e non permetterai a nessuno di portartela via.”

Nathan Metherlance, in modo del tutto malato, aveva tenuto fede a quella promessa: aveva protetto Ann dal popolo del suono, e non aveva permesso a nessun altro che non fosse lui di divenire il suo sire*.

 

Georgiana e Nathan si erano quasi dimenticati della battaglia che, ancora, si consumava lenta alle loro spalle, tra le montagne.

Il cielo si era acquietato, ogni segno che lasciava prevedere il temporale era sparito con l’ultimo fulmine abbattutosi, molto lontano, tra le punte innevate; regnava una strana quiete per nulla rassicurante, come quella che precede un evento improvviso e catastrofico. In effetti, Georgiana si chiedeva quanto sarebbe stata catastrofica la reazione di messere Metherlance quando avrebbe realizzato di aver appena ucciso la ragazza che professava di amare.

Nathan non riusciva ad alzare il capo, era come magicamente incantato dalla visione che gli si prospettava davanti: tra le sue braccia riposava un’inerme Annlisette addormentata, appoggiata al suo petto, pallida e fredda, senza più un briciolo di vita ad animare gli occhi vacui, persi in un’espressione di paura. Glieli chiuse con un rapido gesto della mano, poiché, per qualche strana associazione mentale, gli ricordava la Schneewittchen* della favola dei fratelli Grimm: con i capelli neri come l’ebano, la pelle bianca come la neve e le labbra rosse come il sangue. Sì, ma l’ultima similitudine non era tanto una questione di colore quanto un fatto vero e proprio, poiché c’era davvero del sangue sulle labbra della ragazza: il sangue di Nathan, quello che l’avrebbe fatta divenire come loro.

«E così, eravate una loro marionetta sin dall’inizio…» a bassa voce, rivolse quelle parole a Georgiana, pur senza staccare gli occhi da Ann.

Lei, che gli si era seduta vicino ed affondava fino alle ginocchia nella neve, annuì in tono grave «Mi dispiace.»

Nathan la riprese gentilmente, mentre tamponava con un lembo del mantello il sangue che gli sgorgava dal polso sinistro «Non dispiacetevi di ciò che avete fatto. Sono state le nostre scelte a farci arrivare a questo punto. Dovete essere fiera di ciò che siete, Georgiana, o quantomeno accettarvi. Nella nostra società non possiamo permetterci di indugiare su noi stessi.»

«Io ho sempre indugiato su me stessa.» Georgiana posò lo sguardo su Ann, gli occhi le si velarono di tristezza «Sin da quando tutto questo è cominciato…»

La ragazza sapeva che la sua storia non interessava affatto a Nathan e che egli non le avrebbe mai proposto sfogarsi, eppure, in qualche strano modo, il silenzio dell’uomo sembrava farle intendere che non c’era bisogno che fosse lui ad invitarla a dar voce ai suoi pensieri, che poteva farlo da sola se lo voleva. Lui avrebbe ascoltato, perché lui, volente o nolente, ascoltava sempre gli altri e le loro emozioni, e la sua storia gli sarebbe scivolata addosso come i sentimenti che giorno dopo giorno avvertiva.

Tratto dunque un profondo sospiro, del quale in realtà non aveva affatto bisogno, fece scorrere un fiume di parole che non avevano traccia di tristezza.

«Ero figlia di un duca francese e di una duchessa inglese. Fui cresciuta tra le agiatezze e non conobbi mai il male, almeno finché esso non si presentò ad un ricevimento. Conobbi monsieur Forster, che decise che ero adatta al ruolo di bambola. Così mi rapì, mi fece diventare ciò che sono ora, mi portò in Inghilterra e mi diede una missione: far finta di dover imparare l’inglese, così da imbucarmi a casa di Nathan Metherlance.»

«Loro sapevano che Annlisette era a casa mia…» la interruppe lui, sollevando lo sguardo serio.

Lei annuì, confermando così i suoi sospetti. C’era qualcosa che non tornava in tutta quella storia, al di là del semplice dubbio su come gli Angeli avessero scoperto la presenza di Ann; qualcosa non tornava affatto, ma a Nathan mancavano troppe tessere per ricomporre il puzzle.

Il messaggio umano ed il seguente killer potevano forse non essere collegati?

«Per quale motivo avete cominciato questo viaggio, monsieur

Una domanda che lo fece ridere sommessamente, dopo averlo distolto dai suoi ragionamenti; alzò gli occhi al cielo buio e coperto di nuvole, ripercorrendo mentalmente le tappe della sua esistenza. Quando sentì di essere pronto a rispondere tornò a guardare la piccola Ann che riposava beatamente tra le sue braccia «Per vendetta, direi. Siete delusa? Forse vi aspettavate uno scopo più alto da uno come me?»

Al suo fianco, sul volto di Georgiana si delineò un’espressione di delusione che rimase visibile per pochi attimi, sparendo immediatamente dietro un’incurvatura delle labbra che voleva somigliare ad un sorriso.

«Immagino di sì.» ammise, mentre con un dito tracciava cerchi imprecisi sulla neve fredda «Ma non credo che la vendetta sia da sottovalutare. È un sentimento abbastanza forte da spingerci a perseguire caparbiamente i nostri obiettivi.»

Nathan Metherlance doveva ammettere di essere colpito da quella ragazza, che si stava rivelando più arguta di quanto immaginava. Nel suo nuovo modo di colloquiare in un inglese più fluido e corretto, riusciva a dar voce a pensieri che fin ora aveva taciuto. Lo aveva forse scambiato per un confidente?

Si soffermò qualche secondo nello sfiorare la guancia destra della villica, con la stessa delicatezza con cui avrebbe toccato una bambola. Le emozioni che Ann era stata in grado di trasmettergli avevano fatto traballare la sua sicurezza nel raggiungere quell’obiettivo che si era prefisso tempo addietro, e non sapeva se questo fosse un bene o un male.

«Tuttavia…» riprese parola «Credo di avere un obiettivo più alto, adesso.»

L’occhiata curiosa che la francese gli indirizzò lo fece voltare.

«Ho una promessa da onorare.» asserì, e in quelle parole impresse tutto il sentimento di cui era capace.

Con esse tutto si spense nel silenzio della foresta, nella quale quella notte non riecheggiavano neanche gli ululati che tanto erano di casa su quelle montagne. I lupi erano morti, gli Angeli li avevano sterminati tutti, o quasi.

«E voi?»

Georgiana alzò gli occhi, confusa da quella domanda inaspettata.

«Perché avete accettato di iniziare questo viaggio?» specificò meglio Nathan, che forse per la prima volta si stava davvero interessando a lei.

La risposta non tardò, e fu pronunciata quasi con rassegnazione «Per trovare il mio posto nel mondo.»

Era una speranza comune a tutti quelli come loro, il tedesco lo sapeva; era difficile accettare la propria condizione, lo sconvolgimento di tutto quello in cui si era sempre creduto fermamente. Ma la verità, come troppo spesso accade, era cruda ed insopprimibile.

«Non esiste un posto per quelli come noi nel mondo degli umani, Georgiana.» le spiegò pazientemente, ed ottenne tutta l’attenzione di lei per sé. Davanti agli occhi, Nathan non ebbe più le lugubri cortecce percorse dal ghiaccio ed i nodosi rami carichi di neve, vide piuttosto scene che gli ricordavano quanto il mondo degli umani sapesse essere crudele e spietato, di quanto le emozioni che lui odiava così fortemente fossero in grado di illudere e distruggere una persona con facilità «Dobbiamo crearcelo nel nostro mondo, se vogliamo evitare di impazzire.»

Georgiana, la cui esperienza era sicuramente inferiore a quella del suo collega, non capì il senso di quelle due frasi, ma le suonarono quasi come una condanna a morte per chi, come lei, era debole.

 

I primi rumori cominciarono ad udirsi dopo pochi minuti. Fino a quel momento Georgiana e Nathan erano rimasti immobili, quasi fossero pezzi di paesaggio, con le ginocchia affondate nella neve e gli sguardi spenti sul corpo immobile di Annlisette, appoggiata al petto dell’uomo come se stesse dormendo.

Dalla loro sinistra provenne dapprima un cupo suono di passi incerti, che si fece man a mano sempre più vicino, finché dal buio non emersero due figure bardate di nero.

Georgiana si nascose immediatamente dietro Nathan, il quale invece si limitò a portare una mano all’elsa di Selescinder, pronto ad estrarla in caso di attacco; tuttavia, dai due misteriosi figuri non sentiva provenire alcun sentimento che lasciasse ad intendere pericolo, per cui immaginò che si trattasse di alleati, e così fu.

Una delle due sagome arrestò per prima l’avanzata, per poi posare delicatamente una mano sul braccio dell’altra per farle capire che bisognava fermarsi. Da quel gesto Nathan capì che erano Sogno e Damon. Da sotto il suo cappuccio, gli occhi smeraldini della giovane donna vibrarono sui tre corpi morti che aveva davanti, soffermandosi particolarmente a lungo su Ann, evidentemente intristita.

«Per un attimo…» sospirò amaramente «Ho pensato che saremmo riusciti ad evitare un finale così tragico.»

Damon sembrò intendere l’accaduto dalle parole dell’amica, infatti arretrò di qualche passo a capo chino, senza avere la forza di emettere un suono. Il suo pensiero correva sicuramente a Krissy, a come due vite così lontane dal loro crudele mondo fossero state spezzate senza pietà. Egli non era un sadico né una persona che, come lo era invece Nathan, faceva ciò che reputava giusto senza rendere conto all’etica comune; forse era proprio questa sua eccessiva fiducia nel mondo ad aver rovinato lui e la piccola Scottfish.

Seguì un pesante silenzio, che nessuno aveva il coraggio o la voglia di spezzare: Sogno non staccava gli occhi dal corpo di Ann; così faceva anche Nathan, che aveva da poco cominciato a passare lentamente le dita tra i capelli corvini della ragazza; Georgiana tracciava piccole, immaginarie figure sulla neve, scorrendo con le sue sottili dita che sembravano potersi spezzare da un momento all’altro; Damon, inquieto, si era ermeticamente chiuso in se stesso e non poteva fare a meno di chiedersi se davvero uno come lui poteva servire a qualcosa in quel momento.

La sua scelta fu quella di almeno tentare, per dimostrare a se stesso che non doveva buttarsi via e che quell’udito fine che aveva sviluppato dopo aver perso la vista forse poteva rendere un ultimo omaggio a Krissy.

Non sapeva come muoversi, così azzardò qualche breve passo, cercando di raggiungere Nathan. I suoi occhi erano chiusi, ma le orecchie spalancate; tuttavia era difficile comprendere la posizione di qualcuno che non si muove e non respira nemmeno. Con la guida di Sogno, che afferrò prontamente la sua mano e lo aiutò nell’impresa, raggiunse il gruppo dei tre e si sedette sui talloni, immaginando di avere il viso rivolto verso Nathan.

In realtà stava guardando un punto indistinto alla sinistra di Georgiana.

«Poco fa, mentre vi cercavamo, siamo passati abbastanza vicini all’accampamento dei Demoni.» spiegò, con voce bassa e seria «Ho distintamente sentito qualcuno parlare di un attacco per radere al suolo Hidel. Non so se però a dirlo sia stato uno dei nostri o uno di loro, c’erano ancora parecchi Angeli lì, a fare prigionieri.»

«Te l’ho già detto, devi aver capito male, Damon! Non ha senso!» lo interruppe Sogno, contrariata. Cercò l’approvazione degli altri due presenti, lanciando occhiate poco convinte «Sono stati decimati, abbiamo vinto! Non possono uscire dal loro accampamento senza il nostro permesso!»

«Il permesso di chi?» si intromise Georgiana in tutta la sua pacatezza «Chi c’è sul campo?»

Sogno non capì subito dove la francese volesse arrivare, così roteò gli occhi e li sollevò poi al cielo, mentre ticchettava con un dito sul mantello di Nathan. Ricordava nitidamente una parte di truppa tornare alla base degli Angeli, ma chi?

Damon le venne incontro, evidentemente ricordava anche questo «Le truppe di Marcus sono tornate con i feriti. Sul luogo c’erano solo i soldati di Jen. Erano pochi, però, stando a quello che hai detto, Sogno.»

La ragazza schioccò le dita ed annuì, regalando a Damon un sorriso d’approvazione che lui non avrebbe mai visto «Sì, hai ragione! Erano davvero pochi, una decina o una ventina. Lì per lì non vi ho prestato attenzione, eravamo di corsa. E poi, beh, c’era Jen, quindi non abbiamo niente di cui preoccuparci, no?»

No, forse c’era davvero di che preoccuparsi.

In quell’attimo, tutto nella mente di Nathan sembrò rivoltarsi: ogni pezzo del puzzle rigettò il suo posto, andando spontaneamente ad incastrarsi in un altro, a formare un disegno meno complesso del precedente, ma più chiaro e più inquietante. Un’espressione irrequieta si fece strada sul suo viso, quindi si voltò verso Georgiana, l’unica che sicuramente aveva compreso i suoi pensieri.

Lei ricambiò lo sguardo, con crescente preoccupazione.

Sogno, intanto, pose nuovamente quella domanda, che improvvisamente le sembrava più pesante del previsto «… No?»

Dopo un attimo di silenzio, il tedesco allontanò il corpo di Ann dal proprio e lo affidò alle cure di Sogno, senza darle il tempo di replicare.

«Devo andare a Hidel, subito.» disse con fermezza, mettendosi poi in piedi con uno scatto fulmineo. La gamba che poco prima Joshua gli aveva paralizzato traballò un attimo, ma riuscì a rimettersi in equilibrio velocemente.

«Vengo con voi!» esclamò quindi Georgiana, che già inciampava neanche il tempo di tirarsi su.

«No.» le fu vietato, e due gelidi occhi azzurri la fecero desistere «Mi serve solo che più tardi voi siate dalla mia parte.»

Sogno e Damon non afferrarono il senso di quella frase, ma sembrò che Georgiana comprendesse fin troppo bene, tanto che, dopo qualche attimo di silenzio, annuì penosamente.

L’uomo non ebbe infine la cortesia di spiegare a nessuno dei presenti che cosa stava andando a fare, se aveva intenzione di commettere una follia e combattere da solo contro chissà quanti nemici pur di proteggere Hidel, o anche solo il motivo per cui li stava lasciando lì, il motivo per cui stava abbandonando Ann. Mentre si allontanava nel folto della foresta, Nathan si rendeva conto che ciò che stava per fare andava contro tutte le sue convinzioni, i suoi modi di fare e di pensare, ma era deciso a portare a termine l’obiettivo che si era prefisso: avvertire la gente di Hidel di ciò che a breve sarebbe arrivato, dell’orda demoniaca che voleva mettere fine alla loro esistenza per impossessarsi della Kharlan.

Non lo faceva per puro altruismo, bensì perché aveva capito tutto.

Aveva capito chi era la mente criminale dietro quel continuo complottare durato due anni, chi aveva dato gli ordini che fino a quel momento erano stati attribuiti ad un altro, chi aveva assoldato il killer di Terren.

Chi era responsabile della morte di Annlisette Nevue e Krissy Scottfish.

E chi si era impunemente preso gioco di lui.

 

Era da un sacco di tempo che Nathan non vedeva Hidel; ritrovarsi davanti a quei tetti innevati, tutti uguali e così sparpagliati e sporadici, chiusi all’interno dei confini di legno che dividevano il villaggio dal mondo, gli fece ricordare la prima volta che, due anni addietro, era giunto lì.

Non era mai riuscito ad ambientarsi veramente, anche se i villici erano tutti affabili e molto gentili con lui; c’era qualcosa che però non quadrava mai, che non aveva niente a che fare con la sua natura non umana e che gli aveva sempre fatto pensare di non essere veramente ben voluto.

Egli non era mai stato parte di Hidel, sebbene avesse abitato in quel villaggio per più di un anno.

A grandi falcate raggiunse l’ingresso, l’unica parte di tutto il paesino che non era delimitata da un alto e potente recinto di legno.

“Ho fatto molte cose considerate folli durante la mia vita. Ma presentarmi qui dopo due anni, da solo quando dovrei essere con Ann, a piedi, adducendo assurdità su mostri vari davanti ad umani ignari della nostra esistenza, per provare a farli scappare… direi proprio che questa volta mi sono superato” ragionò, prima di inspirare profondamente e gettare fuori tutta l’aria che aveva nei polmoni.

Non era un gesto che gli serviva per sopravvivere, piuttosto un’abitudine che non aveva mai voluto abbandonare, poiché aveva la capacità di calmarlo quando si sentiva ansioso. E in quel momento, oh, l’ansia se lo stava mangiando vivo.

Dall’interno, il villaggio appariva vuoto, come sempre; era ancora troppo presto per vedere qualcuno in giro, anche se l’uomo trovava improbabile che i villici non fossero stati svegliati dai rumori della battaglia. Immaginava che fossero tutti chiusi in casa a doppia mandata, armati fino ai denti.

Accompagnato solamente dal suono prodotto dai propri passi sulla neve, Nathan si diresse speditamente verso casa Nevue. Sarebbero stati loro i primi a sapere del pericolo, così aveva deciso. Non intendeva rimanere in quel villaggio più del dovuto, poiché era sua intenzione evitare ad ogni costo di essere non solo investito nuovamente da emozioni non sue, ma anche perché era logico che, una volta saputa la verità, quella gente gli si sarebbe sicuramente rivoltata contro.

A vederle ora, le piccole stradine e le case di Hidel non gli trasmettevano più quel calore che invece sembravano emanare un tempo: tutto gli era estraneo, ora sentiva di essere veramente lo straniero.

Lungo il sentiero non incontrò nessuno né sentì di essere osservato, purtuttavia non riuscì a raggiungere la destinazione senza lanciare di tanto in tanto occhiate sospettose a ciò che lo circondava. Del resto si aspettava che il popolo del suono facesse irruzione da un momento all’altro, e se si fosse trovato da solo contro più di uno di loro… beh, sarebbe semplicemente stato spacciato.

Quando, infine, i suoi occhi si poggiarono su quell’abitazione che conosceva meglio delle altre, avvertì improvvisamente il peso di ciò che stava per fare: gli umani non dovevano venire a conoscenza della loro esistenza, sebbene molti ne fossero già convinti per i fatti propri, e lui stava andando a spezzare un tabù inopinabile da chissà quanto tempo. Ovviamente, molti prima di lui avevano già provato a farlo, alcuni ci erano anche riusciti, ma era stato messo tutto a tacere con le buone o con le cattive. Sarebbe finita male anche quella storia? Sì, ne era convinto, ma la sua scelta l’aveva già fatta.

«Sir… Metherlance?»

Un moto di curiosità mista a paura raggiunse Nathan ancor prima di quelle parole, mormorate con poca convinzione da una voce maschile alle sue spalle. Il tedesco trasse l’ennesimo inutile respiro, quindi si voltò, ritrovandosi davanti a sir Baaker, un padre di famiglia sulla cinquantina, dal viso scavato e le occhiaie profonde, nere quanto i suoi pochi capelli. Era in piedi, immobile come una statua poco lontano dalla porta di casa, con la mano stretta vigorosamente attorno al manico in legno della grande ascia che portava con sé.

L’uomo aggrottò la fronte, confuso dall’ingiustificata presenza dello straniero: che cosa ci faceva lì?

«Siete tornato?» azzardò, scendendo con lentezza le scale in pietra, rese bianche dalla neve.

Nathan non si mosse dalla sua posizione, ma annuì piano e con un placido sorriso «Sì, ma sono solo di passaggio.»

«Abbiamo sentito dei rumori spaventosi, stanotte…» cominciò l’uomo, senza dargli tempo di parlare più del necessario. Sul suo volto traspariva una profonda preoccupazione «È accaduto qualcosa di terribile, vero?»

Il tedesco avrebbe quasi voluto riderne: quelle persone ormai davano per scontato che lui sapesse tutto, o che fosse perlomeno coinvolto in ciò che non capivano; nonostante fossero deboli ed ignoranti ma avevano un intuito invidiabile.

«Sì.» non negò, mentre il suo sorriso si incurvava verso il basso «Vi prego di svegliare vostra moglie ed i vostri figli, poi i vicini e il sindaco, messere. Al più presto. Non abbiamo più tempo.»

 

Il signor Baaker fece come Nathan gli aveva chiesto, e così in pochi minuti metà villaggio fu svegliato e si incamminò per svegliare anche la metà restante. Alla fine non aveva molta importanza che fossero o no i Nevue i primi a sapere del pericolo: ciò che contava era che anche loro prendessero parte all’assemblea, e così fu.

Si erano riuniti nel grande spiazzo centrale del villaggio, verso ovest, a metà strada tra la sala maestra e la chiesa. Rivedere tutti quei volti fece notare a Nathan che non ricordava le fattezze di molti di loro, o che di alcuni si era quasi dimenticato del tutto.

Infreddoliti ed intorpiditi dal sonno, uomini, donne e addirittura qualche bambino creavano un semicerchio attorno a lui, stretti gli uni con gli altri come se stessero cercando di trasmettere al prossimo il calore del proprio cappotto; le loro espressioni erano dominate dall’ansia e dalla confusione, ma non mancava chi non era stato affatto felice di svegliarsi così presto, né chi, come i più piccoli, si lagnava per tornare in casa. Tra gli ultimi a giungere vi furono i Nevue, che non appena videro Nathan gli si avvicinarono per chiedere concitatamente dove fosse Ann.

«È al sicuro.» li rassicurò lo straniero, fermo nella voce «Nell’unico posto sicuro che conosco.»

«E dove si trova questo posto sicuro? È da sola?» continuò Lazarus, che a stento riusciva a non alzare la voce.

Dietro di lui, Elizabeth tentava di trattenerlo per un braccio e farlo ragionare. Gabriel e la sua novella sposa giunsero subito dopo, ed il ragazzo diede immediatamente manforte al padre.

«Per favore, state calmi!» sbottò alla fine il tedesco, visibilmente irritato «Vi ho detto e ripetuto che Annlisette è al sicuro! Non sarei qui se non fossi certo di ciò che dico!»

«Vi crediamo…» Elizabeth si frappose tra il giovane ed il marito, spingendo quest’ultimo indietro, quindi si voltò con occhi supplichevoli «Vi crediamo, messere. Ma quel che è successo stanotte…»

«È proprio per questo che sono qui. E vi ripeto, madame, Annlisette ora è assolutamente intoccabile per chiunque.»

Lui la interruppe, il primo gesto maleducato che Elizabeth gli vide fare da quando si conoscevano, ma che le fece capire quanto fosse urgente archiviare l’argomento e passare al motivo per cui egli si trovava a Hidel.  A quel punto la famiglia si ritirò, sebbene Lazarus e Gabriel fossero ancora evidentemente sospettosi e pronti a scattare, e Nathan poté allontanarsi di qualche passo, in modo che la sua visuale fosse più ampia e gli permettesse di vedere con chiarezza tutti i presenti.

Quante emozioni si sentiva scorrere addosso in quel momento? Era così difficile lasciare che scivolassero via senza imporsi sul suo animo, ormai privo di esse.

Prima che si stabilisse il silenzio, alcuni ebbero la gentilezza di chiedergli come stava, come mai era ferito – la maggior parte dei segni lasciati dallo scontro con Joshua era scomparsa, ma alcuni ancora resistevano. Rispose cortesemente a tutti, ma quando gli fu posta la fatidica domanda su cosa fosse accaduto quella notte, pretese il silenzio ed attese solennemente finché non lo ebbe.

«Ciò che mi chiedete è legato alla mia presenza qui, oggi.» esordì, passando a rassegna con gli occhi tutti i presenti «Non ricorrerò a giri di parole, signori: siete tutti in estremo pericolo di vita.»

A dir la verità, l’uomo si sarebbe aspettato che almeno uno dei villici si lasciasse scappare un gemito, una risata di scherno, un’esclamazione; quello che seguì fu invece un pesante ed ostile silenzio, accompagnato dall’irrigidirsi delle espressioni di ciascuno. Sembrava essere calato un velo di muto terrore, gelido quanto la neve che ricominciava a cadere in grandi fiocchi lenti.

«Molti di voi non crederanno ad una sola parola di ciò che sto per dire…» riprese il biondo, con un flebile sorriso sulle labbra sottili, che però svanì dopo poco «Non pretendo che lo facciate e non vi darò alcuna prova. Non intendo urtare me stesso per voi.»

Dunque cominciò il suo discorso, quello che avrebbe dovuto tenere segreto ma che ora gli premeva dentro il petto con forza; ad ogni parola nuova non sentiva tuttavia alcun sollievo: il rivelare la verità a quella gente, buttando così la maschera della bugia, gli era ininfluente. Questa, pensò, era solo l’ennesima prova di quanto poco gli importasse di quelle persone, rifletté.

Iniziò illustrando loro la storia, partendo dalla Kharlan, arma misteriosa da sempre in possesso di un gruppo di uomini particolari che si era trasferito in quel territorio da tempo immemorabile, facendone la propria casa ed il proprio regno. Quando la guerra allora in corso terminò, l’arma venne seppellita dai vincitori, in modo che nessuno avrebbe mai più potuto sfruttare i suoi immensi poteri. Il tempo passò, ed in quel luogo giunse un gruppo di umani – usò proprio la parola umani, senza timore che gli venissero già rivolte le prime occhiate già stranite per quella bizzarra scelta lessicale – che decise di stabilirvisi, creando il villaggio di Hidel; cominciò così una convivenza segreta tra i villici ed i guardiani di questi luoghi, nascosti tra le cime dei monti dove nessuno osava avventurarsi.

«E due anni fa siamo arrivati noi, per voi.»

Ecco, adesso Nathan notava che qualcuno cominciava ad avere domande, probabilmente perché quel discorso, per quanto lineare e coerente, rimaneva oscuro in molti punti; fece segno con una mano di portare pazienza fino alla fine del suo racconto, riprendendo poi a parlare.

«Volendo chiarirvi la nostra posizione, noi siamo l’alfa e loro l’omega.» paragone stupido, si rimproverò, cosa potevano saperne quei mercanti di che cosa fossero l’alfa e l’omega?

Incrociò le braccia al petto, risolvendo l’errore «Siamo nemici naturali. Ci giunsero all’epoca voci: si diceva che volessero riprendersi l’arma, ma che per farlo sarebbero dovuti entrare in contatto con voi villici, e questo è assolutamente vietato nella nostra società. Sarebbero stati costretti a uccidervi, probabilmente.»

Ogni volontà di interromperlo sembrò sparire dai visi dei suoi ascoltatori: ora volevano sapere come andava a finire la storia, e pretendevano un lieto fine. Lo poteva leggere persino nei volti dei bambini spaventati, bianchi come cenci.

«Il nome in codice assegnatoci per questa operazione è “Angeli”: il nostro compito era intavolare delle trattative di pace che convincessero quei selvaggi che non avevamo alcuna intenzione di rubare i loro territori, e che quindi la Kharlan poteva rimanere al suo posto. Il mondo umano non avrebbe mai dovuto venire a conoscenza della nostra esistenza, per nessun motivo. Io, come potete capire, sto infrangendo la più tassativa delle nostre leggi per mettervi all’erta.»

A questo punto, catturata con gli occhi una cassa distante pochi passi, vi si sedette sopra con un movimento lento. La gamba che Joshua gli aveva paralizzato durante lo scontro sembrava aver bisogno di riposo, gli tremava leggermente e più volte aveva minacciato di tradirlo.

“Maledetto cane…” pensò con una smorfia, prima di riprendere a parlare.

«A me venne dato il ruolo di ‘supervisore’: avrei dovuto infiltrarmi tra di voi ed evitare che vi venisse fatto del male o che incappaste in situazioni pericolose.» bugia, il suo ruolo era quello di spiarli, ma non poteva permettersi di usare parole così schiette davanti ad una folla di persone che avrebbe potuto ucciderlo «E così ho fatto fino alla fine delle trattative, poi fummo costretti ad andarcene: tutto sembrava risolto per il meglio.»

La tensione aumentava visibilmente, Nathan non credeva di aver mai visto quelle persone così assetate di sapere. Così accennò velocemente al fatto di Korlea, il messaggio umano, che aveva implicitamente dichiarato loro guerra: i loro nemici avevano scoperto il punto preciso in cui era seppellita la Kharlan ed intendevano riesumarla, probabilmente per sete di potere o per paura di essere attaccati all’improvviso.

Del resto era noto come loro, la stirpe a cui appartenevano gli Angeli, fossero ben altro che leali.

Così, raccontò, erano tornati lì in fretta e furia per evitare che Hidel venisse attaccato; stette molto attento a non accennare al rapimento di Annlisette, usata come ostaggio. Spiegò che i rumori uditi quella notte erano quelli della battaglia infuriata sulle montagne e vinta dagli Angeli.

Fu quando si fermò un attimo per lanciare uno sguardo ai monti, preso dall’ansia di poter scorgere i suoi nemici in corsa verso Hidel, che una voce, la prima, ebbe il coraggio di interromperlo.

«Dov’è mia sorella?»

Non avrebbe mai attribuito quel tono spaventato a Gabriel Nevue, ma il ragazzo, pallido e stretto alla sua fidanzata più terrorizzata di lui, appariva più preoccupato per sua sorella che per se stesso.

Il tedesco poteva ora dargli una spiegazione più esauriente, e, con uno sguardo intenso, affermò «Non è rimasta coinvolta nella battaglia, mi sono premurato di metterla al sicuro. Nel periodo passato a Terren non è venuta in contatto con nessuno di noi, anche se è stato impossibile non farle notare i movimenti degli ultimi giorni. Capirete che non ho potuto permetterle di tornare a Hidel, visto il pericolo. In questo momento è con la mia assistente e due amici, nell’accampamento degli Angeli. Lì nessuno potrà torcerle un capello, il nostro compito è proteggervi.»

Un mucchio di bugie, ne era consapevole, ma non poteva certo rivelare come stavano veramente le cose per motivi logici. Aveva presentato gli Angeli come protettori, non poteva dir loro che in realtà il Tribunale Nero aveva dato ordine di non toccare i cittadini di Hidel per pura prevenzione: se la situazione fosse scappata loro di mano avrebbero dovuto ricorrere alle maniere forti, ed una sparizione di massa era difficile da giustificare agli occhi del mondo umano.

La famiglia Nevue sembrò aver abboccato pienamente, cosa che rincuorò il biondo e lo convinse a pronunciare quelle ultime parole, pesanti come macigni.

«Tuttavia, qualcosa è andato storto.» disse, e sui volti di tutti riemerse un’ansia divorante «Non sono a conoscenza dei dettagli, sono corso qui appena ho saputo che i nostri nemici si sono messi in marcia verso di voi. Hanno in qualche modo aggirato i miei colleghi ed ora intendono impossessarsi della Kharlan: è la loro ultima possibilità. Non si faranno scrupoli ad eliminare chiunque troveranno sul loro cammino. Sarà una strage.»

Nessuno ebbe il coraggio di replicare, tutti erano troppo schiacciati dalla paura; cominciarono a guardarsi l’un l’altro, come sperando che qualcuno avesse le risposte o semplicemente potesse dir loro cosa fare. Fortunatamente, il panico non si scatenò, eppure ciò apparve anomalo agli occhi di Nathan, che conosceva il famoso sangue freddo inglese ma che non pensava si spingesse fino a livelli simili.

«… Dovete scappare.» provò a dar loro un incentivo, meravigliandosi di quanto persino la sua voce sembrasse poco convinta di quello che aveva appena detto.

Qualche leggero brusio si levò allora, ma nessuno accennava a muoversi.

Nathan era rimasto basito, quasi non sapeva come comportarsi.

“Aspettano forse che li porti via uno ad uno?” alzò un sopracciglio, per poi mettersi in piedi. Affondò con le suole nella neve fresca, che nel frattempo continuava a cadere senza sosta.

Dopo qualche attimo, si fece strada tra i presenti un uomo che lo straniero conosceva bene: il capo villaggio, colui che aveva presenziato alla gara di cucina molto tempo prima e con cui aveva avuto modo di parlare poche volte durante la sua permanenza a Hidel.

Gli sguardi dei villici si fecero più sollevati: evidentemente aspettavano il suo arrivo per lasciare a lui il compito di scegliere il loro destino. Egli aveva sul volto un’espressione molto composta e seria, non sembrava avere intenzione di cedere al panico, sebbene i suoi occhi tradissero una sorta di insicurezza interiore. Era il minimo, considerando il peso che si portava sulle spalle.

Si fermò davanti al tedesco, estrasse dalle tasche del pesante cappotto le mani possenti e ricoperte di calli e le abbandonò lungo il corpo, infine chinò il capo, in segno di ringraziamento «Grazie per averci avvertiti.»

“… Tutto qui?” non poté fare a meno di pensare Nathan tra sé e sé, senza saper più come comportarsi; tutt’un tratto quella gente che aveva sempre considerato semplice e poco interessante gli era assolutamente incomprensibile. Come per riflesso, infilò le mani gelide nelle tasche del mantello, ricambiando con un cenno del capo.

Il vecchio uomo dovette notare la sua disapprovazione, poiché, fatto scorrere lo sguardo stanco ma determinato sui volti dei suoi collaboratori, tra cui lo stesso messere Nevue, come per cercare conferma da loro, inchiodò Nathan con un’occhiata profonda.

«Ma noi non andremo via.» decretò.

Allo straniero quella decisione sembrò a dir poco assurda, senza alcuna spiegazione logica. Senza dar voce ai suoi pensieri, si chiese in che modo quel povero vecchio avesse intenzione di proteggere la vita dei bambini e delle donne di Hidel, se forse non avesse preso sul serio le sue parole o avesse sottovalutato la potenza dei loro nemici. Eppure, nessuno sembrava credere che Nathan avesse raccontato loro un mucchio di frottole, forse perché in quel villaggio normale essere superstiziosi, anzi, era strano non esserlo, Ann se n’era lamentata parecchie volte in passato.

Gettò uno sguardo sui presenti, alla ricerca di qualcuno che sembrasse più assennato del sindaco, ma l’unica cosa che notò fu che molte donne e tutti i bambini erano scomparsi; probabilmente si erano rifugiati nelle casa.

«È per la maledizione?» azzardò allora, trovandolo il pensiero più logico: la maledizione di Hidel voleva che chiunque uscisse dal villaggio per non farvi più ritorno morisse in breve tempo.

«Oh, no, no…» declinò l’altro, con il sorriso di un padre che cerca di spiegare una cosa elementare al figlio ingenuo.

Dietro di lui, Nathan notò che alcuni presenti cominciavano ad annuire a quelle parole, a volte cercando approvazione negli occhi degli altri. E trovandola.

In realtà lo straniero aveva intenzione di rimanere a Hidel il minimo indispensabile, ma doveva ammettere di essere percorso da grande curiosità davanti a quello stranissimo comportamento.

Il capo villaggio parve avvedersi dei suoi dubbi, quindi, con fare fermo e responsabile, dapprima ordinò ad una decina di uomini di dirigersi al capannone delle provviste per recuperare ogni arma disponibile, poi disciolse l’assemblea, intimando a tutti di prepararsi al peggio e farsi coraggio, infine tornò a dedicarsi al tedesco. Gli mise con garbo una mano sulla spalla, con un sorriso bonario sul volto canuto.

«È perché questa è la nostra casa. E la casa è il luogo del cuore.»

Se Nathan non avesse vissuto come un vagabondo per gran parte della sua vita, rimpiangendo amaramente la casa che aveva perduto e la sua piccola famiglia, probabilmente quelle parole gli sarebbero state oscure, o peggio, ermetiche. La verità invece gli si presentava davanti molto semplicemente, ma ora si chiedeva: anche gli umani, nella loro bassa semplicità, erano pronti ad un sacrificio simile? Loro, che da sempre tradivano anche se stessi?

«E se uno attaccherà la nostra casa… risponderemo in due. Se in tre, noi risponderemo in sei. Se in quattro, in otto. Se in cinque, in dieci. Se cento attaccheranno la nostra casa, tutto il villaggio si alzerà.»

Il supervisore allora non poté fare a meno di far scorrere lo sguardo su quelle persone che probabilmente vedeva per l’ultima volta: erano tutti così indaffarati, presi dall’aiutarsi a vicenda per preparare una difesa, che sembravano persino essersi dimenticati di lui. Messere Nevue, poco lontano da loro, ignorava la neve che gli intralciava il passaggio e dava ordini per parare una rozza linea di difesa; notò suo figlio, assieme a molti altri giovani, che, trascinando una slitta piena di fucili, distribuivano armi a chi sapeva usarle; le donne si erano invece raccolte in un angolo, a preparare bende, medicazioni e tutto ciò che potesse servire per un pronto soccorso.

La sua mente, per qualche motivo, balenò al signor Scottfish, che aveva perso sua figlia da pochissimo, e che ormai sicuramente aveva capito che la sua disperazione doveva essere la forza che gli avrebbe permesso di combattere la prossima battaglia. Ricordò la povera signora Hurst, una delle poche persone che erano state in grado di fargli provar pena da quando era diventato ciò che era, e fu sicuro che il suo ricordo avrebbe spinto i coniugi Clokie a dare se stessi per proteggere la giovane Doralice.

Poteva capire la loro determinazione, il desiderio di vendicare i morti e di sopravvivere, ma non riusciva proprio a capire la solidarietà. D’un tratto, gli tornò in mente quella volta nella foresta, quando si era lamentato con Ann di essere sempre stato considerato solo “lo straniero”, nonostante abitasse a Hidel da un anno.

“È perché non capisco il senso di solidarietà che hanno gli uni verso gli altri. Ed è perché non lo capisco che non sono mai stato parte di questo villaggio, ma soltanto lo straniero.”

Adesso gli era molto chiaro, lo aveva finalmente compreso.

Nathan sapeva che cosa si provasse ad andare incontro a morte certa, ma, mentre lui si era subito arreso all’evidenza dei fatti e non aveva lottato, quelle persone tentavano di alimentare la piccola fiamma della speranza con tutti i mezzi che avevano. Illusi, li avrebbe chiamati lui normalmente, e forse gli avrebbero pure strappato un’espressione compassionevole, ma in quel momento l’unica cosa che gli sembrò giusto dire fu un semplice «Buona fortuna.»

E non volle rimanere lì un minuto di più, né sentirsi ringraziato per averli avvertiti del pericolo che a breve li avrebbe spazzati via.

Il loro destino lo avevano scelto da soli, e quando il supervisore varcò per l’ultima volta le porte di Hidel, diede silenziosamente il suo addio a quelle persone, coraggiose o pazze che fossero.

 

L’accampamento degli Angeli sembrava crogiolarsi in una quiete a lungo cercata; la battaglia aveva lasciato segni visibilissimi, sia attraverso la scia di sangue dei feriti, sia attraverso l’angolo in cui erano stati ammassati tutti i cadaveri, ai confini del campo, dove presto sarebbero stati dati alle fiamme.

Tra i presenti si potevano contare le espressioni più disparate: c’era chi gioiva di essere sopravvissuto e brindava alla vittoria, c’era invece chi, distrutto sia fisicamente che psicologicamente, voleva essere lasciato in pace nella sua tenda a godersi un po’ di sano riposo.

Jen era tornata assieme ad Adam Forster per parlare con Marcus e tirare un sospiro di sollievo per l’ottima riuscita dal piano, e adesso erano, come sempre, riuniti nella grande tenda nera del Consiglio.

Fu quando un nucleo del tutto inaspettato fece il suo ingresso senza troppi complimenti che calò il silenzio. Pian piano, gli sguardi dei presenti si posarono silenziosamente su quel piccolo gruppo che avanzava a grandi passi nella neve, al centro della strada lasciata libera. A capo c’era Nathan Metherlance, che tra le braccia teneva una ragazza inerme, apparentemente morta; lo seguiva Georgiana Varens, quella matricola unitasi da poco e terribilmente silenziosa, troppo timida persino per scambiare quattro chiacchiere con qualcuno; infine, a chiudere il gruppo, dei totalmente inaspettati Damon e Sogno Darkmoon, la seconda teneva il primo sottobraccio, guidandolo come se non potesse vederci.

Tutti e quattro portavano sul viso delle espressioni a dir poco funeree, tanto da far credere agli Angeli presenti che portassero cattive notizie. Cominciarono a scambiarsi occhiate piene di dubbi, trovando però solamente espressioni altrettanto confuse. Qualcuno si mise in piedi, senza però provare ad avvicinarsi, altri ripresero a fare ciò che stavano facendo, forse per ignorare quegli elementi di disturbo che non promettevano buone nuove.

Il clima, se possibile, si stava facendo ancora più freddo del solito, e a sottolinearlo c’era anche il cielo coperto da nubi nere ed il rombare lontano di qualche fulmine.

«Dobbiamo parlare con Marcus e Jen!» annunciò a gran voce Nathan quando tutti e quattro si fermarono, coi piedi ben piazzati nella neve. Come a dire: nessuno ci smuoverà di qui finché non avremo ciò che vogliamo.

La sua voce riecheggiò un paio di volte, sicuramente giungendo alle orecchie dei desiderati, poiché la loro tenda si trovava circa sei metri più avanti. Nessuno, tuttavia, aveva il potere di scomodare i generali, per cui dovettero attendere finché non furono essi stessi ad apparire in tutta la loro maestosità, ancora con indosso le armature. I due, fedelmente seguiti dall’ombra di Adam Forster, uscirono dalla tenda con espressioni diverse: lei con uno splendido sorriso sul volto stanco ma soddisfatto, lui accigliato ed impenetrabile, com’era di natura.

«Georgiana e Nathan!» esclamò la donna, muovendo già qualche passo verso di loro «Vedo che avete eseguito il vostro incarico. Ottimo lavoro!»

«Dubitavate di noi, mia signora?» sorrise Nathan, con un sorriso che sembrava più una smorfia, mentre allungava le braccia in avanti per lasciar cadere il corpo della ragazza mora sulla neve, con un tonfo.

«Ma la presenza di Damon e So-…» stava dicendo la donna in quel frangente, ma si interruppe davanti a quel gesto.

Davanti allo sguardo sorpreso di lei e di Adam Forster, il tedesco non sembrò nemmeno rammaricarsi per come aveva trattato quel cadavere, né sembrava avere intenzione di riprenderlo in mano.

In effetti, dietro di lui, anche Georgiana e Sogno rimasero profondamente stupite da quel gesto così meschino, Damon invece poteva solo immaginarlo. Nel frattempo, il tedesco continuava a sorridere sornione.

«Tutto procede esattamente secondo i vostri piani. Presto Hidel non sarà che un vago ricordo nella nostra mente ed un cumulo di macerie.»

Piombò un silenzio di tomba. Tutti quelli che fino a quel momento si erano sforzati di ignorare il gruppo appena giunto non poterono fare a meno di bloccare qualsiasi cosa stessero facendo; lentamente, tutti gli sguardi si poggiarono quel losco Angelo che stava impunemente affermando che il loro comandante, Jen, quella in cui tutti credevano, quella che tutti preferivano a Marcus, avesse deciso di andare contro gli ordini del Tribunale Nero e radere al suolo Hidel.

Era troppo assurdo. Che diavolo andava blaterando quel Metherlance?

Persino la donna rimase con un sorriso pacifico in volto, come congelata da quella doccia fredda. Dietro di lei, Adam Forster sgranò gli occhi, poi li assottigliò per fulminare Nathan.

«Cosa?!»

L’unico che riuscì  a spezzare il silenzio fu Marcus, che si fece avanti per frapporsi tra Jen e il gruppo appena soggiunto. Il suo volto, già normalmente grave, appariva decisamente furioso. Si rivolse rabbiosamente al biondo, colui che osava accusare così platealmente un generale di tutto rispetto «Che storia è questa, Metherlance?»

La sottintesa sfida venne accolta di buon grado da Nathan, che rispose serenamente, limando però il tono provocatorio usato fino a quel momento «Una storia molto interessante, generale. Se mi è concesso, la racconterò con dovizia di dettagli.»

Quante volte aveva raccontato quella storia fino a quel giorno? Cominciò ad esporre i fatti del suo primo periodo di permanenza a Hidel, sentendo gli occhi di tutti puntati addosso. Immaginò che stessero aspettando quella parola che avrebbe avuto il potere di tradirlo o di distruggere tutte le loro convinzioni; la tensione si respirava.

Parlò di coloro che erano misteriosamente scomparsi, nomi che in effetti Marcus e Jen conoscevano già, grazie ai suoi rapporti e alle azioni di spionaggio degli altri membri del gruppo.

«In tutto avvennero cinque sparizioni, delle quali fu incolpato il popolo del suono.» affermò il tedesco, spostando lo sguardo da Marcus a Jen, che lo fissava imperscrutabile «O almeno così affermaste nell’ultima riunione che tenemmo prima di lasciare Hidel.»

«E questo ti basta a…» cominciò la donna, sollevò un sopracciglio e gli scoccò un’occhiata truce.

«Ovviamente no.» Nathan scosse il capo «Ma è un passo necessario per arrivare alla conclusione. In effetti… le sparizioni in quel periodo furono sei.»

A quel punto cominciarono a levarsi i primi mormorii agitati: tutti sapevano delle cinque sparizioni di Hidel, ma nessuno sapeva della sesta. O almeno, così credevano.

«Herny Karl, signore.» specificò il supervisore, come se fosse stata una cosa ovvio.

Sul volto del vecchio generale passarono un’infinità di espressioni: dalla sorpresa alla confusione, dalla rabbia al sospetto. Portò con esagerata lentezza una mano al fianco, dal quale pendeva il fodero della spada, un chiaro segnale del suo stentato trattenersi dallo staccare la testa a quell’insolente Metherlance. Se solo avesse osato metterlo in imbarazzo davanti ai suoi sottoposti…

«Sì.» si sforzò di essere diplomatico, ed annuì a quelle parole «Il mio consigliere. Sparito due anni fa.»

«Il quale collaborava a sua volta con voi, mia signora.» il biondo tornò a guardare nuovamente Jen «Almeno finché non ha capito che il vostro piano prevedeva effettivamente di scatenare una guerra contro il popolo del suono, che, raso al suolo Hidel, avrebbe portato alla luce la Kharlan, con la quale, una volta trafugata, sarebbe stato facile imporsi sul nostro generale… ma che dico, sul Tribunale Nero stesso!»

Calò un silenzio terribile.

Sin da quando era arrivato, Nathan Metherlance aveva dimostrato di essere una persona carismatica, e, forte della sua arte di convincimento, al momento mantenuta su bassi livelli però, per evitare l’ira di Marcus, stava mettendo a dura prova la saldissima convinzione comune che fosse Marcus quello da cui guardarsi, e non la gentile e buona Jen.

In quello stato di quiete, rotto solo dal soffio del vento tra le fronde, Nathan sorrise candidamente alla donna «Davvero un magnifico piano. Quando Henry Karl vi ha tradita, ha cercato di fuggire a casa mia, pensando che Hidel fosse l’unico luogo dove sarebbe stato salvo. Ma quando sono tornato l’ho trovato ucciso, e, scioccamente, ho avvertito immediatamente voi. Immagino sia stato messere Forster a finirlo prima del mio ritorno, correggetemi se sbaglio.»

Dietro di loro, la persona chiamata in causa era rimasta nell’ombra, e quando il suo sguardo incontrò quello indagatore di Marcus e quello accusatore di Nathan, si limitò ad una smorfia di disapprovazione «Pazzie, pazzie. Mio signore, costui è evidentemente pazzo! Quale arroganza ad insultare persone così al di sopra del tuo livello, Metherlance… Senza uno straccio di prova, poi.»

«Avete ragione, messere. La mia insolenza è imperdonabile. Abbiate però pazienza, e se infine mi riterrete meritevole di morte non mi opporrò. In ogni caso, sappiate che ho delle prove.» annuì Nathan, che da sempre non aspettava altro che il momento in cui avrebbe fatto cadere dal piedistallo quell’uomo odioso «Ma prima, per favore, lasciatemi andare avanti.»

La tensione, se possibile, aumentò ancora. Persino coloro che erano abituati a respirare per sembrare più umani si fermarono; tuttavia nessuno, né quelli che erano già stati persuasi dalle parole del supervisore né quelli che le trovavano un affronto vergognoso, ebbero il coraggio di farsi avanti e parlare. Non per paura di Nathan, quanto per paura di quel Marcus pronto ad esplodere alla prima parola sbagliata.

Ciò il tedesco capiva benissimo, e non poteva fare a meno di ammettere con se stesso quanto fosse difficile mantenere un tono il più possibile rispettoso, mentre l’indignazione gli premeva nel petto.

«Per un breve periodo, a Terren ho ospitato questa giovane donna in casa mia.» andò avanti col suo discorso, abbassando lo sguardo sul corpo della ragazza mora ai suoi piedi, seguito da tutti i presenti.

«Non ci hai avvertiti.» sibilò Marcus, contrariato.

«Perché sarebbe stato un inutile motivo di preoccupazione, signore.» affermò con decisione Nathan «Nella seconda metà di dicembre si è svolta una serata per gli ingressi in società, per questo i suoi genitori mi hanno chiesto di accompagnarla. Tutto qui. Sarebbe ripartita pochi giorni dopo, dunque la sua permanenza sarebbe durata meno di due settimane.»

Ovviamente poteva suonare strano che dei semplici commercianti volessero che la figlia fosse addirittura introdotta in società, ma gli Angeli non sapevano quasi niente di Hidel e della sua gente, a parte che si trattava di mercanti; tale fatto poteva giustificare un’ipotesi secondo cui i Nevue avessero in programma di spostarsi verso la città, dove una figlia introdotta nel mondo degli adulti era cosa assai vantaggiosa.

«Ricorderete il messaggio umano che ci fu inviato prima della famosa serata a villa Stevenson. Considerando il poco tempo intercorso, l’assassino di Angelica Rodriguez, che ha tolto la vista a Damon Darkmoon e cercato di uccidere me e questa ragazza fu immediatamente, e logicamente, ricondotto al popolo del suono.» riprese a parlare Nathan, spostando di nuovo lo sguardo su Jen, assolutamente imperturbabile «In realtà venne ingaggiato da voi; l’ennesimo tentativo di istigarci contro il popolo del suono e scatenare la guerra. Ma la situazione, per colpa del messaggio umano, cominciava a correre troppo velocemente, rischiando di creare contraddizioni tra le reali intenzioni del popolo del suono e quelle che da voi erano attribuite a loro. Nel frattempo ingaggiaste Georgiana Varens, che avrebbe dovuto guidare il popolo del suono fino ad Annlisette Nevue; quest’ultima sarebbe stata catturata, ed il popolo del suono, una pedina fin troppo facile da muovere grazie al suo agire unicamente d’istinto, avrebbe sicuramente dichiarato guerra. Finita la battaglia, sareste rimasta sul campo mentre le altre truppe tornavano all’accampamento, così da permettere ai pochi superstiti nemici di raggiungere il villaggio e recuperare la Kharlan. I cittadini di Hidel non sarebbero riusciti a difendersi, il popolo del suono avrebbe riesumato l’arma, ma a quel punto sareste intervenuta voi, probabilmente, per sterminare i pochi rimasti e prendere la Kharlan in custodia. Con la Kharlan in mano… beh, il resto non è difficile da immaginare.»

A fine di quel discorso, Nathan si sentì svuotato delle poche energie che gli erano rimaste. Quello era tutto ciò a cui era arrivato, con un mezzo o con un altro: ora spettava a Marcus decidere se tagliargli la testa sul posto o dar ascolto alle sue parole. Dietro di sé, avvertiva l’agitazione di Sogno e Damon, mentre Georgiana era letteralmente assalita dalla paura; con un gesto pacato la nascose dietro di sé, facendole capire silenziosamente che lui l’avrebbe protetta.

Diede a tutti il tempo di attutire il colpo, di realizzare di essere perfettamente caduti come allocchi in una trappola che, senza l’appena avvenuto intervento di Nathan, sarebbe sicuramente andata fino in fondo.

Ora che anche il vento si era calmato, il silenzio era divenuto quasi opprimente. Incredibilmente, persino la rabbia di Marcus sembrava essersi assopita, ora che aveva una visione globale del terribile piano che avrebbe compromesso lui, il suo gruppo ed avrebbe creato danni gravissimi alla loro società. A dispetto di quanto voleva dare a vedere, era lampante che non dubitava troppo di quelle spiegazioni.

Con espressione granitica, tuttavia, decretò «Le prove.»

«Una testimonianza.» rispose prontamente il supervisore, altrettanto serio. Si fece da parte, lasciando che da dietro di sé il piccolo capo bruno di Georgiana sporgesse quanto bastava per esporla «La testimonianza di Georgiana Vares. E, se tenderete l’orecchio, a breve dovremmo sentire il suono di Hidel che muore.»

Una testimonianza non era il massimo delle prove, tutti lo sapevano benissimo, ma se giocavano bene quella carta potevano riuscire a convincere Marcus a recludere i due colpevoli, almeno finché il Tribunale Nero non li avrebbe presi in custodia. Lui ne aveva il potere, ma bisognava persuaderlo.

Sotto lo sguardo sbigottito di Adam Forster, Georgiana si fece avanti a piccoli ed incerti passi, lo sguardo rivolto a terra e gli occhi di chi sta per avere una crisi di pianto; se fosse stata umana, probabilmente avrebbe addirittura sudato freddo, tanta era l’ansia che provava.

Sollevò pietosamente il capo fin quando non inquadrò Marcus, stando ben attenta ad evitare che Adam entrasse nel suo campo visivo: sapeva già che sarebbe crollata davanti a lui.

Aveva parlato con messere Metherlance di quella cosa chiamata “coraggio” mentre raggiungevano l’accampamento; lui le aveva detto di prendere esempio da Annlisette Nevue, e così Georgiana le scoccò un’occhiata veloce ma intensa, come sperando che la forza d’animo dimostrata da quella donna potesse raggiungerla.

Quando sentì le delicate mani di Sogno stringerle dolcemente le spalle per farle intendere che non era sola, capì che era il momento.

Era pronta.

«È tutto vero.» confermò «Monsieur Forster mi ha portata via dalla Francia con la forza quando ha scoperto il mio potere. Mi ha minacciata fino ad oggi, dicendo che avrebbe distrutto la mia famiglia se mi fossi ribellata. Non posso più sopportare di essere calpestata così, signore, vi prego di mettere fine ai miei tormenti…»

Dietro di loro, la voce di Adam Forster tradiva una furia trattenuta a stento «Georgiana… non dire sciocchezze. Quell’uomo ti ha traviata.»

«No!» esclamò la ragazzina sorprendendo tutti, mosse un passo verso di lui e gli indirizzò uno sguardo sofferente «Se non ci fossero stati monsieur Metherlance e mademoiselle Nevue non avrei mai avuto il coraggio di ribellarmi! Io non…»

Le parole le si spensero sulle labbra, smorzate dalla paura che le incuteva la sola vista del vecchio consigliere. Leggermente tremante, tornò immediatamente sui suoi passi, ed in quel momento Nathan le poggiò una mano sulla spalla, per trarla gentilmente dietro di sé.

Da quando quel discorso pieno d’accuse era cominciato, la diretta interessata non aveva però aperto bocca. Jen se ne stava dritta e tesa come una corda di violino, con le braccia conserte ed il viso inespressivo, facendo scorrere lo sguardo gelido da Nathan a Georgiana, poi ai due Darkmoon che non avrebbero dovuto essere lì, a Marcus, al suo fidato consigliere.

Dietro di lei, Adam Forster si mosse verso di loro, ma la donna alzò un braccio e lo bloccò: era arrivato il suo turno per parlare.

L’attenzione si catalizzò su di lei, persino il cieco Damon se ne accorse, sebbene il suo sguardo fosse fisso su un punto ininfluente della folla di Angeli.

La donna, con un sorriso, dopo un attimo di silenzio disse «È vero, sì. Non lo negherò.»

Si udì qualche sussulto dagli spettatori, che evidentemente fino ad allora si erano costretti a pensare che Nathan e Georgiana avessero preso un brutto colpo in testa. L’atmosfera era ora davvero pesante, nessuno sembrava sapere che cosa fare o dire: la confusione era totale.

«Complimenti per averlo capito, anche se con un sostanziale aiuto.» sorrise a Nathan «Pensavo che fosse davvero un piano perfetto.»

«Lo era quasi, signora.» disse di ricambio Nathan, quasi meccanicamente.

La donna rise sommessamente, abbandonando poi le braccia lungo i fianchi. Si voltò verso Marcus, che sembrava chiedere con lo sguardo spiegazioni.

«Mia signora…» la chiamò da dietro Forster, per fermarla prima che li mettesse ancora di più nei guai.

La mente di Georgiana formulò il velenoso pensiero che sicuramente egli voleva solo proteggere se stesso il più possibile.

«È vero, volevo sovvertire il potere nel nostro mondo usando la Kharlan, per deporre il Tribunale Nero.» ammise ancora Jen, ignorando la roca e spezzata voce del suo consigliere.

Marcus quasi sgranò gli occhi, dimostrando quanto gli fosse incredibile credere che la sua fidatissima collega fosse una bugiarda, una truffatrice, una golpista.

«Perché, Jen?» domandò, riacquistando tutta la sua durezza, profondamente ferito da quel tradimento.

«Perché, Marcus? Non lo immagini?» Jen rise, come una madre davanti all’ingenuo bambino; ma il suo sguardo si fece amaro quasi immediatamente, nel realizzare che i suoi sogni si erano infranti «Perché noi esistiamo, ma è come se non esistessimo!»

In un lampo, Marcus capì dove ella volesse arrivare. Se avesse avuto un senso, probabilmente avrebbe tirato un sospiro rassegnato, ma si limitò a ripetere «Jen…»

La donna nel frattempo aveva alzato la voce, infervorata «Abbiamo vissuto per secoli nascondendo la nostra esistenza agli umani, ormai siamo oggetto solo di stupide leggende piene di menzogne che non fanno paura nemmeno ai bambini! E invece noi siamo qui, guardaci, Marcus!»

Sollevò un braccio ed indicò energicamente i presenti, dai soldati a Forster, passando persino per il gruppo di Nathan «Noi siamo qui, a combattere per eseguire gli ordini del Tribunale Nero e salvare la vita di quegli ingrati e stupidi umani! Se invece riuscissimo ad entrare in possesso della Kharlan, pensaci, e a mettere a tacere il Tribunale… se finalmente ci rivelassimo agli umani-…»

«Il mondo piomberebbe nel caos e nella paura.» la interruppe Marcus, col tono di chi non ammette obiezioni.

«Sì, ma verremmo finalmente riconosciuti, temuti e rispettati.» ribadì la donna «Ed avremmo un nostro posto nel mondo.»

I pochi mormorii che si erano susseguiti fino a quel momento tacquero di colpo, ed ogni occhio che aveva volontariamente distolto lo sguardo da Jen non poté che tornare a fissarla, sgranato. Le più disparate emozioni esplosero: stupore, rabbia, amarezza, approvazione, disgusto; Nathan le sentiva tutte, talmente tanto forti da rendergli impossibile ancora una volta distinguerle e stabilire quali fossero quelle altrui e quali le proprie.

La ragione al contempo più umana e più disumana che uno come loro avrebbe potuto dare, lo sapevano tutti: trovare il proprio posto in un mondo che non li voleva.

Facendo scorrere gli occhi sulle persone attorno a loro, Georgiana notò che alcuni avevano abbassato lo sguardo o si erano scambiati cenni d’assenso, concordando con la tesi di Jen. Tuttavia, quando la bambina tornò a guardare Nathan con occhi pieni di confusione, quest’ultimo le ribadì prontamente le sue idee.

«No, non è così.» le spiegò con voce bassa «Noi siamo persone vive solo a metà, Georgiana: vive nel corpo ma prive di anima. Per avere un posto in questo mondo che venga riconosciuto anche dagli umani… si necessita di entrambe.»

La ragazzina istintivamente cercò Adam Forster, e si chiese se una persona come lui avrebbe davvero potuto trovare il suo posto all’interno di una società basata sui valori morali. No, e probabilmente neanche delle persone più contenute, come lei, Sogno o Damon, ci sarebbero riuscite.

Il suo sogno di ritrovare il suo posto nel mondo umano le sembrò disfarsi lento davanti agli occhi.

Avvertì la mano grande di messere Metherlance poggiarsi sulla sua spalla, e, seguendo il suo sguardo, poté notare che stava fissando il cadavere della sua povera Annlisette, riverso nella neve.

«È questo il destino di un vampiro. Non dimenticatelo mai.» sentenziò Nathan, e quelle parole le piombarono addosso come una condanna ad una non-vita di freddo e buio.

In quel momento, nel vento, cominciarono ad udirsi le prime urla provenienti da Hidel, strazianti ed agghiaccianti. Marcus, assieme a molti altri, sollevò il capo per lasciarsi investire dal suono della sconfitta, mentre Jen tratteneva un sorriso pieno di rammarico per essersi lasciata mettere sotto scacco ad un passo dalla vittoria.

Nel frattempo, Adam Forster si allontanò silenzioso verso la foresta, con la probabile intenzione di fuggire; Nathan lo seguì attentamente finché non fu scomparso tra i tronchi neri, poi tolse la mano dalla spalla di Georgiana e si rivolse alla ragazza ed agli amici dietro di lui.

Damon gli sembrava sconvolto quasi quanto lo era stato nel momento in cui avevano abbandonato Krissy al suo destino.

«Prendetevi cura di Ann.» ordinò il supervisore, ferreo, per poi muovere un passo verso la foresta ed una mano verso la Selescinder «Io ho ancora un conto in sospeso.»

E detto ciò, seguito da una ribelle Georgiana, si lanciò all’inseguimento di Adam Forster.  

 

 

Note:

#1: Nella terminologia specifica, si definisce “sire” colui che attua la trasformazione, e che dunque avrà per sempre una forte influenza sulla volontà del trasformato.

#2: “Biancaneve” in tedesco, lingua madre di Nathan.

   

 

 

Note dell’Autrice:

Salveeeeee! >__< rieccomi dopo tanto tempo!

Scrivere questo capitolo è stato un po’ difficile, perché ho dovuto rivedere tutti quelli vecchi per essere sicura di aver ricordato di spiegare ogni avvenimento – la cosa che prego non accada mai è che un lettore mi faccia notare una falla nella trama!

Siamo quasi alla fine, da quanto tempo lo dico? Ma ora siamo proprio al capolinea! Il prossimo capitolo è l’ultimo, quindi ci sarà un brevissimo epilogo *si asciuga le lacrime di commozione*

Grazie al cielo fin ora nessun lettore mi ha divorata voracemente per aver tirato fuori la storia dei vampiri XD sì, lo so, è stato molto cattivo da parte mia farvi credere per quasi trenta capitoli che fossero umani, o, al massimo, Angeli e Demoni. E invece sono vampiri e lupi mannari XD

 

Come vi ho detto nel capitolo precedente, lavoro a Snow da molti anni, da molto prima che scoppiasse la “vampiro mania”, per cui quando è esplosa io avevo già pubblicato parte di storia ed avevo il terrore che sarebbe risultata una cosa banale. Pensai addirittura ad un finale alternativo, sapete? Lo pensai scrivendo il diciannovesimo capitolo, al punto in cui Ann dice di non essere morta uscendo da Hidel, e Nathan, Sogno e Damon rimangono in preoccupante silenzio. Ecco, nel finale alternativo alla fine Hidel era davvero un villaggio fantasma ed erano tutti anime che non avevano trovato pace, quindi gli “Angeli”, una sorta di gruppo istituito dalla Chiesa – potremmo definirli esorcisti -, si proponeva di portarli ‘dall’altra parte’. Oggettivamente, mi piace molto di più il finale alternativo, ma mi sarei giocata il ciclo delle quattro storie, delle quali, a mio parere, Snow è quella meno interessante.

 

Orsù, è il momento di mettersi sotto con l’ultimo capitolo °w°

Come sempre ringrazio tantissimo tutte le persone che seguono o hanno seguito, preferitato o ricordato Snow. Nell’epilogo vi nominerò uno per uno. Siete ad occhio e croce un centinaio, ma voglio nominarvi comunque uno per uno!!!! XD

In particolare i ringraziamenti vanno a Milou, a Kikyo e ad Alice Tudor, che hanno avuto il gentilissimo pensiero di lasciarmi anche un commento!

 

A presto!

Sely.

 

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Capitolo 29
*** L'ultimo segreto ***


What colour is the snow?

Capitolo 29: L’ultimo segreto.

 

Georgiana Varens, affondata fino alle ginocchia nella neve, sentiva freddo; aveva un sorriso sulle labbra pallide e sottili, un sorriso un po’ troppo somigliante a quelli di messere Metherlance. Con un movimento ipnotico e ripetitivo, correva con gli occhi stanchi dalla figura eretta di Nathan, poi alla sua spada gocciolante di sangue, infine al corpo riverso per terra, inerme e morto. Definitivamente morto.

Le sembrava quasi un sogno. Adam Forster era andato via per sempre, e l’aveva fatto come il più vile dei vermi: scappando; e nel modo più semplice possibile: abbattuto da un colpo solo, che gli aveva troncato la testa di netto. Non aveva nemmeno provato ad opporre resistenza ai suoi inseguitori, né si era mai voltato per lanciare loro uno sguardo. Si era arreso, ma al contempo aveva cercato di darsela a gambe, forse nella speranza disillusa di essere risparmiato o di seminarli.

Quell’evento segnava davvero l’inizio di una nuova epoca; forse Georgiana avrebbe dovuto esserne felice, eppure dentro di lei in quel momento non riusciva a trovare altro che paura di un futuro dove non avrebbe più avuto nessuna guida, nessun motivo per andare avanti. In qualche modo, i ricatti di quell’uomo erano serviti a spingerla a sopravvivere, se non per se stessa almeno per chi amava.

Ed ora, sebbene la sua gratitudine verso messere Metherlance per averla liberata da quell’incubo fosse grande – Georgiana sapeva però bene che lui non lo aveva fatto per lei, ma per riscattare il proprio onore -, non poteva fare a meno di chiedersi che cosa avrebbe fatto del suo futuro.

Attualmente non aveva voglia di pensarci, e neanche Nathan a giudicare da come le passò accanto, impassibile. L’uomo sollevò una mano in un eloquente gesto per invitarla ad alzarsi e seguirlo, lanciandole un ultimo sguardo pieno di aspettativa, e Georgiana capì che non poteva deluderlo, non colui che le aveva appena tolto dalle spalle un peso terribile. Dunque si mise in piedi, e facendo attenzione che la coda dell’occhio non incontrasse il profilo di quel cadavere tanto odiato si accodò al tedesco, a lenti e pesanti passi nella neve.

 

Tre giorni dopo – 07/01/1855

Tornare in vita è una cosa innaturale.

Per quanto ovvio e prevedibile, questa era stata la prima considerazione di Annlisette Nevue nel momento in cui si era resa conto di esserci ancora. Convinta di essere ormai arrivata al capolinea, la ragazza si era quasi lasciata uccidere dopo aver provato a fare resistenza contro Nathan; ma ben presto si era lasciata vincere, consapevole di quanto fosse infinitamente inferiore a quell’uomo dalla doppia faccia.

Si dice che nell’attimo prima di morire ci si veda passare davanti tutta la propria vita. Annlisette Nevue non aveva visto esattamente la sua vita – anche se il suo ultimo pensiero era corso ai Nevue -, ma i tasselli di un puzzle che a lungo avrebbe potuto connettere tra di loro nel modo più banale possibile, se solo fosse stata superstiziosa come le altre persone di Hidel. Sotto questo punto di vista Nathan era stato davvero fortunatissimo a trovare lei, perché chiunque altri, avendo in mano ciò che aveva lei, lo avrebbe smascherato velocemente.

Tutto tornava al suo posto in modo quasi irritante: la pelle gelida, la saggezza decisamente esagerata per un venticinquenne, la forza bruta, la velocità sviluppata, la capacità di entrare nella testa delle persone e metterle in soggezione… la mancanza di un battito cardiaco.

Sì, finalmente Annlisette era riuscita a ricordare il particolare che aveva notato quella notte a Terren, quando si era concessa a lui, scoprendo però in che razza di mani era capitata.

Il modo in cui lui era riuscito a modificare la sua memoria le rimaneva tuttavia oscuro, così come la maggior parte degli avvenimenti riconducibili a quell’avvenimento.

E se Nathan era un vampiro, anche gli “Angeli” lo erano, ormai c’era poco da tergiversare. Quindi lo erano anche Damon, Sogno e Georgiana. E lei aveva abitato in mezzo ai vampiri per un mese senza neanche accorgersene.

Ottimo. Beh, non si poteva certo dire che fosse una persona a cui non sfuggiva niente…

In realtà, se le fosse stato concesso di decidere per sé, Annlisette Nevue avrebbe volentieri fatto a meno di svegliarsi, ecco perché inizialmente, pur avendo piena cognizione di ciò che la circondava e ancor prima di se stessa e del suo corpo, decise di non aprire gli occhi.

La verità innegabile era che aveva paura; il suo corpo non era mai stato così freddo e fermo, non aveva mai potuto continuare a vivere pur sentendo il cuore immobile ed il respiro mancare. Con le dita della mano destra tastò ciò che stava sotto di lei e riconobbe un tessuto dalla mediocre lavorazione, tuttavia non riuscì a percepirne alcuna sensazione: non aveva freddo né caldo, pur essendo sicurissima che attorno la temperatura fosse diversi gradi sotto lo zero.

Intorno a sé, non riusciva inoltre a percepire alcun suono vicino, come se si trovasse in mezzo a delle statue. Eppure il suo udito, adesso stranamente fine, riusciva a spingersi al di là della barriera in cui era prigioniera e correva verso l’esterno, nella foresta, dove il vento muoveva furiosamente le fronde degli alberi e la neve impazzava in una bufera. Di tanto in tanto qualche voce sormontava questi suoni, ma era decisamente troppo lontana perché lei potesse intendere ciò che diceva.

Il problema era che non poteva rimanere in quello stato per sempre, con gli occhi chiusi a far finta di dormire; ma se davvero il mondo esterno si prospettava così spaventoso attraverso questa nuova visione… no, si sarebbe fatta coraggio ed avrebbe dormito in eterno, qualsiasi cosa fosse accaduta…

«Penso che in realtà tu abbia paura di realizzare che hai tradito il tuo Dio.»

Tra tutte, proprio la voce che meno desiderava sentire le rispose. Istintivamente, senza rendersi conto di essersi fregata da sola, la ragazza si accigliò ed aggrottò il capo, pur mantenendo un ermetico silenzio.

«In tal caso, non hai da sentirti in colpa.» continuò Nathan, accompagnato dal rumore di passi che indicava il suo avvicinarsi «Dopotutto sei stata forzata. È colpa mia.»

A quelle parole, Ann non poté più trattenersi ed aprì la bocca per rispondere acidamente… ma non ne uscì alcun suono. Lo stupore fu tale da convincerla a spalancare gli occhi e provare ad articolare altre parole, ma niente, nessun risultato. La ragazza alzò lo sguardo al tedesco che stava davanti a lei, in piedi, in cerca di risposte.

«È normale.» le assicurò lui, per poi sedersi compostamente sulla branda vecchia e mezza rotta dove la villica riposava; il suo volto appariva quasi più stanco e pallido del solito, tanto che Ann, se non fosse stata in preda alla rabbia, si sarebbe quasi preoccupata per lui «Inspira come se stessi respirando normalmente.»

La ragazza si sentì profondamente smarrita: aveva bisogno dell’aiuto di Nathan anche per parlare, adesso? Tuttavia, per quanto questa consapevolezza la riempisse di rabbia e amarezza, dovette riconoscere che non aveva altra scelta se voleva sopravvivere – in realtà però, Ann non era ancora sicura di voler sopravvivere, non come vampiro.

Provò un paio di volte, ma solo al terzo tentativo, mentre sentiva i polmoni riempirsi per la prima sotto uno stimolo volontario, le riuscì di articolare uno strano verso che non somigliava a nessuna parola. Si sentì demoralizzata, così decise di lasciar perdere e tornare ad abbattersi, sempre più sull’orlo delle lacrime.

Quando le prime lacrime le solcarono le gote, Nathan allontanò lo sguardo da lei e lo posò su un angolo a caso della buia tenda.

«So che hai paura, è normale. Anch’io l’ebbi…» “più o meno” completò nella propria mente.

Sì, lui aveva avuto paura in un certo qual modo, ma solo perché al momento del risveglio si era ritrovato senza una guida. Nonostante ciò, il pensiero di tornare da sua sorella e dal suo mentore aveva ben presto avuto la meglio e… sì, inizialmente era davvero stato felice di essere “resuscitato” come vampiro. Dopotutto, lui aveva vissuto in mezzo ai vampiri per così tanto tempo da non riuscire più a ricordare come viveva un essere umano; Ann, al contrario, si era ritrovata catapultata in un mondo nuovo e sconosciuto all’improvviso, senza aver mai neanche creduto nell’esistenza di creature simili a loro. Tutta quella paura che proveniva dalla figura della ragazzina spingeva Nathan a chiedersi se sarebbe riuscita a sopportare la sua nuova “vita”, o se si sarebbe lasciata morire come molti di loro facevano. Considerando la forte vena religiosa che la caratterizzava, era molto più probabile la seconda ipotesi.

Ann abbassò la testa e curvò le spalle, si fece minuta e si chiuse in se stessa, riflettendo sui pensieri più terrificanti e gelidi che fino a quel momento aveva chiuso fuori dalla porta della sua mente.

Che cosa significava essere un vampiro? In base alle leggende con cui era cresciuta significava essere delle creature dalle mostruose fattezze, ma lei era ancora una normalissima umana, e non poter mai più camminare nella luce del sole, ma Nathan lo faceva – per poco tempo e con difficoltà, in ogni caso -.

Significava doversi nutrire del sangue d’altri per vivere, anzi, per sopravvivere.

E il solo pensiero la terrorizzava.

Ma c’era una cosa che la terrorizzava ancora di più: il rendersi conto di essere morta ma al contempo viva; era come se il suo corpo fosse diventato un oggetto, animato solamente da… cos’era rimasto, ormai? Un’anima? O forse l’anima l’aveva venduta al diavolo senza rendersene conto?

Questi e mille altri dubbi la colpirono così nel profondo da farle passare i successivi dieci minuti piangendo senza ritegno, davanti ad un Nathan che non provava nemmeno a consolarla e che si limitava ad ascoltarla attraverso le sue emozioni. Quelle per fortuna c’erano ancora, sebbene Ann sospettasse che se ne sarebbero andate anche loro con l’andar degli anni.

Dopo un tempo che le parve lunghissimo riuscì ad alzare il capo, tenendo però gli occhi ancora bassi; voleva dire qualcosa, voleva rispondere a Nathan, forse voleva persino ucciderlo per quello che le aveva fatto – peggio di così non poteva andare, sarebbe stato solo il primo di una serie di omicidi.

Era certa che se fosse stata viva a quel punto avrebbe cominciato a tremare di rabbia, tanto era il rancore che nutriva nei confronti di quell’uomo che continuava a star lì davanti a lei, immobile e zitto, come se fosse estraneo alla situazione. Come se non fosse stata colpa sua e delle sue bugie.

«Tu…» cominciò a dire, la voce talmente piegata dal risentimento come non l’aveva mai sentita. Finalmente riuscì a guardarlo, a scagliargli contro con gli occhi tutta la sua collera, ma non poté sillabare una parola di più: non ne era capace, e persino il semplice “tu” appena mormorato era a stento riconoscibile.

Seduto sull’altro capo della branda, il vampiro non sembrava però risentire affatto né dello spettacolo che aveva davanti, né tantomeno delle emozioni che lo tempestavano. Ann immaginò che fosse riuscito a recuperare la sua barriera impenetrabile che lei aveva impiegato mesi e mesi per incrinare.

Erano bastati un omicidio e tre giorni di solitudine per trasformare un rapporto amoroso in un rapporto dove il rancore regnava sovrano. Anzi, Annlisette era ormai consapevole e convinta che il così detto “rapporto amoroso” fosse stato a senso unico per tutto quel tempo.

“Tu mi hai presa in giro.”

Quelle parole avrebbe voluto urlargliele in faccia prima di avventarsi addosso a lui, ma più provava a parlare meno sentiva le corde vocali venirle incontro. In preda ad una furia crescente, si mise sulle ginocchia ed allungò le mani per afferrarlo per il collo, forse con l’intento di strozzarlo – no, troppo umano – o di staccargli la testa dal resto del corpo. La sua visuale venne nuovamente offuscata dalle lacrime quando si accorse che neanche quel gesto così violento ed esplicito sembrava convincere Nathan a far almeno finta di provare qualcosa.

E invece no, solo silenzio, la cosa che più poteva farle male. E in silenzio, nonostante ora odiasse profondamente quell’uomo, si ritrovò a piangere un’ultima volta sulla sua spalla.

 

Solamente dopo ore ed ore di tentativi Ann recuperò l’uso della parola, dapprima zoppicando sulle sillabe, poi procedendo più tranquillamente, fino a tornare quasi alla normalità. La sua voce era stanca e la gola era secca; aveva una gran fame, ma non voleva saperne di mangiare: la sola idea che i vampiri potessero presentarle un bicchiere di sangue al posto dei suoi pasti abituali la nauseava.

Era completamente in balia di quella gente, ma decisa comunque a rimandare il più possibile quella necessità che la terrorizzava.

Godette della compagnia rassicurante di Sogno e Damon per quasi tutta la notte. Sebbene anche loro fossero Angeli – fossero vampiri – non potevano essere più diversi da Nathan: la incoraggiarono, le fecero forza e le spiegarono che erano stati costretti ad agire in quel modo a causa di ordini dai superiori, le raccontarono dell’inganno di Jen, di come erano riusciti a sventare il suo orribile piano. Tacquero, invece, su ciò che era successo a Hidel in quei giorni, facendo credere ad Annlisette che fosse andato tutto davvero per il meglio, che fossero riusciti a fermarla in tempo.

Se da un lato la ragazza aveva paura di affrontare la sua nuova vita, dall’altro i due fratelli si chiedevano con che coraggio potevano rivelarle quest’ultimo, raccapricciante accaduto.

«Siete stati davvero eccezionali a non farvi scoprire… quando abitavo a Terren…» disse ad un certo punto la giovane, non senza difficoltà.

«Abbiamo i nostri trucchi.» le sorrise Sogno, che le stava seduta accanto sulla branda «Li imparerai anche tu, vedrai. È impensabile che uno di noi viva lontano dalla società: siamo diversi, è vero, ma non per questo non abbiamo bisogno di-…»

«Sangue?» la interruppe Ann, spaventata.

La bionda scosse il capo «Non solo di quello: di rapporti umani.»

Quella frase non fu ben compresa dalla mora: di che genere di rapporti umani può avere bisogno chi non è più umano? La sua perplessità fu ampiamente notata dagli altri due, e stavolta fu Damon a rispondere, che si dondolava pigramente sulla sedia malandata davanti al lettino, ad occhi rigorosamente chiusi.

«La nostra condizione ci imporrebbe di stare lontani dagli uomini a meno che non abbiamo bisogno di cibo, ma questo significherebbe estraniarsi dalla società. Perdere ogni contatto con i vivi sarebbe triste… non credi?» sulle ultime parole la sua voce andò sempre più abbassandosi, come se si stesse rendendo conto di quanto fosse ingenuo il discorso improvvisato. Con una risata per nulla allegra si rivolse poi a Sogno «Forse solo noi due sentiamo questa necessità?»

La risata fu ricambiata dalla biondina, ma Ann non lo trovò affatto divertente. Sogno le passò una mano intorno alle spalle, stringendola a sé delicatamente.

«Nathan non ne ha sicuramente la necessità…» commentò la villica.

Per qualche secondo seguì un profondo silenzio, che né Sogno né Damon avevano il coraggio di rompere. Annlisette in quel momento sembrava la cosa più fragile del mondo e Nathan la più corrosiva mai esistita: non era possibile più metterli in relazione.

Mentre le carezzava affettuosamente i capelli scompigliati, Sogno lanciò uno sguardo all’entrata della tenda, scorgendo nel buio della notte le figure poco lontane di Nathan e Georgiana, che vegliavano quietamente sul loro rifugio.

«È sempre stato così, lui…» cominciò a parlare, spostando quindi gli occhi sull’unica lampada che li illuminava soffusamente «Credo che lo faccia volontariamente, per non dover affrontare più certe esperienze.»

«Ti riferisci… alla morte di sua sorella?» chiese Ann dopo un profondo sospiro.

L’altra annuì con convinzione «In realtà noi non ne sappiamo granché… solo che furono traditi da una persona di cui si fidavano molto.»

“Proprio com’è successo a me” pensò tra sé e sé Annlisette, che proprio non riusciva ad accettare l’idea che la sua trasformazione fosse stata decisa a tavolino da Jen. Se Nathan avesse tenuto almeno un po’ a lei avrebbe fatto in modo di salvarla, e invece…

«È brutto essere traditi da chi si ama.» le sorse spontaneamente dalla gola, senza potersi trattenere dal ricominciare a piangere in silenzio.

In tutta la “giornata” – la sua giornata vampiresca, ovvero quella che un tempo era stata la sua nottata – non aveva fatto altro che piangere e tormentarsi: senza dubbio, non c’era modo peggiore per cominciare una nuova vita.

 

Nel momento in cui il sole sorse, Ann si addormentò quasi senza rendersene conto. Fu orribile: la coscienza scivolò via velocemente, senza darle il tempo di realizzare che cosa stava accadendo.

“Sono morta?” si chiese, non senza nascondere un barlume di speranza.

Ma quando il giorno morì e un giorno nuovo per i vampiri iniziò, quella fievole speranza appassì, sostituita dalla consapevolezza che non si trovava dentro un brutto sogno e che non si sarebbe più svegliata tra le braccia di sua madre.

Si svegliò invece tra le braccia femminili ma fortissime di Sogno, che la stava poggiando nuovamente sopra il guanciale.

«Che cos-…» fece per chiedere Ann, ma si interruppe non appena si accorse del bicchiere che la bionda recava in mano. Non impiegò molto per capire che l’avevano nutrita di nascosto durante il sonno, e realizzarlo le fece quasi venire da rimettere.

Dall’esterno, Damon e Georgiana poterono udire le urla strazianti della ragazza che si scagliava contro Sogno, e quest’ultima che cercava di calmarla e spiegarle che era necessario per tenerla in piedi.

All’interno dell’accampamento tutti ormai erano consci della nuova compagna e di quanto fosse una tipa difficile, tuttavia nessuno aveva intenzione di prestarle attenzione, soprattutto ora che si stavano ritirando verso l’intero, alla volta di Londra.

Già da due giorni più della metà degli occupanti del campo era partita, lasciando forse per sempre quelle lande desolate. A breve anche Sogno, Damon, Georgiana e Nathan sarebbero dovuti andare via, anche se erano liberi di decidere autonomamente quando, poiché avevano ufficialmente abbandonato il clan subito dopo l’arresto di Jen, la quale era già in viaggio verso Terren, prigioniera.

Era stata una scelta ampiamente apprezzata da Marcus, che così non avrebbe dovuto assumersi nessuna responsabilità quando Nathan Metherlance si sarebbe presentato davanti al Tribunale Nero per giustificare l’assassinio di Adam Forster. L’udienza era stata fissata per fine mese.

Infine, il terzo giorno i quattro presero unanime la decisione di rivelare ad Annlisette l’indomani la tragica sorte di Hidel e dei suoi abitanti.

 

Il giorno dopo - 10/01/1855

Il campo era stato ufficialmente sgomberato, tutti i militari avevano lasciato la zona ed erano in viaggio verso Londra; solamente due tende rimanevano, piccole e isolate nel folto della foresta.

Ironicamente, quel piccolo gruppo di morti erano gli unici vivi nel raggio di chilometri.

Per la prima volta dopo tanti giorni, Annlisette rivide Georgiana Varens. Inizialmente la fissò con odio e rancore, ma quando Nathan entrò nella tenda tali sentimenti vennero subito rivolti a lui.

“È una mia esclusiva…” pensò sarcasticamente il tedesco mentre si accomodava su una delle due sedie.

Georgiana prese posto accanto a lui, per terra, mentre Damon occupava l’altra seggiola e Sogno la metà di branda lasciata libera da Ann. Questa aveva appena finito di costringersi a bere un bicchiere di sangue, ed i suoi occhi lucidi erano testimoni della lotta furiosa che avevano combattuto il suo istinto e la sua umanità.

Ancora una volta, si stava lasciando trasportare dagli eventi senza prendere l’iniziativa, incapace di reagire a ciò che le accadeva intorno. Non le piaceva trovarsi in compagnia di Georgiana e Nathan, ma non aveva altra scelta che assecondarli, almeno per il momento.

Ciò che più tutti desideravano in quel momento, mentre un silenzio carico di tensione li avvolgeva, era che qualcuno prendesse parola, e tutti, ovviamente, riponevano le loro aspettative in Nathan, che era l’unico capace di affrontare qualsiasi argomento senza fare passi falsi.

Il desiderio venne esaudito, ed il biondo prese parola dopo aver messo le braccia conserte.

«A breve partiremo, Annlisette. Hai intenzione di venire con noi?» chiese gelidamente, senza troppi preamboli.

La ragazza esitò un attimo prima di rispondere; curvò le spalle ed abbassò il capo, visibilmente combattuta tra il bisogno di non rimanere sola e la consapevolezza che stare con loro significava restare assieme a Nathan e Georgiana.

«Non lo so…» ammise, evadendo con lo sguardo «La mia casa è qui. Era qui…»

Sogno, Damon e Georgiana si scambiarono vicendevolmente occhiate confuse, chiedendosi in silenzio se Ann sapesse già quanto volevano dirle, o se avesse solo detto la prima cosa che le passava per la testa; Nathan, che non avvertiva provenire dalla ragazza alcun sentimento di tristezza o dolore, arrivò più facilmente alla conclusione che Ann non considerava più Hidel casa sua da quando aveva smesso di essere umana.

«Non resta più niente qui.» proseguì l’uomo, attirando così l’attenzione della ragazza «Né per te né per nessuno.»

«Che cosa vuoi dire…?» articolò lentamente lei, inquieta.

In quel momento lui si mise in piedi, sfilò una mano da sotto il mantello e la porse alla giovane.

«Lo vedrai.»

 

Passo dopo passo, più Hidel – o meglio, quel che ne restava – andava delineandosi davanti a loro, più Georgiana poteva vedere gli occhi di Annlisette farsi grandi, sgranati, increduli.

La ragazzina si chiedeva quanto quella villica potesse ancora sopportare prima di collassare del tutto; fece scorrere lo sguardo preoccupato su Nathan, che ricambiò con un cenno del capo, facendole implicitamente capire che rivelare la verità ad Ann era un passo assolutamente necessario.

La verità viene sempre a galla, Georgiana lo sapeva bene questo, e in effetti scoprire tutto successivamente, magari anche in modo più brusco e violento, avrebbe potuto compromettere la salute mentale della novella vampira.

La osservò per un po’, chiedendosi quali emozioni le passassero per la testa mentre si rimetteva a camminare, no, a correre a perdifiato verso le rovine del villaggio.

Sogno la seguì subito, correndo sulla neve a sua volta, mentre lei e Nathan rimasero indietro, procedendo con passo ritmico. Georgiana si affiancò a lui, conscia che l’uomo non avrebbe detto neanche una parola finché non fosse stato necessario, sebbene lei gli stesse rivolgendo mentalmente un’infinità di domande.

Ci avevano pensato gli Angeli a far sparire i cadaveri, poiché il Tribunale Nero non voleva che in un nessun modo le cause della morte fossero ricondotte a qualcosa che andava oltre la comprensione umana. Sulla carta, Hidel sarebbe apparso come un villaggio che all’improvviso si era svuotato dei suoi abitanti, lasciando al loro posto solo chiazze di sangue ed armi sparse qua e là.

Il dolore di Ann Georgiana non voleva nemmeno immaginarlo: la sua famiglia, i suoi amici, le persone con cui era cresciuta o che conosceva anche solo di vista erano tutti morti. Nessuno era riuscito a salvarsi dall’ondata inferocita del popolo del suono, o almeno così avevano decretato gli Angeli; se qualcuno era invece scappato grazie a qualche miracolo, probabilmente la fame e il freddo lo avevano già ucciso.

Georgiana aveva visto Hidel solo da lontano, ma lo spettacolo che si trovò davanti appena entrata le fece comunque male: niente, niente era più come prima.

 

A poca distanza da Georgiana e Nathan, con le ginocchia affondate nella neve e Sogno che la teneva stretta tra le braccia, Annlisette delirava. Appena varcata la soglia del suo villaggio, là dove un tempo c’era stata la piccola piazzetta dove i bambini si riunivano a giocare d’estate, un senso di vuoto l’aveva stretta così violentemente che la ragazza si era chiesta se non fosse morta una seconda volta.

Quello era senza dubbio il momento peggiore della sua vita.

Come prima cosa non poté fare a meno di correre disperatamente verso casa sua, chiamando a gran voce la madre, il padre ed il fratello; come prevedibile, nessuno però le rispose. Attorno a lei, Hidel non era più quello che conosceva: le case distrutte e crollate, le macerie, riverse su quelle che un tempo erano state strade, rendevano difficile il passaggio ed erano ricoperte di chiazze rosse e di neve; ma la cosa più terribile era l’assenza di persone ed il silenzio assordante.

Ann non voleva nemmeno immaginare che cosa fosse accaduto in sua assenza.

Si ritrovò davanti a quella che un tempo era stata casa Nevue e che adesso era una baracca disabitata, che non stava più a significare niente per nessuno. Non c’era suo padre che tagliava la legna fuori, non c’era Gabriel che si lamentava del freddo, non si intravedeva sua madre dalle finestre della cucina. Non si arrese e si precipitò dentro, aggirandosi per le stanze come un fantasma e urlando i nomi dei suoi familiari. L’interno era esattamente come se lo ricordava prima di lasciare il villaggio alla volta di Terren, solo più disordinato e sottosopra del solito, come se la sua famiglia fosse stata costretta ad una fuga improvvisata.

Tornata fuori, per la velocità con cui scese le scale scivolò sul ghiaccio e cadde sulla neve dura.

Sentì i passi sempre più vicini dei tre che l’avevano accompagnata, ma non volle alzare la testa e rimase lì, provando a immaginare che al posto di quei tre vampiri stesse sopraggiungendo la sua famiglia.

Quest’illusione ebbe solo il potere di farla stare ancora peggio.

Quale disumana forza era salita dalle fauci dell’Inferno? Esisteva davvero qualcosa in grado di commettere tutta quella distruzione?

«Che cosa è successo qui?» furono le sue uniche parole prima di crollare, preda di un pianto disperato.

Sogno, che tra tutti era sempre stata quella a lei sinceramente più vicina, l’abbracciò con fare protettivo e le spiegò «Il piano del nostro comandante prevedeva di lasciare una via libera al popolo del suono, illudendoli di poter recuperare la Kharlan e distruggerci.»

«Sono stati… loro a fare tutto questo?» continuò la ragazza, nella sua voce si poteva distinguere chiaramente l’ira crescente.

Fu quando sentì Georgiana e Nathan raggiungerle che si divincolò dalla presa di Sogno, si rimise in piedi così bruscamente da scivolar e ricadere, stavolta non aiutata da nessuno; strinse con rabbia i pugni, sentendo la neve insinuarsi tra le dita. Avrebbe voluto sfogarsi in modo violento, ma non poté fare altro che alzarsi ancora, ignorando l’espressione perplessa di Georgiana e quella preoccupata di Sogno, avventandosi poi contro Nathan, che stava fermo davanti a lei e lasciava scorrere lo sguardo sulle macerie. Con un gesto veloce gli afferrò il collo del mantello e lo tirò a sé, costringendolo a muovere un passo in avanti.

«Perché non avete fatto niente se lo sapevate?!» gli urlò in faccia, a brevissima distanza da lui.

Senza fare una piega, l’uomo le rispose «Quando lo abbiamo scoperto era troppo tardi.»

Dentro di sé, Ann capiva che non avevano voluto rivelarglielo prima per non farla soffrire più di quanto aveva già fatto, ma in quel momento, accecata com’era dalla rabbia, non riusciva a ragionare lucidamente e li malediceva per averla ingannata ancora una volta. Forse, si illudeva, avendolo saputo prima avrebbe potuto vedere quella devastazione poco dopo il suo compimento; ma era poi quello che desiderava? No, desiderava solo due cose: svegliarsi ed essere accerchiata dalla sua famiglia, oppure sterminare tutti coloro che avevano contribuito alla strage.

La sua presa si fece ancor più ferrea su Nathan, quindi riprese ad urlargli in faccia.

«Dov’è?! Dov’è quella dannata arma?!»

L’avrebbe distrutta una volta per tutte, ma prima l’avrebbe usata per farla pagare amaramente a tutti: non avrebbe avuto pietà come loro non avevano avuto pietà di Hidel.

Ma Nathan, dopo qualche attimo di silenzio, scosse piano la testa «Non esiste una Kharlan, Annlisette. Non c’era niente nei sotterranei della chiesa.»

La presa della ragazza tremò e si sciolse istantaneamente, Ann barcollò diverse volte prima di lasciarsi cadere di nuovo, con un urlo di rabbia che fendette l’aria e si espanse per il luogo desolato.

Sogno provò a metterle una mano sulla spalla, ma la villica la cacciò via bruscamente, per poi ricominciare a piangere e maledire in tutti i modi possibili vampiri, lupi mannari, Angeli o Demoni che fossero: ai suoi occhi erano tutti diavoli.     

 

Due giorni dopo – 12/01/1855

Il paesaggio che aveva davanti a sé cambiava radicalmente a seconda della stagione, Annlisette lo sapeva bene; molte volte durante il periodo d’assenza di Nathan vi si era recata, lì, sul ciglio del dirupo che dava sulla valle. In estate, quando vi aveva portato Nathan prima della partenza, la vallata era più verde che mai, fino a raggiungere il mare del Nord, all’orizzonte. Ora, invece, ciò che aveva davanti era una massa di neve bianca e spettrale, ed il vento, soffiando tra i monti circostanti, creava strane eco simili a ululati.

Si erano promessi che sarebbero tornati lì insieme, un giorno, e la promessa era stata mantenuta.

Da quel giorno la situazione era radicalmente cambiata, il grande amore che Ann aveva provato in quell’occasione non c’era più, si era trasformato in rabbia ed amarezza; confusa, non sapeva più cosa fare o pensare. Sapeva solo che avrebbe lasciato quelle terre il prima possibile, da sola.

Non intendeva rimanere oltre in compagnia di quelle persone: ai suoi occhi, chi più chi meno, erano tutti colpevoli per ciò che era accaduto.

Dritta in piedi ed avvolta in un lungo mantello blu scuro che le copriva il capo e i lunghi capelli, provava a ragionare su ciò che avrebbe fatto da lì in poi.

Il viaggio, questa era l’unica cosa certa: era l’inizio di un viaggio. Non sapeva dove l’avrebbe portata, forse direttamente nella tomba considerando che aveva insistito per essere sola in quella nuova avventura.

Nessuno aveva cercato di convincerla troppo a lungo a cambiare idea: Nathan non aveva pronunciato nemmeno una parola, Georgiana sembrava perdere la lingua quando erano insieme, Damon diceva di capirla, poiché anche lui si era trovato in una situazione simile all’inizio, Sogno invece le aveva più volte chiesto se era sicura, arrendendosi poi all’evidenza dei fatti.

Forse avrebbe visitato il famoso Tribunale Nero, dove avrebbe avuto un primo contatto con la società dei vampiri. Oppure sarebbe morta per strada di sete; non riusciva a concepire l’idea di strappare a qualcun altro la vita, così come era stato fatto con lei.

La sua vita, arrivata a quel punto, era un’incognita.

Lo scalpitare degli zoccoli sulla neve attirò la sua attenzione in quel momento; voltò appena il viso, notando il sopraggiungere di Nathan, con in mano strette le briglie di un cavallo che stava guidando verso di lei. Quando le fu accanto, l’uomo gliele passò, per poi voltarsi verso il paesaggio.

«Speravo che non finisse così.» ammise finalmente, mostrando una vena di umanità che Ann credeva essersi esaurita.

Ella sapeva che si stava riferendo più a lei che a Hidel, ma scosse piano la testa per fargli intendere che non aveva la minima intenzione di parlarne ancora: c’erano voluti due giorni perché si riprendesse dallo shock e ricominciasse a parlare senza gridare o aggredire immotivatamente gli altri, e tornare sull’argomento sarebbe servito solo a farla ripiombare nel baratro del dolore e della rassegnazione.

Non se ne sarebbe mai fatta una ragione, non avrebbe mai trovato un motivo abbastanza forte da sostenere la necessità di uno sterminio simile, non avrebbe mai perdonato coloro che l’avevano commesso.

Le era stato spiegato che non aveva più da preoccuparsi per ciò che avrebbe fatto in futuro, «Essere uno di noi significa anche non dover più rispondere delle proprie azioni» le aveva detto Nathan, che senza dubbio non rispondeva più delle sue da molto tempo. La sua anima era stata venduta al Diavolo e non c’era più niente da fare.

Ann inizialmente non ci aveva creduto e aveva provato a recitare una preghiera, ma la voce le era inspiegabilmente morta, e non era tornata finché non aveva rinunciato all’impresa. Se avesse provato a toccare un crocifisso o dell’acqua santa la sua pelle sarebbe bruciata all’istante, stando a ciò che diceva Damon. Avrebbe impiegato molto tempo per poterli sfiorare o toccare senza ustionarsi, molto più tempo per resistere alla luce del sole per qualche minuto o per entrare nelle chiese senza prendere fuoco.

«Quanto tempo ci vorrà per fare tutte le cose che fai tu?» gli domandò tristemente, senza guardarlo.

«Molti anni. Minimo una trentina.» rispose il tedesco.

Minimo una trentina? La ragazza aggrottò la fronte, alzò il capo e lo squadrò «Ma tu quanti anni hai?»

La domanda forse risultò comica al vampiro, che scrollò le spalle «Sono nato nel 1771.»

Ann non era affatto brava in matematica – una delle mancanze a cui avrebbe rimediato, ora che il tempo non le mancava -, ma riuscì comunque a capire che la sua età si aggirava intorno agli ottanta anni.

Sarebbe riuscita anche lei a sopravvivere così a lungo?

«C’è ancora una cosa che vorrei dirti.» aggiunse lui, tornando ad incontrare i suoi occhi «Ma non credo che tu sia ancora pronta.»

«Immagino che pur minacciandoti non me lo dirai, allora.» la ragazza si avvolse meglio nel lungo mantello e distolse lo sguardo con stizza, per poi avvicinarsi al cavallo che fino ad allora era stato a pochi metri dietro di loro, sbuffando e di tanto in tanto battendo con gli zoccoli sulla neve. Gli si accostò e poggiò una mano sul suo dorso «Aiutami a salire.»

Sebbene volesse suonare come un ordine, nessuno dei due lo intese in tal maniera. Con pochi movimenti silenziosi Nathan le si accostò e la afferrò delicatamente per la vita, issandola fin quando ella non riuscì a sedersi in sella, con entrambe le gambe dallo stesso lato. Il destriero che le avevano dato era non troppo alto né possente, di un comune colore marrone che sarebbe servito a mescolarlo tra la folla senza attirare l’attenzione.

“E così è un addio… almeno per ora” rifletté Ann.

Era il momento di partire. Volse un’ultima volta lo sguardo a Nathan, che la stava fissando a sua volta, poco lontano dall’animale, ed incontrò ancora i suoi occhi chiarissimi e pacifici.

No, nemmeno lei avrebbe mai desiderato che finisse in quel modo così triste e sconsolato. Non gli aveva neanche chiesto dove sarebbe andato o cosa avrebbe fatto; forse in futuro l’avrebbe rimpianto, ma per ora no, voleva rimanere da sola, ritrovare se stessa e dimenticare l’orrore che era rimasto a Hidel.

«Quando ti sentirai pronta per conoscere anche l’ultimo segreto, cercami. Addio, Annlisette Nevue.» la salutò lui, con un sorriso appena accennato né triste né felice «E ricordati di considerare la tua non-vita non come una maledizione, ma come una seconda opportunità.»

Annlisette impresse le ultime parole di Nathan nella mente, pensando che prima o poi forse sarebbe riuscita a coglierne il significato profondo. Il cavallo si avviò lungo il sentiero, e lei poté osservare la figura ammantata di nero stagliarsi sulla neve che fioccava finché non scomparve, come un fantasma.

«Addio, Nathan Metherlance.» ricambiò, per poi voltarsi in direzione dell’orizzonte che avrebbe inseguito.

Spronò il cavallo al galoppo, l’aria fredda le sferzò il volto e le ricordò che da quel momento in poi era completamente sola.

Il suo viaggio aveva finalmente avuto inizio.

 

Rovine di Hidel – 28/12/1961

Certe cose non cambiano mai, non importa quanto tempo passi: il destino, a volte, sa essere davvero crudele.

Non che lui credesse nel destino, per carità, ma aveva imparato con l’esperienza che gran parte degli esseri umani tendeva ad attribuire a tale ignoto fattore ogni evento, soprattutto quelli spiacevoli. E in un mondo dove o ti sforzi di essere più simile ad un umano per passare inosservato oppure ti sveli alla luce del sole in tutta la tua mostruosità, subendo così le conseguenze mai piacevoli, era decisamente preferibile mescolarsi a loro e tramare solo quando non  si era visti.

Ecco, questo era il principale motivo per cui una persona come Nathan Metherlance aveva spontaneamente deciso di abbandonare la civiltà e vivere da eremita, almeno finché gli fosse stato concesso tale lusso. Gli unici contatti che aveva mantenuto erano quelli che lo legavano alle uniche persone capaci di soddisfare il suo bisogno – raro bisogno – di parlare con qualcuno, senza però arrivare a tediarlo: Damon e Sogno Darkmoon, Georgiana Varens, raramente Sole Metherlance, e di tanto in tanto qualche altro “consanguineo” incontrato più per calcolo che per caso.

E poi, beh, poi c’erano gli spettri di Hidel. Ma loro erano un caso  tutto particolare.

Si ritirava lì, in quello sperduto angolo d’Inghilterra, una volta ogni due o tre anni. La lunga seconda guerra mondiale e le successive ostilità tra inglesi e tedeschi lo avevano tenuto lontano per molti anni da Hidel, ma lo scenario non era cambiato mai: nessuno, non una Victoria né una Elizabeth, né tantomeno un futuro erede al trono o chissà chi avrebbe mai provveduto a portare ordine lì dove la natura, il destino, Dio o chi si voglia aveva preteso ed ottenuto un eterno disordine. Tutto ciò appariva agli occhi di Nathan impressionate sia positivamente che negativamente.

Quando si trovava davanti a quelle rovine ormai quasi del tutto invisibili, coperte dal bianco della neve accumulata durante l’inverno, spaziava come poche volte aveva fatto nella sua vita: nessuno lo aveva mai interrotto, nessuno era mai stato capace di sopportare troppo a lungo la vista delle macerie distrutte dalla furia omicida di un branco di lupi mannari. Anche se, in effetti, nessuno era a conoscenza di quel piccolo e trascurabile dettaglio.

Eppure, quell’anno qualcuno era stato in grado di lasciare per un attimo Nathan Metherlance sorpreso: non sbigottito né senza parole, ma ottenere già il semplice stupore di una persona abituata ad apparire impassibile anche davanti al Diavolo era già molto.

Il giovanotto seduto sulla neve avrebbe dovuto essere fiero di sé.

Avvolto in un grande e pesantissimo cappotto che Nathan reputava eccessivamente largo, visto da dietro costui appariva poco più che ragazzino, almeno giudicando dalla corporatura: abbastanza basso, poco robusto, leggermente tremante come un bambino che provava troppo divertimento per smettere di giocare, nonostante sia consapevole di avere le dita bluastre.

Curiosità, era forse questa emozione che stava provando? No, anzi, che stavano entrambi provando, l’uno verso Hidel e l’altro verso l’uno?

Sul volto di Nathan si dipinse un sorriso appena accennato, quello che gli sorgeva spontaneamente ogni qual volta che trovava un oggetto interessante da analizzare.

Un passo, un altro passo, e lo straniero fu in grado di distinguere qualcosa di più, pur mantenendosi alla debita distanza di un metro e vagando solo con la coda dell’occhio sul bifolco: i tratti, che inizialmente aveva reputato immaturi, ora si rivelavano addirittura infantili; i capelli, colorati di un castano gentile, ricadevano sul viso sospinti dal vento; gli occhi che istantaneamente corsero sull’uomo ammantato di nero quasi invitarono il vampiro a cercarli. Non tanto per il particolare colore giallo, quanto per l’espressione che contribuivano a creare sul volto di quel ragazzino: l’espressione di una persona sola, maledettamente sola e triste.

Sembrava quasi aspettare che Nathan spalancasse le fauci e lo divorasse in un sol boccone!

Un minuto di silenzio intercorse tra i due, carico di irrequietezza e forse paura; era già strano che una persona si recasse in quel luogo, figurarsi due! Tuttavia, dopo un po’, il ragazzino finalmente decise di aprire bocca.

«Dove ci troviamo? E come ha fatto a trovarmi?» domandò placidamente.

«Qui un tempo sorgeva Hidel.» spiegò il tedesco, mentre una mano correva nella tasca del lungo mantello «Un villaggio eroso dalla fede cieca dei suoi abitanti e dall’inumanità di chi li aspettava alle porte.»

Ogni riferimento ovviamente non poteva che essere oscuro al giovane, che forse però non era realmente interessato a quel cumulo di macerie: la sua attenzione si era spostata su un elemento bardato di nero e dal linguaggio decisamente estraneo agli anni sessanta, decisamente più interessante.

Poi, con un vago sorriso, Nathan aggiunse «Per quanto riguarda la seconda domanda… mi sono limitato a seguire le sue impronte nella neve.»

Ancora oggi, nel ventesimo secolo, esisteva qualcuno in grado di farlo sorridere davanti a tanta ingenuità: sì, il mondo non finiva mai di stupirlo.

Il giovane parve per un attimo sorpreso e lanciò un cupo sguardo alle impronte, che inequivocabilmente portavano a lui; sospirò e rivolse quindi lo sguardo al tetro spettacolo di rovine e desolazione davanti a loro.

«Non importa. Chi verrebbe mai in un posto come questo?»

“Che ragazzo curioso…” considerò tra sé e sé il vampiro, sebbene tutta quella insistenza non lo urtasse affatto, anzi. Fece intercorrere un minuto tra domanda e risposta, forse per creare una sorta di suspense smaliziata.

«Un inguaribile nostalgico, suppongo.»

E quelle sue stesse parole quasi fecero sorridere il biondo, che si era sempre pensato troppo inumano per lasciarsi condizionare dal passato: in realtà, e Nathan lo sapeva benissimo, l’unico legame che ancora lo spingeva a recarsi a Hidel era una promessa fatta molti anni prima. Nel momento in cui quella promessa fosse stata onorata, anch’egli sarebbe stato libero dall’obbligo di visitare quel villaggio morto così spesso.

Seguì un pesante silenzio, al quale solamente il rumore del vento dava disturbo. Dopo tantissimo tempo, Nathan sentì dentro di sé la voglia di conoscere i pensieri di qualcuno: quel giovane ragazzo dall’aria perduta; anche se la sua espressione mesta era già più che eloquente.

Egli aveva, e il tedesco sentiva di non sbagliare, la stessa espressione che aveva visto in faccia ad Annlisette Nevue nel momento in cui aveva realizzato di essere rimasta sola al mondo.

«Cosa cerca?»

La quarta, invadente domanda. Era forse uno di quei test che ultimamente andavano tanto di moda? No, a dir la verità sembrava più una conversazione tra padre e figlio: perché? Perché? E perché questo è così, papà?

Purtroppo però, Nathan non aveva una risposta a tutto. O meglio, a quella specifica domanda l’aveva, ma era qualcosa di troppo personale per poter essere spifferata così candidamente ad uno sconosciuto.

Sollevò gli angoli della bocca in un sorriso beffardo, posando finalmente gli occhi sul suo interlocutore «E lei, messere?»

Con quella domanda inaspettata, il quadro del padre e del figlio si frantumò in mille pezzi con tanta violenza che gli occhi dello stesso giovane uomo sembrarono essere attraversati da una frattura: lo aveva fatto a pezzi semplicemente rigirando un quesito?

Tuttavia, il ragazzo fu bravo a nascondere velocemente questo particolare.

«Una cosa che ho perso da molto tempo, signore.» spiegò, richiudendosi su se stesso come un riccio, con le gambe avvolte dalle braccia ed il mento poggiato sulle ginocchia. Mentre era impegnato in tali operazioni, ecco però che qualcosa tornò a minare la sua quiete: un intenso bruciore sulla gola. In un gesto concitato corse con una mano ad essa, tentando di coprire lo strano marchio nero a forma di cerchio che, in quell’attimo, si era illuminato di rosso.

Quasi involontariamente Nathan lo aveva notato, ancor più involontariamente aveva avvertito l’irrequietezza e la nota di timore che il giovane bruno emanava senza saperlo.

Pochi elementi, che però bastarono a fargli afferrare qualcosa di più su quell’individuo: solo, sperduto, abbandonato da un padrone che stava morendo in quell’esatto momento.

Una delle cose più utili che avrebbe mai potuto desiderare, e il destino glielo offriva lì, a portata di mano: un demone capace di far avverare alcune circostanze propizie. Quello che una persona comune avrebbe volgarmente chiamato “genio”, ma che “genio” non era affatto.

Da ciò che Nathan sapeva, si trattava di particolari demoni minori che si legavano ad un “maestro”, del quale esaudivano un numero prestabilito di desideri, pur essendo sottoposti a moltissime regole restrittive. Il legame col maestro veniva suggellato con un marchio a forma di cerchio sulla gola, che quando si illuminava di rosso annunciava la morte del suddetto.

La loro situazione era sempre la stessa: venivano sfruttati fino ad essere consumati, finché i loro poteri non svanivano, quindi cominciavano a morire lentamente.

La storia di quel ragazzo, pensò Nathan, non poteva essere molto diversa: non aveva mai sentito parlare di uno solo di loro che non vivesse nella paura e nell’infelicità.

Questa considerazione, assieme alla mole di pensieri negativi provenienti dal giovane, lo convinsero ad azzardare un passo che poteva rivelarsi pericoloso.

«Che mondo ingrato. Per quanti padroni tu abbia viziato con i tuoi servigi nessuno di questi ha mai pensato veramente a te. Povero demone.» sussurrò, evitando addirittura di usare un tono formale per simulare una frase spontanea.

Neanche avesse appena scavato nella sua anima!

Il ragazzino sembrava assolutamente stupefatto: un’emozione incredibile trapelava dai suoi occhi gialli, che fece quasi pensare a Nathan di aver detto la cosa giusta al momento giusto. Si concesse un ulteriore sorriso, stavolta ingentilito «Ma mi permetta di scendere nel personale: è lontana la meta che vuole raggiungere, il tesoro che intende cercare?»

«Me lo dica lei, di grazia. Io lo cerco da troppo tempo, ormai.» rispose l’altro con fare rassegnato, come se avesse ormai perso ogni speranza.

Nathan pensò di non essersi sbagliato nell’immaginare che razza di vita avesse potuto avere quel giovane e, fissandolo ed essendo fissato a sua volta, sentenziò enigmatico «Io? Ma io non posso saperlo. Sta a lei e solo a lei scoprirlo.»

E la discussione sembrò terminare lì, almeno per volere del tedesco. Distolse lo sguardo dall’altro uomo e lo poggiò sulle rovine di Hidel, così immobili ed eterne; per quanto tempo anche lui era rimasto statico, lontano dalla civiltà, ad aspettare un segno? Ora, invece, qualcosa si era mosso nella sua vita: un antico nemico era pronto a giocare una nuova mossa nella partita a scacchi che avevano in corso da più di un secolo.

E Nathan sapeva che per vincerlo avrebbe avuto bisogno di tutto l’aiuto possibile, altrimenti avrebbe miseramente fallito. Era tornato lì a Hidel per l’ultima volta, poiché sapeva che negli anni a venire non avrebbe avuto il tempo di onorare la sua promessa di proteggere Annlisette Nevue.

Ora aveva un nuovo obiettivo, e per raggiungerlo avrebbe fatto l’impossibile. Anche raggirare spietatamente chiunque si fosse trovato sulla sua strada.

«Io posso aiutarla.»

E lo avrebbe fatto, senza pietà.

Il ragazzo sollevò la testa e cercò il contatto coi suoi occhi, trovandolo. Inizialmente parve indeciso, poco determinato, ma secondo dopo secondo la speranza si impadroniva di lui, pervadendolo completamente. Sì, gli stava davvero credendo: questa era l’unica conclusione possibile.

«La accompagnerò nella ricerca della felicità che tanto brama.» concluse Nathan.

Ma il ragazzo era furbo, o forse la sua esperienza gli aveva insegnato che nessuno era incondizionatamente gentile.

«Immagino che vogliate qualcosa in cambio.» sospirò grave, per poi attendere pazientemente che il patto col diavolo fosse proposto.

“No, non è questo il momento” pensò invece il vampiro, che ora aveva la prova che i poteri del ragazzo non si erano esauriti.

I poteri di quei demoni minori erano troppo preziosi per essere sprecati alla prima occasione, ed il tedesco sapeva quanto fosse orribile essere manipolati da altri, principalmente per questo non aveva la minima intenzione di dare al giovanotto la soddisfazione di vedere le sue aspettative realizzarsi, o di vederle realizzarsi il più tardi possibile.

Lasciò dunque che il tempo scorresse, che la neve intorno a loro continuasse a fioccare e si posasse sulle loro figure, imbiancandole ed appesantendole. Quel silenzio così profondo dovette far capire al ragazzo i pensieri di Nathan.

Si rimise in piedi, fronteggiando l’immobilità delle rovine con un movimento fluido e lesto; si avvicinò al tedesco e lo esortò con l’espressione di chi cerca risposte «Maestro, mi mostri la via…»

Tra le case distrutte e le macerie coperte di neve, in quell’attimo a Nathan sembrò di scorgere il fantasma di una scena che aveva già visto: una ragazza che scivola sulla neve, sorretta all’ultimo secondo da chi le avrebbe cambiato la vita.

Chinò leggermente il capo, con un sorriso appena accennato sul volto, quindi diede le spalle al villaggio e riprese la strada per cui era giunto. Alle sue spalle arrancava il giovane demone, che gli si affiancò poco dopo.

«Posso chiederle una cosa?»

«Prego?»

«Qual è il suo nome?»

«È buon costume presentarsi per primi, messere.»

«Oh, giusto, dimenticavo. Io sono…»

  

 

Note dell’Autrice:

Bbbbbasta capitoli angst! È da quando si è aperta la saga di Terren che scrivo solo capitoli deprimenti, ma questo li ha superati tutti! Grazie al cielo era l’ultimo! O meglio, manca ancora l’epilogo, ma non sarà deprimente almeno quello XD

Questo capitolo è stato molto problematico: ho paura di aver reso Ann una Mary Sue con quella mole assurda di urla isteriche e scenate simili, ma credo che si sarebbe comportato così chiunque in una situazione simile… non saprei. Ditemi voi, abbiate pietà XD

Non vi farò aspettare per l’epilogo: l’ho già scritto. Lo posterò questa settimana, quindi farò un bel click su “completa: sì”. Sarà emozionante *_*

Restate con noi fino alla fi-… ehm, aspetta, ma È finito XD va beh, restate con noi fino all’epilogo! ^^b

Grandissimi ringraziamenti a tutti quelli che seguono la storia, in particolare a KikyoOsama, Milou e Yelllow, che mi hanno pure lasciato un commento!

 

Un abbraccio,

Sely.

 

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Capitolo 30
*** Il colore della neve ***


What colour is the snow?

Epilogo: Il colore della neve.

07/Aprile/2009 – Londra, Inghilterra.

Un proiettile fendette l’aria in un millesimo di secondo, abbattendosi sul bersaglio con violenza inaudita e strappandogli un urlo soffocato. L’uomo cadde disteso, gemendo per il dolore, col volto piegato dallo sforzo di trattenere altre grida; i muscoli tesissimi dell’intero corpo gli sembrarono gelarsi in pochi istanti, mentre la mano destra, talmente contratta da mostrare le vene violacee, correva a stringere con foga la camicia all’altezza del cuore. In quello stesso punto si stava velocemente allargando una macchia di sangue rosso scuro che, nel momento in cui scivolava dal corpo e raggiungeva terra, diveniva secco.

La vista del ferito cominciò ad annebbiarsi, in breve riconoscere i contorni della città attorno a lui divenne più difficile del previsto; riusciva a distinguere solo le macchie indistinte degli alti grattacieli e le fronde degli alberi del parco poco lontano da quel piccolo spiazzo dove non passava nessuno, un’enorme luna piena che illuminava pigramente da dietro qualche sottile nuvola bianca.

Se non fosse stato pericolosamente vicino alla morte, avrebbe pensato di fermarsi lì fino all’alba solo per osservare le stelle. Invece, con amarezza, pensava che molto probabilmente la prossima alba non l’avrebbe affatto vista.

Come previsto, in breve gli furono addosso.

Sgusciarono dalle tenebre come sorci, due figure ben diverse tra di loro: la prima, decisamente più vicina e piccola, molto femminile, che correva verso di lui come una furia; la seconda, più massiccia e mascolina, che produceva un pesante suono ogni qualvolta che toccava terra con gli stivali.

Quando lo raggiunsero, il secondo inseguitore, un giovane uomo biondo, con occhi verde chiaro ed una giacca rossa del tutto fuori moda, rimase in piedi a fare da palo, mentre la donna si accomodò senza troppi complimenti sullo stomaco della loro preda. Gli avrebbe sicuramente mozzato il fiato se egli non fosse stato biologicamente morto.

Lo agguantò prepotentemente per il bavero della camicia e gli sollevò il capo finché non furono abbastanza vicini.

L’altro, con molta fatica, riuscì a mettere a fuoco il volto di colei che gli aveva sparato quel proiettile maledetto, quella diavoleria che era riuscita a ridurre un vampiro in condizioni simili; era il volto di una giovane ragazza dagli occhi grandi e blu scuro, la pelle candida come quella di ognuno di loro ed un’espressione soddisfatta, incorniciata da una cascata di capelli corvini.

L’uomo immaginò che se ne sarebbe uscita con qualche piccante o irritante frase di quelle tipiche dei supereroi dei fumetti americani che ultimamente andavano tanto di moda; e invece, sovrastando i rumori delle auto poco lontane, una voce acuta lo richiamò con la stessa fermezza di un generale del terzo reich.

«Sveglia!» lo schiaffeggiò un paio di volte lei «Non ti permetterò il lusso di morire prima di aver risposto alle mie domande!»

A dispetto dell’aspetto piuttosto fanciullesco, il tono usato ed il timbro vocale sembravano quelli di una persona adulta e consapevole: un miscuglio molto improbabile!

Egli si fece attento, scrutandola con rabbia e sete di vendetta: le avrebbe volentieri morso la mano se ne avesse avuto le forze.

Lei non sembrò intuirlo, o forse non volle curarsene, ed accorciò le distanze tra i loro volti, finché non potette specchiare i propri occhi in quelli della sua preda nonostante l’oscurità circostante.

Seria, concisa e con una velata concitazione, chiese «Conosci Nathan Metherlance

La domanda si perse nell’aria, spegnendosi nel silenzio della notte; fu come se il mondo attorno a loro si fosse acquietato, ammutolito davanti al nome di quella persona.

Il ferito sgranò gli occhi con fare inquieto, mentre l’uomo in piedi lanciava ai due un’occhiata di curiosità malcelata, ansioso di conoscere la risposta.

Questa, sorprendentemente, giunse in forma di risata, una risata fredda e cattiva.

La donna alzò gli occhi al cielo emettendo un lamento, mentre la mano le correva spontaneamente alla pistola a canna lunga che le pendeva dalla cintura.

«Non è il momento di ridere.» ammonì il suo prigioniero, serrando di più la presa sul bavero. La mano si strinse con forza attorno alle guancette ruvide dell’arma.

Nonostante l’intimidazione, la risata dell’uomo non si spense, piuttosto si consumò lenta nel silenzio della città addormentata; con un’occhiata quasi di sfida si rivolse alla mora e sibilò «Chi non conosce Nathan Metherlance

Le sue poche parole scatenarono una tempesta sul volto pallido e duro di lei, che incalzò «Dimmi dove si trova e ti risparmierò!»

Per dargli un piccolo incentivo gli puntò la pistola proprio sotto il mento, con l’indice pronto a premere il grilletto. Eppure, il vampiro non sembrava ancora intenzionato ad aprire bocca; i suoi occhi erano fissi su quelli blu della donna armata, ricolmi della serenità di chi sa di non avere più scampo e l’ha ormai accettato.

“È davvero disposto a morire per lui?” si domandò la mora, pur mantenendo il sangue freddo ostentato fino a quel momento.

«Se mi prendesse…» il vampiro alzò con fatica una mano tremante e raggiunse la pistola, carezzandone procacemente la lunga canna minacciosa; sul viso aveva un sorriso arcuato e poco lucido e la voce gli usciva a fatica dalla gola «Se lui mi prendesse patirei un destino decisamente più doloroso di una semplice pallottola in testa.»

La donna accennò un sorriso di sfida, ma non ebbe il tempo di esprimere a parole ciò che stava pensando.

Un sibilo sfrecciò nell’aria, passandole a pochissimi centimetri dalla pelle bianca del braccio e con un suono secco si conficcò nella gola del malcapitato. Era un pugnale, e aveva appena fatto spudoratamente fuori il loro bersaglio.

«Ann!» la chiamò l’uomo biondo dietro di lei, intuendo il pericolo; estrasse due grandi pistole dalle fondine che gli pendevano dai fianchi e cominciò a guardarsi intorno con attenzione, dando veloci occhiate nella direzione da cui era provenuta la lama.

Nel frattempo, gli occhi della vampira non si erano allontanati neanche un attimo dalla visione del disgraziato che tentava di dirle qualcosa senza però riuscirci: la precisione mortale del colpo gli aveva reciso le corde vocali di netto, tranciando poi anche il legame tra testa e corpo. In neanche un minuto, infatti, il non-morto abbandonò ogni tentativo e si lasciò morire, il volto rivolto al cielo e gli occhi spalancati, il capo circondato dal sangue che zampillava dallo squarcio sulla gola. Pochi attimi dopo la sua pelle divenne improvvisamente grigia, per poi sgretolarsi come se fosse sabbia.

Tutto ciò che ne rimase fu cenere, ed Ann si ritrovò seduta su di essa.

Per una manciata di secondi non poté fare altro che osservare il frutto delle sue lunghe ricerche, attualmente l’unica strada per arrivare a Nathan Metherlance, ridotto in cenere.

Mentre il giovane alle sue spalle continuava a guardarsi intorno alla ricerca di qualcuno che non trovava, la ragazza allungò una mano ed afferrò gentilmente il pugnale che aveva distrutto i suoi piani. Se lo rigirò un paio di volte tra le mani, soppesandone il peso; la lama era corta ma molto affilata, e sull’elsa nera si poteva notare la figura stilizzata di un’ala d’uccello.

Il simbolo del clan Metherlance.

Sorridendo irritata, si alzò in piedi e fece cenno al ragazzo che la stava proteggendo di farsi indietro e riporre le armi. Egli eseguì subito gli ordini per poi mettersi da parte, mentre Ann corservava dentro la tasca del cappotto il pugnale. Mantenendo gli occhi sull’asfalto nero, cominciò a urlare a gran voce in modo che le sue parole rimbombassero per tutta la piazza e sovrastassero persino il rumore delle automobili non molto lontane.

«Sei riuscito a sconfiggermi stavolta, ma non credere di poterlo fare ancora a lungo!» ruggì con rabbia, stringendo i pugni «Ti troverò, stanne certo!»

Le minacce arrivarono molto lontano, probabilmente anche alle orecchie di chi non le avrebbe comprese: primo tra tutti l’uomo dagli occhi verdi che restava immobile, dietro di lei, confuso e in attesa di direttiva, limitandosi a captare ogni suono portato dal vento. Si diede un altro sguardo rapido intorno, prima di essere chiamato.

«Possiamo andare, Lucius.» decise infatti lei.

Con molta serietà, lui annuì e le fece cenno di precederlo «D’accordo.»

La donna si avviò per prima sulla via da cui erano arrivati, producendo un piccolo rumore con le scarpe ad ogni passo. Dietro di lei, Lucius stava ben attento a guardarsi le spalle e non accennava ad allontanare le mani dalle pistole che aveva con sé.

Nonostante il fallimento Ann non sembrava molto delusa; la sua mano corse alla tasca del cappotto, dentro la quale giaceva il pugnale.

Sorrise tra sé e sé: aveva perso una pista, ma ora ne aveva un’altra, probabilmente molto più affidabile.

 

Poco lontano dalla piazza in cui si erano consumati un inseguimento e un omicidio, in cima ad un palazzo di sei piani quasi disabitato, tre figure osservavano in silenzio il susseguirsi degli eventi.

Le urla determinate di Ann raggiunsero anche loro, sebbene un po’ ovattate; ma avendo tutti e tre un udito molto allenato, riuscirono comunque a distinguerle chiaramente.

I tre, avvolti ognuno in un mantello nero che li confondeva con l’oscurità circostante, rimasero silenti fin quando Ann e Lucius non abbandonarono il luogo.

Solo allora quello al centro, notevolmente più alto degli altri due, andò con una mano a liberarsi il capo dal cappuccio, rivelandosi un giovane uomo dai furbi occhi celesti ed il sorriso beffardo. Si rivolse prima alla persona alla sua sinistra, che si stava togliendo il cappuccio a sua volta.

«Davvero un ottimo lancio, Sakura.» si complimentò, sorridendo appena.

La donna, che a dispetto del nome orientale era evidentemente albina, chinò il capo in segno di rispetto «La ringrazio, master.»

Sakura volse lo sguardo verso l’ormai lontana donna chiamata Ann, la quale si era portata via il suo pugnale; si chiedeva se sarebbe riuscita a risalire a lei attraverso una semplice arma, ma poiché indossava sempre i guanti quando maneggiava le armi, ne dubitava fortemente.

Tenendo la voce bassa e il tono più rispettoso che aveva, diede voce ad un pensiero fin ora taciuto.

«Continuo a chiedermi perché quella donna si faccia chiamare Ann Metherlance pur non appartenendo al clan…»

«Questa, Sakura, è un’ottima domanda.» intervenne Nathan, per poi cedere la parola alla terza figura «Tu che ne pensi, James?»

L’unico che non sembrava avere intenzione di liberarsi del cappuccio era il più giovane tra i tre, un ragazzo dai capelli castani, gli occhi giallastri e lo sguardo un po’ infantile. Impiegò diversi secondi per venire a capo di una soluzione, quindi rispose con molta incertezza «Forse… perché essere un Metherlance dà accesso a  molte informazioni difficili da ottenere?»

Il biondo in mezzo sorrise, soddisfatto da quell’idea «Ottima osservazione.»

Il ragazzo annuì rincuorato «Grazie, maestro.»

«Potete andare, adesso.» li congedò infine il vampiro, con il tono di chi non ammette repliche «Vi raggiungerò tra poco.»

Sakura calò nuovamente il cappuccio sul volto, lanciando un’occhiata d’intesa a James. Insieme, lesti e silenziosi, si avviarono verso la scala antincendio da cui erano saliti prima.

Quando fu solo, Nathan rimase invece ad osservare la piazza ed a godere del vento freddo che soffiava leggero. Sì, il pensiero di James era sicuramente in parte vero: i Metherlance erano pochissimi in tutto il mondo, neanche una decina, né erano potenti o ricchi, tuttavia avevano alle spalle una gloriosa storia che li metteva in buona luce ovunque andassero.

Ma non era solo quello il pensiero che aveva spinto Annlisette Nevue a diventare Ann Metherlance; Nathan immaginava che la ragazza considerasse la vecchia se stessa morta col resto di Hidel, e probabilmente la scelta del nuovo cognome era stata dettata dal fatto che lui l’aveva iniziata alla sua nuova vita.

Alla fine Ann aveva davvero fatto tesoro dell’ultimo consiglio che lui le aveva dato: considerare la sua non-vita come una seconda opportunità, ed era diventata una vera donna, nonché un’ottima vampira.

«Continua a cercarmi, Ann. Non sei ancora pronta.» parlò ad un’immaginaria Ann il tedesco, con la voce ridotta ad un sussurro e un’espressione seria che ben presto si trasformò nel suo abituale ed incancellabile sorriso «Quando lo sarai, trovami. Solo allora ti rivelerò qual è il colore della neve.»

 

Note dell’Autrice:

Oh, mamma… è finita. È finita. Sono commossa. Sono dannatamente commossa XD dopo quasi tre anni di “devo scrivere Snow, devo scrivere Snow” ho veramente finito di scrivere Snow XD awww! *abbraccia senza ritegno Ann e Nathan*

Trenta! Volevo assolutamente raggiungere questo numero! Perché il trenta è un numero molto simbolico come tutti voi capirete. E… beh, c’è chi mi ha seguita per ben trenta capitoli durati due anni e mezzo, come potrò mai ringraziarvi? Non esiste un modo mi sa, ma posso nominarvi. In realtà avrei voluto nominare tutti quelli che hanno Snow tra i preferiti/seguiti/etc, ma siete troppi e non ci riesco ^^” (la cosa mi riempie di gioia, è bellissimo, vi ringrazio di cuore dal primo all’ultimo).

 

What colour is the snow?” è nata come approfondimento psicologico di Ann, che cominciai a usare sui giochi di ruolo by forum circa quattro anni fa, quindi potete capire quanto è vecchia questa storia.

 

Il nome della storia lo devo a KikyoOsama, una mia carissima amica. Io non sono brava coi nomi, ne stavo cercando uno quando lei mi citò le seguenti parole – perdonatemi, non ricordo di chi era, è passato troppo tempo -: “Do you know what color is the snow? Where I live, in Russia, is always red.” Mi pare che fosse più o meno così… dunque grazie, KK ^^ senza di te questa storia non avrebbe un titolo così bello.

 

Alcuni personaggi non sono del tutto miei. Gli autori sono altri, miei compagni e amici di role sui giochi di ruolo, che mi hanno ceduto i loro personaggi. Damon Darkmoon e Yume Darkmoon appartengono a Nadeshiko: perdonami, li ho del tutto cambiati rispetto ai tuoi, soprattutto Yume, che qui è diventata Sogno. Sono due personaggi meravigliosi, è stato bellissimo usarli ^^ e spero di poter in futuro usare con altrettanto affetto Nade e Nagi, nella terza storia. Sakura, bellissimo personaggio che avrà un ruolo al pari di quello di Ann in futuro, appartiene a Maxi, e lo stesso dicasi per l’adorabile James, di KikyoOsama. Lucius, invece, apparso pochissimo purtroppo, ma che sarà coprotagonista nella terza storia, è di Locke. Grazie di cuore a tutti ^^ i restanti sono tutti miei personaggi originali.

 

Devo ringraziare anche coloro che mi hanno tenuto compagnia con le recensioni, dandomi suggerimenti e spunti, nonché risate e fiducia in me stessa. Davvero, non so come ringraziarvi >_< per me ha un significato importantissimo! – Come molti di voi  sanno, il mio scopo sarebbe pubblicare questa storia ^^”

Ringrazio soprattutto VeganWanderingWolf, che mi sta aiutando con la revisione dei vecchi capitoli, e Milou, sicuramente la lettrice più affezionata.

 

Bene… credo di aver detto tutto! Non mi resta che ringraziarvi un’ultima volta e salutarvi ^^! A riscriverci, mi farò viva prossimamente sempre in questa sezione, con la seconda storia del ciclo!

 

Un augurio di buona estate,

Sely.

 

 

 

                                                                                                                                                                              

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