Serendipity (revisionato il 13/04/2020)

di Mary P_Stark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


 
1



Cosa le aveva detto il cervello, quando aveva accettato di andare a fare una gita nel camping di Frank?

L’avrebbe ammazzato, la prossima volta che le avesse proposto una vacanza del genere. Ammesso e non concesso che fosse sopravvissuta a quella vacanza.

Sul momento non sembrava una cosa fattibile, almeno a giudicare dalla ferita alla gamba che ne limitava i movimenti, e dal nutrito gruppo di cacciatori che la stavano inseguendo per i boschi con tanto di molossi al seguito.

E dire che si era fidata delle parole di Frank! Stai tranquilla, qui la legge è passata e la popolazione è ben disposta verso di voi!

Ben disposta un corno!

Non appena si era registrata al campeggio, mostrando ovviamente i suoi documenti d’identità, non le era occorso molto prima di ritrovarsi con un gruppo di cacciatori alle calcagna e una minaccia di morte appesa al collo.

Giusto il tempo di uscire da sola a fare una passeggiata nel bosco per raccogliere fragole selvatiche e zack!, se li era ritrovati alle spalle come una muta di leoni in caccia.

Il primo colpo di fucile era arrivato subito dopo e, con la sua solita fortuna, l’aveva ferita seriamente. Il che non deponeva certo a loro favore. Se fossero stati lì per selvaggina da penna o da pelo, non avrebbero potuto di certo fare un danno simile.

Invece, la gamba zampillava che era un piacere, le faceva un male del diavolo e lei cominciava a perdere terreno sui suoi inseguitori, tanto le sue forze iniziavano a vacillare.

Entro breve, si sarebbe ritrovata dissanguata e a far da spuntino ai cani o, peggio ancora, caricata sui pick-up dei cacciatori e portata in qualche baita sperduta tra i boschi dell’Oregon come trofeo.

Non avrebbero comunque ottenuto granché dalla sua morte, ma questo nessuno di loro l’aveva ancora capito.

Come se non vi fossero stati altri esempi chiarificatori, in passato!

Inciampò in una radice di abete sitka proprio nel bel mezzo di un’imprecazione, rischiando di finire nel vicino torrente montano prima di illuminarsi in viso ed esclamare tra sé: «Beh, tanto vale rischiare il tutto e per tutto!»

Dopo aver formulato quel pensiero, Elizabeth si lanciò nel flusso d’acqua gorgogliante e freddo come il peccato, e lasciò che la corrente la conducesse a tutta velocità verso la vicina cascata.

Se anche i cani avessero seguito le sue tracce fino al torrente, i cacciatori avrebbero dedotto che era caduta in acqua, finendo con il morire a causa della caduta dalla cascata. 

Forse, l’acqua avrebbe confuso le sue tracce, cancellando il suo odore persistente. E forse, non si sarebbe sfracellata sui massi come invece voleva soltanto far credere ai suoi inseguitori.

Prendendo dei gran respiri a pieni polmoni, la giovane mosse un poco braccia e gambe per posizionarsi nel centro del flusso, non sapendo bene cosa aspettarsi. Gettarsi dalle cascate non era il suo sport abituale.

Fu con occhi sgranati per la paura e il battito tachicardico del suo cuore a rimbombarle nelle orecchie, che infine scivolò per la cascata lanciando involontariamente un grido.

L’ultima cosa che il suo cervello registrò fu il tremendo impatto con l’acqua. Poi fu tutto buio. Forse, dopotutto, era stata una pessima idea.

 
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Ogni muscolo del suo corpo stava gridandole nelle orecchie il proprio disappunto mentre, con lentezza esasperante e una fatica quasi insopportabile, sollevava una palpebra nel risvegliarsi.

Le sembrava di essere stata calpestata da una mandria di bisonti, passata nel tritacarne e, infine, cotta alla brace.
Avrebbe voluto urlare anche lei, al pari dei suoi muscoli dolenti, ma aveva il forte dubbio che, se solo ci avesse provato, anche la sua gola avrebbe protestato, impedendoglielo.

Fece perciò l’unica cosa che, in quel momento, le sembrava fattibile. Scrutò quel poco che riusciva a scorgere dall’unico occhio che aveva osato lasciare libero dalla gabbia imposta dalla palpebra abbassata.

Senza muovere minimamente il capo, che stava eseguendo al suo interno tutta la discografia dei Linkin Park senza lasciare indietro neppure un brano, scrutò il soffitto ligneo che si trovava sopra la sua testa.
Una piccola lanterna a olio illuminava fiocamente la stanza dove si trovava, mentre il rumore della legna intenta a bruciare la incuriosì, portandola a chiedersi se vi fosse un camino, in quel luogo.
Arrischiandosi ad aprire anche l’altro occhio, completò il suo arco visivo di circa centosessantacinque gradi e ammirò sorpresa l’ambientazione tipicamente montana in cui si trovava.

Era evidente che, chiunque l’avesse tirata fuori dalle acque e, apparentemente, salvata dalla morte, l’aveva trasportata in quella che aveva tutta l’aria di essere una baita.

Restava da capire chi fosse il suo misterioso salvatore e, soprattutto, se lo fosse realmente.

Pur trovando inaccettabile l’idea di procurarsi ulteriore dolore, Elizabeth mosse un poco il capo di biondi capelli – sparsi su un cuscino di piume, da quel poco che poté capire – e lanciò un’occhiata alla sua destra.

Scorse una porta chiusa, alcuni utensili da cucina appesi al muro di sassi, una piccola finestrella dalle imposte serrate e un angolo cottura in ghisa.

«A quanto pare, ti sei ripresa.»

La voce giunse dalla sua sinistra e la donna, istintivamente quanto stupidamente, si volse rapida dall’altra parte solo per sentirsi esplodere la parete frontale del cranio.

Ora, il suo cervello non suonava solo i Linkin Park, ma anche la banda della scuola dove aveva studiato e il fratello minore con la batteria nuova di zecca. Un vero supplizio.

Portandosi immediatamente le mani al viso per tamponarsi gli occhi, così che la luce fioca non peggiorasse il suo mal di capo, Elizabeth si lagnò per il dolore che provava.

La voce che l’aveva attirata in errore, gentilmente, le ordinò: «Non puoi ancora muoverti. E’ troppo presto. Riposa e resta il più ferma possibile, se riesci.»

Elizabeth biascicò un ‘sì’ stentato, sputato quasi tra i denti serrati, prima di imporre ai suoi muscoli di rilassarsi. Non che ne avessero granché voglia, di ubbidire, ma alla fine lo fecero.

Una pezzuola fresca le inumidì la fronte bollente mentre la voce, ancora una volta, le parlò con gentilezza, mormorandole: «Non hai nulla da temere, da me.»

Non ebbe modo di decidere se credergli o meno. Il torpore la prese nuovamente, facendola sprofondare in un sonno agitato, privo di sogni.

 
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Il suo secondo risveglio andò meglio, molto meglio. La testa era silenziosa, i muscoli molto più ben disposti a collaborare e l’unico forte dolore che avvertiva proveniva dalla gamba ferita dal colpo di fucile.

Arrischiandosi perciò a mettersi a sedere, Elizabeth si guardò intorno per avere una più ampia visione del luogo in cui si trovava, e fu a quel punto che si rese conto di non avere più addosso i pantaloni e la camicia.

Al suo posto, portava una pesante camicia da uomo in flanella, a quadrettoni rossi con righe blu e marroni. Sotto di essa, reggiseno e mutandine erano spariti.

Non che la nudità le desse dei problemi, ma…

Prima ancora di lagnarsi per l’intraprendenza del suo misterioso soccorritore, Elizabeth si rese conto dei bendaggi che la ricoprivano in più punti e della pesante garza imbottita di cotone idrofilo che le copriva la coscia ferita.

A giudicare da come era stata curata, colui che si era preso cura di lei doveva conoscere molto bene i rudimenti del primo soccorso, ma la cosa non le permise di stare più tranquilla.

Fino a pochi anni prima, aveva avuto un terrore folle dei dottori e di tutti i loro simili, e per più che validi motivi.

Da quando la legge sull’ufficializzazione delle razze mannare era passata in quasi tutti gli Stati Uniti, con l’eccezione del Texas e dell’Arizona, le cose erano migliorate. Ciò che le era successo, però, confermava appieno quanto ancora molte persone non si fidassero di loro.

I dottori, più di tutti, si erano interessati a che nessuno di loro venisse lasciato a marcire lontano dai loro affilati bisturi.

Rabbrividì al ricordo di quello che era successo a una sua amica. Scuotendo il capo per il fastidio, cercò di cancellare dalla mente le urla dei genitori che avevano dovuto riconoscere i suoi resti umani, perché il corpo era stato smembrato per essere studiato.

Non aveva voluto lasciar andare da soli di Sue, la sua migliore amica, così aveva accompagnato Jennifer e Richard perché non dovessero affrontare quell’oscenità in solitudine. Era stato comunque uno strazio intravedere quel che era rimasto della loro figlia e, soprattutto, sapere che le erano stati asportati cuore e fegato prima di ridurla a pezzetti.

Era stata trattata come in un trofeo di caccia, quasi lei fosse stata solo un animale.

Oh, certo, i cacciatori e coloro che li odiavano li credevano tali, ma c’era molto di più in loro, non solo pelliccia da appendere al muro o sopra un pavimento laccato. Cosa che, per altro, non avrebbe mai potuto accadere, visto che i loro corpi recuperavano la forma umana, in caso di morte.

Disgustata dalla piega dei suoi pensieri, Elizabeth sibilò tra i denti prima di scostare appena il lenzuolo che la copriva per permettere ai suoi piedi di poggiare in terra, pur se per farlo dovette muovere la gamba ferita.

Una scarica di dolore riverberò nei suoi muscoli, rimbalzando da un recettore all’altro fino a giungere al suo cervello in un tempo inferiore a un battito di ciglia.

Nel piegare la bocca in una smorfia, si accorse di avere le labbra dolenti.

Se le tastò, guardinga, prima di ritirare la mano e imprecare. Sì, la bocca era ancora un po’ gonfia e, sul labbro inferiore, percepiva un taglio in via di guarigione.

Dopo aver appurato ciò, lasciò che il suo sguardo tornasse a vagare tutt’intorno a sé e, con una certa sorpresa, si accorse di trovarsi su un pagliericcio improvvisato.

A ben guardare, quella stanza doveva fungere sia da cucina che da stanza da pranzo, almeno a giudicare dal tavolo sistemato contro il muro assieme alle sedie di legno e paglia intrecciata.

«Ho pensato che tenerti al caldo sarebbe stato meglio, nelle tue condizioni, e questa stanza è la più calda della casa» intervenne una voce alle sue spalle, portandola a voltarsi di scatto.

Sgranando gli occhi cerulei, li fissò su un uomo alto e dalle ampie spalle e che, bloccato a metà di un passo sulla porta che dava sulla stanza accanto.

Immobile e guardingo, la stava fissando con aria il più possibile cordiale e mansueta.

Non che i lunghi capelli scuri e la barba lunga l’aiutassero ad apparire docile.

I suoi occhi grigio ghiaccio si assottigliarono un poco nel fissarla in viso prima di rischiararsi e la sua voce, profonda e roca, gorgogliò fuori dalla sua bocca con tono rilassato, mormorando: «Hai una capacità rigenerativa eccezionale, non c’è che dire. Il livido in viso è quasi del tutto scomparso. La gamba come sta?»

Elizabeth lanciò uno sguardo veloce all’arto ferito prima di tornare a fissare il suo strano salvatore, un miscuglio tra Wolverine e il Dottor Ross di E.R., e domandargli cautamente: «Sai cosa sono?»

Un arcuato sopracciglio bruno si sollevò, muovendo piccole arcate di pelle bronzea sulla fronte mentre la sua voce, in un mormorio divertito, scaturiva dalla sua bocca morbida, ironizzando sulla sua domanda.

«E io che pensavo fossi una donna. Non mi ero accorto di aver ripescato un comodino!»

Quella battuta portò Elizabeth a sorridere divertita e l’uomo, più tranquillo di fronte al suo parziale rilassamento, si appoggiò allo stipite della porta e, intrecciate le possenti braccia, continuò dicendo: «Vista la tua singolare, quanto veloce riabilitazione fisica, ho dato per scontato che tu fossi una mannara, ma non so la razza.»

«E mi hai salvata ugualmente?» mormorò basita lei, sgranando ancor di più gli occhi azzurro cielo.

«Giuramento di Ippocrate» scrollò le spalle lui, non curante.

Inaspettatamente, però, l’uomo la vide irrigidirsi al suono delle sue parole e, vagamente confuso, le domandò: «Avresti preferito un altro tipo di giuramento?»

Non potendo esimersi dal sorridere di fronte al suo tono irriverente, Elizabeth diede una spallucciata, ammettendo: «Non ho grande amore per i dottori, come potrai immaginare.»
La fronte dell’uomo tornò a corrugarsi, ma stavolta per il malumore. Annuendo gravemente, mormorò spiacente: «So cosa hanno fatto certi miei colleghi, e non ne vado certo fiero ma, con me, sei al sicuro, credimi. Non sono uno dal bisturi facile.»

«I miei vestiti?» chiese allora lei, tirando leggermente la stoffa morbida della camicia. Profumava di muschio e di uomo. Un buon aroma davvero.

«Erano a brandelli. Ho dovuto buttare via tutto e ripiegare su una delle mie camicie» le spiegò, la voce pacata e tranquilla. Da vero dottore.

«Beh… grazie, allora» sospirò Elizabeth, riuscendo finalmente a rilassare i muscoli delle spalle che, fino a quel momento, erano stati tesi come corde di violino.

«Di nulla. Ora, posso entrare del tutto senza che tu scappi via come un cerbiatto impaurito?» chiese lui, ammiccando comicamente nella sua direzione.

Lei annuì, sorridendo maggiormente e l’uomo, avvicinatosi a lei, allungò una mano dalle dita lunghe e diritte e disse: «Tanto piacere di conoscerti, sono Derek Willstar.»

«Piacere mio. Sono Elizabeth Becker» sorrise lei, stringendo quella mano forte e calda.

Sogghignando, Derek ammise: «E’ la prima volta in assoluto che conosco una donna a questo modo.»

«Lo immagino» ridacchiò lei, illuminando il suo viso d’alabastro.

«Sarai affamata. Hai delle preferenze?» le domandò lui, indicando con un cenno del capo il cucinotto nell’angolo e le credenze appese al muro.

Elizabeth annusò un momento l’aria, satura di spezie, carne in salamoia e formaggi freschi prima di sorridere e, indicando il piccolo frigorifero, dire: «Un po’ di carne alla piastra andrebbe benissimo.»

Derek si toccò il naso con aria comica, ammiccando. «Naso sopraffino.»

«Sì» annuì lei, sentendosi stranamente a suo agio con quel perfetto sconosciuto.

Seguendo le sue movenze attraverso la stanza, Elizabeth notò i suoi piedi scalzi sulle assi di legno grezzo del pavimento. Non sapendo bene perché, li osservò con aria interessata, come se quel particolare lo rendesse meno pericoloso ai suoi occhi.

Non che non fosse in grado di prevaricarlo fisicamente – era abbastanza in forze per abbatterlo con un pugno – ma, in un certo qual modo, la sua possanza fisica la metteva a disagio.

Anche se non ne sapeva bene il motivo.

Intento ad armeggiare con padella e bistecche con l’osso, Derek si volse a mezzo per guardarla da sopra una spalla e, sorridendole cordiale, le domandò: «Posso sapere come sei finita nel fiume e perché avevi la gamba ferita da un colpo d’arma da fuoco?»

Avvicinandosi a lui in punta di piedi, le mani strette dietro la schiena, Elizabeth sbirciò oltre il suo corpo maestoso per osservare le bistecche sfrigolare sulla superficie di teflon della padella, prima di spiegargli ciò che le era successo.

«Ero nel bosco per una passeggiata quando, di colpo, mi sono trovata braccata da un branco di cacciatori… con munizioni ad argento. Mi hanno ferita alla gamba mentre fuggivo e, per non farmi prendere, mi sono gettata nel fiume.»

«Scelta coraggiosa» mormorò lui, sollevando le sopracciglia con evidente ammirazione. «Sono rimasto indietro coi tempi, o è illegale darvi la caccia, in Oregon?»

«Evidentemente, quelli non ne erano a conoscenza» brontolò Elizabeth, guardandosi intorno prima di chiedergli: «Dove hai i piatti? Preparo la tavola, se vuoi.»

«Sei ancora convalescente e…» cominciò col dire lui prima di notare la disinvoltura con cui Elizabeth era poggiata sulla gamba ferita. «Oookay. Lascia stare. I piatti sono in quella credenza accanto alla porta.»

«Bene» ridacchiò lei, saltellando verso il mobile in legno scuro come se nulla fosse.

Derek la fissò strabiliato, e non solo per gli effetti incredibili della sua guarigione fulminante. Era la prima volta in assoluto che una donna metteva piede nella sua baita dispersa nei boschi e, in assoluto, la prima donna con cui parlava dal suo burrascoso quanto atroce divorzio.

Melanie aveva spremuto ogni stilla della sua pazienza, riducendolo a un uomo stanco, disgustato dalle donne e con un’idiosincrasia totale nei confronti del mondo civilizzato.

Tutto ciò che lui aveva amato, la medicina, i suoi cavalli, i suoi cani, lei li aveva triturati sotto i suoi tacchi a spillo facendoglieli odiare fin nel midollo.

Melanie aveva desiderato splendere di luce riflessa grazie al suo nome, e lui gliel’aveva concesso. Aveva voluto veder correre i suoi purosangue nelle migliori gare a ostacoli della West Coast, e lui l’aveva accontentata. Aveva messo in mostra i suoi pregiati Golden Retriever a ogni fiera possibile e immaginabile, finendo per farli diventare solo meri trofei, e lui aveva acconsentito.

Alla fine, tutto era diventato vuoto interesse, nulla aveva più avuto un senso, il suo amore per le cose che più aveva apprezzato era stato sostituito dalla noia e dal disinteresse. Quando lui infine glielo aveva fatto notare, Melanie era impazzita di rabbia.

Lo aveva accusato di non voler dividere con lei i suoi interessi – e i suoi guadagni – e di volerla relegare in un angolo della sua vita come uno stupido manufatto, e niente di quello che aveva detto, o fatto, per chetarla era servito.

Sei mesi dopo quel litigio, Melanie aveva inoltrato le pratiche per il divorzio e, grazie alla sua avvocatessa senza scrupoli, era riuscito a spillargli un assegno di mantenimento più che generoso.

I loro amici si erano schierati dalla parte di Melanie, accusandolo di non averle dato quanto meritasse e lui, non sopportando oltre quel vuoto e gretto mondo dove aveva vissuto per troppo tempo, se ne era andato da Boston.

Venduta la villa di famiglia – l’unica cosa che la ex moglie non aveva potuto toccare – aveva affidato i soldi al suo banchiere di fiducia perché li investisse in fondi fiduciari sicuri.
Con gli interessi maturati, sopravviveva più che bene nel suo piccolo rifugio dell’Oregon, lontano da tutto e da tutti.

In meno di un mese aveva abbandonato il prestigioso lavoro all’ospedale, le sue amicizie altolocate e i vernissage a cui era solito andare e, presi i pochi abiti che gli sarebbero serviti nella sua nuova vita, era partito per non tornare mai più.

E ora si ritrovava con una mannara in casa, una gran bella mannara, osò pensare tra sé, e non sapeva che pesci prendere.

Quando l’aveva spogliata in fretta e furia, aveva badato solo a curarle le ferite lacero contuse e a coprirla con abiti puliti. Non appena l’urgenza era scemata, però, i suoi occhi erano rimasti fissi per ore a osservare quel viso che, lentamente, tornava alla sua condizione originaria.

Sotto le ecchimosi violacee era sorta pelle bianco latte e qualche efelide sul naso diritto e sottile mentre lunghe, pallide ciglia ombreggiavano gote dagli zigomi alti e nobili.

L’aveva accudita nelle lunghe ore in cui aveva delirato in preda alla febbre, chetandone i tremiti con panni di lana o asciugandone la fronte quando la febbre saliva.

Solo quando i deliri erano scomparsi si era preso il tempo di riposare un po’ e, quando lei si era svegliata, avrebbe tanto voluto parlarle, chiederle chi fosse, perché l’avessero ferita. Ma nulla. Lei era svenuta nuovamente, e lui aveva dovuto aspettare.

Ora sapeva e, quel poco che conosceva di lei, sapeva di paura, di ansia ma anche di vitalità e di un tocco di candore che lo sorpresero.

Poteva ben immaginare quanto fosse preoccupata per tutta quella situazione, pur se lui era più che certo che, se avesse voluto, avrebbe potuto stordirlo con un semplice pugno.

Non sapeva molto dei mannari, ma una cosa la conosceva. La loro forza.

Non dubitava neppure per un attimo che quello scricciolo di donna, per quanto esile e apparentemente fragile, avrebbe potuto sbatterlo a terra con un sol colpo, se si fosse sentita minacciata.

Per questo non era entrato subito nella stanza, specialmente dopo averla vista così in allarme. Non aveva bisogno di finire a terra con una commozione celebrale, e solo perché non era stato attento.

Distogliendo lo sguardo non appena Elizabeth ebbe preso tutto il necessario per apparecchiare, Derek tornò a controllare le loro bistecche.

Dopo aver aggiunto un po’ di aneto e di timo, le rigirò con la pinza da carne e fece sfrigolare il lato meno cotto sulla piastra nero carbone.

Il tintinnio di piatti e bicchieri fece sorgere a Derek un lento sorriso e, quando la sentì tornare al suo fianco, le disse: «Grazie per la cortesia.»

«E’ il minimo, visto che mi hai salvata e mi stai preparando il pranzo» scrollò le spalle lei, sorridendogli timidamente.

Due fossette comparvero sulle gote rosee, e Derek non poté che trovarle adorabili. Dio, sembrava un folletto, anche se era alta quasi quanto lui! Tutta esile, sottile e aggraziata, dai colori algidi ed eterei, … così deliziosa!

Dandosi dell’idiota, si disse che la mancanza di una donna gli stava facendo davvero strani scherzi, se iniziava a fantasticare sulla ragazza che aveva appena salvato da una gran brutta fine.

Con aria divertita, le sorrise di rimando, mormorando: «C’è dell’insalata fresca, nel frigorifero. Puoi metterla sul tavolo.»

«Lo faccio subito» annuì lei, aggirandolo e sfiorandolo con il suo corpo caldo e profumato di gelsomino.

Mio caro, devi scendere in città e trovarti una donna. Sei davvero messo male!, pensò tra sé Derek, dandosi mentalmente una mazzata sulle dita per tenerle lontane dalla sua ospite a sorpresa.

Ospite a sorpresa che, dopo essersi accomodata a tavola, brontolò: «Ammazzerò Frank, la prima volta che lo becco. Mi aveva assicurato che in quel campeggio sarei stata al sicuro…»
Visto, ha un uomo! Toglitela dalla testa!, si ammonì mentalmente Derek, poggiando la bistecca perfettamente cotta sul piatto di porcellana bianca.

«Rimarrai vedova, se ammazzerai tuo marito» ridacchiò Derek, servendosi prima di sedersi a sua volta.

Elizabeth sgranò lentamente gli occhi, fissandolo senza parole, prima di scoppiare in un’allegra risata ed esalare: «Oh… no! Frank non è mio marito! E’ un amico… di famiglia…oddio! Non ci penserei mai a sposarlo. Ha settant’anni suonati e vedovo da due. E’ buono come il pane ma, certe volte, ha delle idee balzane. E questa si è dimostrata la peggiore di tutte.»

Stranamente confortato da quella notizia, Derek infilzò la carne con la forchetta e, dopo averla tagliata in vari pezzi, ne addentò una parte dopo averle detto: «Se non fosse stato per i cacciatori, non sarebbe stato così male, no? Il posto merita.»

«Oh, certo. Io adoro questa parte dell’Oregon» cominciò col dire Elizabeth, addentando un pezzo di carne e mangiandolo con gusto. «Mmmh, divina!»

Derek ridacchiò nel sentirla mugolare di piacere e, offertole un po’ di vino rosso, le chiese: «Cosa fai di solito, a parte scappare e buttarti nei fiumi?»

Sogghignando, Elizabeth sorseggiò il buon vino dal bouquet profumato di cannella e lampone e, pensosa, gli spiegò: «Vedi, io sono una geologa e mi occupo di studiare i mutamenti geologici della spianata dei geyser a Yellowstone. Sono lì con una borsa di studio dell’Università di Berkeley, dove lavoro, e conto di trasferirmi là in pianta stabile per lavorare nel parco come guida. Potrei unire le due cose e guadagnare un po’ di più per mantenermi visto che, come ricercatrice, non è che gli stipendi siano spettacolari.»

«Ne so qualcosa» ammise Derek.

«Tu, invece, dottore, che ci fai qui, disperso nei boschi? Aiuti tutti i naufraghi come me?» gli domandò lei, ammiccando divertita.

La paura iniziale sembrava essere del tutto scomparsa e, a giudicare dal suo colorito sano e dal labbro inferiore ora completamente guarito, mangiare carne la stava aiutando a recuperare con ancor più velocità di quanta lui stesso non avesse immaginato.

Era un processo davvero incredibile da vedere coi propri occhi.

Rispondendo alla sua domanda così da avere una buona scusa per distogliere lo sguardo da quelle labbra a bocciolo di rosa, Derek le spiegò succintamente: «Mi ero stancato della città e dei suoi conformismi assurdi, così ho mollato tutto e sono venuto qui a vivere a contatto con la natura.»

«E tua moglie?» aggiunse lei, indirizzando uno sguardo significativo alla linea chiara sull’anulare sinistro, dove un tempo si era trovata la sua fede nuziale.

Era passato diverso tempo, ma era chiaro che i suoi occhi potevano ancora scorgere il segno residuo della fede che, quasi sdegnato, aveva gettato in un cassetto senza più cercarla.

Con un mesto sospiro, Derek fece spallucce borbottando: «Divorziato da quattordici mesi.»

«Oh. Mi spiace» esalò lei, apparendo sinceramente dispiaciuta per lui. «Era una strega tremenda, eh?»

«Come fai a dirlo?» ironizzò lui. «Magari lo stronzo di turno ero io.»

Scettica, lei lo fissò con i suoi penetranti occhi limpidi come laghetti di montagna e replicò: «Una persona che salva una perfetta sconosciuta… mannara… e la cura, la riveste e la sfama non può essere una cattiva persona o, come dici tu, uno stronzo di turno. Quindi, ne deduco che sia lei la megera.»

Lui si limitò a fare spallucce ed Elizabeth, ingollando un altro pezzo di carne, infiocchettato da alcune foglie di insalata, borbottò: «So di aver ragione.»

«Te lo dice il tuo fiuto?» ammiccò lui, ghignando.

«Anche» ammise lei, arrossendo suo malgrado.

Derek se ne stupì e, più gentilmente, le chiese: «Ti turba sentirmi accennare al tuo lato animale?»

Lei annuì dopo un momento di riflessione, ammettendo candidamente: «Sei il primo umano, non appartenente alla mia famiglia, con cui ne parlo senza dovermi sentire addosso gli occhi incuriositi o spaventati del mio interlocutore. Di solito, la prima cosa che mi chiedono, quando lo sanno, è se posso mutare per mostrare loro come sono. Come se fosse divertente! Altri, invece, si scostano a distanza di sicurezza e ridacchiano come scemi. Un supplizio. Perciò, il più delle volte, non lo dico e basta.»

«Può essere asfissiante, in effetti» assentì Derek, sorridendole gentilmente.

«Con te è diverso. Non ti comporti in modo strano ed è… piacevole» sussurrò Elizabeth, tornando a far affiorare le fossette sulle sue gote di pesca.

«Sei prima di tutto una donna. Il tuo animale è un…di più, diciamo» cercò di spiegarsi lui, ridacchiando di fronte al suo modo impacciato di esporre i suoi pensieri.

Lei rise sommessamente, replicando: «Molti uomini lo troverebbero un neo, un’anomalia. Non un di più.»

«Menti limitate, le loro» chiosò tronfio Derek.

Elizabeth rise ancora più forte e, per Derek, fu come essere in paradiso. Lo scampanellio prodotto dalla sua voce aveva un che di rinfrescante, di rasserenante. Nulla di quanto aveva finora visto nel bosco lo aveva rallegrato come quella risata spontanea e sincera. C’era un che di magico, in Elizabeth Becker.

«Sono un puma» disse lei all’improvviso, sorprendendolo.

Derek sbatté le palpebre una, due volte, poi sorrise e, sollevando il bicchiere colmo di vino nella sua direzione, declamò: «Ebbene, Elizabeth Becker, puma mannara di…»

«Monterey, California» mormorò lei, con un risolino a fior di labbra.

«…bello! Beh, puma mannara di Monterey, California, benvenuta alla baita del Dottor Orso, come tanto gentilmente mi chiama lo sceriffo di Lincoln City, mio caro amico e, tra le altre cose, lupo mannaro e Alfa del branco locale, se non sono cambiate le cose negli ultimi tre mesi.»

Elizabeth lo fissò sorpresa per alcuni secondi prima di esalare: «E’ un poliziotto e lupo mannaro proclamato?»

«Da almeno sei anni, da quel che so io. All’inizio hanno fatto un po’ di storie ma, visto che col suo fiuto riusciva a scovare più criminali di qualsiasi altro, dopo qualche tempo hanno smesso di rompergli le scatole» le spiegò Derek, con un mezzo sorriso.

«Perché ti chiama Dottor Orso? Perché vivi relegato qui in isolamento?» si informò Elizabeth, guardandosi intorno con aria compiaciuta, come se quella baita spoglia e priva di fronzoli le piacesse.

«Qualcosa del genere. E poi, per la barba. Me la sono fatta crescere da quando sono arrivato qui e, solo di rado, la spunto. Ha sicuramente a che fare con un atto di ribellione nei confronti del mio precedente stile di vita… o così direbbero gli strizzacervelli» ridacchiò Derek, dandosi una grattata alla guancia, dove una ricca peluria scura copriva le gote abbronzate.

«Me l’immagino. Tirato a lucido come un penny nuovo di zecca, profumato con essenze costosissime e con niente di meno che un Dior Homme tagliato su misura» commentò divertita Elizabeth, terminando la sua bistecca.

«Qualcosa di simile» ammise Derek. «Gradisci qualcos’altro? Non so bene cosa serve a un mannaro per riprendersi da simili ferite, anche se mi sembra che tu stia reagendo molto bene.»

Guardandosi le braccia, già quasi completamente guarite, Elizabeth annuì e gli spiegò: «Se non sono ferite ad argento, guariscono alla svelta. Quella pericolosa era sulla coscia, perché il proiettile era argentato, anche se devo supporre, visto che sono viva, che l’ogiva non si sia rotta, vero?»

«Non era un proiettile con ogiva cava, era interamente in argento. Quindi, niente nitrato d’argento liquido che potesse finire nel sangue» la informò Derek, rammentando più che bene la paura provata nell’incidere la carne di Elizabeth.

Il terrore era serpeggiato dentro di lui, all'idea di rompere la potenziale ogiva dove, solitamente, i cacciatori di mannari inserivano alcuni grammi di nitrato d’argento liquido perché avvelenasse le loro prede.

«Oh, vecchi proiettili, quindi» asserì Elizabeth, prima di scuotere il capo, disgustata e commentare aspra: «Non vogliono proprio capire che, in qualsiasi forma ci uccidono, il nostro corpo rimarrà umano, e non animale. Non avranno mai dei trofei da appendere al muro.»

«Temo che lo facciano indipendentemente dalla ricompensa, per così dire» sospirò Derek, accigliandosi. Non gli piaceva parlare di cose simili, specialmente con lei.

«Già, temo tu abbia ragione» ammise Elizabeth, sorridendo imbarazzata un attimo dopo quando chiese a Derek: «C’è un bagno, qui? Vorrei…insomma…»

Sorridendo comprensivo, Derek indicò una piccola porta in legno e disse: «E’ piccolo, ma funzionale. Troverai tutto quello che ti serve.»

«Grazie» sussurrò lei, scostando la sedia per avviarsi verso il bagno. Dopo aver appoggiato la mano sul pomolo della maniglia, si volse a mezzo e, indirizzando uno sguardo alla tavola ingombra, gli intimò: «Non osare sparecchiare. Tu hai cucinato, io pulisco.»

«Come comandi» ridacchiò Derek, sollevando le mani in segno di resa incondizionata. «Non sia mai che io faccia irritare un puma.»

«Bene» sentenziò lei con un sorriso, sparendo dietro la porta un attimo dopo.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


2.


 
Caffè.

O era impazzito del tutto, oppure l’aroma delizioso che gli stava solleticando le narici era davvero la sua bevanda preferita.

Aprendo sonnacchioso gli occhi, Derek si passò svogliatamente una mano sul viso, stropicciandosi la pelle abbronzata prima di sbadigliare e annusare nuovamente l’aria.

Voleva sincerarsi di non aver soltanto sognato quel profumo meraviglioso.

No, c’era davvero.

Il punto era un altro; lui non lo stava preparando di certo.

Era bell’e sdraiato sul suo letto, mezzo sfatto per la notte quasi insonne che aveva passato a rigirarsi tra le lenzuola, perciò lui non c’entrava nulla con quel delizioso aroma. Quindi?

Infilatosi un paio di jeans consunti sopra i boxer che teneva per dormire, poggiò i piedi nudi sull’assito di legno e si avviò ciondolante verso la porta, desideroso di scoprire cosa stesse succedendo.

Sorpresa delle sorprese, quando aprì il battente con cautela scorse un’immagine che, almeno fino al giorno prima, gli avrebbe dato la certezza di stare ancora dormendo della grossa e di stare sognando alla grande.

Leggiadra come un’emanazione magica, Elizabeth stava balzellando allegramente di fronte al cucinotto mentre, con gesti abili ed efficienti, preparava pancetta e uova strapazzate.

Il caffè all'americana sembrava appena fatto ed emanava un aroma splendido ed il forno, più che funzionante, stava cocendo quella che pareva essere una torta di mele, almeno a giudicare dal profumo.

Canticchiando a bassa voce, illuminata dalla luce del mattino che penetrava dalle imposte aperte, appariva quasi eterea, con la massa di capelli biondi arricciati intorno al collo e il viso candido, dalle gote rosee e fresche.

Le lunghe e snelle gambe messe in evidenza dalla sua camicia – che le arrivava a metà coscia – erano toniche, completamente glabre e, apparentemente, del tutto guarite.

La fasciatura era stata tolta. A giudicare da quel poco che Derek poté scorgere dalla sua posizione privilegiata, sembrava essere rimasto solo un piccolo taglietto roseo a X a ricordo dello spiacevole incidente che li aveva fatti incontrare.

Volgendosi a mezzo per mettere sui piatti le uova ormai pronte, Elizabeth sobbalzò leggermente prima di arrossire fino alla radice dei capelli e mormorare: «Oh, buongiorno. Ti ho svegliato? Ho fatto troppo baccano? Scusa, ho la tendenza a canticchiare, quando cucino e…»

Bloccando il suo sproloquio imbizzarrito con un cenno della mano e un sorriso, lui avanzò nella stanza prima di rammentare di essere a torso nudo e con solo i jeans a coprirne le carni.

Scoppiando a ridere di se stesso, si passò una mano sulla nuca ed esalò: «Ecco cosa succede a passare troppo tempo da soli. Ci si dimentica delle buone maniere. Comunque, buongiorno anche a te.»

Lei sorrise scuotendo il capo e, terminato di servire le uova, prese la pancetta e il caffè, che lasciò scivolare dentro due capienti tazze di ceramica azzurro cielo, replicando: «Sei in casa tua, e io non mi offendo.»

«Diciamo che hai potuto constatare che sono un orso di nome e di fatto» ridacchiò lui, sedendosi e passando una mano sulla peluria scura che ricopriva il suo torace, prima di afferrare la tazza del caffè per ingollare il liquido scuro tutto in un sorso. Delizioso.

Con un risolino, Elizabeth si piegò su un ginocchio per controllare la cottura della torta che aveva infornato circa una mezz’oretta prima e, dopo essersi sincerata della sua buona riuscita, la estrasse con un paio di guanti da forno.

Soddisfatta, la presentò dinanzi a Derek, chiosando: «Gli uomini glabri mi fanno un po’ senso, lo ammetto. L’uomo è fatto per essere villoso.»

Derek scoppiò a ridere, rammentando le mille e mille discussioni che, invece, aveva fatto con sua moglie riguardo al suo petto ricoperto da sottile peluria scura.

Di certo, Melanie non avrebbe mai chiesto a Hugh Jackman di togliere la sua, di peluria, ma a lui poteva domandarlo, anzi, pretenderlo. E così aveva fatto, scatenando una delle tante liti intercorse tra loro.

Sentire da Elizabeth che a lei non interessava nulla e, anzi, lo preferiva, gli diede una soddisfazione così grande da sentirsi un idiota, al solo pensarlo. Era davvero diventato così sensibile all’opinione degli altri, stando per tanto tempo da solo, o c’entrava solo il fatto che fosse lei a pensarlo?

Sorseggiando il buon caffè bollente, lei ammiccò al suo indirizzo, chiedendogli: «Ne deduco che qualcun altro non era del mio stesso avviso. O sbaglio?»

«Da cosa l’hai capito?» sghignazzò lui prima di tagliare col coltello la torta di mele, dall’aspetto decisamente invitante, e portarsene un pezzo alla bocca. «Mmh. Buona! Sono secoli che non mangio una torta fatta in casa, e la tua è speciale.»

«A me piace mangiare le cose fatte in casa e, visto che gli ingredienti c’erano tutti…» scrollò le spalle lei, quasi svilendo il proprio lavoro, servendogli poi dell’altro caffè.

Da quanto non assaporava una colazione preparata da qualcuno che non fosse lui? Da un sacco di tempo. Mel non si era mai cimentata ai fornelli, prediligendo lasciare questo piacere alla loro domestica.

Le volte – tante – che lui si era dovuto alzare la notte per andare in ospedale, si era preparato da solo cereali e caffè, condividendo quei momenti solo con il suono soffuso della radio accesa su una stazione locale.

Davvero deprimente.

Invece, quella mattina, si era svegliato con l’aroma caldo del caffè, il profumo di una torta preparata da mani amorevoli e una bella donna nella cucina intenta a sistemare la colazione in tavola. Tutti buoni, buonissimi motivi per dichiarare quell’inizio di giornata davvero ottimo.

Dopo aver chiacchierato amabilmente per tutta la durata della colazione, Derek si prese l’incarico di pulire le stoviglie ed Elizabeth, non avendo altro da fare, sistemò le lenzuola del suo pagliericcio e sprimacciò il cuscino. Dopo qualche istante, riprese a canticchiare sommessamente come, in precedenza, aveva fatto nel preparare la colazione.

Dopo un paio di minuti, però, smise di colpo e Derek, con un risolino, si volse a mezzo e le mormorò gentilmente: «Mi piace sentirti cantare. Prosegui pure. E’ una novità, in questa baita, e di sicuro non potrà far male. Certo, se ci provassi io, le travi del tetto mi crollerebbero in testa per ripicca ma, con te, non credo proprio potrà succedere.»

Senza voltarsi, lei ridacchiò sommessamente e annuì, riprendendo a cantare con la sua voce piena, morbida e da contralto.

Rilassandosi gradatamente a quel suono dolce, Derek si chiese per un istante cosa avrebbe voluto dire, per lui, risvegliarsi tutte le mattine con lei accanto, condividendo quei piacevoli momenti di intimità familiare.

E lì si fermò, spalancando gli occhi e fissando basito la schiena della ragazza che aveva salvato e che, in quel momento, stava spazzando tranquilla per la baita, ignara dei suoi pensieri e dei suoi desideri lasciati andare a briglia sciolta.

Che cavolo vai a pensare, Derek! Neppure la conosci!, pensò tra sé, imprecando mentalmente contro quei pensieri davvero sconvenienti e, per lui, così inusuali. Non si era lasciato alle spalle la vita coniugale perché l’aveva trovata asfissiante?

Eppure, con lei non stava avvenendo niente di tutto ciò. Elizabeth era tutt’altro che soffocante, o anche soltanto noiosa. Si era adattata immediatamente alle condizioni spartane del suo rifugio isolato, non si faceva alcun problema nell’aiutarlo nelle faccende domestiche, non le spiaceva indossare solo una delle sue camicie di flanella e, anzi, gli era grata per tutto ciò che aveva potuto fare per lui.

No, Elizabeth non assomigliava per niente a Melanie.

La donna che stava letteralmente inondando di magia quelle quattro mura spoglie e prive di orpelli era dolce, gentile, premurosa, spigliata e simpatica.

Derek sapeva quel che c’era da sapere, su di lei. Non era vero che non la conosceva.

Paradossalmente, invece, non aveva mai capito Melanie. Si era lasciato coinvolgere dalla sua vita apparentemente affascinante, era rimasto colpito dalla sua bellezza ma non alla sua mente e, così facendo, aveva ingannato se stesso e lei.

Questo, era stato superficiale. Riconoscere le differenze tra Melanie ed Elizabeth, denotava forse in lui un cambiamento.

Tornando a voltarsi verso la donna, sorrise nel ripensare a quanto fosse stata cortese nel preparargli la colazione, prodigandosi addirittura per fargli trovare una torta fresca di cottura. Davvero molto di più di quanto, in tutta la sua vita adulta, una qualsiasi altra donna della sua cerchia familiare avesse mai fatto per lui.

Era una mannara. Okay, e dov’era il problema? Non conosceva solo il suo amico e sceriffo di Lincoln City, Pete Van Owen, ma anche altri e, di nessuno di loro, poteva dire cose meno che carine.

Ci si poteva dunque innamorare a prima vista?

Forse.

Quando però la vide irrigidirsi e stringere con forza la scopa che teneva tra le mani, tutti quei pensieri si azzerarono e, lasciati da parte spugna e acquaio, corse da lei, sfiorandole le spalle con le mani. Turbato, quindi, esalò: «Elizabeth, ti senti male?»

Lei scosse il capo, poggiò contro il muro la scopa e sibilò: «Non so come, ma sono qui.»

«Cosa?!» sibilò Derek, stringendo maggiormente la presa sulle sue spalle prima di farla volgere verso di lui e chiederle: «Intendi i cacciatori?»

Elizabeth annuì, mormorando: «Forse hanno seguito le tue tracce, o i cani hanno fiutato il mio odore qui dentro, non so. Fatto sta che sono a meno di mezzo miglio da qui, e sono armati fino ai denti.»

«Non possono essere venuti coi pick-up. Li avremmo sentiti» sbuffò Derek, guardandosi intorno con espressione accigliata prima di avvolgerle protettivo le spalle e attirarla a sé.

Sorpresa, Elizabeth si ritrovò a poggiare le mani sul suo torace caldo e muscoloso, a respirare il suo buon profumo muschiato e, levando il capo a fissarlo, esalò: «Derek, ma cosa…?»

Strizzandole un occhio, lui sentenziò: «Non permetterò che ti facciano del male, okay?»

«Ma non devi per forza…»

Lui la zittì poggiandole un dito sulle labbra carnose, replicando: «Non ti ho salvato la vita perché quelli ti ammazzino sotto il mio naso, va bene? Ora, …cos’altro sai di loro?»

Annuendo a più riprese, lei si concentrò meglio per captare suoni, odori, fruscii non appartenenti al bosco che li circondava e, con voce piana, sussurrò: «Hanno sicuramente lasciato moto e pick-up ad almeno un miglio da qui, forse di più. Si sono mossi sopravvento, così che non sentissi il rumore dei motori al minimo regime. Sono in una quindicina, con almeno dodici cani. No, tredici»

«Sopravvento, eh? Da dove spira l’aria, stamattina?» le chiese allora lui, lesto.

«Sud-est.»

«Allora, sono sul sentiero della vecchia quercia. Bene. La mia jeep è proprio dietro la baita e porta all’altra mulattiera che parte da qui… e dentro c’è la radio con cui chiamare lo sceriffo» sogghignò soddisfatto Derek, allontanandosi con lei dalla porta d’entrata un attimo prima che una voce stentorea si levasse rabbiosa dal folto del bosco.

Sobbalzando, Elizabeth si strinse a Derek che, portatala a terra con lei, strisciò fin dietro al muretto di pietra che delimitava il cucinotto, e lì fece segno alla ragazza di non fiatare.

«Dottore! Sappiamo che l’ha portata qui! I cani ci hanno guidati fino alla sua baita, perciò non faccia scherzi. Ci dia la cagna che tiene lì dentro e noi ce ne andremo senza far danno!»

«Questa voce la riconoscerei ovunque. E’ quel pallone gonfiato di Roy Stevenson» sibilò irritato Derek. Le poche volte che aveva avuto a che fare con lui era sempre stato di fronte a una birra, con Roy ubriaco marcio e lo sceriffo impegnato a trascinarlo fuori dal bar in cui si era preso una sbronza.

Non erano davvero ricordi che gli facesse piacere rammentare, perché non gli davano un’idea molto edificante dell’uomo che, in quel momento, li stava minacciando.

Controllando la porta d’entrata per sincerarsi che fosse ben chiusa, imprecò tra i denti quando si rese conto di non averla sprangata a dovere.

Si era limitato a chiuderla semplicemente a chiave.  Ergo, sarebbero potuti entrare da un momento all’altro, buttando giù il battente a spallate e sparando a tutto spiano, per quel che ne sapeva.

«Roy! E’ illegale sparare ai mannari, non lo sai?!» urlò a quel punto Derek, facendo segno a Elizabeth di dirigersi gatton gattoni verso la porta che dava sulla rimessa, dove si trovava la sua jeep.

Silenzio.

Forse, il cacciatore non si era aspettato di essere riconosciuto o, più semplicemente, non si era affatto aspettato una risposta da parte sua.

Qualche attimo dopo, una gragnuola di proiettili investì la casa, portando Elizabeth a tenersi ancor più bassa mentre Derek, imprecando a più riprese, apriva la porta con un calcio prima di spingere la ragazza nella rimessa.

«Quelli sono del tutto pazzi!» ringhiò Derek, spingendo contro la porta un cassettone porta attrezzi. Se non altro, se avessero voluto seguirli da lì, avrebbero dovuto faticare un po’ per aprirla.

«Ma va?!» esclamò lei salendo sulla jeep in fretta e furia mentre, oltre la porta, si udivano altri colpi di fucile e le urla dei cacciatori.

«Butteranno giù la porta d’entrata nel giro di poco. Dobbiamo muoverci!» sibilò Derek, salendo al posto di guida prima di mettere in moto.

Senza darsi la pena di aprire il portone della rimessa, Derek lo abbatté con la jeep e, in un fragore di legno spezzato, si infilarono nello stretto sentiero sterrato dietro casa mentre, alle loro spalle, grida livide e infuriate imperversavano come uno sciame di locuste impazzite.

«Direi che se ne sono accorti» mugugnò Elizabeth, guardandosi alle spalle e tenendosi aggrappata allo schienale del sedile.

«Peggio per loro» ringhiò Derek, accendendo la radio e sintonizzandola sulla frequenza della polizia. «Parla il dottor Willstar. Chiedo aiuto immediato! Dei cacciatori mi stanno inseguendo sul Sentiero dell’Alce Nero. Sono armati e pericolosi. Con me c’è un puma mannaro che ha già rischiato di morire per causa loro. Tra i cacciatori c’è Roy Stevenson!»

Una scarica di elettricità statica fu la prima cosa che avvertirono in risposta e, subito dopo, la voce gracchiante di Pete Van Owen che, piuttosto alterato, sbraitò: «Che cavolo hai detto, D? Un mannaro? Ferito?!»

«L’ho curata e ora sta bene, ma ci hanno trovati e ora pensano di fare spezzatino di entrambi! Vieni a tirarci fuori dai guai, Pete!» urlò Derek prima di sentir fischiare accanto a loro un colpo di fucile. «Cazzo!»

«Che succede?!» urlò ancor più forte lo sceriffo.

«Ci sparano addosso, ecco che succede!  Sbrigati! Sentiero dell’Alce Nero!» Detto ciò, mise giù la radio e si concentrò interamente sulla guida mentre Elizabeth, aggrappata al sedile, scrutava dietro di loro con espressione ansiosa, informandolo sui movimenti dei loro inseguitori.

«Si stanno avvicinando!» esclamò Elizabeth, affondando le dita nel tessuto morbido del sedile.

«Come diavolo fanno, con tutte queste buche?!» sputò tra i denti Derek, faticando non poco a tenere la jeep in strada a causa della carreggiata sconnessa.

Dopo aver divelto qualche cespuglio ai lati della mulattiera, il dottore fu costretto a inchiodare il fuoristrada quando, all’improvviso, una moto da cross gli tagliò la strada, spuntando di colpo da dietro la fitta boscaglia.

Quella manovra d’emergenza lo fece finire diritto contro un abete ed Elizabeth, scaraventata in avanti, urtò con violenza contro il cruscotto prima di imprecare di rabbia e urlare: «Dobbiamo uscire alla svelta di qui!»

Senza farselo ripetere, Derek obbedì al suo ordine mentre la ragazza, scalciando via la portiera – rimasta bloccata a causa dell’incidente – uscì a sua volta prima di prenderlo per mano e lasciare la mulattiera.

In fretta, gli disse: «Muterò in puma e tu monterai sulla mia schiena, va bene? A piedi ci prenderebbero subito ma, saltandomi in groppa, guadagneremo terreno e avremo qualche possibilità in più.»

«Che cosa?!» esclamò lui, bloccandosi un attimo dopo quando la moto che li aveva fatti uscire di strada tornò loro contro, ben decisa a investirli.

Elizabeth non poté desiderare niente di meglio. Si parò dinanzi a Derek e, con un calcio piazzato, disarcionò il conducente e mandò il suo mezzo a sbattere contro una pianta.

La motocicletta si ribaltò un paio di volte, prima di finire in mezzo ai cespugli, il serbatoio squarciato e le forcelle deformate dall’impatto col suolo.

Basito, Derek osservò la scena senza badare troppo ai lamenti del centauro caduto a terra e, mentre Elizabeth si metteva in ginocchio a poca distanza da lui, la sentì dire: «Non spaventarti, se puoi.»

Un istante dopo aver proferito quelle parole, Elizabeth iniziò la sua mutazione. La camicia si strappò quasi subito, mentre calda pelliccia color miele prese il posto della candida pelle di pesca della ragazza.

Lunghi artigli perforarono il terreno smosso e una lunga coda dalla punta nera scodinzolò dietro quello che, agli occhi di Derek, apparve come un enorme felino dagli occhi azzurri come il cielo settembrino.

Era molto più grande in un normale puma, più del doppio, a ben vedere e, quando zampettò accanto a lui per sfiorarlo col muso, lui non poté far altro che ridacchiare impressionato. Era davvero da quel cambiamento repentino quanto magico.

Accarezzare quel bel musetto, dove micidiali canini spuntavano minacciosi, gli venne comunque spontaneo. Non ne aveva paura…, lui sapeva per istinto che non le avrebbe mai fatto del male.

Quando Elizabeth lo spintonò a una gamba, Derek capì di doversi sbrigare, di non poter indulgere oltre nell’osservarla ammirato e, senza tanti complimenti, salì in groppa al puma come se fosse stato un cavallo.

Dopo qualche istante di assestamento, l’animale iniziò la sua corsa attraverso il bosco mentre, alle loro spalle, altre moto e almeno un paio di pick-up li inseguivano, tenendosi sulla carreggiata sterrata.

Aggrappato al possente collo della mannara, Derek si appiattì sopra di lei per non prendere in pieno viso i rami dei cespugli che il puma, con agilità di movimenti, scansò nella sua veloce corsa attraverso la foresta.

Pur sapendo quanto fosse assurdo pensare a certe cose, specialmente in quei momenti di pericolo, non poté che trovare bellissimo condividere con lei quell’esperienza unica.

Elizabeth non aveva avuto remora alcuna a trasformarsi dinanzi a lui, a mostrargli il suo lato più nascosto.

Gli aveva concesso la sua piena fiducia e ora, nonostante il pericolo, stava provando sensazioni uniche e speciali. In un momento diverso, avrebbe potuto levare in alto le braccia per lanciare un urlo liberatorio.

«Sei bellissima, così» gli disse lui, cercando di sovrastare con la sua voce il rumore dei pick-up alle loro spalle.

Lei lanciò una specie di miagolio basso, di gola, prima di balzare con grazia di movimenti oltre un piccolo rio nascosto tra le fronde.

In quel momento, ricominciarono i colpi di fucile. Evidentemente, nonostante il loro zigzagare per il fitto della boscaglia, erano riusciti ad avvicinarsi a sufficienza per averli sotto tiro.

Acquattandosi ancora di più sopra di lei, Derek le gridò: «Si stanno avvicinando!»

Elizabeth annuì col muso e scartò verso sinistra per tornare momentaneamente sulla carreggiata, forse diretta sull’altro lato del bosco. Quel gesto, però, la mie sulla traiettoria di tiro di un proiettile, che la ferì alla zampa anteriore sinistra, facendole perdere l’appoggio e, con esso, l’equilibrio.

Cadde rovinosamente in avanti, e Derek con lei. Insieme, capitombolarono per qualche metro, finendo tra bassi cespugli spinosi.

Imprecando tra i denti, il dottore fu lesto a rimettersi in piedi, così da raggiungere il felino e scoprirne le condizioni.

Elizabeth ringhiò furiosa tentando inutilmente di rialzarsi mentre, tutt’intorno a loro, poco alla volta, i cacciatori si chiudevano a tenaglia attorno a loro, le armi spianate e sorrisi tronfi a colorarne i volti.

Quando anche l’ultima jeep si fu fermata, i cacciatori si mossero guardinghi attorno a loro e Roy Stevenson, evidentemente a capo di quella spedizione punitiva, fece esplodere una risata maligna, ringhiando tronfio: «Si è dato davvero troppa pena per una bestia simile, dottore, e ora è nei guai fino al collo.»

«Sei tu a essere nei guai, Roy. Ti denuncerò non solo per quello che hai fatto alla ragazza, ma anche per aver distrutto la mia jeep!» replicò Derek, fissandolo con asprezza.

Roy non fece altro che ridere ancor più forte mentre diversi fucili venivano puntati contro entrambi, chiarendo a Derek la gravità della situazione. Nessuno di loro pareva ricordarsi che, a causa di quel guazzabuglio infernale, quegli idioti stavano rischiando la pena di morte.

Ben conscia del rischio, Elizabeth non attese un solo attimo e, a sorpresa, trasse a terra Derek con una zampata e, nonostante le sue proteste, si pose sopra di lui per fargli da scudo.

Impreparato, il dottore si ritrovò a dover ammirare suo malgrado il collo peloso del puma che era divenuto Elizabeth e, picchiando i pugni a terra per la stizza, le sibilò contro: «Togliti da lì! Non voglio che tu mi difenda col tuo corpo!»

Un coro di risate divertite e sarcastiche si levò tra i cacciatori e uno di loro, ironicamente, esclamò: «Devi esserti davvero dato da fare, con lei, se quella cagna ti protegge a quel modo!»

«Hai avuto fegato, dottore, a farti toccare da una come quella! Ma non ti ha fatto schifo?» ghignò un altro, mimando il gesto di un conato di vomito.

Derek si limitò a digrignare i denti e, furioso, volse il capo quel tanto che gli bastò per scrutarli dal basso ed esclamò: «Siete voi a fare schifo, non lei!»

«Con idee del genere, meriti di fare la sua stessa fine!» sghignazzò Roy, sputandogli in faccia senza troppi complimenti. Poi, rivolto ai suoi compagni, sentenziò: «Murategli la bocca per sempre, ragazzi!»

«Fossi in te, ci andrei piano a uscirtene con simili affermazioni, ragazzone» insorse una nuova voce roca all’improvviso, azzittendoli tutti.

Il gruppo di cacciatori si volse nella direzione da cui era provenuta la voce sconosciuta e, una dopo l’altra, una quindicina di guardie forestali spuntarono fuori dai cespugli con le armi in pugno.

La cavalleria di Pete era arrivata, alla fine e, a giudicare dai loro volti, nessuno aveva una gran voglia di scherzare.

Sempre guardinga, Elizabeth rimase testardamente ferma, ben decisa a proteggere Derek col suo corpo da eventuali colpi vaganti.

Il comandante della forestale, dopo averla osservata per qualche istante, la rassicurò dicendole con un sorriso: «Sei al sicuro, ora. E anche lui. A loro ci pensiamo noi, ragazza.»
Elizabeth annuì col muso, ma non si mosse. C’erano ancora troppe armi, per i suoi gusti, in quel bosco.

Come comprendendo le sue paure, il comandante intimò di lasciar andare i fucili e, pur di malavoglia, i cacciatori obbedirono.

Terrorizzati, quindi, scrutarono Roy in cerca di una parola di conforto e l’uomo, non sapendo che altro fare, ridacchiò impacciato all’indirizzo della forestale ed esalò: «Ehi, andiamo, amico, qui ci stavamo solo divertendo un po’. Non volevamo davvero farle del male.»

Senza minimamente dar segno di voler ridere, il comandante delle guardie indicò con il proprio fucile la ferita di Elizabeth e replicò: «Sta sanguinando, idiota. Come pensi possa crederti, Roy? Inoltre, il fatto stesso che sanguini, depone a tuo sfavore. Significa che hai armi caricate ad argento… particolare che, in Oregon, ti spedisce dritto dritto in galera, senza passare dal Via.»

Roy non annuì né smentì, ma il comandante non ebbe bisogno delle sue conferme. Guardandosi intorno con espressione accigliata, l’uomo lanciò un’occhiata ai suoi sottoposti e, nel giro di pochi attimi, diversi cacciatori furono fatti stendere a terra e le loro armi confiscate.

Presa quindi la radio che teneva appesa al cinturone, il fucile sempre puntato su Roy, il comandante delle forestali chiamò lo sceriffo Peter Van Owen ed esclamò: «Ehi, Pete! Sono Will. Qui è tutto a posto. Porta un po’ dei tuoi con un sacco di manette. Riempirai il cellulare, te lo dico già da adesso e…» dopo aver guardato per un instante il puma, aggiunse: «… vedi anche di portare una barella per felini. Ce ne sarà bisogno.»

Dopo aver detto ciò, Will si avvicinò con fare rassicurante a Elizabeth e, dopo averle fatto annusare la mano, la accarezzò sul capo, mormorandole: «Puoi rilassarti, adesso. Nessuno vi farà del male finché ci saremo qui noi.»

In qualche modo, Elizabeth trovò la forza di spostarsi per non gravare ulteriormente addosso a Derek ma, non appena si fu scostata da lui, le forze le vennero meno.

Con un rantolo strozzato, crollò a terra sotto gli occhi sgomenti del dottore che, inginocchiandosi accanto a lei, gridò: «Elizabeth! Beth! Che ti hanno fatto?!»

Irritandosi ulteriormente, già subodorando il perché di quella reazione, Will si avvicinò a Roy per strappargli la cartucciera dalla spalla e, fissando con rabbia sempre crescente i proiettili al suo interno, ringhiò: «L’ogiva conteneva nitrato d’argento!»

Roy si limitò a sogghignare ma, dopo aver incrociato lo sguardo di Will, impallidì leggermente e reclinò il capo, terrorizzato all’idea di incontrare nuovamente quei ferali occhi di pece.

Nel sentire le parole del comandante della forestale, Derek sgranò gli occhi per un istante prima di fissare a sua volta Roy e, con rabbia a stento controllata, gli ringhiò contro: «Se lei muore, tu la seguirai. Te lo giuro su quanto ho di più caro!»

Roy allora esplose in una risata sardonica, replicandogli con ironia: «E’ un animale, bastardo. Perché darsi tanta pena per una cosa come lei? E poi, come pensi di fare? Evaderai la legge per farmela pagare, forse?»

Fu Will a rispondere per Derek.

Ponendosi contro il petto di Roy, quasi naso contro naso, Will gli ringhiò contro a denti snudati: «Siamo in Oregon, idiota e, se non te lo ricordi, per l’omicidio di un mannaro ci si becca un’iniezione letale.»

Roy indietreggiò repentinamente, investito dal caldo potere del licantropo che stava sfrigolando come una brace sotto la pelle di Willard Greystock e, impallidendo ulteriormente, esalò terrorizzato: «Siete bestie… bestie…»

«Qui, l’unica bestia che vedo sei tu» sentenziò disgustato Will, fissandolo dall’alto al basso con uno sguardo inferocito. «Ringrazia che io ho molto più a cuore di te il rispetto della legge…umano

Continuando ad accarezzare il capo e il collo di Elizabeth, che stava respirando sempre più a fatica, Derek aggiunse sdegnato: «Sta pur tranquillo, Roy, che ti farò causa fino a far pagare anche ai tuoi nipoti la tua idiozia, se le succede qualcosa.»

Il rumore sempre più forte di diverse camionette si diffuse nell’aria attorno a loro e Will, sogghignando, poggiò il calcio del fucile a terra e mormorò all’indirizzo di Roy: «Dammi l’occasione per spaccarti la faccia, dai… almeno ti risparmierai la galera, se ti ammazzo io per primo.»

Roy si limitò a deglutire a fatica, ben comprendendo quanto fossero veritiere quelle parole. Non stava minacciando a vanvera. Lo avrebbe ucciso davvero, se solo gliene avesse dato la possibilità.

Sempre più divertito, Will aggiunse: «Allora, come ti sembra la parte di chi viene braccato? Ti piace? Non rispondi?»

Derek sogghignò tra sé per un momento, di fronte alla lezione che il comandante della forestale stava dando a quel pazzo di Roy. Se le cose fossero state diverse, si sarebbe unito più che volentieri a quella specie di punizione psicologica, ma in quel momento il suo cuore e la sua attenzione erano tutti per Elizabeth.

Carezzandola incessantemente, le sussurrò con dolcezza: «Vedrai che andrà tutto bene. Tranquilla.»

Elizabeth sospirò e chiuse gli occhi. Non aveva neppure più la forza di guardare il viso preoccupato di Derek. Non avrebbe voluto spaventarlo tanto ma, per lo meno, sapeva che lui sarebbe sopravvissuto. L’importante era quello.
 
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Brusii. Voci sconosciute.

No, non tutte.

Una le era più familiare. Cara, in un certo qual modo.

Elizabeth riaprì gli occhi con calma, senza fretta, lasciando che la luce impersonale e fredda della stanza dove si trovava le investisse le sensibili iridi color cielo.

Le pupille si ridussero a due minuscoli puntolini neri in un mare azzurro mentre le palpebre, aggrottandosi, andarono a proteggere immediatamente gli occhi da quell’aggressione violenta.

Alla sua destra, la voce familiare si fece più forte ed Elizabeth, volgendo lo sguardo in quella direzione, sorrise spontaneamente quando scorse un profilo che ben conosceva. Solo, appariva leggermente diverso.

La barba di Derek era sparita, sostituita da gote fresche di dopobarba, un mento volitivo al pari della mandibola forte e lineamenti molto più che affascinanti.

I lunghi capelli erano stati pettinati all’indietro e legati in una coda di cavallo e, al posto della camicia a quadri da boscaiolo, era apparsa una più elegante botton-down di seta bianca su pantaloni neri.

Il tutto, era a malapena visibile sotto l’asettico camice da medico che indossava con naturalezza. Ai piedi, portava dei mocassini.

Ora, Derek aveva l’aspetto del dottore serio e professionale quale era sicuramente stato prima di rifugiarsi nella foresta.

Per qualche strano motivo, Elizabeth trovò la cosa divertente. A lei piaceva il Derek della foresta, non aveva bisogno di conoscere anche il Derek dottore.

Anche se meritava ben più di uno sguardo, a voler essere sincere.

Sorridendogli, Elizabeth alla fine riuscì a gracchiare: «Ehi, a quanto pare qualcuno è tornato alle sue antiche origini.»

Nel sentirla parlare, Derek si avvicinò a grandi passi al letto e, dopo averle sorriso generosamente, con gli occhi e con la bocca, ridacchiò nel guardarsi comicamente e le spiegò: «Ho chiesto di poter occuparmi del tuo caso e sono stati così gentili da permettermelo ma, visto com’ero conciato, ho pensato di darmi una ripulita.»

«Non eri… conciato. Eri Derek» ci tenne a dire lei prima di notare la sacca della flebo collegata al suo braccio. Storse il naso, infastidita e, indicandola con la mano libera dai tubicini, mormorò: «Per quanto dovrò tenerla?»

«Ancora per un paio di giorni. E’ fisiologica. Non eri ancora abbastanza in forze per poter mangiare cibi solidi, specialmente dopo quello che hai passato» la informò Derek, sedendosi su una delle sedie accanto al letto prima di continuare, aggiungendo: «Abbiamo dovuto procedere con un intervento d’urgenza, perché l’argento stava espandendosi in tutto il corpo. La lavanda gastrica è stata la cosa più simpatica che ti abbiamo fatto, per liberarti dall’avvelenamento, perciò ti risparmio il resto.»

Guardandosi le mani e le braccia, che sembravano esattamente come le ricordava, Elizabeth gli domandò pensierosa: «Come avete fatto a fermare il veleno? Che io sappia, nessun mannaro è mai sopravvissuto al nitrato d’argento inoculato in vena.»

Derek rabbrividì dentro di sé nel ripensare a quelle ore drammatiche, alla corsa al Samaritan Hospital di Lincoln City, alle proteste del primario di chirurgia e alle sue strenue richieste di assistenza.

Alla fine aveva appeso al muro il dottore, minacciandolo di gonfiarlo di pugni se non avesse fatto il tutto e per tutto per salvare Elizabeth. Era comunque stato l’intervento dello sceriffo a sbloccare la situazione, e l’operazione aveva potuto svolgersi senza ulteriori ritardi.

La circolazione extracorporea era stata l’unica soluzione possibile per poterle ripulire il sangue senza ucciderla, visto che la lavanda gastrica non aveva sortito gli effetti sperati. Pur ripulendo lo stomaco – dove il nitrato era comunque già arrivato – l’avvelenamento non si era fermato.

Ripulire il sangue era stata l’extrema ratio. Per tutta la durata dell’intervento, Derek aveva seguito con il cuore in mano ogni minimo movimento di dottori, infermieri e anestesisti.

I tre minuti di massaggio cardiaco serviti per far riattivare la circolazione, dopo aver fatto ripartire le pompe per la trasfusione in vena del sangue ripulito dall’argento, erano stati, per lui, i più duri e terrificanti di tutta la vita.

Su quel lettino d’ospedale aveva assistito alla quasi totale perdita della sua sanità mentale e, solo grazie a un miracolo, l’oggetto ultimo dei suoi desideri era rimasto in vita.

Dubitava seriamente che si sarebbe mai ripreso, se lei fosse morta.

Aggrappata alla vita, lei era riemersa dal limbo in cui era caduta. Per le successive due settimane, era rimasta in coma farmacologico mentre il suo corpo di mannara si riprendeva dallo shock dell’operazione subita e del principio di avvelenamento da argento.

Vederla sveglia e sorridente era un sollievo che non riusciva a mettere a parole e, quando lei dichiarò di avere il desiderio di mangiare cibo solido ben prima delle quarant’otto ore previste, lui non poté che sorridere lieto.

Elizabeth si era salvata. Solo quello contava.
 
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La riabilitazione si svolse nel migliore dei modi. Nel momento stesso in cui Elizabeth poté finalmente mettere mano, o meglio, bocca a cibo solido e, soprattutto, composto di proteine animali, il suo corpo letteralmente fiorì sotto gli occhi stupefatti di tutta l’équipe medica.

Mai, prima di allora, si erano occupati di un mannaro in condizioni così disperate e, grazie a quel tentativo dell’ultima ora, ora potevano gioire dei risultati, invece che piangerne la dipartita.

Elizabeth fu prodiga di complimenti per tutti loro e, alla fine della degenza, abbracciò coloro che le fu possibile incontrare tra lo staff medico che l’aveva salvata.

Lasciò ovviamente per ultimo Derek che, con il suo nuovo pick-up - pagato dalla famiglia Stevenson - la attendeva fuori dalla clinica.

Il sole alto in cielo faceva risplendere i capelli di Beth, facendoli rifulgere come oro e, nel salire sull’auto con un agile movimento di gambe, Derek le disse: «Sembra che tu ti sia ripresa perfettamente. Sei raggiante.»

Lei annuì, sorridendo all’uomo che aveva al fianco e che, da quando si era risvegliata dal coma, non l’aveva mai abbandonata un momento.

Si era preoccupato di comunicare ai suoi genitori le sue condizioni, aggiornandoli quotidianamente e pregandoli di non scomodarsi a venire fino a Lincoln City.

Appena possibile, le aveva procurato un cellulare nuovo – il suo, si era perso nella caduta dalla cascata – offrendole così la possibilità di fare lunghe e rassicuranti videochiamate ai famigliari.

Non contento, aveva poi avvisato Frank al camping su ciò che era avvenuto, garantendogli di tenerlo informato sulla salute della sua pupilla.

Da ultimo, aveva portato avanti la denuncia contro i cacciatori che li avevano quasi spediti al Creatore, ingaggiando uno degli avvocati più stimati della zona.

Da quel poco che Beth aveva saputo, Roy Stevenson stava già scontando una pena all’ergastolo mentre, tra i suoi compagni, diversi avevano deciso di patteggiare, ricevendo così pene più lievi, ma tutte non inferiori ai trent’anni.

Un vero sollievo, per lei e la sua famiglia.

Dopo essersi immesso sulla Highway in direzione sud, Derek terminò di spiegarle ciò che era avvenuto durante la sua assenza giustificata. Fu con un mezzo sorriso che le comunicò che l’università era stata più che lieta di sapere delle sue ottime condizioni di salute.

«Ti aspettano a braccia aperte» concluse di dire Derek, sorridendole generosamente.

«E io non vedo l’ora di ripartire con il mio lavoro» ammise Elizabeth, lasciando che lo sguardo vagasse dal suo volto sbarbato alla strada diritta che stavano percorrendo, oltre i confini di Lincoln City.

Abbassato il finestrino, lasciò che l’aria salmastra dell’oceano le investisse i sensi e, assaporando i mille e più profumi che la avvolsero, si sentì in parte rasserenata.

Quel giorno, nella foresta, aveva seriamente temuto di non poter più godere di queste piccole cose invece, anche grazie a Derek, si sentiva più viva che mai.

Poteva respirare, sorridere, correre, abbracciare. Sì, era contenta di tutto ciò che non aveva perso a causa di quei maledetti cacciatori, però…

Le mancava qualcosa, sentiva un peso nell’animo a cui non riusciva a dare una connotazione precisa, ma sapeva che aveva a che fare con Derek.

Lui, però, sembrava così tranquillo, così sereno.

Non sembrava avere nessun problema evidente, non di certo quel sordo dolore all’altezza del cuore che percepiva lei ogni qualvolta posava gli occhi su di lui, o incrociava il suo sguardo perlaceo.

Ma, forse, tutto quello sconvolgimento emotivo aveva unicamente a che fare con la sua lunga degenza ospedaliera.

Forse.

Quando, dopo meno di un’ora d’auto, raggiunsero infine il piccolo aeroporto locale, dove un Cessna 152 adibito a servizio di air taxi l’avrebbe condotta al più importante scalo aereo di Portland, il dolore al petto si fece più forte.

Elizabeth prese fiato più volte nel tentativo di farlo scomparire, ma esso rimase al suo posto e, come un tarlo fastidioso, continuò a rosicchiare, rosicchiare infaticabile. Nulla sembrava arrestarlo.

Apparentemente ignaro della battaglia interiore di Elizabeth, Derek parcheggiò nel piccolo posteggio adiacente gli hangar che si aprivano sulla piccola pista di decollo. Lì, dopo aver preso dalle mani della donna la sua sacca, la accompagnò negli uffici per ritirare il biglietto che aveva prenotato per lei, il passo sicuro e lesto.

Elizabeth riuscì a malapena a rispondere alle quiete domande della segretaria e, pagato che ebbe la tratta fino a Portland, si avviò assieme a Derek verso il piccolo aereo che l’avrebbe ricondotta a casa.

Recuperata infine la sua sacca dalle mani di Derek, Elizabeth la poggiò a terra e, dopo un attimo di esitazione, abbracciò strettamente l’uomo che l’aveva salvata e sussurrò contro la sua spalla: «Ti devo molto più della vita, Derek. Grazie di tutto.»

«Grazie a te per esserti fidata» ridacchiò lui nel carezzarle il capo e la schiena, assaporando il suo calore, il suo profumo di gelsomino e sì, la sua essenza di donna. Gli sarebbe mancata, lo sapeva già.

Scostandosi di malavoglia, Elizabeth afferrò con decisione la sua sacca e, con uno scherzoso saluto militare, esclamò: «Prendo concedo! Ma spero di rivederti.»

«Anch’io. A presto, Elizabeth» mormorò lui, cercando di mantenere il più possibile sotto controllo il tono di voce. Non voleva farle capire quanto, quella separazione, lo stesse facendo soffrire.

Lei ammiccò e, volgendosi a mezzo, gli disse da sopra una spalla: «I miei amici più cari mi chiamano Beth.»

Detto ciò, corse in direzione della pista dove il pilota la stava attendendo e, dopo aver gettato la sacca all’interno dell’abitacolo, salì con grazia di movimenti e chiuse il portello al suo fianco. Sistematasi quindi in un posto vicino al finestrino, lanciò un ultimo sguardo a Derek per poi salutarlo con la mano.

Derek rispose al saluto, sorridendole pur non avendone voglia e, in un sussurro, la salutò per l’ultima volta. «Arrivederci, Beth.»

Lei accentuò il suo sorriso, indicandosi un orecchio con un dito e Derek, scoppiando a ridere, seppe che lei l’aveva udito nonostante la distanza.

Aspettò quindi che il regime dei giri del motore del Cessna raggiungesse il suo culmine prima di aggiungere: «Credo di amarti.»

A quel modo, lei non avrebbe potuto sentirlo e, almeno per una volta, lui avrebbe potuto confessare a voce alta ciò che provava per Elizabeth.

Mentre l’aereo prendeva velocità sulla pista, la donna appoggiò entrambe le mani sul finestrino, lo sguardo sconvolto puntato su Derek che, nel vederla involarsi verso nord, sospirò e tornò mestamente all’auto.

Era ben deciso a non rimanere come un allocco a guardarla scomparire all’orizzonte.

Ben deciso a non crogiolarsi nel dolore di averla persa senza aver avuto il coraggio di dirle tutto in faccia.

Ben deciso a non rimuginare sulla confessione che aveva consegnato al vento come un vero codardo.




 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 
Epilogo
 
 
 
Era un idiota. Ma quello l’aveva sempre saputo.

A dirla tutta, era il campione degli idioti e, se poteva sbagliare qualcosa, aveva la certezza praticamente matematica che l’avrebbe fatto nel modo peggiore possibile e con il massimo danno.

Non a caso, con Elizabeth aveva sbagliato. Alla grande.

Aveva quarant’anni, era un dottore laureato con Magna con Laudae, ammirato da colleghi e pazienti, eppure si era fatto mettere i piedi in testa da tre, semplici paroline: io ti amo.

Perché non aveva potuto dirgliele? Dove sarebbe stato il problema? Erano entrambi adulti e vaccinati! Alla peggio, lei gli avrebbe riso in faccia. In fondo, c’era abituato. Con Melanie aveva fatto un sacco di allenamento.

Già, Melanie.

Continuava a cascare su di lei, come se tutto il mondo femminile iniziasse e finisse con la ex moglie che, per quanti difetti avesse avuto, non era mai stata diversa da se stessa. Era stato forse lui a volere qualcosa di diverso da lei, e per questo erano arrivati metaforicamente alle mani.

Si era convinto di poter creare qualcosa di bello, con Melanie, ma si era ingannato, lasciandosi andare all’esuberanza giovanile e al bel sorriso di lei.

Elizabeth, però, non aveva nulla a che fare con l’ex moglie e, soprattutto, ciò che provava per l’adorabile mannara che aveva salvato, era mille volte più forte di qualsiasi altro sentimento avesse mai provato in vita sua.

Forse, aveva taciuto proprio per questo. Un rifiuto lo avrebbe ucciso, indipendentemente dalla sua forza, dalla sua esperienza, da tutto quanto.

Eppure, doveva provare a dire quelle piccole, difficilissime parole, o non se lo sarebbe mai perdonato in tutta la vita.

Aveva resistito un mese, senza vederla, senza sentire il suo profumo di gelsomino riempirgli le narici, senza udire il suo canticchiare allegro o la sua voce argentina.

Si era ritrovato a percorrere centimetro per centimetro la baita in lungo e in largo, sentendosi un prigioniero nella sua stessa abitazione. Senza di lei, non aveva più alcun senso stare lì. Senza di lei, tutto il piacere di aver vissuto isolato dal mondo - che tanto aveva detestato - non aveva più alcuno scopo.

Si era sentito svuotato, privato di qualcosa di vitale.

Tutto ciò che aveva cercato nel partire per l’Oregon sembrava non avere più importanza. La sua ricerca di una pace interiore, della solitudine che gli facesse passare l’odio nei confronti delle ipocrisie della vita… tutto questo non importava più, se non c’era Elizabeth – Beth – a dividere il suo tempo con lui.

Sistemandosi meglio le bretelle dello zaino sulle spalle, Derek proseguì lungo il sentiero che conduceva alle Mammoth Hot Springs, dove si trovava il geyser più famoso del parco di Yellowstone, l’Old Faithful.

Mentre prendeva l’aereo per recarsi in Wyoming, si era detto che, quel viaggio della speranza in direzione del Parco di Yellowstone, avrebbe potuto finire in due modi; o con la sua completa felicità, o con un bagno in un geyser. Perché l’idea di vivere senza Elizabeth cominciava a sembrargli davvero troppo difficile da sopportare, e una morte per ustione da getti di vapore gli pareva una buona fine.

Ovviamente, si era dato dell’idiota nel momento stesso in cui aveva concepito quel pensiero; era da imbecilli partire con quei presupposti. Perciò, facendosi forza, aveva inforcato il primo greyhound in partenza dall’aeroporto di Cheyenne e si era lasciato trasportare fino al Parco.

Una volta raggiunta la sua destinazione, aveva interrogato per quasi mezz’ora una guida locale che, con un sorriso divertito, lo aveva per l’appunto indirizzato verso le Mammoth Hot Spring. A detta sua, lì avrebbe trovato Elizabeth intenta a studiare il super vulcano che si trovava sotto i loro piedi.

Non che l’idea di trovarsi su una ciminiera potenzialmente esplosiva lo rendesse felice, ma sapeva bene che, nel momento stesso in cui avesse voluto esplodere, nessun posto sarebbe stato abbastanza sicuro. Non doveva quindi darsi tanta pena per ciò che stava sotto quella crosta di roccia ed erba, apparentemente così tranquilla e pacifica.

In lontananza, gli sbuffi violenti di acqua bollente dei geyser portavano con sé anche l’odore caratteristico di uova marce dello zolfo e, pur se vagamente fastidioso, il fatto di essere finalmente arrivato gli diede conforto.

Tutt’intorno, la foresta brulicava di vita, gli alti abeti mugghiavano al vento che spirava dalle vette lontane e, sotto quel sole inclemente, le pozze d’acqua dei geyser scintillavano come specchi d’argento finissimo.

Non faticava a comprendere perché migliaia di persone, ogni anno, visitassero quei luoghi. C’era magia, c’era il fascino della natura selvaggia, c’era il contatto con l’ancestrale respiro della terra.

Era il luogo ideale in cui dichiararsi. O prendere una sonora batosta sentimentale.

Ora, doveva solo riuscire a dire tutto senza incepparsi o svenire, cosa peraltro assai probabile. Non era un asso in quel genere di esternazioni e, vista l’esperienza tragica del suo precedente matrimonio, aveva dei seri dubbi sulla sua reale capacità di giudizio.

Eppure, con Elizabeth sperava di non sbagliarsi e, più di tutto, sperava non lo prendesse per un completo imbecille.

Quando infine giunse nel campo dei geyser e l’aria si riempì di micro particelle d’acqua, Derek sorrise spontaneamente. Lì, ogni cosa appariva lussureggiante, rigogliosa, forte e primordiale. Si poteva toccare con mano la potenza a stento controllata della Madre Terra, e respirarne i suoi effluvi da inferno dantesco.

I turisti erano tutti impegnati nello scattare foto, ben ordinati dietro le staccionate protettive che percorrevano i sentieri e là, lontana da tutti e impegnata nei suoi prelievi di campioni di terreno, vide Elizabeth.

In calzoncini corti e camicia cachi, era piegata su un ginocchio mentre, munita di provetta e guanti, prelevava con una piccola zappetta alcuni campioni di terra provenienti da un antico geyser ormai inattivo.

I suoi bellissimi capelli erano trattenuti da un cappellino con le insegne del parco e, poco dietro di lei, contenute in due enormi sacche rigide, si trovavano tutte le attrezzature per il rilevamento e lo studio dei campioni sul campo.

Avvicinandosi a lei con passo tranquillo, pur se lui non ci si sentiva minimamente, ne studiò il volto perfetto e bellissimo.

La bocca carnosa e priva di rossetto era piegata in una smorfia di concentrazione mentre gli occhi, accigliati, erano impegnati a studiare da vicino la terra appena raccolta.

«Sembri molto pensierosa» esordì lui, rendendosi conto di avere la gola praticamente riarsa. E non per via del caldo di quell’afosa giornata di agosto inoltrato.

Lei sobbalzò, sorpresa di avvertire quella voce a lei cara. Sollevando di scatto il viso, puntò le sue iridi cerulee su un volto che non l’aveva più abbandonata da quel lontano giorno a Lincoln City.

Con un mezzo sorriso, si alzò quindi in piedi e chiosò: «Bravo. Ti sei tenuto sopravvento, così non ti ho sentito arrivare.»

«Onestamente, non ci ho nemmeno pensato» ammise Derek, ridacchiando imbarazzato. Dio, quanto avrebbe voluto bersi tutta la borraccia che teneva appesa allo zaino! Stava per morire disidratato, e tutto per colpa di Elizabeth! Non riusciva a connettere, dinanzi a lei!

«Stai gracchiando, Derek. Sicuro di star bene?» rise lei, ammiccando al suo indirizzo prima di allungargli una delle sue borracce. «Forza, bevi. Non bisogna disidratarsi, con questo caldo.»

«Grazie.»

Ingollò frenetico, quasi strozzandosi con l’acqua fresca e, quando infine ebbe terminato, le porse la borraccia mormorando: «Mi sei mancata, sai?»

«E tu mi hai fatto ammattire» gli replicò lei, poggiando le mani sui fianchi.

Derek sbatté le palpebre, confuso, prima di impallidire ed esalare: «Hai… hai sentito anche l’ultima…»

Fissandolo bieca, lei annuì, asserendo: «Pensavi che il rumore del motore del Cessna coprisse la tua voce? Non per me, mio caro.»

«Oh. Cazzo» gracchiò Derek, ora imbarazzato a morte.

«Dovrei dirlo io! Sono andata nel pallone, a causa di ciò che hai detto. Non sapevo cosa fare, se chiamarti, venire a prenderti a pugni nella tua baita, o infischiarmene e lasciare che facessi tu qualcosa. Insomma, è stato un inferno!» sbottò lei, accigliandosi in più di un’occasione.

«Scusa» mormorò mortificato Derek, reclinando il capo. L’aveva davvero fatta grossa.

«Ma ora sei qui. E vorrà pur dire qualcosa, no?» terminò di dire Elizabeth, sollevandogli il viso con un dito per guardarlo negli occhi. Dopotutto, quasi si eguagliavano, in altezza.

La barba era tornata, seppur non folta come prima e lei, sorridendo tra sé, ne fu felice. Preferiva Derek nella sua versione più selvaggia rispetto al contegnoso e perfetto dottore che aveva visto al Samaritan.

«Vuoi dirmi qualcosa?» gli chiese a quel punto Elizabeth, sorridendogli maliziosa.

Derek preferì agire e, avvolta la sua vita con un braccio, la schiacciò contro di sé per impadronirsi della sua bocca morbida e darle un bacio divorante che sapeva di speranza, di desiderio e di amore a stento controllato.

Elizabeth non si lasciò certo prendere in contropiede e, avvolte le braccia attorno al suo collo, approfondì il bacio affondando dentro di lui, prendendo e dando in egual misura.

Quando infine entrambi rischiarono il collasso per mancanza d’aria, si scostarono e la donna, sorridendo, mormorò: «Era così difficile?»

«Mi sembrava impossibile che fosse bastato così poco per innamorarmi, eppure, tutto quello che sapevo di te mi piaceva. E quando mi hai preparato la colazione, hai avuto in mano il mio cuore.»

Nel dirglielo, sogghignò divertito.

«E io che pensavo che il detto che vuole che gli uomini si prendano per la gola fosse solo una baggianata!» rise lei, impadronendosi un attimo della sua bocca prima di aggiungere: «Tu mi hai conquistata quando ti sei infuriato con me perché ti stavo proteggendo. Volevi metterti davanti a me, …tu, un comune umano che voleva difendere una mannara come me. Beh, se prima mi piacevi soltanto, così mi hai fatta capitolare.»

«Quindi?» volle sapere lui, speranzoso.

«Quindi, se provi ad andartene lontano da me, ti azzannerò a una gamba» sogghignò lei, ammiccando. «Ricordi che denti ho, vero?»

Scoppiando a ridere, lui la sollevò per farle fare una mezza giravolta e, al colmo della gioia, le stampò un bacio sulla guancia, promettendole: «Non sarai mai costretta ad azzannarmi, credimi. Arriverai a stancarti di me, piuttosto.»

«Ne dubito. Dopotutto, sei il mio dottore preferito. Piuttosto, e la tua ricerca della solitudine?»

Guardandosi intorno, Derek sorrise estasiato e le disse: «Cos’ha, questo posto, che non va? Tra queste lande potrei trovare tutta la solitudine che voglio!»

Poi, più seriamente, aggiunse: «E’ vero, cercavo la solitudine, il silenzio, la lontananza dagli uomini, dall’ipocrisia del mondo… invece ho trovato te. E non sarebbe potuta andarmi meglio. Al parco hanno sempre bisogno di dottori per la Clinica del Centro turistico. Farò domanda per essere assunto qui, così potremo stare insieme. E, quando diventerai guida del parco, sarà tutto perfetto.»

«Tutti questi cambiamenti… per me?» sussurrò lei, ancora incredula.

«Per noi» precisò Derek, stringendola in un abbraccio che sapeva di calore umano, amore e speranza. «Se mi vorrai, …per noi.»

Come aveva fatto Derek in precedenza, Elizabeth non rispose, preferendo lasciar parlare il suo corpo per lei.

Lo afferrò alla nuca e, dopo averlo fatto avvicinare, lo baciò così a fondo che, per Derek, non vi furono dubbi sulla sua risposta.

Era un noi, e lo sarebbe stato per tutta la loro vita.





N.d.A.: spero che questa storia breve vi sia piaciuta. Era un esperimento, ma credo comunque che non sia venuto tanto male! :)

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