Chasing the Evening Shadows

di Kuno84
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quando sogni a occhi aperti ***
Capitolo 2: *** Dopo la fine ***
Capitolo 3: *** Andare avanti ***
Capitolo 4: *** Incontri ***
Capitolo 5: *** Confronti ***
Capitolo 6: *** Breve sogno ***
Capitolo 7: *** Risveglio ***
Capitolo 8: *** Dietro le quinte ***
Capitolo 9: *** Speranza ***
Capitolo 10: *** Il prezzo da pagare ***
Capitolo 11: *** Accettazione ***
Capitolo 12: *** Scelta ***
Capitolo 13: *** Congedo ***
Capitolo 14: *** Incontro alla luce ***



Capitolo 1
*** Quando sogni a occhi aperti ***


Note preliminari: What if…?, Spoiler. Luoghi e personaggi appartengono a Rumiko Takahashi. 
La storia che vi apprestate a leggere si riallaccia al capitolo finale del manga, per cui sarebbe consigliabile una sua visione da parte di chi conosce solo l’anime (e una conoscenza più in generale della saga di Safulan). Le pagine sono liberamente consultabili a quest’indirizzo. Ringrazio di cuore la mia beta Tiger eyes per le correzioni, i consigli, la disponibilità. Anche per merito suo, posso ora augurarvi come di consueto una buona lettura! 


Chasing the Evening Shadows

 

Forse perché della fatal quïete
Tu sei l'imago a me sì cara vieni
O sera! 
  
“Alla sera” 
Ugo Foscolo

  
 

 

Capitolo 1 
“Quando sogni a occhi aperti”

  
  
Non respirava. 
  
Ranma cercò di scacciare da sé l’atroce pensiero come se fosse un nemico immaginario. Ma perfino sconfiggere Safulan era stato più semplice, dovette ammettere, mentre l’idea tornava a tormentarlo con assiduità perfino maggiore, forte del fatto che corrispondeva a un dato reale. 
  
Akane non respirava. 
  
“Tutto questo perché hai cercato di salvarmi…” 
La vide ancora una volta. Lei che girava il Kinjakan, arrestando l’acqua della fonte di Jusendo e impedendo ai filamenti del principe-fenice di estendersi ulteriormente.  
“… ma non era una faccenda che ti riguardava.” 
Vide ancora la fidanzata che svaniva dalla sua vista, rivide i suoi vestiti che d’un tratto avevano preso a ondeggiare nel vuoto per posarsi infine tra le proprie braccia. 
E più nient’altro. Le tenebre lo avevano inghiottito nelle loro fauci. 
In un istante, tutto era finito. 
“Stupida… sei una stupida…” 
Si bloccò di scatto. Dopodiché, senza pensarci troppo, si assestò da solo un violento pugno. Se l’era meritato, e lei non avrebbe potuto 
(non potrà mai più) 
sferrarglielo al posto suo. 
“No, scusami…” 
Ranma prese un profondo respiro. 
“A dire il vero, ciò che volevo dirti è… grazie.” 
E continuò a parlarle. 
Si convinse che non sarebbero state parole gettate al vento, perché lei lo avrebbe ascoltato. Perché non poteva essere davvero tutto finito. 
“Mi dispiace… non sono bravo in queste cose. Non riesco mai a essere sincero, così finisco solo per insultarti e farti arrabbiare…” 
Lo stava facendo. Per la prima volta, le stava aprendo il suo cuore, confidandole pensieri che non era mai riuscito a rimuovere dalle prigioni del proprio orgoglio e della propria timidezza. Per questo… per questo, ora lei non poteva fargli il torto di non ascoltarlo… giusto? 
“Svegliati, Akane… c’è una cosa che voglio dirti… tu puoi sentirmi, non è vero?” 
Sicuramente era così. Certo che poteva 
(non potrà mai più) 
sentirlo. Doveva ascoltarlo. 
  
Voglio dirti che ti amo! 
  
Ma… 
(Mai più.) 
Le cose stavano diversamente. 
(Mai più.) 
Lei non avrebbe più potuto farlo. 
(maipiùmaipiùmaipiùmaipiù…) 
“AKANEEEEEEEEEEEEEE!” 
Non gli avrebbe mai risposto. 
Perché tutto era veramente finito. 
  
  
Aprì gli occhi. Lo avvolse un buio più intenso di quello delle proprie palpebre sigillate. Abituò poco a poco la vista all’ambiente che lo circondava. Concluse che la quiete irreale in cui era sprofondato stava a indicare che l’alba non era ancora sorta, che gli altri inquilini della casa erano ancora succubi del torpore di un sonno immobile. Forse ‘ristoratore’, pensò distrattamente rievocando il luogo comune, ma soprattutto immobile. 
Silenzio. Non un cenno di vita. Il nuovo giorno era ancora morto, e così parevano esserlo pure i suoi protagonisti. Anche lui doveva esserlo stato, sebbene per non più di qualche minuto. D’altronde, ultimamente, aveva perso la voglia di dormire. Anche perché, quelle poche volte che si abbandonava alla stanchezza, ripeteva quel sogno. E lui, piuttosto, avrebbe preferito restare sveglio in eterno. 
I sogni sono strani. Indizi premonitori di ciò che sarà, si è creduto dalla notte dei tempi. Lo specchio dell’anima, si dice attualmente. Il riflesso delle proprie paure. Oppure dei desideri proibiti. O ancora, molto più semplicemente, ricordi, sia pure alterati dalle proprie emozioni. 
Quale fosse il suo specifico caso, gli era chiaro. Certo, non comprendeva un granché di psicanalisi o analoga roba da strizzacervelli, lui, ma intuiva che in fondo non c’era molto da capire. 
Semplicemente, odiava ripetere quel sogno. Odiava soprattutto il momento del risveglio. E ancora di più, l’attimo in cui la sua coscienza si riprendeva pienamente e tornava a distinguere tra immaginazione e realtà. La confusione provocata dalla fine del sonno durava parecchi, troppi secondi, e ciò rendeva più duro separare l’una dall’altra. Il buio della notte, in questo contesto, non era certo d’aiuto. 
Allora come mai non lo fuggiva? Alzarsi in piedi, accendere una luce: queste azioni avrebbero costituito un rimedio efficace per scrollarsi di dosso i fantasmi che affollavano le sue tenebre. 
Invece era rimasto ancora in quello stesso punto, avvolto nell’ombra sulla base delle scale, mantenendo la posizione quasi fetale che aveva assunto durante il sonno. Sentiva in lui qualcosa che lo spingeva a non muoversi, che lo incoraggiava a intestardirsi a mantenere la propria posizione, la nuca sopra il braccio schiacciato sul secondo gradino, a dispetto dei muscoli dolenti che, risvegliatisi, chiedevano tregua invano. 
Non si sarebbe mosso. Era in attesa di qualcosa. Le orecchie erano tese, come a voler sfidare il silenzio che dominava l’ambiente circostante e cogliere in fallo anche il minimo rumore che la notte si fosse lasciata inavvertitamente sfuggire. Era, in verità, in momenti come questo che lui attendeva con maggiore convinzione: forse per istinto, forse perché confuso dal dormiveglia. 
Gli altri non avrebbero potuto comprendere. Non poteva spiegarlo. Poteva solo aspettare. Quel qualcosa sarebbe arrivato. Lui sarebbe stato pronto. 
E infine avvenne. 
Vinse la sua sfida. 
Come sempre. 
Come quasi sempre. 
Prima udì un rumore sordo. Ancora qualche istante di silenzio. Infine uno e più passi farsi largo dal piano di sopra. 
Tuttavia, Ranma non si mosse ancora dalla propria posizione. Aveva trattenuto il respiro per una frazione di secondo, prima di capacitarsi che quei rumori non erano ciò che voleva sentire. In realtà non sapeva nemmeno lui cosa stesse attendendo. Era certo, però, che non si trattava di questo. E nessun’altra cosa che non fosse ciò che aspettava, per lui, aveva più molta importanza. 
Come per inerzia, tuttavia, l’udito continuò a svolgere il proprio lavoro… Nuovamente il silenzio. Altri rumori sordi. Passi. Le assi del pavimento del corridoio di sopra che cigolavano. Di nuovo nulla. 
Perché preoccuparsi? Tutti i componenti della famiglia Tendo, per non parlare dei genitori, erano nelle loro stanze da diverse ore, ma forse qualcuno si era svegliato, proprio come lui. Magari Kasumi, o più probabilmente Nabiki, si era alzata a prendere un bicchiere d’acqua. 
Cos’altro? 
Però… se le cose stavano così, quanto ci metteva Nabiki – o Kasumi – a scendere le scale, incrociarlo e dirigersi in cucina? Perché quei passi erano invece così timorosi? Come mai si erano arrestati, quasi che la persona che li guidava stesse in qualche modo esitando? Inoltre, quelli non erano i passi di Nabiki. Né di Kasumi. Troppo poco controllati, troppo poco placidi: troppo irruenti, per appartenere a una delle due. 
Suo padre, dunque? Inutile immaginarlo, sapeva benissimo che le cose non stavano nemmeno così. La mente lo fece vagare inavvertitamente, per qualche secondo, nei meandri più reconditi della propria fantasia. E vide nella sua testa quei passi corrispondere a un estraneo, intrufolatosi furtivamente in casa Tendo, chissà, per esempio attraverso una finestra non chiusa bene, in cerca di qualche oggetto di valore. 
Eppure… 
Quei passi gli erano così familiari. 
Se solo… 
Ma non poteva essere ciò che lui si figurava. 
Doveva scuotersi. L’ipotesi ‘estraneo’ era incredibilmente plausibile. Ebbene? Per quanto ancora lui sarebbe dunque rimasto passivo? Quei passi avevano, da un punto di vista esclusivamente razionale, la loro importanza, anche se non potevano corrispondere alle sue assurde speranze. Perché lui si era svegliato, no? E l’immaginazione doveva lasciare il posto alla realtà. 
La realtà era più pericolosa. Poteva essere un ladruncolo da due soldi, ignaro di trovarsi in una casa popolata da artisti marziali. Ma poteva anche trattarsi di un qualche delinquente o maniaco.
Doveva scuotersi, prima che accadesse 
(ancora) 
qualcosa di brutto. 
Ranma si levò finalmente in piedi. Era pronto ad accogliere lo sventurato che aveva osato violare quelle sacre mura domestiche. Dopotutto, non poteva sottrarsi a tale dovere: era anche lui un artista marziale. Lo era ancora, nonostante avesse abbandonato gli allenamenti dal giorno del suo rientro. 
Percorse di soppiatto le scale, ponendo attenzione a non far cigolare i gradini. Quando fu in cima, i rumori di prima erano cessati da parecchi secondi, ma nell’oscurità del corridoio di fondo, che dava alle camere delle sorelle Tendo, Ranma avvertiva chiaramente la presenza dell’estraneo. La cosa più importante, l’estraneo non aveva ancora percepito la sua. 
Era il momento giusto. Ora o mai più. Ranma scattò in avanti, annullando in pochi istanti la distanza che lo separava dall’altro. 
Sei mio! 
La figura nell’ombra – né Kasumi né Nabiki, indubbiamente – si irrigidì e accennò a reagire, come spaventata. Troppo tardi. Ranma scansò facilmente il colpo e afferrò il braccio di quell’incauto. Aveva giusto bisogno di scaricare ciò che covava dentro da ormai troppo tempo: doveva sfogarsi e, in definitiva, quel ladro aveva indubbiamente scelto la notte meno felice per-- il pensiero s’interruppe di colpo. 
Quella… quella sagoma! E quel polso, molto più sottile rispetto al suo. 
(“Non me n’ero mai accorto… la sua mano è così piccola!”) 
Non poteva essere vero. Ranma non poteva essere sveglio. Stava ancora sognando! Era certamente così! Eppure… doveva sapere! Si voltò per guardarla in faccia, ma il tizio aveva approfittato del momento di distrazione per sfuggire alla sua presa e scavalcarlo. 
“No! Fermati!” Tuonò Ranma, che stava sudando freddo. La figura si dileguò più veloce, in direzione opposta da quella da cui era venuto lui. 
“Fermati, ho detto! Non puoi scappare da nessuna parte!” 
Effettivamente, quello che doveva essere un comune ladro era praticamente in trappola. Percorse tutto il corridoio con un poco di vantaggio su di lui, ma lo rincorreva ormai sicuro di poterlo prendere. Fu poco prima delle scale che, inaspettatamente, la figura s’infilò nella stanza degli ospiti. 
Poco male, pensò Ranma. Raggiunse anche lui la porta scorrevole e la spalancò violentemente, ansimando per la corsa e per l’agitazione. Ora avrebbe saputo. 
Cercò con affanno l’interruttore, la mano che tremava nervosa. Quando infine lo trovò, ciò che vide lo sorprese non poco. 
  
  
Occhi sorpresi. Occhi scrutatori. 
Occhi accusatori. 
Gli occhi di papà, che sorseggiava placidamente una bevanda da un thermos, ma allo stesso tempo con una severità che incuteva un certo rispetto: un riguardo che lui non era chiaramente abituato a portargli. 
Gli occhi di Ucchan, che lo fissava impaurita, avvolta per intero e stretta energicamente alla propria coperta. 
Gli occhi di sua madre, che emerse lentamente dal proprio letto con aria più addolorata che sorpresa. 
E basta. Nella piccola stanza, non c’era nessun altro. 
“Ranma… cosa è successo?” Domandò Nodoka, con manifesta inquietudine. 
“Vogliamo una spiegazione.” Bofonchiò gravemente Genma, non distogliendo da lui quell’odioso sguardo nemmeno per un attimo. “Si può sapere che cosa ti salta in mente, di svegliarci con tutto quel baccano a quest’ora della notte?” 
“Io… io…” Mormorò Ranma, spaesato e non cessando di guardarsi intorno. Possibile che loro non se ne fossero accorti? 
“Tu cosa? Parla!” Ribatté il padre. 
“La stavo inseguendo… l’ho vista entrare… Perché diamine non l’avete fermata?!” 
Ukyo lo fissò sconvolta. 
“Ran-chan… chi avremmo dovuto fermare?” 
Genma sembrò trattenere a forza un fremito di rabbia. 
“Qui non è entrato nessuno. Non lo vedi?” 
Già, così sembrava. Tutto lo dava a vedere. Che avesse veramente sognato? Che non fosse ancora in grado di distinguere la realtà dal sogno? Eppure… no, Ranma poteva giurare di averla vista! Aveva stretto il suo polso! Lei c’era, era reale. Non era un frutto della sua immaginazione. 
“Tutto questo è assurdo! Assurdo!” Gridò, sfogando tutta la sua frustrazione. “State sicuramente mentendo! Non può essere scomparsa nel nulla!” 
“Chi, Ranma? Chi hai visto entrare qui?” Urlò con veemenza ancora maggiore il padre. 
Il ragazzo esitò per un attimo. 
Prese coraggio. 
E diede finalmente voce ai propri pensieri. 
“Io ho visto entrare… Akane.”     
Ukyo sussultò. Nodoka parve sul punto di piangere. Genma sembrò, al contrario, calmarsi. 
Il resto della famiglia Tendo si era, nel frattempo, radunato attorno a Ranma. 
“Cosa succede?” Domandò a nome di tutti Soun Tendo. 
Né Ukyo né tantomeno Nodoka riuscirono a rispondere. 
Fu Genma ad alzarsi in piedi e affrontare l’amico. “Ranma ha detto di aver visto… Akane… entrare in questa stanza.” Mormorò, ora con voce roca ma allo stesso tempo calma e posata. 
Neppure uno dei Tendo commentò quell’affermazione. Si limitarono tutti a fissare l’adolescente con il codino. Nessun occhio accusatore, stavolta. Nei loro sguardi non si poteva leggere del biasimo, anzi. Tuttavia… era una sua sensazione oppure… sembravano tutti compatirlo? E questo sarebbe stato ancora meno sopportabile. 
“Smettetela di guardarmi così! Vi dico che era lei!” 
Kasumi si accorse che suo padre stava tremando e si affrettò a prendergli la mano. 
“Ora piantala, Ranma! Lo sai che Akane non si è mossa dalla sua stanza!” Sbottò Nabiki, con tono duro. 
Improvvisamente Genma si scosse, afferrò il figlio per il colletto della camicia e lo trascinò per il corridoio. 
“Cosa fai?!” Protestò il Saotome adolescente. 
“Tu ora vieni con me”, intimò il Saotome anziano, “a trovare Akane.” 
  
  
Sulla porta troneggiava, come di consueto, la sagoma a forma di paperella con inciso il suo nome in caratteri occidentali. Genma girò la maniglia senza tanti complimenti e, mentre l’uscio si apriva, l’insegna traballò pericolosamente. 
Il genitore accese la luce. “Perdonami, ma lo faccio per te! Ecco… guarda, guarda con i tuoi occhi!” Disse, con appena un filo di voce. 
Ranma fissò l’interno. Dunque aveva veramente sognato? Veramente immaginazione e realtà avevano varcato, solo per lui, il reciproco confine? 
Akane non si era mai mossa. Akane era ancora sdraiata sul proprio letto. Le palpebre abbassate in un’espressione serena, era l’unica persona a non essersi svegliata in tutto quel trambusto. 
Né avrebbe potuto mai più. 
Così, era vero.
Il sogno era sogno e la realtà immutabile. 
Il corpo senza vita di Akane Tendo non aveva mai abbandonato il suo posto.

 




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Capitolo 2
*** Dopo la fine ***


Capitolo 2 
“Dopo la fine”

 


Akane era davanti ai suoi occhi, immobile, 
(morta) 
supina sul proprio letto, come in procinto di svegliarsi da un momento all’altro, 
(ma non si sarebbe alzata mai più) 
il volto sereno, candido, fresco, privo di turbamenti. 
“Ora hai visto?” 
Era troppo per lui. 
“Rispondimi, Ranma! Hai visto?” 
Troppo. 
“Ranma!” 
Il ragazzo ignorò l’interrogativo del padre, che continuava a scuoterlo per la spalla. Quest’ultimo, come rassegnatosi, allentò la presa mormorando un’ultima volta il suo nome. Approfittando dell’attimo favorevole, il figlio diede a Genma un violento strattone e riuscì a sottrarsi dalla sua portata.  
Spalancò la finestra e scappò via, balzando di tetto in tetto. Quando dopo un tempo indefinito – secondi, minuti? – toccò nuovamente terra, notò che anche il cielo pareva aver condiviso la sua furia. La quiete di prima era stata sostituita da un sommesso brontolio. Diverse nubi grondanti d’acqua avevano approfittato delle ultime ore per radunarsi in massa ed erano ormai sul punto di sgravarsi del loro peso. 
Ranma non ebbe il tempo di rendersene pienamente conto, che di fatto, goccia dopo goccia, una pioggia leggera cominciò a bagnare le strade. Ma a lui non importava. Riprese la propria corsa. Doveva assolutamente allontanarsi da casa Tendo o sarebbe impazzito. Sempre che non fosse già diventato folle. 
Eppure avrebbe giurato di averla vista. Camminare lungo il corridoio del piano di sopra. Entrare nella camera degli ospiti. Akane. 
Questo non era possibile. 
Perché lei era in camera sua. Nel suo letto. 
Come la sera prima e il giorno precedente e quell’altro ancora. 
Tentando di scacciare i ricordi, essi riaffiorarono alla mente ancora più violenti. Quel poco di ragione che avvertiva distintamente dentro di sé ricostruì con una cura spietata lo stato dei fatti. 
E ripensò una volta di più a Jusendo. Al suo scontro con Safulan. Ad Akane che, per salvarlo dai filamenti che uscivano dal corpo di quel moccioso tentando di inglobarlo al proprio interno, girava il Rubinetto della Fenice arrestando l’acqua della Fonte delle pozze maledette che dava forza alla sua mutazione. E infine al violento lampo di luce da cui il corpo della fidanzata era uscito rimpicciolito e completamente disidratato. 
Immagini che lo tormentavano sia da sveglio che nel sonno. Quand’era cosciente, almeno, poteva sforzarsi di scacciarle da sé. Una volta addormentato, al contrario, era del tutto succube e impotente di fronte a esse. 
Non poteva sopportarlo, per questo ormai si rifiutava di dormire. Volta dopo volta, era sempre più difficile riprendersi dall’illusione del risveglio, dalla speranza che si trattasse solo di un incubo, che Akane fosse pronta a strapparlo dal sonno con una violenta secchiata d’acqua, rimproverandolo accigliata che per colpa sua avrebbero fatto tardi a scuola. 
La speranza. Si era presa gioco di lui tante di quelle volte… 
Una di queste, già in Cina, a Jusendo, per mezzo della guida delle Sorgenti Maledette. 
Akane poteva essere salvata. Nulla di più semplice, aveva spiegato la guida. Sarebbe bastato usare la stessa acqua magica di Jusendo per invertire il processo di disidratazione prima che Akane chiudesse gli occhi ed esaurisse la propria energia vitale. Non c’era che da sconfiggere Safulan, dopotutto. 
La speranza. Non può forgiare la realtà a proprio piacimento. Rivide se stesso. Lui che vinceva. Lui che sparava un Hiryu Shoten Ha per spezzare il Rubinetto del Drago. Lui che si faceva investire dal getto d’acqua perché anche Akane ne fosse avvolta. E il corpo di Akane che tornava istantaneamente alla normalità. 
Eppure stavolta 
(“Ha… ha chiuso gli occhi!”) 
aveva agito troppo tardi. 
Ranma aveva perso. 
L’illusione si era dissolta. 
Ma non era che la prima. Ne erano seguite altre. E perfino sogni nei quali invece faceva in tempo a salvare Akane, così da rendere il risveglio ancora più amaro. 
Infine quest’ultimo miraggio. Il più crudele, perché stavolta era sveglio. E perché Ranma, a differenza delle esperienze precedenti, non riusciva in alcun modo a scrollarsi di dosso la sensazione che non fosse affatto tale. 
Al contrario, riflettendoci si sentiva sempre più convinto di essere lui nel giusto, non gli altri. E avvertiva un nuovo vigore, una nuova adrenalina scorrergli per il corpo, simile a quella che lo caricava nell’imminenza di un combattimento. Probabilmente era questo che doveva fare: combattere. Contro il suo vecchio. Contro chi non gli credeva. Perfino contro l’evidenza. Combattere era ciò che sapeva fare meglio. 
Tuttavia… 
Si chiese se potesse accettare a se stesso di recare ancora dolore alle persone cui teneva. 
Ripensò a quand’era entrato nella camera dei genitori quasi fuori di sé, convinto di trovarvi Akane. Si raffigurò il volto addolorato di sua madre. E quello sconvolto e ansimante di Ucchan, il viso bagnato di sudore come se avesse vissuto lei in prima persona i suoi incubi. 
La confusione si fece di nuovo strada nel proprio animo. Appena un attimo prima, si era sentito pronto a dare qualunque cosa pur di conferire un corpo al nemico invisibile che lo irrideva, così da poterlo affrontare apertamente. Adesso si domandava quanto veramente fosse alto il prezzo di una simile battaglia. 
Se fosse tale da coinvolgere anche loro. 
E se lui, anche in questo caso, sarebbe stato disposto a pagarlo. 
  
  
Nabiki si morse il labbro, indispettita. Ormai il sonno non sarebbe tornato. 
La sua implacabile mente calcolatrice non aveva tardato a mettersi all’opera, quantificando il danno materiale e morale involontariamente inflittole dal giovane Saotome. Come avrebbe fatto l’indomani a scuola? Lei non era come Ranma, continuava ad andarci regolarmente tutti i giorni e, proprio quello successivo, avrebbe dovuto sostenere un importante compito in classe. Con tutto quel sonno perso, in quali condizioni l’avrebbe affrontato? 
Né si sarebbe potuta consolare con i soliti affari. Con Ranma trincerato in casa da giorni, ogni aria di profitto sembrava di colpo spirata via. Nessuna foto allettante, nessuna pretendente, nessun rivale. Tutte le persone che, per un motivo o per un altro, orbitavano intorno al ragazzo con il codino non si erano fatte più vedere. Come se non fosse sufficiente tutto ciò, perfino Kuno-chan si era misteriosamente dileguato nel nulla. 
Sciocchi, perché non capivano? 
La vita va avanti. Non si ferma per la tragedia di una persona, di una famiglia. Tutto scorre, e l’importante è non rimanere indietro. Cinico? Forse. Ma l’esperienza 
(“mamma…”) 
le aveva insegnato da tempo che questo era l’unico modo di affrontare il mondo: percepire la realtà circostante come un unico circolo vizioso di vita e di morte; ricordarsi che, anche quando tutto appare finito, c’è sempre un ‘dopo’. 
Le disgrazie… accadono, è inevitabile. Certo, quando aveva visto Ranma tornare a Nerima con sua sorella in quello stato, in quelle condizioni, Nabiki non si era sentita tanto disposta nei confronti di una simile filosofia: al contrario, era stata tentata per un attimo di aggredire il giovane incosciente con la treccia, di fargliela pagare personalmente per non aver saputo salvare Akane. Poi, poco a poco, l’adrenalina era calata, facendola di nuovo tornare in sé. 
Da quel momento, Nabiki Tendo non aveva più perso il controllo di se stessa. 
“Tieni.” 
La ragazza si scosse per un attimo dai propri pensieri, rivolgendo la sua attenzione al bicchiere che Kasumi le aveva appena offerto. 
“Cos’è?” Domandò oziosamente, nonostante potesse constatarlo da sola. 
“Del latte caldo.” Rispose con prontezza la sorella maggiore, come se si fosse preparata a dover dare una spiegazione. “Non c’è niente di meglio per riconciliare il sonno.” 
Nabiki le rivolse un sorriso furbo. 
“Se sei qui in cucina a pensare a me, forse dovresti piuttosto prenderne tu una tazza.” 
Kasumi ricambiò il sorriso con un altro più innocente. 
“Oh…” Accennò. “Io non ho bisogno di dormire molto. Sai che non ne sono mai stata capace.” 
“È vero. Al contrario, io rivendico il diritto di godere di tutte quante le mie ore di riposo.” 
“Sei sempre stata una dormigliona.” 
“Ma mai ritardataria.” Precisò Nabiki, sorseggiando il latte. “Non c’è nulla di male a dormire tanto, quando si è poi sufficientemente organizzati in modo tale da arrivare a scuola in perfetto orario. Al contrario di alcune persone di mia conoscenza.” 
“Beh, tu più di loro riesci a non lasciarti coinvolgere dalle numerose distrazioni di questo quartiere.” 
“Non è poi così difficile.” 
“Cielo, ricordo però che, quando frequentavo io la scuola superiore, il Furinkan non era un ambiente così movimentato.” 
“Se è per questo, non lo era nemmeno fino all’arrivo di Ranma.” Si lasciò scappare la secondogenita delle Tendo. 
“Non essere cattiva…” 
Cattiva? Nabiki udì per un attimo se stessa, quasi fossero due persone diverse. E la Nabiki spettatrice non poteva fare a meno di chiedersi come potesse l’altra Nabiki Tendo, quella ragazzina che parlava alla sorella maggiore in maniera così saccente, dire cose tanto banali e insensibili. 
Come se… 
“Dico solo la verità.” Perseverò la Nabiki parodia di se stessa. “È lui che porta scompiglio. Ma la sua scenata di stanotte gli costerà cara: quando tornerà, gli presenterò un bel conto… e soprattutto la mia polaroid pronta a immortalare una certa ragazza col codino in abiti discinti.” 
“Sai che non sta bene.” 
“Sei la solita…” 
La solita? Già, erano entrambe le solite. 
Come se non fosse accaduto nulla. 
Proprio in quel momento, Kasumi si alzò in piedi. “Io penso piuttosto che, invece di aspettarlo, ora tornerai di sopra a dormire.” 
“Ma Kasumi…” 
Le due Nabiki sussultarono allo stesso tempo, quando la sorella maggiore accarezzò loro una spalla. 
A quel contatto, si sentirono di nuovo una persona sola. 
“Tanto vedrai che tornerà presto.” Sussurrò Kasumi. “Non c’è nessun bisogno che tu stia qui ad aspettarlo. Non preoccuparti.” 
Nabiki non ebbe né il tempo né la voglia di ribellarsi. Udì attentamente i passi di Kasumi uscire dalla cucina, accompagnati da uno scroscio proveniente dall’esterno, quindi finì di gustare il suo latte. 
Fuori pioveva. È piacevole, pensò, bere qualcosa di caldo mentre fuori piove. 
Quella Kasumi… a volte perfino lei finiva per sottovalutarla, ma in casi come questi dava il meglio di sé dimostrando di saper leggere nel cuore delle persone. In un certo senso, Nabiki era sollevata all’idea di non essere l’unica in famiglia capace di ciò. D’altronde, in loro scorreva lo stesso sangue. 
“Preoccupata, io?” Mormorò a mezza voce. 
Sì, Nabiki poteva tranquillamente ammettere di esserlo. Ma non preoccupata ‘per’ Ranma, semmai ‘di’ Ranma. Quel ragazzo con la treccia, che un giorno di pioggia primaverile come tanti altri era arrivato a stravolgere le loro vite così tranquille, costituiva tuttora il maggior ostacolo che si frapponesse tra la sua famiglia e una parvenza di ritorno alla normalità. 
Adesso ci mancavano anche le sue patetiche visioni. Si chiese quanto tempo ancora sarebbe occorso a Ranma per accettare il fatto che Akane fosse morta. E come mai non riuscissero ad ammetterlo del tutto nemmeno loro. 
(Forse perché i morti stanno sottoterra?) 
Anche nel loro discorso di pochi istanti fa, lei e Kasumi non erano riuscite a non parlare al presente, quasi che tutto stesse andando come al solito e Akane fosse ancora tra loro. Anche questo era colpa di Ranma. In fin dei conti, non è sempre colpa di Ranma? Lui si era rifiutato di far seppellire o cremare la sorella, la sorellina che dopotutto sembrava solamente dormire. In questo caso, la sua testardaggine, il suo non volersi arrendere stavano contagiando l’intera famiglia. Portandola lentamente alla rovina. 
Perché non accettare la realtà? Akane sembrava dormire. Però in lei non v’era traccia di respirazione, né di circolazione sanguigna: il suo corpo non si deteriorava – e loro ne conoscevano il motivo – ma tutto il resto indicava inconfutabilmente che sua sorella minore era morta. 
Nient’altro. Perché non poteva essere tutto così semplice? E perché la vecchia del Nekohanten aveva detto quelle cose…? 
Posando il bicchiere ormai vuoto sul tavolo, Nabiki si accorse che la sua mano tremava. 
  
  
La pioggia, adesso, batteva scrosciante. Un tuono deflagrò a poca distanza da lui. 
Come se fosse stato un segnale, qualcosa esplose anche dentro di sé, irradiandosi in ogni parte del proprio corpo. 
Ranma gridò. Calciò. Urlò. Colpì ripetutamente un nemico invisibile. Gridò di nuovo. 
Infine si arrestò, e lasciò che le ginocchia sprofondassero nel terreno melmoso. 
Ansimando, pregò di aver dato sfogo a tutto ciò che gli bruciava nelle vene. E invece l’istinto gli suggerì ancora un’altra via. 
Improvvisamente avvertì un nuovo irrefrenabile bisogno. Si slacciò il colletto della camicia bagnata fradicia, strappando nella foga una parte del tessuto. E fissò con rabbia il suo petto maschile. In quel momento, avrebbe sinceramente desiderato riavere su di sé la maledizione di Jusenkyo. 
(“Un uomo non piange!”) 
Avrebbe voluto farlo, anche di nascosto, tanto nessuno avrebbe riconosciuto le proprie lacrime in mezzo a quelle delle nubi nere. Ma le parole del suo vecchio gli rimbombavano nella mente e gli impedivano di cedere. 
Provando a distrarsi, Ranma si guardò intorno. Riconobbe il verde, l’odore dell’erba bagnata e la fila dei lampioni ancora accesi nonostante l’orario. Doveva essersi mosso a gran velocità – o chissà per quanto tempo – dato che si trovava nel bel mezzo del parco Shakujii Koen. 
Imprecò silenziosamente. Non c’era un solo luogo che non fosse ricco di memorie. 
“È qui che abbiamo avuto il nostro primo appuntamento.” 
La voce lo colse alla sprovvista, facendolo trasalire. Aveva abbassato la guardia a tal punto? Una figura familiare emerse dalle ombre, sostando sotto i raggi di un lampione, a pochi metri da lui. 
Rialzandosi da terra, Ranma la riconobbe subito. 
“Mi hai seguito.” 
  
  
Ukyo inclinò leggermente l’ombrello, attenta a non bagnarsi, e alzò gli occhi verso un cielo lievemente più chiaro di qualche minuto prima: si stava facendo giorno e i raggi solari premevano, pur non riuscendo a sopraffare le nubi. La ragazza distolse lo sguardo. Si voltò verso il ragazzo di fronte a sé e quindi in direzione del laghetto alla loro destra. Il picchiettio del fitto rovescio sulle acque creava uno strano gioco di increspature che, unito alla debole luce naturale e a quelle artificiali più consistenti, dava al luogo un’insolita aria cupa. 
“Sembra tutto così irreale, pare di trovarsi in un mondo fantastico isolato dalla realtà… eppure è proprio qui che un bel mattino soleggiato mi hai portato in barca, ricordi?” 
Ukyo avrebbe voluto che la memoria si arrestasse a quei dettagli, ma la mente era troppo lucida per scordare il resto: che Ranma l’aveva invitata al solo scopo di tallonare Ryoga e Akane, per mettere i bastoni tra le ruote al loro appuntamento. 
La giovane esperta di okonomiyaki si adirò con se stessa: alla fine, non aveva fatto che aggiungere un altro pensiero di Akane a una lista chiaramente già traboccante di suo. Si chiese come mai non si fosse trattenuta ma avesse stupidamente aperto bocca. Forse conosceva la risposta. Forse voleva solo che Ranma, una volta tanto, pensasse alla sua Ucchan. 
Probabilmente aveva sbagliato tutto fin dall’inizio. 
“Sì.” Esclamò lui d’un tratto, come in risposta ai pensieri della ragazza. Ukyo sentì il cuore accelerare il suo ritmo e tornò a guardare Ranma dritto negli occhi, mentre quest’ultimo continuava a parlare. “Ricordo ogni singolo dannato dettaglio. Perché è così facile, se poi non si può tornare indietro?! Aveva ragione lei, ha sempre avuto ragione! Ero e sono un enorme stupido! Uno stupido! Stupido!” 
Strinse i pugni con grande intensità. Non doveva essere la prima volta, notò Ukyo, trattenendo inavvertitamente il respiro. Le mani gli sanguinavano. 
“Non… non dire così, Ran-chan! Tu non hai colpa di niente!” Lo interruppe, enfatizzando il tono della propria voce come per convincerlo della verità di quelle parole. 
Ma non ebbe il coraggio di proseguire, di spiegargli che la colpa era tutta sua. Del suo egoismo, della vanità e della presunzione che le derivavano dal sentirsi la fidanzata carina. Se solo avesse pensato al suo bene fin da subito! Ma forse non era ancora troppo tardi. 
“Vattene, ti prego, Ucchan.” Mormorò Ranma, con un tono che le parve debole e spento. L’ombra del fiero combattente che conosceva. “Ho bisogno di stare un altro poco da solo.” 
Ukyo, per un attimo, prese in seria considerazione l’ipotesi di obbedire a quella richiesta. Ma l’esitazione svanì subito via. 
Cominciò ad avanzare, avvicinandosi lentamente al ragazzo con la treccia. 
“No.” Disse con fermezza. “La verità è che non devi restare solo, al contrario hai bisogno più che mai di qualcuno. E io… posso prometterti che… ci sarò sempre per te…” 
Ridusse ulteriormente la distanza che li separava e, portandolo a sé sotto il suo ombrello con la mano libera, lo cinse in un caldo abbraccio. 
Lui sobbalzò, ma Ukyo non si ritrasse. Mantenne ferma la presa, come per tranquillizzarlo, per rassicurarlo che andava tutto bene. 
Fidati di me, Ran-chan, pensava. Non sono forse sempre stata la tua migliore amica? E ancora prima il tuo migliore amico? Fidati, ripeteva. Io non ti abbandonerò. 
“Ucchan…” La voce di Ranma tremava. “Tu credi che stia diventando pazzo?” 
“Certo che no, Ran-chan! Certo che no!” Rispose lei tra le lacrime che non riusciva più a trattenere. 
  
  
Così accadde. 
Ranma Saotome lasciò cadere la sua maschera. 
D’un tratto, non v’era più traccia dell’insuperabile artista marziale, nulla era rimasto del ragazzo sbruffone e pieno di sé. Solo un essere umano disperato era colui che, abbandonando ogni resistenza, mandando al diavolo le parole del padre, e con sola testimone la pioggia che li circondava, accompagnò i propri singhiozzi a quelli della compagna d’infanzia, lasciandosi cullare dal suo abbraccio. 
“Aiutami, Ucchan… non voglio diventare pazzo…” Biascicava con la voce spezzata dal pianto. 
“Certo che no… stai tranquillo… tranquillo…” Ripeteva lei, come una nenia. 
  
  
Tranquillo, Ran-chan, io ti proteggerò, pensava la piccola Ukyo. Io ti salverò. 
Accentuò un altro poco la stretta, poggiando una guancia su una sua spalla. 
E vedrai che presto riuscirò a cancellare da te l’ombra di Akane…

 

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Capitolo 3
*** Andare avanti ***


 

Capitolo 3 
“Andare avanti”

  
  
Quando Ukyo si svegliò, il sole era già alto e la maggior parte delle nubi si era dissipata. 
Si scosse, stiracchiandosi lungo la panchina su cui era sdraiata e scoprendo di essere indolenzita un po’ dappertutto. Addormentarsi all’aperto, valutò distrattamente, non costituiva la cosa più salutare di questo mondo. 
Mentre si rialzava, come in un lampo, alcuni avvenimenti della notte passata le tornarono nitidi alla mente. Si ricordò di Ranma, della foga con cui era fuggito di casa. Di come lei l’avesse seguito e fosse riuscita a portargli un po’ di conforto. 
Il fidanzato aveva pianto a lungo tra le sue braccia finché, finita la pioggia e probabilmente scaricatosi anche lui dopo tanto tempo da ogni tensione, si era infine abbandonato al sonno. Ukyo doveva essersi addormentata non molto più tardi, sopraffatta a sua volta da una spossatezza non solo fisica. 
Si guardò con calma in giro ma di Ranma non vi era più nessuna traccia e lei, sinceramente, non se ne sentiva sorpresa. Al levarsi di una breve folata di vento, ebbe l’istinto di proteggersi con le braccia: così facendo, avvertì il contatto con un tessuto estraneo e si accorse di stare indossando una certa camicia cinese di colore rosso. 
Dunque, l’aveva abbandonata. 
Di nuovo. 
(“Avevate promesso di portarmi con voi!”) 
Ormai avrebbe dovuto esserci abituata. 
(“L’avevate promesso!”) 
Tutto era andato storto. E nemmeno lei sapeva esattamente cosa fosse accaduto: forse per la stanchezza dovuta allo scomodo risveglio, forse per le tensioni della notte passata, provando a ricordare qualcosa di più non trovava davanti a sé che diversi buchi di memoria, oltre a un fastidioso capogiro. 
Ukyo sospirò. Non era da lei arrendersi, così si avviò verso casa Tendo, sperando con tutto il cuore che vi avrebbe trovato Ranma. Anche se la ragione le diceva che non sarebbe stato così. 
  
  
Non era tornato a letto, quella notte. 
Aveva, piuttosto, preferito mettersi qualcosa di caldo sulle spalle e incamminarsi verso la palestra. 
Era entrato, ponendo la massima attenzione nel non far rumore. Aveva poi poggiato una mano sul legno della parete, assaporandone la sensazione. Quelle quattro mura significavano tanto per lui. 
Quante ore erano passate? Soun Tendo non poteva dirlo: aveva perso la cognizione del tempo e, tutto sommato, preferiva così. Sapeva solo che la luce del giorno, ora, filtrava all’interno con violenza. 
Preferì, dunque, sfuggirla e chiudere ancora una volta le palpebre. Di nuovo, come per incanto, vide davanti a sé un Soun più giovane e senza baffi che inaugurava il dojo, assistito dallo sguardo grondante di gioia della propria consorte. Si rimirò mentre dava lezioni agli allievi della scuola appena fondata, che a quel tempo giungevano numerosi. 
Sorrise mentre guardava se stesso esibirsi in qualche mossa di kempo di fronte a tre piccole bimbe curiose e leggermente spaurite, con la speranza segreta che a qualcuna di loro venisse voglia di imitarlo. 
Sorrise di nuovo e con grande orgoglio, stavolta, ammirando la figlia più piccola seguire le sue orme allenandosi con lui, e girare di tanto in tanto gli occhioni vispi per capire se papà fosse contento di lei. 
E lui lo era. Immensamente. 
La vanità del mondo… Tanti progetti, tanti calcoli, per un castello di carte che sarebbe potuto crollare al primo soffio di vento. Eppure, ponendo una carta sopra l’altra, sapeva di non aver incontrato timori, ma solo soddisfazione per quello che stava facendo. 
Amava le arti marziali. E amava ancor di più la propria famiglia. Evidentemente, il destino aveva deciso che non potesse godere a lungo di nessuna delle due cose. 
Ma lui si era imposto di farsi forza. 
Era perfettamente consapevole che tutti davano per scontato che il dolore per la sua piccola Akane lo avrebbe distrutto nel più profondo recesso dell’anima. Lui non negava affatto di aver sofferto, e di continuare a soffrire, come un disgraziato: chiaramente, nei primi giorni, aveva pianto le sue lacrime, e copiose. 
Tuttavia, ciò non bastava a farlo sentire un uomo debole. 
Passò in rassegna, ancora una volta, la sua vita. 
No. 
Un uomo debole non resiste al dolore della perdita della moglie tanto amata. Non guarda avanti, non cresce le tre figlie ancora piccine senza chiedere aiuto ad alcuno. 
No. Soun Tendo non era un debole. Lui aveva sempre combattuto per le cose cui teneva. 
Era partito da zero, dagli stenti, dai sacrifici. Aveva individuato il suo maestro in un vecchiaccio che si sarebbe presto rivelato un grandissimo pervertito e un terribile tiranno. Non importava. Lottando, era comunque riuscito a trarre il meglio da tutto ciò. 
Non aveva avuto figli maschi cui passare il testimone della scuola di lotta indiscriminata, portando avanti il nome dei Tendo nelle arti marziali. Non importava. Il cielo gli aveva donato tre gemme di figlie. Un caro amico. E una promessa importante. 
Fino a pochi giorni prima, soppesando gli inevitabili dolori e le numerose gioie incontrate sulla propria strada, si era ritrovato a pensare che il destino gli avesse concesso fin troppo, tutto sommato. 
Non solo la piccola Akane aveva presto rivelato di amare le arti marziali. 
Non solo Genma Saotome non era venuto meno al loro vecchio accordo, ma aveva anche cresciuto un ottimo ragazzo, straordinariamente dotato, molto più di loro alla sua età, meritevole di riunire le famiglie e le scuole di lotta, come stabilito, e di ereditare la palestra. 
Oltre a tutto questo, Ranma… aveva finito, col tempo, per costituire il figlio maschio che non aveva mai avuto. Dunque cosa poteva desiderare di più? 
Eppure, adesso, stava perdendo di nuovo ogni cosa a cui teneva. La sua piccola Akane. Probabilmente, anche Ranma. Aveva scrutato attentamente gli occhi del ragazzo, nel momento in cui gridava di aver visto la fidanzata. Non vi aveva scorto nulla di buono. 
La speranza è, di per sé, qualcosa di positivo. Ma non quando impedisce di guardare al futuro, non quando si deforma evolvendosi in cupa disperazione. 
Soun soffriva. 
Soffriva terribilmente, ogni singolo istante. E pure adesso nuove lacrime sgorgavano in silenzio dai suoi occhi. Ma si era imposto, anche questa volta, di non soccombere al proprio dolore. 
Non era importante pulirsi il viso. Presto le lacrime si sarebbero asciugate da sole. Piuttosto alzò la fronte in direzione del soffitto, cercando con tutto se stesso di mostrarsi ritto di fronte alle avversità, senza abbandonare il proprio decoro. 
Per Ranma… Soun considerò che dovesse valere lo stesso discorso. Mai per nessun motivo si sarebbe dovuto rifugiare nella consolazione di un mondo tutto suo, mai avrebbe dovuto perdersi a caccia di vane ombre. 
Ragazzo mio, non devi smarrire il senso della realtà… 
Udendo la porta scorrevole spalancarsi, Soun inclinò lievemente il capo verso il basso – ma attento a non piegare la propria postura – e, senza girarsi, seguì con lo sguardo rivolto ai suoi piedi un’ombra familiare avvicinarsi alla propria. 
“Tendo… non si saluta più?” Domandò il proprietario della seconda ombra. 
Soun ignorò il tono di rimprovero e chiese a sua volta: “Notizie di tuo figlio?” 
Genma scosse energicamente la testa. 
“Nessuna. Ma Ukyo gli è corsa dietro e molto probabilmente ce lo riporterà a casa prima che, per sfogare la sua frustrazione, finisca per demolire il vicinato.” 
Soun esitò, prima di riprendere la parola. 
“Stanotte… non credi di essere stato troppo diretto? Dopotutto è normale che Ranma sia ancora sconvolto e, forse, non era il caso di farlo soffrire di più. Piuttosto, sarebbe stato meglio abituarlo poco a poco all’idea di…” 
“Pure tu? Vuoi insegnarmi come fare del mio ragazzo un uomo? Ma penso che ti manchi un po’ di esperienza diretta, Tendo.” Si frenò, forse notando – o forse no – che Soun si era morso nervosamente le labbra. Genma parlò con un tono di voce più leggero. “Anche Nodoka, prima, mi ha rimproverato. E credimi, non è facile ignorare le parole di una moglie che non molla per un singolo istante la presa dall’impugnatura della propria katana affilata. Addirittura tua figlia Kasumi mi ha fatto una piccola predica… ho sempre detto che quella ragazza è una santa, ma il solo immaginarla alterata mi mette i brividi addosso!” 
“Saotome, io non intendevo rimproverarti.” Soun assottiglio lo sguardo. “Però mi sono accorto che ultimamente c’è qualcosa di strano in te. Sei sicuro di non volerne parlare? Ricordati che noi due siamo vecchi amici.” 
Genma rise sgraziatamente. 
“Veramente ti do questa impressione? E dire che ero solo venuto a invitarti a una partita di shogi! Ma se la pensi così accetterò volentieri le pedine nere e tre mosse di vantaggio, quale prova ben più tangibile della tua amicizia.” 
“Saotome…” 
“Su, non prendertela! Scherzavo!” 
“Ma io dicevo sul serio.” 
“Ma tu pensi anche troppo, amico mio, e pensare troppo distoglie l’attenzione dalle soluzioni più semplici, quelle che abbiamo a un palmo di naso.” Genma afferrò divertito l’interlocutore per un braccio. “Davvero, Tendo, non crederai che abbia tutta questa voglia di mostrare a Nodoka suo figlio che si tormenta e frigna come una donnicciola?! O preferisci forse vederci fare seppuku? Per lei quella promessa è ancora valida, lo sai. Ma basta deprimerci, andiamo a giocare!” 
Soun si lasciò trascinare fuori dalla palestra, senza opporre eccessiva resistenza. 
Pensò casualmente che una volta la signora Nodoka aveva detto che le donne della famiglia Saotome hanno sempre dei motivi per stare in pena. Credette di stare cogliendo solo ora il vero significato di quelle parole. 
Genma e Ranma erano molto meno emotivi di lui, così era difficile intavolare con loro un discorso di un certo spessore. Ma ciò non significava che potessero soffrire di meno. Soun era convinto che il comportamento generalmente poco serio di Genma, la stessa cinica praticità di cui non mancava di offrire esempi – anche di recente: nessuno era riuscito ad apprezzare la sua iniziativa in Cina – nascondessero qualcosa di più profondo. Improvvisamente pensò di aver compreso l’animo del suo miglior amico. Del resto, ora conosceva l’entità esatta del dolore di un padre che perdeva il proprio figlio senza poterci fare assolutamente nulla. 
E gli occhi di Ranma… 
  
  
Nabiki sbuffò rumorosamente. Premette con vigore il pulsante di riavvolgimento per poi, con una rapida pressione della falange su un altro tasto, portare ancora una volta la cassetta in fase di riproduzione. 
…nanzitutto, tengo a precisare che non ero con voi in Cina e dunque non sono in grado di parlare con la piena conoscenza dei fatti… ciò che …irò… sarà basato esclusivamente sulle cose che mi avete raccontato, sui dati… …ulle… informazioni che mi avete fornito… 
Pausa. 
Giusto l’inizio della parte interessante. Nabiki ricordava che, prima di proferire le proprie considerazioni, Cologne aveva scrutato lei e gli altri spettatori con un’espressione indecifrabile. In effetti, la secondogenita delle Tendo avrebbe potuto giurare che quella sera al ristorante Nekohanten i familiari e i resti della ‘spedizione cinese’ costituissero un valido campionario delle emozioni umane più disparate.   
Poteva dirlo perché anche lei si era, per un attimo, soffermata a esaminare i presenti. Alcuni sprovveduti, come Ryoga, pendevano letteralmente dalle labbra della vecchia. I più sensibili, come papà, sembravano invece svuotati e incuranti. Altri più smaliziati, come Nabiki stessa, attendevano il suo responso con fare cauto e guardingo. Ma nemmeno lei avrebbe potuto dire se Obaba tenesse in considerazione questi atteggiamenti così diversi, o se si stesse semplicemente divertendo alla loro vista. 
Riproduzione. 
…do per …ontato… che ormai tutti conosciate, alcuni di voi per esperienza diretta, i poteri del Kinjakan… un’arma sacra per il popolo del monte Hooh, fin troppo per essere toccata dalle indegne mani dei miseri mortali, ragion per cui con il suo immenso calore ha letteralmente disidratato il corpo di Akane… Così… …on mi dilungherò oltre… 
Nabiki annuì distrattamente. Conosceva praticamente ogni dettaglio del viaggio in Cina. Aveva ottenuto informazioni con qualsiasi mezzo e si era perfino servita di un testimone oculare degli eventi, se così poteva paradossalmente definirsi quella talpa di Mousse. 
Il nastro, nel punto seguente, era meno consumato ma proseguiva anche con diversi secondi di silenzio, accompagnato solo da qualche mormorio di disapprovazione sullo sfondo. 
Nabiki ricordava che, al contrario di quanto aveva appena affermato, Obaba si era presa tutto il suo tempo per inalare una boccata di fumo, sotto gli occhi spazientiti di tutti. Compresi i suoi. Erano rarissime le volte in cui l’aveva vista fumare, e quella vecchia – era proprio il caso di dirlo – volpe dava l’impressione di godersi appieno il suo grande momento. 
…il rimedio… era uno e uno soltanto, e vi è stato riferito correttamente dalla guida di Zhou Chuan Xiang. Una sola acqua poteva reidratare la ragazza: quella della fonte primordiale chiamata Jusendo, ovvero l’acqua magica da cui traggono linfa e vita le stesse Sorgenti Maledette...” Di nuovo silenzio. 
Ricordava nitidamente, anche senza bisogno dell’aiuto della cassetta, ciò che era seguito. La vecchia aveva soffiato una densa nuvoletta di fumo e in quel momento, complice forse la luce pallida di una luna pressoché piena, a Nabiki era parso di vederla circondata da una sorta di aura, come il più sacro degli oracoli. Anche adesso poteva quasi rivivere quel breve momento di soggezione, e se ne rimproverò. 
…Il futuro genero, non senza ostacoli e soprattutto non senza perdere minuti preziosi, ha infine adoperato l’acqua di Jusendo su Akane, che tuttavia, da quanto mi avete detto, a quel tempo aveva già chiuso gli occhi. Questo segno è inconfutabile: sta a significare che il suo spirito vitale si era ormai esaurito e l’anima aveva lasciato definitivamente il corpo. Il potere di quell’acqua tuttavia è immenso: infatti, una volta che è stata assorbita dal suo organismo, lo ha preservato dagli effetti della morte. L’idratazione durerà, probabilmente, ancora per qualche giorno, così pare che Akane, in fondo, stia semplicemente dormendo.” Mentre aveva udito dal vivo quelle parole, Nabiki ricordava di avere istintivamente accennato un sorriso malizioso, come se fosse stata sul punto di sentirsi spiegare il trucco di un prestigiatore. 
Il fatto era che le versioni, fino a quell’istante, coincidevano e si integravano magnificamente. Infatti anche Tofu, al quale lei si era già rivolta in precedenza, all’insaputa di tutti e nel massimo riserbo le aveva raccontato che potevano verificarsi dei casi nei quali l’anima abbandonava la propria sede naturale eppure la persona restava in vita. Nabiki avrebbe potuto ripetere parola per parola l’esposizione del dottore: tale fenomeno riguardava, di regola, l’ikiryo, ovvero lo spirito legato a questo mondo da un qualche attaccamento terreno, ed era definito proiezione o, più correttamente, sdoppiamento astrale. 
“Ma le cose non stanno così.” Qui Nabiki poteva ancora percepire l’occhiata grave che Cologne aveva scoccato loro, o forse solo nei suoi confronti. “Il corpo e lo spirito non possono restare separati a lungo: esistono delle testimonianze al riguardo, ma si limitano a poche ore. In ogni caso, non avrei comunque saputo indicare un modo per riportare l’anima nel corpo. Non lo conosco, né mi risulta che esista. Oggi, essendo trascorsa quasi …na …ettimana dal vostro …torno dalla Cina…” Nabiki sbuffò: ecco di nuovo quei disturbi. “…il discorso …on è più …emmeno praticabile: semplicemen… è ormai …oppo tardi. 
Dopo di ciò, diverse voci si sostituirono a quella di Cologne, sovrapponendosi le une alle altre in un brusio indistinguibile. Nabiki ricordava che la vecchia, ritenendo di aver detto tutto quanto c’era da dire, aveva spento la pipa, era scesa dallo sgabello e si era avviata verso la sua stanza, voltando le spalle agli altri che già si stavano lanciando in mille commenti e obiezioni. 
Solo Nabiki non aveva aperto bocca, limitandosi a inseguire l’amazzone prima che varcasse la porta, per poi allargare appena la tasca dei pantaloni e catturare un’ultima frase che Cologne aveva pronunciato a voce bassa, come a se stessa, con un tono molto più sommesso del precedente. 
Pausa. Avanzamento veloce. Stop. Riproduzione. 
…non… più… nulla da …are… er Akane… 
La secondogenita delle Tendo inarcò un sopracciglio, sempre più nervosa. I rumori di fondo si erano fatti troppo violenti per rendere del tutto comprensibili quelle parole, senza contare che lei stessa aveva logorato ulteriormente quella porzione di nastro a furia di riascoltarla. 
Certo, la registrazione era ormai vecchia di giorni. Ogni tentativo che era seguito aveva presto portato a un punto morto. Tutte le successive ricerche avevano solo confermato che non esisteva alcuna possibilità che l’anima fosse, sia pure in via eccezionale, sopravvissuta così a lungo lontana dal suo corpo. 
Per questo, Nabiki non capiva come oggi a scuola non fosse riuscita a pensare a niente di diverso dal rientrare a casa e analizzare nuovamente, dopo tanto tempo, il proprio materiale. Avrebbe voluto attribuire la colpa della sua paranoia alle poche ore di sonno, ma non era da lei adagiarsi su simili soluzioni di comodo. 
Riavvolgimento. Stop. Riproduzione. 
… nulla da… are… 
A voler essere obiettivi, la frase era chiarissima. E poche sentenze potevano dirsi più definitive di questa. Ma più di tutto, ogni volta che la riascoltava, Nabiki credeva di scorgervi sempre di più qualcosa di diverso dal monologo sapiente che l’aveva preceduta. Piuttosto uno sfogo sincero, sofferente: l’impotenza di un’amazzone che normalmente era anni luce davanti a loro. 
Oppure, il frutto di una recitazione molto convincente. Dopotutto, accettato che Akane fosse morta, Ranma era libero dal fidanzamento. Shampoo si trovava con una pretendente in meno e, casualmente, di lei non si avevano più notizie dal ritorno del gruppo dei ‘maledetti’ dalla Cina. A pensar male si fa peccato ma… 
Nabiki spense il registratore e si alzò dal letto. Già che doveva fare alcune telefonate, pensò di pescare dall’agendina un numero in più. 
  
  
Il tramonto accese il cielo, ormai totalmente sgombro di nubi, di un penetrante rosso fuoco. Tanta intensità la metteva a disagio, quasi che il sole volesse opporre l’estrema resistenza alla discesa di una nuova notte, la quale non avrebbe portato che sventure. 
Kasumi scosse il capo, come per scacciare da sé questi pensieri così negativi, che non erano proprio da lei. Rientrò rapidamente in casa e finì di mettere il bucato nella lavatrice. Quando uscendo dal bagno incrociò Nabiki, ebbe per un istante l’impressione che la sorella minore la stesse aspettando al varco, come per cogliere in lei anche il minimo segno di turbamento esteriore. Ma Kasumi sapeva di non esibire la minima prova, per il semplice fatto di non essere turbata. Perché lei non avrebbe mai potuto farsi vedere turbata, in un momento tanto critico. 
Fu Ukyo, che evidentemente stava tenendo compagnia a Nabiki da prima che le raggiungesse, a esprimere la sua preoccupazione per lei. 
“Non è ancora tornato...” Cominciò. 
“Lo sappiamo bene.” Tagliò corto Nabiki con fare brusco, sprofondando di nuovo l’ambiente sotto una pesante cappa di silenzio. 
Kasumi avvertì, per la seconda volta in pochi minuti, lo stesso senso di oppressione. Capì che doveva essere lei a parlare. 
“Ukyo-chan, ti fermi anche questa notte da noi?” 
La frase era stata pronunciata col tono di un invito. L’interpellata non poté fare a meno di annuire timidamente. 
“Anche se non avresti più il diritto…” S’intromise ancora la sorella minore. 
Cielo, non così… 
“C’è forse qualcosa che vorresti dirmi?!” Le si rivolse Ucchan, la cui voce tradiva un evidente nervosismo. 
“Nulla che tu non sia in grado di constatare da sola.” Rispose Nabiki, provocando la ragazza con la spatola. “Ora che Ranma non è qui, il tuo interesse a restare mi sorprende. Forse hai voglia di far fuggire di casa anche nostro padre?” 
Non anche dentro le nostre mura… 
“Non è stata mia, l’idea di sistemarmi a casa vostra per aiutare Ran-chan a superare questo difficile momento! E soprattutto io non l’ho fatto fuggire di casa!” 
Kasumi ebbe l’impressione di scorgere un moto di esitazione in Nabiki, come se fosse rimasta colpita dalla reazione di Ukyo. Invece lei sconfessò subito una tale congettura, rincarando la dose. 
“Oh, ma certo! Perdonami l’infelice scelta di parole. Tu volevi solo consolarlo, giusto? Non è colpa tua se è scappato. Non è colpa tua se gli sei corsa dietro per fermarlo, per tornare la mattina dopo confessandoci candidamente di averlo lasciato là fuori a inseguire i suoi fantasmi!” 
Kasumi portò istintivamente entrambe le mani alle labbra, guardando impotente Nabiki sorridere con aria di vittoria come una bambina e Ukyo sul punto di saltarle addosso. 
Ma non poteva restare così inerte. Doveva riprendere il controllo. 
Avanzò e si frappose tra le due ragazze, attirando immediatamente l’attenzione di entrambe. 
Ukyo parve calmarsi di colpo. Nabiki sembrò sul punto di aprire bocca, ma venne anticipata dalla sorella maggiore. 
“So quello che ti ho detto ieri notte, ma ora penso… che dovremmo andare a cercarlo.” 
  
  
Pochi minuti più tardi, Ranma stava fronteggiando un nuovo fantasma. 
Indubbiamente corporeo, questo, per quanto illuminato solo dalle flebili luci della strada e pallido come il più cadaverico degli spettri. 
Qualcosa d’irreale, tuttavia, lo avvolgeva. Probabilmente il suo incedere, profondo, smarrito, non di questo mondo. Ranma credette, per qualche motivo a lui ignoto, di vedere se stesso, prima di identificare nell’arcana figura le sembianze di Tatewaki Kuno. 
In quel momento, avvertì dentro di sé che una nuova notte era appena iniziata.

 

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Capitolo 4
*** Incontri ***


Capitolo 4 
“Incontri”


  
La fitta lancinante dominò istantaneamente i suoi sensi, ma s’impose di trattenere il minimo lamento. Non avrebbe fornito a nessuno un ulteriore motivo di scherno. 
Sforzandosi di non pensare al dolore, si trovò tuttavia a considerare che semplicemente questo non poteva, non doveva accadere a lui. 
Visualizzando con la mente il distensivo orizzonte dei monti e lo spazio di azione ben meno angusto dei campi della propria terra natale, Mousse recuperò con rapidità l’equilibrio che quella maledetta gamba del tavolo gli aveva fatto perdere pochi attimi prima. 
Non gli era rimasto a disposizione il tempo materiale di alzare lo sguardo ma era cosciente che, cadutigli e frantumatisi gli occhiali nell’urto, per lui quel gesto sarebbe stato comunque inutile. Acuì l’udito, invece, e intercettò l’oscillazione del piatto che stava precipitando nel vuoto. Distribuì il peso sulle ginocchia ancora inarcate a terra e allungò il braccio che aveva a minor distanza: infine, con una presa sicura afferrò all’ultimo proverbiale secondo contenitore e contenuto, certo di non aver rovesciato nemmeno una goccia di brodo né alcun pezzo di carne o verdura. 
Ciò non fu sufficiente a evitargli un accenno divertito di applauso da parte di uno dei clienti del suo tavolo e, ancora peggio, diverse risatine dei consumatori dei tavoli vicini. Mousse si levò lentamente in posizione eretta, questa volta non ignorando affatto il dolore del ginocchio, che non voleva saperne di placarsi. Conscio di aver deformato i lineamenti del viso in una smorfia di insofferenza, non se ne curò e mantenendo quell’espressione servì la pietanza ancora calda al tizio che l’aveva applaudito, senza badare se si trattasse o no della stessa persona che aveva ordinato i ramen in brodo. 
Raccolse da terra i resti delle stanghette, estrasse dalle maniche della veste l’ennesimo nuovo paio di occhiali e, infilati attentamente, tornò sui propri passi. No. Questo non doveva accadere a lui. 
Lui non era come quei ragazzini che affollavano il locale. Tra la sua gente, lui era il fiero Mousse – Mu Si, accidenti, Mu Si! Possibile che si stesse abituando a quella ridicola pronuncia?! – ed era un artista marziale. Inciampare di per sé era lecito, anche senza che la sua miopia dovesse in qualche modo giustificarlo: ma raggomitolarsi, carambolare sulle proprie ginocchia, perdere in un modo così goffo la padronanza del suo corpo, ciò non gli era concesso. Non doveva succedergli una cosa del genere, tra l’altro per un incidente talmente stupido. 
Di tanto in tanto, avvertiva la terribile sensazione che molta gente cenasse al Nekohanten apposta per vedere lui: osservarlo dare spettacolo di sé, ridere della sua ennesima umiliazione. Era una cosa impossibile, lo ammoniva con prontezza la voce della ragione, eppure non poteva evitare di perdersi in simili fantasticherie. 
Anche adesso qualche ulteriore risatina s’insinuò nelle sue orecchie, e non fu in grado di constatare se fosse reale o solo frutto del proprio nervosismo. Giunto davanti alla cucina, per poco non mancò la porta nonostante l’avesse vista benissimo. La vecchia mummia non dimostrò di essersene accorta e gli lanciò tra le mani una nuova pila di piatti e tazzine con la solita agilità. 
Non era colpa sua, si giustificò senza aprire bocca. Lui, appunto, era un artista marziale, non uno sguattero tuttofare o, come si stava improvvisando in quel momento, un cameriere. E poi quest’ultima, in tanti mesi, non aveva mai fatto parte delle proprie mansioni. Il suo era un arrangiarsi come meglio poteva. 
La vecchia tossì rumorosamente. 
“Come puoi vedere, l’ultimo vassoio che ti ho dato è chawanmushi.” Gli disse. “Se cadi di nuovo, la crema bollente non ti consentirà di essere fortunato come prima.” 
Lui non ribatté nulla, ma si avviò. 
Quella dannata megera! Allora non le era sfuggito alcun particolare! Mu Si non comprendeva come avesse fatto: forse tra le sue innumerevoli abilità c’era quella di guardare attraverso i muri, anche se si meravigliava che quella strega ultracentenaria i muri non li trapassasse già da tempo sotto forma di fantasma. 
Ora basta, calmati un maledetto istante, s’impose con la poca lucidità che gli era rimasta. 
Non aveva senso prendersela con la vecchia, che dopotutto non lo aveva né rimproverato, né deriso apertamente. La verità, confessò Mu Si, era che ce l’aveva con se stesso. 
Non gli era mai importato del giudizio degli altri, non gli era mai importato del mondo. Shan Pu era il suo mondo e ciò gli bastava. Tuttavia senza di lei – con quel saperla tanto lontana – era costretto a percepire anche il resto… e di conseguenza la propria solitudine. E l’assenza di Shan Pu era unicamente colpa sua. 
Rientrò nella sala principale del ristorante e, tenendo piatti e tazzine con entrambe le braccia, lui che avrebbe potuto reggerli in equilibrio tutti insieme in pila con la pressione del solo dito mignolo, si sforzò di concentrarsi per non provocare il disastro predetto dalla vecchia. 
Dopo pochi secondi, fu costretto ad ammettere che non era così facile. Non erano certo i suoi riflessi a essersi appannati, in quell’ultimo periodo. Semplicemente, come in questo preciso momento, gli si sovrapponevano in continuazione le immagini della donna amata, e con tutti gli occhiali non vedeva più altro. 
Quando sarebbe tornata dal loro villaggio in Cina? Contava i giorni, le ore, i minuti, in attesa del suo arrivo o di una telefonata o almeno una risposta alle lettere che le scriveva quotidianamente. E si era rimproverato un’infinità di volte per non aver mostrato maggiore coraggio ed esserle rimasto accanto, in un momento per lei così doloroso. Naturalmente Shan Pu, da parte sua, l’aveva mandato via senza esitazioni e a male parole, urlandogli che uno stupido papero come lui sarebbe stato buono solamente come manodopera al Nekohanten. Forse avrebbe potuto ribatterle qualcosa. 
Invece si era lasciato sconfiggere, per l’ennesima volta, dal suo sguardo. 
O forse si era solo messo nei suoi panni per un istante. 
Cos’avrebbe fatto Mu Si se a Jusendo avesse visto morire ad esempio… Ranma Saotome, per poi assistere impotente alle lacrime di disperazione di una Shan Pu che supplicava invano il suo consorte di tornare da lei? Non riuscendo a trovare risposta a una simile domanda, ma lasciandosi sopraffare dal dolore che quella sola idea gli comportava, l’aveva lasciata andare. Suo padre e le amazzoni amiche d’infanzia avrebbero potuto confortarla come lui non sarebbe mai stato in grado di fare, si era detto. 
Eppure, adesso, si sentiva solamente un povero idiota. 
Certo che… Shan Pu avrebbe potuto comunque farsi viva. Non necessariamente per lui. Almeno una telefonata per rassicurare la propria bisnonna, no? Non che la vecchia paresse minimamente in ansia per la parente più stretta che le era rimasta. C’era qualcosa di strano, qualcosa che… 
Un fracasso assordante di piatti frantumati riscosse l’attenzione di Mousse, che finalmente realizzò di essersi di nuovo estraniato dalla realtà. Si arrestò e s’irrigidì, consapevole di aver dato ancora spettacolo e di essersi appena guadagnato qualche ora notturna di straordinari. 
Deglutendo nervosamente e aprendo le palpebre, vide tuttavia davanti a sé gli stessi piatti e tazze che stava reggendo fino a qualche momento prima. Allargò lo sguardo e individuò la vera fonte del frastuono. 
“Scu-scusatemi! Sono desolato! Davvero!” Rantolò una voce maschile, ma acuta e spaurita, mentre il corpo da cui proveniva si prodigava in inchini e gesticolii vari. 
Mu Si sospirò, sollevato. C’era ancora qualcuno più imbranato di lui. E che gli aveva indubbiamente rubato la scena per il resto di quella serata. 
Posò il suo carico e si avvicinò al tavolo incriminato, dove non era rimasta più nemmeno la tovaglia: il cliente, in piedi, ne stringeva addirittura in mano un lembo, segno che probabilmente si era alzato dalla sedia trascinandola con sé in uno dei gesti più maldestri che potesse concepire, rovesciando ogni piatto e posata. Era una fortuna che non si fosse rovesciato lo stesso tavolo. 
“Mi dispiace! Mi dispiace!” Ripeté il ragazzo, rivolgendo ora gli inchini verso di lui. 
Mu Si lo scrutò rapidamente. A destare il suo interesse furono gli occhiali che indossava, dalle lenti molto spesse e che gli permisero di immedesimarsi in quel poveretto. 
“Non fa nulla, non si preoccupi. Ci penso io.” Gli disse, cercando di nascondere uno strano sentimento di simpatia mista a gratitudine e considerando di dover prendere scopa e paletta. Corse nel ripostiglio, dove nella foga urtò, proprio con il ginocchio dolorante, quelle dannate damigiane che la vecchia non voleva decidersi a buttare – a cosa servivano più, adesso? – prima di trovare ciò che cercava. Non fece però in tempo a richiudere la porta che un altro frastuono lo richiamò nel salone. 
“Io… n-non so come sia potuto accadere!” Balbettò il brunetto. “Volevo aiutare a raccogliere i cocci ma… n-non so come, temo di aver dato una gomitata a quella bottiglia e…” 
“Le avevo detto che qui ci avrei pensato io!” Lo interruppe. Mu Si fissò di sfuggita l’abito ora del tutto macchiato e i lunghi capelli scompigliati. “Adesso si sieda a quel tavolo ancora libero e mi lasci fare. Anzi, prima vada in bagno a ripulirsi, non vede come si è conciato? La prima porta sulla destra.” 
“G-grazie mill…” Il nuovo inchino del cliente, pericolosamente vicino, si tradusse in una violenta capocciata tra i due. Mu Si, il cui umore era nuovamente peggiorato, bofonchiò alcuni improperi in madrelingua, mentre l’altro ricominciava a scusarsi. 
Nuove risate si diffusero per il locale. Con la coda dell’occhio, poté scorgere perfino la vecchia mummia affacciarsi e sogghignare assai divertita. 
  
  
Trattenne a stento un risolino nervoso. Molto nervoso. 
Proprio quell’idiota. E proprio adesso. 
Avrebbe voluto evitare di affrontarlo, ma era stato Tatewaki a deviare per primo dal suo cammino, parandosi davanti a lui sotto la luce altalenante di un lampione mezzo guasto e cominciando a scrutarlo con occhi penetranti ma oscuri. 
Ranma non si era ribellato subito, in quanto l’irritazione dovuta al fatto di trovare un ostacolo alquanto indesiderato sulla propria strada era superata dal disagio che lo sguardo gli procurava. A quello di Kuno si sovrapposero in rapida successione molti altri volti. Papà e Ucchan e sua madre e il signor Tendo e Nabiki e Kasumi. Tutti. Perché lo fissavano sempre in quel modo?! 
(“Non sono… no… Stupida! Non sono… come…!”) 
Si scosse e si decise finalmente a distanziarlo, ma Tatewaki si frappose ancora, sguainando verso di lui l’immancabile arma: non il solito bokken di legno, esaminò rapidamente Ranma, ma una katana con l’elsa, identica a quella che sua madre portava incessantemente con sé. 
Non che ciò cambiasse qualcosa. Ranma piantò saldamente i piedi per terra e accennò la posizione da combattimento imminente. Questo era il linguaggio che preferiva. 
Eppure ancora non gli bastava. Mancava la scusa che gli consentisse di sfogarsi su Kuno, di scaricare su di lui almeno un poco della sua rabbia. Conoscendo il suo opponente, non sarebbe stato così difficile trovarla. Ma un filo di provocazione non avrebbe comunque guastato. 
“Allora… si può sapere che diamine vuoi, senpai?! Avanti, parla, prima che sia costretto a darti la solita lezione!” Gli disse fiero e sprezzante come non si sentiva da tempo, e forse a dirla tutta nemmeno in quel momento. 
Kuno, con sua grande sorpresa, non si scagliò contro di lui farneticando le solite sciocchezze. Si limitò ad annuire, riponendo lentamente l’arma. 
Poi, sorrise. E, no, Ranma non si aspettava nemmeno questo. 
Infine, come se avesse avvertito la sua confusione, si decise ad aprir bocca. 
“Gli spiriti non interrogano, vanno interrogati.” Disse con calma, quasi che per assurdo si trattasse di una spiegazione scontata ma inevitabile. “E io mi sto semplicemente esercitando, Saotome Ranma, nell’attesa di raggiungere il luogo dove l’amata Akane mi ha dato testé appuntamento, attendendo struggente il mio arrivo.” 
Sentendo quel nome, Ranma sussultò. 
“Vuoi dire che… l’hai vista? L’hai incontrata? Le hai parlato?!” 
Tatewaki non si scompose. 
“Naturalmente. L’ho vista. L’ho incontrata. Le ho parlato.” Confermò. “Ella viene da me tutte le notti, ogni qualvolta chiudo le palpebre. L’adorato angelo con il codino l’accompagna… ed entrambe consolano la mia mestizia assicurandomi che la forza del nostro amore riuscirà infine a sconfiggere anche questo Fato sadico e crudele. Esso ci ha divisi, ma non si tratta che di una separazione temporanea. Solo un’ultima prova, che il nostro indissolubile legame riuscirà a superare senza tema alcuna.” 
Tatewaki proseguì, ma Ranma non lo ascoltava più. Dopo le prime parole aveva già compreso. Per pura associazione di idee ricordò che Nabiki aveva recentemente cercato di stuzzicarlo, facendogli notare la strana similitudine: ostinandosi a ‘marinare’ la scuola da ormai diversi giorni si stava comportando proprio come Kuno, che non si vedeva più in giro da altrettanto tempo. Voleva per caso essere come lui? 
(“Stupida! Non sono… come…! Io non sono… come lui!”) 
Sentì il respiro farsi sempre più difficile. Il cuore gli pulsava forte e d’un tratto aveva perso ogni voglia di combattere. Avverti un bisogno più urgente di andar via: da qualunque altra parte e dove fosse finalmente in grado di raccogliere fiato. Senza dire niente si girò e accennò una rincorsa, per poi balzare via. 
Tuttavia, prima che potesse spiccare il primo salto, la voce sicura di Tatewaki dietro di lui pronunciò: “Ricordati, Saotome Ranma… ‘Come il sole se ne va passeggiando per il mondo, e non c’è luogo dove non risplenda’.” 
Per qualche assurdo motivo udì nitidamente ogni singola parola. Qualcosa dentro di lui lo portò a bloccarsi e a voltarsi ancora in direzione del cono di luce del lampione. Ma Kuno era svanito nuovamente nell’ombra, né Ranma ne avvertiva più la presenza. 
Si domandò se non avesse commesso un errore a perderlo di vista, ridotto in quelle condizioni così pietose perfino per i suoi canoni. Scacciò quel dubbio. Sapeva soltanto che, con la scomparsa del suo senpai, si era sentito subito più rilassato. Piuttosto, in una sorta di esercizio mentale, volle ripetersi un paio di volte l’ultima frase e provare ad afferrarne il significato, ma non vi riuscì. 
Pochi secondi più tardi, ogni più piccola traccia di quelle parole si era dissolta completamente dalla sua memoria. Balzando di tetto in tetto, e assaporando l’aria fresca che gli schiaffeggiava la pelle, si lasciava inebriare dal movimento e riusciva quasi a non pensare. 
Tuttavia quella sensazione non era sufficiente. Il sollievo del pianto della notte precedente aveva ormai esaurito del tutto il proprio effetto. Aveva bisogno al più presto di trovare un’altra via di sfogo, o sapeva che sarebbe sicuramente scoppiato. 
  
  
Era in ansia. 
Era abituata a quella sensazione: ci aveva convissuto giorno dopo giorno fin da quando Genma le aveva portato via il suo unico figlio. 
Gli anni le avevano insegnato solamente a quietarla, a chiuderla in un cantuccio del proprio cuore, a celarne i segni esteriori davanti alle altre persone. E ad accettarla. Dopotutto sapeva benissimo a cosa andasse incontro, sposando un artista marziale. 
Tuttavia, esserci abituata non voleva dire che non la facesse più soffrire. 
E se fino a pochi mesi prima la coscienza che Ranma e Genma fossero irraggiungibili, e che lei non avrebbe dovuto vanificare in alcun modo il loro sacrificio, riusciva in qualche modo a consolarla e a rasserenarla, il fatto di essersi finalmente ricongiunta al proprio bambino le toglieva anche questo.  
Perché non avrebbe mai sopportato il pensiero di aver ritrovato suo figlio per poi perderlo di nuovo. 
“Zia Nodoka, vuole che moderiamo un poco il passo?” 
Si accorse di essere rimasta un po’ indietro e sorrise benevola a Kasumi, che si era gentilmente fermata ad aspettarla. 
“Ti ringrazio, cara, ma non è il caso.” Nodoka chinò educatamente il capo in segno di riconoscenza. “Mi ero semplicemente distratta, ma non è un problema per me andare più veloce. Dopotutto sono la moglie di un artista marziale.” 
Inoltre, annotò mentalmente, a quest’ora gli altri gruppetti dovevano aver già raggiunto il punto di ritrovo e Nodoka sperava fervidamente che le loro ricerche avessero dato miglior esito. In ogni caso, convenne che Nabiki aveva avuto una buona idea proponendo loro di dividersi. Il signor Tendo e il dottor Tofu avevano indubbiamente la possibilità di setacciare le porzioni più ampie del vicinato, e non era saggio rallentarli. 
Accelerò l’andatura e riprese a gridare con Kasumi il nome di Ranma. Si sentiva in realtà un poco affaticata, ma non era nulla in confronto al vero affanno che le stringeva il petto. Pensò per la prima volta di aver fatto bene a lasciare a casa la katana di famiglia, che l’avrebbe soltanto intralciata ulteriormente: e poi erano finiti i tempi in cui avrebbe considerato poco virile la fuga di suo figlio. 
Già la notte scorsa, vedendolo entrare in quello stato nella sua stanza da letto – dopo averne messo a soqquadro almeno la metà, a giudicare dai rumori, mentre cercava l’interruttore – aveva smesso di pensare ai giuramenti, all’onore e al seppuku.   
Ora tutto quel che desiderava era riaverlo indietro. 
  
  
Era giunta quasi la mezzanotte quando una colonna di luce rischiarò il cielo come se fosse pieno giorno. La fissarono in silenzio per diversi secondi, affascinati e spaventati al tempo stesso da quel fenomeno tanto inusuale. Per lui, in particolare: era la prima volta che vi assisteva di persona. Il fragore tardivo della violenta detonazione li riscosse, facendo tentennare per un attimo le loro posture erette sul cornicione. 
Tofu provò a passare rapidamente in rassegna ciò che ricordava di quella tecnica. La memoria gli restituì allora, in modo incredibilmente vivido, lo stupore che l’aveva assalito e turbato nel momento in cui aveva scoperto che dietro quel colpo letale non si celavano segreti di antichi guerrieri, arti millenarie levigate dalle generazioni e perdute nel flusso della storia. La realtà era molto meno romantica: l’origine di tutto andava rintracciata nell’istinto di sopravvivenza di umili operai costretti a lottare contro la terra e contro la roccia per la vita stessa. 
All’epoca era solo un ragazzino che studiava con impegno ma non sapeva ancora cosa avrebbe fatto della sua vita. Tuttavia, quel giorno, l’insegnante e le figure ingiallite di tomi consunti dal tempo non erano riusciti a tranquillizzarlo. 
Un interrogativo sottile quanto subdolo si era insinuato nel suo animo, e Tofu, non riuscendo in alcun modo a scacciarlo da sé, si era trovato per la prima volta a interrompere la spiegazione del vecchio maestro e a esprimerlo a voce. 
Come poteva un simile potere, gli aveva domandato, essersi trovato a disposizione di mani tanto ingenue e ignoranti? Cosa avrebbe impedito loro di finire per abusarne? Tofu si era arrestato, acquistando a poco a poco consapevolezza della propria mancanza di rispetto. Ma inaspettatamente il maestro non si era adirato.  
L’aveva guardato con aria mansueta e comprensiva, per poi rispondere al suo dubbio con fare calmo e insieme estremamente serio. Tofu non avrebbe mai più scordato quelle parole. 
Giovane Ono”, gli aveva detto, “nessun essere umano è a priori adatto o inadatto a un potere più grande di lui. Anche un guerriero disarmato, in un moto di collera, potrebbe abusare della propria mano chiusa a pugno per far male all’amico a lui sommamente caro. Per questo, lo studio delle arti marziali è innanzitutto una continua disciplina di autocontrollo, un percorso che guida a una progressiva presa di coscienza della propria forza e dei propri limiti, e del dovere di imporsi questi ultimi. Oggi tu hai compiuto il primo passo verso quel sentiero.” 
Tuttavia, non avrebbe proseguito a lungo detto cammino. Quel giorno, forse, aveva costituito un crocevia: la paura di non saper gestire una simile responsabilità era stata più forte di lui, e il desiderio di usare le sue conoscenze soprattutto a fin di bene aveva indirizzato infine i suoi sforzi verso lo studio delle pratiche terapeutiche. 
Adesso, Tofu stava probabilmente assistendo alla realizzazione dei suoi timori. Non ultimo, il fatto che dopo anni avrebbe forse dovuto tornare a far ricorso alle arti marziali, per impedire il verificarsi di conseguenze ancora più gravi. 
Lo studio delle arti marziali è una continua disciplina di autocontrollo… invece quell’aura… 
Il panorama era tornato ad ammantarsi di oscurità. Diversi allarmi delle automobili del vicinato squillarono all’unisono, presto accompagnati da numerosi latrati. Questi suoni riscossero sia Tofu sia il suo vicino, riportandoli definitivamente al mondo reale ma confermando anche che l’esplosione di prima non era frutto della loro immaginazione. 
Si fissarono negli occhi e, avvertendo la propria bocca inaspettatamente asciutta, lasciò che Soun parlasse per primo. 
“Era lo Shishi Hokodan.” La sua non era una domanda. “Dunque si tratta di Ryoga.” 
Ono si aggiustò gli occhiali, prima di scuotere la testa e ritrovare un po’ di salivazione. 
“Oppure di Ranma.” Si decise infine a precisare. “Allora, ci avviamo?”

 

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Capitolo 5
*** Confronti ***


Capitolo 5 
“Confronti”

  
  
Seduto sul bordo di una ciminiera non molto distante dal Furinkan, Ranma aveva avuto modo di ammirare da spettatore privilegiato la colonna di energia irradiatasi, presumibilmente, dallo stesso cortile dell’istituto. 
Ne era abbastanza sicuro poiché la parte superiore della facciata principale, compresi il terrazzino e il ridicolo bungalow che avrebbe dovuto costituire l’ufficio del preside secondo la mente contorta di quel degno esponente della famiglia Kuno, era rimasta ben visibile ai suoi occhi per una manciata abbondante di secondi. 
In quanto alla natura del fenomeno, non nutriva il minimo dubbio. 
Lo Shishi Hokodan… alla massima potenza. 
Saltò agilmente per i tetti del quartiere e oltrepassò con un ultimo balzo il cancello che dava al cortile interno. Una volta lì, fu in grado di individuare con estrema facilità il punto preciso da cui si era levata la luce. 
Il campetto di softball. O almeno quello che ne rimaneva. 
Oltrepassando diversi alberi spezzati, un ripostiglio per gli attrezzi rovesciato e spaccato in due parti, nonché i probabili resti della vecchia stazioncina meteorologica, raggiunse un cratere di parecchi metri di diametro. Affacciandosi verso il basso, non fu sorpreso di scorgere un ragazzo con la bandana che stava ritto in piedi, ma con il capo ben chino, posizionato al suo esatto centro. 
“Ryoga… che diavolo stai…” 
L’altro non alzò le palpebre, ma mosse appena le spalle. 
“Uh, Ranma…” La sua voce, più roca del solito, era perfettamente udibile. “Cosa sto facendo, dici? Niente di particolare, provavo solo a scaricarmi. Ma usare tutta la mia infelicità per sparare lo Shishi Hokodan non mi fa affatto sentire meglio, sai?” Ryoga esitò un istante, prima di continuare. “La disperazione non fa che fluire, scivolare attorno a me. E mi sento più vuoto… e forse anche un po’ più solo di prima.” 
Detto ciò decise di voltare il capo, e finalmente Ranma poté incrociare lo sguardo del rivale di sempre. 
“Tu, piuttosto, dovrei chiederti cosa ci fai qui in Hokkaido… ma immagino di essere io, tanto per cambiare, a trovarmi nuovamente a Tokyo… Non lo trovi buffo? Il mio senso dell’orientamento è del tutto inesistente, eppure riesco ogni volta a tornare in questi luoghi ormai tanto familiari.” 
Ridacchiò, ma chiaramente con poca convinzione. 
“Un tempo… un tempo dicevo a me stesso che questa era la dimostrazione della forza del mio amore per Akane.” Si arrestò di nuovo, come per riflettere sulle sue stesse parole, mentre Ranma continuava a fissarlo dall’alto con aria costernata. Ryoga riprese: “Forse sono sempre stato un po’ troppo melodrammatico. O forse è vero. Dopotutto la dolce Akane è sempre stata l’unica persona capace di guidare i miei passi. Probabilmente, è così anche adesso. Anche ora che lei non è più tra…” 
“Non dire idiozie!” Ranma si affrettò a sovrastarlo, conquistando di nuovo la sua attenzione. “Non parlare così! Se invece ti dicessi che… che…” Il volume della voce si abbassò repentinamente. “Che l’ho vista?” 
Ryoga non mosse alcun muscolo per diversi secondi, come se non fosse stato certo di aver colto subito le sue parole. 
“Ti risponderei che sei perfino più disperato di me, Saotome.” Replicò poi, con un tono che Ranma non gradì per nulla. “Ma dimmi piuttosto una cosa: non ti sembra un po’ tardi per dimostrare quanto tenevi a lei? Non sarebbe stato più facile trattarla bene finché potevi? Finché ne eri in grado?” 
“Smettila di parlare al passato!” Ringhiò Ranma, che non era francamente in grado di sopportare anche la predica da parte di quello stupido suino. “Ti ho appena detto che…” 
“Finché lei era ancora tra noi?” 
E in quel momento si sentì letteralmente ribollire il sangue nelle vene. 
“Piantalaaa!” 
“Sì? Altrimenti cosa mi fai?” 
Ryoga non ebbe finito di proferire quelle parole, che Ranma si gettò nel cratere con la seria intenzione di zittirlo con le cattive maniere. 
Nulla si frappose alla lotta più selvaggia. 
E in realtà, forse lo sapeva benissimo anche il suo opponente, fin dal primo istante nessuno dei due aveva bramato qualcosa di diverso da quell’incontro. 
  
  
Nabiki finì di sorseggiare la calda bevanda e ripose il thermos nella borsa. 
Così andava un po’ meglio. I brividi erano cessati e il suo cervello poteva tornare a elucubrare. 
Per il resto… 
Già prima che il pilastro di luce fosse sbucato dai tetti più bassi, aveva considerato più di una volta l’idea di abbandonare le ricerche e tornarsene a casa. 
Se Ranma non aveva intenzione di farsi trovare, non sarebbe di sicuro riuscita in una tale impresa proprio lei. E se per pura combinazione si fosse comunque imbattuta nel signorino Saotome, perché, si sa, la sorte è beffarda, le sarebbe stato chiaramente impossibile riportarlo a casa contro la sua volontà. 
Non aveva mai rimpianto di aver scartato la strada delle arti marziali, né – che fosse chiaro! – lo stava facendo quella notte: tuttavia sapeva che il sentimento che stava provando poteva tranquillamente definirsi quanto di più prossimo al rammarico. 
Così, quando ebbe assistito all’inequivocabile manifestazione della tecnica energetica dello Shishi Hokodan, Nabiki si era domandata con la massima onestà cosa ci facesse una persona del suo calibro nel pieno dell’azione. 
Mentre la strada tornava progressivamente buia e solitaria come prima, lasciandola di nuovo sola, aveva considerato che la propria competenza esulava dalle questioni più propriamente fisiche, e che naturalmente papà e il dottor Tofu avrebbero raggiunto il punto incriminato almeno un quarto d’ora prima di lei. Per quale motivo aveva dunque accelerato di colpo il passo lanciandosi in un accenno di corsa, pur perfettamente consapevole della totale futilità di questo gesto? 
Nabiki si era arrestata, imponendosi il consueto autocontrollo e interrogandosi rapidamente su cosa l’avesse spinta a tale follia. La risposta non l’aveva affatto tranquillizzata: era come se avesse sentito, in qualche modo, il dovere di prendere le veci della sorellina e diventare lei l’impulsiva della situazione. Ma tutto ciò era ridicolo. 
Certo, Nabiki molto più degli altri era cosciente dei danni che avrebbe potuto provocare un artista marziale fuori dalla norma e del tutto fuori controllo: non poteva ignorarlo, non quando era l’unica che avesse tenuto i conti delle spese per le calamità ‘abituali’ che si verificavano quasi quotidianamente, in seguito a scontri uno più assurdo dell’altro. E se l’artista marziale fuori controllo non era solo uno straordinario combattente, ma era l’imprevedibilità allo stato puro con il nome di Ranma Saotome, questa volta ci sarebbe stato da tremare sul serio. 
Ciò non toglieva che il suo ruolo, quella notte, fosse un altro. E che esso contemplava, quali requisiti essenziali, una notevole lucidità…  e soprattutto la capacità di saper attendere. 
Aveva dunque cercato di ignorare l’adrenalina, a cui non era abituata. Aveva estratto il thermos e si era sforzata di tenere occupata la mente in maniera più utile. Estraniarsi dalle emozioni non era semplicissimo, ma in ciò non poteva fallire lei stessa, si ribadì, se vi era riuscito perfino lo zio Genma. 
Il caro zietto, unico a ribellarsi davanti alla proposta di Kasumi di andare a cercare Ranma: l’unico ad aver avuto il coraggio – o il cinismo? – di ribattere l’argomento della propria totale inutilità di fronte a un figlio ormai nettamente più forte di lui e che avesse perduto del tutto quel poco della testaccia che si ritrovava. 
La stessa persona che – ricordandolo, Nabiki accennò un sorriso forzato – in Cina, in mezzo al gruppetto di artisti marziali sconvolti e disperati, aveva mantenuto (l’egoismo) il raziocinio necessario per chiedere alla guida di Jusenkyo di spedire loro la cura per le maledizioni, una volta che il livello delle sorgenti fosse tornato alla normalità. 
Strano a dirsi, per una volta era Genma Saotome il ‘modello’ da cui prendere esempio. Anche se… 
Un brivido le percorse la schiena e con un attimo di ritardo il cervello di Nabiki registrò l’informazione del respiro caldo di qualcun altro, che lei non aveva né visto, né udito avvicinarsi, sfiorarle il collo. 
Per nulla abituata all’evenienza di essere aggredita – anche ciò rientrava, in qualche modo, nel ruolo di Akane – e sentendosi il cuore palpitare fino in gola, Nabiki evocò ogni stilla di sangue freddo che le fosse rimasta e finse di non essersi accorta di nulla. 
Mantieni il controllo. Ecco, così. Va bene, non hai paura… 
Gridare o provare a ribellarsi contro la nuova presenza sarebbe stato inutile. Lei non era un’artista marziale – era una sua scelta, perché mai pentirsene?! – e proprio per questo motivo doveva compensare in qualche modo la carenza di forza, tecnica e agilità con un pizzico di strategia. Forse aveva un’unica occasione, ma avrebbe provato a sfruttarla. 
Non hai paura… 
Nabiki capì che qualcosa in lei non andava quando non fu in grado di stabilire da quanti secondi quella situazione di stallo stesse inoltrandosi. Qualcos’altro, sempre in lei, le suggerì che si trattava comunque di un tempo più che sufficiente e che – cosa stava ancora aspettando?! – non doveva indugiare un solo momento di più. 
Non hai… 
Gettò la borsa dietro di sé, scattò in avanti e cominciò a correre. La tentazione di scoprire l’identità del suo assalitore – magari la stessa persona che stava cominciando a sospettare fosse implicata negli ultimi avvenimenti? – era molto forte, tuttavia si era imposta di non voltarsi e rischiare di perdere velocità. 
Tutte queste precauzioni si rivelarono inutili. Una mano l’intercettò, afferrandola un istante per il braccio e facendole perdere l’equilibrio. 
Rotolando malamente sull’asfalto, e scorgendo un’ombra dalla lunga chioma avvicinarsi a lei, Nabiki non riuscì più ad ascoltare la voce della ragione, né quella del rimpianto. 
E allora gridò forte. 
  
  
Mentre le ultime parole che le aveva proferito con aria severa le rimbombavano ancora in testa con il peso di una sentenza di condanna, Ukyo fissò come stranita la sua cattiva coscienza svanire rapidamente dalla propria vista. 
Solo allora smise di trattenere il respiro, e rilassò finalmente i muscoli. 
Avrebbe voluto anche lei abbandonare il Furinkan, dimenticare ciò che stava accadendo, lasciarsi tutto alle spalle. 
Ran-chan era a pochi metri di distanza, così intento a combattere con Ryoga da non aver percepito nemmeno la sua presenza. Ogni volta che lo incontrava, Ran-chan sembrava sempre più a un passo dal baratro. E qualunque suo tentativo di salvarlo si stava traducendo in una spinta ulteriore verso il fondo. 
Poco fa, dopo aver seguito la traccia dello Shishi Hokodan e aver assistito ancora una volta alla disperazione del proprio compagno d’infanzia, aveva desiderato sinceramente e con tutta se stessa di tornare indietro. Ma la sua coscienza non era dello stesso parere. 
Aveva intercettato i suoi passi. Le era piombata alle spalle letteralmente dal nulla cogliendola alla sprovvista – e nessun opponente fisico aveva mai fatto sentire Ukyo tanto debole e inerme! – per poi ricordarle con severità il loro ‘piccolo patto’. 
Ukyo non aveva saputo spiegare cosa esattamente fosse andato storto l’altra notte. Come mai non avesse approfittato della grande occasione. Il rimorso? Oppure qualcos’altro. A essere sinceri, la sua memoria era ancora fitta di buchi. E forse lo stress e la tensione le avrebbero giocato un brutto scherzo anche questa volta. 
Invece non dovrai permetterti di sbagliare nuovamente, le aveva replicato con rabbia il suo ‘io’ più malvagio e, lui sì, senza alcuno scrupolo. Questa notte è l’ultima occasione, ci stiamo giocando tutto! Mi avevi dato la tua parola, Ukyo Kuonji, non te la vorrai rimangiare proprio adesso?! Ormai ci sei dentro fino al collo, perciò a ben vedere non hai molta scelta! Te lo chiedo un’ultima volta: sei con me…? 
Ukyo aveva deglutito a fatica, per poi annuire. 
Non poteva fare altro… giusto? 
Quella specie di proiezione distorta di se stessa si era infine congedata. Ma Ukyo era rimasta. 
Sarebbe stato questa notte. 
Ranma si sarebbe messo il cuore in pace. 
E avrebbe… avrebbero finalmente potuto liberarsi dell’ombra di Akane una volta per tutte. 
Anche se ciò significava mettere in atto il tradimento più grande. 
Forse rientrava nell’equilibrio delle cose. Anche lui l’aveva tradita, no? 
(“Avevate promesso di portarmi con voi!”) 
Tuttavia ciò non la faceva sentire meno in colpa. 
Perdonami, Ran-chan! Ti scongiuro! Lo sto facendo solo perché ti amo, perché ti ho sempre amato… fin da quando eravamo bambini… sempre… e in questo momento il mio amore è tutto ciò che posso darti… 
                    
  
Nuove grosse buche storpiavano il terreno della scuola. 
Erano entrambi distesi sul suolo, l’uno a pochi metri dall’altro, e respiravano affannosamente. I loro vestiti erano parzialmente sbrindellati e sporchi di terriccio. 
L’artista marziale al suo fianco, continuando a scrutare un punto indefinito del cielo, ruppe il silenzio. 
“Mi sembri fuori forma.” Disse. 
Ranma accennò a rialzarsi, mostrando il pugno. “E a me sembra che tu ne voglia ancora, P-chan.” Lo stuzzicò, marcando il tono mentre pronunciava il nomignolo. Ryoga, straordinariamente, non si mosse dalla sua posizione. 
“Sai la novità?” Riprese, senza alcun nesso logico. “Ho lasciato Akari.”  
Ranma mugolò sorpreso. E Hibiki accennò un sorriso di rassegnazione. 
“L’altra mattina mi trovavo nei pressi della fattoria di suo nonno. Non sapevo quando avrei avuto modo di trovare nuovamente la strada, così ho deciso di non indugiare oltre. Piangeva, quando le ho raccontato tutto. Forse piangeva per la morte di Akane. Forse perché le ho detto addio. Probabilmente, per tutte e due le cose.” 
Hai lasciato Akari?!” Riuscì finalmente a ripetere Ranma, incredulo. 
“Già, che ironia della sorte! La stessa identica cosa che ho sempre rimproverato a te nei confronti di Akane: ho fatto soffrire la piccola Akari… e proprio quando avevo scoperto di amarla veramente. Lei non meritava questo. So di essere stato un mostro. Ma ora io ti chiedo: potevo mancarle ancor più di rispetto, continuando a frequentarla mentre il mio cuore piangeva senza sosta pensando ad Akane? Purtroppo è una verità che non posso evitare: Akane morta ha vinto per sempre nell’angoscia del mio animo rispetto ad Akari-chan viva.” 
Si alzò da terra. Ranma lo imitò, con un gesto più sgraziato, ignorando i muscoli doloranti. 
“Piantala, una buona volta! Ti ho detto di averla vista!” 
Ryoga non protestò, ma lo fissò con un’espressione che lui aveva già scorto tante, troppe volte. “Ti compatisco, Ranma. Un giorno riuscirai ad accettarlo. Ora, semplicemente, è troppo presto.” Infilò lo zaino sulle spalle. “Io mi rimetterò in viaggio. A differenza di te, non posso sopportare di rimanere un altro momento di più in questi luoghi così pregni di lei, che mi riportano alla mente troppi dolorosi ricordi… perciò, stavolta, non credo che tornerò.” 
Con quest’ultima frase di congedo, guizzò via. 
Ryoga… il solito Ryoga. 
Ranma immaginò che, a prescindere dall’eccessiva quanto consueta teatralità delle sue dichiarazioni, P-chan facesse sul serio e stesse davvero pregando affinché la propria mancanza di orientamento lo perdesse nel più remoto angolo del globo. Ma lui sperò che anche questa volta, come le altre, il suo addio potesse in breve tempo rivelarsi un arrivederci. 
Quando non fu più in grado di distinguerlo dalle altre ombre, Ranma si sedette a braccia conserte e pensò. Che gli altri avessero ragione? Che lui stesse veramente perdendosi a forza di inseguire semplici illusioni? 
  
  
Non fu molti minuti dopo che udì sopraggiungere gli altri. 
Il buon vecchio Tofu aveva provato ad avvicinarsi senza rivelargli la sua presenza, ma era stato tradito dall’improvviso pianto isterico del signor Tendo, che lo scongiurava di tornare da loro prima che fosse troppo tardi. Il dottore aveva cercato di tranquillizzare Soun, ma il capopalestra aveva iniziato a ribattere che un uomo fiero non ha paura di piangere… e diverse altre amenità che Ranma non aveva alcuna voglia di ascoltare. 
Non intendeva farli preoccupare, tuttavia non se la sentiva ancora di tornare alla luce. Decise di mimetizzare la propria, di presenza, adoperando l’Umisen-ken – in teoria la tecnica sarebbe dovuta essere sigillata per sempre e mai più venire usata da chicchessia, ma ora questi discorsi sull’onore e sulle arti marziali gli suonavano come tante fandonie – e s’incamminò in silenzio verso il lato opposto del cortile, che era rimasto parzialmente integro. 
Procedette finché le grida del signor Tendo si dispersero in lontananza, e l’ambiente tornò tranquillo. 
Solo allora Ranma confidò a se stesso di sentirsi… meglio. L’incontro con Ryoga era ciò che gli ci voleva, forse, per riprendere contatto con la realtà. 
Si sdraiò nuovamente, a braccia e gambe distese, imitando P-chan e lasciandosi avvolgere dalla placidità del cielo. Il cielo che, come un vecchio amico, come per fargli un regalo, quella notte era tornato sereno e stellato anche se privo della luna nuova. 
Il cielo che era un vecchio amico: gli aveva tenuto compagnia nei momenti più tristi, distraendolo dalla noia e scacciando via tutte – sentendo un miagolio lontano, tremò appena e si corresse: quasi tutte – le sue paure infantili nelle notti insonni passate in viaggio col vecchio, che dal canto suo puntualmente dormiva beato. 
Ranma chiuse gli occhi e si abbandonò per qualche secondo a un lieve torpore. 
Il dolore per la scomparsa di Akane, incrementato dal rimorso per tutte le parole non dette, non sarebbe potuto scomparire come per magia. Ma probabilmente, seguendo l’invito di Ryoga, poco a poco… poteva imparare a… 
Fu in quel momento che Ranma percepì qualcuno. Forse i muscoli, come aveva detto P-chan, erano sul serio fuori allenamento: ma il suo sesto senso continuava a non tradirlo. 
Sussultò, quando alzando lievemente le palpebre e piegando appena il capo scorse una sagoma sfocata che sicuramente non corrispondeva né a quella di Tofu, né a quella di Soun. 
Il corpo gli tremò lievemente. 
Proprio come l’altra volta. 
Doveva aprire completamente gli occhi? 
Doveva alzarsi? 
Esitò, e questo gli permise di non abbandonare la propria posizione, di restare immobile con gli occhi socchiusi, come se stesse dormendo. Fu la sagoma, così, ad avvicinarsi. Avanzò, pur con passi incerti, come se fosse spaesata. Giunse davanti a lui. Si chinò a guardarlo in volto, le mani appoggiate sulle ginocchia per non sbilanciarsi. 
E il giovane Saotome, d’impulso, aprì le palpebre e incontrò il suo viso, in parte ricoperto dal buio. 
Anche questa immagine era frutto della propria pazzia? Così gli avrebbero detto gli altri. Eppure sembrava così reale. 
Non aveva, però, il coraggio di allungare una mano verso di lei. Se si fosse dissolta, impedendogli di toccarla, non avrebbe potuto sopportarlo. 
Ma questa volta avvenne una cosa diversa. 
Questa volta, lei parlò. 
“Ranma…” 

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Capitolo 6
*** Breve sogno ***


Capitolo 6 
“Breve sogno”

  
  
Strizzò un’ultima volta le palpebre. Ma fu di nuovo inutile, l’immagine monocromatica che scorgeva davanti a sé non si decideva a cambiare. 
D’altronde non si aspettava qualcosa di diverso. Poteva affermare senza un minimo di superbia che la propria vista era paragonabile a quella di una civetta, o perfino superiore: gli occhi, perfettamente adattati alla penombra notturna, discernevano con immediatezza ogni singolo elemento che lo circondava. 
La sagoma, che si stava rialzando distanziandosi un poco da lui, continuava a mantenere le fattezze di una ragazza il cui taglio corto di capelli gli era fin troppo familiare. E adesso Ranma poteva anche lasciar spaziare lo sguardo sulla figura intera, riconoscendo così la lunga divisa scolastica del Furinkan. 
“Ranma…” Udì ancora. 
Si domandò se, ammesso che la propria fantasia gli stesse comunque giocando un brutto scherzo, davvero anche l’udito si sarebbe potuto fare ingannare così facilmente. Non lo credeva possibile. Quel suono, quella voce non potevano affatto essere frutto della propria immaginazione! 
Si levò in piedi, ma più lentamente di come avrebbe voluto. Fu stupito dal lieve torpore delle gambe e non riuscì a evitare di barcollare. 
Avanzato di pochi passi per recuperare l’equilibrio, ridusse lo spazio che li separava e, anche se lei aveva smesso di pronunciare il suo nome, Ranma ne avvertì in modo nitido il respiro, ritmico e un poco ansimante. 
Provando a imporsi il pensiero che, forse, sarebbe dovuto essere lui a dirle qualcosa, considerò invece l’idea di tornare sui suoi passi. Dopotutto, Tofu e Tendo non dovevano essere troppo lontani. Li avrebbe raggiunti, quindi li avrebbe condotti qui, volenti o nolenti, cosicché finalmente anche loro avrebbero potuto vederla e sentirla. 
Il proposito lo tentò per diversi istanti. Ma… se poi non l’avesse ritrovata? 
Se, nel frattempo che lui si allontanava, lei fosse scappata di nuovo? 
Oppure, peggio: se lei, nonostante tutto, non ci fosse stata proprio fin dall’inizio? 
“Ranma…”  
La prima alternativa era certo più allettante. Decisamente. Perché, seguendo per un attimo l’ipotesi di non essere ancora impazzito, Akane era davvero viva e vegeta davanti ai suoi occhi. 
“…che cosa sta succedendo?” 
  
  
Si avvicinò al cratere con aria circospetta. 
Non che si aspettasse di trovare l’autore di quello sfacelo, ma sperava di individuare almeno qualche indizio, una bandana o altro, che lo rassicurasse dell’estraneità di Ranma alla vicenda. 
Puntò la pila elettrica sul terreno circostante, con fare metodico. Gli bastarono, tuttavia, pochi secondi per perdere di nuovo la calma e lasciar serpeggiare il cono di luce senza più alcun criterio, mentre le lacrime andavano ad annebbiargli la vista. 
No, non di nuovo. S’impose. Non adesso. 
Si volse, ormai disperato, in direzione del dottor Tofu. Questi, dal canto suo, non pareva propenso a una linea d’azione decisa, come Soun si era augurato: stava sì gesticolando a sua volta il braccio, ma verso l’alto, così da proiettare e disperdere in cielo il raggio della sua torcia. Magari cercava anche lui qualcosa, ma tra i pochi alberi rimasti in piedi. 
“Dottore… cosa sta facendo?” 
Il suo interlocutore lo guardò con un’espressione meno tesa di quella che si sarebbe aspettato. 
“Io? Oh, niente di speciale: sto segnalando agli altri la nostra posizione.” 
Gli altri, vero. Pensò che, in effetti, non erano molto distanti dal punto di riunione prefissato. E tra l’altro, ora che gli veniva in mente, la zona di ricerca affidata a Ukyo comprendeva l’istituto Furinkan. Grazie all’indicazione del dottore, a breve sarebbero arrivati tutti. 
“Capisco.” Disse. “A questo punto è inutile rimanere divisi…” Poi ci ripensò. “Ma se rimaniamo qui in attesa, non corriamo il rischio di perdere le tracce di Ranma? Potrebbe essere ancora nei paraggi.” 
Il dottor Tofu annuì comprensivo, ciò nondimeno gli replicò: “Se davvero Ranma ha perso la ragione ed è il responsabile di tutto questo, non credo che si allontanerà troppo dal Furinkan in ogni caso. Ma se è nei dintorni, dobbiamo considerare… ecco, come definirlo… il nostro arrivo poco discreto di poco fa.” 
Soun farfugliò qualche parola di scusa. Tofu ridacchiò, con una mano dietro il capo. 
“Mi perdoni, non volevo metterla in imbarazzo.” Il suo tono di voce perse subito ogni inflessione di leggerezza. “Dicevo… prendendo per buona l’ultima ipotesi, allora Ranma ha avvertito certamente la nostra presenza e, stando così le cose, il fatto che non sia uscito lui stesso allo scoperto indica che non sarà facile riportarlo alla calma. A questo punto, il problema potrebbe essere non più come trovarlo, bensì come fermarlo.” 
Soun s’irrigidì. La considerazione era del tutto pertinente. 
Il dottore continuò: “Si ricorda di quando le avevo parlato delle condizioni del ragazzo?” 
Annuì. Era stata l’unica visita di Tofu a casa sua e, mentre lui lo scongiurava di salvare in qualche modo la propria bambina, il dottore si era permesso di ignorarlo per rivolgere invece la sua attenzione a un Ranma sdraiato contro un muro del corridoio e come abbandonato a se stesso. 
“Ricordo. Dopo averlo visitato, lei mi ha preso da parte per parlarmi della sua aura.” 
“Precisamente. Come chiropratico, non poteva sfuggirmi il disturbo, anzi il vero e proprio squilibrio presente nel flusso energetico di Ranma. Ecco, bisogna vagliare la possibilità che la crisi della scorsa notte e la conseguente fuga abbiano portato tale instabilità a un punto di rottura.” 
Soun deglutì. Per quanto ci tentasse, non riusciva a scacciare da sé l’immagine di una bomba a orologeria prossima all’esplosione. 
“Quindi”, provò a completare il ragionamento di Tofu, “lei suggerisce che sia meglio riunirci in buon numero prima di…”, esitò nel trovare la parola adatta, “affrontare Ranma?” 
“È la mossa più consigliabile.” Confermò l’interlocutore. Notando la sua crescente agitazione, si affrettò a precisare con un largo sorriso: “Stia tranquillo, naturalmente non intendo far correre il minimo pericolo alle sue figlie. Stavo piuttosto pensando a Ukyo: lei potrebbe fornirci un preziosissimo aiuto, qualora le cose si mettessero male.” 
Già, Ukyo. Lei era un’artista marziale più che valida. 
Ma com’è possibile che non sia già qui?! 
  
  
Akane riprese a scrutarlo con aria interrogativa. 
Come se non fosse lui quello in diritto di porre delle domande. 
Ranma non poté impedirsi di sbuffare. 
Negli ultimi minuti trascorsi era leggermente arretrato, controllando che lei lo seguisse, fino a toccare con la schiena un altro dei muretti che delimitava il cortile della scuola. Era più basso degli altri cosicché le luci della strada, adesso, lambivano entrambi, riempiendo la fidanzata di colori e imprimendo una nitidezza ancora maggiore ai suoi contorni. Lei non si era dissolta, come per un attimo aveva temuto in cuor suo, anzi gli dava l’impressione di essere più viva che mai. 
Le sopracciglia erano piegate in un’espressione severa, le mani chiuse a pugno e leggermente vibranti. Ranma riusciva quasi a visualizzare la consueta aura infuocata promanare dalla fidanzata e circondarla come uno strato protettivo. 
D’altronde non le stava fornendo – e come avrebbe potuto? – alcuna delle risposte che pretendeva. Per essere più precisi, non riusciva nemmeno a fissarla negli occhi per più di qualche secondo, prima di ritrarre lo sguardo come se ne fosse stato sfregiato. Eppure, rammentò, fino a pochi minuti prima avrebbe dato qualunque cosa per rivedere la fidanzata, per sentire di nuovo la sua voce. La propria reazione sarebbe dovuta essere più… beh, gioiosa, no? 
“Perché non vuoi parlarmi?! Devi dirmi cosa sta succedendo!” Riprese lei. Non aveva l’aria di essere disposta ad aspettarlo ulteriormente. “Questo edificio di fronte a noi non è forse il Furinkan? Ma non dovremmo trovarci qui, non dovremmo essere nemmeno in Giappone! Un momento fa questo posto era… Jusendo, la fonte di tutte le Sorgenti Maledette!” 
L’aspetto, la voce. La personalità. E ora… coincidevano anche le sue memorie. 
È tutto così perfetto. 
“Solo pochi minuti fa stavi combattendo contro quel ragazzino, il principe del monte Hooh. Lo so, mi ricordo ogni cosa. Anche se ero disidratata… ero perfettamente cosciente, ho visto e sentito tutto quanto.” Le parole fluivano rapide e affannate. “E poi se non sbaglio tu… tu l’avevi colpito con la tua tecnica! Sì, ne sono sicura, eri riuscito a sconfiggerlo!” 
Troppo perfetto. 
“E poi… e poi…” 
Finalmente la ragazza si arrestò, come per riprendere fiato. 
Nondimeno, decidendosi una buona volta ad alzare lo sguardo, Ranma incontrò un’espressione completamente diversa da quella che si immaginava. Gli occhi erano spalancati, come terrorizzati da un mostro invisibile. Il riflesso del lampione gli consentiva di scorgere diverse gocce di sudore che scendevano tortuose lungo la fronte e le guance. Notò di sfuggita che le sue labbra – e ora perché si era messo a guardare proprio quelle?! – stavano tremando. 
“E poi il silenzio…” Accennò lentamente, con un tono fattosi pacato. “Poi il buio… mi pare che stessi scappando da qualcosa… e quella… quella voce…” 
Ranma sussultò. 
Buio. Una voce. Se non era impazzito, né stava semplicemente sognando, forse poteva essere semplicemente che… 
Akane chinò il capo e fissò le proprie mani come sovrappensiero. 
In quel momento, una nuova fonte di luce avvolse la sua figura intera. Quando gli parve che d’un tratto stesse diventando più trasparente, ogni dubbio e ogni sospetto furono dissipati all’istante. 
“No! Non andare!” Gridò, gettandosi disperatamente in avanti con un braccio proteso ad afferrarla a ogni costo prima che fosse tardi. 
Tuttavia, lei non svanì nemmeno questa volta. 
Quando Ranma si avvide che la nuova luce non era che opera di un altro lampione mezzo fulminato e che si era deciso d’incanto a funzionare, era ormai incapace di frenare lo slancio e rovinò addosso a una fidanzata decisamente corporea. 
“Si può sapere che cosa ti è preso?!” Si lamentò Akane, che ora si trovava schiacciata sotto di lui. Il suo viso, tutt’altro che trasparente, gli parve aver assunto un colorito più acceso poco sotto le palpebre. 
Ranma provò a raddrizzarsi, facendo leva sulle mani posate a caso. 
“Oh... ma allora non sei… pe-pensavo che fossi un fa…” 
Fu interrotto da un sonoro schiaffo: anche questo più che mai corporeo, come la guancia sinistra in fiamme poté testimoniare. 
Tornò in posizione eretta mentre, prendendo all’improvviso coscienza dell’estrema vicinanza tra loro due, avvertiva inspiegabilmente bruciargli anche l’altra gota. 
“Scu-scusa, non è come…” 
“Allora eri tu!” Gli disse, con un’intonazione piena di collera. 
La guardò confuso, allungando una mano per aiutarla a rialzarsi. 
“Ero io… ero io cosa?” 
Akane scansò con malagrazia il suo braccio e si levò in piedi da sola. 
“Non fare finta di nulla! Intendo poco fa, e lo sai benissimo!” 
“Poco fa?” 
“Non ripetere ogni frase come un pappagallo!” Ranma avvertiva di nuovo nitidamente l’aura negativa della fidanzata. “Poco. Fa. A casa mia. Dove uno scemo, in pieno buio, mi ha gridato contro e si è messo a inseguirmi come un forsennato. Ti suona familiare?! Dovevo capirlo subito che eri…” 
Si arrestò di nuovo. Quando riprese a parlare, l’aura era svanita. 
“Un… un attimo. Come è possibile tutto questo?!” 
Ranma si morse la lingua, quasi avendocela con se stesso per aver messo insieme i pezzi con un tale ritardo. Provò la sensazione che il mondo intero avesse perso il suo equilibrio, stesse oscillando vorticosamente e fosse sul punto di franargli addosso. 
La figura nell’ombra la scorsa notte… era Akane! 
O perlomeno, era questa Akane. 
E ciò voleva dire… 
Che a casa Tendo, anche in quello stesso istante, il letto della fidanzata poteva essere occupato da un’altra Akane. 
  
  
Era sinceramente addolorato. Si stava prodigando in mille scuse, ma ciò non sembrava in alcun modo placare la signorina Nabiki. 
“Razza di idiota, ti sembra logico essermi saltato alle spalle?! Mi hai spaventata!” 
“Mi dispiace! Le ripeto che non l’ho fatto apposta, solo che è più forte di me! Le kunoichi sono guerriere addestrate a nascondersi nell’ombra e a mimetizzare costantemente la propria presenza, si è trattato di forza dell’abitudine! E quando lei è scappata via così fuori di sé, mi sono spaventato e mi è venuto istintivo trattenerla per il braccio! Ma non era mia intenzione farla cadere, giuro!” 
“E io che avevo creduto di… lasciamo perdere! Almeno spero che tu abbia qualcosa di buono da riferirmi. Se sei qui, significa che non hai dimenticato il nostro discorsetto di questo pomeriggio.” 
Konatsu sospirò. 
Come avrebbe potuto dimenticarlo? La telefonata della signorina Nabiki era stata la prima che il locale avesse ricevuto da una settimana a questa parte e lui, udendo lo squillo, era accorso con una foga che ben poco si addiceva a una cameriera qual era – ma nessuno questa volta l’avrebbe punito per la sua ribellione – sperando che finalmente la signorina Ukyo si fosse fatta viva. 
“Konatsu, mi senti? Smettila di fantasticare e fammi vedere cos’hai trovato.” 
La voce della sua interlocutrice lo riscosse, ed egli si ricordò dell’importante oggetto di gran valore che gli era stato affidato. Sfilò da una tasca la preziosissima macchinetta ‘polaroid’ della signorina Nabiki, controllando che non presentasse nemmeno un graffio in più rispetto a poche ore prima, e si accinse a consegnarla riponendo la massima attenzione. 
La signorina Nabiki, stranamente non altrettanto preoccupata di preservare un bene così lussuoso, glielo strappò dalle mani con un gesto brusco prima di dirgli: “Spero non sia tutto qui. Avrai fatto qualche scatto, mi auguro.” 
“Come?... Oh, sì, naturalmente.” Konatsu porse con fare meno interessato alcune fotografie. 
Lo sguardo della signorina Nabiki vi si soffermò, e mutò all’istante. 
Konatsu non riusciva a leggervi alcuna particolare emozione. 
Di colpo, non vi era più traccia della ragazza eccitata e nervosa che gli aveva gridato in faccia. Gli acuti sensi del ‘kunoichi di gran talento’ gli mostravano nuovamente la signorina sorniona e imperturbabile alla quale era abituato. 
“Ottimo.” Mormorò, e il tono di voce, questo sì, tradiva un certo compiacimento. “Davvero ottimo… e dimmi un po’, loro hanno per caso sospettato qualcosa?” 
Konatsu incrociò le braccia, indignato a quell’insinuazione. 
“Il travestimento è la mia specialità, dovrebbe saperlo.” Puntualizzò. 
“Va bene, va bene… ma, per curiosità, hai indossato anche un paio di occhiali, come ti avevo consigliato? Non che fosse così importante, dato che quei cinesi non dovrebbero nemmeno conoscerti, però la prudenza non è mai troppa.” 
“Certo, signorina Nabiki.” Rispose, con tono meno indisponente. Sperò di non aver esagerato, in preda al proprio momentaneo impeto di rabbia. “Ho seguito alla lettera ogni sua indicazione.” 
Anche se, Konatsu proseguì mentalmente, lui avrebbe preferito travestirsi da geisha… o almeno da chiromante. Sapeva interpretare una chiromante impeccabile e del tutto realistica. Invece indossare quegli abiti maschili l’aveva messo non poco a disagio: e recitare, davanti a tutto quel pubblico, la parte del cliente imbranato gli era risultato un po’ troppo facile. 
Ciò che contava, l’anziana cuoca e il giovane cameriere avevano inevitabilmente abbassato la guardia. Approfittando della confusione creata ad arte, con la scusa di andare in bagno per pulirsi aveva potuto esplorare di soppiatto ogni angolo di quel ristorante cinese, e in particolare un ripostiglio che la signorina Nabiki gli aveva espressamente indicato di controllare: tra l’altro non era stato un problema accedervi, la porta era stata lasciata aperta… 
“Signorina Nabiki, queste fotografie sono ciò che voleva?” Le domandò. “Ci aiuteranno, come mi aveva promesso, a riavere indietro la Ukyo… la signorina Ukyo di sempre?” 
Arrossì, per l’impudenza che gli era sfuggita. Del resto, anche se il suo era un amore proibito, teneva a Ukyo Kuonji più della sua stessa vita e avrebbe fatto qualunque cosa, se fosse stato per il suo bene. 
Ricordava ancora il volto teso della padroncina, l’ultimo giorno che aveva lavorato nel locale prima di trasferirsi dal signorino Ranma. 
Raramente l’aveva vista così turbata e, in cuor suo, avrebbe tanto voluto conoscerne il motivo e fare qualcosa per aiutarla. Ma questo non era compito di una cameriera. ‘La riservatezza innanzitutto’ era una delle prime regole da rispettare. E di regole ne aveva infrante abbastanza, si era detto passando lo strofinaccio sul bancone con maggior veemenza, prima di allontanarsi rassegnato in un’altra camera per rimanerci il resto della serata. 
Si mordicchiò quasi inconsciamente il labbro. 
Perché era stato tanto stupido?! Al contrario sarebbe dovuto rimanerle accanto, superando ogni discrezione e paura. Per fortuna era ancora in tempo per rimediare: durante questa notte senza luna – così propizia per loro, ‘guerrieri ombra’ – avrebbe riscattato il suo comportamento vile mostrandosi degno del proprio titolo di kunoichi. 
“Signorina Nabiki, mi risponde?” Ripeté deciso, pregno di tale risolutezza. “Queste fotografie le sono utili?” 
La sua interlocutrice parve scuotersi da un lungo pensiero. 
Gli sorrise. 
Anche questo sorriso gli era ormai divenuto familiare. 
“Sì, direi proprio che mi sono state utilissime.” 
  
  
Non poteva credere ai propri occhi. 
A poca distanza dal suo sguardo, Ranma e Akane stavano parlando animatamente. 
E il contenuto del discorso non prometteva nulla di buono. 
Non abbandonando il proprio nascondiglio ma uscendo leggermente allo scoperto per catturare meglio le parole che si scambiavano – tanto non c’era alcun pericolo che quei due potessero in qualche modo scoprire la sua presenza – dovette assistere suo malgrado a un Ranma con la rabbia delle grandi occasioni, come sul punto di sbrogliare l’intricata matassa che aveva messo così tanto tempo e tanta pazienza a tessere. 
Adesso aveva afferrato la fidanzata per le spalle e la stava interrogando accuratamente. Lei purtroppo sembrava vacillare e sempre più sul punto di crollare. 
Dannata Ukyo Kuonji… la colpa era solo sua! 
Perché mandare ogni cosa all’aria proprio sul più bello?! 
Già l’altra sera, a dire il vero, ci era andata molto vicina… e non aveva mancato di sottolinearlo. 
Questa notte era l’ultima occasione, si stavano giocando tutto, le aveva ricordato. Lei aveva dato la sua parola, aveva per caso intenzione di rimangiarsela?! Ma ormai non le sarebbe convenuto, non aveva più molta scelta, il tempo dei ripensamenti era passato da un pezzo. 
Ukyo era parsa molto scossa a quelle parole, segno che stava toccando le corde giuste. 
Così aveva deciso di rincarare la dose, ripetendo lentamente la fatidica domanda che le aveva rivolto solo pochi giorni prima. 
“Sei con me…?” 
Lei aveva annuito. Aveva ribadito che si sarebbe attenuta al proposito originale con estrema fedeltà. 
Ma, a quanto sembrava, quella Ukyo aveva saputo mentire molto bene. 
Stupidi ragazzini! Non ci si poteva mai fidare di loro! La gioventù del giorno d’oggi non portava alcun rispetto per chi era più anziano e aveva maggiore esperienza e saggezza. E questa incoscienza  tipica dell’età adolescente stava minacciando di far saltare il suo piano. 
Tornò a rivolgere la sua attenzione a Ranma. 
E scoprì che le cose stavano veramente sfuggendo di mano. 
Lui aveva appena finito di raccontare alla fidanzata di come lei fosse misteriosamente apparsa sul piano superiore di casa Tendo per poi svanire nel nulla mentre entrava nella camera degli ospiti, questo mentre per tutto il tempo un’altra Akane Tendo stava sdraiata sul letto della propria camera. 
Lei sembrava ancora indecisa se credergli o no, ma entrambi avevano scritto nelle loro espressioni che avrebbero fatto luce su questi fatti inspiegabili a qualunque costo. 
All’improvviso Ranma, che, visto il fare sempre più agitato, sembrava averne abbastanza di qualsiasi ulteriore indugio, propose di tornare a casa Tendo e scoprire la verità con i loro occhi. 
Beh, questo non poteva assolutamente permetterlo. 
Aveva perso di colpo il preziosissimo contributo di Ukyo, ma dopotutto il più era fatto. 
Era il momento di intervenire. 
  
  
L’urlo improvviso della fidanzata lo sconvolse come un lampo a ciel sereno. 
“Akane! Cosa succede?!” Le si avvicinò con cautela. 
“Basta! Lasciami stare! Lasciami stare!” Gridò con forza la ragazza, afferrandosi la testa con entrambe le mani e scuotendola con un vigore tale da spaventare perfino lui. 
Ranma rimase immobilizzato per qualche secondo, senza un’idea di cosa potesse fare. 
Quando si decise nuovamente all’azione, fu troppo tardi. Un’improvvisa cortina di fumo avvolse l’intero ambiente, nascondendo ogni elemento alla sua vista. 
Una bomba fumogena?! 
Ranma avanzò senza punti di riferimento, evitando ogni movimento brusco per non rischiare di colpire Akane. Ma il terribile presentimento che lo aveva colto fin dal primo istante si rivelò fondato con il rapido diradarsi della nebbia artificiale. 
Akane non si trovava più di fronte a lui. 
In compenso, una figura ingombrante stava allontanandosi di gran carriera, issando sulle spalle una enorme sacca… delle dimensioni di una persona. 
Non capiva cosa stesse accadendo e, in tutta franchezza, non gliene importava nulla. 
No! Pensò semplicemente. Non ti perderò un’altra volta! 
Lanciandosi all’inseguimento, Ranma non fu in grado di scorgere il volto del rapitore, che gli dava le spalle. Tuttavia, la poca visibilità non gli impedì di distinguere, con suo immenso orrore, una figura e una corporatura inconfondibili. 
Un panda?!

 

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Capitolo 7
*** Risveglio ***


Capitolo 7 
“Risveglio”

  
  
Si fece forza e aprì lentamente gli occhi, mettendo a fuoco, poco per volta, la fisionomia di uno dei lampadari del ristorante. 
La testa gli martellava ancora con insistenza e faticava a mettere insieme un pensiero logico, tuttavia una voce lontana gli ripeteva che non c’era tempo da perdere. 
Mu Si tentò di rammentare qualcosa di più definito. Come mai si trovava disteso sul pavimento e così frastornato? Ah, sì. 
Ricordava che il Nekohanten aveva chiuso i battenti da diversi minuti, quando il silenzio del locale era stato spezzato dallo squillo del telefono. 
In quel momento si trovava in cucina, circondato da pile di piatti da lavare, e perciò era materialmente il più vicino al ricevitore. Sorpreso data l’ora tarda, ma anche fin troppo lieto di trovare una distrazione al suo sfruttamento disumano, aveva raggiunto con prontezza il ricevitore e sollevato la cornetta. 
La pelle gli tremò una seconda volta, ripensando alla voce che subito dopo aveva udito all’altro capo del filo. 
Non era ancora riuscito a riprendersi del tutto dalla sorpresa e a chiedere spiegazioni, che la vecchia Cologne gli aveva strappato il telefono di mano. La sua voce gracchiante gli entrò di nuovo, non richiesta, nella mente. 
“Cosa combini, impiastro?! Mai che tu faccia qualcosa di giusto!” 
L’intervento di Obaba, fin troppo tempestivo, aveva incrementato i suoi sospetti. 
“Ridammi la cornetta, vecchia! Oppure hai – o dovrei dire: avete – qualcosa da nascondermi?!” 
Mentre parlava, le si era avvicinato con aria intimidatoria. 
“Non crederai di poter minacciare proprio me! Adesso lasciami rispondere a questa chiamata, o sarò costretta a metterti fuori causa per un po’ di tempo!” 
Pur notando che la vecchia aveva afferrato un secchio pieno d’acqua, Mu Si non aveva perso un minimo della sua baldanza. Gli era sembrato, anzi, di essere tornato in Cina, ai bei tempi. 
“Noto che la memoria, alla tua età, gioca dei brutti scherzi… perché ora che sono guarito dalla maledizione di Jusenkyo non sarà certo quell’acqua a fermarmi!” 
Infatti non era stata l’acqua a fermarlo bensì il secchio, che lo aveva colpito duramente sulla tempia e di cui tuttora serbava il dolorosissimo ricordo. 
Maledizione! Pensò, frustrato. Se la testa smettesse di rimbombare un solo dannato istante! 
Provò ad alzarsi in piedi, ma l’equilibrio raggiunto era troppo precario e stava per ricadere subito a terra. Una mano lo sorresse prontamente. 
“Finalmente ti sei ripreso… Quante volte dovrò ripetertelo?! Non c’è un secondo da perdere!” 
  
  
Nabiki non si era mai sentita più viva. 
Ritmiche folate le accarezzavano la pelle mentre saettavano insieme con grazia melodica di tetto in tetto, come se stessero volando a tempo di musica. 
Va bene, forse stava un poco riconsiderando i vantaggi dell’essere un artista marziale e trovarsi in un certo distretto di Tokyo. Magari era ancora in tempo per farsi dare qualche lezione da papà. Oppure, molto più semplicemente, avrebbe potuto ricattare Ranma perché d’ora in poi la portasse a scuola in groppa sulle sue spalle. 
Queste, comunque, rimanevano fantasie. Le spalle alle quali in questo momento si stava affidando, facendo il possibile nel contempo per non mollare la presa dalla borsa, erano quelle di un ninja molto meno virile: tuttavia Nabiki non si sentiva in vena di lamentarsi. 
“Più veloce! Più veloce!” 
Konatsu tentò di accelerare l’andatura ma, oltre a non essere altrettanto divertito, le parve in evidente difficoltà. “Mi perdoni, più di così non posso. Comunque ci siamo quasi.” 
Nabiki si ricompose, sebbene la fretta di raggiungere il Furinkan non si fosse quietata. 
Ranma doveva essere ancora nei pressi della scuola. In quel caso, sicuramente vi avrebbero trovato anche la disgraziata persona responsabile di tanti misteri. 
Tuttavia lei doveva calmarsi, lasciare che l’adrenalina fluisse via, o almeno distrarre la propria eccitazione finché non fossero arrivati: così la mente non trovò di meglio che riordinare le idee una volta di più. Dopotutto non era stato per nulla facile, ammise, comprendere cosa fosse realmente avvenuto la notte scorsa. 
Il problema era che per troppo tempo aveva semplicemente dubitato della sanità mentale del signorino Saotome. Ma fin dall’inizio Nabiki sapeva che una sola persona aveva i mezzi necessari per giustificare in altro modo l’apparizione di sua sorella, e appunto di quella persona non si era mai fidata, nemmeno quando aveva detto loro che ormai non era rimasto più nulla da fare per Akane. 
Sorrise. La prova era in mano sua, ora. Anzi, le prove. Una manciata di fotografie scattate in un certo ripostiglio, dove erano conservate le fiasche con le acque maledette che lo ‘zietto’ si era fatto spedire dalla Cina. 
Quelle fiasche avevano sortito in lei molti sospetti. Perché Genma Saotome aveva dettato come destinatario l’indirizzo del Nekohanten, anziché quello di casa Tendo? La cosa in effetti poteva anche avere un senso, dato che le fiasche erano due: una di Nannichuan per i ‘soliti noti’, ma pure una di Niannichuan, la sorgente della ragazza annegata, per Shampoo. 
Sennonché, era strana tanta premura da parte di Genma. E l’amazzone, d’altro canto, si era subito separata dal resto del gruppo e non era ancora tornata in Giappone. Almeno, non secondo la versione ufficiale dei fatti. 
Fin qui, parlavano gli indizi. Ma adesso che a prendere la parola erano le prove 
Nabiki sbirciò ancora una volta, attenta a non mollare la presa da Konatsu, una delle foto incriminanti. Aveva sospettato che la fiasca di Niannichuan non fosse tale, ma almeno in questo si era sbagliata: confrontando le immagini con le grafie cinesi che aveva memorizzato con cura a casa, poteva affermare senza ombra di dubbio che le scritte sulle targhette delle fiasche recavano veramente i nomi ‘Nannichuan’ e ‘Niannichuan’. 
Con tutto ciò, restava una possibilità che non aveva esaminato e che ora si manifestava davanti ai propri occhi con l’evidenza della foto che teneva tra le mani: un’evidenza superiore perfino alle sue più ottimistiche aspettative. 
Molto semplicemente le fiasche non erano due, ma tre. 
  
  
“Ranma?” 
Si spostò con cautela, accendendosi di speranza nell’udire il nome di suo figlio. Un momento più tardi si rese conto che la voce era rivolta proprio a lei. 
“Purtroppo temo di no.” Disse, accennando un sorriso e mostrandosi alla luce della torcia. 
“Oh, signora Nodoka.” La voce del signor Soun tradiva un filo di delusione ma, le parve, anche un moto di sollievo. 
“Vi aspettavamo.” Proferì loro quel gentile e affabile dottore che aveva incontrato un paio di volte nell’abitazione del proprio ospite. “Io e il signor Tendo ne abbiamo discusso, e pensiamo che sia meglio per voi spostarvi in un luogo più...” Ma la frase restò sospesa a metà. 
Senza chiudere bocca, il dottore si limitò a guardare nella sua direzione con un’espressione vagamente istupidita, un po’ come quella di chi aveva appena visto un fantasma. E se si fosse trattato invece di Ranma? Nodoka smorzò il respiro e voltò adagio il viso, ma non scorse alcuna nuova presenza alle proprie spalle. 
Niente. Dietro di lei c’era solo la cara Kasumi che l’aveva raggiunta e si stava affacciando, lasciandosi illuminare a sua volta dal fascio della torcia del dottore. 
Riportò la propria attenzione verso di lui. Immobile in piedi, inspirava profondamente a intervalli regolari: lo stress di quella notte si stava facendo sentire per tutti, e a lei che era la moglie di un artista marziale non poteva sfuggire una reazione così tesa. Anche se non si sarebbe mai aspettata che il dottor… Tofu, se non errava, fosse una persona tanto sensibile. 
Il signor Soun tossì e prese la parola. “Come stavamo dicendo… abbiamo motivo di credere che l’autore della tecnica energetica di qualche minuto fa possa essere proprio Ranma. In questo caso, non sarebbe prudente trovarsi sulla sua strada per chi non è addestrato nelle arti marziali.” 
Nodoka annuì. S’inginocchiò e disse ai due uomini: “Ho piena fiducia nelle vostre capacità. Mi affido a voi, vi prego di riportarmi mio figlio.” 
Il signor Soun borbottò qualcosa, come imbarazzato, a proposito di rialzarsi, che non era necessaria tanta formalità. Curvando lievemente il solo capo all’insù, Nodoka scorse però la fiera determinazione dei loro sguardi e ne fu rasserenata. Anche il portamento del dottore, adesso, era tornato quello di pochi istanti prima e le trasmetteva un forte sentimento di speranza. 
Certo lei non avrebbe voluto farsi da parte, tuttavia sapeva che questa era la cosa più giusta. Un senso di rimpianto le riempì, improvviso, il petto, ma aveva tutt’altra natura. 
Genma… come puoi, stanotte, non essere con loro? Si domandò. Che ne è del tuo dovere di artista marziale? E soprattutto cosa ne è della tua responsabilità di padre?! 
Non fece in tempo a rialzarsi del tutto, che avvertì dei rumori provenire da dietro le fronde poco distanti. Si voltò assieme agli altri nella loro direzione e, mentre gli uomini assumevano le pose da combattimento, strinse protettivamente a sé una Kasumi fin troppo silenziosa. 
La mole di un panda si fece largo tra il fogliame. Portava qualcosa di grosso con sé, ma non riusciva a distinguere di cosa si trattasse. Né le importò più quando udì una voce maschile intimare con rabbia al padre di fermarsi. 
Il signor Soun si scosse, come interdetto. “Amico mio…” Esclamò nitidamente, mentre il panda si rifugiava dietro di lui. 
Il dottore, al contrario, avanzò con risolutezza verso la nuova sagoma che, ansimante, sbucò a sua volta nel largo spiazzo del cortile. Nodoka staccò istintivamente la presa da Kasumi e portò entrambe le mani al petto. 
Il suo Ranma, il bimbo che aveva cresciuto con amore nei suoi primi anni di vita e che aveva ritrovato da così poco tempo, ormai divenuto un uomo forte e impavido, adesso non somigliava ad alcuno dei due. Non indossava più la camicia, e la canottiera, in buona parte stracciata, lasciava scorgere solo terra, lividi e tagli. I capelli gli cadevano disordinatamente sulla fronte, la bocca digrignava frenetica come schiumando rabbia e pareva che ogni muscolo volesse imitarla nel suo gesto. 
“Ranma. Respira, riprendi il controllo.” Gli disse il dottore con voce ferma. Ma il povero ragazzo respirava già abbondantemente, come a corto d’aria più per l’agitazione che per la corsa, che pure doveva aver sostenuto. Si era fermato a pochi passi dal dottore, ed era come se il suo sguardo attraversasse lui e poi il signor Soun per posarsi infine su suo marito. 
Solo in quell’istante notò che Genma aveva estratto un cartello. 
È fuori di sé! Salvatemi, vuole uccidermi! 
  
  
E così era arrivato a questo! Lurido vigliacco! 
Assistere allo stomachevole spettacolo del proprio vecchio che si faceva scudo con Tendo, prendendosi pure la briga di ostentare quell’assurda scritta, fece dimenticare a Ranma le ferite che gli si erano riaperte. Voleva parlare, anzi gridare, ma non aveva ancora recuperato abbastanza fiato e allora si limitò a lasciar vagare il proprio sguardo sui presenti, che lo fissavano con le pupille ristrette dalla paura. 
Ancora…! 
Com’era possibile?! Quel bastardo aveva rapito Akane, portandosela via come un sacco di patate, e gli altri addirittura lo proteggevano! Si diede dell’idiota per aver pensato di poter comunicare con loro, ora vedevano lui come il mostro. Era a questo che papà mirava fin dall’inizio?! 
Maledetto! Se è così non ti perdonerò mai! MAI!  
Udiva il battito affrettato e assordante del proprio cuore, ma non voleva saperne di perdere un solo istante di più: accennò a scansare da sé l’ostacolo che lo separava da Soun e quel dannato per chiudere a quest’ultimo ogni via di fuga, ma Tofu fu più rapido a schivare il movimento delle sue braccia per poi saltare di lato e pararsi davanti a lui, un’altra volta, le loro facce a pochi centimetri di distanza, con aria di sfida. 
Non anche lui! Almeno Tofu avrebbe dovuto capire! Le labbra del dottore si muovevano, ma a Ranma le parole giungevano come ovattate, mentre l’intera sua attenzione era catturata dal sangue che avvertiva ribollirgli nelle vene e implorarlo di non trattenersi oltre. 
“Ranma!” Si sentì gridare, e per un momento provò un moto di soggezione.  Quel tono così severo, che era sicuro di non aver mai udito uscire dalla bocca del mite dottore, lo costrinse ad alzare gli occhi e incontrare i suoi, che si accorse di aver finora accuratamente evitato: ciò quietò per qualche secondo i suoi istinti, risvegliò il rispetto che gli aveva sempre portato e lo convinse a concedergli un’occasione. 
Allentò la presa del braccio sinistro, aprì la mano e la portò all’altezza del petto, come per accompagnare le sue parole. 
“L’ha”, Ranma stesso non riconobbe la propria voce rauca, “rapita.” 
Tofu non si mosse. 
“L’ha rapita.” Ripeté Ranma. “Sto dicendo il vero! Akane è qui!” 
I vetri delle lenti rimanevano puntati verso di lui, leggermente opachi. 
La mano smise di vagare a mezz’aria e afferrò bruscamente la veste dell’interlocutore. 
“Dannazione, non capite quello che ho detto? Avete Akane sotto il vostro naso, perché diavolo non volete credermi?!” 
Tofu assecondò lo strattone, senza vacillare. 
“Innanzitutto devi calmarti.” Gli disse. “E dopo…” 
“Non dopo! ORA!” Ruggì Ranma. E mentre lasciava violentemente la presa, l’altra mano, ancora chiusa a pugno, colpì il petto di Tofu. 
O così aveva creduto. In realtà dovette constatare di aver soltanto smosso una manciata di aria, avvertendo contemporaneamente una presenza alle proprie spalle. Deciso a non perdere il vantaggio della prima mossa, Ranma si buttò per terra raggomitolandosi su se stesso: avvertì l’attacco dell’altro, che cercava di raggiungerlo con le braccia, e allora fece presa sui palmi sbucciati e, senza guardare, scagliò un calcio all’indietro. 
Sentì di aver toccato qualcosa e, allo stesso tempo, un mugolio sommesso confermò la sua impressione. Sicuro che il colpo fosse andato a segno, Ranma si rialzò e si voltò, ma fu preso in contropiede da un doppio affondo di Tofu. 
No, maledizione! Inarcò disperatamente il busto per scansare le sue mani, ma una di quelle riuscì a toccargli la spalla: avvertì ogni terminazione nervosa in preda allo spasmo, come se si fosse ustionato, ma la fitta scomparve subito insieme a ogni altra sensazione e, provando a muovere il braccio destro, scoprì che i muscoli non solo avevano smesso di tormentarlo ma non rispondevano più ad alcun proprio comando. 
Si ritrasse di qualche altro passo, sostenendo il peso morto con l’altra mano. Incrociando di nuovo lo sguardo di Tofu, s’avvide che questi ansimava più di lui. 
“Ranma, non costringermi a proseguire.” Gli disse, ma la voce era spezzata e il sudore colava abbondante dalle sue tempie. “Mi basterà toccarti… un altro paio di punti di pressione… per immobilizzarti del tutto. Sempre che tu riesca una seconda volta… a evitare che ti stimoli i nervi giusti per farti perdere i sensi.” 
E Ranma ghignò, sentendosi invadere da una rabbia euforica. La mano spellata che riusciva ancora a percepire gli bruciava in modo vivido e l’adrenalina non bastava più a fargli ignorare le parti del corpo già sofferenti e gli altri ricordi dello scontro di prima, con Ryoga. Quel maiale c’è andato proprio pesante, stavolta…! Eppure sapeva che, in un certo senso, era proprio il dolore a eccitarlo, a impedirgli di crollare al suolo: a prepararlo per l’ultimo e decisivo attacco. 
“Cosa stai facendo, Ranma?! Torna in te!” Il grido di Tendo lo svegliò. Abbandonò lo slancio iniziale e invece intercettò l’iniziativa del capopalestra, che stava avanzando verso di lui permettendogli di scorgere il proprio vecchio che si stava rimettendo in fuga. 
“Signor Tendo, non lo…!” Tofu non proseguì, del resto avrebbe dovuto impegnare tutte le forze residue per contenere la caduta di Tendo, che Ranma era riuscito ad afferrare con il solo braccio rimasto a disposizione per scagliarlo alle sue spalle. E ora papà era senza protezione! 
  
  
Aveva impartito a Konatsu una chiara direttiva, ma capì che non ce ne sarebbe stato bisogno. Il ninja era troppo sensibile per non comprendere da solo quale fosse la priorità in questo momento. 
“Maledetto!” Il grido squarciò l’aria. “Come hai potuto? COME HAI POTUTO?!”   
Il panda estrasse un nuovo cartello, di cui Nabiki non riuscì a leggere il contenuto, ma Ranma glielo strappò di mano e tornò a picchiarlo. 
Dopo alcuni, troppi secondi, Konatsu apparve dal nulla alle sue spalle e lo trattenne per entrambe le braccia. 
“Mi perdoni, signorino Ranma!” 
Lui non sembrò nemmeno accorgersene, salvo per il fatto che si dimenava come un ossesso, colpendo l’aria a più riprese come se centrasse ogni volta la mascella o lo stomaco di Genma. 
“Tu lo sapevi!” Disse singhiozzando. “Lo hai sempre saputo e hai fatto di tutto per nasconderlo a me e agli altri e farmi fare la figura del pazzo! Di’ la verità! Volevi farmi diventare pazzo?! EH?! RISPONDI!” 
Nabiki raggiunse il sacco che, steso per lungo a terra, lasciava intravedere la sagoma di una persona immobile. Non ha neanche considerato l’idea di liberarla… che abbia capito tutto? No, non è così. Ranma non ha combattuto per salvare mia sorella. Ha combattuto solo per ammazzare di botte suo padre. 
Il pensiero, così crudo e cinico, la fece trasalire. Era troppo anche per lei e pregò di essersi sbagliata. Anche sulle altre cose. 
“Fermati subito”, scongiurò una voce maschile, “o non farai che dimostrarci di essere quel pazzo che sostieni di non essere diventato!” Nabiki alzò il volto. Papà era venuto a dare man forte al kunoichi maschio, ma la persona con lui non era il dottor Tofu, che poco più distante non si era ancora rialzato e si stringeva il petto esibendo una smorfia di dolore. 
“Ranma.” Il tono pacato di Kasumi zittì tutti i presenti, e per un momento credette che avrebbe potuto quel che gli altri non erano riusciti a fare. Ma la realtà era diversa dalle favole, e Ranma non smise di dibattersi. 
La mano tuttavia aveva finalmente cessato di tremarle e così tirò con forza la cerniera: proprio perché questa era la realtà, stava solo a lei fermare tanta follia. 
La signora Nodoka, l’unica che le stava prestando attenzione come stranita, si fece sfuggire un urlo di sorpresa. Tutti si voltarono, e questa volta anche Ranma si calmò. 
“Akane! Figlia mia!” Esclamò papà, mentre gli altri non erano nemmeno in grado di fargli eco. Del resto, nemmeno Nabiki riuscì a dire qualcosa. 
Il sacco era finalmente aperto e il corpo della sorellina giaceva tra le proprie braccia, poteva avvertire il suo calore assieme ai capelli arruffati e alla tipica espressione serena del sonno. L’ha anche anestetizzata… Si sentì travolgere a sua volta dalla rabbia ma, distogliendo la vista e puntando casualmente gli occhi sulle nocche insanguinate di Ranma, considerò che Genma Saotome non si era difeso nemmeno una volta dall’attacco del figlio. 
“Akane!” Nabiki sobbalzò nel vedere suo padre a pochi palmi dal suo naso, il volto inondato dalle lacrime che però lasciava scorgere il primo accenno di un sorriso da così tanto tempo. 
E ora tocca proprio a me… 
Nessun rimpianto. Nabiki sapeva benissimo quel che andava fatto, anche se sperava in un pubblico molto meno numeroso. 
Prese la borsa ed estrasse il thermos. Nessuno comprese il significato di quel gesto. 
“No!” 
Ranma…? 
Quasi nessuno. 
“Noooo!” 
Mi dispiace… 
L’acqua calda bagnò le gote della ragazza svenuta. 
I suoi lineamenti mutarono, i capelli crebbero in lunghezza. 
Come per magia, Akane era scomparsa. Tutto ciò che Nabiki poteva scorgere era soltanto il viso dormiente di Ukyo Kuonji.


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Capitolo 8
*** Dietro le quinte ***


Capitolo 8 
“Dietro le quinte”

  
  
La voce stridula di Konatsu la distolse dai suoi pensieri, il contenuto dei quali le svanì dalla mente come neve al sole. Fu tuttavia solo quando il suo unico cameriere le ripeté con discrezione la parola ‘cliente’ che Ukyo si decise, una buona volta, ad alzare lo sguardo dall’okonomiyaki che stava fissando come ipnotizzata. 
Non che ne valesse la pena, scoprì. Per un istante fu animata da un sentimento di speranza ma, alla vista del nuovo arrivato, inarcò le sopracciglia e strinse le mani a pugno, prima di ricadere in uno stato di confusione totale. 
Ma dove…? 
Stavolta lo smarrimento durò pochi secondi. Aveva capito. 
Dove si trovava, cosa fosse coinvolto. Chi. 
Ranma… 
Attendeva da diversi, troppi giorni il suo ritorno dalla Cina e a ogni ingresso di un cliente fantasticava che potesse trattarsi di lui. Di recente aveva preso l’abitudine, per combattere la monotonia dell’attesa, di farsi trovare preparata: dopotutto Ran-chan sarebbe arrivato digiuno e lei voleva dargli il miglior bentornato possibile, nel linguaggio con cui meglio comunicavano fin da bambini. 
Un bel trattamento. Non molto meritato, a dire il vero. 
Nemmeno l’aveva salutata, prima di partire. Ukyo aveva scoperto la novità soltanto quando si era trovata a dover constatare la prolungata assenza del ragazzo da scuola. Akane-chan le aveva brevemente illustrato i motivi del viaggio e lei, vedendo l’ultimogenita dei Tendo così tranquilla, si era rasserenata a sua volta. 
Stupida che era stata! Invece di raggiungerlo se ne era rimasta come uno stoccafisso nella propria città, nel proprio locale, e intanto quella maledetta di un’amazzone aveva attirato in Cina il suo Ranma con l’inganno e magari l'aveva drogato per bene, o peggio. Certo, Ukyo non aveva la minima idea di come trovare quel monte vattelappesca, ma arrangiarsi non avrebbe costituito una novità: per esempio avrebbe potuto seguire di nascosto Akane, quando a sua volta aveva ‘misteriosamente’ smesso di farsi vedere al Furinkan. 
Quel cuore tracciato con la salsa le trasmise un improvviso senso di nausea: sfoderò la spatola e liberò la piastra scostando l’okonomiyaki di lato, insieme agli altri. E dire che un tempo non avrebbe approvato un tale spreco di ingredienti… 
Udendo il mugolio soffocato di Konatsu, ancora meno abituato a sperperi simili, usò la prima scusa che le venne in mente per ordinare al suo assistente di spostarsi nella stanza a fianco. Anche se il Saotome venuto a trovarla era inequivocabilmente quello sbagliato, la questione che si prospettava era comunque ‘personale’. 
Una volta che il ninja fu uscito, Genma annuì come se non stesse aspettando altro. 
“Devo parlarti, Ukyo.” Si decise a fare la prima mossa. Ma lei non era ancora disposta a dargli corda. Afferrò lo straccio. Quella cosa che strisciava sul bancone era un ragnetto? 
“Se si tratta di una consumazione, è troppo tardi.” Replicò meccanicamente. “Per i clienti normali, il locale ha chiuso un’ora fa… e non farò certo un’eccezione per lei.” Dicendo ciò, con un gesto fulmineo della mano schiacciò l’intruso più piccolo. 
“No, niente del genere.” Per nulla intimorito, Genma prese con le dita i resti della creatura e li soffiò via. “E non sarei certo potuto venire prima, per ciò che ho da dirti.” 
Ukyo incrociò il suo sguardo e sussultò: il proprio interlocutore aveva un’aria insolitamente seria, quasi da funerale. 
Forse la situazione era ancora più preoccupante di come se l’immaginava: dopotutto, se era tornato il padre, lo doveva essere anche il figlio. Ma dato che Ran-chan non aveva evidentemente avvertito alcuna voglia di passare a trovarla… Peggio ancora, se fosse rimasto in Cina e avesse mandato il genitore per… Diamine, si era messo davvero con Shampoo?! O con Akane?! 
A questo punto doveva sapere. Perfino da lui. 
“Allora, avanti.” 
“Ukyo, tu certamente mi riterrai una pessima persona, uno sconsiderato.” 
Aprì la bocca, tuttavia non le andò di confermare quella dichiarazione. 
“Forse farai fatica a crederci”, proseguì Genma, avvicinando il capo con aria di segretezza, “ma ciò che sto per compiere ora… questo supera sicuramente quanto di più scellerato abbia mai commesso in vita mia. Eppure, dopo che avrò finito di spiegare, ti porrò lo stesso la mia domanda…” 
Ukyo deglutì. Si sporse leggermente e solo allora notò l’ingombrante bisaccia che l’altro aveva portato con sé e posato a terra. 
  
  
“Cominciamo dall’inizio. Le va?” Propose, con il fare di chi è abituato a ricevere pronte risposte alle proprie domande. D’altronde, l’intenzione era quella. 
Lo zio Genma era tornato umano da diversi minuti, ma ancora non aveva proferito parola. Né gli altri sembravano tanto smaniosi di interrogarlo, forse ancora troppo sconvolti dal ‘ritorno’ di Akane, che li aveva ingannati per una manciata abbondante di secondi. Papà paradossalmente non piangeva, e alcune lacrime erano invece sul punto di uscire dagli occhi lucidi di un ninja troppo sensibile. Nabiki sapeva che Ranma avrebbe potuto approfittare della distrazione di Konatsu in qualsiasi momento per sfuggire al suo controllo, ma aveva anche notato che a sua volta il fuggiasco, dal momento esatto in cui aveva assistito alla trasformazione di ‘Akane’ in Ucchan, non aveva più provato a divincolarsi. 
Le donne della famiglia sembravano in qualche modo più… vicine alla realtà, eppure l’attenzione sia di Kasumi che della signora Nodoka era sviata dalle condizioni del dottore, che a sua volta rifiutava di pensare a se stesso ed era tutto preso a controllare che Ukyo, ancora addormentata, stesse bene. Anche loro stavano chiaramente aggirando la questione principale. 
Scosse il capo. Come al solito, era l’unica con la testa sulle spalle. E avrebbe fatto luce, a qualunque costo. 
“Signor Saotome”, gli disse con falsa enfasi, “a giudicare dalla pelliccia che la ricopriva fino a pochi secondi fa pare che, dopotutto, tornare normale non fosse proprio il primo dei suoi pensieri. Dunque, perché? Come mai tanta premura di farsi portare qui in Giappone l’acqua maledetta? Ce lo vuole dire… o devo farlo io per lei?” 
Genma Saotome alzò una mano nel gesto meccanico di sistemarsi gli occhiali che non portava più. 
“Non conta il motivo.” Disse, con fare insolente. “Ormai non conta più nulla.” 
“Non può essere!” Gridò papà, scoppiando come un fiume in piena. “Saotome, vecchio mio, tu devi essere estraneo a questa vicenda! Non puoi aver fatto questo a tuo figlio, a tutti quanti, aver messo in atto una messinscena simile! Ma certo! Sicuramente ti hanno ricattato, o suggestionato! Si tratta di Cologne, non è vero?! Quella vecchia megera non me la diceva giusta, ha usato te e Ukyo per… non lo so cosa, ma è uno dei suoi loschi piani, no?! Dillo, Saotome! Dimmi che è così!” 
Il chiamato in causa lo guardò con un’espressione bonaria, ma non gli rispose. 
Papà, sempre più agitato, rivolse allora la sua attenzione proprio verso di lei. 
“Nabiki… sei tu che hai scoperto la verità! Racconta come sono andate veramente le cose! Che Saotome non c’entra nulla!” 
Inspirò con calma. Fissò un punto indefinito di spazio, per evitare quello sguardo così implorante che per qualche motivo la stava rendendo nervosa. 
Avrebbe potuto confortare le sue speranze, convincerlo che il suo miglior amico non lo avesse tradito così spudoratamente. 
Ripensò a diversi giorni prima. Mousse doveva aver rimuginato molto, accumulato una gran quantità di frustrazione, negli ultimi tempi: aveva risposto alle sue domande quasi sfogandosi, le aveva raccontato davvero tante cose, di quel viaggio in Cina, fin nei minimi particolari. 
Perfino di certe… uova, proprio così, uova dalle proprietà peculiari: di come la povera Shampoo ne fosse caduta vittima e di come la volontà di Genma Saotome fosse stata a sua volta assoggettata a quella dell’amazzone… che chiaramente non aveva alcuna responsabilità delle sue azioni, poverina, la colpa era di Safulan, Kima e quel dannato popolo di uccelli. Che comunque lui era riuscito a liberare l’amata dal controllo mentale, rinunciando ad approfittarne per conquistare il suo cuore, anteponendo la felicità di Shampoo alla propria, mostrandole così la nobiltà del proprio animo. Come?... Ah, sì, gli pareva che anche Genma fosse poi stato disipnotizzato, una volta conclusa la battaglia finale. Ma sinceramente non ci aveva fatto molto caso e non avrebbe potuto giurarlo. 
Già, a papà avrebbe fatto piacere ascoltare questa storia. 
“Come sono andate le cose?” Ripeté. “Eppure lo dovresti sapere. Lo dovreste sapere tutti. Prima di far ritorno in Giappone, il signor Saotome si è offerto di parlare alla guida di Jusenkyo e chiedere le acque che avrebbero annullato la maledizione sua e di Ranma… tra le altre.” 
Il volto di Soun sembrò illuminarsi. “Vuoi dire…” 
“Che la guida ha spedito, e curiosamente non a casa nostra bensì all’indirizzo del ristorante Nekohanten, ben tre fiasche di acqua di Jusenkyo.” Nabiki puntualizzò con le dita. “La prima conteneva la Nannichuan, dalla sorgente dell’uomo annegato. La seconda la Niannichuan, dalla sorgente della ragazza annegata. E la terza, come avrete tutti capito…” 
  
  
Akanenichuan?” Ripeté Ukyo, perplessa come la prima volta che aveva vissuto quegli eventi. 
La storia che le aveva raccontato l’interlocutore, dopo aver estratto dalla bisaccia la fiasca che aveva chiamato con questo nome, era abbastanza confusa e non poteva dire di averci capito molto, nemmeno stavolta. 
Giusto. Perché questa spiegazione io l’avevo già… 
Le erano rimasti impressi solo i tratti essenziali, tra l’altro i più ostici a cui una persona normale, che non avesse visto certe cose con i propri occhi, avrebbe potuto credere. Akane rapita a sua volta, portata contro la sua volontà in Cina da… uno stormo di uccelli? Soprattutto, Akane fatta immergere in una delle fonti di Jusenkyo. Se si riuscivano ad accettare le due cose, l’affermazione conseguente di Genma era verosimile, perfino naturale. 
Una nuova sorgente magica. La sorgente di… Akane annegata? 
“Non occorre annegarvi, la guida non parla molto bene il giapponese e per tutto questo tempo ha usato un termine improprio. Comunque… anche se non le hai mai potute vedere di persona, ormai ti sarai fatta un’idea delle fonti del campo d’addestramento leggendario di Zhou Chuan Xiang. Le sorgenti hanno la proprietà di memorizzare l’aspetto della prima persona che vi cade, e di duplicarlo a danno di coloro che hanno successivamente la sventura di bagnarsi con l’acqua maledetta.” 
“Ovvio che lo so.” Lo interruppe. Tutto ciò lo aveva sperimentato infinite volte sulla sua pelle, anzi quella di Ran-chan, letteralmente. “Ciò che non capisco è cosa c’entri questa storia con me!” 
Oh, ma sapeva anche questo! Perché ricordare di nuovo ogni cosa?! Ukyo provò a scuotersi, doveva smetterla di rimuginare. E invece, contro la sua volontà, si alzò in piedi e superò il confine del bancone che la divideva da quel dannato. Di nuovo preda dei suoi sentimenti di allora, dovette fare appello a tutta la propria buona volontà per resistere alla tentazione di cacciarlo via seduta stante. 
A cosa serviva questo discorso? Anche Akane era stata rapita, gli gridò in faccia, era chiaro, chiarissimo! Tutti i nemici di Ranma prendevano in ostaggio – prigioniero ovviamente sicuro di un successivo e galante salvataggio da parte dell’eroe con il codino – qualunque fidanzata che non fosse lei, più evidente di così! Nemmeno loro la consideravano! A questo punto, a quando il sequestro di Kodachi?! 
Ukyo si arrestò, il cuore che le pulsava a gran velocità e le mani che tremavano. 
“Ti sei sfogata?” Fece l’altro, senza mostrare segni di scompostezza. “Bene. Ora te lo dirò senza ulteriori giri di parole, anche perché non sono bravo in queste cose. Lo verresti a sapere in ogni caso e, da me o da altri, non cambia poi molto. Akane non è annegata in quella fonte, eppure… lei non c’è più lo stesso. È morta, durante lo scontro finale tra Ranma e quel Safulan.” Finì d’un fiato. “Te l’avevo già spiegato, non è vero, chi è Sa…” 
La spatola crollò a terra, coprendo la sua voce con l’eco del rimbombo. 
Strabuzzò gli occhi, come se non avesse afferrato il concetto. Akane. Morta. Per quanto si sforzasse, non riusciva ad associare le due parole. 
Poi il cuore le suggerì un pensiero orrendo, così Ukyo non poté fare a meno di rivolgere a Saotome, maledicendosi mentre le parole le erano già uscite di bocca, la pur logica domanda. 
“E Ranma… come sta?” 
Genma non parve sorpreso. 
“Lui… non è più il ragazzo che conosci. Non sa perdonarsi per quello che è accaduto. E ancora non riesce ad accettare la perdita della persona che…” Si bloccò. Troppo tardi, pensò Ukyo: aveva inteso benissimo, in questo caso, come già la prima volta che aveva udito queste parole. E come allora si limitò ad annuire, mogia. Una parte di lei sapeva forse fin dall’inizio come stavano realmente le cose. 
“Ranma si sta letteralmente autodistruggendo.” Riprese Saotome, a voce bassa. “Dal nostro ritorno, qualche giorno fa, non ha più messo piede fuori casa. Ha smesso di praticare le arti marziali. Praticamente non mangia, non dorme. Sta accovacciato in un angolo e nient’altro. Un vegetale. E Nodoka… sua madre sta morendo lei stessa dal dolore, per Akane e perché vede suo figlio ridotto in questo stato.” 
Le lacrime riempirono gli occhi di Ukyo, senza però scendere. L’intero piccolo mondo che conosceva era andato in pezzi in una manciata di secondi… anzi no, perché tutto questo era già accaduto, mentre lei, ignara, attendeva che il suo Ranma venisse a trovarla per mangiare un okonomiyaki. Represse a stento un secondo moto di nausea. 
Basta! Pensò, in preda alla sofferenza. Perché sto rivivendo, momento per momento, tutti questi eventi?! Fa male! Non voglio, non voglio! 
Voleva arrestare quei terribili ricordi, smettere di provare quel dolore, quei sensi di colpa, anche perché il peggio doveva ancora arrivare. Ma questa volta era differente dalle altre, non riusciva a svegliarsi. 
Fu Saotome, invece, a scuoterla per le spalle. 
“Ukyo, io ho bisogno di te.” La sua voce la colpì come una lama al petto. “Non saprei a chi altri rivolgermi. Sei una brava ragazza e vuoi bene a Ranma. Ora io ti chiedo: saresti pronta a qualunque cosa per salvarlo da se stesso?” 
Tu… 
“È questa la mia domanda! Rispondimi, Ukyo! Devo saperlo!” 
Tu… sei venuto qui… a chiedere il mio aiuto?! Tu! 
Avvertì vibrare ogni nervo in preda a una rabbia irrazionale, come se qualcuno le avesse colpito con forza una ferita rimarginatasi dopo tanto tempo e fatica. 
“Avevate promesso di portarmi con voi… e invece mi avete abbandonato come un cane!” 
“Sapete che Ukyo è stata mollata dal fidanzato?” 
“Sì, sì. Lui e suo padre sono fuggiti prendendosi solo la dote!” 
“Umiliata in quel modo! Non vorrei essere nei suoi panni!” 
“Io… mi vendicherò! Fosse l’ultima cosa che faccio!” 
Ranma aveva le sue colpe, certo… ma lei l’aveva infine perdonato. 
Con Genma Saotome era un altro discorso. Lui, il vero responsabile di una vita rovinata. E ora proprio lui le stava chiedendo… 
“Sei disposta ad aiutarmi?” 
  
  
Strinse la mano a pugno, dimenticandosi che era già impegnata. 
“Tutto questo non dimostra nulla, Saotome è innocente!” Protestò. “Non sappiamo nemmeno se fosse a conoscenza dell’identità dell’Akane che ha rapito… forse intendeva solo sottrarla alla pazzia di Ranma, con metodi poco ortodossi, lo ammetto, ma…” 
“Adesso basta, papà.” Gli rispose Nabiki. “Non insultare ancora la mia intelligenza… e la tua. I fatti parlano da soli.” 
Genma si mise a ridacchiare. “Ascolta tua figlia, Tendo. Sospettava di me da prima di questa notte, né mi aspettavo qualcosa di diverso, dopotutto.” 
Soun avvertì un groppo alla gola. Il suo più caro amico stava forse confessando…? 
“Lieta della sua stima.” Disse Nabiki. “Ma ammetto che ho cominciato a mettere insieme gli ultimi pezzi solo oggi stesso, verso cena. Avevo… diciamo parlato vivacemente con Ukyo e, a un certo punto, lei mi ha rammentato che quella di sistemarsi a casa nostra non era stata una sua iniziativa. E guardacaso chi è che aveva avuto la brillante idea…?” 
Proseguì, con un tono più grave: “Ammetto anche di aver sospettato a lungo della vecchia Cologne, che qualcosa ci ha indubbiamente nascosto. Ma la mia impressione è che lei, zietto, non sia mai stato la sua pedina inconsapevole. Anzi, credo perfino di aver compreso le vere intenzioni sue e di Ukyo… ma le farebbe più onore dircele di persona, non pensa?” 
Genma si alzò in piedi. “Hai calcolato proprio tutto, signorinella. Va bene, a questo punto tanto vale che parli io. Ma prima, qualcuno potrebbe trovarmi gli occhiali?” 
In quel momento Soun sentì il dolore e il palmo della mano sanguinargli sotto la pressione delle schegge di vetro. 
  
  
Si svegliò, abbagliata, ansimante e col cuore che le pulsava frenetico fino in gola. 
Un incubo? Ma la stanchezza che provava era più simile a quella di chi aveva corso a perdifiato i cento metri. Anche il caldo sudore che le colava lungo le tempie e per le guance, in tanti rigagnoli sottili, pareva deporre a favore della seconda ipotesi. 
Uno di questi le inumidì l’angolo del labbro e, per istinto, lo leccò. 
Un momento… ma è tè?! Tè tiepido?! 
“Fermati, ho detto!” 
Ukyo trasalì, riconoscendo la voce roca. Accennò a dire qualcosa, ma in quel momento la vista si abituò del tutto al fascio della torcia elettrica e si ritrovò a un palmo di naso due lenti minacciose, che sembravano squadrarla con una severità inaudita. Riconobbe subito anche il loro proprietario e capì dove si trovava. 
Udì il rumore della porta scorrevole che si spalancava di scatto e, contemporaneamente, la piccola luce si spense, facendole perdere ogni punto di riferimento. 
Avvertì una stoffa pesante cadere sopra di lei, e poi due grosse braccia che la spingevano a forza in direzione del proprio futon, al quale si aggrappò tentoni, tastando il pavimento. 
Un’altra presenza aveva fatto il proprio ingresso nella stanza: urtò freneticamente le mani contro la parete finché un interruttore scattò e l’illuminazione artificiale riempì l’ambiente. 
Cosa ho combinato…?! 
Ukyo si mantenne nascosta sotto la propria coperta, come se potesse fuggire dalla realtà facendo semplicemente finta di dormire. Espose una parte del volto solo quando sentì il mugolio della madre di Ran-chan indicare il suo risveglio. 
“Ranma… cosa è successo?” 
“Vogliamo una spiegazione.” Disse Genma, che esibiva con disinvoltura lo stesso thermos con cui poco prima doveva averla bagnata. “Si può sapere che cosa ti salta in mente, di svegliarci con tutto quel baccano a quest’ora della notte?” 
Ukyo si affacciò un po’ di più, per scorgere l’aspetto sconvolto di Ran-chan. 
Perché è ridotto in questo stato? Che cosa gli ho fatto, mentre ero Akane? Non ricordo! Perché non riesco a ricordarlo?! 
“Io… io…” 
“Tu cosa? Parla!” 
“La stavo inseguendo… l’ho vista entrare… Perché diamine non l’avete fermata?!” 
Si sforzò di pensare. Dunque si era fatta vedere da lui solo per fuggire via? Come aveva potuto? E adesso cosa poteva mai fare? Incrociò lo sguardo di Genma, il cui messaggio era inequivocabile. 
Nega! Nega tutto, perfino l’evidenza! 
“Ran-chan…” Mormorò tremando. “Chi avremmo dovuto fermare?” 
Genma aggiunse immediatamente: “Qui non è entrato nessuno. Non lo vedi?” 
Fu solo lei, tuttavia, a vedere un’ombra insinuarsi negli occhi di Ranma. Avvertì lo sgomento, la confusione di chi stava iniziando a dubitare della propria sanità mentale. 
No… per favore, no! Non doveva andare così! Lei voleva solo salvarlo! 
“Non saprei a chi altri rivolgermi. Sei una brava ragazza e vuoi bene a Ranma. Ora io ti chiedo: saresti pronta a qualunque cosa per salvarlo da se stesso?” 
Già, proprio così. Genma si era rivolto a lei, alla fidanzata carina. Era il suo momento di essergli vicino, questo. Fingendosi Akane, almeno il suo spirito o fantasma, avrebbe consolato Ranma, lo avrebbe perdonato per non essere riuscito a salvarla… e soprattutto lo avrebbe convinto a perdonare se stesso, e a tornare a vivere. Tanto le bastava: anche se lui non la ricambiava, la felicità di Ran-chan era la sua… e in questo modo Ukyo avrebbe potuto dimostrare anche a se stessa la sincerità del proprio amore. 
Sincerità?! Chi voleva prendere in giro? Dove stava la sincerità in questo ammasso di bugie e inganni, nell’aver accettato un patto del genere, nell’essere proprio venuta a patti con quel demone infingardo di Saotome, con quel… con l’uomo di cui non si era vendicata, lo specchio di se stessa, quella parte di lei propensa ai trucchi e al compromesso: la sua cattiva coscienza. 
L’unica verità era che lei si era comportata come una sciocca egoista, una presuntuosa senza limiti. 
Basta! Basta rievocare! Fa male! 
Però… 
Fa tanto male! 
Il suo amore non era ricambiato, non era puro e casto: ma era sincero. 
“Scusami, Ukyo… mi dispiace tanto.” 
Si voltò di scatto, incredula. 
“Tu?!” 

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Capitolo 9
*** Speranza ***


Capitolo 9 
“Speranza”

  
  
Ansimava, cercando di raccogliere quanta più aria possibile nei polmoni. Eppure sapeva benissimo che non aveva alcun senso, che lei stava sognando tutto quanto e che questo sforzo, piuttosto, l’avrebbe svegliata. Sul serio, questa volta. 
Lo sapeva, e non desiderava altro. Allo stesso modo era consapevole che i suoi sensi di colpa si stavano divertendo a torturarla – punirla – per le tante stupidaggini che aveva commesso, e che lei si era meritata tutto questo, ma semplicemente ora non ne poteva più e si sentiva vicina al punto di rottura. 
Lei, che si era sempre vantata di essere una ragazza forte e indipendente, di non aver mai dovuto contare su niente e nessuno, percepiva solamente la voglia irrefrenabile di piangere e di trovare delle braccia che la sostenessero e la consolassero. 
Calma, doveva rimanere calma. Già, ma come poteva?! Certamente, non dopo che il proprio rimorso, o subconscio, o qualunque cosa fosse, le stava infliggendo un simile colpo di grazia. 
Pregò che la figura che le aveva appena rivolto la parola, l’unico elemento del sogno a non essersi ancora dissolto, potesse fare la stessa fine della camera dei Saotome e di Ran-chan e di tutto il resto nel giro di qualche istante, ma quando ciò non si verificò sentì ogni speranza abbandonarla e lo sconforto impadronirsi di lei. 
“Mi dispiace.” Le ripeté. E Ukyo volle gridare. 
Calma. Poteva ancora farcela, fronteggiare una volta per tutte i suoi demoni interiori. Forse allora si sarebbe finalmente svegliata. 
“Aka… Akane-chan…” Balbettò, con una voce più lieve e acuta di quel che avrebbe desiderato. 
La ragazza con i capelli corti e la divisa del Furinkan, tale e quale a come lei se la figurava di solito, annuì con fare timido. 
“Sì, Ukyo. Sono io.” 
“Per… per favore, dimmi una cosa…” Un ultimo sforzo. E sarebbe tornata alla realtà. “Sei veramente tu, Akane in carne e ossa”, deglutì, “o sei solo… una costruzione della mia mente?” 
In quel momento, senza alcuna ragione, Ukyo desiderò ferventemente di non essere in un sogno, che il sogno fosse stato il patto stretto con Genma Saotome, che Akane non fosse mai morta e che il vero incubo fosse ormai alle proprie spalle. 
L’interlocutrice chinò il capo, guardando le proprie mani e il proprio corpo, come per studiarsi attentamente e meditare una risposta. Infine aprì bocca, prima che Ukyo potesse implorarla di non rispondere. 
“Ecco… immagino la seconda cosa che hai detto.” 
A quel punto Ukyo finalmente gridò, finché anche quell’apparizione si dissolse. 
  
  
Le parole giungevano. Ma non voleva udirle. 
“…e poco prima di partire dalla Cina ho preso degli accordi con la guida di Jusenkyo: una volta che il livello delle fonti fosse tornato alla normalità, avrebbe dovuto spedire le acque maledette da me indicate al ristorante Nekohanten. Non potevo certo dare l’indirizzo di casa Tendo, altrimenti avrei dovuto rispondere a molte domande. In questo modo, invece, la sola a conoscenza dell’esistenza della terza fiasca, quella contenente l’Akanenichuan, è stata Obaba: ma lei cosa avrebbe dovuto dire? Dopotutto era più semplice pensare a una svista della guida, o al massimo a un errore mio che non so leggere il cinese. Naturalmente la vecchia mummia non poteva leggermi nel pensiero e come immaginavo, se ha sospettato qualcosa si è tenuta certi pensieri per sé.” Concluse. Il suo tono suonava come compiaciuto, quasi che questa confessione fosse per lui un motivo di vanto. 
Ranma sentiva il proprio stomaco sempre più sottosopra, eppure continuava ad ascoltarlo. Ma non lo guardava in faccia: non poteva concedergli perfino questa soddisfazione e, tra l’altro, non avrebbe potuto farlo anche se ne avesse avuto l’intenzione. Seduto, ma abbandonato completamente in avanti e verso terra, se non fosse stato per qualcuno che lo stava sorreggendo per le spalle, non osava più muovere un muscolo per non sentire altro dolore; dubitava che gli fosse rimasta una sola parte del corpo sana e stava cominciando a invidiare il braccio che Tofu gli aveva anestetizzato. 
“Perciò conferma che Cologne sarebbe estranea a questa storia.” Disse una voce asciutta, che associò con qualche istante di ritardo a Nabiki. “E qual è il ruolo di Ukyo, invece?” 
Fissò con più forza il cumulo di terriccio, sempre lo stesso, sperando di estraniarsi dalla follia che lo circondava. Tuttavia le parole continuavano a farsi strada nella sua testa, finché fu costretto a pensarle coscientemente una dopo l’altra. 
“Già, Ukyo… Quando noi ‘maledetti’ ci siamo distribuiti le nostre cure, fingendo di attingere dalla Nannichuan ho invece travasato un po’ di Akanenichuan in una borraccia. Poi mi sono recato in un certo okonomiyaki-ya e ho convinto la sua proprietaria a usare quest’acqua per… diciamo recitare davanti a Ranma la parte di Akane. In ultimo, sono tornato a casa dei Tendo e vi ho proposto di invitare Ukyo a dormire da noi per qualche giorno, con la scusa che un volto amico non avrebbe potuto che fare bene al ragazzo. Il resto sarebbe toccato a lei… ma più di qualcosa è evidentemente andato storto, prima che potessimo calare il sipario.” 
Parte. Sipario. Una messinscena. Solo una messinscena. 
E lui lo aveva sospettato, lo aveva intuito. 
E dire che, per un attimo… per un attimo, avrei potuto giurare… 
“Ma siete tornati in Giappone, ormai, da diverse settimane. Si può sapere da quanto tempo va avanti questa storia, signor Saotome?” La voce di Tofu. 
“Molto meno di quanto crediate. Io e Ukyo ci siamo decisi dopo varie esitazioni: Ranma non usciva di casa da giorni, e non c’era un vero momento ideale per mettere in atto il piano. Il nostro primo tentativo risale a ieri notte, quando Ukyo si è bagnata con un po’ d’acqua fredda ed è scesa a parlargli.” 
Rinnegando il suo proposito di prima, Ranma alzò il torace di scatto, lasciandosi avvolgere dal dolore come se potesse distrarlo a sufficienza. Avvertì anche le mani che lo sorreggevano assecondare docilmente il suo movimento, non opponendogli la minima resistenza. 
“Parlargli?” Replicò il timbro sferzante di Nabiki. “Non mi risulta che Ranma e Ukyo abbiano parlato. Le conversazioni, normalmente, non si svolgono con uno dei due interlocutori che scappa e l’altro che lo insegue come un invasato.” 
“Io… non so...” 
“Fatemi capire!” Strillò una nuova voce. “Quando ieri Ranma ha detto di aver visto Akane… anche allora l’aveva vista sul serio? E anche quella volta si trattava di Ukyo?!” 
“Sì, Tendo. Forse… si era spaventata, o pentita di quanto stesse facendo, questo non so dirlo. Ero rimasto nella camera degli ospiti a vigilare, contenendo la mia aura al minimo con la tecnica dell’Umisen-ken perché Nodoka non si svegliasse, e pronto nel caso la situazione avesse preso una brutta piega. Così è stato, dato l’urlo di Ranma… e quella scriteriata che, tra tutti i posti possibili, andava a rinchiudersi proprio nella nostra stanza. Non sembrava più lei. Per limitare i danni ho dovuto agire con rapidità e destrezza, da vero artista marziale.” 
“Da vero artista… ma hai la minima idea di ciò di cui stai parlando, Saotome?! Come puoi paragonarti a un artista marziale, quando ti manca l’unica qualità fondamentale: l’onore! Lo so che sei caduto in basso più di una volta, ma questo! Si può sapere cosa hai complottato, tenendoci tutti all’oscuro? Tradendo tuo figlio, la fiducia delle persone a te più vicine… e la nostra amicizia…” 
“Ti ho detto più volte di fare silenzio, papà. I bei discorsi sull’onore e i buoni sentimenti possono aspettare.” 
“Pratica come sempre, o dovrei dire ‘cinica’? Noi due non siamo così diversi, Nabiki.” 
“Farò finta di non averla sentita. Prosegua. Cos’è accaduto precisamente stanotte?” 
“Niente di particolare. Semplicemente, l’ultima occasione. Certo non poteva essercene un’altra ancora, non dopo la fuga del ragazzo e le vostre reazioni allarmate. A essere sincero, non mi fidavo più di Ukyo e avevo pensato di rinunciare: dopotutto aveva perso il suo sangue freddo quando più ce n’era bisogno, poi si era lanciata all’inseguimento di Ranma ma solo per tornare il mattino dopo a mani vuote, dopo aver tentato inutilmente di farlo ragionare. O almeno così diceva, come potevo fidarmi ancora? Ma poi… mi ha preso da parte, e l’ho vista pienamente in faccia: era sconvolta, irriconoscibile. Mi ha giurato di non ricordare perché fosse scappata, ma che non sarebbe successo di nuovo. Avevo già la sua parola, no? Così mi ha pregato di riprovarci, un’ultima volta, solo una. Quando stasera abbiamo iniziato le ricerche, lei si è separata dai vostri gruppi e io ho finto di volermene restare a casa e invece l’ho raggiunta in un secondo momento. Avremmo rintracciato Ranma prima di voi e lei avrebbe assunto ancora l’identità di Akane per…” 
“Per fargli credere di essere impazzito?” 
“No, affatto!” La replica del suo vecchio a Soun fu immediata e questa volta il tono tradiva un’inflessione di panico. 
“E allora cosa?” Domandò Nabiki. 
“Io non lo so esattamente. È solo che pensavo… che Ranma si stesse uccidendo con le sue mani e che, in qualche modo, solamente Akane avrebbe potuto convincerlo a mettersi il cuore in… ma non serve che mi giustifichi, non potreste comprendere! Che ne potete sapere voi di cosa si prova a vedere il proprio unico figlio, l’unica parte di voi che vi sopravviverà, l’unica cosa buona che abbiate mai fatto in tutta la vita ridursi a… No, basta così!” Borbottò, abbassando la voce. “Sono solo un vecchio idiota, e vi basta sapere questo.” 
Ranma girò lo sguardo e incontrò la figura del padre. Lo fece, dopo ciò che si era ripromesso. Ma non era stato un gesto volontario, si giustificò. 
Altrettanto involontariamente pensò che senza occhiali sembrava un’altra persona e che, per quanto strano, gli pareva di vederlo ora per la prima volta. 
Nessuno aprì bocca e il suo vecchio, che pareva aver esaurito quanto avesse da dire, riprese: “Ma Ukyo… non portatele rancore per quanto accaduto. Per lei non dev’essere stato facile partecipare a tutto ciò, se ha mandato a monte ogni cosa una seconda volta. Quella ragazza deve aver già vissuto il suo inferno personale.” 
Le mani appoggiate a lui tremarono, scuotendolo leggermente. Nel contempo, Ranma udì dei singhiozzi provenire dalle sue spalle. 
In quel momento, non avvertì più frustrazione, né rabbia. 
Solo una sensazione di vuoto, di stanchezza. 
Piangi, Konatsu… piangi anche per me. Io ormai ho esaurito le lacrime… 
  
  
Come, come?! 
Come aveva potuto? Saotome, il suo migliore amico. 
Lo aveva pregato di essere più indulgente con suo figlio, quando proprio lui era responsabile di aver condotto Ranma sull’orlo della pazzia. E si era preso gioco di un povero scemo di nome Soun Tendo, un ingenuo che credeva nell’amicizia. Si era sempre preso gioco di lui. 
“Ma tu pensi anche troppo, amico mio. E pensare troppo distoglie l’attenzione dalle soluzioni più semplici, quelle che abbiamo a un palmo di naso”. 
Gli aveva perfino confessato in faccia la verità. Quanto doveva aver riso, alle sue spalle. 
Non gli importò di udire le sue parole di autocommiserazione. 
Nulla avrebbe potuto sanare questa ferita. 
  
  
Presto, si disse. Non aveva un secondo da perdere. O almeno questo era quanto gli era stato ripetuto più e più volte finché, ancora frastornato e forse leggermente intimidito, aveva deciso di assecondarla e uscire dal locale. In ogni caso, sperò che non fosse così: non dopo il tempo che aveva sprecato. 
Pedalò con maggior foga, maledicendosi per la propria stupidità. Si era diretto a colpo sicuro verso casa dei Tendo, aveva bussato, urlato a gran voce, prima di rendersi conto che era deserta. Un passante con il volto rosso aveva schiamazzato a sua volta, rimproverandolo per il baccano al quale lui e gli altri “giovani d’oggi” si dedicavano in piena notte: prima i fuochi d’artificio di quei ragazzacci del Furinkan e ora questo, aveva brontolato con un’aria eccessiva di sdegno. 
Solo allora Mu Si rammentò finalmente di aver udito un distante boato, quando lavava i piatti, almeno più di un’ora prima, e che al momento non aveva associato a qualcosa di particolare. Ma sbagliava, nulla a Nerima poteva essere lasciato al caso. Interrogato con non poche difficoltà quell’ubriacone, si era diretto a perdifiato verso il suo nuovo traguardo. 
Sarà stato Ranma? O Ryoga? Non importa, ciò che conta è trovare qualcuno di loro. Se è come penso, potrei anche trovarli tutti. 
Più nel dettaglio, lei gli aveva ordinato di rintracciare Genma Saotome. E la ragazza, che con ogni probabilità avrebbe visto al posto suo o assieme a lui. Mu Si ignorava come mai avvertisse tanta voglia di cooperare, dopotutto lo aveva tenuto all’oscuro di ogni cosa: c’era, tuttavia, qualcosa nel tono con cui gli si era rivolta, tale da mettergli addosso una particolare angoscia. 
Shan Pu. 
Solo per lei si era sentito disposto a fare il giro del mondo, scalare qualunque montagna, se solo questo fosse stato il suo desiderio. Almeno era stato così fino a stanotte. 
Shan Pu, che lui per un lungo attimo pensava di aver riconosciuto nella figura che lo aveva aiutato a rialzarsi, simile a un angelo salvatore intervenuto per liberarlo dalle angherie della vecchia. 
E invece si era ritrovato di fronte proprio lei, Cologne, e da quel momento era più confuso che mai. 
Lei, che lo aveva colpito facendogli perdere i sensi, era rimasta nella stanza per aiutarlo a riprendersi. 
E se quella megera avesse veramente avuto qualcosa di importante da tenergli nascosto, qualcosa che fosse collegato alla telefonata e magari a uno dei classici piani di bisnonna e bisnipote per conquistare Ranma e portarselo nel villaggio esibendolo come un trofeo di caccia, allora che senso aveva rivolgersi proprio a lui? 
Non lo aveva, punto. A meno che non si trattasse di una ‘falsa missione’, con l’unico scopo di depistarlo mentre la vecchia perpetrava liberamente i propri piani. Ma si sentiva quasi certo di poter escludere questa ipotesi: Cologne si sarebbe inventata una scusa molto più semplice, e del resto una bugia come questa non avrebbe mai fatto il suo gioco, al contrario. 
Il suo istinto, infine, tagliava corto e lo incitava a sbrigarsi. 
Pedala, Mousse, s’impose, storpiando apposta il proprio nome e fingendo che la voce non provenisse dalla sua coscienza ma fosse quella di Shan Pu. 
  
  
Ukyo si guardò intorno, con aria smarrita. 
Lo scenario che la circondava era di nuovo cambiato ed evidentemente non si era svegliata nemmeno questa volta. Il paesaggio era appunto ‘da sogno’, un po’ per le pozze e le canne di bambù che le comunicavano una particolare sensazione di immobilità, un po’ per la sottile cappa di nebbia che rendeva il tutto più simile a un dipinto appena accennato con qualche mano di pennello, piuttosto che alla realtà. Ma una voce interiore le diceva che quel luogo esisteva, e che lei ci era già stata. Proprio lei, che non aveva mai visitato regioni diverse dal Kansai e dal Kanto. 
“Dove sono?!” Chiese, anche se non riconobbe la voce come la propria. 
“Questo è Zhou Chuan Xiang. Nella tua lingua Jusenkyo, il campo d’addestramento maledetto.” 
Si voltò, e scorse la persona che le aveva rivolto la parola: una donna, sicuramente più grande di lei, bardata con una specie di uniforme, forse da guerriero, che tuttavia faceva sfoggio di diverse decorazioni, un pendaglio, perfino un raffinato piumaggio, e non mancava di sottolineare le sue abbondanti curve. Ogni discorso estetico fu però dimenticato, nel momento in cui Ukyo s’avvide che le piume non facevano parte del vestito ma proseguivano in due grandi ali. 
Chi – o cosa – sei, volle chiederle. Ma dalla sua bocca uscì solo un’esclamazione: “Kima!” 
Già, perché questo era il nome della donna, Kima. Ma dove l’aveva mai udito, se era la prima volta che la vedeva in vita sua? 
“Queste fonti possono trasformare chiunque vi si immerga in chi vi è caduto dentro per primo… e noi abitanti del monte Hooh, sin dai tempi più remoti, facciamo volontariamente uso della Nannichuan e della Niannichuan per celare il nostro aspetto e aggirarci in incognito tra gli esseri umani.” 
Jusenkyo. La Niannichuan. Era la sorgente in cui era caduto Ran-chan. 
Ukyo si lasciò sfuggire un sorriso sarcastico. “Immagino che tu non mi abbia rapito e portato qui solo per raccontarmi questa storia, dico bene?” 
E all’improvviso quella situazione, quel dialogo, le parvero familiari. 
Possibile che stia ancora ricordando? Ma questi ricordi… non possono essere miei. 
“Tieni.” Kima le lanciò qualcosa tra le mani. Ukyo fissò l’oggetto, perplessa. 
“Una mia foto…?” Chiese. Ma non era vero. La foto non rappresentava lei. 
“Il nemico del sommo Safulan… o meglio, il nostro nemico… la teneva con sé.” 
Ranma… Ranma aveva con sé questa foto? 
Sentì il cuore batterle forte. Ranma aveva con sé una sua foto. 
No. No, non era così. 
Kima assottigliò lo sguardo, abbandonò la sua espressione fredda e, per la prima volta, assunse un ghigno malvagio. “Vedi, tutto lascia credere che il suo punto debole… sia tu.” 
A quelle ultime parole, sentì la terra sprofondare sotto i piedi. Ne fu letteralmente risucchiata, e si trovò di colpo avvolta e circondata dall’acqua, in una trappola mortale. 
Ranma… implorò, impossibilitata a tornare a galla. Ranma che la veniva sempre a salvare. Ranma che aveva con sé la sua… no, non la sua foto. Ranma non veniva a salvare lei. La persona raffigurata nella foto non era lei. 
Akane. Si trattava di Akane. 
È tutto sbagliato, pensò. Non poteva annegare in questo modo, lei sapeva nuotare, lei non era Akane. Io sono Ukyo, Ukyo! Agitò le braccia in un movimento disperato, cercando di tornare in superficie. Non poteva morire così. 
Io sono Ukyo! 
“Prendi la mia mano!” 
Chi aveva parlato, ora? Sentiva il peso del proprio corpo farsi insopportabile, le forze venirle meno e la vista annebbiarsi, così evitò di porsi domande e allungò il braccio verso l’alto. Qualcosa le strinse il polso e, facendo leva, la issò fuori dall’acqua. 
Acqua che svanì nel momento stesso in cui ne fu uscita, facendo la stessa fine di Kima, delle sorgenti e di tutto lo scenario di qualche istante prima. L’Akane che le stringeva la mano era adesso l’unico elemento palpabile ai suoi sensi. 
“Ukyo, mi dispiace tanto.” Mormorò, con aria addolorata. 
“Me l’hai già detto.” Le replicò seccamente. “Si può sapere dove siamo?” 
“Ti avevo detto anche questo… siamo nella tua mente, e immagino che tu stia ancora dormendo.” 
“Dormendo? Ecco cosa non mi torna, perché mai sto dormendo? Ora lo ricordo chiaramente, ero al Furinkan e stavo versandomi…”, troncò la frase, in preda a un’illuminazione, “l’acqua…” 
  
  
Quando la ‘bella addormentata’ iniziò a muoversi e a lamentarsi, Nabiki avvertì l’aria tornare a riempirsi di tensione. 
Indubbiamente, scoprire poco a poco la verità, come in un libro giallo, era stato più eccitante di doverla fronteggiare, come nella vita reale. 
Non che lei avesse delle colpe, sapeva di aver adempiuto il proprio dovere, per così dire: però non riusciva a trarre un motivo di orgoglio da ciò. Al contrario, un sapore amaro le permeava la bocca, e aveva solo voglia di tornarsene a letto e lasciarsi alle spalle tutto quanto. 
Tuttavia non poteva ancora mostrare agli altri il minimo segno del suo cedimento, non poteva abbassare la guardia. Non era ancora finita. Papà continuava a fissare negli occhi Saotome, quasi a volerlo uccidere con lo sguardo; la signora Nodoka, accompagnata da Kasumi e coperta dal piagnisteo di Konatsu, si era avvicinata a un Ranma fin troppo calmo ma non osava dire o fare qualcosa: come lei, sapeva che una parola sbagliata avrebbe potuto farlo scatenare di nuovo. 
Era stato imprudente far confessare lo zio Genma davanti a tutta la platea, e adesso il risveglio della cuoca di okonomiyaki avrebbe potuto soltanto peggiorare le cose. 
Il dottor Tofu aiutò Ukyo ad alzarsi. 
“Cosa…?” 
“Tranquilla, va tutto bene.” 
Tutto bene? Al dottore l’ottimismo non mancava di certo. E Ucchan non era la persona che avesse più bisogno di essere rassicurata. Ma tenne questi pensieri per sé e si limitò a osservare le reazioni della ragazza. 
“Sappiamo tutto, Ukyo.” Esclamò papà. 
A questo punto Nabiki si aspettava che avrebbe negato, o biascicato qualche risposta confusa. E invece, non fece alcuna delle due cose. 
“No. Ancora non sapete nulla.” Disse con decisione la cuoca di okonomiyaki. 
Punta sul vivo, fu lei stessa a risponderle. 
“Frase un tantino presuntuosa, da parte tua. Ma Saotome, qui, ci ha raccontato ogni cosa.” 
“Nemmeno lui sa cosa è successo. E neanch’io, fino a poco fa. Perché Akane è…” 
“Adesso basta! Risparmiaci l’ennesima bugia! Credi davvero che staremo qui ad ascoltare le tue storie?” 
“Allora ascolterete me!” Tofu l’aveva fulminata con uno sguardo duro e Nabiki non se la sentì di replicare. “Forse non l’avete notato, ma la trasformazione non ha modificato solo l’aspetto di Ukyo. Mi riferisco all’aura. Quello che sto percependo non mi piace per niente, è come se… ci fossero non una, ma due auree sovrapposte l’una all’altra. Ma questo non è fisicamente possibile. Se non lo vedessi con i miei occhi…” 
“È possibile”, disse Ukyo, “perché la seconda aura è quella di Akane. Della vera Akane.” 
In quel momento, la bicicletta di Mousse fece capolino nello spiazzo attirando la loro attenzione. 
“Vi ho trovato. E ho sentito abbastanza. Ora, dovete venire tutti con me.”


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Capitolo 10
*** Il prezzo da pagare ***


Capitolo 10 
“Il prezzo da pagare”

  
  
Per una volta, Mu Si voleva vederci chiaro. Appoggiatosi con la schiena contro una parete della sala, in posizione defilata, incrociò le braccia e cominciò a valutare la situazione. 
La scena che si profilava davanti a lui non era molto diversa da quella a cui aveva assistito diverse sere prima, anche se questa volta era notte fonda e non scorgeva alcuna traccia di Ryoga, sostituito dal dottor Tofu. Per il resto, di nuovo famiglia Tendo e compagnia si erano radunate intorno ai tavoli e, proprio come l’altra volta, tutti gli sguardi erano rivolti verso la vecchia, che dal canto suo stava appollaiata sopra un tavolino più distante. 
L’unica differenza che risaltava ai suoi occhi era l’abbigliamento di Ukyo Kuonji. Mu Si non aveva una grande familiarità con la cuoca di okonomiyaki ma, nelle occasioni in cui l’aveva incontrata, non aveva potuto fare a meno di notare il suo vestiario, così poco consono a una ragazza giapponese; adesso, stava invece portando l’uniforme scolastica del Furinkan, quella femminile che aveva visto tante volte addosso ad Akane Tendo. Era sicuro che questa stranezza si ricollegasse alla richiesta della vecchia mummia. 
Trova Genma Saotome. Oppure Akane. Sì, mi hai udito bene, non fare domande. Potresti trovarla al posto suo o assieme a lui. Se possibile, porta subito entrambi qui al ristorante. 
L’aveva soddisfatta, almeno per la parte riguardante Genma: certamente la presenza degli altri non corrispondeva a una volontà di Cologne, ma lui aveva pensato bene di procurarsi qualche ‘testimone’, specie dopo i discorsi su auree e trasformazioni che aveva udito mentre entrava nell’istituto trovandovi il gruppo al gran completo. Non che avesse capito poi molto dell’intera faccenda, ma ormai la sua mente aveva escluso l’ipotesi dell’ennesimo piano architettato dall’amazzone: no, la situazione appariva più complicata. A questo punto, ciò che lo turbava era piuttosto la telefonata di quella notte: non ne conosceva il contenuto, dato che Cologne era stata veloce a sottrargli la cornetta di mano, ma la voce, quella sì, l’aveva ascoltata e identificata fin dal primo istante. 
E, da quel che ricordava, la voce della guida delle Sorgenti Maledette non era mai stata premonitrice di buone notizie. 
“Allora, Obaba, si può sapere perché ci hai convocati qui con tanto tempismo?!” Quella frase così sgraziata, con suo stupore, era uscita dalla bocca di Nabiki Tendo. Passò ancora in rassegna le varie facce, dove stava Ranma? Eppure era sicuro che almeno lui fosse con loro. 
“Rispondetemi voi: chi ha usato l’acqua della fonte Akanenichuan?” Il tono di Cologne era duro ma non sembrava indispettito dall’irriverenza della ragazza. Mu Si interruppe la ricerca e spostò lo sguardo sul lungo bastone, che scorreva lentamente lungo i presenti. 
In quell’istante udì un verso di sorpresa, proveniente dal padre di Ranma. “Tu… tu come fai a saperlo?!” Protestò con veemenza. 
Lei incrociò lo sguardo con quello di lui, che Mu Si notò essere privo delle sue lenti, e Genma Saotome sbiancò nel giro di qualche secondo. 
“Stolto! Credevi di poter fare una cosa del genere a mia insaputa?” Gli disse. “Quando mi è arrivata la terza fiasca, inizialmente ho pensato a un errore. Tuttavia non ho voluto escludere alcuna possibilità, così vi ho tenuti tutti d’occhio quando avete attinto alle acque maledette… e non mi è sfuggito a quale fiasca tu abbia attinto. Ripeto la domanda: cosa hai fatto di quell’acqua? L’hai usata tu? L’hai data a qualcun altro? È stata versata su uno di voi?” 
Mu Si annui tra sé. La vecchia ha detto ‘Akanenichuan’. Come pensavo, questo spiega il contenuto della sua richiesta. Allora quello che si sono detti i Tendo prima… e la divisa che indossa Ukyo… significa davvero che… 
Nessuno rispose subito, ma la vecchia spostò la direzione del bastone, arrestandolo in direzione della cuoca. Ukyo Kuonji fece un passo in avanti, con aria insicura. 
“È… è così. Sono stata io a usare l’acqua maledetta.” Disse con voce flebile. “Ieri notte.” 
“Così è già accaduto.” Borbottò in risposta Cologne, che osservò la ragazza con un’espressione cupa e poi parve valutare tra sé le implicazioni di quell’affermazione. 
Un colpo di tosse forzato riscosse l’attenzione di tutti. “Sentite, io… penso proprio di averne abbastanza per stanotte. Vado a prendere un po’ d’aria qui fuori.” Biascicò il Saotome adulto, che grondava sudore ed effettivamente aveva l’aspetto di uno che non riusciva a respirare. Non era il primo cui gli occhietti accusatori della vecchia facessero quest’effetto, considerò Mu Si. 
“Solo un momento.” Lo riprese Nabiki, prima che si avviasse. “Papà, vai con lui e tienilo d’occhio. Ha creato abbastanza scompiglio, non c’è bisogno di… perseverare.” 
Soun Tendo sembrò voler obiettare qualcosa, poi ci ripensò e uscì assieme all’amico, dopodiché la vecchia si schiarì la voce ma venne anticipata. 
“In quanto a noi.” Ancora il tono pungente della giovane Tendo. “Parli come se fossi completamente estranea a questa faccenda, ma sapevi dell’acqua e non ne hai fatto cenno.  Ti conviene dosare le tue parole, e non mentirci più.” 
Mu Si deglutì. Da dove veniva la spavalderia di quella ragazza? Sapeva che Nabiki Tendo non si lasciava intimorire facilmente, ma tanto ardire non si addiceva nemmeno a lei, di solito così controllata. E ha appena dato un ordine a suo padre. 
“A dire il vero”, rispose con calma la vecchia, “gli unici ad aver tenuto nascosto qualcosa siete stati voi. Io ho potuto soltanto osservare e trarre delle conclusioni. E fino a stanotte, non mi ero resa conto della loro importanza.” 
“Fino a stanotte. Che coincidenza bizzarra! E si potrebbe allora sapere com’è che un istante fa sei andata a colpo sicuro su Ukyo? Come avresti potuto sospettare proprio di lei, senza avere tu stessa un ruolo in tutto ciò?” 
“Questo”, disse, “è stato più facile di quanto tu creda, ragazza mia. Si dà il caso che stasera il suo ninja personale sia venuto a frugare nel ristorante, molto interessato alle fiasche conservate nello sgabuzzino. Sì, so tutto di Konatsu: la sua abilità è notevole ma non poteva prevalere sui miei decenni di esperienza. E so anche che questo povero kunoichi maschio non è il tipo da prendere l’iniziativa, era chiaramente stato mandato da qualcuno… e perciò l’ho lasciato fare.” 
Nabiki non fiatò, ma l’espressione sorpresa che il suo sguardo si lasciò sfuggire fu piuttosto eloquente. La vecchia sogghignò. “Così l’avevi mandato tu? Non che m’interessi.” 
“Nemmeno a noi.” Nabiki provava chiaramente a riguadagnare la posizione di vantaggio. “È tardi e abbiamo tutti sonno, sarai così cortese da non girare intorno al punto?” 
Ukyo, finora così dimessa, s’inserì nel discorso. “So io cosa Obaba sta cercando di dirci. Quando mi sono versata quell’acqua, non ho soltanto assunto le sue sembianze. Akane è... dentro di me. Le ho potuto parlare, la sento ancora nella mia testa.” Sussultò, come realizzando di aver detto la cosa sbagliata al momento sbagliato. “Non sono pazza! Dovete credermi!” 
“Tu fai silenzio.” La fulminò la giovane Tendo. “Come ti ho detto prima, non abbiamo intenzione di ascoltare un’altra delle tue patetiche…” 
“Ma certo, avrebbe senso!” Esclamò Tofu. Volgendo lo sguardo, Mu Si lo vide inginocchiato, intento a medicare un Ranma seduto sul pavimento, entrambi parzialmente nascosti dalle sagome in piedi di Kasumi e della signora Saotome. Capì all’istante come mai non avesse individuato subito il proprio rivale: non avvertiva alcuna traccia dello spirito combattivo che era solito ricollegare alla sua presenza. 
Il dottore ignorò l’irritazione della ragazza che aveva interrotto e continuò: “Spiegherebbe il disturbo del ki che sto percependo in Ukyo. Non è ‘come se’… ci sono sul serio due auree, sovrapposte tra loro. Venerabile Cologne, ci può confermare che la seconda aura è quella di Akane?” 
“Dottore, non ci si metta pure lei! La verità è che…” 
“Nabiki, ora basta. Lascia che parlino anche gli altri.” La sorella maggiore aveva lasciato la sua posizione e l’aveva raggiunta alle spalle, per stringerla tra le sue braccia in un moto protettivo, forse, ma che, se non fosse provenuto da Kasumi Tendo, avrebbe osato definire… minaccioso. 
Nabiki tacque e la vecchia sorrise ancora, con aria soddisfatta. “Sì, confermo. Posso affermare senza ombra di dubbio che l’aura aggiunta che avete percepito appartiene ad Akane. E ciò è avvenuto per via dell’acqua della sorgente di Zhou Chuan Xiang.” 
  
  
Tofu comprendeva sempre di più. Durante i minuti trascorsi a curare le ferite di Ranma, aveva avuto modo, poco a poco, di rassicurarsi sulle condizioni del ragazzo e prestare maggiore attenzione alle parole dell’anziana amazzone. Ho annullato l’effetto del nervo che gli avevo stimolato, così potrà muovere di nuovo il braccio. Il resto non è così grave. L’aura è ancora alterata, ma è dovuto più alla stanchezza e allo stress di questi giorni che ad altro. Sebbene Ranma abbia sicuramente avuto un esaurimento nervoso, per fortuna non è ciò che temevo. 
Adesso la sua attenzione era concentrata sulle strane condizioni di Ukyo. Udendo Cologne parlare di Jusenkyo, sentì l’esigenza di chiedere ulteriori chiarimenti. 
“Si tratta dunque di un altro potere legato alle fonti maledette?” Domandò. “Pensavo che la loro unica proprietà fosse quella di riprodurre l’aspetto della prima persona che vi ci s’immerge.” 
Cologne scosse piano il capo. 
“Di norma è così, ma non sempre. Ad esempio, le fonti Nannichuan e Niannichuan non funzionano in questo modo… oppure adesso il consorte e gli altri, invece di essere guariti dalle maledizioni, sarebbero diventati delle ‘fotocopie’ del ragazzo cinese che diversi secoli fa annegò nella sorgente magica. Pertanto, no, le fonti non operano tutte nella stessa maniera.” 
“È vero.” La nuova voce fece sussultare sia Tofu che gli altri. “E poi io e Herb siamo caduti nella stessa sorgente, ma le nostre trasformazioni erano molto diverse.” Tutti si voltarono verso di lui, o meglio verso il ragazzo al suo fianco, che si era rialzato di scatto; del resto, quelle erano le prime parole pronunciate da Ranma da quando erano entrati. 
Tofu lo scrutò attentamente, di profilo: poteva scorgere una fiamma, che prima non c’era, luccicare nei suoi occhi. Una luce che lui conosceva bene. Anche la sua aura si era fatta molto più stabile. 
Un barlume di speranza. Pensò. È tutto quello che gli serviva. Chiaro, ora il suo spirito può di nuovo focalizzarsi su un obiettivo, e in un certo senso ciò gli è d’aiuto. 
“Precisamente.” Annuì Cologne. “Non avete assunto l’aspetto della ragazza cinese vissuta millecinquecento anni or sono, invece i vostri corpi hanno acquisito una forma distinta: non una a caso, ma la versione femminile di voi stessi. Tecnicamente parlando, la sorgente ha adeguato il proprio potere ai vostri spiriti vitali, modellando la trasformazione in conseguenza di questo legame.” 
“Perciò”, continuò Tofu, “nemmeno l’Akanenichuan apparterrebbe alla categoria classica?” 
L’amazzone socchiuse gli occhi e mugugnò, prima di rispondere. 
“Lo avevo sospettato e così, giorni fa, ho telefonato alla guida di Jusenkyo, che mi ha raccontato della particolare origine della fonte.” 
Mousse dovette aver intuito la sua confusione, poiché abbandonò la propria postazione e gli venne incontro. “Penso di dovervi spiegare. La sorgente fu creata dai nostri nemici”, disse, “scavando una nuova pozza nel luogo maledetto. Akane Tendo vi fu fatta immergere e, in seguito, una donna della stirpe del monte Hooh, di nome Kima, si bagnò nella fonte per assumere le sue sembianze e ingannarci… Tuttavia”, continuò leggermente a disagio, “non mi sembrava che in lei fosse avvenuto qualcosa di simile a ciò di cui stava parlando Ukyo.” 
“Proprio questo mi ha fatto pensare”, annuì Cologne, “che l’acqua usata per l’Akanenichuan fosse del primo tipo, tale da limitarsi a copiare l’aspetto. Anche questo tipo di acqua interagisce con lo spirito del ‘posseduto’, ma il legame è più debole e quindi insufficiente ad adattarsi del tutto al corpo: del resto, se così non fosse, si comporterebbe come una Niannichuan trasformando in donne tutti coloro che vi si bagnassero.” 
“Perciò Ukyo sta di nuovo mentendo.” Concluse Nabiki. 
“Sarebbe potuto essere. Ed è anche questo il motivo per cui non ho fatto parola di questa fonte, anzi ho subito accantonato ogni pensiero al riguardo. E invece avevo sottovalutato la situazione. L’ho compreso solo stasera, quando in seguito alla visita di Konatsu ho ripreso a indagare, fino a intuire la verità.” Cologne si schiarì la voce. “Ciò che è successo non dipende dalla Akanenichuan, bensì dall’acqua miracolosa di Jusendo. Meglio ancora… dalla combinazione di entrambi i fenomeni.” 
“Parla chiaro, vecchia!” Sbraitò Ranma in uno scatto improvviso, scagliandosi contro di lei e sollevandola per la veste. Tofu si morse il labbro per non aver previsto quella reazione e non averlo trattenuto. “Stai dicendo che Akane è davvero ancora viva? Che possiamo salvarla anche se…” Avvertì nitidamente la rabbia placarsi e far posto a quello stesso disturbo dell’aura che lo aveva preoccupato tanto. Sono uno stupido, considerò Tofu, scuotendo la testa. Adesso capisco di cosa si trattava. Ranma esitò, poi riprese: “Anche se… se io… non ho…” 
Cologne, con somma sorpresa degli altri, non si era sottratta al gesto del ragazzo. Guardò il giovane Saotome fisso negli occhi, ma con una profondità diversa da quella che aveva rivolto a tutti loro poco prima. 
“Consorte”, disse infine, “la verità è che tu ‘hai’. Tu hai fatto in tempo, quel giorno. Bagnasti il corpo di Akane con l’acqua miracolosa, e l’acqua funzionò: prova ne è che il corpo è rimasto integro fino ad ora.” 
Ranma rimase paralizzato, mollando la presa. 
“Sì, consorte. Tu eri riuscito a salvarla.” Ripeté Cologne. 
  
  
Genma inspirò a pieni polmoni. Il freddo pungente dell’esterno per lui era un refrigerio, adesso più che mai. Udendo un secondo respiro, accelerato, forse nervoso, si ricordò di non essere solo e si volse verso il proprio accompagnatore. 
“Tendo. Sei tu, vero?” Tra la penombra e la miopia, quasi non avrebbe potuto giurarlo. 
Non ricevette risposta, né la cosa lo disturbò. Avrebbe dovuto parlare molto, nei prossimi giorni: per adesso era riuscito a scampare a quella vecchia spugna essiccata, ma restavano i Tendo e, soprattutto, dubitava che Nodoka avesse trovato onorevole il proprio comportamento e sapeva bene che, a sua moglie, non era possibile sfuggire in eterno. In quanto a Ranma… almeno in questo caso, era certo che non avessero niente da dirsi. 
Non si sentiva pentito di quanto aveva architettato. Pazienza se era venuto tutto allo scoperto, pazienza se le cose non erano andate come se le era immaginate. Pazienza se aveva perso anche l’ultima briciola di rispetto che il figlio sentiva di dovergli portare, Genma riteneva di aver fatto di tutto e di più come genitore e di non aver altro da dare in quel ruolo. 
Il fine giustifica i mezzi: aveva condotto la sua vita intera seguendo alla lettera questo motto, e non vedeva perché sarebbe dovuto cambiare di punto in bianco proprio ora che era avanti con gli anni. I fatti, poi, gli avevano dato ragione anche questa volta: il ragazzo si era finalmente scosso dal suo torpore, stava solo a lui non ricadere nel suo stucchevole stato di depressione. 
Ma nessuno avrebbe compreso le proprie ragioni. Lo sapeva, era abituato anche a questo, gli stava bene così. Genma sospettava che non fosse ancora finita, lo strano sfogo di Ukyo e la convocazione di Obaba lasciavano presagire qualcos’altro. Ma qualunque cosa stesse succedendo non lo riguardava più; a nessuno, tantomeno Nodoka, importava realmente di lui, e sapeva che era ora di tornare nell’ombra. Dopo gli inevitabili ‘confronti’ dei primi giorni, tutti si sarebbero gradualmente dimenticati del vecchio panda, come sempre. 
Strinse le palpebre, cercando di mettere a fuoco la figura che continuava a stagliarsi davanti a lui in assoluto silenzio. Cosa ci fa ancora qui? 
“Fossi in te tornerei lì dentro.” Disse. “La vecchia sembrava sul punto di dire qualcosa di importante.” 
Soun sbuffò, avvicinandoglisi come per tenerlo sotto controllo. “Le mie figlie mi informeranno, di qualunque cosa si tratti… qualunque disastro tu abbia combinato con la tua idea sconsiderata.” La sua voce, così misurata, avrebbe perfino potuto ingannare uno che non lo conoscesse a fondo come lui. E che non fosse in grado di avvertire la sua aura crescere d’intensità. “C’è una cosa più importante, che non è possibile rimandare.” 
Genma sollevò un sopracciglio. “E sarebbe? Mi spiace avvisarti che non sono in vena di una chiacchierata.” 
“Puoi stare tranquillo, Saotome.” Fu la replica dell’amico di sempre, mentre assumeva la posa d’attacco. “Adesso tu e io combatteremo.” 
  
  
Ukyo sentì di nuovo le lacrime salirle agli occhi. 
No, non era da lei, ma come avrebbe potuto reagire diversamente a quella improvvisa sensazione di sollievo, a quel peso che le era stato tolto dalla coscienza? Akane è viva, pensò. La vecchia del Nekohanten stava confermando ogni cosa, dunque quanto accaduto poco fa non era un parto della sua immaginazione. Quel dialogo era reale. Akane è viva, pensò, e tutto si sistemerà. 
“Credimi, ti capisco”, le aveva detto Akane nel ‘sogno’, “anch’io sono confusa quanto te. Quando stanotte ho nuovamente sentito una voce… la tua voce nella mia testa, credevo davvero di essere impazzita e ti ho urlato di lasciarmi in pace. Poi il signor Saotome mi ha… ci ha assalite e fatte addormentare, ed è stato in quel momento: per la prima volta ho avvertito nitidamente la tua presenza. È stato tutto così improvviso e violento, non capivo e ho istintivamente cercato di ricordare, così senza volerlo ho messo in moto i tuoi ricordi.” 
“Va bene… almeno credo”, le aveva risposto Ukyo, “ma l’ultimo ricordo che ho visto non può essere mio, io non sono mai stata a Jusenkyo. Oppure è…” 
“Un ricordo che appartiene a me. Non volevi calmarti e ascoltarmi, così ho cercato di darti una prova… che è tutto vero, che non sono un tuo senso di colpa.” 
In quel preciso istante Ukyo si era svegliata, trovando di fronte a sé lo sguardo rassicurante del dottor Tofu e quello accusatore di Nabiki. Ma la voce di Akane non era cessata. E ancora adesso la udiva nitidamente. 
Sentendosi osservata da alcuni dei presenti, arrossì e si scosse dai propri pensieri. Vide Obaba scostare Ranma da sé con delicatezza, prima di riprendere a parlare. “La ragazza vi ha detto la verità. Quando ha usato su di sé l’acqua maledetta, non poteva sapere che Jusendo aveva interferito con i suoi effetti.” 
Tofu accennò: “Quindi, quella che Ranma ha visto, che tutti noi abbiamo visto… non era semplicemente Ukyo con le sembianze di Akane…” 
“Vedete”, disse Obaba, “quando veniste al Nekohanten la prima volta e mi raccontaste di come la fonte di Jusendo avesse reidratato Akane, qualcosa non mi tornava. Vi avevo parlato dell’immenso potere di quell’acqua, tale perfino da preservare un corpo umano dagli effetti della morte. Proprio per questo ero incredula che la ragazza non si fosse salvata, nonostante il consorte avesse usato l’acqua in tempo. Infatti, quando Akane ha chiuso gli occhi, la tamashii, ovvero la parte senziente della sua anima, si è separata dal corpo: ma ciò non comportava che non potesse farvi ritorno.” 
L’amazzone inclinò il capo. “Anzi, appena il consorte ha curato il corpo con l’acqua di Jusendo, il ricongiungimento sarebbe dovuto essere immediato. Pertanto, se così non è stato, significa semplicemente che qualcosa l’ha impedito.” 
“La tamashii di Akane aveva già trovato un’altra dimora.” Concluse il dottore, annuendo. 
“Già. La sorgente Akanenichuan. Anche se la fonte è del tipo semplice, che copia solo l’aspetto, il legame instaurato con lo spirito di lei che per prima vi era stata immersa è bastato ad attirarlo a sé nel momento stesso della separazione… e imprigionarlo al suo interno. Pertanto, sì, potremmo dire che sotto le sembianze di Akane c’era il corpo di Ukyo. Ma, nel corpo di Ukyo, c’era la vera Akane.” 
I presenti si alzarono dalle sedie, mentre quelli già in piedi cercarono di dire qualcosa. Obaba li seppe zittire con una semplice occhiata, tutti tranne uno. 
“Perciò”, disse Ran-chan, con voce incredibilmente calma, “esiste un modo per far tornare Akane. Per esempio, se noi ora bagnassimo Ukyo con l’acqua fredda…” 
La cuoca di okonomiyaki si morse istintivamente le labbra, avvertendo una stretta al cuore. Mi ha chiamato Ukyo, non Ucchan, non riuscì a impedirsi di pensare. È arrabbiato con me per quello che gli ho fatto? Già, come potrebbe non esserlo?! 
Ma non era tipo da piangersi addosso, decisamente: si sarebbe fatta perdonare, avrebbe guadagnato la propria redenzione agli occhi di Ranma. A qualunque costo. 
Obaba non aveva risposto subito. Il suo sguardo si era rabbuiato. “Non è così semplice. Io… devo dirvi ancora una cosa. L’effetto della fonte di Jusendo sta per esaurirsi: precisamente ciò avverrà fra poche ore, quando sorgerà l’alba. Passato quel momento, non sarà più possibile fare alcunché.” 
“Allora sbrighiamoci!” Ranma batté un pugno sul tavolo, con molta meno calma di prima. “Dopo tutto quello che ci hai detto, non può non esserci una maniera per salvarla. Sputa il rospo, vecchiaccia!” 
L’amazzone sospirò. 
“Un modo esiste. E, come ho detto, abbiamo tempo solo fino all’alba per attuarlo. Ma il prezzo da pagare… potrebbe essere troppo alto.” 
Un prezzo da pagare. Ukyo si lasciò sfuggire un sorriso amaro. Nulla poteva essere troppo alto, a suo modo di vedere, dopo ciò che aveva passato. 
“Parla!” disse, decisa. “Siamo pronti a qualunque cosa.” 
Obaba si voltò verso di lei, con uno sguardo indecifrabile. 
“Solo tu”, mormorò. “Dipende da te. Pensi veramente di essere disposta a tutto?” 
In una frazione di secondo, Ukyo passò in rassegna i sacrifici di un’intera esistenza. L’abbandono della propria femminilità, la rinuncia a una vita normale. I duri allenamenti, gli innumerevoli momenti di sconforto. Le promesse non mantenute, le vendette accantonate. L’orgoglio calpestato. 
“Non lo penso. Lo sono.” Rispose, sentendosi più sincera di quanto mai fosse stata. 
La vecchia annuì. 
“Ebbene, affinché Akane possa tornare in vita… tu, Ukyo Kuonji, dovrai morire.”

 

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Capitolo 11
*** Accettazione ***




Capitolo 11

“Accettazione”

  
  
Che cos’era la felicità? 
Se l’era chiesto parecchie volte, ma non aveva mai saputo trovare una risposta. 
La felicità era qualcosa con cui non aveva a che fare da tanti, troppi anni. Gli unici ricordi capaci di scaldargli il cuore riguardavano i suoi veri genitori e il bene che gli volevano; ma, per quanti sforzi avesse fatto per conservare gelosamente quelle memorie nello scrigno del proprio cuore, anch’esse si erano ormai ridotte a delle macchie vaghe e confuse, travolte da ondate incessanti di sofferenza e di stenti, di soprusi e di dispetti. 
La matrigna e le sorellastre avevano reso la sua vita un inferno e, poco per volta, Konatsu si era convinto che le cose dovessero andare in questo modo, che lui se lo fosse meritato per qualche motivo, probabilmente per essersi comportato male. D’altronde mamma e papà se n’erano andati, lo avevano abbandonato e, se davvero almeno loro gli avevano voluto bene, doveva per forza essere colpa sua: era lui a non essersi meritato quell’amore. 
Pertanto come poteva definirla, se non in negativo? La felicità, semplicemente, era qualcosa a cui Konatsu non era destinato. 
O almeno di questo era stato fermamente convinto fino a qualche tempo fa, quando aveva conosciuto la signorina Ukyo. Lei lo aveva strappato dalla terribile prigione familiare, dalle angherie della matrigna e dalle cattiverie di Koume e Koeda. Lei gli aveva offerto una nuova prospettiva di vita, una possibilità. E poi… 
Poi, anche quel mondo era andato in frantumi, senza preavviso. Era stato tutto così veloce: la visita del padre del signor Ranma, la reazione sconvolta della signorina Ukyo. Ogni speranza di felicità si era dissolta, di nuovo. 
Tuttavia Konatsu ne aveva avuto un assaggio e il sapore non era sbiadito, stavolta, ma vivo e pungente: così adesso rinunciarvi era perfino più doloroso. 
“Solo tu. Dipende da te. Pensi veramente di essere disposta a tutto?” 
“Non lo penso. Lo sono.” 
“Ebbene, affinché Akane possa tornare in vita… tu, Ukyo Kuonji, dovrai morire.” 
A quelle parole il cuore gli si era spezzato in due. 
Quando aveva accettato la proposta della signorina Nabiki, l’aveva fatto abbandonando ogni esitazione, convinto che non rimanesse nulla da perdere, senza la minima idea che la situazione potesse addirittura peggiorare: ora non poteva fare a meno di dirsi di aver contribuito in prima persona a quel disastro. 
Però… Non era di certo sua intenzione, eppure un pensiero, ormai ricorrente in quei giorni e sicuramente il più egoistico e arrogante che avesse mai elaborato, che il cielo avesse pietà di lui per questo, si fece di nuovo strada. Konatsu, diversamente dal solito, lasciò la sua mente libera di scandire ogni singola parola. 
Non voglio perdere tutto un’altra volta. 
“Non lo faccia!” Gridò, scoprendo solo allora di aver già brandito da diversi secondi il proprio kunai, l’unica arma che era riuscito a disimpegnare nelle ultime settimane con lo stipendio guadagnato all’Ucchan, e avvertendo un inedito sentimento di rabbia scorrere nelle proprie vene. 
  
  
Ranma non poteva quasi credere ai propri occhi. 
“Konatsu…” Si limitò a mormorare Ucchan, sorpresa almeno quanto lui. 
Il kunoichi aveva puntato un pugnale in direzione della vecchia e assunto la posizione di combattimento, badando nel contempo a fare scudo alla padroncina con il proprio corpo. “Mi perdoni… perdonatemi tutti, ma io non posso permetterlo! Chi vorrà anche solo avvicinarsi alla signorina Ukyo dovrà passare sul mio cadavere!” 
Questa frase lo spiazzò ancora di più, portandolo quasi a dimenticare le parole precedenti dell’amazzone. Non ebbe nemmeno il tempo di considerare la reale portata degli ultimi eventi, che scorse Obaba avvicinarsi ai due, incurante e minacciosa al tempo stesso. 
“Interessante… saresti disposto a tanto, pur sapendo che potrei prenderti alla lettera?” Con un giro del bastone, tanto rapido che Ranma stesso fu appena in grado di intravedere il movimento, la vecchia colpì la mano di Konatsu, disarmandolo. “Kunoichi di grande talento o no, con me non avresti alcuna speranza.” Sibilò. 
Il legno si spostò ancora, arrestandosi a uno spazio infinitesimale dal collo del ragazzo, teso come una lama affilata. E forse altrettanto pericoloso, nelle mani di Obaba. 
Il kunoichi però non si mosse di un muscolo, lasciandosi fissare negli occhi senza distogliere lo sguardo nemmeno per un momento. Se la vecchia non intendeva fare sul serio, cosa di cui Ranma non era nemmeno troppo sicuro, non nutriva invece alcun dubbio che Konatsu non stesse scherzando affatto e che all’occorrenza sarebbe stato capace perfino di immolarsi. 
E gli altri? Nessuno diceva qualcosa? Nabiki? Tofu? Mousse? Si stavano limitando a fissare la scena, come impietriti. Come lui. Non andava affatto bene. 
La tensione crescente spinse Ranma a scuotersi e a pararsi lui stesso davanti alla vecchia. Le gambe gli vacillarono appena, ricordandogli la stanchezza che aveva in corpo, ma provò a non darlo a vedere esibendo un tono aggressivo. 
“Basta, Obaba! Si può sapere che ti passa per la zucca?! Cosa diamine vorresti fare?” La domanda era meno articolata di quanto intendesse, ma non era casuale. Non aveva creduto nemmeno per un istante a quella specie di minaccia di morte rivolta a Ucchan, ma voleva assolutamente comprendere quale fosse, ora, il nuovo gioco di quella cariatide pluricentenaria. 
La vecchia non s’indispettì, come si aspettava. Al contrario, abbassò finalmente il bastone e indietreggiò addirittura di qualche passo. 
“Io nulla.” Borbottò, ridacchiando con un tono che non aveva nulla di divertito. “La scelta è di Ukyo, solo lei può decidere se salvare Akane… e pagarne il prezzo.” 
Ancora con questa storia? Il fatto stesso che Obaba prospettasse un modo per salvare Akane, quando fino a cinque minuti prima non scorgeva alcuna speranza, infondeva a Ranma un nuovo vigore, ma gli bastò udire la parola ‘prezzo’ per ricordare il resto e lasciare che un brivido gli percorresse la spina dorsale. 
“Spiegati con parole comprensibili.” Sibilò. 
L’interlocutrice annuì, senza mutare la propria espressione. 
“È per via dell’Akanenichuan. Vi ho detto che la sorgente ha attirato a sé la tamashii, ovvero la parte senziente dell’anima di Akane: pertanto, quando Ukyo si è versata quell’acqua, il liquido ha fatto da tramite e la tamashii è ora nel suo corpo.” 
“Un… un momento, non capisco.” S’intromise una nuova voce. Era quella di Nabiki, priva però della saccenza di qualche minuto prima. Anzi gli parve che avesse perfino fissato per un attimo Kasumi, prima di proseguire, ma doveva aver visto male. “Se è come dici, ciò varrebbe anche per tutte le altre persone che cadranno nella sorgente. Anzi, quella Kima di cui parlavate poco fa non vi si era già immersa? Non avevate detto proprio così? E dunque perché a lei non è successa una cosa simile?” 
“Questo lo posso spiegare io.” Fu Mousse a prendere la parola. “Kima ha usato le sembianze di Akane Tendo prima che la vera Akane fosse ridotta in fin di vita e bagnata con l’acqua miracolosa di Jusendo. Non ha fatto uso della trasformazione durante la battaglia finale, né vedo perché avrebbe dovuto farlo dopo.” 
“Tra l’altro”, puntualizzò Obaba, “la guida delle Sorgenti Maledette mi ha raccontato al telefono che la stessa Kima, successivamente alla partenza del consorte e degli altri, è tornata a Jusenkyo e si è bagnata di nuovo nella Niannichuan neutralizzando gli effetti della fonte di Akane. Chiaramente non aveva più interesse a ottenere quell’aspetto, terminate le ostilità. Inoltre…” 
La vecchia esitò, come imbarazzata. Ranma la invitò con lo sguardo a proseguire. “Diciamo che ho… chiesto alla guida di fare una prova… usare l’acqua della fonte su una cavia a sua scelta. Lui ha preso un coniglietto che apparteneva a sua figlia, dopodiché vi ha versato con un mestolo l’acqua dell’Akanenichuan. Da quel che mi ha riferito nemmeno un paio d’ore fa, il coniglio è rimasto un semplice coniglio.” 
“L’acqua di quella sorgente è diventata semplice acqua.” Disse Tofu, più riflettendo a voce alta che rivolto a qualcuno in particolare. 
“Perciò è confermato”, concluse la vecchia, “adesso l’anima di Akane dimora nel corpo di Ukyo.” 
Nabiki alzò un sopracciglio. “E il riferimento all’alba? Cosa c’è di speciale in questa notte?” 
“Si tratta di una notte di novilunio. È trascorso un ciclo lunare esatto dall’utilizzo dell’acqua di Jusendo, che finora ha preservato il corpo di Akane. La guida mi ha spiegato che all’alba perderà il suo effetto, e l’idratazione si arresterà: in quel momento il corpo diverrà inservibile e l’anima non avrà più la possibilità, nemmeno teorica, di farvi ritorno… e perciò, a quel punto, la sua dimora attuale diventerà definitiva.” 
La vecchia tornò a dirigere lo sguardo verso Ucchan, spingendolo a fare altrettanto. 
Konatsu non si era mosso di un millimetro dalla sua posizione, come se non avesse udito alcuna parola, e probabilmente doveva essere proprio così. Nei suoi occhi Ranma poteva leggere una determinazione che una sola volta vi aveva scorto, molto tempo prima, quando il kunoichi era stato drogato dalla matrigna e dalle sorellastre affinché combattesse contro di lui al livello estremo del suo spirito combattivo. 
In questo momento, gli parve che fosse altrettanto estraniato dalla realtà. 
“Fammi passare, Konatsu.” 
Ukyo pose una mano sulla spalla del ninja, che sussultò, lasciando cadere la propria maschera e rivelando la consueta espressione gentile e preoccupata. Senza dare l’impressione di essersene accorta, lo superò e domandò a Obaba: “Se all’alba l’anima di Akane sarà ancora dentro di me… io morirò? Intendevi dire questo, prima?” 
“Signorina Ukyo…” Iniziò Konatsu. 
“Va tutto bene”, lo zittì lei, accennando un sorriso, “stiamo solo parlando.” 
Obaba annuì. “Scommetto che inizialmente non avevi la minima idea di cosa avvenisse quando tu eri trasformata in Akane, ciò poiché la sua tamashii prendeva il sopravvento, facendoti perdere la coscienza di te stessa. Quando ti bagnavi con l’acqua fredda, rimaneva solo Akane. Ma ti sarai sicuramente accorta che questo avviene sempre meno, che cominciate a percepire le vostre presenze a vicenda: ciò perché le vostre anime sono in conflitto. Perciò, se al sorgere del sole tu avrai le sue sembianze… l’anima di Akane non potrà più fare ritorno nel suo corpo e occuperà definitivamente il tuo. In poche parole la trasformazione sarà irreversibile, l’acqua fredda e l’acqua calda non potranno mutare la situazione. Resterà soltanto lei, mentre tu non potrai mai più riprendere coscienza. Akane sarà salva, ma tu…” 
La frase non continuò e la sala si riempì di silenzio. 
Tutto ciò che Ranma avvertiva era il battito accelerato del proprio cuore. 
Aveva sempre avuto ragione, il proprio istinto non si era sbagliato. L’Akane che aveva visto e sentito, con cui aveva parlato, era la vera Akane, il suo maschiaccio violento. E una maniera per salvarla esisteva, doveva esistere, eppure… come poteva essere questa l’unica soluzione? Come si sarebbe potuto chiedere a Ucchan… a qualunque persona, perfino… perfino al vecchiaccio, un sacrificio del genere? 
Alzò lo sguardo verso di lei, solo per scoprire che lo stava fissando a sua volta in modo ansioso. Quasi implorante. Non poteva sbagliarsi, Ucchan stava guardando proprio lui. Come mai? Aveva forse paura che le avrebbe chiesto di sacrificarsi, lo credeva esaurito fino a questo punto? No, piuttosto… lei per caso voleva che glielo chiedesse? 
Ucchan sospirò rumorosamente, interrompendo il contatto visivo, poi chiese alla vecchia: “Se invece rimarrò me stessa, cosa succederà ad Akane?” 
“In quel caso”, rispose, “sarà la tua tamashii a prevalere, una volta per sempre, e nemmeno in questo caso l’acqua fredda servirà più a qualcosa. Non c’è una terza scelta.” Obaba scosse lentamente il capo e scese dal tavolo, inerpicandosi sul suo bastone. “L’alba è vicina, ma hai ancora, pressappoco, un paio d’ore di tempo per decidere. Quel che avevo da dire l’ho detto, adesso conviene a tutti voi rifletterci sopra. Torno subito.” 
Si avviò verso la cucina, a rapidi balzi. Improvvisamente si arrestò, si voltò e scorse con lo sguardo i presenti, come alla ricerca di qualcuno. Ranma stava già facendosi avanti quando, con sua sorpresa, la vecchia chiamò a sé Kasumi. 
  
  
Sebbene avesse preannunciato chiaramente il suo attacco, scagliandosi contro di lui con un affondo in corsa, Genma sembrò non aver intuito le sue intenzioni fino all’ultimo momento, tanto che schivò il colpo per un soffio. Soun si girò di nuovo, le spalle rivolte alla parete posteriore del Nekohanten, accanto alla porta di servizio, così da potergli almeno chiudere la via di fuga e  incrociare il suo sguardo.  
“Te… Tendo! Si può sapere che ti salta in mente?!” Gridò l’altro, tra l’incredulo e lo spaventato. 
“Te l’ho detto prima, Saotome. Stiamo combattendo.” 
Attaccò ancora con un calcio volante, che questa volta Genma scansò con maggiore prontezza per poi pararsi di fronte a lui e tentare una contromossa. Soun si portò indietro con una capriola e aumentò la distanza, coprendo il fianco. 
Genma ridacchiò sgraziatamente. “Suvvia, non hai cuore… non sono nemmeno nelle condizioni di difendermi, senza i miei occhiali non vedo un tubo!” 
Soun scosse il capo. “La tua miopia non è così acuta. Ricordo il giorno in cui cominciasti a portare le lenti, così come ricordo la tua aria tronfia mentre mi spiegavi che nessun artista marziale avrebbe osato attaccare al massimo delle proprie forze un avversario che indossava gli occhiali… Una delle tue prime e innumerevoli ‘tecniche’, no? Com’è che l’avevi chiamata? Mossa della pietà della talpa?” 
“Ah ah ah! Era andata così?” Domandò quello stupido, grattandosi il capo. 
“Proprio non capisci… non c’è niente da ridere!” Soun si riportò in avanti, convogliando rapidamente tutta l’ansia, la preoccupazione e il dolore che aveva provato nelle ultime ore. Un paio di secondi furono sufficienti a convergere e rilasciare attorno al proprio corpo una discreta quantità di aura combattiva. Il pugno che ne scaturì mancò quel disonorato per una frazione di secondo, andando invece a spaccare in due parti uno dei numerosi secchi dell’immondizia. 
Il fracasso che ne conseguì confuse per qualche secondo i suoi sensi. Improvvisamente Soun vide tutto nero, e non si trattava dello scenario notturno. Avvertiva la frustrazione premere da ogni viscera del suo corpo, e si sentiva sporco almeno quanto il compagno di gioventù. Non poteva permettere che tutto finisse così, doveva perseverare, ripulirsi. Ma Saotome che fine aveva fatto? 
Guardò davanti a lui, poi a sinistra e a destra. Niente. 
“Prova qui in alto, Tendo.” 
Alzò lo sguardo, per avvistare Genma che planava a mezz’aria, pronto al contrattacco. Cercò di elaborare una qualche strategia, prima che gli fosse addosso, ma il colpo arrivò prima che riuscisse a disporsi diligentemente in posizione difensiva. Crollò a terra e rotolò immediatamente su se stesso, cercando di ignorare il dolore, per ammortizzare lo svantaggio. Recuperò una posizione eretta nel più breve tempo che gli fosse stato possibile, sperando di cogliere di sorpresa quel farabutto, ma il nuovo pugno smosse solamente una manciata d’aria, mentre un paio di costole lo informarono nuovamente, e con maggiore convinzione, dei danni che aveva ricevuto. 
Strinse i denti e s’impose di concentrarsi. Questa volta sapeva dove guardare e, infatti, non fu sorpreso di avvistare Saotome appollaiato come una scimmia sopra il muretto che dava alla strada. “Certe cose”, disse ad alta voce, non nascondendo una punta di disgusto, “non cambiano mai.” 
“Dovresti saperlo che il combattimento volante è la specialità della scuola Saotome.” Gli rispose l’altro, come se fosse stato appena inorgoglito da un complimento. 
“L’unica tua specialità, dal primo giorno che ricordo, è la codardia.” 
Genma bofonchiò, finalmente irritato. 
“Anche tu sei rimasto lo stesso di un tempo, quando ti lasci trascinare dall’ira è fin troppo facile affrontarti.” Replicò. “Sei tale e quale a quello sbarbatello di buona famiglia, pieno di sé, convintissimo che sarebbe diventato il più forte artista marziale del mondo solo perché, a suo dire, incarnava i più alti valori di rettitudine, probità… e altre fesserie che non finivi di decantare un solo istante. A quell’epoca, i tuoi avversari li sconfiggevi a forza di sbadigli.” 
“Non hai tutti i torti.” Ammise Soun. “Effettivamente agli inizi ero un po’ ingenuo… poi, però, sono cambiato. Ho smesso di credere a quelle cose, ho dovuto, dopo averti incontrato.” 
“Sembra che tu me ne faccia una colpa. Dovresti ringraziarmi, ti serviva qualcuno che ti mostrasse come va davvero il mondo. Lo sai a cosa mi riferisco, no? Niente ideali, nessuna pietà.” 
“Ricordo bene il tuo motto.” In rapida successione, diverse immagini del passato ripresero vita davanti a Soun. Sentì su di sé il peso degli allenamenti e dei digiuni, le immani fatiche affrontate per conquistarsi l’attenzione dei suoi primi maestri. La superbia che gli aveva ottenebrato la mente, mentre si accingeva a combattere per la prima volta contro uno degli altri pretendenti, un ragazzotto dagli abiti trasandati che non dava affatto l’aria di un grosso ostacolo. La sorpresa e la frustrazione della prima sconfitta, per mano di quello stesso straccione. L’indignazione, nella consapevolezza di essere stato battuto con mezzi poco ortodossi. La rivalità, la competizione. L’infinità di scontri e di confronti che ne era seguita. 
E poi il lento mutare di quei sentimenti, il loro sfociare, poco a poco, nel reciproco rispetto, nella mutua considerazione del proprio rispettivo valore. Nell’amicizia. 
No, oggi non era ‘tale e quale a quello sbarbatello’. Era cambiato, profondamente, e non sempre in meglio. Se avesse potuto, sarebbe tornato indietro per non fare certe scelte? Fino a quella notte pensava di no, che nulla potesse valere ciò che aveva ricevuto, in cambio dell’essere sceso a qualche compromesso con i valori in cui credeva. 
Ma ora… 
Un moto di rabbia s’impadronì nuovamente di lui, facendo vacillare l’autocontrollo che si era imposto. Soun ne fu subito cosciente, ma assecondò il proprio corpo ed espanse l’aura, lasciandosi guidare dalla propria indignazione e decidendo che, per una volta, non si sarebbe preoccupato delle conseguenze. 
Genma era ancora accovacciato nella posizione di prima, con aria visibilmente scossa. Pallido come uno strofinaccio, sembrava come paralizzato e impossibilitato alla fuga. Forse finalmente aveva compreso. 
Ma ora è troppo tardi. 
  
  
Nabiki porse alla sorella anche l’ultima tazza e si voltò ancora in direzione della porta che dava sul retro, domandandosi se avessero fatto bene a seguire il consiglio della vecchia. 
“Lasciate pure che si sfoghino.” Aveva detto loro con aria disinteressata, nonostante il fracasso che avevano appena sentito provenire dall’esterno. “Quei due devono chiaramente risolvere delle questioni personali… e le loro faccende private, adesso, non ci riguardano.” Piuttosto si era rivolta di nuovo a Kasumi, chiedendole di preparare del tè per tutti: la notte non era finita e bisognava mantenersi lucidi, in un momento simile. 
Infine aveva additato lei stessa, e per un momento Nabiki credette di aver contraddetto Cologne di Joketsuzoku almeno una volta di troppo, negli ultimi minuti, salvo sentirsi poi domandare con fare del tutto innocuo se potesse dare una mano alla sorella maggiore, mentre la vecchia tornava nella sala grande con gli altri. “Di là c’è ancora bisogno di me”, si era quasi scusata, “e l’assenza della mia bisnipote si fa sentire. Chiedere a quell’imbranato di Mousse di preparare del tè, poi, è del tutto fuori discussione.” 
Nabiki l’aveva lasciata fare. Chiaramente Obaba non la voleva più tra i piedi e, in un certo senso, poteva anche comprenderla. Ma non per questo era ancora incline a fidarsi delle ultime rivelazioni. 
L’Akane incontrata due volte da Ranma non era altri che Ukyo trasformata dall’acqua della sorgente di Jusenkyo, e fin qui bene. Però, nel corpo di Ucchan sotto la trasformazione, a detta di Obaba, risiedeva l’anima della vera Akane. Se davvero fosse stato così, in questo momento la sua sorellina sarebbe stata viva e vegeta, e nella stanza accanto. Le sarebbe bastato aprire la porta, versare su Ukyo dell’acqua, niente di più. 
“…me li puoi prendere?” 
“Come?” Replicò confusa. 
Kasumi non alterò minimamente il tono della voce. “Ti ho chiesto se puoi passarmi i tovaglioli, dovrebbero essere in una di quelle credenze.” Concluse, indicandole la direzione. 
“Certamente.” Nabiki non seppe nemmeno dire se avesse davvero parlato, o soltanto pensato tra sé la risposta. Provò a nascondere il proprio fastidio e si mise alla ricerca, senza troppa fretta. Anche in casa, si era sempre tenuta per quanto possibile alla larga dalla cucina, limitando il proprio contributo a cose semplici come scaldare l’acqua. Forse Obaba aveva incaricato lei, e non la signora Nodoka, di assistere Kasumi in cucina semplicemente per farle dispetto. 
Tutto sommato, considerò che un po’ di tè avrebbe fatto piacere pure a lei, anche se avrebbe preferito qualcosa di più forte. L’adrenalina da cui si era sentita pervadere fino a pochi minuti prima era un pallido ricordo e aveva lasciato il posto a un poco di emicrania, così stava faticando perfino a pensare coerentemente. 
Ma dove diamine si erano cacciati quegli stupidi tovaglioli? Aprì l’ennesimo scomparto, ancora senza successo. Scostò con malagrazia diversi barattoli di spezie, nella speranza di vederli uscire allo scoperto, ma, fallito anche questo tentativo, accennò a sbattere con violenza lo sportello. 
Una mano la afferrò per il polso, fermandola. 
“Le cose devono andare esattamente come vuoi tu, vero? È difficile che non sia così. Però, quando eccezionalmente ciò avviene, non sai più come affrontare l’ostacolo.” 
Non c’era rimprovero, nella voce. E nessuna ostilità. Eppure, Nabiki si sentì come un ladro colto in flagrante. 
“Kasumi…” 
E di colpo tutto assunse una chiarezza disarmante. Cosa le stava succedendo? Come aveva potuto permettere a se stessa di lasciarsi dominare dalle emozioni fino a questo punto? Non era lei quella, non la persona che si era imposta di essere. 
La prolungata mancanza di sonno doveva averle giocato davvero un brutto scherzo, per averle fatto perdere così facilmente la propria freddezza, la propria lucidità, e ciò ormai da diverse ore. Questa notte si era comportata in modo più incosciente di Ranma e Akane messi insieme, e doveva proprio ringraziare i kami se Obaba non l’aveva ancora scaraventata dall’altra parte di Nerima per la sua sfacciataggine… 
Nabiki recuperò la propria compostezza e sorrise alla sorella. “Grazie. Non so cosa mi sia preso. Dev’essere uno shock, per te, vedermi in questo stato.” 
Kasumi ricambiò il sorriso. 
“Non proprio. Sai… mi ricordo un’altra volta come questa.” 
Non si aspettava una risposta simile. Nabiki alzò un sopracciglio e la invitò, con lo sguardo, a proseguire. 
“Fu quando la mamma ci lasciò.” Kasumi poggiò delicatamente una mano sulla sua spalla. “Papà non ebbe la forza di darci la triste notizia e ci raccontò che era dovuta andare in un luogo lontano. Io avevo capito, ma tu e Akane eravate ancora troppo piccole, o almeno così pensavo.” 
S’irrigidì leggermente, e Kasumi dovette averlo notato, perché a sua volta accentuò un poco la stretta. 
“Akane si era intestardita ad aspettare il ritorno della mamma, perfino attendendola fino a sera davanti la porta di casa. E tu… avevi fatto altrettanto, almeno fin quando, un giorno, credo che la verità fosse divenuta chiara anche a te. E non lo sopportasti. Non sopportasti il fatto che la morte di nostra madre ti fosse stata tenuta nascosta, che ti fosse stata fatta credere una menzogna. Soffristi, non solo per la perdita, ma anche per tutta la speranza che avevi riposto inutilmente per tanto tempo. Mi dispiacque tantissimo, allora, di averti ingannato anch’io, ma non sapevo come scusarmi… e non ti dissi assolutamente niente, e ancora oggi non so perdonarmelo... Scusami, sorellina.” Le ultime parole furono pronunciate con la voce rotta dall’emozione. Kasumi la abbracciò forte e lei si lasciò abbracciare, avvertendo il calore della sorella e qualcos’altro. 
Quante altre volte sarebbe stata colta alla sprovvista quella notte? Dal punto di vista di Nabiki, uno sfogo simile da parte della sorella maggiore era più inatteso perfino delle parole della vecchia. Ma sapeva anche cosa Kasumi avesse davvero sottinteso, con quel discorso. Forse… adesso lei era nella stessa situazione di allora. Aveva paura di credere in un possibile miracolo, non voleva illudersi riguardo una persona cara e rimanere delusa di nuovo. 
Era così chiaro, ora. Se non aveva ancora varcato la soglia e bagnato Ukyo con dell’acqua fredda, era solo perché ne aveva paura. Non fidarsi era più facile, molto più facile, e le permetteva di mantenere il controllo della situazione. Ma finalmente comprendeva cosa fosse giusto e, anche se ciò l’avrebbe resa vulnerabile per la prima volta dopo tanti anni, decise che avrebbe corso il rischio. Dopotutto non aveva mai perso una scommessa. 
“Va tutto bene.” Disse, ricambiando la stretta di Kasumi. Poi pensò che fosse ormai il caso di scoprire le carte. “A proposito, i tovaglioli che mi avevi chiesto di cercare non sono per caso quelli che stai tenendo in mano? Non ti facevo così distratta… a meno che tu non sia più simile a me di quanto credessi.” Due a zero per te, sorellina. Aggiunse tra sé, divertita, ripensando all’altra notte. 
“Oh cielo.” Kasumi si asciugò una lacrima e si lasciò sfuggire un lieve sorriso.

 

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Capitolo 12
*** Scelta ***




Due parole prima di cominciare. Volevo scusarmi per il ritardo con cui ho risposto ad alcuni commenti o messaggi privati qui su EFP, dovuto semplicemente al fatto che nelle ultime settimane non sono praticamente passato mai per il sito. A tale proposito per chi fosse interessato, anche a contattarmi più rapidamente, ho creato un piccolo gruppo facebook su questa fanfiction (e le prossime che pubblicherò) al seguente indirizzo:
https://www.facebook.com/groups/124540564387546/
E ora la buona notizia: ho terminato di scrivere la fanfiction, sto dando giusto i ritocchi finali. ^__^ Siamo in dirittura d’arrivo, e gli ultimi capitoli saranno postati a intervalli regolari di tempo. Come sempre, un grazie a chi segue questa storia e un grazie altrettanto grande a una beta d'eccezione come Tiger eyes! Buona lettura!
Nei capitoli precedenti. Il piano di Genma e Ukyo, consistente nel bagnare quest’ultima con l’acqua della fonte Akanenichuan e darle le sembianze di Akane in modo che la falsa fidanzata potesse parlare con Ranma e riportarlo alla ragione, ha provocato ben altre conseguenze. Il gruppo di Nerima, riunito al Nekohanten, ha appreso da poco che la vera Akane è ancora viva dentro il corpo di Ukyo, ma che entro l’alba inevitabilmente una delle due ragazze morirà…



Capitolo 12
“Scelta”


“Non vorrai farlo davvero...”
Ignorò le parole dell’interlocutrice e cercò di guardare da un’altra parte. Ma non era affatto facile, il luogo in cui si trovava non aveva dei confini e delle direzioni distinguibili: il miglior paragone che le sovveniva era quello con una spessa coltre di nebbia, e di fatto non scorgeva alcun panorama che avrebbe potuto definire con certezza un’altra parte.
“Mi stai ascoltando?! Non pensarci nemmeno!”
Niente da fare. Dovunque si voltasse le ricompariva di fronte: lei sì, perfettamente riconoscibile come se fosse stata sotto un riflettore. Ukyo provò a serrare le palpebre, ma perfino così facendo il volto turbato di Akane continuava a presentarsi alla sua vista.
Sbuffò, con fare stanco e sconfitto. Forse era logico che non riuscisse a sfuggirle, dato che ora convivevano nello stesso corpo.
“Infatti non ci sto pensando.” Disse, cercando di controllarsi. “Se sei ancora in grado di giocare con la mia mente come hai fatto poco fa, dovresti sapere che la decisione l’ho già presa.” Sollevò il capo, come per scrollarsi di dosso qualcosa di fastidioso. “Mi bagnerò con l’acqua fredda e poi sarà quel che sarà.”
Ecco fatto. Che ci voleva? Averlo pensato, prima, era stato così semplice. E adesso lo era stato anche dirlo. Non ci voleva poi molto.
Akane le afferrò il polso costringendola a guardarla dritta negli occhi. La sua espressione, visibilmente alterata, le diede l’idea che per qualche motivo non avesse gradito la propria replica.
“Se tu lo farai, ogni volta che tu lo farai, io mi verserò dell’acqua calda. È chiaro?!” Esclamò determinata. “Non ci tengo a morire, certo, ma non ti permetterò nemmeno di sacrificarti per me!”
Ukyo fissò incredula la propria interlocutrice per qualche istante, finché non fu del tutto sicura di aver udito bene. Dunque era davvero questo che pensava? Questo?! Indubbiamente si trattava della vera Akane, la stessa ragazza ingenua che ricordava.
Non riuscì a trattenere una risata di scherno, e la minore delle Tendo non sembrò apprezzare nemmeno quella.
“Ora che ti prende? Sei impazzita?!”
E poi Ukyo sorrise, stavolta con un gesto pregno di amarezza, di fronte alla confusione dell’altra fidanzata. “Sei tu che non comprendi. Pensi che voglia sacrificarmi per te? Dare la mia vita per gettarti tra le braccia di Ranma in modo che possiate vivere felici e spensierati il vostro lieto fine? Ah, mi spiace tanto, ma non sono questa santa che credi!”
Sono tale e quale al padre di Ranma, continuò in silenzio. Ma ad alta voce disse: “Io sono l’imperfetta Ukyo Kuonji dell’okonomiyaki. Sono un’egoista e l’unica cosa che mi interessa… sottolineo l’unica… è riavere indietro il Ranma determinato, che non si dà mai per vinto, il Ranma che conoscevo.” Il ‘mio’ Ranma avrebbe voluto concludere, ma al momento non si sentiva in grado di fare una simile affermazione. “E se questo è il prezzo…”
Si arrestò, per vedere la ragazza di fronte a sé scuotere lentamente la testa. “E pensi… tu pensi forse che veder morire la sua amica d’infanzia davanti ai propri occhi lo farebbe star meglio? Non puoi credere una cosa simile.” Mormorò.
“So che mi… vuole bene.” Replicò Ukyo. O almeno spero che me ne voglia ancora. “Ma sono anche certa che lo supererà, con il tempo. La tua perdita invece… non riesce, non può, non vuole, perché Ranma ti ama. Ama te. Lo capisci questo?”
La confessione fece trasalire Ukyo stessa mentre la proferiva, ma non aveva in alcun modo potuto trattenere le parole dentro di sé. E poi i ricordi, non suoi, di Jusendo l’avevano definitivamente confermato: era Akane il punto debole di Ranma, Akane la sua vulnerabilità. E per quanto questa verità le facesse male, ancora di meno poteva sopportare l’ottusità di quella ragazza di fronte alla… fortuna… sì, alla fortuna che le era stata riservata. Nessuna promessa tradita, nessuna vendetta da portare avanti. Soltanto un amore ricambiato.
Fissò attentamente la giovane Tendo, che aveva almeno avuto la decenza di arrossire.
“Ukyo… sei chiaramente sconvolta. Ascolta...”
“No, tu ascolta me!” Replicò, sorpresa dalla rabbia che tutto d’un tratto le stava ribollendo in corpo. “Ci ho provato, sai, ho provato in tutti i modi a far sì che smettesse di soffrire per te! Ho dato tutta me stessa, sono stata al suo fianco nel momento più difficile, ma non è servito a nulla… a malapena si accorgeva della mia presenza! Non avrei mai voluto mettere in atto la messinscena del suo vecchio, ho cercato di evitarlo fino all’ultimo istante, almeno finché ho compreso che ‘la piccola Ukyo’ non avrebbe mai potuto riempire quello spazio vuoto. Però adesso…”, sentì la sua stessa voce ridursi a un leggero sussurro, “adesso, forse, finalmente potrò…”
“Immolarti?” Finì per lei Akane. “Ti senti in colpa, lo so perché ho avvertito tutta la tua angoscia, prima. Vuoi rimediare in qualche modo, e lo capisco, ma sono stata io a mettere in gioco la mia vita. Sapevo il rischio che stavo correndo quand’ero in Cina, quando ho deciso di non restarmene in disparte con la guida ma di prendere l’iniziativa, di cercare di aiutare Ranma. Lo sento anche adesso, e sento che, in fondo, provi paura… e anch’io ne ho. Tanta. Per questo dobbiamo trovare un altro modo!”
“Una soluzione diversa non esiste, hai ascoltato anche tu Obaba!” Ribatté Ukyo. “E poi non si tratta di te, te l’ho detto. Non puoi fare questo torto… non solo a lui, intendo, ma anche alla tua famiglia.” Disse, pensando al volto tetro di Kasumi e a quello esasperato della stessa Nabiki. “Hai idea di quante persone tengano a te?”
Al contrario di me, completò amaramente. Io ci ho provato, pensò, in tutti i modi. Non ho nessuno, ho vissuto sempre in solitudine. Ranma è tutto quel che potevo avere, l’avevo perso per poi ritrovarlo. Ho cercato di esserci per lui in questo momento tanto difficile. Ma la mia presenza, in fin dei conti, non fa alcuna differenza.
E Ukyo sussultò. Si era ricordata, improvvisamente, che nulla poteva più essere nascosto tra loro. Ne dedusse che Akane le aveva appena letto ciascuna di quelle ferite che riponeva nel cuore, e sentì il desiderio di scappare via come una scolaretta piena di vergogna.
Ma non poteva sfuggirle, già. Non le rimaneva che recitare fino in fondo la parte di Ukyo il maschiaccio caparbio e orgoglioso e guardarla dritto negli occhi. Fu allora che con sorpresa si accorse che quelli di Akane erano lucidi.
Ukyo non voleva sentirsi dire parole di conforto, di circostanza. Non le avrebbe sopportate. Ma non ricevette nulla di simile: Akane non aprì bocca, non disse nulla, eppure le rispose lo stesso, in qualche modo, che no, non era sola, nemmeno lei. C’era Konatsu, certo, ma non si stava riferendo soltanto al suo fedele kunoichi.
Ora fu Ukyo a percepire nitidamente ogni sentimento che albergava nel cuore dell’ultimogenita delle Tendo e, con sorpresa, vi trovò una calda ondata di affetto ed empatia rivolti nei suoi confronti. Nonostante tutto.
“Sai, prima hai detto di essere una persona egoista. Però io penso che non vi sia nulla di egoista”, concluse Akane ad alta voce, “nel desiderare la felicità… della persona che amiamo.”
I successivi pensieri non presero nemmeno la forma di parole. Per Ukyo non ce n’era più bisogno, sapeva quel che c’era da sapere: che in fondo erano soltanto due ragazze come altre, innamorate della stessa persona e impaurite allo stesso modo dalla morte. E che questa comunione di emozioni, in qualche modo, stava reciprocamente infondendo loro il coraggio di affrontare ciò che le attendeva.


La paura. Aveva imparato da decenni a convivere con questo sentimento, e ciò non implicava assolutamente che le sue abilità di artista marziale gli consentissero di vincerlo. Poteva essere forse biasimato per questo? L’importante era tirare avanti, senza curarsi dell’orgoglio. E sì che di cose paurose ne aveva viste tante, nella sua vita, ma nessuna di queste lo terrorizzava quanto le reazioni furiose del suo compagno di tante avventure. E questa emanazione poteva classificarsi, senza troppe discussioni, sul podio delle più agghiaccianti.
“Genma, ora pagherai!”
Essere chiamato per nome spezzò anche l’ultima delle sue difese psicologiche. Questa novità non costituiva affatto un buon segno.
Da ciò che la propria miopia gli consentiva di distinguere, la manifestazione dell’aura di Tendo non aveva assunto la classica forma demoniaca, quella fornita di testone e lingua biforcuta – e in tal caso almeno avrebbe benedetto la propria perdita degli occhiali – ma costituiva piuttosto un’estensione dei suoi lineamenti normali: tuttavia era carica di un tale nugolo di sentimenti negativi, che avvertiva come un peso sul proprio capo e lo stava rapidamente accerchiando in un abbraccio letale.
D’un tratto Genma sentì esplodere dentro di sé tutti i timori e le angosce, i sensi di colpa e i rimorsi accumulati in un’esistenza che sapeva bene non essere stata delle più irreprensibili.
Crollò in avanti, incapace di sostenere un simile fardello un secondo di più. Cadde nel vuoto, per una manciata di lunghi secondi, e poi finì a terra come un corpo morto, picchiando la faccia sull’asfalto. I sensi gli furono immediatamente annebbiati dal dolore e, quando tornarono, constatò che una mano lo aveva afferrato per il colletto della veste e l’aveva sollevato di qualche centimetro. Un pugno affondò nel suo stomaco, mozzandogli il respiro e scagliandolo all’indietro. La mente e il corpo furono impossibilitati a funzionare, lasciandogli solo il suo istinto di artista marziale, libero di registrare ogni singolo colpo che riceveva e di gridargli inutilmente di difendersi.
Si sentiva come un grosso e vecchio sacco da boxe sul punto di sfondarsi. Non poteva controbattere in alcun modo, ancora immobilizzato dall’attacco di ki precedente, né a questo punto sapeva se avrebbe desiderato farlo. Era già la seconda volta, quella notte.
Per nessun motivo in particolare ricordò un Ranma piccino che correva tra le sue braccia, dopo aver eseguito con successo per la prima volta uno dei kata più semplici: il bambino aveva un’aria incredibilmente spensierata e, buttatosi in mezzo alle sue manone, gli stava gridando grondante di gioia: “Hai visto, papà? Ce l’ho fatta! Sei contento di me?”. Poi, di botto, l’immagine svanì e la serie di pugni cessò, e Genma inspirò avidamente l’aria fredda della notte, a dispetto dell’agonia dei polmoni e degli altri muscoli.
“Già… finito?” Sogghignò, o almeno quella era l’intenzione. Aveva raccolto troppo poco fiato per risultare irriverente come avrebbe voluto.
Anche Tendo respirava con affanno, almeno da quel che riusciva a udire. Non era facile, le orecchie gli fischiavano.
“Ho solo iniziato.” Disse l’altro ad alta voce, come se avesse inteso e volesse rassicurarsi che lui potesse ascoltarlo bene. “Non hai proprio niente da dire? Parlo di tuo figlio.”
Genma sentì un sapore sgradevole salirgli alla bocca. Prima di parlare, sputò a terra.
“Tendo”, si mise con fatica in posizione seduta, “credevo di averti già ricordato… che non hai titolo per insegnarmi come prendermi cura di…”
Il pugno lo raggiunse in pieno naso mentre proferiva le ultime parole.
“Come osi rispondermi così?! Dopo tutto quello che gli hai fatto, è davvero questo il meglio che hai da dirmi? Alzati e guardami in faccia!”
Genma digrignò i denti, sia per il dolore cane, sia per il nervosismo crescente, che stava rimpiazzando l’apatia di pochi istanti prima. “Non… riesco.” Mormorò. Si pulì alla bell’e meglio con la manica un rivolo di sangue, quindi tese l’altro braccio in direzione dell’interlocutore. L’altro accennò a tirarlo su.
Ci sei cascato. Genma diede uno strattone, trascinando Soun verso di sé e soprattutto verso la propria mano chiusa a pugno. Colpita vittoriosamente la sua mascella con un montante, gridò con tutta la sua rabbia.
“Pensi che sia stato facile per me?! Credi davvero che non voglia bene a mio figlio?! Parli tanto, ma li avevi visti… di’, li avevi visti i suoi occhi?”
Non arrivò alcuna risposta, era collassato al suolo. Del resto, se era riuscito a centrargli il mento come si era prefissato, quello era il minimo. Soddisfatto, si sporse per constatare il risultato del proprio brillante contrattacco. Capì di aver commesso un errore ancora prima di ricevere il destro di Tendo in pieno volto. Che pollo sono stato… Pensò amaramente.
Poi il dolore gli impedì di pensare qualsiasi altra cosa per diversi secondi.
Attendeva il resto della reazione furiosa dell’altro, ma stranamente non arrivò.
“Alla fine l’hai ammesso.” La voce di Soun non tradiva più rabbia. “Ci voleva tanto?”
Genma si massaggiò la guancia tumefatta, incredulo. L’ho ammesso? Ho ammesso cosa? Poi, d’un tratto, comprese.
“Tendo, sul serio, non vorrai… si trattava di questo? Soltanto per questo ce l’avevi tanto con me?!” Avvertì nuove energie fluirgli nelle vene e colpì, senza soluzione di continuità con le ultime parole. Questa volta l’interlocutore incassò docilmente prima di rispondere.
“Ovviamente no. Non era… solo per questo.” Accennò, come saggiando le parole. “Saotome, io ti conosco meglio di quanto tu conosca te stesso, e il fatto che alcune volte, anche parecchie, non apprezzi i tuoi metodi… non significa che non sappia individuare, dietro a essi, le tue buone intenzioni. Quando ve ne sono, chiaro.” Si rialzò in piedi, barcollando leggermente. “All’inizio, lo confesso, ero furioso e basta, non potevo credere al tuo cinismo. Con il passare dei minuti, un po’ per volta, ho però compreso… so bene che la cosa ti è sfuggita di mano, mi è perfettamente chiaro che farci credere che Ranma fosse impazzito, farlo credere a lui stesso, non rientrava nei tuoi piani. Quello che non ti ho perdonato è di aver perseverato, di avere continuato a usarci tutti, anche nel tempo in cui la situazione era degenerata. Soprattutto di non essere uscito allo scoperto, stamattina, quando potevi e dovevi. Almeno con me. Con l’uomo che conosci da più anni di quanti vorresti contare… e che fino a oggi si era ritenuto un tuo amico.”
Per un istante, Genma dimenticò il dolore della batosta ricevuta e avvertì unicamente una fitta, al petto, di tutt’altra natura. Una fitta che non sentiva da tanto di quel tempo e che, in tutta onestà, non credeva avrebbe avvertito mai più.
“Sbagli, Tendo. Da parte mia, non ti ho mai ritenuto… un mio amico.” Disse, distogliendo lo sguardo. Quindi si scosse a sua volta, tirandosi su in posizione eretta e sentendo nuovamente su di sé, con quel gesto, il peso di tutti i lividi che si era procurato. Non era più un buon incassatore come ai bei tempi. “Sei sempre stato il mio amico, e proprio per questo… stamane ero stato tentato, seriamente, di parlare, di dirti tutto… ma mi conosci, sono il solito sentimentale, forse non me la sono sentita di… renderti mio complice, se capisci cosa intendo. Siamo entrambi ben lontani dall’essere perfetti, eppure mi piace continuare a pensare a te, esattamente come ai vecchi tempi, come quello di noi due retto e probo.”
Si guardarono per qualche secondo, senza più dirsi nulla, senza che i loro volti tradissero alcun sentimento.
Dentro di sé al contrario Genma poteva notare con soddisfazione che, per quanti colpi avesse ricevuto, era riuscito a lasciare al proprio interlocutore diversi segni della sua amicizia. Del resto era sempre così che sistemavano le cose, tra loro. Non che ora fosse stato tutto quanto risolto con un colpo di spugna, ma gli piacque sperare che Tendo gli avrebbe rivolto ancora la parola, nei prossimi giorni.
Poi l’incanto si ruppe. Udì delle voci, e vide delle figure minute dirigersi verso di loro.


La sua prima sensazione diretta del mondo esterno fu un brivido lungo le tempie e la nuca. Portò la mano sulla fronte per scostare l’acqua che le colava dai capelli fradici e ne approfittò per chiudere gli occhi e ripensare a cosa avrebbe detto. Entrando nella coscienza di Ukyo, aveva avuto modo di scoprire ogni cosa avvenuta in sua assenza, e sapere di aver provocato tanto dolore alla sua famiglia e a tutte le persone che le volevano bene la stava opprimendo di sensi di colpa.
Una mano vellutata si sovrappose alla propria e, riaprendo le palpebre sorpresa, vide Kasumi passarle una salvietta e aiutarla ad asciugarsi. La sua espressione serena e sorridente calmò l’ansia che aveva in corpo. Accennò ad aprire bocca, quando un altro asciugamano, più grande, le coprì la vista e le massaggiò vigorosamente il capo.
“Troppo fredda, vero? Scusa tanto, volevo essere sicura del risultato.”
Nabiki scostò il panno dal suo viso e fece capolino da dietro le sue spalle. Sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, ma venne anticipata dallo slancio di una terza figura.
“La mia bambina! Sei veramente tu?!”
Prima che potesse rendersene conto, Akane si era ritrovata stretta tra due possenti braccia e con la faccia schiacciata contro un petto familiare.
“Papà… così la stai soffocando!” Disse Kasumi per lei, e la presa fu mollata con un gesto altrettanto brusco.
Akane riprese fiato e alzò la testa, pronta alla visione delle lacrime del genitore e pensando già a come calmarlo. Ma ciò che vide la colse del tutto di sorpresa e, francamente, fu tanto presa dal resto che non constatò nemmeno se il padre stesse o no piangendo. Un occhio nero, un fazzoletto infilato nelle narici e che provava vanamente a tamponare una copiosa uscita di sangue, un volto gonfio di lividi e dai lineamenti quasi irriconoscibili.
“Cosa ti è accaduto, papà?!” Registrando il tono della propria voce, Akane sospettò per un attimo di aver perso lei, per prima, la calma.
“Oh, nulla, nulla... solo un piccolo scambio di vedute, niente di importante...” Fece lui con un tono conciliante, esibendo un sorriso che non migliorò affatto la vista d’insieme. “Non riesco a credere che… che sia tutto finito! È un sogno, anzi un miracolo! Ma ditemi, come ci siete riuscite?!”
Akane provò a rispondere, ma le parole non le uscirono dalla bocca. Devi dirglielo, intimò una voce nella sua testa, che non seppe se associare a se stessa oppure a Ukyo. Invece preferì voltarsi e incrociare un altro sguardo.
“Sorellina…” Pronunciò Kasumi, avvicinandosi a lei, e in quel ‘sorellina’ c’erano poemi interi di gioia e d’affetto. I suoi occhi, sì, erano sicuramente lucidi: era molto più facile scorgere il brillio su quel volto così limpido.
Si strinsero forte, l’una tra le braccia dell’altra. Poi la sorella più grande si scansò con grazia, lasciando spazio a Nabiki. Quest’ultima tuttavia non si avvicinò, e si limitò a scrutarla attentamente.
La reazione non passò inosservata, nemmeno a papà.
“Cosa… cosa c’è, Nabiki?” Domandò, come senza fiato. “Per… per caso non è la nostra Akane? Si tratta ancora di Ukyo?”
“No, non è questo.” Nabiki scosse la testa. “Ma ancora non sai una cosa… e se le mie sorelle non si decidono a dirla, ci penserò io. Vedi, Akane e Ukyo sono nello stesso corpo ma non possono convivervi se non fino all’alba… così, pare che poco fa abbiano preso una decisione.”
“Papà”, finì Akane, scoprendo la propria voce rotta dall’emozione e dalle lacrime che d’un tratto premevano per sfuggirle, ma cercando comunque con tutta se stessa di esibire un volto sereno, “non potevo… non potevo permettere che qualcuno morisse a causa mia. Non sono qui per rimanere… ma per un ultimo saluto.”


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Capitolo 13
*** Congedo ***




Capitolo 13
“Congedo”



Tofu sospirò in silenzio. A così pochi metri di distanza l’intera famiglia Tendo era riunita ad accogliere Akane-chan, eppure non poteva avvicinarsi. Si corresse, non osava avvicinarsi.
Si sforzò di ignorare i movimenti e i dialoghi attorno a lui e indirizzò i propri pensieri a quanto accaduto qualche minuto prima, quando aveva delicatamente risvegliato Ukyo dallo stato di trance in cui era piombata. Aveva immaginato che la ragazza fosse nuovamente entrata in contatto con l’anima di Akane-chan che risiedeva dentro di lei, ma non si aspettava di certo il piglio determinato con cui, recuperata coscienza, aveva affermato di aver preso – anzi, ricordò correttamente, che avevano preso – una decisione e chiesto di far riunire tutti.
Il contenuto della decisione era scontato dal suo punto di vista, nessuno avrebbe mai preteso da Ukyo di sacrificare la propria vita per salvare quella di Akane: ma per questo era ancora più doloroso, perché sapeva che molti dei presenti se l’erano, sia pure inconfessabilmente, auspicato.
E allo stesso modo sapeva che sarebbe dovuto essere lui a comunicare una tale notizia. Non è sempre il medico curante a dichiarare alle persone in sala quando è il momento di arrendersi? E invece non poteva… non osava e se ne rimaneva a prendere ragnatele in un angolo, in piedi accanto a uno sgabello vuoto su cui non aveva minimamente considerato di accomodarsi, con una goffaggine peggiore di quella di un ragazzino al suo primo ballo.
Sono solo un ipocrita…
Aveva avuto un bel coraggio a muovere tutte quelle considerazioni sulla mancanza di autocontrollo di Ranma, quando perfino in una notte come questa era stato almeno un paio di volte sul punto di perdere ogni lucidità di pensiero. Ma non si trattava solo della sua timidezza, non era l’eventualità di un sorriso, di una parola cortese di Kasumi, stavolta, a suscitare in lui il panico.
La causa era quell’altra fantasia che sempre più spesso lo tormentava, nelle notti insonni: l’immagine della donna da lui amata che di colpo abbandonava il suo angelico sorriso, assumeva un atteggiamento aggressivo, lo rimproverava e lo scacciava via dalla casa dei Tendo, da lei, per essere sparito negli ultimi tempi, per non essersi fatto vedere nel momento del bisogno. Per non esserci mai veramente stato, per lei e i suoi cari.
No, basta così, si disse. Scosse da sé quella paura illogica. Poteva ancora riuscirci, se non era costretto ad avvicinarsi. Si limitò a osservare, di nuovo. Da molti minuti, ormai, padre e sorelle stavano chiacchierando come… una famiglia, come se niente stesse accadendo, e però allo stesso tempo i loro volti lasciavano trapelare il segno della consapevolezza. E lui non era nemmeno tra loro a consolarli, a provare a trasmettere forza e speranza alla piccola Akane.
Forse il suo compito era un altro, forse doveva restare davvero in disparte e tentare in tutti i modi di ragionare e trovare una soluzione che le salvasse la vita, nonostante l’ineluttabilità delle parole di Cologne, nonostante l’evidenza. Forse, chissà, poteva perfino riuscirvi.
Ma intanto non osava avvicinarsi, e per questo odiava se stesso con tutta l’anima.


Come mai il dottor Tofu continuava a osservarli da lontano, senza decidersi una buona volta a raggiungerli? Kasumi non riusciva a spiegarselo, così come non comprendeva per quale motivo quel pensiero la stesse tormentando, nonostante le priorità in un momento simile fossero ben diverse.
Intuiva che gli altri presenti, come Mousse e la ragazza in tenuta da ninja, seduti al tavolo della parete opposta, volessero in qualche modo rispettare quel momento così intimo. Poteva giustificare perfino l’assenza della zia Nodoka. Ma il dottor Tofu era loro amico da sempre, di più, aveva tutto il diritto di considerarsi parte integrante della famiglia. E soprattutto ora aveva… avevano bisogno di lui, delle sue parole di conforto, della sua stessa presenza, più che mai.
Strano. Improvvisamente sentiva come un senso di oppressione sul punto di travolgerla, ma non poteva certo permettersi di lasciarglielo fare. La sua sorellina non lo meritava, e dopotutto l’occasione era lieta, non funesta. Quante altre persone avrebbero pregato, scongiurato per un’opportunità del genere? Chi non avrebbe dato tutto per poter parlare di nuovo, ancora una volta… ancora un altro momento… con una persona cara che aveva perduto, come stava accadendo a loro?
Sono una sciocca.
Sbirciò in direzione del dottor Tofu, ma ora lui non c’era, non si trovava più nemmeno nella loro stessa stanza, se n’era andato. Si rimproverò per essersi lasciata distrarre un’altra volta, quindi tornò a rivolgere la propria attenzione alle sorelle e sorrise, imitando come le volte precedenti il sorriso della loro mamma, dolce e rassicurante come lei lo ricordava, e sperando così di mascherare il proprio dolore. Aveva per caso detto dolore?
Già, sono proprio sciocca. Ed egoista.
Egoista, lei, Kasumi, che tutti consideravano l’angelo del focolare: se solo lo avessero saputo! Forse non ci avrebbero creduto nemmeno se l’avesse confessato di persona, eppure era vero. Perché in fondo non riusciva proprio a ringraziare i Kami per la fortuna più unica che rara capitata loro. Tutto ciò cui era capace di pensare era che quel momento non le bastava, che ne voleva un altro ancora. E poi un altro. E un altro. E un altro…


Kasumi le aveva appena rivolto uno dei suoi tipici sorrisi. Si domandò distrattamente se si trattasse di un gesto di circostanza oppure se davvero stesse partecipando con loro a quel battibecco.
“E invece torno a ripeterti che non vedo dove sia il problema.” Disse Nabiki, con l’aria della finta tonta.
“Intendi oltre al fatto che la giacchetta che stai indossando sia una delle mie?” Ribatté usando il suo stesso tono. “E precisamente quella che non trovavo più da nessuna parte e che ti avevo domandato se avessi per caso visto in giro, ricevendo una risposta negativa?”
La sorella fece spallucce. “Mi sarò sbagliata, del resto come pretendi che possa ricordarmi ogni tuo singolo capo di abbigliamento?”
“In effetti hai le tue ragioni”, ammise Akane, “è facile perdere il conto considerando il numero totale di tutti quelli che mi hai… preso in prestito.” Cercò di assumere un’aria indignata mentre proferiva quelle parole, ma dovette invece concentrarsi per non scoppiare in una grossa risata. Come mai trovasse quella situazione tanto esilarante era un mistero anche per lei.
“Suvvia, sorellina, dov’è finito il tuo senso della famiglia? Lo sai che ciò che è tuo è mio e ciò che è mio è tuo. Anche tu puoi prendere i miei vestiti quando vuoi.”
Per poco Akane non si soffocò da sola, sopprimendo lo scoppio d’ilarità. Va bene, forse il motivo le era chiaro. E stava prendendo in seria considerazione l’idea che anche Kasumi stesse trovando tutto ciò davvero demenziale.
“No grazie, no davvero.” Disse, reggendole il gioco. “Non credo che poi potrei permettermi i tuoi… saggi d’interesse.”
Nabiki strizzò un occhio. “Sicura? Immagino che tu non abbia letto attentamente il listino, ho delle offerte davvero vantaggiose per i miei amati consanguinei.”
“Non crederle.” Era la voce di Kasumi, che si era intromessa con una strana espressione tra il serio e il faceto. “Me lo ricordo bene quel listino di favore, ho avuto l’onore di esserne stata la prima vittima.”
Fu troppo. Le uscì una risata e in una manciata di secondi anche Nabiki e Kasumi ne furono contagiate. Ricordò sensazioni già provate anni prima e se ne lasciò avvolgere.
Occorreva che io morissi per ritrovare questo legame?
Raccogliendo il fiato, assaporò il gusto retroamaro di quella rivelazione: era indubbiamente passato troppo tempo dall’ultima volta che lei e le sorelle avevano avuto una tale complicità. Non si punzecchiavano così da quando…


Erano piccole, allora. Le sue bambine innocenti di un tempo lontano, molto prima che Nabiki divenisse così cinica e Akane tanto insicura.
Era accanto alle figlie ma non voleva intromettersi e preferiva ascoltarle in silenzio, sovrapponendo quella scena ad altre simili del passato. Si sentiva quasi sereno, adesso, nonostante tutto, e voleva cercare di registrare nella sua mente ciascuno di quegli istanti.
Per un attimo, sentendola ridere di un riso più controllato rispetto alle sorelle, ma altrettanto sincero, gli sembrò che anche Kasumi fosse tornata magicamente la bambina spensierata che solo lui, forse, ricordava. Ma appunto durò un attimo, un’ombra tornò a segnare il suo volto e Soun se ne dispiacque. Non gli sfuggì che di tanto in tanto, furtivamente, forse sperando che non se ne accorgessero, la sua figlia maggiore aveva gettato lo sguardo verso il resto della sala in cerca di qualcosa… o qualcuno, più plausibilmente.
Già, Soun comprendeva il suo animo maturo e sensibile. Così come aveva ben colto anche la stessa causa di quella preoccupazione, ossia l’assenza di Ranma. Per lui, che così chiaramente davanti a tutti aveva mostrato di sentirsi il vero responsabile di quanto accaduto ad Akane, doveva essere quasi più difficile che per loro.
Anche Akane, a sua volta, sembrava aver deliberatamente evitato l’argomento, ma nei suoi occhi aveva potuto percepire, pur a sprazzi, tra uno scherzo e l’altro con Nabiki, il tipico senso d’ansia e frustrazione della sua terzogenita.
Mi dispiace, piccola mia. Hai preso troppo da me…
E capiva anche questo, ma con amarezza. Il rimorso, la paura di farsi avanti per primi. Aveva vissuto anche lui quei sentimenti durante la propria giovinezza. Eppure, si chiese, era mai possibile che per l’ennesima volta quei due non avessero il coraggio di sistemare le cose tra loro?
Del resto, fino a un mese prima, non vi avrebbe dato poi tanto peso. Quei due ragazzi erano così giovani, e avevano davanti a sé tutto il tempo del mondo. La sorte della palestra poteva aspettare ancora un po’. Le sue speranze potevano aspettare.
E ora, invece, il tempo era proprio ciò che non avevano più a disposizione.
Soppresse il sospiro che gli era sorto spontaneo. Meditò per un momento di intervenire in prima persona e parlare con Ranma, ma poi notò un’altra assenza e questo, d’incanto, lo rassicurò.
Meglio così, pensò, ci avrebbe pensato una persona molto più adatta di lui. Il suo posto era invece lì, assieme alle sue figlie. Annuendo tra sé, tornò a rivolgere loro tutta la sua attenzione, come meritavano.


Lo trovò esattamente dove si aspettava. Non a chilometri di distanza, ma subito dopo aver varcato la soglia principale, appoggiato contro il muro in direzione dei lampioni che illuminavano la strada deserta, con lo sguardo assorto che spaziava in chissà quale genere di pensieri.
Ancora prima di trovarlo, sapeva benissimo che stavolta non era fuggito. Un tempo avrebbe attribuito questo suo intuito al fatto di essere la moglie di un artista marziale; ora voleva tanto sperare, con tutta se stessa, che ciò era semplicemente dovuto al fatto di essere una madre, sua madre.
“Ranma…” Accennò, udendo la propria voce come un timido richiamo, quasi troppo fioco per essere sentito da qualcun altro. Tuttavia lui scosse il capo e si volse a incontrare il suo sguardo, senza dire una parola.
Nodoka si fece coraggio, ricacciò i sensi di colpa che la opprimevano e cercò di non pensare a tutti gli anni in cui non era stata presente per suo figlio. Il passato era passato, ma adesso lei poteva e doveva essergli vicina. Allungò il braccio e mostrò il proprio carico. “Ti ho portato una camicia pulita. Ero sicura che ti potesse servire, dopo che Ukyo-chan stamattina è rientrata in casa indossando la tua.”
Gliela porse e lui la prese e, voltatosi di nuovo nell’altra direzione, accennò a mettersela, lentamente e con fare meccanico.
Nodoka decise di tentare un’altra volta. Forse l’approccio diretto sarebbe stato il più semplice.
“Perché non vieni dentro? Io penso… che farebbe piacere ai Tendo. E ad Akane.”
Ranma smise di abbottonarsi.
“Questo non credo di poterlo fare.” Mormorò, con gli occhi rivolti al cielo. “Cosa potrei dirle? Che mi dispiace di non essere riuscito a salvarla? Che ci ho provato ma non sono stato in grado di fare nulla di buono, che fra una manciata di minuti il suo tempo scadrà e morirà… a causa mia?”
“Non è affatto vero.” Nodoka scosse la testa con convinzione. “Ecco, temo di non aver compreso nei dettagli tutto quanto è accaduto… ma sull’argomento l’anziana signora, prima, è stata molto chiara. Tu hai fatto tutto il possibile e anche di più.”
“E allora? Non è servito a niente, è questo il punto!” Ranma aveva alzato la voce. “E se non fosse stato per me, Akane non sarebbe nemmeno stata rapita e portata in Cina. Safulan e gli altri lo hanno fatto per mettere in difficoltà me. Lo sai quante volte ci ho pensato, in questi giorni? Io…”
“Beh, di sicuro non servirà nemmeno quello che stai facendo ora.” Lo interruppe con tono molto meno accondiscendente di prima. E stavolta le parole le vennero spontanee. “Sappi che tutto questo autocommiserarti non è affatto…”
“Virile?” Ranma sibilò a bassa voce esibendo un sorriso aspro, tagliente come la lama di un rasoio. Mentre una vecchia ferita dentro di lei riprendeva improvvisamente a sanguinare, suo figlio si girò e la guardò negli occhi. “Ho pensato anche a questo, ultimamente. Ti ho evitato per così tanto tempo, terrorizzato dall’idea di tagliarmi il ventre, dando la colpa di tutto a papà, certo, ma soprattutto alla mia maledizione… e ora eccomi qui, guarito una volta per tutte da Jusenkyo. Non mi trasformerò mai più in una ragazza. Ciò mi ha forse reso un vero uomo? No, in questi giorni ho capito che non risponderò mai a quel vostro, tuo ideale… e ho capito anche che non me ne importa proprio niente.” Concluse, senza distogliere lo sguardo da lei, senza alzare il tono eppure lo stesso con aria di sfida.
Non si lasciò intimorire. Era addolorata per quelle parole, sì, ma era pur sempre – nonostante gli anni in cui erano stati distanti, nonostante ogni cosa – sua madre e finalmente ne era del tutto cosciente. Era abituata a soffrire in silenzio, poteva sopportare anche quel colpo. I dubbi e i timori di pochi secondi prima erano un pallido ricordo.
Poggiò delicatamente un dito sulle labbra di Ranma.
“Hai finito? Perché non volevo dire questo. Intendevo solo che il tuo rimanere qui e continuare a punire te stesso non è affatto giusto nei confronti della tua fidanzata.”
Cogliendo l’espressione stupita e leggermente intimidita del figlio, permise che il rimprovero, ora, lasciasse posto a parole più dolci.
“Non hai pensato davvero a lei? Non credi che abbia bisogno di te, in questo momento? Non lasciare che a parlare per te sia il tuo orgoglio. Ranma, voi vi volete così tanto bene. Se davvero tieni ad Akane, non devi restare qui ma entrare dentro e starle vicino. Avete quest’opportunità così unica. Non sprecarla.”
“Ma lei non…”
“Lei non aspetta altro. Credimi, lo so con certezza, gliel’ho letto negli occhi.” Si avvicinò ulteriormente a Ranma e prese lei stessa ad abbottonargli la camicia. Quando terminò, aggiunse con fare più leggero: “Ma forse ora è meglio che tua madre la smetta di fare da tramite tra voi e che vi lasci un po’ di spazio. In ogni caso mi aspetto di vederti al più presto nel salone, va bene?” Lo invitò, per poi voltarsi e incamminarsi verso l’ingresso del ristorante.
Entrando, Nodoka si sentì come sgravata da un grosso peso.
Era sicura di essere stata convincente.
Glielo diceva il suo istinto. E quest’ultimo, poteva affermare tra sé con grande soddisfazione, non aveva nulla a che fare con l’essere la moglie di un artista marziale.


Rimase fermo a guardarla, mentre rientrava con passo deciso ma aggraziato nel Nekohanten.
Forse aveva ragione, forse la cosa giusta da fare era seguire il suo invito.
Quanto poteva mancare all’alba, ormai? Una mezz’ora, forse meno, forse più. Non aveva senso sprecare quel poco tempo prezioso.
All'improvviso pensò che, più di ogni altra cosa, voleva rivedere Akane. Rivederla e confessarle quel pensiero che aveva rimuginato tanto a lungo in quegli ultimi giorni, il rimpianto più grande che non aveva mai smesso di tormentarlo, nemmeno per un istante. Accennò un sorriso, dentro di sé.
Si avviò. E mentre i suoi passi, da cauti, si facevano via via più spediti, ringraziò mentalmente sua madre. Era certo di averla fatta preoccupare molto, nelle ultime ventiquattro ore, e ne era profondamente addolorato, tuttavia era rimasto ancora più colpito dalla forza d’animo che gli aveva appena mostrato, concedendosi perfino un pizzico di ironia.
Si sentì orgoglioso di essere suo figlio. E tuttavia era quanto mai vero: non poteva certo essere lei a fare da tramite per loro. Non ora, non più, si disse: stavolta stava a lui farsi coraggio e affrontare Akane, affrontare l’addio, e pensava queste parole cercando di convincersi con tutto se stesso che fosse giusto così.
Ma proprio allora il pensiero lo attraversò come una scarica elettrica e lo devastò da capo a piedi, mentre ne assaporava in poche frazioni di secondo tutta la sua veridicità.
Combattuto da sentimenti contrastanti strinse i pugni, avvertendo il fastidio delle fasciature e della pelle sbucciata. E infine si arrese e si arrestò, come se si fosse appena scontrato contro un muro invisibile.
Perdonami, mamma…


“Sono davvero felice per te!” Akane era sinceramente convinta delle parole che aveva appena proferito.
Il ragazzo cinese ridacchiò, sistemandosi su un lato con un gesto istintivo della mano la frangia bagnata dei capelli. Dal momento in cui si era unito a loro la conversazione era diventata piuttosto povera di argomenti: Mousse si era mostrato irrigidito e a disagio, forse temendo di dire qualcosa di inopportuno, forse intimidito dalla strana situazione, anche se Akane aveva apprezzato molto il suo gesto.
Erano cambiate davvero tante cose dai tempi in cui le aveva affibbiato il ruolo di ‘posta in palio’ del duello tra lui e Ranma, per non parlare di quella volta che l’aveva rapita con la minaccia di trasformarla in papera.
Tuttavia, quando il ragazzo vestito di bianco ebbe interrotto il silenzio che si era creato negli ultimi minuti, sbuffando come rassegnato per poi andare a prendere il vaso di fiori che stava sul tavolo vicino, Akane aveva immaginato per qualche istante che volesse assumere lui la sua forma maledetta e volare via da lì per sottrarsi a quell’imbarazzo.
Ora, cessata la sorpresa iniziale, trovava perfettamente logico che Mousse, pur essendosene rovesciato il contenuto per ritrovarsi inzuppato fradicio, fosse rimasto umano.
La spedizione in Cina era almeno servita a qualcosa di buono, notò con una punta di amarezza.
“Ti ringrazio, Akane Tendo. Comunque non si tratta soltanto di me.” Specificò proprio allora il suo interlocutore. “Siamo tutti quanti guariti dalle nostre maledizioni, compresi Ranma e Ryo…”
“Mi perdoni tanto, signorina Akane!” Scongiurò la voce acuta di Konatsu, coprendo le parole dell’altro. Il giovane kunoichi che prestava servizio da Ukyo doveva essere insieme a loro già da un po’, a giudicare dalle facce poco sorprese degli altri, ma francamente Akane non si era accorta della sua presenza. “D-deve sapere che, prima, ho fatto una scenata imbarazzante, scandalosa. È stato più forte di me… vede, non volevo che accadesse qualcosa di male alla signorina Ukyo. Ma-ma questo non vuol dire certo che io volessi che qualcosa invece accadesse a lei, perché…”
“Ho capito.” Lo placò con un cenno della mano e un sorriso, sebbene non avesse compreso alcunché di quello sproloquio. E aggiunse con più sincerità: “Stai tranquillo, non me la sono affatto presa.”
“Akane, cara.” La voce familiare della signora Nodoka la fece voltare. La stava guardando con una dolcezza disarmante, e per un attimo Akane pensò alla mamma. “Credo ci sia qualcuno che vuole parlare un momento a quattrocchi con te.” E detto ciò le prese la mano e accennò a guidarla in direzione dell’ingresso.
Esitò, cercando con lo sguardo papà e le sue sorelle. Trovò i loro volti assenzienti, che la invitavano ad andare. D’un tratto capì che era ora, che non poteva continuare a indugiare, e nello stesso tempo avrebbe voluto che i minuti appena trascorsi fossero potuti durare per sempre.
Akane si lasciò dunque trascinare, ma il cuore aveva preso a batterle forte.
Dentro di sé, dovette ammettere, era perfino intimorita. L’ultima volta che l’aveva visto, dopotutto, lui l’aveva fissata come una perfetta estranea.
Un’altra parte di lei, però, seguiva bramosamente la zia Nodoka e non vedeva l’ora di arrivare a destinazione, timorosa che ci stessero mettendo troppo tempo. Come quando si insegue l’arcobaleno e però, per quanto veloci si corra, questo puntualmente svanisce prima di aver raggiunto la linea dell’orizzonte.
Percorsero il corridoio per secondi che le parvero un’eternità, mentre dietro di sé udiva i passi solerti di amici e familiari.
Finalmente la signora Nodoka aprì la porta, per poi arrestarsi e tentare di reprimere un sussulto, senza riuscirci.
Akane si affacciò a sua volta, desiderosa di scoprire la causa di una tale reazione, e poté appurarlo anche lei.
In fondo al suo cuore, non fu una vera sorpresa constatare che l’uscio era deserto e che di Ranma non v’era alcuna traccia. Ma fu stranamente proprio in quel momento che sentì di cogliere appieno l’angoscia straziante della sua situazione. Fu allora che si sentì una condannata al patibolo.

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Il prossimo capitolo sarà anche l’ultimo. Sì, avete capito bene. Ed essendo già stato scritto i tempi di aggiornamento saranno rapidi, per cui non ho altro da aggiungere se non che vi aspetto per il finale!


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Capitolo 14
*** Incontro alla luce ***




Ci siamo, l’ultimo aggiornamento. Con tutti i miei ritardi sembrava quasi che questo momento non dovesse giungere, invece è giunto e, beh, a questo punto, vorrei spendere qualche parola… ma per ora lascerò che sia il capitolo a parlare. Dunque ci rivediamo dopo e buona lettura!



Capitolo 14
“Incontro alla luce”
 

Si sentiva fuori posto, in più di un senso. Completamente inosservata agli altri, ancora radunati in cerchio attorno ad Akane, era uscita dalla sala grande con l’intenzione di dirigersi verso la propria camera al piano di sopra. Poco prima di raggiungere le scale, il suo sesto senso le aveva però comunicato qualcosa e aveva quindi deviato dal percorso, determinando che fosse opportuno rinfrescarsi un momento.
Ma di momenti ne erano passati parecchi da quando si era sciacquata e non poteva certo continuare a strofinare l’asciugamano al viso, la pelle stava protestando a furia di essere sfregata. Lo posò e disse a voce alta: “Ora, penso, potrebbe anche uscire allo scoperto...”
In quel momento stesso Ke Lun udì un forte rumore, come di un vetro in frantumi.


Ansimò, accorgendosi di aver trattenuto il respiro fino a quel momento. Si guardò di nuovo attorno: molte presenze stavano avvicinandosi a lei e alla zia Nodoka, ma all’appello mancava l’unica che contava.
“Ranma?” Domandò la signora, come se stesse davvero aspettando una risposta. Si portò una mano alla bocca, aveva un’aria sorpresa e forse anche delusa. Akane non poté dirsi di condividere del tutto quella sensazione.
Udì diverse voci, non riusciva a tradurle in frasi di senso compiuto né la cosa le importava. Stava realizzando tutta la portata di ciò a cui stava andando incontro e, nonostante il rumore da cui era circondata, si sentiva incredibilmente sola.
Dunque lui voleva evitarla? Non aveva nemmeno il coraggio di affrontarla, di parlare con lei? Non poteva davvero essere stupido fino a un tale punto, nemmeno Ranma. Avrebbe voluto picchiarlo, insultarlo e gridare la propria rabbia fino a farsi sentire in ogni angolo della nazione.
E al tempo stesso non trovava più nemmeno la forza di muoversi, di voltarsi e tranquillizzare chi le stava accanto, figurarsi di pronunciare parola. Perfino Ukyo, nella sua testa, era ammutolita da diversi secondi, probabilmente colta alla sprovvista dalla fuga del loro comune fidanzato. O forse era lei che non riusciva a sentire nemmeno le sue parole.
Inumidendosi le labbra inaspettatamente asciutte, strinse le braccia al corpo con fare meccanico. Fuori faceva freddo, ma di questo prese coscienza soltanto diversi secondi più tardi.


Balzò di tetto in tetto, tenendo con una sola mano il proprio carico, in un equilibrio che sarebbe apparso precario solo per l’occhio più disattento. Uno scherzo invece per lui, e questo nonostante la carenza di allenamenti, la mancanza di sonno e l’ansia che lo stava dominando; ma ora non era affatto dell’umore di vantarsene.
Chissà come reagirà.
Cercò di non immaginare la delusione sul volto di sua madre, e ovviamente ciò sortì l’effetto opposto. Non importava, si sarebbe giustificato, si sarebbe scusato, in qualche modo avrebbe perfino pagato i danni provocati. Sarebbe voluto uscire dal Nekohanten in un modo più ortodosso, ma quel che era fatto era fatto. E tutto questo, ora, passava in secondo piano.
Pregò di non stare per commettere una grossa stupidaggine, per quanto se lo fosse ripromesso: se ci fosse stato anche solo il minimo cenno di speranza, lui avrebbe provato qualunque cosa. Proprio sua madre era stata l’ispirazione per ciò che gli era venuto in mente, glielo avrebbe spiegato e magari lei avrebbe capito. Avrebbero capito.
Poteva salvare Akane, doveva salvarla. Era finito il tempo di piangersi addosso, stava tutto a lui: e se anche, una volta arrivato a destinazione, avesse dovuto affrontare altri cento, mille Safulan, ebbene l’avrebbe fatto senza battere ciglio.


“Il dottor Tofu, presumo.”
Afferrò la stanghetta degli occhiali e mise a fuoco, con un po’ di meraviglia, la figura non più alta di un comodino che aveva letteralmente balzellato nella sua direzione e si stagliava ora di fronte a lui abbarbicata al proprio bastone, con un’aria saccente e che per questo gli appariva quasi comica, associata a tale immagine. Poi ricordò di avere a che fare con una delle Grandi Anziane del leggendario popolo di Joketsuzoku e riacquistò un certo contegno.
“Venerabile Cologne”, cominciò aggiustandosi la voce, “ero venuto per…”
“Non è il momento.” La sua interlocutrice si guardò rapidamente attorno, forse solo per constatare che il rumore che aveva fatto sobbalzare entrambi poco prima non era stato causato da lui. Poi puntò gli occhi in direzione opposta del corridoio. “Lo sgabuzzino. Ma certo.”
“Vengo con lei!” Disse, traducendo in azione le proprie parole quando l’amazzone lo ebbe già distanziato di qualche metro.
La raggiunse che era intenta a contemplare una porta aperta per metà e fuori dai cardini, nonché l’interno della stanza, illuminato dall’interruttore acceso.
“Era chiusa a chiave… domani mi toccherà far sistemare la serratura.” Borbottò.
“Un ladro?” Chiese Tofu, affacciandosi a sua volta. “Mentre tutti noi eravamo in casa?”
“Sicuramente qualcuno che è entrato dalla porta sul retro, dato che eravamo riuniti nel salone. E che se n’è fuggito da… beh, direi che non ci sia neanche da domandarselo.” Concluse additando il vetro rotto e la finestra dalla quale faceva capolino, a tratti, qualche soffio di vento freddo. “Un’uscita ancora meno discreta, senza dubbio.”
Tofu ispezionò l’interno della stanza, scorrendo tra scope e scatole varie senza trovare niente che non facesse pensare a un comunissimo ripostiglio.
“E manca qualcosa?” Domandò infine.
“Sì.” Disse l’amazzone. “E si tratta delle uniche cose che potessero avere… un valore.”
Tofu ripensò alle foto che Nabiki aveva mostrato loro qualche ora prima, quando aveva smascherato il piano architettato dal signor Saotome. Non gli fu difficile tirare le somme.
“Le fiasche con le acque maledette, giusto? E il resto lascerebbe pensare a uno dei ragazzi. Uno come Mousse, Ryoga, o più probabilmente Ranma.”
Cologne lo fissò attentamente prima di rispondere. Poi alzò il capo, con l’aria del giocatore che decide di scoprire le proprie carte.
“Già, quelle fiasche. Tutte e tre, tra l’altro. E immagino che anche l’altra supposizione sia esatta.” Sospirò. “Pare che il consorte abbia in mente qualcosa, ma onestamente non saprei dire cosa di preciso possa avere intenzione di fare con quelle acque.” Socchiuse le palpebre. “L’unico fatto certo è che con Zhou Chuan Xiang non si scherza.”
“In verità”, Tofu aggiustò le lenti all’altezza del naso, “credo di avere un’idea a riguardo.”
L’interlocutrice tornò a fissarlo negli occhi, lasciando trapelare un poco di curiosità.
“Sentiamo.”
Si bloccò per qualche secondo. Si era recato da Cologne proprio per esporre questa intuizione ma non era sicuro della sua plausibilità, tanto che aveva finito per seguirla in silenzio ed era stato sul punto di lasciar perdere, quando lei era entrata in bagno. Si costrinse a ripetersi che doveva osare, doveva tornare ad avere fiducia nelle proprie capacità, e a ogni modo qualunque cosa era meglio della tortura a cui si era sottoposto fino a qualche minuto prima.
“Prima lei ci diceva che l’Akanenichuan ha fatto… se ricordo bene le sue esatte parole, ‘da tramite’. In pratica la sorgente non ha inglobato a sé una volta per tutte la tamashii di Akane, non opera in quel modo ma funge più semplicemente da conduttore. Quando Ukyo si è bagnata con quell’acqua, pur trovandosi a centinaia di chilometri di distanza dalla Cina e dal monte Kensei, l’anima senziente di Akane è stata trasferita nel suo corpo. E la sorgente è diventata una fonte normale, prova ne è quel coniglio che vi è stato immerso senza alcuna conseguenza.”
“Precisamente.”
“Allora pensavo…” Espose rapidamente la sua idea. Cologne lo ascoltò con attenzione, annuì quando ce n’era bisogno, non lo interruppe finché ebbe finito.
“È una teoria interessante.” Gli disse infine. “Sebbene non sappia se possa davvero essere messa in pratica, si potrebbe fare almeno un tentativo… ma…”
Alzò lo sguardo verso la stanza, intuendo il seguito della frase. “Pare che Ranma abbia avuto quest’idea prima di noi”, constatò a sua volta, “o almeno ci conviene sperare che sia andata così.”
L’amazzone non replicò nulla e Tofu la scrutò con interesse. Qualcosa non lo convinceva del tutto, forse la rapidità con cui Cologne aveva accettato quanto le aveva detto. Si domandò se per caso non fosse già arrivata per conto suo alla medesima conclusione, se l’avesse tenuta nascosta loro per un tornaconto personale.
La morte di una tra Akane e Ukyo poteva tornare utile a Shampoo, effettivamente, ma davvero non riusciva a darsi una risposta così crudele.
Da medico, non poteva concepire nulla di più importante di una vita umana e supponeva che la stessa Cologne non dovesse pensarla poi così diversamente. Del resto mai in tutto quel tempo era ricorsa a rimedi drastici per acquistare Ranma alla causa di Joketsuzoku, e di mezzi ne avrebbe avuti tanti.
Le urla della sua interlocutrice lo riscossero. Non comprendeva ciò che l’amazzone andava esclamando in lingua cinese, ma suonavano indubbiamente come delle imprecazioni.
“Venerabile Cologne, cos’è successo?”
Cologne rispose senza guardarlo. “Quello scellerato di un consorte non ha considerato il problema più ovvio. Che cosa ha mai combinato?!”


Non distingueva più le carezze sulle proprie spalle in segno di conforto, né sapeva di chi fossero le mani che avevano stretto le sue. Avvertiva solo la voce di Ukyo dentro di sé, che aveva ripreso a farsi sentire con nuovo vigore: ora la sentiva nitidamente, ma non era intenzionata a darle retta.
Scuotiti, le diceva. Vuoi forse che finisca tutto così? Intendi startene ancora a lungo a braccia conserte, trascorrere in questo modo i tuoi ultimi momenti, lasciare questo mondo senza nemmeno parlare un’ultima volta con lui, dirgli quel che provi? Ecco, guarda cosa mi stai facendo fare, proprio a me che se fossi al posto tuo non esiterei un istante a raggiungere Ran-chan con ogni mezzo, ma ti sembra giusto?! Scuotiti, insomma, o giuro su ogni okonomiyaki cucinata nella mia carriera che mi riprendo il mio corpo seduta stante!
Non puoi capire, le rispose mentalmente. Se lui non vuole vedermi, non posso costringerlo. E io non sono come te, non so esprimere i miei sentimenti come fai tu, non ne sono capace. Non ho la tua faccia tosta… il tuo coraggio, la tua forza d’animo.
Finiscila con queste baggianate, le replicò Ukyo con una irruenza tale da farle pensare di averla udita gridare sul serio e non solo nella sua testa. Non posso sentire questi discorsi dopo che hai preso una simile decisione, dopo che mi hai impedito il nobile gesto, il sacrificio espiatorio al posto tuo, che hai scelto di affrontare uno ad uno i tuoi cari, guardarli dritto in faccia e dire loro addio. Pensi che, di noi due, sia io quella ad aver avuto fegato?! E arrivata fin qui mi parli di rinunciare… di non rivedere più quello stupido che amiamo, quello stupido che ti ama?
“Ukyo…” Disse inavvertitamente a voce alta, colpita di cuore da quello sfogo, dalla verità di quanto detto. Anche se Ranma era fuggito, lei l’avrebbe ritrovato. Solo che non poteva…
Si interruppe, tornando alla realtà. Qualcuno le aveva appena messo in mano qualcosa di caldo. Spostando su di esso la propria attenzione, poté riconoscere la forma di un thermos.
“Non è da bere.” Disse Nabiki, sbucando di fronte a lei e facendole un occhiolino. “Con questo potrai ritrasformarti in Ukyo quando desideri, senza bisogno di tornare qui.”
“Sorellina…”
“Risparmiati il ‘sorellina’, con me non attacca: sappi che addebiterò questo servizio al tuo caro fidanzato. E ora vai, hai ancora tutto il tempo di trovarlo.”
Akane accennò a muoversi, poi si bloccò. Guardò ancora la sorella. E poco più distanti Kasumi, papà, la zia Nodoka, che annuivano piano.
“Cosa aspetti, un altro saluto melodrammatico? Sbrigati!” Nabiki accennò un gesto della mano per enfatizzare la propria esortazione, ma fu anticipata dal suo slancio. Non ne uscì fuori il migliore degli abbracci, ma per Akane andava benissimo lo stesso.
“Grazie. Ti voglio bene anch’io.” Mormorò, prima di interrompere il contatto e allontanarsi senza osservare la reazione di Nabiki, senza più guardare nessuno. Se si fosse voltata indietro, forse avrebbe perso il coraggio e non poteva, non voleva permettersi questo.
E corse, corse. No Ukyo, pensò, non voglio che tutto finisca così.
Ma era talmente assurdo, non sapeva nemmeno dove si stesse dirigendo. Ranma poteva trovarsi ovunque. No, non era questo l’atteggiamento giusto, non importava, doveva provare. Il cuore le gridava di farlo.
Anche se solo un’ultima volta, voleva vederlo ancora.


Forzò la finestra e scoprì che non ce ne sarebbe stato bisogno, nessuno aveva provveduto a chiuderla ermeticamente dopo la ‘fuga’ della notte prima.
Un altro conto da pagare…
Stupendosi della propria autoironia, pensò che andava bene così, il più era fatto e ora doveva imporsi di essere ottimista. Entrò e soltanto allora realizzò la fatica e la stanchezza e si permise di riprendere fiato per qualche istante, sedendosi per terra a poca distanza dal letto, dalla vera Akane.
Aveva bisogno di riordinare le idee.
Grazie alle parole di sua madre, il discorso di Obaba gli era tornato chiaro e vivido nella mente. Per qualche minuto, tutto aveva avuto perfettamente senso. Adesso, invece, i dubbi erano tornati a sovrastarlo e a impedirgli ogni lucidità di pensiero. Quante probabilità c’erano che la sua idea potesse funzionare?
Ma non aveva più tempo per pentirsi. Scrutò le tre damigiane. Era così agitato che, entrato nel ripostiglio del ristorante dove le aveva viste l’ultima volta, non era nemmeno riuscito a leggere con attenzione le scritte sulle etichette e, per timore di scambiarle, aveva deciso di portarle tutte con sé.
Si complimentò con se stesso per quella decisione così assennata, pur presa in un momento così confuso: non voleva nemmeno immaginare il disastro che avrebbe potuto combinare adoperando l’acqua sbagliata. Accese la luce. Fissò attentamente le damigiane e per un momento credette di essere ancora troppo nervoso, o che la vista gli stesse giocando un brutto scherzo. Poi la verità lo assalì come una scossa elettrica.
Le scritte erano in caratteri cinesi.
Per qualche secondo fu letteralmente dominato dal panico. Cosa diamine aveva fatto?! E ora come poteva riconoscere quella giusta? Calma, doveva mantenere la calma. Scrutò ogni centimetro della circonferenza di ogni fiasca, forse da qualche parte erano annotate le traduzioni… ma no, niente!
Quell’idiota di una guida! Non poteva scrivere nella nostra lingua?!
Calma, poteva ancora farcela. Sollevò una fiasca per volta: una poteva scartarla con sicurezza, ma le altre due… No, aveva assolutamente bisogno di capire cosa fosse scarabocchiato sulle etichette. Forse con un dizionario… ma dove trovarlo, ora?
Stupida guida! Stupido papà che non gli aveva mai fatto imparare il cinese, nonostante tutti i loro viaggi di addestramento!... Stupido lui, che non avrebbe dovuto fare di testa sua ma chiedere a Obaba…
“Maledizione!” Gridò contro un appendiabiti. Non poteva finire così, non poteva fallire. Lui era Ranma Saotome, non perdeva mai…
…quante stupidaggini. Glielo aveva detto anche sua madre, non doveva lasciare che fosse l’orgoglio a parlare per lui. Non c’era davvero nulla da vincere o perdere.
Appoggiandosi alla spalliera del letto cominciò a parlarle, la pregò di capirlo, di perdonarlo. Ma proprio guardandola ancora una volta, distesa su quel letto, lo comprese: lei non era la vera Akane, era solo un corpo senz’anima che non gli avrebbe mai potuto rispondere.
Solo un altro dei sogni che aveva rincorso inutilmente.
Contro ogni logica gridò il suo nome, come se la forza della sua voce potesse svegliarla e compiere il miracolo. In una fiaba a lieto fine, forse, sarebbe stato così, eppure nella realtà lei si ostinò a non proferire verbo e lui si sentì morire dentro.
In un ultimo impeto scagliò un forte pugno contro la parete, urlando la propria disperazione, consapevole di aver perso anche la sua ultima possibilità. Poi tutto divenne buio.


Una strana sensazione le attraversò il petto, simile a una fitta. Piegò il torace e appoggiò le mani sulle ginocchia, raccogliendo il fiato.
Si guardò intorno. Le era parso che qualcuno l’avesse chiamata, ma il luogo era deserto. Riconobbe lo spiazzo del parco giochi vicino casa, un breve intervallo tra le abitazioni della zona che permetteva di scorgere la linea dell’orizzonte. Quanto aveva corso? E quanto mancava ancora all’alba? Non ne aveva la minima idea e più ci pensava, più si convinceva che tutta questa cosa non aveva alcun senso. Lei stava per morire, e ne aveva una paura matta: aveva cercato di non affrontare davvero quella verità, ma il suo scudo mentale si era ormai infranto del tutto.
Stava per morire, ma non voleva. Si chiedeva perché dovesse toccarle questo destino, a lei che non aveva nemmeno finito di frequentare la scuola superiore. Si chiedeva perché proprio lei, quale karma dovesse scontare, cos’avesse mai fatto di male per essere punita così gravemente. Voleva vivere, diplomarsi, magari iscriversi all’università, guidare la palestra di arti marziali, farsi una famiglia e ora non avrebbe avuto niente di tutto questo.
Scoprì che la sua vista era annebbiata dalle lacrime. Non ricordava nemmeno di aver cominciato a piangere. Ukyo provò ancora a confortarla, ma lei stavolta ricacciò con rabbia quel gesto, non voleva più sentire la solidarietà di nessuno.
“Voglio vivere!” Gridò disperata.
E poi gridò ancora, e decise che avrebbe continuato fino a consumarsi le corde vocali. Cos’altro le restava da fare?
E all’improvviso, fissando l’immagine deformata della mano che stringeva il thermos, come una folgorazione, la risposta le si manifestò limpida e seducente nella sua semplicità.
Assolutamente nulla.
Le sarebbe bastato aspettare. Non doveva fare nulla. Aspettare e nient’altro. E sarebbe sopravvissuta. E sarebbe…
…cosa stava andando a pensare? Stava forse perdendo il lume della ragione?! Se lei non si fosse bagnata con quell’acqua calda prima del sorgere del sole, sarebbe stata Ukyo a fare la sua fine. Voleva vivere, ma non a quel prezzo, non poteva prendere in considerazione una simile…
Ma voleva vivere. Voleva vedere Ranma, ma non avrebbe potuto farlo se ora fosse morta. Anche Ukyo gliel’aveva detto, no? Anche Ukyo voleva che lei vedesse Ranma. Perciò non faceva una grinza, non faceva…
Il cielo. Era più chiaro rispetto a pochi minuti prima. Asciugandosi il viso, scorse i primi raggi del sole che premevano per uscire fuori. Adesso o mai più. Il braccio le tremò.
“Mi hai sopravvalutato, Ucchan”, disse piano, notando appena di averla chiamata con il diminutivo, “non ho affatto fegato, sto morendo di paura… perdonami, non trovo la forza di farlo.”
Non poteva farcela, non poteva versarsi quell’acqua. Era debole.
Allontanò lievemente da sé il thermos, fissandolo come la cosa più orribile sulla faccia della terra.
Kami, perdonami, perdonatemi. Ranma…


Soun dovette fermarsi. Non voleva, ma fu costretto. Le gambe gli avevano ceduto e non riusciva a contrastare l’ansimare del proprio fiatone, il corpo non gli rispondeva più come una volta. E poi, ormai, l’aveva vista.
La ragazza con la divisa del Furinkan era inginocchiata per terra e rivolta di spalle col capo basso, per cui, nonostante il sole fosse appena sorto e il cielo si stesse rapidamente rischiarando, non era in grado di identificarla.
Si avvicinò e udì un singhiozzare sommesso. Scoprì che la propria mano si era già posata con fare rassicurante sulla spalla della ragazza prima ancora che la sua mente avesse formulato un piano d’azione.
Lei sussultò. “Non volevo finisse così… non è giusto”, sussurrò, con una voce così roca che non riuscì a riconoscerne il timbro, “non è per niente giusto.” E con queste parole voltò il capo nella sua direzione. Soun non voleva, ma i loro sguardi si incontrarono.
Vide il volto.
I capelli.
Lunghi.
Quelli di Ukyo.
La strinse a sé come se fosse un simulacro della figlia, l’ultimo collegamento che l’aveva temporaneamente vincolata a questo mondo e, senza più niente che potesse trattenerle, lasciò che le proprie lacrime si unissero alle sue.


Epilogo


Silenzio. Aprì le palpebre, lentamente e con una certa difficoltà, ma l’oscurità non si dissipò di molto. Alle sue spalle, anzi affianco a lei doveva esserci una lieve fonte di luce, ma non bastava a rischiarare l’ambiente dove si trovava: non la aiutava il fatto che la vista era appannata e che il corpo non rispondeva ai suoi comandi. Impossibilitata a muoversi, scorgeva i deboli raggi di quella luce e ne era quasi ipnotizzata.
Si sentiva stordita, un po’ come se le fosse stato somministrato un anestetico. Le lacrime di poco prima non erano che un ricordo e il pensiero della sua morte non la angosciava più di tanto, forse si era rassegnata. O forse, adesso che il trapasso era compiuto, il peggio era effettivamente passato.
Provò ancora a muoversi, ma non vi riuscì. Probabilmente era normale, da morta: non aveva mai avuto notizie di cadaveri ambulanti, a parte quelli dei film dell’orrore che le piaceva guardare la sera tardi. Avvertiva la presenza del proprio corpo, ma poteva trattarsi semplicemente di un’illusione costruita dalla propria mente, così abituata alle sensazioni fisiche da non sapersene separare neppure in questo momento.
Chiuse gli occhi. Si domandò dove si trovasse, come mai non stesse succedendo niente. Forse non era ancora nell’Aldilà, forse era in una specie di dimensione intermedia, magari era in attesa della sua reincarnazione. Non si era mai fatta una idea precisa di come potesse funzionare il ‘dopo’, né ora era così ansiosa di scoprirlo.
Del resto non aveva nemmeno idea di come avesse trovato infine il coraggio di versarsi l’acqua del thermos e attivare la trasformazione, salvando Ukyo giusto in tempo. Ma l’aveva fatto e solo questo contava, adesso si rendeva conto che non sarebbe stata in grado di sopportare di essere sopravvissuta a sue spese, di vivere il resto della propria vita con il fardello sulla coscienza di averne soppressa un’altra.
Ancora silenzio. No, non proprio del tutto. Sentiva qualcosa, una presenza, un lieve respiro. Riaprì gli occhi, più facilmente della prima volta.
Vide una sagoma, nella penombra. La sagoma di una persona rannicchiata accanto a lei, come addormentata, e i capelli che cascavano su un lato… raccolti in un codino…
Possibile…? Il cuore accelerò il proprio battito, o almeno la mente lo immaginava per lei, e lo sguardo continuò a vagare lungo la figura curvilinea. No, non era lui, non poteva scorgere tutti i dettagli ma chiaramente stava osservando i contorni della sua forma femminile. Però Ranma era guarito dalla maledizione, tutti erano guariti dalla maledizione, lo aveva visto nei ricordi di Ukyo, lo aveva sentito confermare da Mousse, non era forse così? A meno che… Un’intuizione la colpì all’improvviso.
Lo spirito della ragazza annegata…?
Ma certo, aveva un senso, era logico. Le parve di partecipare alla chiusura di un cerchio: tutto era cominciato con Jusenkyo e con Jusenkyo doveva finire, pensò, e in un certo senso la faccenda era perfino affascinante. Ma cosa sarebbe stato di lei, ora?
Forse era bloccata lì, forse per sempre.
Dunque è così, passerò l’eternità assieme alle anime di coloro che sono annegati nelle Sorgenti Maledette.
Le venne un brivido per tutto il corpo, incredibilmente reale per essere un parto della sua mente.
Le sembrò un destino orribile e più che mai desiderò qualsiasi altra cosa, qualunque cosa che non fosse questo. Ma soprattutto voleva rivederli. Papà. Kasumi. Nabiki. Ranma. Ranma. Ranma…
“Ran… ma…”
La ragazza con il codino sobbalzò. Forse lo spirito l’aveva udita e si era letteralmente risvegliato dal suo sonno.
Un momento, io sono riuscita a parlare.
Lo spirito della ragazza annegata si inarcò verso di lei e sbatté le palpebre più volte in rapida successione, squadrandola come se fosse un fantasma, cosa che probabilmente era davvero. Ma la loro vicinanza la stava intimorendo, e per istinto Akane alzò il braccio verso di lei per allontanarla.
E sono riuscita a muovermi.
Voleva essere un gesto brusco, ma si trovò invece a sfiorare il viso della ragazza. Era tiepido. E bagnato.
“Aka… ne?”
Conosceva il suo nome? Non poteva essere! Ma allora…


“Ranma…?”
Era vero, non stava sognando. Era davvero la sua voce.
Prese la mano che lei aveva poggiato sul proprio viso. Era fredda, la strinse tra le sue.
“Ranma, sei proprio tu?” Il suo tono era incredulo e speranzoso al tempo stesso. ‘Fragile’ era la parola che il cervello gli suggeriva come la più adatta.
Pensò di dover dire qualcosa. Dare prova anche a lei che non erano in un sogno.
“Questo… dovrei chiederlo io a te, non ti pare?” Le mormorò.
Era come se le lancette fossero tornate indietro. Le stava parlando. Stava parlando ad Akane. Il suo volto era pallido, lo sguardo stanco, ma lei era viva. Si stavano tenendo per mano e lei era viva.
Era un miracolo, perché anche l’ultimo suo tentativo sembrava essere miseramente fallito.
L’idea gli era arrivata ripensando alle parole dette da sua madre: quando lei aveva parlato di ‘tramite’, a lui era venuto in mente il discorso di Obaba sul funzionamento dell’acqua della fonte Akanenichuan. Se era stata quella a trascinare l’anima di Akane nel corpo di Ucchan, per quale motivo – si era chiesto d’un tratto – il fenomeno non poteva essere replicabile? La risposta era che poteva, punto.
Bagnando un altro corpo, l’anima avrebbe automaticamente abbandonato Ukyo per seguire il nuovo ‘ospite’, o questa almeno era la sua speranza.
E stando così le cose, non poteva davvero pensare a un ospite migliore del corpo originale.
“Dove siamo? Non capisco…”
Ranma scosse piano la testa, tenne la mano della fidanzata come per assicurarsi che non potesse scomparire nel nulla e con l’altro braccio teso verso la finestra tirò la tenda, lasciando passare la luce del giorno.
“Scema… non riconosci la tua camera?”
L’ambiente avvolto dai colori del mattino assunse un altro aspetto, più allegro, più vivo. Pensò distrattamente che poi avrebbe dovuto riparare anche quest’ultimo danno: il pugno che aveva sferrato prima aveva sfondato in pieno l’interruttore lasciando la stanza senza illuminazione elettrica. Non che contasse qualcosa, al momento.
Era davvero un miracolo, perché il sole era sorto da molti minuti e Akane non aveva dato cenni di vita, nonostante l’avesse bagnata con l’acqua che riteneva giusta: sicuro di aver perso troppo tempo, aveva sfogato ancora la propria disperazione e poi si era accucciato accanto al suo corpo esanime.
Obaba mi ha detto che quella volta, in Cina, ho fatto in tempo… ma adesso, quando davvero contava, non ci ero riuscito… ero arrivato di nuovo troppo tardi…
E invece ecco la sua fidanzata davanti a lui: tornando a fissarla, notò la sua aria stordita e il fatto che non si fosse alterata per l’insulto che gli era scappato prima: probabilmente era ancora troppo debole per farlo, ma se avesse voluto avrebbe potuto picchiarlo anche cento, duecento volte.
Voleva dirle tante cose, ma i pensieri si accavallarono e alla fine dalle sue labbra uscì soltanto uno stentato: “Beh… come va?”
Ecco, che stupido… Era una frase talmente idiota, in quella circostanza, che pensò di essersene vergognato abbastanza per tutti e due, ma poi notò che Akane non sembrava indispettita e anzi gli stava accennando un sorriso.
“Mi sento, direi, intorpidita. Come se avessi una gamba addormentata, solo che… vale per tutto quanto.” Proferendo le ultime parole, cercò di alzarsi dal letto facendo leva sulle braccia. Sollevato il busto, rischiò di ricadere all’indietro e Ranma la trattenne in tempo.
“Immagino che sia normale”, constatò, “dopotutto erano settimane che il tuo corpo vegetava qui immobile.”
La fidanzata prese a fissarlo con una strana intensità. Si accorse solo allora dell’estrema vicinanza dei loro volti e non riuscì a impedirsi di arrossire.
“E tu…”, cominciò lei mentre Ranma avvertì l’improvviso bisogno di deglutire, “come mai sei una ragazza?”
Non era esattamente ciò che si era aspettato di sentirsi dire, ma anche questa domanda gli suonava piuttosto scomoda.
“Beh, questo, ecco…” Decise di raccontarle rapidamente e senza troppi dettagli il suo piano, di come avesse portato con sé dal Nekohanten tutte e tre le damigiane e si fosse poi trovato nell’impossibilità di stabilire quella giusta, non conoscendo il cinese.
Ricordando, rivisse sulla propria pelle quei momenti di terrore. Aveva potuto escludere la damigiana più leggera, quella ormai vuota che aveva contenuto al proprio interno la Nannichuan, prima di essere stata consumata da lui e dagli altri. Tuttavia, senza la possibilità di comprendere cosa dicessero quegli ideogrammi, non riusciva a distinguere tra le altre due e intanto il tempo stava finendo e…
“Le hai provate su te stesso?!” La voce di Akane era scioccata.
Ranma ridacchiò leggermente, non riuscendo a strappare da sé quella seccante sensazione di imbarazzo.
“Ecco, non entrambe. Come vedi, la prima acqua che mi sono versato era quella della sorgente della ragazza annegata e così non c’è stato alcun bisogno di sperimentare la seconda…”
“Ma… ma…”
“Non c’è bisogno di farne un dramma. Tanto troverò un altro modo di guarire dalla maledizione, vedrai…”
“No, intendevo… e se ti fossi versato per prima l’altra acqua?”
Ranma non rispose. Sarebbe stato un grosso bugiardo, se le avesse detto di non averci pensato. Il rischio c’era, Akane si sarebbe trovata nel suo corpo, inconsapevole della situazione, e dunque al sorgere dell’alba lui… Ma lei sarebbe stata salva anche in questo caso, perciò semplicemente non aveva esitato.
Non disse nulla, ma da come lo stava guardando doveva averlo capito anche Akane.
“Sei uno stupido…” Mormorò con un filo di voce, e lui non poté fare a meno di concordare mentalmente. Era stato uno stupido in tanti di quei modi che ormai ne aveva perso il conto, eppure i Kami avevano voluto dargli una possibilità di fare ammenda.
Improvvisamente venne tirato a sé in un abbraccio e fu colto del tutto alla sprovvista.

Chasing the Evening Shadows - Fanart di Giogia Gi 

Finì addosso ad Akane, pur riuscendo a far leva sul materasso con la mano libera e non schiacciarla con il proprio peso. A lei sembrava non importare, lo stava stringendo con forza e aveva perfino cominciato a singhiozzare: la cosa lo mise ancora più in agitazione e avrebbe voluto dirle di smetterla, ma la voglia di piangere venne anche a lui e cercò piuttosto di trattenersi.
“Sono viva…” Disse lei tra le lacrime.
Ranma analizzò la situazione. Troppe volte, negli ultimi giorni, aveva oscillato tra sonno e veglia fino a non distinguere quasi più la realtà dalle proprie fantasie, fino al punto di dubitare della propria sanità mentale. Ma gli occhi arrossati della fidanzata, il suo respiro, il suo calore non gli lasciavano dubbi.
“Sei viva.” Ripeté, con la sensazione di essersi svegliato da un lunghissimo incubo.
Akane si sfogò in un pianto liberatorio e lui la lasciò fare. Anche a lui ora stavano uscendo le lacrime, ma mandò mentalmente al diavolo le parole di papà una volta di più, con la consapevolezza che l’avrebbe fatto anche se non si fosse trovato nella sua forma maledetta.
Pianse assieme a lei e poi godette i lunghi momenti di silenzio che seguirono, intervallati solo da qualche singhiozzo sporadico.
“Però non credere che ti perdoni così”, riprese Akane, “ho avuto tanta paura, volevo che fossi vicino a me… e tu non c’eri.”
Sentì nitidamente il rumore del suo battito che accelerava.
Cercò la mano di Akane e ricordò di non averla mai staccata dalla propria, nemmeno in seguito alla caduta di poco prima. Così si limitò ad accentuare la stretta.
“C’ero invece”, disse, sapendo che era vero, “e ci sarò sempre.” Questo, si ripromise che sarebbe stato altrettanto vero.
Si guardarono negli occhi e non ci fu bisogno di aggiungere altre parole. Ritenne che non fosse né il luogo, né il momento per confessarle i propri sentimenti – a dirla tutta, nemmeno il corpo era quello giusto – ma anche che quel discorso fosse solo rimandato di poco.
Avrebbe voluto che quegli istanti durassero per sempre, ma fu proprio lui a sollevarsi e aiutare la fidanzata a tirarsi su dal letto.
“Dobbiamo avvisare gli altri.” Le spiegò. “Loro non sanno ancora niente.”
Akane annuì, sorridendogli di nuovo. Era pallida, ma meno di prima. Ranma pensò che si sarebbe ripresa presto del tutto, del resto non aveva mai messo in discussione la forte tempra della sua fidanzata.
È stata anche più forte di me…
Aveva ceduto troppe volte, aveva fatto passare brutti momenti a sua madre, al signor Tendo, a Ucchan, a tutti. Lo sguardo gli cadde sulle fasciature delle proprie nocche. Cavolo, aveva anche alzato le mani contro Tofu… e forse era andato troppo pesante perfino contro il proprio vecchio, non che lui non si meritasse una lezione.
Ma alla fine è stato pure merito suo, anche se solo per una fortuna sfacciata.
E tutti quanti a modo loro l’avevano aiutato, gli avevano impedito di perdersi nel momento in cui era più vulnerabile.
“Sarà una bella sorpresa.” Gli disse Akane, che si era appena appoggiata alla sua spalla. Lui annuì, sorridendole e stringendola a sé.
“Indubbiamente.”
La sostenne e percorsero insieme alcuni passi, affacciandosi un attimo alla finestra, prima di dirigersi verso l’uscita.
Fuori, il sole splendeva. Sapeva che era così anche dentro di lui.
Le ombre si erano finalmente dissipate.

 
***



Il disegno che avete trovato nel capitolo è stato realizzato da Giorgia Gi, che ringrazio ancora di cuore.

Bene, qualche pensierino mi è venuto in mente, ma prima… ecco, prendete un bel respiro, magari aspettate qualche istante prima di distogliervi dalla storia appena letta, magari se non siete interessati saltate proprio le righe che seguiranno. Ma se fatto ciò siete ancora qui, ne approfitto per ringraziarvi, tutti: che abbiate commentato assiduamente, di tanto in tanto, ma anche una sola volta per farmi sapere che, sì, ho avuto anche il vostro sostegno. Che abbiate inserito la fanfiction tra le seguite, le ricordate, le preferite, o più semplicemente che abbiate letto questo racconto e che questo vi abbia saputo essere di compagnia. Grazie.
È stato un viaggio lungo, molto più lungo del preventivato, ma non me ne pento perché – che sia venuta fuori brutta o bella – questa è la storia che desideravo tanto raccontare, in ogni minimo dettaglio, dalla prima all’ultima riga, ed esserci riuscito mi riempie di soddisfazione. Il tutto anche per merito vostro, e non è per dire, ogni singola osservazione o chiacchierata mi è stata di grande aiuto.
Così come, l’ho sempre detto ma ribadirlo adesso è d’obbligo, non avrei mai potuto farcela senza il sostegno e la collaborazione costanti di quella santa di una beta che è la mitica TigerEyes, la quale mi è sempre stata vicino dall’inizio alla fine. Senza di lei sarebbe davvero stata tutta un’altra storia, e forse non ci sarebbe stata proprio nessuna storia.


Non è ancora finita: qui di seguito, ecco delle "FAQ" dato che mi sembrava giusto rispondere pubblicamente alle domande più interessanti che mi avete posto nei commenti.

1) Che cosa sta facendo attualmente Shampoo ancora in Cina?

La risposta è fondamentalmente quella data da Mousse nel capitolo 4. Shampoo è rimasta sconvolta dalla disperazione di Ranma a Jusendo, mentre abbracciava il corpo esanime di Akane (ricordiamo che in questa fanfiction Akane non si è svegliata): comprendendo forse una buona volta di non essere ricambiata, si è presa un po' di tempo per pensare, col conforto del padre e delle amazzoni amiche d'infanzia (e obbligando invece Mousse a tornarsene in Giappone per dare una mano alla bisnonna al ristorante). Quando ha chiesto per telefono il permesso, Cologne non se l'è sentita di obiettare e l'ha lasciata fare.

2) Qual è l’esatto meccanismo dell’Akanenichuan?

Nei capitoli 10-11 Cologne spiega che l'Akanenichuan non è una fonte diversa dalla Nannichuan e dalla Nannichuan, essa come le altre ha solo la funzione di modificare l'aspetto delle persone che ci s’immergono, fermo però restando che un legame, sia pur latente, con colui che vi è caduto dentro la prima volta è comunque presente. Ciò che ha davvero causato gli effetti che conosciamo è stata la momentanea "morte" di Akane: non una vera e propria morte, ovviamente, ma quando Akane ha chiuso gli occhi il suo spirito (la tamashii, ossia la parte senziente dell’anima umana) si è separato dal corpo. E in quel momento è stato catturato, risucchiato dalla fonte Akanenichuan in virtù di quel legame di cui parlava Obaba. Nel manga chiaramente questo fenomeno non è avvenuto, ed è il vero e proprio momento divergente da cui la “what if” della mia storia.
Successivamente, proprio come nel manga, Ranma ha bagnato la fidanzata con l'acqua miracolosa di Jusendo (quella che sgorgava dal rubinetto del dragone) e questa ne ha preservato il corpo nonostante la cessazione delle funzioni vitali. Tuttavia ormai la tamashii era imprigionata e impossibilitata a fare ritorno: l’unico modo in cui poteva trasferirsi da un corpo all'altro era attraverso la stessa acqua dell’Akanenichuan, che a questo punto funzionava come un “conduttore”.

3) Ma cosa succede esattamente quando Akane si bagna con l’acqua calda a fine cap 14?

Premesso che queste precisazioni sono ininfluenti a livello narrativo, quella che segue è la mia ricostruzione degli eventi da scaletta: Akane si bagna con l'acqua calda appena prima dell’alba, fisicamente ritrasformandosi in Ukyo e di fatto lasciando campo libero all'anima (tamashii) di Ucchan ma rimanendo ancora dentro il suo corpo. Tuttavia proprio allora sorge l’alba, e a quel punto il tempo a disposizione è terminato e l'anima (tamashii) di Akane dovrebbe staccarsi dal corpo di Ukyo, disperdersi, verosimilmente annullarsi nell’incoscienza eterna. Sennonché, sempre nello stesso identico momento, Ranma (che, ricordiamo, si trova a casa Tendo) bagna il corpo di Akane con l'acqua dell’Akanenichuan la quale funziona da “calamita” risucchiando la tamashii di Akane e salvandole la vita.

4) Come mai, sempre nel capitolo 14, Ranma non ha provato le due fiasche sul corpo di Akane?

Perché né la Niannichuan (sorgente della ragazza annegata) né l’Akanenichuan avrebbero cambiato l’aspetto esteriore della fidanzata, rendendo così impossibile a Ranma capire quale fosse l’una e quale l’altra. Il problema è decisivo, dal momento che ogni acqua maledetta annulla gli effetti della precedente (se così non fosse, Ranma non potrebbe tornare un ragazzo per intero bagnandosi con la Nannichuan) e dunque Akane si sarebbe salvata solo se l’ultima delle due acque usate fosse stata appunto l’Akanenichuan. Se, al contrario, Ranma avesse bagnato il corpo di Akane prima con l’Akanenichuan e dopo con la Niannichuan, non avrebbe ottenuto nulla.

5) Obaba aveva intuito la soluzione, tenendola per sé, o è innocente?

Ho voluto lasciare questa risposta in sospeso, affidata all'interpretazione del lettore. Comunque un indizio c'è, ed è presente nel paragrafo di lei e Tofu (sempre nel capitolo 14).

6) Ora che l'anima di Akane si è trasferita in un altro corpo (che è poi il corpo giusto), Ukyo ha ancora la maledizione? Si trasforma cioè in Akane pur non trattenendone lo spirito?

Ritengo di non aver posto abbastanza regole e paletti sul funzionamento dell'Akanenichuan, nel corso della storia, tali da poter dare una risposta secca, per cui chi legge è libero di pensare che Ukyo possa ancora trasformarsi in un doppione di Akane (chiaramente solo dal punto di vista fisico). In realtà, però, nel capitolo 11 Obaba ci riferisce che la sorgente in Cina ha ormai perso ogni effetto (la guida vi ha immerso un coniglio e questo non si è trasformato) e perciò possiamo più verosimilmente supporre che il potere 'trasformativo' si sia legato all'anima (alla tamashii) di Akane, con la conseguenza che Ukyo non cambierà aspetto con l'acqua fredda.


Edit del 04/04. Ancora una cosa. Non posso proprio non segnalare una bellissima "What If..." di Laila che riprende gli eventi di Chasing the Evening Shadows (si parte da circa metà del capitolo 11) per condurli in un avvincente finale alternativo! Il suo titolo è "Harakiri" e potete trovarla: Qui.


Ora ci siamo davvero, è il momento dei saluti… o no, perché attendo le vostre opinioni. Sorpresi? Delusi? Soddisfatti? Fatemelo sapere, io rimango qui a vostra disposizione. ^__^
E già che ci sono mi metto al lavoro, perché avrei un’altra fanfiction da concludere… e diversi altri progetti che intendo mettere in moto. A presto! ^__-



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