Chasing the Evening Shadows di Kuno84 (/viewuser.php?uid=912)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quando sogni a occhi aperti ***
Capitolo 2: *** Dopo la fine ***
Capitolo 3: *** Andare avanti ***
Capitolo 4: *** Incontri ***
Capitolo 5: *** Confronti ***
Capitolo 6: *** Breve sogno ***
Capitolo 7: *** Risveglio ***
Capitolo 8: *** Dietro le quinte ***
Capitolo 9: *** Speranza ***
Capitolo 10: *** Il prezzo da pagare ***
Capitolo 11: *** Accettazione ***
Capitolo 12: *** Scelta ***
Capitolo 13: *** Congedo ***
Capitolo 14: *** Incontro alla luce ***
Capitolo 1 *** Quando sogni a occhi aperti ***
Note
preliminari:
What if…?, Spoiler. Luoghi e personaggi appartengono a
Rumiko Takahashi.
La
storia che vi apprestate a leggere si riallaccia al capitolo finale del
manga, per cui sarebbe consigliabile una sua visione da parte
di chi conosce solo l’anime (e una conoscenza più
in generale della saga di Safulan). Le pagine sono liberamente
consultabili a quest’indirizzo. Ringrazio di cuore
la mia beta Tiger eyes per le correzioni, i consigli, la
disponibilità. Anche per merito suo, posso ora augurarvi
come di consueto una buona lettura!
Forse perché della fatal
quïete
Tu sei l'imago a me sì cara vieni
O sera!
“Alla sera”
Ugo Foscolo
Capitolo 1
“Quando sogni a occhi aperti”
Non respirava.
Ranma cercò di scacciare da sé l’atroce
pensiero come se fosse un nemico immaginario. Ma perfino sconfiggere
Safulan era stato più semplice, dovette ammettere, mentre
l’idea tornava a tormentarlo con assiduità perfino
maggiore, forte del fatto che corrispondeva a un dato reale.
Akane non respirava.
“Tutto questo perché hai cercato di
salvarmi…”
La vide ancora una volta. Lei che girava il Kinjakan, arrestando
l’acqua della fonte di Jusendo e impedendo ai filamenti del
principe-fenice di estendersi ulteriormente.
“… ma non era una faccenda che ti
riguardava.”
Vide ancora la fidanzata che svaniva dalla sua vista, rivide i suoi vestiti
che d’un tratto avevano preso a ondeggiare nel vuoto per
posarsi infine tra le proprie braccia.
E più nient’altro. Le tenebre lo avevano
inghiottito nelle loro fauci.
In un istante, tutto era finito.
“Stupida… sei una stupida…”
Si bloccò di scatto. Dopodiché, senza pensarci
troppo, si assestò da solo un violento pugno. Se
l’era meritato, e lei non avrebbe potuto
(non potrà mai più)
sferrarglielo al posto suo.
“No, scusami…”
Ranma prese un profondo respiro.
“A dire il vero, ciò che volevo dirti
è… grazie.”
E continuò a parlarle.
Si convinse che non sarebbero state parole gettate al vento,
perché lei lo avrebbe ascoltato. Perché non
poteva essere davvero tutto
finito.
“Mi dispiace… non sono bravo in queste cose. Non
riesco mai a essere sincero, così finisco solo per
insultarti e farti arrabbiare…”
Lo stava facendo. Per la prima volta, le stava aprendo il suo cuore,
confidandole pensieri che non era mai riuscito a rimuovere dalle
prigioni del proprio orgoglio e della propria timidezza. Per
questo… per questo, ora lei non poteva
fargli il torto di non ascoltarlo… giusto?
“Svegliati, Akane… c’è una
cosa che voglio dirti… tu puoi sentirmi, non è
vero?”
Sicuramente era così. Certo che poteva
(non potrà mai più)
sentirlo. Doveva ascoltarlo.
Voglio dirti che ti amo!
Ma…
(Mai più.)
Le cose stavano diversamente.
(Mai più.)
Lei non avrebbe più potuto farlo.
(maipiùmaipiùmaipiùmaipiù…)
“AKANEEEEEEEEEEEEEE!”
Non gli avrebbe mai risposto.
Perché tutto era veramente finito.
Aprì gli occhi. Lo avvolse un buio più intenso di
quello delle proprie palpebre sigillate. Abituò poco a poco
la vista all’ambiente che lo circondava. Concluse che la
quiete irreale in cui era sprofondato stava a indicare che
l’alba non era ancora sorta, che gli altri inquilini della
casa erano ancora succubi del torpore di un sonno immobile. Forse ‘ristoratore’, pensò
distrattamente rievocando il luogo comune, ma soprattutto immobile.
Silenzio. Non un cenno di vita. Il nuovo giorno era ancora morto,
e così parevano esserlo pure i suoi protagonisti. Anche lui
doveva esserlo stato, sebbene per non più di qualche minuto.
D’altronde, ultimamente, aveva perso la voglia di dormire.
Anche perché, quelle poche volte che si abbandonava alla
stanchezza, ripeteva quel sogno.
E lui, piuttosto, avrebbe preferito restare sveglio in eterno.
I sogni sono strani. Indizi premonitori di ciò che
sarà, si è creduto dalla notte dei tempi. Lo
specchio dell’anima, si dice attualmente. Il riflesso delle
proprie paure. Oppure dei desideri proibiti. O ancora, molto
più semplicemente, ricordi,
sia pure alterati dalle proprie emozioni.
Quale fosse il suo specifico caso, gli era chiaro. Certo, non
comprendeva un granché di psicanalisi o analoga roba da
strizzacervelli, lui, ma intuiva che in fondo non c’era molto
da capire.
Semplicemente, odiava ripetere quel sogno. Odiava soprattutto il
momento del risveglio. E ancora di più, l’attimo
in cui la sua coscienza si riprendeva pienamente e tornava a
distinguere tra immaginazione e realtà. La confusione
provocata dalla fine del sonno durava parecchi, troppi secondi, e
ciò rendeva più duro separare l’una
dall’altra. Il buio della notte, in questo contesto, non era
certo d’aiuto.
Allora come mai non lo fuggiva? Alzarsi in piedi, accendere una luce:
queste azioni avrebbero costituito un rimedio efficace per scrollarsi
di dosso i fantasmi che affollavano le sue tenebre.
Invece era rimasto ancora in quello stesso punto, avvolto
nell’ombra sulla base delle scale, mantenendo la posizione
quasi fetale che aveva assunto durante il sonno. Sentiva in lui
qualcosa che lo spingeva a non muoversi, che lo incoraggiava a
intestardirsi a mantenere la propria posizione, la nuca sopra il
braccio schiacciato sul secondo gradino, a dispetto dei muscoli dolenti
che, risvegliatisi, chiedevano tregua invano.
Non si sarebbe mosso. Era in attesa di qualcosa. Le orecchie erano
tese, come a voler sfidare il silenzio che dominava
l’ambiente circostante e cogliere in fallo anche il minimo
rumore che la notte si fosse lasciata inavvertitamente sfuggire. Era,
in verità, in momenti come questo che lui attendeva con
maggiore convinzione: forse per istinto, forse perché
confuso dal dormiveglia.
Gli altri non avrebbero potuto comprendere. Non poteva spiegarlo.
Poteva solo aspettare. Quel qualcosa sarebbe arrivato. Lui sarebbe
stato pronto.
E infine avvenne.
Vinse la sua sfida.
Come sempre.
Come quasi sempre.
Prima udì un rumore sordo. Ancora qualche istante di
silenzio. Infine uno e più passi farsi largo dal piano di
sopra.
Tuttavia, Ranma non si mosse ancora dalla propria posizione. Aveva
trattenuto il respiro per una frazione di secondo, prima di capacitarsi
che quei rumori non erano ciò che
voleva sentire. In realtà non sapeva nemmeno lui cosa stesse
attendendo. Era certo, però, che non si trattava di questo.
E nessun’altra cosa che non fosse ciò che
aspettava, per lui, aveva più molta importanza.
Come per inerzia, tuttavia, l’udito continuò a
svolgere il proprio lavoro… Nuovamente il silenzio. Altri
rumori sordi. Passi. Le assi del pavimento del corridoio di sopra che
cigolavano. Di nuovo nulla.
Perché preoccuparsi? Tutti i componenti della famiglia
Tendo, per non parlare dei genitori, erano nelle loro stanze da diverse
ore, ma forse qualcuno si era svegliato, proprio come lui. Magari
Kasumi, o più probabilmente Nabiki, si era alzata a prendere
un bicchiere d’acqua.
Cos’altro?
Però… se le cose stavano così, quanto
ci metteva Nabiki – o Kasumi – a scendere le scale,
incrociarlo e dirigersi in cucina? Perché quei passi erano
invece così timorosi? Come mai si erano arrestati, quasi che
la persona che li guidava stesse in qualche modo esitando?
Inoltre, quelli non erano i passi di Nabiki. Né di Kasumi.
Troppo poco controllati, troppo poco placidi: troppo irruenti,
per appartenere a una delle due.
Suo padre, dunque? Inutile immaginarlo, sapeva benissimo che le cose
non stavano nemmeno così. La mente lo fece vagare
inavvertitamente, per qualche secondo, nei meandri più
reconditi della propria fantasia. E vide nella sua testa quei passi
corrispondere a un estraneo,
intrufolatosi furtivamente in casa Tendo, chissà, per
esempio attraverso una finestra non chiusa bene, in cerca di qualche
oggetto di valore.
Eppure…
Quei passi gli erano così familiari.
Se solo…
Ma non poteva essere ciò che lui si figurava.
Doveva scuotersi. L’ipotesi ‘estraneo’
era incredibilmente plausibile. Ebbene? Per quanto ancora lui sarebbe
dunque rimasto passivo? Quei passi avevano, da un punto di vista
esclusivamente razionale, la loro importanza, anche se non
potevano corrispondere alle sue assurde speranze. Perché lui si era svegliato,
no? E l’immaginazione doveva lasciare il posto alla
realtà.
La realtà era più pericolosa. Poteva essere un
ladruncolo da due soldi, ignaro di trovarsi in una casa popolata da
artisti marziali. Ma poteva anche trattarsi di un qualche delinquente o
maniaco.
Doveva scuotersi, prima che accadesse
(ancora)
qualcosa di brutto.
Ranma si levò finalmente in piedi. Era pronto ad accogliere
lo sventurato che aveva osato violare quelle sacre mura domestiche.
Dopotutto, non poteva sottrarsi a tale dovere: era anche lui un artista
marziale. Lo era ancora, nonostante avesse abbandonato gli allenamenti
dal giorno del suo rientro.
Percorse di soppiatto le scale, ponendo attenzione a non far cigolare i
gradini. Quando fu in cima, i rumori di prima erano cessati da parecchi
secondi, ma nell’oscurità del corridoio di fondo,
che dava alle camere delle sorelle Tendo, Ranma avvertiva chiaramente
la presenza dell’estraneo. La cosa più importante,
l’estraneo non aveva ancora percepito la sua.
Era il momento giusto. Ora o mai più. Ranma
scattò in avanti, annullando in pochi istanti la distanza
che lo separava dall’altro.
Sei mio!
La figura nell’ombra – né Kasumi
né Nabiki, indubbiamente – si irrigidì
e accennò a reagire, come spaventata. Troppo tardi. Ranma
scansò facilmente il colpo e afferrò il braccio
di quell’incauto.
Aveva giusto bisogno di scaricare
ciò che covava dentro da ormai troppo tempo: doveva sfogarsi
e, in definitiva, quel ladro aveva indubbiamente scelto la notte meno
felice per-- il pensiero s’interruppe di colpo.
Quella… quella sagoma! E quel
polso, molto più sottile rispetto al suo.
(“Non me n’ero mai accorto… la
sua mano è così piccola!”)
Non poteva essere vero. Ranma non poteva essere sveglio. Stava ancora
sognando! Era certamente così! Eppure… doveva
sapere! Si voltò per guardarla in faccia, ma il tizio aveva approfittato del momento di distrazione per sfuggire alla
sua presa e scavalcarlo.
“No! Fermati!” Tuonò Ranma, che stava
sudando freddo. La figura si dileguò più veloce,
in direzione opposta da quella da cui era venuto lui.
“Fermati, ho detto! Non puoi scappare da nessuna
parte!”
Effettivamente, quello che doveva essere
un comune ladro era praticamente in trappola. Percorse tutto il
corridoio con un poco di vantaggio su di lui, ma lo
rincorreva ormai sicuro di poterlo prendere. Fu poco prima delle scale
che, inaspettatamente, la figura s’infilò nella
stanza degli ospiti.
Poco male, pensò Ranma. Raggiunse anche lui la porta
scorrevole e la spalancò violentemente, ansimando per la
corsa e per l’agitazione. Ora avrebbe saputo.
Cercò con affanno l’interruttore, la mano che
tremava nervosa. Quando infine lo trovò, ciò che
vide lo sorprese non poco.
Occhi sorpresi. Occhi scrutatori.
Occhi accusatori.
Gli occhi di papà, che sorseggiava placidamente una bevanda
da un thermos, ma allo stesso tempo con una severità che
incuteva un certo rispetto: un riguardo che lui non era chiaramente
abituato a portargli.
Gli occhi di Ucchan, che lo fissava impaurita, avvolta per intero e
stretta energicamente alla propria coperta.
Gli occhi di sua madre, che emerse lentamente dal proprio letto con
aria più addolorata che sorpresa.
E basta. Nella piccola stanza, non c’era nessun altro.
“Ranma… cosa è successo?”
Domandò Nodoka, con manifesta inquietudine.
“Vogliamo una spiegazione.” Bofonchiò
gravemente Genma, non distogliendo da lui quell’odioso sguardo
nemmeno per un attimo. “Si può sapere che cosa ti
salta in mente, di svegliarci con tutto quel baccano a
quest’ora della notte?”
“Io… io…” Mormorò
Ranma, spaesato e non cessando di guardarsi intorno. Possibile che loro
non se ne fossero accorti?
“Tu cosa? Parla!” Ribatté il padre.
“La stavo inseguendo… l’ho vista
entrare… Perché diamine non l’avete
fermata?!”
Ukyo lo fissò sconvolta.
“Ran-chan… chi avremmo
dovuto fermare?”
Genma sembrò trattenere a forza un fremito di rabbia.
“Qui non è entrato nessuno.
Non lo vedi?”
Già, così sembrava. Tutto lo dava a vedere. Che
avesse veramente sognato? Che non fosse ancora in grado di distinguere
la realtà dal sogno? Eppure… no, Ranma poteva giurare di
averla vista! Aveva stretto il suo polso! Lei c’era, era
reale. Non era un frutto della sua immaginazione.
“Tutto questo è assurdo! Assurdo!”
Gridò, sfogando tutta la sua frustrazione. “State sicuramente mentendo!
Non può essere scomparsa nel nulla!”
“Chi, Ranma? Chi hai
visto entrare qui?” Urlò con veemenza ancora
maggiore il padre.
Il ragazzo esitò per un attimo.
Prese coraggio.
E diede finalmente voce ai propri pensieri.
“Io ho visto entrare… Akane.”
Ukyo sussultò. Nodoka parve sul punto di piangere. Genma
sembrò, al contrario, calmarsi.
Il resto della famiglia Tendo si era, nel frattempo, radunato attorno a
Ranma.
“Cosa succede?” Domandò a nome di tutti
Soun Tendo.
Né Ukyo né tantomeno Nodoka riuscirono a
rispondere.
Fu Genma ad alzarsi in piedi e affrontare l’amico.
“Ranma ha detto di aver visto… Akane…
entrare in questa stanza.” Mormorò, ora con voce
roca ma allo stesso tempo calma e posata.
Neppure uno dei Tendo commentò quell’affermazione.
Si limitarono tutti a fissare l’adolescente con il codino.
Nessun occhio accusatore, stavolta. Nei loro sguardi non si poteva
leggere del biasimo, anzi. Tuttavia… era una sua sensazione
oppure… sembravano tutti compatirlo?
E questo sarebbe stato ancora meno sopportabile.
“Smettetela di guardarmi così! Vi dico che era
lei!”
Kasumi si accorse che suo padre stava tremando e si affrettò
a prendergli la mano.
“Ora piantala, Ranma! Lo sai che Akane non si è
mossa dalla sua stanza!” Sbottò Nabiki, con tono
duro.
Improvvisamente Genma si scosse, afferrò il figlio per il
colletto della camicia e lo trascinò per il corridoio.
“Cosa fai?!” Protestò il Saotome
adolescente.
“Tu ora vieni con me”, intimò il Saotome
anziano, “a trovare Akane.”
Sulla porta troneggiava, come di consueto, la sagoma a forma di
paperella con inciso il suo nome in caratteri occidentali. Genma
girò la maniglia senza tanti complimenti e, mentre
l’uscio si apriva, l’insegna traballò
pericolosamente.
Il genitore accese la luce. “Perdonami, ma lo faccio per te!
Ecco… guarda, guarda con i tuoi occhi!” Disse, con
appena un filo di voce.
Ranma fissò l’interno. Dunque aveva veramente sognato?
Veramente immaginazione e realtà avevano varcato, solo per
lui, il reciproco confine?
Akane non si era mai mossa. Akane era ancora sdraiata sul proprio
letto. Le palpebre abbassate in un’espressione serena, era
l’unica persona a non essersi svegliata in tutto quel
trambusto.
Né avrebbe potuto mai più.
Così, era vero.
Il sogno era sogno e la realtà immutabile.
Il corpo senza vita di Akane Tendo non aveva mai abbandonato il suo
posto.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Dopo la fine ***
Capitolo 2
“Dopo la fine”
Akane era davanti ai suoi occhi, immobile,
(morta)
supina sul proprio letto, come in procinto di svegliarsi da un momento
all’altro,
(ma non si sarebbe alzata mai più)
il volto sereno, candido, fresco, privo di turbamenti.
“Ora hai visto?”
Era troppo per lui.
“Rispondimi, Ranma! Hai
visto?”
Troppo.
“Ranma!”
Il ragazzo ignorò l’interrogativo del padre, che
continuava a scuoterlo per la spalla. Quest’ultimo, come
rassegnatosi, allentò la presa mormorando
un’ultima volta il suo nome. Approfittando
dell’attimo favorevole, il figlio diede a Genma un violento
strattone e riuscì a sottrarsi dalla sua portata.
Spalancò la finestra e scappò via, balzando di
tetto in tetto. Quando dopo un tempo indefinito – secondi,
minuti? – toccò nuovamente terra, notò
che anche il cielo pareva aver condiviso la sua furia. La quiete di
prima era stata sostituita da un sommesso brontolio. Diverse nubi
grondanti d’acqua avevano approfittato delle ultime ore per
radunarsi in massa ed erano ormai sul punto di sgravarsi del loro peso.
Ranma non ebbe il tempo di rendersene pienamente conto, che di fatto,
goccia dopo goccia, una pioggia leggera cominciò a bagnare
le strade. Ma a lui non importava. Riprese la propria corsa. Doveva
assolutamente allontanarsi da casa Tendo o sarebbe impazzito. Sempre
che non fosse già diventato
folle.
Eppure avrebbe giurato di averla vista. Camminare lungo il corridoio
del piano di sopra. Entrare nella camera degli ospiti. Akane.
Questo non era possibile.
Perché lei era in camera sua. Nel suo letto.
Come la sera prima e il giorno precedente e quell’altro
ancora.
Tentando di scacciare i ricordi, essi riaffiorarono alla mente ancora
più violenti. Quel poco di ragione che avvertiva
distintamente dentro di sé ricostruì con una cura
spietata lo stato dei fatti.
E ripensò una volta di più a Jusendo. Al suo
scontro con Safulan. Ad Akane che, per salvarlo dai filamenti che
uscivano dal corpo di quel moccioso tentando di inglobarlo al proprio
interno, girava il Rubinetto della Fenice arrestando l’acqua
della Fonte delle pozze maledette che dava forza alla sua mutazione. E
infine al violento lampo di luce da cui il corpo della fidanzata era
uscito rimpicciolito e completamente disidratato.
Immagini che lo tormentavano sia da sveglio che nel sonno.
Quand’era cosciente, almeno, poteva sforzarsi di scacciarle
da sé. Una volta addormentato, al contrario, era del tutto
succube e impotente di fronte a esse.
Non poteva sopportarlo, per questo ormai si rifiutava di dormire. Volta
dopo volta, era sempre più difficile riprendersi
dall’illusione del risveglio, dalla speranza che si trattasse
solo di un incubo, che Akane fosse pronta a strapparlo dal sonno con
una violenta secchiata d’acqua, rimproverandolo accigliata
che per colpa sua avrebbero fatto tardi a scuola.
La speranza. Si era presa gioco di lui tante di quelle volte…
Una di queste, già in Cina, a Jusendo, per mezzo della guida
delle Sorgenti Maledette.
Akane poteva essere salvata. Nulla di
più semplice, aveva spiegato la guida. Sarebbe bastato usare
la stessa acqua magica di Jusendo per invertire il processo di
disidratazione prima che Akane chiudesse gli occhi ed esaurisse la
propria energia vitale. Non c’era che da sconfiggere Safulan,
dopotutto.
La speranza. Non può forgiare la realtà a proprio
piacimento. Rivide se stesso. Lui che vinceva. Lui che sparava un Hiryu
Shoten Ha per
spezzare il Rubinetto del Drago. Lui che si faceva investire dal getto
d’acqua perché anche Akane ne fosse avvolta. E il
corpo di Akane che tornava istantaneamente alla normalità.
Eppure stavolta
(“Ha… ha chiuso gli occhi!”)
aveva agito troppo tardi.
Ranma aveva perso.
L’illusione si era dissolta.
Ma non era che la prima. Ne erano seguite altre. E perfino sogni nei
quali invece faceva
in tempo a
salvare Akane, così da rendere il risveglio ancora
più amaro.
Infine quest’ultimo miraggio. Il più crudele,
perché stavolta era sveglio. E perché Ranma, a
differenza delle esperienze precedenti, non riusciva in alcun modo a
scrollarsi di dosso la sensazione che non fosse affatto tale.
Al contrario, riflettendoci si sentiva sempre più convinto
di essere lui nel giusto, non gli
altri. E avvertiva un nuovo vigore, una nuova adrenalina
scorrergli per il corpo, simile a quella che lo caricava
nell’imminenza di un combattimento. Probabilmente era questo
che doveva fare: combattere. Contro il suo vecchio. Contro chi non gli
credeva. Perfino contro l’evidenza. Combattere era
ciò che sapeva fare meglio.
Tuttavia…
Si chiese se potesse accettare a se stesso di recare ancora dolore alle
persone cui teneva.
Ripensò a quand’era entrato nella camera dei
genitori quasi fuori di sé, convinto di trovarvi Akane. Si
raffigurò il volto addolorato di sua madre. E quello
sconvolto e ansimante di Ucchan, il viso bagnato di sudore come se
avesse vissuto lei in prima persona i suoi incubi.
La confusione si fece di nuovo strada nel proprio animo. Appena un
attimo prima, si era sentito pronto a dare qualunque cosa pur di
conferire un corpo al nemico invisibile che lo irrideva,
così da poterlo affrontare apertamente. Adesso si domandava
quanto veramente fosse alto il prezzo di una simile battaglia.
Se fosse tale da coinvolgere anche loro.
E se lui, anche in questo caso, sarebbe stato disposto a pagarlo.
Nabiki si morse il labbro, indispettita. Ormai il sonno non sarebbe
tornato.
La sua implacabile mente calcolatrice non aveva tardato a mettersi
all’opera, quantificando il danno materiale e morale
involontariamente inflittole dal giovane Saotome. Come avrebbe fatto
l’indomani a scuola? Lei non era come Ranma, continuava ad
andarci regolarmente tutti i giorni e, proprio quello successivo,
avrebbe dovuto sostenere un importante compito in classe. Con tutto
quel sonno perso, in quali condizioni l’avrebbe affrontato?
Né si sarebbe potuta consolare con i soliti affari. Con
Ranma trincerato in casa da giorni, ogni aria di profitto sembrava di
colpo spirata via. Nessuna foto allettante, nessuna pretendente, nessun
rivale. Tutte le persone che, per un motivo o per un altro, orbitavano
intorno al ragazzo con il codino non si erano fatte più
vedere. Come se non fosse sufficiente tutto ciò, perfino
Kuno-chan si era misteriosamente dileguato nel nulla.
Sciocchi, perché non capivano?
La vita va avanti. Non si ferma per la tragedia di una persona, di una
famiglia. Tutto scorre, e l’importante è non
rimanere indietro. Cinico? Forse. Ma l’esperienza
(“mamma…”)
le aveva insegnato da tempo che questo era l’unico modo di
affrontare il mondo: percepire la realtà circostante come un
unico circolo vizioso di vita e di morte; ricordarsi che, anche quando
tutto appare finito, c’è sempre un
‘dopo’.
Le disgrazie… accadono, è inevitabile. Certo,
quando aveva visto Ranma tornare a Nerima con sua sorella in quello
stato, in quelle condizioni, Nabiki non si era sentita tanto disposta
nei confronti di una simile filosofia: al contrario, era stata tentata
per un attimo di aggredire il giovane incosciente con la treccia, di
fargliela pagare personalmente per non aver saputo salvare Akane. Poi,
poco a poco, l’adrenalina era calata, facendola di nuovo
tornare in sé.
Da quel momento, Nabiki Tendo non aveva più perso il
controllo di se stessa.
“Tieni.”
La ragazza si scosse per un attimo dai propri pensieri, rivolgendo la
sua attenzione al bicchiere che Kasumi le aveva appena offerto.
“Cos’è?” Domandò
oziosamente, nonostante potesse constatarlo da sola.
“Del latte caldo.” Rispose con prontezza la sorella
maggiore, come se si fosse preparata a dover dare una spiegazione.
“Non c’è niente di meglio per
riconciliare il sonno.”
Nabiki le rivolse un sorriso furbo.
“Se sei qui in cucina a pensare a me, forse dovresti
piuttosto prenderne tu una tazza.”
Kasumi ricambiò il sorriso con un altro più
innocente.
“Oh…” Accennò. “Io
non ho bisogno di dormire molto. Sai che non ne sono mai stata
capace.”
“È vero. Al contrario, io rivendico il diritto di
godere di tutte quante le mie ore di riposo.”
“Sei sempre stata una dormigliona.”
“Ma mai ritardataria.” Precisò Nabiki,
sorseggiando il latte. “Non c’è nulla di
male a dormire tanto, quando si è poi sufficientemente
organizzati in modo tale da arrivare a scuola in perfetto orario. Al
contrario di alcune persone di mia conoscenza.”
“Beh, tu più di loro riesci a non lasciarti
coinvolgere dalle numerose distrazioni di
questo quartiere.”
“Non è poi così difficile.”
“Cielo, ricordo però che, quando frequentavo io la
scuola superiore, il Furinkan non era un ambiente così
movimentato.”
“Se è per questo, non lo era nemmeno fino
all’arrivo di Ranma.” Si lasciò scappare
la secondogenita delle Tendo.
“Non essere cattiva…”
Cattiva? Nabiki udì per un attimo se
stessa, quasi fossero due persone diverse. E la Nabiki spettatrice non
poteva fare a meno di chiedersi come potesse l’altra Nabiki
Tendo, quella ragazzina che parlava alla sorella maggiore in maniera
così saccente, dire cose tanto banali e insensibili.
Come se…
“Dico solo la verità.”
Perseverò la Nabiki parodia di se stessa.
“È lui che porta scompiglio. Ma la sua scenata di
stanotte gli costerà cara: quando tornerà, gli
presenterò un bel conto… e soprattutto la mia
polaroid pronta a immortalare una certa ragazza col codino in abiti
discinti.”
“Sai che non sta bene.”
“Sei la solita…”
La solita? Già, erano entrambe le
solite.
Come se non fosse accaduto nulla.
Proprio in quel momento, Kasumi si alzò in piedi.
“Io penso piuttosto che, invece di aspettarlo, ora tornerai
di sopra a dormire.”
“Ma Kasumi…”
Le due Nabiki sussultarono allo stesso tempo, quando la sorella
maggiore accarezzò loro una spalla.
A quel contatto, si sentirono di nuovo una persona sola.
“Tanto vedrai che tornerà presto.”
Sussurrò Kasumi. “Non c’è
nessun bisogno che tu stia qui ad aspettarlo. Non
preoccuparti.”
Nabiki non ebbe né il tempo né la voglia di
ribellarsi. Udì attentamente i passi di Kasumi uscire dalla
cucina, accompagnati da uno scroscio proveniente
dall’esterno, quindi finì di gustare il suo latte.
Fuori pioveva. È piacevole, pensò, bere qualcosa
di caldo mentre fuori piove.
Quella Kasumi… a volte perfino lei finiva per
sottovalutarla, ma in casi come questi dava il meglio di sé
dimostrando di saper leggere nel cuore delle persone. In un certo
senso, Nabiki era sollevata all’idea di non essere
l’unica in famiglia capace di ciò.
D’altronde, in loro scorreva lo stesso sangue.
“Preoccupata, io?” Mormorò a mezza voce.
Sì, Nabiki poteva tranquillamente ammettere di esserlo. Ma
non preoccupata ‘per’ Ranma, semmai
‘di’ Ranma. Quel ragazzo con la treccia, che un
giorno di pioggia primaverile come tanti altri era arrivato a
stravolgere le loro vite così tranquille, costituiva tuttora
il maggior ostacolo che si frapponesse tra la sua famiglia e una
parvenza di ritorno alla normalità.
Adesso ci mancavano anche le sue patetiche visioni.
Si chiese quanto tempo ancora sarebbe occorso a Ranma per accettare il
fatto che Akane fosse morta.
E come mai non riuscissero ad ammetterlo del tutto nemmeno loro.
(Forse perché i morti stanno sottoterra?)
Anche nel loro discorso di pochi istanti fa, lei e Kasumi non erano
riuscite a non parlare al
presente, quasi che tutto stesse andando come al solito e
Akane fosse ancora tra loro. Anche questo era colpa di Ranma. In fin
dei conti, non è sempre colpa
di Ranma? Lui si era rifiutato di far seppellire o cremare la sorella,
la sorellina che dopotutto sembrava solamente dormire. In questo caso,
la sua testardaggine, il suo non volersi arrendere stavano contagiando
l’intera famiglia. Portandola lentamente alla rovina.
Perché non accettare la realtà? Akane sembrava dormire.
Però in lei non v’era traccia di respirazione,
né di circolazione sanguigna: il suo corpo non si
deteriorava – e loro ne conoscevano il motivo – ma
tutto il resto indicava inconfutabilmente che sua sorella minore era
morta.
Nient’altro. Perché non poteva essere tutto
così semplice? E perché la vecchia del Nekohanten
aveva detto quelle
cose…?
Posando il bicchiere ormai vuoto sul tavolo, Nabiki si accorse che la
sua mano tremava.
La pioggia, adesso, batteva scrosciante. Un tuono deflagrò a
poca distanza da lui.
Come se fosse stato un segnale, qualcosa esplose anche dentro di
sé, irradiandosi in ogni parte del proprio corpo.
Ranma gridò. Calciò. Urlò.
Colpì ripetutamente un nemico invisibile. Gridò
di nuovo.
Infine si arrestò, e lasciò che le ginocchia
sprofondassero nel terreno melmoso.
Ansimando, pregò di aver dato sfogo a tutto ciò
che gli bruciava nelle vene. E invece l’istinto gli
suggerì ancora un’altra via.
Improvvisamente avvertì un nuovo irrefrenabile bisogno. Si
slacciò il colletto della camicia bagnata fradicia,
strappando nella foga una parte del tessuto. E fissò con
rabbia il suo petto maschile. In quel momento, avrebbe sinceramente
desiderato riavere su di sé la maledizione di Jusenkyo.
(“Un uomo non piange!”)
Avrebbe voluto farlo, anche di nascosto, tanto nessuno avrebbe
riconosciuto le proprie lacrime in mezzo a quelle delle nubi nere. Ma
le parole del suo vecchio gli rimbombavano nella mente e gli impedivano
di cedere.
Provando a distrarsi, Ranma si guardò intorno. Riconobbe il
verde, l’odore dell’erba bagnata e la fila dei
lampioni ancora accesi nonostante l’orario. Doveva essersi
mosso a gran velocità – o chissà per
quanto tempo – dato che si trovava nel bel mezzo del parco
Shakujii Koen.
Imprecò silenziosamente. Non c’era un solo luogo
che non fosse ricco di memorie.
“È qui che abbiamo avuto il nostro primo
appuntamento.”
La voce lo colse alla sprovvista, facendolo trasalire. Aveva abbassato
la guardia a tal punto? Una figura familiare emerse dalle ombre,
sostando sotto i raggi di un lampione, a pochi metri da lui.
Rialzandosi da terra, Ranma la riconobbe subito.
“Mi hai seguito.”
Ukyo inclinò leggermente l’ombrello, attenta a non
bagnarsi, e alzò gli occhi verso un cielo lievemente
più chiaro di qualche minuto prima: si stava facendo giorno
e i raggi solari premevano, pur non riuscendo a sopraffare le nubi. La
ragazza distolse lo sguardo. Si voltò verso il ragazzo di
fronte a sé e quindi in direzione del laghetto alla loro
destra. Il picchiettio del fitto rovescio sulle acque creava uno strano
gioco di increspature che, unito alla debole luce naturale e a quelle
artificiali più consistenti, dava al luogo
un’insolita aria cupa.
“Sembra tutto così irreale,
pare di trovarsi in un mondo fantastico isolato dalla
realtà… eppure è proprio qui che un
bel mattino soleggiato mi hai portato in barca, ricordi?”
Ukyo avrebbe voluto che la memoria si arrestasse a quei dettagli, ma la
mente era troppo lucida per scordare il resto: che Ranma
l’aveva invitata al solo scopo di tallonare Ryoga e Akane,
per mettere i bastoni tra le ruote al loro appuntamento.
La giovane esperta di okonomiyaki si adirò con se stessa:
alla fine, non aveva fatto che aggiungere un altro pensiero di Akane a
una lista chiaramente già traboccante di suo. Si chiese come
mai non si fosse trattenuta ma avesse stupidamente aperto bocca. Forse
conosceva la risposta. Forse voleva solo che Ranma, una volta tanto,
pensasse alla
sua Ucchan.
Probabilmente aveva sbagliato tutto fin dall’inizio.
“Sì.” Esclamò lui
d’un tratto, come in risposta ai pensieri della ragazza. Ukyo
sentì il cuore accelerare il suo ritmo e tornò a
guardare Ranma dritto negli occhi, mentre quest’ultimo
continuava a parlare. “Ricordo ogni singolo dannato
dettaglio. Perché è così facile, se
poi non si può tornare indietro?! Aveva ragione lei,
ha sempre avuto ragione! Ero e sono un enorme stupido! Uno stupido! Stupido!”
Strinse i pugni con grande intensità. Non doveva essere la
prima volta, notò Ukyo, trattenendo inavvertitamente il
respiro. Le mani gli sanguinavano.
“Non… non dire così, Ran-chan! Tu non
hai colpa di niente!” Lo interruppe, enfatizzando il tono
della propria voce come per convincerlo della verità di
quelle parole.
Ma non ebbe il coraggio di proseguire, di spiegargli che la colpa era
tutta sua. Del suo egoismo, della vanità e della presunzione
che le derivavano dal sentirsi la fidanzata
carina. Se solo avesse pensato al suo bene fin da subito! Ma
forse non era ancora troppo tardi.
“Vattene, ti prego, Ucchan.” Mormorò
Ranma, con un tono che le parve debole e spento. L’ombra del
fiero combattente che conosceva. “Ho bisogno di stare un
altro poco da solo.”
Ukyo, per un attimo, prese in seria considerazione l’ipotesi
di obbedire a quella richiesta. Ma l’esitazione
svanì subito via.
Cominciò ad avanzare, avvicinandosi lentamente al ragazzo
con la treccia.
“No.” Disse con fermezza. “La
verità è che non devi restare solo, al contrario
hai bisogno più che mai di qualcuno.
E io… posso prometterti che… ci sarò
sempre per te…”
Ridusse ulteriormente la distanza che li separava e, portandolo a
sé sotto il suo ombrello con la mano libera, lo cinse in un
caldo abbraccio.
Lui sobbalzò, ma Ukyo non si ritrasse. Mantenne ferma la
presa, come per tranquillizzarlo, per rassicurarlo che andava tutto
bene.
Fidati di me, Ran-chan, pensava. Non sono forse sempre stata la tua
migliore amica? E ancora prima il tuo
migliore amico? Fidati, ripeteva. Io non ti abbandonerò.
“Ucchan…” La voce di Ranma tremava.
“Tu credi che stia diventando pazzo?”
“Certo che no, Ran-chan! Certo che no!” Rispose lei
tra le lacrime che non riusciva più a trattenere.
Così accadde.
Ranma Saotome lasciò cadere la sua maschera.
D’un tratto, non v’era più traccia
dell’insuperabile artista marziale, nulla era rimasto del
ragazzo sbruffone e pieno di sé. Solo un essere umano
disperato era colui che, abbandonando ogni resistenza, mandando al
diavolo le parole del padre, e con sola testimone la pioggia che li
circondava, accompagnò i propri singhiozzi a quelli della
compagna d’infanzia, lasciandosi cullare dal suo abbraccio.
“Aiutami, Ucchan… non voglio diventare
pazzo…” Biascicava con la voce spezzata dal pianto.
“Certo che no… stai tranquillo…
tranquillo…” Ripeteva lei, come una nenia.
Tranquillo, Ran-chan, io ti proteggerò, pensava la piccola
Ukyo. Io ti salverò.
Accentuò un altro poco la stretta, poggiando una guancia su
una sua spalla.
E vedrai che presto riuscirò a cancellare da te
l’ombra di Akane…
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Andare avanti ***
Capitolo 3
“Andare avanti”
Quando Ukyo si svegliò, il sole era già alto e la
maggior parte delle nubi si era dissipata.
Si scosse, stiracchiandosi lungo la panchina su cui era sdraiata e
scoprendo di essere indolenzita un po’ dappertutto.
Addormentarsi all’aperto, valutò distrattamente,
non costituiva la cosa più salutare di questo mondo.
Mentre si rialzava, come in un lampo, alcuni avvenimenti della notte
passata le tornarono nitidi alla mente. Si ricordò di Ranma,
della foga con cui era fuggito di casa. Di come lei l’avesse
seguito e fosse riuscita a portargli un po’ di conforto.
Il fidanzato aveva
pianto a lungo tra le sue braccia finché, finita la pioggia
e probabilmente scaricatosi anche lui dopo tanto tempo da ogni
tensione, si era infine abbandonato al sonno. Ukyo doveva essersi
addormentata non molto più tardi, sopraffatta a sua volta da
una spossatezza non solo fisica.
Si guardò con calma in giro ma di Ranma non vi era
più nessuna traccia e lei, sinceramente, non se ne sentiva
sorpresa. Al levarsi di una breve folata di vento, ebbe
l’istinto di proteggersi con le braccia: così
facendo, avvertì il contatto con un tessuto estraneo e si
accorse di stare indossando una certa camicia cinese di colore rosso.
Dunque, l’aveva abbandonata.
Di nuovo.
(“Avevate promesso di portarmi con voi!”)
Ormai avrebbe dovuto esserci abituata.
(“L’avevate promesso!”)
Tutto era andato storto. E nemmeno lei sapeva esattamente cosa fosse
accaduto: forse per la stanchezza dovuta allo scomodo risveglio, forse
per le tensioni della notte passata, provando a ricordare qualcosa di
più non trovava davanti a sé che diversi buchi di
memoria, oltre a un fastidioso capogiro.
Ukyo sospirò. Non era da lei arrendersi, così si
avviò verso casa Tendo, sperando con tutto il cuore che vi
avrebbe trovato Ranma. Anche se la ragione le diceva che non sarebbe
stato così.
Non era tornato a letto, quella notte.
Aveva, piuttosto, preferito mettersi qualcosa di caldo sulle spalle e
incamminarsi verso la palestra.
Era entrato, ponendo la massima attenzione nel non far rumore. Aveva
poi poggiato una mano sul legno della parete, assaporandone la
sensazione. Quelle quattro mura significavano tanto per lui.
Quante ore erano passate? Soun Tendo non poteva dirlo: aveva perso la
cognizione del tempo e, tutto sommato, preferiva così.
Sapeva solo che la luce del giorno, ora, filtrava all’interno
con violenza.
Preferì, dunque, sfuggirla e chiudere ancora una volta le
palpebre. Di nuovo, come per incanto, vide davanti a sé un
Soun più giovane e senza baffi che inaugurava il dojo,
assistito dallo sguardo grondante di gioia della propria consorte. Si
rimirò mentre dava lezioni agli allievi della scuola appena
fondata, che a quel tempo giungevano numerosi.
Sorrise mentre guardava se stesso esibirsi in qualche mossa di kempo di
fronte a tre piccole bimbe curiose e leggermente spaurite, con la
speranza segreta che a qualcuna di loro venisse voglia di imitarlo.
Sorrise di nuovo e con grande orgoglio, stavolta, ammirando la figlia
più piccola seguire le sue orme allenandosi con lui, e
girare di tanto in tanto gli occhioni vispi per capire se
papà fosse contento di lei.
E lui lo era. Immensamente.
La vanità del mondo… Tanti progetti, tanti
calcoli, per un castello di carte che sarebbe potuto crollare al primo
soffio di vento. Eppure, ponendo una carta sopra l’altra,
sapeva di non aver incontrato timori, ma solo soddisfazione per quello
che stava facendo.
Amava le arti marziali. E amava ancor di più la propria
famiglia. Evidentemente, il destino aveva deciso che non potesse godere
a lungo di nessuna delle due cose.
Ma lui si era imposto di farsi forza.
Era perfettamente consapevole che tutti davano per scontato che il
dolore per la sua piccola Akane lo avrebbe distrutto nel più
profondo recesso dell’anima. Lui non negava affatto di aver
sofferto, e di continuare a soffrire, come un disgraziato: chiaramente,
nei primi giorni, aveva pianto le sue lacrime, e copiose.
Tuttavia, ciò non bastava a farlo sentire un uomo debole.
Passò in rassegna, ancora una volta, la sua vita.
No.
Un uomo debole non resiste al dolore della perdita della moglie tanto
amata. Non guarda avanti, non cresce le tre figlie ancora piccine senza
chiedere aiuto ad alcuno.
No. Soun Tendo non era un debole. Lui aveva sempre combattuto per le
cose cui teneva.
Era partito da zero, dagli stenti, dai sacrifici. Aveva individuato il
suo maestro in un vecchiaccio che si sarebbe presto rivelato un
grandissimo pervertito e un terribile tiranno. Non importava. Lottando,
era comunque riuscito a trarre il meglio da tutto ciò.
Non aveva avuto figli maschi cui passare il testimone della scuola di
lotta indiscriminata, portando avanti il nome dei Tendo nelle arti
marziali. Non importava. Il cielo gli aveva donato tre gemme di figlie. Un
caro amico. E una promessa importante.
Fino a pochi giorni prima, soppesando gli inevitabili dolori e le
numerose gioie incontrate sulla propria strada, si era ritrovato a
pensare che il destino gli avesse concesso fin troppo, tutto sommato.
Non solo la piccola Akane aveva presto rivelato di amare le arti
marziali.
Non solo Genma Saotome non era venuto meno al loro vecchio accordo, ma
aveva anche cresciuto un ottimo ragazzo, straordinariamente dotato,
molto più di loro alla sua età, meritevole di
riunire le famiglie e le scuole di lotta, come stabilito, e di
ereditare la palestra.
Oltre a tutto questo, Ranma… aveva finito, col tempo, per
costituire il figlio
maschio che
non aveva mai avuto. Dunque cosa poteva desiderare di più?
Eppure, adesso, stava perdendo di nuovo ogni cosa a cui teneva. La sua
piccola Akane. Probabilmente, anche
Ranma. Aveva scrutato attentamente gli occhi del ragazzo,
nel momento in cui gridava di aver visto la fidanzata. Non vi aveva
scorto nulla di buono.
La speranza è, di per sé, qualcosa di positivo.
Ma non quando impedisce di guardare al futuro, non quando si deforma
evolvendosi in cupa disperazione.
Soun soffriva.
Soffriva terribilmente, ogni singolo istante. E pure adesso nuove
lacrime sgorgavano in silenzio dai suoi occhi. Ma si era imposto, anche
questa volta, di non soccombere al proprio dolore.
Non era importante pulirsi il viso. Presto le lacrime si sarebbero
asciugate da sole. Piuttosto alzò la fronte in direzione del
soffitto, cercando con tutto se stesso di mostrarsi ritto di fronte
alle avversità, senza abbandonare il proprio decoro.
Per Ranma… Soun considerò che dovesse valere lo
stesso discorso. Mai per nessun motivo si sarebbe dovuto rifugiare
nella consolazione di un mondo tutto suo, mai avrebbe dovuto perdersi a
caccia di vane
ombre.
Ragazzo mio, non devi smarrire il senso della
realtà…
Udendo la porta scorrevole spalancarsi, Soun inclinò
lievemente il capo verso il basso – ma attento a non piegare
la propria postura – e, senza girarsi, seguì con
lo sguardo rivolto ai suoi piedi un’ombra familiare
avvicinarsi alla propria.
“Tendo… non si saluta più?”
Domandò il proprietario della seconda ombra.
Soun ignorò il tono di rimprovero e chiese a sua volta:
“Notizie di tuo figlio?”
Genma scosse energicamente la testa.
“Nessuna. Ma Ukyo gli è corsa dietro e molto
probabilmente ce lo riporterà a casa prima che, per sfogare
la sua frustrazione, finisca per demolire il vicinato.”
Soun esitò, prima di riprendere la parola.
“Stanotte… non credi di essere stato troppo
diretto? Dopotutto è normale che Ranma sia ancora sconvolto
e, forse, non era il caso di farlo soffrire di più.
Piuttosto, sarebbe stato meglio abituarlo poco a poco
all’idea di…”
“Pure tu? Vuoi insegnarmi come fare del mio ragazzo un uomo?
Ma penso che ti manchi un po’ di esperienza diretta,
Tendo.” Si frenò, forse notando – o
forse no – che Soun si era morso nervosamente le labbra.
Genma parlò con un tono di voce più leggero.
“Anche Nodoka, prima, mi ha rimproverato. E credimi, non
è facile ignorare le parole di una moglie che non molla per
un singolo istante la presa dall’impugnatura della propria
katana affilata. Addirittura tua figlia Kasumi mi ha fatto una piccola
predica… ho sempre detto che quella ragazza è una santa,
ma il solo immaginarla alterata mi mette i brividi addosso!”
“Saotome, io non intendevo rimproverarti.” Soun
assottiglio lo sguardo. “Però mi sono accorto che
ultimamente c’è qualcosa di strano in te. Sei
sicuro di non volerne parlare? Ricordati che noi due siamo vecchi
amici.”
Genma rise sgraziatamente.
“Veramente ti do questa impressione? E dire che ero solo
venuto a invitarti a una partita di shogi!
Ma se la pensi così accetterò volentieri le
pedine nere e tre mosse di vantaggio, quale prova ben più
tangibile della tua amicizia.”
“Saotome…”
“Su, non prendertela! Scherzavo!”
“Ma io dicevo sul serio.”
“Ma tu pensi anche troppo, amico mio, e pensare troppo
distoglie l’attenzione dalle soluzioni più
semplici, quelle che abbiamo a un palmo di naso.” Genma
afferrò divertito l’interlocutore per un braccio.
“Davvero, Tendo, non crederai che abbia tutta questa voglia
di mostrare a Nodoka suo figlio che si tormenta e frigna come una
donnicciola?! O preferisci forse vederci fare seppuku?
Per lei quella promessa è ancora valida, lo sai. Ma basta
deprimerci, andiamo a giocare!”
Soun si lasciò trascinare fuori dalla palestra, senza
opporre eccessiva resistenza.
Pensò casualmente che una volta la signora Nodoka aveva
detto che le donne della famiglia Saotome hanno sempre dei motivi per
stare in pena. Credette di stare cogliendo solo ora il vero significato
di quelle parole.
Genma e Ranma erano molto meno emotivi di lui, così era
difficile intavolare con loro un discorso di un certo spessore. Ma
ciò non significava che potessero soffrire di meno. Soun era
convinto che il comportamento generalmente poco serio di Genma, la
stessa cinica praticità di cui non mancava di offrire esempi
– anche di recente: nessuno era riuscito ad apprezzare la sua iniziativa in Cina
– nascondessero qualcosa di più profondo.
Improvvisamente pensò di aver compreso l’animo del
suo miglior amico. Del resto, ora conosceva
l’entità esatta del dolore di un padre che perdeva
il proprio figlio senza poterci fare assolutamente nulla.
E gli occhi di Ranma…
Nabiki sbuffò rumorosamente. Premette con vigore il pulsante
di riavvolgimento per poi, con una rapida pressione della falange su un
altro tasto, portare ancora una volta la cassetta in fase di
riproduzione.
“…nanzitutto, tengo a precisare che non
ero con voi in Cina e dunque non sono in grado di parlare con la piena
conoscenza dei fatti… ciò che
…irò… sarà basato
esclusivamente sulle cose che mi avete raccontato, sui dati…
…ulle… informazioni che mi avete
fornito…”
Pausa.
Giusto l’inizio della parte interessante. Nabiki ricordava
che, prima di proferire le proprie considerazioni, Cologne aveva
scrutato lei e gli altri spettatori con
un’espressione indecifrabile. In effetti, la secondogenita
delle Tendo avrebbe potuto giurare che quella sera al ristorante
Nekohanten i familiari e i resti della ‘spedizione
cinese’ costituissero un valido campionario delle emozioni
umane più disparate.
Poteva dirlo perché anche lei si era, per un attimo,
soffermata a esaminare i presenti. Alcuni sprovveduti, come Ryoga,
pendevano letteralmente dalle labbra della vecchia. I più
sensibili, come papà, sembravano invece svuotati e
incuranti. Altri più smaliziati, come Nabiki stessa,
attendevano il suo responso con fare cauto e guardingo. Ma nemmeno lei
avrebbe potuto dire se Obaba tenesse in considerazione questi
atteggiamenti così diversi, o se si stesse semplicemente
divertendo alla loro vista.
Riproduzione.
“…do per …ontato…
che ormai tutti conosciate, alcuni di voi per esperienza diretta, i
poteri del Kinjakan… un’arma sacra per il popolo
del monte Hooh, fin troppo per essere toccata dalle indegne mani dei
miseri mortali, ragion per cui con il suo immenso calore ha
letteralmente disidratato il corpo di Akane…
Così… …on mi dilungherò
oltre…”
Nabiki annuì distrattamente. Conosceva praticamente ogni
dettaglio del viaggio in Cina. Aveva ottenuto informazioni con
qualsiasi mezzo e si era perfino servita di un testimone
oculare degli
eventi, se così poteva paradossalmente definirsi quella
talpa di Mousse.
Il nastro, nel punto seguente, era meno consumato ma proseguiva anche
con diversi secondi di silenzio, accompagnato solo da qualche mormorio
di disapprovazione sullo sfondo.
Nabiki ricordava che, al contrario di quanto aveva appena affermato,
Obaba si era presa tutto il suo tempo per inalare una boccata di fumo,
sotto gli occhi spazientiti di tutti. Compresi i suoi. Erano rarissime
le volte in cui l’aveva vista fumare, e quella vecchia –
era proprio il caso di dirlo – volpe dava
l’impressione di godersi appieno il suo grande momento.
“…il rimedio… era uno e uno
soltanto, e vi è stato riferito correttamente dalla guida di
Zhou Chuan Xiang. Una sola acqua poteva reidratare la ragazza: quella
della fonte primordiale chiamata Jusendo, ovvero l’acqua
magica da cui traggono linfa e vita le stesse Sorgenti Maledette...”
Di nuovo silenzio.
Ricordava nitidamente, anche senza bisogno dell’aiuto della
cassetta, ciò che era seguito. La vecchia aveva soffiato una
densa nuvoletta di fumo e in quel momento, complice forse la luce
pallida di una luna pressoché piena, a Nabiki era parso di
vederla circondata da una sorta di aura, come il più sacro
degli oracoli. Anche adesso poteva quasi rivivere quel breve momento di
soggezione, e se ne rimproverò.
“…Il futuro genero, non senza ostacoli e
soprattutto non senza perdere minuti preziosi, ha infine adoperato
l’acqua di Jusendo su Akane, che tuttavia, da quanto mi avete
detto, a quel tempo aveva già chiuso gli occhi. Questo segno
è inconfutabile: sta a significare che il suo spirito vitale
si era ormai esaurito e l’anima aveva lasciato
definitivamente il corpo. Il potere di quell’acqua tuttavia
è immenso: infatti, una volta che è stata
assorbita dal suo organismo, lo ha preservato dagli effetti della
morte. L’idratazione durerà, probabilmente, ancora
per qualche giorno, così pare che Akane, in fondo, stia
semplicemente dormendo.” Mentre aveva udito dal
vivo quelle parole, Nabiki ricordava di avere istintivamente accennato
un sorriso malizioso, come se fosse stata sul punto di sentirsi
spiegare il trucco di un prestigiatore.
Il fatto era che le versioni, fino a quell’istante,
coincidevano e si integravano magnificamente. Infatti anche Tofu, al
quale lei si era già rivolta in precedenza,
all’insaputa di tutti e nel massimo riserbo le aveva
raccontato che potevano verificarsi dei casi nei quali
l’anima abbandonava la propria sede naturale eppure la
persona restava in vita. Nabiki avrebbe potuto ripetere parola per
parola l’esposizione del dottore: tale fenomeno riguardava,
di regola, l’ikiryo, ovvero lo spirito
legato a questo mondo da un qualche attaccamento terreno, ed era
definito proiezione o, più correttamente, sdoppiamento
astrale.
“Ma le cose non stanno così.”
Qui Nabiki poteva ancora percepire l’occhiata grave che
Cologne aveva scoccato loro, o forse solo nei suoi confronti.
“Il corpo e lo spirito non possono restare separati
a lungo: esistono delle testimonianze al riguardo, ma si limitano a
poche ore. In ogni caso, non avrei comunque saputo indicare un modo per
riportare l’anima nel corpo. Non lo conosco, né mi
risulta che esista. Oggi, essendo trascorsa quasi …na
…ettimana dal vostro …torno dalla Cina…”
Nabiki sbuffò: ecco di nuovo quei disturbi. “…il
discorso …on è più …emmeno
praticabile: semplicemen… è ormai
…oppo tardi.”
Dopo di ciò, diverse voci si sostituirono a quella di
Cologne, sovrapponendosi le une alle altre in un brusio
indistinguibile. Nabiki ricordava che la vecchia, ritenendo di aver
detto tutto quanto c’era da dire, aveva spento la pipa, era
scesa dallo sgabello e si era avviata verso la sua stanza, voltando le
spalle agli altri che già si stavano lanciando in mille
commenti e obiezioni.
Solo Nabiki non aveva aperto bocca, limitandosi a inseguire
l’amazzone prima che varcasse la porta, per poi allargare
appena la tasca dei pantaloni e catturare un’ultima frase che
Cologne aveva pronunciato a voce bassa, come a se stessa, con un tono
molto più sommesso del precedente.
Pausa. Avanzamento veloce. Stop. Riproduzione.
“…non…
più… nulla da …are… er
Akane…”
La secondogenita delle Tendo inarcò un sopracciglio, sempre
più nervosa. I rumori di fondo si erano fatti troppo
violenti per rendere del tutto comprensibili quelle parole, senza
contare che lei stessa aveva logorato ulteriormente quella porzione di
nastro a furia di riascoltarla.
Certo, la registrazione era ormai vecchia di giorni. Ogni tentativo che
era seguito aveva presto portato a un punto morto. Tutte le successive
ricerche avevano solo confermato che non esisteva alcuna
possibilità che l’anima fosse, sia pure in via
eccezionale, sopravvissuta così a lungo lontana dal suo
corpo.
Per questo, Nabiki non capiva come oggi a scuola non fosse riuscita a
pensare a niente di diverso dal rientrare a casa e analizzare
nuovamente, dopo tanto tempo, il proprio materiale. Avrebbe voluto
attribuire la colpa della sua paranoia alle poche ore di sonno, ma non
era da lei adagiarsi su simili soluzioni di comodo.
Riavvolgimento. Stop. Riproduzione.
“… nulla da… are…”
A voler essere obiettivi, la frase era chiarissima. E poche sentenze
potevano dirsi più definitive di questa. Ma più
di tutto, ogni volta che la riascoltava, Nabiki credeva di scorgervi
sempre di più qualcosa di diverso dal monologo sapiente che
l’aveva preceduta. Piuttosto uno sfogo sincero, sofferente:
l’impotenza di un’amazzone che normalmente era anni
luce davanti a loro.
Oppure, il frutto di una recitazione molto convincente.
Dopotutto, accettato che Akane fosse morta, Ranma era libero dal
fidanzamento. Shampoo si trovava con una pretendente in meno e, casualmente,
di lei non si avevano più notizie dal ritorno del gruppo dei
‘maledetti’ dalla Cina. A pensar male si fa peccato
ma…
Nabiki spense il registratore e si alzò dal letto.
Già che doveva fare alcune telefonate, pensò di
pescare dall’agendina un numero in più.
Il tramonto accese il cielo, ormai totalmente sgombro di nubi, di un
penetrante rosso fuoco. Tanta intensità la metteva a
disagio, quasi che il sole volesse opporre l’estrema
resistenza alla discesa di una nuova notte, la quale non avrebbe
portato che sventure.
Kasumi scosse il capo, come per scacciare da sé questi
pensieri così negativi, che non erano proprio da lei.
Rientrò rapidamente in casa e finì di mettere il
bucato nella lavatrice. Quando uscendo dal bagno incrociò
Nabiki, ebbe per un istante l’impressione che la sorella
minore la stesse aspettando al varco, come per cogliere in lei anche il
minimo segno di turbamento esteriore. Ma Kasumi sapeva di non esibire
la minima prova, per il semplice fatto di non essere turbata.
Perché lei non avrebbe mai potuto
farsi vedere turbata, in un momento tanto critico.
Fu Ukyo, che evidentemente stava tenendo compagnia a Nabiki da prima
che le raggiungesse, a esprimere la sua preoccupazione per lei.
“Non è ancora tornato...”
Cominciò.
“Lo sappiamo bene.” Tagliò corto Nabiki
con fare brusco, sprofondando di nuovo l’ambiente sotto una
pesante cappa di silenzio.
Kasumi avvertì, per la seconda volta in pochi minuti, lo
stesso senso di oppressione. Capì che doveva essere lei a
parlare.
“Ukyo-chan, ti fermi anche questa notte
da noi?”
La frase era stata pronunciata col tono di un invito.
L’interpellata non poté fare a meno di annuire
timidamente.
“Anche se non avresti più il
diritto…” S’intromise ancora la sorella
minore.
Cielo, non così…
“C’è forse qualcosa che vorresti
dirmi?!” Le si rivolse Ucchan, la cui voce tradiva un
evidente nervosismo.
“Nulla che tu non sia in grado di constatare da
sola.” Rispose Nabiki, provocando la ragazza con la spatola.
“Ora che Ranma non è qui, il tuo interesse a
restare mi sorprende. Forse hai voglia di far fuggire di casa anche
nostro padre?”
Non anche dentro le nostre mura…
“Non è stata mia, l’idea di sistemarmi a
casa vostra per aiutare Ran-chan a superare questo difficile momento! E
soprattutto io
non l’ho fatto fuggire di casa!”
Kasumi ebbe l’impressione di scorgere un moto di esitazione
in Nabiki, come se fosse rimasta colpita dalla reazione di Ukyo. Invece
lei sconfessò subito una tale congettura, rincarando la dose.
“Oh, ma certo! Perdonami l’infelice scelta di
parole. Tu volevi solo consolarlo, giusto? Non è colpa tua
se è scappato. Non è colpa tua se gli sei corsa
dietro per fermarlo, per tornare la mattina dopo confessandoci
candidamente di averlo lasciato là fuori a inseguire i suoi
fantasmi!”
Kasumi portò istintivamente entrambe le mani alle labbra,
guardando impotente Nabiki sorridere con aria di vittoria come una
bambina e Ukyo sul punto di saltarle addosso.
Ma non poteva restare così inerte. Doveva riprendere il
controllo.
Avanzò e si frappose tra le due ragazze, attirando
immediatamente l’attenzione di entrambe.
Ukyo parve calmarsi di colpo. Nabiki sembrò sul punto di
aprire bocca, ma venne anticipata dalla sorella maggiore.
“So quello che ti ho detto ieri notte, ma ora
penso… che dovremmo andare a cercarlo.”
Pochi minuti più tardi, Ranma stava fronteggiando un nuovo fantasma.
Indubbiamente corporeo, questo, per quanto illuminato solo dalle
flebili luci della strada e pallido come il
più cadaverico degli spettri.
Qualcosa d’irreale, tuttavia, lo avvolgeva. Probabilmente il
suo incedere, profondo, smarrito, non di questo mondo. Ranma credette,
per qualche motivo a lui ignoto, di vedere se stesso, prima di
identificare nell’arcana figura le sembianze di Tatewaki Kuno.
In quel momento, avvertì dentro di sé che una
nuova notte era appena iniziata.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Incontri ***
Capitolo 4
“Incontri”
La fitta lancinante dominò istantaneamente i suoi sensi, ma
s’impose di trattenere il minimo lamento. Non avrebbe fornito
a nessuno un ulteriore motivo di scherno.
Sforzandosi di non pensare al dolore, si trovò tuttavia a
considerare che semplicemente questo non
poteva, non doveva accadere
a lui.
Visualizzando con la mente il distensivo orizzonte dei monti e lo
spazio di azione ben meno angusto dei campi della propria terra natale,
Mousse recuperò con rapidità
l’equilibrio che quella maledetta gamba del tavolo gli aveva
fatto perdere pochi attimi prima.
Non gli era rimasto a disposizione il tempo materiale di alzare lo
sguardo ma era cosciente che, cadutigli e frantumatisi gli occhiali
nell’urto, per lui quel gesto sarebbe stato comunque inutile.
Acuì l’udito, invece, e intercettò
l’oscillazione del piatto che stava precipitando nel vuoto.
Distribuì il peso sulle ginocchia ancora inarcate a terra e
allungò il braccio che aveva a minor distanza: infine, con
una presa sicura afferrò all’ultimo proverbiale
secondo contenitore e contenuto, certo di non aver rovesciato nemmeno
una goccia di brodo né alcun pezzo di carne o verdura.
Ciò non fu sufficiente a evitargli un accenno divertito di
applauso da parte di uno dei clienti del suo tavolo e, ancora peggio,
diverse risatine dei consumatori dei tavoli vicini. Mousse si
levò lentamente in posizione eretta, questa volta non
ignorando affatto il dolore del ginocchio, che non voleva saperne di
placarsi. Conscio di aver deformato i lineamenti del viso in una
smorfia di insofferenza, non se ne curò e mantenendo
quell’espressione servì la pietanza ancora calda
al tizio che l’aveva applaudito, senza badare se si trattasse
o no della stessa persona che aveva ordinato i ramen in brodo.
Raccolse da terra i resti delle stanghette, estrasse dalle maniche
della veste l’ennesimo nuovo paio di occhiali e, infilati
attentamente, tornò sui propri passi. No. Questo non doveva
accadere a lui.
Lui non era come quei ragazzini che affollavano il locale. Tra la sua
gente, lui era il fiero Mousse – Mu
Si, accidenti, Mu
Si! Possibile
che si stesse abituando a quella ridicola pronuncia?! – ed
era un artista marziale. Inciampare di per sé era lecito,
anche senza che la sua miopia dovesse in qualche modo giustificarlo: ma
raggomitolarsi, carambolare sulle proprie ginocchia, perdere in un modo
così goffo la padronanza del suo corpo, ciò non
gli era concesso. Non doveva succedergli una cosa del genere, tra
l’altro per un incidente talmente stupido.
Di tanto in tanto, avvertiva la terribile sensazione che molta gente
cenasse al Nekohanten apposta per vedere lui: osservarlo dare
spettacolo di sé, ridere della sua ennesima umiliazione. Era
una cosa impossibile, lo ammoniva con prontezza la voce della ragione,
eppure non poteva evitare di perdersi in simili fantasticherie.
Anche adesso qualche ulteriore risatina s’insinuò
nelle sue orecchie, e non fu in grado di constatare se fosse reale o
solo frutto del proprio nervosismo. Giunto davanti alla cucina, per
poco non mancò la porta nonostante l’avesse vista
benissimo. La vecchia mummia non dimostrò di essersene
accorta e gli lanciò tra le mani una nuova pila di piatti e
tazzine con la solita agilità.
Non era colpa sua, si giustificò senza aprire bocca. Lui,
appunto, era un artista marziale, non uno sguattero tuttofare o, come
si stava improvvisando in quel momento, un cameriere. E poi
quest’ultima, in tanti mesi, non aveva mai fatto parte delle
proprie mansioni. Il suo era un arrangiarsi come meglio poteva.
La vecchia tossì rumorosamente.
“Come puoi vedere,
l’ultimo vassoio che ti ho dato è chawanmushi.”
Gli disse. “Se cadi di nuovo, la crema bollente non ti
consentirà di essere fortunato come prima.”
Lui non ribatté nulla, ma si avviò.
Quella dannata megera! Allora non le era sfuggito alcun particolare! Mu
Si non comprendeva come avesse fatto: forse tra le sue innumerevoli
abilità c’era quella di guardare attraverso i
muri, anche se si meravigliava che quella strega ultracentenaria i muri
non li trapassasse già da tempo sotto forma di fantasma.
Ora basta, calmati un maledetto istante,
s’impose con la poca lucidità che gli era rimasta.
Non aveva senso prendersela con la vecchia, che dopotutto non lo aveva
né rimproverato, né deriso apertamente. La
verità, confessò Mu Si, era che ce
l’aveva con se stesso.
Non gli era mai importato del giudizio degli altri, non gli era mai
importato del mondo. Shan Pu era il suo mondo e ciò gli
bastava. Tuttavia senza di lei – con quel saperla tanto
lontana – era costretto a percepire anche il
resto… e di conseguenza la propria solitudine. E
l’assenza di Shan Pu era unicamente colpa sua.
Rientrò nella sala principale del ristorante e, tenendo
piatti e tazzine con entrambe le braccia, lui che avrebbe potuto
reggerli in equilibrio tutti insieme in pila con la pressione del solo
dito mignolo, si sforzò di concentrarsi per non provocare il
disastro predetto dalla vecchia.
Dopo pochi secondi, fu costretto ad ammettere che non era
così facile. Non erano certo i suoi riflessi a essersi
appannati, in quell’ultimo periodo. Semplicemente, come in
questo preciso momento, gli si sovrapponevano in continuazione le
immagini della donna amata, e con tutti gli occhiali non vedeva
più altro.
Quando sarebbe tornata dal loro villaggio in Cina? Contava i giorni, le
ore, i minuti, in attesa del suo arrivo o di una telefonata o almeno
una risposta alle lettere che le scriveva quotidianamente. E si era
rimproverato un’infinità di volte per non aver
mostrato maggiore coraggio ed esserle rimasto accanto, in un momento
per lei così doloroso. Naturalmente Shan Pu, da parte sua,
l’aveva mandato via senza esitazioni e a male parole,
urlandogli che uno stupido papero come lui sarebbe stato buono
solamente come manodopera al Nekohanten. Forse avrebbe potuto
ribatterle qualcosa.
Invece si era lasciato sconfiggere, per l’ennesima volta, dal
suo sguardo.
O forse si era solo messo nei suoi panni per un istante.
Cos’avrebbe fatto Mu Si se a Jusendo avesse visto morire ad
esempio… Ranma Saotome, per poi assistere impotente alle
lacrime di disperazione di una Shan Pu che supplicava invano il suo
consorte di tornare da lei? Non riuscendo a trovare risposta a una
simile domanda, ma lasciandosi sopraffare dal dolore che quella sola
idea gli comportava, l’aveva lasciata andare. Suo padre e le
amazzoni amiche d’infanzia avrebbero potuto confortarla come
lui non sarebbe mai stato in grado di fare, si era detto.
Eppure, adesso, si sentiva solamente un povero idiota.
Certo che… Shan Pu avrebbe potuto comunque farsi viva. Non
necessariamente per lui. Almeno una telefonata per rassicurare la
propria bisnonna, no? Non che la vecchia paresse minimamente in ansia
per la parente più stretta che le era rimasta.
C’era qualcosa di strano, qualcosa che…
Un fracasso assordante di piatti frantumati riscosse
l’attenzione di Mousse,
che finalmente realizzò di essersi di nuovo estraniato dalla
realtà. Si arrestò e
s’irrigidì, consapevole di aver dato ancora
spettacolo e di essersi appena guadagnato qualche ora notturna di
straordinari.
Deglutendo nervosamente e aprendo le palpebre, vide tuttavia davanti a
sé gli stessi piatti e tazze che stava reggendo fino a
qualche momento prima. Allargò lo sguardo e
individuò la vera fonte del frastuono.
“Scu-scusatemi! Sono desolato! Davvero!”
Rantolò una voce maschile, ma acuta e spaurita, mentre il
corpo da cui proveniva si prodigava in inchini e gesticolii vari.
Mu Si sospirò, sollevato. C’era ancora qualcuno
più imbranato di lui. E che gli aveva indubbiamente rubato
la scena per il resto di quella serata.
Posò il suo carico e si avvicinò al tavolo
incriminato, dove non era rimasta più nemmeno la tovaglia:
il cliente, in piedi, ne stringeva addirittura in mano un lembo, segno
che probabilmente si era alzato dalla sedia trascinandola con
sé in uno dei gesti più maldestri che potesse
concepire, rovesciando ogni piatto e posata. Era una fortuna che non si
fosse rovesciato lo stesso tavolo.
“Mi dispiace! Mi dispiace!” Ripeté il
ragazzo, rivolgendo ora gli inchini verso di lui.
Mu Si lo scrutò rapidamente. A destare il suo interesse
furono gli occhiali che indossava, dalle lenti molto spesse e che gli
permisero di immedesimarsi in quel poveretto.
“Non fa nulla, non si preoccupi. Ci penso io.” Gli
disse, cercando di nascondere uno strano sentimento di simpatia mista a
gratitudine e considerando di dover prendere scopa e paletta. Corse nel
ripostiglio, dove nella foga urtò, proprio con il ginocchio
dolorante, quelle dannate damigiane che la vecchia non voleva decidersi
a buttare – a cosa servivano più, adesso?
– prima di trovare ciò che cercava. Non fece
però in tempo a richiudere la porta che un altro frastuono
lo richiamò nel salone.
“Io… n-non so come sia potuto accadere!”
Balbettò il brunetto. “Volevo aiutare a
raccogliere i cocci ma… n-non so come, temo di aver dato una
gomitata a quella bottiglia e…”
“Le avevo detto che qui ci avrei pensato io!” Lo
interruppe. Mu Si fissò di sfuggita l’abito ora
del tutto macchiato e i lunghi capelli scompigliati. “Adesso
si sieda a quel tavolo ancora libero e mi lasci fare. Anzi, prima vada
in bagno a ripulirsi, non vede come si è conciato? La prima
porta sulla destra.”
“G-grazie mill…” Il nuovo inchino del
cliente, pericolosamente vicino, si tradusse in una violenta capocciata
tra i due. Mu Si, il cui umore era nuovamente peggiorato,
bofonchiò alcuni improperi in madrelingua, mentre
l’altro ricominciava a scusarsi.
Nuove risate si diffusero per il locale. Con la coda
dell’occhio, poté scorgere perfino la vecchia
mummia affacciarsi e sogghignare assai divertita.
Trattenne a stento un risolino nervoso. Molto nervoso.
Proprio quell’idiota. E proprio adesso.
Avrebbe voluto evitare di affrontarlo, ma era stato Tatewaki a deviare
per primo dal suo cammino, parandosi davanti a lui sotto la luce
altalenante di un lampione mezzo guasto e cominciando a scrutarlo con
occhi penetranti ma oscuri.
Ranma non si era ribellato subito, in quanto l’irritazione
dovuta al fatto di trovare un ostacolo alquanto indesiderato sulla
propria strada era superata dal disagio che lo sguardo gli procurava. A
quello di Kuno si sovrapposero in rapida successione molti altri volti.
Papà e Ucchan e sua madre e il signor Tendo e Nabiki e
Kasumi. Tutti. Perché lo fissavano sempre in quel modo?!
(“Non sono… no… Stupida! Non
sono… come…!”)
Si scosse e si decise finalmente a distanziarlo, ma Tatewaki si
frappose ancora, sguainando verso di lui l’immancabile arma:
non il solito bokken di
legno, esaminò rapidamente Ranma, ma una katana con
l’elsa, identica a quella che sua madre portava
incessantemente con sé.
Non che ciò cambiasse qualcosa. Ranma piantò
saldamente i piedi per terra e accennò la posizione da
combattimento imminente. Questo era il
linguaggio che preferiva.
Eppure ancora non gli bastava. Mancava la scusa che gli consentisse di
sfogarsi su Kuno, di scaricare su di lui almeno un poco della sua
rabbia. Conoscendo il suo opponente, non sarebbe stato così
difficile trovarla. Ma un filo di provocazione non avrebbe comunque
guastato.
“Allora… si può sapere che diamine
vuoi, senpai?! Avanti, parla, prima che sia costretto a darti la solita
lezione!” Gli disse fiero e sprezzante come non si sentiva da
tempo, e forse a dirla tutta nemmeno in quel momento.
Kuno, con sua grande sorpresa, non si scagliò contro di lui
farneticando le solite sciocchezze. Si limitò ad annuire,
riponendo lentamente l’arma.
Poi, sorrise.
E, no, Ranma non si aspettava nemmeno questo.
Infine, come se avesse avvertito la sua confusione, si decise ad aprir
bocca.
“Gli spiriti non interrogano, vanno interrogati.”
Disse con calma, quasi che per assurdo si trattasse di una spiegazione
scontata ma inevitabile. “E io mi sto semplicemente
esercitando, Saotome Ranma, nell’attesa di raggiungere il
luogo dove l’amata Akane mi ha dato testé
appuntamento, attendendo struggente il mio arrivo.”
Sentendo quel nome, Ranma sussultò.
“Vuoi dire che… l’hai
vista? L’hai incontrata? Le hai
parlato?!”
Tatewaki non si scompose.
“Naturalmente. L’ho vista. L’ho
incontrata. Le ho parlato.” Confermò.
“Ella viene da me tutte le notti, ogni qualvolta chiudo le
palpebre. L’adorato angelo con il codino
l’accompagna… ed entrambe consolano la mia
mestizia assicurandomi che la forza del nostro amore
riuscirà infine a sconfiggere anche questo Fato sadico e
crudele. Esso ci ha divisi, ma non si tratta che di una separazione
temporanea. Solo un’ultima prova,
che il nostro indissolubile legame riuscirà a superare senza
tema alcuna.”
Tatewaki proseguì, ma Ranma non lo ascoltava più.
Dopo le prime parole aveva già compreso. Per pura
associazione di idee ricordò che Nabiki aveva recentemente
cercato di stuzzicarlo, facendogli notare la strana similitudine:
ostinandosi a ‘marinare’ la scuola da ormai diversi
giorni si stava comportando proprio come Kuno, che non si vedeva
più in giro da altrettanto tempo. Voleva per caso essere
come lui?
(“Stupida! Non sono… come…!
Io non sono… come lui!”)
Sentì il respiro farsi sempre più difficile. Il
cuore gli pulsava forte e d’un tratto aveva perso ogni voglia
di combattere. Avverti un bisogno più urgente di andar via:
da qualunque altra parte e dove fosse finalmente in grado di
raccogliere fiato. Senza dire niente si girò e
accennò una rincorsa, per poi balzare via.
Tuttavia, prima che potesse spiccare il primo salto, la voce sicura di
Tatewaki dietro di lui pronunciò: “Ricordati,
Saotome Ranma… ‘Come
il sole se ne va passeggiando per il mondo, e non
c’è luogo dove non risplenda’.”
Per qualche assurdo motivo udì nitidamente ogni singola
parola. Qualcosa dentro di lui lo portò a bloccarsi e a
voltarsi ancora in direzione del cono di luce del lampione. Ma Kuno era
svanito nuovamente nell’ombra, né Ranma ne
avvertiva più la presenza.
Si domandò se non avesse commesso un errore a perderlo di
vista, ridotto in quelle condizioni così pietose perfino per
i suoi canoni. Scacciò quel dubbio. Sapeva soltanto che, con
la scomparsa del suo senpai, si era sentito subito più
rilassato. Piuttosto, in una sorta di esercizio mentale, volle
ripetersi un paio di volte l’ultima frase e provare ad
afferrarne il significato, ma non vi riuscì.
Pochi secondi più tardi, ogni più piccola traccia
di quelle parole si era dissolta completamente dalla sua memoria.
Balzando di tetto in tetto, e assaporando l’aria fresca che
gli schiaffeggiava la pelle, si lasciava inebriare dal movimento e
riusciva quasi a non pensare.
Tuttavia quella sensazione non era sufficiente. Il sollievo del pianto
della notte precedente aveva ormai esaurito del tutto il proprio
effetto. Aveva bisogno al più presto di trovare
un’altra via di sfogo, o sapeva che sarebbe sicuramente
scoppiato.
Era in ansia.
Era abituata a quella sensazione: ci aveva convissuto giorno dopo
giorno fin da quando Genma le aveva portato via il suo unico figlio.
Gli anni le avevano insegnato solamente a quietarla, a chiuderla in un
cantuccio del proprio cuore, a celarne i segni esteriori davanti alle
altre persone. E ad accettarla. Dopotutto sapeva benissimo a cosa
andasse incontro, sposando un artista marziale.
Tuttavia, esserci abituata non voleva dire che non la facesse
più soffrire.
E se fino a pochi mesi prima la coscienza che Ranma e Genma fossero
irraggiungibili, e che lei non avrebbe dovuto vanificare in alcun modo
il loro sacrificio,
riusciva in qualche modo a consolarla e a rasserenarla, il fatto di
essersi finalmente ricongiunta al proprio bambino le toglieva anche
questo.
Perché non avrebbe mai sopportato il pensiero di aver
ritrovato suo figlio per poi perderlo di nuovo.
“Zia Nodoka, vuole che moderiamo un poco il passo?”
Si accorse di essere rimasta un po’ indietro e sorrise
benevola a Kasumi, che si era gentilmente fermata ad aspettarla.
“Ti ringrazio, cara, ma non è il caso.”
Nodoka chinò educatamente il capo in segno di riconoscenza.
“Mi ero semplicemente distratta, ma non è un
problema per me andare più veloce. Dopotutto sono la moglie
di un artista marziale.”
Inoltre, annotò mentalmente, a quest’ora gli altri
gruppetti dovevano aver già raggiunto il punto di ritrovo e
Nodoka sperava fervidamente che le loro ricerche avessero dato miglior
esito. In ogni caso, convenne che Nabiki aveva avuto una buona idea
proponendo loro di dividersi. Il signor Tendo e il dottor Tofu avevano
indubbiamente la possibilità di setacciare le porzioni
più ampie del vicinato, e non era saggio rallentarli.
Accelerò l’andatura e riprese a gridare con Kasumi
il nome di Ranma. Si sentiva in realtà un poco affaticata,
ma non era nulla in confronto al vero affanno che le stringeva il
petto. Pensò per la prima volta di aver fatto bene a
lasciare a casa la katana di famiglia, che l’avrebbe soltanto
intralciata ulteriormente: e poi erano finiti i tempi in cui avrebbe
considerato poco
virile la
fuga di suo figlio.
Già la notte scorsa, vedendolo entrare in quello stato nella
sua stanza da letto – dopo averne messo a soqquadro almeno la
metà, a giudicare dai rumori, mentre cercava
l’interruttore – aveva smesso di pensare ai
giuramenti, all’onore e al seppuku.
Ora tutto quel che desiderava era riaverlo indietro.
Era giunta quasi la mezzanotte quando una colonna di luce
rischiarò il cielo come se fosse pieno giorno. La fissarono
in silenzio per diversi secondi, affascinati e spaventati al tempo
stesso da quel fenomeno tanto inusuale. Per lui, in particolare: era la
prima volta che vi assisteva di persona. Il fragore tardivo della
violenta detonazione li riscosse, facendo tentennare per un attimo le
loro posture erette sul cornicione.
Tofu provò a passare rapidamente in rassegna ciò
che ricordava di quella tecnica. La memoria gli restituì
allora, in modo incredibilmente vivido, lo stupore che
l’aveva assalito e turbato nel momento in cui aveva scoperto
che dietro quel colpo letale non si celavano segreti di antichi
guerrieri, arti millenarie levigate dalle generazioni e perdute nel
flusso della storia. La realtà era molto meno romantica:
l’origine di tutto andava rintracciata nell’istinto
di sopravvivenza di umili operai costretti a lottare contro la terra e
contro la roccia per la vita stessa.
All’epoca era solo un ragazzino che studiava con impegno ma
non sapeva ancora cosa avrebbe fatto della sua vita. Tuttavia, quel
giorno, l’insegnante e le figure ingiallite di tomi consunti
dal tempo non erano riusciti a tranquillizzarlo.
Un interrogativo sottile quanto subdolo si era insinuato nel suo animo,
e Tofu, non riuscendo in alcun modo a scacciarlo da sé, si
era trovato per la prima volta a interrompere la spiegazione del
vecchio maestro e a esprimerlo a voce.
Come poteva un simile potere, gli aveva domandato, essersi trovato a
disposizione di mani tanto ingenue e ignoranti? Cosa avrebbe impedito
loro di finire per abusarne? Tofu si era arrestato, acquistando a poco
a poco consapevolezza della propria mancanza di rispetto. Ma
inaspettatamente il maestro non si era adirato.
L’aveva guardato con aria mansueta e comprensiva, per poi
rispondere al suo dubbio con fare calmo e insieme estremamente serio.
Tofu non avrebbe mai più scordato quelle parole.
“Giovane Ono”, gli aveva
detto, “nessun essere umano è a priori
adatto o inadatto a un potere più grande di lui. Anche un
guerriero disarmato, in un moto di collera, potrebbe abusare della
propria mano chiusa a pugno per far male all’amico a lui
sommamente caro. Per questo, lo studio delle arti marziali è
innanzitutto una continua disciplina di autocontrollo, un percorso che
guida a una progressiva presa di coscienza della propria forza e dei
propri limiti, e del dovere di imporsi questi ultimi. Oggi tu hai
compiuto il primo passo verso quel sentiero.”
Tuttavia, non avrebbe proseguito a lungo detto cammino. Quel giorno,
forse, aveva costituito un crocevia: la paura di non saper gestire una
simile responsabilità era stata più forte di lui,
e il desiderio di usare le sue conoscenze soprattutto a fin di bene
aveva indirizzato infine i suoi sforzi verso lo studio delle pratiche
terapeutiche.
Adesso, Tofu stava probabilmente assistendo alla realizzazione dei suoi
timori. Non ultimo, il fatto che dopo anni avrebbe forse dovuto tornare
a far ricorso alle arti marziali, per impedire il verificarsi di
conseguenze ancora più gravi.
Lo studio delle arti marziali è una continua
disciplina di autocontrollo… invece
quell’aura…
Il panorama era tornato ad ammantarsi di oscurità. Diversi
allarmi delle automobili del vicinato squillarono
all’unisono, presto accompagnati da numerosi latrati. Questi
suoni riscossero sia Tofu sia il suo vicino, riportandoli
definitivamente al mondo reale ma confermando anche che
l’esplosione di prima non era frutto della loro immaginazione.
Si fissarono negli occhi e, avvertendo la propria bocca
inaspettatamente asciutta, lasciò che Soun parlasse per
primo.
“Era lo Shishi
Hokodan.” La sua non era una domanda.
“Dunque si tratta di Ryoga.”
Ono si aggiustò gli occhiali, prima di scuotere la testa e
ritrovare un po’ di salivazione.
“Oppure di Ranma.” Si decise infine a precisare.
“Allora, ci avviamo?”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Confronti ***
Capitolo 5
“Confronti”
Seduto sul bordo di una ciminiera non molto distante dal Furinkan,
Ranma aveva avuto modo di ammirare da spettatore privilegiato la
colonna di energia irradiatasi, presumibilmente, dallo stesso cortile
dell’istituto.
Ne era abbastanza sicuro poiché la parte superiore della
facciata principale, compresi il terrazzino e il ridicolo bungalow che
avrebbe dovuto costituire l’ufficio del preside secondo la
mente contorta di quel degno esponente della famiglia Kuno, era rimasta
ben visibile ai suoi occhi per una manciata abbondante di secondi.
In quanto alla natura del fenomeno, non nutriva il minimo dubbio.
Lo Shishi Hokodan… alla massima potenza.
Saltò agilmente per i tetti del quartiere e
oltrepassò con un ultimo balzo il cancello che dava al
cortile interno. Una volta lì, fu in grado di individuare
con estrema facilità il punto preciso da cui si era levata
la luce.
Il campetto di softball. O almeno quello che ne rimaneva.
Oltrepassando diversi alberi spezzati, un ripostiglio per gli attrezzi
rovesciato e spaccato in due parti, nonché i probabili resti
della vecchia stazioncina meteorologica, raggiunse un cratere di
parecchi metri di diametro. Affacciandosi verso il basso, non fu
sorpreso di scorgere un ragazzo con la bandana che stava ritto in
piedi, ma con il capo ben chino, posizionato al suo esatto centro.
“Ryoga… che diavolo stai…”
L’altro non alzò le palpebre, ma mosse appena le
spalle.
“Uh, Ranma…” La sua voce, più
roca del solito, era perfettamente udibile. “Cosa sto
facendo, dici? Niente di particolare, provavo solo a scaricarmi.
Ma usare tutta la mia infelicità per sparare lo Shishi
Hokodan non
mi fa affatto sentire meglio, sai?” Ryoga esitò un
istante, prima di continuare. “La disperazione non fa che
fluire, scivolare attorno a me. E mi sento più
vuoto… e forse anche un po’ più solo di
prima.”
Detto ciò decise di voltare il capo, e finalmente Ranma
poté incrociare lo sguardo del rivale di sempre.
“Tu, piuttosto, dovrei chiederti cosa ci fai qui in
Hokkaido… ma immagino di essere io, tanto per cambiare, a
trovarmi nuovamente a Tokyo… Non lo trovi buffo? Il mio
senso dell’orientamento è del tutto inesistente,
eppure riesco ogni volta a tornare in questi luoghi ormai tanto
familiari.”
Ridacchiò, ma chiaramente con poca convinzione.
“Un tempo… un tempo dicevo a me stesso che questa
era la dimostrazione della forza del mio amore per Akane.” Si
arrestò di nuovo, come per riflettere sulle sue stesse
parole, mentre Ranma continuava a fissarlo dall’alto con aria
costernata. Ryoga riprese: “Forse sono sempre stato un
po’ troppo melodrammatico. O forse è vero.
Dopotutto la dolce Akane è sempre stata l’unica
persona capace di guidare i miei passi. Probabilmente, è
così anche adesso. Anche ora che lei non è
più tra…”
“Non dire idiozie!” Ranma si affrettò a
sovrastarlo, conquistando di nuovo la sua attenzione. “Non
parlare così! Se invece ti dicessi che…
che…” Il volume della voce si abbassò
repentinamente. “Che l’ho
vista?”
Ryoga non mosse alcun muscolo per diversi secondi, come se non fosse
stato certo di aver colto subito le sue parole.
“Ti risponderei che sei perfino più disperato di
me, Saotome.” Replicò poi, con un tono che Ranma
non gradì per nulla. “Ma dimmi piuttosto una cosa:
non ti sembra un po’ tardi per dimostrare quanto tenevi a
lei? Non sarebbe stato più facile trattarla bene finché
potevi? Finché ne eri in grado?”
“Smettila di parlare al passato!”
Ringhiò Ranma, che non era francamente in grado di
sopportare anche la predica da parte di quello stupido suino.
“Ti ho appena detto che…”
“Finché lei era ancora tra noi?”
E in quel momento si sentì letteralmente ribollire il sangue
nelle vene.
“Piantalaaa!”
“Sì? Altrimenti cosa mi fai?”
Ryoga non ebbe finito di proferire quelle parole, che Ranma si
gettò nel cratere con la seria intenzione di zittirlo con le
cattive maniere.
Nulla si frappose alla lotta più selvaggia.
E in realtà, forse lo sapeva benissimo anche il suo
opponente, fin dal primo istante nessuno dei due aveva bramato qualcosa
di diverso da quell’incontro.
Nabiki finì di sorseggiare la calda bevanda e ripose il
thermos nella borsa.
Così andava un po’ meglio. I brividi erano cessati
e il suo cervello poteva tornare a elucubrare.
Per il resto…
Già prima che il pilastro di luce fosse sbucato dai tetti
più bassi, aveva considerato più di una volta
l’idea di abbandonare le ricerche e tornarsene a casa.
Se Ranma non aveva intenzione di farsi trovare, non sarebbe di sicuro
riuscita in una tale impresa proprio lei. E se per pura combinazione si
fosse comunque imbattuta nel signorino Saotome, perché, si
sa, la sorte è beffarda, le sarebbe stato chiaramente
impossibile riportarlo a casa contro la sua volontà.
Non aveva mai rimpianto di aver scartato la strada delle arti marziali,
né – che fosse chiaro! – lo stava
facendo quella notte: tuttavia sapeva che il sentimento che stava
provando poteva tranquillamente definirsi quanto di più
prossimo al rammarico.
Così, quando ebbe assistito all’inequivocabile
manifestazione della tecnica energetica dello Shishi Hokodan, Nabiki si
era domandata con la massima onestà cosa ci facesse una
persona del suo calibro nel pieno dell’azione.
Mentre la strada tornava progressivamente buia e solitaria come prima,
lasciandola di nuovo sola,
aveva considerato che la propria competenza esulava dalle questioni
più propriamente fisiche, e che naturalmente papà
e il dottor Tofu avrebbero raggiunto il punto incriminato almeno un
quarto d’ora prima di lei. Per quale motivo aveva dunque
accelerato di colpo il passo lanciandosi in un accenno di corsa, pur
perfettamente consapevole della totale futilità di questo
gesto?
Nabiki si era arrestata, imponendosi il consueto autocontrollo e
interrogandosi rapidamente su cosa l’avesse spinta a tale
follia. La risposta non l’aveva affatto tranquillizzata: era
come se avesse sentito, in qualche modo, il dovere di prendere le veci
della sorellina e diventare lei l’impulsiva della situazione.
Ma tutto ciò era ridicolo.
Certo, Nabiki molto più degli altri era cosciente dei danni
che avrebbe potuto provocare un artista marziale fuori dalla
norma e del tutto fuori controllo:
non poteva ignorarlo, non quando era l’unica che avesse
tenuto i conti delle spese per le calamità
‘abituali’ che si verificavano quasi
quotidianamente, in seguito a scontri uno più assurdo
dell’altro. E se l’artista marziale fuori controllo
non era solo uno straordinario combattente, ma era
l’imprevedibilità allo stato puro con il nome di
Ranma Saotome, questa volta ci sarebbe stato da tremare sul serio.
Ciò non toglieva che il suo ruolo, quella notte, fosse un
altro. E che esso contemplava, quali requisiti essenziali, una notevole
lucidità… e soprattutto la
capacità di saper attendere.
Aveva dunque cercato di ignorare l’adrenalina, a cui non era
abituata. Aveva estratto il thermos e si era sforzata di tenere
occupata la mente in maniera più utile. Estraniarsi dalle
emozioni non era semplicissimo, ma in ciò non poteva fallire
lei stessa, si ribadì, se vi era riuscito perfino lo zio
Genma.
Il caro zietto, unico a ribellarsi davanti alla proposta di Kasumi di
andare a cercare Ranma: l’unico ad aver avuto il coraggio
– o il cinismo? – di ribattere
l’argomento della propria totale inutilità di
fronte a un figlio ormai nettamente più forte di lui e che
avesse perduto del tutto quel poco della testaccia che si ritrovava.
La stessa persona che – ricordandolo, Nabiki
accennò un sorriso forzato – in Cina, in mezzo al
gruppetto di artisti marziali sconvolti e disperati, aveva mantenuto (l’egoismo) il
raziocinio necessario per chiedere alla guida di Jusenkyo di spedire
loro la cura per le maledizioni, una volta che il livello delle
sorgenti fosse tornato alla normalità.
Strano a dirsi, per una volta era Genma Saotome il
‘modello’ da cui prendere esempio. Anche
se…
Un brivido le percorse la schiena e con un attimo di ritardo il
cervello di Nabiki registrò l’informazione del
respiro caldo di qualcun
altro, che lei non aveva né visto, né
udito avvicinarsi, sfiorarle il collo.
Per nulla abituata all’evenienza di essere aggredita
– anche ciò rientrava, in qualche modo, nel ruolo
di Akane – e sentendosi il cuore palpitare fino in gola,
Nabiki evocò ogni stilla di sangue freddo che le fosse
rimasta e finse di non essersi accorta di nulla.
Mantieni il controllo. Ecco, così. Va bene, non
hai paura…
Gridare o provare a ribellarsi contro la nuova presenza sarebbe stato
inutile. Lei non era un’artista marziale – era una
sua scelta, perché mai pentirsene?! – e proprio
per questo motivo doveva compensare in qualche modo la carenza di
forza, tecnica e agilità con un pizzico di strategia. Forse
aveva un’unica occasione, ma avrebbe provato a sfruttarla.
Non hai paura…
Nabiki capì che qualcosa in lei non andava quando non fu in
grado di stabilire da quanti secondi quella situazione di stallo stesse
inoltrandosi. Qualcos’altro, sempre in lei, le
suggerì che si trattava comunque di un tempo più
che sufficiente e che – cosa stava ancora aspettando?!
– non doveva indugiare un solo momento di più.
Non hai…
Gettò la borsa dietro di sé, scattò in
avanti e cominciò a correre. La tentazione di scoprire
l’identità del suo assalitore – magari
la stessa persona che stava cominciando a sospettare fosse implicata
negli ultimi avvenimenti? – era molto forte, tuttavia si era
imposta di non voltarsi e rischiare di perdere velocità.
Tutte queste precauzioni si rivelarono inutili. Una mano
l’intercettò, afferrandola un istante per il
braccio e facendole perdere l’equilibrio.
Rotolando malamente sull’asfalto, e scorgendo
un’ombra dalla lunga chioma avvicinarsi a lei, Nabiki non
riuscì più ad ascoltare la voce della ragione,
né quella del rimpianto.
E allora gridò forte.
Mentre le ultime parole che le aveva proferito con aria severa le
rimbombavano ancora in testa con il peso di una sentenza di condanna,
Ukyo fissò come stranita la sua cattiva
coscienza svanire
rapidamente dalla propria vista.
Solo allora smise di trattenere il respiro, e rilassò
finalmente i muscoli.
Avrebbe voluto anche lei abbandonare il Furinkan, dimenticare
ciò che stava accadendo, lasciarsi tutto alle spalle.
Ran-chan era a pochi metri di distanza, così intento a
combattere con Ryoga da non aver percepito nemmeno la sua presenza.
Ogni volta che lo incontrava, Ran-chan sembrava sempre più a
un passo dal baratro. E qualunque suo tentativo di salvarlo si stava
traducendo in una spinta ulteriore verso il fondo.
Poco fa, dopo aver seguito la traccia dello Shishi Hokodan e aver
assistito ancora una volta alla disperazione del proprio compagno
d’infanzia, aveva desiderato sinceramente e con tutta se
stessa di tornare indietro. Ma la sua coscienza non era dello stesso
parere.
Aveva intercettato i suoi passi. Le era piombata alle spalle
letteralmente dal nulla cogliendola alla sprovvista – e
nessun opponente fisico aveva mai fatto sentire Ukyo tanto debole e
inerme! – per poi ricordarle con severità il loro
‘piccolo patto’.
Ukyo non aveva saputo spiegare cosa esattamente fosse andato storto
l’altra notte. Come mai non avesse approfittato della grande
occasione. Il rimorso? Oppure qualcos’altro. A essere
sinceri, la sua memoria era ancora fitta di buchi. E forse lo stress e
la tensione le avrebbero giocato un brutto scherzo anche questa volta.
Invece non dovrai permetterti di sbagliare nuovamente,
le aveva replicato con rabbia il suo ‘io’
più malvagio e, lui sì, senza alcuno scrupolo. Questa
notte è l’ultima occasione, ci stiamo giocando
tutto! Mi avevi dato la tua parola, Ukyo Kuonji, non te la vorrai
rimangiare proprio adesso?! Ormai ci sei dentro fino al collo,
perciò a ben vedere non hai molta scelta! Te lo chiedo
un’ultima volta: sei con me…?
Ukyo aveva deglutito a fatica, per poi annuire.
Non poteva fare altro… giusto?
Quella specie di proiezione distorta di se stessa si era infine
congedata. Ma Ukyo era rimasta.
Sarebbe stato questa notte.
Ranma si sarebbe messo il cuore in pace.
E avrebbe… avrebbero finalmente
potuto liberarsi dell’ombra di Akane una volta per tutte.
Anche se ciò significava mettere in atto il tradimento
più grande.
Forse rientrava nell’equilibrio delle cose. Anche lui
l’aveva tradita, no?
(“Avevate promesso di portarmi con voi!”)
Tuttavia ciò non la faceva sentire meno in colpa.
Perdonami, Ran-chan! Ti scongiuro! Lo sto facendo solo
perché ti amo, perché ti ho sempre
amato… fin da quando eravamo bambini…
sempre… e in questo momento il mio amore è tutto
ciò che posso darti…
Nuove grosse buche storpiavano il terreno della scuola.
Erano entrambi distesi sul suolo, l’uno a pochi metri
dall’altro, e respiravano affannosamente. I loro vestiti
erano parzialmente sbrindellati e sporchi di terriccio.
L’artista marziale al suo fianco, continuando a scrutare un
punto indefinito del cielo, ruppe il silenzio.
“Mi sembri fuori forma.” Disse.
Ranma accennò a rialzarsi, mostrando il pugno. “E
a me sembra che tu ne voglia ancora, P-chan.”
Lo stuzzicò, marcando il tono mentre pronunciava il
nomignolo. Ryoga, straordinariamente, non si mosse dalla sua posizione.
“Sai la novità?” Riprese, senza alcun
nesso logico. “Ho lasciato Akari.”
Ranma mugolò sorpreso. E Hibiki accennò un
sorriso di rassegnazione.
“L’altra mattina mi trovavo nei pressi della
fattoria di suo nonno. Non sapevo quando avrei avuto modo di trovare
nuovamente la strada, così ho deciso di non indugiare oltre.
Piangeva, quando le ho raccontato tutto. Forse piangeva per la morte di
Akane. Forse perché le ho detto addio. Probabilmente, per
tutte e due le cose.”
“Hai lasciato Akari?!”
Riuscì finalmente a ripetere Ranma, incredulo.
“Già, che ironia della sorte! La stessa identica
cosa che ho sempre rimproverato a te nei confronti di Akane: ho fatto
soffrire la piccola Akari… e proprio quando avevo scoperto
di amarla veramente. Lei non meritava questo. So di essere stato un
mostro. Ma ora io ti chiedo: potevo mancarle ancor più di
rispetto, continuando a frequentarla mentre il mio cuore piangeva senza
sosta pensando ad Akane? Purtroppo è una verità
che non posso evitare: Akane morta ha
vinto per sempre nell’angoscia del mio animo rispetto ad
Akari-chan viva.”
Si alzò da terra. Ranma lo imitò, con un gesto
più sgraziato, ignorando i muscoli doloranti.
“Piantala, una buona volta! Ti ho detto di averla
vista!”
Ryoga non protestò, ma lo fissò con
un’espressione che lui aveva già scorto tante,
troppe volte. “Ti compatisco, Ranma. Un giorno riuscirai ad
accettarlo. Ora, semplicemente, è troppo presto.”
Infilò lo zaino sulle spalle. “Io mi
rimetterò in viaggio. A differenza di te, non posso
sopportare di rimanere un altro momento di più in questi
luoghi così pregni di lei, che mi riportano alla mente
troppi dolorosi ricordi… perciò, stavolta,
non credo che tornerò.”
Con quest’ultima frase di congedo, guizzò via.
Ryoga… il solito Ryoga.
Ranma immaginò che, a prescindere dall’eccessiva
quanto consueta teatralità delle sue dichiarazioni, P-chan
facesse sul serio e stesse davvero pregando affinché la
propria mancanza di orientamento lo perdesse nel più remoto
angolo del globo. Ma lui sperò che anche questa volta, come
le altre, il suo addio potesse in breve tempo rivelarsi un arrivederci.
Quando non fu più in grado di distinguerlo dalle altre
ombre, Ranma si sedette a braccia conserte e pensò. Che gli
altri avessero ragione? Che lui stesse veramente perdendosi a forza di
inseguire semplici illusioni?
Non fu molti minuti dopo che udì sopraggiungere gli altri.
Il buon vecchio Tofu aveva provato ad avvicinarsi senza rivelargli la
sua presenza, ma era stato tradito dall’improvviso pianto
isterico del signor Tendo, che lo scongiurava di tornare da loro prima
che fosse troppo tardi. Il dottore aveva cercato di tranquillizzare
Soun, ma il capopalestra aveva iniziato a ribattere che un uomo fiero
non ha paura di piangere… e diverse altre amenità
che Ranma non aveva alcuna voglia di ascoltare.
Non intendeva farli preoccupare, tuttavia non se la sentiva ancora di
tornare alla
luce. Decise di mimetizzare la propria, di presenza,
adoperando l’Umisen-ken –
in teoria la tecnica sarebbe dovuta essere sigillata per sempre e mai
più venire usata da chicchessia, ma ora questi discorsi
sull’onore e sulle arti marziali gli suonavano come tante
fandonie – e s’incamminò in silenzio
verso il lato opposto del cortile, che era rimasto parzialmente integro.
Procedette finché le grida del signor Tendo si dispersero in
lontananza, e l’ambiente tornò tranquillo.
Solo allora Ranma confidò a se stesso di
sentirsi… meglio. L’incontro con Ryoga era
ciò che gli ci voleva, forse, per riprendere contatto con la
realtà.
Si sdraiò nuovamente, a braccia e gambe distese, imitando
P-chan e lasciandosi avvolgere dalla placidità del cielo. Il
cielo che, come un vecchio amico, come per fargli un regalo, quella
notte era tornato sereno e stellato anche se privo della luna nuova.
Il cielo che era un vecchio amico: gli aveva tenuto compagnia nei
momenti più tristi, distraendolo dalla noia e scacciando via
tutte – sentendo un miagolio lontano, tremò appena
e si corresse: quasi tutte
– le sue paure infantili nelle notti insonni passate in
viaggio col vecchio, che dal canto suo puntualmente dormiva beato.
Ranma chiuse gli occhi e si abbandonò per qualche secondo a
un lieve torpore.
Il dolore per la scomparsa di Akane, incrementato dal rimorso per tutte
le parole non dette, non sarebbe potuto scomparire come per magia. Ma
probabilmente, seguendo l’invito di Ryoga, poco a
poco… poteva imparare a…
Fu in quel momento che Ranma percepì qualcuno. Forse i
muscoli, come aveva detto P-chan, erano sul serio fuori allenamento: ma
il suo sesto senso continuava a non tradirlo.
Sussultò, quando alzando lievemente le palpebre e piegando
appena il capo scorse una sagoma sfocata che sicuramente non
corrispondeva né a quella di Tofu, né a quella di
Soun.
Il corpo gli tremò lievemente.
Proprio come l’altra
volta.
Doveva aprire completamente gli occhi?
Doveva alzarsi?
Esitò, e questo gli permise di non abbandonare la propria
posizione, di restare immobile con gli occhi socchiusi, come se stesse
dormendo. Fu la sagoma, così, ad avvicinarsi.
Avanzò, pur con passi incerti, come se fosse spaesata.
Giunse davanti a lui. Si chinò a guardarlo in volto, le mani
appoggiate sulle ginocchia per non sbilanciarsi.
E il giovane Saotome, d’impulso, aprì le palpebre
e incontrò il suo viso,
in parte ricoperto dal buio.
Anche questa immagine era frutto della propria pazzia? Così
gli avrebbero detto gli altri. Eppure sembrava così reale.
Non aveva, però, il coraggio di allungare una mano verso di
lei. Se si fosse dissolta, impedendogli di toccarla, non avrebbe potuto
sopportarlo.
Ma questa volta avvenne una cosa diversa.
Questa volta, lei parlò.
“Ranma…”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Breve sogno ***
Capitolo 6
“Breve sogno”
Strizzò un’ultima volta le palpebre. Ma fu di
nuovo inutile, l’immagine monocromatica che scorgeva davanti
a sé non si decideva a cambiare.
D’altronde non si aspettava qualcosa di diverso. Poteva
affermare senza un minimo di superbia che la propria vista era
paragonabile a quella di una civetta, o perfino superiore: gli occhi,
perfettamente adattati alla penombra notturna, discernevano con
immediatezza ogni singolo elemento che lo circondava.
La sagoma, che si stava rialzando distanziandosi un poco da lui,
continuava a mantenere le fattezze di una ragazza il cui taglio corto
di capelli gli era fin troppo familiare. E adesso Ranma poteva anche
lasciar spaziare lo sguardo sulla figura intera, riconoscendo
così la lunga divisa scolastica del Furinkan.
“Ranma…” Udì ancora.
Si domandò se, ammesso che la propria fantasia gli stesse
comunque giocando un brutto scherzo, davvero anche l’udito si
sarebbe potuto fare ingannare così facilmente. Non lo
credeva possibile. Quel suono, quella voce non potevano affatto essere
frutto della propria immaginazione!
Si levò in piedi, ma più lentamente di come
avrebbe voluto. Fu stupito dal lieve torpore delle gambe e non
riuscì a evitare di barcollare.
Avanzato di pochi passi per recuperare l’equilibrio, ridusse
lo spazio che li separava e, anche se lei aveva smesso di pronunciare
il suo nome, Ranma ne avvertì in modo nitido il respiro,
ritmico e un poco ansimante.
Provando a imporsi il pensiero che, forse, sarebbe dovuto essere lui a
dirle qualcosa, considerò invece l’idea di tornare
sui suoi passi. Dopotutto, Tofu e Tendo non dovevano essere troppo
lontani. Li avrebbe raggiunti, quindi li avrebbe condotti qui, volenti
o nolenti, cosicché finalmente anche loro avrebbero potuto
vederla e sentirla.
Il proposito lo tentò per diversi istanti. Ma… se
poi non l’avesse ritrovata?
Se, nel frattempo che lui si allontanava, lei fosse scappata di nuovo?
Oppure, peggio: se lei, nonostante tutto, non ci fosse stata proprio
fin dall’inizio?
“Ranma…”
La prima alternativa era certo più allettante. Decisamente.
Perché, seguendo per un attimo l’ipotesi di non
essere ancora impazzito, Akane era davvero viva e
vegeta davanti ai suoi occhi.
“…che cosa sta succedendo?”
Si avvicinò al cratere con aria circospetta.
Non che si aspettasse di trovare l’autore di quello sfacelo,
ma sperava di individuare almeno qualche indizio, una bandana o altro,
che lo rassicurasse dell’estraneità di Ranma alla
vicenda.
Puntò la pila elettrica sul terreno circostante, con fare
metodico. Gli bastarono, tuttavia, pochi secondi per perdere di nuovo
la calma e lasciar serpeggiare il cono di luce senza più
alcun criterio, mentre le lacrime andavano ad annebbiargli la vista.
No, non di nuovo. S’impose. Non
adesso.
Si volse, ormai disperato, in direzione del dottor Tofu. Questi, dal
canto suo, non pareva propenso a una linea d’azione decisa,
come Soun si era augurato: stava sì gesticolando a sua volta
il braccio, ma verso l’alto, così da proiettare e
disperdere in cielo il raggio della sua torcia. Magari cercava anche
lui qualcosa, ma tra i pochi alberi rimasti in piedi.
“Dottore… cosa sta facendo?”
Il suo interlocutore lo guardò con un’espressione
meno tesa di quella che si sarebbe aspettato.
“Io? Oh, niente di speciale: sto segnalando agli altri la
nostra posizione.”
Gli altri, vero. Pensò che, in effetti, non erano molto
distanti dal punto di riunione prefissato. E tra l’altro, ora
che gli veniva in mente, la zona di ricerca affidata a Ukyo comprendeva
l’istituto Furinkan. Grazie all’indicazione del
dottore, a breve sarebbero arrivati tutti.
“Capisco.” Disse. “A questo punto
è inutile rimanere divisi…” Poi ci
ripensò. “Ma se rimaniamo qui in attesa, non
corriamo il rischio di perdere le tracce di Ranma? Potrebbe essere
ancora nei paraggi.”
Il dottor Tofu annuì comprensivo, ciò nondimeno
gli replicò: “Se davvero Ranma ha perso la ragione
ed è il responsabile di tutto questo, non credo che si
allontanerà troppo dal Furinkan in ogni caso. Ma se
è nei dintorni, dobbiamo considerare… ecco, come
definirlo… il nostro arrivo poco
discreto di
poco fa.”
Soun farfugliò qualche parola di scusa. Tofu
ridacchiò, con una mano dietro il capo.
“Mi perdoni, non volevo metterla in imbarazzo.” Il
suo tono di voce perse subito ogni inflessione di leggerezza.
“Dicevo… prendendo per buona l’ultima
ipotesi, allora Ranma ha avvertito certamente la nostra presenza e,
stando così le cose, il fatto che non sia uscito lui stesso
allo scoperto indica che non sarà facile riportarlo alla
calma. A questo punto, il problema potrebbe essere non più
come trovarlo, bensì come fermarlo.”
Soun s’irrigidì. La considerazione era del tutto
pertinente.
Il dottore continuò: “Si ricorda di quando le
avevo parlato delle condizioni del ragazzo?”
Annuì. Era stata l’unica visita di Tofu a casa sua
e, mentre lui lo scongiurava di salvare in qualche modo la propria
bambina, il dottore si era permesso di ignorarlo per rivolgere invece
la sua attenzione a un Ranma sdraiato contro un muro del corridoio e
come abbandonato a se stesso.
“Ricordo. Dopo averlo visitato, lei mi ha preso da parte per
parlarmi della sua aura.”
“Precisamente. Come chiropratico, non poteva sfuggirmi il
disturbo, anzi il vero e proprio squilibrio presente nel flusso
energetico di Ranma. Ecco, bisogna vagliare la possibilità
che la crisi della scorsa notte e la conseguente fuga abbiano portato
tale instabilità a un punto di rottura.”
Soun deglutì. Per quanto ci tentasse, non riusciva a
scacciare da sé l’immagine di una bomba a
orologeria prossima all’esplosione.
“Quindi”, provò a completare il
ragionamento di Tofu, “lei suggerisce che sia meglio riunirci
in buon numero prima di…”, esitò nel
trovare la parola adatta, “affrontare Ranma?”
“È la mossa più
consigliabile.” Confermò
l’interlocutore. Notando la sua crescente agitazione, si
affrettò a precisare con un largo sorriso: “Stia
tranquillo, naturalmente non intendo far correre il minimo pericolo
alle sue figlie. Stavo piuttosto pensando a Ukyo: lei potrebbe fornirci
un preziosissimo aiuto, qualora le cose si mettessero male.”
Già, Ukyo. Lei era un’artista marziale
più che valida.
Ma com’è possibile che non sia
già qui?!
Akane riprese
a scrutarlo con aria interrogativa.
Come se non fosse lui quello in diritto di porre delle domande.
Ranma non poté impedirsi di sbuffare.
Negli ultimi minuti trascorsi era leggermente arretrato, controllando
che lei lo seguisse, fino a toccare con la schiena un altro dei muretti
che delimitava il cortile della scuola. Era più basso degli
altri cosicché le luci della strada, adesso, lambivano
entrambi, riempiendo la fidanzata di colori e imprimendo una nitidezza
ancora maggiore ai suoi contorni. Lei non si era dissolta, come per un
attimo aveva temuto in cuor suo, anzi gli dava l’impressione
di essere più viva che mai.
Le sopracciglia erano piegate in un’espressione severa, le
mani chiuse a pugno e leggermente vibranti. Ranma riusciva quasi a
visualizzare la consueta aura infuocata promanare dalla fidanzata e
circondarla come uno strato protettivo.
D’altronde non le stava fornendo – e come avrebbe
potuto? – alcuna delle risposte che pretendeva. Per essere
più precisi, non riusciva nemmeno a fissarla negli occhi per
più di qualche secondo, prima di ritrarre lo sguardo come se
ne fosse stato sfregiato. Eppure, rammentò, fino a pochi
minuti prima avrebbe dato qualunque cosa per rivedere la fidanzata, per
sentire di nuovo la sua voce. La propria reazione sarebbe dovuta essere
più… beh, gioiosa, no?
“Perché non vuoi parlarmi?! Devi dirmi cosa sta
succedendo!” Riprese lei. Non aveva l’aria di
essere disposta ad aspettarlo ulteriormente. “Questo edificio
di fronte a noi non è forse il Furinkan? Ma non dovremmo
trovarci qui, non dovremmo essere nemmeno in Giappone! Un momento fa
questo posto era… Jusendo, la fonte di tutte le Sorgenti
Maledette!”
L’aspetto, la voce. La personalità. E
ora… coincidevano anche le sue memorie.
È tutto così perfetto.
“Solo pochi minuti fa stavi combattendo contro quel
ragazzino, il principe del monte Hooh. Lo so, mi ricordo ogni cosa.
Anche se ero disidratata… ero perfettamente cosciente, ho
visto e sentito tutto quanto.” Le parole fluivano rapide e
affannate. “E poi se non sbaglio tu… tu
l’avevi colpito con la tua tecnica! Sì, ne sono
sicura, eri riuscito a sconfiggerlo!”
Troppo perfetto.
“E poi… e poi…”
Finalmente la ragazza si arrestò, come per riprendere fiato.
Nondimeno, decidendosi una buona volta ad alzare lo sguardo, Ranma
incontrò un’espressione completamente diversa da
quella che si immaginava. Gli occhi erano spalancati, come terrorizzati
da un mostro invisibile. Il riflesso del lampione gli consentiva di
scorgere diverse gocce di sudore che scendevano tortuose lungo la
fronte e le guance. Notò di sfuggita che le sue labbra
– e ora perché si era messo a guardare proprio
quelle?! – stavano tremando.
“E poi il silenzio…” Accennò
lentamente, con un tono fattosi pacato. “Poi il
buio… mi pare che stessi scappando da qualcosa… e
quella… quella voce…”
Ranma sussultò.
Buio. Una voce. Se non era impazzito, né stava semplicemente
sognando, forse poteva essere semplicemente che…
Akane chinò il capo e fissò le proprie mani come
sovrappensiero.
In quel momento, una nuova fonte di luce avvolse la sua figura intera.
Quando gli parve che d’un tratto stesse diventando
più trasparente, ogni dubbio e ogni sospetto furono
dissipati all’istante.
“No! Non andare!” Gridò, gettandosi
disperatamente in avanti con un braccio proteso ad afferrarla a ogni
costo prima che fosse tardi.
Tuttavia, lei non svanì nemmeno questa volta.
Quando Ranma si avvide che la nuova luce non era che opera di un altro
lampione mezzo fulminato e che si era deciso d’incanto a
funzionare, era ormai incapace di frenare lo slancio e
rovinò addosso a una fidanzata decisamente corporea.
“Si può sapere che cosa ti è
preso?!” Si lamentò Akane, che ora si trovava
schiacciata sotto di lui. Il suo viso, tutt’altro che
trasparente, gli parve aver assunto un colorito più acceso
poco sotto le palpebre.
Ranma provò a raddrizzarsi, facendo leva sulle mani posate a
caso.
“Oh... ma allora non sei… pe-pensavo che fossi un
fa…”
Fu interrotto da un sonoro schiaffo: anche questo più che
mai corporeo, come la guancia sinistra in fiamme poté
testimoniare.
Tornò in posizione eretta mentre, prendendo
all’improvviso coscienza dell’estrema vicinanza tra
loro due, avvertiva inspiegabilmente bruciargli anche
l’altra gota.
“Scu-scusa, non è come…”
“Allora eri tu!” Gli disse, con
un’intonazione piena di collera.
La guardò confuso, allungando una mano per aiutarla a
rialzarsi.
“Ero io… ero io cosa?”
Akane scansò con malagrazia il suo braccio e si
levò in piedi da sola.
“Non fare finta di nulla! Intendo poco fa, e lo sai
benissimo!”
“Poco fa?”
“Non ripetere ogni frase come un pappagallo!” Ranma
avvertiva di nuovo nitidamente l’aura negativa della
fidanzata. “Poco. Fa. A casa mia. Dove uno scemo, in pieno
buio, mi ha gridato contro e si è messo a inseguirmi come un
forsennato. Ti suona familiare?! Dovevo capirlo subito che
eri…”
Si arrestò di nuovo. Quando riprese a parlare,
l’aura era svanita.
“Un… un attimo. Come è possibile tutto
questo?!”
Ranma si morse la lingua, quasi avendocela con se stesso per aver messo
insieme i pezzi con un tale ritardo. Provò la sensazione che
il mondo intero avesse perso il suo equilibrio, stesse oscillando
vorticosamente e fosse sul punto di franargli addosso.
La figura nell’ombra la scorsa notte… era Akane!
O perlomeno, era questa Akane.
E ciò voleva dire…
Che a casa Tendo, anche in quello stesso istante, il letto della
fidanzata poteva essere occupato da un’altra Akane.
Era sinceramente addolorato. Si stava prodigando in mille scuse, ma
ciò non sembrava in alcun modo placare la signorina Nabiki.
“Razza di idiota, ti sembra logico essermi saltato alle
spalle?! Mi hai spaventata!”
“Mi dispiace! Le ripeto che non l’ho fatto apposta,
solo che è più forte di me! Le kunoichi sono
guerriere addestrate a nascondersi nell’ombra e a mimetizzare
costantemente la propria presenza, si è trattato di forza
dell’abitudine! E quando lei è scappata via
così fuori di sé, mi sono spaventato e mi
è venuto istintivo trattenerla per il braccio! Ma non era
mia intenzione farla cadere, giuro!”
“E io che avevo creduto di… lasciamo perdere!
Almeno spero che tu abbia qualcosa di buono da riferirmi. Se sei qui,
significa che non hai dimenticato il nostro discorsetto di questo
pomeriggio.”
Konatsu sospirò.
Come avrebbe potuto dimenticarlo? La telefonata della signorina Nabiki
era stata la prima che il locale avesse ricevuto da una settimana a
questa parte e lui, udendo lo squillo, era accorso con una foga che ben
poco si addiceva a una cameriera qual era – ma nessuno questa
volta l’avrebbe punito per la sua ribellione –
sperando che finalmente la signorina Ukyo si fosse fatta viva.
“Konatsu, mi senti? Smettila di fantasticare e fammi vedere
cos’hai trovato.”
La voce della sua interlocutrice lo riscosse, ed egli si
ricordò dell’importante oggetto di gran valore che
gli era stato affidato. Sfilò da una tasca la preziosissima
macchinetta ‘polaroid’ della signorina Nabiki,
controllando che non presentasse nemmeno un graffio in più
rispetto a poche ore prima, e si accinse a consegnarla riponendo la
massima attenzione.
La signorina Nabiki, stranamente non altrettanto preoccupata di
preservare un bene così lussuoso, glielo strappò
dalle mani con un gesto brusco prima di dirgli: “Spero non
sia tutto qui. Avrai fatto qualche scatto, mi auguro.”
“Come?... Oh, sì, naturalmente.” Konatsu
porse con fare meno interessato alcune fotografie.
Lo sguardo della signorina Nabiki vi si soffermò, e
mutò all’istante.
Konatsu non riusciva a leggervi alcuna particolare emozione.
Di colpo, non vi era più traccia della ragazza eccitata e
nervosa che gli aveva gridato in faccia. Gli acuti sensi del
‘kunoichi di gran talento’ gli mostravano
nuovamente la signorina sorniona e imperturbabile alla quale era
abituato.
“Ottimo.” Mormorò, e il tono di voce,
questo sì, tradiva un certo compiacimento.
“Davvero ottimo… e dimmi un po’, loro hanno
per caso sospettato qualcosa?”
Konatsu incrociò le braccia, indignato a
quell’insinuazione.
“Il travestimento è la mia specialità,
dovrebbe saperlo.” Puntualizzò.
“Va bene, va bene… ma, per curiosità,
hai indossato anche un paio di occhiali, come ti avevo consigliato? Non
che fosse così importante, dato che quei cinesi non
dovrebbero nemmeno conoscerti, però la prudenza non
è mai troppa.”
“Certo, signorina Nabiki.” Rispose, con tono meno
indisponente. Sperò di non aver esagerato, in preda al
proprio momentaneo impeto di rabbia. “Ho seguito alla lettera
ogni sua indicazione.”
Anche se, Konatsu proseguì mentalmente, lui avrebbe
preferito travestirsi da geisha…
o almeno da chiromante. Sapeva interpretare una chiromante impeccabile
e del tutto realistica. Invece indossare quegli abiti maschili l’aveva
messo non poco a disagio: e recitare, davanti a tutto quel pubblico, la
parte del cliente imbranato gli era risultato un po’ troppo
facile.
Ciò che contava, l’anziana cuoca e il giovane
cameriere avevano inevitabilmente abbassato la guardia. Approfittando
della confusione creata ad arte, con la scusa di andare in bagno per
pulirsi aveva potuto esplorare di soppiatto ogni angolo di quel
ristorante cinese, e in particolare un ripostiglio che la signorina
Nabiki gli aveva espressamente indicato di controllare: tra
l’altro non era stato un problema accedervi, la porta era
stata lasciata aperta…
“Signorina Nabiki, queste fotografie sono ciò che
voleva?” Le domandò. “Ci aiuteranno,
come mi aveva promesso, a riavere indietro la Ukyo… la signorina Ukyo di
sempre?”
Arrossì, per l’impudenza che gli era sfuggita. Del
resto, anche se il suo era un amore proibito, teneva a Ukyo Kuonji
più della sua stessa vita e avrebbe fatto qualunque cosa, se
fosse stato per il suo bene.
Ricordava ancora il volto teso della padroncina, l’ultimo
giorno che aveva lavorato nel locale prima di trasferirsi dal signorino
Ranma.
Raramente l’aveva vista così turbata e, in cuor
suo, avrebbe tanto voluto conoscerne il motivo e fare qualcosa per
aiutarla. Ma questo non era compito di una cameriera. ‘La
riservatezza innanzitutto’ era una delle prime regole da
rispettare. E di regole ne aveva infrante abbastanza, si era detto
passando lo strofinaccio sul bancone con maggior veemenza, prima di
allontanarsi rassegnato in un’altra camera per rimanerci il
resto della serata.
Si mordicchiò quasi inconsciamente il labbro.
Perché era stato tanto stupido?! Al contrario sarebbe dovuto
rimanerle accanto, superando ogni discrezione e paura. Per fortuna era
ancora in tempo per rimediare: durante questa notte senza luna
– così propizia per loro, ‘guerrieri
ombra’ – avrebbe riscattato il suo comportamento
vile mostrandosi degno del proprio titolo di kunoichi.
“Signorina Nabiki, mi risponde?” Ripeté
deciso, pregno di tale risolutezza. “Queste fotografie le
sono utili?”
La sua interlocutrice parve scuotersi da un lungo pensiero.
Gli sorrise.
Anche questo sorriso gli era ormai divenuto familiare.
“Sì, direi proprio che mi sono state utilissime.”
Non poteva credere ai propri occhi.
A poca distanza dal suo sguardo, Ranma e Akane stavano parlando
animatamente.
E il contenuto del discorso non prometteva nulla di buono.
Non abbandonando il proprio nascondiglio ma uscendo leggermente allo
scoperto per catturare meglio le parole che si scambiavano –
tanto non c’era alcun pericolo che quei due potessero in
qualche modo scoprire la sua presenza – dovette assistere suo
malgrado a un Ranma con la rabbia delle grandi occasioni, come sul
punto di sbrogliare l’intricata matassa che aveva messo
così tanto tempo e tanta pazienza a tessere.
Adesso aveva afferrato la fidanzata per le spalle e la stava
interrogando accuratamente. Lei purtroppo sembrava vacillare e sempre
più sul punto di crollare.
Dannata Ukyo Kuonji… la colpa era solo sua!
Perché mandare ogni cosa all’aria proprio sul
più bello?!
Già l’altra sera, a dire il vero, ci era andata
molto vicina… e non aveva mancato di sottolinearlo.
Questa notte era l’ultima occasione, si stavano giocando
tutto, le aveva ricordato. Lei aveva dato la sua parola, aveva per caso
intenzione di rimangiarsela?! Ma ormai non le sarebbe convenuto, non
aveva più molta scelta, il tempo dei ripensamenti era
passato da un pezzo.
Ukyo era parsa molto scossa a quelle parole, segno che stava toccando
le corde giuste.
Così aveva deciso di rincarare la dose, ripetendo lentamente
la fatidica domanda che le aveva rivolto solo pochi giorni prima.
“Sei con me…?”
Lei aveva annuito. Aveva ribadito che si sarebbe attenuta al proposito
originale con estrema fedeltà.
Ma, a quanto sembrava, quella Ukyo aveva saputo mentire molto bene.
Stupidi ragazzini! Non ci si poteva mai fidare di loro! La
gioventù del giorno d’oggi non portava alcun
rispetto per chi era più anziano e aveva maggiore esperienza
e saggezza. E questa incoscienza tipica
dell’età adolescente stava minacciando di far
saltare il suo piano.
Tornò a rivolgere la sua attenzione a Ranma.
E scoprì che le cose stavano veramente sfuggendo
di mano.
Lui aveva appena finito di raccontare alla fidanzata di come lei fosse
misteriosamente apparsa sul piano superiore di casa Tendo per poi
svanire nel nulla mentre entrava nella camera degli ospiti, questo
mentre per tutto il tempo un’altra Akane
Tendo stava sdraiata sul letto della propria camera.
Lei sembrava ancora indecisa se credergli o no, ma entrambi avevano
scritto nelle loro espressioni che avrebbero fatto luce su questi fatti
inspiegabili a qualunque costo.
All’improvviso Ranma, che, visto il fare sempre
più agitato, sembrava averne abbastanza di qualsiasi
ulteriore indugio, propose di tornare a casa Tendo e scoprire la
verità con i loro occhi.
Beh, questo non poteva assolutamente permetterlo.
Aveva perso di colpo il preziosissimo contributo di Ukyo, ma dopotutto
il più era fatto.
Era il momento di intervenire.
L’urlo improvviso della fidanzata lo sconvolse come un lampo
a ciel sereno.
“Akane! Cosa succede?!” Le si avvicinò
con cautela.
“Basta! Lasciami stare! Lasciami stare!”
Gridò con forza la ragazza, afferrandosi la testa con
entrambe le mani e scuotendola con un vigore tale da spaventare perfino
lui.
Ranma rimase immobilizzato per qualche secondo, senza un’idea
di cosa potesse fare.
Quando si decise nuovamente all’azione, fu troppo tardi.
Un’improvvisa cortina di fumo avvolse l’intero
ambiente, nascondendo ogni elemento alla sua vista.
Una bomba fumogena?!
Ranma avanzò senza punti di riferimento, evitando ogni
movimento brusco per non rischiare di colpire Akane. Ma il terribile
presentimento che lo aveva colto fin dal primo istante si
rivelò fondato con il rapido diradarsi della nebbia
artificiale.
Akane non si trovava più di fronte a lui.
In compenso, una figura ingombrante stava allontanandosi di gran
carriera, issando sulle spalle una enorme sacca… delle
dimensioni di una persona.
Non capiva cosa stesse accadendo e, in tutta franchezza, non gliene
importava nulla.
No! Pensò
semplicemente. Non
ti perderò un’altra volta!
Lanciandosi all’inseguimento, Ranma non fu in grado di
scorgere il volto del rapitore, che gli dava le spalle. Tuttavia, la
poca visibilità non gli impedì di distinguere,
con suo immenso orrore, una figura e una corporatura inconfondibili.
Un panda?!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Risveglio ***
Capitolo 7
“Risveglio”
Si fece forza e aprì lentamente gli occhi, mettendo a fuoco,
poco per volta, la fisionomia di uno dei lampadari del ristorante.
La testa gli martellava ancora con insistenza e faticava a mettere
insieme un pensiero logico, tuttavia una voce lontana gli ripeteva che
non c’era tempo da perdere.
Mu Si tentò di rammentare qualcosa di più
definito. Come mai si trovava disteso sul pavimento e così
frastornato? Ah, sì.
Ricordava che il Nekohanten aveva chiuso i battenti da diversi minuti,
quando il silenzio del locale era stato spezzato dallo squillo del
telefono.
In quel momento si trovava in cucina, circondato da pile di piatti da
lavare, e perciò era materialmente il più vicino
al ricevitore. Sorpreso data l’ora tarda, ma anche fin troppo
lieto di trovare una distrazione al suo sfruttamento disumano, aveva
raggiunto con prontezza il ricevitore e sollevato la cornetta.
La pelle gli tremò una seconda volta, ripensando alla voce
che subito dopo aveva udito all’altro capo del filo.
Non era ancora riuscito a riprendersi del tutto dalla sorpresa e a
chiedere spiegazioni, che la vecchia Cologne gli aveva strappato il
telefono di mano. La sua voce gracchiante gli entrò di
nuovo, non richiesta, nella mente.
“Cosa combini, impiastro?! Mai che tu faccia
qualcosa di giusto!”
L’intervento di Obaba, fin troppo tempestivo, aveva
incrementato i suoi sospetti.
“Ridammi la cornetta, vecchia! Oppure hai
– o dovrei dire: avete – qualcosa da
nascondermi?!”
Mentre parlava, le si era avvicinato con aria intimidatoria.
“Non crederai di poter minacciare proprio me!
Adesso lasciami rispondere a questa chiamata, o sarò
costretta a metterti fuori causa per un po’ di
tempo!”
Pur notando che la vecchia aveva afferrato un secchio pieno
d’acqua, Mu Si non aveva perso un minimo della sua baldanza.
Gli era sembrato, anzi, di essere tornato in Cina, ai bei tempi.
“Noto che la memoria, alla tua età,
gioca dei brutti scherzi… perché ora che sono
guarito dalla maledizione di Jusenkyo non sarà certo
quell’acqua a fermarmi!”
Infatti non era stata l’acqua a fermarlo bensì il
secchio, che lo aveva colpito duramente sulla tempia e di cui tuttora
serbava il dolorosissimo ricordo.
Maledizione! Pensò,
frustrato. Se
la testa smettesse di rimbombare un solo dannato istante!
Provò ad alzarsi in piedi, ma l’equilibrio
raggiunto era troppo precario e stava per ricadere subito a terra. Una
mano lo sorresse prontamente.
“Finalmente ti sei ripreso… Quante volte
dovrò ripetertelo?! Non c’è un secondo
da perdere!”
Nabiki non si era mai sentita più viva.
Ritmiche folate le accarezzavano la pelle mentre saettavano insieme con
grazia melodica di tetto in tetto, come se stessero volando a tempo di
musica.
Va bene, forse stava un
poco riconsiderando
i vantaggi dell’essere un artista marziale e trovarsi in un
certo distretto di Tokyo. Magari era ancora in tempo per farsi dare
qualche lezione da papà. Oppure, molto più
semplicemente, avrebbe potuto ricattare Ranma perché
d’ora in poi la portasse a scuola in groppa sulle sue spalle.
Queste, comunque, rimanevano fantasie. Le spalle alle quali in questo
momento si stava affidando, facendo il possibile nel contempo per non
mollare la presa dalla borsa, erano quelle di un ninja molto meno
virile: tuttavia Nabiki non si sentiva in vena di lamentarsi.
“Più veloce! Più veloce!”
Konatsu tentò di accelerare l’andatura ma, oltre a
non essere altrettanto divertito, le parve in evidente
difficoltà. “Mi perdoni, più di
così non posso. Comunque ci siamo quasi.”
Nabiki si ricompose, sebbene la fretta di raggiungere il Furinkan non
si fosse quietata.
Ranma doveva essere ancora nei pressi della scuola. In quel caso,
sicuramente vi avrebbero trovato anche la disgraziata persona
responsabile di tanti misteri.
Tuttavia lei doveva calmarsi, lasciare che l’adrenalina
fluisse via, o almeno distrarre la propria eccitazione
finché non fossero arrivati: così la mente non
trovò di meglio che riordinare le idee una volta di
più. Dopotutto non era stato per nulla facile, ammise,
comprendere cosa fosse realmente avvenuto la notte scorsa.
Il problema era che per troppo tempo aveva semplicemente dubitato della
sanità mentale del signorino Saotome. Ma fin
dall’inizio Nabiki sapeva che una sola persona aveva i mezzi
necessari per giustificare in altro modo l’apparizione di sua
sorella, e appunto di quella persona non si era mai fidata, nemmeno
quando aveva detto loro che ormai non era rimasto più nulla
da fare per Akane.
Sorrise. La prova era in mano sua, ora. Anzi, le prove. Una manciata di
fotografie scattate in un certo ripostiglio, dove erano conservate le
fiasche con le acque maledette che lo ‘zietto’ si
era fatto spedire dalla Cina.
Quelle fiasche avevano sortito in lei molti sospetti. Perché
Genma Saotome aveva dettato come destinatario l’indirizzo del
Nekohanten, anziché quello di casa Tendo? La cosa in effetti
poteva anche avere un senso, dato che le fiasche erano due: una di
Nannichuan per i ‘soliti noti’, ma pure una di Niannichuan,
la sorgente della ragazza annegata, per Shampoo.
Sennonché, era strana tanta premura da parte di Genma. E
l’amazzone, d’altro canto, si era subito separata
dal resto del gruppo e non era ancora tornata in Giappone. Almeno, non
secondo la versione ufficiale dei fatti.
Fin qui, parlavano gli indizi. Ma adesso che a prendere la parola erano
le prove…
Nabiki sbirciò ancora una volta, attenta a non mollare la
presa da Konatsu, una delle foto incriminanti.
Aveva sospettato che la fiasca di Niannichuan non fosse tale, ma almeno
in questo si era sbagliata: confrontando le immagini con le grafie
cinesi che aveva memorizzato con cura a casa, poteva affermare senza
ombra di dubbio che le scritte sulle targhette delle fiasche recavano
veramente i nomi ‘Nannichuan’ e
‘Niannichuan’.
Con tutto ciò, restava una possibilità che non
aveva esaminato e che ora si manifestava davanti ai propri occhi con
l’evidenza della foto che teneva tra le mani:
un’evidenza superiore perfino alle sue più
ottimistiche aspettative.
Molto semplicemente le fiasche non erano due, ma
tre.
“Ranma?”
Si spostò con cautela, accendendosi di speranza
nell’udire il nome di suo figlio. Un momento più
tardi si rese conto che la voce era rivolta proprio a lei.
“Purtroppo temo di no.” Disse, accennando un
sorriso e mostrandosi alla luce della torcia.
“Oh, signora Nodoka.” La voce del signor Soun
tradiva un filo di delusione ma, le parve, anche un moto di sollievo.
“Vi aspettavamo.” Proferì loro quel
gentile e affabile dottore che aveva incontrato un paio di volte
nell’abitazione del proprio ospite. “Io e il signor
Tendo ne abbiamo discusso, e pensiamo che sia meglio per voi spostarvi
in un luogo più...” Ma la frase restò
sospesa a metà.
Senza chiudere bocca, il dottore si limitò a guardare nella
sua direzione con un’espressione vagamente istupidita, un
po’ come quella di chi aveva appena visto un fantasma. E se
si fosse trattato invece di Ranma? Nodoka smorzò il respiro
e voltò adagio il viso, ma non scorse alcuna nuova presenza
alle proprie spalle.
Niente. Dietro di lei c’era solo la cara Kasumi che
l’aveva raggiunta e si stava affacciando, lasciandosi
illuminare a sua volta dal fascio della torcia del dottore.
Riportò la propria attenzione verso di lui. Immobile in
piedi, inspirava profondamente a intervalli regolari: lo stress di
quella notte si stava facendo sentire per tutti, e a lei che era la
moglie di un artista marziale non poteva sfuggire una reazione
così tesa. Anche se non si sarebbe mai aspettata che il
dottor… Tofu, se non errava, fosse una persona tanto
sensibile.
Il signor Soun tossì e prese la parola. “Come
stavamo dicendo… abbiamo motivo di credere che
l’autore della tecnica energetica di qualche minuto fa possa
essere proprio Ranma. In questo caso, non sarebbe prudente trovarsi
sulla sua strada per chi non è addestrato nelle arti
marziali.”
Nodoka annuì. S’inginocchiò e disse ai
due uomini: “Ho piena fiducia nelle vostre
capacità. Mi affido a voi, vi prego di riportarmi mio
figlio.”
Il signor Soun borbottò qualcosa, come imbarazzato, a
proposito di rialzarsi, che non era necessaria tanta
formalità. Curvando lievemente il solo capo
all’insù, Nodoka scorse però la fiera
determinazione dei loro sguardi e ne fu rasserenata. Anche il
portamento del dottore, adesso, era tornato quello di pochi istanti
prima e le trasmetteva un forte sentimento di speranza.
Certo lei non avrebbe voluto farsi da parte, tuttavia sapeva che questa
era la cosa più giusta. Un senso di rimpianto le
riempì, improvviso, il petto, ma aveva tutt’altra
natura.
Genma… come puoi, stanotte, non essere con loro? Si
domandò. Che
ne è del tuo dovere di artista marziale? E soprattutto cosa
ne è della tua responsabilità di padre?!
Non fece in tempo a rialzarsi del tutto, che avvertì dei
rumori provenire da dietro le fronde poco distanti. Si voltò
assieme agli altri nella loro direzione e, mentre gli uomini assumevano
le pose da combattimento, strinse protettivamente a sé una
Kasumi fin troppo silenziosa.
La mole di un panda si fece largo tra il fogliame. Portava qualcosa di
grosso con sé, ma non riusciva a distinguere di cosa si
trattasse. Né le importò più quando
udì una voce maschile intimare con rabbia al padre di
fermarsi.
Il signor Soun si scosse, come interdetto. “Amico
mio…” Esclamò nitidamente, mentre il
panda si rifugiava dietro di lui.
Il dottore, al contrario, avanzò con risolutezza verso la
nuova sagoma che, ansimante, sbucò a sua volta nel largo
spiazzo del cortile. Nodoka staccò istintivamente la presa
da Kasumi e portò entrambe le mani al petto.
Il suo Ranma, il bimbo che aveva cresciuto con amore nei suoi primi
anni di vita e che aveva ritrovato da così poco tempo, ormai
divenuto un uomo forte e impavido, adesso non somigliava ad alcuno dei
due. Non indossava più la camicia, e la canottiera, in buona
parte stracciata, lasciava scorgere solo terra, lividi e tagli. I
capelli gli cadevano disordinatamente sulla fronte, la bocca digrignava
frenetica come schiumando rabbia e pareva che ogni muscolo volesse
imitarla nel suo gesto.
“Ranma. Respira, riprendi il controllo.” Gli disse
il dottore con voce ferma. Ma il povero ragazzo respirava
già abbondantemente, come a corto d’aria
più per l’agitazione che per la corsa, che pure
doveva aver sostenuto. Si era fermato a pochi passi dal dottore, ed era
come se il suo sguardo attraversasse lui e poi il signor Soun per
posarsi infine su suo marito.
Solo in quell’istante notò che Genma aveva
estratto un cartello.
‘È fuori di sé! Salvatemi,
vuole uccidermi!’
E così era arrivato a questo!
Lurido vigliacco!
Assistere allo stomachevole spettacolo del proprio vecchio che si
faceva scudo con Tendo, prendendosi pure la briga di ostentare
quell’assurda scritta, fece dimenticare a Ranma le ferite che
gli si erano riaperte. Voleva parlare, anzi gridare, ma non aveva
ancora recuperato abbastanza fiato e allora si limitò a
lasciar vagare il proprio sguardo sui presenti, che lo fissavano con le
pupille ristrette dalla paura.
Ancora…!
Com’era possibile?! Quel bastardo aveva rapito Akane,
portandosela via come un sacco di patate, e gli altri addirittura lo
proteggevano! Si diede dell’idiota per aver pensato di poter
comunicare con loro, ora vedevano lui come il
mostro. Era a questo che papà mirava fin
dall’inizio?!
Maledetto! Se è così non ti
perdonerò mai! MAI!
Udiva il battito affrettato e assordante del proprio cuore, ma non
voleva saperne di perdere un solo istante di più:
accennò a scansare da sé l’ostacolo che
lo separava da Soun e quel dannato per chiudere a
quest’ultimo ogni via di fuga, ma Tofu fu più
rapido a schivare il movimento delle sue braccia per poi saltare di
lato e pararsi davanti a lui, un’altra volta, le loro facce a
pochi centimetri di distanza, con aria di sfida.
Non anche lui! Almeno Tofu avrebbe dovuto capire! Le labbra del dottore
si muovevano, ma a Ranma le parole giungevano come ovattate, mentre
l’intera sua attenzione era catturata dal sangue che
avvertiva ribollirgli nelle vene e implorarlo di non trattenersi oltre.
“Ranma!” Si sentì gridare, e per un
momento provò un moto di soggezione. Quel tono
così severo, che era sicuro di non aver mai udito uscire
dalla bocca del mite dottore, lo costrinse ad alzare gli occhi e
incontrare i suoi, che si accorse di aver finora accuratamente evitato:
ciò quietò per qualche secondo i suoi istinti,
risvegliò il rispetto che gli aveva sempre portato e lo
convinse a concedergli un’occasione.
Allentò la presa del braccio sinistro, aprì la
mano e la portò all’altezza del petto, come per
accompagnare le sue parole.
“L’ha”, Ranma stesso non riconobbe la
propria voce rauca, “rapita.”
Tofu non si mosse.
“L’ha rapita.” Ripeté Ranma.
“Sto dicendo il vero! Akane è
qui!”
I vetri delle lenti rimanevano puntati verso di lui, leggermente opachi.
La mano smise di vagare a mezz’aria e afferrò
bruscamente la veste dell’interlocutore.
“Dannazione, non capite quello che ho detto? Avete Akane
sotto il vostro naso, perché diavolo non volete
credermi?!”
Tofu assecondò lo strattone, senza vacillare.
“Innanzitutto devi calmarti.” Gli disse.
“E dopo…”
“Non dopo! ORA!” Ruggì Ranma. E mentre
lasciava violentemente la presa, l’altra mano, ancora chiusa
a pugno, colpì il petto di Tofu.
O così aveva creduto. In realtà dovette
constatare di aver soltanto smosso una manciata di aria, avvertendo
contemporaneamente una presenza alle proprie spalle. Deciso a non
perdere il vantaggio della prima mossa, Ranma si buttò per
terra raggomitolandosi su se stesso: avvertì
l’attacco dell’altro, che cercava di raggiungerlo
con le braccia, e allora fece presa sui palmi sbucciati e, senza
guardare, scagliò un calcio all’indietro.
Sentì di aver toccato qualcosa e, allo stesso tempo, un
mugolio sommesso confermò la sua impressione. Sicuro che il
colpo fosse andato a segno, Ranma si rialzò e si
voltò, ma fu preso in contropiede da un doppio affondo di
Tofu.
No, maledizione! Inarcò
disperatamente il busto per scansare le sue mani, ma una di quelle
riuscì a toccargli la spalla: avvertì ogni
terminazione nervosa in preda allo spasmo, come se si fosse ustionato,
ma la fitta scomparve subito insieme a ogni altra sensazione e,
provando a muovere il braccio destro, scoprì che i muscoli
non solo avevano smesso di tormentarlo ma non rispondevano
più ad alcun proprio comando.
Si ritrasse di qualche altro passo, sostenendo il peso morto con
l’altra mano. Incrociando di nuovo lo sguardo di Tofu,
s’avvide che questi ansimava più di lui.
“Ranma, non costringermi a proseguire.” Gli disse,
ma la voce era spezzata e il sudore colava abbondante dalle sue tempie.
“Mi basterà toccarti… un altro paio di
punti di pressione… per immobilizzarti del tutto. Sempre che
tu riesca una seconda volta… a evitare che ti stimoli i
nervi giusti per farti perdere i sensi.”
E Ranma ghignò, sentendosi invadere da una rabbia euforica.
La mano spellata che riusciva ancora a percepire gli bruciava in modo
vivido e l’adrenalina non bastava più a fargli
ignorare le parti del corpo già sofferenti e gli altri ricordi dello
scontro di prima, con Ryoga. Quel
maiale c’è andato proprio pesante,
stavolta…! Eppure
sapeva che, in un certo senso, era proprio il dolore a eccitarlo, a
impedirgli di crollare al suolo: a prepararlo per l’ultimo e
decisivo attacco.
“Cosa stai facendo, Ranma?! Torna in te!” Il grido
di Tendo lo svegliò. Abbandonò lo slancio
iniziale e invece intercettò l’iniziativa del
capopalestra, che stava avanzando verso di lui permettendogli di
scorgere il proprio vecchio che si stava rimettendo in fuga.
“Signor Tendo, non lo…!” Tofu non
proseguì, del resto avrebbe dovuto impegnare tutte le forze
residue per contenere la caduta di Tendo, che Ranma era riuscito ad
afferrare con il solo braccio rimasto a disposizione per scagliarlo
alle sue spalle. E ora papà era senza protezione!
Aveva impartito a Konatsu una chiara direttiva, ma capì che
non ce ne sarebbe stato bisogno. Il ninja era troppo sensibile per non
comprendere da solo quale fosse la priorità in questo
momento.
“Maledetto!” Il grido squarciò
l’aria. “Come hai potuto? COME HAI
POTUTO?!”
Il panda estrasse un nuovo cartello, di cui Nabiki non
riuscì a leggere il contenuto, ma Ranma glielo
strappò di mano e tornò a picchiarlo.
Dopo alcuni, troppi secondi, Konatsu apparve dal nulla alle sue spalle
e lo trattenne per entrambe le braccia.
“Mi perdoni, signorino Ranma!”
Lui non sembrò nemmeno accorgersene, salvo per il fatto che
si dimenava come un ossesso, colpendo l’aria a più
riprese come se centrasse ogni volta la mascella o lo stomaco di Genma.
“Tu lo sapevi!” Disse singhiozzando. “Lo
hai sempre saputo e hai fatto di tutto per nasconderlo a me e agli
altri e farmi fare la figura del pazzo! Di’ la
verità! Volevi farmi diventare pazzo?! EH?!
RISPONDI!”
Nabiki raggiunse il sacco che, steso per lungo a terra, lasciava
intravedere la sagoma di una persona immobile. Non
ha neanche considerato l’idea di liberarla… che
abbia capito tutto? No, non è così. Ranma non ha
combattuto per salvare mia sorella. Ha combattuto solo per ammazzare di
botte suo padre.
Il pensiero, così crudo e cinico, la fece trasalire. Era
troppo anche per lei e pregò di essersi sbagliata. Anche
sulle altre cose.
“Fermati subito”, scongiurò una voce
maschile, “o non farai che dimostrarci di essere quel pazzo
che sostieni di non essere diventato!” Nabiki alzò
il volto. Papà era venuto a dare man forte al kunoichi
maschio, ma la persona con lui non era il dottor Tofu, che poco
più distante non si era ancora rialzato e si stringeva il
petto esibendo una smorfia di dolore.
“Ranma.” Il tono pacato di Kasumi zittì
tutti i presenti, e per un momento credette che avrebbe potuto quel che
gli altri non erano riusciti a fare. Ma la realtà era
diversa dalle favole, e Ranma non smise di dibattersi.
La mano tuttavia aveva finalmente cessato di tremarle e così
tirò con forza la cerniera: proprio perché questa
era la realtà, stava solo a lei fermare tanta follia.
La signora Nodoka, l’unica che le stava prestando attenzione
come stranita, si fece sfuggire un urlo di sorpresa. Tutti si
voltarono, e questa volta anche Ranma si calmò.
“Akane! Figlia mia!” Esclamò
papà, mentre gli altri non erano nemmeno in grado di fargli
eco. Del resto, nemmeno Nabiki riuscì a dire qualcosa.
Il sacco era finalmente aperto e il corpo della sorellina giaceva tra
le proprie braccia, poteva avvertire il suo calore assieme ai capelli
arruffati e alla tipica espressione serena del sonno. L’ha
anche anestetizzata… Si
sentì travolgere a sua volta dalla rabbia ma, distogliendo
la vista e puntando casualmente gli occhi sulle nocche insanguinate di
Ranma, considerò che Genma Saotome non si era difeso nemmeno
una volta dall’attacco del figlio.
“Akane!” Nabiki sobbalzò nel vedere suo
padre a pochi palmi dal suo naso, il volto inondato dalle lacrime che
però lasciava scorgere il primo accenno di un sorriso da
così tanto tempo.
E ora tocca proprio a me…
Nessun rimpianto. Nabiki sapeva benissimo quel che andava fatto, anche
se sperava in un pubblico molto meno numeroso.
Prese la borsa ed estrasse il thermos. Nessuno comprese il significato
di quel gesto.
“No!”
Ranma…?
Quasi nessuno.
“Noooo!”
Mi dispiace…
L’acqua calda bagnò le gote della ragazza svenuta.
I suoi lineamenti mutarono, i capelli crebbero in lunghezza.
Come per magia, Akane era scomparsa. Tutto ciò che Nabiki
poteva scorgere era soltanto il viso dormiente di Ukyo Kuonji.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Dietro le quinte ***
Capitolo 8
“Dietro le quinte”
La voce stridula di Konatsu la distolse dai suoi pensieri, il contenuto
dei quali le svanì dalla mente come neve al sole. Fu
tuttavia solo quando il suo unico cameriere le ripeté con
discrezione la parola ‘cliente’ che Ukyo si decise,
una buona volta, ad alzare lo sguardo dall’okonomiyaki che
stava fissando come ipnotizzata.
Non che ne valesse la pena, scoprì. Per un istante fu
animata da un sentimento di speranza ma, alla vista del nuovo arrivato,
inarcò le sopracciglia e strinse le mani a pugno, prima di
ricadere in uno stato di confusione totale.
Ma dove…?
Stavolta lo smarrimento durò pochi secondi. Aveva capito.
Dove si trovava, cosa fosse coinvolto. Chi.
Ranma…
Attendeva da diversi, troppi giorni il suo ritorno dalla Cina e a ogni
ingresso di un cliente fantasticava che potesse trattarsi di lui. Di
recente aveva preso l’abitudine, per combattere la monotonia
dell’attesa, di farsi trovare preparata:
dopotutto Ran-chan sarebbe arrivato digiuno e lei voleva dargli il
miglior bentornato possibile, nel linguaggio con cui meglio
comunicavano fin da bambini.
Un bel trattamento. Non molto meritato, a dire il vero.
Nemmeno l’aveva salutata, prima di partire. Ukyo aveva
scoperto la novità soltanto quando si era trovata a dover
constatare la prolungata assenza del ragazzo da scuola. Akane-chan le
aveva brevemente illustrato i motivi del viaggio e lei, vedendo
l’ultimogenita dei Tendo così tranquilla, si era
rasserenata a sua volta.
Stupida che era stata! Invece di raggiungerlo se ne era rimasta come
uno stoccafisso nella propria città, nel proprio locale, e
intanto quella maledetta di un’amazzone aveva attirato in
Cina il suo Ranma
con l’inganno e magari l'aveva drogato per bene, o peggio.
Certo, Ukyo non aveva la minima idea di come trovare quel monte
vattelappesca, ma arrangiarsi non avrebbe costituito una
novità: per esempio avrebbe potuto seguire di nascosto
Akane, quando a sua volta aveva ‘misteriosamente’
smesso di farsi vedere al Furinkan.
Quel cuore tracciato con la salsa le trasmise un improvviso senso di
nausea: sfoderò la spatola e liberò la piastra
scostando l’okonomiyaki di lato, insieme agli altri. E dire
che un tempo non avrebbe approvato un tale spreco di
ingredienti…
Udendo il mugolio soffocato di Konatsu, ancora meno abituato a sperperi
simili, usò la prima scusa che le venne in mente per
ordinare al suo assistente di spostarsi nella stanza a fianco. Anche se
il Saotome venuto a trovarla era inequivocabilmente quello sbagliato,
la questione che si prospettava era comunque
‘personale’.
Una volta che il ninja fu uscito, Genma annuì come se non
stesse aspettando altro.
“Devo parlarti, Ukyo.” Si decise a fare la prima
mossa. Ma lei non era ancora disposta a dargli corda.
Afferrò lo straccio. Quella cosa che strisciava sul bancone
era un ragnetto?
“Se si tratta di una consumazione, è troppo
tardi.” Replicò meccanicamente. “Per i
clienti normali, il locale ha chiuso un’ora fa… e
non farò certo un’eccezione per
lei.” Dicendo ciò, con un gesto
fulmineo della mano schiacciò l’intruso
più piccolo.
“No, niente del genere.” Per nulla intimorito,
Genma prese con le dita i resti della creatura e li soffiò
via. “E non sarei certo potuto venire prima, per
ciò che ho da dirti.”
Ukyo incrociò il suo sguardo e sussultò: il
proprio interlocutore aveva un’aria insolitamente seria,
quasi da funerale.
Forse la situazione era ancora più preoccupante di come se
l’immaginava: dopotutto, se era tornato il padre, lo doveva
essere anche il figlio. Ma dato che Ran-chan non aveva evidentemente
avvertito alcuna voglia di passare a trovarla… Peggio
ancora, se fosse rimasto in Cina e avesse mandato il genitore
per… Diamine, si era messo davvero con Shampoo?! O con
Akane?!
A questo punto doveva sapere.
Perfino da lui.
“Allora, avanti.”
“Ukyo, tu certamente mi riterrai una pessima persona, uno
sconsiderato.”
Aprì la bocca, tuttavia non le andò di confermare
quella dichiarazione.
“Forse farai fatica a crederci”,
proseguì Genma, avvicinando il capo con aria di segretezza,
“ma ciò che sto per compiere ora… questo supera
sicuramente quanto di più scellerato abbia mai commesso in
vita mia. Eppure, dopo che avrò finito di spiegare, ti
porrò lo stesso la mia domanda…”
Ukyo deglutì. Si sporse leggermente e solo allora
notò l’ingombrante bisaccia che l’altro
aveva portato con sé e posato a terra.
“Cominciamo dall’inizio. Le va?” Propose,
con il fare di chi è abituato a ricevere pronte risposte
alle proprie domande. D’altronde, l’intenzione era
quella.
Lo zio Genma era tornato umano da diversi minuti, ma ancora non aveva
proferito parola. Né gli altri sembravano tanto smaniosi di
interrogarlo, forse ancora troppo sconvolti dal
‘ritorno’ di Akane, che li aveva ingannati per una
manciata abbondante di secondi. Papà paradossalmente non
piangeva, e alcune lacrime erano invece sul punto di uscire dagli occhi
lucidi di un ninja troppo sensibile. Nabiki sapeva che Ranma avrebbe
potuto approfittare della distrazione di Konatsu in qualsiasi momento
per sfuggire al suo controllo, ma aveva anche notato che a sua volta il fuggiasco, dal
momento esatto in cui aveva assistito alla trasformazione di
‘Akane’ in Ucchan, non aveva più provato
a divincolarsi.
Le donne della famiglia sembravano in qualche modo
più… vicine alla realtà, eppure
l’attenzione sia di Kasumi che della signora Nodoka era
sviata dalle condizioni del dottore, che a sua volta rifiutava di
pensare a se stesso ed era tutto preso a controllare che Ukyo, ancora
addormentata, stesse bene. Anche loro stavano chiaramente aggirando la
questione principale.
Scosse il capo. Come al solito, era l’unica con la testa
sulle spalle. E avrebbe fatto luce, a qualunque costo.
“Signor Saotome”, gli disse con falsa enfasi,
“a giudicare dalla pelliccia che la ricopriva fino a pochi
secondi fa pare che, dopotutto, tornare normale non fosse proprio il
primo dei suoi pensieri. Dunque, perché? Come mai tanta
premura di farsi portare qui in Giappone l’acqua maledetta?
Ce lo vuole dire… o devo farlo io per lei?”
Genma Saotome alzò una mano nel gesto meccanico di
sistemarsi gli occhiali che non portava più.
“Non conta il motivo.” Disse, con fare insolente.
“Ormai non conta più nulla.”
“Non può essere!” Gridò
papà, scoppiando come un fiume in piena. “Saotome,
vecchio mio, tu devi essere
estraneo a questa vicenda! Non puoi aver fatto questo a tuo figlio, a
tutti quanti, aver messo in atto una messinscena simile! Ma certo!
Sicuramente ti hanno ricattato, o suggestionato! Si tratta di Cologne,
non è vero?! Quella vecchia megera non me la diceva giusta,
ha usato te e Ukyo per… non lo so cosa, ma è uno
dei suoi loschi piani, no?! Dillo, Saotome! Dimmi che è
così!”
Il chiamato in causa lo guardò con un’espressione
bonaria, ma non gli rispose.
Papà, sempre più agitato, rivolse allora la sua
attenzione proprio verso di lei.
“Nabiki… sei tu che hai scoperto la
verità! Racconta come sono andate veramente le cose! Che
Saotome non c’entra nulla!”
Inspirò con calma. Fissò un punto indefinito di
spazio, per evitare quello sguardo così implorante che per
qualche motivo la stava rendendo nervosa.
Avrebbe potuto confortare le sue speranze, convincerlo che il suo
miglior amico non lo avesse tradito così spudoratamente.
Ripensò a diversi giorni prima. Mousse doveva aver
rimuginato molto, accumulato una gran quantità di
frustrazione, negli ultimi tempi: aveva risposto alle sue domande quasi
sfogandosi, le aveva raccontato davvero tante cose, di quel viaggio in
Cina, fin nei minimi particolari.
Perfino di certe… uova, proprio così, uova dalle
proprietà peculiari: di come la povera Shampoo ne fosse
caduta vittima e di come la volontà di Genma Saotome fosse
stata a sua volta assoggettata a
quella dell’amazzone… che chiaramente non aveva
alcuna responsabilità delle sue azioni, poverina, la colpa
era di Safulan, Kima e quel dannato popolo di uccelli. Che comunque lui
era riuscito a liberare l’amata dal controllo mentale,
rinunciando ad approfittarne per conquistare il suo cuore, anteponendo
la felicità di Shampoo alla propria, mostrandole
così la nobiltà del proprio animo. Come?... Ah,
sì, gli pareva che anche Genma fosse poi stato
disipnotizzato, una volta conclusa la battaglia finale. Ma sinceramente
non ci aveva fatto molto caso e non avrebbe potuto giurarlo.
Già, a papà avrebbe fatto piacere ascoltare
questa storia.
“Come sono andate le cose?” Ripeté.
“Eppure lo dovresti sapere. Lo dovreste sapere tutti. Prima
di far ritorno in Giappone, il signor Saotome si è offerto
di parlare alla guida di Jusenkyo e chiedere le acque che avrebbero
annullato la maledizione sua e di Ranma… tra le
altre.”
Il volto di Soun sembrò illuminarsi. “Vuoi
dire…”
“Che la guida ha spedito, e curiosamente non a casa nostra
bensì all’indirizzo del ristorante Nekohanten, ben
tre fiasche di acqua di Jusenkyo.” Nabiki
puntualizzò con le dita. “La prima conteneva la Nannichuan,
dalla sorgente dell’uomo annegato. La seconda la Niannichuan,
dalla sorgente della ragazza annegata. E la terza, come avrete tutti
capito…”
“Akanenichuan?”
Ripeté Ukyo, perplessa come la prima volta che aveva vissuto
quegli eventi.
La storia che le aveva raccontato l’interlocutore, dopo aver
estratto dalla bisaccia la fiasca che aveva chiamato con questo nome,
era abbastanza confusa e non poteva dire di averci capito molto,
nemmeno stavolta.
Giusto. Perché questa spiegazione io
l’avevo già…
Le erano rimasti impressi solo i tratti essenziali, tra
l’altro i più ostici a cui una persona normale,
che non avesse visto certe cose con i propri occhi, avrebbe potuto
credere. Akane rapita a sua volta, portata contro la sua
volontà in Cina da… uno stormo di uccelli?
Soprattutto, Akane fatta immergere in una delle fonti di Jusenkyo. Se
si riuscivano ad accettare le due cose, l’affermazione
conseguente di Genma era verosimile, perfino naturale.
Una nuova sorgente magica. La sorgente di… Akane annegata?
“Non occorre annegarvi,
la guida non parla molto bene il giapponese e per tutto questo tempo ha
usato un termine improprio. Comunque… anche se non le hai
mai potute vedere di persona, ormai ti sarai fatta un’idea
delle fonti del campo d’addestramento leggendario di Zhou
Chuan Xiang. Le sorgenti hanno la proprietà di memorizzare
l’aspetto della prima persona che vi cade, e di duplicarlo a
danno di coloro che hanno successivamente la sventura di bagnarsi con
l’acqua maledetta.”
“Ovvio che lo so.” Lo interruppe. Tutto
ciò lo aveva sperimentato infinite volte sulla sua pelle,
anzi quella di Ran-chan, letteralmente. “Ciò che
non capisco è cosa c’entri questa storia con
me!”
Oh, ma sapeva anche questo! Perché ricordare di nuovo ogni
cosa?! Ukyo provò a scuotersi, doveva smetterla di
rimuginare. E invece, contro la sua volontà, si
alzò in piedi e superò il confine del bancone che
la divideva da quel dannato. Di nuovo preda dei suoi sentimenti di
allora, dovette fare appello a tutta la propria buona
volontà per resistere alla tentazione di cacciarlo via
seduta stante.
A cosa serviva questo discorso? Anche Akane era stata rapita, gli
gridò in faccia, era chiaro, chiarissimo! Tutti i nemici di
Ranma prendevano in ostaggio – prigioniero ovviamente sicuro
di un successivo e galante salvataggio da parte dell’eroe con
il codino – qualunque fidanzata che non fosse lei,
più evidente di così! Nemmeno
loro la
consideravano! A questo punto, a quando il sequestro di Kodachi?!
Ukyo si arrestò, il cuore che le pulsava a gran
velocità e le mani che tremavano.
“Ti sei sfogata?” Fece l’altro, senza
mostrare segni di scompostezza. “Bene. Ora te lo
dirò senza ulteriori giri di parole, anche perché
non sono bravo in queste cose. Lo verresti a sapere in ogni caso e, da
me o da altri, non cambia poi molto. Akane non è annegata in
quella fonte, eppure… lei non c’è
più lo stesso. È morta, durante lo scontro finale
tra Ranma e quel Safulan.” Finì d’un
fiato. “Te l’avevo già spiegato, non
è vero, chi è Sa…”
La spatola crollò a terra, coprendo la sua voce con
l’eco del rimbombo.
Strabuzzò gli occhi, come se non avesse afferrato il
concetto. Akane. Morta. Per quanto si sforzasse, non riusciva ad
associare le due parole.
Poi il cuore le suggerì un pensiero orrendo, così
Ukyo non poté fare a meno di rivolgere a Saotome,
maledicendosi mentre le parole le erano già uscite di bocca,
la pur logica domanda.
“E Ranma… come sta?”
Genma non parve sorpreso.
“Lui… non è più il ragazzo
che conosci. Non sa perdonarsi per quello che è accaduto. E
ancora non riesce ad accettare la perdita della persona
che…” Si bloccò. Troppo tardi,
pensò Ukyo: aveva inteso benissimo, in questo caso, come
già la prima volta che aveva udito queste parole. E come
allora si limitò ad annuire, mogia. Una parte di lei sapeva
forse fin dall’inizio come stavano realmente le cose.
“Ranma si sta letteralmente autodistruggendo.”
Riprese Saotome, a voce bassa. “Dal nostro ritorno, qualche
giorno fa, non ha più messo piede fuori casa. Ha smesso di
praticare le arti marziali. Praticamente non mangia, non dorme. Sta
accovacciato in un angolo e nient’altro. Un vegetale. E
Nodoka… sua madre sta morendo lei stessa dal dolore, per
Akane e perché vede suo figlio ridotto in questo
stato.”
Le lacrime riempirono gli occhi di Ukyo, senza però
scendere. L’intero piccolo mondo che conosceva era andato in
pezzi in una manciata di secondi… anzi no, perché
tutto questo era già accaduto, mentre lei, ignara, attendeva
che il
suo Ranma
venisse a trovarla per mangiare un okonomiyaki. Represse a stento un
secondo moto di nausea.
Basta! Pensò,
in preda alla sofferenza. Perché
sto rivivendo, momento per momento, tutti questi eventi?! Fa male! Non
voglio, non voglio!
Voleva arrestare quei terribili ricordi, smettere di provare quel
dolore, quei sensi di colpa, anche perché il peggio doveva
ancora arrivare. Ma questa volta era differente dalle altre, non
riusciva a svegliarsi.
Fu Saotome, invece, a scuoterla per le spalle.
“Ukyo, io ho bisogno di te.” La sua voce la
colpì come una lama al petto. “Non saprei a chi
altri rivolgermi. Sei una brava ragazza e vuoi bene a Ranma. Ora io ti
chiedo: saresti pronta a qualunque cosa per salvarlo da se
stesso?”
Tu…
“È questa la mia domanda! Rispondimi, Ukyo! Devo
saperlo!”
Tu… sei venuto qui… a chiedere il mio
aiuto?! Tu!
Avvertì vibrare ogni nervo in preda a una rabbia
irrazionale, come se qualcuno le avesse colpito con forza una ferita
rimarginatasi dopo tanto tempo e fatica.
“Avevate promesso di portarmi con voi… e
invece mi avete abbandonato come un cane!”
“Sapete che Ukyo è stata mollata dal
fidanzato?”
“Sì, sì. Lui e suo padre sono
fuggiti prendendosi solo la dote!”
“Umiliata in quel modo! Non vorrei essere nei suoi
panni!”
“Io… mi vendicherò! Fosse
l’ultima cosa che faccio!”
Ranma aveva le sue colpe, certo… ma lei l’aveva
infine perdonato.
Con Genma Saotome era un altro discorso. Lui, il vero responsabile di
una vita rovinata. E ora proprio lui le stava chiedendo…
“Sei disposta ad aiutarmi?”
Strinse la mano a pugno, dimenticandosi che era già
impegnata.
“Tutto questo non dimostra nulla, Saotome è
innocente!” Protestò. “Non sappiamo
nemmeno se fosse a conoscenza dell’identità
dell’Akane che ha rapito… forse intendeva solo
sottrarla alla pazzia di Ranma, con metodi poco ortodossi, lo ammetto,
ma…”
“Adesso basta, papà.” Gli rispose
Nabiki. “Non insultare ancora la mia intelligenza…
e la tua. I fatti parlano da soli.”
Genma si mise a ridacchiare. “Ascolta tua figlia, Tendo.
Sospettava di me da prima di questa notte, né mi aspettavo
qualcosa di diverso, dopotutto.”
Soun avvertì un groppo alla gola. Il suo più caro
amico stava forse confessando…?
“Lieta della sua stima.” Disse Nabiki.
“Ma ammetto che ho cominciato a mettere insieme gli ultimi
pezzi solo oggi stesso, verso cena. Avevo… diciamo parlato
vivacemente con Ukyo e, a un certo punto, lei mi ha rammentato che
quella di sistemarsi a casa nostra non era stata una sua iniziativa. E
guardacaso chi è che aveva avuto la brillante
idea…?”
Proseguì, con un tono più grave:
“Ammetto anche di aver sospettato a lungo della vecchia
Cologne, che qualcosa ci ha indubbiamente nascosto. Ma la mia
impressione è che lei, zietto, non sia mai stato la sua
pedina inconsapevole. Anzi, credo perfino di aver compreso le vere
intenzioni sue e di Ukyo… ma le farebbe più onore
dircele di persona, non pensa?”
Genma si alzò in piedi. “Hai calcolato proprio
tutto, signorinella. Va bene, a questo punto tanto vale che parli io.
Ma prima, qualcuno potrebbe trovarmi gli occhiali?”
In quel momento Soun sentì il dolore e il palmo della mano
sanguinargli sotto la pressione delle schegge di vetro.
Si svegliò, abbagliata, ansimante e col cuore che le pulsava
frenetico fino in gola.
Un incubo? Ma la stanchezza che provava era più simile a
quella di chi aveva corso a perdifiato i cento metri. Anche il caldo
sudore che le colava lungo le tempie e per le guance, in tanti
rigagnoli sottili, pareva deporre a favore della seconda ipotesi.
Uno di questi le inumidì l’angolo del labbro e,
per istinto, lo leccò.
Un momento… ma è tè?!
Tè tiepido?!
“Fermati, ho detto!”
Ukyo trasalì, riconoscendo la voce roca. Accennò
a dire qualcosa, ma in quel momento la vista si abituò del
tutto al fascio della torcia elettrica e si ritrovò a un
palmo di naso due lenti minacciose, che sembravano squadrarla con una
severità inaudita. Riconobbe subito anche il loro
proprietario e capì dove si trovava.
Udì il rumore della porta scorrevole che si spalancava di
scatto e, contemporaneamente, la piccola luce si spense, facendole
perdere ogni punto di riferimento.
Avvertì una stoffa pesante cadere sopra di lei, e poi due
grosse braccia che la spingevano a forza in direzione del proprio
futon, al quale si aggrappò tentoni, tastando il pavimento.
Un’altra presenza aveva fatto il proprio ingresso nella
stanza: urtò freneticamente le mani contro la parete
finché un interruttore scattò e
l’illuminazione artificiale riempì
l’ambiente.
Cosa ho combinato…?!
Ukyo si mantenne nascosta sotto la propria coperta, come se potesse
fuggire dalla realtà facendo semplicemente finta di dormire.
Espose una parte del volto solo quando sentì il mugolio
della madre di Ran-chan indicare il suo risveglio.
“Ranma… cosa è successo?”
“Vogliamo una spiegazione.” Disse Genma, che
esibiva con disinvoltura lo stesso thermos con cui poco prima doveva
averla bagnata. “Si può sapere che cosa ti salta
in mente, di svegliarci con tutto quel baccano a quest’ora
della notte?”
Ukyo si affacciò un po’ di più, per
scorgere l’aspetto sconvolto di Ran-chan.
Perché è ridotto in questo stato? Che
cosa gli ho fatto, mentre ero Akane? Non ricordo! Perché non
riesco a ricordarlo?!
“Io… io…”
“Tu cosa? Parla!”
“La stavo inseguendo… l’ho vista
entrare… Perché diamine non l’avete
fermata?!”
Si sforzò di pensare. Dunque si era fatta vedere da lui solo
per fuggire via? Come aveva potuto? E adesso cosa poteva mai fare?
Incrociò lo sguardo di Genma, il cui messaggio era
inequivocabile.
Nega! Nega tutto, perfino l’evidenza!
“Ran-chan…” Mormorò tremando.
“Chi avremmo
dovuto fermare?”
Genma aggiunse immediatamente: “Qui non è entrato nessuno.
Non lo vedi?”
Fu solo lei, tuttavia, a vedere un’ombra
insinuarsi negli occhi di Ranma. Avvertì lo sgomento, la
confusione di chi stava iniziando a dubitare della propria
sanità mentale.
No… per favore, no! Non doveva andare così! Lei
voleva solo salvarlo!
“Non saprei a chi altri rivolgermi. Sei una brava
ragazza e vuoi bene a Ranma. Ora io ti chiedo: saresti pronta a
qualunque cosa per salvarlo da se stesso?”
Già, proprio così. Genma si era rivolto a lei,
alla fidanzata
carina. Era il suo momento
di essergli vicino, questo. Fingendosi Akane, almeno il suo spirito o
fantasma, avrebbe consolato Ranma, lo avrebbe perdonato per non essere
riuscito a salvarla… e soprattutto lo avrebbe convinto a
perdonare se stesso, e a tornare a vivere. Tanto le bastava: anche se
lui non la ricambiava, la felicità di Ran-chan era la
sua… e in questo modo Ukyo avrebbe potuto dimostrare anche a
se stessa la sincerità del proprio amore.
Sincerità?! Chi voleva prendere in giro? Dove stava la
sincerità in questo ammasso di bugie e inganni,
nell’aver accettato un patto del genere,
nell’essere proprio venuta a patti con quel demone infingardo
di Saotome, con quel… con l’uomo di cui non si era
vendicata, lo specchio di se stessa, quella parte di lei propensa ai
trucchi e al compromesso: la sua cattiva
coscienza.
L’unica verità era che lei si era comportata come
una sciocca egoista, una presuntuosa senza limiti.
Basta! Basta rievocare! Fa male!
Però…
Fa tanto male!
Il suo amore non era ricambiato, non era puro e casto: ma era sincero.
“Scusami, Ukyo… mi dispiace tanto.”
Si voltò di scatto, incredula.
“Tu?!”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Speranza ***
Capitolo 9
“Speranza”
Ansimava, cercando di raccogliere quanta più aria possibile
nei polmoni. Eppure sapeva benissimo che non aveva alcun senso, che lei
stava sognando tutto quanto e che questo sforzo, piuttosto,
l’avrebbe svegliata. Sul serio, questa volta.
Lo sapeva, e non desiderava altro. Allo stesso modo era consapevole che
i suoi sensi di colpa si stavano divertendo a torturarla – punirla –
per le tante stupidaggini che aveva commesso, e che lei si era meritata
tutto questo, ma semplicemente ora non ne poteva più e si
sentiva vicina al punto di rottura.
Lei, che si era sempre vantata di essere una ragazza forte e
indipendente, di non aver mai dovuto contare su niente e nessuno,
percepiva solamente la voglia irrefrenabile di piangere e di trovare
delle braccia che la sostenessero e la consolassero.
Calma, doveva rimanere calma. Già, ma come poteva?!
Certamente, non dopo che il proprio rimorso, o subconscio, o qualunque
cosa fosse, le stava infliggendo un simile colpo di grazia.
Pregò che la figura che le aveva appena rivolto la parola,
l’unico elemento del sogno a non essersi ancora dissolto,
potesse fare la stessa fine della camera dei Saotome e di Ran-chan e di
tutto il resto nel giro di qualche istante, ma quando ciò
non si verificò sentì ogni speranza abbandonarla
e lo sconforto impadronirsi di lei.
“Mi dispiace.” Le ripeté. E Ukyo volle
gridare.
Calma. Poteva ancora farcela, fronteggiare una volta per tutte i suoi
demoni interiori. Forse allora si
sarebbe finalmente svegliata.
“Aka… Akane-chan…”
Balbettò, con una voce più lieve e acuta di quel
che avrebbe desiderato.
La ragazza con i capelli corti e la divisa del Furinkan, tale e quale a
come lei se la figurava di solito, annuì con fare timido.
“Sì, Ukyo. Sono io.”
“Per… per favore, dimmi una
cosa…” Un ultimo sforzo. E sarebbe tornata alla
realtà. “Sei veramente tu, Akane in carne e
ossa”, deglutì, “o sei solo…
una costruzione della mia mente?”
In quel momento, senza alcuna ragione, Ukyo desiderò
ferventemente di non essere in un sogno, che il sogno fosse stato il
patto stretto con Genma Saotome, che Akane non fosse mai morta e che il
vero incubo fosse ormai alle proprie spalle.
L’interlocutrice chinò il capo, guardando le
proprie mani e il proprio corpo, come per studiarsi attentamente e
meditare una risposta. Infine aprì bocca, prima che Ukyo
potesse implorarla di non rispondere.
“Ecco… immagino la seconda cosa che hai
detto.”
A quel punto Ukyo finalmente gridò, finché anche
quell’apparizione si dissolse.
Le parole giungevano. Ma non voleva udirle.
“…e poco prima di partire dalla Cina ho preso
degli accordi con la guida di Jusenkyo: una volta che il livello delle
fonti fosse tornato alla normalità, avrebbe dovuto spedire
le acque maledette da me indicate al ristorante Nekohanten. Non potevo
certo dare l’indirizzo di casa Tendo, altrimenti avrei dovuto
rispondere a molte domande. In questo modo, invece, la sola a
conoscenza dell’esistenza della terza fiasca, quella
contenente l’Akanenichuan, è
stata Obaba: ma lei cosa avrebbe dovuto dire? Dopotutto era
più semplice pensare a una svista della guida, o al massimo
a un errore mio che non so leggere il cinese. Naturalmente la vecchia
mummia non poteva leggermi nel pensiero e come immaginavo, se ha
sospettato qualcosa si è tenuta certi pensieri per
sé.” Concluse. Il suo tono suonava come
compiaciuto, quasi che questa confessione fosse per lui un motivo di
vanto.
Ranma sentiva il proprio stomaco sempre più sottosopra,
eppure continuava ad ascoltarlo. Ma non lo guardava in faccia: non
poteva concedergli perfino questa soddisfazione e, tra
l’altro, non avrebbe potuto farlo anche se ne avesse avuto
l’intenzione. Seduto, ma abbandonato completamente in avanti
e verso terra, se non fosse stato per qualcuno che lo stava sorreggendo
per le spalle, non osava più muovere un muscolo per non
sentire altro dolore; dubitava che gli fosse rimasta una sola parte del
corpo sana e stava cominciando a invidiare il braccio che Tofu gli aveva anestetizzato.
“Perciò conferma che Cologne sarebbe estranea a
questa storia.” Disse una voce asciutta, che
associò con qualche istante di ritardo a Nabiki.
“E qual è il ruolo di Ukyo, invece?”
Fissò con più forza il cumulo di terriccio,
sempre lo stesso, sperando di estraniarsi dalla follia che lo
circondava. Tuttavia le parole continuavano a farsi strada nella sua
testa, finché fu costretto a pensarle coscientemente una
dopo l’altra.
“Già, Ukyo… Quando noi
‘maledetti’ ci siamo distribuiti le nostre cure,
fingendo di attingere dalla Nannichuan ho
invece travasato un po’ di Akanenichuan in una
borraccia. Poi mi sono recato in un certo okonomiyaki-ya e ho convinto
la sua proprietaria a usare quest’acqua per…
diciamo recitare davanti a Ranma la parte di
Akane. In ultimo, sono tornato a casa dei Tendo e vi ho proposto di
invitare Ukyo a dormire da noi per qualche giorno, con la scusa che un
volto amico non avrebbe potuto che fare bene al ragazzo. Il resto
sarebbe toccato a lei… ma più di qualcosa
è evidentemente andato storto, prima che potessimo calare il
sipario.”
Parte. Sipario. Una messinscena. Solo una messinscena.
E lui lo aveva sospettato, lo aveva intuito.
E dire che, per un attimo… per un attimo, avrei
potuto giurare…
“Ma siete tornati in Giappone, ormai, da diverse settimane.
Si può sapere da quanto tempo va avanti questa storia,
signor Saotome?” La voce di Tofu.
“Molto meno di quanto crediate. Io e Ukyo ci siamo decisi
dopo varie esitazioni: Ranma non usciva di casa da giorni, e non
c’era un vero momento ideale per mettere in atto il piano. Il
nostro primo tentativo risale a ieri notte, quando Ukyo si è
bagnata con un po’ d’acqua fredda ed è
scesa a parlargli.”
Rinnegando il suo proposito di prima, Ranma alzò il torace
di scatto, lasciandosi avvolgere dal dolore come se potesse distrarlo a
sufficienza. Avvertì anche le mani che lo sorreggevano
assecondare docilmente il suo movimento, non opponendogli la minima
resistenza.
“Parlargli?” Replicò il timbro sferzante
di Nabiki. “Non mi risulta che Ranma e Ukyo abbiano parlato.
Le conversazioni, normalmente, non si svolgono con uno dei due
interlocutori che scappa e l’altro che lo insegue come un
invasato.”
“Io… non so...”
“Fatemi capire!” Strillò una nuova voce.
“Quando ieri Ranma ha detto di aver visto Akane…
anche allora l’aveva vista sul
serio? E anche quella volta si trattava di Ukyo?!”
“Sì, Tendo. Forse… si era spaventata, o
pentita di quanto stesse facendo, questo non so dirlo. Ero rimasto
nella camera degli ospiti a vigilare, contenendo la mia aura al minimo
con la tecnica dell’Umisen-ken perché
Nodoka non si svegliasse, e pronto nel caso la situazione avesse preso
una brutta piega. Così è stato, dato
l’urlo di Ranma… e quella scriteriata che,
tra tutti i posti possibili, andava a rinchiudersi proprio nella nostra
stanza. Non sembrava più lei. Per limitare i danni ho dovuto
agire con rapidità e destrezza, da vero artista
marziale.”
“Da vero artista… ma hai la minima idea di
ciò di cui stai parlando, Saotome?! Come puoi paragonarti a
un artista marziale, quando ti manca l’unica
qualità fondamentale: l’onore! Lo so che sei
caduto in basso più di una volta, ma questo! Si
può sapere cosa hai
complottato, tenendoci tutti all’oscuro? Tradendo tuo figlio,
la fiducia delle persone a te più vicine… e la
nostra amicizia…”
“Ti ho detto più volte di fare silenzio,
papà. I bei discorsi sull’onore e i buoni
sentimenti possono aspettare.”
“Pratica come sempre, o dovrei dire
‘cinica’? Noi due non siamo così
diversi, Nabiki.”
“Farò finta di non averla sentita. Prosegua.
Cos’è accaduto precisamente stanotte?”
“Niente di particolare. Semplicemente, l’ultima
occasione. Certo non poteva essercene un’altra
ancora, non dopo la fuga del ragazzo e le vostre reazioni allarmate. A
essere sincero, non mi fidavo più di Ukyo e avevo pensato di
rinunciare: dopotutto aveva perso il suo sangue freddo quando
più ce n’era bisogno, poi si era lanciata
all’inseguimento di Ranma ma solo per tornare il mattino dopo
a mani vuote, dopo aver tentato inutilmente di farlo ragionare. O
almeno così diceva, come potevo fidarmi ancora? Ma
poi… mi ha preso da parte, e l’ho vista pienamente
in faccia: era sconvolta, irriconoscibile. Mi ha giurato di non
ricordare perché fosse scappata, ma che non sarebbe successo
di nuovo. Avevo già la sua parola, no? Così mi ha
pregato di riprovarci, un’ultima volta, solo una. Quando
stasera abbiamo iniziato le ricerche, lei si è separata dai
vostri gruppi e io ho finto di volermene restare a casa e invece
l’ho raggiunta in un secondo momento. Avremmo rintracciato
Ranma prima di voi e lei avrebbe assunto ancora
l’identità di Akane per…”
“Per fargli credere di essere impazzito?”
“No, affatto!” La replica del suo vecchio a Soun fu
immediata e questa volta il tono tradiva un’inflessione di
panico.
“E allora cosa?” Domandò Nabiki.
“Io non lo so esattamente. È solo che
pensavo… che Ranma si stesse uccidendo con le sue mani e
che, in qualche modo, solamente Akane avrebbe
potuto convincerlo a mettersi il cuore in… ma non serve che
mi giustifichi, non potreste comprendere! Che ne potete sapere voi di
cosa si prova a vedere il proprio unico figlio, l’unica parte
di voi che vi sopravviverà, l’unica cosa buona che
abbiate mai fatto in tutta la vita ridursi a… No, basta
così!” Borbottò, abbassando la voce.
“Sono solo un vecchio idiota, e vi basta sapere
questo.”
Ranma girò lo sguardo e incontrò la figura del
padre. Lo fece, dopo ciò che si era ripromesso. Ma non era
stato un gesto volontario, si giustificò.
Altrettanto involontariamente pensò che senza occhiali
sembrava un’altra persona e che, per quanto strano, gli
pareva di vederlo ora per la prima volta.
Nessuno aprì bocca e il suo vecchio, che pareva aver
esaurito quanto avesse da dire, riprese: “Ma Ukyo…
non portatele rancore per quanto accaduto. Per lei non
dev’essere stato facile partecipare a tutto ciò,
se ha mandato a monte ogni cosa una seconda volta. Quella ragazza deve
aver già vissuto il suo inferno personale.”
Le mani appoggiate a lui tremarono, scuotendolo leggermente. Nel
contempo, Ranma udì dei singhiozzi provenire dalle sue
spalle.
In quel momento, non avvertì più frustrazione,
né rabbia.
Solo una sensazione di vuoto, di stanchezza.
Piangi, Konatsu… piangi anche per me. Io ormai ho
esaurito le lacrime…
Come, come?!
Come aveva potuto? Saotome, il suo migliore amico.
Lo aveva pregato di essere più indulgente con suo figlio,
quando proprio lui era responsabile di aver condotto Ranma
sull’orlo della pazzia. E si era preso gioco di un povero
scemo di nome Soun Tendo, un ingenuo che credeva
nell’amicizia. Si era sempre preso gioco di lui.
“Ma tu pensi anche troppo, amico mio. E pensare
troppo distoglie l’attenzione dalle soluzioni più
semplici, quelle che abbiamo a un palmo di naso”.
Gli aveva perfino confessato in faccia la verità. Quanto
doveva aver riso, alle sue spalle.
Non gli importò di udire le sue parole di autocommiserazione.
Nulla avrebbe potuto sanare questa ferita.
Presto, si disse. Non aveva un secondo da perdere. O almeno questo era
quanto gli era stato ripetuto più e più volte
finché, ancora frastornato e forse leggermente intimidito,
aveva deciso di assecondarla e uscire dal locale. In ogni caso,
sperò che non fosse così: non dopo il tempo che
aveva sprecato.
Pedalò con maggior foga, maledicendosi per la propria
stupidità. Si era diretto a colpo sicuro verso casa dei
Tendo, aveva bussato, urlato a gran voce, prima di rendersi conto che
era deserta. Un passante con il volto rosso aveva schiamazzato a sua
volta, rimproverandolo per il baccano al quale lui e gli altri
“giovani d’oggi” si dedicavano in piena
notte: prima i fuochi
d’artificio di
quei ragazzacci del Furinkan e ora questo,
aveva brontolato con un’aria eccessiva di sdegno.
Solo allora Mu Si rammentò finalmente di aver udito un
distante boato, quando lavava i piatti, almeno più di
un’ora prima, e che al momento non aveva associato a qualcosa
di particolare. Ma sbagliava, nulla a Nerima poteva essere lasciato al
caso. Interrogato con non poche difficoltà
quell’ubriacone, si era diretto a perdifiato verso il suo
nuovo traguardo.
Sarà stato Ranma? O Ryoga? Non importa,
ciò che conta è trovare qualcuno di loro. Se
è come penso, potrei anche trovarli tutti.
Più nel dettaglio, lei gli aveva ordinato di rintracciare
Genma Saotome. E
la ragazza, che con ogni probabilità avrebbe
visto al posto suo o assieme a lui. Mu Si ignorava come mai avvertisse
tanta voglia di cooperare, dopotutto lo aveva tenuto
all’oscuro di ogni cosa: c’era, tuttavia, qualcosa
nel tono con cui gli si era rivolta, tale da mettergli addosso una
particolare angoscia.
Shan Pu.
Solo per lei si era sentito disposto a fare il giro del mondo, scalare
qualunque montagna, se solo questo fosse stato il suo desiderio. Almeno
era stato così fino a stanotte.
Shan Pu, che lui per un lungo attimo pensava di aver riconosciuto nella
figura che lo aveva aiutato a rialzarsi, simile a un angelo salvatore
intervenuto per liberarlo dalle angherie della vecchia.
E invece si era ritrovato di fronte proprio lei, Cologne, e da quel
momento era più confuso che mai.
Lei, che lo aveva colpito facendogli perdere i sensi, era rimasta nella
stanza per aiutarlo a riprendersi.
E se quella megera avesse veramente avuto qualcosa di importante da
tenergli nascosto, qualcosa che fosse collegato alla telefonata e
magari a uno dei classici piani di bisnonna e bisnipote per conquistare
Ranma e portarselo nel villaggio esibendolo come un trofeo di caccia,
allora che senso aveva rivolgersi proprio a lui?
Non lo aveva, punto. A meno che non si trattasse di una
‘falsa missione’, con l’unico scopo di
depistarlo mentre la vecchia perpetrava liberamente i propri piani. Ma
si sentiva quasi certo di poter escludere questa ipotesi: Cologne si
sarebbe inventata una scusa molto più semplice, e del resto
una bugia come questa non avrebbe mai fatto il suo gioco, al contrario.
Il suo istinto, infine, tagliava corto e lo incitava a sbrigarsi.
Pedala, Mousse, s’impose, storpiando
apposta il proprio nome e fingendo che la voce non provenisse dalla sua
coscienza ma fosse quella di Shan Pu.
Ukyo si guardò intorno, con aria smarrita.
Lo scenario che la circondava era di nuovo cambiato ed evidentemente
non si era svegliata nemmeno questa volta. Il paesaggio era appunto
‘da sogno’, un po’ per le pozze e le
canne di bambù che le comunicavano una particolare
sensazione di immobilità, un po’ per la sottile
cappa di nebbia che rendeva il tutto più simile a un dipinto
appena accennato con qualche mano di pennello, piuttosto che alla
realtà. Ma una voce interiore le diceva che quel luogo
esisteva, e che lei ci era già stata. Proprio lei, che non
aveva mai visitato regioni diverse dal Kansai e dal Kanto.
“Dove sono?!” Chiese, anche se non riconobbe la
voce come la propria.
“Questo è Zhou
Chuan Xiang. Nella tua lingua Jusenkyo, il campo
d’addestramento maledetto.”
Si voltò, e scorse la persona che le aveva rivolto la
parola: una donna, sicuramente più grande di lei, bardata
con una specie di uniforme, forse da guerriero, che tuttavia faceva
sfoggio di diverse decorazioni, un pendaglio, perfino un raffinato
piumaggio, e non mancava di sottolineare le sue abbondanti curve. Ogni
discorso estetico fu però dimenticato, nel momento in cui
Ukyo s’avvide che le piume non facevano parte del vestito ma
proseguivano in due grandi ali.
Chi – o cosa –
sei, volle chiederle. Ma dalla sua bocca uscì solo
un’esclamazione: “Kima!”
Già, perché questo era il nome della donna, Kima.
Ma dove l’aveva mai udito, se era la prima volta che la
vedeva in vita sua?
“Queste fonti possono trasformare chiunque vi si immerga in
chi vi è caduto dentro per primo… e noi abitanti
del monte Hooh, sin dai tempi più remoti, facciamo
volontariamente uso della Nannichuan e della Niannichuan per
celare il nostro aspetto e aggirarci in incognito tra gli esseri
umani.”
Jusenkyo. La Niannichuan.
Era la sorgente in cui era caduto Ran-chan.
Ukyo si lasciò sfuggire un sorriso sarcastico.
“Immagino che tu non mi abbia rapito e portato qui solo per
raccontarmi questa storia, dico bene?”
E all’improvviso quella situazione, quel dialogo, le parvero
familiari.
Possibile che stia ancora ricordando? Ma questi
ricordi… non possono essere miei.
“Tieni.” Kima le lanciò qualcosa tra le
mani. Ukyo fissò l’oggetto, perplessa.
“Una mia foto…?” Chiese. Ma non era
vero. La foto non rappresentava lei.
“Il nemico del sommo Safulan… o meglio, il nostro
nemico… la teneva con sé.”
Ranma… Ranma aveva con sé questa foto?
Sentì il cuore batterle forte. Ranma aveva con sé
una sua foto.
No. No, non era così.
Kima assottigliò lo sguardo, abbandonò la sua
espressione fredda e, per la prima volta, assunse un ghigno malvagio.
“Vedi, tutto lascia credere che il suo punto
debole… sia
tu.”
A quelle ultime parole, sentì la terra sprofondare sotto i
piedi. Ne fu letteralmente risucchiata, e si trovò di colpo
avvolta e circondata dall’acqua, in una trappola mortale.
Ranma… implorò,
impossibilitata a tornare a galla. Ranma che la veniva sempre a
salvare. Ranma che aveva con sé la sua… no, non
la sua foto. Ranma non veniva a salvare lei. La persona raffigurata
nella foto non era lei.
Akane. Si trattava di Akane.
È tutto sbagliato, pensò.
Non poteva annegare in questo modo, lei sapeva nuotare, lei non era
Akane. Io
sono Ukyo, Ukyo! Agitò
le braccia in un movimento disperato, cercando di tornare in
superficie. Non poteva morire così.
Io sono Ukyo!
“Prendi la mia mano!”
Chi aveva parlato, ora? Sentiva il peso del proprio corpo farsi
insopportabile, le forze venirle meno e la vista annebbiarsi,
così evitò di porsi domande e allungò
il braccio verso l’alto. Qualcosa le strinse il polso e,
facendo leva, la issò fuori dall’acqua.
Acqua che svanì nel momento stesso in cui ne fu uscita,
facendo la stessa fine di Kima, delle sorgenti e di tutto lo scenario
di qualche istante prima. L’Akane che le stringeva la mano
era adesso l’unico elemento palpabile ai suoi sensi.
“Ukyo, mi dispiace tanto.” Mormorò, con
aria addolorata.
“Me l’hai già detto.” Le
replicò seccamente. “Si può sapere dove
siamo?”
“Ti avevo detto anche questo… siamo nella tua
mente, e immagino che tu stia ancora dormendo.”
“Dormendo? Ecco cosa non mi torna, perché mai sto
dormendo? Ora lo ricordo chiaramente, ero al Furinkan e stavo
versandomi…”, troncò la frase, in preda
a un’illuminazione,
“l’acqua…”
Quando la ‘bella addormentata’ iniziò a
muoversi e a lamentarsi, Nabiki avvertì l’aria
tornare a riempirsi di tensione.
Indubbiamente, scoprire poco a poco la verità, come in un
libro giallo, era stato più eccitante di doverla
fronteggiare, come nella vita reale.
Non che lei avesse delle colpe, sapeva di aver adempiuto il proprio
dovere, per così dire: però non riusciva a trarre
un motivo di orgoglio da ciò. Al contrario, un sapore amaro
le permeava la bocca, e aveva solo voglia di tornarsene a letto e
lasciarsi alle spalle tutto quanto.
Tuttavia non poteva ancora mostrare agli altri il minimo segno del suo
cedimento, non poteva abbassare la guardia. Non era ancora finita.
Papà continuava a fissare negli occhi Saotome, quasi a
volerlo uccidere con lo sguardo; la signora Nodoka, accompagnata da
Kasumi e coperta dal piagnisteo di Konatsu, si era avvicinata a un
Ranma fin troppo calmo ma non osava dire o fare qualcosa: come lei,
sapeva che una parola sbagliata avrebbe potuto farlo scatenare di nuovo.
Era stato imprudente far confessare lo zio Genma davanti a tutta la
platea, e adesso il risveglio della cuoca di okonomiyaki avrebbe potuto
soltanto peggiorare le cose.
Il dottor Tofu aiutò Ukyo ad alzarsi.
“Cosa…?”
“Tranquilla, va tutto bene.”
Tutto bene? Al dottore l’ottimismo non mancava di certo. E
Ucchan non era la persona che avesse più bisogno di essere
rassicurata. Ma tenne questi pensieri per sé e si
limitò a osservare le reazioni della ragazza.
“Sappiamo tutto, Ukyo.” Esclamò
papà.
A questo punto Nabiki si aspettava che avrebbe negato, o biascicato
qualche risposta confusa. E invece, non fece alcuna delle due cose.
“No. Ancora non sapete nulla.”
Disse con decisione la cuoca di okonomiyaki.
Punta sul vivo, fu lei stessa a risponderle.
“Frase un tantino presuntuosa, da parte tua. Ma Saotome, qui,
ci ha raccontato ogni cosa.”
“Nemmeno lui sa cosa è successo. E
neanch’io, fino a poco fa. Perché Akane
è…”
“Adesso basta! Risparmiaci l’ennesima bugia! Credi
davvero che staremo qui ad ascoltare le tue storie?”
“Allora ascolterete me!” Tofu l’aveva
fulminata con uno sguardo duro e Nabiki non se la sentì di
replicare. “Forse non l’avete notato, ma la
trasformazione non ha modificato solo l’aspetto di Ukyo. Mi
riferisco all’aura.
Quello che sto percependo non mi piace per niente, è come
se… ci fossero non una, ma due auree sovrapposte
l’una all’altra. Ma questo non è
fisicamente possibile. Se non lo vedessi con i miei
occhi…”
“È possibile”, disse Ukyo,
“perché la seconda aura è quella di
Akane. Della vera Akane.”
In quel momento, la bicicletta di Mousse fece capolino nello spiazzo
attirando la loro attenzione.
“Vi ho trovato. E ho sentito abbastanza. Ora, dovete venire
tutti con me.”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Il prezzo da pagare ***
Capitolo 10
“Il prezzo da pagare”
Per una volta, Mu Si voleva vederci
chiaro. Appoggiatosi con la schiena contro una parete della
sala, in posizione defilata, incrociò le braccia e
cominciò a valutare la situazione.
La scena che si profilava davanti a lui non era molto diversa da quella
a cui aveva assistito diverse sere prima, anche se questa volta era
notte fonda e non scorgeva alcuna traccia di Ryoga, sostituito dal
dottor Tofu. Per il resto, di nuovo famiglia Tendo e compagnia si erano
radunate intorno ai tavoli e, proprio come l’altra volta,
tutti gli sguardi erano rivolti verso la vecchia, che dal canto suo
stava appollaiata sopra un tavolino più distante.
L’unica differenza che risaltava ai suoi occhi era
l’abbigliamento di Ukyo Kuonji. Mu Si non aveva una grande
familiarità con la cuoca di okonomiyaki ma, nelle occasioni
in cui l’aveva incontrata, non aveva potuto fare a meno di
notare il suo vestiario, così poco consono a una ragazza
giapponese; adesso, stava invece portando l’uniforme
scolastica del Furinkan, quella femminile che aveva visto tante volte
addosso ad Akane Tendo. Era sicuro che questa stranezza si ricollegasse
alla richiesta della vecchia mummia.
Trova Genma Saotome. Oppure Akane.
Sì, mi hai udito bene, non fare domande. Potresti trovarla
al posto suo o assieme a lui. Se possibile, porta subito entrambi qui
al ristorante.
L’aveva soddisfatta, almeno per la parte riguardante Genma:
certamente la presenza degli
altri non
corrispondeva a una volontà di Cologne, ma lui aveva pensato
bene di procurarsi qualche ‘testimone’, specie dopo
i discorsi su auree e trasformazioni che
aveva udito mentre entrava nell’istituto trovandovi il gruppo
al gran completo. Non che avesse capito poi molto dell’intera
faccenda, ma ormai la sua mente aveva escluso l’ipotesi
dell’ennesimo piano architettato dall’amazzone: no,
la situazione appariva più complicata. A questo punto,
ciò che lo turbava era piuttosto la telefonata di quella
notte: non ne conosceva il contenuto, dato che Cologne era stata veloce
a sottrargli la cornetta di mano, ma la voce, quella sì,
l’aveva ascoltata e identificata fin dal primo istante.
E, da quel che ricordava, la voce della guida delle Sorgenti Maledette
non era mai stata premonitrice di buone notizie.
“Allora, Obaba, si può sapere perché ci
hai convocati qui con tanto tempismo?!” Quella frase
così sgraziata, con suo stupore, era uscita dalla bocca di
Nabiki Tendo. Passò ancora in rassegna le varie facce, dove
stava Ranma? Eppure era sicuro che almeno lui fosse con loro.
“Rispondetemi voi: chi ha usato l’acqua della fonte Akanenichuan?”
Il tono di Cologne era duro ma non sembrava indispettito
dall’irriverenza della ragazza. Mu Si interruppe la ricerca e
spostò lo sguardo sul lungo bastone, che scorreva lentamente
lungo i presenti.
In quell’istante udì un verso di sorpresa,
proveniente dal padre di Ranma. “Tu… tu come fai a
saperlo?!” Protestò con veemenza.
Lei incrociò lo sguardo con quello di lui, che Mu Si
notò essere privo delle sue lenti, e Genma Saotome
sbiancò nel giro di qualche secondo.
“Stolto! Credevi di poter fare una cosa del genere a mia
insaputa?” Gli disse. “Quando mi è
arrivata la terza fiasca, inizialmente ho pensato a un errore. Tuttavia
non ho voluto escludere alcuna possibilità, così
vi ho tenuti tutti d’occhio quando avete attinto alle acque
maledette… e non mi è sfuggito a quale fiasca tu abbia
attinto. Ripeto la domanda: cosa hai fatto di quell’acqua?
L’hai usata tu? L’hai data a qualcun altro?
È stata versata su uno di voi?”
Mu Si annui tra sé. La
vecchia ha detto ‘Akanenichuan’. Come pensavo,
questo spiega il contenuto della sua richiesta. Allora
quello che si sono detti i Tendo prima… e la divisa che
indossa Ukyo… significa davvero che…
Nessuno rispose subito, ma la vecchia spostò la direzione
del bastone, arrestandolo in direzione della cuoca. Ukyo Kuonji fece un
passo in avanti, con aria insicura.
“È… è così. Sono
stata io a usare l’acqua maledetta.” Disse con voce
flebile. “Ieri notte.”
“Così è già
accaduto.” Borbottò in risposta Cologne, che
osservò la ragazza con un’espressione cupa e poi
parve valutare tra sé le implicazioni di
quell’affermazione.
Un colpo di tosse forzato riscosse l’attenzione di tutti.
“Sentite, io… penso proprio di averne abbastanza
per stanotte. Vado a prendere un po’ d’aria qui
fuori.” Biascicò il Saotome adulto, che grondava
sudore ed effettivamente aveva l’aspetto di uno che non
riusciva a respirare. Non era il primo cui gli occhietti accusatori
della vecchia facessero quest’effetto, considerò
Mu Si.
“Solo un momento.” Lo riprese Nabiki, prima che si
avviasse. “Papà, vai con lui e tienilo
d’occhio. Ha creato abbastanza scompiglio, non
c’è bisogno di… perseverare.”
Soun Tendo sembrò voler obiettare qualcosa, poi ci
ripensò e uscì assieme all’amico,
dopodiché la vecchia si schiarì la voce ma venne
anticipata.
“In quanto a noi.” Ancora il tono pungente della
giovane Tendo. “Parli come se fossi completamente estranea a
questa faccenda, ma sapevi dell’acqua e non ne hai fatto
cenno. Ti conviene dosare le tue parole, e non mentirci
più.”
Mu Si deglutì. Da dove veniva la spavalderia di quella
ragazza? Sapeva che Nabiki Tendo non si lasciava intimorire facilmente,
ma tanto ardire non si addiceva nemmeno a lei, di solito
così controllata. E
ha appena dato un ordine a suo padre.
“A dire il vero”, rispose con calma la vecchia,
“gli unici ad aver tenuto nascosto qualcosa siete stati voi.
Io ho potuto soltanto osservare e trarre delle conclusioni. E fino a
stanotte, non mi ero resa conto della loro importanza.”
“Fino a stanotte. Che coincidenza bizzarra! E si potrebbe
allora sapere com’è che un istante fa sei andata a
colpo sicuro su Ukyo? Come avresti potuto sospettare proprio di lei,
senza avere tu stessa un ruolo in tutto ciò?”
“Questo”, disse, “è stato
più facile di quanto tu creda, ragazza mia. Si dà
il caso che stasera il suo ninja personale sia venuto a frugare nel
ristorante, molto interessato alle fiasche conservate nello sgabuzzino.
Sì, so tutto di Konatsu: la sua abilità
è notevole ma non poteva prevalere sui miei decenni di
esperienza. E so anche che questo povero kunoichi maschio non
è il tipo da prendere l’iniziativa, era
chiaramente stato mandato da qualcuno… e perciò
l’ho lasciato fare.”
Nabiki non fiatò, ma l’espressione sorpresa che il
suo sguardo si lasciò sfuggire fu piuttosto eloquente. La
vecchia sogghignò. “Così
l’avevi mandato tu? Non che m’interessi.”
“Nemmeno a noi.” Nabiki provava chiaramente a
riguadagnare la posizione di vantaggio. “È tardi e
abbiamo tutti sonno, sarai così cortese da non girare
intorno al punto?”
Ukyo, finora così dimessa, s’inserì nel
discorso. “So io cosa Obaba sta cercando di dirci. Quando mi
sono versata quell’acqua, non ho soltanto assunto le sue
sembianze. Akane è... dentro
di me. Le ho potuto parlare, la sento ancora nella mia
testa.” Sussultò, come realizzando di aver detto
la cosa sbagliata al momento sbagliato. “Non sono pazza!
Dovete credermi!”
“Tu fai silenzio.” La fulminò la giovane
Tendo. “Come ti ho detto prima, non abbiamo intenzione di
ascoltare un’altra delle tue patetiche…”
“Ma certo, avrebbe senso!” Esclamò Tofu.
Volgendo lo sguardo, Mu Si lo vide inginocchiato, intento a medicare un
Ranma seduto sul pavimento, entrambi parzialmente nascosti dalle sagome
in piedi di Kasumi e della signora Saotome. Capì
all’istante come mai non avesse individuato subito il proprio
rivale: non avvertiva alcuna traccia dello spirito combattivo che era
solito ricollegare alla sua presenza.
Il dottore ignorò l’irritazione della ragazza che
aveva interrotto e continuò: “Spiegherebbe il
disturbo del ki che sto
percependo in Ukyo. Non è ‘come
se’… ci sono sul
serio due
auree, sovrapposte tra loro. Venerabile Cologne, ci può
confermare che la seconda aura è quella di Akane?”
“Dottore, non ci si metta pure lei! La verità
è che…”
“Nabiki, ora basta. Lascia che parlino anche gli
altri.” La sorella maggiore aveva lasciato la sua posizione e
l’aveva raggiunta alle spalle, per stringerla tra le sue
braccia in un moto protettivo, forse, ma che, se non fosse provenuto da
Kasumi Tendo, avrebbe osato definire… minaccioso.
Nabiki tacque e la vecchia sorrise ancora, con aria soddisfatta.
“Sì, confermo. Posso affermare senza ombra di
dubbio che l’aura aggiunta che avete percepito appartiene ad
Akane. E ciò è avvenuto per via
dell’acqua della sorgente di Zhou
Chuan Xiang.”
Tofu comprendeva sempre di più. Durante i minuti trascorsi a
curare le ferite di Ranma, aveva avuto modo, poco a poco, di
rassicurarsi sulle condizioni del ragazzo e prestare maggiore
attenzione alle parole dell’anziana amazzone. Ho
annullato l’effetto del nervo che gli avevo stimolato,
così potrà muovere di nuovo il braccio. Il resto
non è così grave. L’aura è
ancora alterata, ma è dovuto più alla stanchezza
e allo stress di questi giorni che ad altro. Sebbene Ranma abbia
sicuramente avuto un esaurimento nervoso, per fortuna non è
ciò che temevo.
Adesso la sua attenzione era concentrata sulle strane condizioni di
Ukyo. Udendo Cologne parlare di Jusenkyo, sentì
l’esigenza di chiedere ulteriori chiarimenti.
“Si tratta dunque di un altro potere legato alle fonti
maledette?” Domandò. “Pensavo che la
loro unica proprietà fosse quella di riprodurre
l’aspetto della prima persona che vi ci
s’immerge.”
Cologne scosse piano il capo.
“Di norma è così, ma non sempre. Ad
esempio, le fonti Nannichuan e Niannichuan non
funzionano in questo modo… oppure adesso il consorte e gli
altri, invece di essere guariti dalle maledizioni, sarebbero diventati
delle ‘fotocopie’ del ragazzo cinese che diversi
secoli fa annegò nella sorgente magica. Pertanto, no, le
fonti non operano tutte nella stessa maniera.”
“È vero.” La nuova voce fece sussultare
sia Tofu che gli altri. “E poi io e Herb siamo caduti nella
stessa sorgente, ma le nostre trasformazioni erano molto
diverse.” Tutti si voltarono verso di lui, o meglio verso il
ragazzo al suo fianco, che si era rialzato di scatto; del resto, quelle
erano le prime parole pronunciate da Ranma da quando erano entrati.
Tofu lo scrutò attentamente, di profilo: poteva scorgere una
fiamma, che prima non c’era, luccicare nei suoi occhi. Una
luce che lui conosceva bene. Anche la sua aura si era fatta molto
più stabile.
Un barlume di speranza. Pensò. È
tutto quello che gli serviva. Chiaro, ora il suo spirito può
di nuovo focalizzarsi su un obiettivo, e in un certo senso
ciò gli è d’aiuto.
“Precisamente.” Annuì Cologne.
“Non avete assunto l’aspetto della ragazza cinese
vissuta millecinquecento anni or sono, invece i vostri corpi hanno
acquisito una forma distinta: non una a caso, ma la versione femminile
di voi stessi. Tecnicamente parlando, la sorgente ha adeguato il
proprio potere ai vostri spiriti vitali, modellando la trasformazione
in conseguenza di questo legame.”
“Perciò”, continuò Tofu,
“nemmeno l’Akanenichuan apparterrebbe
alla categoria classica?”
L’amazzone socchiuse gli occhi e mugugnò, prima di
rispondere.
“Lo avevo sospettato e così, giorni fa, ho
telefonato alla guida di Jusenkyo, che mi ha raccontato della
particolare origine della fonte.”
Mousse dovette aver intuito la sua confusione, poiché
abbandonò la propria postazione e gli venne incontro.
“Penso di dovervi spiegare. La sorgente fu creata dai nostri
nemici”, disse, “scavando una nuova pozza nel luogo
maledetto. Akane Tendo vi fu fatta immergere e, in seguito, una donna
della stirpe del monte Hooh, di nome Kima, si bagnò nella
fonte per assumere le sue sembianze e ingannarci…
Tuttavia”, continuò leggermente a disagio,
“non mi sembrava che in lei fosse avvenuto qualcosa di simile
a ciò di cui stava parlando Ukyo.”
“Proprio questo mi ha fatto pensare”,
annuì Cologne, “che l’acqua usata per
l’Akanenichuan fosse
del primo tipo, tale da limitarsi a copiare l’aspetto. Anche
questo tipo di acqua interagisce con lo spirito del
‘posseduto’, ma il legame è
più debole e quindi insufficiente ad adattarsi del tutto al
corpo: del resto, se così non fosse, si comporterebbe come
una Niannichuan trasformando
in donne tutti coloro che vi si bagnassero.”
“Perciò Ukyo sta di nuovo mentendo.”
Concluse Nabiki.
“Sarebbe potuto essere. Ed è anche questo il
motivo per cui non ho fatto parola di questa fonte, anzi ho subito
accantonato ogni pensiero al riguardo. E invece avevo sottovalutato la
situazione. L’ho compreso solo stasera, quando in seguito
alla visita di Konatsu ho ripreso a indagare, fino a intuire la
verità.” Cologne si schiarì la voce.
“Ciò che è successo non dipende dalla Akanenichuan,
bensì dall’acqua miracolosa di Jusendo. Meglio
ancora… dalla combinazione di entrambi i
fenomeni.”
“Parla chiaro, vecchia!” Sbraitò Ranma
in uno scatto improvviso, scagliandosi contro di lei e sollevandola per
la veste. Tofu si morse il labbro per non aver previsto quella reazione
e non averlo trattenuto. “Stai dicendo che Akane è
davvero ancora viva? Che possiamo salvarla anche
se…” Avvertì nitidamente la rabbia
placarsi e far posto a quello stesso disturbo dell’aura che
lo aveva preoccupato tanto. Sono
uno stupido, considerò Tofu, scuotendo la testa. Adesso
capisco di cosa si trattava. Ranma esitò, poi
riprese: “Anche se… se io… non
ho…”
Cologne, con somma sorpresa degli altri, non si era sottratta al gesto
del ragazzo. Guardò il giovane Saotome fisso negli occhi, ma
con una profondità diversa da quella che aveva rivolto a
tutti loro poco prima.
“Consorte”, disse infine, “la
verità è che tu ‘hai’. Tu hai
fatto in tempo, quel giorno. Bagnasti il corpo di Akane con
l’acqua miracolosa, e l’acqua funzionò:
prova ne è che il corpo è rimasto integro fino ad
ora.”
Ranma rimase paralizzato, mollando la presa.
“Sì, consorte. Tu eri riuscito a
salvarla.” Ripeté Cologne.
Genma inspirò a pieni polmoni. Il freddo pungente
dell’esterno per lui era un refrigerio, adesso più
che mai. Udendo un secondo respiro, accelerato, forse nervoso, si
ricordò di non essere solo e si volse verso il proprio
accompagnatore.
“Tendo. Sei tu, vero?” Tra la penombra e la miopia,
quasi non avrebbe potuto giurarlo.
Non ricevette risposta, né la cosa lo disturbò.
Avrebbe dovuto parlare molto,
nei prossimi giorni: per adesso era riuscito a scampare a quella
vecchia spugna essiccata, ma restavano i Tendo e, soprattutto, dubitava
che Nodoka avesse trovato onorevole il
proprio comportamento e sapeva bene che, a sua moglie, non era
possibile sfuggire in eterno. In quanto a Ranma… almeno in
questo caso, era certo che non avessero niente da dirsi.
Non si sentiva pentito di quanto aveva architettato. Pazienza se era
venuto tutto allo scoperto, pazienza se le cose non erano andate come
se le era immaginate. Pazienza se aveva perso anche l’ultima
briciola di rispetto che il figlio sentiva di dovergli portare, Genma
riteneva di aver fatto di tutto e di più come genitore e di
non aver altro da dare in quel ruolo.
Il fine giustifica i mezzi: aveva condotto la sua vita intera seguendo
alla lettera questo motto, e non vedeva perché sarebbe
dovuto cambiare di punto in bianco proprio ora che era avanti con gli
anni. I fatti, poi, gli avevano dato ragione anche questa volta: il
ragazzo si era finalmente scosso dal suo torpore, stava solo a lui non
ricadere nel suo stucchevole stato di depressione.
Ma nessuno avrebbe compreso le proprie ragioni. Lo sapeva, era abituato
anche a questo, gli stava bene così. Genma sospettava che
non fosse ancora finita, lo strano sfogo di Ukyo e la convocazione di
Obaba lasciavano presagire qualcos’altro. Ma qualunque cosa
stesse succedendo non lo riguardava più; a nessuno,
tantomeno Nodoka, importava realmente di lui, e sapeva che era ora di
tornare nell’ombra. Dopo gli inevitabili
‘confronti’ dei primi giorni, tutti si sarebbero
gradualmente dimenticati del vecchio panda, come sempre.
Strinse le palpebre, cercando di mettere a fuoco la figura che
continuava a stagliarsi davanti a lui in assoluto silenzio. Cosa
ci fa ancora qui?
“Fossi in te tornerei lì dentro.” Disse.
“La vecchia sembrava sul punto di dire qualcosa di
importante.”
Soun sbuffò, avvicinandoglisi come per tenerlo sotto
controllo. “Le mie figlie mi informeranno, di qualunque cosa
si tratti… qualunque disastro tu abbia combinato con la tua
idea sconsiderata.” La sua voce, così misurata,
avrebbe perfino potuto ingannare uno che non lo conoscesse a fondo come
lui. E che non fosse in grado di avvertire la sua aura crescere
d’intensità. “C’è
una cosa più importante, che non è possibile
rimandare.”
Genma sollevò un sopracciglio. “E sarebbe? Mi
spiace avvisarti che non sono in vena di una chiacchierata.”
“Puoi stare tranquillo, Saotome.” Fu la replica
dell’amico di sempre, mentre assumeva la posa
d’attacco. “Adesso tu e io combatteremo.”
Ukyo sentì di nuovo le lacrime salirle agli occhi.
No, non era da lei, ma come avrebbe potuto reagire diversamente a
quella improvvisa sensazione di sollievo, a quel peso che le era stato
tolto dalla coscienza? Akane
è viva, pensò. La vecchia del
Nekohanten stava confermando ogni cosa, dunque quanto accaduto poco fa
non era un parto della sua immaginazione. Quel dialogo era reale. Akane
è viva, pensò, e tutto
si sistemerà.
“Credimi, ti capisco”, le aveva detto Akane nel
‘sogno’, “anch’io sono confusa
quanto te. Quando stanotte ho nuovamente sentito una voce… la tua voce
nella mia testa, credevo davvero di essere impazzita e ti ho urlato di
lasciarmi in pace. Poi il signor Saotome mi ha… ci ha
assalite e fatte addormentare, ed è stato in quel momento:
per la prima volta ho avvertito nitidamente la tua presenza.
È stato tutto così improvviso e violento, non
capivo e ho istintivamente cercato di ricordare, così senza
volerlo ho messo in moto i tuoi ricordi.”
“Va bene… almeno credo”, le aveva
risposto Ukyo, “ma l’ultimo ricordo che ho visto
non può essere mio, io non sono mai stata a Jusenkyo. Oppure
è…”
“Un ricordo che appartiene a me. Non volevi calmarti e
ascoltarmi, così ho cercato di darti una prova…
che è tutto vero, che non sono un tuo senso di
colpa.”
In quel preciso istante Ukyo si era svegliata, trovando di fronte a
sé lo sguardo rassicurante del dottor Tofu e quello
accusatore di Nabiki. Ma la voce di Akane non era cessata. E ancora
adesso la udiva nitidamente.
Sentendosi osservata da alcuni dei presenti, arrossì e si
scosse dai propri pensieri. Vide Obaba scostare Ranma da sé
con delicatezza, prima di riprendere a parlare. “La ragazza
vi ha detto la verità. Quando ha usato su di sé
l’acqua maledetta, non poteva sapere che Jusendo aveva
interferito con i suoi effetti.”
Tofu accennò: “Quindi, quella che Ranma ha visto,
che tutti noi abbiamo visto… non era semplicemente Ukyo con
le sembianze di Akane…”
“Vedete”, disse Obaba, “quando veniste al
Nekohanten la prima volta e mi raccontaste di come la fonte di Jusendo
avesse reidratato Akane, qualcosa non mi tornava. Vi avevo parlato
dell’immenso potere di quell’acqua, tale perfino da
preservare un corpo umano dagli effetti della morte. Proprio per questo
ero incredula che la ragazza non si fosse salvata, nonostante il
consorte avesse usato l’acqua in tempo. Infatti, quando Akane
ha chiuso gli occhi, la tamashii,
ovvero la parte senziente della sua anima, si è separata dal
corpo: ma ciò non comportava che non potesse farvi
ritorno.”
L’amazzone inclinò il capo. “Anzi,
appena il consorte ha curato il corpo con l’acqua di Jusendo,
il ricongiungimento sarebbe dovuto essere immediato. Pertanto, se
così non è stato, significa semplicemente che qualcosa l’ha
impedito.”
“La tamashii di
Akane aveva già trovato un’altra
dimora.” Concluse il dottore, annuendo.
“Già. La sorgente Akanenichuan.
Anche se la fonte è del tipo semplice, che copia solo
l’aspetto, il legame instaurato con lo spirito di lei che per
prima vi era stata immersa è bastato ad attirarlo a
sé nel momento stesso della separazione… e
imprigionarlo al suo interno. Pertanto, sì, potremmo dire
che sotto le sembianze di Akane c’era il corpo di Ukyo. Ma,
nel corpo di Ukyo, c’era la vera Akane.”
I presenti si alzarono dalle sedie, mentre quelli già in
piedi cercarono di dire qualcosa. Obaba li seppe zittire con una
semplice occhiata, tutti tranne uno.
“Perciò”, disse Ran-chan, con voce
incredibilmente calma, “esiste un modo
per far tornare Akane. Per esempio, se noi ora bagnassimo Ukyo con
l’acqua fredda…”
La cuoca di okonomiyaki si morse istintivamente le labbra, avvertendo
una stretta al cuore. Mi
ha chiamato Ukyo, non Ucchan, non riuscì a
impedirsi di pensare. È
arrabbiato con me per quello che gli ho fatto? Già, come
potrebbe non esserlo?!
Ma non era tipo da piangersi addosso, decisamente: si sarebbe fatta
perdonare, avrebbe guadagnato la propria redenzione agli occhi di
Ranma. A qualunque costo.
Obaba non aveva risposto subito. Il suo sguardo si era rabbuiato.
“Non è così semplice. Io…
devo dirvi ancora una cosa. L’effetto della fonte di Jusendo
sta per esaurirsi: precisamente ciò avverrà fra
poche ore, quando sorgerà l’alba. Passato quel
momento, non sarà più possibile fare
alcunché.”
“Allora sbrighiamoci!” Ranma batté un
pugno sul tavolo, con molta meno calma di prima. “Dopo tutto
quello che ci hai detto, non
può non
esserci una maniera per salvarla. Sputa il rospo,
vecchiaccia!”
L’amazzone sospirò.
“Un modo esiste. E, come ho detto, abbiamo tempo solo fino
all’alba per attuarlo. Ma il prezzo da pagare…
potrebbe essere troppo alto.”
Un prezzo da pagare. Ukyo si lasciò sfuggire un sorriso
amaro. Nulla poteva essere troppo alto, a suo modo di vedere, dopo
ciò che aveva passato.
“Parla!” disse, decisa. “Siamo pronti a
qualunque cosa.”
Obaba si voltò verso di lei, con uno sguardo indecifrabile.
“Solo tu”, mormorò. “Dipende
da te. Pensi veramente di essere disposta a tutto?”
In una frazione di secondo, Ukyo passò in rassegna i
sacrifici di un’intera esistenza. L’abbandono della
propria femminilità, la rinuncia a una vita normale. I duri
allenamenti, gli innumerevoli momenti di sconforto. Le promesse non
mantenute, le vendette accantonate. L’orgoglio calpestato.
“Non lo penso. Lo sono.” Rispose, sentendosi
più sincera di quanto mai fosse stata.
La vecchia annuì.
“Ebbene, affinché Akane possa tornare in
vita… tu, Ukyo Kuonji, dovrai morire.”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Accettazione ***
Capitolo 11
“Accettazione”
Che cos’era la felicità?
Se l’era chiesto parecchie volte, ma non aveva mai saputo
trovare una risposta.
La felicità era qualcosa con cui non aveva a che fare da
tanti, troppi anni. Gli unici ricordi capaci di scaldargli il cuore
riguardavano i suoi veri genitori e il bene che gli volevano; ma, per
quanti sforzi avesse fatto per conservare gelosamente quelle memorie
nello scrigno del proprio cuore, anch’esse si erano ormai
ridotte a delle macchie vaghe e confuse, travolte da ondate incessanti
di sofferenza e di stenti, di soprusi e di dispetti.
La matrigna e le sorellastre avevano reso la sua vita un inferno e,
poco per volta, Konatsu si era convinto che le cose dovessero andare
in questo modo, che lui se lo fosse meritato per qualche motivo,
probabilmente per essersi comportato male. D’altronde mamma e
papà se n’erano andati, lo avevano abbandonato e,
se davvero almeno loro gli avevano voluto bene, doveva per forza essere
colpa sua: era lui a non essersi meritato quell’amore.
Pertanto come poteva definirla, se non in negativo? La
felicità, semplicemente, era qualcosa a cui Konatsu non era
destinato.
O almeno di questo era stato fermamente convinto fino a qualche tempo
fa, quando aveva conosciuto la signorina Ukyo. Lei lo aveva strappato
dalla terribile prigione familiare, dalle angherie della matrigna e
dalle cattiverie di Koume e Koeda. Lei gli aveva offerto una nuova
prospettiva di vita, una
possibilità. E poi…
Poi, anche quel mondo era andato in frantumi, senza preavviso. Era
stato tutto così veloce: la visita del padre del signor
Ranma, la reazione sconvolta della signorina Ukyo. Ogni speranza di
felicità si era dissolta, di nuovo.
Tuttavia Konatsu ne aveva avuto un assaggio e il sapore non era
sbiadito, stavolta, ma vivo e pungente: così adesso
rinunciarvi era perfino più doloroso.
“Solo tu. Dipende da te. Pensi veramente di essere disposta a
tutto?”
“Non lo penso. Lo sono.”
“Ebbene, affinché Akane possa tornare in
vita… tu, Ukyo Kuonji, dovrai morire.”
A quelle parole il cuore gli si era spezzato in due.
Quando aveva accettato la proposta della signorina Nabiki,
l’aveva fatto abbandonando ogni esitazione, convinto che non
rimanesse nulla da perdere, senza la minima idea che la situazione
potesse addirittura peggiorare: ora non poteva fare a meno di dirsi
di aver contribuito in prima persona a quel disastro.
Però… Non era di certo sua intenzione, eppure un
pensiero, ormai ricorrente in quei giorni e sicuramente il
più egoistico e arrogante che avesse mai elaborato, che il
cielo avesse pietà di lui per questo, si fece di nuovo
strada. Konatsu, diversamente dal solito, lasciò la sua
mente libera di scandire ogni singola parola.
Non voglio perdere tutto un’altra volta.
“Non lo faccia!” Gridò, scoprendo solo
allora di aver già brandito da diversi secondi il proprio kunai,
l’unica arma che era riuscito a disimpegnare nelle ultime
settimane con lo stipendio guadagnato all’Ucchan, e
avvertendo un inedito sentimento di rabbia scorrere nelle proprie vene.
Ranma non poteva quasi credere ai propri occhi.
“Konatsu…” Si limitò a
mormorare Ucchan, sorpresa almeno quanto lui.
Il kunoichi aveva puntato un pugnale in direzione della vecchia e
assunto la posizione di combattimento, badando nel contempo a fare
scudo alla padroncina con il proprio corpo. “Mi
perdoni… perdonatemi tutti, ma io non posso permetterlo! Chi
vorrà anche solo avvicinarsi alla signorina Ukyo
dovrà passare sul mio cadavere!”
Questa frase lo spiazzò ancora di più, portandolo
quasi a dimenticare le parole precedenti dell’amazzone. Non
ebbe nemmeno il tempo di considerare la reale portata degli ultimi
eventi, che scorse Obaba avvicinarsi ai due, incurante e minacciosa al
tempo stesso.
“Interessante… saresti disposto a tanto, pur
sapendo che potrei prenderti alla lettera?” Con un giro del
bastone, tanto rapido che Ranma stesso fu appena in grado di
intravedere il movimento, la vecchia colpì la mano di
Konatsu, disarmandolo. “Kunoichi di grande talento o no, con
me non avresti alcuna speranza.” Sibilò.
Il legno si spostò ancora, arrestandosi a uno spazio
infinitesimale dal collo del ragazzo, teso come una lama affilata. E
forse altrettanto pericoloso, nelle mani di Obaba.
Il kunoichi però non si mosse di un muscolo, lasciandosi
fissare negli occhi senza distogliere lo sguardo nemmeno per un
momento. Se la vecchia non intendeva fare sul serio, cosa di cui Ranma
non era nemmeno troppo sicuro, non nutriva invece alcun dubbio che
Konatsu non stesse scherzando affatto e che all’occorrenza
sarebbe stato capace perfino di immolarsi.
E gli altri? Nessuno diceva qualcosa? Nabiki? Tofu? Mousse? Si stavano
limitando a fissare la scena, come impietriti. Come lui. Non andava
affatto bene.
La tensione crescente spinse Ranma a scuotersi e a pararsi lui stesso
davanti alla vecchia. Le gambe gli vacillarono appena, ricordandogli la
stanchezza che aveva in corpo, ma provò a non darlo a vedere
esibendo un tono aggressivo.
“Basta, Obaba! Si può sapere che ti passa per la
zucca?! Cosa diamine vorresti fare?” La domanda era meno
articolata di quanto intendesse, ma non era casuale. Non aveva creduto
nemmeno per un istante a quella specie di minaccia di morte rivolta a
Ucchan, ma voleva assolutamente comprendere quale fosse, ora, il nuovo
gioco di quella cariatide pluricentenaria.
La vecchia non s’indispettì, come si aspettava. Al
contrario, abbassò finalmente il bastone e
indietreggiò addirittura di qualche passo.
“Io nulla.” Borbottò, ridacchiando con
un tono che non aveva nulla di divertito. “La scelta
è di Ukyo, solo lei può decidere se salvare
Akane… e pagarne il prezzo.”
Ancora con questa storia? Il fatto stesso che Obaba prospettasse un
modo per salvare Akane, quando fino a cinque minuti prima non scorgeva
alcuna speranza, infondeva a Ranma un nuovo vigore, ma gli
bastò udire la parola ‘prezzo’ per
ricordare il resto e lasciare che un brivido gli percorresse la spina
dorsale.
“Spiegati con parole comprensibili.”
Sibilò.
L’interlocutrice annuì, senza mutare la propria
espressione.
“È per via dell’Akanenichuan.
Vi ho detto che la sorgente ha attirato a sé la tamashii,
ovvero la parte senziente dell’anima di Akane: pertanto,
quando Ukyo si è versata quell’acqua, il liquido
ha fatto da tramite e la tamashii è
ora nel suo corpo.”
“Un… un momento, non capisco.”
S’intromise una nuova voce. Era quella di Nabiki, priva
però della saccenza di qualche minuto prima. Anzi gli parve
che avesse perfino fissato per un attimo Kasumi, prima di proseguire,
ma doveva aver visto male. “Se è come dici,
ciò varrebbe anche per tutte le altre persone che cadranno
nella sorgente. Anzi, quella Kima di cui parlavate poco fa non vi si era già immersa?
Non avevate detto proprio così? E dunque perché a
lei non è successa una cosa simile?”
“Questo lo posso spiegare io.” Fu Mousse a prendere
la parola. “Kima ha usato le sembianze di Akane Tendo prima che la
vera Akane fosse ridotta in fin di vita e bagnata con l’acqua
miracolosa di Jusendo. Non ha fatto uso della trasformazione durante la
battaglia finale, né vedo perché avrebbe dovuto
farlo dopo.”
“Tra l’altro”, puntualizzò
Obaba, “la guida delle Sorgenti Maledette mi ha raccontato al
telefono che la stessa Kima, successivamente alla partenza del consorte
e degli altri, è tornata a Jusenkyo e si è
bagnata di nuovo nella Niannichuan neutralizzando
gli effetti della fonte di Akane. Chiaramente non aveva più
interesse a ottenere quell’aspetto, terminate le
ostilità. Inoltre…”
La vecchia esitò, come imbarazzata. Ranma la
invitò con lo sguardo a proseguire. “Diciamo che
ho… chiesto alla guida di fare una
prova… usare l’acqua della fonte su una
cavia a sua scelta. Lui ha preso un coniglietto che apparteneva a sua
figlia, dopodiché vi ha versato con un mestolo
l’acqua dell’Akanenichuan. Da
quel che mi ha riferito nemmeno un paio d’ore fa, il coniglio
è rimasto un semplice coniglio.”
“L’acqua di quella sorgente è diventata
semplice acqua.” Disse Tofu, più riflettendo a
voce alta che rivolto a qualcuno in particolare.
“Perciò è confermato”,
concluse la vecchia, “adesso l’anima di Akane
dimora nel corpo di Ukyo.”
Nabiki alzò un sopracciglio. “E il riferimento
all’alba? Cosa c’è di speciale in questa
notte?”
“Si tratta di una notte di novilunio. È trascorso
un ciclo lunare esatto dall’utilizzo dell’acqua di
Jusendo, che finora ha preservato il corpo di Akane. La guida mi ha
spiegato che all’alba perderà il suo effetto, e
l’idratazione si arresterà: in quel momento il
corpo diverrà inservibile e l’anima non
avrà più la possibilità, nemmeno
teorica, di farvi ritorno… e perciò, a quel
punto, la sua dimora attuale diventerà definitiva.”
La vecchia tornò a dirigere lo sguardo verso Ucchan,
spingendolo a fare altrettanto.
Konatsu non si era mosso di un millimetro dalla sua posizione, come se
non avesse udito alcuna parola, e probabilmente doveva essere proprio
così. Nei suoi occhi Ranma poteva leggere una determinazione
che una sola volta vi aveva scorto, molto tempo prima, quando il
kunoichi era stato drogato dalla matrigna e dalle sorellastre
affinché combattesse contro di lui al livello estremo del
suo spirito combattivo.
In questo momento, gli parve che fosse altrettanto estraniato dalla
realtà.
“Fammi passare, Konatsu.”
Ukyo pose una mano sulla spalla del ninja, che sussultò,
lasciando cadere la propria maschera e rivelando la consueta
espressione gentile e preoccupata. Senza dare l’impressione
di essersene accorta, lo superò e domandò a
Obaba: “Se all’alba l’anima di Akane
sarà ancora dentro di me… io morirò?
Intendevi dire questo, prima?”
“Signorina Ukyo…” Iniziò
Konatsu.
“Va tutto bene”, lo zittì lei,
accennando un sorriso, “stiamo solo parlando.”
Obaba annuì. “Scommetto che inizialmente non avevi
la minima idea di cosa avvenisse quando tu eri trasformata in Akane,
ciò poiché la sua tamashii prendeva
il sopravvento, facendoti perdere la coscienza di te stessa. Quando ti
bagnavi con l’acqua fredda, rimaneva solo Akane. Ma ti sarai
sicuramente accorta che questo avviene sempre meno, che cominciate a
percepire le vostre presenze a vicenda: ciò
perché le vostre anime sono in conflitto. Perciò,
se al sorgere del sole tu avrai le sue sembianze…
l’anima di Akane non potrà più fare
ritorno nel suo corpo e occuperà definitivamente il tuo. In
poche parole la trasformazione sarà irreversibile,
l’acqua fredda e l’acqua calda non potranno mutare
la situazione. Resterà soltanto lei, mentre tu non potrai
mai più riprendere coscienza. Akane sarà salva,
ma tu…”
La frase non continuò e la sala si riempì di
silenzio.
Tutto ciò che Ranma avvertiva era il battito accelerato del
proprio cuore.
Aveva sempre avuto ragione, il proprio istinto non si era sbagliato.
L’Akane che aveva visto e sentito, con cui aveva parlato, era
la vera Akane, il suo maschiaccio violento. E una maniera per salvarla
esisteva, doveva esistere, eppure… come poteva essere questa l’unica
soluzione? Come si sarebbe potuto chiedere a Ucchan… a
qualunque persona, perfino… perfino al vecchiaccio, un
sacrificio del genere?
Alzò lo sguardo verso di lei, solo per scoprire che lo stava
fissando a sua volta in modo ansioso. Quasi implorante. Non poteva
sbagliarsi, Ucchan stava guardando proprio lui. Come mai? Aveva forse
paura che le avrebbe chiesto di sacrificarsi, lo credeva esaurito fino
a questo punto? No, piuttosto… lei per caso voleva che
glielo chiedesse?
Ucchan sospirò rumorosamente, interrompendo il contatto
visivo, poi chiese alla vecchia: “Se invece
rimarrò me stessa, cosa succederà ad
Akane?”
“In quel caso”, rispose, “sarà
la tua tamashii a
prevalere, una volta per sempre, e nemmeno in questo caso
l’acqua fredda servirà più a qualcosa.
Non c’è una terza scelta.” Obaba scosse
lentamente il capo e scese dal tavolo, inerpicandosi sul suo bastone.
“L’alba è vicina, ma hai ancora,
pressappoco, un paio d’ore di tempo per decidere. Quel che
avevo da dire l’ho detto, adesso conviene a tutti voi
rifletterci sopra. Torno subito.”
Si avviò verso la cucina, a rapidi balzi. Improvvisamente si
arrestò, si voltò e scorse con lo sguardo i
presenti, come alla ricerca di qualcuno. Ranma stava già
facendosi avanti quando, con sua sorpresa, la vecchia chiamò
a sé Kasumi.
Sebbene avesse preannunciato chiaramente il suo attacco, scagliandosi
contro di lui con un affondo in corsa, Genma sembrò non aver
intuito le sue intenzioni fino all’ultimo momento, tanto che
schivò il colpo per un soffio. Soun si girò di
nuovo, le spalle rivolte alla parete posteriore del Nekohanten, accanto
alla porta di servizio, così da potergli almeno chiudere la
via di fuga e incrociare il suo sguardo.
“Te… Tendo! Si può sapere che ti salta
in mente?!” Gridò l’altro, tra
l’incredulo e lo spaventato.
“Te l’ho detto prima, Saotome. Stiamo
combattendo.”
Attaccò ancora con un calcio volante, che questa volta Genma
scansò con maggiore prontezza per poi pararsi di fronte a
lui e tentare una contromossa. Soun si portò indietro con
una capriola e aumentò la distanza, coprendo il fianco.
Genma ridacchiò sgraziatamente. “Suvvia, non hai
cuore… non sono nemmeno nelle condizioni di difendermi,
senza i miei occhiali non vedo un tubo!”
Soun scosse il capo. “La tua miopia non è così acuta.
Ricordo il giorno in cui cominciasti a portare le lenti,
così come ricordo la tua aria tronfia mentre mi spiegavi che
nessun artista marziale avrebbe osato attaccare al massimo delle
proprie forze un avversario che indossava gli occhiali… Una
delle tue prime e innumerevoli ‘tecniche’, no?
Com’è che l’avevi chiamata? Mossa
della pietà della talpa?”
“Ah ah ah! Era andata così?”
Domandò quello stupido, grattandosi il capo.
“Proprio non capisci… non c’è
niente da ridere!” Soun si riportò in avanti,
convogliando rapidamente tutta l’ansia, la preoccupazione e
il dolore che aveva provato nelle ultime ore. Un paio di secondi furono
sufficienti a convergere e rilasciare attorno al proprio corpo una
discreta quantità di aura combattiva. Il pugno che ne
scaturì mancò quel disonorato per una frazione di
secondo, andando invece a spaccare in due parti uno dei numerosi secchi
dell’immondizia.
Il fracasso che ne conseguì confuse per qualche secondo i
suoi sensi. Improvvisamente Soun vide tutto nero, e non si trattava
dello scenario notturno. Avvertiva la frustrazione premere da ogni
viscera del suo corpo, e si sentiva sporco almeno quanto il compagno di
gioventù. Non poteva permettere che tutto finisse
così, doveva perseverare, ripulirsi.
Ma Saotome che fine aveva fatto?
Guardò davanti a lui, poi a sinistra e a destra. Niente.
“Prova qui in alto, Tendo.”
Alzò lo sguardo, per avvistare Genma che planava a
mezz’aria, pronto al contrattacco. Cercò di
elaborare una qualche strategia, prima che gli fosse addosso, ma il
colpo arrivò prima che riuscisse a disporsi diligentemente
in posizione difensiva. Crollò a terra e rotolò
immediatamente su se stesso, cercando di ignorare il dolore, per
ammortizzare lo svantaggio. Recuperò una posizione eretta
nel più breve tempo che gli fosse stato possibile, sperando
di cogliere di sorpresa quel farabutto, ma il nuovo pugno smosse
solamente una manciata d’aria, mentre un paio di costole lo
informarono nuovamente, e con maggiore convinzione, dei danni che aveva
ricevuto.
Strinse i denti e s’impose di concentrarsi. Questa volta
sapeva dove guardare e, infatti, non fu sorpreso di avvistare Saotome
appollaiato come una scimmia sopra il muretto che dava alla strada.
“Certe cose”, disse ad alta voce, non nascondendo
una punta di disgusto, “non cambiano mai.”
“Dovresti saperlo che il combattimento volante è
la specialità della scuola Saotome.” Gli rispose
l’altro, come se fosse stato appena inorgoglito da un
complimento.
“L’unica tua specialità, dal primo
giorno che ricordo, è la codardia.”
Genma bofonchiò, finalmente irritato.
“Anche tu sei rimasto lo stesso di un tempo, quando ti lasci
trascinare dall’ira è fin troppo facile
affrontarti.” Replicò. “Sei tale e quale
a quello sbarbatello di buona famiglia, pieno di sé,
convintissimo che sarebbe diventato il più forte artista
marziale del mondo solo perché, a suo dire, incarnava i
più alti valori di rettitudine,
probità… e altre fesserie che non finivi di
decantare un solo istante. A quell’epoca, i tuoi avversari li
sconfiggevi a forza di sbadigli.”
“Non hai tutti i torti.” Ammise Soun.
“Effettivamente agli inizi ero un po’
ingenuo… poi, però, sono cambiato. Ho smesso di
credere a quelle cose, ho dovuto, dopo averti incontrato.”
“Sembra che tu me ne faccia una colpa. Dovresti ringraziarmi,
ti serviva qualcuno che ti mostrasse come va davvero il mondo. Lo sai a
cosa mi riferisco, no? Niente ideali, nessuna
pietà.”
“Ricordo bene il tuo motto.” In rapida successione,
diverse immagini del passato ripresero vita davanti a Soun.
Sentì su di sé il peso degli allenamenti e dei
digiuni, le immani fatiche affrontate per conquistarsi
l’attenzione dei suoi primi maestri. La superbia che gli
aveva ottenebrato la mente, mentre si accingeva a combattere per la
prima volta contro uno degli altri pretendenti, un ragazzotto dagli
abiti trasandati che non dava affatto l’aria di un grosso
ostacolo. La sorpresa e la frustrazione della prima sconfitta, per mano
di quello stesso straccione. L’indignazione, nella
consapevolezza di essere stato battuto con mezzi poco ortodossi. La
rivalità, la competizione. L’infinità
di scontri e di confronti che ne era seguita.
E poi il lento mutare di quei sentimenti, il loro sfociare, poco a
poco, nel reciproco rispetto, nella mutua considerazione del proprio
rispettivo valore. Nell’amicizia.
No, oggi non era ‘tale e quale a quello
sbarbatello’. Era cambiato, profondamente, e non sempre in
meglio. Se avesse potuto, sarebbe tornato indietro per non fare certe
scelte? Fino a quella notte pensava di no, che nulla potesse valere
ciò che aveva ricevuto, in cambio dell’essere
sceso a qualche compromesso con i valori in cui credeva.
Ma ora…
Un moto di rabbia s’impadronì nuovamente di lui,
facendo vacillare l’autocontrollo che si era imposto. Soun ne
fu subito cosciente, ma assecondò il proprio corpo ed
espanse l’aura, lasciandosi guidare dalla propria
indignazione e decidendo che, per una volta, non si sarebbe preoccupato
delle conseguenze.
Genma era ancora accovacciato nella posizione di prima, con aria
visibilmente scossa. Pallido come uno strofinaccio, sembrava come
paralizzato e impossibilitato alla fuga. Forse finalmente aveva
compreso.
Ma ora è troppo tardi.
Nabiki porse alla sorella anche l’ultima tazza e si
voltò ancora in direzione della porta che dava sul retro,
domandandosi se avessero fatto bene a seguire il consiglio della
vecchia.
“Lasciate pure che si sfoghino.” Aveva detto loro
con aria disinteressata, nonostante il fracasso che avevano appena
sentito provenire dall’esterno. “Quei due devono
chiaramente risolvere delle questioni personali… e le loro
faccende private, adesso, non ci riguardano.” Piuttosto si
era rivolta di nuovo a Kasumi, chiedendole di preparare del
tè per tutti: la notte non era finita e bisognava mantenersi
lucidi, in un momento simile.
Infine aveva additato lei stessa, e per un momento Nabiki credette di
aver contraddetto Cologne di Joketsuzoku almeno una volta di troppo,
negli ultimi minuti, salvo sentirsi poi domandare con fare del tutto
innocuo se potesse dare una mano alla sorella maggiore, mentre la
vecchia tornava nella sala grande con gli altri. “Di
là c’è ancora bisogno di me”,
si era quasi scusata,
“e l’assenza della mia bisnipote si fa sentire.
Chiedere a quell’imbranato di Mousse di preparare del
tè, poi, è del tutto fuori discussione.”
Nabiki l’aveva lasciata fare. Chiaramente Obaba non la voleva
più tra i piedi e, in un certo senso, poteva anche
comprenderla. Ma non per questo era ancora incline a fidarsi delle
ultime rivelazioni.
L’Akane incontrata due volte da Ranma non era altri che Ukyo
trasformata dall’acqua della sorgente di Jusenkyo, e fin qui
bene. Però, nel corpo di Ucchan sotto la trasformazione, a
detta di Obaba, risiedeva l’anima della vera Akane. Se
davvero fosse stato così, in questo momento la sua sorellina
sarebbe stata viva e vegeta, e nella stanza accanto. Le sarebbe bastato
aprire la porta, versare su Ukyo dell’acqua, niente di
più.
“…me li puoi prendere?”
“Come?” Replicò confusa.
Kasumi non alterò minimamente il tono della voce.
“Ti ho chiesto se puoi passarmi i tovaglioli, dovrebbero
essere in una di quelle credenze.” Concluse, indicandole la
direzione.
“Certamente.” Nabiki non seppe nemmeno dire se
avesse davvero parlato, o soltanto pensato tra sé la
risposta. Provò a nascondere il proprio fastidio e si mise
alla ricerca, senza troppa fretta. Anche in casa, si era sempre tenuta
per quanto possibile alla larga dalla cucina, limitando il proprio
contributo a cose semplici come scaldare l’acqua. Forse Obaba
aveva incaricato lei, e non la signora Nodoka, di assistere Kasumi in
cucina semplicemente per farle dispetto.
Tutto sommato, considerò che un po’ di
tè avrebbe fatto piacere pure a lei, anche se avrebbe
preferito qualcosa di più forte. L’adrenalina da
cui si era sentita pervadere fino a pochi minuti prima era un pallido
ricordo e aveva lasciato il posto a un poco di emicrania,
così stava faticando perfino a pensare coerentemente.
Ma dove diamine si erano cacciati quegli stupidi tovaglioli?
Aprì l’ennesimo scomparto, ancora senza successo.
Scostò con malagrazia diversi barattoli di spezie, nella
speranza di vederli uscire allo scoperto, ma, fallito anche questo
tentativo, accennò a sbattere con violenza lo sportello.
Una mano la afferrò per il polso, fermandola.
“Le cose devono andare esattamente come vuoi tu, vero?
È difficile che non sia così. Però,
quando eccezionalmente ciò avviene, non sai più
come affrontare l’ostacolo.”
Non c’era rimprovero, nella voce. E nessuna
ostilità. Eppure, Nabiki si sentì come un ladro
colto in flagrante.
“Kasumi…”
E di colpo tutto assunse una chiarezza disarmante. Cosa le stava
succedendo? Come aveva potuto permettere a se stessa di lasciarsi
dominare dalle emozioni fino a questo punto? Non era lei quella, non la
persona che si era imposta di essere.
La prolungata mancanza di sonno doveva averle giocato davvero un brutto
scherzo, per averle fatto perdere così facilmente la propria
freddezza, la propria lucidità, e ciò ormai da
diverse ore. Questa notte si era comportata in modo più
incosciente di Ranma e Akane messi insieme, e doveva proprio
ringraziare i kami se
Obaba non l’aveva ancora scaraventata dall’altra
parte di Nerima per la sua sfacciataggine…
Nabiki recuperò la propria compostezza e sorrise alla
sorella. “Grazie. Non so cosa mi sia preso.
Dev’essere uno shock, per te, vedermi in questo
stato.”
Kasumi ricambiò il sorriso.
“Non proprio. Sai… mi ricordo un’altra
volta come questa.”
Non si aspettava una risposta simile. Nabiki alzò un
sopracciglio e la invitò, con lo sguardo, a proseguire.
“Fu quando la mamma ci lasciò.” Kasumi
poggiò delicatamente una mano sulla sua spalla.
“Papà non ebbe la forza di darci la triste notizia
e ci raccontò che era dovuta andare in un luogo lontano. Io
avevo capito, ma tu e Akane eravate ancora troppo piccole, o almeno
così pensavo.”
S’irrigidì leggermente, e Kasumi dovette averlo
notato, perché a sua volta accentuò un poco la
stretta.
“Akane si era intestardita ad aspettare il ritorno della
mamma, perfino attendendola fino a sera davanti la porta di casa. E
tu… avevi fatto altrettanto, almeno fin quando, un giorno,
credo che la verità fosse divenuta chiara anche a te. E non
lo sopportasti. Non sopportasti il fatto che la morte di nostra madre
ti fosse stata tenuta nascosta, che ti fosse stata fatta credere una
menzogna. Soffristi, non solo per la perdita, ma anche per tutta la
speranza che avevi riposto inutilmente per tanto tempo. Mi dispiacque
tantissimo, allora, di averti ingannato anch’io, ma non
sapevo come scusarmi… e non ti dissi assolutamente niente, e
ancora oggi non so perdonarmelo... Scusami, sorellina.” Le
ultime parole furono pronunciate con la voce rotta
dall’emozione. Kasumi la abbracciò forte e lei si
lasciò abbracciare, avvertendo il calore della sorella e
qualcos’altro.
Quante altre volte sarebbe stata colta alla sprovvista quella notte?
Dal punto di vista di Nabiki, uno sfogo simile da parte della sorella
maggiore era più inatteso perfino delle parole della
vecchia. Ma sapeva anche cosa Kasumi avesse davvero sottinteso, con
quel discorso. Forse… adesso lei era nella stessa situazione
di allora. Aveva paura di credere in un possibile miracolo, non voleva
illudersi riguardo una persona cara e rimanere delusa di nuovo.
Era così chiaro, ora. Se non aveva ancora varcato la soglia
e bagnato Ukyo con dell’acqua fredda, era solo
perché ne aveva paura. Non fidarsi era più
facile, molto più facile, e le permetteva di mantenere il
controllo della situazione. Ma finalmente comprendeva cosa fosse giusto
e, anche se ciò l’avrebbe resa vulnerabile per la
prima volta dopo tanti anni, decise che avrebbe corso il rischio.
Dopotutto non aveva mai perso una scommessa.
“Va tutto bene.” Disse, ricambiando la stretta di
Kasumi. Poi pensò che fosse ormai il caso di scoprire le
carte. “A proposito, i tovaglioli che mi avevi chiesto di
cercare non sono per caso quelli che stai tenendo in mano? Non ti
facevo così distratta… a meno che tu non sia
più simile a me di quanto credessi.” Due
a zero per te, sorellina. Aggiunse tra sé,
divertita, ripensando all’altra notte.
“Oh cielo.” Kasumi si asciugò una
lacrima e si lasciò sfuggire un lieve sorriso.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** Scelta ***
Due
parole prima di cominciare. Volevo scusarmi per il ritardo con cui ho
risposto ad alcuni commenti o messaggi privati qui su EFP, dovuto
semplicemente al fatto che nelle ultime settimane non sono praticamente
passato mai per il sito. A tale proposito per chi fosse interessato,
anche a contattarmi più rapidamente, ho creato un piccolo
gruppo facebook su questa fanfiction (e le prossime che
pubblicherò) al seguente indirizzo:
https://www.facebook.com/groups/124540564387546/
E
ora la buona notizia: ho terminato di scrivere la fanfiction, sto dando giusto i ritocchi finali. ^__^ Siamo
in dirittura d’arrivo, e gli ultimi capitoli saranno postati
a intervalli regolari di tempo. Come sempre, un grazie a chi segue questa storia e un grazie altrettanto grande a una beta d'eccezione come Tiger eyes! Buona lettura!
Nei
capitoli precedenti.
Il piano di Genma e Ukyo, consistente nel bagnare
quest’ultima con l’acqua della fonte Akanenichuan e
darle le sembianze di Akane in modo che la falsa fidanzata potesse
parlare con Ranma e riportarlo alla ragione, ha provocato ben altre
conseguenze. Il gruppo di Nerima, riunito al Nekohanten, ha appreso da
poco che la vera Akane è ancora viva dentro il corpo di
Ukyo, ma che entro l’alba inevitabilmente una delle due
ragazze morirà…
Capitolo
12
“Scelta”
“Non
vorrai farlo davvero...”
Ignorò
le parole dell’interlocutrice e cercò di guardare
da un’altra parte. Ma non era affatto facile, il luogo in cui
si trovava non aveva dei confini e delle direzioni distinguibili: il
miglior paragone che le sovveniva era quello con una spessa coltre di
nebbia, e di fatto non scorgeva alcun panorama che avrebbe potuto
definire con certezza un’altra
parte.
“Mi
stai ascoltando?! Non pensarci nemmeno!”
Niente
da fare. Dovunque si voltasse le ricompariva di fronte: lei
sì, perfettamente riconoscibile come se fosse stata sotto un
riflettore. Ukyo provò a serrare le palpebre, ma perfino
così facendo il volto turbato di Akane continuava a
presentarsi alla sua vista.
Sbuffò,
con fare stanco e sconfitto. Forse era logico che non riuscisse a
sfuggirle, dato che ora convivevano nello stesso corpo.
“Infatti
non ci sto pensando.” Disse, cercando di controllarsi.
“Se sei ancora in grado di giocare con la mia mente come hai
fatto poco fa, dovresti sapere che la decisione l’ho
già presa.” Sollevò il capo, come per
scrollarsi di dosso qualcosa di fastidioso. “Mi
bagnerò con l’acqua fredda e poi sarà
quel che sarà.”
Ecco
fatto. Che ci voleva? Averlo pensato, prima, era stato così
semplice. E adesso lo era stato anche dirlo. Non ci voleva poi molto.
Akane
le afferrò il polso costringendola a guardarla dritta negli
occhi. La sua espressione, visibilmente alterata, le diede
l’idea che per qualche motivo non avesse gradito la propria
replica.
“Se
tu lo farai, ogni volta che tu lo farai, io mi verserò
dell’acqua calda. È chiaro?!”
Esclamò determinata. “Non ci tengo a morire,
certo, ma non ti permetterò nemmeno di sacrificarti per
me!”
Ukyo
fissò incredula la propria interlocutrice per qualche
istante, finché non fu del tutto sicura di aver udito bene.
Dunque era davvero questo che pensava? Questo?! Indubbiamente si
trattava della vera Akane, la stessa ragazza ingenua che ricordava.
Non
riuscì a trattenere una risata di scherno, e la minore delle
Tendo non sembrò apprezzare nemmeno quella.
“Ora
che ti prende? Sei impazzita?!”
E
poi Ukyo sorrise, stavolta con un gesto pregno di amarezza, di fronte
alla confusione dell’altra fidanzata. “Sei tu che
non comprendi. Pensi che voglia sacrificarmi per
te?
Dare la mia vita per gettarti tra le braccia di Ranma in modo che
possiate vivere felici e spensierati il vostro lieto fine? Ah, mi
spiace tanto, ma non sono questa santa che credi!”
Sono
tale e quale al padre di Ranma,
continuò in silenzio. Ma ad alta voce disse: “Io
sono l’imperfetta Ukyo Kuonji dell’okonomiyaki.
Sono un’egoista e l’unica cosa che mi
interessa… sottolineo l’unica…
è riavere indietro il Ranma determinato, che non si
dà mai per vinto, il Ranma che conoscevo.” Il
‘mio’ Ranma avrebbe voluto concludere, ma al
momento non si sentiva in grado di fare una simile affermazione.
“E se questo è il prezzo…”
Si
arrestò, per vedere la ragazza di fronte a sé
scuotere lentamente la testa. “E pensi… tu pensi
forse che veder morire la sua amica d’infanzia davanti ai
propri occhi lo farebbe star meglio? Non puoi credere una cosa
simile.” Mormorò.
“So
che mi… vuole bene.” Replicò Ukyo. O
almeno spero che me ne voglia ancora.
“Ma sono anche certa che lo supererà, con il
tempo. La tua perdita invece… non riesce, non
può, non vuole, perché Ranma ti ama. Ama te. Lo
capisci questo?”
La
confessione fece trasalire Ukyo stessa mentre la proferiva, ma non
aveva in alcun modo potuto trattenere le parole dentro di
sé. E poi i ricordi, non suoi, di Jusendo
l’avevano definitivamente confermato: era Akane il punto
debole di Ranma, Akane la sua vulnerabilità. E per quanto
questa verità le facesse male, ancora di meno poteva
sopportare l’ottusità di quella ragazza di fronte
alla… fortuna… sì, alla fortuna che
le era stata riservata. Nessuna promessa tradita, nessuna vendetta da
portare avanti. Soltanto un amore ricambiato.
Fissò
attentamente la giovane Tendo, che aveva almeno avuto la decenza di
arrossire.
“Ukyo…
sei chiaramente sconvolta. Ascolta...”
“No,
tu ascolta me!” Replicò, sorpresa dalla rabbia che
tutto d’un tratto le stava ribollendo in corpo. “Ci
ho provato, sai, ho provato in tutti i modi a far sì che
smettesse di soffrire per te! Ho dato tutta me stessa, sono stata al
suo fianco nel momento più difficile, ma non è
servito a nulla… a malapena si accorgeva della mia presenza!
Non avrei mai voluto mettere in atto la messinscena del suo vecchio, ho
cercato di evitarlo fino all’ultimo istante, almeno
finché ho compreso che ‘la piccola Ukyo’
non avrebbe mai potuto riempire quello spazio vuoto. Però
adesso…”, sentì la sua stessa voce
ridursi a un leggero sussurro, “adesso, forse, finalmente
potrò…”
“Immolarti?”
Finì per lei Akane. “Ti senti in colpa, lo so
perché ho avvertito tutta la tua angoscia, prima. Vuoi
rimediare in qualche modo, e lo capisco, ma sono stata io a mettere in
gioco la mia vita. Sapevo il rischio che stavo correndo
quand’ero in Cina, quando ho deciso di non restarmene in
disparte con la guida ma di prendere l’iniziativa, di cercare
di aiutare Ranma. Lo sento anche adesso, e sento che, in fondo, provi
paura… e anch’io ne ho. Tanta. Per questo dobbiamo
trovare un altro modo!”
“Una
soluzione diversa non esiste, hai ascoltato anche tu Obaba!”
Ribatté Ukyo. “E poi non si tratta di te, te
l’ho detto. Non puoi fare questo torto… non solo a
lui, intendo, ma anche alla tua famiglia.” Disse, pensando al
volto tetro di Kasumi e a quello esasperato della stessa Nabiki.
“Hai idea di quante persone tengano a te?”
Al
contrario di me, completò amaramente. Io ci ho provato,
pensò, in tutti i modi. Non ho nessuno, ho vissuto sempre in
solitudine. Ranma è tutto quel che potevo avere,
l’avevo perso per poi ritrovarlo. Ho cercato di esserci per
lui in questo momento tanto difficile. Ma la mia presenza, in fin dei
conti, non fa alcuna differenza.
E
Ukyo sussultò. Si era ricordata, improvvisamente, che nulla
poteva più essere nascosto tra loro. Ne dedusse che Akane le
aveva appena letto ciascuna di quelle ferite che riponeva nel cuore, e
sentì il desiderio di scappare via come una scolaretta piena
di vergogna.
Ma
non poteva sfuggirle, già. Non le rimaneva che recitare fino
in fondo la parte di Ukyo il maschiaccio caparbio e orgoglioso e
guardarla dritto negli occhi. Fu allora che con sorpresa si accorse che
quelli di Akane erano lucidi.
Ukyo
non voleva sentirsi dire parole di conforto, di circostanza. Non le
avrebbe sopportate. Ma non ricevette nulla di simile: Akane non
aprì bocca, non disse nulla, eppure le rispose lo stesso, in
qualche modo, che no, non era sola, nemmeno lei. C’era
Konatsu, certo, ma non si stava riferendo soltanto al suo fedele
kunoichi.
Ora
fu Ukyo a percepire nitidamente ogni sentimento che albergava nel cuore
dell’ultimogenita delle Tendo e, con sorpresa, vi
trovò una calda ondata di affetto ed empatia rivolti nei
suoi confronti. Nonostante tutto.
“Sai,
prima hai detto di essere una persona egoista. Però io penso
che non vi sia nulla di egoista”, concluse Akane ad alta
voce, “nel desiderare la felicità…
della persona che amiamo.”
I
successivi pensieri non presero nemmeno la forma di parole. Per Ukyo
non ce n’era più bisogno, sapeva quel che
c’era da sapere: che in fondo erano soltanto due ragazze come
altre, innamorate della stessa persona e impaurite allo stesso modo
dalla morte. E che questa comunione di emozioni, in qualche modo, stava
reciprocamente infondendo loro il coraggio di affrontare ciò
che le attendeva.
La
paura. Aveva imparato da decenni a convivere con questo sentimento, e
ciò non implicava assolutamente che le sue
abilità di artista marziale gli consentissero di vincerlo.
Poteva essere forse biasimato per questo? L’importante era
tirare avanti, senza curarsi dell’orgoglio. E sì
che di cose paurose ne aveva viste tante, nella sua vita, ma nessuna di
queste lo terrorizzava quanto le reazioni furiose del suo compagno di
tante avventure. E questa emanazione
poteva classificarsi, senza troppe discussioni, sul podio delle
più agghiaccianti.
“Genma,
ora pagherai!”
Essere
chiamato per nome spezzò anche l’ultima delle sue
difese psicologiche. Questa novità non costituiva affatto un
buon segno.
Da
ciò che la propria miopia gli consentiva di distinguere, la
manifestazione dell’aura di Tendo non aveva assunto la
classica forma demoniaca, quella fornita di testone e lingua biforcuta
– e in tal caso almeno avrebbe benedetto la propria perdita
degli occhiali – ma costituiva piuttosto
un’estensione dei suoi lineamenti normali: tuttavia era
carica di un tale nugolo
di sentimenti negativi, che avvertiva come un peso sul proprio capo e
lo stava rapidamente accerchiando in un abbraccio letale.
D’un
tratto Genma sentì esplodere dentro di sé tutti i
timori e le angosce, i sensi di colpa e i rimorsi accumulati in
un’esistenza che sapeva bene non essere stata delle
più irreprensibili.
Crollò
in avanti, incapace di sostenere un simile fardello un secondo di
più. Cadde nel vuoto, per una manciata di lunghi secondi, e
poi finì a terra come un corpo morto, picchiando la faccia
sull’asfalto. I sensi gli furono immediatamente annebbiati
dal dolore e, quando tornarono, constatò che una mano lo
aveva afferrato per il colletto della veste e l’aveva
sollevato di qualche centimetro. Un pugno affondò nel suo
stomaco, mozzandogli il respiro e scagliandolo all’indietro.
La mente e il corpo furono impossibilitati a funzionare, lasciandogli
solo il suo istinto di artista marziale, libero di registrare ogni
singolo colpo che riceveva e di gridargli inutilmente di difendersi.
Si
sentiva come un grosso e vecchio sacco da boxe sul punto di sfondarsi.
Non poteva controbattere in alcun modo, ancora immobilizzato
dall’attacco di ki precedente,
né a questo punto sapeva se avrebbe desiderato farlo. Era
già la seconda volta, quella notte.
Per
nessun motivo in particolare ricordò un Ranma piccino che
correva tra le sue braccia, dopo aver eseguito con successo per la
prima volta uno dei kata più
semplici: il bambino aveva un’aria incredibilmente
spensierata e, buttatosi in mezzo alle sue manone, gli stava gridando
grondante di gioia: “Hai visto, papà? Ce
l’ho fatta! Sei contento di me?”. Poi, di botto,
l’immagine svanì e la serie di pugni
cessò, e Genma inspirò avidamente
l’aria fredda della notte, a dispetto dell’agonia
dei polmoni e degli altri muscoli.
“Già…
finito?” Sogghignò, o almeno quella era
l’intenzione. Aveva raccolto troppo poco fiato per risultare
irriverente come avrebbe voluto.
Anche
Tendo respirava con affanno, almeno da quel che riusciva a udire. Non
era facile, le orecchie gli fischiavano.
“Ho
solo iniziato.” Disse l’altro ad alta voce, come se
avesse inteso e volesse rassicurarsi che lui potesse ascoltarlo bene.
“Non hai proprio niente da dire? Parlo di tuo
figlio.”
Genma
sentì un sapore sgradevole salirgli alla bocca. Prima di
parlare, sputò a terra.
“Tendo”,
si mise con fatica in posizione seduta, “credevo di averti
già ricordato… che non hai titolo per insegnarmi
come prendermi cura di…”
Il
pugno lo raggiunse in pieno naso mentre proferiva le ultime parole.
“Come
osi rispondermi così?! Dopo tutto quello che gli hai fatto,
è davvero questo il meglio che hai da dirmi? Alzati e
guardami in faccia!”
Genma
digrignò i denti, sia per il dolore cane, sia per il
nervosismo crescente, che stava rimpiazzando l’apatia di
pochi istanti prima. “Non… riesco.”
Mormorò. Si pulì alla bell’e meglio con
la manica un rivolo di sangue, quindi tese l’altro braccio in
direzione dell’interlocutore. L’altro
accennò a tirarlo su.
Ci
sei cascato.
Genma diede uno strattone, trascinando Soun verso di sé e
soprattutto verso la propria mano chiusa a pugno. Colpita
vittoriosamente la sua mascella con un montante, gridò con
tutta la sua rabbia.
“Pensi
che sia stato facile per me?! Credi davvero che non voglia bene a mio
figlio?! Parli tanto, ma li avevi visti… di’, li
avevi visti i suoi occhi?”
Non
arrivò alcuna risposta, era collassato al suolo. Del resto,
se era riuscito a centrargli il mento come si era prefissato, quello
era il minimo. Soddisfatto, si sporse per constatare il risultato del
proprio brillante contrattacco. Capì di aver commesso un
errore ancora prima di ricevere il destro di Tendo in pieno volto. Che
pollo sono stato… Pensò
amaramente.
Poi
il dolore gli impedì di pensare qualsiasi altra cosa per
diversi secondi.
Attendeva
il resto della reazione furiosa dell’altro, ma stranamente
non arrivò.
“Alla
fine l’hai ammesso.” La voce di Soun non tradiva
più rabbia. “Ci voleva tanto?”
Genma
si massaggiò la guancia tumefatta, incredulo. L’ho
ammesso? Ho ammesso cosa? Poi,
d’un tratto, comprese.
“Tendo,
sul serio, non vorrai… si trattava di questo? Soltanto per
questo ce l’avevi tanto con me?!”
Avvertì nuove energie fluirgli nelle vene e
colpì, senza soluzione di continuità con le
ultime parole. Questa volta l’interlocutore
incassò docilmente prima di rispondere.
“Ovviamente
no. Non era… solo per questo.” Accennò,
come saggiando le parole. “Saotome, io ti conosco meglio di
quanto tu conosca te stesso, e il fatto che alcune volte, anche
parecchie, non apprezzi i tuoi metodi… non significa che non
sappia individuare, dietro a essi, le tue buone intenzioni. Quando ve
ne sono, chiaro.” Si rialzò in piedi, barcollando
leggermente. “All’inizio, lo confesso, ero furioso
e basta, non potevo credere al tuo cinismo. Con il passare dei minuti,
un po’ per volta, ho però compreso… so
bene che la cosa ti è sfuggita di mano, mi è
perfettamente chiaro che farci credere che Ranma fosse impazzito, farlo
credere a lui stesso, non rientrava nei tuoi piani. Quello che non ti
ho perdonato è di aver perseverato, di avere continuato a
usarci tutti, anche nel tempo in cui la situazione era degenerata.
Soprattutto di non essere uscito allo scoperto, stamattina, quando
potevi e dovevi. Almeno con me. Con l’uomo che conosci da
più anni di quanti vorresti contare… e che fino a
oggi si era ritenuto un tuo amico.”
Per
un istante, Genma dimenticò il dolore della batosta ricevuta
e avvertì unicamente una fitta, al petto, di
tutt’altra natura. Una fitta che non sentiva da tanto di quel
tempo e che, in tutta onestà, non credeva avrebbe avvertito
mai più.
“Sbagli,
Tendo. Da parte mia, non ti ho mai ritenuto… un mio
amico.” Disse, distogliendo lo sguardo. Quindi si scosse a
sua volta, tirandosi su in posizione eretta e sentendo nuovamente su di
sé, con quel gesto, il peso di tutti i lividi che si era
procurato. Non era più un buon incassatore come ai bei
tempi. “Sei sempre stato il mio
amico, e proprio per questo… stamane ero stato tentato,
seriamente, di parlare, di dirti tutto… ma mi conosci, sono
il solito sentimentale,
forse non me la sono sentita di… renderti mio complice, se
capisci cosa intendo. Siamo entrambi ben lontani dall’essere
perfetti, eppure mi piace continuare a pensare a te, esattamente come
ai vecchi tempi, come quello di noi due retto e probo.”
Si
guardarono per qualche secondo, senza più dirsi nulla, senza
che i loro volti tradissero alcun sentimento.
Dentro
di sé al contrario Genma poteva notare con soddisfazione
che, per quanti colpi avesse ricevuto, era riuscito a lasciare al
proprio interlocutore diversi segni della
sua amicizia. Del resto era sempre così che sistemavano le
cose, tra loro. Non che ora fosse stato tutto quanto risolto con un
colpo di spugna, ma gli piacque sperare che Tendo gli avrebbe rivolto
ancora la parola, nei prossimi giorni.
Poi
l’incanto si ruppe. Udì delle voci, e vide delle
figure minute dirigersi verso di loro.
La
sua prima sensazione diretta del mondo esterno fu un brivido lungo le
tempie e la nuca. Portò la mano sulla fronte per scostare
l’acqua che le colava dai capelli fradici e ne
approfittò per chiudere gli occhi e ripensare a cosa avrebbe
detto. Entrando nella coscienza di Ukyo, aveva avuto modo di scoprire
ogni cosa avvenuta in sua assenza, e sapere di aver provocato tanto
dolore alla sua famiglia e a tutte le persone che le volevano bene la
stava opprimendo di sensi di colpa.
Una
mano vellutata si sovrappose alla propria e, riaprendo le palpebre
sorpresa, vide Kasumi passarle una salvietta e aiutarla ad asciugarsi.
La sua espressione serena e sorridente calmò
l’ansia che aveva in corpo. Accennò ad aprire
bocca, quando un altro asciugamano, più grande, le
coprì la vista e le massaggiò vigorosamente il
capo.
“Troppo
fredda, vero? Scusa tanto, volevo essere sicura del
risultato.”
Nabiki
scostò il panno dal suo viso e fece capolino da dietro le
sue spalle. Sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, ma
venne anticipata dallo slancio di una terza figura.
“La
mia bambina! Sei veramente tu?!”
Prima
che potesse rendersene conto, Akane si era ritrovata stretta tra due
possenti braccia e con la faccia schiacciata contro un petto familiare.
“Papà…
così la stai soffocando!” Disse Kasumi per lei, e
la presa fu mollata con un gesto altrettanto brusco.
Akane
riprese fiato e alzò la testa, pronta alla visione delle
lacrime del genitore e pensando già a come calmarlo. Ma
ciò che vide la colse del tutto di sorpresa e,
francamente, fu tanto presa dal resto che non constatò
nemmeno se il padre stesse o no piangendo. Un occhio nero, un
fazzoletto infilato nelle narici e che provava vanamente a tamponare
una copiosa uscita di sangue, un volto gonfio di lividi e dai
lineamenti quasi irriconoscibili.
“Cosa
ti è accaduto, papà?!” Registrando il
tono della propria voce, Akane sospettò per un attimo di
aver perso lei, per prima, la calma.
“Oh,
nulla, nulla... solo un piccolo scambio di vedute, niente di
importante...” Fece lui con un tono conciliante, esibendo un
sorriso che non migliorò affatto la vista
d’insieme. “Non riesco a credere che…
che sia tutto finito! È un sogno, anzi un miracolo! Ma
ditemi, come ci siete riuscite?!”
Akane
provò a rispondere, ma le parole non le uscirono dalla
bocca. Devi dirglielo, intimò una voce nella sua testa, che
non seppe se associare a se stessa oppure a Ukyo. Invece
preferì voltarsi e incrociare un altro sguardo.
“Sorellina…”
Pronunciò Kasumi, avvicinandosi a lei, e in quel
‘sorellina’ c’erano poemi interi di gioia
e d’affetto. I suoi occhi, sì, erano sicuramente
lucidi: era molto più facile scorgere il brillio su quel
volto così limpido.
Si
strinsero forte, l’una tra le braccia dell’altra.
Poi la sorella più grande si scansò con grazia,
lasciando spazio a Nabiki. Quest’ultima tuttavia non si
avvicinò, e si limitò a scrutarla attentamente.
La
reazione non passò inosservata, nemmeno a papà.
“Cosa…
cosa c’è, Nabiki?” Domandò,
come senza fiato. “Per… per caso non è
la nostra Akane? Si tratta ancora di Ukyo?”
“No,
non è questo.” Nabiki scosse la testa.
“Ma ancora non sai una cosa… e se le mie sorelle
non si decidono a dirla, ci penserò io. Vedi, Akane e Ukyo
sono nello stesso corpo ma non possono convivervi se non fino
all’alba… così, pare che poco fa
abbiano preso una decisione.”
“Papà”,
finì Akane, scoprendo la propria voce rotta
dall’emozione e dalle lacrime che d’un tratto
premevano per sfuggirle, ma cercando comunque con tutta se stessa di
esibire un volto sereno, “non potevo… non potevo
permettere che qualcuno morisse a causa mia. Non sono qui per
rimanere… ma per un ultimo saluto.”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** Congedo ***
Capitolo 13
“Congedo”
Tofu sospirò in silenzio. A così pochi metri di
distanza l’intera famiglia Tendo era riunita ad accogliere
Akane-chan, eppure non poteva avvicinarsi. Si corresse, non osava
avvicinarsi.
Si sforzò di ignorare i movimenti e i dialoghi attorno a lui
e indirizzò i propri pensieri a quanto accaduto qualche
minuto prima, quando aveva delicatamente risvegliato Ukyo dallo stato
di trance in cui era piombata. Aveva immaginato che la ragazza fosse
nuovamente entrata in contatto con l’anima di Akane-chan che
risiedeva dentro di lei, ma non si aspettava di certo il piglio
determinato con cui, recuperata coscienza, aveva affermato di aver preso
– anzi, ricordò correttamente, che avevano
preso – una decisione e chiesto di far riunire tutti.
Il contenuto della decisione era scontato dal suo punto di vista,
nessuno avrebbe mai preteso da Ukyo di sacrificare la propria vita per
salvare quella di Akane: ma per questo era ancora più
doloroso, perché sapeva che molti dei presenti se
l’erano, sia pure inconfessabilmente, auspicato.
E allo stesso modo sapeva che sarebbe dovuto essere lui a comunicare
una tale notizia. Non è sempre il medico curante a
dichiarare alle persone in sala quando è il momento di
arrendersi? E invece non poteva… non osava e se ne rimaneva
a prendere ragnatele in un angolo, in piedi accanto a uno sgabello
vuoto su cui non aveva minimamente considerato di accomodarsi, con una
goffaggine peggiore di quella di un ragazzino al suo primo ballo.
Sono solo un ipocrita…
Aveva avuto un bel coraggio a muovere tutte quelle considerazioni sulla
mancanza di autocontrollo di Ranma, quando perfino in una notte come
questa era stato almeno un paio di volte sul punto di perdere ogni
lucidità di pensiero. Ma non si trattava solo della sua
timidezza, non era l’eventualità di un sorriso, di
una parola cortese di Kasumi, stavolta, a suscitare in lui il panico.
La causa era quell’altra fantasia che sempre più
spesso lo tormentava, nelle notti insonni: l’immagine della
donna da lui amata che di colpo abbandonava il suo angelico sorriso,
assumeva un atteggiamento aggressivo, lo rimproverava e lo scacciava
via dalla casa dei Tendo, da lei, per essere sparito negli ultimi
tempi, per non essersi fatto vedere nel momento del bisogno. Per non
esserci mai veramente stato, per lei e i suoi
cari.
No, basta così, si disse. Scosse da sé quella
paura illogica. Poteva ancora riuscirci, se non era costretto ad
avvicinarsi. Si limitò a osservare, di nuovo. Da molti
minuti, ormai, padre e sorelle stavano chiacchierando come…
una famiglia, come se niente stesse accadendo, e però allo
stesso tempo i loro volti lasciavano trapelare il segno della consapevolezza. E lui non era nemmeno
tra loro a consolarli, a provare a trasmettere forza e speranza alla
piccola Akane.
Forse il suo compito era un altro, forse doveva restare davvero in
disparte e tentare in tutti i modi di ragionare e trovare una soluzione
che le salvasse la vita, nonostante
l’ineluttabilità delle parole di Cologne,
nonostante l’evidenza. Forse, chissà, poteva
perfino riuscirvi.
Ma intanto non osava avvicinarsi, e per questo odiava se stesso con
tutta l’anima.
Come mai il dottor Tofu continuava a osservarli da lontano, senza
decidersi una buona volta a raggiungerli? Kasumi non riusciva a
spiegarselo, così come non comprendeva per quale motivo quel
pensiero la stesse tormentando, nonostante le priorità in un
momento simile fossero ben diverse.
Intuiva che gli altri presenti, come Mousse e la ragazza in tenuta da
ninja, seduti al tavolo della parete opposta, volessero in qualche modo
rispettare quel momento così intimo. Poteva giustificare
perfino l’assenza della zia Nodoka. Ma il dottor Tofu era
loro amico da sempre, di più, aveva tutto il diritto di
considerarsi parte integrante della famiglia. E soprattutto ora
aveva… avevano bisogno di lui, delle sue parole di conforto,
della sua stessa presenza, più che mai.
Strano. Improvvisamente sentiva come un senso di oppressione sul punto
di travolgerla, ma non poteva certo permettersi di lasciarglielo fare.
La sua sorellina non lo meritava, e dopotutto l’occasione era
lieta, non funesta. Quante altre persone avrebbero pregato, scongiurato
per un’opportunità del genere? Chi non avrebbe
dato tutto per poter parlare di nuovo, ancora una volta…
ancora un altro momento… con una persona cara che aveva
perduto, come stava accadendo a loro?
Sono una sciocca.
Sbirciò in direzione del dottor Tofu, ma ora lui non
c’era, non si trovava più nemmeno nella loro
stessa stanza, se n’era andato. Si rimproverò per
essersi lasciata distrarre un’altra volta, quindi
tornò a rivolgere la propria attenzione alle sorelle e
sorrise, imitando come le volte precedenti il sorriso della loro mamma,
dolce e rassicurante come lei lo ricordava, e sperando così
di mascherare il proprio dolore. Aveva per caso detto dolore?
Già, sono proprio sciocca. Ed egoista.
Egoista, lei, Kasumi, che tutti consideravano l’angelo del
focolare: se solo lo avessero saputo! Forse non ci avrebbero creduto
nemmeno se l’avesse confessato di persona, eppure era vero.
Perché in fondo non riusciva proprio a ringraziare i Kami
per la fortuna più unica che rara capitata loro. Tutto
ciò cui era capace di pensare era che quel momento non le
bastava, che ne voleva un altro ancora. E poi un altro. E un altro. E
un altro…
Kasumi le aveva appena rivolto uno dei suoi tipici sorrisi. Si
domandò distrattamente se si trattasse di un gesto di
circostanza oppure se davvero stesse partecipando con loro a quel
battibecco.
“E invece torno a ripeterti che non vedo dove sia il
problema.” Disse Nabiki, con l’aria della finta
tonta.
“Intendi oltre al fatto che la giacchetta che stai indossando
sia una delle mie?” Ribatté usando il suo stesso
tono. “E precisamente quella che non trovavo più
da nessuna parte e che ti avevo domandato se avessi per caso visto in
giro, ricevendo una risposta negativa?”
La sorella fece spallucce. “Mi sarò sbagliata, del
resto come pretendi che possa ricordarmi ogni tuo singolo capo di
abbigliamento?”
“In effetti hai le tue ragioni”, ammise Akane,
“è facile perdere il conto considerando il numero
totale di tutti quelli che mi hai… preso in
prestito.” Cercò di assumere un’aria
indignata mentre proferiva quelle parole, ma dovette invece
concentrarsi per non scoppiare in una grossa risata. Come mai trovasse
quella situazione tanto esilarante era un mistero anche per lei.
“Suvvia, sorellina, dov’è finito il tuo
senso della famiglia? Lo sai che ciò che è tuo
è mio e ciò che è mio è
tuo. Anche tu puoi prendere i miei vestiti quando vuoi.”
Per poco Akane non si soffocò da sola, sopprimendo lo
scoppio d’ilarità. Va bene, forse il motivo le era
chiaro. E stava prendendo in seria considerazione l’idea che
anche Kasumi stesse trovando tutto ciò davvero demenziale.
“No grazie, no davvero.” Disse, reggendole il
gioco. “Non credo che poi potrei permettermi i
tuoi… saggi d’interesse.”
Nabiki strizzò un occhio. “Sicura? Immagino che tu
non abbia letto attentamente il listino, ho delle offerte davvero
vantaggiose per i miei amati consanguinei.”
“Non crederle.” Era la voce di Kasumi, che si era
intromessa con una strana espressione tra il serio e il faceto.
“Me lo ricordo bene quel listino di favore, ho avuto
l’onore di esserne stata la prima vittima.”
Fu troppo. Le uscì una risata e in una manciata di secondi
anche Nabiki e Kasumi ne furono contagiate. Ricordò
sensazioni già provate anni prima e se ne lasciò
avvolgere.
Occorreva che io morissi per ritrovare questo legame?
Raccogliendo il fiato, assaporò il gusto retroamaro di
quella rivelazione: era indubbiamente passato troppo tempo
dall’ultima volta che lei e le sorelle avevano avuto una tale
complicità. Non si punzecchiavano così da
quando…
Erano piccole, allora. Le sue bambine innocenti di un tempo lontano,
molto prima che Nabiki divenisse così cinica e Akane tanto
insicura.
Era accanto alle figlie ma non voleva intromettersi e preferiva
ascoltarle in silenzio, sovrapponendo quella scena ad altre simili del
passato. Si sentiva quasi sereno, adesso, nonostante tutto, e voleva
cercare di registrare nella sua mente ciascuno di quegli istanti.
Per un attimo, sentendola ridere di un riso più controllato
rispetto alle sorelle, ma altrettanto sincero, gli sembrò
che anche Kasumi fosse tornata magicamente la bambina spensierata che
solo lui, forse, ricordava. Ma appunto durò un attimo,
un’ombra tornò a segnare il suo volto e Soun se ne
dispiacque. Non gli sfuggì che di tanto in tanto,
furtivamente, forse sperando che non se ne accorgessero, la sua figlia
maggiore aveva gettato lo sguardo verso il resto della sala in cerca di
qualcosa… o qualcuno, più plausibilmente.
Già, Soun comprendeva il suo animo maturo e sensibile.
Così come aveva ben colto anche la stessa causa di quella
preoccupazione, ossia l’assenza di Ranma. Per lui, che
così chiaramente davanti a tutti aveva mostrato di sentirsi
il vero responsabile di quanto accaduto ad Akane, doveva essere quasi
più difficile che per loro.
Anche Akane, a sua volta, sembrava aver deliberatamente evitato
l’argomento, ma nei suoi occhi aveva potuto percepire, pur a
sprazzi, tra uno scherzo e l’altro con Nabiki, il tipico
senso d’ansia e frustrazione della sua terzogenita.
Mi dispiace, piccola mia. Hai preso troppo da me…
E capiva anche questo, ma con amarezza. Il rimorso, la paura di farsi
avanti per primi. Aveva vissuto anche lui quei sentimenti durante la
propria giovinezza. Eppure, si chiese, era mai possibile che per
l’ennesima volta quei due non avessero il coraggio di
sistemare le cose tra loro?
Del resto, fino a un mese prima, non vi avrebbe dato poi tanto peso.
Quei due ragazzi erano così giovani, e avevano davanti a
sé tutto il tempo del mondo. La sorte della palestra poteva
aspettare ancora un po’. Le sue speranze potevano aspettare.
E ora, invece, il tempo era proprio ciò che non avevano
più a disposizione.
Soppresse il sospiro che gli era sorto spontaneo. Meditò per
un momento di intervenire in prima persona e parlare con Ranma, ma poi
notò un’altra assenza e questo,
d’incanto, lo rassicurò.
Meglio così, pensò, ci avrebbe pensato una
persona molto più adatta di lui. Il suo posto era invece
lì, assieme alle sue figlie. Annuendo tra sé,
tornò a rivolgere loro tutta la sua attenzione, come meritavano.
Lo trovò esattamente dove si aspettava. Non a chilometri di
distanza, ma subito dopo aver varcato la soglia principale, appoggiato
contro il muro in direzione dei lampioni che illuminavano la strada
deserta, con lo sguardo assorto che spaziava in chissà quale
genere di pensieri.
Ancora prima di trovarlo, sapeva benissimo che stavolta non era
fuggito. Un tempo avrebbe attribuito questo suo intuito al fatto di
essere la moglie di un artista marziale; ora voleva tanto sperare, con
tutta se stessa, che ciò era semplicemente dovuto al fatto
di essere una madre, sua madre.
“Ranma…” Accennò, udendo la
propria voce come un timido richiamo, quasi troppo fioco per essere
sentito da qualcun altro. Tuttavia lui scosse il capo e si volse a
incontrare il suo sguardo, senza dire una parola.
Nodoka si fece coraggio, ricacciò i sensi di colpa che la
opprimevano e cercò di non pensare a tutti gli anni in cui
non era stata presente per suo figlio. Il passato era passato, ma
adesso lei poteva e doveva essergli vicina. Allungò il
braccio e mostrò il proprio carico. “Ti ho portato
una camicia pulita. Ero sicura che ti potesse servire, dopo che
Ukyo-chan stamattina è rientrata in casa indossando la
tua.”
Gliela porse e lui la prese e, voltatosi di nuovo nell’altra
direzione, accennò a mettersela, lentamente e con fare
meccanico.
Nodoka decise di tentare un’altra volta. Forse
l’approccio diretto sarebbe stato il più semplice.
“Perché non vieni dentro? Io penso… che
farebbe piacere ai Tendo. E ad Akane.”
Ranma smise di abbottonarsi.
“Questo non credo di poterlo fare.”
Mormorò, con gli occhi rivolti al cielo. “Cosa
potrei dirle? Che mi dispiace di non essere riuscito a salvarla? Che ci
ho provato ma non sono stato in grado di fare nulla di buono, che fra
una manciata di minuti il suo tempo scadrà e
morirà… a causa mia?”
“Non è affatto vero.” Nodoka scosse la
testa con convinzione. “Ecco, temo di non aver compreso nei
dettagli tutto quanto è accaduto… ma
sull’argomento l’anziana signora, prima,
è stata molto chiara. Tu hai fatto tutto il possibile e
anche di più.”
“E allora? Non è servito a niente, è
questo il punto!” Ranma aveva alzato la voce. “E se
non fosse stato per me, Akane non sarebbe nemmeno stata rapita e
portata in Cina. Safulan e gli altri lo hanno fatto per mettere in
difficoltà me. Lo sai quante volte ci
ho pensato, in questi giorni? Io…”
“Beh, di sicuro non servirà nemmeno quello che
stai facendo ora.” Lo interruppe con tono molto meno
accondiscendente di prima. E stavolta le parole le vennero spontanee.
“Sappi che tutto questo autocommiserarti non è
affatto…”
“Virile?” Ranma sibilò a bassa voce
esibendo un sorriso aspro, tagliente come la lama di un rasoio. Mentre
una vecchia ferita dentro di lei riprendeva improvvisamente a
sanguinare, suo figlio si girò e la guardò negli
occhi. “Ho pensato anche a questo, ultimamente. Ti ho evitato
per così tanto tempo, terrorizzato dall’idea di
tagliarmi il ventre, dando la colpa di tutto a papà, certo,
ma soprattutto alla mia maledizione… e ora eccomi qui,
guarito una volta per tutte da Jusenkyo. Non mi trasformerò
mai più in una ragazza. Ciò mi ha forse reso un
vero uomo? No, in questi giorni ho capito che non risponderò
mai a quel vostro, tuo ideale… e ho
capito anche che non me ne importa proprio niente.” Concluse,
senza distogliere lo sguardo da lei, senza alzare il tono eppure lo
stesso con aria di sfida.
Non si lasciò intimorire. Era addolorata per quelle parole,
sì, ma era pur sempre – nonostante gli anni in cui
erano stati distanti, nonostante ogni cosa – sua madre e
finalmente ne era del tutto cosciente. Era abituata a soffrire in
silenzio, poteva sopportare anche quel colpo. I dubbi e i timori di
pochi secondi prima erano un pallido ricordo.
Poggiò delicatamente un dito sulle labbra di Ranma.
“Hai finito? Perché non volevo dire questo.
Intendevo solo che il tuo rimanere qui e continuare a punire te stesso
non è affatto giusto nei confronti della tua
fidanzata.”
Cogliendo l’espressione stupita e leggermente intimidita del
figlio, permise che il rimprovero, ora, lasciasse posto a parole
più dolci.
“Non hai pensato davvero a lei? Non credi che abbia bisogno
di te, in questo momento? Non lasciare che a parlare per te sia il tuo
orgoglio. Ranma, voi vi volete così tanto bene. Se davvero
tieni ad Akane, non devi restare qui ma entrare dentro e starle vicino.
Avete quest’opportunità così unica. Non
sprecarla.”
“Ma lei non…”
“Lei non aspetta altro. Credimi, lo so con certezza,
gliel’ho letto negli occhi.” Si avvicinò
ulteriormente a Ranma e prese lei stessa ad abbottonargli la camicia.
Quando terminò, aggiunse con fare più leggero:
“Ma forse ora è meglio che tua madre la smetta di
fare da tramite tra voi e che vi lasci un po’ di spazio. In
ogni caso mi aspetto di vederti al più presto nel salone, va
bene?” Lo invitò, per poi voltarsi e incamminarsi
verso l’ingresso del ristorante.
Entrando, Nodoka si sentì come sgravata da un grosso peso.
Era sicura di essere stata convincente.
Glielo diceva il suo istinto. E quest’ultimo, poteva
affermare tra sé con grande soddisfazione, non aveva nulla a
che fare con l’essere la moglie di un artista marziale.
Rimase fermo a guardarla, mentre rientrava con passo deciso ma
aggraziato nel Nekohanten.
Forse aveva ragione, forse la cosa giusta da fare era seguire il suo
invito.
Quanto poteva mancare all’alba, ormai? Una
mezz’ora, forse meno, forse più. Non aveva senso
sprecare quel poco tempo prezioso.
All'improvviso pensò che, più di ogni altra cosa,
voleva rivedere Akane. Rivederla e confessarle quel pensiero che aveva
rimuginato tanto a lungo in quegli ultimi giorni, il rimpianto
più grande che non aveva mai smesso di tormentarlo, nemmeno
per un istante. Accennò un sorriso, dentro di sé.
Si avviò. E mentre i suoi passi, da cauti, si facevano via
via più spediti, ringraziò mentalmente sua madre.
Era certo di averla fatta preoccupare molto, nelle ultime ventiquattro
ore, e ne era profondamente addolorato, tuttavia era rimasto ancora
più colpito dalla forza d’animo che gli aveva
appena mostrato, concedendosi perfino un pizzico di ironia.
Si sentì orgoglioso di essere suo figlio. E tuttavia era
quanto mai vero: non poteva certo essere lei a fare da tramite per
loro. Non ora, non più, si disse: stavolta stava a lui farsi
coraggio e affrontare Akane, affrontare l’addio,
e pensava queste parole cercando di convincersi con tutto se stesso che
fosse giusto così.
Ma proprio allora il pensiero lo attraversò come una scarica
elettrica e lo devastò da capo a piedi, mentre ne assaporava
in poche frazioni di secondo tutta la sua veridicità.
Combattuto da sentimenti contrastanti strinse i pugni, avvertendo il
fastidio delle fasciature e della pelle sbucciata. E infine si arrese e
si arrestò, come se si fosse appena scontrato contro un muro
invisibile.
Perdonami, mamma…
“Sono davvero felice per te!” Akane era
sinceramente convinta delle parole che aveva appena proferito.
Il ragazzo cinese ridacchiò, sistemandosi su un lato con un
gesto istintivo della mano la frangia bagnata dei capelli. Dal momento
in cui si era unito a loro la conversazione era diventata piuttosto
povera di argomenti: Mousse si era mostrato irrigidito e a disagio,
forse temendo di dire qualcosa di inopportuno, forse intimidito dalla
strana situazione, anche se Akane aveva apprezzato molto il suo gesto.
Erano cambiate davvero tante cose dai tempi in cui le aveva affibbiato
il ruolo di ‘posta in palio’ del duello tra lui e
Ranma, per non parlare di quella volta che l’aveva rapita con
la minaccia di trasformarla in papera.
Tuttavia, quando il ragazzo vestito di bianco ebbe interrotto il
silenzio che si era creato negli ultimi minuti, sbuffando come
rassegnato per poi andare a prendere il vaso di fiori che stava sul
tavolo vicino, Akane aveva immaginato per qualche istante che volesse
assumere lui la sua forma maledetta e volare via da lì per
sottrarsi a quell’imbarazzo.
Ora, cessata la sorpresa iniziale, trovava perfettamente logico che
Mousse, pur essendosene rovesciato il contenuto per ritrovarsi
inzuppato fradicio, fosse rimasto umano.
La spedizione in Cina era almeno servita a qualcosa di buono,
notò con una punta di amarezza.
“Ti ringrazio, Akane Tendo. Comunque non si tratta soltanto
di me.” Specificò proprio allora il suo
interlocutore. “Siamo tutti quanti guariti dalle nostre
maledizioni, compresi Ranma e Ryo…”
“Mi perdoni tanto, signorina Akane!”
Scongiurò la voce acuta di Konatsu, coprendo le parole
dell’altro. Il giovane kunoichi che prestava servizio da Ukyo
doveva essere insieme a loro già da un po’, a
giudicare dalle facce poco sorprese degli altri, ma francamente Akane
non si era accorta della sua presenza. “D-deve sapere che,
prima, ho fatto una scenata imbarazzante, scandalosa. È
stato più forte di me… vede, non volevo che
accadesse qualcosa di male alla signorina Ukyo. Ma-ma questo non vuol
dire certo che io volessi che qualcosa invece accadesse a lei,
perché…”
“Ho capito.” Lo placò con un cenno della
mano e un sorriso, sebbene non avesse compreso alcunché di
quello sproloquio. E aggiunse con più sincerità:
“Stai tranquillo, non me la sono affatto presa.”
“Akane, cara.” La voce familiare della signora
Nodoka la fece voltare. La stava guardando con una dolcezza disarmante,
e per un attimo Akane pensò alla mamma. “Credo ci
sia qualcuno che vuole parlare un momento a quattrocchi con
te.” E detto ciò le prese la mano e
accennò a guidarla in direzione dell’ingresso.
Esitò, cercando con lo sguardo papà e le sue
sorelle. Trovò i loro volti assenzienti, che la invitavano
ad andare. D’un tratto capì che era ora, che non
poteva continuare a indugiare, e nello stesso tempo avrebbe voluto che
i minuti appena trascorsi fossero potuti durare per sempre.
Akane si lasciò dunque trascinare, ma il cuore aveva preso a
batterle forte.
Dentro di sé, dovette ammettere, era perfino intimorita.
L’ultima volta che l’aveva visto, dopotutto, lui
l’aveva fissata come una perfetta estranea.
Un’altra parte di lei, però, seguiva bramosamente
la zia Nodoka e non vedeva l’ora di arrivare a destinazione,
timorosa che ci stessero mettendo troppo tempo. Come quando si insegue
l’arcobaleno e però, per quanto veloci si corra,
questo puntualmente svanisce prima di aver raggiunto la linea
dell’orizzonte.
Percorsero il corridoio per secondi che le parvero
un’eternità, mentre dietro di sé udiva
i passi solerti di amici e familiari.
Finalmente la signora Nodoka aprì la porta, per poi
arrestarsi e tentare di reprimere un sussulto, senza riuscirci.
Akane si affacciò a sua volta, desiderosa di scoprire la
causa di una tale reazione, e poté appurarlo anche lei.
In fondo al suo cuore, non fu una vera sorpresa constatare che
l’uscio era deserto e che di Ranma non v’era alcuna
traccia. Ma fu stranamente proprio in quel momento che sentì
di cogliere appieno l’angoscia straziante della sua
situazione. Fu allora che si sentì una condannata al
patibolo.
---
Il prossimo capitolo sarà anche
l’ultimo. Sì, avete capito bene. Ed essendo
già stato scritto i tempi di aggiornamento saranno rapidi,
per cui non ho altro da aggiungere se non che vi aspetto per il finale!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** Incontro alla luce ***
Ci
siamo, l’ultimo aggiornamento. Con tutti i miei ritardi
sembrava quasi che questo momento non dovesse giungere, invece
è giunto e, beh,
a questo punto, vorrei spendere qualche parola… ma per ora
lascerò che sia il
capitolo a parlare. Dunque ci rivediamo dopo e buona lettura!
Capitolo 14
“Incontro alla
luce”
Si sentiva fuori posto, in più di un senso. Completamente
inosservata agli
altri, ancora radunati in cerchio attorno ad Akane, era uscita dalla
sala
grande con l’intenzione di dirigersi verso la propria camera
al piano di sopra.
Poco prima di raggiungere le scale, il suo sesto senso le aveva
però comunicato
qualcosa e aveva quindi deviato dal percorso, determinando che fosse
opportuno
rinfrescarsi un momento.
Ma di momenti ne erano passati parecchi da quando si era sciacquata e
non
poteva certo continuare a strofinare l’asciugamano al viso,
la pelle stava
protestando a furia di essere sfregata. Lo posò e disse a
voce alta: “Ora,
penso, potrebbe anche uscire allo scoperto...”
In quel momento stesso Ke Lun udì un forte rumore, come di
un vetro in frantumi.
Ansimò, accorgendosi di aver trattenuto il respiro fino a
quel momento. Si
guardò di nuovo attorno: molte presenze stavano
avvicinandosi a lei e alla zia
Nodoka, ma all’appello mancava l’unica che contava.
“Ranma?” Domandò la signora, come se
stesse davvero aspettando una risposta. Si
portò una mano alla bocca, aveva un’aria sorpresa
e forse anche delusa. Akane
non poté dirsi di condividere del tutto quella sensazione.
Udì diverse voci, non riusciva a tradurle in frasi di senso
compiuto né la cosa
le importava. Stava realizzando tutta la portata di ciò a
cui stava andando
incontro e, nonostante il rumore da cui era circondata, si sentiva
incredibilmente sola.
Dunque lui voleva evitarla? Non aveva nemmeno il coraggio di
affrontarla, di
parlare con lei? Non poteva davvero essere stupido fino a un tale
punto, nemmeno
Ranma. Avrebbe voluto picchiarlo, insultarlo e gridare la propria
rabbia fino a
farsi sentire in ogni angolo della nazione.
E al tempo stesso non trovava più nemmeno la forza di
muoversi, di voltarsi e
tranquillizzare chi le stava accanto, figurarsi di pronunciare parola.
Perfino
Ukyo, nella sua testa, era ammutolita da diversi secondi, probabilmente
colta
alla sprovvista dalla fuga del loro comune fidanzato. O forse era lei
che non
riusciva a sentire nemmeno le sue parole.
Inumidendosi le labbra inaspettatamente asciutte, strinse le braccia al
corpo
con fare meccanico. Fuori faceva freddo, ma di questo prese coscienza
soltanto
diversi secondi più tardi.
Balzò di tetto in tetto, tenendo con una sola mano il
proprio carico, in un
equilibrio che sarebbe apparso precario solo per l’occhio
più disattento. Uno
scherzo invece per lui, e questo nonostante la carenza di allenamenti,
la
mancanza di sonno e l’ansia che lo stava dominando; ma ora
non era affatto
dell’umore di vantarsene.
Chissà come
reagirà.
Cercò di non immaginare la delusione sul volto di sua madre,
e ovviamente ciò
sortì l’effetto opposto. Non importava, si sarebbe
giustificato, si sarebbe
scusato, in qualche modo avrebbe perfino pagato i danni provocati.
Sarebbe
voluto uscire dal Nekohanten in un modo più ortodosso, ma
quel che era fatto
era fatto. E tutto questo, ora, passava in secondo piano.
Pregò di non stare per commettere una grossa stupidaggine,
per quanto se lo
fosse ripromesso: se ci fosse stato anche solo il minimo cenno di
speranza, lui
avrebbe provato qualunque cosa. Proprio sua madre era stata
l’ispirazione per
ciò che gli era venuto in mente, glielo avrebbe spiegato e
magari lei avrebbe
capito. Avrebbero capito.
Poteva salvare Akane, doveva salvarla. Era finito il tempo di piangersi
addosso, stava tutto a lui: e se anche, una volta arrivato a
destinazione,
avesse dovuto affrontare altri cento, mille Safulan, ebbene
l’avrebbe fatto
senza battere ciglio.
“Il dottor Tofu, presumo.”
Afferrò la stanghetta degli occhiali e mise a fuoco, con un
po’ di meraviglia,
la figura non più alta di un comodino che aveva
letteralmente balzellato nella
sua direzione e si stagliava ora di fronte a lui abbarbicata al proprio
bastone, con un’aria saccente e che per questo gli appariva
quasi comica,
associata a tale immagine. Poi ricordò di avere a che fare
con una delle Grandi
Anziane del leggendario popolo di Joketsuzoku e riacquistò
un certo contegno.
“Venerabile Cologne”, cominciò
aggiustandosi la voce, “ero venuto per…”
“Non è il momento.” La sua
interlocutrice si guardò rapidamente attorno, forse
solo per constatare che il rumore che aveva fatto sobbalzare entrambi
poco
prima non era stato causato da lui. Poi puntò gli occhi in
direzione opposta
del corridoio. “Lo sgabuzzino. Ma certo.”
“Vengo con lei!” Disse, traducendo in azione le
proprie parole quando
l’amazzone lo ebbe già distanziato di qualche
metro.
La raggiunse che era intenta a contemplare una porta aperta per
metà e fuori
dai cardini, nonché l’interno della stanza,
illuminato dall’interruttore acceso.
“Era chiusa a chiave… domani mi
toccherà far sistemare la serratura.”
Borbottò.
“Un ladro?” Chiese Tofu, affacciandosi a sua volta.
“Mentre tutti noi eravamo
in casa?”
“Sicuramente qualcuno che è entrato dalla porta
sul retro, dato che eravamo
riuniti nel salone. E che se n’è fuggito
da… beh, direi che non ci sia neanche
da domandarselo.” Concluse additando il vetro rotto e la
finestra dalla quale
faceva capolino, a tratti, qualche soffio di vento freddo.
“Un’uscita ancora
meno discreta, senza dubbio.”
Tofu ispezionò l’interno della stanza, scorrendo
tra scope e scatole varie
senza trovare niente che non facesse pensare a un comunissimo
ripostiglio.
“E manca qualcosa?” Domandò infine.
“Sì.” Disse l’amazzone.
“E si tratta delle uniche cose che potessero
avere… un
valore.”
Tofu ripensò alle foto che Nabiki aveva mostrato loro
qualche ora prima, quando
aveva smascherato il piano architettato dal signor Saotome. Non gli fu
difficile tirare le somme.
“Le fiasche con le acque maledette, giusto? E il resto
lascerebbe pensare a uno
dei ragazzi.
Uno come Mousse, Ryoga, o più probabilmente
Ranma.”
Cologne lo fissò attentamente prima di rispondere. Poi
alzò il capo, con l’aria
del giocatore che decide di scoprire le proprie carte.
“Già, quelle fiasche. Tutte e tre, tra
l’altro. E immagino che anche l’altra
supposizione sia esatta.” Sospirò. “Pare
che il consorte abbia in mente
qualcosa, ma onestamente non saprei dire cosa di preciso possa avere
intenzione
di fare con quelle acque.” Socchiuse le palpebre.
“L’unico fatto certo è che
con Zhou Chuan Xiang non si scherza.”
“In verità”, Tofu aggiustò le
lenti all’altezza del naso, “credo di avere
un’idea a riguardo.”
L’interlocutrice tornò a fissarlo negli occhi,
lasciando trapelare un poco di
curiosità.
“Sentiamo.”
Si bloccò per qualche secondo. Si era recato da Cologne
proprio per esporre
questa intuizione ma non era sicuro della sua plausibilità,
tanto che aveva
finito per seguirla in silenzio ed era stato sul punto di lasciar
perdere,
quando lei era entrata in bagno. Si costrinse a ripetersi che doveva
osare,
doveva tornare ad avere fiducia nelle proprie capacità, e a
ogni modo qualunque
cosa era meglio della tortura a cui si era sottoposto fino a qualche
minuto
prima.
“Prima lei ci diceva che l’ Akanenichuan ha
fatto… se ricordo bene le sue esatte
parole, ‘da tramite’. In pratica la sorgente non ha
inglobato a sé una volta
per tutte la tamashii
di Akane, non opera in quel modo ma funge
più
semplicemente da conduttore. Quando Ukyo si è bagnata con
quell’acqua, pur
trovandosi a centinaia di chilometri di distanza dalla Cina e dal monte
Kensei,
l’anima senziente di Akane è stata trasferita nel
suo corpo. E la sorgente è
diventata una fonte normale, prova ne è quel coniglio che vi
è stato immerso
senza alcuna conseguenza.”
“Precisamente.”
“Allora pensavo…” Espose rapidamente la
sua idea. Cologne lo ascoltò con
attenzione, annuì quando ce n’era bisogno, non lo
interruppe finché ebbe
finito.
“È una teoria interessante.” Gli disse
infine. “Sebbene non sappia se possa
davvero essere messa in pratica, si potrebbe fare almeno un
tentativo… ma…”
Alzò lo sguardo verso la stanza, intuendo il seguito della
frase. “Pare che
Ranma abbia avuto quest’idea prima di noi”,
constatò a sua volta, “o almeno ci
conviene sperare che sia andata così.”
L’amazzone non replicò nulla e Tofu la
scrutò con interesse. Qualcosa non lo
convinceva del tutto, forse la rapidità con cui Cologne
aveva accettato quanto
le aveva detto. Si domandò se per caso non fosse
già arrivata per conto suo
alla medesima conclusione, se l’avesse tenuta nascosta loro
per un tornaconto
personale.
La morte di una tra Akane e Ukyo poteva tornare utile a Shampoo,
effettivamente, ma davvero non riusciva a darsi una risposta
così crudele.
Da medico, non poteva concepire nulla di più importante di
una vita umana e
supponeva che la stessa Cologne non dovesse pensarla poi
così diversamente. Del
resto mai in tutto quel tempo era ricorsa a rimedi drastici per
acquistare
Ranma alla causa di Joketsuzoku, e di mezzi ne avrebbe avuti tanti.
Le urla della sua interlocutrice lo riscossero. Non comprendeva
ciò che
l’amazzone andava esclamando in lingua cinese, ma suonavano
indubbiamente come
delle imprecazioni.
“Venerabile Cologne, cos’è
successo?”
Cologne rispose senza guardarlo. “Quello scellerato di un
consorte non ha
considerato il problema più ovvio. Che cosa ha mai
combinato?!”
Non distingueva più le carezze sulle proprie spalle in segno
di conforto, né
sapeva di chi fossero le mani che avevano stretto le sue. Avvertiva
solo la
voce di Ukyo dentro di sé, che aveva ripreso a farsi sentire
con nuovo vigore:
ora la sentiva nitidamente, ma non era intenzionata a darle retta.
Scuotiti, le diceva. Vuoi forse che finisca tutto così?
Intendi startene ancora
a lungo a braccia conserte, trascorrere in questo modo i tuoi ultimi
momenti,
lasciare questo mondo senza nemmeno parlare un’ultima volta
con lui, dirgli
quel che provi? Ecco, guarda cosa mi stai facendo fare, proprio a me
che se
fossi al posto tuo non esiterei un istante a raggiungere Ran-chan con
ogni
mezzo, ma ti sembra giusto?! Scuotiti, insomma, o giuro su ogni
okonomiyaki
cucinata nella mia carriera che mi riprendo il mio corpo seduta stante!
Non puoi capire, le rispose mentalmente. Se lui non vuole vedermi, non
posso
costringerlo. E io non sono come te, non so esprimere i miei sentimenti
come
fai tu, non ne sono capace. Non ho la tua faccia tosta… il
tuo coraggio, la tua
forza d’animo.
Finiscila con queste baggianate, le replicò Ukyo con una
irruenza tale da farle
pensare di averla udita gridare sul serio e non solo nella sua testa.
Non posso
sentire questi discorsi dopo che hai preso una simile decisione, dopo
che mi
hai impedito il nobile gesto, il sacrificio espiatorio al posto tuo,
che hai
scelto di affrontare uno ad uno i tuoi cari, guardarli dritto in faccia
e dire
loro addio. Pensi che, di noi due, sia io quella ad aver avuto fegato?!
E
arrivata fin qui mi parli di rinunciare… di non rivedere
più quello stupido che
amiamo, quello stupido che ti ama?
“Ukyo…” Disse inavvertitamente a voce
alta, colpita di cuore da quello sfogo,
dalla verità di quanto detto. Anche se Ranma era fuggito,
lei l’avrebbe
ritrovato. Solo che non poteva…
Si interruppe, tornando alla realtà. Qualcuno le aveva
appena messo in mano
qualcosa di caldo. Spostando su di esso la propria attenzione,
poté riconoscere
la forma di un thermos.
“Non è da bere.” Disse Nabiki, sbucando
di fronte a lei e facendole un
occhiolino. “Con questo potrai ritrasformarti in Ukyo quando
desideri, senza
bisogno di tornare qui.”
“Sorellina…”
“Risparmiati il ‘sorellina’, con me non
attacca: sappi che addebiterò questo
servizio al tuo caro fidanzato. E ora vai, hai ancora tutto il tempo di
trovarlo.”
Akane accennò a muoversi, poi si bloccò.
Guardò ancora la sorella. E poco più
distanti Kasumi, papà, la zia Nodoka, che annuivano piano.
“Cosa aspetti, un altro saluto melodrammatico?
Sbrigati!” Nabiki accennò un
gesto della mano per enfatizzare la propria esortazione, ma fu
anticipata dal
suo slancio. Non ne uscì fuori il migliore degli abbracci,
ma per Akane andava
benissimo lo stesso.
“Grazie. Ti voglio bene anch’io.”
Mormorò, prima di interrompere il contatto e
allontanarsi senza osservare la reazione di Nabiki, senza
più guardare nessuno.
Se si fosse voltata indietro, forse avrebbe perso il coraggio e non
poteva, non
voleva permettersi questo.
E corse, corse. No Ukyo, pensò, non voglio che tutto finisca
così.
Ma era talmente assurdo, non sapeva nemmeno dove si stesse dirigendo.
Ranma
poteva trovarsi ovunque. No, non era questo l’atteggiamento
giusto, non
importava, doveva provare. Il cuore le gridava di farlo.
Anche se solo un’ultima volta, voleva vederlo ancora.
Forzò la finestra e scoprì che non ce ne sarebbe
stato bisogno, nessuno aveva
provveduto a chiuderla ermeticamente dopo la ‘fuga’
della notte prima.
Un altro conto da
pagare…
Stupendosi della propria autoironia, pensò che andava bene
così, il più era
fatto e ora doveva imporsi di essere ottimista. Entrò e
soltanto allora
realizzò la fatica e la stanchezza e si permise di
riprendere fiato per qualche
istante, sedendosi per terra a poca distanza dal letto, dalla vera
Akane.
Aveva bisogno di riordinare le idee.
Grazie alle parole di sua madre, il discorso di Obaba gli era tornato
chiaro e
vivido nella mente. Per qualche minuto, tutto aveva avuto perfettamente
senso.
Adesso, invece, i dubbi erano tornati a sovrastarlo e a impedirgli ogni
lucidità di pensiero. Quante probabilità
c’erano che la sua idea potesse
funzionare?
Ma non aveva più tempo per pentirsi. Scrutò le
tre damigiane. Era così agitato
che, entrato nel ripostiglio del ristorante dove le aveva viste
l’ultima volta,
non era nemmeno riuscito a leggere con attenzione le scritte sulle
etichette e,
per timore di scambiarle, aveva deciso di portarle tutte con
sé.
Si complimentò con se stesso per quella decisione
così assennata, pur presa in
un momento così confuso: non voleva nemmeno immaginare il
disastro che avrebbe
potuto combinare adoperando l’acqua sbagliata. Accese la
luce. Fissò
attentamente le damigiane e per un momento credette di essere ancora
troppo
nervoso, o che la vista gli stesse giocando un brutto scherzo. Poi la
verità lo
assalì come una scossa elettrica.
Le scritte erano in caratteri cinesi.
Per qualche secondo fu letteralmente dominato dal panico. Cosa diamine
aveva
fatto?! E ora come poteva riconoscere quella giusta? Calma, doveva
mantenere la
calma. Scrutò ogni centimetro della circonferenza di ogni
fiasca, forse da
qualche parte erano annotate le traduzioni… ma no, niente!
Quell’idiota
di una guida! Non poteva scrivere nella nostra
lingua?!
Calma, poteva ancora farcela. Sollevò una fiasca per volta:
una poteva
scartarla con sicurezza, ma le altre due… No, aveva
assolutamente bisogno di
capire cosa fosse scarabocchiato sulle etichette. Forse con un
dizionario… ma
dove trovarlo, ora?
Stupida guida! Stupido papà che non gli aveva mai fatto
imparare il cinese,
nonostante tutti i loro viaggi di addestramento!... Stupido lui, che
non
avrebbe dovuto fare di testa sua ma chiedere a Obaba…
“Maledizione!” Gridò contro un
appendiabiti. Non poteva finire così, non poteva
fallire. Lui era Ranma Saotome, non perdeva mai…
…quante stupidaggini. Glielo aveva detto anche sua madre,
non doveva lasciare
che fosse l’orgoglio a parlare per lui. Non c’era
davvero nulla da vincere o
perdere.
Appoggiandosi alla spalliera del letto cominciò a parlarle,
la pregò di
capirlo, di perdonarlo. Ma proprio guardandola ancora una volta,
distesa su
quel letto, lo comprese: lei non era la vera Akane, era solo un corpo
senz’anima
che non gli avrebbe mai potuto rispondere.
Solo un altro dei sogni
che aveva rincorso inutilmente.
Contro ogni logica gridò il suo nome, come se la forza della
sua voce potesse
svegliarla e compiere il miracolo. In una fiaba a lieto fine, forse,
sarebbe
stato così, eppure nella realtà lei si
ostinò a non proferire verbo e lui si
sentì morire dentro.
In un ultimo impeto scagliò un forte pugno contro la parete,
urlando la propria
disperazione, consapevole di aver perso anche la sua ultima
possibilità. Poi
tutto divenne buio.
Una strana sensazione le attraversò il petto, simile a una
fitta. Piegò il
torace e appoggiò le mani sulle ginocchia, raccogliendo il
fiato.
Si guardò intorno. Le era parso che qualcuno
l’avesse chiamata, ma il luogo era
deserto. Riconobbe lo spiazzo del parco giochi vicino casa, un breve
intervallo
tra le abitazioni della zona che permetteva di scorgere la linea
dell’orizzonte. Quanto aveva corso? E quanto mancava ancora
all’alba? Non ne
aveva la minima idea e più ci pensava, più si
convinceva che tutta questa cosa
non aveva alcun senso. Lei stava per morire, e ne aveva una paura
matta: aveva
cercato di non affrontare davvero quella verità, ma il suo
scudo mentale si era
ormai infranto del tutto.
Stava per morire, ma non voleva. Si chiedeva perché dovesse
toccarle questo
destino, a lei che non aveva nemmeno finito di frequentare la scuola
superiore.
Si chiedeva perché proprio lei, quale karma dovesse
scontare, cos’avesse mai
fatto di male per essere punita così gravemente. Voleva
vivere, diplomarsi,
magari iscriversi all’università, guidare la
palestra di arti marziali, farsi
una famiglia e ora non avrebbe avuto niente di tutto questo.
Scoprì che la sua vista era annebbiata dalle lacrime. Non
ricordava nemmeno di
aver cominciato a piangere. Ukyo provò ancora a confortarla,
ma lei stavolta
ricacciò con rabbia quel gesto, non voleva più
sentire la solidarietà di
nessuno.
“Voglio vivere!” Gridò disperata.
E poi gridò ancora, e decise che avrebbe continuato fino a
consumarsi le corde
vocali. Cos’altro le restava da fare?
E all’improvviso, fissando l’immagine deformata
della mano che stringeva il
thermos, come una folgorazione, la risposta le si manifestò
limpida e seducente
nella sua semplicità.
Assolutamente nulla.
Le sarebbe bastato aspettare. Non doveva fare nulla. Aspettare e
nient’altro. E
sarebbe sopravvissuta. E sarebbe…
…cosa stava andando a pensare? Stava forse perdendo il lume
della ragione?! Se
lei non si fosse bagnata con quell’acqua calda prima del
sorgere del sole,
sarebbe stata Ukyo a fare la sua fine. Voleva vivere, ma non a quel
prezzo, non
poteva prendere in considerazione una simile…
Ma voleva vivere. Voleva vedere Ranma, ma non avrebbe potuto farlo se
ora fosse
morta. Anche Ukyo gliel’aveva detto, no? Anche Ukyo voleva
che lei vedesse
Ranma. Perciò non faceva una grinza, non faceva…
Il cielo. Era più chiaro rispetto a pochi minuti prima.
Asciugandosi il viso,
scorse i primi raggi del sole che premevano per uscire fuori. Adesso o
mai più.
Il braccio le tremò.
“Mi hai sopravvalutato, Ucchan”, disse piano,
notando appena di averla chiamata
con il diminutivo, “non ho affatto fegato, sto morendo di
paura… perdonami, non
trovo la forza di farlo.”
Non poteva farcela, non poteva versarsi quell’acqua. Era
debole.
Allontanò lievemente da sé il thermos, fissandolo
come la cosa più orribile
sulla faccia della terra.
Kami, perdonami,
perdonatemi. Ranma…
Soun dovette fermarsi. Non voleva, ma fu costretto. Le gambe gli
avevano ceduto
e non riusciva a contrastare l’ansimare del proprio fiatone,
il corpo non gli
rispondeva più come una volta. E poi, ormai,
l’aveva vista.
La ragazza con la divisa del Furinkan era inginocchiata per terra e
rivolta di
spalle col capo basso, per cui, nonostante il sole fosse appena sorto e
il
cielo si stesse rapidamente rischiarando, non era in grado di
identificarla.
Si avvicinò e udì un singhiozzare sommesso.
Scoprì che la propria mano si era
già posata con fare rassicurante sulla spalla della ragazza
prima ancora che la
sua mente avesse formulato un piano d’azione.
Lei sussultò. “Non volevo finisse
così… non è giusto”,
sussurrò, con una voce
così roca che non riuscì a riconoscerne il
timbro, “non è per niente giusto.” E
con queste parole voltò il capo nella sua direzione. Soun
non voleva, ma i loro
sguardi si incontrarono.
Vide il volto.
I capelli.
Lunghi.
Quelli di Ukyo.
La strinse a sé come se fosse un simulacro della figlia,
l’ultimo collegamento
che l’aveva temporaneamente vincolata a questo mondo e, senza
più niente che
potesse trattenerle, lasciò che le proprie lacrime si
unissero alle sue.
Epilogo
Silenzio. Aprì le palpebre, lentamente e con una certa
difficoltà, ma
l’oscurità non si dissipò di molto.
Alle sue spalle, anzi affianco a lei doveva
esserci una lieve fonte di luce, ma non bastava a rischiarare
l’ambiente dove
si trovava: non la aiutava il fatto che la vista era appannata e che il
corpo
non rispondeva ai suoi comandi. Impossibilitata a muoversi, scorgeva i
deboli
raggi di quella luce e ne era quasi ipnotizzata.
Si sentiva stordita, un po’ come se le fosse stato
somministrato un anestetico.
Le lacrime di poco prima non erano che un ricordo e il pensiero della
sua morte
non la angosciava più di tanto, forse si era rassegnata. O
forse, adesso che il
trapasso era compiuto, il peggio era effettivamente passato.
Provò ancora a muoversi, ma non vi riuscì.
Probabilmente era normale, da morta:
non aveva mai avuto notizie di cadaveri ambulanti, a parte quelli dei
film
dell’orrore che le piaceva guardare la sera tardi. Avvertiva
la presenza del
proprio corpo, ma poteva trattarsi semplicemente di
un’illusione costruita
dalla propria mente, così abituata alle sensazioni fisiche
da non sapersene
separare neppure in questo momento.
Chiuse gli occhi. Si domandò dove si trovasse, come mai non
stesse succedendo
niente. Forse non era ancora nell’Aldilà, forse
era in una specie di dimensione
intermedia, magari era in attesa della sua reincarnazione. Non si era
mai fatta
una idea precisa di come potesse funzionare il
‘dopo’, né ora era così
ansiosa
di scoprirlo.
Del resto non aveva nemmeno idea di come avesse trovato infine il
coraggio di
versarsi l’acqua del thermos e attivare la trasformazione,
salvando Ukyo giusto
in tempo. Ma l’aveva fatto e solo questo contava, adesso si
rendeva conto che
non sarebbe stata in grado di sopportare di essere sopravvissuta a sue
spese,
di vivere il resto della propria vita con il fardello sulla coscienza
di averne
soppressa un’altra.
Ancora silenzio. No, non proprio del tutto. Sentiva qualcosa, una
presenza, un
lieve respiro. Riaprì gli occhi, più facilmente
della prima volta.
Vide una sagoma, nella penombra. La sagoma di una persona rannicchiata
accanto
a lei, come addormentata, e i capelli che cascavano su un
lato… raccolti in un
codino…
Possibile…? Il cuore accelerò il proprio battito,
o almeno la mente lo
immaginava per lei, e lo sguardo continuò a vagare lungo la
figura curvilinea.
No, non era lui, non poteva scorgere tutti i dettagli ma chiaramente
stava
osservando i contorni della sua forma femminile. Però Ranma
era guarito dalla
maledizione, tutti erano guariti dalla maledizione, lo aveva visto nei
ricordi
di Ukyo, lo aveva sentito confermare da Mousse, non era forse
così? A meno che…
Un’intuizione la colpì all’improvviso.
Lo spirito della ragazza
annegata…?
Ma certo, aveva un senso, era logico. Le parve di partecipare alla
chiusura di
un cerchio: tutto era cominciato con Jusenkyo e con Jusenkyo doveva
finire,
pensò, e in un certo senso la faccenda era perfino
affascinante. Ma cosa
sarebbe stato di lei, ora?
Forse era bloccata lì, forse per sempre.
Dunque è
così, passerò
l’eternità assieme alle anime di coloro che sono
annegati nelle Sorgenti Maledette.
Le venne un brivido per tutto il corpo, incredibilmente reale per
essere un
parto della sua mente.
Le sembrò un destino orribile e più che mai
desiderò qualsiasi altra cosa,
qualunque cosa che non fosse questo. Ma soprattutto voleva rivederli.
Papà.
Kasumi. Nabiki. Ranma. Ranma. Ranma…
“Ran… ma…”
La ragazza con il codino sobbalzò. Forse lo spirito
l’aveva udita e si era
letteralmente risvegliato dal suo sonno.
Un momento, io sono
riuscita a parlare.
Lo spirito della ragazza annegata si inarcò verso di lei e
sbatté le palpebre più
volte in rapida successione, squadrandola come se fosse un fantasma,
cosa che
probabilmente era davvero. Ma la loro vicinanza la stava intimorendo, e
per
istinto Akane alzò il braccio verso di lei per allontanarla.
E sono riuscita a
muovermi.
Voleva essere un gesto brusco, ma si trovò invece a sfiorare
il viso della
ragazza. Era tiepido. E bagnato.
“Aka… ne?”
Conosceva il suo nome? Non poteva essere! Ma allora…
“Ranma…?”
Era vero, non stava sognando. Era davvero la sua voce.
Prese la mano che lei aveva poggiato sul proprio viso. Era fredda, la
strinse
tra le sue.
“Ranma, sei proprio tu?” Il suo tono era incredulo
e speranzoso al tempo
stesso. ‘Fragile’ era la parola che il cervello gli
suggeriva come la più
adatta.
Pensò di dover dire qualcosa. Dare prova anche a lei che non
erano in un sogno.
“Questo… dovrei chiederlo io a te, non ti
pare?” Le mormorò.
Era come se le lancette fossero tornate indietro. Le stava parlando.
Stava
parlando ad Akane. Il suo volto era pallido, lo sguardo stanco, ma lei
era
viva. Si stavano tenendo per mano e lei era viva.
Era un miracolo, perché anche l’ultimo suo
tentativo sembrava essere
miseramente fallito.
L’idea gli era arrivata ripensando alle parole dette da sua
madre: quando lei
aveva parlato di ‘tramite’, a lui era venuto in
mente il discorso di Obaba sul
funzionamento dell’acqua della fonte Akanenichuan. Se
era
stata quella a
trascinare l’anima di Akane nel corpo di Ucchan, per quale
motivo – si era
chiesto d’un tratto – il fenomeno non poteva essere
replicabile? La risposta
era che poteva, punto.
Bagnando un altro corpo, l’anima avrebbe automaticamente
abbandonato Ukyo per
seguire il nuovo ‘ospite’, o questa almeno era la
sua speranza.
E stando così le cose, non poteva davvero pensare a un
ospite migliore del
corpo originale.
“Dove siamo? Non capisco…”
Ranma scosse piano la testa, tenne la mano della fidanzata come per
assicurarsi
che non potesse scomparire nel nulla e con l’altro braccio
teso verso la
finestra tirò la tenda, lasciando passare la luce del
giorno.
“Scema… non riconosci la tua camera?”
L’ambiente avvolto dai colori del mattino assunse un altro
aspetto, più
allegro, più vivo. Pensò distrattamente che poi
avrebbe dovuto riparare anche
quest’ultimo danno: il pugno che aveva sferrato prima aveva
sfondato in pieno
l’interruttore lasciando la stanza senza illuminazione
elettrica. Non che
contasse qualcosa, al momento.
Era davvero un miracolo, perché il sole era sorto da molti
minuti e Akane non
aveva dato cenni di vita, nonostante l’avesse bagnata con
l’acqua che riteneva
giusta: sicuro di aver perso troppo tempo, aveva sfogato ancora la
propria
disperazione e poi si era accucciato accanto al suo corpo esanime.
Obaba mi ha detto che
quella volta, in Cina, ho fatto in
tempo… ma adesso,
quando davvero contava, non ci ero riuscito… ero arrivato di
nuovo troppo tardi…
E invece ecco la sua fidanzata davanti a lui: tornando a fissarla,
notò la sua
aria stordita e il fatto che non si fosse alterata per
l’insulto che gli era
scappato prima: probabilmente era ancora troppo debole per farlo, ma se
avesse
voluto avrebbe potuto picchiarlo anche cento, duecento volte.
Voleva dirle tante cose, ma i pensieri si accavallarono e alla fine
dalle sue
labbra uscì soltanto uno stentato:
“Beh… come va?”
Ecco, che stupido… Era una frase talmente idiota, in quella
circostanza, che
pensò di essersene vergognato abbastanza per tutti e due, ma
poi notò che Akane
non sembrava indispettita e anzi gli stava accennando un sorriso.
“Mi sento, direi, intorpidita. Come se avessi una gamba
addormentata, solo che…
vale per tutto quanto.” Proferendo le ultime parole,
cercò di alzarsi dal letto
facendo leva sulle braccia. Sollevato il busto, rischiò di
ricadere
all’indietro e Ranma la trattenne in tempo.
“Immagino che sia normale”, constatò,
“dopotutto erano settimane che il tuo
corpo vegetava qui immobile.”
La fidanzata prese a fissarlo con una strana intensità. Si
accorse solo allora
dell’estrema vicinanza dei loro volti e non riuscì
a impedirsi di arrossire.
“E tu…”, cominciò lei mentre
Ranma avvertì l’improvviso bisogno di deglutire,
“come mai sei una ragazza?”
Non era esattamente ciò che si era aspettato di sentirsi
dire, ma anche questa
domanda gli suonava piuttosto scomoda.
“Beh, questo, ecco…” Decise di
raccontarle rapidamente e senza troppi dettagli
il suo piano, di come avesse portato con sé dal Nekohanten
tutte e tre le
damigiane e si fosse poi trovato
nell’impossibilità di stabilire quella giusta,
non conoscendo il cinese.
Ricordando, rivisse sulla propria pelle quei momenti di terrore. Aveva
potuto
escludere la damigiana più leggera, quella ormai vuota che
aveva contenuto al
proprio interno la Nannichuan,
prima di essere stata consumata da lui e
dagli
altri. Tuttavia, senza la possibilità di comprendere cosa
dicessero quegli
ideogrammi, non riusciva a distinguere tra le altre due e intanto il
tempo
stava finendo e…
“Le hai provate su te stesso?!” La voce di Akane
era scioccata.
Ranma ridacchiò leggermente, non riuscendo a strappare da
sé quella seccante sensazione
di imbarazzo.
“Ecco, non entrambe. Come vedi, la prima acqua che mi sono
versato era quella
della sorgente della ragazza annegata e così non
c’è stato alcun bisogno di
sperimentare la seconda…”
“Ma… ma…”
“Non c’è bisogno di farne un dramma.
Tanto troverò un altro modo di guarire
dalla maledizione, vedrai…”
“No, intendevo… e se ti fossi versato per prima
l’altra acqua?”
Ranma non rispose. Sarebbe stato un grosso bugiardo, se le avesse detto
di non
averci pensato. Il rischio c’era, Akane si sarebbe trovata
nel suo corpo,
inconsapevole della situazione, e dunque al sorgere dell’alba
lui… Ma lei
sarebbe stata salva anche in questo caso, perciò
semplicemente non aveva
esitato.
Non disse nulla, ma da come lo stava guardando doveva averlo capito
anche Akane.
“Sei uno stupido…” Mormorò
con un filo di voce, e lui non poté fare a meno di
concordare mentalmente. Era stato uno stupido in tanti di quei modi che
ormai
ne aveva perso il conto, eppure i Kami avevano voluto dargli una
possibilità di
fare ammenda.
Improvvisamente venne tirato a sé in un abbraccio e fu colto
del tutto alla
sprovvista.
Finì
addosso ad Akane, pur riuscendo a far leva sul
materasso con la mano
libera e non schiacciarla con il proprio peso. A lei sembrava non
importare, lo
stava stringendo con forza e aveva perfino cominciato a singhiozzare:
la cosa
lo mise ancora più in agitazione e avrebbe voluto dirle di
smetterla, ma la
voglia di piangere venne anche a lui e cercò piuttosto di
trattenersi.
“Sono viva…” Disse lei tra le lacrime.
Ranma analizzò la situazione. Troppe volte, negli ultimi
giorni, aveva
oscillato tra sonno e veglia fino a non distinguere quasi
più la realtà dalle
proprie fantasie, fino al punto di dubitare della propria
sanità mentale. Ma
gli occhi arrossati della fidanzata, il suo respiro, il suo calore non
gli
lasciavano dubbi.
“Sei viva.” Ripeté, con la sensazione di
essersi svegliato da un lunghissimo
incubo.
Akane si sfogò in un pianto liberatorio e lui la
lasciò fare. Anche a lui ora
stavano uscendo le lacrime, ma mandò mentalmente al diavolo
le parole di papà
una volta di più, con la consapevolezza che
l’avrebbe fatto anche se non si
fosse trovato nella sua forma maledetta.
Pianse assieme a lei e poi godette i lunghi momenti di silenzio che
seguirono,
intervallati solo da qualche singhiozzo sporadico.
“Però non credere che ti perdoni
così”, riprese Akane, “ho avuto tanta
paura,
volevo che fossi vicino a me… e tu non
c’eri.”
Sentì nitidamente il rumore del suo battito che accelerava.
Cercò la mano di Akane e ricordò di non averla
mai staccata dalla propria,
nemmeno in seguito alla caduta di poco prima. Così si
limitò ad accentuare la
stretta.
“C’ero invece”, disse, sapendo che era
vero, “e ci sarò sempre.” Questo, si
ripromise che sarebbe stato altrettanto vero.
Si guardarono negli occhi e non ci fu bisogno di aggiungere altre
parole.
Ritenne che non fosse né il luogo, né il momento
per confessarle i propri
sentimenti – a dirla tutta, nemmeno il corpo era quello
giusto – ma anche che
quel discorso fosse solo rimandato di poco.
Avrebbe voluto che quegli istanti durassero per sempre, ma fu proprio
lui a
sollevarsi e aiutare la fidanzata a tirarsi su dal letto.
“Dobbiamo avvisare gli altri.” Le
spiegò. “Loro non sanno ancora niente.”
Akane annuì, sorridendogli di nuovo. Era pallida, ma meno di
prima. Ranma pensò
che si sarebbe ripresa presto del tutto, del resto non aveva mai messo
in
discussione la forte tempra della sua fidanzata.
È stata anche
più forte di me…
Aveva ceduto troppe volte, aveva fatto passare brutti momenti a sua
madre, al
signor Tendo, a Ucchan, a tutti. Lo sguardo gli cadde sulle fasciature
delle
proprie nocche. Cavolo, aveva anche alzato le mani contro
Tofu… e forse era
andato troppo pesante perfino contro il proprio vecchio, non che lui
non si
meritasse una lezione.
Ma alla fine
è stato pure merito suo, anche se solo per una
fortuna sfacciata.
E tutti quanti a modo loro l’avevano aiutato, gli avevano
impedito di perdersi
nel momento in cui era più vulnerabile.
“Sarà una bella sorpresa.” Gli disse
Akane, che si era appena appoggiata alla
sua spalla. Lui annuì, sorridendole e stringendola a
sé.
“Indubbiamente.”
La sostenne e percorsero insieme alcuni passi, affacciandosi un attimo
alla
finestra, prima di dirigersi verso l’uscita.
Fuori, il sole splendeva. Sapeva che era così anche dentro
di lui.
Le ombre si erano finalmente dissipate.
***
Il disegno che avete trovato nel capitolo è stato realizzato
da Giorgia Gi,
che
ringrazio ancora di cuore.
Bene, qualche pensierino mi è venuto in mente, ma
prima… ecco, prendete un bel
respiro, magari aspettate qualche istante prima di distogliervi dalla
storia
appena letta, magari se non siete interessati saltate proprio le righe
che
seguiranno. Ma se fatto ciò siete ancora qui, ne approfitto
per ringraziarvi,
tutti: che abbiate commentato assiduamente, di tanto in tanto, ma anche
una
sola volta per farmi sapere che, sì, ho avuto anche il
vostro sostegno. Che
abbiate inserito la fanfiction tra le seguite, le ricordate, le
preferite, o
più semplicemente che abbiate letto questo racconto e che
questo vi abbia
saputo essere di compagnia. Grazie.
È stato un viaggio lungo, molto più lungo del
preventivato, ma non me ne pento
perché – che sia venuta fuori brutta o bella
– questa è la storia che
desideravo tanto raccontare, in ogni minimo dettaglio, dalla prima
all’ultima
riga, ed esserci riuscito mi riempie di soddisfazione. Il tutto anche
per
merito vostro, e non è per dire, ogni singola osservazione o
chiacchierata mi è
stata di grande aiuto.
Così come, l’ho sempre detto ma ribadirlo adesso
è d’obbligo, non avrei mai
potuto farcela senza il sostegno e la collaborazione costanti di quella
santa
di una beta che è la mitica TigerEyes, la quale
mi
è sempre stata vicino
dall’inizio alla fine. Senza di lei sarebbe davvero stata
tutta un’altra
storia, e forse non ci sarebbe stata proprio nessuna storia.
Non è ancora finita: qui di seguito, ecco delle "FAQ" dato
che mi
sembrava giusto rispondere pubblicamente alle domande più
interessanti che mi
avete posto nei commenti.
1) Che cosa sta facendo
attualmente Shampoo ancora in Cina?
La risposta è fondamentalmente quella data da Mousse nel
capitolo 4. Shampoo è
rimasta sconvolta dalla disperazione di Ranma a Jusendo, mentre
abbracciava il
corpo esanime di Akane (ricordiamo che in questa fanfiction Akane non
si è
svegliata): comprendendo forse una buona volta di non essere
ricambiata, si è
presa un po' di tempo per pensare, col conforto del padre e delle
amazzoni
amiche d'infanzia (e obbligando invece Mousse a tornarsene in Giappone
per dare
una mano alla bisnonna al ristorante). Quando ha chiesto per telefono
il
permesso, Cologne non se l'è sentita di obiettare e l'ha
lasciata fare.
2) Qual è
l’esatto meccanismo dell’Akanenichuan?
Nei capitoli 10-11 Cologne spiega che l'Akanenichuan non è
una fonte diversa
dalla Nannichuan e dalla Nannichuan, essa come le altre ha solo la
funzione di
modificare l'aspetto delle persone che ci s’immergono, fermo
però restando che
un legame, sia pur latente, con colui che vi è caduto dentro
la prima volta è
comunque presente. Ciò che ha davvero causato gli effetti
che conosciamo è
stata la momentanea "morte" di Akane: non una vera e propria morte,
ovviamente, ma quando Akane ha chiuso gli occhi il suo spirito (la
tamashii,
ossia la parte senziente dell’anima umana) si è
separato dal corpo. E in quel
momento è stato catturato, risucchiato dalla fonte
Akanenichuan in virtù di
quel legame di cui parlava Obaba. Nel manga chiaramente questo fenomeno
non è
avvenuto, ed è il vero e proprio momento divergente da cui
la “what if” della
mia storia.
Successivamente, proprio come nel manga, Ranma ha bagnato la fidanzata
con
l'acqua miracolosa di Jusendo (quella che sgorgava dal rubinetto del
dragone) e
questa ne ha preservato il corpo nonostante la cessazione delle
funzioni
vitali. Tuttavia ormai la tamashii era imprigionata e impossibilitata a
fare
ritorno: l’unico modo in cui poteva trasferirsi da un corpo
all'altro era
attraverso la stessa acqua dell’Akanenichuan, che a questo
punto funzionava
come un “conduttore”.
3) Ma cosa succede
esattamente quando Akane si bagna con l’acqua calda a fine
cap 14?
Premesso che queste precisazioni sono ininfluenti a livello narrativo,
quella
che segue è la mia ricostruzione degli eventi da scaletta:
Akane si bagna con
l'acqua calda appena prima dell’alba, fisicamente
ritrasformandosi in Ukyo e di
fatto lasciando campo libero all'anima (tamashii) di Ucchan ma
rimanendo ancora
dentro il suo corpo. Tuttavia proprio allora sorge l’alba, e
a quel punto il
tempo a disposizione è terminato e l'anima (tamashii) di
Akane dovrebbe
staccarsi dal corpo di Ukyo, disperdersi, verosimilmente annullarsi
nell’incoscienza
eterna. Sennonché, sempre nello stesso identico momento,
Ranma (che,
ricordiamo, si trova a casa Tendo) bagna il corpo di Akane con l'acqua
dell’Akanenichuan la quale funziona da
“calamita” risucchiando la tamashii di
Akane e salvandole la vita.
4) Come mai, sempre nel
capitolo 14, Ranma non ha provato le due fiasche sul
corpo di Akane?
Perché né la Niannichuan (sorgente della ragazza
annegata) né l’Akanenichuan
avrebbero cambiato l’aspetto esteriore della fidanzata,
rendendo così
impossibile a Ranma capire quale fosse l’una e quale
l’altra. Il problema è
decisivo, dal momento che ogni acqua maledetta annulla gli effetti
della
precedente (se così non fosse, Ranma non potrebbe tornare un
ragazzo per intero
bagnandosi con la Nannichuan) e dunque Akane si sarebbe salvata solo se
l’ultima delle due acque usate fosse stata appunto
l’Akanenichuan. Se, al
contrario, Ranma avesse bagnato il corpo di Akane prima con
l’Akanenichuan e
dopo con la Niannichuan, non avrebbe ottenuto nulla.
5) Obaba aveva intuito
la soluzione, tenendola per sé, o è innocente?
Ho voluto lasciare questa risposta in sospeso, affidata
all'interpretazione del
lettore. Comunque un indizio c'è, ed è presente
nel paragrafo di lei e Tofu
(sempre nel capitolo 14).
6) Ora che l'anima di
Akane si è trasferita in un altro corpo (che è
poi il
corpo giusto), Ukyo ha ancora la maledizione? Si trasforma
cioè in Akane pur
non trattenendone lo spirito?
Ritengo di non aver posto abbastanza regole e paletti sul funzionamento
dell'Akanenichuan, nel corso della storia, tali da poter dare una
risposta
secca, per cui chi legge è libero di pensare che Ukyo possa
ancora trasformarsi
in un doppione di Akane (chiaramente solo dal punto di vista fisico).
In
realtà, però, nel capitolo 11 Obaba ci riferisce
che la sorgente in Cina ha
ormai perso ogni effetto (la guida vi ha immerso un coniglio e questo
non si è
trasformato) e perciò possiamo più verosimilmente
supporre che il potere
'trasformativo' si sia legato all'anima (alla tamashii) di Akane, con
la conseguenza
che Ukyo non cambierà aspetto con l'acqua fredda.
Edit del 04/04.
Ancora una cosa. Non posso proprio non segnalare una bellissima "What
If..." di Laila che riprende gli eventi di Chasing the Evening Shadows
(si parte da circa metà del capitolo 11) per condurli in un
avvincente finale alternativo! Il suo titolo è "Harakiri" e
potete trovarla: Qui.
Ora ci siamo davvero, è il momento dei saluti… o
no, perché attendo le vostre
opinioni. Sorpresi? Delusi? Soddisfatti? Fatemelo sapere, io rimango
qui a
vostra disposizione. ^__^
E già che ci sono mi metto al lavoro, perché
avrei un’altra fanfiction da
concludere… e diversi altri progetti che intendo mettere in
moto. A presto! ^__-
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=403623
|