In Sickness and in Health

di Klavdiya Erzsebet
(/viewuser.php?uid=155693)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I: Buon Anniversario ***
Capitolo 2: *** II: Basta Illusione ***
Capitolo 3: *** III: Tentazione ***
Capitolo 4: *** IV: Con i Propri Occhi ***
Capitolo 5: *** V: In Vino Veritas ***
Capitolo 6: *** VI: Presentimenti ***
Capitolo 7: *** VII: Alla Deriva ***
Capitolo 8: *** VIII: Ricominciare ***
Capitolo 9: *** IX: Non Sophia ***
Capitolo 10: *** X: Detective Ispettore ***
Capitolo 11: *** XI: La Scienza del Male ***
Capitolo 12: *** XII: La Rabbia Paralizza ***
Capitolo 13: *** XIII: Minaccia ***
Capitolo 14: *** XIV: Phoenix ***
Capitolo 15: *** XV: Alec Martin ***
Capitolo 16: *** XVI: La Fine? ***
Capitolo 17: *** XVII: Proprio Come Lei ***



Capitolo 1
*** I: Buon Anniversario ***


In Sickness and in Health

 

Genere: mistero, romantico, sovrannaturale

Disclaimer: non mi appartengono, purtroppo

Avvertimenti: het

Sommario: Prequel di Demons

(Tornano Greg e Sophia Lestrade protagonisti. È dichiaratamente romantico, anche se l’amore non è il genere principale. E pensare che non credevo di essere capace di trattarlo anche solo minimamente.)

Una strana malattia colpisce Sophia Lestrade, e un caso particolarmente inspiegabile approda nell’ufficio di Greg. Due misteri, collegamenti inaspettati, una corsa contro il tempo e una modesta ipotesi di come l’amore per la vita abbia potuto portare alla morte: è tutto contorto. Talvolta è difficile determinare l’impossibile.

{Attenzione: fanfiction Greg–centrica a livelli vergognosi}

 

 

Cap.I

Buon Anniversario

 

Diciotto novembre. Gregory Lestrade, quarant’anni, sposato da dodici. Detective ispettore di Scotland Yard, a capo della Omicidi. Uno stipendio sufficiente per consentire alla moglie di non lavorare: ‘è il mio giorno libero’ rispondeva sempre Sophia, quando le si chiedeva della sua occupazione. In realtà, solo giornate e giornate di misteri tra le mura di casa, in cui Greg non c’entrava più niente.

Una coppia senza figli sulla cui presenza fare affidamento per venire dispensati dal turno di notte: Gregory Lestrade era ormai fisso nel suo ufficio e per i corridoi a bere sfilze di caffè a ore improbabili da quando con Sophia le cose non andavano bene, e da quando Sally Donovan era la madre single di una bambina di tre anni e mezzo[1] e si ritrovava impegnata in una probabile relazione con quell’idiota di Anderson – il quale aveva, ovviamente, una moglie e due figli.

Il diciotto novembre Greg lavorava sempre poco, distrattamente, senza troppa voglia. Lanciava sguardi fugaci alla foto della moglie sulla scrivania, di solito dimenticata, abbandonata a se stessa e sommersa da penne e post–it con le scritte più varie. Sophia Lestrade era una bella donna con gli occhi verdi e la pelle chiara, piccola e dall’aria malaticcia. Non era solita frequentare le feste della polizia o cose del genere. A chi non la conosceva dava un’impressione di essere incredibilmente snob.

Era una buona amica di Sally e le teneva la bambina spesso, tanto che la piccola Amy l’aveva ribattezzata ‘zia’; cosa che aveva convinto il sergente Donovan che un figlio per casa potesse rivelarsi in grado di salvarli e implicitamente anche di salvare Sophia da se stessa. Greg non era del medesimo avviso. Greg aveva ben poche idee su come evitare il divorzio.

Quell’ennesimo diciotto novembre vantava un cielo denso e scuro, azzurro tinto di grigio e gonfio di pioggia, lo stesso di dodici anni prima. Vento che scompigliava il bianco di un vestito foderato di pelliccia esaltato dalla luce delle candele; Greg aveva preso quella che era finalmente sua moglie in braccio, le aveva abbassato il cappuccio di pelo candido e l’aveva baciata, sulle labbra rosso ciliegia, posando la propria fronte sulla sua e guardandola negli occhi ornati da ciglia scure – iridi verdi, indiscutibilmente verdi ora che le lacrime le avevano bagnate. Il freddo e l’inverno avevano reso i suoi capelli più scuri e le sue guance rosee. Aveva ventisei anni ed era bellissima, come un fiore di cristallo tra le sue braccia, perché aveva avuto l’improvvisa e devastante impressione che quella cosa meravigliosa fosse altrettanto fragile e pronta a distruggersi. E non doveva distruggersi; era troppo bella e preziosa.

Quel giorno era stato pieno di nuvole scure e gonfie come quelle che Sophia adorava. Ma non aveva piovuto finché quella notte un acquazzone violento e distruttivo non li aveva accompagnati fino alle tre del mattino, quando lei si era addormentata, cullata dal rumore della pioggia e dalle braccia di Greg.

Finendo di sistemare le pratiche il detective ispettore Lestrade si rese conto di avere poca voglia di andare avanti. Avrebbe solo voluto perdersi nei suoi pensieri, in tutte quelle belle parole sulla moglie.

Il rumore dei tacchi alti di Sally in corridoio lo risvegliò dal suo torpore e lo fece scattare in piedi, rovesciando il portamatite vicino alla foto di Sophia. “C’è stato un attentato” gli disse il sergente affacciandosi nel suo ufficio. Greg afferrò la giacca, le corse dietro e la raggiunse ansimante, cercando di infilarsi il cappotto che la moglie gli aveva regalato per il suo compleanno. Completa ossessione nei suoi confronti.

“Tutto bene?” gli chiese Sally, fermandosi un attimo. Lui avrebbe voluto solo concentrarsi sul caso.

“Sì. Dove è successo?”

“Davanti al British Museum. Pare che un ragazzo si sia fatto esplodere

Imprecazione. “...altre vittime?”

“Stava passando una scolaresca, intanto”

“Cazzo”

“Pare che ci siano stati un paio di morti”

Greg vide l’uscita e cercò di accelerare, ottenendo solo i polmoni in fiamme e le gambe doloranti; si chinò appoggiando le mani alle ginocchia. “No che non va tutto bene” gli disse Sally minacciosa, avvicinandosi a lui. Immaginò che stesse pensando a un infarto – attualmente in cima alla top ten delle speranze di ogni suo sottoposto nella Omicidi. Anderson in primis.

Greg si rimise dritto con nonchalanche e col passo tranquillo di chi ha tutto il tempo del mondo uscì insieme a Sally che adeguò l’andatura alla sua e tirò fuori le chiavi di un’auto della polizia parcheggiata appena fuori. “Guido io” le disse e la donna gliele passò. Avevano attaccate un vecchio portachiavi di cuoio, sporco fino all’inverosimile.

Quel mercoledì c’era poco traffico, l’ora di punta era passata. Si aspettò l’agitazione intorno al British Museum e la notizia che sarebbe corsa a breve da una bocca all’altra, come una freccia scoccata dai passanti che avevano avuto la sventura di passare di lì; accese la radio e sentì presto l’ansia nelle voci di chi annunciava quella notizia.

“Quando è successo?”

“Verso le otto. I ragazzi erano appena arrivati al museo, stavano facendo la coda per entrare quando questo si è fatto esplodere

“Giovane? Lo hai chiamato ragazzo”

“Vent’anni al massimo, secondo i primi testimoni”

“Aveva qualche rapporto con la scolaresca coinvolta?”

“All’inizio è parso di no, i ragazzi erano tutti tra i tredici e i quattordici anni. Non lo abbiamo ancora identificato, ma potrebbe essere collegato”

Sally tacque e lui potè sentire la sua preoccupazione, l’orrore al solo pensiero che anche sua figlia Amy si trovava all’asilo e che lì la credeva al sicuro. In un posto dove i bambini giocavano e attorno a cui sembrava esserci una bolla a schermarli dal mondo reale; anche lei che aveva a che fare ogni giorno con quelle cose ci era cascata. Greg dubitò che lo avrebbe più fatto in futuro.

Parcheggiò con poche manovre a una decina di metri dalla scena – passanti agitati arginati dalla polizia, ambulanze che portavano via i ragazzi, tre lenzuoli bianchi a terra e circondati da sangue scuro. Sotto i teli macchiati altrettante sagome: due più piccole, una abbastanza alta da poter essere un uomo adulto. “È l’attentatore” gli disse Sally avvicinandosi a quest’ultima. Greg vide tantissimo sangue.

A forza di lavorare lì non gli faceva più impressione vedere quel colore scuro, quelle macchie dense e quelle ferite da cui era fuoriuscito. Anni di esperienza per riuscire a scomporlo ai minimi termini di acqua e globuli rossi e qualcos’altro. Greg si inginocchiò, sollevò un lembo del lenzuolo e vide centimetri di pelle scura e ustionata, quando non coperta da una camicia che doveva ormai avere fatto un tutt’uno con la carne. Gli occhi verdi erano spalancati e l’effetto era quello di una mummia perfettamente conservata, di un qualcosa di vivo in un corpo che non lo era inequivocabilmente più.

Greg sentì un brivido risalirgli la schiena e non riuscì a capire se fosse per quegli occhi, per quelle altre vittime che assomigliavano sempre di meno a danni collaterali o per il triste presentimento che quella sera a Sophia gli auguri li avrebbe fatti via sms.

C’è stato un caso orribile, le scrisse, e premette invio. Si rimise in piedi e rimise il cellulare in tasca, avvicinandosi a Sally. “No che non arriva ai vent’anni!”

Il sergente Donovan si pie e sbirciò sotto il telo; ma subito lo lasciò andare, storcendo la bocca. D’improvviso si sentì un beep provenire dalla tasca di Greg. “È Sophia” spiegò in fretta. “È il nostro...”

Lasciò la frase in sospeso e vista la rapidità della moglie nel rispondere sospettò che avesse tenuto il cellulare a portata di mano dopo aver visto la notizia in televisione. Molto probabilmente era già stata fatta un’edizione speciale dei telegiornali.

Sei al British Museum? gli aveva scritto infatti Sophia. , valutò di risponderle lui. Secco e informale. Aveva paura a scrivere solo quello. Mi dispiace.

Aveva già inviato quando pensò all’ambiguità di quell’ultima frase; si fermò un istante col telefono in mano ma pensò che lei avrebbe capito. Sophia quando era in vena capiva sempre. L’ansiosa rapidità del suo primo messaggio gli suggeriva che fosse in vena.

“Vorrei dirti di tornare a casa, ma temo che ci sarà bisogno di te” gli disse Sally, andando a interrogare qualche testimone. Anderson stava scattando delle foto alla scena. Greg si chiese dove fossero gli altri ragazzi, gli altri tredicenni incappati per caso in qualcun altro che con loro probabilmente non c’entrava niente. “Quante vittime?” chiese a un ragazzo giovane, probabilmente appena assunto, stretto nella tuta.

“Due, per ora” gli rispose con tono grave. “Altri due sono messi male. Ah, stanno arrivando i giornalisti”

Il detective ispettore alzò gli occhi al cielo e si avvicinò alle transenne messe lì dalla polizia, dove reporter e fotografi si stavano già accalcando, schiacciando i pochi testimoni che erano rimasti a guardare. “Chi è l’attentatore?” gridò uno di loro. “Quali sono le sue motivazioni?”

Greg alzò gli occhi al cielo, sospirò e cercò di formulare una risposta che non li scatenasse; “Potrebbe essere un suicidio ma la pista dell’attentato non è del tutto esclusa” esclamò con la voce più alta che gli riuscì e che dopo aver parlato gli sembrò debole, in confronto al fracasso che facevano i giornalisti con in mano le loro grosse macchine fotografiche.

 

***

 

Greg finì di mandare al diavolo anche l’ultimo giornalista – potrebbe essere un avvertimento per qualcosa di più grosso? Questo attentato cambierà la storia europea? e notò che Sally e Anderson se n’erano già andati, a bordo dell’auto di lui. Prese dalla tasca le chiavi di quella con cui era arrivato e lanciò un’occhiata al cielo delle nove di sera, scuro e minaccioso, pronto a riversare tutta la pioggia che nelle ore precedenti aveva minacciato di scatenare proprio sulla sua testa.

Mentre si avvicinava all’auto e sentiva le prima gocce di pioggia, ebbe voglia di dare di nuovo un’occhiata ai messaggi che lui e Sophia si erano mandati; per non sentirsi in colpa per avere lavorato dalle otto alle ventuno il giorno del loro anniversario, per convincersi che non si sarebbe arrabbiata.

Buon pranzo, amore

Grazie! Tu mangi oggi?

Dipende dai giornalisti

Se stasera arrivi in tempo ti faccio l’arrosto, promesso

Ti amo

Anch’io

Buon anniversario, signora detective ispettore

Buon anniversario anche a te, Gil Grissom

Rise dei nomignoli assurdi mentre tremava per una felicità difficile da raccontare – quella di avere Sophia sua e soltanto sua per un giorno, prima di abbandonarla di nuovo alla sua vita che non gli apparteneva più, ai suoi amanti, a tutte le cose di lei che per il lavoro aveva dovuto rinunciare a condividere. Non pensò a tutto questo, però. Pensò solo che Sophia era sua e non si pose il problema di un ipotetico domani.

Arrivo le scrisse. Inviò, mise il cellulare in tasca e aprì la portiera dalla parte del guidatore. Salì, infilò le chiavi e mise in moto, partendo lentamente. Anche durante il viaggio non accelerò ma guidò lentamente, sotto le stelle, sotto i lampioni e sotto la pioggia. Si fermò un attimo davanti a Scotland Yard, scese e corse nel suo ufficio. Prese dalla tasca interna della giacca una piccola chiave attaccata a un fiocchetto di nastro rosso e aprì il secondo cassetto della sua scrivania.

Dentro, sopra ai fogli della fotocopiatrice e una scatola piena di matite dalla punta estremamente affilata, c’era un piccolo pacchetto incartato d’argento, con un nastrino dorato. Greg lo prese in mano, accarezzandone la carta e sentendo sotto il velluto della scatoletta in cui era stata infilata la collana: grossi anelli d’oro bianco intrecciati, brillanti incastonati. Un gioiello da ostentare, costato una piccola fortuna nella migliore oreficeria di Londra.

Chiuse il cassetto a chiave lasciandoci dentro le chiavi dell’auto della polizia. Prese quelle della Volvo dalla scrivania, uscì, aprì la portiera e si sedette, posando il pacchetto sul sedile del passeggero. Guidò fino a casa e questa volta ebbe voglia di accelerare.

Parcheggiò davanti alla porta della loro palazzina e salì in ascensore fino al secondo piano. Aprì la porta con le proprie chiavi ed entrò in quel santuario dove già sapeva che erano successe molte cose che lui non avrebbe mai scoperto.

Trovò la casa buia, il salotto illuminato solo dalla poca luce che filtrava dalle persiane. Dalla camera da letto arrivava il flebile giallore attribuibile solo a una candela – con le sue oscillazioni, il suo tremolio. Greg tirò rapidamente già la tapparella e quando ebbe finito sentì uno strusciare di coperte. Sophia era sopra il lenzuolo, appoggiata al gomito e con le ginocchia al petto, con solo una vestaglia sopra l’intimo, come se lo stesse aspettando. Se la sfilò quando lo vide arrivare, sorridendogli. Lui prese il regalo con entrambe le mani, reggendolo all’altezza del petto, lasciandolo bene in vista agli occhi di lei.

Le iridi che guardavano quella carta argentata su cui si rifletteva la fiamma della candela sul comodino erano verdi, stanche, arrossate, le pupille dilatate e le palpebre che si chiudevano. Greg diede alla moglie il regalo, posandoglielo tra le mani, e si sedette sul letto; si chinò e la baciò sulle labbra rosse.

Lei lo lasciò fare e gli mise le mani aperte sul petto, mentre lui con il palmo le prendeva la nuca stringendola ancora più vicina a sè. Quando il bacio finì Sophia si districò da quell’abbraccio e prese un pacchetto che era sul comodino, incartato di un celeste pallido. Lo diede a Greg che lo tenne in mano ma non lo toccò, come a invitare lei ad aprire il proprio.

E lei sciolse il fiocco e aprì la carta senza romperla, come impaurita. Quando ebbe il cofanetto di velluto blu scuro tra le dita lo aprì tremante rivelando la collana, i brillanti, il loro colore reso dorato dalla candela. Una fiamma che danzava sulla superficie liscia e rilucente degli anelli d’oro bianco.

“È bellissima” gli sussurrò Sophia, avvicinando la bocca al suo orecchio.

“Provala” la invitò lui prendendola dalla scatola e allacciandogliela dietro la testa. Le stava meravigliosamente con il sottofondo della pioggia, dell’acquazzone che ricalcava quella notte di otto anni prima.

Greg aprì il proprio pacchetto e vide una camicia bianca di alta sartoria. La posò di fianco a sè, abbracciò la moglie e le posò una mano sulla gamba sentendo che aveva la pelle d’oca. “Vieni sotto le coperte” le disse armeggiando col lenzuolo. Lei tossì un paio di volte ed ebbe un brivido al tocco della mano del marito sulla schiena nuda. “Ti stai ammalando” osservò lui con disappunto, accarezzandole una guancia.

Le baciò la bocca e realizzò che non gli importava ai fini di quell’abbraccio, di quella tenerezza; per quella notte Sophia era sua. Passò le dita lungo il contorno della collana, accarezzandole il collo, le spalle, strofinando leggermente coi polpastrelli il tatuaggio fatto appena due mesi prima e disegnandone i contorni. Lei posò di nuovo le mani aperte sul suo petto e mosse la sinistra un paio di volte, come alla ricerca di qualcosa. Quando si fermò Greg realizzò che stava semplicemente cercando il suo cuore, che lo stava ascoltando battere.

 

 

A/N: spero che vi sia piaciuto! Farò del mio meglio per ridurre al minimo gli errori di battitura, ma tra Word che non corregge e la beta inesistente… ç__ç in questo capitolo ho cercato di metterci del romantico, ma alla fine Greg mi esce sempre profondamente innamorato. Ah, è lui il protagonista!

Temo di non poter dare garanzie sugli aggiornamenti, con le vacanze che stanno arrivando. Il rating potrebbe passare a rosso per le tematiche trattate, ma anche no xD

Klavdiya

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** II: Basta Illusione ***


Cap.II

Basta Illusione


La madre lo guardò; chiuse gli occhi, si morse le labbra e sobriamente con un singhiozzo lasciò cadere una lacrima sulla guancia arrossata. L’attentatore del British Museum si chiamava Chris Lawrence e aveva diciannove anni, qualcuno in meno nel fisico minuto e nel viso glabro, qualcuno in più nello sguardo profondo e ora innaturalmente fisso. La signora Lawrence lo studiò in ogni centimetro, sfiorò le numerose ustioni su una pelle che Greg, ricordando il cadavere ancora sulla scena, non avrebbe più definito tale.

 Ma in ogni caso Greg non la guardò. Non ne ebbe il coraggio; e fu ben attento a evitare gli occhi della madre di Chris, troppo colpito e intimorito da quel suo impressionante contegno, dalle sue mani che si stringevano e si facevano male da sole come doveva stare facendo lei stessa tenendosi dentro il dolore in una maniera impossibile. Pensò allo sgomento di un figlio morto, un figlio assassino, e fu tentato di guardare la madre in volto – ma gli sembrò troppo. Gli parve un’altra violenza.

L’ispettore fissò solo il pavimento sporco dell’obitorio, e si trattenne dal cercare gli occhi chiusi del morto, una volta spalancati e verdi. Davanti al museo erano stata l’unica cosa ancora definita e ancora umana di quel corpo martoriato. Per Lestrade erano diventati un’ossessione, ogni volta che guardava il cadavere: si erano rivelati l’unica cosa che riuscisse a vedere davvero in tutto quell’orribile scempio. Erano così belli e familiari. Un verde scuro e denso.

La signora Lawrence quindi uscì, in lacrime, accompagnata dal marito che era rimasto in disparte incapace di dire o fare alcunché, mentre l’anatomopatologo di turno chiudeva il cassetto in cui c’erano i resti del loro unico figlio con solo ustioni e un lenzuolo addosso e una targhetta appesa all’alluce. Greg salutò il dottor Harvey e tornò nel suo ufficio.

Lesse e rilesse i dossier sull’attentato. Bevve una mezza dozzina di caffè scadenti della macchinetta nuova. Fece addirittura due partite a solitario al pc per evitare l’irreversibile esplodere del suo cervello, o in alternativa l’implodere delle sue coronarie. Ripercorse con la mente quelle poche cose che si sapevano.

Il puro e semplice svolgimento dell’attentato era chiaro: Chris Lawrence, diciannove anni. Si era fatto esplodere davanti al British Museum al passaggio di una scolaresca di tredicenni alla prima gita dell’anno scolastico con un ordigno fatto in casa probabilmente da lui stesso. Tante domande, troppe, si affacciavano quando cercava di andare più a fondo; ma la più grande e la più urgente (al punto che tutte le altre risposte alla fine non erano che indizi per riuscire a risolverla) era una sola, enorme, lampeggiante: perché.

Perché un diciannovenne avesse dovuto farsi esplodere uccidendo dei ragazzini non molto diversi da quello che era stato lui stesso, e non molti anni prima. Perché. A forza di lavorare lì aveva visto tanti omicidi e tanti moventi e di questi veramente pochi erano comprensibili a lui. Poi, alla sera, qualche anno prima, li raccontava a sua moglie che lo stava ad ascoltare e annuiva come se capisse davvero. Aveva smesso di metterla al corrente dei casi anche per quello: era una reazione che gli faceva paura.

Anderson stava controllando il computer della vittima, un portatile regalatogli dai genitori per la promozione, di buona marca e di un modello ancora all’avanguardia. Con i guanti l’agente stava picchiettando sui tasti e scorrendo col mouse la cronologia, per scoprire le ultime ricerche di Chris.

Greg gli lanciò un’occhiata annoiata, non visto; l’attenzione di Anderson era tutta per lo schermo e qualunque cosa ci fosse sopra al momento. In realtà Lestrade sapeva cosa ci avrebbe trovato: istruzioni per costruire ordigni esplosivi con ingredienti rintracciabili e poco costosi, film, fumetti. E tanta chimica: da quel poco che aveva detto la madre, la adorava, e voleva studiarla. Una materia bizzarra che a lui non era mai riuscita. A scuola Sophia nonostante fosse più piccola gli dava costantemente ripetizioni. Era una cosa contorta, complicata, che non aveva mai capito. E non dubitò nemmeno per un secondo che Sherlock la amasse.

Greg non comprese tutto quell’interesse di Anderson dietro al computer perché in una buona quasi totalità dei casi avrebbe trovato solo una caterva di posti in cui per un diciannovenne era normale stare: blog, siti di fumetti–barra–film–barra–chimica, Youtube...
Lestrade smise di elencare. Troppi anni trascorsi da quando aveva avuto l’età di Chris Lawrence, in un tempo molto lontano in cui Internet era ancora semifantascienza.

Anderson era ancora concentratissimo sul computer e Sally stava consultando qualche documento di cui Greg, anche mettendoci tutta la sua buona volontà, non riuscì a indovinare natura e provenienza. Il detective ispettore vedeva una sola strada davanti a sé e non era affatto buona.

Caso dichiaratamente astruso. Prese il cellulare dalla tasca e premette il tre, a lungo. Sherlock Holmes, consulente investigativo: ormai tra le chiamate rapide del capo della squadra Omicidi di Scotland Yard. Si portò il telefono all’orecchio e Sally Donovan sollevò lo sguardo dal documento, contrariata. Alzò gli occhi al cielo e successivamente gli lanciò uno sguardo truce. Greg non ci fece caso. Rimase ad ascoltare il tuu–tuu del cellulare finché la voce di Sherlock Holmes non gli rispose.

“Lestrade?”
“Siamo a Scotland Yard, abbiamo un piccolo problema con l’attentato del British Museum”.
“Saremo lì tra poco”.
“Okay”.

Sherlock Holmes mise giù e Greg sospirò; “Sta arrivando” annunciò a Sally. Anderson alzò per la prima volta la testa dal pc e lo guardò male; il sergente Donovan si limitò a un’altra occhiata impassibile, fredda, rassegnata. Lestrade rimase solo buono e tranquillo facendo attenzione a non irritare troppo nessuna divinità, cercando di distendere i nervi ripetendo all’infinito il tragitto tra l’ufficio e la macchinetta del caffè nel corridoio, qualche volta prendendo davvero un ennesimo bicchierino di plastica pieno.

Sherlock Holmes arrivò quasi subito, stretto nel suo Belstaff da un migliaio di sterline, insieme a John Watson ancora spettinato e con gli occhi cerchiati di una notte insonne. Il consulente entrò baldanzoso nell’ufficio di Greg e si sedette sull’unica sedia, guardandolo fisso.

“Semplicemente non capiamo...” esordì l’ispettore.
“L’attentatore: giovane, esperto di chimica”.
“Ha già otto ipotesi” lo interruppe John.
“Facciamo cinque”. Sherlock prese un foglio da sotto la pila che Greg aveva sulla scrivania. “Due” dichiarò alla fine. “Innanzitutto cercate chi potrebbe avergli venduto il materiale per la bomba. Qualcuno con scarse conoscenze di chimica ma molti contatti”.

Anderson si affacciò nell’ufficio. “Pensi che gli abbia offerto qualcosa in cambio di farsi esplodere davanti al British Museum?” chiese. Sembrava divertito.
Sherlock alzò gli occhi al cielo. “No. Certo che no. Se è così è stata una minaccia”
“Controlleremo tutte le persone che Chris Lawrence ha contattato” tagliò corto Greg. “C’è altro?”
“Sì” rispose Anderson prontamente. “Potrebbe esserci una componente satanica. Sul suo pc ci sono delle ricerche a proposito di…”

“Sì, Anderson, molto interessante. Consegnami il pc quando hai rimesso tutto a posto”.
L’agente non disse nulla. Tornò solamente al computer lanciando maledizioni contro Sherlock Holmes.
John intanto aveva cominciato a studiare i referti dell’autopsia. “Ho sentito che sono morti tre ragazzi” disse.

Greg annuì. “Tre morti più l’attentatore e quattro feriti. Tra cui il figlio di un qualche riccone di una grossa industria o qualcosa del genere, qui c’è scritto tutto”.
Il dottore prese un foglio dalla pila. “Mark Shaw, quattordici anni” lesse a voce alta. Scorse le sue condizioni e ripassò il foglio a Lestrade.

“Il padre è arrabbiato” spiegò il detective ispettore. “Molto. Sta finanziando le indagini, non possiamo permetterci di andare nella direzione sbagliata”.
“Capisco” si intromise Sherlock. Sguardo fisso e rilassato di chi ha il mondo in pugno. “Quindi avete deciso di affidarvi al vostro salvatore”
“Esatto” confermò Greg a denti stretti. “Ma perché Chris Lawrence l’ha fatto?”

Sherlock posò i fogli che aveva ancora in mano sulla scrivania sovraffollata di Lestrade, poi allungò le chilometriche dita mentre poggiava i palmi sulla pila di documenti relativi all’attentato. “Sicuramente non un semplice suicidio – a questo ci siete arrivati anche da soli, se il caso è della Omicidi. La pista satanica è insensata per una dozzina di ragioni che gridano di essere comprese, come per esempio la totale assenza di simbologie. Dite la parola ‘satanismo’ ai giornalisti se volete divertirvi, al massimo. Io ho un’altra teoria”.

 


***


Greg mise le chiavi nella toppa sapendo che quello era il saluto che veniva ancora prima del ‘buongiorno’ che si scambiavano ogni volta, il chiaro ed eloquente annuncio che era tornato. Abbassò la maniglia e aprì la porta di uno spiraglio, aspettandosi Sophia all’ingresso, pronta ad accoglierlo – nel bene o nel male.

Invece non c’era. Il salotto era completamente buio e dalla cucina non proveniva nessun rumore. Come se la casa fosse disabitata, eccezion fatta per la luce di una candela che proveniva dalla camera da letto.

Sentì una risata acuta, femminile, inconfondibile e poi una frase sputata volgarmente, chiaramente da un uomo. Parole masticate a fatica e pensate per essere sensuali, una voce che Greg necessitò di qualche attimo per riconoscere: ed ecco la persona che aveva sempre evitato – non Alec Martin, l’avvocato, suo amico da due anni, bensì la Sophia lasciva e priva di personalità che incontrava i suoi amanti nello stesso letto in cui posava le mani sul petto di Gregory e solo per ascoltarne il cuore in ogni suo battito.

Per lui era una persona diversa, Greg non ne dubitò mai; diversa sia dai periodi migliori che da quelli peggiori che sua moglie passava. Una persona che chiaramente non era la stessa che aveva sposato: un’estranea, un’inquietante sconosciuta, un’ombra riflessa allo specchio della fragilità della Sophia di sempre di cui negava le debolezze. Greg ogni tanto aveva avuto qualche ragionevole dubbio – da che parte dello specchio era, lui? Non sapeva, non riusciva a capire se sua moglie fosse innamorata di lui, o solo delle sue mani che la accarezzavano. Alla fine con i suoi amanti le era apparsa come una creatura che fingeva di essere forte usando il distacco: un essere insensibile, quindi. Deliberatamente e per motivi che Greg alla fine comprendeva. Una creatura sconosciuta che sfuggiva alla sua comprensione, alle sue braccia che non potevano stringerla quando rivelava se stessa tra le gambe di qualcun altro. Come se alla fine lui per lei fosse speciale – lo era?

D’improvviso ebbe il terrore di venire visto, di ritrovarsi costretto a vedere le scuse e le lacrime di sua moglie che improvvisamente sarebbe ritornata quella che era nei weekend e nelle rare cene che consumavano insieme. Chiuse la porta, girò la chiave in fretta e col cuore in gola per il terrore di venire sentito. Infilò le mani in tasca e ritornò silenziosamente a scendere le scale; si sentiva morire, e dolorosamente, solo pensando al penoso arrampicarsi sugli specchi che Sophia avrebbe tirato fuori se al posto di aspettare il suo benvenuto sulla soglia Greg fosse entrato, deciso, senza accorgersi di lei e Alec.

Spense il cervello, salì in auto e si mise alla guida. Londra era illuminata e piena di macchine che andavano chissà dove; e Greg pensò che se solo avesse avuto l’opportunità di fermarle, avrebbe chiesto solo una cosa ai conducenti: ‘dove vai, a quest’ora? Cosa ci fai in giro a mezzanotte in auto? Non credo che stiate tutti tornando da una meravigliosa festa’.

Lui non stava tornando da una meravigliosa festa, almeno. Lui era solo l’ennesimo povero automobilista che per un disastroso motivo o per l’altro stava sfidando il traffico londinese in piena notte, e solo per sfuggire a una moglie fedifraga e andare a dormire a un motel. Si chiese cosa avrebbe pensato Sophia non vedendolo arrivare, non vedendolo raggiungere il suo letto e baciarle le labbra e addormentarsi al suo fianco. Come se il mondo girasse per farla sentire meno sola.

La solitudine era il motivo principale, che riassumeva tutti gli altri che nella sua testa si erano affollati per giustificare Alec Martin nel suo, nel loro letto: insoddisfazione, bisogno di attenzione, frustrazione a forza di vederlo sempre al lavoro – uguale solitudine, appunto. La sua moglie bambina trascurata, abbandonata da un padre occupato. La sua moglie adolescente ormai non più sua ma di altri uomini nel letto di casa ad accarezzarla. L’abbraccio di Greg che a lei rimaneva; Greg a cui non rimaneva più niente.

Frenò bruscamente e accostò accanto a un marciapiede, armeggiando furiosamente finché non fu fermo e potè staccare le mani dal volante, cercando di smettere di tremare. Fu la lenta realizzazione dell’evento appena accaduto; fu l’improvviso rendersi conto di quanto quel pensiero fosse malato, contorto, incestuoso: paragonare Sophia a una figlia.

Fece inversione e tornò indietro; si sistemò in sosta vietata davanti al palazzo e si rese conto che non gli importava in quanti l’avrebbero guardato strano, né quante ore sarebbe dovuto restare lì: "Faccio il turno di notte" scrisse a sua moglie, e si mise comodo sul sedile di guida, appoggiando la testa allo schienale. Non accese la luce dell’auto, cercò di mettersi il più possibile in ombra. Era impossibilmente tardi e aveva paura dello stato in cui sarebbe andato in ufficio il giorno dopo; ne concluse che, attentato o non attentato, Scotland Yard avrebbe fatto a meno di lui: un giusto riposo dopo una nottata di lavoro, da recuperare al più presto e con una scusa qualsiasi. Come se a Sophia ancora importasse il motivo per cui certe volte lavorava, e altre no.

Greg sospirò. Aspettava di vedere con che faccia sarebbe uscito da quella casa l’amante di sua moglie – con che passo, con che sorriso.

 

 


A/N: un grazie enorme al mio beta OceanOfDarkness, a cui presto costruirò una statua in giardino xD Sta facendo un lavoro meraviglioso per questa fic e gli sono immensamente grata <3

E poi un bacio anche a Thiliol e Airaly, che hanno inserito la storia tra le seguite!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** III: Tentazione ***


Cap.III

Tentazione

 

Alec Martin se n’era andato alle cinque del mattino, attraversando l’atrio col passo rilassato e con solo una camicia addosso nonostante fosse novembre. Teneva la giacca su una spalla e aveva ancora i capelli bagnati; indossava gli occhiali da sole, a nascondere occhiaie che non potevano essere peggiori di quelle di Greg. Era più giovane di lui, con ancora addirittura tutti i capelli castani.

La donna che aveva di fianco – un’amica di Sophia – messa in questi termini sarebbe stata la vendetta ideale. Annabel: fianchi morbidi e pelle abbronzata, occhi scuri e penetranti con la profondità non di un pozzo ma di una tazza di cioccolata densa. Greg le sorrise ammiccante quando lei lo guardò, fisso nelle occhiaie rimaste dopo la peggiore delle nottate, con una luce di divertimento e di cattiveria. Sophia intanto beveva il suo tè da una tazza precocemente natalizia, e non sospettava nulla. Non vedeva gli strati di pelle scurita dalle lampade, scoperti nonostante il freddo di novembre.

La ragazza gli fece cenno di avvicinarsi a lei e di ignorare sua moglie, in un richiamo caldo che si scontrò contro una resistenza fragile. Greg la accontentò e le andò accanto, di fronte a Sophia; la mano di Annabel andò alla sua. Improvvisamente si sentì meno stanco.
Le dita accarezzarono il palmo ma sua moglie sembrava cieca, assorta a dire di smalti, di creme, di sole che non faceva il suo dovere sulla sua pelle pallida, quasi di luna, priva sia di lentiggini che di colore. “E non so cosa dirgli,” sembrò concludere a un certo punto, gesticolando. “Muore dalla voglia di farmi quella pettinatura, è più forte di lui”.
Sorriso gelido di Annabel e sguardo fugace al volto di Greg, insolitamente allegro per essere lì ad ascoltare sua moglie; “Deve essere orribile” disse mite la ragazza con la sua voce vellutata. Poi tolse la mano.

Greg gemette di disappunto quando la spostò sul braccio di Sophia, posandola lì e sorridendole. “Mi fai vedere se sei ancora irritata?” le chiese, e lei si sfilò senza farsi problemi la maglietta, posandola sulla sedia senza rivoltare le maniche, mostrando la spalla ad Annabel che sorrise soddisfatta.
“Finalmente si è sistemato” esclamò passando due volte le dita sul tatuaggio con delicatezza come se fosse stato di vetro e si potesse rompere con un soffio di vento. “Guarda che bello. Lo avevo detto che sulla tua pelle stava benissimo. Anche se vedo che continui a grattartelo”
“Lo so” rispose Sophia sorridendo. Per girarsi a guardare la scapola voltò le spalle a Greg, che per un attimo vide solo la sua coda di cavallo sfiorarle l’altra spalla. “Mi piace” disse. “Che te ne pare?”

L’uomo si riscosse quando si rese conto che parlava a lui, chiedeva la sua opinione, cercava la sua conferma. A quei livelli di pacioso ignorarsi non si era ancora arrivati alla civile necessità di rivolgersi la parola pur senza avere nessuna voglia di farlo. “È bello” le disse lui. “Ti fa sembrare… più giovane”.
Si maledisse e si rese conto di avere appena detto la cosa più stupida possibile, nonostante fosse quella l’impressione che il tatuaggio gli dava sul corpo di sua moglie.
Era inchiostro che dominava la pelle, nero sul pallore del bianco, una rosa piccola, scura e inquietante sul retro della sua spalla. Sfumature di grigio infinite e impenetrabili che le vedeva bene addosso.

“Grazie” gli disse Sophia. Tono incolore.
“Spero non vi dispiaccia se fumo una sigaretta” si intromise Annabel, già col pacchetto in mano; indossava una maglietta corta, che scopriva quasi l’ombelico, e Greg non volle farla uscire.
“No” le rispose subito. Sophia tacque e non disse niente quando la ragazza infilò la mano nella tasca dei jeans di Greg e prese l’accendino.
Le dita di Annabel reggevano la sigaretta vicina alle labbra, a contatto con le unghie lunghe e smaltate di rosso simili ad artigli ricurvi. Le labbra grosse e lucide aspirarono qualche boccata e si piegarono in un piccolo sorriso provocante. “Tu fumi?”
“No” risponde Sophia pacata. Occhi impassibili. Domanda probabilmente non rivolta a lei.

“Io sì” disse Greg. Annabel sorrise e lo guardò negli occhi, sensuale e provocante.
Un colpo di tosse leggero da parte di Sophia li riscosse; il marito le lanciò un’occhiata veloce e la vide ancora con le mani davanti alla bocca e gli occhi sgranati. Tossì una seconda volta, e poi un’altra; dalle fessure tra le sue dita scivolò una goccia di sangue, cadendo leggera fino alla tovaglia.
“Tutto bene?” le chiese Annabel tranquilla posandole una mano sulla spalla.
“Sì” le rispose l’altra. Greg sentì un momentaneo e orribile terrore gelargli il petto.
Le prese le mani e le pulì del sangue con il tovagliolo, stringendo le dita della moglie tra le proprie nel lavare via le tracce di quella singola goccia. “Grazie” gli disse lei quando ebbe finito. Voce pacata e fievole, piacevolmente sorpresa.
“Stai bene?”
“Sì”.

Inevitabile atto d’affetto nei confronti di Sophia: probabile perdita di attrattiva per Annabel. Greg si allontanò di scatto mentre la moglie si passava le dita sulla bocca, pulendo le ultime tracce di sangue.
“Vado in bagno” disse la moglie alzandosi. Posò la tazza e si alzò lentamente, con attenzione nel districarsi dal tavolo e dalla sedia. Camminò lentamente fino al bagno, appena oltre il salotto.

“Com’è andata al lavoro?” chiese con voce sensuale la ragazza quando se ne fu andata.
“Benissimo” rispose Greg. Un uxoricidio e una coppia di anziani trovati morti avvelenati nella loro casa. Vorrebbe dirlo ma qualcosa gli suggerisce che non sarebbe una scelta vincente. “Non abbiamo nemmeno dovuto chiamare il nostro consulente”.
Sperò di incuriosire Annabel e gli parve di riuscirci. Funzionavano sempre, le storie su Sherlock e le sue stranezze. “Avete un consulente?” chiese la ragazza come previsto, avvicinandosi a Greg e sgranando gli occhi scuri e truccati.

“Sì. È un bravo ragazzo, ma un tizio molto strano”.
“Un drogato?”
“Non è da escludere, sai?”
“Cosa fa?”
“Guarda le scene del crimine, fuma una sigaretta, ci pensa un attimo e poi tira fuori teorie allucinanti su chi è il colpevole, come ha ucciso la vittima e a che scuola è andato”.
“Accidenti. Deve usare droghe pesanti”.
Greg rise. “Lo pensano in molti”.
“Oggi a cosa avete indagato?”

Esitazione. Informazioni riservate. “Sul caso del British Museum. Siamo a buon punto” mentì. “Poi c’è stata una donna che ha ammazzato il marito” continuò. “È stato facile”. Si era costituita.
“Perché chiamate ogni volta il consulente?”
“È geniale. Sa capire dove sei stata solo guardandoti i jeans”.
Annabel lanciò un’occhiata ai propri pantaloni neri con qualche paillette. “Davvero?”
“Certo”. Greg finse – per scherzo? – di accostare la bocca all’orecchio della ragazza come a volerle rivelare un segreto, sorridendo. Lei rise.

Lestrade fece per socchiudere le labbra – un colpo di tosse. Sophia accanto al tavolo, di ritorno dal bagno. Nessuna reazione. Le loro teste erano ormai lontane, ma non abbastanza da escludere senza ombra di dubbio che avesse visto ogni cosa: errore. Non era da lei palesare emozioni – rabbia o gioia che fossero. Estremamente misurata e ingannevole.

Greg si allontanò da Annabel che ancora sorrideva e si chiese cosa gli avesse preso; si era appena sorpreso a provarci con un’altra donna. Ed era spuntata fuori sua moglie come un fungo accanto al tavolo a cui stavano amabilmente conversando e dove lui stava sperimentando l’ennesima utile funzione di Sherlock Holmes. Attimo di debolezza, forse, un lunghissimo attimo in cui si era reso conto davvero che la ragazza che aveva accanto aveva ventisei anni e dei jeans aderenti e a vita molto bassa nel chiaro intento di fare colpo su di lui. Attimo da non ripetere. Rossore sulle guance e vergogna – almeno con se stesso si era costituito, proprio come l’ormai vedova Baker.

Sophia si risedette al proprio posto in silenzio mentre Annabel dava uno sguardo alla sua imitazione di una borsa di marca, attivando il touch screen del cellulare con il pollice e controllando i messaggi. Non ne aveva nessuno.

“Mi dispiace ma devo scappare, ho un appuntamento dal parrucchiere” si scusò in fretta e furia, baciando l’aria accanto alle guance di Sophia ma lasciando il rossetto su quelle di Greg. Gli lanciò un’ultima occhiata maliziosa sparendo alla porta.

Lui andò a richiuderla mentre Sophia si rannicchiava sul divano, stanca. Gli occhi le si chiudevano. Greg non riuscì a stabilire quanto impatto avesse potuto avere il vederlo flirtare con Annabel Reimy sulla sua psiche; se stesse per addormentarsi o se si stesse arrovellando, se stesse trattenendo le lacrime, se stesse valutando di odiarlo fino alla fine dei propri giorni, nella speranza che potesse rivelarsi successiva alla fine di quelli di lui. Greg andò in cucina a vedere la tv, preparandosi un panino. Si ritrovò a guardare senza troppa attenzione una telenovela su BBC1.

All’improvviso sentì Sophia tossire violentemente. Si affacciò sul salotto e la vide portarsi la mano alla bocca; dopo qualche secondo la ritrasse rivelando sul palmo dell’altro sangue.

Greg sentì il cuore mancare un battito e salirgli in gola, violentemente, aprendogli un vuoto nel petto. “Sophia…?”

Lei alzò la testa e lo guardò. “Sì?” rispose in un sussurro caldo.

“Dovresti… andare al pronto soccorso” le disse lui senza sapere bene come interpretare quel suo tono; non era un ordine, non era una domanda. Un suggerimento?

Lei lo guardava negli occhi, intanto. Nelle iridi verdi c’era una pacatezza inquietante che le aveva già visto. “Non… è necessario” lo rassicurò abbassando lo sguardo. “Sto bene. Davvero”

Cominciò a studiarsi le unghie, imbarazzata. Le labbra erano leggermente incurvate nell’abbozzo di un sorriso.
“Vado in farmacia” si arrese il marito. Le lanciò un ultimo sguardo esitante ma lei non glielo impedì, non ne ebbe la forza. Greg afferrò la giacca e le chiavi; aprì la porta e velocemente se la richiuse alla spalle, dando due mandate.

Scese le scale in fretta, infilandosi la giacca sui gradini – vide mille possibili ipotesi pessimistiche di malattie spesso e volentieri viste solo in tv. Ricordò il sangue sulla sua mano ed ebbe un brivido, sicuramente non dovuto al freddo o all’aria che entrava dalla porta del palazzo lasciata aperta da chissà chi. Uscendo la richiuse e a passo sostenuto si avviò verso una farmacia poco lontano.

Forse non era niente, forse era solo tosse un poco più forte del normale. Rallentò lentamente finchè non si accorse di stare passeggiando.
Aveva sempre avuto paura per Sophia in un modo o nell’altro. L’aveva vista piangere e sorridere e aveva provato le sue stesse, travolgenti emozioni. Solo non le aveva mai capite. Aveva sempre avuto un muro, o anche solo nei momenti migliori un velo, a separarlo da lei. Sophia era come un lingotto d’oro sott’acqua: abbellita dalle onde che la allontanavano dal mondo. Da Greg.

Entrò nella farmacia e d’improvviso ebbe caldo, tanto da slacciarsi la giacca. “Buongiorno” lo salutò una donna robusta sulla cinquantina al bancone, con una targhetta sul camice su cui era scritto solo ‘Maggie’.
“Buongiorno. Mia moglie ha… tossito un po’ di sangue, c’è forse qualche sciroppo o qualcosa del genere…?” chiese Greg, senza avvicinarsi troppo a lei.
“Ecco qui” lo interruppe spiccia. “Ma se peggiora vada al pronto soccorso”

L’uomo fece un passo avanti e prese dalle mani tozze della farmacista una confezione bianca con due strisce verdi in alto e un nome strano, un nome da medicinale; “Quant’è?” chiese mettendosi una mano in tasca per prendere il portafoglio e pagò senza fiatare la cifra che gli venne detta. “Un sacchettino?”
Maggie annuì e ne prese uno minuscolo da sotto il bancone. Lo porse a Greg, aprendolo con le mani, e lui ci lasciò cadere dentro lo sciroppo. “Arrivederci”.
“Arrivederci”.

Uscì lasciando che la porta scorrevole si chiudesse alle sue spalle quando ormai si era allontanato di qualche metro con passo veloce. Tornò a casa senza rallentare, concentrandosi solo sul suono ritmico della borsa con lo sciroppo che rimbalzava contro la sua gamba destra.
Una volta alla palazzina aprì il portone, salì le scale, arrivò alla porta. Bussò leggermente e senza aspettare risposta entrò.
Sophia era pallida, sul divano. Greg posò il sacchetto sul tavolo e si avvicinò a lei di scatto.

Gli occhi erano lucidi e iniettati di sangue, la fronte bollente, le labbra in netto contrasto col viso che sembrava essere stato prosciugato di ogni sua energia. Il colorito era verdastro. In mano aveva un fazzoletto di carta ormai pregno di sangue e altre gocce erano sulla camicia da notte che nel frattempo doveva avere indossato, e sui braccioli del divano.
“Ti porto al pronto soccorso” le disse senza pensarci due volte e riallacciandosi la giacca.
“No!” lo implorò lei.

Greg non le diede ascolto, andando a prenderle la giacca appesa nell’ingresso, senza perderla nemmeno un attimo di vista quando si alzò con tutte le poche energie che le rimanevano e cominciò a camminare concitata in giro per casa. “No!” tentava di urlargli, per poi riprendere fiato; “…non ne ho bisogno, sto bene” aggiunse quando ne fu in grado.
“Non dire cazzate” la sgridò lui, prendendo le chiavi dell’auto mentre lei spariva in cucina. “Tu stai male” aggiunse. I passi si fermarono.

Greg sentì un rumore metallico, poi quello di mani che urtavano qualcosa di duro. “Vieni, mettiti la giacca, che ti porto al…”

Un rumore sordo, un dolore paralizzante; alla testa, forte e deciso. Una padella contro il suo cranio. “Sophia!” gridò appoggiandosi al tavolo per non cadere, la prima superficie solida che riuscì a trovare. Si voltò, andando a massaggiarsi cautamente la testa, dove l’aveva colpito. Lei era in piedi, tremante, e capì che nonostante il colpo non fosse stato poi così potente doveva averci messo tutta la sua forza, o almeno quella che le rimaneva.

Greg si accorse di stringere ancora tra le dita tremanti le chiavi dell’auto. Prese quelle di casa, aprì la porta e una volta sul corridoio senza riuscire a impedirsi di guardarsi indietro se la richiuse alle spalle.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** IV: Con i Propri Occhi ***


Cap.IV

Con i Propri Occhi

 

Greg scese dall’auto sbadigliando. Richiuse la portiera, con un tonfo secco. Entrò a Scotland Yard finendo di sistemare lo stesso vestito che aveva indossato il giorno precedente e anche quella stessa notte, per dormire nella scomoda brandina di un motel.

Sally uscì dal suo ufficio, vedendolo passare. “Sono tutti e due già qui” lo informò con tono saccente. Lui sospirò, alzò gli occhi al cielo ed ebbe l’istinto di congiungere le mani e pregare; ma alla fine tutto quello che gli riuscì fu un rantolo.

Sherlock Holmes camminava furiosamente avanti e indietro nel suo ufficio. John Watson sedeva visibilmente provato sull’unica sedia della stanza. “Eccoti qua!” esclamò il consulente investigativo vedendolo arrivare; si affacciò fuori dall’ufficio e lo disse a voce alta, molto alta.

“Entra” gli intimò Greg secco, con la fugace visione della faccia grassoccia di Gregson impressa a fuoco nella sua testa. “Cosa c’è? Hai scoperto qualcosa?”
“Avete fatto quelle ricerche sui fornitori?”
“Non è così semplice” ribadì Greg, irritato. “Ma intanto hai scoperto qualcos’altro?”

Sherlock Holmes sostenne il suo sguardo e continuò a fissarlo con una luce di scherno negli occhi. “Dimmelo e facciamo prima” sbottò Lestrade sedendosi alla scrivania. Aveva un desiderio folle di metterci su i piedi e di mangiare una ciambella, bere un caffè, farci una dormita per poi fumare una dozzina di sigarette. Magari tutte insieme, tutte in bocca in un colpo solo, così da rimanerci ed esplodere in direttissima con buona pace di Anderson – che sarebbe corso direttamente dal direttore a farsi assegnare il posto di capo della Omicidi ancora prima che chiunque avesse fatto in tempo a rimuovere il suo cadavere dalla scrivania.

“Hai un taglio sulla testa, sanguini” lo riscosse una voce che finora aveva taciuto. John. Greg riemerse dalla sue gloriose fantasie accorgendosi con disappunto di essere ancora seduto composto sulla sedia da ufficio e di avere i piedi saldamente ancorati per terra.
“Eh?”. La mano andò istintivamente a dove Sophia l’aveva colpito e trovò la zona umida, i capelli incrostati di sangue secco. Faceva male.

“Posso?” gli chiese John.
Greg annuì; “Certo” confermò suonando perplesso mentre John si avvicinava e controllava la sua testa.
“È profondo” constatò, quasi stupito. “Hai idea di come possa essertelo procurato?”

Certo che ce l’aveva. “Oh, non è niente, mia moglie... se cerchi il disinfettante è qui” disse aprendo il secondo cassetto della scrivania. Prese una bottiglia ancora quasi piena, praticamente mai usata. John si chinò sul cassetto a prendere un pezzo di cotone, poi lo inumidì e lo passò sulla ferita.
“Brucia!” si lamentò Greg.

Il dottore insistette; “Come te lo sei fatto?” gli chiese di nuovo. Lestrade sospirò.
“Mia moglie, abbiamo litigato e lei ha tirato fuori la padella che usa per preparare il cenone di Nata...”
“Esce con un avvocato” si intromise Sherlock.
“Lo so”

Silenzio. Greg sopportò il bruciore, leggero e pungente sul capo, e improvvisamente non lo trovò più così spiacevole.
“Dovrebbe bastare così, al massimo poi vai al pronto soccorso a fartelo suturare”.
“Okay. Ah, John, tu sei un medico, vero?”. Domanda inutile. Sherlock alzò gli occhi al cielo.
“Sì, perchè?”
“Sempre Sophia, mia moglie. Ieri sera mi ha tirato una padellata in testa perchè stavo cercando di portarla all’ospedale”
“Che cos’ha?”

Greg soppesò le parole. “Non lo so” disse quindi, cauto. “So che ha cominciato a tossire sangue e non mi sembra una buona cosa”
“Portacela” gli disse John. Lestrade sospirò.
“Non vuole. Si oppone. Violentemente”

John tacque e solo allora Greg si accorse che Sherlock stava spulciando ancora i documenti, le varie testimonianze e i vari referti. Stava leggendo di Mark Shaw, in particolare. Un dettaglio che a Greg non sembrò secondario.
“Hai qualche idea?” gli chiese.

“È probabile che chi ha fornito il materiale a Chris Lawrence fosse anche un avversario del padre. Nessuno avrebbe avuto interessi nell’uccidere uno qualsiasi degli altri ragazzi; Mark Shaw non andava nemmeno in una scuola privata. Il padre voleva tenerlo fuori il più possibile dalla concorrenza del mercato di armi non sempre legali che gestiva, ma a quanto pare non ci è riuscito”
“Come sta il ragazzo adesso?” chiese John a Lestrade.
“È peggiorato”

“Evidentemente era intenzione di Lawrence ucciderlo; gli altri ragazzi sono solo danni collaterali”
“Danni collaterali? Sherlock, perchè avrebbe dovuto fare una cosa così solo per uccidere il figlio di Abraham Shaw? Non sarebbe stato più semplice...”
“Per cercare di farlo sembrare l’atto di un folle. Ha molto più senso di un attentato alla villa degli Shaw, che sarebbe stato molto più difficile da far passare per qualcos’altro”
“Quindi voleva che Abraham Shaw capisse l’antifona ma che il resto del mondo sospettasse il meno possibile”

“Esattamente. Vedo che finalmente avete capito. Ci sono in gioco interessi politici e finanziari immensi”

Ed erano morti ormai tre ragazzi, pensò Greg, ricordando la famiglia dell’ultimo che era spirato il giorno prima: rivide il dolore dei genitori operai che lo avevano mandato a scuola quella mattina del diciotto di novembre. E pensò anche al padre di Mark Shaw – un ragazzo che era in fin di vita e che andava a scuola insieme ai più poveri, nel disperato tentativo di stare il più possibile alla larga dagli avversari del padre. Era grottesco, grottesco e contorto, pensare a vecchi uomini d’affari nell’atto di distruggere le generazioni successive e quindi il loro stesso futuro solo per i propri interessi. Era difficile pensare di appartenere alla loro stessa specie; non riuscì a immaginare l’uomo che aveva provocato l’attentato mentre giocava a carte o guardava una partita o litigava con una moglie in camicia da notte e piena di bigodini, come in televisione.

“Perché Chris Lawrence non si è limitato a piazzare la bomba e andarsene, senza farsi esplodere?”
“È probabile che lo abbiano costretto con le minacce” rispose Sherlock sicuro. Mai la soddisfazione di vederlo arrampicarsi sugli specchi. “Non volevano testimoni. Doveva essere un lavoro pulito, dovevano farlo sembrare l’atto di un folle”

Greg sospirò e si abbandonò contro lo schienale. “Sally sta per portare i nastri della videosorveglianza che hanno ripreso l’attentato” disse arrendendosi.
“Perfetto. Niente di meglio per dimostrare ad Anderson che la sua tanto cara teoria satanista non sta in piedi, considerata la totale mancanza di simbologie e rivendicazioni da parte delle sette. Francamente non riesco a capire come possa anche solo averlo pensato, la dinamica dell’attentato è stata di una banalità assurda”

Lestrade sospirò. Nel corridoio risuonarono i tacchi di Sally Donovan. “Abbiamo i nastri” gli gridò affacciandosi nell’ufficio di Greg appena di sfuggita, e lanciando uno sguardo di disapprovazione a Sherlock e John che si alzarono appena parlò. Il detective ispettore li imitò e si preparò a una scena che sicuramente non gli sarebbe piaciuta: odiava quando a morire erano i ragazzi. Era sbagliato, contro natura, perché doveva essere il passato a lasciar posto al futuro, e non viceversa.

Mentre il consulente investigativo li precedeva, seguendo il sergente Donovan, lui rimase un paio di passi indietro anche rispetto a John. Ricordò quando ancora credeva che i nastri aiutassero a entrare mentalmente nell’accaduto: una cazzata. La scattosità fatta di pixel sconnessi dei filmati della videosorveglianza non faceva che alzare una barriera tra lui e gli attentati. Tingeva di grigio ogni cosa, rendendola ben diversa dai colori sgargianti delle immagini che volente o nolente ogni volta si formavano nella sua testa: un orrore visto dalla prospettiva di un passante particolarmente vicino, la figura di Chris Lawrence imponente e sproporzionata. Una visione dell’evento esagerata e dettata dalle emozioni ma comunque più d’impatto di qualche nastro di una telecamera per la videosorveglianza del British Museum.

Sally si fermò in una stanza piccola, informale, parquet chiaro su pareti bianche. Al centro c’era un tavolo rotondo con cinque sedie da ufficio vecchie e dall’aria rigida. Sulla parete opposta c’era uno schermo piatto.
Greg si sedette appena a destra di quest’ultimo, lasciando la posizione centrale a Sherlock Holmes come a dire okay, è tutto tuo. John si sedette a sinistra del coinquilino.

Quando furono sistemati Sally lanciò un’occhiata dubbiosa a Greg e premette qualche bottone su un telecomando piccolo e fitto di minuscoli pulsantini. Si accertò che lo schermo desse segni di vita e sparì sui tacchi alti, non proprio silenziosamente, esattamente com’era arrivata.
E Lestrade sapeva cosa avrebbero dovuto fare ora: passare un pomeriggio a guardare un filmato di qualità infima, strizzando gli occhi per scorgere meglio quelli che sarebbero stati vittima e carnefice come in un gioco contorto. Concentrarsi su piccole macchie scure.

D’improvviso la prima immagine comparve e a scatti se ne susseguirono altre che non dicevano niente di strano se non una scolaresca in gita; a un certo punto comparvero data e ora – il diciotto novembre, qualche minuto prima dell’attentato.

Greg conosceva la procedura. Identificare assassino e vittime; cercare movimenti sospetti prima, dopo e durante l’esplosione. Riguardare il nastro all’infinito per essere certi di non aver perso niente, con gran noia di Sherlock che sicuramente avrebbe notato tutto quello che c’era da notare alla prima riproduzione.
Le sagome scure antropomorfe sulla pellicola camminavano lungo le loro linee difficilmente non rette; entravano e uscivano dalla telecamera, quasi sicuramente arrivando e dirigendosi verso un altro obbiettivo. Era quasi un minuto che andavano avanti così quando una in particolare attirò l’attenzione di Greg.

La scolaresca diventava sempre più nitida quando notò una figura immobile in mezzo alla gente e vestita di scuro. Probabilmente indossava i jeans e la t–shirt nera taglia unica che avevano ritrovato a brandelli sul corpo martoriato di Chris Lawrence.

L’ombra che si vedeva nella telecamera sembrava quella di un ragazzo. Altezza e corporatura corrispondevano. Rimase fermo finchè non passò la classe, e qui con una fitta di dolore Lestrade notò che Mark Shaw e i suoi compagni avevano ancora quell’età in cui in gita maschi e femmine erano gruppi ben distinti e separati. Ecco perchè i tre morti e i quattro feriti erano tutti di sesso maschile: erano i ragazzi ad aprire la fila, sparsi in una massa disordinata che si faceva strada in mezzo alla folla. Dietro di loro, un piccolo gruppetto di ragazze.

Avanzavano, avanzavano senza pietà, e Greg sapeva che non erano a conoscenza dell’orrore che si celava qualche metro più avanti. Provò una sensazione spiacevole e densa quando si rese conto che loro, dall’altra parte dello schermo, sapevano, ma non potevano fermarli. Impotenza.
Passi e ancora passi e poi l’esplosione: strana, a vederla sulla telecamera che evidentemente aveva tremato, un polverone e un caos che Greg non seppe mettere a fuoco. Un attimo dopo Chris Lawrence era inequivocabilmente morto.

Devastazione. Dappertutto. Una confusione inimmaginabile nei movimenti delle ragazze che si portavano le mani alla testa e, anche se la telecamera non lo mostrava, probabilmente avevano pianto. I passanti si lanciarono verso i feriti finchè non si formò una piccola folla; alcuni presero i telefoni, e chiamarono i soccorsi. Greg non vide niente di strano nell’ammassarsi della gente.

Rimase a guardare mentre arrivavano le ambulanze e caricavano i feriti. Ogni tanto lanciò qualche sguardo a tutte le persone che si affannavano, ma non vide niente di particolare. Nemmeno si accorse quando Sherlock prese il telecomando e riavvolse il nastro, tornando ad ancora prima che la scolaresca comparisse sullo sfondo. Qualche minuto dopo Greg riconobbe Chris Lawrence in una sagoma scura che si avvicinava e si fermava, e si rese conto quando già stavano arrivando i ragazzi che era stato il suo ultimo passo.

Una morte programmata, già definita, e si chiese come fosse stata l’attesa, perchè era chiaro ed evidente che aveva aspettato prima di farsi esplodere a scatenare l’inferno. Aveva consapevolmente aspettato il momento di morire.

Non lo avevano fatto i ragazzi, però. Non riusciva a trovare una logica, non riusciva a scorgere il sottile filo che di solito governava ogni cosa. Era come l’impatto di due universi. Non aveva senso.

La scolaresca ricominciò ad avanzare e cercò di ricordarsi esattamente quanti passi, quanta distanza prima dell’esplosione, per essere in qualche modo pronto e per aspettarsi il terribile istante. Eppure di nuovo lo colse impreparato. Greg smise di guardare, e sbadigliò senza fare rumore, chinando lo sguardo.
Se ne rese conto quando John gli posò una mano sulla spalla, preoccupato, costringendolo ad alzare gli occhi e guardare quelli del dottore che erano pieni di una compassione che lo stupì e terrorizzò. “Va tutto bene” disse - mentì - per l’ennesima volta. Si alzò, sistemò la giacca, si massaggiò gli occhi coi pugni, come un bambino.

“Mark Shaw è morto” annunciò Sally entrando col suo solito rumore di tacchi.

Greg uscì dalla stanza in cui alle tre e mezza era entrato per vedere quello spettacolo deprimente. Si pettinò i capelli con le dita mentre attraversava i corridoi, lasciò Scotland Yard chino ad allacciarsi un bottone e quando alzò lo sguardo vide che fuori era già buio.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** V: In Vino Veritas ***


Cap.V

In Vino Veritas

 

Sherlock digitò le stesse parole che Chris Lawrence aveva battuto al pc negli ultimi mesi, vedendo tanti nomi di fumetti e di donne. Sporadiche ricerche sulla chimica a un livello piuttosto avanzato. Un libro di un tale Isidore Blackbourne: La scienza del Male. Quello che i ragazzi cercano per scherzo a quell’età.

Tra le ricerche più recenti: info sulla costruzione di ordigni, reperibilità dei materiali necessari. “Non ha fatto nient’altro prima di morire” osservò John, con la testa poggiata sulla spalla del coinquilino. Sherlock annuì.

“Era un incarico urgente” spiegò. In realtà era ovvio. “Potrebbe averlo meditato per lungo tempo, decidendosi solo ora, ma le ricerche di chimica che ha fatto sono molto comuni considerato il suo percorso di studi”

“Ma si è informato su come ottenere i materiali dopo aver cercato i metodi di costruzione” gli fece notare John, posandogli una mano sulla spalla.
“Possono avergli fornito solo i materiali più difficili da reperire, se non addirittura nessuno. Comincio a pensare che i mandanti non siano anche fornitori”.
“Ah. Ed è... una cosa positiva, credo”.
“Sì”.

“Sì?”. John mollò la sua clavicola e gli si sedette accanto. “Ma come sono arrivati a Chris Lawrence?”
Sherlock sorrise e prese una pila di giornali da sotto il tavolo; alcune inserzioni erano cerchiate di rosso. “Annunci che cercavano giovani esperti di chimica negli ultimi mesi”

Il dottore prese l’intero mucchio; ce n’erano molte. “Dobbiamo solo esaminarle” commentò, senza che la sua voce riuscisse a esprimere appieno il sollievo che provava. Solo? pensò poi.
“Esatto”.

Semplice. Estremamente semplice, à la Sherlock Holmes: senza di lui mesi e mesi di indagini con esito nemmeno troppo scontato. John aveva come l’impressione che mancasse qualcosa, però - come se tutto quello fosse troppo poco per giustificare la morte di quattro ragazzi.

Un suono lungo e insistente del campanello li riscosse. Era troppo deciso per essere un normale cliente; e fu uno solo, non era urgente. La signora Hudson corse ad aprire con uno scalpiccio provocato dai suoi passi piccoli e affrettati. “Buongiorno” salutò cordiale. “Lei chi è?”

Una voce maschile borbottò qualcosa. La donna esitò. “Venga, la porto da loro”.

Sulle scale risuonarono piedi pesanti e scoordinati, mani che cadevano disordinate sul corrimano come avrebbero fatto quelle di una bambola di pezza: senza forza. John si alzò e si avvicinò in fretta, affacciandosi sul pianerottolo.

La signora Hudson reggeva il braccio di un uomo che sembrava volersi afflosciare sui gradini, quasi mimetizzato nell’ombra con la sua giacca nera e i pantaloni scuri. Era vestito elegantemente ma ogni cosa di lui era trasandata – era ubriaco, senza dubbio, lo si capiva ancora prima di imbattersi nel viso abbronzato in cui sembravano volersi nascondere gli occhi scuri e vitrei.

“John” chiamò Greg staccandosi dal corrimano e passandosi una mano nei capelli precocemente ingrigiti. Il dottore si rese orrendamente conto che il burattino scoordinato che si reggeva a stento sulle scale non era che Lestrade.
“Greg” disse cominciando a scendere i gradini. Lo afferrò per l’altro braccio e lo aiutò a salire, mentre la signora Hudson se ne andava lanciando sguardi preoccupati. “Greg. Cos’è successo?”

“Sono uno straccio” gli rispose semplicemente l’altro. Era così che si sentiva: un peso, un monotono essere creato solo allo scopo di avere problemi coniugali dovuti al non essere capace di comunicare con una donna stupenda, sì, ma incomprensibile. Incomprensibile, distaccata da lui e con le sue lune, i suoi periodi. Una meravigliosa aurora boreale la circondava e la separava da lui.

“Sì. Sei uno straccio, Greg. Cos’è successo?”
Lestrade sospirò. John lo guidò fino al divano e lo osservò sedersi col respiro affannato e coprirsi il volto con le mani: per un attimo ebbe l’aria di essere disperato, per poi scostare le dita e rimanere a fissare il pavimento, con gli occhi sgranati. Per qualche istante non parve accorgersi che il dottore lo scrutava. “È Sophia” borbottò, come se gli dovesse una risposta ma non avesse assolutamente voglia di formularla. “Lei è...”

John si sedette accanto a lui, sul divano. Si piegò in avanti e leggermente di lato costringendolo a fare lo stesso, finchè non ebbe gli occhi e l’attenzione di Greg fissi su di lui. “Va tutto bene. Cosa è successo?”

Lestrade cercava disperatamente di non cedere e guardare da un’altra parte; era evidente, nelle sue mani che si torcevano e non si davano tregua. Gli occhi gli si fecero lucidi. “Niente” disse alla fine. “Martedì l’ho trovata con l’amante. L’altroieri mi ha tirato una padella in testa e...”

“E?”
“È peggiorata. Oggi dovrei essere al lavoro, ma non mi sento molto bene. Se non vado Sally mi ucciderà”. Le lacrime gli inumidirono gli occhi, ma il dottore finse disperatamente di non vederle. Greg era avvilito. Nel suo sguardo, John poteva vedere l’effetto dell’alcool che l’aveva portato a parlare per la prima volta così apertamente di sua moglie; ma anche la devastazione che quell’atto aveva portato nell’ultima sua parte lucida e attiva. “Ce l’hai il numero di Sally?”. Greg annuì. “Non vai al lavoro oggi. La chiamo io. Avevate molto da fare?”

“Ieri sera è morto Mark Shaw. Tutta Scotland Yard si sta facendo il culo. Il padre è arrabbiato...”
“Tranquillo. Hai detto che ci sta lavorando anche tutta Scotland Yard”.
“Rientra nella mia divisione. Se le dici che non vengo ti ammazza”.

John sospirò. Infilò cautamente la mano nella tasca della giacca di Greg e prese un cellulare diverso da quello che era abituato a vedergli in mano al lavoro. “Dov’è quello di servizio?”

“In lavatrice, probabilmente” si limitò a rispondere Lestrade con un guizzo improvviso negli occhi. La giacca sporca dopo che ci aveva dormito dentro al motel, il telefono. Fatalità. “Cerca sotto ‘Sally’”.

Il dottore obbedì e premette il tasto di chiamata, portandosi il cellulare all’orecchio. Tuu, tuu sentiva dall’altra parte. Continuò a lungo.

Valutò di mettere giù, a un certo punto. Poi miracolosamente qualcuno rispose.
“Sono al lavoro, mi spiace” rispose la voce di Sally Donovan.
“Il sergente Donovan? Sono John Wats...”
“Dottor Watson! Chiama dal cellulare privato di Lestrade?” domandò la donna confusa.

“È... una storia lunga” tagliò corto. “Lui è qui ed è ubriaco. Dice che mi ucciderai quanto te lo dirò, ma non è nelle condizioni di...”
“Cazzo. È per Sophia?”
Sospiro. “Credo di sì. Sì. So che lei non sta molto bene, e non ho idea di quando Greg potrà tornare a casa. Se puoi...”
“Adesso no. Magari stasera. Passerò a dare un’occhiata”.
“Grazie”.

John mise giù. “È okay. Capisce”.
Greg annuì e continuò per qualche istante, come ipnotizzato dal movimento della sua stessa testa. “Non sto molto bene” disse a voce bassa.

“No?” lo prese in giro John con un filo d’amarezza. “Sdraiati, ti farà bene”.
Lestrade ubbidì. Il dottore lo girò su un fianco e lo osservò finchè il respiro non si fece regolare.

Dormiva come un bambino, ora. Aveva la faccia sbattuta e due occhiaie spaventose ma dormiva profondamente.
John sentì dei passi avvicinarsi al salotto. Una voce profonda e perfettamente nota nella sua mente chiamò il suo nome. “Sst” la ammonì.

“È mezzora che ti chiamo” lo apostrofò Sherlock, irritato. Addosso, solo il lenzuolo.
“E dov’eri?”
“Di sopra. In camera tua”.
“Mia?”
“Nella mia si sentivano le vostre voci. Stavo esaminando gli annunci”.

“E cosa c’è?”
“Volevo solo sapere cosa voleva Lestrade per venire a Baker Street quando dovrebbe stare lavorando solo ed esclusivamente a un caso che mi ha già affidato. E soprattutto considerato che Gregson non dovrebbe assolutamente scoprire ques’ultimo dettaglio, essendo una faccenda estremamente importante a causa di Abraham Shaw”.
John sospirò. Di nuovo. “Non è andato al lavoro oggi”.

Sherlock parve sinceramente stupito. “No?”
“No. È ubriaco come una spugna”.
“Quindi immagino che passerà tutta la notte sul nostro divano o, peggio, in camera tua o addirittura nella mia” osservò aggrottando le sopracciglia.

“Non necessariamente. Sono preoccupato per Sophia, non sta bene e lui ha detto che ‘è peggiorata’”.
“Fa come vuoi” gli disse Sherlock andando verso la cucina – e John dubitò fosse per mangiare – col lenzuolo che pareva un grottesco mantello da re, sommato alla sua andatura impostata.

“Cosa fai?” gli chiese il dottore prima che sparisse oltre la porta.
“Le stesse cose che ha fatto Chris Lawrence per preparare l’ordigno”.
“Merda”.

John diede un ultimo sguardo all’ispettore, profondamente addormentato, e salì in camera sua. Accostò la porta e si lasciò cadere sul letto a peso morto. Era preoccupato; preoccupato per Sherlock e per i suoi esperimenti. Per Lestrade, per sua moglie e per la sua dedizione all’alcool. A Greg bere non aveva mai fatto schifo, alle feste tra colleghi, a volte anche durante i casi, ma ora che lo faceva chiaramente per colpa della pena che Sophia gli dava, John provò una strana paura ed ebbe la visione eloquente di sua sorella Harriett.

Forse si assopì un attimo, abbandonato sul materasso. Ritornò in sé sentendo il muoversi rapido di qualcuno, di sotto, probabilmente Greg che si risvegliava; da Sherlock, solo silenzio.

Tornò da Lestrade in salotto e constatò che non era più quieto. Gli posò una mano sulla spalla e lo scosse leggermente. L’uomo esitò qualche secondo ad aprire gli occhi; respirava forte.

Quando finalmente lo guardò, John vide che le iridi marroni erano più lucide ora, e lo fissavano piene di ansia. Greg farfugliò solo il suo nome, in segno di saluto, e tentò di rimettersi seduto. Ogni movimento sembrava costargli una fatica estrema e il dottore si ritrovò a rivedere la sua decisione di riportarlo a casa. “Vuoi restare qui stanotte?” gli chiese, cercando di catturare la sua attenzione.

La testa di Lestrade compì uno scatto deciso e poco mirato che John interpretò come un diniego. “Sophia” disse Greg, come a giustificare la sua scelta.
“Okay” confermò John. “Non sei venuto qui in auto, vero?”
“No”.
“Allora vieni. Prendiamo un taxi”.

Il detective ispettore accettò di buon grado di farsi afferrare per un braccio e alzare quasi a peso dal divano; John lo guidò alle scale ma si accorse di avere fatto un po’ troppo rumore dallo sguardo che la signora Hudson gli lanciò. “Attento” avvertì Greg quando arrivarono al primo scalino. Lestrade lo scese, ubbidiente.

Una volta all’uscio non mollò la presa sull’avambraccio del dottore. John chiamò un taxi che accostò al marciapiede, ed evitò accuratamente di guardare in faccia l’uomo alla guida. Greg si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi.

“L’indirizzo” gli ricordò John sottovoce.
“Ah” disse lui senza alcuna emozione, comunicando via e numero civico con tono altrettanto neutro al tassista.

L’uomo aveva una guida piacevole, morbida. Non urtò troppo forte una buca nemmeno una volta e il dottore scrutò con occhio clinico Greg che dormiva indisturbato. Valutò di svegliarlo, qualche volta, ma non aveva un’idea troppo precisa di quanto effettivamente mancasse alla loro destinazione. Lo lasciò riposare.

“Arrivati” disse secco il tassista fermandosi esattamente davanti a una palazzina graziosa e signorile. John lo pagò, facendo attenzione a non lasciargli una mancia di cinquanta sterline come stava per fare, subito prima di accorgersi di avere sbagliato qualche calcolo. Aprì la portiera e scosse appena Greg, che grugnì. “Siamo arrivati” gli disse a voce bassa, prendendendogli il braccio. Lestrade collaborò. Una volta nell’atrio si diresse dritto all’ascensore e lo chiamò con la mano libera, appoggiandosi al muro mentre attendeva. Quasi trascinò John nella stretta cabina nel momento esatto in cui le porte scorrevoli si aprirono.

“Secondo piano” sussurrò scagliando un dito con malagrazia contro la pulsantiera. Dopo un tentativo andato a vuoto riuscì a premere il due.

L’ascensore si muoveva silenziosamente ma la sua corsa verso l’alto era evidente a John. Si sentì male e si chiese quando sarebbe finita. Poi senza un avviso di alcun tipo si fermarono, ma le porte non diedero cenno di aprirsi.

Paura. Ed ecco che strisciavano lateralmente quasi stendendogli il tappeto rosso fino ai due zerbini del piano. Greg si avvicinò a quello a destra, rosso e consumato, e si appoggiò alla maniglia accanto a cui una targhetta recitava Lestrade. Sfilò le chiavi di tasca e cercò di centrare la serratura, ma si rivelò più arduo rispetto al bottone dell’ascensore.

John gli sfilò con delicatezza l’intero mazzo di mano e al terzo tentativo trovò la chiave giusta, che girava fino ad aprire. Dall’interno provenivano dei passi leggeri che si fermarono all’ingresso, nella semioscurità.

“Greg?” chiese esitante una voce di donna, proveniente da una piccola sagoma ferma all’ingresso. “Sei tu?”
“Sì” farfugliò Lestrade appoggiandosi a John. Il dottore lo fece entrare e subito le mani di Sophia lo aiutarono a reggerlo, almeno fino al divano.

La donna lo guidò nella caduta fino ai cuscini color crema, con piccole macchioline rosse ormai secche. Alzò lo sguardo di un verde scuro e profondo solo dopo qualche istante.
“Lei è...?”
“Il dottor Watson” si presentò lui. “John Watson”.

“La ringrazio” rispose Sophia Lestrade andando a chiudere la porta, con un sorriso tirato. Il rumore del citofono la fece accorere e prendere la cornetta da un gracchiante apparecchio ben nascosto nell’ingresso. “Pronto?”
“Sono Sally, Sophia” rispose la voce del sergente Donovan. “Non credo che Greg tornerà dal lavoro stanotte. Volevo sapere se va tutto bene”

Sophia sorrise. Evidentemente capì che Sally avrebbe voluto evitarle di scoprire che Greg era ubriaco. “Sì” rispose con voce stanca. “Ciao Amy!” aggiunse poi, sforzandosi di apparire allegra.

Strizzando gli occhi John vide, nella parte bassa dello schermo, una bambina minuscola, con i codini e gli stessi ricci di Sally Donovan; gli venne da sorridere mentre la piccola agitava la manina in direzione del citofono e l’immagine piano piano tremava per poi sparire.

“Arrivederci” salutò la signora Lestrade.
“Arrivederci!”

Posò la cornetta e tornò da John. “È sua figlia. Una bambina simpaticissima, le ho fatto da madrina. Mi chiama zia” raccontò. Più per sentirsi un minimo civile che altro. “Accidenti, è tardissimo. Arrivederci, dottore. Può venire qualche volta, se vuole”.

“Mi chiami John, signora...”
“Solo se lei mi chiama Sophia” rispose lei sorridendo. Gli mise una mano bianca e curata sul braccio.
“Okay. Sophia. Cos’ha sulla maglia?”

Lo sguardo della donna cadde su una piccola macchia di sangue. “Oh, niente” disse con nonchalanche. “Sputo un po’ di sangue ultimamente. Quando tossisco”.
John ricordò cosa aveva fatto quando Greg aveva tentato di portarla all’ospedale. Non volle rischiare. “Oh. Non è una bella cosa”.

“Lo immagino”.
“Potrei darle un’occhiata, sono un medico...”
Le braccia di Sophia Lestrade si irrigidirono, ma non glielo impedì. John sentì che la fronte le scottava. “Le consiglio di andare a letto, ora. Ha la febbre” le disse piano.

La donna annuì; fece per muoversi, quando un improvviso attacco di tosse la piegò letteralmente su se stessa e le mani le si serrarono attorno alle braccia di John.

Il dottore scattò. La guardò in viso e vide che sputava sangue – tanto, troppo, più di quanto non avesse ragione di esservi, e decise che non l’avrebbe lasciata da sola con Greg in quello stato.

“Potrei rimanere qui a badare a Greg, stanotte. Lei ha bisogno di dormire”.
Sophia smise di tossire. “Va bene”.

Gli fece cenno di seguirla fino a una porta chiusa, accanto alla camera matrimoniale. Spostò uno stendibiancheria, un cesto pieno di camicie sporche di Greg e qualche altra cianfrusaglia fino a disseppellire un letto impolverato, col copriletto bianco e sporco. “È tutto quello che abbiamo” si giustificò dispiaciuta.

“È perfetto”.

Lei annuì. Uscì dalla porta borbottando un ‘buonanotte’; non passò nemmeno dal salotto, a svegliare il marito. Lo lasciò sul divano e John rimase sveglio, nell’ascolto dei suoi passi fino al letto e dei suoi colpi di tosse. Lanciò uno sguardo al pavimento della sala, e vide una piccola macchia di sangue ancora fresco.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** VI: Presentimenti ***


Cap.VI

Presentimenti

 

Greg uscì nel corridoio e si incamminò lentamente verso la macchina del caffè, infilandoci dentro una monetina; rimase ad aspettare e sbadigliò fino a farsi lacrimare gli occhi, portandosi la mano alla bocca solo qualche secondo dopo che l’ebbe chiusa.

“Va meglio?” gli chiese una voce femminile e ansiosa alla sua destra. Sally si era fermata in mezzo al corridoio a guardarlo e accanto a lei c’era Anderson che lo fissava con quel suo sguardo eternamente insoddisfatto, schifato.

“Sì” farfugliò Greg portandosi il bicchiere alle labbra. Bevve l’orribile caffè della macchinetta cercando di assaporarlo il meno possibile. “John sostiene che Sherlock sia sulla buona strada. Mi ha detto che è da venerdì che sta esaminando inserzioni sui giornali per cercare chi ha commissionato l’attentato”.
Il sergente Donovan sospirò e l’eterna infelicità di Anderson, se possibile, peggiorò. “Torna a casa, sei distrutto” lo ammonì Sally. Greg annuì.

Accartocciò il bicchiere di plastica e lo gettò in un contenitore ormai staripante. Non cercò di contare tutti i caffè che aveva bevuto solo quel giorno.
Tornò all’ufficio e con le mani cercò di fare delle carte un’unica pila ordinata, mentre cercava con gli occhi il familiare rigonfiamento del pacchetto di sigarette nella tasca della giacca. Le prese in mano e se ne accese una, con un tremore isterico nelle mani che sembravano avere fretta di aspirarne il fumo.
Uscendo da Scotland Yard trovò sepolte nelle proprie tasche le chiavi della Volvo e l’accese sentendo il motore che esitava. Si sforzò di non farci caso.

Era già buio, nonostante fossero le sei di sera, e il traffico gli fece cedere le ginocchia; accese la radio, sbagliando tasto. Partì uno dei cd preferiti di Sophia e fu tentato di spegnere, almeno finchè non si rese conto che era terribilmente rilassante.
In coda tentò di concentrarsi sulla profonda voce maschile che cantava. Era una canzone deprimente, alla fine, lo si capiva dal ritmo e dalle parole; ma preferì non soffermarcisi ed ascoltarla solo passivamente, per impedirle di penetrare la sua pelle, esercitare tutta la sua devastante tristezza. Era solo una bella musica e doveva rimanere tale.

Quando si rese conto di essere arrivato si stupì della brevità del viaggio. Valutò di estrarre direttamente la chiave ma guardando il display che indicava il titolo della canzone gli sembrò che la muta sagoma di Sophia lo stesse in qualche modo minacciando. Premette il tasto della radio, e solo dopo spense tutto. Scese dall’auto in silenzio e fu quasi urtato da una figura che usciva correndo dal palazzo.

Non ebbe voglia di fermarsi ad aspettare l’ascensore; non aveva voglia di fermarsi, in generale, perché ciò avrebbe solo significato pensare e immergersi nella tristezza morbosa della sua mente. Quelli di stanchezza e di noia erano forse i momenti peggiori e i più pericolosi delle sue giornate: le lunghe attese silenziose davanti a un telefono, un laboratorio, un binario ferroviario o più semplicemente tra le coperte e al buio, senza il coraggio di muoversi per paura di fare rumore o di svegliare Sophia. Atroce lucidità e monotonia di qualcosa che pensava ogni volta e a cui ormai aveva fatto l’orribile abitudine, come gli amanti di sua moglie, il suo lavoro, la sua insoddisfazione. Prima di addormentarsi era un momento della giornata in cui i nodi venivano al pettine e aveva imparato, col tempo, che quei nodi erano solo nella sua testa.

Greg salì le scale in fretta tenendosi al corrimano fino al secondo piano. Prese le chiavi e realizzando di non avere molta voglia di farlo entrò.
Salotto illuminato, questa volta. Udì un colpo di tosse di Sophia. “Benvenuto” lo salutò sua moglie con una voce leggermente roca. Greg non rispose.
“Ciao” le disse alla fine. Fece per sfilarsi la giacca mentre lei gli si avvicinava per baciarlo e d’improvviso sentì l’odore penetrante di un profumo da uomo con molte probabilità costoso, e non suo; una sbavatura nel rossetto che Sophia non avrebbe avuto motivo di indossare, e un velo di trucco sui suoi occhi verdi. Si irrigidì ed ebbe l’istinto di ritrarsi quando le labbra crudeli di lei baciarono le sue, dolci come una carezza, sferzandolo con quell’odore.

Greg alzò gli occhi e la presenza di Alec Martin era dappertutto – negli appendini storti e disordinati, nel letto appena rifatto. Rivide la sagoma che pareva scappare dal palazzo, e che lo aveva urtato mentre si avvicinava all’entrata; lo aveva mandato via quando era quasi troppo tardi.
“Io...devo andare” le disse. “Ti volevo avvertire...mi ha appena chiamato Sally, c’è una novità sul caso di Shaw...”

Si allacciò meglio la giacca e tornò alla porta mentre gli occhi di Sophia diventavano perplessi, al di sopra del correttore per occhiaie. Greg uscì in fretta e valutò di scendere le scale. Poi si accorse che le gambe gli tremavano.

Chiamò l’ascensore e prese il telefono, premendo la cornetta verde quando sulla rubrica comparve il nome di Sherlock.
“Pronto, Lestrade?” rispose il detective dopo qualche istante.
“Volevo sapere se c’erano novità sul caso, oggi non siamo andati granché avanti...hai trovato qualcosa in quelle inserzioni?”
Sherlock tacque. No che non ti interessa il caso, diceva la sua voce dall’altra parte della conversazione. “Non ho ancora trovato un annuncio plausibile” rispose però miracolosamente. “Sto cercando anche su tutte le riviste che Chris Lawrence leggeva”.
“Bene. Ottimo”.
“Sto giusto per andare a fare un esperimento per la bomba...”
“In che senso?” domandò Greg allarmato.
“...se ti interessa puoi venire, ti passiamo a prendere”.

L’ispettore aggrottò le sopracciglia. Poi sgranò gli occhi. A Sherlock Holmes non sfuggiva niente. “Okay. Sono a casa mia - lo sai dove abito, vero?”
Sherlock non rispose e mise giù. Greg uscì dal palazzo e si avvicinò alla Volvo, cominciando a tracciare piccoli disegni arzigogolati sul finestrino appannato.
Forse fu così che John lo trovò, quando scese dal taxi con l’evidente intenzione di suonare il citofono. Greg si accorse del suo sguardo fisso, e subito dopo anche del proprio tremore e della condensa ormai quasi sparita dal finestrino che ormai sembrava un quadro di arte moderna.

Nel taxi John si schiacciò al centro, con la testa di Sherlock che sovrastava abbondantemente la sua. Da sopra i capelli chiari del dottore, due occhi chiarissimi e taglienti squadravano Greg con il loro particolarissimo misto di malizia, curiosità e pacata superiorità. “Fa freddo” disse il consulente investigativo con nonchalanche. Greg ci mise qualche istante a tradurre.

Stavi aspettando fuori con due gradi quando è chiarissimo che ce l’hai, una casa. “Già. Dicono che nevicherà presto”.
Sherlock sussurrò qualcosa al tassista che parve stupito. Presto cominciò a inoltrarsi in strade che al buio Greg non riconobbe. “Dove stiamo andando?” chiese senza giri di parole. Non era in vena di buffonate ma come al solito Sherlock non si diede la pena di rispondere.
“Non lo so” ammise John al suo posto. “Ha passato tutta la notte a costruire qualcosa di strano e potenzialmente pericoloso in cucina”.
“Che cos’hai costruito?” domandò Greg, direttamente a Sherlock. Nessuna risposta. “Hai scoperto qualcosa?”
“Non è possibile che si sia sbagliato a costruirla: le sue conoscenze erano ottime e sicuramente era sua intenzione uccidere i ragazzi. Non cercava testimoni per il proprio suicidio”.

Il detective ispettore rimase perplesso da quella risposta: un’idea che mai lo aveva sfiorato, una nuova pista. Poi si rese conto di quanto quella frase potesse trasformarsi in un’arma a doppio taglio. “Non mi pare che tu abbia mai accennato al fatto che Chris Lawrence possa aver cercato testimoni per il proprio suicidio” gli fece notare senza riuscire a reprimere un sorriso. Sherlock rispose con un piccolo gesto della mano e uno sguardo profondamente irritato. Greg si abbandonò contro il sedile e chiuse gli occhi.

Quando li riaprì Sherlock gli tendeva una mano che lui con qualche esitazione afferrò, sentendosi trascinare quasi a forza fuori dal taxi; allungò una piccola mancia al guidatore e si sentì trasportare fino a oltre i bordi della strada deserta su cui erano finiti. John gli zoppicò dietro con qualche difficoltà.
Erano chiaramente in quello che una volta era stato un campo coltivato: un piccolo pezzo di un terreno sterminato, pieno di erbacce incolte. Sicuramente abbandonato. Greg si guardò in giro strizzando gli occhi stanchi, ma non vide alcuna abitazione a parte una stalla decadente e silenziosa.

“Che cos’è questo posto?”
“Oh, è un campo di un contadino a cui ho fatto un favore qualche anno fa per un brutto affare sul bestiame”.
Sherlock prese la borsa e ne sfilò qualcosa di scuro che Lestrade non fece in tempo a distinguere; lo gettò lontano, in mezzo alle erbacce, con le braccia sottili che a quanto pare nascondevano una forza inusuale.

Greg d’improvviso sentì un botto assordante; eppure la sua attenzione fu attratta solo e soltanto dalla luce, dal caos che si scatenò in mezzo al campo. Ebbe l’istinto di alzare il braccio per proteggersi gli occhi, ed ebbe una prova dell’effettiva entità dell’esplosione quando la manica della giacca arrivò ad accarezzargli le palpebre.

L’aria li oltrepassò mentre John si era chinato, e nei suoi occhi c’era come una paura vagamente esagerata che Greg impiegò qualche istante a capire. “E quindi qual era l’esperimento?” disse a voce fin troppo alta, seccato.

Sherlock se ne stava di profilo accanto a lui, a fissare la terra nuda dove l’ordigno era esploso; nemmeno aveva chiuso gli occhi e le sue labbra erano leggermente incurvate in un piccolo sorriso. “La signora Hudson mi ha categoricamente vietato di buttarlo in pattumiera”
John chiuse gli occhi, ancora con le mani sulle ginocchia. Greg provò lo stesso impulso.

Non capì con esattezza chi avesse cominciato a ridere; solamente si unì agli altri. Rise e spostò lo sguardo incredulo dal campo devastato al detective; rise e si sentì mancare, andando più velocemente che potè ad appoggiarsi a John.

Era notte fonda ormai. Che ore erano? Sherlock posò la mano ossuta sulla spalla del dottore, in una stretta delicata ed elegante. Greg dubitò fosse facile liberarsi dalle sue mani.
E il consulente investigativo rideva. Rideva. Senza sfottere, senza dimostrare di avere ragione, semplicemente rideva. Umano più che in ogni altro momento. Non trovò un perché a ciò, né si sforzò di cercarlo.

Evidentemente le sue dita dovevano essere più strette di quanto non apparisse. Guidò John verso la strada, ancora ridendo sommessamente; Lestrade li seguì. Accostato, accanto al campo, c’era un grosso camion bianco e rosso, vecchio e malandato. Circo dei fratelli Levy, c’era scritto sulla fiancata. Greg chiuse due volte gli occhi per esserne sicuro; alla terza si accorse che un omone grande e grosso li fissava dal sedile del guidatore, e si era appena allungato per aprire la portiera del passeggero.

“Grazie, Rob”. Sherlock ci si arrampicò senza il minimo sforzo; il camionista scese, invece, aggirando il muso del mezzo per raggiungere Greg e John e fargli segno di seguirlo. Camminava lentamente ed era appesantito da una ventina di chili di di grasso; il viso gioviale e rosso era contornato da basette e doppio mento, ed era totalmente bagnato dal sudore nonostante la temperatura: dai capelli neri e lucidi colavano orribili gocce che gli scendevano fino alla maglia a mezze maniche. Con la mano grassoccia, Rob mosse abilmente la maniglia ed aprì l’enorme cassa che doveva contenere il carico.

Era tutto vuoto, dentro, escludendo qualche attrezzo metallico che spuntava sinistro dall’oscurità. Greg salì per primo e faticosamente; per terra accanto a lui c’era un affare allungato e metallico che Rob lo invitò a prendere.

“Il vostro amico mi ha salvato da una condanna per omicidio” disse l’omone, aiutando John a salire; presto il detective ispettore lo sentì avvicinarsi a lui col suo passo leggermente asimmetrico. Tastò con le mani l’aggeggio trovato a terra finchè non trovò quello che sembrava un interruttore: muovendolo, un fascio di luce fuoriuscì dalla torcia.

Greg lanciò un’occhiata in giro, e non ebbe più dubbi di stare sognando.
Un piccolo cavallo bianco come quelli delle giostre, di ottima fattura, incastrato tra attrezzi di scena di ferro in una grottesca posa di battaglia, in un tentativo di libertà: le piccole zampe con gli zoccoli azzurri tese al soffitto o forse al cielo, il muso all’insù, orgoglioso. Il corpo era intrappolato tra ogni sorta di cianfrusaglie.

Lestrade si accasciò, quindi. Cadde con le ginocchia al petto contro al muro e accanto al cavallo; lasciò andare la testa all’indietro, fece cadere la torcia che rotolò e poi si spense. John posò la schiena contro la sottile parete che li separava da Sherlock e dal guidatore, ed entrambi chiusero gli occhi.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** VII: Alla Deriva ***


Innanzitutto vi dico che potete farmi di tutto.

Tutto quello che volete. Io sono qui e giuro che non sarò più così scandalosamente in ritardo XD


Cap.VII

Alla Deriva

 

La luce che penetrava nel camion era poca e diffusa, e pareva essersi intrufolata unicamente dai piccoli buchi nella parte alta delle lamiere che costituivano l’enorme scatola in cui ci era addormentato; Greg sbadigliò e finalmente aprì gli occhi, ferendoseli con quei pochi raggi.

Senza mai alzare la testa si voltò leggermente verso destra, scorgendo una massa di attrezzi metallici. Piano piano risalì ogni singola trave con lo sguardo fino ad accorgersi che il cavallo non era più lì. Lo ricordava perfettamente ed esattamente come gli era apparso la sera precedente: le zampe alzate e in posizione di battaglia. Un piccolo cavallino come quello delle giostre, che pareva lottare contro un qualcosa più grande di lui.

Greg sentì che gli occhi si erano ormai abituati alla luce, ed alzò finalmente lo sguardo, percorrendo in ogni centimetro il camion. Appena lo vide sentì il cuore mancare un battito: era in piedi, davanti a lui, come a guardarlo, e le zampe che prima gli erano sembrate alzate erano posate sul pavimento nella posizione stupida che avevano quelle dei cavallivini delle giostre: curva, come se stessero saltando. Si reggeva in piedi a stento.

Lestrade percepì le proprie gambe e braccia tese allo spasmo, il proprio cuore balzare in petto. Poi ricordò Rob, il suo sudore e le sue mani grassocce, e si rilassò, almeno un poco.

Aveva ben chiaro, ora, come era finito lì. Quello che non capiva era dove fosse John: a Sherlock nemmeno pensò. Ovvio che se ne doveva essere andato.

Si alzò in piedi e si guardò il polso sinistro, ma non trovò l’orologio. Pensò di esserselo dimenticato; si avvicinò al portone che dava sul mondo, e con orrore lo trovò chiuso a chiave.

“Rob!” chiamò allora, con tutto il fiato che trovò nei suoi polmoni devastati dal fumo. “Rob!”

“Arrivo!” gli gridò in risposta una voce trafelata e sulla fiancata destra del camion Greg sentì degli urti violenti, come se qualcuno stesse correndo troppo vicino alle pareti metalliche. “Arri...”

Subito ci fu un rumore di un lucchetto che sbatteva all’altezza delle maniglie del portellone; qualche secondo, e la porta si aprì. “Dove sono Sherlock e John?” domandò Greg diretto senza dare all’uomo nemmeno il tempo di aprire bocca.

“Se ne sono andati, signore... non si preoccupi, hanno lasciato me a tenerla d’occhio – doveva vedere il suo stato di stamattina, signore, dovrebbe davvero riposarsi un p...”

“Un’ultima cosa: che ore sono?” domandò Lestrade pettinandosi i capelli ingrigiti con le mani.

“Le undici” rispose Rob, apparentemente confuso.

“Merda” imprecò Greg sottovoce. “Sono in ritardo. Arrivederci e grazie, Rob!”

Saltò giù dal camion e cominciò a correre, sul marciapiede, urtando quei pochi anziani che non erano andati a lavorare; “Taxi!” gridò sbracciandosi, appena ne vide uno. Il giovanissimo tassista accostò al marciapiede; Greg salì ancora prima che frenasse e prese per qualche attimo fiato. “A Scotland Yard” disse alla fine.

“Va tutto bene, signore?” domandò il guidatore, preoccupato, lanciandogli uno sguardo dallo specchietto retrovisore.

“No che non va bene! Ci lavoro!”

Il ragazzo mise in moto all’istante e si mosse velocemente nel poco traffico delle undici del mattino; aveva un accento particolare e un nome straniero sulla divisa, e Greg sospettò che fosse appena arrivato. Non conosceva nessuna delle scorciatoie che lui usava di solito.

Si fermò davanti alla centrale di Scotland Yard una terrificante mezzora dopo. Lestrade scese, non ringraziò e fece per mettere mano al portafoglio – ma in un unico, orribile istante si rese conto di non averlo più.

“Anderson!” gridò. Solo perchè ricordava che il suo ufficio dava sulla strada. “Anderson!”

“Che c’è?” rispose l’agente infastidito, affacciandosi alla finestra. “Che cos...”

Si zittì quando vide il volto furente di Lestrade che lo fissava dal marciapiede. “Anderson! Ho bisogno di soldi! Ora!”

“Ti mando Sally!” gridò l’altro in risposta.

Neanche un minuto e il sergente Donovan usciva da Scotland Yard a passo marziale. “Non ho il portafogli e devo pagare” si giustificò Greg indicando con un cenno della mano il tassista che guardava la scena con stupore e divertimento negli occhi. Sally gli diede qualche banconota con aria truce.

“Che cosa cazzo è successo? Arrivi che manca poco a mezzogiorno dopo che ti ho chiamato una dozzina di volte sul cellulare e...”

Istintivamente la mano di Greg andò alla tasca dove teneva il telefono; “Cazzo!” disse a voce alta quando non lo trovò.

“Si può sapere cosa diavolo c...?”

Sally lo guardò, finalmente, e Greg si chiese come dovesse apparire; vestiti sporchi, puzzolenti e presumibilmente impolverati, e con ogni probabilità occhiaie grandi come borse. “Mi hanno rubato orologio, portafoglio, cellulare e Dio solo sa cos’altro. Cazzo”

“E cosa ci fai in questo stato?”

“Sherlock”. Un nome che valeva come giustificazione e attenuante.

“Ha scoperto qualcosa?” gli concesse il sergente Donovan.

“Mi ha portato a fare la raccolta differenziata del materiale esplosivo”

Sally sospirò. “Non so quanto abbiate dormito fra tutti, ma quel fenomeno da baraccone[1] sta meglio di te. È al British Museum, comunque. Guido io. E c’è una cosa che non ti piacerà”

Greg obbedì e si sistemò sul sedile del passeggero di un’auto della polizia, mentre Sally metteva in moto. “E cioè?” le chiese, preoccupato.

“Abbiamo scoperto come ha fatto Chris a procurarsi il materiale necessario”

“E come?”

“Dal laboratorio della sua scuola. Non ha usato cose troppo strane e Sherlock lo ha sempre saputo”

Silenzio. Occhi negli occhi; quelli scuri di Sally che tradivano soddisfazione, quelli nocciola e stanchi di Greg che non sapevano bene cosa esprimere. Stupore, forse. “Ha sbagliato” constatò con tono neutro quanto il suono surreale della sua voce.

“Sì” articolò il sergente Donovan enfatizzando ogni movimento delle labbra: una via di mezzo tra rigirare il coltello nella piaga e godere di ogni singola lettera di quella conferma del peggio.

“E... come sta? Sa del laboratorio?”

“Glielo ha detto Anderson per telefono. Credo che all’inizio si sia ostinato a non credergli. Poi gli abbiamo detto nome e cognome del compagno di classe di Chris Lawrence che ha fatto da palo mentre lui prendeva quello che gli serviva dall’aula di chimica”

“E ora?”

“John ci ha chiamati dopo neanche mezzora. Ci ha detto che sembra impazzito. Sta facendo una ridicola ricostruzione per sostenere la sua folle teoria secondo la quale tutto sta nella preparazione dell’ordigno, e probabilmente domani la sua pazzia trabordante finirà sui giornali”

“Non accetta che ci sia alcunchè dietro all’attentato. Come se in quella bomba fosse nascosta tutta la verità” pensò Greg a voce alta. Il sergente Donovan annuì.

“Avremmo dovuto seguire la pista satanica fin dal principio”

“Sì”

Lestrade si accorse che da qualche parte, nel suo cervello, doveva esserci come una leva; e che quella leva era spostata sul minimo delle sue funzionalità. Si sforzò di aumentarle e si rese conto che avrebbero probabilmente dovuto ricominciare daccapo: che era un errore, l’unico, il primo di Sherlock Holmes e che era capitato nell’unico caso in cui, di errori, non avrebbero affatto dovuto compierne.

Sally guidava a scatti, nervosamente. Era più o meno la ragione per cui l’auto spettava quasi sempre a lui. In quel momento, però, Greg le fu grata di averlo lasciato a riposare sul sedile del passeggero. Si fermarono accanto al museo e nel momento esatto in cui aprì la portiera Greg si accorse di avere una fame mostruosa.

“Guardali” gli disse il sergente Donovan, quasi con disprezzo. Sherlock se ne stava esattamente dove si era fatto esplodere l’attentatore, a dare ordini a John che era a un paio di metri di distanza intento a reggere una strana sagoma filiforme.

Lestrade ebbe bisogno di strizzare gli occhi per mettere bene a fuoco quello che stava vedendo: un ometto per i vestiti nella grottesca imitazione delle spalle di un essere umano, montato sulla pedana di un ventilatore. Il dottore tentava di non farlo cadere mentre Sherlock gli dava indicazioni precise e isteriche su come inclinarlo.

Greg si avvicinò a loro con passo incerto, ormai dolorosamente consapevole del buco che aveva nello stomaco. “Ehi! Fermi! Che cosa state facendo?”

Si aspettò una risposta tagliente, uno sguardo di ghiaccio, un freddo saluto, ma in realtà il consulente investigativo lo ignorò, intento a inclinare il manichino al posto di John che sospirò dopo l’ennesima sgridata. Un corpo umano non cadrà mai in quella maniera!

“Oh, sta facendo una ricostruzione dell’evento, credo...”

“E a cosa gli serve?”

“Non ne ho la più pallida idea”

John sospirò. Greg tossì portandosi una mano alla bocca e si ricordò improvvisamente di un’altra cosa. “Hai idea di chi possa essere entrato nel camion di stanotte? Quando mi sono svegliato era ancora chiuso e non trovo più il telefono”. Guardò l’altro in attesa di una risposta e notò con disappunto una goccia di sangue sul proprio palmo, che nascose immediatamente.

Il dottore parve colpito. “Non lo so. Quando siamo usciti noi era tutto chiuso, ma non ti abbiamo svegliato perchè eri distrutto”

“Capisco”. Una pausa. “Anche quando sono uscito io era chiuso a chiave, però”

“Allora non so”

Sherlock passò come un fulmine in mezzo a loro; “No! No!” urlò a Sally Donovan. “Quella è una parte importantissima della ricostruzio...”

Con un rumore secco il sergente staccò dal pavimento un pezzo di scotch messo in una posizione apparentemente casuale. “No” disse semplicemente. “No. Non è importantissima. Abbiamo guardato e riguardato il video dell’esplosione e non c’è assolutamente niente che possa aiutarci”

Sherlock mosse il pugno, irritato. Come un bambino. “Se non è nel come Chris Lawrence si è procurato il materiale, un indizio deve esserci!”

“Abbiamo riguardato i filmati decine di volte. Non c’è”

Il consulente tacque. Nei suoi occhi c’era una rabbia che Greg non aveva mai visto prima e che sperò di non rivedere. Il pugno rimaneva serrato, e Lestrade capì una cosa; e capì anche che Sherlock non l’avrebbe ammessa mai.

“Non è possibile” ripetè il ragazzo. Diede un calcio al manichino; “Non è assolutamente possibile!” aggiunse a voce ancora più alta.

Greg sentì una mano timida sfiorargli il braccio; si girò di colpo, e John si ritrasse.

“Oh, John. Scusa. Sei tu”

“Sì. Lascialo stare,” gli disse indicando Sherlock. “non... l’ha presa bene”

“Lo vedo”

Il dottore sospirò. “Tu, invece? Sembri distrutto. Lo sei. Hai seriamente bisogno di ferie, Greg. Stamattina parevi in coma”

“Lo so”. Una pausa imbarazzata. “A proposito, non ho ancora mangiato. Conosco un posto qui vicino, potrei fare un salto e portare qualcosa anche a te”

“Buona idea,” si intromise Sally prendendolo per una manica e allontanandolo dalla scena con una singola spinta, “sono sicura che fermarti a mangiare ti farà bene. Non tornare prima delle due”.

Greg lanciò un’occhiata a John e insieme si ritrovarono a guardare Sherlock. Poi Lestrade si incamminò dalla parte opposta e il dottore, riluttante, lo seguì.

La scena era poco affollata. Qualche giornalista, da bravo avvoltoio, se ne stava appollaiato tra la gente a scattare foto al delirio isterico di Sherlock Holmes; altri curiosi, invece, chiaramente inglesi nei modi e nel parlare, facevano foto su foto al luogo dell’attentato.

Greg sentì la vergogna nel vedere quell’orribile turismo della cronaca nera. Preferì focalizzarsi su una comitiva di gente con le macchine fotografiche in mano, da cui provenivano schiamazzi in una lingua che non capiva: turisti stranieri, chiaramente, che non lanciavano che qualche sguardo timoroso al posto in cui era avvenuta la tragedia; oppure quella nelle loro iridi era preoccupazione per la salute mentale di Sherlock Holmes, ma suonava molto meno poetico.

“È qui” disse a John entrando in un piccolo ristorante anonimo. “Fa delle ottime pizze”

Si sedette a un piccolo tavolo accanto alla vetrina, di fronte al dottore che lo guardava con una ruga tra le sopracciglia che non prometteva niente di buono.

“Cosa posso portarvi?” si intromise una ragazza con un’insopportabile vocina acuta.

“Una margherita” ordinò Greg rendendosi improvvisamente conto che, nonostante il buco nello stomaco, non aveva voglia assolutamente di niente.

“Una quattro stagioni” disse invece John. Guardò il detective in faccia, serio. “Tu non stai bene” sentenziò alla fine.

Lestrade sospirò. “Sono solo stanco”

“Come sta Sophia?”

“Nel weekend è peggiorata. Vorrei portarla in ospedale. Davvero”

“Ci hai riprovato?”

“No” ammise Greg. “Dice di stare bene”

“Tienila d’occhio”

Tacquero finchè la stessa signorina non gli mise davanti due piatti fumanti; due pizze alte, non bruciacchiate, di quelle che a forza di piacere a Sophia erano diventate le preferite di Greg. Gli veniva la nausea solo a sentirne l’odore.

“Mangia” gli intimò John, attaccando la prima fetta, come se gli avesse appena letto nel pensiero.



[1] Spero suoni un po’ meglio di ‘geniaccio’, il dizionario del mio cellulare dice così e mi sembra anche passabile: preferisco tradurlo, e non lasciarlo in inglese, perchè mi suona un filino più naturale e immediato.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** VIII: Ricominciare ***


In Sickness and in Health

 

Cap.VIII

Ricominciare

 

Greg finì di rileggere i vari referti delle autopsie; evitò accuratamente le foto a cui lanciò solo pochi sguardi di puro orrore. Causa di morte, in parole povere: l’esplosione. Per tutte le vittime. Ricominciare da capo. Accartocciò il bicchiere e lo lanciò sotto la scrivania, mancando di poco il cestino. Sospirò e cercò di prendere un respiro profondo, col solo risultato di un’improvvisa scarica di colpi di tosse.

Si portò le mani alla bocca, tolse immediatamente i piedi dalla scrivania: perse l’equilibrio, mentre si sentiva piegare in due. Posò d’istinto i palmi sul piano del tavolo e così facendo lasciò cadere una piccola goccia di sangue, scura e lucida, fino alle piastrelle. “Merda” borbottò Greg pulendosi la bocca con la manica della giacca, non trovando nient’altro. Un’altra goccia gli scivolò lungo il collo e bagnò la camicia bianca.

Non era quella che Sophia gli aveva regalato; quella l’avrebbe probabilmente messa solo a qualche matrimonio o cose così. Oppure il giorno del loro divorzio, sempre che non fosse stato troppo impegnato a smaltire l’ultima sbornia della loro unione. I vestiti sarebbero stati l’ultimo dei suoi problemi.

Lo pensò freddamente, con un mezzo sarcasmo. Eppure l’idea del divorzio rimase anche quando un piccolo sorriso amaro svanì dal suo volto: gli sembrava un baratro e non sapeva spiegare perchè. Significava cambiare ogni cosa, non solo Alec Martin.

Sentì dei passi in corridoio e riconobbe l’andatura veloce e altera di Sally, insieme a quella pigra e costantemente annoiata di Anderson. A volte gli ricordava un cadavere ambulante.

“Cosa c’è?” chiese con tono neutro quando decise che fossero abbastanza vicini all’ufficio da sentirlo.

In un copione ormai noto e decisamente abusato, Sally Donovan diede una prova eloquente della sua fretta facendo entrare nella stanza niente di più che i suoi capelli ricci. “C’è stato un attentato” disse.

Greg ebbe come una sensazione di déja–vu; si alzò dalla poltrona, si sistemò la camicia e involontariamente scoprì la macchia rossa all’altezza del colletto. “Che hai lì?” domandò il sergente Donovan appena la vide. Lestrade fece finta di niente.

“Dove?” chiese subito.

“Nella metropolitana. Non lontano da qui”

“Merda”

Greg afferrò il cappotto e se lo infilò in fretta, seguendo Sally che indossava già una giacca a vento di un rosa accecante. Lanciò un’occhiata al cielo dalle finestre e vide delle nuvole che non promettevano niente di buono. “Fa che non nevichi” bofonchiò prendendo le chiavi e uscì da Scotland Yard quasi di corsa.

Sally era più svelta di lui, nonostante i tacchi, e l’aria gelida lo paralizzò; salì sull’auto e accese il riscaldamento prima ancora di informarsi sull’indirizzo preciso.

“Un ragazzo, di nuovo” lo informò il sergente. “All’ora di punta. Quindici morti, questa volta”

Greg imprecò sottovoce; superò la vecchissima auto di un anziano e capì di essere vicino alla scena quando scorse giornalisti e camioncini con gli stemmi delle principali televisioni. “Merda” ripetè.

“Di qui” lo guidò Sally indicando una piccola folla, trattenuta da qualche agente; Lestrade parcheggiò alla meglio se saltò giù dalla macchina appena riuscì.

“Polizia” disse facendosi largo tra le gente e mostrando il distintivo all’uomo che se ne stava impettito accanto al cartello della metro. Li fece passare senza dire una parola e Greg vide distintamente una ragazza tentare di aggrapparsi al suo cappotto, per entrare lì dentro; e dai suoi occhi azzurri capì che sperava per qualcuno. Lestrade tentò di ingnorarla e scese le scale, rischiando di inciampare un paio di volte, e sentendosi rimbombare nelle orecchie le sue urla – quelle di una fidanzata, una sorella, un’amica? – mentre veniva bloccata dagli agenti.

Sotto, la metro era deserta; le piastrelle sporche erano coperte da qualche rifiuto e da numerosi oggetti che la gente doveva evere perso nella fuga. Era disseminato ogni genere di cose e quella monotonia che faceva assomigliare il pavimento a una discarica era rotta solo da un numero indefinito di teli bianchi e sporchi.

“Dov’è l’attentatore?” chiese Greg a un giovanissimo agente, sentendo i passi di Anderson scendere le scale. Il ragazzo gli indicò un corpo esattamente in centro a tutti gli altri, steso laddove il caos era maggiore e più palpabile: in qualche modo l’esplosione era ancora nell’aria. Era appena successo. A Greg, quel momento era sempre sembrato come ‘proibito’: il tempo che si piegava per poi ritornare dritto, lasciando da parte in una piega quell’attimo che non si vedeva mai alla tv.

Si avvicinò al telo sotto cui giaceva l’assassino, timidamente e senza nessunissima voglia di sollevarne un lembo per trovare solo un altro corpo devastato.

Fu il giovane agente a farlo per lui. Afferrò un angolo del lenzuolo e timidamente lo spostò da quella che Greg riconobbe come la faccia del ragazzo.

Era giovane, anche se un po’ meno di Chris; strizzò gli occhi, cercando di coglierne meglio i lineamenti. Gli occhi sgranati erano verdi e profondi.

Lestrade indietreggiò, fino a urtare col piede una superficie rigida; si girò di scatto e vide che non era che un altro telo bianco e macchiato, troppo vicino all’attentatore perchè la persona che ci giaceva sotto fosse ancora definibile tale. Il volto del ragazzo che si era fatto esplodere all’ora di punta a una fermata tra le più affollate della metropolitana era bruciato ma si poteva ancora intravedere la pelle chiara, il naso piccolo e armonioso. Occhi grandi. Verde scuro.

Greg serrò gli occhi fino a farsi male, e far apparire piccole figurine colorate e danzanti che quando li riaprì saltellarono fastidiosamente alla luce artificiale della fermata della metro. “Ha il portafoglio” fece notare sforzandosi di suonare neutro al giovane agente, sfilando un piccolo oggetto mezzo crbonizzato dalla tsca del morto con tutta l’attenzione che riuscì a metterci. Con attenzione lo aprì e sfilò la carta d’identità.

Notò con disappunto che l’intera parte inferiore era bruciata; si leggeva solo il nome, Luke Taylor, e parte della data di nascita. “Aveva ventisei anni” sentenziò Greg stupendosi di quanto poco quella faccia carbonizzata effettivamente rivelasse; gli era sembrato un poco più giovane. Istintivamente andò a confrontare il cadavere con la piccola fototessera incollata e annerita sulla parte inferiore.

Il cuore gli balzò in gola; sentì come un vuoto d’aria, un profondo bisogno di respirare. Un volto chiaro e una bella pelle sottile, appena l’accenno di occhiaie, capelli castano chiaro e un poco di barba. Si focalizzò sui lineamenti. Non era possibile.

Si alzò di scatto dando il portafoglio di Luke Taylor in mano al ragazzo e prese un respiro profondo, ritrovandosi a tossire un attimo dopo; Sally si voltò a guardarlo, mentre il giovane agente apparve confuso. “Tutto bene, signore?” mormorò incerto e Lestrade dovette prendere ancora più aria quando gli vide il documento ancora aperto tra le mani.

Il sergente Donovan si chinò accanto all’attentatore, lanciando uno sguardo rapido alla fototessera. Sgranò gli occhi e parve capire.

La chiuse di scatto e la identificò come prova, in un sacchettino sigillato; l’agente si alzò e andò a dedicarsi a un altro corpo. Greg sentì arrivare un’altra scarica di colpi di tosse e fu costretto a piegarsi su se stesso, portandosi una mano alla bocca. Rivide il viso di Luke Taylor, le sue labbra piccole e rosee inarcate in un piccolo sorriso rivolto alla fotocamera: una mera coincidenza, forse, o magari solo la sua mente suggestionabile dalla stanchezza. Si stava ammalando, anzi. Era solo un’impressione. La somiglianza non era nemmeno così marcata.

Eppure sapeva che non era vero. Luke Taylor le assomigliava. Terribilmente. Luke Taylor era pressochè identico a Sophia

“Vai a riposare” gli disse Sally a voce bassa, quasi sconfitta. Si vedeva la rassegnazione sul suo volto. Greg si sentì improvvisamente stupido, quasi un peso per tutta Scotland Yard; e tentò di contare quante volte, nelle ultime settimane, aveva visto la stessa preoccupazione del sergente Donovan negli occhi di qualcuno. Erano troppe, inaccettabili, e si rese conto che Sophia e tutti i problemi che ne derivavano si stavano portando via la sua vita. Che sua moglie stava allargando il suo dominio anche al lavoro e che molto probabilmente non era volontario, ma era tutta colpa di Greg.

Che era lui quello sbagliato, alla fine: nella sua testa ci doveva essere un qualcosa che si era inceppato e che si era fissato su Sophia in maniera quasi ossessiva, e che questo lo stava in ogni senso rovinando.

“No” disse a voce alta, a Sally. “Sono solo stanco. Chiamo Sherlock”

Prese il cellulare nuovo di tasca e si fermò a riflettere un attimo dopo avere premuto il tre, a lungo, per chiamare l’unico consulente investigativo reduce dell’unico errore della propria carriera; valutò se fidarsi, se stesse facendo la cosa giusta o meno. Eppure improvvisamente ricordò che era lo stesso Sherlock che aveva risolto anche i casi più intricati. “Pronto, Lestrade, è per l’attentato alla metropolitana?”

Merda, imprecò mentalmente Greg. Era ormai di dominio pubblico. “Sì”

“Arriviamo subito”

Sherlock mise giù senza neanche salutare e Lestrade sospirò. Rimise il telefono nel cappotto. Si accertò che il portafoglio nuovo ci fosse ancora.

Vide Sally intenta a guidare il medico legale fino al corpo dell’attentatore e desiderò immensamente possedere un tasto di stand–by; eppure come ogni volta si ritrovò a chiudere e riaprire gli occhi cercando di trattenere uno sbadiglio. “Vado a dire qualcosa ai giornalisti” disse a nessuno il particolare. Forse ad Anderson che casualmente si ritrovava a un paio di metri da lui. Risalì le scale lentamente e vide dei microfoni affacciarsi oltre le poche persone scioccate rimaste.

“È vero che la scena  particolarmente cruda?”

“Potrebbe essere collegato con l’attentato del British Museum?”

“L’ipotesi terroristica è da considerarsi scontata?”

Greg sospirò e tossì; scorse gli occhi sgranati della gente finchè non incontrò quelli azzurri della ragazza. Pensò che probabilmente le sue domande, per ora, erano le uniche a meritare una risposta. “Non posso ancor rilasciare dichiarazioni” disse a voce alta ai giornalisti. “Qualcuno conosceva Luke Taylor?” aggiunse poi sottovoce, col tono più serio che gli riuscì.

“È il mio fidanzato!” rispose infatti la ragazza con gli occhi azzurri che improvvisamente si riempirono di lacrime; e vedere quel colore diventare ancora più chiaro gli ricordò l’orribile immagine di Sophia che piangeva.

“Mi dispiace, signora” le disse eloquente, con un tono basso, profondo, dispiaciuto e anche piuttosto sincero. La signora Taylor scoppiò a piangere mentre i giornalisti spingevano la calca sempre di più.

Qualcuno si stava avvicinando a lunghe falcate e Lestrade lo riconobbe come Sherlock, che superò i giornalisti con nonchalanche e mostrò qualcosa all’agente, che come prima non fiatò. Greg lanciò un’occhiata all’oggetto che il consulente teneva in mano e capì come quei maledetti distintivi gli sparissero ogni volta.

“Come mai ce l’hai tu?” chiese senza la minima intenzione di dargli vinta anche quella battaglia.

“Se volete la mia collaborazione dovete fornirmi i mezzi” ripose pacato Sherlock Holmes. Si diresse senza esitazione al corpo dell’attentatore e levò il lenzuolo con un colpo secco e senza pietà, rivelando le membra carbonizzate.

“Luke Taylor, ventisei anni, è lui che si è fatto esplodere” annunciò Greg a voce alta. Solo John l’ascoltò.

Sherlock lanciò un’occhiata in giro e cominciò a studiare le ustioni, chiamando il dottore con un semplice gesto della mano. Entrambi cominciarono a maneggiare il cadavere per qualche minuto.

“È sicuramente morto per l’esplosione” dichiarò John alla fine. “Per l’impatto o per le ustioni. La rigidità è coerente con l’ora dell’attentato. È morto da poco”

“Si è fatto esplodere alle sette e trenta” confermò il giovane agente, sbucando fuori da dietro di Greg. “Si chiamava Luke Taylor e probabilmente voleva emulare il nostro...”

“Non credo proprio” lo interruppe Sherlock, interrompendolo. “Ovviamente è collegato con l’attentato del British Museum".



A/N:

Il prossimo capitolo sarà importante... così, giusto per informarvi XD doveva essere l'inizio della conclusione, ma poi ci ho preso la mano e siamo solo a metà. Grazie a tutti quelli che stanno leggendo ;)

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** IX: Non Sophia ***


In Sickness and in Health

 

Cap.IX

Non Sophia

 

Come il pendolo di un orologio la collana di Annabel dondolava, piano piano, da destra a sinistra e vicerversa. Catturava l’occhio di Greg e lo faceva assopire, solo per risvegliarlo appena la ragazza parlava e il suo petto oscillava al ritmo delle mani che gesticolavano.

Raccontava dal tatuaggio fatto quella mattina a una donna di mezz’età. “Voleva un fenicottero” disse mostrando i palmi platealmente. “Lungo tutta la schiena!”

Disegnò con le dita quello che assomigliava alla curva che dalle spalle andava fino ai fianchi, con gesti esagerati, che volevano solo essere guardati. Greg sorrise appena.

“…e lo voleva viola. Dovevi vedere! Viola scuro, come i paramenti funebri. Non credo che farò vedere le foto ai clienti!”

Sophia sorrise a sua volta, massaggiandosi forse involontariamente la spalla, accarezzando il tessuto nero che copriva la rosa. Tutta la maglia che indossava era scura; non c’era nemmeno uno sprazzo di colore. La scollatura a V e le maniche lunghe la facevano sembrare più magra. Forse era per quello che la indossava.

Le unghie rosso scuro di Annabel si fermarono, finalmente. “Sembri stanca” constatò con una luce preoccupata non del tutto convincente negli occhi.

“Non sto molto bene, ma sono solo un po’ stanca” ammise Sophia. La pelle chiara e sottile del viso era quasi verdastra e tutto intorno agli occhi era blu; aveva l’aria malata, pensò Greg, come a volte le capitava. Lo attribuiva alla sua bella carnagione pallida, anche se spesso l’idea di qualcosa di poco sano c’era anche nei suoi occhi.

Le mise una mano sulla fronte; scottava. Si sforzò di ascoltarla respirare e si accorse della fatica che ci stava mettendo. “Sei sicura che…?”

“Sì, sì!”. Si alzò di scatto, fermandosi da quella posizione sopraelevata a fissarli. Poi posò una mano sul tavolo, a cui presumibilmente si appoggiò; il marito ne dedusse che per quel movimento brusco le dovesse essere offuscata la vista. “Scusate, vado un attimo in bagno”

Sparì leggermente barcollante e appena fu fuori dal loro campo visivo Greg avvertì un tocco deciso sul braccio; si voltò di scatto e c’era la mano di Annabel a stringergli la manica della giacca che aveva indossato al posto dei soliti, orribili maglioni che metteva nei weekend.

Aveva tentato di apparire meglio che mai. Aveva tentato di sembrare meno stanco, di cancellare le occhiaie e di fare notare di meno i capelli che si avviavano inesorabilmente verso l’argento; non ci era riuscito. La persona insidiata nello specchio del bagno era lì da almeno una settimana e sembrava reduce dall’impatto contro un tram: occhi stanchi e arrossati, di un castano decisamente spento. Più vecchio di quanto Greg si ricordasse.

“Hai un ciglio” disse Annabel Reimy. Allungò la mano e col polpastrello gli accarezzò appena la guancia, senza riuscire a non graffiarlo con le unghie rosse e ricurve. Lui accennò un sorriso tirato. “Sembri stanco”

“Lo so…”

“È per quel nuovo attentato alla metro, vero?”

Annabel Reimy era apparsa più di una volta come quel tipo di donna a cui Greg era già capitato di incontrare: una affascinata dal suo lavoro, totalmente messa in soggezione dalla sua posizione nella Omicidi. Beh, l’aveva classificata male. Annabel Reimy sembrava non avere nessun rispetto per i casi che avevano in ufficio – contrariamente a Sophia e a ogni donna della sua vita, compresa sua madre. Annabel Reimy non aveva paura dei dettagli e voleva sapere. Era armata di una curiosità morbosa per le faccende più delicate che gli fossero mai capitate tra le mani. “Sì” ammise Greg. Sistemò la sedia un po’ più vicino alla ragazza e si chiuse a lei anche col busto, come se stesse per rivelarle un segreto piccante.

“È molto interessante” disse Annabel sorridendo. Non terribile, o terrorizzante, e nemmeno un timido strano, stentato; disse interessante. Greg aveva assistito a diversi usi della parola, in primis quello preferito da sua moglie per classificare certi tipi di persone che di certo non erano definibili con altri aggettivi pisitivi. Era un’impressione che spesso Sophia stessa aveva fatto agli altri. Ma Annabel non lo diceva in mancanza di altri aggettivi: con le labbra rosso sangue Annabel sorrideva.

Greg ebbe un po’ di paura di quel ghigno. Considerò che con quella donna aveva quasi tradito sua moglie. Pensò che stava quasi ridendo di una quindicina di morti ammazzati.

“…mi hanno sempre affascinata queste cose”.

Lestrade non fece in tempo a rispondere. Non ne ebbe decisamente il tempo, né il fiato. La bocca rossissima di Annabel Reimy fu prima in un punto imprecisato della sua faccia, e poi decisamente sulle sue labbra, e le baciava. Lo costrinse ad alzarsi, artigliandolo per la camicia, e lo spinse al muro mentre le maniche della giacca di lui scendevano fino ai gomiti per effetto della pura forza di gravità. Le dita di Annabel gli stringevano i polsi in basso, contro al muro. Il profumo penetrante in cui pareva essersi lavata gli rendeva particolarmente difficile respirare.

Greg chiuse gli occhi cercando di dimenticare che a momenti Sophia sarebbe tornata. Poi percepì le mani di Annabel lasciare finalmente liberi i suoi polsi per dedicarsi alla sua cintura.

Un urlo gli giunse alle orecchie quasi ovattato, e stentò a realizzare che era stato fin troppo concreto; sentì il corpo contro il suo irrigidirsi ma continuare. Annabel? cercò di dire Greg. “…Annabel?!”

“Sst” lo zittì lei. Posò le labbra sul suo orecchio e soffiò qualcosa che lui non capì. Oltre la bolla dov’erano rinchiusi, non cessava il rumore: sentiva gemiti, piccoli urli ed esclamazioni indecifrabili. “Annabel!” ripetè Greg. Posò i palmi aperti sul petto della ragazza, e la spinse. Lei parve non aspettarselo, sgranando i grandi occhi marroni. “Cosa è stato?”

Annabel non rispose. Rimase ferma e fissa a guardarlo; lui la ignorò. Attraverò la stanza a passo deciso e la superò senza nemmeno spostare gli occhi su di lei.

Greg uscì dal salotto e si avvicinò alla grande porta chiusa e bianca del bagno; ci si accostò, ci appoggiò l’orecchio. Venivano da lì, senza dubbio, quei gemiti e quelle voci spezzate e deformate; e d’improvviso da oltre la porta qualcuno urlò ancora.

Lui si irrigidì a udire quel grido. Sgranò gli occhi e rimase lì così, con metà della faccia appiccicata alla porta e le mani aperte e premute contro lo stipite.

Greg conosceva quel grido. Lo conosceva, lo aveva già sentito, aveva già pregato il cielo per non doverlo udire più: l’urlo di Sophia, l’urlo di Sophia a lui, la sua voce deformata e i suoi occhi furenti, il suo viso arrossato dall’ira. Ma non sembrava rabbia; era un urlo di dolore.

“Sophia!” gridò scagliandosi contro la porta, usando inutilmente tutta la forza che aveva in corpo sulla maniglia che si aprì subito. Sentì il cuore saltargli in gola, l’orribile idea che qualcosa le fosse successo mentre lui baciava Annabel Reimy che gli assaliva la mente. Ti prego, non Sophia.

La porta sbattè contro il muro con un tonfo secco; da dentro nessuno si lamentò di quella foga, o lo fissò stupefatto. Il lavandino era sporco di sangue misto a grumi solidi che dovevano essere stati cibo, come se qualcuno ci si fosse piegato a vomitare un potenziale ultimo pasto. L’acqua andava ancora e la manopola dell’acqua fredda era sporca delle impronte insanguinate di due dita; Greg spostò lo sguardo dal lavello alla vasca sporca di rosso, con l’orrore che lo paralizzava in ogni senso e lo sapeva.

Sul tappeto c’era una pozza di sangue, invece. All’inizio una semplice traccia che andava dalla porta al lavello come per lavarsi le mani. Poi una macchia viva che si spargeva, rivendicava il proprio territorio e nella cui superficie densa rimase per qualche istante la sagoma di una mano.

Fu come se il cervello di Greg si rifiutasse di vedere Sophia e quindi si concentrasse su tutto il resto. Non riuscì a trovare espressione migliore.

Le dita pallide stringevano le forbici che tante volte aveva usato per aggiustargli i capelli; e scagliavano colpi nell’aria, centrando poche volte gli avambracci massacrati; dalle labbra e fino al petto scivolava sangue fresco e lucido. Si era tirata su le maniche, registrò Greg. Se le era tirate su e stava tagliando furiosamente la pelle bianca dell’interno delle sue braccia.

“Sophia!” ripetè lui. Perse ogni contegno. Si scagliò su di lei e cercò disperatamente di evitare il suo viso.

Eppure furono gli occhi verdi e grandi di lei a cercare i suoi: lo studiarono fisso, mentre le mani andavano a posarsi dietro alle sue spalle e bagnavano di sangue la sua giacca migliore ancora abbassata fino ai gomiti e la camicia – quella bella, nuova, che lei stessa gli aveva regalato. Quella con cui aveva baciato Annabel Reimy.

E si chiese dove fosse adesso, quel demonio con le labbra rosse e le unghie insanguinate. La dimenticò appena Sophia posò la testa sul suo petto, mostrandogli i capelli ormai bagnati da quanto aveva sudato: nascose il viso alla vista di lui, e continuò a respirare rumorosamente contro il suo cuore. Era viva, viva e sveglia, e Greg non faticò a immaginarsela con gli occhi aperti a fissare il buio tra i loro corpi. Eppure se ne stava zitta e immobile in quella conca calda e accogliente, come una bestia o qualcuno troppo scioccato o prossimo alla morte per dire alcunchè.

“Chiama un’ambulanza!” urlò lui. Voltò la testa e vide Annabel in piedi sulla porta del bagno, a guardarli: il volto teso ma gli occhi decisi.

Improvvisamente Sophia ebbe un sussulto. Urlò, di nuovo con la stessa potenza, e le sue braccia si strinsero ancora di più alla schiena del marito. Greg percepì qualcosa di bagnato scontrarsi con la camicia, e appiccicargliela al torace. Il corpo che stringeva tra le braccia cadde inerte come una bambola di pezza stremata. “Sta morendo!” gridò implorante trattenendo un’imprecazione, o le lacrime, o forse entrambi.

Sul viso di Annabel rimase per qualche istante la stessa decisione; poi, lentamente, quell’espressione mutò nel puro e semplice orrore. Sophia non dava segni di vita.

Le unghie smaltate presero un cellulare touch screen dalla tasca della minigonna e colpirono istericamente lo schermo due, tre, quattro volte. “Pronto?”

Annabel snocciolò indirizzo, appartamento e una descrizione sommaria dello stato di Sophia. Greg nemmeno rimase ad ascoltare e continuò a stringere sua moglie tra le braccia; non voleva smettere, non poteva, nemmeno quando sentì la mano di Annabel con la sua stretta d’acciaio afferrarglio il braccio senza lasciarlo andare. “…Greg?” lo chiamò la ragazza con una voce sottile e da ragazzina che certamente non le apparteneva.

Lui non rispose. “Greg? Lasciala” gli ordinò, tentando di staccare le sue braccia dal corpo di Sophia. “Mettila seduta”

Annabel riuscì a farlo alzare, quasi sorreggendolo a forza, e semplicemente prendendo apparentemente a casaccio gli arti disordinati riuscì a mettere sdraiato il corpo della donna. “Mettiti dei vestiti puliti” gli ordinò con lo stesso tono mellifluo. “Sta arrivando un’ambulanza. Sarà qui a momenti”

La ragazza si mise comoda, rimanendo a vegliare sul corpo di Sophia. Greg andò silenziosamente fino alla camera da letto e aprì l’armadio, vedendo i vestiti che usava al lavoro riposti sugli ometti, insieme ai progetti falliti di una domenica tranquilla che giacevano inermi sotto forma di maglioni verde bottiglia che trovava difficile abbinare a se stesso.

Non ne prese uno. Non ne ebbe il coraggio. Semplicemente si spogliò e preferì rimanere a fissare tutti i suoi vestiti per qualche altro minuto fino a infilare esattamente quello che avrebbe con ogni probabilità messo quel lunedì. Era l’unico modo. L’unico modo per non interrogarsi su cosa potesse significare indossare una cosa piuttosto che un’altra.

 

***

 

Con gli stessi vestiti e la stessa espressione che avrebbe usato al lavoro, Greg rimase seduto su quella sedia con le gambe divaricate e i gomiti sulle ginocchia, intrecciando le dita. Si convinse di essere l’ispettore Lestrade, di sembrarlo. Rimase lì e mantenne la facciata.

Annabel era a due sedie di distanza. Non se n’era andata. Lui non capì perché; salvo poi ringraziarla per essere andata dai medici senza coinvolgerlo troppo. Non aveva la minima voglia di alzarsi per fronteggiare la realtà, né tantomeno di farlo da seduto. “Ascoltami” lo chiamò la ragazza e lui volutamente la ignorò. Quello che voleva sapere l’aveva saputo. Era ancora incosciente, più qualcos’altro che aveva capito male.

Greg si aggiustò la giacca e si massaggiò gli occhi. Con la mano andò alla tasca dove aveva infilato come in uno stato di trance il telefono cellulare – quello di servizio, ovviamente. Non era riuscito a portare con sé all’ospedale qualunque cosa gli ricordasse il Greg di casa. Si era volutamente trasformato nel detective ispettore Lestrade della Omicidi e decise di agire come tale. Premette il tre a lungo sulla tastiera e si portò il telefono all’orecchio.

“Lestrade?” rispose senza salutare una voce profonda e conosciuta.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** X: Detective Ispettore ***


Cap.X

Detective Ispettore

 

Lestrade scese dall’auto richiudendo violentemente la portiera, e suonò il campanello del 221b una sola volta, a lungo, attendendo che la governante venisse ancora una volta ad aprire e a squadrarlo per decidere se farlo entrare o no.

Quando Mrs. Hudson arrivò, si ricordò che l’aveva già visto ubriaco come una spugna; pregò che non l’avesse riconosciuto e cercò di apparire meno stanco, disperato e scarmigliato di quanto effettivamente non fosse. “Mi ha mandato Sherlock” disse col suo migliore tono professionale. La vecchia gli fece cenno di seguirla lungo le scale.

“È per quel ragazzo alla metro, vero?” chiese con la sua voce debole eppure fastidiosamente acuta. “È terribile. Spero che chiunque sia stato venga fermato presto”

“Sherlock sta facendo un buon lavoro” mentì l’ispettore. “Vedrà che ce la faremo”

Mrs. Hudson lo guidò fino in salotto dove Sherlock era avvolto in un lenzuolo. Greg non si chiese se indossasse alcunché oltre a quei pochi metri quadrati di stoffa bianca. “Vedo che mi hai portato un caso” disse il consulente con assoluta serietà. Lestrade non seppe cosa rispondere.

Gli aveva solo detto di venire, appena lui aveva accennato a Sophia. Lui aveva obbedito, si era rimesso in tasca il telefono di servizio e aveva guidato la sua Volvo fino a lì come se avesse avuto le sirene spiegate e una dozzina di agenti pronti a dargli eventuali aggiornamenti.

“Sì” si arrese. L’ispettore si sedette su una poltrona, accorgendosi dello sguardo di John fisso su di lui. Sherlock non gli aveva detto di Sophia, ne dedusse.

Il detective se ne stava seduto sul divano a gambe incrociate, coperto dalle spalle in giù dal telo. Aveva gli occhi aperti e l’espressione solenne: lo guardava. “A che ora tua moglie ha avuto l’attacco?”

In qualche modo quella domanda colse Greg impreparato. “Erano circa le quattro” rispose ubbidiente l’ispettore. “In casa c’eravamo solo io, Sophia e un’altra donna. Annabel Reimy”

Il detective annuì. “In che rapporto siete, tu e tua moglie, con questa Annabel?”

Greg sentì una stretta contorcergli lo stomaco e si rese conto di non averci ancora pensato, di non avere avuto il tempo per realizzarlo: Annabel Reimy l’aveva baciato. “È un’amica di mia moglie” si limitò a dire l’ispettore. Sherlock non obiettò ma a Lestrade fu chiaro che aveva capito ogni cosa.

“Ed è stata lei a trovare Sophia in una pozza di sangue nel bagno?”

John sgranò gli occhi; Greg gli diede un’occhiata fugace e imbarazzata, senza riuscire a pensare a niente in particolare. “No” rispose l’ispettore deciso. Non aggiunse altro e lasciò che il detective capisse il resto da sé.

“Quindi dopo un po’ tu e Annabel vi siete accorti che Sophia non tornava dal bagno e vi siete preoccupati. È esatto?”

Greg ringraziò Sherlock per non avergli chiesto nient’altro. “No. Abbiamo sentito mia moglie urlare”

Il detective si fece curioso; si chiese come dovesse interpretarlo. “Urlare come?”

“Urlare” rispose Greg d’istinto. “Cioè – molto forte. Come se qualcuno l’avesse aggredita”

“Ed è un’eventualità che tu escludi senza ombra di dubbio?”

Silenzio. “Sì. La porta era chiusa, anche se non a chiave, le finestre anche e niente suggeriva che qualcuno fosse entrato” rispose l’ispettore.

“Bene. E quindi siete andati a controllare”

Greg ebbe paura, per un attimo. Paura perché Sherlock non accennava a fermarsi e paura perché col senno di poi non c’era un mistero nel vero senso del termine in tutto ciò. Semplicemente Sophia che aveva sputato sangue – come faceva da quasi un mese, in verità, solo che urlando, e contorcendosi e tagliandosi sugli avambracci con una forbice.

Sono andato a controllare” corresse l’ispettore. “Era sul pavimento, aveva sputato tantissimo sangue e si stava facendo dei tagli abbastanza profondi lungo le braccia con una forbice. È in ospedale ora. Non mi hanno ancora detto niente”

Ora non aveva niente da aggiungere e il detective tacque. Voleva andarsene, voleva dormire – ma non a casa, non con quell’orribile pozza di sangue nel bagno, e nemmeno all’ospedale. Si alzò di scatto e il dottore lo imitò, avvicinandosi a lui e allungando una mano per posarla sul suo avambraccio.

Sherlock congiunse le dita e chiuse gli occhi, concentrandosi per qualche istante sul brusio delle voci di Lestrade e di John che lo accompagnava alla porta. Domande concitate da parte del dottore, e poi solo laconiche risposte. Medico o non medico, con ogni probabilità non sarebbe stato d’aiuto.

La porta si richiuse e John sospirò. Sherlock lo sentì risalire le scale; zoppicava.

“Che cosa hai intenzione di fare?” gli chiese il dottore – aggressivo – quando giunse in salotto. Il detective allora aprì gli occhi e lo guardò dubbioso per qualche istante: aveva la sua faccia delusa, quella di quando si focalizzava sugli esseri umani e lasciava in secondo piano come salvarli.

Poi Sherlock capì. Probabilmente non aveva preso abbastanza sul serio la loro recita. “Indagare” sillabò freddo alzandosi in piedi; si trascinò fino a farsi ricadere a forza su una sedia, davanti al portatile che John gli aveva regalato alla prima buona occasione per farlo smettere di usare il suo.

Il dottore rimase in mezzo al salotto, a fissarlo, e dopo qualche istante sparì in cucina senza riuscire a non lanciargli sguardi perplessi. Sherlock andò alla pagina principale del motore di ricerca e pensò a cosa cercare.

Annabel Reimy, cominciò a digitare. Non uscì molto. Un profilo di Facebook anonimo e innocuo, con una sfilza di amici probabilmente accettati senza averne ben chiara l’identità. Sophia Lestrade era in cima a essi; non c’era nemmeno un parente. Come se quella ragazza – meno di trent’anni di sicuro – fosse figlia unica di genitori anziani: niente di strano. A volte la gente vedeva cosa sospette dove non ce n’erano.

Sherlock sbuffò quando vide le frasi d’amore e i paesaggi melensi, e i commenti della signora Lestrade che partivano da un entusiasmo forzato che nel corso dei due mesi in cui erano state in contatto si era ridotto a freddi ‘Wow!’ interpretabili in una dozzina di modi. Aveva imparato che difficilmente le donne erano sincere tra di loro.

C’erano molte foto fatte da un dilettante che raffiguravano tatuaggi spesso freschi e ancora circondati da pelle arrossata. Sophia era citata sopra il primissimo piano di una spalla pallida su cui spiccava una rosa in bianco e nero.

Li faceva di mestiere, dedusse Sherlock. Non ci pensò più e andò oltre.

Il profilo di Annabel Reimy non rivelava molto e il suo nome compariva solo in un sito di appassionati di tatuaggi, e in quello di una scuola d’arte. Era regolarmente iscritta a un corso avanzato.

Sherlock abbandonò Annabel ai suoi disegni e ridusse all’osso i sintomi di Sophia nella barra di ricerca. Ottenne risultati vari e poco precisi. Si mise a scorrere la pagina.

Sito di medicina, articolo del Times. Domanda e risposta di due ragazzi palesemente disinformati sull’argomento. Addirittura la scheda di un film. E Isidore Blackbourne, La scienza del Male. Uno degli ultimi siti che Chris Lawrence aveva controllato.

Si fermò esattamente a quel risultato, a quella pagina dove qualcuno doveva avere copiato un capitolo da un qualche testo sul satanismo trovato per caso. Cliccò e su uno sfondo scuro che gli ferì gli occhi spiccava un testo di un violento rosso fuoco.

La scienza del Male

Male con la M maiuscola; la ‘scienza’ come a indicare una sua caratterizzazione precisa e un suo utilizzo. Pagine e pagine di estratti folli: i sintomi di Sophia erano più in basso, in un paragrafo fitto di Capostipiti e ‘burattinai’ tra virgolette, poi chiamati ‘Esecutori’. Tutto con l’iniziale maiuscola. Tutto che gridava importanza.

I sintomi del Capostipite erano quelli di Sophia: e c’erano solo spiegazioni ridicole per giustificare un contagio. Il Capostipite otteneva l’immortalità (sotto forma di una malattia potenzialmente mortale?) e aveva il compito di tramandarla: secondo quell’impossibile logica qualcuno voleva sterminare la razza umana partendo proprio da lei, la moglie dell’ispettore Lestrade. Sherlock non stentò a credere che dietro quella montagna di parole ci fosse una ragione, un’idea, un obiettivo; anche se francamente non riuscì a capire quale. Non se ne accennava.

Cercò informazioni sull’Esecutore e sbuffò quando un nuovo termine ridicolo e privo di senso comparve sullo schermo – Adepti, c’era scritto in cima a un paragrafo, e cominciava a diventare evidente una certa gerarchia.

Adepti: coloro che muoiono per rinascere secondo le virtù del Maestro. Morire. Di sicuro in senso figurato. Sherlock saltò al paragrafo successivo e trovò solo indicazioni su come uccidersi per diventare un adepto: portarsi dietro qualcuno, come a voler incrementare la morte in ogni sua forma e a tutti i costi. Erano citati incidenti automobilistici, bombe.

La pista che Anderson aveva proposto e che lui aveva bocciato: ancora la riteneva impossibile. Una setta con così tanti nomi da imparare, con così tanti ruoli, doveva avere una qualche simbologia. Saltò dritto al primo paragrafo. Il Male non ha bisogno di simboli.

Sherlock si gettò violentemente all’indietro, fino a sbattere contro lo schienale della sedia. L’ipotesi della coincidenza si faceva sempre più debole.

Salvò la pagina, poi chiuse tutto. Trascinò il lenzuolo fino al divano dove si sdraiò e scoprì un avambraccio pallido. Era un problema da tre cerotti – un non problema, forse, a conti fatti. Un nervosismo da tre cerotti e la certezza che non avrebbe mai ammesso di non sapere cosa pensare nonostante una qual certa verità gli si fosse appena violentemente palesata davanti agli occhi.

Il fanatismo era una cosa che non aveva mai capito: l’ossessione; la totale devozione a culti che ostacolavano le vite di chi decideva di adorarli. Chris Lawrence e Luke Taylor erano fanatici, con molte probabilità.

“John!” chiamò a voce alta. Il telefono era sul tavolino, a un metro e mezzo da lui. Senza alzarsi, non ci arrivava. “John!”

Il dottore non rispose subito e Sherlock ne dedusse che probabilmente era al pc, ad aggiornare il blog con qualcuno dei loro ultimi casi precedenti agli attentati. Sperò ardentemente che non fosse così stupido da dare informazioni riservate su casi in corso di importanza simile, ma alla fine decise di fidarsi. John non era stupido.

“Sì?” rispose urlando dalla sua stanza, al piano di sopra.

“Mi serve il cellulare!” gridò Sherlock. Quasi riuscì a udire John sbuffare.

Il suo passo ancora asimmetrico – per cosa? La preoccupazione per Greg? – scese le scale e il detective vide che tra le mani reggeva il suo telefono di seconda mano. Pensò che non gli piaceva vedergli in mano un cellulare con inciso il nome di qualcun altro e una dedica non rivolta a lui. Mancava poco a Natale, si ricordò. Avrebbe potuto rimediare.

John fece per tendergli il telefono graffiato e sporco che teneva in mano ma Sherlock scosse la testa, indicandogli con l’indice il proprio che giaceva sul tavolino. Il dottore sbuffò, ma obbedì. Camminò fino in cucina, ancora zoppicando, e il detective lo sentì chiaramente armeggiare per prepararsi una tazza di tè.

Sherlock andò alla rubrica e la scorse, fino a trovare Lestrade. Una voce nella sua testa gli suggerì di non chiamare proprio lui e decise di darle ascolto. Aveva il numero di Donovan, anche se ne avrebbe volentieri fatto a meno. La sua gioia, il suo diletto era la voce ‘Anderson’ in cima alla lista, destinatario di messaggi impensabili a ore impensabili – ma tutti azzeccati in maniera inquietante.

Sbagliato, arrivava ogni tanto al cellulare dell’agente quando faceva per infilare la somma errata nella macchinetta del caffè, probabilmente confondendosi con le tariffe di quella che avevano da poco cambiato a Scotland Yard (Lestrade, non molto stranamente, ci si era adattato quasi subito).

Sherlock premette la cornetta verde e aspettò che Anderson rispondesse – anche se era domenica, e probabilmente era a casa con i figli e sua moglie ormai probabilmente non troppo diversa da un alce; in ogni caso aveva anche il numero privato e quello di casa. Ma non fu necessario ritrovarli: dopo numerosi squilli la voce seccata di Anderson rispose con un ‘Pronto’ chiaramente infastidito. Sherlock si chiese se avesse almeno letto il nome di chi lo stava chiamando, ammesso che avesse il suo numero in memoria.

“Pronto, Anderson” disse il detective pacato. Confidò sul fatto che l’agente fosse almeno in grado di riconoscere la sua voce.

“Holmes, è domenica!” lo interruppe Anderson. “Io sono a casa con la mia famiglia” lo informò senza una reale necessità, enfatizzando più del dovuto la parola famiglia, “e gradirei non venire disturbato”

“Non ti sto disturbando, Anderson” lo rimbeccò Sherlock tentando di dimostrare la pazienza di una maestra coi suoi allievi. “Ti sto solo fornendo una pista”

Uno sbuffo. “Che sarebbe?”

Il detective lanciò un ultimo sguardo al pc che giaceva sul tavolo. “Controlla se Luke Taylor ha eseguito ricerche – non necessariamente col suo pc, anche da eventuali amici o biblioteche – sul libro di un tale Isidore Blackbourne, La scienza del Male. Male con la maiuscola”. Prese un respiro. Non voleva lasciarlo parlare solo per ricordargli che effettivamente quella era la prima pista che Anderson stesso aveva proposto, e che lui aveva ritenuto ridicola. “Ah, e non aspettarti di vedere Lestrade al lavoro, domani”

 

 

A/N: in questo capitolo ho cercato di mettere una distinzione tra ‘Greg’ e ‘l’ispettore’, più che altro per la stessa ragione mostrata alla fine dello scorso capitolo: lui ha paura di essere il marito di Sophia e quindi cerca di apparire come il capo della Omicidi di Scotland Yard, perché credo che si comporti in modo differente quando ‘è’ uno e quando ‘è’ l’altro.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** XI: La Scienza del Male ***


Cap.XI

La Scienza del Male

 

Greg realizzò che tutto quello che poteva fare era finito.

Sophia era in ospedale. Sherlock era stato messo al corrente della faccenda. Tutto quello che gli rimaneva era una macchia di sangue in bagno che non si sarebbe dissolta in totale autonomia e la muta promessa di qualche capatina all’ospedale per – quanto? Un giorno o due? Di più? Dio, no. Desiderava vedere Sophia a casa e sana con tutta la forza che gli rimanevano.

Nonostante probabilmente nulla sarebbe cambiato: si sarebbero ignorati esattamente come lei faceva ora nei suoi confronti, addormentata in un letto d’ospedale. Perché la voglia folle e irrazionale di stringerla gli veniva solo quando non poteva e c’era un – minimo, vero? – rischio di non potere più farlo?

Aprì la portiera dell’auto e un sacchetto bianco di stoffa, simile a quello della spesa, catturò la sua attenzione dal sedile posteriore. Era in mezzo, appoggiato allo schienale, e per qualche strano motivo era ricaduto elegantemente anche dopo che andandosene dall’ospedale Greg lo aveva lanciato.

Si maledisse, perché dovevano esserci dentro i vestiti di Sophia – anche se a questo punto lei non ne aveva bisogno, e anche se fosse avrebbe potuto portarglieli comunque l’indomani. Ripensandoci, avrebbe dovuto infilarle i jeans, la maglietta e la felpa in una qualche borsa che assomigliasse meno a quella che normalmente avrebbe usato per fare la spesa. Eppure il fatto che Annabel Reimy girasse per Londra con una cosa simile, con gli stessi manici lunghi per reggerla comodamente alla spalla, insieme a dei jeans all’ultima moda e lo smalto rosso gliela fece rivalutare: forse non era così da zingari. Oppure forse era solo una questione di comodità.

Greg si sedette sul sedile anteriore e chiuse la portiera forse troppo violentemente (attento, che spacchi il vetro, cazzo!), stringendo le mani al volante e abbandonando la testa contro lo schienale.

Ci era stato tante volte, al motel. Credeva di esserci arrivato in qualunque circostanza – dopo un tradimento, ubriaco. Dopo un tradimento, questa volta sobrio. Dopo un litigio, e anche qui c’era la variabile alcool/non alcool.

Credeva di esserci ormai andato in qualunque stato umanamente immaginabile. Quello che non aveva mai immaginato, era arrivarci così. Era solo una delle tante versioni – la più inaspettata – della cosa che pur sapendo benissimo vicina aveva sempre scacciato dalla mente: perdere Sophia. Per il divorzio, aveva sempre pensato. Cristo santo, non così.

All’improvviso accese l’auto più in fretta che poté e cominciò a guidare a una velocità che di solito non dedicava mai a quel particolare viaggio – non quando beveva, almeno. Non aveva ancora bevuto. Strano.

Doveva solo concentrarsi sulla strada, sul silenzio o su qualunque cosa, pur di non pensare a Sophia – perché più la morbosità di quei pensieri aumentava, più prossima alla morte era sua moglie nella distorta e parzialmente inconscia immagine mentale che aveva di lei.

Greg prestò attenzione alla strada, perché la sua destinazione era decisamente poco segnalata. Il motel era piccolo e spesso deserto, in periferia, e se qualcuno gli avesse mai chiesto perché lo avesse scelto (davvero a qualcuno sarebbe importato? No di certo) Greg avrebbe risposto che era perché sulla strada per arrivarci non abitava nessuno che conoscesse.

Per evitare la gente, quindi, si era rifugiato lì; in un posto di quart’ordine popolato da delinquenti e drogati – anche se, in effetti, aveva un’immagine della clientela fortemente stereotipata. Non avrebbe dovuto, in fondo. Semplicemente si disse che era pieno di gente sola (strano che non ci fossero più mariti come lui, dovunque andasse, oppure era lui che non li notava? Sicuramente erano una specie molto discreta) e poco socievole. Nessuno parlava, nessuno chiedeva, soprattutto, e ogni tanto quel totale disinteressamento lo aveva portato all’esasperazione – quelle volte che gli sembrava di esplodere a forza di tenersi ogni cosa dentro. Ora invece non si sentiva così. Amò passare inosservato fino al bancone, senza curarsi della borsa della spesa di stoffa bianca insolitamente pesante per contenere solo vestiti che gli sbatteva contro la gamba.

Il proprietario non alzò nemmeno lo sguardo su di lui e a Greg sembrò incredibile che si trattasse della stessa persona che lo accoglieva ogni volta. Aveva il sospetto che ormai lo riconoscesse, e che a forza di vederlo ubriaco si prendesse gioco di lui – ma no, troppa gente arrivava in quel motel in uno stato disumano, e oltre al sadismo avrebbe anche dovuto avere molta dedizione nel prendersi gioco di tutti.

“Tredici” gli disse burbero il proprietario – proprio come nei film – allungandogli una chiave sudicia con attaccato quel numero sfortunato (o no? Non ricordava) tenuto ormai insieme con lo scotch. L’uno e il tre si erano separati e Greg preferì stringere le dita attorno al metallo della chiave, per poi pentirsene immediatamente. Era appiccicaticcio, esattamente come le monete che ti davano di resto al supermercato. Sophia odiava toccarle. Si sentiva le mani sporche per ore, quando le capitava.

Greg ormai ricordava la disposizione della stanze: l’aveva imparata subito, la prima volta, quando come sempre il proprietario aveva omesso di comunicargli il piano. Sì, contrariamente alle sue previsioni ce n'era più di uno. Aprì la porta della stanza e lo accolse una brandina devastata con le lenzuola bucate, un minuscolo armadio sudicio dove non avrebbe mai messo nemmeno un paio di scarponi da montagna e un minuscolo comodino–cassettiera. Mai capito cosa ci facesse lì. In molte delle altre stanze identiche a quella, i cassetti nemmeno si aprivano.

In quella sì, però. Gli sarebbe piaciuto stenderci dentro ordinatamente i vestiti di Sophia, magari insieme a quelle belle saponette profumate o ai sacchettini di lavanda – cose che nella sua futura probabile vita da scapolo gli sarebbero mancate, pensò. Cose che sapevano di casa, di famiglia; di Sophia, quindi.

Non c’erano sacchettini di lavanda o saponette nei cassetti della stanza tredici – strano che, nonostante il numero, si aprissero addirittura, realizzò Greg. Non avrebbe mai messo i vestiti di sua moglie lì dentro, e probabilmente nemmeno quelli di Gregson, se solo gli fossero capitati tra le mani – non che lo desiderasse, certo.

Valutò di fare una cosa terribilmente romantica – dormire abbracciando la maglietta viola scuro di Sophia, per esempio (non i jeans, ovvio). Illudersi che profumasse ancora di lei e non del detersivo trovato in offerta al supermercato – l’unica cosa, probabilmente, che lei gli avesse detto spontaneamente quella settimana. Il detersivo era in offerta. Il solo pensiero gli diede una dolorosa, anche se non del tutto spiacevole, fitta al cuore, e Greg si rese conto che era ufficialmente nella fascia d’età in cui per una cosa del genere doveva preoccuparsi.

Immaginò di portarsi la maglia viola al volto e ispirare profondamente il suo profumo, come gli amanti nei film. Era così romantico al cinema. Invece, doveva essere davvero schifoso – per il detersivo, forse; era un modo mediocre per pensare a lei in una situazione ancora più mediocre, per non dire disastrosa.

Si sedette sulla brandina e si posò la borsa bianca di stoffa sulle ginocchia, accorgendosi alla prima occhiata di qualcosa di strano. La aprì, senza sapere cosa pensare.

Dentro ci vide un libro in edizione economica, bianco e anonimo. Isidore Blackbourne. La scienza del Male.

Greg lo guardò perplesso per qualche istante; poi lo sguardo gli cadde su qualcosa di pelle marrone dall’aria familiare. “Cristo santo” disse a voce alta quando vide un orologio da uomo dall’aria vissuta, abbandonato vicino a quello che effettivamente era identico al suo portafoglio rubato. Spostò il libro, e vide due cellulari. Uno femminile, con un pompon fucsia (Dio santo) attaccato e rivestito con una bandiera britannica di brillanti. Quello accanto era esattamente dello stesso modello di quello che gli avevamo rubato nel camion. “Merda” imprecò Greg. Chiuse la borse e vide un motivo rosa acceso lungo il bordo superiore – ti prego, fa’ che non l’abbia notato nessuno. Era la borsa di Annabel – erano così simili. L’aveva confusa in ospedale.

La scagliò a terra con un movimento dettato esclusivamente dalla rabbia. Pensò che finalmente, almeno, poteva buttare via quell’orribile e inutilizzabile touch screen che si era comprato. Pensò che aveva ritrovato l’orologio che gli aveva regalato Sophia (oh, no, la camicia. Quella che le aveva regalato lei. Era sporca del suo sangue – chissà se andava via, mai fatto la lavatrice lui).

Avrebbe dovuto dormire; sentiva gli occhi che gli si chiudevano. Eppure non volle, non ne aveva la minima intenzione: era in qualche modo troppo sveglio e scosso da quella giornata d’inferno.

Si alzò, raggiunse con due passi scarsi la borsa che era finita contro il muro, e pensò che alla fine La scienza del Male non era male, che alla fine erano comunque lettere d’inchiostro una dietro l’altra che l’avrebbero distratto e fatto addormentare. Sulla copertina perfettamente curata, niente forniva indizi sull’effettiva natura del testo: qualcosa che voleva denunciare un determinato aspetto a caso della società – ma allora che cosa diavolo ci faceva nella borsa di Annabel Reimy? Un romanzo? Un saggio?

Aprì la prima pagina. Niente dedica da parte dell’autore, che realizzò di non avere mai sentito nominare. Solo due nomi, scritti a penna, stranamente entrambi dalla stessa tondeggiante calligrafia femminile: Marian Benley, che era stato cancellato alla meglio, e poco più sotto quello che Greg si era effettivamente aspettato di trovare: Annabel Reimy.

Lo prese in mano, e studiandolo attentamente cominciò ad avvicinarsi lentamente al letto. L’inizio era decisamente troppo noioso e allora cominciò ad aprirlo a caso, leggendo paragrafi a caso, ogni volta più perplesso; e se all’inizio gli occhi gli si chiudevano, quando trovò il capitolo sui ‘Capostipiti’ appena oltre la metà il sonno gli passò. Rimase fermo, confuso, con gli occhi sgranati, in piedi davanti al letto.

Una voce femminile lo riscosse, senza un suono, da dietro. “Credo che tu abbia preso la mia borsa”.

 

***

 

“Mi ha chiamato Sally Donovan” disse John a voce alta mentre Sherlock tentava di ignorarlo, sdraiato sul divano con addosso il lenzuolo e con le mani congiunte.

Okay. Doveva avergli detto del caso e della svolta avvenuta solo grazie a lui. Wow? “Mh”. Il detective chiuse gli occhi, cercando di evitare di fissare il dottore. Non doveva fargli capire che era troppo impaziente di ricevere la sua solita dose di complimenti.

Anche John sembrava impaziente di dire qualcosa; e pareva soppesare le parole, esitare, cercare una posizione adatta per sembrare calmo come in realtà non era. Solo che i suoi occhi erano troppo ansiosi, le sue mani troppo accanite nel massacrarsi a vicenda. L’indice destro sanguinava leggermente per quanto si era morso l’unghia e la carne tutto intorno. “John” lo chiamò Sherlock. Si mise di scatto a sedere, guardandolo perplesso come faceva raramente. “John. Cosa è successo?”

Il dottore se ne rese conto – capì l’unicità di quell’emozione sul viso del detective.

John continuò a tacere, indeciso; non era bravo a parlare. Non lo era nessuno dei due. Ecco perché le loro conversazioni erano penosamente imbarazzanti e lui continuava a dare appuntamenti a ragazze poco timide e con la bocca eternamente aperta, spesso nella speranza che ci entrasse qualche insetto. Lui aveva sempre creduto che le ragazze fossero silenziose e timide, ai loro primi appuntamenti; ma Sarah non lo era così tanto e quindi si chiese se potesse essere speciale, secondo un punto di vista particolarmente subumano. Dio, la gente era così cieca e superficiale da considerare seriamente quel punto di vista?

“Vedi, Sally era… preoccupata” cominciò John. Sherlock non gli credette. Capì con una fitta di disappunto dove sarebbero andati a parare, e sicuramente la parola giusta per definire Sally Donovan che racconta la sua versione dei fatti al telefono non era ‘preoccupata’. ‘Seccata’, semmai; al limite ‘divertita’. Difficilmente ‘preoccupata’ nel senso che John intendeva, perché l’unica preoccupazione di Sally sarebbe stata la gestione del caso: sì, era preoccupata per il caso in quel senso. John però non era preoccupato per il caso, Cristosanto! Era preoccupato per lui e Sherlock dubitò che sarebbe riuscito a spiegargli che in ogni caso aveva appena trovato una pista vincente.

“Mi ha detto che sei riuscito a trovare un indizio importante” aggiunse però – miracolosamente – John, facendo retro front. Ma Sherlock non aveva trovato solo un indizio, bensì una pista: quando avrebbe capito, il sergente Donovan, che John non era il suo cane ma il suo assistente a cui poteva dire tutto quello che avrebbe detto a lui stesso?

Sherlock annuì, smettendo di fissare il volto di John. “E… sono contento che tu abbia finalmente trovato una pista – o almeno immagino che tu l’abbia fatto – perché prima sembravi in crisi. Adesso non più. Sono contento” concluse il dottore, evidentemente abbandonando qualunque progetto di Conversazione Profonda avesse architettato in precedenza. Sherlock annuì, chinando la testa. Improvvisamente anche John parve trovare terribilmente interessante il pavimento; solo che per far sembrare che fosse solo un banale silenzio, e non un silenzio imbarazzato post–Atroce Conversazione Profonda, dopo qualche istante decise di fissare il vuoto tra le righe di un libro che aveva abbandonato su un tavolino poco prima che arrivasse Greg.

Non lo aprì al contrario, grazie a Dio, e si sforzò almeno di ritrovare il segno; soltanto, rimase per un tempo insolitamente lungo con gli occhi fissi sullo stesso punto della pagina. Che ore erano? Probabilmente John stava per andare a letto quando si era fermato a tentare di mettere insieme una Conversazione Profonda. Tardi; le dieci e mezza, undici, forse già mezzanotte. Il telefono cominciò a suonare e Sherlock si alzò di scatto per prenderlo dal tavolino, nonostante fosse più vicino a John che a lui. Sullo schermo c’era un nome – una singola parola, secca, ormai familiare. Lestrade.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** XII: La Rabbia Paralizza ***


Cap.XII

La Rabbia Paralizza

 

Il tonfo del libro contro il materasso e un dolore sordo alla gamba che sbatteva contro qualcosa di metallico mentre si girava gli fecero notare che si trovava fin troppo vicino alla brandina; Annabel Reimy era in piedi a un passo da lui, e sorrideva con le labbra rosse. I vestiti erano sporchi del sangue di Sophia.

Era più vicina lei alla borsa si stoffa bianca, eppure fu Greg a chinarsi per raccoglierla: allungò il braccio più che poté, improvvisamente intimorito dalla sola idea di sfiorare anche solo involontariamente la pelle olivastra di Annabel. “Come sei entrata?”

Lei sorrise e non parlò. Greg si sarebbe aspettato qualunque cosa di rassicurante – ho detto al proprietario che ero tua moglie, che ti cercavo disperatamente, che dovevo dirti una cosa importante (Sophia? Dio, fa’ di no). “È per Sophia?”

Annabel fece un passo avanti. Non rispondeva – perché non rispondeva? “Annabel. È successo qualcosa a Sophia?”

La ragazza allungò una mano e gli porse un’altra borsa: era la sua, questa volta. Dentro c’erano i jeans e la maglia di Sophia, più della biancheria e una felpa. Non le aveva preso una giacca, quando al buio aveva cercato a tastoni nell’armadio un ricambio per sua moglie. Avrebbe potuto avere freddo, tornando a casa – ma non era tornata. “Grazie. Sophia sta bene?”

“Sì, per ora” rispose Annabel. Greg sentì le gambe cedere.

“Cosa vuol dire?”

Lei si limitò a stringere più forte tra le dita il lungo manico della propria borsa. “Cos’è quel libro? Hai trovato qualcosa sui sintomi di Sophia? Come fai ad avere le cose che mi hanno rubato?”

Annabel sorrise e infilò una mano nella borsa, tenendocela così a lungo che Greg finì per temere di scoprire cosa ne avrebbe estratto; e quando vide il suo portafoglio di pelle marrone provò come un misto di sollievo, confusione e incredulità. Le dita della ragazza lo aprirono, e Greg notò di sfuggita che era stato svuotato. “Dove lo hai trovato?”

Lei lo piegò fino a mostrargli l’unica foto che ci teneva dentro: la sua famiglia. Per quanto si sforzasse di ripetersi che era una famiglia normale, non poteva fare a meno di notare ogni volta che erano solo loro due e nessun altro. Sophia era la sua famiglia e in quella foto vecchia eppure straordinariamente curata, per essere stata per anni dov’era stata, indossava l’abito da sposa bianco e invernale e sorrideva. Aveva solo ventisei anni.

Annabel tirò fuori dalla borsa anche l’orologio; quando lo vide Greg ebbe l’istinto di afferrarlo. “Come fai ad averli?” ripetè, questa volta molto più allarmato. La ragazza sfilò anche il cellulare.

La mano di Greg fu più veloce e le bloccò il polso mentre ancora stava riemergendo dal bordo della borsa; con l’altra, fece per prendere il portafoglio, o almeno l’orologio. Annabel li lasciò cadere, senza curarsene. Il suo pugno si schiantò sulla faccia di Greg, stordendolo; lasciò la presa sul braccio di lei e subito si ritrovò il proprio dietro la schiena, mentre dolorosamente girava su se stesso fino a ritrovarsi a guardare il muro sopra alla brandina. Annabel lo immobilizzò mentre con l’altra mano sollevava e metteva in disordine i vestiti di Sophia nell’altra borsa, fino a estrarne un coltello da cucina.

La lama era lunga e affilata e si posò sul suo collo; Greg si rese conto che avrebbe dovuto urlare, chiamare aiuto, fare qualcosa, nonostante lo sguardo di Annabel gli dicesse chiaro e tondo che tacere era l’unica cosa sensata che potesse fare. “La ami, vero?”. La domanda lo colse impreparato; forse la situazione era più semplice di quanto non sembrasse. Possibile che Annabel Reimy fosse solo gelosa – gelosa a tal punto da tentare di uccidere Sophia, in qualunque modo (anche con una finta maledizione?)?

“Annabel…” cominciò, incerto su come continuare.

“Ssh” lo zittì lei, e la lama gli accarezzò il collo senza ferirlo. La stretta sulle sue mani si allentò e Greg decise di agire.

Il suo gomito urtò il petto di Annabel, e la sua presa tremò; Greg percepì chiaramente il coltello tagliargli la pelle sotto la camicia. Si ritrovò le braccia improvvisamente libere e andò a toccarsi la ferita, ritrovandosi le dita bagnate di sangue.

Si distrasse troppo, forse; d’un tratto le mani di Annabel erano serrate intorno alla sua gola, sottraendogli l’aria. Le unghie erano affondate nel suo collo e le dita erano come i singoli tentacoli di una piovra: ognuna di loro stringeva, troppo forte per poter fare alcunchè. Cadde in ginocchio, all’improvviso, e forse bastò a far mollare la presa alla ragazza – ma il suo stupore durò solo un istante; qualcosa di duro urtò la tempia di Greg – il calcio di una pistola? Un rumore secco e per lui assordante: la brandina che si spostava di qualche centimetro e lui stesso che cadeva di faccia sul pavimento sudicio, battendo forte la spalla destra.

Annabel si chinò su di lui e cominciò a lavorare intorno alle sue mani, finchè Greg non sentì i polsi uniti saldamente da qualcosa che non riuscì a vedere; cercò di dibattersi ma il dolore alla testa era troppo forte. “Merda” disse cercando di alzare la voce; tutto quello che gli uscì fu un tono neutro, lo stesso con cui avrebbe detto ‘oh, è finito il tè’. Percepiva Annabel Reimy dietro di lui, eppure non riusciva a guardarla.

Tentò di girarsi soltanto con le gambe, dibattendosi. Un suono secco risuonò nello spazio claustrofobico della stanza esattamente un attimo prima che un dolore tremendo alla gamba lo facesse quasi urlare – e sperò che qualcuno nel motel l’avesse sentito, anche se in quel posto era sicuro che all’occorrenza fossero tutti sordi e un po’ ciechi. Era immobilizzato, quindi.

La vista cominciò ad offuscarsi e lui boccheggiò, praticamente insensibile, prono sul pavimento del motel. Non sentiva più la ferita sul petto, né la gamba. Annabel gli si inginocchiò accanto e lentamente gli slegò le mani; Greg ne sentì il tonfo, quando caddero inermi ai lati. Riuscì a scorgere la maglia viola di Sophia che aveva usato per legarlo; la borsa bianca da dove aveva estratto il coltello si era rovesciata, evidentemente quando il letto si era ribaltato.

Dentro c’era qualche foglio stampato a righe fitte, e una volta che smise di tremare Greg tentò di avvicinarsi. Osò guardarsi la gamba e si rese conto che era stato colpito solo di striscio. Annabel lo fissava e non diceva niente, come se si divertisse a vederlo arrancare; lui allungò la mano e riuscì ad afferrare un pezzo di carta, rendendosi conto che in realtà erano più fogli graffettati insieme.

C’era la foto di un ragazzo con i capelli rossi e gli occhi scuri come la pece; nel viso Greg notò una qualche somiglianza con Sophia, anche se non eccessiva. In alto a sinistra era stata fatta frettolosamente una croce.

In qualche modo riuscì a usare l’altra mano per girare la pagina e la prima cosa che vide fu un primo piano inquietante di Chris Lawrence, con i suoi grandi occhi verdi; era una bella foto, da cui era stata tagliata una seconda figura. Ricordò di averla già vista nel profilo di Facebook del ragazzo. Nell’angolo in alto a sinistra della pagina, nella stessa calligrafia tondeggiante dell’intestazione de La scienza del Male, c’erano solo due parole: ok e fatto.

Greg sentì un brivido risalirgli la schiena e voltò la pagina. Era una ragazza, questa volta, dal viso pulito e gli occhi chiari. C’era una vaga somiglianza, nelle labbra, ma la stessa croce che aveva visto sopra alla foto del primo ragazzo gli suggeriva che era stata scartata. Non era stato scelto nemmeno il successivo ma girando di nuovo pagina Greg riconobbe il viso doppiamente familiare di Luke Taylor.

Non sapeva cosa Annabel avesse cercato; ma era evidente che in lui l’aveva trovato. Doveva essere stata una bella fortuna, trovare quel volto assolutamente identico a Sophia tra i tanti catalogati. La sua foto era stata cerchiata e in effetti la somiglianza era spiccata: gli occhi verdi, le labbra, il naso. Sarebbe potuto essere suo fratello, oppure suo figlio.

Lesse la scheda dedicata a lui e trovò nome e cognome, subito prima di una sfilza di dati che Scotland Yard doveva avere trovato mentre lui era troppo ubriaco o disperato per lavorare sul serio.

Arrivava da Cardiff e studiava lì, a Londra; voleva diventare medico, per essere precisi. Ripensò alla sua fidanzata, la ragazza con gli occhi azzurri fuori dalla metro. Come era possibile voler diventare medici e fare una cosa del genere?

Annabel lo guardava, in silenzio. “Lo conoscevi?” le chiese.

“È un mio caro amico”

Mancavano poche pagine. Greg le scorse velocemente e vide solo crocette nella parte alta dei fogli, finchè non arrivò all’ultima scheda. Appena vide la foto trasalì; era una ragazza che non arrivava ai trent’anni, pallida e con gli occhi verdi, ed ebbe l’improvvisa visione di quello stesso volto contornato da un velo, in un giorno di tanti anni prima. Si chiamava Yuliya Qualcosa; viveva a Mosca.

“Chi è?” chiese, alzando lo sguardo. Sentiva un dolore sordo alla gamba e non riusciva ad alzarsi; sapeva che Annabel aveva ancora la pistola in mano.

“Yuliya” gli rispose solamente lei con un sorriso. La prossima candidata. “Arriverà tra una settimana”

“Cosa ti ha fatto di male?”

Annabel si chinò e accostò le labbra rosse al suo orecchio. “Niente” gli disse, col tono con cui si confida un segreto; “Non lo faccio per la rabbia. La rabbia paralizza”

“Perché sono tutti loro, allora?”

“Lo hanno scelto. Loro sono solo alcuni”

Greg andò a scorrere i fogli precedenti e vide i nomi di Paesi diversi – Svezia e Finlandia, soprattutto, ma la ragazza scartata con gli occhi chiari viveva in Florida, USA. Qualunque cosa fosse era folle e fin troppo estesa: volti di ragazzi con annessi ordigni esplosivi che appartenevano a ogni posto del mondo.

“Merda!” gridò Greg; gli venne da tossire ma non si curò di coprirsi la bocca con una mano, e il pavimento sotto di lui si ricoprì di fitte gocce rosso scuro. “Cos’hai fatto a Sophia?” urlò aggrappandosi alla brandina che si allontanava da lui al posto di reggerlo, e nell’istante in cui perse la presa sentì un dolore sordo sulla nuca.

 

***

 

Quando aprì gli occhi non avrebbe saputo dire con esattezza che ora fosse – e nemmeno che giorno, forse, ma soprattutto non aveva idea di cosa gli fosse appena capitato. Tentò di muoversi, piano, e sentì solo un dolore diffuso alla testa mentre la sua gamba destra era intorpidita, quasi insensibile.

Gli ci volle qualche momento per ricordare e appena ci riuscì sentì un nodo d’ansia alla gola; Annabel se n’era andata e aveva lasciato la stanza nel buio più totale, e tastando quasi istericamente il pavimento intorno a lui Greg si rese conto che si era portata via anche quei fogli.

No, fu la prima cosa che pensò. No. Attentato, settimana prossima, Yuliya. Continuò a cercare nell’oscurità finchè non trovò le gambe metalliche della brandina. Le sue mani tornarono indietro e all’altezza del suo viso trovarono del liquido denso – il suo sangue.

Le sfregò tra di loro, sperando di lavarselo via almeno un po’; tornò a esplorare, questa volta dalla parte opposta. Non trovò niente.

Poi si ricordò di avere ancora addosso la giacca – il riscaldamento nel motel non aveva mai funzionato; andò lentamente a cercare la tasca, estraendone il suo telefono nuovo (chissà se Annabel si era portata via quello che gli aveva rubato).

Pigiò il tre, a lungo, ma subito mise giù. Non era quello di servizio. Non doveva chiamare sua madre. Il due però corrispondeva a Sophia in entrambi: aveva sempre paura che le succedesse qualcosa, si era sempre illuso che sarebbe stato pronto. In realtà, l’aveva colto totalmente alla sprovvista.

Passò in rassegna la rubrica per un tempo che gli parve infinito – prima di trovare la S, almeno. Sherlock. Lo chiamò e attese.

Non rispondeva; Greg si rese conto di non aver nemmeno controllato l’ora. Si staccò un attimo l’apparecchio dall’orecchio e vide con orrore che erano le quattro del mattino. Fuori non sentiva la pioggia – era una cosa positiva? In ogni caso, faceva freddo; lo sentiva nonostante le calze pesanti che indossava (dov’erano le scarpe?).

“Lestrade?” rispose una voce stranamente sveglia. Greg realizzò che in qualche modo aveva trovato la posta vincente.

“Sherlock” si limitò a dire. Di sottofondo sentiva la voce ansiosa di John – ‘cos’è successo? Un altro attentato? È Lestrade?’. “Vieni, per favore” implorò lui, rendendosi conto che non riusciva a muoversi né ad alzarsi e a stento a parlare. Gli diede l’indirizzo del motel, poi mise giù. ‘Ti prego’, aggiunse forse, ma smise ben presto di ascoltarsi. Il cellulare morì esattamente un attimo prima che potesse mettere giù e sperò che Sherlock arrivasse presto – non poteva fare niente, se non aspettare.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** XIII: Minaccia ***


Cap.XIII

Minaccia

 

John stava dormendo tremendamente bene.

Era a letto, totalmente avvolto in un bozzolo di coperte, cullato dal silenzio ovattato e affatto sgradevole della nevicata che era cominciata la sera prima, sul tardi. Non stava sognando l’Afghanistan (cosa senza dubbio positiva).

Stava dormendo e quel maledetto telefono era squillato alle quattro del mattino – con la sua suoneria odiosa, qualunque essa fosse, e il rumore dei passi di Sherlock che sembravano quelli di un cavallo al galoppo. “Chi è?” disse al nulla con voce impastata, rendendosi conto che Sherlock non l’avrebbe mai sentito. Quindi si alzò, abbandonando ogni speranza di addormentarsi di nuovo. Scese le scale sbadigliando; “Che cos'è successo? Un altro attentato?” chiese al coinquilino che se ne stava in piedi in mezzo al salotto con una faccia stranamente seria e il telefono all’orecchio. “È Lestrade?”

Sherlock tacque e rimase ad ascoltare, apparentemente perplesso – per quanto perplesso fosse in grado di sembrare: semplicemente aveva lo sguardo di chi ha capito ogni singola cosa tranne un piccolo dettaglio che non gli dava pace. Era questo il massimo concetto di perplessità di Sherlock e ormai John lo sapeva.

Quando mise giù, quello sguardo non era cambiato, se non fosse per un’ombra in più che gravava nei suoi occhi chiari; “Vestiti” ordinò e John non udì nemmeno il tonfo della porta che si chiudeva prima del rumore leggero del solito lenzuolo bianco che cadeva a terra.

Il dottore salì in camera sua e si infilò gli stessi vestiti che aveva messo il giorno prima; si passò le mani nei capelli, si massaggiò gli occhi con i pugni come facevano i bambini. Li sentiva strani, come se le ciglia si fossero legate insieme e non volessero staccarsi – esattamente come ogni mattina. Aveva le occhiaie, niente di troppo vistoso. Recentemente era uscito per una birra con Stamford ed era tornato un po’ troppo tardi, tutto qui (qualche volta non sarebbe stata una cattiva idea invitare anche Greg – povero, era decisamente un brutto periodo per lui. Se Sherlock fosse stato civile gli avrebbe domandato come stava Sophia).

“Chi era?” chiese di nuovo mentre scendeva le scale. Sherlock lo attendeva all’ingresso, già col cappotto addosso. John si mise la giacca più pesante che riuscì a trovare e gli scarponi: doveva avere nevicato tutta notte e infatti quando il coinquilino aprì la porta si rese conto che non aveva ancora smesso.

“Lestrade” rispose Sherlock finalmente, senza dare ulteriori spiegazioni. Il suo volto era stranamente serio e John non ne fu contento. Non c’erano tanti taxi in giro, a quell’ora, pensò, e lo disse al detective semplicemente con uno sguardo. Ma in qualche modo ne arrivò subito uno che accostò ubbidiente al marciapiede, come un cagnolino addestrato.

Sherlock diede alo guidatore un indirizzo che il dottore non aveva mai sentito; “Cos’è successo?” domandò, turbato. “È successo di nuovo?”

Il coinquilino scosse la testa. “Credo che Lestrade abbia scoperto qualcosa” disse solo. Congiunse le dita, chiuse gli occhi e posò la testa contro lo schienale – e se non fosse stato Sherlock, sarebbe stato un ottimo modo di dormire un altro po’ facendo finta di pensare (non era una brutta idea).

John abbandonò la faccia contro il finestrino gelato, sentendo le palpebre chiudersi senza il suo permesso. Le lasciò fare e non seppe dire con esattezza quanto fosse passato quando Sherlock lo scosse: la sua guancia sinistra era insensibile e sulla condensa del finestrino ne era rimasta la sagoma. “Siamo arrivati” annunciò il tassista e il detective miracolosamente pagò – di tasca propria, o almeno così sperò John. In effetti aveva lasciato il portafoglio incustodito, quel giorno.

Quando scesero si rese conto che erano davanti a un motel di periferia squallido e dall’aria trascurata: lo smog aveva ingrigito la facciata e un paio di lettere dell’insegna non erano più accese come avrebbero dovuto essere.

Sherlock entrò per primo e a passo deciso, pavoneggiandosi come suo solito – alzò il bavero del cappotto, esattamente come facevano i bambini delle elementari per fare l’imitazione del conte Dracula (Dio, da dov’era nata quell’immagine?).

Al bancone non c’era nessuno, ma Sherlock cercò di chiamare il proprietario premendo uno di quei campanelli che si vedevano principalmente nei film. “C’è nessuno?” gridò in un modo così poco da Sherlock che a John fu ben chiaro fin da subito che non era che un travestimento. Entrambi erano sporchi di neve ma il detective non tentò nemmeno di togliere dal suo cappotto un pezzo di ghiaccio dalla provenienza incerta. Presto sul suo volto si dipinse un’espressione angosciata e terribilmente seria, e John preferì restare indietro a guardarlo recitare.

Il proprietario dell’hotel arrivò borbottando qualcosa di incomprensibile e pettinandosi con le dita; sotto le ascelle la camicia era bagnata di sudore nonostante la temperatura e a John fece un po’ effetto pensare che stesse dormendo ancora vestito.

“Cercate una stanza?” chiese senza nemmeno guardarli in faccia e cominciando a scorrere le chiavi rimaste appese dietro al bancone.

“No” disse Sherlock glaciale. “Cerchiamo il signor Lestrade”.

Doveva esserci qualcosa che incuteva timore nella sua postura o nel suo cappotto o direttamente nei suoi occhi; John poté vedere il proprietario combattuto. Prese il registro e lo scorse, passando in rassegna i pochi nomi scritti con l’indice destro, fino a fermarsi su uno in particolare scritto troppo in piccolo perché il dottore lo capisse. Immaginò fosse quello di Greg.

“Stanza tredici” disse il proprietario con un tono forzatamente neutro. Non disse il piano; Sherlock si diresse subito alle scale col suo passo lungo e svelto e trovò la porta senza problemi. Suonò il campanello, senza curarsi di svegliare gli altri ospiti.

Due, tre, quattro secondi. Non aprì nessuno. Sherlock insistette ma di nuovo non ebbe risposta.

“Vado a chiedere la chiave di scorta” disse John, allarmato. Scese le scale e sperò di non dover chiamare di nuovo il disgustoso proprietario.

“Signore!” chiamò appena fu al piano terra. “Signor…”

“Danes”.

“Signor Danes”. L’uomo ricomparve con la faccia scocciata. “Nella stanza tredici non apre nessuno. Ha per caso una chiave di scorta…?”

“L’uomo sospirò rumorosamente e sparì dietro al bancone, rovistando per quasi un minuto tra oggetti che a John sembrarono metallici e Dio solo sa cosa. Quando riemerse gli porse una singola chiave arruginita e attaccata a niente, dall’aria dimenticata.

John risalì le scale e vide Sherlock fissare la serratura con aria ispirata. “Non ci provare, ho qui la chiave” lo ammonì e cercò di infilarla nella toppa, con scarsi risultati. Al secondo tentativo gli andò meglio.

La chiave finalmente girò e la porta, dopo uno scatto secco e orribile, si aprì. John tastò le pareti alla ricerca di un interruttore mentre il coinquilino si avventurava nella stanza; e poté sentire il rumore dei suoi piedi contro qualcosa di solido che doveva trovarsi a terra.

Le dita del dottore scattarono e finalmente accesero la luce. La piccola lampadina fu abbastanza per rivelare quel luogo, mostrarlo a loro due come sarebbe dovuta apparire una grotta piena d’oro a un pirata; solo che quella piccola e claustrofobica stanza d’albergo non era un nascondiglio inviolabile bensì una camera per le torture per pirati traditori, dominata com’era dalla figura sanguinante in mezzo al tappeto.

“Greg!” esclamò John e si chinò al suo fianco; era prono sul pavimento, e la posizione inusuale di una brandina arrugginita gli suggerì che cadendo doveva averla spostata. Tra le mani stringeva ancora il cellulare; il dottore si chiese perché, tra le tante persone possibili in grado di aiutarlo, avesse scelto proprio loro. Aveva scoperto qualcosa?

“Dobbiamo chiamare un’ambulanza” disse John a voce alta sfilando dalle dita di Greg il telefono; premette qualche tasto, e si accorse che era scarico. “Subito” chiarì a Sherlock e quando lo vide prendere il proprio cellulare dalla tasca del cappotto gliene fu immensamente grato.

Il detective non si avvicinò, non minacciò Greg, non tentò di rianimarlo per chiedergli cosa avesse scoperto – era ovvio anche per John, ora, che avesse scoperto qualcosa.

Posizionò Lestrade su un fianco, notando con orrore che sul davanti la camicia bianca era insanguinata. Cercò la ferita e si sentì immensamente sollevato quando vide che era solo un taglio poco profondo; passò in rassegna il resto del corpo dell’ispettore finchè non vide la gamba destra dei pantaloni impregnata di sangue rosso scuro.

“Merda” disse a voce alta. Provò ad alzarla, e vide chiaramente una ferita da arma da fuoco poco più su della caviglia.

Gli sfilò la giacca e tentò di fermare l’emorragia; ed esattamente nell’istante in cui strinse, con la coda dell’occhio vide con orrore che Greg aprì gli occhi.

Lestrade prese un respiro profondo e quasi disperato – quello di chi riemerge dopo un lungo periodo di apnea; tutto il suo corpo ebbe uno spasmo e nelle sue iridi castane comparì una discreta dose di terrore.

“Va tutto bene!” gli gridò John – forse un po’ troppo forte per suonare credibile. Greg ansimava e all’improvviso cominciò a tossire contorcendosi ancora, e dalla sua bocca cominciò a piovere sangue.

La guancia che da svenuto aveva appoggiato a terra ne era sporca e c’era una macchia sotto di lui, all’altezza della sua faccia; e John realizzò che tutto quel sangue non aveva ragione di stare lì. Guardò istintivamente Sherlock, che evidentemente aveva appena finito di chiamare i soccorsi. Gli indicò Greg che tossiva sangue e il detective, all’improvviso, capì.

“Stai lontano da lui!” gli gridò quando John fece per avvicinarsi al volto di Lestrade. “Stai lontano. È contagioso”.

Stai lontano. Era inspiegabile e terrorizzante. Lui non poteva stare lontano – era un medico, era suo amico: aveva il dovere di fare qualcosa per Greg. “Stai lontano” ripetè Sherlock, afferrandolo da sotto le ascelle e quasi sollevandolo di peso, per trascinarlo via. “Sophia l’ha contagiato e lui contagerà te”.

John sgranò gli occhi e fissando Greg smise di divincolarsi, rimanendo a distanza. Era una vista pietosa Lestrade a terra, inerme e insanguinato. Lo faceva sentire sadico anche se era tutto tranne piacere quello che provava a vederlo in quello stato – oh, Dio, dopo l’Afghanistan aveva dato per scontato che avrebbe smesso di vedere cose del genere. Ma a quanto pare non era così che era andata – dopo l’Afghanistan aveva pensato che avrebbe avuto una vita normale, ma quella lo era?

“Sta arrivando l’ambulanza,” gli sussurrò Sherlock, serio come l’aveva visto poche volte. “ce la farà. Una volta là, ti incarico di tenere il maggior numero di persone possibili lontane da Sophia. Hai capito?”

Il dottore lanciò un’ultima occhiata combattuta alla gamba di Greg, e spostò lo sguardo verso il suo coinquilino. “Okay” mormorò. Si abbandonò a terra, portandosi le ginocchia al petto e schiacciandosi per bene contro il muro con la schiena. Sherlock si sedette accanto a lui.

John sbadigliò e parve ricordarsi che alla fine erano ancora le quattro e mezza del mattino, che si era comunque appena svegliato e che in ogni caso avrebbe dovuto dormire. Solo che non ce la faceva.

“Chi può essere stato?” mormorò a Sherlock. Erano arrivati quasi a uccidere Lestrade o almeno a provarci – qualunque collegamento ci fosse, qualunque cosa significasse, non erano al sicuro. Il detective scosse la testa; chiuse gli occhi e ricomparve sul suo volto la stessa espressione pensierosa che aveva già assunto nel taxi.

“Sherlock” lo chiamò di nuovo. Lui sapeva. “Sherlock”.

“Sì, John?”

“Dimmi quello che sai”. Perché c’era una minaccia nell’ombra, perché come avevano già fatto altre volte si erano evidentemente immischiati in qualcosa che era più grande di loro. Era una situazione in cui John non aveva mai immaginato (sperato?) di imbattersi nella propria vita vera – era più folle di qualunque altra cosa che avesse mai fatto. Un film d’azione, una specie di James Bond – ecco come gli sarebbe apparso prima tutto quello. Ora che lo stava vivendo, ovviamente era piuttosto diverso da quello che vedeva in TV.

Era come se la sua esistenza stessa fosse diventata più grande e più importante di quanto non avesse mai osato immaginare, e anche se rischiava la vita e Dio solo sa cosa, non c’era nessun altro posto al mondo in cui volesse stare – sarebbe stato uno spreco umano, una vergogna, se avesse disdegnato quella vita che improvvisamente grazie a Sherlock era diventata più grande che mai.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** XIV: Phoenix ***


Cap.XIV

Phoenix

 

C’era una bella ragazza nella stanza d’ospedale di Sophia Lestrade. Abbronzata, vestiti succinti, capelli lunghi e scuri e labbra dipinte di rosso. Era sporca di sangue (doveva essere Annemarie, Annabel, o come si chiamava). Le sue impronte sporcavano il pavimento dell’ospedale in tutte le direzioni: fuori e dentro dalla stanza, fuori e dentro dal reparto, e John le vide anche disegnare un percorso che usciva dall’ospedale. Doveva essere nervosa.

Gli lanciò un’occhiata sola, non particolarmente interessata. Avrebbe dovuto dirle di allontanarsi. Dio mio. Sophia era contagiosa.

Sherlock gli aveva detto quelle cose nella stanza del motel e sull’ambulanza – quelle cose incredibili che come mai prima di allora gli avevano fornito un’idea precisa di cosa davvero significasse essere dalla parte di Sherlock Holmes.

In qualche modo voleva dire essere disposti a credere a cose disumane e impossibili e definibili con qualunque altro aggettivo che fosse l’opposto di normali, o semplici. John non ci aveva capito granché.

L’immersione di Sherlock nella follia del caso era stata totale. Aveva usato termini senza senso come Burattinai, Esecutori, Capostipiti. E la cosa peggiore era che non aveva prove per affermare che poverino, gli era andato in pappa il cervello.

Ma lui era l’assistente di Sherlock Holmes: l’unica persona che, per grazia divina (o punizione), era stata scelta per stare al suo fianco e aiutarlo e sopportarlo (anche se alla fine non era sempre così difficile). Doveva avere una qualche struttura mentale particolare, per sopportarlo, o cose del genere. Quando Sherlock parlava, lui doveva crederci – e lui si fidava, lui ci credeva, perché glielo diceva lui e non importava se il prezzo era la sua salute mentale o la sua reputazione. Lui credeva in Sherlock Holmes.

Quindi doveva tenere lontana Annemarie (o Annabel o come si chiamava); ora che sapeva quelle follie, Sophia era più importante e pericolosa ai suoi occhi (Sophia Lestrade era la prima pedina di un gigantesco domino che puntava all’intera specie umana. Pazzesco. Folle).

Aprì la porta timidamente e si schiarì la voce, cercando una bugia credibile.

“Mi scusi. Chi è lei?”

“Stephen” disse d’istinto. “Il fratello di Sophia”.

Cercò di apparire affranto; non ce ne fu bisogno. La ragazza annuì con aria grave. “Buongiorno” lo salutò con tono rispettoso. “Io sono Annabel. Un’amica di sua sorella”.

“Oh” disse John. “Oh. Sì, Greg mi ha detto… che è stata lei a chiamare l’ambulanza per mia sorella. Beh, grazie. Si sa già cosa…?”

“No” rispose Annabel. Sembrava abbattuta, priva di forza, depressa.

“Potrei restare da solo con…?”

“Certo”.

“Arrivederci. Grazie”.

“Di niente”.

Annabel richiuse la porta dietro di sé con attenzione, lanciando a John e Annabel un ultimo sguardo a metà tra il triste e preoccupato. Il dottore aspettò che il rumore dei suoi passi sparisse.

“Sophia” chiamò quando no la vide più. “Sophia…?”

La donna nel letto sembrava dormire; la carnagione chiara era ancora più pallida e il suo volto sembrava quasi verdastro. John ricordò il suo aspetto quando le aveva riportato a casa Greg ubriaco. Non era molto diverso da come appariva ora.

D’improvviso aprì gli occhi scuri – ma non marroni, quello no. Quando John era bambino, un sacco di gente scambiava i suoi occhi per marroni – ma erano blu, e probabilmente non l’avrebbero mai capito. Alla fine aveva sviluppato una sorta di attenzione particolare per gli occhi della gente (come se quelli di Sherlock necessitassero di un’attenzione particolare per venire notati, davvero). Ne concluse che senza ombra di dubbio gli occhi di Sophia Lestrade erano verde scuro e grandi.

“Sophia” la chiamò di nuovo. Lei sorrise.

“Dottor Watson” disse pacata. A John fece quasi impressione: ricordava il suo nome. “Buongiorno. Dov’è Greg?”

Il suo viso era stanco ma sereno, tranquillo. Si rese conto che avrebbe dovuto deludere orribilmente le sue aspettative. “Greg è…”. Gli occhi di Sophia gli sorrisero, incoraggianti, e John ebbe paura di non averne il coraggio. Non si era mai chiesto cosa pensassero le famiglie dei soldati morti – qualche volta aveva pensato a come avrebbe reagito Harry se lui fosse stato ucciso in missione, ma era una cosa troppo oscura e dolorosa per indugiarci per più di qualche attimo nel silenzio teso della notte, in tenda. “…è stato ferito stanotte, non sappiamo ancora come. Sospettiamo che sia collegato al caso su cui stava indagando”.

Sophia sgranò gli occhi e lo guardò fisso – rivolse il viso verso di lui mentre era chiaro che la sua mente era sprofondata in un’oscurità densa e fitta che John conosceva bene. Si chiese se non facesse meglio a dire a Sophia cos’era successo precisamente a Greg, ma ripensandoci si rese conto di non sapere esattamente nemmeno lui quante ferite gli fossero state inflitte.

Le diede qualche istante per realizzare l’accaduto e quando la vide chinare lo sguardo le afferrò d’istinto la mano; pensò a Greg, e all’espressione dei suoi occhi neri ogni volta che parlava di lei.

D’improvviso la porta si aprì e John sobbalzò; “Mi scusi, Stephen” gli disse Annabel con aria trafelata. “Sophia!” esclamò contenta. “Ti sei svegliata… ero così preoccupata… è venuto tuo fratello a trovarti, hai visto?”

Il viso di Sophia si corrucciò per un singolo istante prima di rilassarsi nuovamente, con naturalezza. “Già” confermò e strinse ancora di più la mano di John. Appoggiò la testa al cuscino e chiuse gli occhi, sospirando; era stanca. “Lasciamola dormire” disse John – un’ordine detto con voce gentile; guidò Annabel fuori e richiuse la porta alle proprie spalle.

Si appoggiò allo stipite con la schiena e sbadigliò sonoramente. Sherlock gli aveva detto che sarebbe andato da Greg; ci avrebbe messo un po’, pensò. Si sedette su una sedia di plastica nel corridoio, reclinò la testa all’indietro e chiuse gli occhi. Probabilmente si sarebbe addormentato, e non era una cosa del tutto spiacevole; se non fosse stato per la certezza che, risvegliandosi, il collo gli avrebbe fatto decisamente male.

Avrebbe dovuto scoprire come stava Greg. Si sarebbe dovuto alzare. Avrebbe dovuto fare un’altra dozzina buona di cosa (le piante! Le doveva bagnare per Mrs. Hudson. Merda).

 

***

 

Sherlock osservò i medici armeggiare intorno a Greg e rimase in disparte, cercando qualunque indizio sul corpo dell’ispettore. Gli avevano sparato poco più su rispetto alla caviglia (preso di striscio); la gamba destra dei pantaloni era insanguinata.

Assottigliò gli occhi e aspettò qualche istante. Ripassò la parte – probabilmente non avrebbe nemmeno avuto bisogno di parlare. Aveva detto che John era appena arrivato lì per cercare una stanza quando aveva trovato Greg, perché aveva avuto la certezza matematica che John era troppo agitato per giustificare la sua presenza lì ai soccorsi. Sherlock invece se ne era stato zitto e li aveva lasciati fare le loro deduzioni. Si era costruito un alibi – era andato a fare un acquisto urgente per Greg, aveva trovato il negozio chiuso e quando lo aveva raggiunto nel motel lo aveva trovato in quello stato. John avrebbe detto di averlo visto a quell’ora, quando era stato svegliato da uno Sherlock allarmato che cercava di entrare nella camera di Greg. Più semplice di così. (Greg lo aveva chiamato poco prima del loro arrivo. Un’altra prova a suo favore).

“Come sta?” chiese preoccupato a un’infermiera. Era consapevole di come cambiasse il suo sguardo quando recitava.

Quella sospirò, abbassando gli occhi. “Starà bene. Lo hanno… torturato, sembra” lo informò con voce grave.

Sherlock alzò la testa verso il soffitto con un sospiro, per scacciare la donna; doveva sembrare preoccupato, distrutto, stupito, mentre in realtà stava pensando. Evidentemente Greg aveva scoperto qualcosa (le stesse cose che aveva scoperto lui?).

Scivolò via fino all’uscita, chiamò un taxi e vide che faceva ancora buio e nevicava. Diede l’indirizzo di Baker Street al conducente e rimase a guardare la città scura fuori dal finestrino. Non era stanco. Dormire era secondario.

Scese e disse al tassista di aspettarlo; prese il portatile di John, dei vestiti puliti di John e pensò all’espressione di John quando glieli avrebbe fatti avere. Risalì nell’auto in fretta e disse al conducente di tornare all’ospedale. Mancava poco all’alba.

Il tassista sembrava indiano e guidava lentamente; eppure Sherlock non aveva tempo. “Più in fretta” gli ordinò e l’uomo ubbidì. Probabilmente pensò che fosse in ansia per qualcuno che era in ospedale; il detective non riuscì ad ammettere che alla fine era vero.

“Eccoci” disse con accento indiano il tassista, fermandosi. Sherlock pagò e scese.

Ebbe l’istinto di mettersi a correre e urtò un paio di infermiere col camice azzurro che se ne stavano in mezzo a un corridoio. Raggiunse il reparto dov’era Lestrade e si fermò, senza sentire il bisogno di riprendere fiato. “Come sta?” domandò nuovamente con lo stesso tono ansioso a un altro infermiere – giovane e inesperto, come diceva chiaramente il suo camice. Sherlock fissò Greg accelerando il respiro.

“Sta dormendo” gli rispose il ragazzo.

“Grazie a Dio. Posso entrare?”

“È un suo parente?”

“Il mio…”

“Okay”.

Il ragazzo (australiano, poca esperienza, ventisei anni) non aveva alcuna voglia di approfondire la spinosa faccenda a quell’ora e lo lasciò entrare senza fiatare, avviandosi con il passo rilassato di chi ha tutto il tempo del mondo verso il reparto di terapia intensiva e – soprattutto – verso la macchinetta del caffè.

Sherlock aspettò che anche l’ultima infermiera si voltasse e si lanciò sull’unica sedia della stanza – piccola e scomoda, in plastica rossa. Prese il pc e lo accese; la sua mano si mosse violentemente in un gesto di rabbia incontrollato quando vide che c’era fin troppo tempo da aspettare. Odiava il pc di John. Era terribilmente lento e vecchio.

Lanciò uno sguardo critico a Greg; era insolitamente pallido e sul viso aveva pochi segni. Aveva un taglio sul petto, un proiettile nella gamba e una spalla malandata. Avevano tentato di strangolarlo; i segni erano quelli di mani piccole, femminili.

Con un suono limpido e breve il computer gli comunicò che era pronto; Sherlock tornò in pochi secondi a La scienza del Male. Andò fino in fondo alla pagina. Era stato messo lì da una certa Phoenix.

Sherlock si infilò una mano in tasca e prese il cellulare; guardò l’ora e vide che erano già le sette. Anderson doveva essere già sveglio, e se non lo era avrebbe dovuto svegliarsi. Non si sarebbe arrabbiato per una chiamata – decisamente importante, poi.

“Pronto?” rispose la sua voce assonnata. Troppo gentile per essere quella di qualcuno che ha riconosciuto il numero di Sherlock Holmes.

“Pronto, Anderson. Cosa mi sai dire di Phoenix?”

Uno, due, tre. Tre secondi per far elaborare la cosa alla mente ancora semiaddormentata dell’agente. “Sherlock” sibilò. Il detective decise di non lasciargli il tempo di aggiungere altro.

“Lestrade è stato aggredito, è in ospedale. Ho trovato un’ottima pista e potrei risolvere il caso”. Silenzio. Anderson aveva capito. “Dimmi cosa sai di una certa Phoenix – è il suo nickname”

Un sospiro. “È stata in contatto con Chris Lawrence” cominciò l’agente, cauto. “Si sono dati appuntamento da qualche parte, un anno fa, non si sono detti granché. Pare che Phoenix sia morta”

“Sappiamo chi è?”

“Si chiamava Marian Benley. Un incidente d’auto, quasi un anno fa. Strano. Aveva coinvolto anche un’intera famiglia – genitori e due figli, morirono tutti. Il caso era stato affidato alla Omicidi. Nessuno aveva saputo dove sbattere la testa” lo informò inutilmente Anderson, enfatizzando fin troppo la parola nessuno.

Sherlock ricordava quel caso: uno dei suoi pochi irrisolti (Dio mio, non aveva senso! Non avrebbero dovuto scontrarsi. Non ce n’era motivo, però era successo); uno dei corpi sembrava sparito per un problema burocratico particolarmente idiota. Non conosceva ancora John, ma stava già cercando un nuovo coinquilino dopo quel disastro umano di Philip Jones. “Sì, ricordo”

“Chris Lawrence si era interessato a una pagina sul satanismo che era stata messa online da lei – è tratta da un libro di un tale Isadore Blackbourne o qualcosa del genere”.

Isidore Blackbourne”.

“Cosa?”

Isidore Blackbourne. Si chiama Isidore. Non Isadore”.

“Sì, beh, okay. È tutto”.

“Okay”.

Beep, fece il telefono, mentre sullo schermo compariva una cornetta rossa che sparì nel giro di un attimo. Si alzò, tenendo il pc sotto braccio, e si rese conto che Greg, in quello stato, non sarebbe stato di nessuna utilità. Starà bene, aveva detto la prima infermiera. Chiese di nuovo delle sue condizioni – a un medico, questa volta. Fu di nuovo terribilmente vago.

Sherlock si avviò verso la stanza di Sophia, poco lontano. Sperò che John avesse avuto il buonsenso di stare lontano da lei, anche se sospettava che il contagio necessitasse di un contatto fisico ben più stretto della semplice vicinanza (Greg era stato contagiato da Sophia. Oh, già, e l’amante?). Lasciò che la borsa con i vestiti di John oscillasse e sbattesse contro la sua gamba a ogni passo; non si sentiva stanco. Qualunque cosa stesse per accadere, era appena cominciata.

 

A/N: grazie mille ai miei lettori, a chiunque abbia aggiunto questa storia alle seguite/ricordate/whatever o abbia aggiunto una recensione: amore eterno per tutti voi. In particolare un enorme grazie a Thiliol che si è presa la briga di recensire quasi tutti i capitoli e a FiNNiE che mi ha dato un parere ultimo su questa mia creatura :')

Questo moto d'affetto nei vostri confronti è per dirvi che nei prossimi giorni sarò bloccata in un paesino nella Germania sudoccidentale e che molto probabilmente non avrò occasione di rispondere o pubblicare... quindi buon Natale in anticipo, Sherlockians!

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** XV: Alec Martin ***


Cap.XV

Alec Martin

 

John era in piedi fuori dalla stanza, col collo tirato e gli occhi assottigliati nell’atto di studiare chiunque si avvicinasse troppo alla camera; sembrava un segugio, o un cane da guardia.

Al suo sguardo non sfuggì Sherlock che si avvicinava col suo portatile in mano, e zoppicando gli venne incontro, con una luce implorante nelle iridi blu e stanche. Aveva gli occhi arrossati; aveva dormito poco, di recente. “Come sta Greg?” chiese con una note d’urgenza nella voce.

“Starà bene” ripeté Sherlock. Non sapeva di più, in effetti, eppure si sentì in dovere di tranquillizzarlo; “È meno grave di quando sembrasse” gli disse, porgendogli la borsa con i vestiti di ricambio.

L’intero viso di John si illuminò quando li vide; “Grazie” disse e gli sorrise. Spostò lo sguardo a Sophia Lestrade, eppure il suo entusiasmo non si smorzò. “È sveglia” lo informò.

“Peggiorerà”.

Il sorriso svanì dalla faccia del dottore e d’improvviso ritornarono a essere le uniche due persone al mondo a sapere la verità; ed era una sensazione strana, vedere John consapevole per una volta delle sue teorie. “Hai trovato il modo…?”

“No, ma ho trovato un nome”. Cercò di tacere, questa volta. Di riuscire a tenersi le proprie teorie unicamente per sé; non era difficile, e ci era riuscito per un discreto numero di anni prima di allora.

“Ovvero?”

Non rispose. Entrò nella stanza della moglie di Lestrade, chiuse cautamente la porta alle proprie spalle e si sedette accanto al letto. Era stanca e debole; intuì che avrebbe fatto meglio ad apparire tranquillo, gentile. Educato. John le aveva detto di Greg?

Con due dita le accarezzò gentilmente la mano, tentando di farle aprire gli occhi; non dormiva. Dopo qualche istante Sophia sollevò le palpebre – non troppo – e rivelò le iridi stanche; chissà per chi lo scambiò, all’inizio, vedendolo seduto sulla sedia di plastica rossa accanto al letto.

La delusione fu palese nei suoi occhi quando lo vide (per Greg. Sicuramente lo scambiò per Greg). Chiuse a pugno, forse inconsciamente, la mano su cui le dita di Sherlock ancora indugiavano e lui le lasciò dopo qualche istante.

Gli fu chiaro che ricordò quando una luce strana le apparì negli occhi; quella della stanza, riflessa nelle lacrime. Fu troppo veloce, troppo improvviso e troppo imprevisto. Era sbagliato, non doveva andare così; aveva contato sulla sua lucidità e razionalità.

Sophia cominciò a piangere, lentamente, e tremava così forte da smuovere anche le pesanti coperte che la sovrastavano; le finestre erano chiuse e Sherlock lo trovò tremendamente opprimente. Ogni rumore sembrava un'esplosione nucleare nella piccola stanza. Avrebbe pagato per il silenzio ovattato della neve, ma intanto era lì: seduto su una stupida sedia di plastica rossa, con le mani inconsciamente strette l’una all’altra e davanti al viso, come se stesse pensando. Solo che quando pensava i suoi occhi non erano sgranati, e la sua mente era una prateria verde e perfetta. C’era la nebbia, ora.

Paralizzato; realizzò di esserlo dopo appena un secondo che parve un’infinità. Non aveva senso, ma era così. La porta si aprì lentamente e John si affacciò, forse impensierito dal silenzio; Sherlock fece appena in tempo a intravedere il suo volto tondo lanciare occhiate perplesse alla stanza. Subito le mani del dottore furono su quella di Sophia in un tocco silenzioso e forse magico che le fece aprire i pugni e parve rilassarla. John andò ad accarezzarle la guancia, portandole via con le nocche una lacrima.

Non guardò Sherlock; rimase concentrato su Sophia e miracolosamente fu in grado di placare il suo pianto. Forse lo insegnavano a medicina: far smettere di frignare i pazienti, pensò acidamente Sherlock. Una minima parte di lui aveva paura dell’espressione che avrebbe avuto John girandosi verso di lui, anche se niente nel suo corpo pareva suggerire ostilità.

La donna smise di piangere e il dottore lentamente si ritrasse. Non c’era nessuna accusa sul suo volto; solo uno sguardo pieno d’angoscia.

Sophia era tranquilla, ora. John non gli disse niente ma qualcosa gli suggeriva che poteva cominciare – piano, dolcemente, con gentilezza. Aveva bisogno della sua lucidità. “Ciao” la salutò. Apparì risoluto, come un poliziotto esperto che sa cosa vuole: era quello che era, alla fine (tranne per la parte del poliziotto – grazie a Dio).

“Ciao” rispose senza esitare lei. La voce non era eccessivamente spezzata. Erano visibili i suoi tentativi di dissimulare il pianto. Sbatté un paio di volte gli occhi e con le mani se li asciugò.

“Sono Sherlock Holmes” si presentò; Sophia lanciò un rapido sguardo a John in piedi di fianco a lui.

“Piacere” gli disse, tendendogli la mano. “Sophia Lestrade”.

Sherlock la strinse, percependo chiaramente gli occhi del dottore puntati sulla sua schiena. Stringere quelle mani bianche e deboli era inutile, e sperò che anche John se ne rendesse conto.

“Devo farti qualche domanda” spiegò a Sophia appena le loro mani si staccarono. Aspettò finchè non fu lei a ritrarla – non doveva apparire eccessivamente frettoloso. La donna annuì. “Ho bisogno di sapere chi hai incontrato negli ultimi mesi”.

Sperò di non aver sbagliato nulla; mentre Sophia taceva la studiò, alla ricerca di indizi sul suo stile di vita. Aveva le mani di una casalinga – era quasi sicuro che non lavorasse; la fede era curata, anche se evidentemente ciò non era dovuto alla felicità del matrimonio. C’erano alcuni puntini rossi sospetti sul dorso delle mani: probabilmente se le lavava fin troppo spesso col sapone, sentendole ossessivamente sporche (ma perché?). Con nonchalanche guardò l’anello da vicino: dentro non pareva eccessivamente lucido e sembrava che non se lo togliesse mai. Il suo amante – i suoi amanti – sapevano perfettamente che era sposata. Probabilmente conoscevano anche Greg.

“I signori Russell” cominciò a elencare Sophia, ubbidiente, appena Sherlock smise di studiarle la fede. Non sembrò particolarmente colpita da quel gesto – probabilmente pensava di apparire fedele, a causa dell’aspetto praticamente perfetto dell’anello. “Allison e George. Una coppia sposata, viene per cena ogni tanto. Greg li detesta, e nemmeno io li amo”.

“Per delle cene e basta?”. John lo fulminò con lo sguardo.

“Sì” rispose Sophia con un’espressione stupita sul volto, che dopo qualche secondo smise di essere del tutto sincera. Ancora con le sopracciglia inarcate, gli lanciò uno sguardo orribile.

“E chi cucina?”

“Io e Greg. Loro vengono sempre da noi, e mai il contrario, perché odiano farlo”.

“Capisco”. Ora Sophia avrebbe snocciolato una lista di persone che con ogni probabilità non erano state contagiate; era difficile sentire parlare dell’amante così presto. Un avvocato, ricordò Sherlock. “E poi?”

Sophia parve pensarci su. Non incontrava molta gente. “Mia madre, e il padre di Greg. Poco lontano da Londra”.

“Vedete spesso i vostri parenti?” si intromise John, senza motivo.

“No”. Chiuse un attimo gli occhi e Sherlock capì che si stava stancando, e che avrebbe dovuto fare in fretta. “A Londra non ne abbiamo nessuno e siamo entrambi figli unici”.

Il detective annuì, fingendosi interessato.

“Poi c’è Annabel Reimy” spiegò Sophia. “Lei era lì quando…”

“Lo so. Cosa mi sai dire di lei?”

“Ha ventisei, ventisette anni. È giovane, a Greg piace molto” li informò inacidendosi.

“Quando e come l’hai conosciuta?”

La donna non esitò. “Pochi mesi fa. Mi ha fatto questo” disse e con le dita bianche andò a spostare il camice dalla spalla, quel che bastò per rivelare un tatuaggio.

In qualche modo, pensò Sherlock, la maledizione, la malattia o qualunque cosa fosse doveva esserle stata trasmessa in qualche modo; senza preavviso, le sue mani si lanciarono su quello spicchio di pelle dietro alle spalle e lo accarezzarono, studiandone ogni tratto.

Era una piccola rosa che non dava nell’occhio, fatta di sfumature di grigio e di contorni spessi. Sulla pelle chiara di Sophia, l’effetto era poco luminoso e ricordava un film in bianco e nero, o un qualche marchio.

La moglie di Greg sorrideva; cercò i loro sguardi, la loro opinione su quel tatuaggio. D’improvviso un terrore cieco le comparve nelle iridi. “Dite che questo è la causa di…”

John si coprì la faccia con le mani e Sherlock realizzò che doveva prendere il controllo della situazione. “Sophia” chiamò. La donna sembrava terrorizzata; la sua mano era stretta sul tatuaggio. Lei non sapeva della follia di tutto questo; non sapeva che era magia, o comunque la si volesse definire, e che loro erano impotenti di fronte a quella nebbia oscura che copriva ogni logica.

“Sì?”

“Tu devi dirmi” cominciò Sherlock, scegliendo con cura le parole. Sophia era sempre più pallida e debole e stanca; al diavolo la gentilezza. “Devi dirmi con chi hai avuto rapporti particolarmente intimi negli ultimi mesi”.

“Intimi?”. Finse di non capire, ma non durò molto. “Io – beh, c’è un amico di mio marito, un avvocato che…”

“Come si chiama?”

“Alec Martin”.

“Sai come rintracciarlo?”

“Ho il suo numero, ma non è qui il mio cellulare. Ce l’ha anche Greg. Come sta Greg?

Sherlock scattò via, con portatile in mano e sbattendosi la porta alle spalle. John sospirò; si chinò accanto al letto di Sophia, fino ad avere il viso alla stessa altezza di quello di lei. Provò a parlare, ma la sua bocca pareva rifiutarsi. “Starà bene” riuscì solo a dire.

I passi di Sherlock nel corridoio erano veloci; non c’era tempo da perdere e John strinse per un’ultima volta la mano di Sophia, che lo osservò correre via con gli occhi spalancati.

“Gregory Lestrade?” chiese a un’infermiera di passaggio. Lei gli indicò una direzione. “Grazie” le disse John mentre correva via; si accorse di essere arrivato quando vide una donna col camice azzurro strillare a qualcuno di non avere fretta. Prese un sacchetto di vestiti e lo diede a Sherlock, che ci infilò una mano e pescò la giacca di Greg; rovistò nelle tasche fino a estrarne il cellulare e scorse la rubrica. “Alec Martin” disse il detective tra sé e sé premendo il tasto di chiamata. Il suo piede si muoveva con isteria sul pavimento; un vociare confuso li avvertì che stava arrivando una barella.

Nessuno rispondeva; “Dài” mormorò Sherlock assottigliando gli occhi, come se stesse fronteggiando un nemico. Il dottore allungò una mano e trascinò il coinquilino contro al muro, lasciando passare la barella e i medici chini su di essa; d’improvviso un rumore estraneo interruppe le loro esclamazioni concitate e a John gelò il sangue.

Era una suoneria classica – il driiin dei vecchi telefoni, l’avviso di chiamata di chi non voleva cambiarla. Un medico estrasse un cellulare dalla tasca dell’uomo che giaceva esangue sulla barella; sul touch screen di un iPhone immacolato comparve un nome: Gregory Lestrade.

Era Alec Martin quello sulla barella. Un bell’uomo, effettivamente, più giovane di Greg e senza un capello grigio, senza fede e probabilmente con una scarsa tendenza alla fedeltà. Chissà se Sophia era stata ingannata – chissà se lui le aveva detto che l’amava, o che era l’unica. Lei non si toglieva la fede: lui sapeva di Greg ed era anche suo amico. Forse nemmeno a lei importava che per Alec ce ne fossero altre.

Mentre i medici urlavano qualcosa Sherlock si abbandonò su una sedia, aprendo il portatile di John e accendendolo. “È lento” lo informò. Il dottore sbuffò.

“Cosa stai cercando?” gli domandò John, incuriosito.

Soluzione, antidoto, cura – come poteva definirlo? “Un rimedio” gli disse. Suonava abbastanza neutro.

“Secondo te Sophia ha contagiato qualcun altro?” chiese John. Sherlock scosse la testa.

“Non credo che abbia un altro amante”.

“Mi sembra una persona molto sola” ammise John. Si sedette su una sedia di plastica rossa accanto al coinquilino e sentì gli occhi chiudersi.

“Dormi” gli ordinò sorprendentemente Sherlock. Non era un consiglio, o una domanda: era inequivocabilmente un ordine. John non aveva né la voglia né le forze di contestarlo e annuì, obbedendo come avrebbe obbedito a un generale in battaglia. Il ticchettio leggero delle dita di Sherlock sulla tastiera parve isolare completamente i rumori dell’ospedale.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** XVI: La Fine? ***


Cap.XVI

La Fine?

 

Sherlock stava leggendo e rileggendo quel libro che aveva trovato dopo qualche ora di ricerche e ottenuto con un numero indefinito di ricatti. John avrebbe voluto chiedergli se era giunto a qualcosa ma non aveva il coraggio di interromperlo.

L’occasione gliela fornì Sherlock, all’improvviso. Scagliò via il libro con un gesto quasi isterico.

“Trovato qualcosa?” domandò John con un tono più sarcastico di quanto non avesse calcolato. L’altro nemmeno gli rispose.

Il dottore si alzò cautamente dalla sedia e sentì che la gamba gli faceva male. Fu costretto ad appoggiarsi alla spalla di Sherlock contando sul suo silenzio e sulla sua complice immobilità.

Ma il suo coinquilino a volte non era esattamente il complice ideale. Gli lanciò un’occhiata di rimprovero e John realizzò che avrebbe davvero dovuto dormire un po’ di più anziché stare appostato accanto al letto di Greg.

Zoppicò fino alla porta lanciando un ultimo sguardo all’ispettore ancora incosciente. Una volta nel corridoio, gli parve di respirare per la prima volta dopo una lunghissima immersione; soppesò l’idea di prendersi un caffè prima di recarsi da Sophia. Non aveva particolarmente voglia di lasciarla troppo da sola.

Inserì una monetina nella macchinetta sul corridoio e non poté trattenere una smorfia non appena un sapore disgustoso gli entrò in bocca dalle labbra socchiuse, posate sui bordi di plastica del bicchiere. Chiuse gli occhi e lo bevve tutto in un sorso, prima di accartocciarlo e buttarlo nel cestino più vicino che strabordava di fazzoletti.

Lentamente si avviò verso la stanza di Sophia; la gamba non gli dava tregua. C’era poca gente in giro. La neve sembrava aver addormentato anche i pochi pazienti che c’erano.

La stanza di Sophia non era lontana; improvvisamente John realizzò che entrambi loro erano lì, e che non c’era nessun altro nella loro piccola famiglia. Sophia aveva detto che i loro genitori non abitavano vicini. Non si erano ancora fatti vedere. La loro casa era vuota. Non rimaneva lei per informare amici e vicini delle condizioni di lui, né viceversa.

Appena arrivò alla porta bussò appena con le nocche; “Sono il dottor Watson” annunciò. Da dietro la porta si udì un rumore simile a quello di una sedia che si spostava, e John si pentì di essere andato a trovare Sophia.

La maniglia si abbassò e la porta si aprì; si aspettò di vedere una vecchia signora col consorte, e non la nuvola di capelli scuri di Sally.

“Sergente Donovan!” la salutò stupito. La donna lo lasciò entrare, sorridendogli senza ironia forse per la prima volta da quando si conoscevano. Sembrava sinceramente preoccupata e la sua espressione tesa, le occhiaie e il suo sguardo erano in netto contrasto col sorriso placido e il pallore spettrale di Sophia che se ne stava seduta a gambe incrociate sul letto.

Lei non sapeva che probabilmente non poteva guarire. Lei non sapeva il cerchio di orrore in cui era finita.

“Come sta Greg?” chiese con voce calma. Era lei sua moglie, e lei quella tranquilla; John aveva già sentito tante volte quel tono, e sapeva che non era quello della gente a cui non importava. Sophia si stava imponendo una certa disciplina; si stava impedendo di perdere il controllo.

“È stabile” le rispose. Lei sorrise senza allegria e non insistette. Sally parve annuire con aria grave.

Notò la mano di John stretta alla gamba e si alzò, lasciandogli il posto. Con ogni probabilità era convinta che fosse stato ferito davvero alla gamba, e che davvero fosse zoppo. Forse alla fine era meglio così.

Il dottore si sedette sulla sedia di plastica rossa e sospirò; le labbra rosee e sottili erano ancora arcuate in un sorriso che aveva poco di felice. “Come sta Alec?” azzardò guardandola negli occhi. Lei si rilassò e John si aspettò buone notizie.

“È morto qualche ora fa” disse invece la donna con una voce piatta e suadente.

“Mi dispiace” mormorò Sally. “Condoglianze”.

Sophia annuì piano. Allungò le gambe davanti a sé. John notò per la prima volta le braccia fasciate e capì perché il sergente Donovan taceva.

Erano ferite autoinflitte. Sophia aveva preso in mano delle forbici e si era aperta lunghi tagli lungo gli avambracci. “Come va?” domandò Sally con troppa disinvoltura per essere sincera, in un assurdo tentativo di risollevare l’atmosfera. John ci impiegò qualche secondo per capire che parlava a lui.

“Beh, insom…”. D’improvviso la melodia del cellulare spezzò il silenzio e il nome di Sherlock comparve sullo schermo. “Devo andare” dice John secco e apre la porta di scatto. “È Sherlock”

Un’infermiera corpulenta gli si avvicina con gli occhi assottigliati e l’aria truce; “Dovrebbe silenziarlo. C’è gente che riposa” tentò di dirgli con un tono che non ammetteva repliche ma ormai lui era lontano.

Appena arrivò alla stanza di Greg ci entrò come una furia; quasi stava per gridare, quando Sherlock lo zittì con un cenno. John lanciò un’occhiata apprensiva al letto.

Greg aveva gli occhi castani semiaperti e vigili, opachi a causa degli antidolorifici; non era eccessivamente sveglio, o lucido, eppure nelle sue iridi c’era qualcosa di troppo pesante. “John” lo chiamò appena lo vide.

“Sono qui” confermò il dottore. “Come…?”

“Chi è stato?” intervenne Sherlock senza lasciargli finire la frase. “Chi ti ha fatto questo? È la stessa persona che ha fatto ammalare Sophia e che ha fatto gli attentati?”

Lo sguardo di Lestrade si illuminò e John si rese conto che lui sapeva; che lui aveva risolto il caso, in teoria, e che stava chiedendo il loro aiuto. “Ce ne sarà un altro” disse con un filo di voce. “Una ragazza russa. Yuliya”

“Dove?” chiese Sherlock guardandolo fisso con gli occhi chiari spalancati e pieni di una luce quasi comprensiva. Tutta la sua attenzione era per Greg.

“Non lo so” si arrese lui. Abbassò le palpebre e rimase immobile per qualche istante.

“Deve riposare” gli mormorò John. Sherlock non parve ascoltarlo.

“Chi è stato?” insistette. “Chi ha fatto tutto questo?”

Il viso di Lestrade si contrasse e per un attimo fu sull’orlo delle lacrime. “Annabel” sussurrò alla fine. Sherlock finalmente tacque.

Il ticchettio dell’orologio era invadente, ora. Era il fracasso delle granate che esplodevano sulle pareti dell’ospedale, meccanicamente e a ritmo regolare. John rimase un attimo a guardare Greg, poi distolse lo sguardo. “Dobbiamo fermarla” disse deciso al coinquilino.

Sherlock lo guardò ma non rispose; e John si rendeva perfettamente conto che non era la cosa giusta da dire: avrebbe dovuto chiedergli cose più pratiche, come per esempio ‘dov’è che si farà esplodere Yuliya?’ o più semplicemente ‘Cosa hai intenzione di fare?’, anche se sapeva che non avrebbe ottenuto nessuna risposta.

Sherlock si alzò e lentamente cominciò a percorrere il corridoio, seguito da John. Voleva andare da Sophia, magari chiederle qualcos’altro. Il dottore zoppicava e con gli occhi cercava avidamente un punto di ristoro – avrebbe dovuto mangiare di più.

Non concesse al coinquilino di fermarsi alla macchinetta del caffè e lo costrinse a rimanere in piedi nella stretta stanza d’ospedale mentre lui si portava le ginocchia al mento, accovacciato sulla solita sedia di plastica rossa.

Un rumore di passi lo distrasse da quei pensieri. Era un suono familiare: i tacchi di Sally. Sophia alzò lo sguardo e sorrise alla porta ancora prima di vederla aprirsi.

Il sergente Donovan fece capolino dalla porta con i capelli all’aria e gli occhi truci; “C’è stato un attentato” disse secca e il cellulare che aveva in mano si mise a suonare.

“Le avevo detto di spegnerlo!” protestò un giovane infermiere, invano.

Prima che Sally potesse rispondere, John lanciò uno sguardo interrogativo a Sherlock; ma vide solo il suo profilo, e le sue labbra a cuore che si aprivano e articolavano qualcosa che il cervello del dottore impiegò qualche attimo a decifrare.

La voce profonda di Sherlock parlò. “Abbiamo scoperto il colpevole” disse semplicemente. Fu abbastanza per paralizzare Sophia e impedire al dito di Sally, ormai posato sulla cornetta verde, di svolgere le sue funzioni più elementari.

Gli occhi scuri del sergente Donovan fissarono Sherlock per un tempo indefinito, sufficiente perché il telefono cessasse di squillare. “Chi è?” chiese alla fine, e non riuscì a commentare acidamente quella rivelazione.

“Annabel Reimy” annunciò Sherlock. “Sta per venire a trovare Sophia. Appena la vedremo,” cominciò, lanciando uno sguardo eloquente alla signora Lestrade, “ve lo diremo. Appena sarà abbastanza vicina, arrestatela”.

“Hai delle prove?”

Lentamente, Sherlock prese un foglio e con la sua calligrafia grande, quasi da bambino, tracciò quattro parole e ne collegò le lettere con frecce appena abbozzate.

MARIAN BENLEY

ANNABEL REIMY

“È lei che ha fatto il tatuaggio a Sophia, e da lì è cominciato tutto. Erano la stessa persona, i nomi stessi sono un anagramma. Marian pareva morta per un incidente d'auto ma il suo corpo era scomparso. Non era morta, non del tutto. E per l'aggressione, la testimonianza di Greg sarà abbastanza” concluse deciso. Nessuno capì granché, eccetto forse per John. Ma Sally si fidava e Sophia sembrava impossibile da stupire, e questo inquietò un poco Sherlock.

Sally si mise allo stipite della porta, soffermandosi con lo sguardo prima su Sophia e poi sulla gente che entrava nel reparto. “Com’è questa Annabel?” chiese dopo qualche istante di esitazione.

“Giovane, capelli scuri, media statura” rispose subito Sophia. Sally annuì. “Guarirò?” chiese poi rivolta a Sherlock, senza smettere di studiare il flusso di gente che entrava.

Il detective parve stupito da quella domanda; il silenzio di Sophia nascondeva una consapevolezza che non aveva calcolato. Lo sguardo verde della donna seguiva il suo, lo braccava, passava attraverso quella barriera che pochi sapevo aggirare.

Sherlock spostò improvvisamente lo sguardo alla gente che si avvicinava e Sophia, allarmata, lo imitò. Mentre scrutava la folla gli lasciò il tempo di respirare; il detective si massaggiò il collo e lanciò una rapida occhiata a una ragazza troppo giovane per essere Annabel. Scosse appena la testa, senza interrompere la sua ricerca.

La mano di Sophia scattò in aria e la sua bocca si mosse un paio di volte prima di riuscire a parlare. “È lei!” esclamò, e il suo dito indice teso tremava. Sally si spostò di scatto dallo stipite e si avvicinò a passo deciso verso Annabel che camminava ancheggiando. “Annabel Reimy?” le chiese e la ragazza annuì sorridendo; il trucco era perfetto e i denti bianchissimi.

In pochi istanti che parvero un’ora Sally prese il distintivo, e il sorriso sul volto di Annabel si congelò e poi sparì.

 

***

 

Sophia non si era mossa dopo che Sally e Annabel se ne erano andate lentamente insieme a qualche poliziotto; Sherlock l’aveva guardata di sfuggita solo quando l’aveva giudicata troppo scioccata per rifargli quell’orribile domanda.

Non c’era scritto niente su quel libro su come sconfiggere quella malattia; solo diceva che le cure non funzionavano. Che il marchio era un marchio per sempre.

Sophia ora stava pensando, e Sherlock non se la sentì di guardarla. Sperò che capisse, che fosse in grado di interpretare il suo silenzio come una richiesta di tempo e calma per pensare. All’apparenza era tranquilla. Lo infastidiva la sua capacità di non mostrare traccia di quello che aveva dentro nel suo corpo tutt’altro che teso.

C’era un’ipotesi che non gli dava pace; una piccola idea che era nata timidamente mentre leggeva. Normalmente, nella logica fredda e razionale della sua mente, un’idea così sarebbe morta ancor prima di nascere. Come dicevano che succedesse ai neonati deformi nell’antica Sparta, sarebbe stata gettata in un abisso profondo e stop. Poi, in realtà, i bambini non venivano lanciati dal monte, ma solo abbandonati – ma d’altronde la gente pensava spesso cose sbagliate, e come immagine quella era perfetta.

Un’idea che aveva sbagliato a non uccidere prima che si sviluppasse e crescesse e ostacolasse le sue deduzioni; solo che non ne aveva altre, al momento. Sophia, forse, dentro era speranzosa. Magari si fidava di lui. La guardò; non ne era sicuro. Voleva la sua conferma per cominciare.

“Guarirò?” ripeté lei stancamente, fissandolo negli occhi. Era una conferma?

Sherlock soppesò le parole, alzando quasi involontariamente gli occhi al cielo. “Da quel tatuaggio è nato tutto” le ricordò.

Le dita pallide di Sophia tirarono la stoffa, e la scostarono dalla spalla bianchissima. Gli mostrarono la rosa, il contrasto del grigio sulla pelle.

Sherlock infilò una mano in tasca e ne estrasse l’accendino che aveva tentato di smettere di usare. Cercò lo sguardo della donna. I suoi occhi gli dicevano di continuare.

Lo avvicinò alla pelle e la osservò bruciare. Sophia era finita lì anche per atti di autolesionismo. Si chiese per un attimo se l’avrebbero ricoverata nel reparto psichiatrico, quando il tatuaggio si sarebbe cancellato. Realizzò che per Greg non era ancora finita.

La pelle bruciava e il colore della spalla di Sophia non era diverso da quello pallidissimo delle mani di lui. Le dita sottili della donna le coprirono e pigiarono leggermente, con timidezza, mentre la rosa lentamente spariva.

 

 

A/N: ebbene, il prossimo è l’ultimo. Sono qui col magone perché questa storia è praticamente la mia cucciola :3 ringrazio di nuovo tutti, tuttituttitutti: lettori, recensori e chi ha inserito la mia piccolina tra le seguite/preferite/ricordate. Ricordatevelo: vi AMOH <3

Baci a tutti,

Kla

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** XVII: Proprio Come Lei ***


Cap.XVII

Proprio Come Lei

 

Nei giorni successivi un piccolo miracolo parve consumarsi tra le pareti delle stanze lontane e separate in cui i Lestrade miglioravano a vista d’occhio; il colore tornò sul viso e sul volto di Sophia, anche se non troppo e non troppo in fretta, mentre il marito lentamente riprendeva le forze.

L’ospedale si trasformò una fonte di interesse ineguagliabile per Sherlock; quelle guarigioni divennero un nuovo argomento di studi, e Greg e Sophia furono presto ridotti a pezzi di cadavere in decomposizione, cervelli casualmente fuori dal frigo, bulbi oculari evasi dal microonde; l’attenzione che gli rivolgeva era la stessa che riservava solo ai suoi esperimenti, e John sapeva con certezza che questo non era un bene.

Per esempio, Sherlock era stranamente gentile con loro.

Non aveva (ancora?) detto cose poco lusinghiere a Greg. Nemmeno gli aveva rivelato tutta la verità, ma come si ostinava a ripetere era ‘solo una questione di tempo’.

No, non era Greg quello che gli interessava. Era Sophia che voleva – lei e la sua straordinaria consapevolezza. Non riusciva a stimarla; e allora era sempre accanto a lei: la seguiva quando lei andava a chiacchierare con gli infermieri o coi dottori, e a volte addirittura si fermava vicino al suo letto mentre lei dormiva. John aveva rinunciato a dirgli di smetterla, di non farlo; era una cosa troppo delicata, troppo difficile da dire. Poteva sembrare – e all’inizio c’era cascato anche il dottore – che gli interessasse solo Greg, e la sua guarigione. Ma poi era diventato chiaro che non era affatto così.

Lui voleva solo andare a fondo della cosa; sapere ogni dettaglio, anche il più insignificante. E per quello era ormai diventato l’ombra di Sophia.

Lei era annoiata, quel giorno. Terribilmente. Era sdraiata a pancia in giù sul letto e dondolava ritmicamente le gambe; sospirava a intervalli regolari, con ogni probabilità senza accorgersene. Sherlock sapeva che quell’ustione sulla spalla che apparentemente si era inflitta da sola le era costata visite stressanti con uno psichiatra dell’ospedale; ma lei non se n’era mai lamentata. Era solo una clausola implicita nel patto che si erano fatti nel momento in cui lei aveva scostato la vestaglia dal tatuaggio ora sfregiato.

Non sapeva cosa proporle. Avrebbe potuto farla parlare. Avrebbe cominciato con qualche domanda casuale e lei avrebbe tirato fuori la risposta ai suoi dubbi.

È una brava attrice. Sapeva del piano di Annabel?

“Ti va di giocare a scacchi?”

Entrambe le domande lo colsero impreparato. Sophia aveva alzato gli occhi e ora lo fissava con un’espressione decisa. Sherlock tacque per qualche secondo prima di rispondere.

“Okay” confermò alzandosi lentamente dalla sedia. “Dove…?”

“C’è una scacchiera nella sala d’attesa” rispose lei, ancora prima di lasciarlo finire di parlare. C’era qualcosa, nella sua voce, che lasciava sottinteso che avrebbe davvero dovuto prenderla lui.

Con poche mosse impacciate Sophia riuscì a trasformare il tavolino su cui a volte mangiava in una superficie abbastanza stabile da reggere gli scacchi; Sherlock uscì e a passo svelto raggiunse la sala d’attesa. I suoi movimenti erano diversi da quelli di lei, registrò mentre afferrava la scacchiera. Svelti, efficienti, come quelli di un ladro: nessuno scorse quel breve guizzo delle maniche del suo cappotto, quasi stesse rubando un quadro dal Louvre, mentre in realtà stava solo prendendo un innocente gioco da tavolo, per giocarci innocentemente con una sorta di amica, mentre altrettanto innocentemente cercava di estorcerle informazioni a proposito di alcuni attentati dovuti a un fanatismo nei confronti di qualcosa di indefinito.

Sherlock scacciò il pensiero. Sophia, in realtà, poteva davvero sapere. Era pazza abbastanza da scarificare la propria stessa vita per eliminare la morte dal pianeta in una maniera così folle? Certo, avrebbe pienamente giustificato le visite dallo psichiatra.

A conti fatti, quel caso quanto a difficoltà era un dieci. Eppure qualcosa nella sua mente si oppose all’idea di scrivere con la penna rossa quel numero su un’ipotetica pagella mentale delle sue ultime imprese; come un insegnante che si rifiuta di dare il massimo al compito impeccabile di uno studente distratto, il suo inconscio semplicemente si ribellava all’idea di essere così lusinghiero nei confronti di qualcosa che l’aveva – ripetutamente – mandato in confusione, e fatto sbagliare come mai gli era accaduto prima.

E ora, nemmeno ora, era finita. Normalmente avrebbe desiderato di andare a fondo, con tutte le sue energie del suo essere; ora, invece, preferì non interrogarsi su cosa glielo facesse fare.

Tornò quasi furtivamente nella stanza di Sophia. Posò la scacchiera su quella specie di tavolo e lei gli sorrise. Non era sicuro che lo facesse per felicità; forse era solo imbarazzo, o una qualche incapacità di capire come comportarsi. Non il suo campo, in ogni caso.

Sistemarono i pezzi e la mano di lei era apparentemente sicura – torre, cavallo, alfiere rigorosamente bianchi; ma poi gli occhi verdi e spenti, tendenti al marrone guardavano di sfuggita Sherlock e ne copiavano le mosse. “La regina dall’altra parte” le suggerì lui sommessamente quando, finalmente, nessuna pedina rimase fuori dalla scacchiera. Come una bambina giudiziosa, Sophia ubbidì.

Fece la prima mossa in maniera casuale ed era ovvio che non ricordava molto, degli scacchi. Per puro miracolo ricordò come muovere un cavallo, e questo confermò a Sherlock che doveva avere assolutamente qualcosa di più rispetto a un normale essere umano (come John, per esempio).

Non aveva una vera e propria strategia e chiaramente il suo intento, se ne aveva uno, non era quello di giocare a scacchi, bensì di giocare a scacchi con Sherlock.

“Cavallo in C1” annunciò lui ad alta voce solo per destabilizzarla. Poi però rinunciò a un comodo scacco matto in quattro mosse, e rimase invece a tramare con una sola parte alquanto superficiale della sua mente, mentre quello che restava rifletteva.

Istintivamente gli occhi di Sophia studiarono i due lati della scacchiera, come per confermare il fatto che esistevano numeri e lettere ben precisi per indicare delle coordinate. Sherlock si chiese quando avesse giocato a scacchi per l’ultima volta, e con chi. Al liceo, probabilmente Doveva essere stata molto brava e bella e allegra prima di sposare Greg. Avrebbe spiegato molte cose.

Senza accorgersene Sophia fece una mossa decisamente stupida, ma Sherlock si sentì vagamente a disagio all’idea di mangiarle quell’ennesimo pezzo.

Mossa innocua, mossa ingenua, mossa innocua, mossa ingenua. Probabilmente andando avanti così lei sarebbe giunta allo scacco matto senza nemmeno accorgersene, e Sherlock sarebbe incappato in un’altra crisi simile a quella di Baskerville. Merda. Sicuramente non poteva permetterselo, e decise di passare all’azione. Indossò una maschera di curiosità, dispiacere, attenzione.

“Deve essere stato… terribile” cominciò piano, raccogliendo un po’ di coraggio e facendo un piccolo passo verso la vittoria.

“Ero così preoccupata. Prima che mi dicessero che stava bene, mi sono figurata delle cose orribili” recitò lei con disinvoltura, muovendo l’ennesimo pezzo in maniera puramente casuale. Evidentemente aveva deciso che lui, Sherlock, non era un pericolo. Non stava recitando così bene come l’aveva vista fare davanti al padre di Greg. Nelle dita che mossero l’alfiere non c’era traccia dell’apparente preoccupazione che le offuscava gli occhi. Indossava una maschera anche lei, ora, mentre inclinava la testa di lato e si rendeva vulnerabile come a ogni quasi–vedova conviene.

“Non parlavo solo di Greg” le fece presente Sherlock. “Sono contento che stia meglio, in ogni caso”.

Sophia sorrise. “Non mi sono resa conto di quello che succedeva. È stato come cadere in una depressione orribile e nel frattempo ammalarmi, esattamente come ammalarmi”.

“Ne sei sicura?”. Erano passati dal ‘lei’ al ‘tu’ in quel periodo, ma Sherlock esitò prima di rivolgerle quella domanda in tono così informale. Ne aveva diritto, ora?

Sophia lo fissò, e non ebbe bisogno di guardare la scacchiera mentre con una mossa solenne si consegnava a lui, offrendogli la vittoria su un piatto d’argento. Voleva finire quella partita, ora, perché aveva capito il suo secondo fine, dove voleva arrivare.

“Sì” affermò decisa, in un moto d’orgoglio. Poi la sua espressione si addolcì, e le labbra si schiusero in un sorriso indeciso. “Non sapevo niente, davvero” aggiunse con tono suadente e incredibilmente stanco.

“Quindi sei rimasta… delusa da Annabel” ipotizzò Sherlock, sondando il terreno. A volte anche John era rimasto deluso da lui. Immaginò che però fosse diverso. Sherlock non lo avrebbe mai sacrificato per ottenere qualcosa di insensato come l’immortalità.

“Sì” confermò Sophia, guardandolo con aria strana, e quelle iridi singolari furono in grado di farlo sentire come un bambino confuso di fronte alla maestra, che fatica a credere a quelle cose complicate che lei gli sta spiegando. Lui non era mai stato quel tipo di bambino, comunque.

“E tu non hai saputo niente fino a che non te lo abbiamo detto” disse ancora lui, per confermare la più innocente delle ipotesi che era arrivato a formulare.

“No!” rispose Sophia quasi divertita, prima di scoppiare in una risata forzata. “Sai, sei proprio come lei” aggiunse apparentemente divertita, ma fu il significato di quelle parole a smuovere qualcosa in Sherlock.

“Lei chi?” chiese, fingendo di non capire.

“Annabel”.

Annabel era una fanatica, pensò Sherlock, che avrebbe devastato il mondo in nome di una certa ‘immortalità’; e mi dispiace, ma il nesso non lo vedeva, tra lui e un individuo del genere. “In che senso?” rispose con un’aria irritata che parve divertire la donna all’inverosimile.

“A te non interessa quanto terribile possa essere stato l’ultimo mese per me” affermò cominciando a sistemare gli scacchi nell’apposito sacchetto. Si muoveva freneticamente, forse per non mostrarsi vulnerabile? “Tu mi parli, e l’unica cosa che pensi è leggere tra le righe. Ma sai cosa?” gli chiese, infilando la regina bianca nel cellophane con studiata eleganza; “Con me non ce n’è bisogno. Non so perché ti dovrei mentire, e non riesco a capire cosa tu voglia dedurre che io non so”.

Sherlock non seppe cosa rispondere, e nemmeno toccò i pezzi – in gran parte neri, gli stessi che lui aveva appena finito di muovere – che Sophia aveva mosso nel tentativo di riordinare la scacchiera e che ora giacevano riversi sulla superficie del tavolo.

“Beh, anche Annabel faceva così” ricominciò lei dopo una breve pausa. “Anche lei mi parlava, mi chiedeva come stavo, domandava del mio tatuaggio ma era chiaro che non ero io, a interessarle. All’inizio avevo pensato che le interessasse Greg. L’hai vista – è giovane, e bella, e con lei sarebbe stato felice…”. La voce le si affievolì, e tacque. Sherlock provò il bisogno di dirle qualcosa di sbrigativo e poi di fuggire da quel paragone scomodo che aveva messo in piedi.

“Perché me lo hai raccontato?” le chiese per cortesia – ma era la domanda sbagliata. Lei alzò le spalle, e chiaramente non sapeva cosa rispondere. Era così sola da abbassarsi a fare confidenze a lui. Vedersi improvvisamente nei panni di un comprensivo essere umano gli apparve terribilmente strano.

Prese la giacca, però. Doveva andare da qualche parte, parlare con Annabel. “Te ne vai?” chiese Sophia; di già?, chiedevano i suoi occhi. Non si lamentò quando lui corse fuori dalla stanza e per un momento Sherlock si chiese se non pensasse di meritarsela, quella solitudine, come se per un motivo o per l’altro nessuno potesse mai farle compagnia davvero; perché c’era una ragione, se con lui si era lamentato e con Annabel no, e quella ragione era che con ogni probabilità in lui cercava quella stessa cosa che voleva dai suoi tanti amanti. Probabilmente l’avrebbe sedotto, se solo gliene avesse lasciato il tempo. La sola idea gli diede un brivido di orrore.

Ma non si concesse di pensarci e salì su un taxi senza quasi lasciare il tempo al povero guidatore di fermarsi; destinazione, il carcere dove aveva fatto rinchiudere Annabel Reimy prima del processo, che si prospettava probabilmente come il più strano dell’ultimo decennio nel Regno Unito.

 

***

 

La guardia carceraria lo guardava con un misto di pena e diffidenza, probabilmente a causa del suo aspetto trascurato. Sherlock se ne rendeva perfettamente conto, ma ovviamente i vestiti scarmigliati erano dovuti al maltempo, così come il fiatone alla corsa folle per evitare la neve.

“Remy?” domandò l’agente.

“R–E–I–M–Y” scandì Sherlock con impazienza. Le avrebbe parlato e avrebbe dimostrato una volta per tutte al mondo che lui non era come lei, affatto.

“È qui” gli annunciò il secondino e, lanciandogli un’occhiata eloquente che significava mille raccomandazioni circa la distanza minima dalle sbarre, lo abbandonò lì in piedi, davanti alla cella.

La voce di Annabel risuonava nel corridoio della prigione mentre si aggrappava a un telefono. Appena vide Sherlock, salutò a malincuore il Luke dall’altra parte del filo; mise giù e non lo fece come avrebbe fatto lui, ma con un’inutile violenza. No che non si assomigliavano, disse una voce nella testa di Sherlock. Poi quel nome, quel ‘Luke’ detto a voce alta, gli ricordò che là fuori ce n’erano altri, pazzi come lei. Ma non avrebbero fatto molto con il processo in corso; chiunque li avrebbe riconosciuti.

“Cosa ti ha detto il tuo amico, Annabel?” le chiese cercando di apparire annoiato.

“Io non ho amici” disse lei sistemandosi esattamente di fronte a lui.

Fu l’ultima volta che aprì bocca; le domande di Sherlock non servirono a niente. Per due ore rimase a fissarlo ostinata.

 

 

A/N: ci siamo: è l'ultimo. Questa storia mi ha impegnata per così tanto tempo che non credevo che questo momento sarebbe mai arrivato, eppure...

Grazie a tutti quelli che hanno recensito, aggiunto questa storia alle seguite/preferite/ricordate o anche solo dato uno sguardo a In Sickness and in Health.

Un grazie soprattutto alla mia consigliera FiNNiE e a Thiliol, che ha dimostrato una costanza ammirevole ;)

Grazie ancora a tutti,

Kla

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1149215