Single Daddies Issues

di lievebrezza
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cap. 1 Two mornings ***
Capitolo 2: *** Cap.2 Unexpectedly, a Dad ***
Capitolo 3: *** Cap.3 Our Little Secret ***



Capitolo 1
*** Cap. 1 Two mornings ***


SINGLE DADDIES ISSUES

 

 

 

 

Cap. 1

- Two mornings-

 

Su un comodino di rovere sbiancato, dalle linee morbide e la superficie lucida, una sveglia elettronica avvertì la persona che giaceva profondamente addormentata nel letto poco distante che erano le sei e trenta. Con uno sbadiglio soddisfatto e riposato, Kurt allungò elegantemente la mano fuori dalle coperte e pigiò il tasto rosso dell'allarme: il fastidioso e ripetitivo suono s'interruppe immediatamente e la stanza cadde nel confortevole silenzio dell'oscurità. Si stiracchiò per una manciata di secondi, poi gettò indietro le coperte, infilò i piedi nelle pantofole e lasciò il letto, ancora tiepido.

Kurt era una di quelle persone capaci di essere attive e presenti a se stesse fin dal momento in cui aprivano gli occhi al mattino; quell'innato talento di svegliarsi di buon'umore, accompagnato da otto irrinunciabili ore di sonno e dosi industriali di caffè, gli permetteva di non perdere nemmeno un minuto rotolandosi inutilmente nel letto.

Da sempre, era puntuale, efficiente e organizzato; questo l'aveva aiutato ad abbandonare i panni di stagista frustrato in favore di quelli di fashion editor in una importante rivista di moda. A essere del tutto sinceri, in realtà Kurt era l'assistente di Kara, una nevrotica quanto talentuosa quarantacinquenne che aveva svolto efficientemente il suo lavoro finchè suo marito non era fuggito all'estero, lasciandosi alle spalle una società finanziaria in rovina e almeno una decina di assatanati creditori. Anche se non poteva biasimarla per il collasso emotivo in cui era piombata, Kurt si era preso carico di tutti i suoi impegni e le sue mansioni; nonostante la fatica, portava avanti la maggior parte dei progetti con successo. Era solo questione di tempo, e il posto di Kara, ormai assente da settimane, sarebbe stato suo.

Canticchiando tra sé e sé, riordinò gli appunti e le fotografie che aveva studiato la sera precedente e li infilò nella sua valigetta di Vuitton, poi altrettanto serenamente si dedicò alla scelta del proprio outfit e a una rinvigorente doccia: entro le sette, era completamente vestito, sbarbato e con una tazza di caffè in mano. In bagno la lavatrice stava sballottando qua e là i panni che aveva diviso accuratamente per colore e in frigorifero era già pronto un sacchetto di carta marrone contenente il suo pranzo.

Un sandwich di pane integrale, con tofu alla griglia, pomodorini biologici e, unico strappo al rigoroso regime alimentare che si imponeva da anni, mezzo cucchiaino di maionese a basso contenuto di grassi. Ogni uomo ha le sue debolezze.

Kurt guardò dentro il sacchetto e conun sospiro aggiunse una mela. Quella del salutista era una vita dura e piena di sacrifici, ma il suo costante impegno era ripagato quotidianamente dalle occhiate di apprezzamento che il suo fisico asciutto e tonico riusciva a guadagnarsi. Madre Natura l'aveva anche dotato di un sederino invidiabile, ma mantenerlo in quelle condizioni straordinariamente sode era tutto merito suo.

Terminò di bere il caffè e s'avviò lungo il corridoio: era ora di svegliare la piccola Stella. La trovò con le sue lenzuola di Hello Kitty aggrovigliate intorno alle gambe e il pigiamino coordinato tutto sbottonato. Probabilmente l'agitazione dovuta al primo giorno nella nuova scuola le aveva impedito di dormire tranquillamente; i suoi vecchi amichetti le sarebbero mancati, ma le aveva promesso che sarebbero stati tutti presenti alla sua festa di compleanno.

“Stella? Tesoro, svegliati.” Le accarezzò gentilmente la guancia, poi scostò le tende e lasciò che la luce del sole mattutino filtrasse pigramente all'interno. Stella si strofinò gli occhi con la mano chiusa a pugno, poi li spalancò: l'azzurro che li caratterizzava riusciva ancora a lasciarlo senza fiato, di tanto in tanto. Perfino annebbiati dal sonno, gli occhi della figlia, dal taglio leggermente allungato ma grandi come i suoi, erano straordinari.

Con un sorriso, l'accompagnò in bagno: mentre Stella si lavava e indossava diligentemente la divisa dell'Istituto St. Patrick, lui si lavò i denti e spruzzò altra lacca sul suo ciuffo. Mentre annodava con gesti esperti il cravattino bordeaux, la bambina rise di gusto di fronte alla vanità del padre, ma non disse nulla; Kurt afferrò la spazzola e le riordinò i capelli, che si erano terribilmente annodati per via del sonno agitato, pettinandoli finchè non sembrarono una cascata d'oro; poi li acconciò in una treccia, che le cadde pesante tra le spalle.

Mentre lavorava sui capelli di Stella, Kurt cercò di capire quali fossero le preoccupazioni della figlia, che sembrava fare ogni azione meccanicamente, frenata dal nervosismo.

“Hai dormito male?” chiese tenendo strette tra i denti alcune forcine che sarebbero servite ad acchiappare le ciocche più ribelli.

“Ho sognato di andare in classe senza gonna e di essere presa in giro da tutti. Papà, perchè devo andare in quella scuola? Io voglio stare alla Louis... ti prego.” mugugnò lei, guardando verso lo specchio per incontrare lo sguardo di Kurt, in piedi dietro di lei.

“Stella, ne abbiamo già parlato. Lo sai che avrai un'istruzione migliore alla St. Patrick. E tutti i tuoi amici abitano in questo quartiere, li vedrai ogni giorno dopo la scuola, non li perderai di vista.” rispose lui, accarezzandole una spalla. Nonostante l'istuzione della St. Patrick fosse ottima, non era davvero quello il motivo per cui aveva deciso di trasferirla; avrebbe voluto dirle la verità, ma farlo avrebbe portato a domande cui ancora non sapeva come rispondere. Preferì elargirle un'affettuosa mezza verità, così come aveva fatto per tutta l'estate, e chiudere la questione; ne avevano parlato a lungo e in più occasioni, Stella sapeva benissimo che la decisione non era più negoziabile.

Volente o nolente, doveva fidarsi del giudizio di Kurt. Infatti, di fronte alla fermezza del padre, si lasciò sfuggire un sospiro rassegnato e spostò la conversazione sul film che nel weekend aveva guardato insieme a Finn e Rachel.

Perfettamente vestita, lo seguì in cucina, dove sedette composta mentre Kurt le preparava un toast e le versava della spremuta; in cucina non avevano la televisione, quindi continuarono a chiacchierare anche mentre Stella consumava la sua colazione.

Ovviamente, l'attenzione di Kurt per l'alimentazione era ancora più rigorosa quando si trattava di qualcosa che doveva finire nello stomaco della figlia; nel giro di pochi mesi, dopo la sua nascita, era diventato un esperto nel leggere le etichette e riconoscere gli additivi più dannosi. Si era interessato ai tessuti di origine biologica, privi di coloranti capaci di irritare una pelle sensibile come quella di un neonato, e di medicina naturale. Non voleva che la sua piccola assumesse anche solo una pillola in più del necessario, così si era informato su prevenzione, vitamine e vaccini.

“Vuoi che ti sbucci una mela?” chiese Kurt, dopo aver appoggiato la sua valigetta vicino alla porta d'ingresso e tornando dalla figlia, ancora seduta al tavolo e intenta a vuotare il bicchiere di succo con piccoli sorsi.

“Papà, ho nove anni, sono perfettamente in grado di sbucciarmi una mela, se ne ho voglia.” Stella roteò gli occhi e appoggiò il bicchiere, esasperata. Per quanto ancora suo padre l'avrebbe considerata una bambina?

“Non significa nulla, cara la mia signorinella. Io di anni ne ho venticinque e ancora chiamo lo zio Finn quando devo uccidere un ragno.” ribattè lui, riponendo le loro tazze e scodelle nella lavastoviglie. “Ma forse ora potrei rivolgermi a te, dato che sei una donna fatta e finita.” aggiunse, ironico. Stella rabbrividì al solo pensiero e scosse la testa con decisione.

“Posso andare a guardare la televisione, papà?” domandò invece. Era ancora presto, forse sarebbe riuscita a godersi una puntata dei Fantagenitori e scacciare l'agitazione che le attanagliava lo stomaco. Kurt chiuse con un colpo del fianco lo sportello e controllò l'orologio.

“Hai venti minuti, giusto il tempo di farmi riassettare le stanze e svuotare la lavatrice. Hai riordinato la tua stanza, ieri sera?” La bambina annuì, impaziente di tuffarsi sul divano. “E nello zaino hai messo tutto quello che era indicato nella lista della scuola?”

“Abbiamo controllato insieme, papà. Due volte.”

“Ok. Allora puoi andare.”

Stella battè le mani, ringraziò per la colazione e schizzò fuori dalla cucina; Kurt si dedicò alle ultime faccende e alle otto uscirono puntuali dal palazzo in cui si trovava il loro appartamento. Mentre Stella avanzava davanti a lui a passo di danza, si concesse un minuto per guardarla con attenzione: Kurt sapeva bene che ogni genitore considera il proprio figlio il più bello che esista, ma non riusciva comunque a trattenere il suo orgoglio: alta e dai lunghi capelli biondi, con gambe lunghe che sbucavano dalla gonna della divina e la risata contagiosa, Stella era la creatura più generosa, entusiasta e straordinaria che avesse mai incontrato. Kurt la amava perdutamente, fin da quando aveva appoggiato l'orecchio sul caldo pancione di Brittany e l'aveva sentita scalciare.

“So già che sarai perfetta.” aveva sussurrato, con le labbra vicine all'ombelico dell'amica. Brittany aveva riso, perchè la piccola le aveva solleticato la vescica, ed era scappata in bagno, lasciandolo con un sorriso ebete e il cuore un po' più grande di prima.

Le ripetè le stesse parole quando arrivarono davanti all'ingresso della scuola e la vide mordersi nervosamente il labbro: “So già che sarai perfetta. Ti adoreranno.”

Parcheggiò e le porse la mano. Stretta a suo padre, entrò nell'aula magna dell'istituto con passo pesante e la treccia che dondolava, quasi dotata di vita propria.

All'interno, c'erano pochi bambini: insieme cercarono l'insegnante del quarto anno, che annotò la presenza di Stella Hummel e l'accompagnò al suo posto, presentandola agli altri studenti già presenti. Quando notò che Kurt sembrava spaesato quanto la figlia, gli indicò gentilmente le file di poltroncine dove potevano accomodarsi i genitori, poi tornò a dedicarsi ai bambini.

Il discorso del direttore sarebbe stato alle otto e trenta, poi Kurt sarebbe andato al lavoro per le dieci; sfilò dalla valigetta il suo kindle e per distrarsi durante l'attesa s'immerse nella lettura dell'ultimo libro della Kinsella. Di tanto in tanto, alzò lo sguardo verso Stella, che stava già chiacchierando con due bambine e stava mostrando loro un braccialetto intrecciato che Kurt aveva trafugato da un servizio fotografico un paio di settimane prima.

Sorrise soddisfatto e aspettò l'inizio del discorso.

 

In un altro appartamento newyorkese, che sarebbe più corretto definire attico, una sveglia trillò insistementemente per la quinta volta. E per la quinta volta, una mano sbucò aggressiva da sotto le coperte, accompagnata da un grugnito infastidito, ed esplorò a tentoni la superficie del comodino fino ad afferrare l'aggeggio infermale e scuoterlo con forza. Quando finalmente Blaine riuscì a strappare la spina dalla presa, il fastidioso suono s'interruppe; tuttavia dopo il secco strattone la sveglia gli scivolò dalle dita e cadde a terra, costringendolo a sporgere la testa dal letto per constatare i danni.

A quel punto, accaddero tre cose contemporaneamente.

Prima di tutto, mentre apriva gli occhi e lasciava momentaneamente il mondo dei sogni, Blaine realizzò che la stanza era insolitamente inondata di luce, nonostante fossero a malapena le sette di mattina. Mentre la sua mente ancora addormentata elaborava pigramente una possibile spiegazione per quella incongruenza, lo sguardo gli cadde sul display della sveglia, bloccatosi su un orario inspiegabile.

“Non è possibile che manchino cinque minuti alle otto.” pensò Blaine, passandosi una mano tra i capelli arruffati. Qualche neurone, da qualche parte nel suo cervello, stava collegando la luce nella stanza all'ora indicata dalla sveglia e alle cinque assonnate manate che Blaine aveva assestato al bottone ogni volta che si azzardava a suonare.

Il ragionamento fu bruscamente interrotto da un bambino terrorizzato che gli piombò in camera, saltò sul letto e cominciò a strillare. Dakila sapeva essere davvero drammatico, quando ci si metteva d'impegno; aveva preso da sua madre, storica amante delle scenate.

“Siamo in ritardo!” disse agitato, rimbalzando sopra le coperte. Era ancora in pigiama e i suoi riccioli ribelli sfrecciavano ciascuno in una diversa direzione: per Blaine, fu come se un piccolo Medusa con addosso una maglia di Iron Man si fosse appena tuffato nel suo letto.

“Siamo in ritardo!” rispose Blaine, sgranando gli occhi. La consapevolezza della drammaticità della situazione lo schiaffeggiò in pieno viso: buttò indietro le coperte e si scapicollò fuori dal letto. Con le gambe ancora pesanti di sonno, urtò una pila di copioni e inciampò nei jeans che indossava il giorno prima; li afferrò grato. Almeno non doveva pensare a cosa mettersi. Mentre se li infilava, gridò a Daki, ancora sul letto, di correre in bagno e vestirsi.

“Non tutto è perduto!” disse più a se stesso che al bambino. Il suo inno d'incoraggiamento, declamato mentre si infilava una maglietta sgualcita, giuse attutito alle orecchie del ragazzino, in camera alla disperata ricerca della sua uniforme. Per ora aveva trovato solo i pantaloni.

“Non trovo la camicia! E la giacca! E la cravatta!” si lamentò disperato, stringendo in pugno i pantaloni. Blaine sbucò dalla sua stanza, saltellando su un piede mentre infilava maldestramente una Converse giallo forforescente; l'altra scarpa gli dondolava contro il petto, dato che la teneva stretta tra i denti per le stringhe.

“Sul letto?” bofonchiò, cercando di non perdere la scarpa mentre articolava la domanda.

“No.” Daki, in piedi al centro della stanza, in mutande, calzini e maglietta, allargò le braccia. Con quel movimento, le gambe dei pantaloni dondolarono come quelle di un povero spaventapasseri.

“Sotto il letto?” domandò ancora, infilandosi l'altra scarpa.

Un altro segno di diniego.

“Sul balcone?” provò ancora. A quelle parole, il bambino si illuminò e annuì trionfante. L'avevano appesa dopo averla usata per la cena con delitto del venerdì sera: Daki aveva vestito i panni di un avvocato assassinato brutalmente dopo un'arringa in tribunale. La divisa si era rivelata un perfetto strumento di scena, ma si era irrimediabilmente impolverata quando l'avevano fatto sdraiare a terra per fingersi cadavere. Erano due giorni che era appesa lì fuori, in paziente attesa di essere spazzolata. Blaine ringraziò il cielo che non avesse piovuto, quindi l'afferrò e gliela passò, non prima di averla scossa bruscamente.

“Sbrigati a metterla. Dov'è lo zaino?” Si guardò intorno, ma nel caos di quella stanza sarebbe stato impossibile trovare perfino un elefante. Riuscì a scovare lo zainetto incriminato dietro una poltroncina di Cars e ci ficcò dentro un paio di quaderni e l'astuccio di Daki; non aveva avuto il tempo di controllare l'elenco di materiali indicato dalla scuola, quindi nel dubbio aggiunse anche un compasso e un flauto.

E un paio di occhialini da nuoto, tanto per andare sul sicuro.

Quando raggiunse Daki in bagno, con un sorriso di vittoria stampato in viso, quell'espressione gli si congelò immediatamente: il bambino aveva allacciato in modo sbagliato i bottoni della camicia, le cui estremità gli penzolavano asimmetriche all'altezza delle cosce. Con la lingua stretta tra i denti e i pantaloni accartocciati intorno alle caviglie, Daki stava cercando di farsi il nodo alla cravatta, stropicciando irrimediabilmente quel povero pezzo di stoffa. Blaine chiuse per un istante gli occhi e respirò profondamente, aggiunse alla sua lista mentale di cose da fare una lezione di nodi, poi si tuffò sul piccolo.

Si rialzò soddisfatto dopo avergli sistemato la camicia e allacciato i pantaloni: memore dei suoi anni alla Dalton, riuscì a sistemagli il cravattino, che rimase comunque storto. Per il momento, era il massimo cui poteva aspirare; magari un giorno si sarebbe svegliato e miracolosamente sarebbe diventato uno di quei genitori perfetti, che si alzano in tempo al mattino e si ricordano di preparare lo zaino ai loro figli.

Guardò l'orologio, giusto per capire quanto tempo avevano impiegato per vestirsi. Erano quasi le otto e trenta, quindi tornò a guardare il bambino, che aveva infilato un dito nel colletto e stava allentando la stretta mortale di quel nodo approssimativo.

“Daki. Lavati i denti e la faccia. Subito.” ordinò in tono pratico e si chinò sul secondo lavandino del bagno, facendo lo stesso. Si asciugò rapidamente e non degnò nemmeno di uno sguardo la sua immagine riflessa: non ne aveva bisogno per sapere che aveva un aspetto pessimo. Che misera figura faceva, in quell'ambiente tutto marmi, cristalli e sanitari dalle forme moderne.

“Ma... io ho fame!” protestò il bambino, con lo spazzolino da denti stretto tra le dita e una cascata di dentifricio alla fragola che gli colava dalle labbra mentre parlava.

“Prendiamo una ciambella mentre andiamo a scuola, ok?” tagliò corto Blaine. Corse fuori dal bagno, alla disperata ricerca delle chiavi dello scooter e del portafogli; si fermò solo per un momento, contemplando l'enorme tela appesa in ingresso e il suo pesante tripudio di oro, bronzo e argento.

E il nero tentacolo che si aggrappava alle lamine metalliche delicatamente intracciate tra loro.

Stava di nuovo per perdersi pericolosamente nei ricordi, quando notò che sul pavimento del salotto c'era ancora appiccicato a terra lo scotch nero che avevano usato per disegnare la sagoma intorno al cadavere di Daki. Con un sospiro, ne aggiunse la rimozione alla lista di cose da fare entro sera.

Quando finalmente raggiunsero l'ingresso e salutarono Charles, il portiere del palazzo, erano le otto e quaranta; sprecarono altri cinque minuti da Dunkin' Donuts per acquistare quattro ciambelle ricoperte di zuccherini azzurri e glassa alla vaniglia, più altri dieci per raggiungere la scuola.

Abbandonò la Vespa davanti a un parcheggio riservato, afferrò la mano appiccicosa di Daki e lo trascinò con sé verso l'aula magna; quando fecero la loro apparizione aprendo una delle porte ai lati del palco, il preside interruppe il suo discorso e tutti i presenti si voltarono a guardarli.

Con ricci capelli neri disordinatamente schiacciati dal casco, gli abiti stropicciati e l'aria mortificata, Blaine e il piccolo sembravano due gocce d'acqua. O, per essere più corretti, due fratelli: in fondo, Blaine aveva appena venticinque anni, e Daki ne aveva appena compiuti nove.

Il ragazzo diede un colpetto al bambino, invitandolo a raggiungere i compagni, poi fece un cenno di scuse al preside, che lo fissava severo.

“Mi scusi.” bisbigliò imbarazzato. Cercò un posto libero tra le ultime file, per nascondersi da quegli occhi furibondi, ma senza successo; non voleva attirare ulteriore attenzione, quindi quando vide una mano indicargli un posto libero, si lasciò cadere sconfitto su una poltroncina della terza fila. Appoggò il caso in mezzo ai piedi e si voltò per ringraziare la persona seduta accanto a lui, che l'aveva gentilmente salvato da una situazione imbarazzante. Blaine alzò lo sguardo e per qualche istante pensò che forse la giornata aveva ancora qualcosa di buono da riservargli: davanti agli occhi aveva uno dei ragazzi più belli che avesse mai visto.

“Grazie. Questa mattina la sveglia non ha suonato.” mentì, chinandosi verso di lui per bisbigliare quella scusa. Stupidamente, non voleva che quel ragazzo lo prendesse per un poltrone. Cosa che non era affatto vera. Anche se Sebastian amava definirlo “accumulatore umano di ritardo”.

L'altro distolse l'attenzione dal preside solo per un momento e gli sorrise: “Sono cose che capitano, suppongo.”

Blaine non disse altro e lanciò una breve occhiata al preside, che nel frattempo aveva ripreso il suo soporifero discorso. Ne approfittò soprattutto per studiare con cura il viso del ragazzo, scoccandogli una raffica di discrete occhiatine: doveva avere più o meno la sua età e stava ascoltando con attenzione le parole del decrepito O'Malley. Dato che il discorso era lo stesso da trent'anni e la maggior parte dei genitori si limitava a simulare attenzione mentre controllava le email sul palmare, Blaine dedusse che il ragazzo era un nuovo acquisto della scuola. Un professore che desiderava fare bella figura, forse. O un consulente, ma di certo era troppo giovane per avere un figlio iscritto all'istituto.

Discretamente controllò l'anulare della mano sinistra, appoggiata al bracciolo. Nessuna fede.

Nella sua mente, l'ipotesi professore trattino consulente guadagnò punti.

Blaine procedette con la sua analisi: nonostante non fosse un esperto, era evidente che gli abiti del ragazzo erano particolarmente costosi e ricercati. La valigetta ai suoi piedi era di Vuitton e dalla zip sbucava un kindle, ultimo modello, avvolto in una custodia dall'aria lussuosa. Non riuscì comunque a inquadrarlo con sicurezza: nonostante la cura con cui erano stati evidentemente scelti, quei vestiti erano troppo particolari e di tendenza per essere adatti a un insegnante, soprattutto in una scuola tradizionalista come la St. Patrick.

E soprattutto, ogni singolo sensore del suo gayradar al momento era in stato di massima allerta. Il suo fiuto non sbagliava mai, perfino Sebastian s'azzardava a consultarlo, di tanto in tanto.

“Che noia mortale, non è vero?” sussurrò con aria complice sporgendosi verso di lui.

Kurt sussultò e si voltò sorpreso. Sembrò trovare inaccettabile che qualcuno si azzardasse e non prestare attenzione, in un giorno tanto importante; tuttavia non poteva che condividere quell'affermazione. Ridacchiò piano e Blaine s'illuminò: quando rideva, quel ragazzo era ancora più carino. Sorrise soddisfatto e si chinò sullo zaino per prendere la bottiglietta d'acqua che era sicuro di aver ficcato da qualche parte. Kurt ne approfittò per guardarlo con più attenzione; Blaine stava frugando dentro lo zaino appoggiato a terra vicino al casco e non poteva accorgersene. Nonostante la maglia macchiata di caffè, i capelli arruffati e i jeans stropicciati, Kurt dovette ammettere che era piuttosto carino, con quei lineamenti decisi e gli occhi color ambra.

Occhi che ora erano piantati nei suoi e ricambiavano il suo sguardo. Kurt arrossì e si girò rapidamente, fingendo di non aver fatto nulla di male. Per qualche istante, sentì gli occhi del ragazzo fissarlo, ma i suoi rimasero fissi sul collo rugoso del preside, mentre la sua mente macinava qualche ragionamento circa l'identità del suo compagno di poltrona.

Doveva essere il fratello del bambino che era entrato con lui nell'aula magna: erano due gocce d'acqua e il ragazzo sembrava davvero troppo giovane per avere un figlio di quell'età. Dato che poi il bambino si era seduto nella stessa fila di Stella, doveva essere nella sua classe.

Impossibile che fosse il padre. Quello doveva essere il fratello, forse il baby sitter, anche se in quel caso la somiglianza diventava una coincidenza inspiegabile. Ed era troppo in disordine per essere un professore.

“Ogni anno lo stesso discorso, puntuale come la morte.” borbottò a un certo punto, scocciato. Kurt aggrottò le sopracciglia e tornò a guardarlo, perplesso da quella lamentela.

“Sempre lo stesso?” domandò incuriosito. Blaine annuì e sussurrò una frase a bassa voce, che dopo dieci secondi il preside ripetè, esattamente parola per parola. Kurt sgranò gli occhi e l'altro gli scoccò un'occhiata compiaciuta, quasi da veterano.

“Visto?” commentò. Poi decise di passare all'attacco e provare a capire quale fosse, esattamente, il motivo per cui quel ragazzo si trovava lì. Provò a dare per scontato che fosse un professore alle prime armi: “Non preoccuparti se sei nuovo, ci farai l'abitudine, ai discorsi del vecchio O'Malley. I professori qui sono tutti gentilissimi, ti troverai bene.”

Kurt ascoltò attentamente la rassicurazione, senza capire il motivo per cui l'altro fosse preoccupato per lui. Ma c'era qualcosa in più. La sua voce era stranamente familiare, come se l'avesse sentita altre volte. Eppure era sicuro di non averlo mai visto.

Se lo sarebbe ricordato, un ragazzo così.

Scacciò la sensazione e rispose in tono pratico: “Non m'interessa che siano gentili con me, l'importante è che facciano bene il loro lavoro, no? Con la reputazione che la St. Patrick sembra vantare, non m'aspetto nulla di diverso.”

Blaine spalancò la bocca. Allora non era un professore?

Stava per azzardare un altro approccio, quando la folla di genitori cominciò a battere le mani: il discorso era finito, era il momento di salutare i propri figli e lasciarli alle loro lezioni. Kurt si unì all'applauso con entusiasmo e allungò il collo per cercare Stella: si era voltata e lo stava cercando, quandi alzò una mano e la salutò sorridendo, sforzandosi di sembrare rassicurante. In quella scuola erano tutti così composti e lui non voleva dare l'impressione di non prendere sul serio l'istruzione di sua figlia.

“E' tutto ok?” domandò a Blaine, quando lo scoprì intento a fissarlo. Stella si era alzata e li stava raggiungendo, così si alzò e afferrò la sua valigetta, pronto ad abbracciarla stretta e sussurrarle qualche parola di incoraggiamento.

“Come? Ah. Sì, certo. E' tua figlia, quella bambina?” domandò cauto Blaine. Nella sua mente, stava pensando a quante probabilità ci fossero che il ragazzo davanti a lui fosse un giovane e carino divorziato newyorkese. Non rimanevano altre spiegazioni.

Ma quando parlò, il viso di Kurt si illuminò. Non rispose alla domanda, che aveva bellamente ignorato, ma saltellò eccitato sul posto, sotto gli occhi stupefatti di Blaine: “Oh. Mio. Dio. Tu sei Fiyero, non è vero?”

Certo della sua intuizione, Kurt fece cenno a Stella di affrettarsi e le disse entusiasta, perdendo giusto un briciolo di quel contegno che fino a ora l'aveva caratterizzato: “Stella! Questo signore... è Fiyero!”

Blaine sorrise alla bambina, i cui occhi azzurri ricordavano tanto quelli del padre. Doppiare il cartone animato di Wicked era stato uno dei suoi più importanti incarichi, ma non gli era mai capitato di essere riconosciuto tanto rapidamente da un estraneo; dopotutto, si era trattato di una produzione poco pubblicizzata, cui non aveva preso parte nessun membro del cast. Ed era un peccato, perchè nonostante il budget ristretto e le critiche mosse al progetto, il cartoon si era rivelato un vero gioiellino.

“Ciao.” disse la bambina, rispondendo timida al suo sorriso e abbassando gli occhi sulle scarpe. Blaine aprì la bocca, ma non ebbe il tempo di dire nulla, perchè Kurt stava già intervenendo, correggendo con gentilezza il saluto della bambina: “Tesoro, non fare la timida e saluta per bene il signore.”

Stella alzò dunque lo sguardo da terra e piantò gli occhi su Blaine, salutandolo di nuovo: “Buongiorno signore, io sono Stella. Io e il mio papà Kurt guardiamo Wicked almeno una volta a settimana, ma a volte anche di più.”

“E' un piacere conoscerti, Stella. Io sono Blaine e...”

A Blaine si scaldò il cuore, accogliendo l'affetto della piccola fan con tenerezza, poi si rese conto che anche Dakila li aveva raggiunti ed era in piedi accanto a lui, osservando Kurt e la figlia con un'espressione perplessa. Blaine gli appoggiò una mano sulla spalla e avvicinò a sé.

“... e questo è mio figlio Dakila. Daki, per gli amici.” aggiunse.

I due bambini si fissarono per un momento, poi cominciarono a parlare delle lezioni e Daki sembrò più che felice di rispondere ai dubbi di Stella; nel giro di pochi istanti, stavano confabulando tra loro. Kurt e Blaine li osservarono, certi di essere testimoni della nascita di un'amicizia.

Il primo a riprendere la conversazione fu Kurt.

“Blaine, dunque. Finalmente conosco chi ha dato la voce al principe preferito di mia figlia.”

E il mio. Pensò tra sé, ma non lo disse ad alta voce. L'ultima cosa che desiderava era far correre per la scuola qualche pettegolezzo su di lui, rischiando di apparire una sorta di assatanato.

“Kurt, dunque. Finalmente conosco chi mi ha trovato una poltroncina libera e non mi ha lasciato in piedi come un fesso.” ribattè Blaine con un ghigno amichevole. Risero entrambi di cuore, guardagnandosi un'occhiataccia dai figli.

Nessuno dei due esternò le proprie perplessità sulla giovane età dell'altro, ben consci che non c'era mai una storia semplice, dietro a una paternità giunta tanto presto.

Nessuno dei due chiese all'altro il numero di telefono, convinto che l'altro fosse... sposato, divorziato, convivente, etero o disinteressato. Entrambi, mentre raggiungevano rispettivamente la propria auto e il proprio scooter, estrassero il cellulare e chiamarono il loro migliore amico. Senza speranze, né aspettative, raccontarono.

“Sebastian? Sono io. No, non siamo arrivati in ritardo. Cioè... non troppo. Comunque non ti chiamavo per questo. Non hai idea in che razza di papà mi sono imbattutto stamattina a scuola...” disse Blaine, collegando l'auricolare del casco al bluetooth del telefono. In sella alla Vespa, si tuffò del traffico newyorkese, accordandosi con Sebastian per concedergli ulteriori dettagli durante la pausa pranzo.

Lo stesso fece Kurt mentre si dirigeva verso il quartiere con la sede principale della rivista per cui lavorava. Ormai lavorava con Santana da anni e il fatto che Stella fosse, in un certo senso, figlia di Brittany, li aveva legati più di quanto avessero mai creduto possibile; era ancora amico di Rachel e Mercedes, ovviamente, ma con loro non riusciva a condividere tutto.

“Santana? Ciao strega, sto arrivando in ufficio. Ovvio che sono puntuale! Come osi stupirti ancora, dopo tutti questi anni? Sì, ho anche i progetti con me... altre novità? Uh... oggi ho conosciuto un papà che era il più carino che...”

 

 

 

Nda

Buonasera a tutti!

Sono Alice, aka Lievebrezza, aka LieveB, grazie di aver letto e di essere arrivati fino alla fine del capitolo.

La storia è una long che si articola in circa 5-6 capitoli, tutti più o meno di questa lunghezza. Aggiornerò ogni lunedì, ma per ogni info potete passare dalla mia pagina FB, che trovate qui.

 

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Capitolo 2
*** Cap.2 Unexpectedly, a Dad ***


SINGLE DADDIES ISSUES

 

Cap. 2

- Unexpectedly, a Dad -

 

Blaine sfrecciò nel traffico cittadino, si arrampicò maldestramente sul marciapiede con lo scooter e lo abbandonò lì in divieto di sosta, poi si precipitò verso lo studio di registrazione, inciampando nei suoi stessi piedi mentre correva verso l'ascensore. Nella fretta gli si era slacciata una stringa delle Converse, che ora gli serpeggiava senza controllo tra le caviglie: forse non era solo Daki ad avere bisogno di una lezione su come fare i nodi.

Comunque, non era in ritardo. Non di molto, almeno.

Meno del solito, ecco.

Si ravviò con una mano i riccioli sudati, pregò che nessuno dei presenti notasse gli imbarazzanti aloni umidi che facevano capolino da sotto le sue ascelle e il fatto che indossasse la stessa maglietta del giorno prima: si ficcò le cuffie sulle orecchie e aspettò il via per iniziare a cantare. Quel giorno avrebbe dovuto registrare la versione definitiva di un paio di jingle pubblicitari: mentre respirava con il fiato grosso per la corsa disperata, lesse sconsolato il ritornello che raccontava l'allegra scampagnata di due wurstel e alzò gli occhi al cielo.

Il suo orgoglio come performer l'aveva già abbandonato da tempo, quindi si stampò un sorriso in faccia e cominciò a scaldare la voce. Sebastian amava domandargli perchè diavolo non si decidesse a produrre da sé il suo dannato album, dato che aveva abbastanza soldi per farlo in tutta tranquillità; ma Blaine ogni volta scuoteva la testa e gli spiegava con pazienza le sue ragioni. Voleva trovare qualcuno disposto a investire su di lui, qualcuno che gli dicesse che aveva talento e che meritava il successo: non voleva scorciatoie offerte dagli abbondanti fondi della sua famiglia. E se per arrivare in cima doveva cantare stupide canzonicine e doppiare cartoni animati per bambini, allora l'avrebbe fatto senza lamentarsene; almeno quando avrebbe stretto il suo primo cd tra le mani, l'avrebbe fatto con la certezza di averlo ottenuto con il sudore della sua fronte e la forza della sua voce.

Era una questione di orgoglio.

Quando avrebbe sfondato, quando sarebbe stato una star, forse avrebbe ripensato con malinconia agli anni della gavetta e li avrebbe descritti con tenerezza a una giovane e impacciata giornalista di Rolling Stones. Poteva già immaginarsi stravaccato su un lussuoso divano in pelle nera, intento a strimpellare annoiato una chitarra mollemente appoggiata sulle ginocchia, con addosso dei jeans sdrucidi e una maglia costosa, atteggiato da gran divo, come se farsi intervistare fosse qualcosa di banale, che non meritava la sua piena attenzione. Lei gli avrebbe chiesto quali erano gli artisti cui si ispirava e lui avrebbe risposto con uno sbadiglio, lasciandosi rotolare fuori dalle labbra una sequela di nomi altisonanti.

Blaine scosse la testa di fronte a quella fantasia, e per poco non scoppiò a ridere: se mai fosse arrivato quel momento, di certo sarebbe andato tutto diversamente. Avrebbe trascorso la mattinata a riordinare l'appartamento, nascondendo nelle camere da letto tutto quello che non aveva un posto preciso dove essere riposto, poi sarebbe corso al supermercato per acquistare del caffè solubile e dei biscotti, perchè la dispensa era di nuovo vuota. Sarebbe rientrato in ritardo, fuori di sé dalla felicità e avrebbe vomitato sulla povera giornalista una valanga di scuse, parole e balbettii incoerenti, per poi rovesciarle addosso, con mani tremanti, il caffè tanto premurosamente preparato per l'occasione. Probabilmente inciampando in qualche giocattolo abbandonato da Daki in mezzo al salotto, fortuitamente sfuggito al suo affrettato tentativo di riordinare.

Soppresse un sorriso, e cominciò a cantare, fingendo con se stesso di essere in uno studio di registrazione prestigioso, sul punto di vincere l'ennesimo disco di platino. Altre tre ore di canzoncine idiote su wurstel, poi sarebbe andato a pranzo con Sebastian. Conoscendo la fervida e perversa immaginazione dell'amico, Blaine pensò che forse sarebbe stato consigliabile tacere circa l'argomento dei jingle registrati in mattinata, o l'amico avrebbe dato davvero il meglio di sé nella ricerca di gustosi doppi sensi. Ed essere banditi da un altro Starbuck's a causa della boccaccia di Sebastian era proprio l'ultimo dei suoi desideri.

Sette anni prima, quando aveva lasciato l'Ohio, Blaine aveva immaginato per sé un futuro completamente diverso da quello che stava attualmente vivendo. Alla fine del liceo, appesa la divisa della Dalton al chiodo, Blaine aveva annunciato trionfante di voler studiare recitazione, canto e dizione: voleva essere un artista, esprimersi attraverso il suo corpo, vivere della propria arte. Si sarebbe iscritto alla Tisch e avrebbe girato il mondo con la sua chitarra sulle spalle alla ricerca dell'ispirazione e della canzone perfetta.

I suoi genitori, di fronte a quella mistica rivelazione, si erano duramente opposti, insistendo perchè invece si iscrivesse a Economia e seguisse le orme di suo padre o di suo zio; quando ogni tentativo di imposizione finì per schiantarsi contro la sua ferrea determinazione, gli Anderson lo misero alla porta.

Letteralmente.

In quella casa non c'era spazio per chi decideva di non vivere secondo le loro regole. Dopo un pomeriggio estivo passato a giocare a tennis con Wes al Country Club di Westerville, Blaine aveva trovato nella sua camera una delle cameriere che riponeva tutti i suoi vestiti dentro a lussuose valigie di pelle e le sue cose in scatoloni evidentemente acquistati per l'occasione. In quel momento, aveva compreso che i suoi genitori non l'avrebbero più sostenuto nelle sue decisioni. Infatti, se già avevano faticato a fingere che la sua omosessualità non fosse solo un capriccio adolescenziale, non erano riusciti ad accettare quello che ritenevano l'ennesimo tentativo di ribellione da parte di Blaine. Non lo avevano privato del suo fondo fiduciario, ottenuto al compimento dei diciotto anni, ma di fatto, lo abbandonarono a se stesso.

Blaine avrebbe voluto dirsi sorpreso di quella drastica reazione da parte della sua famiglia, ma la triste verità era che non lo era affatto; non che questa consapevolezza l'avesse aiutato in qualche modo nell'organizzare una controffensiva decente o nel convincerli a tornare sui loro passi.

Il ragazzo non aveva la minima idea di cosa fare, né di sé, né di tutti quei soldi cui aveva improvvisamente accesso. Smarrito, aveva fatto un paio di telefonate, acquistato un biglietto aereo per New York e bussato alla porta di sua cugina, l'unica che in passato aveva sempre preso le sue difese. Ovviamente senza successo, essendo a sua volta considerata dai parenti una pecora nera della peggior specie.

Artista, ragazza madre ed eccentrica fin dalla tenera età, Dalisay era stata l'unica ad accoglierlo a braccia aperte. L'aveva abbracciato stretto e gli aveva mostrato la sua camera: in quell'enorme attico in centro Manhattan, con un neonato che piangeva tutto il giorno e Dali che passava le giornate tra colori a olio e omogeneizzati biologici, Blaine aveva trovato il suo piccolo angolo di paradiso.

Esattamente come Blaine, anche Dalisay e le sue bizzarre aspirazioni si erano scontrati con il duro snobismo della sua famiglia. Dali era nipote di Amihan Tumibay Anderson, la madre di Blaine: era anche la sua unica cugina ed era più vecchia di lui di dieci anni. Per quanto si somigliavano, i due cugini potevano essere scambiati per fratelli: entrambi di bassa statura, con scuri capelli ricci e occhi color miele, non solo condividevano il fisico minuto e scattante, ma anche l'insofferenza nei confronti dell'aristocratico contegno della famiglia Tumibay.

Se gli Anderson erano ricchi, benestanti e terribilmente snob, la famiglia della madre di Blaine li superava sotto ciascuno di questi aspetti. Il padre di Dalisay e la madre di Blaine erano gli eredi di una multinazionale dalle lontane origini filippine che aveva sedi e stablimenti sparsi in ogni continente: Amihan si era disinteressata da tempo della gestione della società, lasciando ogni potere decisionale nelle mani del fratello maggiore.

In cambio di un vitalizio a otto zeri, ovviamente.

Blaine non aveva mai capito di cosa si occupasse esattamente lo zio, nonostante i suoi ripetuti tentativi di coinvolgerlo nelle dinamiche della società e nei delicati equilibri di potere che animavano il consiglio d'amministrazione. Ogni volta che lo zio gli illustrava numeri, documenti e calcoli percentuali, a Blaine veniva l'orticaria nello sforzo di capire che accidenti volessero dire.

Lo stesso era accaduto a Dalisay, che per descrivere la sua situazione amava citare una frase pronunciata da Mussolini a proposito del grande poeta Gabriele D'Annunzio: poteva anche essere considerata come un dente cariato, ma la famiglia era stata costretta a coprirla d'oro, dato che certo non la poteva estirpare. Potevano anche fingere che non esistesse, ma Dali rimaneva comunque una Tumibay.

Blaine le aveva chiesto spesso perchè non si fosse trasferita nel Village, dove abitava la maggior parte dei suoi amici: Dali aveva risposto semplicemente che c'era un legame tra lei e quella casa. Non poteva andarsene così, quello era il suo posto; adorava gli interni borghesi di quell'attico in centro, i muri dipinti in un bianco splendente e i tre bagni rivestiti di marmi preziosi. Somigliava alla villa in cui era cresciuta e da cui era fuggita, era lì che aveva concepito Daki ed era lì che insieme avevano mosso i primi passi.

Dalisay non l'avrebbe mai ammesso, ma amava davvero quella casa, di cui profanava continuamente gli aristocratici interni: ai divani di respiro neoclassico accompagnava mobili recuperati per strada e riportati a nuova vita; alle pareti appendeva i suoi quadri ancora umidi e odorosi di colore e solventi, coprendo gli stucchi vittoriani e le stampe design scelte da suo padre; nella vasca dell'enorme bagno padronale faceva lunghi bagni in compagnia di estranei, fumando e ridendo per sciocchezze.

In realtà, Blaine era convinto che sua cugina provasse una sorta di perverso piacere nel dividere l'ascensore con l'élite newyorkese, sbattendo il suo stile di vita anticonformista in faccia alle signore impellicciate che incontrava quotidianamente nell'ingresso. Amava inorridirle e sorprenderle con le sue stravaganze, che venivano puntualmente raccontate a suo padre, con cui ormai non parlava da anni. I legami tra Dalisay e la sua famiglia erano già duramente compromessi quando aveva annunciato trionfante la sua inaspettata gravidanza: il fatto che non sapesse chi fosse il padre, né fosse intenzionata a scoprirlo, aveva sancito la fine di ogni contatto e l'aprirsi di una insanabile voragine. Dakila non aveva mai conosciuto i suoi nonni e questa era una delle poche cose che l'avevano davvero ferita: non riusciva a comprendere come si potesse voltare lo sguardo a un neonato privo di colpe.

Ma Daki, nonostante tutto, era un bambino felice: la casa di Dalisay era sempre affollata di amici, artisti di passaggio e conoscenti, che lo vezzeggiavano continuamente e senza ritegno. Negli anni in cui Dali rimase con lui, il piccolo non sentì mai la mancanza di una figura paterna, né di una famiglia; viveva circondato d'affetto, colori e affetto sincero, che erano più che sufficienti per farlo crescere felice. E quando anche Blaine si era unito a quel variopinto quadro ed era diventato un punto di riferimento per lui e sua madre, Dakila fu ancora più sereno, se possibile.

Blaine si era presentato alla loro porta subito dopo il diploma, con due valigie piene di spartiti, la sua vecchia Playstation e il cuore gonfio di aspettative; a dispetto di ogni sua possibile previsione, nel giro di due anni dal suo trasferimento nella Grande Mela, si era ritrovato ad accantonare la vita spensierata dello studente universitario per vestire i panni di padre a tempo pieno di un bambino emotivamente distrutto.

Era successo tutto rapidamente.

Una sera di ottobre, Blaine era seduto sul bordo della vasca e stava chiacchierando con Dalisay che, immersa nell'acqua bollente e coperta di schiuma, sembrava tranquilla. A distanza di anni, riusciva a ricordare ancora perfettamente l'argomento di discussione: lui e Dali stavano parlando di Sebastian e dell'intossicazione alimentare che si era preso in un ristorante giapponese, quando senza preavviso, Dali gli aveva detto di non sentirsi molto bene e aveva perso conoscenza. Blaine l'aveva afferrata prima che scivolasse sott'acqua e aveva chiamato un'ambulanza.

L'esito degli esami era stato un duro colpo.

Pochi mesi, tanti farmaci e tante scartoffie più tardi, Dalisay li lasciò soli. L'università, le serate al karaoke, i provini per i talent show e lo stalking degli agenti discografici erano passati immediatamente in secondo piano: tutto era diventato più sbiadito, nella sua vita. Riusciva solo ad appallottolarsi sul divano di quell'enorme appartamento con Daki tra le braccia, trascinarsi in cucina per scaldare del latte e metterlo a letto quando erano troppo stanchi perfino per piangere.

Quando Dalisay era morta, Blaine aveva vent'anni e Daki appena quattro. Il piccolo e sua madre erano tutto ciò che gli era rimasto della sua famiglia; Dalisay aveva informato la loro famiglia della malattia solo a un passo dalla fine e, anche a quel punto, non molto era cambiato. Fortunatamente nessuno aveva interferito nella sua decisione di nominare Blaine tutore legale del bambino: ovviamente avevano chiamato, avevano offerto il loro aiuto, ma erano stati silenziosamente sollevati quando Blaine aveva rifiutato. Prima ancora di diventarne ufficialmente responsabile, il ragazzo era già un padre per Daki: non se ne era reso conto finchè non si era trovato a essere il solo a preparargli la colazione, vestirlo e consolarlo.

Da quel giorno erano passati più di cinque anni e nel frattempo erano successe molte cose.

C'erano state le prime settimane, quando Blaine non lasciava mai l'appartamento e viveva in simbiosi con il bambino, preoccupandosi a stento di se stesso. La casa era vuota e silenziosa, senza Dalisay e la sua energia. A Blaine mancavano l'odore di solvente e di pennelli umidi, le nottate in bianco ad assisterla quando era troppo debole perfino per arrivare in bagno, il continuo viavai di gente, rumore e colore.

C'erano stati i primi mesi, quando era lentamente tornato in sé ed era stato costretto a prendere delle decisioni difficili. Blaine aveva appeso in ingresso l'unico quadro che sua cugina era riuscita a portare a termine negli ultimi mesi, aveva osservato a lungo quell'intrico nero che serpeggiava tra le pure lamine dorate e aveva rammendato a se stesso l'ultima raccomandazione di Dali: “Crescilo come se fosse tuo, e non sbaglierai. Mi fido di te.”

Con il cuore pesante, aveva accatastato tutti i quadri incompleti in una stanza e aveva finalmente liberando il salotto, la cucina e il corridoio da quelle ingombranti tele, in cui lui e il bambino continuavano a inciampare. La presenza di Dalisay era ancora potente, ma meno fisica: con il ricordo affettuoso dell'unica donna che avrebbe mai amato con tanta intensità, Blaine aveva ripreso il controllo della sua vita.

E con la sua, anche di quella di Daki.

Sapeva di non poterlo istruire in casa, così come sua madre avrebbe voluto. Per farlo, sarebbe stato costretto ad abbandonare gli studi universitari, che già erano stati duramente compromessi dai mesi di deriva emotiva che avevano seguito il funerale. Però aveva le risorse economiche necessarie a iscrivere Daki in un asilo ricco di programmi dedicati allo sviluppo delle capacità artistiche: pensò che se in passato la Dalton non era riuscita a soffocare la sua individualità, di certo non ci sarebbero riusciti in un posto del genere. Con serenità, aveva aiutato Daki a inserirsi progressivamente nel complesso mondo dell'istruzione privata; era stato estenuante per entrambi, ma alla fine avevano trovato un loro equilibrio. Si trattava di due vite sconvolte, ma insieme erano riusciti a sopravvivere, un compromesso dopo l'altro.

Tra leziosi, lavoretti saltuari e riunioni per i genitori, il più delle volte la casa era un vero caos, ma Blaine si premurava che il bambino fosse sempre pulito, sano e in ordine: se poi lui non aveva il tempo di sbarbarsi o i giocattoli di Daki erano sparsi per tutta la casa, quello era un prezzo che poteva permettersi di pagare. L'importante era che stessero bene.

Anche dopo anni dalla morte di Dalisay, Blaine viveva ancora nel terrore costante di combinare un pasticcio di troppo e trovare gli assistenti sociali fuori dalla sua porta, pronti a strappargli suo figlio. Non erano rare le notti in cui si svegliava e non riusciva a riaddormentarsi finchè non si alzava e controllava che Daki fosse a letto. Rimaneva mezz'ore intere appoggiato allo stipite della porta, osservandolo mentre respirava tranquillo, avvolto nelle lenzuola sbiadite che aveva dipinto insieme a Dalisay anni prima: Blaine si chiedeva se stesse facendo tutto per bene, se sarebbe stata fiera di lui, se Daki avrebbe preferito essere affidato a una famiglia più ordinaria, piuttosto che a uno zio troppo giovane e troppo sconclusionato.

Erano dubbi che lo assalivano di notte, perchè di giorno non aveva il tempo di pensarci.

Il primo giorno di scuola elementare, quando aveva aiutato Daki a infilarsi la divisa della St Patrick per la prima volta e lo aveva accompagnato in classe, accadde qualcosa di straordinario: mentre lo supplicava di non andarsene e non lasciarlo solo in mezzo a tutti quegli estranei, il bambino lo aveva chiamato papà per la prima volta.

E lo aveva fatto con una spontaneità tale da lasciare Blaine senza parole.

A quasi due anni dalla prematura scomparsa di sua cugina, rintanato di nascosto nel bagno dei professori e scosso dalle lacrime, Blaine provò qualcosa di terribilmente simile alla felicità: anche se tutto ciò che faceva era ben lontano dalla perfezione, ormai lui e Daki erano una famiglia. E Daki poteva anche non essere suo figlio biologicamente, ma lui e quel bambino si appartenevano e si completavano.

A distanza di quattro anni da quel giorno, non era cambiato nulla: l'appartamento era ancora un disastro, Blaine passava le giornate correndo da un angolo all'altro della città e Daki continuava a considerarlo suo padre. Il suo giovane, maldestro e affettuoso padre.

Fu con un sorriso ebete e questo pensiero in testa che Blaine si presentò nell'ufficio di Sebastian.

“Rose, il signor Smythe è libero? Abbiamo un appuntamento per pranzo.” disse timoroso all'arcigna segretaria che presidiava l'accesso allo studio di Sebastian. Lei alzò gli occhi dallo schermo e dedicò una lunga occhiata all'attenta scansione dell'aspetto di Blaine: disapprovò i capelli schiacciati dal casco, la maglietta stropicciata e le scarpe dal colore assurdo, ma alla fine si degnò di rispondergli.

“Il signor Smythe al momento è impegnato. Si accomodi pure, sarà mia premura avvisarlo dalla sua presenza non appena sarà libero.” La voce glaciale della donna confermò per l'ennesima volta che Sebastian era riuscito a trovare la più ferrea delle assistenti: entrambi sapevano benissimo che cosa stava facendo esattamente, dentro allo studio, ma l'espressione sul suo viso era indecifrabile. Con uno sbuffo annoiato, Blaine si lasciò cadere su una delle poltroncine e giocò con il cellulare finchè non si aprì la porta e sulla soglia si palesò un ragazzo con i capelli in disordine e la cravatta allentata. Dietro di lui, Sebastian era seduto alla scrivania e stava già facendo cenno a Blaine di raggiungerlo; il ragazzo trotterellò inquieto sotto gli occhi schivi della segretaria e richiuse la porta alle sue spalle, poi guardò Sebastian con disapprovazione.

“Che c'è?” sbottò quello, intento a infilarsi i lembi della camicia nei pantaloni.

“Che cosa avevamo detto circa il sesso sul posto di lavoro?” lo ammonì Blaine, appoggiandosi i pugni sui fianchi.

Sebastian roteò gli occhi e provò a rispondere ironico: “Avevamo detto che ci piace?”

“No. Avevamo detto che è poco professionale.” Blaine sedette sulla poltrona di fronte alla scrivania e affondò avidamente la mano nella ciotola di caramelle che Sebastian teneva vicino al telefono.

“E' poco professionale se mi scopo qualche assistente contro la libreria e in cambio concedo una promozione. In questo caso, si tratta solo di un pompino e del ragazzo delle consegne. Non lavora nemmeno per me.” si strinse nelle spalle e si lasciò sfuggire una risatina vittoriosa. Con la bocca piena di caramelle gommose e i capelli stravolti, Blaine non era affatto minaccioso.

“Oh, vai al diavolo, Bas.” bofonchiò, rischiando di strozzarsi con un orsetto di gomma particolarmente ostico da ingoiare. L'altro rise più forte, poi aprì il primo cassetto della scrivania ed estrasse un plico voluminoso.

“Prima di andare a pranzo, vogliamo parlare un momento di lavoro?”

Blaine ingollò l'ammasso di caramelle e si sedette in modo più composto, canzonando Sebastian: “Ma certo signor Smythe, parliamo di lavoro. Prima magari si chiuda la patta dei pantaloni, riuscire a vedere da qui che indossa dei boxer rosso ciliegia mi porta a mettere in dubbio la sua professionalità.”

Risolta l'emergenza zip, Sebastian gli passò alcuni documenti, che Blaine firmò dopo una rapida lettura. Erano il contratto per un servizio di catering, il saldo per la prenotazione di una sala del Ritz e la scaletta musicale di un'orchesta.

A Sebastian non sfuggì la sua espressione nervosa nel controllare che tutto fosse perfetto, così allungò una mano e strinse quella di Blaine con la punta delle dita: “Non preoccuparti, andrà tutto bene. E ora andiamo a pranzo, aver concluso l'organizzazione dell'evento dell'anno mi ha fatto venire fame.”

Blaine sollevò un sopracciglio con aria scettica e commentò, mentre l'altro si infilava la giacca: “Evento dell'anno? Sbaglio o qui qualcuno sta un po' esagerando?”

Inaspettatamente, la risposta di Sebastian fu molto più seria di quanto Blaine si aspettasse: “Mi sono spaccato la schiena perchè domani sia tutto perfetto. Dalisay sarebbe fiera di noi. Sarà irriverente, colorato e divertente, saranno presenti tutti i pezzi grossi della città e tu farai un discorso splendido. Dato che la presenza della stampa renderà il tutto ancora più appetibile ai grandi e vanesi investitori, sto ancora contrattando con un paio di riviste per accertarmi che non mandino il primo degli idioti per le fotografie e l'articolo. Ma per il resto, è tutto pronto.”

Blaine annuì e lasciò che Sebastian gli cingesse affettuosamente le spalle, accompagnandolo verso l'ascensore: “Sushi?”

“Sushi.” approvò Sebastian. “E preparati, voglio sapere tutto del primo giorno di scuola di quel mostriciattolo che ti ostini a portarti appresso.”

Mezz'ora più tardi, comodamente seduti in un piccolo ristorante giapponese poco lontano dall'ufficio di Sebastian, Blaine raccontò il frenetico risveglio di quella mattina.

“... in ritardo. Mi stavano fissando tutti, ma per fortuna un ragazzo mi ha fatto cenno e ho trovato un posto vuoto dove sedermi. Lui era... bellissimo, tutto ben vestito e composto, mentre io puzzavo di smog e avevo l'aria stravolta. Mi sono seduto, ma volevo sprofondare, te lo giuro.” buttò giù un sorso di sakè e provò a continuare con il suo resoconto, quando Sebastian lo interruppe con una domanda.

“Un ragazzo? Bene bene... ed ecco che finalmente la St Patrick's diventa interessante. Un nuovo professore da corrompere? Ti sei fatto dare il suo numero di telefono?” commentò l'amico, strizzandogli l'occhio con aria complice.

“No, esattamente come me, era lì in qualità di genitore. Il mio gayradar stava lampeggiando come una sirena su un camion dei pompieri, ma alla fine del discorso del preside mi ha presentato sua figlia. E' in classe con Daki, hanno la stessa età.” Blaine s'infilò in bocca un nigiri e masticò mestamente, ripensando a quanto carino fosse quel papà.

E a quanto sarebbe stato bello, se fosse stato semplicemente un baby sitter.

“Ha una figlia di nove anni? Blaine, amico mio, devo proprio insegnarti tutto. Ricordati che quelli sopra i ventisette non devi guardarli nemmeno per sbaglio. Etero o meno, dopo una certa età a letto cominciano a fare cilecca, e ti posso assicurare che tu non vorrai essere presente quando accadrà. Quanti anni aveva quel tizio? Voglio dire... se non gli tira, non vale nemmeno la pena di scoprire se è sulla piazza.”

La coppia seduta al tavolo accanto al loro si voltò a guardare Sebastian, che ricambiò lo sguardo con un sorrisetto; Blaine si soffocò con il boccone che stava masticando.

“Non era vecchio! Avrà avuto la mia età, forse era addirittura più giovane.” precisò.

“Più giovane? Sicuro che non fosse un baby sitter, o il fratello maggiore?” lo incalzò Sebastian.

“Era suo padre, me l'ha detto chiaramente.” concluse Blaine, togliendo ogni dubbio.

Sebastian si aggiustò la giacca e giocherellò con i gemelli della camicia, come faceva sempre prima di porre una domanda importante; Blaine appoggiò le bacchette e rimase in attesa.

“Blaine, seriamente... quand'è che ti sei fatto una scopata degna di questo nome? Perchè se stai cominciando a fantasticare sui papà della tua scuola pur di non metterti in gioco, io ritengo opportuno preoccuparmi per la salute della tua inesistente vita sessuale.”

Di nuovo, la coppia accanto al loro tavolo si voltò, ma questa volta l'occhiataccia che scagliarono a Sebastian passò del tutto inosservata; era troppo preso a fissare Blaine.

“L'ultima... è stata... ehm...” balbettò. Poi all'improvviso ricordò e schioccò le dita trionfante: “Luglio, la festa di laurea di Peter. Si chiamava Danny e...”

Deluso, Sebastian scosse la testa e lo interruppe, impedendogli di aggiungere altri dettagli: “Blaine. Blaine. Blaine. Quando dico scopata degna di questo nome, lo intendo sul serio. Intendo te che rientri a casa strisciando carponi, con la maglietta indossata a rovescio, segni di denti su una chiappa e ogni singolo muscolo del tuo corpo che implora pietà. Non mi riferisco a te che mi telefoni subito dopo essere venuto, per chiedermi se ho dato l'antibiotico a Daki; Danny mi ha detto che aveva ancora addosso il preservativo e tu avevi già preso il cellulare. Così non va bene. Non è sano, capisci?”

Senza successo, Blaine provò a difendersi: “Ehi, sei ingiusto! Lo sai anche tu che quella tonsillite era una brutta bestia, se avesse saltato anche solo una dose non...”

Il cellulare di Sebastian s'illuminò e squillò due volte, costringendolo ad alzarsi e allontanarsi dal tavolo per rispondere; l'espressione che aveva in viso sembrava promettere che la questione non era affatto chiusa, ma quando tornò a sedersi sembrava essersene completamente dimenticato. Con il palmare stretto tra le dita, prese a digitare freneticamente dal suo account twitter: “Blaine, hai presente il galà che sto organizzando da due mesi, quello per celebrare i cinque anni della tua fondazione? Abbiamo Vanity Fair, per domani sera. Manderanno un fotografo e un esperto di stile per fotografare gli abiti dell'èlite newyorkese presente all'evento; dobbiamo subito far trapelare la cosa, le donne impazziranno.”

Blaine lo osservò divertito, ma il suo sorriso si spense quando Sebastian alzò la testa di scatto e chiese con nonchalance: “Hai ritirato il tuo smocking dalla lavanderia, vero?”.

Mentre afferrava la sua tracolla e usciva di corsa, Blaine desiderò intensamente essere come quel padre conosciuto a scuola: ordinato, puntuale e attento ai dettagli. Perfetto.

La sua vita sarebbe stata infinitamente più semplice.

 

 

 

 

 

 

Nda (aka L'angolo di LieveB):

Ed eccoci qui con il secondo capitolo. Sulla mia pagina Fb vi avevo chiesto se preferivate scoprire prima la storia della paternità di Blaine oppure quella di Kurt, e la maggior parte di voi voleva sapere di più su Blaine e Dakila. Ammetto che ancora qualcosa è nell'ombra, ma direi che ormai è tutto abbastanza chiaro, spero. In ogni caso, io sono a disposizione per qualsiasi domanda.

Nel prossimo capitolo, vedremo il passato di Kurt. E dal quarto capitolo... Klaine, ovvio. ^_^

Nel frattempo, ringrazio tutti coloro che hanno concesso una chance alla storia e l'hanno aggiunta alle seguite/ricordate/preferite. You made my day, quindi grazie.

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Capitolo 3
*** Cap.3 Our Little Secret ***


SINGLE DADDIES ISSUES


Cap. 3

- Our Litte Secret-

 

Prima di salire in ufficio, situato in un enorme grattacielo al centro di Manhattan, Kurt lasciò l'auto al solito parcheggio sotterraneo e si fermò da Starbuck's per il caffè del buongiorno: dato che era in anticipo sulla sua tabella di marcia, si meritava un piccolo premio in caffeina. Tommy, il barista che faceva sempre il turno del mattino, lo salutò strizzandogli l'occhio e battè lo scontrino senza nemmeno chiedergli l'ordinazione; il servizio rapido era uno dei vantaggi di essere un cliente abituale.

Così come il flirtare innocentemente con il barista.

“Allora Kurt, per quel caffè io e te da soli... e ancora un no?” chiese malizioso mentre passava a Kurt il bicchiere colmo di liquido fumante. Lui sorrise, afferrò grato il suo Americano medio e si limitò a rispondere: “Tommy, sono un uomo impegnato... il lavoro, la rivista, ancora il lavoro... e se tra di noi andasse male e fossi costretto ad abbandonare il mio fornitore ufficiale di caffeina? Non posso correre questo rischio, anche se oggi la divisa ti sta particolarmente bene.”

Uscì dal locale con la genuina risata del ragazzo che gli risuonava ancora nelle orecchie. Tommy era davvero carino, con quel grembiule color cacao e le guance che si colorivano timide a ogni complimento. Gli piaceva, ma Kurt non aveva bisogno di un appuntamento per capire che quel giovane studente non andava bene per lui. Era al secondo anno di università, appena giunto in città da un paesino sperduto del Texas e senza molta esperienza alle spalle: uscire con lui avrebbe finito per spezzare qualche cuore, forse quello di entrambi. Tommy era troppo giovane per impegnarsi davvero con un uomo più grande e padre di famiglia, ma sembrava abbastanza ingenuo da potersi innamorarsi comunque di Kurt.

Flirtare andava bene, faceva sentire Kurt desiderato e gli permetteva di iniziare meglio la giornata. E probabilmente andava bene anche a Tommy, perchè Kurt non era avaro con le mance, né con i complimenti. Così come andava bene a Sean, lo stagista del secondo piano, e Howie, il ragazzo della posta. Scherzare con loro, strappargli e farsi strappare un sorriso, era divertente e innocuo: niente sentimenti, niente impegni, niente spiegazioni.

Non andare mai oltre un certo punto era ormai una vecchia abitudine: Stella aveva nove anni ed era da allora che Kurt non aveva una relazione degna di quel nome. Durante gli anni del liceo passava con lei ogni minuto libero dalle lezioni, tenendola in bilico sulle ginocchia mentre studiava e finiva per addormentarsi ogni sabato sera sul divano dopo aver guardato per l'ennesima volta Raperonzolo. Non che Lima offrisse una folta fauna di adolescenti gay con cui organizzare dei romantici appuntamenti e pomiciare dolcemente in auto.

Poi era venuto il college: prima due anni a Columbus, poi altri tre a New York, ma nessuno sembrava interessato al ragazzo con la borse sotto gli occhi e una bambina che piangeva quando doveva andare all'asilo. Tutti pensavano alle feste selvagge, agli alcoolici, al sesso privo di impegno: Kurt invece aveva una bambina di tre anni che aveva una paura folle della balena di Pinocchio ed era allergica al pomodoro. In sostanza, dormiva sei ore a notte, esattamente come ogni altro studente universitario, solo che lo faceva per motivi diversi.

Molto diversi.

Invece di dividere il letto con qualche sconosciuto tutto muscoli, il più delle volte stringeva tra le braccia una piccolina alta meno di un metro, con i capelli biondi arruffati e il naso spruzzato di lentiggini.

E ora... ogni gay della città che fosse mediamente piacente, di un età compresa tra i venticinque e i trentacinque anni, interessato a sposarsi e costruirsi una famiglia, desiderava un neonato da stringere tra le braccia, un figlio che potesse considerare completamente suo.

Non una bambina sulle soglie dell'adolescenza e la fissa per i numeri. E Kurt non poteva biasimare chi smetteva di chiamarlo non appena si rendeva conto che le cose con lui erano complesse.

Anche le relazioni con quei pochi, pochissimi, ragazzi che non avevano scaricato Kurt non appena scoperto della piccola, si erano rivelate un'insuccesso: sua figlia veniva prima di tutto e Kurt non riusciva a fidarsi degli estranei, né aveva la forza di presentarle qualcuno, con il timore che prima o poi li avrebbe comunque lasciati entrambi con il cuore spezzato.

Così si limitava a flirtare maliziosamente con ragazzi troppo giovani per avere il coraggio di fare la prima mossa e ogni tanto si scatenava nei club, portandosi a casa qualche vecchia conoscenza e lasciando rigorosamente i sentimenti fuori dalla camera da letto. Fingere, almeno una volta al mese, di non essere un ragazzo padre sovraccaricato di responsabilità era la sua strategia per non impazzire: nell'ordinata vita di Kurt Hummel, perfino il suo divertimento e il suo desiderio di libertà erano rigorosamente programmati.

Santana continuava a sostenere che là fuori c'era per forza un ragazzo disposto ad accollarsi le manie salutiste di Kurt, la fissazione di Stella per la matematica e tutto l'ingombrante bagaglio emotivo che portavano con sé; ma se non avesse corso qualche rischio non l'avrebbero mai incontrato. E quando attaccava con quel discorso, Kurt si stringeva nelle spalle limitandosi a ignorarla.

Mentre si dirigeva verso il palazzo dove si trovava il suo ufficio, Kurt sorseggiò il caffè che teneva stretto tra le dita e ripensò a Blaine: nonostante fosse arrivato in ritardo all'assemblea di benvenuto, sembrava così spensierato e felice. Si domandò che effetto potesse fare, vivere con tanta leggerezza.

Entrò nell'ascensore chiedendosi addirittura quando l'avrebbe rivisto.

E se Blaine avrebbe ricordato il suo nome.

Pensieroso, bevve di nuovo. Il caffè di Tommy era buono e per ora se lo sarebbe fatto bastare. Accantonò quelle stupide e inutili domande, buttandosi a capofitto negli impegni della giornata.

Quattro ore più tardi, lui e Santana erano nell'ufficio di Kara e stavano approfittando della sua ennesima assenza per pranzare insieme sulla sua enorme scrivania. A New York le giornate di settembre erano ancora molto calde e nessuno dei due aveva avuto voglia di affrontare l'asfalto bollente e il traffico cittadino per un cheeseburger che Santana poteva farsi tranquillamente recapitare in redazione; così avevano aspettato il ragazzo delle consegne godendosi il fresco artificiale dell'aria condizionata e sfogliando le riviste della concorrenza.

Durante il pasto, sgranocchiando sconsolato la sua mela, Kurt aveva golosamente adocchiato le patatine croccanti che accompagnavano il panino dell'amica, ma si era fatto forza ed era riuscito a non rubarne nemmeno una. Era una questione di principio.

A stomaco pieno, avevano cominciato a chiacchierare per davvero, aggiornandosi sulle reciproche novità: a quel punto, Kurt aveva raccontato di Blaine e di come avesse riconosciuto la sua voce.

“Il doppiatore di Fyiero. Insomma, ci puoi credere?” Kurt, seduto a gambe accavallate su una poltroncina imbottita, stava descrivendo a Santana del primo giorno di scuola di Stella. Insomma, aveva rapidamente sbrigato il resoconto scolastico per passare direttamente all'appetitoso genitore.

La ragazza stava fumando, con gli avambracci snelli e abbronzati appoggiati sul balcone e un'espressione annoiata in viso; sbuffò una nuvola di fumo e lanciò il mozzicone, che cadde sul davanzale del piano inferiore, poi si voltò verso Kurt.

“Strano a dirsi, ma non trovo questo incontro poi così straordinario.” commentò, incrociando le braccia sul petto. “Quando ti ho chiesto se a Stella la scuola è piaciuta, non mi aspettavo un resoconto di dieci minuti su come un paparino ventenne ti ha fatto bagnare nei pantaloni.”

All'allusione di Santana, Kurt arrossì e si affrettò a negare, senza riuscire a convincerla che si era trattato un'innocente conversazione tra genitori. Lei rise e lo pizzicò complice su una spalla.

“E andiamo Kurt. Ti conosco come le mie tasche, praticamente da quando Stella era un gamberetto di quattro centimetri... tu che cerchi di raccontarmi storielle? Potrei quasi offendermi.” si portò una mano sul cuore, fingendo di essere ferita. Lui arrossì di nuovo, ma non le diede corda.

“Sì, è carino. E forse potrei ammettere di averlo trovato adorabile quando è ruzzolato dentro l'aula magna con quei riccioli sconvolti e l'espressione smarrita, ma non c'è motivo per forzare la mano. Fosse stato un baby sitter, o il fratello di quel bambino... ma è suo figlio, su questo non ci sono dubbi. Indi, questione chiusa.” le ribattè, scocciato dalle sue insinuazioni.

“E la storia ci insegna che quando uno è giovane e con un figlio a carico è automaticamente etero, giusto? Sai, potrei raccontarti di un mio caro amico, che forse conosci, il quale ha una vicenda davvero molto curiosa alle spalle e...” cominciò a raccontare lei. Kurt la interruppe con un gesto secco della mano.

“Santana, onestamente quante possibilità ci sono?” commentò in tono serio. E stanco.

La ragazza aprì la bocca per rispondere con un'altra battuta, ma riconobbe i sottintesi alla domanda di Kurt, così tacque per qualche istante. Rimasero in silenzio, guardandosi i piedi, e fu Kurt a parlare per primo.

“E' stato carino, parlare con lui. Magari lo vedrò ancora a scuola, chissà... ma permettermi anche solo di fantasticarci sarebbe stupido, soprattutto quando non ho nulla che mi faccia pensare di avere delle chances. Ma va bene così.” si strinse nelle spalle e riordinò le sue cose, infilando il torsolo della mela nel sacchetto insieme al tovagliolino che avvolgeva il suo sandwich. Non aveva voglia di pensare ancora a lui.

“Controlliamo l'elenco delle cose da fare per il compleanno di Stella, ti va? Mancano due settimane, ma ho ancora un paio di cose piuttosto importanti da organizzare. Se Brittany riuscisse a venire, sarebbe determinante per la scelta della location, lo sai bene anche tu.” prese dal cassetto la sua organizer, gonfia di appunti, brouchures, ricevute e progetti per il giornale, poi l'aprì sulla pagina dedicata alla festa.

“A proposito di Britt, stamattina mi ha chiamata mentre eri a scuola. È certa di riuscire a passare in città per il 15 e voleva sapere se c'è qualcosa in particolare che Stella desidera, così il suo manager può andare a comprarlo. Sai, con il tour e tutto il resto, non ha molto tempo libero.” domandò Santana, gettando nel cestino i resti del loro pranzo. Kurt era già seduto davanti allo schermo del computer e stava cercando su Google delle pasticcerie specializzate in torte decorate: si tolse gli occhiali che aveva appena indossato e fece un sospiro esasperato.

“Le ho detto appena ieri che vuole quel nuovo kit del Piccolo Chimico... possibile che se lo sia già dimenticato? Lascia stare, non dire nulla. Manderò direttamente una mail a George, tanto devo sentirlo anche per il saldo della retta della St. Patrick.” fece un veloce appunto sull'agenda e tornò a guardare Santana, con gli occhiali stretti tra le dita.

“Praticamente vede Stella due volte all'anno... e nemmeno trova il tempo di comprarle il regalo di compleanno? Comoda la vita della popstar.” commentò amaro, prima di tornare al lavoro. Santana strinse le labbra e, in nome della stramba e intermittente relazione sentimentale che la univa a Brittany, si sentì in dovere di difenderla.

“Comodo anche trovarsi tutte le spese per la scuola di Stella saldate, non è vero?”

Lo sguardo duro dell'amico in risposta a quell'accusa insensata fu sufficiente per farle capire di avere esagerato. Kurt non aveva mai chiesto un singolo dollaro né a Brittany, né alla sua famiglia: non appena la ragazza aveva deciso di non voler tenere la bambina, lui e Burt si erano fatti carico di ogni spesa. Durante i primi due anni di università il ragazzo aveva perfino rinunciato a studiare fuori dall'Ohio, per non pesare eccessivamente sulle spalle dei suoi genitori; aveva lavorato sodo e risparmiato ogni giorno, finchè non aveva ottenuto una borsa di studio all'Università di New York ed era riuscito a lasciare Lima sulle sue gambe.

“Santana...” disse Kurt, distraendola dai suoi pensieri.

“Lo so. Mi dispiace.” rispose lei, asciutta. Stava per aggiungere qualcosa a quelle scuse, ma Kurt disse qualcosa che la lasciò sorpresa.

“Sai, a volte vorrei essere come quel ragazzo. Arrivare in ritardo con un sorriso sulle labbra, avere qualcuno nel letto la sera e non farmi troppi problemi se la cravatta di mio figlio è storta. Non avere tutto sotto controllo tutto il tempo e riuscire a fregarmene.”

Il tono delle sue parole era talmente amaro che lei girò intorno alla scrivania e lo abbracciò stretto, per poi baciarlo su una tempia quando cercò di divincolarsi: “Non sarai mai come quel ragazzo, Kurt. Hai mantenuto il sangue freddo perfino quando avevi diciotto anni, gli esami finali e Stella aveva deciso che avrebbe mangiato solo cose arancioni. Sei straordinario e nessuno sarebbe mai riuscito a fare tutto quello che hai fatto tu senza impazzire.”

Kurt rise, ma a lei non sfuggì il suo sguardo stanco: “Sai che ti dico? Perchè non lasci Stella da me domani sera? Organizzo con Rachel e Mercedes una serata tra ragazze e ti lascio libero di respirare un po'.”

Lui sollevò un sopracciglio, con aria scettica, ma lei continuò imperterrita: “Ci facciamo la manicure, le ciocche colorate ai capelli e una maratona di Una mamma per amica. Magari possiamo anche consultare Stella per i dettagli della festa, così ti aiutiamo anche a portare avanti i preparativi.”

“Forse hai ragione. Ho proprio bisogno di farmi un bagno caldo e affrontare quella montagna di panni da stirare che evito da una settimana. E sono cinque giorni che non faccio la polvere in salotto.” Kurt si rimise gli occhiali e si sfregò il mento, pensieroso, mentre valutava la proposta di Santana. Lei gli schioccò le dita davanti agli occhi.

Bello, non ho intenzione di prendere parte a una puntata di Desperate Housewives. Veramente pensavo a te infilato dentro a un paio di jeans assassini, un club pieno di maschioni sudati e una gran bella scopata con uno sconosciuto. O potresti uscire con Nicholas, dato che è in città.” ribattè lei. Quel nome attirò l'attenzione di Kurt. “Non fingere di non saperlo, l'ha scritto su Facebook giusto ieri e tu hai cliccato su Mi piace.”

“Hai ragione, forse dovrei chiamarlo.” rispose lui in tono neutro, buttando lo sguardo sul telefono e chiudendo l'agenda. Santana roteò gli occhi e si avviò verso la porta. Kurt aspettò un momento, poi si strinse nelle spalle e afferrò il cordless.

“Nicholas? Ciao, sono io. Santana si è appena offerta di organizzare un pigiama party con Stella per domani sera. Ho immaginato che magari potremmo... ok, è quello che avevo pensato anche io. Prenoti tu? Fantastico. Ci sentiamo via sms per i dettagli.”

Fece un sorriso e tornò a dedicarsi al lavoro.

Kurt era fatto di carne e sangue: durante il suo primo anno a New York aveva capito che sarebbe impazzito, se non si fosse concesso almeno di tanto in tanto una pausa da cartoni animati Disney e pastelli a cera. Complice il supporto delle ragazze, più che disponibili nel prendersi cura di Stella una o due notti al mese, aveva scoperto che i club notturni e il sesso erano davvero qualcosa di fantastico. Sicuramente fare follia ogni sera alla lunga l'avrebbe annoiato, ma concedersi un pizzico di spensieratezza era davvero un toccasana.

A eccezione dei primi mesi, Kurt aveva preso a trascorrere quelle sere sempre con le stesse persone. Compagni di corso come Nicholas e Brandon, soprattutto. Erano ormai vecchi amici, che conosceva bene e di cui si fidava: usciva con loro, abbandonando i panni di padre perfetto ed educatore intransigente per vestire quelli del venticinquenne privo di legami. Andavano per club, cenavano in ristoranti alla moda, e finivano a letto insieme.

Stare con loro era più facile e sicuro dell'andare alla conquista di estranei: di certo era meno impegnativo e stressante. In più, dopo tutti questi anni, era praticamente assodato che non si sarebbe mai innamorato di nessuno dei due; Nicholas e Brandon erano giovani, simpatici e attraenti, ma non avrebbero mai potuto calzare a pennello nel suo mondo incasinato di padre single. Sapevano di Stella, ma non gli chiedevano se le era tornata di nuovo l'otite o se aveva finalmente trovato una baby sitter vegetariana: sapevano che quando Kurt li chiamava aveva bisogno di un litro di sakè, una discoteca affollata e del buon sesso disincantato e privo di promesse.

Ed erano piuttosto solleciti nell'accontentarlo.

Forse non potevano far parte della sua vita quotidiana, ma andavano bene per quell'unica nottata che si concedeva di tanto in tanto, in cui Kurt poteva fingere di essere a sua volta giovane, folle e indipendente. Santana non riusciva a comprenderlo, ma Kurt non se ne stupiva. Per lei non esistevano vie di mezzo: da un lato c'era il suo immortale amore per Brittany, dall'altro decine di ragazze senza volto con cui passare una notte di sesso folle e disimpegnato. Le ragazze usa&getta, così le chiamava.

Per Kurt era un po' diverso. Non amava Nicholas, e nemmeno Brandon, esattamente come loro non amavano lui: con loro non correva rischi.

E ora che sapeva di avere una bella serata con Nicholas che lo aspettava, dedicò con entusiasmo il resto della sua pausa pranzo a cercare una location per la festa di compleanno di Stella: dal momento che Brittany aveva confermato la sua presenza, ogni luogo aperto al pubblico era da escludere, se non volevano che il party fosse invaso da fans urlanti. Dopo una sfiancante sequenza di telefonate riuscì ad assicurarsi il padiglione di un ristorante poco distante da Central Park: era dotato di un accesso abbastanza riservato, forse non avrebbero avuto problemi.

Kurt era davvero felice che Brittany fosse riuscita a sfondare a soli due anni dal diploma: i suoi dischi ricolmi di canzoni ammiccanti e maliziose erano in cima alle classifiche e il suo tour mondiale si era rivelato un successo a dir poco milionario. Non poteva che invidarle la fama e la valanga di soldi che aveva ottenuto, ma era davvero dispiaciuto che Stella rischiasse continuamente l'attacco dei giornalisti: a Lima non era affatto un mistero che Brittany fosse rimasta incinta quando aveva sedici anni, ma fortunatamente nessuno aveva mai fatto il collegamento tra la sua gravidanza e il fatto che Kurt avesse studiato a casa durante l'ultimo anno di liceo. Dopo che un paparazzo era giunto a un passo dallo scoprire la verità, Kurt aveva cambiato la scuola di Stella e viveva nel terrore che qualcuno potesse scoprire l'identità della figlia di Britt. Alla St Patrick erano iscritti figli di senatori e ambasciatori, privacy e discrezione erano all'ordine del giorno: Kurt sperava che fosse sufficiente a proteggere Stella. Sua figlia sapeva che Brittany era in realtà la sua madre biologica, ma i rapporti tra loro erano sempre stati così superficiali che la piccola si sentiva a disagio nel considerarla qualcosa di più di una lontana zia.

Ai giornalisti Brittany non aveva mai nascosto di avere avuto una gravidanza inaspettata, ma non aveva mai nemmeno fatto mistero del fatto che non aveva mai riconosciuto la bambina e dell'averla data in adozione dopo il parto. George, il suo manager, l'aveva opportunamente istuita perchè non rivelasse, nemmeno incidentalmente, che Stella da allora viveva con il padre: i paparazzi si sarebbero avventati sulla storia come degli avvoltoi su una carcassa.

Kurt poteva già immaginare i titoli delle riviste scandalistiche e al solo pensiero gli correva un brivido lungo la schiena. E non solo voleva tutelare Stella, ma anche se stesso: non aveva alcuna intenzione di portare alla luce quei mesi di confusione, dolore e frustrazione, durante i quali Stella era stata concepita. Non voleva leggere articoli che mettevano in bella mostra qualcosa che era suo diritto raccontare personalmente a sua figlia, con calma e con le parole adatte.

Sbuffò sonoramente, spuntò la voce “Location” dalla lista di cose da fare per il party e cominciò a lavorare. Stava canticchiando tra sé e sé, pregustando il sushi che lui e Nicholas avrebbero ordinato in uno dei ristoranti più alla moda della città, quando il telefono sulla sua scrivania squillò improvvisamente.

“Pronto? Domani sera? Ma io ho un impegno e... Kara è in ferie. Sì. Va bene... io... cercherò di liberarmi, ok. Il fotografo, certo. 2500 parole per lunedì. Va bene, aspetto l'invio della cartella stampa.” sbattè il telefono sulla scrivania e digitò furiosamente un sms a Nicholas, per avvertirlo che il loro appuntamento era annullato per una stupida serata di beneficenza.

Mentre Kurt stampava il comunicato per i giornalisti, preparava l'elenco dei bambini invitati alla festa e telefonava a George per assicurarsi che Brittany non acquistasse a Stella un altro inutile bambolotto, desiderò essere come quel giovane padre conosciuto a scuola: leggero, felice e disorganizzato.

La sua vita sarebbe stata infinitamente più semplice.

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