Nemmeno per noi è una passeggiata

di StephEnKing1985
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Primo ***
Capitolo 3: *** Secondo ***
Capitolo 4: *** Terzo ***
Capitolo 5: *** Quarto ***
Capitolo 6: *** Quinto ***
Capitolo 7: *** Sesto ***
Capitolo 8: *** Settimo ***
Capitolo 9: *** Ottavo ***
Capitolo 10: *** Nono ***
Capitolo 11: *** Decimo ***
Capitolo 12: *** Undicesimo ***
Capitolo 13: *** Dodicesimo ***
Capitolo 14: *** Tredicesimo ***
Capitolo 15: *** Quattordicesimo ***
Capitolo 16: *** Quindicesimo ***
Capitolo 17: *** Sedicesimo ***
Capitolo 18: *** Diciassettesimo ***
Capitolo 19: *** Diciottesimo ***
Capitolo 20: *** Diciannovesimo ***
Capitolo 21: *** Ventesimo ***
Capitolo 22: *** Ventunesimo ***
Capitolo 23: *** Ventiduesimo ***
Capitolo 24: *** Ventitreesimo ***
Capitolo 25: *** Ventiquattresimo ***
Capitolo 26: *** Venticinquesimo ***
Capitolo 27: *** Ventiseiesimo ***
Capitolo 28: *** Ventisettesimo ***
Capitolo 29: *** Ventottesimo ***
Capitolo 30: *** Ventinovesimo ***
Capitolo 31: *** Trentesimo ***
Capitolo 32: *** Trentunesimo ***
Capitolo 33: *** Trentaduesimo ***
Capitolo 34: *** Trentatreesimo ***
Capitolo 35: *** Trentaquattresimo (finale) ***
Capitolo 36: *** Backstages - Opinioni dei protagonisti ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Due anni dopo l’inizio del Nuovo Millennio, la vita non era com’è adesso. Anche se già si intravedevano all’orizzonte i progressi tecnologici che avrebbero rivoluzionato in tutti i sensi la vita negli anni a venire, ancora si respirava e forse si sognava un po’ di più. Nelle scuole gli adolescenti sfoggiavano modelli di cellulari che adesso farebbero passare per sfigato chi ancora li utilizzi, non erano gli avveniristici cellulari-computer che ora hanno preso il sopravvento, erano dei modesti terminali che servivano a telefonare e a mandare qualche SMS, come andavano forti all’epoca. Facebook non era nemmeno agli albori in Italia, e Twitter poco meno che un’idea nella mente di chiunque l’avesse creato.
 
In quei giorni, Marco De Cristina non si sarebbe mai aspettato che il progresso si sarebbe espanso così in fretta. Nell’ingenuità dei suoi diciassette anni, lui era pieno di sogni sul suo futuro, e di curiosità per la vita fuori dalla scuola. Anche lui aveva un computer connesso ad internet, ma si limitava ad utilizzarlo solo per delle ricerche e per accrescere la sua cultura. Si informava sull’università che avrebbe voluto intraprendere, e di tanto in tanto si concedeva qualche piccolo svago giocando con i tanti giochetti online o semplicemente scaricando musica, di quella che andava forte in quel periodo. Nel 2002 andava forte la musica dance, soprattutto canzoni vecchie riproposte in chiave più moderna, per gli adolescenti del “sabato sera”. Quella che ricordava di più Marco era Le Louvre.
 
A Marco piaceva la musica dance da quando era stato in discoteca per la prima volta nella sua vita: una sua compagna di classe compiva sedici anni, e per gentile concessione dei suoi genitori, diede il ricevimento proprio in discoteca.
E fu lì che qualcosa nella sua vita cambiò.

*****

Manuel non aveva voglia di nulla. Si sentiva strano, ma non era una sensazione tipica, come la provavano tanti suoi coetanei. Era qualcosa di più profondo, radicato nella sua anima; qualcosa che non era riuscito a dire nemmeno alla psicologa dello sportello d’ascolto a scuola, ma non perché fosse orribile o fuori dal mondo.

Soltanto perché non lo sapeva nemmeno lui.

Cos’aveva da lamentarsi, dopotutto? Manuel Chiaravalle, studente modello della 5^C, un secchione su tutte le materie; rappresentante d’istituto; incredibilmente benvoluto dai compagni prima ancora che dai professori; molto ricco ma mai sbruffone; e soprattutto fidanzato con la ragazza più bella di Torino.
Forse – pensava – è il troppo studio che mi rende così. Ma era una debole difesa, perché lui studiava quanto bastava per imparare, e ogni weekend non si faceva mai mancare la discoteca o una serata con la sua ragazza.

Quindi, la causa del suo malessere non era il troppo studio.

Adele lo tradiva? No, non era possibile. Era una ragazza di buona famiglia, lei… la conosceva da troppo tempo per pensare una cosa del genere, che era totalmente infondata. Si sentivano periodicamente, si vedevano a scuola (lei era tre anni più giovane di lui) e poi uscivano ogni weekend. Non avrebbe avuto il tempo materiale di tradirlo.

Ma allora cos’era che lo attanagliava così tanto?

Quando pensava che probabilmente non l’avrebbe mai scoperto, ci fu un evento. Un evento che per poco non lo sconvolse.
Accadde un sabato sera, in discoteca.

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Capitolo 2
*** Primo ***


- Tanti auguri a te… tanti auguri … a te! –

Alla festa di compleanno c’era mezzo liceo. Se non era perché non voleva rovinare i buoni rapporti che aveva con Elisa, la festeggiata, Marco non avrebbe certo fatto a gomitate per essere là. Lì dentro fumavano quasi tutti, ed una coltre di fumo bluastro era presente come la mano della Morte nel locale, soffocando chi per scelta non aveva mai fumato.

- Tutto questo fumo non mi piace per niente – disse Marco tossendo – Mi fa un sacco male la gola. –
- A chi lo dici – replicò Marika, un’altra compagna. Il suo vestito, che all’entrata era bianco, ora aveva assunto una curiosa colorazione sui toni panna. Aggiustandosi i vaporosi capelli biondi, tossì anche lei, portandosi una mano alla bocca – Devo andare a prendere una boccata d’aria, o morirò soffocata! Ti dispiace…? –
- Vai pure – disse Marco – Io resto qui a prendere almeno una fetta di torta. – concluse, ridacchiando. Marika gli sorrise, anche se dietro quel sorriso, Marco lo sapeva, c’era il desiderio di uscire fuori con lui e magari concludere la serata in modo “diverso”. Purtroppo Marco non era un tipo “facile” con le ragazze, e quando s’innamorava, non veniva mai corrisposto. Trovare delle ragazze a cui piacessero i miti greci e latini, la filosofia e la letteratura non era molto facile, e di conseguenza Marco non si accontentava di una ragazza poco colta. Gli era già bastata Anna.

Anna era una studentessa di un istituto tecnico, che lui aveva conosciuto in internet. Per conquistarlo si era spacciata per un’attenta conoscitrice della filosofia, salvo poi cadere più e più volte su argomenti che erano la base della filosofia durante il loro primo appuntamento. Nonostante fosse ignorante in filosofia, la ragazza era bravissima in matematica e contabilità. Questo avrebbe fatto di lei una brava segretaria in futuro, ma non certo la fidanzata di Marco De Cristina. Il loro sodalizio durò poco più di due settimane.

Una volta avuta la fetta di torta (per la quale aveva dovuto sorbirsi un giro di fotografie), Marco si accomodò su un divanetto antistante e si godette il resto della serata. Come già aveva notato, c’erano tanti ragazzi della sua scuola, molti che non conosceva. L’unico che conosceva (perlomeno di vista) era Manuel. Era impossibile non conoscerlo, lui era il rappresentante d’Istituto, ovvero quello che trattava con le alte sfere del Liceo, un pezzo grosso che tuttavia non aveva l’aria di uno spaccone, quanto più di un ragazzo tranquillo. Mentre lo osservava, insieme a quella ragazza mora che era la sua fidanzata, pensò che le ragazze parlavano sempre di lui appellandolo come “Figo”, “bello”, e altri complimenti simili.
Al contrario, alcuni ragazzi, soprattutto i più bulli della scuola, lo appellavano come frocio o gay, o peggio checca succhiac…i. Marco presumeva che fosse solo per invidia.

Perso nei suoi pensieri, Marco non si accorse che la quantità di fumo che stava inalando stava lentamente intaccandogli i polmoni. Tossì forte, facendo cadere la forchetta sporca di panna dal piatto ormai vuoto, mentre si alzava e si faceva strada tra i ballerini per guadagnare l’uscita. Una volta fuori, si ritrovò da solo nella fredda aria primaverile. Dato che nessuno fumava fuori, la terrazza della discoteca era praticamente vuota. Respirò a pieni polmoni l’aria fresca della notte, riempiendosi finché non gli venne un capogiro.
Tossì un altro po’, per liberarsi dal senso di oppressione dato dal fumo, quindi si appoggiò alla ringhiera della terrazza e guardò l’orizzonte. Poco dopo, un sospiro attirò la sua attenzione. Dentro, il Tunz-Tunz della musica era troppo alto per capire da dove il sospiro era venuto, ma fortunatamente trovò subito il colpevole.

Seduto su una poltrona c’era Manuel, che con le mani a coppa sulla faccia, stava singhiozzando disperatamente. Marco lo riconobbe subito, e per la sorpesa non disse nulla sulle prime. Rimase ad osservarlo per un po’, fino a che Manuel non alzò lo sguardo ed incontrò quello di Marco.
- Ciao – disse Marco – Tutto bene? –
- Da quanto eri qui? – domandò Manuel, asciugandosi gli occhi con la manica della giacca.
- S… sono appena arrivato – disse Marco, titubante.
- E ti impicci così degli affari altrui? –
- N… no, io.. passavo di qua, e … non volevo certo… -
Per tutta risposta, Manuel si alzò dalla poltrona e si diresse verso la discoteca, mormorando un – Va’ a quel paese – a Marco.
Lì per lì Marco restò interdetto, poi si sentì stranamente male, un brivido di freddo gli attanagliò la bocca dello stomaco. Ma… ma che gli ho fatto? Pensò, con gli occhi colmi di dispiacere.

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Capitolo 3
*** Secondo ***


Il venerdì era un giorno di festa. Dopo una settimana passata ad ingoiare bocconi amari per colpa di clienti scontenti che avevano problemi con le loro spedizioni, il venerdì era una mano santa. I clienti rompiscatole erano una costante, ma almeno c’era la certezza che alle diciotto (massimo le diciotto e trenta), tutto l’ufficio assistenza clienti avrebbe lentamente iniziato il suo processo di diserzione progressiva degli impiegati. Dei suoi colleghi a Marco non importava; nessuno di loro gli era particolarmente simpatico da uscirci la sera. Una sola volta c’era andato, con loro, e si era annoiato da morire a sentir parlare di calcio da parte dei maschi e dei programmi televisivi da parte delle donne.

Che palle, pensava, non vedo l’ora che siano le diciotto… così posso finalmente andare a…

- Marco, prendi su la due! – urlò il suo responsabile dalla scrivania in angolo alla stanza. Marco non rispose nemmeno e dal suo terminale cliccò il pulsante per entrare in collegamento con la chiamata.

- Assistenza clienti, buongiorno sono Marco. – la classica formula di saluto di ogni impiegato assistenza clienti.

- Dove cazzo è la mia merce? Sono due ore che sto aspettando, in internet dice che è in consegna ma qui non c’è in consegna un bel cazzo di niente! –

Abituato ormai da due anni a certe entrate dei clienti, Marco fece un sospiro senza farsi sentire dal cliente, e meccanicamente disse – Ha il numero di lettera di vettura, signore? –

Mentre digitava sotto dettatura dal sanguigno cliente, lo sguardo gli cadde sul suo cellulare. Un messaggio. Sorrise sapendo chi era, e si dispose a lavorare più serenamente, sapendo che nella sua vita c’era qualcosa di più del suo lavoro.

 

*****

 

- Odio il venerdì. – mugugnò Manuel dalla sua postazione. Intorno a lui, una miriade di cartellette con su scritti vari nomi: ciascuna di queste cartellette era una pratica di mutuo, e lui aveva l’ingrato compito di controllare che tutte le rate fossero state pagate regolarmente da questi poveri indebitati. Guarda caso era un compito che era da fare ogni venerdì.

- Non dovresti lamentarti così tanto, Manuel – gli disse sorridendo Claudia, una collega più anziana. Alla veneranda età di cinquantasei anni e due figli sul groppone, era ancora a lavorare in banca, e nonostante fosse stata abbandonata da suo marito, non dimostrava per nulla gli anni che aveva, ed era sempre contenta di tutto. Manuel non la poteva soffrire.

- E perché, scusa? C’è una clausola sui nostri contratti che ci vieta di mugugnare? –

Lei sorrise mettendo in mostra la fila di denti bianchi splendenti – Perché ci sono migliaia di giovani là fuori che darebbero il culetto per essere al tuo posto – rispose lei. Manuel sbuffò.

- Vuoi forse dirmi che là fuori ci sono migliaia di laureati in cinema e cultura dello spettacolo che aspirano smaniosamente ad un posto in banca? Bah, lascia perdere. –

- Come vuoi – disse lei, sorridendo di nuovo. Manuel pregò di trattenersi per non azzannarla al collo – Ma ti avverto, se non avessi il lavoro staresti peggio. – concluse, e se ne andò verso la sua postazione.

Quello è poco ma sicuro, pensò Manuel con una punta di sfinimento. Non aveva rapporti con gli altri colleghi, che non poteva soffrire, ciascuno per un motivo particolare, ma legati dal comune filo rosso di essere degli arrivisti invidiosi e stronzi. Non fosse stato che lui era figlio del maggiore correntista della banca nonché amico del direttore, non sarebbe stato certo seduto su quella scrivania. Guarda caso, gli capitò in mano la pratica di suo padre, che aveva chiesto un mutuo per acquistare una palazzina in periferia. Dovresti ringraziarmi, soleva dirgli il padre, per averti sistemato in una banca!

- Oh sì, papà. Ti ringrazio, non sono mai stato più felice di adesso. Grazie, grazie di cuore. – e sbuffando, sbatté la pratica in un angolo della scrivania.

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Capitolo 4
*** Terzo ***


C’era un altro motivo per cui Marco adorava il venerdì. Dopo una settimana passata a lavorare e stressarsi per via dei clienti, poteva rilassarsi insieme a Rocco, il suo ragazzo.

Già dai tempi delle superiori aveva capito che le ragazze non gl’interessavano più, ma solo dopo il diploma e l’ingresso alla facoltà di lettere si era accorto che solo i ragazzi lo attraevano.

Il suo primo boyfriend era stato un ragazzo di nome Stefano. Trent’anni, fuori corso, stava per laurearsi in lettere moderne. Con lui c’era stata una storia molto intensa, che aveva coinvolto Marco nel profondo della sua anima. Si erano frequentati intensamente, e per molti mesi, finché non venne il maledetto giorno in cui Stefano si laureò.

- Vado a lavorare a Roma – gli aveva detto – Ho vinto una cattedra per insegnare lettere là. – Inutile dire che la notizia aveva straziato Marco, che per una notte intera e per molti giorni dopo pianse parecchio. Purtroppo dopo Stefano non c’era stato nessun altro suo “collega” in aula in grado di prenderlo come aveva fatto lui, così Marco si era laureato senza farsi troppi problemi in tre anni, ma anche senza allacciare rapporti profondi con nessuno.

Poi era venuto il lavoro, che per i primi tempi era stato presso una casa editrice a correggere bozze. Scaduto il contratto, era stato costretto ad accettare un posto da uno spedizioniere. Il lavoro di impiegato assistenza clienti non gli piaceva, lo trovava alienante e meccanico. Però non poteva lasciarlo, conscio del fatto che trovare lavoro era molto difficile, se non addirittura impossibile, anche per un laureato come lui.

Mal sopportando tutte queste condizioni, Marco continuò a fare la sua vita, fino a che un bel giorno non si recò in biblioteca, dove incontrò Rocco.

Rocco aveva ventisette anni all’epoca. Era un perfetto geek, uno di quelli che passano la giornata attaccati al computer. Non ne capiva niente di miti greci e latini, e la filosofia non gli interessava. Eppure, c’era qualcosa in lui che acchiappava Marco in maniera indescrivibile. Forse era la sua aria da sognatore, quello sguardo che sembrava sempre perso nel vuoto ad attrarre Marco. I suoi occhialini che coprivano gli occhi color castagna, o la sua capigliatura corta e ordinata.

Ma quella sera c’era qualcosa di diverso.

- Amore? – lo chiamò Marco.

- Eh? – disse Rocco, abbassando lo sguardo verso di Marco, che se ne stava accoccolato con la testa sulle sue gambe.

Marco sorrise. – Cosa c’è? –

- Niente – si affrettò a dire Rocco.

- Non sai nemmeno perché te l’ho chiesto. –

- Be’, non c’è niente. –

Marco si alzò e lo guardò negli occhi, accarezzandogli una guancia barbuta. Rocco si affrettò a sorridergli, ma Marco sentì che quel sorriso non era del tutto sincero.

- Mi sembri distratto stasera. – enunciò Marco – C’è qualcosa che devi dirmi? –

Rocco sorrise di nuovo, e dolcemente baciò Marco, che chiuse gli occhi e si lasciò baciare, senza tuttavia restarne coinvolto più di tanto.

- Che ti amo. – rispose Rocco, e di nuovo baciò le labbra di Marco, accarezzandogli i capelli.

- Non è una risposta coerente. –

- Uffa, tu e le tue risposte coerenti – sbottò Rocco, alzandosi dal divano.

- Ti ho chiesto cos’hai e tu reagisci così! Ma si può sapere cos’hai in testa? -

- Te l’ho detto, niente! Perché deve per forza esserci qualcosa? Vuoi che ci sia qualcosa? E va bene, se vuoi ti accontento! –

Marco restò a guardarlo con le braccia conserte. Poteva sembrare tranquillo e rilassato da fuori, ma dentro non lo era per niente. C’era qualcosa che non andava, ma non sapeva bene cosa.

- Non occorre che fai il bambino – rispose Marco – Se non c’è nulla, non preoccuparti. Fai finta che non ti abbia chiesto nulla. –

- No, non c’è niente. Lo dico e lo ribadisco. – rispose Rocco, tranquillamente.

Rocco era di spalle in quel momento, e Marco gli andò dietro abbracciandolo per la vita. Nonostante i suoi ventisei anni, Marco non era mai cresciuto più del suo metro e sessantacinque, per cui il suo abbraccio cinse la vita di Rocco, che allungò le braccia dietro di sé a toccare la schiena di Marco. Restarono così per qualche minuto, fino a che Rocco non lo prese in braccio e lo condusse in camera da letto.

Fu una notte intensa per entrambi, carica di una passione che forse non c’era mai stata in quasi un anno e mezzo di fidanzamento. A Marco piacque essere posseduto da Rocco, che spinse dentro di lui con forza ed entusiasmo, fino a che non lo sentì venire dentro di sé. Una volta soddisfatto, Rocco mormorò un “sono stanco”, ma Marco non lo sentì. Era troppo occupato ad accarezzargli la testa e a godersi il suo peso sul suo corpo esile.

- Ti amo – gli sussurrò in un orecchio.

Rocco non rispose, era già caduto tra le braccia di Morfeo.

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Capitolo 5
*** Quarto ***


Per rifuggire al noioso programma di dover stare a vedere i suoi genitori mentre guardavano la televisione, il venerdì Manuel iniziava prestissimo a prepararsi per la serata: in bagno si spalmava un sacco di creme rassodanti e anti-rughe per il viso (era ossessionato dalla sua età, e ogni mattina nello specchio cercava segni del declino sul suo corpo) e sistemava i capelli biondi in modo che formassero una perfetta riga in mezzo. Poi era la volta del vestiario: una bella camicia aperta sul davanti e un paio di pantaloni semi-aderenti, con ai piedi un bel paio di sneakers all’ultimo grido. Una volta completata l’opera, era pronto per buttarsi in disco.

Che palle… pensava immancabilmente Manuel, mentre seduto su un divanetto sorseggiava il solito drink. Sulla pista, i suoi amici si divertivano a ballare, mentre lui si annoiava e basta. Non che gli mancassero le occasioni, anzi: ne aveva anche fin troppe! Soltanto l’ultima volta era stato abbordato da un paio di ragazzini, che in due avevano dovuto avere trentasei anni. Entrambi erano due donne mancate, e lui li aveva liquidati dicendo “Bambine, non vedete che ore sono? Su, forza… dite la preghierina e andate a nanna!”. Ridacchiò mentre sorseggiava il suo vodka lemon, pensando a come i ragazzini gli avevano risposto: “Idiota… non sai cosa ti perdi”. Se si accettava il rischio di beccarsi qualche insulto di tanto in tanto, si poteva essere bellissimi come lui. E pensare che soltanto una decina d’anni prima non avrebbe mai immaginato che…

- Ciao. – un saluto interruppe la sua scaletta di pensieri. Si voltò. Un uomo barbuto che somigliava ad un attore hollywoodiano, l’aveva salutato. Lui sollevò il sopracciglio perplesso.

- Ciao. – rispose Manuel, tornando a posare gli occhi sulla pista. I suoi amici erano lì che ballavano o che si baciavano con qualcuno. Tutto nella norma.

- Sei solo? –

- Oh no, guarda. C’è il mio amico Checco il coniglietto qui vicino a me! Saluta il signore, Checco! – disse ironicamente Manuel.

L’uomo si mise a ridere – Ciao, Checco. – disse poi – Sai che il tuo amico è molto carino? –

Manuel sbuffò, pensando eccone un altro che ci prova…

- Io mi chiamo Alessandro. Ti ho notato prima, all’entrata. Posso offrirti da bere? –

- Di solito non accetto offerte dagli sconosciuti… - rispose Manuel, sorseggiando il suo drink.

- Eddai – disse Alessandro – Non voglio mica farti del male. Voglio solo chiacchierare un po’. –

Solo? Allora mi sa che non andrai lontano, amico mio… pensò Manuel, evitando di rispondere.

- Sai – riprese Alessandro – Tu mi piaci molto. Che ne diresti di ballare un po’ con me? –

- Se lo faccio, poi ti togli dalle scatole? –

Alessandro sorrise a trentadue denti. – Te lo prometto. –

- Ok. Andiamo. – rispose Manuel, finendo il suo vodka lemon.

 

*****

 

- Uhh…! Uuuhh!! –

Alessandro spingeva forte nel suo corpo, tanto che Manuel si sentì quasi svenire dal piacere. Quando Alessandro finalmente venne nel suo corpo, Manuel sentì il bisogno irresistibile di fumare una sigaretta.

- Wow – disse Alessandro, tirando una boccata dalla sua Marlboro – Sei veramente sexy, lo sai? –

- Grazie. – rispose Manuel, aspirando il fumo dalla sua sigaretta. Nella sua vita aveva avuto poche occasioni per fumare, per lo più tutte concentrate dopo una notte di sesso selvaggio. Peccato che i partner che aveva avuto prima di Alessandro non erano stati abbastanza bravi da fargli scattare il bisogno della nicotina.

- Come mai te ne stavi tutto solo soletto là? – gli chiese ad un certo punto Alessandro.

Manuel fece spallucce – Così. Perché? –

- Beh, perché un bel ragazzo come te… non dovrebbe stare solo. Dovrebbe avere un bel fidanzato accanto. –

- Perché non solo un fidanzato, senza il “bel”? –

Alessandro fece una risatina sprezzante, che piacque poco a Manuel – Perché… beh perché i belli devono stare con i belli. – La risposta gli piacque ancor meno. Possibile che questo cretino di trentasei anni ragionasse ancora con un concetto del genere?

- A quanto pare… - buttò lì una risposta – Ehi, io adesso devo andare. È tardi. –

- No, aspetta – lo fermò Alessandro – Non vuoi dormire con me? –

Manuel fece un sorrisetto – Mi dispiace tesoro. Non posso. Domani devo lavorare. –

- Ma se domani è sabato?!? Dove lavori? –

- In banca. – rispose secco Manuel, cominciando a rivestirsi.

- E lavori anche di sabato? –

- Per te, sì. Ciao, bello. – disse Manuel con un occhiolino. Prese la porta e se ne andò.

Alessandro si alzò dal letto e lo inseguì, con le lenzuola che gli addobbavano il ventre piatto e scolpito - Ehi aspetta! Ma che ho detto di male? Perché scappi via? –.

Senza degnarlo di una risposta, Manuel uscì dalla porta d’ingresso e scese velocemente le scale. Una lacrima silenziosa iniziò a sgorgare dai suoi occhi e scivolò sul suo viso.

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Capitolo 6
*** Quinto ***


Il supermercato, che a quell’ora di sabato sarebbe stato gremito di gente quando ancora Marco frequentava il primo anno di liceo, ora era semivuoto. Le poche persone che si aggiravano tra gli scaffali spingevano carrelli con poca merce dentro, e sui loro volti c’era la tristezza di non poter largheggiare più come forse un tempo facevano.

- Allora… burro… poi… fiocchi di latte… Poi che altro…? – con in mano la lista della spesa, la madre di Marco guardava gli scaffali del banco frigo a caccia di ciò che ancora mancava. Mentre spingeva il carrello, Marco si vergognava un po’. Non solo perché era talmente basso da sembrare un dodicenne, ma soprattutto perché il loro carrello era già stracolmo di roba, e non avevano ancora iniziato.

- Mamma, ti vuoi sbrigare?! –

- Che fretta hai? Abbiamo quasi finito, dai… - rispose la donna con un sorriso, mentre ficcava dentro al carrello due panetti di burro.

- E meno male! Altrimenti qui ci vorrà un altro carrello, da quanta spesa abbiamo fatto! – sbottò Marco, attirandosi lo sguardo di una vecchina che si tirava dietro un carrellino. L’anziana signora lo guardò e scosse la testa sconsolata. Marco si sentì avvampare.

- Allora?!? – sollecitò di nuovo la madre. Non ne poteva più di sentirsi come un ladro.

- Calmati, Marco – rispose serafica la donna – Ma si può sapere cos’hai? Rocco non ti ha soddisfatto abbastanza? –

A quella domanda, Marco avvampò.

- Mamma! C’è gente…! –

- E allora? Che male c’è a chiedere al proprio figlio se ha avuto una buona notte d’amore? – erano domande retoriche come quella che facevano nascere in Marco il rimorso per essersi rivelato con la sua famiglia, che non l’aveva presa bene, di più. Sua madre era stata contenta di non avere in casa un serial killer e suo padre era contento che suo figlio non avrebbe mai fatto il suo stesso errore, ovvero di sposare una donna così rompiscatole come la Professoressa Aurelia De Cristina. Purtroppo però, ogni tanto le domandine impertinenti sorgevano spontanee da entrambe le parti, e Marco inevitabilmente si imbarazzava.

- Dai su, com’è andata? Vi sono piaciute le lasagne che vi ho fatto? Sai che mi fa pena Rocco, così magrolino? Dico sul serio, secondo me dovrebbe mangiare di più. Ma sua madre lo tiene a dieta o cosa…? –

Capendo che non ci sarebbe stato argomento buono per fermarla, Marco decise di parlare un po’ con sua madre – E’ andata bene. Le lasagne gli sono piaciute, quel maialino ne ha fatte fuori tre porzioni. –

A quella risposta, la madre sorrise compiaciuta.

- E poi… beh… niente, abbiamo guardato un po’ di televisione. –

- Che bravi i miei bimbi. – disse teneramente Aurelia.

 E poi abbiamo fatto l’amore, mamma. Solo che non è stato come tutte le altre volte. È stato … ambiguo. Bellissimo e strano allo stesso tempo, talmente strano che non saprei descriverti le sensazioni che ho provato. Ora che ci ripensava, Marco non avrebbe saputo dire perché si era sentito in quel modo, dopo aver fatto sesso con il suo ragazzo. Di sicuro sapeva che era un po’ dispiaciuto che Rocco non avesse risposto al suo “Ti amo”. Ma questo a sua madre non lo disse.

Forse non lo ammise nemmeno con sé stesso.

 

*****

 

Una volta spento il cellulare e cancellati tutti i messaggini importuni, Manuel si rilassava chiudendosi nella sua cameretta, per fare un tuffo nel passato. Quando si diventa adulti i ritmi della vita cambiano, e più si cambiano degli scenari, più la nostra mente si conforma ad essi, perdendo inevitabilmente parte della fantasia che caratterizza l’adolescenza.

In un cassettone sotto il suo letto, Manuel teneva nascoste delle videocassette. Insieme con queste, degli abiti (un paio di jeans strappati, una camicia a fiori ed un paio di scarpe Nike vecchissime). Lisi e consunti, forse più adatti ad un ragazzino che non ad un ragazzone di quasi ventott’anni, lui li indossava ancora. Li prese in mano come faceva sempre, e li annusò. Profumavano di pulito. Lentamente si spogliò, e una volta nudo, rivestì i panni di quando era appena un quindicenne, tanti e tanti anni prima. E poi… prese una videocassetta e se la rigirò tra le mani. Sorrise, quindi la infilò nel videoregistratore.

Accomodato sul letto, attese che partisse il video. Le note di una nota serie animata incominciarono ad uscire dagli altoparlanti del televisore.

Grande festa alla corte di Francia

C’è nel regno una bimba in più

Biondi capelli e rose di guancia,

Oscar ti chiamerai tu…

Lady Oscar. Una serie che lo aveva da sempre emozionato e commosso, della quale aveva registrato tutte le puntate dalla televisione, pubblicità comprese. Questo era il suo passatempo preferito. E sperava che mai nessuno gliel’avrebbe negato. Mentre ascoltava la sigla, il suo sguardo andò verso il comodino, dove giacevano il suo cellulare spento ed un abat-jour a forma di lampione con la Pantera Rosa aggrappata. Lì accanto, una fotografia incorniciata.

L’immagine ritraeva lui, Manuel, in compagnia di un ragazzo seduto su una carrozzina. Anch’essa una foto di tanti anni prima. Lui doveva avere poco più di sedici anni, mentre il ragazzo con lui poteva averne massimo una ventina. Manuel restò a guardarlo per un po’ di tempo, mentre l’episodio era già iniziato sul video. Allungo una mano verso l’immagine e con le dita sfiorò il volto del ragazzo.

- Domani – disse a bassa voce – Domani verrò a trovarti. Te lo prometto. –

Detto questo, si accinse a guardare l’episodio, stringendo forte un cuscino al petto.

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Capitolo 7
*** Sesto ***


- Non capisco perché ogni volta mi porti qua. Accidenti a te! – sbottò Rocco, mentre insieme a Marco camminava lungo un viale alberato del cimitero. Ai lati del viale, tante tombe bianche e nere, molte delle quali portavano degli omaggi dei vivi ai loro cari defunti. Marco non badò al suo ragazzo che protestava, troppo intento ad osservare le tombe. Le conosceva ormai tutte una ad una, eppure non si faceva mai mancare la classica sbirciatina quando passava di là.

- Mi hai sentito? – incalzò Rocco.

- Eeeh. Eccomi, Rocco. Uffa, certe volte sei proprio pesante, sai? –

- No, sei tu che sei pesante. Ma dico io, è domenica mattina, potevo starmene a dormire beato e tranquillo e tu mi butti giù dal letto per dirmi che dobbiamo andare al cimitero??? –

- Sì, perché devo andare a trovare mia zia Clara e voglio che ti conosca. Problemi? – disse Marco, fermandosi accanto al suo ragazzo.

Con i fiori in mano, Rocco fece una smorfia scocciata – Uffa… Anche presentarmi ai morti, devi? Io a volte non ti capisco… -

Senza preoccuparsi delle sue lamentele, Marco minimizzò – Andiamo, brontolone. Se fai il bravo, più tardi a casa ci aspettano mamma e papà con gli gnocchi al burro e salvia. Eh? –

Rocco non lo degnò di risposta, così Marco per ripicca gli rubò il mazzo di fiori che teneva in mano e aumentò il passo. A Marco piacevano i cimiteri. Pensare a tutta quella gente, che finalmente non aveva più problemi, che riposava tranquilla senza doversi preoccupare più di nulla… E poi gli piaceva guardare le date di nascita e di morte, e calcolare quanti anni quelle persone fossero rimaste sulla terra. A volte erano ultranovantenni e addirittura centenari, altre volte erano addirittura neonati. La vita va, la vita viene. C’è chi vive fino ai cento e più anni, e c’è chi muore non appena viene dato alla luce. Inoltre alcune tombe erano dei veri e propri musei fotografici. Alcune portavano addirittura più di due fotografie del defunto, e a Marco piaceva osservarle tutte, immaginando in quale epoca fossero state scattate. Un giovanotto ventiseienne amante del passato: ecco come amava definirsi. Forse per alcuni sarebbe potuto sembrare un nostalgico, ma… cosa c’era di più bello dei ricordi? I cari, adorati ricordi… che quando vengono ripuliti e adattati dalla mente umana, sembrano delle gioie, mentre quando li si è vissuti, magari si pensava che fossero i momenti più brutti della vita.

- Eccoci – disse Marco, in prossimità di una tomba di marmo bianco, con l’immagine a colori di un’anziana signora.

Con la ritualità tipica di chi va a trovare un parente defunto, Marco si chinò e posò i fiori, prendendo il vaso con quelli vecchi e porgendolo a Rocco – Amore, cambieresti l’acqua e butteresti i fiori vecchi per me? –

- Uff … va bene… - disse Rocco, e si allontanò con il vaso di fiori secchi e morti.

- Ciao zia – disse Marco, toccando la fotografia sulla lapide – Sono venuto a trovarti, sei contenta? Mi manchi, sai? Penso sempre a quando ero piccolo, quando mi raccontavi di filosofia e dei miti classici… Oh, quello che hai visto è Rocco. Il mio fidanzato. – Marco fece un sorrisino – Non ti dispiace… vero? – In quel momento la sua espressione cambiò da felice a sconsolata. Non era per niente sicuro che a sua zia fosse piaciuta la rivelazione di avere un nipote omosessuale.

Alzando lo sguardo, vide qualcuno in lontananza. Un gran ciuffo di capelli biondi, vestito con un abito molto elegante, che si aggirava nel viale adiacente. Era un bel ragazzo dagli occhi chiari, che Marco era sicuro aver già visto da qualche parte, anche se non ricordava bene dove. Pensò di alzarsi un momento e andare a controllare, ma …

- Ecco la tua acqua – sopraggiunse Rocco, tenendo il vasetto con l’acqua buona nella mano destra.

- Grazie amore – disse Marco, senza staccare gli occhi di dosso al ragazzo ben vestito, che lentamente si stava allontanando.

 

*****

 

- Dico sul serio, Paolo. Non sto scherzando. La vita sulla terra è una schifezza. C’è talmente tanto opportunismo e schifo che un’anima sensibile come la mia non riesce a trovare requiem. –

In piedi davanti al loculo del suo amico, Manuel chiacchierava tranquillamente, come se questi fosse lì con lui ad ascoltarlo.

Aver perso Paolo era come aver perso un fratello, che, era sicuro, mai più avrebbe ritrovato in nessun’altra persona. Paolo per lui era tutto. Un amico, un confidente… un ragazzo adorabile. Manuel adorava come riuscivano a conversare di tutto, senza falsi moralismi né barriere mentali, e adorava come Paolo sorridesse alla vita, nonostante questa l’avesse costretto su una sedia a rotelle per colpa di una malattia degenerativa che aveva fin da bambino. Per Manuel era una persona perfetta, che gli infondeva pace e tranquillità, virtù che adesso gli era difficile trovare nelle altre persone, così becere e prive di sensibilità. Persone che si avvicinavano a lui solo con l’intento di portarselo a letto o di approfittare del suo denaro. Persino i pochi amici con cui usciva, non riuscivano a convincerlo: sempre così superficiali e lagnosi che ogni volta che li ascoltava, Manuel avrebbe voluto dir loro “Brutti imbecilli, avete due gambe che funzionano ed un cervello in ottimo stato! Che cosa cazzo avete da lamentarvi, idioti?!? …Se fosse qui Paolo, vi farebbe cambiare lui!”

- Mi fanno schifo. Tutti. Tutti quelli che ho intorno, mi fanno schifo. Tu mi manchi tanto, Paolo… Non puoi immaginare quanto… - disse queste ultime parole con la voce strozzata dalla commozione, mentre allungava la mano a toccare la foto del ragazzo, ritratto sorridente come lo era sempre stato.

- Chissà come si sta lassù, invece? Bene, non è vero? …Non sai quante volte ci ho pensato. Ultimamente me lo chiedo spesso, che cosa siano veramente la vita e la morte… e penso di desiderare quest’ultima, alla vita… - Sospirò, asciugandosi gli occhi inumiditi dalle lacrime. Restò a guardare ancora un po’ il loculo, poi si decise a baciare la foto del suo caro, fargli un saluto e tornare da dove era venuto.

Poco più in là, Marco cercava il ragazzo elegante con lo sguardo, senza tuttavia trovarlo. Infine lo vide che si stava allontanando verso l’uscita del cimitero, ma pensò di non rincorrerlo. Credere di averlo visto una volta, tanto tempo fa, non era un buon motivo per andare a seccare le persone. “Chissà cosa ci è venuto a fare qui.” Pensò Marco, scuotendo la testa. Improvvisamente, con la coda dell’occhio vide quello per cui il ragazzo era venuto. Il loculo. Si avvicinò e lo guardò.

L’iscrizione sul marmo diceva “PAOLO SCORDAMITI – 17/09/1980 – 06/06/2003”. Sotto la fotografia del ragazzo, c’era una piccola targhetta di porcellana, con sopra un’iscrizione.

Persone belle nella vita se ne incontrano poche. Tu eri bellissimo, e dolce. Amico mio, che un giorno mi tendesti la tua mano, guidaci ancora mentre viviamo su questa terra, affinché il tuo ricordo nelle nostre vite non si affievolisca mai.  

Firmato, M. C.

Marco lesse e rilesse più volte quelle righe, provando una stretta al cuore. Parole bellissime, degne di dedica forse ad un amante, non certo ad un amico. Per molti l’amicizia era un concetto strano, come l’amore. Eppure entrambi nascevano spontaneamente, e altrettanto spontaneamente vivevano. A Marco si inumidirono gli occhi, e dovette asciugarsi con un fazzolettino, mentre pensava a quel ragazzo tumulato in quel loculo: lo sapeva di essere fortunato, ad avere un amico così caro?

Il suo pensiero fu interrotto da Rocco, che chiedeva attenzione. Era quasi l’una, e cominciava ad avere fame.

- Sì amore, adesso andiamo a pranzo! – disse, ma prima di tornare verso Rocco, si baciò le dita e toccò la fotografia del ragazzo.

- Bè? – esordì Rocco non appena lo vide arrivare. – Hai salutato il tuo amico? –

- Sì. Fatto. – disse Marco, e con un sorriso prese il braccio del suo fidanzato – Vieni, andiamo a casa. Specialità di oggi: gnocchi burro e salvia! –

- Finalmente! Ho una fame che non ci vedo più… - disse Rocco. Marco lo baciò dolcemente sulla guancia e lui si limitò a dire – Non in pubblico… -

- Ma dai, non c’è nessuno. –

- Comunque sia, non farlo più, d’accordo? –

- Uffa… va bene… - mormorò Marco, e un po’ incupito si avviò insieme a Rocco verso l’uscita.

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Capitolo 8
*** Settimo ***


Durante i cinque anni di superiori, prima che la chiesa diventasse antipatica a Manuel per le sue posizioni così oscurantiste verso gli omosessuali ed i progressi scientifici in generale, l’oratorio della Parrocchia di San Benedetto era il luogo di ritrovo preferito da Manuel e i suoi vecchi amici. In quel posto si divertivano, oppure studiavano, giocavano, si innamoravano. Manuel era parte di una compagnia di ragazzi, tutti all’incirca della sua età o di poco più grandi, che all’epoca trovava simpatici nonché i suoi migliori amici.

Col tempo, il carattere delle persone cambia. Cambiano le passioni, cambiano le idee… e le pulsioni sessuali. Così era successo a Manuel, che dopo tanto tempo passato in quel gruppo, era stato al centro di numerosi scontri e successive riappacificazioni, innamoramenti, confidenze, segreti e gossip tipici di una compagnia affiatata qual era la sua. All’interno di essa, lui non era un capo (nessuno lo era veramente), ma ugualmente godeva dello stesso rispetto che si doveva ad un leader, perché lui sapeva consigliare e dare ascolto a chi ne aveva bisogno, lui si faceva carico dei problemi di chi voleva bene… Lui rubava le ragazze ai ragazzi quando questi chiedevano il suo aiuto per conquistarle.

Le ragazze. Le ragazze. Sempre quello era il problema. Ogni volta che qualcuna gli confessava il suo amore, Manuel non sapeva come prenderla, essendo già “promesso” a quella che poi in quinta ginnasio diventò la sua fidanzata ufficiale, Adele. Lui di ragazze non ne capiva nulla, eppure loro erano sempre così attratte da lui. Forse perché era il classico biondone dagli occhi chiari, intelligente e riflessivo, o forse perché godeva di un patrimonio monetario abbastanza consistente, testimoniato dai suoi vestiti sempre così eleganti e dai numerosi orologi da polso che sfoggiava. Purtroppo la meschinità della gente è sconfinata, ed un personaggio del genere, soprattutto uno senza armi apparenti com’era Manuel, provoca invidia. Così, dopo vari litigi, Manuel si isolò dal suo gruppetto, acquisendo così la fama di Lupo Solitario dell’Oratorio San Benedetto. I suoi ex amici li vedeva ancora; qualcuno a volte gli diceva “Ciao”, salvo poi venire ragguagliato dagli altri componenti il gruppo su quanto fosse un cattivo ragazzo e quanto male avesse fatto a più di uno del gruppo, facendo così allontanare eventuali amici. Nonostante fosse appena un diciassettenne, Manuel non si curava più di tanto del fatto di avere un’immagine cattiva agli occhi dei suoi coetanei. Non gliene importava nulla, in quanto lui sapeva di essere innocente, e Adele gli diceva che quei suoi amici stavano con lui solo per convenienza che per altro. A lui stava bene così, finché non arrivò un giorno.

Le attività dell’oratorio spaziavano dai compiti alla musica, dal teatro al cinema, dalla scrittura al canto. Per Natale Don Giuseppe, il vecchio parroco della San Benedetto, dava ordine ai ragazzi di preparare i festeggiamenti, e raccoglieva le diverse proposte di intrattenimento di tutti quanti, scegliendo con votazione quella che fra le tante sarebbe poi stata la proposta vincente. Nel 2003, anno in cui finì il sodalizio tra Manuel e la sua compagnia, la proposta d’intrattenimento vincitrice fu la recita teatrale.

Il gruppo di Manuel era composto da dieci ragazzi, abbastanza per formare una piccola compagnia teatrale. Con Manuel sarebbero diventati undici, e infatti lui venne richiamato. Vittorio, uno di questi, che aveva in antipatia Manuel forse da sempre, lo mandò a chiamare.

- Manuel – gli disse Vittorio – So che hai avuto un po’ di problemi nel nostro gruppo – parlava con il tono di un politicante in pensione, untuoso e viscido – Ma noi conosciamo le tue abilità espressive. Hai fatto teatro per tanto tempo insieme a noi, e vorremmo che tu prendessi parte alla recita. –

- Hm – mormorò Manuel, grattandosi la testa – Non lo so, francamente mi sembra strano che tu mi inviti a fare una cosa del genere, dato che tu e gli altri state sempre a sparlare male del sottoscritto… - la risposta di Manuel fu come un sasso in fronte per Vittorio, che sussultò lievemente.

- Bè ma… - annaspò Vittorio - …noi scherziamo, non diciamo certo sul serio. E poi… Tu sei sempre una valida persona per noi. Ti invitiamo sempre a tutte le feste di compleanno, ma tu non vuoi mai venire e… -

Sospirando, Manuel provò a ribattere con altri argomenti, ma nulla servì. Praticamente Vittorio lo stava supplicando di entrare a far parte del loro progetto. Per ingenuità, il povero Manuel accettò, ignaro di ciò che gli sarebbe successo durante lo spettacolo.

 

*****

 

“Fu così che ci conoscemmo, Paolo… Dopo una disgrazia. Quegli stronzi credevano di avermi servito, ma io ho incontrato te.” Sospirò, pensando a ciò che successe dopo quella fatidica recita.

 

*****

 

C’erano notti in cui Marco proprio non riusciva a dormire. Si coricava, spegneva la luce e chiudeva gli occhi, ma il sonno non arrivava. In compenso, il suo cervello funzionava a pieno regime, immaginando cose che non potevano esistere.

In tutta la sua vita, non era mai stato un ragazzo pieno di amici. Ad essi preferiva la compagnia dei grandi o dei libri. Non si sentiva un escluso, anzi le poche volte che era stato chiamato a giocare con alcuni suoi coetanei, era rimasto negativamente impressionato dalla loro troppa irriverenza. Così, per tutti gli anni che andarono dalla sua infanzia fino al secondo ginnasio, Marco non aveva mai avuto un amico, finché non aveva scoperto il mondo di internet. Parallelamente alla sua progressiva scoperta di sé, era entrato in contatto con il mondo omosessuale informatico, dove aveva conosciuto un ragazzo di Milano, di nome Andrea.

Andrea era un ragazzo molto carino. Faceva il fotomodello e sognava di entrare a far parte del mondo dello spettacolo. Era totalmente diverso da lui, in tutto e per tutto: anche relativamente alle relazioni sentimentali, le quali erano per Marco una cosa importantissima della vita, mentre per Andrea un mero divertimento con qualcuno di fisso.

- L’altro giorno stavo con un ragazzo, e l’ho anche tradito – aveva scritto Andrea sul messenger. Marco fece una smorfia di disappunto.

- …Ma perché hai dovuto tradirlo, scusa? –

- Perché c’è stata l’occasione. Sono giovane, e se non prendo al volo le occasioni ora, quando mi ricapiteranno? –

- Cioè tu tradisci il tuo ragazzo solo perché “ne hai l’occasione”? – scrisse Marco, aggiustandosi gli occhiali sul naso.

- Non capisco il perché di tanto stupore – rispose Andrea, anteponendo una faccina sorridente alla sua frase.

- Perché io trovo terrificante che una persona possa tradire un’altra solo perché capita l’occasione. Allora se così fosse, nessuno sarebbe fidanzato. –

Ci fu un quarto d’ora di silenzio, in cui lo stato di Andrea passò da “In linea” a “Occupato”, e nel mentre Marco provò a chiamare Rocco al cellulare. Suonava libero, ma non rispondeva. Forse stava lavorando ed aveva dimenticato il cellulare nel marsupio. Un quarto d’ora dopo, Andrea tornò.

- Scusami – scrisse – era quello di ieri sera. Ho dovuto liquidarlo. –

- Ah – rispose secco Marco.

- Comunque… Non si tratta di tradimento se tu stai con una persona e la ami. Io per esempio non faccio mai mancare nulla al mio Stefano. Stiamo bene insieme e ci amiamo alla follia, solo che io qualche volta ho bisogno di farmi una scappatella… - Fece una pausa, in cui non scrisse nulla. Marco restò a leggere la frase a braccia conserte.

- E poi – riprese – Se Stefano non mi degnasse di attenzioni, o viceversa io non degnassi di attenzioni lui, ci starei male. Mi sentirei come se qualcosa si fosse rotto, e comincerei a preoccuparmi. – Quest’ultima frase lasciò un po’ di stucco Marco, che incominciò a porsi delle domande sulla sua relazione insieme a Rocco.

Da quella conversazione, le notti di Marco non furono più tanto serene. Era vero che Rocco da un po’ di tempo era diventato apatico e brontolone, ma Marco imputava ciò al troppo lavoro in biblioteca ed ai suoi genitori troppo pedanti e scocciatori. Restava per ore ed ore a farsi domande, con il desiderio ardente di chiamarlo e sentire la sua voce, ma alla fine di tutto si riaddormentava per poi risvegliarsi e tornare sugli stessi pensieri. Era diventata una mezza ossessione.

La risposta ai suoi dubbi arrivò per caso, un giorno in cui tornò presto dal lavoro…

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Capitolo 9
*** Ottavo ***


Si dice che alcune persone abbiano una specie di sesto senso. Una specie di “dono” innato che permette di presagire un certo tipo di eventi, il più delle volte infausti. Gli umani sono statisticamente in pochi a possedere tale virtù, mentre gli animali sono quasi tutti dotati di un certo tipo di precognizione. Fidarsi del proprio cuore a volte porta a degli errori madornali, come credere vere cose che non sono e viceversa.

Marco non era dotato di questo dono (non che lui sapesse, almeno), e si fidava quasi sempre del suo cuore. Per giorni e giorni, dalla fatidica conversazione con Andrea, era stato lì a dire al suo cuore “Ti sbagli, Rocco mi ama e se è un po’ assente è solo perché ha dei problemi suoi”, preoccupandosi il giusto, e chiedendo a Rocco se ci fosse qualcosa che non andava. Le risposte del ragazzo erano sempre evasive, ma non erano nemmeno condite dai classici sorrisi di circostanza. Rocco teneva sempre la stessa espressione, costantemente, mentre diceva “Va tutto bene, non c’è nulla che non va.”

Invece qualcosa c’era, solo che Marco aveva troppa paura di scoprire cosa fosse, per cui evitava accuratamente l’argomento, accontentandosi delle fugaci risposte di Rocco.

Finché, un giorno…

Quel giorno al suo lavoro Marco avrebbe fatto soltanto mezza giornata, e quale migliore occasione per passare un po’ più di tempo con Rocco? Magari andando a prendere una cioccolata calda, oppure a passeggiare in centro, o guardando un DVD comodamente seduti sul divano. Gli piaceva quando, seduti sul divano, distendeva le gambe e Rocco gliele accarezzava, oppure quando lo stringeva a sé, baciandogli i capelli… A tutto questo pensava mentre guidava verso casa, attendendo che il cellulare squillasse con un sms di risposta al suo invito.

Passarono le ore. Nello spazio di tempo tra l’arrivo a casa di Marco e la serata, passarono cinque ore. In quelle cinque ore Marco cucinò, guardò la televisione con sua madre, lesse un libro, si mise a chattare un po’ con il suo amico Andrea su msn. Mentre faceva tutte quelle cose, c’era solo un pensiero nella sua testa: Rocco e la risposta che doveva dargli per la serata. Si stava facendo tardi, e cominciava ad essere un po’ preoccupato. Una volta battute le ore diciotto e qualche minuto, il suo cellulare finalmente squillò. Colmo di gioia, Marco andò a rispondere.

- Amore! Finalmente! Ma dov’eri finito…? – rispose con tono allegro. Rocco rimase in silenzio, e l’iniziale entusiasmo di Marco si sopì per un po’. Tuttavia, Rocco iniziò a parlare.

- Ciao, Marco – insolitamente, l’aveva chiamato per nome. Già quello indispettì Marco, ma quello che disse dopo Rocco, bastò a gelargli il sangue nelle vene.

 

*****

 

Dalla fine della sua ultima relazione, i giorni per Manuel scorrevano tutti uguali, senza alcuna variazione sul tema. Viveva per inerzia ormai, tra il lavoro e le occasionali uscite con i suoi pseudo-amici del suo gruppo, che peraltro nemmeno sopportava.

Quella sera stava tornando a casa a bordo della sua Fiesta, mentre nello stereo suonava una vecchia canzone anni ’80.

Mister
Your eyes are full of hesitation
Sure makes me wonder
If you know what you’re looking for.
Baby
I wanna keep my reputation
I’m a sensation
You try me once, you’ll beg for more.

 

- Yes Sir, I can boogie, but I need a certain song… - cantava Manuel, guidando tranquillo sulla strada verso casa. Il viale era abbastanza sgombro da auto, però qualche passante c’era ancora. In lontananza, il semaforo era pienamente verde, quindi Manuel affondò leggermente il piede sull’acceleratore. L’auto salì di giri, aumentando gradualmente di velocità. Forse la sua macchina nuova era l’unica cosa che ancora non era stata intaccata dai cattivi ricordi, in quanto non ci era ancora salito nessuno di importante che poi l’aveva fatto soffrire. L’auto color prugna svettò per il viale, macinando quei pochi metri che mancavano al semaforo.

Purtroppo a causa della forte velocità, non si accorse che qualcuno stava per attraversare la strada. Sulle strisce, ma con il rosso! Immediatamente Manuel si attaccò al clacson. Il passante si girò, ma era come un morto vivente. Non si mosse né scattò.

- Oh porca puttana!!! – sbottò Manuel, inchiodando di botto, con un leggero stridore di pneumatici. Sul cruscotto, la spia che avvertiva dell’entrata in funzione dell’ABS si era accesa.

Furente, Manuel scese dal veicolo e andò a rimproverare il passante.

- Sei un idiota! – gli urlò – Che cavolo ti salta in mente di…? – Improvvisamente si fermò, vedendo che questi stava piangendo. Era un ragazzo molto basso, forse un metro e sessantotto con tutte le scarpe, dai capelli spettinati e che portava un paio di occhiali. Il ragazzo lo guardò, con gli occhi pieni di lacrime.

- Scusa… - mormorò, singhiozzando – Non… non avevo visto che … -

- Non importa – lo anticipò Manuel – Ehi, però non puoi stare qui. Vai sul marciapiede, ma… - improvvisamente si accorse che il ragazzo aveva le tasche della giacca piene di sassi. E lo stesso anche le tasche dei pantaloni. Guardando oltre, ovvero dove conducevano le strisce pedonali, vide il parco, e nella sua mente si dipanò come la pellicola cinematografica il film che vedeva come protagonista quel ragazzo (che peraltro gli sembrava di aver già visto), che si sporgeva dal parapetto del ponte e si gettava nel fiume, colando a picco con tutto il peso dei sassolini che aveva in tasca.

- Ma… ma cosa ci fai con tutti questi sassi in tasca? – domandò. Il ragazzo non rispose.

- Allora? – lo incalzò Manuel – Guarda che se non mi rispondi… -

- S… sono affari miei – balbettò l’altro – e poi parli proprio tu, che tanti anni fa mi hai mandato a quel paese…? –

Sorpreso, Manuel spalancò la bocca. Nella sua testa riavvolse il nastro a tanti e tanti anni fa, cercando di capire chi diavolo…

- Marco…? – chiese. – L’amico di Elisa Torlontano? –

Marco annuì. – Dieci Marzo. Compleanno alla discoteca. E tu sei Manuel. Discoteca, terrazza, mi hai mandato a quel paese dopo che ti ho salutato. – tirò sul col naso, ricominciando a piangere. Lentamente girò su se stesso, tornando sui suoi passi.

- Ehi, dove stai andando? –

- Me ne vado. Non penso tu voglia fare una rimpatriata, Manuel. Per cui è meglio se torno da dove sono venuto. – Lo disse con la voce rotta dal pianto, ed era come se non volesse andarsene veramente.

- Aspetta! – lo chiamò Manuel – Senti, non so perché tu stia soffrendo, ma … se vuoi posso stare un po’ con te. Eravamo compagni di scuola, dopotutto. Ed io ero rappresentante d’istituto. –

Marco sospirò, poi si asciugò le lacrime con il dorso della mano. – Perché lo faresti? – chiese.

- Beh, perché… perché… - ma la sua risposta fu interrotta da una fila di auto che suonavano il clacson contro quella Fiesta color prugna che intralciava la circolazione, così ferma davanti al semaforo.

- Arrivo, arrivo! – disse Manuel ad alta voce, allontanandosi verso l’auto. – E tu che fai, vieni o resti? –

Marco ci pensò su un attimo. Poi, come per magia, velocemente andò ad infilarsi nell’auto di Manuel, che partì velocemente per non creare ulteriore intralcio.




 

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Capitolo 10
*** Nono ***


- Non mi hai ancora detto perché piangevi – disse Manuel, sorseggiando piano la cioccolata calda che aveva nella tazza. Marco era lì che giocherellava distrattamente con il cucchiaino, senza sapere bene cosa dire. Manuel lo guardò per un secondo, aspettando una reazione, poi sospirò e posò la tazza.

- Se non ti va di dirmelo, pazienza… - l’importante era che il ragazzo era lì con lui e non in fondo al letto del fiume, con le tasche piene di sassi. A volte Manuel era veramente troppo buono, e quel giorno l’aveva dimostrato offrendo addirittura una cioccolata calda ad uno che per poco non investiva. Non avrebbe saputo dire perché, ma Marco aveva qualcosa di particolare dentro di sé, che non era il semplice cameratismo tipico dell’appartenenza ad una stessa istituzione, qual era stata per loro la scuola. Era qualcosa di più.

- Non… non so se posso dirtelo – balbettò Marco, sospirando e giocherellando con la cioccolata nella sua tazza – In fondo non ci conosciamo se non di vista. E se ciò che ti dicessi sarebbe troppo per le tue orecchie? –

Manuel apprezzò la discrezione del ragazzo, e stava quasi per accettare la sua volontà, ma inspiegabilmente lo incalzò. – Sono stato rappresentante d’istituto per tre anni di seguito. Non pensi che sia stato a sentire abbastanza persone ridicole, durante la mia carriera? No, dillo sinceramente. –

- Io non sono una persona ridicola. – si difese Marco, aggrottando le sopracciglia.

- E allora, se pensi di non essere ridicolo, dimmi ciò che ti turba. – La sua espressione era seria, ma al tempo stesso benevola.

Convinto da quell’espressione, Marco raccontò ciò che gli era successo: Rocco, il suo ragazzo l’aveva lasciato per un altro, più giovane e più carino. Non si era risparmiato di dirgli anche quei dettagli, perché voleva farlo soffrire il più possibile.

- Hmh. Quanti anni ha il tuo ragazzo? – domandò Manuel.

- Ventinove… quasi trenta. – rispose Marco, singhiozzando.

- E l’altro? –

- Chi? –

- Il suo nuovo… compagno. –

- Diciotto – scosse la testa mentre lo diceva, ricominciando a piangere.

Istintivamente, Manuel gli porse un fazzolettino, che Marco non vide fino a che non rialzò lo sguardo. Lo prese e si asciugò gli occhi, togliendosi gli occhiali.

- Se non ti offendi, vorrei dire che il tuo ragazzo è un porco. – disse Manuel, senza troppi fronzoli. Marco lo guardò sconsolato. – Voglio dire… ha quasi trent’anni e va con uno di diciotto? Questo significa proprio essere dei maniaci. Non credo che il tuo ragazzo si meritasse uno come te, Marco. –

Stupito da queste parole, Marco si riebbe un attimo. Manuel sembrava veramente molto sincero, mentre lo guardava con quegli occhi azzurrissimi. Si guardarono negli occhi un lungo istante, provando una sensazione che si prova ben poche volte nella vita: una sensazione d’intesa, suggellata da una strana tranquillità. Marco fece un leggero sorriso, e Manuel lo imitò.

Entrambi sapevano che quella non sarebbe stata l’ultima volta che si sarebbero visti.

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Capitolo 11
*** Decimo ***


Quella mattina in ufficio Marco aveva più lavoro che aria da respirare. Tra una chiamata e l’altra, tra una pratica di smarrimento colli e una lamentela per colli danneggiati, stava esaurendo la pazienza. C’erano quattro chiamate in coda al centralino, e lui doveva essere veloce a risolvere i problemi di tutti.

- Buongiorno sono Marco, come posso aiutarla? –

- Marco? Sono Rocco. – disse la persona dall’altro capo del telefono.

Marco si toccò la cuffia sinistra per essere sicuro di aver capito bene. Davanti a lui, lo schermo mostrava il gestionale dell’azienda, un insieme di cifre e stringhe di dati.

- Rocco?!? – il suo tono era tra il sorpreso e lo sconcertato – Ma che cosa cazzo ti salta in mente di chiamarmi in ufficio? Non sai che …? –

- Ho parlato con tre dei tuoi colleghi prima di beccarti. Ascolta, io mi sono reso conto di aver fatto un errore. Vieni fuori. – disse Rocco, chiudendo la telefonata.

Come trasportato da una strana forza, Marco si alzò lentamente dalla poltrona, andando verso la finestra. Quel matto del suo ex ragazzo era lì, che lo aspettava con le mani in tasca. Senza accorgersene, si ritrovò fuori. Lì, Rocco era lontano. Cercò di raggiungerlo, ma lui si allontanava progressivamente, al tempo stesso non riusciva più a correre. Si sentiva il fiatone.

- Rocco… - disse, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono.

 

*****

 

- Marco – disse la voce di Manuel, accanto a lui – Sei sveglio? –

- Mmm – mormorò Marco, stropicciandosi un po’ gli occhi. Leggermente sbalestrato, non si rese conto subito di essere sul treno, gli ci vollero un po’ di secondi affinché il suo cervello riconoscesse il fatto che era stato tutto un sogno.

Dolcemente, Manuel gli prese la mano. Marco alzò lo sguardo e incontrò quel sorriso franco e cordiale, e lo ricambiò a sua volta.

- Stavi facendo un brutto sogno. – lo avvertì Manuel, stringendogli un po’ la mano – Continuavi a chiamare il tuo ragazzo. –

- Ho sognato di lui. Mi chiamava, ma non riuscivo a raggiungerlo… - disse piano Marco, sospirando. – Manca ancora molto? – domandò, guardando fuori dal finestrino. Il tempo era un po’ grigio, minaccioso di pioggia.

- Non molto. Siamo quasi arrivati. –

Il treno si infilò in una galleria, divenendo buio all’istante. Nello scompartimento c’erano soltanto loro, e la galleria sembrava abbastanza lunga. Il rumore delle ruote sulle rotaie era ritmico e continuativo, quasi ipnotico. Nel generale silenzio che si era creato, rotto soltanto dal frastuono del treno, Marco e Manuel si rilassarono, le loro mani ancora unite nella stretta. Improvvisamente, qualcosa colpì il finestrino, facendo un rumore distinto, come uno splat.

- Ahhh! – strillò Marco. Lo stesso fece Manuel, contemporaneamente abbracciandosi forte. Restarono così per un bel po’ di secondi, fino a che la luce non rischiarò di nuovo lo scompartimento. Aprirono gli occhi, scoprendo di essere ancora vivi, e si guardarono. Marco era spaventato, e così anche Manuel. Come due gemelli, guardarono il finestrino. Era sporco di sangue e c’erano delle piume attaccate.

- Probabilmente un piccione ha colpito il vetro – disse Manuel. Le sue braccia ancora avvolgevano le spalle di Marco.

- Già. Poveretto. – tagliò corto Marco, ancora abbracciato. Arrossì leggermente, poi i due si sciolsero dall’abbraccio e non dissero più una parola fino all’arrivo.

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Capitolo 12
*** Undicesimo ***


Poche volte nella sua vita Marco era rimasto sorpreso. Il più delle volte era stato in occasione di alcune sue visite in giro per il Piemonte, dal quale non si era mai spostato veramente. In ventisei anni aveva sempre vissuto là, se non si contavano le poche volte in cui era andato al mare in Liguria o la sua visita a Bologna in occasione di una fiera indetta dall’università autoctona, quando ancora era un neodiplomato. Quel giorno, appena sceso dal taxi che dalla stazione di Belluno li aveva portati parecchio in alto, rimase a bocca aperta nel vedere il paesino di Pieve di Cadore.

Un paesino così bucolico, eppure così bello, circondato ovunque da suggestivi scorci montanari, intriso di un’aria pura che a Marco piacque moltissimo. Accanto a lui, Manuel lo osservava compiaciuto, con un sorrisetto sulle labbra.

- Allora? – disse – Ti piace? –

- Altroché! – esclamò Marco, sorridendo mentre teneva le spalliere del suo Seven con entrambe le mani. Tirando su il suo zaino (pieno di scritte e dediche), Manuel gli strizzò un occhiolino. – Seguimi – disse, e si incamminò per un viottolo là vicino.

Il viottolo terminava in una specie di contrada circondata da casette. Non erano proprio villette a schiera, quanto case indipendenti molto pittoresche. Una di queste aveva le finestrelle in legno e dei vasi pieni di fiori e piante. Marco osservò tutto quanto, credendo di trovarsi sul set di un film: tutto era così pulito e perfetto, pronto per essere immortalato.

- Ma.. è sempre così? – domandò Marco, mentre Manuel armeggiava nella tasca del suo zaino, cercando qualcosa.

- Così come? –

- Voglio dire… così pulito, perfetto. Queste case sono bellissime, non c’è ombra di imperfezione. –

- Gli abitanti qui sono molto precisi – spiegò Manuel – le tengono sempre perfettamente in ordine, soprattutto per distinguersi dalle grandi città. Mentalità montanara, credo. – concluse, ridacchiando.

- Cosa stai cercando? –

- Le chiavi di casa – disse Manuel, quindi armeggiò un altro po’ finché non apparve magicamente nella sua mano un mazzo di chiavi – Eccole. –

Salirono per una scala, che portava ad una porta a doppio battente, la cui volta era decorata da vetri colorati. Manuel fece scattare la serratura per due volte e aprì la porta. Con un gesto, invitò Marco ad entrare. Timidamente, questi varcò la soglia.

La casa era tenuta in perfetto ordine, anche se era leggermente fredda. I mobili antichi erano molto suggestivi, anche se forse un po’ scuri. In fondo alla sala, un grande camino stava silenzioso ad aspettare che qualcuno lo accendesse, magari ospitando qualcuno sui due grandi divani ai suoi lati.

- Wow – mormorò Marco – Questa è casa tua? –

- Già – disse Manuel, compiaciuto – Mio padre me l’ha regalata per il mio diploma, anche se io non ci vengo molto spesso. Solo quando ho bisogno di evadere un po’. Diciamo che è il mio nascondiglio. –

- Porca paletta! È piuttosto lontano come nascondiglio! –

- Abbastanza. Non l’ho mai usato per me stesso, se devo dirti la verità. Ci sono venuto sempre con Paolo… - disse Manuel, concludendo con un sospiro. Intuendo un po’ il suo disagio, Marco gli posò una mano sul braccio (l’altezza spropositata di Manuel non gli permetteva di toccargli la spalla), sorridendogli.

- Va tutto bene – si schermì immediatamente Manuel, abbozzando un sorriso – Coraggio, riscaldiamo un po’ questa baracca! –

 

*****

 

Dopo tanti giorni passati a macerare nella noia casalinga, rotta solo di tanto in tanto dalla noia dei locali frequentati con i suoi pseudo amici, Manuel si sentiva finalmente bene. Nel camino, il fuoco scoppiettava allegro, riscaldando completamente tutta la casa, mentre loro si gustavano delle ottime bruschette. Anche Marco, insieme a Manuel provava qualcosa di strano dentro di sé. In fondo ai suoi pensieri c’era ancora Rocco, che ogni tanto affiorava sottobraccio al ragazzino diciottenne dipinto dalla sua fervida immaginazione: lo immaginava come un ragazzo molto appariscente, magari con un’acconciatura particolare e con un abbigliamento degno di una serata in discoteca, se non di una giornata normale. Per un momento, pensando a quel ragazzo, Marco guardò sé stesso. Ventisei anni, capelli perennemente spettinati, e abbigliamento molto semplice: la sua divisa erano da sempre un maglione ed un paio di jeans strappati, il massimo della trasgressività. Non portava anelli né accessori, soltanto i suoi occhiali rotondi che sembravano fare il verso a quelli di Harry Potter. Sospirò.

- Che hai, Marco? – domandò Manuel – Non ti piace la bruschetta? –

- Scherzi? Mi piace tantissimo, è solo che… -

- Cosa? Parla senza paura. – lo incitò Manuel.

- Pensavo ancora a Rocco – rivelò Marco, parlando lentamente.

Manuel fece un mezzo sorriso, più di comprensione che altro. – è normale che tu pensi ancora a lui… sei ancora nello stato in cui ti è difficile accettarlo. –

Marco guardò tristemente Manuel. Anche lui mentre diceva quelle cose sembrava perso nel nulla, a guardare con gli occhi della mente memorie del passato che credeva di aver dimenticato, ma che inesorabilmente gli riaffioravano. Posò il piattino con la bruschetta mangiata per tre quarti, poi incrociò le gambe davanti a sé e diede voce ai suoi pensieri.

- E’ la parte più brutta, quando una relazione finisce. Ci si sente smarriti, abulici… spenti. È come se qualcuno ti togliesse l’ossigeno, o ti portasse via il cuore. Dicono che la durata dipende da quanto si è stati assieme, ma non è così. Dipende da quanto uno è forte – fece una pausa e guardò Marco – Devi essere forte, Marco. Io sono qui per aiutarti. – concluse, e di nuovo, come quando erano sul treno, gli mise fraternamente una mano sulla sua. A tanta gentilezza, Marco non seppe rispondere che con un commosso sorriso.

- Grazie – mormorò, trattenendo a stento le lacrime. – Mi mancano tanto le sue coccole… -

- Erano coccole finte. Di circostanza. Scaccia via il pensiero di Rocco come se fosse un ragazzo dolce. Non lo era. – disse perentorio Manuel, con quel piglio quasi germanico di dire le cose, lo stesso che aveva quando presenziava le assemblee d’istituto, lo stesso che faceva cadere ai suoi piedi tutti gli studenti del Massimo D’Azeglio. Marco si coprì gli occhi per non piangere di nuovo, e allora Manuel ruppe quel suo muro e lentamente prese Marco a sé, abbracciandolo. Comprendeva come Marco ancora non riusciva ad accettare una situazione del genere. Sarebbe stata dura per lui, d’ora in poi accettare l’idea di essere di nuovo sul mercato. Sentendosi smarrito, Marco tese le braccia verso il collo di Manuel, accoccolandosi a lui. Calde lacrime bagnarono il collo di Manuel, che dispiaciuto si mise ad accarezzare quella massa informe di capelli bruni, notando come fossero buffi. Li acconciò stranamente mentre li carezzava, mentre Marco piangeva in silenzio.

- Io ti aiuterò – sussurrò Manuel all’orecchio di Marco.

Marco restò zitto per dieci secondi, singhiozzando silenziosamente, poi disse – Perché…? –

Manuel non rispose, ma continuò a guardare nel vuoto e a carezzare i capelli di Marco.

- …Tu non mi conosci… mi hai portato qui… Non capisco. – disse Marco, in preda al dolore. Ancora Manuel non rispondeva, anzi teneva giù la testa di Marco, forse per impedirgli di vedere.

Gli occhi azzurri di Manuel erano lucidi. Non sapeva nemmeno lui perché, se per felicità o per troppa tristezza. Si accontentò di stringere forte Marco ancora un po’. In fondo al suo cuore, un dolore ancestrale stava lentamente riaffiorando dalle nebbie del passato.

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Capitolo 13
*** Dodicesimo ***


Il lago di Pieve di Cadore era un posto stupendo. Quando Marco lo vide, spalancò ancora di più i suoi grandi occhi, meravigliandosi di quanto fosse suggestivo. L’aria che si respirava lassù era fresca, pulita. Stranamente, si sentiva bene.

- Guarda che bello, Manuel! – disse Marco, lanciando un sasso nell’acqua – Guarda quanti cerchi che fa nell’acqua! – era contento. Come un bimbo emozionato. Manuel gli sorrise, quindi gli andò vicino e prese un sasso schiacciato dal terreno.

- Scommetto che non sai fare questo. – giocherellando con il sasso, guardava Marco. Questi non capì cosa volesse dire, e fece uno sguardo sorpreso.

- Adesso ti faccio vedere – disse Manuel, e con uno scatto felino tirò il sasso in orizzontale, come fosse stato un proiettile, e questo rimbalzò sull’acqua per un bel po’. Marco era esterrefatto.

- Come… come…? – domandò, annaspando. Manuel se la rideva bellamente.

- E’ facile. Se vuoi t’insegno. –

- Capperi, sì! – esclamò Marco, mentre con lo sguardo cercava dei sassi simili.

- Bravo, devi prendere quei sassi schiacciati. –

- Come questi? – Gliene mostrò un paio, che Manuel approvò annuendo.

- Esatto. Ora devi cercare di portare il braccio quasi dietro la schiena, e… -

Glielo spiegò, quindi Marco provò a lanciare, ma non ci riuscì. Ci provò e riprovò, ma proprio non riusciva a far rimbalzare il sasso sull’acqua. Restarono lì a provare per un bel pezzo, finché non si decisero che era il momento di andare.

 

*****

 

A pomeriggio inoltrato, camminarono in mezzo agli alberi circostanti il lago. Marco non era molto abituato all’escursionismo, tanto che arrivato al suo novantesimo chilometro per quella giornata, cominciò ad ansimare pesantemente. Manuel lo sentì e propose una pausa.

Si fermarono su un masso proprio lì vicino, sulle sponde del lago. Erano ancora le quattro e mezza, ma il sole si stava già dileguando per lasciare posto alla sera.

- Come stai? – domandò Manuel.

- Abbastanza bene – rispose Marco, con uno sbadiglio – Certo è che con Rocco non avrei mai visto nulla di tutto questo. –

Manuel ridacchiò – Ma che razza di fidanzato avevi, che non ti portava in posti come questi? –

- Povero – disse Marco – O forse troppo tirchio. Sì, forse è la seconda ipotesi. Lavora in biblioteca ma non l’ho mai visto prodigarsi più di tanto per farmi contento. Pensa che una volta non aveva nemmeno i soldi per pagare la cena – scosse la testa e roteò gli occhi; nonostante l’enfasi in quelle parole, dentro di sé c’era ancora un po’ di dolore. – Tu non hai mai avuto un fidanzato, Manuel? – domandò infine Marco.

Manuel fece spallucce – Tanti… e nessuno – sospirò.

Marco lo guardò tristemente, intuendo cosa avesse voluto dire. Un bel ragazzo come lui, tipico belloccio, nel mondo gay era soltanto un oggetto. Biondo, occhi azzurri, alto e atletico… avrebbe mai potuto costituire il personaggio di una relazione? Forse no, più probabilmente di una fantasia erotica. In molti erano quelli che gli avevano rivelato di masturbarsi pensando a lui, e ogni volta lui rispondeva con il silenzio ed il sorriso amaro di chi sa di essere completamente al posto sbagliato. E se sentire qualcuno dirgli “Mi sono fatto una sega pensando a te” non era abbastanza, c’era anche il rovescio della medaglia: a volte i suoi amici gli riferivano ciò che le persone dicevano di lui, soprattutto i ragazzi fidanzati. Dicevano che il bel Manuel solleticava le loro fantasie erotiche, e che se l’avessero visto parlare con questo o quell’altro ragazzo gli avrebbero fatto la pelle. C’era chi voleva ucciderlo, e chi avrebbe soltanto voluto scoparselo, ma mai aveva sentito qualcuno che avesse voluto amarlo.

- E’ un tasto dolente, vero? – domandò Marco guardandolo da dietro le lenti con i suoi occhioni bruni.

Per tutta risposta, Manuel annuì, e Marco mormorò un “Capisco” a mezza voce. – Beh, quando vorrai… mi racconterai, va bene? – disse Marco sorridendo. Manuel non gli rispose a voce, ma soltanto ammezzandogli un sorriso. Marco non riuscì ad interpretare quel gesto.

 

*****

 

Le lezioni all’università erano abbastanza interessanti, soprattutto per chi come Manuel amava la letteratura e la filosofia. Il pomeriggio, quando non aveva nulla da studiare, gli piaceva andare in giro qua e là per Torino, magari facendosi dei giri nel parco a piedi o in bicicletta. Oppure si dava allo shopping, comprando vestiti firmati e bellissimi, che aveva in mente di comprare da tanto tempo. Tuttavia, se qualcuno gli avesse chiesto se era felice, sicuramente avrebbe risposto di no.

Paolo se n’era appena andato dalla sua vita, lasciandolo solo e abbandonato, e lui non sapeva veramente che cosa fare per ammazzare il tempo. Nel suo peregrinare qua e là tra l’università e casa, era solito frequentare i locali gay, dove lentamente aveva iniziato a fare amicizia con i suoi attuali pseudo amici, i quali lo notavano per l’altezza e la bellezza esteriore, non certo per i libri di filosofia che portava sottobraccio. In questi pub gay, una sera ebbe l’incontro che cambiò la sua vita.

Lui si chiamava Adelmo, aveva cinquant’anni, era bello e distinto. All’inizio, quando Manuel lo vide avvicinarsi, pensò “Ecco che arriva il classico uomo navigato che vuole farsi un ragazzino”. Aveva appena vent’anni, ma era abbastanza istruito su come agivano i più grandi per portarsi a letto i piccolini. La sua presunzione fu totalmente spiazzata quando Adelmo incominciò a parlargli. Fu una serata intensa, ricca di emozioni e sentimento. Quell’uomo così avanti con l’età sembrava leggergli nel cuore. E poi s’interessava di letteratura e filosofia. Gli bastò poco per conquistare Manuel, che già quella sera pendeva dalle sue labbra.

Nei giorni successivi cominciarono a frequentarsi regolarmente. Lui era carino, parlava, scherzava… si interessava di quello che Manuel pensava. E Manuel era felice. Facevano anche l’amore, di tanto in tanto, e Adelmo era veramente instancabile e soddisfacente. Fu un anno intenso e di felicità, finché…

Una sera d’ottobre erano nell’auto di lui, una vecchia Mercedes molto ben tenuta. Pioveva a dirotto, tanto che il parabrezza grondava acqua. Come due ragazzini si stavano baciando appassionatamente, e Adelmo era parecchio incapricciato: ogni volta che stava con Manuel, diceva, si sentiva vent’anni più giovane. Manuel gli accarezzò i lunghi capelli d’argento, e lo baciò sul mento, dove c’era la sua morbida barba bianca.

- Cos’hai, amore? – domandò Manuel all’improvviso, sorridendo malizioso.

Adelmo lo guardò sorridendogli paternamente, quindi lo baciò sulle labbra. – Niente, amore. – disse – Va tutto bene. –

Solitamente Adelmo non era così sbrigativo nelle risposte. Invece Manuel, con la sua proverbiale intuizione, capì che c’era qualcosa che non andava. Lo guardò con i suoi occhi azzurri, cercando di capire che cosa stesse nascondendo. Senza che avesse avuto bisogno di dire nulla, Adelmo sospirò e si staccò da lui, mettendo le mani sul volante.

- Manuel… Ascolta, io… - cominciò. Il tono di voce e l’espressione contrita non piacquero per niente a Manuel, che sentì il cuore accelerare i suoi battiti.

- …Io dovrei parlarti. – disse. Le mani sul volante indicavano il suo stato d’animo: continuava ad aprirle e a chiuderle, e si mordicchiava le labbra come se non sapesse cosa dire.

- Dimmi, amore – lo incitò Manuel – C’è forse qualcosa che non va? –

Sospirando, Adelmo rispose – Tutto. Tutto non va. Io penso che… - fece una pausa - …penso che sarebbe meglio se io e te ci … - Non continuò la frase, ma Manuel in cuor suo l’aveva già completata: i suoi occhi si inumidirono, mentre fissava Adelmo. Questi continuava a guardare un punto indefinito davanti a sé, senza capire, sentendosi totalmente scombussolato.

Infine Adelmo alzò lo sguardo, incontrando gli occhi umidi di Manuel. - …Ecco. Credo che sarebbe meglio se io e te non ci vedessimo più per un po’ di tempo. – concluse, e lì fu la fine. Manuel incominciò a piangere, portandosi le mani agli occhi e singhiozzando silenziosamente.

- P… perché…? – domandò, tra le lacrime – Non… non ti… non stai… non stai b… bene con me? – il suo dolore era talmente forte che singhiozzando saltava le parole. Adelmo sospirò.

- Manuel… amore mio… - disse l’uomo – Io con te sto benissimo. Non ho mai incontrato un ragazzo così giovane eppure così colto, raffinato, dolce… Tutti quelli che ho incontrato prima di te non erano niente, erano solo delle sciacquette che mi volevano solo per sesso. Invece tu… -

- Io…? – lo incalzò Manuel, ancora piangendo.

- Tu sei speciale. E meriti qualcuno di speciale, non un vecchio come me. – disse.

Manuel si sentì gelare il sangue nelle vene. – Ma… Adelmo.. tu… tu sei speciale per me. Io ti amo, non … non puoi abbandonarmi così. Ti … ti prego… - disse, portando le sue mani su quelle di Adelmo. L’uomo gli prese le mani nelle sue, guardandole dispiaciuto, ma non sapendo bene cosa dire. Manuel continuava a piangere, singhiozzando, gemendo come un cane ferito.

- Ascoltami. Io… ti amo troppo. E voglio riflettere un po’ sulla nostra storia. – disse Adelmo, tranquillamente. – Penso che sia meglio per tutti e due. Ti prego, cerca di capire. –

A quel punto Manuel scattò. – Che cosa cazzo ne sai tu di cosa è meglio per tutti e due?!? Ti sembra che io sia felice nel sentirmi dire queste cose da te?!? Abbiamo avuto momenti indimenticabili insieme e tu … tu ora vuoi… vuoi abbandonare tutto?!? Perché?? Perché!!! –

- Non urlare in quel modo – gli ordinò Adelmo – Ricordati che… -

Senza ascoltarlo, Manuel prese a battergli i pugni sulle spalle, cerando di colpirlo al viso. Adelmo sulle prime si riparò, ordinandogli di smetterla, ma Manuel continuò sempre più forte, finché…!

La mano di Adelmo colpì forte la guancia di Manuel, che con l’impatto perse addirittura una delle lenti a contatto. Sgomento, addolorato e sorpreso, si portò la mano alla guancia colpita, guardando Adelmo.

- … Scusa, amore. Mi … mi dispiace… non… non volevo. – si affrettò a dire lui.

Manuel lo guardò ancora una volta. Poi velocemente mise la mano sulla maniglia della portiera e l’aprì. Adelmo cercò di ghermirlo, ma non ci fu nulla da fare.

- Manuel!!! – gli urlò dietro, ma lui non si fermò. Continuò a scappare sotto la pioggia, piangendo e singhiozzando.

 

*****

 

“Adelmo…”

Quella stessa notte, Manuel era nella sua stanza da letto. Marco dormiva lì accanto a lui, poteva vederlo benissimo nella luce diafana dei lampioni di fuori che illuminava discretamente anche la stanza. Lo osservò. Mentre dormiva sembrava così timido e indifeso, proprio come lui quando era più giovane. C’era solo un anno di differenza tra loro, eppure Manuel si sentiva vecchio. Molto più vecchio di quanto non fosse. “Fammi un favore, Marco…” pensò “…Non diventare mai come me.”

Sorrise, e fece una carezza ai capelli del ragazzo dormiente.

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Capitolo 14
*** Tredicesimo ***


Tornare a Torino dopo quel weekend così insolito fu per Marco una mezza nota dolente. Soprattutto con il pensiero che quella domenica sera non ci sarebbe stato Rocco ad invitarlo a cena, o a guardare un film con lui. Sospirò.

- Che hai, Marco? – domandò Manuel. Erano vicini alle palazzine dove abitava Marco, che stava già tirando fuori le chiavi.

- Nulla, solo che… - Sospirò di nuovo – Adesso che te ne vai, io resterò solo questa sera. Rocco non c’è più, e io… - Non concluse la frase, sentendosi come quando da bambino, doveva andare via da sua zia. Provava immancabilmente una stretta al cuore. Fraternamente, Manuel gli batté una mano sulla spalla, incitandolo a non essere triste. – Guarda che ci rivediamo in settimana. E poi hai il mio cellulare, se hai bisogno scrivimi. Ti farò compagnia come posso. – concluse Manuel.

Marco gli sorrise stancamente, annuendo per non deluderlo. Non gli andava l’idea di tornare in quell’appartamento e magari accendere il televisore e addormentarsi sul divano. Avrebbe voluto avere qualcuno vicino, ma sapeva che non sarebbe stato possibile, per cui inghiottì il boccone amaro e sorrise di nuovo a Manuel. – Me la caverò – disse, e Manuel gli rispose con un occhiolino.

- Ci sentiamo, ok? –

- Va bene. Ciao Manuel. Grazie di tutto! –

- Ciao Marco, è stato bello passare questo weekend insieme. –

Detto questo, Manuel si allontanò con lo zaino in spalla. Marco restò a guardarlo mentre si allontanava, soffocando l’impulso infantile di andare lì e abbracciarlo. Insieme a Manuel, si sentiva bene come poche volte si era sentito nella vita.

 

*****

Fu una settimana d’inferno per entrambi: lavoro continuo e pesante, per Marco alle prese con uno sciopero degli autotrasportatori con conseguenti fermi delle merci nel magazzino e varie incazzature dei clienti smaniosi, problema accentuato dal fatto che non aveva più gli sms di Rocco a tirarlo un po’ su, e per Manuel a causa dell’imminente chiusura di bilancio bancaria, che come ogni anno apportava lavoro straordinario. E se Manuel poteva contare sulla tecnicità del suo lavoro, altrettanto non poteva dirsi per il povero Marco, perché ogni cliente era una mazzata nelle gengive con le lamentele. In più, c’era il suo responsabile che lo finiva a colpi di rimproveri perché era troppo lento.

- Io… io non ce la faccio più – si sfogò Marco, in uno dei pochi momenti di pausa accordatigli – Qui perdo la testa. - 

Dopo una lunga giornata di lavoro, Marco si sedette al computer. Controllò la posta, eliminò la varia pubblicità e stancamente si rilassò sulla poltrona. Guardò lo schermo, senza idee in testa. Solo con la voglia di rilassarsi. Avrebbe voluto avere qualcuno a guardare un film con lui, ma qualcuno di speciale, non un semplice amico come Manuel. Sospirò, cercando di trovare qualcosa da fare.

La trovò. Tempo prima, quando ancora non era fidanzato con Rocco, si era iscritto a numerosi portali per incontri omosessuali, che però non aveva gradito per manifesta superficialità e perversione. Tutti cercavano solo e soltanto sesso, non certo una serata tranquilla come la voleva Marco. Rifletté un poco prima di rimettere in piedi il suo profilo, pensando a quante probabilità aveva di incontrare ragazzi al di fuori.

Ben poche, vecchio mio, pensò, quindi è meglio se riprovi con questo. È come voler arrivare da qualche parte ma non avere un’auto a disposizione. Bè, questa non sarà una Ferrari, ma può essere un inizio.

Dunque rimise in piedi il suo vecchio profilo, aggiornando magari le foto. Riguardando le sue vecchie immagini, si accorse di quanto era cambiato nel corso degli anni: i capelli si erano fatti meno folti ed avevano quasi cambiato colore, diventando leggermente più chiari; la barba che prima non gli cresceva, che aveva iniziato a fare la sua comparsa dopo i ventidue anni, ora era un po’ più presente sul suo mento e sulle sue guance, e gli occhiali non erano più quel modello antiquato dalle lenti rettangolari che portava prima ma un bel paio di occhiali un po’ retrò, simili a quelli di Harry Potter. Per alcune cose si sentiva soddisfatto, mentre per altre no. Aggiornò le sue foto e cambiò un po’ la sua descrizione, dopodiché osservò il suo lavoro e andò sul divano a guardare una commedia americana.

Mentre era impegnato nella visione, gli arrivarono ben quindici proposte.

 

*****

 

A tarda sera, Manuel era ancora sveglio. Sedeva sul letto a gambe incrociate, mentre teneva in grembo un vecchio orsacchiotto. Manuel lo guardò con espressione seria. L’orsacchiotto lo guardava dai suoi occhi neri di plastica, con le braccia aperte e la bocca piegata in un sorriso, come per dire “Ehi, che succede, amico? Sembra che tu abbia un problema.”

- Perché mi sento così, Nobo? – domandò Manuel guardando negli occhi l’orsacchiotto. Questi rimase in silenzio, mentre la mano di Manuel si sollevò lentamente e gli carezzò la testa.

- Lo sai – disse – Non farmi ripetere tutto da capo. È la pochezza di questa vita, che mi tormenta. –

Con l’altra mano Manuel teneva la schiena dell’orso di pezza, in modo che potesse stare comodo, seduto sulle sue gambe lunghe.

- Marco? …E tu come fai a conoscerlo? Oh già. Forse te ne ho parlato io… Beh, non so. Mi sembra un bravo ragazzo, ma… - s’interruppe – Cosa? – Guardò negli occhi il suo orso di pezza.

Quand’era bambino, Manuel trovava in quegli occhi tutte le risposte di cui aveva bisogno. Ora, con l’età adulta, faticava a comprendere un linguaggio così arcano, perché quando si è grandi, le voci che si sentono da bambini iniziano ad allontanarsi, e ben pochi riescono a sentirle anche dopo.

- No, non penso… - disse, quasi con rassegnazione – E’ così timido e dimesso. Mi fa tanta tenerezza… ma anche tantissima pena. – Abbassò la testa, ed i suoi capelli biondi gli ricaddero ai lati delle orecchie.

Poi, la rialzò. – Cosa? Cosa vuoi dire con questo? –

Di nuovo guardò negli occhi il suo Nobo, l’orsacchiotto che gli stava parlando, ma il suo sguardo era triste.

- Nulla a che vedere – tagliò corto – Paolo e Marco sono molto diversi. Com’è diverso il rapporto che avevo con P… - s’interruppe, all’improvviso, come se nella stanza ci fosse stato uno sconosciuto.

Ovviamente, non c’era nessuno, ma Manuel abbassò gli occhi e disse – No, va tutto bene. Solo che… sono un po’ stanco. Ti dispiace se andiamo a dormire? –

L’orsacchiotto fece di sì con la testa. Manuel gli sorrise e se lo portò con sé sotto le coperte, stringendolo forte.

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Capitolo 15
*** Quattordicesimo ***


Che cosa si fa quando si viene lasciati? Effettivamente, ci sono diversi modi per reagire, tutti che variano da persona a persona. C’è chi viaggia su altre frequenze, frequenze di dolore, isolandosi da tutto e da tutti; c’è chi reagisce aumentando esponenzialmente le sue relazioni sociali, frequentando assiduamente persone nuove o incontrate in discoteca; e c’è chi punta sulle relazioni con persone conosciute on-line. A dire la verità Marco non avrebbe avuto bisogno di quest’ultima opzione. Carino com’era, sarebbe potuto entrare in una qualunque discoteca che subito qualcuno gli avrebbe offerto da bere. Purtroppo lui non era un ragazzo così “Facile”. Aveva bisogno di qualcosa di più di un drink per essere conquistato…

- E che scuole hai fatto? – domandò Marco al ragazzo che gli stava di fronte. Questi alzò le spalle e sbuffò.

- Ragioneria. Ma non mi piaceva, era una palla. – Rispose il ragazzo. Si chiamava Davide, aveva ventidue anni ed era uno dei pochi che aveva tenuto presenti dei tanti che l’avevano contattato. Non era un brutto ragazzo, aveva il viso molto normale ed il corpo altrettanto normale. L’unico accenno di trasgressività era un orecchino all’orecchio sinistro, che tuttavia stonava completamente con il suo abbigliamento, prettamente casual-casalingo, composto da una felpa verde scuro ed un paio di pantaloni color kaki. Un accostamento parecchio strano. Il ragazzo sorseggiò il suo caffè, guardandosi più volte intorno. Era come se fosse annoiato, in attesa di qualcosa.

- C’è qualcosa che non va? – domandò Marco.

- Uh…? No, niente. Tutto bene. Solo stavo pensando… ti piacerebbe venire a casa mia? –

L’invito colse Marco di sorpresa. Non aveva pianificato di andare a casa di qualcuno, specialmente a quell’ora di pomeriggio. Si sarebbe aspettato di fare una passeggiata nel parco, o in altro posto analogo, ma non certo di andare in una casa.

- A casa tua? – domandò Marco – Ma… non dovevamo andare a fare una passeggiata nel parco? –

- Fa freddo – tagliò corto Davide – Dai, andiamo. Mia madre e mio padre sono fuori, e possiamo stare un po’ tranquilli – disse, poi aggiunse – Sempre se ti va. –

Marco guardò ancora una volta negli occhi Davide, quindi storse un po’ la bocca ma alla fine disse – Va bene, andiamo. –

 

*****

 

La casa di Davide era molto simile a quella di Marco, un normale appartamento familiare, pieno di quadri simil-antichi e altrettanti mobili. Una volta entrato nel salotto, Marco ebbe una sorta di déjà-vu. Fu come se avesse già vissuto quell’esperienza, come se già fosse stato in quel posto, con quella persona, Davide.

- Ti piace? – domandò Davide, con le mani nelle tasche del giubbotto.

- Sì, molto bella. Sembra casa mia. –

Davide fece un sorriso furbetto, e lì finì la sensazione di déjà-vu di Marco.

- Accomodati, non fare complimenti. – disse Davide, invitandolo a sedersi sul divano.

Davide era più giovane di lui di almeno tre anni, eppure il suo viso era quello di un uomo, non di un ragazzino. Sentimenti contrastanti attraversarono il cuore di Marco negli attimi che seguirono, mentre erano seduti sul divano. Davide parlava di come avesse iniziato a lavorare prestissimo, nonostante non facesse un lavoro in linea con i suoi studi di ragioneria, e Marco lo ascoltava, annuendo e sorridendo di tanto in tanto. In fondo, anche lui non faceva un lavoro per cui aveva studiato, e gliene parlò.

- Oh – disse Davide – E così non stai bene dove lavori? –

Marco scosse la testa, sospirando.

- E allora scusa, perché continui a lavorare là? –

- Perché lavorare è importante – rispose Marco – E poi io non sono più un bambino, in famiglia non siamo molto ricchi. Abbiamo solo una casa di proprietà, per il resto dobbiamo fare i conti anche noi con la crisi… Pensa che mio padre non usa nemmeno più l’auto, perché la benzina ha toccato livelli troppo alti. –

Davide annuì, sospirando anch’egli. – Capisco. Mi dispiace… -

- Eh, anche a me. –

- Soprattutto – aggiunse Davide – Mi dispiace per come vieni trattato. – scosse la testa – Un così bel ragazzo come te, dolce e sensibile… trattato alla stessa stregua di un animale da soma. –

Marco fece un mezzo sorriso, ma non rispose. Lentamente Davide avvicinò la sua mano a quella di Marco, ed incominciò ad accarezzargliela. Marco si sciolse lentamente, chiudendo gli occhi. Davide, interpretando il “via libera” di Marco, si avvicinò a lui, e lo prese a sé, baciandogli la zazzera di folti capelli bruni. Mentre Davide gli baciava il capo, Marco si sciolse ancora di più e istintivamente andò a cingere il collo di Davide con il suo braccio destro. Di nuovo i sentimenti contrastanti nel cuore di Marco si fecero più vividi. Da un lato era contento di quel contatto fisico, dall’altro si sentiva strano perché continuava a pensare a Rocco. Non si sentiva ospite a casa di uno sconosciuto, bensì nella sua stessa casa, e avvertiva come un’ombra alle spalle la paura che da un momento all’altro sarebbe potuto entrare Rocco (dato che aveva le chiavi di casa di Marco), scoprendo ciò che stava facendo.

Frattanto che Marco combatteva contro sé stesso, Davide aveva trovato qualcosa di meglio da fare: la sua mano destra, che prima stava carezzando l’interno coscia di Marco, ora si era infilata nei suoi pantaloni, e stava energicamente tastando i glutei. A quel punto, Marco si irrigidì. Accorgendosene, Davide si fermò.

- Che cosa c’è, Marco? – domandò.

- N… niente… è solo che… -

- Cosa? – domandò di nuovo Davide, un po’ seccato.

Non riuscendo a trovare le parole, Marco si alzò in piedi – E’ solo che… si è fatto tardi, non vorrei… -

Davide lo guardò di traverso per una frazione di secondo. A Marco non piacque quell’espressione truce, quindi decise di troncare immediatamente quello strano incontro.

- Sarà meglio che vada – disse – Grazie di tutto. –

- Conosci la strada. – disse soltanto Davide, alzandosi in piedi e voltandogli le spalle, andando verso la finestra. Marco si risentì di questo comportamento maleducato, ma non disse nulla e si avviò per la sua strada.

Una volta fuori dal palazzo, attraversò il viale, pieno di dubbi. Si guardò intorno, smarrito in tutti i sensi: quella zona di Torino gli era ignota, oltretutto non aveva i soldi per prendere un taxi né per prendere un autobus. Chiamare suo padre e sua madre era fuori discussione, giacché entrambi a quell’ora erano a fare compere al mercato, insieme ai loro amici pensionati… Dunque, che fare?

 

*****

 

Con la chiusura di bilancio, la banca lavorava anche al sabato pomeriggio, e così anche Manuel era costretto a restare lì fino alle cinque a raccogliere i dati del suo lavoro e darli in pasto al sistema contabile della banca. Sarebbe stato molto più semplice, pensava, se ci fosse stato un ufficio contabilità generale preposto alla raccolta di tutti i dati, invece ciascun settore di quella banca gestiva i propri documenti e alla fine venivano tutti fatti confluire nel sistema centrale. Sistema medioevale nonché faticoso, degno di una banca di provincia com’era quella in cui Manuel lavorava. Guardò l’orologio. Le cinque meno cinque. Evviva! Fra cinque minuti la penna sarebbe caduta e buonanotte ai suonatori. Pensò a come organizzare il pomeriggio, magari andando a fare shopping con qualcuno… Ma con chi?

Gli venne in mente che forse avrebbe potuto chiamare Marco, dato che con lui era stato molto bene la settimana prima. Tirò fuori il suo cellulare, aprendo l’editor degli sms, quando improvvisamente gli squillò tra le mani.

Era proprio Marco. Che combinazione, pensò Manuel con un sorriso compiaciuto, quindi aprì il messaggio.

“Ciao Manuel, mi sono perso. Puoi venirmi a prendere, per favore?” era il testo. Manuel sorrise di nuovo, rispondendogli.

“Dimmi dove sei, arrivo.”

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Capitolo 16
*** Quindicesimo ***


- Questo mi sembra carino – disse Manuel, guardando un paio di pantaloni aderenti – Tu cosa ne pensi, Marco? –

Distrattamente, Marco li guardò e annuì – Sì, piacciono anche a me. Ti starebbero bene. –

- Grazie. Allora, stavi dicendo…? –

- Beh… niente, alla fine sono andato via. Non mi piaceva l’idea di dover fare tutto subito… - sospirò ampiamente, mentre con le mani rovistava tra alcune camicie che potevano piacergli. Ne tirò fuori una e la guardò, era azzurrina e molto semplice.

Manuel se ne accorse, e gliela tolse di mano – Questo colore è da ambulatorio. Guarda questo, invece. – gli mostrò una camicia di differenti tonalità di azzurro, alcune sul viola. A Marco piacque moltissimo.

- Capisco ciò che vuoi dire – disse Manuel, mentre si avvicinavano ai camerini – Ma vedi, gli uomini sono così. Vogliono tutto e subito. – Si guardò intorno, constatando che c’era poca gente, e poi si rivolse a Marco – Che fai, vieni dentro con me? –

Il camerino era abbastanza largo da ospitare almeno due persone, ed aveva una porta a soffietto chiudibile. Dentro, Manuel iniziò a togliersi la giacca, poi fu la volta della cravatta e poi della camicia.

- Ma come fai a stare senza canottiera con il freddo che fa? – domandò Marco, guardandolo con quegli occhi da bimbo sorpreso.

- Ho le caldane – disse Manuel, ridacchiando. Marco si toccò la bocca trattenendo una risata, poi esplose ridendo fragorosamente. Manuel fece lo stesso, e risero allegramente per un bel po’ di tempo.

- Le ho sul serio! – esclamò Manuel, mentre Marco gli porgeva una camicia che si era scelto – A volte mi prende voglia di fare sesso, e… -

- E…? – domandò Marco, mentre si levava il maglione. Tra le maglie del tessuto intravide il petto scultoreo di Manuel, pensando a chissà quanti avrebbero voluto essere al suo posto in quel momento. Per curiosità, guardò anche più in basso, verso i suoi boxer. Doveva essere equipaggiato bene, ma non riusciva a capirlo, il tessuto dei boxer era troppo spesso. Arrossì lievemente nel fare certi pensieri, sapeva benissimo che anche Manuel intraprendeva il suo stesso ruolo, a letto.

- E… niente. Lo faccio. –

- Cosa? Lo fai? –

- Certo. Dico, guardami bene. – disse Manuel, guardandosi nello specchio verticale che c’era nel camerino – Credi che uno di quegli schifosi direbbe di “no” ad un bocconcino del genere? –

- Beh… no. –

- Esatto. Quindi, lo faccio e basta. –

- E dopo…? –

Solitamente il dopo era un problema. Cosa succedeva quando tutto finiva, quando l’orgasmo veniva raggiunto, quando finiva l’intesa?

 

*****

 

- Dopo… ti senti meglio. Ti senti finalmente riempito, almeno a livello fisico. – Manuel camminava spedito con quelle sue gambe lunghe, e il povero Marco, con quelle sue gambe da bambino, faceva non poca fatica a seguirlo. Erano usciti dal negozio da poco tempo, e ora stavano passeggiando un po’ per la città.

- Sarà … - disse Marco, avanzando velocemente dietro di lui – Ma io non ne sono tanto convinto. –

- Vieni – disse Manuel, offrendogli il braccio – Aggrappati a me, almeno non sarai costretto a fare una maratona ogni volta per starmi dietro. –

Camminando a braccetto con Manuel, Marco si sentì come una di quelle ragazze che passeggiano insieme, quelle nella canzone di Zucchero che andava di moda quando era bambino, “Donne”.

- Sembriamo due amiche che passeggiano insieme – disse ad un certo punto Manuel, quasi leggendogli nel pensiero. Marco lo guardò sorpreso, e Manuel fece altrettanto. In quel momento si creò una sorta di intesa, e si misero a ridere ancora una volta. Il cielo si stava facendo grigio, minacciando pioggia.

- Marzo pazzerello – disse Marco – Esci ch’è bello… -

- E prendi l’ombrello! – esclamò Manuel, facendo il gesto dell’ombrello.

- Dove lo prendi l’ombrello? –

- Nel buco del c……..! – esclamò Manuel ridendo.

Marco arrossì violentemente, poi si voltò, andandosene dalla parte opposta a quella dell’amico. – Dove vai? – lo chiamò Manuel, raggiungendolo, ancora ilare.

- …il più lontano possibile da quella gran meretrice che sei! – disse Marco, ridendo a sua volta. Manuel lo tirò per il braccio e rise ancora, quindi si abbassò e gli sussurrò all’orecchio.

- Dovresti provare anche tu l’ebbrezza del meretricio – disse Manuel – …fidati di me. Non te ne pentirai. –

- Sì sì – disse Marco – Quando mi decido, ti telefono, contaci. –

Altre risate da parte di entrambi. Intanto, il cielo che prima era grigio, ora si era letteralmente annerito. Un tuono fortissimo ruppe la tranquillità metropolitana, e pochi istanti dopo iniziò a piovere.

- Oh cazzo. Che palle. Odio la pioggia. – disse Manuel.

- Io anche… quando non c’è nessuno con cui dividerla. – rispose Marco.

- Andiamo? –

- Dove? –

- Boh, via da qui, prima di tutto! –

- D’accordo. –

E di nuovo Marco prese il braccio di Manuel, e si allontanarono verso l’auto di Manuel.

*** Donne
Amiche di sempre
Donne alla moda, donne contro corrente...

Negli occhi hanno gli aeroplani
Per volare ad alta quota
Dove si respira l'aria
E la vita non è vuota

Le vedi camminare insieme
Nella pioggia o sotto il sole
Dentro pomeriggi opachi
Senza gioia ne dolore… ***

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Capitolo 17
*** Sedicesimo ***


- Questo sabato ti porto a divertirti un po’ – gli aveva detto Manuel mentre gli apriva la portiera per farlo scendere a casa, sotto la pioggia. All’inizio Marco era rimasto un po’ turbato da tale invito, soprattutto alla luce delle rivelazioni che Manuel gli aveva fatto.

Spero capisca che non mi piace essere abbordato da ragazzi che non conosco, aveva pensato il ragazzo, mentre si impiastricciava i capelli di pasta modellante come gli aveva insegnato Manuel. Si guardò nello specchio, trovandosi carino, anche se non un adone. Sospirò, sentendosi un po’ teso all’idea di dover andare in discoteca gay per la prima volta.

 

*****

 

- Ci sono stato parecchie volte – disse Manuel mentre guidava – è un bel posto, pieno di bei ragazzi. –

- Ok – bofonchiò Marco, perso nei suoi pensieri.

- Ehi, che cos’hai? – domandò Manuel.

- Niente .. è solo che… ho un po’ di paura, sai… è la prima volta che vado in discoteca. –

Manuel ridacchiò con sufficienza. - Meglio che tu non lo dica troppo in giro. A ventisei anni entrare per la prima volta in discoteca è un disonore. – A quella rivelazione, Marco aprì ancora di più i suoi occhioni marroni, assumendo un’espressione da cane bastonato.

- Ma dai che scherzo. Piuttosto… - lo guardò meglio – Togliti un po’ quei fanali? –

Marco obbedì, togliendosi quegli occhiali tondi che coprivano il suo sguardo. Di solito li portava sempre, nonostante riuscisse a leggere correttamente sia da lontano che da vicino, e l’unico che l’aveva visto senza occhiali era stato Rocco, tutte le volte che avevano fatto l’amore.

- Sei uno schianto! – esclamò Manuel sorridendo. – Tu da oggi in poi resterai senza occhiali, d’accordo? –

- Ma… come? Non li porto per bellezza, questi… non vedo! –

- Lenti a contatto, amore – ribatté Manuel – Come le porto io, le porterai anche tu. –

 

Una volta arrivati, Manuel parcheggiò e scesero entrambi dall’auto. Poco lontano dal parcheggio, un nutrito crocchio di ragazzi se ne stava lì ad aspettare. Uno di questi urlò in direzione di Manuel, che allungò il passo e andò ad abbracciarlo.

- Ciao Steve – disse, abbracciandolo e baciandolo – tutto bene? –

- Vaffanculo – disse questi toccando il sedere di Manuel – Io sto bene, e te? Sono secoli che non ti fai vedere, stronzo. –

- Ho di meglio da fare che far da balia ad una torma di passive come voi – disse Manuel con una risatina, mentre salutava altri due ragazzi che si tenevano per mano. Marco immaginò che fossero fidanzati.

- Ciao Alberto, ciao Thomas – li salutò. Alberto era un ragazzo castano un po’ sovrappeso, che portava gli occhiali ed aveva tutta l’aria di essere una specie di impiegato. Thomas, quello che gli stava accanto, era tutto l’opposto: i suoi capelli rosso fuoco erano sparati all’insù, aveva dei piercing colorati all’orecchio sinistro e vestiva molto bene. Elegante ma senza essere vistoso. – Come state? –

- Bene – disse il ragazzo grosso, Alberto – Abbiamo avuto momenti peggiori. –

- In che senso? – domandò Manuel.

- Niente – intervenne Thomas – il mio cucciolone vuol dire che ha avuto un po’ da fare con il lavoro ed è stato sotto pressione… nulla di pericoloso. – Alberto sorrise, e Manuel scoppiò in una risata.

- Da quando in qua all’università c’è qualcosa da fare? Andiamo… sei un impiegato pubblico, Alby! Dillo che non fai un cazzo dalla mattina alla sera! –

- Carissimo Manuel, io sono quello che da’ gli stipendi... Quindi lì lavoro soltanto io! –

E tutti si misero a ridere. Marco compreso.

- E lui chi è? – domandò Steve – un tuo amico? –

- Ah … sì. Ragazzi, lui è Marco. Un mio vecchio compagno di scuola. –

- Piacere – disse Marco, ammezzando un sorriso.

- Piacere mio – disse Thomas, stringendogli la mano. Alberto si limitò a sorridergli e a ripetergli il suo nome, mentre Steve lo salutò e gli fece l’occhiolino. Marco arrossì.

- Bene, ora che abbiamo fatto le dovute presentazioni… che ne dite, entriamo? –

 

*****

 

La pista. Piena di ragazzi. Che ballavano, bevevano, pomiciavano. Un chiasso quasi insopportabile, che a Marco non piacque per niente. L’unica cosa bella per lui era la compagnia di Manuel, che per etichetta era andato ad intrattenersi un po’ coi suoi vecchi amici, che non erano tutti nel gruppo che gli aveva presentato all’entrata. Ce n’erano altri, che sicuramente erano degli habitué del locale. Tutti maledettamente simili se non addirittura uguali, con quelle acconciature elaborate e l’abbigliamento con la bigiotteria in bella mostra. Si chiese se per caso il nuovo ragazzo di Rocco fosse anch’egli una fashion victim come quelle che stava vedendo in quel momento. L’unico diverso, nonostante la mise in tema con la serata, era Manuel. Lo osservò da lontano: sorrideva, chiacchierava amabilmente di chissà cosa con quegli sconosciuti. Di tanto in tanto questi si voltavano a guardare altri ragazzi che passavano, poi come se nulla fosse parlavano di nuovo con Manuel. Lui sembrava brillare di luce propria in mezzo a quella bolgia infernale. Marco sapeva benissimo che tutti quei ragazzi non erano lì per ballare ma per rimorchiare qualcuno da portarsi a letto per la serata.

Ma che senso poteva avere una vita così selvaggia, passata tra serate alla spasmodica ricerca di qualcuno su cui riversare i propri istinti animali?  

Anche se…

…di notte faceva sogni strani.

Da quando Rocco l’aveva lasciato, il suo sonno non era stato più normale come prima. Aveva iniziato a sognare cose strane, di fare sesso con uno sconosciuto, di farlo con più di una persona, di essere violentato. Ad una prima battuta, che avrebbe visto come censurabili quei sogni, Marco avrebbe risposto dicendo che mentre sognava quelle cose, ci provava gusto. Ma giammai avrebbe ammesso (nemmeno con sé stesso) di aver bagnato le braghe del pigiama mentre faceva quei sogni.

Se la psicologia non è un’opinione, Marco sentiva inconsciamente bisogno di sesso.

È solo che non vuoi ammetterlo con te stesso. Pensò, mentre sotto i suoi occhi passavano i più bei ragazzi che avesse mai visto. Così ben vestiti, con quei visi perfetti… e quei vestiti, che sembravano appena usciti dalla televisione. Non che lui fosse così superficiale, di solito preferiva un brutto con un cuore ad un bello fuori ma senza cuore, però quella sera era stranamente attratto da tutti quei ragazzotti. Li guardò uno ad uno, valutando, pensando, immaginando. Chissà chi erano quei ragazzi nella vita di tutti i giorni, come si chiamavano, che cosa facevano lì, che passato avevano, ma soprattutto… Se avessero accettato di passare una notte con lui, Marco.

Improvvisamente, mentre era perso nelle sue elucubrazioni, Marco si sentì toccare la spalla. Manuel gli fece l’occhiolino e gli parlò nell’orecchio ad alta voce, per farsi sentire nella musica altissima.

- Hai trovato qualcuno che ti piace?!? – domandò Manuel, la bocca vicinissima all’orecchio di Marco, il suo alito che sapeva di menta.

Marco si voltò e rispose allo stesso modo a Manuel – Sì! Capperi, ce ne sono tanti che mi piacciono! – rispose Marco, sorridendo.

- Quale in particolare? – domandò Manuel di rimando.

Prima di rispondere, Marco si guardò intorno.

- Mi piace quello – disse Marco, e con lo sguardo si rivolse poco più avanti di sé stesso.

- Quale? – domandò Manuel – Indicamelo per favore. –

Marco indicò senza farsi notare troppo il ragazzo che lo attirava.

Con una risatina, Manuel gli rispose – Ti piace Vittorio? – rise ancor più forte.

- Perché ridi? – Marco fece un’espressione sconsolata.

- Lascia perdere – disse soltanto Manuel, evitando accuratamente di dirgli che Vittorio a letto era una frana, che quando andava bene veniva troppo in fretta, quando andava proprio male, non gli tirava nemmeno. Di lui Manuel sapeva solo che era complessato a livelli stratosferici per via del suo lavoro, e che prendeva psicofarmaci. Infatti si stupì di vederlo sorridente, quella sera. Sicuramente aveva preso una buona dose di Prozac appoggiato al lavandino del bagno, prima di uscire di casa.

Marco scosse la testa, sospirando. Nel frattempo si guardò intorno. Poco lontano da loro, c’erano Alberto e Thomas che ballavano abbracciati. Thomas aveva le braccia intorno al collo di Alberto, e questi gli cingeva la vita. Si guardavano negli occhi, sorridendosi dolcemente. Immaginò che nonostante il chiasso della musica, loro riuscissero a sentirsi comunque. Si sentivano ad un livello superiore, quello del cuore. Quella dimensione dove ogni attimo è prezioso e ti sembra che scivoli via troppo in fretta, e vorresti non finisse più, dove non ti chiedi più che senso ha la vita, perché guardi negli occhi il tuo compagno e trovi tutte le risposte. Marco sospirò guardando quei due teneri amanti, così diversi fisicamente eppure così affini che sembravano avvolti da un’aura rosa di felicità.

Accanto a lui, Manuel pensò quasi le stesse cose, ma scuotendo la testa. Soltanto una decina d’anni prima lui si sentiva proprio come si sentivano i suoi due amici in quel momento, con Adelmo… Poi qualcuno aveva deciso che non era più una cosa possibile, ed era finita. Che senso aveva innamorarsi, volare così in alto, se c’era costantemente il rischio di cadere e addirittura morire? Lui era caduto da parecchi chilometri sopra le nuvole, e non era morto, anche se c’era andato parecchio vicino. Ricordi si fecero strada nella sua mente. Il flash di un lavandino, un rubinetto che vomitava acqua fumante. Poi di nuovo lo sguardo di Manuel tornava sulla pista, con tutta la sua gente ed i suoi amici che ballavano. E un altro flash. Le sue mani appoggiate al lavandino che lentamente si stava riempiendo del caldo liquido chiaro.

- Manuel, cos’hai? – la voce di Marco che gli parlava, ma che era solo un mero sussurro per la sua mente, lontana anni luce da quel momento. Ignorandolo, Manuel si allontanò, facendosi strada tra la gente, diretto verso un posto più consono.

Il bagno era affollato da chi aspettava che si aprisse una delle quattro porte dei gabinetti. Manuel si accasciò accanto ad un lavandino, con la testa che gli girava. Aprì il rubinetto e si sciacquò il viso. Improvvisamente l’acqua cambiò di colore, diventando rossa come il sangue… E nelle sue mani vide il rasoio di suo padre macchiato. Strabuzzò gli occhi, sciacquandosi nuovamente il viso. Poco dopo sopraggiunse Marco, che lo apostrofò preoccupato – Manuel? Non ti senti bene? – domandò.

Manuel lo guardò come se fosse stato un alieno, come uno sconosciuto. Poi scosse la testa e si sforzò di sorridere.

- Sto bene – tagliò corto – Devo solo aver bevuto troppo. Che ore sono? –

Marco guardò l’ora sul display del suo vecchio Ericsson. – Le tre e un quarto – dichiarò, grave.

- Che dici, alziamo i tacchi? – domandò Manuel.

Marco annuì, continuando a guardarlo preoccupato.

- E smettila di guardarmi così – disse Manuel, arrufandogli i capelli. Marco protestò allegramente, felice di sapere che il suo amico stesse bene.

- Non me la sento di guidare, però – disse ad un certo punto Manuel – Guida tu, vuoi? –

- Certo! – disse con entusiasmo Marco, che da quando aveva preso la patente non aveva più toccato un volante in vita sua.

- Bene. Andiamo allora. – dichiarò Manuel, e insieme, mano nella mano, si avviarono all’uscita.

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Capitolo 18
*** Diciassettesimo ***


L’amore è una cosa strana. Incredibile. Inspiegabile. Agli inizi della sua militanza nel mondo omosessuale, visto che ciò che cercava non si trovava (se non con scarse probabilità) nella testa di un suo coetaneo, Manuel aveva provato in maggioranza uomini di mezza età, seri, intelligenti e facoltosi sia economicamente che interiormente. In quegli uomini che somigliavano al padre che non aveva mai avuto, Manuel trovava un’interiorità immensa, anime forti ma allo stesso tempo dolci, che erano felici di coccolare lui, un piccolo cucciolo di soli diciannove anni. Manuel faceva tanto il forte, quello che non si scomponeva mai di fronte a nulla, che dimostrava di essere indistruttibile, ma Dio solo avrebbe saputo dire di quante coccole avrebbe avuto bisogno…

Il signor Chiaravalle era un uomo incredibile. Riusciva a fare due lavori contemporaneamente, vendere case e comprarne altrettante, per poi rivenderle. Un immobiliarista di tutto rispetto, che se solo si fosse applicato di più nel suo lavoro, avrebbe potuto comprarsi l’intera Torino, edifici pubblici esclusi. Sua moglie era molto avvezza allo shopping, al quale dedicava parecchie ore del suo tempo, senza tuttavia intaccare il patrimonio familiare, per quanto si sforzasse a colpi di carta di credito (del marito). Era una mantenuta, che faceva la segretaria part-time presso una casa editrice, e che nonostante avesse dato il nome a suo figlio, non lo considerava più del necessario. Durante la sua infanzia la stanza di Manuel era stata piena di giocattoli, belli e nuovissimi, ma lui ci giocava poco e niente. Una volta imparato a leggere, il piccolo Manuel incominciò a scoprire i libri, appassionandosi di romanzi d’amore che leggeva sua mamma prima, e di libri fantastici poi. Lesse “Il Signore degli Anelli” in poco meno di un mese, e all’età di quattordici anni arrivò a scrivere un racconto mai pubblicato, capendo così che la sua strada sarebbe stata orientata verso la letteratura e la filosofia. Con una famiglia così, aveva sempre avuto la strada spianata verso tutti gli obiettivi della vita, ma con il denaro non aveva mai potuto comprare la cosa che gli mancava di più: un po’ di affetto familiare.  

- Papà, perché non ci sei mai a casa? – era solito domandare Manuel quando, da piccolo, vedeva suo padre, in giacca e cravatta, tornare dal lavoro.

Come sempre, quando il figlio gli rivolgeva quella domanda, lui non rispondeva. Si limitava ad andare nella sua stanza da letto, spogliarsi e mettersi a dormire. E il piccolo Manuel restava lì, sul tappeto, a parlare con Nobo, il suo orsacchiotto. Con il tempo, la voglia “di papà” che aveva Manuel anziché sopirsi si acuì sempre di più, fino a che il ragazzo non si fidanzò con l’anziano Adelmo. L’amore non ha età. Non ha forma. Non ha una spiegazione.

E Manuel ci credeva. Sperava soltanto che finalmente sarebbe arrivato, colui che gli avrebbe dato tutto l’amore di cui aveva bisogno, al lordo degli interessi.

 

*****

 

Dopo che Adelmo l’ebbe lasciato, in quella piovosa sera, Manuel passò giorni bui. Si sentiva sperduto, abbandonato. Si svegliava con il cuscino bagnato di lacrime, provava ad alzarsi per andare all’università ma immancabilmente si rimetteva sotto le coperte e chiudeva gli occhi. Nonostante il buio pesto che c’era nella stanza, lui non riusciva a trovare pace. Riviveva più e più volte quel maledetto momento, quando il suo uomo gli diceva che non poteva più andare avanti così. Chissà quanti suoi coetanei avrebbero voluto avere un ragazzino di diciannove anni come fidanzato, e invece lui aveva buttato al vento quell’opportunità… Perché lo aveva fatto? Era a questa domanda che non riusciva a rispondersi. In quei giorni aveva perso ogni cognizione di spazio e tempo. Ormai erano entità che non avevano più alcun senso per lui. Naufragava in un oceano di dolore e frustrazione. Non ce la faceva più, e i suoi genitori non gli erano di nessun aiuto.

Così una mattina, al colmo della disperazione, si alzò dal letto. In casa non c’era nessuno, entrambi i genitori erano al lavoro. Uscì dalla stanza e si diresse in bagno. Sapeva che sua madre teneva una scorta di tranquillanti nell’armadietto dei medicinali, anche se giudicava una cosa innaturale dover prendere dei medicinali per ristabilire un equilibrio mentale. Purtroppo però il suo equilibrio mentale era quello che era in quei giorni, e con gli esami in avvicinamento, doveva fare qualcosa.

Frugò nell’armadietto, estraendone aspirine, cerotti, bende, disinfettanti… Quando questi furono tutti sul pianale della lavatrice in bella mostra, Manuel si ritrovò a contemplare l’armadietto vuoto. I tranquillanti non c’erano. Guardò di nuovo il campionario dei medicinali, sentendo di nuovo la disperazione che si impadroniva di lui facendolo piangere. Prese in mano delle gocce, ma non era tranquillante, bensì collirio.

- No.. no… - piagnucolò, sedendosi sul water a gambe incrociate, accasciandosi al muro e piangendo come un bimbo. Niente tranquillante. Le opzioni erano due: tornare in camera e mettersi a letto, oppure uscire e andare a comprarne una scatola o una boccetta. Mentre piangeva, vide sul lavandino qualcosa che luccicava: suo padre era da sempre stato un tradizionalista, tanto che per radersi non utilizzava i rasoi convenzionali o quelli elettrici. Lui usava un vecchio rasoio apribile con la lama lunga, di quelli che si vedevano presso i barbieri, oppure nei vecchi film. Quella lama, così perfetta e scintillante, sembrava un passaporto nelle mani di chi voleva fuggire. Lo richiamava irresistibilmente, promettendogli un mondo migliore e la risoluzione di tutti i mali, una volta che l’avesse utilizzato.

Velocemente, aprì a tutto regime il rubinetto dell’acqua calda. Mise il tappo nel lavandino e attese. L’acqua scorreva forte, fumante. Talmente calda che il vapore appannò lo specchio per più di metà. Nell’altra mano Manuel stringeva il rasoio, non sapendo bene da che parte incominciare. Se avesse dovuto dare un colpo secco mentre era con la mano nell’acqua calda, se avesse dovuto bagnarsi la mano e poi tagliare… se avesse dovuto tagliare una volta dentro.

- E poi, cosa succede? – si domandò, lentamente. Quella domanda rimase sospesa nell’aria, finché non sentì una vocina dentro di sé.

Non succederà niente. Proprio niente. Non lo saprai mai, perché quando si è morti, non si ha più cognizione di nulla. Nulla esiste più, soltanto il riposo eterno.

Si guardò nello specchio, tenendo il rasoio alto. Della vita e della morte aveva studiato parecchio in filosofia, ma non ne sapeva abbastanza da poter dire che cosa ci sarebbe stato dopo. Il problema era se sarebbe stato veramente utile. Non sapeva nemmeno quello. Sconsolato, schiacciò il pulsante che comandava l’apertura del tappo del lavandino, provocando lo sgorgare dell’acqua giù per il tubo. Ripose il rasoio dove l’aveva trovato e rimise a posto le medicine nell’armadietto. Pianse di nuovo e se ne tornò a letto. Anche se non avrebbe dormito per sempre, almeno avrebbe potuto sperare che il giorno dopo sarebbe stato migliore.

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Capitolo 19
*** Diciottesimo ***


A qualche isolato di distanza dalla casa di Manuel (dove quest’ultimo si era appena alzato e stava facendo colazione ripensando al sogno che aveva fatto), c’era Marco che passeggiava tranquillo e beato. Fare shopping in centro non era mai stata una delle sue priorità, ma da quando aveva incontrato Manuel ed era uscito con lui una volta, gli era venuta voglia di tornare in un negozio e vedere se c’era qualcosa per lui.

Sotto l’alto porticato c’erano tanti negozi, soprattutto caffè, ma oltre a questi c’erano anche tanti negozi d’abbigliamento in fila, con le vetrine zeppe di capi d’abbigliamento freschi e giovanili. Marco si avvicinò ad una vetrina, guardando i vestiti sui manichini: ce n’era uno che gli piaceva particolarmente, un completo anni ’70 composto da un paio di pantaloni beige, una camicia azzurrina ed un pullover, ed un paio di scarpe di camoscio. Il prezzo era un po’ altino, ma quel vestito forse avrebbe valso la pena di sputtanarsi un quarto di stipendio. Per una volta…

Entrato, andò a cercare quei tre capi che componevano il vestito, trovandoli quasi subito (Manuel gli aveva insegnato come fare a beccare i capi nelle vetrine) ed entrò nei camerini. Dentro, si osservò allo specchio, constatando di essere sempre quel ragazzo rachitico e sparuto che era sempre stato… Ripensò a Rocco, alla sua pancetta compatta, che tanto gli piaceva accarezzare, e guardò il suo magro torace e le sue braccia quasi scheletriche. Pensò che gli sarebbe servita un po’ di palestra, e chissà se Manuel… Ma accantonò immediatamente l’idea. Non gli era mai piaciuto mescolarsi ai muscolosi, e poi l’unico sport che aveva fatto in vita sua era sempre stato uno solo…

…Improvvisamente, sorrise. Lo sport che aveva sempre fatto in vita sua.

 

*****

La palla rimbalzò dalle mani di Manuel a quelle di Alberto, poi passò alle mani inanellate di Thomas, che schiacciò una potente cannonata verso la rete avversaria, segnando un punto.

- Yeah! – esclamò, battendo entrambi i palmi delle mani contro quelle di Manuel e Alberto, non risparmiandosi di regalare anche un bacio a quest’ultimo, condendolo con un occhiolino.

- Fantastico servizio come al solito, vecchia baldracca – lo canzonarono gli altri tre al di là della rete – Avete un arbitro venduto, ecco la verità. –

- Ma… io … - si difese debolmente Marco, che se ne stava lì in un angolo con il fischietto in mano ad arbitrare e segnare i punti delle due squadre. Era partito in quarta con l’intento di giocare a pallavolo, proprio come faceva alle scuole superiori, però poi aveva desistito, essendo troppo digiuno di allenamento, e così Manuel l’aveva messo a fare l’arbitro.

- Non parlate male di Marco – disse Manuel alzando la mano – E’ bravo e sa arbitrare bene, con giustizia. –

Marco annuì, sorridendo all’amico che gli fece un occhiolino e gli alzò il pollice, come per dirgli “Va tutto bene, stai andando benissimo”. Gli altri risero, ma si prepararono ugualmente ad un nuovo set.

Marco fischiò l’inizio del nuovo set, e la palla iniziò a muoversi di giocatore in giocatore. Il sole era troppo forte a quell’ora del pomeriggio, così Marco dovette pararsi un po’ gli occhi con una mano, maledicendo il giorno in cui non si era deciso a tornare dall’ottico e farsi fare un paio di occhiali da sole. Seguire la palla con mezzo occhio non era facile, così cercò di spostarsi un po’ più in là, sulla fascia opposta del campo, dove il sole batteva di meno. Una volta posizionatosi, si girò. E vide qualcosa che non si vede tutti i giorni: dal viale di accesso al campetto stava entrando un ragazzo. Alto, biondino e fisicato. Sulle spalle reggeva una sacca da allenamento (probabilmente con i suoi vestiti borghesi, dato che era vestito con una tipica divisa da pallavolista) e che si avvicinava a lui sorridendogli. Poteva avere circa ventuno, forse ventidue anni… Marco strinse il fischietto in bocca, spalancando gli occhi dalla sorpresa. Con suo sommo stupore, scoprì di essere ancora schiavo degli istinti fisici, quando all’improvviso il suo pene s’indurì ed il suo corpo si rilassò quasi interamente, compreso il suo sedere. La visione di quella specie di dio greco a Marco sembrò durare un’istante infinito, mentre in tempo reale furono soltanto pochi secondi. In quei pochi secondi Marco si rese conto di non essere così triste da non riuscire a provare qualcosa per qualcuno, e ne fu felice.

Sfortunatamente per lui, la partita era ancora in corso.

- Marco! Attento! – urlò Manuel all’indirizzo dell’amico, ma questi non si voltò fino a che la palla non gli fu a due millimetri dal naso.

SBAMMMM!!!!

La pallonata colpì Marco in faccia con talmente tanta forza da fargli saltare via gli occhiali, che furono proiettati indietro rispetto a lui, mentre rovinava sul battuto rossastro con tutta la leggerezza dei suoi sessantacinque chili, la zazzera di capelli che danzava nell’aria ed il pallone che dopo aver colpito il bersaglio si allontanava nell’aria, per poi ricadere sul terreno. Dopo un istante di buio, Marco si ritrovò a terra, le orecchie che gli fischiavano, il naso ed il labbro che gli dolevano.

- Marco! Marco! Oh dio mio! – esclamò la voce di Thomas, il ragazzo rosso, di cui Marco vide soltanto la sagoma sfuocata. Subito gli si avvicinarono nell’ordine: le sagome di Manuel e poi quella di Alberto… e poi… una sagoma sconosciuta, che alle spalle aveva una cosa che somigliava ad una sacca sportiva.

- Cazzo che botta! – esclamò una voce a lui sconosciuta, mentre un paio di mani si misero sotto le sue ascelle, cercando di tirarlo su. Lui provò a proferire parola, ma gli uscì solo un lamento strozzato.

- Oddio guardate come sanguina! – disse Thomas – Marco, ci senti? –

- Amore guarda che ha preso una pallonata, non è diventato sordo. – rimarcò Alberto.

- Grazie amore, se non ci fossi stato tu non ci sarei arrivato da solo! – rispose ironico Thomas, massaggiando le gambe al povero Marco.

- Smettetela ragazzi – disse Manuel – portiamolo in infermeria. –

 

*****

 

O-O-O-O-Orzoro

È buo-o-o-ono

Con tutti proprio tutti

I bei bambini-ni

Nel latte del mattino

E poi quando ti va

Si beve ch’è un piacere

E va giù ch’è una bontà!

 

Ogni sera, dopo i compiti, Marco si concedeva un po’ di Carosello. Sua madre e suo padre erano lì sul divano, mentre lui sedeva sul tappeto, con i suoi grandi occhiali di tartaruga che nascondevano occhi interessati a ciò che accadeva nel video. Ora stavano passando la sigla del caffè d’orzo “Orzoro”, e lui sorrideva divertito dalle animazioni. Sua madre scosse la testa divertita, mentre suo padre gli batté le mani a ritmo della canzone.

- Ti piace la canzone dell’Orzoro, néh? –

Marco annuì, girandosi verso il genitore – Sì sì! – esclamò, contento – è la cosa più bella che ci sia!!! –

- Beata gioventù – disse sua madre – Che bello poter essere bambini di sei anni e riuscire a provare entusiasmo per una cosa così piccola. –

Intanto nel video la musica continuava, e lo slogan recitava Solo Orzoro è Orzoro! Tutto Orzo… Tutto Oro! La buona colazione ve la da’… Orzoro! La confezione col campo giallo.

Così finiva lo spot, e subito ne cominciava un altro, ancora più divertente del predecessore. Questo era lo spot dei biscotti Doria, con il suo divertente Capitan Giramondo e l’altrettanto divertente Oracolo. Marco si metteva sempre a ridere quando ascoltava le storielle in rima del pingue signore baffuto, che girava il mondo in compagnia del suo assistente sordomuto, a ritmo del suo Tacabanda!

- Ahahah! – rise Marco – Mamma! – chiamò. Sua madre si voltò verso di lui, sorridendo.

- Dimmi, Marco. Cosa c’è? –

- Mamma, non finirà mai Carosello, non è vero? –

La donna guardò suo marito, senza sapere bene cosa dire. La televisione era un prodotto ancora molto giovane per quei tempi, e chi avrebbe mai saputo dire per certo se fra una ventina d’anni ci sarebbe stato ancora Carosello? Invocò aiuto dal marito, che le rispose con uno sguardo.

- Beh, amore… Ma certo che no. Non finirà mai, sarà sempre qui a tenerci compagnia la sera. –

- Yu-huu! – esclamò Marco felice, tornando a guardare il video. Ora il cantastorie terminava la sua comparsata con un’ultima rima, che scandiva il nome del prodotto.

Poi tutt’un tratto, l’immagine si sfuocava e Marco cominciava a perdere i sensi…

 

*****

 

Quando aprì leggermente gli occhi, oltre alla nebbia dovuta alla sua miopia, vide anche lo sguardo di una persona che lo fissava da molto vicino.

- Mmmm… -

La faccia che aveva davanti non proferì parola.

- Mamma…? Mi porti il caffè d’orzo a letto…? –

- Eh…? – domandò la voce.

- In che anno siamo? – domandò Marco.

La faccia guardò verso un punto indefinito, poi rispose – 2011. – scandendo bene la parola.

- Uhhh… quanto ho dormito. –

- No, più che altro quanto è stata forte la botta – disse di nuovo la voce.

Marco strizzò gli occhi, per cercare di mettere a fuoco dove si trovasse e con chi. Ricordava solo di essere andato a giocare a pallavolo con Manuel ed i suoi amici della discoteca, di aver fatto l’arbitro e poi di aver ricevuto una pallonata in faccia talmente forte da farlo cadere e battere la testa. Quando fu sicuro di aver messo a fuoco abbastanza, si girò verso chi gli aveva parlato. Questi era il ragazzo di prima, quell’angelo disceso dal cielo che gli aveva fatto ritornare gli istinti maschili. Spalancò gli occhi, e lo vide in tutta la sua bellezza. Questi gli sorrise amichevole e lo prese in giro.

- Che c’è? Guarda che non sono un fantasma, non sei ancora morto. – disse, ridendo.

- Ahah. – ridacchiò Marco, circostanziale – Dove sono? –

- Nell’infermeria del campo sportivo. Hai preso una pallonata che a confronto una cannonata sarebbe stata più leggera. –

- Chi è stato? – domandò Marco.

- Mi sembra sia stato Thomas… -

- Chi? – domandò Marco, poi si rese conto di sapere chi fosse quel ragazzo – Ah già, Thomas… Tu lo conosci? –

- Se l’ho nominato vorrà pur dire che lo conosco, ti pare? –

- Umpf – brontolò Marco. La testa iniziò a dolergli. – Ahio – si lamentò, e il ragazzo gli toccò una gamba. Marco la ritrasse con imbarazzo, dato che era piena di peli.

- Rilassati – disse lui – Hai preso una bella botta, stanno decidendo se portarti in ospedale per farti delle lastre oppure no. –

- Lastre? Ma va là, ho soltanto battuto un po’ la testa, non c’è niente di cui preoccuparsi. –

Il ragazzo fece spallucce, non sapendo cosa dire – A proposito, io mi chiamo Martin. Piacere di conoscerti, Marco. – disse, e gli porse la mano.

Marco strinse debolmente la mano del ragazzo, sentendosi un po’ imbarazzato da quel contatto. Il ragazzo era bellissimo e gli stava provocando un altro accesso di sessualità, che questa volta avrebbe fatto fatica a dissimulare: era senza pantaloncini, dovevano averglieli tolti per farlo respirare. Era rimasto con le sole mutande a coprire le sue vergogne, mentre il suo corpicino costellato da un po’ di pelo qua e là era esposto in bella mostra. Arrossì, e distolse lo sguardo dagli occhi di Martin.

- Imbarazzato? – ridacchiò Martin, divertito – Di ragazzi nudi ne ho visti un sacco, io. Non ti devi mica vergognare. –

Marco non rispose, troppo preoccupato ad arrossire. Martin gli sorrise, e quando Marco si girò per ricambiare, questi gli strizzò l’occhio.

- Però… non ho mai visto nessuno così carino e maschile come te. – disse, provocando ancora di più l’imbarazzo di Marco.

- Ah … no? –

- No. – rispose Martin, allungando una mano.

- Ehi, ma che …? –

- Buono… - disse Martin – Voglio solo fare una prova. –

Con la mano Martin tastò il petto di Marco, che nonostante la magrezza era ben scolpito e delineato.

- Senti.. s… siamo in un’infermeria, un posto pubblico… non dovresti… -

Ma Martin lo ignorò, continuando a toccarlo. Marco chiuse gli occhi, cercando di rilassarsi, quando all’improvviso entrarono Manuel, Thomas e Alberto. Martin fu lesto a ritrarre la mano, ma a Marco sembrò che Alberto se ne fosse accorto, e lanciò un’occhiataccia di disappunto a Martin, che gli strizzò l’occhio furbescamente, come per dire “Ti ho fregato ancora una volta, grosso imbecille”. Quello sguardo non gli piacque per niente.

- Ah bene, vedo che il nostro bello addormentato si è svegliato – esordì Thomas – dì un po’ tu – disse, rivolgendosi a Martin – non l’avrai mica baciato, grandissima puttana? –

- Ci stavo arrivando, se solo non foste arrivati voi a rompermi le uova nel paniere. – ribatté Martin. Manuel rise, e Thomas anche. L’unico che non rise fu Alberto, che si limitò ad ammezzare un sorriso. Si vedeva lontano un chilometro che i due non si piacevano, ed era facile intuire il perché: Martin era un bel ragazzo, magro, atletico e dal fisico scultoreo, mentre Alberto era un po’ sovrappeso e non bellissimo, ma bensì un ragazzo normale come pochi ce n’erano nel mondo omosex.

- , Marco… ti senti meglio? – domandò Manuel, prendendo in mano quella di Marco.

- Prima stavo meglio – dichiarò il ragazzo, guardando Thomas. Il ragazzo fece una smorfia di disappunto, poi si mise una mano dietro la folta chioma di capelli rossi e disse – Scusami! Quando schiaccio ci metto tutta la mia potenza… Non volevo farti male. –

- Va be’… perdonato. – disse Marco, nonostante la testa gli facesse male e gli risultava difficile parlare.

- Vuoi qualcosa, Marco? – domandò Alberto.

- Sì. Mi prendereste un Orzoro, per favore? –

A quella richiesta, tutti i presenti lo guardarono sorpresi.

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Capitolo 20
*** Diciannovesimo ***


- Certo che chiedere un caffè d’orzo dopo aver ricevuto una botta del genere, è proprio normale, eh? – disse Alberto, burbero come al solito, mentre sorseggiava un’acqua tonica al tavolino del bar.

- Amore, dai… - lo esortò Thomas, dandogli di gomito – …possibile che ogni ragazzo nuovo che entra nella compagnia, tu debba essere così diffidente nei suoi confronti? –

Alberto scosse la testa, borbottando qualcosa di incomprensibile, poi disse – Ma che dici? Ho solo detto che non mi sembra tanto normale che uno chieda un caffè d’orzo dopo che ha beccato una pallonata in faccia, ecco! –

Quando Alberto e Thomas litigavano, sembrava di vedere Raimondo e Sandra. Manuel pensava che fossero così teneri a battibeccare così, come una vera coppia sposata. D’altronde non erano poi così lontani dall’esserlo: convivevano da quasi un anno e non aveva mai sentito né l’uno né l’altro lamentarsi della loro vita. Erano sempre felici di stare insieme, e nonostante la vicinanza riuscivano ad avere anche momenti di libertà: non era raro infatti che Thomas uscisse con Manuel a fare shopping, o che Alberto si prendesse dei giorni di libertà per coltivare i suoi hobby preferiti. Erano una bellissima coppia, che non era troppo soffocante ma nemmeno troppo distaccata. Un giusto equilibrio.

- Manuel, scusalo… ormai lo conosci, questo burbero del mio ragazzo. Pensa sempre che qualcuno mi metta gli occhi addosso e fa di tutto per mostrare la sua supremazia… - ridacchiò Thomas. Alberto storse un po’ la bocca e sorseggiò ancora dell’acqua tonica.

- Ma cosa vuoi che dimostri la mia supremazia… non ne ho bisogno! Siete tutte delle bimbe passive…! – esclamò, e Thomas prese a dargli degli schiaffetti sulla guancia, ridendo.

- Scemo! – disse – Senti quant’è passiva la mia mano! – il suono degli anelli sulla pelle pienotta di Alberto fu un suono chiarissimo e divertente. Manuel rise.

- Però ha ragione – disse calmo Manuel, appoggiando la fronte alla mano destra e guardando fuori dalla vetrata. C’era un uomo distinto che passeggiava mano nella mano con sua moglie ed un bel bambino, e lui restò in contemplazione, mentre i due prima litigavano e poi si baciavano dolcemente.

- Come, ha ragione? – disse Thomas – anche a Marco piace stare sotto? –

- Già. –

- Uuuh. – la bocca di Thomas si conformò a quella di tanti suoi compatrioti francesi, formando un sedere di gallina per lo stupore. – Davvero? A vederlo, non l’avrei mai detto… con quella barbetta, quegli occhiali… Sembra il re degli attivi! –

- Ehmm ehmm! – si schiarì la voce Alberto – Tesoro, ma l’hai visto bene? È alto un metro e un cicles, come fa ad arrivare al sedere di un ragazzo, con la scaletta dei vigili del fuoco?!? –

- Volgare! Sei volgare e meschino, amore! Se pensi che il ruolo di una persona dipenda dall’altezza o dal peso, allora Manuel che sembra un giocatore di pallacanestro dovrebbe essere un attivone senza mezze misure e tu dovresti essere una passiva da primato! Sei cicciottello e si sa che molti passivi sono ciccioni! –

- Non sono ciccione prima di tutto! – si scaldò Alberto, mentre Manuel ridacchiava – Sono soltanto un po’ sovrappeso, e comunque non giudico le persone dalla loro altezza, ci mancherebbe altro! – E come gesto di stizza incrociò le braccia sul petto, guardando un punto indefinito sul tavolino del bar.

- Umpf – mormorò Thomas, poi tornò a rivolgersi a Manuel – Comunque volevo dire che Martin non gli staccava gli occhi di dosso. –

- Sì, l’ho notato anch’io. – disse Manuel, con un’espressione neutra.

- E hai notato che cos’ha fatto quando l’abbiamo caricato per portarlo in infermeria? –

- No. Che ha fatto? –

In quel mentre Alberto si alzò, diretto forse alla toilette, e Thomas si protese verso Manuel, che porse l’orecchio per ascoltare la confessione.

- Mentre lo trasportavamo, gli ha toccato il culetto! – Thomas ridacchiò mentre pronunciava la parola “culetto”, e Manuel spalancò gli occhi, ridacchiando a sua volta.

- No. Sul serio!? –

- Sì, sì! – disse Thomas – Gli ha fatto una bella palpata, e Marco che era senza sensi, non s’è accorto di nulla! –

- Ahahah! Oh cavolo… hai capito il ragazzino… -

- Già… che tempi. E pensare che io alla sua età ero più cortese…! –

Manuel evitò di ridere, ben conoscendo la fama che aveva il giovane Thomas ai tempi dell’università. Correvano voci su di lui che si accucciasse sotto le scrivanie dei docenti, e che per pagarsi gli studi intrattenesse in bagno studenti di tutte le età, e che era pronto a fare qualunque cosa dietro pagamento. Ovviamente lui aveva sempre negato certe dicerie, ed il fatto che fosse fidanzato con Alberto già da un anno confermava la sua serietà, anche se Manuel non ci avrebbe messo la mano sul fuoco, sulla verità o meno di certe leggende metropolitane. Per tutti erano solo leggende che dovevano dipingere il bel Thomas come una troietta, leggende create giusto per ridere un po’. Solo che a Thomas non facevano ridere per niente.

- Ormai i diciottenni sono più esperti. Beata gioventù… - mormorò Manuel, accavallando le gambe e guardando ancora una volta fuori.

- Per me quello è cotto. –

- Chi? – domandò Manuel, scuotendo la testa.

- Martin. Per me è cotto del tuo amico Marco. A lui piacciono i ragazzi un po’ più grandi. –

- Eh, ma Marco non dimostra i suoi ventisei anni! Ne dimostra almeno una decina di meno! –

- Forse … ma se è così, allora Martin sta cambiando bandiera e ora li preferisce della sua età. –

- Bah… Comunque, se così fosse… auguri. – disse Manuel, facendo spallucce.

- Sei un po’ invidioso, eh? –

- Di chi, di Marco? –

Thomas annuì, con l’aria di chi la sa lunga.

- No, assolutamente no – rispose Manuel – Io cerco gente con la testa sulle spalle, non diciottenni che vogliono infilarmelo nel didietro solo per provare un’esperienza nuova. –

- Ah, sentitela, la nobildonna. Non dirmi che rifiuteresti un boccaglio ad un bel ragazzino che si abbassa la cerniera e te lo tira fuori in un negozio d’abbigliamento? –

Thomas era un gran bravo ragazzo. Era gentile e dolce, soprattutto molto generoso, però alcune volte aveva delle cadute di stile che non facevano altro che confermare le voci che correvano su di lui prima che si fidanzasse.

- E invece te lo dico. Rifiuterei, perché non è quello che voglio. –

- Ne sei sicuro? – incalzò Thomas, sorridendo maleficamente, come un diavoletto. Se avesse avuto le corna ed un forcone, con quei capelli rosso fuoco sarebbe potuto sembrare proprio un inviato dall’inferno.

Manuel rise – Certo che ne sono sicuro! La domanda è transitiva: bisognerebbe vedere quale diciottenne rifiuterebbe me, se mi abbassassi i pantaloni nel camerino di un negozio! –

Thomas rise con lui – Be’, forse quello a cui non piacciono i fossili! – rise più forte, ma Manuel si raffreddò.

- Molto spiritosa, cara. Davvero, mi hai fatto ridere. –

- Ma dai, scherzavo…! Non prendertela! – e ridacchiò ancora sotto i baffi.

A quel punto Manuel si scurì, e si alzò dal tavolo, andando verso il bancone del bar a pagare il suo conto, lasciando Thomas a crogiolarsi in un piccolo dispiacere, al quale sicuramente avrebbe riparato il giorno dopo, magari andando a fare shopping con Manuel.

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Capitolo 21
*** Ventesimo ***


“Cogli l’attimo fuggente”, recitava l’idea principale del film omonimo del 1990. Cogli l’attimo fuggente, l’occasione che ti farà cambiare la vita, il momento chiave, ciò che nella vita capita poche volte, o addirittura una volta sola. Difficile riconoscere quando effettivamente un momento è chiave, ma non altrettanto difficile è saperlo cogliere. A Marco sarebbe bastato vedere la palla almeno dieci secondi prima che gli atterrasse sul viso facendogli perdere i sensi, mentre a Martin sarebbe bastato andare in infermeria e baciare Marco mentre era privo di sensi. Sicuramente Marco in quelle condizioni aveva avuto ben poche possibilità di cogliere qualunque attimo, però sentiva che voleva conoscere quel bel ragazzo, che appena si era risvegliato era andato via (deludendolo ampiamente, perché pensava sarebbe rimasto), lasciando solo Marco a bere il suo caffè d’orzo. L’avrebbe mai rivisto? Continuava a chiederselo, ma le probabilità erano molto scarse… figurarsi poi se un bel ragazzo come quello si sarebbe sprecato accanto ad un ragazzotto come Marco. Amore, se non la smetti di dire che sei brutto, ti tiro un pugno che ti faccio diventare brutto veramente! Era la scherzosa minaccia che solitamente gli faceva Rocco, il suo ex ragazzo, per dirgli di non fissarsi di essere brutto, perché non lo era. A chi l’avesse visto da lontano, Marco appariva basso e dallo sguardo perso nel vuoto, con quegli occhioni grandi e marroni spalancati su tutta la fantasia del mondo, e quei capelli dello stesso colore degli occhi, così arruffati e pieni di vita, ispiravano a toccarli per la loro morbidezza. D’accordo, l’altezza era molto inferiore a quella media di un ragazzo della sua età, però c’era da dire che la sua statura lo faceva sembrare più giovane dei suoi ventisei anni, tanto che per sembrare un po’ più maschile, aveva iniziato a farsi crescere barba e pizzetto.

- Uff… questa barba mi prude proprio – borbottò Marco, mentre, seduto sul tram, si grattava la guancia destra. Il ritorno dal lavoro era sempre una gioia anche se pure quel giorno i capi gli avevano rotto le scatole a puntino, e si era stressato a tenere buoni dei clienti che avevano perso le loro spedizioni, mentre nella sua testa si faceva sempre più strada la convinzione di dover mollare tutto e cercare un altro lavoro. O darsi all’ozio in casa sua. Unico pensiero fisso in tutto quel mare di stress, restava solo il bel ragazzo, di cui aveva appreso il nome da Manuel: Martin.

Ormai erano passati alcuni giorni da quando era successo il fattaccio. L’unico ricordo che restava di quel giorno era un grosso cerotto sul naso di Marco ed un paio di vecchi occhiali da vista rotondi con la solita montatura di tartaruga, visto che gli altri avevano visto la fine sotto il colpo mortale del pallone da volley. Dopo tutti quei giorni, e dopo che il ragazzo non s’era visto nella compagnia che adesso frequentava insieme a Manuel, Marco cominciava a pensare che non l’avrebbe più rivisto. Finché…

Lo zainetto della palestra. Era lì, appoggiato alla porta della sua stanza da letto, da quel giorno. Vedendolo tornare dall’allenamento con il naso incerottato e la testa fasciata, la madre di Marco l’aveva riempito di domande ed espressioni preoccupate, a cui Marco aveva risposto coerentemente, seppur con una velata seccatura. Così, lo zainetto era rimasto lì con la tenuta arbitrale sudata. Forse è ora di dar loro una lavata, pensò Marco, mentre prendeva in mano lo zaino.

Velocemente, tirò fuori tutte le cose. Maglietta, scarpe, pantaloncini, asciugamano. Non c’era rimasto più niente, quindi lo capovolse per togliere i residui di polvere, che caddero sul pavimento formando una piccola nube grigiastra.

Insieme a quelli spuntò fuori anche un foglietto.

Marco sgranò gli occhi. Era un foglietto bucherellato, proveniente di sicuro da un taccuino a spirale. Piegato in quattro, sembrava una specie di messaggio di quelli che si usano nelle caccie al tesoro. Lo prese in mano e lo aprì. Sopra di esso, un numero ed un nome.

Martin – 348 – 12 88 934.

Nel leggere quei caratteri, il suo cuore perse un battito. Cioè, quel foglietto era sempre stato là, e lui non se n’era mai accorto. Oh porca put…. Pensò Marco, cercando di ricordare dove avesse messo il telefono cellulare.

Lo trovò nella sua borsa del lavoro. La vita di un operatore call center è mezza spesa al telefono, quindi è facilmente intuibile il motivo per cui Marco dimenticasse sempre dov’era il suo cellulare… Questa volta però era di vitale importanza prenderlo e fare il numero. Così lo afferrò e compose le prime cifre.

Una volta completo il numero sul display, Marco ebbe un’esitazione.

Ma… ma… e se avesse sbagliato zaino? Forse non voleva darlo a me, questo numero..

Il pensiero lo fece esitare. Tuttavia, non avrebbe potuto saperlo se non contattando il bel Martin. Si morse un labbro. Era vero che ormai aveva preso dimestichezza con le conversazioni telefoniche, ma qui non c’era il suo gestionale delle spedizioni ad aiutarlo, né tantomeno si trattava di una questione lavorativa. Distorse la bocca, cercando di trovare le parole giuste per cominciare una conversazione di quel tipo con uno sconosciuto…

 

*****

 

Il telefono di Martin si mise a squillare. Era poggiato sulla mensola del retrobottega del bar dove lavorava.

- Martin! Telefono! – disse un ragazzo che stava preparando dei panini.

- Arrivo! – rispose Martin, afferrando il telefono con la mano destra mentre con la sinistra posava un vassoio pieno di bicchieri vuoti.

- Pronto. – disse, con un sorriso, anche non conoscendo il numero che l’aveva chiamato.

- Ciao – disse una voce fievole – Sono… Marco. –

Un po’ incredulo, Martin spalancò gli occhi e si passò una mano fra i capelli. – Marco? Chi, scusa…? –

Dall’altra parte ci fu un sospiro, come di tristezza. Poi quella voce fievole disse qualcosa che somigliava ad uno “Scusa se ti ho disturbato” e la comunicazione s’interruppe.

- No, aspetta…! – disse Martin, ma non fu abbastanza in tempo.

 

*****

 

Sospirando, Marco mise giù il telefonino, posandolo sulla scrivania. Ma come ti è venuto in mente che potesse ricordarsi di te… Figuriamoci. Pensò, quindi si sdraiò su un fianco e chiuse gli occhi. Non ebbe nemmeno il tempo di rilassarsi, che il suo telefono iniziò a squillare.

Velocemente lo prese in mano e vide il numero che aveva composto prima.

- Pronto. – disse, con quella voce un po’ impastata di poco fa.

Dopo un secondo di silenzio, la voce di Martin lo salutò allegramente – Ciao zuccherino. Parli sempre così o solo quando rispondi ad un amico che ancora non hai incontrato? –

Marco sgranò gli occhi. Non ci poteva credere. L’aveva richiamato.

- I… io.. – balbettò Marco

- Dai, non te la prendere che scherzavo. A proposito, credo che non ci siamo presentati. Io sono Martin, e tu sei Marco, giusto? –

- S… sì. Marco, già. – disse Marco, annuendo e mettendosi a gambe incrociate sul letto.

- Sai Marco… - incominciò Martin – …ti ho dato il mio numero perché avevo voglia di conoscerti. Purtroppo a causa dell’incidente che hai avuto non c’è stato tempo, quindi ho pensato che avremmo potuto conoscerci in un secondo momento. –

- B… beh, è stata una… una buona idea. – Ancora la balbuzie. Quando era emozionato (e in quel momento lo era parecchio), Marco aveva la tendenza a balbettare come un disco rotto. Ridacchiò per stemperare l’emozione, ma si diede del cretino per essere così poco capace di controllare le emozioni.

- Che ne diresti se un giorno di questi ci vedessimo e ti offrissi un aperitivo? – propose Martin. Marco stette zitto per un momento.

- Ehi, sei ancora lì, dolcezza? –

- Eh? S… sì sì sì sì. Sono ancora qui! – si affrettò a dire Marco – Certo, per me va bene! A che ora, e dove? – Si diede ancora del cretino, e si domandò se Martin non stesse facendo lo stesso.

- Così mi piaci, dolcezza. Allora... facciamo al Bar della Ferrovia, quello vicino alla stazione, domani alle sette, ok? –

- O… ok! Ci sarò. –

- Grazie bello… e … mi raccomando, non mancare. – disse Martin, e Marco immaginò che gli avesse fatto l’occhiolino.

- N… non mancherò, stanne certo! C… ciao…! – concluse Marco, e Martin chiuse la chiamata ridacchiando.

Una volta chiusa la comunicazione, Marco si sentì al settimo cielo. Quel bel ragazzo l’aveva invitato a prendere un aperitivo, non era un sogno! E la sua voce, il suo sguardo, il suo carisma… lo prendevano troppo. Talmente tanto al punto che chiuse gli occhi e s’immaginò vestito di bianco, insieme a lui che lo portava via con un cavallo bianco… con Manuel che annuiva soddisfatto e tutti che lo salutavano. Si beò nell’immaginare quella scena più e più volte, sognando Martin e pensando a come vestirsi per l’incontro. Finalmente, dopo tanto tempo, si sentiva un po’ meglio.

Ma sarebbe stato veramente bene come immaginava, con Martin?

  

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Capitolo 22
*** Ventunesimo ***


 Dieci minuti prima dell’incontro, Marco passeggiava su e giù per il portico adiacente la stazione Porta Nuova, nell’attesa che arrivasse Martin. Si guardò più e più volte intorno, cercando di indovinare da quale parte sarebbe arrivato. Teneva le mani in tasca, ma passeggiava con un’andatura inquieta, contorceva la bocca creando espressioni d’incertezza e consultava più volte il suo cellulare per vedere l’ora.

Altro che principe azzurro sul cavallo bianco. Al primo appuntamento questo bellimbusto è già in ritardo di dieci minuti, pensò Marco, rimettendosi in tasca il cellulare e voltandosi, pronto a ripartire con una nuova cavalcata isterica.

Mentre passeggiava, si fermò un attimo e guardò avanti a sé. Il portico era lunghissimo. Non avrebbe saputo dire per quanti metri si estendeva, ma era ugualmente suggestivo guardare verso il vuoto, immaginare che il mondo si capovolgesse e  in un qualche modo quel portico diventasse verticale senza che nessuno potesse cadere. Ecco, il suo animo sensibile che si rivelava in un momento difficile qual era quello di dover incontrare un altro ragazzo… Sospirò, pensando che forse Martin aveva cambiato idea senza avvisarlo, o peggio ancora, l’aveva fatto di proposito per farsi due risate alle sue spalle.

- Marco? – disse una voce alle sue spalle, facendolo trasalire e cadere dalla sua nuvoletta di fantasia. Si voltò, e dietro di lui c’era il viso sorridente di Martin.

- Oh, ciao Martin. – lo salutò di rimando Marco, avvicinandosi. Teneva le mani in tasca e parlava con sicurezza, ma dentro di sé Dio solo sapeva quanto stava tremando dall’imbarazzo.

- E’ da molto che aspetti? – domandò quello. Marco fece di No con la testa.

- No, non molto. Sono appena arrivato. – mentì, quando era lì da almeno una ventina di minuti.

- Ah bene – disse sorridendo Martin – Mi sarebbe spiaciuto farti attendere troppo. –

- Non preoccuparti – lo bloccò Marco.

- Allora, andiamo…? – disse Martin.

 

*****

 

Il Caffè della Stazione aveva un gusto tutto particolare nell’arredamento, che come molti altri locali della zona, era ispirato all’ottocento. Già a quell’ora era abbastanza frequentato, e Marco, insieme a Martin si erano appostati in un tavolo d’angolo, quasi ai limiti della sala. Ora Marco era lì ad aspettare che Martin gli portasse qualcosa da mangiare. Di solito Marco mangiava poco e niente, e sulle prime era stato un po’ restio ad accettare di mangiare. Però Martin aveva insistito tanto e così aveva finito per accettare.

- Eccomi qui – disse Martin, sempre con un sorriso. Marco lo ricambiò ammezzandone uno, a cui Martin rispose con un occhiolino.

- Ti ho portato del riso in insalata – disse Martin – spero non ti dispiaccia. –

- No, affatto, mi piace molto anzi. –

Martin si era preso per sé un bel po’ di primi: spaghetti, linguine, rigatoni e pennette. Il bello dell’Happy Hour, come gli aveva detto una volta Andrea, il suo amico online di Milano, era che potevi mangiare a sazietà anche solo comprando un caffè. Espediente che sarebbe stato utile a molti poveretti per combattere la crisi, pensava immancabilmente Marco.

- Allora, Marco – disse Martin, inforcando dei rigatoni – Ti piace il posto? –

- Molto. Non ci ero mai venuto qui. Non ho la cultura dell’aperitivo, sai… -

- No? Strano. Uno che frequenta Manuel, dovrebbe averla. – ridacchiò Martin.

- Che vuoi dire? – disse Marco, mentre masticava del riso in insalata.

- Non so se tu sappia a che famiglia lui appartiene… - disse Martin, inghiottendo un boccone e sorseggiando un po’ di Sprite che aveva nel bicchiere - … è molto ricco. Quando ero ancora un ragazzino, lo vedevamo in giro con sua madre e sua nonna che veniva a fare l’aperitivo… allora non ci conoscevamo ancora nell’ambiente. Era solo un bel ragazzo. –

- Ah… Beh… - tentennò Marco, non sapendo cosa dire – Non mi ha mai portato a fare l’aperitivo… forse non ha molta familiarità con le usanze “Da ricchi”. –

Martin ridacchiò – Effettivamente è un po’ che non si fa vedere in giro. Quando l’ho visto insieme a te quel giorno, ho pensato “Ecco che il buon Manuel si è trovato un compagnetto” –

Marco rise a sua volta. – Siamo solo amici. Ottimi amici. – spiegò.

- Sì, ho avuto modo di vederlo. Era un po’ preoccupato mentre aspettava che ti svegliassi dopo la botta che avevi preso. –

Improvvisamente Marco si ricordò di avere un cerotto sul naso e degli occhiali vecchissimi, e di essere sicuramente molto meno attraente di quanto già non fosse. Sospirò, evitando di dire il motivo vero per cui quel giorno si era beccato la pallonata in faccia.

- Ad ogni modo – riprese Martin – Devo dirti che mi hai incuriosito parecchio. –

Marco sorrise nuovamente, anche se non del tutto sincero. Non riusciva a spiegarsi come un ragazzo che si becca una pallonata in faccia potesse essere così interessante.

- Grazie – rispose solo Marco – Sei molto gentile. –

Sotto al tavolino, sentì il piede di Martin che accennava a toccargli la gamba. Marco avvampò istantaneamente, e bianco com’era, Martin se ne accorse.

- Sei un po’ refrattario ai complimenti, non è vero? – disse Martin – Forse perché non ne ricevi abbastanza? – La sua mano era vicina, aveva un tatuaggio in stile orientale sul dorso.

- Non … non lo so. Cioè, non … - Era imbarazzatissimo, non sapeva come comportarsi. Intanto Martin aveva avvicinato ancora di più il piede alla gamba, e stava strofinandolo allegramente, prendendoci più gusto man mano che Marco arrossiva sempre di più.

In quel momento Marco avrebbe voluto avere un bottone con cui chiamare Manuel a soccorrerlo, ma in alternativa al bottone non riuscì a trovare altro che una domanda.

- Quanti anni hai, Martin? – domandò, candidamente. Le gote rosse come due mele mature.

- Diciotto – rispose Martin – Faccio i diciannove a Dicembre. E tu? –

Oh mio dio. Pensò Marco, nell’apprendere di trovarsi di fronte un lattante.

- Ventisei. – disse Marco, aggiungendo – Ventisette a Febbraio. –

A quella notizia, Martin si illuminò, sorridendogli.

- Mi piacciono i ragazzi più grandi di me – disse Martin. Marco abbozzò un sorriso, non sapendo bene cosa dire.

Come se gli avesse letto nel pensiero, Martin gli disse – So a cosa stai pensando. Che un ragazzino come me non può avere la stessa serietà di uno della tua età, non è vero? –

Marco non rispose, limitandosi a scuotere la testa di qua e di là, nel più totale imbarazzo. Aveva indovinato.

- Io non sono così. – disse Martin, acchiappando la mano di Marco e accarezzandogliela. Per essere un appena maggiorenne, Martin era un ragazzo massiccio. Doveva essere frequentatore di palestre o uno sportivo di prim’ordine. Quei capelli biondi e gli occhi chiari uniti a quel corpo così bello, provocarono un altro indurimento a Marco. Sospirò ampiamente, cercando di contrastare quei sentimenti.

Intanto Martin aveva preso la mano piccola e dalle dita affusolate di Marco e se l’era portata alla bocca, baciandogli le dita dolcemente. Marco chiuse gli occhi, sentendosi di nuovo chiuso in una situazione che non voleva. Con Davide era riuscito a fuggire, addirittura dopo essere stato portato in casa sua. Non sapeva se avrebbe valso la pena farlo di nuovo, ma in quel momento la percepiva come l’unica cosa giusta da fare.

- Si sta facendo tardi – disse Marco, irrigidendo la mano – Forse è meglio se mi riaccompagni… -

Martin si bloccò per un secondo, e gli lasciò la mano molto dolcemente. – Va bene, tesoro – gli disse, e si alzò. – Vado a pagare il conto. –

Stranamente, in quel momento Marco si sentì come se avesse rotto un incanto. Forse era stato troppo prevenuto nel pensare che Martin voleva soltanto portarselo a letto. La sua espressione gli era sembrata sincera, ma solo dopo che si era alzato per andare a pagare. Sospirò, e si mise le mani nei capelli, non sapendo cosa pensare.

Rocco, maledetto, perché mi hai lasciato? Si ritrovò a pensare poco dopo.

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Capitolo 23
*** Ventiduesimo ***


Lo specchio del bagno di casa Chiaravalle era abituato a vedere soltanto tre facce: quella della signora Elvia, che si truccava pesantemente per mascherare i suoi sessant’anni, quella del signor Claudio, che si radeva e si pettinava sempre con massima cura, e ovviamente, Manuel. Di fronte a quello specchio Manuel aveva sempre tirato fuori un po’ della sua perversione, a cominciare da quando, appena quattordicenne, osservò il suo pene per la prima volta, avanzando pensieri un po’ sconci verso un insegnante di matematica della sua scuola. Soltanto un anno dopo, si ritrovava a masturbarsi di fronte a quello specchio, immaginando che ci fosse il “prof” a possederlo. Nonostante quello specchio avesse visto nel corso degli anni la maggior parte delle perversioni di Manuel (quelle che non poteva vedere erano consumate per lo più nella sua stanza da letto, e con l’ausilio di oggetti che non dovevano essere usati per la toeletta personale), non si era mai scomposto. Era rimasto sempre lì, come uno psicologo, discretamente a dare silenziose risposte e consigli a chi vi si rivolgeva. Quel giorno Manuel si era specchiato con l’intento di capire quanto la sua età stava intaccando il suo fisico. Nudo, di fronte allo specchio, iniziò la sua ispezione.

Si toccò attentamente il petto. Bianco, tonico anche senza aver fatto un’ora di palestra, era liscio e perfetto come la pelle di un neonato. Sì, c’era qualche neo, ma a quanto diceva il telegiornale, i ragazzi con un po’ di macchie addosso erano attraenti… Sorrise pensando a come Adelmo si eccitava quando gli si spogliava davanti, rivelando prima la schiena e poi il corpo tutto, costellato di efelidi… Che bei ricordi. Dove l’avrebbe trovato un altro estimatore di un ragazzo stile dalmata come lui?

- Ahahah. Buona questa, Manuel. Davvero. – rise, continuando ad ispezionarsi.

Le gambe. Ah, le care vecchie gambe. Che tanto gli avevano causato problemi in infanzia (è inutile: se sei troppo alto, troppo basso, troppo magro o troppo grasso, i bambini ti distruggeranno), erano perfette e dritte, come due colonne. Alla loro sommità, le sue cosce, velate di una leggera peluria, erano sempre coperte d’estate nonostante ad Adelmo piaceva vederlo in shorts. Ancora lui che gli ritornava in mente. Sospirò, avvicinandosi di più allo specchio.

Il suo viso mostrava le tipiche squadrature dell’età, che non erano esattamente rughe ma nemmeno pianure fertili tipiche di un ragazzino.

- Uffa… che schifo di faccia. Ma possibile che… - sbuffò - …possibile che ho questa faccia così squadrata? Bleah… -

Forse Thomas aveva ragione.

 

*****

 

…Un fossile. Sono un fossile.

Be’, forse quello a cui non piacciono i fossili!

Quella frase proferita da Thomas continuava a girargli nella testa, senza sosta. Come si era permesso quel ragazzino di mancargli di rispetto? In quel momento dentro di sé Manuel sentiva una irresistibile voglia di fargliela vedere. Ma come… come?

Mentre guidava la sua Fiesta, pensava e ripensava al modo in cui avrebbe potuto dimostrare che Thomas si sbagliava, che non era un fossile e che nonostante fosse vicino alla trentina (dannata fissazione!), anche un ragazzino avrebbe potuto preferirlo. Essendo sempre stato un ragazzo virtuoso e soprattutto non amante della “botta e via”, non poteva contare sull’ausilio dei siti internet gay (i quali peraltro avevano scoraggiato il suo amico Marco dopo soltanto un giorno) per procacciarsi un ragazzino disponibile… Analizzando un’altra ipotesi, avrebbe potuto provare con qualcuno della sua compagnia, che era abbastanza nutrita di ragazzi, tra quelli che la frequentavano attivamente e quelli che apparivano una volta ogni tanto… Dunque, chi c’era disponibile?

Claudio era carino, palestrato, amante della cultura. Aveva solo ventidue anni.

- Sì certo, hai dimenticato di aggiungere che è più passivo di te… - mormorò a mezza voce, mentre si fermava ad un semaforo.

Poi ci poteva essere Flavio. Lui era fanatico del mondo dello spettacolo. Sapeva tutto di tutti, non era raro che i ragazzi si informassero da lui quando volevano sapere qualcosa.

- Ah già, Flavio detto “Il pettegolo”. Attivo sì, ma più effeminato di una zia in ciabatte. L’ultimo che gli ha dato il culo, adesso lo conoscono anche a Milano… – scosse la testa, mentre ripartiva.

Andato Flavio, poteva esserci Simone. Classe 1992, Musicista squattrinato, studente al conservatorio, che un po’ di tempo fa aveva addirittura avanzato l’ipotesi di voler “Fare un giro” con Manuel. Bè… Poteva essere un’idea. Cosa c’era che non andava in lui?

- Boh, non si fa vedere spesso… quindi non ci sarebbero problemi, non potrebbe raccontare nulla agli altri. –

E poi?

- Abita da solo… in un appartamento condiviso. Con una ragazza. La sua amica del cuore. –

Pensi che Thomas poi lo saprebbe?

- Ah certo, che io ricordi, si parlavano… -

 Allora è deciso. Il tuo rappresentante dei piccolini sarà Simone, caro Manuel.

 

*****

 

La stanza di Simone era arredata con il tipico gusto universitario: manifesti ai muri, bandiere di Che Guevara appese, concept-art ricavata da scritte e dediche su cartelloni. Un letto che stazionava in un angolo, con delle mensole soprastanti piene di ammennicoli tipici da negozio di articoli da regalo, una lampada a lava sul comodino, e una radio a forma di jukebox sulla scrivania, dove stazionava una grossa pianola con degli spartiti sopra ad un leggio. Ferme accanto all’armadio, a sottolineare la provenienza del ragazzo, vi erano due grosse valigie trolley ancora da disfare. Manuel si era accomodato sul piccolo divano-letto accanto alla scrivania, guardandosi intorno meravigliato. Nella stanza c’era una luce violacea provocata dalla lampada di lava, il cui liquido speciale fluttuava su e giù in quell’ambiente, creando un effetto rilassante ed ipnotico in chiunque la guardasse.

Simone era lì, accanto a lui, che lo guardava sorridente.

- Eccoci qua. Che sorpresa è stata per me rivederti, Manuel… Quanto tempo è passato dall’ultima volta? –

- Forse un anno – rispose Manuel – Thomas e Alberto si erano appena fidanzati… -

- Ah già, beati loro. Beato Alberto soprattutto. Certo che come faccia Thomas a preferire un grassone del genere, proprio non lo capisco… -

Manuel fece una smorfia di disapprovazione a quelle parole, tipiche di un ragazzino che crede che la bellezza sia solo esteriore e non anche e soprattutto interiore. Evitò di ribattere per non avventurarsi in una discussione sterile, dato che anche a lui piacevano gli uomini maturi e in quel momento si sentiva perfettamente fuori luogo, come un orologio nell’aldilà.

- Tutti i gusti son gusti – tagliò corto – Come stai? –

- Io sto bene, anche se sono un po’ indietro con gli studi… - Sospirò - …Ma dovrei riuscire a farcela entro due mesi. –

- Bene, mi fa piacere. –

Cavolo, non era proprio abituato a parlare con i lattanti. Lui era più abituato a parlare con degli uomini veri, che discorrevano di arte e filosofia… non certo con dei poveri ragazzini sfigati. Si guardò intorno, domandandosi se non fosse il caso di prendere la porta e andarsene. Simone lo stava osservando, poteva chiaramente sentire il suo sguardo pieno di desiderio sul suo corpo, desiderio di cui Manuel si accorse gettando un’occhiata al pacco del ragazzo: una piccola collinetta si era formata.

- Dimmi la verità – iniziò Simone – Tu non sei venuto per sapere come stavo, vero? –

Manuel ammezzò un sorriso. – Perché tanta diffidenza, scusa? Non sei contento di vedermi? –

Avvicinandosi, Simone mise le braccia intorno al collo di Manuel e lo abbracciò. Manuel rispose all’abbraccio, sebbene dare un abbraccio senza alcun sentimento come quello, non era nelle sue corde. Lentamente Simone incominciò a baciare il collo di Manuel, guidando le sue mani sul torace del ragazzo e sulle sue lunghe gambe… Mentre faceva ciò, Manuel chiuse gli occhi e aspirò il profumo di shampoo che emanava la zazzera di capelli mossi di Simone, immaginando che il ragazzino avesse più di diciannove anni, e fingendo che fosse un fidanzato e non un semplice sconosciuto. Ebbe un leggero fremito, quando i denti di Simone affondarono nella sua carne.

- Ah! – mormorò Manuel.

- Ti basta come risposta, bellissimo? – disse Simone, con sguardo furbetto.

Manuel rispose con un sorriso, accarezzando la guancia rotonda e liscia di Simone.

Quelle dita così lunghe ora stavano accarezzando il viso di Manuel.

- Che bel viso… liscio… dolce… -

Un dito lambì le labbra di Manuel, il quale lo baciò e poi se lo mise in bocca, guardando negli occhi Simone. Questi sorrise, e incominciò a ficcarlo dentro per poi ritirarlo fuori. Ormai sciolto, Simone prese a sbottonare la camicia di Manuel, rivelando quel torace tonico e lungo, tipico di un ragazzo con quella statura.

- Sei un ragazzone… un bel ragazzone. – disse di nuovo Simone, accarezzando il torace di Manuel, che si alzava e abbassava al ritmo del suo respiro.

- Anche tu… cucciolo. – Una parola che non aveva mai detto a nessuno. Per una frazione di secondo si domandò se l’avesse detta sul serio oppure se lo pensava veramente.

Simone si tolse la maglietta, buttandola in un angolo. Sul suo petto, c’erano diversi tatuaggi, un piccolo tribale, due ideogrammi giapponesi e sulla parte bassa dello stomaco, un tatuaggio raffigurante una rosa dei venti. Manuel, come un bimbo curioso, si mise a toccare quel particolare tatuaggio, ammirando come fosse così insolito come disegno. A volte era stato in piscina, e aveva visto tatuaggi di ogni tipo, ma mai una rosa dei venti.

- Ti piace? – domandò Simone.

- Molto. Perché proprio una rosa dei venti? –

- La rosa dei venti è il simbolo dei viaggiatori. Dei pirati, di chi non vuole mai perdere la strada. Io mi sento un viaggiatore, e ho scelto un disegno che mi rappresentasse al meglio. –

Manuel fu sorpreso da tanta risposta, e per premiarlo, gli sorrise dolcemente. Simone gli accarezzò una guancia e lo baciò appassionatamente sulle labbra, infilandogli la lingua in bocca. Manuel si arrese a tanta forza, e si limitò a cingere la vita di Simone con le braccia, attirandolo a sé. Fu un bacio lunghissimo e appassionato, che lasciò senza fiato Manuel.

- Uhff! – sbuffò Manuel, prendendo aria. – Tesoro, vacci piano o mi ucciderai… -

- Scusa – mormorò Simone, sorridendo – Il fatto è che sono così contento che tu sia qui… Non puoi nemmeno immaginare quanto. – E gli schioccò un altro bacio sulle labbra.

Pochi istanti dopo, Manuel era in piedi, Simone davanti a lui, che lo stava spogliando. Quando Manuel fu totalmente nudo, Simone lo spinse delicatamente a sedere sul bordo del letto. Calciò con i piedi prima una scarpa e poi l’altra, poi lasciò scivolare via i pantaloni. Sotto i boxer, il suo pene fremeva dalla voglia di uscire. Manuel guardò negli occhi Simone, che sorrideva allegramente.

- Bè? – domandò – Non vuoi vedere il cucciolo di drago? –

Manuel sorrise, ma era un sorriso falso. Quelli che si facevano belli solo perché avevano una buona dotazione sessuale, gli facevano solo pena.

- Vediamolo – disse soltanto, senza entusiasmo. Allorché Simone allargò la fessura dei boxer e rivelò il suo pene. Manuel sorrise, e guardandolo negli occhi prese a maneggiarlo con la mano destra, tirandolo avanti e indietro.

- Oh… sì… così… - mormorò Simone, chiudendo gli occhi. Manuel stava agendo più per circostanza che per reale desiderio, velocizzando anche l’andatura del suo movimento, sperando che il ragazzino spruzzasse in fretta e lui potesse andarsene quanto prima. Accidenti a Thomas e a quando l’aveva chiamato fossile, e accidenti a lui e a quando si era messo in testa di farsi un ragazzino.

- Ehi zuccherino – disse Simone, fermando Manuel – Non vorrai mica farmi venire così, spero? –

L’intenzione era un po’ quella, pensò Manuel, ma non disse nulla. Al contrario, Simone prese l’iniziativa e avvicinò il suo pene alle labbra di Manuel, che le schiuse leggermente, chiudendo gli occhi allo stesso tempo.

- Non vuoi…? …Dai… - sentì dire Simone.

Così il bel Manuel aprì la bocca, e accolse quel grosso membro giovane. Simone gli mise le mani sulla testa, e iniziò ad accarezzargli i capelli biondi, mentre spingeva il suo pene nella bocca di Manuel.

- Ahhh… è una vita che aspetto questo momento… - disse sottovoce Simone – …Da quando ti ho visto… -

Eh già, cosa t’importa che ho otto anni più di te e potrei essere tuo fratello maggiore? A te basta che io sia carino e appetibile, poi tutto il resto è noia, non è forse vero…? pensò Manuel, mentre sentiva quel membro scorrergli in bocca e le mani di Simone che gli tenevano ferma la testa.

Contrariamente alle sue speranze, Simone non fu lesto a soddisfare i suoi appetiti. Fece sesso con lui in tutte le posizioni, riempiendolo fino allo stremo delle forze e rompendo ben tre preservativi in cinque ore. Fu una notte di sesso selvaggio, che terminò quando finalmente Simone si stancò e venne copiosamente nel corpo di Manuel, per poi addormentarsi subito dopo. Ora, per rilassarsi, Manuel aveva bellamente rubato una sigaretta dal pacchetto che Simone teneva sulla scrivania, aveva aperto una finestra e fumava tranquillamente guardando l’alba. Il pensiero che avesse fatto una stronzata, solo per non dare ragione a quello sbruffone di Thomas, era mitigato dalla bellezza della notte che spariva ancora una volta per lasciare posto ad un nuovo giorno… Sembrava un incanto, vedere il sole che spuntava timidamente all’orizzonte, e lentamente illuminava la città… Avrebbe voluto che ci fosse stato Marco, in quel momento, e dirgli “Guarda che bella l’alba…” senza paura di venire deriso. Marco. Che chissà come se la stava passando. Non gli aveva comunicato questa intenzione di voler dare una lezione a Thomas, ma in quel momento sentiva di volerlo fare. Prese in mano il cellulare, compose il numero e fece per premere il tasto di invio, ma desistette. Sospirando, posò il cellulare e diede un altro tiro alla sigaretta, continuando ad ammirare l’alba.

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Capitolo 24
*** Ventitreesimo ***


Dlin-dlon.

Marco conosceva bene quello squillo. Avvolto nelle coperte e immerso nel mondo dei sogni, gli ci volle un bel po’ prima di mettere a fuoco che non si era sognato nulla, e che il campanello stava suonando veramente.

Dlin-dlon.

- Vengo – borbottò, mezzo rincretinito dal sonno. Aggrovigliato nelle coperte, inciampò e cadde in ginocchio. – Ahio! – gemette, imprecando contro le coperte. Con uno strattone dei piedi si liberò e si rialzò, andando velocemente alla porta. Per fortuna i suoi genitori avevano il sonno pesante, quindi non si erano svegliati, nonostante il campanello avesse suonato due volte.

Una volta aperta la porta, Marco si trovò Manuel sulla soglia.

- Manuel? – disse sorpreso – Ma… sono le sette e mezza del mattino. –

- Ti ho svegliato? – domandò il ragazzone.

- Hmm… no – mentì Marco – Vieni dentro, dai. –

 

*****

 

Con una tazza di caffè d’orzo tra le mani, Manuel aveva raccontato tutto a Marco (omettendo la parte in cui Thomas notava che Martin era di mano lesta), del fatto che l’avesse chiamato fossile e di come lui si fosse impermalito e di conseguenza andato a cercare un ragazzo che frequentava la compagnia, e di come ci fosse andato a letto, per poi lasciarlo come un baccalà il mattino seguente.

- E così l’hai lasciato dormire senza nemmeno salutarlo? – domandò Marco, mentre addentava una brioche calda.

Senza dire nulla, Manuel annuì. – Ho paura di aver fatto una cazzata – mormorò, sospirando.

- In che senso? – domandò Marco.

- Nel senso che… Adesso non vorrei che si fosse messo delle strane idee in testa. –

Masticando la pastarella inumidita di caffellatte, Marco disse – Be’ potevi anche aspettare e vedere come si comportava, senza schizzare come un razzo qui da me. Io cosa posso dirti, amico mio? –

In altre circostanze, Manuel si sarebbe offeso nel sentirsi dire certe parole. – Oh, scusa… - disse Marco - …non volevo dire che… Cioè, sono contento che sei venuto qui da me, ma … non so cosa fare. Per me Simone potrebbe anche non volere più nulla da te. In fondo ha vent’anni, si è divertito con un ragazzo più grande e magari gli sta bene anche così. Di cos’hai paura? –

- Non lo so… - mugugnò Manuel, spaventato come un bimbo. Marco gli andò vicino e lo abbracciò teneramente, dandogli un bacio sulla tempia.

- Coraggio. Ci sono qua io. – gli sussurrò, e Manuel sembrò calmarsi. Si sorrisero.

- Come puoi vedere Marco… nemmeno per noi è una passeggiata. –

- “Noi” chi? –

- Noi… meno brutti degli altri. –

Marco ridacchiò – Dì pure “Voi belli” –

- Ma io non sono bello… sono brutto. – ribatté Manuel.

- Sì certo, e se tu sei brutto, io sono la Regina Vittoria. – E rise di nuovo.

- Maestà…! – disse Manuel, e dopo averlo guardato per un secondo, lo abbracciò e lo baciò dolcemente sulle labbra.

A quel gesto, Marco arrossì violentemente, non riuscendo più a capire nulla. Le labbra di Manuel erano ancora posate sulle sue, ed i suoi occhi erano chiusi. Pensò a tante cose. Pensò a Rocco, al suo nuovo ragazzino… al suo lavoro, a Martin…

La mente di Manuel invece pensò ad altre cose. Pensò a Simone, alla storia che ebbe con Adelmo… e a quando si incontrarono per la prima volta, lui e Marco.

Fu un bacio che durò per pochissimi minuti, anche se a Marco e Manuel parve un’eternità. Ad interromperlo, ci pensò il cellulare di Marco, che squillò nella sua stanza da letto.

- Scusa. – disse solo Marco, allontanandosi. Manuel si tastò i capelli, leggermente imbarazzato.

- Pronto? – lo sentì parlare dall’altra stanza. – Oh ciao Martin. – disse Marco, neutro. Pausa di alcuni secondi. – Uhm… d’accordo, perché no. – Altra pausa. – Sì, io sono qui a casa… e… scusa un attimo! – sentì Marco che poggiava il telefono su un mobile, poi sentiva i passi dei suoi piedini trottare sul parquet e lo vide fare capolino dall’uscio della cucina. – E’ Martin. Mi ha invitato a fare la spesa e poi a pranzo insieme a lui. Vuoi venire anche tu?  -

- Cosa…? – Manuel cadde dalle nuvole a quell’invito. - Ma … Marco, ti ha invitato perché dovete conoscervi, e tu vorresti mettermi in mezzo? –

Marco fece una faccia sconsolata e si mise a ballettare sulla porta, congiungendo le mani e sbattendo i piedini – Ti prego, ti prego ti prego – corrugò la fronte e le labbra assunsero un’espressione da cucciolo – Se gli chiedo questo e lui mi dice di sì, sarà la prova che non vuole solo portarmi a letto! Ti prego, aiutami! –

- Ma… Marco, abbi pazienza, ti pare che io possa venire e poi pranzare insieme a voi? Sii serio. –

- Ma no, al massimo ti allontanerai con una scusa, se non vuoi proprio partecipare… Però ti prego, ho bisogno che tu venga con me! –

- Tu sei proprio picchiatello, amico mio… - disse Manuel, toccandosi la tempia con l’indice - …E va bene, verrò con te. Ma resterò solo un’ora e poi taglio la corda, va bene? –

- Yauuu! – strillò Marco di felicità, tornando al cellulare. Manuel sperò che Martin avesse riattaccato, ma così non era. Li sentì prendere accordi affinché venisse anche lui, e alla fine Marco tornò con un sorriso radioso stampato in faccia.

- Lo sapevo! Lo sapevo che non vuole solo portarmi a letto, ha detto di sì! Che puoi venire anche tu! –

Oh povero amico mio, quante cose non sai sugli uomini… pensò Manuel, abbozzando un sorriso e al tempo stesso sperando di sbagliarsi su quel maligno pensiero.

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Capitolo 25
*** Ventiquattresimo ***


Seduto sui sedili posteriori della Cinquecento di Martin, Manuel stava soffrendo a causa del ristretto spazio e perché si sentiva troppo come la suocera che osservava sua figlia mentre veniva portata a spasso dal suo fidanzatino. Sui sedili anteriori Marco e Martin parlavano tranquillamente, come fossero sposati da anni.

- Il mio ultimo ragazzo si chiamava Luigi. Aveva… - ci pensò su - …ventiquattro anni, ed io soltanto sedici. – Martin ridacchiò -  Ma era un idiota, non sapeva mai prendere una decisione. Abbiamo fatto un viaggio in Toscana ed è toccato a me organizzare tutto. Ci mancava solo che mi avesse chiesto di guidare, quel balengo. Per trovare Torre del Lago ci abbiamo messo una vita. –

- Uhh. – mormorò Marco – E poi com’è finita? –

- Niente, qualche mese dopo lo mollai. Non era proprio su questa terra, viaggiava su altre frequenze. Ancora mi domando se se n’è accorto. –

Marco rise, e Martin con lui. Sui sedili posteriori, Manuel accennò un sorriso.

- E tu Marco? –

- Io? –

- Sì, con chi stavi prima? –

- Ah… il mio ragazzo… si chiamava Rocco. Aveva quasi trent’anni. Gli volevo bene, lo amavo… e lui… - Marco assunse un tono grave - …se n’è andato con un ragazzo della tua età. –

- Accidenti – rispose Martin – Ma perché noi ragazzini piacciamo così tanto? Diventeremo dei vecchi bacucchi anche noi, un giorno. – concluse, ridendo.

- Lui è sempre stato attratto da questi visi un po’… efebici. Credo che avesse iniziato a maturare pensieri di quel genere quando ho smesso di tagliarmi la barba. – rispose Marco, toccandosi leggermente il pizzetto che adornava la sua bocca.

- Se mi permetti di dirlo, Rocco era un idiota. E … - Martin allungò una mano verso la coscia di Marco – Visto che lui si è messo con uno della mia età, perché non gliela fai pagare? –

Marco arrossì violentemente e si compattò leggermente. A Manuel venne in mente un riccio che si chiude a palla.

- Dai… - disse Marco, rosso in viso - …non dire queste cose… -

Martin incrociò poi lo sguardo di Manuel nello specchietto retrovisore – Non ti dispiace se faccio un po’ di avances al tuo fratellino, Manuel? –

- Ah, per me… fai pure! – rispose Manuel ridacchiando. Marco lo squadrò con un’espressione finto-arrabbiata. Manuel gli fece l’occhiolino.

- E tu, Manuel? – domandò Martin, mentre svoltava verso il Centro Commerciale – Non hai avuto nessuna storia? –

- Storie importanti ne ho avuta una sola. Il resto sono state tutte cotte senza senso. –

- Eh, ti capisco – disse Martin – Non è facile stare dietro a chi è più grande di te. –

- Già. Non lo è per niente. – concluse Manuel, mentre l’auto si fermava e gli occupanti scendevano.

 

*****

 

Uno dei posti in cui Manuel si sentiva più spaesato era sicuramente un ipermercato. Poche volte nella sua vita era andato a fare la spesa da solo, e immancabilmente aveva combinato qualche guaio: prodotti non comprati, marche sbagliate, scatolette dimenticate alla cassa. Fortuna che sua madre ogni tanto andava a fare rifornimento, per cui la loro dispensa non era mai vuota, però Manuel di suo non aveva mai imparato a concentrarsi sul fare la spesa, e ogni volta che andava in un supermercato si sentiva strano, perché avvertiva questa sua mancanza nella vita di tutti i giorni, come un difetto che non avrebbe certo giovato nella sua ricerca di un fidanzato. Visto il range d’età che si prefissava, sarebbe dovuto essere lui la “donna di casa”, e una donna di casa che non sa fare la spesa, non è proprio contemplata in nessun mondo. Ma tanto, di cosa mi preoccupo? Pensò Manuel tanto chi mi vuole, mi vuole solo perché ho un bel fisico. Quindi, perché darsi tanta pena se non so fare la spesa? Prese in mano un sacchetto di patatine surgelate, pensando che ne andava ghiotto.

- Cos’hai in mano? – era Marco, lì accanto a lui – Uhhh, patatine. Io le adoro! –

- Sì, anch’io… Me ne farei volentieri una scorpacciata. –

- Se vieni a pranzo con noi te le puoi fare! Andiamo da McDonald’s dopo! –

- Ugh – mugugnò Manuel – Ti prego non propormi di andare da McDonald’s. –

- Perché no? –

- L’ultima volta che ci sono stato, c’è mancato poco che non mi facessero la lavanda gastrica. Sono stato malissimo. –

- Oh… scusa. –

- Niente… scusami tu. –

Marco gli fece un sorrisino, quindi si allontanò con il suo cestino. Era un ragazzo buono, Marco, che ancora non era fidanzato con Martin e già lo aiutava a fargli la spesa.

Reparto igiene personale. Da bambino Manuel si divertiva sempre a spruzzarsi i profumi addosso, e la mania non gli era passata. Prese in mano un tester di profumo e se ne spruzzò un po’ sul polso, strofinandoci contro l’altro. Il profumo era buonissimo, una vera fragranza maschile.

- Quel profumo ti sta molto bene addosso – disse una voce, alle sue spalle. Si voltò. Era Martin, che lo osservava con il cestino in mano.

- Grazie. – rispose Manuel, mettendo via la boccetta e prendendone un’altra.

- Sai… -

- Sì? – domandò Manuel, senza voltarsi. Sapeva di apparire un po’ maleducato, ma non gli importava. Aveva già avuto il suo assaggio di ragazzini, per quel giorno.

- Stavo pensando che… -

- Cosa? – Manuel si voltò, la boccetta di profumo ancora in mano. Incontrò lo sguardo di Martin.

- …Che sei proprio bello. Quanti anni hai?-

Alzando leggermente gli occhi al cielo, Manuel rispose, leggermente scocciato – Quasi ventotto. –

Martin lo fissò senza dire nulla, mentre un sorriso furbetto gli si dipinse sulle labbra. Manuel gli mise una mano sulla spalla, guardando prima lui, poi la spalla, e si mise a spolverarla un po’.

- Forfora? – domandò Martin.

- No. Avvertimento. – Manuel sollevo il suo lungo dito indice in direzione del naso di Martin, puntandoglielo come un pistolero avrebbe puntato la sua Colt – Fai del male a Marco, e farai i conti con me. Fai del male a Marco, mettendo in mezzo me… E te la farò pagare cara. – concluse Manuel, perentorio e grave. Martin non rispose, ma continuò a tenere quel sorriso sulle labbra e infine… avvolse le sue labbra sulla punta del dito di Manuel, che si affrettò a ritirarlo. Manuel lo squadrò severo, con quegli occhi azzurri che trasmettevano rabbia. Ebbe voglia di prendere quel ragazzino e dargliele di santa ragione, ma poco più in là c’era Marco, che sembrava un bambino che aveva perso i suoi genitori.

- Per questa volta passi, ma la prossima non sarai così fortunato. – disse Manuel, e si allontanò.

- Dove vai? – domandò Martin.

- A casa mia. – rispose Manuel, allontanandosi verso il labirinto di scaffali. Martin lo guardò finché non svoltò un angolo e scomparve alla vista. Poco dopo sopraggiunse Marco, che abbracciò Martin e gli domandò se avesse visto Manuel.

- Manuel…? Ah… è andato via. L’hanno chiamato da casa, è dovuto scappare. –

- Che cosa? – domandò Marco, preoccupato. – E con quale macchina tornerà? È venuto con noi. –

- Ha detto che non c’era problema. – mentì Martin.

- E’… è andato via da molto? –

- Abbastanza. –

A quella risposta, Marco fece un’espressione sconsolata. Manuel se n’era andato senza nemmeno salutarlo… Sospirò, quindi continuò a fare la spesa insieme a Martin.

 

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Capitolo 26
*** Venticinquesimo ***


Ci sono ragazzi che non sono in pace con loro stessi e che hanno sempre bisogno di cambiare, di trovarsi in un’avventura. Così, anche se sono felicemente fidanzati da un anno e forse più, sentono il bisogno smodato di fare una scappatella ogni tanto. E ce ne sono altri che magari si innamorano dei suddetti ragazzi, essendo però loro diversi in tutto e per tutto. Ragazzi che trovano un partner e gli restano fedele per tutta la vita, che pensano soltanto a lui anche quando il tempo e la paura di morire sembrano incombenze sempre più vicine.

Marco poteva appartenere a quest’ultima categoria, tanto che da quando iniziò a conoscere Martin, sembrò dimenticarsi un po’ del suo amico Manuel. Complice anche il ragazzino, che richiedeva quasi sempre la sua presenza, Marco passò due bei mesetti senza sentire Manuel. Sì, ogni tanto gli veniva lo scrupolo di andare a controllare se il ragazzo l’avesse chiamato o gli avesse mandato un messaggio, ma poi immancabilmente trovava un messaggio di Martin che gli scriveva cose dolci, o una sua chiamata non risposta. Così, giocoforza il povero Marco non riusciva mai a prendersi un minuto per sé e per il suo buon amico Manuel.

E l’ho anche portato a Belluno… stava pensando Manuel, mentre riordinava le richieste di mutuo da evadere… proprio un bell’amico, non c’è che dire. Immerso nel lavoro e nei pensieri, fu interrotto dallo squillo del cellulare. Lo prese in mano, sperando che fosse Marco. Invece Marco non era. Era Simone. Aprì il cellulare, sbuffando leggermente.

- Pronto – rispose, mezzo seccato.

- Ciao amore – disse Simone – Come va? Cosa fai? –

- Andare va così così, grazie. Stavo lavorando. –

- Ma povero amore… Che ne dici se vengo a prenderti, dopo? –

- Grazie, ho la mia macchina. –

- Ma non ti va proprio? –

- Sono due mesi che me lo chiedi, Simone… non mi va, per venire al lavoro uso la mia auto… E poi non mi sembra di averti dato il permesso di chiamarmi “amore” –

Silenzio dall’altra parte del telefono. Si sentì un sospiro.

- Non puoi darmi una possibilità? – domandò Simone. Manuel si toccò la fronte e chiuse gli occhi, esasperato. I piccolini sapevano anche essere insistenti, quando volevano.

- Posso fare finta di essere un vecchio. Mi sono fatto crescere la barba, per te! - Esclamò Simone, con una punta di disperazione nella voce.

- Non… non è quello, Simone… cerca di capire… - annaspò Manuel.

Ancora silenzio per cinque minuti.

- Pronto? Simone? –

Dopo un altro attimo di silenzio, in cui Manuel stava per chiudere, Simone rispose – Sono qui. Allora, fatti trovare fuori dal lavoro. Sarà una sorpresa. –

Manuel digrignò leggermente i denti. Possibile che quel ragazzino non voleva capirlo che non gl’interessava???

- Simone, non… -

- Alle sei in punto. Non mancare, ti prego. Se manchi, mi taglierò le vene. –

Per un attimo Manuel fece per dirgli Fai pure, chi se ne frega, ma inspiegabilmente le parole gli morirono in bocca, memore della sua esperienza personale.

- E’ un ricatto? – domando Manuel.

- Sì. – rispose Simone, festante.

Massaggiandosi la tempia, Manuel rispose sospirando – Va bene. Ci sarò. Ora lasciami lavorare, per favore. –

- Ci vediamo, bel culetto. – rispose Simone, chiudendo la chiamata.

- Ma vaffanculo – rispose di rimando Manuel, anche se ormai Simone aveva attaccato.

 

*****

 

All’uscita da lavoro, Manuel si guardò intorno. La solita ambientazione, il solito viale alberato e auto che passavano; nulla di ordinario. Mentre aspettava Simone, passeggiava nervosamente avanti e indietro, chiedendosi perché non gli avesse detto un secco “no”.

Quando furono passati venti minuti senza che Simone arrivasse, decise che era giunta l’ora di telare e si avviò verso il parcheggio della Banca, dov’era custodita la sua macchina. Proprio nel momento in cui si girò, vide un’auto, una vecchissima Fiat 131 dell’80, di colore marrone chiaro. Sgranò gli occhi a quella visione, soprattutto vedendo chi la stava guidando.

- Simone?!? –

Il ragazzo fermò l’auto proprio accanto a lui, e scese. Portava un completo grigio e una cravatta, unite ad un paio di scarpe classiche di pelle. Gli andò vicino e gli sorrise.

- Allora? – esordì – Sono abbastanza “stagionato” per te? –

Manuel si portò una mano alla fronte e si fece una risatina. – Non ho parole – disse soltanto, scuotendo la testa. – Ma dove l’hai preso questo dinosauro? – chiese, riferendosi alla vecchia auto.

- Me l’ha prestata mio zio. – disse, radioso – Allora, ci vieni a cena con me? –

Sospirando, Manuel annuì. E fu allora che Simone sorrise ancora, aprendo lo sportello del posto passeggero per farlo accomodare.

- Signore… Anzi… Signorino. Prego. –

- Che matto sei – disse Manuel entrando nell’auto.

- Chiunque diventerebbe matto, per farti contento – rispose Simone mentre chiudeva lo sportello.

Tornato in auto, si mise comodo e si sistemò la cravatta.

- Ti porto in un posto fantastico – disse.

- Dove? –

- E’ una sorpresa. – disse solo, riaccendendo il motore e partendo. Non che Manuel fosse entusiasta all’idea, ma solo perché quel ragazzino si era degnato di vestirsi bene e addirittura prendere un’auto d’epoca per fargli colpo… Almeno una chance, per quanto piccola, se la meritava.

 

*****

 

Giunsero nei pressi di Asti, in uno di quei paeselli arroccati sulle verdi colline piemontesi. Posti che Manuel conosceva abbastanza bene, e che credeva di aver dimenticato.

- Dove mi stai portando? – domandò Manuel, guardando fuori dal finestrino.

- Te l’ho detto, è una sorpresa. – rispose Simone.

Poco dopo l’auto si fermò di fronte a un ristorante con veranda esterna che si affacciava sulle colline astigiane.

- Siamo arrivati – dichiarò Simone spegnendo il veicolo.

 

*****

 

Non c’era nulla che non andasse in quella cenetta romantica a lume di candela, tranne forse il fatto che Manuel non si sentiva a suo agio. Simone era lì davanti a lui, che gli parlava di musica e arte, ma lui lo ascoltava poco e parlava anche di meno. Eppure Simone non sembrava disturbato da tale comportamento. Sorrideva continuamente, e parlava… Mentre Manuel malediceva quel giorno in cui gli era venuto in mente di andare da lui.

Thomas, accidenti a te! Se non mi avessi detto che ero un fossile, a quest’ora… Già, dove sarebbe stato, a quell’ora? Forse a casa sua a dormire, o a parlare con Marco…? Non lo sapeva. Di sicuro non con chi avrebbe voluto essere.

- Manuel, mi stavi ascoltando? – lo rimbeccò Simone, da un angolo lontanissimo del pianeta.

- Eh? – rispose Manuel, trasognato

- Non mi stavi ascoltando… - Simone assunse un’espressione triste, tipica di quelli della sua età. Dio quando odiava i ragazzini.

- No, scusa… è che… stavo pensando… Ma come hai trovato questo bel posto? –

- Lo conoscevo già – rispose Simone – ci ho portato un ragazzo, tempo fa… -

- Ah, capisco… - se solo Simone avesse immaginato dove Adelmo portava Manuel durante le loro serate romantiche, sarebbe impallidito.

Concerti di musica classica, opere, ristoranti raffinati… Ogni volta che entravano, Adelmo con i suoi settant’anni e Manuel di cinquant’anni più giovane, tutti si giravano a guardarli. Ovviamente non c’erano effusioni in pubblico – Adelmo non avrebbe potuto, data la sua immagine pubblica – però c’era ugualmente un’atmosfera di complicità che legava Manuel all’anziano Adelmo… una complicità che sembrava essere svanita quando Adelmo l’aveva lasciato.

Nulla a che vedere con ciò che stava provando adesso. Noia, soltanto noia. E imbarazzo.

- Manuel? – chiamò Simone.

- Dimmi. –

- Forse ti faccio una domanda indiscreta, ma… Perché ti piacciono i ragazzi più grandi? –

Tombola. Una domanda che gli avevano posto in molti, da un po’ di tempo a quella parte. Una domanda che francamente avrebbe evitato di porsi, e per la quale non aveva una risposta ben precisa.

- Non so – rispose Manuel – A te perché piacciono quelli più grandi, come me? –

- A me non piacciono i vecchi rinsecchiti – rispose Simon – Tu sei più grande di me, ma hai un bel fisico, sei tonico, atletico… e molto intelligente. – Manuel gli avrebbe sbattuto il candelabro in testa se non avesse aggiunto che era intelligente.

- Nient’altro? – domandò Manuel. I suoi occhi azzurri e penetranti scrutavano attentamente Simone, che si sentiva osservato con malocchio dal suo ospite, come un alunno colpevole di non aver studiato che viene interrogato dal professore. Nell’espressione di disagio di Simone, Manuel poteva chiaramente vedere tutta la fatica che stava facendo il ragazzo nel cercare di rendersi interessante. Questi giovani… proprio non riuscivano a pensare altro che alla bellezza. Sospirando, Manuel si ricompose, smettendo di guardarlo. Simone tirò un sospiro di sollievo, ma sapeva allo stesso tempo di non aver fatto una bella impressione.

- Scusa – disse Manuel – Sono un po’ duro con voi giovani. –

- Non importa – rispose Simone – Capita. –

Tutto sommato, la cena andò bene. Continuarono a parlare (anche se parlava di più Simone), e verso una certa ora si avviarono a casa. Una volta arrivati, Manuel esitò prima di scendere dall’auto, e guardò Simone. Questi era lì al posto di guida che lo guardava imbarazzato, lanciandogli occhiate di tanto in tanto. Il dolce Simone sapeva di avere nella sua auto un ragazzo prezioso, figo e ricco, ma inspiegabilmente si sentiva oppresso da qualcosa. Manuel continuò a guardarlo, e questa volta lo sguardo di Simone si posò sul suo viso. Egli sembrava spaventato, incapace di proferire parola. Gli occhi di cristallo di Manuel non si muovevano, al contrario di quelli di Simone che guardavano da tutte le parti. Quante parole inespresse che aveva in testa il ragazzo!

Chissà che cos’ha… Pensò Manuel, chiedendosi come mai non fosse già sceso da quell’auto e da quel ragazzino rompiscatole. Per educazione, forse, o forse perché voleva vedere dove Simone andava a parare.

In un secondo, ebbe la risposta. Simone si avvicinò a lui e cercò di acchiappargli la nuca con la mano destra. Le sue labbra cercarono quelle di Manuel, che chiuse gli occhi e si abbandonò ad un sospiro di sconfitta poco prima che le labbra del ragazzo si incontrassero con le sue. Simone lo baciò dolcemente, con passione, ma Manuel era come un manichino nelle sue mani. Non si mosse né si scompose di una virgola. Teneva solo gli occhi chiusi, come si fa di solito quando si sale su una giostra che fa troppo paura, aspettando che il momento passasse. Le mani di Simone si spostarono dalla sua nuca alla schiena, scendendo lentamente, ma Manuel rimase lì, fermo immobile. A quel punto Simone si staccò, aprendo gli occhi. I suoi occhi incontrarono quelli di cristallo di Manuel, che lo guardava con espressione neutra.

- Manuel – disse Simone, carezzandogli la guancia – Che c’è? Non … non ti piaccio? –

Per tutta risposta, Manuel si limitò a sospirare e a guardare Simone con lo stesso sguardo che userebbe un medico per comunicare una malattia mortale ad un paziente. Preoccupato e desolato. A quel punto, Simone si allontanò lentamente e rimise le mani sul volante. Restò a guardare fuori dal parabrezza per minuti interminabili, e Manuel si aspettò di dover arginare una piena di lacrime, quando le sue aspettative furono brillantemente deluse dalla voce di Simone.

- Beh… Allora … Ciao. – disse Simone, sfoderando un sorriso che tradiva insicurezza.

- Ciao. Grazie per la bella serata, anche se improvvisata. – si limitò a rispondergli Manuel.

- Ci… ci vediamo. –

- Certo. Ciao Simone. Grazie. – disse Manuel, e aperto lo sportello dell’auto, scese, e si avviò verso il portone di casa sua. Una volta dentro l’androne, vide che l’auto di Simone era ancora ferma lì. Pensò di spiare dai vetri del portone (tanto da fuori Simone non avrebbe visto granché): il ragazzo era lì che si stava togliendo la cravatta e tirava fuori dei fazzoletti di carta per asciugarsi il viso. Stava piangendo a dirotto, chissà per quale motivo. Rimase lì ancora per qualche minuto, finché non rimise in moto e partì lentamente. A quel punto Manuel si appoggiò alla balaustra della portineria, dove la signora Concetta Striani, la gentile portinaia salentina del palazzo, aveva posato i nuovi elenchi telefonici. Sospirò ampiamente, portandosi le mani alle tempie, cercando di elaborare un pensiero coerente.

Mi dispiace, Simone… pensò Manuel …Ma non saresti mai felice con me. Come io non lo sarei con te.

E si avviò verso le scale.

 

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Capitolo 27
*** Ventiseiesimo ***


Dopo quell’uscita improvvisata con Simone, Manuel non ebbe più sue notizie. Continuò a fare il suo lavoro tranquillamente, concedendo o negando mutui a chi ne aveva bisogno, e avendosene a male quando doveva negare dei mutui a delle coppie omosessuali. Fortunatamente le coppiette che chiedevano mutui non erano di giovani che lo conoscevano per via dei locali o dei suoi amici, quindi non poteva essere riconosciuto (in banca come in famiglia Manuel non era dichiarato), ma dall’altra parte si sentiva male quando vedeva questi uomini maturi che si portavano dietro dei ragazzi più giovani, nei quali lui si identificava, e nonostante fosse sempre sorridente quando spiegava come ottenere un mutuo, si sentiva male quando stringeva le mani ad entrambi, e quasi sempre quando se n’erano andati pensava a sé stesso, senza un uomo accanto. A volte si chiudeva in bagno e pensava ad Adelmo, a quanto era felice insieme a lui. Pensava anche a Marco, che da quando aveva conosciuto Martin si faceva sentire poco e niente. Se il suo amico non si faceva sentire, Manuel non faceva niente per cercarlo. Temeva di essere inopportuno, e poi voleva che Marco si godesse appieno la sua love-story con Martin. Soprattutto voleva star lontano dal ragazzino, dopo che ci aveva provato con lui quel giorno al centro commerciale. Meglio stare lontano dal pericolo di rottura di rapporto.

Ma perché non riusciva ad essere felice con un ragazzo della sua età o più giovane? Non poteva accontentarsi?

Sì, e prendere in giro me stesso ed un’altra persona? Giammai. Pensava tra sé, mentre parcheggiava l’auto nel parcheggio di un altro centro commerciale.

Sua madre si occupava di fare la spesa una volta ogni morte di papa, quindi a volte gli toccava di fare la spesa lui se non voleva morire di fame. Suo padre non era un problema, data la grande quantità di tempo che passava fuori casa, ma in ogni caso nemmeno lui si preoccupava più di tanto. Fare la spesa gli piaceva, gli ricordava quando era ancora fidanzato. Guardò un po’ i prodotti esposti sugli scaffali, decidendosi a prendere le brioches dolci che gli piacevano tanto per colazione.

Girando senza meta precisa, arrivò nel reparto integratori e supplementi alimentari. Qui, vide una persona che non si sarebbe mai aspettato di vedere.

Poco più in là di lui, c’era Alberto. Il ragazzone era lì, massiccio e capellone come al solito. Indossava un paio di jeans scoloriti ed una giacca simile a quelle che portano i giornalisti quando fanno i servizi sui luoghi dei disastri. In mano teneva una scatolina, della quale stava leggendo le indicazioni. Era solo. Cosa strana, considerato che accompagnava sempre Thomas nelle loro spese domestiche. Alberto poteva sembrare un burbero di prim’ordine o uno che aveva le redini del comando in casa, ma stando ai racconti di Thomas era un ragazzo molto remissivo che gli lasciava tutta la creatività possibile nel fare la spesa. Lui ci metteva solo la carta di credito. Quindi era ben strano vederlo lì da solo. Si avvicinò col suo carrello, ma Alberto non sembrò accorgersene, troppo occupato ad esaminare quella scatoletta.

- Ciao, Alberto – disse Manuel. Alberto quasi trasalì, tanto era concentrato a leggere.

- Uh, ciao Manuel – rispose Alberto, sorridendogli. – Come stai? –

- Abbastanza bene, dai. Cosa fai qui? –

Alberto fece una risatina di sufficienza, poi scosse il capo – Niente di particolare. Mi guardavo intorno – rispose, riponendo la scatoletta. Manuel vide di cosa si trattava. Valeriana.

- Capisco. C’è Thomas con te? –

Alberto guardò negli occhi Manuel, quindi contorse la bocca in una strana smorfia, scuotendo di seguito la testa, come se Manuel avesse toccato una corda sensibile. Poi Alberto posò la mano sullo scaffale, distogliendo lentamente gli occhi da Manuel. Gli parve molto teatrale, ma conoscendolo bene, sapeva che Alberto non era avvezzo a certe cose che molti gay adoravano: le scene madri. Difatti, quello che accadde dopo lo sconvolse.

Alberto si portò una mano agli occhi e iniziò a singhiozzare forte, cercando di reprimere quella reazione tanto naturale quanto insolita per lui, che recitava sempre la parte del burbero uomo di pietra. Manuel scostò il carrello e gli andò vicino, chiedendogli che cosa ci fosse che non andava.

 

*****

 

Chissà quanto avrebbero pagato tutti i suoi detrattori per vederlo nello stato in cui era in quel momento: Alberto era di fronte a Manuel, con gli occhi umidi di lacrime che fissavano il suo tè verde, annichilito da ciò che aveva passato nei giorni precedenti.

- Mi dispiace – disse Manuel – Non me lo sarei mai aspettato da Thomas. –

- Nemmeno io… - rispose Alberto, quasi sussurrando. – Sembrava così felice insieme a me… Mi domando solo dove ho sbagliato. –

- Forse da nessuna parte, Alberto – lo consolò Manuel, guardandolo. Faceva quasi tenerezza a vederlo così… Sicuramente molta più di quanta gliene aveva ispirata Simone quella sera in auto. – Ma cosa ti ha detto, di preciso? –

- Ha … ha detto che … - Alberto guardò più volte a destra e a sinistra, come se le parole che stava cercando fossero lì e avrebbe soltanto dovuto metterle in bocca - …che si sentiva confuso, da un po’ di tempo. …che … che non sapeva più cos’era diventato il nostro rapporto. E così mi ha chiesto un po’ di tempo per ripensarci su, per capire se mi ama ancora. –

La classica pausa durante il rapporto. Manuel si sentì male per il povero Alberto, immaginando cosa stesse provando in quel momento. La convinzione di essere troppo grasso o troppo brutto, unita all’incertezza del suo futuro insieme a Thomas, dovevano essere un macigno troppo grosso per lui.

- Capisco… - disse Manuel, sorseggiando piano la sua tazza di caffè d’orzo - …Secondo me vuole solo capire se è il ragazzo giusto per te. –

- Stronzate – rispose Alberto, e a Manuel sembrò di sentire il vecchio burbero Alberto – Non mi vuole più, ecco qual è la verità. A voi belli non piace avere un solo ragazzo per tutta la vita. Volete di più. Di più. Di più. – concluse, mormorando quelle parole tra i denti, con rabbia.

Manuel non seppe cosa dire, ma si sentì ancora una volta male nel constatare che il centro di tutto era la bellezza. Dannata bellezza. Dannati belli. Dannata Italia del cavolo che creava questi schemi mentali deviati.

- Manuel, non è vuol dire che se uno è bello è meno intelligente o vuole solo divertirsi. Ci sono belli e belli. – gli rispose, raccogliendo tutta la calma possibile. Non voleva essere duro con Alberto. Lo conosceva, e poteva dire che il suo essere così burbero era solo il risultato di tante esperienze terribili. – Se vuoi saperlo, io darei quello che non ho per essere un ragazzo normale, non un figo da paura… E poi anch’io vorrei solo una persona, per tutta la vita. Peccato che non riesca a trovarla. –

- Tu potresti avere chi vuoi – disse Alberto – Solo che come tutti quelli che possono permetterselo, puoi dire dei “no”. –

- Tu non puoi permetterti di dire di no? – lo provocò Manuel.

- No, non posso permettermelo. –

- Bene – disse Manuel – Supponiamo allora che un uomo anziano ti dicesse che gli piaci. Cosa gli risponderesti? –

- Cosa c’entrano ora gli anziani?? – domandò Alberto, visibilmente stizzito – Io sto parlando di ragazzi giovani. A cui io non piaccio. Io piacevo soltanto a Thomas, ma evidentemente non abbastanza, visto che mi ha lasciato. –

- Comunque, rispondo io per te: gli diresti no. Perché tutti possono dire di no, anche tu, che ti credi così brutto e orrendo quando invece sei solo un ragazzo normalissimo, con i tuoi pregi ed i tuoi difetti. –

Avrebbe voluto anche aggiungere che era carino, ma non si sarebbe mai azzardato a provarci con il fidanzato del suo amico. Dopo quella frase, restarono in silenzio. Era sicuro che non sarebbe bastata a tirare su Alberto, ma almeno era contento di avere un po’ capito che cosa lo turbava.

- Alby … - disse Manuel, prendendogli la mano nelle sue e guardandolo negli occhi – Tu sei un bravo ragazzo. So che a te piacciono quei ragazzi un po’ alternativi, o comunque carini come me. Ma vedi… non tutti sono delle gatte in calore che non riescono a stare con un solo ragazzo per più di un anno. Thomas ed io siamo tra quelli, e sono sicuro che ce ne sono degli altri là fuori. –

Gli occhi color nocciola di Alberto erano di nuovo umidi di lacrime mentre Manuel lo guardava. Faceva il forte, ma la realtà era che avrebbe voluto piangere anche lui.

- Senti – gli disse Manuel – Perché stasera non vieni a casa mia? Ci guardiamo un film, almeno ti distrai un po’. Ti andrebbe? –

Ma che stai facendo, pezzo d’idiota? Perché lo stai invitando? Domandò a sé stesso, mentre stringeva ancora la mano di Alberto. Non lo so nemmeno io, so solo che mi fa un sacco di pena e mi sembrerebbe di fargli un torto se non cercassi di distrarlo almeno un po’. Si sentì rispondere.

- Non… non lo so… Non vorrei essere di poca compagnia… Forse non sono nelle condizioni adatte per accettare un invito. -

- Non sarai di poca compagnia. Non voglio lasciarti solo. Dai, vieni. Sono solo in casa stasera, e magari potremo parlare un po’ per vedere cosa fare con Thomas. –

Quella fu la parola magica. Alberto si illuminò, vedendo che Manuel voleva aiutarlo con Thomas. Anche in questo si vedeva quanto Alberto fosse un ragazzo pulito e diverso dagli altri: un altro al suo posto non si sarebbe fatto scrupoli ad accettare l’invito di un bel ragazzo come Manuel, mentre lui si era fatto degli scrupoli.

- D’…D’accordo – mormorò Alberto, sospirando. Manuel gli sorrise e gli batté leggermente il dorso della mano con le dita.

- Vieni da me alle otto. Va bene, Alby? –

- Va bene. – disse, annuendo e tirando su col naso.

 

Sorrise ad Alberto, il quale ricambiò timidamente il sorriso. Non sapeva bene cosa fare, ma ormai la frittata era fatta e poteva solo stare a vedere cosa sarebbe successo.

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Capitolo 28
*** Ventisettesimo ***


La cena era stata ottima e abbondante. Non era stato raro per Manuel, quando era ancora insieme ad Adelmo, cucinare. Temeva addirittura di aver dimenticato come cucinare dei piatti buoni, invece era riuscito a tirare fuori una cena casalinga degna forse del migliore ristorante in giro. Data la mancanza di tempo, però, non era riuscito a preparare un buon dolce. Per fortuna, Alberto si era accontentato di una torta comperata poco dopo all’ipermercato.

Alberto era lì di fronte a lui, che mangiava la torta scura, gustandosela ad ogni boccone. Era stato suo ospite e di Thomas tante volte, ma mai aveva cenato da solo con lui. Manuel parlava di più con Thomas, e prima di quel giorno, Manuel pensava che Thomas fosse gelosissimo del suo ragazzo. Quanto si sbagliava…

- Davvero un’ottima cena – disse Alberto – Ma dove hai imparato a cucinare? –

- Grazie – rispose Manuel, ridacchiando - Anni e anni di esperienza… e genitori sempre assenti. –

- Ah già, e i tuoi dove sono ora? –

- Mia madre sta facendo un altro viaggio. Sembra che abbia repellenza di stare in casa… Come torna, riparte subito. –

- Ah capisco… Mia madre è molto diversa, sta sempre in casa… non esce quasi mai. Se esce, è per fare la spesa o andare al mercato… ma non ha mai fatto viaggi all’estero o fuori dal Piemonte. –

- Da un estremo all’altro, direi… Forse bisognerebbe farle conoscere, se non altro potrebbero trovare dei punti d’incontro. –

A quella proposta, Alberto si mise a ridere. Incominciò piano, per poi continuare in un crescendo di risate, che coinvolse anche Manuel.

 

*****

 

Poco prima di sedersi in salotto a guardare un DVD (“Titanic”, uno dei film preferiti di Manuel), Alberto aveva aiutato Manuel a sparecchiare il tavolo e a lavare i piatti. L’aveva invitato per discutere il da farsi su Thomas, ma in verità Manuel non credeva ai suoi stessi intenti. Voleva solo distrarre il buon Alby, sperando che si sarebbe ripreso piano piano.

Seduto sulla poltrona a guardare il film, Alberto sembrava un bimbo paffuto che guarda curiosamente ciò che non conosce alla televisione. Sembrava essere parecchio interessato al film, e di tanto in tanto Manuel gli lanciava un’occhiata. Quando Alberto se ne accorgeva, si voltava verso di lui e gli sorrideva.

Ma quando arrivò il pezzo più commovente, ovvero quello del naufragio del transatlantico, Manuel notò qualcosa.

I suonatori dell’orchestra che continuavano a suonare quell’aria triste, mentre i passeggeri più facoltosi si salvavano e quelli più poveri erano destinati a morire nelle fredde acque dell’oceano, i due amanti che stavano per essere separati… Tutto quanto era talmente commovente che Manuel provò una stretta al cuore, come sempre. E Alberto…?

Lo guardò nuovamente, e vide che il ragazzo sospirava. Aveva gli occhi lucidi, ma non voleva piangere. Tirava su col naso più forte, si teneva la fronte con la mano destra, appoggiato al bracciolo della poltrona, ma tutto ciò che i suoi occhi mostravano era un po’ d’acqua ai contorni. Gli venne da sorridere: di solito il buon vecchio Alberto faceva sempre la parte del burbero, di quello che non si fa scalfire da niente e da nessuno, invece era bastato che Thomas lo lasciasse e un film strappalacrime per far emergere la parte più nascosta di lui. Insieme a quel sorriso, nel cuore di Manuel si formò prima un senso di compiacimento per essere riuscito dove molti dovevano aver fallito, ma poi si sentì un po’ una merda. Forse, pensò, avrei dovuto scegliere una commedia e non un’avventura romantica.

Alberto. La stessa età di Marco, forse qualche mese più giovane, nonostante la pancia ed i capelli scuri che stavano scolorendo con l’andare degli anni. Di lui sapeva che lavorava all’Università, era riuscito ad entrarci vincendo un concorso che aveva fatto senza troppe speranze. Guadagnava bene, quel tanto che bastava a permettersi di vivere in affitto in un appartamento in periferia, e di dividerlo con Thomas. Di lui sapeva solo queste poche cose, ma guardandolo più attentamente, gli venne voglia di conoscerne ancora di più. Perché?

…A vederlo così sembrava un adulto.

Per questo l’hai lasciato, Thomas? Non ti piace l’idea che il tuo ragazzo dimostri più anni di quelli che ha realmente…? Pensò Manuel, mentre Alberto si teneva il mento con il palmo della mano, mangiucchiandosi le dita. Il suo corpo morbido seduto sulla poltrona sembrava così invitante, proprio com’era stata la pancia di Adelmo (quel poco di pancia che aveva l’uomo) quando Manuel da ragazzino vi aveva poggiato la testa. Chissà se Alberto era così comodo? Pensò ai suoi incontri precedenti. Tutti i ragazzi che aveva incontrato dopo Adelmo, l’avevano usato solo per una cosa. Mentre Alberto era lì, seduto in poltrona, a guardare un film. Come se lui fosse stato una persona qualsiasi, e non un bel ragazzo dalle gambe lunghe, appetibile per chiunque. In quel frangente, l’unico ad avere appetiti (ma d’affetto) era Manuel, anche se non sapeva bene come mettergliela.

Ebbe un’idea.

Si alzò dal divano e dichiarò – Vado in bagno. – poi aggiunse – Se nel frattempo vuoi metterti sul divano, magari sei più comodo… quella poltrona è rotta. –

- Ah… non … non me n’ero accorto. – disse Alberto, sempre cercando di mascherare la sua commozione.

- Già. Vai, siediti pure sul divano, se ti fa piacere. Io torno subito. –

- D’accordo. –

Tornò poco dopo, e andò a sedersi al suo posto sul divano. Alberto aveva seguito il suo consiglio e si era spostato. Ora era lì, accanto a lui, ad un posto di distanza.

- Ti sta piacendo il film? – domandò Manuel.

- Oh sì. È molto interessante. –

Dì pure che stai versando tutte le tue lacrime… pensò Manuel, concludendo con un sorriso. Lanciò un’ultima occhiata ad Alberto, che si era già di nuovo immerso nel film. Decise di prendersi un altro momento, prima di mettere in atto i suoi propositi.

Il film era arrivato quasi a metà, e Manuel decise che aveva aspettato troppo.

Quindi si stiracchiò, adagiandosi dolcemente contro Alberto. Sentì che si irrigidiva, ma non gli importava. Voleva andare fino in fondo, e sentire se Alberto era in grado di aiutarlo.

- Ti dispiace…? – domandò sottovoce Manuel.

- N… no. – rispose Alberto, facendogli spazio.

- Sono un po’ stanco, sai… -

- Ah … fra poco vado via allora. –

- No, dai… resta ancora un po’. – E dicendo questo, poggiò la testa sulle cosce di Alberto, sorridendogli. Questi lo guardò da sopra e sorrise lievemente, continuando a tenere le mani ben distanti dai suoi capelli. Era così tenero… Altri al suo posto avrebbero tirato fuori il loro arnese, ma lui non si scomponeva. Anzi era addirittura imbarazzato. Povero Alberto…

Piegando le lunghe gambe fino a raccoglierle dietro di sé, Manuel si acciambellò con la testa in grembo ad Alberto, che restava lì calmo come se niente fosse. Intanto Manuel da quella posizione chiuse gli occhi, godendosi quella morbidezza corporale, e per un momento tornò a dieci anni fa, quando si era sentito per la prima volta bambino insieme ad Adelmo. Ora era insieme ad un ragazzo suo coetaneo, ma la sensazione non mutava. Era contento lo stesso, e poco gli importava ora di Thomas. Anzi, pensò, se Thomas non si fosse fatto più sentire, avrebbe incominciato a frequentare Alberto. Arrossì, nel pensare quelle cose, soprattutto con Alberto lì… che intanto aveva iniziato ad avvicinare le mani e ad accarezzargli i capelli biondi. Manuel iniziò a fare le fusa, ronfando come fanno i gatti. Alberto ridacchiò, e Manuel fece lo stesso. Ad un certo punto Manuel si girò, e lo guardò negli occhi. Sorrideva.

Si guardarono negli occhi per un lungo istante, mentre Alberto gli accarezzava i capelli. Il film continuava con le sue parole, ma loro erano lì, l’uno con l’altro, in una dimensione tutta loro.

Quanto vorrei che mi baciassi, pensò Manuel per un momento. Ma Alberto se ne stava lì a guardarlo; la sua espressione quella di un bimbo curioso, mentre Manuel apriva e chiudeva le sopracciglia in segno di richiamo.

Ad un certo punto, Alberto smise di accarezzargli i capelli e dichiarò di dover andare in bagno. Allora Manuel si scostò e lui si alzò.

In bagno, Alberto si sciacquò un po’ il viso, e si guardò nello specchio. Thomas era ancora lì nei suoi pensieri, a tormentarlo. Si mise a piangere per un po’, prima di risciacquarsi il viso e aprire la porta.

Sulla soglia trovò Manuel, con la zip della tuta nera Adidas che aveva indosso slacciata, a rivelare il suo torace scolpito e allungato.

- Manuel…? – chiamò Alberto, guardandolo dal basso della sua statura. Manuel era a piedi nudi adesso, ma anche così era troppo alto. Il ragazzone avanzò verso Alberto, spingendolo delicatamente sul lavandino. Gli cinse le spalle con le braccia, e lo guardò negli occhi ancora una volta.

- Cosa stai…? – domandò timidamente Alberto, ma Manuel lo zittì con un dolce bacio sulle labbra. Alberto era talmente stupefatto che accettò il bacio ad occhi aperti.

- Shh. – disse Manuel poco dopo – Fai finta che io non ci sia. Fai finta che questo sia solo un sogno. –

- Ma… ma cosa dici, Manuel? – chiese di nuovo Alberto. Non gli era mai capitata una cosa simile.

Come una mamma che consola il suo bambino, Manuel gli prese il viso tra le mani, poggiando la sua fronte contro quella di Alberto e parlandogli sulle labbra.

- Thomas non tornerà. Lo conosco. Quando fa una cosa simile è per sempre. Scusami se te lo dico così, non avrei voluto, ma tu meriti di meglio. – disse, e posò un altro bacio sulle labbra di Alberto.

Questa volta Alberto chiuse gli occhi, e si lasciò baciare da Manuel. Nella sua testa, c’era la confusione più totale, oltre allo sconforto per aver sentito quelle parole. Thomas non sarebbe tornato. E cosa sarebbe stata la sua vita senza di lui?

Come se avesse letto nei suoi pensieri, Manuel gli rispose – Non pensarci, Alby. Non pensarci. Vieni di là con me, ti prego. So che ne hai bisogno. –

- S… sì… - rispose solo Alberto, senza sapere bene perché.

Guardandolo negli occhi, come per non perderlo di vista, Manuel lo condusse fino al divano, lo fece distendere e si mise sopra di lui, togliendosi la giacca della tuta. A torso nudo Manuel era ancora più bello, e Alberto stentò a credere che un ragazzo così si stesse concedendo a lui. Incominciarono a baciarsi, Manuel con la foga di dieci anni di solitudine, intervallata qua e là da incontri occasionali, e Alberto sotto la spinta della tristezza, tanto che più di una volta dovette mordersi la lingua mentre pronunciava il nome “Thomas”.

Fu una notte intensa per entrambi, nessuno dei due si aspettava che sarebbe finita in quel modo.

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Capitolo 29
*** Ventottesimo ***


Nel mondo gay trovarsi a letto con una persona, essendo sicuri del “come” essersela portata a letto, è molto più sicuro del “perché” lo si è fatto. Quelli che sono stati portati a letto dalla mano di Messer Alcool si svegliano dopo aver passato una notte di fuoco, troppo indolenziti e con la testa appesantita da un’emicrania post sbornia, quelli presi per mano da Miss Illusione si concedono a qualcuno sperando che per una notte di sesso si concedano a loro per tutta la vita, e chi semplicemente lo fa perché se la sente, proprio com’era successo a Manuel quella sera prima.

Lentamente Manuel aprì gli occhi, svegliato dalla fioca luce del sole del primo mattino. Guardò la radiosveglia sul comodino. Segnava le sei. Guardò attraverso le tende la luce solare che filtrava rischiarando la sua camera da letto, e per un momento sospirò di malinconia. Aveva sognato Adelmo, che fosse di nuovo lì con lui. Quando si girò, accanto a lui non c’era Adelmo, bensì…

Alberto.

Il ragazzo di Thomas, suo amico di vecchia data, era lì che dormiva tranquillo e beato, stringendo il cuscino come un bimbo stringerebbe l’orsacchiotto. C’è sempre un motivo per cui la gente assume un certo tipo di posizione, a letto come nella vita reale: la motivazione per cui Alberto stringeva quel cuscino poteva essere sicuramente per nascondere il suo corpo pingue e contemporaneamente perché era talmente pieno d’amore che voleva abbracciare qualcuno. Manuel sorrise di felicità nel vederselo lì accanto, e gli regalò una leggera carezza ai soffici capelli castani. Era stato bravo con lui, a letto. Non gli aveva fatto male per niente, e a sentirlo nel suo corpo Manuel aveva provato soltanto piacere. Avevano scopato per tutta la notte, finché Manuel non aveva provato l’orgasmo più bello della sua vita, e che non avrebbe mai pensato di provare insieme ad uno più giovane di lui di solo un anno. Lo guardò ancora per un istante, quindi sollevò le coperte e guardò verso il basso ventre di Alberto. Seminascosto dal cuscino, c’era il suo membro a riposo, pendente su un lato, dove Alberto stava beatamente dormendo. Manuel lo guardò attentamente, poi guardò Alberto che ronfava come un angioletto, quindi fece un sorriso furbetto e si imboscò sotto le coperte.

Nel suo leggero sonno, Alberto sentì il suo membro avvolto da qualcosa di caldo e umido, che andava su e giù e glielo solleticava dolcemente.

- Mmm… T… Thomas… - mormorò a bassa voce Alberto - …che fai…? Non… non ne ho …. Mmm… più per te, mi hai già … consumato tutto il serbatoio… - biascicò quelle parole e poi aprì gli occhi, rendendosi conto di non essere a casa sua solo quando vide una grande stampa di Lady Oscar sulla parete. Ebbe un momento di incertezza, mentre il suo membro era ancora avvolto da quella calda sensazione. Se non era nella stanza sua e di Thomas, allora dove si trovava? Prese un lembo di coperta tra l’indice e il pollice, lo tirò su lentamente e …

…sotto le coperte, Manuel aveva gli occhi chiusi e la mano sinistra occupata a tenere fermo il suo membro mentre ne gustava l’essenza con la bocca. Alberto arrossì violentemente a quella visione, quindi abbassò le coperte e fece finta di dormire. Sto senz’altro sognando. Pensò, mordicchiandosi leggermente la mano.

 

*****

 

Dieci minuti dopo erano lì al tavolo a fare colazione. Alberto stava spalmando la marmellata sulla fetta di pane con un’aria trasognata, forse contenta ma non troppo. Manuel gli lanciò qualche occhiata di sottecchi, chiedendosi cosa ne sarebbe stato ora di loro. Di sicuro era un passo avanti che gli aveva permesso di fare colazione, quando di solito in passato aveva fatto andare sempre via tutti i suoi amanti occasionali. Manuel addentò la sua brioche alla marmellata, masticandola lentamente ma evitando lo sguardo di Alberto. Nella sua mente, non sapeva bene cos’aveva combinato, se ci sarebbero state conseguenze. Per tutto il tempo della colazione evitarono di parlare di ciò che avevano fatto. Solo Alberto si limitò a mormorare qualcosa.

- Grazie. –

- Eh? Cosa…? –

- Per stanotte. –

Manuel arrossì lievemente, ripensando a come Alberto l’aveva posseduto… e si mordicchiò il labbro superiore. Allungò la mano verso quella di Alberto, la prese nella sua e se la portò alle labbra, baciandogli dolcemente le dita.

Alberto se le lasciò baciare e Manuel con aria malandrina prese a succhiargli il medio, tenendolo fra quei denti bianchi e perfetti… Alberto rise a sua volta.

- Pensi davvero che Thomas non tornerà? – domandò Alberto.

- Ne sono sicuro. Se lo conosco bene… Ma non pensare più a lui. –

- E come faccio? Non è facile… pensa se ritornasse, magari se venisse qui e… -

Senza curarsi di quello che Alberto stava dicendo, Manuel si alzò, e Alberto dovette quasi inclinarsi, tanto era alto, per guardarlo in volto. Lo scavalcò e gli si sedette in grembo, mettendogli le braccia intorno al collo. Si abbassò sui capelli di Alberto e li annusò a fondo nel loro odore di pesca, mentre sentiva il nasino a patata di Alberto che gli toccava il centro del petto.

- Alberto… io … ti piaccio? –

- Perché me lo chiedi? – domandò Alberto.

- Perché sì. Allora, ti piaccio o no? –

- S… sì. – rispose il ragazzo, e mentre rispondeva, Manuel sentì la sua bocca scorrergli sul petto.

- Allora… ti andrebbe di incominciare ad uscire con me? –

Alberto ebbe un sussulto, quindi guardò negli occhi Manuel, che dalla sua posizione gli sorrideva.

- Io sarò carino con te. Lo prometto. – disse Manuel, sorridente. Contemporaneamente, portò una mano sotto il suo sedere, si abbassò gli slip quel tanto che bastava e strusciò il sedere contro il basso ventre di Alberto.

A contatto con quel ben di dio, Alberto si indurì istantaneamente, e Manuel armeggiò ancora un po’ per sedervisi sopra. Quando Alberto fu dentro, Manuel cacciò un mugolio di piacere.

- Non… non dirmi di no…. – mormorò, mentre si muoveva e carezzava i capelli di Alberto.

- S… Sì… va…. Bene… - rispose Alberto, ma era chiaro che era un consenso strappatogli con il sesso.

Non aveva idea del perché avesse accettato la sua carineria, sapeva soltanto che Manuel era davvero un bel ragazzo ed era stato molto dolce con lui, quindi, perché no? Perché non accettare di uscire con lui, qualche volta?

Dei due, quello che aveva le idee più confuse era sicuramente Manuel. Con il membro eretto nel suo corpo, mentre Alberto lo penetrava dal basso, stava bene, però una parte di sé, più profonda e razionale, stava lanciando segnali disperati, che imploravano di smetterla e lasciar andare Alberto.

Ma lui non se ne curò.

Non in quel momento.

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Capitolo 30
*** Ventinovesimo ***


Il tempo passa sempre troppo in fretta. E se già è frettoloso così, figurarsi quando una persona è felice e gli sembra che il tempo sia troppo poco. Questa era la sensazione di Marco, che in compagnia di Martin sembrava aver ritrovato il suo buonumore usuale. Al lavoro le cose continuavano ad andargli da schifo, ma almeno si era buttato alle spalle il ricordo di Rocco. Forse ancora per paura di perdere tempo, aveva presentato Martin a sua madre. Lei era stata entusiasta di conoscerlo, anche se non si era risparmiata di dire la sua su quel ragazzo dopo la cena.

- Quel ragazzo non mi piace. – aveva detto soltanto, mentre Marco si lavava i denti, in procinto di andare a letto. Nella sua statura, Marco sembrava un ragazzino, e senza vestiti sembrava addirittura più alto di quanto non fosse. Si fermò, con lo spazzolino in bocca e un rivolo di dentifricio all’angolo della bocca.

- SFuFha, hon ho haphitho? – borbottò, con gli occhi sgranati dietro le lenti.

- E invece hai capito benissimo – ribatté la madre, a braccia conserte contro lo stipite della porta – Ho detto che Martin non mi piace. E faresti bene a stare lontano da lui. –

Marco continuò a strofinarsi i denti senza dire nulla, poi sputò il dentifricio nel lavandino e si rivolse di nuovo alla madre – Sei soltanto timorosa che lui mi porti via. –

- No, sul serio, ho paura che quel bellimbusto ti faccia soffrire, Marco. Emana come … non saprei dirti, un fluido… delle… delle vibrazioni negative. –

- Ma , mamma. Non dirmi che credi a certe stupidaggini. – automaticamente, dopo aver sputato il dentifricio, Marco si mise in bocca del collutorio usando il tappo del flacone come bicchiere.

- Credo a quello che sento. Ti fidi o no di tua madre? –

Dopo aver sciacquato bene, Marco sputò nel lavandino il collutorio, che andò giù per il tubo in una sostanza verde e schiumosa. – Non chiedermi una cosa del genere. Certo che mi fido di te, ma voglio bene anche a lui. –

Sospirando, la madre scosse la testa. Marco le andò vicino e l’abbracciò. Avevano la stessa statura, lui e sua madre, cosa che la faceva sempre sentire in colpa, forse perché era una tara genetica che Marco aveva ereditato da lei. Le baciò la guancia, e la strinse dolcemente – Ti voglio bene, lo sai. Mi fido di te, ma … dagli un po’ di tempo. Sono sicuro che con il tempo ti piacerà. – disse Marco, dandole una stretta di conforto.

- Promettimi solo che non ti farà soffrire. –

Non era certo una cosa promettibile. Marco si strinse leggermente nelle spalle, quindi la guardò negli occhi e le disse – Lo prometto. – Lei sorrise, e l’abbracciò nuovamente.

 

*****

 

L’estate si avvicinava, e contemporaneamente i locali al chiuso iniziavano a chiudere i battenti. L’ultima serata si sarebbe tenuta allo Chalet, il locale più popolare della serata gay torinese.

- Non capisco perché dobbiamo fare sempre ciò che vuoi tu – disse Marco a Martin, mentre guidava la sua Cinquecento. Martin si voltò verso di lui e lo guardò con nonchalance.

- Non è vero che facciamo sempre ciò che voglio io – gli disse – E poi se non ti va bene dove andiamo, perché non lo dici apertamente, scusa? –

- Vuoi che te lo dica? Va bene, allora non mi va bene dove stiamo andando, ok? –

- Bene, allora suggerisci tu qualcosa. – mentre diceva ciò, cambiò marcia e svoltò in prossimità del locale.

Vedendo già le persone che si avvicinavano, Marco pensò di essere stato intrappolato ancora una volta, quindi non si sentì di dire nulla. Martin gli prese dolcemente la mano, e gliela carezzò.

- Amore… dai… non fare così. Vedrai che ci divertiremo, staremo insieme… e magari… - lasciò sospesa la frase, mentre portò la mano di Marco in direzione del suo bassoventre. Marco arrossì nel sentire il coso di Martin sotto la sua mano. Per essere un ragazzino era veramente ben attrezzato, e ogni volta che erano in intimità, Marco tirava fuori il suo istinto di ragazzo affamato, cosa che a Martin non dispiaceva affatto. Senza cercare ulteriore consenso, Martin si abbassò la zip dei pantaloni e vi infilò la mano piccola e affusolata di Marco. A contatto con il pene di Martin, anche il suo s’indurì un po’. Glielo strinse, e Martin mandò un gridolino di piacere. Marco continuò per un po’ a stringerglielo ad occhi chiusi, finché Martin non lo tirò a sé e lo baciò dolcemente.

- Ti amo, piccolo… -

- Anch’io… cucciolone. –

 

*****

 

- Non so se sia stata una buona idea venire qui – stava dicendo Alberto, mentre era all’entrata insieme a Manuel. Quest’ultimo era lì che lo teneva sottobraccio. Lo guardò di traverso.

- Si può sapere di cos’hai paura? È tutta la sera che ti guardi intorno come un latitante. –

- E’ che… non mi sento tranquillo. Non vorrei che Thomas… -

Manuel sospirò. – Non dirmi che pensi ancora a lui? Anche adesso che frequenti me? –

Alberto guardò in su in direzione di Manuel – Oh no… è chiaro che non penso più a lui, solo che non vorrei … si creassero equivoci, ecco. –

Manuel prese il viso di Alberto fra le sue mani, e si chinò un po’ a guardarlo negli occhi. - Alberto, ascoltami. Ti ha lasciato lui? Sì. Hai assorbito la sua scomparsa? Sì. Ti ha cercato in questi due mesi? No! E allora? Di cosa cazzo ti preoccupi? –

Quegli occhi azzurri di Manuel sembravano due diamanti, ai quali era impossibile sottrarvi lo sguardo. Alberto scosse la testa lentamente, quindi disse – Nulla. Non ho da preoccuparmi di nulla. –

A quella risposta, Manuel lo baciò dolcemente sulle labbra, sempre più appassionatamente. Lo stesso fece Alberto.

- Era ciò che volevo sentirti dire. – disse Manuel sorridendo – Ora andiamo. –

 

*****

 

Né Marco né Manuel avevano pensato l’uno all’altro, durante quei due mesi. Si erano semplicemente persi di vista, come due sconosciuti che si perdono di vista dopo un malinteso. Nel loro caso non c’era stato nulla, e non si erano pensati a vicenda, troppo occupati a pensare ciascuno alla propria vita. Ma se il tempo corre veloce, allora il destino prima o poi ci mette lo zampino, e se ciò era vero, allora né Marco né Manuel avrebbero dimenticato tanto facilmente quella serata in discoteca.

 

*****

Tra saluti di personaggi mai visti né conosciuti, drink e alcoolici vari (escluso Marco) e balli sfrenati, la serata di Marco passò velocemente, almeno fino alle due del mattino.

A quell’ora, la festa era arrivata al culmine. Gli ospiti erano già stati presentati dal DJ e stavano facendo a gara per chi diceva la stronzata più bella agli avventori danzanti, i ragazzi più belli pomiciavano sui divanetti e quelli più brutti erano seduti là da soli, in compagnia dei loro drink.

Ma dove sarà finito Martin? Pensò Marco, mentre teneva i due drink in mano (un analcoolico per lui e un vodka & lemon per Martin, il quarto della serata) e cercava con gli occhi il suo fidanzatino, che si era disperso all’improvviso, mentre erano al bancone. Domandò a qualcuno che aveva salutato prima (un amico di Martin) se l’avesse visto, ma quello gli rispose di “no”, condendo la risposta con una risatina sarcastica. Lì per lì Marco non capì il perché.

Lo capì dopo.

In mezzo alla folla, gli parve anche di riconoscere qualcun altro: una testa rossa dall’accento francese che aveva visto circa due mesi fa: Thomas! Era il ragazzo di Alberto, quel ragazzo un po’ in carne e burbero. Se c’erano loro, poteva voler dire che Manuel era lì. Un sorriso si dipinse sulle labbra di Marco.

 

*****

 

E Manuel era effettivamente là, ma non in compagnia con Thomas, bensì con quella del suo ragazzo, o meglio, ex-ragazzo. Insieme con Alberto, Manuel aveva cambiato un sacco di postazioni nella sala da ballo, non restando mai nello stesso punto per troppo tempo. Forse perché inconsciamente sapeva che stavano rischiando grosso di incontrare anche Thomas (che peraltro era lì, ma sia Manuel che Alberto ne ignoravano la presenza), ma la sua non era paura. Era piuttosto… desiderio di incontrare Thomas per caso.

Mentre baciava Alberto, Manuel si sentiva strano. Gli piaceva donare il suo corpo ed il suo affetto ad un ragazzo più giovane di lui, e per di più così lontano dagli schemi classici del ragazzo gay, ma non era del tutto convinto. Alberto era felicissimo tra le sue braccia, si vedeva fin troppo bene. E anche se per quei due mesi aveva cercato di accantonare Thomas, non ci era riuscito ancora del tutto, e ogni volta che baciava Manuel, una piccolissima parte di sé avrebbe voluto che ci fosse il suo bel rosso.

- Che hai, Manuel? – domandò Alberto.

- Nulla. – sorrise questi, e baciò di nuovo il ragazzo. – Stavo solo pensando che con te sto molto bene. –

Alberto sorrise, e accarezzò la guancia di Manuel. Questi rispose con un occhiolino, mentre continuavano a ballare il lento diffuso dalle casse. Mai come allora i single si erano fatti più da parte: se ne stavano tutti accalcati sui divanetti, a guardare con invidia chi aveva trovato il partner per la serata. Mentre ballavano, successe. Alberto cingeva la vita di Manuel, e le braccia di quest’ultimo erano distese sulle sue spalle. Quando Manuel si scostò un momento, come un fantasma in mezzo alla calca apparve il volto di Thomas. Alberto ebbe un tuffo al cuore. Il ragazzo dai capelli rossi se ne stava in piedi accanto a loro, guardandoli furente. Di tanto in tanto qualcuno lo urtava, ma lui restava impassibile, concentrando la sua attenzione soltanto sulla coppietta composta dal suo amico e dal suo ragazzo. Manuel lo guardò freddamente, lasciando andare Alberto. Nessuno disse nulla per lunghi attimi, nei quali entrambi restarono fermi sulla pista a guardarsi. Ad Alberto sembrò addirittura che dai loro occhi scaturissero delle folgori, dei piccoli fulmini elettrici che andavano a cozzarsi proprio in mezzo ai due. Lo sguardo di Thomas si spostò poi da Manuel ad Alberto, e mai come prima Alberto si sentì folgorato da una scarica elettrica. Tremava tutto, e il cuore gli era andato a mille. Thomas lo guardò dalla testa ai piedi, contorcendo la sua bocca in un’espressione di disgusto. Quindi diede una leggera spinta a Manuel e si dileguò attraverso la folla. Manuel si lanciò all’inseguimento.

 

*****

 

Frattanto, Marco gironzolava ancora alla cieca cercando il suo ragazzo. Si stava facendo tardi, e lui stava iniziando ad aver sonno. Gli scappava anche da morire la pipì, quindi decise di andare in bagno e lasciò i due drink sul tavolino senza nemmeno averli toccati.

Lì, si tirò giù la zip dei pantaloni e orinò nel gabinetto alla turca. Il chiasso della musica faceva rombare le pareti e gli aveva già intorpidito le orecchie, ma riusciva ancora a sentire qualcosa. Tra i vari borbottii e risatine isteriche dei ragazzi un po’ più effeminati, udì una voce che gli era familiare.

- Quanto sei figo – disse qualcuno. Sembrava una voce abbastanza matura, alla quale Marco assegnò più o meno quarant’anni.

- Tu di più – rispose un’altra voce. Marco la riconobbe immediatamente. Era quella di Martin. Indietreggiò leggermente, andando quasi a finire sulla parete di legno del gabinetto, quindi si accovacciò. Nello spazio tra il pavimento e la parete, vide le scarpe di Martin. Non c’erano dubbi. Nel bagno adiacente c’era lui… e un altro uomo, che indossava scarpe nere classiche. Cercò di fare mente locale e ricordare se avesse già visto qualcuno così, ma non fece in tempo a rinfrescarsi le idee che vide i pantaloni scuri dell’uomo adornargli le caviglie insieme ai boxer, e le scarpe di Martin che compivano una rotazione verso di lui. Poi anche i suoi pantaloni caddero e contemporaneamente un quadratino di plastica rosa (di quelli che contengono preservativi) volò sul pavimento del bagno lì vicino. Marco sentì il sangue che gli andava alla testa, in un pulsare armonico e concitato allo stesso tempo. I pensieri che gli rimbalzavano in testa senza un preciso filo logico, nonché le gambe che non gli rispondevano più. Iniziò a piangere sommessamente, portandosi le mani a coppa contro gli occhi, conscio che il suo sogno d’amore si era finito, se mai era cominciato.

 

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Capitolo 31
*** Trentesimo ***


Appoggiato ad una fontana, Manuel si stava sciacquando accuratamente il volto, anche se, lo sapeva, che l’indomani avrebbe trovato i segni del suo scambio di vedute con Thomas. Si avvicinò ad una macchina parcheggiata lì vicino, ne aprì lo specchietto e si esaminò il volto. Non era stato danneggiato più di tanto, però era sicuro che due o tre lividi gli sarebbero venuti fuori. Thomas si batteva bene, forse perché era stato campione di arti marziali in gioventù. Se non fosse stato per quel buttafuori che li aveva divisi, sicuramente avrebbe avuto lui la meglio… Ma in un modo o nell’altro, Thomas aveva avuto la sua lezione. In un modo o nell’altro.

Continuava ad esaminare il cellulare. Nessuna notizia da Alberto, il quale aveva abbandonato Manuel e se n’era andato da Thomas quasi implorandolo in ginocchio, e il fatto che non lo stesse contattando via cellulare, significava soltanto una cosa: che era tornato insieme a lui. Opinò che avrebbero avuto un sacco di cose da spiegarsi tra loro, prima fra tutte il perché Thomas fosse lì in discoteca. Cercava di rimorchiare oppure sapeva che Alberto sarebbe stato lì in sua compagnia, ed aveva preparato ad entrambi una sorpresa? Non era da escludere, visto che il buon Thomas aveva amici dappertutto ed era possibile che lui ed Alberto fossero stati visti mentre uscivano insieme durante quei due mesi.

Mentre era lì accanto a quell’auto ad esaminarsi il viso, vide avanzare tre degli amici di Thomas. Li riconobbe. Uno era Davide, l’altro Mattia… e l’altro… Martin. Martin? Ma come…? Non avrebbe dovuto essere insieme a Marco? Si erano lasciati? Decise di scoprirne di più, quindi si mise a pedinarli, stando bene attento a non farsi vedere.

- Thomas si è ripreso quel grassone del suo ragazzo. – stava dicendo Davide – Pare che quello alto gliel’avesse fregato per un po’. – concluse, ridacchiando.

- Dio mio, certo che chi si fa scopare da uno come Alberto, avrebbe proprio bisogno di una perizia psichiatrica. È… è un pachiderma! – questo era Martin, il presunto fidanzato di Marco. Non per difendere Alberto, ma sarebbe saltato fuori a spaccargli la faccia solo perché detestava quelle persone così attaccate all’aspetto fisico e all’apparenza. Si trattenne, mordendosi il pugno. Continuò ad avanzare, nascosto dietro le macchine parcheggiate. I tre deficienti continuavano a non vederlo.

- Oh, e Manuel? –

- Ah, che gran figo quello… me lo scoperei tutto! – disse Martin, e di nuovo Manuel dovette tenere buone le sue mani chiuse a pugno. Camminavano tutti impettiti, come delle signorine. Tra poco sarebbero giunti al traguardo: la Cinquecento di Martin. Manuel la riconobbe subito, quindi si accovacciò dietro una Fiat Multipla parcheggiata lì vicino e stette ad ascoltare i loro discorsi.

- Sì sì, te lo scoperesti tutto… ma dove? Sei una passiva che fa provincia! – disse Mattia, ridendo sguaiatamente, come una ragazza.

- Non è vero, sono double-face, tesoro… - ribatté Martin, calcando la mano sull’accento francese. Manuel scosse la testa, digrignando i denti.

- Ah sì? E quale faccia hai usato per Vito, quel pezzo di quarantenne che ti sei portato in bagno? –

- Hmmm! Non mi fate parlare… è stato fantastico. Uno scopatore da premio oscar! L’abbiamo fatto più volte… finché non mi sono rotto le balle e … -

Ora Martin stava raccontando i dettagli di come l’aveva “scaricato”, e Manuel scosse la testa. Sì certo, ridi pure… Quando sarai scaricato tu, mi farò quattro risate.

- Però scusa, c’è una cosa che non capisco. –

- Eh, che novità. Cosa non ti è chiaro? – domandò Martin.

- Stasera sei entrato in discoteca con un ragazzo bassino e con gli occhiali. Capperi, era carino. Ma dov’è adesso? –

Marco… se quel pezzo di merda l’ha lasciato lì da solo, io… io… Manuel chiuse le mani a pugno, incavolato come una belva.

- Sai che non lo so? L’ho perso di vista dopo essere entrato nel bagno con Vito. Forse si è trovato anche lui qualcuno… Sta di fatto che non mi ha nemmeno mandato un sms né fatto una chiamata. –

- E ti preoccupi? –

- Beh, un po’ sì. Ha un bel culetto da scopare, non vorrei perderlo. –

- Ma fai proprio schifo – disse Mattia, ridacchiando.

- Che ci posso fare… sono giovane, ho bisogno di scopare…! –

 

*****

 

Mentre stavano ridendo di quella battuta, i tre si voltarono, attratti da un suono ripetuto. Pochissimo distante da loro, una Fiat Multipla aveva iniziato a suonare l’allarme. Martin guardò in quella direzione, e sotto i lampioni vide una figura alta allontanarsi.

 

*****

 

Se n’era andato dal locale trattenendo le lacrime fino all’uscita, ma ora che era da solo, seduto su un panettone di cemento, stava piangendo della grossa. Lacrime amare solcavano le sue guance, mentre singhiozzava convulsamente. Gli faceva male essere stato tradito ancora una volta. Intorno a lui, il parco era deserto… Proprio come nei film horror. Desiderò che arrivasse un assassino a porre fine alle sue sofferenze. Desiderò di morire, perché non ce l’avrebbe fatta a sopportare un’altra delusione. Meditò di chiamare Manuel, ma non sapeva come l’avrebbe presa. Ehi ciao Manuel, sono Marco… come sto? Eh, guarda, ero là allo Chalet e Martin si è chiuso in bagno a scopare con uno. Sì lo so, scusa se non mi sono fatto sentire, è che ero troppo occupato a pensare al mio nuovo ragazzo. No, ti prego non riattaccare, non lasciarmi solo, non… Pensando che Manuel l’avrebbe presa male, scacciò l’idea di prendere il cellulare e chiamarlo. Si mise le mani a coppa sugli occhi e continuò a piangere, singhiozzando forte. Mentre piangeva, sentì il cellulare squillare nella sua tasca, ma non se ne curò proprio. Se era Martin, l’avrebbe mandato a fare in culo immediatamente, ma in realtà non aveva voglia di sentirlo… Era solo stanco, molto stanco.

 

*****

 

Con il cellulare in mano, ma sempre più preoccupato, Manuel cercava con gli occhi Marco, sapendo bene che era lì al Parco del Valentino. Non sapeva perché. Lo sapeva e basta. Marco era lì, da qualche parte. Doveva solo trovarlo. Dopo un po’ abbandonò il cellulare, fermandosi e guardandosi intorno. Lì vicino passarono un ragazzo ed una ragazza che si tenevano per mano. Parlavano francese, e Manuel pensò di chiedere loro se avessero visto Marco.

- Désolé, vous avez vu un garçon de petite taille, avec des cheveux bruns et des lunettes? –

La ragazza guardò Manuel con due occhi come se le avesse detto che aveva un culo magnifico, poi rivolse lo sguardo al suo compagno, che annuì. Stavano per rispondere insieme, poi il ragazzo lasciò parlare la ragazza.

- Oh, oui, il est assis sur un banc – disse la ragazza, indicando la direzione. - Peut-être que c’est triste, il pleurait dur lorsque nous avons adopté. –

- Merci beaucoup. – disse Manuel, allontanandosi. I due transalpini ripresero la loro passeggiata.

Pochi passi dopo, Manuel giunse all’entrata nord del parco, e trovò una figura seduta. Curvo su sé stesso, Marco guardava un punto indefinito del terreno, come inebetito. Si avvicinò lentamente, ma Marco sembrò non accorgersi della sua presenza…

- Ehi – disse Manuel. Marco alzò lo sguardo e lo rivolse a Manuel. Il volto di Marco era una maschera di dolore e tristezza.

- Ciao – rispose Marco, neutro. Poi non disse più nulla.

Manuel scelse un panettone lì vicino, e si accomodò a sua volta. Sospirò ampiamente, ma non disse nulla. Restarono lì, uno di fronte all’altro, in silenzio come due pazienti in una sala d’attesa, finché Marco non alzò lo sguardo.

- Cosa ti è successo? – il suo tono era sorpreso. – Sembra che tu abbia fatto a botte con qualcuno. –

- E’ così, infatti – rispose Manuel, sospirando.

- Con chi ti sei azzuffato? –

- Thomas. Il ragazzo francese. –

- Oh, e perché? –

- Vuoi veramente saperlo? –

Marco fece di sì con la testa.

- Per orgoglio. –

- Oh? Non capisco… - disse Marco.

Lentamente, con calma, Manuel snocciolò tutti i dettagli del suo incontro con Alberto, il ragazzo di Thomas, di come l’aveva sedotto dopo averlo invitato a cena a casa sua, e di come l’aveva frequentato per qualche settimana, nel tentativo di fare un dispetto a Thomas.

A quel racconto, Marco annuì, sospirando di tanto in tanto.

- Ma perché l’hai fatto? –

- Perché Thomas mi aveva dato del fossile. E così io mi sono preso una rivincita rubandogli il ragazzo. Così gliel’ho fatta vedere. Però… -

- Però…? – domandò Marco.

Manuel sospirò. Non sapeva bene cosa stava provando in quel momento, se rabbia o tristezza o tutt’e due le sensazioni insieme. Fatto sta che l’esperienza con un ragazzo suo coetaneo l’aveva un po’ cambiato. E non un ragazzo qualunque, ma un ragazzo che viveva ai margini rispetto al mondo gay, così vuoto e pieno di superficialità. Thomas sapeva chi aveva accanto, e nonostante quell’incespico che aveva avuto lasciandolo, era poi tornato sulla retta via. Invece lui…? Manuel era stato lasciato senza tanti complimenti quando non aveva ancora vent’anni e frequentava un uomo che avrebbe potuto essere suo nonno, che non era certo tornato indietro sui suoi passi. Pensieri, parole, sensazioni. Il tutto orchestrato da una sensazione di smarrimento, che Manuel stava sperimentando proprio in quel momento. Scosse la testa.

- Non lo so. Non ne sono sicuro, ma credo che inconsciamente mi sono innamorato di Alberto. –

- Oh – fu il commento di Marco. Avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma sentiva che non sarebbe stato carino. Così le loro parole restarono sospese nel silenzio, rotto di tanto in tanto da qualche motore che transitava per il corso e da un’ambulanza che fece sentire l’eco delle sue sirene in tutto il circondario.

- E a te cos’è successo? – domandò Manuel a Marco, anche se un po’ intuiva.

Quella domanda fu come l’interruttore di una detonazione per Marco. Ricominciò a piangere sommessamente, ripensando a ciò che era successo… Manuel si avvicinò a lui e gli prese la mano, guardandolo negli occhi.

- Marco? - chiamò Manuel. Marco era lì seduto sul panettone di cemento a piangere.
Manuel si alzò dal suo posto, gli andò vicino e s'inginocchiò di fronte a lui, incontrando i suoi grandi occhi color cioccolato, ora bagnati dalle calde lacrime. - Ehi - gli disse – So cosa ti è successo. Martin è stato un coglione, io l’ho sempre pensato. Non mi è mai piaciuto. – disse, ma Marco continuava a piangere.

- Ma perché piangi? Guardati intorno. C'è Torino di notte che è tutta per noi. E poi... Ci sono io con te. Io non ti lascerò solo. - Gli sorrise e gli porse la mano. Marco lo guardò. In quegli occhi azzurri c'era molta più sincerità di quanta non ne avesse mai vista in vita sua... Quegli occhi color cristallo gli sorridevano, e sembravano dire Non abbandonarmi, amico mio. Se mi abbandoni, tutto sarà stato vano. Marco allora prese quella mano e Manuel dolcemente lo tirò su. - Andiamo - disse soltanto.

 

*****

 

Quella notte passeggiarono parecchio. Parlarono, si scambiarono esperienze, momenti del passato, situazioni del presente e progetti per il futuro. Tra i tanti progetti che avevano in comune, uno era sicuramente quello di viaggiare. Visitare luoghi sperduti e sconosciuti, scoprire posti nuovi. Manuel avrebbe tanto voluto visitare gli Stati Uniti, mentre Marco il Giappone. Mentre intorno a loro una Torino silenziosa ascoltava i loro discorsi sulla vita, sull’amore… Giunti sul ponte di Piazza San Carlo, si fermarono.

Manuel si appoggiò al parapetto tranquillamente, e guardò giù. Marco invece dovette salire con i piedi sulla base del parapetto, in quanto la sua statura non gli avrebbe concesso di guardare giù. Il fiume, rischiarato soltanto dalle luci dei lampioni, era nero come la pece. L’acqua nasconde misteri. Cosa c’è veramente sotto la superficie scura di un fiume cittadino? Tesori nascosti? Cadaveri? O solo inutile ciarpame?

- Mi fa paura – disse Marco.

- Anche a me. – rispose Manuel, continuando a guardare giù… Poi si voltò, alzando lo sguardo. Accanto a lui, Marco fece lo stesso. Scese dalla balaustra, e andò vicino a Manuel. Si guardarono nuovamente negli occhi, e restarono lì un bel po’ di tempo, in una sorta di muta conversazione. Forse era la prima volta che Marco, con la sua timidezza, riusciva a guardare veramente negli occhi qualcuno. Negli occhi di Manuel c’era sicurezza, fiducia nel futuro, ma anche tanta tristezza. Quegli occhi così chiari erano come il fiume sotto di loro… nascondevano misteri improbabili, il passato di un ragazzo che era sopravvissuto a tante, troppe delusioni.

Gli occhi di Marco erano esattamente come l’acqua del fiume, pensò Manuel mentre li guardava. Marroni come i capelli del suo proprietario… Pensò di rimuovere gli occhiali di Marco, solo per vederli meglio. Sollevò una mano, e così fece. Marco chiuse gli occhi mentre i suoi occhiali lasciavano il suo viso, poi li riaprì quando la mano lunga e affusolata di Manuel gli toccò la guancia. Manuel guardò a lungo negli occhi di Marco, provando un’inspiegabile infinita tenerezza per il suo amico. Se fossero stati due gay non dichiarati, probabilmente avrebbe fatto outing soltanto baciandolo, visto che era ciò che voleva fare in quel momento. Marco gli si avvicinò un po’, prendendogli la mano. Era stupendo… un ragazzo di quasi ventisette anni, così piccolo di statura, con una mano così perfetta. Quasi un bimbo. Gli stessi sentimenti provò Marco, mentre si alzava in punta di piedi e Manuel si abbassava lentamente.

Fu un bacio casto, quello tra di loro, consumato nel silenzio di una Torino addormentata, rotto di tanto in tanto dalla solita auto di passaggio, ma ugualmente magnifico. Labbra contro labbra, come se tornando indietro nel tempo entrambi fossero tornati ragazzini. Marco sedicenne e Manuel diciottenne. Si staccarono per un momento, poi si guardarono negli occhi e si sorrisero.

- Marco…? –

- Manuel. –

Sorridendo ancora, Manuel disse – Siamo due lesbiche. –

Marco trattenne un accesso di risa, ma poi non ce la fece più. Si staccò da Manuel e rise. Dapprima fu un riso controllato, poi sempre più forte, più scatenato. Fece lo stesso Manuel, che in meno di due minuti si ritrovò piegato in due dalle risate, battendo il pugno sul parapetto del ponte, ridendo come un deficiente della sua stessa battuta. E risero, risero, risero talmente tanto da attirare l’attenzione di qualche passante là, in particolare un uomo anziano, che li canzonò dicendo: Ridete, ridete, che la mamma ha fatto gli gnocchi! E ad ogni battuta che facevano i passanti, loro ridevano più forte e ancora di più. Ridevano di loro, della loro vita, delle loro delusioni. Se la vita non era una passeggiata per nessuno, forse qualcuno aveva imparato a farne materia di risata.

 

*****

 

Erano quasi le quattro del mattino quando Manuel stava guidando alla volta della casa di Marco. Lui era lì, al sedile passeggero, che dormiva della grossa. Fortunatamente, pensò Manuel, che per uscire con Alberto aveva usato la Peugeot 406 di papà. Se non altro era più comoda della sua Fiesta. La casa di Marco si trovava alla periferia sud di Torino, nei pressi del carcere Le Vallette. Mancava poco, ormai erano arrivati. Restava soltanto un semaforo da superare, poi avrebbe dovuto svoltare a destra, ed ecco profilarsi l’alveare dove Marco viveva con sua madre.

Si fermò al semaforo, mentre il motore della grossa station wagon ronfava tranquillamente. Non si azzardò ad accendere la radio per non svegliare Marco, che dormiva come un angioletto. Anzi, per dire la verità gli sarebbe dispiaciuto svegliarlo anche una volta arrivati a casa. Voleva che Marco continuasse a dormire, affinché si riprendesse dall’ennesima delusione. Quando lui era stato lasciato da Adelmo, si era chiuso in casa per giorni, tentando addirittura il suicidio. E se a Marco fosse venuta in mente la balzana idea di percorrere il suo cammino? Era un rischio da tenere presente, anche se con Martin c’era stato solo per poco tempo e anche se non sapeva fino a che punto Marco era rimasto coinvolto. Alla fine di tutto, non voleva lasciar andare Marco. Dunque: che fare?

Buttò un’occhiata al semaforo. Ancora rosso per le auto e verde per i pedoni. Ormai era questione di secondi, e sarebbe diventato verde. Far restare Marco un po’ di tempo a casa con lui? Sì, d’accordo, ma… Cos’avrebbero fatto? Si sarebbero chiusi in casa come due internati, senza vedere nessuno? No, non poteva permetterlo. Ci voleva un’idea… Il tempo stringeva. Fra poco sarebbe diventato verde e un’idea era da prendere in fretta.

Verde.

Manuel rilasciò la frizione molto lentamente, e l’auto si spostò in avanti molto piano. Non accelerò, lasciando che il motore entrasse in stallo per far andare l’auto in prima marcia. Stava rischiando grosso. Se fosse sopraggiunta un’auto da dietro ad alta velocità, sicuramente li avrebbe tamponati. Ma non stava passando nessuno, quindi…

Improvvisamente, l’illuminazione.

Dal parabrezza, vide la struttura della tangenziale elevarsi sopra di loro. E alla sua destra, vide un cartello.

TANGENZIALE

A21 – PIACENZA

BOLOGNA.

 

Si fermò di nuovo per dieci secondi, quindi ripartì imboccando quella corsia.

 

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Capitolo 32
*** Trentunesimo ***


C’erano state notti in cui Manuel aveva sofferto d’insonnia. Specialmente da bambino, quando doveva andare in posti sconosciuti con la famiglia. Restava sveglio tutta la notte, aspettando la mattina per poi andare in camera dei suoi genitori e svegliarli, felice e contento di andare a visitare un posto nuovo. Più tardi, con l’andare degli anni, questa abitudine si era risvegliata solo in occasione dei grandi esami della vita: la maturità, dove il giovane Manuel era rimasto sveglio tutta la notte (non in preda all’ansia), aspettando quel fatidico momento in cui per lo Stato italiano sarebbe diventato maturo, e poi in occasione degli esami universitari. Insonnia da iperattività, la si poteva chiamare. Una specie di virus che gli teneva sveglio il cervello quando ce n’era bisogno.

E quella notte ce n’era proprio bisogno: Manuel guidava da ormai quattro ore. Alle quattro del mattino aveva appena superato Bologna. Da lì in poi, cominciava l’A14, l’autostrada adriatica. Non sapeva bene dov’era diretto, continuava soltanto a guidare senza una meta precisa. Complice il serbatoio pieno come un uovo (sicuramente di un pieno fatto parecchi anni prima, visto che suo padre utilizzava quell’auto poco o niente, preferendola all’utilitaria di sua moglie), non avrebbe avuto occasione di fermarsi né tornare indietro, a meno che la sua vescica non avesse avuto bisogno di essere svuotata od il suo stomaco riempito. Per il momento continuava a guidare, spingendo il pedale dell’acceleratore a velocità costante. Buttò un occhio al suo passeggero, Marco. Il ragazzo se ne stava lì, sdraiato, con la testa poggiata sul poggiatesta del sedile, con la bocca semiaperta. Un accenno di barba si stava facendo strada sul suo volto, ma era carino lo stesso. Tenendo gli occhi sulla strada, gli sfilò delicatamente gli occhiali e li ripose sul ripiano portaoggetti, sperando che non si svegliasse. Non lo fece. Lo osservò ancora un po’, cogliendo come fosse così magrolino e slanciato, e cercando di ricordarlo com’era ai tempi della scuola…

…un ragazzino piccolo e magro, che sembrava provenire dritto filato dalla scuola materna. Con quegli occhialoni dalla montatura di tartaruga che nascondevano occhi grandi e marroni, che guardavano il mondo pieni di dubbio. E quei capelli sempre così spettinati. Manuel aveva sentito alcune ragazze parlare di lui. Lo trovavano un rospo. Forse fu la prima volta che si dispiacque veramente per qualcuno, nonostante avesse da pensare ai suoi nascenti problemi di identità sessuale, oltre a tutte le menate che comportava l’essere il rappresentante d’istituto. Poi una sera, lo incontrò in discoteca. Quella sera, era stata la sera del giorno più maledetto della sua vita. Il giorno in cui scoprì di essere gay.

- Caro Chiaravalle – l’aveva salutato il prof. Oldoini, entrando nella biblioteca.

Manuel gli aveva sorriso, salutandolo a sua volta – Buongiorno prof, come andiamo? –

- Tutto bene – aveva risposto il docente – Si sopravvive. Cosa stavi leggendo? –

Manuel era arrossito leggermente, prendendo il libro e mostrandolo all’attenzione del professore, che lo prese in mano e lo esaminò.

– “I turbamenti del giovane Torless”… - aveva risposto Manuel, ficcandosi le mani dietro la schiena per cercare di darsi un contegno. Guardava dappertutto, imbarazzato. L’uomo annuì guardando il libro, poi guardò Manuel.

- Sai Manuel – aveva incominciato il prof, sospirando – E’ un vero peccato che quest’anno ci lascerai. Sei stato uno studente modello, e un rappresentante d’istituto veramente impeccabile – sospirò di nuovo – è un peccato che non ce ne siano di più, di ragazzi come te. –

- G… grazie – aveva risposto Manuel, imbarazzato – Ho fatto del mio meglio. –

- Modesto. - Oldoini rise, poi riprese in mano il libro, guardando dov’era arrivato. - …la parte in cui viene sodomizzato. –

- Già… - rispose Manuel, cercando di sembrare quanto più tranquillo possibile. Ci riuscì, ma la verità era che Oldoini gli piaceva. Provava per lui un qualcosa che non capiva, che lo attraeva e spaventava allo stesso tempo. Erano cinque anni che lo guardava con desiderio, da quando aveva avuto quattordici anni e lui aveva dato il benvenuto alla sua classe, quella mattina del Settembre 1998. Di lui gli piacevano i suoi capelli brizzolati, il suo pizzetto malandrino e quel corpo massiccio, che a qualcun altro sarebbe sembrato troppo grasso. Il docente aveva un carisma tutto suo, ma su Manuel era accentuato all’ennesima potenza. Tanto per dare un’idea, ogni volta che gli era vicino, balbettava. Per cinque anni aveva dovuto esercitarsi su sé stesso, cercando di non balbettare quando rispondeva alle interrogazioni. E ci era riuscito, per sua fortuna. Oldoini l’aveva guardato, prendendogli la mano e restituendogli il libro. Ma anche…

- Questo l’ho trovato sul tuo banco. – disse Oldoini restituendogli un biglietto – C’è scritto Oldoini ti amo. E la calligrafia è la tua. –

Manuel a quel gesto avvampò dalla testa ai piedi. Si sentì tremare come una foglia, e abbassò il capo non sapendo cosa dire ma sentendo un impellente bisogno di piangere.

- Ti chiedo scusa se sono stato così brusco. Ma volevo soltanto parlarti di questo. –

- Di cosa, prof? –

Il docente prese una sedia e si sedette, invitando Manuel a fare lo stesso.

- Vedi, non è un problema per me ciò che tu hai scritto. È più grosso il problema di doverti dire che io ho una moglie e una figlia che amo con tutto me stesso. – sospirò, poi aggiunse – Di ragazzi come te me ne sono capitati spesso, nella mia carriera e nella mia vita. Sembra che io abbia una calamita per quelli come te. – ridacchiò, ma Manuel non ci trovò nulla da ridere. Era sull’orlo delle lacrime.

- Lei… lei è un uomo fantastico, professor Oldoini. – balbettò Manuel, come faceva prima di imporsi di non balbettare di fronte a lui - ...non… non so perché… ho scritto quelle parole. Forse ero in un momento di confusione… Io … vede, sono fidanzato. Io spero che lei non dirà… -

Oldoini lo interruppe. – Manuel, hai la mia parola d’onore che non dirò a nessuno di questo tuo, come vogliamo chiamarlo, momento di confusione. Ti fidi di me? –

- Io… sì. – rispose Manuel, mentre le gambe gli tremavano. Oldoini gli calò una leggera pacca sulla spalla – Bene. Se hai bisogno, comunque, non esitare a chiedermi aiuto. –

- S… senz’altro, professore. Lo… lo farò. – concluse Manuel, annuendo e incominciando a piangere. Oldoini si alzò, chiedendogli se avesse bisogno di un passaggio per tornare a casa. Manuel declinò gentilmente, cercando di imitare la polemica di un sorriso sulle sue labbra quando lo sguardo del docente gli si posò addosso. Oldoini si allontanò, poi dopo un secondo si voltò e gli si rivolse di nuovo.

- Ah, Chiaravalle… - aveva esordito, alzando l’indice - …non credere di essere sbagliato. Non lo sei. Anzi, sei forse più giusto di tutti i tuoi coetanei che sono dei somari e che si vantano di ficcare il loro fallo in una vagina. Ti saluto, e stai su con la vita. –

- G… grazie, professore – Aveva detto soltanto Manuel, e il professore se n’era andato reggendo la borsa di pelle nera nella mano destra. Rimasto solo, Manuel aveva incominciato a piangere.

Pianse per tutto quel giorno, oltretutto quando era stato invitato per il compleanno di una ragazza del quarto anno amica di Adele, la sua ragazza. Lì, sul terrazzo di quella discoteca, aveva parlato con Marco la prima volta. Se solo avesse saputo che Marco era una persona così brava e dolce, sicuramente si sarebbe confidato con lui, ma purtroppo non si può mai sapere in anticipo come sono le persone, se prima non le si frequenta un minimo.

 

Ricordando quegli eventi, Manuel sospirò ampiamente, pensando a quanto era stata difficile la sua adolescenza. In un certo senso, c’era qualcosa di magico in quel gesto che stava compiendo in quel momento. La fuga da Torino, la città dov’era nato e dov’era vissuto per tutti quegli anni, che l’aveva visto crescere ed innamorarsi ma che negli ultimi tempi era stata un po’ dura con lui e soprattutto con Marco. Di me non me ne importa, aveva pensato mentre guidava, di te però sì. Hai bisogno di una bella vacanza, amico mio…

 

*****

 

Mentre Manuel guidava, Marco dormiva. Era sempre stato un gran pigrone, fin da quando era bambino. Sua madre lo chiamava Marcolino la Marmotta, e suo padre Marchino Pisolino. Tra i tanti viaggi all’estero che aveva fatto, spiccava quello negli Stati Uniti. Aveva soltanto undici anni, ma era stato capace di dormire per dieci ore filate di viaggio: praticamente era salito in aereo, si era accomodato al suo sedile in mezzo ai genitori e si era addormentato dopo una decina di minuti, per poi svegliarsi all’arrivo, con sua madre e suo padre che lo canzonavano perché aveva dormito troppo. Neanche in quell’occasione era stato da meno. Anche se non sapeva di essere in viaggio, non si era minimamente preoccupato. Nella sua mente era sicuro di trovarsi con Manuel, e tanto gli bastava. Che poi fosse a casa sua o altrove, poco gli interessava. Di conseguenza, questo era abbastanza per dormire.

Sognò a lungo, quella notte, soprattutto cose spiacevoli. Sognò Martin che gli diceva di non preoccuparsi, che era tutto a posto, mentre una figura sconosciuta faceva sesso con lui. Poi all’improvviso compariva Manuel vestito come un cavaliere, che lo proteggeva e lo chiamava “Fratellino”. Sognò sua madre che gli diceva che gliel’aveva detto, che Martin era un bastardo, poi sognò Rocco che prendeva dei libri dalla biblioteca dove si erano conosciuti. E piangeva, perché non riusciva a trovare un fidanzatino ideale.

Ma nonostante questi sogni, non si svegliò. Intanto, l’auto continuava a viaggiare, guidata da Manuel che teneva gli occhi fissi sulla strada. In lontananza si vedeva il cartello autostradale che segnalava la fine delle Marche e l’inizio dell’Abruzzo, mentre la notte cominciava a diradarsi, per lasciare posto all’alba di un nuovo giorno.  

 

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Capitolo 33
*** Trentaduesimo ***


Marco se ne stava ancora sdraiato sul sedile anteriore della station wagon di Manuel, quando ad un tratto fu svegliato dalla luce del sole che gli pizzicava sulle guance. Aprì gli occhi, e nella sua visione astigmatica del mondo vide che era ancora in macchina di Manuel, com’era entrato la notte prima. Cercò i suoi occhiali, dapprima spaventandosi un po’ perché non li trovava, ma poi sollevandosi quando li trovò appoggiati al portaoggetti del veicolo. Li inforcò, ma ciò non bastò a calmarlo. Fuori dal parabrezza vedeva il mare. Bello, infinito, leggermente mosso. Guardò fuori dal finestrino del lato guidatore, e vide una città che non poteva assolutamente essere Torino: niente tram, né palazzi altissimi, nemmeno troppa gente che passeggiava. Soltanto un negozio di alimentari ed un’edicola, una piazzetta con dei giochi da bambini e alcuni bambini che giocavano.

Si strofinò gli occhi, credendo di stare sognando – Ma… dove sono? – domandò a sé stesso. – E Manuel…? – Con quest’ultimo interrogativo tirò la maniglia della portiera e scese dal veicolo.

La città era molto suggestiva, anche se non era proprio una città quanto un paesino, una località marittima. I bambini che giocavano a pallone parlavano un dialetto strano, che mai Marco aveva sentito prima d’allora. Poi si guardò intorno, cercando Manuel con gli occhi. Un grido lo fece ritornare alla normalità.

- Palla!!! –

Un pallone da calcio gli sfiorò gli stinchi, andando quasi a finire in strada. Marco lo bloccò prontamente con un piede, lo fece rimbalzare e lo prese in mano. I ragazzini dietro di lui gli fecero un gesto cercando di riavere la palla, e lui si avvicinò loro.

- Scusate, ragazzi – esordì educatamente. I ragazzini si guardarono, poi qualcuno di loro mormorò qualcosa che lui non capì, detta nel dialetto locale.

- Che vuoi? – disse un ragazzino. Poteva avere dieci anni, era moro di carnagione ed aveva i capelli ossigenati. Vestiva una specie di maglietta senza maniche e un paio di shorts aderenti.

- Mi sapete dire dove siamo? –

I ragazzini scoppiarono in una risata fragorosa, qualcuno di loro disse “ma da dove viene questo”, ma Marco insisté – Non sto scherzando, non so davvero dove sono. Un mio amico mi ha portato qui da Torino, e… -

- Sei di Torino??? – domandò il ragazzo dai capelli ossigenati.

- Sì. Sono di Torino. –

- Ehi Vincenzo! – chiamò il ragazzo – Qui c’è un altro juventino come te! Vieni e digli dove siamo! –

Un ragazzino ancor più giovane, forse poteva aver avuto nove anni, corse da Marco e gli disse – Benvenuto a Torre Lapillo. –

- Torre Lapillo? – Marco sgranò gli occhi sorpresi. – E dov’è? –

- Puglia, provincia di Lecce. – rispose un altro ragazzino. Portava un paio di occhiali spessi e una maglietta dei Pokémon, con Ash e Pikachu stampati. Per un momento Marco rivide sé stesso in quel bambino, anche se in quel momento era più preoccupato dal fatto che non era dove avrebbe dovuto essere.

- Oh cazzo… - mormorò Marco, e i ragazzi ridacchiarono.

- Ci ridai il pallone adesso? – disse un altro di loro, con l’aria abbastanza scocciata. Marco mollò la palla, che rimbalzò ai piedi del ragazzo con i capelli ossigenati, come un cane che torna dal suo padroncino. In breve tempo tutti tornarono a giocare, ma Marco fermò il ragazzo ossigenato.

- Aspetta – lo fermò toccandogli il braccio.

- Che c’è? – domandò quello.

- Non hai visto per caso un ragazzo alto, biondo…? –

- Molto alto? Quasi un gigante? –

- Sì! L’hai visto? –

- Sì, è andato di là – il ragazzo indicò un punto verso l’orizzonte – verso la spiaggia. L’ho visto che scendeva le scale. Forse lo trovi ancora lì, di qui non è più passato. – Dei ragazzini lo chiamarono, usando il nome di Giacomo. – Sine, egnu! – rispose questi, e Marco intuì che avesse detto “sì, adesso vengo” o qualcosa di simile.

- Ho capito. Grazie, Giacomo. –

- Prego. Tu come ti chiami? –

- Marco. –

- Prego Marco. Se sei della Juve, passa a giocare con noi. Vincenzo è tifoso sfegatato della Juventus. –

- Senz’altro. – rispose Marco, e sorrise. – Vado alla spiaggia. Ciao, buona partita. –

- Ciao – lo salutò il ragazzo, e Marco s’incamminò.

 

*****

 

La spiaggia era vicinissima. Per arrivarci bastava scendere una scala di cemento, che si apriva in un muro incastonato da conchiglie e pietre. Marco la discese, trovandosi poi a dover fronteggiare la sabbia. Non era mai stato troppo al mare, prima di allora. Le sue vacanze per lo più erano state viaggi turistici in città del mondo o ai laghi del Nord, ma il mare l’aveva visto solo in fotografia. Scorse più in là la figura di Manuel: era seduto sulla sabbia, a guardare l’orizzonte. Sembrava un vecchio eremita in meditazione. Marco scosse la testa e camminò a grandi falcate verso di lui, incespicando sul terreno sabbioso e quindi instabile. Manuel si voltò quando Marco fu ad un metro, ma non fece una piega quando Marco gli mise una mano sulla spalla e lo scosse leggermente.

- Ma ti ha dato di volta il cervello? – esordì – Dove mi hai portato?!? –

- Il principino s’è svegliato, vedo – disse Manuel, ridacchiando.

Abbastanza seccato, Marco sbuffò. - E il principino è anche nei guai fino al collo se dopodomani non torna in ufficio. Come la mettiamo? –

- Prenditi delle ferie, no? Siamo quasi a Luglio, è estate… e tu hai bisogno di un po’ di vacanza. – rispose Manuel, serafico. Marco non sapeva se disperarsi o arrabbiarsi o ridere. Optò per crollare. Si sedette accanto a Manuel e sospirò ampiamente.

- Perché l’hai fatto? – domandò Marco, guardando la sabbia in mezzo alle sue gambe. I solchi creati dalle tante persone che vi avevano camminato sopra sembravano delle piccole dune del deserto.

Manuel restò in silenzio per un bel po’, finché Marco non gli buttò un’occhiata che sembrò bastare a sbloccarlo – Non lo so. Sinceramente, non lo so. So solo che avevo bisogno di andare via da Torino, per un po’ di tempo. –

- Ma perché hai coinvolto anche me? Santo cielo, non potevi chiedere il mio parere, prima? –

A quel punto Manuel gli rivolse lo sguardo. Alla luce del sole, i suoi occhi azzurri sembravano risplendere ancor di più.

- Marco… io e te… siamo amici, vero? –

- Che… che razza di … ma certo che siamo amici, ma allora perché non… -

- Fai finta che questa sia un’avventura – continuò Manuel, sorridendogli – lì a Torino abbiamo lasciato il caldo e gli amori deludenti, mentre qui siamo in una terra da noi inesplorata. Almeno per quanto mi riguarda. Tu c’eri mai stato, qui? –

- No… però… -

- Però cosa? –

- Dove passeremo la notte, per esempio? Che cosa hai intenzione di fare qui? –

Manuel fece spallucce. Da quella risposta Marco immaginò che per uno come lui, che lavorava in banca, che era sostenuto da una famiglia ricchissima, che poteva permettersi una casa di proprietà a Torino e un’altra a Belluno, il posto dove passare la notte non fosse un problema rilevante, indegno perfino di un’alzata di spalle.

- Qualcosa troveremo, dai … Non sei accanto ad un poveretto, te lo voglio ricordare. –

- Tu sì però! – ribatté Marco, ricordando che lui non aveva tre automobili, ma soltanto una che peraltro usava sua madre, che lui non aveva mai guidato, e che era in affitto da anni e anni. A quell’esclamazione, Manuel sbuffò – Ti offro tutto io. Contento? –

Marco si morse un labbro. – Hmm… ma mi dispiace farti spendere… -

A quelle parole, Manuel prese Marco e lo abbracciò forte. – Eeeehi! Lasciami! Mi fai male! – gemette Marco.

- Eheheh. No, che non ti lascio. – Manuel gli posò un bacetto sulla guancia. – Ascoltami Marco… Voglio che tu sappia che questo viaggio che ho fatto con te è una specie di percorso. Capisci? Ho bisogno di guardare dentro me stesso per un po’ di tempo, e tu dovrai soltanto accompagnarmi. Non preoccuparti di nulla, stammi solo vicino. E poi… magari potrai fare anche tu un po’ di autoanalisi. Rilassati, lasciati andare… Ascolta te stesso. – concluse Manuel, mentre la sua voce vellutata accarezzava l’orecchio di Marco.

Stringendo Marco fra le braccia, Manuel provò un’immensa sensazione di tenerezza. Si sentì bene come mai si era sentito prima, forse perché lui e Marco erano spiriti affini. Quando stava con Marco sentiva una felicità ancestrale, quasi fanciullesca. Sapeva che anche Marco provava la stessa cosa, nonostante la sfuriata di poco prima. Non sapeva come, lo sapeva e basta.

Marco allungò il braccio e gli cinse la vita, baciandogli dolcemente le labbra. Manuel chiuse gli occhi e rispose al bacetto. Quando li riaprì, Marco gli sorrise.

- ….da fratellino ovviamente. –

- Da fratellino! –

E risero di nuovo, abbracciandosi e giocando scherzosamente, come cuccioli, sulla spiaggia deserta delle sei del mattino.

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Capitolo 34
*** Trentatreesimo ***


Il posto dove dormire si era risolto in una bella villetta in affitto, in un paesino chiamato Santa Maria al Bagno, situato sul Mar Jonio, in quella zona così fresca e tranquilla dove Manuel era giunto dopo ore di viaggio con l’auto. Incredibilmente, a Marco sembrava che Manuel fosse cambiato rispetto a prima: la mattina si svegliava alle sei e andava a fare delle lunghe passeggiate sulla spiaggia, sorrideva più di Berlusconi in campagna elettorale e in generale era molto più rilassato. Proprio vero che evadere da un posto ha effetti benefici sull’organismo.

Da parte sua, Marco era felice di accompagnarlo, non soltanto perché era la prima volta che veniva invitato da qualcuno in vacanza con vitto e alloggio pagati, ma anche perché con Manuel stava benissimo. Pensare a Martin lo faceva incavolare, ma tutto sommato si stava sforzando per rimuoverlo. Il bastardo si era fatto sentire qualche volta via sms, e un paio di volte provando a chiamare. La seconda volta, Marco era stato tentato di rispondere, ma Manuel gli aveva strizzato l’occhio e gli aveva detto Dammelo, che adesso ci divertiamo.

- Chi sei? – aveva esordito il ragazzino, senza nemmeno salutare quando aveva sentito una voce diversa da quella di Marco.

 - Sono il Commissario Gianni Mirozzo. Lei chi è? – disse Manuel, impostando bene la voce. Marco stava incominciando a ridere.

Dall’altra parte, ci fu un attimo di silenzio. - Sono… un amico del proprietario di questo cellulare… –

- Il proprietario di questo cellulare è passato a miglior vita. – disse Manuel, secco. Marco se la stava ridacchiando.

- Cosa?? Vuol dire che è morto? –

- Già. Si è suicidato questa notte tagliandosi le vene. Abbiamo trovato un biglietto che diceva “Martin sei un figlio di puttana”. Lei ne sa niente? –

Il viva voce trasmise una risatina nervosa, come se non credeva a ciò che stava ascoltando – No… Ma… Martin sono io. Cioè… non capisco. Oh mio dio… che terribile notizia. –

Manuel mise il microfono in muto per un secondo – Certo che è proprio cretino ‘sto ragazzo… - disse, mentre Martin in linea diceva “pronto? Pronto Commissario? È ancora lì?”

- Più di quanto tu creda – rispose Marco – Dai, come la chiudiamo? –

- Gli parlo ancora io per un secondo. Al mio segnale, entri in scena tu. OK? –

Marco annuì complice e gli strizzò l’occhio, quindi Manuel tolse il muto.

- Sono qui, mi scusi. Avevo sentito … - si interruppe, quindi fece un gesto con la mano e avvicinò il telefono a Marco.

- Ciao Martin… - disse. Martin dall’altra parte rimase in silenzio.

- Chi… chi sei? –

- Come chi sono? Mi hai fatto cadere le palle, tutte quelle volte che facevamo sesso, con quel tuo pisellino moscio. –

- Marco? –

- Sì. Sono io… ti sto parlando dall’aldilà… -

Di nuovo la risatina nervosa – Non ci credo… -

- Ti restano sette giorni. – disse Marco.

- Per fare cosa? – domandò Martin. Manuel pensò che era un ignorante solo perché non conosceva il film horror “The Ring”.

Marco fece la voce più stridula che poteva, quindi gli disse – Prima di morire………………. Ti ucciderò Martin, ti ucciderò… ti ucciderò. Ti ucciderò. Ti….. – Non concluse la frase, quindi tirò fuori la lingua e fece la pernacchia più lunga del mondo, concludendo con un – STRONZO!!!! –

Fatto questo, Manuel chiuse la chiamata ed entrambi si misero a ridere come due scemi.

 

*****

 

Il pomeriggio salentino era assolato ma tutto sommato secco. Ciò era un vantaggio, se non altro perché non si sudava. Manuel e Marco passeggiavano sul marciapiede lunghissimo che portava a Santa Caterina, ciascuno con un gelato in mano. I capelli biondi e gli occhi chiari di Manuel, uniti alla statura spropositata di Manuel, unita a quella troppo ridotta di Marco, aveva attirato l’attenzione di parecchi turisti, specialmente tedeschi, che consideravano il primo un loro connazionale e gli chiedevano informazioni in tedesco, a cui Manuel rispondeva scuotendo la testa e alzando le braccia, mentre il fatto che lui fosse così alto, a passeggiare insieme a Marco sembravano una qualche coppia comica del mondo dello spettacolo. Le ragazzine guardavano Manuel con desiderio, e ugualmente Marco, considerandoli entrambi carinissimi. Tuttavia né Marco né Manuel avevano trovato qualcuno che piacesse loro. Anche se non erano lì per quello, ma per godersi una vacanza dopo le ultime vicissitudini accadute nella loro città, erano come distratti, desiderosi solo di spendere tempo l’uno con l’altro e non pensare a nessuno.

- Mi hanno sempre detto – disse ad un certo punto Marco, leccando il gelato – che l’amore arriva quando meno te lo aspetti. Tu ci credi? –

Manuel diede una leccata al suo gelato, macchiandosi le labbra di zabaione – Beh, se proprio devo essere sincero, sì. Io alla fine trovai Adelmo in un periodo della mia vita in cui non avevo in mente che lo studio… -

- Già – rispose Marco – Anch’io quando incontrai Rocco ero ancora uno studente. Lui faceva il bibliotecario, sai? – lo disse con un’aria sognante, come se fosse ancora innamorato di lui. – Tu ci pensi ogni tanto ad Adelmo? –

Manuel sospirò e fece un’alzata di spalle – Qualche volta. Anche se sono passati dieci anni, non si può dimenticare ciò che mi ha dato. Sai qual è il problema, oggi? Che i giovani si danno troppi limiti… Non vogliono persone più grandi, solo loro coetanei… Vorrei dire a tutti loro che stare con un uomo più grande non è poi tanto male… -

A quelle parole, Marco s’indispettì. – Non credi di stare troppo generalizzando? Se ad uno non piace stare con un uomo anziano, non è che ci debba andare per forza, solo perché non è poi tanto male.

- Già, hai ragione – rispose Manuel, ridacchiando – Io mi ci sono trovato bene. Lo sai perché? Perché Adelmo mi trattava come un figlio… ed io… Io avevo tanto bisogno di un padre. –

- Ti capisco… Anche se i miei genitori non mi hanno mai fatto mancare la loro presenza, mio padre è stato distratto. Parecchio distratto. Dal suo lavoro… -

- Che lavoro fa tuo padre? –

- E’ responsabile della sicurezza presso la Società Autostrade. È sempre fuori casa… -

- Anche il mio… -

- Che cosa fa tuo padre? –

- Mio padre è un formatore di aziende – mentre lo disse, alzò un sopracciglio, come se non fosse sicuro che quella fosse la definizione esatta – praticamente va all’estero e crea dal nulla sistemi industriali e li segue durante la loro vita fino alla morte. Va spesso in Cina, Australia, Canada, Stati Uniti… e spesso è lì a lavorare sodo. Praticamente ho passato tutta l’infanzia con mio padre che andava e veniva da Shanghai, Melbourne, New York… e quando era a casa, non mi degnava un minimo d’attenzione, troppo impegnato a programmare strategie, analizzare diagrammi e flussi di mercato. – Scosse la testa e roteò gli occhi, come a sottolineare che disastro fosse un padre del genere.

- L’unica volta che lo vidi per un giorno intero fu quando mi laureai, ma il giorno dopo dovette subito ripartire. D’accordo, mi ha fatto trovare un buon posto in banca e dovrei essere contento di lavorare quando ci sono tanti giovani che sono disoccupati, ma almeno loro un padre ce l’hanno… Io invece… - Sospirò ancora, andandosi a sedere sul muretto. Marco lo seguì. Dietro di loro, il sole pomeridiano stava lentamente assumendo una colorazione arancione, segno che il sole stava per tramontare.

- Mi dispiace – disse Marco, mestamente. – Ma non credere che tuo padre non ti voglia bene… sono sicuro che te ne vuole, solo che ama troppo il suo lavoro… -

- Già. È proprio così. In ogni caso, ormai non saprei più cosa fare con lui. Sono cresciuto senza di lui e a momenti anche senza mia madre. –

Marco non volle aggiungere altro, si limitò soltanto a poggiare la sua mano minuta su quella lunga e affusolata di Manuel, che gliela strinse dolcemente e gli regalò un debole sorriso.

- Siamo in vacanza. Vacanza è cambiamento, è ricarica. – Marco gli strizzò l’occhio. A vederlo così, non si sarebbe detto che solo una settimana prima era stato appena deluso da un ragazzo.

- Hai ragione. Senti, cambiando discorso… volevo dirti che sono stato un po’ scortese ad escluderti dalla mia vita quando stavo con Alberto. Mi è dispiaciuto, ma avevo in mente solo di fare del male a Thomas… -

A quel gesto di scuse, Marco disse – Ah, sciocchezze. Non pensarci. E poi anch’io non sono stato tanto giusto a lasciarti un mese da solo mentre frequentavo quel bimbominchia di nome Martin. –

- Figurati – rispose Manuel – Volevo lasciarti campo libero, per vedere se veramente andava a finire bene. –

- Ma così non è stato – rispose Marco, sorridendo benevolo.

- Quindi… che ne diresti di ripetere la serata in cui non ci siamo visti? –

- Cioè? – Marco sgranò gli occhioni marroni dietro gli occhiali, sorpreso.

Manuel gli sorrise furbetto – Magari non è il caso, ma potremmo andare a Gallipoli. C’è una discoteca gay. Che ne diresti? –

L’idea parve un po’ fosca a Marco, il quale ci pensò su un momento, mettendo in conto tutte le possibilità.

- Non so… per fare cosa? –

- Dai! – disse Manuel, elettrico – balliamo un po’, ci divertiamo… eh? Che ne dici? –

- Uhm, d’accordo. – rispose Marco, senza troppa convinzione. L’idea di tornare in una discoteca non gli piaceva, ma sapeva che c’era Manuel accanto a lui, quindi era tranquillo.

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Capitolo 35
*** Trentaquattresimo (finale) ***


Era stata una settimana bellissima. E sicuramente sarebbe continuata, dal momento che Marco, con una semplice telefonata si era congedato dal lavoro per tre settimane (beneficiando di un monte ore arretrate da almeno due anni) e lo stesso Manuel allo stesso modo e per lo stesso periodo di tempo. Ma a sconvolgere i piani di due persone, è sempre il destino. Il destino che t’incontra in un giorno qualunque, che ti porta via con gioia o addirittura ti cancella dal mondo.

Una volta, tanto tempo fa, un uomo aveva svuotato il solaio della sua casa, trovando un mucchio di cianfrusaglie, tra le quali spiccava un quadro. Esso era un quadro brutto, raffigurante la sommità di un monte dipinta in campo lungo, in una luce lunare che incupiva il cuore in una maniera orribile. Sicuramente era un quadro che poteva valere, a dire tanto, pochi euro… ma chi si sarebbe preso la briga di mettersi in casa un quadro del genere? Così il proprietario lo portò in un mercatino delle pulci. Il quadro restò in esposizione per anni, fino a che un giorno, arrivò un signore. Andò alla sezione quadri quasi per caso, spinto da una strana voglia di guardare dei dipinti… e si soffermò proprio su quel quadro che era stato portato là dall’uomo che aveva svuotato il suo solaio. Lui ovviamente non poteva saperlo, eppure quel quadro lo attraeva irresistibilmente. Lo comprò, e se lo portò a casa. Una volta lì, notò che sotto quella crosta, c’era qualcosa. Chiese il parere di alcuni esperti e si scoprì che sotto il quadro c’era un rarissimo dipinto del famoso pittore quattrocentesco Paolo Uccello. Quel quadro aspettava il suo padrone. Il destino ci aspetta sempre, e non sempre è un bel destino.

Ed anche quella sera il destino stava aspettando Manuel e Marco. Come il signore al mercatino delle pulci, loro erano totalmente ignari…

…ignari che quella sarebbe stata l’ultima serata che si sarebbero visti.

 

*****

 

- Cazzo, quanta gente… - mormorò Manuel mentre cercava un posto per parcheggiare. Fuori dall’abitacolo, si vedevano tanti ragazzi a piedi che camminavano nella direzione opposta alla loro. Quella discoteca era l’unica discoteca di settore in quasi tutto il Salento, quindi l’alta affluenza era totalmente giustificata.

Manuel avanzò ancora con l’auto, aggrottando le sopracciglia. – Qui ci stiamo allontanando… - disse.

- Fa niente – rispose Marco – Al massimo ci faremo due passi. –

 

*****

 

Trovato il posto per la lunga station wagon, Marco e Manuel si erano incamminati insieme ed erano giunti all’entrata. Erano entrambi molto eleganti, tanto che avevano attirato parecchi sguardi su di loro. Prima di andare lì, Manuel aveva anche fatto togliere gli occhiali a Marco, togliendogli più anni di quelli che aveva, e aggiungendogli molto più fascino.

Pagato il biglietto, entrarono. Marco era stranamente elettrizzato. Sensazione strana, anche se non era la prima volta che visitava una discoteca. Manuel era lì accanto a lui, che si guardava intorno, ma con una serenità mai provata prima d’ora. Era con Marco, il suo amico. E per la prima volta in tanti anni, si sentiva veramente felice. Intorno a loro, la discoteca era piena dei soliti ragazzi tutti in tiro, maschere di ipocrisia e falsità assortite, sottolineate da acconciature e look aggressivi. Ma Marco e Manuel quella sera non erano in loro. Erano da un’altra parte, in un posto conosciuto soltanto a loro. Un posto di pace.

Ballarono e ballarono per tutta la serata. Non parlarono con nessuno, nonostante molti avessero cercato di rivolger loro la parola. Per la prima volta si sentirono bastevoli a loro stessi, l’uno aveva l’altro. Se qualcuno avesse avuto l’occasione di chiedere a Marco e Manuel, quale fosse stato il momento più romantico, sicuramente entrambi avrebbero risposto: il momento del lento.

- Oh senti – disse Marco – stanno suonando un lento. –

- Già – rispose Manuel, sorridendo – Marco…? – lo chiamò, offrendogli le mani. 

- …Manuel. – rispose Marco, prendendo il braccio del ragazzo. E insieme iniziarono a ballare il delicato lento. Con la sua statura, Marco arrivava con il mento all’addome di Manuel, mentre questi gli cingeva le spalle con le lunghe braccia. Mentre la musica suonava, si staccarono un momento per guardarsi negli occhi. Fu uno scambio spirituale intensissimo: rividero loro stessi in tutte le scene della loro vita, anche quelle passate insieme. Provarono dolore e tenerezza per le vicissitudini che avevano avuto coi ragazzi e nei confronti della vita… ma poi provarono gioia, nell’essere lì in quel momento, nell’essere ancora vivi, ma soprattutto insieme. L’amore era una cosa meravigliosa, l’amore vero non finisce mai… poteva valere la stessa cosa per l’amicizia? Sì. E loro l’avevano appena scoperto.

- Manuel? – sussurrò Marco, ad un certo punto.

- Dimmi – rispose sussurrando Manuel.

- Io e te… resteremo amici per sempre? –

Senza battere ciglio, Manuel rispose – Sì, Marco. Per sempre. Te lo prometto. – Detto questo, gli baciò la fronte e Marco arrossì violentemente.

- Al diavolo i fidanzati – aggiunse poi Manuel – Io ho te. –

- Ed io te. – concluse Marco, sorridendo dolcemente.

A suggellare quella rinnovata intesa, si abbracciarono. Fu un abbraccio forte, caloroso, di profonda amicizia. Restarono lì abbracciati come in una fotografia. Se al posto della discoteca ci fosse stata una stazione, la fotografia avrebbe potuto intitolarsi Il lungo addio. Niente di più azzeccato, considerato ciò che sarebbe successo dopo.

 

*****

 

Come mai era capitato ad entrambi, bevvero parecchio. Marco bevve tre cocktail molto forti, e Manuel quattro. A fine serata, alle quattro del mattino, erano ubriachi come due alpini. Sulla strada del ritorno verso l’auto, si misero a cantare delle canzoni in dialetto piemontese. 

Maria Giuana l'era in s' l'üs
l'era in s' l'üs ca la filava, oh
l'era in s' l'üs ca la filava, oh
trumbalalà

A i pasa al so midighin
Cusa i föi Maria Giuana?

L'è tre dì chi stagh nen ben
mi l'hai sempre mal da testa

Si sorreggevano l’uno con l’altro, a braccio, barcollando verso l’auto. Gli altri ragazzi che passavano li guardarono con aria divertita, ridendo. Ma loro non li ascoltavano, troppo impegnati a cantare a squarciagola la Maria Giuana nel loro dialetto.

Si i bivisi nen tant vin
mal da testa ad passerìa

Si i bivisa nen tant vin
st'ura chi sarìa già morta

E adess chi möra mi
vöi ca i cantu sempre ciuca…

Buti stupi par cusin,
damigiani par candeila


E ch'al preivi ca vegna après mi
vöi ch'al sia ciuch ad barbera, oh
vöi ch'al canta la Viuleta, oh
trumbalalà
.

- Uè!!! – Concluse Manuel, ridendo a crepapelle.

- Ahahahah – rise Marco – Vista … la nostra… preparazione culturale, pensavo che avremmo recitato la Divina Commedia a squarciagola, non certo la Maria Giuana piemontese…! –

- Preparazione culturale… ahahah! – rispose Manuel – Ma come parli…? Sei ubriaco forse??? – e rise ancora una volta a squarciagola.

- Sì! E mi piace da morire! Uahahahah! –

- Anche io sono ubriaco e mi piace da morire! Ahahah! Ho solo una domanda… -

- Dica pure, Geometra! –

- Senta, ragioniere… adesso… ch… che siamo …. Ubriachi come due alpini…. Come…. Come facciamo a tornare a casa? –

- T… torniamo… a casa a piedi…! Ahahahah! – rispose Marco, e continuò a ridere. Risero ancora per un bel po’, spostandosi pericolosamente verso la strada. Non immaginavano nemmeno che il loro destino stava per compiersi.

Poco lontano da loro, si udirono degli squilli di clacson, alcuni prolungati e alcuni brevi, da due differenti auto. I motori erano alla massima potenza, lo si poteva udire chiaramente. Nella loro ubriachezza, Marco e Manuel videro che alcuni ragazzi avevano saltato il muretto di pietre che costeggiava la strada, rifugiandosi per paura di chissà cosa. Nessuno entrava nelle auto, dove forse si sarebbe potuti stare più al sicuro. Pochi istanti dopo, Marco e Manuel videro perché tanto trambusto.

Una Fiat Brava nera ed un’Alfa Romeo 156 correvano a tutta velocità sulla strada, suonando e inneggiando un “brutti froci”. Gli occupanti delle auto non avevano intenzioni più cattive di quelle che stavano estrinsecando, ovvero lanciando invettive e pompando sugli acceleratori delle loro auto, ma quella serata passarono comunque per assassini. Nell’abitacolo della Fiat Brava c’erano cinque ragazzi: Alla guida Giulio Cantalamessa, ventuno anni, figlio di un meccanico. La ragazza l’aveva lasciato cinque giorni fa; Enrico Corteggi, diciotto anni, studente presso un istituto tecnico di Lecce; Vincenzo Cantalamessa, fratello minore di Giulio; Giovanni Monteforte, vent’anni, elettricista di Nardò, e infine Fernando Scarlino, il più giovane di tutti, appena sedici anni e studente di liceo classico. Con la musica a tutto volume nell’abitacolo, si divertivano a lanciare invettive ai ragazzi che, diversamente da loro, non provavano desiderio sessuale nei confronti delle ragazze.

- Ahahahah! Vai, Vai, vai, Giulio! Vai! –

Giulio ingranò la quinta marcia e il motore diesel rombò più potente.

- Guarda come scappano, i froci… fate schifo! – urlò Monteforte dal finestrino.

Il più intimorito era forse lo Scarlino, che nei suoi sedici anni era la prima volta che usciva con la compagnia di Cantalamessa. Se ne stava lì, seduto in mezzo a Monteforte e l’altro Cantalamessa, a guardare la strada dritto di fronte a lui. Ogni tanto lanciava qualche occhiata a Giulio che guidava, e se mentre lo faceva provava paura, quando vide che si era distratto (per cercare una canzone che gli piaceva sul CD) e chi c’era sulla strada, diventò praticamente bianco dal terrore.

- Giulio!!! – urlò – Attento! Guarda la strada!!! –

Ma era ormai troppo tardi. Quando Giulio alzò lo sguardo vide solo due ragazzi illuminati dalla luce dei fari. Uno alto e l’altro più basso. Immediatamente pigiò il pedale del freno, ma ciò non servì ad evitare l’impatto. Le gomme stridettero sull’asfalto, e l’Alfa 156 che stava dietro alla Brava, tamponò violentemente quest’ultima, che fece un testacoda e andò a finire su un’altra auto parcheggiata là. La 156 si fermò, ma il muso era irrimediabilmente rovinato. L’autista inserì le quattro frecce, ma non osò scendere dall’auto. Nella Brava, intanto, gli occupanti tacevano. Il primo a parlare fu Scarlino.

- S… state … B… bene…? –

- Io sì, sto … bene. – rispose Vincenzo.

- Anch’io. – disse Monteleone.

- Io ho male alla clavicola… - questo era il Corteggi.

- Oh cazzo ragazzi – disse ad un certo punto Giulio. – Che ho fatto…. –

Ripeté quella frase mentre scendeva e si rendeva conto di quello che era successo. Dietro di loro c’era l’Alfa 156 e un mucchio di ragazzi. Un ragazzino dalla cresta bionda piangeva, e un altro armeggiava col cellulare, visibilmente scosso. Ad un certo punto, Giulio si rese conto che erano nei guai: Vide avanzare alcuni uomini barbuti vestiti con pantaloni e maglietta nera, con su scritto “STAFF” a lettere cubitali. Uno di questi corse verso Giulio e gli tirò una sonora sberla sulla guancia, talmente forte da farlo andare a terra.

- Pezzo di merda! – sbraitò l’uomo, picchiando ancora più forte Giulio – Vieni a vedere che hai fatto! – Lo prese per un braccio e lo trascinò fin dietro l’Alfa, dove un altro uomo stava picchiando i pugni sul finestrino per cercare di farne uscire gli occupanti. Con il naso sanguinante, Giulio vide ciò che aveva fatto: sull’asfalto c’erano i due ragazzi. Le ossa erano scomposte, e gli occhi erano aperti e macabramente fissi. Dalla bocca uno dei due sputò un fiotto di sangue, mentre l’altro era agonizzante, in un bagno di sangue…

A quella vista, Giulio si mise le mani nei capelli impiastricciati di gel e si mise a singhiozzare. Alcuni ragazzi iniziarono a chiamarlo “mostro”, “assassino”, “figlio di puttana”…

- Vieni con me, adesso. E non fare scherzi sennò ti ammazzo di botte. –

Disse l’uomo barbuto, trascinando il ragazzo verso la discoteca. I suoi amici furono fatti uscire una volta arrivati i carabinieri e l’ambulanza, che verso le sei del mattino avrebbero verbalizzato la morte di Manuel Chiaravalle, ventotto anni, nato a Torino il diciotto aprile 1984, e Marco De Cristina, ventisei, nato a Novara il quattordici febbraio 1985. Nessuno li aveva conosciuti là, nessuno aveva parlato con loro se non poche persone nel paesino di Santa Maria al Bagno. Non si sapeva cosa ci fossero venuti a fare là, né quando sarebbero tornati a Torino. Le due famiglie furono sconvolte, nell’apprendere della loro morte, così i rispettivi amici e conoscenti. Thomas si recò al suo funerale e restò in un composto silenzio con gli occhi coperti dagli occhiali scuri, mentre Alberto sprizzò una lacrimuccia per Manuel (ovviamente mentre Thomas non lo guardava). Ci furono anche Adelmo e Rocco (che per ironia della sorte si sedettero accanto al funerale), che piansero in silenzio per tutto il tempo.

 

*****

 

Le auto li avevano appena travolti. In un barlume di lucidità, raccattato chissà dove in mezzo al dolore lancinante al petto che lo stava lentamente uccidendo, Marco aprì la bocca e parlò.

“Manuel… c… che è succ…cesso?”

“Ci…. Hanno… uccisi…” rispose questi. Le lacrime gli scendevano copiose dagli occhi, così come il sangue gli sgorgava dalla bocca. Anche lui sentiva un dolore fortissimo al petto, e avrebbe voluto a tutti i costi spostarsi in un’altra posizione, visto che a pancia in giù sentiva troppo dolore. In bocca aveva il sapore sgradevole della polvere, ma ciò che lo inquietava di più era il fatto che le sue gambe non rispondessero più ai suoi comandi: era bloccato. E la vista gli si stava annebbiando.

Accanto a lui, Marco stava piangendo. Manuel lo notò, e gli fece una domanda.

“Perché piangi…?”

“Perché… ho paura…” rispose Marco.

“No… non averne” gli disse Manuel “Ormai il peggio è passato.”

“Manuel… Ma… stiamo morendo?”

“Non lo so, Marco. Non lo so… forse sì.”

“Voglio la mia mamma, Manuel… Voglio la mia mamma.”

Non potendolo accontentare, Manuel si limitò ad allungare la mano con le poche forze che gli restavano, e prendere quella di Marco. Le sue lunghe dita si intrecciarono con quelle piccole e tozze di Marco, che purtroppo non risposero. Se lui non riusciva a muovere le gambe, allora Marco doveva aver avuto la peggio. Tuttavia Marco vide che Manuel gli stava stringendo la mano e gli rivolse lo sguardo. Ancora una volta incontrò i suoi occhi di cristallo, ora sporchi di sangue che gli colava dalla fronte… E si sentì bene. Fece un sorriso stanco, poi aprì di nuovo la bocca.

- Ti… - un fiotto di sangue sgorgò dalle sue labbra – …Voglio… bene… f… fratellone. – disse Marco. Poi esalò l’ultimo respiro e lasciò per sempre questa terra.

Manuel incominciò a piangere, quindi strinse più forte la mano di Marco e chiuse gli occhi, lasciandosi andare sempre di più. Da lontano, sopraggiunse l’ambulanza a sirene spiegate, ma ormai non gl’importava più nulla. Era stato bello conoscere Marco, ma ormai senza di lui non avrebbe potuto più vivere. Lo sapeva.

“Signora …” disse, a bassa voce “La prego, prenda anche me. Non posso stare senza il mio amico Marco.”

Poco distante, c’era la Morte. Alla sua sinistra, c’era Marco. Gli si avvicinò, e lo aiutò ad alzarsi. Con una mano gli spolverò la camicia e gli fece un sorriso. Poi gli fece un cenno con il capo, indicando l’Oscura Signora. Se ne stava lì, con la falce in spalla, a guardarli senza dire nulla. Poi si voltò, e fece cenno loro di seguirli. Marco prese la mano di Manuel, e gliela strinse. In silenzio, si allontanarono dalla folla, volando sempre più in alto…

 

 

Nemmeno per noi è una passeggiata

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Capitolo 36
*** Backstages - Opinioni dei protagonisti ***


LA PAROLA AI PERSONAGGI

Riflessioni e making-of de “Nemmeno per noi è una passeggiata”

 

*Marco, Manuel e Notrix sono seduti su tre poltrone; Marco sorride e saluta i fan, Manuel fa l’occhiolino e Notrix saluta con un sorrisetto tranquillo.*

 

Manuel (protagonista)

 -Cos’abbiamo voluto dire con questa fiction? Eeeh… (rivolgendosi a Marco) … tu lo sai?-

Marco (protagonista)

 -Boh! E che ne so io! XD-

Notrix (regista)

 -Che scemi… Vabbè, provo a dirlo io. Praticamente volevamo far vedere che l’amicizia è un qualcosa che non è sempre stabile, non è sempre riconoscibile, ma che quando accade è una cosa molto potente, quasi al pari dell’amore.-

 

Marco (protagonista)

-….La fiction nasce da un’idea che mi frullava in testa da un po’ di tempo: ci sono due ragazzi che sono sempre delusi dall’amore, sempre e sempre, intorno a loro non c’è speranza e loro non sanno cosa fare. Allora che succede? Succede che nonostante si fossero ignorati quando erano ragazzini, si scoprono anime affini e cercano di superare le prove della vita con una collaborazione fraterna, una complicità che è difficilissima da trovare.-

Manuel (protagonista)

-Alcuni hanno criticato il finale un po’ cruento. Ma se abbiamo voluto concludere così… c’è un motivo ben preciso: non volevamo assolutamente un finale tipo commedia americana. La fiction è una storia di malinconia, a tratti di drammaticità. E questo finale vuole sottolineare che la vita è a volte drammatica, ma che l’amicizia sopravvive a tutto, anche alla morte.-

 

Notrix (regista)

 -Non ci sono state parti difficili da girare, salvo quelle girate in Salento. Purtroppo abbiamo dovuto adattarci a girare di primo pomeriggio (con le strade sgombre da traffico), e non vi dico cos’abbiamo consumato di bevande durante quei giorni: un patrimonio! Faceva un caldo che si moriva, ed era soltanto giugno…!-

 

Kyosuke Kasuga (Direttore della fotografia)

-Credo che la fotografia di questa fiction sia un esperimento rivoluzionario. Abbiamo un mix tra fotografia usata nella commedia e nel drammatico. Cioè toni più tranquilli in alcuni tratti, mentre tagli particolari in certi altri. Per esempio possiamo trovare la scena del flashback di Manuel carica di emotività mentre pensa a quei giorni post-abbandono di Adelmo, e la scena di Marco mentre piange al Parco del Valentino ha un taglio molto malinconico.  Infine, una scena carica di emotività è quella dove Marco e Manuel vengono travolti dalle auto dei giovani teppisti. Abbiamo volutamente scelto il loro punto di vista per accentuare la drammaticità del momento.-

 

Notrix (regista)

-Il fatto che abbiamo avuto pochi incassi denota che forse ci siamo spinti ad un livello troppo “alto”. Se prima con “Angel Tears” avevamo guadagnato il plauso della critica e dei lettori, adesso stiamo un po’ stagnando. Forse perché i personaggi non sono presi dal mondo dei manga e anime, o forse perché sono stati superati anche quelli e il pubblico vuole le storie dei vampiri romantici.-

 

Manuel (protagonista)

-All’inizio doveva intitolarsi “M&M, I’ll be there for you”, ma a me non piaceva. Sembrava troppo la classica commedia al saccarosio americana. Stavamo per arrenderci, finché non è successa una cosa...-

Marco (protagonista)

-…è successo che eravamo tutti lì in studio, io Manuel, Notrix, Donatello ed Emanuele, che cercavamo di dare un titolo al soggetto che avevamo preparato. Allora salta su Donatello, che ha un po’ di pregiudizi verso i ragazzi carini nonostante sia fidanzato con uno di essi…-

Notrix (regista)

-…Donatello fa “Ah ma tanto per voi belli è tutto più facile, vi danno retta tutti, riscuotete un sacco di successo”, una cosa così… e Manuel gli risponde…-

 

Manuel (protagonista)

-…Amore, guarda che nemmeno per noi la vita è una passeggiata. Quindi astieniti da certi commenti cretini, grazieee…-

(arriva Donatello da dietro e lo bacia sulla guancia. Manuel sorride.)

 

Notrix (regista)

-In un certo senso questa fiction “rompe” rispetto al classico schema che vedeva Andrea, Emanuele e Marco insieme. I tempi sono molto cambiati rispetto al passato, e devo dire che l’età fa maturare le persone: abbiamo volutamente scelto di non far partecipare Emanuele e Andrea e nemmeno Donatello, perché la loro presenza avrebbe “deviato” l’attenzione dalla tematica centrale, ovvero l’amicizia di Marco e Manuel.-

 

Manuel (protagonista)

-…Lavorare con Marco è stato bellissimo. Marco è un ragazzo straordinario, molto dolce ed intelligente. Io e lui frequentavamo lo stesso liceo classico, il Massimo D’Azeglio a Torino… solo che io finii un anno prima di lui. Però per quattro anni ci siamo visti spesso in corridoio. Non ci siamo mai detti una parola fino a quando…-

 

Marco (protagonista)

-…Niente, fino a quando in primo ginnasio vinsi un concorso letterario indetto dalla scuola. Il preside ed il rappresentante d’istituto, questo bel tomo qui (indica Manuel che ridacchia e saluta), vengono a chiamarmi in classe e dirmi che devono dirmi due paroline in privato. Temetti il pestaggio allora, ma invece ottenni solo di parlare con un bravo ragazzo come Manuel.-

(Manuel abbraccia Marco che fa l’occhiolino alla telecamera ^_-)

 

Marco (protagonista)

-Non sappiamo se ci sarà un seguito… (guarda Emanuele) …Tu hai qualche idea?-

Emanuele

-Boh… e che ne so io!-

 

Manuel (protagonista)

-Però dai ragazzi… un po’ di comprensione: avete visto questo capitolo, adesso andate a leggervi la storia J J J Vi promettiamo che vi piacerà!-

Marco (protagonista)

-Sì dai… vi prego, andate a leggere la nostra storia L-

 

Notrix (regista)

-Che altro dire? Niente, che spero di tornare qui con una nuova fiction J è bello lavorare qui su EFP, c’è un sacco di gente competente e preparata in materia di Fan-Fiction. Sono dei distributori perfetti.-

 

Manuel (Protagonista)

-Saluto Tutti! Ciaoooooooooooo ^_--

Marco (Protagonista)

-Ciao a tutti! Ci vediamo presto!!!-

Notrix (Regista)

-Ciao, state ben bene ^_--

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