Mia cara Sherry.

di Aya_Brea
(/viewuser.php?uid=32665)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ad un passo dal baratro. ***
Capitolo 2: *** Una rosa di colore rosso. ***
Capitolo 3: *** Solo lei. ***
Capitolo 4: *** Il punto di non ritorno. ***
Capitolo 5: *** Deja vu. ***
Capitolo 6: *** Alone. ***
Capitolo 7: *** Sed fieri sentio et excrucior. ***
Capitolo 8: *** Deserto di fuoco. ***
Capitolo 9: *** L'ombra del Giuramento. ***
Capitolo 10: *** Doppio gioco. ***
Capitolo 11: *** Sentimenti. ***
Capitolo 12: *** Una sera tinta di rosso. ***
Capitolo 13: *** Binario 23. ***
Capitolo 14: *** Finché morte non vi separi. ***
Capitolo 15: *** La morte ti fa bella. ***
Capitolo 16: *** Bastardi senza Gloria. ***
Capitolo 17: *** La nostra Primavera. ***



Capitolo 1
*** Ad un passo dal baratro. ***


Mia cara Sherry
 





“I wish I had an angel
For one moment of love
I wish I had your angel tonight

Deep into a dying day
I took a step outside an innocent heart
Prepare to hate me fall when I may”


“This night will hurt you like never before”


(Wish i Had an Angel - Nightwish) 
 
 
Quella sera del 21 Dicembre era magica: I fiocchi di neve cadevano lenti e in poche ore avevano creato sul suolo freddo e duro, una coltre di soffice ovatta bianca. Il Natale era ormai alle porte, la tristezza svaniva via ed il cuore di Ai era stato riscaldato da un tenue tepore: finalmente poteva provare nuovamente quella sensazione data dal calore di una famiglia, e ciò, lo doveva a Conan, al Dottor Agasa.
Erano tutti e tre al ristorante e anche se non si trattava di una di quelle cene sontuose, stracolme di gente che gioca a carte, e piene di risate grasse, Ai era felice. Come non lo era mai stata. Chiacchieravano, mangiavano in tranquillità, a Conan bastò una semplice occhiata, un fugace scambio di sguardi, per notare negli occhi di lei, quel barlume di gioia che rendeva la serata ancor più speciale. Tutto perfetto. Tutto. Il ristorante, le persone, la tovaglia bianca con i grandi tovaglioli rossi, il profumo del vino bianco e del pesce. Non poteva desiderare di più.
“Professor Agasa, immagino che le costerà un occhio della testa!” Mormorò Ai, mentre si portava il tovagliolo alle labbra. Conan ridacchiò sotto i baffi.
“Questi sono i pregi dell’essere Conan!” Ribatté il piccoletto, mentre si stiracchiava, noncurante del rispetto del galateo. Agasa infatti, non mancò di ammonirlo con il solito cipiglio di uno zio premuroso. Ai sorrise lievemente e pensò che dopotutto, Shinichi avrà pur avuto il corpo di un diciassettenne, ma la forma con cui lo vedeva in quel momento, ne rispecchiava l’animo ancora fanciullesco.
L’atmosfera era serena e tranquilla, eppure vi erano certi momenti in cui il silenzio la avvolgeva come una bolla di sapone, si ritrovava a pensare; forse quella nostalgia che la attanagliava faceva parte del suo carattere, ma sapeva che dentro sé celava un atroce mistero, negli anfratti più reconditi e oscuri della sua psiche: un chiodo fisso che non l’abbandonava. Mai. Ma cercò di scacciar via quei brutti pensieri, con un sorrisino lieve.
“Voglio la frittura di pesce! E una fetta di limone!”  Esclamò, decisamente allegra, speranzosa che quel momento fosse soltanto passeggero.
“Si!” Gli occhi di Conan si illuminarono. “Cerca il cameriere Ai! Non lo vedo.” Borbottò, mentre spaziava con lo sguardo nella sala. “Eccolo lì! Cameriere!” Lo richiamò a gran voce, quasi in piedi, sulla sua sedia.
“Che maleducato.” Disse Ai, rassegnata. Ben presto giunse al loro tavolo il cameriere, il quale cominciò a dilungarsi nella descrizione meticolosa del menù, delle prelibatezze che offriva la casa.
“Risotto alla crema di scampi!” Conan leggeva con attenzione: sembrava davvero un bambino, dimostrava l’età esteriore del suo piccolo corpo.
“Dev’essere buonissimo! Ok, per me questo, per te, Ai?” La guardò: ebbe un sussulto appena incrociò i suoi occhi.
“Ai?!” La richiamò nuovamente, ma ella sembrava persa nei suoi pensieri, attratta da qualcosa, da qualcuno.
“Ai, che ti prende? Stai bene?” Il viso di lei era diventato così pallido, cinereo, gli occhietti vagamente spauriti.
Sbattè le palpebre per poi scuotere il capo. “S-sto bene. Stavo pensando scusami.”
‘Shiho, sta calma, l’avrai semplicemente immaginato. Non può essere. Calmati, ora.’ Ripetè mentalmente fra sé. Volse il capo verso il cameriere e proferì debolmente quel che aveva visto rapidamente dal menù: a dir la verità non ci aveva neanche pensato, erano i primi piatti che le erano saltati agli occhi. “D’accordo signorina, e da bere?”
Ai non rispose, abbassò il capo: aveva i brividi, cercò con tutte le sue forze di reprimerli. Quel comportamento così ambiguo non fece altro che aumentare i sospetti che si insinuavano nella mente del Detective. “Ai, ma sei sicura di stare bene?!” In un gesto affettuoso le portò una mano sulla spalla, ma appena l’ebbe sfiorata, Ai gli afferrò il polso con subitanea veemenza. “Non toccarmi, Shinichi. Sto… sto bene.” Annuì, poi lo guardò negli occhi, attraverso le lenti degli occhiali da vista.
Aveva decisamente esagerato, così cercò di stemperare quell’eccesso d’ira con una risata. “Scherzavo. Ma si che sto bene. Ho un po’… di freddo.” Ammise. Così, la serata poté procedere.
I tre continuarono a mangiare a parlare del più e del meno, Ai sembrava essersi ripresa, poiché probabilmente aveva semplicemente immaginato quel che aveva visto. “Me la sto facendo sotto!!!” Esclamò Conan, poi balzò giù dalla sedia e rise. “Scusami Ai, è urgente! Finiremo dopo il discorso.” La ragazzina sbuffò. “Sempre il solito.” Constatò.
Alzò lo sguardo per seguire il piccolo che si dirigeva in fondo alla sala e così li vide chiaramente. Non era una semplice allucinazione: il suo incubo più grande era lì, a pochi tavoli dal loro, insieme al suo braccio destro.
Gin e Vodka.
I due membri dell’organizzazione, erano nella sua stessa sala, respiravano la sua stessa aria.
Schiuse le labbra e cercò di deglutire, mandando giù la saliva: ma non vi riuscì. Sentì un nodo alla gola e il cuore balzarle fuori dal petto, stretto nella morsa della paura. Era rimasta come pietrificata, con gli occhi sbarrati.
Quando i loro sguardi si incrociarono e Gin piantò gli occhi nei suoi, ella ebbe un moto di sgomento, un brivido gelido lungo la schiena. Era come se lo ricordava: dai tratti del viso spigolosi, a volte più morbidi, gli occhi glaciali in un misto fra verde ed azzurro, i lunghi capelli biondi e quei ciuffi che spuntavano al di sotto del capello nero. Immancabile, il suo lungo impermeabile dello stesso colore della notte.
Quei secondi sembrarono durare un’eternità, in un istante sospeso, quasi in bilico fra la vita e la morte, fra la realtà e l’immaginazione. Gin non le tolse gli occhi di dosso, Ai non poteva distogliere lo sguardo, ma lo vide, lo sentì mentre si schiariva la voce e con un gesto molto disinvolto tirò fuori dalla tasca del giubbotto un pacchetto di sigarette, ne sfilò una con fare elegante e dopodiché se la portò alle labbra. Mentre la accendeva con gusto, con una lentezza quasi estenuante, finalmente diede tregua alla piccola Ai, la quale si morse appena il labbro e cominciò a stringere i pugni, sotto al tavolo: il Dottor Agasa non si era accorto di nulla.
‘Shiho. Per la miseria, sta calma! STA CALMA! E’ una coincidenza, una maledetta coincidenza. Non può farti del male, c’è Il Dottor Agasa e c’è Conan e…!’ Dio. Di nuovo. Non poté far a meno di sollevare nuovamente lo sguardo verso quell’uomo: sembrava che ci fossero soltanto loro due, lì dentro.
Gin aveva ripreso a fissarla insistentemente, si mise comodo sulla sua sedia, fumava la sua sigaretta e di tanto in tanto sbuffava del fumo. Ai pensò semplicemente che il suo sguardo era terribilmente freddo, gelido. Aveva quasi paura che riuscisse a spogliarla di tutte le sue protezioni, della sua corazza, che le stesse leggendo la mente. Vodka si avvicinò all’orecchio di Gin e bisbigliò qualcosa, e di tutta risposta il biondo alzò le sopracciglia, poi annuì. Dopo quelle parole, entrambi si alzarono senza destare alcun sospetto; rapidi e fugaci come lo erano stati inizialmente, si dileguarono con la stessa rapidità e soavità di un gatto randagio.
Quando Conan tornò a tavola, non poté fare a meno di notare che la piccola Haibara si teneva le mani contro le labbra, impietrita.
 




“ È  l’ora notturna in cui affascinano le malie,  quando i cimiteri sbadigliano e l’inferno soffia il suo contagio sul mondo. Ora potrei bere sangue caldo.”  (Shakespeare “Hamlet”)
 



 
Una volta giunta a casa, Ai tirò un sospiro di sollievo. La sensazione dell’essere finalmente in camera, le infuse sicurezza, i pensieri sembravano ora ben distinti gli uni dagli altri, ovattati nell’esser soltanto ricordi, anche se recenti. Non sapeva come definire quella serata, ma quel che la faceva sentire davvero male, era stato il suo silenzio: Conan aveva insistito con la sua consueta gentilezza, eppure non le aveva estorto proprio nulla. Le sue labbra erano rimaste vergini, poiché in ogni istante in cui pareva aver riacquistato le forze, le parole le si strozzavano in gola, contorcendole le viscere. Quelle parole non dette, quei sentimenti sottaciuti, bruciavano più di qualsiasi altra fiamma, le facevano male. Aveva mentito. Non soltanto al giovane detective, ma anche a se stessa.
Perché Gin era lì? Cercava lei? O forse Shinichi? Dalla finestra aperta entravano delle folate di vento gelido, Ai si affrettò a raggiungere le ante e le chiuse con un gesto secco e rapido: calò il silenzio più assoluto. Sapeva che non sarebbe riuscita a dormire senza il monotono sottofondo della televisione, così la accese distrattamente e si fermò sul canale dove davano il solito notiziario della notte. Si trascinò con sonnolenza verso il letto e in pochi secondi fu immersa nel calore del piumone invernale; afferrò i lembi della coperta, tanto da nascondervi anche la testolina. Dovette rigirarsi più volte, prima di trovare la posizione più comoda.
“La notizia è giunta soltanto da pochi minuti in studio, ma pare che le tracce della scia di sangue che da ben due mesi terrorizzano la città, abbiano ripreso il loro corso. Nei pressi della zona del Green Side Park, venti colpi di una Calibro 9 hanno risuonato in una violenta sparatoria. Testimoni oculari affermano di aver riconosciuto due uomini in impermeabile nero, dileguatisi a bordo di una Porsche vecchio stile. Al momento non vi sono congett-“
Ai sgattaiolò fuori dalle lenzuola in un batter d’occhio, afferrò il telecomando con entrambe le mani per alzare il volume ma improvvisamente lo schermo emise un lieve sfarfallio, una sorta di sfrigolio, e si spense. In concomitanza con ciò, Ai sentì chiaramente degli allarmi risuonare lontani, il suono del generatore di corrente che si affievoliva progressivamente. Un Black Out. Il buio. L’oscurità. Era sola, Conan e il dottor Agasa dormivano cullati nel loro sonno profondo, al piano terra.
Aveva paura, rimase immobilizzata sopra le coperte, in parte riverse a terra, ma stava cominciando ad avere freddo. ‘Doveva capitare proprio ora? Non si vede niente! Non c’è neanche la luce della luna.
'Quei due erano Gin e Vodka. Ne sono sicura. Il Green Side Park… sono qui!’ Si morse le labbra: avrebbe tanto desiderato un pizzico di coraggio in più, già nella sua mente si prefigurava la sua corsa giù per le scale, le parole di Shinichi, un suo sorriso rassicurante… Eppure non poteva mostrarsi così debole e fifona ai suoi occhi: Ai doveva mantenere quel suo atteggiamento integerrimo e freddo, pacato ma cinico, misurato.
Il cuore le batteva talmente forte da farle mancare il fiato, giurò di non aver mai provato tanta ansia in vita sua, specialmente se ripensava a quei due che erano liberi di scorrazzare per la città, con la loro stramaledetta Porsche nera. Inspirò. E deglutì. “Oddio.” Trasecolò: c’era un profumo strano nella sua stanza. Quello fu il momento cruciale: aveva capito tutto.
Balzò come un animaletto spaventato giù dal letto, per la furia di correre via diede una violenta botta contro lo spigolo della scrivania vicino alla porta, annaspava e con le braccia procedeva a tastoni, brancolava nel buio più orrido della sua esistenza. Afferrò con violenza la maniglia della porta, dopo averla cercata a lungo, ma con suo tremendo sgomento, comprese che era chiusa.
Era in trappola, era la preda, e Lui, il predatore. Sentì una mano agguantarla con violenza, Ai cercò di lanciare un urlo disperato ma sentì un’altra mano premerle le labbra con forza.
“Game Over Sherry. Il gioco è finito.” Proferì Gin in un sussurro, con tono tagliente. “Ed è finito male.” Aggiunse, poi.
La ragazza sentì le sue mani fredde, le percepì come prive di qualsiasi calore che si potesse definire umano, mani che non avrebbero mai e poi mai offerto un gesto gentile. E infatti ne percepì soltanto la violenza, la presa salda e decisa. Era come paralizzata, il suo corpo tremava come una foglia, le gambe cedevano, se non fosse stato per Gin, sarebbe crollata a terra. L’uomo alle sue spalle le puntò la pistola alla testa, facendola scorrere lungo il suo viso, poi premette la canna dell’arma contro la tempia di Ai. La ragazza reagì soltanto pochi istanti più tardi, quando finalmente riuscì a metabolizzare il pericolo: l’istinto di sopravvivenza avrebbe vinto sulla paura. Cominciò a dimenarsi, in un vano, ma energico tentativo di scrollarselo di dosso. “Sta’ buona, dannazione.” Ai deglutì.
‘Cosa vuoi ancora da me Gin? Hai avuto tutto, ti prego. Lasciami vivere. Ti prego.’ I suoi pensieri erano stranamente supplichevoli e convulsi. Sapeva che con quel biondo non si scherzava e che se avesse voluto farla fuori, non avrebbe esitato.
Sentì ancora il sussurro di lui, a denti stretti. “Sta’ ferma o giuro che ti faccio esplodere le cervella.” Soggiunse poi, con un tono più severo, tanto che la piccola dovette placarsi.
“Cara Sherry. Pregustavo da tempo questo momento; da quando fuggisti dall’Organizzazione. Eri così perspicace ed intelligente.. il diamante di cui vantarsi, la gemma preziosa fra tutti noi. Eppure.” Ai rabbrividì, nel sentire la canna fredda della sua arma spingerle la tempia. “Eppure sei scappata.” Gin le strinse la guancia, con la stessa mano con cui le impediva di urlare. “Ora pagherai per tutto quanto.” Fu solenne. Lei sentì il cuore battere all’impazzata, quando finalmente quell’atmosfera così cupa e tesa fu rotta dalla voce lontana di Conan.
‘Shinichi!’ La sua salvezza! Quella voce fu come una rinascita per lei, tanto che i suoi occhi si illuminarono, si riempirono di una luce di speranza e racimolò, così, le forze per cercare nuovamente di sfuggire dalle grinfie di Gin. “Maledizione, quel piccolo moccioso.” Borbottò. Finalmente lasciò la presa.
“Sherry, non credere di aver salva la pellaccia.”
Ai si lanciò contro la porta e prese a battere con i pugni su di essa, incessantemente. “Shinichi!” Urlava. “Aiuto!”
In quel preciso frangente, mentre Conan saliva le scale rapidamente, il suono del generatore proruppe fra le grida di lei, la luce del televisore rischiarò nuovamente la stanza; quando la piccola volse il capo, scorse la figura fiera di Gin, nel suo impermeabile nero, i suoi lunghi e fluenti capelli biondi agitati dal vento freddo che proveniva dalla finestra.
Avanzò di qualche passo verso di lei e quando le fu abbastanza vicino, i loro sguardi si incontrarono nuovamente. “Sherry. Sei una bambina cattiva.” Ma il suo tono le sembrò stranamente sereno, quasi dolce.
Gin approfittò di quel momento in cui l’aveva destabilizzata e con il calcio della pistola le sferrò un violento colpo alla testa. Ai crollò a terra, con le poche forze che le rimanevano, lo vide correre verso la finestra e spiccare un balzo.
Poi, il nulla.
Completamente buio.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Una rosa di colore rosso. ***


“Ma tu chi sei che avanzando nel buio della notte inciampi nei miei più segreti pensieri?”

 

 


 
 
Conan si inginocchiò al fianco della piccola Ai, riversa in terra con gli occhi chiusi, le labbra lievemente dischiuse. Un rivolo di sangue scorreva lento dalla sua tempia, formando lì vicino una macchia rossa, densa. Le voci erano così ovattate nella mente di lei, ma riusciva appena a percepire quella di Shinichi, poi la sentì affievolirsi, sovrastata da quella ormai conosciuta, temuta. “Sherry. Sei una bambina cattiva. Una bambina… cattiva. Svegliati ora, il tuo tempo è finito. Svegliati.. Ai.” Un brivido così forte la strappò da quella dimensione evanescente, dove il confine fra la vita e la morte le era sembrato terribilmente labile. “Svegliati Ai!” Il tono di Gin si era trasformato in quello più squillante e preoccupato di Conan: si stagliò di fronte agli occhi della piccola Ai, il visino ansioso e colmo di preoccupazione del giovane Detective. “Ai! Sei sveglia! Finalmente. Sta arrivando l’ambulanza, non preoccuparti.” Sorrise. Shiho deglutì, non aveva le forze per muoversi, e oltretutto avvertiva l’odore e il calore del suo sangue. Preferì starsene immobile. “Shinichi, io-“ Ci fu una breve pausa; Conan cercava di scrutarle il viso, coperto in parte da alcuni ciuffetti biondi. Ma lei guardava altrove, sembrava persa nel vuoto, come se non si fosse ancora del tutto ripresa. “…Grazie.” E così, volgendo il capo, gli sorrise di rimando. “Per cosa?” Chiese dunque, lui.
“Per non avermi chiesto che cosa è successo.” Così Conan si rese conto di dover rinunciare al suo ruolo di Sherlock Holmes e pensare piuttosto alla sensibilità di Ai. “Per ora ti risparmierò il terzo grado, ma quando starai meglio ci faremo una bella chiacchierata.” Mormorò in tono ironico, strizzandole l’occhiolino e sfoderando un sorriso.
Ai  sbuffò bonariamente.
Non le sembrava di aver chiesto tanto dalla vita: voleva semplicemente vivere serenamente, spensierata. Ma non poteva. No. Non ne aveva il diritto. Ed era stato lui a decidere per lei.
 
 
 
Erano passate alcune ore: i medici avevano fasciato la testa di Ai con alcune bende bianche e avevano cercato di rimediare  al vasto ematoma creatosi dopo la violenta pistolettata. Riposava tranquilla nel suo letto d’ospedale, anche se l’emicrania dovuta al contraccolpo della caduta, le impediva di dormire. Ormai era sera; quando sollevò lo sguardo alla finestra, scorse fra le tendine verdognole, i colori caldi e sgargianti del crepuscolo. Un senso di pace e tranquillità la avvolse come un abbraccio sincero. Quel che era successo, era sicuramente successo troppo in fretta ed i ricordi di quelle due giornate si fecero spazio nella sua mente, simili a pugnalate infertele nel petto. Si chiedeva cosa diavolo volesse Gin e per quale motivo le stesse dando la caccia in quel modo così perverso e sadico, malato, perché costituisse la sua ossessione morbosa. Per un breve ed estemporaneo frangente le balenò l’idea che potesse essere invaghito di lei, della vecchia Shiho che lavorava meticolosamente e con esasperata precisione nel suo laboratorio, immersa nelle sue innumerevoli provette dai liquidi fluorescenti. Eppure, lei non aveva gli strumenti psicologici per poter comprendere in che modo venissero filtrati i sentimenti dal cervello di un pazzo psicopatico. Era convinta semplicemente che la logica interna dei suoi meccanismi mentali, era quella di un criminale. Non l’avrebbe mai compresa fino in fondo, pur se si fosse sforzata. Ma paradossalmente, il pensiero che Gin potesse osservarla con occhi interessati, sotto un’ottica quasi ‘umana’, le diede il voltastomaco. Per togliersi quel pensiero scomodo e irritante dalla mente, strizzò gli occhietti e si raggomitolò fra le lenzuola bianche, in cerca di un po’ di calore: in poco tempo la stanchezza prevalse sul corpicino segnato di Ai, la quale scivolò senza rendersene conto, in un sonno profondo.
 

 
Era notte ormai inoltrata, la luna si stagliava come un piatto d’argento su un grande e soffice manto in seta nera: la sua luce pallida inondava la stanza d’ospedale di Ai, e un sottile spiffero di vento fresco agitava le tendine della finestra, aperta. La figura alta ed imponente di Gin era ferma affianco al letto della piccola scienziata, teneva le mani infilate nelle tasche dell’impermeabile ed i suoi lunghi capelli d’oro seguivano la direzione del vento. Dal suo viso imperturbabile non trapelava alcuna emozione, ombreggiato com’era, dall’argentea luce lunare. I suoi occhi verdi brillavano come quelli di un felino.
“Sherry.” Bisbigliò. “Mia cara Sherry. E’ una serata splendida non trovi? E’ perfetta per un omicidio. L’odore acre del sangue, il profumo della tua pelle.” Gin provò una perversa soddisfazione nel pronunciare quelle parole in un sibilo, conscio del fatto che lei non l’avrebbe sentito, ma forse avrebbe disturbato il suo sonno tranquillo. Con un gesto disinvolto trasse qualcosa dalla sua tasca e la posò sul comodino affianco al letto. Poi allungò il braccio e le rubò una lieve carezza sulla fronte, scostandole alcuni ciuffi di capelli: erano umidi.  “Buonanotte, dolcezza.” Aggiunse infine sottovoce, con tono tagliente.
Ne era sicuro: lui era lì, negli incubi più segreti e remoti della sua dolce Sherry.
 
 

Il mattino seguente l’infermiera entrò nella stanza di Ai e con un gesto deciso aprì le tendine verdi: un fiotto di calore e luce riscaldò quasi nell’immediato l’ambiente circostante e la donna, voltandosi con un sorriso esortò i due visitatori ad entrare. La piccola non si era ancora svegliata, ma nel momento in cui il Dottor Agasa e Conan varcarono la soglia, ella si destò, si stropicciò gli occhi, accompagnata da un sonoro sbadiglio.
“Ai! Che piacere vederti!” Agasa si fece avanti per primo, un sorriso radioso si delineava sul suo volto in carne. “Come stai?”
Conan era felice di sapere che stava bene.
“Ho un aspetto a dir poco orribile, siete due guastafeste. Mi stavo facendo un sonnellino così profondo e rilassante!” Mentì.
“Si vede, hai due occhiaie!” Disse Conan con ironia, poi si avvicinò al lettino e le fece la linguaccia. “Non sembra proprio che tu stessi dormendo bene.” Il tono del Detective era scherzoso, ma dopotutto quelle parole avevano un fondo di verità, e lui poté riceverne la  conferma dalla reazione di Ai, che fu infatti piuttosto brusca. “Non è vero. Ti dico che è così.”
“Ehi! Sta calma. Ti stavo solo punzecchiando.”
“Conan. Perdonami. E’ che queste ferite e questi dannati lividi mi fanno ancora male. Hai ragione. Ho dormito da schifo. Non ti si può nascondere niente, eh?” Ai sorrise appena.
“Allora, come te la passi?” Incalzò il dottore.
Lei trasse un sospiro profondo, che lasciava intendere come si sentisse. “E’ così noioso qui. Non c’è nulla da fare, e quel televisore impolverato può rimanere spento, per quanto mi riguarda.”
“Forse è giunto il momento per fare la conoscenza di Sir Arhtur Conan Doyle!” La dottoressa, intenta nel riporre delle coperte bianche nell’armadio, fu sorpresa nel sentire quel piccoletto che citava il nome di un autore di quel calibro. Nel passare al loro fianco gli diede un affettuoso buffetto sulla testolina e lo sentì lamentarsi. “Che bambino prodigio!” Conan ridacchiò. “Si, il dottor Agasa mi racconta sempre le sue storie!” Si giustificò in modo sbrigativo, poi quando la donna uscì e si richiuse la porta alle spalle, si sentì sollevato. Finalmente poteva soffermarsi su quel particolare che aveva attirato la sua attenzione nel momento stesso in cui era entrato nella stanza. “Ai. Pare che tu abbia degli ammiratori. Non ci dici niente?”
“Effettivamente l’avevo notato anche io. Chi è? Siamo curiosi.”
La ragazza si accigliò e in un primo momento non capì; guardò entrambi, confusa.
“Sul comodino!” Esclamò Conan. Così lo sguardo di Ai si posò sul piano del mobiletto al suo fianco, dove su di esso, troneggiava delicata, una bellissima rosa rossa. Era stata colta da qualche ora, il suo stelo, lungo e sottile, costellato di spine, era ancora di un verde molto acceso. I suoi petali si dispiegavano agili, aperti e vaporosi. La ragazza deglutì e sorrise di facciata, per nascondere dove stessero parando i suoi pensieri. Gin.
“Oh. Non l’avevo proprio vista. Non so chi l’abbia messa qui.” Sperava che il suo tono apparisse fermo.
“Se la dottoressa è entrata soltanto poco fa e l’ha fatto per la prima volta questa mattina, è impossibile che qualcun altro sia potuto entrare prima.”
“Magari l’ha messa proprio lei qui, un attimo fa. Non so niente, davvero.” Scrollò le spalle, mentre continuava ad osservarla. Conan si avvicinò al comodino e fece per prenderla, ma Ai lo ammonì. “No!” Gli sfiorò il polso. “E’ mia.” Rise lievemente, poi la prese fra l’indice ed il pollice ed inspirò a pieni polmoni il suo dolce profumo. Il profumo della morte.
“Sei strana. Secondo me ci nascondi qualcosa. Un amante segreto.”
“Conan ha ragione. Magari è stato Genta.”
“Smettetela.” I tre risero.











Ok, ci siamo con questo piccolo frammento del secondo capitolo, decisamente breve, ma per via della trama, doveva essere così. Il terzo sarà bello denso denso di colpi di scena! :) Ringrazio caldamente tutti quelli che fino ad ora hanno inserito la storia nelle seguite, e coloro che hanno recensito, in particolare Eva13, la mia mojettina cara, che pur odiando Conan ha letto il chappy (Mojuzza mia *-* i love you <3),Iman, che non so se ha un account qui su EFP, ma la ringrazio perché d'altronde è merito suo se ho cominciato a scrivere questa fanfiction, che mi ha spronato a continuarla giorno dopo giorno. E a lei dedico questa storia, anche perché Detective Conan è uno dei nostri anime prefffferiti! :)
_Flame_ che è stata decisamente troppo buona, ti ringrazio ancora tantissimo =) ed infine Spencer Tita, che mi ha fatto ammazzare dalle risate con la sua recensione! Bwuahuaahuahau!!! Alla prossima amici lettori. E ricordate che Gin vi osserva U_U In allegato vi lascio questo mio disegno, fatto ieri, in onore della ff. Spero vi piaccia <3





Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Solo lei. ***


"Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro. E se tu riguarderai a lungo in un abisso, anche l'abisso vorrà guardare dentro di te."      


(Nietzsche)

 




 Una settimana più tardi, Ai poté finalmente ritornare a casa, oltre che a scuola. Le giornate in ospedale erano trascorse con una lentezza estenuante, ma spesso Conan, i giovani Detective e il dottor Agasa erano andati a farle visita, così le avevano addolcito quei giorni noiosi. L’episodio della rosa sul comodino non si era più ripetuto, ma ora avrebbe dovuto recuperare le ore di sonno perse a rigirarsi nel letto senza sosta, senza requie: l’ipotesi che quel criminale si fosse avvicinato a lei così facilmente la inquietava, era stato il suo pensiero fisso. Le stava dando il tormento, ma sapeva anche che prima o poi i suoi nervi avrebbero ceduto: e Dio soltanto poteva sapere come avrebbe reagito, qualora si fosse verificata quella spiacevole evenienza. Preferì non pensarci. Quella mattina si sbrigò a fare colazione e si fiondò giù per le scale, Conan era già in cammino verso la scuola, lei invece, era in lieve ritardo. “Arrivederci Dottore, ci vediamo a pranzo!” Esclamò la piccola Ai con lo zaino in spalla, pronta ad affrontare una nuova giornata. Forse migliore delle altre. Percorse il breve tratto che la separava dall’edificio scolastico rimuginando su quanto era accaduto: le fronde degli alberi erano agitate dolcemente da un’aria placida che per la stagione invernale era decisamente troppo calda. ‘Avrebbe potuto farmi fuori, e invece si sta arrovellando il cervello per farmi impazzire. Prima la visita al ristorante, poi  piomba in casa di Shinichi come una specie di ladro. Fra l’altro non è nel suo stile.’ Venne colta da un brivido. ‘E le rose. Il mio fiore preferito.’ Non riusciva a ricordare in quale stramaledetta occasione le era sfuggito quel particolare, così che lui avesse potuto carpirlo e utilizzarlo per i propri fini. Sospirò. ‘Devo cercare di mantenere la calma.” Era quasi arrivata, scorgeva in fondo alla strada una calca di mocciosi, fra loro spiccava la figura robusta ed ingombrante di Genta. ‘Si ritorna alla vita di sem-..’ Una mano si posò sulla sua spalla e lei si volse repentina, il cuore le balzò in gola.
“Ai! Sono cinque minuti che cerco di chiamarti.” La voce di Mitsuhiko la tranquillizzò, ma il ragazzino dai capelli scuri notò che il suo volto si era rabbuiato. “Te la sei presa, Ai?”
“Mi sei piombato alle spalle così, d’improvviso. Credevo che fossi chissà chi.” Proferì lei, assumendo poi un’espressione più tranquilla. “Ad ogni modo non fa niente, non preoccuparti.”
“Allora? Come stai? Ci sei mancata tanto.” Lui sembrava essere entusiasta, parlava gesticolando, con un sorriso stampato sul volto e con gli occhi colmi di gioia. Ai, invece, non sembrava mostrare la stessa enfasi, ma si manteneva come di consueto molto glaciale e cinica.
“Come vuoi che stia? Dopo una settimana e mezza di ospedale mi sento uno straccio. Avrei voluto dormire questa mattina.”
“Mi dispiace. Ma sai, se ti può sollevare anche le nostre giornate sono state noiose. Nessun nuovo caso su cui indagare, niente di niente.” Egli sbuffò.
“Ringraziate il cielo che non ci sia nulla su cui indagare.” Disse con una leggera vena di sarcasmo nel tono.
I due raggiunsero gli altri: anche se Ai era così distaccata e riservata, loro le volevano bene ugualmente. Nessuno si preoccupò dunque, di notare un suo improvviso ed insolito cambiamento. Quando i ragazzi varcarono la soglia della loro classe, Conan posò il suo sguardo sul banco di Ayumi. “Ragazzi, Ayumi è per caso malata?”
“No. Ieri c’era. Forse voleva saltare il compito di matematica.”
“Genta, ma che dici, è mille volte più brava di te. No, forse non si sentiva bene.” Ribatté il piccolo occhialuto. Eppure ebbe uno strano presentimento. Quando la giornata scolastica si concluse, la campanella fu una liberazione, un’esplosione di rumori e di voci che si riversavano all’uscita. La piccola Shiho non aveva più rivolto i suoi pensieri a Gin, era tranquilla.
I giovani Detective scesero in strada, con lo zaino in spalla.
“Ho una fame!” Esordì Genta. Conan lo guardò tenersi lo stomaco con le mani e sospirò, con un sorriso rassegnato. “Tu hai sempre fame.”
“Conan ha ragione.” Bofonchiò Mitsuhiko. “Ma dovrà aspettare. Dobbiamo prima passare a casa di Ayumi per assicurarci che stia bene.” E così, quando furono di fronte alla villetta, i piccoli si accalcarono alle scale, Conan suonò il campanello dopo essersi sollevato in punta di piedi. Qualche secondo più tardi aprì loro la porta la madre della loro amica, una donna molto alta e bella: ma il suo viso era contratto, le sue mani si unirono di fronte al petto in un gesto di apprensione. “Ragazzi, siete voi.” Conan percepì un moto di speranza nella sua esclamazione.
“Signora, è forse successo qualcosa?”
“Ayumi non era a scuola con voi questa mattina?” Continuò la donna, la cui ansia cresceva a dismisura.
“Veramente no.” Borbottarono quasi in coro, desolati. “Avevamo anche il compito di matematica ma..”
“Stamattina ha fatto colazione ed è tornata in camera sua, credevo fosse uscita senza dirmi nulla, ma non vedendola arrivare mi sono preoccupata. Dove può essere?” Era sull’orlo della disperazione, anche se tentò in tutti i modi di dissimulare la sua smania: ma i gesti della mani la tradirono.
“Signora, posso salire in camera sua?” Conan era determinato a carpire alcuni indizi fondamentali e poter ricostruire quindi gli spostamenti della giovane amica.
“Si, certo.” Balbettò la madre di Ayumi, che si mostrò disposta a far salire il piccoletto. Magari poteva essere d’aiuto. “La sua stanza è in fondo a sinistra.” E così, Shinichi, risvegliato nel suo spirito di investigatore, salì di corsa le scale, lasciando i suoi amici sulla porta. Ai si ritrasse un poco, e con le braccia conserte i suoi pensieri cominciarono a vagare. Si sentiva terribilmente in colpa. E se Gin l’avesse pedinata e avesse rapito Ayumi? Se le fosse successo qualcosa non avrebbe mai potuto perdonarselo; inoltre stava continuando a mentire al suo amico più caro, Conan. Qualche istante più tardi lo vide balzellare giù. “Genta, per caso sai se Ayumi ultimamente ha conosciuto qualcuno?” Questi scrollò le spalle e dopo averci pensato, mosse il capo in segno di diniego. “E’ strano. La finestra è ancora aperta, c’è un segno sullo stipite e le sue cose sono ancora sulla scrivania, in ordine. Qualcosa deve averla attirata fuori.”
Ai deglutì, poi in religioso silenzio uscì dalla casa e rimase ferma nel giardino. Si ritrovò a mordersi convulsamente il labbro inferiore.
“Dobbiamo cercarla! Ai!” Conan e gli altri la raggiunsero. “Andiamo!” Vedendo che lei esitava, Shinichi la afferrò per un braccio e Shiho non poté opporsi, anche se inizialmente si mostrò riluttante. Bofonchiò qualcosa e poi si decise a seguire i suoi amici. Dovevano trovarla al più presto.
La squadra dei giovani detective trascorse un intero pomeriggio a passare in rassegna ogni singolo sentiero, ogni anfratto più remoto della città: non poteva essere andata così lontana, a meno che qualcuno non l’avesse prelevata con un’automobile. Una Porsche nera, ad esempio. Erano le cinque, ormai il sole stava calando e il cielo si tinse di un caldo colore rossastro, la luce del tramonto proiettava a terra le ombre dei grandi palazzoni circostanti e tutto si ammantava di sfumature arancioni. Conan e gli altri si erano fermati nel giardino pubblico, ma a quell’ora non c’era più nessuno. Erano stremati, Genta ancora aveva il fiatone. Ai sedeva sull’altalena, si molleggiava lievemente avanti, poi indietro, mentre il suo sguardo scorreva lungo la sabbia che pareva ardere per merito dei raggi solari. Nessuno fiatava, sembrava essere calata una coltre di tristezza, forse di rassegnazione. Conan invece era seduto a gambe incrociate sul punto più alto dello scivolo e i suoi occhi scrutavano meticolosamente lo spazio attorno al giardino: sul lato nord vi era un alto muro. Proprio quando il suo sguardo si posò sulla linea di quel baluardo, sentì chiaramente dei miagolii, poi una risata. “Oltre quel muro!” Esclamò Conan, compì un balzo e la sabbia si sollevò in un polverone quando le suole impattarono contro il suolo. Un rapido scatto, Ai sollevò lo sguardo e lo vide arrampicarsi sul muro, come un gatto. “Conan!” Urlò; così tutti lo seguirono e quando egli giunse il cima al muricciolo scandì il nome di Ayumi. “Che ci fai lì sotto?”
La ragazzina era lì sotto, circondata da alcuni piccoli gattini che bevevano avidamente del latte in una scodella. “Conan! Guarda che carini! Ne ho trovato uno questa mattina sul tetto.”
“Ma perché sei scappata di casa? Non hai detto nulla a tua madre, ci siamo preoccupati.” Conan non voleva accrescere ulteriormente i suoi sensi di colpa e d’altronde già si era reso conto delle guance della piccola che andavano a fuoco. Ella cercò di scusarsi, dicendo che se avesse detto alla madre quel che aveva intenzione di fare, non avrebbe mai acconsentito. Ma voleva a tutti i costi salvare quei gattini rimasti senza madre e così si era allontanata da casa, senza accorgersi che la giornata stava ormai volgendo quasi al termine.
 
 


Quando Ai tornò a casa dal dottor Agasa, lui le domandò cosa avessero fatto, e così si dilungò su quel che era successo. Si era presa inutilmente un bello spavento. Conan sembrava averla presa sul serio, forse cominciava a sospettare, forse presagiva che qualcosa di molto più grave avrebbe cambiato per sempre le loro vite. Lui aveva cercato di parlare con Ai, ma ella si era mantenuta sul vago, dicendo che probabilmente quella notte si era trattato di un ladro che aveva cercato di fare irruzione per rubare dei gioielli. Insomma, gli aveva propinato una valanga di balle. Sconsolata e anche un po’ frustrata, la piccola Ai si mise a cucinare, ormai erano le sette ed il dottore pareva dilungarsi più del dovuto sui suoi assurdi esperimenti. Non passarono neanche una quindicina di minuti che qualcuno cominciò a suonare il campanello con particolare insistenza. “Un momento, arrivo!” Esclamò la piccola, poi dovette aumentare il passo poiché gli squilli divennero incessanti e sempre più ravvicinati. Ma chi diavolo poteva essere?
“Ai!” Sulla soglia comparve il giovane detective, trafelato e con le guance rosse: probabilmente aveva corso. “Per caso Ran è venuta qui?” Parlava in modo concitato, lo vide arrancare e piegarsi in avanti, ma con una mano si accostò allo stipite della porta.
“Shinichi ma che sta succedendo? Perché tanta fretta, calmati.” Il bue che diceva cornuto all’asino. “Purtroppo no, stavo cucinando, siamo soltanto io ed il Dottor Agasa. Ma perché? Cosa le è successo?”
“Questa notte Kogoro si è accorto che Ran non era in casa, ma come al solito era ubriaco fradicio e soltanto la mattina seguente ha davvero metabolizzato cos’era successo. Ha pensato ad una festa con Sonoko ma lei non sa nulla e…” Ai strinse la sua spalla delicatamente.
“Calmati. Continua.” Conan trasse un sospiro, la sua voce parve roca per qualche istante.
“E nessuna delle sue amiche ha saputo dirmi dove fosse andata. Sono tornato a casa dopo aver cercato Ayumi e non c’era. Shiho.” I loro sguardi si incrociarono, gli occhi del piccoletto brillavano. “Dimmi che non c’entrano i membri dell’Organizzazione. Ti prego.”
Quel suo insolito tono supplichevole la fece trasalire ma cercò ugualmente di mantenersi tranquilla e rassicurante. “No, certo che no. Te l’avrei detto.” Dio. Un brivido di ribrezzo le percorse le viscere: l’alcol, il Gin, la menzogna e la codardia le scorrevano nelle vene, sembrava essere entrata in un tunnel di bugie e sotterfugi.
“D’accordo. Ti chiedo solo una cosa.” Continuò lui, ancora con le labbra riarse dalla fatica e il petto che gli si gonfiava ritmicamente. “Aiutami a trovare Ran.”
Ai annuì. “Certo, ti aiuterò.” Un sorriso le si stampò sul volto. Forse quella ragazza era semplicemente in giro con qualche amica che Conan non conosceva e si era lasciata andare ad una notte brava. Tutti prima o poi danno la possibilità alla propria tigre di uscire dalla gabbia. In cuor suo sperava che la vicenda potesse avere lo stesso epilogo di quello di Ayumi e così decise di accompagnare il piccolo nella ricerca della ragazza.
Faceva freddo, il cielo era coperto da densi nuvoloni neri; un fulmine squarciò le tenebre ed i contorni di quell’ovatta scura divennero nitidi per un breve istante. Il tuono rimbombò nelle orecchie dei due. “Sta cominciando a piovere. Dobbiamo fare in fretta.” Esclamò Conan. Così entrambi aumentarono il passo, fin quando quella camminata non divenne una corsa contro il tempo.
Shinichi si malediceva per quelle gambe così corte anche se non aveva perso sicuramente lo slancio atletico e la velocità di un ragazzo abilissimo nel giocare a calcio. Era talmente rapido che Ai faticava a seguirlo. Corsero in lungo e in largo, alcuni goccioloni di pioggia avevano già cominciato a bagnare i loro capelli. Trascorse mezz’ora fra loro che urlavano il nome di Ran, i tuoni che facevano vibrare l’aria e le gocce che presagivano un imminente nubifragio. Il piccolo si abbassò ormai allo stremo delle forze e Ai appoggiò la schiena contro il muro freddo. Stava perdendo le speranze. “Dai Conan, andiamo a casa. Te la stai prendendo troppo a cuore.”
“No.” Fu secco. Freddo. Ran era la cosa più bella che la vita gli avesse offerto. Doveva trovarla.
“Io continuo a cercarla, se tu non te la senti puoi andare a casa.”
Shiho sentì che il suo tono era colmo di rancore e avvertì una punta di sprezzo. “Mi dispiace, non volevo… io. Mi dispiace.” Ripeté, cercando di giustificarsi. “Io voglio aiutarti.”
Un tuono, così violento da sovrapporsi alle parole di Shiho: Conan vide le sue labbra muoversi, quando tutto fu silenzioso i suoi occhi si spalancarono come inorriditi. “Ai hai sentito anche tu?”
“Cosa?” Un lamento riecheggiò per la lunga strada dov’erano anche loro. “Proviene da quel capannone!”
La pioggia cominciò a farsi più fitta e giù dal cielo cadevano miliardi di goccioline sottili. Le guance di Ai furono colpite con una violenza inaudita, quasi le facevano male. Giunsero di fronte al capannone  e Conan corse all’entrata come una furia. Ai lo seguì immediatamente dopo: l’odore nauseabondo di umidità le penetrò nelle narici e le diede il voltastomaco. Avanzò di qualche passo e intravide nella semioscurità che Conan era inginocchiato a terra: fra delle lamiere metalliche e alcune lastre di legno giaceva il corpo di Ran. Il detective le scuoteva vigorosamente le braccia e dalle sue labbra rosee sfuggi un flebile mugolio dolorante. Il sangue le scorreva dalla fronte e si divideva in due linee che le solcavano la guancia, coperta di graffi e tumefatta. Ran balbettò il nome di lui e cominciò a singhiozzare, anche le lacrime salate le infuocavano il viso. Si sentiva dolorante. Era piena di lividi e sembrava che a massacrarla fossero stati in due, se non addirittura in tre.
“Ran sta tranquilla ci sono qui io.” Balbettò Conan che le teneva il polso e con l’altra mano le stringeva la sua. “Adesso chiamo un’ambulanza.” La ragazza annuì debolmente. “Erano degli uomini vestiti di nero.” Sussurrò in un sibilo con difficoltà, dato che i singulti le impedivano di parlare. “Ne parliamo con calma, ora chiudi gli occhi e aspettami qui.” Sorrise, cercando di infonderle un briciolo di conforto. Quando si alzò in piedi ebbe un moto subitaneo di rabbia: a terra, al fianco del suo corpicino, vi era una rosa rossa, dai petali consunti. La prese fra le dita e quando Ai incrociò il suo sguardo vide balenare negli occhi di Shinichi uno strano bagliore. Ai rabbrividì. “Conan posso spie..”
“Non spiegherai niente a nessuno.” La superò senza neanche degnarla di uno sguardo. Uscito dal capannone la pioggia incessante gli inumidì i capelli, si tolse gli occhiali.
“Conan aspetta, lasciami parlare, ti prego!” Ma lui non si voltò, era intento a chiamare l’ambulanza.
“Mi sento così in colpa dammi almeno l’opportunità di spiegarti come stanno le cose!” Urlò lei con tono piuttosto sostenuto. Conan si volse finalmente a guardarla, ma non lo riconobbe. Quello non era Shinichi.
“Stai zitta.” Proferì freddamente.
Ai sentì il suo cuore che andava in frantumi, che si disintegrava in tanti minuscoli pezzettini. Il gelo che la avvolse era nulla in confronto al vuoto che dentro di lei aveva scavato una voragine così profonda da farle mancare il fiato. “Scusami. Perdonami Conan.” Non seppe cosa fare, cosa dire, lui non l’aveva neanche sentita. Girò i tacchi e corse via.  
La pioggia grondava, si abbatteva al suolo con veemenza e Ai non faceva altro che correre: i capelli gocciolavano, era zuppa come un pulcino bagnato. C’era soltanto Ran. Ran, solo e sempre Ran. Sembrava che soltanto lei potesse soffrire, potesse provare dolore, potesse piangere. Ai, invece, non era in grado di fare nessuna di quelle cose: un sottile velo le appannava la vista, sentì che le gambe cedettero passo dopo passo e qualche istante dopo crollò giù a terra. Le si impregnò il vestitino di acqua e fango, le ginocchia nude sprofondarono nella pozzanghera in cui era caduta: si accasciò con la spalla contro il muro. Aveva il capo chinato, dei rigagnoli le attraversavano le guance, forse si trattava di gocce di pioggia, forse di lacrime. O forse di entrambe.
Il cielo d’ebano stava sopra di lei, quando sollevò nuovamente il capo il suo sguardo percorse rapido la stradina che le si parava dinanzi: le fronde degli alberi parevano sradicarsi dai rami, agitate violentemente dalle sferzate di vento.

In fondo alla via ella scorse chiaramente un impermeabile nero.




 

 





 

Eccoci giunti ai ringraziamenti :) finalmente sono riuscita a postare questo chappy! E' stata una settimana del cavolo a scuola, ho dormito davvero pochissimo e finalmente oggi ho avuto un po' di libertà. Come sempre ringrazio tutti coloro che mi seguono e che recensiscono, che l'hanno fatto sino ad ora! La moje, come sempre, Spencer Tita e Flami, che condivide pomeriggi di studio estenuanti con me, ma fortunatamente anche la passione per Gin! Ahahah:) infine colgo l'occasione per salutare Iman, le mie due compagne di classe Alice e Lisa, che spero leggeranno la mia ff e commenteranno (anche perchè sennò vi sparo. Ahahahaha!!!!) Spero vi sia piaciuto il chappy, e se vi è piaciuto, magari lasciate una recensioncina *-* Un bacio a tutti voi lettori! 
Ciauuu :)

Aya Brea

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Il punto di non ritorno. ***


"Quando sei sicuro della tua scelta, è il momento di cambiarla."







Gin sembrava non curarsi affatto della pioggia che gli bagnava il cappello e parte dei lunghi capelli biondi; i suoi occhi verdastri fissavano quella piccola ragazzina che un tempo aveva avuto le sembianze di Shiho, l’affascinante ragazza del laboratorio. Sentì alcuni passi alle sue spalle: si trattava di Vodka, il suo fedele compagno di scorribande. Era un uomo robusto, tarchiato e dai modi che avrebbero potuto urtare i nervi di chiunque.
“Capo, è lei?”
“La riconoscerei fra mille.” Si limitò a rispondere il biondo. Mal tollerava l’atteggiamento smanioso e petulante di Vodka, anche perché al contrario di lui, egli incarnava perfettamente l’ideale dell’abile cecchino: freddo, meticoloso e capace di pazientare, di aspettare per ore, giorni e perfino settimane. Finalmente avrebbe potuto rivedere il visino triste della sua piccola Sherry. Avanzò con le mani in tasca, non prima di aver rivolto il capo verso Vodka.
“Aspettami qui. Tienila sott’occhio e se tenta di scappare sparale.”
Shiho si sentì gelare il sangue nelle vene: i suoi occhioni colmi di lacrime osservavano l’uomo che avanzava lentamente sotto la pioggia battente.
“Sherry, finalmente ci incontriamo di nuovo.” Gin arrivò di fronte a quella bambina, così piccola e abbattuta, col vestitino intriso di quella pioggia sporca e fredda. La vide indietreggiare a terra, terrorizzata e spaurita come un animaletto: ma un animaletto capace di mordere, se messo alle strette.
“Gin, lasciami in pace. E soprattutto lascia in pace le persone che mi sono attorno e a cui voglio bene. Se devi dirmi qualcosa evita questi mezzucci da vigliacco.” Shiho si stupì della forza con cui gli sputò quelle parole in faccia. I loro sguardi si incrociarono ancora una volta, ma negli occhi di quell’uomo lei non scorse ostilità: soltanto il gelo della sua anima, la cattiveria di un paio di pupille asettiche.
“Risparmiati questi discorsi da persona comune, bellezza.” In quel momento lui tese la mano per aiutarla a rialzarsi, ma la ragazzina si sollevò da terra senza il suo aiuto. Provava ribrezzo ed odio, non voleva neanche sfiorarlo.
“Dimmi che diavolo vuoi e vattene, esci dalla mia vita.” Shiho fu secca, fredda e spietata, proprio come lui. Non vide altre alternative per potersi rivolgere a quel criminale.
Gin si inumidì le labbra e trasse un sospiro molto lieve, quasi seccato. “Smettila di comportarti come se fossi in grado di stringere dei legami duraturi e amichevoli con qualcuno.” Portò un ginocchio a terra, in modo da mettersi alla stessa altezza di Shiho. Lei fu come pietrificata: lo aveva a pochi centimetri dal suo corpo, ne sentiva l’odore, un misto fra il naturale profumo della sua pelle e il sentore fastidioso del fumo di sigaretta.
“Io e te siamo così uguali.” Proferì lui sottovoce.
A quell’affermazione Shiho assunse un’espressione contrariata. “Non è vero.”
“Sei sola, sei cinica e calcolatrice.”
“Io non sono sola.” Ribattè lei, il cui tono cominciava a scaldarsi.
“Ti illudi di non esserlo, eppure se non lo fossi stata, ora non saresti qui a parlare con me.”
Ai non voleva dargli la soddisfazione di aver centrato in pieno, così rispose immediatamente dopo di lui. “Cosa ti serve? Perché mi perseguiti?”
Gin si prese del tempo per poterle rispondere. “Il Boss rivuole il gioiellino più prezioso dell’Organizzazione. Devi tornare al tuo laboratorio.”
Shiho trasalì e quasi d’istinto fu portata ad indietreggiare per non continuare a sostenere lo sguardo di Gin. Dio, non se ne parlava affatto. Non sarebbe mai tornata lì dentro, in quel loculo buio e sudicio, lontano dal mondo, da tutti e da tutto. La vita monotona della scuola le piaceva, ma soprattutto si trovava bene con Ayumi e gli altri, con Conan. Già, Conan. Cosa gli avrebbe raccontato se tutto d’un tratto avesse abbandonato la vita di Ai per potersi rinchiudere in quella prigione sotterranea?
“Non mi avrete più.”
“Sherry, cara. Dietro di me c’è un uomo armato, anche io ho una Glock 17 nell’impermeabile. Non costringermi a sprecare munizioni. Ti sto facendo un favore.”
Ma Shiho non voleva più continuare quella dannata conversazione e così compì uno scatto per potersi liberare da quel maledetto demone: Gin con la rapidità che lo contraddistingueva la afferrò per un polso e ciò non fu difficile, era piuttosto deboluccia. La tirò a sé e la piccola poté sentire un paio di proiettili sibilare al suo fianco, fendere l’aria con velocità: Vodka aveva eseguito l’ordine richiesto. Ai tremò: quella situazione stava mettendo a dura prova il suo equilibrio mentale, era talmente terrorizzata che le venne spontaneo afferrare i lembi dell’impermeabile di Gin e cercare riparo dietro al suo corpo possente. Sprofondò il viso contro di lui.
Il silenzio calò fra i due, Gin non proferì una parola. Shiho abbandonò debolmente quella presa che inizialmente era stata così salda. Alla fine fu lui a rompere il ghiaccio e a far crollare finalmente quell’imbarazzante situazione. “Dunque Sherry. Tu torni nella nostra Organizzazione e mi consegni quel che ci appartiene di diritto, intesi? E così, nessuno si farà male, compreso quel moccioso con gli occhiali che si spaccia per un tuo fedele amico.”
Quando la ragazza udì quelle parole, il suo sguardo balenò sul volto di Gin. Quel che apparteneva a loro di diritto? Ma come faceva l’Organizzazione a sapere di quel progetto che segretamente portava avanti da qualche mese? Fu disgustata, si sentì irrimediabilmente tradita, nuda di fronte a quell’uomo, debole e priva di qualsiasi protezione. Sapevano tutto di lei, l’avevano pedinata. Un fuoco le accaldò le guance e lei sprofondò nel più totale imbarazzo.
“Come fate a sapere dell’antidoto?”
Sul volto di Gin si dipinse un sorrisino malizioso. “Sta tranquilla, non abbiamo sbirciato anche nei camerini.” Shiho deglutì e fu costretta nuovamente ad indietreggiare. “Anche se un tempo, l’idea di spiare Shiho Miyano non mi sarebbe dispiaciuta.”
“Fai schifo.” Borbottò lei con amara rassegnazione.
Gin infilò le mani in tasca e sollevò il capo per guardare il cielo nero che pian piano si era sgomberato di quelle nuvole cupe e grigie: si stavano pian piano diradando, lasciando intravedere lo spicchio di una pallida luna piena.
“Ha smesso di piovere. Forse è un segno. Buonanotte Sherry, pensa a quello che ti ho detto.”
Così come si era avvicinato, quell’uomo si allontanò. Era un’ombra che ogni qualvolta sembrava risvegliare i suoi desideri più nascosti, che sapeva come mettere in luce le sue debolezze e le sue paure. Era sicura che se ne avesse parlato con Conan egli avrebbe trovato una soluzione per scardinare le fondamenta dell’Organizzazione, eppure lei era altrettanto convinta che non avrebbe parlato. Nel silenzio riusciva ad  intravedere la salvezza. Aveva paura di Gin, e quel sentimento di angoscia l’avrebbe fermata. Le tremavano ancora le gambe.
 
 
Il giorno dopo Ai dovette svegliarsi di buona lena e anche piuttosto presto, dal momento che aveva lezione. Non voleva assolutamente incrociare Conan né tantomeno dare spiegazioni delle occhiaie scure che le segnavano il volto. Quei tre ragazzini l’avrebbero tempestata di domande inutili e decisamente fuori luogo. Prima di uscire di casa frugò fra gli scaffali, poi nel baule dove teneva i suoi libri e i suoi preziosi appunti e ne tirò fuori una provetta dal liquido violaceo. La infilò nella cartella, prima di essersela rigirata fra le mani. Doveva portare quel campione sempre con sé, qualsiasi cosa fosse successa.
La giornata scolastica procedette normalmente e Ai si stupiva di come la sua vita fosse diventata un’alternanza fra attimi di puro terrore e momenti di stasi e noia. A ricreazione gli alunni si erano riversati nel giardino sul retro e fra le loro grida e urla di felicità, lei preferì restarsene in classe a meditare su quanto era accaduto. Invidiava i bambini “veri” che non avevano ancora sofferenze da patire e problemi a cui pensare: lei invece era una bimba con tutte le responsabilità di una ragazza ormai matura ed adulta. Conan continuava a non rivolgerle la parola ma tramite Ayumi era venuta a conoscenza delle condizioni di salute di Ran: stava bene, ma quel che la affannava di più era il peso psicologico che quell’esperienza le aveva lasciato. Sarebbe stata una ferita che avrebbe portato per sempre nel cuore.
“Ai, stai bene?” Ayumi le poggiò una mano sulla spalla, vedendola solitaria, starsene seduta al suo banco. Ella sorrise, seppur con un velo di tristezza. “Si, sto bene. Non preoccuparti. Perché non fai ricreazione con tutti gli altri?”
“Potrei farti la stessa domanda.” La bimba si strinse nelle spalle. “Conan è arrabbiato da stamattina.”
“Come mai?”
“Non lo so, non vuole parlarmene. Non è che ce l’ha con noi?” Disse lei, preoccupata. Che carina, pensò Ai.
“No, figurati. Può capitare a tutti di avere questi momenti. Vedrai che gli passerà.” Si alzò in piedi. “Vado al bagno.” Ayumi annuì: la classe era completamente vuota e attraverso i vetri della finestra poté scorgere il campetto di calcio dove Conan stava facendo qualche tiro con gli altri. Quando avanzò fra i banchi, la sua attenzione venne però attratta da un altro misterioso particolare che brillava nella cartella di Ai: inizialmente il senso di colpa prevalse, ma ben presto la curiosità si impadronì dell’animo della piccola, che cominciò a frugare lì dentro. Dai fogli e dalle matite, ne trasse la provetta che ella aveva portato con sé.
L’improvviso ritorno di Ai la fece rinsavire, ma ormai non poteva più far nulla e così se la mise in tasca, sperando che non se ne rendesse conto. ‘Cavolo! Ed ora? Se si accorge che l’ho rubata non mi perdonerà mai. Forse… forse è meglio parlarne con Conan.’
E infatti, così fece. Al termine delle lezioni ella raggiunse Conan e lo fermò per un polso, delicatamente. “Ehi Conan, aspetta. Ho bisogno di parlarti di una cosa importante.” Sottolineò.
“Ayumi, dimmi.”
La ragazzina non seppe da dove cominciare, cercò di racimolare brevemente poche parole per fargli capire come stavano le cose. “E poi ho trovato questa nella sua cartella.” Conan la osservava mentre si toglieva lo zaino dalle spalle: era chinata a terra e frugava vigorosamente fra i libri. “Oh no.”
“Cosa? Che c’è?” Il detective le si avvicinò e con suo sgomento si rese conto che la provetta era rimasta aperta e il suo contenuto si era riversato interamente sul fondo di quello zainetto.
“Oh no!” Ripeté lei. “No, non ci voleva!” Già, non ci voleva proprio. Conan osservò attentamente quel sottile involucro in vetro e seppur fosse vuoto, alcune goccioline violacee sembravano essere rimaste aggrappate alle superficie. “Quindi è come se Ai le stesse facendo la guardia, giusto?”
“Si, proprio così.” Il piccoletto dagli occhiali troppo grandi accompagnò la sua compagna fino alla porta di casa, poi si rimise nuovamente sui suoi passi. Perché da quando era piombato Gin nelle loro vite, Ai sembrava nascondere sempre qualcosa? Perché avevano ridotto Ran in quello stato? Ma soprattutto, cosa diavolo era quella provetta che Haibara custodiva così gelosamente nella sua cartella?
 
 
 
 
Corse velocemente le scale, col fiato sospeso e il cuore che le schizzava in gola. ‘Dove diavolo è?’ Shiho mise sottosopra la sua stanza, qualsiasi cosa che le capitava sottomano ripiombava a terra con violenza: libri, fogli accartocciati, penne e cianfrusaglie. Aveva perso quel campione, sperava che le fosse scivolato e che il suo contenuto fosse andato perduto ma non poteva permettersi di aver perso anche il secondo esperimento. Entrambi costituivano una variante di quello originale e non aveva la più pallida idea di quale funzionasse. Ormai, avrebbe potuto contare soltanto sull’unico rimastole. Si sarebbe affidata al sadico gioco del caso.
Fortunatamente si ricordò dove aveva nascosto l’altra provetta e le bastò semplicemente appurare se la sua memoria avesse colto nel segno. Dall’armadietto sulla sua scrivania tirò fuori una scatolina in cartone, la quale al suo interno celava quella misteriosa sostanza, morbidamente adagiata fra un cumulo di ovatta. “Eccoti qui.” Sussurrò: la sollevò dal suo “letto” come se fosse qualcosa di estremamente prezioso. Le restavano soltanto due possibilità, ora. Era come un’arma a doppio taglio. Se l’avesse usata, avrebbe rischiato la vita, se non l’avesse fatto, probabilmente avrebbe dovuto piegarsi ai voleri di Gin. Cosa doveva scegliere? Improvvisamente squillò il telefono e la sua schiena fu percorsa da un tremito momentaneo.
“Si? Pronto, chi parla?”
“Ai. Sono Conan.”
“Oh sei tu.” Voleva forse scusarsi con lei?
“Ti va se ci incontriamo al parco verso le sette? Dovrei chiederti alcune cose.”
Un sentore di ansia la avvolse. “Qualsiasi cosa si tratti, va bene.”
“A più tardi.”
Proprio nel momento in cui Conan attaccò la cornetta, Shiho si convinse che non avrebbe aspettato altro che quel momento: voleva riappacificarsi con lui, voleva semplicemente avere qualcuno di “umano” con cui parlare e sfogarsi. Ogni qualvolta le riveniva in mente Gin, non poteva evitare di sentirsi addosso quell’odore di fumo e quel brivido gelido lungo la colonna vertebrale. Il tempo trascorse in fretta, le sette erano scoccate da un pezzo ma lei era già presso il parchetto con largo anticipo. Ormai era sera e non c’era molta gente. Diede un lungo sguardo al paesaggio che la circondava: alberi dalle fronde gonfie creavano una coltre sopra di lei, sentiva ancora il fresco profumo dell’erba tagliata da poco. Le sue scarpette facevano degli strani rumori sulla ghiaia della stradina, poi ne sentì degli altri provenire alle sue spalle.
“Ai.”
“Conan, ciao.” La ragazza si voltò e trasse un sospiro. “Mi dispiace.”
“Perché non mi hai detto che stai lavorando all’antidoto per l’APTX?”
Gli occhi di Shiho si spalancarono rivelando un paio di pupille cerulee e brillanti. “Ma che stai dicendo?”
“L’hai detto tu stessa che non puoi nascondermi niente.” Il viso di Conan era terribilmente serio, la sua espressione tradiva il rancore e la rabbia che provava nei suoi confronti.
Ai sentì di non poterlo più prendere per i fondelli: doveva porre la parola FINE a quella stupida scenetta teatrale. Il tempo dei giochi era finito da tempo.
“Ebbene si, ho realizzato un prototipo dell’antidoto, non so se funzioni, ed è per questo che non te ne ho mai parlato.”
“Avresti dovuto farlo invece. Per colpa tua Ran ha rischiato la vita e tu te ne vai allegramente in giro con la provetta di quell’esperimento in cartella.” 
Ran. Ancora quel nome. Stramaledetta Ran. Le sembrò che una sorta di muro in cemento si fosse frapposto fra loro due. Strinse i pugni con forza, le unghie le ferirono quasi i palmi delle mani.
“Ma perché non ti fermi un attimo e cerchi di capire quello che provo?” Ai sentiva di esplodere, quelle parole uscirono dalle sue labbra con un tremolio che preludeva delle lacrime disperate. “Perché hai sempre Ran in quella tua dannata testa?”
Conan deglutì: fu colto alla sprovvista. “Ma che stai dicendo?”
“Per tutti questi mesi ho cercato di aiutarti lavorando a quell’antidoto, eppure quando il progetto era finalmente concluso mi assalì un terribile senso di angoscia e di solitudine. Se quella soluzione avesse finalmente funzionato, tu saresti tornato nuovamente Shinichi e…” Si portò il dorso della mano contro la guancia su cui scorreva una timida lacrima. “Mi avresti abbandonata per sempre, saresti tornato con Ran e la magia dei giovani Detective sarebbe finita per sempre nella tomba, assieme ad Ai.” I singhiozzi le impedivano di parlare ora. Conan schiuse le labbra.
“Ai. Non so cosa dire, avremmo potuto parlarne”
“Non sarebbe cambiato nulla. Volevo posticipare questo momento e godermi ancora un piccolo sprazzo di felicità, ma a quanto pare devo rinunciare. Mi piaceva quest’atmosfera da favola.” Il piccolo cercò di avvicinarsi per appoggiarle una mano sulla spalla, ma lei si scansò. “Ma adesso ho capito, finalmente l’ho capito. Mi dispiace Conan, spero che tu potrai.. perdonarmi.” Il giovane detective la vide scappare via, lui era rimasto pietrificato da quel che aveva appena detto. Non capì bene. Doveva aiutarla, era sicuro che in quella questione fosse coinvolto anche Gin.
 
Shiho correva verso casa: aveva fatto troppi sbagli, troppi errori. Ora, doveva soltanto prendersi la responsabilità delle sue azioni. La scelta era stata presa ed era un punto di non ritorno.










Eccoci qui, il faticato quarto capitolo! :) Allora, vi è piaciuto?! Avete visto che bello Gin? Ahahahaha, povera Ai, Conan è decisamente un tonno u.u 
Vi ringrazio tutti miei cari lettori, specialmente coloro che fino ad ora mi hanno fatto tanti complimenti *-* In primis saluto Iman (HAI VISTO CHE SCEMOOOOO SHINICHI?!?! OH U.U), poi la Mojuzza cara mia <3, Alice e Lisa se leggeranno XD e poi coloro che hanno commentato lo scorso chappyyyy, ovvero:
Yume98, _Flami_, Evelyn13, ringrazio davvero di cuore coloro che la hanno nelle seguite, ChibyRoby, I_Am_She, Kuroshiro, Layla Serizawa, Red Fox, Spencer Tita, Violetta_, Yume98, _Flami_ e ancora chi l'ha inserita nelle preferite *-* Cioè I_Am_She, Shinku Rozen Maiden, chyo *_* Siete tutti fantasticiiiiiii!
Dimenticavo, grazie I_Am_She per avermi inserita nei tuoi autori preferiti. <3 troppo buona. Grazie a tutti *_*
Al prossimo disarmante capitolo u.u 
Byeeeeeeeeeeeee <3

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Deja vu. ***


"Che accadrebbe se un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione [...]. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!". Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato?"



(Nietzsche)
 




Ai suonò ripetutamente il campanello di casa e qualche secondo più tardi il dottor Agasa comparve sulla soglia.
“Ai, che hai fatto?” Le chiese, notando che i suoi occhi erano ancora rossi e gonfi di pianto. La piccola però non rispose, si limitò ad entrare con rapidità, come se qualcuno la stesse inseguendo.
“Dottore.” Esordì poi con un tono che non ammetteva repliche, Agasa poté percepire in esso una sottile punta di amarezza. “Lei per me è stato come un padre, non finirò mai di ringraziarla per quello che ha fatto, ma credo che oggi io sia giunta ad un bivio. Devo percorrere la mia strada da sola.” Deglutì, le sembrò così difficile continuare a parlare. “E’ giunto il momento di affrontare il mio destino, ma ho bisogno di farlo da sola, ho bisogno di tempo.”
L’uomo assunse un’aria bonaria e compassionevole: era paradossale e anche buffo che quelle parole fuoriuscissero dalle labbra di una bambina. “Vuoi andartene?” Azzardò dunque, debolmente.
“Non vedo alternative. Devo farlo. Non mi chieda il perché, non mi faccia domande. Un giorno tornerò e le spiegherò tutto. Andrò a vivere da un’amica di mia sorella Akemi, mi ha chiamato poco fa e mi ha assicurato che ha un posto letto per me, che le farà piacere ospitarmi. E così ho deciso.” A quel punto, calò uno strano silenzio fra i due. Agasa non seppe che dire: non poteva fermare quella ragazza: l’apparenza avrebbe ingannato chiunque, ma egli sapeva che aveva ormai diciotto anni, ragionava come tale e avrebbe dovuto lasciarla andare, col carico delle sue responsabilità. Gli dispiaceva soltanto che se ne andasse. Quella casa senza di lei, era vuota.
“Le devo chiedere un ultimo favore, Dottore. Presto Conan sarà qui. Lei gli dica semplicemente che sto andando da questa mia amica, che avevo bisogno di restare da sola per poter pensare.”
“Ai, puoi contare su di me. Fa semplicemente attenzione. Sai che quando avrai bisogno di una mano, il Dottor Agasa sarà sempre qui.” Sorrisero entrambi. Dopotutto se lo aspettava, quella ragazzina doveva ritrovare se stessa.
“Grazie.” La piccola concluse così quella conversazione, poi salì le scale in fretta. Non c’era tempo per quei convenevoli, per i saluti. Doveva cercare di rendere quel distacco meno emotivo e sentito, così non avrebbe avuto ricadute.  Come da lei previsto il campanello prese a suonare qualche minuto più tardi, lei si assicurò semplicemente di non fare rumore, al resto avrebbe pensato Agasa. Quando finalmente sentì che la porta blindata si era richiusa nuovamente si fiondò in bagno e si chiuse la porta alle spalle. Dall’armadietto sopra al lavabo afferrò l’ultima provetta che le era rimasta. Cominciò ad osservare con minuzia il liquido denso e trasparente che ai suoi movimenti fluiva da una parte all’altra di quel contenitore in vetro. Doveva eliminare quell’antidoto e andarsene via dalla città. Sperava che l’Organizzazione non la trovasse, ma per depistarli aveva bisogno di tornare nuovamente Shiho: come avrebbe potuto, una nanerottola, girare per il mondo, prenotare una stanza d’albergo, sfuggire dalle grinfie di una banda di criminali? Si avvicinò al box doccia e aprì l’acqua. La osservava scorrere giù: e se invece quella creazione l’avesse uccisa? Cercò in tutti i modi di scacciare quei pensieri dalla sua testa, eppure razionalmente doveva considerare quel rilevante margine d’errore che accomunava qualsiasi tipo di esperimento scientifico. Errore relativo, errore percentuale, assoluto. Numeri, calcoli che nel concreto avevano perso qualsiasi significato. Quando fu sotto la doccia il getto di acqua calda la rasserenò: i suoi capelli morbidi si intrisero di acqua, il suo corpicino ricevette finalmente quel calore che le mancava. Magari fosse bastato quello, per riscaldarle il cuore. Sarebbe stato tutto più semplice. Stappò la provetta e in un gesto repentino ne ingerì il contenuto: sentì quel liquido denso bruciarle la gola e quasi immediatamente fu colta da uno spasmo indescrivibile. Un grido le si strozzò in gola, con le mani volle quasi strangolarsi, nel tentativo di reprimere quel dolore che sembrava provocato da un acido che scorreva lungo la faringe. Sarebbe morta, stava morendo, ne era certa. Cadde in ginocchio. L’acqua continuava a scorrerle addosso ma la vista le si era completamente appannata. Per un attimo giurò di aver perso completamente i sensi, ma non seppe giudicare per quanto tempo. Si ritrovò seduta contro una parete del box doccia, col respiro affannato e i battiti a mille. Quel dolore era finalmente cessato e lei era tornata nel mondo dei vivi, dopo una brevissima parentesi che non seppe ricostruire. Trasse un lungo sospiro nel tentativo di riprendere fiato, poi si alzò in piedi e chiuse l’acqua. Uscì dalla doccia e vide immediatamente la sua immagine riflessa nello specchio, offuscata dal vapore che aveva sprigionato l’acqua calda e che già cominciava a condensarsi sul vetro in microscopiche goccioline. Intravedeva le forme del suo corpo e da lì in poi, poté davvero dare un addio alla piccola Ai Haibara.
Si avvolse l’asciugamano intorno a quel corpo ritrovato e si fiondò nella sua camera, per prendere i primi vestiti larghi che le capitarono a tiro. Certo, per i pantaloni sarebbe stato un problema, così decise di indossare una vestaglietta che le andava grande. Che strana sensazione, non aver nulla da infilare in valigia. Dall’armadio di Agasa trafugò un grande giubbotto, quando l’ebbe indossato rise fra sé e sé, osservandosi allo specchio. ‘Dottore, questo lo prendo in prestito!’ Chiuse le ante e afferrò la valigetta, purtroppo per lei, mezza vuota. Non salutò, non si preoccupò di farlo, anche perché in cuor suo voleva avere la certezza che avrebbe fatto ritorno nella casa che l’aveva ospitata nel corso di tutti quei mesi. Voleva rivedere Agasa e i giovani detective, quei bimbetti petulanti ma buoni, ma più di ogni altra persona, voleva rivedere il piccolo Sherlock Holmes.
 
 

Il viaggio per raggiungere l’altro capo della città fu piuttosto stressante e lei odiava dormire in pullman. Quando scese con tutti gli altri passeggeri sentì le ossa deboli e i muscoli a pezzi, come se avesse dormito su un letto di spine. Per giunta era buio pesto e le strade completamente deserte, quindi quell’arrivo in quel luogo sperduto non corrispose sicuramente alle sue aspettative. Si armò della dovuta pazienza e si lasciò guidare da un uomo del posto presso l’hotel più vicino.
Appena arrivata di fronte a quell’albergo, notò che la struttura si ergeva imponente di fronte a lei, quasi a formare un grande ferro di cavallo: i piani erano collegati gli uni agli altri mediante un sistema di scale in ferro che le sembrò decisamente molto robusto e lungo l’edificio centrale correva un balconcino che dava sul grande giardino interno. Anche se era completamente buio, i lampioncini lungo l’entrata e quelli dislocati fra le stradicciole del punto verde le fecero comprendere che non era male, magari le camere sarebbero state anche accoglienti. Una volta alla reception dovette sbrigare le solite questioni burocratiche ma in meno di un quarto d’ora ebbe le chiavi della sua stanza. La 409 all’ultimo piano.
Shiho salì le scale, fortunatamente non aveva un peso eccessivo da trasportare ma la donna che si trovava qualche scalino sopra di lei sembrava faticare molto per portare quei due grossi bagagli che la opprimevano. La biondina si sbrigò ad accorciare la distanza che le separava e si “impose” con un sorrisetto cordiale. Dopotutto aveva bisogno di parlare con qualcuno.
“Ha bisogno di una mano?”
La donna la guardò con due occhi grandi e bluastri come due zaffiri. “Mi faresti un immenso favore.”
“Ma certo, lasci che l’aiuti. Tanto io ho questa valigetta ma non pesa nulla. Non c’è niente dentro.” Aggiunse con un sottile velo di ironia, poi aiutò quella ragazza a portare quel carico nella sua stanza, che per ironia della sorte era quella dirimpetto alla 409 e in linea d’aria distavano poco più di una quindicina di metri. Shiho entrò nella camera di quella donna e lasciò la valigia presso la porta; quando ella accese la luce un sorriso le irradiò il viso e per poco la piccola biondina non si lasciò sfuggire un mugolio di sorpresa.
“Mi chiamo Veronika, molto piacere. Sei stata troppo gentile, non so come ringraziarti.” Shiho non si accorse neanche che quella splendida ragazza dai capelli neri le tendeva la mano: scorse per qualche brevissimo istante, il volto di sua sorella. Akemi.
“Io mi chiamo Shiho. Non c’è bisogno di ringraziamenti. Sentivo di doverla aiutare.” E così, si decise a stringerle la mano. Quella sensazione di calda accoglienza non l’abbandonò.
“Non darmi del lei, siamo quasi coetanee. E poi preferisco il ‘tu.’ Queste formalità mi fanno sentire vecchia.” La ragazza dai capelli scuri si girò per poter dare una rapida occhiata alla stanza e anche se fu rapida, Shiho si rese conto che fu altrettanto meticolosa. C’era un letto ad una piazza e mezzo disposto in fondo ad essa, un armadio con tre ante e una scrivania alla loro destra. Tutti i mobili erano laccati in legno e la moquette dal colore chiaro creava un contrasto molto particolare con le tendine rossastre alla finestra. Era proprio graziosa.
“Per quello che costa, direi che è davvero carina, non trovi, Shiho?”
“Si, carina.”
“Ma dimmi, come mai sei venuta in albergo? E non hai freddo con quelle gambette scoperte?”
Effettivamente doveva aver notato la pelle d’oca e il lieve tremolio che la scuoteva tutta.
“Diciamo che è stato un viaggio di fortuna. Mi sento come un naufrago.”
“Non sarai mica scappata di casa? Su, entra pure.” E così Veronika richiuse la porta alle sue spalle ed entrambe si sedettero sul letto. Shiho cercò di ricostruire gli eventi in maniera tale da tralasciare gli incontri con Gin, l’antidoto. Gli parlò di Conan e lo descrisse come il ragazzo per cui provava un’amicizia particolare, della loro rottura. Insomma, ricreò la sua storia ed il suo passato alla luce di quel che voleva che fosse.
“Mi dispiace Shiho, spero che tu riuscirai a schiarirti le idee in fretta e che tornerai da Conan.” La bionda invece, apprese che Veronika era una studentessa universitaria e di lì a poco avrebbe dato gli ultimi esami: era ad un passo dalla laurea in Economia e sembrava particolarmente felice ed entusiasta dei suoi studi. Con un sorriso sul viso le dimostrò che il contenuto di quelle valigie era in parte dato dalla considerevole mole dei suoi libri.
“Diamine, odio l’Economia. “ Commentò Shiho mentre era intenta a sfogliarne uno. Dalle parole e dall’atteggiamento di quella donna così simile ad Akemi trasudava la voglia inesauribile di conoscere, il gioco ambiguo dell’avventura e il rinnovato coraggio nell’affrontare la vita nei suoi molteplici aspetti. Era una ragazza pronta a tutto e Shiho si sentì davvero bene nel parlare con lei, tanto che alla fine della serata entrambe si recarono al piano inferiore per bersi una bella cioccolata calda. La scienziata non si era mai sentita così serena e tranquilla come quella sera. Non era la tipa da fidarsi ciecamente delle persone, specialmente quando si scontrava per la prima volta con esse, eppure, in un modo o nell’altro, Veronika fu l’eccezione. Forse per via della straordinaria somiglianza con la sua cara sorella, Akemi, forse per la grande voglia di vivere che esprimeva ad ogni parola, ad ogni dolce sguardo. Shiho rimase a pensare a lei per tutto il tragitto che la separava dalla sua stanza e quando se la chiuse alle spalle, si sentì finalmente libera. Era così stanca che appena fu immersa nel tepore delle coperte si addormentò.
 


Il giorno seguente sentì che qualcuno bussava alla sua porta: da sotto le lenzuola si ritrovò a borbottare e a chiedere di chi si trattasse.
“Dormigliona, svegliati, sono le dieci del mattino. Ma si può sapere per quanto tempo hai intenzione di dormire?” Shiho sbuffò, ma alla fine si costrinse ad abbandonare quel materasso così morbido e si decise finalmente ad aprirle la porta, sebbene avesse ancora quella vestaglietta striminzita addosso.
“E’ ancora presto, che c’è?” Chiese lei, stropicciandosi gli occhi con le mani, con fare assonnato.
“Ti ho portato questi, pelandrona.” La ragazza mora teneva con entrambe le mani i manici di una busta di cartone. “Non siamo poi così diverse in termini di costituzione fisica.”
Shiho inarcò le sopracciglia e fu piuttosto curiosa di capire di cosa si trattasse, così la aprì di fronte a lei: dentro vi erano un paio di jeans, una maglia ed un lupetto nero. Sollevò il capo ed incrociò lo sguardo di Veronika. “Sono per me?”
“E per chi sennò, per quella dietro di te? Certo che sono per te! Non vorrai mica continuare a vivere con questa vestaglia e quel giubbotto per il resto dei tuoi giorni?” Rise.
Shiho non poteva crederci: era stata gentilissima. “Credo che tu abbia proprio ragione. Grazie.” La bionda si lasciò finalmente scappare un sorrisino. “Non dovevi.”
“Ma figurati. Andiamo a farci una passeggiata in centro, ti va?”
Shiho si strinse nelle spalle. “Dammi soltanto qualche minuto e ti raggiungo nella Hall.”
Dopo essersi data una rapida lavata uscì di corsa con quei nuovi vestiti che le aveva dato Veronika, non si era neanche curata di asciugarsi completamente i capelli. Voleva esplorare quella nuova città che non conosceva affatto, se non sulla cartina. Scese le scale e percorse un breve tratto del giardino, poi notò che la sua compagna era già sul marciapiede, fuori dal complesso dell’albergo. Quando varcò la soglia, però, il suo sguardo fu completamente rapito da una macchia nera che si stagliava al di là della strada, sullo sfondo della parte opposta, percorsa da una bellissima schiera di villini. La riconobbe. Avrebbe potuto riconoscerla d’altronde, fra mille altre automobili. Un’auto d’epoca, una Porsche Nera. E poteva essere soltanto di una persona, fra le suddette mille. Gin.
Sgranò gli occhi e si morse convulsamente il labbro: la spaventava quella sensazione che l’aveva colta d’improvviso, aveva paura che tutta quell’ansia e quella smania la potesse portare sull’orlo di una crisi di nervi. Veronika fu talmente scossa dal repentino cambio di colore che aveva assunto il suo visino che non poté far a meno di avvicinarsi. “Shiho, mio Dio, che cosa hai visto, un fantasma?” Le chiese, buttandola sull’ironia e nella speranza di farla riprendere. “Ci sei?”
La bionda annuì leggermente e fu rincuorata soltanto nel notare che dentro quella stramaledetta macchina non v’era nessuno.
“Credevo di aver perso il cellulare.” Che scusa puerile. Veronika infatti non le credette, era evidente dallo sguardo ambiguo che le stava rivolgendo.
“Sei strana. E ti vuoi prendere un malanno con quei capelli umidi.” Così, entrambe si avviarono.
La città piacque molto a Shiho ed entrambe fecero alcune compere: Veronika, attratta da alcuni vestitini eleganti, la bionda, invece, costretta dalla necessità e da quella fuga organizzata in un batter d’ali. Trascorsero l’intera giornata in giro per negozi, giardini, musei. Fu dunque un’uscita così piena e densa di avvenimenti che, seppur per qualche ora, il pensiero costante di Gin l’aveva abbandonata. Quando però le due fecero ritorno al loro albergo, notò a malincuore che quell’auto era ancora parcheggiata lì, non un centimetro più avanti, non un centimetro più indietro. Le venne il sospetto che Gin o Vodka potessero alloggiare proprio in quell’albergo. Era paradossale, quei due brutti ceffi cominciava a vederli dappertutto, ad immaginarseli. Prima o poi avrebbe cominciato ad avere anche le allucinazioni come in mezzo ad un deserto.
Controllò di nascosto i registri della Reception eppure non notò nulla di strano. Forse quell’auto era di qualcun altro. Perlomeno, lei lo sperava vivamente.
Le due ragazze si salutarono quando furono ormai giunte al piano superiore e Shiho quella notte fece una fatica immane per addormentarsi: il volto di quell’uomo le annebbiava la mente, i suoi capelli biondi le solleticavano le guance. Lo odiava.
 


I giorni seguenti volarono e le due ragazze non facevano che approfondire la loro conoscenza, anche se Veronika non aveva ancora un’idea chiara di chi fosse realmente Shiho Miyano. Non lasciava mai trapelare molto sul suo passato, le parlava soltanto di cose piuttosto banali e questo cominciò a farla davvero inquietare. Il verme del sospetto si insinuava sottopelle, lentamente.
Chi era davvero, quella timida e riservata biondina? Un alone misterioso di malinconia e nostalgia la avvolgeva ed ogni volta che i loro sguardi si incrociavano percepiva nel fondo dei suoi occhi chiari, la paura. La rabbia, l’angoscia. Perché? Non sapeva darsi una spiegazione.
Quella notte, era la terza consecutiva che le due si attardavano alla Hall per bersi qualcosa e per fare quattro chiacchiere. Frugò nella sua borsetta per trovare la chiave della sua stanza e dopodiché la inserì nella serratura. Era completamente buio, incespicò nel tentativo di accendere la luce: la luna, quella sera, non volgeva il suo volto alla terra.
Il cuore di Veronika sprofondò nel gelo, sentì una mano fredda avvolgerle la vita, l’altra le si parò contro le labbra prima che da esse potesse sfuggire un urlo.
“E’ Shiho Miyano, vero?” Una voce gelida provenire alle sue spalle si diffuse nel suo orecchio, sentiva il fiato di un uomo sul collo. “E’ Shiho Miyano quella ragazza bionda. Non è così?” Ripeté nuovamente in un sussurro. La porta si chiuse con un tonfo sordo e a giudicare dagli altri passi ovattati sulla moquette, un altro uomo, dalla corporatura più robusta di quello che la teneva, aveva fatto il suo ingresso in camera.
Veronika tremava come una foglia, era terrorizzata. “Chi siete?” Sussurrò debolmente.
“Rispondi alla mia domanda, Veronika.” Il tono di quell’uomo sembrava essersi fatto minaccioso. Dio, puzzava di fumo. E l’altro, di alcol.
“Non fare la stupida, so che hai un fidanzato pronto ad aspettarti in America e un corso di laurea ormai agli sgoccioli. Non vuoi diventare una grande economista?”
Perché quell’uomo sapeva tutte quelle informazioni? Lo ricollegò quasi istintivamente alla Porsche nera.  Le dispiaceva dover collaborare ma quando sentì la canna della pistola premere contro il fianco ebbe un tremito, un sussulto.
“E’ lei.” Deglutì amaramente, anche se ormai aveva la gola riarsa. Il tempo si stava dilatando in maniera estenuante.
“Brava. Un ultimo favore, se ci tieni alla vita.” Quell’uomo era un pezzo di ghiaccio, la stringeva sempre di più nella sua morsa.
“Domani alle dieci in punto darai un appuntamento a Shiho Miyano, in questa stanza. Al resto penseremo noi. Se farai la brava, potrai sperare di salvare te e la tua dannata carriera. Altrimenti…” Lo sentì stringere i denti. “Di’ pure addio al tuo lurido futuro.” Sussurrò con un tono sprezzante. “Intesi, signorina?”
Lei tremava ancora di più, le lacrime uscivano copiose, le bagnavano le guance. “Si, si. Ho capito. Lasciatemi ora, vi prego. Farò quello che mi chiedete ma lasciatemi.” Il suo tono supplichevole ed implorante fece schizzare i nervi di quell’uomo alle stelle, tanto che la spinse via con un gesto secco. “Buonanotte, Veronika.” L’altro uomo lo seguì ed entrambi uscirono, così rapidamente e silenziosamente come erano entrati. O meglio, come avevano fatto irruzione. Quella notte non riuscì a prendere sonno, sentiva le mani di quell’uomo sulla sua pelle. Dio. Non poteva far altro che obbedire loro.
 


Shiho fu sorpresa da quell’appuntamento che Veronika aveva fissato, eppure non si era minimamente preoccupata per le sorti della ragazza: il modo in cui gliel’aveva chiesto non aveva procurato sospetti di alcun genere in lei. Si infilò il lupetto nero e i jeans che le aveva regalato e si allacciò un paio di stivaletti simili ad un paio di anfibi, poi uscì e raggiunse, grazie al camminamento che univa le due ali della struttura, la stanza di Veronika. Bussò.
“Sono Shiho. Aprimi.”
Nessuna risposta. Provò a bussare nuovamente.
“Veronika, va tutto bene?” A quel punto, spinse la mano contro la maniglia e la porta si aprì. “Veronika?” Cercò l’interruttore della corrente e quando la luce si accese si portò istintivamente le mani contro le labbra. Le si gelò il sangue, si sentì sprofondare la terra sotto ai piedi.
Veronika giaceva al suolo, aveva due fori sulla schiena che le perforavano il petto in corrispondenza del cuore. Un lago di sangue denso si spargeva intorno alla sua figura longilinea. Gli occhi erano spalancati e le pupille rivolte al soffitto, le labbra contratte in una smorfia di dolore. Era morta. Akemi era morta per la seconda volta.
Non ebbe il tempo per pensare, sentì quell’odore del fumo di sigaretta che ormai le dava il voltastomaco. Le si contorsero le viscere ma non poté far nulla.
Si ritrovò con le spalle al muro, a sottostare nuovamente e per l’ennesima volta alla furia di Gin. Stavolta lo poté vedere bene in faccia, quei suoi occhi verdastri ricolmi di odio, imbevuti di un cinismo che le metteva i brividi in corpo.
“Io ti odio.” Proferì Shiho, le cui spalle premettero al muro sotto il peso delle mani di quell’uomo. “Perché l’hai uccisa?” La ragazza strinse i denti e i pugni con tutta la forza che le rimaneva in corpo, ora nutrita ed alimentata dal fuoco di rabbia che ardeva nel suo cuore.
Gin non poté trattenere un sorriso. “Avevamo fatto un patto, non ricordi?” Lo sguardo di lei scorse la figura di Vodka che entrava nella stanza e chiudeva la porta a chiave, abbassò le tapparelle con un gesto secco.
“Non voglio mantenere un patto con gente del tuo calibro.”
“Mia cara, non ti ho graziato del dono del libero arbitrio. O almeno, non mi sembra di averlo fatto.”
La voce di Vodka parve interrompere quel teatrino che Gin adorava costruirsi con Shiho. Ogni santa volta. “Capo, sbrigati. Non abbiamo molto tempo.”
A quel punto lo sguardo di Gin lo fulminò. Il biondo teneva fra le labbra la sigaretta, che se ne stava morbidamente appoggiata in quella fessura. “Sta zitto, idiota. Fa’ silenzio e non mi disturbare.” Borbottò. Il suo partner sospirò in segno di rassegnazione, così Gin ebbe la possibilità di tornare sulla ragazza.
“Vai all’Inferno. Entro 72 ore l’antidoto sarà completamente smaltito dal mio corpo e voi dell’Organizzazione non l’avrete vinta.” Shiho pareva essersi ripresa, accumulò forza e coraggio. Veronika era morta. Senza neanche sapere la verità. Avrebbe voluto tanto salutarla. Avrebbe voluto tanto vederla coronare il suo sogno di conseguire la laurea e di fare una splendida tesi. Avrebbe voluto riavere semplicemente sua sorella.
Lei non riuscì a trattenere l’odio ed il rancore che aveva dentro e così gli sputò in faccia. Gin indietreggiò di qualche passo e si accarezzò la guancia con una mano, ricoperta dal guanto nero.
Vide quella ragazza tentare di dirigersi verso la porta ma l’uomo dai lunghi capelli biondi le afferrò nuovamente il braccio, glielo strinse bruscamente, talmente forte che lei gemette.
“Dove vai? Non ho ancora finito.” Nell’impeto di rabbia che quella ragazzina aveva provocato col suo affronto, la spinse violentemente contro il muro. Shiho deglutì a fatica nel sentire il corpo di Gin premere contro il suo, toglierle letteralmente il fiato. Era troppo vicino, mai prima d’allora, era stato così vicino.
Lo vide strapparsi la sigaretta dalle labbra e in un gesto secco egli gliela piantò fra la scapola ed il collo, ancora accesa. Shiho strinse i denti, una lacrima di dolore le attraversò la guancia.
“Sherry, fai la brava. Settantadue ore sono più che sufficienti. Rallegrati...” Con un sorrisino sadico non fece che mettere il dito nella piaga, letteralmente. Quella sigaretta, gliela stava spegnendo addosso.
“… Non è ancora giunto il tuo momento.” Finalmente il fiato di quell’uomo divenne meno pressante, indietreggiò per poter afferrare un paio di manette. Vodka si avvicinò ai due e le mise un nastro argentato alla bocca.
“Tienila, Capo!” Shiho si dimenava come un animale e mugolava di rabbia, anche se i suoi sforzi furono del tutto inutili. Quei due l’avevano legata bene. Vodka la prese di peso e nonostante continuasse a sbraitare, riuscirono a condurla fuori dall’hotel senza destare troppi sospetti.
“Dove la metto?” Vodka stava aprendo la portiera che dava sui sedili posteriori, ma il biondo, mentre faceva il giro per raggiungere il posto alla guida della sua Porsche, fece un cenno di dissenso. “Nel bagagliaio.”
“Ma Capo!” Vodka rise. Certo che non gli era bastato umiliarla usandola a mo di portacenere.
“Esegui gli ordini e non fiatare. E muoviti.” Gin salì al volante e trasse un lungo sospiro. Socchiuse gli occhi.

‘Ora sei mia.’ 










Bene bene, eccomi qui, ho deciso di modificare nuovamente i saluti in modo da poter ringraziare per bene tutti quanti. Primi fra tutti, Iman, a cui la storia è dedicata. Ti ringrazio tantissimo per lo splendido disegno che mi hai regalato (ritrae Gin e me. Bwuahuahauahauhau U_U XD) spero che questo capitoletto ti sia piaciuto! Poi ringrazio tantissimo Alice e Lisa, la mojettina mia (Sylvia) che sopporta me ed i miei voli pindarici, poi le mie assidue lettrici, Yume, Flami e I_Am_She! Siete troppo carine *-* !! Coloro che le hanno fra le seguite, e cioè:
Bankotsu90, ChibyRoby, I_Am_She, Kuroshiro, Layla Serizawa, Red Fox, Spencer Tita, Violetta_, Yume98; _Flami_
Coloro che invece l'hanno inserita nelle preferite, ovvero: 
A_M_B (Alice XD); chyo, I_Am_She, Shinku Rozen Maiden, _Flami_ 
:) <3 grazieeeeeeeee, siete così belli *-* vi amo tutti u.u XD Spero che questo cappy vi sia piaciuto.


Infine, faccio i miei più cari Auguri a _FLAMI_ !!! AUGURIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII *__________* Ti è piaciuto il mio regalo di compleanno? Spero vivamente di si *-* Te lo dedico questo chappy e te lo "regalo" con tanti abbracci :) Auguroni, mi raccomando divertiti e non ti ubriacare troppo (Di Gin si intende. GHGHGH!)


<3 

Alla prossima :) 


Byeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee!!

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Alone. ***


"Take your time - you'll be fine
Yeah there is nothing wrong with this
you ain't committing crime
You search for something never found
Along these lines
Someday you may turn aruond and terrify
You can't deny - You crucify
Would you get down in the gutter
Swallowing your pride"




(Would you love a Monsterman - Lordi)


 



I raggi del sole entravano prepotentemente dalla finestrella semichiusa e da essa proveniva un ventaccio decisamente freddo. Kogoro non si era preoccupato neanche quella notte di chiudere bene le ante o di abbassare la serranda: a giorni alterni tornava a casa ubriaco fradicio, si lasciava ricadere mollemente sul divano e si addormentava.
Ran ormai, ci aveva fatto l’abitudine, ma quella mattina dovette svegliarlo di soprassalto. Al notiziario stavano informando di un omicidio avvenuto in una delle città limitrofe e la ragazza era stata particolarmente colpita dalla notizia, poiché stavolta, la vittima era una giovane in procinto di laurearsi.
“Ma è terribile.” Esclamò Ran, fra i borbottii contrariati e assonnati del padre, che si stiracchiava. Si sentivano le sue ossa scricchiolare.
“Bambina mia, che vuoi farci, la vita è così.” Il solito tono superficiale.
“Papà, devi farti assegnare quel caso. Non so perché ma ho come l’impressione che ci sia qualcosa sotto di molto più grande.”
“Ti preoccupi troppo. Non ti faranno più del male.” Kogoro la guardò, lei si rese conto che gli occhi di quell’uomo erano rossi e gonfi.
“Quella ragazza deve avere la giustizia che merita, sei l’unico che può restituirgliela!” Ran sembrava parecchio presa, entusiasta, concitata e al contempo così piena di rabbia, una rabbia in corpo che le avrebbe consentito di mandare tutto in mille pezzi. Voleva tanto ritrovarsi faccia a faccia con i tre uomini che l’avevano picchiata.
 


Kogoro dunque, riuscì a farsi assegnare quel caso e così si diresse presso l’hotel dove era stato compiuto l’omicidio. Ovviamente Conan non perse l’occasione per seguire i Mori, anche nella consapevolezza che il padre di Ran era un perfetto incapace. All’apparenza quell’assassinio non destava particolare curiosità nello spirito d’indagine del Detective, e finché il piccolo percorse il giardino dell’hotel, con le mani nelle tasche, il suo interesse non venne risvegliato, rimase sopito. Ma nell’esatto momento in cui Kogoro spalancò la porta della stanza incriminata, qualcosa nella mente di Conan cominciò a mettersi in moto: al suolo v’erano le indicazioni precise di dove fosse stato ritrovato il corpo, non v’era nulla di strano in quella camera d’albergo. Sembrava un omicidio nella norma, talmente “banale” nella sua dinamica, che Kogoro sbuffò, spazientito.
“Potrebbe trattarsi di un regolamento di conti, di criminalità organizzata. Secondo le ricostruzioni, il killer deve aver agito a sangue freddo.” Le solite deduzioni scontate di Kogoro, pensò Conan, che al contrario, gironzolava furtivo, con gli occhietti chiusi in un paio di fessure. Mentalmente stava ricostruendo il delitto, ma tra le tante modalità con cui era stato compiuto, non riusciva a capacitarsi del movente: perché uccidere una studentessa?
Gli bastò compiere un altro giro “clandestino”, mentre Kogoro era distratto: questi stava quasi per uscire, aveva già gettato la spugna.
La schiena del giovane detective fu percorsa da un leggerissimo brivido, i suoi occhi si spalancarono, le pupille fissavano quello strano oggetto vicino al muro, presso l’uscita della stanza. Quello, fu l’elemento che gli fece rivalutare completamente il caso, fu il piccolo particolare che ribaltò la prospettiva con cui aveva affrontato sino ad allora, la morte di quella giovane studentessa.
C’era un mozzicone di sigaretta, proprio a qualche metro da lui.
Una sigaretta, della cenere. Come aveva fatto la polizia a non accorgersene?
La sua mente cominciò a lavorare rapidamente, pareva che il piccolo stesse visualizzando di fronte ai suoi occhi una serie di numeri impazziti, cifre che gli annebbiavano la vista. Era un calcolatore. Ben presto quel caos immane divenne limpido, quei simboli presero forma ed acquisirono un senso.
Aveva visto una sigaretta simile, presso il capannone dov’era stata ritrovata Ran. E non poteva appartenere che ad un uomo. Gin. L’unico dotato della spavalderia e della strafottenza che gli permetteva di tralasciare un dettaglio così significativo. L’unico che si fregiava della nomina di ‘intoccabile’. Forse, era un segno distintivo dell’Organizzazione.
Il piccolo cercò dunque di richiamare l’attenzione di Kogoro.
“Non rompere Conan, abbiamo finito qui, non c’è nulla di particolare, andiamo a casa.”
“C’è un mozzicone di sigaretta lì per terra, la polizia deve averlo dimenticato.”
Conan teneva il braccio teso e indicava con l’indice la posizione esatta di quella prova.  A quel punto, il padre di Ran dovette nuovamente ammettere, seppur con una buona dose di risentimento, che quel nanerottolo aveva ragione. Quel dettaglio poteva essere utile.
Se la scientifica avesse confrontato i risultati dell’analisi del Dna compiuti su entrambi i mozziconi, la risposta ai dubbi di Conan, sarebbe emersa chiaramente dal fondo del baratro.
Doveva trovare Shiho.
 

 
Riaprì gli occhi di scatto, la sensazione gelida che avvertì lungo la schiena fu la prima cosa a provocarle fastidio. Dove diavolo era? Una luce accecante le impediva di tenere gli occhi aperti; quando finalmente quella sottospecie di faro venne spostato, Shiho poté riaprire le palpebre. Percepì immediatamente di essere legata ad un lettino metallico, quattro cinghie le costringevano gli arti contro di esso, una fascia più larga le avvolgeva la vita. Era immobilizzata, qualsiasi suo tentativo di muoversi fu pressoché inutile.
Le voci giungevano ovattate alle sue orecchie, dei brevi e regolari ticchettii provenivano dagli schermi intorno a lei. Comprese di essere monitorata di tutte le sue funzioni vitali: battito cardiaco, pressione, ossigeno, qualsiasi parametro che potesse essere misurato.
Non ricordava molto di quel che era successo prima che si risvegliasse in quella sala operatoria, ma alcuni flash nella sua mente apparvero nitidi. Passavano rapide le immagini di Veronika, dell’albergo, del sangue che si spandeva sulla moquette, di Gin e del suo stramaledettissimo partner, Vodka. Il viaggio nel bagagliaio della Porsche era stato orribile: aveva avuto la sensazione di essere stata sepolta viva.
Quella posizione stava diventando scomoda e lei pensò che quel risveglio sarebbe rientrato sicuramente fra i più brutti della sua vita. Da dimenticare, decisamente.
Un paio di dottori giunsero presso di lei, che con occhi impauriti li fissava mentre si scambiavano con noncuranza degli strumenti di lavoro.
“Il soggetto si è svegliato.”
Il soggetto? Si riferivano dunque, a lei? Come potevano affibbiarle quell’appellativo con tanta tranquillità e superficialità? Era forse… una cavia?
“I battiti sono buoni, respira regolarmente. Ha reagito in maniera ottimale al farmaco per immetterle nel sangue la sostanza di cui abbiamo bisogno.”
“Perfetto.”
Le grandi pupille di Shiho saltavano da una parte all’altra del lettino, con agitazione e frenesia. “Aspettate, che diavolo volete fare, che state facendo?” Si stupì di come la sua voce fosse roca e al contempo debole.
“Abbiamo dovuto immettere nel tuo sangue delle proteine in grado di riconvertire quello che il tuo corpo stava ormai assorbendo. L’antidoto.” Il medico posò lo strumento con cui le aveva controllato la gola. “Sei forte, Shiho Miyano. Una persona normale sarebbe morta.”
“Devo sentirmi onorata?” Controbatté lei, sprezzante.
Il dottore si sfilò la mascherina dal viso e si sedette sullo sgabello al fianco della ragazza. “E’ qualcosa di cui vantarsi.” Ella posò il suo sguardo sulle sue mani che continuavano ad armeggiare dentro ad alcuni cassetti, poi ne sfilò una siringa.
“Ed ora?”
“Un prelievo. Grazie alla terapia avremo l’antidoto con un semplice prelievo. L’Organizzazione fa passi da gigante Miyano. E tutto questo lo dobbiamo a te.” Tornò a sedersi nuovamente, in procinto di preparare l’ago.
Nel momento in cui la siringa penetrò nella sua carne, lei si sentì persa per sempre, vincolata a quegli uomini senza scrupoli, non aveva via di scampo.
Non seppe perché, ma quel prelievo le sembrò un insolito rito di iniziazione: il suo sangue era divenuto di loro proprietà.
 

 
Quando gli uomini dell’Organizzazione la portarono nel suo laboratorio, ella si sentì priva di forze, le gambe le cedevano, inoltre quei brutti ceffi non le riservarono un briciolo di gentilezza, ma anzi, la trattarono come se fosse un oggetto, strattonata a destra e a manca senza alcun riguardo.
Shiho sentì la porta chiudersi alle sue spalle, si guardò intorno con circospezione. Allungò una mano verso l’interruttore e così quella stanza fu illuminata. Il pavimento era ricoperto di piastrelle bianche, al centro vi era un grande tavolo in metallo e sopra troneggiavano varie strumentazioni, serpentine, pipette, provette: al centro, la miniatura della doppia elica del DNA. Tutto intorno vi erano dei mobili, dei lavandini, uno spazio per un computer. Erano tutti oggetti e arredi completamente nuovi di zecca, tirati a lucido.
Shiho rimase affascinata, i suoi occhi furono rapiti dalla bellezza e dal fascino di quel laboratorio: l’attrattiva classica che gli oggetti sapevano esercitare su soggetti particolarmente predisposti.
La ragazza prese a perlustrare ogni angolo, aprì ogni cassetto, ogni armadio, ogni sportello.
D’un tratto però, quella trepidazione per cui si sentì immediatamente in colpa, cessò.
Le porte si spalancarono nuovamente e comparve l’alta figura longilinea e slanciata di una donna. Aveva lunghi capelli biondi, mossi, le cui punte si adagiavano morbidamente sulle spalle. Entrò nel laboratorio ostentando un portamento elegante e raffinato, come d’altronde, attestava anche il suo abbigliamento ricercato, di buon gusto. Indossava una gonna lunga a tubino di colore bordeaux ed una giacca nera.
Shiho non l’aveva dimenticata.
“Bentornata, cara. Spero che quei due non ti abbiano sconvolta eccessivamente con le loro maniere rudi e brutali.” Si riferiva a Gin e a Vodka.
“Vermouth.” Shiho trasalì, strinse i denti ed immediatamente passò sulla linea difensiva. Quella donna era insopportabile ed il ticchettio delle sue scarpe col tacco le dava ai nervi, le perforava i timpani. “Avrei preferito che affittassero un calesse o una carrozza, ma a quanto pare hanno ritenuto più idoneo il bagagliaio di una Porsche.”
La donna giunse al centro della sala e una volta appoggiatasi contro il bordo del grande tavolo, incrociò le braccia al petto. Il suo sguardo enigmatico e magnetico si posò sulla piccola scienziata, il cui visino era pallido, sbattuto: anche il naturale colore dei suoi occhioni appariva sbiadito e spento.
“Ti vedo molto sciupata. Mi auguro che tu possa riprenderti in fretta.” Con quel tono, la frase aveva l’aria di essere una minaccia. “Non abbiamo molto tempo e di scienziati scansafatiche non ne abbiamo bisogno. Mi fido di te. Fa la brava. E ricordati che ti teniamo sott’occhio.” Si scostò agilmente dal tavolo per potersi poi allontanare. Spinse la maniglia della porta e le rivolse un ultimo sguardo accompagnato da un sorriso smaliziato. “Nessuno strappo alla regola, niente passi falsi. Il posto affianco alla bara di Akemi potrebbe essere il tuo.”
Quell’ultima frase risuonò glaciale come una solenne sentenza, il volto di Shiho si era rabbuiato, i suoi occhi erano coperti dai capelli che le solleticavano le palpebre. Deglutì. Non ebbe la possibilità di rispondere poiché Vermouth aveva già richiuso la porta.
‘Shinichi. Dove sei?’ Pensò.
Quel laboratorio aveva perso tutto il suo fascino.
Si sentì terribilmente sola.
 

 
Quei giorni trascorsero lentamente e lei non aveva fatto altro che lavorare, chiusa nel proprio laboratorio. Le avevano riservato uno stanzino buio dove poteva dormire, ma il resto delle giornate lo passava fra le sue mille provette, fra liquidi che talvolta evaporavano contro le sue previsioni, fra esseri infinitesimali che misteriosamente comparivano sul vetrino del suo microscopio elettronico, batteri che si riproducevano, travasi e miscugli. Tutte le ore, tutti i minuti e tutti i secondi. Il tempo veniva scandito inesorabile dall’orologio che se ne stava appeso al muro e quel ticchettio lento e regolare risultava amplificato in quella sala così silenziosa; certe volte diveniva talmente martellante da essere insopportabile.
Shiho Miyano si sentiva un topolino in gabbia e per qualche istante pensò di essere lei, la cavia degli esperimenti di qualcun altro. L’unica cosa che le permetteva di mantenere quel filo sottile con la vita al di fuori del laboratorio, era quel dannato orologio. Se non ci fosse stato quel quadrante bianco con dodici numeri neri e due lancette, la differenza fra il giorno e la notte non sarebbe neanche esistita: invece, grazie al posizionamento di quelle asticelle, la sua immaginazione vagava ancora, il filo non si era ancora spezzato e nella sua mente c’era ancora qualcosa che la facesse sentire umana. Umani. Cos’è che ci rende davvero umani? Differenti dalle altre creature, differenti da un serpente, da un cane, da un passero. Forse il linguaggio, forse, l’essere uno “zoon politikon”, un animale politico, sociale, appunto. E lei non si sentiva affatto così, ma piuttosto si sentiva un automa, un piccolo ingranaggio di una lunghissima catena di montaggio. Shiho racimolava tutta la forza di volontà che aveva in corpo e con altrettanto coraggio tratteneva le lacrime. Doveva essere in grado di cavarsela da sola.
 

 
Il giovane Detective meditava e Ran, osservandolo, si rese conto che la sua mente stava vagando altrove, probabilmente in un’altra dimensione e ciò era evidente dal suo atteggiamento, così simile a quello di Shinichi. Il piccoletto palleggiava abilmente e teneva le mani in tasca, i suoi occhietti fissavano un punto imprecisato della stanza. Un sorriso le illuminò il volto, segnato dai numerosi tagli che si era procurata durante l’aggressione di quei tre uomini.
“Ehi Conan, la scientifica ha appena chiamato, dicono di aver trovato una corrispondenza fra il Dna lasciato sulla sigaretta dell’albergo e quella rinvenuta nel capannone.”
A quella notizia, il signorino Edogawa scattò verso di lei ed il pallone rotolò ai piedi di Ran.
“E’ senza dubbio lui.” Disse con particolare entusiasmo; Ran non capì bene, poiché quell’esclamazione aveva l’aria di essere un pensiero pronunciato inavvertitamente a voce alta.
“Lui chi?” Come da lei previsto, infatti, lo vide ridere e grattarsi il capo con una mano. Dio, certi suoi comportamenti le davano da riflettere. Quegli occhietti sorridenti, quelle labbra, quelle espressioni, persino le piccole rughe che si formavano quando aveva il viso contratto in una risata.
“Ma no, sta tranquilla! Nessuno. Intendevo dire che magari è lo stesso uomo.”
“Sicuramente. Sono loro, Conan. Papà deve sbatterli in galera il prima possibile.”
Ran non aveva la più pallida idea di che pasta fossero fatti i loschi figuri con cui avevano entrambi a che fare, ma lui si limitò ad annuire e a contemplare il suo visino, sincero e ricolmo di quella bonaria ingenuità che lui amava tanto.
 
 

Shiho indossò malvolentieri il suo camicie bianco, poi si richiuse la porta del laboratorio alle spalle e riprese quel che aveva interrotto la sera addietro: aveva rischiato di addormentarsi fra le provette, facendosi carico del rischio immane che avrebbe provocato, se l’avesse fatto.
La notte non riusciva a dormire, ma non era comunque esonerata dall’obbligo di dover lavorare. Così ogni sacrosanta mattina si trascinava controvoglia in quella sala. Non vedeva anima viva da giorni, ma a lei, quei giorni, sembrarono mesi. Avrebbe pagato a peso d’oro, il sorriso di qualcuno, una chiacchiera, un caffè. Ed invece, nulla. Nulla di tutto ciò.
Volse distrattamente il capo alla telecamera, posizionata in corrispondenza dell’angolo in linea con l’entrata. Dalla lente convessa, quell’occhietto rosso la spiava. Probabilmente dietro a quel dispositivo c’erano gli occhi indiscreti dell’Organizzazione che la fissavano ininterrottamente per assicurarsi che non facesse passi falsi.
Improvvisamente i suoi occhi si illuminarono, schizzarono sul computer portatile che stava sul tavolo centrale. Si avvicinò ad esso, nel tentativo di frenare la smania e l’adrenalina che le percorreva ogni centimetro del suo corpo: ogni movimento doveva risultare ai loro occhi, il più naturale possibile.
Prese fra le mani il computer e lo aprì sul piano che si trovava al di sotto della telecamera.
In quel punto preciso, il  suo cono visivo era oscurato e lei lo sapeva bene. Voleva sfruttare il breve istante in cui la sua immagine veniva offuscata anche presso i monitor che la controllavano. Doveva fare in fretta.
La rete dell’Organizzazione non le consentiva di visitare delle pagine web, ma riuscì comunque ad aprire un sistema per poter spedire delle mail. Le pupille di Shiho e le sue dita sottili lavoravano rapidamente, cercò di controllare il tremolio ansiogeno che si era impadronito di lei. Lo sguardo scattava fulmineo dalla tastiera al monitor, anche se era veloce nel digitare i comandi, improvvisamente le sue azioni sembrarono dilatarsi per via dell’agitazione.
Nella barra del destinatario compariva una mail che lei non conosceva, su quella sottostante, quella del Dottor Agasa. Nel riquadro ancora più in basso invece, il testo del messaggio recava un indirizzo. Lei diresse il cursore sul tasto ‘Invia’ e il click del mouse risuonò sordo.  Comparve un riquadro con la barra di caricamento, il suo cuore prese a palpitare, ne sentiva quasi i battiti che si susseguivano irregolari, l’uno dopo l’altro. In quell’istante udì chiaramente dei passi farsi più decisi, qualcuno stava raggiungendo il laboratorio.
“Dai, muoviti.” Sussurrò lei fra sé. Si sentiva morire. L’avrebbero uccisa.
Le porte si spalancarono, lei aveva dato un colpo secco al computer e l’aveva chiuso.
Non sapeva neanche se il messaggio fosse stato definitivamente inviato.
Sulla soglia comparve la figura austera del biondo. Gin.
La sigaretta che aveva fra le labbra sembrava aver fatto il suo corso nei polmoni di quell’uomo, tanto che lui la afferrò e la gettò al suolo, spegnendola definitivamente con la suola della scarpa.
Shiho aveva ancora un groppo alla gola che la opprimeva e la sensazione che la faceva rabbrividire, era probabilmente la stessa che prova un ladro colto in flagrante.
“Sono esattamente cinque minuti che armeggi in maniera sospetta.” Borbottò lui mentre aveva cominciato ad avanzare di qualche passo. Portò nuovamente le mani nelle tasche del suo lungo impermeabile scuro e Shiho non mancò di notare quel suo gesto; ogni qualvolta passava all’offensiva, quel movimento presagiva qualcosa che a lei non faceva piacere.
“Ti danno anche la ciotola con i croccantini o ti limiti ad abbaiare e sbavare?”
La risata sommessa di Gin proruppe nell’insolito silenzio creatosi fra i due. “Hai poco da scherzare, Sherry. Ti sto osservando da giorni.”
La ragazza deglutì, il suo sguardo scese lungo il corpo dell’uomo, che avanzava verso di lei. La sua camminata era lenta e flemmatica, controllata. Misurata.
“Non hai proprio nulla da fare.” Commentò Shiho, sprezzante. Era troppo vicino, avrebbe voluto scappare ma la distanza fra loro si accorciava sempre di più.
“Non ho specificato per quanto tempo.” Gin abbandonò l’atteggiamento ironico, quella risata dovuta alle sue provocazioni aveva lasciato il posto ad un’espressione seria e minacciosa. I suoi occhi verdognoli esaminavano il corpicino di Shiho. “Perché scappi? Hai paura?” Sussurrò, poi trasse un leggerissimo sospiro. “Allora, cara. Che stavi facendo?”
“Stavo lavorando.” Shiho si impettì, tentò in qualsiasi modo di non far trapelare la paura che se la stava divorando dall’interno.
“Sei sicura?” Il suo tono concitato, il suo sguardo invadente ed il flessuoso agitarsi dei suoi capelli, le fecero dimenticare completamente la dislocazione dei mobili del laboratorio. In breve, infatti, si ritrovò contro uno di essi. Premette la schiena contro il bordo e ebbe la sensazione di essere realmente in trappola, fra le fauci di quel mastino.
Gin le arrivò di fronte, la sua stazza era decisamente più imponente rispetto a quella della ragazza, che oltretutto, era magra per costituzione.
La scienziata non sapeva come sbrigliarsi dalla rete in cui era caduta accidentalmente, lui era così vicino, gli occhi di Gin non accennavano a staccarsi dal suo viso.
Doveva fare una pazzia, forse avrebbe funzionato. Forse no. Era una follia. Un azzardo che non si sarebbe perdonata.
Istintivamente Shiho gli afferrò i lembi dell’impermeabile e incrociò il suo sguardo. Impassibile.
“Mi sento così sola, Gin.” Le sue mani si strinsero a quel tessuto morbido, tremava. Da una parte, era vero. Si sentiva abbandonata.
L’uomo si inumidì le labbra ma rimase in silenzio.
L’atmosfera era così pesante e rarefatta che gravava su di lei come un macigno. Stava facendo la figura dell’idiota.
“Mi hai sentito?” Balbettò ancora.
Lui esitava, non parlava. Quando inspirò venne pervasa dal suo profumo di uomo. Shiho stava sostenendo il suo sguardo da una decina di secondi ormai. A quel punto lo vide avvicinarsi e sfilarsi una mano dalla tasca, in un gesto lento gliela appoggiò sulla guancia.
Poi piegò il capo e si avvicinò all’orecchio di Shiho, il cui corpo venne premuto ancora di più contro il mobile.
Un lungo sospiro. La ragazza percepì il calore del fiato sul collo.
“So riconoscere le tue malefatte da adolescente innamorata, non hai bisogno di spingerti a tanto.” Le parole sussurrate del biondo raggiunsero le orecchie della piccola e lei non poté far altro che socchiudere gli occhi e sperare che quel momento finisse.
“So che mi stai nascondendo qualcosa.” Quelle labbra le sfioravano l’orecchio, lei trattenne il respiro, immobilizzata. “E non mi piace affatto.”
Il contatto finalmente si concluse, Gin si allontanò con nonchalance e Shiho avvertì chiaramente la scia di fumo che si era lasciato alle spalle.
Che stupida. Pensare di dissuaderlo con quei mezzucci. Voleva piangere e quell’uomo le faceva schifo.
Quando spinse la maniglia per uscire, lo sentì pronunciare un’altra frase, una di quelle ad effetto, una di quelle che ti lasciano pietrificato.
“E’ solo questione di tempo.”
Poi la stanza piombò nuovamente in un abisso silenzioso, i passi che si allontanavano si fecero sempre più lontani.
L’orologio non aveva cessato di scandire il tempo.
 
 

Conan correva, la meta indicata nella mail era vicina; svoltato l’angolo, i suoi occhi si spalancarono vistosamente: perché Shiho l’aveva condotto lì?
Era sicuro che si trattasse di lei, anche se quel messaggio era firmato con un nome falso. Ma si trattava dello stesso nome che la ragazza aveva registrato alla reception dell’albergo. Era un chiara richiesta di aiuto.
Aveva la certezza del coinvolgimento di Ai in quella faccenda e non poteva perdere tempo.
Ma perché allora, si ritrovava di fronte al mostruoso complesso di un semplice centro commerciale?





 





Eh già, perché Tonnan si trova lì?! u.u 
Eccomi finalmente, dopo tanto tempo. E' che questa settimana è stata piuttosto pienotta ed inoltre ha nevicato il finesettimana e non potevo non uscire con tutta la città piena di neve *-* Che incanto!!! :) 
Per il resto, finalmente eccomi qui, col nuovo chappy. 
Vorrei ringraziare come sempre tutti coloro che commentano e recensiscono *_* Mi rendete immensamente felice >.< Mando un grande bacione a Iman, Alice (che mi sopporta tutti i giorni con questa ff e con le mie sclerate su di essa), poi Lisa se riuscirà a leggere (prima o poi dovrai farlo eh u.u) e la mojuzza se leggerà :) <3
Poi passiamo agli amici virtuali qui su EFP :)
Ringrazio caldamente coloro che la seguono *_* Cioè:
Bankotsu90, ChibyRoby, chicc, I_Am_She, Kuroshiro, Layla Serizawa, Red Fox, Spencer Tita, Violetta, _Flami_
:) Poi ancora chi ce l'ha fra le preferite:
A_M_B, chiyo, Imangaka, I_Am_She, Shinku Rozen Maiden, Yume98 (troppo carina a metterla fra le preferite <3), _Flami_ (spero faccia una coltre di neve che non finisce mai, così non vai a scuola neanche tu ahaha XD)
Infine ringrazio particolarmente chicc che mi ha inserita negli autori preferiti :) 
Spero che continuerete a leggere fino alla fine questo mio delirio mentale XD

Un bacione a tutti *_* 
<3<3<3 
Grazie, anche solo se leggerete :)

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Sed fieri sentio et excrucior. ***


"Per quanto io fossi preda di un profondo dualismo, le due nature in me coesistevano in perfetta buona fede, ed ero ugualmente me stesso sia quando, sciolto ogni freno, ero immerso nella vergogna, sia quando mi affaticavo a lavorare per il progresso della scienza o per dare sollievo al dolore e alla sofferenza. Vidi che, se potevo a ragione considerarmi l'uno e l'altro dei due esseri che lottavano nella mia coscienza, ciò si doveva al fatto che
io ero radicalmente ambedue."


(The strange case of dr Jekyll and mr. Hyde - Stevenson)


 






Gin era in piedi di fronte ad una scrivania metallica e con estrema lentezza ruotava il tappo di una elegante bottiglia ricolma di un liquore ramato, forse Rum. I suoi occhi oltrepassavano la sottile lamina in vetro che separava la stanza in due zone: in quella adiacente , nel bel mezzo della sala vi era un grande tavolo e due siede poste l’una di fronte l’altra. Una era vuota, sull’altra invece era seduta Shiho Miyano, la quale mal celava il suo nervosismo; si torceva le mani convulsamente e di tanto in tanto lanciava lunghi sospiri.
Il biondo dall’impermeabile scuro poteva vederla, lei invece, non si sarebbe neanche lontanamente accorta della sua presenza. Sicuro di ciò, non le staccò gli occhi di dosso: avvicinò con la mano il bicchiere e se lo riempì di alcol, poi, senza distogliere il suo sguardo indagatore, cominciò a far roteare quel liquido, a giocherellarvi.
 

“Shiho Miyano.” La voce di un uomo dagli abiti di classe tuonò alle spalle della ragazza. Lei non rispose, si limitò a volgere il capo per seguirlo, fin quando poi, non si sedette. Erano dunque, faccia a faccia.
L’uomo fece scivolare un foglio sul banco che li separava e vedendola titubare, la esortò a vedere di cosa si trattasse, cosa vi fosse scritto. A quel punto, lei fu costretta a seguire il suo “consiglio”. Raggelò.
 

Nella piccola sala, Gin si godeva quello spettacolo, le sue labbra incontrarono il freddo vetro del bicchiere e un sorso di quel liquore gli infiammò la gola. Si sentiva soddisfatto, provò un piacere perverso, malato, nel vedere il viso di Shiho impallidire. Quella ragazzina sarebbe presto impazzita, era più di una settimana ormai che non vedeva la luce del sole, non aveva rapporti umani: l’unico incontro che aveva avuto, era stato quello verificatosi il giorno prima. Con lui.
Vuotò il bicchiere in un paio di sorsi e dopodiché lo appoggiò sulla scrivania, poi si avvicinò ulteriormente al vetro, con le mani nelle tasche.
Qualche istante più tardi, però, quell’idillio macabro fu interrotto dalla porta che si aprì alla sua destra. Non si volse neanche a guardare chi fosse, come se nulla potesse interessarlo più di quella biondina che si mordicchiava le labbra, agitata. E gli interessava ancor meno, poiché dal rumore dei tacchi, comprese immediatamente che si trattava di Vermouth.
“Pare che il nostro Gin sia in fibrillazione da quando quella sgualdrina è qui dentro.” Il tono della donna era mellifluo, ma allo stesso tempo, saturo di sarcasmo.
“Sgualdrina?” Preferì accendersi una sigaretta piuttosto che rischiare di strozzare quella bisbetica. “Credo che tu debba rivalutare la tua condizione prima di poter utilizzare questi termini.”
La sua risata irritante riecheggiò nella piccola stanzetta, poi Vermouth raggiunse la scrivania e vi si appoggiò: ora teneva le gambe accavallate. Nonostante ciò, non risultava aggraziata, ma estremamente provocante. “Non è che per caso ti sei innamorato, Gin? Sarebbe un bel problema, qualora dovesse arrivare l’ordine di ucciderla.”
“Fai silenzio, Vermouth. Parli senza cognizione di causa.” Gin si ritrovò a mordere lievemente il filtro della sigaretta, i suoi occhi non si perdevano neanche il gesto più impercettibile di quella ragazza seduta a pochi metri da lui, ignara della sua presenza.
“Ah si? Potresti anche spiegarmi il motivo del tuo attaccamento allora. Ti comporti come se fossi un adolescente in preda alla sua prima cotta.” La donna abbandonò il suo sarcasmo e con esso il tentativo di parlare decentemente con quell’uomo. Avanzò verso di lui fino ad affiancarlo.
 “Guarda qui. La tua Sherry sembra essere piuttosto ingenua.”
A quel punto il biondo fu costretto a distruggere quella visione afrodisiaca e a dar retta al solito disturbatore di turno: strappò con un gesto il foglio che Vermouth teneva tra le mani e diede una rapida letta alle poche righe che vi erano impresse con dell’inchiostro da stampante.
I suoi sospetti non erano infondati, Shiho Miyano aveva inviato una mail a quell’imbecille del detective occhialuto e nel messaggio aveva semplicemente riportato l’indirizzo del vecchio centro dove aveva lavorato tanti anni fa. D’altronde non poteva sapere che la sede dell’Organizzazione era stata trasferita da un pezzo.
Che sciocca. Gin non poté trattenere una risata. “Povera illusa. Se spera di poter trovare un conforto in quel marmocchio ha sbagliato di grosso. Mi spiace per lei.”
Vermouth sospirò amaramente e si riprese il foglio. “Il Boss ha dato l’ordine di tenerla sott’occhio in maniera più assidua. Dice che ci serve ancora e che probabilmente tu sei l’unico in grado di estorcerle delle informazioni che potrebbero esserci utili.”
“Che tipo di informazioni?” Finalmente Gin guardò il viso di Vermouth, anche se la donna comprese dal suo sguardo che le stava riservando soltanto scarsa considerazione e superficialità.
“Scoprilo.” La donna sembrò quasi ordinarglielo, poi con passo svelto raggiunse nuovamente la porta, in procinto di uscire. “Intanto abbiamo l’indirizzo a cui è stata spedita la mail, i nostri hackers risaliranno presto alla posizione del computer e solo allora potremmo provvedere ad eliminare la causa dei nostri sospetti. Nessuno deve sapere dell’Organizzazione.”
Gin diede una lunga tirata alla sigaretta, assaporando e godendosi i frutti di quel suo vizio.
“Me ne occupo io. Ora lasciami solo.”
Quei due si lanciarono un ultimo sguardo, e lui percepì chiaramente il rancore che quella donna nutriva nei suoi confronti.
Il rumore dei tacchi nel corridoio era rapido, febbrile: ora che Shiho era ritornata a far parte del loro ambiente, Vermouth si sentiva come trascurata, il suo stereotipo di Donna Fatale andava a farsi benedire.
Il biondo ripensò a quanto Shiho fosse stata stupida ad esporsi così.
Stava perdendo colpi.
 E lui sapeva anche perché. Lo temeva, aveva paura, anche se tentava di mascherare dietro una coltre di ghiaccio quella sua debolezza.
Nei recessi del suo cuore, quella ragazza moriva di terrore ogni qualvolta incrociava i suoi occhi di assassino.



Conan aveva preso un buco nell’acqua.
Non c’era nulla di anomalo in quel centro commerciale e non capiva quale legame potesse esserci fra Ai e quel luogo. Probabilmente nessuno. Al di là delle sue innumerevoli congetture sconnesse comprese che Shiho tentava di mettersi in contatto con lui e sperava con tutto il cuore che quell’azzardo non le fosse costato eccessivamente.
Quando fu di ritorno a casa, il piccolo raggiunse lo studio del Dottor Agasa e gli spiegò di come quella spedizione non avesse fruttato i risultati sperati. In meno di mezz’ora però, i due si misero a lavoro per risalire all’esatta ubicazione del computer da cui era stata inviata la mail.
I due fissavano il monitor con ansia crescente. Nulla.
Conan si portò entrambe le mani fra i capelli. “Sono stato un idiota. Avrei dovuto capire che Ai aveva bisogno di aiuto. Aveva bisogno di me.” Non poteva fare a meno di ricordare l’immagine che gli si stagliava di fronte come il fotogramma di un vecchio film, di quegli occhietti ricolmi di lacrime e di quelle parole sottaciute al parco, quelle del loro ultimo incontro, prima che Ai scomparisse; non voleva essere egoista, non avrebbe voluto travisare le frasi di Haibara, eppure più ci pensava, più si convinceva del fatto che provasse qualcosa di più della semplice amicizia. Forse il loro legame si era trasmutato per lei in un tenero amore.
Agasa gli scompigliò i capelli con un sorriso rammaricato. “Shinichi, non devi sentirti in colpa. Dobbiamo soltanto impegnarci per ritrovarla, quando finalmente vi rivedrete le potrai fare le tue scuse.”
“E se non ci sarà il momento delle scuse? E se …” Conan deglutì a fatica, mandò giù aria, più che saliva. “Morisse?” Sibilò.
Il vecchio Agasa scosse il capo. “Non dirlo. Non dirlo neanche per scherzo.”
Eppure quelle parole non lo rincuorarono affatto. Continuarono ad armeggiare col computer per molto tempo, trascorsero alcune ore e i due proseguirono le loro ricerche fino a notte inoltrata. Forse era giunto il momento di coinvolgere anche l’FBI in quella brutta storia. Più andava avanti, più la trama degli eventi si complicava, si infittiva fino a diventare un groviglio inestricabile.
Il Detective cominciava a sentire le palpebre pesanti e gli occhi bruciargli. Mandò un messaggio a Ran dal cellulare del Dottor Agasa per avvertirla che si sarebbe trattenuto lì a dormire e le diede la buonanotte. Dio, quanto avrebbe voluto scriverle che era preoccupato, che era uno stupido, che non poteva far a meno di pensare a quegli uomini in nero, all’APTX, a quanto erano belli i suoi occhioni blu, a quanto l’amava.
Appena si coricò e si tirò le lenzuola fino al naso, la sua mente non poteva far a meno di vagare. Chissà perché la notte ricreava nel cervello delle persone i pensieri più terribili, faceva emergere i dubbi più atavici e i timori più reconditi. Si addormentò con un’immagine ambigua impressa al di là delle sue pupille cerulee. No, non sarebbe mai potuta accadere una cosa simile.
 

 
Shiho si sentiva terribilmente oppressa ed osservata ora che quel bestione di Vodka la sorvegliava continuamente: da quando avevano scoperto della mail non avevano soltanto distrutto il computer portatile, ma avevano anche aumentato drasticamente i controlli. La ragazza non poteva far a meno di guardarlo di tanto in tanto e la inquietava la sensazione di non poter intravedere neanche lontanamente gli occhi di quell’uomo, perennemente celati dalle lenti scure dei suoi occhiali vintage.
“Ti è stato dato l’ordine di seguirmi anche nel bagno? O posso avere la speranza di andare da sola?”
Vodka sorrise a mezza bocca: era appoggiato al muro con le mani congiunte dietro la schiena. “Non mi permetterei mai di spiare una signorina.”
Shiho si avvicinò al microscopio e dopo aver controllato la lente cominciò a preparare un vetrino: le sue dita si muovevano sapientemente e oculatamente.
“Allora sei davvero un galantuomo, non come il tuo amichetto.” Borbottò lei.
“Qualcosa mi dice che la cosa non ti dispiacerebbe.”
Shiho si irrigidì. “Che vuoi dire, scusa?”
“Niente, lascia perdere.” Quel gorilla rise divertito.
“Non so che razza di pensieri vi siete messi in testa entrambi, ma io con voi non voglio avere nulla a che fare.”
“Lo sappiamo bene tutti e due che invece la nostra compagnia ti piace. Pensaci bene, sono quasi due settimane che sei qui dentro e nessuno si è ancora fatto vivo, nessuno ti cerca. E tu hai rischiato persino di farti ammazzare pur di cercare aiuto.”
Shiho deglutì, infilò delicatamente il vetrino negli appositi gancetti del microscopio. Due settimane? Dio, era passato così tanto tempo e … Nessuno si era preoccupato di lei. Non rispose, d’altronde Vodka voleva soltanto punzecchiarla e lei non avrebbe ceduto alle idiozie di quell’esaltato.
“Allora? Il gatto ti ha mangiato la lingua? O forse sto semplicemente dicendo la verità?”
“Sta’ zitto, Vodka. Devo lavorare, mi deconcentri con i tuoi stupidi discorsi.” Stava regolando la rotellina per la messa a fuoco, quando d’un tratto sentì il corpo di qualcuno alle sue spalle, due mani forti stringerle la vita.
“Se non ti piacciono gli stupidi discorsi di Vodka, magari preferisci i miei.” La voce proveniva sottilmente dalle labbra del biondo. Bassa e roca. Shiho ritirò le mani e strinse i denti.
“Lasciami Gin.” Disse lei in maniera fredda e disarmante.
“Rilassati, cara. Vodka ha ragione.” Le sue mani risalirono piano sul corpo della ragazza. “Non hai nessuno, ad eccezione di quel marmocchio che ora avrà già gettato la spugna e si starà beando della presenza di Ran. Dico bene, si chiama Ran?”
Lo sguardo di Shiho analizzava tutti gli oggetti che stavano sparsi sul mobile di fronte a lei, nel vano tentativo di non riflettere su quel che Gin le stesse sussurrando alle spalle. Perché non la lasciava?
“Si. Proprio così. Complimenti per la brillante memoria. Lasciami ora. Lasciami o urlo.” Continuò poi.
Sentì le mani di Gin scostarsi da lei ed in quel preciso istante un vuoto formarsi presso la bocca dello stomaco.
“Continua a lavorare e fa’ la brava, Sherry. Non ti risparmierò una seconda volta.” Disse Gin col consueto tono tagliente, dopodiché si avvicinò a Vodka.
Era sempre fra i piedi, maledizione.
“Fatti dare il cambio e vieni ad aiutarmi, la rampa del garage è piena di ghiaccio. Ho bisogno della mia Porsche stanotte.”
“Nevica ancora?” Controbatté l’altro.
“Si, ha ripreso e pare che non voglia smettere.”
Shiho li sentiva discutere.
La neve! Adorava la neve, erano mesi che non la vedeva e avrebbe voluto tanto osservare ancora quei fiocchi che lentamente, cadevano da un cielo scuro. Voleva nuovamente provare la magia del Natale, ma soprattutto, dell’affetto di qualcuno.
“D’accordo Capo, ti raggiungo fuori fra un paio di minuti.”
“Muoviti.”
La ragazza osserva ancora quel vetrino attraverso la lente del suo microscopio e quando sentì il tonfo sordo della porta chiudersi dietro di lei, la stanza sprofondò nel silenzio più profondo. Inevitabilmente si mise a rimuginare sulle parole di Vodka, poi su quelle del suo fedele ‘Capo’. Perché Shinichi non la andava a liberare dalle fauci di quegli assassini? Perché soltanto per Ran si prodigava così tanto? Se fosse successo una cosa simile a quella ragazza, Conan non avrebbe esitato un solo istante a mettere sottosopra mezza città, pur di trovarla.
La rabbia si impadronì del suo corpicino, già scosso da innumerevoli brividi. Portò una mano al microscopio e la strinse: aveva il brutto vizio di tenersi tutto dentro, non avrebbe mai gettato all’aria qualcosa pur di sfogarsi. Tutto si ripercuoteva dentro di lei. L’odio cresceva, eppure quell’eccesso d’ira svanì presto, quando finalmente anche il suo respiro affannoso si andava regolarizzando. L’agitazione scomparve per lasciar spazio al senso di colpa.
Voleva sprofondare.
Ripensò a Gin, le sembrava di sentire ancora quelle mani che la stringevano. Comprese solo allora di quanto quel tocco sgraziato le facesse effetto.
Era sbagliato.
 
 
 
Quella sera stessa Conan era di ritorno a casa di Ran, una coltre di neve alta una cinquantina di centimetri aveva ricoperto le strade, i tetti delle case, i rami degli alberi: quella soffice nuvola bianca che si adagiava al suolo sembrava creare un ambiente stranamente silenzioso, insolito: sentiva solo il rumore delle sue scarpe da ginnastica che affondavano ad ogni passo.
Era triste e decisamente preoccupato poiché non avevano concluso un bel niente a casa del Dottor Agasa. Probabilmente i membri dell’Organizzazione si erano mobilitati affinché le prove delle loro malefatte sparissero. E a quanto pare stavano riuscendo nel loro intento.
Era quasi arrivato, avrebbe dovuto semplicemente citofonare. Chissà se Ran dormiva oppure era ancora in ansia per suo padre che si attardava al solito pub.
 
 
L’uomo respirava silenziosamente, sentiva l’aria fredda entrargli nei polmoni, ad ogni successivo respiro fuoriusciva dalle sue labbra e si condensava in una nuvola rarefatta.
Era inginocchiato sul terrazzo di un edificio non molto alto, teneva imbracciato un fucile di precisione e lo impugnava saldamente, immobile.
‘Un cecchino deve saper preparare il suo tiro, deve sapersi ricreare la situazione ottimale per far schizzare la sua pallottola d’argento dritta nel cranio del suo obiettivo.’
In quel silenzio surreale poté percepire il vento che gli agitava i lunghi capelli dorati: strizzava un occhio, con l’altro teneva sotto tiro quel piccoletto che avanzava.  Grazie a quella pasticca di tranquillanti aveva eliminato completamente il tremolio delle mani, attraverso il crocicchio del mirino lo vide fermarsi.
Fortunatamente non nevicava.
Non avrebbe sbagliato.
Tirò un sospiro e trattenne il fiato, il fucile era fermo: l’indice spinse dolcemente il grilletto e si sentì uno sparo riecheggiare nell’aria gelida.
Quel fragore fu talmente forte che gli allarmi dei negozi presero a suonare. 
Gin comprese che era giunto il momento di abbandonare la sua postazione, così rientrò nel palazzo e scese rapidamente le scale nella semioscurità, tenendo saldamente imbracciato il fucile contro di sé.
L’atrio era quasi completamente buio, si sentiva lo scalpiccio delle sue scarpe, poi udì delle voci di donna provenire dall’esterno: furiose, petulanti. Potevano appartenere soltanto ad una ragazza. Shiho. Quando infatti egli aprì la porta che dava sul retro, scorse di fronte alla Porsche parcheggiata vicino al marciapiede, il suo partner Vodka che teneva Shiho per entrambe le braccia e le impediva di dimenarsi come un’ossessa.
“Assassino! Perché? Perché l’hai fatto?!” I loro sguardi si incrociarono, Gin scorse i suoi occhietti lucidi e ricolmi di lacrime, che cercava in ogni modo di trattenere.
“Vodka, perché l’hai portata qui?” Il biondo non le diede retta, prese a fissare quella bestia di uomo con fare ammonitore.
“Capo, non capisci! Era nella tua Porsche, non so come diavolo abbia fatto ad entrare! E sta’ ferma!” Le diede uno strattone talmente forte che lei fu costretta a placarsi.
“Allora, l’abbiamo beccato, insomma?”
Gin non rispose, si limitò ad avvicinarsi ai due, poi in un gesto fulmineo afferrò il visetto della ragazza e la costrinse a guardarlo. “Che volevi fare?”
Shiho inspirò l’aria ghiacciata e tremò per il freddo: aveva soltanto un maglioncino e una gonna, le gambe avevano preso a tremarle vistosamente.
“Sei un assassino, uno sporco assassino.” Disse con voce flebile, addolorata. Non si trattenne dal mandarlo a quel paese.
“Entra in macchina, cammina. Non vorrai farti arrestare da un branco di smidollati.”
Così, Vodka e Gin misero in moto. Il biondo si era seduto sui sedili posteriori al fianco della ragazza, per monitorare la situazione, ma anche per controllare che non facesse stupidaggini.
Shiho aveva il capo appoggiato contro il finestrino, ne percepiva la superficie fredda: attraverso quel vetro osservava il paesaggio notturno che mutava rapidamente, le luci dei lampioni che si susseguivano veloci, gli edifici della città ricoperti da soffice ovatta bianca.
Shinichi era morto?
Stava sperimentando ancora quella sgradevole sensazione che si prova quando si cerca di trattenere le lacrime a lungo: un nodo le opprimeva la gola.
Ci si era messo anche quel mostro, che aveva acceso l’ennesima sigaretta.
“Potresti evitare di fumare in auto? Almeno questo.” Sussurrò lei, con voce arida e roca.
“Potresti evitare di rompere le scatole?” Il fumo le inondò il viso, al che lei ebbe un paio di colpi di tosse. Dal tono di Gin traspariva del lieve nervosismo e le sue dita tremavano ancora per via dell’adrenalina: aveva bisogno di tranquillizzarsi in qualche modo. Per tutto il tragitto nessuno fiatò, il viaggio si svolse in un religioso silenzioso che ebbe un retrogusto a dir poco sepolcrale. Vodka parcheggiò l’auto nel garage sotterraneo e spense il motore.
“Lasciaci soli.” Proferì secco, Gin.
“D’accordo, Capo.” Vodka uscì dall’auto senza troppi convenevoli: quel biondo era strano. Forse qualcosa era andato storto?
Qualche secondo più tardi i due rimasero soli, Shiho colse la tensione dell’atmosfera che si era impadronita di loro come un sottile manto adagiatosi sulle due figure.
“L’ho mancato.” Proferì lui con tono distaccato. Shiho distese le sue labbra in un sospiro di sollievo, ma non accennò a rispondere. Quindi Conan era vivo? L’aveva mancato? Ma in che senso? Forse non l’aveva colpito perfettamente in un punto vitale. Si sentì sollevata.
La ragazza comunque non si mosse, eppure lo vide con la coda dell’occhio. Aveva preso a fissarla coi suoi occhi verdi, iniettati di sangue. Gli occhi dell’assassino.
‘Cosa vuoi fare? Lasciami andare. Per favore.’ La ragazza serrò le labbra e posò una mano sulla maniglia della portiera, quasi volesse slanciarsi repentina e fuggire. A quel punto sentì la fredda mano di Gin avvolgerle il polso. Prevedibile, pensò Shiho. Era in trappola.
“Dai, lasciami.” Balbettò senza guardarlo.
“Questo tuo atteggiamento così schivo mi manda in bestia. Mi hai stancato.” Proferì lui.
Quando la ragazza si voltò per poterlo osservare, lo vide avvicinarsi: era decisamente spacciata. L’avrebbe uccisa?
“Ti prego Gin, non uccidermi, non uccidere anche me.”
“Stai zitta. Anche se volessi ucciderti, dovrei prima togliermi uno sfizio.”
Lei trasalì, spalancò gli occhi, che spauriti e attoniti scrutavano il volto di quell’uomo.
“Ma che stai dicendo?”
Gin sorrise a mezza bocca e lei rabbrividì ancora. Ma che voleva fare quell’uomo? Sentì le guance avvampare, un calore le infiammò le gote e si appropriò del suo corpo. A quel punto il biondo si protese verso di lei e le sfiorò il collo col viso, la solleticava con alcuni ciuffi di capelli biondi, infatti la sentì tremare.
“Oddio.. Gin, ti prego. Lasciami andare. Ti supplico.” Sollevò lo sguardo al tettuccio dell’auto e sentì le labbra di quell’uomo schiudersi sul suo collo.
Provò un misto di terrore e una sensazione che non seppe comprendere appieno. Mai nessuno prima d’ora, le aveva riservato simili attenzioni e si sentì sprofondare nell’imbarazzo più totale, quando all’ennesimo bacio umido emise un flebile sospiro.
“Basta, basta Gin. Maledizione.” Lei afferrò nuovamente la maniglia della portiera e lo spinse via con forza, così scappò letteralmente verso l’ascensore.
Una volta che fu dentro tirò finalmente un sospiro di sollievo, eppure aveva il fiato corto, il profumo di quell’uomo addosso. Spinse la schiena contro il muro e si lasciò ricadere a terra, accoccolata e stretta, con le braccia che trattenevano le gambe contro il petto. Una lacrima le rigò il viso accaldato.
Le piaceva tutto questo. Le piaceva maledettamente.

 







Ehm ehm. *Si schiarisce la voce*
Finalmente eccoci a questo aggiornamento! (Se continua così dovrò mettere il rating arancione. Ahahahahahah no scherzo).
Allora? u.u Cosa ne dite? La storia sta prendendo decisamente una brutta piega. Comunque la traduzione della frase in latino inserita come titolo del capitolo è presa dal famoso Odi et Amo di Catullo e suona più o meno così "Ma sento che ciò accade, e ne sono tormentato" Ehhhh u.u 
Saluto come sempre tutti coloro che mi seguono *_* e che hanno la storia fra le seguite:
Bankotsu90, ChibiRoby, chicc, I_Am_She, Kuroshiro, Layla Serizawa, Red Fox, Sherry Myano, Violetta_, _Flami_ 
E ancora coloro che l'hanno fra le preferite:
A_M_B, chyo, Imangaka, I_Am_She, Shinku Rozen Maiden, Yume98, _Flami_ 
Ringrazio inoltre Imangaka e _Flami_ per avermi inserita negli scrittori preferiti. Siete troppo buone come sempre, decisamente troppo per una storia che più che una storia è un delirio, uno sprofondare in un abisso tetro e oscuro u.u XDXD
Mi piacerebbe avere un vostro parere ancora una volta :) Grazie a tutti voi, anche solo se leggerete, anche solo se scorrerete queste righe di ringraziamenti, sono tutti per voi! :) <3 Un ultimo saluto infine alla mia mojettina Sylvia, ad Alice, Lisa ed infine a quella pazza psicopatica di Iman che mi segue sempre fedelmente :) Grazie di tutto *_*

<3 Alla prossima amici lettori :)

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Deserto di fuoco. ***


"La trasparenza del suo sguardo aveva la purezza assoluta di Sirio quando brilla lontana nel cielo notturno, o di un Dry Martini preparato a perfezione che attraverso il bicchiere da cocktail emana la sua limpida luce."
(Banana Yoshimoto)






Gin spinse la mano contro la porta metallica e la piccola Shiho poté finalmente uscire: il suo sguardo venne immediatamente colpito dalle innumerevoli luci dei lampioni che si susseguivano sempre più ravvicinate lungo lo stradone. Era fuori da quel laboratorio.
Richiuse dolcemente gli occhi e l’aria gelida le penetrò attraverso le narici, empiendole i polmoni e ritemprandola all’istante. Si accorse di quanto fosse preziosa la libertà, e di quanto determinati gesti potessero cambiare la vita degli uomini.
“Siete davvero premurosi voi dell’Organizzazione. Far sprecare del tempo ad uno dei vostri uomini migliori per vegliare su una povera scienziata stanca.” Shiho si rivolse al biondo, il quale, come di consueto, teneva le mani nelle tasche dell’impermeabile scuro.
“Risparmiami i tuoi commenti sarcastici e cammina.” Fu freddo, ma la ragazza non batté ciglio.
Entrambi presero a camminare fianco a fianco lungo il marciapiede: era buio pesto ormai ed un silenzio quasi surreale era calato sulla cittadina. Le avevano dato la possibilità di poter uscire, anche se ovviamente, sotto stretta sorveglianza di qualcuno dell’Organizzazione. Non avrebbero potuto scegliere persona più inadeguata per quell’incarico.
Shiho evitò con tutte le sue forze di pensare a quel che era successo la sera prima e cercò di incanalare la sua attenzione sui particolari di quella città ormai assopita: le strade deserte, i viottoli bui, i miagolii dei gatti randagi e le lattine che rotolavano sul selciato ad ogni folata di vento. Inevitabilmente però, il suo inconscio volle continuare a sprigionarsi, a tartassarle la mente. Doveva rendersi conto che lui era lì, a qualche centimetro da lei, che ad ogni passo la inebriava di quel profumo da uomo e che batteva regolarmente le suole delle scarpe contro l’asfalto. Era una tortura.
Dopo una manciata di minuti quella sensazione opprimente poté abbandonarla, poiché entrambi fecero il loro ingresso in un locale della zona. Gin l’aveva portata ad un pub? Rise.
“Ci porti le tue bamboline in questo localaccio? Io sono una ragazza raffinata, ho gusti più elaborati.” Disse Shiho mentre i suoi occhi assorbivano informazioni sul luogo. Nonostante l’ironia non sembrava un brutto locale, c’era poca gente, ma piuttosto allegra. Forse per via dell’alcol. In fondo alla sala vi era il bancone e tutt’intorno numerosi tavolini in legno.
“Scegli un tavolo.” Disse Gin.
Shiho fece spallucce, poi ne indicò uno fra tanti e i due si sedettero. Dio, era così strano, quella circostanza aveva dell’assurdo e nel suo essere paradossale le sembrò quasi ordinaria. Un controsenso.
“Mi hai preso per una grande bevitrice?” Sussurrò la ragazzetta.
“No, è il primo luogo meno dispersivo in cui avrei potuto facilmente tenerti d’occhio.” Le lanciò uno sguardo penetrante, tanto che Shiho dovette subito abbassare la cresta: la situazione stava sfumando in un’atmosfera troppo intima, doveva prendere subito le distanze.
“Quindi è stata una scelta puramente strategica.”
“Indovinato. Sei perspicace, Sherry.” Il suo volto buio si illuminò repentinamente d’un ghigno sottile. Poco dopo un cameriere si avvicinò al loro tavolo e così lei poté evitare di prendersi la briga di rispondere.
“I Signori desiderano?”
Gin si mise comodo e a quel punto distolse lo sguardo dalla biondina. “Ci porti un paio di Cocktail. Deserto di fuoco.” Sottolineò con una strana vena nel tono di voce.
“Subito.”
Appena l’uomo si fu allontanato, Shiho sollevò lo sguardo verso Gin. “Di cosa si tratta? Io non bevo molto, anzi, quasi mai. Non me ne intendo.”
“Un semplice Cocktail. Nulla di troppo pesante per una ragazzina come te.” Beffardo e ironico come non lo era mai stato.
“Va’ al Diavolo, Gin.”
Non proferirono più una parola, lui pareva essersi preso una pausa e se la voleva godere fino in fondo, fumandosi la sua classica ed immancabile sigaretta. Lo osservò mentre la assaporava, ne rubava ogni porzione di catrame e nicotina, i muscoli del suo volto si rilassarono dolcemente. In quell’istante, mentre Gin proseguiva nello sbuffare lentamente del fumo, l’attenzione della piccola venne rapita dall’uomo che aveva appena varcato la soglia dell’entrata.
Kogoro.
Il suo cuore ebbe un sussulto e continuò a seguirlo mentre andava a sedersi al bancone: aveva ordinato un boccale di birra, si guardava intorno con la sua solita aria trasognata e sorseggiava tranquillo.
“Devo andare in bagno.” Proferì lei risolutamente. Si sollevò in piedi.
“Sbrigati.” Controbatté Gin con noncuranza: non l’aveva neanche degnata di uno sguardo, così la ragazza non aggiunse altro. Si diresse velocemente alla toilette, facendosi largo fra la gente che andava e veniva nella sua stessa direzione. Shiho si richiuse finalmente la porta alle spalle e prese a frugare nella sua borsetta: ne trasse un blocchetto di post it e se lo mise fra i denti, nella speranza di trovarvi anche una penna. Le sue dita di destreggiarono abilmente fra i vari oggetti che teneva lì dentro, poi ne sfilò finalmente una matita. Col foglietto appoggiato contro il muro prese a scrivere velocemente un appunto. Ci impiegò cinque minuti scarsi, dopodiché uscì nuovamente. Qualche attimo più tardi, Kogoro si sarebbe ritrovato un foglietto giallognolo apparso misteriosamente proprio di fronte ai suoi occhi.

‘Al piccolo Conan:
Ci vediamo domani alle undici presso il pub sulla statale.
-S.M-.’

La ragazza dunque tornò in compagnia di quel killer. Sul tavolo troneggiavano due bicchieri eleganti, dal collo sottile e longilineo, la cui coppa ospitava un liquore rossastro. Dopo essersi seduta ella notò che Gin non aveva bevuto e probabilmente la stava semplicemente aspettando.
“Ce ne hai messo di tempo.” Borbottò lui, separatosi finalmente dalla sua sigaretta.
“Soltanto il tempo necessario.” Disse Shiho, poi prese quel calice e bevve un lungo sorso.
“Vacci piano, tesoro. Non vorrai rischiare di ubriacarti.” Sussurrò Gin con voce suadente, tenendola ferma nel suo campo visivo: sorrise.
Lei continuò a bere quel nettare dal proprio calice in vetro, poi si inumidì le labbra.
“Buono.”
Egli invece se lo scolò praticamente in un solo, avido sorso.
“Ci credo.” Piantò i suoi occhi verdi in quelli tenui e trasparenti di Shiho. “Tre quarti di Gin, e il restante quarto di Sherry.” Disse, accompagnandosi con un ennesimo sorriso enigmatico,  stavolta sospeso fra un ghigno ed una risata.
Shiho sentì che la sua gola cominciava a bruciarle. Abbassò lo sguardo e strinse i denti con violenza.
 
 
 

Il giorno seguente lei pretese nuovamente di uscire: aveva dato una sorta di appuntamento al piccolo Detective con gli occhiali e sperava vivamente che Gin non l’avesse vista mentre aveva fatto scivolare quel biglietto lungo la spalla di Kogoro.
Alle dieci e mezza Shiho era lì, ma in compagnia di Vodka. Decisamente più leggera come presenza, perlomeno non avrebbe dovuto sorbirsi la tensione e l’ansia che le procurava invece, il biondo.
L’omone la seguiva mentre andava a sedersi presso lo stesso tavolo dell’altra volta e con lo sguardo risalì rapidamente dal basso verso l’alto, analizzando meticolosamente il suo corpo, magro e sottile: indossava una gonna di jeans e un maglione nero a collo alto, che aderiva perfettamente alle sue curve delicate, un paio di collant scuri le velavano le gambe e degli stivaletti neri contribuivano a slanciare la sua figura.
Era deliziosa, bella. Era una piccola donnina. Comprese immediatamente perché Gin sembrava essere così ossessionato da quella creatura.
“Ne hai ancora per molto?” Chiese lei con fare piuttosto indispettito, oltre che decisamente infastidito da quello sguardo invadente.
Vodka rise fra sé. “Che c’è? Gin può guardarti e io no?”
“Caspita, che frecciatina.” Shiho sbuffò, si rassegnò a passare il resto della serata con gli occhi di quella guardia del corpo piantati su di lei. Era convinta che di lì a poco sarebbe arrivato Shinichi.
Ma più il suo sguardo indugiava sulle lancette dell’orologio alla parete, più quella speranza si affievoliva, come la cera di una candela che pian piano si consuma, lasciandoti in balia dell’oscurità. La fiammella stava quasi per privarsi del suo bagliore, quando un’inaspettata ed improvvisa folata di vento non la ravvivò.
Il piccoletto dagli occhi azzurri era a pochi passi da loro, lo vide azionare il dispositivo dell’orologio che teneva sempre al polso e un ago narcotizzante schizzò dalla sua posizione, si conficcò nel collo di Vodka e lei faticò a trattenere un gemito d’esultanza. Il bestione fu K.O. in una manciata di secondi.
“Conan!” Gli occhi della ragazza brillarono, si alzò di scatto dalla sua sedia e corse incontro al Detective, il quale fu colpito immediatamente dalla ormai evidente differenza d’altezza che li separava. Doveva ammettere che Shiho Miyano era davvero una bellissima ragazza.
“Ai!” Gli venne spontaneo chiamarla col nome con cui l’aveva da sempre conosciuta. “Sono così felice di rivederti e di sapere che stai bene.” Un sorriso gli illuminava il volto e a lei sembrò così strano parlare con un marmocchio di soli sette anni. Si dovette chinare a terra per mantenersi alla sua stessa altezza e una volta che finalmente i loro sguardi furono sulla medesima lunghezza d’onda, lei gli sorrise.
“Shinichi. Ho portato una cosa per te.” Sfilò dalla tasca della gonna una provetta in plastica e poi gliela porse. “Questo è un prototipo dell’antidoto, l’ho trafugato dal laboratorio dell’Organizzazione.” La sua voce giungeva come un sussurro alle orecchie del piccolo, il quale scorse nel profondo dei suoi occhi azzurri uno strano risentimento. “Non devi parlarne con nessuno, la scelta se provarlo o meno sta a te. Ma stando a giudicare dai risultati ottenuti dovrebbe funzionare.” Shiho si mantenne ferma, risoluta e il suo tono esprimeva un certo grado di saggezza. “Mi raccomando.”
A quel punto Shinichi scosse leggermente il capo. “Ma hai intenzione di rimanere con loro? E’ l’occasione giusta che hai per potertene liberare!”
Il viso di Shiho si rabbuiò, Conan intravide un sorriso colmo di sarcasmo delinearsi sulle sue labbra, poi lei rise con amarezza. “Purtroppo non posso. Non ancora.”
“Non fare la stupida.” Borbottò lui con severità; le afferrò un polso e la costrinse a rialzarsi: la voleva trascinare letteralmente fuori dal locale.
“Aspetta, cosa diavolo stai facendo? Conan!” Esclamò divertita, poi si riabbassò nuovamente e in un istante lui le portò una mano dietro la nuca; a quel gesto, la ragazza avvertì un lieve pizzicore ma non vi fece caso.
Il piccolo le schioccò un bacio sulla guancia e Shiho non poté far a meno di notare che le sue gote divennero rosse.
“Ai, fai come ti dico.”
La ragazza non ebbe neanche il tempo per pensare, non ebbe i secondi a sufficienza per potersi rendere conto che presso la porta spalancata del locale sostava la figura imperiosa di Gin, accerchiato da un’altra schiera di uomini vestiti di nero.
Cinque o sei di loro.
A quel punto lei non capì più nulla: Conan le si era avvinghiato ad una gamba e la tirava, le urlava di abbassarsi, urlava il suo nome. Il suo vero nome. Shiho, Shiho. Shiho!
“Fate fuoco contro gli uomini in nero!” Un poliziotto in borghese scattò dal tavolo in fondo, la sua voce tuonò seccamente e a quel segnale altri agenti estrassero le loro armi e le puntarono contro quei loschi individui: tutti si ritrovarono in una situazione di stallo, Gin teneva il braccio teso e la Glock puntata verso uno dei loro ‘nemici’. Conan e Shiho si ritrovarono nel bel mezzo della sala, fra i due fronti che si tenevano sotto tiro con le loro armi cariche, pronti a sparare i loro proiettili infernali.
La ragazza trasalì, sentì la presa del Detective farsi più salda.
“Sherry, mi complimento con te. Hai tradito la mia fiducia.” Sembrava che a quello psicopatico non importasse un bel niente delle pistole puntate dritte alle sue cervella; non aveva occhi che per la sua Sherry.
“Che diavolo vuoi, non stavo facendo nulla di male. Tornerò con voi, posate quelle armi e nessuno si farà male.” Proferì, poi il suo sguardo ritemprato e ricolmo di ravvivato coraggio si posò negli occhi di qualsiasi uomo che impugnasse un’arma. “Posate le pistole, ve ne prego.”
Quel silenzio immediatamente successivo alle sue parole fu subito spezzato dalla fragorosa risata del biondo.
“Che scena patetica. Cali il sipario.” Aggiunse. Le pistole di quegli uomini, compresa quella di Gin, cominciarono a far fuoco. Conan deglutì, uno dei poliziotti in borghese lo strappò letteralmente dalla ragazza e lo sollevò da terra. Il piccolo si dimenava, urlando affinché lo lasciassero. Ma fu tutto inutile.
Una scarica di proiettili trapassò l’aria con violenza inaudita, la gente si rifugiò sotto ai tavoli in legno, dai quali schizzavano miliardi di schegge.
Urla, spari, fumo: al di là del bancone le bottiglie sparse sui vari ripiani implosero e riversarono tutto il loro contenuto a terra.
Shiho urlava il nome di Conan, questi faceva altrettanto. Qualche minuto più tardi non lo sentì più. Doveva rifugiarsi da qualche parte: i proiettili vaganti sibilavano accanto a lei, tanto che fu costretta momentaneamente ad abbassarsi.
Strinse le mani fra i capelli, terrorizzata. Tremava. L’odore della cordite le penetrava nelle narici con prepotenza.
‘Perché? Perché deve succedere tutto questo a me? Ne ho passate già abbastanza, perché?’ Pensava confusamente, lunghi brividi la scuotevano visibilmente ad ogni sparo.
Gin si era accovacciato dietro ad un tavolo, sfilò dalla tasca del suo giaccone una manciata di proiettili e li inserì velocemente nel meccanismo di carica dell’arma: le sue pupille si erano ristrette notevolmente e alla stregua di un predatore non faceva altro che osservare la scena intorno a lui. I corpi inermi e ormai priva di vita giacevano a terra nelle posizioni più disparate, c’era sangue dappertutto, i molteplici involucri di proiettili rilucevano d’oro e brillavano a terra, contrastando col legno del pavimento.
Alcuni agenti in borghese stavano ancora lottando strenuamente per riprendersi il vantaggio su quegli uomini in nero, che al contrario, parevano delle belve feroci, dei tiratori eccellenti e degli spietati assassini capaci di compiere dei simili omicidi senza batter ciglio.
In mezzo a quel teatro di polvere da sparo e morte, Shiho racimolò le forze per potersi rialzare nuovamente, in cerca di un riparo che le assicurasse di affrontare indenne quella folle sparatoria. Corse con la rapidità del fulmine presso il bancone del locale, lo scavalcò con uno scatto agile, felino, ma la caduta fu rovinosa, accompagnata da un grido di dolore.
Dolore lancinante.
Appena crollò a terra si ritrovò a brancolare fra pezzi di vetro ed alcol, il suo corpo fu percorso da spasmi irrefrenabili, la ragazza si contorceva come una serpe, arcuava le dita contro il pavimento nel vano tentativo di sopportare quel dolore. Le avevano sparato ad una gamba, sicuramente perdeva sangue, eppure non osò abbassare lo sguardo. Gli occhi le si erano completamente annebbiati e la sofferenza si sovrapponeva a qualsiasi altro sentimento, a qualsiasi altro tipo di percezione, tattile, olfattiva, persino quella uditiva si era tramutata in oblio, confusione, disordine. Non capiva nulla. Era il caos più totale.
Le sue palpebre divennero sempre più pesanti, fin quando non si dischiusero sulle iridi stanche, cerulee.
Silenzio.
 
 

 
“Per quanto tempo hai intenzione di dormire, Sherry?”
La voce di Gin rimbombava nelle orecchie di Shiho, adagiata delicatamente su di un morbido materasso. Aveva ripreso coscienza soltanto parzialmente ma quelle parole la fecero rinsavire completamente. Riaprì gli occhi e anche se la sua vista era appannata per via del risveglio repentino, osservò quel che aveva intorno: era nella stanza di quell’uomo e lui sedeva comodamente ai piedi del letto. La ragazza dovette sollevarsi per potersi render conto di dove l’avesse trascinata e nel preciso istante in cui lo fece, il dolore alla gamba le inondò la mente di flashback frenetici e confusi. Quel bastardo non aveva avuto neanche l’accortezza di disinfettarle la ferita: la sentiva pulsare e così comprese che era già compromessa, probabilmente il processo infettivo era in corso già da qualche ora.
“Perché mi hai portato qui?”
L’impermeabile di Gin era piegato accuratamente sulla sedia affianco alla scrivania, assieme al cappello che troneggiava su quel capo d’abbigliamento da cui non si separava mai: era così strano vedere quell’uomo indossare un semplice maglioncino a collo alto.
Dalla posizione e dalle movenze estenuanti sembrò perfettamente tranquillo, impegnato come al solito a fumarsi l’ennesima sigaretta della giornata.
“Ti avrebbero uccisa.”
“Stai scherzando vero? Non avrebbero potuto farlo.”
“Già, non avrebbero potuto. Ma ormai pende una taglia anche sulla tua testa, tesoro. Sei una dei nostri, sei parte integrante dell’Organizzazione.” Dalle sue narici fuoriuscì lentamente del fumo. Non l’aveva ancora degnata di uno sguardo, pareva che la sua attenzione fosse focalizzata a guardare altrove, un punto indefinito situato fra le mattonelle chiare del pavimento, come se dovesse prendersi del tempo prezioso per poter formulare le sue frasi. Shiho sapeva che Gin non amava particolarmente parlare e disquisire in merito a qualsiasi argomento, eppure con lei ci provava gusto. “E come tale, sei complice di una operazione che trama e cospira al di là dell’apparenza.”
Shiho trasse un sospiro seccato. Allora era quello il motivo per cui dei poliziotti in borghese avevano preparato appositamente un agguato? E Shinichi per quale diavolo di motivo aveva permesso che tutto ciò avvenisse? Perché aveva coinvolto qualcuno al di sopra delle proprie potenzialità esecutive? Lui era un Detective, un Detective testardo ed orgoglioso, non avrebbe permesso che qualcun altro prendesse le redini della sua battaglia.
“Non capisco il motivo di quell’irruzione. Puoi spiegarmelo o vige l’obbligo del silenzio stampa?” Sussurrò lei con sarcasmo, con una voce flebile e stanca. La ferita aveva ripreso a palpitare e lei cercò di non esternare la sofferenza.
Gin sorrise, nonostante cominciasse ad infastidirlo il tono che aveva assunto la sua interlocutrice. “Credi che i tuoi spostamenti siano passati sottotraccia? Io credo che tu non abbia ancora capito con chi hai a che fare.” Le sue labbra si contrassero leggermente quando aspirò dalla sigaretta, poi buttò fuori il fumo e si alzò per andare a spegnere il mozzicone nel posacenere sulla scrivania. 
Shiho sentì che la testa aveva preso a girarle vorticosamente, dovette chiudere nuovamente gli occhietti, poi rilassò finalmente il capo e appoggiò la nuca contro testiera del letto.
“Ho visto che hanno preso Vodka.”
Il biondo non rispose ma poté comprendere che dal rumore dei suoi passi si stava avvicinando nuovamente al letto. La sua voce risuonò più calda e vicina. “Non è un problema.”
“Sei stato tu a salvarmi?”
Gin si sedette al suo fianco, finalmente i suoi occhi cominciarono a scrutare il viso della scienziata bionda. Che incanto, che lineamenti sottili e armonici, che pelle diafana. La sua Sherry era il trofeo più delizioso e divertente che si fosse mai guadagnato.
“Apri gli occhi.” Le ordinò.  “Guardami.”
Shiho volle essere forte, così rivelò all’uomo le sue iridi cariche di odio e rabbia. Ma rimase sorpresa, basita. Negli occhi dell’altro intravide una luce sinistra. Era nuovamente in trappola. A quel punto non riuscì più a sostenere quello sguardo e così fu costretta a volgere il capo altrove. La mano fredda del biondo le si posò sulla spalla, le sue dita scorrevano lente lungo la clavicola, poi aggirarono il collo e si piantarono sulla nuca.
Aveva paura. Aveva paura e sentiva nuovamente quella sgradevole sensazione che le faceva perdere il controllo dei sensi.
“A quanto pare il tuo piccolo amichetto non si fida di te.” Le labbra di quell’uomo le sfioravano la guancia e la solleticavano ad ogni parola, sussurrata con tono divertito e velatamente sadico. Dopodiché, si allontanò quasi bruscamente e le strappò qualcosa dal collo.
Shiho vide coi suoi occhi che teneva fra le dita una microspia.
Il biondo osservò gli occhi di lei spalancarsi e non poté far a meno di ridacchiare.
“Shinichi Kudo, ho avvertito la tua presenza invadente da almeno mezz’ora.”
Shiho deglutì a fatica, gli occhi sprezzanti di Gin si persero lungo le pareti della stanza.
“Ma prima di interrompere questa manifesta violazione della privacy vorrei lasciarti un messaggio.” Incrociò ancora lo sguardo della ragazza. Che situazione folle, sicuramente Shinichi era in ascolto.
“Non fidarti delle donne, le loro ferite divengono cicatrici.”
Egli permise alla microspia di scivolare nel palmo della sua mano, così la richiuse e la ridusse in frantumi. Guardò Shiho con aria complice, un lieve sorriso compiaciuto si era stagliato sulle sue labbra sottili. “Finalmente siamo soli.”










Oh yeah! Finalmente questo sudato aggiornamento è arrivato :) 
E' stata una settimanella piuttosto piena dal punto di vista scolastico e dunque non ho potuto dedicarmi alla scrittura. 
Spero che per la prossima settimana invece, scriverò il nono capitolo, in modo che non vi lascio a bocca asciutta per la prossima ancora! :) Parto per Madrid e dunque non ci sarò, forse per un po' di tempo, anche perché purtroppo mi aspettano le simulazioni d'esame :( Speriamo bene!
Comunque, l'importante per ora è essere qui! Che ne pensate di questo chappy? Penso proprio che lo dedicherò ad Iman per il suo compleanno *_* Auguri ciccia <3 Spero ti sia piaciuto questo capitolozzo! :) 
Poi voglio ringraziare calorosamente la mia mojuzza che mi sta sostenendo in maniera incredibile, ma soprattutto che sta apprezzando questa ff nonostante l'odio dilagante per il giovane occhialuto XD Colgo l'occasione inoltre, per linkarvi la sua storia su Tekken, che a mio parere è mooooolto ben scritta e tratta la storia di un personaggio decisamente figo ed intrigante! Spero che vogliate leggerla, anche perché ne vale la pena, e anche perché io devo sapere come va avanti e voglio che tutti insieme la sproniate!!! >.< Ahahah, vi lascio il link alla fine! Ringrazio come sempre tutti coloro che recensiscono e che mi seguono con tanto affetto *_* siete magnifici, dei lettori così sono più unici che rari :) Eh eh eh :D Quindi grazie infinite! Spero che anche i timidoni prima o poi recensiscano, sono curiosa di sapere il vostro parere, è importante per me!

Ringrazio dunque chi ha la storia fra le seguite: 
Bankotsu90, chicc, Evelyn13, I_Am_She (sei davvero un tesoro ad avermi citata nella tua presentazione!), Kuroshiro, Layla Serizawa, Red Fox, Sherry Myano, tigre, Violetta_, _Flami_ 
Un immenso grazie a coloro che l'hanno inserita nelle preferite:
A_M_B, chyo, Evelyn13, Imangaka, ismile, I_Am_She, Yume98, _Flami_ 

Qui il link della ff della mia Mojuzza :)  ----->     
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=958178&i=1



BYE!!!!!!!!!!!!! :)




Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** L'ombra del Giuramento. ***


"Dentro di noi abbiamo un'Ombra: un tipo molto cattivo, molto povero, che dobbiamo accettare"
 

(Carl Gustav Jung)





Conan era immerso nei suoi pensieri, seduto alla scrivania osservava la fialetta che di tanto in tanto rotolava sul piano ligneo, poi quando raggiungeva il bordo, la sospingeva con un gesto delicato e la “salvava” dalla caduta. Essa riluceva del tenue bagliore del mattino e il liquido violaceo rifletteva sfaccettature colorate sul volto del piccolo.
Era uno stupido, uno sciocco. Le sue brillanti deduzioni e le sue fulminee intuizioni sembravano averlo abbandonato, proprio quando ne aveva più bisogno. Se in quel momento avesse avuto la possibilità di incrociare lo sguardo di Sherlock Holmes, egli lo avrebbe certamente deriso, col suo classico cipiglio autoritario e un po’ severo. Avrebbe demolito in pochi secondi la sua impalcatura mentale. Si sentiva un qualsiasi Watson, privato del suo geniale compagno.
Akemi era morta, Veronika era morta e lui non aveva salvato né l’una, né l’altra. Non aveva compreso i sentimenti di Haibara, l’aveva messa in pericolo più volte e l’aveva fatta soltanto stare male. Si sentì totalmente incapace nel fronteggiare quella situazione, che pareva gli scivolasse continuamente dalle mani.
‘Shinichi, sei un perfetto idiota, fai qualcosa. Rivela a tutti cosa sei davvero in grado di fare.’
Niente. Proprio un bel niente. Il suo cervello faceva mille calcoli, mille ipotesi: ma il suo cuore era altrove.
Doveva bere quell’antidoto? E se Gin avesse voluto metterlo in guardia? Certo, fra il dare la fiducia a Shiho, e darla ad un criminale ce ne passava, eppure il tarlo del sospetto si era ormai insinuato in lui. Quella frase proferita con sarcasmo continuava a martellargli nella testa come un orribile presagio di morte.
Eppure desiderava soltanto sbarazzarsi di quelle lenti non graduate, di quel velo impercettibile che gli impediva di guardare il mondo da un’altra prospettiva. Voleva essere se stesso. Voleva essere lo studente liceale che si malediceva tutte le mattine per essere andato a letto troppo tardi. Ma non avrebbe ceduto così facilmente ai suoi desideri, non poteva tradire la sua razionalità per sottomettersi alla dimensione istintuale.
“Shinichi Kudo.” Una voce femminile proruppe nel silenzio della sua stanza. Il piccolo volse il capo di scatto ma inizialmente non vide nessuno. La porta era socchiusa ma si stava aprendo lentamente.
 Scivolò giù dalla sedia e sentì ancora quel tono leggiadro diffondersi nell’aria, immobile.
“Posso entrare?”
Conan strinse i suoi occhi in due fessure.  “Chi sei?”
A quel punto una figura alta ed elegante fece il suo ingresso nella camera di Conan, poi con altrettanta delicatezza richiuse la porta alle sue spalle e vi si appoggiò.
“Vermouth!” Shinichi trasalì, il suo sguardo divenne immediatamente ostile e subito si preparò per passare ad un eventuale contrattacco.
“Shinichi, caro. Risparmiati la rabbia e rilassa i muscoli. Vengo in pace.” Quella donna aveva un'elevata carica di raffinata sensualità e ciò era confermato dalla sua postura. La stanza era totalmente in penombra, ma Shinichi intravide ugualmente il suo sorriso ambiguo, i suoi occhi dalle lunghe e folte ciglia nere che lo fissavano.
“Sei ancora piccolo per poterlo capire, ma il mondo che ci circonda non è tutto bianco o tutto nero. Esistono infinite gradazioni e infinite tonalità del grigio. Non so se mi spiego. Giovane Detective, quando dici che di verità ne esiste una soltanto, sbagli. Non fai altro che tradirti.”
Conan percepì la tensione, la sentiva ad ogni respiro. Era talmente concentrato che avrebbe potuto sentire persino il suo cuore battere forte, se quella donna avesse smesso di parlare.
“Non capisco cosa vuoi dire. Dov’è Ran? Cosa le hai fatto?”
“Ti prego, dolcezza, abbandona il ruolo della vittima. La tua bella sta bene, si sta facendo soltanto un sonnellino sul divano. Avevo bisogno di parlare con te in privato e in tutta tranquillità.”
A quel punto il ragazzino tirò un sospiro di sollievo ed annuì. “Parla.”
“Ecco vedi …” La donna si diede un lieve slancio con le mani per potersi allontanare dalla porta e avanzare verso il piccolo occhialuto. “Avrei una proposta da farti.”
“Io non mi fido di una come te.”
“E come mai ti sei fidato di Shiho?” Asserì con tono pieno di sarcasmo.
Egli trasalì. “Che vuoi dire?”
“Lo scoprirai molto presto. Per quanto mi riguarda, invece, dovresti fidarti di me.” La donna si mise a braccia conserte.
“E sentiamo, perché dovrei farlo?” Conan le rivolse un sorriso beffardo, aveva assunto la sua solita aria di sfida.
“Ma come perché? Che domande. Lo sai benissimo. Le ferite delle donne a volte, divengono cicatrici. No?” Gli strizzò l’occhiolino.
 
 
 
 
Shiho tremava leggermente, il suo corpicino fu scosso da alcuni brividi: quell’uomo aveva preso a fissarla con occhi verdi e penetranti. Lo vide allungare un braccio e aprire il cassetto del comodino di fianco al letto, poi tirò fuori da esso un’arma lucente, una Calibro 9 dalla superficie estremamente brillante. Per qualche istante Shiho pensò a quanto fosse maniacale la cura di quell’oggetto da parte del suo possessore.
“Che vuoi fare?” Chiese dunque, lei, mentre le sue pupille dilatate dal terrore seguivano la canna della pistola che Gin brancolava a mezz’aria con fare disinvolto.
“Punirti per le tue malefatte, dolce Sherry. La mia pazienza ha un limite.” Sussurrò con tono falsamente stucchevole e languido. La ragazza fu costretta a socchiudere gli occhi. Doveva morire? L’avrebbe uccisa? I suoi pensieri si rincorrevano rapidi e confusi, non riusciva a cogliere il filo che teneva assieme quella matassa di eventi, di frasi non dette, di sospiri, di lacrime. Finiva tutto così?
Il freddo metallo della Calibro 9 si posò sulla tempia di lei, facendosi strada fra i suoi ciuffi di capelli biondi: un lungo brivido la portò ad aprire nuovamente gli occhi, e a fissare per l’ennesima volta quel viso che non avrebbe mai cessato di incuterle timore.
“Gin, pagherai per tutto quello che stai facendo. In questa vita, o nell’altra. Ma pagherai.” Shiho strinse i denti e borbottò questa frase con tono basso, con l’effetto di provocare le risa beffarde di quell’uomo biondo, di quel predatore che non smetteva di darle la caccia, di tirar fuori gli artigli e di attirarla fra le sue grinfie demoniache.
Il tempo sembrò dilatarsi a dismisura, come d’altronde accadeva ogni qualvolta Gin e Shiho rimanevano da soli, soli con i loro desideri, soli con le loro difficoltà, soli fra i loro respiri.
Soli.
La canna della pistola scivolava lentamente sulla pelle diafana di lei, scendeva lungo i lineamenti di quel volto perfetto, oltrepassava lo zigomo e ridiscendeva presso l’incavo della guancia, proseguiva lungo la mascella delicata; quando si fermò al di sotto del mento Gin spinse l’arma verso l’alto con un gesto secco.
“Maledizione, smettila. Non puoi uccidermi.” Si lamentò lei con voce rotta dall’ansia, dalla saliva che non voleva andar giù per la gola.
“Non posso? Non posso, o non voglio?” Quell’uomo si stava divertendo come un pazzo, i suoi occhi sfolgoravano di una luce sadica, folle.
“Fai un po’ come ti pare.” Le iridi di Shiho erano obbligate a fissare il soffitto, sentì che quella posizione innaturale della nuca le dava fastidio. Il dito di Gin giunse al grilletto, giocherellò più volte con esso.
“Addio, cara. Mi mancherai.”  Proferì in un sibilo, poi spinse l’indice.
Click.
Un fottuto Click.
Le labbra del biondo di rilassarono in un largo sorriso, non riuscì a trattenere una risata piena di compiacimento. A quel punto la ragazza provò la voglia irrefrenabile di stringergli le mani al collo e strozzarlo finché non avesse implorato pietà, eppure non rispose, non ebbe la possibilità di farlo, poiché qualcuno suonò il campanello.
Gin sbuffò, si alzò dal letto con un borbottio confuso e rapidamente si infilò l’impermeabile, come se nessuno avesse dovuto vederlo in abiti meno “eleganti” e più alla mano.
Andò ad aprire la porta quel tanto che bastava, uno spiraglio che gli avrebbe semplicemente consentito di capire chi fosse.
“Vermouth. Che diavolo vuoi?”
“Gin, caro, cosa voglio secondo te? Apri questa maledetta porta, non sono un ladro.”
Il biondo lasciò che lei la spingesse e dopodiché indietreggiò di qualche passo. Notò immediatamente che le gote della donna erano rosse e presumibilmente ne poté quasi percepire il calore. Era accaldata. Aveva corso?
“Dove sei stata?” Le chiese.
“Lavoro. Non penso mica a divertirmi, al contrario di quello che fai tu, a quanto vedo.”  Lo sguardo invadente di Vermouth notò immediatamente Shiho, che impossibilitata per via della gamba, era rimasta seduta sul letto. Gin le si parò allora di fronte, per impedirle di guardare ancora.
“Fatti gli affari tuoi.”
La donna rise sommessamente, le dita curate e dalle unghie lunghe accarezzarono le sue stesse labbra. “Come sei geloso. Ammiravo soltanto la tua nuova ragazza.”
“Taglia corto, maledizione. Dimmi piuttosto com’è andata.” Che rabbia.
“E’ andata.” Vermouth aveva assunto nuovamente l’atteggiamento della donna di classe che oculatamente ed elegantemente amministrava gli affari, si occupava delle questioni burocratiche e non poteva dunque far a meno di ostentare quel comportamento stucchevole e presuntuoso. Si sfilò dalla tasca della giacca un paio di occhiali e li porse al biondo, che con la sua stazza robusta le aveva occultato completamente la visuale di quella biondina.
“Gli occhiali del moccioso? Bel trofeo. E cosa dovrei farci?” Chiese Gin, seccato. Si rigirò fra le mani quelle lenti dalla montatura nera e decisamente obsoleta.
“E’ fuori uso. E’ bastato un colpo di pistola. Ho potuto fare a meno del fucile di precisione.” Frecciatina, stavolta piuttosto dolorosa ed inopportuna.
Gin non rispose, almeno per i primi secondi. “Bene, perfetto. Per me puoi anche tornartene da dove sei venuta. La strada la sai.” Si allontanò, lasciandola lì sulla porta con un palmo di naso. Che nervi. Preferiva quella scialba scienziata, sciatta e poco perspicace, al suo fascino di donna, alle sue movenze lente ma flessuose, sinuose. Che imbecille, pensò, osservandolo mentre sfilava l’ennesima sigaretta dal suo pacchetto.
“Spero che ti marciscano i polmoni.” Sputò la sua sentenza carica di invidia e risentimento e se ne andò via, sbattendo rumorosamente la porta.
Shiho aveva gli occhi velati di una patina densa, vide il fumo aleggiare nell’aria in maniera offuscata, ma quando sentì le guance bagnarsi di bollenti lacrime, vide in maniera più chiara e netta l’alone grigio che si dissolveva piano, prodotto dalla sigaretta del biondo.
Quell’arpia le aveva portato via il piccolo Conan.
Ormai, non aveva più nulla da perdere, aveva perso tutto.
Come quel fumo pieno di catrame e petrolio, che evanescente, si disperdeva fra le pareti di quella stupida stanza.  
 
 
 
 
Alcune ore più tardi, Gin e Shiho furono fuori dall’edificio, era ormai quasi sera ma il sole accennava a tramontare ormai da qualche minuto. L’aria era fresca, il cielo di un azzurrognolo tenue, chiaro, rilassante solo a sollevare il capo e fissarlo. In breve tempo i due raggiunsero il passaggio che li avrebbe condotti alla sede dell’Organizzazione, ma Gin si fermò nello spiazzo erboso e la guardò. Era stranamente serio, sembrava che qualcosa lo turbasse: come sempre teneva le sue mani riparate nelle tasche del suo impermeabile nero.
“Fermiamoci un momento, voglio fumarmi prima una sigaretta.” L’ennesima della giornata. Shiho non seppe spiegarsi per quale motivo, ma aveva uno strano presentimento. Qualcosa di strano aleggiava nella placida aria di fine giornata. L’erba profumava ancora, probabilmente era stata tagliata da poco, così lei, nell’attesa di quella breve e rara pausa si sedette a terra. Il mondo si era fermato per la piccola Shiho e tutto aveva perso il suo senso originario. Alzò lo sguardo al cielo e fu come unirsi al mondo che la attorniava: quella sensazione di dolore e di solitudine le stava facendo provare la profonda empatia con quello che la circondava; alberi, fiori, piante, il cielo terso e sereno, disseminato di nuvole morbide e leggere, biancastre, lattee. Chiuse gli occhi per reprimere le lacrime. Non volle credere a quel che era successo. Quegli uomini l’avevano derubata della sua vita, della sua adolescenza, degli affetti più cari. Non aveva più nulla da perdere. E mentre quell’uomo sostava lì al suo fianco, con lo sguardo perso lungo l’orizzonte rosso cremisi, lei osservò per qualche istante l’ ombra stagliarsi ai suoi piedi. Allungò una mano per poterla ‘sentire’ ed il freddo dell’erba divenne confortante, ma al contempo la fece riflettere. Nessuno può saltare oltre la propria ombra, ma soprattutto, ognuno ha la propria, quella figura nera e terribilmente ambigua che costituisce l’altra parte di noi, l’altro lato della medaglia, l’insieme delle pulsioni che tutti hanno bisogno di reprimere e di cui tutti hanno paura. Shiho, ne aveva l’ossessione, avrebbe voluto per sempre cancellare quella maledetta ombra nera, ma nel suo piccolo sapeva che non poteva farlo. La luce cominciò ben presto a diventare più scura, tanto che il rosso aveva ceduto il posto ad un pallido violaceo-bluastro. Gin fece schizzare letteralmente via quel che rimaneva della sua sigaretta e lasciò all’aria densa l’ultima boccata di fumo.
“Entriamo.” Proferì senza aggiungere altro.
Ma che doveva fare Gin, quella sera?
 
 
 

Shiho venne lasciata al suo solito lavoro, alla sua solita routine, ma Gin, quella sera, aveva da sbrigare una questione molto delicata.
Una volta uscito in strada con la sua fedele Porsche nera, egli sfilò dalla tasca il suo cellulare, compose rapidamente un numero e si mise in ascolto.
“Vermouth, i nostri uomini sono in posizione?” Rimase concentrato ad ascoltare il tono petulante della donna, che ogniqualvolta non faceva che innervosirlo. Quella donna lo mandava in bestia e non riusciva a trovare un motivo preciso di quell’odio.
“Appena lanceremo il segnale li coordinerai per far sì che proteggano l’ala sul retro. Io mi occuperò del resto. Si. E’ a lavoro.” Fece una pausa. “No, non avrà sentito.”
Dopodiché, Gin concluse la chiamata e tirò un sospiro di sollievo. Avevano organizzato una soffiata alle carceri per poter liberare quell’imbecille che si era cacciato nei guai. Non potevano permettere che lo trattenessero dietro le sbarre per altro tempo. Non doveva parlare. Nessuno doveva sapere nulla sull’Organizzazione, e quanto pareva, il marmocchio era stato eliminato, ma Vodka era ancora a piede libero e bisognava recuperarlo.
Gin parcheggiò la macchina presso una stradina buia, poi prese quella adiacente e iniziò a percorrerla lentamente, nell’oscurità della notte. Faceva molto freddo.
Gli uomini in nero avevano organizzato un piano decisamente rocambolesco: una volta procuratesi le uniformi delle guardie, si erano inserite liberamente nell’edificio. Due di loro erano dunque infiltrate e sarebbero intervenuti quando Gin avrebbe richiesto di poter parlare con Vodka. Quella notte avrebbero versato il sangue di parecchie persone innocenti.
Il biondo saliva le scale, ad ogni passo sentiva l’adrenalina pervadergli il corpo, ogni singolo muscolo percorso da quel vibrante tremito, ogni vena pompare sangue caldo, bollente. L’ebbrezza da combattimento lo rendeva vivo, gli iniettava gli occhi, li faceva luccicare, sbarrare come quelli di un animale.
Tutto si svolse rapidamente, troppo rapidamente.
Vodka era lì, a pochi passi. Finalmente furono al tavolo a recitare la loro farsa. Ma il teatrino durò ben poco e si colorò immediatamente di rosso.
Improvvisamente dalla porta di quella sala scarna e buia irruppero dei poliziotti armati.
“Ma che diavolo succede? Vodka?!” Gin scattò in piedi e a quel punto le due guardie travestite puntarono i loro fucili d’assalto contro gli altri. I veri poliziotti. Perché c’erano dei veri poliziotti? Per quale diavolo di motivo la loro copertura era saltata?
“Capo!” L’omone parve agitarsi. Non capì. Qualcosa non stava andando secondo i piani.
In quella situazione di stallo il tempo si ghiacciò per qualche secondo, dopodiché gli uomini in nero riversarono i loro interi caricatori contro le reali guardie, le quali crollarono letteralmente contro la pioggia di pallottole che si riversò su di loro. L’ennesimo inferno di piombo si era scatenato, come una dinamite esplosa una volta innescato il meccanismo ad orologeria. Gin e Vodka compirono uno scatto lungo il corridoio.
“Capo! Capo, ma che sta succedendo?!”
“Sta zitto e corri!” Gli intimò il biondo, correndo come un fulmine all’uscita, seguito da uomini e spari, da poliziotti e detenuti che si aggrappavano alle grate delle loro celle come bestie inferocite, sbraitando e urlando epiteti coloriti.
Decisamente qualcosa era andato storto.
I due furono fuori, corsero nel viottolo dov’era parcheggiata l’auto di Gin e questi si sbrigò a mettere in moto.
Vodka osservò il suo partner: entrambi avevano il fiatone, anche se l’altro sembrava molto più agile ed allenato, dunque tratteneva in maniera più composta quel respiro pesante ed affannato. Osservandolo meglio, il bestione con gli occhiali si accorse che all’altezza del braccio, l’impermeabile di Gin aveva un largo taglio, il tessuto nero era completamente strappato e del sangue colava in un rivolo caldo. Forse un proiettile l’aveva sfiorato durante la fuga.
Per tutto il tragitto non si dissero neanche mezza parola. Il biondo parcheggiò la sua auto e noncurante di Vodka, salì le scale della sede.
I laboratori. Era lì che era diretto a passi lunghi e spediti.
Con un gesto rabbioso spalancò la porta della sala dov’era Shiho e la travolse come una furia. Lei era di spalle, in un istante rapidissimo venne afferrata violentemente per il colletto del camice e strattonata con altrettanta veemenza. Si ritrovò il fiato di quell’uomo che l’aveva presa per la collottola e la tratteneva a sé.
“Gin! Ma che ti prende, che è successo? Lasciami immediatamente!” La ragazza non capì, sentì solo il fiato di lui che sapeva di fumo, poi si mescolò col profumo dei suoi morbidi capelli biondi.
“Sei stata tu, non è vero? Dillo che sei stata tu ad avvertire la polizia della nostra soffiata.” Aveva alzato la voce e la fissava con occhi truci e iniettati di sangue.
“Soffiata? Non so di cosa stai parlando, per l’amor del Cielo. Vuoi stare calmo?”
L’uomo strinse i denti e sospirò con amarezza. “Sherry, non farmi arrabbiare.”
Incrociarono i loro sguardi a lungo; lui la tratteneva con entrambe le mani e stringeva i lembi del camice bianco di Shiho. Silenzio.
La ragazza sorrise leggermente, si soffermò a scrutare gli occhi verdi di Gin, poi sussurrò:
“Non ti fidi della tua Sherry? Preferisci fidarti di lei?”
Gin trasalì, sbarrò gli occhi e le sue pupille si restrinsero ancor di più. “Lei?” Balbettò.
Silenzio. Di nuovo.
Lui era rimasto immobile, fermo. Attonito
Shiho premette le mani contro il petto di Gin e si sollevò in punta di piedi, le sue dita percorsero il petto e risalirono vertiginose, avvolsero il collo dell’uomo e poi si appoggiarono delicatamente alle sue guance. In un breve istante sfiorò le sue labbra e lo baciò lentamente.
Quando le suole della ragazza toccarono nuovamente il pavimento si sentì sprofondare.
“Non è stata colpa mia, te lo giuro, Gin.”
 




 





Stavolta niente saluti, non ho tempo purtroppo :) Domani parto e dormirò soltanto 4 ore, eppure ci tenevo particolarmente ad aggiornare questo capitolo, ve l'avevo promesso! :) Spero vi piaccia, domani me ne vado in Spagnaaaaaaaa :D Non morirete senza di me! :D Ahahahahahah
Vi voglio bene, vi abbraccio tutti eeee... basta, per ora penso sia tutto, non vi dico molto proprio perché è maledettamente.. tardi. 


A voi la linea :)


Byeeeeeeeeeee amici lettori <3

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Doppio gioco. ***


"Subito mille pensieri addormentati, fremendo dolcemente fra tenebre pesanti, spiegano le ali
e prendono il volo"



(Charles Baudelaire)




 

Gin si soffermò a scrutare gli occhi di Shiho, che nonostante lo stato di penombra brillavano tersi e luminosi.
La ragazza avrebbe tanto voluto parlare, eppure le sue labbra parevano essersi riarse per quel che aveva appena fatto, il fiato le si era strozzato in gola e non riuscì a spiccicare una parola. Niente. L’aria era ferma, immobile, quei due si fissavano l’un l’altro senza proferire alcunché, come se attraverso i loro sguardi avessero potuto capirsi reciprocamente; a volte, infatti, le parole distruggono l’idillio ideale e ti fanno ripiombare nella tragica monotonia quotidiana, nell’incomprensione che è propria soltanto del linguaggio. Invece in quei millisecondi la loro intesa era perfetta, nessuno li avrebbe interrotti.
Il biondo si inumidì le labbra, per poter assaporare quel bacio inaspettato.
“Credi davvero che questi metodi funzionino? Perché ti sei messa in testa che questa è la giusta strada per persuadermi?” Disse lui in un sussurro.
A quel punto Shiho racimolò le sue forze ed ebbe il coraggio di controbattere.
“Non voglio persuadere proprio nessuno Gin. Avevo voglia di farlo.” Le parole fuoriuscivano dalle sue labbra come un fiume in piena, libero di sradicare qualsiasi argine e di trascinarsi con se tutto quello che incontra sulla sua via.
“Ma davvero?” Lui aveva assunto un tono decisamente sarcastico e divertito. Quella situazione lo intrigava, in quel momento non gli importava se Shiho fosse colpevole o meno, se stesse tramando o stesse realmente dalla loro parte.
Sapeva soltanto che quelle labbra rosate erano meglio di qualsiasi sigaretta.
“Si, e poi te lo ripeto: non sono io quella su cui devi incanalare i tuoi dubbi. Io non ho nulla da nasconderti ormai, tanto il piccoletto è morto, no?” Shiho sembrò scaldarsi nel pronunciare le ultime parole.
“Si, dovrebbe essere ormai deceduto da qualche oretta.” Sollevò la manica del suo impermeabile per rivelare il quadrante dell’orologio. “Ad occhio e croce da un paio d’ore.”
“Appunto. Non ho più nulla da perdere.”
“E ripieghi su di me le tue mancanze?”
“Passo il tempo.” Rispose Shiho in modo distaccato.
“Bel modo di passare il tempo.” Commentò Gin, il cui viso apparve ancora più rabbuiato per via del ghigno che lentamente compariva sulle sue labbra. Shiho aveva il capo sollevato e non aveva ancora distolto lo sguardo: finalmente riusciva a tenergli testa; quando però, lo vide avvicinarsi ancora, ebbe il desiderio irrefrenabile di indietreggiare e di scappar via, ma psicologicamente si costrinse a non farlo. Non doveva più aver paura di lui.
“Ho un paio di orette libere, Sherry.” Era così vicino che le sussurrò all’orecchio. Le sue dita fredde percorsero la guancia di lei e scivolarono fra i capelli, poi si fermarono salde presso la nuca sottile di Shiho; la sentì rabbrividire.
“Mi stai prendendo troppo alla lettera.” La ragazza deglutì, lo vide avvicinarsi ancora, ancora, ancora.
Fu così rapido che non ebbe tempo per fare altro: si vide attirata contro il suo corpo e in pochi istanti percepì le labbra di Gin che premevano prepotentemente sulle sue, le braccia forti avvolgerla: una mano alla nuca, l’altra alla vita.
Shiho sbarrò gli occhi, aprì piano la bocca e fu trascinata in quel vortice dove i sensi avevano perso consistenza e non riusciva più a distinguerli.
L’uomo la spinse contro il tavolo del laboratorio e la sollevò per farvela sedere: quel bacio sempre meno casto e puro pareva non finire mai, lui non si staccava dalle labbra della fanciulla.
Shiho poteva sentire il suo cuore battere così forte da mozzarle il respiro, i muscoli tremavano, i brividi percorrevano il suo addome. Non ebbe la forza di reagire, quel contatto era così dannatamente piacevole, in un misto fra il sapore di lui, della sigaretta che si era fumato un attimo prima, dei capelli biondi che le accarezzavano il viso e scendevano sul petto. Perché?
“Scusate se vi disturbo.” Qualcuno si schiarì la voce. Proveniva alle loro spalle. Gin interruppe bruscamente quell’impeto passionale e con sguardo truce e gelido prese a squadrare la donna che sostava sulla porta. Vermouth. In un modo o nell’altro quelli dell’Organizzazione erano sempre fra i piedi.
“Che vuoi?” Chiese dunque lui con indifferenza. Entrambe si accorsero che si era piuttosto innervosito. Shiho scivolò giù dal tavolo e si sfiorò le labbra, ancora calde. Dio, ma che aveva fatto, che stava facendo? Le sue guance divamparono dall’imbarazzo.
“Abbiamo colto in flagrante un ragazzo che si aggirava nei dintorni e l’abbiamo sbattuto nelle celle. Volevo assicurarmi che neanche tu lo conoscessi. Nessuno l’ha visto, nessuno sa di chi si tratti. Magari ha bisogno di una strigliata.”
L’uomo si rimise in ordine il cappello e si sfilò il pacchetto di sigaretta dalla tasca, in un gesto ormai divenuto meccanico, ma stavolta dettato probabilmente dalla tensione. “Mi hai preso per un elenco delle pagine gialle?”
“Che simpatico.” Vermouth si scansò con nonchalance, lasciando che Shiho sgattaiolasse via. A quel punto la donna poté avanzare; le braccia strette al petto, il sorriso beffardo e provocante. “Vi ho interrotti sul più bello, non è così? E ti stai mangiando le mani.” Rise.
Che nervi quella donna. Era la favorita del capo, non voleva indagare per chissà quali doti, eppure tutto ciò risuonava strano, paradossale. La odiava.
“Ti raggiungo alle celle, levati di torno, sei patetica.” Fortunatamente Gin riuscì a riprendere rapidamente la sua flemma, il suo distacco ed il suo solito cinismo.
“Sbrigati, allora. Non abbiamo molto tempo.” Concluse la donna, dileguandosi.
 

 
 
I tacchi di Shiho producevano un rumore continuo contro il pavimento. Aveva il cuore in gola: sapeva che si trattava di lui.
Si fece largo fra le guardie che sorvegliavano le celle e in quel frangente in cui le aveva disorientate scorse al di là delle sbarre un ragazzo alto, dai capelli scuri, sbarazzini. Lo sguardo furbo di lui balzò sul volto accaldato di Shiho ed entrambi capirono.
Shinichi era lì, lo avrebbe riconosciuto fra mille altri: non l’aveva mai visto nelle sue sembianze di liceale, ma quelle iridi azzurre erano inconfondibili; il brillare vispo di quegli occhi lo conosceva fin troppo bene. Appena giunse di fronte a lui afferrò le sbarre con le mani e si rese conto di non poterlo chiamare per nome o perlomeno non a voce alta.
“Certo che sei capace di sfidare anche la morte pur di risolvere il tuo caso.” Commentò Shiho in un sibilo. Shinichi mostrava un piccolo taglio sulla guancia ma si trattava di una ferita di poco conto.
Il ragazzo premette una spalla contro le sbarre metalliche ed infilò le mani in tasca, sicuro di sè, spavaldo.. “Hai dimenticato che un Detective lotta anche contro il destino, qualora sia necessario?”
Shiho sorrise leggermente: era bello poterlo rivedere, ma soprattutto la rincuorava il fatto che stesse bene.
Si scambiarono uno sguardo intenso, complice, pieno di intesa. Non sapeva perché Shinichi era piombato lì dentro, non capì molto, eppure era convinta che lui avesse organizzato un piano. Quel ragazzo non finiva mai di stupirla, aveva sempre un asso nella manica.
“Devo tornare a recitare la mia parte, Kudo.” Borbottò lei indietreggiando di qualche passo.
“Non sei la sola.” Sussurrò di tutta risposta il Detective.
“Ci si vede.” La scienziata incrociò le braccia contro il petto e girò i tacchi per uscire velocemente dalla prigione.
 
 
 
 
Shinichi dovette sopportare per ore lo sguardo invadente e vigile delle guardie.
A dirla tutta quei brutti ceffi che imbracciavano dei fucili d’assalto lo inquietavano: doveva soltanto aspettare una manciata di minuti ma i secondi sembravano non voler passare mai.
Se ne stava rannicchiato contro il muro e ormai si era abituato al freddo del pavimento tanto che quella posizione non gli pareva più così scomoda. Le celle erano gli ambienti più logori e sudici che avesse mai visto: il resto della struttura era tirato a lucido, ma di certo non si curavano di pulire le prigioni.
‘Che schifo, maledizione. Ma quando arriva?’ Shinichi non sapeva stare fermo, oltretutto i suoi nervi pulsavano dall’ansia: non si era mai trovato in una situazione simile, così a stretto contatto con i membri dell’Organizzazione. E per giunta, non aveva la più pallida idea se quella che stava per fare, fosse la cosa giusta. Di sicuro era l’unica alternativa che aveva.
Iniziò a fissare le piastrelle a terra, quando d’un tratto la porta della cella si aprì, le sentinelle uscirono e fece il suo ingresso la donna a cui aveva affidato il proprio destino: Vermouth, con il suo stile impeccabile, i capelli biondi e fluenti, il volto ingentilito dal trucco.
“Ehi grande Detective, muoviti, è ora. E’ già tutto pronto.” Shinichi scattò in piedi facendo agitare i ciuffetti sulla sua fronte.
“Bene, ce ne hai messo di tempo. Ho il fondoschiena di marmo per colpa tua.”
La donna rise sommessamente. “Dai, fai silenzio e non fare capricci. Rimani concentrato.” Una volta che la donna aprì la porta della cella, il ragazzo si vide consegnare una Beretta dalla canna corta; non poté far a meno di guardarla, interdetto.
“Che significa?”
“Avevamo fatto un patto, non ricordi?”
“Non credevo che intendessi farlo in maniera così drastica.” La faccenda andava complicandosi. Il giovanotto si rigirò quell’arma fra le mani, poi la infilò al di sotto della sua giacca blu ed annuì.
“Purtroppo non abbiamo altra scelta. Per quanto riguarda il resto, ci vedremo al luogo indicato. Non tollero errori.” Vermouth scrutò gli occhi incerti di Shinichi e qualcosa dentro di lei si smosse. “Buona fortuna.” Gli lasciò una carezza soave sulla guancia, dopodiché uscì.
Aveva ragione: doveva muoversi a concludere quel lavoro. E in fretta.
 
 
 
 
Il corridoio era illuminato dalla vibrante luce dei neon al soffitto, c’era un silenzio sepolcrale su quel piano. Shiho sostava di fronte alla stanza e fissava inerme la targhetta su cui v’era inciso il numero ‘413’.
‘Busso o non busso? Devo porre fine a questo strazio. Forza Miyano, fai la cosa giusta.’ Le nocche si fermarono a mezz’aria, trasse un lungo sospiro e diede due colpetti alla porta.
“Chi è?” La voce giunse ovattata.
“Sono Shiho.” Rispose lei, risoluta.
Qualche secondo dopo intravide uno spiraglio di luce farsi via via più ampio: Gin teneva un avambraccio contro lo stipite, la stava fissando. Aveva avuto giusto il tempo di sfilarsi il cappello, per il resto era ancora in piedi, vestito di tutto punto.
“Posso entrare?”
“Fai come vuoi.” Si scansò per farla passare. La ragazza indossava una felpa sgualcita e un paio di jeans. “Dormi qui stanotte?”
“Non ho voglia di tornarmene a casa.” Shiho non poté far a meno di notare quel ghigno malefico delinearsi sulla linea delle sue labbra sottili.
“Che c’è di così divertente?”
“Niente, niente. Pensavo fra me.”
Gin era così maledettamente ambiguo. Alla ragazza bastò uno sguardo alla camera per capire che la utilizzava di rado, tanto che il posacenere ospitava una decina di mozziconi al massimo.
“Allora, dolcezza, a cosa devo il motivo della tua visita?” Cominciò a seguirla con lo sguardo mentre si aggirava per curiosare qua e là.
“Volevo semplicemente dirti che quello che è successo prima è stato uno sbaglio. Non metterti strane idee in testa.”
Lui scoppiò a ridere, divertito.
“Ma si può sapere che c’è? Perché ridi?” Shiho si voltò verso di lui, decisamente spazientita dal comportamento del biondo.
“Rido delle tue menzogne.”
“Ovvero?”
“Sai benissimo che non si è trattato di uno sbaglio, Sherry.” Il suo tono divenne più basso, a tratti velato. Gli occhi verdi rilucevano fra i ciuffi dorati.
“Non voglio che si ripeta più una cosa simile. E con questo, io e te abbiamo chiuso. Non voglio più avere nulla a che fare con un pazzo psicopatico come te.” Si accinse a raggiungere la porta ma Gin le bloccò saldamente il polso, avvolgendoglielo fra le dita forti.
“State giocando col fuoco. Fai molta attenzione, tesoro.” Sussurrò in un sibilo acre e tagliente come una lama affilata.
Shiho deglutì a fatica, la saliva le si era completamente azzerata e ottenne il  deludente risultato di inghiottire soltanto aria. Finalmente lui allentò la presa fino a lasciarla, così poté divincolarsi dalle grinfie di Gin. Appena fu nuovamente in corridoio e si richiuse la porta alle spalle, il suo cuore prese a martellare come non mai. Perché parlava al plurale?
In quel momento desiderava soltanto raggiungere in fretta la sua stanza e infilarsi sotto le coperte calde, farsi una bella dormita e dimenticare quelle dannate effusioni.
Qualche passo più avanti però, dovette fermarsi ancora. Qualcosa si era mosso in fondo al corridoio, un’ombra si stava dileguando nella sua stessa direzione.
Scosse il capo.
Forse era soltanto stanca.
Si, sicuramente si trattava di quello.
 
 

 
Shinichi si sarebbe dovuto ricordare di ringraziare Shiho per l’avvertimento che inconsapevolmente gli aveva fornito: Gin era ancora sveglio. Aspettò un paio d’ore estenuanti, nascosto fra un mucchio di scatoloni del magazzino, poi finalmente raggiunse nuovamente il corridoio della stanza 413. Le luci erano ormai spente. Il giovane detective si muoveva furtivo, finalmente aveva pieno possesso delle sue facoltà di liceale, delle gambe scattanti e dei polmoni che gli avrebbero consentito di fare lunghi scatti, qualora lo avessero scoperto. Si sentiva pieno di entusiasmo e coraggio. Sfilò dalla tasca una scheda magnetica e la inserì nell’apposita fessura. Verde. Poteva entrare.
La stanza era quasi buia, ad eccezione della pochissima luce che penetrava dalla finestra in alto la quale dando sulla stanza adiacente, gli fece comprendere che qualcuno dall’altra parte era ancora sveglio.
Shinichi raggiunse con la mano l’impugnatura della pistola, poi si avvicinò con passo felpato al letto. Le lenzuola coprivano il corpo dell’uomo fino al bacino. Gin dormiva a pancia in giù, a petto nudo. I suoi capelli erano sparsi morbidamente sulla schiena, un braccio scendeva giù, completamente inerte. Il ragazzo tese il braccio: la canna della pistola era in linea perfetta con il cranio di quell’uomo e se avesse sparato lo avrebbe centrato in pieno e non gli avrebbe riservato alcuna speranza di sopravvivere. Eppure esitò.
‘Cavolo, Shinichi! Ma che stai facendo? Ti stai piegando come un idiota ai voleri di una donna senza scrupoli! Ti stai macchiando dello stesso crimine che stai combattendo da anni!’ Non poteva mischiarsi al sangue infetto di quella gentaglia. Non avrebbe mai e poi mai ucciso. Nessuno. Neanche il serial killer dei delitti più efferati.
Mentre pensava e prolungava quella riluttanza, il silenzio gli fece percepire chiaramente il respiro di Gin; lento, regolare. Ma decisamente troppo veloce perché stesse realmente dormendo.
‘Oh no!’
Il biondo si voltò di scatto e gli puntò la sua Glock dritta alle cervella, poi abbassò la mira e gli sparò un colpo. L’uomo in nero balzò poi giù dal letto. Indossava un paio di pantaloni scuri e da quel particolare, Kudo comprese che Gin sapeva. Sin dall’inizio. Lo stava soltanto aspettando.
“Mi complimento con te per l’arguzia, ma non sei l’unico dotato di intelligenza qui dentro.” Proferì Gin; ma il ragazzo sparò un proiettile nella direzione del biondo e quella fu la mossa che gli permise di scaraventarsi fuori dalla stanza. Inizialmente incespicò nel buio di quel lungo corridoio, ma alla fine raggiunse l’ascensore. Le dita si muovevano frenetiche sulla pulsantiera, il rumore sordo di un allarme proruppe nel silenzio della notte.
Era tutto pronto per la fuga. Una volta che le porte si dischiusero e gli diedero il via libera, Shinichi compì uno scatto fulmineo, le sue lunghe gambe gli davano uno slancio atletico e sempre più rapido.
“Shiho!” Urlò, quando finalmente la vide in fondo al corridoio.
La ragazza lo guardò fermarsi e chinarsi trafelato proprio di fronte a lei. “Dobbiamo andarcene.”
“Cosa? Ma come diavolo hai fatto a scappare?”
“Non c’è tempo Ai, scappiamo!”
“Io non so se posso!” Chissà cosa diavolo le stava passando per la testa. Era così confusa. Aveva desiderato così tanto quel momento, quell’inaspettata e spettacolare liberazione da parte del suo principe azzurro, che nell’istante in cui finalmente si stava verificando, una miriade di ombre si impadronì del suo cervello, ma più di tutto, del suo cuore.
Shinichi si risollevò ed incrociò lo sguardo enigmatico di quella ragazza. Gli pareva così strano che stesse titubando a quel modo. Le avrebbe chiesto spiegazioni una volta fuori di lì.
“Ai!” La richiamò più severamente e con tono decisamente più duro, col tono di colui che non ammetteva repliche. A quel punto Shiho scosse il capo, ripresasi da quell’attimo in cui era sospesa fra il desiderio di restare e quello di scappare lontano.
Ripiombò magicamente sulla Terra, approdò al porto della salvezza e annuì.
Era giunto il momento delle certezze.
“Si, scusami, Kudo. Andiamocene via. Per sempre.”
 
 
 
 
Quella fuga aveva sollevato un gran polverone e un enorme trambusto: le guardie schizzavano da una parte all’altra della struttura, correvano tenendosi stretti al petto i loro MP5 e seguivano meticolosamente gli ordini che provenivano dai piani alti.
La punta di diamante della ricerca era scappata con un fuggiasco, con un ragazzo pressoché diciassettenne. Le misure di sicurezza erano state istallate, i portelloni si erano ormai chiusi a tenuta stagna. Quei due non avevano scampo.
Gin tornò nella sua camera per potersi rivestire in fretta e furia, dopodiché uscì nuovamente e scese una lunga rampa di scale, fra il via vai continuo di una base in subbuglio. Appena toccò il pavimento del piano sottostante scorse chiaramente la figura di Vermouth che armeggiava con la porta in fondo al corridoio.  Il biondo aumentò drasticamente il passo e urlò il suo nome. I movimenti della donna divennero allora più smaniosi, più frenetici. Finalmente il portellone al suo fianco si aprì. Gin l’aveva quasi raggiunta, un paio di proiettili sibilarono presso la sua spalla, ma fortunatamente ella riuscì ad evitare quell’attacco grazie ad un movimento repentino. Vermouth scomparve al di là dell’uscita e lo sportello si richiuse.
Gin strinse i pugni con violenza e diede un pesante colpo contro di esso.
“Maledizione. Sporca traditrice.” Bofonchiò a denti stretti. “La caccia è cominciata.” Aggiunse, strappandosi dalle labbra l’immancabile sigaretta e schiacciandola sotto il peso della sua scarpa.





 







Holaaaaaa :D Finalmente eccoci a questo fatidico aggiornamento! Mamma mia che settimana da brivido che ho avuto -.- bruttissima, piena di impegni scolastici e di vario genere. Per fortuna c'è stata la gita a Madrid! Ragazzi, wow, che bella città :) mi sono divertita! :D Bella davvero!
Dopo ciò... vi è piaciuto il chappy? E' un po' adrenalinico, spero che siate riusciti a comprendere quel che più o meno sta succedendo, anche se determinate cose si scopriranno in seguito :) Per inciso.. non mi convince molto questo chappy x°D
Allora innanzitutto vorrei ringraziare i tanti amici che mi sostengono nella scrittura :D nonchè Iman, Alice, Lisa, Sylvia (La mojettina) e Ginevra :) <3 sono felice che tu ora stia bene! :D
Coloro che mi seguono:
Bankotsu90, chicc, Evelyn13, I_Am_She, Kuroshiro, Layla Serizawa, Nezu, Red Fox, Sherry Myano, tigre, trunks94_cs, Violetta_, _Flami_
Coloro che hanno inserito la storia nelle preferite :)
A_M_B, chyo, Evelyn13, Imangaka, ismile, I_Am_She, Lady Night, Queenala, trunks94_cs, Yume98, _Flami_

Grazie mille, siete i lettori più belli che io potessi desiderare u.u Non scherzo :D

Un bacioneeeeeeeeeee <3

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Sentimenti. ***


"Toccando la sua carne questa notte

Il mio sangue gelò per sempre

Abbracciati prima dell'alba

Un bacio portò l'eclissi totale"


(Opeth - In the mist she was standing)




Shiho spinse la porta e dopo che Shinichi fu entrato nella sala, ella se la richiuse alle spalle.
Erano entrambi trafelati, tanto che furono costretti ad adagiare la schiena al muro del corridoio. Una luce tenue squarciava le tenebre, entrando dalla finestra del salone e dispiegandosi sui vari ostacoli che incontrava; un gioco di lumi che finivano ad infrangersi contro i visi sudati dei due ragazzi. I loro occhi rilucevano d’un tenue bagliore, dopodiché si incontrarono.
“Ce l’abbiamo fatta, Ai.” Borbottò Shinichi, il quale arcuò i palmi delle mani contro la fredda superficie del muro. Shiho annuì lievemente.
“Io non canterei vittoria così presto, Shinichi. Non so se è una buona idea rimanere a casa tua.”
“Sarebbero capaci di trovarci, ovunque. Anche in capo al mondo.”
La ragazzetta si sfregò i polsi l’uno contro l’altro, tenendoli nascosti dietro alla schiena. I suoi occhietti angosciati vagavano senza tregua nel salone del Detective, posandosi ripetutamente sull’infinità dei libri da lui posseduti, disposti ordinatamente a livelli quasi maniacali.
“Ai, perché questa notte eri nella stanza di Gin?” Il silenzio notturno fu bruscamente interrotto da quella domanda fatta a bruciapelo. Shiho trasalì.
“E tu come diavolo fai a saperlo?”
“Sono un Detective, l’hai forse dimenticato?” Disse lui, ironico.
“Allora l’ombra che avevo visto di sfuggita non era soltanto frutto della mia immaginazione. Eri tu.”
“Esattamente. Ottima deduzione.”
Passarono alcuni secondi in cui lei non seppe come controbattere, dunque continuò nuovamente ad indugiare su quelle fila di libri impolverati e ricolmi di nozioni, di storie, di avventure, intrighi e delitti. “Ora capisco da dove proviene la tua perspicacia.”
“Non cambiare discorso, rispondimi.”
Shiho strinse i denti e stavolta il suo sguardo si perse fra le trame infinite della moquette: era stato un pessimo tentativo per distrarlo. E non aveva funzionato.
“Mi avevano semplicemente incaricata di comunicargli alcune informazioni.” Cercò di modulare il suo tono, in modo che sembrasse il più naturale ed imparziale possibile, così che da esso non trapelasse alcuna emozione, alcuna sfumatura di quella storia terribile. A giudicare dall’espressione enigmatica di Shinichi, la sua risposta sembrò convincerlo, o perlomeno esaurì la sua atavica curiosità.
Eppure lui non riusciva a togliersi dalla mente le immagini di quei due, insieme. Di quella notte in cui si erano visti, e del viso pallido di Shiho divenire improvvisamente di un vivo rosso cremisi. E se avesse cominciato a provare qualcosa di più profondo per quell’assassino? Come diavolo era possibile che una ragazza del suo calibro, profondamente razionale, cinica e meticolosa, potesse nutrire e riservare nel suo cuore, sentimenti così sbagliati, ambigui e proibiti? Magari soffriva della cosiddetta ‘Sindrome di Stoccolma.’
“Credo che andrò da Ran.” Concluse dunque, Shinichi. Era notte inoltrata ormai, ma aveva voglia di vederla, di farle sapere che finalmente il suo amico d’infanzia era tornato.
“Io mi metto a dormire, sono stanca morta.” Bofonchiò lei, apparentemente priva di qualsiasi interesse, fredda e glaciale come d’altronde lo era sempre stata.
“Buonanotte, Ai.”
 
 
 
 
Shinichi era nel cortile dove affacciava la finestra di Ran, gli bastò alzare gli occhi bluastri per poter intravedere al di là dei vetri una luce che si accendeva ad intermittenza, balenare di colori variegati, prodotti probabilmente dallo schermo del televisore; immaginava che Kogoro  si era addormentato sul divano e russava, fra le maledizioni della figlia che non riusciva a prendere sonno. Inevitabilmente sul suo viso si dipinse un morbido sorriso, un calore dolce lo avvolse, gli ritemprò qualsiasi nervo, la tensione accumulata in quel periodo svanì misteriosamente. Decise di suonare al citofono, poi prese a salire i gradini: non gli erano mai sembrati così tanti. Finalmente giunse di fronte alla porta. Non seppe spiegarsi il motivo, eppure Shinichi fu sereno, tranquillo. Lui non aveva mai smesso di vederla, dopotutto. Era sempre stato al suo fianco, anche se Ran non poteva saperlo.
La ragazza aprì e di fronte al Detective comparve la figura di lei. Indossava un largo pigiama rosa, i capelli scuri erano arruffati, ma gli occhi sbarrati erano ricolmi di stupore. Ran sentì le gambe tremare, la terra pareva sgretolarsi sotto ai suoi piedi.
“Shinichi.” Ebbe il coraggio di sussurrare, con un fil di voce che fuoriuscì spontaneo da quelle labbra sottili, che nel pronunciare quel nome ebbero un tremito, un moto di sgomento.
 Non poteva crederci.
“Non è un sogno, vero?” Aggiunse, come se volesse continuare un suo pensiero ad alta voce.
Shinichi le rivolse un largo sorriso, poi infilò le mani in tasca, spavaldo e sicuro di sé. “Ti avevo detto che sarei tornato, no? Io mantengo sempre le promesse, Ran.”
Lei non riuscì a trattenere l’immensa gioia che le riempiva il cuore, così si slanciò verso il liceale e lo abbracciò, stringendolo forte. Quanto gli era mancato il calore di quell’amico così speciale.
Rimasero stretti a lungo, Shinichi poté sentirla singhiozzare e tremare per via dei singulti: le guance di Ran erano bollenti, alcune lacrime le rigavano furtivamente. La ragazza sprofondò la fronte sul suo petto. “Mi sei mancato così tanto, Shinichi. Avevo paura che non tornassi più.” La sua voce mal celava il rancore ed il risentimento che nutriva nei suoi confronti: in quel tono si condensarono felicità e rabbia, gioia ed amarezza.
“Ran, non preoccuparti ora, non piangere.” Le prese il viso fra le mani e le asciugò le lacrime. “Devo dirti un’altra cosa, credo sia importante.”
La ragazza aveva un’espressione trasognata e malinconica, pendeva letteralmente dalle labbra di lui. “Ti ascolto.”
“Si tratta di Conan. Oggi pomeriggio il piccolo Edogawa è partito; i suoi genitori hanno preso questa decisione in fretta e lui è stato costretto a partire.”
A quel punto però, il viso di Ran si rabbuiò. “Perché se n’è andato senza salutarmi?”
“Forse non voleva dirti addio. Non è sempre facile abbandonare qualcuno a cui si tiene e a volte si preferisce ricordare soltanto i momenti belli.” Le lacrime della ragazza ripresero a scendere copiosamente.
Non sapeva che Conan sarebbe comunque rimasto con lei.
“Ran.” Shinichi la scosse vigorosamente. “Mi ha detto di dirti che non ti dimenticherà mai. E che era sicuro che una karateka come te non avrebbe mai pianto come un coccodrillo.”
“Ha detto davvero così?” Ran si accarezzò la guancia col dorso della mano, asciugandosi quell’acqua salata che le annebbiava la vista. “E’ proprio un idiota.” Disse con un sorriso. Shinichi non poté far altro che ricambiare.
“Conan se n’è andato ma sappi che io sono tornato. E sono tornato per restare.”
 
 
 
 
Shiho trafugò dall’armadio di Shinichi una t-shirt bianca ed un paio di pantaloncini bluastri, poi, una volta indossati questi indumenti, decisamente troppo larghi per lei, si diede una rapida occhiata allo specchio: la maglietta sottile e leggera le si adagiava sulle spalle, anche se le cuciture le si fermavano più giù, la manica ampia giungeva presso l’incavo del gomito. Il materiale scivolava giù senza piccole pieghette, ma quella maglia era talmente lunga da interrompersi a metà della coscia. Osservò il suo visino sorridere appena, dopodiché si distese sul letto.
Era stremata e stanca. La sua schiena si adagiava finalmente su di un materasso morbido e soffice. Congiunse le mani all’altezza dell’addome e cominciò a fissare il soffitto, nella penombra.
Avrebbe avuto parecchie difficoltà nell’addormentarsi, i suoi pensieri confluivano intorno ad un unico fulcro, impedendole dunque di prendere sonno. Così, dopo cinque minuti di estenuante ‘sofferenza’, si alzò controvoglia e strappò un foglio a righe dal quaderno di Shinichi, che troneggiava sulla sua scrivania, sopra ad una pila di libri. Dopo aver afferrato una biro nera, si sdraiò nuovamente sul letto, stavolta a pancia in sotto.
Quel foglio bianco andava riempito dal fiume di parole che non avrebbe mai avuto il coraggio di pronunciare. E così, Shiho prese a scrivere.
La mano della ragazza procedeva autonomamente ed in breve non dovette neanche  più soffermarsi a pensare: il flusso della sua coscienza si riversava su quel pezzo di carta e piccoli segni neri cominciavano a prender vita grazie alla sua elegante calligrafia.
Appena appose il punto finale, la presa divenne meno salda e si affievolì progressivamente. La penna le scivolò dalle dita e rotolò a terra.
Si addormentò.
 
 
 
 

Il mattino seguente Shinichi tornò a casa. Erano le sei.
Quella notte aveva dovuto sorbirsi anche Kogoro, che svegliatosi per via dei discorsi dei due, aveva preso a tempestarlo di domande. Poi, la nottata l’avevano passata fra i mille racconti di Shinichi, profondamente avvincenti e coinvolgenti. Era stanco morto, voleva soltanto mettersi a dormire. Entrò nella sua stanza e si sfilò la giacca, poi vide che Shiho dormiva beatamente sopra alle lenzuola; aveva il volto sereno. Finalmente.
Dalle finestre spuntarono le prime luci dell’alba e alcuni raggi tiepidi illuminarono la stanza, facendo brillare anche la biro che stava sul pavimento. A quel punto Shinichi si chinò a raccoglierla e notò anche quella lettera sul cuscino.
Non avrebbe dovuto leggerla? Si limitò a posare la penna sulla scrivania, dopodiché andò in cucina a prepararsi un caffè caldo. Mentre lo rimestava nella tazzina col cucchiaino pensava a quel foglio. La sua curiosità era deformazione professionale e fu l’unica cosa che lo spinse a rientrare in camera per poter leggere quelle poche righe. Non avrebbe dovuto.
Le sue iridi rischiarate dal sole presero a scorrere lentamente, da sinistra a destra.

 
 
Cara Akemi,
Non so dove tu sia in questo momento e non so se mi stai guardando, se Veronika è lì insieme a te.
Spero soltanto che entrambe stiate bene.

E’ stato un periodo così difficile per me. Ed ora sono nuovamente sola.
Come sapevo (ma come d’altronde ho sempre saputo), Shinichi è tornato dalla sua Ran. Non vorrei essere egoista, ma mi dispiace: l’immagine di loro due che si riabbracciano mi stringe il cuore in una morsa.
Perché deve capitare tutto a me? Perché non ho il diritto di essere felice anche io? Perché mi hai lasciato sola e te ne sei andata così? E come se non bastasse, come se non fosse abbastanza, mi hanno tolto anche il sorriso di Veronika, la fiducia che sin da subito aveva imparato a nutrire nei miei confronti, nonostante il mio cinismo e la mia aura di mistero.
E’ tutta colpa sua. Lo so.
Ma non posso fare a meno di pensare a come il mio cuore cominci a pulsare ogni volta che lo vedo. E’ la paura, è l’angoscia, è la tensione che mi scuote violentemente, la rabbia e l’odio divenuti talmente forti che non posso più farne a meno.
Mi ricordo di quando mi dicesti che trascorrevo troppo tempo in laboratorio, che dovevo uscire a guardare il mondo reale coi miei occhi, che dovevo lasciar perdere i libri e dovevo iniziare a godermi la vita. Quanto avevi ragione, sorella.
La vita è così fugace che te ne sei andata via con la rapidità di un fiore che appassisce: un bellissimo stelo dai petali che sfioriscono di giorno in giorno. Non voglio fare la stessa fine, Akemi. Non voglio morire.
Io devo vendicarti, devo vivere a pieno la mia vita, e devo farlo anche per te.
Ma ti chiedo soltanto di perdonarmi perché ora non ne ho la forza.
Quell’uomo mi ha rubato il mio primo bacio, i miei primi veri sentimenti. Quell’uomo mi ha rubato tutto, mi tiene in pugno.
Ho paura. Cosa devo fare?
Aiutami, ti prego.
Se solo fossi qui, saprei come comportarmi.
Ho bisogno di qualcuno che sia in grado di darmi il suo affetto, ma Shinichi è un idiota incapace di vedere al di là dei propri occhi. E sento che ormai non sarà più in grado di asciugare le mie lacrime. Ormai ho la mente annebbiata ed inebriata da quel maledetto. Devo stargli alla larga. Forse dovrei scappare e andarmene via lontano, cominciare una nuova vita. Ma non è nel mio carattere scappare. Ho sempre affrontato tutto e vincerò anche questa sfida.
Ora devo salutarti, sorella mia. Le palpebre sono sempre più pesanti, ho bisogno di dormirci su.
Spero che sarai in grado di perdonarmi per quello che sto facendo.
Perdonami.
Perdonami se ho trovato il calore fra le braccia di Gin.
E’ tutto così sbagliato.

 

Ti voglio bene,
tua Shiho.’

 
 
‘Idiota, incapace.’ Ecco cos’era Shinichi.
A fine lettura il giovane Detective fu colto da un grande sconforto. Gli dispiaceva per Shiho. E quell’uomo l’aveva attirata nella sua tela, aveva approfittato della sua debolezza per divertirsi con lei. Sicuramente non provava nulla.
“Chi ti ha dato il permesso di leggere?” La voce di Shiho piena di astio lo fece sobbalzare. La vide alzarsi dal letto e avvicinarsi a lui come una furia.
“Ai, io posso spiegarti!” Shinichi tentò immediatamente di giustificarsi, ma nel frattanto la ragazza gli aveva strappato quel foglio dalle mani e lo stava riducendo in mille pezzi.
“Non spiegherai proprio niente a nessuno.” Lasciò che i frammenti dei suoi pensieri più intimi scivolassero sul pavimento freddo. “Non avresti dovuto leggere.”
Shinichi deglutì. Aveva violato la sua privacy, non aveva torto nel prendersela così tanto.
“Io non avrei voluto. Voglio aiutarti, Ai.” Le strinse dolcemente il polso. “Io voglio farlo.” Aggiunse poi, con più sicurezza, incontrando gli occhi contratti e rossi di Shiho, che tentava di divincolarsi dalla sua presa.
“Non puoi fare nulla. Devo sbrigarmela da sola.”
“Io ti voglio bene, perché non vuoi vederlo? Perché non mi credi?”
Shiho abbassò lo sguardo e assieme ad esso piegò anche il capo. “Perché non è vero.”
“Non capisco chi ti abbia messo in testa queste idiozie. Immagino che sia stato Gin, vero?”
“Zitto, non sai nulla di lui.” Ora lo difendeva anche. Era assurdo.
“So soltanto che è un criminale che ha rovinato la vita a molte persone. Stavolta non si tratta di te.”
“Lasciami, Shinichi.” Proferì lei sottovoce. La stretta divenne più lieve, fin quando le dita del ragazzo non si dischiusero del tutto.
“So quel che devo fare ora. Non sbaglierò. Ma ho bisogno di tempo. E comunque non ti perdonerò mai per aver letto quella lettera. Avrei dovuto conservarla lontano da occhi indiscreti.”
“Mi dispiace.” Shinichi si grattò il capo. “Ma l’ho fatto perché ci tengo a te, anche se ti sei convinta esattamente del contrario.” Era sincero, dopotutto.
“Io esco.”
“Dove vai?”
“A fare un giro.” Raccolse i suoi jeans da terra e si avviò verso il bagno.
“E’ pericoloso gironzolare da sola.”
“Al parco di Beika non c’è pericolo. Ci sono tanti bambini e tante mamme a quest’ora. E’ troppo frequentato.” Si richiuse la porta alle spalle e Shinichi trasse un sospiro. La ragazza uscì soltanto qualche minuto dopo. Poi la vide avvicinarsi all’uscita senza neanche degnarlo di uno sguardo.
“Ehi, fa’ attenzione.” Le urlò, lui. Il cancello si chiuse.
 
 
 
 
L’aria era tiepida, un vento leggero agitava mollemente le fronde verdi degli alberi lungo la via.
I bambini correvano felici assieme alle loro madri che di tanto in tanto ne perdevano il controllo, incapaci di porre freni al loro entusiasmo.
Il cinguettio degli uccellini seguiva il loro volteggiare armonico che si stagliava nel cielo terso. Era tutto perfetto.
Shiho aveva sentito la mancanza di quel mondo così bello. Era come una novella Eva che riscopriva la natura che la circondava. Ora guardava con occhi nuovi qualsiasi cosa che le si parasse dinanzi. Giunse al parco di Beika.
Era sabato, molti bambini erano lì a giocare con i loro amici. La ragazza andò a sedersi su una panchina di legno, proprio sotto ad una grande albero. Ad eccezione delle urla felici di quei teneri mocciosi, nei momenti più tranquilli riusciva a percepire il sottile rumore del vento che si inoltrava fra le foglie e fra i rami di quella pianta alle sue spalle.

 
“E’ nel Parco di Beika.” Borbottò l’uomo dagli occhiali scuri, abbassando il finestrino della Porsche. Vodka e Gin erano nella loro auto, il sole scaldava la carrozzeria, tanto che Gin fu costretto ad aprire anche il vetro dalla parte del guidatore.
“Che sta facendo?” Borbottò il biondo, accendendosi una sigaretta. Del denso fumo grigio cominciò ad aleggiare nell’abitacolo, creando scie sospese nell’aria.
“E’ seduta sulla panchina. Dei bambini giocano a qualche metro da lei con una palla da calcio.” Vodka era entusiasta come sempre. Adorava i pedinamenti e l’adrenalina che sapevano produrre in chi era dalla parte del crimine.
“E’ felice?” Sussurrò Gin con un sorrisino a mezza bocca. Diede un colpetto alla sua sigaretta e fece cadere la cenere fuori dall’auto.
“Pare di si.”
“Bene. Lo sarà ancora per poco. Aspettami qui. Me la sbrigo in un minuto.” Borbottò lui con una strana espressione di sadismo sul viso spigoloso. Spense la sigaretta nell’apposito porta-cenere e aprì lo sportello della sua Porsche nera, tirata a lucido come sempre e sfavillante alla luce del sole.
 
 
Shiho non si era accorta di nulla. Accavallò le gambe e continuò a godersi quell’aria stranamente calda per la stagione.
D’un tratto, un bimbo calciò il pallone proprio nella sua direzione: esso compì una traiettoria parabolica e rotolò proprio ai piedi della ragazza, la quale si protese in avanti per poter recuperare il suo passatempo.
Ma d’un tratto si vide allontanare quel pallone da qualcun altro, le sue mani rimasero sospese a mezz’aria. Lo sguardo di Shiho risalì vertiginosamente lungo la figura imperiosa che stava di fronte a lei. Al di sotto delle falde del suo cappello i ciuffi dorati di quell’uomo si agitavano fra le pupille verdi.
Il piccolo corse nella direzione dell’uomo con l’impermeabile nero, e decisamente intimorito ebbe delle riserve a riprendersi il suo pallone, ma alla fine quando riuscì ad avvicinarsi a Gin e a compiere quel coraggioso gesto, se la diede a gambe levate.
“Buongiorno mia cara Sherry. E’ una splendida giornata, non sei d’accordo?”
“Lo era fino ad un attimo fa.”











Salve Gente! Ho cambiato un po' di cosine nei font a questo capitolo! E' giunto prima del previsto, ero molto ispirata e ho deciso di buttare giù queste righe. E' un capitolo anonimo, appunto si chiama "Sentimenti." Perché a differenza degli altri esprime in maniera più netta quelli che sono appunto, i sentimenti provati dai vari personaggi. Spero che vi sia piaciuto e che non sia sembrato eccessivamente stucchevole. Ho in mente tante cosucce carine ed interessanti per il resto della storia, ma preferisco aggiornare ora dato che questa settimana sarà molto dura e stressante (data la simulazione della terza prova che diventa sempre più vicina XD ringrazio tutti voi che mi sostenete continuamente, sono felice che vi piaccia questa storia :)
Ringrazio come sempre tuttti coloro che mi seguono:
Bankotsu90, chicc, Evelyn13, I_Am_She, Kuroshiro, Layla Serizawa, Nezu, Red Fox, Sherry Myano, tigre, trunks94_cs, Violetta_, _Flami_, Sosia, Caroline Granger
E ancora chi ha inserito questa storia nei preferiti:
A_M_B, chyo, Evelyn13, Imangaka, ismile, I_Am_She, Lady Night, Queenala, trunks94_cs, Yume98, _Flami_
Vi ringrazio infinitamente!!! E' merito vostro se questa storia sta procedendo nel verso giusto :)
Un bacio, e a presto!!! Sarei felice di sapere cosa ne pensate di questo capitoletto :)

Ciaooooooooo!!!


Aya Brea

P.S: la citazione iniziale è degli Opeth, un gruppo che personalmente adoro, mi piace moltissimo, se ne avrete l'occasione (e se siete avvezzi al genere del Metal), ascoltateli, ne vale davvero la pena!

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Una sera tinta di rosso. ***


 "Nella sua camera, nella febbricitante bianca luce artificiale, nella camera cosparsa di carta e libri, scrive alla sua scrivania, scrive a Peter e a Penn, e la pioggia picchietta sul vetro della finestra, la pioggia imperla il vetro della sua finestra e rotola via dolcemente come lacrime..."



(Jack Kerouac)

 

 






Fra quei due calò un silenzio permeato di soffice tranquillità ed i bimbi che un attimo prima giocavano a pallone si erano oramai dileguati.
Gin e Shiho erano soli.
Il biondo si sedette al fianco della ragazza e le rivolse un profondo sguardo, fissandola con quegli occhi verdi carichi di fascino demoniaco.
“Allora, bellezza? Il tuo Shinichi è tornato finalmente.” Il suo tono era a metà fra l’ironia ed il sarcasmo. Shiho incrociò le braccia al petto con fare disinvolto e non distolse lo sguardo, che al contrario di quello rapito di lui, era perso fra i cespugli dello spiazzo di fronte a loro. Non lo degnò di particolari attenzioni e Gin non mancò certamente di notare che la ragazza aveva nuovamente assunto la linea difensiva ed altezzosa di sempre.
“Shinichi? Cosa diavolo vuoi che me ne importi? Io ormai faccio parte dell’Organizzazione, no? Non ho intenzione di tradirla per colpa di un adolescente in piena crisi ormonale.”
L’uomo si stupì nel sentirla pronunciare quelle parole così aride e secche. “Addirittura?”
“Certo. Sto continuando a frequentarlo in modo tale da poterlo controllare meglio.”
Uno stormo di uccelli spiccò un volo armonico, schizzando fra le fronde verdi degli alberi e stagliandosi poi oltre il tenue cielo azzurro.
“Vuoi farmi credere che ora fai la spia?”
La biondina si limitò ad annuire. Nuovamente fra loro due si frappose un silenzio etereo, palpabile, pieno di tensione. Fu sempre lei a rompere il ghiaccio.
“Vermouth sta collaborando con Shinichi ma non so ancora cos’abbia in mente. Credo che entrambi vogliano ucciderti. Ma non so ancora il motivo per cui si sono alleati; fino ad ora non si sono neanche incontrati, ma ho intenzione di indagare.”
Gin trasse un lieve sospiro e sul suo viso comparve il suo classico ghigno di soddisfazione: probabilmente stava provando il brivido adrenalinico della vendetta che gli ribolliva nelle vene. “E brava la mia Sherry.” Provò a sfiorarle la guancia con la mano, ma Shiho si scansò prontamente e di tutta risposta gli strinse il polso.
“Non mi toccare.” Finalmente piantò i suoi occhi cerulei in quelli del biondo e qualche secondo dopo la sua presa pian piano andò affievolendosi. “Prenditi il mio numero di cellulare; ti faccio sapere quando la situazione si smuove. Qui siamo troppo esposti. Vattene.”
Gin tornò serio. “Mi auguro che tu stia dicendo la verità. O sarò costretto a toglierti di mezzo.”
“Non avrei motivo di mentirti.” Shiho si sollevò in piedi e sbuffò: quell’uomo arrivava sempre nei momenti meno opportuni e non faceva altro che disturbare quei rari momenti di quiete che oltretutto riusciva a crearsi difficilmente.
Lui si segnò il suo numero di cellulare e si alzò dalla panchina, infilandosi le mani in tasca e percorrendo il suo corpo con sguardo meticoloso, analitico. Shiho era a braccia conserte, strinse ancor di più le braccia a sé, come per proteggersi da quegli occhi così terribilmente invadenti. ‘Gin, maledizione. Non guardarmi così. Smettila. Per favore. Smettila.’
“A presto.” Proferì lui, interrompendo il flusso dei pensieri della scienziata, la quale lo vide voltarsi e avviarsi verso l’uscita del parco.
Il suo impermeabile nero danzava gonfiandosi ad ogni folata di vento, i suoi capelli dorati si adagiavano ritmicamente sulla sua schiena.
 
 
 
 
Shiho fece ritorno a casa di Shinichi quando il cielo era ormai divenuto scuro: gli uccelli cominciavano a levarsi in volo per poter raggiungere i propri ripari e i rumori delle serrande dei negozi che si abbassavano la accompagnarono per tutta la lunga strada principale: passo dopo passo osservava di sfuggita le persone che le camminavano di fianco, alcune di tutta fretta, altre più lente. La vita proseguiva. Per tutti.
Ognuno è soltanto un infinitesimo puntino del grande quadro del mondo. A chi poteva interessare delle sue travagliate vicissitudini interiori?
Giunse finalmente a casa del ragazzo: lo ritrovò chinò sulla scrivania, con indosso una t shirt blu e un paio di pantaloni di una tuta, intento a leggere le pagine di qualche libro giallo: le solite letture di Shinichi, intrise di fitti misteri ed omicidi, di Detective dal cipiglio geniale e dall’aria malinconica, spesso trasognata.
“Buonasera, Kudo. Noto con piacere che ti intrattieni coi tuoi passatempi culturali preferiti.” Shiho lasciò cadere a terra il suo zainetto e si avvicinò al suo amico, il quale chiuse il libro con un gesto secco. Si stiracchiò le braccia, oramai indolenzite.
“Mi sono preso un paio d’ore per dare una letta al nuovo libro di mio padre.”
“Ormai è l’ennesimo che scrive. E come ti sembra?” La ragazza andò a sedersi sul letto, per fortuna loro, del modello ‘a castello’. Era stremata.
“E’ molto avvincente. Credo che sia addirittura migliore del precedente. E’ inutile, non c’è niente da fare: è un mago con le parole.” Gli occhi di Shinichi splendevano di soddisfazione.
“Mentre lui si occupa di teoria …” La schiena di Shiho si adagiò fra le lenzuola profumate. “ … Tu ti occupi della prassi.”
“Già.”
Quei due continuarono a chiacchierare a lungo, anche se di argomenti piuttosto frivoli e di circostanza. Sembrava che Shiho stesse cercando di mantenere a freno il fiuto indagatore di Shinichi e con suo compiacimento, si rese conto che era riuscita nell’ardua impresa.
Cenarono assieme ed in meno di mezz’ora si ritrovarono nuovamente nella stanza di lui.
Il ragazzotto cominciò a mettere in ordine le varie scartoffie sulla scrivania ed una volta che ebbe disposto i fogli e le riviste in una pila ordinata, passò a riporre alcuni documenti in degli archivi. Shiho lo guardava di tanto in tanto, poi si perdeva nuovamente ad osservare lo spicchio di luna che dominava il cielo nero, svettare maestoso ed irraggiungibile al di là dei vetri della finestra.
“A cosa stai pensando?”
La domanda di Shinichi fu per lei come un fulmine che balena improvvisamente nell’oscurità. 
“A quello che farà Vermouth quando ci troverà.”
Shinichi si fermò nel bel mezzo della stanza. “Lo sapremo molto presto. Domani ci incontreremo.”
“Dici davvero?” Dalla voce della ragazza emerse un sottile entusiasmo.
“Si. Ci vedremo al Cafe la Nuite domani sera. E con l’occasione porto anche Ran. Vuoi venire?”
Lei a quel punto si strinse timidamente nelle spalle e si mise a braccia conserte. “Starai scherzando, vero? Mi sentirei di troppo.”
Certo che quell’imbecille di Shinichi era proprio duro di comprendonio. Come poteva chiederle una cosa simile dopo aver letto anche quello straccio di lettera scritta il giorno precedente?
“Va bene, dai. Lascia perdere.” Concluse lei, socchiudendo gli occhi.
 
 
 
 
Shinichi indossò la sua uniforme da liceale e in breve tempo si ritrovò a camminare lungo la strada che lo avrebbe immesso nella grande piazza centrale. Ormai era sera, i bar aperti erano strapieni di gente e di ragazzi, e l’aria più mite permetteva loro di starsene ai tavolini fuori dai locali, a godersi un buon drink e una soffice brezza autunnale. Il ragazzotto se ne andava spedito, con le mani infilate nelle tasche, sicuro di sé. Di tanto in tanto allungava lo sguardo al cielo bluastro, disseminato di piccoli lumini brillanti e bianchi, circondati da aloni opachi, poi riposava nuovamente gli occhi sul selciato, dando alcuni colpetti ad una pietruzza che lo accompagnava oramai da un paio di minuti.
Finalmente si fermò, una volta che fu giunto di fronte ad locale recante l’insegna “Cafe La nuite”.  Di fronte alla porta d’ingresso vi era uno spiazzo di forma rettangolare, coperto da una grande tenda bianca dedicato alla presenza di alcuni tavolini circolari. La tenue luce giallastra delle luci creava un ambiente quasi avulso da quello della movimentata cittadina: Shinichi poté immediatamente percepire una sottile melodia retrò anni ’50, provenire dall’interno. Si sentì come catapultato nella Parigi dell’epoca d’oro, dell’epoca del boom economico.
Fra i tavoli scorse una figura elegante che sedeva da sola ed i cui occhi chiari vagavano distrattamente. Era lei. Indossava un tubino nero e un paio di tacchi, i capelli biondi erano raccolti in uno chignon ma alcune ciocche le ricadevano vaporose, spezzandole gli zigomi.
“Se me lo avessi detto mi sarei vestito per l’occasione.”
Vermouth alzò lo sguardo e vide Shinichi sedersi proprio di fronte a lei.
“In verità sono io a sentirmi in imbarazzo ora. Sono abbastanza irriconoscibile?” Chiese la donna.
“Per un Detective come me, no. Ma per chiunque altro, credo proprio di si.”
Ci furono alcuni secondi di silenzio, dopodiché lei riprese a parlare. Si creò immediatamente un’insolita intesa fatta di sguardi intensi. “Dovrei ucciderti per quello che hai fatto, lo sai? Ho rischiato di beccarmi una pallottola.” Proferì con voce bassa. Le note di quella canzone al retrogusto antico coprivano le loro voci da orecchie indiscrete.
“Lo so, mi dispiace. Ma non potevo farlo. Non potevo ucciderlo.”
“Gin è sulle nostre tracce. Cercherà di uccidere sia me che te. Per quanto riguarda Shiho non so che intenzioni abbia. Tieni d’occhio quella ragazza, non me la racconta giusta.”
Shinichi trasse un sospiro. L’aveva lasciata sola a casa. Chissà cosa stava facendo.
“Vermouth, tagliamo corto. Cosa vuoi in cambio della collaborazione?”
La donna a quel punto rise e dalla sua borsetta tirò fuori un paio di fogli e li lasciò scivolare sul tavolino che si frapponeva fra i due. Sorrise sardonica nel vedere che Shinichi aveva sgranato gli occhi.
Il ragazzo infatti mandò giù la saliva con qualche difficoltà, ma poi cercò di riprendersi ed annuì. Non aveva altra scelta.
“La conosci questa canzone?” Lei parve tornare immediatamente al livello di una normale conversazione, anzi, proferì quella domanda con tono amabile e suadente, sfilandosi dal pacchetto una sigaretta slim, di quelle sottili e portandosela fra le labbra rosse.
Il ragazzo scosse il capo. “No.”
“Non conosci Edith Piaf? La Vie en rose? Des yeux qui font baisser les miens un rire qui se perd sur sa bouche…” Cominciò ad intonare il ritornello in un francese molto raffinato. A quel punto Shinichi si alzò bruscamente, rapido.
“Devo andare. Ci sentiamo.”
“Mi lasci così?”
“Devo raggiungere una ragazza, mi dispiace. Sono in ritardo.”
Stavolta fu lui a “scappare”. La abbandonò e si fece spazio velocemente fra gli ospiti del locale.
Passo dopo passo quella musica si perse e si confuse nel vociare delle altre persone, fin quando non venne inghiottita completamente dal silenzio della notte.
 
 
 
 
Shiho era avvolta dal calore delle lenzuola fresche e leggere e a quell’ora della notte, nulla avrebbe potuto disturbarla, eccetto lo scandire incessante e costante delle lancette dell’orologio. Le curve longilinee della sua sagoma erano ancor più accentuate da quella stoffa di seta che si adagiava sul suo corpo e ad ogni suo movimento si increspava delicatamente.
D’un tratto il cellulare sul comodino vibrò.
Chi poteva essere a quell’ora? Shinichi? Allungò il braccio per poter afferrare il telefono e dopodiché spinse il tasto verde. Sul display bluastro compariva la scritta:
“Un nuovo messaggio.” – seguita da un numero sconosciuto. Si sbrigò ad aprirlo, rannicchiata ancora sotto le coperte.

“Buonasera, mia dolce Sherry. Hai guardato com’è pallida la luna, stanotte?”

Quando le sue iridi celesti giunsero al punto interrogativo non riuscì a reprimere un brivido. Le sue dita presero a tremolare e per alcuni minuti che a lei sembrarono un’eternità, rimase a fissare lo schermo, completamente inebetita. Doveva rispondere? Le falangi digitavano convulsamente, alla fine aveva deciso di controbattere.

“Stavo dormendo, Gin. E della luna non me ne importa proprio un bel niente. Che vuoi?”

Non riusciva a fare altro: le sue pupille oramai dilatate, erano ferme su quel display, nell’oscurità della stanza, in quel silenzio tremendamente opprimente.

“Chissà se il tuo visino candido è pallido, ora. Secondo me stai tremolando come una foglia appesa ad un ramo. Non è così?”

Shiho mandò giù la saliva, aveva la gola riarsa ed il cuore a mille, come sempre. Maledizione, dove diavolo si era cacciato Shinichi? E cosa voleva Gin?

“Mi vuoi dire cosa diavolo vuoi?”

“Sherry, mia cara. E’ proprio così difficile da capire?”


“Io credo che lo sia. O almeno, per me lo è. Non sono nella tua mente di criminale pazzo assassino e psicopatico.”

Un lieve sorriso le illuminò vagamente il volto e per qualche secondo riuscì a visualizzare il viso di quell’uomo contrarsi in una sottospecie di ghigno divertito. Sicuramente quegli epiteti gli facevano gonfiare il petto di orgoglio e soddisfazione.

“Patetica."

A quel punto Shiho strinse i denti. Sentì trafiggersi il petto da una lama acuminata, trapassarle lo sterno da parte a parte.

“Fai come vuoi. Io mi rimetto a dormire, questa conversazione è inutile.”

Quelle parole l’avevano avvelenata definitivamente, qualcosa le corrodeva pian piano lo stomaco. Lo maledì in un borbottio confuso, basso e roco, dopodiché si sdraiò sull’altro fianco, ma mantenne il cellulare sopra il cuscino.
Alle 11.46, quell’aggeggio vibrò per l’ennesima volta.

“Sei sola?”

Lei non rispose. Un altro messaggio.

“Rispondimi, Sherry.”

Santo Cielo. Ebbe quasi paura, così alla fine si decise a spedirgli un altro sms.

“Si. Perché?”

“Voglio vederti.”

Shiho avvertì un vuoto dentro di lei. Le mancava l’aria.

“Perché mi hai chiesto se sono sola?”

La ragazza non stava più nella pelle, era agitata, si muoveva frenetica fra le lenzuola bianche, senza requie. Lo sguardo sostava sul freddo display. Nulla. Passarono alcuni minuti interminabili.

“Ci sei ancora, Gin? Il gatto ti ha forse mangiato la lingua?”

Shiho strinse i denti e affondò la fronte contro il cuscino.
Niente. Non rispondeva più.
 
 
 
 
Vodka si stava annoiando a morte: il suo partner era intento a sghignazzare su quello stramaledettissimo cellulare e non gli dava proprio retta. Gli aveva affidato il compito di sorvegliare l’entrata di quel locale, eppure non scorgeva ancora nulla all’orizzonte.
I due sgherri si trovavano in un discopub molto elegante; mentre loro sedevano ad un tavolino, immersi in un’atmosfera di luci soffuse e basse, ragazzi e ragazze si addensavano nel centro della sala, ridacchiando e scherzando. Altri invece erano già al bancone a prendersi qualcosa da bere.
“Allora Vodka? Ancora nulla?” Il biondo sedeva comodamente con le gambe accavallate, con una mano scorreva i messaggi presenti sul display del suo cellulare, con l’altra si portava la solita sigaretta fra le labbra sottili, ne aspirava il fumo empiendosene i polmoni e cercando di distendere i muscoli tesi, i nervi contratti.
“Ancora nulla. Siamo sicuri che verrà?”
Gin rise sommessamente. “Certo.” Borbottò, completamente rapito da quei messaggini.
“E’ quella ragazza bionda?” Azzardò l’omone, con un ghigno complice.
“Fatti gli affari tuoi.” Il biondo ciccò con nonchalance nel portacenere di fronte a lui e non accennò a distogliere lo sguardo.
Trascorse del tempo, prima che Vodka intravide finalmente la figura cui stavano dando la caccia. Era una ragazza alta e magra, indossava per l’occasione un vestitino bianco a balze ed i capelli scuri le ricadevano delicatamente lungo le spalle bianche e nude.
“Gin! Molla quel cellulare. E’ lei.”
A quel punto, il partner del bestione con gli occhiali scuri spense la sua sigaretta nel posacenere con un gesto secco e stizzito, poi si alzò in piedi e infilando le mani nelle tasche passò al fianco del compagno, adottando la più completa disinvoltura.
“Io andrò sul retro. Controlla le due uscite.”
 
 
 
 
Sonoko era entusiasta di quella festa, fra l’altro avrebbe potuto flirtare con un ragazzo sul quale aveva messo gli occhi addosso da un bel po’. Quella ragazza non cambiava mai. Adorava divertirsi, aveva la parlantina e la lingua lunga, ma alla fin fine le piaceva l’umiltà e la determinazione di Ran, che spesso doveva farle da calmiere degli ‘spiriti ribollenti’.
“Ran! L’hai visto, è proprio lì dietro!” La ragazza afferrò il braccio dell’amica e piena di gioia indicava un ragazzone seduto al bancone.
“Sonoko, sei proprio sicura che quel belloccio sia un tipo raccomandabile? A me sembra così poco affidabile.”
“Ma certo che lo è! E poi sto parlando con un ragazza che ha avuto il coraggio di aspettare uno scemo per quasi un anno! Shinichi si, che è un tipo poco raccomandabile.”
Ran scosse il capo ed inevitabilmente arrossì. “Ma che stai dicendo? Non è vero. Mi preoccupavo soltanto perché non è capace di badare a se stesso.” Certo. Come no.
Comunque, Shinichi doveva aver avuto un contrattempo, poiché era in forte ritardo.
“Su, dai. Andiamoci a bere qualcosa, quel Detective da quattro soldi arriverà non preoccuparti.” Sonoko avvolse il polso di Ran per far si che la seguisse, ma appena sfiorò la sua pelle diafana, ne percepì il battito rallentato, la freddezza di quella carne. “Ran? Va tutto bene?” A giudicare dallo sguardo attonito e dal volto cinereo, non sembrava proprio.
“Ran?!” La scosse.
“S-Sonoko.” Bisbigliò fra sé. Aveva avuto un’allucinazione? L’impermeabile nero svolazzava alla balconata del piano superiore, ne era convinta.
“Ma che ti prende, chi è? Chi hai visto?” Anche la ragazza guardò nella direzione dello sguardo dell’amica. Lo vide.
Quel biondo aveva gli avambracci incrociati sulla ringhiera del ballatoio sopra di loro.
“Sonoko, avverti immediatamente la sorveglianza! Sbrigati!” Ran si riprese quasi nell’immediato, così corse verso le scale che l’avrebbero condotta al piano superiore. Diavolo, era una follia! Qualcuno aveva cominciato a sparare, e nell’udire le prime scariche, la gente cominciò ad urlare, in un tripudio di piombo e sangue. Il locale fu messo in subbuglio di pochissimi istanti.
Ran correva, stringeva i denti più che poteva e saliva rapidamente le scale. Dov’era Shinichi? Non c’era mai, Sonoko aveva pienamente ragione.
Una volta giunta nei pressi del ballatoio si rese conto che il biondo aveva lasciato la sua postazione e si limitò a sporgersi per osservare dall’alto la situazione. Fortunatamente alcune squadre di uomini armati stavano facendo il loro onesto lavoro e lì sotto, la sala era diventata il teatro di scontro fra alcuni uomini vestiti di nero. Una torma di gente si stava riversando fuori dalla porta d’ingresso, colta dall’agitazione generale e da una sollevazione di urla e grida sconnesse. Ran aveva le palpitazioni e le mani sudate. ‘Devo avvertire Shinichi.’ Pensò. Fortunatamente sapeva mantenere il controllo della situazione e in questo caso le arti marziali ebbero un ruolo fondamentale. Quando fece per voltarsi, però, si ritrovò a pochi palmi di distanza da Gin. Era l’uomo che l’aveva malmenata, che aveva inveito più volte sul suo corpicino ormai esausto; riconobbe immediatamente quello sprazzo malvagio balenare nei suoi occhi verdi.
“Chi siete? Che volete?” La canna della pistola puntata dritta alla fronte non la intimoriva. O almeno, era quello che voleva dare a vedere.
“La tua vita.” Proferì Gin a denti serrati, dopodiché le spinse la pistola alla tempia. Ran si ritrovò contro la ringhiera, con la schiena che sporgeva vertiginosamente.
“Non l’avrete tanto facilmente.” La ragazza si diede un abile slancio e con un violento calcio riuscì a disarmare l’uomo e a schizzare nella direzione della porta d’emergenza, a pochi metri da lì. La aprì in fretta e furia, col cuore che le pulsava in gola, la salivazione azzerata e l’adrenalina a mille. Corse come un fulmine lungo un corridoio buio e dopo averne percorso una buona metà, sentì la porta blindata alle sue spalle aprirsi nuovamente, poi un paio di proiettili sfiorarle la nuca. Lanciò un urlo, ma l’istinto di sopravvivenza le permise di aumentare drasticamente il passo, tanto che finalmente raggiunse l’ennesima porta.
Quell’uscita fortunatamente dava sull’esterno. Una pioggerellina si abbatteva sullo stradone buio, i fari giallastri delle automobili in corsa fendevano l’aria umida, un polverone di condensa ed acqua si levava al cielo nero.
Ran tremò a causa di una sferzata di vento gelida, un fragore di tuono la stordì e subito dopo il bagliore del fulmine, l’acqua cominciò a cadere fittamente.
La ragazza aveva il fiato corto, non avrebbe di certo resistito a lungo, ma allo scalpiccio di passi divenire sempre più forte, ella non poté far altro che scappare via, addentrandosi per le vie buie e sudice di quella città assopita.
Non voleva morire.
 
 
 
 
Shiho venne svegliata bruscamente dal rumore assordante del tuono; era stato talmente forte che le finestre avevano vibrato violentemente, quasi avessero voluto schizzare via in mille minuscoli pezzi.
Perché Gin non le rispondeva?

“Anche io.”


Inviato.











Allora! Ciao a tutti! :) Eccoci all'ennesimo capitolo! Scusate innanzitutto per il ritardo mega super estremo con cui aggiorno.. purtroppo quest'anno mi stanno portando via moltissimo tempo!! :( Spero che questo capitolo vi sia piaciuto! :) Voglio ringraziarvi come sempre, tutti tutti quanti *_*

Partiamo da coloro che hanno la storia fra le preferite:

A_M_B, chyo, Evelyn13, Imangaka, ismile, I_Am_She, Lady Night, Queenala, ss2girl, trunks94_cs, Violetta_, Yume98, _Flami_

E ancora coloro che la hanno fra le seguite!!!

Anemone san, Bankotsu90, Caroline Granger, Chicc, Evelyn13, I_Am_She, Kuroshiro, Layla Serizawa, Nezu, Red Fox, Sherry Myano, sosia, tigre, trunks94_cs, Violetta_, _Flami_

Grazie ragazzi, davvero!
:)
Se avete notato in questo capitolo ci sono alcuni riferimenti al famoso quadro di Van Gogh, appunto, relativo al Cafè La Nuit! :)
Ciaoooooooooooo!!

Aya_Brea


Vi adoro <3

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Binario 23. ***


"Can you see the joker flying over, 
As she's standing in the field of clover, 
Watching out everyday? 

I wonder what would happen, if he took her away?"


(Wolfmother - Joker and the Thief)
 






Gin e Vodka si rincontrarono fuori dal locale: bastò loro una rapida occhiata d’intesa ed entrambi si fiondarono nel vicoletto dove il biondo aveva parcheggiato la sua fidata Porsche. Le suole delle loro scarpe producevano un veloce scalpiccio sul selciato umido e bagnato. I due uomini in nero aprirono le portiere e si infilarono nell’auto; l’abitacolo era caldo ed accogliente e stranamente gli interni emanavano ancora quel lieve e delicato profumo di pulito, di nuovo.
Gin si accese rapidamente una sigaretta e mise in moto: inserì la retromarcia e con un brusco movimento passò alla prima, per compire un’ampia manovra. Il volante schizzò fin quando non gli fu consentito, si bloccò improvvisamente, ma sotto la presa stretta del biondo, scivolò nella direzione opposta.
Le strade erano ormai deserte, ad eccezione di qualche furtiva coppietta che si stringeva lungo i marciapiedi. Quando i due presero l’autostrada, Gin spinse il piede contro l’acceleratore e Vodka sporse il capo fuori dal finestrino, osservando come le luci dei lampioni si susseguissero sempre più velocemente. Il vento gli sferzava violentemente contro il volto nerboruto, tanto che fu costretto a ritrarre il capo nell’auto.
“Sei sicuro che quella ragazza sia andata proprio in questa direzione?”
Il biondo si sfilò la sigaretta dalle labbra e buttò fuori il fumo. “E’ lontana da casa sua. Non può che essere andata alla stazione.” Non si poteva di certo dire che Gin fosse un tipo loquace ed infatti quella conversazione morì praticamente sul nascere. D’altronde non era il momento adatto per interloquire.
Qualche minuto più tardi, la Porsche svoltò a destra e costeggiò una zona desolata, ormai lontana dal centro abitato; alcuni metri più in là, l’automobile si fermò e i due scesero con nonchalance, addentrandosi in un viottolo buio. Nel silenzio di quella notte proseguirono celermente ma con la dovuta cautela, con la scioltezza e la leggerezza di un gatto, le cui zampette si adagiano dolcemente sul pavimento, ovattate dai classici cuscinetti rosa.
Gin e Vodka discesero una rampa di scale e finalmente entrarono nella stazione, anch’essa deserta. Vi erano soltanto alcuni senzatetto che si erano creati i loro ripari di fortuna agli angoli delle banchine.
“A che binario sarà?” Borbottò Vodka, il cui sguardo spaziava lungo i grandi tabelloni recanti gli orari degli arrivi e delle partenze.
Il biondo si fermò presso la banchina del binario 23, con le mani nelle tasche e gli occhi fissi nella direzione del treno che vi sostava. Una ragazza dal corpo esile e longilineo e con indosso un vestito bianco oramai zuppo d’acqua, aveva salito rapidamente le scalette ed era scomparsa in un uno degli ultimi vagoni.
Il viso di Gin si contrasse in un ghigno e Vodka lo vide rabbuiarsi al di sotto della tesa del suo cappello nero.
“E’ entrata lì?”
“Esattamente. Dividiamoci, sarà più semplice far fuori i vari disturbatori. Io vado a fare una visitina al macchinista; le faremo una bella sorpresa. Voglio concludere in bellezza la festa di questa notte.” Il biondo proferì le seguenti parole con un tono basso e decisamente inquietante, anche se quello sprazzo di sadismo non fece altro che riempire d’entusiasmo il robusto compagno di Gin.
“Ci si vede più tardi allora.” E così, la coppia si separò nelle due direzioni opposte.
 
 
 
 
Ran aveva la gola completamente riarsa, i capelli umidi e intrisi dell’acqua della pioggia le ridiscendevano sulle spalle nude, distribuiti in grandi ciocche scure e gocciolanti. Sentiva freddo, oltretutto il suo abitino bianco era bagnato e alle innumerevoli folate di vento sentiva il tessuto che si appiccicava contro la sua pelle. Strinse le braccia contro il petto e non poté far altro che tirare un sospiro di sollievo quando finalmente le porte del treno si chiusero.
I vagoni erano vuoti, fra l’altro la luce del suo scompartimento si accendeva e si spegneva ad intermittenza. Il corpicino della ragazza era percorso da alcuni brividi: era talmente ansiosa ed angosciata che più e più volte dovette guardarsi indietro, poi in avanti, percorrendo con lo sguardo il treno, in tutta la sua lunghezza. Sembrava un animaletto in trappola.
Finalmente, quando si udì il fischio del capotreno, partirono. Ran non aveva la più pallida idea che su quel mezzo sostassero anche i suoi aguzzini e per qualche breve frangente se ne stette tranquillamente seduta con la schiena contro il sedile.
La ragazza rivolse lo sguardo verso il finestrino e incominciò ad osservare il paesaggio che attraverso il vetro mutava velocemente: il suo pensiero vagava altrove, le sue dita si intrecciavano le une con le altre in maniera spasmodica, nel tentativo vano di concentrare la sua attenzione su qualcos’altro che non fosse la sua corsa disperata verso la salvezza.
Quel viaggio non le era mai sembrato così lungo.
Improvvisamente però, al rumore cadenzato del treno se ne sovrappose un altro, irregolare, pesante, come di passi che provenivano dal vagone dietro al suo. Ran si sporse per guardarsi alle spalle e vide un uomo robusto camminare nella sua direzione con incedere svelto. Era Vodka.
La ragazza mora sentì il cuore schizzarle in gola e istintivamente compì uno scatto in avanti, slanciandosi fra i sedili della direzione opposta e cominciando a correre. Non dovette neanche volgere il capo per rendersi conto che quell’omaccione la stava inseguendo.
“Aiuto! Qualcuno mi aiuti!” Urlò lei, correndo disperatamente verso il vagone di testa. Quel maledetto treno era vuoto a quell’ora, nessuno avrebbe potuto sentirla, era una follia. Eppure continuò a sgolarsi: le sue grida forti le raschiavano la gola. “Aiuto!”
Vodka non demorse ma anzi, proseguì imperterrito. “Sta’ calma, ragazzina! Fermati o giuro che appena riusciamo a prenderti ti facciamo a pezzi!” Ruggiva sguaiatamente l’uomo con gli occhiali.
Ran si rese conto che il treno aveva quasi concluso il suo tragitto, difatti volgendo il capo ai finestrini, notò con piacere che il paesaggio le era familiare. Deglutì e mandò giù la saliva: aveva corso così tanto che sentì il sapore acre del sangue in fondo alla gola. La frenata del treno fu piuttosto brusca, ma finalmente si era fermato. A quel punto Ran compì l’ultimo balzo disperato verso la maniglia del portellone e lo spinse nella direzione indicata.
“Apriti! Maledizione, apriti!” Forse era difettosa? Fatto sta che la porta non accennava ad aprirsi. Si convinse che quella successiva le avrebbe riservato la salvezza, così giunse a quella adiacente.
Niente. Non si apriva. Il senso di sconforto che pervase il corpicino di Ran non era paragonabile a nessun altra sensazione che avesse mai provato in vita sua. Le luci di tutti i vagoni si spensero progressivamente, come le pedine di un domino e nel frattempo si sentì il rumore tonante di uno sparo. La ragazza congiunse le mani contro il petto e strinse gli occhioni azzurri per abituarsi al buio che aveva improvvisamente inghiottito tutti i vagoni del treno. Dov’era Vodka? Non si sentiva più alcun rumore.
“Aiuto!” Sussurrò fra sé, dando credito ad un suo pensiero, poi sforzò le corde vocali e urlò nuovamente.
Era in trappola.
“Buonasera, Ran.” Una voce melliflua e maligna proruppe alle sue spalle. Era Gin, l’avrebbe riconosciuto fra mille altri. La ragazza si voltò e lo osservò: nella semioscurità poteva intravederne soltanto i contorni, gli occhi vispi brillare nel buio.
“Che avete fatto? Perché il treno è fermo?” Chiese con tono sostenuto. Aveva paura, ma tentò in tutti i modi di dissimularla.
“Il macchinista si sta facendo un bel sonnellino.”
“Bastardi!” Ruggì Ran a denti stretti.
Gin si lasciò andare ad una risatina sommessa, dopodiché sollevò il braccio sinistro e le puntò la Desert Eagle dritta alla fronte. Era un pistolone di grosso calibro, Ran non avrebbe mai potuto immaginare gli effetti di un colpo proveniente da quell’arma, se inferto a corto raggio.
Il biondo non si fece troppi convenevoli e lasciò che l’indice scivolasse contro il grilletto. “Muori, traditrice.” Bisbigliò lui.
Ran gli si slanciò addosso e arcuò le dita contro il suo impermeabile nero: la pallottola vibrò nei pressi della spalla di lei e perforò il finestrino, facendolo implodere e schizzare in microscopiche schegge.
La ragazza aveva lanciato un urlo in concomitanza con lo sparo di quella specie di fucile in miniatura ed ora cercava di disarcionare quel diavolaccio con tutte le ultime forze che le rimanevano in corpo. “Non voglio morire!” Urlò, poi lo spinse via ed il biondo digrignò i denti come una bestia, spingendola a sua volta e gettandola a terra con violenza. Ran non perse un istante: si sollevò in piedi e sfuggì dalle grinfie di quel criminale, riprendendo a correre nella direzione opposta.
Le sue gambette sottili si slanciavano veloci nel buio, inframmezzato soltanto dagli spiragli di luce che provenivano dai finestrini.
Spinse l’avambraccio contro lo zigomo e si asciugò delle lacrime furtive e calde che le solcavano la guancia. Era spacciata.
Gin prese ad inseguirla di tutta fretta, si morse il labbro inferiore e sparò un paio di colpi nella sua direzione, poi lasciò che Vodka facesse il resto. Il suo partner infatti l’aveva afferrata nuovamente per le braccia sottili e la tratteneva a sé, mentre quella creaturina si dimenava come un’ossessa.
“Gin! L’ho presa di nuovo!”
“Finiamola qui, mi sono stancato di giocare a nascondino.” Il biondo brancolava l’arma a mezz’aria e la teneva stretta. Gli occhi vitrei e celesti della ragazzina percorsero quelle dita forti e le iridi tremarono in preda al panico, nell’osservare come l’indice stesse per premere il grilletto, per l’ennesima volta.
E stavolta sapeva che non avrebbe sbagliato.
Ran strinse gli occhi e sprofondò nell’oblio.
“Ran!”
Il biondo si voltò d’improvviso e vide Shinichi impugnare una chiave inglese; non ebbe tempo per reagire, ma sentì soltanto un violento colpo alla fronte. “Dannato!” Ruggì questi.
Vodka lasciò la ragazza ed estrasse la pistola. “Maledetto Detective, proprio nei momenti meno opportuni!” La chiave inglese schizzò via dalle mani del ragazzo e colpì proprio l’arma dell’uomo, il quale fu costretto a chiamare la ritirata. Le sirene della polizia fecero rinsavire anche Gin, il quale sollevatosi in ginocchio, barcollò, si portò una mano contro la fronte ed osservandosi nuovamente la mano la vide intrisa del suo sangue rosso cremisi.
“Gin, stanno scappando!”
“Cristo. La polizia! Dobbiamo fuggire.” Il biondastro scattò nuovamente in piedi e sparò un colpo contro la maniglia del portellone del treno, la quale andò in frantumi e permise loro di uscire. In lontananza scorse Shinichi che teneva la mano della ragazza dall’abito bianco, ed entrambi scappavano lungo un vialetto semi-deserto.
Erano troppo distanti, oramai.
I due uomini in nero sgattaiolarono via dalla stazione, ma a pochi passi dall’uscita dovettero arrestarsi: le volanti della polizia avevano creato un posto di blocco, e decine di poliziotti armati di fucili d’assalto si stavano riversando fuori dalle loro automobili.
“Oh no, Gin. Sono troppi, cosa diavolo facciamo?” Vodka aveva la malsana abitudine di perdere le staffe ogni qualvolta si presentassero degli scontri apparentemente troppo impegnativi.
“Fai silenzio, Vodka. Dobbiamo dividerci, altrimenti ci fanno fuori.” Il biondo serrò i denti ed inspirò una ventata d’aria gelida. “A più tardi.” Proferì serio, infilò le mani nelle tasche dell’impermeabile e si volatilizzò.
Vodka aveva percorso una decina di metri, quando udì una scarica di proiettili in lontananza. Stavano sparando addosso al suo compagno. Quel biondo era un osso duro, se la sarebbe sicuramente cavata senza troppi problemi. O almeno, così sperava.
 
 
 
 
Shiho era in strada. Quella notte non riusciva proprio a prendere sonno. Passo dopo passo scorreva per l’ennesima volta i messaggi che si era scambiata con Gin. Ma che diavolo voleva? Non riusciva in alcun modo a capire se la stesse prendendo per i fondelli o se era serio. Voleva vederla? E lei? Forse aveva sbagliato a mandargli quell’ultimo sms.
Ripose il cellulare nella tasca del jeans e infilò le mani nelle tasche della sua felpa bianca. Sospirò. Faceva stranamente freddo quella notte. I suoi occhioni celesti fra i mille ciuffetti sbarazzini, si muovevano ritmicamente dalla strada all’orizzonte, disseminato di palazzoni e alberi, che svettavano con le loro fronde nere fra il cemento grigio.
Ad un tratto, quando giunse all’incrocio con un viottolo scuro, scorse chiaramente la figura di Gin, che stramazzava al suolo e si teneva l’addome con una mano. La ragazza sbatté più volte le palpebre, per appurarsi che non fosse stata vittima di una qualche allucinazione.
“Gin?!” Si avvicinò a lui e lo aiutò a rialzarsi, cosicché l’uomo potesse appoggiare la schiena contro il muro, rimanendo comunque seduto. In fondo alla stradina vi era un cancello, poi alcuni secchioni e sacchi neri, ricolmi di spazzatura.
Il cappello scuro ricadeva sulla fronte del biondo, tanto che Shiho non poteva vedere neanche i suoi occhi.
“Ma che diavolo ti è successo?”
“Sherry …” La voce roca e bassa di Gin celava una vena divertita. “Che fortuita coincidenza.”
La ragazza si era inginocchiata al suo fianco e con una mano gli aveva scostato un lembo dell’impermeabile, rivelando uno squarcio in corrispondenza dell’addome. Era malconcio, il tessuto nero strappato in più punti. Alcuni rivoli di sangue gli scivolavano lungo il bacino, creando una pozza densa lì a terra.
“Hai fatto a botte con una pantera?” Sussurrò Shiho, con un sorrisino perverso. Vederlo così era una sorta di rivincita personale.
Il biondo rise, con una mano si sollevò la tesa del cappello. Anche sul suo viso, un rigagnolo rosso gli solcava lo zigomo, un altro più sottile gli scivolava al lato del labbro inferiore.
“Cinque contro uno. E poi dicono che gli sbirri sono leali ed onesti.” Commentò lui con una lieve vena di sarcasmo.
Shiho scosse il capo. “Per lottare con gente come voi bisogna utilizzare le stesse, sporche maniere.”
Il biondo le riservò un’occhiataccia, poi però volse altrove il capo e un paio di colpi di tosse lo colsero alla sprovvista. “Piantala con queste frasi. Lo sai bene che odio il conformismo.”
Lei sospirò. “Si, lo so. Eccome. Anche se quei messaggini mi sono sembrati piuttosto conformisti.”
Gin serrò le labbra e la guardò nuovamente. “Volevo capire se Shinichi era a casa con te.”
“E avevi bisogno di tutte quelle manfrine?”
“Voi donne a volte siete proprio impenetrabili.” Un ghigno si delineò sul suo viso e con la lingua si inumidì il lato del labbro, assaporando il suo stesso sangue. Non le toglieva gli occhi di dosso.
I loro sguardi si incrociarono a lungo, nel più completo silenzio.
“Mi prenderesti una sigaretta?” Borbottò Gin.
Shiho trasse un altro sospiro e infilò la mano nella tasca del suo giaccone, poi ne tirò fuori il pacchetto. Dentro ve n’era soltanto una. “Te la vuoi fumare subito?” Egli annuì.
“Non credi di esagerare con questa robaccia? Ti spappolano i polmoni.”
“Cristo Santo, risparmiati la predica, Sherry.” Le strappò il pacchetto dalle mani e ne sfilò frettolosamente l’ultima rimasta, poi se l’accese e se la portò fra le labbra.
Calò nuovamente il gelo.
Gin socchiuse piano gli occhi ed inspirò il fumo, empiendosene il petto. “Shinichi è scappato con Ran. Credo che non sappia ancora dei segreti che la ragazza gli nasconde.”
“Si comportava in modo troppo strano perché non sapesse nulla dell’Organizzazione.”
“Già. Quell’imbecille si è sorbito tutte le sue idiozie. Accecato com’è dall’amore. E’ soltanto un adolescente come ce ne sono tanti.”
“E’ lo stesso che pensi di me, dunque? Io e Shinichi ci passiamo soltanto qualche mese.” Asserì la ragazza, stringendosi le mani contro i jeans, presso le ginocchia.
“Anche tu sei accecata dall’amore?” Azzardò il biondo, corrugando leggermente le labbra e facendo scivolare via una nuvola di fumo grigio. La guardò, dall’alto della sua superiorità, ma soprattutto consapevole della presa incredibile che quegli occhi esercitavano sulla bella scienziata.
Shiho si sentì terribilmente disorientata. Non se l’aspettava proprio.
“Potrei farti la stessa domanda.”
Gin fece schizzar via la sua sigaretta e le portò una mano sulla spalla, poi la fece scendere piano sul suo braccio, finché non le strinse il polso. “Dimostrami che non sei soltanto un adolescente come gli altri.”
Shiho si divincolò dalla sua presa, poi si prese del tempo per scrutare i suoi occhi verdi, dai quali non trapelava alcun emozione, ad eccezione della sadica compiacenza di averla in pugno. Posò delicatamente le dita sul suo viso e premette il pollice al lato delle sue labbra, portando via il sangue. “Dai, ti accompagno a casa e ti medico queste ferite. Non vorrai morire dissanguato.”
 
 
 
 
Ran non riusciva in alcun modo a trattenere le lacrime che imperterrite le accaldavano le guance rosa.
“Mi dispiace Shinichi! Avrei voluto dirtelo, ma non potevo!”
Shinichi le tratteneva le spalle con decisione, ma non riusciva ad essere arrabbiato con lei. Provava solo pietà per quella ragazza che aveva mantenuto dentro il suo cuore un segreto così scottante.
“Ora capisco perché Gin sapeva della mia vera identità, so anche per quale motivo ti hanno malmenata. E Veronika.”
Lei annuì flebilmente. I suoi occhioni erano completamente inumiditi da una sottile patina d’acqua salata. “Quelli dell’Organizzazione mi hanno costretta ad investigare sul tuo conto, ed è per questo che sapevo che Conan era in realtà Shinichi. Mi dispiace!”
“Sta tranquilla, Ran. Hai fatto quel che dovevi.”
I documenti che in realtà gli aveva consegnato Vermouth, erano le conversazioni che Ran aveva scambiato con quelli dell’Organizzazione.
Sapevano tutto sul suo conto, e cosa ancor più grave, avevano in mente di far fuori entrambi. L’APTX funzionava alla perfezione, Shiho aveva prodotto loro l’antidoto, e nelle mani dell’Organizzazione si condensava ormai un potenziale enorme, in grado di piegare l’intera umanità ai loro voleri.
“Shinichi, come faremo? Ci uccideranno!” La ragazza era ormai allo stremo delle forze, era stata la notte più brutta della sua vita.
Il ragazzo le sfiorò la guancia, asciugandole le lacrime dal visetto umido. “Dobbiamo fidarci di Vermouth.”
“Perché?” Un singulto la scosse appena.
“Perché Vermouth fa parte dell’Esercito.”









Eccoci all'ennesimo capitolo.. quello che probabilmente apre la pista alle ultime battute della storia. 
No, non disperate. Non è ancora giunto il momento, ma si apre sicuramente il sipario finale!
Allora, lettori, come sono andate le vostre vacanze di Pasqua? Avete mangiato tanta cioccolata? :)
Le mie sono state all'insegna del puro relax!!!
Sennò chi resiste ad altri tre mesi di scuola + esame di stato?! Nessuno! :D XD
Beh, sono curiosa di sapere che ne pensate di questo nuovo chappy :) Come sempre colgo l'occasione per ringraziarvi tutti!

Coloro che hanno la storia fra le preferite: 

A_M_B, chyo, Evelyn13, Imangaka, ismile, I_Am_She, Lady Night, Queenala, Silver spring, trunks94_cs, Violetta_, Yume98, _Flami_; Xx_PansyRomance_xX

E ancora coloro che la hanno fra le seguite!!!

Anemone san, Bankotsu90, Caroline Granger, Chicc, Evelyn13, I_Am_She, Kuroshiro, Layla Serizawa, Nezu, Red Fox, Sherry Myano, sosia, tigre, trunks94_cs, Violetta_, _Flami_, Shinku Rozen Maiden 

Grazie a tutti, davvero... <3 <3 <3

Aya_Brea

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Finché morte non vi separi. ***


" Un giorno da qualche parte, in qualche posto....inevitabilmente ti incontrerai con te stesso e questa, solo questa, può essere la più felice o la più amara delle tue giornate."
 
( Pablo Neruda )





Shiho spinse la maniglia della porta e condusse nella propria abitazione l’uomo dai lunghi capelli biondi, l’uomo che per la prima volta arrancava sui suoi stessi passi, la pantera dagli occhi brillanti ferita a morte. La ragazza lo sostenne fin sulla soglia, le sue dita stringevano un lembo dell’impermeabile proprio nei pressi del bacino, e lì, ella si accorse che il tessuto era completamente impregnato di sangue.
Gin trasse un profondo sospiro, che d’un tratto fu rotto da un violento colpo di tosse. Sentiva le labbra riarse, percepiva il pallore che aveva assunto il suo viso: per qualche istante aveva creduto addirittura di morire, di inciampare e di scivolar via dalla sottile lama del rasoio su cui i suoi passi procedevano con sicurezza.
L’uomo si avvicinò al soffice materasso e vi si lasciò cadere a peso morto, sprofondando fra le lenzuola morbide. Fu una bella sensazione e finalmente egli poté richiudere le palpebre stanche. Ora che di fronte a lui tutto era completamente nero, innumerevoli immagini si ricreavano nella sua mente, accompagnate e guidate quasi automaticamente dai leggiadri movimenti della ragazza: gli sembrava che la sua figura longilinea ed agile si muovesse, volteggiasse piano contro le sue iridi verdastre. Stava aprendo i mobili della credenza, rovistava fra i ripiani. La vedeva. Riusciva a visualizzare le suole delle sue scarpette che si piegavano per via della statura che non le consentiva di raggiungere gli sportelli più in alto. Quel corpo così sinuoso, che si fletteva, si allungava dolcemente, quei capelli chiari dal profumo così inebriante che le ridiscendevano sulla schiena quando il collo era reclinato all’indietro. Sarebbe impazzito. Sarebbe impazzito, se quella carne così diafana non fosse stata sua.
Doveva averla.
“Potresti alzarti in piedi e sfilarti il giaccone?”
La voce della ragazza era ormai vicina, dunque il biondo riaprì nuovamente gli occhi, fece quanto richiesto e si ri-sedette. “Hai interrotto il flusso dei miei pensieri, Sherry.” Borbottò Gin, alquanto contrariato.
“Che tipo di pensieri?” Chiese. Fra le braccia aveva un paio di flaconi, dell’ovatta e una specie di pinza.
“Niente che ti riguarda.” Rispose, aridamente.
Shiho non faceva altro che osservarlo: il viso di quell’uomo era così profondamente sbattuto, ma quegli occhi vispi brillavano come la prima volta. Dentro al suo corpo segnato e malconcio, palpitava sempre un animo traboccante d’orgoglio, un animo spietato, l’animo freddo e cinico del killer. Guardava però, altrove. D’un tratto gli impercettibili movimenti del suo viso rivelarono che il biondo si stava spazientendo, forse per via dello sguardo insistente di Shiho. La fulminò.
“Si può sapere che diavolo vuoi?”
“Devo toglierti la maglietta.” Shiho cercò di sembrare il più naturale possibile, dunque strinse il bordo del tessuto e con la dovuta accortezza prese a sfilargliela dolcemente. L’uomo non proferì parola, pian piano il suo addome magro e asciutto si scopriva, lasciando intravedere un proiettile penetrato ormai nella carne, la zona locale della pelle era tumefatta, il sangue colava ancora.
“Ti hanno conciato per le feste.” Osservò la scienziata con del sottile sarcasmo: una volta che posò la maglietta al suo fianco, ella non poté far altro che ammirare il corpo dell’uomo; non poteva farci nulla, l’occhio vi cadeva inevitabilmente.
“Sembra che la situazione ti stia colpendo particolarmente, dico bene, Sherry?” Il tono sussurrato e cinico del biondo non fece altro che avvamparle ancor di più le guance, oramai divenute di un rosso vivo.
“Smettila.” Shiho prese dell’ovatta a la imbevette di alcol; Gin continuava a distrarla dal suo ‘lavoro’.
“Dovresti dare ascolto ai tuoi sensi, lo sai? Le parole ti difendono a spada tratta, ma la reazione del tuo corpicino ti tradisce. Guardati.” La sua voce digradava di intensità, divenendo sempre più cupa, sadica, divertita. “Stai tremando.”
La mano sottile della ragazza era percorsa da tremiti convulsi, le dita lunghe ed affusolate stringevano quel batuffolo intriso d’alcol. Fu istintivo. Glielo piantò con violenza contro la ferita, sperando di metterlo a tacere.
“Chiudi quella bocca, Gin. Maledizione.” Proferì a denti stretti.
Il biondo non reagì, anche perché era in grado di sopportare anche i dolori più lancinanti ed atroci.
“Parliamo di cose serie, ora.” Dovette inspirare a pieni polmoni, poiché si accorse che la ragazza stava estraendo la pallottola con estrema lentezza. Dopo alcuni estenuanti minuti di oculate operazioni, il bossolo insanguinato riluceva fra i bracci di una pinza.
“Che intendi per cose serie?”
Shiho lo ascoltava con attenzione, anche se era intenta ad avvolgergli delle bende intorno alla vita.
“Domani alle dieci si sposa un grande magnate dell’economia, uno dei pezzi grossi del commercio internazionale. Doveva svolgere un lavoretto per noi, ma è stato alquanto latitante in questo periodo. Così abbiamo deciso di farlo saltare all’aria.” Le sue parole fluivano via come se stesse parlando dell’argomento più banale e consueto del mondo. Shiho rimase allibita dalla freddezza di quell’uomo, anche se l’istante successivo si riprese.
“Saltare in aria?”
Lui si strinse nelle spalle. “Normale amministrazione di un dinamitardo. Non è lavoro per me, lo affido ad un altro. Ma dato che devo tenere d’occhio anche la scorta di quell’imbecille, dovrò fingermi una persona qualunque.”
La ragazza non riusciva ancora a sbrogliare tutti i fili della matassa, non riusciva a sfilare e a cogliere quello del suo ragionamento. “Si, ma continuo a non seguirti.”
“Domani sarai la mia ragazza.”
“Cosa?”
“Hai capito bene, Sherry. Vestirai i panni della fanciulla, della bella che sta con la bestia.” Gin ridacchiò. Dopotutto, quell’incarico non era affatto male. “Bestia, poi. Se si guardassero dentro, scoprirebbero chi è la vera belva.”
La scienziata sbuffò sonoramente: quei discorsi con fine moralistico, pronunciati dalle labbra di un assassino, le risuonavano nelle orecchie come dei suoni fastidiosi e ridondanti, strapieni di retorica. “Ma finiscila.”
“Ehi, Cherie.” Gin pronunciò l’ultimo appellativo con la malizia travestita di dolcezza, con un leggero soffio che mozzò il fiato della bionda che gli stava dinanzi. “Dormi qui, stanotte?” Le avvolse il polso, nonostante la sua riluttanza.
“Scordatelo.” Rispose Shiho con le palpitazioni.
Lui affievolì la presa, dopodiché si adagiò piano contro il materasso. “Guarda che se non fai quel che ti dico potrei insospettirmi. Non eri dalla nostra parte?”
“Si, lo sono ancora, dalla vostra parte.” Si voltò a guardarlo. “Ma non sono ammesse smancerie al di fuori dell’orario lavorativo. Buonanotte.”
La voce di Gin giunse alle sue spalle quando la ragazza aveva ormai raggiunto la porta d’uscita.
“Ci vediamo all’incrocio con Carlo’s Bake. Alle 10 in punto.”
Abbassò la maniglia: era quasi fuori dalla tana del lupo.
“E vestiti da donna.”
Fuori. Era libera. Tirò un sospiro di sollievo.
Quella storia stava prendendo una brutta piega.
 
 
 
 
Era una splendida giornata di sole, il cielo azzurro era limpido e terso, finalmente il freddo stava abbandonando la città, per far spazio invece ad un tepore piacevole e ad una sottile e lieve brezza primaverile.
Shinichi scese dall’auto di Kogoro, assieme alla sua amica Ran e al padre: sembravano un’elegante famigliola pronta ad assistere al coronamento nuziale di un nuovo amore. Quel giorno infatti, si sposava la loro insegnante di letteratura e gli alunni più stretti erano stati invitati alle celebrazioni del lieto evento.
Ran si ravvivò i capelli con un gesto femminile; si destreggiava abilmente nel suo abitino azzurro e di tanto in tanto osservava il ragazzo. Era insolito vederlo in giacca e cravatta, vestito di tutto punto. Per suo padre invece non si trattava di una novità, ma stava bene nel suo completo grigio perla.
“Ehi, tu, bamboccio di un liceale; ti affido Ran per la messa, io rimango qui fuori a fumarmi una sigaretta.”
“Ma papà, non è carino!” Kogoro era sempre il solito.
“Ran, si annoierebbe soltanto. Lascialo fare.” Le sussurrò il giovane, dopodiché lei trasse un sospiro di rassegnazione e varcarono l’entrata della chiesa. Era in perfetto stile gotico e l’ambiente si sviluppava sia verticalmente che orizzontalmente: lo spazio era tripartito in due navate laterali, mentre quella centrale, più ampia e spaziosa, era percorsa da un morbido tappeto rosso, che risaliva i gradini dell’abside.
“Wow, è bellissima!” La ragazza mora allungò il suo sguardo per esaminare ogni piccolo intarsio, ogni dettaglio in oro, ogni sottile colonna che si innalzava sfuggente verso il soffitto pieno di affreschi. Dai finestroni della cupola provenivano degli sprazzi di luce che le offuscarono la vista, tanto che fu costretta a ri-abbassare il capo.
“Ehi Ran, la professoressa!” Shinichi la esortò a voltarsi verso l’entrata: con incedere cadenzato, una donna alta e mora, calpestava il tappeto rosso, il vestito bianco riluceva ad ogni suo passo, il raso della stoffa si piegava dolcemente. “Hai capito! E’ uno schianto!” Borbottò il ragazzo, con un largo sorriso.
“Fa poco lo spiritoso. Che poi ti mette comunque cinque.” Ran non mancò di commentare l’uscita infelice del suo amico.
I due sposi si congiunsero al termine della marcia nuziale, lui era impettito, dal suo viso trapelava soltanto la contentezza e la speranza. Quello doveva essere un giorno perfetto, eppure Shinichi non faceva nient’altro che guardarsi intorno.
Si sentiva terribilmente irrequieto, non riusciva a comprenderne il motivo.
 
 
 
 
Gin e Shiho fecero il loro ingresso nella Chiesa, lui aveva il solito impermeabile nero, ma stavolta stringeva a sé il corpicino esile della ragazza, trattenendola al suo fianco come se fosse stata la sua compagna. Ella indossava un vestito bordeaux e al collo vi aveva avvolto un nastrino nero.  I due si posizionarono sul retro.  Shiho osservò i presenti, gli invitati, poi si soffermò a guardare i due sposi, che per il momento se ne stavano seduti ad ascoltare le parole del Prete che celebrava la loro unione. D’un tratto ebbe come un sussulto. Gin non mancò di percepirlo, standosene stretto contro di lei.
“Che hai?” Bisbigliò, seccato. “Chi hai visto?”
“No, nessuno. Era un singhiozzo.” Ma quale singhiozzo! L’aveva visto, a pochi metri da lei c’erano Shinichi e Ran. Cavolo. Così non poteva andare, la situazione si complicava.
“Guarda che l’ho visti appena sono entrato.”
“Chi?”
“Non fare la finta tonta. Aspettami qui, non azzardarti a fare un passo.” Santo Cielo, quel Detective era sempre fra i piedi; le sue mani tremavano convulsamente, si muoveva a passo spedito verso la navata opposta, pensando che aveva irrimediabilmente voglia di una sigaretta. Ma lì, non avrebbe potuto fumare. Una volta giunto nei pressi dell’ala opposta scorse il suo fidato compagno, che fino ad allora aveva agito in incognito.
“Abbiamo un contrattempo, predisponi il piano B.”
“Cosa? Che contrattempo?” Vodka parve cadere dalle nuvole, ma non perse il controllo, stavolta.
“Quel rimbambito del Detective. Ho come l’impressione che quell’idiota lì davanti si stia agitando eccessivamente, rischia di farci saltare all’aria prima del dovuto. Maledizione.” Gin strinse il pugno in un gesto di stizza e si morse violentemente il labbro inferiore. “Senti, vado a fumarmi una sigaretta, non fare niente, credo che sia saltato tutto. Avverti Chianti e Korn.” L’uomo si dileguò rapidamente ed abbandonò la chiesa, sotto lo sguardo interrogativo di Shiho.
 
 
 
 
La cerimonia proseguiva a rilento, Shinichi sonnecchiava, di tanto in tanto si ridestava schizzando col capo all’insù e guardandosi intorno, come risvegliatosi da un sonno profondo. Ran non mancò di ammonirlo più volte, fin quando vide che ormai il giovane Detective era vigile ed i suoi occhi azzurri erano fissi verso la panchina alla sua destra. Le sopracciglia di lui si aggrottarono, fu come colpito improvvisamente da qualcosa.
“Shinichi, che hai visto? Che c’è?”
“Quell’uomo.” Si inumidì le labbra, concentrato ad esaminare meticolosamente il comportamento di quel giovane che lì di fronte si stava a torcere le mani. “Sta sudando. Eppure qui dentro fa un freddo cane.”
Ran si strinse nelle spalle. “E’ vero. Che strano, magari non si sente bene.”
“Vado a dare un’occhiata, tu aspettami qui.”
“Aspetta! Non vorrai mica disturbare la cerimonia!” Ma il liceale si era ormai alzato in piedi ed era diretto verso di lui.
Shinichi si sedette al fianco di quell’uomo e attaccò bottone, con un semplice pretesto. “Ci conosciamo? Mi sembra di averla già vista.” L’interlocutore roteò gli occhi verso di lui, da vicino sembrava ancor più pallido, le iridi erano strette in due microscopici puntini, aveva le palpebre sgranate, spaurite: era terrorizzato.
“Non credo.” Balbettò costui, agitando le mani e brancolandole all’aria. “Si allontani, la prego.”
“Ma che le succede? Sta sudando, è sicuro di stare bene?”
A quel punto, lo strano personaggi si rizzò in piedi e quasi lo aggredì, sia con lo sguardo che con la bieca tonalità della sua voce. “Mi lasci in pace, sto benissimo!” E così, si avviò a passo svelto verso l’uscita.
Quella mattina, gli invitati non mancarono di notare quel gran via vai di persone.
 
 

 
Trascorsero altri minuti, la cerimonia era ormai giunta alla sua conclusione, così Shinichi decise di prendere una boccata d’aria. Quell’uomo non si era più visto, non era più rientrato in Chiesa, e a giudicare dalla desolazione presso i gradini d’entrata, si era pressoché volatilizzato. Era davvero strano.
Il sole ormai diffondeva con prepotenza i propri tenui raggi sul selciato umido e nella tranquillità solinga della cittadina risuonarono i rintocchi del campanile della Chiesa.
Marito e moglie uscirono fra la calca di gente che riversava su di loro una miriade di petali di rosa: in quel frangente di confusione e nel tripudio della felicità, il Detective scorse la figura di una donna bionda che svettava fra le altre, chiaramente distinguibile per il suo tailleur color prugna. Le si avvicinò.
“Vermouth, ma che diavolo ci fai qui?”
“Oh, Shinichi! Ma che fortuita coincidenza. O forse dovrei dire … sfortunata.”
Proprio mentre i due si ritrovarono casualmente a disquisire, Ran irruppe bruscamente nel bel mezzo della loro conversazione, con aria ostile nei confronti del ragazzo. Ma chi era quella?
“Shinichi, ma dove ti eri cacciato? Ti ho cercato per tutto il tempo, ti sei perso la fine, il momento più bello e romantico.”
“Tu devi essere Ran.” Praticamente la donna era irriconoscibile, tanto che quest’ultima non seppe riconoscerla. “Credo che dovrò rubare il tuo ragazzo per qualche minuto, posso?”
“Il mio ragazzo? Ma che dice? Assolutamente no. Certo, per quanto mi riguarda può anche sequestrarlo a vita.” Ran si allontanò, riservando al giovane una linguaccia più o meno eloquente.
Vermouth si morse dolcemente il labbro. “Ci sono i miei uomini in borghese qui, lo sai? Sono nascosti fra gli invitati.”
Shinichi reclinò il capo sulla spalla. “Perché mai?”
“Ti spiegherò tutto a tempo debito. Sappi soltanto che fra di loro si nascondono anche gli uomini in nero.”
Dopo quella frase pronunciata con serenità, gli si gelò il sangue lungo le vene, tanto che incespicò su alcune parole; un groppo alla gola si era impadronito della sua placida freddezza. “Ma quell’uomo … ?”
“E’ morto. Se ti riferisci all’uomo che sedeva ai primi posti, beh. L’hanno appena fatto fuori. E’ un bene che tu non abbia fatto passi falsi, anche perché aveva un ordigno nello stomaco, pronto ad esplodere.” Quella storiella aveva del surreale.
“Un ordigno?”
Vermouth si avvicinò a Shinichi, di modo che i loro corpi fossero vicini al punto che nessuno avrebbe potuto sentire le informazioni che si stavano celermente scambiando.
“E non possiamo interrompere tutto, immagino.”
“No. Ci sono uomini dappertutto, soldati e criminali che non aspettano altro che farsi fuori a vicenda. Il nostro obiettivo è tutelare la vita di queste persone. Non possiamo far si che scoppino ulteriori scandali sull’uomo che si è appena sposato la tua insegnante.”
Shinichi si morse il labbro e un lieve sorriso si delineò sul suo viso. “Cosa vuoi che faccia, Vermouth?”
La donna rise sommessamente e si mise a braccia conserte.
“Applicami un bel bollino rosso su tutti i tizi sospetti che vedi. Hai il fiuto giusto per poterlo fare. Ci si vede al rinfresco.”
“A più tardi.” I due si separarono, prendendo due direzioni differenti.
 
 

 
Il gran pranzo si svolse presso l’ampio giardino di un Hotel a cinque stelle. Era un luogo a dir poco paradisiaco, curato nei minimi dettagli: gli alberi svettavano alti verso il cielo, l’erba degli spiazzi verdi era stata tagliata da poco e lunghi e tortuosi vialetti vi si dispiegavano come dei grandi serpenti. C’erano fontane che zampillavano acqua limpida, gente elegante e distinta e nel complesso regnava un clima sereno e pacato. Gli invitati presero posto in un ampio edificio dai grandi finestroni e lo scorrere del tempo venne scandito dall’estenuante percorso del sole, che calando verso l’orizzonte, diffondeva una luce sempre più rossastra e tenue. Ormai tutto si perdeva pian piano, la magia sfumava lentamente, andando ad accompagnare il giorno che moriva lento.
Ran e gli altri uscirono nel grande giardino dove era stato allestito un grande buffet. I due sposi si fermarono a scattare le ultime foto in compagnia degli invitati. Il cielo era ormai scuro, le prime stelle comparivano timidamente sulla volta celeste.
“Shinichi, lo sai che lo sposo ha predisposto una grande sorpresa per la sua bella?” La ragazza era al suo fianco ed entrambi percorrevano tranquillamente uno dei viottoli che si inoltravano nel grande parco.
“Che tipo di sorpresa?”
“Non lo so, ma credo che presto lo scopriremo.” Gli occhioni limpidi di lei si sollevarono verso l’orizzonte, ridenti, sognanti, speranzosi. “Deve essere bello condividere un momento così bello con la persona che si ama.”
Shinichi spinse le mani nelle tasche dei pantaloni, i loro passi risuonavano fra la ghiaia. “Per ora non ci voglio neanche pensare al matrimonio!”
“Sei proprio un guastafeste, e io che volevo essere romantica.”
Il ragazzo rise lievemente. Alzò il capo ed in quell’istante preciso, scorse fra i rami degli alberi, nel buio della sera, un paio di ombre, di figure che pian piano si delinearono. Mise a fuoco. Non poteva credere a quel che vedeva. Eppure i contorni di quelle due anime erano troppo nitidi perché potesse sbagliarsi.
 
 
 
 
Shiho si ritrovò con la schiena contro un albero: una brezza le sferzò il viso, facendola rabbrividire. L’uomo biondo le stava dinanzi e la fissava profondamente con quegli occhi vispi, con uno ghigno perverso delinearsi sulle labbra. L’ombra che la tesa del cappello produceva sul suo volto lo rendeva ancor più inquietante.
“Sherry, mi raccomando, fa la brava.” Sussurrò. Era così maledettamente vicino a lei. Le sfiorò la guancia con la mano, poi le afferrò il mento e la costrinse a guardarlo. Si stava fumando la sua sigaretta come al solito, lei ne ispirò il fumo e tossì leggermente, fin quando il biondo non gettò la cicca fra l’erba.
“Non sono stupida.”
La teneva ancora, con l’indice sembrava farle delle carezze presso lo zigomo. “Non si tratta di essere stupidi o meno. Si tratta di scegliere fra la vita e la morte.”
“Certo che avreste potuto risparmiarvela questa pagliacciata, almeno quella poveraccia avrebbe potuto godersi il suo matrimonio.”
“Ma loro staranno insieme.” Gin sussurrò piano quelle parole, poi avanzò. Shiho sentì il corpo di lui premere contro il suo, quasi le si strozzò il fiato in gola, le mancava l’aria. Appena sollevò il capo, il biondo premette le labbra contro le sue e le prese il volto fra le mani, stringendola. Fu un bacio fugace, ma dannatamente intenso, tanto che lei avvertì subito il cuore pulsarle nel petto come in preda al più delirante dei deliri. Un gemito le si strozzò in gola, quando sentì nuovamente le sue labbra, stavolta sfiorarle l’orecchio, poi la sua voce gelida e tagliente.
“Staranno insieme, si. Finché morte non li separi.”  
 
 
 
 
Si sentì un rimbombo, uno scoppio, poi una lingua di colore balenò nel buio del cielo notturno, sprizzando mille altre scintille fra il nero. Tanti fuochi d’artificio colorarono l’aria, riempirono i cuori entusiasti della gente, fecero scendere le lacrime sulle guance accaldate della sposa.
Shinichi sollevò lo sguardo d’istinto, ancora col cuore in gola per quel che aveva appena visto. Il suo sguardo scese ancora fra la folla, scorse il volto contratto di Vermouth e capì. Capì che i fuochi d’artificio avrebbero presentato l’occasione adatta per quegli uomini.
Capì che al di sotto di quello spettacolo pirotecnico si sarebbe riversato un mare di pallottole, e se non avesse fatto qualcosa, il cielo avrebbe versato l’ennesima pioggia di sangue.










Oh yeah! Finalmente eccomi con l'ennesimo aggiornamento. Spero di non avervi annoiato anche se questo capitolo è un po' più lungo rispetto agli altri! 
Avete capito più o meno che succede si? XD è che è un po' incasinato! =) Speriamo che me la son cavata va! Non mi convince molto, a parte determinati pezzi.
Che dire, vi ringrazio sempre tutti quanti, mi state sostenendo un mondo, e spesso davvero, non ho proprio le parole adatte per potervi ringraziare. 
Ciccins, mi raccomando, non ti buttare dalla finestra dopo questo capitolo. Piccolo appunto indirizzato ad Iman: spero che dal punto di vista architettonico le informazioni siano tutte giuste, non potrei mai perdonarmi un simile errore!!! Ahahahahahaahah :D anche se qua l'architettA sei tu ;) <3 Grazie a tutti!!! 
Coloro che hanno la storia fra le preferite: 

A_M_B, chyo, Evelyn13, Imangaka, ismile, I_Am_She, Lady Night, Queenala, Silver spring, trunks94_cs, Violetta_, Yume98, _Flami_; Xx_PansyRomance_xX; suici007

E ancora coloro che la hanno fra le seguite!!! 

Anemone san, Bankotsu90, Caroline Granger, Chicc, Evelyn13, I_Am_She, Kuroshiro, Layla Serizawa, Nezu, Red Fox, Sherry Myano, sosia, tigre, trunks94_cs, Violetta_, _Flami_, Shinku Rozen Maiden

Alla prossima! :) Spero.. X_X ahahaha!



 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** La morte ti fa bella. ***


"Aveva il sorriso contagioso di chi aveva sofferto tanto. Era dannatamente bella, vestita dei suoi sbagli."

(L. Adrian)





 

Un brivido gelido corse lungo la schiena di Shinichi e nel voltarsi repentinamente verso la calca di invitati scorse il viso di Vermouth, poi la figura ignara dello sposo, che al contrario mostrava un’espressione serena, felice; i suoi occhi erano rivolti verso il cielo nero, sfolgorante di mille colori.
Il giovane Detective focalizzò immediatamente la sua attenzione sul microscopico pallino rosso che solcava rapido le pieghe degli abiti di quell’uomo e grazie a quel particolare, comprese che qualcuno fra gli arbusti teneva sollevato il fucile, un cecchino molto in gamba ed abile che utilizzava un sistema di puntamento laser. Si trattava sicuramente di un professionista. Shinichi compì uno scatto felino e si lanciò fra gli invitati, col cuore pulsargli in gola per l’agitazione.
“A terra! State a terra!” Gridò lui.
Lo sposo prese a fissarlo disorientato, noncurante di essere sotto tiro. A quel punto si sentì uno sparo, gli occhi del ragazzo schizzarono prima verso la direzione di provenienza della pallottola e in quel frangente vide il brillio dell’ottica, poi si slanciò con un balzo verso l’uomo che sostava a pochi passi da lui, ancora incredulo. Il proiettile sfiorò la manica della giacca di Shinichi, procurandole uno strappo, ma per fortuna egli riuscì ad atterrare assieme allo sposo. Erano entrambi a terra, sperimentando quanto fosse fredda e bagnata l’erba appena tagliata. L’aveva salvato.
Intorno a quei due si creò un vortice di persone in agitazione, la folla si era sparpagliata convulsamente, alcuni correvano, altri urlavano. Era il caos più totale.
Vermouth scostò un lembo del suo abito e rivelò una fondina nera avvolgerle la coscia, così estrasse la sua pistola e sparò un paio di colpi in direzione della macchia verde precedentemente indicata da Shinichi.
In un attimo, come un uccello levatosi al cielo dalle fronde di un albero, la figura di un’altra donna scattò in direzione della pineta. I suoi proiettili delinearono una linea a mezz’aria, ma ciascun colpo andò a vuoto, cosicché il killer si nascose dietro un tronco possente.
“Dannazione.” Vermouth si morse il labbro. “Chianti, maledetta.”
Ella poté osservare che alle loro spalle, alcuni gruppi di militari si riversavano dalle porte del’hotel, con i fucili d’assalto imbracciati. L’esercito iniziò subito le operazioni di salvataggio e in breve tempo gran parte dei civili fu messa in salvo. I soccorsi non tardarono e quando furono oramai ultimati i restanti interventi, un silenzio immobile calò sul grande parco, alla stregua di un manto vellutato che si posava sopra quella distesa verde.
Shinichi fu costretto a rientrare assieme a Ran, e d’altronde non avrebbe potuto invischiarsi in quella sottospecie di roulette russa, data la sua scarsa esperienza con le armi da fuoco.
Vermouth invece era là fuori, assieme ai suoi uomini. Ognuno era appostato in determinati punti strategici, accovacciati nell’atto di mimetizzarsi, o carponi presso i punti più alti dell’edificio, con i fucili di precisione puntati.
Una folata di vento si inoltrò fra i rami, agitando le fronde scure, producendo un solitario fruscio e addentrandosi timidamente fra i capelli biondi di Vermouth, la quale trattenendo il respiro e stringendo fra le mani la sua pistola, aveva il capo reclinato contro la corteccia ruvida di un albero.
Erano in una situazione di stallo, chiunque si fosse esposto sarebbe stato trucidato da una scarica di piombo. Ognuno si sentiva nella situazione di poter urlare “Scacco”, con la differenza che lo “Scacco Matto” sarebbe stato il sinonimo di una morte cruda e dolorosa.
La luna non c’era quella notte, era tutto inghiottito dall’oscurità e nell’aria aleggiava ancora l’odore dello scoppio dei fuochi d’artificio.
C’erano altri uomini dell’Organizzazione, probabilmente anche Gin.
Era tutto così maledettamente stantio, ogni foglia, ogni ramo spezzato ed ogni pipistrello facevano esplodere dalla paura il cuore di Vermouth. All’ennesimo ramo spezzato però, ella si sporse e sparò un colpo.
A quel roboante boato, ne seguirono degli altri, ci fu uno scontro diretto fra un paio di soldati, che in un istante fulmineo crollarono a terra con un tonfo agghiacciante. Una pozza di sangue nero si spandeva fra gli innumerevoli fili d’erba; la donna scattò dall’altro lato del parco e si fiondò al fianco di un cespuglio, col fiato mozzatole da continui singulti. L’ennesima raffica di proiettili proruppe nel silenzio ma ella non ebbe la possibilità di vedere chi fosse caduto nuovamente sotto i colpi del piombo, sentì semplicemente i rantoli dei moribondi riecheggiare, gelidi.
D’un tratto udì lo scalpiccio prodotto da alcuni passi, provenire proprio alle sue spalle.
La bionda si volse di scatto e brancolò saldamente la sua arma: di fronte ai suoi occhi stretti in una fessura, si delineava la figura di Chianti, col suo fucile imbracciato, decisamente troppo vicino perché un eventuale colpo potesse mancarla.
“Chi si vede. Si può sapere per quale motivo avete architettato tutto questo?” Vermouth mantenne la sua pistola puntata e fece attenzione nel sollevarsi in piedi, con la dovuta cautela.
Chianti si morse il labbro e non poté trattenersi un ghigno di compiacenza.
“Dovresti saperlo anche tu che noi dell’Organizzazione adoriamo i teatrini di lacrime e sangue. Ma che vuole saperne una traditrice?”
A quel punto il suo tono divenne più arcigno, la presa contro il freddo metallo del fucile più salda e nervosa.
“Non vi ho mai traditi, perché non ho mai lavorato realmente per voi. Facciamo un patto Chianti, io ora poso la pistola e tu posi quell’affare, nessuno si fa male e ne riparliamo un’altra volta, ok?”
La ragazza dai capelli corti digrignò i denti.
“Sta zitta.” Borbottò dunque, con rabbia. Non voleva scendere a patti, eppure Vermouth stava soltanto cercando di prendersi del tempo, poiché aveva già scorto la sagoma del Detective farsi sempre più nitida. Chianti non ebbe neanche l’opportunità di controbattere che un violento colpo di spranga si abbatté sulla nuca di lei, assestato in maniera tale da stordirla.
“Shinichi!”
Il ragazzo osservò la donna accovacciata al suolo.
“Sta arrivando la polizia.”
Le sirene provenivano da molto lontano, eppure i suoni divenivano più intensi un secondo dopo l’altro. “Rientriamo, se la caveranno comunque senza di te!”
Il Detective non conosceva il motivo preciso per cui le aveva afferrato il polso con particolare insistenza, eppure voleva che Vermouth si salvasse, che non ci rimettesse le penne: dopotutto era dalla loro parte. E di lei, ne era certo. Per quanto riguardava Shiho, non ne era più così convinto.
“Forza, non c’è tempo, muoviamoci!” Proseguì il ragazzo, esortandola ad entrare.
 
 
 
 
Shiho si sentiva male, fortunatamente non era terrorizzata e cristallizzata come quando aveva assistito alla sparatoria nel pub, eppure i brividi freddi continuavano a scuoterla visibilmente. All’ennesimo sparo che scalfì l’albero, delle grandi schegge di corteccia schizzarono via con dei colpi secchi ed ovattati. La ragazza arcuò le dita all’impermeabile scuro di Gin e si nascose dietro di lui, che al contrario era impegnato a far fuoco contro un paio di soldati.
“Lascia la ragazza!” Uno di loro era probabilmente intenzionato a liberarla eppure lei non mosse un muscolo, si ritrasse ancor di più fra il morbido tessuto nero.
Il biondo sparò un paio di colpi e quelle urla tacquero definitivamente, dopodiché egli si ritirò ancora con la schiena contro il tronco del grande albero. Con un braccio avvolse la vita di Shiho, l’altra mano era impegnata nello stringere a dita serrate il calcio della Glock.
“Maledetti piedipiatti, dobbiamo ritirarci, arrivano le volanti della polizia.”
Forse avevano preso Chianti, forse Vermouth era ancora viva, forse Shinichi, quel maledetto imbecille, l’aveva fatta franca per l’ennesima volta.
In sottofondo si sentirono un paio di altre raffiche di fucile, poi il nulla. Silenzio.
Shiho era stretta al petto di Gin e paradossalmente era rincuorata dal fatto che Shinichi e Ran stessero bene. Lei ormai si sentiva spacciata e completamente in balia di quell’uomo. Il tempo per redimersi l’aveva sprecato assieme alle lacrime, ai rancori e alle menzogne.
Col viso sul suo petto, ella poté sentire distintamente i battiti del cuore di Gin; era mostruoso, eppure lì sentì chiaramente, così cadenzati, così regolari, così anomali per poter provenire da un cuore fatto di arterie, carne e sangue.
“Gin?”
“Che c’è?”
La scienziata esitò per qualche secondo ma poi si riprese e proferì quelle parole in maniera decisamente più sostenuta. “Portami a casa, non ne posso più di queste sparatorie.”
A quel punto l’uomo si assicurò che i poliziotti non fossero ancora giunti sul posto, dunque dopo aver data l’ultima fugace occhiata, si dileguò nell’oscurità assieme alla sua damigella d’onore, che in quell’abito cremisi pareva ancor più bella e “maledetta”.
 
 
 
 
Chianti ed altri membri dell’Organizzazione furono sbattuti in cella senza neanche passare per il tavolo degli interrogatori: su di loro pendevano molteplici taglie e accuse che avrebbero riservato l’ergastolo ad ognuno di essi.
Erano le due di notte e l’ampio stradone di fronte all’ospedale pullulava ancora di volanti della polizia e di ambulanze con le sirene accese. I feriti si susseguivano uno dopo l’altro e Shinichi se ne stava presso l’entrata, con le mani ben riparate nelle tasche dei pantaloni e col vento freddo che gli sferzava il visetto pallido e smorto.
Che serata terribile, da dimenticare.
I suoi occhi scorrevano ormai lenti sulle barelle che sobbalzavano ad ogni gradino della scalinata, con i medici e gli infermieri che si adopravano per alleviare il più presto possibile le ferite di quella sparatoria. Era una guerra inutile, pensò il ragazzotto, oramai allo stremo delle forze, ma incapace di starsene beatamente a casa, fra le lenzuola.
Sfortunatamente in quell’Inferno era rimasto coinvolto anche lo stesso Kogoro.
Qualche minuto più tardi le porte dell’ospedale si aprirono e da esse comparve Ran: il suo volto era spento ed i suoi occhioni erano gonfi e rossi di pianto.
Il liceale le si avvicinò, manifestando inconsciamente la propria apprensione. “Va tutto bene, Ran?”
Lei annuì flebilmente. “E’ terribile Shinichi! Siamo sotto tiro! Quando finirà, quando?” Gli gettò le mani contro la giacca e prese a strattonarlo con movimenti bruschi e nervosi, dettati dall’esasperazione che le procurava quella situazione di scacco.
“Non ce la faccio più! Io non ce la faccio più ad andare avanti così! Falli smettere!”
“Ran.”
Shinichi si trovò ad affrontare per la prima volta la sua determinazione e nuovamente lesse in quelle pupille umide la speranza, i sogni del futuro, la vita. “Ti prometto che non succederà più una cosa simile. Non morirà più nessuno. Avranno quel che si meritano. Hai la mia parola.”
“Ho avuto troppe volte la tua parola, quella volta mi dissi che saresti tornato, che te ne andavi via soltanto per qualche istante, poi ti sei allontanato correndo e non ti ho più rivisto. Ma perché deve essere sempre tutto così difficile?” La sua presa si fece più stretta e Shinichi riuscì a sentire che la sua camicia si inumidiva delle sue lacrime, che silenziosamente versava con la fronte contro il suo petto. Delicatamente le sfiorò i capelli lunghi, le sue dita si intrecciarono fra quella massa setosa e liscia, morbida.
“Mi dispiace. Sono peggio di Sherlock Holmes.” Un sorriso amaro si dipinse sul suo volto, poi le sfiorò la guancia con la mano e poté osservarle ancora il viso bagnato.
“Dai, ti porto a casa ora, domani porteremo un DVD di Yoko a tuo padre e vedrai che la convalescenza gli sembrerà il più dolce dei suoi ricordi. Ora però fammi un sorriso.”
Ran sollevò il capo ed annuì.
Sorrisero. Entrambi.
 
 
 
 
La porta si richiuse dietro di loro e come in un batter di ciglia, qualsiasi rumore si acquietò, qualsiasi parola scivolò via dalle loro labbra, per cedere il posto ad un lungo silenzio, uno di quei silenzi che valgono più di mille parole, uno di quei silenzi in cui tutto avviene come per magia, come l’inevitabile, come l’imprevisto, l’inaspettato. In cui tutto quel che accada pare il film di cui si è spettatori inconsapevoli.
Le tende bianche si gonfiavano ad ogni folata di vento, di tanto in tanto si udivano delle automobili sfrecciare nel buio, dispiegando sulla strada l’opaco bagliore giallastro dei fanali anteriori.
Il biondo si avvicinò alla finestra e scostò le tende, in modo da potersi sporgere a guardare il panorama notturno, le vallate disseminate di tenui luci colorate. In lontananza si intravedeva il mare, così piatto e nero da far spavento. Erano all’ultimo piano di una palazzina, Shiho era con lui. Quest’ultimo si sfilò il cappello senza dir nulla e con un rapido gesto della mano si ravvivò i capelli platinati, che fluivano morbidi lungo le spalle. Si sfilò una sigaretta dal pacchetto e l’accese. Era piacevole sapere che alle due di notte il sonno non l’aveva ancora colto di soppiatto e di quei momenti riusciva sempre ad approfittarne, a renderli estremamente rilassanti.
Eppure c’era qualcosa che turbava quell’idillio abitudinario, usuale. C’era qualcosa che rompeva quell’equilibrio metodico che egli si era costruito all’interno della sua psiche. C’era qualcuno, quella notte, per cui il sapore della sua sigaretta pareva ancor più eccitante del solito. Volse leggermente il capo e la vide: sedeva sul bordo del letto ma gli dava le spalle.
“Ti è morto il gatto?” Borbottò Gin, dischiudendo le labbra e buttando fuori il fumo, che pian piano si addensò sopra di lui, poi immediatamente inghiottito dall’aria che penetrava dalla finestra.
“Fottiti.”
La bionda non si abbandonava praticamente mai al turpiloquio, eppure quell’uomo le dava ai nervi. Volevo solo starsene tranquilla, perché doveva infastidirla con le sue uscite fuori luogo?
Lui rise sommessamente, Shiho sentì l’odore della nicotina spargersi prepotentemente per tutta la stanza e come di consueto un colpo di tosse la scosse tutta. Riusciva a ‘sentire’ le labbra dell’uomo che si adagiavano sulla sigaretta e che l’attimo successivo si aprivano in una boccata di fumo.
“Mia dolce Sherry. Questo linguaggio non ti fa onore.”
Si divertiva a punzecchiarla, con quel tono pieno di sarcasmo e ovattato continuamente dal mozzicone che sostava quasi perennemente fra le sue labbra.
Shiho strinse i pugni con forza, fin quando non sentì che le unghie le spingevano nella carne fino a farle male. “Lasciami in pace, sono stanca.”
Maledizione, aveva un groppo alla gola che le impediva di respirare regolarmente e se quell’idiota avesse continuato a parlare sarebbe probabilmente scoppiata in lacrime.
Gin non proferì più alcuna parola, smise di fumare e ciccò nel posacenere sulla scrivania lì di fianco, dopodiché fece qualche passo verso il letto, fin quando non giunse al fianco della ragazza.
Shiho osservava distrattamente i contorni dei mobili in penombra, tentando disperatamente di focalizzare altrove la propria attenzione. Eppure tutto quello sforzo venne immediatamente vanificato quando sentì che Gin si era seduto alle sue spalle e che le fredde dita della sua mano si posavano delicatamente sulla sua spalla nuda. Era paralizzata.
La mano ridiscese lenta sulla clavicola scoperta, poi arcuò le dita contro il collo sottile e la costrinse a reclinare il capo, di modo che si potesse avvicinare a lei. Erano guancia a guancia, Shiho osservò il viso di Gin con la coda dell’occhio e udì il suo respiro caldo spandersi sulla spalla, sul collo. Lì, egli vi dischiuse le labbra e prese a lasciarle alcuni baci lenti, lentissimi.
“Ma che diavolo fai?” Sussurrò lei, in preda al panico.
“Sherry.”
La sua voce era flebile, ma il suo tono basso, sembrava che stesse parlando alla propria vittima, tanto che non abbandonò la vena fredda e cinica del carnefice. Shiho rabbrividì nuovamente e all’ennesimo bacio alla nuca, ove il suo viso la stava quasi solleticando, si spinse all’indietro contro il suo petto, sprofondandovi.
A quel punto la biondina si voltò, finalmente scorse i suoi occhi verdi fra i ciuffi biondi di quella capigliatura lunga e folta. Decise che era giunto il momento di non pensare. Non doveva più pensare a niente, non doveva pensare a nessuno, doveva svuotare la mente di qualsiasi pensiero. Ne avrebbe avuto bisogno.
Gin le strinse il polso e la tirò a sé con un gesto deciso, violento.
“Guardami, maledizione. Guardami in faccia.” Ringhiò.
“Ti sto guardando.” Controbatté lei, il cui nervo della sconfitta bruciava, poiché ormai scoperto.  La sua voce era stranamente roca e contrita. I loro visi si sfioravano, come due bestie che si scrutavano l’un l’altra in procinto di fronteggiarsi.
“Ecco, brava. Guardami bene perché sarà l’ultima volta in cui fisserai questi occhi senza vergognarti.” Sorrise, e quel sorriso fu tremendo, sadico. Demoniaco.
Shiho sentì il cuore perdere un battito importante, sgranò le palpebre e completamente inebetita e costretta da quella presa sprofondò ancora in un bacio appassionato con l’uomo che le aveva reso la vita un Inferno. “L’inferno sono gli altri”, scriveva Sartre. E lei in quell’Inferno di sangue, aveva trovato la consolazione, il rimedio ai suoi mali, alla solitudine che pervadeva ogni cellula del proprio corpo. Aveva trovato riparo fra le braccia dell’uomo che aveva ammazzato sua sorella, le sue braccia forti che le facevano perdere il controllo e la cognizione del tempo, ogni qualvolta la attiravano in quell’estasi di terrore.
Gin la spinse contro il letto e in un attimo fu sopra di lei, i loro corpi aderivano perfettamente. La scienziata emise un sospiro, si sentì “schiacciata” dal peso di quell’uomo.
Le mani di lui si serrarono intorno ai suoi polsi ormai deboli ed ella si arrese.
Gin le sfiorò la guancia con le labbra e lasciò che lì “morissero” le due parole che Shiho non avrebbe mai dimenticato.
Era sua.
 
 
 
 
Camminava spedita lungo il corridoio, non appena entrò nella stanza istintivamente tentò di riscaldarsi, sfregandosi le mani contro le braccia nude. Era un ambiente completamente spoglio, la mobilia era cosparsa da un sottile strato di polvere, che risaltava ancor di più per via della luce rossastra del tramonto che tingeva il cielo di rosso. La finestra dai vetri consunti e sporchi non le permetteva di distinguere su che lato affacciasse l’edificio, ma poco le importava. D’un tratto sentì dei passi alle spalle, dunque, si voltò.
“Vermouth. Alla fine sei venuta.” Gin era avvolto nel suo impermeabile nero e teneva le mani infilate nelle tasche, la tesa del cappello e i capelli oscuravano parzialmente il suo viso, da cui non trapelava alcuna emozione. Un pezzo di ghiaccio, insensibile.
“Come hai potuto credere che io vi avessi tradito?” Esordì la donna con il solito sorrisetto beffardo dipinto sulle labbra rosse. “Sei un uomo di malafede.”
Ci fu un istante di silenzio in cui Gin percorse parte della stanza e si dispose parallelamente alla finestra, di modo che fosse proprio di fronte ad essa. Vermouth si avvicinò ulteriormente.
“Allora, Gin? Mi credi?”
Silenzio. L’elegante donna comprese, allora.
“Vorrei crederti, Vermouth. Vorrei tanto. Ma al di sopra di qualsiasi rapporto umano c’è sempre il nostro sporco lavoro, non ricordi?”
“Sto dicendo la veri …” Le parole le si strozzarono in gola, il fiato si prosciugò istantaneamente quando una pallottola argentea la trapassò da parte a parte. Si accasciò al suolo, appuntellando le ginocchia contro di esso. “Maledetto. Vai all’Inferno. Gin.” Vermouth si contorse dal dolore: così, dolorante a terra, pareva quasi innocua, pareva quasi una donna priva di malvagità, una donna incapace di uccidere. Gli uomini in punto di morte, mostrano sempre la loro parte migliore e si rivelano per quel che sono veramente.
Il biondo le si avvicinò e con un gesto sprezzante le diede un calcio alla bocca dello stomaco. La suola della scarpa spinse con forza contro il petto di quella donna e Gin, dall’alto della sua superiorità le si rivolse con atteggiamento vanaglorioso. “Sai Vermouth. La morte ti fa bella.”
Tese nuovamente il braccio e sparò un altro colpo, stavolta, quello fatale.
Gin si era preso la sua vita, e con essa, la vendetta.
La figura imperiosa dell’assassino si stagliava macabra e nera, in controluce, contro la finestra che diffondeva la luce rossastra. Il giorno stava per finire, un volo nervoso di corpi si librò verticalmente.
Le campane, suonavano a morte.
 




 





Anzitutto, mi scuso con tutti per l'enorme ritardo con cui aggiorno! Sapete, è stato un periodaccio, fra scuola, cose che son successe ed altro... dunque, eccomi qui, nuovamente. Questo è l'importante. Per quanto riguarda il capitolo, beh, spero vivamente che vi sia piaciuto!!! L'ispirazione mi ha colta di notte, mio malgrado, e così sono stata un fiume in piena che ha riversato i propri pensieri su un foglio bianco. Saluto tutti caldamente, spero che possiate perdonare questo mio ritardo ipermega giganterrimo :( Un bacio grande grande grande a tutti voi, e un abbraccio.. a presto U_U Ora, i ringraziamenti :) 

Coloro che hanno la storia fra le preferite: 

A_M_B, chyo, Evelyn13, Imangaka, ismile, I_Am_She, Lady Night, Queenala, Silver spring, trunks94_cs, Violetta_, Yume98, _Flami_; Xx_PansyRomance_xX; suici007

E ancora coloro che la hanno fra le seguite!!! 

Anemone san, Bankotsu90, Caroline Granger, Chicc, Evelyn13, I_Am_She, Kuroshiro, Layla Serizawa, Nezu, Red Fox, Sherry Myano, sosia, tigre, trunks94_cs, Violetta_, _Flami_, Shinku Rozen Maiden


Vi amo *_____________* Alla prossimaaaaaaaaaaaaa!!! :) :) :)


P.S: Non so più che cavolo di rating mettere alla storia... per voi va ancora bene giallo o mi tocca cambiarlo? :) Per ora l'ho cambiato in 'arancione' in quanto anche ripensando a quel che ha scritto Flami, ci sono molte morti, molto sangue, molta tensione e un pelino di riferimenti 'caldi', ergo... forse è meglio così! :)

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Bastardi senza Gloria. ***


"See these tears so blue
An ageless heart 
that can never mend
These tears can never dry
A judgement made
can never bend
See these eyes so green
I can stare for a thousand years
Just be still with me
You wouldn't believe what I've been thru"

 

"Guarda queste lacrime così tristi
Un cuore senza età 
che non potrà mai guarire
Queste lacrime non si asciugheranno mai
Un giuramento fatto 
non si potrà mai spezzare
Guarda questi occhi così verdi
Posso fissarli ancora per un migliaio di anni
Stai ancora con me
Non crederesti a quel che ho passato"


 

(David Bowie - Cat People)


Una tiepida brezza si faceva largo fra le ante della finestra, il sole era calato oramai da qualche ora e i suoi raggi assopitisi avevano lasciato spazio al pallore di uno spento crepuscolo. Nella stanza di Shinichi c'era soltanto un gran silenzio, inframmezzato a tratti dal vento che gli arruffava i capelli castani; egli ne era però, totalmente insensibile. Si spingeva i palmi delle mani contro la fronte e vi aveva immerso il viso: si vergognava per quel che era successo e non riusciva a capacitarsene. Vermouth era morta. E forse era morta proprio a causa della sua negligenza, a causa della scarsa fiducia che le aveva riservato sin dall'inizio. Sul luogo del delitto, sul muro di fianco alla sua figura, troneggiava un'inquietante scritta che si era impressa indelebile nella mente del Detective:
'Nix.'
Quelle tre lettere sembravano non avere alcun significato, probabilmente perché ella non aveva avuto il tempo per completare la parola. Più si arrovellava il cervello, più qualsiasi collegamento gli sfuggiva di mano, come se una cappa di fumo nero gli avesse oscurato la mente. Non si era neanche accorto che qualcuno stava salendo le scale.
"Shinichi, ti disturbo, posso entrare?" Era Ran. Egli si volse e le fece un lieve cenno.
"Ran. Si, certo." Il suo tono abbattuto non presagiva nulla di buono e alla ragazza parve ancora molto scosso e provato da quel che era successo.
"Ti ho portato dei biscotti, pensavo che tu avessi fame." Ran si avvicinò alla scrivania  e vi posò un vassoio, poi cercò di sorridergli affettuosamente, anche se lui si sforzò palesemente per poterla ricambiare.
"Grazie, li assaggerò dopo."
"Mi spiace per quello che è successo, Shinichi." La voce della ragazza era seriamente addolorata, ma  non per questo compassionevole. Si sedette sul letto e trasse un lieve sospiro, guardando poi nella stessa direzione del ragazzo, i cui occhioni azzurri dispiegavano lo sguardo oltre i grattacieli che si scorgevano nel piccolo riquadro della finestra.
Shinichi lasciò trascorrere qualche secondo, poi dischiuse le labbra. "Ran, posso farti una domanda?"
Ella trasalì, ma come il ragazzo, non distolse lo sguardo. "Certo, dimmi pure."
"Perché una donna si innamora di un altro uomo?"
Inizialmente lei fu percorsa da un insolito tremore e quelle parole le giunsero inaspettate e apparentemente prive di senso. "Che vuoi dire?"
"Perché ci si innamora, qual è la molla che ci spinge verso l'altro?"
"Che razza di domanda. Non c'è un motivo, non ci sono perché. Succede e basta. Un bel giorno ti svegli e guardi quella persona con occhi diversi, cominciano a tremarti le gambe in sua presenza, hai la sudarella, le palpitazioni, le farfalle nello stomaco."
"Ed è tutto qui?"
"No. Certo che no. Cominci a desiderare di stargli affianco in maniera diversa, lo pensi spesso, diventa per te una specie di chiodo fisso." Rise nervosa. "Ma perché me lo chiedi?"
Shinichi rimase imperscrutabile e serio, alla stregua di un blocco di marmo. "Pensi che un sentimento del genere possa essere estirpato? Ti interesserebbe del giudizio altrui?"
Ran si morse il labbro: le sue domande si susseguivano rapide, senza che la stesse ad ascoltare, senza che le desse spiegazioni. Sospirò. "No, certo che no. L'amore è cieco, e quando si tramuta in ossessione diventa totalizzante, il giudizio degli altri è soltanto un impedimento, ma superfluo."
"L'amore che diventa ossessione non è amore, sei d'accordo?"
"In un certo senso, si."
"E cosa diventa?" A quel punto Shinichi si voltò verso di lei e negli occhi di Ran scorse soltanto tanta confusione. L'aveva spiazzata, tanto che si ritrovò a stringere convulsamente il lenzuolo con le dita. "Allora? Cosa diventa?"
In quel preciso istante il trillo del campanello si diffuse in tutta la stanza, distruggendo per sempre l’atmosfera di tensione appena creatasi. La domanda di Shinichi rimase sospesa come su di una nuvola di fumo.
 
 
 
 
Era tardi, i lampioni diffondevano degli aloni soffusi dal colore giallastro e la luce si rifrangeva fra le pozzanghere sporche: Shiho procedeva spedita passo dopo passo, tenendosi ben stretta nel suo impermeabile rosso. La notte aveva sempre paura che qualcuno potesse farle del male e l’esperienza con l’Organizzazione non aveva fatto altro che accrescere il timore che nutriva per quelle strade buie e desolate. Percorrerle da sola, poi, era ancor più pericoloso.
I pensieri erano nella sua mente, come i molteplici fili di un tessuto, ben organizzati e non più distinguibili, tanto ingarbugliati ed inestricabili che quando si ritrovava sola, il suo cervello era completamente vuoto, i suoi occhi spenti: non più occhi vitali, ma occhi ricolmi di terrore.
Le gambette sottili di Shiho si muovevano agilmente e con velocità, fin quando la ragazza non dovette svoltare l’angolo: d’improvviso ella cozzò contro una figura prominente e non appena sollevò il capo, incrociò lo sguardo glaciale di Gin, che nel frattempo l’aveva afferrata per le braccia. Non sembrava minimamente colpito dall’incontro.
Ella sgranò gli occhi visibilmente e prese a tremolare. “Oddio, Gin.”
“Sherry, perché te ne vai gironzolando da sola a quest’ora della notte?” Il suo tono era tremendamente sadico, la sua presa ben salda attorno alle sue braccia morbide.
“Non mi stringere.” Sussurrò lei. Mandò giù la saliva e faticò qualche istante prima di potersi riprendere. “Segreti di donna.”
Il biondo le si avvicinò ancora. “Mi tradisci? Non ti basto io?”
Dio, la teneva così stretta a sé che poteva sentire il profumo dei suoi capelli di platino inebriarla. “Non stiamo mica insieme. E anche se fosse non sarebbero affari tuoi.” Gli riservò un sorrisino di sfida. Doveva tenergli testa, o sarebbe nuovamente sprofondata nell’oblio.
Gin si soffermò a scrutare nei suoi occhi azzurri, pareva che con il solo sguardo potesse leggere in profondità, nella sua anima. “Non mi riferivo alla nostra relazione, dolcezza. Ma al tuo comportamento sospetto.”
Shiho si dimenò e con uno spintone finalmente riuscì a scrollarselo di dosso. “Lasciami, dannazione. Non stavo facendo nulla di male, sei tu che giochi a fare il mastino.”
Il biondo strinse i denti, ma preferì non replicare, poiché se disgraziatamente l’avesse fatto, l’avrebbe presa a calci nello stomaco. Il gesto di stizza si tradusse in quello meccanico di sfilarsi la sigaretta dal pacchetto e di portarsela fra le labbra: la mordicchiò lievemente e dopodiché l’accese.
“Andiamocene a casa. E non fiatare.”
La ragazzetta prese a camminargli di fianco, di tanto in tanto lo guardava mentre camminava spedito, con le mani infilate nelle tasche, il cappello calato sulla fronte e l’espressione contrita. Per tutto il tragitto che li separava da casa non volò neanche una mosca.
 
 
Erano trascorse due ore, le finestre erano completamente aperte sulla loro stanza e da esse proveniva un venticello fresco e piacevole. La notte, Gin preferiva lasciare le persiane spalancate, e poi quel periodo faceva stranamente caldo per la stagione.
Assicuratasi che il suo “compagno” dormisse, Shiho prese a sfilarsi la gonna, poi in un rapido gesto si tolse anche il golfino nero. In breve fu in intimo, il suo corpicino riluceva di una luce pallida. Si sbrigò ad indossare la sua vestaglietta in raso, e in un tempo ancor più breve si infilò sotto alle coperte. Ne prese i lembi e si coprì quasi fino al mento. Era tutto così strano, tutto così inusuale. Non appena volse il capo vide che al suo fianco vi era l’uomo che tanto aveva detestato, ma che ora le offriva un riparo, che ora la faceva rabbrividire soltanto con uno sguardo. Si fermò ad osservarlo, percorse lentamente i suoi lineamenti duri ma al contempo sottili, sfuggenti, la fitta trama dei suoi capelli biondi. Le sue labbra erano momentaneamente dischiuse, ma in quello stato, Gin sembrava essere un comune mortale, un essere indifeso. Ma non lo era. Affatto.
Le due figure erano vicine, l’una al fianco dell’altra: lui probabilmente dormiva, lei era oramai persa nei propri pensieri. Pensieri sbagliati, sospesi in una notte fin troppo calda per essere una notte di Marzo.
Allungò silenziosamente una mano e le dita di lei sfiorarono la guancia di Gin, così stranamente tiepida. Se ripensava soltanto per pochi istanti alla notte precedente sentiva un lungo brivido correrle lungo la schiena, le viscere contorcersi, le membra impazzite, palpitanti. Se chiudeva gli occhi, sentiva ancora il respiro affannato di lui che le riscaldava la nuca, bollente di baci; sentiva ancora i denti nella carne, il dolore tramutatosi in piacere. Sentiva il profumo del peccato.
Immediatamente ritrasse la mano e si strinse, si rannicchiò e divenne piccola piccola. Era orribile. Altri minuti di sofferenza le fecero compagnia, fino a quando non si alzò in piedi e con passo felpato raggiunse il telefono sulla scrivania. Gin dormiva. Doveva fare in fretta.
Alzò la cornetta e compose il numero con mani tremanti. Squillava.
“Pronto?” Dopo qualche trillo, finalmente ricevette conferma.
“Shinichi, sono Shiho. Ho poco tempo.” Le mancava l’aria, le sembrava di parlare in una camera piena di gas denso e rarefatto, la sua voce era un soffio impercettibile.
“Ai?!”
“Non posso spiegarti ora, ti spiegherò tutto a tempo debito. Ho saputo che l’Organizzazione ha in mente di far fuori …”
“Ai? Rispondi, Ai?! Cosa ti succede? Chi vuole far fuori?! Ai, mi senti? Pronto?” La voce di Shinichi riecheggiava vigorosa nella stanza, la cornetta era crollata giù a terra e oscillava penzoloni dal bordo della scrivania.
“Sherry, sei proprio una ragazza cattivella.” La sua voce fu come una lama affilata, un sogghigno gli illuminava il volto. Il biondo l’aveva colta in flagrante e con decisione l’aveva afferrata alle spalle, cingendole il collo con l’avambraccio. La presa divenne più stretta.
“G-Gin. Ti prego, non uccidermi.” Shiho cercò di allentare quella morsa mortale, eppure le sue dita sembravano lottare per spostare un blocco di marmo. Fu inutile, fu tutto inutile. “Ti prego, GIN!” Spalancò gli occhi come per cercare un appiglio, ma oramai boccheggiava, l’aria le mancava, la vista le si appannava sempre di più e l’energia l’abbandonava. Stava morendo?
“Ci vediamo all’Inferno.”
 
 
Shiho aprì le labbra ma da esse non fuoriuscì alcun suono. Il baratro scuro in cui era scivolata divenne bianco, cominciò a riacquisire contorni definiti e nitidi. Finalmente le sue urla si tramutarono in dei gridolini. Scattò seduta e si svegliò di soprassalto ed istintivamente si portò le mani al volto, tastandolo, sperimentando di essere materialmente viva.
Aveva la fronte madida di sudore e alcuni ciuffetti di capelli nei pressi della nuca erano bagnati. Il suo corpo fu scosso da innumerevoli sussulti, il confine fra la vita e la morte, il sogno e la realtà, era diventato troppo labile perché non ne uscisse distrutta e provata.
“O mio Dio.” Il cuore batteva a mille.
Gin si volse verso di lei, svegliato dalla situazione e dal rumore che nel frattempo aveva prodotto. “Che diavolo ti succede, devi vomitare?”
Lei non rispose, si limitò ad osservarlo.
“Se devi farlo, sei pregata di andare al bagno.”
“Non devo vomitare.” La voce di lei fu una sentenza piena d’odio e rancore, sputata fuori dalle labbra con aridità.
“Allora stai buona. E in silenzio. Sto cercando di dormire.”
“Anche io.” Si sdraiò e gli diede le spalle, per non sentire ancora quelle idiozie. “Anche io.”
 
 
 
 
 
Era ora di pranzo, Shinichi aveva fatto un salto a casa di Ran ed ora aveva lasciato casa da un bel pezzo. Il sole batteva forte ed era decisamente una bella giornata: persino il canto degli uccelli pareva più “estivo” e melodioso.
Ran era in cucina e sui fornelli bollivano due grandi pentolone ricolme d’acqua scoppiettante, poi una padella dove si stava riscaldando dell’olio.
“Papà, sbrigati, è quasi pronto!” La ragazza rimestò il riso più volte e sbuffò. “Papà! Quante volte devo chiamarti?”
“Arrivo Ran, arrivo, un attimo, sono in bagno!”
Kogoro era sempre il solito. Doveva vedersi con Sonoko, per cui avrebbe dovuto ingozzarsi per poter sperare di arrivare in orario. Finalmente poco dopo, sentì i passi alle sue spalle, stava per voltarsi a guardare il padre, quando improvvisamente si sentì sollevata dalla cintola; un paio di braccia robuste la agguantarono e un'altra mano le impedì di gridare. Qualcuno le premette un fazzoletto sulle labbra e nonostante i suoi mugolii la alzarono da terra, di peso. Erano due, forse tre. Non seppe giudicare in quanti la stessero tenendo. Di sicuro non aveva le capacità per poter comprendere che diavole volessero e cosa diavolo stesse succedendo. Sentì soltanto le palpebre divenire improvvisamente pesanti, le sentì richiudersi sulle sue iridi celesti, senza avere la possibilità di controllarle. Poi divenne tutto nero, come nel peggiore dei suoi incubi.
 
 
 
 
 
Shiho corse al telefono: era un topo in gabbia, questo si, ma di sicuro quella condizione non le impediva di far qualcosa, anche se a distanza. Stavolta nessuno l’avrebbe interrotta, stavolta Gin era uscito di casa e lei era completamente sola. Afferrò la cornetta e dopo aver combattuto con la saliva che le ostruiva la gola, deglutì e compose il numero.
“Ran! Presto, devi correre da Ran! E’ in pericolo!”
Shinichi fu colto alla sprovvista. L’aveva vista un attimo fa!
“Ma che dici, Ai?”
Le dava ai nervi la sua miscredenza. “Non chiedermi il motivo, lo so e basta. Fidati di me, fallo, Shinichi.” Cercò di racimolare altre parole per poterlo convincere. “Lo so che ho sbagliato e so di averti mentito più volte. Ma ora devi credermi.”
Il Detective non seppe cosa fare, oltre a guardarsi intorno, rammaricato. “Ai, mi dispiace per tutto. Ti ringrazio.”
Attaccarono entrambi.
 
 
 
 
 
Shinichi si fiondò fuori di casa e cominciò a correre disperatamente verso l’abitazione di Ran. Il sole giocava in suo sfavore e batteva come un dannato sul selciato, creando una spessa coltre di umidità. Percorse un lungo tratto di strada e il sudore iniziò subito a grondargli lungo la fronte, misto alla paura e all’adrenalina. Proprio all’incrocio con la settima strada, scorse chiaramente una Porsche Nera scintillante, in sosta al fianco del semaforo. Rosso.
Scattò come un ossesso nella direzione di quell’automobile e compì un agile balzo per scavalcare il guardrail che separava l’asfalto dal marciapiede.
“Fermi! Dannazione! Fermatevi!” Si fece largo fra le auto, gli mancarono pochi metri prima di raggiungerli ma il semaforo era scattato. Un tripudio di clacson impazziti lo costrinse a ritirarsi dalla strada e si vide sfrecciare un paio di vetture a pochissimi centimetri da lui. Era stanco morto, stremato.
La Porsche si dirigeva verso il ponte, probabilmente volevano attraversare il fiume e chissà  dov’erano diretti.
D’un tratto il Detective si ritrovò in uno stato di isolamento mentale per cui tutto il mondo intorno sembrava essere sparito magicamente.
Nix. Nixon. Il famoso presidente degli Stati Uniti d’America. Il presidente.
“Ci sono! Il Presidente! Perché non ci ho pensato prima.” Forse aveva compreso. Aveva compreso il motivo per cui avevano rapito Ran. In un baleno, Shinichi aveva sviscerato in tanti microscopici pezzettini, il piano diabolico e la perfidia psicologica che stava alla base dell’Organizzazione.
Era vero, quei bastardi adoravano le situazioni di stallo.




 






Eccoci, non vorrei darvi brutte notizie, ma questo è il capitolo prima dell'ultimo. Ovvero, ahimè, è il penultimo. Infatti è stato decisamente corto, proprio perché il prossimo sarà bello lungo, impegnativo e pieno di sorprese!!!!
Mi scuso con tutti per i tempi da bradipo che sto avendo ultimamente, ma sapete, l'esame di maturità.. è DOMANI! XD per cui... purtroppo tutto procede a rilento. Anche il mio cervello, si. Anzitutto vi ringrazio anticipatamente tutti quanti, tutti coloro che mi hanno seguita in questo piccolo delirio, in questo piccolo percorso. Spero che abbiate visto il capitolo 820 di Conan. Beh, emblematico, non trovate? Bando alle cianceeeeee comunque, non sono una tipa troppo melodrammatica, percui vi lascio. Spero di aggiornare presto e prometto di impegnarmi solennemente nella stesura dell'ultimo capitolo di questa lunghissiiiiiiiima storiella. Vi voglio tanto bene :) Saluto tutti e ringrazio come al solito 

Coloro che hanno la storia fra le preferite: 

A_M_B, chyo, Evelyn13, Imangaka, ismile, I_Am_She, Lady Night, Queenala, Silver spring, trunks94_cs, Violetta_, Yume98, _Flami_; Xx_PansyRomance_xX; suici007, Nikao

E ancora coloro che la hanno fra le seguite!!! 

Anemone san, Bankotsu90, Caroline Granger, Chicc, Evelyn13, I_Am_She, Kuroshiro, Layla Serizawa, Nezu, Red Fox, Sherry Myano, sosia, tigre, trunks94_cs, Violetta_, _Flami_, Shinku Rozen Maiden, sarelf.

Vi lascio qui due disegni che ha realizzato una mia carissima amica, e che ringrazio dal profondo del cuore. E' veramente un'artista. Ti adoro, Iman, grazie di tutto *____________* 
P.S: i disegni sono ispirati ai capitoli della mia storia :) Sono magnifici. Non ho parole, grazie.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** La nostra Primavera. ***


Allora, pensi di saper distinguere 
il paradiso dall'inferno? 
I cieli azzurri dal dolore? 
Sai distinguere un campo verde 
da una fredda rotaia d'acciaio? 
Un sorriso da un pretesto? 
Pensi di saperli distinguere? 
Ti hanno portato a barattare i tuoi eroi per dei fantasmi? 
Ceneri calde con gli alberi? 
Aria calda con brezza fresca? 
Un freddo benessere con un cambiamento? 
e hai scambiato un ruolo di comparsa nella guerra 
con il ruolo da protagonista in una gabbia? 
Come vorrei, come vorrei che fossi qui 
Siamo solo due anime sperdute 
Che nuotano in una boccia di pesci 
Anno dopo anno 
Corriamo sullo stesso vecchio terreno 
E cosa abbiamo trovato? 
Le solite vecchie paure 
Vorrei che fossi qui 





Ran riaprì lentamente i suoi occhi, ma quel che avvertì immediatamente fu un incredibile sentore di sangue, di stantio, di chiuso; poi comprese di essere in un grande stanzone sotterraneo, a giudicare dalla piccola finestrella rettangolare posta in alto, sulla parete di fronte a lei. Là dentro c’era anche qualcun altro, sentiva un respiro irregolare provenire alle sue spalle. La ragazza non poté però rendersi conto di chi si trattasse, data la fitta oscurità che avvolgeva probabilmente entrambi. Il suo cuoricino palpitava forte, sospinto e sorretto da una tremolante fiammella di speranza. Shinichi. Ogni qualvolta le cose non andavano bene, ella si ritrovava sempre a riporre la sua intera fiducia in quel Detective. Eppure nel preciso istante in cui un brivido di freddo le corse lungo la colonna vertebrale, si rese conto che non avrebbe potuto contare su di lui per l’eternità. D’altronde l’aveva abbandonata per troppo tempo e aveva permesso che quei brutti ceffi dell’Organizzazione la malmenassero e la rapissero. Quei pensieri le strinsero la gola in un orribile nodo, insopprimibile e impossibile da inghiottire. La spiacevole sensazione si tradusse in una lacrima furtiva lungo la guancia secca.
Ran sedeva inerme con le spalle premute contro il muro ed inoltre aveva i polsi legati dietro alla schiena con una fune molto robusta. Non sarebbe mai riuscita a liberarsi. Non da sola, perlomeno. Forse avrebbe dovuto richiedere l’aiuto di colui che divideva la stanza con lei.
Ma non appena le sue labbra si dischiusero nel tentativo di articolare delle parole, la porta d’ingresso si aprì lentamente, lasciando dispiegare pian piano una sottile lingua di luce sulle piastrelle sudice. Ran strinse gli occhi in una fessura e riuscì a mettere a fuoco quella figura alta e scura delinearsi contro il riquadro di luce della porta. Finalmente una porzione di quella stanza venne illuminata; la ragazza distingueva chiaramente l’uomo che era appena entrato. Gin. Riconobbe quegli occhi, quelle movenze, l’odore di quella sigaretta e poi, quella voce. Strinse i denti più che poté.
“Salve Ran, hai già fatto conoscenza del tuo coinquilino?” Disse l’uomo, infilandosi una mano in tasca e avanzando di qualche passo.
“Gli avete messo un nastro argentato sulla bocca, come pretendi che possa parlare?” Sibilò la ragazza con tono seccato.
A quel punto Gin le si avvicinò, scagliandole un calcio nel fianco. Ella emise un lieve gemito e strinse i pugni; la fune le segava letteralmente i polsi. Si pietrificò nella posizione che aveva assunto dopo il colpo, piegata in avanti e col capo basso, i capelli le coprivano il volto.
“Sei molto simpatica, ma risparmiati questo sarcasmo per il tuo Detective. Inoltre sei in presenza di una personalità illustre, non vorresti fare brutta figura?”
Era calato un silenzio cinereo e in quei brevi istanti Gin scorse l’altro uomo appoggiato ad una colonna, costretto in una posizione innaturale dalle corde che lo imprigionavano. A giudicare dal suo volto ombroso, ne dedusse che quei giorni lo avevano segnato molto. Il biondo scosse il capo e sfilò dalla tasca il suo cellulare, poi compose un numero.
Un ghigno sottile si delineò sulle sue labbra. “Vediamo un po’ cosa dice il tuo caro Detective liceale.”
Non appena ebbe proferito quelle parole, il capo di Ran scattò verso di lui e si sollevò quasi per istinto. “Cosa? Che vuoi fare?”
“Una prova d’amore.” Borbottò con sarcasmo.  Fra uno squillo ed un altro fece un tiro di sigaretta e sbuffò il fumo verso l’alto.
“Shinichi Kudo.” Il tono di lui divenne improvvisamente posato, basso.
Pronunciato da Gin, quel nome faceva tutt’altro effetto, tanto che Ran fu sopraffatta da una tremarella nervosa. Aveva gli  occhi sgranati nel tentativo di scorgere in quelli di Gin, una risposta alle sue domande o a quel che stesse rispondendo Shinichi. Dio, era troppo curiosa e troppo preoccupata.
 
 
Shinichi rabbrividì nell’udire quella voce. Non era stato così idiota da chiamarlo senza inserire il “Numero privato”, eppure non faticò minimamente nel riconoscere l’inflessione gelida nel tono di Gin. Oramai era diventato un sentore inconfondibile per lui. Strinse i denti e d’improvviso, lo stradone affollato di Beika sembrò scomparire come per incanto: c’erano soltanto lui e quell’uomo, la cui presenza era tangibile nonostante fosse soltanto un cellulare a legarli l’un l’altro.
“Non vi azzardate a torcerle un capello.” Disse Shinichi fra i denti serrati. Sentì la rabbia gonfiargli le vene del collo, ulteriormente ravvivata dalla placida indifferenza mostrata dal suo interlocutore.
“Kudo, ho una proposta da farti. E nessuno si farà male.”
Difficilmente sarebbe sceso a patti con un criminale, eppure Ran era coinvolta in quella spiacevole storia. “Di che proposta si tratta?”
Gin si prese del tempo per potersi fare una lunga tirata. Lo rilassava.
“Sai, Shinichi, queste due personcine qui presenti mi aiuteranno molto, sono i nostri assi nella manica. I Jolly su cui si eleva la struttura del nostro piano.”
Il ragazzo non riuscì a reprimere un gesto di stizza.
“Non mi servono le tue chiacchiere, spara! Che hai in mente?”
“Quanta fretta.” Il biondo diede una rapida occhiata alla ragazza ai suoi piedi, tremolante come una foglia, poi dispiegò lo sguardo fra un paio di fredde colonne in calcestruzzo. “Si, forse hai le tue ragioni per avere fretta. Comunque ti spiegherò brevemente la situazione, Kudo. Oltre alla tua amata Ran, qui c’è il Presidente, come avrai ben capito. Vermouth ha avuto modo di lasciare degli indizi prima di morire, ma a quanto pare non ha avuto il tempo perché dessero i loro frutti. In definitiva ti propongo una situazione di stallo.”
“Che diavolo volete?!” Il tono di Shinichi si fece più torbido e ribollente di rabbia.
“Dal momento che sei l’unico a conoscere più approfonditamente l’organizzazione e l’FBI ne è al corrente, sarai tu il protagonista di questo Scacco Matto. Il Presidente sarà il loro obiettivo, tu convincerai i tuoi cari amichetti della Polizia a rilasciare i membri dell’Organizzazione che Vermouth ha fatto arrestare grazie alla sua soffiata e noi libereremo quest’idiota al Governo.”
Shinichi si leccò le labbra, incredibilmente secche, al pari della sua lingua. Aveva il respiro corto per via dell’ansia e dell’agitazione. “Perché rapire Ran?”
Gin rise sommessamente, poi ciccò la sigaretta a pochi passi da Ran e la spense sotto la suola della sua scarpa. “Ma come, Detective? Non ci arrivi da solo?” A quel punto, il killer portò un ginocchio contro il pavimento in modo da raggiungere la stessa altezza del viso di Ran: osservandolo, notò che esso era pallido, cinereo. Fra il pallore delle sue guance spiccavano due occhioni spalancati e pietrificati dalla paura. “Ran è la ciliegina sulla torta che mi da la certezza che tu non faccia qualche passo falso. Sei costretto a collaborare e la ragazza è un Surplus affinché questo avvenga senza problemi.” L’uomo sfiorò delicatamente il mento di Ran con la mano destra e poi le sorrise leggermente. “Ti sta aspettando con ansia, Shinichi. Non deluderla. Mi raccomando. Non vorrei sporcarle di sangue questo bel visetto.”
“Gin! Aspetta, Gin! Maledizione.” L’uomo in nero aveva tagliato la chiamata, rendendolo schiavo dell’unica decisione che avevano previsto. Gli sembrò di essere stato catapultato in un’unica strada da percorrere, senza scorciatoie o viottoli di sorta. Cosa doveva fare? Avrebbe dovuto piegarsi realmente ai voleri di quegli assassini? O c’era un’altra chance? A quel punto il bivio, gli sembrò l’unica scelta davvero realista, anche se rischiosa. Estremamente rischiosa.
 
 
 
 
 
Shiho si vestì in fretta: come di consueto al suo risveglio aveva trovato vuoto il posto al suo fianco e ipotizzò che Gin fosse uscito, diretto chissà dove. Quello, non le era dato saperlo. Erano passati oramai alcuni giorni e la storia si era ripetuta innumerevoli volte: la notte lui le si avvicinava, la sfiorava, la accarezzava; la mattina dopo la osservava come se fosse stata una sconosciuta in casa sua, con quegli occhi freddi e privi di qualsiasi calore, con quella stramaledetta sigaretta sempre accesa fra le labbra. Cominciava a sentirsi male al solo pensiero. Si sentiva un oggetto, un giocattolo con cui lui si sfogasse, ogni qualvolta ne avesse bisogno. Doveva porre fine a quello strazio, a quell’annullamento dal retrogusto auto-lesionistico.
Ai piedi del letto, la ragazza si infilò velocemente un paio di shorts di jeans e indossò una t-shirt nera, poi si sedette sul bordo per poter stringere bene i lacci degli anfibi: li aveva comprati giorni fa e le erano subito piaciuti: scarponi robusti, solidi, da guerrigliera rivoluzionaria. Tutto quel che avrebbe voluto essere e che inconsciamente le dava l’impressione di mostrarsi più forte e coraggiosa. Ma dentro si sentiva davvero troppo fragile ed ebbe la certezza che un ulteriore colpo basso l’avrebbe distrutta definitivamente come uno specchio frantumato in una miriade di microscopiche schegge taglienti.
Qualche minuto più tardi Shiho fu in strada e quel che successe fra le trafficate viottole di Beika le sembrò soltanto un breve intermezzo di un film girato da un regista alquanto sadico: incontrò Shinichi e apprese immediatamente la situazione venutasi a creare. A quel punto credette che la cosa giusta da fare fosse quella di guidare il Detective verso il cuore dell’Organizzazione: forse l’avrebbe condannato a morte contraendo la distanza che li separava, ma nel preciso istante in cui incrociò il suo sguardo preoccupato e premuroso non seppe negargli l’aiuto di cui aveva bisogno.
Entrambi entrarono nella stanza di Gin e Shinichi compì una giravolta su se stesso per poter dare una rapida occhiata all’ambiente circostante. Non trapelava alcunché da quei mobili squadrati e maledettamente banali ma non ne fu sorpreso.
“Eccoci qui, Kudo. Questa è la stanza dove è solito trascorrere la notte. In questi giorni l’ha usata soltanto per dormire, ma potrebbe esserci qualcosa di interessante per capire dove tengono Ran.” Shiho rimase ferma nei pressi della porta, mantenendo le braccia congiunte dietro la schiena: la sua visuale le permetteva di tenere sott’occhio l’intero monolocale e ciascun movimento del Detective, che nell’immediato, prese a farsi meticoloso.
“Come pensavo Gin non è il tipo che ama curare i suoi effetti personali, a giudicare dall’assenza di qualsiasi decorazione.” Era chino a frugare nei cassetti dell’armadio. Alcuni erano addirittura vuoti. “Sembra che i membri dell’Organizzazione siano quasi paragonabili a dei fantasmi. Non si sa nulla delle loro vite, né tantomeno dei loro trascorsi.”
Shiho trasse un sospiro che Shinichi interpretò come carico di ricordi e pensieri nostalgici. “E’ proprio così. E’ la prassi. Chi entra nell’Organizzazione non è nessuno su questa Terra, sparisce dalla faccia del Globo per l’eternità. Agisce nell’ombra.”
Shinichi si aggirava furtivo nella stanza, pareva essersi placato ed ora riusciva a ragionare in maniera molto più lucida e concisa. Arrivò alla scrivania e aprì i primi cassetti, poi si piegò in ginocchio per aprire l’ultimo. Sgranò gli occhi. “C’è un fazzoletto.”
La ragazza sollevò le sopracciglia e rimase incuriosita da quel ritrovamento. Il Detective lo prese e mentre lo svolgeva dalle sue piegature si alzò in piedi. Non appena il fazzoletto fu completamente aperto, Shiho ebbe un moto di sgomento. Santo Cielo. Ricordava quel fazzoletto.
Quando Shinichi si volse per osservare la ragazza fu sorpreso nel vederla così provata.
“Cosa c’è, qualcosa non va?”
“Quel fazzoletto era di Akemi.”
“Dici davvero? E perché lo ha lui? Sembra che lo abbia conservato per alcuni anni.”
Shiho si avvicinò e glielo sfilò dalle mani con delicatezza, come se stesse maneggiando una piccola scultura di cristallo. Sorrise dolcemente. “Era il suo preferito. Credo che Gin lo abbia raccolto dopo averla uccisa. Ma ad ogni modo presto avrò l’occasione per chiederglielo personalmente.”
Il ragazzo continuò ad ispezionare ogni singolo oggetto del monolocale, fin quando non sfilò fra le pagine di un giornale recente, un biglietto sul quale vi era annotato un indirizzo. “Dà un’occhiata a questo.”
La biondina conservò accuratamente il fazzoletto e si avvicinò nuovamente a lui. Dalla calligrafia elegante e precisa dedusse che era stato proprio Gin a scriversi quell’appunto. “E’ senza dubbio la sua scrittura. Ho trascorso più tempo con lui che con mia sorella. Roba da non crederci.”
Shinichi ridacchiò. “Non ci resta che tentare la fortuna e recarci qui.” Egli volse il capo verso la finestra: non si erano neanche accorti che il sole era calato da un pezzo. Era sera ormai, i lampioni della città cominciavano ad accendersi diffondendo la loro luce lungo le strade.
“Kudo, dobbiamo muoverci.”
“Vorrei chiederti una cosa prima.” Deglutì, poi le afferrò un polso con decisione. “Si può sapere da che parte stai, Shiho?”
Ella schiuse pian piano le labbra, scrutando gli occhi chiari e sinceri del Detective. Era la prima volta che le si rivolgeva chiamandola col suo vero nome.
“Credo di essere sempre stata dalla vostra parte, ma stanotte lo sarò fino in fondo. Voglio aiutarti, Shinichi. Non ho più nulla da perdere, ma se posso fare qualcosa per te, lo faccio volentieri. Potrò essere utile a qualcuno, almeno.” Nel suo tono c’era una punta di rammarico, in un misto fra la rassegnazione ed il rancore, fra i mille sensi di colpa che si portava nel cuore. Avrebbe voluto redimersi in qualche modo, espiare le sue colpe in maniera definitiva.
“E lo ami?” Chiese Shinichi, strinse i denti e cercò di trovare una risposta negli occhi di Shiho, ancor prima che l’avesse proferita. Ma ella sembrò temporeggiare, istintivamente tentò di sfilarsi dalla presa salda al suo polso. Poi, vedendo che lui era inamovibile come una statua di marmo, si fermò e abbassò il capo.
“Non so se si possa parlare di amore. So soltanto che avevo bisogno di qualcuno che mi stesse affianco, avevo bisogno di calore, di presenza viva. E alla fine è diventato tutto così ossessionante da essere indispensabile. Lo so, sono una stupida.”
“No, non lo sei. Ma sappi che finirà male, se non avrai il coraggio di mettere il punto a tutta questa storia.” Le abbandonò il polso e poi, inaspettatamente, la avvolse fra le braccia, tirandola contro il suo petto e stringendola forte. “Non so cosa ti è preso.” Borbottò mentre le scompigliava leggermente i capelli. “Ma a cose fatte credo che ti sia servita quest’esperienza. Non avrei potuto frenarti.”
Shiho sentì il suo cuore aumentare i battiti, così sollevò le mani e gli strinse la giacca. “La verità è che sei una frana nel comprendere i sentimenti delle persone. Lo sai che è tutta colpa tua, lo sai, vero?” A quel punto la sua voce era ridotta ad un mormorio debole ed intimo.
“Lo so, eccome se lo so.”
“Avresti dovuto usare un po’ più di tatto, Kudo.” Alla fine ella si riprese e finalmente sciolsero il loro abbraccio. “Ora basta, muoviamoci.”
Così dicendo, troncando quella conversazione, i due si richiusero la porta alle spalle, forse per sempre.
Shiho strinse la maniglia e per un breve istante tutti i flash di quella vita le inondarono la mente, ogni singola parola, ogni frase, ogni cosa le sembrava ormai sigillarsi per sempre in quella stanza. Avrebbe lasciato tutti quei ricordi alle sue spalle, anche se ciò faceva male, era un dolore indescrivibile, anche perché recidere quel legame, equivaleva a tagliare il sottile filo che la legava ancora ad Akemi e al suo passato.
Ma il passato, rimane pur sempre passato e tornare sui propri passi non è mai una cosa giusta, perché volgendosi indietro, non si riesce mai a scorgere quel che c’è davanti ai propri occhi. Per quanto meraviglioso esso sia.
 
 
 
 
 
Shinichi e Shiho raggiunsero il luogo indicato nell’indirizzo. Era buio ormai, tutta la città era stata inghiottita dalla fredda oscurità. Di fronte a loro si ergeva un grande palazzo, uno di quei grandi complessi costituiti da una ventina di piani, con le vetrate a specchio ed i finestroni a nastro, alla maniera della grande architettura moderna di Le Courbusier. Il grande torrione scuro era costellato disordinatamente da tante luci giallastre e ciò stava ad indicare che molti erano ancora svegli, in quella notte così apparentemente silenziosa e tranquilla.
Prima di entrare dal grande portone principale, Shiho sollevò lo sguardo al cielo e osservò la luna, stavolta non pallida e tenue, ma brillante e biancastra come una grande perla d’avorio.
“Ehi, Shinichi, ci pensi mai che la Luna ci mostra sempre la medesima faccia?” Esordì lei, con un sorriso che stentava a delinearsi perfettamente sulle sue labbra.
“E’ dovuto alla concordanza fra il periodo di rotazione e quello di rivoluzione.”
La ragazza spinse una mano contro la maniglia e il clangore metallico rivelò loro un atrio molto elegante e luminoso. “Già. Il lato oscuro della luna.” Rise.
Una volta richiusasi le ante alle loro spalle, i due sprofondarono nuovamente in un clima silenzioso, tanto che si sentiva persino lo sfrigolio delle luci al neon.
“Che si fa, Kudo?” Shiho si mise a braccia conserte, nell’attesa di sapere le coordinate per procedere. Come di consueto il Detective aveva le mani infilate nelle tasche e si guardava intorno, con l’aria del pensatore. D’un tratto però, i due udirono nuovamente il cigolio dei cardini. Il cuore di entrambi perse un battito: poteva trattarsi di qualcuno di sospetto, così Shiho preferì voltarsi verso l’ascensore e premere il tasto rosso sulla pulsantiera, cercando di dissimulare le loro intenzioni.
“Signorina, l’ascensore è rotto.” L’uomo che era appena entrato indossava un’uniforme nera e un paio di anfibi, ma il primo particolare che notarono i due ragazzi fu la fondina che gli avvolgeva la vita.
“Ah, davvero?” Shiho si schiarì la voce e trasse un sospiro. “Pazienza, vorrà dire che smaltiremo la cena di stasera.”
Shinichi cercò di assecondarla senza dare nell’occhio, eppure notò che stranamente quell’uniforme non apparteneva ad alcun tipo di corpo speciale. Era sospetto.
“D’accordo, allora buonanotte.” L’uomo si congedò e prese a salire alcuni gradini.
Ai due bastò una semplice occhiata d’intesa per poter comprendere i loro reciproci pensieri. Così, imitando colui che l’aveva preceduti, seguirono quell’uomo, fin quando non si fermò al settimo piano.
Shinichi si inginocchiò a terra poco prima che l’uomo stesse per raggiungere la sua destinazione e intimò Shiho di fare silenzio: in quel brevissimo istante, il Detective si slanciò verso di lui e lo tramortì con un colpo alla nuca.
“Ma che cavolo stai facendo?”
“Ho intenzione di fregargli i vestiti e di spacciarmi per questa guardia. Sono sicuro che c’entra l’organizzazione in tutto questo.” Detto ciò, Shinichi si chinò a raccogliere il corpo inerme dell’uomo e in un tempo altrettanto breve indossò i suoi indumenti. Frugando nelle ampie tasche dell’uniforme, egli si rese conto di essere entrato in possesso di una tessera magnetica.
“Bene, c’è un lettore di schede proprio qui, al fianco della porta. Entriamo entrambi, poi ci dividiamo.”
Shiho strinse le mani dietro alla schiena ed annuì con decisione. “D’accordo capitano. Rimaniamo in contatto tramite queste.” Gli mostrò le ricetrasmittenti dei Giovani Detective.
“Bene. Mi raccomando se ci sono problemi, non esitare a chiamarmi.”
“Speriamo di aver beccato il luogo esatto.”
L’ansia cominciò a salire vertiginosamente, nel preciso istante in cui la tessera scivolò nel lettore e si accese la spia verde. “In bocca al lupo, Kudo.” Proferì Shiho, venendo avvolta da un alone buio. Il corridoio di quella stanza era libero e non illuminato. Oramai le voci dei due erano diventate dei sussurri leggeri.
“Sicuramente si tratta di una delle tante sedi dell’Organizzazione, fa attenzione, ci saranno sicuramente delle guardie dislocate nelle varie stanze.” Sibilò la ragazza, poi compì un breve tratto e si inoltrò all’interno di un altro ambiente, separandosi definitivamente dal liceale.
 
 
 
 
 
Shiho mando giù la saliva e guardò dritta di fronte a sé, con la schiena incollata alla porta: di fronte ai suoi occhi vi era un grande tavolo a ferro di cavallo, mentre sulla parete in alto erano sospesi una decina di schermi che proiettavano varie immagini con un elevato grado di sfarfallio e di disturbo del segnale. La stanza era illuminata da una luce giallastra e fioca, tanto che la lampadina pendeva dal soffitto ondeggiando leggermente e rivelando la presenza di un uomo che se ne stava a sonnecchiare su di una grande poltrona nera.
La ragazza inspirò silenziosamente e col fiato sospeso avanzò verso di lui: la mossa fu rapida. Gli premette la mano contro la bocca e, afferratolo per i capelli, lo costrinse a battere violentemente la fronte contro il tavolo. Con suo grande rammarico, lo vide accasciarsi in terra. Un rivolo di sangue gli colava fra gli occhi. Le mani della ragazza presero a tremolare vistosamente: era la prima volta che compiva un gesto del genere, ma l’istinto di sopravvivenza aveva nuovamente prevalso sul raziocinio e sulla sua eticità.
“Buonanotte.” Sussurrò lei mentre si apprestava a scansare l’uomo dalla poltrona e a prendere il suo posto. Quando fu immersa nel morbido tessuto nero, premette il pulsante della ricetrasmittente.
“Kudo, sono nella sala di videosorveglianza. Ci sono dieci monitor di fronte a me, in uno c’è Ran e si scorge il presidente.”
“Dici davvero?!” Un moto di entusiasmo prevalse ugualmente, nonostante il ragazzo stesse mantenendo un tono piuttosto basso.
“Si. Ma non capisco dove si trovino. Ci sono delle colonne in calcestruzzo, Ran è viva, a giudicare dai loro movimenti stanno bene.”
“Colonne in calcestruzzo?” Ripeté quasi fra sé. “Che siano …”
“Forse nel garage sotterraneo.”
“Mi dirigo lì.” Stava per interrompere la chiamata, quando la voce di Shiho proruppe nelle orecchie di Shinichi, allarmata.
“Aspetta. Devi fare attenzione. C’è una bomba. Ad orologeria.”
Fu come se un coltello trafiggesse la trachea del ragazzo. Silenzio.
Shiho cominciò ad armeggiare fra la pulsantiera, le sue dita sottili si destreggiavano abilmente fra la miriade di tasti e levette. Sul monitor che inquadrava Ran comparvero numerosi riquadri. “Sto tentando di zoomare sul display dell’ordigno.”
Shinichi cercò di deglutire, senza però conseguire chissà quale successo. “E …?”
“Venti minuti Kudo. Mancano venti minuti allo scadere del timer.” Anche la ragazza sentì un fastidiosissimo nodo formatolesi presso la gola. “Datti una mossa.”
“Volo.” Fu la risposta di lui.
 
 
 
 
 
Shinichi aveva il cuore a mille, gli mancava il fiato: poteva percepire chiaramente l’adrenalina entrata ormai in circolo nel suo organismo. Scese le scale come un fulmine, per via del guasto all’ascensore, e in pochi minuti, oramai divenuti troppo preziosi per perderli, giunse al portello in ferro che lo separava dal garage sotterraneo.
Il soffitto era alto non più di due metri e mezzo, faceva incredibilmente caldo e oltretutto lo spazio non era neanche pieno. C’erano poche macchine, disseminate qua e là, per il resto, un grande ambiente si stagliava di fronte ai suoi occhi. La luce era bassa e nei pressi dell’entrata parecchi neon si accendevano e si spegnevano ad intervalli irregolari.
Doveva sbrigarsi a trovare Ran. Era una sfida fatta di secondi, di minuti, di istanti. E doveva vincere. Era assurdo che le vite di quei due individui fossero legati in maniera così indissolubile e salda, alle lancette di un orologio, a qualche semplice numero. A due, o nel peggiore dei casi, a una cifra.
‘Ran …’
Shinichi avanzò furtivo, fin quando non sentì un sibilò sfrecciare al suo fianco. Un proiettile gli aveva reciso un lembo del pantalone. Stringendo i denti si portò istintivamente una mano contro la ferita. Era un Detective, ma in quella situazione fu costretto a trasformarsi in un eroe da film americano. Con un movimento veloce estrasse l’arma dalla fondina e la osservò. Era fin troppo facile imitare i movimenti osservati nei movies, ma era così altrettanto difficile maneggiare realmente un’arma di quel calibro.
“Ehi tu, fermo là!” Una guardia comparve vicino al cofano di un automobile, a pochi metri da lui. Imbracciava un fucile d’assalto e a giudicare dal tono della sua voce non avrebbe esitato a sparare ancora.
A quel punto Shinichi raccolse tutto il coraggio di cui disponeva e sparò un colpo, facendo attenzione a non colpirlo in punti vitali. A seguito del roboante sparo, il Detective corse come un lampo in direzione della porta che lo separava da Ran: la sala macchine.
“Maledetto bastardo, ti faccio saltare il cranio, dannazione!” Le urla di quell’uomo e gli innumerevoli proiettili indirizzati verso di lui, lo costrinsero a compiere un balzo ulteriore; così, si riparò dietro ad un’automobile. Nel breve tempo di stasi in cui riusciva ad osservare i passi dell’uomo al di sotto del motore dell’auto, sentì il suo respiro accelerato, come quello di una bestia continuamente braccata dal suo predatore. Il sudore gli scivolava sulla tempia, , tanto che alcuni ciuffetti di capelli si erano appiccicati anche nei pressi della fronte. Man mano che la distanza fra lui e la guardia si contraeva, sentiva il suo cuore pulsare come un dannato. Non seppe spiegarsi il motivo, ma gli tornarono in mente i momenti in cui giocava a nascondino con i suoi amici da piccolo e sentiva chiaramente che qualcuno stava per urlare “Tana”, dopo averlo beccato. Ecco. Quella era la sensazione che provava Shinichi nell’essere quasi scoperto, seppur quintuplicata negli effetti che doveva sopportare il suo corpo.
Eppure il Detective non gli diede neanche il tempo per poter urlare “tana”, dal momento che con uno scatto schizzò fuori dal suo nascondiglio e comparve magicamente proprio alle spalle del suo inseguitore, scagliandogli un colpo violentissimo alla nuca col calcio della pistola.
Il brutto ceffo stramazzò al suolo con un tonfo e Shinichi tirò un gran sospiro di sollievo. Corse ancora contro la porta della sala macchine e diede un paio di pesanti colpi con il pugno stretto.
“RAN! Ran, rispondimi, sono io, Shinichi!” Fra il rumore metallico della porta e il silenzio ovattato di quel luogo, egli udì chiaramente la voce stremata e supplichevole di Ran invocare il nome del suo amico di infanzia. Ne era certa. Sapeva che sarebbe venuto a salvarla.
“Ran, aspetta ancora qualche secondo! Presidente, sta bene?!”
Ricevette un “Sì” di tutta risposta. Ma i guai non erano di certo finiti per loro tre. Di fianco alla porta d’acciaio vi era un ennesimo lettore di tessere magnetiche, ma in concomitanza con quel dispositivo ve n’era un altro, recante un pannello di numeri.
“Oh no. Ci vuole una password.” Azionò la ricetrasmittente, assicurandosi di essere ancora solo. Il tempo stringeva.
 
 
 
 
 
Shiho trasalì non appena udì la voce di Shinichi provenire dalla sua ricetrasmittente. Era in un’altra stanza e col passare del tempo ebbe la certezza che qualcuno sarebbe presto arrivato per controllare per quale motivo due guardie avevano interrotto i contatti. Fin ora infatti, era riuscita a metterne fuori uso soltanto due. Era troppo silenzioso. Non le rimaneva molto tempo.
“Shinichi. Dimmi. Hai raggiunto Ran?”
“No, dannazione, no! C’è una password da inserire per aprire la porta della sala comandi.”
Shiho si chinò a terra per frugare fra le mille scartoffie disseminate fra i cassetti di quella stanza. Ne sfilava a decine, rovistando nel contenuto di carte e cartellette. C’erano centinaia di informazioni in quell’ufficio e una marea di plichi in cui controllare. “Credo che dovrai aspettare. Il lavoro è ancora molto lungo.”
“Aspettare? Starai scherzando, vero? Non c’è tempo!” Shinichi divenne incalzante.
“Un attimo, Santo Cielo!” Era molto agitata, poi le metteva anche fretta. Sospirò, cercando di nascondere l’ansia che l’assaliva ad ogni movimento. Oramai era diventata frenetica, i suoi movimenti alla ricerca disperata erano convulsi e distratti. Alla fine cominciò a far volare via tutto quello che le capitava a tiro, fin quando un grande blocco di documenti non si riversò in terra. “Eccolo! Forse ci siamo.”
“Grande!”
La scienziata sorrise trionfante e si chinò in terra, scorgendo fra le tante scartoffie un biglietto con un numero scritto a penna. “E’ lui, è sicuramente lui!”
“Vai, proviamo.” Shinichi portò l’indice presso i pulsanti cerchiati di rosso e attese.
Ma inaspettatamente fra le due ricetrasmittenti si abbatté un silenzio agghiacciante. Shiho rimase immobile, con il biglietto stretto saldamente fra entrambe le mani.
Dei passi. Nel corridoio. Lenti. Estremamente lenti.
“Ai?”
Silenzio. Quell’incedere lento continuava imperterrito.
Shiho si sentì sprofondare, come se la terra sotto le sue gambe sottili, stesse improvvisamente franando. Le sue labbra si serrarono in un’espressione di rassegnazione e mentre il suo cuoricino aveva preso a martellare come un ossesso, gli occhi le si gonfiarono di lacrime. Aveva paura, era terrorizzata. Non riusciva a respirare.
“Ai, sei ancora lì?! Ai?”
Sembrava essere preda di un attacco di panico. Povera, piccola, creatura indifesa. Doveva farcela. Doveva vincere quel mostro che la divorava da dentro. Eppure non riusciva a parlare, non appena dischiuse le labbra per articolare i suoni, si sentì come se avesse perso la facoltà di interloquire. Quei passi. Maledetti passi. Deglutì.
“Due, zero …” Una lacrima le solcò il viso, poi sgranò gli occhi, osservando la maniglia della porta che si abbassava. “Cinque, otto. Zero.”
“Va! E’ andata! Funziona! Ai! Funziona!”
Shiho annuì, osservando la porta aprirsi piano. “Sono contenta, Kudo. Sono contenta.” Un sorriso amaro le fece scendere le lacrime lungo le guance. Lei invece, era spacciata.
 
 
 
 

Shinichi spalancò la porta e raggiunse immediatamente il Presidente, slegandogli abilmente i nodi che lo tenevano ancorato a quella colonna, impossibilitato a muoversi.
“Ragazzo mio, sei un eroe.”
“Ma quale eroe, sono un semplice Detective.” Borbottò lui, slacciando finalmente la fune che lo costringeva. Poi corse con altrettanta rapidità verso Ran. La ragazza non credeva ai suoi occhi.
“Shinichi, io …”
“Sta tranquilla Ran, è tutto finito.” Compì le stesse manovre per poter salvare anche Ran, i cui polsi sembravano essere recisi in più punti dalla fune. “Ora dovete correre fuori dall’edificio. C’è una bomba qui dentro. Ran, presto, chiama la polizia! Fa’ in fretta!”
A dirla tutta Ran si aspettava un salvataggio meno adrenalinico e più romantico, ma a quanto pare avrebbero dovuto posticipare i loro sentimenti. Prese per mano il Presidente, come se fosse stato un suo conoscente stretto e con il suo solito coraggio, con la sua grinta e determinazione, condusse fuori dall’edificio quell’importante personalità. In fin dei conti, quando si tratta di scegliere fra la vita e la morte, quel che conta è l’umanità, è la fratellanza fra gli uomini. Non ci sono soldi o fama che tengano. Perché le tragedie legano le persone.
 
 
 
 
Shinichi si piegò di fronte al dispositivo di collocamento della bomba e osservò il display nero: su di esso scorrevano lenti i secondi. Mancavano sei minuti allo scoppio delle cariche di dinamite. Con cautela ed estrema attenzione, il Detective osservò quei fili che fuoriuscivano da un quadrante grigio. Diamine, sembrava proprio di essere stati catapultati in un film. Peccato che non bastava osservare uno di quei fili e sperare di tagliare quello giusto. Perlomeno, nei film veniva reciso sempre quello corretto, a pochi secondi dallo scadere del timer. Ma la vita era assai dissimile dai film. E sei minuti erano veramente insufficienti perché potesse disinnescare quella bomba. La scelta saggia da fare era quella di chiamare la polizia e sgombrare al più presto l’edificio. Afferrò la ricetrasmittente e si catapultò fuori.
“Ai, devi uscire dall’edificio! Immediatamente! Non abbiamo tempo per disinnescare la bomba!”
La risposta arrivò soltanto pochi secondi più tardi. “Ehi, Shinichi. Io sono già fuori.”
“Per fortuna. Allora ci si vede lì.” Sentiva già le volanti della polizia a sirene spiegate. Che brutta storia, quella. Ma presto sarebbe finita.
 
 
 
 
 
Shiho aveva le mani salde intorno al calcio della pistola e la puntava contro il suo aguzzino tenendo tese entrambe le braccia. Abbassò il capo per potersi asciugare contro il braccio la guancia calda di lacrime. Quell’arma l’aveva recuperata dalla guardia che aveva steso con un colpo, un attimo prima che la scoprissero.
“Sherry, perché mi stai puntando quella pistola addosso?” Gin aveva la sua immancabile sigaretta fra le labbra e innumerevoli scie di fumo si sollevavano nell’aria, rarefatte.
“Non ti avvicinare. Non fare un passo o sparo!” La voce di Shiho era tremante, nervosa, a tratti quasi isterica. Era sull’orlo di una crisi di nervi.
Ma la risposta del biondo fu un sardonico sorriso, poi una lievissima risata. Celata. I ciuffi di platino gli coprivano parte del viso, ma come sempre, quei due occhi verdi erano vivi, piantati su di lei. Sulla Sua Sherry. “Andiamo, Sherry. Che idiozia. Non spareresti mai, e lo sai.”
“Stai zitto! Fermati, ho detto!” L’indice tremava, eppure si piazzò contro il grilletto. Un minimo spasmo e l’arma avrebbe fatto fuoco. Bang.
Improvvisamente Gin assunse un’aria seriosa e si sfilò la sigaretta dalle labbra, spegnendola a terra. “Ehi, cerca di ragionare.” Il suo tono era diventato quasi complice, quasi … dolce.
Shiho deglutì. “Non cercare di abbindolarmi!”
“Hai trovato il fazzoletto, vero?”
La ragazza tremò e come per istinto sfilò l’indice dal grilletto. Era davvero troppo pericoloso.
“Si, l’ho trovato. Perché lo avevi?”
Gin avanzava piano verso di lei. “Volevo ridartelo. E’ di Akemi.”
“Lo so bene.”
“Posa quell’arma. Non serve a nulla, ora.” Il suo volto non esprimeva alcuna emozione. Eppure la scienziata abbassò piano lo sguardo.
“Dai, Sherry.” Sussurrò. Sembrava che la stesse guidando per mano. “Lascia che mi avvicini.”
Shiho era confusa. Dannatamente confusa. Ma alla fine cedette. Lasciò che la pistola scivolasse in terra. Fra loro non c’era più alcuna barriera.
Voleva abbracciarlo? E lui?
Gin annuì piano. “Brava, dolcezza.” La raggiunse, poi sollevò il suo visino con la mano destra. “E così alla fine si è conclusa, questa brutta storia. L’eroe ha salvato la sua principessa, l’antagonista però è ancora vivo.”
“Piantala.”
“Aspetta aspetta. Aspetta un secondo.” Premette l’indice della mano destra contro le labbra di lei, umide. Avanzò di un passo. I loro corpi erano vicini. “In una storia come si deve c’è sempre anche l’oggetto che permette all’eroe di andare avanti nella trama, mi sbaglio?”
Shiho non riusciva a comprendere quei giri di parole. Le sembravano semplicemente assurdi. Sembravano quasi i deliri di un pazzo. Sembravano.
“Credo di non capire ancora bene. Comunque, si.”
Gin si prese del tempo per rispondere. Si leccò le labbra. “Ma a volte l’oggetto materiale veniva sostituito da una persona fisica. Una persona, in carne ed ossa.” Il suo tono divenne brusco. Secco. “Un aiutante.”
Shiho sgranò visibilmente i suoi occhi, le iridi tremarono fra il bianco.
“E in questa storia …” Proseguì Gin, afferrandole con forza il viso. “L’aiutante muore.” Canzonò. Un altro brivido, poi lo vide scostarsi un lembo dell’impermeabile.
Non capì bene, tutto sembrava che le girasse intorno vorticosamente. Sentì un colpo, poi uno sparo. Una pallottola le stava penetrando nella carne. Le aveva sparato all’addome.
Shiho arrancò, stringendo i lembi dell’impermeabile di Gin e osservando il suo viso con occhi tremanti, ma oramai spenti. Pian piano scivolava giù, il sangue le scolava giù per le gambe, poi sentì il suo sapore acre in bocca. “P-perché l’hai fatto?” Singhiozzò lei, la cui presa diveniva sempre più flebile.
“Hai tradito. Mi hai tradito.” Puntualizzò.
Shiho rise lievemente, poi tossì. “Sai, sono stata una stupida, Gin.” Sprofondò con la fronte contro il suo petto. “Credevo quasi di essermi … innamorata.”
“Tappati quella bocca o ti sparo un altro proiettile.”
La scienziata sentì la presa affievolirsi piano piano. Scivolò a terra, in ginocchio ai piedi del biondo. “E la cosa orribile è che credo ancora di esserlo.” Anche le lacrime faticavano ad uscire. Non poteva perdere più nulla. Le era stato tolto tutto. Tutto.
“Mi dispiace per te. Shiho Miyano.”
Shiho crollò a terra, inerme.
Silenzio. Era morta.
Gin osservò il piccolo corpicino di Sherry steso al suolo, immobile in una pozza di sangue. Trasse un sospiro, poi serrò le labbra. Gli tremavano le mani. Come aveva potuto premere il grilletto? Questi ed altri pensieri si facevano strada fra la sua mente. Mai prima d’allora aveva provato quei sentimenti così contrastanti. Dio. Gli faceva male. Un dolore insopportabile. Strinse i denti e si voltò, deciso più che mai a cancellare dal suo cuore quell’immagine di morte. Aveva quasi raggiunto la porta della stanza, quando sentì chiaramente dei rumori alle sue spalle. Si voltò e vide Shiho afferrare di colpo la pistola caduta in terra e sparare dritto contro di lui. Non avrebbe mai scordato quegli occhi. Gli occhi di una Sherry sconfitta, piena di astio e di vendetta.
“Ti sei portato via Akemi, ora sarò io a portarti via con me!” Un paio di colpi.
Gin crollò a terra allo stesso modo di Shiho e quando furono al suolo si scambiarono un ultimo sguardo. Era strano e persino un po’ buffo, che qualche grammo di piombo avesse abbattuto l’osso più duro e spietato dell’Organizzazione.
Ecco, come finiscono le storie fra bulli e pupe. Dove c’è sangue e morte, dove ci sono proiettili e sentimenti, non c’è mai redenzione.
 
 
 
 
 

Un anno dopo.

 
 
 
 
Era una calda giornata di primavera, il sole spuntava a tratti fra le fronde degli alberi ed i suoi raggi venivano filtrati in maniera insolita ed affascinante.
Gli arbusti erano oramai fioriti, il verde regnava incontrastato nel giardino di Beika ed era tutto un turbinio di colori, di odori, di suoni e di grida spensierate.
La primavera tornava a rivivere nel cuore di tutti. Gli uccellini cinguettavano melodiosi e quel quadretto da sogno si ripeteva più e più volte, come tutti gli anni, dall’alba dei tempi. Da quando l’uomo era approdato per la prima volta sulla Terra.
Su di una panchina sedevano due ragazzi, di ritorno da scuola. Quella, era la prima primavera che trascorrevano senza lei.
I bambini giocavano a pallone di fronte a loro, incuranti che il tempo stesse scorrendo così veloce, così rapido, così maledettamente crudele da portarsi via ogni istante ed ogni attimo, con la rapidità di un volo di gabbiano. Sembrava che di fronte ai loro occhi celesti come il mare, tutto stesse sbiadendo gradualmente, senza che potessero fare qualcosa per frenare quell’ incedere così repentino.
“Sai, spesso penso che è stata colpa mia.” Disse il ragazzo dai capelli castani, il cui sguardo era perso fra i molteplici rami degli alberi. Come se da essi volesse rubare dei ricordi, dei frammenti di quel passato che non poteva tornare.
La ragazza lo guardò, poi sorrise. “Dai, smettila Shinichi. Lo sai bene anche tu che non è colpa tua. Purtroppo è successo. Ha fatto la sua scelta. Ha salvato noi. Aveva un cuore grande.”
“Ha salvato noi. E’ vero. Mi chiedo se è mai stata felice in vita sua.” Lui sospirò con sentita amarezza. Ancora il suo sguardo scrutava fra i rami. Poi si sollevò in alto. Vedeva le nuvole offuscate da una patina di acqua salata.
“Sai Ran, vorrei tanto che lei fosse qui.” Non voleva piangere di fronte a lei.
La ragazza mora tirò un sospiro e abbassò il capo, notando che proprio di fronte a loro una foglia danzava sospesa dal vento, fluttuando elegantemente come mossa da fili invisibili. Afferrò d’istinto la mano di Shinichi e un ampio sorriso le illuminò il viso.
“Non la senti, Shinichi? Lei è qui. E ci sarà sempre. Ogni volta che lo vorrai.”




The End









Ok, eccoci giunti alla fine di questo lungo percorso. Che dire? Le conclusioni le rimando a voi, non voglio essere melodrammatica, ma ammetto che questa storia mi mancherà, mi mancherete voi con le vostre recensioni, mi mancheranno Shiho e Gin, mi mancherà davvero tutto. E spero di poter colmare questa mancanza con qualche altra storia, così da tenermi distratta... in fin dei conti questa storia mi accompagna da quasi metà anno, per tutta la durata del quinto non ho fatto altro che scrivere e pensare a questa storia, a voi, ai vostri complimenti e al vostro calore. E per questo vi ringrazio immensamente tutti quanti, tutti coloro che hanno letto, recensito.. TUTTI! *.* Siete stati importanti perché tutto questo potesse finalmente realizzarsi. Dedico la storia intera ad Iman, un'amica conosciuta per caso, ma che rimarrà per sempre nel mio cuore. Ora che sei lontana e la distanza si sente, non posso far altro che mandarti i miei abbracci e farti tanti auguri perchè tu possa correre incontro al tuo futuro. Io ti sosterrò sempre, sappilo. Ti voglio bene... Non piangere però :) Tanto ci sentiremo ugualmente, anche se siamo a troppi kilometri di distanza! 
Ringrazio davvero tutti... e vi lascio con una canzone che per me è diventata la colonna sonora di questa fanfiction, ovvero "Wish you were here" dei Pink Floyd ... ecco il link. Facciamo come se sono i Credits va :)  Special Thanks to:

http://www.youtube.com/watch?v=QCQTr8ZYdhg


Coloro che hanno la storia fra le preferite: 

A_M_B, chyo, Imangaka, ismile, I_Am_She, Lady Night, Queenala, Silver spring, trunks94_cs, Yume98, _Flami_; Xx_PansyRomance_xX; suici007, AlRye, IceBlue, Nikao, Sweetartist, 

E ancora coloro che la hanno fra le seguite!!! 

Anemone san, Bankotsu90, Caroline Granger, Chicc, Evelyn13, I_Am_She, Kuroshiro, Layla Serizawa, Nezu, Red Fox, Sherry Myano, sosia, tigre, trunks94_cs, Violetta_, _Flami_, Shinku Rozen Maiden, sarelf, Asami Chan


Vi saluto, 
Aya Brea!
Spero di rivedervi presto <3

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=912586