Travolti da un insolito destino

di FuoriTarget
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***




Travolti da un insolito destino




Capitolo 1






-Non ci andremo-
-Cosa? Perché no??-
Manuel fece abilmente finta di non sentirla mentre cercava una cravatta scura che si abbinasse alla camicia azzurra. Doveva trovare il tempo di riordinare il casino nel suo armadio.
-Nera?-
-Meglio quella a righe blu- rispose lei stizzosa, poi riprese da dove si era interrotta comodamente sdraiata sul suo letto: -Perché non vuoi andarci? Tuo padre ha detto che ci sarà- non che quella fosse una valida argomentazione per convincerlo ma Kate sapeva essere estenuante quando voleva ottenere qualcosa.
Da due settimane lo tormentava senza interruzione per colpa di quella maledetta busta.
Quand’era arrivata aveva provato ad occultarla nel cassetto degli strofinacci, ma quella aveva un sesto senso per i suoi tentativi di raggiro. Ovviamente l’aveva beccata subito.
Non sarebbe stato poi così facile tenerglielo nascosto visto che due giorni dopo suo padre l’aveva chiamata dicendo che aveva già guardato i voli: il vecchio maledetto era suo complice.
Manuel però era deciso a non arrendersi, non aveva alcuna intenzione di andare a quel fottuto matrimonio e non si sarebbe lasciato fregare ancora da Kate, anche a costo di chiedere una trasferta in Asia.
Trovò la cravatta giusta e finalmente riuscì a trascinare la sua coinquilina fuori di casa. Dovevano andare ad un’esposizione di design anni ’60 a cui a cui era stato spedito lui per rappresentare l’ufficio. A Kate piaceva accompagnarlo a questi eventi; per lui era solo lavoro, un susseguirsi di clienti da paraculare, stime, valutazioni, contrattazioni a non finire, per lei invece erano solo buffet e vino gratis e uomini d’affari tirati a lucido da rimorchiare. Più di una volta era tornato a casa da solo, o l’aveva riportata mezza ubriaca.
-Taxi o metro?- le chiese annodandosi la cravatta mentre scendeva le scale.
-Metro, poi se vuoi torniamo in taxi-
Kate adorava i mezzi pubblici quanto lui li odiava. Erano sporchi e puzzolenti, soprattutto la metropolitana dove non era difficile fare incontri di dubbio gusto. Per lei invece era meglio di un trattato di sociologia, le piaceva proprio vedere come le persone si rapportano le une con le altre in spazi comuni e limitati come le carrozze della metro.
-E metro sia..- rassegnato la seguì verso la stazione.
Presero la linea rossa affollata come a tutte le ore del giorno, la stessa che lui prendeva varie volte al giorno per andare al lavoro, poi cambiarono a Holborn per prendere la blu dove riuscirono finalmente a sedersi. Naturalmente Kate colse al volo l’occasione di tornare sull’argomento.
-Ma dai, che vuoi che succeda?-
Non ci fu bisogno di chiederle di cosa stesse parlando, bastò incontrare il suo sguardo da cucciolo bisognoso d’affetto. Era nauseante quella donna.
-Non ho paura di quello che potrebbe succedere, solo che non ho voglia di rivedere gente con cui non parlo da una vita-
-Phil e Jack li hai visti a Natale-
-Non fare la finta tonta-
-Va bene allora ci vado da sola con Sergio-
-Come ti pare-
Sperava di irritarlo ma non aveva fatto i conti con la sua ostinazione. Suo padre era deciso ad andarci quindi si sarebbe fatto accompagnare molto volentieri da Kate, lui invece non faceva che macerare in mille ripensamenti. Non tornava a Verona da oltre cinque anni, e all’improvviso quella lettera voleva costringerlo a tornare sui suoi passi. Appena l’aveva vista nella buchetta poco più di due settimane prima, più piccola rispetto alla normale corrispondenza e di una carta azzurrina, aveva pensato ad un invito a qualche convegno o mostra importante. Poi aveva notato il suo nome e quello di Kate scritti a mano in bella calligrafia, infine il francobollo e il timbro postale italiano. Se l’era rigirata tra le mani per ore nella solitudine della cucina, ne aveva studiato la forma quadrata e discreta, la calligrafia svolazzante e palpato la delicata carta di riso celeste di cui era fatta. Quando l’aprì era solo, seduto a tavola di fronte al solito cous cous del take away vegetariano, e l’unica parola che gli venne in mente fu un’imprecazione in una lingua che non usava da anni.
Quella a cui si trovò di fronte non era una semplice partecipazione di nozze: quello era l’invito al matrimonio dell’anno, quello che Filo aspettava da una vita, quello che lei e le sue amiche progettavano fin da bambine. Era l’invito ufficiale al matrimonio del suo migliore amico di sempre, Jack Zonin. Simpaticamente accompagnato da un appunto vergato a mano che lo minacciava di morte violenta se non avesse mosso il suo deretano ossuto da Londra per partecipare.
-Non puoi non andarci..- decretò quella perfida creatura alzandosi per scendere a Green Park.
Imboccarono le scale mobili e subito fuori Kate prese a saltellare sul marciapiedi davanti a lui, ignorando bellamente la sua aria funerea. Lei già sapeva che alla fine avrebbe ceduto.
-Ehi stasera c’è quel figaccione del tuo stagista?-
-Non è il mio stagista, e comunque non lo so: io di certo non l’ho invitato- non che con quello lei avesse qualche possibilità, era vistosamente gay. Per Kate era solo un dettaglio, amava definirsi un’estimatrice di “nature vive” e spesso lo prendeva in giro dicendo di averlo scelto come coinquilino solo per poterlo rimirare ogni mattina. La maledetta.
-Beh allora speriamo che si sia autoinvitato!-
-Kate, è gay-
-Potrebbe sempre cambiare idea no?-
Manuel la guardò trotterellare attorno a lui sul marciapiedi, con addosso una camicetta svolazzante color canarino e una gonna elegante un po’ fuori moda, rideva come una cretina.
-Per te, brutto sgorbio di nanerottola rompipalle?-
Kate continuò a saltellare e ridere mentre gli agitava davanti al viso un dito medio alzato.
 
Davanti al palazzo che ospitava l’esposizione saltarono la fila grazie all’invito personale di Manuel, un uomo in completo nero controllò la presenza dei loro nomi su una cartelletta e con un cenno altezzoso diede loro il permesso di passare. Superarono una scalinata coperta da un tappeto blu e guadagnarono la soglia del palazotto liberty con una certa fretta, erano già stati a parecchie esposizioni lì dentro e nessuno dei due era particolarmente interessato a notarne l’architettura. All’interno venne consegnata loro una brochure che illustrava la disposizione su due piani di mobilio e complementi d’arredo dei primi anni ’60 e a Manuel venne una crisi immediata di claustrofobia. Non era un fan del design, lo capiva e apprezzava in certe forme, ma non riusciva a considerarlo una forma d’arte e quindi mal tollerava le mostre dedicate solo a futile oggettistica dalle forme accattivanti. Seguì Kate al buffet preso dallo sconforto sperando almeno che ci fosse un vino decente.
Dopo l’iniziale crollo la serata prese la solita piega: lui intratteneva relazioni di lavoro con collezionisti e venditori, mentre Kate si aggirava per i corridoi armata di bollicine e guardando più i culi degli astanti che le opere esposte. Inoltre, per una qualche fortunata congiunzione astrale, quel rompipalle dello stagista non era presente, o forse aveva avuto l’ottima idea di stargli lontano.
Verso le undici andò alla ricerca di Kate e la trovò bellamente accomodata su una poltrona di pelle che faceva parte della collezione e valeva quanto casa loro.
-Alzati da lì scriteriata, finisce che mi tocca comprarla quella poltrona se la rovini-
-Scriteriata io? Ha parlato l’uomo che fugge dai matrimoni..- gli bastò quella frase per constatare che almeno non era ubriaca.
Lasciarono il palazzo dopo una serie snervante di convenevoli e con una manciata di numeri di nuovi clienti.
-Mi ha scritto Judith, lei e Mike sono all’Empire. Chiedono se li vogliamo raggiungere?-
Judith era una ex collega lesbica di Kate, scriteriata pure lei, la donna meno pudica che Manuel avesse mai conosciuto. Lo minacciava letteralmente di portarselo a letto ogni volta che si vedevano, quasi gli faceva paura. Mike era un discreto compagno di bevute, non esattamente un amico  ma era pacato e tollerabile, doti che Manuel riscontrava di rado negli amici di Kate. Per questo l’accoppiata Mike-Judith era alquanto bislacca.
-Come vuoi- le rispose quanto più atono possibile.
Kate per fortuna non era in vena, forse anche perché sapeva quanto poco lui sopportasse Judith, quindi si ritirarono verso casa.
Fermarono il primo taxi libero dopo un paio di minuti e Kate indicò all’autista l’indirizzo mentre Manu guardava fuori dal finestrino le persone che lasciavano la mostra. Tra loro c’era una ragazza con un vestito nero che aveva notato anche all’interno; era molto bella, alta e con un corpo sinuoso, lunghi capelli mori e ondulati, ci aveva parlato qualche minuto ma gli era sembrata insignificante.
Se l’avesse incontrata a diciott’anni probabilmente non si sarebbe fatto tanti scrupoli: l’avrebbe avvicinata offrendole un drink, un paio di minuti di chiacchiere in cui avrebbe testato il suo livello di inibizione, poi le avrebbe proposto di bere qualcosa a casa sua. E ci sarebbe andato a letto di sicuro, magari non avrebbe nemmeno aspettato di essere a casa e se la sarebbe scopata sui lavandini del bagno. Non sarebbe stato così difficile, li aveva notati anche lui gli sguardi lascivi che gli lanciava.
Con gli anni però era diventato sempre più selettivo.
Kate gli si accoccolò accanto passandosi un suo braccio sulle spalle e prese a parlargli di una delle ultime conquiste di Judith, una donna della City a cui pareva piacessero molto corde e frustini, tutti particolari di cui Manuel avrebbe volentieri fatto a meno. Kate blaterò ancora di altri particolari osceni ridendo e farcendoli con commenti ancora più osceni. Lui e il taxista incrociarono gli sguardi nello specchietto retrovisore e non seppe dire chi guardasse l’altro con maggiore commiserazione.
Finalmente giunti a destinazione, Manuel pagò il taxi e lo congedò trattenendosi dall’arrossire. Arrancarono per le scale fino al secondo piano e con immensa gioia si chiusero la porta alle spalle con tanto di catenaccio. Kate raggiunse il bagno per prima e con un urlo gli ordinò di aspettarla ad aprire i biscotti che aveva già in mano. Quindi, maledicendo il suo stupido intuito femminile, si arrese ad andare a spogliarsi e mettere sul fuoco l’acqua per il the.
Come quasi ogni notte finirono a guardare Gordon Ramsey nel letto di Kate muniti di biscotti e the alla menta corretto alla vodka: ricetta speciale ideata da Manuel in una notte di profonda depressione.
Era quasi addormentato quando la voce di lei mischiata alle imprecazioni di Ramsey, lo svegliò da torpore.
-Davvero non vuoi andare al matrimonio?-
Non credeva sarebbe tornata alla carica tanto presto.
Di solito l’arma che funzionava di più su di lui era la sua tediosa e logorante costanza, in pratica la assecondava per sfinimento; però era abbastanza brava a dosarsi, non lo portava quasi mai ad incazzarsi. Aveva usato in effetti il tono più delicato e discreto, quello di Kate-la-migliore-amica, non di Kate-la-coinquilina-despota. E quello di solito lo faceva sciogliere.
Nonostante tutto non sapeva cosa risponderle. Era ovvio che ci sarebbe voluto andare, era il matrimonio di Jack, il suo più vecchio e caro amico, quello che non l’aveva mai mai mai abbandonato sebbene avesse tentato di allontanarlo più volte, quello che gli scriveva mail tutti i mesi e chiamava Kate di nascosto per sapere come stesse quando lui non rispondeva. Ovvio che sarebbe voluto andare al suo matrimonio, anche solo per sfotterlo un po’.
Però.
C’erano un sacco di situazioni spiacevoli che avrebbe volentieri evitato.
-Non lo so- affondò la faccia nel cuscino e inspirò a fondo quell’odore così familiare.
Non le disse altro, Kate avrebbe capito, come aveva sempre fatto.
Rimasero in silenzio a guardare i prodigi culinari di Ramsey per una mezz’ora, Manuel dormicchiava a tratti e si perse metà dei dialoghi, Kate invece continuava a mangiare biscotti senza guardare davvero lo schermo. Alla fine si arrese ad alzarsi per riportare tutto in cucina e lasciò che dormisse abbracciato a lei.
 
Il sonno di Manuel, nonostante fosse stato tra le uniche lenzuola che lo facessero sentire a casa, fu costellato di incubi e risvegli improvvisi. Sognò di corridoi senza fine, di inseguimenti senza capo ne coda, finchè ad un certo punto non si accorse di star inseguendo la sua stessa ombra. Kate lo tenne stretto a sé per molte ore prima di cedere anche lei al sonno; non era raro che dormissero insieme, ma di solito era lei ad accoglierlo perché bisognosa di rassicurazioni e contatto umano, quella notte invece lo guardò agitarsi e mormorare parole senza senso accarezzandogli i capelli per ore.
La sveglia suonò alle 7.30 come tutte le mattine, ma si affrettò a spegnerla per lasciarlo dormire ancora un po’. Si alzò a preparargli la sua colazione preferita e i vestiti, dopodiché scaldò la doccia appena prima di svegliarlo e sbattendocelo poi dentro con poca premura.
Così iniziava la loro giornata-tipo.
Quando ne uscì dieci minuti dopo, nudo come un verme, incazzato nero e arruffato come un pulcino, lei era seduta a gambe incrociate sul gabinetto e gli porgeva una tazza di caffè con un sorriso che non aveva nulla di rassicurante.
-La tua stronzaggine non ha confini- le vomitò addosso prendendosi il caffè.
-Grazie. Anche la tua- espletati quei pochi convenevoli del buongiorno, lo lasciò da solo per dargli modo di riprendere contatto col mondo.
Dopo parecchi minuti al suo arrivo in cucina Manuel trovò due toast al prosciutto e formaggio, una mela,  spremuta d’arancia e altro caffè già caldo. Kate voleva farsi perdonare per averlo pressato. Aveva indossato esattamente quello che lei aveva preparato sul letto, comprese mutande e calzini coordinati, non aveva voglia di stare a cercare delle alternative e alla fine aveva divorato tutto ciò che c’era sul tavolo sotto il suo sguardo vigile. Quando uscì le baciò la guancia e le promise che l’avrebbe chiamata prima di pranzo.
Al suo arrivo in ufficio c’era un discreto caos, a breve ci sarebbe stata un’importante asta di gioielli appartenuti a dive famose del passato, roba che attirava gente dai quattro angoli del pianeta. Per queste aste c’era sempre un gran casino, soprattutto alle pubbliche relazioni. Fortunatamente il suo studio era al secondo piano.
Verso le nove quasi tutti i suoi colleghi erano già arrivati e ciondolavano per i corridoi recuperando la posta cartacea o il materiale per il meeting organizzativo della mattina. Presentarsi impreparati all’appuntamento del mattino per la sua capo reparto era considerato alla stregua di un peccato mortale, ma dopo tre anni sotto il suo comando aveva smesso di mettergli paura.
Da Sotheby’s la gerarchia aziendale era estremamente complessa ma soprattutto estremamente importante. Era entrato come catalogatore all’assunzione, poi era riuscito a farsi notare dalla Sullivan grazie ad alcuni agganci con un collezionista di Milano, e da lì la sua carriera era decollata.
Mrs. Sullivan era il suo diretto superiore, nonché capo del dipartimento di arte contemporanea, era un’americana mostruosamente lucida per l’età che aveva: non che qualcuno la sapesse con precisione, ma dimostrava di aver superato la settantina da un po’. Era una donna d’altri tempi, tutta d’un pezzo, severa e meticolosa, una che sapeva il fatto suo. Lavorava là dentro praticamente da sempre ed era considerata uno dei massimi esperti d’avanguardie artistiche del mondo. Per quanto anziana apparisse, era assolutamente al passo con i tempi  masticava di tecnologia molto più di alcuni dei suoi collaboratori, tanto che non riusciva mai a separarsi dal suo Ipad, al contrario di Manuel che lo perdeva di continuo. I primi tempi l’aveva trovata spaventosa: varcava ogni giorno le porte dell’ufficio alle 9.30 precise, con addosso degli agghiaccianti completini colorati che facevano invidia solo alla Regina e maltrattava la sua segretaria personale come una nazista. Poi però aveva preso confidenza e scorto l’animo progressista che la manteneva sulla cresta dell’onda da oltre trent’anni. Quella donna aveva portato ad un asta il primo Fontana di Sotheby’s contro il parere di tutti e ne aveva ricavato oltre 50.000 dollari.
I suoi meeting delle dieci erano molto temuti, revisionava personalmente il lavoro di tutti e dettava precise istruzioni ad ognuno dei suoi collaboratori con tono pacato e al tempo stesso dispotico, era una a cui non si poteva disobbedire. Sceglieva personalmente i propri sottoposti e a chiunque bastava dare uno sguardo dentro gli uffici del dipartimento per capire che dietro i tailleurini colorati e le collane di perle, in quella donna dimorava una mente perversa.
Oltre a Manuel aveva tre colleghi e una segretaria personale, tra i quali lui faceva quasi la figura del perfetto bravo ragazzo.
La più appariscente era di certo Missy, la gothic queen, un essere di dubbio gusto perennemente truccata come un’inquietante bambola di porcellana e vestita come la schiava sessuale di un impiegato giapponese con la perversione delle cameriere vittoriane e dei merletti. Al lavoro, o  almeno negli eventi importanti, sapeva contenersi e indossare abiti meno appariscenti, senza mai negarsi però accessori pieni di pizzi e ammennicoli rigorosamente neri, il preferito di Manuel era l’ombrellino parasole di pizzo nero, un tocco di stile per mantenere la carnagione lattea. Dimostrava molti meno anni dei trentasei che risultavano all’anagrafe grazie al trucco e all’aria svagata da bambolina, e ovviamente scatenava gli istinti peggiori di tutti gli uomini del loro piano. Manuel si trovava molto bene con lei, era intelligente e preparata, anche se con lei si poteva parlare quasi solo di lavoro perché ogni altro argomento scadeva in qualche gothic band che lei adorava,  confrontati a lei gli altri due erano apparentemente normali.
Apparentemente.
Robert era il dirimpettaio della scrivania di Manuel, un quarantenne di media statura, media corporatura, media bellezza e medio interesse, sposato con un’insegnante di scuola elementare brutta come un porcospino, con un figlio altrettanto mediocre. Il giorno che si erano conosciuti aveva creduto di trovare il lui il collega sano di mente che non aveva visto in Missy, invece dopo pochi giorni si rassegnò vedendolo lavorare. Rob era un ossessivo compulsivo dell’ordine, la sua scrivania era inquietante, completamente bianca, con la corrispondenza allineata per data in un contenitore, le matite, rigorosamente sei e rigorosamente temperate della stessa lunghezza, in un contenitore diverso dalle penne, tutte rigorosamente nere. I cassetti con adesivi per identificarne il contenuto, tre contenitori per la raccolta differenziata e uno spray igienizzante con cui ogni mattina puliva telefono, mouse e tastiera.
Confrontata a quella di Manuel, su cui regnava la filosofia dell’accatastamento compulsivo e troneggiava un cactus mezzo morto (regalo di Kate), sembravano quasi due uffici diversi. Certo se avesse dovuto scegliere forse tra i due avrebbe preferito Missy e le sue penne glitterate.
Il pregio assoluto di Rob era la memoria visiva, tante volte se qualcuno non ricordava la collocazione di un opera in questo o quel magazzino passava da lui prima che dal computer perché era molto più veloce della ricerca nel software aziendale.  Il difetto più grave era la tediosa insistenza con cui ad ogni pausa pranzo cercava di convincere Manuel a riordinare la scrivania.
E infine c’era il francese Julien, aveva pochi anni più di lui ma nonostante questo non avevano legato granchè. Era un uomo distinto, sempre in giacca e cravatta, barba fatta in giornata e i capelli biondi pettinati con cura, aveva lavorato alla sede di Parigi per qualche anno poi si era trasferito qualche mese dopo l’arrivo di Manuel. Ovviamente approdò direttamente all’apice della scala dei collaboratori per la sua precedente esperienza; non era molto preciso sul lavoro, spesso tralasciava particolari importanti, ma soprattutto era uno che non sapeva assumersi le responsabilità. Non faceva altro che scaricare i propri errori sulle spalle di altri, attribuendo a loro le sue mancanze, per questo Manuel non lo tollerava. Proprio non poteva vederlo e il loro rapporto ne aveva risentito parecchio, al punto che anche Julien non vedeva Manuel di buon occhio e quindi per tacito accordo cercavano di interagire il meno possibile fino quasi ad evitarsi.
Oltre a questi strani soggetti, c’era Kendra la segretaria martoriata dalla nazista e a mesi alterni ogni dipartimento ospitava degli stagisti da varie università o dal Sotheby’s Institute of Art, lo stesso in cui si era specializzato lui.
Quella mattina Missy presentò la valutazione di alcuni lavori di nuovi artisti russi, Julien e Rob si stavano occupando della preparazione del catalogo dell’asta prevista per giugno mentre Manuel era stato incaricato già da due settimane di seguire il prestito di un loro cliente ad una galleria di Liverpool per una mostra. Era un lavoro tedioso e poco entusiasmante, fatto di controlli telefonate e continui sopralluoghi, ma almeno era da solo, lavorare in gruppo con quegli scoppiati era sempre un rischio.
Fu una mattinata di telefonate, prima al museo di Liverpool, poi per rassicurare il cliente ed infine per organizzare il rientro dell’opera alla sede originale. Mrs. Sullivan lo chiamò verso mezzogiorno nel suo studio per affidargli un altro incarico simile: sarebbe dovuto andare ad Amsterdam per controllare il prestito  di un loro cliente ad una mostra per una serata di beneficenza. Altro lavoro noioso, ma almeno c’era il diversivo della trasferta.
Prima di uscire dallo studio del capo gli venne in mente l’argomento per il quale Kate lo tormentava da due settimane e decise di tastare il terreno prima di prendere una decisione definitiva.
-Mi scusi capo, ha un minuto? Dovrei chiederle una cosa-
Mrs. Sullivan lo guardò con discreto stupore. Lo conosceva abbastanza per sapere che Manuel era uno di poche parole e che di rado andava ad importunarla per qualche sciocchezza.
-Sì, su siedi- e lo invitò ad accomodarsi su una delle sedie trasparenti di fronte alla sua scrivania: -Hai problemi con quelli di Liverpool?-
-No affatto, è una questione personale- fece una piccola pausa, colto da un accenno d’imbarazzo, era la prima volta che le si rivolgeva con una richiesta del genere: -Avrei bisogno di alcuni giorni di ferie-
Anche Mrs. Sullivan colse evidentemente il suo imbarazzo ma non fece molto per metterlo a suo agio, solo gli fece segno di proseguire.
-Da l’anno scorso ho accumulato molti giorni di ferie, solo in via ipotetica, potrei usarli dopo l’asta serale di giugno?-
-Certo. Dovremo accordarci sul periodo con precisione, ma non vedo ostacoli alla tua richiesta- accennò un sorriso senza troppo calore, piuttosto lo squadrò con attenzione: -Non hai mai fatto richieste di questo genere. C’è qualcosa che ti preoccupa?-
-No nessun problema: ho due amici che si sposano in Italia e vorrei approfittarne per portare un po’ mio padre a casa-
In realtà di problemi e situazioni che lo preoccupavano ce n’erano una valanga ne suo padre aveva mai avuto bisogno di lui per farsi una vacanza, ma non era il caso di metterla al corrente. Quella donna sapeva essere molto impicciona.
-Saggia decisione. Non ci torni molto spesso mi pare?-
-Non ho più molto per cui tornare là ormai-
A Mrs. Sullivan non sfuggì la sottile malinconia che aveva velato la sua ultima frase, eppure non gli diede modo di capirlo. Ammirava Manuel, era uno dei migliori degli ultimi anni, ed erano anni che lo vedeva lavorare sodo con precisione e professionalità, per questo gli avrebbe concesso le ferie senza opporsi e magari avrebbe trovato anche un lavoretto da svolgere in Italia per gratificarlo un po’.
-Fammi sapere quando questa ipotesi diventerà qualcosa di più preciso-
Si congedarono e Manuel tornò alle sue telefonate ancora pieno di dubbi su questo ritorno in Italia.
Da Liverpool gli scrissero che l’opera era già in viaggio, e per il resto della giornata si occupò di organizzare la nuova trasferta. Ci sono molti protocolli di sicurezza da rispettare per muovere un quadro che vale svariati zeri, assicurazioni, firme, autorizzazioni: tutta roba che richiedeva troppa carta e pazienza per i gusti di Manuel anche se ormai ci navigava in mezzo da tempo ed aveva imparato ad orientarsi. In più c’era la serata di beneficenza a cui Manuel a quel punto sarebbe stato costretto a partecipare. Doveva pure ripescare un abito decente dal casino del suo armadio.
Come quasi tutti i giorni Kate lo raggiunse per pranzo. Vivendo lì da molti anni, si era pian piano plasmato sulle abitudini inglesi: al di là degli stereotipi da thè e fish and chips, una delle consuetudini a cui aveva aderito con più entusiasmo era quella di consumare i pasti fuori. Sua madre sarebbe inorridita al pensiero, e Sonia pure, ma lui e Kate come la maggior parte dei giovani londinesi, mangiavano quasi tutti i giorni fuori casa. A lui piaceva il thai o il messicano e odiava il macrobiotico, sebbene non disdegnasse le preferenze di Kate per il vegetariano. L’unica regola che si erano comunemente imposti era il pranzo domenicale, quello doveva essere rigorosamente homemade come nella migliore tradizione italiana: niente take away da Subways o cinese a domicilio, a turno cucinavano in casa, e le domeniche in cui Manuel si metteva ai fornelli richiamavano gran parte dei loro amici.
Quel giorno scelsero un bistro vicino a Sotheby’s perché doveva tornare in ufficio quanto prima, mentre Kate si sarebbe data allo shopping in Carnaby street.
Ordinarono un’insalata di pollo lui e pasta lei -Manu si rifiutava da anni di mangiare pasta che non fosse cucinata a lui-, poi lo travolse con le chiacchiere sulla nuova relazione di Andrew, uno dei loro migliori amici.
-Parlando di relazioni ambigue, vorrei farti una proposta..-
-Non ci vengo a letto con te, ci abbiamo già provato ed è stato un disastro- Manu le rispose senza nemmeno alzare gli occhi dal bicchiere e si guadagnò un calcio in uno stinco da manuale.
-Idiota- sibilò lei tra i denti e riprese a ciarlare come se lui non fosse piegato in due dal dolore con le lacrime agli occhi, -Visto che io non sono mai stata in Italia, quando e se andremo a quel matrimonio, potremmo rimanere qualche giorno in più e visitare Venezia no!?-
Manuel tra i gemiti di dolore riuscì a fulminarla e zittirla per appena tre secondi.
-Ho controllato su Google Maps e non è lontana da Verona- insistette lei.
-Lo so- constatò lapidario prima di afferrare il bicchiere colmo di vino.
Ci furono attimi di tensione, in cui si limitarono a guardarsi negli occhi. Kate sapeva di aver già vinto, Venezia, Roma, Firenze e tutte le città d’arte erano uno dei suoi nervi scoperti, se avesse voluto davvero vincere con un colpo da maestra le sarebbe bastato nominare la Cappella Sistina.
-Potremo noleggiare una macchina e andar..-
-No, andare in macchina a Venezia è un incubo- la interruppe subito senza rendersi conto di essere caduto nella sua rete: -In treno ci vuole meno di un’ora-.
Kate rise sotto i baffi.
-Promettimi che ci penserai- mormorò con gli occhi dolci e sbattendo le ciglia come colpo di grazia.
Manuel grugnì invece di rispondere e si avventò sulla sua insalata di pollo.
 
Circa una settimana dopo la conversazione con la Sullivan, suo padre chiamò a casa.
Fu Kate a rispondere, ma gli fu chiaro già dalle prime battute chi ci fosse dall’altro lato dell’apparecchio. Sergio Bressan non era un uomo che mollava facilmente, soprattutto dopo che si era fissato con qualcosa, in questo caso con un fottuto matrimonio. Ora poi che aveva l’appoggio di Kate sarebbe diventato insostenibile.
-Lo so, lo so, è testardo e ostinato. Vedrai che tu riuscirai a farlo ragionare-
Certo come no!
La voce di Kate rimbombava lungo tutto il corridoio, la poteva sentire dal bagno con il rubinetto acceso. Sapeva che stavano parlando di lui, e sapeva che presto Kate avrebbe fatto irruzione senza bussare, quindi finì di farsi la barba alla svelta e assicurò il nodo della cinta dell’accappatoio. Non che ci fosse nulla che lei non avesse già visto, ma almeno a lui un po’ di pudore era rimasto.
Come aveva previsto la sentì avvicinarsi e irrompere in bagno con il cordless stretto contro la spalla e un toast nella padella.
-E hai già chiamato? Se hai bisogno di una mano posso fare io qualche telefonata – nella piccola pausa per la replica di suo padre, Kate gli ficcò il toast in bocca con violenza – Non se ne parla Sergio. Veniamo a prenderti noi la sera prima del volo, e non discutere. Te lo passo subito. Baci-
Manuel ancora agonizzante per aver ricevuto la colazione bollente direttamente in gola, si ritrovò anche con il telefono piantato nella spalla e suo padre dall’altra parte che gli urlava di essere un amico degenere e un figlio ingrato.  Come se non sapesse che alla fine avrebbe ceduto.
-Fafà fafami farfare-
-Cosa?-
Si levò il toast dai denti e tornò in camera sua: -Lasciami parlare-
-Ti ascolto-
Da quando vivevano entrambi in Inghilterra avevano preso a parlare in inglese anche tra loro, solo quando litigavano o non volevano coinvolgere Kate nella conversazione parlavano in italiano. Oramai era raro anche solo che pensasse qualche parola in italiano.
-Non ho detto che non ci andremo, solo devo organizzarmi. Lo sai che ho molti impegni, la prossima settimana sono ad Amsterdam e poi c’è il catalogo dell’asta serale di giugno da preparare, in più temo che non sia il periodo adatto per chiedere delle ferie. C’è un ridimensionamento in corso in ufficio- tutte balle ovviamente ma non poteva che mostrare un piccolo spiraglio di buone intenzioni, per poi usare l’arma del lavoro come scudo.
-Io intanto ho confermato il volo-
-Come? Ma perché dannazione ve ne fregate tutti dei miei impegni?!-
-E’ solo una precauzione, così potremo spendere meno. Hai parlato con Jack?-
-No-
-Allora vedrai che ti manderà una mail entro il  finesettimana. Vogliono che tu vada anche all’addio al celibato-
-Sì certo! Ma sono tutti disoccupati in quella città di merda?! E poi tu come fai a saperlo?-
-Mi ha chiamato Jack per accertarsi che le partecipazioni fossero arrivate. Non farne un dramma. Ho prenotato per il 5, perché l’addio al celibato sarà il sabato prima del matrimonio. Così magari puoi portare Kate un po’ in giro-
Ovviamente l’idea di Venezia non era solo farina del sacco di Kate.
-Siete una coppia di stronzi-
-Anch’io ti voglio bene figliolo. Bacia Kate da parte mia-
Odiava sentirsi una pedina nelle mani d’altri. Ora come ora la trasferta ad Amsterdam era la cosa migliore che potesse capitargli. E poi aveva ancora quasi due mesi per decidere.
 










Inutile spazio autrice:
Ebbene rieccoci qui. Veramente non ho molto da dire se non che attendo con ansia i vostri commenti.
Lo so che in questo capitolo non succede niente di eccezionale, ma volevo presentare bene la situazione prima di addentrarmi nelle vicende, e in questo caso  bene conoscerla per comprendere. I capitoli, per quanto sarà possibile, seguiranno le vicende dei protagonisti alternandone il 'famoso' pov anche se non ho alcuna intenzione di modificare il mio stile, mi serviva per mostrarvi come si solo evolute le vite dei personaggi.
I capitoli saranno mediamente di questa lunghezza quindi mi ci vorrà del tempo per scriverli ed editarli decentemente, non aspettatevi aggiornamenti regolari. E' tutto ciò che posso offrirvi se vorrete seguirmi. Non so che diamine stia succedendo ad Nvu, ma il capitolo non appare come vorrei, ci ho provato per un po' ma le mie doti di grafica sono nulle. Sorry.
Grazie in anticipo a tutti quelli che recensiranno e a tutti quelli che hanno letto.
1Bacio. Vale.


 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


cap1


Travolti da un insolito destino




Capitolo 2






Che giornata di merda!
Aveva rotto un laccetto dei sandali, macchiato la gonna di caffè e in mensa c’erano solo robe fritte e unte. In più, un idiota le aveva mandato un mazzo di rose enorme in ufficio. Uomini di merda.
Un caffè e una cena e quello le mandava tredici rose, ma chi si credeva di essere! Doveva escogitare un modo per mandarlo a fanculo al più presto.
Perché poi lei era sempre l’ultima ad uscire da quel maledetto ufficio?! Gli altri se ne fregavano delle consegne, oppure era solo lei ad essere incapace di organizzare il suo tempo?
Quando finalmente riuscì ad andarsene da quel cavolo di posto, la sua borsa pesava due tonnellate e a stento raggiunse l’auto con quel sandalo pericolante.
Infilò un mano nella borsa per cercare le chiavi della macchina, ma in quel momento la custodia del portatile cominciò a scivolarle contro il tessuto lucido della gonna. Fu un domino letale: nel momento in cui si abbassò per sostenere il portatile col ginocchio, la giacca che teneva sulle spalle cadde in avanti e, nel tentativo di rimanere in equilibrio, una manica s’impigliò al tacco e lei perse la stabilità. Il computer volò a terra insieme alla borsa e al cellulare che teneva nell’altra mano, e il tacco del sandalo con un piccolo toc si staccò dalla tomaia.
Per un momento l’idea di rannicchiarsi a terra e piangere non le parve poi tanto disdicevole, ma si limitò ad imprecare contro il mondo.
Ovviamente il cellulare, che aveva resistito all’urto, decise che quello era il momento migliore per mettersi a squillare.
- Ciao Cici - rispose con un sospirone, le sue amiche avevano sempre un tempismo imbarazzante.
- Dove sei? -
- In ufficio, cioè nel parcheggio veramente - si chinò per cominciare a raccogliere la giacca e tutta la roba che era volata fuori dalla borsa.
- Te lo sei scordata -
- Cosa? - non era sicura di aver capito bene, ma il tono non prometteva bene.
- La cena, Ali! Te la sei scordata: tu, io, Laura e una pila di riviste da sposa alta un metro. Dovevi essere qui più di mezzora fa -
Merda.
- Ma no no, non mi sono scordata, - tentò di tergiversare mentre raccattava tutto il più velocemente possibile e lo lanciava sul sedile del passeggero - Mi hanno trattenuta, abbiamo avuto un problema con un cliente -
- Almeno hai mangiato qualcosa? -
- Sì certo, certo -
- Le mentine non valgono! - le urlò Laura in sottofondo.
- Allora no, ma non ho fame. Ho mangiato a pranzo - saltò sul suo sedile e bloccò il telefono con la spalla per mettere in moto l’auto - Comunque aspettatemi, dieci minuti e sono lì! -
Merda merdissima!
Non che fosse entusiasta, dopo una giornata di merda, di affrontare le due invasate armate di campioni di veli e pizzi, ma non poteva continuare a bidonarle a lungo. Doveva farlo per Cici e per quel maledetto del suo futuro marito.
Ingranò la prima e quasi sgommò nell’uscire dal parcheggio. Si lanciò nel traffico ignorando la segnaletica e soprattutto i limiti di velocità, neanche fossero buffi numerini piazzati lì a caso, e come promesso, in dieci minuti le raggiunse. Caricò di nuovo la borsa da due tonnellate in spalla e, saltellando con una scarpa, in mano raggiunse il portone di casa di Laura; per fortuna le aprirono subito e non fu costretta a rimanere lì come una scema in equilibrio precario su uno stiletto.
Quando la videro così combinata, le due amiche ebbero la decenza di non fare domande, l’aiutarono semplicemente a sistemarsi mollando tutta la sua roba in giro per casa.
- Se continui così, sarai il primo caso in Italia di morte sul lavoro da esaurimento nervoso -
L’ironia di Laura era sempre stata tagliente ed Alice era abituata a subirla anche nei momenti peggiori, quindi non si alterò più di tanto per la battutaccia, ma si limitò a contraddirla.
- Purtroppo temo che sia un record già battuto -
I primi dieci minuti li passò con i piedi su una sedia e gli occhi chiusi, mentre Cici la delucidava sull’avanzare dell’organizzazione del matrimonio e ogni due frasi tentava di rifilarle qualcosa da mangiare. Si ostinò a rifiutare tutto finché Laura non le ficcò in mano un pacchetto di popcorn.
- Charlie? -
- A Milano per un convegno -
- Jack? -
- È a cena fuori con Paolo e Filo -
Non si erano liberate delle zavorre solo per poter stare a parlare di bomboniere e confetti in santa pace, quindi sicuramente volevano spettegolare di qualcosa. Però mancava Arianna, ex compagna di facoltà di Laura e maestra nell’origliare conversazioni altrui;  Margherita, la collega di Cici che ci provava con Paolo da una vita anche se usciva con loro solo da un paio di anni, e soprattutto mancava Elena, la cognata di Laura.
C’erano solo loro tre, perciò doveva essere un pettegolezzo grosso, qualcosa di molto personale, qualcosa che le coinvolgesse in prima persona… Oh, mio dio!
Una delle due era incinta?
Istintivamente cominciò ad osservare ognuna delle due con meticolosa attenzione. Cici non sembrava ingrassata, né entusiasta – perché lei avrebbe fatto i salti di gioia se fosse stata di nuovo incinta! – , non sembrava avere più pancia, ma l’abito che indossava poteva anche mascherarla. Laura invece non avrebbe fatto di certo i salti di gioia, quindi i sospetti ricadevano maggiormente su di lei, che se ne stava seduta sul divano in silenzio seguendo le parole di Chiara. Non pareva ingrassata, né nella pancia né nelle forme, però forse il modo in cui continuava a cambiare posizione delle mani tradiva una certa tensione. Ma che le era saltato in mente? Di certo si era dimenticata di prendere la pillola…
- Ali, senti a proposito di questo, ti volevo aggiornare su una cosa - Cici catturò la sua attenzione. Anche se non sapeva a cosa si riferisse quell’ “a proposito”, era troppo assorta nella contemplazione di un futuro erede dei Carlini per ascoltare.
Forse era arrivato il momento della rivelazione… Alice cominciò a fremere, i suoi sospetti erano corretti, aveva solo sbagliato persona? Era Cici ad essere incinta?!
- Fino alla settimana scorsa non era ancora arrivata la risposta, per questo non ti ho detto nulla... Jack nemmeno ci sperava più, ma ieri gli è arrivata una mail di Manu e ha detto che verrà per il matrimonio -
Vuoto.
Per dieci secondi nella mente di Alice e nella stanza attorno a lei, non ci fu altro che silenzio. Non percepì gli sguardi carichi di attesa delle due donne su di lei, anche se era certa che vi fossero. Non si accorse della sua mano piena di popcorn bloccata a mezz’aria. Né si rese conto di aver smesso di respirare.
Vuoto per dieci secondi e nient’altro.
Poi il suo cervello reagì e le mandò l’input corretto: i polmoni ricominciarono ad espandersi, la mano finì il suo tragitto dritta verso la bocca e sbatté le palpebre un paio di volte per mettere a fuoco l’esterno. Laura le stava regalando uno sguardo duro ed implacabile, seppur carico di aspettativa, mentre quello di Chiara era visibilmente più preoccupato e il suo corpo teso verso di lei.
Si affrettò ad imbastire una risposta quanto più neutra possibile.
- Davvero? Chissà come sta… -
Le amiche tacquero per pochi secondi, evidentemente prese in contropiede dalla risposta. Com’era prevedibile, fu Laura a prendere le redini della conversazione.
- Jack e Filo sono andati a trovarlo l’anno scorso a Natale, pare stia benone. Verrà con suo padre ed un’amica ha detto -
- Ah giusto, me n’ero scordata. Bene, sono contenta di rivedere Sergio -
Laura e Chiara si scambiarono un’occhiata perplessa, ma decisamente sollevata. Non che si aspettassero scenate isteriche, d’altro canto però l’argomento con Alice, e soprattutto con chi era al corrente delle vicende del passato, era assolutamente offlimits, non se n’era mai più parlato in sua presenza e nessuno ci teneva a ricordare. La sua reazione fece loro ben sperare e fu evidente che la tensione si sciolse in pochi secondi.
- Per la torta, invece? Hai deciso se fragole o cioccolato? -
- Jack vuole crema e fragole -
- Pienamente d’accordo! -
L’atmosfera tornò a distendersi e presto l’unica fonte di discussione furono i colori del bouquet della sposa. Alice sosteneva che dovevano essere lilla e verde come il resto degli addobbi e decorazioni, Laura invece preferiva il total white e andarono avanti a discuterne fino a tarda sera.
 
Il giorno dopo, la giornata iniziò di nuovo di merda per Alice.
Aveva dormito solo un mezzora verso l’alba, prima era stata travolta dalla reazione posticipata alla notizia della presenza di Manuel al matrimonio.
Non lo vedeva da sei anni. Non ci parlava da sei anni.
Il suo cervello era come impazzito per un sovraccarico di informazioni: aveva immaginato mille scenari possibili per il loro incontro, dalla lite furibonda con tanto di pugni e schiaffi, al completo disinteresse reciproco. Non sapeva cosa fare, né cosa pensare. La sua mente venne invasa dopo tanti anni dalle domande che aveva rinchiuso nel cassetto più profondo della sua coscienza. Perché non fosse mai tornato poteva benissimo immaginarselo, orgoglioso com’era. Ma perché se ne fosse andato senza una parola, così all’improvviso, ancora le lasciava quell’orribile sensazione di vuoto.
Le tornarono alla mente i primi mesi dopo la sua fuga. Prima c’era stata la rabbia, cieca e incontrollata, che aveva sfogato su chiunque la avvicinasse. Poi quando aveva capito che non sarebbe tornato, era arrivato il peggio.
Per tutta la notte aveva cercato di non pensarci, di trovare altro su cui concentrarsi. Prima aveva pulito la cucina e riordinato la posta, poi aveva finito per accendere il portatile e mettersi a lavorare ma aveva avuto effetto solo per la prima ora. Così era andata a ripescare il pacchetto di sigarette di emergenza che teneva nascosto dietro ai detersivi in bagno, ed era scivolata sulle mattonelle del bagno a crogiolarsi nei suoi rimpianti.
Anni prima aveva sognato una vita diversa. Una vita in cui non si sarebbe ritrovata a dormire ogni notte da sola in una casa vuota e silenziosa. Una vita fatta di certezze, di fiducia. Invece aveva passato anni a sfiancarsi di lavoro durante il giorno, così da svenire sul letto la sera ed impedirsi di pensare, e quando lavorava poco e non riusciva a stancarsi abbastanza, correva da Paolo a farsi prescrivere sonniferi e tranquillanti.
Da alcuni anni aveva smesso con gocce e pasticche varie, non aveva neppure più la scorta come con le sigarette, quindi si era rassegnata ad una notte insonne e alle sei era già sotto la doccia.
Era scesa al bar a far colazione con calma e ad un orario ben distante dalle sue abitudini, tanto che anche il barista aveva strabuzzato gli occhi vedendola alle sette già in tacco dodici, attaccata al suo bancone a reclamare caffè in dosi da cavallo. Dopo un’ora, tre quotidiani e due caffè si decise ad andare al lavoro in anticipo.
Arrivò gongolando davanti al parcheggio ancora mezzo vuoto e, contrariamente al solito, se la prese con calma per evitare di sfracellare di nuovo borsa e pc sull’asfalto. La centralinista dell’atrio la salutò con un sorrisone falso come una Louis Vuitton comprata in spiaggia, e Alice sapeva che non appena si fossero chiuse le porte dell’ascensore dietro di lei, si sarebbe precipitata a chiamare la segretaria dell’ufficio engeneering. Quando in effetti arrivò al terzo piano, trovò Betta alla sua postazione, dritta come un fuso e con l’auricolare già sull’orecchio che le sorrideva furbescamente.
- Buongiorno Betta -
- Ingegnere, come mai così presto? -
Il tono con cui Betta calcava sempre il suo titolo di studio non le era mai sfuggito. Alice avrebbe tanto voluto risponderle che non erano cazzi suoi, ma lì dentro era ancora l’ultima arrivata.
- Tanto lavoro e poco tempo. Ci sono messaggi per me? -
- Ancora nessuno -
- Bene, a dopo allora - non le diede nemmeno il tempo di rispondere, perché imboccò il corridoio degli uffici quasi correndo.
Il suo ufficio era tra i più carini nonostante, non fosse propriamente suo, né propriamente un ufficio. Era un buco di tre metri per tre con una parete di vetro, come tutti quanti, e una minuscola finestra sigillata, in cui erano stipate due scrivanie una contro l’altra, così era costretta a guardare costantemente in faccia il suo collega. Per fortuna non era così male.
Per prima cosa accese il computer fisso, poi il portatile, dopodiché alzò la veneziana e guardò il parcheggio di sotto riempirsi di auto e motorini. Riconobbe il casco giallo di Michele, il tecnico del centro di simulazione e il grosso SUV bianco di Pierangeli, il direttore, un uomo dalle grosse capacità imprenditoriali ma nessuna conoscenza ingegneristica.
- Che ci fai già qui? - la voce di un uomo alle sue spalle la fece trasalire e minò il precario equilibrio dei tacchi.
Era Salvatore Pucci, l’uomo con cui divideva lo studio da due anni, ingegnere meccanico come lei, con doppio master in ingegneria dell’automazione e numerosi successi alle spalle. Splendido quasi quarantenne che portava ancora le Converse e le magliette dei Guns’n’Roses. Ovviamente, come tutti, era abituato a vederla arrivare di corsa e sempre all’ultimo minuto.
Gli bastò guardarla in faccia un momento per incupirsi e chiudersi la porta alle spalle.
- Brutta nottata?-
    - Abbastanza. Tu? Non avevi un’uscita galante? - lo canzonò, sapendo che la cena galante in realtà era una cena da sua madre.
- Spiritosa. E pensare che volevo offrirti pure un caffè -
Alice rise sotto i baffi, mentre prendeva posto al computer. In settimana avrebbero avuto una riunione con una compagnia indiana che produceva pannelli solari e Albertini, il capo dell’ufficio engeneering, voleva tutto il progetto pronto per mercoledì.
Quando era entrata per la prima volta in quell’azienda durante il tirocinio della laurea specialistica, se n’era sentita un po’ intimorita. C’erano lunghi corridoi vetrati in cui si sentiva sempre osservata e pavimenti di marmo, che risuonava sotto i suoi tacchi come un monito. Le segretarie la guardavano tutte malissimo e i colleghi erano nella quasi totalità uomini; temeva di non riuscire a ritagliarsi uno spazio, che in un ambiente del genere sarebbe sempre stata considerata solo una tirocinante carina. Poi era arrivata l’occasione di farsi notare: aveva collaborato in un progetto, Albertini stesso si era complimentato con lei e si era proposto come relatore della sua tesi. Da lì il passo per il praticantato era stato breve e, dopo anni di contratti a progetto e collaborazioni parziali, era riuscita a guadagnarsi la sua scrivania e la poltrona di ecopelle. Ora si occupava quasi esclusivamente di sistemi di sicurezza per le macchine automatiche progettate dal resto dello staff, i suoi lavori erano revisionati direttamente dall’Ingegner Albertini e, sebbene fosse la sua più giovane e inesperta collaboratrice, la trattava sempre con garbo e rispetto.
Per quasi tutta la mattinata rimase incollata al progetto per gli indiani, c’erano dei calcoli che la notte prima non tornavano e su queste cose ci s’intestardiva sempre per ore. Non controllò la mail né ricevette telefonate, quasi non parlò neppure con Salva, finché all’ora di pranzo questi non la beccò a fissare lo schermo del portatile in standby.
- Cos’è che ti turba in quel desktop? -
Non gli rispose al primo colpo, quindi per farsi ascoltare fu costretto a scuoterle una spalla.
- Alice? Perché stai guardando lo schermo vuoto? -
Fu chiaro ad entrambi che lei cadeva dalle nuvole e si riscosse come se stesse dormendo.
- Oddio! -
- Stavi dormendo?! -
- Ma no, mi ero solo incantata. Vai a prendere il caffè? -
- Veramente stavo andando in mensa -
Di nuovo lei cadde alle nubi e guardò l’orologio del pc. Era l’una passata, mentre a lei sembrava di essere in ufficio solo da un paio d’ore.
- Credo di aver bisogno di dormire – decretò, rimettendosi le scarpe accantonate sotto il tavolo.
- Sì, credo anch’io -
Scese in mensa insieme a Salva, mangiavano quasi ogni giorno con Michele, quello del simulatore, che aveva la stessa età di Alice, e altri due ingegneri cerebrolesi dal lavoro come loro: Semprini e Benassi.
Le donne dello stabile si contavano sulle dita di due mani. Escluse le tre centraliniste, c’era la direttrice dell’amministrazione, una biondona appariscente come un evidenziatore, e le sue tre impiegate con cui Alice non aveva mai legato molto, e infine Sabina, la PR, l’unica con cui avesse uno straccio di rapporto. In genere pranzavano tutte assieme, tranne Alice che dopo un paio di esperimenti aveva preferito i colleghi uomini.
In tutto nel suo ufficio erano sette: lei e Salvatore, Semprini e Benassi che dividevano uno studio pure loro, Albertini il capo, il suo assistente Tradello, e Nestri, il vicedirettore. Poi c’erano quelli dell’ufficio tecnico che conosceva solo di vista e gli assistenti alle pubbliche relazioni che cambiavano troppo in fretta per impararne i nomi.
Tutto sommato la sua vita lavorativa non faceva tanto schifo, Salvatore era il migliore dei colleghi, simpatico e silenzioso al punto giusto. Se non fosse stato per gli orari da panico che faceva in ufficio e le scadenze che Nestri non tardava mai di ricordarle, sarebbe stato tutto perfetto.
Poi, per rovinare ulteriormente una giornata iniziata male, ma che sembrava migliorare, il suo telefono trillò per una mail ricevuta sul suo indirizzo personale: era di Laura, ma c’erano una ventina di contatti in copia, sicuramente era qualcosa legato al maledetto matrimonio. Decise che l’avrebbe letta una volta tornata di sopra perché non voleva guastarsi il suo già precario appetito.
Non avrebbe potuto fare scelta peggiore.
Quando aprì la casella di posta sul portatile, scoprì che già in sei avevano risposto e quindi doveva leggere oltre al papiro di Laura anche quelli degli altri. Il contenuto, riducibile in poche frasi che la sua amica aveva esposto invece in trenta righe, riguardava il regalo per gli sposi; ovviamente lei e Laura ne avevano già abbondantemente discusso, perciò non ci sarebbe stato bisogno di includerla in quella mail, ma una nota sul fondo diretta a lei in persona le spiegava di averne ricevuto copia per comodità. La comodità di Laura, chiaro.
La prima risposta era di Charlie che appoggiava la loro idea di regalare un viaggio di nozze degno di questo nome ai due neo sposini. Poche righe, chiaro e conciso, al contrario della sua fidanzata. La seconda era di Elena, la cognata di Laura, anche lei e suo marito erano d’accordo e proponevano Parigi come meta. La terza, di Filo che era ancora indeciso se fare un regalo da solo o  aggregarsi agli amici, intanto però proponeva New York. Prevedibilmente ci sarebbe andato volentieri anche lui con la coppietta, non poteva esimersi dal fare l’idiota anche via mail.
La quarta risposta la lasciò congelata sulla poltrona.
Il mittente era un contatto esterno alla sua rubrica: m.bressan@sothebys.uk. Più chiaro di così…
Iniziava con dei saluti generalizzati e con l’annuncio non troppo caloroso che sarebbe arrivato a Verona in tempo anche per l’addio al celibato di Jack. Dopodiché, appoggiava in pieno l’idea per il regalo e senza troppi giri di parole chiedeva di fargli sapere la cifra da mettere considerando di includere anche Kate, nessuna proposta per la meta. La mail si chiudeva con un ‘A presto’ decisamente troppo cordiale per uno che non si faceva vedere da sei anni.
Alice inizialmente fu tentata di cancellare tutto subito, poi la curiosità ebbe la meglio e se la rilesse una decina di volte. In fondo era il primo contatto che aveva con lui dopo un sacco di tempo. Scandagliò lettera per lettera fin quasi ad impararla a memoria ed infine rilesse varie volte anche il suo contatto.
Rimase a fissare lo schermo, indecisa se sedare del tutto le sue manie di controllo per parecchi minuti. Alla fine fu Benassi a salvarla con delle questioni di lavoro, abbastanza complesse da richiedere tutta la sua attenzione fino alle cinque.
 
Una volta giunta a casa, però, tutti i suoi scrupoli vennero meno. Si disse che doveva essere preparata perché l’incontro sarebbe stato inevitabile e conoscere il proprio nemico era per ora la sua strategia migliore.
Non l’avrebbe detto a nessuno e nessuno l’avrebbe mai beccata nella solitudine di casa sua, quindi si poteva permettere dopo tanti anni di maschere di sfogare il suo rancore in qualcosa.
Accese il portatile e si sistemò sul divano con la cena su un vassoio, rilesse la mail ancora una volta, dopodiché aprì Google e digitò Sotheby’s.
Il nome le diceva qualcosa ma solo allora si ricordò di averlo sentito nominare proprio da lui, era successo poco prima di Natale a Londra, erano andati a trovare Sergio ma lui voleva assolutamente vedere questo posto e lei non era riuscita a farlo desistere. Era una famosa casa d’asta londinese e già all’epoca Manuel ne parlava con grande interesse. Le bastarono pochi minuti di navigazione per trovare la lista dei dipendenti della sede di Londra. Tra questi figurava Manuel Bressan.
C’era un link sul suo nome, come su quello di tutti gli altri citati, ma il dito tremò un attimo prima di aprirlo.
Di sicuro ci sarebbe stata una sua foto e questo la fece tentennare, aveva distrutto ogni ricordo che aveva di lui affidando i superstiti alle cure di Jack. Era pronta per rivederlo?
Ancora una volta si disse che doveva conoscere il suo nemico perché tanto l’avrebbe rivisto comunque e aprì la sua scheda personale. C’era una foto in bianco e nero come molte delle altre, appariva a mezzo busto e aveva un’aria seria, non doveva essere una foto molto recente, oppure a Londra aveva scoperto il siero della giovinezza. Aveva i capelli più corti dell’ultima volta che l’aveva visto e la barba più sfatta, s’intravedeva una maglietta sotto una giacca più elegante, nulla di più.
Ma le labbra, quelle labbra…
Era ancora bello come lo ricordava.
Nella descrizione in inglese sotto la foto erano elencate poche informazioni. Il suo ruolo di esperto in arte contemporanea e collaboratore del relativo dipartimento da oltre tre  anni, un riepilogo dei suoi studi in Italia e in Inghilterra e una nota che lo definiva tifoso del Chelsea.
Eccola lì, una vita riassunta in quattro righe.
Di colpo le venne in mente che forse anche sul sito del CPMA erano presenti delle informazioni su di lei, e si affrettò a controllare, per fortuna erano solo citati il suo nome e i suoi contatti nel caso anche a lui fosse venuta la malsana idea che aveva avuto lei.
A quel punto però era totalmente immersa nei suoi film mentali su come si sarebbe svolto il loro incontro. Lo scopo primario era evitare di evirarlo al primo minuto, giusto per dargli il tempo di vedere se aveva la faccia tosta di rivolgerle la parola o meno, o se addirittura in un lampo di genialità decidesse di strisciare ai suoi piedi e scusarsi. Quindi doveva essere preparata. E quindi era autorizzata a continuare le sue investigazioni.
Procedette con ordine cercandolo prima sui principali social network, ma in tutti trovò account protetti o completamente oscurati, com’era prevedibile. La seconda mossa fu cercarlo direttamente su Google e qui ebbe alcune sorprese scoprendo che aveva partecipato ad alcune pubblicazioni di cataloghi d’arte e collaborato con curatori per piccole esposizioni. La pagina principale era quella legata la sito di Sotheby’s che però aveva già vivisezionato in lungo e in largo, per cui si decise a compiere la mossa decisiva, quella più meschina ma risolutiva di tutte le sue morbose curiosità.
Per una serie infausta di vicende in passato era venuta a conoscenza della password dell’account di Facebook di Filo, se ne vergognava un po’ ma all’epoca non le venne nemmeno in mente di usare quell’informazione per rintracciare Manuel, mentre in quel momento non si fece scrupoli a violare la privacy di Filo (che tanto poi usava Facebook una volta ogni tre mesi).
Cercò immediatamente Manuel e l’unico contatto riconducibile a lui era un certo Emm Bress, però con grande stupore scoprì che non erano ‘amici’, che anzi condividevano solo l’amicizia con una certa Katelin Marsh Mellow. Sebbene il nome non promettesse benissimo quella donna sembrava essere l’unico collegamento tra lei e Manu; appena aprì il suo profilo Alice capì di aver fatto centro.
L’immagine ritraeva il mezzo busto di una ragazza in bianco e nero. Era discretamente carina, si potevano intuire capelli ricchi e scuri ma gli occhi erano coperti da occhiali da sole che decoravano un volto rotondo e paffuto. Era una bella foto, forse addirittura professionale. Nella foto abbracciava un uomo a cui arrivava a stento alla spalla, di cui però era stato tagliato completamente il volto e gran parte del corpo impedendo di rivelarne l’identità. Nelle informazioni risultava nata a Liverpool ma residente a Londra, dipendente dell’Università di Londra ed impegnata di una relazione complicata con Emm Bress. Quella era la sua nuova ragazza? Quella!?
Dei post non ci capiva praticamente nulla poiché erano tutti in inglese ed era troppo tardi per leggerli con attenzione, quindi si buttò direttamente sulle foto prima che a Filo venisse in mente di entrare nel suo account. Aveva pochi album e almeno duecento foto caricate dal cellulare.
Il primo album erano foto di un casolare in campagna, c’erano alcune ragazze con lei e nella maggior parte lei sorrideva con indosso un abitino a fiori colorato un po’ demodè. Il secondo erano evidentemente foto di una festa, in una di queste era presente Manuel nascosto nella penombra di una terrazza, di lui si distinguevano solo dei jeans che avevano visto momenti migliori, una sigaretta e delle converse verde militare, accanto a lui c’era Katelin ma anche lei era parzialmente in ombra e gli parlava all’orecchio.
Il terzo album rivelò a tutti gli effetti il loro legame. Erano in spiaggia con galosce e cappotto entrambi e tutti gli scatti li ritraevano in posizioni e atteggiamenti conviviali se non addirittura intimi. In alcuni appariva un terzo ragazzo in altre solo lei, Manuel non era mai inquadrato direttamente e indossava sempre occhiali da sole e sciarpone davanti al viso.
Non gli era mai piaciuto farsi fotografare, Alice lo ricordava bene e la consapevolezza di serbare ancora certi ricordi le strappò un sospiro.
Provò a sbirciare le foto caricate del cellulare sperando di trovare un inquadratura decente di Manuel.
Le prime erano cavolate: piatti di cibo, scarpe o accessori interessanti, poi c’erano dettagli casalinghi come un cesto per la biancheria stracolmo con un commento sarcastico sui costi delle lavanderie o lei con una cuffia per la doccia tutta fiori e paperelle. La prima che catturò la sua attenzione ritraeva un uomo seduto con la fronte contro un tavolo pieno di birre e le braccia a penzoloni nel vuoto, c’erano una valanga di commenti riferiti a quello che comprese essere un Manuel particolarmente ubriaco, il più enigmatico di tutti diceva ‘le donne italiane lo perseguitano’.
Dopo un’altra serie di foto di cibo e piatti vari ne trovò una che raffigurava un Manuel a figura intera perplesso davanti al banco frigo di un supermercato la didascalia citava ‘the chef dilemma’, seguivano altre foto di loro di due, in una delle quali lui dormiva sulle sue ginocchia a torso nudo mettendo così un freno ai dubbi di Alice sulla loro relazione.
Spense il portatile con la sensazione di non aver risolto nulla, se non di aver acuito il suo malessere. Si sentiva stanca e per nulla preparata dalla portata dell’evento, anzi tutta la carica e la curiosità che le avevano dato le prime foto era sfociata in un senso di colpa senza ragioni.
Non voleva davvero rivederlo, non aveva idea di come gestirlo ne di come rapportarsi con questa Katelin Marsh Mellow  che era evidente fosse l’amica che avrebbe portato con se in luglio.









Inutile spazio autrice:
Lo so sono in ritardo di milioni di anni... ma ho avuto ottime ragioni. Diciamo.
Ringraziate tutti Sandra... senza il suo betaggio avrei fatto un pasticcio. Grazie mille carissima.
Ho solo tre cose da dire:
-questo capitolo si configura come speculare a quello precedente e ancora non entriamo nel vivo della storia, ma c'è tempo vedrete..
-io odio leggere il linguaggio da social network, ho cercato di evitarlo il più possibili ma in alcuni casi mi scuso ma era necessario.
-Kate si chiama Katelin Mellow, ho scelto di scherzare un po' sul cognome e sulla sua apparenza paffuta e burrosa per questo il gioco di parole con i dolcetti marshmallow e il nome di fb.
Se avete domande sul lavoro di Alice non fatemele... è stato un incubo reperire informazioni su ingegneria e roba varia. Per tutto il resto sarò ben felice di rispondere appena ho tempo.
Non ho nemmeno risposto a tutte le recensioni, proverò di farlo quanto prima. So sorry.
Ora sono le 02:16 del mattino quindi passo e chiudo.
Come sempre su fb sono Fuori Target Efp.
1bacio.Vale




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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


cap1


Travolti da un insolito destino




Capitolo 3






- I passeggeri sono pregati di allacciare le cinture di sicurezza, stiamo iniziando la discesa verso l’aeroporto di destinazione -
Il trillo alla fine delle comunicazioni era davvero irritante.
Come era irritante il bambino che, due file più avanti, non faceva altro che bombardare sua madre di domande.
O come il fruscio della carta del giornale dell’uomo dall’altro lato del corridoio.
Tutto era irritante. Persino il colore del vestito di Kate era irritante.
Quella giornata era iniziata male, anzi era proprio quel viaggio ad essere iniziato male. Lui non sarebbe dovuto salire su quell’aereo, né avrebbe dovuto accettare di farsi circuire dalla sua migliore amica e da suo padre. Era stata tutta una pessima idea.

Quella mattina, dopo aver dormito nel letto di Kate per lasciare a suo padre il suo, era rimasto qualche minuto in contemplazione del soffitto, nella speranza di una qualche illuminazione divina sul suo destino.
Aveva fatto di nuovo quel sogno, era la terza volta in pochi mesi, la decima negli ultimi anni. Sognava sempre la stessa cosa: si trovava in un luogo assolato, seduto ad un tavolo sul quale c’era una copia di “On the road” di Kerouac. Attorno a lui non c’era nessuno, poi pian piano cominciavano ad arrivare delle persone, come fossero delle ombre, ma non era qualcosa di spaventoso, anzi rendevano quel luogo meno desolato. Tra tutte spiccava solo una figura, lei al contrario degli altri era fin troppo chiara, come se da un momento all’altro dovesse scomparire nella luce, ne distingueva soltanto un vestito blu che danzava nel vento e le mani. Ogni volta si avvicinava a lui e gli consegnava qualcosa tra le mani, ma Manuel si svegliava sempre in quel momento, non aveva mai visto cosa fosse l’oggetto che gli veniva consegnato. Le prime volte che era capitato si era svegliato di colpo in un mare di sudore e senza ricordare nulla del sogno, quella mattina invece ricordava tutto e il risveglio era stato normale, fu solo turbato dal tempismo del suo inconscio. Di lì a qualche ora sarebbe partito per l’Italia, il suo paese natale in cui non metteva piede da sei anni, sarebbe andato al matrimonio del suo migliore amico con gente ormai completamente sconosciuta, in compagnia di quel sadico di suo padre e quell’arrapata approfittatrice della sua migliore amica, e ci si metteva pure la sua mente a fare giochetti perversi. Chi diavolo gliel’aveva fatto fare?
Fu un movimento nel letto a strapparlo dalle sue rimostranza ed informarlo che la suddetta migliore amica si era svegliata. Non aveva una gran voglia di affrontarla subito, per cui chiuse gli occhi e regolarizzò il respiro per fingersi ancora addormentato. Seppe che la recita aveva funzionato quando la sentì abbandonare il letto in punta di piedi.
Rimase a poltrire finché non tornò ad urlargli che la doccia e la colazione erano pronte e che doveva alzare le chiappe altrimenti avrebbero perso l’aereo. Erano le sei e un quarto.
Svariate ore, numerose imprecazioni e alcuni cazzotti dopo, si ritrovò in fila al gate 13 – ironia della sorte – a trascinarsi dietro due valige e una sacca portabiti, e quando la hostess gli sorrise augurandogli cordialmente “Buon volo” sfiorò quasi una crisi di nervi. Quasi. Perché Kate gli afferrò un avambraccio e gli sorrise come se il mondo fosse popolato da unicorni dalla criniera rosa.
Tutto quell’entusiasmo l’avrebbe ucciso, ne era certo.
Ora a pochi minuti dall’atterraggio non sapeva come sentirsi. Aveva mollato quell’angolo di mondo a vent’anni, gli sembrava passata un’eternità, invece non erano che sei anni; aveva lasciato dietro sé molte questioni irrisolte e soprattutto molte persone che non aveva più sentito, sebbene gli fossero mancate da morire.
Una su tutte, e quella per cui si sentiva maggiormente in colpa, era Sonia. Lei era stata la sua seconda madre, quella che c’era sempre stata a rammendargli gli squarci nelle ginocchia quando cadeva, a preparargli le cotolette quando prendeva un buon voto… gli era mancata da morire, ma per orgoglio non era mai tornato. L’aveva costretta a prendere l’aereo per la prima volta nella sua vita pur di andarlo a trovare, ma lui non si era mai degnato di spostarsi. La chiamava e le mandava regali tutte le volte che suo padre tornava a Verona ed ora non vedeva l’ora di ringraziarla.
Altro calcio nello stomaco sarebbe stato rivedere i suoi amici. A parte Filo e Jack, che avevano sempre imposto la loro presenza più che lasciare a lui la scelta, degli altri non sapeva poi molto. Andrea si era trasferito a Padova per lavoro e si era fidanzato con una di là, Charlie gli pareva fosse diventato avvocato ma aveva avuto dei problemi con suo padre, per cui era andato ad esercitare a Milano, Paolo faceva ancora la specializzazione in chirurgia e secondo Jack faceva una vita da schifo tra interventi e turni di guardia. Del Vigna non sapeva nulla, né di Lorenzo e Laura, soprattutto di lei, Alice, di cui non aveva mai più voluto sentir parlare.
Lei sarebbe stato il colpo di grazia dei sensi di colpa. Ma si era imposto di non pensarci nemmeno: Kate gli aveva chiesto che avrebbe fatto al momento del loro incontro, la sua risposta era stata un’alzata di spalle e per ora la strategia rimaneva quella.
- Don’t be so nervous - gli mormorò Kate riferendosi a tutto tranne che all’atterraggio, poi intrecciò le dita con le sue e prese ad accarezzargli i polpastrelli.
Sapeva essere tanto dolce quanto diabolica un attimo dopo. Una bipolare.
- Non lo sono -
Sovrappensiero, le rispose in italiano.
- No prederme per culo -
- Il tuo italiano fa sempre schifo. Chi ti ha dato la laurea in lingue?! -
- Stronzo -
- Ah ecco, questo lo dici bene -
Kate parlava discretamente l'italiano, ma non lo faceva mai volentieri quand’erano a casa, sapeva che Manu non tollerava niente che gli ricordasse l’Italia, al di là del cibo.
Guardò l’orologio per l’ennesima volta, il volo era in ritardo di quindici minuti. Filo li avrebbe aspettati all’aeroporto, anche se Manuel avrebbe preferito una macchina a noleggio, ma i fratelli erano stati irremovibili, per cui ogni protesta era stata vana.
- Do you think it has changed? Stop looking at that!
Non le rispose, non ce n'era bisogno.
- Siamo in ritardo -
- Phil aspeta, don’t worry -
Lo schiocco dell’atterraggio lo prese in contropiede, era troppo impegnato ad incanalare la tensione in altro e si ritrovò con le mani sudate e aggrappate ai braccioli del sedile. Kate non gli scollava gli occhi di dosso. Suo padre invece lo ignorava beato sul sedile anteriore.
- Air British vi dà il benvenuto in Italia. Secondo il fuso orario locale sono le 10.37. La temperatura esterna è di 35° gradi, il meteo prevede una giornata soleggiata. Vi preghiamo di rimanere seduti ai vostri posti e mantenere allacciate le cinture finché non verrà spenta la spia. Vi auguriamo una buona permanenza -
Di nuovo quello scampanellio irritante e tutti i passeggeri presero a muoversi con frenesia.
Kate raccattò il suo libro e la borsa da sotto il sedile mentre Manuel spegneva la modalità volo dal cellulare. C’erano già due chiamate di Missy dall’ufficio e una mail di un cliente.
- Holiday- decretò Kate strappandoglielo di mano.
Non protestò solo perché sapeva che Missy avrebbe richiamato e che il cliente era uno a cui poteva rispondere con calma. La guardò nascondere il suo cellulare dentro la borsa con aria risentita e fulminarlo, neanche fosse stato un bambino scalmanato.
Dopo l’arrivo al terminal tutto si svolse senza intoppi, ritrovarono le loro valige sul nastro e nessuno fece storie alla dogana, caricarono tutto su un carrello e imboccarono l’uscita degli arrivi.
Subito dietro alle porte, tra una piccola folla, Filippo li aspettava con le mani in tasca.
Non era mai cambiato Filo, pareva lo stesso ragazzo scapestrato e ridanciano di una volta. Aveva sempre portato i capelli abbastanza lunghi ed ancora li teneva legati sulla nuca in un piccolo codino, la barba più lunga di quella di Manu e le sopracciglia incolte. Un occhio esterno l’avrebbe preso per uno di quei fricchettoni di classe, travestiti da ragazzi trasandati. Ma lui trasandato lo era veramente. A sedici anni sua madre lo doveva ancora rincorrere per casa perché si lavasse decentemente e probabilmente non era poi cambiato molto.
Quando li vide si aprì in un enorme sorriso e andò loro incontro con la sua camminata goffa.
La prima parola che gli disse Manuel non se la sarebbe scordata facilmente, non dopo tutti quegli anni di lontananza, non dopo averlo visto quasi con le lacrime agli occhi.
- Fratello… – sussurrò e senza indugi lo strinse in un abbraccio che non aveva bisogno di parole. Nemmeno l’odore di Filo era cambiato e lo fece dolorosamente sentire a casa.
Si erano visti a Natale a Londra e tre anni prima d’estate, sempre a Londra. Ogni tanto si sentivano su Skype, ma ora lui era lì: in Italia, in vacanza e in carne ed ossa. Sapeva che per Filo e Jack questo sarebbe stato un momento importante.
Dopo la loro separazione fu il turno di Sergio che in tutti quegli anni aveva fatto da collante tra gli Zonin e suo figlio. Scambiarono un abbraccio e qualche convenevole prima che Kate rapisse l’attenzione di Filo.
- Ehi ma dov’è Kate? Non l’avrete dimenticata sull’aereo? - finse di non vederla attorno a loro, quando era giusto accanto a lui. La prendeva sempre in giro per il suo metro e cinquanta scarso, molto scarso.
- You’re an asshole – gli scagliò un pizzicotto sulla spalla, il punto più alto che potesse raggiungere. Rispetto a lei Filo era davvero un colosso.
Finse di accorgersi di lei solo in quel momento e si chinò ridendo per stritolarla e sollevarla di qualche centimetro.
- Eccola qui la bambinetta! -
All’inizio aveva dovuto spiegarle quel nomignolo e non aveva trovato un traduzione adeguata, nonostante questo la sua reazione era stata positiva, l’aveva trovato buffo. Filo l’aveva soprannominata così dalla prima volta che l’aveva vista. Kate, a ventinove anni, si ostinava a portare sempre abitini a fiori iperfemminili, gonne, camicette e fronzoli vintage, che però insieme ai suoi occhioni da cerbiatta e ai boccoli scuri la facevano sembrare una bambolina di porcellana. Aveva provato – del tutto inutilmente – a farle cambiare look; fu un colossale buco nell’acqua, perché ogni altro stile la rendeva la caricatura di una donna adulta. Per quanto ci provasse, solo con tacchi altissimi riusciva a dimostrare almeno venticinque anni, c’era chi non le dava nemmeno vent’anni.
- Ci avviamo o volete mangiare qualcosa? Abbiamo parecchia strada da fare per arrivare a casa, ma Cici stava già preparando il pranzo -
Fu Sergio a prendere le redini della situazione e discutere con Filo la soluzione migliore, poiché Kate era stata rapita da una vetrina del duty free, e Manuel ne aveva approfittato per riprendersi il cellulare ed era già impegnato in una fitta conversazione con Missy.

Arrivare a destinazione fu un’agonia, era quasi mezzogiorno e, tra la stanchezza e la tensione che lo accompagnava da giorni per quel viaggio, quasi gli si chiusero gli occhi un paio di volte. Avrebbe voluto chiedere a Filo dove diavolo stessero andando, ma preferì non aprire bocca.
Jack aveva insistito parecchio per ospitarli, non aveva voluto sentire ragioni. Aveva detto che avevano tutto lo spazio per ospitare sia loro che suo padre e Manuel si era piegato anche a questo, in fondo lui e Kate non si sarebbero potuti permettere un albergo per due settimane di fila, se non sacrificando parecchio i loro - già miseri - risparmi. E se lui poteva anche attutire in qualche modo, Kate con il suo inesistente contratto da assistente non ce l’avrebbe mai fatta.
Imboccarono una statale di cui percorsero solo pochi chilometri, s’infilarono nel centro di una minuscola frazione per poi abbandonarla subito e, dopo una serie di curve, svoltarono in una strada bianca in mezzo alla campagna. Cinquecento metri più avanti, dopo un bel vialetto si scorgeva una macchia di vegetazione.
Man mano che si avvicinavano, la macchia si delineò in un giardino circondato da faggi e betulle, al centro due costruzioni poste ad angolo retto. Una era allungata e più vistosa, l’altra più bassa doveva essere stata un edificio di servizio per un’azienda agricola. Al centro del giardino si apriva un grande prato, abbellito da piante e cespugli disposti sul perimetro.
La parte più imponente era un antico casale ristrutturato, solido e rustico, con le tipiche caratteristiche delle costruzioni rurali della pianura Padana. Manuel non poté che ammirare quella dimora in silenzio. Non riusciva a credere che Jack vivesse in un posto tanto meraviglioso, era un angolo di terra strappato alle radici dell’Eden, qualcosa che a Londra non era più abituato a vedere. Nemmeno suo padre nel Surrey poteva vantare una tale magnificenza.
La strada terminava in un piccolo spiazzo ghiaiato e Filo parcheggiò accanto ad altre due vetture, all’ombra di alcuni alberi evidentemente sistemati apposta.
Appena sceso, venne investito dall’aria torrida dell’estate in pianura, c’era un discreto venticello caldo che non agevolava la tolleranza. Kate, che non aveva smesso di fare domande per tutto il viaggio, si guardava attorno ammirata e se fosse stata un cane avrebbe scodinzolato ai piedi di Filo, a giudicare dalla sua espressione adorante. La maledetta traditrice.
Manuel si aggrappò alla cinghia della sua tracolla per impedirsi di ringhiare.
Era incazzato nero.
Era sua quella roba. Era il suo sogno, suo, ma realizzato da qualcun altro. Si sentiva come se gli avessero strappato le budella dalla schiena e le avessero calpestate senza pietà. La rabbia era tale che credette di vomitare lì sulla ghiaia.
Sentì un cane abbaiare e Filo battersi una mano sulla coscia, mentre apriva il baule della macchina per prelevare i bagagli.
- Qui Kobe -
Un bastardino scuro sbucò da dietro la casa, correndo a perdifiato verso il suo padrone. Si prese un paio di carezze, poi scodinzolò attorno a tutti loro annusandoli. Era un bel cane, simile ad un giovane labrador dal pelo scuro. Trotterellava attorno a lui proprio come faceva Kate di solito. Si chinò per accarezzarlo dietro le orecchie e quello reagì saltellando ancora di più, doveva essere un cucciolo iperattivo. Manuel gli afferrò la testa e la scrollò amichevolmente un po’.
- Bel cane. Come si chiama? -
- Kobe - rispose Filo, mentre passava le valige a Kate e Sergio era al telefono.
- Scherzi? Come Kobe Bryant?-
- Chiaro! Abbiamo anche tre gatti: James, Bosh e Wade -
Manuel si astenne dal commentare la loro idiozia.
Kate li guardava perplessa, evidentemente non aveva capito nulla della conversazione, quindi Manuel si premurò di tradurre e spiegarle che avevano dato agli animali nomi di giocatori di basket. Lei non parve turbata, ma Manuel sospettò che non avesse capito nemmeno in inglese.
Intanto dal giardino accorse anche il padrone di casa, attirato dal caos e dagli schiamazzi di suo fratello.
Come aveva fatto Filo prima di lui, corse direttamente da Manuel e lo abbracciò di slancio, sorridendo dagli occhi al cuore.
Manuel si trovò spiazzato e immobilizzato. Un attimo prima stava ascoltando la propria rabbia salire, l’attimo dopo era avvolto dalle braccia dell’uomo che più aveva rimpianto e odiato allo stesso tempo. Jack se lo strinse per un momento, dopodiché si allontano per guardarlo e ridere.
- Sei stravolto, neanche fossi venuto a piedi -
Gli rifilò un piccolo buffetto e si stropicciò la faccia.
- Mi sono alzato all’alba e ho dormito male -
- Il solito coglione -
Manuel non se la prese, ma una gomitata ben piazzata raggiunse comunque le costole di Jack, che però rise di gusto mentre l’amico borbottava tra sé.
- Parla quello che sta per ingabbiarsi l’uccello a vita -
Si guardarono negli occhi e non c’erano parole per descrivere lo stato delle budella di Manuel in quel momento. Non aveva più avuto un amico come lui, a Londra non aveva nemmeno mai cercato qualcuno che potesse sostituirlo. C’era Kate, sì, ma lei era sua sorella, mentre loro erano i suoi fratelli.
- Venite dentro. Cici è in cucina -
Ecco, quello era uno dei tanti momenti che Manu avrebbe voluto rimandare, gli si chiuse immediatamente lo stomaco al nome della futura moglie di Jack, ma fu costretto a seguirlo.
Cici era uno dei vertici del triangolo dentro a cui Alice era sempre vissuta, quindi non sapeva cosa aspettarsi da lei. Certo, Chiara si era sempre dimostrata razionale e calma, – al contrario di Laura che pochi giorni dopo la sua partenza gli aveva inviato una mail minatoria piena di insulti e recriminazioni – e negli anni grazie a Jack avevano mantenuto un minimo contatto: apparizioni su Skype, saluti e raccomandazioni nelle mail, foto di Tommy e cose di questo genere. Ma rivederla dopo tanti anni… gli tremavano le gambe.
Gli ospiti vennero guidati lungo un sentiero lastricato che circondava la casa e il prato fino, ad una massiccia porta verde dalla quale si accedeva ad un piccolo atrio. Jack indicava porte e scale e forse solo Kate lo stava ascoltando, perché lui era troppo assorto nella contemplazione.
Attraversarono in fretta un bel salotto dalle tinte chiare per approdare in un’enorme cucina. Era la tipica cucina da casa di campagna, con una doppia porta finestra sul cortile, i mobili in legno e il piano in pietra, e al centro, su un piccolo tavolo, una donna in grembiule stava posando una pirofila fumante.
Cici al contrario degli altri due era cambiata molto. Manuel ricordava la ragazza timida, dai lunghi capelli scuri e con un inossidabile istinto materno con cui si prendeva cura di tutta la compagnia, una donna nata per essere mamma. Ora davanti a sé aveva una donna di trent’anni poco curata e con qualche chilo di troppo, ma per quanto il resto potesse essere cambiato, il sorriso con cui li accolse era esattamente quello di un tempo.
Le aspettative di Manuel crollarono tutte insieme quando Chiara mollò pirofila e strofinaccio e lo raggiunse afferrandogli il volto tra le mani, lo guardò dritto negli occhi, lo abbracciò come una madre col figliol prodigo di cui non ha più avuto notizia e lo baciò su entrambe le guance al limite della commozione.
- Sono così felice che tu sia venuto, per lui era davvero importante - gli mormorò all’orecchio, durante l’ennesimo abbraccio. Manuel comprese che tutto quell’affetto non era che il riflesso del suo amore per Jack e l’abbracciò a sua volta in un muto assenso. Cici si asciugò una lacrima col grembiule e non faceva altro che accarezzargli le spalle e sorridere ignorando tutti gli altri.
- Stai bene? -
- Sì Cici, sto bene. Mangio male, lavoro troppo, dormo poco e la domenica vado a correre. Tu? -
- Mangio male, lavoro troppo, dormo poco e la domenica faccio giardinaggio -
Tutti risero a quella risposta, compresa Kate che attirò l’attenzione di Cici, catapultandola di nuovo nel suo ruolo di padrona di casa.
- Oh, che maleducata!, non mi sono nemmeno presentata. Scusa, ma non vedo Manu da così tanto tempo, ero così in pensiero per il volo e il pranzo che mi sono fatta prendere dalla commozione. Io sono Chiara comunque, mi chiamano tutti Cici qui, tu devi essere Katelin, la sua coinquilina, no? Sono molto contenta di conoscerti, Jack e Filo mi hanno parlato moltissimo di te - aveva parlato talmente in fretta che nemmeno loro erano riusciti a seguirla, figurarsi Kate che infatti aveva un’aria decisamente perplessa.
- Non credo abbia capito molto sai? - le rinfacciò il suo futuro marito, facendola arrossire come un peperone, mentre Manu traduceva in parte ciò che aveva detto.
- Nice to meet you. I’m Chiara, the Bride - esordì quindi di nuovo Cici allungandole la mano, ma Kate la sorprese abbracciandola e schioccandole due baci sulle guance, come aveva fatto prima lei con Manu.
- Piaccere mio. I’m Kate and you’re gorgeous -
Ovviamente gli uomini risero allo strano scambio di presentazioni, che si concluse con un sorriso da parte di entrambe. Lui si premurò di spiegare subito a Cici che non era necessario che parlasse in inglese, perché Kate capiva bene l’italiano e che, se non capiva, era capacissima di chiedere di ripetere.
Dopo una serie di accordi per il pranzo, a cui avrebbe partecipato la famiglia Zonin al completo, e i saluti con Sergio che era rimasto strategicamente a giocare con Filo e il cane tutto il tempo, Cici propose loro di sistemare le stanze.
- Abbiamo pensato di sistemare Sergio dai miei suoceri che hanno una camera degli ospiti al piano terra, Kate nella nostra camera degli ospiti e tu Manu nella nostra -
- E voi? -
- Oh, io dormo nella cameretta e Jack sul divano -
Manu non fece in tempo a protestare che Kate con grande diplomazia intervenne al suo posto.
-No, noi dormimo insieme. This is your home and we don’t want to change your habits -
Ci furono parecchie proteste da parte di Cici, ma bastò spiegarle che non era una novità per loro dormire insieme che subito travisò e spiegarle l’equivoco fu ancora più difficile, con Kate che rideva come una pazza in sottofondo.
Sistemata anche la questione camere, rimaneva solo un grande assente.
- Where’s Tommy? - domandò infine Kate senza pudore.
Jack fece segno di seguirlo e, quando uscirono in giardino, fischiò due volte con le dita.
- È sempre in giro per il giardino col nonno, eccolo! – esclamò, indicando un frugoletto che usciva dalla vegetazione traballando sulle sue gambette.
Per quanto ne sapeva Manuel, doveva avere intorno ai due anni, ma lui non l’aveva mai visto se non in foto e ora era uno scriccioletto sporco di erba che arrivava alle ginocchia di suo padre e urlava ‘papa papa’. Si zittì però immediatamente vedendo i due sconosciuti accanto al genitore e il modo in cui rallentò squadrandoli da capo a piedi strappò un sorriso a Manuel.
- Tommy, vieni che ti presento gli amici di papà - a quel richiamo corse dal padre e si protese per essere preso in braccio. Il nonno che lo seguiva salutò tutti con grandi abbracci e se ne andò a cercare Sergio dentro casa.
- Lei è Kate, è inglese ed è amica di papà e dello zio Filo -
- Tio! - esclamò il bimbetto, indicando suo zio che attendeva vicino alla casa.
- Fai ciao a Kate - lo incoraggiò il padre.
- Tao Tet - lei gli strinse la mano e lo accarezzò mormorando parole in inglese, poi venne il turno di Manuel che con i bambini aveva le stessa naturalezza di un cieco in metropolitana.
- Questo è lo zio Manu- Jack lo presentò e lui cercava in tutti i modi di sorridere amichevole, mentre Kate gli diceva di togliersi quella faccia da stronzo in inglese.
- Ehm, ciao Tommy-
Il bambino lo studiò con attenzione, saldamente aggrappato a suo padre e mormorò un ‘tao’ stentato, poi Manu si scompigliò i capelli imbarazzato e gli fece la linguaccia – cosa che gli riusciva molto meglio che il sorriso luminoso che aveva sfoderato Kate – e il bimbo si sciolse. All’inizio ridacchiò e lo convinse a farla ancora, infine si fece prendere in braccio per torturargli la faccia e tirare la barba.

Il pranzo fu sontuoso.
Cici aveva preparato lasagne e arrosto con patate, mentre sua suocera aveva contribuito con parmigiana, cotolette e una lunga serie di contorni.
A Londra non erano certo abituati a tutta quell’abbondanza, tanto che Kate inizialmente non era troppo convinta di poter assaggiare tutto, continuava a ripetergli ‘sei sicuro che sia tutto per noi?’. Da parte sua non mangiava un arrosto così da molti anni, quindi si servì doppia porzione di tutto scatenando una reazione a catena di risate e preoccupazione per la sua alimentazione, mentre Sergio continuava a guardarlo scuotendo la testa con commiserazione.
Il pranzo era stato allestito in giardino, subito accanto alla porta finestra della cucina di Cici, sotto un grosso albero; Tommy scorrazzava intorno al tavolo con una macchinina rossa e una moto, mentre gli adulti si abbuffavano fino allo strabiliante tiramisù di Chiara. C’era un’atmosfera bucolica, come se tutto fosse stato posizionato e allestito per ammaliare: dalla tovaglia bianca sapientemente ricamata al servizio di porcellana avorio bordato d’argento, dal tintinnio delicato dei bicchieri ai fiori al centro del tavolo e il pane alle erbe (e pancetta) della mamma di Jack. C’era talmente tanta perfezione che Manuel venne travolto da un’allucinazione stile pubblicità-Mulino-Bianco e persino Katelin in quel contesto gli sembrò estranea con la sua risata vibrante.
Fu Tommy a strapparlo da quell’incubo di perfezione piombandogli addosso con le macchinine, urlando ‘brum brumm’ e facendosi beffe di tutti gli ostacoli sul suo percorso, compresa la presenza di Manuel, che se lo ritrovò aggrappato ai pantaloni mentre cercava di superarlo. Lo sollevò dalle ascelle, dopodiché lo lasciò libero di proseguire la sua corsa e quello gli sorrise grato con i suoi quattro denti.
Per tutto il tempo la conversazione oscillò tra i pettegolezzi su alcuni amici, la vita amorosa di Filippo e i progressi di Tommy, solo al caffè Cici ebbe il coraggio di porre le domande che stavano aspettando tutti.
- Vabbè, ora che abbiamo la pancia piena, che ne dici Manu di aggiornarci un po’? Come va a Londra? Voglio sapere tutto quello che ci siamo persi - si rivolse a lui, porgendogli la zuccheriera con un sorriso ambiguo.
- Tutto? Potrebbe volerci un po’… -
- Oh beh, io sono in ferie e tu anche, loro in pensione e Jack e Filo vivono d’aria e d’amore. Abbiamo tempo - Katelin a quella risposta stava già ridendo, pregustando il disagio del suo migliore amico.
Perse tempo bevendo il caffè e giocherellando con la tazzina, non sapeva che dire: - Te l’ho detto: lavoro troppo, mangio male, dormo poco e la domenica faccio jogging. Non è che ci siamo molto d’interessante -
Chiara però era un osso duro e lui sapeva che quelle parole non le sarebbero bastate.
- Oh io credo di sì, mi hanno detto che hai insegnato in un liceo, proprio non ti ci vedo… non ne hai appeso nessuno per il collo? -
- Ti assicuro che avrei voluto. Comunque è stata lei a coinvolgermi, perché prima di entrare al dottorato ha insegnato spagnolo. Visto che guadagnava bene, ho provato a fare richiesta anch’io per insegnare arte e mi hanno mandato in una scuola per italiani all’estero. Un delirio, primo perché erano degli idioti insopportabili, secondo perché io non ci sono tagliato, perdevo subito la pazienza e li mandavo a quel paese -
- Invece ora che lavori per Sotheby’s, come ti trovi? -
- Benissimo, è molto impegnativo ma mi piace. Mi ha permesso di viaggiare molto, soprattutto negli ultimi tempi, il mese scorso ero ad Amsterdam e a marzo siamo andati a Tokyo per un’esposizione. Sono diventato un esperto a fare le valige... – si accorse immediatamente della gaffe, calò un attimo di silenzio che Filo colse con astuzia.
- In quello sei sempre stato bravo, coglione - gli mollò una manata sulla testa che scatenò l’ilarità generale, anche Chiara parve rilassarsi, e dopo che avevano rotto il ghiaccio, cominciò a tartassarli di domande.
A Kate toccò l’arduo compito di raccontare la notte di gelo in cui si conobbero: lui solo e sperduto in una città famelica, con una bottiglia di bordeaux in mano e solo le chiavi di casa in tasca, lei che l’aveva sbattuto fuori dalla caffetteria per chiudere e lo guardava piena d’angoscia. Disse a tutti di averlo scambiato per un barbone e Sergio confermò che in quel periodo lo preoccupava davvero molto, sempre a zonzo da solo notte e giorno.
Poi venne il turno dello svisceramento selvaggio e spietato della sua vita amorosa e sessuale. La sua adorabile coinquilina rivelò all’intera famiglia che non usciva regolarmente con una ragazza da oltre due anni e che tutte quelle con cui usciva duravano al massimo un mese.
- Il record è Larissa, the Norwegian one, tre mesi e quatro giorni - esclamò tutta sorridente alle risatine dei due fratelli.
- Non ho tempo di uscire, non sono mai a casa -
- You’re a liar -
- Sbaglio o ti ha appena dato del bugiardo? - domandò Jack con evidente ironia.
Chiara parve interessata alla questione, ma con disinvoltura spostò la conversazione su temi meno scottanti e chiese a Kate di cosa si occupasse. Con immensa gioia di Manuel, le sue disavventure universitarie risultarono estremamente coinvolgenti e nessuno fece più domande imbarazzanti.

La giornata proseguì tra alti e bassi, fino a concludersi con una cena altrettanto impegnativa a casa di Sonia, che aveva iniziato a piangere sulla porta e non aveva smesso fino al dolce. Le avevano persino portato un regalo: Kate l’aveva trascinato fino da Harrods per comprare un servizio da tè in porcellana e delle miscele speciali d’infusi, lui si era limitato a fissare il budget e a seguirla, bighellonando da una poltrona all’altra. Alla fine come sempre avevano speso più di quanto si potessero permettere, perché lei sosteneva che gli inglesi non si presentavano mai a mani vuote a casa di qualcuno, quindi aveva comprato regali per tutti. Con la carta di credito di Manuel.
Di nuovo gli avevano riempito il piatto, come se non mangiasse da anni; Sonia al contrario degli altri non si era fatta sfuggire la barba sfatta, le occhiaie, il pallore e la forma fisica non più così tonica, l’aveva stretto all’angolo in cucina mentre erano soli e l’aveva rivoltato come un calzino con un solo sguardo.
- Che farai quando la vedrai? - era stata l’unica domanda che gli aveva rivolto.
Inizialmente aveva pensato semplicemente di mentirle, qualcosa tipo ‘Parli di Alice?’, ma lei era Sonia e se le avesse mentito, oltre a sentirsi terribilmente in colpa, si sarebbe sentito anche terribilmente in imbarazzo, perché quella fiutava le sue balle a distanza. Quindi, dopo averci pensato con attenzione, le disse quanto di più sincero gli venne in mente.
- Non lo so. Probabilmente nulla -
In risposta ricevette una carezza sulla guancia e un sorriso triste: - Sono cambiate molte cose, forse le tue aspettative saranno tradite -
Sonia era la cosa più vicina ad madre che ricordasse nella sua vita precedente e non riuscì a trattenersi dall’abbracciarla forte prima di andare via. Aveva sempre lo stesso odore di sapone e lenzuola appena lavate che ricordava tanto casa: cuscini bianchi, una poltrona di pelle, legno sopra e sotto e bianco tutto attorno.
Solo i capelli di Kate sciolti sul cuscino accanto al suo riuscirono a scacciare quella sensazione alla bocca dello stomaco, come se il suo stesso corpo si stesse ribellando a quell’odore. L’abbracciò e affondò il naso nella massa di boccoli della sua migliore amica, quante volte l’aveva cercata nel sonno in un puerile bisogno di stringere qualcuno. Kate odorava di borotalco e di Londra.
Tra le domande di Cici e quelle ancora più imbarazzanti di Sonia, Kate avrebbe avuto materiale per sfotterlo per i prossimi dieci anni, ma per tutto il giorno era stata la sua spalla salda e costante, l’aveva tolto da situazioni ambigue e aveva risposto a tutte le domande che le avevano posto con ironia, senza mai accennare al relitto d’uomo a cui si era trovata davanti spesso. Era brava in queste cose Kate, diplomatica, acuta e tagliente.
Spesso si chiesto se non sarebbe stato tutto più facile se si fosse innamorato di lei; sarebbe stato bello, con lei non avrebbe dovuto chiarire niente né dare spiegazioni o fingersi meno chiuso ed egoista. Avrebbe potuto essere sempre se stesso, in ogni momento, perché tanto lei aveva già visto il suo peggio. Ci aveva provato con tutte le sue forze ad innamorarsene, ma era stato un buco nell’acqua e quando aveva concluso che non avrebbe mai potuto immaginarla come la sua donna, era diventata davvero sua sorella. Solo una volta, in un momento di disperazione alcolica, l’aveva baciata ed era stato ridicolo, all’inizio lei aveva risposto ma poi era scoppiata a ridere ed ora quella storia era sempre un buon pretesto per farsi due risate.
Alla fine si riduceva tutto lì, a quella scintilla. L’aspettava sempre, tutte le volte che vedeva una ragazza carina e le chiedeva di uscire, aspettava e aspettava di sentire qualcosa di nuovo, quello scatto che lo convincesse a buttarsi. Aveva aspettato con Larissa, che era bella da mozzare il fiato, e prima di lei con Abbie e persino con Chelsea, nonostante avesse sei anni meno di lui.
Invece non era mai successo nulla.
I suoi pensieri vagavano incontrollati da Kate a Sonia, poi Larissa e tutte le altre, e infine sempre là: capelli rossi, occhi azzurri, un vestito blu e mille lentiggini. Alice.
Affondò di nuovo il volto tra quei capelli sperando di ritrovare la compostezza e la calma per scacciarla dal suo piedistallo, spesso quell’odore l’aveva riportato con i piedi per terra.
Sonia aveva l’odore del rimpianto, invece Kate dell’appagamento e del senso di colpa.
Solo a tarda notte riuscì a riconquistare un degno afflusso di sangue al cervello tale da permettergli di ripercorrere e analizzare tutto ciò che era successo. La sua coinquilina ronfava, mentre lui continuava a rigirarsi senza capire se quel peso sullo stomaco fosse la doppia porzione di polpettone o il tarlo che Sonia aveva insinuato in lui.
Aveva davvero delle aspettative su di lei? E se davvero ne aveva, quali erano?
Era stata una lunga giornata e non riusciva a dormire, forse era solo quello il problema. Tentò di far scivolare via tutto con un po’ d’aria e si alzò diretto in cucina.
Dopo aver provato con l’aria, un bicchier d’acqua e persino della grappa che aveva trovato in un mobiletto in alto, si ritrovò appollaiato su uno sgabello col portatile davanti e una relazione di lavoro a fargli da scacciapensieri. Erano le tre del mattino, erano in vacanza e Kate l’indomani l’avrebbe sicuramente fucilato.
Non appena decise che tanto a letto non ci sarebbe tornato, sentì dei passi sulla scala subito seguiti dalla voce di Chiara.
- Ah ecco non mi ero sbagliata, eri tu -
Manuel la guardò con un misto di stupore e imbarazzo. Era stato colto in flagrante.
Prima che potesse risponderle, gli sorrise e accese la luce sopra al tavolo: - Lo vuoi un tè? - annuì senza nemmeno rifletterci.
La ammirò svolazzare nel suo regno con maestria, come una regina nel suo castello fatato, in pantaloncini e maglietta stinta dei Lakers. In un batter d’occhi aveva davanti a sé una tazza fumante.
- Zucchero o limone? -
- Solo limone -
- Latte? -
- Non sono diventato così tanto inglese… - scherzò, affondando la fetta col cucchiaino.
Passarono alcuni minuti di imbarazzante silenzio, lui giocava con limone e bustina mentre Cici rimescolava senza sosta. C’era imbarazzo in quel momento, ma non tensione, in effetti non ce ne sarebbe stata ragione, i loro rapporti erano sempre stati cordialmente pacifici. Litigare con Cici era davvero difficile.
- Domani ho l’ultima prova dell’abito… - iniziò lei titubante - Ci vado con Alice, credi che a Kate farebbe piacere venire? -
Piacere? Conoscendola, non vedeva l’ora d’incontrare Alice e tartassarla di domande, avrebbe provato un piacere perverso nell’estorcerle tutto ciò che voleva. Probabilmente in un’altra vita doveva essere stata una torturatrice del KGB, o una mistress giapponese dedita alla dominazione.
- Voi sarete all’addio al celibato e non voglio lasciarla qui da sola tutto il giorno... -
Decise di essere sincero, in fondo anche lei lo era stata.
- Figurati… freme all’idea di conoscerla - Manuel era talmente pieno di disappunto per quella confessione che Chiara non poté che ridere della sua buffa espressione.
- Quando ha trovato la partecipazione non stava più nella pelle, aveva finalmente una ragione valida per trascinarmi qui -
- Quindi, lei sa? -
- Tutto, dal primo all’ultimo minuto della mia vita -
Chiara ne fu sinceramente sorpresa, Manuel era sempre stato chiuso e taciturno, difficilmente si apriva con qualcuno e non lo faceva mai fino in fondo. Aveva spesso sospettato che fosse più sincero con se stesso che con gli altri, al punto da maturare un’eccessiva severità verso di sé, invece a quanto pareva quella bambolina tutta boccoli e curve l’aveva stregato.
- Allora forse non è il caso che si incontrino prima di voi due? Non voglio aggiungere altra tensione -
- Non ci saranno spargimenti di sangue Cici, te lo garantisco. È una storia talmente vecchia ormai… anzi, sono felice di sapere che sta bene e non vedo l’ora di poterla salutare – ed era una bugia talmente colossale che se ne vergognò persino mentre la diceva. Non che fosse falso, era felice di sapere che Alice stesse bene, ma non poteva, proprio non poteva, ridurre tutti quei turbamenti a semplice curiosità.
- Sta bene?! Hai parlato con Jack di questo? -
- A tratti. Perché, Alice non sta bene? -
Cici finì l’ultimo sorso del suo tè e guardò Manuel dritto negli occhi. Per la prima volta si chiese davvero cosa sarebbe accaduto al loro incontro, non se n’era mai preoccupata fino in fondo, erano passati anni e doveva essere tutto dimenticato; eppure negli occhi e nella voce di lui a quella domanda era apparso qualcosa, un malessere di fondo, come se, incrostata e ammuffita da qualche parte, giacesse ancora la carcassa del loro amore.
Alice si era preparata ad incontrarlo e probabilmente anche lui, inoltre, conoscendo i soggetti, avrebbero sorriso e chinato il capo davanti a tutti, magari si sarebbero anche abbracciati, ma non appena li avessero lasciati soli era certa che la tensione sarebbe scoppiata in qualche modo
- Sta bene, solo è cambiata molto -
A quelle parole reagì chiudendo il portatile e lasciando vuoto lo sgabello della cucina, solo quando arrivò alla scala si voltò per sorriderle.

 - Lo siamo tutti.























Inutile spazio autrice:
Periodo di depressione folle... sto sinceramente di merda.
Nonostante tutto ecco qui il capitolo, col solito ritardo di un mese e in più  una chiara impronta del mio inavvicinabile umore.
Chiarimenti:
-del lavoro di Kate parlerò più avanti
-l'incontro avverrà nel prossimo capitolo quindi stay tuned  (...si dice così?)
-Tommy per chi non l'avesse capito è il figlio di Jack e Chiara ed è nato due anni prima dei fatti (fuori dal matrimonio, non osate scandalizzarvi!!)
-Manuel è un fine umorista.. io l'ho sempre detto.
Mille grazie come sempre alla geniale e tempestiva beta, che oltre a correggere in tempi fulminei mi punzecchia a dovere.
Grazie Sandra senza di te sarei nella cacca.
Non ho risposto a tutte le recensioni nemmeno stavolta, vedo che riesco a fare in settimana. So sorry.
Come sempre io aggiorno ad orari inumani, ora sono le 04:47 del mattino e sono appena tornata (sobria) dalla festa della birra, quindi è tempo di nanna anche per me..
Come sempre su fb sono Fuori Target Efp.
1bacio.Vale




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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


cap1


Travolti da un insolito destino




Capitolo 4






 

Laura non smetteva di torturarla.
Aveva cominciato giovedì a mandarle messaggi telegrafici ogni ora:‘Sono atterrati in ritardo di quindici minuti, è andato Filo’, poi ‘Arrivati da Cici. Le è sembrato stanco, la ragazza pare bassa e grassa’. Un’ora più tardi era arrivata ad inviarle il menu del loro pranzo e Alice aveva smesso, oltre che di rispondere, anche di leggere i suoi messaggi.
Il telefono aveva trillato fino a sera ma non ne aveva più letto nessuno. 
Grazie al cielo, al lavoro l’avevano tenuta impegnata tutto il giorno nella correzione del meccanismo d’arresto di una trivella, quegli asiatici di merda non facevano che sconvolgere i dati, mettendo a dura prova la sua diplomazia.
Disgraziatamente, l’intera settimana era stata un calvario.
Uno di quei periodi in cui non puoi far altro che chiederti quando finirà e tutti i giorni lotti con l’impulso di gettare nel lavandino smartphone, pc, tablet, hard disk, chiavette usb e anche tutta l’agenda per prendere il primo aereo per un atollo solitario.
Ovviamente, tutto era iniziato al lunedì. Albertini li aveva radunati tutti per riassegnare alcuni progetti, poiché era arrivata una richiesta urgente per un cliente importante. Ovviamente, quella che si era vista sfilare il progetto quasi finito dalle mani per essere riassegnata con Nestri a quello nuovo era stata l’ultima arrivata, cioè lei. Un incubo. Già l’idea di lavorare con quello non la entusiasmava, in più con una scadenza a cinque giorni l’incubo somigliava ancor di più ad un sogno ad occhi aperti.
Ovviamente, quella del cliente era una richiesta improbabile, difficile se non impossibile da realizzare, impensabile ipotizzare una risoluzione in una settimana. Ma Nestri era uno tanto cocciuto quanto ignorante, per cui non aveva voluto sentire ragioni e pretendeva i disegni preliminari entro mercoledì.
Ovviamente, Alice aveva fatto le due in ufficio già il lunedì, mentre il giorno dopo non era tornata nemmeno a casa, si era portata il cambio e lavorato tutta la notte sul pc. La mattina, Salvatore l’aveva trovata con il tasto dell’invio stampato su una guancia e gli aveva fatto una tale pena che le aveva regalato tutto il suo termos di caffè. I disegni erano impeccabili, quindi anche il vicedirettore non aveva potuto lamentarsi, però non fu parco di frecciatine sarcastiche sullo stato dei suoi capelli e delle occhiaie. Non era riuscita a dormire che qualche ora anche nelle notti successive, si era fusa il cervello a forza di calcoli ed equazioni dimenticando totalmente l’ennesima cena dai suoi.
Ovviamente, anche a casa le cose non avrebbero potuto andare per il verso giusto. Lunedì aveva caricato una lavatrice sbagliata e aveva ridotto tre camicette a vestiti per le bambole, martedì pomeriggio l’avevano chiamata quelli del condizionatore dicendo che c’era una perdita nel palazzo e che sarebbero rimasti tutti senza aria condizionata fino a data da stabilirsi; mercoledì sera, dopo una full immersion di oltre ventiquattro ore in ufficio, la macchina non era partita e lei, non avendo contanti per un taxi, era stata quindi costretta a prendere l’autobus; giovedì, dopo la consegna dei disegni corretti, si era versata del tè freddo sulla gonna di chiffon, rendendola uno straccio giallastro fino a sera.
Ovviamente, per chiudere in bellezza la settimana, venerdì fu la giornata peggiore degli ultimi sei mesi.
Arrivò in ufficio alle sei e mezza con Rashida, la ragazza delle pulizie che in Iran era laureata in chimica industriale, con le sue scarpe più belle e più dolorose ai piedi e un tailleur che era stretto perfino a lei. Lavorò contemporaneamente su portatile e computer fisso fino all’arrivo di Salvatore, a cui voleva sottoporre la valutazione delle ultime modifiche, che per cronaca le erano venute in mente alle tre del mattino. La videoconferenza coi clienti era fissata alle undici, quindi, oltre a finire, doveva anche considerare un paio d’ore per spiegare tutto a Nestri ,che avrebbe esposto la soluzione progettata da lei. Era un cafone ignorante ed orgoglioso, perciò, piuttosto che darle la soddisfazione di esporre il suo lavoro, si sarebbe mutilato i genitali. Quattro ore più tardi, quelli dell’azienda si stavano complimentando con Albertini e Nestri, mentre lei aveva ancora tre ore da passare in quell’ufficio, dove nessuno si era premurato di riconoscere il fatto che era stata lei a fare tutto e non quei due; Salvo si limitò a darle una pacca sulla spalla e ridere della sua delusione.
Ovviamente, a mensa c’erano solo carboidrati, fritti e pesce, quindi prese solo una bottiglia d’acqua e una mela; la domenica successiva ci sarebbe stato il matrimonio, non poteva arrivarci con due chili in più da strizzare nel vestito. Le poche donne dell’ufficio le riservarono occhiate malevole per quella scelta e lei finì per maledirsi per essersi messa tutta in tiro, ora che la guardavano tutte alla ricerca di un difetto di cui sparlare. Preferiva dare alle gente qualcosa per cui prenderla in giro, piuttosto che sopportare le loro occhiate cariche d’invidia. Per concludere degnamente la giornata in ufficio, le arrivò una mail di Nestri, non aveva nemmeno il coraggio di attraversare il corridoio per dirglielo, che le comunicava i difetti che doveva correggere prima di mandare i disegni al simulatore e che avrebbe voluto rivederli lunedì. Il bastardo.
Telefonò a Cici sull’orlo delle lacrime, avrebbe dovuto accompagnarla all’ultima prova dell’abito insieme a Laura, ma proprio non ce l’avrebbe fatta. Si sentiva terribilmente in colpa.
Ovviamente era uscita da là imbestialita, la macchina era ancora dal meccanico e l’auto di cortesia era stata data ad un altro cliente, quindi tornò di nuovo in autobus impiegando il doppio del tempo, per poi accorgersi a metà viaggio di aver lasciato il cellulare in ufficio.
Nonostante le venisse da piangere, scese e tornò indietro, perché sapeva di non poter star senza. Arrancò con due borse sulle spalle e la spesa un mano fino al suo palazzo, sudata fin dentro le mutande e col morale a pezzi. Le chiavi come sempre introvabili furono il colpo di grazia.
Quando finalmente si chiuse la porta alle spalle, dopo quella giornata di merda – quella settimana di merda – trovò la casa vuota, afosa e immersa nel buio. Esattamente come si sentiva lei in quel momento.
Non voleva finire così, non voleva essere costretta a rifugiarsi nel lavoro per non sentirsi sola. Avrebbe voluto una scelta, avrebbe voluto trovarsi al bivio tra una carriera brillante e una famiglia da accudire perché lei avrebbe sempre, sempre, scelto la famiglia. Avrebbe voluto un marito che la accogliesse a casa, magari anche senza sorriso, ma almeno avrebbe avuto qualcuno a cui raccontare quella giornata di merda. Avrebbe voluto una casa incasinata dai giochi dei bambini, non quel mausoleo di perfezione in cui trequarti delle stanze non erano usati. Aveva desiderato così tanto che qualcuno l’aspettasse in quella casa, qualcuno con cui coricarsi e raccontarsi lo schifo di capi con cui doveva rapportarsi e le richieste impossibili dei clienti.
E le salì un nodo alla gola che la fece scoppiare in lacrime, in ginocchio sul parquet dell’ingresso, con ancora quelle scarpe tremende a torturarle i piedi e il tailleur che minacciava di strapparsi ad ogni suo singhiozzo. Sola, disperata e sola.
 
Dopo parecchi minuti di lacrime si rese conto di essere ancora al buio, seduta con le spalle contro la porta e percepì appena un rumore che le tormentava i timpani.
Era il cellulare che squillava sul pavimento.
- Pronto? – non doveva essere apparsa molto in forma, perché dall’altro lato arrivò un silenzio titubante.
- Alice? – era Cici – Tesoro, stai bene? Che cosa è successo? -
Alice si riscosse e schiarì la voce.
- Ehm, nulla. Ero… sono appena uscita dalla doccia -
- Tutto bene? -
- Sì, perché? -
- Hai una voce strana -
Cici era un osso duro, ma meno duro di Laura. Alice dirottò subito l’argomento su altro.
 - Cosa volevi? -
- Volevo chiederti se ti va di venire da me nel weekend. I ragazzi sono tutti via per l’addio al celibato, tornano domenica, quindi se ti va di stare con me e Tommy domani, ci raggiungono anche Ele e Laura per cena -
Non ne aveva nessuna voglia. Il programma del suo sabato sera era la vasca piena d’acqua fresca, una bottiglia di vino e zero pensieri.
- Cici, grazie mille, ma ho avuto una settimana impossibile e volevo stare un po’ tranquilla nel weekend -
- Lo dici a me? Io ho avuto gente a cena tutte le sere, i fiori da controllare, le bomboniere che sono arrivate l’altro ieri, e Jack che non vuole tagliarsi i capelli. Per fortuna che c’è Kate adesso a casa, mi aiuta più lei del mio futuro marito -
- Kate? - Alice si era persa qualcosa.
- Katie, l’amica di Manu, sono arrivati giovedì, lo sapevi no? -
Come dimenticarlo…
- Veramente domattina devo andare in ufficio, ho delle cose da sistemare che questa settimana ho lasciato indietro - tentò di essere evasiva. Da un lato non vedeva l’ora di abbracciare l’unico uomo che amasse senza condizioni, il suo meraviglioso nipotino, dall’altro c’era l’idea di una vasca piena di bolle, completo e meritato relax, senza drammi da damigella d’onore come fiori e bomboniere.
Però non poteva dire di no, l’aveva già bidonata alla prova dell’abito e in mille altre occasioni.
- Che ne dici se vi raggiungo verso sera, esco dall’ufficio mi porto il cambio e dormo da te? -
- Perfetto! Non sai quanto mi rendi felice – invece lo sapeva fin troppo bene – Ti preparerò una tonnellata di tiramisù -
- Non ci provare nemmeno, sono a dieta ferrea per colpa del tuo fottuto matrimonio! -
Risero entrambe e si salutarono subito dopo.
Alice si guardò intorno nel caos dell’ingresso di casa sua, con la spesa gettata a terra e tutti i suoi appunti sparsi sul pavimento e disse addio al suo weekend di relax.
 
 
A casa Zonin, gli ospiti si erano adattati alla routine familiare in pochi giorni.
Sebbene Manuel stentasse a riconoscerlo, il merito era in gran parte di Kate. Era infatti lei ad aver intessuto ottimi rapporti con tutti, passava le giornate a giocare con Tommy e sua nonna, a cucinare insieme a Cici e a passeggiare per la campagna con Sergio.
Quella situazione gli ricordava i weekend nel Sussex, quando andavano a trovare suo padre, là la vita funzionava allo stesso modo: Kate aiutava Sergio in casa e in giardino, si informava sulla sua salute e controllava la burocrazia, lo accompagnava in giro per fare spese e insieme vagavano per le colline, mentre Manuel oziava in giardino con lo sguardo sempre perso.
Da quando erano arrivati in Italia, infatti, non aveva fatto altro che mangiare e stare a rimirare la natura. Solo il sabato mattina si erano mossi da casa, Kate l’aveva costretto a farle fare un giro per Verona, voleva assolutamente vedere il balcone di Giulietta, nonostante le avesse ripetuto fino all’esasperazione che non era altro che una farsa. Si era persino impuntata per avere una foto con la statua.
Al rientro da quella piccola visita sarebbe iniziato il weekend di addio al celibato per Jack. Il programma prevedeva un pomeriggio in un autodromo di go-kart, cena in ristorante brasiliano (fornito di ballerine) e serata a ballare in un locale al lago; tutto talmente banale che Manuel sprizzava d’entusiasmo come un maiale davanti al macello.
In più avrebbe lasciato Katelin da sola con Cici per quasi una giornata intera. Lei non aveva mostrato disappunto, tutt’altro, tanto da fargli sospettare che ci fosse qualche assurdo piano dietro la sua serenità.
Il pomeriggio del venerdì era andata con la sposa alla prova dell’abito, alla quale in teoria avrebbe dovuto incontrare Alice, ma era tornata piena di disappunto, poiché l’oggetto del suo interesse le aveva bidonate all’ultimo minuto. Manuel le aveva riso in faccia ed era tornato a lavorare sulla sua presentazione, comodamente appostato al tavolo nel giardino, proprio non la capiva questa ossessione per Alice.
 
- Come mai sei così curiosa di conoscerla? - le chiese la padrona di casa, davanti a tutto quell’entusiasmo.
Kate non esitò, si aprì in un sorriso radioso e pulito che la fece apparire ancor più bambina.
- Perché Emm ama lei -
Cici rimase un momento interdetta, con il cucchiaio a mezz’aria fissò la sua interlocutrice negli occhi a bocca aperta, sembrava molto convinta e apparentemente non aveva colto il suo sconvolgimento.
Si disse che probabilmente aveva frainteso quella dichiarazione a causa delle difficoltà linguistiche della ragazza inglese. Non poteva essere che così, Manuel le aveva detto di non avere segreti per lei.
- Sì, certo – tentennò – eravamo all’ultimo anno di liceo, saranno passati una decina d’anni ormai, ma mi ricordo bene come la guardava Manuel. Eravamo tutte invidiose. Ti ha parlato di lei? -
- No molto, lui no piace parlare di lei -
Non si stupì di quella dichiarazione, né del disappunto che tradiva l’espressione di Kate, era tipico di Manuel chiudersi a riccio quando si parlava di Alice, o in generale della sua sfera emotiva.
- Io credo che l’abbia amata molto -
Davanti al sorriso triste di Cici, Kate cambiò espressione. Contrariamente alle previsioni, aveva capito benissimo e la sua aura radiosa mutò all’improvviso per lasciare spazio ad un sorriso anch’esso triste.
- No, io credo lui ama ancora -
Chiara la guardò negli occhi per cercarvi la menzogna e non la trovò. E il sugo inevitabilmente si bruciò.
 
Quando un’oretta più tardi udirono un’auto imboccare il vialetto sterrato, Cici vide la sua ospite straniera drizzare le orecchie e abbandonare alla svelta il divano sul quale stava giocando con Tommy. Si sistemò il vestito e i capelli dietro alle orecchie, lasciò il bambino alle sue costruzioni e saltellò dietro a lei.
Ancora non si spiegava quell’impazienza, quell’attesa febbrile d’incontrare una persona che il suo migliore amico con tutta probabilità odiava.
Kate aveva provato a raccontarle tutte le volte che aveva visto Manuel soffrire per qualcosa che lei non capiva, del suo sguardo nostalgico quando si nominava l’Italia. Aveva provato a descriverle l’angoscia e la solitudine che aveva letto nel suo sguardo la notte in cui si erano conosciuti, o la tristezza con cui aveva visto avvicendarsi al suo fianco l’una dopo l’altra le donne sbagliate. Non le aveva rivelato di quella scatola che lui custodiva gelosamente nell’armadio solo per puro caso.
Eppure Cici non dava idea di aver capito il suo interesse e soprattutto le sue aspettative.
Conoscere Alice per lei era come trovare l’ultimo e più importante pezzo del puzzle e scoprire finalmente la figura completa.
Non l’aveva mai vista, se non in vecchie fotografie, l’immagine che si era costruita di lei era composta dai racconti di Sergio e dalle poche volte in cui Manuel era stato abbastanza ubriaco da abbassare le sue difese. L’aveva sempre vista attraverso gli occhi degli altri e questo non aveva fatto altro che accrescere la sua curiosità, che ora la stava letteralmente divorando.
La moglie (futura) di Jack andò ad attendere l’amica sulla porta, pur di allontanarsi da Kate, che non riusciva a star ferma per la tensione. La donna che vi apparve qualche secondo più tardi strappò alla ragazza inglese un’espressione basita: era proprio come nei racconti di Sergio.
Finalmente comprendeva. Finalmente la vedeva.
La prima cosa che notò furono i capelli, erano proprio arancioni come li aveva descritti Manuel, un colore caldo e pieno, lisci con riflessi più chiari sulle punte. Li portava senza più frangia, legati in una treccia lenta perfettamente ordinata e discreta. Subito dopo vennero gli occhi, di un azzurro carico e non glaciale, non tendevano al verde né al grigio; quegli occhi erano solamente azzurri.
Si approcciò a lei dopo aver salutato a lungo l’amica, ma soprattutto il nipotino. Era posata e delicata nei movimenti, si era chinata sul bambino per abbracciarlo e strapazzarlo un po’, con un sorriso caldo e rassicurante, senza perdere in grazia.
- Ali, questa è Katelin -
La guardò negli occhi e allungò la mano senza sorridere, ma aveva comunque un’espressione cortese che non tradiva nessuna tensione. Pareva estremamente misurata.
- You’re Alice? - le domandò, dimenticando di usare la lingua corretta e pronunciando il suo nome con l’inflessione inglese.
- In carne ed ossa -
Alice le sorrise, ma a Kate quello sembrava tutto tranne un sorriso. Era… di gesso.
- ...più ossa, a dirla tutta –
Nonostante non avesse capito la battuta, ne indovinò il senso quando quella rivolse a Cici un’occhiata ben più sincera di quelle che aveva rivolto a lei, sebbene la stesse incenerendo.
La rossa mollò borsa e valigetta all’ingresso e di nuovo le raggiunse, dando modo a Kate di studiare il suo abbigliamento. Indossava un abito grigio, sobrio e rigoroso nella forma, ma che su di lei sembrava comunque un capo d’alta moda, decolté allacciate alla caviglia e quattro bracciali di forme diverse al polso sinistro.
Si accomodarono tutte e tre in cucina, in modo da tener d’occhio il piccolo Tommy, che giocava sul tappeto del salotto.
- Io sentito molto parlare di te -
L’ultima arrivata accettò con un sorrisetto il calice di vino che Cici le pose davanti e, solo dopo qualche secondo, rispose a Kate.
- Male, suppongo? - di nuovo non sorrideva, ma si manteneva rigida e misurata.
Era talmente sconvolta da quell’assenza d’inflessioni che non colse il significato delle sue parole, eppure capiva l’italiano molto meglio di quanto lo parlasse.
- What? -
- Nope -
Ci fu uno scambio di sguardi tra le due amiche che la terza non comprese, però un attimo dopo Alice sospirò e bevve un lungo sorso dal bicchiere.
-Ehm… nice to meet you. You’re Manuel’s roommate, right? - lo sforzo dietro quella domanda cortese non fu difficile da cogliere, Kate era ormai preparata a quella freddezza e le sorrise conciliante.
 - First of all, Emm is my best friend -
Era imbarazzante parlare di Manuel davanti a quella ragazza dallo sguardo così azzurro e acuto.
- Chi è Emm? – la sentì domandare a Cici e la risposta fu solo un sussurro tra loro due.
- È così che chiama Manu – Alice annuì e prese un altro lungo sorso dal bicchiere.
- E così ti ha parlato di me… – le domandò di punto in bianco, dopo un silenzio pieno di sottintesi. E per la prima volta, Kate vide una scintilla d’espressione sul suo viso, solo che non c’era cortesia nei suoi occhi, ma solo astio.
 
Dopo i primi momenti d’imbarazzo, la serata prese una piega decisamente migliore.
Alice, complice l’intero bicchiere di vino, si sciolse un po’ e raccontò a Cici della sua settimana bestiale e ascoltò gli sviluppi della preparazione del matrimonio. Meno di venti minuti dopo, le raggiunsero anche Laura ed Elena e il clima si distese ulteriormente.
Protagonista della serata fu ovviamente Kate, parlarono molto di Londra, di shopping e di lavoro. Manuel non venne più nominato e nemmeno i rispettivi mariti/fidanzati, cenarono con l’ottima cucina di Cici e un vino della cantina di suo suocero. Kate sedeva di fronte ad Alice, ed ebbe l’occasione di studiarla attentamente come mai aveva sperato di poter fare. Scoprì moltissime cose in una sola serata, tutti particolari che le sarebbero serviti per spingere il suo migliore amico nella giusta direzione.
Innanzitutto, Alice era single, a quanto pareva aveva avuto una piccola storia poco tempo prima, ma aveva fatto una faccia così seccata all’idea di parlarne che doveva essere veramente una cosa da nulla.
Inoltre lavorava troppo e viaggiava molto per lavoro, esattamente come qualcun altro di sua conoscenza, soprattutto in Asia e Medio Oriente, e parlava discretamente bene inglese. 
Secondo, Laura non si dedicava abbastanza a se stessa, non faceva sport, non andava in palestra né in piscina, e mangiava meno di un pettirosso. Per tutta la sera non aveva fatto altro che lamentarsi delle porzioni di Cici e del fatto che non sarebbe mai entrata nel vestito per il matrimonio.
Non aveva bevuto vino a tavola, dopo il bicchiere offertole prima di cena, questo aveva colpito molto Kate che l’aveva vista aggrapparsi al primo calice con devozione, non fumava ,altro particolare che l’aveva distanziata dall’immagine che gli aveva riportato Manuel di una donna dedita a molti vizi, e per tutta la cena si era rivolta a lei con un fondo di quella fredda rigidità che le aveva distanziate fin dall’inizio, ma ben camuffata dietro a cortesie e sorrisini.
Nonostante questo, non l’avrebbe definita una persona falsa, solo estremamente cauta.
Poi al momento del dolce arrivò l’illuminazione. Cici aveva preparato una cheesecake ai frutti di bosco dall’aria deliziosa, era il dolce preferito di casa Bressan-Mellow, tanto che Manuel aveva persino imparato a cucinarla.
Quando le venne servito il piatto con la sua porzione, Alice guardò la fetta sorridendo triste, poi l’aggredì con perizia: inizialmente, separò il fondo dalla parte cremosa, poi i frutti di bosco dal resto, dopodiché mangiò ogni parte da sola, lasciando per ultimi i frutti di bosco. Esattamente come faceva sempre Manuel.
Kate la osservò esterrefatta, senza fiatare. Com’era possibile, dopo tutto quel tempo, che ci fossero ancora particolari comuni?
Ci vollero parecchi minuti per arrivare all’argomento Manuel, ma alla fine cedettero e la ricoprirono di domande. Come si erano conosciuti. Come mai vivessero assieme. Come facesse a sopportarlo. Tutto il repertorio, a cui rispose con tranquillità, mentre Alice non la guardava più negli occhi, né ovviamente le poneva domande, non sembrava nemmeno sentirla.
La domanda più insidiosa venne da Laura, che Kate aveva identificato come la più calcolatrice delle quattro. Era lei che, ad ogni sua risposta, scrutava la reazione della rossa e indirizzava poi la conversazione.
- Come hai fatto a convincerlo a venire al matrimonio? Noi non ci avremmo scommesso un euro… -
- Venetia, ho detto che volevo vedere Venetia. Arte è il suo punto debole - sghignazzò.
Poi accadde tutto troppo in fretta.
Prima sentirono un’auto nel vialetto d’ingresso, e Cici confusa si alzò con il bicchiere di vino in mano, per andare a controllare chi fosse arrivato; rientrò dopo un paio di minuti col bicchiere vuoto e accompagnata da un trio di voci concitate.
Ad Alice sembrava di stare dentro ad una gelatina, sentiva tutto ovattato e vedeva gli altri muoversi a rallentatore. Il cuore le rimbombava contro tutte le pareti del cervello, le sembrava di sentirlo ovunque dalla gola alle ginocchia. Lo stomaco invece pareva gliel’avessero levato e calpestato più volte e il pranzo saltellava allegramente suo e giù per il suo esofago. Tutto pulsava non solo dentro, ma anche attorno a lei.
Perché? Perché ora, destino beffardo?  
Non era preparata, credeva di avere modo e tempo di studiarlo da lontano al matrimonio prima di affrontarlo, o di potersi preparare un bel discorso pacato e cortese da ripetere a memoria.
Invece no, era lì, proprio davanti a lei, nella sacrosanta cucina di Chiara, imbalsamato in piedi come un palo tra Jack e suo fratello. E lei non riusciva a guardarlo.
C’era stato solo un secondo di silenzio guardingo, poi Filo aveva preso ad urlarle quanto gli fosse mancata e a stritolarsela tra le braccia.
- Per l’amor del cielo, Rossa: mangia! Sei magra come un osso. – lo urlò ai quattro venti, ma, approfittando dell’abbraccio, le mormorò ad un soffio dall’orecchio – F orza, respira e guardalo dritto negli occhi -
Le aveva dato il tempo di riordinare le idee e affrontare quell’incontro nel migliore dei modi.
Nel caos delle urla di Tommy per il rientro del suo amato papà, nessuno si era accorto di nulla, ad eccezione di Cici, che torceva uno strofinaccio come se avesse dovuto strapparlo in quattro.
Manuel era ancora impalato sulla porta della cucina, mentre gli altri due si erano mossi per salutare le ragazze. Si sforzò di fare un passo, perché percepiva lo sguardo di Kate addosso e sapeva che se avesse mostrato anche solo una punta del turbamento che aveva dentro, lei l’avrebbe colta e non l’avrebbe lasciato più in pace.
- Ciao Alice - ruppe il suo silenzio con un tono cordiale e modulato. Non c’era nulla di ammiccante in quel saluto, né una vibrazione di sottintesi.
Quando incontrò quegli occhi neri, Alice per un attimo sperò di trovarli confusi o almeno spaesati tanto quanto lo era lei. Invece Manuel sorrideva, e non era un sorriso forzato, solo quieto.
Sentì montare dentro la rabbia, mentre si avvicinava a lei.
Perché doveva sempre essere lei quella turbata? Perché dopo sei anni non riusciva ancora a seppellire il suo rancore? Perché solo con la sua presenza la rendeva di gelatina?
Non era giusto, ma non poteva dargli la soddisfazione di farsi vedere così.
Sotto lo sguardo di Manuel, sul volto di Alice comparvero i segni della sua determinazione; se dopo l’abbraccio con Filo l’aveva vista scendere dallo sgabello turbata ed impreparata quanto lui, in un secondo i suoi occhi si erano velati di apatia e il suo sorriso si era congelato nella perfezione di una bambola.
Una bellissima e immortale bambola di porcellana.
- Manu, come stai? -
Si sporse, allungò le braccia come per abbracciarlo e finse persino di posare le labbra sulle sue guance. Ma non lo toccò mai veramente, l’abbracciò fu un discreto posarsi delle mani sulle spalle e i baci furono solo un lieve soffio sulla sua pelle, e si allontanò prima che lui potesse replicare.
Sorrideva, mentre le rispondeva che stava bene ed era felice di vederla.
Sorrideva, mentre fingeva di chiederle come stesse lei e di interessarsi alla sua banale risposta.
Sorrideva, mentre tutti gli altri trattenevano il fiato.
Manuel non si era mai sentito così finto in vita sua.
Non avrebbe voluto vederla, né avvicinarsi a lei per simulare quella conversazione, né sentirla così vicina tanto da percepirne l’odore. Aveva cambiato profumo.
- Hai già conosciuto Kate ?- tentò di cambiare argomento e di avvicinarsi alla sua migliore amica, in cerca di un supporto. Aveva bisogno di ricordarsi della sua vita, dell’odore di Londra.
- Oh sì certo, abbiamo cenato insieme e abbiamo avuto modo di chiacchierare un po’ -
Alice era sempre stata brava in quel gioco, lui lo sapeva. 
A diciott’anni la credeva una gallina come tutte, bella e scema che non saper far altro che ridere e flirtare, ma aveva scoperto tutto un mondo sotto quella massa di capelli rossi. Aveva scoperto che quello era il suo modo per nascondersi, fingendosi un guscio perfetto.
Poi però aveva smesso, all’università era cambiata, aveva trovato il suo ambiente, gente con cui non doveva fingere di non saper risolvere un integrale. Aveva cominciato ad essere se stessa con tutti e a non comportarsi da bambolina.
Ora invece, cos’era diventata? Vestiva come una donna della City, in tubino castigato e sandali vertiginosi, le mani curate e senza un capello fuori posto, con quel sorriso di plastica stampato in faccia e l’espressione vuota, come se avesse subìto l’elettroshock. A Manuel venne istintivo domandarsi se la notte andasse tenuta sotto carica una donna così e probabilmente anche Kate si stava chiedendo come lui fosse finito con quella specie di robot finto e impersonale.
Ringraziando il cielo, l’incontro fu cosa di pochi minuti, erano tornati indietro solo per permettere a Jack di cambiarsi la camicia dopo essersi versato addosso mezzo bicchiere di rosso. Manuel non avrebbe resistito oltre chiuso nella stessa stanza di Alice, rimase infatti per tutto il tempo incollato a Kate ad osservare il disagio della ragazza da lontano. La sua migliore amica blaterò di cortesia ed educazione tutto il tempo tentando di convincerlo a rilassarsi, ma lui si sentiva un pinguino all’equatore.
Nessuno dei due l’aveva previsto ed entrambi avrebbero preferito essere ad anni luce di distanza da lì.
Quando arrivò il momento di congedarsi,  fu tutto talmente sbrigativo che Manuel si dimenticò perfino di guardarla negli occhi e imboccò la porta quasi di corsa, seguito a vista da Kate che non si perse però il sospiro di Alice.
Aveva trattenuto il fiato tutto il tempo?






















Inutile spazio autrice:
Neanche vi dico i turbamenti e i drammi che ho dovuto affrontare durante la stesura di questo capitolo. Sarebbe vergognoso vista la mia anzianità.
Chiarimenti:
-No comment sul primo incontro, l'ho voluto così e punto. Sicuramente vi aspettavate qualcosa di più plateale e... rissoso!? ma così non è stato. Provate a immedesimarvi comunque in due quasi-trentenni che si incontrano dopo tanti anni, potranno anche odiarsi ma ciò non toglie che abbiano una certa dose di dignità (e un orgoglio che riempirebbe uno stadio) con cui fare i conti. E poi grazie al cielo l'adolescenza finisce e inizia l'era del politically correct per tutti.
-Katelin vive per proteggere Manu, e per lui è stata molte figure in un momento in cui era tremendamente solo, compreso questo credo si possa capire la morbosità con cui si appoggiano l'uno all'altra.
-Prossimo capitolo: il matrimonio... se ne vedranno delle belle.

Come al solito: Grazie Sandra senza di te sarei nella cacca... e una cacca. Se non ci fosse lei a tormentarmi non potreste essere qui a leggere il capitolo, quindi adoratela e leggete i suoi splendidi lavori qui.
Sono in partenza per una fuga d'amore fuori portata dal mio adorato modem wifi, quindi mi scuso in anticipo per il ritardo nelle risposte alle recensioni... sempre SE ci saranno delle recensioni a cui rispondere.
L'unica persona con cui mi scuso formalmente è Jese anche se non so se legga questa storia: ho letto la tua recensione a RC solo oggi, perdonami, ho tutte le intenzioni di risponderti appena possibile e ti ringrazio per aver letto tutta la storia.
Come sempre su fb sono Fuori Target Efp, venite e torturatemi a dovere per la mia accidia.
1bacio e buone feste.Vale




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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


cap1


Travolti da un insolito destino




Capitolo 5







Il giorno del matrimonio arrivò fin troppo lentamente per Manuel.
La sera prima, come da copione, Jack era andato a dormire da suo fratello, perché bisognava rispettare le tradizioni e lo sposo non poteva vedere la sposa il giorno del matrimonio, quantomeno per l’effetto sorpresa. Quindi Manuel era l’unico uomo in mezzo ad un’epidemia di isterismo da damigella.

Oltre a lui e Kate, anche Laura avrebbe dormito da Cici quella notte e la mattina le avrebbe raggiunte sua cognata Elena. Per un agghiacciante pomeriggio aveva temuto di dover dormire sotto lo stesso tetto con Alice, era già pronto a seguire Jack e accamparsi sul divano di suo fratello, invece lei aveva gentilmente declinato l’offerta, dicendo che aveva troppe cose da fare.

C’erano stati altri due tesissimi incontri durante la settimana prima del sabato del matrimonio.
Il primo era stato di nuovo a casa Zonin, ma questa volta annunciato ed organizzato: Chiara li aveva avvisati durante il pranzo che Alice sarebbe passata nel pomeriggio a portare gli anelli e la spilla di sua nonna, restaurata per l’occasione, che era andata a ritirare dall’orefice.
Lui c’era rimasto di sasso, mentre Kate si sfregava le mani con un sorrisetto sadico.
Ovviamente, con quella drammatica prospettiva, il pomeriggio se l’era organizzato a dovere: prima di tutto aveva spedito Kate a fare spese con Filo, sua madre e il nipotino, con la scusa che lui era troppo impegnato a lavorare per farle vedere Verona, dopodiché fino alle cinque sarebbe rimasto in casa attaccato al pc, al sicuro dalla calura esterna, mentre dopo le cinque e mezza (orario in cui era previsto l’arrivo) si sarebbe ritirato in giardino a prendere aria sempre armato di pc e telefono, in modo da potersi creare l’alibi perfetto per declinare ogni possibilità d’incontro.
Dalle tre seguì il suo piano alla lettera, chiuso in casa con Chiara, troppo presa dai lavori domestici per badare a lui e alla sua tensione, e fino alle cinque rimase in salotto a destreggiarsi tra le telefonate assillanti di Rob e le mail minacciose di Missy. Avevano una consegna per lunedì, la selezione di alcune foto di opere per un catalogo; la sua parte l’aveva conclusa e consegnata prima di partire, ma gli altri avevano avuto dei problemi con la loro, quindi erano corsi da lui a chiedere aiuto. Così si era ritrovato con un lavoraccio di settimane da svolgere in due giorni e lontano dall’ufficio.
Quando arrivarono le cinque si spostò come previsto in giardino, sotto la veranda davanti alla cucina, armato di bottiglia di tè freddo e biscotti di Chiara (era certo che al ritorno da quella vacanza si sarebbe trovato con quattro chili in più da smaltire), ma, appena prese posto, il telefono cominciò a trillare impazzito e questa volta non erano né Rob lo psicopatico, né Missy la squinternata, ma lei, Mrs. Sullivan in persona, e tutto il resto perse importanza per parecchi minuti.
Risolto il problema delle foto, dopo una valanga di insulti a Julian che non aveva fatto un tubo di ciò che era stato richiesto e a Kate che l’aveva trascinato in Italia invece che lasciarlo a lavorare in pace, prese un gran sospiro di sollievo. In giardino, con l’assenza di Tommy-il-diavolo-devastatore e di suo zio Filo, c’era una gran pace, sentiva gli uccellini cinguettare sopra di lui e le fronde dell’albero muoversi nel vento. Dalla porta sulla cucina non giungevano rumori, forse Cici si era spostata di sopra, quindi si concesse uno sbadiglio, un biscotto e stiracchiò le braccia prima di accendersi una sigaretta e ritornare al lavoro; stava ancora fumando quando sentì dei passi sulle scale e due voci che discutevano.
- Ti fermi a cena? - era per forza Cici, la padrona di casa a parlare.
- Non è il caso, - fece una pausa la seconda voce - lo sai -
Manuel riconobbe la voce di Alice, che lo inchiodò alla sedia con le spalle alla porta. Non osò girarsi.
- Non credi che sia un po’ infantile questo evitarsi? Finora è stato molto corretto. Dovreste parlarvi secondo me, e anche secondo Kate -
I suoni si avvicinarono, giunsero in cucina e Alice non aveva ancora risposto.
- Vuoi qualcosa da bere? -
- No, ora è meglio che vada -
- Dai Ali, rimani almeno finché non torna Tommy ! - questa pausa, Manu ne era certo, era studiata ad arte ed accompagnata da un’espressione afflitta - Mi chiede sempre di te perché non ti vede mai -
La sigaretta si era quasi consumata tra le sue dita e ancora non si era alzato a cercare un posacenere; come l’altra volta, non sapeva affrontare la sua presenza, né cosa dirle.
Risolse il problema della sigaretta spegnendola in un vaso di rosmarino, mentre alle sue spalle colse del movimento in cucina. Era suonato il telefono e Cici stava parlando con qualcuno e intanto spadellava come al solito qualcosa, in quella casa c’era sempre qualcosa in forno o a sobbollire sul fornello. Tornato al tavolo percepì una presenza alle spalle. Conscio che fosse lei, si voltò lentamente per non coglierla di sorpresa, e la trovò in piedi sulla porta che lo fissava seria. Ci furono sette secondi di silenzio, Manuel li contò per impedirsi di pensare ad altro, e dopo gli sorrise in quel modo rigido e freddo che gli aveva riservato la volta precedente.
- Ciao - disse soltanto, senza perdere l’aria ingessata.
Le rispose allo stesso modo, impegnandosi al massimo per non dare alcuna inflessione alla voce.
- Vuoi un posacenere? – chiese, occhieggiando le sigarette posate sul tavolo.
Per un attimo lo colse impreparato, ma poi annuì e lei scomparve di nuovo all’interno della casa. Avrebbe voluto dirle di non disturbarsi, che poteva prenderlo da solo, o che tanto non avrebbe più fumato fino a sera, ma era troppo in imbarazzo e l’unica cosa sensata che gli era venuta fuori era annuire.
In pochi istanti lei tornò con una coppetta di ceramica bianca in mano. Questa volta non si fermò sulla porta a tre metri da lui, ma lo raggiunse fino al tavolo, senza aspettare che si alzasse e le andasse incontro. Manuel si sentì fuori luogo, odiava farsi servire perché odiava dover ringraziare, lo fece comunque ma senza guardarla in faccia.
La sentì (perché non osava guardarla) tentennare, dopo aver posato l’oggetto sul tavolo e infine accomodarsi con uno sbuffo su una delle sedie di vimini accanto alla sua. Solo allora la osservò stupito, ma di nuovo nessuno disse nulla.
Notò che non indossava il vestito grigio da educanda della volta precedente, ma uno a righe bianche e azzurre che le copriva appena metà coscia, né aveva i capelli legati, ma sciolti e lisci fino al seno. Non guardava lui ma il piatto di biscotti e non parlava, Manuel comprese che lei aveva fatto la sua mossa, ora toccava a lui fare un altro passo.
- Ne vuoi una? – domandò, allungando il pacchetto di sigarette.
Lo sguardo di Alice saettò di scatto verso il pacchetto e lui vide chiaramente il vacillare della sua volontà mentre rispondeva di no con il capo.
- No grazie. - capì che si era costretta a rispondere con garbo, quando con un colpo di tosse cambiò argomento - Stai lavorando? -
- Ehm sì, i miei colleghi hanno combinato un casino con un catalogo e mi hanno chiesto una mano; non è un lavoro che faccio di solito, si tratta di selezionare le foto di alcuni pezzi per formare un catalogo che dia un’idea di ciò che verrà messo all’asta - Non sapeva nemmeno perché le stava rispondendo con quella dovizia di particolari, ma sentiva di doverle almeno quella conversazione.
Per un attimo si sentì un bambino imbarazzato davanti allo sguardo perplesso di lei, poi si distese un poco quando la vide fare lo stesso. Potevano davvero conversare ancora come buoni amici?
- Jack mi ha detto che lavori per una casa d’aste -
- Sì, Sotheby’s, da quasi tre anni. Tu invece? -
- Precaria in uno studio di progettazione di macchine automatiche -
Di nuovo cadde il silenzio, c’erano mille cose di cui avrebbe voluto parlarle, ma di queste la gran parte li avrebbe messi in posizioni imbarazzanti.
Alice alzò le sguardo verso la porta e sorrise per un attimo, poi lo riportò su di lui.
- Bene, Cici ci ha visti parlare, ora che l’ho fatta contenta me ne posso andare - si alzò di scatto, come se non avesse fatto altro che aspettare di potersene andare, e lo lasciò basito.
- Grazie della collaborazione – mormorò, prima di imboccare di nuovo la strada per la cucina.
Manuel la guardò andarsene con i capelli che oscillavano sulla schiena e non poté che sorridere davanti a quel piglio irritato che aveva sfoderato alla fine. Era infastidita e incazzata e probabilmente ce l’aveva a morte con lui, ma di sicuro la preferiva così che imbalsamata come una statua di sale.
Il secondo incontro della settimana era stato molto meno traumatico – perché era durato molto meno –, ma l’aveva lasciato comunque perplesso.
Erano quasi le undici e Manuel era seduto in giardino con Jack a chiacchierare davanti ad una birra, dopo essere stati tutto il pomeriggio in piscina con Tommy. Aveva finito le sigarette e l’unico nel raggio di centinaia di metri ad averne era Filo. Quindi si era alzato per suonare alla sua porta per chiederne una e invitarlo a bere con loro, ma un attimo prima che suonasse, lei aveva aperto la porta.
Si era perciò ritrovato davanti un’Alice parecchio irritata, che l’aveva guardato come fosse una cacca sotto la sua scarpa (ed aveva ricevuto in cambio uno sguardo altrettanto ostile) e prima di superarlo ed andarsene aveva brontolato.
- Ecco, ci mancava pure lui -
Filo era arrivato quando lei aveva già preso la via del parcheggio a passo di marcia, e ad un primo sguardo, a Manu era parso appena uscito dal letto (nell’accezione più maliziosa del termine). La cosa stranamente l’aveva turbato.
Era tornato da Jack da solo e, dopo avergli raccontato l’accaduto, il suo migliore amico aveva sospirato e infine gli aveva risposto in modo ambiguo.
- Mettiamola così: prima di conoscere Alice, tu eri allo sbando, una foglia nel vento che non sapeva dove sarebbe finita, mentre lei viveva una vita vuota, finta. Poi vi siete incontrati e avete trovato un vostro equilibrio. Ora invece sei tu a vivere lontano da casa una vita che sai non appartenerti fino in fondo, mentre è lei ad essere allo sbando, così come lo eri tu -
Gli ci vollero alcuni minuti di silenzio per ragionare ed incamerare quel discorso, ed infine l’unica cosa che gli venne in mente fu la prima a cui aveva pensato trovandosi Alice davanti.
- Mi stai dicendo che va a letto con Filo? -
Jack, particolarmente a disagio, alzò le spalle ma non rispose, segno evidente che Manuel ci aveva preso.
Quella notte dormì poco, Kate provò a farlo parlare, però non se la sentì di dirle nulla, in fondo non sapeva nemmeno cosa dirle. Non erano affari suoi, non avrebbe dovuto essere turbato se una sua ex che non vedeva da anni andava a letto con uno dei suoi migliori amici. Eppure sognò di nuovo quella donna col vestito blu che gli consegnava qualcosa tra le mani che lui non riusciva a vedere.
Il giorno dopo prese la macchina di Jack e si eclissò per la campagna fino a pomeriggio inoltrato.

Now and then I think of when we were together…

Quando finalmente arrivò il sabato, Manuel non avrebbe voluto lasciare il suo letto.
Era prestissimo quando sentì Kate alzarsi, era sveglio ma finse di dormire per non parlarci. Probabilmente lei lo capì, perché non infierì oltre e si dileguò al piano di sotto con le altre galline, lasciandolo ai suoi tentativi di riaddormentarsi.
Verso mezzogiorno suonò la sveglia dell’ipad, che evidentemente aveva puntato lei e dieci minuti dopo arrivò anche la pestifera, con in mano una tazzona di caffè nero.
- Buongiorno informe ammasso cellulare, lo sai che ti amo, ma se non alzi le chiappe, ora ti faccio la doccia col diserbante
Ultimamente Kate usava l’inglese solo quando erano soli, o se doveva insultarlo in pubblico; grazie a Cici parlava molto meglio in italiano e non aveva più bisogno di lui come traduttore simultaneo.
Con immensa fatica eseguì i suoi ordini e si infilò una maglietta, prima di prendere la via del bagno, chiaramente dopo averla maledetta in varie lingue e omaggiata di un grazioso dito medio.
Quando tornò in camera dopo la doccia, trovò appeso all’armadio il suo vestito stirato e riordinato, le mutande e i calzini puliti sul letto e un messaggio che minacciava serie ripercussioni, tra cui la sua morte, se l’avesse stropicciato o macchiato prima delle quattro.
Scese con tutta calma e al piano di sotto trovò la cucina invasa da parrucchiera, truccatrice e donne isteriche, in salotto giaceva abbandonato alle sue costruzioni Tommy che le guardava tutte dall’alto in basso neanche fossero aliene. Decise quindi di agguantare il cucciolo di Zonin e andare a procacciarsi del cibo altrove. La prima valida alternativa sarebbe stata la cucina della signora Zonin senior, ma anche lei era in pieno isterismo, quindi l’unica alternativa rimaneva il frigo pieno di birre e patatine di Filo.
Trovò la porta aperta: due uomini in mutande stavano giocando a Fifa in salotto, e un altro svaccato in poltrona li stava incitando; il suo arrivo fu notato solo grazie alla vocetta stridula di Tommy che chiamava il suo papà, che mollò subito l’ipad a Charlie per finire la partita.
Mentre dall’altra parte del muro regnava il caos tra ombretti e calze autoreggenti, lì lo sposo e i suoi testimoni stavano oziando nella calma più assoluta. Manuel prese posto accanto a Charlie e vi rimase per le due ore successive, fino a quando la madre dello sposo non li trovò tutti radunati lì dentro, mezzi nudi e con la barba sfatta.
Appena un’ora dopo erano tutti pronti e lo sposo, la famiglia e gli amici lasciarono la casa alla volta della villa sul lago che avrebbe ospitato il matrimonio, dietro di loro rimasero solo la sposa e suo padre.


Il giorno del matrimonio arrivò troppo in fretta, Alice aveva troppe cose da fare e troppo poco tempo.
Il venerdì era uscita dall’ufficio ad un orario inumano per finire con Salvatore dei calcoli che non tornavano, anche se si era ripromessa di rientrare presto e farsi un bel bagno ristoratore; per il giorno dopo invece aveva chiesto la mattinata libera.
Alla fine era andata a dormire a mezzanotte, quasi svenendo sul letto.
La mattina disgraziatamente non aveva sentito la sveglia ed aveva dormito fino alle 10, orario in cui sarebbe dovuta essere già dal parrucchiere, quindi aveva corso come una matta perché aveva solo tre ore per farsi capelli, trucco e manicure.
Al contrario di Laura, che avrebbe aiutato Cici a prepararsi e a non svenire per la tensione, a lei era stato affidato il compito di controllare che tutta l’organizzazione alla Villa fosse perfetta. Certo era meglio che sopportare una sposa ansiogena, ma lei per l’organizzazione non era mai stata portata, quindi per essere sicura di non sbagliare nulla, aveva programmato di andare là due ore prima della cerimonia a supervisionare il catering e l’allestimento. Cici due giorni prima le aveva dato un intero raccoglitore con tutto ciò di cui aveva bisogno, ma non l’aveva nemmeno aperto per paura di ciò che vi avrebbe trovato.
Quando raggiunse il posto, trovò in realtà tutto in ordine e come era stato diligentemente riportato sul quaderno, non ci furono drammi dell’ultimo minuto e gli ospiti cominciarono ad arrivare ordinatamente. Gli unici che ancora non si vedevano erano lo sposo e i testimoni.
Tutta la mattinata era stata costellata da una fitta comunicazione con Laura, che la teneva aggiornata sull’andamento della preparazione. Quando verso le due aveva scoperto che lo sposo, i due testimoni, Manuel e Tommy erano ancora tutti in mutande quasi era preso un colpo pure a lei ed aveva chiamato Jack urlandogli di muovere il culo.
Fu con immenso sollievo che vide le loro auto entrare nel parcheggio, anche se un attimo dopo realizzò che con loro era arrivato anche Manuel.


All’oscuro della maggior parte dei dettagli, Manuel scoprì che il luogo dove si sarebbe tenuto il ricevimento era una enorme villa padronale sul lago di Garda. Appena la vide dal parcheggio, subito notò alcune incongruenze stilistiche nella facciata, dovute sicuramente ad un recente restauro; almeno l’esterno era però stato ristrutturato con grande perizia nella scelta dei materiali. Attorno si stendeva un bel giardino all’italiana con siepi basse, vialetti di ghiaia e statue di putti e amorini nelle fontane, mentre sul retro la terrazza si affacciava direttamente sul piccolo molo e il lago.
Davanti all’ingresso all’improvviso, in mezzo a tutta quell’opulenza rinascimentale apparve lei, il suo personale angelo tentatore, abbigliato nelle infide vesti di Alice Aroldi. Manuel avrebbe voluto e dovuto scostare lo sguardo, e lo sapeva, invece rimase imbalsamato sul posto come un fesso, mentre lei fulminava sposo e testimoni per il ritardo, Jack al suo fianco gesticolava, Filo sbuffava all’indirizzo della cravatta e Charlie invece tentava di giustificarli tutti.
Accanto a lei in pochi istanti apparvero anche Paolo, che Manuel aveva rivisto solo la sera dell’addio al celibato che ballava ubriaco con una cubista, mentre in quel frangente in veste elegante aveva proprio l’aria da chirurgo serio e compassato, e subito dopo Lorenzo e sua moglie Elena. Tutti parevano raggianti e spingevano Jack verso l’ingresso in fretta e furia.
Gli sposi avevano optato per una sobria cerimonia civile che si sarebbe tenuta direttamente in uno dei tanti salotti della villa. Quasi tutti gli ospiti avevano già preso posto in piedi o sulle poltroncine sparse per la sala, mancavano solo loro, Paolo Manuel Kate, i quattro testimoni e gli sposi. Laura stava sistemando il vestito di Cici, mentre Alice si teneva la vita con un braccio e si mordicchiava le unghie laccate, i testimoni di Jack invece non facevano che prenderlo in giro per le gocce di sudore che gli colavano sulla fronte e sghignazzavano sotto i baffi.
La sua amica lo prese a braccetto e lo condusse verso l’interno; la sala era molto bella, con un soffitto a volta riccamente decorato da stucchi bianchi e dorati e le pareti coperte da tappezzeria di raso azzurro, la stessa delle poltrone per gli sposi e i testimoni, davano un tocco fatato alla situazione. Un grosso lampadario rococò pendeva sugli invitati come un monito inquietante, ma nella luce del pomeriggio tutto pareva più magico.
Presero posto insieme a Paolo, dietro a tutti, Manuel si rinchiuse nell’angolo più isolato da tutti, dal quale poté osservare con calma tutti gli invitati.
Cercò prima di tutti suo padre, che se ne stava a chiacchierare vicino ad una donna dal tailleur rosa, che con orrore riconobbe dopo pochi istanti: era la madre di Alice. Da come chiacchierava con Sergio, forse c’era ancora una vaga speranza che non odiasse tutti i Bressan e la loro progenie.
- Chi è quella donna che sta parlando con Sergio? -
- La madre di Alice - rispose con un filo di voce, senza staccare lo sguardo da qui due e dall’uomo in piedi dietro di loro.
Kate lo guardò allibita e mormorò: - Davvero? -
La piccola cerimonia iniziò con l’ingresso dei testimoni a braccetto ,come nei peggiori telefilm americani, quelli che piacevano tanto a Kate, e pure ad Alice, Cici e Laura, forse in fin dei conti a tutte le donne. Vedere però Alice stretta al fianco di Filo che gli sorrideva complice, fu un vero pugno nello stomaco. E non era gelosia quella, ma ben peggio, era rimpianto.

Now you’re just somebody that I used to know.

Dopo lo scambio degli anelli ci fu una lunga lettura degli articoli del codice civile riguardanti il matrimonio, ormai il più era fatto, erano sposati.
Alice li osservava da meno di un metro di distanza e sapeva che non erano mai stati così felici: avevano un bambino bellissimo e una casa costruita a loro immagine, non avevano la stabilità economica che avrebbero voluto, ma non si erano fatti spaventare, il loro obiettivo era sposarsi e l’avevano perseguito malgrado tutto. Ed ora ci sarebbero stati l’uno per l’altra, fino alla fine.
Si costrinse a non pensare alla sua di situazione sentimentale, perché altrimenti avrebbe pianto davvero, e non di commozione, quindi deviò lo sguardo su Filippo.
Lo adorava, incondizionatamente. Col passare degli anni, con Jack che diventava papà e metteva su famiglia, lui aveva in parte preso il posto del fratello. Tutto era iniziato come la solita storia di sesso, in effetti: lui annoiato e con nessun amico che lo seguisse per locali, lei che non aveva tempo di conoscere gente nuova ed erano finiti insieme senza troppi pensieri. Però non era stato nulla di straordinario, c’erano state più risate che sospiri, più battute che gemiti, quindi si erano consensualmente allontanati senza però perdere l’intesa. Erano usciti insieme spesso a bere e divertirsi, ognuno alla ricerca di una nuova storia e con una nuova spalla.
Con lui sentiva e sapeva di poter manifestare tutto il malessere che con Jack si costringeva ad inghiottire per non farlo preoccupare. Con lui poteva bere, fumare, prendere tutti gli antidepressivi che voleva e urlare e piangere fino a non avere più fiato. Con lui poteva smettere di fingere di non odiare Manuel e tutti gli uomini che erano venuti dopo di lui, di non odiare sua madre che la trattava come una psicopatica e suo padre che la guardava e taceva.
Con lui era se stessa come non poteva più essere altrove. Era diventato più facile respirare da quando c'era lui.
Filo ricambiò il suo sguardo con le sopracciglia aggrottate, probabilmente le stava chiedendo il perché di quell’occhiata malinconica, gli sorrise dietro alle spalle di Jack e Cici. Le rispose con un occhiolino e un ghigno furbo, entrambi sapevano che avrebbero concluso la giornata a bere Martini assieme.
Dopo la cerimonia fu il momento delle congratulazioni, degli abbracci e dei baci alla sposa, una girandola di vestiti colorati, lanci di riso e sorrisi inebetiti. Ci fu il lancio del bouquet, dal quale Alice si dissociò, piazzandosi dall’altro lato del giardino e che ovviamente finì tra le braccia di Laura, per l’orrore di Charlie.
Infine, all’alba delle cinque, arrivò il momento dell’aperitivo.
In un angolo del giardino era stato allestito un bel buffet e camerieri in livrea servivano alcolici agli ospiti. Gran parte delle persone si precipitarono subito là, mentre gli sposi si allontanavano per le foto di rito, i novelli consuoceri facevano gli onori di casa al posto dei figli e Alice, osservando la madre di Jack abbracciare e porgere complice un fazzoletto al padre di Chiara, si ritrovò a riflettere su quanto in realtà fosse stato inutile quel matrimonio, poiché quella era una grande famiglia già da molto tempo.
Prese posto ad uno dei tavolini di vimini, chiaramente senza aver toccato cibo né alcool, si sentiva stordita già dal mattino e non era il caso di ingozzarsi né dell’uno, né dell’altro e si prese il tempo per osservare gli invitati. Quello nei suoi piani sarebbe stato il momento in cui avrebbe dovuto rivedere Manuel, momento nel quale avrebbe avuto il tempo di studiarlo e scrutarlo da lontano, preparare un discorso intelligente e sottile con cui sorprenderlo, senza dargli spazio di manovra e infine seppellirlo definitivamente nella sua memoria come un grossolano errore di valutazione.
Invece lo stronzo era arrivato con una settimana d’anticipo e si era piazzato dagli Zonin come una maledetta erbaccia, insieme alla sua fida cagnolina Kate.
Si pentì subito di quel pensiero meschino, perché la ragazza inglese era stata tutto fuorché meschina con lei, anzi era stata fin troppo gentile. All’inizio l’aveva trovata impudente per la curiosità morbosa con cui le ronzava attorno, ma con quei modi sempre cortesi e sibillini, solo se veniva pungolata sugli affetti, l’aveva colpita; le ricordava Cici e la sua perenne sindrome della chioccia.
Anche in quel momento, osservandola da lontano era lampante il suo legame con Manu. Lei se ne stava a braccetto con Filo e parlottavano come due vecchie comari, indicando spudoratamente i soggetti delle loro chiacchiere, mentre lui le stava sempre silenzioso a non più di due passi di distanza. Ogni volta che l’uno o l’altro si allontanavano per andare al buffet o a salutare qualcuno, subito c’era uno scambio di sguardi, come a chiedere il consenso di allontanarsi. C’era qualcosa di inscindibile e malato in quel legame.
E in più lui, il maledetto vigliacco, si era presentato in un impeccabile fottutissimo abito scuro, probabilmente di Calvin Klein, stretto al punto giusto da evidenziarne la forma perfetta delle spalle e della vita, con una sobrissima camicia bianca e la sottile cravatta blu un po’ lenta attorno al collo.
Un maledetto modello di Abercrombie.
Era impossibile non guardarlo, soprattutto perché, al contrario di tutti gli altri, si aggirava per il giardino come un’anima senza pace e l’aria di un poeta bohémien tisico e tormentato. Era in effetti estremamente affascinante, ma Alice si costrinse a scacciare quel pensiero e rimpiazzarlo con una filippica su quanto l’uomo melodrammatico fosse passato di moda.
In questo quadretto bucolico era inserito anche Filo, infingardo traditore, che passeggiava al braccio di Kate, le offriva da bere e le presentava chicchessia con un sorriso luminoso. La sua unica speranza di un volto amico, esclusi gli sposi, erano Laura e Charlie; li cercò tra la gente lì attorno e con sommo orrore scoprì che anche loro erano stati assoggettati al nemico: Charlie stava amabilmente conversando con Sergio, il padre di Manuel ,e Laura invece con sua madre, che la stava indicando con gesti eloquenti.
Avrebbe voluto strozzarli tutti quanti con le loro stesse budella.
Urgeva una boccata d’aria da tutta quella falsa cordialità, quindi afferrò la borsetta, un calice di vino abbandonato sul tavolo da un cameriere solerte e imboccò il primo sentiero di ghiaia che conducesse nella direzione opposta alla villa.
Si sentiva esclusa e sola in mezzo ad una folla, non era la prima volta e non le era nemmeno nuova quella sensazione di rabbia e rancore violento che le attanagliava le viscere.
Cercò una panchina dove sedersi, fumare una sigaretta in pace e scacciare tutta quella tensione; camminò parecchio, maledicendo le sue idee idiote di fare una passeggiata sulla ghiaia con i tacchi, arrivò a raggiungere la balconata di cemento che si affacciava sul lago.
I rumori della festa erano ancora udibili, ma attutiti da una selva di conifere e dal rumore dell’acqua sotto di lei. Era un caldo micidiale e ben poco poteva fare la brezza cha accarezzava la superficie del lago; col caldo e la foschia, l’altra sponda non era ben visibile come nelle terse giornate primaverili, ma lo spettacolo rimaneva comunque incredibile. Da piccola il lago le piaceva da morire, i suoi andavano spesso alle terme e suo padre la portava a Sirmione a fare il bagno, se era in vena noleggiava anche una barchetta per portarla al largo a tuffarsi. Da ragazzi poi ci andavano con gli amici a casa di Manuel, di Laura o anche solo un giorno a prendere il sole e fare il bagno. Aveva visto molte più volte il lago del mare in vita sua. Poi per un lungo periodo l’aveva rimosso insieme a molti altri luoghi; a quella grande distesa d’acqua erano legati moltissimi ricordi, quasi tutti felici e legati ad una persona a cui s’imponeva di non pensare.
L’immagine di Manuel in piedi sul molo, stretto nella sua giacca di pelle in una giornata di primavera la investì in pieno, per un attimo vide il mondo attorno a sé barcollare, strinse le mani attorno alla pietra del balcone. Sentì lo smalto scheggiarsi e le dita pulsare, prima di inspirare a fondo l’odore così familiare e crudele del lago che la riportò alla realtà.
Ora che i suoi genitori avevano lasciato Verona per andare ad abitare Lazise, il lago lo vedeva molto più spesso, non era più qualcosa di eccezionale e legato solo a momenti di festa, adesso quell’odore accompagnava le passeggiate domenicali con suo padre e le chiacchiere di sua madre.
Guardò l’acqua scura ancora una volta per poi darle le spalle, il capogiro era certa fosse dovuto al sole che le martellava sulla testa e decise di trovare un angolo all’ombra per fumarsi una sigaretta al riparo dagli occhi di Cici, Laura, sua madre, suo padre, Jack e pure Tommy, tutti convinti che avesse smesso.
Adocchiò una panchina alla fine di un pergolato in pietra dall’aria molto antica, ma appena svoltato l’angolo, una terribile visione si palesò a pochi (troppo pochi) centimetri da lei. Non ebbe nemmeno il tempo di spaventarsi, perché immediatamente lo riconobbe e maledisse il Karma, Fato, Destino o che dir si voglia.
Lui, Manuel, in tutto il suo fulgido e melodrammatico stupore, era in piedi di fronte a lei.
Era chiaro che avesse puntato la sua stessa panchina e con le sue medesime intenzioni, visto il pacchetto che teneva già in mano. Ed era altrettanto chiaro che fosse entusiasta quanto lei del loro incontro.
Ora voltarsi ed andarsene senza neppure guardarlo in faccia sarebbe stata un’ammissione di debolezza troppo palese, il suo orgoglio avrebbe piagnucolato per giorni e lei aveva già abbastanza problemi di piagnistei interiori; rimanere invece l’avrebbe resa una persona civile, educata, disinteressata e con un’ulcera di proporzioni cosmiche. Il dilemma era notevole.
Manuel la tolse dalle grane facendosi indietro di un passo e cedendole il posto a sedere con un gesto teatrale. A dirla tutta, ci sarebbero stati entrambi su quella panchina, ma il rischio di contaminazione con l’altro era troppo elevato.
- Bel vestito -
Alice si stupì e rimproverò quando si accorse che quel commento le aveva fatto piacere. Aveva scelto con cura quel vestito e sapeva che uno come lui l’avrebbe apprezzato. Era un bel tubino monospalla verde menta di Versace che le era costato un occhio della testa, pulito, lineare e senza fronzoli, lungo appena sopra al ginocchio e abbastanza largo da nascondere le sue curve ossute.
- Grazie, anche il tuo. Cos’è, Calvin Klein? -
- Non so, me l’ha preso Kate -
Non c’era imbarazzo in quella dichiarazione, ma solo il tono incolore che ricordava dei suoi momenti grigi.
Le venne istintivo chiedergli cosa ci facesse là, lontano dal fulcro della festa, dalla sua fidata Kate, da suo padre e da Filo, ma lui avrebbe potuto farle la stessa scomoda domanda, quindi si trattenne e accese la sua sigaretta sottile. Una volta lui la prendeva in giro per quelle stupide sigarette light.
Manuel rimase in piedi, imitando i suoi gesti ad una distanza di sicurezza, la guardava a tratti, ma spesso scostava lo sguardo verso la vegetazione attorno a loro. Il silenzio tra loro per una volta non fu imbarazzante ma solo carico di aspettative.
- È un bel posto per un matrimonio, no? –
Davvero le aveva fatto quella domanda? Voleva davvero parlare della location?
- Direi di sì – tentennò, incerta su come affrontare la situazione.
Caddero in un nuovo silenzio e, per la prima volta dopo molto tempo, si sentì completamente indifesa davanti ad un uomo.
- Lo so che mi odi e ne hai tutte le ragioni, ma è strano per me come per te -
- Cosa? -
- Essere qui, rivedere questi posti, parlare con tutti. Vedere te. - Come sempre quando doveva parlare di sé, era a disagio e non la guardava in faccia - Non sono venuto per litigare, ma per Jack -
Di questo doveva dargliene atto, non l'aveva cercata, né infastidita o aveva tentato di minare volontariamente il loro equilibrio. Si era comportato in modo ineccepibile, perlomeno fino ad ora.
- Quindi? Che dovrei fare, comportarmi come se non ti conoscessi? O preferiresti essere il mio amico del cuore... Non so, vuoi che ti racconti la mia giornata? -
- Non lo so, però potresti cominciare col raccontarmi come mai sei qui da sola, non a festeggiare con le tue amiche -
Eccolo lì, Alice lo aspettava al varco, non poteva essere scomparso il Manuel pieno di sarcasmo e veleno, sotto chili di falsa cortesia; infatti ora la guardava con un sopracciglio alzato e un ghignetto sghembo che le fece saltare un battito.
- Potrei farti la stessa domanda... - cercò di darsi un tono con tutta l’astuzia del suo arsenale.
- A quel punto fingerei di non aver sentito e ti farei un'altra domanda, ancora più specifica, per esempio perché stai evitando sia tua madre che la bionda? -
Colpita e affondata. Se non avesse avuto ventinove anni, si sarebbe alzata pestando i piedi e se ne sarebbe andata a leccare le ferite del suo orgoglio dolente, invece rimase e nemmeno abbassò lo sguardo, si limitò a stringere i denti e ingoiare il rospo.
Lui si era dimostrato aperto e diplomatico e lei non sarebbe stata da meno. Ne andava della sua sanità mentale, a quel punto.
- Argomento neutro? – propose, scrollando la cenere lontano dai suoi sandali neri.
- Mi sembra un ottima idea - le fece eco con il suo stesso tono compiaciuto e sottilmente acido.
Alice si prese un attimo per cercare qualcosa che non avrebbe tirato in ballo vecchie storie e al tempo stesso che di cui le importasse davvero avere una conversazione con lui. Le venne in mente l’unica cosa che non odiava di Manuel: suo padre.
- Tuo padre adesso sta bene, direi? Jack mi ha detto che l'anno scorso ha avuto problemi di salute, ma mi sembra in forma -
- Sì, è svenuto al lavoro e mi hanno chiamato dall’ospedale, all'inizio credevano fosse un infarto o qualcosa di simile, invece si è risolto tutto bene era solo un po’ di affanno; deve fare la dieta per ridurre il colesterolo e prendere degli integratori, ma si è già rimesso a lavorare. I tuoi? -
- Drammi familiari a parte, stanno bene, hanno venduto casa e si sono trasferiti a Lazise quando mio padre è andato in pensione. Ora sono sempre in giro, lui fa delle consulenze a volte, ma praticamente vivono al Golf Club e alle terme -
- Una vitaccia, insomma... -
Le strappò un sorriso.
- E la madre di Charlie? -
Si era aspettata quella domanda, visto che erano in argomento.
- Te l’ha detto Jack? -
- No, Laura e Cici, mi hanno solo detto di non chiedergli dei suoi, soprattutto di lei -
- Tumore al seno, gliel’hanno diagnosticato a Natale e a Pasqua è morta. È una ferita ancora molto aperta, meglio se non accenni alla cosa. Anzi, dillo anche a Kate -
Manuel annuì, tirando l’ultima boccata di fumo.
- Per questo sta a Milano? -
- No, viveva già là, ma ora lui e suo padre non si parlano più -
Di nuovo cadde il silenzio e di nuovo non se ne sentì schiacciata, ma avvolta come in una coperta.
Entrambe le sigarette erano finite e con loro anche le scuse per rimanere lì. Era tempo di rientrare nel mondo reale.
Si alzò, ritrovandosi a meno di un metro da lui, e si sorprese a sperare in un suo gesto galante come era stato finora.
-Torniamo insieme o dici che rischiamo di far venire un colpo a Jack?-
Manuel inaspettatamente le porse il braccio con un lieve ghignetto e lei lo accettò, pur evitando di stringersi troppo a lui.
-Ma sta’ zitta! Ti è sempre piaciuto dare spettacolo! -

And I don’t wanna live that way…

La cena era stata gradevole.
Era stato un sollievo leggere sulla disposizione dei posti che lui e Kate sarebbero stati seduti al tavolo con tutti gli amici e i testimoni, aveva temuto che si sarebbe ritrovato a sopportare parenti sconosciuti per tutta la sera; al contrario, arrivare al tavolo e scoprire che i posti erano stati assegnati gli fece drizzare i peli sulla nuca. Cici però non era stata tanto sadica da metterlo vicino ad Alice, era seduto tra Kate e Filo e di fronte a lui c’erano Paolo e Lori, il fratello di Laura.
Avevano mangiato bene e fin troppo, nel menù quasi completamente a base di carne c’era stata l’evidente intromissione di Jack, che aveva reso la cena più conviviale e meno composta, inoltre si erano avvicendate sul tavolo parecchie bottiglie di vino, tanto che Filo aveva perso tutta l’aplomb di elegante fratello dello sposo, per lasciare il posto a grasse risate in maniche di camicia e guance arrossate.
Kate si era destreggiata alla grande nelle chiacchiere di vecchi amici e raramente l’aveva interpellato per qualche traduzione, era stato lui ad essere il meno comunicativo, aveva preferito stare ad ascoltare più che esporsi, rispondeva alle loro domande, ma non si era gettato a capofitto in nessuna conversazione. Non era abbastanza lontano da non sentire Alice parlare, un paio di volte si era messo ad ascoltare solo lei, imponendosi però non di non guardarla. In fin dei conti non era andata tanto male, aveva temuto ben peggio; tutto era precipitato con l'arrivo della madre di Alice al tavolo. Con la scusa di salutare la figlia e i suoi amici si era accomodata tra loro e non dava segno di volersene andare. Mentre tutti stavano ascoltando aneddoti di lavoro da Alice, sua madre aveva tentato di dirottare la conversazione su altro con scarso successo, sopratutto dopo l'annuncio che a fine estate sarebbe andata all'estero due settimane per un lavoro.
- Davvero a settembre vai in Corea? - domandò Charlie perplesso, si era dimostrato il più curioso di tutti. Manuel avrebbe voluto ringraziarlo perchè stava ponendo le stesse domande che avrebbe posto lui, permettendogli così di avere molte informazioni senza esporsi.
- Sì, con il capo -
- E cosa andate a fare fin là? - intervenne Paolo, mentre Alice rispondeva seduta sulle ginocchia di Jack, visto che sua madre aveva occupato la sua sedia.
- C’è l’inaugurazione del progetto su cui ho fatto la tesi nello Studio: il sistema di arresto d’emergenza di una trivella enorme per una piattaforma d’estrazione -
- Hanno invitato pure te? Il tuo capo ci tiene molto, eh?-
Alice sghignazzò all’espressione di finta malizia di Charlie.
- No infatti, hanno invitato lo Studio e Albertini, che ha concluso il progetto, io ho fatto una minima parte. È lui che ha deciso di portarmi -
Gli uomini della tavolata si guardarono allusivi e anche Manuel non poté che pensarla come loro: perché questo Albertini avrebbe dovuto portarsi l’ultima arrivata? Solo per mostrarle il loro lavoro?
- Quanto siete prevenuti... porta me perché sono quella che parla meglio inglese, non è la prima volta che li accompagno per fare soprattutto da traduttrice. In più paga tutto la Samsung: aereo, alloggio, auto privata, quindi non è un gran sacrificio per lui -
- Come la Samsung? -
- La trivella l’hanno costruita loro a Seul, poi hanno commissionato a vari studi in giro per il mondo la progettazione dei singoli componenti -
Rimasero quasi tutti a bocca aperta, forse nessuno sapeva sul serio in cosa consistesse il lavoro di Alice e quanto fosse progredita nel tempo. Certo, la sua aria da svampita sempre in tiro non aiutava, però come aveva imparato grazie a Missy la gothic queen, sul lavoro era ancor più importante non sottovalutare i colleghi per l’apparenza.
- Che donna in carriera! - la canzonò Jack, molestandola un po’, ora che era sulle sue ginocchia.
Inaspettatamente però a qualcuno tutto quell’entusiasmo non era piaciuto; la madre di Alice la guardò di sbieco, poi col suo miglior tono al vetriolo replicò ai loro complimenti.
- Sì, ma nessuno guarda l’altra faccia della medaglia. Lavora solo in mezzo a degli uomini che la guardano come se fosse una bistecca, passa giorno e notte davanti al computer. Lo sapete che ora deve portare gli occhiali da riposo? In più, come se già non fosse un osso, si dimentica di mangiare, di bere e persino di pettinarsi; non che le serva visto che non ha vita sociale, non esce mai, non porta mai uno straccio di fidanzato e non oso immaginare da quanto non abbia un appuntamento. Ha i muscoli flaccidi come una cinquantenne perché non ha tempo per la palestra e la pelle secca e comincia già ad avere le zampe di gallina. Se a voi sembra normale? -
Rimasero tutti ammutoliti da quella piazzata, anche Filo, che fingeva di sghignazzare per sdrammatizzare, si guardava intorno allarmato in cerca di consensi. Manuel cercò immediatamente lo sguardo di Alice, ma la trovò di spalle impegnata a sistemare la cravatta allo sposo.
Paolo ebbe la prontezza di rispondere a tono.
- A me non sembra così male e scommetto che se volesse un appuntamento non faticherebbe ad averlo. Anzi, già che ci siamo, cosa fai Ali venerdì sera? -
In evidente imbarazzo, Alice ne approfittò per alzarsi, allontanarsi da sua madre e saltellare fino in braccio a Paolo, proprio di fronte a Manuel, per abbracciarlo e fingere di flirtare con lui.
Anche gli altri uomini intervennero per sostenerla come potevano, Filo la reclamò come compagna di uscite e Lori si lamentò di essersi sposato troppo giovane.
- Ah, se non fossi sposato Ali... -
- Ehi e io? Rossa, anch’io voglio uscire con te, ci vuole un diritto di precedenza per anzianità - Andrea Pasini intervenne dal fondo del tavolo, dove era stato impegnato ad intrattenere Tommy e le sue macchinine.
-Visto, mamma? Mi basta schioccare le dita - Alice mulinò i capelli in aria e sorrise maliziosa a Paolo, che scoppiò a ridere come tutti quanti, Manuel compreso.
Ormai era certo che Alice non avesse detto nulla ai suoi sulla loro separazione, altrimenti in quell’arringa di accuse sarebbe finito pure lui. Era stata sua “suocera” per tre anni, conosceva abbastanza quella donna da sapere che, se avesse conosciuto tutta la verità, non si sarebbe certo lasciata sfuggire l’occasione di insultarlo o addirittura flagellarlo pubblicamente.
Eppure quella scenetta non servì a placare l’animo della signora Aroldi.
- Non giustificatela così: le ragazze della sua età non dovrebbero andarsene in giro per il mondo con il proprio capo, per di più sposato, ma impegnarsi a trovare un marito e pensare a farsi una famiglia, e non a rincorrere il lavoro, riducendosi uno straccio come lei. Quando deciderà di abbassarsi al livello di noi comuni mortali e capirà di non poter stare da sola per sempre, sarà troppo tardi e i migliori saranno già presi. - Stavolta aveva parlato con sprezzo, ignorando la presenza della figlia umiliata. Nessuno osò ribattere, una parte troppo sconvolti per quelle dichiarazioni, l'altra consapevoli dell'inutilità del loro intervento.
Con l’abilità della consumata attrice che a tutti gli effetti era, Alice si dileguò in un batter d’occhi, senza far capire che stava fuggendo. Guardò infatti sua madre dritta negli occhi e sospirò teatrale.
- A quel punto mi troverò un vecchio miliardario straniero da spennare, lo ammalierò con le mie grazie e infine lo ucciderò dopo essermi fatta intestare tutti i suoi beni - Strappò a tutti una risata e, avendoli distratti sagacemente, si ritirò con la scusa del bagno. Sua madre la guardò sparire, ma rimase ancora al loro tavolo a chiacchierare con Laura e Cici. Alla fine era riuscita anche ad inchiodare lui alla sedia con una scusa; fu solo per rispetto a sua figlia e al garbo in cui aveva coperto il modo meschino con cui l’aveva abbandonata anni prima, che non la insultò per le parole inopportune che aveva rivolto alla ragazza.
Come poteva sua madre essere così cieca da non vedere come le brillassero gli occhi a parlare del suo lavoro? Come poteva spingerla verso una vita che l’avrebbe vista sprecata in un ruolo diverso da quello che era suo dalla nascita? Come si poteva essere così tanto egoisti verso i propri figli?
Giurò a se stesso che non sarebbe mai diventato un genitore, pur di non vedere sui suoi figli l’espressione di Alice.
Rispose educatamente a tutte le sue domande, sorrise a tutti i suoi complimenti, i suoi “Che bell’uomo che sei diventato” “Ma come sei bello, se solo fossi più giovane…” e glissò su tutti i suoi tentativi di sapere se fosse sentimentalmente impegnato. Se solo avesse osato dire che sua figlia era stata stupida a lasciarselo scappare, non avrebbe più risposto di sé, ma la donna, forse per caso o per saggezza, non disse nulla e si dileguò infine verso gli sposi.
I commenti di Kate (che prevedibilmente aveva origliato tutto) non furono esattamente gentili e per fortuna ebbe l’oculatezza di farli in inglese.
- Quella donna è pazza! Qualcuno dovrebbe dirle che i matrimoni combinati non vanno più di moda -
- Non essere meschina - le rispose con condiscendenza.
- Io? Ma l'hai sentita!? -
- E' solo una madre che vuole proteggere sua figlia, solo che non sa rispettare le sue scelte -
- Oh certo, ed ora probabilmente sua figlia si sarà infilata nel primo angolo a piangere di vergogna perchè sua madre è una stronza -
L’arrivo di Tommy al tavolo portò la fine della conversazione.
L’attenzione di tutte le donne fu catalizzata da quel mostriciattolo sorridente e impiastricciato di colori a cera fino alle orecchie. Era buffissimo come la sua camicetta azzurra, i pantaloncini eleganti e la bretelle coordinate, scorrazzava intorno al tavolo in cerca dell’attenzione di chiunque gliela concedesse. Il primo a prenderlo in braccio fu Filo, che lo fece giocare con cucchiai e cucchiaini; in un attimo il tavolo era stato sgombrato da tutti gli oggetti pericolosi ed era diventato a prova di bambino. Tommy ovviamente si stancò presto di quelle banali posate e tirò fuori le sue fidate macchinine, improvvisando una corsa attorno ai piatti. Quando si scontrò con la mano di Manuel, lo guardò prima imbronciato, poi riconoscendolo esplose in un ululato che vagamente ricordava “tio nanuuuu” e allungò le braccette corte e grassocce per farsi prendere in braccio da lui. Con qualsiasi altro bambino si sarebbe ritratto inorridito, ma a quel terremoto urlante era ormai abituato; lo tenne un po’ sulle sue ginocchia e rispose alle sue incoerenti domande sul perché avessero tutti la cravatta o su quando sarebbe arrivato il dolce, fingendo di non vedere le facce stupite del resto del tavolo. Fu in realtà Kate ad intrattenerlo e giocare con lui, Manuel si limitava a tenerlo sulle gambe, evitare che ruzzolasse giù e a corromperlo con il cibo sotto le occhiatacce di Cici, quel bambino un giorno sarebbe esploso visto che mangiava le stesse quantità degli adulti e in continuazione.
Non ci volle però molto perché si stancasse di loro e reclamasse la sua mamma con aria assonnata, e anche Manuel decise che era tempo di sgranchirsi le gambe e andare in bagno, in modo da controllare la mail lontano dall’occhio di falco di Kate.
Scese al piano inferiore, dove trovò un cameriere che gli indicò la toilette.
Quell’ambiente aveva evidentemente subito una ristrutturazione più recente, perché cozzava con il resto della villa, aveva pareti coperte di piastrelle a mosaico nere e grigie che formavano una cornice attorno all’enorme specchiera e ai due lavandini neri incassati nel marmo. C’erano due cabine proprio di fronte allo specchio senza distinzione di genere, per sua fortuna solo una era occupata.
Dopo aver finito col bagno, si lavò le mani e, proprio mentre stava per aprire la porta, una grossa imprecazione lo raggiunse dal cubicolo occupato. Si voltò basito, era una voce di donna che aveva appena mandato a far in culo il vuoto, una voce che conosceva.
Si scostò dalla porta per guardare le scarpe dell’occupante della toilette ed ebbe tutte le sue conferme: un paio di sandali da donna neri con il tacco altissimo e l’allacciatura alla caviglia.
- Alice? -
La risposta fu un brontolio indistinto e un “Cazzo!” sommesso che lo fece ridere.
- Che diavolo ci fai lì? -
Stavolta la risposta non si fece attendere e fu chiara e decisa.
- Vattene -.
Manuel nemmeno prese in considerazione l’idea, conosceva abbastanza Alice da sapere cosa fosse andata a fare là dentro e soprattutto quanto avesse bisogno di parlare, nonostante lui fosse l’ultimo della lista di quelli disposti ad ascoltarla.
- Ti mando Laura? – domandò, fingendo di aprire la porta ed uscire.
La cabina si aprì all’improvviso e la ragazza lo travolse, prima di capire che fosse solo un bluff per farla uscire, peraltro riuscito alla perfezione.
- Stronzo - mormorò davanti all’espressione trionfante del ragazzo.
Non c’era stato bisogno di chiederle quale fosse il problema , sua madre era stata abbastanza esplicita nel mostrarlo a tutti e lei aveva tutte le ragioni di sentirsi una merda.
- Non è cambiata di una virgola! -
Capì di aver detto la cosa sbagliata appena la vide alzare la testa di scatto e incontrò i suoi occhi iracondi.
- Magari lei no, ma sono cambiate molte cose e tu non sai nulla, quindi vedi di non impicciarti in affari che non ti riguardano -
Era evidente che avesse colpito un nervo scoperto, l’aveva fatta incavolare e in effetti si era immischiato in affari non suoi, ma saperla sola chiusa in quel bagno era stato troppo, non era riuscito ad ignorarla.
- È vero non mi riguarda, ma tu non dovresti darle ascolto, se non è ciò che vuoi - si era impercettibilmente allontanato da lei, come da un fuoco che brucia alto e ti scalda troppo la pelle.
- È mia madre, Manuel, e tu non hai più alcun diritto di parola su tutto ciò che mi riguarda. Vattene, è meglio -
Avrebbe fatto bene ad ascoltarla, a non seguire il suo istinto, a stare zitto e rimpiangere i suoi errori; invece era un maledetto idiota e si fece prendere la mano vedendola tanto alterata.
- Sono ancora la persona che ti conosce meglio di tutti questi, è inutile che fingi che non sia così -
Alice vide rosso, probabilmente perché la sua espressione mutò da alterata a fuori di sé in due secondi, forse l’aveva spinta troppo oltre il limite, visto che secondo i calcoli non si sarebbero nemmeno dovuti parlare.
- Come ti permetti? Tu non sai nulla, non mi conosci nemmeno. Credi di avere ancora il diritto di giudicarmi, di parlarmi o anche solo di guardarmi? Tu non sei più nessuno, hai perso tutti i tuoi diritti il giorno in cui te ne sei andato senza una spiegazione. Non mi conosci -
Era partita urlandogli in faccia, poi pian piano aveva abbassato il tono e lo sguardo, si era appoggiata con una mano al lavandino come se non avesse più avuto la forza e la voglia di tenergli testa. Eppure per un attimo aveva visto la vecchia Alice, quella che una volta l’aveva stregato con i suoi occhi azzurri e limpidi.
Era questo che nascondeva la sua maschera? C’era ancora in fondo la vecchia Alice o questa era solo l’ennesima maschera, come nelle scatole cinesi?
Dopo essersi sciacquata le mani nel lavandino, l’aveva sfidato di nuovo con quella sua aria adirata, viva e vera finalmente, ed era così vicina che se avesse alzato una mano, avrebbe potuto toccarla senza difficoltà.
Non aveva resistito. Non aveva pensato.
Lei era lì, così incazzata con lui, coi capelli scompigliati le guance rosse e il fuoco negli occhi. Ed era così bella. Così diversa da come l'aveva ritrovata e così simile a come l'aveva lasciata.
E l’aveva baciata.

Make out like it never happened…

Improvvisamente e contro ogni logica la stava baciando.
E lei, come ipnotizzata e contro ogni logica stava rispondendo.
C’era quel sapore familiare, qualcosa a cui non sapeva dare un nome o una collocazione, non avrebbe saputo descriverlo fino ad un attimo prima, ma era lì nella sua memoria e lo riconobbe subito.
E c’era il profumo, l’odore della sua pelle, anche quello era qualcosa di conosciuto, anche quello non era cambiato.
E c’era la sua barba che le sfiorava la guancia e il mento, dopo di lui non aveva più avuto uomini che la portassero un po’ incolta come lui, li aveva evitati.
E c’erano le sue mani posate sulle braccia, calde, più del caldo opprimente di luglio, più dell’afa di quella notte d’estate.
Ed era ipnotico, deciso, coinvolgente, non irruento com’erano troppi uomini, anzi lento, quasi calcolato.
Le saltò immediatamente in gola lo stomaco, insieme al cuore, ai polmoni, ai reni e a tutto il resto, c’era talmente tanta roba nella sua gola in quel momento che si dimenticò di respirare e persino il suo cervello per un attimo si dimenticò di scappare.
La stava baciando davvero?
Tutto si riaccese come una luce accecante davanti ai suoi occhi e lo spinse via senza troppa premura.
- Che cazzo ti salta in mente? -
L’aveva baciata? Era impazzito, drogato, intossicato, pagato?
- Non lo so, scusa, non volevo... -
Si stava anche scusando? Voleva davvero far nevicare a luglio?
- Sei impazzito? - le tremavano le mani, la voce e lo stomaco. Ma soprattutto il cuore.
Era freddo ora che lui era fuggito ad un metro da lei, e ora che le sue mani non la stringevano più.
Non ebbe il coraggio di guardarlo in faccia, anzi l’unica cosa che riusciva a guardare era la porta d’uscita, terrorizzata che qualcuno entrasse e li trovasse in quell’equivoco momento.
- Non… noi non dovremmo, dobbiamo stare qui, soli. Tu - alzò gli occhi e tutto quello che avrebbe voluto dirgli, ovvero di andarsene da lì altrimenti non avrebbe risposto dei suoi ormoni e del suo fottuto corpo, le passò di mente, perché lui la stava guardando. Anzi non la stava semplicemente guardando, la stava spogliando delle sue difese, e svuotando e calpestando e mangiando con quei suoi dannati occhi neri.
E lo vedeva che anche lui era confuso e a disagio, forse anche un po’ in imbarazzo, ma non le toglieva gli occhi di dosso, proprio come una volta se erano insieme nella stessa stanza, li sentiva sempre su di sé, ed era certa che se l’avesse guardato lo avrebbe trovato a fissarla.
Il cuore le impazzì ancor di più nel petto e si lanciò senza controllo verso la sua bocca.
Voleva abbracciarlo, stringerlo, baciarlo, sentirlo con ogni cellula del suo corpo, e al di là di ogni domanda, contro ogni logica, il suo odore, il suo sapore, la sua pelle e il suo respiro urlavano “casa” dentro lei.
Si fece baciare con foga questa volta, e stringere contro la sua camicia, lasciò che le sue mani ritrovassero il loro posto e si fece spingere dentro la toilette che fu lei a chiudere a chiave.
Gli allentò la cravatta e accarezzò il collo, lo morse, lo baciò mentre le mani di lui esploravano la sua schiena e i suoi fianchi con la frenesia di un pazzo. Cercò la sua lingua e chiuse gli occhi mentre le baciava la gola, le clavicole e il lobo delle orecchie. Lo fece sbattere contro il divisorio di legno e lui le afferrò la nuca per inclinarle la testa a suo piacimento. Le sue dita tra i capelli e la mano sulla schiena si muovevano senza sosta, come alla ricerca di qualcosa.
Era un déjà-vu dannatamente reale, e letale, sbagliato, sporco, ma non riusciva a smettere di baciarlo, di desiderare le sue labbra, non riusciva a trovare la forza di cacciarlo via, di scappare.
Era passato così tanto tempo che credeva (sperava) di non ricordare nulla, né la sensazione di essere afferrata con possesso dalle sue mani, né i brividi del suo respiro sulla guancia, né i suoi occhi piantati addosso; e c’era ancora quel neo dietro all’orecchio e la cicatrice sul labbro che una notte di tanti anni prima li aveva fatti ritrovare, o il modo strano con cui arricciava il naso quando gli mordeva la mandibola.
Le mani di Manuel le scivolarono fino oltre l’orlo del vestito sulle cosce nude, lei sapeva cosa sarebbe successo ora, l’aveva già vissuto mille volte con lui, le avrebbe sollevato il vestito e l’avrebbe afferrata perché allacciasse le gambe a lui. D’istinto si aggrappò al suo collo con un braccio e l’altro lo posò sul suo pettorale e sotto le dita, oltre la stoffa, la pelle, il muscolo, le ossa e mille altri strati incontrò il battito del suo cuore impazzito.
E tutto tornò reale.
Che diavolo stava facendo?
Quello era Manuel, Manuel che l’aveva vista sotto tutte le sue maschere, Manuel che l’aveva spogliata delle sue difese, Manuel che aveva amato, Manuel che con cui aveva sognato, Manuel che era stato tutto, Manuel che l’aveva illusa, Manuel che l’aveva abbandonata, Manuel che era sparito, Manuel che amava.
Si staccò e lo spinse via con tutta la forza che aveva, non si fermò a guardare la sua espressione né a dare spiegazioni. Aprì la porta e corse via.


Lui rimase lì, come le mani tra le quali prima c’era stato il corpo di lei immobili nell’aria, e seppe che da quel momento niente sarebbe stato più lo stesso.























Inutile spazio autrice:
Incredibile ma vero sto aggiornando di pomeriggio e non a notte fonda. Quasi quasi aspetto un altro paio di orette.
Pochi piccoli chiarimenti:
-So di avervi provocato uno shock narrativo -come mi ha detto Sandra alla prima lettura- ma non fermatevi alle apparenze, Alice non è impazzita
e non ha solo voglia di una sveltina. E' stata presa in contropiede dall'andamento della giornata, lei lo odia ma non ha nulla a cui appellarsi sul
momento poichè lui si è comportato in modo pressochè perfetto. Ci sarebbero mille altre sfaccettature da indagare ma non sto qui a farvela lunga
sul perchè e il percome le cose vadano così. Sono così punto, fatevene una ragione.
-Il viaggio a Seul nasce dalla concomitanza tra la mia passione per megacostruzioni e il kpop, non chiedetemi come le cose vadano di pari passo...
-Filo e Alice so che molti non apprezzeranno, e non crediate che la cara signorina sia stata a piangersi addosso dopo esser stata mollata, anzi.. Filo era solo al posto giusto nel momento giusto. Per espereinza personale so che le amicizie forti non finiscono ne rimangono senpre uguali a se stesse, semplicemente mutano insieme a noi, così è accaduto tra Filippo Alice e Jack.
-La canzone che intervalla il capitolo (in modo inopportuno direte voi) è Someboby that i used to know di Gotye, canzone secondo me sottovalutata. E' diventata troppo commerciale e questo ci impedisce di far attenzione al testo, a me piace molto ed mi ha ispirato durante la stesura in più momenti.
Seguendo l'ondata di crisi che ci sta travolgendo tutti, neanche fosse una moda, ho perso uno dei molti lavori che stavo facendo. Ora ho più tempo (anche se spero non per sempre) per scrivere, so che almeno a voi la cosa farà piacere.
Vorrei ringraziare Mirror1695 e Lunedì74 per le splendide recensioni che mi hanno lasciato, confesso: ho pianto.
Come al solito: Grazie Sandra. Punto, altre parole sarebbero superflue. 
Come sempre su fb sono Fuori Target Efp, venite e torturatemi a dovere per la mia accidia.
1bacio.Vale

SI ERA INCASINATA LA FORMATTAZIONE, ORA HO RISOLTO... SPERO.


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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


cap1


Travolti da un insolito destino




Capitolo 6






 



All my life I've been searching for something

Something never comes, never leads to nothing


Erano stati costretti a rimanere fino alla fine, finché anche l’ultimo degli invitati non se n’era andato, dal momento che erano in macchina con Filo e lui continuava a sostenere che i testimoni dovessero essere gli ultimi ad andarsene. Ed era pure fottutamente ubriaco.

Gli sposi se n’erano andati dopo le tre, alla volta della suite che li aspettava in un hotel super lusso; avevano mollato la prole ai nonni e si erano defilati sghignazzando, mentre il resto degli invitati continuava a ballare in giardino.

Manuel aveva stretto i denti, aveva evitato Kate, ignorato Filo e si era seduto di fianco a suo padre, col quale aveva chiacchierato del più e del meno. Lui non gli aveva fatto domande e di questo gli era estremamente grato. Aveva stretto i denti ed era fuggito da Alice per tutto il tempo.

Poi l’agonia era finita, gli ospiti erano scomparsi e tutti pian piano erano tornati alle loro dimore. Manuel aveva guidato fino a casa Zonin, trascinato Filo nel suo letto, poi aveva raggiunto Kate nella loro stanza. Si era chiuso in bagno e sfilato ad uno a uno i pezzi del completo, pensando alle mani che avevano accarezzato quella stoffa.


Nothing satisfies, but I'm getting close

Closer to the prize at the end of the rope


Aveva male ai piedi, un male cane, e nonostante questo benediva quelle scarpe ogni minuto. Le facevano talmente male da distrarla da tutto il resto. Non esisteva altro nel suo cervello che non fosse il dolore martellante alla pianta dei piedi.

Come prevedibile era stata costretta a rimanere fino all’ultimo, era la testimone della sposa, il suo compito era accompagnarla in bagno e tenerle il vestito, ricordarle i nomi anche dei parenti più lontani, evitare che si spiaccicasse la torta ai mirtilli sulla gonna e ricordarle ogni minuto che sua suocera la stava guardando.

Alice aveva stretto i denti, si era imposta di camminare nonostante il dolore atroce, perché quello le impediva di pensare e sprofondare nella sua agonia. E aveva sorriso a tutti, a Filo che continuava a chiederle se voleva una fetta di torta, a Laura che la punzecchiava, a sua madre e a Kate che dava segno di aver capito che qualcosa non andava. Aveva stretto i denti ed evitato Manuel fino all’ultimo.

Era arrivata a casa stanca morta, si era levata le scarpe prima ancora di raggiungere l’ascensore e, appena entrata, le aveva scaraventate in salotto. Era incazzata nera con se stessa, ma troppo distrutta per autopunirsi in alcun modo, quindi si era spogliata, struccata e lavata lentamente, fissando con odio la propria immagine riflessa nello specchio.


Entrambi si erano coricati con la certezza che non avrebbero chiuso occhio, entrambi troppo sconvolti da quanto successo, sconvolti nello scoprire come l’altro facesse ancora battere così forte il cuore.


La domenica era il giorno del riposo del guerriero, l’unico giorno libero della sua settimana e di norma finiva per passarlo a farsi torturare a casa dei suoi genitori. Questa volta, invece, era ben decisa a goderselo.

Avendo passato quasi tutta la notte in bianco, si era concessa di oziare nel letto fin oltre mezzogiorno, poi si era alzata, solo per posizionare a distanza di braccio tutto ciò che le serviva per sopravvivere (cibo, acqua, telecomando, computer e telefono) ed era tornata a rifugiarsi tra le lenzuola.

Lo stato larvale era stato raggiunto alle sesta puntata consecutiva di Jersey Shore e al secondo barattolo di gelato alla crema. Tutto pur di non pensare a quanto successo.

Si era data dell’idiota per tutta la notte e non era bastato a mortificare abbastanza il suo povero orgoglio, aveva fumato, tanto, come non faceva ad anni, sperando che almeno la nicotina l’aiutasse. Lo sapeva, lo sentiva che il passaggio di quel... essere non avrebbe portato che disastri nella sua vita, l’aveva detto a Cici che non era un bene per lei incontrarlo, che alla fine sarebbe successo qualcosa di melodrammatico, e così era stato.

Si erano baciati, che diamine, baciati. Dopo sei anni. Dopo tutto quello che le aveva fatto passare come le era venuto in mente di baciarlo? Come era venuto in mente a lui di baciarla?

Tra tutte le emozioni che vorticavano nella sua mente, la vergogna era quella con la percentuale schiacciante. Non verso di lui, né verso gli altri, che tanto non sapevano e mai avrebbero dovuto sapere, ma verso se stessa: aveva tradito tutto ciò che si era imposta e per cui aveva lottato per sei anni.

Il lunedì era tornata al lavoro, dopo una serata passata ad ignorare le richieste d’attenzione di Filo, le richieste di spiegazioni di Laura e la richiesta d’amicizia su Facebook di Kate.

Quella mattina aveva acconsentito ad vedersi per colazione con Laura. La proposta non l’aveva stupita granché, già dalla sera del matrimonio aveva notato gli sguardi dell’amica su di sé, era prevedibile che avesse capito che qualcosa fosse successo.

Eppure, quando si era trovata di fronte alle domande dell’altra si era bloccata e non aveva aperto bocca, vigliaccamente aveva finto di ricevere una mail dall’ufficio per delle questioni urgenti e se n’era andata di corsa.

Arrivata al lavoro si era sentita finalmente al sicuro, per tutta la giornata aveva fatto chiari e rassicuranti calcoli per prove di tenuta. I numeri erano sempre stati sui alleati, perché non mentivano, né impazzivano, erano chiari e lineari, non c’era nulla di inaspettato nei numeri facevano, solo ciò che veniva loro richiesto, non baciavano a tradimento. Salvatore l’aveva guardata storta un paio di volte davanti alla sua isteria per banali dati da inserire in un programma, l’aveva vista scaraventare i sandali blu con tredici centimetri di zeppa in un angolo e vagare per la stanza scalza; per pranzo si era persino rifiutata di scendere in mensa con la scusa di dover fare delle telefonate, e quasi con la forza l’aveva costretta a mangiare mezzo tramezzino per non vederla svenire - fatto per altro già avvenuto.

Alla trentesima volta in cui le aveva rivolto la stessa domanda, aveva che quella sarebbe stata l’ultima.

- Ok, non te lo chiederò più, quindi se vuoi parlarne questa è la tua ultima possibilità. Alice, è successo qualcosa di cui vuoi mettermi al corrente? -

L’aveva guardato per la prima volta indecisa, le altre ventinove precedenti l’aveva solo fulminato o mandato a quel paese. Era già un bel cambiamento.

- No... cioè sì, ma -

- Ma? -

- È imbarazzante - piagnucolò e si nascose la faccia con le mani come una bimbetta.

Da tempo, Salvatore aveva capito come Alice fosse una ragazza di grandi contrasti e questo momento era uno di quelli: appariva sempre trionfale e sicura col suo metro e settanta, il sorriso radioso e lo stile sempre perfetto, invece dietro l’apparenza era tanto fragile da perdersi in due dita d’acqua.

- Parla -

- Hobaciatounmioexinuncessoalmatrimoniodeimieimiglioriamici -

- Come? - aveva capito solo ‘baciato’ e ‘amici’, ed insieme le combinazioni potevano essere esplosive.

Alice prese fiato e scoprì con le mani solo la bocca, ma non gli occhi.

- Ho baciato uno al matrimonio dei miei migliori amici -

- E allora? Te lo sei portato a letto? -

- No! - esclamò oltraggiata, liberando definitivamente il volto.

- Dalla reazione devo dedurre che c’è altro. Chi è questo tipo? Lo conosco? –

I drammi sociali della sua collega, oltre ad essere uno dei passatempi preferiti di Salvatore, erano anche ormai pane quotidiano in ufficio e li seguiva assiduamente, come fossero le puntate di un telefilm. Conosceva i personaggi a memoria e ad ogni colpo di scena impallidiva come fosse coinvolto anche lui.

Alice non rispose subito, valutò le opzioni, ma il suo collega era forse la persona più innocua con cui confidarsi. Non aveva nessuno a cui spifferare la notizia e soprattutto nessun interesse a sputtanare lei.

- E va bene, è un mio ex, uno con cui sono stata per tre anni tempo fa e col quale non abbiamo chiuso bene -

- Ok, quindi ci sono delle questioni in sospeso… e vi siete solo baciati? -

Alice tentennò.

- ...Sì -

- Ok, è un no. Ma forse non è un male, magari avete solo bisogno di sfogarvi per metterci una pietra sopra. È capitato anche a me, con una con cui ero stato un po’; per un mese ci siamo lanciati piatti e portati rancore, abbiamo risolto andando a letto insieme un ultima volta. Ora siamo amici e basta -

- Non credo che io e lui saremo mai amici e basta -

- È evidente però che qualcosa di irrisolto c’è -

Quella considerazione non la trovò impreparata. Anche lei chiaramente sapeva che tra loro c’era qualcosa d’irrisolto, anzi tonnellate di questioni irrisolte, non credeva però che sarebbe arrivato il momento di sistemarle. S’illudeva che lui se ne sarebbe andato in silenzio com’era arrivato, avrebbero accantonato la faccenda del bagno come uno spiacevole equivoco, e tutti sarebbero stati di nuovo felici e ignoranti. Non vedeva nemmeno la necessità di chiarirsi, ma gliela mostrò Salvatore.

- Vedila così, è come se tu oggi ignorassi una piccola inesattezza di dati di misurazione, andresti comunque avanti col progetto e arriveresti comunque a vederlo funzionare al simulatore; nella realizzazione, però, incontreresti tanti piccoli ostacoli, tante piccole falle che avresti potuto evitare risolvendo il problema alla radice -

Non capiva bene la metafora, soprattutto non capiva come ignorando la questione con Manuel avrebbe compromesso qualcosa in futuro. Cosa c’era da compromettere se loro non si sarebbero mai più visti, come si augurava lei?


All night long i dream of the day

When it comes around and it’s taken away

Leaves me with the feeling that i feel the most



Non ci aveva dormito la notte per quel bacio. Domenica mattina si svegliò all'alba con Kate che ronfava ad un metro da lui e l'unica cosa che gli venne in mente fu andare a correre. Infilò pantaloncini, maglietta e lasciò la tenuta pochi minuti dopo le sei alla volta delle cavedagne sterrate tra i campi.

Il sole era già sorto, ma ancora non scaldava abbastanza da essere fastidioso. Purtroppo il colore incendiato dei campi di grano gli ricordava la massa liscia e cangiante dei capelli di lei, e il cielo di un azzurro così intenso da ferire gli occhi era lo stesso delle sue iridi chiare e pulite. Era uscito per non pensare, con la musica sparata nei timpani e invece anche la natura traditrice gli schiaffava in faccia il ricordo di lei. Rimpiangeva Victoria Park e i suoi prati a pochi metri da casa, Londra e il suo cielo grigio. A casa nulla gli ricordava più lei da molti anni; all'inizio si voltava ad ogni testa rossa – Kate l'aveva conosciuta in una notte di disperazione dopo aver seguito tutto il giorno una ragazza che gli ricordava tanto Alice –, poi aveva preso ad evitarle come la peste.

Quei pensieri lo spinsero ad aumentare il ritmo della corsa, aveva bisogno di distruggersi fisicamente per non pensare a quanto era stato stupido e ridicolo ad avventarsi su di lei. A volte avrebbe davvero preferito essere un idiota come tanti, senza vergogna e senza pudore, mosso solo dall'istinto. L’avrebbe preferito, perché ora non sarebbe stato a rodersi per le conseguenze e tutte le implicazioni e le ragioni che li avevano portati lì, ma si sarebbe maledetto per non essere riuscito ad andare fino in fondo. Si diede dell'imbecille ogni due passi, finché alle sette si rese conto di essersi perso e concentrò tutte le sue energie nella ricerca della strada per il ritorno.

Quando rientrò, Kate stava ancora dormendo: ebbe tutto il tempo di lavarsi e prepararle la colazione. Sarebbero stati soli tutto il giorno a godersi quella casa enorme: gli sposi sarebbero tornati solo in serata, Filo, a giudicare dalla sbornia colossale della sera prima, non si sarebbe fatto vedere tanto presto, mentre i nonni Zonin avevano in programma una gita col nipotino e se ne sarebbero andati prima di pranzo. Quindi il dilemma della giornata sarebbe stato dire o no a Kate ciò che era successo con Alice, sempre ammesso che non l'avesse già scoperto da sola.

A colazione era ancora troppo assonnata per attaccarlo, e Manuel rise sotto i baffi quando la vide scendere con una vecchia maglietta scolorita dei Pink Floyd e i capelli ancora acconciati dal giorno prima. Dopo il pasto, si ronzarono attorno tutto il giorno in una danza ben conosciuta: con lei non poteva fingere di dormire né di dover lavorare a qualcosa sul portatile; non poteva nemmeno farsi studiare troppo dai suoi occhioni castani, perché sapeva che vi avrebbe letto chiaramente la sua tensione. La soluzione migliore sarebbe stata distrarla con qualcosa, ma non c'era molto che potesse fare senza l'auto di Filo.

Inaspettatamente, fu proprio quest'ultimo a venire in suo soccorso all’ora di pranzo. All'inizio arrivò nella cucina di Chiara per procurarsi del cibo, ma forse vedendo il silenzio tra loro, o forse visto il soggetto solo per pigrizia, si fermò tutto il pomeriggio.

Appena Kate si ritirò in giardino a prendere il sole, Filo lo attirò in giardino davanti al suo portatile con la scusa di una sigaretta.

- Non risponde al cellulare né su Facebook - brontolò il suo amico, spedendo l’ennesimo messaggio in chat.

- Chi? - lo raggiunse con due tazzine di caffè. Gli era mancato da morire il caffè italiano, quello vero, che sa di caffè e non la brodaglia scura tritura-intestino degli inglesi.

- Alice. Si sarà chiusa in casa, sperando di annegare in una vasca di vodka. - aprì la pagina di Facebook, mostrandogli una ventina di messaggi che le aveva inviato e che non avevano ottenuto risposta - Quando è così posso solo sperare di prenderla per sfinimento, altrimenti mi ignorerà fino a domani.

Lo spiò mentre rifilava un paio di insulti virtuali alla ragazza e altrettante faccine non proprio cortesi ed infine chiuse la conversazione con uno sbuffo.

Manuel aveva capito da vari episodi che tra lui e Alice si era instaurato un legame particolare, che forse era sfociato solo in un amicizia o forse no; per questo, nonostante avesse un disperato bisogno di parlare, rimase in silenzio a fumare e a contemplare le spirali di fumo disperdersi in aria. Fu l'altro a lanciargli la giusta provocazione per convincerlo ad aprirsi e la cosa lo mandò fuori di sé.

- Avanti, cosa vuoi chiedermi? -

Quando era diventato così leggibile per gli altri? Era abituato a potersi dire compreso e fiducioso solo di Kate, per anni aveva lavorato per costruirsi una solida corazza attraverso la quale nessuno potesse scorgere. Si era protetto così bene che a Londra quasi nessuno conosceva le sue origini e, se non fosse stato per l'accento per il quale ancora lo sfottevano, non avrebbero nemmeno saputo che era italiano.

- Ho baciato Alice ieri sera. - Filo si prese un bel po’ di tempo per rispondere, ingollò un paio di boccate di fumo, ma la sua espressione rimase immutata e persa nella contemplazione.

- Avevo immaginato qualcosa del genere. - Lo guardò attentamente, con un’espressione concentrata che non gli si addiceva.

Il maggiore degli Zonin era sempre stato il suo migliore amico, assieme a suo fratello, ed era sempre stato una persona concreta, sanguigna, fatta per agire molto e pensare poco, a tratti semplice, ma sempre sincera e leale. Era stato il suo compagno di stronzate da ragazzi, la spalla su cui aveva sempre potuto contare quando c’era da rincorrere un obiettivo che tanti altri non avrebbero approvato. Esattamente come in quel momento.

Manuel non ebbe il coraggio di rispondergli. Avrebbe voluto, in un milione di modi diversi, avrebbe voluto essere capace di dirgli tutto ciò che gli stritolava le budella, tutte cose scorrette purtroppo.

- Che vuoi che ti dica? - Più che contrariato gli parve rassegnato.

Sapeva di essere stato meschino, perché se davvero c’era stato o ancora c’era qualcosa tra quei due, allora Filo era la persona meno indicata con cui confrontarsi; al tempo stesso, era una questione di lealtà, Filo lo era sempre stato con lui ed era venuto il tempo di ricambiare.

- Vorrei che mi tirassi un pugno, in realtà. - E diceva sul serio: avrebbe preferito mille volte un pugno a qualsiasi giudizio sprezzante, o peggio, al silenzio.

Sincerità per sincerità, tra uomini funziona così: o tutto o niente, niente sotterfugi né compromessi.

- Te lo meriteresti, ma non servirebbe a nulla se non alla tua stupida coscienza -

Schiacciò la sigaretta nel posacenere che stazionava sul tavolo del giardino da quando Alice lo aveva messo lì. Manuel ricordò quel giorno e l’espressione falsa della ragazza; non riusciva a sovrapporla a quella della stessa ragazza con cui si era chiuso in un gabinetto la sera prima, erano due persone diverse.

- So perché sei qui, quello che vuoi sapere: sì, siamo stati a letto insieme una volta, ma è stata una comica e per fortuna eravamo ubriachi altrimenti ora non ci parleremmo nemmeno per quanto è stato imbarazzante. E so anche e lo sai pure tu, che ti senti in colpa per questa... cazzata? e credi di dover espiare chissà quale peccato, quindi sei venuto qui sperando che io mi incazzi e ti rifili qualche pugno per pareggiare la situazione nella tua contorta moralità. - Filo lo guardò dritto negli occhi, sfidandolo a replicare, poi tornò a fissare i rami e le foglie sopra di loro e riprese da dove si era interrotto - Però non accadrà. Io voglio bene ad Alice, ma non come credi tu. Ci ho provato a farla innamorare di me, ma non mi sono innamorato nemmeno io di lei, quindi eravamo senza speranza dal principio. Detto questo, se hai ancora tutti i denti e la faccia intatta, deduco che lei abbia gradito la tua uscita di testa?! -

Quella era la domanda scomoda.

Tergiversare sarebbe stato un suicidio, avrebbe dato modo alla fantasia di Filo di costruire palazzi e castelli inesistenti.

- Ha gradito abbastanza da ricambiare -

Si aspettava un minimo di disappunto, invece Filo sorrise assorto.

- Siete prevedibili. Questo comunque conferma che non è con me che dovresti parlare -

- Con lei? Non esiste -

- Con te stesso… e se te lo devo dire io, bello, lasciatelo dire, gli inglesi ti hanno proprio fottuto il cervello -

Dopo un discorso degno del fratello buonista Jack, Filo non poteva fare a meno di tirare fuori il suo lato idiota per compensare, era inevitabile come inevitabile era dargli ragione.

Aveva bisogno di sentirsi dire che era stato un cretino, tanto quanto aveva bisogno di sentirsi dire che non ci sarebbe stato bisogno di lavare quell’onta col sangue.

- Devo parlare con lei. - Convenne dopo alcuni minuti di riflessione, nei quali si era posto solo domande a cui da solo non poteva trovare risposta.

L’altro allungò le gambe sotto al tavolo e stiracchiò la schiena.

- Decisamente, ma cosa le dirai? - L’assenza di una sua risposta immediata lo indusse a metterlo in guardia.

- Ti conviene avere un piano, fratello, perché non ti farà parlare, anzi è già tanto se ti lascerà avvicinare dopo il casino che avete combinato -

Manuel sovrappensiero non trattenne un commento sarcastico.

- Come se avessi fatto tutto da solo... -

Ricevette un risata in risposta e si rese conto di aver parlato ad alta voce.

- Non intendevo questo casino, ma quel casino, quello che ti sei lasciato alle spalle sei anni fa -

E Manuel non disse più una parola.


Lunedì ci aveva pensato bene, e non una, non due e nemmeno dieci volte, ma almeno diecimila. Era andato a correre, momento in cui di solito gli venivano le idee migliori, e durante la mattinata aveva visitato alcune gallerie e atelier in centro a Verona pur di star lontano da chiunque potesse fare domande pericolose. Almeno avrebbe avuto qualcosa da raccontare in ufficio.

Alla fine era tornato dagli Zonin con un piano. Filo l’aveva guardato malissimo dopo che aveva esposto la sua idea, aveva tentato di dissuaderlo e di smussare gli angoli della sua cocciutaggine, ma aveva fallito. Sfinito, verso sera gli aveva consegnato le chiavi della sua macchina, l’indirizzo di casa di Alice, gli orari del suo ufficio e qualche dritta su come affrontarla.

E Manuel era tornato a correre.

Solo poco prima delle sette si era deciso a rientrare e tentare il suicidio, presentandosi a casa di lei.

Quello in effetti era l’unico modo plausibile per vederla senza coinvolgere altre vittime. Se le avesse proposto un incontro, avrebbe rifiutato o l’avrebbe bidonato all’ultimo minuto. Attirarla dagli Zonin era fuori discussione, perché c’erano troppe orecchie indiscrete. Andare al suo ufficio, troppo plateale.

Quindi si era messo in macchina ed aveva cercato l’indirizzo nel navigatore, a memoria non sarebbe uscito vivo dal centro.

Aveva raggiunto il posto con non poche difficoltà, parcheggiato con altrettante difficoltà, visto che non guidava un auto che non avesse la guida a destra da molto, ed aveva atteso di veder rientrare l’utilitaria rossa con medesime difficoltà, dal momento che non era certo famoso per la sua pazienza.

Solo che, dopo un’ora dall’orario che aveva detto Filo, Alice ancora non si era vista, per cui non aveva altra scelta che lasciare la sicurezza dell’abitacolo e tentare la macellazione suonando il campanello.

Con sgomento, dopo essersi avvicinato al cancello aveva scoperto che i civici 21-23-25 non avevano campanelli, ma un solo pulsante che permetteva di parlare o accedere alla portineria condominiale. Suonò e raggiunse la porta a vetri con almeno la certezza che Alice a soldi non se la passasse male, se poteva permettersi un palazzo con portiere in una zona così costosa della città.

L’uomo che l’attendeva doveva essere sui sessant’anni, o cinquanta portati veramente male, parlava con un marcato accento meridionale ed era vestito solo di jeans e canottiera sudici. La prima cosa che gli venne in mente era l’espressione che doveva rifilargli la madre di Alice ogni volta che varcava quel portone: degno e repulsione.

L’aveva accolto con un grugnito maleducato.

- Dica -

Sua madre gli aveva insegnato a rispettare qualsiasi persona più anziana di lui; in Giappone erano molto ligi a questo tipo di gerarchie, quindi sarebbe inorridita davanti al tono tagliente con cui si rivolse all’uomo.

- Aroldi -

- Lei sarebbe? -

- Un amico -

L’uomo tacque per osservarlo con cura.

- Non l’ho mai vista qui -

Non era una domanda, ma un modo cortese per spedirlo via, quindi Manuel si limitò a fissarlo con ostinazione.

- Mi manda Filippo Zonin -

Quel maledetto l’aveva avvertito che il portiere era uno stronzo, ma non pensava di dover sfoderare le sue carte tanto presto. Quell’informazione però fu la chiave giusta, l’uomo lo guardò storto ma alla fine si sciolse.

- Interno 16, ma la signorina non è ancora rientrata. - Tornò a seguire una partita su un piccolo televisore e Manuel capì che la conversazione era finita.

Tornato all’auto, decise di farsi un giro nell’attesa, perché quella sera era davvero troppo calda. Quel quartiere se lo ricordava bene, la sua vecchia casa non era molto distante, Verona era un milione di volte più piccola di Londra e non era cambiata molto in pochi anni. Era tutto così diverso lì: spesso in quei giorni si era chiesto come sarebbe stato tornare lì e non avere più il fish and chips di Poppi sotto casa, o le Curry Houses in Bricklane, non avere più attorno quell’imbecille di Andrew e tutte le sue molteplici concubine, andare al lavoro e non scoprire ogni mattina nuovi graffiti, niente più Tube affollata e sudicia, né aperitivi nella City con gli amici di Kate. Forse quella non sarebbe mai più potuta essere casa sua.

Passeggiando, trovò una gelateria e l’unica cosa che gli venne in mente furono crema e pistacchio, e capì che Filippo aveva ragione: non poteva partire e lasciarsi dietro tutti quei casini, non di nuovo.



Dopo la giornata di fuoco in ufficio non vedeva l’ora di togliersi le scarpe e ritrovare il suo amato divano. Imboccato il cortile e lasciata la macchina in garage, non si fermò nemmeno alla portineria; se ci fosse stata posta l’avrebbe ritirata la mattina dopo. Salì diretta al quinto piano, dove l’aspettava una vasca piena di sali e un bel bicchiere di vino bianco.

Decisamente non si aspettava il campanello. Non alle nove di lunedì sera, non quand’era entrata in casa da appena mezz’ora e ancora non aveva cenato. D’istinto controllò di non avere qualche chiamata o messaggio non visti nel cellulare, ma il tentativo andò a vuoto, quindi l’unica alternativa fu lasciare il divano per andare a vedere chi fosse. Nel breve tragitto attraverso il corridoio vagliò varie ipotesi, la più accreditata delle quali fu che fosse il portiere: magari era arrivata della posta importante, una raccomandata o un pacco, o magari aveva dimenticato di pagare qualcosa. Non sarebbe stata la prima volta.

Invece attraverso lo spioncino vide Manuel.

Quel Manuel. L’unico Manuel della sua vita, non ce n’erano stati più altri.

Si ritrasse quasi scottata, ma era troppo perplessa dalla sua presenza sul pianerottolo per elaborare piani per ignorarlo. Spinta dalla curiosità, gli aprì di slancio.

- Che ci fai qui? -

Lui non si finse turbato dalla maleducazione di Alice, se l’era aspettata una reazione del genere presentandosi alla sua porta senza invito, quindi andò diretto al punto.

- Dobbiamo parl... -

Non gli lasciò nemmeno finire la frase.

- No -

Chiaramente aveva previsto anche questo e non se ne lasciò intimorire; sfoderò il ghignetto storto che lei conosceva bene e sapeva di dover temere.

Alzò leggermente la voce e si guardò intorno fingendo noncuranza.

- Quindi preferisci che tutto il tuo palazzo sappia che stavi per fare sesso in un gabinetto al matrimonio dei tuoi migliori am... -

- Entra, muoviti - si era scostata irritata come un cobra, tenendogli aperta la porta.

Manuel non se lo fece ripetere e varcò la soglia trionfante.

La casa era fresca e profumava d’estate. Si apriva con un piccolo corridoio con una sola porta sul fondo, sulla parete di sinistra c’erano una consolle e uno specchio rotondo, nulla su quella di destra. Attese comunque che fosse lei a guidarlo, nonostante la direzione fosse scontata. Non nascondeva certo il suo disappunto Alice e solcò il corridoio quasi a passo di marcia senza rivolgergli la parola.

Ad una prima occhiata, in fondo l’ambiente si apriva in un open space, che comprendeva sulla destra una piccola cucina e un bancone con tre sgabelli, un grosso divano ad angolo con tv e soggiorno sulla sinistra. Prima che potesse di sicuro invitarlo a non sedersi, le allungò la busta di plastica che aveva portato con sé.

- Ho portato del gelato come pegno di... pace?- La prese un po’ in giro per quel broncio indispettito che si ostinava a tenergli, e poi sì, perché era uno stronzo strafottente e sfotterla era il suo primo divertimento.

Alice afferrò la busta con uno scatto e si diresse verso la cucina, dove lui la seguì.

- Accetto il gelato, ma non abbiamo nulla di cui parlare - decretò scartando la confezione.

Avrebbe voluto dirle che era ancora testarda come una volta, che quando metteva il broncio era ridicola e sembrava la bambina capricciosa di un tempo, avrebbe voluto dirle che erano cresciuti e che era ora che imparassero a parlarsi. Ma non le disse nulla di tutto ciò, la sua arma migliore era ancora il sarcasmo.

- Magari sono io che voglio parlare con te, no? - era certo che lei fosse sul punto di urlargli che doveva pensarci sei anni prima, o addirittura di tirargli un pugno, ma la stroncò continuando il monologo - Ti devo delle scuse, non avrei dovuto. È stato istintivo e stupido -

Alice tacque, concentrata sul cibo come mai era stata in vita sua. Chiaramente aveva ignorato ogni regola di educazione e buon senso e si era servita direttamente col cucchiaio dalla vaschetta, ignorando il suo ospite che per buona pace si era tranquillamente accomodato di fronte a lei, su quegli sgabelli che valevano di sicuro quanto un paio di suoi stipendi.

Pistacchio, era uno dei suoi gusti preferiti ed era anche maledettamente calorico, la guardava mangiarlo improvvisamente distratto dal suo obiettivo.

- È vero, ora ti sei scusato, puoi andare no? - col cucchiaio gli indicò la porta.

Il sorrisetto e l’aria svagata di Manuel le fece capire che no, lui non aveva intenzione di andarsene, e che no, non aveva intenzione di lasciarla in pace.

- Perché dobbiamo interagire per forza? Che diamine vuoi? -

Di nuovo apparve quel sorrisetto sfrontato e invitante sul suo viso, non la stava ascoltando affatto.

- Comunque non ho intenzione di rispondere -

- Allora parlerò io... -

Lui? Parlare lui?

Sbatté il cucchiaio e la mano sul tavolo e si sporse verso di lui, che la fronteggiava sul lato opposto.

- Sul serio? Ora… vuoi parlare?! - la cosa la mandò fuori di testa. Era sempre stata lei quella pronta a comunicare, a lui andavano strappate le parole con le pinze dalla gola.

Per la prima volta Manuel fece caso alla ragazza che aveva davanti, niente a che vedere con la donna tutta gonne e tacchi alti che aveva visto in quei giorni: era in pantaloncini e canottiera di cotone, entrambi con una metratura di tessuto illegale, i capelli arrotolati sulla testa o appiccicati alla nuca per il caldo, senza un filo di trucco né altri accessori a offuscare la sua bellezza. Aveva ancora tutte quelle lentiggini anche sulle spalle. Faceva parecchio caldo quella sera, ma non abbastanza da giustificare il calore che gli si irradiò dal collo allo stomaco. Quella canottiera bianca le scivolava sul corpo fin oltre i fianchi e lasciava poco spazio all’immaginazione. Perché quella ragazza era sempre, sempre, così ammiccante?

Doveva rimanere concentrato sul suo obiettivo!

- Ok senti, ti ho già detto che non sono qui per litigare con te e che fa strano anche a me rivederti. Lo so di essere stato uno stronzo, ma potrò mai riparare? No. L’unico modo che conosco per farlo è scusarmi, e non per quello che è successo ieri... -

Alice lo fulminò, non c’era molto spazio per la diplomazia ormai, lui era lì, era andato da lei, non c’erano orecchie indiscrete, né amici e amiche impiccioni. Era il momento della verità.

-Scusarti? Tu non hai idea di cosa mi hai fatto. Mi hai lasciata sola da un momento all’altro, senza una spiegazione. - l’impulso fu quello di afferrarlo per la maglietta e scuoterlo finché non gli fossero usciti gli occhi dalle orbite ma vista la sua mole era evidentemente energia sprecata. - Ho creduto che fossi morto, capisci? Ho telefonato a tutti gli ospedali da qui a Milano, prima di capire che eri solo troppo codardo per lasciarmi. Ti ho odiato fin dentro alle viscere, ed ora tu vuoi semplicemente scusarti? -

L’aveva raggiunto dall’altro lato del tavolo e incombeva minacciosa verso di lui. Non l’aveva mai vista così delusa, mai l’aveva guardato con tutto quell’odio nello sguardo, nemmeno il giorno che si erano rivisti.

- Mi sono rovinata con le mie stesse mani per colpa tua: ho bevuto, preso centinaia di pastiglie, mi sono ridotta allo spettro di me stessa, mi hanno fatto due tso, ho smesso di mangiare e sono stata 35 chili per più di sei mesi, non ho visto la luce del sole per giorni, mi sono giocata il cervello per colpa tua, e se non avessi avuto qualcuno accanto, forse alla fine ci avrei rimesso anche di più. È di tutto questo che ti devi scusare, ma nemmeno lo sai, perché tu semplicemente… - prese fiato e lo guardò diritto negli occhi a meno di mezzo metro - sei scappato -

Era stato un errore andare lì, ora Manuel lo sapeva e voleva andarsene il prima possibile.

Come poteva scusarsi? Come poteva immaginare ciò che sarebbe successo? Lui aveva agito per lei, per non soffocarla e legarla ad un luogo che non avrebbe potuto renderla felice, perché voleva che entrambi si realizzassero e invece aveva solo fatto danni.

Era pronto ad alzarsi ed andarsene, non sapeva come, ma avrebbe dovuto lasciare quella casa al più presto. Aveva bisogno di parlare con Kate, di razionalizzare tutte le cazzate che aveva fatto. Aveva bisogno di un aereo, subito.

E stava scappando di nuovo.

- Vattene -

Nessuno dei due disse altro, Manuel inchiodato al suo sgabello dallo sguardo deluso di lei, Alice inchiodata dall’adrenalina dopo avergli vomitato addosso tutte le sue colpe.

Lei col fiato corto, lui in apnea.

- Sono stato uno stronzo - non c’era spazio per le giustificazioni, non ora che aveva letto nella sua rabbia tutto il dolore che le aveva provocato.

- Io ti amavo sul serio, e mi hai delusa. Sei stato molto più che stronzo -

- Anch’io -

- Cosa? -

Alzò gli occhi per incontrare i suoi e gli parve di vederli per la prima volta da quando era entrato lì. Erano sempre stati così azzurri?

- Anch’io ti amavo davvero -

Si vergognò di averlo detto ad alta voce, forse nemmeno a Kate aveva mai detto quanto aveva amato Alice, ed ora invece lo stava dicendo proprio a lei e sperava che bastassero quelle parole per farle capire quanto davvero l’aveva amata. Tanto da rinunciare a lei, tanto da capire di essere sempre stato la sua zavorra, tanto da capire quanto lei fosse mille anni luce avanti a lui.

Non c’era più niente da dirsi a quel punto, quindi prese le chiavi della macchina che aveva appoggiato sul tavolo e imboccò la strada per uscire senza più guardarla in faccia.

Si era scusato, non conosceva altro modo per risolvere quella faida e sperava finalmente di averla liberata dell’odio che aveva provato per lui.

Mentre lei lo guardava allontanarsi verso la porta, qualcosa si accese nel suo cervello. Mercoledì sarebbe ripartito, probabilmente non si sarebbero visti mai più, dubitava che dopo quella sfuriata l’avrebbe rivista volentieri e lei non voleva perderlo di nuovo ora che l’aveva avuto di nuovo così vicino.

Si diede dell’idiota milioni di volte ma la sua lingua si mosse prima che il cervello potesse fermarla.

E lo chiamò.

Forse Salvatore aveva ragione, forse dovevano solo... risolvere a modo loro.

Gli si avvicinò e attese che la guardasse per parlare.

- Tre anni fa sono venuta a Londra. Ero venuta a cercarti per dimostrarti quanto io stessi bene senza di te, volevo sbatterti in faccia le mie lauree e il master, volevo che tu soffrissi tanto quanto avevo sofferto io. Jack mi aveva detto che lavoravi già in quella casa d’asta e mi aveva dato il tuo numero. - Manuel sembrava sul punto di dirle qualcosa, ma lo bloccò alzando una mano - Non sono nemmeno uscita dall’albergo. Sono rimasta ore a piangere nella mia stanza e non ho visto altro che l’interno del taxi per tre giorni. Ero terrorizzata all’idea di incontrarti per caso e me ne sono tornata a casa senza vedere nemmeno il Big Ben -

All’improvviso in Manuel apparve un momento diverso, un incontro nella sua città, lontano dagli occhi di tutti, in uno Starbuck’s del centro. Avrebbero potuto parlare, avrebbe voluto portarla in giro e farle vedere i suoi posti preferiti.

- Avresti dovuto chiamarmi -

Lei sviò il suo sguardo e tutto ciò che gli venne in mente fu baciarla.



Se stasera sono qui è perché ti voglio bene

è perché tu hai bisogno di me anche se non lo sai


Si baciarono a lungo in mezzo al salotto, non ci furono parole né spiegazioni. Fu Alice a prendere l’iniziativa e a condurlo in camera da letto.

Non ebbe il tempo né l’intenzione di guardarsi attorno per studiare la stanza, vide solo il letto e la mano che si tendeva verso di lui come un invito.

Per quanto tentasse di mentire a se stesso, sapeva che sarebbe finita così, lo sapeva da quando aveva deciso di tornare a Verona per quel matrimonio, l’aveva sempre saputo, perché loro erano sempre stati così fin dall’inizio. L’unico luogo in cui riuscivano davvero a comunicare era sotto le lenzuola, era stato così quando la prima volta l’aveva condotta a casa sua in una sera d’inverno, era stato così dopo quando si erano rincorsi per mesi, ed era stato così negli anni che erano stati insieme: litigavano e non si parlavano per giorni finché non riuscivano a fare sesso. Stava succedendo di nuovo, stavano evitando le parole per lasciar parlare altro, ed era sbagliato soprattutto perché non avevano più vent’anni.

Erano stati infantili e avventati, ma erano giovani e forse si erano bruciati l’amore della loro vita senza saperlo.

Però era sdraiata sotto di lui, ed era bellissima, e lui non riusciva più a pensare coerentemente.

Alice sapeva che non avrebbe mai dimenticato i baci di Manuel, sempre uguali, sempre pieni di parole non dette: con quell’inizio lento e profondo che l’accarezzava prima di leccarle il labbro inferiore e catturarlo tra le labbra. Lui la baciava ancora così e il suo cervello si scioglieva.

Non credeva si sarebbe mai più sentita così, tra le mani di Manuel si era sentita più donna che mai altrove.

L’aveva fatta sentire morbida, affondando le dita nel suo seno, stringendole le cosce e il sedere, e ignorando le ossa che sbucavano in posti inopportuni del suo corpo, dove un uomo avrebbe sicuramente preferito trovare della carne.

L’aveva fatta sentire desiderata, quando l’aveva spogliata senza premura graffiandola col gancio del reggiseno, e senza nemmeno guardare ciò che stava levando, la biancheria spaiata e i vestiti logori da casa.

L’aveva fatta sentire priva di barriere, quando senza batter ciglio aveva infilato la mano tra i suoi capelli sudati e le aveva baciato il collo imperlato.

Non si era risparmiato e nemmeno lei.

Senza più la barriera dei vestiti, nella penombra della sera avevano fatto l’amore.

Quando senza esitazioni era affondato in lei, si era sentita strappare l’aria dai polmoni, era stato come annegare. Per un attimo, terrorizzata aveva pensato di spingerlo via e buttarlo fuori di casa, poi erano arrivate le sue labbra a ridarle ossigeno; l’aveva stretta e trascinata in ginocchio sul letto seduta in braccio a lui, e l’aveva baciata come se ne andasse della sua stessa vita. Manuel aveva baciato via le lacrime che lei non si era nemmeno accorta di versare e l’aveva condotta lontano da quel letto, da quella stanza, da quella casa, da quella vita. Oltre l’immaginazione, oltre il presente, in un mondo in cui loro due assieme erano ancora una possibilità.

Tutto con lui era troppo.


Per ore non avevano fatto altro che guardarsi negli occhi, parlare con le mani e morire sulle labbra. Manuel non aveva aperto bocca da quando erano entrati in quella stanza, Alice l’aveva aperta solo per gridare il suo nome.

Era stato strano per lui, era stato come incontrare qualcuno di cui non ci si ricorda il nome, ma si è certi di conoscere. Tutto in lei gli parlava di cose già successe, di momenti passati: il modo in cui si gettava i capelli su una spalla prima di abbassarsi su di lui e baciarlo, i gemiti che tratteneva tra le labbra stringendo i denti, l’espressione sempre dubbiosa con cui lo guardava dopo, come se si aspettasse di essere sgridata.

Nella penombra della sua camera incontrò il profilo spigoloso delle sue spalle, era ancora bianca come il latte, entrambi sapevano che era arrivato il momento di parlarsi.

Avrebbe tanto voluto una sigaretta.

- Non avremmo dovuto, vero? -

- No -

Alla sua risposta seguì un sbuffo e un movimento che al buio ipotizzò fosse un braccio buttato sugli occhi. Probabilmente si era pentita, ma lui no.

- Ma rifarei tutto quello che ho fatto -

Alice sogghignò e si allungò verso il comodino per accendere la luce, prima di voltarsi verso di lui.

La lampada giallastra illuminò il suo volto e i capelli di riflessi dorati; non poté fare a meno di allungare una mano e passargliela tra i capelli.

- Tutti questi tatuaggi...? - un paio li aveva intravisti nella penombra, però ora aveva la possibilità di vederli bene. Non ne aveva nessuno l’ultima volta che l’aveva visto nudo, ma non sapeva nemmeno che avesse intenzione di farne.

Il primo che aveva notato era sul bicipite destro: erano due piccole serie di numeri, una sopra l’altra senza interruzioni, solo osservando bene si poteva intuire che fossero date, una di quasi vent’anni prima, una molto più recente. La prima doveva essere la data della morte di sua madre, l’altra non ne aveva idea.

- Questa? -

Ci passò l’indice sopra e lui le rispose subito.

- Il giorno che ho conosciuto Kate -

Sulla clavicola destra, un elaborato disegno conteneva una frase in latino che sfumava verso il collo in uno stormo di uccelli neri in volo “Faber est suae quisque fortunae”. Non ricordava la traduzione precisa, ma era qualcosa sull’essere artefici del proprio destino. Era decisamente il genere di tatuaggio che si addiceva a lui.

- Bello questo -

Un altro era sul pettorale sinistro, proprio sopra il cuore: due cerchi concentrici grandi come un timbro postale, sul bordo c’erano due frasi “Always with me. Always with you” e all’interno una lettera stilizzata, A.

Era lei quella A? Non pronunciò la domanda, ma accarezzò il disegno, lui comprese e le rispose a modo suo.

- È il primo che ho fatto. L’ho fatto ripassare qualche mese fa, si stava scolorendo - e le baciò le dita che lo stavano toccando.

- Altri? - Alice deglutì a vuoto, mentre tentava di non fare altre domande inopportune e cambiava argomento al volo.

Si voltò sul fianco destro e sulla schiena, sotto la scapola sinistra, trovò un’altra serie di numeri. Erano coordinate geografiche, le venne spontaneo chiedere che posti fossero.

Manuel sorrise, tornando a passarle un braccio dietro al collo. Sapeva che lei avrebbe capito subito che erano coordinate e non numeri fini a se stessi.

- Sono i luoghi che ho chiamato casa. C’è la casa di via degli Uberti, quella di Sonia, quella di Londra e la casa di mio padre nel Sussex -

- Quattro. Non dovrebbero essere dispari? -

Prese un po’ le distanze e le rispose solo con un alzata di spalle, sapeva che esaurito questo argomento la stasi sarebbe finita. L’orologio sul comodino indicava quasi la mezzanotte e sicuramente Kate gli avrebbe fatto un terzo grado da sergente del KGB, forse anche Filo. Quel pensiero gli ricordò che non le aveva detto che era andato proprio da lui a chiedere consiglio; forse non era il momento migliore, ma le doveva dire la verità.

- Filo sa tutto. Sa del matrimonio e che sono venuto qui stasera -

Sapeva di essere stato meschino, subdolo e puerile, però non era riuscito a trattenersi, non dopo che li aveva visti parlottare in un angolo al matrimonio, tutti intimi e in confidenza. Era una scena già vista, come una foto ritoccata male, una volta erano Jack e Alice i migliori amici tutti pane e confessioni, ora invece Filo aveva preso il posto di suo fratello, solo che era lo Zonin sbagliato; Jack non avrebbe mai abbracciato lei in quel modo ammiccante, non le avrebbe mai fatto l’occhiolino, Jack non se la sarebbe mai portata a letto, mai, in nessuna dimensione parallela.

Lei non reagì con la sfuriata che aveva previsto, anzi si mise seduta e cominciò a raccogliere i propri vestiti.

- L’avevo immaginato, anche perché se non con la sua auto come saresti venuto? -

Il suo cervello svelto lo prendeva sempre in contropiede, lei già sapeva e già aveva elaborato.

- Non è un problema, gliel’avrei detto comunque -

Manuel capì che il loro tempo era scaduto e, senza attendere ulteriori segnali, si sedette sul bordo del letto per rivestirsi. La sentiva immobile, sdraiata dietro di lui, e non riusciva a trovare qualcosa da dirle: recuperò jeans e maglietta dal pavimento, mentre i calzini non se li era nemmeno tolti. Nella tasca dei jeans trovò il cellulare con un paio di messaggi e una mail da leggere, Kate come aveva previsto non l’aveva cercato.

Senza voltarsi, parlò al buio che li avvolgeva, non ebbe la forza di guardarla in faccia.

- Ali, riparto mercoledì mattina -

Lei non si mosse, ma sapeva che l’aveva sentito.

Sarebbe voluto rimanere lì, a dormire abbracciato a lei, a svegliarsi con lei, ma si erano già fatti abbastanza male in quelle poche ore ed era meglio che quello fosse un addio definitivo, non doveva temporeggiare.

- Lo so. - sospirò - Ma preferisco salutarti ora -

Come darle torto. Se davvero si fossero incontrati di nuovo davanti agli altri sarebbe stato ancora più imbarazzante e difficile da gestire, non si sarebbero potuti muovere onestamente come avevano fatto quella notte.

- Hai la mia mail, in ogni caso. Se ti venisse in mente di passare a Londra, chiamami questa volta, che ti porto io a vedere il Big Ben-

Di nuovo non ebbe risposta, sentì solo una mano intrufolarsi sotto la sua sul materasso; la strinse e ne baciò il palmo, prima di alzarsi e uscire definitivamente da quello stallo.






Inutile ed ignorato spazio autrice:


L’unico degno paragone alla mia lentezza è quello del conclave, ergo fumata bianca: habemus capitolo!

Pochi piccoli chiarimenti come solito, altrimenti mi dilungo:

-Sì sono ben 12 pagine di capitolo, e di nuovo sì sarebbero bastate le ultime dieci righe!

-Sì sono una sadica rovina famiglie e ne vado fiera.

-Sto riflettendo molto sul personaggio di Alice in questo periodo, spesso mi chiedo cosa ne pensiate di lei? Spero in questo zibaldone di personalità che le ho appioppato di non aver creato una spocchiosa Mary Sue. Se è così siete libere di insultarmi ma fatemelo sapere perchè devo correre a riparare!

-Di nuovo so che molti non hanno apprezzato la coppia Filo e Alice, vorrei specificare che non è una coppia, non lo è stata e non lo sarà mai. Era solo un modo per mostrarvi una sfaccettatura diversa dell’amicizia, di come può evolvere o -per esperienza- naufragare, e di come una persona cara nell’arco della nostra vita possa ricoprire ruoli diversi senza che il legame cambi.

-La canzone all’inizio del capitolo è All my life dei Foo Fighters, sentirete ancora parlare di loro nelle mie storie perchè sto amando intensamente il loro ultimo album. La seconda è l’italianissima e immortale Mina Se stasera sono qui, consiglio la visione su you tube della versione interpretata da Giorgia a San Remo.


Sproloqui a parte: amate Sandra! Senza di lei come al solito non sarei qui e nemmeno voi.

Come al solito: non aspettatevi un altro capitolo a breve, vi spoilero solo che mi odierete. E tanto.

Come al solito: su FB sono Fuori Target Efp, liberi di stalkerarmi per costringermi a scrivere. Anzi, fatelo!


1bacio. Vale.


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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***




Travolti da un insolito destino




Capitolo 7









Ma rimasero in silenzio, a contemplare la sconcertante scoperta di quanto sia silenzioso,
il destino, quando, d’un tratto, esplode.

Eloise_Hawkins
 
 

 
Tornare a casa dalle vacanze non gli era mai parso così... lento.
Ricordava da piccolo le vacanze al lago con i suoi genitori, e poi da adolescente tutti i fine settimana con gli amici; la partenza era sempre troppo lenta e snervante, il ritorno una volata che si portava via tutto. Crescendo aveva imparato come fossero le sue aspettative a dilatare o contrarre il tempo a comando, ma questa volta era rimasto spiazzato dalle proprie percezioni.
Già dalla mattina, quando si era svegliato con i bagagli già pronti in fondo al letto e i vestiti per il viaggio piegati da Kate su una sedia, si era ritrovato senza nulla da fare, ad annoiarsi in attesa che arrivassero le nove e si era messo a vezzeggiare Tommy, già operativo sul seggiolone con i suoi lego e le macchinine.
La famiglia Zonin insistette per accompagnarli all’aeroporto in massa, come un corteo funebre, quindi suo padre venne spedito in auto con gli Zonin senior e Filo, lui e Kate con gli Zonin junior. Arrivati a destinazione, Cici e Kate si chiusero in un angolo in una fittissima conversazione ad alto grado di segretezza, mentre lui e suo padre si occupavano del check-in.
Ci volle più di un’ora, ma alla fine riuscirono a convincere l’ingombrante famiglia Zonin a farli partire.
Jack gli rifilò un discorsetto tedioso e vagamente minatorio su quanto si aspettassero tutti di vederlo tornare presto, rinnovò l’invito di ospitalità ad oltranza e tentò persino di usare la carta di suo figlio come pretesto, mentre il marmocchio scorrazzava tra le gambe di Manuel ululando “Na-Nu Na-Nu”. Filo optò per un approccio più radicale, minacciandolo direttamente di portare tutti gli Zonin a Londra se si fosse rifiutato di tornare almeno per Natale. Fu costretto ad acconsentire per scavarseli d’attorno, ma già stava elaborando una strategia per bidonarli all’ultimo, mentre suo padre se la rideva alla grande.
La signora Zonin e suo marito lo abbracciarono e salutarono come avrebbero fatto con un nipotino riluttante. Lei era tutta sorrisi di miele e zampe di gallina e lo guardava con lo stesso calore che gli riservava sempre Sonia; lui, coi capelli brizzolati e l’aria di un quarantenne pieno di energie, gli augurò buon viaggio come se non stesse tornando a casa, ma partendo per la prima volta. Quel saluto sconvolse Manuel molto più di quanto lasciò apparire.
Quanto si era legato davvero a quelle persone?
Con Sergio si salutarono più brevemente, si sarebbero rivisti molto presto, forse persino entro la fine dell’estate.
Cici e Kate rimasero abbracciate interi secondi, in silenzio, e ancora in silenzio si congedarono con uno sguardo complice che lasciò Manuel spiazzato.
Quando quelle due erano diventate così intime?
Jack la stritolò come un marshmallow e persino Tommy versò grossi lacrimoni sulla camicia di suo padre. Suo fratello la prese in giro per il vestito da scolaretta e il cerchietto intonato, ma alla fine la strinse più forte degli altri e le promise che le avrebbe trovato un eccellente candidato a fidanzato italiano per la prossima visita.
Tra sorrisi sommessi e un paio di baci sulle guance, sia Kate che Sergio imboccarono il corridoio per i controlli prima del gate, lasciando silenziosamente il tempo a Manuel di salutare da solo i suoi “fratelli”.
Filo non disse assolutamente nulla, si limitò ad allungargli una mano e a dargli una pacca sulla spalla con l’altra, salutandolo come quando erano ragazzi, come se non fosse mai andato via, come se ora fosse tornato definitivamente nelle loro vite.
- Charlie e Laura hanno detto di prenderti a sberle fino al gate e che, ora che Kate ha accettato l’amicizia su Facebook, non potrai più nasconderti, mentre Lori ci ha ordinato di dirti che sei un coglione perché potevi fermarti di più. Andre spera di non vedere più il tuo brutto muso per altri sei anni… che tradotto significa che non vede l’ora di abbracciarti per le feste. Paolo invece proverà a fare un salto da voi in novembre, perché c’è una conferenza che gli interessa a Londra, ma temo che ciò che gli interessa davvero si trovi dentro le mutande di Kate. Stamattina ho sentito anche Alice e ha detto solo che vi eravate già salutati. - lo guardò con un’espressione strana che Manuel interpretò solo come perplessa - Ci vediamo a Natale, quindi -
Jack come al solito dava per scontato tutto ciò a cui non veniva detto un no secco.
- Non so, vedremo - tentò di tergiversare, ma gli occhi scuri dell’altro lo trovarono comunque, inchiodando i suoi tentennamenti.
Non se la sentiva di smontare tutte le sue convinzioni, non ora che aveva intenzione di voltar loro le spalle a tempo indeterminato, quindi finse di non vedere le mute domande che gli stava porgendo.
Per l’ennesima volta si rese conto che stava scappando da qualcosa.
Cici non si fece attendere molto, gli si avvicinò decisa e silenziosa e, senza preavviso, gli strinse il volto tra i palmi delle mani e lo guardò dritto negli occhi, sorridendo.
- Non mangiare solo thai, mi raccomando, e non lavorare troppo; chiamaci ogni tanto con Skype, così puoi salutare Tommy. Per Natale ti faccio il pandoro col mascarpone anche il tiramisù, se vieni - gli sorrise di nuovo e lo baciò sulle guance due volte per lato, lo strinse per le spalle e lui non poté far altro che mollare la tracolla e ricambiare con altrettanto calore.
- Sono contenta che ci sia Kate con te - gli sussurrò all’orecchio e con aria distratta finse di non avere le lacrime agli occhi.
Con Jack ci furono meno smancerie e molti più sguardi complici.
Le uniche altre parole che gli rivolse perseguitarono i pensieri di Manuel per molto tempo.
- Spero che tu possa trovare un po’ di pace ora -
Il volo era stato altrettanto eterno; non era riuscito a chiudere occhio, né a distrarsi in nessun modo, mentre suo padre aveva affondato il naso nel giornale due minuti dopo il decollo e Kate dormiva sulla sua spalla.
Arrivati a Heathrow, trovarono Kono ad attenderli. Suo padre continuava a spacciarla per la sua innocente e servizievole vicina di casa, quando era chiaro da mesi che si ronzassero intorno come due colombi in amore. I tratti marcatamente maori tradivano l’età della donna, facendola apparire una cinquantenne particolarmente in forma, anche se in realtà era di un paio d’anni più vecchia di Sergio. Viveva nella proprietà confinante con la sua da molto prima che Sergio l’acquistasse. Inizialmente si erano avvicinati per scaramucce territoriali, poi avevano cominciato con scambiarsi piccoli favori ed erano finiti a condividere la colazione più spesso di quanto Manuel sapesse. Come da copione, lui non si era accorto di nulla fino a che Kate non gli aveva aperto gli occhi, ma non si era nemmeno accorto che la loro vicina era incinta fino all’apparizione del fiocco sulla porta, quindi le sue percezioni sul mondo esterno erano decisamente poco attendibili.
Ufficialmente si era presentata lì senza preavviso, con la scusa di alcune faccende che doveva risolvere a Londra, ma da Gomshall all’aeroporto c’erano almeno una quarantina di kilometri e Kono era tutto tranne che una perditempo che spreca carburante per un conoscente. Inoltre, aveva azzeccato l’orario preciso del loro atterraggio, ritardo compreso. Ufficialmente Manuel e Kate non si erano scambiati sguardi complici e non se n’erano andati in metropolitana, declinando l’offerta di un passaggio fino al centro, per evitare l’imbarazzo di un viaggio in macchina con due sessantenni che fingono di non essere amanti. Ufficialmente Sergio non li aveva salutati dicendo “Venite a cena da noi il prossimo weekend?” e altrettanto Kono non era arrossita come una ragazzina alla svista del suo “vicino”.
Forse in definitiva suo padre era innamorato, ma Manuel non riusciva ad esserne turbato.
 
Aveva confessato a Kate tutto ciò che era successo con Alice non appena si era chiusa la porta di casa alle spalle, le aveva detto tutto chiaramente senza risparmiarsi nessun particolare. All’inizio non aveva replicato. Era stata in silenzio molto più a lungo di quanto facesse di solito, l’aveva guardato negli occhi e lui non si era sottratto, conscio che avrebbe destato chissà quale sospetto. Solo dopo una manciata di minuti gli mostrò ciò che pensava con una smorfia sprezzante.
- Davvero credi che andarci a letto fosse un modo per dirle addio? - gli chiese - Lei per te sarà sempre Alice, l’unica, irraggiungibile e incomparabile e tu per lei sarai sempre Manuel, il suo più grande amore. Non si può andare contro tutto questo, né fingere che le cose siano diverse -
Si era sentito un nodo in gola e un vuoto in testa ai quali non aveva trovato ragione; credeva di aver sciolto quel nodo la sera prima, invece eccolo di nuovo lì.
 

Agosto

 
Si era rinchiuso al lavoro.
L’anno precedente lui e Kate avevano sfruttato quel mese per farsi due settimane di ozio a Parigi. Si erano fatti ospitare nella casa di una loro vecchia amica in trasferta estiva in Costa Azzurra ed avevano speso tutto ciò che avevano in cibo e biglietti per i musei.
Quest’anno, i soldi da parte e le ferie maturate erano stati investiti per il matrimonio di Jack e Cici, quindi entrambi sarebbero rimasti a Londra a crepare di caldo e tenere aperto l’ufficio. Kate aveva i corsi estivi da gestire, mentre il suo supervisore era beatamente partito per le Seychelles e Manuel si sarebbe goduto un mese intero di solitudine lavorativa.
Mrs. Sullivan, come ogni anno, tornava per un mese intero nel New Jersey a svernare nella sua immensa tenuta negli Hamptons, Rob se ne andava con la famiglia in Scozia, mentre Missy probabilmente aveva stilato un fitto calendario di raduni di Lolite perverse a cui partecipare – durante tutto l’anno li tormentava con quei volantini almeno una volta a settimana. Non era pervenuto dove fosse Julian, ma sperava sinceramente di non vederlo tornare tanto presto.
L’unica martire del loro ufficio era Kendra, la segretaria, alla quale, come anche a tutti gli altri assistenti, era stata concessa solo la settimana di ferragosto di ferie; l’agenzia chiudeva ufficialmente i battenti solo per cinque giorni, il resto del mese quella povera donna era incollata alla scrivania, volente o nolente. Ogni mattina le portava il caffè per compassione.
Manuel non era stato costretto a recarsi in ufficio tutti i giorni, già dopo la prima settimana di agosto aveva recuperato i giorni di assenza spesi in Italia e avrebbe potuto rimanere a casa ad oziare. Ci aveva provato, ma veniva assalito prima dalla noia, poi da pensieri che cercava di tenere lontani, quindi aveva preferito rinchiudersi lì con la scusa dell’aria condizionata gratis e dell’abbonamento annuale della metropolitana.
L’ufficio era sempre vuoto ed era finalmente libero di lavorare in maglietta, valicare il confine immaginario con la scrivania di Rob e invadere il suo prezioso ordine, scoreggiare ogni volta che ne aveva voglia e arrivare alle dieci con un muffin in bocca, senza sentirsi scrutato come un untore.
A pranzo Kate lo raggiungeva solo il martedì e il giovedì, perché gli altri giorni andava a far yoga nel parco con un gruppo di schizzate. Quand’era da solo, aveva preso a sperimentare ogni giorno un posto diverso in cui mangiare e la cosa lo divertiva un mondo. Non aveva orari e poteva vagare per cercare nuove gallerie ed esposizioni quanto gli pareva, era la parte che preferiva del lavoro, quella della ricerca di nuovi talenti, ma vi si poteva dedicare di rado.
Aveva preparato un bel po’ del lavoro di settembre e probabilmente non era mai stato così efficiente come in quel periodo; inoltre, le sue peregrinazioni solitarie gli erano valse alcuni nomi eccellenti da proporre a Mrs. Sullivan al suo rientro dagli Hamptons. Aveva persino riordinato la sua contabilità ed aveva scoperto di avere più soldi di quanto immaginasse.
A casa, invece, la situazione si era distesa subito dopo il rientro dalle vacanze.
All’inizio Kate non aveva preso bene le sue spiegazioni, non gliel’aveva mai detto chiaro e tondo, ma era convinto che lei fosse ancora aggrappata all’idea che lui fosse innamorato di Alice. In fondo era una gran romanticona Kate, non sopportava le storie d’amore non risolte, non tollerava i finali tragici, il lieto fine era il suo chiodo fisso. Litigava con Andrew ogni volta che scaricava una ragazza in malo modo e continuava a chiedergli come fosse possibile che non si fosse mai innamorato di nessuna.
Poi, evidentemente si era rassegnata davanti alla sua mancanza di spiegazioni: non le aveva nascosto nulla, anzi l’aveva costretto a sviscerare ogni parola per cercarne il significato latente; lui si era prestato, nascondendole con abilità quanto ricordare quella notte lo mettesse a disagio.
Inoltre, come aveva previsto, Kate si sarebbe occupata di mantenere vivi i rapporti che lui aveva appena recuperato. Aveva inviato mail di ringraziamenti, stretto amicizie su Facebook e twittato ogni minuto della loro estate, mentre lui si era limitato a non ostacolarla, come invece aveva sempre fatto prima di quella vacanza.
Era tornato cambiato? Forse.
Forse si era reso conto che i confronti che aveva temuto avevano inferto meno ferite di quanto si fosse immaginato.
Forse si era reso conto che alcuni l’avevano perdonato o addirittura compreso.
Forse si era reso conto di quanto gli fossero mancati.
Ora Filo e Kate si scrivevano quasi tutti i giorni, Cici le mandava mail a cadenza settimanale con milioni di foto del piccolo Tommy che avevano invaso anche il loro soggiorno, e Paolo lo sentiva spesso anche su Skype. Persino Alice aveva accettato la sua richiesta di amicizia, fatto che ovviamente l’aveva mandata su di giri.
Sul suo profilo Facebook erano apparsi tanti di quei tag in foto del matrimonio che per oltre una settimana non l’aveva aperto né sul pc, né sul cellulare, si era semplicemente rinchiuso in ufficio sommerso dalla carta e lontano il più possibile dall’Italia.
La settimana di Ferragosto l’avevano passata a campeggiare tra il divano e Hyde Park. Un paio di giorni erano stati da suo padre e un paio dai genitori di lei a Greenwich, ogni sera con Andrew e Matt a bere a Soho e a guardare le poche ragazze decenti rimaste in città.
Il weekend successivo, si erano goduti la grande saga dei festival estivi all’inglese, erano andati a Derby per il Download Festival, – i biglietti erano stati il regalo di Natale di Kate, perché erano anni che la tormentava per andare a sentire i Queens of the Stone Age dal vivo e lei non si era lasciata scappare l’occasione di vedersi pure Jared Leto mezzo nudo. Alla fine del weekend, lui aveva conosciuto una irlandese tutta lentiggini e tette, che non si era fatta scrupoli a fargli un pompino dietro al camioncino di un venditore di hot dog; Kate se n’era sparita con un tedesco di due metri per tre ore ed era tornata ubriaca fradicia, senza reggiseno e con molta meno dignità.
 
 

Settembre

 

La tela di amicizie che aveva intessuto Kate a Verona, alla fine, aveva coinvolto anche lui, nonostante avesse provato a rimanere nell’ombra. Quindi, a cadenza settimanale anche a lui ora arrivano mail di Filippo e sempre più spesso veniva coinvolto in rocambolesche telefonate con Skype, in cui finiva a fare da traduttore a Cici. L’unica nota positiva era Tommy, che puntualmente tentava di abbracciare “Teit” attraverso lo schermo e finiva deluso e imbronciato.
Un paio di volte aveva sfruttato con voyeuristica perversione l’account della sua migliore amica per spiare Alice, l’unica che non avesse più sentito dopo la partenza. Aveva scoperto che, come previsto, era partita per la Corea, ma non aveva notato niente d’interessante, a parte una serie di foto in cui aveva riscontrato una per una le fasi di distruzione di cui era stato accusato. In una in particolare, era ritratta in canotta e pantaloncini ed era talmente magra da fargli salire il vomito e imporgli di chiudere tutto per sedare i suoi sensi di colpa.
Con la fine di agosto era finita anche la sua solitudine in ufficio. Erano tornati tutti il primo lunedì del mese, incluso purtroppo anche Julian, che aveva portato a tutti un sacchettino di lavanda dalla Provenza; inutile dire che quello di Manuel era finito diritto nella camera di Kate.
Mrs. Sullivan durante la prima riunione mattutina gli aveva annunciato con un sorrisetto malefico che erano in arrivo trenta lotti per lui da una collezione privata, da stimare entro fine mese per essere mandati a New York e in quattro parole aveva distrutto l’illusione di Manuel di essere avanti con i suoi lavori. Se erano per lui dovevano essere per forza fotografie, perché non c’erano altri specialisti del settore interni all’agenzia di Londra a parte lui e ovviamente l’adorabile Mrs.Sullivan.
Scoprì che erano opere acquistate proprio lì, a Londra, dal figlio di un ricco emirato arabo che sperava di rivenderle a New York. Ma soprattutto scoprì che erano tutte copie di pochissimo valore e questo gli permise di trascorrere un pessimo quarto d’ora in sala riunioni con il suo capo, una traduttrice e una chiamata intercontinentale con un pazzo che sosteneva che Manuel volesse fregargli gli acquisti.
Il resto del mese fu fiacco e tedioso, sull’onda del clima snervante di fine estate. Non aveva ottenuto incarichi interessanti, né erano arrivati nuovi lotti; i giorni si susseguivano lenti e le vacanze gli parevano lontane secoli e non appena passate.
Nel giorno del suo compleanno, il 29, tutti i suoi account di comunicazione vennero invasi da mail e messaggi in lingue diverse, Kate gli preparò la cheesecake ai frutti di bosco, suo padre lo tenne al telefono quasi mezz’ora e persino tutti gli Zonin riuniti in pompa magna lo inchiodarono più del consueto di fronte alla webcam. L’unico che comprese davvero il suo spirito nel giorno del trapasso alla terza decade fu Andrew, che si presentò sulla porta già sbronzo e con due bottiglie di tequila sotto braccio.
Rincasò solo a notte fonda, pronto a subire lo sguardo schifato della sua dolce coinquilina e la sua ramanzina sull’essere troppo vecchi per certe cose. Invece, poco prima di schiantarsi tra le lenzuola, ricevette una mail a cui era molto meno preparato.
Era di Alice: ci teneva a fargli gli auguri per un compleanno così importante, si augurava che avesse passato una buona estate e che ora, chiuso in ufficio, non stesse rimpiangendo la villa degli Zonin.
Quattro righe, brevi e schiette che, visto l’orario, le erano costate ben più di un paio di ripensamenti, ma erano pervase di qualcosa che lo tenne sveglio fin quasi all’alba. Se la immaginò a rigirarsi nel letto come lui, indecisa se scrivergli o meno, indecisa perché, come aveva detto Kate, andare a letto insieme era stato un pessimo modo per dirsi addio. Quindi le rispose subito, nel bel mezzo della notte, per ringraziarla di essergli vicino nel momento del lutto della sua età dell’innocenza, perché sapeva quanto si era scervellata prima di mandargli quella mail e perché sapeva che era scesa a patti con se stessa già molte volte a causa sua. Ne approfittò per chiederle del viaggio che aveva appena fatto e della sua estate.
Ci fu una breve conversazione educata e vuota, come nei migliori salotti, e diluita nei giorni seguenti. Poi com’era arrivata, all’improvviso, di nuovo svanì.
 
 

Ottobre
 

Gli ci vollero quattro aspirine, un bel po’ di succo d’arancia e una dose massiccia di spray nasale per salire sull’aereo che l’avrebbe portato a New York la prima settimana di ottobre, ma non poteva assolutamente permettersi di ammalarsi.
Per la prima volta, Mrs. Sullivan aveva mandato lui e Missy da soli ad un’asta per rappresentare un paio di clienti scozzesi, era un occasione unica per dimostrare quanto entrambi fossero cresciuti e per lui di aspirare ad una promozione.
Aveva impiegato settimane di telefonate per accordarsi con i clienti per quell’asta e per prepararsi al meglio, non poteva certo lasciarsi frenare da un banale raffreddore. Non dopo tutto l’impegno che ci aveva messo e tutti i soldi che Kate l’aveva costretto a spendere per comprarsi dei vestiti nuovi. In più buona parte del suo tempo l’aveva investito nella compilazione di visti e cartacce varie per contentare le manie psicotiche di controllo degli americani.
Missy, al solito, si presentò all’aeroporto con le sue tenute da gothic Lolita: un vestito al limite della decenza che la lasciava le gambe nude, coperte solo da autoreggenti e stivaletti vittoriani.
- Lo sai che a New York farà un freddo cane vero? - le chiese, studiando il paraorecchie di pelo e i miseri guanti di raso che sfoggiava la sua collega.
- Ho il cappotto! - esclamò gioviale, roteando nel suo striminzito capo ottocentesco coi bottoni d’argento e un bel fiocco sotto la gola.
Il viaggio fu un incubo di analgesici e kleenex, ma tutti i suoi sforzi furono ricompensati dall’espressione di violenta repulsione sul viso di Julian, quando al loro ritorno Mrs. Sullivan si congratulò con loro per l’ottimo lavoro svolto. Manuel avrebbe voluto rivivere quel momento in eterno, perché in fondo certe soddisfazioni nello schiacciare un insetto fastidioso sono quasi un’estasi fisica.
Il resto del mese lo passò più all’estero che a casa, prima ad Amsterdam per la valutazione di un’eredità fotografica che avevano soffiato a quei fighetti di Christie’s, poi di nuovo insieme a Missy a Mosca, a congelarsi le gonadi e farsele triturare dalla rigidissima e frigidissima responsabile della sede, tale Tatiana Milenkovich.
La Russia era stata un’esperienza traumatizzante da non ripetere mai più nella vita; a metà ottobre era già tutto innevato e ghiacciato e il suo cappotto pesante, che l’aveva protetto persino nelle ventose lande scozzesi, si era rivelato utile quanto una pashmina di seta contro un tornado. Missy sgambettava nel gelo siberiano in stivaloni tacco tredici di pelle e cuffiette di merletti, mentre lui aveva persino smesso di fumare pur di uscire il meno possibile.
Era tornato con un raffreddore spaventoso, che aveva fatto ridacchiare Kendra e Mrs Sullivan e inorridire Rob, il quale aveva costruito una sorta di quarantena asettica intorno alla sua scrivania.
Kate non aveva sentito granché la sua mancanza, aveva passato il tempo a “rinnovare” casa loro – ovvero acquistare roba inutile e troppo costosa – e a tenere un ciclo di conferenze al Trinity sull’influenza della cultura mediterranea nel mercato mondiale.
Oltre alla disastrosa permanenza a Mosca, al suo ritorno aveva scoperto che Kate aveva pubblicato su Facebook una delle foto che le aveva inviato Missy – alias la progenie di Satana –, che lo ritraeva in uno dei momenti di minimo storico della sua dignità, impalato in mezzo alla Piazza Rossa, nero come un corvo nella neve, con tanto di guanti, cuffia e sciarpone a lottare contro il vento siberiano per accendersi una sigaretta. La foto sarebbe potuta essere anche bella, se non fosse stato per la sua espressione di pura frustrazione: prevedibili erano stati i commenti dei suoi amici, il più gentile era stato di Matt che gli chiedeva se gli si fossero rinsecchite e cadute le palle sotto al cappotto, lungo fino alle ginocchia. La sua dolcissima coinquilina aveva passato pessimi momenti a causa di quell’avventata pubblicazione.
Poi verso la fine di ottobre, quando aveva finalmente riposto la valigia nell’armadio, ricevette, una dietro l’altra, alcune notizie devastanti.
La prima fu l’ufficializzazione della relazione tra Kono e suo padre. Non che non ne fosse consapevole, ma vedere il proprio padre sessantenne fidanzarsi non era comunque cosa da tutti i giorni; di certo non se la sentì di rimproverarlo, per anni dopo la morte di sua madre non aveva visto nessuna donna accanto a lui, – se ce n’erano state lui non ne aveva mai avuto il sentore –, ora invece era tempo che smettesse l’aria da vedovanza e si godesse la propria pensione con accanto qualcuno che gli volesse bene.
La seconda fu l’assegnazione del posto vacante da Senior Specialist Cataloguer ad una sgallettata cretina insopportabile delle Arti decorative, Mallory Mayers. Innanzitutto ,era brutta come un porcospino, ci aveva provato con lui innumerevoli volte e l’aveva sempre evitata come la peste. In più, non era nemmeno così preparata, visto che correva sempre da Rob ogni volta che doveva reperire qualcosa da un catalogo.
Lui, che aveva sgobbato per mesi da quando il precedente Specialist si era trasferito negli States, sperando in quella promozione, era rimasto davvero deluso. Persino Mrs Sullivan doveva essersene accorta, perché non gli aveva assegnato nuovi incarichi per un paio di giorni e gli aveva concesso di vagare per l’ufficio come un’anima in pena, lasciando a Missy l’onere di sopportarlo e ad Andrew l’onore di farlo ubriacare fino all’oblio.
La terza invece davvero non se l’aspettava, e fu una notizia di proporzioni cosmiche e con la risonanza dentro di lui paragonabile allo schianto di due galassie.
Mancavano due giorni ad Halloween, era una domenica sera e come spesso accadeva Kate si era accordata con gli Zonin per una videochiamata; Manuel, che non intendeva partecipare, si era preparato un panino e appostato davanti ad una replica dell’NBA.
Con un orecchio ascoltava la telecronaca, con l’altro origliava la conversazione in corso in cucina. Sentiva Cici ciarlare del futuro matrimonio di Laura e dei progressi di Tommy. Alla sua voce si unì quella del marito e, quando Kate chiese informazioni sul resto della famiglia, venne sganciata la bomba.
- Oh ancora non lo sai: Alice è incinta, l’abbiamo saputo la settimana scorsa… -
Il piatto gli cadde e si frantumò a terra, attirando l’attenzione di Kate dalla cucina, ma in un attimo fu di fronte a lei, alle spalle della web cam per non farsi vedere dagli altri due.
- Che succede? - domandò Jack, ad un continente di distanza.
La ragazza tentennò, ma l’espressione del suo migliore amico la indusse a continuare; poteva solo immaginare quanto il suo cuore galoppasse in quel momento e decise di stare al suo gioco.
- Si è fidanzata? Who is he? Lo connosco?-
Questa volta la tensione stava al di là dello schermo.
- Ehm… no, in realtà non sappiamo chi sia il padre, lei non l’ha detto. Però negli ultimi mesi lei e Filo si sono visti molto e lui non ha negato quando gliel’ho chiesto. Non credo che se lo aspettassero... - l’ingenuità di Jack fu colmata dalla perspicacia di sua moglie.
- Non crediamo che sia di Filo, ma lui è deciso a prendersi cura di lei e lei è troppo testarda per ammettere di non sapere cosa fare, quindi aspettiamo solo che sia lei a volercene parlare -
Cici fu molto più pragmatica ma, il suo lato materno non le permetteva di essere troppo dura coi suoi amici.
Il volto di Manuel, intanto, rimaneva una maschera di sale.
Le mimò di proseguire con le domande e Kate sapeva benissimo dove lui voleva che portasse la conversazione.
Non poteva essere di Filo, nessuno dei due era così stupido da cercare un figlio con l’altro. Quindi, non poteva che essere un incidente di percorso. Ma com’era potuto accadere, a lei, la psicotica maniaca del controllo?
- Beh bisogna eserre felici, no? Un babbino è sempre una gioia. Quando nasci? -
- Ancora non abbiamo fatto i conti: ha finito i primi tre mesi, quindi in primavera, verso l’inizio di maggio -
Manuel cominciò a contare e ricontare i mesi, ma in matematica era sempre stato una frana; guardava le dita, i numeri e tentava di calcolare i tempi, senza sapere esattamente che stava facendo. Doveva essere successo in agosto secondo i suoi conti, ma luglio era troppo vicino ad agosto per tranquillizzarlo. In più, cercò di ricondurre i ricordi a quella sera, alle sue azioni precise.
Avevano usato il preservativo, vero?
Non ne era certo, era successo tutto troppo velocemente e con lei nel letto non era mai stato abbastanza lucido.
Ma perché non gli aveva detto nulla?
Di sicuro lei sapeva esattamente di chi fosse quel bambino, solo lei poteva dargli la risposta e, se lui era estraneo ai fatti, perché avrebbe dovuto chiamarlo? Forse si stava facendo dei problemi inesistenti.
Irrazionalmente, le mimò di chiedere il numero di Alice al suo interlocutore e poi perse la cognizione della conversazione.
In sottofondo, Kate continuava ad interrogare i coniugi Zonin sulla vicenda, ma lui aveva già afferrato il cellulare e imboccato il corridoio.
Non poteva essere vero. Nella sua mente si stavano affacciando mille scenari diversi, mille uomini diversi che avrebbero potuto concepire quel bambino, mille modi e momenti in cui Alice avrebbe potuto avvisarlo di ciò che era successo, mille altre ragioni per cui lui non era nemmeno lontanamente coinvolto nella faccenda.
Ma un tarlo continuava a tormentarlo.
Tre mesi.
Agosto. Settembre. Ottobre.
Erano stati a letto insieme il 26 di luglio, quindi i conti tornavano.
Ma non poteva essere.
Era passata forse un’ora, un giorno o quattro mesi, si ritrovò solo nella sua stanza, la porta chiusa e il cellulare in mano. C’era un numero visualizzato sullo schermo, ma lui non si decideva a premere quel dannato tasto Call. Aveva paura, una paura fottuta, delle risposte che avrebbe ricevuto, sempre se avesse trovato il coraggio di porre le domande giuste.
Il cuore gli martellava lo sterno e le viscere sembravano essersi dolorosamente attorcigliate tra di loro; qualcosa premeva contro la bocca dello stomaco per uscire, ma preferì ignorare quel macigno. La mano che teneva il telefono stava cominciando a sudare e gli occhi a seccarsi, a furia di guardare quello schermo a vuoto.
Sentiva, o meglio sapeva, che dietro la porta Kate lo stava aspettando; che era incazzata come una vipera per essersi vista la porta chiusa in faccia, ma non glielo avrebbe mai detto; che probabilmente stava trattenendo il fiato aspettando di sentirlo parlare.
Alla fine si decise – dopo essersi dato della checca isterica e del coglione paranoico per almeno quattro volte –: non poteva temporeggiare, non su una notizia come quella. E premette il maledetto tasto rosso.
Tre squilli e la voce di Alice invase il suo cervello.
Il suo sangue, le sue cellule, il suo respiro, il suo stomaco.
- Pronto? - pareva titubante, in sottofondo non c’erano rumori.
Aveva il suo numero? Oppure aveva già capito che era lui?
- Sono Manuel - mormorò, con la voce più ferma e fredda che riuscì ad imporsi.
- Ah - solo una vibrazione nella voce gli permise di capire che, oltre ad essere stupita, era anche spaventata. Probabilmente aveva intuito il motivo di quella telefonata.
Manuel inalò quanta più aria possibile, fremeva, smaniava e al tempo stesso se la stava facendo addosso dalla paura.
Chissà perché, da circa un’ora un’immagine tremenda di Tommy che studiava attentamente una sua caccola aleggiava nitida nella sua mente, dietro a quella di un’Alice sola e spaventata.
- È mio?- non ci fu bisogno di chiedere altro.
Rispose pronta e nervosa, quasi sprezzante, come se la sola domanda fosse ridicola.
- No -
Qualcosa dentro di lui precipitò in fondo alla colonna vertebrale e fu talmente piacevole e doloroso che quasi gli mancò il fiato. Inevitabilmente quelle due lettere avevano sciolto i nodi dentro di lui, percepì chiaramente nel silenzio la sua pressione crollare e il respiro di lei farsi più lontano.
- Stai mentendo? - di nuovo si costrinse ad usare tutta la sua fermezza.
- No - nemmeno stavolta parve davvero solida e, forse per mascherare quest’emozione, proseguì con durezza.
- Perché dovrei? -
- Non lo so -
- Non sono affari tuoi, in ogni caso - capì che non gli avrebbe detto nient’altro. In fondo, se non aveva detto nulla nemmeno ai suoi migliori amici, perché avrebbe dovuto parlarne con lui?
Ci fu una pausa, la seconda più lunga dall’inizio di quell’assurda conversazione.
A quel punto non sapeva bene cosa dirle.
Chiederle come stava? Era più scontata la risposta: sconvolta, depressa, incavolata, isterica, colpevole, spaventata.
Congratularsi? Per cosa? Un figlio imprevisto che probabilmente era di un uomo che non ricordava nemmeno, non era certo qualcosa per la quale farle le felicitazioni.
Proporle il suo aiuto? Quale aiuto? Vivevano in due Paesi diversi, a migliaia di chilometri di distanza.
Chiederle se aveva bisogno di soldi? A lei? Lei che gli aveva sempre pagato i conti della moto, e poi quale aiuto poteva offrirle se faticava a permettersi l’assicurazione?
Cosa aveva in fondo da offrire ad Alice?
Se l’era già chiesto quell’estate e già si era risposto: niente.
Il silenzio era diventato stantio e si chiese se lei non avesse riattaccato. Si schiarì la voce e giusto per dirle qualcosa fece la domanda più scontata di tutte.
- Maschio o femmina? -
Un lungo sospiro e poi parlò.
- È ancora troppo presto per saperlo -
Si sentì un vero idiota, non sapeva nulla di bambini, né di gravidanze. Vantava una vasta esperienza nel come evitarli e, soprattutto, nel come farli, ma non sapeva in effetti niente del dopo. Avrebbe chiesto a Kate.
- Senti, ora io... -
- Si anch’io -
Ci fu un imbarazzante silenzio e dei saluti frettolosi, dopodiché si ritrovò col telefono in mano e una strana sensazione dentro, come se ciò che era crollato in fondo al suo corpo alla notizia della sua non colpevolezza, avesse poi trovato là la sua ubicazione definitiva. Un peso, un sasso, un gomitolo di ferro piantato dentro di lui, esattamente dove invece ci sarebbe dovuto essere solo sollievo.
Cosa diavolo era successo quella sera?
 


 







Inutile spazio autrice:
Dovrei nascondermi per la vergogna...
Per arginare i danni e non romperevi oltre, vi saluto senza dir nulla. Per qualsiasi domanda sono qui, potete odiarmi anche verbalmente.
Ringraziate tutti Sandra e Lea che mi hanno spronata, aiutata e pungolata.
Grazie in anticipo a tutti quelli che recensiranno e a tutti quelli che hanno letto.
1Bacio. Vale.



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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


 
Travolti da un insolito destino


Capitolo 8




 
 
Agosto
 
La sua estate era stata una noia mortale.
Niente vacanze, niente mare, niente feste, niente ragazzi.
Solo lavoro lavoro lavoro, qualche giorno al lago a casa dei suoi e babysitting al piccolo Tommy, mentre i suoi se la spassavano in luna di miele.
L’estate sulla soglia dei trent’anni faceva schifo. Non c’era più tempo per le vacanze di puro divertimento e devastazione dei tempi dell’università, tutti i suoi amici erano felicemente accoppiati o addirittura figliati ed avevano virato verso tranquille villeggiature formato famiglia. Invece tra i single rimasti nessuno aveva interesse ad uscire con lei: delle ragazze era rimasta l’unica ancora sola, e i ragazzi non se la portavano certo in ferie con loro.
Nelle due settimane di chiusura dell’ufficio aveva oziato in casa, fatto shopping sfrenato e si era concessa tutto ciò che in inverno non aveva avuto il tempo di fare: leggere, andare al cinema, in piscina, risistemare il guardaroba, buttare le scarpe vecchie per poterne comprare di nuove. E con i suoi genitori come al solito in giro per il mondo, aveva sfruttato la loro magnifica villa con giardino per rilassarsi assieme a Laura.
Non le aveva raccontato di Manuel, non l’aveva detto ad altri che Filippo, né voleva che lo sapessero. Era stato un momento di debolezza e condivisione tale che non riusciva a renderne partecipe nessun altro. Era e sarebbe rimasto solo e soltanto loro.
Il dieci di settembre sarebbe partita insieme ad Alberghini ed altri due colleghi delle Pubbliche Relazioni per la Corea; ora il suo unico scopo era far bella figura e sfruttare il più possibile quel viaggio di lavoro.
 
Settembre
 
La sera prima della partenza, Filo aveva dormito nella camera degli ospiti. L’avrebbe accompagnata lui all’aeroporto alle cinque e il minimo che potesse fare era tenerlo a dormire da lei. Una volta al gate, era stata la persona che l’aveva abbracciata e le aveva chiesto di scrivere appena fosse atterrata: come un fratello, come un fidanzato, come un amico.
Dopo la prima tratta per Francoforte, presero un diretto per Seul: dieci interminabili ore di volo durante le quali dopo aver dormito, guardato due film, giocato con tutti i pulsanti del sedile della business class, si era piegata alla noia e si era messa a lavorare al progetto che aveva abbozzato durante l’estate.
Fortunatamente, nell’enorme aeroporto di Incheon li aspettava quello che sarebbe stato il loro autista per dieci giorni, un giovane trentenne con gli occhi a mandorla che li aveva salutati con un inchino ed un’accurata valutazione del contenuto del suo reggiseno.
La Corea li travolse in un turbine di insegne coloratissime, grattacieli ultramoderni e un traffico allucinante. Furono giorni intensi ed interessanti, i committenti avevano organizzato per loro gite nei luoghi d’interesse più famosi, ma soprattutto, per la gioia di Alice, nei loro centri di ricerca e progettazione. Lì c’era l’avanguardia tecnologica del loro campo, anzi forse di ogni campo.
Insieme a loro c’erano i rappresentanti di altri studi europei, soprattutto tedeschi e quattro svedesi.
Lei sapeva. L’aveva capito già sull’aereo che qualcosa non andava, qualcosa che non riguardava solo il suo intestino o quella brodaglia schifosa che i coreani consideravano il loro piatto forte. Era qualcosa di diverso, qualcosa che riguardava tutto il suo corpo.
La lampadina si era accesa proprio sull’aereo del ritorno, dopo giorni di lievi nausee e mal di testa. Nel momento in cui aveva aperto il vassoio servito dalle hostess, l’odore condensato di salmone e tortino di carote l’aveva investita in pieno, provocandole spasmi e nausea istantanei. Non avrebbe saputo raccontare com’era arrivata al bagno senza vomitare sul suo collega o gli altri passeggeri. Pochi minuti dopo era già passato, era tornata barcollando al suo posto e aveva fatto portare via il vassoio senza toccare cibo. Era andata avanti così tutta la settimana, mangiando solo riso scondito e brodini tristissimi; in ufficio beveva solo tè e si scolava almeno tre litri d’acqua al giorno per stare in piedi, sotto lo sguardo ammonitore di Salva.
Per giorni aveva mentito a se stessa, convincendosi che prima o poi sarebbe migliorata, che il virus sarebbe sparito per conto suo, aggrappandosi al viaggio, al cibo e all’acqua contaminati e si era diagnosticata da sola una gastroenterite. La verità però era ben lontana, per quanto lei fingesse di non vederla.
La nausea, infatti, iniziava la mattina e si protraeva fin oltre il pranzo; solo la sera le lasciava un po’ di respiro e le permetteva di mangiare qualcosa, anche perché, passata quella, le saliva una fame tremenda, una fame che non le era mai appartenuta. In più il seno sembrava scoppiarle, non tollerava i reggiseni troppo stretti ed ogni minimo tocco la faceva gemere di dolore. Per concludere il quadro ormai fin troppo palese, il ciclo non si vedeva da settimane, non che lei fosse mai stata regolare in vita sua, ma da quando aveva sospeso la pillola ad aprile aveva avuto un solo ciclo e nemmeno si ricordava con esattezza quando.
Come se non bastasse, per questo crimine non ancora accertato c’era un solo sospettato. Senza nessun dubbio, le accuse erano tutte a suo carico: da prima dell’estate non c’era stato nessun altro, a parte Manuel.
Con un’intera settimana di sofferenza alle spalle, si era finalmente decisa a chiamare Paolo per farsi prescrivere almeno un antibiotico e delle analisi per non dover saltare altri giorni al lavoro. Lui all’inizio si era rifiutato, come al solito blaterando che lui era un chirurgo e di influenze non ci capiva nulla, ma contro le paroline gentili di Alice aveva ceduto e le aveva detto di andare al pronto soccorso il pomeriggio successivo e di chiedere di lui.
Alice obbediente aveva seguito le sue istruzioni e si era presentata al banco del pronto soccorso alle quattro. Aveva chiesto di lui ad un’infermiera che l’aveva radiografata dalla testa ai piedi prima di darle ascolto, dopodiché l’avevano fatta attende due ore in sala d’aspetto e, come tutti, per due ore si era annoiata, finché non aveva sentito un’infermiera gridare il suo nome. Oltre la porta dell’ambulatorio, aveva trovato Paolo ad attenderla, in completo verde e sguardo severo.
- Dovresti andare dal tuo medico, io non posso prescriverti tutto quello di cui hai bisogno. - l’aveva apostrofata, prima ancora che si sedesse.
- Perché? Sei un medico anche tu no? -
Alice l’aveva guardato con i suoi occhioni, il sorriso spalancato e l’aria più idiota del suo repertorio.
- Non fare quella faccia da ebete. Lo sai benissimo che io sono un chirurgo, se fossi una mia paziente dovrei aprirti in due l’addome per vedere cos’hai. -
- Ehm, magari partiamo con qualcosa di meno invasivo. Mi serve solo qualcosa per l’intestino, sto passando la vita in bagno in questi giorni. -
Lui l’aveva guardata sbuffando e aveva preso il ricettario dalla tasca.
- E poi? -
- Poi cosa? -
- Cos’altro hai? Non saresti venuta fin qui per un po’ di vomito e caghetta. Sputa il rospo e scordati che ti prescriva lo Xanax. -
Alice si era morsa il labbro, poi aveva tolto la sciarpa e l’aveva posata sulle gambe, prendendo tempo.
- Ho la nausea tutte le mattine, non riesco a mangiare niente fino a sera. Mi sento sempre stanca e affamata, e non so quando ho avuto l’ultimo ciclo… -
Quando alzò lo sguardo, Paolo la stava  guardando serio e accigliato, dopodiché senza dire una parola afferrò la tastiera del pc e iniziò a scrivere e cliccare col mouse.
- Hai già fatto un test? - Alice negò col capo. - Allora adesso ti faccio fare gli esami del sangue e una flebo, poi vedremo. -
Tre ore dopo era ancora in pronto soccorso, con mezzo litro di sangue in meno (come se già non le mancassero le forze) e una flebo appesa al suo capezzale. Aveva già contato duecentoquaranta gocce quando Paolo la raggiunse, spingendo la sua sedia a rotelle di nuovo nell’ambulatorio.
Non aveva fatto molti giri di parole, le aveva staccato l’ago dal braccio, le si era seduto di fronte e le aveva detto tutto chiaro e tondo.
Era incinta.
 
Paolo accanto a lei cominciò a parlare, ma lei non lo sentiva, non sentiva nulla a dir la verità. Sentiva solo che doveva andarsene da lì e ragionare senza tutta quella gente attorno.
- Prendi appuntamento per una visita ginecologica. Se non hai già un ginecologo, puoi farla anche qui, ma devi tornare domani per prenotarla. Ci vuole la sua conferma per datare l’età gestazionale. -
Continuò a blaterare per qualche minuto, ma Alice si perse quasi tutti i dettagli della conversazione. Si prese le carte e le indicazioni che un’infermiera le dettò, recuperò la borsa e, accompagnata da Paolo, lasciò l’ambulatorio in fretta e furia.
In trance, seguì il suo amico fino all’uscita del pronto soccorso. Fuori faceva ancora caldo, nonostante fosse quasi finito settembre. La camicia che indossava sopra i jeans divenne improvvisamente troppo pesante, c’erano auto e ambulanze che si avvicendavano sulla strada, passanti, pazienti e operatori in divisa ospedaliera, tutti in un turbine delirante attorno a lei. Paolo la teneva per un gomito e ne sentiva la presenza vicina, stava parlando di visite, consulti e colleghi, le stava segnando sul telefono un numero e chiedendo il nome della sua ginecologa. Alice non lo ricordava.
Nella sua mente c’era solo un’immensa negazione, un no che si ripeteva perpetuo e cantilenante all’infinito. Non era vero nulla.
Ad un certo punto Paolo la scosse e per un attimo lo vide e sentì di nuovo con chiarezza.
- Alice! Chi è il padre? Non puoi gestire questa cosa da sola. -
Il padre? Quale padre? Suo padre era in Sicilia con sua madre a trovare un vecchio collega e nella sua mente non esisteva altro padre all’infuori di lui.
Lo liquidò con un sorriso e un paio di frasette tranquillizzanti che conosceva a memoria, mentre già cercava le chiavi della macchina. La sua mente viaggiava su due canali diversi ed ora quello che stava mostrando al mondo era quello del controllo, lucido, orientato e presente a se stesso, mentre l’altro elaborava e si teneva pronto per la sfuriata. Lo ringraziò mille volte e gli fece giurare di non dir nulla a nessuno fino a che non l’avesse fatto lei; il segreto professionale glielo impediva ma un paio di minacce in più non potevano che fare bene.
Quando entrò in macchina le tremavano le mani, ci vollero alcuni secondi e più di un paio di respiri per centrare la serratura dell’auto e mettere in moto, ma guidare nel traffico le diede lucidità. Al primo semaforo afferrò il telefono dalla borsa e chiamò la ginecologa per fissare un appuntamento in settimana, il numero verde per prenotare gli esami del sangue e sua madre per chiedere quando sarebbe rientrata dalla Sicilia.
Passò al supermercato e in Posta a pagare due bollette e infine si ritrovò in ascensore con ancora addosso la stessa espressione di plastica che aveva rifilato a Paolo. Si costrinse a mantenerla fino alla porta di casa, giusto per allenarsi.
Il tonfo metallico della serratura riecheggiò nell’ingresso e fu il gong inquietante che diede il via alle sue lacrime.
 
Pianse per due ore, si dimenticò di mangiare, di rispondere al telefono e persino di andare in bagno, anche se le scappava la pipì da quella mattina. Per oltre due ore mise a tacere il suo cervello, si impose di non pensare ad altro che allo sfogo del pianto e alla sfortuna che si accaniva su di lei. Poi pian piano, per quanto avesse provato a spegnerlo, il suo cervello si riattivò.
La prima e più importante domanda era di chi fosse quel bambino.
Non ci volle però un gran dispendio di neuroni per avere una risposta: lei lo sapeva già su quell’aereo, quando aveva realizzato l’enorme incubo in cui si era cacciata e dove per un attimo il suo cuore aveva palpitato all’idea di un loro bambino. Non c’erano stati altri dopo di lui e prima erano troppo lontani per essere considerati colpevoli, quindi la risposta era scontata: il padre era Manuel.
Quasi le venne da ridere all’idea di quanto l’aveva odiato e di quanto il destino fosse beffardo. L’unico uomo che poteva dire di odiare tanto quanto aveva amato, era anche stato l’unico a riuscire a fecondare un corpo che di fecondo aveva meno di niente.
La seconda in ordine logico fu come aveva potuto essere così idiota da dimenticarsi le protezioni. Si maledisse in ogni modo possibile, ma scorrendo dolorosamente i suoi ricordi non le sovvenne di nessun preservativo, di nessuna esitazione, di nessuna domanda. Lui non aveva chiesto e lei non aveva pensato. Erano colpevoli entrambi al cinquanta percento.
Il suo cervello programmato per rispondere a quesiti ben più complessi, addestrato a calcoli improbabili e soluzioni ingegneristiche innovative non aveva pensato ad uno stupido e banalissimo preservativo (per ben tre volte) ed ora avrebbe pagato a vita le conseguenze di quell’errore.
La terza inevitabile domanda aveva già una risposta chiara e semplice, pronta nel suo inconscio: quale sarebbe stato il futuro di questo incidente? Alice non batté ciglio, né perse neanche un momento per riflettere, conosceva la risposta da anni. Avrebbe abortito.
Non voleva quel figlio, non sapeva gestirlo, non ne aveva né il tempo, né i soldi. Era appena stata confermata per un contratto biennale per il lavoro dei suoi sogni, anche se per ora era una semplice esecutrice. Aveva bisogno di potersi concentrare per studiare e rendere bene nei progetti per poter ambire ad un ruolo meno marginale. Aveva un buon stipendio ma non abbastanza per mantenere la crescita di un bambino.
Inoltre era sola, non c’era possibilità per lei di crescere un bambino da sola, non aveva mai avuto l’istinto materno, né la propensione al sacrificio o al compromesso. Era cresciuta come una ricca viziata e istruita ragazza borghese, non sapeva nemmeno di cosa si nutrissero i bambini. Quando aveva pensato a dei figli suoi non era mai stato in quel modo, aveva visto il sogno di qualcun altro e le era piaciuto, ci si era vista bene; non così, senza amore, senza famiglia, senza un luogo adatto in cui crescerli, senza qualcuno con cui guardarli diventare grandi. Ci aveva pensato, ma mai così.
Le vennero in mente le parole di Paolo sul chiamare il padre e finalmente comprese che si riferiva al padre del bambino, ma il solo pensiero di mettere al corrente Manuel la inorridiva e imbufaliva; non voleva averci nulla a che fare in nessun universo parallelo, figurarsi in questo. Non aveva alcun diritto di sapere, né ce ne sarebbe stata la necessità, poiché se ne sarebbe liberata il prima possibile.
L’ultimo punto da decidere era se dirlo o meno alla sua famiglia. D’istinto, la prima risposta che si sarebbe data era un no forte, chiaro e deciso, ma si conservò il beneficio di pensarci una volta eseguita la visita dalla ginecologa.
Era quasi sera quando si decise a mettere qualcosa nello stomaco e, mentre preparava un abbozzo di cena, si rese conto che era sparita anche la nausea che l’aveva perseguitata per quasi due settimane.
 
I giorni successivi alla spiacevole notizia furono una furia di telefonate, visite, esami del sangue, sfuriate con se stessa e crisi emotive. Più di una volta si era trovata chiusa nei gabinetti dell'ufficio a piangere come una fessa senza sapere nemmeno come c'era arrivata.
Nessuno sapeva ancora nulla, né i suoi, né gli amici, né (soprattutto) il diretto interessato. L'unico ad essere stato informato era Filippo che aveva chiamato neanche ventiquattr’ore dopo la notizia.
La sua reazione era stata ovviamente migliore di quella di Alice. Per qualche ora non le aveva parlato, né risposto al telefono, poi a notte fonda si era presentato a casa sua, sproloquiando di soldi, paternità e responsabilità.
Non c’era stato bisogno di dirgli nulla, l’aveva guardata in faccia e senza abbassare lo sguardo le aveva semplicemente detto: “È suo, vero?”, senza necessità di ulteriori conferme.
Avevano discusso per ore nella cucina di Alice. Lui sosteneva che andasse informato, lei che invece non ce n’era bisogno, visto che l’appuntamento per l’interruzione di gravidanza era già stato fissato.
Si offrì persino di occuparsi lui di parlare con Manuel, ma Alice, irremovibile, gli fece giurare che mai e poi mai ne avrebbe fatto parola con qualcuno senza la sua autorizzazione.
Dopo l’iniziale discussione, era stato pragmatico e razionale, l'aveva assistita durante tutto l'iter, senza più nominare Manuel.
 
Infine era arrivato il giorno prestabilito.
Alice si era preparata con cura già all’alba, perché tanto non era riuscita a dormire. L’unico pensiero che l’aveva ossessionata tutta la notte era l’idea di liberarsi il prima possibile di quella situazione. Aveva scelto un bel vestito a maniche corte e un blazer nero, aveva accuratamente organizzato tutta la documentazione in un raccoglitore e controllato una trentina di volte l’orario sui fogli che le avevano consegnato. Le avevano detto di rimanere a digiuno dalla sera prima, ma forse per la prima volta in vita sua aveva davvero voglia di mangiarsi un’intera torta al cioccolato.
Sarebbe andata da sola, Filo era di nuovo in trasferta con la squadra e in ogni caso non l’avrebbe voluto con lei; non aveva bisogno di abbracci o consolazioni, voleva stare sola col suo senso di colpa. La colpa era solo sua, l’aveva scelto lei e quello era il suo modo di autopunirsi.
Era uscita molto prima del necessario, con la scusa di annoiarsi a casa e di trovare parcheggio, quindi si era ritrovata in ospedale troppo presto.
L’avevano spedita in una sala d’aspetto piccola e quadrata, piena di seggioline bianche lungo la parete e tappezzata di poster con donne incinte e sorridenti. Era una tortura: alcuni promuovevano i benefici dell’allattamento al seno, altri l’importanza di donare le cellule staminali del cordone ombelicale… nessuno però che facesse forza a chi come lei non era là per motivi lieti. C’erano quattro ragazze con la sua stessa cartellina verde in mano; una doveva essere molto giovane, forse non arrivava ai vent’anni, una aveva il capo coperto dal velo e si agitava continuamente sulla poltrona, le altre due invece erano accompagnate dai supposti rispettivi compagni. Oltre a queste c’erano numerose donne ben più avanti con la gravidanza. Una faticava a stare seduta, aveva una pancia enorme e chiacchierava allegra con altre due nelle sue stesse condizioni. C’era persino un bambinetto alto meno di un metro che aveva accompagnato la madre incinta del fratellino e trotterellava in giro come un invasata; doveva avere già qualche anno in più di Tommy.
C’era vita, caos e un gran caldo e più di una volta si chiese cosa ci facesse lei lì.
Si rispose che era lì per lui, per quel bambino che portava in ventre, per non farlo soffrire, per non farlo nascere con una madre mezza matta con più problemi che certezze e un padre che non avrebbe mai visto. Si rispose che era lì per evitargli una vita difficile e deludente.
Infine, arrendendosi, si disse che era lì per se stessa, perché da quando aveva saputo di essere incinta, Manuel era tornato a popolare costantemente i suoi pensieri, e non solo perché ne era il padre; era tornato per ricordarle ciò che avrebbero potuto essere e invece non sarebbero mai più stati, per ricordarle quanto ancora lo amasse e detestasse al tempo stesso.
E quel bambino ne era la prova, era come un parassita che si era attaccato a lei per ricordarle quanto Manuel le mancasse, quanto fosse ancora inevitabilmente parte di lei nonostante avesse provato a scacciarlo per anni, a ricordarle quanto lei fosse debole ogni volta che si trattava di lui e quanto il pensiero di lui ancora le impedisse di andare avanti.
Lo stomaco le si contrasse e una fitta di colpa la perforò dal cervello alla pancia.
Si vergognò di aver pensato a quel bambino come ad un parassita e d’istinto si toccò il ventre che evitava da giorni. Era lì, da qualche parte sotto strati di tessuti e cellule. Un piccolo germoglio con gli occhi di Manuel e i suoi capelli magari, con la sua espressione sempre corrucciata e il suo sguardo intenso, o con la sua voce sabbiata, con il suo modo di fare schietto e la sua mente scattante.
Sarebbe stato bello vedere come madre natura avrebbe combinato i loro geni; avrebbe potuto essere una bella bambina rossa come lei ma con i suoi occhi scuri, oppure un maschietto dai capelli neri e gli occhioni azzurri, pronto a far stragi di cuori come il suo papà, ma lei gli avrebbe insegnato a trattare bene e rispettare le ragazze.
All’improvviso si bloccò, gli occhi sbarrati e le mani ancora sul ventre.
Cos’erano quei pensieri?
Lei non gli avrebbe mai insegnato nulla, né l’avrebbe mai visto crescere, inciamparsi, rialzarsi e diventare grande. Non avrebbe visto gli occhioni di Manuel su una bella bambina, o la sua aria altezzosa su un bel bambino dai capelli rossi. Mai. Perché quel bambino non sarebbe mai nato.
Tentò di darsi un freno, di non pensarci. Stava tutto lì: nel non immaginarselo, nel non pensare che gli avrebbe tolto qualsiasi possibilità di vivere, crescere, essere amato e di amare.
Sentì il panico attanagliarla, la gola chiudersi e l’aria lasciare i polmoni troppo in fretta. Chiuse gli occhi e si concentrò per riportare alla mente tutto ciò che l’aveva condotta lì.
Lei non lo voleva un figlio di Manuel, non voleva più vederlo, sentirlo, né pensare a lui.
E se fosse stato di qualcun altro? Le cose sarebbero andate diversamente?
No, il problema era lei. Non ne era capace, non ne voleva sapere nulla di bambini. C’erano donne come Chiara, fatte per questo genere di cose, per amare un bambino ed accudirlo; e poi c’erano le altre donne, quelle secche e aride come lei, quelle destinate a carriere fulminanti, tutte lavoro e disciplina. Narcisiste, egoiste e anoressiche come lei.
Quindi non era per il bambino? Era per lei, era lei ad essere così egoista ed incapace da non essere in grado di pensare ad altri che non a se stessa?
Sì, non poteva mentirsi. Non era colpa di Manuel, né tantomeno del bambino. La colpa era sola sua, perché aveva paura, una paura fottuta, di non essere capace.
Nella vita era sempre stata perfetta, brava in tutto, si era sempre impegnata fino allo stremo per essere impeccabile in ogni situazione. Nello studio non si era mai risparmiata, voleva il massimo e l’aveva ottenuto, voleva quel lavoro e l’aveva ottenuto, voleva una casa e l’aveva ottenuta.  Ma qui? Che avrebbe fatto con un bambino? Non si poteva imparare l’istinto materno, come sarebbe potuta diventare una madre perfetta? Su che libri avrebbe studiato stavolta?
All’improvviso si ritrovò con orrore a desiderare lui, proprio il Manuel che millantava tanto di odiare, seduto accanto a lei a rispondere a tono e con qualche insulto ai suoi dubbi, a fare a pezzi le sue argomentazioni, avrebbe voluto la sua opinione… Cosa avrebbe fatto lui?
- Aroldi Alice. -
La voce di una donna interruppe i suoi pensieri. Alzò lo sguardo e la trovò sulla porta, che scandagliava la sala d’aspetto. A fatica si alzò e la raggiunse mentre questa rientrava nella stanza alle sue spalle. Ennesimo ambulatorio dalle pareti e mobilio bianco. C’erano un corteo di medici dietro ad una scrivania, solo due erano seduti, gli altri la guardavano in attesa. Uno di questi la bloccò prima che si accomodasse sulla poltrona davanti a lui.
- No signora, segua pure l’infermiere. Deve spogliarsi e accomodarsi in sala operatoria. –
Senza dire nient’altro, le indicò la porta sulla parete opposta, dove l’aspettava un giovane infermiere con un paio di piercing per orecchio.
- Prego, da questa parte. -
La condusse attraverso un corridoio bianco e una porta metallica, la fece spogliare in uno stanzino e le consegnò un orrendo camice a puntini aperto sul retro. Prese in consegna tutti i suoi vestiti e i suoi effetti personali, dopodiché l’accompagnò in sala operatoria.
Alice preferì non guardarsi intorno e spegnere i cervello il più possibile: vedeva solo il soffitto e le lampade sopra di lei, sentiva l’infermiere parlare con qualcun altro nella stanza. Il lettino su cui l’avevano fatta sdraiare era gelido, come l’aria in quella stanza. Aveva freddo, fame e una paura fottuta.
E nessuno si curava di lei.
Tutto cominciò a muoversi velocemente con l’ingresso di altra gente nella stanza. Uno l’aveva visto qualche giorno prima, era l’anestesista. Le legarono un braccio al bracciolo e sentì il bruciore dell’ago perforarle la pelle; vedeva le sacche delle flebo appese sopra la sua testa, ma non riusciva a leggerne il contenuto. Poi all’improvviso le scoprirono il corpo dall’ombelico in giù, armeggiando per sistemarle le gambe come dal ginecologo.
Ora la fame era sparita, ma non il freddo e si sentiva fin troppo esposta. Una voce dentro le lei continuava a chiederle cosa stesse facendo lì, da sola. Qualcosa dentro di lei pulsava e gridava involontariamente il nome di Manuel.
Iniziò a tremare e con un filo di voce tentò di chiamare qualcuno, nessuno le rispose. Aveva freddo e ora voleva andarsene. Non poteva farcela, non da sola, senza nessuno lì con lei… senza di lui.
Iniziò a piangere in silenzio quando vide il chirurgo entrare, aveva la casacca verde di tutti gli altri ed era seguito da molta gente. In testa aveva la tipica cuffietta e teneva le mani bagnate in aria come se aspettasse qualcuno che gliele asciugasse. Una donna che ronzava attorno a lui con un camice identico lo aiutò a prepararsi.
- Come si chiama signora? -
Non capì che parlava con lei finché non entrò prepotentemente nel suo campo visivo.
- A… Aroldi Alice. -
- Bene si rilassi, appena l’addormenteranno, iniziamo-
Non voleva stare lì. Non voleva stare lì. Non voleva stare lì. Non voleva stare lì. Non voleva stare lì.
Alice sentì il corpo fremere percorso dai brividi e il ventre si contrasse dolorosamente.
Cos’era? Cosa stavano facendo al suo bambino?
In un attimo decise che la sua vita non doveva andare così, che non poteva decidere per quel bambino, che non poteva stroncargli così ogni possibilità.
- Fermi… - sussurrò con un filo di voce.
Nessuno l’ascoltò, quindi si costrinse a racimolare la voce e farsi sentire.
- Fermi! - gridò e finalmente tutti si voltarono verso di lei.
 
Scappò dall’ospedale in preda al panico.
Si era rivestita di corsa con tutti che la guardavano sconvolti e il chirurgo che non faceva altro che chiedere se si sentisse bene. L’unico ad averla aiutata, portandole subito la sua roba e togliendole con un strappo deciso cerotto e ago dal braccio, era stato l’infermiere con i piercing. Dopo aveva corso alla cieca lungo i corridoi, fino al parcheggio; arrivata in strada, aveva preso un enorme respiro con le mani sulle ginocchia per lo sforzo e il fiato corto e aveva capito di aver fatto la cosa giusta.
Col sangue che le colava dal buco sul braccio, aveva cercato il telefono per avvertire Filo che però non rispondeva, quindi aveva preso la macchina ed era corsa dall’unica persona di cui si sarebbe sempre fidata. Il suo papà.
 
A Lazise c’era rimasta per quasi una settimana, in ritiro dal mondo.
I suoi, dopo l’iniziale reticenza, le avevano dato pieno appoggio. Sua madre aveva storto il naso, le aveva fatto una predica infinita, ma alla fine l’aveva abbracciata e Alice sospettava fosse anche perché aveva sempre avuto un debole per Manuel. Suo padre era più che altro sconvolto all’idea di diventare nonno, però, come aveva previsto, era corso a far conti e a razionalizzare a modo suo.
Filo era arrivato al sabato, ancora col borsone della squadra in macchina, l’aveva guardata e abbracciata, poi come due adolescenti depressi si erano messi a chiacchierare sulle sdraio in giardino, sotto le stelle, nonostante fosse ormai ottobre.
- Quindi ora che farai? - Si portò la sigaretta alle labbra senza guardarla. - Pensi di avvisarlo?-
Alice ci aveva pensato parecchio, non poteva negare di amare ancora Manuel, né di aver sperato che lui apparisse magicamente al suo fianco, ma metterlo al corrente avrebbe significato legarlo a lei, a loro, a vita. E non era sicura di volergli fare questo.
Se aveva deciso di tenere quel bambino era soprattutto per non dover combattere tutta la vita con i propri sensi di colpa e con i rimpianti, di quelli poi ne aveva già abbastanza. Non poteva costringere anche lui a stravolgersi la vita.
- No. – sussurrò. - Manterremo il segreto: io, tu, i miei, nessuno dovrà sapere che è suo. Mi inventerò una storia su qualcuno con cui sono stata quest’estate, porterò avanti la gravidanza e lo crescerò da sola. Saremo solo lui ed io. -
Filo si voltò a guardarla ed anche al buio era certa che il suo sguardo le stesse chiedendo spiegazioni.
- Non lo rivoglio nella mia vita, non mi fido di lui e non mi fiderò mai. Non posso affidargli questa cosa. -
Rimasero entrambi in silenzio per un’eternità, lui fumava mentre lei elaborava valide scuse da propinare a se stessa.
- E non vuoi costringerlo a sconvolgere la sua vita per te. Vero? -
Come faceva a leggerla sempre? Come faceva a farla piangere col potere di dieci parole? Le lacrime arrivarono subito, aveva un dannato bisogno di piangere e non lo faceva da quando si era presentata sulla porta dei suoi.
Forse Filo avrebbe capito, anzi l’aveva già fatto, ma gli altri? I suoi genitori? Non era certa di potersi fidare di sua madre, sarebbe stata capace di trascinare Manuel da Londra a Verona per un orecchio. Jack e Chiara? Non sarebbe stato facile mentire a loro, forse avrebbero intuito comunque. E Albertini? L’avrebbe sbattuta fuori appena rientrata da quei giorni di malattia e il suo contratto durava appena due anni.
Le prospettive erano tutto tranne che rosee e, probabilmente, scappare da quella sala operatoria sarebbe diventato il più grande rimpianto della sua vita, ma ormai aveva deciso. Era in ballo.
- Ah, bene. Vorrà dire che diventerò lo zio più presente nella storia delle famiglie contorte. - sospirò l’altro, gettando il mozzicone nel prato.
Alice d’istinto si alzò ed andò a sdraiarsi accanto a lui, stringendolo forte per la vita. Non aveva altre parole per ringraziarlo, solo lacrime e mormorii insensati.
 
Albertini l’avrebbe licenziata, ne era certa. Aveva atteso di concludere il primo trimestre di gravidanza per andare da lui, voleva scongiurare ogni rischio di aborti spontanei, e nonostante il suo corpo fosse tutto tranne che sano e florido, la gravidanza procedeva bene e senza intoppi.
Gli unici in ufficio al corrente della situazione erano ovviamente Salvatore e Matteo, l’uomo del simulatore. Il secondo l’aveva beccata a piangere e vomitare nei bagni e l’aveva guardata con l’aria di chi ha l’occhio allenato, il primo l’aveva saputo al rientro dal suo permesso per malattia e ci era quasi rimasto secco. Aveva, nell’ordine: ribaltato il caffè sul portatile, rovesciato la sedia con le rotelline e fatto cadere la stampante inciampandosi nei cavi. Poi era corso ad abbracciarla.
Alla domanda: “Chi è il padre?”, Alice aveva messo in piedi per la prima volta la versione che avevano concordato lei e Filo.
- Uno con cui sono stata quest’estate. Gli ho telefonato e ha risposto che lui sta per sposarsi e non vuole saperne niente. Mi ha solo chiesto se mi servivano dei soldi, quelli me li avrebbe mandati. -
Salva nel complesso l’aveva presa anche bene, aveva iniziato a chiamarla Fornetto, le portava tutte le mattine un thermos di tè, per impedirle di bere caffè, e aveva impostato sul suo pc un calendario di controllo della gravidanza in cui annotare visite, esami del sangue e tappe di crescita del bambino. Era stato lui ad insistere fino allo sfinimento perché andasse ad implorare Albertini; sosteneva che avrebbe capito e l’aveva convinta dopo due settimane a prostrarsi per avere informazioni sul suo contratto, finché non si era decisa a prendere coraggio ed andarci.
Quella mattina si era messa il più sobrio dei suoi abiti da ufficio, jeans, stivali con ragionevolissimo tacco dieci e camicia azzurra, sotto cardigan di cachemire antracite. Era decisa a non apparire povera e disperata, come le aveva proposto Filo, ma decisa e combattiva.
Aveva bussato all’ufficio del capo venti minuti prima della pausa pranzo e lui l’aveva ricevuta subito con un sorriso conciliante.
Era un uomo solido, il suo capo ufficio, dall’apparenza esile, smilza e un po’ ingobbita come tutti gli ingegneri, ma al contrario di Nestri, che anche nei suoi momenti migliori appariva grigio e piatto, Albertini sapeva ergersi e spiccare sugli altri, sapeva essere un leader e tener testa a clienti pazzi e richieste improponibili o contabili dalla manica stretta.
- Dottor Albertini, volevo chiederle informazioni sul mio contratto. - Al suo sguardo perplesso Alice si convinse di dover dare maggiori spiegazioni. - Scade a fine dicembre e avrei bisogno di sapere se è confermato il rinnovo di cui mi aveva parlato… -
L’espressione stupefatta sul suo volto trovò un’accezione più curiosa e le si rivolse con maggior attenzione.
- Sinceramente, ancora non ne avevo parlato con l’ufficio personale, ma Isanda non mi ha mai creato problemi per i contratti di voi ragazzi. Perché queste domande? Hai avuto altre offerte? -
Nonostante le altre offerte ci fossero state, le aveva sempre declinate; quello studio lavorava a livello internazionale ed era uno dei più quotati d’Europa, non l’avrebbe lasciato volontariamente per nessun motivo al mondo. Si costrinse a correggere le sue richieste con maggior umiltà possibile. Avrebbe scoperto il fianco, ma era l’unica cosa da fare.
- Io… avrei bisogno di certezze per l’anno prossimo. Non ho avuto offerte, ma ho un problema personale che mi costringe a… non so come dire… - era estremamente imbarazzate confessare al proprio maestro di star mettendo a rischio la propria carriera per aver dimenticato il preservativo.
- Io sono incinta e voglio tenere il bambino e se possibile non perdere questo lavoro. -
Nessuno mai al mondo le avrebbe rinnovato quel contratto, sapendola incinta, e lei lo sapeva. Albertini rimase in evidente trance per alcuni secondi, poi inaspettatamente balbettò delle congratulazioni imbarazzate.
-Non sapevo avessi un compagno, a Semprini crollerà il mondo addosso. - mormorò sogghignando - In ogni caso, congratulazioni! -
Imbarazzata sistemò tutte le sue carte in tavola, doveva apparire determinata e un pochino disperata, se voleva strappare una qualche rassicurazione.
- No, io sono sola non ho un compagno, è stato un incidente ma voglio tenerlo. Questo però non significa che starò a casa; lavorerò fino al giorno del parto, non voglio prendere la maternità, mi basta un po’ di tempo per riprendermi dopo, poi tornerò al lavoro. Ho i miei che mi aiutano e lo terrà mia mamma... -
- Frena Aroldi, non ce n’è bisogno. - le sorrise con evidente complicità. - Avrai la maternità che ti spetta come tutte, e anche l’allattamento se vorrai. -
Alice era ad un passo dalla gioia, ma ancora non aveva capito se poteva esplodere o no.
- Chiamerò Isanda nei prossimi giorni e vedremo di farti un nuovo contratto, almeno per tre anni. Non posso garantirti l’aumento perché non sono io che gestisco questi particolari, ma posso garantirti il posto. Sei brava, preparata e una gran lavoratrice, riesci a far sgobbare anche Salvatore e sei una delle poche che parla inglese decentemente, non vedo perché dovrei mandarti via ora. -
Se avesse potuto l’avrebbe abbracciato, ma, per evitare, si profuse in mille ringraziamenti commossi e gli promise che avrebbe lavorato fino all’ultimo giorno possibile.
Uscita da quell’ufficio corse in lacrime da Salvatore e poi a chiamare Filo, sua madre e anche Matteo del simulatore. Non ci poteva credere che le avrebbero rinnovato il contratto per tre anni e, inaspettatamente, col telefono che le tremava tra le mani, di nuovo l’unica persona con cui avrebbe voluto gioire viveva oltremanica e non immaginava nemmeno tutto quello che stava succedendo.
Quella stessa sera corse a casa di Jack e Cici, attese il ritorno dei due fratelli dal lavoro preparando la cena con l’amica e a tavola li sconvolse con l’annuncio. Di nuovo, alla domanda chi fosse il padre, propinò la storia dell’uomo misterioso che l’aveva piantata in asso. Ci furono parecchie insistenze, minacce di tribunali e ripercussioni legali, ma fu lei a chiarire che quel bambino era solo e soltanto suo, e gli altri non poterono che gioire con lei.
 
In breve la notizia si sparse a macchia d’olio tra i suoi amici, tutti le telefonarono per congratularsi e Andre le mandò persino un mazzo di fiori a casa. Laura era adirata per averlo saputo dopo Cici, ma non bisognava darle peso, era il suo modo di essere sconvolta e felice per lei, mentre Paolo, che già sapeva tutto, rinnovò la sua offerta di aiuto clinico ogni volta che ne avesse avuto bisogno. Le ragazze organizzarono un cena enorme per festeggiare, rigorosamente nella tenuta degli Zonin, a cui fu invitata tutta la grande famiglia, amici, fratelli, fidanzate e fidanzati. Sembrava di essere a Natale quando Cici organizzava il grande cenone della vigilia con amici e parenti amorevolmente riuniti.
In mezzo a tutta quella bolgia di gente brilla e rimpinzata di cibo, Alice si era sentita a casa, accolta e coccolata da tutti; li aveva guardati ridere e scherzare con i loro bambini, fumare a debita distanza da lei e controllarle il piatto per accertarsi che mangiasse, l’avevano abbracciata baciata e strapazzata. Filo era stato seduto accanto a lei tutto il tempo e persino Jack l’aveva guardata con la stessa espressione di suo padre.
E ancora, in mezzo a tutti, Alice aveva sentito la mancanza di qualcuno. Erano sempre loro, il vecchio gruppo delle Stimate, con qualche aggiunta, con qualche perdita, ma sempre loro. L’unico che mancava era sempre Manuel.
 
La domenica dopo il gran cenone era rimasta a casa tutto il giorno ad oziare sul divano per dedicarsi alle sue nuove letture.
Se doveva diventare madre, aveva deciso che l’avrebbe fatto a modo suo, ovvero studiando. Un pomeriggio era andata alla Mondadori e aveva speso un centinaio di euro in libri sulla gravidanza, il puerperio e la prima infanzia, ed ora aveva iniziato a studiare, leggendo, sottolineando e cercando di imparare il più possibile. Questo era il suo modo di affrontare il futuro, provando di essere preparata il più possibile. La sua intelligenza e la sua preparazione le avevano sempre dato la sicurezza per scontrarsi con l’ignoto e anche in questo caso confidava nel suo QI.
Certo, c’erano cose disgustose in quei libri, tra placenta, liquido amniotico e tappi mucosi, non erano certo letture leggere prima di dormire. E Chiara la prendeva in giro, perché sosteneva che contasse l’istinto più di qualsiasi libro e se la rideva quando Alice insisteva dicendo di non averlo, quell’istinto. La sua risposta era sempre: “Ora non ce l’hai, ma ti verrà”.
Era stesa nel letto, quando il telefono sul comodino si animò con la voce suadente di Chris Martin. Una chiamata in entrata da un numero sconosciuto, un numero strano, non l’aveva mai visto e la sua mente lo ricondusse subito a lui.
- Pronto? -
- Sono Manuel. –
Aveva indovinato. Quella voce le mandò il cuore in gola, si immobilizzò col libro ancora nell’altra mano. Non sapeva che dirgli, si aspettava una scenata.
- Ah. - Non trovò altro da dire. Deglutì e si preparò alla sua scena madre.
Era il momento di sfoderare tutte le sue doti recitative, non doveva lasciargli spazi, né pause per pensare, non doveva dar adito a dubbi. Ciò che si ripeteva sempre quando doveva mentire a qualcuno era un mantra: ‘Se ci credi tu ci crederanno anche loro’ e finora aveva sempre funzionato.
- È mio? -
Ed eccola lì la domanda, posta da quella voce maledettamente ammaliante. Era stato capace di dirle cose meravigliose e terribili con quella voce, eppure ancora lei ne rimaneva incantata.
- No. - Buttò fuori con tutto lo sprezzo e l’indignazione di cui era capace, come se l’avesse accusata di aver affogato un coniglietto nell’acido.
- Stai mentendo? - le chiese con moderata tranquillità.
Come si permetteva quello stronzo di accusarla così? Come si permetteva di accusarla dall’altro lato dell’Europa con il suo tono di sfida?
- No. – Pronunciò quelle sillabe senza nemmeno pensarci, impreparata a quell’insinuazione. - Perché dovrei?-
- Non lo so. -
- Non sono affari tuoi, in ogni caso. - Voleva mettere un punto, in modo da non dargli la possibilità di rimuginare sulla cosa. Non dove pensarci, né immaginare lei e il suo bambino, non doveva nemmeno sfiorarlo l’idea del suo ventre gravido per sua mano.
Manuel rimase in silenzio e a quel punto non seppe bene cosa aspettarsi da lui. Le avrebbe sbattuto il telefono in faccia?
Il silenzio si era prolungato oltre le normali pause di una conversazione, era diventato immobile, tanto che Alice si chiese se lui non avesse davvero riattaccato. Poi percepì un mezzo colpo di tosse e di nuovo la sua voce l’invase. Ora che aveva scongiurato il pericolo paternità era evidentemente più calma e meno tagliente.
- Maschio o femmina? -
Quella domanda la fece sorridere. Manuel che cercava di essere gentile e di conversare era sempre uno spettacolo comico. Non era portato per le relazioni interpersonali e, sebbene fosse cresciuto e avesse abbandonato la fase odio-il-mondo-e-statemi-lontani-perché-mordo, c’era ancora qualche residuo della sua antisocialità nel modo in cui si relazionava con gli altri.
- È ancora troppo presto per saperlo. -
Forse per Natale aveva detto la ginecologa.
Altro silenzio e capì che quella stasi era finita.
- Senti, ora io… -
- Sì, anch’io. - si affrettò a dirgli per concludere quel momento imbarazzate.
Sembravano due adolescenti alla prima cotta al telefono, con l’innamorato che ha appena chiesto il primo appuntamento.
- Beh, ciao. -
- Sì, ciao. A presto. -
In meno di cinque minuti era finito tutto. Era salva, gli aveva venduto la sua menzogna ed ora poteva andare avanti in pace.
Rimase immobile nel letto per interi minuti, con la mano che senza ragioni aveva cercato il suo ventre. Respirava piano e cercava di riconnettere il cervello.
Il primo istinto fu quello di lanciare qualcosa contro il muro, il secondo di andare a scolarsi un paio di bicchieri di vodka per dimenticare l’accaduto, il terzo di chiamare Filo.
L’unica cosa che fece, invece, fu rimanere immobile con le mani sulla pancia.
- Ehi fagiolino, l’hai sentito? Quello era tuo padre. -














Inutile spazio autrice:
Ebbene... sono viva.
Non ci sono scuse realistiche per questo ritardo clamoroso. Nonostante tutti i melodrammi familiari, il lavoro, il Fida, e quant'altro, avrei potuto scrivere.
Solo che non ne avevo lo stimolo.
Questo capitolo è per me fondamentale e volevo che venisse bene. Le vicende che mi hanno portata a scrivere questa parte e a decidere che così si sarebbe svolta la storia, sono state per me molto importanti e formative, spero che possiate trarne spunto anche voi. Allo stesso tempo mi rendo conto che sono argomenti, scelte e conseguenze, molte delicati e che non tutti potrebbero condividerne l'esito. 
Io vi chiedo solo di non tediarmi con la vostra opinione in merito ad aborti gravidanze e clericalismi vari, non che non mi interessi, ma non è questa la sede opportuna. Questa è solo una storia che parla di tanti tipi di amore scritta da una povera derelitta che si illude di raccontare qualcosa di interessante.
Lungi da me darvi lezioni di morale!
Grazie a tutti per la pazienza e in anticipo a tutti quelli che recensiranno e a tutti quelli che hanno letto.

Per ragioni a me sconosciute NVU non funziona più sul mio pc, quindi sono stata costretta ad utilizzare l'editor di efp (che non so usare!!), per questo il capitolo risulta impaginato diversamente dai precedenti. Quando e se scoprirò come sistemarlo lo farò!
1Bacio. Vale.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Travolti da un insolito destino


Capitolo 9




Era da poco iniziato dicembre e la città brillava in pieno fervore natalizio, c’erano le gigantesce decorazioni luminose di Harrod’s, quelle psichedeliche di Carnaby Street, l’albero immenso di Trafalgar e il London Eye pronto per il capodanno.
Casa loro invece non era stata addobbata per quel Natale visto che non l’avrebbero passato lì, solo un microscopico alberello di plastica se ne stava sconsolato e spoglio sul davanzale della finestra del salotto. L’aveva messo Kate che adorava il Natale in modo viscerale, contro il parere di Manuel, per ricordagli delle feste aveva detto. Come se tutto il resto della città illuminata a giorno 24 ore su 24 potesse farglielo dimenticare.
Era un sabato mattina, forse l’alba, quando venne svegliata da uno strano rumore nel corridoio che all’improvviso era cessato. Non poteva essere Manu perchè quel suono era pericolosamente simile a un paio di tacchi da donna contro il parquet.
Lasciò il letto con uno scatto da velocista mentre ancora formulava queste ipotesi, inforcò la vestaglia di lana e si affacciò come un segugio nel corridoio facendo appena in tempo ad incrociare lo sguardo con una bionda che si stava chiudendo il portone alle spalle.
L’ennesima ragazza che sgusciava via alle prime luci dell’alba, la quarta nelle ultime due settimane e dopo quasi un anno di solitudine. Sospirò voltandosi verso la porta di fronte alla sua, la fuggitiva l’aveva lasciata socchiusa, la scostò leggermente per vedere se lui fosse sveglio, ma lo trovò mezzo nudo e ronfante al centro del letto. Le lenzuola erano sfatte e i suoi vestiti giacevano a terra alla rinfusa, una scena vista e rivista ma che credeva ormai sorpassata.
Quando molte ore dopo sua maestà il principe di casa decise di graziarla con la sua regale presenza, Kate aveva già riordinato mezza casa, fatto il bucato e la spesa, pulito il bagno e persino scambiato due chiacchiere sul pianerottolo con la loro vicina. Sua magnificenza si presentò ai sudditi in mutande e calzini, un olezzo alcolico attorno che avrebbe steso un elefante, con un gnugnito che reclamava caffè e la peggior aria scazzata degli ultimi mesi. Kate da bravo ciambellano di corte gli versò una tazza di brodaglia nera e chiuse le tende per permettergli di aprire almeno gli occhi, ma non gli risparmiò le parole che meditava da alcune ore.
-Fai sul serio? E’ la quarta che vedo uscire all’alba nelle ultime due settimane?
-La quinta…- osò brontolare lui con le labbra ancora sulla tazza.
Roteò gli occhi al cielo di fronte a quella dichiarazione da orgoglio testosteronico offeso, Manuel poteva giocare al playboy con tutti tranne che con lei.
-Cos’è una sorta di sfizio da trentenni prendersi la sifilide entro la fine dell’anno? Oppure hai qualche reminescenza da adolescente arrapato?
Lui ancora mezzo addormentato la guardò come se avesse parlato cinese.
-Capisco che nell’ultimo anno non hai avuto molto tempo per uscire con qualcuna e capisco anche l’impossibilità di impegnarsi in una relazione, ma ancora non ti è passato lo sfizio della sveltina?
Manuel la guardava con un solo occhio aperto ed evidente perplessità: - E poi guardati?! Quanto hai bevuto? Devi smetterla di uscire con Andrew, lui fa una vita da cane randaglio, tu hai un lavoro te lo ricordi?
Istintivamente annuì senza sapere a che cosa stesse rispondendo.
-Te lo ricordi che domattina hai un aereo per Amsterdam?
Questo l’aveva capito, e no, non lo ricordava.
Qualcosa nella sua espressione però doveva averla fatta incazzare ulteriormente.
-Manuel ti prego... – inizò a lagnarsi con un tono esasperato – Anzi no, lascia stare, fai quel che ti pare.
All’improvviso gli tolse la tazza dalle mani per gettarla nel lavandino con malgrazia e gesticolando sbraitò parole assurde: -E poi è meglio così. Sfogati ora, prima di rivederla, tanto stavolta non avrà certo tempo per star dietro alle tue moine visto che è incinta.
Incinta?
Istintivamente qualcosa si accese nel suo cervello, comprese il soggetto della frase, ma si limitò a fulminarla.
Qualunque cosa le avesse risposto in quello stato sarebbe stato un punto a suo favore. Era così che funzionava con lei: dirle di farsi gli affari suoi era inutile perchè non l’avrebbe fatto, fingere di non capire di cosa stesse parlando la incentivava a rigirare il dito nella piaga, darle corda e negare era lo spunto per permetterle di psicanalizzarlo e infine mandarla a quel paese di nessuna utilità visto che gli avrebbe riso in faccia. Quindi tentò la via dell’indifferenza.
-La cosa non mi riguarda.
Kate sghignazzò in risposta a quella frase.
-Come credi – gongolò – Partiamo tra due settimane, hai tutto questo tempo per convincerti che sia vero.
Il giorno dopo Manuel si sentiva ancora come se gli avessero trapiantato lo stomaco al contrario, ma partì per Amsterdam come da programma, ci furono due aste di scarsa importanza alle quali partecipò con riluttanza, i pensieri che vagavano di continuo alla discussione con la sua migliore amica. Passò tutto il tempo libero a girovagare per quella città sconosciuta sferzata da un vento gelido, cercò conforto in un paio di locali, persino in uno streap club, con esito insoddisfacente.
Il cervello non si spegneva più, gli saliva solo la nausea al pensiero di un altro sogno che l’Italia gli aveva strappato.
Non era bastata la vita bucolica di Jack che gli era stata sbattuta in faccia, non era bastata la casa proprio come la sognava lui, ne la moglie e il figlio che lo aspettavano a casa a braccia aperte proprio come aveva immaginato Manuel per se stesso. No, ora persino lei, l’unica che avesse mai ricoperto un ruolo da protagonista nei suoi sogni, persino lei gli aveva voltato le spalle portando in grembo il figlio di un altro.
Si rendeva conto del suo delirio di onnipotenza e dell’egoismo delle sue pretese, ma l’alcol e la solitudine non facevano altro che acuire quel senso di inadeguatezza che lo perseguitava da giorni; era come un mal di pancia, un malessere che non passava mai e se ne stava lì sempre, sul fondo delle sue giornate per tormentalo.
Kate aveva ragione, ora Alice aveva altro a cui pensare, non poteva curarsi di lui, ne di tutto il rancore ne degli stupidi rimpianti che avrebbe voluto rinfacciarle, e lui avrebbe fatto meglio a seppellirli sotto strati e strati di indifferenza prima di rivederla.
 
La sera prima del volo per l’Italia in casa c’era un clima strano, non di tensione, anzi nonostante tutto c’era un silenzio ovattato e rilassato.
Manuel non era entusiasta della partenza. Come l’estate precedente però non aveva avuto voce in capitolo per decidere: Kate aveva chiamato Kendra la segretaria dell’ufficio, chiesto quando sarebbero iniziate le loro ferie e prenotato i biglietti senza chiedergli nulla, presentandogli solo la data della partenza, un biglietto aereo e una lista di regali da acquistare. E lui semplicemente si era adattato.
Dopo cena la sua valigia giaceva ancora vuota sul pavimento al centro della stanza.
Kate l’aveva trovato lì, impalato sul suo letto davanti all’armadio aperto, lo sguardo perso nel nulla e le mani in grembo.
Non aveva osato fare domande.
-Google dice che nevicherà - Manuel non le rispose, si limitò ad un cenno distratto mentre la osservava affaccendarsi nel suo guardaroba.
In mezz’ora aveva accatastato maglie camicie e maglioni nella valigia, svuotato il suo cassetto della biancheria e rivoltato le scatole con l’abbigliamento invernale. Gran parte dei suoi effetti personali erano già pronti in una busta in bagno e lei si era limitata a sistemarla nel bagaglio così com’era visto che Manuel li teneva sempre pronti per i viaggi di lavoro. Ogni tanto lo interpellava per chiedere se preferiva un capo o l’altro, a volte Manuel le rispondeva, altre volte si limitava a monosillabi, altre a seguirla con gli occhi e ignorare alla gran parte delle sue domande. Gli aveva riempito persino la tracolla con pc tablet e tutti i suoi trastulli lavorativi, preparato le scarpe e i vestiti per il giorno dopo. Le rivolse solo poche domande: le chiese se avesse preso cuffia, sciarpe e i suoi occhiali da sole e infine si chiuse sotto la doccia e filò a letto senza più degnarla di una parola fino al mattino successivo.
Il giorno dopo si era stampato in faccia la miglior espressione da odio-il-mondo-e-mordo del suo repertorio, quindi Kate l’aveva lasciato ribollire nella sua acidità per tutto il viaggio, scambiando con lui le poche frasi necessarie.
Questa volta per economizzare erano atterrati a Milano ed avevano noleggiato una macchina per raggiungere Verona e per potersi spostare senza l’aiuto degli Zonin durante la permanenza, tutto ad opera di Kendra ovviamente.
Di nuovo ritrovarsi in poche ore catapultati in un luogo dove il mondo parla finalmente la lingua dei tuoi pensieri, era stato destabilizzante, dove le insegne, i cartelloni e qualsiasi parola attorno a te ha il sapore familiare di qualcosa che non richiede nessuno sforzo per essere compresa, che parla di te, del tuo passato e dei tuoi ricordi. Stavolta inoltre non c’era nessuno ad aspettarli fuori dal gate e a distrarlo dai suoi pensieri.
Kate si era già fatta consegnare le chiavi della Fiat a noleggio, aveva firmato tutti i documenti e persino comprato del cibo, mentre lui ancora si guardava attorno in bilico tra follia e realtà, poi l’aveva letteralmente trascinato fino all’uscita del terminal e gli aveva anche ordinato di caricare i suoi mille bagagli in macchina.
Si era risvegliato dall’assenza di reattività che lo accompagnava dalla sera precedente quando l’aveva vista salire tutta entusiasta e con un sorriso enorme sul sedile del guidatore, forse era stato l’istinto di sopravvivenza, perchè in un istante le aveva ordinato con un solo sguardo di cambiare posto. Indignata e brontolante lo lasciò guidare per poi voltarsi e ridere sotto i baffi.
 
Casa Zonin si era prevedibilmente trasformata in un fastidioso nugulo di perfezione natalizia. Appena arrivati la sua bastarda migliore amica si lasciò scappare un gridolino estasiato alla vista della casa decorata esternamente da file di lucine bianche e Manuel non potè che imprecare contro Jack che non aveva nulla di meglio da fare che farsi schiavizzare dalla moglie.
L’interno era una sfacciata riproduzione della casa di Babbo Natale, di cui in tutta probabilità Cici andava fierissima: subito vennero investiti da un olezzo di dolci appena sfornati e vaniglia che ormai doveva essere permeato fino nei muri e dalla magnificenza di un albero di natale tutto rosso e oro alto fino al soffitto. Il salotto sembrava esser stato preso d’assalto da uno stuolo di decoratori con la mania dei finti rami d’abete, mentre la cucina fortunatamente ancora manteneva la sua integrità e li attendeva piena di lecornie preparate dalla padrona di casa.
Li accolsero col solito calore i fratelli Zonin e la buon anima di Chiara che ancora li sopportava entrambi, mentre Tommy giocava con sul tappeto e li degnò appena di un breve saluto con la manina. Jack lo abbracciò stretto e Filo lo travolse con un urlo cavernicolo e un mezzo pugno sulla schiena.
-Ti sei portato la citrosodina? Perchè Cici sta cucinando già da tre giorni, non so se usciremo vivi da queste feste - scherzò il più vecchio dei due con un’occhiata ridanciana verso la donna.
La cognata lo minacciò di lasciarlo a digiuno fino a Pasqua mentre li raggiungeva dalla cucina col suo solito candore mammesco, i capelli le erano cresciuti un po' in quei pochi mesi, il suo sorriso invece era come sempre caldo e accogliente. Lo abbracciò stretto e come in luglio lo ringraziò di essere lì con loro. Cici come la sua casa, odorava di biscotti caldi, vaniglia e di un sapore buono che non ti si scollava più dal naso.
-Che è successo ai tuoi capelli?- gli chiese passando una mano tra la criniera disordinata che sfoggiava il suo ospite d’oltremanica.
Manuel non era mai stato uomo da badare ai suoi capelli ne al suo look, fosse stato per lui li avrebbe rasati a macchinetta tutti uguali per praticità. Per sua fortuna per tutta la vita aveva sempre avuto attorno donne accorte e consapevoli del suo valore estetico, che avevano scelto per lui come si conveniva: prima sua madre, poi Sonia, dopo di lei Alice ed ora infine Kate.
Con Alice li portava cortissimi con la cresta, all’epoca andavano di moda così, negli ultimi anni invece più lunghi, ordinati e pettinati per esigenze di lavoro. Ora era tornato alla sua vecchia zazzera spettinata. Le spiegazioni erano arrivate da Kate metà in inglese metà in italiano, prima che lui potesse aprir bocca.
Un’ora dopo non erano già più ospiti appena arrivati ma parte integrante della vita domestica, Kate cucinava insieme a Cici mentre Manuel, in qualità di traduttore, doveva rimanere a distanza d’orecchio, quindi si aggirava in calzini per la cucina con una tazza di tè in una mano, l’ipad nell’altra e un biscotto alla cannella in bocca.
La cena, come nelle sane abitudini Zonin, era stata abbondante e ricca di colesterolo e grassi insaturi, eppure gli uomini a tavola avevano spolverato tutti i piatti sotto al sorriso compiaciuto della cuoca; si era parlato più che altro delle imminenti feste natalizie e dei progetti per capodanno dei quali gli ospiti ancora non erano informati. Più che chiacchiere familiari, Manuel si era visto coinvolgere in un vero e proprio concilio di guerra in cui Chiara era il generale supremo delle truppe che impartiva ordini ai suoi ufficiali: c’erano liste di compiti dedicate ad ognuno, una tabella di marcia sulla lavagna della cucina, il menù completo del giorno di Natale stampato e plastificato appeso al frigo e una fitta rete di collaboratori da tenere controllati. Ordinaria amministrazione in casa Zonin.
Aveva così scoperto che la loro tradizione voleva che passassero il Natale tutti lì, nella grande sala da pranzo degli Zonin senior: Cici e sua suocera avevano innescato la nuova consuetudine del “più siamo meglio è” da quando si erano trasferite in campagna.
-Non è più un pranzo di Natale, sembra più la mensa dei poveri single bisognosi d’affetto - aveva commentato Filo scatenando l’ira della cognata e l’ilarità del fratello.
Quindi oltre al padre di Cici, sua nonna, un paio di cugini e i suoceri, sarebbero arrivati anche: Charlie, che da quando sua madre era morta non parlava più a suo padre e si rifiutava di seguirlo alla Corte Carlini per il pranzo, Alice e la sua pancia in fuga dalle malelingue Aroldi, Andre che era orfano assieme la sua ragazza direttamente da Padova, Paolo da solo e in reperibilità per l’ospedale e dulcis in fundo tutto il clan della famiglia di Laura e Lorenzo genitori compresi, ovvero altri sette.
Le padrone di casa viaggiavano secondo il resto della famiglia, tra stati di euforia e totale disperazione da ormai due settimane, anche se ora già subodoravano la possibilità di assoldare Kate come nuova sguattera mentre Manuel la compativa con un sorrisetto di scherno.
Il Natale dagli Zonin si prefiguarava di certo impegnativo, ma di sicuro si sarebbero fatti parecchie risate.
Seguendo la rigida scaletta operativa del Caporale Maggiore Chiara Zonin, le donne passarono l’intera antivigilia di Natale a cucinare come se dovessero nutrire un esercito di Unni affamati da un mese, e mentre Filo si era dato alla macchia, Jack, Manuel e il persino il piccolo Tommy furono incastrati in un tour di commissioni che sembrava non avere fine. C’erano centrotavola da ritirare, parenti da salutare a cui consegnare ceste e regali e carenze di ingredienti dell’ultimo minuto a cui sopperire, il tutto in una Verona sovraffollata e sovreccitata come Manuel non la vedeva da parecchi anni.
La sera del 23 passarono una bellissima serata a bere birra davanti al camino mentre Cici finiva d’impacchettare gli ultimi regali per il figlio e Filo aggiornava gli ospiti sui disastri natalizi avvenuti negli ultimi anni: c’erano state fidanzate impacciate raccattate all’ultimo minuto, un collega di Charlie che sarebbe stato solo e Cici aveva insistito per invitare e che alla fine ci aveva provato spudoratamente con suo marito, Lori e Jack ubriachi prima della nascita dei rispettivi figli che finivano a culo all’aria nella neve, Alice che qualche anno prima si era messa in testa di preparare la zuppa inglese e ci aveva messo il sale anzichè lo zucchero e Filo che dopo anni di figure di merda a furia di riciclare regali alle stesse persone, si era messo a regalare bottiglie di vino a tutti.
Anche Manuel e Katelin avevano raccontato le loro festività passate insieme. Cominciando dalla prima, un giorno orrendo nei ricordi di Manuel che dopo un pranzo natalizio disastroso solo con suo padre, si era ritrovato ubriaco fradicio sullo zerbino della sua amica ad implorarla in un italiano impastato di riportarlo a casa; lei non ci aveva capito molto, ma l’aveva messo a mollo nella vasca, lavato da tutto il sudiciume che si portava addosso e dentro e l’aveva costretto a letto per tutto il giorno successivo. Raccontarono della faccia di Manuel al primo Natale a Greenwich dai suoi, quando la madre di Katelin gli presentò tutta orgogliosa il suo pudding e lui quasi si spaccò i denti trovandoci una monetina portafortuna all’interno. O dell’anno in cui Manuel dopo pranzo si era addormentato durante il discorso della Regina e si era preso uno scappellotto dalla nonna.
Intanto fuori la pianura si ricopriva di neve preparandosi così egregiamente ad un Natale con i fiocchi.
 
Il giorno successivo la maratona culinaria di Cici si concluse appena prima di pranzo e riprese poco prima di cena dando così ai suoi sottoposti una mezza giornata di riposo. Jack se la filò appena possibile per ritirare il bracciale di brillanti che aveva comprato alla moglie mentre Kate trascinò il suo migliore amico per mercatini di Natale ignorando la sua palese reticenza.
Era passato ormai metà pomeriggio quando rientrando trovarono Cici in piedi in mezzo alla cucina con Tommy in braccio e il cordless sulla spalla che parlava tutta concitata al telefono e intanto scriveva a velocità supersonica sul cellulare.
-Sì, ho sentito arrivare Jack… eccolo è appena entrato - con ampi gesti fece segno ai tre di raggiungerla e mollò il figlio in braccio a suo padre mentre annuiva all’invisibile interlocutore -Richiamami se hai problemi e dagli un bacio da parte mia.
Chiuse la convesazione e guardò sfibrata il marito.
-Cos’è successo stavolta?
-Tuo fratello! Era in giro con Alice, non ho capito come sia successo, è scivolato su una scala e si è slogato di nuovo la caviglia. L’ha portato lei al pronto soccorso, pare sia una cosa leggera questa volta, gli hanno messo un bendaggio e dovrà usare le stampelle dieci giorni.
L’impressione di Manuel fu che fossero abituati a certe situazioni.
-Come diavolo ha fatto?
-Non l’ho capito, Ali era parecchio incazzata.
Jack mollò il figlio di nuovo alla madre e cominciò a frugarsi nelle tasche della giacca che non si era nemmeno tolto: -Vado a riprenderlo. In che ospedale sono?
-Non serve, lo sta riportando qui lei di corsa perchè i suoi l’aspettano a Lazise stasera.
Ed eccola lì la frase che Manuel stava aspettando con tutti e cinque i sensi all’erta.
-Che coppia di impediti! - brontolò Jack sfilandosi la giacca.
Non la vedeva da mesi. Sopratutto non la vedeva dalla notte che aveva passato nel suo letto. Era un ricordo vivissimo nella sua mente eppure sigillato in cassetto chiuso a varie mandate di chiave. Poi aveva saputo della gravidenza e anche quella storia aveva richiesto un cassetto con una grossa serratura, ma ora non stava nella pelle all’idea di vederla nemmeno lui sapere spiegarsi perchè.
Nella sua mente doveva avere già un pancione enorme, non sapeva davvero un cazzo di gravidanze, però lei era così esile che la immaginava già bella rotonda. Magari anche con qualche chilo in più su quelle costole ossute, l’immagine era in un certo senso sensuale nella sua mente.
L’arrivo dei due sventurati si palesò dieci minuti più tardi con un gran trambusto di chiavi, imprecazioni e oggetti che rotolavano a terra.
I coniugi Zonin corsero alla porta a dare assistenza lasciando indietro Manuel e Kate ad osservare la scena: novanta chili di cestista tutto muscoli e poco cervello varcarono la soglia usando come stampella uno stuzzicadente di carne e ossa di appena cinquanta chili, di cui dieci di capelli, in bilico su uno stivale con tacco. Definirli fantozziani sarebbe stato riduttivo.
In qualche modo dopo aver fatto cadere un paio di soprammobili di Chiara, guadagnarono il divano su cui si gettarono entrambi senza grazia; Alice ansiamava come se avesse appena corso i 100 metri mentre il suo assistito imprecava sottovoce contro tutto l’universo conosciuto.
Manuel a dispetto della preoccupazione di tutti gli altri sorrideva giulivo. L’ultima visita gli aveva lasciato un’immagine di Alice sempre composta, imbalsamata, quasi plastificata. Mentre in quel momento gettata scomposta a pancia sotto sul divano, con i capelli spettinati, le guance accese dal freddo e dalla fatica e le mani ancora saldamente aggrappate alla falda del cappotto di Filo, gli ricordava la ragazza dei suoi incubi, quella col vestito blu che dispettoso si muoveva nel vento assieme ai suoi capelli.
-Allora coglione che hai combinato? - Jack con le mani sui fianchi interpellò il fratello con l’ombra di una risata nella voce.
-Ma niente sono inciampato - imbarazzato tagliò corto per cercare di rimettersi dritto con l’aiuto di Chiara.
Alice riprese fiato in tempo per polemizzare al suo indirizzo: -Dilla tutta!
Ghignante si rivolse agli amici: -Eravamo alla fine dalla scala mobile, ma gli è passata accanto una tizia con una microgonna e un profumo orrendo e lui come un coglione si è girato per inseguirla, ma ha imboccato la scala mobile in senso opposto ed è volato piedi all’aria.
Gli altri scoppiarono a ridere come pazzi, il minore degli Zonin intervallava risate e insulti mentre Manuel dovette sedersi perchè gli mancava l’aria. Chiara aveva portato del ghiaccio dalla cucina e stava sistemando la gamba del cognato su un cuscino assieme a Kate, ma non riuscivano a trattenere le lacrime.
La foto del ferito, inviperito col mondo ovviamente fece il giro dei loro amici entro sera. Quella storia sarebbe rimasta negli annali, l’avrebbero raccontata per anni anche ai nipoti.
Sistemato Filo sul divano con il nipote a tenergli compagnia, Alice guardò l’orologio e scattò in piedi.
-Devo scappare i miei mi aspettano – recuperò compostezza e afferrò la borsa dal divano.
Con grande disappunto di Manuel non si era nemmeno tolta il cappotto, la curva del suo ventre era appena percettibile sotto gli strati di stoffa.
-Posso prendere la tua macchina?
Filo alzò le spalle: -Tanto dove vuoi che vada?!
-Non è il caso che te ne vai in giro con quel catorcio da sola, e sta anche iniziando a nevicare di nuovo. Ti accompagno io.
Jack stava già trafficando con l’attaccapanni, quando s’intromise sua moglie: -Scusa ma mio padre ti aspetta tra mezz’ora.
Ci fu una mezza discussione familiare tra marito, moglie, Alice e Kate. Manuel invece si era isolato in un momento di intimità tra lui, una scatola di biscotti al cioccolato appena sfornati da Cici e un livello particolarmente difficile di Angry Birds, non aveva quindi assistito finchè Kate non aveva tirato fuori il suo nome.
-Manu why don’t you take her?
-Where?- non aveva nemmeno alzato la testa dall’ipad, aveva perso il filo della conversazione molti minuti prima.
-I don’t know, to her parents’ house i suppose.
Manuel alzò la testa dallo schermo per trovarsi quattro sguardi puntati addosso, chi dubbioso, chi ansioso, chi guardingo. E finalmente comprese in cosa la sua migliore amica l’avesse incastrato.
 
-Mi dispiace che tu sia stato costretto ad accompagnarmi.
-Non è un problema - mugugnò manifestando la solita scarsa propensione alla conversazione.
Rimasero in silenzio a lungo, all’inizio fu un silenzio teso, fatto di sospiri colpetti di tosse e movimenti impercettibili, poi lentamente si trasformò in una quiete morbida e rilassata.
Alice pensava ai regali di natale che ancora doveva impacchettare e alla cena che l’aspettava, piena di parenti che avrebbero guardato storto il suo ventre arrotondato, pronti a sparare a zero su di lei.
Intanto lui guidava tranquillo, una mano sul volante e una sul cambio, si guardava attorno, le luci di Natale avevano preso possesso della città mentre gli abitanti scomparsi festeggiavano in famiglia.
Non gli dispiaceva più di tanto quella situazione.
All’improvviso un rombo e una moto li sorpassò a tutta velocità passando a pochi centimetri dalla fiancata. Manuel imprecò in un misto di italiano e inglese che fece sorridere la sua compagna di viaggio.
-Ma tu guarda questo coglione!
Alice ridacchiò apertamente.
-Una volta guidavi anche tu così - indignato la guardò storto e sbuffando riprese a fissare solo la strada.
-Forse - rispose una volta ritrovata la dignità: -Ma io sapevo quel che facevo al contrario di quello.
Di nuovo lei non potè trattenere la risata sentendo quel tono offeso.
-La tua moto? Venduta?
-Sì ho dato via la Honda anni fa, adesso ho una Kawasaki.
-E immagino che la guidi sempre con prudenza e saggezza – l’ironia di Alice non lo colpì, era evidente che fosse impegnato in altri pensieri.
-Non la guido quasi mai. A casa non saprei dove tenerla, la lascio quasi sempre da mio padre.
-Non avete il garage?
-Avere un garage da noi è un lusso, in auto è un casino girare. Kate ha quella di sua madre ma usiamo quasi esclusivamente la metro o il taxi.
-E con la guida a destra come te la cavi?
Quella conversazione era ridicola, stavano parlando di auto, di casa, di garage. Possibile? Erano banalità, cose di cui non le importava nulla, eppure non riusciva a smetteredi fargli domande o assecondare le sue, non riusciva a smettere di aver voglia di sentire quelle cavolate uscire dalla sua bocca, per sentire la sua voce.
-All’inizio è un casino, specialmente nel traffico. Però ci si abitua, mio padre non so se saprebbe più guidare un auto normale, io invece a casa guido talmente poco che sento ancora la differenza.
‘A casa’ Manuel parlava di Londra come di casa sua e diceva ‘da noi’ per parlare dell’Inghilterra. In un certo modo questo le provocava un dolore sordo in fondo allo stomaco. Non poteva negare almeno a se stessa che tanti anni prima per un certo periodo aveva nutrito in segreto la speranza che prima o poi lui tornasse, se non da lei almeno da loro. Non sperava nel ritorno di un amore che non aveva ormai più nulla di recuperabile ma ci sperava per Jack e Filo sopratutto, che si comportavano spesso ancora come amanti tradite, e per Sonia e suo marito che l’avevano cresciuto come un figlio. Ed ora un po’ ora ci sperava per suo figlio, non avrebbe mai conosciuto suo padre ma almeno l’avrebbe avuto inconsapevolmente vicino e avrebbe potuto far parte della sua vita.
Scelse ancora una volta di tacere, di sfoderare la falsa Alice sorridente e compiacente, un sorrisetto e una frase gradevole.
-Sono contenta di sentirti chiamare Londra ‘casa’, non è facile trovare un posto da poter chiamare così.
Ripensò al tatuaggio che aveva visto quella notte sulla sua spalla e a tutti quei numeri. Manuel forse meritava un po’ di tranquillità. Chi era lei per strappargliela via?
Rimase in silenzio parecchio, tanto che non si aspettava più nemmeno una risposta, temeva di aver fatto un passo falso sollevando un argomento spinoso giocandosi ogni altra possibilità di conversazione.
-Beh non è sempre così – grattava il volante con un’unghia mentre parlava e faceva pause più lunghe – A londra andare a correre è come fumarsi un pacchetto di sigarette intero. Il cibo se non fa schifo è perchè fa male a parte poche eccezioni, che comunque sono troppo costose per le mie tasche. Ci sono momenti in cui ancora non capisco quello che mi dicono, sopratutto gli scozzesi, e tutti mi dicono che ho un accento orrendo. E poi il tempo è una merda, piove sempre e se non piove comunque pioverà il giorno dopo e quello dopo ancora. Uno strazio.
Alice sghignazzava tra se perchè Manuel si lamentava da sempre delle stesse cose, era ancora uno che apprezzava una bella teglia di lasagne e una giornata di sole nonostante cercasse di passare per un sofisticato trentenne londinese.
-Però là ci sono Kate, mio padre, ho un lavoro stimolante, dei vecchi amici Matt e Andrew e qualche altro svitato. Non è perfetto ma è casa mia.
Se prima aveva creduto di rivedere uno spiraglio dei loro ventanni, quella fu una colata di bile nello stomaco.
-Capisco – finse un sorriso accomodante ma provava tutt’altro.
Si ricompose mentalmente e decise che quella conversazione era proprio quello che ci voleva per mettere una pietra sopra ai suoi sogni di famiglia. Non gli avrebbe detto nulla, non si sarebbe fatta convincere da Filo, Manuel aveva un’altra vita e i suoi sogni si stavano realizzando. Magari prima o poi sarebbe tornato in Italia, ma non sarebbe stata lei a costringerlo.
Non lo meritava, era caduto tante volte e si era rialzato, era diventato un uomo intelligente e interessante, non gli avrebbe scaricato addosso anche questo fardello. Si chiese perchè vedeva questo in lui e non l’uomo che l’aveva lasciata col cuore spezzato. La risposta era lì nel groppo che le era salito in gola, non aveva voce perchè non voleva dargliela, non si poteva permettere nemmeno di concederegli parola, ma sapeva che voleva dirle che non avrebbe mai smesso di amarlo.
Tutta quella tensione ricadde come un peso sul suo stomaco e le salì la solita nausea.
Piombò il silenzio nell’abitacolo come se le preghiere di Alice per un po’ di tregua si fossero avverate, nessuno parlò per parecchi minuti fino a che Manuel non le chiese indicazioni sulla strada, di nuovo si scambiarono poche semplici frasi di circostanza.
Alice si accarezzava la pancia sovrapensiero, gesto che non passò inosservato al suo accompagnatore, per distrarsi dai tumulti nello stomaco pensava a sua madre a suo padre, a cosa l’aspettava quella sera, in un altro universo avrebbero potuto essere una coppia felice in attesa di un bambino, che avrebbe passato la vigilia alla casa al lago dei suoceri.
Le scappò un sospiro.
Dopo molti minuti di mutismo, vinto dalla curiosità fu Manuel a parlare.
-Hai poi scoperto il sesso?
Presa alla sprovvista non capì la domanda, troppo presa dai suoi pensieri e quella rivolta che le tormentava le viscere. Lo cercò con lo sguardo, solo un verso interrogativo in risposta.
-Il sesso del bambino. L’hai scoperto?
-Ah sì, è maschio – altro crampo, e quelle non erano farfalle. Il suo intero apparato digerente stava facendo a pugni col peritoneo. Che diavolo aveva mangiato quel pomeriggio con Fil?
-Scelto il nome? – c’era l’ombra di un sorriso nel tono della frase.
-No, per ora sono in alto mare.
Il tormento divenne insopportabile, quasi le toglieva il respiro da ogni sussulto. Qualcosa sembrava bloccato tra lo stomaco e i reni, una specie di doloroso groviglio: -Puoi accostare per favore?
Manuel allarmato si accorse solo allora delle mani premute dall’alto sul ventre, come a volerlo distendere: -Stai male?
-Non so, c’è qualcosa di strano.
-Cazzo! Vuoi che andiamo in ospedale?
Il panico lo stava già invadendo. Che cavolo ne sapeva lui di disturbi delle gravidanze?
-Ma no, vorrei solo prendere una boccata d’aria.
Si fermarono sul ciglio della statale in uno spiazzo ghiaiato tra i campi. La macchina non era ancora ferma che Alice schizzò giù a farsi frustare i polmoni dall’aria ghiacciata di dicembre.
Due respiri profondi e i dolori scomparvero.
Cos’era successo?
-Stai meglio?
Manuel era sceso dall’altro lato e stava appoggiato al tettuccio della macchina, la guardava con una tale tensione. Persino lei percepiva il senso di irrequietezza che emanava.
-Non saprei dire - si guardò lo stomaco in cerca di risposte - E’ passato ora.
-Che faceva?
-Chi?
-Lui. Il bambino no?
Illuminata di comprensione, si sciolse nel sorriso più bello che Manuel avesse mai visto e scoppiò a ridere frugando con la mano sotto il cappotto.
-Era lui - sospirò sollevata.
Manuel la guardava in bilico tra la voglia di strozzarla e di correre a baciarla. Nel dubbio si accese una sigaretta.
-Che faceva?
-Non so, è la prima volta che si muove così tanto. Si è girato dall’altra parte credo, mi sembra di sentire un peso diverso da questa parte.
Spostava il peso da un piede all’altro, si toccava la pancia in cerca di risposte. Il dolore completamente scomparso ora.
-E’ vagamente inquietante.              
-Già.
Ciò che era veramente inquietante era l’idea che fosse capitato proprio nel primo momento di contatto tra lui e suo padre. Era solo una vaga e assurda ipotesi ma ora era lei a guardarlo con gli occhi pieni di panico. Il suo fagiolino era lì, lei lo sentiva, a volte si altre no, a volte credeva di averlo sentito calpestare allegro la sua vescica, erano movimenti brevi e difficili da percepire se non in momenti di quiete e concentrazione. Quando le altre gestanti ne parlavano al corso preparto lei le guardava inquieta, non capiva se era una sua carenza di sensibilità o se lui fosse un tantino pigro.
Ora invece eccolo qui, a trotterellare nei suoi visceri proprio al cospetto di suo padre.
Fagiolino astuto.
Tornò verso la macchina con il cervello, il cuore, lo stomaco, il sangue, tutto in subbuglio.
-Sicura che non vuoi andare all’ospedale?
Eccolo lì maledetto fagliolino, si stava agitando di nuovo.
-No non credo sia nulla di anomalo, solo inaspettato.
Rientrarono entrambi in auto, Manuel parlava, lei non lo sentiva, ma sentiva chiaramente qualcuno reclamare attenzioni.
Ebbene forse era ora di dargli quello che voleva, probabilmente non ne avrebbe avuto mai più occasione.
-Senti qui - prima che potesse cambiare idea o anche solo riflettere su ciò che stava per fare, afferrò il polso di Manuel mentre tentava di inserire la marcia.
Basito e titubante si ritrovò intrappolato dal suo sguardo incoraggiante con il palmo sul ventre bello rotondo.
-Veramente i..-
-Aspetta, anzi no parla! - Alice di nuovo lo guardò con quel sorriso tutto denti e luce negli occhi.
-Ma che dovrei dir..- si bloccò.
Eccolo lì.
Sotto la mano qualcosa si era mosso, non era un vero e proprio calcio o qualcosa di definito, ma appena percettibile. Schizzò via come scottato e la guardò inquieto e boccheggiante.
Ridacchiava lei, tutta pimpante ora che aveva compreso i piani del suo fagiolino.
Non potè fare a meno di sorridere anche lui, la cosa era strana e questa volta davvero inquietante eppure l’istinto lo portò a posare di nuovo la mano su quel ventre in ascolto di ciò che all’interno vi cresceva quatto quatto. Sentì un movimento, meno intenso del precedente, più morbido ora.
Il fagiolino era più calmo, comprese Alice che ne percepiva forse per la prima volta in pieno la consistenza. Si muoveva placido come se dopo essersi girato stesse cercando la posizione.
-Lo senti? – domandò Alice piena di aspettativa.
Manuel chiuse gli occhi e annuì con un cenno.
Era emozionato, una cosa strana, inspiegabile gli stava montando dentro. C’era gelosia, per quel bambino che in un modo perverso e insensato avrebbe voluto fosse suo, e rabbia, una rabbia cieca verso l’uomo che l’aveva lasciata sola con un bambino. Ricordò gli anni della sua adolescenza senza sua madre e con suo padre impegnato a gestire il proprio lutto lontano da lui, anche quel bambino sarebbe cresciuto così? E poi c’era quel senso di protezione che lei gli aveva sempre ispirato, voleva che lei stesse bene, fosse felice. L’aveva sempre voluto, anche quando le aveva voltato le spalle era stato per lei. Ora sarebbe stata felice? Sola col suo bambino?
Non voleva mostrarle quel turbamento quindi con poche frasi liquidò il tutto e riportò l’auto in strada per poter restare solo il prima possibile.
Il viaggio si era concluso nel silenzio. Alice aveva compreso di aver fatto un passo falso e temeva più di tutto che una spia di allarme si accendesse nel cervello di Manuel. Mentre lui turbato oltre ogni dire avrebbe voluto solo cercare il primo volo per Londra per mettere più terra possibile tra se e tutto ciò che lei era in grado di scatenergli dentro.
Si erano salutati in fretta con la consapevolezza che il giorno dopo sarebbe stato un lungo Natale.
 
Il 25 dicembre Manuel aveva dormito fino a tardi, facendosi svegliare da un calcio nel fianco di Kate che era salita a trascinarlo fuori dalle lenzuola con un sorrisone mefistofelico.
I colori tenui della stanza, le tende alle finestre, la lampada sul comodino non erano familiari e riaccesero il suo cervello alla realtà: non era a casa sua.
Niente tè brodoso per colazione, ma un bell’espresso nero, corposo, saporito.
Niente pudding molliccio e puzzolente, ma pandoro e crema al mascarpone.
Niente silenziosa mattinata d’ozio in mutande, ma Tommy festoso e urlante, Fil impaziente e armato di stampelle e una ventina di ospiti in arrivo.
Non aveva ancora deciso se esserne felice quando Kate gli saltò sullo stomaco e cominciò a sbraitargli addosso insulti per la sua carcassa pigra e ciondolante.
Scese in cucina ancora mezzo traumatizzato dal risveglio, dove lo attendevano una gloriosa tavola coperta di ogni bendidio, Chiara sorridente e le facce fameliche di tre Zonin affamati. Tutti sapevano che avrebbe tenuto un bel vaffanculo stampato in faccia per tutta la giornata, li omaggiò quindi di un grugnito ben poco espressivo e prese posto nell’unica sedia vuota senza degnarli di ulteriori parole.
Il breve intervallo fino al pranzo fu un caleidoscopio di individui che sfilavano dentro e fuori dalla casa, quasi tutti pieni di pacchi, smancerie e curiosità per lui che rassegnato elargiva convenevoli a gettone, i più familiari sghignazzavano davanti alla sua aria scazzata ricevendo dita medie in risposta, ma per sua fortuna al solito c’era Kate per colmare le sue lacune sociali.  
L’arrivo di lei alla tenuta lo colse impreparato: era arrivata in auto da sola avvolta dal mento alle ginocchia in un rigoroso cappotto nero, calze nere e stivali pure. Era ancora nel parcheggio e di sicuro non si era accorta di lui che stava fumando in giardino in fuga dal club degli estrogeni riunito nella cucina di Cici. Una folata di vento l’aveva investita mentre litigava con alcune buste nel baule, i capelli sciolti lunghi fino quasi alla vita avevano preso vita nel vento agitandosi nell’aria come serpenti, i bordi del cappotto sventolavano scoprendo le cosce magrissime avvolte nella lycra nera eppure una mano pallidissima e minuta era scivolata a proteggere la pancia. Poi in un momento tutto era finito, il vento si era placato e le aveva permesso di scaricare i pacchi e avviarsi verso la casa. Jack era accorso dal portone principale ad aiutarla, si erano abbracciati e baciati sulle guance, non si era accorta di lui che come un pirla era rimasto a guardarla impalato al freddo con una sigaretta spenta tra le dita. Per un istante aveva rivisto quei capelli sparsi sulle lenzuola sotto di lui.
Pur di non incontrarla e di non pensare, si fece coinvolgere nei ferventi preparativi di tavoli, tovaglie, bicchieri e pietanze. Il risultato finale fu un tavolone pacchianamente coperto di addobbi rossi e oro, con più fronzoli che stoviglie sopra, e una serie di centritavola orrendi e ingombranti a cui Filo aveva già proposto di far fuoco più volte.
La consolidata alleanza Chiara-Katelin-Filippo colpì di nuovo al momento dell’assegnazione dei posti e lui si ritrovò dopo un serie di spostamenti inspiegabilmente sbattuto di fronte ad una Alice visibilmente a disagio.
Il pranzo fu oltre le sue più abbondanti aspettative. Già ai primi lui, Andre, Filo e Jack avevano dato fondo alle teglie con un paio di bis ciascuno, sui secondi Manuel aveva toccato attimi di commozione davanti alle cotolette ripiene della signora Zonin e al pensiero dell’orrendo pudding della nonna di Kate a cui era scampato. Di nuovo si era distinto per voracità insieme ai fratelli, Andre e Paolo che sembrava non mangiare da una settimana.
Nonostante le tragiche premesse di assegnazione dei posti, la conversazione si era mantenuta viva e piacevole. Laura gli aveva raccontato in bisbigli la situazione tra Charlie e suo padre, Lorenzo annuiva e farciva di insulti alla famiglia Carlini ogni volta che l’interessato pareva distratto, Fil aveva messo su il solito teatrino per raccontare le tragiche vicende che lo avevano costretto all’uso delle stampelle, armi improprie nelle sue mani che usava per minacciare gli altri commensali e farsi portare altro cibo.
Come sempre il dopo pranzo fu uno strazio di sonnolenza per gli adulti e una scusa per darsi alla pazza gioia con i regali ricevuti per Tommy, i suoi cugini e i figli di Lorenzo.
Alice sembrava avvolta da un’aria funerea, completamente vestita di nero anche sotto al cappotto, a tavola aveva parlato in sussurri quasi sempre con Paolo di lavoro e di soldi, solo alla fine del pasto aveva incrociato il sguardo per un attimo. Gli aveva rifilato il solito sorriso di plastica falso e cortese, niente a che vedere con quello che le aveva visto in viso la sera prima mentre qualcuno scalciava dal pancione. Non si erano rivolti nemmeno una parola se non un cenno di saluto iniziale. Non le aveva fatto auguri, ne consegnato il regalo che avevano comprato per lei, non l’aveva guardata ne da vicino, ne da lontano. Tutta la curiosità che aveva provato nei gioni precedenti era scomparsa davanti all’esplosione di ciò che credeva di aver rinchiuso nei cassetti della sua memoria. Pensava ad Amsterdam di essere riuscito a sigillare bene quel groviglio di filo spinato che giaceva nel fondo delle sue viscere, invece dalla sera prima con un misero calcetto quel bambino l’aveva tirato fuori con un bel botto.
Il resto della giornata si erano tenuti a distanza: prima Alice rinchiusa in cucina e Manuel impegnato in una battaglia di gusci di noci con Filo, poi con conversazioni agli antipodi della stanza. La sera al momento dei saluti Alice aveva fatto di tutto pur di evitarlo, ma sarebbe apparsa infantile  persino ai suoi stessi occhi.
Lo trovò da solo mezzo assopito nel salotto di Cici mentre tutti erano impegnati altrove e colse l’occasione.
-Mi dispiace per ieri sera, ti ho trascinato nel mio entusiasmo e probabilmente ti ho messo in imbarazzo - prese fiato e gli rifilò una delle sue maschere preferite, il sorriso di plastica tutto occhioni e ciglia che sbattono.
Manuel avrebbe anche apprezzato la sua scaltrezza se non fosse stato per quell’espressione beota sul suo volto. Aveva sempre odiato fin dall’inizio quei giochetti, fin da quando Jack gliel’aveva presentata in un corridoio delle Stimate e lei aveva inclinato il capo come una cazzo di bambola di plastica. E gli aveva fatto salire la voglia di strapparle quel sorrisino dalle labbra a morsi.
-Sei incinta dell’ultimo stronzo che ti sei scopata e pensi che quello in imbarazzo sia io?
Subito dopo se n’era pentito, e non poco. Era stanco, aveva mangiato e bevuto troppo, e lei con quelle moine lo faceva incazzare di brutto. Sapeva di averla ferita consapevolmente, ma era troppo amareggiato dall’idea di essere diventato ai suoi occhi solo uno dei tanti a cui propinare le sue maschere. Credeva di poter essere trattato almeno da amico o era bastata una notte di sesso per farle dimenticare tutto, per farlo crollare dal piedistallo su cui aveva resistito per tutto questo tempo, per renderlo di nuovo uno dei tanti?
Le labbra di Alice ora fremevano e non un tremore che prelude al pianto bensì molto peggio. Lei ce l’aveva una risposta, lì pronta per lui, pronta per fargli male.
Sarebbe bastato dirgli “Beh si da il caso che quello stronzo sia tu. Ma non preoccuparti non ti farò nemmeno alzare un occhio su mio figlio”.
Invece no. Aveva inspirato forte dal naso e ingoiato con quell’aria tutte le urla che avrebbe voluto spalmargli addosso. Sapeva che in quel modo avrebbe rovinato tre vite in un sol colpo, quindi gli aveva rifilato un sorriso di miele e zucchero e aveva sbattuto due volte le ciglia.
Questo l’avrebbe fatto incazzare come non mai.
-Perfetto. Quindi non ritengo di dovermi preoccupare di averti recato imbarazzo - ancora un sorriso e poi si era voltata con la grazia con cui era arrivata - Meglio così.
E avrebbe pianto, e anche tanto. E urlato e imprecato contro tutti gli uomini, ma non lì, non davanti a lui.
Erano ancora molto bravi a quel gioco, un gioco di lame affilate come rasoi che colpiscono dove sanno di far male.
-No.
Manuel si alzò dal divano in cui era sprofondato e la fermò bloccandole il braccio. Le cose non dovevano andare così, non questa volta. Non a trent’anni.
-Scusami – aspettò che si voltasse verso di lui, non lo guardava negli occhi ma in un punto indistinto del collo, tanto gli bastava – Ho detto una cosa tremenda, non so come mi è uscita ma mi fa ancora incazzare quando mi guardi con quella faccia di plastica.
Ora sì che era in imbarazzo, ma si costrinse a non mollare la presa.
Alice spiazzata abbandonò la sua maschera per odiarlo con sincerità: - Sei un tale stronzo. Avrei dovuto tirarti un pugno!
A Manuel quasi venne da ridere immaginandosi l’esile ragazza tentare un gancio destro sulla sua mandibola, si sarebbe spaccata qualcosa di sicuro.
-Mi sono scusato.
Lo trovò a guardarla con quel sorriso un po storto che sapeva essere il suo sorriso da “non puoi essere arrabbiata con me se ti guardo come se tu fossi l’unica al mondo”, aveva passato tre anni a tentare di dimenticare solo quell’espressione. Maledetto lui.
-E inoltre per quanto riguarda ieri sera, non ero in imbarazzo. Davvero.
Di nuovo il sorrisetto. Alice si chiese se lo facesse di proposito o fosse un riflesso incondizionato il tentativo di sedurre qualsiasi donna.
-Bene allora - gli rivolse un sguardo orrendo, infuocato e aggressivo che a Manu piacque tantissimo.
Quella era la ragazza che l’aveva fatto innamorare a diciannove anni, che l’aveva trascinato fuori da una vita mediocre senza aspettative.
-E per la cronaca non mi imbarazza essere incinta, anche se sono sola.
Quella era l’Alice che lo faceva impazzire.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


 
Travolti da un insolito destino
 

Capitolo 10





 
Il giorno prima di capodanno come da programma partirono di buon mattino per lo chalet che il capo di Charlie gli aveva prestato per le vacanze in una rinomata località trentina. Manuel, che non era mai stato un fan delle alzatacce nel gelo invernale, aveva guidato per due ore filate senza proferire nemmeno una parola, accanto a lui Filo aveva invece chiacchierato incessantemente con Kate e Paolo seduti sul sedile posteriore, un paio di volte aveva provato di coinvolgere anche l’amico ma al secondo grugnito contrariato si era arreso. Guidando a sinistra, il lato da cui aveva imparato, e seguendo l’auto di Jack su strade che aveva percorso decine di volte da ragazzo, era riuscito ad estraniarsi dalle chiacchiere degli altri e dal traffico attorno a loro.
Non riusciva a togliersi dalla mente un piccolo tarlo che Kate aveva insinuato in lui la sera prima, qualcosa di sordo che scalfiva piano e irrompeva nei suoi pensieri quando le difese erano abbassate, tanto piccolo da non avere nemmeno una voce ma solo voglia di farsi sentire.
La sera prima di partire l’aveva bloccato in camera loro, si era seduta sul letto e tutta seria gli aveva detto le parole che nessun uomo avrebbe mai voluto sentir uscire dalla bocca di una donna: -We need to talk.
Ora di sicuro Manuel non aveva paura di sentirsi sbandierare addosso recriminazioni da fidanzata inacidita o drammi di quel genere, ma l’espressione sul volto dell’amica gli fece tremare le budella.
Dopo un breve e imbarazzato giro di parole iniziale, gli aveva raccontato di aver parlato con Paolo della gravidanza di Alice. Manuel conosceva bene il tono che Kate sapeva mettere in certe conversazioni, con lei era peggio che stare attaccati alla macchina della verità. Quindi poteva ben immaginare la faccia e le difficoltà che aveva incontrato un animo onesto e corretto come quello di Paolo. Quella donna era il Male.
Ciò che però aveva fatto germogliare il piccolo tarlo era una frase che Kate giurava di aver riportato parola per parola: “Alice dovrebbe decidere mettere tutte carte in tavolo altrimenti ne viene  fuori un grande casino e farà incazzare”. Ovviamente l’italiano di Kate lasciava un po’ a desiderare ma in inglese diceva di aver capito tutto alla lettera e che l’espressione di Paolo era davvero sospetta.
Sorvolando sulle teorie complottistiche che ne aveva elaborato lei, Manuel non riusciva a spiegarsi quali fossero le carte che Alice avrebbe dovuto scoprire, se non la paternità del bambino.
E da qui il piccolo tarlo aveva iniziato a nutrirsi dei suoi dubbi.
Quando le aveva telefonato in autunno aveva fatto calcoli su calcoli e tutto sembrava tornare, ma lei aveva in effetti negato che lui fosse coinvolto, non aveva ragioni per non crederle sebbene sapesse quanto lei fosse brava a mentire e dissimulare al bisogno, ma quella sarebbe stata una menzogna troppo grossa anche per lei.
Eppure lui quella notte la ricordava bene. Eccome se la ricordava: ricordava la data, l’ora, il colore della sua maglietta, delle mutande e persino delle lenzuola. Ogni volta che si concedeva di scivolare in quei ricordi, il dolore era quasi fisico. E ricordava anche perfettamente di non aver usato il preservativo nemmeno una volta, ma anche che lei non l’aveva mai fermato per farglielo mettere, facedogli supporre che prendesse la pillola.
Quel piccolo tarlo aveva trovato nei suoi ricordi pane per i suoi denti e nei calcoli acqua per le sue membra, crescendo fino ad occupare ore del suo mancato sonno.
Eppure Alice aveva negato, con lui e con tutti, non aveva prove per accusarla, ne ai suoi occhi esistevano ragioni sensate per tenere nascosta la paternità di un figlio.
Manuel era rimasto in empasse ancorato ai suoi calcoli alla logica e alle ragioni mentre il tarlo nella sua mente sobbalzava gioioso come fosse stato chiamato all’erta e tentava di urlargli nelle orecchie che quella era la strada da seguire per scoprire la verità.
Immerso nei tentativi di sopprimere il suo tarlo, quasi non si era accorto di aver imboccato dietro la station wagon di Jack una piccola strada di montagna che aveva mezzo metro di neve su ogni lato della carreggiata. La pendenza aumentava e le curve iniziavano a farsi sempre più strette, la povera Fiat a noleggio arrancava sotto il peso di quattro persone e i bagagli di Kate ma teneva duro. In momenti come quello nonostante il freddo e la neve rimpiangeva la sua moto chiusa in un garage nel Sussex: l’asfalto vicino al ginocchio, il rombo del motore che sale di giri, quarta terza seconda e poi giù a infilarsi nella curva, sentire l’equilibrio vicino al punto di rottura e poi su una spinta e la moto che ritrova l’assetto e di nuovo dentro la terza poi quarta e via veloce.
Invece lì aveva Kate sul sedile dietro di lui che era tutta un urletto di giubilo a destra e a sinistra, gli tormentava una spalla, parlava in inglese di slancio, poi subito si affrettava a tradurre, continuava a gridare Amazing! Amazing! ad ogni paesino che attraversavano, e Paolo accanto a lei se la rideva alla grande.
Dopo quasi un’ora di tornanti e salite approdarono alla loro meta: una piccola radura con una costruzione deliziosa immersa nel bosco, una casa in legno su tre piani con grandi vetrate e l’aria di costare molto più di quanto chiunque di loro potesse permettersi.
Parcheggiarono a fatica le tre auto nel piccolo spiazzo antistante la casa, dopodichè tutti si precipitarono dietro a Charlie per vedere l’interno dell’abitazione.
Gli interni erano a tutti gli effetti in linea con l’esterno, un misto di tocchi modernità nella solidità della tradizione montana. Il piano terra era occupato in gran parte da un enorme salone che comprendeva cucina e sala da pranzo, una stufa in ceramica dominava un angolo del salotto assieme a grandi divani bianchi cuscini e ad un massiccio tavolo di legno. La vera attrazione però erano le vetrate che ricoprivano la parete sud del salone e davano accesso ad un patio esterno.
Come ai tempi del Liceo si litigarono le stanze da letto e Manu che si era estraniato per fumare si ritrovò a dividere la stanza con Filo e Paolo mentre Kate era stata spedita con Alice. La sua migliore amica ovviamente sprizzava cuoricini dagli occhi per la felicità e gli aveva bastardamente dato una gomitata complice che lui nemmeno aveva capito del tutto.
 
Già dalle prime ore il soggiorno in montagna si era rivelato una vacanza all’insegna dell’ozio totale per tutti. Avevano giusto scaricato i bagagli nelle stanze dopodichè si erano abbandonati alla pigrizia. Paul per primo aveva preso possesso di un divano, vi aveva bivaccato tutto il pomeriggio dormicchiando per recuperare le ultime 36 ore di guardia che aveva fatto in ospedale, Filo in convalescenza che non faceva altro che sfumacchiare e giocare ad Angry Birds sul tablet di suo nipote mentre Charlie si era sacrificato ed aveva accompagnato Laura e Chiara in paese per far scorta di cibo e pellet per la stufa. Il silenzio era rotto solo dalle voci di Jack e suo figlio che si divertivano nella neve in giardino. Kate che si supponeva fosse la sua unica ancora in quella bolgia di matti, l’aveva mollato per tradurre un faldone enorme rilegato in pelle e finiture dorate che puzzava come un animale morto. Secondo lei era un pezzo unico ed estremamente raro, per lui solo spazzatura incomprensibile che probabilmente lei aveva fatto uscire dal paese illegalmente.
Rassegnato Manuel si dondolava con i piedi sul parapetto della veranda pur di tenersi ben lontano da Alice, quando venne raggiunto da un Filo zoppicante di ritorno dal bagno: -Non so se si diverte più mio fratello o mio nipote –
-Facile: tuo fratello! –
L’amico accanto a lui era frustrato dal inattività - Che invidia – blaterò sistemando la gamba infortunata su un cuscino.
-Per fortuna che ha una madre coscienziosa, se per disgrazia avesse avuto solo te o tuo fratello sarebbe cresciuto a Nesquik e caramelle gommose.
-E hamburger - aggiunse il più vecchio dei due già con due sigarette in mano.
-Ma se voi italiani non sapete nemmeno cosa sia un hamburger - Manuel gli rise in faccia - La prossima volta che vieni a casa mia ti porto a mangiare un hamburger decente e vedrai che qui non riuscirai più a mangiare quella roba secca e stopposa.
Ricevette un mezzo pugno in risposta.
-Ma sentilo! “Voi italiani…” ti ricordo che il tuo passaporto e il tuo cognome appartengono ancora a questo merdoso Paese.
-Fanculo! - si sorprese a fissare la cenere della sigaretta che bruciava, improvvisamente conscio di aver fumato molto più del normale in quelle feste.
Filippo nemmeno si rendeva conto di quanto di vero e intenso ci fosse nel fondo di quelle parole per Manuel.  
Alice per puro caso scelse quel momento per rompere la tensione.
-Ehi voi due! - si girarono in sincrono a guardarla sorridenti, come ai vecchi tempi da ragazzi, quando lei si era insinuata come sabbia tra le pietre nella loro vita ed era diventata compagna necessaria e amica insostituibile per entrambi.
Solo che dopo tutti quegli anni assieme era naufragato tutto, ed ora Manuel aveva abbandonato subito il sorriso e si era voltato verso le montagne con l’espressione più vuota del suo repertorio, mentre Filo l’aveva guardata con la dolcezza di un amante e non con il ghigno furbo di un tempo.
-Cici è tornata e come al solito non riesce a reprimere il suo istinto di nutrire il mondo - posò un vassoio sul tavolino accanto a loro: - Ha fatto cioccolata calda per tutti. Avevo appena finito di digerire il pranzo di Natale ed ora già lei ricomincia.
Filo aveva già ritrovato tutta la sua verve trattandosi di cibo, si era seduto meglio e aveva subito posato il tablet: -Quanto mi ama la mia cognatina.
-Ti ama al punto da tentare di mandarti in coma iperglicemico – prese la tazza più voluminosa per porgergliela: - Tieni tanta panna e doppio zucchero.
Manuel quasi scoppiò a ridergli in faccia: -Sei viziato come un bambino.
-Fortunato vorrai dire: ho una donna che adoro che si occupa di me come una moglie e mi vizia come mia madre, e in cambio mi occupo di mio nipote quando serve – fece una pausa strategica –E posso comunque scopare chi mi pare. Ho vinto all’Enalotto.
Ci furono attimi contemplativi in cui solo uno dei tre stava gongolando come un quindicenne.
-Sei uno stronzo. A me Kate fa prendere integratori probiotici e mangiare macrobiotico ogni giovedì.
-Macro che? - alle sue spalle Alice sospirava senza speranze - A me Cici manda una teglia di lasagne ogni lunedì così ci campo tutta la settimana
Manuel si sarebbe tirato un pugno nelle palle da solo.
Alice comprese il disagio di Manuel e tentò di deviare il discorso: -Cici tenta di rifilare lasagne anche a me ogni volta che mi vede. Che strazio! Non so più dove metterle ho il freezer pieno.
-Che ne diresti di mangiarle di tanto in tanto, così giusto per ricordarsi che le mentine non sono cibo per gli umani – si era tirata in un vicolo cieco da sola.
Filo la guardava dal basso all’alto sghignazzante, ma prevedendo uno sbuffo e una fuga l’abbracciò e se la portò sulle ginocchia, tutta infagottata in strati di lana com’era.
-E’ il momento giusto per prendere peso e dare la colpa alla gravidanza no?
Al solo nominare la gravidanza si era irrigidita. Non ne voleva più parlare, non davanti a Manuel.
-Eddai, lo sai che anche fagiolino mi darebbe ragione.
Fagiolino? Manuel non resistette all’impulso di guardarli confuso, ‘fagiolino’ era chi stava immaginando?
Filo scoppiò a ridere per l’espressione imbarazzata e il tentativo di fuga della sua amica, ma sopratutto per tutto il sottotesto che lui e forse solo lui, vedeva in quella scena.
Alice annaspava tra le sue stesse menzogne, il suo cuore palpitava davanti a quell’altro stronzo ma rifiutava categoricamente di ascoltarlo, e creava strati su strati di balle ben costruite. Mentre lui, Manuel, l’uomo che ancora la guardava come una bistecca alla griglia ben cotta con salse e patatine, faceva il finto tonto, drizzava le orecchie ad ogni suo respiro ma fingeva di non vedere.
Che due polli.
Filo li amava tanto quanto la sua famiglia. Non era capace di fare distinzioni, tutte le persone in quella casa erano parte della sua vita e tutte godevano del suo amore incondizionato.
Decise che nonostante gli sguardi di rimprovero dell’amica era tempo di infilzare quei due in uno spiedo e metterli sul fuoco a rosolare per bene, altrimenti non sarebbero mai stati pronti.
-Allora a proposito ce l’abbiamo un nome? – proseguì con disinvoltura su quel campo minato, tenendosi Alice  ben salda sulla gamba sana: - Non è che possiamo chiamarlo Fagiolino per sempre.
La tensione era palpabile, Manuel si ostinava a guardare le montagne dritto davanti a se come se nessuno stesse parlando, ma tanto lei non osava voltarsi verso di lui quindi non avrebbe potuto vederlo in ogni caso. Solo Filo si godeva le loro reazioni da spettatore.
-Ancora no.
-Ma come! Non avevi detto Filippo per celebrare il suo zio migliore.
Alice lo fulminò e persino Manuel lo guardò di traverso.
-Che cretino che sei – glì tirò uno scappellotto debolissimo: -Sei una piaga me ne vado! - aveva sbottato infastidita e si era liberata della sua presa.
Filo scoppiò a ridere per l’espressione imbarazzata e la fuga della sua amica.
Erano due polli lessi quei due.
 
A capodanno avevano passato una bella serata, la cena di Cici come al solito era stata molto più che pregevole. Avrebbero campato di avanzi fino alla fine del soggiorno.
Dopo cena avevano smaltito l’affanno sui divani come trichechi spiaggiati sugli scogli, ad ascoltare musica, giocare a carte e chiacchierare fino a mezzanotte.
Manuel non ricordava un capodanno così in panciolle da molti anni.  A Londra il clima era decisamente diverso, gli ultimi due capodanni li aveva passati a sbronzarsi di brutto con Andrew, mentre Kate lo rincorreva per i locali tentando di trascinarlo a casa vivo.
Di gran lunga preferiva quell’atmosfera rilassata al frastuono di Londra.
Non c’era la girandola di abiti che Kate lanciava fuori dall’armadio prima di ogni festa, lì erano tutti in ciabatte e calzettoni, ne c’erano sconosciuti a vomitarti sulle scarpe, ma i capelli di Kate tra le dita che sonnecchiava sulle sue ginocchia. Niente sigarette fumate in strada a meno dieci con l’uccello che chiede asilo nello stomaco o cocktail annacquati a 10 pound, piuttosto una grappa di Filo aromatizzata all’alloro e il punch al mandarino fatto in casa dalla zia di Charlie. E c’era Alice, dettaglio che tentava di ignorare per non dar voce al piccolo tarlo, sempre a distanza di sicurezza, ma mai troppo lontana dal suo sguardo, con dei jeans strettissimi e un maglione blu che mostrava la sua pancetta tonda e sfacciata. La gravidanza le stava facendo bene, i capelli le si erano allungati fino quasi alla vita, aveva il volto disteso e le guance più piene, o forse quella era la cucina di Cici, persino i fianchi parevano più torniti.
La mezzanotte arrivò e passò senza grandi festeggiamenti. Un brindisi in giardino e qualche stelletta luminosa per far contenti Tommaso e Kate, tanti abbracci e auguri di rito.
La sua amica lo tenne stretto a lungo e insieme un po’ brilli caracollarono nella neve, gli mormorò contro la barba qualcosa sul fatto che amava l’Italia ma lo archiviò come una delle sue stronzate e fine della storia.
Il resto della serata era passato una partita a carte dietro l’altra: Alice in braccio a Filo gli rubava le carte ad ogni mano facendo infuriare Laura, Charlie che distribuiva alcolici, Jack e sua moglie si alternavano a cullare Tommy. Avevano riso e urlato fino oltre le due. Manuel non si divertiva così da parecchio, sbraitava contro Filo, scherzava con tutti, rideva come un bambino e Kate che non l’aveva mai visto così disinvolto da sobrio, lo guardava con il cuore in mano e gli accarezzava i capelli.
 
Il mattino del primo gennaio aveva nevicato e i davanzali delle finestre erano imbiancati di neve.
Manuel si alzò molto presto, la casa era avvolta nel silenzio, tutte le stanze erano ancora chiuse, persino Tommy che di solito tirava in piedi tutti di buon mattino, ronfava nel lettone dei suoi. Scese al piano inferiore in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti, ricordava una teglia di biscotti al cioccolato che Laura gli aveva nascosto nel pomeriggio e non vedeva l’ora di metterci le mani sopra per primo.
Arrivato in cucina si cercò una tazza e il tè, ma afferrato il bollitore lo trovò già caldo. Qualcuno doveva averlo usato da poco. Si guardò attorno, ma nel salone a parte il caos che avevano lasciato la sera prima non c’era nessuno, solo una finestra scorrevole accostata.
Avvicinandosi piano notò qualcuno fuori nel patio: era Alice di spalle seduta in poltrona con le cuffie nelle orecchie, lo sguardo verso la vallata e una tazza fumante in mano.
Il primo istinto fu quello di urlarle che accidenti stesse facendo lì fuori a prendere freddo nelle sue condizioni, aveva già una mano sulla maniglia ma si fermò. Non erano affari suoi e non aveva voglia di discutere con lei, non era sicuro di voler inaugurare così il primo giorno dell’anno.
La osservò in silenzio dallo spiraglio aperto della porta finestra, una figura offuscata nella penombra della terrazza, aveva un berretto di lana lilla e i capelli quasi scomparivano nella giacca, stava rannicchiata sotto una grossa coperta e in quel momento si accorse che stava parlando a bassa voce.
Voleva andarsene, avrebbe voluto davvero, ma se ne sentiva quasi ipnotizzato; lei parlava con un interlocutore immaginario credeva, a stento percepiva le sue parole, un mormorio basso e confuso nella brezza.
Voltò la testa per porgere l’orecchio vinto dalla curiosità. Carpiva solo pezzi di frasi qua e là.
-Quando crescerai magari di queste cose potrebbe non importarti nulla, chissà magari il mondo non sarà più nemmeno come lo conosco io... – si fermò a sorseggiare dalla tazza - ed anche la casa chissà.. ..c’è un grande terrazzo e una bella vista…La senti? Questa canzone è bellissima.
Sopraffatto dall’intimità che sentiva di violare, fece per andarsene quando una parola gli incollò i piedi al suolo.
-Tuo padre avrebbe voluto una grande casa col giardino.. – il cuore di Manuel prese a galoppare e si perse qualche frase - ..almeno questo spero tu l’abbia preso da lui, ha un modo tutto suo di sorridere... quando eravamo giovani mi diceva sempre che sembravo fatta di latte e di talco.. ti insegnerò a sedurre una donna...
Manuel gelò.
Quella frase.
Quelle parole erano sue.
Era lui che le diceva che era fatta di latte e di talco.
Non poteva essere nessun altro.
Quindi era suo, era sempre stato suo quel bambino.
Lei gli aveva mentito. Filippo gli aveva mentito. Paolo, Jack, tutti avevano mentito.
Il mondo perse spessore, persino il pavimento sembrò perdere stabilità sotto i suoi piedi.
Era suo. Suo. Suo. Loro.
Nostro figlio.
 
Per prima arrivò la rabbia.
D’istinto colpì la finestra abbastanza forte da attirare la sua attenzione e lei si voltò.
Uno sguardo attraverso il vetro ed entrambi sapevano che le carte erano scivolate tutte in tavola.
Alice presa dal panico tentò di alzarsi più in fretta possibile e raggiungerlo, ma Manuel fu più veloce.
Un passo, poi un’altro, sempre più lontano dalla finestra, da lei.
Di volata imboccò il corridoio, afferrò la giacca e le chiavi della macchina, e poi via.
Cinque minuti ed era già in paese, in strada a quell’ora non c’era nessuno, in dieci sulla provinciale, in mezzora sarebbe arrivato all’autostrada e poi via, il più lontano possibile. La macchina correva veloce sull’asfalto, gli serviva un autostrada, qualcosa che lo inghiottisse, una linea bianca infinita da rincorrere.
Non esisteva nulla di più distensivo della guida per lui. Forse solo la corsa.
Solo in autostrada dopo mezz'ora di silenzio nell’abitacolo tornò a respirare regolarmente.
I pensieri vorticavano in lui senza pace, non riusciva a tenere il loro ritmo, si perdeva rincorrendoli, poi fuggivano via e altri arrivavano distogliendolo dai precedenti. Si rendeva conto di essere nel panico eppure non riusciva a uscirne.
Lei era la costante di ogni parola nella sua mente. Lei e il suo sguardo duro.
Perché aveva deciso di tenere un figlio così scomodo?
Un figlio suo che però non voleva condividere con lui.
Un figlio che fosse stato per lei non avrebbe mai avuto un padre.
Immaginava quel bambino galleggiare nel ventre di Alice, ignaro di tutti i casini che l’avevano portato lì. Ignaro dell’ardore che lui provava ancora guardando sua madre. Del fuoco che lei gli accendeva nelle ossa. Inconsapevole di tutto ciò che l’aveva condotto da lei e poi lontano da lei. All’oscuro delle sue debolezze, delle sue paure, delle sue fughe, del suo evitare le responsabilità verso gli altri. Della sua tossicodipendenza, che ancora gli faceva tremare le vene ai polsi.
Ignaro di quanto cinque lettere potessero fare paura.
Padre. Amore. Colpa. Gioia. Alice.
 
Poi la paura.
Era pronto per questo? Sarebbe mai stato pronto per questo?
Avrebbe significato mettere da parte tutto se stesso per qualcun altro probabilmente. Avrebbe imposto regole e necessità diverse dalle sue, gli avrebbe imposto di crescere e smettere di vivere solo con poche aspettative.
D’istinto aveva odiato Alice per averlo escluso a priori, ma dopo la rabbia ne vedeva tutte le ragioni. Lei lo conosceva da sempre meglio di se stesso. E lui non era pronto.
Pochi caselli prima di Brescia si accese la spia della riserva di benzina facendolo imprecare. Non aveva preso nemmeno il portafogli con se.
Questa idiozia della fuga senza nemmeno premurarsi di prendere il portafogli acuì la sua paura.
Era un cretino irresponsabile incapace di prendersi cura di se stesso, incapace di reagire in modo adulto ad una notizia importante, incapace di pensare lucidamente in un momento di crisi.
Che avrebbe potuto combinare con un bambino?
Come avrebbe potuto prendersi cura di un altro essere umano?
Come poteva pensare di rendersi responsabile della crescita di qualcuno?
L’unica testimone della sua rabbia fu la Fiat che si prese innumerevoli pugni sul cruscotto, finchè Manuel non trovò qualche banconota nelle tasche dei jeans e si fermò al primo distributore.
Un pensiero, mentre entrava in autogrill a pagare quel mezzo pieno, volò a Kate.
Non le aveva detto nulla, non l’aveva visto imboccare la porta senza una parola e scappare via. Non l’avrebbe trovato al suo risveglio e questo l’avrebbe fatta impazzire.
Si tastò tutti i vestiti, non aveva nemmeno il telefono.
Quasi gli veniva da ridere, rassegnato a tornare sui suoi passi al primo casello.
Era un idiota, un cretino integrale. Alice non aveva colpe.
Tornò alla macchina pensando a suo padre.
Di sicuro avrebbe reagito bene perchè Alice era la madre di questo bambino, mentre lui si sarebbe preso l’ennesima tirata. In fondo però anche suo padre si era trovato con un bambino da gestire da un giorno all’altro.
Non ci aveva mai pensato pienamente dopo la disintossicazione, anche lui doveva aver avuto il suo bel trauma con la morte di sua madre, trovarsi un ragazzino che lo guardava dal tavolo della cucina affamato e bisognoso di risposte forse era ben peggio di trovarsi con una ragazza incinta.
Se ci era riuscito Sergio in fondo perché non avrebbe dovuto farcela anche lui? Lui non era venuto su poi così male no?
Aveva ancora tempo forse per mettersi in pari?
Si rimise al volante con entusiasmo, pronto a tornare da Alice, senza sapere bene dove fosse nata quella foga.
Ma chilometro dopo chilometro scemò per lasciar spazio alla realtà.
 
E infine la resa.
Alice ormai era una sconosciuta per lui e lui per lei. Come avrebbero potuto essere genitori? Bisogna andare d’accordo almeno sulle basi, sui principi, sull’educazione.
Quali cavolo erano i suoi principi?
E poi era evidente che non lo volesse accanto. Gli aveva nascosto la verità, e forse sì lui era un cretino perchè era così evidente che nessun altro le avrebbe creduto, ma lui si fidava, lei invece no. Come avrebbe potuto farle cambiare idea ora?
E il lavoro. Che cavolo avrebbe detto a Mms Sullivan? E la casa? Kate non poteva permettersi quell’affitto da sola se lui avesse deciso di tornare in Italia. Avrebbe costretto anche lei a trasferirsi.
Non poteva fare il padre a un continente di distanza.
Questo significava buttare al vento anni di gavetta da Sotheby’s, anni di sudore e di studio. In Italia non aveva agganci ne connessioni con nessuna casa d’asta, come avrebbe fatto a trovare lavoro? Non aveva abbastanza soldi da parte per mantenere un figlio e sopravvivere senza un lavoro per oltre sei mesi.
Era tutto illogico.
Arrivato di nuovo all’uscita dell’autostrada alle pendici delle montagne aveva finito le opzioni, aveva vagliato ogni possibile compromesso, ogni eventuale strategia e nulla avrebbe funzionato con lui in Inghilterra e lei in Italia.
Passò davanti ad un bar ma non si fermò, i soldi che gli erano rimasti in tasca bastavano a malapena per un caffè figurarsi per le sigarette che desiderava da ore. Inoltre era quasi ora di pranzo, probabilmente Kate gli avrebbe fatto la pelle, o le palle.
Si perse un paio di volte prima di ritrovare la strada giusta e una volta parcheggiato davanti alla casa si fermò ad osservarne le luci accese dietro i vetri.
Jack l’avrebbe ammazzato, e anche Filo, e di sicuro anche Laura. Forse persino Charlie e Chiara. Per non parlare di come l’avrebbe guardato Alice.
Era lunga la lista dei suoi possibili aguzzini.
Quanto desiderava quella sigaretta ora.
Si convinse a rientrare, tanto lì fuori chiuso in auto che ci stava a fare, e appena varcata la soglia lo avvolse un gran silenzio, tutti i presenti si erano congelati al suono della chiave nella serratura.
Al suo ingresso nel salone Kate per prima si mosse, lo guardò con lo stesso sguardo che gli riservava quando faceva qualche stronzata delle sue, ma gli andò incontro e lo abbracciò stretto: -Lo sapevo che torni.
Evidentemente qualcun altro non ci credeva così tanto.
Fu lui a risponderle in inglese, quasi inconsciamente: - Avevo bisogno di farmi un giro.
-Immaginavo.. qui è scoppiata la terza guerra mondiale. Filo Alice e Jack hanno litigato di brutto, credo li abbiano sentiti fino a Verona-
Al contrario delle sue parole non c’era ironia nel suo sguardo, era davvero molto preoccupata e gli accarezzava le spalle come per calmarlo.
Senza preavviso lo abbracciò di nuovo stretto stretto mormorandogli rassicurazioni che solo loro due potevano capire. Come al solito su di lui ebbe un effetto balsamico.
Il resto della compagnia li guardava come due animali selvatici pronti a fuggire. Jack era rintanato in cucina accanto a sua moglie, Filo su un divano dalla parte opposta della stanza, non li aveva mai visti in tanti anni così scazzati l’uno contro l’altro, evidentemente solo Alice poteva provocare questo disastro.
Ora comprendeva la frase che Paolo aveva detto a Kate.
Tutti fuggivano il suo sguardo, chi per una ragione chi per un’altra, solo Laura lo fissava dal bracciolo di un divano. Se avesse potuto l’avrebbe sgozzato seduta stante a giudicare dal grugnito che emise.
-Devo parlare con lei.
Non era una domanda, ma l’unica a muoversi per dargli risposta fu lei indicadogli il piano di sopra.
Cinque passi, venti gradini, altri tre passi ed aveva raggiunto la sua personale corte marziale.
Trovò Alice di spalle nella stanza che divideva con Kate, intenta a buttare roba in un borsone. Indossava ancora il maglione della sera prima e i capelli sciolti sulle spalle catturavano la luce di tutta la stanza.
-Te ne vai?
-Quanta perspicacia - non si voltò nemmeno a guardarlo.
Manuel era troppo sopraffatto dai suoi pensieri per dar corda anche al suo sarcasmo, si avvicinò fino a sedersi sul letto dietro di lei ignorando il caos nella stanza e la sua ostinazione nel far la valigia.
-Perché me l’hai tenuto nascosto? – ancora non lo guardava, e a dirla tutta Manuel si sentiva più a suo agio così – Capisco che tu possa ancora odiarmi, ma qui si tratta di tutt’altro.
Alice perseverò a scaraventare vestiti nella borsa senza alzare lo sguardo, il grumo d’astio che le gravitava attorno era palpabile nell’aria.
-Sei stata vigliacca e sleale.
Non si voltò ma la fece incazzare abbastanza da costringerla a smettere di piegare e ripiegare magliette .
-Sleale!? Tu sei stato un cafone arrapato e menefreghista per metà della tua vita ed ora io sono la vigliacca sleale? Non sono io quella che è scappata oltremanica senza dire una parola - Quello fu un colpo basso ma totalmente meritato: -E guarda un po’, come sempre sei scappato; hai scoperto il grande mistero e poi ti sei infilato in macchina senza dire una parola – accecata da una furia degna di un essere mitologico prese a vuotare il borsone che prima aveva riempito – Ed ora eccoti qui di nuovo a fare il figliol prodigo, per far vedere a tutti il tuo buon cuore e assumere il ruolo che ti è toccato in sorte. Poverino eh.
-Ora sono qui.
La interruppe consapevole che quella frase non le sarebbe bastata di certo.
-Eri lì anche quella sera ma non sei stato capace di pensare alle conseguenze - percorsa da brividi che lui non poteva sentire si strinse nelle spalle. Ancora non aveva avuto il coraggio di guardarlo in faccia.
-Non ero venuto da te per una sveltina! E poi non è una colpa che deve assumersi solo uno di noi direi. Io... – incespicò alla ricerca delle parole giuste, arrancando tra i ricordi di capelli rossi tra le dita e di un profumo che non avrebbe mai dimenticato.
Si prese la testa tra le mani, non vederla in faccia era tormento e sollievo: -Pensavo, anzi non pensavo affatto, ho agito come un cretino, non ti ho chiesto nulla ne mi sono sentito dire nulla quindi preso dalla mia frenesia me ne sono fregato.
Alzò lo sguardo ma non su di lei bensì sulla sua schiena esile e su quello che cresceva lì dentro: -Ed eccolo qui.
L’accenno di tenerezza nella sua voce la prese alla sprovvista si era aspettata una delle sue solite espressioni indolenti e quasi annoiate, lasciò perdere per un momento la sua stizza per osservarlo. Dopo averlo sentito rientrare in casa non aveva guardato altro che le assi di legno del muro.
Manuel era ancora il ragazzo bellissimo dei suoi diciotto anni. Aveva ancora i capelli nerissimi e il suo ciuffo stravolto un po’ buttato a caso, la mandibola dura e l’espressione arruffata di qualcuno che non ha ancora trovato una ragione alla sua vita.
E i suoi occhi, quegli occhi che l’avevano spogliata di ogni cosa e rivestita di una se stessa più vera. Ora la guardavano dal basso, lui era seduto sul letto i gomiti sulle ginocchia e un solco profondo tra le sopracciglia che in un’altra vita avrebbe appianato passandoci un dito. Non avrebbe voluto essere guardata in nessun altro modo, Manuel la stava aspettando: era tornato, aveva fatto un passo e forse le aveva perdonato le bugie, ed ora attendeva solo che quel passo lo facesse pure lei.
-Ho cominciato a prendere la pillola a diciotto anni, quando stavo insieme a te, e da lì non ho mai messo – sospirò pensando a quando potesse essere stata idiota – quest’anno però ho dovuto fare una sospensione, il ciclo mi era tornato spontaneo solo da un mese, è stata l’abitudine a fregarmi.
Aveva scoperto il fianco davanti a lui che sapeva sempre bene dove colpire, non senza un po’ di timore.
-Siamo stati due imbecilli – concluse lui per entrambi sospirando.
E chi avrebbe fatto le spese della loro idiozia erano in tre.
Chissà se lui poteva sentirli sotto tutti quegli strati di pelle e placenta?
Chissà se poteva sentire il tono strascicato di suo padre? O quello caustico di sua madre?
Aveva sentito tutte le cattiverie che si erano e si sarebbero detti?
Magari sarebbe uscito da quella pancia già incazzato col mondo solo a causa loro.
-Capisco perchè tu non me lo abbia detto – Manuel iniziò un lungo discorso a cui aveva pensato più volte in auto, odiava esporsi così, e comunicare in generale, ma non c’era via di scampo – I miei precedenti non hanno scuse. O perlomeno non più, forse una volta, ma non alla nostra età.
Alice incontrò il suo sguardo, era tentata di fermarlo ma si astenne.
-Però non avresti dovuto. Non sono più quella persona e scoprirlo in questo modo è stato tremendo.
Alice carica di tutte le paure che avrebbe voluto condividere con lui molto prima, gli sputò addosso la verità: -Avresti preferito scoprirlo assieme a me, in pronto soccorso con una flebo nel braccio convinta di avere la gastroenterite e Paul che non riesce nemmeno a guardarti faccia?
Solo allora Manuel si fermò a pensare davvero ad Alice, a quanto si fosse sentita sola in quei mesi, con quel fardello immenso da gestire solo sulle sue spalle.
Pensò più e più volte a quella domanda prima di darle voce. Passarono momenti di silenzio in cui solo il rumore del suo respiro rimbombava nella stanza ed evitarono accuratamente di guardarsi.
-Perchè non hai abortito?
Alice si girò ed ora gli dava di nuovo le spalle completamente immobile. Stava piangendo?
Si pentì di aver dato voce a quella delicata domanda che gli frullava in testa ben prima della rivelazione.
-Per egoismo
-Che vuoi dire?
-Ci ho provato. Mi ero illusa di farlo per lui non per me, che non sarebbe cresciuto in un ambiente sereno. Ho fatto gli esami e le visite, ho avuto l’ok del ginecologo e sono arrivata fino alla sala operatoria, ma quando mi sono trovata lì mi è mancato il coraggio - gli parlava con un filo di voce, senza mostrargli nemmeno un lembo di pelle, chiusa dietro alla massa dei suoi capelli a nascondersi: - Non sarei riuscita a vivere con questo peso sulle spalle. L’idea di aver sacrificato qualcuno che non ne ha colpa per una mia cretinata: mi sarei trascinata il senso di colpa per la vita e non sono così altruista da sobbarcarmi questo peso per il bene di qualcun’altro. Ho scelto di salvare la mia coscienza temo.
Manuel rimase ad ascoltare in silenzio, a guardare le sue spalle incurvarsi, incapace di alzarsi e darle il conforto che avrebbe meritato.
Come tanto tempo prima rimase stupito dai suoi processi mentali, così lucidi, sempre razionali e tristemente realisti.
-Ti ho deluso?
-No, no tutt’altro.
Per un attimo la sua mente si era avventurata nell’inpervia ipotesi di come sarebbero potute andare le cose se lei l’avesse coinvolto prima, ma non aveva più senso chiederselo ormai.
-Come faremo adesso?
Alice non rispose subito, si volse a guardarlo negli occhi e lui seppe esattamente che quella non era lei ma una nuova maschera perfetta e immacolata senza nessun segno del turbamento precedente. Lo guardava dall’alto in basso sicura e granitica con un misto di durezza e sarcasmo.
-Noi non faremo nulla. Tu tornerai a casa tra due giorni come previsto e non ti farai vedere per molti mesi, almeno fino all’estate. Farai come se nulla di tutto ciò fosse mai accaduto. Io sistemerò le cose con Jack, Filo e tutti gli altri, mi inventerò qualcosa. In aprile partorirò, mia madre verrà a stare da me per un po’ e per la fine dell’estate conto di tornare a lavorare. Fine.
-Non puoi prendere questa decisione al posto mio.
-Infatti non ti sto chiedendo di decidere. Mi hai chiesto come faremo, ed io ti ho esposto il piano, devi solo attenerti a quello perchè non c’è nessun noi.
Lei non stava cercando di estrometterlo, l’aveva già fatto.
Non c’erano molte vie d’uscita, non si era mai informato di diritto familiare, non aveva armi per combattere.
E poi per cosa? L’avrebbe trascinata in tribunale pur di riconoscere un figlio che avrebbe visto quante volte all’anno? Come poteva fare il padre dall’Inghilterra?
Si era ripromesso tanti anni prima che non avrebbe mai fatto figli per poi vederli soffrire a causa sua, e non aveva nessuna intenzione di lasciare la sua vita a Londra.
L’unica soluzione era quella che proponeva lei purtroppo.
Frustrato si afferrò la testa tra le mani, lei aveva già previsto e calcolato tutto.
Era sicuro che nelle sue mani e della sua famiglia quel bimbo sarebbe stato protetto e cresciuto nell’amore, per quanto a lei l’idea paresse assurda, lui l’aveva sempre vista come la madre perfetta per i suoi figli.
-Sei sicura che è questo che vuoi?
Alice avrebbe voluto avere il coraggio di urlargli di no. Non era affatto ciò che voleva. Lei voleva quella casa con giardino che lui le aveva mostrato, voleva tre figli e un cane, voleva mollare il lavoro tra qualche anno e fare la mamma e la moglie, voleva lui, lui, lui e solo lui.
Le mancò il coraggio, lui era lì la guardava in attesa, ma non poteva fargli questo torto.
-Potrei provare ad organizzarmi in qualche modo.
Ingoiò chili di rimpianti.
-Non si tratta di organizzarsi, ne di tempo, non si tratta nemmeno di noi due o di provare a giocare alla coppietta. Non si può provare a fare il genitore, di punto in bianco lo sei per la vita e basta. E non hai più vie di fuga.
Si sedette ora davanti a lui. Per la prima volta al suo livello e tutto quello che vedeva in lei era stanchezza.
-Ti sto dando la via di fuga che cercheresti tra qualche mese o anno magari. Non sei fatto per il compromesso non lo sei mai stato.
Manuel abbassò il capo vinto e a corto di argomentazioni e lei di nuovo provò un tale moto di tenerezza che gli occhi le si riempirono di lacrime, ma non voleva piangere davanti a lui e si costrinse a mandarle indietro e rimanere salda.
-E io non mi fido di te, non posso fidarmi di qualcuno che scappa, che già una volta mi ha piantata in asso. Non per questa cosa - gli stava mentendo, non si fidava sì ma in cuor suo sapeva che non sarebbe mai scappato, avrebbe litigato con lei ogni due frasi piuttosto ma una volta scelto di riconoscere suo figlio si sarebbe dimostrato un buon padre ne era certa: -Ti sconvolgerebbe la vita e non penso che tu sia pronto per questo.
L’analisi accurata e commossa di Alice non aveva sbavature. Lui era là messo nero su bianco dalle sue parole. Era vero che non era pronto, che avrebbe preferito fuggire da tutto, che non sapeva come assumersi una tale responsabilità; eppure contro tutto il buon senso, contro ogni logica e contro tutto se stesso.. lui non voleva lasciarla sola.
Passarono minuti e minuti di silenzio.
Seduti l’uno davanti all’altra, senza toccarsi, senza guardare altro che non fossero le assi del pavimento e le nervature del legno. Alice fremeva in attesa di quella che sperava sarebbe stata la resa. Manuel che rincorreva i propri pensieri senza concluderne nessuno.
Rassegnata dopo quasi un quarto d’ora di aspettative si alzò e riprese a fare la valigia in silenzio, non c’era più nessuna speranza per loro.
Manuel se ne sarebbe andato da quella stanza entro qualche minuto e lei si sarebbe fatta accompagnare a casa da Filo immediatamente. Lui sarebbe ripartito in due giorni e lei avrebbe potuto finalmente tirare un sospiro di sollievo.
A quel punto avrebbe solo dovuto seppellire ogni fibra di suo martoriato cuore sotto metri di neve, congelarlo e gettare definitivamente alle ortiche la sua vita sentimentale per dedicarsi solo a suo figlio.
-Ho bisogno di fumare.
Lo sentì bisbigliare alle sue spalle.
Passi sul legno fino alla porta, poi sui gradini e infine silenzio.
L’argine che tratteneva le sue lacrime vacillò più volte ma lo trattenne con estremo coraggio. Chiuse il borsone di fretta e raggiunse Filo, prima che tutta quella forza scappasse via doveva andarsene da lì.
Nel salone c’erano solo Chiara e suo cognato, gli altri erano tutti nel patio ma non si soffermò troppo per vedere cosa facessero. Manuel non era a portata del suo sguardo.
Con il suo fidato compagno di disavventure bastò un’occhiata, pochi istanti e lui zoppicando stava già caricando i suoi bagagli nell’auto di Jack. Non voleva sapere che accordi avessero preso per concederle di andare via con l’auto del fratello ma non le importava di nessun altro in quel momento.
Scese nel parcheggio e salì al posto del passeggero, non si voltò, non salutò nessuno. Voleva solo andarsene, lasciarselo alle spalle, dimenticare il suo sguardo, il suo sorriso, i suoi capelli scuri. Aspettava solo di essere sola con Filo per poter rompere l’argine delle sue lacrime, chiuse gli occhi e si strinse il cappotto addosso.
Il baule si chiuse in un colpo secco, sentì Jack e Chiara parlare con qualcuno, poi l’altra portiera dell’auto si aprì e Filo prese posto accanto a lei.
-Temo che sarà un viaggio tremendo, abbiamo molte cose da organizzare.
Non era Filo.
Alzò lo sguardo di scatto e lui era lì.















Inutile spazio autrice:
Ebbene rieccoci qui.
Riassumo velocemente la situazione: non dormo da 36 ore ma non ho sonno quindi probabilmente sto per impazzire (o morire..), c'è una cimice che ronza attorno allo schermo del pc (bleah), non ho controllato ne l'impaginazione, ne la battitura, ne la forma e nemmeno il numero del capitolo...
Ci sono state moltissime versioni di questa parte, ho cambiato molte volte tutto, ma questa è la versione iniziale, quella che avevo scritto tanto tanto tempo fa su una delle mie moleskine. Potevo chiudere la storia qua così, e in realtà quello era il progetto iniziale, ma mi sono venute altre due o tre ideuzze per qualche altro capitolo. Mi dispiace per voi. Ovviamente in questo la parte difficile riguarda Manuel, fatemi sapere che ne pensate.
Grazie in anticipo a tutti quelli che recensiranno e a tutti quelli che hanno letto.
1Bacio. Vale.

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