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Da dietro un spesso vetro indagavo
nella notte, cercando di intravede una sagoma familiare.
Un uccello, o forse un
pipistrello, passò vicinissimo alla mia postazione.
Spalancai la finestra.
Quella sarebbe stata l’ultima
volta che lo avrei lasciato entrare in quella casa e nel mio cuore.
Mi voltai verso il letto e
cominciai ad avvicinarmi a quello, un leggero rumore alle mie spalle e, poi, mi
sentii abbracciare.
Era già arrivato.
Ormai, era così abituato a salire
fin qua su, che il suo rumore si confondeva con quello della notte, sentivo il
suo dolce respiro sul mio collo, mentre la sua presa diventava sempre più
fortemente dolce.
Abbassai il capo come per
abbracciare con il mio viso quelle braccia che mi stringevano. E lui, forse, lo
prese come un tentativo di sfuggirgli e allentò la presa, voltando il mio corpo
con gentilezza verso di lui.
Ci trovammo occhi negli occhi.
Per un interminabile istante non
riuscii quasi a vedergli il volto, poi, man mano, la mia vista si abituò al buio
e a quella distanza così ravvicinata, senza accorgermene mi ritrovai di nuovo
persa nelle sue iridi blu, così come la prima volta che l’avevo visto e come la
prima volta che avevamo sbagliato.
Mi guardava con aria
interrogativa, quasi spaventato che io lo mandassi via.
Gli poggiai una mano sul viso e
lui avvicinò il suo volto al mio.
Quasi con urgenza cominciò a
baciarmi, come se avesse avuto paura che da un momento all’altro qualcuno
sarebbe entrato da quella porta e mi avrebbe trascinato via da lui.
Mi strinse di più e io ricambiai
l’abraccio.
Era come se fossimo diventati un
tutt’uno, riuscivo a sentire ogni singola parte del suo corpo e da
quell’abbraccio mi lasciai trasportare lontano.
All’improvviso, mi staccai da lui
e mi voltai verso la porta.
Dei rumori dal pianerottolo mi
fecero rabbrividire, probabilmente l’inquilino dell’appartamento affianco era
rientrato tardi. Speravo solo che non cominciasse a parlare ad alta voce con il
suo compagno di stanza, nulla doveva rovinare quella notte.
Ero agitata, come non lo ero mai
stata prima.
Non avevo mai avuto tanta paura di
essere scoperta, neanche durante tutte quelle volte che ci eravamo visti, di
nascosto, alla luce del sole autunnale.
Lui mi guardò di nuovo,
comprendendo la mia paura. Ero distratta, assente.
Mi prese con dolcezza il mento e
girò di nuovo il mio viso verso di lui.
Ci stendemmo sul letto.
Abbracci confusi, come se ci
fossimo incontrati per la prima volta, gesti calcolati, come se ci conoscessimo
da trent’anni.
Dolci parole sussurrate a una
mezza luna che perdeva la sua luminosità nelle tenebre.
Frasi ripetute che si perdevano
nel ricordo di vecchie promesse dimenticate.
La solita sensazione di calore,
ogni volta che lo avevo vicino, e quel freddo, che ormai non abbandonava più la
mia pelle ed il mio cuore, mi fecero rabbrividire di nuovo.
Tuttavia, questo brivido mi fece
stare meglio, per la prima volta, dopo settimane, mi sentivo di nuovo viva.
La notte continuò a scendere,
facendosi sempre più buia, cercando di nasconderci per l’ultima volta.
La luna cercava di affacciarsi
nella stanza, curiosa e maliziosa.
Anche gli astri volevano farmi un
regalo, un premio di consolazione.
Nel buio della notte una voce
lontana raccontava qualcosa.
Il Sole dormiva beato, cullato
dalla dolce ninna nanna della Luna.
Il Sole dormiva e sognava la Luna
che non poteva mai incontrare.
Ah, se solo avesse aperto gli
occhi per un istante, l’avrebbe trovata lì, al suo fianco, a cullarlo, ma gli
era stato proibito e lui non poteva disubbidire .
Loro erano diversi.
Lui era il Sole, il Signore del
giorno, e con i suoi raggi forti faceva vivere la Terra, lei era Luna e
nascondeva soltanto gli amanti e i ladri con la sua luce riflessa.
Un tempo la chiamavano la Signora
della notte, perché risplendeva nelle tenebre, ma ormai nessuno la appellava più
così.
Stelle più luminose erano apparse,
gli uomini avevano creato cose che l’avevano resa inutile e il suo compito ormai
era quasi stato dimenticato.
Un mormorio leggero, il Sole stava
per destarsi e le palpebre della Luna diventavano sempre più pesanti.
In quel momento lui aprì gli
occhi.
Il luminoso astro si svegliava,
all’oscuro dei pensieri della Luna, consapevole, soltanto, di riuscire a vedere
i suoi occhi, seppur solo per pochi istanti.
La Luna si addormentò serena, con
un luminoso sorriso sulle labbra, grata per aver visto ancora una volta quel
miracolo.
Magia che avrebbe continuato in
eterno, nonostante stelle più luminose cercassero il loro spazio nel grande
cielo.
Quando mi svegliai era ormai
mattina.
Il sole stava timidamente salendo
in cielo, ancora assonnato.
Del mio amante erano rimaste solo
le parole e il suo forte profumo nel mio letto.
Guardai la stanza, ma, questa
volta, c’era qualcosa di diverso.
Le pareti intorno a me non mi
ricordavano più lui, come facevano ogni mattina, quando mi ritrovavo sola.
Nemmeno la finestra, ancora
aperta, voleva farmi rivedere l’immagine di un amante che entrava da lì.
Mi alzai cantando dolcemente una
ninna nanna che mia nonna mi sussurrava da piccola, prima di farmi addormentare.
Ero nuovamente distratta e
assente, mi sembrò quasi che i deboli raggi del sole, che mi illuminarono con
forza, volessero prendendosi gioco di me e delle mie occhiaie.
Non sapeva, il luminoso astro
però, che sbagliava a prendermi in giro.
Tirai le tende per non farlo più
entrare dalla mia finestra.
Astro del mattino, con la tua
luce, non prenderti gioco,de i nascondigli degli amanti, perché anche tu, come
loro, sei destinato a perdere la tua Luna.
L'angolo di Joya
Questa one-shot fa parte di una
raccolta che avevo in mente di fare tanto tempo fa.
La raccolta era sull'amore, in
generale.
Non ho più portato a termine il
progetto, però avevo voglia di pubblicare nuovamente questi racconti e magari
scrivere qualche altra storia, con questo mio nuovo account.
Grazie per aver letto e spero
vogliate lasciare un commento.
Allungo le mani
verso di te, per asciugare quelle lacrime che scendono silenziose sul tuo viso.
Non so perché tu
pianga, ma, allo stesso tempo, qualcosa mi dice che è colpa mia.
Tu non ti scosti da
me, ma non fermi nemmeno le tue lacrime, che continuano a bagnarti il viso
giovane e delicato, mentre al petto stringi di più il medaglione che ti ho
regalato per il nostro primo anniversario.
Hai bisogno di
qualcosa che ti ricordi di me, che non mi lasci andar via.
Continui, però, a
tenere gli occhi bassi, quasi chiusi. Non vuoi che me ne vada, ma non alzi lo
sguardo per incontrare i miei occhi, che ti avrebbero sempre amato...sempre, per
l'eternità.
Provo a chiamarti,
ma tu non mi senti.
"Perché piangi amor
mio?" ti poggio una mano sulla pancia e per risposta ho solo un singhiozzo.
Ti guardo, mentre ti
pieghi sulle ginocchia, piccola, come non ti avevo mai visto prima.
Ti siedi per terra,
come una mendicante che chiede l'elemosina sulle scale di una chiesa.
Anche tu senti
freddo, per il dolore nel cuore e per il duro pavimento di marmo sotto le tue
gambe.
Tua madre ti si
avvicina lentamente, come un fantasma solitario che vaga di notte nel suo
castello vuoto.
"lo sai che non
tornerà", ti dice e tu singhiozzi di nuovo e ti fai alzare da lei. Non hai forze
e mi si spezza il cuore, perché io non volevo ridurti così.
Tremi ancora e
continui a non voler andar via, nonostante tu non riesca ad opporti alla forte
volontà di tua madre.
Ti rincorro e per
poco non inciampo, ma tu continui a non sentirmi, sei troppo delusa, stanca
e...arrabbiata e non con tua madre che ti porta via, ma con me.
Mi fermo...se c'è
rabbia significa che stai meglio, che fra poco non soffrirai più così tanto.
Continuo a seguirti,
ma adesso più lentamente, resto a pochi passi da te, ogni volta che incontro un
viso conosciuto tento di nascondermi, ma loro non mi notano, troppo presi a
constatare la loro vita.
Sali nella vecchia
macchina di tuo padre, che ti sorride, stanco, ma sollevato.
Tu gli rispondi con
la stessa espressione e gli carezzi il viso antico.
Poi ti volti verso
il luogo sacro e tristemente sorridi, vedo i tuoi occhi leggermente accesi di
vita, fissare un punto indeterminato, mentre lanci un leggero bacio, lì dove mi
sono posizionato io.
Debolmente ti
sorrido anche io, nonostante tu non possa vedermi.
Non potrai mai
dimenticarmi e io ti sarò sempre accanto, nel modo che mi è concesso e fin
quando tu lo vorrai.
Per la prima volta
da mesi, non mi aggrappo al tuo luttuoso vestito nero e ti prego, urlando, di
non lasciarmi e di tornare da me, da quello che pensi adesso sia il luogo in cui
riposo.
Ti guardo negli
occhi e ti sussurro dolcemente: "Sii felice amore mio", non puoi sentire le mie
parole, ma la mia serenità ti raggiunge, così come fa come me il tuo amore, che
continua a scaldarmi.
Uhm...sì, okey, il titolo ricorda la canzone di Biagio Antonacci, ma rileggendo
la storia è l'unico titolo che mi è venuto subito in mente...quindi pardon.
Ti sento bussare con forza alla
mia porta, per un momento ho il timore che tu possa buttarla giù. Poi mi rendo
conto che è impossibile, con quelle braccia sottili che ti ritrovi.
Ti apro, nonostante avessi giurato
mille volte a me stesso che non l’avrei fatto, neanche se ti avessi sentito
urlare che ti buttavi da un ponte.
Invece, eccoti. Nella mia casa, al
centro della stanza che ha visto tutti noi ridere, insieme, sdraiati sul divano,
seduti per terra, tutti insieme, come amici inseparabili.
Chiudo la porta alle tue spalle.
Mi dici, anzi mi urli, che mi devi
parlare, che non ce la fai più a tenerti tutto dentro. Ogni volta che ci
incontriamo, che ci sfioriamo, è una tortura disumana.
Ti senti traditrice e tradita allo
stesso tempo, per cosa, poi? Per non aver fatto nulla.
Non sai che fare. Ti abbandoni sul
divano, hai gli occhi pieni di lacrime.
Alzi il volto verso di me,
cercando il mio sguardo. Vuoi una soluzione ai tuoi problemi.
Che cosa dovrei fare io? Dovresti
essere tu a darmi una soluzione.
Ci fissiamo per qualche minuto, ma
a me sembrano secoli. Da quanto tempo non ci guardavamo più in faccia?
Entrambi, probabilmente, preghiamo
affinché quegli sguardi ci aiutino a star meglio, quando invece non fanno altro
che trascinarci ancora di più sul fondo.
Il tuo sguardo vacilla e tu
abbassi il volto, fissandoti le ginocchia.
Io resto fermo, immobile, davanti
a te, in piedi.
Sono io a parlare ora. Io che sono
stato zitto da quando hai varcato la soglia di casa mia. Che non parlo davvero
da quando abbiamo cominciato a capire cosa ci stava succedendo.
«Tu», comincio, «forse neanche
immagini quel che provo per te. Probabilmente è qualcosa che non ho mai provato
in tutta la mia vita. Non riesco a vivere, a parlare, a dormire quando penso a
me e te», mi fermo, dire “noi” sarebbe stato troppo doloroso, «non sai quanto ti
vorrei.
«Però...a volte non sempre quel
che desideri si può avere», proseguo, continuando a guardare la tua nuca
chinata.
«Credi che non mi faccia male
vederti con lui, abbracciati, vicini come due amanti. Quando io non posso
neanche sfiorarti», allungo la mano verso di te, istintivamente.
Ti vedo sussultare come se stessi
singhiozzando, ma non vedo lacrime sulle tue mani.
Riesco a risvegliarmi e tiro di
nuovo la mano verso di me, stendendola lungo il fianco e chiudendola in un
pugno.
«Non sarebbe giusto. Si è fidato
di me, si è fidato di te. Non posso ripagarlo in questo modo, è», faccio una
pausa, per cercare di esprime quel che provo con delle parole, «tutto quello che
ho», dico con semplicità disarmante.
«E’ tutto quello in cui credo. Ti
rendi conto? Io...» mi accorgo che la mia voce fa trapelare la mia stessa
incredulità, «io, che sono stato capace di tradire il mio stesso padre, sto qui
a discutere con te, invece di prenderti e...», mi fermo, stai tremando.
Non è quello che vuoi sentirti
dire da me. Non sei venuta per ascoltare qualcosa che già immagini e che, forse,
provi tu stessa. Io stesso mi accorgo che le parole che dico non sono neanche
quelle che veramente penso.
«Tu sei sua. Sei la donna del mio
migliore amico», sorrido tra me.
«Non sai quante ne abbiamo
combinate insieme, le volte in cui mi ha difeso. Il numero delle notti in cui,
con un naso rotto o un sopracciglio spaccato, siamo tornati a casa,
sorreggendoci l’uno con l’altro. Le cicatrici che ci siamo fatti da bambini,
giocando a calcio, per strada, le risate, le fughe. Le volte in cui l’ho
trascinato nel mio buio e la luce che lui è sempre riuscito a riaccendere in me.
E, quando ho deciso di andarmene,
chi è che mi ha seguito? Che ha appoggiato tutte le mie scelte, nonostante, a
volte, non credessi neanche io in quel che facevo? Chi è stato che mi ha fatto
capire con le buone o con le cattive quando sbagliavo? Lui, sempre lui. E in
cambio, cosa mi ha chiesto? Nulla di nulla, solo», un’altra pausa, «amicizia,
fiducia. Non sarò io il suo mietitore», concludo.
Distolgo lo sguardo dalla tua nuca
e mi accorgo di star stringendo anche l’altra mano in un pugno.
Lo so che anche tu, se solo
volessi, potresti raccontarmi mille e più episodi che ti hanno legata e tutt’ora
ti legano a lui, invece, stai lì, in silenzio.
Rialzo lo sguardo e ti vedo
scuotere di nuovo la testa.
Qual è il pensiero che cerchi di
scacciare da quando sei arrivata qui?
Perché sono io a parlare, se sei
stata tu a bussare alla mia porta, quasi abbattendola?
«Non ricordo neanche più quante
volte gli ho detto di lasciarti», ti dico, con tono maligno. «Quando lui fra
tante, fra tutte quelle che poteva avere, aveva scelto proprio te, con quelle
braccia così sottili. I nostri discorsi su di te e io che lo prendevo in
giro...».
Mi sembra di tremare, ma in realtà
è solo il mio cuore che vacilla. All’esterno io sono immobile, di fronte a te, a
fissarti.
Tu, invece, non hai neanche il
coraggio di alzare lo sguardo e guardarmi in faccia, ma forse fai bene. Credo
che se fossi tu a guardarmi, sarei io a distogliere lo sguardo dal tuo viso.
«Anche se cedessimo», dico, «dopo
non riusciremmo a guardarci. Perderemmo tutti», sospiro.
«Tu...tu sei diversa per lui,
rispetto alle altre. E’ come se brillassi più di ogni altra stella nel cielo.
Non capisci,», o forse io non capisco, «ha tanti progetti per te, per voi,
progetti importanti», sottolineo, per vedere la tua reazione. Ed è quella che
temevo e speravo, contemporaneamente. Perché alzi un po’ il viso verso di me e
riesco a intravedere una nota di gioia in quei tuoi occhi così pieni di lacrime.
Mi sembra quasi che brillino, come la prima volta che ti ho incontrata.
Mi sento un po’ rincuorato, o
chissà quale sentimento è quello che provo quando mi accorgo che, nonostante
tutto, tu lo ami ancora, più di quanto pensi.
Perché...a modo nostro, proviamo
entrambi amore per lui. Il tuo è amore di donna, il mio è amore d’amico ed è
stato proprio questo ad unirci ed ora a separaci.
Silenzio, poi ti sento sussurrare
qualcosa come «và via», quando invece dovresti essere tu a sparire dalla mia
vita.
Quando mi accorgo che
probabilmente ci sarebbero altre mille parole da dire, ti alzi e ti avvicini a
me
I tuoi occhi sono sempre pieni di
lacrime, ma una luce di vita li illumina.
E’ il momento dell’addio.
Non ci saranno abbracci o ultimi
baci, perché siamo riusciti a non far accadere nulla, ci siamo accorti in tempo
di quel che stava accadendo.
Mi superi, avvicinandoti alla
porta ed uscendo, senza dire una parola, neanche un “addio”.
La lasci aperta alle tue spalle,
io ti seguo e...la chiudo, girando la chiave nella toppa.
So che non ci incontreremo per
molto tempo, fino a quando i nostri sensi non si saranno dimenticati l’uno
dell’altro.
Io ho deciso di partire, tornerò
quando sarà il momento per me di farlo e se non arriverà, avrò almeno salvato
lui e te.
Vado nell’altra stanza e prendo la
valigia, continuando a pensare, senza riuscire a far zittire la mia mente.
Forse anche questa volta non ho
fatto nient’altro che salvare me stesso, trascinando per l’ennesima volta anche
te, amico mio, nel mio buio, nonostante tu, adesso, non sappia nulla .