Adieu Belle Epoque

di Federico
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Réunion ***
Capitolo 2: *** I pianisti ***
Capitolo 3: *** Otium agreste ***
Capitolo 4: *** Les cadeaux ***
Capitolo 5: *** I reduci I- In cielo e nel deserto ***
Capitolo 6: *** I reduci II- Dall'Africa all'Italia ***
Capitolo 7: *** I reduci III- Pain everywhere ***
Capitolo 8: *** Una canzone per l'Europa ***



Capitolo 1
*** Réunion ***


 

Adieu Belle Epoque

 

Réunion

 

Cantone di Zurigo, Svizzera, 15 agosto 1924

Più Deidara lanciava attorno a sé occhiate avide e ammirate con le sue iridi azzurre come il terso cielo alpino sgombro da nuvole, cercando di catturare, di penetrare il segreto della natura circostante, mosso dall'invincibile curiosità dell'artista mistico e filosofeggiante, più si trovava a stimare con devozione la Svizzera, paese che fino ad allora era stata da parte sua oggetto di un disprezzo neanche tanto velato.

In realtà la Confederazione elvetica non era poi tanto dissimile dalla monarchia dei Paesi Bassi da cui lui stesso proveniva, come dimostrava eloquentemente la sua chioma: ambedue erano Stati alquanto piccoli, ricchi e popolati da onesti e indefessi lavoratori, prevalentemente neutrali e interessati principalmente a occupazioni pragmatiche e questioni interne, nonché sede di numerosissime banche e sovente arbitri di delicate questioni internazionali.

Eppure fino a quel momento il nome “Svizzera” aveva destato nella sua mente confusi pregiudizi su una nazione di rozzi montanari e ingordi affaristi, conosciuta solo per il cioccolato e gli orologi, che con la scusa dell'equidistanza assoluta da ogni contendente ingrassava e faceva le scarpe a tutti senza perdere quella fastidiosa aria di superiore, interessata benevolenza.

Ma, come spesso accade, un contatto diretto aveva potuto più che mille parole: dopo aver interagito con i locali Deidara era rimasto colpito dall'apparente armonica mescolanza di Svizzeri di lingua tedesca, francese, italiana e di varie confessioni religiose, mentre gli Olandesi erano in gran parte di lingua fiamminga e credo calvinista o ateo, e soprattutto era stato rapito e ammaliato dal paesaggio.

Pazienza se quella nazione non si affacciava sul caldo Mediterraneo o sul fosco Mare del Nord, e non possedeva un lontanissimo impero di isole tropicali come l'Indonesia o i Caraibi; racchiuso fra quelle montagne altissime velate di rocce, nevi eterne e abeti e quei magnifici laghi che si perdevano in cristalline profondità, in mezzo ai ridenti e fioriti pascoli alpini, uno poteva sentirsi sufficientemente a casa, come se fosse stato avvolto da uno strato di soffice e calda, accogliente bambagia, molto più che per esempio negli umidi prati d'Olanda battuti dal vento, sempre minacciati dai travolgenti flutti del mare.

Ora non si stupiva che tanti pittori prima di lui avessero deciso di effigiare quelle vette e quegli specchi d'acqua per consegnarli alla fama eterna, e che tanti signori ricchi o benestanti venissero là a trascorrere le vacanze: quella terra sembrava disegnata apposta da una sapiente mano celeste per eccitare al massimo grado un animo sensibile e portato a innalzare la propria anima al di sopra del livello delle cose mortali per una disinteressata ricerca della Perfezione, se mai essa poteva esistere o essere conosciuta.

Deidara aveva sempre avuto una particolare affinità emotiva per gli ormai lontani artisti romantici, e non dubitava che se fosse nato circa un secolo prima sarebbe stato fra i primi a farsi contagiare dalle nuove idee: anche se lui non pensava costantemente all'Assoluto, all'Infinito, pure lo sentiva all'interno della propria anima sotto forma di gioia spontanea e inspiegabile quando guardava un bel tramonto o uno splendido mare scintillante, e si chiedeva cosa avessero in comune tutti loro.

Non a caso fra i suoi modelli personali vi era il grande Caspar David Friedrich, con i suoi paesaggi sterminati punteggiati da figure pensose: era stato osservando i suoi quadri che aveva deciso di coltivare a fondo la propria vocazione.

A questa sensibilità tutta particolare il nostro univa poi un'incredibile precisione tutta fiamminga e un gusto per i ritratti e le scene quotidiane che aveva ereditato dal sublime Rembrandt, di cui conosceva a memoria praticamente ogni singola opera che fosse esposta nei Paesi Bassi.

L'unico campo in cui Deidara era nazionalista era proprio la pittura: gli piaceva perfino Van Gogh, che riteneva un genio negletto, per quanto i loro stili potessero differire.

L'olandese si fermò sul ciglio della strada sotto a un imponente albero per riposare le gambe stanche, sebbene allenate, e ingerire un sorso d'acqua dalla borraccia.

Ancora, una o due ore, pensava, e sarò arrivato.

Immaginava già la faccia che il suo amico Kakuzu, probabilmente l'unico svizzero simpatico che conoscesse prima di quel viaggio, avrebbe fatto nel ritrovarselo davanti: erano più di dieci anni, precisamente dal lontano '11 che non si vedevano, e nel frattempo il mondo era mutato in modo straordinario, purtroppo anche in senso fortemente negativo.

Aveva fatto bene quel banchiere solo in apparenza insensibile a organizzare quell'evento per il suo compleanno: se non altro sarebbe servito a stabilire se erano ancora tutti vivi.

Dopo aver ricevuto la lettera di Kakuzu durante uno dei propri rari periodi di residenza in Olanda, dove doveva sorbirsi tutte le ultime notizie dal fronte economico-imprenditoriale di suo padre, non aveva potuto che accogliere con gioia la notizia che gli avrebbe concesso qualche giorno di svago: pertanto qualche tempo prima della data prefissata, salutati tutti e mandati al diavolo gli affari, aveva infilato regali, fogli e matite nella valigia e aveva preso il primo treno per il sud.

Alla fine del percorso, che lo aveva portato ad attraversare una bella fetta di Germania e di regioni di confine della Francia, e che aveva impiegato perlopiù per disegnare quello che vedeva stagliarsi fuori dal finestrino fino a perdita d'occhio, era sceso alla stazione di Zurigo e, dopo un paio di giorni spesi a riposarsi e visitare la città, era uscito di buon mattino dall'albergo.

La sua intenzione era quella di raggiungere a piedi la villa di Kakuzu, che dalla lettera sapeva essere situata poche miglia fuori da Zurigo, in una zona di campagna sulle sponde dell'omonimo lago, e nel mentre godersi un po' di aria pura e tipico verde elvetico.

D'un tratto si bloccò come se gli avessero puntato una pistola alla schiena e con lentezza funerea portò una mano alla tasca dei pantaloni e ne estrasse uno specchietto.

Deidara non voleva assolutamente che si sapesse in giro, per non dare agli amici un altro motivo di scherno oltre alle sue velleità artistiche, ma teneva molto alla cura dei suoi lunghi capelli biondi, che già di per sé lo facevano passare per un eccentrico; ora non gli andava molto a genio di presentarsi in casa d'altri dietro cortese invito in pessime condizioni.

Si ammirò con un pizzico di vanità nel piccolo riquadro vitreo e con soddisfazione lo rimise a posto lisciandosi i capelli: anche se ormai aveva quasi quarant'anni, li portava ottimamente.

Uno strombazzare di clacson alle sue spalle gli fece però balzare il cuore in gola: e se fosse stato visto?

In ogni caso, mentre andava rimuginando questi foschi pensieri, si voltò per vedere chi arrivava a bordo di un'elegante auto da corsa all'ultima moda che sollevava una nuvola di polvere.

Anche attraverso quella muraglia l'artista riusciva però a scorgere con nitidezze un paio di chiome rosse una accanto all'altro, e si accorse che i due automobilisti conversavano in inglese.

Ponendosi in mezzo alla strada sterrata a un aragionevole distanza di sicurezza, il biondo cominciò ad agitare vistosamente le braccia e a gridare a squarciagola in francese: “Ehi amici!”.

La macchina si fermò con delictaezza giusto a una spanna dal suo ventre, mentre il guidatore si sporse: “Hello pittore, vedo che avevi deciso di farti ammazzare!”.

Pain e Deidara si scambiarono un sorriso e una calorosa stretta di mano, mentre Sasori lo invitò con estrema gentilezza a salire a bordo.

Volentieri! Era più facile scalare l'Himalaya quattordici anni fa...” rammentò malinconico il fiammingo e prese posto su uno dei soffici sedili posteriori in pelle dell'auto.

Mentre Pain riavviava il motore e procedevano gagliardamente, godendosi appieno il sole vista la mancanza di tettuccio, Sasori assestò un'amichevole pacca sulla spalla di Deidara e gli domandò: “Compare, sembra passato un secolo dall'ultima volta! Ti ricordi quel viaggio di ritorno, da New York a...Dov'è che era? Cherbourg?”.

Le Havre. Fosti tu, Pain, a insistere per viaggiare in seconda classe, come a Shanghai, rammenti?”.

L'inglese di Alessandria si concesse un largo sorriso: “Non mi piace esibire troppo lo sfarzo, a parte questo bolide, s'intende. E poi Sasori può testimoniare in prima persona contro l'abuso dei transatlantici, vero? Ovviamente non voglio mancare di rispetto ai morti, è stata una vera tragedia”.

L'altro interlocutore fece spallucce leggermente irritato, e l'olandese si chiese a quale delicata questione potesse aver fatto allusione; forse però avrebbe fatto megliò a chiedere delucidazioni dopo, e quindi sviò il discorso: “Voi due come siete arrivati in Svizzera? Avete viaggiato insieme?”.

Io ho fatto il viaggio da Alessandria a Marsiglia in piroscafo, poi ho guidato fino a qui” replicò Pain senza distogliere gli occhi dal volante, “lui a quanto ho capito ha attraversato la Manica”.

Sasori continuò la narrazione: “Sì, è vero. Ho speso qualche giorno a Parigi e poi sono arrivato a Zurigo. E' stata una vera combinazione che incontrassi Pain e che lui mi offrisse un passaggio! Si sa, gli Inglesi hanno un talento particolare per incontrarsi fra loro in qualsiasi angolo del globo...”.

Chiacchierando piacevolmente, si erano quasi dimenticati del viaggio e per Deidara fu una vera sorpresa trovarsi di fronte a una villa che sorgeva in mezzo alla natura.

La dimora, di soli due piani e dai muri intonacati di bianco, aveva in realtà un aspetto non dimesso ma neppure principesco: il portone era altissimo e austero, di duro legno di quercia e dai semplici battenti di ferri, le finestre numerose e dai vetri ben puliti e trasparenti e non c'era neanche un muro o un cancello che racchiudesse in una gelosa sacralità il giardino all'inglese che quasi si confondeva con la boscaglia, per cui la casa intera emanava un non so che di calorosa accoglienza contadina priva di pregiudizi.

Si poteva capire che il padrone di casa, pur se sicuramente benestante, doveva essere una persona che preferiva la sostanza all'ostentazione e decisamente parsimoniosa.

A breve distanza dalla villa sorgeva un piccolo edifico dall'aspetto rustico, forse una stalla per cavalli, mentre dal lato opposto una breve pontile di legno si staccava dalla terraferma per tuffarsi nella distesa luccicante del lago di Zurigo incastonato fra pendii verdeggianti.

I tre, attendendo che il proprietario si mostrasse sull'uscio, si appoggiarono pigramente con le schiene alla carrozzeria dell'automobile guardandosi intorno meravigliati: mai si sarebbero immaginati che il loro amico, che sapevano ricco come Creso e sempre indaffarato con le banche, apprezzasse così tanto il paesaggio campestre da porvi una delle sue numerose residenze, ma non c'erano dubbi, la località indicata nella lettera corrispondeva a quella attuale.

La calma idillica e apparentemente destinata a durare in eterno fu bruscamente interrotta dal fastidioso ruggito di un altro motore, e, veloce come un lampo, un'altra macchina posteggiò a poca distanza dalla loro.

I due inglesi e l'olandese si alzarono di scatto, incuriositi e forse un po' intimorito dall'intruso, domandandosi chi potesse essere; ma non appena egli ebbe messo piede a terra e si fu scrollato di dosso la polvere che gli inzaccherava il soprabito da viaggio, riconobbero quel viso pallido e affilato e quei lunghi capelli corvini.

Il gruppo andò incontro con lentenza ma festosamente al nuovo venuto, e Itachi li salutò commosso: “Guten tag amici, è tanto che desideravo vedervi, ma ho avuto un po' da fare”.

Ognuno scambiò con il tedesco abbracci intensi e sinceri, la più spontanea manifestazione di affetto fra chi è profondamente legato ma è stato separato per lungo tempo; tuttavia osservandolo più da vicino ciascuno si accorse che era cambiato rispetto a come lo avevano conosciuto.

Anche se solitamente tendeva a rimanere in silenzio per via del suo carattere mite e giudizioso, che univa a una notevole prestanza fisica e a un vivo amore per le culture più lontane, gli amici si accorgevano che in lui albergava una profonda tristezza interiore che cercava di non esternare, ma che ogni tanto risaliva a sprazzi e lo induceva ad abbassare lo sguardo; inoltre appariva notvolmente più stanco e magro rispetto all'Itachi di cui si ricordavano, ma d'altronde non c'era da meravigliarsi che un cittadino di una nazione sconfitta dalla Grande Guerra, anche se benestante, se la passasse male ultimamente, e non guardasse al mondo con l'ottimismo e la sicurezza prebellici.

Mentre erano ancora intenti a scambiarsi qualche convenevolo, il portone cigolò e un uomo alto,massiccio ed elegante, di qualche anno più anziano di loro, comparve sulla soglia; le mani bonariamente calcate sui fianchi possenti, si schiarì appena la voce e cominciò a declamare in latino: “Hoc erat in votis: modus agri non ita magnus, hortus ubi et tecto vicinus iugis aquae fons et paulum silvae super his foret”.

Riconoscendo l'inizo di una delle Satire di Orazio, i quattro ospiti applaudirono a quella magistrale citazione, quindi Kakuzu riprese la parola e disse nel suo caratteristico francese dall'accento germanico: “Anch'io, come Orazio, non posso certo dirmi deluso dal mio angulus personale. Benvenuti, benvenuti nella mia umile dimora. Hidan è già qua da un pezzo. Accomodatevi, fate pure come se foste a casa vostra: vi faccio strada”.

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Capitolo 2
*** I pianisti ***


Spazio autore

LizWingates: Grazie, grazie mille, mi fai molto contento con questi complimenti e mi auguro che continuerai a seguire (la storia è gia stata scritta per intero, quindi gli aggiornamenti potranno essere quotidiani). Il riferimento a Friedrich è dovuto principalmente al fatto che l'ho studiato quest'anno a scuola, e l'ho grandemente apprezzato, per cui ho voluto proiettare questo mio sentimento su Deidara (che già nella scorsa storia avevo descritto come pittore dilettante, senza approfondire troppo la questione per via delle mie insufficienti conoscenze). Le nazionalità sono le medesime di Strade d'Oriente, e all'epoca le scelsi piuttosto casualmente (col senno di poi, avrei voluto metterci almeno un italiano): Sasori mi pareva inglese per via del colore dei capelli, mentre direi che su Kakuzu svizzero non possono esserci dubbi. Grazie di tutto, alla prossima!

 

Colgo l'occasione per ringraziare LizWingates e Falsa dea molto adorata per aver inserito questa storia fra le fic seguite. Stasera, Kakuzu ci guiderà in casa sua, e per sapere cosa escogiteranno i nostri perpassare il tempo e quali pensieri inizeranno a formarsi nelle loro menti, l'unico modo è leggere il capitolo. Ciao a tutti!

 

I pianisti

 

Varcando la soglia, gli ospiti riuscirono finalmente a soddisfare la loro curiosità per quel luogo tanto favoleggiato e che ora dischiudeva i propri segreti ai loro occhi; e non si può dire che rimasero del tutto delusi.

La casa infatti, pur mostrando nel complesso anche là una sobrietà squisitamente elvetica, all'interno ospitava raffinate decorazione e preziose rarità che avrebbero fatto rodere il fegato a qualsiasi collezionista: così anche se magari mancavano rubinetti d'oro con incastonati diamanti e simili amenità facevano invece capolino in un angolo vasi antichi e pregiati, sculture cariche del fascino dei secoli o figlie di concezioni moderne, forse originali o forse no, quadri classicisti, impressionisti o dai soggetti astratti, dalle sfumature confusi e brillanti o dai dettagli nitidamente tracciati e illuminati, fotografie di solenni e anziani individui impettiti in tuba e doppiopetto che facevano proprio una bella figura dietro la grigiastra patina del bianco e nero, più scatti di intimi momenti familiari di vita quotidiana, oltre a varie chinchaglierie assortite dai quattri angoli della Terra e una moltitudine di souvenir di viaggio.

Lasciatelo dire amico, hai proprio un bel gusto come arredatore” commentò estasiato Sasori osservandosi riflesso in un grosso specchio lucido come cristallo, quasi si stupisse di trovare là la propria immagine.

Modestamente devo ammettere che è una dote di famiglia” rispose lo svizzero infilandosi i pollci nella cintura con aria orgogliosa e compiaciuta. “Ora, però, vogliate perdonare la mia terribile scortesia: non vi ho ancora fatti mettere a vostro agio! Che disastro di anfitrione che sono!”.

Così dicendo schioccò le dita e dall'altra estremità del vestibolo sbucò un maggiordomo in frac; costui, un uomo anziano e asciutto dall'aria indecifrabile, si avvicinò ai quattro e formulò gentilmente in un francese eccelllente: “I signori vogliano favorire le loro giacche, prego”.

Gli ospiti si sbottonarono gli abiti e gliele passarono assieme ai cappelli, rimanendo così in maniche di camicia, panciotto e cravatta come Kakuzu quando li aveva accolti; altri camerieri e cameriere frattanto si incaricavno di trasportare i loro bagagli nelle rispettive camere.

Mentre il domestico si avviava umile e indefesso, curvo sotto il peso di tanti indumenti, verso il più vicino attaccapanni, Itachi si rivolse curioso al padrone di casa: “Hai detto che Hidan è già qui. Dove si è cacciato quello scapestrato?”.

Lo svizzero esplose in una risata: “Quel francese! E' sbucato ieri sera nel cuore della notte: quasi quasi si meritava una notte all'addiaccio, dallo spavento che mi ha fatto prendere...Non vi dico in che condizioni era: probabilmente aveva già visitato tutti i bordelli di Zurigo nel giro di un'ora! Adesso venite, che ve lo mostro: meglio non farlo aspettare...”.

Con una certa dose di diplomazia Kakuzu aprì una porticina che si affacciava, anonima fra le tante, sul corridoio che si dipanava dall'ingresso e che stavano percorrendo a passo lento, quindi si affacciò all'interno della stanza e annunciò in tono cordiale: “Ehilà! Guarda chi ti ho portato!”.

Non appena l'elvetico ebbe liberato dalla propria mole la porta, tutti poterono entrarsi, e la prima cosa che videro in quella stanzetta, probabilmente un delizioso salotto per intrattenere gli ospiti, fu lui.

Hidan, stravaccato su un maestoso sofà verde che contrastava nettamente con lo stucco rosso dei muri, rilassava le gambe tenendole su un poggiapiedi, anche se le scarpe finivano comunque per scivolare sul bellissimo tappeto turco sottostante; meno male che sembravano pulite.

Probabilmente con quella mollezza inferiore aveva bisogno di compensare la rigida tensione dei muscoli con cui sorreggeva il volume che stava leggendo, il viso teso e concentrato allo spasimo:

A me pare notevolmente più sobrio di come lo abbia descritto Kakuzu” considerò fra sé e sé Sasori.

La voce dell'anfitrione scosse il francese dalla trance letteraria, e subito si drizzò in piedi in tutta la sua altezza, quindi cominciò a vociare festoso e a distribuire pacche e strette di mano: “Amici miei, che gioia! Ah, mounsiers les Anglais, carissimi ex-compagni d'armi, come butta? Itachi! Vecchio mio, quanto tempo, non sai quanto ho pregato per rivederti! Ah, ci sei anche tu, Deidara! Sempre dietro ai pennelli? Bravo, continua così, non farti ingabbiare dalle loro stupide regole borghesi!”.

Sembrava un vulcano in eruzione da tante erano le parole che pronunciava e l'ardore con cui lo faceva, ma i suoi amici sapevano bene che non agiva in base a sentimenti simulati od eccessivi, perchè dietro la scorza dura del dandy vizioso e spensierato Hidan nascondeva un cuore d'oro e un carattere generoso e risoluto, alle volte quasi eroico e sprezzante.

Mentre il francese continuava a gesticolare animatamente e fare le più vivide comunicazioni a questo e a quello per i motivi più disparati, Itachi si avvicinò di soppiatto al divano e raccolse il volume che era stato abbandonato sui cuscini.

Les fleurs du Mal?” domandò stupefatto. “Hidan, mi meraviglio di te: non sapevo che tu sapessi anche leggere, e soprattutto non mi sarei mai aspettato che leggessi Baudelaire!”.

La combriccola scoppiò in un'unica risata assordante, come ormai da troppo tempo non capitava, e ci vollero parecchi minuti perchè smettessero di contorcersi con la pancia fra le mani, stanchi, paonazzi e sudati.

Molto spiritoso!” ribattè piccato Hidan, con una smorfia che celava un compiacimento da matti.

Non avesse fatto la vita che ha fatto, sarebbe anche il mio modello! Voi lo sapete, non ho mai ecceduto nei piaceri, anche se indubbiamente me li sono goduti: e invecchiando purtroppo uno deve moderarsi... E in più scriveva in modo dannatamente sublime, e a me piacciono le belle poesie, quelle che ti incantano le orecchie, ti rapiscono il pensiero e ti entrano fino nel cuore, facendoti sentire un brivido sotto la pelle”.

I presenti non poterono che apprezzare quell'intenso lirismo poetico, che tutti loro in qualche misura e con qualche variazione avevano sperimentato.

D'improvviso Kakuzu battè con uno schiocco secco le mani per imporre il silenzio e parlò: “Come ben sapete signori, gli orologi svizzeri sono i più impeccabili del mondo, e se non erro quello segna già le dieci e mezzo!” e così dicendo indicò un grosso orologio a pendolo che ticchettava in un angolo seminascosto della stanza.

Non per passare per il ghiottone della situazione, ma a che ore è il pranzo? Non ho ancora ben avuto modo di conoscere la cucina elvetica....” domandò accortamente Deidara.

Ecco, avrei un'idea ma vorrei conoscere il vostro parere...Che ne dite più tardi di una belle merenda all'aperto? Oggi c'è un sole così bello, in casa possiamo mangiarci anche stasera, no?”.

Approvato all'unanimità compare” annuì raggiante Pain dopo un veloce consulto a base di occhiate fugaci e movimenti della testa con gli altri.

Benissimo, sapevo che avreste accettato! D'altronde, quando il buon Dio ci manda delle giornate così è un regalo che non possiamo rifiutare...Ora però si pone il problema di come passare il tempo fino a mezzogiorno. Idee?”.

Deidara e Sasori si guardarono negli occhi come se cercassero l'uno la risposta nelle pupille dell'altro, Pain si scompigliò con la mano i capelli rossi e Hidan si strinse convulsamente il mento accuratamente sbarbato fra le dita, canticchiando una canzonetta a bassa voce; ma chi rimuginò più di tutti fu Itachi, che a un certo punto, col suo tipico stile timido e discreto, quello di chi busserebbe anche ad una porta aperta prima di entrare, proruppe in tono vago: “Vedo che hai buon gusto anche in fatto di pianoforti. Se potessi...”.

Farò di più” rispose l'anfitrione con un sorriso accondiscendente e accattivante a un tempo. “Che ne dici di un duetto? Nessuna gara di bravura, solo per ammazzare il tempo”.

Nel salotto c'erano in effetti un paio di pianoforti, uno completamente in legno di ebano e l'altro verniciato di bianco; ambedue erano dotati anche di appositi sgabelli per il suonatore e si trovavano ai lati opposti del grosso camino, che ovviamente era spento e completamente vuoto, e soprattutto senza la minima traccia di fuliggine.

I due pianisti si accomodarono ciascuno alla propria postazione, Itachi al pianoforte nero e Kakuzu a quello candido, e di scrocchiarono eloquentemente le dita: i loro visi erano seri e concentrati e, pur non essendo una competizione, c'era da scommettere che entrambi avrebbero dato il meglio.

Tutti sedevano chi in poltrona, chi sul divano e chi su una sedia, in preda alla trepidazione.

Itachi si voltò con un'espressione pura e priva di malizia: “Decida pure il padrone di casa”.

Dopo una breve riflessione Kakuzu sentenziò: “Cominciamo con Per Elisa” e mise mano agli spartiti, cercando quello giusto.

Non appena lo ebbe trovato, sistemò con delicatezza il foglio sull'apposito leggìo e senza, guardare quelle note che ormai conosceva a memoria, sollevò in alto le mani, contraendo le braccia, e prese un respiro profondo: sembrava un antico stregone che si apprestasse a lanciare con un semplice gesto il più poderoso degli incantesimi, ma che esitava a proseguire forse perchè temeva di soccombere allo sforzo o di non poter più dominare le forze che avrebbe scatenato.

E la magia sgorgò davvero.

Placida, modulata, romantica, la melodia sublime di Beethoven inondò l'aria come una vampa non improvvisa, ma che iniziava come una piccola e tenue scintilla che cresceva lentamente finchè non trovava abbastanza combustibile spirituale per ardere come un immenso incendio dei sensi e della mente; sgorgava ininterrotta ogni volta che le dita gentili e raffinate di entrambi toccavano con gesti rapidi e delicati i denti d'avorio del pianoforte, spostandosi ora da un lato ora dall'altro veloci come il lampo e con apparente facilità, e non accennava a finire.

Il pubblico li osservava meravigliato come un gruppo di bambini avrebbe ammirato col fiato sospeso un teatro di burattini a una fiera popolare, senza il minimo accenno di noia: ammirare l'arte pura è quasi un'utopia, ma i nostri potevano ben dire davanti a quella perfetta esecuzione di averne appena trovato un esempio.

In realtà non era del tutto ignota loro la grande passione di Itachi e Kakuzu per la musica classica, piacere che anche loro in buona parte condividevano, ma non avendoli mai sentiti suonare prima di allora non si aspettavano una tale bravura esibita senza sforzo e senza ostentazione, come quella di cui dava sfoggio Mozart bambino nelle corti e nei salotti di mezza Europa.

Pain ascoltava felicissimo e quasi rideva, poiché trovava che la musica fosse il degno coronamento della loro ritrovata felicità, che durasse almeno per quel giorno (non osava sperare di tornare interamente ai vecchi tempi); Sasori osserva le loro movenze con viso indecifrabile e occhi sgranati e canticchiava fra sé e sé la melodia come una specie di mantra; Deidara si sentiva trasportare ad altezza sublimi da quell'armonia che conosceva così poco ma a ben vedere rispondeva agli stessi bisogni e stimoli della sua arte; Hidan ogni tanto gettava occhiate in apparenza distratte al soffito o all'intonaco dei muri o agli orologi e ai quadri, ma in realtà si sentiva emotivamente più coinvolto che mai, senza però l'impulso di esternare tale partecipazione più del necessario.

Frattanto, terminata Per Elisa, i due proseguirono con altre composizioni di Beethoven, e ancora con melodie vecchie e nuove, Vivaldi, Bach, Wagner, Strauss, Chopin, lo stesso Wunderkind di Salisburgo; bastava un attimo, uno scatto felino del braccio, e voltavano pagina dello spartito, per poi tornare subito all'opera, senza che si avvertisse una pausa troppo lunga fra un pezzo e l'altro.

Non avrebbe dovuto essere una competizione feroce e serrata, e probabilmente non lo divenne mai; solo che a un certo punto, quando ormai i minuti erano volati via fugaci uno dopo l'altro, i pianisti erano ridotti a due stracci, esausti e con i capelli e la pelle impregnati di sudore.

Si concessero qualche minuto di tempo per boccheggiare avidamente in cerca d'aria e rilassare mani e dita tesi e intorpiditi, quindi il tedesco si voltò verso l'altro e bisbigliò nella propria lingua madre, calcando l'accento berlinese: “Non sei mica male, sai?”.

Grazie mille figliolo” rispose laconico Kakuzu, accentuando anch'egli la cadenza svizzera in una sorta di piccolo gioco campanilistico. “Vediamo se sei bravo abbastanza da improvvisare...”.

La sfida fu accettata, e con vero virtuosismo si cimentarono nel difficile campo dell'invenzione originale e momentanea, su cui però si muovevano egregiamente: sembrava tanto facile per loro combinare le singole note in nuove, inimitabili sinfonie, non prive però di effetto e fantasia, tanto facile che gli altri quattro, sopraffatti dall'ammirazione, si misero ad applaudire come un sol uomo e

battendo ritmicamente le mani.

Felice per quell'inattesa ovazione dopo anni di patimenti e offese (finalmente poteva rientrare, almeno agli occhi degli amici, nel consesso delle nazioni civili, cessando di essere un tedesco e basta) e distratto dal ritmo degli appalusi, d'improvviso Itachi schiacciò un tasto sbagliato, facendo emettere al piano un aspro ululato nasale che si prolungò per qualche secondo.

Immediatamente anche il padrone di casa cessò di suonare, triste per la delusione che avrebbe provato l'altro: sapeva bene che più uno è bravo più rimane scornato quando sbaglia.

Invece con grande stupore di tutti Itachi si concesse un largo sorriso e scoppiò a ridere.

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Capitolo 3
*** Otium agreste ***


Spazio autore

LizWingates: Grazie, grazie mille, sono molto contento che continui a piacerti. A dire la verità, questa storia non ha molto in comune con Strade d'Oriente, perchè quest'ultimo è un vero e proprio racconto d'avventura, ricco di scene d'azioen anche cruente e di scenari esotici, in cui l'elemento piscologico e introspettivo è molto meno presente. E' un esempio piuttosto brutto di come scrivevo qualche anno fa, ma per fortuna mi rendo conto di essere migliorato con il tempo. Quanto agli errori, ci sto il più possibile attento, ma a volte scappano. Grazie mille, alla prossima!

 

Oggi vedremo i nostri eroi godersi ulteriori svaghi nella villa di Kakuzu, ma i ricordi dolorosi cominciano ad affiorare in quantità sempre maggiore: riusciranno a tenerli a bada o avvertiranno il bisogno di confidarsi? Intanto Kakuzu e Pain escogitano qualcosa...Per sapere di cosa si tratta, l'unico modo è leggere fino alla fine il presente capitolo.

 

Otium agreste

 

Il riso si rivelò irresistibile e contagiò all'istante tutti, in un uragano di gioia sincera e divertimento sfrenato.

Davvero, lo giuro, non ce la faccio più! Una papera come questa come questa me la ricordo finchè campo...” ridacchiò il moro tedesco solitamente di ghiaccio, prima di essere dichiarato vincitore ex-aequo con Kakuzu.

L'anfitrione volle fare ammenda per averlo indotto su un terreno forse poco a suo agio, ma Itachi lo prevenne sereno: “Non ti scusare, non ce n'è bisogno. Che senso ha vivere se non vuoi mai metterti in gioco?”.

Distogliendo per un momento lo sguardo da quella serena comunione di visi allegri Hidan estrasse dalla tasca un magnifico orologio d'argento (quante, quante volte aveva passato lunghi minuti in mezzo al fango e al sangue fissando quel quadrante cristallino, chiedendosi se sarebbe stata l'ultima cosa bella che avrebbe visto in vita sua) e lo aprì, commentando neutro: “Sono le undici, mounsiers. Se non erro ci avanza ancora del tempo libero”.

Cosa ne dite di una partita a biliardo?” intervenne esuberante Pain avvicinandosi al tavolo da gioco rintanato in un cantuccio della stanza e carezzandone la pian asuperficie verde. “Durante la guerra, ad Alessandria i periodi di licenza li spendevo sempre a giocare con altri ufficiali in un circolo sul porto...Suppongo di essere diventato modestamente abile con la pratica”.

Nonostante quell'accenno a un passato di cui portavano ancora le cicatrici e che non vedevano l'ora di dimenticare avesse lipperlì gelato i loro cuori, sorrisi e cenni di approvazione indussero l'inglese a cominciare ad approntare i preparativi per la partita.

Furono una serie di match tesi e ben combattuti, che videro contrapposti da una parte Pain, Itachi, Kakuzu (ambedue se la cavavano egregiamente) e dall'altra Hidan (l'altro grande veterano del biliardo), Deidara e Sasori (non molto esperti ma agguerriti), per finire con una vittoria netta ma non schiacciante della prima squadra.

Il padrone di casa stava finendo di raccattare le palline quando un rintocco subitaneo lo fece sobbalzare perdendo la stecca: “Cielo, è già ora! Presto, presto ragazzi, mettetvi le giacche, o se volete restate in camicia! Andiamo, il sole delle Alpi non aspetta che di baciarci!”.

In effetti, mentre si sgranchivano pigramente le gambe intorpidite dal lungo periodo in piedi attorno la tavolo, a tutti sembrava distintamente di inalare un ottimo profumo che sapeva di fresco e di natura amica, e che proveniva sia dalla porta che dalla finestra spalancata per il gran caldo; come guidati da quel delicato alito della buona stagione, quasi che avesse ispirato loro una sorta di invasamento mistico per il verde, si avviarono compostamente in fila indiana verso l'uscita.

Kakuzu li condusse come una chioccia fa con i pulcini in giardino, e una volta là scorsero vicino alle automobili un semplice tavolino in legno circondato da sgabelli.

Non so mai quanti pic-nic del genere avrò fatto in Olanda quando ero piccolo” sospirò d'un tratto malinconico Deidara. “Mi ricordo che a quei tempi ero già fissato con matite e pastelli, ma almeno mio padre mi accontentava. In fondo, si sarà detto, a tutti i bambini piace disegnare, no?”.

Dopo tale considerazione, anche gli altri non poterono esimersi dal riflettere un po' sui propri padri: e c'era chi si figurava felice una casa calda e accogliente pronta ad attenderlo al suo ritorno, chi rimpiangeva inconsolabile una figura ormai lontana e perduta, chi rimembrava un esempio da disprezzare o regole che pesavano come macigni e catene.

Con estrema meticolosità la tavola era già apparecchiata di tutto il necessario, e facevano bella mostra di sé bottiglie delle acque più pure e rinomate e dei vini più nobili, oltre a qualche bottiglia di buona birra.

Tutti presero posto comodamente, Kakuzu, gentilmente aiutato nel sistemarsi da Sasori, a capotavola come richiedeva l'occasione.

Quando fu del tutto a suo agio, con i gomiti educatamente al di fuori del tavolo, lo svizzero, allungando il collo verso Pain che sedeva esattamente davanti a lui dalla parte opposta della mensa, gli strizzò velocemente l'occhiolino e si accompagnò con un rapido guizzo della mano.

Il britannico sul momento non comprese, poi dopo che l'altro si fu ripetuto afferrò il silenzioso messaggio: Dopo parliamo.

Mano a mano presero ad affluire anche i camerieri con il loro fardello di prelibatezze (ovviamente roba leggera considerato l'ambiente esterno e in vista della serata), e sarebbe inutile dilungarsi nel descrivere gli appetiti, le braccia che si tendevano ansiose per ricevere i piatti, le risate, i lazzi, i brindisi, le battute, la gioia carezzata dal vento e tenuta viva dal sole, il fruscio delle foglie e le rinfrescanti ombre degli alberi, il cielo azzurro.

Fatto sta che un muro invisibile sembrava stagliarsi all'interno dei loro discorsi, una muraglia eretta con mattoni di sangue impastati con lacrime e polvere che circondava accuratamente certi ricordi che rimanevano esclusi, banditi: argomenti tabù.

Ognuno era conscio dell'esistenza di questo muro, ma non faceva nulla per abbatterlo o anche solo accennare alla sua esistenza, dando per scontato che tutti lo possedessero ormai, e quindi l'amaro in bocca permaneva anche nel sorriso più genuino.

Era una vita completamente differente, ora.

La tensione latente, appena appena affievolita dalla compagnia, si ripresentò più forte che mai alla fine del pranzo sotto forma di un invincibile impulso ad allontanarsi dal luogo per godersi qualche attimo di solitudine relativamente pacifica.

Deidara andava ostinatamente dietro a Sasori, assillandolo con una discrezione e un'insistenza sicuramente poco fiamminghe: “Di cosa parlava prima Pain? Cosa ti è capitato di brutto con i transatlantici? E' stato mica durante la guerra?”.

Il rosso lo fulminò di con uno sguardo di traverso ferocemente irritato e un sordo ringhio: “Niente, niente. C'entro solo io, lo so io” e si voltò andandosene ad ampi passi.

Per rischiararsi un po' le idee e lasciarsi alle spalle i brutti momenti, l'inglese decise di accettare la proposta di Itachi di chiedere a Kakuzu il permesso di prendere a prestito dei cavalli dalla scuderia vicina per darsi a una rigenerante cavalcata nella boscaglia, permesso che fu ovviamente loro accordato.

Ambedue avevano già avuto esperienze a bordo di cavalli, asini, cammelli ed elefanti, e il tedesco confidò brevemente al rosso che durante la guerra aveva servito in un reggimento di cavalleria, poi si chiuse in un cupo mutismo e dopo essere montato in sella spronò con un colpo secco di tallone l'animale, presto imitato dal compagno.

Impiegarono poco ad uscire dal giardino e ad addentrarsi prima nella selva di irsuti cespugli e alberelli che si mescolavano con l'erba alta e i limiti estremi del sottobosco, poi nella macchia vera e propria, in un percorso che li condusse dal sole accecante ad una penombra rinfrescante e riparata, schermati rispetto al mondo esterno da una barriera naturale di vegetazione fitta e incolta.

I cavalli, robusti e ottimamente addestrati, procedevano sicuri su sentieri ombreggiati e terrosi, smuovendo ramoscelli e sassolini ogniqualvolta scalciavano con i potenti zoccoli, e sembravano già conoscere autonomamente il percorso da seguire: in effetti nessuno dei due cavalieri badava molto alla direzione e si limitavano a tirare dritto, curvando ogni tanto e reggendo quasi meccanicamente le briglie, tanto che erano assorti nei propri pensieri.

Sasori a un certo punto, come guidato da un odore soavissimo che promanava da oltre la cortina impenetrabile di foglie e arbusti, fece girare il cavallo e avanzò fino al limitare del bosco.

Inerpicandosi su un rigonfiamento erboso del suole potè ammirare in tutta la sua scintillante bellezza e vastità il Lago di Zurigo stendersi sotto i propri occhi; solo che d'improvviso il giorno si mutò per lui in notte e quei flutti plaicidi e turchidi si trasformarono in un gelido abisso di morte ed urla, pieno di anime disperate.

No, pensava, l'acqua non sarà mai più la stessa per me. Forse è stato anche peggio della guerra. Fu una tragedia così...inaspettata.

Itachi si era arrestato un attimo per permettergli di meditare fin quando lo desiderasse, perchè sapeva che quando ti prende quel tipo di ricordi, non c'è nulla da fare: solo cercare di fare mente locale in attesa che passi.

Mentre proseguivano la cavalcata anche a lui si mostravano spettri di un passato da dimenticare: gli pareva d'un tratto di aver lasciato la Svizzera estiva e di essere stato ritrasportato in Polonia, dove il suolo fangoso si imbeveva di pioggia e delle prime nevi e dove dalla densa foschia, da dietro di ognuno delle migliaia di alberi secolari sembrava potessero sbucare i Russi.

Prima che altre più cruente memorie riaffiorassero dai meandri della sua mente, scene cui aveva assistito sempre in groppa a un cavallo ma sotto il fuoco delle pallottole e con una spada in mano,

si lasciò sfuggire un banale commento di circostanza sulla bellezza del luogo silvestre a cui Sasori rispose con una gaiezza anche troppo ostentata per essere sinceramente sentita.

In realtà il suo sguardo- non quello degli occhi, certo, quello era intrappolato nella contemplazione estatica della luce che filtrava fra i rami della macchia- era ancora fisso verso il lago, lo stesso dove in quel momento una barca scivolava leggera spinta dalle remate del suo energico occupante.

Era da quando era giunto alla villa che Hidan non sognava altro che fare un giro sul lago; anche nel suo caso, preferibilmente da solo.

Non che volesse dimostrarsi rude, solo che il suo amore per l'acqua era qualcosa di inesprimibile e difficile da condividere e soprattutto un sentimento molto recente: sospettava di essersi innamorato del liquido elemento e delle sue distese più che altro come reazione alla sprocizia estrema cui era stato costretto per anni, ma l'amore era attecchito robusto e forte; adesso, da quando Parigi era finalmente di nuovo in pace e più splendida che mai, adorava andare qualche pomeriggio o la domenica mattina a vogare sulla Senna, da solo o in compagnia di qualche amico intimo.

Aveva visto gli altri piuttosto scettici di fronte alla sua proposta, e quindi aveva deciso di caricarsi i remi in spalla e arrangiarsi da solo: peccato, non sapevano cosa si perdevano.

Non riusciva a credere, mentre aggiustava con rapidi colpi la rotta e si dirigeva speditamente verso il centro del lago, da dove levandosi in piedi per tutta la sua altezza riusciva a intravedere fra i riflessi abbaglianti sulle onde la riva verde e la villa di Kakuzu, non riusciva proprio a capacitarsi che di nuovo dopo tanti anni fossero tutti riuniti in un luogo così bello, in un'atmosfera tanto gaia: un incubo orrendo che aveva oppresso tutta l'Europa li aveva separati troppo a lungo, ma ora niente sarebbe più riuscito a infrangere la loro felicità.

Mentre Hidan si godeva il silenzio e la quiete del lago, anche Deidara si rilassava piacevolmente, disteso completamente sotto l'ombra di un alto albero come il Titiro virgiliano: forse suo padre non avrebbe gradito vederlo così stravaccato come uno zingaro, le braccia pigramente allungate come un cuscino, la frangia bionda che gli ricedeva sugli occhi, ma al momento non aveva voce in capitolo e quindi l'olandese poteva fondersi spontaneamente e in santa pace con il prato.

Frugando nel taschino delle giacca ne estrasse un quadernetto di pelle e prese a sfogliarlo con estrema attenzione: anche anni dopo averli tracciati amava ancora dare un'occhiata agli schizzi relativi alle sue esperienze in Africa.

D'un tratto la sua attenzione fu catturata dal disegno di una grossa imbarcazione metallica arenata sulla riva di un fiume, inclinata su un fianco, contornato dal ritratto di un gruppetto di uomini in divisa che reggevano una bandiera occupata dall'emblema di un aquila e da una croce.

Ebbe l'improvviso e agghiacciante terrore di essersi dimenticato il regalo speciale per Itachi, poi si ricordò di avere infilato anch'esso in valigia e quindi doveva essere al sicuro in camera, e potè sdraiarsi ancora più sereno di prima.

Contemporaneamente, forse rallentati dall'età incipiente, forse prostrati dalla calura estiva che ne penetrava giacche e camicie, forse paghi di quelle paradisiache visioni come due anziani che osservino dei bambini giocare in un parco, Pain e Kakuzu erano rimasti seduti al tavolo, l'uno accanto all'altro, con i visi rivolti verso la macchia luminosa del lago.

Come ti accennavo prima, vorrei fare due chiacchiere a quattr'occhi con te” esordì solenne lo svizzero. “Hai mai inteso parlare della maieutica di Socrate, amico mio?”.

Sì” replicò affabilmente l'inglese. “Dialogare con le persone affinchè queste comprendano autonomamente come stanno le cose: credo che sia il miglior modo di risolvere i problemi pacificamente. E' per caso un invito a confessarci?”.

Kakuzu si fece improvvisamente più serio: “Lo vedi anche tu, no? Guarda tutti loro! Credi che siano gli stessi che abbiamo lasciato tredici anni fa? Si vede bene da come si muovono, dai loro occhi, che hanno sofferto molto. Quasi non riescono a concepire che ora ci sia la pace: sono troppo ancorati ai vecchi dolori. E credo che anche tu non sia immune: non cercare di ingannarmi, vecchio mio. Ma non ti preoccupare: anch'io ho i miei scheletri nell'armadio, e stasera ne parleremo...”.

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Capitolo 4
*** Les cadeaux ***


Spazio autore

LizWingates: Grazie mille, sì, in effetti si può dire che in questa fic quel che accade durante la mattina e il pomeriggio sia solo una preparazione alla sera, e che il piatto forte della cena saranno i racconti delle esperienze di ciascuno durante la guerra, di cui ho già lasciato intravedere alcuni sprazzi (Deidara, Itachi e Hidan, per esempio). E' vero, forse le descrizioni dei paesaggi svizzeri risultano leggermente idealizzate e “alla Heidi”, ma il mio interesse in ogni caso è semplicemente quello di descrivere un posto piacevole e pacifico in confronto ad esempio alle trincee del fronte occidentale o alle lande innevate della Polonia, per far risaltare il desiderio di tranquillità dei nostri.

Grazie di tutto, alla prossima!

 

Colgo l'occasione per ringraziare Stellarium che ha inserito la fic fra i suoi preferiti. Stasera incomincia la cena, e finalmente le intenzioni di Kakuzu e Pain verranno allo scoperto: ma non tutti gradiranno l'idea...Per sapere cosa accadrà, leggete il capitolo odierno. Ciao a tutti!

 

Les cadeaux

 

Deidara, quanto diavolo ti manca? Qui siamo tutti pronti!” borbottò con voce sorda e irritata Sasori tamburellando con le nocche sulla porta di legno.

Un attimo, un attimo, mijn God! Devo finire di arrotolare questa....Aspettate...Ecco, ci siamo!”.

L'olandese spalancò con veemenza la porta e ansimando indugiò un attimo sulla soglia, la mano poggiata a una parete, studiando con lo sguardo gli amici di fronte a sé.

Un secondo! Dov'è Pain?” chiese guardingo e stupito.

Ha detto che Kakuzu aveva bisogno della sua consulenza per un acerta questione di decorazioni...” rispose evasivamente Hidan con una smorfia e uno svolazzo della mano che potevano significare molte cose.

Ci si sarebbe potuti aspettare che dei portatori di doni assumessero un'aria lieta e gioconda, ma i tre sembravano più che altro tesi e leggermente a disagio: era come se stessero ancora attendendo un evento particolare che sciogliesse definitivamente il ghiaccio.

Il francese fischiettava sommessamente La Marsigliese, come sempre usava quando era contento o cercava di distrarsi, roteando gli occhi in tutte le direzioni come alla ricerca di mosche svolazzanti, e con le mani tratteneva nervosamente un pacchetto di velluto rosso chiuso da un fiocco indaco; Sasori, sbollito il risentimento e riacquistato il consueto pallore, teneva lo sguardo incollato su Deidara senza muovere un muscolo e aveva con sé un pacco giallo con un fiocco verde chiaro; Itachi ora abbassava il volto a contemplare i tappeti, ora lo rialzava e chiudeva gli occhi massaggiandosi la tempia con l'unica mano libera, mentre nell'altra stringeva un pacco arancione infiocchettato di bianco.

Il biondo si si fece avanti con il proprio dono, una scatoletta azzurra chiusa da un nastro argentato, e sorridendo si pose alla testa del gruppetto, che cominciò ad avanzare per i corridoi: nessuno notò il singolare rigonfiamento degli abiti di Deidara sotto il quale si indovinava un qualche oggetto arrotolato, e se lo notò non ne fece parola.

Fino a quel momento, nonostante le loro curiose insistenze, Kakuzu in persona e i suoi domestici su sua precisa ed esplicita indicazione li avevano energicamente rilegati fuori dalla sala da pranzo, dove a giudicare dai rumori febbrili fervevano i preparativi; inoltre, nonostante la porta del salone fosse dotata di vetri, questi erano molto opachi e impedivano di scorgere alcunchè, come fossero anch'essi gelosi custodi di chissà quale segreto.

Per qualche ora i nostri avevano fantasticato e atteso, speculando tra l'altro con infinite illazioni sullo speciale favoritismo accordato dall'anfitrione a Pain, e non vedevano l'ora di celebrare in maniera finalmente formale e adeguata il compleanno del padrone e la loro riunione tanto sospirata.

La verità era anche che anni di sofferenze e ristrettezze non facevano che aumentare la loro brama di godimento materiale e buona compagnia: sì, ognuno ne era intimamente convinto, quella sera avrebbero esorcizzato in qualche modo la guerra del 1914-18.

Alla fine erano giunti là, nel lugo magico e prestabilito; le grandi ante del portone erano serrate fra di loro come le labbra di una gigantesca bocca, e non accennavano a lasciarli passare, intimorenti com'erano nella lora maestà.

Prima che qualcuno si azzardasse a bussare cortesemente la porta si spalancò, e con grande stupore i quattro si accorsero che erano gli stessi Kakuzu e Pain a spingere in direzioni opposte le possneti ante; dall'interno provenivano luci e un allegro cicaleccio...

Benvenuti a tavola signori. Sono terribilmente desolato di avervi fatto attendere per un periodo così incresciosamente lungo, ma avevamo bisogno di tempo per questo” si scusò con un grazioso inchino lo svizzero, tutto in gingheri con il suo frac migliore.

Vedrete, ne è valsa la pena” soggiunse con aria altrettanto affabile ed enigmatica l'inglese di Alessandria, abbigliato altrettanto elegantemente. “Abbiate la buona volontà di seguirci”.

Mettere piede per la prima volta nella sala da pranzo fu per loro come compiere il primo passo in un mondo nuovo, o meglio ormai remoto nel tempo e dato per definitivamente scomparso.

Gli sguardi dovettero impiegare qualche minuto per abituarsi alla luce accecante e al lusso abbagliante in egual misura, poi si spesero un pari numero di minuti e forse anche più a girovagare meravigliati esplorando l'ambiente.

Se si potesse viaggiare davvero nel tempo, come in quel libro di Wells che ho letto tanti anni fa...” ragionò ancora basito e incredulo Sasori, pizzicandosi numerose volte il dorso della mano per sincerarsi che non fosse solo un sogno fugace “...beh, ora so cosa si proverebbe in tal caso”.

D'altronde, cosa poteva assicurare loro che qualche incredibile magia non li avesse trasportati indietro di un decennio nel tempo?

Tutto in quella stanza, dalla fastosa tovaglia della tavola riccamente imbandita alla tappezzeria, dal mobilio ai lampadari, dalla foggia degli abiti della servitù a qualcosa di indefinibile ma molto concreto che riempiva l'aria, era stato sistemato e acconciato in modo da rispettare mode che a metà degli anni Venti avrebbero fatto sorridere i più per la loro antiquatezza, ma avrebbero fatto furore nell'ultimo decennio dell'Ottocento o nel primo del Novecento, quando regnava incontrastata la Belle Epoque con la sua gioia di vivere, il suo lusso generoso e rifulgente, la sua incondizionata fiducia in un futuro che non avrebbe potuto essere che altrettanto splendido se non di più, un felice dominato dal Bello e dal Progresso.

Per aumentare l'effetto di malinconico ricordo Pain azionò un grammofono e dall'apparecchio cominciò a uscire una soave e acuta voce femminile; in più di qualche paio di occhi, sentendo quella canzone che tanto era stata famosa nel mondo prebellico e credevano ormai dimenticato, spuntarono i primi lucciconi di rimpianto.

Ora vi sentite più a vostro agio, gente?” domandò serafico Kakuzu aggirandosi in mezzo agli ospiti commossi: “Quelli là dateli a me, ce ne occupiamo dopo cena”.

Si riferiva ai pacchi regalo, che si fece consegnare e appoggiò con delicatezza e precisione su un divano appartato: non erano comunque i doni il piatto forte della serata.

Oh, ma che gentili!” esclamò con finto stupore Hidan: “Avete pure preparato dei cartellini per indicare la disposizione dei posti!”.

Carezzò con un fruscio quel foglietto ripiegato di carta bianchissima, dopo campeggiava a grandi lettere corsive e svolazzanti di inchiostro nero il suo nome, accompagnato da una bandiera francese in miniatura.

Tutti presto poterono constatare che sul biglietto accanto al proprio nome c'era la bandiera del proprio paese: ma grande fu lo stupore di Itachi nel riconoscere sul proprio cartellino il tricolore nero, bianco e rosso del defunto Deutsches Kaiserreich anziché quello nero, rosso e giallo della contemporanea Repubblica di Weimar.

Adesso sì che siamo tornati alla vecchia maniera” pensò il tedesco concedendosi un timido accenno di sorriso.

Deidara e Sasori si scambiarono uno sguardo stranito, poi fu il rosso a prendere la parola per entrambi: “Come mai tutto questo, Kakuzu? Dovrebbe essere una rimpatriata fra amici, non un museo delle cere! Ma l'hai controllato di recente il calendario? E' il 1924!”.

Dimmi la verità, la pura verità, Sasori” lo interpellò con fare ammaliante e gentile Pain. “Sei davvero sicuro che, se ti fosse data una possibilità di tornare dieci anni indietro, preferiresti comunque vivere nel '24 che nel '14? Sei più sereno di allora al giorno d'oggi? Ci metteresti la mano sul fuoco? Su, dimmi”.

L'altro britannico assunse un'espressione confusa, quindi confessò con un filo di voce: “Forse starei meglio prima del '12, o anche prima del '10. Perdere centinaia di persone davanti ai tuoi occhi o quello che credevi l'amore della tua vita è altrettanto distruttivo. In ogni caso sì, hai ragione, non sono del tutto soddisfatto di questo presente, ma ormai ci siamo e ci dobbiamo restare”.

Dal canto loro Deidara, Itachi e Hidan annuirono gravemente.

L'elvetico sogghignò sotto i baffi: “Beh, come voi avete fatto dei regali a me, io ne farò uno splendido a voi. Per una notte, solo per questa notte, sarà come essere tornati ai vecchi tempi: godetevi la festa, se serve a rilassarvi. In ogni caso, abbiamo tempo più che sufficiente per trattare questa materia più tardi! Ora tutti a tavola, sto morendo di fame in casa mia!”.

La battuta strappò un coro unanime di sorrisi, e subito inziò la sfilata di camerieri con le loro teglie argentate piene di prelibatezze e di bottiglie con relativi calici di vetro.

Dopo le sue grandi capacità di arredatore e intrattenitore, adesso il padrone di casa dimostrava anche il proprio talento come organizzatore di pranzi e buongustaio: nessuno ebbe nulla da ridire sulla cottura o sul gusto delle pietanze, e anzi apprezzarono la preparazione innovativa e tesa ad esaltare anche i minimi sapori e le combinazioni fantasiose di ingredenti, nonché la presentazione estetica delle portate (anche l'occhio vuole la sua parte).

Non poteva ovviamente mancare il dolce, una meraviglia di puro cioccolato svizzero decorata con ciliegie e panne, e la cerimonia di spegnimento delle candeline; in mezzo ai lazzi e ai frizzi della brigata, felice e spensierata come un tempo, l'anfitrione sospirò contando i ceri: “Quarantadue anni! Questi sì che sono tanti! Ah, il tempo vola e noi con lui!”, quindi soffiò energicamente e ricevette uno scroscio di applausi.

La torta, che era già stata divisa almeno dodici volte da altrettanti occhi affamati, fu spartita in porzioni uguali e in poco tempo non rimasero che briciole e pezzetti.

Direi” intervenne d'un tratto Deidara masticando rumorosamente un'altra fetta di cioccolato, “che ormai i tempi sono maturi per aprire i tuoi doni. Non è così, Kakuzu?”.

Lo svizzero si limitò ad annuire sogghignando e battè le mani; al suo comando alcuni domestici recuperarono dal divano i pacchi degli ospiti e li posarono diligentemente sul tavolo.

Subito tutti e cinque gli invitati si alzarono da quella tavola lunga ma stretta e si posero in piedi accanto al padrone di casa, attorniandolo con un capanello di sguardi e lingue curiose.

Allora, vediamo un po chi è il primo...” borbottò felice Kakuzu scartando un pacco e aprendo una delle scatolette: “Oh! Ma è bellissimo! Aspetta, qua c'è un foglietto... “Da Pain con affetto per ricordarti sempre del magico Oriente”...Grazie, grazie mille! Davvero!”.

Nah, figurati, non mi è costato quasi niente! Tanti auguri piuttosto!” si schermì divertito il britannico rimirando la tabacchiera cinese che, se non serviva a contenere tabacco dato che Kakuzu non ne faceva uso, almeno avrebbe fatto bella mostra di sé come soprammobile esotico.

Nel frattempo l'anfitrione proseguiva imperterrito nell'aprire doni: “Allora... “Da Sasori con amicizia casomai ti si stancassero gli occhi”...Grazie mille, mi fai sentire già pronto per l'ospizio dei vecchi! “Da Deidara, sperando che tu finalmente capisca qualcosa di arte”...Non temere, mi acculturerò! E oh, cosa abbiamo qui... “Da Hidan un bel regalo per tenere i tuoi conti, avaraccio!”...Quanta premura, vecchio mio! “Da Itachi un bel capo elegante da indossare per le passeggiate mondane”...Ah, se non fossimo in casa me lo proverei già ora! Grazie amici, vi siete dannati anche troppo per questo stupido vecchio svizzero testardo...Potrò mai sdebitarmi?”.

Cosa vuoi che sia per chi si è salvato la vita a vicenda centinaia di volte spendere un po' di franchi, sterline o marchi in più una volta all'anno?” replicò ironico il francese, mentre lui e gli altri osservavano estasiati gli oggetti che loro stessi avevano comprato e ora sembravano così irragiungibili e desiderabili: la tabacchiera, un paio di occhiali con costosi ornamenti in guscio di tartaruga, un libro sulla pittura attraverso i secoli, un taccuino foderato in cuoio e un cappello all'ultima moda.

Fra altre considerazioni e battutine, si erano fatte quasi le dieci e i nostri avrebbero dovuto escogitarsi di nuovo qualche passatempo per una serata presumibilmente ancora lunga.

Avrei un'idea” esordì all'improvviso Pain, scambiandosi un occhiolino con Kakuzu; era evidente che quello era il momento migliore per portare avanti il loro piano.

Siccome troppo a lungo non ci siamo visti, abbiamo anni di storie e pettegolezzi in arretrato da recuperare! Ma soprattutto, sarebbe interessante sapere come ognuno di noi ha trascorso questi tredici anni. Ci state? Io sono abbastanza curioso...”.

Deidara scosse nervosamente la lunga chioma: “Non è successo nulla di piacevole in questi anni, né a noi né al mondo, questo lo posso dire” e cercava conforto nei volti degli altri fattisi improvvisamente ostili e contratti a quelle parole.

Già...La guerra, e non solo...” proseguì l'inglese pronunciando la parola tabù. “Tutti bene o male ne siamo stati colpiti, però non è nascondendoli che si risolvono i problemi. Facevamo forse così ai vecchi tempi? Coraggio, oramai è tutto finito: pensate a quei poveretti che sono ancora sottoterra o sono tornati a casa senza gambe, e ringraziate il cielo di esservela cavata. Gli amici non dovrebbero mai tenersi segreto nulla, ed è proprio questo che siamo: amici”.

Apparentemente freddo, in realtà in preda a sentimenti contrastanti, Sasori aprì la bocca per parlare.

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Capitolo 5
*** I reduci I- In cielo e nel deserto ***


Spazio autore

LizWingates: Grazie, grazie mille. In effetti da stasera cominciamo con i racconti dei nostri amici, e scopriremo che non solo hanno dovuto affrontare la guerra, ma alcuni hanno vissuto anche delle tragedie personali. Ovviamente il racconto di Wells a cui alludevo quando parlavo dell'atmosfera di “ritorno al passato” è il celebre La macchina del tempo. Grazie di tutto, alla prossima!

 

Stasera, tocca ai primi due racconti, quelli di Sasori e Pain. Se siete curiosi di sapere cosa hanno subito durante la guerra, leggete il capitolo odierno. Ciao a tutti!

 

I reduci I -In cielo e nel deserto

 

Tu forse non ti rendi conto della piaga in cui vuoi mettere il dito” sibilò il rosso all'indirizzo del connazionale; era talmente angosciato e commosso che a stento riusciva a dominarsi abbastanza per esprimersi in francese anziché gridare indignato in inglese.

Cosa vuoi saperne di quel che abbiamo fatto, dove siamo stati, cosa abbiamo visto o sofferto...E' stato terribile, talmente terribile che quasi mi sono scordato che esistevate anche voi, che forse avrei avuto qualcosa di caro per cui combattere, un motivo per tirare avanti ogni giorno e affrontare la morte quotidianamente? Non è bello giocare con i sentimenti delle persone”.

Pain assunse un'espressione contrita, e fu immediatamente spalleggiato da Kakuzu: “Ci dispiace, non volevamo offendere nessuno. Era solo un modo per condividere esperienze e sentimenti e rinsaldare il legame fra noi, tutto qui. Se non volete parlarne ci inventeremo qualcos'altro da fare”.

Sasori fece qualcosa di assolutamente inaspettato; sorrise.

No, suppongo che ormai non ci possiamo più tirare indietro. Avete ragione, abbiamo bisogno di tirare fuori tutto quello che abbiamo represso, e forse ci passerà, almeno per stasera. Dico giusto ragazzi?” e si rivolse agli altri tre, che annuirono in silenzio, anche se mesti.

L'inglese incrociò le mani, i gomiti sul tavolo, quindi rialzò lo sguardo pensoso e cominciò a narrare in tono grave: “Scommetto che vi ricordate ancora di quella sera in cui sbarcammo a Le Havre. Andammo a dormire sapendo che il giorno dopo ci saremmo separati senza sapere quando ci saremmo rivisti. Avrei voluto piangere per la commozione, ma mi sembrò poco britannico”.

Una veloce panoramica dei volti degli altri cinque lo persuase che anche loro dovevano aver condiviso sentimenti simili allora.

La mattina seguente me ne partii subito verso casa: che senso aveva restare a bighellonare in Francia da solo? Spesi qualche mese a curare gli affari di famiglia e a fare su e giù dal palazzo dei Lloyd's di Londra: non è facile per un armatore curare la sua flotta, ma per fortuna mio padre oltre alle ricchezze mi ha lasciato dei collaboratori fidati. In me non era mai morta la speranza che un giorno suonasse il telefono o mi arrivasse una lettera per dire che ero invitato a una nuova avventura: e d'altra parte mi sa che sarei stato troppo occupato per prendervi parte. Poi decisi”.

Decidesti cosa?” domandò Deidara smodatamente curioso, avvertendo qualcosa di insolito nella sua voce, come un oscuro presagio.

Venni a sapere che una nuova nave da crociera enorme e lussuosa come un palazzo, l'ultima meraviglia del progresso, praticamente inaffondabile, avrebbe compiuto il suo viaggio inaugurale da Southampton a New York, e decisi di procurarmi un biglietto. Da quando l'avevo visitata con voi mi era rimasta l'America nel cuore, e bruciavo dal desiderio di rivederla: tutti quei palazzi, quella ricchezza, quella vitalità...Volete sapere qual'era il nome della nave? Si chiamava Titanic”.

Kakuzu, che fino a quel momento si era sorbito placidamente la storia senza staccare lo sguardo dal rosso, sobblazò sconvolto, imitato da tutti, ed esclamò scioccato: “Oh mio Dio!”.

Possibile? Possibile che non fossero mai venuti a conoscenza del fatto che il loro amico era scampato al peggior disastro marittimo del secolo, il simbolo stesso della fugacità delle passioni umane? Questo dimostrava quanti misteri esistessero ancora fra loro...

Mi fa ancora male a pensarci. Mai e poi mai mi sarei potuto aspettare che quelle centinaia di persone ridenti e festeggianti sarebbere finite cadaveri in fondo all'oceano, che gli emigranti straccioni sarebbero annegati assieme al gotha dei nababbi e dei nobili. Alla fin fine, vanno giù nello stesso modo. E' stato un incubo, un incubo nel quale quasi non mi sono reso conto di essere scivolato e a malapena mi sono accorto di essere uscito. Li ho visti tutti morire assiderati, lasciarsi sprofondare per la stanchezza, piangere, implorare pietà, lottare per salvarsi...Forse è vero, andavamo troppo veloce e ci mancavano scialuppe, ma credo che ci sia stata anche la mano del destino. In ogni caso, nemmeno la guerra è riuscita a farmelo dimenticare...”.

Hidan scosse la testa sconsolato: “Povero, povero Sasori. Ti è letteralmente caduto il mondo sotto i piedi, so come ci si sente. Pensa che anch'io avevo comprato un biglietto del Titanic, ma mi ruppi un gamba una settimana prima della partenza, con le valigie già pronte. Il dottore mi ordinò qualche mese di riposo assoluto e avrei voluto spellarlo vivo, avrei voluto salire a bordo anche in carrozzella. Senza saperlo quel brav'uomo mi ha salvato la vita. Ma continua pure”.

Nel frattempo Deidara spostava nervosamente lo sguardo da una parte all'altra sulla stanza: ora capiva il motivo della ritrosia dell'amico a proposito di un certo avvenimento passato, e si vergognava di averlo vilmente stuzzicato, mosso da pura e vigliacca indiscrezione.

Dopo essere tornato in Inghilterra- riprese Sasori- più morto che vivo, trascorsi ancora qualche anno facendo la vita del milionario, fra trattative, telefonate e balli di gala. In questo periodo inoltre presi a interessarmi all'aeronautica, e acquistai un aereo tutto mio. Qualche volta ho anche corso il rischio di rompermi l'osso del collo, ma alla fine ho imparato ad apprezzare quei trabiccoli volanti”.

Affascinante” commentò estasiato Itachi, gli occhi spalancati a sognare interi nuovi mondi. “Dev'essere bellissimo sentirsi il vento nei capelli e vedere le città piccole come formiche...”.

Già, già. Ti sembra quasi di essere un dio che viaggia fra le nuvole per gettare un'occhiata su questa derelitta terra. Ma immagina di dover usare l'aereo per uccidere altri uomini. Non appena scoppiò la guerra con la Germania, scelsi di arruolarmi nell'aviazione. Eravamo ancora in pochi, e non sapevano bene come schierarci. All'inizio fummo impiegati soprattutto per missioni di ricognizione, poi installarono le mitragliatrici sui nostri apparecchi e dovemmo combattere”.

Ho sempre sentito dire-intervenne l'olandese- che gli aviatori si scontravano secondo un codice d'onore come antichi cavalieri. In più alcuni di loro sono diventati delle vere e proprie leggende. Per caso ti sei confrontato con il Barone Rosso?”.

AncoraAh, già, Manfred von Richthofen! E' così che lo chiamavano. Io non l'ho mai né visto né conosciuto, ma tutti raccontavano in tono ammirato di lui: si diceva che fosse gelido, paziente e precisissimo. In tutta onestà, credo che se me lo fossi trovato davanti avrei solo potuto pregare e sperare in Dio. Mi ricordo che quando giunse la notizia del mio abbattimento la mia squadriglia stava per partire: ognuno si mise a urlare e festeggiare, e così anch'io, ma una certa parte di me sapeva che avrebbe sentito la sua mancanza: avversari leali come lui non si trovano più al giorno d'oggi. Sì, in generale c'era rispetto fra noi Inglesi, Francesi, Belgi e Americani e i Tedeschi; ci salutavamo sempre prima di iniziare a sperare, e dopo ogni vittoria andavamo a sincerarsi se il nemico abbattuto fosse ancora vivo e gli rendevamo onore. Ah, aveste potuto vedere che evoluzioni, laggiù nelle Fiandre e sui campi della Francia! Ha volte ho eseguito in tutta freddezza certe manovre spericolate che nella vita di tutti i giorni mi sembrerebbero da pazzo ubriaco...”.

Fece una lunga, pausa, sconsolato in volto, come se cercasse le parole più adatte all'argomento.

Ma nonostante tutto non mi è piaciuto. Mi avevano che lo facevo per il bene della nazione, per la giustizia, la pace e la libertà, ma ho dovuto uccidere altri uomini che non mi avevano mai fatto nulla, non briganti e criminali come spesso ci è capitato, e probabilmente avevano una famiglia ad attenderli. I nostri duelli aerei sembravano un gioco leggiadro e delicato, ma erano un dramma...”.

Con lentezza e solennità Pain si alzò e battè la mano sulla chioma scarlatta del connazionale, scompigliandogliela con fare malinconico: “Non posso che darti ragione amico, mio. Britons want you, dicevano tutti i manifesti di arruolamento, but I didn't want war, aggiungo io. In effetti, se non mi avessero contattato loro, avrei fatto quel che ho sempre fatto quando scoppiava una guerra in qualche colonia remota: lasciare che ci andasse qualcuno desideroso di menare le mani con degli sconosciuti. Quando noi e la Francia dichiarammo guerra agli Ottomani, fu lo stesso Sir John Maxwell, recentemente designato comandante delle armate alleate in Egitto, un amico di papà, a telefonare a casa mia invitandomi al quartier generale “per questioni urgenti”. In breve mi esposero il loro piano: sapevano della mia grande conoscenza della zona mediorientale, nonché del turco e dell'arabo, e richiesero quindi i miei servigi “in nome di Sua Maestà”, proponendomi di arruolarmi come ufficiale e consulente speciale nelle loro truppe. Che altro potevo fare se non dire di sì? Ho sempre considerato discretamente ipocrita il nostro sistema coloniale, ma non potevo certo fare la figura del vigliacco che si sottraeva al richiamo della Patria, se non del traditore. E così mi misi l'uniforme. In realtà non fui assegnato a nessun distaccamento preciso: giravo sempre assieme agli ufficiali di grado più alto per condurre rilevamenti e ispezioni al confine orientale, perchè sapevamo che i Turco-tedeschi volevano attaccare Suez attraverso il Sinai, cosa che effettivamente accadde all'inizio del '15. Nel frattempo però lo Stato maggiore, su esortazione del Primo Lord dell'Ammiragliato Winston Churchill (suppongo che abbiate già inteso udire il suo nome) aveva cominciato ad elaborare un'operazione direttamente contro le coste turche. Dopo che la flotta alleata non riuscì a raggiungere Costantinopoli e si ritirò con la coda fra le gambe da Dardanelli, si decise di inviare un corpo di spedizione nella zona. Gallipoli, ecco dove ci spedirono”.

Più di un un volto si accigliò inarcando le sopracciglia.

All'epoca rammento di aver seguito tutta la vicenda sui giornali con grande apprensione” proferì cupamente Kakuzu. “La campagna si risolse in un disastro, non è così?”.

Pain si strinse nelle spalle: “Fui aggregato all'ultimo momento, e sin dall'inizio la cosa non mi piacque: i tempi non erano ancora maturi, e si era sottovalutato troppo il nemico. Se fu una catastrofe? Beh, come chiamate inviare oltremare allo sbaraglio migliaia e migliaia di Inglesi, Indiani, Canadesi, Australiani, Neozelandesi, Francesi e Senegalesi, farli sbarcare fra cannoni e scogliere, tenerli là quasi un anno fra caldo, trincee ed epidemie e infine farli reimbarcare ignominiosamente, in silenzio, di notte, senza avere combinato nulla e dopo essersi lasciati dietro una caterva di morti, se non un fiasco di prima classe? A volte mi stupisco addirittura che se ne siano salvati così tanti. Che irresponsabili! Che generale è quello che gioca con la vita dei suoi soldati?!?!”.

Dopo che si fu placato da questa sua ultima intemperanza, il britannico riportò in grembo le mani riprese a narrare con calma: “Ho visto anche atti di eroismo, laggiù a Gallipoli, ma avrei preferito vedere dei codardi vivi che dei cadaveri rimandati in Australia con una medaglia sul petto. In seguito ho prestato servizio in Libia e in Sudan, dove erano scoppiate ribellioni filo-ottomane, e probabilmente avrei trascorso il resto della guerra a fare su e giù per il deserto dalla Palestina alla Cirenaica se non mi avessero affidato una missioni top-secret, roba da veri avventurieri”.

Ovvero?” domandò trasognato Sasori, cui quegli accenni a romatiche e rischiose avventure in terra d'Oriente avevano riportato in mente memorie dei vecchi tempi, di quello che con ogni probabilità era stato il loro viaggio più bello e insieme più sofferto.

L'inglese di Alessandria sorrise e sollevò lo sguardo, come se i suoi occhi cercassero qualcosa di molto lontano e ormai quasi perduto circonfuso da un sole abbagliante: “Già da tempo i nostri servizi segreti, saputo della crescente insofferenza degli Arabi per il dominio turco, progettavano di suscitare una rivolta su larga scala per attaccare il nemico dall'interno. Io insieme a pochi altri ufficiali venni inviato presso questi nuovi alleati; il nostro distaccamento era capeggiato da un giovane archeologo e cartografo che conoscevo appena di vista: Thomas Edward Lawrence, o, come preferivano chiamarlo i suoi compagni arabi, Aurans Iblis, Lawrence il Diavolo”.

Ho sentito dire grandissime cose su di lui, ma non conosco la storia in tutti i dettagli” lo interruppe Deidara affascinato. “Se tutto questo schifo di guerra fosse stata combattuta in modo così pittoresco, credo che avrei quasi provato piacere a parteciparvi”.

Probabilmente in seguito Pain si pentì di aver utilizzato quel tono ispirato, nostalgico e quasi profetico nel rievocare le proprie avventure al fianco di quello che sarebbe divenuto il celeberrimo Lawrence d'Arabia: la presa della città santa di Medina, la folle marcia sotto il sole implacabile del deserto per cogliere di sopresa il porto ottomano di Aqaba, le tante sfrenate cariche di cavalleria, le tattiche mordi e fuggi, l'entrata trionfale a Damasco delle forze miste dei ribelli e del Commonwealth, le grandi speranze postbelliche e il duro ritorno alla fredda ragion di Stato...

Tuttavia non poteva farci nulla: il ricordo di quell'uomo lo sopraffaceva e lacrime invisibili salivano su dal suo cuore. Se solo fosse andata diversamente, se non avessero prevalso i colonialisti...

In ogni caso- concluse- fu un soldato dal coraggio straordinario, nonché un visionario, a modo suo, e un finissimo conoscitore della cultura araba: non c'è da stupirsi che siamo entranti presto in sintonia. Sì, mi ricordo le sere accampati attorno al fuoco, a parlare per ore e ore del nostro mal d'Oriente, a complimentarci l'uno con l'altro per la nostra eccellente conoscenza dell'arabo. Subito dopo la guerra, incassate decorazioni e paga, mi congedai con onore e decisi di restare in Asia un altro po' di tempo. Visitai Gerusalemme, un sogno che non ero mai riuscito a realizzare. Fu come essere letteralmente galvanizzato: potevo sentire un non so che di spirituale, quasi come se l'intera Storia umana stesse mormorando, fuoriuscire da ogni muro, da ogni rudere antico. Feci ritorno dopo tanti anni a Baghdad, che era stata occupata dalle truppe indiane nel '17, e mi stupii di ritrovarla quasi uguale a quando ci eravamo stati insieme. E allora mi siete tornati in mente voi, amici”.

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Capitolo 6
*** I reduci II- Dall'Africa all'Italia ***


Spazio autore

Abbiamo così visto a quali disavventure siano andati incontro Sasori e Pain. Stasera invece leggeremo cosa è capitato a Deidara e Itachi e quali luoghi lontani hanno visitato. Grazie mille a tutti quelli che mi seguono, alla prossima!

 

I reduci II-Dall'Africa all'Italia

 

Con un ultimo sguardo commosso, Pain, lasciò intendere di aver concluso la propria digressione.

Gli altri quattro avevano ascoltato i due resoconti, stregati e stupiti: si conoscevano ormai da lunghissimo tempo, il pericolo era in un certo senso il loro mestiere e più di una volta avevano visto la morte in faccia nei più disparati e remoti recessi del pianeta, eppure non si capacitavano che Sasori e Pain avessero vissuto esperienze così caratteristiche e complesse, da disastri di portata storica ed avventurose e spericolate azioni militari.

Probabilmente nei loro animi la macchia indelebile della guerra non era ancora stata cancellata e mai lo sarebbe stata, ma almeno ora che si erano sfogati apertamente apparivano più distesi.

Adesso toccava a qualcun altro di loro confessarsi, raccogliendo l'implicita sfida, solo che un certo pudore e una qualche ritrosia del passato impediva loro di raccogliere ordinatamente i pensieri ed esporli; per fortuna a rompere il ghiaccio ci pensò Deidara.

“Devo dire- riflettè l'olandese- che una guerra estesa a tutta l'Europa era l'ultima cosa che mi aspettassi dal secondo decennio del XX secolo, Credevo che come al solito quei vecchi cagnacci avrebbero continuato ad abbaiare senza mordersi. Beh, cosa posso dire di me? Per evitare la completa disperazione di mio padre mi sono prestato per un po' ad assisterlo nella conduzione degli affari, ma che barba i conti e gli appalti! Evidentemente poi deve averlo capito, visto che un bel giorno si è presentato da me e mi ha concesso due o tre anni sabbatici, da impiegare come meglio credessi. E che cosa si aspettava mai che facessi? Ovviamente mi sono subito messo a viaggiare per cercare soggetti e ispirazione, visitare musei e incontrare altri artisti. Sono andato in Belgio e in Germania, sono finalmente tornato a Torino, Milano e Venezia, poi a Barcellona, a Tunisi, in Marocco, infine a Léopoldville, nel Congo Belga. Dopo aver visitato un'esposizione di arte africana in Spagna ne ero rimasto folgorato: che potenza espressiva, che forme! E mi sarei anche dedicato in santa pace agli studi se non fosse arrivata anche là la notizia dello scoppio della guerra”.

Si interruppe brevemente per stringere a pugno le mani e rivolse uno sguardo contrito a Itachi: “Non volermene, Itachi, però devo confessare che in quel momento ho odiato davvero tanto la tua nazione. Ma sappi anche che tutte le volte che vedevo davanti a me un soldato con l'elmetto chiodato in testa provavo un groppo in gola prima di sparare, perchè temevo potessi essere tu”.

“Non ti preoccupare, scuse accettate” rispose pacifico il tedesco. “Anch'io ripensandoci oggi mi rendo conto che il mio paese ha commesso troppi errori. Ma continua pure, non interromperti”.

“Come dicevo, mi sentii fortemente indignato per l'occupazione del Belgio, in quanto paese neutrale. Sul momento ebbi il timore che fosse stata aggredita anche l'Olanda, ma per fortuna seppi che là era tutto tranquillo. In ogni caso avvertivo il bisogno di fare qualcosa: a me piace il Belgio, i suoi abitanti mi stanno simpatici anche perchè sono in larga parte fiamminghi come noi, e non potevo permettere che un paese piccolo e innocente soffrisse per le mire di una grande potenza”.

“Ti assicuro che ho avuto varie esperienze personali con i Belgi e non mi sono piaciuti affatto...Ogni francese degno di questo nome sa che sono tutti matti” ridacchiò Hidan con una punta di benevolo orgoglio campanilistico.

Dopo essersi gustato la battuta, Deidara riprese: “Avrei voluto immediatamente salpare per l'Europa e andare a combattere nelle Fiandre contro i Tedeschi, ma gli amici mi convinsero piuttosto ad arruolarmi nella Force Publique, la gendarmeria belga in Congo. Appresi infatti che gli Alleati avevano già iniziato le operazioni contro le colonie germaniche del Togoland, del Kamerun e del Tanganyika, e che c'era da temere un'invasione da parte delle truppe di quest'ultimo sul confine orientale dei possedimenti belgi. Ma passò più di un anno prima che la Force Publique fosse pronta a partire per il fronte, mesi durante i quali potei impratichirmi alla vita militare e stringere amicizia con numerosi altri stranieri al soldo del governo belga come me. Oh, e ovviamente continuai a disegnare. E' vero, l'atmosfera era rovinata dalla consapevolezza che prima in poi in quelle terre vergini baciate dal Sole ci sarebbe stato un bagno di sangue, ma i paesaggi e la fauna rimanevano sempre gli stessi. Ho tutto un taccuino pieno di schizzi sull'Africa, che forse prima o poi vi mostrerò. Ad ogni modo, all'inizio del'16 cominciò la nostra invasione dell'Africa Orientale tedesca. Per prima cosa combattemmo nella regione del Ruanda-Urundi, attorno ai Grandi Laghi (zona che se non erro è stata in seguito assegnata proprio al Belgio), poi ci addentrammo nel Tanganyika in collaborazione con le armate del Commonwealth e del Portogallo. Tu prima ci hai parlato di eserciti multietnci, Pain, e ti do pienamente ragione: come fate voi Britannici a raccapezzarvi in quella babele di lingue e popoli? Ne ho incontrati di tutti i tipi io: Inglesi, Belgi, Congolesi, Sudafricani, Indiani, Kenyani, Rhodesiani, Ugandesi, Portoghesi, Mozambicani; e come in ogni luogo al mondo, ho trovato rompiscatole e compagni di bevute. Una passeggiata, direte voi: a nostro confronto i Tedeschi disponevano di qualche migliaio dei loro e un certo numero di Askari, come denominavano le loro truppe locali. Niente di più sbagliato! Al loro comando c'era il celebre Paul Emil Von Lettow Vorbeck, e vi posso assicurare che quell'uomo era un genio, un mostro: un giorno era lì, il giorno dopo là, e nel frattempo continuava ad infliggerci danni. Aggiungeteci la disorganizzazione, le rivalità fra i vari contingenti, le malattie, il caldo, il tempo inclemente, i territori malsani e sconosciuti e non ne verrà fuori un quadretto gradevole. Alla fine i valorosissimi Tedeschi si arresero solo tempo dopo l'armistizio, con l'onore delle armi, senza mai essere stati davvero battuti sul campo. Io dal canto mio mi presi un souvenir...”.

Con uno svolazzo estrasse un panno colorato dall'interno del panciotto e lo distese teatralmente sotto i loro occhi: si trattava di una bandiera da guerra della vecchia Marina Imperiale tedesca, che nel quarto superiore riportava il tricolore germanico con la croce di ferro, al centro, incastonata in un'altra croce nera, una bellicosa e rapace aquila munita delle insegne regali.

Tutti sgranarono gli occhi e soprattutto gettarono un veloce sguardo a Itachi, per tentare di intuirne le reazioni emotive: ma il tedesco non si scompose minimamente, senza nostalgia apparente.

“Non fatevi false illusioni,- commentò però Deidara- questa non l'ho catturata in un assalto all'arma bianca. Me lo ricordo ancora: doveva essere più o meno il '16. Io e la mia pattuglia stavamo andando in avanscoperta quando sulla riva di un fiume trovammo incagliata una cannoniera germanica. Tentammo di avvicinarci, ma fummo accolti a fucilate: a bordo scoprimmo un ufficiale, la croce di ferro sul petto bene in evidenza, ferito ma determinato a resistere. Io non c'ero il giorno che Von Lettow Vorbeck si consegnò agli Inglesi, ma scommetto che nei suoi occhi c'era la stessa fierezza. Dopo averlo disarmato lo interrogai e venni a sapere che poco prima si era scontrato più a monte con un'imbarcazione britannica e, avendo perso la maggior parte della ciurma, aveva condotto sui bassifondi la cannoniera danneggiata, incitando i sopravvissuti a salvarsi e incaricandosi di farle la guardia lui stesso. Dopo averlo preso con noi facemmo una foto di gruppo con la bandiera, che poi toccò a me in quanto nessuno voleva disturbarsi a conservarla. Oggi, Itachi, vorrei restituirtela, perchè in fondo è più tua che mia: e perdonami se ci siamo fatti beffe dei tuoi compatrioti, ma devi capirci, in guerra a volte si fanno goliardate e...”.

Con passo lento si era avvicinato al moro e gli aveva porto lo stendardo con sguardo umile e sincero; l'altro lo ricevette e se lo passò di mano in mano, come se rimirasse un oggetto estraneo.

“Questa cosa-proferì serio- mi ricorda di tutti i vessilli che abbiamo strappato ai Russi e agli Italiani, e di tutte le volte che li abbiamo esibiti come trofei: dev'essere un'usanza comune fra soldati. Ad ogni modo grazie mille”.

Sorrise amaramente: “Per fugare i tuoi dubbi, ti rispondo che no, non ho combattuto in Africa, anche se forse avrei preferito il paesaggio. Dopo che le nostre vie si separarono anch'io decisi di “mettere la testa a posto” e collaborare con mio padre alla conduzione del suo impero; quel che mi dispiace è che, per evitare che rinascesse in me il gusto dell'avventura, mi ha sempre tenuto in Germania, e a supervisionare ai nostri interessi in America, in Argentina, in Cina ci mandava sempre amministratori più anziani ma che probabilmente non erano mai andati più in là di Monaco e Strasburgo. Ma ho vissuto anche dei momenti lieti, questo lo posso ammettere: Berlino ci piaceva molto, ma ogni volta non vedevamo l'ora di andare in vacanza sulle Alpi. Peccato che sia stata una felicità effimera. Essendo fortemente immischiato nelle forniture di armi al governo, mio padre non potè che salutare con gioia lo scoppio della guerra, e contemporaneamente mi lasciò intendere che avrei dovuto arruolarmi e tornare possibilmente con qualche medaglia e i galloni sulle spalle”.

Per sciogliere un po' la tensione ebbe l'idea di offrire agli amici un'esilerante imitazione del genitore, il cui caricaturale accento teutonico quando parlava francese o inglese lo aveva più di una volta coperto di ridicolo nei colloqui affaristici e aveva anche rischiato di mandargli a monte qualche delicata trattativa: “Ma kome Itachi, kosa ci fai ankora kvi? Defi andare a kombattere per il Kaiser, per la krande Cermania! Ja, mein Gott! Kvosa stai aspettando? Korri! Nein, nein!”.

Kakuzu, che si stava ristorando con un sorso di champagne, rischiò seriamente di sputare la bevanda in modo poco dignitoso e di strozzarsi, mentre tutti si reggevano la pancia e ansimavano paonazzi in cerca di requie.

Il tedesco li osservò con la dolorosa consapevolezza di quello che avrebbe seguito nella narrazione, e ricominciò: “Decisi allora di arruolarmi nella cavalleria, convinto che là avrei potuto distinguermi meglio (non che nutrissi tutto questo desiderio di gloria personale, ma avete capito come stavano le cose) e per mia gran fortuna, se così posso dire, fummo inviati sul fronte orientale. Se per caso mi avessero spedito in Francia e mi fossi trovato di fronte qualcuno di voi, beh, non so proprio come mi sarei comportato. Invece per i Russi non nutrivo particolare simpatia, soprattutto dopo lo scherzetto che ci avevano giocato nel '10 in Afghanistan, ma nemmeno volevo vederli tutti morti, o li consideravo dei barbari asiatici interessati solo a rubarci le nostre terre. Assieme alla nostra unità poi c'erano anche reparti di Alsaziani e Lorenesi, questo perchè i generali temevano che sul fronte occidentale avrebbero defezionato per disertare o passare ai Francesi. Poveretti, li ho visti usati come carne da cannone, così come ho sentito che i Russi facessero con gli ebrei”.

Si interruppe perchè colse un feroce moto di indignazione negli occhi di Hidan, ma l'amico riuscì per fortuna a calmarsi e cessò di far tremare di rabbia gli avambracci pensando a quei connazionali.

“Secondo la propaganda bellica ufficiale, riportammo vittorie strepitose sulle innumerabili orde asiatiche che già erano penetrate per un buon tratto nella Prussia Orientale, desiderose di saccheggiare le floride terre coltivate dagli operosi coloni tedeschi e di stuprare le loro prosperose femmine. Suppongo che nomi come quelli dei Laghi Masuri e di Tannenberg, oppure dei generali Von Hindenburg e Ludendorff siano tuttora celebri. In realtà, tutto quel che ho visto è stata una strage inutile e senza senso, che ha macchiato di sangue alcuni fra i boschi più belli d'Europa, in cui il nostro vantaggio rispetto ai Russi era quasi ridicolo: quell'esercito era un residuato del secolo scorso, privo di tutto, composto da miseri contadini semischiavi che non sapevano neanche contro chi combattevano e capeggiato da insulsi aristocratici alcolizzati o semplicemente folli. Come potevo non provare pena nel vedere quelle interminabili colonne di prigionieri cenciosi? E così siamo andati avanti per anni, finchè in Russia non hanno fatto la rivoluzione e si sono sganciati dalla guerra. A quel punto tutte le unità che non sarebbero rimaste a presidiare i territori occupati vennero spostate su altri fronti e il mio reggimento fu mandato nel Carso ad aiutare gli Austraici. Abbiamo partecipato anche noi a quella grande offensiva per poco non annientò l'Italia a...com'è che si chiamava? Karfhein? No, ecco, Karfreit!”.

“Mi pare che gli Italiani la chiamassero “Caporetto” ” intervenne Kakuzu col tono di chi la sa lunga. “All'epoca, quando lessi la notizia, pensavo che il Bel Paese fosse già spacciato”.

Itachi scosse la testa con fare benigno: “No. Ho sentito dire molte cose sugli Italiani, ma se ce n'è una che corrisponde a verità è che essi danno il meglio di sé nelle situazioni peggiori. Così si sono rimboccati le maniche e hanno resistito sul Piave. E' stato proprio durante un tentativo di attraversare questo fiume che io venni catturato e portato in un campo di detenzione per militari austroungarici. Ci portarono in Piemonte, nei dintorni di Novara. Devo dire che né l'alloggio né il vitto erano peggiori di quando stavamo in trincea, anzi. In confronto ad alcuni miei conoscenti che erano stati catturati dai Russi, è stato come essere in villeggiatura. I nostri sorveglianti erano spesso più incuriositi che spaventati o assetati di vendetta, e con il tempo abbiamo imparato a conoscerci. E' grazie a loro se ho imparato quel poco italiano che so e per tanti mesi sono vissuto in tranquillità, senza nemmeno udire il rumore di uno sparo. Poi, un giorno di novembre, entra la guardia e dice che possiamo andarcene, che l'Austria ha firmato la pace. Probabilmente non si ricordavano nemmeno che io invece ero tedesco, ma è stato meglio così. Fu proprio durante il mio tragitto attraverso l'Italia del Nord che appresi che anche la Germania aveva ceduto. Non vi nascondo che piansi, ma non perchè ero deluso dall'aver perso la guerra: piangevo al pensiero di quel che avrei

trovato una volta tornato in patria. Quando misi di nuovo piede a Berlino, trovai mio padre molto invecchiato. Non gli importava più delle medaglie o delle industrie, ma di me”.

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Capitolo 7
*** I reduci III- Pain everywhere ***


Spazio autore

LizWingates: Grazie, grazie mille. L'idea di Sasori sul Titanic mi è venuta così, proprio perche gli anni erano quelli, ed è utile a dimostrare come non solo la guerra possa influire negativamente sui sentimenti di una persona. Visto il mio grandissimo interesse per la storia, e nello specifico quella militare, non potrei esimermi dal fare riferimenti precisi, proprio perchè questi temi mi affascinano: per questo ho deciso di inserire riferimenti anche a episodi, come la campagna britannica in Medio Oriente o la guerra nell'Africa Orientale tedesca, poco noti ai più ma che mi appassionano per la loro carica di esotismo. Grazie di tutto, alla prossima!

Falsa dea molto adorata: Grazie mille di aver espresso le tue opinioni, e non preoccuparti delle critiche: se fondate, possono condurre alla maturità dello stile. Diciamo che posso permettermi di essere così veloce perchè la storia l'ho già scritta tutta: è il periodo di gestazione fra due storie che invece può essere molto lungo. In sostanza preferisco fare capitoli brevi per non annoiare il lettore e non perdere io stesso il filo del discorso, ma anche perchè non voglio “bruciarmi” niente: se per esempio decidessi di scrivere un'altra storia dove narrare per filo e per segno i vari avvenimenti durante la guerra potrei farlo, perchè fino ad ora ho lasciato solo accenni che suscitano la curiosità del lettore, e ognuno è libero di immaginarli come preferisce. Inoltre, il tono generale che intendevo dare a questa storia era quello di una chiacchierata fra amici, in cui ognuno si limita a rievocare il passato con una certa superficialità, sia perchè non intende infliggere a se stesso sofferenze maggiori, sia per offrire agli altri un quadro conciso ma chiaro degli eventi, senza dilungarsi in racconti. Quanto all'Akatsuki, beh, semplicemente li adoro: in ogni mia storia di Naruto faccio i salti mortali pur di inserirne il più possibile, e in una delle mie prossime fic miro a inserirceli tutti. In ogni caso, grazie di tutto. Alla prossima!

 

Colgo l'occasione sia per ringraziare Lovemusic di aver inserito questa fic fra le sue seguite, sia per annunciare, con la morte nel cuore, che quello di domani sarà l'ultimo capitolo: dato che questa storia consiste principalmente di dialoghi e riflessioni e non contiene scene d'azione, ritengo opportuno evitare che diventi tediosa prolungandosi troppo. In ogni caso quello di domani sarà un capitolo molto interessante dove i nostri personaggi, dopo aver considerato i propri casi, rivolgeranno la loro discussione a un tema più generale...Stasera invece ci attendono gli ultimi due racconti, quelli di Hidan e Kakuzu. Grazie a chi mi segue e mi apprezza, e ciao a tutti!

 

I reduci III- Pain everywhere

 

Non appena calò il silenzio e Itachi crollò con i gomiti sul tavolo, nascondendo il volto, tutti non poterono fare a meno di notare che stava piangendo a dirotto, ma in modo dignitoso, senza singhiozzare, a bocca chiusa, ed era uno spettacolo straziante.

Hidan gli fu subito accanto, e la premura che gli si leggeva sul viso pallido era più che sincera.

In silenzio, gli porse un fazzoletto per tergersi le lacrime amare: “Su, su, è tutto finito ora. Sappiamo tutti come ti devi sentire, non è mai facile essere gli sconfitti: tutti i torti ricadono su di te...Questi sono i momenti in cui quasi mi pento di aver vinto la guerra”.

Il tedesco accettò con gratitudine il fazzoletto e se lo passò brevemente sulla pelle, per rivelare una faccia di nuovo seria e composta: “Grazie amico, grazie. Conoscere persone stupende come voi è ciò che dà un senso alla vita. Tuttavia, anche se difficile la nostra situazione non è del tutto disperata: sebbene molte delle sue fabbriche all'estero siano state requisite, mio padre si è dato da fare e ora conduciamo una vita quantomeno dignitosa. Sostanzialmente lui è un uomo onesto e un gran lavoratore, sempre pronto a rialzarsi dopo una caduta: non è come quei generali prussiani o quei nobili bavaresi che ora passano le loro giornate in palazzi vuoti, rimirando i ritratti degli antenati e rimpiangendo i tempi che furono”.

Una volta che la tensione si fu sciolta e si ristabilì un'atmsofera di cordiale conversazione, fu di nuovo Hidan a schiarirsi la gola: “Allora deduco che tocchi a me esporre i miei casi”.

Pain lo squadrò da capo a piedi, versandosi qualche goccio di champagne: “Stamattina hai chiamato me e Sasori “compagni d'armi”, eppure non mi sembra di aver mai imbracciato il fucile assieme a te. Dove hai combattuto di preciso”.

Il francese tirò un lunghissimo sospiro, come se successiva narrazione gli risultasse talmente opprimente da schiacciarlo e impedirgli di respirare, quindi cominciò: “Volevo solamente intendere che le nostre due nazioni hanno sofferto tanto insieme, e insieme hanno prevalso. Ma è stato un trionfo amaro. Io nelle trincee mi ricordo di averne incontrati tanti di Inglesi, les Tommies: e c'erano anche Gallesi, Scozzesi,Irlandesi, Canadesi, Australiani, Neozelandesi, Sudafricani, ma a me sinceramente sembrava che parlassero tutti la stessa lingua, e non riuscivo assolutamente a distinguere i vari accenti. Ho parlato spesso con loro, sia davanti a un bel bicchiere di gin che in situazione non propriamente da salotto del tè; ci siamo confidati, abbiamo riso e pianto assieme, abbiamo giocato e scherzato, ci siamo salvati la vita, a volte me li sono visti morire davanti”.

Si fermò un istante e spalancò le pupille, come se gli si fosse palesato un fantasma, quindi espirò.

Quando scoppio la guerra, devo confessare che non ero in me. Se avessi avuto un tedesco per le mani, credo che lo avrei fatto a pezzi come un cannibale, e in quegli attimi ho paura di essermi persino dimenticato dell'esistenza di Itachi. Era tutto più grande di me...Sembrava che l'intera nazione fosse ansiosa di correre al massacro, o meglio alla gloria. Le passeggiate sugli Champs-Elysées, le serate mondane nei locali, le gite in campagna, le feste danzanti mi parevano d'improvviso piaceri nefasti e viziosi, da cui distaccarmi il prima possibile per darmi alla vita militare. Quando mi presentai ad arruolarmi, vidi ragazzi di almeno dieci anni più giovani di me ansiosi di salire sul treno per ricacciare oltre il Reno i crucchi e riprendersi l'Alsazia e la Lorena. Erano realmente convinti che la guerra sarebbe durata solo qualche settimana. E chi può dire che anch'io, nell'esaltazione del momento non abbia accarezzato simili prospettive?”.

Gli amici si scrutarono ognuno negli occhi dell'altro con aria colpevole; non si erano anch'essi illusi in quel tempo remoto che le ostilità non si sarebbero prolungate troppo, o quantomeno non sarebbero state eccessivamente sanguinose?

Pensavamo che sarebbe stato un gioco da ragazzi respingere i Tedeschi e liberare il Belgio occupato, ma così non fu. L'avanzata tedesca fu travolgente, come un treno, come un fulmine: nulla sembrava capace di fermarla, e d'improvviso il panico e lo scoramento si erano diffusi nelle nostre linee. Arrivarono a una manciata di decine di chilometri di Parigi, che già cominciava ad essere evacuata. Per nostra fortuna, anche loro iniziavano ad avere i loro problemi, perchè erano avanzati troppo e troppo in fretta, senza preoccuparsi di stabilire linee di rifornimento adeguate ed esponendosi a un improvviso contrattacco: ma noi soldataglia questo non lo potevamo sapere, e ci sentivamo già fritti. A questo punto...Avete mai sentito parlare del “miracolo della Marna”?”.

Sì,- ammise Deidara non troppo convinto- mi ricordo di aver letto su un giornale di Léopoldville che i Francesi avevano opposto una resistenza disperata su quel fiume, dopo aver mobilitato perfino i taxi parigini per essere trasportati, ed erano riusciti a fermare il nemico”.

Il brutto è che la gente al giorno d'oggi si ricorda della storiella dei taxi, ma non delle persone che li occupavano. Fu un risultato insperato, ottenuto proprio al momento giusto; infatti da quel punto in poi i Tedeschi si ritirarono più a nord e non vi furono più significativi spostamenti del fronte. Ma per me non ci sarebbe stata pace...Mi assegnarono alla guarnigione di Verdun”.

Verdun?!” fece Sasori, strabiliato, strabuzzando gli occhi per la sorpresa, a cui poi subentrò il disgusto: “Ma là sono morte un milione di persone, come sulla Somme! Era un un inferno!”.

Il francese annuì gravemente: “Per quasi un anno siamo rimasti rinchiusi là, sotto il tiro costante dei loro cannoni, e la gente moriva, moriva e moriva, in tutti i modi, soprattutto nei peggiori. Non so come ho fatto a resistere senza impazzire. Anzi, non so come abbiamo fatto tutti a resistere senza diventare matti. Quando l'assedio è terminato, io non mi sentivo affatto vincitore, ma solo spossato, e non potevo fare a meno di pensare a chi non era stato fortunato come me. Tornai in trincea, ma non avvertii significativi cambiamenti. Da una parte c'erano carneficine, fame, fango, topi, malattie e Tedeschi, dall'altra idem: la guerra era come un'atroce somma il cui risultato non cambiava mai indipendentemente dagli addendi. Sinceramente ho perso il conto di tutti gli assalti che abbiamo effettuato e di tutti quelli che sono stati respinti, ma nella mia mente si affastellano come un filo infinito destinato a svolgersi per sempre sempre uguale. Avevamo la speranza che prima o poi questi benedetti Americani si decidessero a sbarcare, e così fu, ma nel frattempo i Tedeschi avevano rinforzi ben più a portata di mano e non cessavano di rovesciarceli contro. E vi stupite degli ammutinamenti di massa? Per fortuna poi arrivò Petain e capì che era necessario darci un taglio con queste fucilazioni. Me lo ricordavo ancora come l'intrepido comandante che ci aveva incitato a resistere a Verdun, era come un eroe per me...Alla fine paradossalmente, l'abbiamo vista più brutta nel '18 che in tutti gli anni precedenti, quando i nostri avversari hano tentato per l'ultima volta di vincere la guerra e sono giunti di nuovo in vista di Parigi. Pur se stanco e disilluso, in quel momento mi sono di nuovo sentito pieno di ardore: non era giusto! Non potevamo, dopo tanti sacrifici profusi, lasciarli vincere! Ma ora, ripensandoci a posteriori, anche i Tedeschi la vedevano così. In ogni caso ormai anche loro erano esausti, mentre noi revamo coadiuvati dagli Statunitensi freschi e vogliosi di menare le mani: allora abbiamo cominciato a vincere nettamente, e a respingerli come mai prima di allora, finchè non sono tornati in patria. E anch'io ci tornai, stanco e decorato”.

Subito dopo Hidan sentì l'irrefrenabile impulso di ingollare un bicchiere intero di vino, senza pensare ad altro: era chiaro che non si potevano evocare impunemente i fantasmi di un passato così tetro.

Ogni eventuale commento fu troncato sul nascere da Kakuzu, il quale, pur essendo colui che più fortemente aveva voluto questa maieutica collettiva, non sembrava particolarmente a proprio agio: “Voi ora penserete di me: lui che cosa ne sa della guerra? E' uno svizzero, beato lui: non deve preoccuparsi di nulla, può starsene quieto fra banche e orologi, perchè tanto tutti vogliono essergli amici. Non preoccupatevi, sono stereotipi comuni, non li avete inventati noi ed io stesso a volte arrivo a condividerli in parte. Ma permettetemi di dire che sono sostanzialmente errati per due motivi. Il primo è che anche qui la guerra si sente eccome. Non è la guerra guerreggiata, ma non è nemmeno quella che si legge sui giornali. Dopo vi spiegherò perchè. La seconda ragione è che innegabilmente le guerre sono una cosa brutta, e probabilmente la più sordida invenzione dell'umanità da Adamo a tirare in giù, ma non sono l'unica fonte di dolore possibile. Le guerre almeno iniziano e finiscono quando decidiamo noi, e siamo noi a scegliere chi colpire e quando. Altri eventi, purtroppo, sfuggono del tutto al nostro controllo, e dobbiamo accettarli con rassegnazione. Se uno è cristiano, riesce più facile, ma nemmeno la religione fornisce tutte le risposte. Se anche vi sembrassi quello di tredici anni fa fatto e finito, vi sbagliate di grosso: gli anni passati per tutti, esigono il loro tributo e imprimono la loro orma su chiunque. Il dolore è ovunque”.

Parrebbe che tu voglia tenerci una lezione di filosofia oggi” commentò Deidara, con un misto di tedio e compartecipazione. “Orsù Kierkegaard, raccontaci quello che volevi raccontare”.

Bene. Per tutti questi anni ho condotto la vita che tutti vi aspettavate: quella del banchiere, che si addormenta sfinito sui propri conti e si ricorda una per una quante banconote possiede, ma vive come un eremita e non intrattiene il minimo rapporto con il resto della società. Beh, questo non è vero: ogni tanto facevo una passeggiata o mi recavo a teatro. In ogni caso la vita scorreva tranquilla, fra visite alla Borsa e periodi di riposo in questa villa. Ed ecco che, d'un tratto, scoppia questa guerra che presto si ingigantisce e diventa una questione mondiale. Ovviamente neppure qui qualcuno poteva permettersi di ignorarla, e si andava da chi temeva che la Germania intendesse infischiarsene della nostra neutralità e invaderci, come era successo al Belgio, a chi addirittura pregustava occasioni di guadagno mai sognate prima. A mia umile discolpa, non rientravo in questa seconda categoria. Diciamo che, come la maggior parte degli Svizzeri, sono stato messo davanti al fatto compiuto e l'ho accettato, senza apprezzarlo particolarmente: e anche se per ogni evenienza il nostro esercito era stato mobilitato, nessuno credeva seriamente che la guerra ci avrebbe inghiottito e tutti continuavano beatamente a gestire i propri affari. Io stesso ero talmente preso dal lavoro che anche le notizie provenienti dal mondo esterno non suscitavano in me lo stesso effetto che se avessi vissuto di persona quegli avvenimenti. Per me Gallipoli, Verdun e Caporetto erano solo nomi sul giornale, vicende relegate in terre misteriose i cui sviluppi potevano essere seguiti giorno per giorno senza alcun rischio per la propria persona, e gli stessi bollettini di guerra semplici liste di numeri prive di un significato emotivo particolare. Cosa mi importava se quella settimana i

Tedeschi erano avanzati di 5 km o gli Italiani avevano perso 2000 uomini in un attacco con i gas, o 150.000 Russi erano stati presi prigionieri? Era come leggere un romanzo fittizio, che lipperlì mi faceva rabbrividire ma la mattina dopo me l'ero già dimenticato. Tutto questo finì”.

Ti sei mica preso la briga di visitare qualche trincea, avarastro?” doamndò sornione Hidan.

Tutt'altro; in un certo senso sono state loro a venire da me, e a farmi comprendere appieno l'orrore di questo conflitto. Era la vigilia di Natale del '17 (me lo ricordo come se fosse ieri) e io stavo trascorrendo le vacanze in questa villa. Era quasi mezzanotte, ed io, stanco dopo una giornata di spossante lavoro, schiacciavo un pisolino sul divano, accanto al fuoco ancora acceso, quando sentii bussare alla porta. Aprii: erano due individui smunti, infreddoliti, coperti di stracci e con la barba lunga. Da quel che restava delle loro divise compresi che erano soldati tedeschi, e loro cominciarono a raccontarmi la loro storia. Si chiamavano Kurt ed Ernst ed erano cugini: avevano deciso di disertare, ma avendo paura dei essere riacciuffati subito anzichè puntare verso casa avevano deciso di rifugiarsi in Svizzera e aspettare la fine della guerra. Io non potevo rifiutare loro la mia ospitalità, e offrii loro il mio stesso letto; ma dal giorno dopo misi suvito le cose in chiaro, ovvero che ero disposto a tenerli con me fino al termine del conflitto solo a patto che si guadagnassero da vivere lavorando. Accettarono, e dal quel momento divennero una coppia di simpatici tuttofare con cui ogni tanto scambiavo un paio di chiacchere: io raccontavo loro dei mie viaggi, mentre loro rievocavano tutte le privazioni della guerra di trincea, e devo dire che se non fosse stato per loro ne avrei avuto una visione anche troppo edulcorata. Quando la Germania si arrese decisero che era giunto il momento di salutarmi e partirono. Tuttavia non ero più lo stesso uomo di prima, e pensare a cosa erano andati incontro milioni di uomini mentre io me ne stavo rintanato al calduccio a contare i miei soldi mi indusse a riflettere”.

Allora anche tu hai un cuore...” lo canzonò Pain, che pure sapeva bene per esperienza personale quanto sapesse essere devoto e affezionato l'amico se la necessità lo imponeva.

Putroppo, di lì a poco il destino mi fece visita in maniera ben più drammatica. Di lì a un mese circa, mia madre, rientrando da una passeggiata in città, cadde gravemente malata. Quando scoprimmo che aveva preso la “spagnola”, ormai era troppo tardi. In capo ad altri due mesi, mio padre fu stroncato da un infarto. Ed ecco perchè io ora sono l'unico padrone di casa, e oggi non li avete ancora incontrati”.

Gli amici si maledissero a denti stretti per la propria dannata mancanza di sensibilità e riguardo.

Davano talmente per scontato che quell'avaraccio fosse interessato solo al suo denaro da scordarsi che, come tutti, anch'egli era dotato di cuore e sentimenti e aveva una famiglia!

Lo svizzero sprofondò pesantemente sulla sedia e borbottò con aria cupa: “Erano tutti e due anziani, ma non mi sentivo ancora pronto....Ho pianto a lungo: ma perchè non avrei dovuto?”.

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Capitolo 8
*** Una canzone per l'Europa ***


Spazio autore

Purtroppo, cari amici, siamo giunti alla fine anche di questa fanfiction. E' mio desiderio ringraziare vivamente tutti coloro che hanno letto, recensito o aggiunto fra preferiti e seguiti questa storia, poiché mi hanno fatto un favore grandissimo,e vi invito a farlo anche per quest'ultimo capitolo.

Prima di lasciarci vorrei parlarvi un po' di quali sono i miei progetti futuri: le idee sono moltissime, le storie avviate quasi altrettate, ma il tempo è scarso e non so se riuscirò a completarle tutte.

In ogni caso, ecco una lista delle fic che vorrei pubblicare in tempi più o meno ragionevoli (cioè da ora fino al più tardi alla prossima estate):

  • un eventuale seguito di Adieu Belle Epoque, ambientato magari dopo la Seconda Guerra Mondiale, con i nostri protagonisti settantenni od ottantenni;

  • una nuova storia della mia saga AU di Naruto Sulle tracce dei mostri, nello specifico il prequel di Il terrore dei boschi solitari: la storia sarà ambientata più di un secolo prima, all'epoca delle guerre fra Inglesi e Francesi in Nordamerica, e vedrà come protagonisti Madara Uchiha e Danzo;

  • quella fic AU di One Piece che avevo annunciato più di un anno fa, sebbene la sua prosecuzione sia in forte dubbio e al momento rappresenti l'ultima delle mie priorità;

in alternativa potrei ripiegare su un'eventuale altra storia della mia serie La saga dei

balenieri o qualche altra AU con trama ancora da definire;

  • una storia AU di Naruto, dal titolo ancora provvisorio, con protagonista Itachi nei panni di un ex pirata che vaga per i mari per vendicarsi dei suoi vecchi compagni:

  • la mia prima fic in assoluto di Bleach, fumetto che ho iniziato a leggere solo quest'anno, consistente in un'AU ambientata durante la Seconda Guerra Mondiale.

 

In ogni caso i miei impegni sono molti e pressanti, e non so quanto tempo ci impiegherò a pubblicarle tutte, quindi prendete con cautela le mie affermazioni. Comunque sia, ora vi lascio. Buona lettura, e alla prossima!

P.S: Prima di leggere questo capitolo, ascoltatevi l' Inno alla gioia di Beethoven: vi metterà nell'umore giusto.

Una canzone per l'Europa

 

Mentre Kakuzu perseverava nel fissare con aria dolorosamente interrogativa gli altri convitati, fu Pain a farsi avanti per tirare le somme della serata: “Credo che potremmo andare avanti così ancora per un bel po', ma si sta facendo tardi e mi preme soprattutto sapere una cosa: vi sentite meglio? Per quanto mi riguarda sì. Udire tante disgrazie, - filosofeggiò-pari o superiori alle mie, mi porta quasi a ignorare i miei casi personali, perchè vanno a confluire in un contesto più ampio, all'interno del quale mi ritengo anzi abbastanza fortunato”.

Sì,- concordò Deidara, quasi con le lacrime agli occhi- è stato come togliermi un peso dalla coscienza, e mi ha ricordato tempi che, nel bene o nel male, non torneranno più”.

Non potevo nascondermi tutto dentro fino alla fine dei miei giorni, era giusto condividerlo con lui” osservò Itachi.

Ripercorrere tutte le tragedie che ho vissuto mi ha fatto capire che, dopo tutto, se sono sempre riuscito a rialzarmi e andare avanti un motivo ci sarà” fece Sasori.

Già, in un certo senso è consolante ripensare a distanza di tempo da quali pericoli siamo scampati” replicò Hidan. “Ma occorre anche riflettere sulla nostra fortuna, che ad altri è stata negata...”.

Era il turno di Kakuzu, la cui risposta oscillò fra il risentito e lo scherzoso: “Sei proprio un bastardo, Pain. Mi ritorci contro la mia stessa idea, e riesci a farti beffe delle mie lacrime anche il giorno del mio compleanno. Ma tu guarda se uno deve sentirsi così nel giorno della propria festa! Ma in ogni caso anch'io l'ho voluto, ed è giusto che mi sia messo a nudo come tutti voi. Non lo dimenticherò mai. Questi sono i momenti che rendono un gruppo di persone dei veri amici”.

L'atmosfera si era fatta d'un tratto pesante e inopportuna per i divertimenti, e più di uno di loro nel suo incoscio fu colto dal dubbio che essi fossero semplicemente gli ultimi ruderi di un'epoca decadente e ormai terminata, e che nessun sforzo, per volonteroso che fosse, l'avrebbe restaurata.

Così, quando Hidan, schiarendosi la gola come se dovesse pronunciare qualcosa di vergognoso, propose di tornare nella sala del biliardo, fu accolto da facce stanche e ostili.

In quell'istante un lampo di consapevolezza astuta attraversò gli occhi di Deidara.

Alzando la mano per attirare l'attenzione dei compagni, esordì: “Ragazzi, dato che ormai siamo in ballo, direi di ballare. Questo è il momento di togliervi tutti i sassolini dalle scarpe e dirla assolutamente come la pensate. Abbia parlato a lungo delle nostre dolorose esperienze causate dalla guerra, ma pensate forse che siamo i soli ad averla vista brutta? No, e basta guardarsi intorno durante una qualsiasi passeggiata per strada o leggere un qualsiasi quotidiano per rendersi conto che c'è gente che sta molto peggio di noi, in Europa e non solo. Viviamo in un'epoca di profondi mutamenti, questo è innegabile, e qualcuno potrebbe anche azzardare di crisi. Vi invito quindi a discutere un po' della situazione politica internazionale di oggi”.

Senza lasciarsi intimidire, Pain gli rispose: “Ottimo, è giusto non richiuderci in noi stessi ma saperci allargare verso nuovi orizzonti. Beh, io per esperienza personale voglio parlarvi della situazione che si è instaurata oggigiorno nel Levante, alla cui realizzazione ho in parte inconsapevolmente contribuito, perchè non mi piace affatto. In parole povere, tutti i popoli di lingua araba ce l'hanno con noi, e a ragione. Durante la guerra, il Foreign Office ha promesso loro mari e monti per l'aiuto prestato, e alla fine cosa fanno Britannici e Francesi? Non solo non permettono la creazione di un grande regno panarabo com'era nei disegni di molti, ma si dividono addirittura il bottino come ladri, organizzando gli ex territori ottomani come stati fantoccio o pure e semplici colonie. E tutto questo con l'avallo entusiasta della comunità internazionale”.

E' tutta colpa di quella Società delle Nazioni” borbottò rabbuiato Hidan. “Non mi ha mai convinto quest'idea, perchè gli Stati tanto continueranno a tramare nell'ombra come e più di prima. Non fanno altro che andare incontro ai desideri dei Paesi più potenti, infischiandosene degli altri, e i suoi sostenitori devono ancora presentarmi una qualche controversia internazionale effettivamente risolta dalla Società. Cosa possono le chiacchere contro i cannoni? Ma vai avanti”.

Dicevo, questo risentimento che cova non ci gioverà affatto. Gli Arabi ormai sono consci della loro arretratezza nei confronti del'Occidente, ma proprio per questo faranno di tutto per colmarla e rivendicare quel che spetta loro. Per non parlare della discutibile idea di riportare gli Ebrei in Palestina...Questi due popoli sono cugini, ma si odiano, e se non stiamo attenti ci trascineranno nelle loro faide. Posso portarvi anche l'esempio dell'Egitto: nominalmente è indipendente e ha un suo re, ma quanto ci impiegherebbero gli Inglesi a deporlo se cominciasse a fare di testa sua? Il fatto stesso che io sia nato e viva ad Alessandria testimonia come la nostra presenza in Egitto sia più forte che mai, e tale resterà. Ci sono stati forti disordini a carattere nazionalistico, nel corso degli anni, e io a volte temo per la mia sicurezza. Ho come il brutto presentimento che, anche se il paese del Nilo mi ha dato la vita, non morirò sulle sue sponde, e presto o tardi lo dovrò lasciare”.

Non poteva sapere con quanta precisione si sarebbe avverata questa profezia.

Dopo aver annuito con tetra solennità, Itachi prese la parola: “Tu ci hai appena parlato del tuo paese natale, e anch'io farò lo stesso. Ora, ditemi in tutta sincerità: vi piacerebbe vivere in Germania al giorno d'oggi?”.

La domanda suscitò grande imbarazzo, e per quanto Sasori ceracsse diplomaticamente di girare intorno alla questione, il tedesco lo prevenne: “Ho capito, ho capito, no. Ma chi dei vincitori vorrebbe mai sobbarcarsi questo supplizio? Suppongo che a volte sui giornali abbiate visto immagini dei molti usi che oggi si possono fare delle banconote in Germania: qualora svariati miliardi di marchi non siano sufficienti ad acqusitare il pranzo, si possono sempre impiegare come combustibile o costruzioni per divertire i bambini. Col passare del tempo l'inflazione sta rientrando, ma vi assicuro che per certe fasce di popolazione che prima non sapevano nemmeno cosa fosse la fame è stato un salto nel buio dall'oggi al domani”.

Anche qui il consesso delle nazioni cosiddette “civilizzate” è stato più colpevole che spettatore” intervenen Kakuzu in tono estremamente severo. “Dal punto di vista bancario, chiedere a una comunità ormai esausta e incapace di reagire indennità dall'ammontare ancora da definirsi, ma sicuramente ingenti, sotto la minaccia di un'occupazione militare non è nemmeno usura, è un'estorsione bella e buona. E tutto questo per cosa? Per venire incontro alla fifa della Francia, che teme una miracolosa rinascita tedesca con conseguente vendetta? Pazzi! Se solo avessero studiato un po' la storia, saprebbero che proprio i trattati dalle condizioni insopportabili sono quelli che alimentano il rancore degli sconfitti, rendendo probabile un nuovo conflitto. Io temo sinceramente per le sorti della Germania, non vorrei che...”.

...che qualche folle facesse precipitare la situazione? Credimi, c'è invece chi lo desidera con tutte le proprie forze e lavora indefessamente a questo fine. Avrete sentito nominare un tale Adolf Hitler e il suo Partito Nazionalsocialista, no?” domandò Itachi.

Hitler!” grugnì Deidara disgustato. “Quel pazzo che ha tentato di fare un colpo di Stato a Monaco, in una birreria? Ma dev'essere fuori di testa! E perdipiù si vocifera che sia un pittore fallito”.

Purtroppo-sospirò l'amico- ci sono molti Tedeschi che credono a ciò che promette quel pallone gonfiato, quell'oratore da due soldi. Vogliono non solo il ruolo di grande potenza che ci è stato tolto a loro dire giustamente (io penso invece che sia stato il giusto coronamente di un percorso di infinita superbia), ma anche qualcosa di più: il predominio su un mondo completamente nuovo, e per farlo non esiteranno a eliminare ogni nemico interno o esterno. Spero solo che la prigione in cui ora è rinchiuso Hitler basti a farlo rinsavire, ma ho i miei dubbi...”.

Perchè, vogliamo parlare di Mussolini?” proruppe Pain. “Un agitatore socialista riciclatosi all'improvviso in interventista e fervente patriota: patetico! In qualsiasi altra nazione non presterebbero il minimo ascolto alle idiozie che spara giornalmente, ma putroppo ha quelle sue squadracce di cui tutti tollerano i misfatti perchè (che faccia tosta!) “contribuiscono a mantenere l'ordine pubblico”! In Italia sono davvero così disperati da aver bisogno dell'aiuto di quattro scemi con il manganello? Non mi pare! E allora perchè si sono piegati ai suoi ricatti, e addirittura lo hanno fatto capo del Governo? Rendiamoci conto: costui ha svelato chi è in realtà quando si è dimostrato disposto a ricorrere alla violenza e all'intimidazione per ottenere il potere, sin nel cuore stesso di Roma! E il re è cascato ai suoi piedi!”.

E sì che ha pure messo in piedi un governo apparentemente rispettabile” osservò Sasori. “Tuttavia non mi convince affatto, e se non erro ha già fatto in modo di legalizzare tutto il suo apparato repressivo. Guardate quel deputato, quel Matteotti: da quando ha contestato apertamente i risultati delle elezioni, è sparito nel nulla! Qui gatta ci cova...”.

Chissà quale sarebbe stato lo stupore del britannico se qualcuno gli avesse detto che proprio il giorno successivo al compleanno di Kakuzu sarebbe stato ritrovato il cadavere dell'onorevole Matteotti, in un bosco vicino Roma, e che di lì a poco Mussolini avrebbe palesato la propria vera natura di despota!

Tornò a parlare Itachi: “Certo, se questi politicanti della domenica riscuotono tanto successo e anche perchè, da quando i bolscevichi hanno preso il potere in Russia, in tutta Europa si è diffusa la piscosi della rivoluzione. Ma devo dire che, dopo aver assistito di persona agli scontri nelle strade fra gli spartachisti e i Freikorps di Weimar, ho davvero avuto paura della guerra civile”.

Notando l'apprensione evidente sul volto di Kakuzu, Hidan lo canzonò sbocconcellando una tartina al caviale: “Che c'è avarastro? Hai paura di ritrovarti i bolscevichi sotto casa domani? Guarda che sarebbero ben felici di fare una capatina da te...Ma dopo aver scovato le tue ricchezze, non so se sarebbero ancora disposti alla comunione dei beni materiali!”.

Ridi, ridi, francesino, poi quando qualcuno introdurrà la dittatura del proletariato e vorrà farti vivere in un tugurio inattesa del comunismo reale ne riparliamo!”.

Se devo essere sincero, -puntualizzò Sasori- quasi quasi la rivoluzione russa mi sembrava una bella cosa: dopo aver spazzato via uno dei regimi più tirannici e corrotti del mondo, il popolo decideva di realizzare sul serio la più bella delle utopie. Un'utopia, appunto. Le notizie qui in Occidente circolano in modo vago e confuso, ma tutto concorre a indicare che là si sia formato un regime uguale a quello di prima, con una nuova aristocrazia, un nuovo zar e i soliti servi della gleba. Avrete inteso parlare dell'ultima carestia che si è verificate in quelle contrade, e tutto a causa delle politiche economiche dei comunisti?”.

Deidara esclamò sprezzante: “Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche...Bah! Portatemi una cartina e vi dimostrerò che questo “paradiso dei lavoratori” altro non è che il vecchio Impero degli Zar sotto un altro nome e con una nuova bandiera. Si sono inglobati anche quei popoli che avevano appena riacquisito l'indipendenza dopo secoli di dominio, come gli Ucraini e i Georgiani, e se fossi uno qualsiasi dei paesi dalla Finlandia alla Romania mi preoccuperei...Forse sarebbe stato meglio che i contingenti europei, americani e giapponesi sbarcati in Russia e in Siberia per sostenere le armate bianche avessere purgato il mondo da questa nuova forma di oppressione”.

E' proprio un mondo brutto, il nostro era l'unanime pensiero di tutti. Dopo essersi appena dilaniati nella guerra più catastrofica di sempre, gli uomini hanno subito ripreso a lottare fra loro...

E fu allora che, quasi per esorcizzare l'idea di un futuro pieno di odio e conflitti, Itachi prese a intonare a mezza voce una lieve melodia in tedesco: “ O Freunde, nicht diese Töne! Sondern laßt uns angenehmere anstimmen und freudenvollere. Freude! Freude!”.

Subito si arrestò, come un posseduto che ritorni improvvisamente padrone del proprio corpo, ma Pain si incuriosì: “Che cos'era Itachi? Aveva un suono bellissimo!”.

E' l'inizio del quarto movimento dell'Inno alla gioia di Beethoven” rispose quasi sovrappensiero l'amico, cercando di trovare una spiegazione al perchè di quella musica improvvisa nella sua testa. “Significa O amici, non questi toni! Piuttosto intoniamone altri più piacevoli e gioiosi! Gioia! Gioia!”.

Ora capiva perchè il suo pensiero era subito corso a Beethoven! Se l'umanità sperava di salvarsi doveva necessariamente cambiare radicalmente le proprie abitudini, passando ad altre dettate dalla felicità e dal rispetto reciproco.

E allora, come invasato da una mistica presenza, continuò a cantare: “Freude, schöner Götterfunken

AncoraTochter aus Elysium, Wir betreten feuertrunken, Himmlische, dein Heiligtum! Deine Zauber binden wieder Was die Mode streng geteilt; Alle Menschen werden Brüder, Wo dein sanfter Flügel weilt...”.

Tutti si unirono al coro, presi da una sensazione di serenità indescrivibile, ognuno nella propria lingua, e si concessero il piacere di immaginare un'Europa, anzi un mondo intero, che si reggesse in armonia sulle stesse basi proposte dall'inno; un sogno inebriante e celestiale.

Sempre in preda alla frenesia, Kakuzu riempì il bicchiere e lo levò in alto:“Signori, alla gioia! Possa essa entrare nel cuore di ogni uomo e regalarci un'Europa diversa, senza più guerre!”.

Mentre la canzone si diffondeva fino al soffitto decorato, tutti brindavano felici: in quell'estasi paradisiaca non avrebbero mai potuto immaginare un mondo diverso da quello sperato.

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