Black Hole (Ispirato a Pokémon Bianco)

di Castiga Akirashi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 33 ***
Capitolo 34: *** Intermezzo: Amicizia ***
Capitolo 35: *** Capitolo 34 ***
Capitolo 36: *** Capitolo 35 ***
Capitolo 37: *** Capitolo 36 ***
Capitolo 38: *** Capitolo 37 ***
Capitolo 39: *** Capitolo 38 ***
Capitolo 40: *** Capitolo 39 ***
Capitolo 41: *** Capitolo 40 ***
Capitolo 42: *** Capitolo 41 ***
Capitolo 43: *** Capitolo 42 ***
Capitolo 44: *** Capitolo 43 ***
Capitolo 45: *** Capitolo 44 ***
Capitolo 46: *** EPILOGO ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


“Sono passati solo sei mesi… e già mi manca. Vederlo, anzi vederli, andare via così, affranti e abbattuti, è stato terribile. Anche Zekrom prova questo senso di vuoto. Per lui è naturale: lo Yin senza lo Yang non è nulla... non può esistere.
Mentre nel mio caso… beh, anche N, come me, ha conosciuto la crudeltà umana. N, però, solo il lato negativo, con Geechisu che gli portava solo Pokémon abbandonati o maltrattati, mentre io li ho conosciuti entrambi. Ricordo come se fosse ieri l’ultima frase che mi disse prima di salutarci; dopo lo scontro finale, dopo che gli avevo dimostrato che Pokémon e umani potevano vivere fianco a fianco in assoluta parità. Disse che, al nostro primo incontro, era rimasto scioccato perché il mio Pokémon gli aveva detto di voler restare con me. Mentre lui aveva ben altre convinzioni.
E ora, spesso, mi capita di guardare Maru, ringraziandolo di quelle parole che disse a mia difesa quando era solo un piccolo Oshawott.
I miei amici Pokémon hanno dato sempre il massimo nelle lotte; anche quando Nardo ci ha distrutti alla Lega Pokémon di Isshu. N, probabilmente, mi avrebbe presa in giro, se lo avesse saputo. Lui aveva battuto Nardo, io avevo sconfitto sia lui che Geechisu per poi perdere miseramente contro il Campione. Forse non ero concentrata. Non so. Ma almeno ci ho provato.
E ora non so cosa fare.
Faccio andare avanti i giorni senza uno scopo, osservando la vitalità di Belle e il Dottore, che non stanno mai fermi. I miei due amici, gli unici, oltre ai miei Pokémon. E N, naturalmente. L’unico che mi capisca davvero.
Ormai nemmeno lottare serve. Non mi da più quell’entusiasmo che mi dava una volta. Prima non andavo solo a caccia di Medaglie, volevo anche far capire a N che si sbagliava. Che era sbagliato separare con la forza umani e Pokémon. Ma, ora che è tutto finito...”
Lo sbattere violento di una porta interruppe il filo dei suoi pensieri. Spostando lo sguardo dal cielo terso in cui si era immersa, la prima cosa che vide fu l’arancione fluorescente della camicetta di Belle, la sua migliore amica, all'altezza degli occhi. Dietro di lei, vestito con un completo blu scuro a contrasto con la frizzante ragazza, c’era anche Cheren, l’altro amico di entrambe, che le si piazzò davanti con uno sguardo deciso e chiese, secco: «Castì! La fai una lotta?»
«Eh?» chiese lei, comodamente seduta su una panchina nel prato fuori dal laboratorio Pokémon di Soffiolieve, con nessuna voglia di alzarsi e fare una cosa così psicologicamente pesante come lottare.
Lui non perse tempo e, ignorando la sua espressione svogliata, insisté: «Ti sto sfidando!»
«Ancora?» replicò lei con la sua voce come sempre glaciale, usando il nomignolo che proprio lei aveva coniato: «Ma non ti stufi mai di perdere, Dottore?»
«Dai, Castì... lo sai che insiste finché non gliela dai vinta.» disse Belle, alzando gli occhi al cielo, ma non smettendo mai di sorridere. Lei non era mai triste, neanche quando combinava guai per la sua perenne testa tra le nuvole. E vedeva sempre il bicchiere mezzo pieno.
«Va bene.» si arrese lei, scuotendo i corti capelli rossi per levarsi dalla testa quei pensieri nostalgici e alzandosi da quella comoda panchina assolata.
Castiga fissò l’amico con un freddo e penetrante sguardo colore del fuoco, andarono nel campo lotta e lo scontro cominciò.
“Belle e il Dottore li conosco da tre anni. Stranamente, mi sembrava di averli già visti quando li ho conosciuti. Sarà stato un deja-vu, a volte capitano. Comunque sia, loro sono le uniche due persone che non guardano la fedina penale della gente che incontrano. O forse sono ancora due piccoli ingenui per avere dei sospetti. Ma vanno bene così.
Quel giorno... lo ricordo bene. È impresso a fuoco nella mia mente.
Noi, il grande Team Rocket, venimmo completamente distrutti. E noi fratelli tenenti non venimmo risparmiati... anzi. 
La mocciosa e la sua banda arrivarono. Li aspettavamo, ma non così presto e non con al seguito il Campione di Johto e Kanto, Lance.
Non avrei mai pensato di vedere i miei amati Pokémon soffrire così.
Fu un duro colpo. Ci mandarono al tappeto e ci arrestarono. I miei fratelli vennero rinchiusi ma io scappai. Tentai di nascondermi nel Monte Scodella per riprendermi, inventare un piano e far riposare i miei amici. Ma ci trovarono subito.
Loro... loro lottarono come belve per difendermi e a uno a uno perirono nello scontro.
Io li ricorderò per sempre… sono una parte di me.
Distrutta da una sensazione orribile, una cosa che mai avevo provato, che nemmeno pensavo esistesse, riuscii comunque a fuggire e mi imbarcai clandestinamente sulla prima nave che vidi. Non sapevo dov’era diretta e, francamente, non mi interessava.
Ero sola ormai. Senza di loro, mi sentivo persa.
Arrivati a destinazione, aspettai che se ne andassero tutti e poi scesi senza farmi vedere.
Grazie a un cartello “Benvenuti a Isshu”, capii dove ero finita. Isshu... una regione lontana da Sinnoh, figuriamoci da Kanto. Forse qui non mi conosceva nessuno. Ero stanca, ferita e disperata, e così svenni. Nel porto. Bella figura.
La grande e terribile Athena... il Demone Rosso che sviene come una novellina qualunque...
Mi trovò una ragazzina bionda di circa quattordici anni, uno in meno di me. Era Belle ed era accompagnata dal suo Tepig, preso da poco al laboratorio della sua cittadina. Non sapendo che fare, suppongo, andò a chiamare l’amico Cheren, sedicenne occhialuto, che arrivò con il suo Snivy.
I due ragazzi mi portarono nel parco lì vicino, curandomi le ferite. Anche se quelle erano poco a confronto della ferita maggiore, che allora non conoscevo. La ferita subita dal cuore.
Quando rinvenni stavano facendo una lotta di allenamento. Li vidi fare le prime mosse e rividi i volti della mia squadra, uno a uno.
Mi tornò quella terribile sensazione dentro al cuore. Non l’avevo mai provata prima, mai.
Dolore lo chiamano.
Dolore.
Loro non c’erano più.
Qualcosa di caldo e salato uscì dai miei occhi. Lacrime?
Allora, ancora non lo sapevo. Non mi era mai successo, in tutta la vita. Era una cosa nuova. Nuova e terribile.
Belle mi vide e mi si avvicinò. Vedendo come ero crollata, tentò di consolarmi, dicendomi che ero al sicuro con loro. Ma io non davo segni. Ripetevo solo i nomi dei miei Pokémon, come un disco rotto, sperando di vederli arrivare da me. Speravo di vedere Pidg venirmi incontro e dirmi che andava tutto bene.
Due anime, una cosa sola... lo diceva sempre...
Belle non sapeva cosa fare, così mandò il Dottore a chiamare la professoressa Aralia, la studiosa di quella regione.
La donna arrivò di corsa e quando mi vide sbarrò gli occhi. Era una donna sui trent’anni, appena laureata, capelli castani tenuti legati da una coda, occhi verde acqua e sguardo intelligente. Indossava il camice da professoressa con la minigonna. Un bizzarro assortimento. Mi viene ancora da ridacchiare se penso alla reazione che ebbe. Spalancò le braccia davanti ai due ragazzi e li fece arretrare di almeno tre metri buoni.
Quando fu sicura che fossero distanti, mi chiese cosa volessi.
Il suo tono era spaventato, ma cercava di farmi paura.
Illusa. Volevo alzarmi e fare a modo mio, dimostrarle cosa vuol dire fare davvero paura. Ma quella sensazione che provavo dalla morte dei miei Pokémon, mi teneva come bloccata.
Guardai la studiosa con uno sguardo spento, pieno di un dolore fuori dal comune. Probabilmente lei vide la sofferenza nei miei occhi, perché abbandonò la difensiva.
La professoressa mi conosceva, sapeva chi ero, di cos’ero capace. Ma decise comunque di tenermi con sé. Ancora non ne capisco la ragione.
Mi portò a casa sua, sopra il laboratorio Pokémon, nel paese di Soffiolieve, la “Crocevia dei Destini”, citando il cartello di benvenuto della città; era una tipica cittadina di esordio per i giovani allenatori. Mi accompagnò nella stanza degli ospiti e fuggì, urlandomi gli orari di pranzo e cena. Una volta sola, mi voltai e vidi uno specchio. Mi avvicinai, lentamente, e quella R rossa mi strinse il cuore. Non volevo più quella dannata divisa bianca. Nell’armadio trovai dei vestiti... di quella donna probabilmente. Li tirai tutti fuori e mi cambiai con quelli che mi parevano più comodi: una camicia e un paio di jeans, ai quali misi una cintura per il pugnale. Se la donna mi avesse detto qualcosa, me ne sarei andata, per cercare di farla finita. Ma lei non disse nulla. Non avevamo quasi contatti e a me andava bene così. Preferivo da sempre stare per conto mio, con la gente lontana. Dopo la scomparsa dei miei Pokémon, nulla aveva più un senso. Avevo anche tentato di uccidermi, per raggiungerli, ma la prof mi aveva fermata in tempo. Mi teneva d’occhio. Ovvio che non si fidasse.
E io mi resi conto che era un gesto inutile. Io sarei andata in un posto diverso dal loro.
Nelle Fiamme.
Mentre loro... nel Cielo.
Perché la cattiva ero io. Loro non erano mai stati cattivi.
Aurea, questo è il nome della studiosa, non cercava di parlarmi o di avere contatti con me, e io non provavo ostilità nei suoi confronti. Nemmeno quando mi impediva il suicidio. Forse perché nemmeno uccidere quella donna mi avrebbe dato sollievo da quel dolore. Perché quella sensazione non era la rabbia.
Ne ero consapevole.
Così me ne stavo in disparte, pensando a niente, e assaporando quel dolore che lentamente mi corrodeva l’anima.
E un giorno, in quello stato di quasi trance, arrivò la mia salvezza.
Un sibilo, alle mie spalle. Lo sentii distintamente. Giovanni mi aveva addestrata bene.
Spostai la testa di lato e una lama d’acqua mi passò accanto all’orecchio destro. La presi con la mano, tagliandomi, e disarmai il mio aggressore. Voltandomi velocemente lo colpii con un calcio, facendo volare a terra un piccolo Oshawott, un Pokémon d'acqua azzurro simile a una lontra.
Il Pokémon mi guardò, ammirato e sbalordito, ma io lo fissai gelida. Odiavo essere sfidata, ma l’espressione della professoressa Aralia mi fece passare la voglia di infierire. Che poi, pensandoci bene, fare del male a un Pokémon non era nel mio stile. Non l'avevo mai visto, ma ero certa che quella creatura fosse un Pokémon.
Mi voltai e me ne andai, tornando a guardare l’orizzonte, persa nei pensieri, nei ricordi, nel dolore.
Lui mi inseguì per fare amicizia, mi passò davanti e mi tese la zampa ma io lo guardai indifferente, andandomene ancora. Lui rimase lì, deluso, a zampa tesa.
L’Oshawott non si diede per vinto. Gli stavo simpatica e voleva ad ogni costo starmi vicino, aiutarmi a mandare via quella sofferenza. Alla fine ce la fece. In tutti i sensi. Io, però, lo capii molto più tardi.
Ero sul tetto del laboratorio e lui mi raggiunse. Ma aveva uno scarsissimo equilibrio, così scivolò e cadde di sotto.
Io mi lanciai, d’istinto, e lo presi al volo, aggrappandomi alla grondaia. Lo tirai su, mi tirai su, mi sedetti e lo misi sulle mie gambe.
«Sei una sciocca lontra… potevi farti male, sai?» gli dissi.
Lui mi guardò con uno sguardo fiero e si batté il piccolo pugno sul petto, dicendo: *«Un voletto da niente!»*
Io alzai gli occhi al cielo, lo posai sulle tegole, feci per alzarmi e andarmene ma una voce disse: «Perché non lo accetti?»
Io, impassibile, le risposi: «Perché non lo voglio.» e tornai nel laboratorio.
Oshawott ci rimase molto male, ma la prof si era arrabbiata. Quella sera a cena, mi rivolse la parola. Era strano, non l’aveva mai fatto. E mi stava addirittura sgridando. Intollerabile.
Cercai di mettere più cattiveria possibile nelle parole, per convincerla a lasciarmi in pace. Ma nulla. La aggredì addirittura, ma lei riuscì a sconvolgermi.
Tempo dopo, la sua pazienza venne premiata. Riuscì a farmi parlare e io scoprii che mi sentivo meglio se le raccontavo i miei stati emotivi. Accettai l’Oshawott e così, qualche tempo dopo, partì per un viaggio a Isshu con il nome di Castiga, i capelli più corti e un nuovo abbigliamento per non farmi riconoscere, insieme a un piccolo Pokémon felice, Maru l’Oshawott.
Poco dopo si unirono a noi anche Belle e Cheren.
Ma ora che il viaggio è finito non so proprio cosa farò in futuro.”
«Finiamola qui… vai Hoshi! Usa Nitrocarica!» esclamò Castiga, mandando KO il Serperior di Cheren.
Lui fece rientrare il suo verde serpentone con un raggio rosso nella sua ball e si lamentò, seccato e frustrato dall’ennesima sconfitta: «Non ti batterò mai!»
«Mai dire mai…» gli rispose la ragazza: «Adesso sei contento?»
«Sarò contento solo quando riuscirò a sconfiggerti, maledizione!» replicò lui furioso, mentre Belle urlava e inseguiva il suo baschetto verde fluo decollato per una folata di vento.
«Allora preparati alla tristezza eterna!» ghignò l’avversaria, andando a fare qualche carezza a Zekrom, il nero e leggendario drago degli ideali.
Si rimise sulla sua panchina, notando che ancora il sole batteva su quella zona, e si preparò a tornare ai suoi pensieri, ma venne ben presto raggiunta dalla professoressa Aralia che le arrivò vicino sogghignante ed esclamò: «Ehi, Athena! Che cosa hai fatto a Cheren? L’ho sentito imprecare!»
Castiga alzò le spalle, si voltò a guardarla e rispose: «Semplice prof... ho vinto! Insiste nel lottare e poi perde!»
Aurea sorrise ma guardandola negli occhi, vide quel che più la tormentava. Sospirò e buttò lì: «Sono passati tre anni... eppure quello sguardo tetro e nel contempo triste non vuole sparire.»
«Cosa vuole che le dica... c’è sempre stato e non credo se ne andrà molto presto.» rispose la ragazza, alzatasi per dare un po' di erba a Hoshi, la sua Zebstrika.
La prof la osservò accarezzare la zebra e disse: «Però, tutto sommato sono contenta!»
«Per cosa?» le chiese distrattamente Castiga.
La donna indicò tutti i Pokémon lì presenti, che sempre attorniavano la loro allenatrice, e rispose: «Sguardo triste o no, almeno hai accettato loro. Non ti sei chiusa in te stessa come credevi.»
«Sì, forse. Ma vivo nel terrore che...» cominciò a obbiettare lei, ma Aurea non le permise di dire niente: «Nessuno, qui a Isshu, ti vuole così male da ucciderli. Lance non è qui, Lance non può più farti nulla. Perché, invece, non vai a Kanto a cercare un loro ricordo? Dopotutto sei cambiata molto da allora… tre anni sono sempre tre anni, soprattutto per un’adolescente. Non ti riconoscerà nessuno, vedrai!»
Athena sospirò e replicò: «Non so... non essere lì mi ha aiutata a superare il lutto.»
«Questo è l'ultimo passo.» mormorò la donna, mettendole una mano sulla spalla: «Se riuscirai a stare in posti che te li ricordano senza crollare, vorrà dire che l'avrai superato veramente e potrai passare oltre.»
La ragazza ci pensò su un po’, ma si decise. Montò su Wargle, il suo forte Braviary, e partì verso Kanto, la sua regione natale, con Zekrom al seguito.

 

~§~


INTERMEZZO: LA NUOVA VITA

La ragazzina era appena arrivata al laboratorio e la professoressa Aralia era inquieta. Aveva deciso di tenerla con sé per vedere se riusciva a renderla più umana, ma ora, cominciava a pensare di aver fatto una sciocchezza.
Era terrorizzata da quella quindicenne, tetra e inquietante. Le bastava solo vedere quello sguardo rosso e assassino per starle alla larga. In più, aveva quel pugnale che non abbandonava mai, che lucidava e affilava tre volte al giorno. Come avrebbe fatto a vivere per sempre con lei?
“Come farò con quella bestia in casa? Devo stare molto attenta…” pensò, impaurita. Si maledisse per quella balzana idea che le era venuta in mente dopo aver visto due lacrime che potevano benissimo essere finte.
Il suo laboratorio era a Soffiolieve, una città tranquilla. Era un enorme fabbricato, costruito su due piani. Al piano terra c’era il laboratorio Pokémon, con tutti gli strumenti e i macchinari per lo studio delle creature, mentre al piano superiore c’era un piccolo appartamentino, con due stanze, un bagno e un piccolo soggiorno-cucina.
La donna aveva accompagnato l’ospite, se così si può definire, alla seconda stanza, quasi tremando, e poi era fuggita a gambe levate, dicendole l’ora di pranzo e cena mentre correva. E la convivenza era cominciata. Di giorno, la studiosa stava sempre con tutti i sensi all’erta mentre la sera stendeva la ragazza con il sonnifero, messo nell’acqua prima dell’ora di cena. Doveva almeno dormire senza paura, si disse, quasi per giustificare quell’atto.
Athena però non sembrava ostile; se ne stava sempre in disparte, persa, guardando l’orizzonte, e, delle volte, cercava di uccidersi, ma veniva fermata in tempo. Ma neanche questo l'aveva mai spinta ad attaccare.
La donna faceva pranzo e cena ad un’ora precisa e Athena era incredibilmente puntuale. Spaccava il secondo ogni volta. Mai un anticipo, mai un ritardo. Precisa come un orologio. Cosa che incuriosiva non poco la studiosa che però non si azzardava a fare domande. Aveva paura che rompere quel silenzio potesse segnare la sua condanna a morte.
Nel poco tempo che la vedeva, però, Aurea cercava di osservare la ragazzina senza dare nell’occhio, quasi con curiosità. Aveva saputo della morte dei suoi Pokémon e non si capacitava di quel profondo dolore che vedeva. Athena aveva commesso omicidi su omicidi, torture su torture. Come poteva essere così immensamente triste e addolorata?
La studiosa l’aveva vista all’opera in passato, quando studiava da Oak. Lui era lo studioso Pokémon della regione di Kanto, un uomo piuttosto anziano ma molto energico, con dei corti capelli bianchi e l’espressione severa. Indossava sempre il camice sopra varie polo colorate e i pantaloni marroni.
In realtà, Aurea aveva visto ben poco di quello che poteva realmente fare il Demone Rosso, visto che non c’erano state vittime. Ma le era bastato.
Una dodicenne. Era arrivata senza reclute, senza scorta. Lei e Pidg, il suo fedele Pokémon volante. Non si era dilungata in discorsi. Era entrata, scardinando la porta, e aveva detto: «Qui tutti i Pokémon di questo posto. Subito.»
Aveva un tono di voce duro, cattivo, lo sguardo gelido era crudele, velato di ira malcelata.
Aralia non aveva mai visto il professor Samuel Oak impaurito, ma quel giorno era terrorizzato. Aveva ordinato a lei di nascondersi e non farsi vedere per nessuna ragione e aveva aspettato, solo, la bestia, dopo averla vista arrivare dalla finestra. Quando lei era irrotta, Aurea avrebbe voluto aiutarlo, ma ricordandosi l’ammonimento dell’uomo, era rimasta al suo posto, osservando tutto ciò che stava accadendo.
Mentre Athena esaminava il laboratorio con lo sguardo, soffermandosi un po’ troppo sul nascondiglio di Aralia, Oak si era opposto, dicendole che non aveva alcun diritto di prendersi i loro Pokémon; Aurea era sbiancata. Quella ragazzina, alta solo un metro e trenta, aveva preso l’uomo per il colletto della polo, puntandogli un, anzi quel pugnale alla gola, e aveva detto gelida: «O fa quello che ho detto, o... può dire addio a questa baracca. Con tutto il contenuto.»
Sembrava avesse cambiato la frase all’ultimo istante, come se potesse fare solo quello.
Poi, aveva preso una ball e fatto uscire un Charizard enorme, con una benda sull’occhio sinistro e una cicatrice sul destro, che si era messo a ringhiare, per sottolineare che facevano sul serio.
Oak aveva scosso la testa e lei aveva sbottato, seccata: «Ringrazia che non ti posso uccidere.»
L’aveva lasciato andare e poi era uscita dal laboratorio.
Sia il professore, che Aralia dal suo nascondiglio, l’avevano osservata contare i passi, voltarsi e dire:
«Fiamma. Brucia questa catapecchia.»
Il Charizard si era voltato, creando delle vampe di fuoco tra i denti, pronto a lanciare una potente fiamma dalle fauci spalancate.
Oak era corso fuori, dicendo: «Va bene va bene… hai vinto.»
Con un ghigno di crudele vittoria, la ragazzina aveva interrotto l’offensiva. Con infinita pazienza, aveva aspettato che lui tornasse con una borsa piena di Pokéball e l’aveva presa quasi con indignazione che non sfuggì all’attenta Aralia. Poi, se n’era andata senza nessun'altra minaccia.
Così, la donna si trovava a rimuginare su ciò che vedeva e ricordava, senza capire, mentre la guardava dormire un sonno senza sogni.
Un paio di giorni dopo, si decise; prese la cornetta, fece il numero e, accostando il ricevitore all’orecchio, attese.
«Pronto?» rispose una voce.
La donna fece un respiro profondo, per calmare i nervi, e poi salutò: «Professor Oak... salve. Si ricorda di me? Sono Aurea Aralia!»
«Salve, collega!» replicò Samuel Oak, il ricercatore della regione di Kanto: «Come stai?»
«Bene, grazie.» replicò imbarazzata lei; era strano sentirsi chiamare così dal suo mentore e maestro: «Anche lei spero…»
«Certamente. A cosa devo questa chiamata?»
Cominciando a balbettare dall’ansia di far trapelare qualcosa di compromettente, Aurea disse: «Ecco vede... ho sentito della disfatta del Team Rocket e...»
«Una grande notizia!» esclamò lui, senza nascondere la felicità che provava dopo anni di terrore: «È arrivata fin da voi quindi? Kanto e Johto sono in festa! Dopo il ritorno di quelle quattro bestie demoniache credevamo davvero che non saremmo sopravvissuti!»
«Certo, certo.» quasi sminuì la donna, volendo tagliare tutti i convenevoli e andare dritti al sodo: «Volevo chiederle... cosa sa di preciso del Demone Rosso?»
Oak si fece perplesso, per via della strana domanda, e chiese: «Perché mi fai questa domanda, Aurea? È successo qualcosa?»
«Oh no! Solo semplice curiosità!» rispose lei, con una nota di imbarazzo nella voce e il panico nel cuore.
Se avessero saputo che stava nascondendo il terrore di Kanto e Johto, sarebbe scoppiato un putiferio e la sua credibilità come retta e onesta studiosa Pokémon sarebbe andata miseramente in briciole.
Il professore fece ancora una pausa, nella quale Aurea temette il peggio, ma poi, con un sospiro e un po’ di terrore, rispose: «Quella era la più piccola e la peggiore. Lance ha affermato di averla uccisa con le sue mani. Che coraggio! Uccidere quel mostro deve essere stata un impresa degna di un eroe. E come tale sarà acclamato, il nostro Campione! Comunque... quella belva non ha, anzi non aveva, sentimenti. Non credo nemmeno sappia cosa siano. E lo sai anche tu Aurea com’era fatta. Uccideva a vista. Ti basti sapere questo.»
Lei annuì ma replicò: «Sì, lo so, però... sembrava legata da vero affetto ai suoi Pokémon.»
«Devo darti ragione.» ammise Oak, forse un po’ controvoglia: «Sai, io e il prof Elm, lo studioso di Johto, abbiamo supposto che fosse affetta da psicopatia.»
«Cioè?»
«Non è capace di provare sentimenti, ma forse può crearne dei surrogati, razionalizzando quello che succede.» le spiegò semplicemente l’uomo: «Credo abbia deciso che i suoi Pokémon erano importanti e quindi doveva difenderli, ma senza provare realmente affetto... anche se queste sono solo teorie. E di certo, come non si poteva chiederlo direttamente a lei allora, non si può fare adesso che non c'è più.»
«Capisco…» annuì la donna, pensando a un modo per chiudere il discorso e attuare il piano; avuta l’illuminazione, esclamò, con un finto tono di stupore: «Oh! Un nuovo allenatore! Mi scusi professore, ma devo lasciarla! Mi stia bene!!»
Cinguettante, chiuse la chiamata, sperando di non avere destato sospetti, agganciando forse con troppa forza il ricevitore. Poi, si perse a pensare, togliendosi il camice per cambiarsi e andare finalmente a letto: “Razionalizzare ciò che le sta intorno... Ora è KO con il sonnifero, ma devo almeno tentare.”
L’occasione si presentò con un piccolo Oshawott ribelle, che rifiutava ogni allenatore presentatogli. La professoressa osservò inorridita l’indifferenza con cui la ragazza aveva fermato l’attacco dell’Oshawott e gli aveva tirato un calcio. Nessun rimorso, nessuna pietà. Notò anche che Athena non aveva infierito notando la sua espressione e se n’era andata.
Aurea soccorse il Pokémon, ma lui, testardamente, si rialzò e inseguì la ragazza. Restò, però, molto deluso dall’indifferenza di colei che voleva come partner, ma non si arrese. Aveva ostinazione da vendere. E tentò per due settimane di fare colpo: sorrisi, aiuti, scherzetti innocenti, occhi dolci… ma nulla. Lei restava impassibile. Sembrava che nulla potesse scalfire il suo cuore ghiacciato.
E infine, quasi si ammazzò sul tetto del laboratorio.
Aurea l’aveva visto cadere con un misto di orrore e senso di colpa, ma poi, con meraviglia, aveva visto la ragazzina prenderlo al volo e salvarlo da morte certa. Nemmeno Athena sapeva perché lo aveva fatto. Oshawott si riempì di speranza dopo quel gesto, ma venne subito declassato da quel: «Non lo voglio.».
Il piccolo Pokémon, affranto, la guardò andare via, ancora.
La professoressa era furibonda. Rischiava moltissimo, ne era consapevole, ma non ce la faceva più a vedere la sofferenza di quel piccolino. E così, durante la cena, quando lui venne brutalmente ignorato mentre cercava di aiutare la ragazza, portandole le posate, esplose: «Insomma, Athena! Possibile che tu non veda quanto sta male quel piccolo Pokémon?!»
L'aveva visto uscire talmente giù di corda che non se l'era sentita di chiudere gli occhi un'altra volta.
Athena alzò appena lo sguardo dal piatto, accigliata e leggermente stupita dal fatto che la donna le stesse parlando.
«No.» rispose secca per poi riprendere a mangiare come se nulla fosse, ritornando a fissare il piatto.
Quella era una delle rare volte in cui la scienziata si azzardava a parlarle e quel tono gelido, quello sguardo ghiacciato e cattivo, la fecero rabbrividire.
Ma non doveva mollare, così replicò: «Mi stai dicendo che non te ne frega niente?!»
«Esattamente.»
Aurea non sapeva cosa rispondere. A quanto pareva, Oshawott le era totalmente indifferente.
«Però i tuoi defunti Pokémon non erano così poco importanti, eh?!» incalzò, anche se il buonsenso le consigliava di lasciar perdere.
La ragazza alzò di nuovo lo sguardo, irritata da quel tono e dal discorso a prescindere, e rispose: «Non parli di cose che non sa.»
La donna sostenne lo sguardo, anche se sotto, sotto tremava, e ribatté: «È vero, non so... ma mi chiedo come abbiano fatto a starti così a cuore.»
«Non sono affari suoi.» tentò di chiudere il discorso Athena, giusto per non perdere le staffe e perdere il vitto e alloggio gratis che aveva ottenuto senza fare niente.
Aurea decise di rischiare il tutto per tutto, consapevole che si stava scavando la fossa con le sue stesse mani.
«Probabilmente erano pazzi anche loro...» buttò lì, con una punta di simulato disprezzo: «Folli Pokémon pazzi che si sono meritati la fine che hanno fatto.»
La reazione fu quella che si aspettava: la ragazzina le saltò alla gola come una belva, gli occhi rossi accesi dall’ira, e la sbatté contro il muro, premendole la lama del pugnale alla gola.
«Non osare mai più parlare di loro in quel modo.» minacciò, con la voce vibrante di rabbia.
Aurea aspettò a tirare fuori la siringa con il sedativo. La guardò dritta negli occhi, decisa, e con il fiato mozzo, mormorò: «Mi chiedo come abbiano fatto a volerti bene... sei solo un animale.»
Lei ringhiò, mantenendo chissà come il controllo delle sue azioni: «Si sbaglia. Io non sono un animale... sono molto, molto peggio.»
La donna tossì, senza fiato e terrorizzata, ma rispose: «Non riesco a capire... tu non provi sentimenti. Cosa ti lega a loro? Tu non sei capace di amare, perché ti arrabbi tanto?»
La ragazza rimase colpita da quelle domande e lasciò andare la donna. Lei si massaggiò il collo, pensando: “Incredibile. Ha funzionato.”
Cercando di controllare il tono di voce, che tremava dalla paura, disse: «Ascolta, perché non parliamo un po’? Aiuta molto a comprendersi...»
Lei non rispose, prese il bicchiere dove la scienziata aveva messo il sonnifero di nascosto e lo bevve in un sorso. Poi se ne andò via, lasciando però lì la sua arma. La donna osservò quella lama, con paura e riverenza... aveva fatto scorrere tanto di quel sangue... osservandola con curiosità, dovette ammettere che era un’arma molto bella, quanto pericolosa. L’elsa era rivestita di cuoio, la lama era doppia: due fili incassati l’uno nell’altro, più spesso al debole e più fine al forte. Lo prese e lo mise fuori dalla porta della stanza. Doveva restituirlo, anche se rischiava di morire proprio a causa di quella lama ogni giorno.
Da quella sera, ogni volta, a cena, Aurea tentava di fare conversazione, di farla parlare un po’. Le chiedeva se le piaceva la cena, cosa avesse fatto il pomeriggio… cose futili, di poca importanza.
All’inizio, Athena non era molto dell’idea e si chiudeva in un ostinato silenzio, ma poi, sera dopo sera, cominciò ad aprirsi pian piano. La professoressa aveva una pazienza pressoché infinita e non la spaventava aspettare i suoi tempi. Aveva visto che come carattere era molto chiusa e solitaria, tetra e delle volte quasi cattiva. Ma aveva deciso cosa voleva fare e non voleva cedere. Doveva solo essere calma e comprensiva. Quasi affettuosa. Ma soprattutto non doveva farla arrabbiare.
I loro discorsi si fecero sempre più lunghi, anche fino a sera inoltrata, finché la donna non volle porre domande più serie, per capire meglio la situazione; una sera, le chiese: «Dimmi una cosa… ti ricordi quando andasti al laboratorio del professor Oak?»
La ragazza si fece attenta e replicò: «E lei come fa a...»
«C’ero anche io ma non è questo il punto.» la interruppe la studiosa, con un cenno di noncuranza con la mano: «Mi chiedevo perché rubasti quei Pokémon... forse mi sbaglio ma, sono convinta di averti letto quasi indignazione nello sguardo quel giorno.»
Lei volse lo sguardo al muro, come persa nei pensieri, ma non rispose.
«A cosa pensi?» le chiese Aurea, un po’ titubante visto il silenzio ma convinta.
Athena borbottò di risposta, quasi parlando a se stessa: «Allora non sono pazza.»
La donna la guardò, inarcando un sopracciglio, e la ragazzina, alzato lo sguardo e notata l’espressione, accennò un sogghigno divertito e rispose: «Nel senso che intende lei forse sì, ma non quello che intendo io. L’avevo vista, maledizione! E ho pensato a un’allucinazione.»
Senza parole, la scienziata mormorò: «Che ... cosa?»
«Vediamo se ricordo bene…» continuò lei, pensando intensamente e bevendo un sorso d’acqua, guardando di lato: «Angolo sinistro, dentro a quell’armadio rosa shocking che stonava con il resto della stanza.»
La studiosa fu costretta ad annuire, colta in flagrante, e commentò, per sdrammatizzare e non svenire visto quanto aveva rischiato: «Il professore non ha mai voluto darmi retta! Quell’armadio era assolutamente da ridipingere.»
La ragazza allargò il suo mezzo sorrisetto e Aurea aggiunse: «E così mi sono nascosta così bene da ingannare perfino l’occhio del Demone Rosso. Questa è classe.»
«A quanto pare…» borbottò solo lei, tornando seria e nascondendo uno sbadiglio.
La donna vide che non sembrava particolarmente nervosa, così osò andare avanti, ponderando più che poteva le parole: «Però non ti andava, dico bene?»
Athena posò la guancia sulla mano, appoggiandosi al tavolo con il gomito e guardando di lato con gli occhi semichiusi; poi, rispose: «Il Grande Giovanni lo sa che non mi piace rubare. C’era tanta gente disponibile, eppure continuava a ordinarmelo.»
«Non ti piace rubare?» ripeté la studiosa, non comprendendo le parole che la ragazzina spiegò con un secco: «No. A me piace uccidere.»
Il sonnifero fece il suo lavoro e la quindicenne, posandosi al braccio, si addormentò profondamente. La donna la sollevò, prendendola tra le braccia, con la testa persa dietro a quello strano discorso. Comunque, aveva visto che con lei poteva parlare di tutto, bastava porre le domande giuste per non irritarla.
Passò il tempo e ogni sera parlavano sempre più di cose serie, che facevano lavorare la mente della donna su possibili risposte alle tante domande che la tormentavano. Come poteva Athena essere così? Tranne forse per la freddezza con cui la trattava, non sembrava minimamente la bestia che per anni aveva terrorizzato un intero continente. Com’era possibile? Doveva per forza esserci sotto qualcosa.
Così, una sera, preso il coraggio a due mani, o forse era solo pura incoscienza, Aurea si buttò, pronta a tutto, e chiese: «Vorresti... rispondere alla domanda che ti feci quella sera? Se non vuoi non ti obbligo, ma mi incuriosisce.»
Athena la guardò, adombrandosi di botto. Se era entrata nella stanza tranquilla, ora cominciava a farle paura. Aurea sedette, deglutendo e sperando di non venire uccisa. Con uno sguardo del tutto poco amichevole, la ragazza fece altrettanto e chiese: «Perché le interessa?»
La scienziata deglutì, ma puntò tutto sulla sincerità; non sapeva se avrebbe retto un’altra aggressione ad arma tesa, ma confidava nel forse fragile ma comunque esistente rapporto che avevano instaurato negli ultimi tempi: «Vorrei saperne un po’ di più, tutto qui. Per conoscerti meglio e capire.»
Lei la fissò, gelida, non molto propensa al dialogo. Però, forse, quella donna poteva darle una risposta a quel male strano e interiore che subiva da troppo tempo. Così, sbottò: «Non lo so cos’è… ma sentivo che dovevo proteggerli. Che loro potevano starmi vicino. Che a loro potevo dire tutto, fare qualunque cosa e non mi avrebbero mai abbandonata. Erano la mia famiglia.»
Aurea annuì interessata e chiese: «E quando, invece, se ne sono andati? Si è semplicemente “disattivato” questo ordine inconscio?»
La ragazza scosse la testa e rispose: «È stata una cosa strana… non avevo mai provato quella sensazione.»
«Descrivimela.»
Lei si toccò la pancia e borbottò: «Era come un groppo qui, in fondo allo stomaco… ma questo non ha basi scientifiche. Conosco il corpo umano come le mie tasche e non è una cosa normale.»
«Vai avanti.» incoraggiò la studiosa.
«Questa specie di nodo non si è sciolto ma si è spostato qui, sul cuore. E poi.. ho cominciato a piangere. Non mi era mai successo. Non sapevo nemmeno cosa volesse dire “piangere”.»
Aurea non poté non sorridere a quel tono di voce. Era diverso dal gelido e distaccato che aveva sempre. La ragazza sembrava davvero preoccupata per quel malore che non conosceva e del quale probabilmente aveva un po’ di timore. Le faceva quasi tenerezza ma non reputò opportuno dirlo. Si limitò invece a rispondere ai suoi dubbi: «Questo, Athena, si chiama dolore. È un’emozione...»
Perplessa, lei chiese: «Una… cosa?»
«Un’emozione.» ribadì la studiosa, cercando di farle capire che non si stava inventando le cose per confonderla: «Sono delle sensazioni forti, molto forti che invadono l’animo umano. Tu ne hai mai provate?»
Lei inarcò un sopracciglio: «Prima d’ora… no. Se non... la rabbia.»
«Rabbia?»
Athena annuì e aggiunse: «Sì. Quella sì. Ma solo quella.»
«Non provavi niente nemmeno quando hai commesso... quello che hai commesso?» chiese nuovamente la studiosa, cercando di capire meglio. Sapeva che spesso il Demone scattava rabbiosa alle provocazioni, ma da come ne parlava la ragazzina, sembrava fosse più frequente di quanto pensasse.
Lei rispose, indifferente: «No. Uccidere mi da solo un po’ di adrenalina in più. Niente di che in verità… mi diverte e basta. E mi aiuta a sfogare la rabbia. Sto meglio, dopo. Sempre.»
Il tono incolore e lo sguardo impassibile fecero venire i brividi alla studiosa. Ma la ragazza, presa dal discorso, andava avanti imperterrita, guardando di lato, persa nei ricordi: «Forse quando ho fatto a pezzi un uomo con un taglierino, è stato diverso… mi sono davvero arrabbiata, ma era perché avevo sbagliato l’inclinazione della lama. Ha cominciato a sanguinare che pareva un idrante. Un errore che potevo anche risparm…» si bloccò di colpo vedendo la faccia di puro orrore dipinta sul volto della donna.
Interdetta, la ragazza la guardò leggermente perplessa, dato che non la stava minacciando e quindi non avrebbe dovuto teoricamente avere paura di nulla.
Aurea fece un respiro e chiese: «Ma… ma… non provi un po’ di rimorso?»
«Rimorso? Cos’è?» domandò invece di rimando lei, perplessa da tutte quelle strambe parole mai sentite che stavano saltando fuori da quella conversazione.
«Quando senti di aver fatto qualcosa di sbagliato.» rispose prontamente la donna.
Athena scosse la testa e ribatté, quasi a macchinetta: «Non esistono il giusto e lo sbagliato… esiste solo il potere e chi è abbastanza forte per averlo ed esercitarlo.»
Sembrava quasi una frase imparata a memoria; la professoressa soppesò quelle parole e chiese: «Chi ti ha detto questa frase?»
«Il Grande Giovanni.»
Aurea immaginava quella risposta, così la fissò con intensità, cercando di far trasparire anche le emozioni, oltre alle parole, e cominciò, dicendo: «Ascolta Athena; se me lo permetti vorrei dirti una cosa.»
Lei la guardò con curiosità, così la donna si fece coraggio; o la va, o la spacca, si disse, per convincersi del tutto a parlare: «Rispondi a questa domanda… a cosa ti ha condotto questa filosofia?»
«Al potere di fare quello che volevo o che mi piaceva.» rispose subito lei.
«Anche ora?» incalzò la donna, sottintendendo ciò che la ragazza capì, e che si affrettò a negare dicendo, più cupa di prima: «È stato Lance a ucciderli.»
Non volendo mollare la corda, volendo approfittare più che poteva della parvenza di dialogo, Aurea replicò: «Pensaci bene. Non ha cominciato lui.»
Athena provava parecchio rancore per il Campione e non voleva ammettere l’evidenza, continuando a scaricare la colpa su di lui. Ma Aurea non intendeva gettare ancora la spugna. La quindicenne si difendeva a parole, non era ancora passata alle mani, quindi poteva ancora stuzzicarla. Ovviamente non troppo. Riuscì però a metterla con le spalle al muro, costringendola ad ammettere, seccata e quasi sputando le parole:
«Ok. Ha ragione. È colpa mia se sono morti.»
«No, non ci siamo.» scosse la testa Aurea, sentendo il tono della sua voce: «Non voglio che tu me lo dica perché pensi che sia quello che voglio sentirmi dire. Dovrai esserne convinta.»
La ragazza borbottò qualcosa di incomprensibile, mezza seccata da quella forzatura, e la prof aggiunse: «Vorrei chiederti un’ultima cosa... poi ti lascio andare a dormire.»
Lei rivolse di nuovo l’attenzione alla donna, sperando non volesse ancora tormentarla con i fantasmi del passato. In quel caso, se ne sarebbe andata. Aurea respirò a fondo, poi chiese: «Perché hai salvato Oshawott?»
«Cosa?»
«Sul tetto del laboratorio... perché hai rischiato di farti del male per aiutarlo?»
Athena rimase un attimo interdetta, poi rispose: «Non lo so. O meglio... non me lo so spiegare.»
Ricominciando a toglierle le parole di bocca con la pinza, la studiosa chiese: «Cos’hai provato vedendolo?»
«All’inizio, quando l’ho visto zampettare verso di me, nulla.» rispose Athena, scrollando le spalle: «Ma poi la zampa gli è scivolata sulla tegola e ha cominciato a precipitare. Non so bene cosa mi sia preso, ma qualcosa nella testa mi ha detto di prenderlo. Istinto forse, non lo so.»
«Ma poi hai detto di non volerlo.»
«L’istinto era di salvarlo, nient’altro...» rispose con l’ennesima alzata di spalle la ragazza che poi si alzò e andò in camera. Aveva detto un'ultima domanda e poi sarebbe potuta andare; e così aveva fatto.
Aurea guardò la pastiglia di sonnifero e sorrise. No, non aveva più paura di lei, anche se non ne capiva il motivo. Quella chiacchierata le aveva aperto un mondo, nel quale, forse, Athena poteva essere una persona quasi normale e dove loro sarebbero magari potute essere almeno amiche.
Athena, però, ritornò poco dopo, dicendo: «Non per dire ma... si è dimenticata il sonnifero questa sera.»
La professoressa, che stava mettendo in ordine la cucina, la guardò, sconvolta e sbalordita, strappandole un sogghigno divertito; la ragazza si appoggiò allo stipite della porta, incrociando le braccia; fissandola con uno sguardo indecifrabile, aggiunse: «Oh... andiamo, non mi guardi così. Mi crede scema?»
Aurea avvampò e farfugliò cose senza senso, non sapendo cosa rispondere per essere stata colta in flagrante così; non si sarebbe mai aspettata che la ragazzina avesse già scoperto il suo trucchetto per dormire.
Il sogghigno della ragazza si fece più ampio; aveva qualcosa di assurdamente inquietante ma non era minaccioso. Solo molto, ma molto, divertito. Ancora ridacchiando, Athena disse: «Sarò pazza, ma di sicuro non mi manca la materia grigia. Non è da me dormire più dell’ora in cui sorge il sole e non mi era mai capitato di svegliarmi con un mal di testa cronico ogni mattina. Uno più uno fa due, cara professoressa...»
«Io... perché non...» farfugliò ancora la donna, formulando qualcosa che fosse simile a parole, ma la ragazza le completò la frase, non riuscendo a trattenersi dal ridere per la sua reazione esageratamente terrorizzata: «Gliel’ho detto? Be’ andiamo... lo so che non si fida di me. Ed è naturale. Un’animale non si sa mai come ragiona. Se, ragiona...»
Salutò con un tono di voce tetro, velato di minaccia: «Buonanotte...»
Se ne andò con un’occhiata e un ghigno del tutto poco rassicuranti. Anzi.
Aurea non riuscì a non rabbrividire. Quella ragazza era pericolosa, era evidente. Ma aveva deciso di darle fiducia.
Si divertiva a terrorizzare? Bene! Lei non avrebbe avuto paura.
Quella notte, Aurea andò a dormire molto tesa. Era la prima volta che non le dava il sonnifero e rischiava molto, la sua stessa vita. Ma, fiduciosa, si addormentò.
Quella stessa notte, un’ombra si aggirò per l’appartamentino sopra il laboratorio. Silenziosa e rapida, l’ombra arrivò nella camera della professoressa Aralia ed entrò. Due occhi rossi guardarono la donna dormire un sonno agitato, forse occupato da incubi. L’ombra si avvicinò al letto, fissando la donna ed estraendo un pugnale. La figura spostò i capelli della studiosa dalla giugulare con la lama, accarezzando il punto dove l’arteria carotidea pulsava di vita. Dopo qualche minuto, l’ombra uscì come nulla fosse.
La mattina dopo, Aurea si svegliò in un bagno di sudore.
“S-sono... viva!” pensò, quasi euforica. Non poteva credere che non le fosse successo assolutamente niente. Si vestì e uscì dalla stanza velocemente, dirigendosi verso quella dove dormiva Athena. Bussò ma non ottenne risposta. Pensando dormisse, aprì lentamente la porta, cercando di non fare rumore, e non la trovò. Presa dal panico perquisì tutto il laboratorio e l’appartamento, senza trovarla.
“No... non può essersene andata! No, no, no!” pensò ansiosa, mentre correva di qua e di là, disperata, con l'ansia nel cuore. Non poteva davvero essere scappata. Dove sarebbe andata? Era sola, senza protezione, senza un posto dove andare... la sua stessa ansia per quella specie di bestia la stupì, ma era più forte di lei. Si era... affezionata.
Andò in giardino, guardandosi intorno frettolosamente, ma non la vide. Stava per andare a prendere il telefono per chiamare la polizia, cercare aiuto per ritrovarla, quando…
«Ehi, ma che le succede? Ha perso qualcosa?» domandò una voce dall’alto.
Riconoscendola, la donna tirò un sospiro di sollievo, sentendo l'ansia scomparire, e alzò lo sguardo verso il tetto. Lì, seduta sul camino spento, c’era Athena. Vedendo lo sguardo sollevato della donna, la ragazza mostrò il suo ghigno arrogante ma divertito.
«Pensava fossi scappata!?» intuì al volo, scoppiando a ridere: «Che cosa divertente!»
La professoressa le sorrise, accasciandosi sulla panchina, sfinita da quel colpo di ansia mattutina, e rispose: «Allora c’è qualcos’altro che ti diverte!»
Lei sogghignò di risposta, muovendo i piedi a penzoloni nel vuoto: «Molto astuta davvero. Devo stare attenta a come parlo con lei.»
Aurea la guardò scendere con agilità dal tetto; la ragazzina le fu in breve tempo vicina, stiracchiandosi annoiata, e la studiosa chiese: «Piuttosto... cosa ci facevi lassù? E soprattutto... cosa ci fai già in piedi?»
Lei alzò le spalle, per niente seccata da quel terzo grado, e rispose: «Senza il sonnifero ho ripreso il ritmo. Mi sveglio da sempre all’alba, se ne faccia una ragione. E comunque, non facevo nulla... c'è una bella vista dal tetto.»
Aurea fissò il tetto e vide Oshawott nascosto, che probabilmente aveva cercato ancora di fare amicizia con la ragazzina. Athena notò il suo sguardo e aggiunse: «Quello non c'entra. Mi ha seguito. Ma stavolta è stato attento a non scivolare.»
La studiosa sorrise, vedendo come, però, lei non lo avesse scacciato, e la ragazza aggiunse: «Stavo pensando a quello che mi ha detto ieri sera... ho preso il vocabolario e ho cercato la parola “Rimorso” e poi “Senso di colpa”. E mi sono resa conto di non averli mai provati. Così sono giunta a una conclusione: se quello che mi ha detto lei è vero, cioè che un essere umano è guidato dai sentimenti, e io non li provo… probabilmente, oltre che essere pazza, ho altro che non va.»
La professoressa sorrise dolcemente e, da quel momento, il loro rapporto cambiò radicalmente. Aurea aveva capito come prenderla e come comunicare con lei.
Forse non era tutto perduto.
Forse c’era una speranza.
Da quel giorno, ogni sera, parlavano di cose serie, senza problemi e senza paura. La ragazza diceva quello che pensava o quello che le piaceva e la professoressa la correggeva secondo le regole morali e umane.
Anche di giorno, stavano insieme. La donna non le permetteva più di isolarsi, ma le faceva fare di tutto e notò che aveva un talento naturale nel trattare con i Pokémon. Anche dove che lei falliva, con tutti i suoi studi, la ragazza riusciva.
Un giorno, davvero curiosa, le chiese: «Di’ un po’... ma mi dici come fai?»
«A fare cosa?» rispose lei, perplessa.
«A trattare con così naturalezza con i Pokémon. Voglio dire, calmare un Beartic furioso non è da tutti.»
La ragazza la guardò, sempre più perplessa, e replicò: «Non capisco cosa voglia dire…»
Spazientita, la donna esclamò, ancora sconvolta dall’averla vista mettere la testa dentro la bocca spalancata e piena di denti aguzzi del Pokémon orso polare: «Come diavolo hai fatto a capire che quel Beartic aveva un sasso incastrato nei molari?!»
Athena alzò le spalle e rispose: «Ah, quello. Beh, me l’ha detto lui.»
La donna la guardò sgomenta: «Cosa?»
«Lui ha detto a me che aveva mal di denti. Allora ho guardato, ho visto il sasso e gliel’ho tolto.» ripeté la ragazza, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
La donna la fissò, elaborando la frase, mezza sconvolta, e borbottò: «Fammi capire... tu capisci ciò che dicono i Pokémon?!»
«Come se parlasse lei.»
La donna scosse la testa, incredula, poi si mise a fare test su test, irritando la ragazza. Le presentava un Pokémon, le chiedeva cosa dicesse, e poi chiedeva conferma al Pokémon stesso. Ed era sempre tutto giusto.
«Ma non si stufa?» chiese seccata Athena, seduta per terra a gambe incrociate con la testa appoggiata alla mano, dopo il decimo test, un Unfezant.
La professoressa arrossì, comprendendo il suo fastidio, e borbottò: «Oh. Ehm... scusami.»
La ragazzina si alzò stiracchiandosi, felice di vedere che si era stufata di tormentarla, e chiese: «Ma è così strano?»
Vedendo la donna annuire, riprese: «Se vuole le dico come ho imparato…»
La donna annuì interessata, così le raccontò la sua storia. Prima di entrare nel Team Rocket. Prima di conoscere il Grande Giovanni.
Un paio di mesi dopo, Aurea la raggiunse e le chiese, porgendole un barattolo di pastiglie rosse: «Ascolta, lo so che forse non ti piacerà. Ma prenderesti queste?»
«Che cosa sono?» domandò di rimando la ragazza, perplessa.
La studiosa annuì e rispose: «Se ho ragione, ti aiuteranno a provare qualcosa.»
«Si può... spiegare meglio?»
«Certo. Vedi... secondo me tu non sei sbagliata, ma malata. Una malattia del cervello, che si chiama psicopatia.»
«Malattia? Non è un insulto e basta?» borbottò lei, perplessa, ricordando che alcune volte era stata appellata come “maledetta bestia psicopatica”.
«No.» rispose Aurea, mostrandole delle carte sulle quali erano documentate tutte le sue ricerche in merito: «È una malattia del cervello che inibisce i sentimenti e quindi porta a fare cose disumane senza provare nulla, se non divertimento.»
La ragazza ascoltava attenta. Il cervello era l’unica parte del corpo umano che non conosceva bene; Aurea proseguì, notando il suo interesse: «Alcuni studiosi affermano che le emozioni e il comportamento sono regolati da una parte specifica del cervello. Queste pastiglie le ho fatte con l’aiuto di un Alakazam e di un Gothitelle. Forse... forse possono riattivare quella parte del cervello e aiutarti.»
Non era convinta nemmeno lei, ma la ragazza apprezzò il gesto e provò la cura. Una pastiglia ogni due mesi.
Inoltre, Aurea aggiunse, ora più sicura nelle parole, sperando davvero che accettasse: «Dato che mi sembri parecchio annoiata... pensavo di proporti di partire per il viaggio di formazione. Potrebbe aiutarti a comprendere il mondo e te stessa!»
«Il cosa?» chiese lei, confusa. Formazione di cosa?
La studiosa ricordò che, come membro del team Rocket, la ragazzina non aveva mai saputo della possibilità che veniva offerta ai ragazzini, così si affrettò a spiegare: «A Isshu, come anche a Kanto e nelle altre regioni, ci sono otto Palestre Pokémon. Gli allenatori esordienti, di solito, per diventare più forti e saldare il legame con i loro Pokémon, conquistano le Medaglie degli otto Leader e poi vanno al torneo della Lega Pokémon con l’obbiettivo di diventare campioni.»
«Ma io...» obbiettò la ragazza, pronta a protestare che i suoi Pokémon erano morti e lei era tutto fuorché esordiente.
«C’è chi sarebbe felice. E sarebbe decisamente più esordiente di te.» rispose Aurea, capendo cosa volesse dire.
Athena guardò l’Oshawott, che nel frattempo le aveva raggiunte; era la sua ombra, come al solito. Si guardarono. Lui sorrise timido, avendo sentito il discorso, e lei, dopo una leggera titubanza, sorrise di risposta.
Partirono una settimana dopo. Prima della partenza, la professoressa la prese da parte, con lo sguardo preoccupato e l'ansia nel cuore; ma anche con affetto. Accorata, le disse: «Te lo chiedo per favore, Athena. In questo viaggio, nelle città, tieniti a freno. So che per te deve essere difficile, e non so se è quello che vuoi, ma cerca di...»
«Non farò a pezzi nessuno. Promesso.»
La donna la guardò sbalordita e borbottò: «Davvero?»
Lei sorrise e, per la prima volta, sembrava sincera: «Si. Promesso.»



Spazio autrice (che parolona!):
Sì, lo so, è lungo. Ma mi piaceva così. 
Vi avverto, sono molto oscillante in quanto a lunghezza.
Ciao!

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Castiga e Zekrom volarono veloci verso Kanto, arrivando nella regione in breve tempo; lei alternava Wargle al drago, così i due potevano riposarsi. Arrivati a destinazione, puntarono verso Lavandonia, dove c’era la Torre Pokémon, il cimitero di tutti i Pokémon. Non sapeva perché volesse dirigersi lì... sentiva solo che era il posto giusto. Probabilmente nessuno aveva dato una degna sepoltura alle bestie del Demone; ma forse, quello era il posto più vicino alle loro anime perdute. Giunta alle porte della città, però, la ragazza vide una scena che le gelò il sangue nelle vene: un enorme Metagross, rinchiuso in una teca di vetro era lì, appena prima della città. Era visibile dal percorso che conduceva alla cittadina: era immobile, ibernato, con gli occhi sbarrati, nel silenzio del trapasso, e un ampio squarcio nel petto che gli sfregiava la corazza di puro acciaio. Il segno di quel Dragartigli finale.
Athena cadde sulle ginocchia, sotto shock.
«B...B-ban... dan...» singhiozzò, con le lacrime agli occhi. Di nuovo, quella sensazione orribile si impadronì di lei. Il dolore era quasi lancinante. La lacerava da dentro. Tolse lo sguardo, incapace di guardare ancora uno dei suoi migliori amici in quelle misere condizioni.
C’era un’incisione sotto la teca che lei notò solo dopo aver abbassato lo sguardo:

“Questo è uno dei mostri che tanto terrorizzarono il nostro continente. Che tutto ciò sia da monito a chiunque minacci la tranquillità delle genti. Gli altri cinque sono disseminati nelle città più importanti perché non accada più ciò che è accaduto in passato. Il Demone Rosso è morto, ma il suo ricordo non morirà mai.”

Zekrom ebbe il sangue freddo di portare via la ragazza, nonostante condividesse il suo dolore. La portò nel percorso sotto la città e Castiga tentò di calmarsi. Sconvolta, urlò, in una mezza crisi isterica: «I-il… mio… Metagross. Zekrom… quello era il mio Bandan!»
Lui cercò di tranquillizzarla, cercò di fare qualcosa, ma lui stesso era rimasto turbato da quella scena. Quel povero Pokémon, immortalato nel suo ultimo respiro, ridotto a una volgare statua, alla mercé di tutti. Nemmeno con la morte aveva potuto riposare in pace. Le sue spoglie, esposte così, come un manichino... mentre faceva queste tristi considerazioni, sentì l'anima della sua compagna mutare: da scioccata a furibonda. La guardò, con uno dei suoi profondi occhi gialli, e lei ricambiò lo sguardo. Poteva sentirla salire dentro di lei... l’antica rabbia omicida. Riusciva a sentire un po' di ciò che era una volta il Demone Rosso.
«Quei vigliacchi.» ringhiò lei, stringendo il pugnale sotto le vesti, sempre più furiosa: «Quei vigliacchi se la sono presa con chi non si poteva più difendere. Me la pagheranno... Ci sarà un grande ritorno. Eccome. Farò vedere a tutti loro che con me non si scherza. Non si poteva allora... e non si può adesso.»
Zekrom percepiva la sua rabbia, vivida, come se fosse sua, e decise di appoggiarla; quel comportamento non aveva giustificazioni. Avrebbero raso al suolo quel posto. E nessuno li avrebbe fermati. Il drago attirò sopra di sé delle nere nubi temporalesche, mentre si avvicinavano, lenti e inesorabili alla città. Erano quasi alle porte di ingresso, quando sentirono un canto melodioso vibrare nell’aria. Castiga vide solo una maestosa creatura bianca volare nel cielo e poi più nulla. Solo buio.
Al suo risveglio si mise lentamente seduta, tenendosi rintontita la testa con una mano, e vide Zekrom che scrollava l’enorme capo. Era svenuto anche lui. E la teca con Bandan non c’era più.
Al suo posto un biglietto:

“Non inseguire la rabbia
ti porterà a sbagliare.
Non inseguire la vendetta
ti porterà alla tomba.
Ora, i loro spiriti sono in pace
li troverai alla Torre Pokémon.
Cerca, cerca e non arrenderti
e troverai ciò che ti manca.”

Athena comprese le parole e chi le aveva vergate; quel tono mistico e sibillino era di una sola persona. Così, corse velocemente alla Torre Pokémon e, salendo i gradini a due a due, arrivò all’ultimo piano. Davanti a lei c’erano sei lapidi di granito di diverso colore per ognuno di loro: grigio per Bandan il Metagross, rosa per Fiammata il Charizard, bianco per Pidg il Pidgeot, azzurro per Lapras la Lapras, giallo per Nidor il Nidoking e verde per Jukain lo Sceptile.
Su ogni cumulo di terra smossa, era appoggiata una rosa bianca. La ragazza sentì di nuovo nel petto, una stretta forte, che le faceva quasi male.
“Perché?” pensò, quasi arrabbiata con se stessa: “Perché riesco a provare solo questa... emozione dolorosa?”
Si avvicinò alle lapidi e accarezzò il grigio marmo freddo con la mano, tristemente. La tomba di suo fratello... Non li avrebbe mai più rivisti. Lo sapeva già, ma vederli, rendersene pienamente conto, era diverso. Voleva andare da Lance, torturarlo come mai aveva fatto, per fargliela pagare.
Ma si sarebbe cacciata nei guai. E non voleva che la professoressa ci rimanesse male. Stranamente, non voleva deluderla. Così, dopo essere restata, per un’ultima volta, lì con loro, se ne andò, ringraziando N di quel gesto. Non poteva esse stato nessun altro.


Lo so, è corto.
Ma scrivere di più mi sembrava superfluo...

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Castiga si diresse verso Azzurropoli, una volta che si fu ripresa del tutto dallo shock. Dopotutto era nella sua regione natale che non vedeva da parecchio, e che, doveva ammetterlo, un pochino le era mancata. Un giro turistico ci stava; bastava non farsi notare troppo ed essere paziente come aveva imparato a Isshu. Accadde, però, l’impensabile: due nere figure incappucciate le balzarono davanti e una ordinò, con un tono che voleva essere minaccioso: «Dacci tutti i tuoi Pokémon e i tuoi soldi o sarà peggio per te!»
Lei li fissò con un sopracciglio inarcato: vestiti di nero, una R rossa sul petto, occhi coperti dal cappello e sopra un cappuccio, tentativi di spaventare un po’ scadenti... Loro non persero tempo, notando la mancanza di reazioni, ma soprattutto di paura, e uno dei due uomini fece per afferrarla ad un braccio e costringerla ad ubbidire. Athena si seccò nel giro di mezzo secondo, si scansò, evitando di farsi mettere le mani addosso da quel tizio ed estrasse il pugnale. Prendendolo per il collo della giacca, gli puntò la lama alla gola e ringhiò: «Voi due dovreste essere alla base a fare flessioni, razza di Reclute scarse. Chi vi ha insegnato ad aggredire i superiori?»
I due si bloccarono, fissando quella lama inorriditi. Era unica al mondo, tutti lo sapevano. Talmente particolare e talmente temuta che nessuno si sarebbe sognato di replicarla e mostrarla in giro.
«Te.. te.. te.. nente…» mormorò terrorizzato il tizio che lei stava minacciando, abbassando gli occhi in segno di rispetto e dando un calcio all'indietro all'altra Recluta per costringerlo a fare altrettanto.
Castiga socchiuse gli occhi minacciosa, lasciò andare la sua vittima ma non rinfoderò la lama, e i due saltarono sull’attenti, per farle capire che riconoscevano la sua autorità ed erano ai suoi completi ordini.
Giusto per non fare la bella statuina, restando in silenzio e venendo ucciso per questo, la recluta che aveva parlato prima, osò ancora ed esclamò: «Chiediamo perdono S-signora! N-non volevamo attaccarvi! N-non vi avevamo riconosciuta!»
Ma lei non prestava più attenzione a loro, e pensava, decisamente perplessa da quella situazione: “Due Reclute… che strano. Non mi convince questa storia. Il team dovrebbe essere sciolto.”
Rinfoderando il pugnale, decise di vederci chiaro; così, incrociò le braccia al petto e chiese: «Cosa ci fate in giro, Reclute?»
«Il Tenente Archer ci ha mandati in missione, Signora!» esclamò sempre la stessa recluta, probabilmente di grado più anziano, sollevato nel vedere che ora non era più armata: «È uscito di prigione sei mesi fa con i fratelli!»
«Cosa?» ripeté lei, sempre più perplessa: «Sono usciti con solo tre anni?»
«Sissignora, signora!»
La ragazza sospirò, poi borbottò: «Devo parlare con mio fratello. Andate ad avvisarlo che arrivo. Solita base?»
«Casinò di Azzurropoli, signora!»
«Taci, imbecille! Vuoi far scoprire tutto?!» sbottò, seccata, lanciandogli un'occhiataccia; va bene che ormai la conoscevano tutti, ma era meglio non far sapere che c’era ancora movimento.
I due si pietrificarono all’istante, aspettandosi probabilmente una punizione tremendamente dolorosa e poi mattatoio. Ma Athena era troppo cambiata: aveva imparato a trattenersi e lei stessa si rendeva conto di quanto fosse diversa da allora. Cercando di avere ancora un minimo di cipiglio, ordinò: «Sparite, Reclute!»
I due se ne andarono di corsa, increduli di tanta fortuna, mentre lei, mandato Zekrom tra le nuvole per non destare sospetti, si diresse con Maru ad Azzurropoli, una delle più grandi città di Kanto. Il nome derivava dal fatto che tutte le case avevano il tetto blu e una casa in particolare era interamente di quel colore. Si chiamava appunto Villazzurra.
I due giunsero al Casinò ed entrarono. Athena arrivò al cartello che copriva il bottone segreto, atto a rivelare le scale nascoste che conducevano a una delle basi del Team Rocket, e si guardò intorno perplessa. Nessuna guardia. Strano. Premuto il bottone, scese la scalinata appena comparsa. La botola le si chiuse alle spalle e lei proseguì. Non c’era nessuno di guardia, alcuna presenza. Niente di niente. In fondo alle scale, però, apparve una figura. Un ragazzo alto, con i capelli azzurrini e lo sguardo di ghiaccio, vestito con un completo bianco elegante e una R rossa sul petto, a destra.
Le brillarono gli occhi dalla contentezza, lo avrebbe riconosciuto tra mille: era Archer, il suo fratellone adottivo e primo tenente del Team Rocket. Ma lui era strano: non era amichevole come suo solito e sembrava piuttosto minaccioso. Lei lo fissò perplessa, senza muoversi, per capire cosa avesse, e fece per parlare, ma lui la fissò senza battere ciglio e ordinò, glaciale: «Chiunque tu sia, vattene con le buone. O sarò costretto ad usare la forza.»
Mezza sconvolta dalla durezza della sua voce, Athena obbiettò: «Archer, ma che ti prende?»
«Vattene, ho detto.» ripeté lui, senza ascoltare le sue parole ed estraendo una sfera.
Lei cercò ancora di opporsi, ma lui perse la pazienza ed esclamò: «Vai, Houndoom. Aiutami a buttarla fuori.»
Il cane infernale uscì ululando dalla sfera, pronto alla lotta, ma si bloccò, annusando l’aria. Sentiva un odore familiare, ma non riusciva a capire di chi fosse. Archer, anche se lievemente perplesso da quella titubanza, non si lasciò incantare e ordinò al Pokémon di attaccare. Dato il grande affetto che li univa, il Pokémon non se lo fece ripetere due volte e ubbidì, attaccando la ragazza. Cominciando a correre, il suo corpo si coprì di fuoco, potente nel suo Nitrocarica, ma Maru si mise in mezzo senza un ordine e rispose all'offensiva con l'Acquagetto. Houndoom, fermato nel suo attacco, ritornò verso il suo allenatore e amico, pronto a ricominciare. Archer non risparmiò un colpo, mentre lei si tratteneva, per rispetto verso il fratello e il suo fedele Pokémon. Ma quando Houndoom ferì Maru, lei decise di fare sul serio. Nessuno poteva fare del male al suo migliore amico. Così, borbottò: «Archer finiscila di fare l’idiota! Maru usa Acquapatto!»
Una colonna d’acqua si materializzò dal terreno e si abbatté su Houndoom che andò KO e su Archer che finì a terra. Lui fece per tirare fuori un’altra Pokéball, per ricominciare lo scontro, ma Athena si avvicinò e gli bloccò la mano a terra con un piede. Fissandolo irata per quella lotta senza senso, esclamò: «Finiscila, fratello! Non voglio combattere ancora contro di te!»
Lui la guardò con un odio e un disprezzo mai visti, rispondendo: «Tu non sei lei... Athena è morta! Sei solo un impostore! E nessuno può permettersi di farle un tale affronto!» gridò, cercando di alzarsi, ma lei, schiacciandogli il polso a terra, lo costrinse all'immobilità dal dolore. Colpita dall’affermazione e da quanto realmente lui le volesse bene, ribatté seccata: «Cos’è... non riconosci nemmeno tua sorella adesso?! Guardami, Archer! È impossibile fingere così bene!»
Lui titubò. Come Houndoom, anche lui, appena l’aveva vista, non aveva fatto a meno di pensare che fosse lei. Ma lui aveva sentito quelle parole, quell’uomo vantarsi di averla uccisa... come poteva essere davvero lei? Essere uscita addirittura dalla tomba?
Cercando di restare ancora glaciale e sprezzante, nonostante i dubbi, lui borbottò: «Verifichiamo subito se sei lei... qual’era la particolarità di Fiammata? Rispondi!»
Lei lo guardò accigliata e poi rispose, con voce tremante al ricordo del suo vecchio amico: «E-era un Charizard mezzo cieco. Senza occhio sinistro e aveva una cicatrice su quello destro. Combatteva meglio a occhi chiusi. L’ho allenato personalmente, contro gli ordini del capo, a combattere nel buio più totale per affinare gli altri sensi, visto che ci vedeva poco.»
Archer restò un momento immobile. Nessuno lo sapeva. Nessuno sapeva della vera natura della benda sull’occhio destro di Fiammata. Nessuno sapeva perché non usasse mai il Lanciafiamme in lotta ma solo per monito, per spaventare. Tranne lei. Con le lacrime agli occhi che non riuscì in alcun modo a trattenere, mormorò: «S-solo... solo lei può saperlo... sorellina. Sei viva. Veramente...»
Athena gli sorrise, con gli occhi a loro volta lucidi, e spostò il piede per permettergli di alzarsi. Tutto sommato doveva ammettere di essere contenta di rivederlo; così, chiese, per sdrammatizzare: «Ti ci è voluto un po’, eh?»
Lui si alzò in piedi, tornando a superarla perché più alto, ma le sorrise a sua volta, davvero felice di vederla viva e vegeta; pensoso, commentò: «Allora, quelle due Reclute non mentivano.»
«No.» rispose lei, fattasi perplessa, non avendo nemmeno pensato alla possibile incredulità dei fratelli a una notizia così sconvolgente: «Cosa gli hai fatto?»
Lui alzò le spalle con noncuranza e rispose: «Pensavo mi stessero prendendo in giro. Così gli ho sbattuti sotto la frusta di Maxus.»
Senza parole, lei ripeté: «Di Maxus?! Ma sei impazzito? Non sa controllarsi! Li ucciderà!»
«E allora?» rispose lui, ma Athena non perse tempo e partì di corsa. Ricordava la base a memoria, corridoio dopo corridoio. Ogni angolo. Doveva aiutarli. Una volta non le sarebbe importato nulla di quei due, ma ora no. Aurea le aveva insegnato la pietà e la bontà, almeno in teoria visto che lei non se le sentiva dentro, ma era decisa a mantenere le promesse fatte tanto tempo prima alla donna. E comunque, era anche un po’ colpa sua. Lei li aveva rimandati indietro e lei doveva aiutarli.
«Maxus!» urlò entrando nella sala delle punizioni e delle torture, facendo sbattere la porta di acciaio con violenza contro la parete: «Posa subito quella frusta!»
Maxus e Milas erano davanti a lei girati di schiena, in un lago di sangue; Maxus era voltato verso di lei, con la frusta a mezz’aria. Entrambi la guardarono come se fosse un fantasma. Maxus, però, si riprese ben presto dalla sorpresa e diede ancora un colpo di frusta. Si stava divertendo e voleva metterle paura. Evidentemente, non aveva riconosciuto la sorella nemmeno lui; pensava a una finzione, a un impostore. Athena si infuriò, quell'arroganza non era permessa, e sibilò: «Te lo ripeto l’ultima volta, Maxus. Non farmi arrabbiare. Posa quella frusta... subito.»
Lui la guardò ghignando con aria di sfida, come se pensasse che erano tutte parole al vento e niente di fatto, e Athena ordinò, quasi ringhiando e stringendo il pugnale nascosto sotto la maglia, trattenendo la voglia di lanciarglielo dritto in mezzo agli occhi: «Maru... Idrocannone!»
Il getto d’acqua, potente come se fosse stato sparato da un idrante, centrò Maxus che finì contro il muro dietro di lui. Archer entrò di corsa nella stanza e le disse: «Athena calmati!» posandole una mano sulla spalla. Gli altri due fratelli si resero così finalmente conto che era davvero lei. Il maggiore lo aveva confermato, non poteva essere una finzione.
«A-athena?» mormorò Maxus, ancora mezzo sconvolto e sotto, sotto terrorizzato, rialzandosi dolorante dopo il volo fatto. La sorella arrabbiata non era mai stata consigliabile vicina, soprattutto a così pochi metri di distanza.
«Tu non dovresti nemmeno toccarla una frusta.» sibilò lei, fissandolo con uno sguardo rosso d’ira.
Cercando di ignorarlo e di conseguenza lasciarlo vivere, andò a sentire il battito delle due Reclute. Erano due ragazzi, ancora giovani. Prima non se n’era accorta perché avevano il volto nascosto. Avranno avuto a occhio e croce diciotto uno e ventidue anni l’altro. Ed erano vivi. Aveva fermato Maxus in tempo. Fece un impercettibile sospiro di sollievo, ma Maxus si avvicinò, convinto di poter andare avanti a fare ciò che stava facendo. La sorella adorava le torture, quindi forse lo avrebbe perfino aiutato a fare più male con meno danno, come sapeva fare lei. Athena lo guardò con uno sguardo che non lasciava trasparire intenzioni amichevoli, e, prima che lui potesse aprire bocca, sbottò: «Sparisci, Maxus.»
Lui non si fece spaventare, conosceva il suo carattere scontroso, e ribatté: «Ma Athena, mi stavo divertendo!»
«Attento a quello che dici. O ci finisci tu qui. È una promessa.» ringhiò solo lei.
Lo spaventò abbastanza da farlo arretrare e uscire. Era stupido, ma non così tanto da mettersi contro di lei di sua spontanea volontà. Archer e Milas lo seguirono, perplessi dal comportamento della sorella, lasciandola sola con i due ragazzi. Lei finalmente poté calmarsi, non avendo più nessuno tra i piedi, ma le cadde l’occhio sul suo Samurott. Maru era sbigottito. Non aveva mai visto tanta violenza. Athena lo accarezzò, cercando di trasmettergli un po’ di calma. Lei era abituata a spettacoli ben peggiori, ma il povero Pokémon non aveva mai visto il Demone, né tantomeno i suoi lavoretti.
«Adesso aiutiamo questi due poveretti, Maru.» disse, dandogli un buffetto dolce e avvicinandosi ai corpi senza conoscenza; tentò di slegare le corde, ma erano molto strette: quei nodi che più ti agiti e cerchi di liberarti, più si stringono. Alla fine, facendosi aiutare dal corno di Maru, riuscì a spezzare le corde. Posò i due ragazzi a terra,cercando di fare piano, con la schiena verso l’alto e controllò le ferite, pulendole con l’acqua del Samurott.
«Maxus è un animale.» sbottò irritata, vedendo solchi senza un minimo di logica: «Guarda che macello. È un miracolo che siano vivi. Quel cretino non ha tecnica.»
Mentre cercava di fare qualcosa di utile per la loro sopravvivenza, ricontrollò i battiti, constatando che il più grande era ormai morto, mentre il più giovane lottava come un leone per restare in vita, aggrappato a chissà quale ancora.
«Dannazione.» ringhiò lei, maledicendo Maxus in tutte le lingue che conosceva.
Onde evitare altre morti non volute, e non da lei causate, sulla coscienza, fece uscire Shikijika, il suo Sawsbuck, il Pokémon cervo; forse sapeva come curarlo efficacemente; o almeno, ci sperava.
«Usa Aromaterapia amico. Vediamo di salvarne almeno uno.» borbottò, ma poi vide la sua espressione, così aggiunse: «Ti prego, Shik. Dobbiamo aiutarli.»
Shikijika era pietrificato dall’orrore, ma deglutì facendosi forza, si avvicinò al giovane, che ormai respirava a fatica, e usò la mossa curativa, scrollando l'ampio palco di corna adornato di fiori. Il ragazzo si svegliò di soprassalto, leggermente ristabilito grazie all'intervento del cervo, e cominciò ad agitarsi, cercando di fuggire, preso dal panico e con il terrore che ricominciassero a ferirlo. Athena lo tenne fermo posandogli una mano su una spalla e l’altra sulla testa. Gli bloccò il capo e disse, cercando di rendere il tono dolce, ma senza risultati: «Stai calmo. Ti voglio aiutare. Non agitarti e fra poco starai meglio.»
Lui voltò lo sguardo di scatto, non conoscendo la voce, ma appena la vide, si bloccò di colpo. Non sembrava più impaurito, benché avesse il Demone Rosso davanti al naso. Fece un respiro profondo e dolorante, e smise di muoversi, quasi del tutto tranquillo. Il Sawsbuck riprese la medicazione e Athena, senza farsi troppe domande, controllò scrupolosamente le ferite. Piano, piano si stavano rimarginando, ma sarebbe dovuto stare molto a riposo per riprendersi. Shikijika continuò il suo lavoro, mentre lei cercava delle bende, che naturalmente erano inesistenti. Lui invece la fissava, con sguardo quasi sognante…
Athena era sempre più nervosa vista la scarsa collaborazione dei fratelli e ribaltò mezza sala senza trovare quello che le serviva. Si diede della stupida... come potevano esserci bende in un posto dedicato alle torture? Decise in fretta il piano di riserva e lo mise subito in atto. Si avvicinò al cervo, gli accarezzò la testa e mormorò: «Shik... Sta qui a fargli compagnia che io vado a cercare delle bende. Torno subito.»
*«Tranquilla, Castiga!»* rispose lui, leccandole la faccia con affetto, per poi avvicinarsi alla Recluta, usando ancora l’Aromaterapia per fargli diminuire il dolore. Athena andò in infermeria, nella quale potevano accedere solo ed esclusivamente i quattro Tenenti, prese le bende, una barella e tornò giù. Il ragazzo si era addormentato e lei gli fasciò con delicatezza le ferite. Lui grugnì dal dolore ma non si svegliò. Con uno sforzò immane, la ragazza lo caricò sulla barella e lo fece portare in infermeria da Warubiaru e Deathkan che, essendo bipedi e dotati di mani, potevano trasportare la portantina. Una volta sistemato nel letto, sempre con l'ausilio dei Pokémon, andò dai fratelli. Con tono particolarmente seccato e cercando di essere definitiva per evitare ulteriori colpi di testa che la facessero uscire dai gangheri, disse: «Lasciate in pace quella povera recluta. L’altra è morta e vorrei salvarne almeno uno.»
Archer la guardò sbalordito, faticando a riconoscerla per quell'atteggiamento così... buono, e chiese: «Perché ti dai tanto da fare per lui? È solo una Recluta.»
Athena lo squadrò gelida, e rispose, tagliente come un rasoio: «Ti ricordo che trovare Reclute non è mai stato facile dopo la fuga di Giovanni. Se non le uccidiamo tutte, magari qualcosa si riesce ancora a mettere insieme, ti pare?»
Lui la guardò con uno strano sguardo, come se avesse colto la palese scusa nascosta dietro a quelle parole, ma non fece commenti in merito. Aggiunse solo: «Beh, sei intervenuta in tempo. Tu sei l’unica che sa fustigare senza fare danni. Non ho mai capito come fai e credo che Maxus non vorrebbe nemmeno saperlo.»
Lei ghignò, quasi in modo infantile, e rispose: «Non te lo dirò mai.»
«Immaginavo questa risposta.» sogghignò lui, ma poi chiese, squadrando Maru e gli altri: «E questi strani Pokémon? Da dove vengono?»
Le accarezzò la testa del suo enorme Samurott, che fissava Archer non sapendo se fidarsi, e rispose: «Isshu, una regione piuttosto lontana da qui. Sono stata lì questi tre anni.»
«Capisco. Ci racconterai tutto domani. La tua stanza è sempre quella, bentornata sorellina.» concluse il ragazzo, sorridendole.
Athena ricambiò e andò nella sua vecchia stanza. Sulla porta c’era ancora l’insegna sbeccata, rovinata dal tempo “Secondo -tenente Athena” e un teschio disegnato sotto. Le venne da ridere quando pensò al giorno in cui l’aveva disegnato. Quanti ricordi. Si sentiva veramente a casa, ma sentiva anche che qualcosa non andava. O meglio, che quel posto, in realtà, non le apparteneva più.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Il giorno dopo, Athena andò a vedere come stava la Recluta. Stava per entrare, ma poi ci ripensò e prima bussò, per avvertire della sua presenza. Le rispose una voce tremante: «A-avanti…»
Mise dentro la testa, pronta ad andarsene se non voleva essere disturbato, ma il ragazzo si rilassò quando vide che era lei. Sorridendo un po’ timido, lui le fece cenno di entrare. Gli sembrava un po’ strano essere lui a quasi “comandare” ma dato che era lei stessa a permetterglielo, non doveva preoccuparsi.
«Come stai?» chiese lei, entrando nella stanza e chiudendosi la porta alle spalle.
Il sorriso del ragazzo si rabbuiò mentre pensava alle sevizie subite, e rispose, incupito, passando una mano sulle bende che gli circondavano il torace nudo: «Bene grazie, Signora. Meglio del mio compagno...»
Lei si sentì ancora vagamente responsabile, così, sempre seguendo gli insegnamenti della donna che l’aveva riportata sulla retta via, borbottò: «Mi dispiace per la deficienza di mio fratello. Quando vi ho rimandati indietro non avevo pensato alle conseguenze. Colpa mia.»
Lui la guardò, con uno sguardo tra lo stupito e l’ammirato, forse perplesso dal vederla così; ci mise un po’ a farsi coraggio ma poi si buttò e disse: «Siete diversa da come vi avevano descritta, sapete?»
Athena ricambiò lo sguardo dritto negli occhi e lo vide abbassare lo sguardo, intimorito dall’occhiata penetrante che sapeva far tremare. Con un mezzo sogghigno, vedendo che non aveva perso la sua meritata fama, pensò: “Ha paura di aver detto troppo. E in effetti, una volta avrei ucciso dopo un commento del genere...”
Dopo averlo fatto gelare di paura sotto quello sguardo implacabile, si schiarì un momento la voce. Lui la guardò con la coda dell’occhio e lei gli fece l’occhiolino, amichevolmente. E lui si tranquillizzò leggermente, tornando ad alzare, come un cane bastonato, gli occhi su di lei.
«La gente cambia...» gli rispose quindi, evasiva. Non voleva condividere nulla di sé. Non l’aveva mai fatto e non era il caso di cominciare con un estraneo.
Lui la guardò leggermente perplesso ma lei non aggiunse altro, guardando da un'altra parte per non mettergli paura. Ma in realtà lo scrutava con la coda dell’occhio, cercando di non farsi notare troppo: nonostante la faccia pallida e provata dalla sofferenza e la schiena marcata, aveva due brillanti occhi verde smeraldo, pieni di vita, e una zazzera corta e arruffata color castano chiaro. La ragazza si guardò allo specchio e notò la marcata differenza di sguardi: il suo sguardo rosso era spento, senza la luce della vita.
“Chissà come ha fatto a finire qui.” si ritrovò a pensare: “Non è una bestia come tutti noi.” 
All’improvviso un grido di dolore ruppe il silenzio che si era andato a creare mentre i due si fissavano a vicenda, con curiosità ma cercando di tenerla celata.
Guardarono entrambi verso la porta, poi Athena gli fece un cenno e uscì, sbottando: «Non di nuovo. Gliela faccio intorno al collo quella frusta.»
Il grido le era sembrato familiare e quello che vide quando raggiunse il posto, oltre a darle ragione, la mandò in bestia. Maxus stava minacciando con la frusta Cheren, e Belle urlava come un’ossessa. Erano ancora illesi, ma per poco viste le intenzioni sanguinarie del Tenente.
«Maxus!» ringhiò furiosa, sperando che il tono di voce lo convincesse a desistere.
Lui la guardò e ancora una volta, forse vedendo che lei non era più quella di una volta, la sfidò colpendo Cheren a una gamba con la sua frusta. Tempo un secondo e una mano lo prese per il collo, sbattendolo  contro il muro vicino. Trattenendo la voglia di puntagli il pugnale alla giugulare, tagliargli qualche arto e fargli capire che con lei non era ancora permesso di scherzare, Athena lo fissò negli occhi, nera di rabbia e con il sangue che le pulsava nelle vene; gli prese la frusta dalle mani e la fece schioccare sibilando: «Questa so usarla molto meglio di te. Se ti vedo ancora con una di queste in mano, preparati ad abbracciare il palo. Chiaro?!»
La ragazza non sapeva se sarebbe riuscita a trattenersi. L’aveva promesso, ma il suo autocontrollo non era perfetto. Anche dopo tre anni faceva fatica, molta fatica a non lasciarsi andare all’ira e uccidere, come Giovanni le aveva insegnato. E Maxus rischiava molto, in quel momento. Lui la guardò deglutendo e annuì. Athena gli scoccò uno sguardo furibondo, lasciandolo andare, fece un respiro profondo per calmare i nervi, e poi, passando la frusta a Maru che la fece sparire, si avvicinò ai suoi due amici. Cheren, dopo averla squadrata, leggermente perplesso, le fece vedere la gamba.
«Ti ha preso di striscio, non è niente di grave.» mormorò lei, controllandogli la ferita, ma temendo che i suoi amici avessero paura di lei. Belle gliela fece passare, abbracciandola forte e scoppiando a piangere, disperata e in cerca di protezione come sempre. Castiga era per lei l'unica che potesse difenderla, in ogni situazione.
Athena scostò Belle con un mezzo sorriso e disse a Maxus, sottovoce: «Vai a chiamare Archer e poi sparisci.»
Lui corse via, senza osare disubbidire, e la ragazza porse una benda a Cheren, di quelle che aveva preso per curare la Recluta. Si era dimenticata di rimetterle a posto ma in quel momento furono molto utili.
Finito di curare l’amico e tranquillizzare, forse, Belle, chiese: «Che ci fate qui voi due?»
Belle saltò su e rispose: «Ti abbiamo seguita.»
«Pessima idea.» commentò solo l’altra, con un sospiro: «Quelli che vedete vestiti di bianco sono i miei fratelli, ma da adesso in poi siete sotto la mia protezione non preoccupatevi. Nessuno oserà farvi del male.»
Cheren si alzò e le diede una pacca sulla spalla, sorridendo. Lei rispose con un sorriso un po’ storto a mo’ di scusa e poco dopo arrivò Archer; lei lo intercetto e sbottò: «Loro sono con me.. e se vedo Maxus con quell’arnese ancora in mano, lo sistemo...»
Lui ridacchiò, alzando gli occhi al cielo, e ribatté: «Per fortuna sei arrivata sorellina! Sei l’unica che riesce a rimetterlo in riga.»
«L’ho notato.» commentò lei, sarcastica.
Archer diede una mezza occhiata ai due estranei e chiese: «Faccio mettere due brande nella tua stanza?»
Lei annuì e mostrò una parte della base agli amici. Ma Maxus, volle sfidare troppo la sorte. Athena lo scoprì che frustava una Recluta che gli aveva portato l’acqua invece del the. E perse le staffe.
Aveva provato a trattenersi, ma dopo un po’ il vaso si riempie. E prima o poi, trabocca.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Un gemito echeggiò per tutta la stanza.
«Non avevi detto di non volermi dare questa soddisfazione?» chiese con un tono di sadico sarcasmo Athena, dopo aver messo l'ultimo pezzo del suo mosaico di vetri rotti che gli stava componendo sulla nuda schiena: «Lo sai che il mattatoio mi ispira. Da sempre.»
Lui non rispose, sofferente, umiliato, anche impaurito, tentando di tirare e rompere quelle corde, di scappare da quella bestia insana che si trovava come sorella adottiva. Non erano mai andati troppo d'accordo, loro due, ma lei non era mai arrivata a tanto... tranne questa volta. Non sapeva che la causa scatenante era stata il vedere degli amici, delle persone a cui lei teneva, feriti e percossi. Maxus tirò le corde con tutte le forze che aveva, ma era tutto inutile: i suoi polsi, legati ad un anello di ferro saldato nel pavimento gli impedivano di alzarsi e il polpaccio, aperto quasi fino all'osso, gli avrebbe impedito di correre. Ma doveva tentarle tutte, doveva fuggire in qualche modo.
Dal canto suo, Athena si stava divertendo come una bambina. Non le sembrava vero di essere di nuovo nel mattatoio, la stanza d'acciaio dove Giovanni le permetteva di sfogare tutta la sua instabilità mentale, e di essere tornata, per un'ultima volta, a torturare. Forse non sarebbe mai stata l'ultima, ma le faceva bene crederlo. Voleva avere una piccola speranza che Aurea avesse davvero provocato qualche cambiamento in lei durante quei tre anni. Di certo, in quel momento, la sua mente pensava a ben altro: la sua conoscenza approfondita del corpo umano le permetteva di fare ciò che voleva. Poteva uccidere in un colpo solo o torturare per ore senza rischiare il decesso. E lei si divertiva così, da sempre. Causare dolore, sapere di avere il totale controllo sulla vita altrui... un controllo quasi divino; queste erano le cose che maggiormente la appagavano. A Isshu aveva imparato a non farlo e a trattenersi dal saltare alla gola di chiunque la importunasse. Ma lì, non la vedeva nessuno. Quella era la situazione migliore in cui poteva trovarsi. Non era furiosa da essere fuori controllo e rischiare di farlo a pezzi, come spesso era successo in passato, ma poteva, nascosta al mondo, mostrare la sua arte, la sua tecnica, la sua gioia... soprattutto quando lo avrebbe sentito implorare pietà. Quello sì che era il potere assoluto. Peccato che Maxus non stesse al gioco. Aveva gridato che non le avrebbe dato la soddisfazione di chiedere pietà, che sarebbe morto piuttosto, e lei aveva preso questa cosa come una sfida.
Andava avanti a lungo, nemmeno lei sapeva quanto. Prima ferite sporadiche con il pugnale, giusto da saggiare la sua resistenza, poi il disegnino sulla schiena... sarebbe stato più divertente farlo cadere sui vetri rotti, ma il rischio di ucciderlo era troppo alto per rischiare. Così, aveva ripiegato su altro, in un estro artistico particolare ma efficace. Gli fece il giro, pestandogli di proposito la gamba per non farla smettere di sanguinare, sentendolo trattenere i gemiti, e chiese: «Faccio scegliere a te, guarda che gentile. Preferisci tenere i denti o le unghie?»
«Non oseresti...» ringhiò lui, con un filo di voce, ma lei si chinò alla sua altezza, gli prese il volto con le dita e rispose: «Oso fin che mi pare, bel faccino. Ora voglio sentirti implorare. Tu continui a sfidarmi, non dare la colpa a me.»
Vista la comodità dei polsi bloccati, decise lei: prese una pinza, la strinse sull'unghia dell'indice e tirò.
L'urlo sarebbe arrivato a ogni angolo della base se la stanza non fosse stata insonorizzata. Al terzo dito, spezzato dal dolore ma soprattutto da quel sadismo, vedendo quell'espressione di crudele divertimento che sembrava desiderare più di ogni altra cosa che tutto quello non finisse mai, Maxus si arrese e mormorò, con voce flebile, rotta dai singhiozzi: «Hai vinto. Non ti mancherò più di rispetto. Ma ti prego, lasciami andare.»
«Vedi che non era difficile?» fu l'unica risposta che ricevette, in una domanda retorica che lo fece sentire ancora peggio di quanto non si sentisse già. Oltre al danno, la beffa.
Athena si voltò soddisfatta e chiamò Archer e Milas con la radio che c’era lì. Rinfoderando il pugnale, dopo averlo pulito per bene, si lavò le mani e uscì, lasciandolo solo nell'attesa dei fratelli. Milas, quando lo vide, intervenne per aiutarlo: lo liberò e lo portò in infermeria, cercando di consolarlo nel tragitto. Archer raggiunse la sorella: sapeva dov'era. Andava sempre lì quando aveva finito con una vittima. Andò alla porta di fronte a quella del mattatoio e bussò. La porta si aprì e lui sorrise nel sentire quella frase con cui lo aveva sempre accolto: «Che vuoi, Archer?»
Lui sorrise e commentò: «Sono stupito. So che ti piace nuocere al prossimo ma è la prima volta che tocchi Maxus. So che può essere antipatico e ingestibile, ma non eri mai arrivata a tanto in situazioni ben peggiori. Ti ho vista molto più infuriata, eppure...»
«Senti, Archer.» sbottò lei, capendo dove volesse andare a parare: «Voi siete solo andati in galera. Io ho perso tutto. E il colpo è stato talmente forte da mettermi quasi a posto la testa. Ho conosciuto delle persone che sono diventate... importanti. E Maxus non si deve permettere di toccarle. Diciamo che è come se avesse fatto del male a te, anni fa.»
Lui le sorrise, comprendendo il discorso, e rispose solo: «Avevamo visto che eri diversa. Da un lato sei cambiata, dall'altro resti la mia solita sorellina irritabile. Restiamo in contatto... probabilmente ora anche il solo vederti, rimetterebbe in riga Maxus!»
«Garantito.» ridacchiò lei, tornando insieme a lui ai piani alti della base.
Athena gli fece un cenno di saluto e andò a cercare Belle e Cheren. Li trovò nell’atrio che confabulavano tra di loro, con urgenza e paura nella voce. Si avvicinò perplessa e i due sobbalzarono vedendola. Lei non sapeva che i due amici erano andati in esplorazione mentre lei giocava con Maxus. E non sapeva che l’avevano vista all’opera. Vedendoli un po' troppo tesi, chiese: «Che cosa succede?»
Aveva garantito loro che non sarebbero stati in pericolo, e Maxus era in infermeria. Chi li aveva spaventati così tanto?
«Nulla, nulla…» replicò Cheren, cercando di apparire tranquillo ma con scarsi se non inesistenti risultati: «Ci chiedevamo quanto pensi di stare qui.»
Notando lo strano atteggiamento dell’amico, ma cercando di non badarci troppo, lei ci pensò su, ma poi confermò la sua idea iniziale e quindi rispose: «Credo che domani tornerò a Isshu. Voi cosa fate?»
«Da sola?» chiese lui in tono gelido, ignorando la domanda.
«Beh, se voi non venite, sì.» rispose la ragazza, sempre più perplessa dalla freddezza dell’amico.
Belle interruppe il dibattito, inserendosi nel discorso prima che l’amica capisse tutto: «No, no! Veniamo anche noi! La Professoressa Aralia sarà in pensiero!»
Athena li fissò, non comprendendo perché la stessero guardando così male, ma poi pensò che probabilmente era per via del luogo in cui si trovavano. Si stava facendo influenzare, era ovvio. Nel Team Rocket tutti l'avevano sempre guardata con paura, con un timore reverenziale o con semplice fifa folle. Era la prassi. Così li congedò, per andare a prendere le sue poche cose e poi tornare a Isshu insieme a loro. Una volta che si fu allontanata, Belle si appoggiò al muro, sospirando, e mormorò: «Cheren… sembra tornata normale. Secondo te cosa le era preso? Mi ha davvero fatto paura prima.»
«Non lo so Belle…» le rispose il ragazzo, calmandosi leggermente a sua volta: «Ma forse la professoressa saprà dirci qualcosa a riguardo.»

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


La sera stessa, Athena andò a salutare la Recluta. Non c’era un motivo preciso, voleva solo dirgli che se ne sarebbe andata la mattina dopo. Bussò leggermente e, dopo aver avuto il permesso, entrò. Lui ormai sapeva che non poteva essere nessun altro che lei. E se così non fosse stato, sarebbe stato nei guai.
Entrata, chiuse la porta e disse semplicemente: «Ciao.»
«Buonasera, Tenente.» rispose lui, arrossendo e guardandola con un sincero sorriso.
Lei si avvicinò al letto, con le mani in tasca e chiese: «Come stai?»
«Bene, vi ringrazio.» rispose lui, sempre molto allegro: «Non so come avrei fatto senza di voi!»
Lei alzò le spalle, come per dire che non era importante ciò che aveva fatto, ma poi, senza tanti preamboli, lo gelò con una semplice affermazione: «Domani me ne vado. Se vuoi un consiglio, vattene. Maxus ti tormenterà a vita se resti.»
Al ragazzo si gelò il sorriso sulle labbra. Sconvolto, riprese dopo alcuni secondi l’uso della parola e ripeté, ancora scioccato: «A-andate via?!»
Lei annuì, non notando l’evidente trauma, e lui rimase immobile, elaborando la conferma delle sue peggiori paure. Lei se ne stava andando via… ancora…
Una frase lo riscosse dai pensieri: «Ti saluto. Stammi bene.» disse lei, e fece per voltarsi.
«A-aspettate!» la fermò lui, arrossendo.
«Cosa c’è?» chiese lei, tornando a guardarlo, girando appena la testa, perplessa.
Lui avvampò, senza avere il coraggio di guardarla, e mormorò: «Non andatevene. Vi prego. Io… io vi amo e voglio che restiate qui.»
Il ragazzo chiuse gli occhi, rosso in volto, aspettandosi minimo una coltellata; si era buttato in un salto nel vuoto, non poteva sopportare di tenersi ancora quel segreto dentro e vederla sparire di nuovo dalla sua vita. Non senza che lei sapesse. Ma Athena, dopo averlo squadrato, sbottò: «Fattela passare.»
La ragazza uscì, quasi sbattendo la porta. Non era arrabbiata con lui, ma con sé stessa. Lui si era dichiarato, le aveva detto di addirittura amarla, e lei ne era rimasta completamente indifferente. Non le era importato nulla dei sentimenti di quel giovane verso di lei. Anzi, l'unica cosa che aveva sentito era stato lo stupore di apprendere che un folle si era preso una sbandata per una bestia come lei. Per il Demone Rosso. Assurdo. Ci rimuginò un po’ sopra, poi concluse: “Devo parlare con Aurea.”
Il giorno dopo, nel primo mattino, i tre ragazzi partirono. Athena prestò Wargle a Belle, volando su Zekrom, e Cheren viaggiò con il suo Unfezant. Poco dopo essere decollati, lei guardò verso il Casinò e una figura attirò la sua attenzione. Il ragazzo la fissava volare via, con le stampelle, dal retro dell’edificio. Si guardarono per un’ultima volta e lei pensò: “E così ha deciso di restare. Spero che Archer impedisca a Maxus di ucciderlo.”
Poi si voltò verso il mare e si impose di non pensare più a lui e al suo destino. Le risultò facile, non avendo chissà quali legami con lui. In volo, i tre amici arrivarono a Isshu in tre settimane e si diressero subito al laboratorio della professoressa Aralia. Entrati nell’edificio, la chiamarono a gran voce e la studiosa scese le scale poco dopo, trafelata. Quando li vide, tutti e tre, sani e salvi, non poté non abbracciarli uno per uno, esclamando: «Belle, Cheren!! Ero preoccupatissima! Dove eravate finiti? Eh?!»
«Scusi prof, abbiamo seguito la Castì a Kanto.» rispose Cheren, teso.
Per tutto il viaggio era rimasto taciturno, cupo, e non aveva degnato Castiga di uno sguardo. Non voleva parlarle. Non voleva nemmeno guardarla. E lei aveva deciso di non rompere quel silenzio finché lui non lo avesse voluto.
«Per fortuna state bene.» mormorò la donna, sollevata, non notando la rottura tra i ragazzi: «So che sarete stanchi, ma vorrei un favore da voi tre.»
«Cioè?» le chiesero in coro.
Lei li fissò tutta esaltata, come era sempre quando parlava di Pokémon, ed esclamò: «Dovreste andare nel Deserto della Quiete. È un deserto che si trova sopra Austropoli. Dovreste ricordarvelo.»
Vedendo i ragazzi annuire, proseguì: «Nel deserto c’è il Castello Sepolto, nel quale c’è un Pokémon misterioso che vorrei che studiaste. Mi fate questo piacere?»
«Per me va bene! Però… possiamo partire domani?» rispose Castiga, stiracchiandosi e trattenendo uno sbadiglio, ormai completamente rilassata essendo tornata a Isshu: «Sono un po’ stanca dal viaggio.»
«Non c’è problema!» replicò la scienziata, felice di vedere che aveva convinto la più difficile: «E voi due che fate?»
«Vengo anch’io.» disse Belle, poco convinta.
Cheren guardò la ragazza e aggiunse: «D’accordo, andiamo.»
Castiga era alquanto stupita dal loro comportamento, ma cercò di non darlo a vedere. Erano sempre stati entusiasti di ogni missione che la professoressa affidava loro. Ora, invece, erano spenti, svogliati.
La sera, Belle e Cheren andarono a dormire a casa loro, mentre Castiga e la professoressa Aralia si ritrovarono a mangiare insieme, come un tempo.
«Com’è andata a Kanto?» chiese la donna, una volta che furono entrambe a tavola.
La ragazza alzò le spalle e rispose: «Bene. Cioè...»
Dopo averci riflettuto, le raccontò di quello che era successo a Lavandonia e anche come si era sentita. Era stata davvero un’esperienza orribile. Aurea la fissò, con uno sguardo molto triste, e mormorò: «Oh... mi dispiace. Parlano tanto di te ma, alla fine, non sei l’unica sadica.»
Castiga non commentò oltre, ma lo sguardo diceva tutto. La donna si rese conto di aver peggiorato la situazione, così fu rapida ad aggiungere: «Scusa, non volevo rattristarti.»
«Non si preoccupi.» rispose lei, facendole un sorrisetto storto: «Anche se è l’unico sentimento che provo, non vuol dire che sia così facile rendermi triste.»
La donna la guardò rammaricata, poi cambiò discorso per sdrammatizzare e chiese: «E Belle e Cheren? Dove li hai visti?»
Non avendo notato, presa com'era dal suo entusiasmo di scienziata quando aveva nuove ricerche in corso, il fatto che i tre ragazzi a malapena si guardavano, pensava, con quel discorso, di farsi raccontare qualche aneddoto divertente o una qualche avventura passata a Kanto.
«Oh, beh...» borbottò lei, invece, cancellandole ogni speranza di vederla sorridere, raccontandole tutto quello che era successo alla base, con anche la tortura di Maxus. Voleva che lo sapesse, che sapesse che si era divertita come una bambina. Sincera, ma non realmente pentita del suo gesto, concluse: «Non ho mantenuto la promessa. Un’altra volta. Mi dispiace, davvero.»
Aurea la guardò, comprendendo le sue ragioni e quanto fosse difficile per lei, e disse: «Non dico che hai fatto bene, ma nemmeno male. Capisco che sia faticoso e anzi apprezzo davvero l’impegno che ci stai mettendo nel cambiare.»
Athena scrollò le spalle,  e aggiunse: «C’è dell’altro...»
«Cioè?»
Athena sospirò, cercando le parole adatte per spiegarsi, poi borbottò: «Il tipo che ho aiutato... beh, mi ha confessato di essersi innamorato di me. Ma io… io non ho provato nulla. Cioè gli ho addirittura detto di farsela passare. Perché?! Perché non riesco a… a sentire niente, se non il dolore? Né odio, né disprezzo, né gioia… niente di niente! O la rabbia, o sto male!»
La donna si alzò e le indicò il loro posto, dove andavano sempre a parlare. Si sedettero vicine; Athena fissava il vuoto davanti a lei e Aurea pensava alle parole giuste da dirle. Doveva riuscire a farle comprendere ciò che voleva, senza fraintendimenti. Alla fine decise e mormorò: «Sai, Athena, dicono che se ti trattano come una bestia, alla fine lo si diventa. Io non so bene come Giovanni abbia fatto quello che ha fatto, so solo quello che mi hai raccontato tu. Però, questo non vuol dire che non si possa tornare indietro. C’è del buono in ognuno di noi, come c’è dell’oscurità. Sta a noi scegliere cosa far prevalere.»
La ragazza sospirò e replicò: «Forse a non tutti è concesso di poter scegliere…»
«Perché dici questo?»
«Riesco a non fare del male se sono tranquilla.» rispose lei, voltandosi a fissare la donna, dritta negli occhi: «Lei mi ha detto che i sentimenti nascono dal cuore, ma io non sento ancora nulla, se non quando si parla di Belle e il Dottore. Forse ho capito cos’è l’amicizia, ma si ferma tutto qui. Non sento altro e se mi dovessi arrabbiare veramente, nelle condizioni in cui sapeva portarmi Giovanni, credo che sarei capace di fare a pezzi la mia migliore amica. Come può dire che posso scegliere?»
Aurea le accarezzò la testa con un fiducioso sorriso e replicò: «Quando i tempi saranno maturi, capirai.»
La ragazza non aggiunse altro, guardando a terra, non convinta delle sue parole. Se avesse cominciato a provare qualcosa, forse avrebbe anche potuto vivere come una persona normale. Ma non con quel vuoto nel cuore, con quell’assenza di emozioni e sentimenti.
«A proposito!» esclamò la scienziata, battendosi una mano sulla fronte: «Mi ero scordata di dirti che è passato un agente della polizia internazionale e voleva parlarti.»
Vedendo l’espressione della ragazza, aggiunse con una risata: «Non fare quella faccia! Ha chiesto di Castiga, quindi dubito che cercasse il Demone Rosso.»
Athena ridacchiò di risposta e chiese: «Domanda lecita. E cosa voleva?»
«Ha detto che hanno arrestato Geechisu, ma i Sette Saggi si nascondono nella regione. Vorrebbe che tu andassi a cercarli.»
La ragazza sogghignò, riprendendo un po' di vitalità e uscendo da quella depressione: «Ho giusto un conticino in sospeso con Ross. Dica pure che accetto!»
La donna sorrise, aspettandosi quella risposta. Sapeva che Athena non si tirava mai indietro quando si trattava di sfide e avventure. E poi, i Saggi non le erano mai piaciuti.
Il giorno dopo, Castiga lasciò Zekrom al laboratorio. Grosso com’era non sarebbe nemmeno entrato nel Castello. Riunitasi con i due amici, partirono a piedi verso Austropoli e il Deserto della Quiete. Belle e Cheren erano sempre più strani agli occhi di Athena. Confabulavano fra di loro, stavano distanti da lei e la guardavano di sottecchi. Lei rinunciò a parlare con loro, visto che se si avvicinava, loro arretravano. Così andava per la sua strada, facendo finta di niente, nonostante la perplessità. Sembrava di essere tornati all’inizio, quando avevano cominciato a viaggiare insieme. Lei, guidava, davanti e sola, con Maru. I due amici, dietro, per i fatti loro.
Finalmente arrivarono al Deserto della Quiete e, facendosi strada lottando fra i Pokémon selvatici, arrivarono all’entrata del Castello Sepolto, ovvero un buco di pietra nel terreno che portava al castello sotterraneo.
«Propongo di dividerci!» esclamò Cheren, quando furono giunti nell’atrio del castello, indicando le uniche strade possibili: «Io e Belle andremo a sinistra mentre tu e Maru andrete dritti.»
Castiga ci pensò un attimo, poi annuì. D’altronde, si disse, separati ci avrebbero messo meno tempo e forse avrebbero trovato qualcosa. Così borbottò, a mo’ di congedo: «Teniamoci in contatto con l’Interpoké.»
Loro annuirono e i tre si divisero in due gruppi. Athena e Maru scesero subito al piano di sotto, mentre gli altri due si diressero alle scale a sinistra, che portavano sempre in basso ma ad un'altra zona separata.
Una volta scesi, Cheren tirò un sospiro di sollievo e disse sorridendo: «Finalmente possiamo stare tranquilli, Belle!»
Lei però non era convinta di come stava prendendo piede la cosa. Castiga era ormai esclusa da tutto ciò che facevano, anche dai discorsi. Così, replicò: «Ma Cheren… mi dispiace. L’abbiamo trattata così male.»
«Non pensarci… dai! Andiamo a cercare questo Pokémon misterioso!» esclamò lui di risposta, prendendo la via del corridoio e mettendosi in marcia.
Cheren non voleva ammetterlo, ma aveva molta paura. Aveva visto quanto Castiga potesse essere crudele e ne era rimasto scioccato. Si sentiva anche in colpa, però, perché diceva di essere il suo migliore amico, ma non aveva il coraggio di farle una semplice domanda: “Perché?”.
Perché aveva nascosto loro di essere così… bestia?
Con questi pensieri cupi nella testa, prese la sua bussola, per evitare di perdersi.
Belle stava appiccicata al suo braccio, con nessuna apparente intenzione di lasciarlo. Era una ragazza talmente paurosa. Cheren tentò di tranquillizzarla, ma senza riuscirci. All’improvviso, dopo essere caduti un paio di volte nelle sabbie mobili per andare a fondo nel Castello, l’ago della bussola fece un giro su se stesso e si mise a roteare a caso, come impazzito. Cheren lo fissò inorridito e borbottò: «Maledizione.»
«Cheren, cosa succede? Dove siamo?» chiese Belle, in un mezzo attacco di panico.
Lui cercò di misurare le parole ed evitare il tono urgente per non turbarla, ma fu costretto a dire: «Non lo so. C’è un campo elettromagnetico che mi ha mandato in crisi la bussola. Ho perso l’orientamento.»
Belle lo guardò con il panico negli occhi e lui le disse, per rincuorarla: «Ascolta, appoggia la mano destra al muro. E non toglierla per nessun motivo. Così sapremmo sempre la strada che stiamo facendo.»
Usando questa tecnica, andarono avanti per un po’, finché non arrivarono a una porta. Dietro c’erano delle scale e un Seguace del Team Plasma, che attaccò. Cheren lo fronteggiò e vinse senza difficoltà, chiedendosi però cosa ci facesse ancora il Team Plasma in giro. Erano stati sciolti, o almeno così credevano.
Quello che aveva sconfitto, però, era l’unico Seguace nella zona.
«Oh no…» mormorò il ragazzo, subito dopo.
Belle guardò oltre le sue spalle e, inorridita, chiese con voce balbettante: «D-due porte?!»
«Sì, dobbiamo scegliere.» dichiarò lui con voce grave.
Decisero con il testa o croce e presero la porta in basso. Trovarono altre sale con lo stesso bivio, due porte e delle colonne in mezzo alla stanza, che sembravano piuttosto antiche. Poteva essere un segno del fatto che si stavano avvicinando al posto dove viveva il Pokémon misterioso. Varcarono le porte un po’ a caso. Prima o poi avrebbero preso la strada giusta. Cheren segnava le porte prese con un gesso in modo da non ripetere la stessa strada. Alla fine la fortuna arrise loro, o forse la sfortuna. Dipende dai punti di vista. Sentirono un rumore assordante e un botto. Belle abbracciò l’amico terrorizzata, che avvampò di tutta risposta, e da una caverna uscì un grosso mostro: una specie di enorme larva grigia e azzurra, con sei ali arancioni e lo sguardo minaccioso.
«Ch-Cheren! Cos’è quella cosa?!» esclamò Belle terrorizzata.
«Non ne ho idea, Belle.» le rispose lui, arretrando con la ragazza in braccio: «Vai Simipour!» disse, facendo uscire la sua scimmia d’acqua, mentre Belle fece uscire Simisage.
«S-simisage! U-usa Semebomba!» ordinò lei, ma il mostro usò un Ventargenteo che mandò KO la scimmia d’erba.
«Simipour! Prova con l’Idrovampata!» esclamò Cheren e il mostro, colpito, arretrò, ringhiando e ruggendo furioso. Cheren capì di aver trovato la soluzione e urlò: «Belle, è di tipo Fuoco! Soffre l’acqua! Forza Simipour!! Pioggiadanza e poi ancora Idrovampata!»
Il suo Pokémon lanciò attacchi d’acqua a ripetizione, ma il mostro usò l’Eledanza che aumentò le statistiche speciali e la velocità. Con un rapido e letale un Ventargenteo, Simipour andò KO.
I due ragazzi erano spacciati. Quel coso era troppo forte e si avvicinava, minaccioso e terrificante. Lo avevano disturbato dal suo sonno e ora l’avrebbero pagata. Cheren chiuse gli occhi e cercò di fare da scudo a Belle, nei limiti del possibile. Anche se sapeva che quel Pokémon l’avrebbe carbonizzato. Ma, in lontananza, echeggiò una voce che ordinava: «Maru, maledizione! Usa Idropompa!»
Successivamente, il ragazzo sentì un gemito vicino a loro, un botto lontano con uno scrosciare d’acqua e il mostro che si lamentava. Riaprendo gli occhi, Cheren vide davanti a lui Castiga, girata di spalle che si teneva una mano e Maru più avanti che teneva occupato il mostro con l’Idrocannone e il corno.
Castiga si avvicinò agli amici, preoccupata per loro, e chiese: «Ragazzi! State bene?!»
«Castì!» esclamò Belle, lanciandosi a fionda addosso a lei e abbracciandola.
L’amica alzò gli occhi al cielo e borbottò, seccata da quello slancio non ben gradito: «Belle, calmati.»
La bionda si allontanò, scusandosi, e la ragazza disse, fasciandosi la mano: «Sono arrivata in tempo.»
«Cos’hai...» tentò di chiedere Cheren ma lei gli voltò le spalle con un ghigno e disse: «Le spiegazioni a dopo. Abbiamo un Pokémon furioso da calmare! Maru! Usa Conchilama!»
Il Pokémon misterioso cadde a terra, colpito dalle spade d'acqua del Samurott; si rialzò molto arrabbiato e ripartì all’attacco, gridando il suo nome che Cheren memorizzò.
«Questo signorino è di tipo Fuoco! Non durerà a lungo!» esclamò vittoriosa Castiga, continuando a lottare con maestria insieme a Maru. Cheren diede una medicina a Simipour e andò ad aiutarla.
«Diamogli il colpo di grazia, Dottore…» concluse alla fine la ragazza, facendo l’occhiolino all’amico.
Lui le sorrise di risposta, intendendo il piano come se glielo avesse detto a parole. Se la intendevano, erano due ottimi amici, e per un momento lui dimenticò tutti i dubbi che lo assillavano da tempo.
«Maru…» disse lei.
«… Simipour…» disse lui.
«… usate Idropompa!» ordinarono insieme e un doppio Idropompa si abbatté su Volcarona che cadde a terra, esausto.
Vittoriosi, si batterono il cinque e poi raccolsero i dati sul Vocarona per la professoressa; alla fine della registrazione, il Pokédex disse, con voce metallica: “Volcarona, il Pokémon Sole. Di tipo Coleottero/Fuoco. È la forma evoluta di Larvesta. Si dice che quando il mondo fu oscurato da ceneri vulcaniche, le fiamme di Volcarona avessero sostituito il sole. Inoltre quando lotta, sparge scaglie infuocate dalle sue sei ali, creando tutto intorno un mare di fuoco.”.
«Ecco cos’era il Pokèmon misterioso.» disse pensosa Castiga: «Un Volcarona piuttosto forte. Ed è anche parecchio raro, direi. Avevo sentito parlare di Larvesta, ma non ne ho mai visto uno.»
Cheren annuì, ma poi, mezzo in colpa e mezzo grato, borbottò: «Grazie dell’aiuto, amica mia.»
Lei gli fece un cenno di noncuranza e lui accennò alla mano della ragazza: «Cos’hai fatto?»
«Ma niente di che. Maru si era incastrato laggiù…» rispose lei indicando una breccia nel muro: «E così per allontanarlo e prendere tempo ho spinto via quel coso. Ma non sapevo avesse l’abilità Corpodifuoco.»
La mano destra bruciava come se fosse immersa nelle fiamme e tutto il palmo era completamente ustionato. Per sollevarla un po’, Maru le bagnò la mano, ma lei sapeva che per un po’ sarebbe stata inutilizzabile.
Cheren comprese i rumori che aveva udito mentre non vedeva e borbottò: «Ah, ecco cos’era quel botto.»
«Sì, Maru si è liberato con un Idropompa, spaccando la parete.»
Un rumore di applausi li interruppe e da dietro una colonna apparve uno dei Sette Saggi del Team Plasma: Verdanio. Castiga lo squadrò, insieme agli amici, ma quello, come per spiegare la sua presenza lì, disse: «Bravi, l'avete sconfitto. Sono qui al Castello Sepolto per catturare Volcarona e offrirlo a Geechisu. Ma, stando a quel che dice il Trio Oscuro, pare che Geechisu al momento sia sparito.»
Castiga scoppiò in una risata sprezzante e replicò: «Per fortuna. Ero quasi stufa di vederlo in ogni città in cui mi dirigessi. Dopo la figuraccia che ha fatto, gli conviene essere svanito.»
Verdanio si fece pensieroso e borbottò: «Noi Sette Saggi siamo invincibili solo quando siamo insieme. Anche se, quello che aveva le idee chiare era Geechisu. Nessuno di noi conosceva i suoi reali piani. O forse, qualcuno sì ma di certo non io.»
«Fammi capire. Vi ha usati eppure tu volevi offrirgli Volcarona? Ma sei matto?» replicò la ragazza, fissandolo come se fosse un povero folle.
Verdanio le sorrise. Lei non capiva la grande fedeltà che avevano loro nei confronti di Geechisu. Non capiva che i suoi desideri erano anche i loro desideri; così, aggiunse, nel suo discorso che era quasi un monologo: «Non importa se siamo stati usati, ma è triste che il sogno si sia infranto. Il nostro Palazzo, così come il Castello Sepolto, è in rovina. Ma c’è una grande differenza. Il Castello Sepolto è ancora testimone di splendori passati, mentre il nostro Palazzo non lascerà alcuna traccia.»
Castiga prese l’Interpoké, rinunciando ad avere un dialogo con lui, mentre l’anziano continuava a parlare a vanvera, e chiamò l’agente della polizia internazionale, nome in codice Bellocchio, che le aveva dato il compito di trovare i Sette Saggi.
«Se vuoi trovare N...» aggiunse Verdanio sottovoce, solo a lei, mentre i due amici indicavano la strada al poliziotto: «Dovrai prima trovare tutti e Sette i Saggi... anzi cinque, escludendo Geechisu.»
Bellocchio arrivò di corsa un secondo dopo, gli mise le manette e, con fare arrogante di chi aveva compiuto con immani fatiche un grande arresto, se ne andò; ma non prima di aver ricordato alla ragazza che mancavano ancora cinque saggi all'appello.
Castiga fissò l’uomo portare via il saggio, persa in quelle parole. Trovare tutti i saggi… e come faceva lui a sapere che lei voleva ritrovare N? Senza sapere che altro pensare, e dicendosi che comunque rimuginare era inutile, alla fine propose: «Ragazzi… torniamo al laboratorio?»
Belle e Cheren assentirono. Tornarono, così, vittoriosi dalla prof con i dati di Volcarona. Lei entusiasta registrò tutto sul computer. Restarono per un po’ al laboratorio e Castiga notò che l’atteggiamento dei suoi due amici non era cambiato, anzi. Erano più amichevoli di prima, ma sempre distaccati. Non immaginava che loro avessero paura di affrontarla, ma non si immischiò. D’altronde non erano affari suoi, si disse per darsi pace.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Erano appena tornati dal Castello Sepolto, ma Belle era troppo confusa per aspettare. Così, quando la vide sola, chiamò, un po’ titubante: «Professoressa Aralia…»
«Dimmi, Belle.» rispose lei, sorridendo.
Aveva appena scaricato i dati di Volcarona nel computer e non aveva notato che, mentre Castiga era uscita, i due amici fossero rimasti lì. La ragazza fece un cenno a Cheren e disse: «Possiamo chiederle una cosa?»
Aurea sorrise e rispose, gioviale: «Ma certo!»
Adorava che le ponessero delle domande e, naturalmente, pensava fossero inerenti ai Pokémon, il suo campo prediletto. Belle, però, guardò fuori dalla finestra e vide Castiga dormicchiare sotto ad un albero, lontana dal laboratorio, volendo stare sola per riposare un po’. Non li avrebbe sentiti.
Con voce tremante, chiese: «Lei… lei si f-fida di Castì?»
La donna guardò i ragazzi accigliata, di certo non aspettandosi quella domanda, che suonava così a tranello. Pensando a cosa mai avessero in mente, rispose con un’altra domanda: «Sì, certo… perché? Voi no?»
«A… a Kanto. Abbiamo visto…» cominciò Belle, ma le morirono le parole in gola, così Cheren intervenne e raccontò tutto ciò che la ragazza non riusciva a dire.
«Capisco… e quindi ora avete paura di lei?» commentò la prof, alla fine del racconto. Era una domanda retorica, dato che già sapeva la risposta.
«All’inizio sì…» rispose Cheren, sospirando nuovamente: «Cioè… sembrava di vedere due persone diverse. Ma non posso negare che ci abbia salvato la vita da Volcarona. Quindi ora sono solo confuso. Non so cosa pensare, non so più chi ho davanti...»
La donna annuì, immaginandosi come si fossero sentiti nel vedere il Demone redivivo, ma poi borbottò, seria come mai lo era stata: «Vi racconterò una cosa. Però, ragazzi, non fatevi idee sbagliate… lei non è più come una volta. Se così fosse, mai si sarebbe sognata di rischiare la mano destra per salvarvi.»
Belle e Cheren restarono zitti, ascoltando attentamente, e lei proseguì: «Sei anni fa, ero appena diventata professoressa ed ero a Kanto a fare tirocinio dal professor Oak. I tempi in quella regione erano… oscuri. Il Team Rocket era diventato potentissimo e i quattro Fratelli Rocket, capeggiati da Giovanni, seminavano terrore ovunque. Erano temuti da tutto e da tutti. La nostra Castiga… beh, era la peggiore. C’è chi dice che non avesse nemmeno un cuore o che fosse congelato, o di pietra. Fatto sta che non aveva nessuno scrupolo, nessuna pietà. Un mostro nel vero senso della parola. Uccideva così, quando le andava, dove le andava e chi voleva. Poi arrivò un ragazzino, Red. Colui che li sconfisse. E Giovanni sciolse il team, sparendo dalla circolazione; ma i quattro tenenti, che allora erano solo reclute, non si arresero e tre anni dopo ritornarono, molto più forti e determinati. Presero possesso della Torre Radio di Fiordoropoli a Johto per richiamare il loro capo. Ma vennero fermati anche stavolta e per sempre. Il Campione della Lega di Johto e Kanto, Lance, li fermò e li sconfisse. Archer, Milas e Maxus vennero incarcerati ma Athena, il vero nome della nostra amica, non si sa come, riuscì a fuggire. Si nascose nel monte Scodella a Johto, ma venne trovata un paio d’ore dopo. Si dice che la furia dello scontro fosse rimbombata in tutti gli angoli del continente. I suoi sei Pokèmon, però, morirono nella lotta. E questo… fu questo che la cambiò. Ditemi… in questi tre anni che avete viaggiato insieme, l’avete mai vista fare qualcosa di male, a parte a Kanto?»
Belle era sul punto di piangere, aggrappata al braccio di Cheren, sconvolta, e non rispose, scioccata dalla storia. Prese la parola Cheren, che borbottò con la voce spezzata: «No, solo quei comportamenti strani come per esempio quando eravamo nel Monte Vite.»
Aurea seppe che ormai il dado era tratto e che doveva dire loro tutto. Tutto ciò che riguardava la loro amica; a costo di farli separare per sempre. Così, spiegò: «Quelli… beh, i suoi comportamenti strani erano derivanti da delle crisi di rabbia. Giovanni riuscì a renderla una macchina per uccidere, istigata dalla rabbia. Quella portava all’omicidio. Quando lei spariva, era per proteggervi dalla sua lama. Consapevole di essere pericolosa in quello stato, non voleva rischiare di farvi del male.»
I due amici si guardarono, senza saper cosa dire. Erano confusi, avevano mille domande e proprio non sapevano cosa pensare.
«Ora capite perché non ho dubbi?» riprese la professoressa, non avendo ricevuto risposta: «Lei non aveva mai provato sentimenti… il suo cervello e la sua educazione glielo impedivano, eppure, quel giorno, quando perse tutto, per la prima volta provò dolore. Un dolore atroce, che non pensava esistesse. E ora ha paura di riprovarlo. Allora rimane nell’anonimato, nell’ombra di sé stessa… non vuole legami, niente, per non rischiare. Inizialmente non voleva nemmeno Maru.»
La donna concluse il suo discorso con un tono accorato, sperando che le sue parole avessero convinto i due ragazzi che non dovevano avere paura della loro amica. Lei non avrebbe mai fatto loro del male, nemmeno sotto tortura. Mai, ne era pienamente convinta.
“Ecco perché…” pensava nel frattempo Belle, trattenendosi dal piangere: “Ecco perché dopo ogni lotta controlla in modo maniacale tutte le ferite dei suoi Pokèmon. Ecco perché all’inizio del viaggio se ne stava sempre sola e aveva quell’aria quasi… cattiva. Ecco perché aveva e ha sempre quello sguardo triste e oscuro… non avevamo capito nulla.”
La ragazza guardò Cheren, ma non le sembrò convinto; lui sembrava ancora immerso in chissà quali pensieri e, dall’espressione, non sembravano per nulla buoni. Ancora senza risposte o reazioni di alcun tipo, Aurea riprese: «Se avete paura di starle vicino, diteglielo senza problemi. Lei lo sa che non potrà avere una vita normale dopo ciò che ha fatto.»
Li osservò un ultimo momento, poi se ne andò, lasciando i due ragazzi con i loro pensieri, belli o brutti che fossero. Sperava davvero capissero, anche se era consapevole che aveva rimandato troppe volte quel discorso. Cheren era turbato e perplesso. Fidarsi o non fidarsi? Ripensò all’incontro con Volcarona. Castiga aveva rischiato di perdere una mano per salvarli. E da quanto aveva capito, quella era la mano della morte, con la quale aveva spezzato vite. Era fondamentale. Eppure non aveva esitato dal fare da scudo per proteggerli. Ripensò a quella volta, all’inizio del viaggio, quando lei gli aveva salvato la vita, anche se un po’ rudemente. Questo bastò. Qualunque cosa avesse fatto in passato, ormai era acqua passata.
«Cosa ne pensi?» gli chiese Belle, dopo aver titubato vista la sua espressione seria.
«Ammetto di essere un po’ preoccupato. Se penso che abbiamo rischiato così tanto, mi vengono i brividi. Però non ci ha mai fatto niente quindi, non dobbiamo preoccuparci!» le rispose lui, con un sorriso di sincero sollievo: «La professoressa è stata chiara!»
Belle gli sorrise a sua volta, felice che anche lui fosse del suo stesso parere, e i due amici fecero un giretto per il laboratorio. Volevano aspettare che si svegliasse e poi sarebbero andati a scusarsi con la loro amica.
Improvvisarono una trasmissione di avventura e andarono in esplorazione. Incontrarono anche il Minccino  della professoressa che si unì a loro. Si stavano divertendo un mondo, giocando tutti e tre insieme, quando decisero di andare nella cantina del laboratorio; scesero le scale e curiosarono in giro. Belle notò una porta semichiusa e la indicò a Cheren. Entrarono in uno stanzino, nel quale c’era una strana macchina ovale di acciaio, a forma di shuttle, senza finestre e con una porticina nel mezzo, che i ragazzi non avevano mai visto.
I due amici entrarono nella capsula, curiosi di vedere cosa ci fosse all’interno del macchinario e la porta si chiuse di colpo. Si girarono di scatto presi dal panico e cercarono di forzarla, ma si era chiusa a chiave.
«Minccino!» urlò Cheren battendo il pugno sulla porta di acciaio: «Minccino, aprici!»
Il Pokémon nel frattempo stava saltellando sulla tastiera di comando, pensando fosse tutto un gioco, e impostò dei dati nella centralina di comando: cliccò un bottone che impostò la regione di Kanto. Un altro, colpito ripetutamente dalla coda, impostò sei anni di scarto. Una leva, che girò verso il basso, aveva un etichetta con scritto: “indietro” in basso e “avanti” in alto. La macchina cominciò a rombare e vibrare e i due ragazzi, terrorizzati, si abbracciarono. Si sentì un botto e la terra si staccò dai loro piedi. La capsula intorno a loro svanì e i due amici si ritrovarono in un percorso, davanti ad una grotta. Leggendo il cartello davanti all’ingresso, “Grotta Diglett”, Cheren non capì che luogo fosse.
«Dove siamo finti?» gli chiese tremando Belle.
Lui scosse la testa di risposta; non aveva mai sentito quel luogo. Sicuramente non era Isshu. Dato che Belle era una fifona di prima categoria e lui doveva proteggerla, prese coraggio e si incamminò con passo deciso. La bionda ovviamente lo seguì, restandogli appiccicata. Arrivarono in una città chiamata Aranciopoli. Entrarono nella piccola cittadina portuale dal lato est e videro che a sud e a ovest c’era il mare, mentre a nord un percorso che portava chissà dove. Decisero di fare un giro, giusto per capire dove fossero finiti. Mentre camminavano sul viale, videro un cantiere, alcune case e il Pokémon Market. Lo osservarono curiosi, dato che a Isshu si compravano gli strumenti nei Centri Pokémon. Più a nord videro il tetto rosso di un centro Pokémon e, di fronte a loro, la Palestra Pokémon della città. Affascinati da quella cittadina così particolare, con tutti i tetti delle case arancioni, non sentirono la sirena del coprifuoco che echeggiò tutto intorno. All’improvviso, videro la gente che correva disperata per le strade, rintanandosi in casa più in fretta che poteva. Cheren bloccò la folle fuga di un signore, chiedendo sconvolto: «Scusi! Che succede? Perché correte tutti?»
«Siete forestieri?» chiese lui, secco.
I due annuirono e lui riprese: «Dovete nascondervi se ci tenete a vivere! Sta arrivando il Demone Rosso! Ed è suonato il coprifuoco!»
Scostando la mano di Cheren dalla sua spalla, l’uomo ricominciò a correre e si chiuse in casa, facendo sbattere la porta, e gli scuri della finestra al piano di sopra poco dopo.
Belle fissò l’amico, sconvolta da quella reazione quasi esagerata, e chiese:«Chi è questo… Demone Rosso?»
«Non ne ho id…» fece per rispondere il ragazzo, ma una risata dietro di loro lo interruppe.
Si girarono di scatto, in tempo per vedere un enorme Pidgeot atterrare davanti a loro, sulla zampa sinistra che era l’unica presente. Dell’altra era rimasto solo un moncone. Dalla groppa del Pokémon scese una ragazzina di circa dodici anni, con i capelli rosso fuoco abbastanza lunghi e lo sguardo cattivo. Era lei che rideva, vedendo la folla fuggire terrorizzata in sua presenza. La sua risata era tremenda: priva di allegria, era crudele e fredda. Come quello sguardo. Sembrava essere contenta del terrore che provocava la sua sola presenza.
Cheren stentò a riconoscerla ma il flebile gemito di Belle dietro di lui gli fece da conferma: Castiga.
Era lei.
La macchina era una macchina del tempo.
E loro erano finiti a Kanto, durante i tempi oscuri che aveva raccontato loro la professoressa, poco prima.
Avevano davanti la loro migliore amica, che, in quel periodo, era denominata Demone Rosso, ed era temuta da tutti. Cheren ne capiva il motivo. Dallo sguardo si capiva tutto. Non avrebbe mostrato pietà nemmeno se gliela avessero chiesta in ginocchio.
Athena smise di ridacchiare e rimase lì per un po’, di fronte a loro, fissandoli, a braccia conserte e a occhi socchiusi, persa in chissà quale folle pensiero.
«Forestieri…» disse infine, lentamente e con una voce un po’ infantile, data dalla giovane età, ma tagliente e lapidaria: «Non vi ho mai visti. E le facce me le ricordo.»
Cheren si mise davanti a Belle per nasconderla e annuì, deglutendo. E Athena sorrise. Ma non era un sorriso vero e proprio, non aveva nulla di allegro. Era un ghigno crudele, come quello che fa il gatto quando gioca con il topo in trappola. Sapeva di avere potere. Il potere di fare tutto quello che voleva. Assomigliava vagamente al ghigno della loro amica, solo che quello che conoscevano loro era velato di arroganza, e il più delle volte amichevole o divertito. Davvero divertito. Quello che vedevano ora, invece, era intriso di crudeltà e cattiveria, pure e semplici.
«Non serve che mi presenti.» disse lei, sempre sogghignando, camminando a destra e a sinistra, tenendoli però inchiodati dov’erano con lo sguardo: «Mi conoscerete presto.»
Cheren fece per parlare, ma lei lo interruppe secca, per evitare che dicesse la parola sbagliata e si facesse squartare come un animale mentre lei era in divieto: «Non osare darmi della bambina. Chi l’ha fatto, adesso non lo può raccontare.»
Lui voleva solo chiederle se poteva lasciarli andare, possibilmente incolumi, ma si rimangiò la domanda. Si vedeva dallo sguardo che non scherzava e che sarebbe stata capace di tutto. E comunque, chiedere la sua pietà probabilmente non sarebbe stata la mossa giusta. Il ragazzo lo sapeva perché la conosceva, nel suo tempo. E un po’ aveva imparato a capire quella strana e ombrosa ragazza.
Dopo un mugugno lievemente irritato, mentre loro non avevano il coraggio di proferire verbo, lei proseguì nel discorso, per perdere un po' di tempo e poter tornare alla base: «Il Grande Giovanni mi ha proibito di uccidere. Tremendamente seccante. Pazienza. Visto che non posso…»
Athena risalì sul suo Pidgeot, accarezzandolo sul collo di riflesso. Lui chiuse gli occhi, posandosi alla mano.
«Se domani vi trovo ancora in giro dopo il coprifuoco non mi fermerò a parlare. Consideratevi graziati, ragazzini.» concluse, per poi prepararsi al decollo e tornarsene alla base. Li aveva spaventati a sufficienza.
Cheren, un po’ irritato dal fatto che una dodicenne gli avesse dato del ragazzino, era stupito da tanta fortuna. Aveva perso qualche anno di vita con quello spavento, ma erano salvi. Athena fece per decollare, quando, da una casa, uscì un uomo, brandendo un coltello, che si avventò sulla ragazzina. Lei fu velocissima: scese dal Pokémon, schivò il fendente, diede una ginocchiata nello stomaco all’uomo che si piegò in due dal dolore e, preso il coltello, glielo piantò nella schiena. L’uomo stramazzò a terra e lei lo guardò con disprezzo e rabbia.
«Ringrazia che non ho il permesso né il tempo di sistemarti, bifolco…» disse furiosa e con una voglia assurda di ucciderlo, se già non era morto, sul posto, per poi risalire sul Pokémon e volare via. Belle e Cheren erano pietrificati dall’orrore. L'aveva abbattuto così, a sangue freddo, senza il minimo tentennamento. Un paio di uomini presero l’amico e lo portarono via, ma una ragazza uscì dalla casa dell’uomo urlando: «Maledetto mostro! Brucerai all’inferno! Le pagherai tutte, tu e le tue dannate bestie!»
La madre uscì di corsa dalla casa e le tappò la bocca, in preda all’ansia. Avvicinatasi al suo orecchio, le sussurrò: «Zitta, figliola, non parlare più. Ti ucciderà!»
Guardarono tutti verso l’alto e videro sbiancando che Athena si era fermata a mezz’aria e fissava la città. Trattennero tutti il fiato, ma lei non tornò indietro, volando verso l’orizzonte. Ci fu un sospiro di sollievo generale, ma una voce disse: «Avete poco da respirare. Non è tornata indietro perché era fuori orario, ma domani tornerà e sarà molto, molto arrabbiata. Potrebbe massacrare l’intera città se si sveglia male.»
La folla si voltò, mentre nella piazza giungeva un uomo alto e muscoloso, con la divisa mimetica dell’esercito.
«Ne siete sicuro Generale Surge?» chiese la donna che tratteneva ancora la figlia.
«Più che sicuro.» rispose lui e poi si rivolse ai ragazzi: «E vuoi due chi siete?»
«Forestieri, signore.» mormorò Cheren, tremando ancora nella voce.
Surge li fissò un momento, poi disse: «Siete stati fortunati ad incontrare il Demone di buona luna. Molto fortunati. Avete rischiato grosso… Venite con me, vi serve un tetto sulla testa. La notte è pericolosa.»
L’uomo si voltò e li precedette verso la Palestra Pokémon di Aranciopoli. Loro non sapevano se fidarsi o meno di quell’estraneo, ma restare fuori di notte non era consigliabile. E poi quello era un Leader della Lega di Kanto. Quindi non doveva essere una cattiva persona. O almeno così speravano.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


L’uomo che li ospitò per la notte era il generale L.T. Surge, un ex ufficiale dell’esercito e attuale Leader di tipo Elettro di Aranciopoli. Era un uomo alto, biondo, con gli occhi blu e molto muscoloso. Indossava la sua vecchia divisa mimetica e la targhetta al collo per ricordare i gloriosi tempi andati in guerra al fianco del suo Raichu. Condusse i due ragazzi all’interno della sua Palestra Pokémon, offrì loro del the, e sedettero intorno ad un tavolo. I due amici erano rimasti in silenzio di fronte a quell’uomo imponente e autoritario, ma poi Belle si fece coraggio e chiese timidamente: «Mi scusi signore, perché crede che Cast… ehm… che lei tornerà?»
Lui si voltò a fissarla e lei ebbe paura; ma poi le sorrise cordialmente e rispose alla domanda: «Perché quella ragazza ha insultato i suoi Pokémon. Nessuno che l'abbia fatto, è sopravvissuto. Giovanni, il loro capo, è molto rigido con gli orari. La prima cosa che insegna ai suoi sottoposti è di ubbidire senza discutere, la seconda è rispettare gli orari e la terza uccidere senza pietà. Lei si è dilungata a parlare con voi ed era ora di tornare alla base. Ma così è peggio. Perché se domani è nervosa, quella povera ragazza è spacciata…»
Visto il successo dell’amica, anche Cheren si buttò e chiese: «È davvero così cattiva?»
Surge sospirò affranto e, voltandosi a guardarlo, rispose anche a lui: «Dire solo cattiva sarebbe un eufemismo. È peggio che cattiva… è un robot. Senza sentimenti, senza nulla. Un guscio vuoto che sa solo fare una cosa: servire Giovanni senza farsi troppe domande. E ovviamente, uccidere.»
Il Generale era molto amareggiato e i ragazzi non ne capirono il motivo. Si passò una mano fra i capelli biondi e poi aggiunse: «Domani la sfiderò a un incontro Pokémon. Se si diverte abbastanza dovrebbe calmarsi e lasciare in pace quella povera ragazza.»
“Che coraggio!” pensò Belle, ammirata dal suo fegato. Anche se era la loro migliore amica, delle volte la Castiga del futuro faceva loro paura. Figuriamoci questa del passato, che con loro non aveva il benché minimo legame. Senza però farsi e fare troppe domande, i due accettarono l’invito dell’uomo e lui li ospitò gentilmente nella sua Palestra per la notte.
Il giorno, dopo alle cinque del pomeriggio, ci fu il coprifuoco. Si rintanarono tutti in casa tranne il generale e i due amici nascosti dietro una casa. Poco dopo Athena arrivò sul suo rapace, che, una volta atterrato, riprese il volo, restando però in zona. Il Generale guardò tristemente una foto che aveva in mano; poi la nascose nel giubbotto al sicuro e aspettò. Athena vide subito il Leader. Belle pensò che l’avrebbe attaccato, ma lei si limitò a fissarlo gelida; non sembrava intenzionata a fargli del male, nonostante lo sguardo freddo e distaccato. Tutt’altro. Infatti incrociò le braccia e disse, lentamente: «Generale, se ne torni nella sua palestra. Ho da fare.»
«Non se ne parla, Athé. Oggi sono in vena di lottare, e chi, se non il Demone Rosso, può farmi da sfidante?» rispose lui, abbozzando un sorrisetto furbo
«Non ho tempo da perdere Generale.» rispose lei, pacata, ma stizzita dal fatto che lui ancora sbandierasse ai quattro venti il suo nome, contro gli ordini di Giovanni.
«Paura, Demone in gonnella?» ribatté lui con un ghigno, fissando la divisa, che consisteva in una dolcevita nera e un lungo vestito bianco. Ci sarebbero dovuti essere anche un paio di stivali ma lei li odiava e preferiva girare scalza.
«Non… mi provochi.» disse lei, socchiudendo gli occhi minacciosa.
Surge si spazientì, vedendo come non riuscisse a convincerla, ed esclamò, quasi con un tono tendente al capriccioso: «Oh andiamo! Voglio solo una lotta! Che ti costa?»
Athena sbuffò, poi si arrese e sbottò: «Irritante come sempre… E va bene.»
Sciolte le braccia, schiacciò un bottone dell’auricolare che aveva indosso e disse: «Signore? Chiedo una proroga sull’orario di rientro. Sì, signore. Un imprevisto… Che cosa?! Me lo proibisce per un intera settimana?! Ma, signore…» sbuffò seccata: «Sì, agli ordini.»
L.T. Surge prese una ball e sorrise deciso, mentre lei metteva via l’auricolare e lo fissava, visibilmente seccata. Prima di fare un particolare fischio, sbottò: «Mi sta costando parecchio la sua dannata lotta sa?»
L’uomo ridacchiò e chiese, beffardo dato che già sapeva la risposta: «Davvero? E cosa ti avrebbe proibito il tuo caro capo, per addirittura una settimana?»
«Provi un po’ a indovinare.» rispose lei, guardando seccata il cielo, dal quale scese il Pidgeot zoppo, che si mise di fronte a lei.
Il sorriso del generale si allargò, quando salutò: «Ciao, Pidg! Vecchia roccia! Ti vedo in forma!»
Il Pidgeot ruotò la testa di lato, fissandolo con un profondo occhio blu oceano e ammiccò, arruffando le piume. Si teneva in perfetto equilibrio sulla zampa sinistra.
«Mi raccomando Generale, che sia una lotta divertente. Il prezzo deve valere almeno la candela.» borbottò invece Athena, fredda come il ghiaccio, ignorando gli sguardi amichevoli reciproci del rapace e del soldato.
«Ci puoi scommettere, Athé. » rispose lui e la lotta cominciò.
Fu uno scontro incredibile. I due avversari se le davano come cani rabbiosi, ma rispettandosi a vicenda. Pidg riusciva a sopperire alle scariche elettriche dell'avversario usando l'Alacciaio come parafulmine e ponte per scaricare l'elettricità nel terreno. Avendo sempre il contatto a terra, ogni fulmine era neutralizzato. Mosse fisiche, invece, come il Tuonopugno, venivano bloccate sempre dall'Alacciaio ma soprattutto dal fatto che Pidg sapeva volare e poteva quindi mettersi al riparo. Alla fine della lotta, Athena aveva vinto ma era anche soddisfatta e se ne andò senza far del male a nessuno. Il Generale portò all’ospedale i suoi Pokémon e Belle e Cheren, dopo avergli fatto i complimenti, si guardarono. Stavano svanendo. Tempo dieci secondi e si ritrovarono nella capsula. Uscirono dalla macchina, perplessi e increduli, ed ad aspettarli, furibonda e con le mani sui fianchi, trovarono la professoressa Aralia.
Castiga, nel frattempo, era in camera sua, seduta alla scrivania. In una mano aveva il barattolo con le pastiglie della professoressa, nell’altra una penna.
“A quanto pare queste caramelline fanno qualcosa. In ritardo ma sempre meglio di niente.” pensò, guardando la lettera che aveva scritto e sentendo ancora quella strana sensazione in fondo allo stomaco: “Prima mi hanno fatto affezionare a Belle, Cheren, la prof, e i miei amici Pokémon… ora questo. Dopo chiederò alla prof che cos’è.”
Sigillata la busta, si alzò dalla sedia e andò a cercare Aurea. Vagò, vagò e vagò ancora, ma non la trovò.
«Prof!» si decise a chiamare a gran voce, spazientita dal quell’inutile girare a vuoto.
Lei le rispose dalla cantina. La ragazza si diresse verso le scale, le scese e infilò la testa nella porta. Vide la prof con davanti Belle e Cheren a testa china, e una strana macchina. Perplessa chiese: «Tutti qui sotto? Che succede?»
«Niente…» le rispose evasiva la scienziata, scoccando uno sguardo inviperito ai due ragazzi che guardavano Castiga come se fosse un mostro a quattro teste. Lei fece finta di niente ed entrò nella stanza, sempre più perplessa e confusa da tutti quei comportamenti strani e senza senso.
«Dove trovo una cassetta delle lettere?» chiese alla professoressa, mostrando la busta.
Aurea rispose, con il tono seccato nel vedere gli altri due ragazzi allontanarsi da loro: «Dalla a me che te la spedisco.»
La ragazza le consegnò la busta sigillata, guardò perplessa i suoi amici che di tutta risposta arretrarono ancora e, con un alzata di spalle, se ne andò, tornandosene di sopra.
“Bah…” pensò mentre usciva “Sono tutti matti in questi giorni.”
Per distrarsi pensò alla sua lettera. Sperava davvero che lui la leggesse.

“ Per il Generale L.T.Surge,
Palestra Pokémon, Aranciopoli (Kanto)

Caro Generale,
forse si chiederà se i fantasmi sanno scrivere lettere… o se i demoni ragionano ancora da essere in grado di mettere due parole di senso compiuto insieme. O semplicemente prenderà questa busta e la getterà nel fuoco, senza leggerla, appena vedrà il mittente.
Chi lo sa? Io no di certo…
Scommetto che penserà che non ho imparato nulla. Scrivere il mittente, non è la cosa più furba da fare in questi casi. Però volevo essere sicura che, se leggerà questa lettera, sarà perché lo vuole e non perché è curioso di sapere chi le scrive.
Lei è stato l’unica persona davvero importante nella mia vita. Lei c’è sempre stato. Anche quando il mostro devastava tutto, lei c’era, pronto a lanciargli quella corda che avrebbe potuto salvarlo. Peccato che io l’abbia presa troppo tardi. Senza di lei mi sarei fatta uccidere, con lei sono riuscita a sopravvivere.
Dopo la scomparsa della mia squadra, e del mio adorato Pidg, mi sono rifugiata in una regione molto lontana da Kanto, Isshu. Ho cominciato una nuova vita e posso dire quasi con certezza che il Demone Rosso è morto quel giorno funesto. Insieme a mio fratello.
Spero che lei stia bene, perché lo merita molto più di me.
saluti Athé”

~§~

INTERMEZZO: L.T. SURGE E ATHENA

L.T. Surge, Leader di Aranciopoli, era impegnato in una violenta lotta contro uno sfidante, e non pensava ad altro. Doveva valutarlo e vedere se meritava la sua Medaglia Tuono. Sulle tribune, Giovanni aspettava che concludesse, mentre la bambina che teneva fra le braccia guardava meravigliata il ring.
«Vai Raichu! Usa Tuonopugno!» ordinò il Leader, sconfiggendo lo sfidante, che se ne andò deluso.
Giovanni scese dalle tribune e si avvicinò alla ringhiera che le separava dal ring, dicendo: «Vedo che non hai perso la mano, Generale.»
Surge sorrise sorpreso quando lo vide e rispose, avvicinandosi: «La mia Medaglia non è così facile da prendere, Giovanni. Tu piuttosto… cosa ci fai qui?»
L’uomo sorrise malvagio e rispose: «Devo chiederti un piacere. Come uno del Quartetto, non puoi rifiutarmelo. Sai, per poter avverare il mio sogno mi serve un braccio destro e ho trovato chi può diventarlo.»
Il generale scosse la testa, fraintendendo la frase, e ribatté subito: «Oh no. Non contare su di me! Ho già fatto fin troppo.»
«Non intendo te, ma lei.» rispose Giovanni, allargando il suo sorriso e indicandogli la bambina che era con lui, che osservava rapita Raichu, seduta sulla ringhiera, con le gambe a penzoloni.
«Una… bambina?» chiese Surge, guardandola attento. Era una bambina di circa otto anni, con dei lunghi capelli rosso fuoco e occhi dello stesso colore. Vestiva una semplice tuta da ginnastica, rovinata e lacerata.
Non sembrava particolarmente “speciale”, anzi.
Giovanni rispose allo sguardo interrogativo e disse: «Lei è ciò che fa al caso mio. Ma non posso occuparmene, perché devo gestire l’intera organizzazione. Ed è qui che entri in gioco tu. Dovrai rendere questa peste ubbidiente e migliorare la sua dote.»
Il generale nascose un sogghigno divertito, visto il tono seccato dell’interlocutore, e chiese: «È così tremenda?»
Giovanni non rispose, scoccandogli un’occhiataccia, poi si rivolse alla bambina: «Killera, stai qui con questo signore. Chiaro?!»
Non era una domanda e nemmeno una richiesta. Era un secco ordine. Surge guardò la bambina fissare irritata l’uomo e rispondere: «Sì, signore.»
Giovanni si allontanò da loro, andando verso la porta; raggiunse l’uscio, aprì la porta e si voltò, accompagnando le parole da un’occhiata dura: «Te la raccomando, Surge. Non deludermi.»
Varcata la soglia, l’uomo se ne andò. Di tutta risposta, la bambina fece la linguaccia alla porta chiusa. Poi tornò a guardare Raichu, rapita da quello strano Pokémon che non aveva mai visto.
«Ciao. Io mi chiamo Surge.» disse invece il Generale, coprendole la vista di Raichu, ma tendendole la mano con fare amichevole e gentile.
Lei lo guardò con curiosità, abbandonando i toni irritati e ostili che aveva usato con Giovanni, e fissò la mano, perplessa. Surge balzò sulle tribune con un salto e si appoggiò con i gomiti sulla ringhiera, vicino alla bambina, guardandola. Data la mancanza di reazioni, chiese: «Cosa c’è? Ho fatto qualcosa di male?»
La bambina scosse la testa e rispose: «No.»
«E allora cos’hai?» incalzò lui.
«No.» ripeté lei; poi ci pensò su e aggiunse: «Signore.»
Il Generale le fece alcune domande, ma lei rispose solo “sì” o “no”, con l’aggiunta di “signore” di tanto in tanto. All’uomo venne un dubbio, conoscendo l’indole di Giovanni; così si impegnò per formulare una domanda diretta e chiese: «Sai dire altro oltre a sì e no?»
«No.» rispose subito lei, scuotendo la testa.
«Fantastico.» commentò lui ironico: «Quell’idiota non voleva sentire proteste. Strano però... sentendo gli altri parlare, dovresti riuscire a farlo pure tu. Rimedieremo vedrai! E smettila di darmi del signore, ok?»
Lei annuì e lui la prese in braccio, ma una palla di piume gli piombò in testa e cominciò a beccarlo furiosamente. Surge rimise a terra la bambina, si coprì la testa con una mano e con l’altra afferrò un Pidgey che tentava di liberarsi come una furia. Era un cucciolo ma di certo aveva fegato.
«Un Pidgey?» borbottò l’uomo, perplesso.
«Pidg!» esclamò la piccola, scaldandosi, mente il Pokémon pigolava nella grande mano del generale.
Lui la fissò un momento poi chiese: «Pidg? È tuo?»
«Pidg!» rispose lei, tendendo le braccia e guardando l’uomo con occhi di fuoco.
Surge lasciò andare il piccolo Pokémon che le saltò in braccio, usando la sua unica zampa, e lei lo strinse, guardando torva l’uomo.
Il generale alzò le mani e mormorò, sorridendole rassicurante: «Ehi, calmati. Lui è Pidg ed è tuo amico. Ho capito.»
Pidg cinguettò qualcosa, e la bambina scosse la testa, dicendo: «No.»
Surge vide che si era calmata; forse l’aveva convinta della sua buona fede. Così disse: «Venite voi due. Starete qui per un po’ quindi è meglio se vi faccio vedere la vostra stanza.»
Si avviò verso una porta e con la coda dell’occhio, vide la bambina lasciare andare Pidg, che zampettò dietro di loro, e seguirlo.
Si fermò per aspettarla, vedendo che l’ostilità era svanita, e chiese:«Quindi tu ti chiameresti… Killera.»
«Sì.»
«Ti piace come nome?»
Lei lo guardò, come se ci stesse pensando su, poi rispose: «No.»
«Che ne dici se lo cambiamo alla faccia di Giovanni?» chiese lui, sorridendole complice.
«Sì.» rispose lei, sorridendo a sua volta.
Surge si chinò e la guardò. Stava pensando a un nome quando notò un ciondolo; lo prese, lo aprì e lesse “Athena”.
Ci rifletté un attimo, ma come nome non era male. Così propose: «Che ne dici di Athena? È un bel nome!»
La bambina lo guardò, poi scandì: «A.. the.. na.»
Lui annuì e lei guardò Pidg. Lui cinguettò qualcosa, probabilmente approvando il nuovo nome, e lei sorrise, dicendo: «Sì!»
Il generale le strizzò l’occhio e la portò nella stanza degli ospiti: «Domani ti insegno qualche parola, ma ora dormi. Buonanotte, Athena.»
Lei gli fece ciao con la mano, di risposta, infilandosi sotto le coperte insieme a Pidg.
Il giorno dopo, Surge andò a svegliarla ma non la trovò. La cercò a lungo, finché non sentì dei rumori in Palestra. Perplesso andò a vedere e vide la bambina che lanciava dei sassi a Pidg e lui che li schivava, saltando sulla zampa. Entrando sul ring, esclamò, per farsi sentire: «Athena! Cosa ci fai già sveglia?»
La bambina si voltò di scatto e lasciò andare il sasso, mortificata, sentendo il tono di voce alto del Leader. Chinò la testa in segno di scusa e sottomissione, e chiuse gli occhi.
Surge si avvicinò a lei, ma vedendo che non aveva reazioni, chiese: «Perché fai quella faccia? Cosa ho detto di male?»
La bambina lo guardò, perplessa, poi prese un sasso e fece un disegnino stilizzato sul pavimento della palestra. Ritraeva Giovanni con un bastone che picchiava una figurina accucciata che l’uomo intuì come un autoritratto. Surge si fece attento e lei fece un altro disegno: la figurina di prima che lanciava dei sassi a un piccolo pennuto.
«Ho capito.» borbottò l’uomo, irritato, facendole segno di smettere di disegnare: «Giovanni si arrabbiava e ti picchiava se ti vedeva allenare Pidg.»
Lei lasciò cadere il sasso e annuì, rispondendo: «Sì.»
L’uomo si chinò, raccolse la pietra e disse, porgendogliela con un sorriso sincero: «Beh, stai tranquilla. Io non lo farò.»
Athena sorrise di risposta, quasi sollevata, e passarono il pomeriggio a studiare. Da quel giorno e quelli successivi, Surge le diede da fare molte cose: imparò a parlare, a leggere e a fare di conto rapidamente. Era una bambina molto intelligente, ferrata sulla logica. Ragionava freddamente e razionalmente su ogni cosa.
Surge la mise alla prova, per puro svago. La portò all’ingresso della Palestra, con un ghigno di orgoglio dipinto sul volto.
«Perché siamo qui fuori?» chiese lei, fissandolo perplessa.
«Vado dentro, fra cinque minuti entra tu e prova a raggiungermi!» esclamò lui di risposta, con un sorrisone stampato sul viso.
Lei, incuriosita, annuì e lui entrò. Cinque minuti dopo, Athena fece lo stesso. Superata la soglia della Palestra, si fermò un momento, fissando tutti quei pulsanti, in cima a dei piedistalli. In fondo, il corridoio era sbarrato da una barriera elettrica. La voce di Surge rimbombò dall’altoparlante: «Dai, piccola. Fa vedere chi sei. Ci sono due pulsanti che aprono la barriera. Una volta trovato il primo, il secondo è lì vicino!»
«È una sfida interessante, Generale!» rispose lei, guardandosi intorno, senza badare alla parola che tanto le dava fastidio. L’uomo la usava con un tono affettuoso, che non la irritava. Ci mise due minuti, ma allo scadere dei sessanta secondi, la barriera si aprì.
«Complimenti! Sei riuscita in qualcosa che molti allenatori trovano difficoltoso!» le disse raggiante il Generale.
Lei gli sorrise e rispose: «Era facilissimo.»
Man mano che passava il tempo, i due si legavano sempre di più. Surge era felice di educarla, visto che non aveva né figli, né moglie. Athena, invece, trovava quell’uomo, grande e grosso, molto simpatico. Non era come con Giovanni, con il quale doveva sempre ubbidire e mai divertirsi. Con il generale poteva correre, giocare, urlare, fare quasi tutto quello che voleva. Neanche le veniva in mente di uccidere. Soprattutto, forse l’aspetto migliore, poteva allenare Pidg a muoversi con solo una zampa. Athena era tutto sommato una brava bambina e, a parte qualche marachella, era molto ubbidiente. Non sembrava la peste descritta da Giovanni. Un giorno, però, Surge non la trovò in Palestra, come tutte le mattine. Andò a cercarla ovunque, finché non la trovò nel giardino. Fece per andare da lei, ma sentì un lamento. Si nascose e vide che la bambina stava torturando un probabile ladro, dato che indossava un passamontagna. Aveva entrambe le gambe ferite e zampillanti di sangue, ma quello che fece rabbrividire l’uomo fu l’espressione di puro divertimento che le leggeva in viso. Si stava godendo la sofferenza di quel tizio come mai le aveva visto fare. Sconvolto, ritrovò dopo lo shock le parole, ed esclamò, facendo per intervenire e salvarlo da quella tortura che pareva troppo dolorosa per una persona: «Ma che stai facendo?!»
Athena lo vide con la coda dell’occhio. Il divertimento era finito e la preda ormai svenuta, probabilmente sul punto di morire per la carenza di sangue; così si avvicinò alla sua testa e, con un rapido colpo, usando entrambe le mani, gli tagliò la gola, ridacchiando, e dicendo: «Addio!»
Il generale, da sbalordito, si fece arrabbiato. L’aveva ucciso così, senza la minima pietà, senza il minimo scrupolo. Così, esclamò ancora, a voce più alta: «Ma sei impazzita!? Ma che ti è preso si può sapere?!»
Lei lo guardò, lievemente perplessa dal tono, ma con ancora il sorriso sulle labbra, e chiese: «Perché?»
Sconvolto dalla sua pacatezza, chiese a sua volta: «Ok, era un ladro ma... cosa ti ha fatto per finire così?»
«Niente.» rispose lei, alzando le spalle: «Mi andava di ucciderlo.»
Surge rimase per un secondo senza parole, sbalordito dalla risposta, totalmente sbigottito; poi disse: «Vieni con me.»
Lei si alzò e prese un fazzoletto per pulire accuratamente la lama, intanto che seguiva il Generale. Non capiva perché fosse così furioso. Entrarono nel soggiorno a destra della palestra e lui disse, indicando una sedia: «Siediti.»
Lei, perplessa da quel tono così diverso dal solito, obbedì e sedette. Lui si chinò e la guardò negli occhi, serio e deciso. A voce bassa, senza urlare perché sapeva che non doveva, disse: «Athena… uccidere è sbagliato.»
Lei, ancora non comprendendo cosa avesse fatto di così catastrofico, chiese: «Sbagliato? Che vuol dire?»
«Che è una cosa cattiva.» rispose lui; fece una pausa, per trovare le parole, poi disse: «Quel tizio, credo, non ti ha fatto nulla. Giusto?»
«Sì. E allora?» chiese ancora lei di rimando, non riuscendo a capire dove volesse andare a parare.
Spazientito, lui rispose, alzando lievemente il tono di voce: «E allora non si fa. La vita è una cosa preziosa, che non va spezzata così. Insomma, è crudele.»
«Ma io mi diverto.» rispose lei, stizzita da quel rimprovero senza senso: «Il Grande Giovanni ha detto che posso farlo se mi piace.»
«Ah si?» borbottò lui, studiando quella frase: «Dimmi un po’… cosa ti ha detto lui?»
Athena estrasse il pugnale, momento nel quale lui ebbe paura di un’aggressione, ma lei si limitò a spiegare: «Mi ha dato questo. Ha detto che era più comodo di un pezzo di legno.»
«Pezzo di legno?» chiese lui, incalzandola a raccontare.
«Sì, quando mi ha trovata.»
«Racconta un po’…»
Lei lo guardò, poi cominciò a parlare: «Io credo di essere nata nel bosco… da quello che mi ricordo la mia mamma è un Arcanine, ma quando ero appena cresciuta un uomo l'ha catturata. Così ho cominciato a vivere da sola e un giorno ho incontrato Pidg. C’era un uomo che gli stava facendo male, io ho preso un pezzo di legno e ho fatto come mi ha insegnato la mamma. L’ho colpito alla gola. Poi ho cercato di aiutare Pidg, che stava morendo dissanguato perché gli aveva tranciato una zampa, ma non sapevo come fare. Ed è arrivato il Grande Giovanni.»
«Ti ha portata alla base e ha curato Pidg, dico bene?»
Lei annuì e Surge, interessato, incalzò: «E poi?»
Lei indicò il pugnale e proseguì: «Poi mi ha dato questo, mi ha portato in una stanza dove c’era un uomo e mi ha detto di ucciderlo. Io l’ho fatto a pezzi e mi sono accorta che mi piace. Mi fa sentire forte. Il Grande Giovanni, allora, si è messo a farmi fare quelli che lui chiama allenamenti, ma mi irrita che mi comandi. Allora ho cominciato a non presentarmi o a uccidere quando non voleva. Si è arrabbiato tantissimo e mi ha portata qui.»
Surge però non le prestava più attenzione e, riflettendo, mormorò: «Il braccio destro… naturalmente.»
La bambina era perplessa, così lui disse: «Ascolta… oh, accidenti come faccio a spiegartelo. Vedi, in questo mondo non puoi fare quello che vuoi. Viviamo tutti insieme, sullo stesso pianeta ed è giusto che ognuno rispetti l’altro, dal piccolo Diglett, agli enormi Mamoswine. Sai, io sono stato in guerra, ho ucciso tanta gente per obbligo, ma di contro ne ho salvata altrettanta. Però devi capire che non puoi uccidere perché ti va di farlo. Impara ad apprezzare la vita, perché è una cosa molto preziosa, più di ogni altra cosa al mondo.»
Athena fissò il pugnale, perplessa. Ma non disse nulla, prese e andò nella sua stanza. Surge non la fermò ma sperò che capisse. Andò, invece, a far sparire il cadavere del pregiudicato; essendo stato in guerra, i morti non gli facevano troppa impressione ma non poteva di certo lasciarlo lì così.
La mattina dopo, svegliatosi un po' preoccupato, trovò la bambina in Palestra e la salutò, cauto. Lei non distolse gli occhi dalla lama che teneva in grembo e chiese: «Uccidere è sbagliato, giusto?»
«Sì.» rispose lui.
Lei mise via il pugnale, lo fissò e chiese: «E allora c’è qualcosa di giusto che sia divertente?»
Surge sorrise, vedendo quanto fosse collaborativa, ci pensò su, poi gli venne l’idea: «Hai mai fatto una lotta Pokémon?»
Lei scosse la testa e lui sorrise: «Vedrai com’è divertente! Ascolta, oggi pomeriggio ho in programma un incontro con uno sfidante. Tu e Pidg andate sulle tribune e guardateci. Poi mi dirai.»
Athena annuì e poche ore dopo andò a sedersi sugli spalti, insieme al suo fedele amico Pokémon, mentre Surge e un ragazzo si fronteggiavano ai due lati di un campo di battaglia.
«Vai Raichu!» esclamò Surge, lanciando una Ball, mentre il suo avversario mandava un Jolteon.
Lo scontro fu molto duro e avvincente, e sia Pidg che Athena guardarono lo spettacolo, emozionati da tanta bravura. Il Generale vinse per un soffio, ma la vittoria più grande fu quella che ottenne con la bambina.
Quando lo sfidante se ne fu andato, la ragazzina si lanciò giù dalle tribune, saltandogli intorno eccitata, urlando: «Generale! Generale! Mi insegna a combattere vero?! Anzi, ci insegnerà vero? La prego, la prego, la prego!»
Lui sorrise, cercando di calmarla, e rispose: «E come dirti di no, piccola peste?»
Gli allenamenti cominciarono, ma già si fece avanti un problema: Pidg non era in grado di volare. La menomazione alla zampa gli impediva di prendere la rincorsa e le ali non erano abbastanza forti per il decollo da fermo. Perplesso e dispiaciuto, Surge le disse: «Questo potrebbe rivelarsi un problema, Athé. Le ali sono il punto forte di Pidg…»
«Ho già un’idea!» si limitò a rispondere lei, per poi sparire per alcuni giorni. Appariva solo a pranzo e a cena, e se Surge le chiedeva qualcosa, lei si rifiutava di rispondere. Alcune settimane dopo, andò vittoriosa dal Generale ed esclamò: «Ho trovato la soluzione!»
Stupito, lui chiese: «Ah si? E come?»
«Venga a vedere!»
Lo portò in Palestra e fece un mucchietto di sassi. Pidg era di fronte a lei, con entrambe le ali tese, illuminate di bianco, e con la punta appoggiata in terra. Aveva una strana placca di cuoio allacciata al petto. La bambina cominciò a tirare sassi a raffica verso il Pokémon e lui, poggiando il peso sia sulla zampa, che sulle due ali, schivava ogni colpo, anche ruotando su sé stesso usando le ali come perno.
«Incredibile! Sfrutti l’Attacco d’Ala per farlo muovere! Però… può stare solo fermo.»
«È qui che viene il bello!»
Fece un cenno a Pidg e il piccolo Pokémon si buttò di pancia in terra, stese le ali, bilanciandosi, e con la zampa come timone e motore a spinta, si mise a strisciare per tutta la palestra.
Tutta orgogliosa, lei spiegò: «In acqua va che è un missile! Qui sulla sabbia c’è attrito e allora è lento e fa più fatica, però funziona!»
«Sei un piccolo genio Athé!» esclamò il generale, sbalordito. Lei ridacchiò di risposta.
Surge cominciò ad allenarla spesso a combattere. Visto che non poteva contare molto sulla pratica, le insegnava la teoria, ma ben presto, grazie alle fatiche che Pidg faceva per muoversi, evolse in un bellissimo Pidgeotto.
«Pidg! Ma cosa…! Ti sei evoluto!» esclamò la bambina, guardandolo sbalordita.
Lui arruffò le piume, un gesto che diventerà ben presto un abitudine, spalancò le ali e, alzando un polverone, decollò da fermo. Athena lo guardò volare, meravigliata e felice, ma questo periodo di gioia duro ben poco.
Un brutto giorno, Giovanni andò nella Palestra senza avvertire, per vedere se la sua piccola creatura fosse pronta. Entrò di soppiatto e li vide: lottavano, Pidg contro Raichu. E la bambina era… felice. La rabbia che assalì l’uomo gli fece venir voglia di strozzare quell’incompetente di un soldato. Ma avrebbe avuto ben presto la sua vendetta.
«Surge!» esclamò, furibondo, irrompendo nel locale.
Athena sbiancò di colpo, vedendo il capo, e Surge si fece preoccupato, mentre pensava ad un modo per inventarsi qualcosa e tenerla con lui. Giovanni scese sul campo, prese la bambina per un braccio e guardò con occhi di fuoco il Leader, per poi andarsene, trascinandola via. Athena fece ciao con la mano al Generale, sapendo che non l’avrebbe mai più rivisto. E le dispiaceva. Molto.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


«Che razza di babbei! Smettetela di guardarla male! Rovinerete tutto!» esclamò la professoressa Aralia, squadrando Belle e Cheren con i suoi penetranti occhi azzurri. Li aveva visti bene, fissavano Athena come se dovesse tentare di ammazzarli da un momento all’altro.
«Ma professoressa… lei non l’ha…» cercò di ribattere Belle.
«Vista?» la interruppe la donna, seccata: «Vi ho già detto che ero là in quegli anni! E voi non avreste mai dovuto prendere la mia macchina del Tempo e andarvene a spasso in un tempo così pericoloso!»
«Scusi… non l’abbiamo fatto apposta! Non sapevamo nemmeno fosse una macchina del tempo! Stavamo giocando con Minccino e ci siamo finiti dentro! E poi è partita da sola!» risposero, in coro.
I due amici parlavano praticamente insieme, finendosi le frasi a vicenda, ancora terrorizzati e scossi.
Lei però non voleva sentire scuse ed esclamò: «Non importa di chi sia la colpa. Avete scelto il periodo peggiore per andare a spasso nel tempo. Per fortuna non vi ha fatto nulla…»
Belle scattò come una molla e gridò, in mezza crisi di panico: «È stato terribile, prof! Era spaventosa! Sembrava un demonio!»
Sospirando, la donna rispose: «La chiamavano Demone Rosso per un motivo.»
«Ma prof… è sicura che sia cambiata?» intervenne Cheren, ma si rimangiò la domanda vista la reazione. Irritata dalla loro palese ottusità, come se quei tre anni non fossero mai esistiti, la donna esclamò: «Sentite… basta! Mi avete stufata! Non so che idea vi siate fatti e non so più cosa dirvi per convincervi! Decidetevi a vederla con occhi diversi o non se ne fa niente!»
Lasciandoli lì, scossi da quello scatto, se ne andò. Non volevano proprio capire che Athena non era più così? E se non lo capivano da loro, lei non avrebbe più sprecato parole al vento. Ora era una brava ragazza e se loro si erano fatti forviare così, era affar loro. Rivide Castiga solo quella sera, a cena; era stata via tutto il pomeriggio, sola, facendo chissà cosa. Aurea aspettò un po’, cercando di capirne l’umore, ma poi si buttò e chiese: «Posso farti una domanda?»
Lei non rispose ma annuì.
«Per chi è quella lettera?»
«Una persona…»
«Beh, chiaro. Se non vuoi dirmelo non importa, ma mi incuriosisce il fatto che tu l’abbia scritta.»
Athena alzò lo sguardo, fissandola con due occhi rossi indecifrabili, come per pensare cosa dire. Erano quegli sguardi che ancora facevano rabbrividire la donna. Sguardi dei quali non sapevi cosa aspettarti.
Dopo un attimo di pausa, la ragazza disse: «In verità, volevo chiederle anche io una cosa… in questo modo le rispondo anche.»
Sollevata che avesse parlato e basta, la donna la incoraggiò ed esclamò: «Vai avanti!»
L’altra sorrise al repentino cambio di umore. Non era difficile immaginare cosa avesse pensato e il suo successivo sollievo. Ripresa un po’ di serietà, chiese: «Che sensazione è quando… be’ pensi a una persona e senti quel groppo allo stomaco che però non fa male. Solo… piangere.»
Aurea ci pensò su poi, credendo di capire a cosa si riferisse, rispose: «Si chiama nostalgia. Succede quando ti manca una persona a cui tenevi in modo particolare e ne senti la mancanza. Non è come per Pidg, perché probabilmente questa persona è ancora viva, dico bene?»
Athena annuì, soppesando quella parola, e ripeté: «Nostalgia…»
Si riscosse presa da un pensiero e, lanciandole il barattolo vuoto, disse: «Comunque le sue pastiglie funzionano, sa?»
«Le hai prese tutte?» esclamò Aurea, sbalordita.
La ragazza annuì, come se quello scatto fosse esagerato, e replicò: «Certo. L'avevo promesso se non sbaglio. Una ogni due mesi, come mi aveva detto lei. E, a quanto pare, hanno sbloccato questa… nostalgia. Oltre che a farmi affezionare a tutti voi.»
Aurea parve delusa e Castiga aggiunse: «Non è contenta?»
La donna alzò subito le mani, esclamando: «No, non fraintendermi. Certo che sono contenta, solo che… sarebbe stato meglio se avesse “sbloccato” qualche emozione più bella. Le uniche due che conosci sono quelle tra le più tristi.»
«Un passo alla volta.» disse solo la ragazza, con il suo solito sogghigno.
Lei annuì e rispose: «Hai ragione. Ora a dormire… restate un po’, vero?»
«’Notte.» disse solo la ragazza, alzandosi, e la professoressa capì che era un “Sì”.
Un paio di giorni dopo, bussarono alla porta del laboratorio; la professoressa andò ad aprire e vide davanti a lei un militare alto e muscoloso con un Raichu appresso, che le disse, con un vocione da far tremare i vetri:
«Salve! Lei è la professoressa Aralia?»
Lei lo guardò tra lo scioccato e lo sconvolto, e poi rispose: «Sì… sono io.»
L’uomo esibì un sorriso amichevole e chiese, nuovamente: «Tutti i futuri allenatori passano da lei giusto?»
Lei annuì, pensando “Questo tipo non sembra un principiante e poi ha già un Raichu.”
«Ha per caso mai visto una ragazza dai capelli rossi in questi tre anni? È altra più o meno così… cioè lo era tre anni fa.» chiese, quindi, lui, accompagnando le parole con gesti della mano: «E ha anche gli occhi rossi. È un tipo un po’ isterico…»
Si fermò a pensare cos’altro poteva dire per descriverla, mentre la donna si rivedeva davanti agli occhi l’immagine di Athena, e cominciava a rabbrividire.
«Isterica?» ripeté una voce alle spalle dell’uomo, con un tono divertito, anche se distaccato come sempre.
Il tipo si girò di scatto, la vide, la squadrò per un interminabile istante ma poi sgranò gli occhi e sorridendo ed esclamò: «Athé!»
Lei ghignò, con quel suo sogghigno solito e rispose: «Solo? È come un complimento sa?»
«Secondo il mio modesto parere sei solo un po’ isterica. Il resto è tutta esagerazione!» dichiarò lui, facendole l’occhiolino, vedendo quanto fosse meno glaciale di un tempo e osando finché poteva.
Lei scosse la testa e alzò gli occhi al cielo, ma si vedeva che era contenta di vedere quell’uomo; lui non perse tempo e chiese, quasi a bruciapelo: «Tanto per sapere, Psicorocket… che ci fai ancora in giro?»
«Carino come nomignolo. Me lo segno.» ridacchiò lei, per poi tentare di tornare seria e aggiungere:
«Comunque, l’erba cattiva non muore mai, si ricordi. Ma aspetti che arrivi la peste, Generale, e avrà l’onore di vedermi bruciare negli inferi!»
Notando, però, la faccia perplessa della professoressa, le fece un cenno e spiegò: «Prof, le presento il Generale L.T.Surge, un ex ufficiale dell’esercito. Viene da Aranciopoli, una cittadina di Kanto, nella quale è Leader. Sempre se non l’hanno ancora umiliato.»
L’uomo le lanciò un’occhiataccia e ribatté: «Simpaticona, io sono imbattibile!»
«Ma naturalmente!» assentì lei con una nota di derisione pura nella voce.
Aurea sorrise, vedendo come lei si lasciasse stranamente andare e fosse meno gelida del solito, e disse, tendendo la mano al soldato: «Ci siamo già presentati… molto piacere, Generale.»
«Piacere mio. » rispose lui, stringendogliela.
Surge però si rivolse subito di nuovo alla ragazza: «Adesso mi racconti tutto tu! Cosa hai fatto in questi tre anni? Ma soprattutto… hai… ehm…» chiese, bloccandosi senza saper cosa dire per evitare la parola “ucciso”. Si segnò in orizzontale la gola con il pollice, giusto per farsi capire.
Athena ridacchiò, scuotendo la testa e alzando gli occhi al cielo, ma lo fissò e domandò di risposta: «Lei che dice?»
«Pochi misteri e parla chiaro una buona volta!» esclamò già esasperato lui.
«Ma l’umorismo non sa proprio cosa sia!» finse di spazientirsi lei: «Dovrebbe fare un corso.»
Lui le fece la linguaccia stizzito e ribatté, categorico: «Se tu hai la lingua più tagliente del pugnale, non è un problema mio.»
«Quando ci si mette è proprio antipatico, sa?» replicò lei, tentata di rispondere al gesto infantile con uno dello stesso stampo, per poi indicargli una quercia lontana. Lui annuì con un sorrisetto furbo dipinto sul volto e la seguì, senza timore.
La prof li guardò allontanarsi, abbastanza in ansia. Conosceva abbastanza bene Castiga, per essere sicura che non l’avrebbe ucciso, ma quell’uomo… chi era? Tutta quella familiarità, che non aveva nemmeno lei. Aurea era persa nei suoi pensieri, quando notò Belle e Cheren nascosti dietro alla porta, inorriditi. Si avvicinò a loro e, intuendo la loro preoccupazione, disse: «Cosa avete ragazzi? Non vi sgrido più, se è di questo che avete paura…»
«Chi glielo dice?» sussurrò Belle a Cheren.
Lei li guardò entrambi accigliata, prima uno e poi l’altra, così Cheren fece un respiro profondo e disse, con un tono da confessione: «Ecco. Nel passato… beh… sa in che città eravamo?»
«No.» rispose la prof, quasi intuendo «So solo che eravate a Kanto.»
«Aranciopoli.» rispose lui, aspettandosi l’esplosione: «E sa chi ci ha difeso dalla Castì?»
«Non ditemi…»
Belle annuì e confermò i suoi sospetti: «Sì, esatto. Il Generale Surge.»
Aurea ci rimase di stucco. Restò un momento senza parole, poi mormorò: «Incoscienti… Siete solo due incoscienti! Castiga non deve saperlo! Non deve sapere che l’avete vista in quello stato.»
«Dobbiamo dirlo al Generale Surge.» disse Cheren subito, cercando di calmarla, non aspettandosi un mezzo attacco di panico di quella portata: «È una persona intelligente e ci aiuterà.»
«Speriamo.» rispose la professoressa, poco convinta, tentando di calmarsi: «Ma lei non dovrà essere presente.»
Castiga e Surge ritornarono al laboratorio per cena. Lui le aveva fatto un terzo grado e lei gli aveva raccontato quello che le era successo. Il loro discorso fu molto intenso, soprattutto una parte. Quella riguardante un certo Pokémon.
«Athé… tu non me la racconti giusta. Quello sguardo, non è quello di una ragazza felice.» disse il Generale, serio ma preoccupato, alla fine della chiaccherata.
Lei sospirò, guardando in basso, e rispose: «Io... insomma, senza di lui non sto bene. Maru è stato un toccasana, ma lui era mio fratello. È diverso.»
L’uomo sospirò; sapeva che quei due erano legati, da sempre, ma borbottò: «Immagino tu stia male, se questa emozione ti ha fatta rinsavire così. Ma non devi rimanere nel dolore. Accetta la cosa e onora la sua memoria. Lo stai già facendo, comportandoti bene, ma lui non vorrebbe vederti soffrire così. Io non capisco il linguaggio dei Pokémon, lo so, ma anche il più ignorante di questa terra avrebbe capito quanto tu e quel pennuto eravate legati. Tra un po’, parlare era superfluo. Custodiscilo nel tuo cuore e vai avanti. Solo così riuscirai a vivere.»
Athena annuì, anche se ancora triste, e disse solo: «Ci proverò Generale, glielo prometto.»
Finita la rimpatriata, i due, tornati al laboratorio, entrarono nell’atrio e videro la professoressa da sola.
La ragazza si guardò intorno e chiese: «Dove sono Belle e Cheren? Non li vedo da tutto il giorno.»
«Chi sono?» le domandò il Generale.
«I miei due amici di cui le parlavo prima.» rispose lei, guardando Aurea con fare interrogativo: «Insomma, sono svaniti dalla faccia di Isshu?»
«Non lo so…» le rispose la studiosa, evasiva, per poi cambiare discorso: «Senti, Athena, mi faresti un favore?»
Perplessa da tutto quel mistero, lei borbottò solo: «Dica…»
«Daresti la cena a tutti i Pokémon del laboratorio?»
«Eeh?!» esclamò sconvolta lei: «Ma ci metterò una vita!»
«Dai, Athena! Per favore!» la supplicò la prof facendole gli occhioni da cerbiatto: «Lo sai, dopo che Beartic si è ammalato, è diventato intrattabile e aizza anche gli altri! Tu sei l'unica che possa avvicinarsi a loro senza farsi del male... ti prego!»
Lei si arrese. Fece finta di scattare sull’attenti, facendo alla donna l’occhiolino e, con un sorriso di benevola accettazione, disse: «Agli ordini… però lasciatemi qualcosa da mangiare!»
Una volta che la ragazza fu fuori portata di orecchio, Surge esclamò: «Incredibile!»
«Cosa?» chiese distrattamente la professoressa, fissando la porta.
Entusiasta, lui rispose: «Lei è la prima persona che vedo da sei anni a questa parte che le fa fare qualcosa che non ha voglia di fare!»
Aurea non poté fare a meno di sentirsi orgogliosa a quelle parole e replicò: «Già. L’ho vista anch'io, sa? Ero a Biancavilla ai tempi. Tirocinio dal professor Oak.»
Surge annuì, ma si fece serio e borbottò: «Capisco… senta, io la devo ringraziare.»
«Perché?»
«Perché non le ha permesso di farla finita.» rispose subito lui, sentendosi in colpa come mai lo era stato tranne quando l’aveva lasciata andare via: « Le è stata vicina… avrei voluto farlo io.»
«Non si senta in colpa.» gli sorrise lei, tentando di tirarlo su di morale prima del probabile shock: «Lei è molto importante per Athena. Da come si comporta, vedo quanto siete legati... e questo legame credo fosse anche nel cuore ghiacciato del Demone.»
Lui alzò lo sguardo su di lei, vedendo quegli occhi sinceri e convinti di ciò che stavano dicendo. Annuì, ma vide Aurea farsi imbarazzata e dire: «Ora però… devo farle vedere due persone.»
Surge si fece attento e la donna fece un cenno a Belle e Cheren, che erano nella stanza accanto e che, al suo richiamo, entrarono nell’atrio; il generale sgranò gli occhi, incredulo. Quei due ragazzini non erano cambiati di una virgola, in sei anni. Identici a come se li ricordava. Sconvolto, mormorò: «N-non è possibile!»
La studiosa gli prese una mano, sentendo che tremava dallo shock di avere delle allucinazioni del genere, e, calma, gli disse: «Stia calmo, si sieda e le spiegheremo tutto.»
Lui sedette e lei gli raccontò della macchina del tempo e del viaggio dei ragazzi.
«Potevate fare un giro in un periodo migliore ragazzi.» commentò l’uomo, alla fine di quell’assurdo racconto al quale era costretto a credere per l’evidenza; non era probabile avere delle allucinazioni collettive: «Così vi siete rovinati la bella immagine che avevate di lei. Benché sia glaciale come al solito, ha un non so che di diverso…»
«Non è stata una cosa volontaria generale. Però… avevamo già dei dubbi.» disse Cheren e gli raccontò del cambiamento avvenuto con Maxus.
«Maxus… quell’idiota è l’unica persona al mondo capace di farla infuriare ancora.» commentò il Generale, passandosi una mano fra i capelli biondi: «Anche quando era piccola. Se volete, vi racconto la storia dall’inizio.»
Lo guardarono tutti interessati e lui cominciò: «Ho permesso io la creazione del Demone. E ancora adesso mi sento in colpa per questo. Ai tempi ero amico di Giovanni. Lo credevo un po’ suonato, ma non così tanto. Un giorno venne nella mia Palestra con una bambina di otto anni: capelli rossi, un Pidgey storpio appresso, con una piccola passione, ma non entriamo nel dettaglio. Comunque, Giovanni mi chiese di renderla ubbidiente e se riuscivo più, ehm… sadica.»
I tre lo fissarono sempre più incuriositi e lui fece vedere loro una foto, che tirò fuori dalla tasca interna del giubbotto mimetico: ritraeva il Generale un po’ più giovane con in braccio una bambina dai capelli rossi, con quel sogghigno che aveva ancora oggi, e in basso un grosso Raichu con un Pidgey appollaiato sulla testa.
«Quando me la portò, capì cosa intendeva Giovanni. Sembrava fatta apposta per i suoi scopi, ma io non volevo aiutarlo. Cercai di migliorarla e lei imparava velocemente. Non so perché ma le ispiravo fiducia.
Poi però Giovanni si accorse che non volevo fare quello che voleva e me la portò via, per sempre.» concluse, davvero affranto per come avevano poi preso piede le cose. Si sentiva maledettamente in colpa; e sentiva che tutte quelle vittime portavano anche il suo nome. Avrebbe dovuto fare qualcosa e invece...
«Però lei non si è mai scordata di quel vostro legame, Generale.» intervenne Belle, cercando di consolarlo come poteva e distogliendolo dai suoi pensieri: «Quando eravamo nel passato… non so se l’ha notato ma Castì ha fatto di tutto per non farle del male.»
Lui annuì a quelle parole più che veritiere e aggiunse: «Lo so. Mi dispiace ammetterlo, ma ne ho sempre approfittato un po’. Per salvare della gente, mi mettevo in mezzo. E nonostante tutto, lei non riusciva a farmi niente di male. Per rimediare al mio danno, ci è voluta la morte del suo amato Pidg.»
«Guardiamo al futuro, Generale!» esclamò la professoressa Aralia prendendogli la mano per cercare di tirarlo su di morale: «Ora è felice!»
«Felice… forse, ma non del tutto. E francamente io non vedo nessun futuro…»
Aurea tolse la mano, a quella verità che cercava da sempre di negare. Anche a se stessa. Ma lui aveva ragione. Che futuro vedevano per lei? Il buio più totale… forse, lì a Isshu, avrebbe potuto farsi una vita. Ma i suoi istinti sopiti potevano emergere in ogni momento. E avrebbero potuto di nuovo portarla nel baratro della follia.
Poco dopo, Castiga tornò, con un ghigno di vittoria stampato in faccia ed esclamò: «Ho finito! Veloce eh?» ma si bloccò sulla soglia vedendo le facce scure di tutti; dopo una breve pausa, chiese: «Che cosa c’è?»
Il Generale guardò l’orologio, avendo rapidamente pensato a qualcosa per risollevare l’atmosfera fattasi pesante e disse: «Ammettilo! Hai barato!»
Lei lo guardò con aria di sfida, e con un ghigno rispose: «E se anche fosse?»
Lui si alzò, le sorrise e disse, scompigliandole i capelli: «Peste che non sei altro.»
La professoressa interruppe il giocoso dibattito e chiese: «Generale… le basta una branda?»
«Cosa?!» esclamò subito la ragazza, come se l’avessero insultata: «Ma quale branda e branda! Ci sto io lì! Il Generale va nella mia stanza!»
«Non se ne parla, Athé! Sono stato nell’esercito! Ho ben passato di peggio!» ribatté secco lui, per poi rivolgersi alla studiosa e dire: «La branda va benone professoressa, la ringrazio!»
I due cominciarono a discutere, urlando, insultandosi con epiteti molto coloriti. Belle, Cheren e Aurea li guardarono, sbigottiti da un cambiamento così repentino dei toni. Il Generale l’ebbe vinta e Castiga uscì dalla stanza maledicendo il mondo. Lui la guardò uscire con un ghigno di vittoria e la prof si avvicinò a lui, mormorando per scusarsi: «Mi dispiace che abbiate litigato...»
«Litigato? Non si preoccupi! Una volta era normale!» esclamò lui, ridendo e dando alla donna una pacca sulla schiena da mandarla a gambe all’aria: «Con quel caratteraccio che si ritrova, è impossibile non discutere animatamente!»
Aurea annuì, ma rispose prontamente: «Beh, Generale, lei ha il coraggio di andarle contro. Io ammetto di non aver mai avuto il fegato di contraddirla…»
Surge capì cosa intendesse, perché borbottò: «Immagino. Sa, io l’ho conosciuta prima di tutti. E con lei ho un rapporto totalmente differente. Come lei con me.»
Aurea annuì, ma l’uomo distese subito l’atmosfera e così andarono tutti a dormire, chi felice, chi nero di rabbia e chi un po’ triste. Si era sempre sentita quasi come una madre… e ora saltava fuori quell’uomo. Il padre che la ragazza non aveva mai avuto e con il quale aveva un vero rapporto. Surge non aveva paura di lei e Athena lo rispettava. E la donna capì che un rapporto così profondo non avrebbe mai potuto instaurarlo.
Con questi pensieri tristi, si coricò, ma quella notte, il Generale bussò alla porta della sua stanza; Aurea gli aprì, sbadigliando, ed esclamò sorpresa, quando lo vide: «Surge? Che cosa c’è? È successo qualcosa?»
Lui alzò le mani, scuotendo la testa, e rispose: «Volevo parlarle delle pastiglie che ha dato ad Athé. Mi scusi per l’ora, però lei non deve sentirci, o almeno non prima che ne abbiamo parlato noi.»
La scienziata annuì e replicò: «Venga dentro. Non ci disturberà nessuno. Minccino! Fai la guardia e non far entrare nessuno!»
Il piccolo Pokémon si mise davanti all’uscio, il Generale entrò e la donna chiuse la porta dietro di lui. Lo fissò un pochino imbarazzata, dato che era in pigiama, struccata e tutta spettinata, ma lui non pareva farci caso. Era molto serio così lei ruppe il ghiaccio, anche per dissimulare l’imbarazzo di avere un estraneo in camera da letto: «Dice che ho fatto male?»
Lui le sorrise, facendola avvampare, e rispose: «No anzi, è una buona idea. Però mi faccia un piacere… si calmi. Capisco che possa sembrare ambiguo irrompere qui di notte, ma le assicuro che non ho cattive intenzioni. È che quella pazza dorme con il sole… è impossibile non avercela intorno di giorno, a meno che non la spedisce chissà dove, ma non mi pare opportuno.»
La donna arrossì più vistosamente e balbettò qualche scusa per la sua malafede, ma lui la tranquillizzò nuovamente, e aggiunse: «Tornando a noi… Athé mi ha detto che lei ha supposto sia psicopatica, ma io credo che sia sociopatica e anche nevrotica. Mi ha dato una mano, tempo fa, un profiler della polizia internazionale per capire meglio. E ora che mi ha detto qualcosa lei, sembra che tutto torni. Ci pensi bene. Lei, se fosse solo sociopatica, agirebbe in ugual modo in ogni situazione. Invece tira fuori il peggio, il vero Demone Rosso, quando si arrabbia. E questo è uno dei sintomi della nevrosi: farsi dominare dalla rabbia. Se le sue pastiglie hanno funzionato lentamente e con poca efficacia, forse è perché la nevrosi ne ha inibito gli effetti…»
Aurea ascoltava attenta e borbottò: «Può essere. In effetti, anche le peggiori stragi sono state compiute quando era furiosa o quando qualcuno la faceva scattare. Mentre invece, altri omicidi mirati sono molto differenti.»
«Non dico che non sia sociopatica.» si spiegò meglio lui, per evitare fraintendimenti: «Ma so che le due patologie si possono combinare… e io credo sia il nostro caso.»
Lei annuì, e accese il computer che aveva in camera, chiamando Gotithelle e la Musharna di Belle, che la sentirono grazie alla loro telepatia; i due lavorarono tutta la notte, ma la mattina all’alba, si presentarono da Castiga stanchi e tirati, ma sorridenti.
La ragazza li guardò, perplessa, e chiese: «Cos’è… avete fatto festa voi due? Potevate invitarmi!»
I due sorrisero ancora, troppo stanchi per ribattere a quella frecciatina, e la professoressa diede alla ragazza un barattolo; con voce tendente al supplicante, chiese: «Lo faresti un altro tentativo?»
Castiga guardò il barattolo di pastiglie blu, lo prese e rispose: «Cambiato colore? Il prossimo giro me lo aspetto verde, eh! Vediamo se queste funzionano…»
Surge ridacchiò e buttò lì: «Non ti facevo così collaborativa!»
Lei lo guardò di sottecchi e rispose: «Sa com’è… dopo essermi resa conto che con Giovanni non avevo mai realmente vissuto, ho deciso di provare tutto quello che posso per cambiare. Questi tre anni sono stati fantastici. Vorrei averlo scoperto prima ecco.»
Lui le sorrise e replicò: «Sono contento di vederti così convinta. Vedrai che, prendendone una al mese, potrai continuare su questa strada e magari dimenticare la vecchia.»
«Non so se sarà mai possibile dimenticare. Comunque sia… senta un po’ prof…» chiese lei, per scostarsi da quel discorso triste, rivolta ad Aurea, con un sogghigno: «Ma lei non dovrebbe studiare i Pokémon?»
La donna la guardò un po’ imbarazzata, senza saper cosa rispondere, e Castiga se ne andò in cucina ridacchiando; colpita e affondata. Sbadigliando, i due la seguirono per fare colazione. Si trovarono con gli amici e Cheren ebbe una delle sue idee; fissando eccitato sia Castiga che il Generale, chiese: «Perché non fate una lotta?»
Alla ragazza quasi andò di traverso la colazione; i due si guardarono, comunicandosi con lo sguardo ciò che pensavano e che si capivano a vicenda; vennero subito loro in mente quegli incontri di Pokémon che Surge organizzava solitamente per salvare la vita di chi osava farla arrabbiare.
«No guarda Cheren, non mi sembra…» cominciò a dire la ragazza, ma Surge la interruppe: «Perché no?»
Lei lo guardò e lui le sorrise fiducioso. Alla fine combatterono.
“Come dire di no al Generale?” si disse lei, rassegnata, con un mezzo sorriso.
Castiga mandò in campo Maru e il Generale Raichu.
Starter contro Starter.
Fu l’incontro più bello della loro vita.
Nessuno dei due risparmiava un colpo o una tattica, ma non erano violenti. Sembrava quasi che i loro due Pokémon danzassero. E con quella lotta si dissero tutto ciò che non si erano detti a parole. Alla fine fu un pari merito. Non c’era un vincitore perché nessuno dei due voleva vincere. E Cheren saltò fuori con un’altra delle sue idee: doppincontro.
Castiga e il Generale contro lui e Belle.
La ragazza non era molto entusiasta, ma Surge la convinse con una semplice frase: «Facciamo vedere a questi due pivellini come si combatte, Demone in gonnella!»
Lei alzò gli occhi al cielo a quel soprannome e mandò Maru, lui Raichu, entrambi curati dalla prof in un istante, Belle Emboar e Cheren Serperior.
L’esperienza nella lotta del Leader e dell’ex Tenente era portata allo stesso livello dei due avversari, che erano in vantaggio di tipo. Ma poi accadde ciò che Castiga temeva: Belle ordinò: «Emboar usa il Fiammapatto!» e Cheren: «E tu Serperior usa l’Erbapatto!»
Lei, preoccupata per lo sviluppo della situazione, ordinò: «Oh cavolo… Maru! Va’ davanti a Raichu e usa l’Acquapatto a piena potenza!»
Il campo diventò una distesa di fuoco. Maru resisteva grazie al suo tipo Acqua, ma Raichu dovette salirgli in groppa per non ustionarsi le zampe. Le colonne di fuoco e d’erba si scontrarono con un fragore contro quella d’acqua e il Samurott arretrò, ma riuscì a resistere.
«Dannazione, dannazione e ancora dannazione! Maru...?» sbottò Castiga, in ansia per il suo Pokémon.
Lui guardò la sua allenatrice con quel suo sguardo fiero e deciso che le era sempre piaciuto e che le aveva dato la forza di andare avanti in tante occasioni, e annuì, scuotendo la testa. Ma faceva fatica e si vedeva.
«Ho un’idea... Raichu! Usa il Tuono sull’Acquapatto!» ordinò il Generale.
Castiga lo guardò perplessa, non capendo cosa volesse fare, e l’esperimento funzionò. L’Acquapatto cominciò ad emanare scintille e divenne più potente. Ora le due squadre erano in perfetto equilibrio. Una scintillante colonna d’acqua e elettricità contro due colonne di fiamme e foglie.
«Athé.» le disse il Generale, concentrato nel pensare a qualcosa: «Così non ci muoviamo… ti fidi di me?»
Lei annuì senza il minimo dubbio, tenendo d’occhio il campo, e lui continuò: «Maru dovrà reggere da solo.»
Lei guardò il Samurott; lui girò appena la testa, in modo da fissarla negli occhi, annuì deciso e con un forte e chiaro: *«E andiamo!»* brillò di azzurro. Si era attivato l’Acquaiuto, la sua abilità speciale in caso di difficoltà. Ora le mosse d’acqua erano molto più potenti, ma dovevano essere veloci; non avrebbe retto a lungo.
Surge ordinò: «Raichu! Interrompi il Tuono e usa Fossa!»
Raichu eseguì e svanì sottoterra, ustionandosi a causa degli effetti aggiuntivi della combinazione degli avversari; la distesa di fuoco liquido che inondava il terreno non lasciava scampo. Belle approfittò dell’occasione, cadendo nella trappola, e ordinò a Emboar di usare il Terremoto, interrompendo il Fiammapatto. L’Acquapatto di Maru, potenziato dall’Acquaiuto, sbaragliò l’Erbapatto, colpendo gli avversari e impedendo a Emboar di attaccare. Raichu colpì Emboar con Fossa, sbucandogli sotto i piedi dal sottosuolo, e lo mandò KO. Restava solo Serperior. Cheren ordinò al Pokèmon di usare Fendifoglia su Maru ma Raichu si mise in mezzo e bloccò la coda di Serperior, tenendolo fermo.
«Maru! Usa Forbice X!» ordinò Castiga, con la vittoria nello sguardo; il Samurott, abbagliante nella sua luce azzurrina, estrasse le spade, le mise a croce davanti a lui, illuminate di bianco e colpì. Così, anche Serperior andò KO. Castiga e il Generale batterono il cinque ma avevano chiesto troppo a Maru. Il Pokémon sorrise per la vittoria ottenuta, barcollò e si accasciò a terra.
«M-maru..?» mormorò la ragazza, avvicinandosi tremante a lui.
«Maru!?» ripeté un po’ più forte, in un attacco d’ansia.
Lo accarezzò delicatamente e vide che respirava malapena, debolmente. In una crisi di vero panico, esclamò: «Zekrom! Scendi subito!»
Sotto gli occhi sbarrati del Generale, delle nubi temporalesche apparvero sopra di loro, nere e crepitanti di elettricità. Si aprì un varco e Zekrom scese dal cielo. Castiga gli andò incontro, ordinando: «Zekrom! Prendi Maru e andiamo subito al centro Pokémon di Austropoli! Muoversi!»
Zekrom guardò sbalordito l’umana che condivideva una parte di lui e, dal tono e dall’atteggiamento, ma soprattutto, sentendo e condividendo il suo panico, capì che non c’era tempo da perdere. Prese Maru con una zampa, lei gli saltò in groppa e volò velocissimo ad Austropoli. Sfondò l’entrata dell’ospedale e fu il panico generale.
Castiga scese dalla groppa del Pokémon, urlando: «Infermiera Joy! Il mio Samurott sta male! Faccia presto!»
L’infermiera arrivò in volata con un lettino e Audino al seguito; presero Maru e lo portarono in sala operatoria. La ragazza cominciò a camminare avanti e indietro, troppo in ansia per stare ferma.
“Non ancora…” pensò con un nodo nello stomaco e il panico nel cuore: “Ti prego, non ancora… Prima Pidg, Fiamma, Bandan, Lapras, Nid e Ju. Maru no… per favore, non lui… l’unico che mi ha restituito la vita… non può… non deve…”
Le lacrime cominciarono a scendere. Quell’unica emozione che provava era forte, molto più forte di quanto lei si fosse mai aspettata. Arrivarono di corsa gli altri, seguiti dalla professoressa Aralia. Il Generale vide Athena in lacrime, e l’abbracciò, mormorando: «Stai tranquilla, Athé. Maru è forte. Ritornerà come nuovo.»
Lei affondò la faccia nel suo giubbotto e si calmò un po’. Quel dolce abbraccio, quasi paterno, era bellissimo. Caldo, affettuoso… non se l’era mai scordato.
Lui, per distrarla, chiese, indicando Zekrom, accucciato fuori dal centro Pokémon che attendeva notizie: «Che cos’è questo mostro?»
«Si chiama Zekrom…» rispose lei, non volendo alzare la testa dal suo petto: «È uno dei Pokémon Leggendari di Isshu, di tipo Drago/Elettro. Il Pokémon Nero Ideale. Insieme a Reshiram, il Pokémon Bianco Verità, si dice che abbia creato la regione.»
L.T. Surge lo guardò ammirato e Zekrom, compiaciuto di tutte quelle attenzioni, si lasciò toccare, facendo scintillare la coda con il Teravolt. Lei li lasciò giocare e, tornata alla porta della sala operatoria, guardò la luce. Rossa. Brutto segno.
Ricominciò a camminare avanti e indietro, con i pensieri più cupi del mondo per la testa, quando sentì un richiamo familiare: *«Castiga? Ehi, Castiga!»*
Lei si voltò di scatto e lo vide venirle incontro un po’ zoppicante, ma vivo e vegeto. Gli saltò al collo, e mormorò: «Il mio piccoletto.»
Lui appoggiò la sua testa sulla spalla della sua Allenatrice, rispondendo: *«Sono quasi in forma smagliante! Cosa sono quelle? Lacrime?»*
Castiga se le asciugò con un gesto rapido e rispose: «Mi è entrato qualcosa in un occhio. Cosa vai a pensare...»
Lui ridacchiò, prendendola in giro, e lei, dopo aver sorriso agli altri, mormorò: «Torniamo a Soffiolieve.»

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


«L’ha sentito anche lei?» sussurrò Castiga al Generale, accostandosi a lui dopo essersi guardata varie volte alle spalle con la coda dell’occhio, mentre stavano tornando tutti insieme al laboratorio della professoressa Aralia a Soffiolieve.
«Non hai perso l’orecchio vedo.» le rispose lui, a bassa voce: «Comunque, sì. Affermativo. E non mi piace.»
La ragazza si guardò ancora alle spalle, nervosa e sbottò: «Odio essere pedinata. Vado io o va lei?»
«A te l’onore.» sorrise lui, facendole l’occhiolino: «Ma, mi raccomando, lo voglio intero.»
Lei sogghignò e rispose: «Non serve necessariamente fare a pezzi per uccidere, dovrebbe saperlo.» per poi applicare il vecchio trucco che le aveva insegnato suo fratello Milas. Rallentò il passo, il Generale si mise dietro a lei con naturalezza, per coprirla alla vista del pedinatore, e lei si nascose silenziosamente nel boschetto in parte al sentiero. Salì su un albero vicino, rapida e silenziosa, e, abbastanza in alto, si guardò in giro. E la vide. Una persona, con un cappello da baseball, una maglia nera e pantaloni scuri, seguiva acquattato i suoi amici. E non si era accorta dell’assenza della ragazza. Il Generale aveva fatto bene la sua parte. Ora veniva quella più difficile. Castiga non riusciva a capirne nemmeno il sesso; così, determinata a proteggere gli amici, scese dall’albero e si acquattò tra i cespugli. Quatta e silenziosa, con tutti i muscoli tirati per fare meno rumore possibile, si avvicinò alla schiena dell’osservatore; dai capelli corti e dalla corporatura pareva di sesso maschile. Viste le nulle reazioni, probabilmente, non si era accorto della sua presenza. In un attacco lampo, lei si avventò sul tipo e gli strinse il collo con un braccio, puntandogli il pugnale alla gola. Il ragazzo, colto di sorpresa, cercò di divincolarsi, ma sentendo il metallo sulla pelle, si bloccò di colpo. Lei strinse la presa e ringhiò: «Chi sei? Perché ci stavi seguendo?!»
Lui cominciò a balbettare, impaurito ma con un tono velatamente dolce, e poi riuscì a scandire: «S-signora! Calmatevi, posso spiegare!»
«Un momento…» mormorò Castiga, allentando la presa in modo da fargli girare appena la testa.
Lo riconobbe all’istante, come aveva intuito. Stringendo gli occhi quasi minacciosa, lo lasciò andare, ma lo tenne d’occhio. Non voleva fidarsi, ma gli sembrava così docile da non essere una minaccia.
«Salve, Tenente! Come state?» le chiese la Recluta che lei aveva salvato da morte certa a Kanto, sorridendo, cercando di dissimulare l'imbarazzo di quell'incontro, ma senza la minima paura, benché lei lo avesse appena minacciato e fosse ancora armata.
«…ma cosa ci fai tu qui?!» borbottò lei, rinfoderando la sua lama.
Lui fece un sorrisino triste e rispose prontamente: «Mi ha mandato il tenente Archer… il tenente Maxus ha ricominciato a rendere la vita impossibile a tutti. Ha già ucciso tre reclute.»
Lei lo guardò socchiudendo gli occhi, sospettosa. Non era da Archer mandare qualcun altro per fare una cosa della quale aveva la responsabilità lui. Così chiese: «E Archer ti ha mandato qui?»
«In verità mi sono offerto.» ammise lui, notando come fosse sospettosa: «Non vi avevo ancora ringraziata per l’aiuto che mi avete dato, Signora. E poi… volevo chiedervi scusa. Sono stato impulsivo e quindi volevo chiedere perdono per la mia impudenza.»
Castiga lo guardò glaciale, ma non fece commenti. Dopo aver riflettuto un attimo, concluse che non aveva niente da temere da lui e che doveva aiutare il fratello; dopotutto glielo aveva promesso tempo prima; così, rassegnata, sbuffò: «Devo andare a Kanto.»
Il ragazzo scattò subito come una molla ed esclamò: «Vengo con voi!»
«Come vuoi.» gli rispose solo lei, incamminandosi e uscendo dal bosco; andò sulla strada per raggiungere gli altri e dire loro della partenza imminente, quando la Recluta la rincorse, urlando: «Dove andate? Il porto è da un’altra parte!»
«Lo so, ma devo avvertire i miei amici che parto. Aspettami un secondo…» cominciò a dire Castiga ma lui la interruppe con un docile: «Vi seguo.»
Lei alzò le spalle, come per assentire e lanciò una ball: «Vai, Wargle! Vai a fermare gli altri!»
Il Braviary uscì dalla sfera, fece un giro sopra i due ragazzi e poi volò verso nord. Loro lo seguirono e a breve Castiga vide sbucare da una curva il Generale di corsa, che in pochi passi li raggiunse ed esclamò, in ansia: «Demonio! Ero preoccupatissimo!»
Lei lo fissò, mezza seccata da tutta quell’agitazione senza motivo: insomma, lei era il Demone Rosso in fin dei conti, mica la prima sprovveduta che capitava; così sbottò: «So badare a me stessa sa?»
Surge ignorò la protesta, avendo visto anche il ragazzo, e nervoso, ringhiò: «E lui chi è?»
«Una Recluta del team Rocket.» rispose pacata lei.
«E cosa vuole?» ringhiò ancora lui, guardando il ragazzo sempre più male, mentre lui rimpiccioliva sotto quegli occhi furibondi da padre geloso.
La ragazza sogghignò alla reazione dell’uomo, ma non voleva che lo scannasse. Non le aveva dato fastidio rivedere quel ragazzo… anche se l'incontro era stato più uno scontro. Così, cercò di mediare e borbottò: «Stia calmo. L’ha mandato Archer… vuole che vada a fermare Maxus.»
Il Generale si passò una mano tra i capelli, sbottando: «Ma tuo fratello ha ventiquattro anni! E non riesce a tenerlo a bada?!»
«A quanto sembra, no. Devo pensare a un modo per tenerlo buono per sempre…» aggiunse, velando quella frase di minaccia.
Surge e Aurea, arrivata poco dopo con Belle e Cheren, la guardarono con preoccupazione e lei scoppiò a ridere di risposta, vedendo le facce: «Stavo scherzando! Prendete le cose troppo sul serio lasciatevelo dire!»
I due sospirarono di sollievo nel sapere che non era realmente intenzionata a scannare il fratello; lei fece loro l’occhiolino divertita e salì su Wargle. Poi guardò la Recluta che era rimasta impalata al suo posto, e chiese: «E allora? Vieni o cosa?»
Lui si riscosse come folgorato da un fulmine, non aspettandosi una domanda ma un ordine, e replicò di riflesso: «D-dove?»
Già spazientita, Athena ribatté: «A Kanto? Sveglia!»
Perplesso, lui protestò, pensando di dover nuotare dietro all’aquila per tutto il viaggio: «Ma… vi rallenterò a piedi! Pensavo saremmo tornati con il traghetto...»
Castiga lo guardò, visibilmente irritata, e indicò il posto dietro di lei, sulla coda del Pokémon, quasi ordinando: «Infatti vieni con me! Monta su Wargle che prima partiamo, prima torniamo!»
Il ragazzo avvampò all’istante e il Generale cominciò a ringhiare come una belva; furioso, esclamò: «Non ti azzardare, moccioso!»
Il giovane si sbrigò a salire dopo l’occhiataccia del suo Tenente e Surge tentò di saltargli addosso prima che potesse mettere piede sul dorso di Wargle. L’Emboar di Belle lo fermò in tempo, bloccandogli le braccia dietro la schiena.
«Generale, si calmi.» tentò di protestare Castiga, irritata da quella preoccupazione fuori luogo, ma lui la ignorò volutamente, continuando a urlare come un folle: «Scendi subito! Non osare toccarla o sei morto!»
Lei sbuffò, scuotendo la testa, e disse al ragazzo seduto dietro di lei: «Reggiti forte!» 
Wargle decollò. La Recluta quasi cadde all’indietro, ma lei, tenendosi stretta al dorso dell’amico Pokémon con la sola forza delle gambe, gli prese le mani prima che cadesse e le mise intorno alla sua vita.
«Ho detto che devi reggerti!» gli disse, guardandolo con la coda dell’occhio.
Lui si scusò blaterando qualcosa di incomprensibile e si strinse a lei, arrossendo.
E il viaggio, nuovamente verso la regione di Kanto, cominciò.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


«Dai, Wargle… lo so che sei un fenomeno e resisterai!» lo incitò la voce della sua Allenatrice.
*«Con un altro paio di ali, forse…»* ansimò lui di risposta, perdendo quota.
Castiga e la Recluta erano sopra all’oceano. E Zekrom non voleva avere altri in groppa se non la sua eroina. Urgeva una sosta. Erano in volo da dieci giorni, le provviste scarseggiavano e Wargle era distrutto.
“Ma dove ci fermiamo?” si chiese febbrilmente la ragazza, in preda all’ansia, mentre notava che non solo il compagno di viaggio non si preoccupava dell’emergenza, ma in più se ne stava beatamente posato a lei, usandola alla stregua di un cuscino. Si preparò la frecciatina velata di minaccia per fargli riprendere un po’ le distanze, ma l’amico Braviary supplicò: *«Ti prego, Castiga!»*
Lei lasciò perdere, mandandosi a mente di rimproverare quello sfrontato a terra, e borbottò: «Ok, ok… hai ragione Wargle. Vai, Maru!»
Wargle si avvicinò al pelo dell’acqua e si fermò, sospeso a mezz’aria. Il Samurott uscì dalla sfera e si tuffò in acqua, riemergendo in parte al Braviary.
«Sali su di lui.» disse Castiga alla Recluta, pensando: “Che almeno ti stacchi, cozza che non sei altro.”
Lui la guardò annuendo e lentamente, per paura di finire in acqua, salì sul dorso di Maru, tenendosi alla ragazza come ad un appiglio, cosa che lei non gradì affatto. Cercando di mantenere la calma, lei fischiò e Zekrom scese dal cielo tuonando. Seduta in groppa al Pokémon Nero Ideale, fece ritornare uno stanchissimo Wargle nella sua Pokéball, che si congedò con un flebile: *«Ti ringrazio molto.»*
Il ragazzo la fissò un momento, mentre Zekrom volava e Maru nuotava, poi chiese, indicando il Samurott su cui viaggiava: «Ma voi… non venite su lui?»
«Non ce la fa a portare due persone.» gli rispose lei con un alzata di spalle, ma notò che l'espressione delusa. Con un mezzo sospiro, pensò: “Ma non era ancora stufo di fare la cozza?”
Decise di metterci una pietra sopra, onde evitare inutili discussioni che l'avrebbero mandata in escandescenza, e scrutò l’oceano. Erano senza cibo e bisognava fermarsi da qualche parte. Ma dove?
«A cosa pensate, Signora?» le chiese il suo compagno di viaggio dopo un po’ di silenzio.
«Eh?!» esclamò lei cadendo dalle nuvole e dandogli retta: «Sto cercando un’isola. Non ci arriviamo a Kanto di questo passo. Tu come sei arrivato a Isshu?»
«Con il traghetto, ma ci ho messo parecchio tempo.» rispose lui, ben felice di vedere che era propensa alla conversazione.
«Lo credo bene. Fa mille scali. E poi per mare è molto più lunga.» annuì lei; continuando a guardarsi intorno, aggiunse:  «A proposito… come ti chiami?»
«Recluta 00085, Signora.»
Lei alzò gli occhi al cielo e borbottò: «Cambio domanda… come ti chiamavi prima di entrare nel team?»
Un po’ stupito, lui rispose prontamente: «Raphael. Raphael Grayhowl.»
«Carino.» commentò lei, quasi sarcastica: «Comunque tu chiamami Castiga. O al limite Athena.» aggiunse poi: «Non… Tenente.»
Lui annuì, anche se non ne capiva il motivo, e lei si rimise a guardarsi intorno. Ma quello che vide la pietrificò. Un Pokémon, con una bocca piena di denti aguzzi, saltò per azzannare la recluta che, voltata verso di lei, non si era resa conto di niente. Athena si lanciò prima che il cervello potesse elaborare qualcosa: si mise tra lui e il Pokémon e questo la azzannò alla spalla. Stringendola con la lunga coda per il collo, la trascinò in acqua.
«Athena!» urlò il ragazzo, preso dal panico, sporgendosi dal dorso del Pokémon su cui viaggiava e guardando giù.
Maru fu rapido. Si immerse, non badando alle proteste del suo passeggero, e, nuotando velocissimo, arpionò il nemico con il corno, facendolo fuggire e recuperando la sua amica e allenatrice che però era svenuta. Raphael tirò il corpo inerme della ragazza fuori dall'acqua, sul dorso del Samurott, ma sentì Zekrom lamentarsi e vide che si stava tenendo la stessa spalla che Castiga aveva ferita, e che sanguinava copiosamente, solo che gli unici graffi presenti erano quelli dei suoi stessi artigli. Raphael era molto preoccupato, ma con voce decisa si rivolse al Pokémon Nero.
«Senti.» gli disse, cercando di non tremare nella voce: «Ce la fai a cercare un isola?»
Zekrom lo fissò con un occhio giallo minaccioso, ma annuì. Volava storto, come se fosse sofferente, ma non aveva nulla. Raphael si rivolse al Samurott e mormorò: «Tu… sei Maru vero?»
Lui annuì, guardando la sua allenatrice preoccupato, e il ragazzo continuò: «Dobbiamo trovare un isola. Il Tenente ha bisogno di cure e non credo che potrebbe sopravvivere fino a Kanto. Siamo troppo lontani.»
Maru si avvicinò a lei e con il corno aprì una Pokéball dalla quale uscì Wargle; accorato, mormorò: *«So che sei stanco amico, ma Castiga ha bisogno di cure!»*
Wargle vide la loro Allenatrice svenuta e sanguinante, così rispose: *«Troverò un’isola!»* e cominciò a volare in cerchio sopra di loro. Era esausto ma doveva farcela.
Il Pokémon nero perdeva quota sempre di più e Athena non smetteva di sanguinare. A Raphael prese il panico. Non sapeva che fare. All’improvviso l’aquila li chiamò e prese una direzione. Per aiutare Zekrom, Raphael caricò Athena su Maru e, rimanendo sul Pokémon nero, gli disse: «Forza amico, tra poco potrai riposare!»
Lui annuì e seguì Wargle. Andarono avanti per una buona mezz’ora, fuori rotta, ma finalmente il ragazzo avvistò l’isola. Approdarono e Raphael provò a sentire ancora il battito di lei. Dopo un primo momento in cui aveva accelerato, aveva cominciato a decelerare, sfiancato. Doveva fare qualcosa. Zekrom cadde al suolo svenuto e lui, in preda al panico, si sentiva inutile. Cosa poteva fare? Maru non si perse d’animo e fece uscire Shikijika. Raphael lo fissò riflettendo e lo riconobbe. Era quello che Athena aveva usato per alleviargli il dolore con l’Aromaterapia. L’unica differenza era che quel giorno il Sawsbuck aveva le corna adornare di fiorellini rosa, mentre ora era carico di foglie verdi. Cambiava perché era cambiata la stagione ma Raphael, essendo di Kanto, non poteva di certo saperlo. Il cervo fece la stessa cosa con Athena. La ferita sembrò migliorare e il sangue rallentò. Per aiutare Shikijika, il ragazzo si diede da fare e tolse la maglia alla ragazza. Lui voleva solo fasciarle la ferita, ma si ritrovò a terra, con gli artigli di Wargle piantati nei vestiti e l’aquila che lo fissava truce.
«Ehi calmati amico! Non volevo fare ciò che pensi! Solo una fasciatura! Davvero non ti sto mentendo!» cercò di difendersi, fissando Wargle negli occhi lucenti.
Il Braviary lo squadrò a lungo, poi si allontanò di qualche metro in alto, con un avvertimento nello sguardo: «Fa qualcosa che non devi e ti stacco la testa!»
Raphael ignorò a fatica gli sguardi feroci dei Pokémon puntati alla sua schiena e, cercando di non soffermarsi troppo sul corpo della ragazza, le fasciò stretta la spalla e le rimise la maglia. Wargle si avvicinò a loro e si mise al fianco di Athena, per riscaldarla. All’altro lato si accucciò Shikijika e Maru andò a cercare dell’acqua. La notte andò avanti e cominciò a fare molto freddo così Raphael fece entrare i Pokémon nelle loro sfere. Zekrom era ancora svenuto e lui vide Athena tremare. Si avvicinò a lei e la prese fra le sue braccia. Lei, inconsciamente, si appoggiò a lui e il ragazzo la stinse piano a sé. La tenne stretta, dolcemente, e si beò di quel contatto. Le accarezzò i capelli e le guance. Avrebbe voluto baciarla… ma non ne aveva il coraggio. E poi, sarebbe stato stupido. Quasi una violenza. Anche se incosciente, ora era tra le sue braccia, e a lui bastò. Si addormentò con la testa posata alla sua, felice e con una strana sensazione nel cuore che non sarebbe mai più riuscito a togliersi.
La mattina dopo, Raphael si svegliò e vide che Athena non si era mossa. Ma respirava meglio e il battito era un po’ più regolare. Le cambiò la fasciatura e poi fece uscire Shikijika che le diede sollievo con l’Aromaterapia. Andarono avanti così un paio di giorni e lei migliorò sempre più. Raphael era speranzoso. Ogni sera la prendeva tra le sue braccia, la scaldava e così facendo, metteva anche a freno quella stretta al cuore che lo tormentava ogni volta che la guardava.
Due mattine più tardi, Athena si risvegliò all’alba. Era stretta in un abbraccio sconosciuto, dolorante, confusa e… affamata. Girando lentamente la testa verso l’alto, vide che ad abbracciarla era Raphael, la recluta che viaggiava con lei. Dormiva ancora. Sgusciò fuori dal caldo abbraccio e vide con piacere che stava in piedi, anche se a fatica. Stirandosi, sentì un dolore lancinante alla spalla e ricordò: un Pokémon stava per aggredire il suo compagno di viaggio e lei si era buttata per salvarlo. Così si era ferita.
“Questa è colpa delle pillole.” si disse, quasi seccata: “Stanno risvegliando questi… questi sentimenti. Di questo passo mi faranno uccidere.”
Si tastò cautamente la spalla e sentì che era fasciata. Doveva essere stato lui. Con un leggero imbarazzo, scacciò quel pensiero dalla mente e prese qualche frutto che era lì in terra, anche se avrebbe preferito qualcosa di più sostanzioso; sedette sulla spiaggia, ad ammirare l’alba. Le piaceva molto l’alba, da sempre. Vedere il sole che comincia il suo giro, la vita che si risveglia… era uno spettacolo impareggiabile non c’era dubbio.
Nel frattempo si svegliò anche Raphael che prese un colpo. Athena non c’era. Panico. E poi la vide. Era sveglia e sedeva sulla spiaggia a guardare l’alba. La ammirò un poco, lo strano colore dei suoi capelli alla luce del sole… Si decise ad andare da lei. Ma fece la cosa più stupida che gli venne in mente. Purtroppo se ne accorse troppo tardi: le andò alle spalle e la toccò. Lei si girò di scatto e lo atterrò, piantandogli un gomito nel collo e stirandosi la spalla ferita. Gemendo, lo tenne inchiodato a terra e subito dopo lo riconobbe.
«Raphael?!» esclamò, lasciandolo andare.
Un po’ imbarazzato, lui si rialzò tenendosi il collo e mormorò, con un sorrisetto dispiaciuto: «Ehm, buongiorno anche a voi.»
Massaggiandosi la spalla, lei rispose, seccata: «Non farlo mai più… alle spalle mai. Potrei ucciderti con una mano.»
«Scusatemi. Non era mia intenzione…» cercò di scusarsi lui, sperando di riuscire a distendere gli animi. Ora che si era svegliata, si rese conto che doveva, nuovamente, riprendere le distanze accorciatesi in quei giorni.
Lei ringhiò seccata, tenendosi ancora la spalla che doleva, e poi tornò a sedersi nello stesso posto di prima, voltandogli le spalle. Lui si mise accanto a lei, sperando che non lo scacciasse, cosa che a lei venne in mente, ma che non fece, e chiese: «Vi piace l’alba?»
Lei tornò a guardare l’orizzonte e rispose: «Molto.»
Con la coda dell’occhio, la ragazza vide un movimento involontario braccio del ragazzo. Probabilmente le intenzioni erano quelle di metterglielo intorno alle spalle, ma poi cambiò idea, perché lo lasciò cadere sulla sabbia dietro di lei. Castiga trattenne un sogghigno.
“Che fifone! Paura del mostro cattivo?” pensò ironicamente, vedendo come, rispetto a giorni prima, mantenesse un po’ di più le dovute distanze; poi però, tornando seria, mormorò: «Ti ringrazio.»
Lui la guardò perplesso e lei indicò la spalla con un cenno della testa, rispondendo alla domanda silenziosa: «Per avermi salvato la vita.»
Raphael fece un cenno di noncuranza e rispose: «Oh… be’ io ho fatto ben poco. Dovete ringraziare Maru e il Cervo Fiorito.»
«Cervo fiorito?» gli chiese lei, ridacchiando leggermente.
«Sì. Il vostro cervo aveva i fiori l’ultima volta che l’ho visto… e oggi le foglie!»
Le venne da ridere. Prese il Pokédex e gli mostrò le quattro forme del Sawsbuck, spiegando: «È una sua particolarità. Sai Shikijika è un Sawsbuck e viene detto il Pokémon Stagione. Questo perché lui cambia il mantello in base alla stagione: quando l’hai visto la prima volta eravamo a fine primavera e lui aveva le corna con i fiori primaverili. Ora è estate e ha le foglie verdi, in autunno ha le foglie arancioni e in inverno i rami del palco spogli e delle parti di pelo bianco più folto sulle zampe e sul collo.»
«Ora capisco meglio.»
Lei ridacchiò, divertita dall’appellativo “cervo fiorito”, non molto apprezzato dal Sawsbuck, e tornò a guardare il sole emergere dal mare. Poco dopo si alzò con un gemito e Raphael la imitò preoccupato, pronto a sostenerla. Lei però, lo scostò con un’ occhiataccia e andò da Zekrom. Il Pokémon si era svegliato nello stesso istante in cui si era svegliata lei, ma era rimasto sdraiato a riposare. Lei gli accarezzò il muso e lui aprì un occhio. Ammiccò vedendola e lei gli sorrise: “Si amico mio. Siamo miracolosamente vivi… entrambi.”
Raphael fu subito al suo fianco e, perplesso, chiese: «Tenente, posso chiedervi una cosa?»
Lei evitò di sbuffare vedendo come non si ricordasse di chiamarla per nome e rispose: «Dimmi.»
«Quel vostro Pokémon Nero… stava male anche lui ma non aveva niente.» borbottò il ragazzo, ancora perplesso da ciò che aveva visto.
«Si chiama Zekrom.» puntualizzò lei, per poi spiegare: «Vedi... io e lui siamo legati, da una forza che non so cosa sia. Lui sente i miei sentimenti e io i suoi, lui sente il mio dolore e io il suo. Se uno dei due sviene, inevitabilmente sviene anche l’altro… capisci?»
Lui annuì e aggiunse: «Però lui è svenuto molto più tardi di voi.»
«Si, be’… lui è anche il quadruplo di me!»
«In effetti… capisco cosa intendete!»
Ci risero sopra e lei si guardò intorno: «A proposito… dove siamo?»
Lui abbassò lo sguardo e lo volse a destra e a sinistra, come in cerca di aiuto. Sembrava spaventato e imbarazzato, ma con voce tremante, rispose: «Non lo so. Siamo approdati sulla prima isola disponibile.»
«Si può dire che è quasi un bene… ci serviva un’isola per far sosta e l’abbiamo trovata.» disse lei, senza accorgersi del suo terrore: «Facciamo presto a vedere dove siamo.»
Prese l’Interpoké dalla tasca, lo accese e mormorò soddisfatta: «Adoro questo affare! Prende pure su un’isola in mezzo al mare.»
«Cos’è?» chiese Raphael, con la voce ancora un po’ tremante, ma più tranquillo vedendo che non era arrabbiata.
Lei gli sorrise e rispose: «Si chiama Interpoké. È un cellulare piuttosto moderno…»
«E a cosa vi serve?»
«Ora lo vedrai!» rispose lei, sogghignando.
Chiamò Belle che rispose alla videochiamata in un nanosecondo e cominciò a urlare: «CASTÌ! MA DOV’ERI FINITA?!»
Subito dopo l'urlo belluino, sullo schermo, apparve il generale che spinse via la bionda ed esclamò: «Athé! Stai bene?!»
Lei li guardò seccata, tappandosi le orecchie e sbottando: «Oh, insomma! So badare a me stessa, sapete?!»
«Dove sei?» chiese la voce di Belle, cercando di calmare sia lei che il generale.
Athena sbuffò e rispose: «Ecco… è quello il problema. C’è stato un imprevisto e …»
«Cosa?! Quel moccioso non ti ha protetta?!» intervenne urlando Surge e lei ribatté, spazientita: «Si calmi Generale!»
Ripreso un po’ di contegno, massaggiandosi le tempie per far passare il mal di testa che le stava venendo a furia di urli, lei riprese: «Dicevo, siamo su un’isola ma non sappiamo dove! Volevo chiedere alla prof se mi trovava la via per andare a Kanto!»
«Certo!» esclamò la voce della prof; non si poteva vedere attraverso la telecamera perché il faccione preoccupato del Generale occupava tutto lo schermo, ma la voce era ben udibile: «Vi ho trovati col satellitare dell’Interpoké! Siete vicini! Andate verso nord-ovest e sarete a Kanto in un paio di ore di volo!»
Sollevata, la ragazza le rispose: «Grazie, prof! Ci salva la vita!»
«Figuratevi!» esclamò la voce.
«Ciao ragazzuoli! Ci vediamo al ritorno!» salutò con un ghigno Athena e interruppe la chiamata, spegnendo l’Interpoké.
Raphael la fissò mezzo sconvolto, ma poi ridacchiò e chiese: «Perché li avete zittiti così?»
«Perché mi avrebbero tirato una testa quadra a furia di prediche.» rispose lei, sogghignando.
«Diamoci da fare piuttosto.» riprese la ragazza: «Io e Zekrom per ora non credo che riusciremmo a viaggiare. Tanto vale fare una vacanza… sai se c’è cibo su questo pezzo di terra in mezzo al nulla?»
Entusiasta di aver fatto ciò che doveva, lui esclamò, fiero: «Sì, signora, sono andato in esplorazione mentre voi eravate svenuta.»
«Hai cercato almeno una grotta?» chiese lei, ironica, smontandolo subito.
«Da solo?!» esclamò lui di risposta, vedendo come non notasse il suo impegno.
«Ma no! Potevi farti aiutare… beh, rimediamo subito! Fuori tutti e darsi da fare!» esclamò la ragazza facendogli l’occhiolino per tranquillizzarlo e lanciando le sei sfere contemporaneamente, dalle quali uscirono i suoi Pokémon; poi disse: «Raphael… Maru, Shikijika e Wargle li conosci. Ti presento Warubiaru il Krookodile, Deathkan il Cofagrigus e Hoshi la Zebstika! Ragazzi, vi presento Raphael!»
Lui non commentò quegli sguardi del tutto poco amichevoli, visto l’istinto protettivo dei Pokémon verso la loro allenatrice, e borbottò: «Sapete che i vostri Pokémon sono sempre più strani?»
«Lo so. Il made Isshu è scioccante per noi che veniamo da Kanto.» ridacchiò lei, tranquillizzando il ragazzo visto il trattamento amichevole dei suoi Pokémon, che peggiorò dopo che li ebbe definiti “strani”: «A proposito… tu hai Pokémon?»
Raphael aspettò un attimo, ma poi rispose: «Sì… però non andiamo molto d’accordo.»
Athena lo scrutò, non capendo cosa intendesse, e disse: «Ok, ora vediamo. Maru ti nomino capo esplorazione. Andate a cercare una grotta, qualcosa… tanto per avere un tetto sulla testa.»
*«Subito!»* rispose lui annuendo e cominciando a dare ordini agli altri.
Lei guardò la Recluta e lui, alzando gli occhi al cielo, fece uscire uno Zubat, che subito tentò di morderlo.
«Vedete?» esclamò, cercando di scacciarlo con la mano: «Vuole mangiarmi!»
Lei allontanò con una gomitata il ragazzo dallo Zubat e guardò il Pokémon attentamente. Quello non perse tempo e tentò di azzannarla, ma lei gli mise una mano sulla pancia e gli fece qualche carezza. Lo Zubat stridette felice e le si posò sulla spalla, facendosi coccolare. Lei sorrise, facendo emergere senza volerlo il suo lato affettuoso che riservava solo ai Pokémon, e mormorò: «Ma che carino che sei, piccoletto! Ti piacciono le coccole, eh?»
*«Coccole! Coccole!»* rispose quello.
Raphael era sbalordito; quando si riprese dallo shock, chiese: «Ma… ma come avete fatto?!»
«Non sarò capace di trattare con gli esseri umani, ma con i Pokémon ci so fare.» rispose lei, con un’alzata di spalle: «Dimmi… hai mai giocato con questo poverino?»
«No.» replicò subito lui: «Appena l’ho conosciuto ha tentato di mordermi.»
La ragazza sbuffò, fissando l’amico con occhi di fuoco e replicò, smettendo di coccolarlo: «Guarda…»
Lo Zubat si alzò in volo e le mordicchiò una mano. Ma non faceva male. Così, spiegò: «Vedi? Questa è una sua piccola mania… mordicchia chi gli sta simpatico. E comunque è un cucciolo. Deve capire come comportarsi.»
Lui la guardò, sconvolto, e balbettò: «Ma…»
Lei chiuse il discorso, quasi lapidaria: «Adesso voi due fate amicizia e io vado a vedere come sta Zek. Impara a comunicare con il tuo Pokémon… vi servirà.»
Athena fece volare Zubat verso suo allenatore e poi andò da Zekrom. Era ancora molto debole; come lei, del resto. Così restò lì, seduta, accarezzando il suo drago nero e riposandosi. Per sera, Maru e gli esploratori trovarono una grotta. Era molto grande e accesero un fuoco con il Nitrocarica di Hoshi. La ragazza si appoggiò a Zekrom, che per entrare nella grotta aveva fatto molta fatica dato che era ancora debole, per dormire. Ma si accorse di Raphael. Senza dire niente si era messo in un angolo, per cercare di dormire. Da solo. Voltandole le spalle. Lei all’inizio non ci fece caso, ma poi qualcosa la inquietò. Era confusa. Cos’era quella sensazione? Non era dolore. E nemmeno nostalgia.
“Che le pastiglie mi abbiano sbloccato qualche altra emozione? Ma… cos’è?” si chiese, un po’ a disagio dato che era una sensazione piuttosto opprimente. Si impose di non badare a lui e si girò dall’altra, riuscendo a dormire. Era ancora un malessere leggero, quindi poteva ignorarlo con un po’ di determinazione. Raphael invece stava malissimo. Lei era lì, a poca distanza, ma lui non poteva toccarla; abbracciarla, stringerle una mano, anche solo parlarle in amicizia. La stretta al cuore gli faceva male, ma aveva visto che lei non lo amava. Anzi. Non provava nulla. Nemmeno amicizia. Però, una speranza c’era: lei gli aveva salvato la vita, mettendo la sua a rischio. Forse doveva solo aspettare. Ma non ne era troppo convinto...
La convivenza andò sommariamente bene. Anche se lui moriva dalla voglia di abbracciarla e baciarla, dominava gli istinti e i due scoprirono di andare d’accordo. Una mattina, però, Raphael si svegliò e non la vide. Uscì a cercarla e non la trovò. Preoccupato cominciò a chiamare il suo nome a gran voce, quando vide Wargle volargli incontro.
«Wargle!» esclamò: «Lei dov’è?»
Il Braviary indicò una direzione con l’ala, ma scosse la testa, affranto. Il ragazzo guardò interrogativo l’aquila, poi corse nella direzione che aveva indicato, ma Wargle cercò di fermarlo. Raphael si liberò dalla presa e ricominciò a correre, non volendo sentire ragioni. Irruppe sulla spiaggia, ma una figura lo assalì, premendogli una lama sulla gola.
«Avevo detto a Wargle di non far passare nessuno, Recluta! È così che si ubbidisce?!» ringhiò una voce, la sua voce, piena di rabbia repressa. Lui la guardò negli occhi, e quello che vide lo spaventò. Il suo sguardo non era più freddo e distaccato. Era acceso, illuminato da un’ira quasi folle, sanguinaria. Ma, in mezzo al quel mare di pazzia, in cui era possibile perdersi e non riemergere mai più, lui vide un piccolo barlume di ragione, un’isola di razionalità che gli salvò la vita. Lei fece ancora pressione, come se volesse tagliargli la gola di netto, poi lo lasciò andare, si alzò e ordinò, secca: «Sparisci. Subito!»
Lui se ne andò controvoglia, sperando che la fredda Castiga riuscisse a vincere la battaglia interna contro il Demone. Restò solo tutto il pomeriggio e, quella sera, preparò la cena. L’aveva lasciata sola, come aveva chiesto, ma era affranto. Avrebbe voluto fare qualcosa per aiutarla, in qualche modo. Finalmente lei tornò, verso sera tardi, con i pugni scorticati a sangue, ma con l’aria più tranquilla. La ragione aveva avuto la meglio sull’ira. Un’altra volta.
«Che… che cosa vi è successo?!» esclamò il ragazzo vedendo le sue mani sanguinanti.
«Niente» rispose lei, secca, coprendole con le maniche della felpa, visto che non sembrava intenzionato a tacere. La sua voce era tornata gelida e il suo sguardo freddo e distaccato, ma razionale. Come prima di quell’attacco di rabbia che l’aveva per un attimo dominata.
«Niente non credo… fatevi vedere.» mormorò lui, facendo per prenderle le mani.
Lei gliele colpì con uno schiaffo per allontanarlo e lo guardo gelida, ribadendo: «Ho detto niente!»
Raphael la guardò con amore e rabbia insieme, alterato per come lei rifiutasse qualunque tipo di aiuto ed esclamò: «Voglio solo darvi una mano! Perché siete così testona?!»
«Non te l’ha chiesto nessuno, se non sbaglio.» dichiarò lei, tentando di chiudere il discorso.
Lui, però, non lasciò perdere e replicò: «Certe volte non serve chiedere!»
Scaldandosi, lei ringhiò: «Lasciami stare.»
Fece per andare da Zekrom, con i nervi a fior di pelle, cercando però di restare calma; non doveva fargli del male, doveva mantenere la lucidità… doveva stare calma. Un imperativo che si ripeteva da tre anni.
«No!» ribatté lui, con voce tremante ma convinta.
«Cosa?» mormorò lei, voltandosi, con quella fiamma di ira negli occhi.
«Ho…» il ragazzo deglutì, prima di ripetere: «Detto di n-no…!»
«Mi stai forse disubbidendo?» ringhiò lei, sperando che lui negasse, chiedesse scusa, e la chiudesse lì.
Lui si sentì bruciare da quello sguardo nero di rabbia, ma annuì convinto. Era preoccupato per lei e lei doveva capirlo. Athena estrasse il pugnale. Aveva maturato un certo affetto per il ragazzo, lo doveva ammettere, ma non tollerava che qualcuno le disobbedisse, o meglio, non capisse il pericolo cui stava andando incontro. Quel giorno stava male. Aveva avuto, dopo molto tempo, una delle sue crisi, un vecchio istinto mai sopito, che l’aveva quasi completamente dominata. La rabbia era capace di portarla sull’orlo del baratro della follia. Faceva fuoriuscire il suo lato peggiore, cosa da evitare. Si era arrabbiata, perché non capiva i sentimenti del suo cuore, non capiva perché stava così male senza motivo. Era confusa, una cosa che odiava, e la rabbia era salita velocemente. Così, si era allontanata e aveva cercato di scaricarsi. Non avendo a disposizione vittime, si era accanita sul suo stesso corpo, rischiando di perdere qualche falange della mano. Quello era il modo per far sbollire l’ira. L’unico modo per farla acquietare e calmarsi. Ma ora, la poca rabbia rimasta, stava traboccando. Fu solo per merito di Zekrom, se non lo uccise. Il grosso Pokémon le mise una zampa davanti al corpo con un ringhio di avvertimento. Lei cercò di scavalcarlo, ma lui la buttò a terra, la disarmò e la tenne inchiodata al suolo aspettando che la rabbia svanisse. Ma più passava il tempo più lei si innervosiva, così il Pokémon la portò via.
La mattina dopo, prima dell’alba, Raphael uscì dalla grotta. Sperava che la notte avesse calmato la ragazza, ma quando la vide, era caduta in un agitato dormiveglia e Zekrom si guardava intorno. Non aveva chiuso occhio ed era rimasto a vegliare sulla ragazza tutta la notte, per evitare che andasse a scannarlo. Raphael guardò a terra sconsolato e si allontanò. Era stato uno sciocco. Lei voleva proteggerlo e lui era riuscito a farla arrabbiare, facendole anche del male. E aveva rischiato molto. Dall’altra parte dell’isola vide degli alberi abbattuti. Erano ciò che faceva al caso suo. Per arrivare a Kanto, sapeva che dovevano andare a nord-ovest dal punto in cui si trovavano prima, ma lui ora era circa dalla parte opposta. Non aveva la bussola e non poteva esserne sicuro. Decise che per giungere a Kanto sarebbe bastato fare il giro dell’isola, dalla parte opposta dalla quale era arrivato e poi tirare dritto quando avrebbe solo intravisto Zekrom. Non poteva sbagliarsi. Così si costruì una zattera e si imbarcò la sera stessa.
Athena, però, era preoccupata. Quando si era svegliata, non lo aveva trovato nella grotta e non lo vedeva da tutto il giorno. Si sentiva tremendamente in colpa. L’animale che era dentro di lei aveva avuto la meglio. E ne era molto dispiaciuta. Nonostante avesse quasi paura nel rivederlo, perché sicuramente lo aveva spaventato, aveva un brutto presentimento. Così, nel primo pomeriggio, mandò in volo Wargle a cercarlo dall’alto. E lui lo vide imbarcarsi. Volò a riferirlo alla ragazza che non perse tempo. Montò su Zekrom che si alzò in volo. Raphael si era distanziato parecchio nel frattempo e stava remando. Poco dopo sentì delle urla. Aguzzò la vista e vide venire verso di lui un galeone. All’inizio ne fu felice, perché avrebbero potuto dargli uno strappo a Kanto, ma cambiò idea quando vide la bandiera: un teschio con due tibie incrociate. Cercò di tornare all’isola, ma benché remasse come un dannato, era troppo distante e il galeone troppo veloce. Un arpione si piantò dentro la sua zattera e due uomini lo circondarono. Lo presero e lo buttarono sul ponte della nave. Lui fece in tempo solo a vedere il capitano, che si ritrovò con uno spazzolone in mano a lavare il ponte. Cercò di ribellarsi in tutti i modi ma ne ricavò solo calci e insulti.
«Farà un bagnetto con i Pokémon squalo, allora!» esclamò il capitano infine, dopo aver ascoltato la sua ciurma lamentarsi di quel peso in più. Raphael rabbrividì.
“Oh no… aiuto…” pensò, tornando a lavare il ponte, tremando per la fine che avrebbe fatto da un momento all’altro.
Nel frattempo Castiga e Zekrom avevano visto i pirati portare Raphael sul galeone; l’avevano raggiunto troppo tardi; lei esclamò, sbalordita: «Ma non è possibile avere tutta questa sfortuna!»
Zekrom ridacchio con la sua voce possente e lei gli tirò un pugno sulla testa. Poi aggiunse: «Andiamo a recuperarlo…»
*«Sei sicura?»* chiese lui, guardandola un momento con un occhio giallo penetrante.
«Sì, tranquillo.» rispose lei, mostrandogli le sue buone intenzioni sia con le parole che con lo spirito: «Mi sono calmata, davvero. Non gli farò nulla. Anzi… devo chiedergli scusa.»

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Zekrom si nascose in alta quota, mentre la ragazza pensava. Doveva salvare Raphael, ma le serviva un piano per non permettere ai pirati di farla arrabbiare. Era ancora troppo in tensione e mezza seccata per rischiare di farsi provocare e finire male. Così, borbottò: «Ascolta, Zek. Tu stai qui nelle nuvole, mentre io mi faccio portare da Maru dietro al galeone. Salgo, prendo Raphael e scappiamo senza che se ne accorgano. Se va storto qualcosa, fulminali e al diavolo!»
Lui annuì e le mormorò: *«È un piano rischioso.»*
«Tranquillo, bestione. Andrà tutto bene.» sorrise lei, accarezzandogli il testone nero.
Zekrom la fece scendere e lei montò sul dorso del Samurott. Il Pokémon Nero Ideale tornò nelle nuvole e Maru si guardò intorno, perplesso, chiedendo subito dopo: *«Sola?»*
«Sì, sono sola. Raphael si è fatto sequestrare da dei pirati dopo che ha visto il mio caratteraccio.» rispose lei, sarcastica, ma ancora dispiaciuta.
Maru capì cosa stava intendendo la compagna e disse: *«Tranquilla, Castiga. Ora lo portiamo via!»*
«Si, lo salveremo.» annuì lei, ricambiando il sorriso dell’amico.
Maru nuotò lontano dal galeone, per non farsi avvistare, e, silenziosamente, giunse alla poppa della nave, la parte posteriore dell’imbarcazione. Si ancorò aiutandosi con le due conchiglie spadiformi che aveva sempre con lui e che portava rinfoderate nei loro alloggi sulle zampe anteriori. Athena si aggrappò al legno, aiutata da Maru; con calma, senza fare rumore, si arrampicò e sporse solo con gli occhi, per vedere il ponte. Raphael era legato all’albero maestro, perché aveva tentato la fuga e ai pirati non era piaciuta questa bravata. Il ragazzo si guardava intorno sconsolato, spuntando a volte un po’ di sangue, perché per legarlo avevano dovuto pestarlo viste le sue continue ribellioni. Athena, stranamente irritata nel constatare che lui era ferito, vide il campo libero e si issò sulla nave; lentamente e silenziosamente giunse all’albero maestro, dietro a Raphael, che era rivolto a prua, la parte opposta della poppa, e mormorò: «Che abilità innata, cacciarsi nei guai.»
Lui sobbalzò, riuscì a voltarsi, la vide ed esclamò: «Tenent…» ma lei gli tappò la bocca.
«Chiudi questa maledetta bocca. Se non lo avessi notato, sarei clandestina.»
«Mmphusa.» riuscì a borbottare lui, in procinto di soffocare ma di certo non dispiaciuto.
Lei tolse la mano per permettergli di parlare e lui chiese: «Che cosa ci fate qui?»
«Mi andava di rischiare la pelle facendo una gita su una nave pirata.» commentò sarcastica: «Risparmiati le domande sceme. Adesso ti libero, tu vai a poppa e salta giù. Ti recupera Maru.»
«E voi?» chiese lui, mentre lei tagliava le corde con il pugnale.
«Ti copro la fuga. Dai, muoviti.»
Lui si liberò dalle corde e chiese: «Siete sicura?»
«Muoviti.» ripeté lei, controllando che nessuno li notasse.
Raphael strisciò silenziosamente verso la poppa del galeone, ma una mano apparve dal nulla e lo afferrò per il collo, sollevandolo da terra.
Li avevano visti.
«E così ti fai anche salvare da una donna! Chi è, la tua fidanzata?» disse il pirata, schernendo il ragazzo, mentre lui quasi soffocava: «Ci divertiremo anche con lei!»
Arrivò il capitano, attirato dal frastuono, e, quando vide la ragazza, arretrò: «Il Demone Rosso?! Non … non è possibile!»
Lei sogghignò, fissando gelida l’uomo che aveva di fronte, e pensò: “Ottimo. Posso sfruttare la paura del mio nome per scappare.”
Ma i suoi piani vennero rovinati da Maru che, con un urlo belluino, balzò sul ponte aiutato dal suo Idropompa, per aiutare l’amica. L’aveva vista in difficoltà e aveva pensato di intervenire.
*«Carica!»* esclamò, fiero, abbassando il corno pronto alla lotta.
“Maledizione Maru. Perché non sei restato al tuo posto?” pensò di nuovo lei, sapendo di dover cambiare il piano. Non voleva rischiare di mettere Maru in pericolo.
Il pirata che teneva Raphael, lasciò andare il ragazzo, guardando sconvolto quello strano Pokémon; Castiga fece un cenno al ragazzo, si avvicinò a lui e lo aiutò a prendere una corda per scendere, mentre Maru distraeva i pirati.
«Ehi, catturiamo quella bestia! Ci frutterà parecchio a Kanto!» esclamò uno degli altri filibustieri.
*«Devi solo provarci.»* esclamò Maru, con un tono di sfida, alzandosi sulle due zampe posteriori ed estraendo le sue spade.
I pirati lo attaccarono da varie direzioni, armati di corde e rampini, per cercare di abbatterlo. Inizialmente lui si difese bene, spezzando corde e deviando attacchi, ma poi loro erano troppi e lui non ce la fece più.
«Maru!» esclamò Castiga, ma il Samurott venne buttato a terra, disarmato e legato; tentò di usare l'Idropompa ma riuscirono a mettergli una specie di museruola. Castiga fece per intervenire e liberarlo, ma il capitano gli puntò la spada alla gola, capendo quanto il Pokémon fosse importante per lei. Con un ghigno di chi aveva capito tutto, minacciò: «Ferma dove sei. O gli do un biglietto di sola andata per l’altro mondo.»
La ragazza si bloccò sul posto, inconsciamente. Il solo pensiero che Maru potesse morire la gelò completamente. Ridacchiando alla sua reazione, il capitano commentò: «Chissà quanto sborserà Lance… ti ricordavo molto peggio di così Demone Rosso. Risorgere rende buoni?»
La schernì, senza il minimo ritegno, mentre lei guardava con ansia quella lama pericolosamente vicina alla gola di Maru, ignorando le sue provocazioni.
«Muovetevi!» disse poi ai sottoposti il capitano: «Legatela per bene!»
Lei fissò gelida i pirati intorno a lei. Avevano tutti una paura folle e il capitano osò giocare col fuoco, esclamando: «È innocua! Prendetela!»
Nessuno si muoveva così Maru tentò di approfittare dell’occasione, provando a disarmare l’uomo con il corno, ma lui, reagendo, gli sfregiò una zampa. Maru gemette e il taglio cominciò a sanguinare. Il Samurott si voltò subito preoccupato verso la sua Allenatrice e vide che era troppo tardi: era bloccata con gli occhi fissi sulla ferita. Sembrava stesse per scoppiare. Ed effettivamente, così fu: estraendo il pugnale, Athena si lanciò verso il capitano, pronta a fargli patire le pene dell'inferno per aver osato far del male al suo migliore amico. I pirati intervennero per bloccarla, ma non poterono nulla. Ogni volta che qualcuno la fermava, lei lo uccideva a pugnalate. E così avrebbe fatto finché la sua vittima sarebbe rimasta in vita. Tutto quel sangue, però, la eccitò. Era da così tanto tempo che non faceva un massacro come si deve... non ricordava quasi fosse così divertente. Vedere la gente tremare, urlare e poi perire davanti a lei. Era una sensazione di pura onnipotenza. Le importava solo di quello; e che la sua preda morisse. Raphael era sconvolto, mentre la fissava fare una delle stragi di cui aveva sentito parlare e mai visto. Il capitano non si mosse, tenendo la spada fissa sul collo di Maru, anche se con la mano tremante. Quando rimase solo, capì che era finito.
Athena si voltò verso di lui e si avvicinò, leccandosi le labbra, eccitata da tutto quel sangue versato. Lui cominciò a tremare, tendendo la spada davanti a sé. Ma il braccio tremava e la presa era molto debole. In un tentativo estremo, l'uomo cominciò a correre verso il ponte, tentando la fuga. Meglio il mare che finire sotto le mani di quella belva. Lei, però, lo rincorse, ma non fece in tempo. Il capitano si gettò nell'acqua e si allontanò a nuoto, ma poi, trascinato giù da qualcosa, sparì tra i flutti.
«Dannazione!» ringhiò lei, furibonda, piantando il pugnale nel parapetto della nave. Gli era scappato. Nessuno poteva scappare al Demone Rosso. Chi avrebbe scontato la sua pena, ora? Doveva uccidere qualcuno, doveva rimediare a quell'errore da pivella che Giovanni avrebbe odiato. Si bloccò, guardandosi intorno. Una voce, la sua voce, chiese, minacciosa: «E così, ti è sfuggito.»
Athena si voltò di scatto, con le spalle verso il parapetto e lo vide. Giovanni. Di fronte a lei. Alterato.
«Io... non...» cercò di borbottare, cercando una scusa, qualcosa per scampare alla sua ira.
Giovanni la zittì subito e ringhiò: «Niente “io”, bestia. Avevi un compito da fare e l'hai fallito.»
«Non... non è vero...» pigolò lei, terrorizzata.
Raphael, dopo aver liberato Maru, si era nascosto per aspettare che si calmasse ma era perplesso. Con chi stava parlando? Non c'era nessuno sulla nave, tranne loro. Perso nei pensieri, nel tentativo di capire cosa le fosse preso, non la vide avvicinarsi a lui a lama tesa. Lo scosse Maru che, cercando di proteggerlo, si mise davanti a lui. Ma Athena lo ignorò: aveva gli occhi fissi puntati sul ragazzo. Si avvicinava a loro, con lo sguardo perso, incitata dalla voce che sentiva solo nella sua testa: «Uccidi anche l'ultimo pirata e non ti punirò. Avrai comunque completato la missione. Uccidilo e fallo soffrire.»
Il ragazzo era pietrificato. La guardava, sconvolto e impaurito, ma, nel suo cuore, sapeva di amare anche quella belva. Non riusciva a spiegarselo, non poteva spiegarselo, ma era così. L’amava. Nonostante quel sentimento però, capì il consiglio che Maru gli stava mugolando. Il Samurott aveva in bocca un legno, staccato dalla nave e mugolava qualcosa. Raphael lo prese e annuì.
«Ho capito Maru.» rispose, capendo che non c’era tempo da perdere; chiuse gli occhi e annuì, facendosi coraggio.
Maru estrasse le spade, con la tristezza nel cuore e le andò addosso, riuscendo a schivare i colpi e disarmandola. Lei non reagì con troppa energia; Giovanni o non Giovanni, non avrebbe mai ferito un Pokémon. Maru la buttò a terra e le bloccò le braccia. Lei non fece resistenza ma cercò di liberarsi quando vide Raphael; i novantaquattro chili del Pokémon, però, erano sufficienti per impedirle di muoversi.
«Ti prego, perdonami.» mormorò il ragazzo, alzando il legno come una mazza. Dispiaciuto, la colpì dritta sulla testa, rendendola incosciente.
Athena svenne e il ruggito di Zekrom echeggiò nell’aria. Il Pokèmon Nero Ideale precipitò dalle nuvole, anche lui svenuto a causa del legame con la ragazza. Raphael le frugò rapidamente nelle tasche, ma non sapeva quale fosse la ball. Maru indicò un'Ultraball. Il ragazzo la prese, la puntò verso Zekrom e lui rientrò in un raggio rosso, mentre Maru faceva uscire Wargle. Il ragazzo mise l'amica in groppa al Samurott, ma vide gocciolare del sangue dalla sua testa. Orripilato da ciò che aveva fatto, capì di averla colpita troppo forte: doveva trovarle delle cure mediche adeguate. Maru saltò in acqua, lui salì sul dorso di Wargle e disse: «Amici… ci serve un ospedale ad ogni costo. Dobbiamo salvarla! Dobbiamo arrivare a Kanto!»
Fu una corsa disperata, contro il tempo, ma in breve arrivarono sulla costa. Approdarono all’Isola Cannella ma, prima di giungere in città, Raphael si rese conto di una cosa. Lei era il Demone Rosso e avrebbe scatenato il panico generale se l’avessero riconosciuta. Così, non andò in ospedale, ma coprì il volto alla ragazza e cominciò a cercare aiuto. Doveva trovare qualcuno che si sarebbe mostrato misericordioso.
Sentì delle voci, che rispondevano ad un’altra. Raphael andò in quella direzione e vide un sacerdote che celebrava una liturgia per i poveri che non potevano andare in chiesa, perché era troppo lontana. Il sacerdote concluse e la folla si disperse. Raphael si buttò ai piedi dell’uomo e supplicò: «La prego, mi aiuti. Lei sta male, ma nessuno mi aiuterebbe mai. Vi scongiuro, padre!»
Il sacerdote, stupito da cotanta disperazione, scostò la felpa dal volto della ragazza, la riconobbe all’istante e gli fece segno di seguirlo. Il ragazzo obbedì e l’uomo lo condusse in spiaggia. Una volta che furono soli e lontani da orecchie indiscrete, gli disse: «Hai fatto bene a non esporti, figliolo. L’ultima cosa che ci serve è un attacco di panico. Purtroppo non ho di che ospitarvi, perché sono qui di passaggio, venendo da Plumbeopoli. Ma c’è un mio caro amico che ha un elicottero. Tu non far capire chi è lei e ti porterà dove vuoi.»
Raphael, stupito di aver trovato aiuto, gli sorrise grato, ma replicò: «La ringrazio, padre, ma non so dove andare.»
L'uomo rispose al sorriso, vedendo dipinto nel volto di quel giovane l'amore sincero che avrebbe voluto nel cuore di tutti gli uomini, e rispose: «Vai a Zafferanopoli. Il sacerdote di quella città è un brav’uomo e ti aiuterà.»
Raphael ringraziò nuovamente, in tutte le lingue che conosceva, poi, preso l’elicottero, giunse a Zafferanopoli in breve tempo. Arrivò in canonica, ma la vide chiusa.
«Maledizione.» borbottò, ricominciando a cercare qualcuno che lo aiutasse.
Stava per crollare, Athena giaceva ancora inerme sulle sue spalle e cominciava a pesare; non ce la faceva più.. ma all'improvviso, soggiunse una voce: «Ehi, Raphael… vieni presto!»
Un uomo, vestito poveramente, gli stava facendo segno dall’uscio di una casa. Il ragazzo lo fissò ed esclamò:
«Papà?!»
Non avrebbe mai pensato di rivederli lì, a Kanto. Ancora sbalordito, si avvicinò alla casa e dietro l’uomo vide una donna. Con una punta di commozione, mormorò: «Mamma…»
L’uomo si spostò dall’uscio e fece entrare il figlio in casa. Poi prese la ragazza che il figlio portava in spalla, scaricandogli il peso di dosso, ma quando la voltò, disse, inorridito: «Oddio… Il Demone Rosso!»

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


«Figliolo… in che guaio ti sei cacciato?»
«Nessuno, padre.»
I due erano seduti allo stesso tavolo, uno di fronte all'altro. Il padre aveva uno sguardo severo, che voleva ammonire in tutti i modi, mentre il figlio lo fissava ostile di rimando, sempre più convinto che la sua scelta fatta in passato fosse stata la più giusta.
Jacob Grayhowl, dopo un sospiro per non perdere la pazienza, ricominciò: «Devi aver dato fastidio a qualcuno di molto importante, se conosci questo mostro.»
Raphael non si lasciò trattare come un bambinetto stupido e ribatté: «Padre, lei non è cattiva.»
La madre assisteva in disparte al dibattito, ma, sentita questa frase, non resistette più ed esclamò, quasi spiritata e urlando: «Hanno fatto il lavaggio del cervello a mio figlio!»
«Ma quale lavaggio del cervello…» borbottò il ragazzo, come se lei fosse la pazza visionaria, seccato come mai da quel trattamento che sperava di non ricevere mai più.
«Tu non te la ricordi, è ovvio.» ringhiò il padre deciso, guardandolo come se fosse davvero un bambinetto stupido: «Eravamo a Hoenn in quel periodo. Ma lei è… un mostro, ecco cos’è! Ti avrà sicuramente ricattato per costringerti a salvarle la vita!»
Raphael strinse i pugni, davvero furioso che quello continuasse a sparare giudizi senza conoscere i fatti, senza aver conosciuto Athena, senza sapere niente di niente; fissandolo con occhi di fuoco, alzò la voce ed esclamò: «Ma perché non mi credete mai? Eh? E poi vi meravigliate se sono scappato di casa! Per forza! Tutto ciò che dico è una bugia!»
Jacob lo imito, cominciando a urlare anche lui e alzandosi in piedi, e ribatté: «Come puoi credere che una… una… ah, una che nemmeno si può definire persona, che ha fatto scempi che nemmeno un carcerato potrebbe mai fare, non sia cattiva? È un mostro, ha decimato un intera regione e quasi ucciso noi! Renditene conto!»
«Maledizione, perché te lo dico io!» gridò il figlio, scattando in piedi e facendo cadere la sedia in terra: «E se non mi volete aiutare, fatemi largo che vado a cercare qualcuno che mi aiuti!»
La madre intervenne, mettendogli una mano sulla spalla per trattenerlo: «No! Non ti lasceremo andare via con questa bestia!»
«Lei non è una bestia!» ribatté furibondo lui, scostandola con forza; non poteva sopportare che appellassero così la ragazza che amava con tutto se stesso. Era intollerabile; lei gli aveva salvato la vita troppe volte perché potesse sopportarlo. Prima che i toni potessero scaldarsi tanto da far alzare loro le mani l'uno sull'altro, una vocina intervenne e interruppe il dibattito: «Perché non gli credete?»
«Rachel…» mormorò Raphael, calmandosi all'istante nel vedere una piccola bambina castana di circa dieci anni, entrare nel piccolo salotto.
«Ciao, fratellone.» disse la bambina, sorridendogli e abbracciandolo forte. Poi guardò i genitori e aggiunse: «Se Raphael dice una cosa, io gli credo!»
Presi alla sprovvista dall'intervento della piccola, loro non seppero che ribattere, così Jacob gettò la spugna e si arrese con uno sconsolato: «E va bene…»
L’uomo si avvicinò a Castiga, tremando involontariamente. Benché fosse priva di sensi, era comunque il Demone e lui non poteva fare a meno di temerla. Posandole due dita sulla carotide con la paura che si potesse svegliare e staccargliele a morsi, le sentì il battito e il respiro. Dopo un profondo respiro per calmarsi e non fuggire a gambe levate, disse: «È incosciente ma respira e il battito c’è, anche se debole. La ferita alla testa è brutta, ma non mortale; non credo, almeno. Dovrebbe sopravvivere… Raph, portala in camera di tua sorella.»
Il ragazzo annuì e con delicatezza, prese la ragazza in braccio e la portò, ancora senza sensi, nella camera di sopra, seguito a ruota dalla sorella. Mentre la posava sul letto, mormorò soltanto un sussurro, dolce: «Ce la farai, ne sono sicuro.»
«Fratellone… mi sei mancato.» disse invece la bambina, abbracciandolo, dopo che l'ebbe raggiunto.
Lui le sorrise, ricambiò l'abbraccio e rispose: «Anche tu mi sei mancata.»
Lei lo strinse più forte, poi lo fissò e chiese: «Chi è questa ragazza?»
Raphael rifletté un attimo, ma poi, dato che tanto lei non avrebbe sentito, rispose: «Una mia amica.»
«Se tu dici che non è cattiva, io ti credo!» dichiarò la bambina convinta, per poi aggiungere: «Sono contenta che tu abbia un'amica!»
«Grazie, piccola.»
Lui si voltò a guardarla. Non era più in pericolo di vita, secondo il padre. Ma non si svegliava.
Raphael si inginocchiò in parte al letto, una volta che fu solo e, prendendole una mano, mormorò: «Ti prego. Ti scongiuro non mi lasciare. Ho bisogno di te… buona o cattiva tu sia. Ma non abbandonarmi…»
La sua preghiera, disperata, proveniva direttamente dal cuore. Aveva bisogno di lei, non poteva perderla di nuovo. Non ancora. Gli venne un'idea, come un'illuminazione. Prese una Pokéball a caso e la lanciò in terra. Dalla sfera uscì Hoshi.
«Ciao, Hoshi. Ti ricordi di me?» chiese, sperando che la zebra non lo aggredisse, mentre Rachel, impaurita, si nascondeva dietro di lui.
La Zebstrika lo fissò per un momento; poi, notò Castiga svenuta e tornò a fissarlo con uno sguardo tra l'allarmato e il furioso. Lui capì perché si affrettò ad aggiungere: «Calmati, Hoshi. Maru ti spiegherebbe che non è colpa mia ma non c'è tempo... potresti trovare la Pokéball del cervo dal nome impronunciabile, per favore? L'Aromaterapia potrebbe aiutarla...»
Hoshi annuì e annusò le Pokéball attaccate alla cintura della ragazza svenuta. Poi ne prese una con i denti e la fece cadere. In una luce bianca, Shikijika comparve. Scrollò elegantemente il palco di corna, pensando di dover lottare, ma vide Castiga senza sensi. Pensando fosse colpa dell'umano che le ronzava intorno, si preparò a incornarlo, ma intervenne Hoshi; si mise in mezzo, posando la testa al suo ampio petto, e mormorò: *«Calma il tuo furore, Shik. Castiga ha bisogno di aiuto urgente.»*
*«Quale aiuto non è più urgente della vendetta sul fedifrago che l'ha ridotta così?!»* bramì lui, tentando di spostare la zebra.
Hoshi lo fissò decisa e replicò: *«La sua salute, testone!»*
Il Sawsbuck fissò per un momento quegli occhi lucenti e decisi. Poi annuì, interrompendo la sua offensiva e accucciandosi vicino a Castiga. Scrollò il palco di corna e nell'aria si diffuse un dolce profumo primaverile.
Rachel si avvicinò ai Pokémon, incuriosita e impaurita allo stesso tempo. Hoshi la notò, sorrise e si accucciò accanto a lei, permettendole di accarezzarla, evitando però che le toccasse la criniera elettrica. La bambina sorrise; Raphael, un po' più calmo, decise di chiamare Surge e gli amici della ragazza. Era giusto che sapessero cos'era successo e perché Athena non aveva risposto alle sicure chiamate. E lui sapeva che con i suoi Pokémon lei sarebbe rimasta al sicuro più che con lui. Preso l'Interpoké, gli ci volle un po' per farlo funzionare, ma alla fine riuscì a chiamare Belle. Disse però loro che se volevano restare, avrebbero dovuto prendere delle camere nell’hotel vicino a casa sua, perché lì non c'era spazio materiale per così tante persone e probabilmente i genitori non avrebbero gradito troppi estranei in giro. Loro acconsentirono, anche se Surge disse che teneva pronta la palestra, e in breve tempo arrivarono. Raphael andò loro incontro, lasciando Rachel, Shikijika e Hoshi a guardia dell'amica, ma non permise a nessuno di entrare, nemmeno a un furibondo Surge. Athena aveva bisogno di riposo e il chiasso non era tollerato. Cheren e Belle capirono la situazione e trascinarono via il generale, con l’ausilio di Emboar. Raphael tornò in casa e sedette a tavola, prendendosi la testa fra le mani. Era disperato. Athena non accennava a svegliarsi e lui non sapeva che fare se non pregare che l'Aromaterapia avesse effetto. Nel frattempo, Hoshi aveva fatto uscire tutta la squadra e i sei Pokémon le stavano provando tutte per aiutarla. Wargle addirittura condusse lì, di nascosto, una Chansey, il Pokémon infermiera che lavorava negli ospedali, perché tentasse, con i suoi poteri curativi, di fare qualcosa.
*«Le funzioni vitali mi sembrano a posto.»* commentò la Pokémon, terminando la sua accurata visita: *«Non sembra porti i segni di danni gravi alla testa. Se si risveglia, fatemela ricontrollare.»*
Shikijika annuì e, dopo aver ringraziato, Wargle la riportò al centro Pokémon.
Il giorno divenne sera ma Athena non dava segni di ripresa.
Affranto, Raphael sospirò, seduto in cucina, ma sentì il padre chiamarlo, dopo essersi seduto al tavolo di fronte a lui. Il ragazzo non alzò nemmeno lo sguardo, ma sbottò, secco: «Che vuoi?»
«Parlare…»
Lui lo guardò e poi annuì. E parlarono.
Nel frattempo Rachel era nella camera dove dormiva la ragazza; avvicinatasi al letto, la guardò con curiosità. I Pokémon riposavano nelle sfere, stancati dai tentativi di curare la loro allenatrice e amica, così lei si era potuta avvicinare a quella strana ragazza. I genitori non volevano che andasse lì da sola, ma lei non ne capiva il motivo. Così restò lì a fissarla e a farle compagnia, credendo si sentisse sola. Poco dopo, Athena cominciò finalmente a svegliarsi. Posando una mano sulla testa, aprì un occhio e vide il soffitto sopra di sé.
Riuscì a formulare solo un pensiero: “Dove… sono?”
Rachel la vide svegliarsi, ma non provò timore. Non le sembrava una brutta persona. Rompendo il silenzio, chiese: «Ti fa tanto male la testa?»
Athena sobbalzò e girò la testa per vedere chi aveva parlato. La fissò, perplessa, e la bambina, intuendo la domanda, rispose: «Io sono Rachel, la sorella minore di Raphael! I tuoi Pokémon sono molto simpatici e hanno aiutato con le cure!»
La ragazza abbozzò un sorriso, ma non si sentiva molto bene; la testa girava paurosamente. Rachel sorrise ed esclamò: «Sawsbuck! Si è svegliata!»
Con una luce bianca, Shikijika uscì dalla sua sfera e la vide con gli occhi aperti. Commosso, mormorò, strofinandole il naso sul viso: *«Castiga, stai bene!»*
Lei tentò debolmente di scacciarlo, sorridendo, e dalle sfere uscirono tutti, contenti di vedere che stava bene.
«Raphael è giù. Adesso vado a chiamarlo e…» cominciò a dire la bambina, contenta di vederli tutti felici, ma la madre arrivo di corsa, avendo sentito delle voci e, prendendo la bambina in braccio, uscì urlando e sbattendo la porta.
Athena si prese la testa, gemendo. Quel rumore forte fu come una stilettata nei neuroni. La porta si riaprì subito dopo e Raphael entrò nella stanza, seguito dal padre e dalla madre, che copriva la figlia. Si comportavano come se avessero davanti un lupo arrabbiato, non una ragazza, per di più ferita. Raphael invece, non aveva parole. Guardava, meravigliato e con le lacrime di gioia, il letto. Athena si massaggio le tempie, per niente intenzionata a sopportare stress o simili in quel momento. Shikijika era dello stesso parere, fissando truce i nuovi arrivati. Raphael si avvicinò, sapendo che i Pokémon non lo avrebbero attaccato e mormorò: «Come ti senti?»
Lei alzò le spalle, come per sminuire, ma lo guardò negli occhi, con dispiacere. Per un momento, si dimenticarono di non essere soli. Nello sguardo rosso della ragazza si vedeva chiara, come se fosse espressa a parole, la richiesta di scuse, la preghiera per il perdono per quel momento di follia scatenato da allucinazioni del passato che erano tornate a tormentarla. In quello verde del ragazzo erano limpidi l’amore e il sollievo nel vederla ancora viva. Lui le sorrise a mo’ di scusa, sospirò e si preparò ad affrontare i genitori, mentre lei riprendeva un cipiglio seccato. Raphael si voltò e fece loro cenno di uscire; parlò solo quando furono tutti al piano inferiore.
«E allora?» chiese, sfidandoli a darle ancora del mostro.
«Da così debole nessuno riuscirebbe ad essere minaccioso.» replicò Jacob, ma il ragazzo, già seccato in partenza, ringhiò: «Prima o poi vi convincerò e capirete che è davvero cambiata.»
I due lo guardarono un po’ interdetti ma non commentarono. Lui disse loro di lasciarla in pace e poi andò all’hotel dove stavano Surge e gli altri per dire loro che si era svegliata. Ma faticò molto a trattenerli, perché volevano vederla, ma lei era debole e lui non avrebbe permesso che si stancasse. I genitori del ragazzo furono ben contenti di non andare a disturbare la tenebrosa ospite. Ma la loro figlia minore era di un altro avviso. Sfuggendo alla guardia dei genitori, andò nel corridoio superiore e sbirciò nella stanza. I Pokémon che lei aveva imparato a conoscere come amici erano sempre lì. E lei borbottava qualcosa, come se stesse parlando proprio con loro. Quando la vide a occhi chiusi, entrò e si avvicinò al letto. Sobbalzò, però, quando quella che credeva una ragazza dormiente, borbottò: «Non sapevo che Raphael avesse una sorella…»
«Si vede che non lo credeva importante.» replicò lei, con un'alzata di spalle: «Che cosa ti è successo? Non ti svegliavi più.».
Castiga aprì un occhio, fissando la bambina, e rispose solo: «Botta in testa.»
Richiuse gli occhi e la bambina capì che voleva riposare. Così uscì, lasciandola in pace. E lei si addormentò, credendo di essere al sicuro. I suoi Pokémon, a loro volta, andarono a riposare, fiduciosi. Ma, alcune ore dopo, un tintinnio la svegliò. Aveva il sonno leggero e quindi sentì quel rumore sordo, vicino ai polsi. Aveva cercato di girarsi su un fianco e qualcosa l’aveva trattenuta, tintinnando. Perplessa, aprì un occhio e tirò il braccio verso la testa. Ma quello fece resistenza, facendole male al polso. Sempre più confusa, la ragazza ruotò la testa e si guardò il polso destro: un anello d’acciaio intorno al polso la teneva bloccata al letto con una sottile ma robusta catena.
Manette.
Ai polsi e alle caviglie.
«Ma che diavolo…?» borbottò, muovendo verso l’alto sia i piedi che le mani. Le catene fecero resistenza con un tintinnio che arrivò fino alle orecchie di chi era giù di sotto. Poco dopo, entrò il padre di Raphael.
L’occhiata della ragazza fu tutt’altro che amichevole e lui disse solo: «Quando tornerà da Sinnoh, ci penserà Lance a te.»
Si nascose nell’ombra, mentre la ragazza pensava: “Lance… Quel maledetto se mi prende mi taglia a pezzi prima di uccidermi… dannazione, catturata come una novellina! Mai abbassare la guardia.”
Cercò di liberarsi in tutti i modi, ma senza risultato. Era debole, troppo, e le catene robuste. Poco dopo, arrivò Raphael che quando la vide, restò immobile sulla soglia e realizzò ciò che poteva essere successo ma non fu abbastanza veloce perché una mano uscì dall'ombra e gli premette un fazzoletto sul viso, facendolo svenire e il suo stesso padre lo legò, buttandolo a terra e chiudendo a chiave la porta.
Con un ringhio di rabbia, Castiga cercò ancora di liberarsi, ferendosi i polsi con le catene. Ma nulla. Athena attese un attimo, per evitare che qualcuno la sentisse; poi, sussurrò: «Wargle, Maru, a rapporto!»
Con una luce bianca, i due Pokémon uscirono dalla sfera. Il Braviay alzò la testa, nascosta sotto l'ala per dormire, guardandola con gli occhi appannati dal sonno. Maru si strofinò il muso, altrettanto rintontito, ma dolcemente, mormorò: *«Che succede, Castiga?»*
«Scusate la brusca sveglia ragazzi ma mi serve una mano.» rispose lei, tirando una manetta e mostrando la catena che la teneva bloccata.
I due Pokémon si svegliarono di colpo, vista l'emergenza della situazione. Maru estrasse le spade, Athena alzò il braccio, tenendo la catena ben tesa; Maru colpì con due colpi del suo Conchilama e poi Wargle spezzò il metallo con l'Alacciaio. Castiga sorrise, vedendo che la sua idea stava funzionando. I Pokémon ruppero le manette, ma quando lei si alzò per scappare, sentì le gambe cedere. Maru fu rapido a sostenerla, ma non sapeva dove andare. Vide Raphael a terra; così, mormorò: «Maru, sveglialo.»
Il Samurott l'aiutò a sedersi; poi si avvicinò al ragazzo e lo destò, con un po' di acqua sulla faccia. Perplesso, fece per parlare, ma lei scosse la testa e mormorò: «Non riesco a camminare.»
Raphael, meditò in fretta, poi corse al piano inferiore. Frugando in giro, trovò delle stampelle. Le prese e tornò da lei. Castiga le provò, aiutata da Maru, e vide che riusciva a tenersi in piedi. Così, rapidi, fuggirono dalla casa. La ragazza si mise una bandana e degli occhiali da sole per nascondere i suoi tratti e i due andarono a cercare dove dormire. Ma non avevano soldi. Così si rifugiarono in una casa abbandonata, nella quale non andava mai nessuno da molto tempo. Era piuttosto piccola, buia e spoglia, tranne che un piccolo letto nella camera all’ultimo piano. Raphael aiutò Castiga a fare le scale e, ansimando, sedettero entrambi sul letto. La ragazza era distrutta. Aveva sfiorato il coma, le gambe non ne sapevano di collaborare e aveva fatto una fuga precipitosa, sforzandosi troppo. L’amico andò a cercare delle coperte, trovandone alcune vecchie e sporche. Sedette a terra e disse: «Domani ci ritroveremo con i tuoi… i vostri amici e vedremo il da farsi. Per stanotte è meglio restare qui.»
Lei annuì, senza commentare in un tacito consenso, e lui aggiunse: «Mi dispiace… non pensavo arrivassero fino a questo punto.»
«La paura porta a fare cose che, normalmente, non si farebbero mai.» rispose solo lei, sdraiandosi a fatica, e dandosi ancora dell’ingenua: fidarsi di sconosciuti, l’errore più banale che avesse mai fatto.
Lui le si avvicinò e disse, abbassando lo sguardo: «Non volevo colpirvi così forte.»
Aveva aspettato perché voleva porgerle le sue scuse in privato e in tranquillità. Si sentiva molto in colpa per aver quasi ucciso … l’amore della sua vita. Athena scosse le spalle e ribatté, un po’ per sdrammatizzare e un po’ per ringraziarlo: «Hai fatto bene… magari la botta ha messo a posto qualche rotella.»
Lui scosse la testa e lei lo guardò più decisa: «Ti avrei potuto uccidere, Raphael. E non me lo sarei mai perdonata. Sono una bestia, lo so… hai visto cosa ho fatto, maledizione!»
«Voi non siete cattiva… non lo sei!» disse il ragazzo, con convinzione: «Forse diventi pericolosa per chi ti fa arrabbiare, ma se fossi crudele come dici, non mi avresti salvato la vita ben due volte!»
«Ho capito ma…» tentò di rispondere lei, ma scosse la testa, senza trovare le parole per spiegarsi, e guardò in basso, con lo sguardo triste. Non sapeva cosa dire per spiegarsi.
Lui, senza riuscire a trattenersi, le accarezzò dolcemente la guancia, facendole alzare il volto, e mormorò: «Abbiamo tutti dei difetti. Un modo ci sarà per controllare la rabbia, basta trovarlo.»
Lei scostò la sua mano, in un gesto automatico ma quel tocco gentile voleva rincuorare, darle fiducia e sollievo. Le piacque, tutto sommato. Poi però, un pensiero le passò per la mente: sobbalzò, tastandosi le tasche: «Non dirmi che…» sospirò di sollievo: «Ci sono ancora per fortuna… avresti un po’ d’acqua per caso?»
Raphael, con la mano al petto tirata indietro dopo lo scatto, annuì, calmandosi un momento, e le porse una bottiglietta, rubata dalla cucina prima della fuga; lei tirò fuori il barattolo con le pastiglie e ne prese una. Lui la fissò, perplesso e un po’ titubante. Raccolto il coraggio, chiese: «Sei malata?»
Lei non fece caso all’uso del confidenziale e rispose: «Più o meno… come hai detto tu, forse si può controllare.» e gli raccontò della sua situazione, concludendo con: «Sembra però che queste funzionino.»
«Si può dire che questo spiega tutto.» mormorò il ragazzo, sovrappensiero, ma continuando a parlare come stava facendo vedendo che non si arrabbiava: «Non è del tutto colpa tua.»
Lei non si rallegrò più di tanto e replicò: «Ma la maggior parte sì. Anche se sembra che questa cura funzioni piuttosto bene.»
All’improvviso, squillò l’Interpoké che interruppe il discorso. Quando aveva chiamato Surge e gli altri, Raphael l’aveva lasciato acceso.
Castiga lo prese perplessa e vide che era la prof Aralia. Rispondendo, salutò: «Salve, prof.»
«Ciao, Athena!» rispose la donna: «Per fortuna stai bene, ero molto in pensiero... Ho saputo di quello che è successo… ne vuoi parlare?»
La ragazza sorrise; quanto le mancava la sua psicologa e lei era sempre disponibile al momento giusto.
Castiga fece un cenno a Raphael, e lui, intuendo, uscì dalla stanza.
«Lei capita sempre al momento giusto, sa?» borbottò la ragazza quando lo vide uscire, rivolta alla studiosa con un mezzo sorrisetto.
Aurea ricambiò e replicò: «Sarà intuito femminile. Dai, racconta…»
La ragazza le narrò la vicenda, concentrandosi soprattutto sui suoi stati d’animo, come sempre; dopo tutte le vicende, concluse dicendo: «E poi… ho sentito quella sensazione. Nuova. Credo sia opera delle pastiglie.»
«Descrivimela.»
Athena si toccò il petto e rispose: «Mi sentivo strana. Mi faceva stare male che lui non mi parlasse, senza motivo, ma non capivo perché. E poi, va beh, sulla nave è stato diverso. Volevo aiutarlo, però mi ha particolarmente irritata vedere che era ferito. Non so, volevo far pagare con il sangue chi gli aveva fatto quello. Insomma… credo di provare un po’ di affetto. Però credo sia come con Belle e il Dottore. Amicizia.»
Aurea la fissò, riflettendo, poi fece la finta vaga e buttò lì: «Capisco… sai, Belle mi ha detto che lo trova molto carino e affascinante, questo Raphael… pensava di invitarlo a cena.»
La ragazza si infuriò di botto, cosa rara di quei tempi, ed esclamò: «Cosa ha detto?!»
Il solo pensiero che lui potesse guardare un'altra come guardava lei, che potesse rivolgere le sue attenzioni a un'altra, anche solo dividersi tra lei e un'altra l'aveva mandata in bestia.
«Ehi, calma.» le disse Aurea, facendole l’occhiolino: «Sto scherzando, non ha mai detto nulla del genere.»
Athena la guardò, interdetta, e la donna spiegò: «Era un test. Sai, questa possessione non è una caratteristica propria dell’amicizia.»
Perplessa da quel discorso assurdo, lei replicò: «Cosa vuol dire?»
La studiosa si limitò a sorridere e a dare una risposta non chiara: «Lo capirai a tempo debito. Tu fai così: cerca di scongelarti un po’. Lo capisci subito se lui ti ama davvero, o se è solo un approfittatore, fidati.»
«Qualche segnale?»
«Di solito chi è innamorato davvero, aspetta i tempi dell’altro. Un approfittatore, lascia che te lo dica, cercherebbe di portarti a letto subito. Perdona la franchezza, ma in fin dei conti è così.»
«Non credo di capire ma… le farò sapere.»
Aurea annuì e le due si salutarono. Non sentendo più quel brusio, visto che le due avevano parlato pianissimo, Raphael bussò.
«Ho finito, vieni pure.» urlò la ragazza; quando lui fu dentro, aggiunse: «Scusa se ti ho fatto uscire.»
Lui le sorrise, e rispose: «Non c’è problema… è maleducazione origliare le telefonate.»
Presa una coperta, la più piccola e piena di buchi, la stese sul pavimento e coprì la ragazza con quella più grande, in modo che restasse al caldo. Sedutosi sul pavimento, disse: «Ora sarà meglio dormire o domani sarà dura.»
Perplessa da tutto ciò che aveva fatto, lei cominciò a obbiettare: «Ma…»
Raphael la interruppe e disse: «Sì, c’è solo quel letto. Ma non preoccuparti, io sto sul pavimento.»
Athena restò un attimo in silenzio. Era stato un gesto molto galante il suo. Si sentiva un po' in colpa a farlo dormire così, sul pavimento, però non era nemmeno troppo intenzionata a permettere al ragazzo di entrare nel suo letto. Così, sbottò: «Sono stata in un letto fino ad oggi. Dovresti stare comodo anche tu qualche volta.»
«Non è un problema.» rispose lui, ma lei sbottò: «Senti, mi hai salvato la vita… dovrò almeno provare a sdebitarmi.»
Lui la guardò, non aspettandosi l’obiezione, e replicò: «Io una, tu tre. C’è una bella differenza.»
«Ma dove hai imparato a contare? Siamo due pari.»
«Dici?»
Lei contò sulle dita, con un sogghigno: «Io. Una a Kanto, e due col Pokémon.
Tu. Dopo l'aggressione e la mazzata.
Due pari.»
Lui la guardò con un’aria di sfida e ribatté: «Ma se io non ti avessi colpita, o non fossi scappato, saremmo due a uno.»
«Non ti arrampicare sugli specchi!» esclamò lei, convinta di aver ragione visto che lui cercava sotterfugi di quel genere: «I se non valgono. E comunque sei scappato perché io ho perso le staffe.»
«Però ho insistito io nel provocare.»
«Ma…» cominciò lei, con l’indice alzato, per poi bloccarsi: «Ma… ma…» borbottò, senza sapere cosa ribattere.
Raphael sogghignò e mise fine al dibattito: «Uno a zero! Palla al centro.»
Di tutta risposta Castiga gli tirò il cuscino in faccia, sbottando: «Scemo.» mentre lui ridacchiava.
Lui le passò il cuscino ma lei, fermandogli la mano, sbottò: «Tienilo. E tieniti anche questa. Ho caldo.»
Gli lanciò la seconda coperta e si voltò dall'altra, imbarazzata, fingendo un atteggiamento scontroso per non fargli troppo capire quanto fosse grata. Lui sorrise alla sua schiena e mormorò: «Grazie.»
Poi si mise a dormire a sua volta.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


La mattina dopo Castiga si svegliò all’alba, come sempre. Nel silenzio della stanza, sentiva il respiro tranquillo del ragazzo che dormiva accanto al letto. Sorrise. Era contenta che lui fosse lì ed era contenta che stesse bene. Tentò di alzarsi, ma le forze sembravano averla piantata in asso. Raphael si svegliò di soprassalto, sentendo il gemito sommesso della ragazza mentre ricadeva sul materasso.
«Eh? Oh? Cosa… che succede?» balbettò confuso, guardandosi intorno mezzo addormentato.
Lei lo fissò di rimando e borbottò: «Oh, scusa. Non volevo svegliarti.»
Lui si stiracchiò con uno sbadiglio e sorrise: «Non importa… cosa volevi fare?»
«Alzarmi.» rispose visibilmente seccata lei: «Ma a quanto pare non rientra nelle mie attuali facoltà motorie.»
«Aspetta, ti aiuto.»
Il ragazzo si alzò rapido e prese le stampelle. Cercò di aiutare l’amica a stare in piedi ma lei non ci riusciva da sola. Le gambe cedevano come se fossero fatte di burro. Seccata, scosse la testa e Raphael la aiutò a stendersi. Senza dire una parola, lui uscì. Aveva capito che la ragazza voleva stare da sola. Avevano bisogno dei loro spazi e lui lo capiva. In quei giorni, si era solo un po' distesi i rapporti, ma in fin dei conti, non era niente in tutto. Così lui uscì e andò dagli amici della ragazza, raccontando loro le novità. La sera stessa sia Raphael che Athena erano nella stanza di un albergo in parte a quella di Belle, Cheren e Surge. Il Generale non aveva perso tempo.
«Casa abbandonata?!» aveva risposto quando il ragazzo gli aveva raccontato il tutto: «Nemmeno per sogno! È ancora debole e deve stare in una casa che si possa definire tale! Stasera portala qui e non fare scherzi!»
E così aveva preso la stanza anche per loro. Voleva portarli ad Aranciopoli, in Palestra, ma in quelle condizioni era meglio non fare viaggi troppo lunghi. Così, la ragazza si era camuffata ed erano riusciti a sistemarsi senza destare sospetti.
Nella stanza, intanto, lei e lui stavano parlando. Volevano conoscersi meglio, capirsi meglio.
Lei raccontò di sé, bene, ma soprattutto male. Passato e presente. Infanzia, adolescenza. Tutto. Non voleva tacergli niente, anche perché sarebbe stato solo un gesto di mancanza di fiducia. Se doveva “scongelarsi” come aveva detto Aurea, il primo passo era parlare. E comunque, aveva notato che lui aveva visto la bestia e non era fuggito come tutti. Non aveva sperato che morisse. Anzi, l’aveva aiutata a riprendersi, come se il fatto che l’avesse quasi ucciso non fosse stato rilevante. In conclusione, gli disse anche della sensazione che provava, ma chiarì subito: «Non voglio farti del male. Non voglio illuderti. La mia mente potrebbe giocarmi brutti scherzi, quindi è meglio lasciare perdere.»
Lui le sorrise, vedendole dipinto in faccia quanto fosse confusa, e seccata di esserlo. Non gli importava, per ora, se lei non lo amava. L’importante era poterle stare vicino, sostenerla, vederla, parlarle… tutte piccole cose che lo rendevano felice. Così, rispose: «Solo per il fatto che dici questo, vuol dire che non è tutto perduto… se non provassi nulla, te ne fregheresti dei miei sentimenti, no?»
Lei soppesò quelle parole, ma non seppe cosa dire in merito. Così cambiò discorso ed eluse la domanda: «Racconta qualcosa tu ora… cosa ci facevi nel Team Rocket?»

 

~§~

INTERMEZZO: LA STORIA DI RAPHAEL

Raphael era nato a Zafferanopoli. Suo padre, Jacob Grayhowl, era un fabbro molto stimato nella città, uno dei pochi artigiani rimasti, mentre sua madre Johanna era una casalinga. Fin da piccolo, il bambino amava aiutare suo padre e lui era ben felice di trasmettergli la passione del suo lavoro. All’età di dieci anni, il piccolo Raphael era quasi un fabbro provetto e un ottimo garzone. In città tutti lo conoscevano e lo riempivano di complimenti per la sua diligenza. Il bambino aveva imparato la filosofia del padre: loro erano artisti. Creavano da un semplice blocco grezzo degli oggetti che prima avevano creato nella loro mente.
Cominciarono, però, i tempi bui. Il lavoro era sempre buono, ma non c’era allegria per le strade. Tutti avevano il terrore che potesse spuntare il Team Rocket da un momento all’altro. O peggio.
Raphael aveva spesso sentito nominare il Demone Rosso. Ma nessuno gli aveva mai detto chi fosse. Pensava a chissà quale abominevole mostro. E fantasticava su come fosse fatto, disegnando figure semi demoniache con teste o arti di troppo, che sputavano fiamme. L’unica cosa che sapeva era che aveva due occhi rossi come il fuoco, i capelli dello stesso colore infernale e lo sguardo cattivo, duro, crudele. Ma soprattutto sapeva che uccideva senza fare distinzioni: ricchi, poveri, malati, sani…
Un giorno era nella fucina da solo. Suo padre era uscito per un  lavoro a domicilio, sua madre era in ospedale per un controllo e lui stava lavorando, per preparare al padre tutto l'occorrente per il lavoro successivo.
La porta si aprì di colpo, sbattendo contro il muro con violenza.
Il bambino uscì dalla stanza dove c’era l’enorme fornace che serviva per fondere il ferro, per vedere se era un cliente, e vide di fronte a sé una bambina, di dodici anni circa, la sua stessa età.
Capì anche che non era una bambina normale: due occhi rossi lo fissavano con uno sguardo gelido, che faceva gelare il sangue nelle vene e rabbrividire.
Una bambina. Ecco cos’era il Demone Rosso.
Raphael non ci voleva credere. Ma lei era lì, davanti ai suoi occhi, e quando parlò, i dubbi scomparvero.
«Dov’è il padrone di questo posto?» chiese secca, con una voce gelida che lo fece tremare fin dentro le ossa.
Lui riuscì solo a rispondere, con voce tremante: «Non c’è...»
Lei strinse gli occhi, quasi seccata, e sembrò fermarsi a pensare, mentre perlustrava il luogo con lo sguardo per vedere che non gli stesse mentendo e stesse firmando la sua condanna.
«Allora fallo tu. Fammi vedere come si aggiusta questo. Subito.» disse, anzi ordinò lei, avvicinandosi e mostrandogli un pugnale parecchio rovinato.
Athena era più bassa di qualche spanna, eppure Raphael si fece piccolo piccolo sotto quello sguardo implacabile. Lui, deglutendo e cercando di controllare il tremore, lo prese e lo osservò con occhio critico.
«È conciato male, ma credo si possa sistemare.» disse, non avendo per un  momento più paura, concentrato com’era sul lavoro: «Però ci vuole una mano un po’ esperta…» aggiunse timoroso.
Lei incrociò le braccia, fissandolo con la minaccia nello sguardo, e, gelida, dichiarò: «Azzardati a rovinarlo e sei morto. E muoviti. Non ho tempo da perdere.»
Raphael, terrorizzato, annuì e si mise all’opera. Ma non era abituato a lavorare lui da solo, senza l’ausilio del padre, ed era un po’ distratto. Con la paura nel cuore, mormorò: «Mi passeresti quella… quella pinza, per… per piacere?»
La bambina lo fissò truce di risposta. Lui deglutì, temendo il peggio, ma poi lei sospirò lievemente, si alzò dalla panca su cui si era seduta e indicò un attrezzo: «Questa?»
Lui annuì, rinfrancato, e lei accettò pazientemente di aiutarlo; non poteva permettere che il suo giocattolino preferito si rovinasse.
“Questo pugnale deve essere molto importante per lei. Farò la lama più bella che si possa vedere!” pensò il bambino, cominciando a prenderci gusto, mentre lei lo aiutava a raffreddare il metallo. Raphael si sentiva bene. Certo, aveva una fifa folle di quella bambina, ma mentre azionavano il mantice insieme, o battevano a turno con il martello, era felice. E lei era instancabile. Non chiese mai una pausa, non si lamentò in nessun tipo di maniera; se ne stava zitta, facendo quel che doveva fare. Un paio di ore dopo, completarono l’opera. Athena osservò la lama per parecchio tempo, tenendo sulle spine il ragazzino, poi uscì con passo deciso, senza un commento. Lui capì che era soddisfatta e la guardò camminare, mentre la ammirava rapito. Era rimasto ammaliato da quella ragazzina. Anche se era crudele, fredda, per nulla amichevole, e soprattutto una pluriomicida, lui non riusciva a togliersela dalla testa. Era così decisa, così forte...
“Chissà come deve essere bella quando sorride...” pensò, sognante, mentre Athena svaniva all’orizzonte.
I giorni seguenti, Raphael si trovava a pensare a lei, perso, guardando le nuvole. Avrebbe voluto rivederla, ma sapeva che era impossibile. A meno che lei non fosse andata lì ad ammazzarlo perché il suo lavoro non le era piaciuto. Una notte, una delle tante insonni perché perso a pensare a lei, sentì distintamente dei rumori. Scese di corsa le scale che portavano dal loro piccolo appartamento alla fucina e lì trovò un biglietto, scritto con una calligrafia elegante e decisa. Una pinza nella scatola dei chiodi gli diede anche una risposta per il rumore sentito poco prima.
Un semplice “Grazie” che gli sciolse il cuore.
Quello che per lei fu un gesto di debolezza, per lui fu un gesto umano, di amicizia. Una mano tesa che lui avrebbe voluto afferrare.
Alcune settimane dopo, Raphael stava aiutando il padre, quando sentì degli urli. Corsero entrambi fuori dalla fucina e videro un Charizard con una benda su un occhio che incendiava qualunque cosa gli capitasse a tiro. Sul suo dorso, Athena, annoiata, guardava la scena. Il padre di Raphael non perse tempo. Corse nella fucina, prese un martello e lo tirò contro il Pokémon che ringhiò di dolore quando gli venne colpita una zampa.
Furiosa, la bambina fece per scendere dal dorso del Pokémon con il pugnale in mano ma il Charizard ringhiò ancora, dolorante, fissandola di traverso con l'unico occhio presente, come per ammonirla, tendendo una zampa per bloccarla; Athena gli sussurrò qualcosa, lui annuì e spiccò il volo.
L’intera piazza la guardò andare via, non sapendo se festeggiare o preoccuparsi. Sarebbe ritornata?
Raphael partì di corsa e seguì il volo del drago fino al bosco fuori città. Doveva chiederle scusa a nome del padre. Si nascose e li vide atterrare. Athena accarezzò il collo del suo Pokémon, seduto a terra, mormorando: «Buono, Fiamma. Stringi i denti, tra poco sarà tutto passato.»
Lui annuì e lei gli curò la zampa con un amore tale che il ragazzino rimase colpito. Una dolcezza infinita, che non combaciava con la sua solita crudeltà assassina. Voleva bene a quel Pokémon, molto più che a qualunque umano che avesse mai incontrato. Poco dopo, il Charizard si alzò, poggiando lentamente il peso sulla zampa per vedere se faceva male. Poi ruggì felice al cielo, sputando fuoco tutto contento. Athena, nel frattempo, prese un’auricolare.
«Scusate il disturbo, capo.» disse a voce troppo alta, guardando il punto dove Raphael era nascosto; guardando lui: «Chiedo una momentanea interruzione della mia punizione, per la giornata di domani. Sì, ho eseguito gli ordini alla lettera, signore.»
Fece una pausa, sempre fissando il ragazzo dritto negli occhi, poi rispose a una domanda che Raphael non poté sentire: «Per la vendetta.»
Raphael capì. Quello della ragazza era un consiglio: “Vattene via, perché domani ucciderò chiunque mi troverò davanti.”
Era un messaggio troppo chiaro perché fosse casuale; e lo stava fissando. Non poteva sbagliarsi. Suo padre aveva agito nel modo più sbagliato possibile. Aveva scatenato l’ira del Demone Rosso. E questo voleva dire solo una cosa: morte.
Raphael corse come un fulmine a casa. Irruppe nel salotto e vide il padre che brindava con sua madre, dicendo: «Ho fatto fuggire il Demone Rosso! Non avremo più problemi per causa sua!»
«Ma che stai farneticando!» esclamò il bambino, preso dal panico; si era preso una bella sbandata per lei, non poteva permettere che uccidesse la sua famiglia: «È furibonda e vuole ucciderti!»
Il padre, però, non gli credette; troppo esaltato, non voleva che un bambino lo smontasse così; così ribatté: «Non dire sciocchezze, Raphael. Domani si farà una grande festa per la mia vittoria!»
Raphael cercò di protestare, di far ragionare i genitori, ma niente. Le sue parole erano dette al vento, e, anzi, gli costarono una punizione. Non volevano credere a uno sciocco bambinetto.
“Dannazione.” pensò lui, chiuso nella sua stanza, senza cena: “Il Dem… lei mi ha dato un’occasione d’oro. Non credo che abbia mai detto alla sua vittima quando attaccherà. Mi sta dando la possibilità di salvarli… ma non mi credono.”
La mattina dopo, il bambino si svegliò prima dell’alba. Aveva deciso: avrebbe fatto da scudo per salvare la sua famiglia. Scese nel salotto e aspettò. Delle urla lo riscossero alcune ore dopo e lui vide la figura alata di Deathly Eagle stagliarsi all’orizzonte. I suoi genitori scesero, disturbati dalle urla, e quando la videro, sbiancarono. Raphael li vide ed esclamò: «Voi prendete Rachel e fuggite! Vi copro io!»
La madre lo fissò sconvolta: «Cosa? Sei impazzito Raphael? Ti ucciderà!»
Il sacrificio del bambino, però non servì. Quando Athena atterrò, tutti gli uomini della città andarono ad affrontarla, per coprire la fuga dei compaesani. Jacob aveva dimostrato coraggio il giorno prima, ora toccava a loro ricambiare. Il padre di Raphael prese il figlio per un braccio e lo trascinò via, dall’uscita sul retro, lontano dalla belva. Lui guardò la sua amata. I loro sguardi si incrociarono per una frazione di secondo. E lui non dimenticò mai più quegli occhi.
I quattro scapparono e quando furono lontani sentirono dei botti. Si girarono in tempo per vedere un Metagross che demoliva la loro fucina e Athena circondata di cadaveri. Chi aveva cercato di fermarla, aveva subito la sua ira. E anche piuttosto violentemente.
La famiglia fuggì e si rifugiò a Hoenn, una regione vicina, dove c’erano degli zii di Raphael. In quei tre anni, il ragazzo seguì alla televisione le notizie della ragazza. Immaginava come fosse diventata bella, crescendo. E fantasticava, pensando a lei e snobbando le ragazze che gli facevano la corte. Il suo cuore ormai, era occupato.
La famiglia si stabilì temporaneamente, o almeno così speravano, nella nuova regione, e la madre del ragazzo decise di cominciare a mandarlo a scuola. Il ragazzino entrò nella classe il primo giorno delle lezioni e notò subito il clima ostile riservato ai ragazzi nuovi. Ma lui non ci faceva caso e pensava solo a lei, guardando perso dalla finestra. Studiava molto e si impegnava ma venne bocciato perché gli mancavano le basi. In poco tempo, però, si riprese, tentando di non farsi distrarre troppo da quegli occhi rossi che lo tormentavano. Un paio d'anni dopo, una ragazza della sua classe, arrivata da poco, si offrì di aiutarlo con lo studio. Lui ne fu felice. Non aveva mai studiato e una mano gli serviva proprio. Ma lei cominciò a diventare più... intima. Lo cercava per cose banali, lo chiamava a ore assurde… e lui, da ingenuo figlio di artigiano, non capiva l’ovvio. Il tempo passò, ma Daisy, la ragazzina in questione, non aveva ancora ottenuto nulla. Non sapeva che il cuore di Raphael era già occupato, ma sapeva di volerlo suo.
Quasi alla fine dell’anno scolastico, Daisy era disperata. Lui non aveva ancora capito cosa volesse lei, e questo l’aveva mandata fuori dai gangheri. Non era mai stata rifiutata, da nessuno. Arrivò al punto di mettergli le mani addosso, nell'estremo tentativo di sedurlo o peggio. Raphael le provò tutte per difendersi ma non se la sentiva di colpire una donna mentre lei sapeva benissimo quali fossero i punti deboli del sesso opposto. Il corpo reagiva, la mente rifiutava e lui, disperato, cedette. Ma se ne pentì amaramente e, da quel giorno, la sola vista di quella perfida bionda lo faceva scappare.
Poco tempo dopo, Raphael sentì la tragica notizia. Il Team Rocket era stato sconfitto e Athena era svanita nel nulla. Lance, il Campione di Johto, affermava di averla uccisa, ma Raphael non ci credeva. Lei era viva. Glielo diceva il suo cuore. Tornò a Kanto, dopo una furiosa lite con i suoi. Ormai aveva quindici anni e si sentiva oppresso da quei due genitori, che lo credevano un delinquente per la sua fissazione di guardare i programmi che parlavano del Demone Rosso, e del suo rifiuto per quella “rispettabile” bionda che lo pretendeva come fidanzato. Arrivato a Kanto, aprì una fucina. Era l’unica cosa che sapeva fare e magari avrebbe potuto scoprire qualcosa sulla scomparsa di Athena. Lavorava per tutti, delinquenti e non; dopotutto doveva mangiare.
Circa tre anni dopo, da alcuni scassinatori del luogo, sentì una notizia interessante: Archer, Milas e Maxus, i tre fratelli del Demone Rosso, erano usciti di prigione e cercavano Reclute. Non perse l’occasione. Entrare nel Team Rocket era l’unico modo per scoprire qualcosa.
Non era molto pratico e nemmeno molto cattivo, ma non c’era stata molta affluenza. Così presero anche lui.
Archer lo aveva esaminato a fondo e aveva capito che tipo era. Così lo lasciava spesso alla base a fare mansioni. Il giorno in cui incontrò la sua amata, fu la sua prima missione fuori dalla base. Quando la vide stentò a riconoscerla, ma il suo compagno confermò la sua identità. Fece fatica però, perché era… umana. Aveva certo uno sguardo gelido, ma l’antica crudeltà era svanita nel nulla. Anche la voce era fredda, ma meno tagliente. Ne rimase incantato. Lei lo salvò dalla morte, ma lui capì che non l’aveva riconosciuto. Si era tolto un peso, dichiarandosi, ma sembrava che quella piccola simpatia per lui fosse morta con la vecchia Athena.
Ma Raphael non si arrese. Fuggì dalla base e andò a cercarla a Isshu, dopo aver sentito le parole di Archer, che aveva spiegato ai fratelli dove fosse finita la sorella in quei tre anni.
Prese il traghetto e ci mise molto tempo per arrivare in quella regione lontana. E molto tempo impiegò per trovarla. Ma quando la trovò, non la lasciò più sparire.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Finito il racconto, Raphael, un po’ imbarazzato, le mostrò il bigliettino sgualcito. Quel ringraziamento era tutto per lui e lo avrebbe conservato per sempre.
Athena lo guardava a bocca aperta.
Lui, il bambino che le aveva riparato il pugnale.
Lui, il bambino che aveva ripagato e ringraziato. La prima volta nella sua vita che aveva fatto qualcosa per qualcun altro. Senza nulla in cambio
Lui, l’unico al mondo che aveva avvertito prima di attaccare, per permettergli di salvarsi.
Nel suo racconto, la ragazza lo aveva taciuto. Non le sembrava importante. Gli aveva solo detto che, alcune rare volte, si era ritrovata a essere un po’ pietosa. Ma non era entrata nel dettaglio, anche perché si era imposta di dimenticarselo dopo averlo ringraziato. Doveva restare crudele e senza scrupoli e il suo pensiero avrebbe potuto renderla un po’ troppo clemente, per gli standard di Giovanni.
«Quel giorno… fu divertente.» mormorò, ripensando a quel lontano ricordo, guardando fuori dalla finestra. Disseppellendolo da non si sa dove, dopo era rimasto per troppo tempo. Lui la guardò, quasi sorpreso, ma non la interruppe. Pensava se ne fosse dimenticata, che per lei non fosse stato così importante come lo era stato per lui.
«Quel povero pugnale ne aveva passate di tutti i colori. Mi serviva qualcuno di pratico e il Grande Giovanni mi disse di andare a Zafferanopoli, dove dicevano ci fosse il migliore. Pensavo che avrei dovuto passare alle minacce, alle maniere forti e invece mi ritrovai davanti un bambino tremante. Fu più facile del previsto convincerti. Quando poi mi chiedesti aiuto, pensavo scherzasti. O non ti rendessi conto con chi avevi a che fare. Fosti molto fortunato quel giorno. Ero stranamente di buon umore e ti vedevo in difficoltà. Non potevo permettere che sbagliassi. Così accettai di aiutarti. Ammetto che mi divertii anche e, quando arrivai alla base, esaminai il lavoro. Era fatto talmente bene che la lama sembrava più che nuova. Mi venne un pensiero. Non ne capivo la ragione, o forse non c’era nessuna ragione, ma mi stavi simpatico. Ti feci quel piccolo ringraziamento. Senza un motivo, senza pensarci. Lo feci e basta. Avresti dovuto vedere la faccia di Pidg; cioè… di “Deathly Eagle”. Non credeva a ciò che vedeva. Mi prese in giro per un mese, bonariamente, ma sotto sotto era felice. Lui era sempre positivo, vedeva il lato migliore in tutto.»
Titubante, lui attese che dicesse altro, ma visto che lei taceva, chiese: «Nel bosco… mi avevi visto?»
Lei annuì, come se fosse una cosa ovvia, ma rispose: «Sì. Giovanni mi aveva addestrata bene. Ma, ancora una volta, quella simpatia che avevo nei tuoi confronti mi fece alzare la voce, facendoti capire quello che volevo fare. Quello che avrei fatto. Ferire Fiammata, o uno degli altri, era come ferire me, e non potevo sopportarlo. Ma ti assicuro che se vi avessi trovati lì…»
«Lo so.»
Lei lo guardò. Quel ragazzo… aveva qualcosa che la attirava, anche se non sapeva cosa fosse. Dentro di lei, sentiva di volerlo suo, proteggerlo da chiunque provasse a fargli qualunque cosa. Un senso di possessione, dominato da un affetto forte, più forte dell’amicizia che aveva con Cheren, per esempio. E non se ne capacitava. Era un sentimento nuovo, sconosciuto. Che stava comparendo così, all'improvviso, mentre cominciava davvero a conoscerlo. Con un ghignetto, per alleggerire l’atmosfera e smettere di meditare troppo, Castiga buttò lì: «E così, signorino, mi hai mentito…»
Lui la guardò, capendo l’allusione alla sua missione inventata per ritrovarla, e sbiancando, balbettò, guardando il basso: «Eh… non mi sembrava il caso… ecco… insomma… io…»
Lei ridacchiò, gli prese il mento e lo costrinse a guardarla. Facendogli l’occhiolino, e ribatté: «Sto scherzando, scemotto.»
Lui arrossì, lievemente imbarazzato, e commentò, facendola ridere: «Non scherzare più che mi fai paura!»
Nel pomeriggio, Surge non sentì ragioni. Entrò nella stanza, dopo che Raphael fu uscito per lasciarli soli, e la guardò tristemente, giù di corda perché, ancora una volta, lei aveva rischiato la vita e lui non c'era stato per aiutarla; sedette vicino al letto e mormorò: «Demonietta… questa volta me la paghi.»
Lei sorrise, ben felice di vederlo, e replicò: «Non è successo nulla, in fin dei conti.»
Surge si lasciò sfuggire una lacrima e replicò: «Per fortuna no, ma la prossima volta? Possibile che tu riesca a cacciarti sempre nei guai?!»
Lei lo guardò perplessa, stupita da quella durezza, ma il Generale addolcì i toni, e disse: «Athé… ti voglio bene. Sei come una figlia per me… non sopporterei di perderti ancora.»
«Generale, io…»
«Non serve che dici nulla.» mormorò lui, stringendola con affetto, calmandosi nel vederla davvero viva e quasi in forma.
Quasi con le lacrime agli occhi, appoggiata alla sua spalla, lei sbottò: «Si che serve. Insomma, se non ci fosse stato lei… mi rifiutavo, sa? Mi rifiutavo quando me lo ordinava!»
Lui le accarezzò la testa, dicendo: «Mi ricorderò di quel giorno per sempre. Ora è tutto finito, Athé. Non può più farti del male.»
Lei annuì, un po’ triste, e Surge cambiò discorso; con una mezza occhiataccia, chiese: «Piuttosto… cosa c’è fra te e il marmocchio?»
Lei lo fissò, perplessa, e chiese di rimando: «Cosa c’è… in che senso?»
Lui notò che la sua perplessità era reale, così borbottò: «Ah sì… scusa, è una domanda che forse non puoi ancora comprendere. Un giorno forse… Ma sappi che se ti farà soffrire, lo andrò a cercare fino sulla luna per fargliela pagare.»
«Generale… si dimentica forse con chi sta parlando?» domandò lei, con un tono volutamente tetro.
«Hai ragione Athé…» rise lui, scompigliandole i capelli. Lei ridacchiò, e lui si alzò, congedandosi: «Ti lascio riposare.»
Sull’uscio si voltò, le sorrise, e aggiunse: «E magari, potresti cominciare a darmi del tu. Ci conosciamo da molto, infondo.»

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


La settimana passò e Castiga ancora non aveva recuperato le forze. Seccata di essere costretta a letto, trovava un po’ di serenità quando stava con il Generale, i suoi amici, Pokémon e umani, e… con Raphael. L’affetto che li univa diventava amore, giorno dopo giorno. Una mattina, bussarono alla porta. Athena impallidì e si coprì il volto con gli occhiali da sole. Era da sola perché erano tutti in giro per delle commissioni ed era indispensabile non essere riconosciuta.
«Avanti.» borbottò, abbastanza preoccupata.
Entrò nella stanza un uomo, alto, vestito con una tunica nera e un basco inclinato sul capo. Era un po’ invecchiato, leggermente brizzolato, ma lei non faticò a riconoscerlo. Quegli occhi colore del cobalto le erano rimasti impressi a fuoco nella mente.
«Vedo che quel giovanotto è riuscito nel suo intento.» disse l’uomo, sorridendo: «Era molto in ansia.»
Athena non rispose. Cosa voleva da lei? Forse vendicarsi perché aveva tentato di ucciderlo?
La ragazza guardò in basso, senza avere il coraggio di incrociare ancora quello sguardo. Le era rimasto impresso perché non era né ostile, né impaurito. Era sempre stato sereno e, ancora oggi, il limpido sguardo senza ombre sembrava cercare di dare pace alle anime in pena, come la sua. Lo specchio dell’anima ne mostrava una pura e immacolata. Castiga aveva quasi paura che potesse essere contaminata dal suo nero… Si sentiva sporca, impura, al suo cospetto. Lui l’aveva curata e aiutata senza volere nulla in cambio. Anzi.
«Vedo che stai meglio.» riprese padre Lorenzo, sapendo quanto poco era loquace la ragazza: «Non avevi una bella cera nemmeno questa volt…»
«Cosa vuole?!» lo interruppe lei, secca, guardando il pavimento.
La sua voce era velata di timore. Il timore di Dio. Ne aveva sentito parlare sporadicamente, ma da un po’ di tempo aveva cominciato a pensarci. Lei era un demonio, destinata a bruciare negli Inferi per sempre. E questo le metteva un po’ di paura. Inoltre, quell’uomo emanava una forza che la opprimeva. Che opprimeva il suo cuore nero e alimentava il senso di colpa che la rodeva; quello di aver permesso la morte dei suoi amati e innocenti Pokémon.
«Solo vedere se stavi bene. Ora me ne vado, stai tranquilla, Demone Rosso.» rispose lui, vedendo com’era tormentata.
Lei sbottò di risposta: «Io mi chiamo Athena.»
«Cosa?»
Lei alzò lo sguardo, fra le lacrime che non sapeva perché uscissero, e ripeté: «Io mi chiamo Athena.»
Lui sorrise. Le sembrava solo un cucciolo spaurito, altro che terribile assassina; così commentò: «Finalmente un nome degno di essere definito tale.»
Lei tornò a fissare la piastrella del pavimento e sbottò: «Grazie, comunque.»
«Per cosa?» chiese lui, fingendosi stupito per vedere fin dove sarebbe arrivata.
Lei respirò a fondo, poi rispose: «Questa e… l’altra volta.»
«Figurati. Anche se devi ringraziare quel ragazzo. Ha fatto tutto lui.»
Lei non rispose, restando zitta e non alzando lo sguardo, e lui chiese: «Piuttosto… dov’è Deathly Eagle? Pensavo fosse qui a guardare male chiunque.»
Athena non rispose subito, ma poi mormorò: «Non c’è… più.»
Padre Lorenzo capì e si rese conto di quanto fosse ferita. Così, raddolcì il tono e disse: «Scusa. Visto che Lance aveva mentito su di te, pensavo l’avesse fatto anche su di lui.»
«Non importa.» mormorò solo lei.
Lui vide che non riusciva a costruire il dialogo che avrebbe voluto, ma non perse la speranza, perché disse, semplicemente: «Ora me ne vado. Però sappi che se hai bisogno, mi trovi a Plumbeopoli.»
Lei non rispose ancora e l’uomo uscì, dopo un ultimo sguardo, sperando che cambiasse idea. Ma lei non lo fece. Una volta che la porta fu chiusa, Athena si perse a pensare. Quel sacerdote era così strano. Non aveva mai avuto paura di lei e l’aveva salvata ben due volte. Quando Raphael tornò, lei decise di raccontagli tutto. Si salutarono e lei esordì seccamente: «Oggi è passato un sacerdote.»
Il ragazzo parve stupito, avendone un vago ricordo, poi chiese: «Chi era?»
«Non l’ha detto direttamente ma… sembra che sia stato lui a dirti dove andare.» rispose solo lei, restando volutamente sul vago per vedere la sua reazione.
Lui capì che stavano parlando della stessa persona, così buttò solo lì un commento, per valutare la situazione: «Ah, ora capisco. È un brav'uomo.»
«Molto più di quanto pensi…» mormorò lei, per poi raccontargli di quel giorno.

~§~

INTERMEZZO: ANIMA BUONA

«Devi andare a Plumbeopoli e spaventare il Leader Brock.» ordinò secco Giovanni, senza nemmeno guardarla e continuando a sfogliare alcune carte.
«Sissignore!» rispose lei, scattando sull’attenti.
Il suo sguardo era più scuro e truce del solito. Era furiosa e non poteva sfogarsi nemmeno quel giorno. Ogni volta doveva trattenersi e sperare di non cedere all’ira e finire ancora in punizione. Giovanni si degnò di guardarla e ringhiò: «Mi raccomando, non ucciderlo. Anche se ha la lingua lunga, è troppo amato… tutto chiaro?!»
«Sissignore!» ripeté lei.
«Molto bene. Ora vai.» la congedò lui, tornando alle sue carte.
La ragazzina scattò di nuovo sull’attenti e abbassò il capo. Sguainò il pugnale, prendendolo con la lama rivolta verso il basso e il pollice poggiato sull’impugnatura, si inginocchiò su una sola gamba, posando la punta della lama in terra. Il segno di saluto e obbedienza eterna. Poi si rialzò e sparì.
Giovanni sorrise, vedendola andare, fiero della sua sanguinaria creatura. Andò dalle Reclute, per dare disposizioni di persona. Non lo faceva mai, ma qualche volta era necessario per far capire a quel branco di stolti chi era che comandava. Chi era il capo. Entrò nella sala comune, ma venne accolto da un urlo: una delle Reclute urlava frasi sconnesse, ridendo come un folle. Seccato da quella mancanza di contegno, che mai aveva tollerato, Giovanni borbottò: «Ti sistemerà.»
Ma quella Recluta rise con più gusto e gli rispose: «Quell’essere infernale non potrà più fare niente! L’hai mandata in una missione suicida!»
Giovanni si accigliò, leggermente preoccupato, e vide che la Recluta teneva in mano una provetta di GG, una potentissima droga inventata da loro e ancora senza antidoto perché in fase sperimentale. L’effetto di quella polvere era tremendo: addormentava il cervello, atrofizzava i muscoli e inibiva i sensi. Rendeva chi la prendeva, completamente indifeso. Inoltre, se somministrato a grandi dosi, provocava il coma senza risveglio e successivamente la morte. Giovanni sbarrò gli occhi, in angoscia, e corse a fermarla. Un’intera provetta forse non le avrebbe causato la morte, ma di certo immobilità per parecchie ore. Se avesse fatto effetto nel momento sbagliato, sarebbe stata alla mercé di chiunque. Ma arrivò nella camera troppo tardi, lei era già partita. Tornò nell’atrio, talmente furibondo che nessuno fiatò. Guardò l’uomo che aveva condannato la sua creatura e ordinò: «Prendetelo e portatelo in cella.»
Nessuno osò disubbidire e l’uomo venne rinchiuso. Giovanni apparve sulla porta, e disse solo: «Se non ritorna più, prega di morire prima che io lo venga a sapere.»
Poco dopo, lo portò nella stanza delle torture di Athena, detta “il Mattatoio”. Era la migliore in quei casi, perché la bambina inventava spesso nuove armi di tortura, per divertirsi di più e le lasciava lì, sapendo che nessuno sarebbe entrato. Tranne il capo, ovviamente.
Le urla della recluta rimbombarono in tutta la base. Ma svenne troppo in fretta.
«Se sopravvive, lo farò fare a lei. È molto più brava di me.» si disse l’uomo, per poi sbattere la Recluta in cella, aspettando notizie. Si maledisse per non averle dato l’auricolare. Rischiava la sua arma per una negligenza.
In quello stesso istante, Athena era aggrappata a un muretto. La testa aveva cominciato a girare all’improvviso, a farle male, i muscoli faticavano a reggere il peso e i sensi erano come offuscati.
«Che diavolo mi sta succedendo…?» borbottò, tenendosi malapena in piedi. Cercò di pensare, camminare, ma non le riusciva nulla. Quasi cadde.
Scrollando la testa per cercare di riprendersi, vide un uomo di fronte a lei, che si avvicinava. Lei estrasse il pugnale, più lentamente del solito, sbottando: «Stammi lontano.»
Ma la presa si allentò e l’arma le sfuggì, cadendo con un tintinnio. Lei dovette aggrapparsi al muro con anche l’altra mano per non cadere.
L’uomo stava osservando il Demone Rosso a un po’. L’aveva vista atterrare e si era nascosto. Sembrava avesse tutte le intenzioni di un omicidio di massa, ma poi si era appoggiata al muretto, tenendosi la testa. Aveva cominciato a barcollare e sembrava sofferente.
“È chiaramente un bluff.” pensò l’uomo nel vederla aggrapparsi al muretto per stare in piedi. Non ne era molto convinto, perché non era da lei, ma magari era una nuova tecnica. Si avvicinò, per cercare di mandarla via e salvare la sua gente, ma quando le cadde il pugnale, lui si convinse che non stava fingendo. Il Demone Rosso non lasciava mai il pugnale, mai. Era come se fosse un prolungamento del braccio, una parte di lei.
Athena lo guardò, furibonda e sofferente, poi gli occhi si chiusero contro la sua volontà e svenne. L’uomo l’afferrò prima che toccasse terra e la prese in braccio. Scottava e sembrava stare molto male, agitandosi nell’incoscienza. L’uomo sentì un improvviso spostamento d’aria alle sue spalle. Capendo chi fosse, disse, voltandosi: «Non voglio farle del male, Deathly Eagle.»
Pidg lo guardò a lungo, scrutandolo ostile. Lui ricambiò lo sguardo, negli occhi, sereno. Non sapeva se il Pokémon lo avesse capito e nemmeno che intenzioni avesse, ma doveva tentare la strada della diplomazia. Se avesse fallito, si sarebbe difeso.
Pidg lo osservò. Odiava gli umani. Ma quell’uomo che sorreggeva sua sorella sembrava… affidabile. Era alto, con una lunga tunica nera, un basco leggermente inclinato sul capo e una croce d’oro appuntata alla destra del colletto. Gli occhi blu cobalto non tradivano timore, anzi emanavano pace e serenità, e sotto il basco, si vedevano i capelli neri. Pidg non seppe spiegarsi questa sensazione e non aveva l’istinto di attaccare, come accadeva invece spesso con quella razza. Così, il Pokémon spalancò le ali e spiccò il volo. L’uomo però attirò la sua attenzione per farlo atterrare e, quando fu lì, gli disse: «Per piacere, non volare. Qualcuno potrebbe notarti.»
Pidg capì cosa intendesse dire, così caricò l’Alacciaio, irrigidendo le ali, che usò come stampelle. La sua zampa doveva riposare ogni tanto. Saltare continuamente lo stancava molto. L’uomo lo guardò sbalordito ed esclamò, ormai consapevole che il rapace era perfettamente in grado di capirlo: «Incredibile! Chi te l’ha insegnato?!»
Pidg non rispose, proseguendo nel cammino e l’uomo lo affiancò, incalzando: «Ok… non sei un tipo molto loquace vedo… però questa tua abilità è interessante. Riesce a sopperire a un grave handicap fisico. Ma non credo tu l’abbia imparato da solo, vero?»
Pidg non rispose di nuovo, e così l’uomo rinunciò. Per ora.
Giunsero, percorrendo una strada nascosta, alla casa dell’uomo. Era una casetta in campagna, piuttosto grande e provvista di ogni tipo di macchinario medico. Dato che in quella piccola cittadella di montagna non c’erano ospedali e il più grande era nella lontana Zafferanopoli, aveva deciso di imparare qualcosa per essere in grado di aiutare i concittadini.
«Ora vedremo cos’ha.» disse, mentre entrava. Pidg lo seguì, pronto a difendere la sorella se per caso avesse sbagliato a valutare e quell'uomo avesse fatto del male alla sorella.
L’uomo stese la bambina su un lettino e le fece qualche analisi. Aggrottando la fronte, le prelevò un campione di sangue. Pidg lo osservava e lui disse, per spiegarsi: «Sai, il crollo che ha avuto non mi è piaciuto molto. Se non era malata, non è normale. Credo sia qualcosa che ha nel sangue e…»
Le osservò il braccio destro ed esclamò: «Ha-ah! Ecco qui. Un bel foro di una siringa. Ha fatto effetto tardi perché il punto è sbagliato, ma è questo foro la causa di tutto. Ora analizziamo e vediamo un po’ che cosa le hanno dato. Però è strano… non deve essere facile avvicinarsi tanto per farle una puntura.»
Pidg ci pensò su e ricordò che una volta una Recluta aveva urtato la sorellina, rischiando l’osso del collo, e quella sera lei si era lamentata di una puntura di qualche animaletto. Mentre il rapace rifletteva, l’uomo mise il sangue in un ampollina, la posò e andò a prendere un microscopio. Di fronte allo sguardo perplesso di Pidg, disse: «Visto che vuoi tenermi d’occhio, resto qui.»
Il Pokémon, stupito della risposta, si avvicinò per vedere cosa facesse l’uomo. Lui osservò il sangue per molto tempo, aiutandosi con una macchina che Pidg non conosceva e borbottò: «Effettivamente c’è qualcosa nel sangue. Ma non ho idea di cosa sia. Pare una droga, ma non la conosco.»
Pidg, che nel frattempo aveva posato la testa sul petto della sorella mentre aspettava, lo guardò, pensando all’esperimento di Giovanni del GG. Ma perché l’avrebbe dovuta drogare?
Finite le analisi, l’uomo prese il pugnale che aveva raccolto da terra e disse: «Ti dispiace se lo tengo io?»
Pidg, capendo l’allusione, annuì. Non voleva che la sorellina perdesse la testa e uccidesse un uomo tanto gentile.
«Ah proposito.» aggiunse lui, ricordandosi di un dettaglio: «Io sono padre Lorenzo e sono un sacerdote, laureato in medicina. Qui non c’è pericolo che arrivi nessuno, quindi puoi stare tranquillo.»
«Pidg, pidgeo.» rispose il Pokémon, scrutandolo sempre più perplesso.
«Se stavi tentando di presentarti, purtroppo non ti capisco.» ridacchiò bonariamente l’uomo.
Pidg ammiccò, immaginandosi che non lo avesse compreso. Ma era comunque un tipo simpatico e gli ispirava fiducia. L’uomo prese una bacinella e mise una spugna bagnata sulla fronte della bambina, per abbassarle la febbre.
Athena, però, si svegliò di colpo. Aprì gli occhi a fatica e quando lo vide, perse la testa: un estraneo le stava mettendo le mani addosso. Febbre o non febbre, doveva difendersi. Lo spinse via e si mise seduta, portando la mano alla custodia del pugnale, pronta a uccidere. Ma le dita strinsero l’aria sopra il fodero.
«Dov’è. Il mio. Pugnale.» disse, scaldandosi di botto e fissando padre Lorenzo con uno sguardo truce. Era talmente arrabbiata che la voce vibrava: nel letto di un estraneo, nelle mani di un estraneo e senza pugnale. Fece per saltargli addosso e rompergli il collo per quell’affronto. Ma riuscì a fare solo un passo, poi perse l’equilibrio e cadde, aggrappandosi al bordo del comodino per stare in piedi.
«Rimettiti seduta, potresti farti male.» disse padre Lorenzo, cercando di avvicinarsi. Lei lo distrusse con lo sguardo, tossendo, ma non aveva la forza di stare in piedi.
Pidg fece un segno all’uomo e gli indicò la porta. Lui annuì, leggermente preoccupato, e uscì, accostando però la porta per sentire.
*«Sorellina, stai calma.»* stava dicendo il Pokémon.
«Stai calma un cavolo, dannazione.» ringhiò lei di risposta, con la testa che esplodeva e il corpo che non riusciva a sorreggerla: «Questo mi ammazza appena può. Devo tornare alla base.»
Lei cercò di alzarsi, ma cadde sulle ginocchia, con un gemito.
Pidg la aiutò a stendersi, mormorando: *«Ti guardo io le spalle, sorellina. Tu riposati.»*
Athena lo fissò e replicò: «Lo so, ma tu sei storpio. Riuscirebbe a metterti sotto.»
Con uno sguardo di superiorità, il rapace ribatté: *«I miei artigli fanno male.»*
«Ok, questa te la concedo. Anche se solo di una zampa.»
I due parlottarono un po’, finché lei non si posò sui cuscini più calma. Chiuse gli occhi e disse: «Ti voglio bene, fratello.»
*«Te ne voglio anche io.»* rispose lui, posandole la testa sulla pancia.
Lei lo accarezzò e si addormentarono entrambi, insieme.
Padre Lorenzo aspettò un momento, che fosse tutto calmo, poi entrò nella stanza. Aveva notato con stupore i toni dolci dei due. Soprattutto del Demone Rosso. Dovevano volersi molto bene. Li guardò e vide la bambina dormire, abbracciando la testa del Pokémon, così decise di fare lì le analisi e le ricerche, per tenerla d’occhio.
Intanto parlottava, convinto che i due dormissero: «Chissà che cosa le hanno somministrato. È una sostanza assurda. Ne terrò qualche campione, giusto per cercare un antidoto.»
Athena ascoltava, tenendo gli occhi chiusi. Pidg le aveva detto di far finta di dormire, così avrebbe visto che l’uomo non voleva farle del male.
«Se fosse collaborativa, potrei sapere i sintomi. Ma cosa posso pretendere? È il Demone Rosso in fin dei conti. Anche se, a vederla così, più che un demone sembra un angelo. Dorme tranquilla, pacifica. Chissà come mai è così cattiva. Forse non lo saprò mai. Pregherò per te e per la tua anima, affinché siano salvate e perdonate.»
Completate le analisi, lui se ne andò, chiudendo però la porta a chiave. Non voleva che la piccola se ne andasse con ancora la droga in corpo.
*«Hai visto?»* chiese Pidg.
«Visto cosa?» rispose lei, facendo la stizzita per non dargliela vinta: «È chiaro che è tutto un modo per prendermi in giro. Se solo potessi, lo farei a pezzi. Ma visto che mi sta curando, appena potrò muovermi me ne andrò, così non avrà il tempo di farmi nulla. E se mi somministra qualcosa, sta tranquillo che rimane senza mani prima di accorgersene.»
Pidg sorrise. A lui questo bastava. Che non attaccasse quell’uomo così gentile.
Athena e padre Lorenzo non ebbero più contatti. Quando lui le faceva le analisi, o controllava i dati, lei faceva finta di dormire. La notte lei guardava le proprie condizioni, con l’ausilio di Pidg. Sospettando che facesse qualcosa, dato che di giorno pareva sempre dormire, l’uomo una notte sbirciò dentro e la vide che tentava di camminare; sorrise, pensando: “Che tipino indipendente. Non si abbatte per nulla e vuole ripartire il prima possibile.”
Sembrava una così brava bambina…
Poco tempo dopo, Athena si sentì salda sulle gambe, quindi, nel cuore della notte, partì. L’uomo la salutò con il pensiero, guardandoli volare dalla finestra. Le aveva lasciato sul bancone il pugnale quella sera, prima di andarsene, avendola vista molto meglio. Immaginava se ne sarebbe andata e così effettivamente fu.
Alcuni giorni dopo, tornando dal una passeggiata, padre Lorenzo vide una busta sul gradino dell’entrata. Perplesso, entrò e la aprì: conteneva quattro fiale di sangue, una di una sostanza praticamente trasparente, e un biglietto.
Il sacerdote, sempre più perplesso, aprì il biglietto e lo lesse:

“Nelle fiale c’è il mio sangue, con gli anticorpi, e quello di tre cavie che quindi non li hanno. L’ultima contiene la droga. È una delle ultime che ho trovato, quindi penso sia la versione perfezionata.
I sintomi sono facilmente riconoscibili: cervello addormentato, muscoli atrofizzati e sensi offuscati. Tutto in una volta. In dosi eccessive porta al coma e alla morte subito dopo. E non lo dico tanto per dire…
Il Grande Giovanni non riesce a trovare l’antidoto. Non si ricorda cosa c’è dentro la sostanza e tutti coloro che lo hanno creato sono morti.
Tentar non nuoce, dicono.”

Quello era il suo ringraziamento. Bastava darle un po’ di affetto, e lei poteva non uccidere, e anzi, ringraziare. E il suo aiuto fu prezioso quando Giovanni scatenò un’epidemia e lui riuscì a creare in tempo l’antidoto, salvando molte vite.
Non la vide più dopo quel giorno, ma capì che poteva cambiare.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Salve, miei invisibili lettori!
Armatevi di pazienza, perché questo è lunghetto!
Già che ci sono, mi prendo una riga per ringraziare chi mi segue, anche se non si fa riconoscere.. :)

--

Finto il racconto, Athena notò che piangeva ancora, non riuscendo a trattenersi. Non sapeva quale, ma quelle lacrime avevano un significato. Raphael le asciugò con il pollice. Lui sapeva ciò che a lei sfuggiva. Ma questa volta, contro ogni abitudine, lei non lo scostò.
Bussarono però alla porta. Raphael andò ad aprire, e la cameriera gli diede delle rose bianche.
Lui le passò a Castiga, dato che erano destinate a lei, un po’ seccato vedendola rallegrata dal regalo inaspettato, invece che dalle sue premure di ragazzo innamorato.
«A cosa è dovuta quella faccia visibilmente imbronciata?» chiese lei con un ghigno, mentre leggeva il biglietto allegato ai fiori. Lo lesse velocemente, mentre lui bofonchiava seccato, e per poco non le cadde di mano. Lui non rispose, ma quando vide la sua faccia, abbandonò i toni irritati e le prese il biglietto di mano, leggendolo, mentre lei guardava fisso dinanzi a sé.

“Cara Castiga,
mi duole sapere che sei costretta a letto. Speravo avessi già trovato i Saggi e fossi sulla strada per venire da me.
E cosa scopro?
Che ti sei ferita, rischiando anche la vita.
Ma sono sollevato. Fortunatamente sei sopravvissuta. Ciò mi rende molto felice.
Sono passato a trovarti. La notte ovviamente, altrimenti qualcuno avrebbe potuto notarmi. Conoscendoti, immagino non mi crederai. Per questo ho lasciato una piccola rosa bianca dietro al tuo comodino. Controlla pure. Sai che non mento mai.
Appena starai bene, spero riprenderai le ricerche. Abbiamo intenzione di domandare a te e a Zekrom la rivincita e sono sicuro ce la concederete.
Buona guarigione,
       
           N e Reshiram”

«N…» mormorò la ragazza sconvolta.
Cercò di alzarsi e di spostare il comodino, ma era troppo debole; Raphael lo fece per lei e dietro trovarono una rosa bianca, attaccata con il nastro adesivo. La ragazza si sporse e la prese; fissandola, ripeté: «N…»
«Chi è 'sto tipo?» chiese Raphael, sospettoso, fissando storto il fiore.
Ma Castiga non rispose. Era troppo sconvolta. Era delusa da sé stessa. Dopo tutto quello che si era ripromessa, si era completamente dimenticata di N e della sua ricerca. Affranta, pensò: “Ma come ho potuto?”
Raphael non perse tempo e chiese, per cercare di smuoverla: «Raccontami chi è questo… N.»
«Non te ne ho mai parlato?»
«No.» rispose lui: «Suppongo sia qualcosa di Isshu, perché non l’ho mai sentito nominare, e in quel caso, della nuova regione non mi hai detto nulla.»
Lei sospirò, poi borbottò: «Ce n’è tanto da dire…»

~§~


INTERMEZZO: N

Castiga era alla Lega Pokémon. Doveva fermare Natural Harmonia Gropius, detto N, che voleva separare per sempre uomini e Pokémon. Convinto che la stirpe umana stesse sfruttando senza ritegno e senza rispetto le magiche creature, voleva creare un mondo solo per loro, dove potessero vivere liberi, lontani dal giogo umano. Ma non capiva che c’era anche chi amava e rispettava i suoi amici. Il ragazzo aveva deciso di liberare i Pokémon divenendo il Campione della Lega Pokémon di Isshu e, grazie al potere acquisito con la carica, avrebbe ordinato a tutti gli allenatori di liberare i loro Pokémon.
La ragazza aveva sconfitto i quattro Élite e tornò alla statua nell’atrio dell'edificio della Lega; ora doveva solo accedere alla stanza del Campione e raggiungere N. Le quattro luci degli Élite erano accese e lei vide che, ai piedi della statua, brillava di una luce blu. Lei e Maru si avvicinarono cauti. Castiga notò un bottone sulla statua, lo cliccò e la statua cominciò a scendere come un ascensore. Dopo una lunga discesa, arrivarono di fronte ad un estesa, alta e ripida scalinata che portava ad un partenone. Era il luogo dove risiedeva Nardo, il Campione di Isshu, e dove probabilmente c’era già N; la lotta era già sicuramente cominciata. Tre rampe di scale, una di seguito all’altra, la condussero fino al partenone. Entrò, percorse le due scalinate e vide di fronte a lei N e Nardo nel campo di battaglia che si fronteggiavano. Dovevano essere gli ultimi istanti, a detta del tabellone che segnava i punti. Gli unici bollini ancora accesi erano quelli di Reshiram e di Bouffalant.
N esclamò, vittorioso, non notando la ragazza: «È finita! D’ora in avanti i Pokémon non verranno più imprigionati e costretti a lottare!»
Reshiram, la bianca viverna della verità di N, abbatté con un colpo il Bouffalant di Nardo, sconfiggendolo e mettendo fine allo scontro.
«È tutto merito della mia cara Reshiram!» esclamò il ragazzo, mentre Nardo faceva rientrare il suo Pokémon e si dichiarava sconfitto.
La viverna bianca si erse in tutta la sua statura, maestosa, e ruggì al cielo, accendendo la coda di rosso e scaldando l'aria grazie alla Piroturbina, la sua abilità speciale. Nardo, abbattuto, mormorò: «Hai vinto. Ti dichiaro nuovo Campione di Isshu.»
Con la felicità dipinta sul volto, N lo guardò con una punta di scherno nello sguardo e replicò: «Sfoggi, anzi sfoggiavi, il titolo di Campione, ma non sei riuscito a fermarmi. Lascia che te lo dica… ti sei proprio rammollito. Una volta eri un vero Campione... Anni fa hai perso il tuo migliore amico Pokémon e, per colmare il vuoto lasciato dalla sua scomparsa, ti sei messo a girare per Isshu un lungo e in largo… hai perso smalto, lasciatelo dire.»
N fece una pausa, per dare più effetto alle sue parole, che però non turbarono solo Nardo, ma anche Castiga. Anche lei, come il Campione, aveva perso suo fratello, la sua famiglia. E capiva il dolore che straziava l’anima di Nardo. Il vuoto incolmabile nel suo cuore. N proseguì, imperterrito, quasi godendosi il suo dolore, volendo fargli pesare quella sconfitta: «Era da un bel po’ di tempo che non lottavi seriamente, vero? Non fraintendermi, non te ne faccio una colpa, però…»
Il ragazzo si avvicinò a Nardo, con gli occhi luccicanti e un sorriso di gioia: «Dal momento che sono infinitamente più forte di te, Campione, prenderò io il comando di Isshu. E per prima cosa, ordinerò agli Allenatori di rimettere in libertà tutti i Pokémon!»
Nardo, sconvolto, scioccato e umiliato, riuscì a ritrovare la voce e la forza di ribattere; non poteva sopportare ciò che stava succedendo. Supplicante, esclamò: «Ti scongiuro! Non farlo! Non distruggere il legame tra uomini e Pokémon!»
Stava supplicando un bambino ma non poteva permettere tutto questo. Nemmeno dopo che era stato sconfitto. La sua voce era una preghiera disperata, dettata dal dolore per aver perso il suo amato Pokémon. Ma N non lo voleva ascoltare. Non era intenzionato ad ascoltare nessuno, tranne forse una sola persona. Sprezzante, lo fissò dall’alto in basso e ribatté: «Abbiamo lottato entrambi per far valere le nostre convinzioni. E alla fine ho vinto io. A questo punto puoi solo tacere.»
Nardo cadde sulle ginocchia. Come poteva ancora replicare? N aveva ragione... aveva perso. Non poteva più parlare. Ma c'era chi poteva farlo. Disperato, tra le lacrime, esclamò: «Fermalo tu, Castiga!»
N si voltò di scatto, non essendosi accorto della ragazza. Vedendola, si imbarazzò lievemente. Non era mai stato nelle sue intenzioni mostrare alla ragazza, a quella ragazza, quanta rabbia covasse dentro per i carcerieri dei Pokémon. Ma probabilmente lei aveva sentito tutto. Così, cercando di lenire il suo disagio, le sorrise, dopotutto contento di vederla, ed esclamò: «Ti stavo aspettando!»
Le si avvicinò, ritrovando tutta la gioia del suo trionfo, e vide una pietra nera sporgere dallo zaino; allargando il suo sorriso, aggiunse: «Hai con te la pietra… proprio come accadeva nella mia premonizione!»
Castiga lo fissò accigliata, vedendo come fosse euforico a differenza del solito, e tolse la pietra dallo zaino; quando lui la vide brillare lievemente, esclamò: «Lo Scurolite… sta reagendo alla presenza di Reshiram!»
Guardandosi intorno, aggiunse: «Questo però non è un posto adatto ai Pokémon Drago Leggendari!»
Con un sorriso di trionfo, alzò una mano al cielo, quasi solennemente, e gridò: «Sorgi dalle profondità della terra, Castello del Team Plasma! Avvolgi la Lega Pokémon nella tua maestosa stretta!»
Una scossa di terremoto fece scuotere le colonne del partenone. Castiga si guardò intorno, non ben convinta di quello che stava succedendo, mentre Nardo fissò il terreno con il terrore negli occhi. Dal sottosuolo emerse un enorme castello, dieci volte più grande dell’intera Lega, che si estese tutt’intorno. Delle scale apparvero da alcune finestre che circondarono la zona intorno alla Lega, piantandosi nel terreno o negli edifici. Una di esse abbatté la parete dietro al ragazzo e la scala si posò al suo fianco con un tonfo.
N guardò il castello quasi con affetto e disse: «Quello che vedete è il Castello del Team Plasma! Dalla sua sommità gli ordini del sovrano riecheggeranno in tutti gli angoli del regno!»
Guardò Castiga, sorridente e, indicandola, quasi le ordinò: «Verrai anche tu con me al Castello! E lì si decideranno le sorti di Isshu. Se sarà un mondo dove i Pokémon sono liberi dal giogo umano… oppure un mondo in cui uomini e Pokémon continuano a vivere, fianco a fianco. Lo deciderà chi di noi due dimostrerà di avere convinzioni più che salde!»
Con un sorriso di gioia stampato in faccia, N sparì sulle scale che erano comparse prima, distruggendo la volta del partenone. Lei lo fissò un momento, pensando che in passato avrebbe staccato una mano a chi si fosse permesso di minacciarla, ma evitò i pensieri omicidi, voltando lo sguardo verso il Campione. Nardo era ancora in ginocchio, umiliato, e a Castiga venne un pensiero. Stava per parlare quando sopraggiunse Cheren, che lo raggiunse e disse: «Nardo, guarda come sei ridotto. Un Campione della tua levatura non merita tutto questo!»
Lui gli sorrise, ma non voleva calcare il discorso sulla sua disfatta, così cambiò discorso e mormorò, ancora abbastanza a pezzi: «Ce l’hai fatta ad arrivare fin qui. Complimenti.»
«Ciò che ho fatto io non è importante.» disse subito Cheren, quasi volendo sminuirsi, ricordando che aveva ripetuto più di una volta al Campione, per tutto il viaggio, che il suo scopo nella vita era quello di arrivare alla Lega Pokémon: «Ho solo capito cosa volevo, così sono diventato più forte.»
«Era questo che volevo da te.» sorrise lui, facendosi aiutare ad alzarsi: «Ti avevo inquadrato. Ora però, per realizzare il tuo sogno, dovresti sconfiggere quel marmocchio borioso.»
«N non ti ha sconfitto lealmente, Nardo. Aveva con lui un Pokémon Leggendario. E c'è chi lo metterà in riga molto meglio di me.» replicò Cheren convinto; volse lo sguardo sull'amica e mormorò: «Castì, cerca di far ragionare N… digli che c’è chi è diventato più forte grazie all’aiuto dei Pokémon! E spiegagli che anche i miei Pokémon sono diventati più forti, stando accanto a me!»
«Io non credo di…» cominciò a dire lei, ma Nardo la interruppe, fissandola con uno sguardo strano ma intenso: «Ho perso. Pensavo che sarei riuscito a mettere a tacere quella peste che sproloquia di sogni del tutto insensati! Pensavo che vedendo l’affetto che lega me e i miei Pokémon avrebbe cambiato idea! Chi si aspettava che le sue convinzioni fossero altrettanto forti? Fa’ attenzione! Chi insegue un sogno è capace di cambiare le sorti del mondo! Ti prego Castiga. Se Pokémon e uomini vivranno separati, non ne nascerà niente di buono. È questo che devi far capire a N!»
Lei annuì. Non serviva che glielo dicessero. Lei lo sapeva bene. I suoi Pokémon erano da sempre stati la sua unica ancora di umanità. Solo loro riuscivano a spegnere la sua sete di sangue, la sua vena omicida. Con il loro amore e il loro affetto. Ma lei… non se la sentiva. Dopo aver sentito la storia di Nardo, la disperazione dell’uomo, aveva capito che lei non era degna dell’amicizia di Zekrom. La prova era che lo Scurolite era ancora una pietra. Forse, Nardo era stato sconfitto perché non aveva dalla sua il potere degli ideali. Guardò Nardo e lui le lesse i dubbi negli occhi, perché si avvicinò a lei, la prese in parte e disse a voce bassa, ma non troppo, abbastanza per non farsi sentire da Cheren: «Io so chi sei, Athena. La professoressa Aralia ha pensato opportuno informarmi. Non fare quella faccia.» aggiunse vedendo l’espressione sbalordita della ragazza.
Chiedendosi perché Aurea non facesse mai silenzio, lei rispose: «Allora non dovrò dire molto. Io non sono la… persona adatta per questo compito, Campione. Zekrom non si sveglierà mai con me.»
«Perché dici questo?» domandò lui, spiazzandola.
Lei si spazientì, non capendo dove volesse andare a parare, e rispose: «Non prendermi per scema, Nardo. Lo sai benissimo perché.»
Lui scosse la testa e disse: «Ascolta. Quello che hai fatto, quello che sei, non significa nulla. Non è detto che tu non sia di valore. Non stiamo parlando di essere buoni e immacolati, ma di valore. Sono due cose molto differenti. I tuoi ideali sono forti, il legame con i tuoi Pokémon anche. Sai cosa vuoi e sei determinata quando ti presupponi un obbiettivo. Il valore si vede da questo. Hai sconfitto le Palestre e gli Élite solo con l’aiuto che tu e i tuoi Pokémon vi siete dati a vicenda.»
Athena non si fece incantare e rispose prontamente: «Anche Belle e Cheren hanno fatto lo stesso.»
«Ma loro hanno cominciato a capire più tardi e, anzi, non credo che abbiano davvero capito.» proseguì invece lui: «Noi due, io e te, sappiamo cosa vuol dire una vita senza di loro. Io ho perso il mio migliore amico, tu tutti e sei. Sai quanto fa male quella voragine che si crea e non si ricolma più. Solo tu puoi capire realmente cosa si prova e per questo sei la persona adatta.»
«Ma tu…»
«Sì, anche io ho perso un Pokémon, ma mollando la Lega, mollando tutto, ho rinnegato la sua memoria. I miei ideali sono crollati. Tu, invece hai saputo reagire, mantenendo salde le tue convinzioni.»
«No, Nardo.» borbottò lei, dopo un momento di titubanza, scuotendo la testa, negando con tutta se stessa quelle parole dette con tutta quella convinzione a lei, il Demone Rosso, la Bestia del continente: «Vi state sbagliando tutti. Io sono andata avanti perché dovevo, perché Maru e la prof Aralia me lo hanno quasi imposto. Non perché io abbia… qualche strana forza sovrannaturale.»
«Però… hai accettato l’aiuto che ti è stato offerto.» replicò lui, senza permetterle di svicolare, senza permetterle di scappare da quello che lui sapeva che lei fosse: «Io l’ho rifiutato.»
«Cosa?» chiese lei, non riuscendo a capire.
Lui le sorrise tristemente e rispose: «Quando morì il mio amato Pokémon, per una malattia, Aurea, i quattro Élite, gli otto Leader… tutti loro mi tesero la mano. Come Campione, ero, e sono, molto amato e rispettato, ma mi sono chiuso in me stesso. Chiunque cercasse di sfondare il muro che avevo creato, veniva respinto, sempre. E ho cominciato a vagare per la regione, non sapendo cosa fare della mia vita. Sono crollati tutti i miei ideali. Tu, invece, con il mio stesso dolore, anzi sestuplicato, sei scappata da una regione in cui sei odiata da tutti, arrivata in un posto sconosciuto e incontrato l’unica persona che sapeva chi fossi veramente.
Eppure, nonostante un’ostilità iniziale, hai accettato l’aiuto che Aurea ti ha offerto, hai preso quella mano che ti era stata tesa e sei uscita dal baratro, senza mai perdere i tuoi ideali e le tue convinzioni.»
Lei scosse la testa, guardando in basso, e disse solo: «Io non ho ideali.»
«Sì che ce li hai.» ribatté invece lui, facendole alzare lo sguardo con un sorriso: «Uno molto forte che è evidente: un essere umano non è completo senza i suoi Pokémon.»
Castiga ci pensò su, accarezzando distrattamente la custodia del pugnale, come faceva spesso. Quello che diceva il Campione era vero, razionale, ma lei non voleva crederci. Per rafforzare le sue parole, Nardo aggiunse: «Convinciti, perché sai che quello che sto dicendo è vero.»
«D’accordo.» si arrese lei, persuasa dal sorriso fiducioso di un uomo che, pur sapendo tutto, riponeva in lei una fiducia incondizionata: «Ma se Zekrom non si risveglia, non prendetevela con me.»
Nardo le sorrise e rispose: «Affare fatto.»
Facendo un cenno di saluto a lui e a Cheren, Castiga salì la rampa di scale che portava verso l’enorme castello, e, dopo una lunga ascesa, arrivò a una delle finestre ed entrò. La stanza in cui si ritrovò era un salone, un enorme salone con il pavimento di cristallo azzurro. Di fronte a lei, schierati, i Sette Saggi, escluso Geechisu, la fissavano gioiosi, assaporando la vittoria.
Ross fece un passo avanti e disse, solenne: «Prosperità ai miti, castigo ai rivoltosi.»
Celio fece la stessa cosa, dicendo: «La virtù non è mai tanto bella come quando combatte il vizio.»
Verdanio: «Pratica senza dottrina è come crusca senza farina.»
Moreno: «Errare è umano, perseverare è diabolico.»
Giano: «È meglio ricorrere al re che ai suoi ministri.»
Violante: «Come il cielo non ha due soli, così il popolo non ha due sovrani.»
I Sei Saggi formarono un semicerchio intorno alla ragazza che li guardava ostile.
«Come siete eruditi.» commentò sarcastica, squadrandoli uno per uno: «Volete farmi vedere che sapete i proverbi? Se volete combattere, fatevi sotto.» aggiungendo, con il pensiero: “Ma questa volta, se necessario, morirò io e non i miei amati Pokémon.”
Ross prese la parola, fissandola altezzoso e replicò: «Ti senti molto sicura delle tue capacità, vedo. Non permetteremo che al nostro sovrano succeda qualcosa di male! Se il grande piano di Geechisu dovesse fallire, sarebbe la fine per N!»
«O una liberazione…» commentò lei, estraendo una Pokéball.
Ross fece lo stesso, imitato da tutti gli altri saggi ed esclamò: «Non credere di sapere cosa sia meglio per N, ragazzina. Preparati ad affrontare tutti noi sei e ad assaporare la sconfitta!»
«Sono pronta Ross. Non mi fate paura.» rispose lei, pronta alla lotta e al sacrificio, ma una voce risuonò nell’aria: «E siete davvero convinti di farcela?»
I Saggi si guardarono intorno, Castiga si voltò per vedere chi avesse parlato, mentre Maru le copriva le spalle, e dalla porta apparve…
«Rafan?!» esclamò perplessa la ragazza.
Il minatore e Leader della Palestra Pokémon di Libecciopoli le si avvicinò, con quella sua solita arroganza, ma lei sorrise; poteva sbeffeggiarlo fin che voleva, ma doveva ammettere che le faceva piacere vederlo.
Il Leader commentò, squadrandola, troppo in forma e troppo propensa alla lotta: «Ma guarda! Pensavo che ormai tu fossi allo stremo, Castiga!»
«Se tu sei stanco, Rafan, non è detto che lo debba essere anche io!» replicò lei, guardandolo ansimare leggermente.
«Sempre biforcuta quella lingua, eh?» ribatté lui, seccato dalle solite risposte sempre pronte. Solo lei riusciva a ribattere sempre alle sue provocazioni. Era l'unica in tutta Isshu.
«Ma guardati allo specchio, minatore!» ridacchiò lei, notando la sua difficoltà nel replicare.
Rafan rise, dandole una pacca sulla spalla. Gli piaceva quella ragazza. Era arrogante quasi quanto lui. Lei ghignò di risposta, un po’ delusa che avessero già finito di giocare verbalmente.
I Sei Saggi arretrarono e Ross disse: «Ma tu sei quello di Libecciopoli! Che ci fai qui?!»
Rafan lo guardò con disprezzo, rispondendo: «Aiuto a salvare la mia regione. E non sono solo!»
Dalla porta apparvero Aloé, Artemisio, Camelia, Anemone, Silvestro, Iris e Aristide, che si misero, sotto gli occhi meravigliati di Castiga e i Saggi, al fianco della ragazza e di Rafan, estraendo a loro volta le sfere Poké.
«Oh, come mi dispiace…» disse Aloé, con un tono sarcastico che Castiga non aveva mai sentito, da lei: «Non solo siamo più forti di voi, ma siamo anche molti di più!»
Celio quasi svenne, indicandoli uno a uno con la mano tremante, ed esclamò: «I Leader! Tutti i Leader!»
«Come potevamo non occuparci del Team Plasma?» chiese Camelia, squadrando i saggi: «Non saremo dei bravi Leader altrimenti! Abbiamo dei coraggiosi ragazzi, ma siamo noi che dobbiamo proteggere la nostra regione!»
«E poi ce l’ha chiesto anche Belle.» aggiunse Artemisio, con una risatina, anche se il suo sguardo di solito giocoso era stranamente glaciale: «Non potevamo dire di no!»
Silvestro si limitò a scrutare torvo i Saggi, e non disse una parola. Aristide, invece, si rivolse a Castiga, e con voce sicura e fiduciosa, le disse: «Sei tu ad avere lo Scurolite… è opportuno che vada avanti tu!»
Senza attendere risposta, gli otto Leader mandarono in campo i loro Pokémon. Lo stesso fecero i saggi e fu guerra. Castiga li guardò per un attimo, preoccupata, ma quando vide i loro sorrisi, la loro grinta, la loro fiducia in lei, decise di andare: prese un corridoio, delle scale e andò a cercare N, perlustrando il Castello in lungo e in largo.
“Ecco perché Cheren era alla Lega da solo. Belle era andata a chiamare i rinforzi!” realizzò mentre camminava, cercando il luogo dove si era nascosto N. Aveva notato l'assenza dell'amica e ora aveva una risposta. Nel frattempo incontrò anche qualche seguace, ma ora che era determinata, niente l’avrebbe fermata. A metà di un corridoio, la ragazza sentì una voce. Si era sentita osservata ma non ci aveva fatto troppo caso.
La voce disse: «… seguimi.»
Lei proseguì, guardandosi intorno con la coda dell’occhio e alle sue spalle apparve uno del Trio Oscuro.
«Non preoccuparti.» disse, vedendo che si era subito messa sulla difensiva: «In questo castello puoi far riposare i tuoi Pokémon… è desiderio di N che tu giunga nel cuore del suo palazzo al massimo della forma.»
Sparì, dopo averle indicato una stanza con un cenno. Lei attese un attimo, pensando a una trappola, ma poi, dopo aver scambiato uno sguardo con Maru, decise che visto che era in ballo, doveva ballare. Entrò e vi trovò due donne, una vestita di rosa e una di giallo. Entrambe avevano un viso dolce e sereno. La donna a destra era alta, con lunghi capelli rosa e vestita con una lunga veste dello stesso colore. La gemella, Concordia, era vestita di giallo e i capelli biondi erano legati in due codini che andavano verso l’altro, mentre gli altri capelli scendevano oltre le spalle.
«Io sono la Musa dell’Amore.» disse Antea, la dama rosa, accarezzando Maru e curando i Pokémon della ragazza: «Ricorda che gli Allenatori non lottano allo scopo di ferire i propri Pokémon. Anche N lo sa, nel profondo del suo cuore, ma forse non è ancora capace di ammetterlo. Troppi giorni tristi e solitari ha passato al Castello…» concluse, quasi con rimpianto.
Concordia prese la parola e aggiunse: «Io sono la Musa della Pace. Porto la tranquillità a N. Fin da piccolo N, crescendo assieme ai Pokémon, ha vissuto lontano dagli uomini. Pokémon traditi dai loro Allenatori, maltrattati e feriti dagli uomini… Erano questi i Pokémon che Geechisu gli portava. N ne ha condiviso il dolore, pensando solo ed esclusivamente al loro bene. Ed è così che ha deciso di mettersi a perseguire la Verità. N, un ragazzo così innocente e puro… Non c’è nulla di più bello, e al tempo stesso spaventoso, dell’innocenza.»
Le due gemelle non dissero altro, ma le sorridevano. Sapevano che lei era la persona giusta, per N. Antea riconsegnò le sfere a Castiga, contenenti tutti i suoi Pokémon in piena forma; lei ringraziò e uscì, ma era turbata.
Lei e N.
Due bambini soli… vissuti sempre al fianco dei Pokémon… conoscendo Pokémon feriti che odiavano l’umanità… entrambi sulla via sbagliata, anche se in due maniere differenti.
“Io ti capisco N. Anche tu, come me, sei stato plagiato. Io Giovanni, tu Geechisu. Abbiamo trovato la persona che è riuscita ad insinuarsi nella nostra mente. Io ne sono forse uscita, ma a caro prezzo e tanta sofferenza. Ma penso di meritarmela con tutto il male che ho fatto. Tu invece no. E io ti aiuterò, perché noi siamo uguali, amico mio.”
Sì, N era l’unico umano che considerava suo amico, un vero amico, che poteva comprendere e compatire. Non ne capiva il motivo, ma per lei era così. Questo la convinse maggiormente nella sua missione.
Prese una rampa di scale, salì e percorse l’ennesimo corridoio giungendo ad altre scale.
Ma, di fronte a lei, apparve uno del Trio Oscuro.
«Quando lotterai con N…» disse: «Capiremo se è lui l’eroe paladino della Verità. E capiremo fino a che punto tu voglia difendere questo mondo in cui uomini e Pokémon vivono fianco a fianco.»
Detto questo, svanì nell’aria, come sempre.
La ragazza salì le scale e sopra trovò il terzo membro del Trio, che, indicandole una porta, disse: «Quella stanza… è il mondo in cui è cresciuto N! A me ormai non fa più alcun effetto, ma sono sicuro che a te… beh, non può lasciarti indifferente.»
Anche lui, detto questo, svanì nel nulla. Era un comportamento tipico dei tre ninja.
Castiga guardò la porta e si avvicinò. Respirò a fondo ed entrò. Si ritrovò in una stanza che la lasciò sbalordita sulla soglia.
Una moquette azzurra con delle nuvole copriva l’intero pavimento. A sinistra c’era un tappeto con disegnato mezzo campo da pallacanestro, il canestro contro il muro e una palla lì vicino. A destra, in terra, il binario di un trenino fatto con le costruzioni e il trenino che percorreva le rotaie. Solo che il percorso era interrotto e quello andava avanti e indietro, senza mai fermarsi. Sembrava essere stato usato di recente e in parte c’era una scatola con il resto dei binari e un altro trenino. Castiga, accompagnata da Maru, si inoltrò nella stanza: un aereo appeso al soffitto volava in circolo, alla sua sinistra, sopra a dei copertoni colorati con le tempere e uno skateboard. Una pista per i salti ingombrava dal centro fino in fondo alla parete destra la stanza ed era graffiata.
«Probabilmente da alcuni Pokémon…» mormorò Castiga, guardando i graffi, mentre Maru annuiva. Appesi alla parete in fondo c’erano dei quadri colorati e un bersaglio per le freccette. Appoggiato a terra, una scatola di giocattoli che sembravano nuovi. Le pareti erano inoltre tappezzate con una carta da parati a quadrati viola e bianchi.
Lei osservò la stanza, perplessa. Sinceramente, si era immaginata una stanza lugubre, scura… non quella di un bambino. N probabilmente non era mai uscito. Geechisu l’aveva allevato lì dentro, riempiendolo di giochi e impedendogli di avere contatti con gli altri esseri umani. Forse per fargli capire che erano tutti cattivi come glieli stava dipingendo lui.
«N doveva sentirsi molto solo. Io avevo un solo giocattolo, che ho ancora…» mormorò Castiga uscendo, e accarezzando la custodia di cuoio quasi con affetto: «Nemmeno lui ha passato una bella infanzia.»
Uscita, percorse il lungo corridoio con maggiore velocità. Doveva parlagli, farlo ragionare in qualche modo.
Salì un’altra rampa di scale e si trovò in un corridoio diverso, pieno di stendardi con il simbolo dei Plasma alle pareti. Stava arrivando da N. Vide una porta, con ai lati due statue raffiguranti due Pokémon volanti. Fece per entrare, ma sbatté contro Geechisu, che stava uscendo, raggiante; l’uomo la spinse indietro, con tutta la dolcezza di cui era capace, quindi quasi facendole fare un volo di schiena, ed esclamò: «Giovane che porti lo Scurolite, ti do il benvenuto! Il castello sorto dalle viscere della terra che ora circonda la Lega Pokémon è il simbolo del vento di cambiamento che soffia sulla regione di Isshu. Il sovrano di questo castello, affiancato dal Pokèmon Leggendario, ha sconfitto il Campione, diventando l’Allenatore più forte di tutti! Nel suo petto arde il desiderio di rendere il mondo un posto migliore! Se questo non è un eroe chi lo è?
Di sicuro non una piccola assassina mentalmente instabile, anche se N ne è convinto.»
Castiga lo squadro, seccata da quell'ultimo commento detto con una superiorità irritante, e replicò: «La boria non ti manca, eh Geechisu?»
«Non mi interrompere, impertinente. So perfettamente quello che sto dicendo, so di aver ragione e so che tu perderai!» sbottò secco, per poi proseguire con il suo discorso: «Il mio piano non ha falle. N, l'eroe buono, il liberatore, al fianco del Pokémon creatore di Isshu. Uno spettacolo perfetto, grazie al quale giungeremo dritti al cuore della gente! E in quattro e quattr'otto il mondo che io, anzi, che noi del Team Plasma desideriamo, diventerà realtà! Solo noi potremo servirci dei Pokémon e governare sull’umanità inerme!»
Voltandosi di lato sognante, aggiunse: «Ah, quanto ho dovuto aspettare! Quanti sforzi per restare nell’ombra e non svelare il mio vero piano… ma ora finalmente quei giorni sono finiti!»
«Eh, deve essere stata dura nascondere i deliri di onnipotenza.» commentò sarcastica Castiga: «Pensa te che sfortuna se dicessi a N quali sono realmente le tue intenzioni.»
Geechisu la fissò con il suo occhio bionico, con evidente disprezzo, e rispose: «Non ti ascolterà. E tu, non sei la “persona” più adatta per commentare il mio operato. Tu hai servito un uomo che, fino a prova contraria, aveva delle ottime idee. L’unico suo sbaglio è stato quello di non sfruttare al massimo le potenzialità della sua arma. Io invece, l’ho fatto.»
Trattenendosi dal tirargli un pugno, o dal sgozzarlo direttamente, lei commentò: «Guarda che i cattivi di solito perdono.»
«Perché, tu ti senti la buona?» rispose Geechisu, beffardo.
Lei lo fissò gelida, senza osare rispondere, e lui le indicò la stanza, sapendo di aver colto nel segno: «Coraggio allora, avanti! Vediamo se hai la stoffa dell’eroe! Vediamo se sai fare anche la “buona”.»
«Forse.» rispose lei, scoccandogli un’occhiata gelida ed entrando.
Castiga si ritrovò in un'ampia stanza bianca, circondata da colonne. Lei era su una piattaforma, collegata ad un’altra con un ponte, mentre tutt’intorno c’era acqua. Un lungo ponte, coperto da un tappeto blu, portava a N, seduto comodamente su un trono; era vestito con dei pantaloni bianchi, una giacca bianca e portava un mantello, sempre bianco. Mancava solo la corona e sarebbe sembrato un vero re. Aveva grazia, eleganza e maestà. Una classe che non era da tutti. Meno che mai da Geechisu. Se la poteva sognare quello.
Ai lati del trono, c’erano due stendardi con lo stemma del Team Plasma.
Il ragazzo sorrise, quando la vide, aprì le braccia e disse: «Benvenuta nella mia dimora.»
«Ciao, N.» rispose solo lei, sorridendogli.
Non riusciva a essere arrabbiata. N era come un fratello. Sentiva solo di volerlo aiutare, ad ogni costo.
«Un mondo tutto per i Pokémon: questo è quello che voglio.» riprese lui, alzandosi dal trono, gli occhi luccicanti dall’euforia: «Un mondo in cui, finalmente liberi dal giogo umano, i Pokémon ritrovino la loro forza originaria!»
Scese dal trono e si fermò al centro della piattaforma; fissandola, esclamò: «È arrivato il momento decisivo! Io sono pronto! Lotterò per le mie idee, anche se questo dovesse significare far soffrire i miei cari Pokémon. E immagino che tu voglia fare altrettanto! Forza, fatti sotto e mostrami quanto sono solide le tue convinzioni!»
«No.» rispose lei.
Un semplice monosillabo che spiazzò il ragazzo.
«Cosa?»
«N, ti stai facendo forviare dalla rabbia. Cosa pensi di ottenere lottando? Prove? Ti sei fatto plagiare da Geechisu. Quel folle ti sta manovrando come un burattino! Renditene conto, maledizione!» esclamò Castiga, avvicinandosi a lui.
Lui scosse la testa, rispondendo: «Ti sbagli. Queste sono le idee celate nel mio cuore, la verità che si nasconde in questo mondo corrotto e cattivo!»
Le sorrise, quasi con dolcezza, ma determinato. Sentiva di voler bene alla ragazza, ma era troppo convinto delle sue idee, per lasciarsi forviare dai sentimenti. Doveva vincere, schiacciare tutti coloro che si fossero messi davanti a lui; così ripeté: «Lotteremo per capire chi è l’eroe!»
«D’accordo… forse dopo la lotta saprò farti ragionare.» rispose lei, estraendo una Ball.
N però vide nel suo zaino lo Scurolite, ancora a forma di pietra, e il suo sorriso si adombrò leggermente; aveva sperato fosse lei… e invece pareva di no. Così, borbottò, contrariato che le cose non stessero andando come lui volesse: «Però, forse… Zekrom non reagisce. Forse non sei l’eroe…»
«Ma dai?» commentò lei, sarcastica. L’aveva detto fin dall’inizio che lei gli eroi li aveva solo uccisi. Quando avevano cercato di liberare la regione da lei per essere famosi.
«Che delusione…» disse lui, dispiaciuto sinceramente per come si stavano mettendo le cose: «Peccato, iniziavi un po’ a piacermi. Ti ho osservata e pensavo di aver visto in te l’Allenatore che, lotta dopo lotta, sa rispettare i Pokémon e sa averne gran cura.»
Scosse la testa, seccato e triste: «Ma mi sbagliavo! Capisco ora che la lotta non può essere un modo per capirsi a vicenda! Altrimenti, tu dovresti essere la dimostrazione del mio errore. Ma non è così.»
«Io dico di si, ma visto che Zekrom non si sveglia, sto buttando le parole al vento.» commentò lei.
Infatti N non la ascoltò; la sua prova era il risveglio del Drago e se lui continuava a dormire, poteva parlare fin che voleva che non sarebbe stata ascoltata. Tornando a guardarla, N disse: «Non ti restano che due scelte ora! Perseguire i tuoi Ideali fino alla fine e sfidarmi in una lotta che non potrai mai vincere, o ritirarti e assistere alla nascita del nuovo mondo! Un mondo in cui i Pokémon saranno liberi dal giogo umano!»
Alzò un braccio e richiamò la sua compagna: «Vieni, Reshiram!»
Con un ruggito da far tremare i vetri, la viverna bianca distrusse il muro dietro al trono di N e entrò nella stanza. Atterrando dietro al ragazzo, ruggì tutta la sua potenza, scatenando una fiammata di proporzioni inimmaginabili, grazie alla Piroturbina.
«N…» disse Castiga, prendendo una Pokéball dalla tasca: «Morirei piuttosto che liberare i miei unici amici.»
Lui non rispose, ma le parole della ragazza avevano colto nel segno, vista la sua espressione. Anche lui sapeva bene cosa volesse dire considerare i Pokémon amici.
Castiga si preparò alla lotta, pronta a tutto per difendere il legame tra umani e Pokémon, ma il suo zaino cominciò a brillare. N sorrise, gli occhi luccicanti dalla gioia, mentre osservava la ragazza prendere lo Scurolite, che emanava una luce nera e gialla.
«Il tuo Scurolite… Zekrom sta reagendo!» esclamò il ragazzo, euforico, davvero felice che lei fosse davvero l’eroe, che non si era sbagliato.
Lo Scurolite si alzò in volo, assorbì l’energia attorno a sé e poi la rilasciò, ruotando su sé stesso. Dal suo nucleo ne uscì un Pokémon nero, raggomitolato su sé stesso, che aprì un occhio giallo, e, ruggendo, si svegliò. Era un enorme Drago, possente e maestoso. Con un lampo fragoroso, atterrò di fonte a Castiga, voltando le spalle a N e Reshiram. Poi la coda cominciò a ruotare, sparando scintille ovunque grazie al Teravolt, la sua abilità speciale. Vedendo finalmente ciò che da tempo aspettava, N disse: «Reshiram e Zekrom… due Pokémon che un tempo erano uno solo. Come le due metà opposte e complementari che compongono un unico essere. Reshiram e Zekrom… attendevano la venuta del nuovo eroe! Non mi ero sbagliato. L’altro eroe sei proprio tu!»
Castiga era ancora imbambolata, gli occhi fissi su quel drago leggendario che davvero si era svegliato dopo millenni per lei. Il Pokémon ricambiò l'esame e disse, con una voce profonda: *«Ho sentito in te la potenza degli ideali ma ne voglio la prova. Dimostrami la tua forza e lotterò al tuo fianco.»*
Anche N sentì le parole del Pokémon, dato che anche lui li comprendeva, ed esclamò: «Zekrom vuole metterti alla prova, per essere davvero sicuro che tu voglia perseguire gli Ideali! Sono curioso anch’io di vedere quanto sei forte! Forza! Cattura Zekrom e fallo diventare parte della tua squadra!»
Zekrom ruggì, facendo scintille, come per sfidarla. Lei sorrise, altrettanto determinata, e rispose: «No, N. Lui può solo diventare un valido amico e alleato! Vai, Warubiaru!»
La lotta fu molto dura. Zekrom era dopotutto un Pokémon Leggendario e il Krookodile diede il meglio di sé. Stava per cedere, quando la ragazza guardò Zekrom negli occhi.
Non erano necessarie le parole.
Il Pokémon Leggendario Nero Ideale e la pluriomicida ricercata in tutto il continente…
Non servì più lottare.
Athena lanciò la Ball, Zekrom ruggì.
Ci fu un bagliore.
Una scarica elettrica passò nel corpo della ragazza. Potente ma non dolorosa. All’improvviso, sentì nel suo cuore il sentimento della fiducia. Ma non era la sua. Era quella di Zekrom. Senza sapere come facesse, capì che percepiva gli stati d’animo del Pokémon e capì che lui percepiva il suo cuore confuso dai sentimenti che stava imparando a provare da poco tempo. Le loro anime erano diventate una cosa sola. Zekrom si voltò verso N, pronto alla sfida finale, ma guardò la ragazza, perplesso dal suo strano cuore.
Lei annuì: «Prima sistemiamo i problemi esterni.»
Lui ruggì di risposta: *«Poi si penserà al resto.»*
«Zekrom, il Pokémon che presta la sua forza all’eroe che persegue gli Ideali, ti ha dato la sua fiducia e ha scelto di schierarsi al tuo fianco.» esclamò N, estraendo una Pokéball, entusiasta. Non vedeva l’ora di lottare, era evidente. Si avvicinò a lei. Gli si poteva leggere la gioia sul volto.
«Aspetta però, i tuoi Pokémon non sono in forma.» constatò: «Non avrebbe senso lottare con dei Pokémon indeboliti.»
Castiga lo guardò con un sogghigno e commentò: «Dal tuo sguardo si direbbe che ci stai provando gusto nel lottare…»
N arrossì lievemente, ma ribatté: «È solo una crudele sfida che metterà fine a tutto! Non paragonarmi a voi carcerieri!»
«Come vuoi.» rispose solo lei, ma vide ancora il dubbio nei suoi occhi.
Curandole la squadra, N si mise di fronte a lei, e gridò: «Io prevedo il futuro! E nel futuro vedo la mia vittoria!»
«Lo vedremo, Nostradamus!» rispose lei, pronta a dare il meglio di sé e a fargli vedere cosa volesse dire un vero legame tra umani e Pokémon.
E la lotta cominciò.
Archeops, Carracosta, Zoroark, Vanilluxe e Klinklang vennero sconfitti insieme a Maru, Shikijika, Hoshi, Wargle e Waruabiaru.
Rimasero in piedi i due Draghi, che si fissavano truci, ancora pronti alla lotta.
Zekrom ruggì e Reshiram rispose.
Castiga, sentendo la determinazione dell’amico, ripartì all’attacco. N fece altrettanto.
Sembrava un punto morto. I due Draghi avevano pari resistenza e potenza, e nessuno dei due intendeva cedere. Era qui che si misurava la forza delle convinzioni. Solo l’eroe con le idee più salde, avrebbe dato la forza necessaria al compagno Drago per vincere.
«Vai Zekrom! I Pokémon devono stare al fianco degli umani perché altrimenti noi saremmo persi, in balia della nostra natura animale! Vai, amico! Imprimi la forza dei nostri ideali nel tuo Incrotuono!»
Zekrom si alzò in volo. La coda cominciò a emanare elettricità statica. Il Pokémon divenne una sfera di energia pura che si abbatté su Reshiram, incapace di muoversi. Alle parole della ragazza, N aveva vacillato, roso dai dubbi, e la viverna non era stata in grado di reagire. Con un botto, il Pokémon Nero Ideale atterrò di fronte alla ragazza, ruggendo, mentre quello Bianco Verità cadde a terra, al fianco di un pietrificato N.
Ripresosi dallo shock, N arretrò, sconvolto, mormorando: «… Sconfitti… io e Reshiram… sconfitti… Gli ideali che hanno guidato la tua lotta sono più forti della mia verità.»
Reshiram emise un debole lamento e N le accarezzò la testa, chinandosi su di lei: «Perdonami, mia Lady. La mia Verità non è così forte come credevo.»
Reshiram mugolò qualcosa e gli leccò affettuosamente la faccia, mentre Castiga posava una mano sulla zampa di Zekrom.
Con un’ultima carezza alla sua compagna, N si avvicinò a Castiga e disse: «Reshiram e Zekrom… hanno entrambi scelto il proprio eroe. Non avevo considerato tale possibilità: uno persegue la Verità, e l’altro gli Ideali. Che abbiano entrambi ragione? Non capisco. Come fanno due sistemi di pensiero opposti a non annullarsi a vicenda? È possibile che sia questa la formula per cambiare il mondo?»
«N, ascoltami.» disse Castiga, decisa, fissandolo negli occhi: «Io e te siamo uguali.
Entrambi siamo cresciuti tra i Pokémon.
Entrambi con l’odio e il disprezzo per l’umanità.
Entrambi plagiati da uomini malvagi che pensano solo ai loro interessi.
Ma prova a pensare con la tua testa e non con quella di Geechisu, per una volta. I nostri due pensieri non sono poi così diversi. Li hai fatti diventare tali tu, con il tuo riformismo assurdo. Per sistemare le cose basta separare i Pokémon che soffrono dagli umani indegni e nulla più.»
Castiga gli posò una mano sulla spalla, guardandolo fisso: «Non sentirti sconfitto. In fin dei conti, non hai fatto del male a nessuno, e le tue intenzioni erano buone.»
Lui annuì. Stava per chiederle qualcosa quando la porta si aprì di colpo ed entrò Geechisu.
«Non posso credere a quello che ho appena sentito! Non sei degno di portare il nome degli Harmonia!» esclamò furibondo, camminando con passo veloce verso di loro: «Che figlio smidollato! Ho inculcato a N la sete della verità e risvegliato il Pokémon Leggendario per dare potere al mio Team Plasma! Tutto per arrivare a tenere in scacco la gente con la forza della paura!»
Guardò Castiga, irato, vedendo come fosse solo colpa sua se era andato tutto a rotoli: «Tu! Tu dovresti saperlo! Tu sai come è docile la gente se ha paura! Tu sai quanto potere si ha! Tu sai quanto si è potenti e invincibili quando tutti hanno il terrore della tua persona!»
«Vuoi provare?» rispose lei irritata, mentre l’uomo si avvicinava a N, nero di rabbia; tratteneva a stento la voglia di strangolarlo.
«Ma tu!» urlò, puntandogli un dito al petto: «Hai preteso una lotta tra i due prescelti dai Pokémon Leggendari per difendere le tue idee e scoprire chi di voi due fosse il vero eroe. E ti sei fatto sconfiggere da una semplice Allenatrice, che per di più ha il cuore più nero della pece! Una bestia umana, psicologicamente disturbata! Questo proprio non posso perdonartelo! Sei solo uno smidollato buono a nulla, che non sa fare altro che giocare con i Pokémon!»
N non sapeva che dire, che fare, scioccato da quello scoppio di ira che mai si sarebbe aspettato dal padre, e Geechisu si rivolse ancora a Castiga, che lo guardava sempre più furiosa: «Tu. Non mi sarei mai aspettato che il Pokémon Leggendario scegliesse te, una piccola bestia fuori controllo! Bada bene, però, che i miei piani non cambiano di una sola virgola! Io dominerò il mondo intero!»
«Questa l’ho già sentita…» rispose lei, sarcastica: «Puntami ancora una volta un dito contro, e te lo stacco, chiaro?»
«Sarò il burattinaio della gente ignorante!» continuò a urlare lui, in pieno delirio di onnipotenza, rivelando tutto il suo piano a chiunque riuscisse a sentirlo gridare: «Tutti mi daranno ascolto! E perché ciò avvenga è necessario che N rimanga il sovrano del Team Plasma! Ora che conosci i miei piani… dovrò sbarazzarmi di te!»
«Tu non sai con chi hai a che fare… parli, parli ma non sai niente. Non ti conviene scherzare con il fuoco.» rispose minacciosa lei, seccata da tutti gli insulti che aveva detto a N, ma prima che potesse prendere il pugnale e rendere materiali le sue minacce, arrivarono Cheren e Nardo.
Il ragazzo, avendo sentito tutto il discorso insieme al Campione, a un suo cenno fece il finto ingenuo e chiese: «Dominare il mondo? Ma lo scopo del Team Plasma non era quello di liberare i Pokémon?»
Nardo scambiò un'occhiata con Castiga e lei sorrise, cogliendo l'arguto piano del Campione, mentre Geechisu, ancora furioso, rispondeva: «Quello era solo un espediente per reclutare gente nel Team Plasma. Perché dovremmo liberare i Pokémon? Delle creature così utili! Non scherziamo! Assieme ai Pokémon, gli uomini sono più forti, su questo non c’è dubbio. È proprio per questo che voglio essere l’unico a poterli usare!»
Castiga guardò N e vide l’incredulità dipingersi nel suo sguardo. Il ragazzo si sentiva tradito, non voleva, non poteva credere a ciò che stava sentendo. Il padre gli aveva fatto questo? E … usare?
«Non è usare, N.» mormorò: «Lui è il folle che usa questa brutta parola, ma non è così.»
Si guardarono negli occhi e N annuì. Lui sapeva che lei, almeno lei, era sincera. Lei non aveva mai usato nessuno. Lei e la sua squadra erano come una famiglia.
«Sei un mascalzone!» esclamò Nardo, provocando il capo dei Plasma per fargli vuotare l’intero sacco davanti al figlio e così tradirsi: «Tutto questo solo per il tuo tornaconto!»
Geechisu lo guardò gelido: «Nessuno ha chiesto il tuo parere.»
Fissò Zekrom, che guardava la scena senza fare nulla; lui e il suo eroe dovevano ancora decidere il da farsi.
«Sarà anche leggendario, ma in fin dei conti è solo un Pokémon!» esclamò sprezzante: «Per lo più indebolito. Castiga, non ho paura di te. Con o senza Pokémon Leggendario. Non vedo l’ora di vedere la tua faccia nel momento esatto in cui le tue speranze verranno infrante!»
Si avvicinò alla ragazza, estraendo una Pokéball, con la minaccia nello sguardo. Lei ricambiò con la stessa moneta e sussurrò: «E io non vedo l’ora di vedere i tuoi occhi spegnersi per mano mia. Peccato non accadrà mai. Ma ricordati che sarebbe un vero piacere. Impagabile.»
L'uomo si lasciò sfuggire un sogghigno e replicò: «Sei solo una belva. Senza il tributo di sangue non ragioni. Vincerò con facilità.»
«E tu sei solo l’ennesimo pazzo con manie di onnipotenza che non si sa arrangiare.» rispose Castiga, prendendo una ball, ma N intervenne, preoccupato: «Castiga!»
«Stanne fuori, N. Questo pagliaccio capirà cosa vuol dire essere schiacciati dalla forza degli Ideali.» disse lei, mentre Zekrom ruggì la sua approvazione.
Geechisu sorrise: «Non potete più fare nulla! Ormai nessuno potrà fermarmi!»
Lo scontrò cominciò, furioso. Zekrom era stanco e indebolito, ma la determinazione della sua compagna fu decisiva. Gli diede la forza di lottare. Ottenendo la vittoria. Sconfitto, Geechisu arretrò, dicendo sbigottito: «Ma che succede?! Io sono il fondatore del team Plasma! L’unico padrone del mondo!»
Non riuscendo a trattenersi, Castiga avanzò verso di lui, lo sguardo furibondo puntato sull’uomo che cominciava a tremare. Voleva fargli paura, apposta.
Voleva che tremasse dinanzi a lei.
Voleva vederlo supplicare.
Ma Nardo le rovinò la vendetta. Capendo le intenzioni non troppo amichevoli, si avvicinò a lei senza paura, e le posò una mano sulla spalla, dicendo: «Tieni a freno il Demone Rosso o dovrò arrestarti. Athena, non puoi ucciderlo.»
«Deve solo ringraziare il tempo.» ribatté lei, furiosa, fermandosi ma continuando a squadrarlo: «Se l’avessi incontrato tre anni fa…»
Nardo ridacchiò, capendo che il pericolo era passato, e si rivolse a N: «Allora, N… pensi ancora che i Pokémon e gli uomini debbano vivere in mondi separati?»
Lui non rispose e tolse gli occhi da Castiga, guardando di lato. Era così confuso, turbato da quello che era successo... Geechisu scoppiò a ridere, malvagio e gridò: «Cosa vuoi che ne capisca N? È inutile parlare con lui! Mi è servito solo per impossessarmi del Pokémon Leggendario! N non è che un burattino, un essere vuoto, senza pensieri e senza cuore! L'ho plasmato io così!»
«L’unico che non capisce qui è lui. È lui quello senza cuore!» disse Cheren, guardando Geechisu con disprezzo: «Non vale nemmeno la pena di starlo ad ascoltare!»
Castiga non parlò, ma i suoi pensieri erano ovvi: “N reagisci.”
«Hai ragione! Fa proprio pena.» assentì Nardo, per umiliarlo di fronte al figlio e sbloccare N.
«N…» aggiunse poi il Campione: «Avrai di certo mille pensieri per la testa. Ma non lasciarti ingannare! La verità non l’hai cercata costretto da Geechisu! È un’idea che avevi già! Ne sono più che sicuro! Se non fosse così, il Pokémon Leggendario non sarebbe al tuo fianco! Tu volevi davvero il bene dei Pokémon!»
N li guardò, uno per uno, poi disse, anzi mormorò, con voce rotta dalla disperazione: «No! Io non ho nessun diritto di essere l’eroe…»
Castiga perse la poca pazienza che le era rimasta ed esclamò: «N, dannazione! La tua determinazione è svanita così?!»
La ragazza guardò Maru e sbottò: «Senti amico, digli tutto quello che sai.»
Titubante, lui la fissò e chiese: *«Ehm, aspetta Castiga. Per tutto intendi… tutto?»*
«Sì, tutto. Passato, presente, futuro... Glielo direi io, ma voglio che senta solo lui.»
*«Come vuoi.»* annuì lui, raccontando a N ciò che la sua Allenatrice aveva fatto, poteva fare e delle crisi, del sangue che spesso voleva versare e che solo la presenza dei Pokémon aveva sempre impedito; N la guardò, colpito e quasi sconvolto, e lei aggiunse, per aiutare Maru: «Questa è la pura verità, N. E se Zekrom è disposto a stare al mio fianco, tu meriti Reshiram mille volte di più.»
«Comunque tu la pensi» disse poi Nardo, guardando perplesso la ragazza: «Ciò che importa è quello che farai d’ora in poi assieme al tuo Pokémon Leggendario.»
«L’unica cosa che so di sicuro… è che fin ora abbiamo lottato assieme per quello in cui crediamo! Ma allora… perché?!» mormorò N, ancora perso a pensare su ciò che aveva detto Maru: «Perché io ho perso? Ero convinto ma ho perso.»
«Ascolta N… a volte capita di non capirsi, ma non è una buona ragione per negare le opinioni altrui. La ragione non sta mai da una parte sola. E forse, è proprio per questo che Castiga ha vinto. Tu eri convinto che lei fosse nel torto, lei sapeva che anche tu avevi le tue ragioni.» concluse Nardo, ma poi, non sapendo più cosa dire, si fece aiutare da Cheren e insieme portarono via Geechisu prendendolo di peso.
N attese che andassero via. Poi, si avvicinò a Castiga e, senza paura o timore, chiese, semplicemente: «Castiga… ciò che ha detto Maru è vero?»
«Vero come è vero che questa è una Pokéball. Dovresti saperlo meglio di me che i Pokémon non mentono mai.» rispose lei, mostrandogli una delle sue sfere.
Perplesso, lui chiese: «Perché ti sei confidata così con me?»
«Io credo di aver invaso la tua privacy, N, ascoltando le manie di onnipotenza e i deliri di Geechisu. E entrando per puro caso in camera tua. Quindi, è giusto che tu sappia. Io e te siamo molto simili… più di quanto tu possa immaginare.»
Gli narrò chi era, da dove veniva e chi era stato il suo capo, il suo burattinaio e il suo plagiatore: «Fine della storia. Tranne tutte le conclusioni che vuoi.»
Guardandolo, vide la tristezza e il dolore riempire gli occhi del ragazzo. Commosso, lui mormorò: «Devi… aver sofferto molto.»
«Più di quanto puoi immaginare. Più di quanto possa immaginare Nardo o chiunque su questo dannato globo.» sbottò lei, con ancora quella voragine aperta nel cuore: «Pidg, Fiammata, Bandan, Nidor, Jukain e Lapras erano la mia famiglia. Erano la mia ancora. E in un momento, li ho persi tutti.»
Maru appoggiò la testa sulla sua spalla e la ragazza gli accarezzò il muso, aggiungendo: «Maru è stata una luce nell’oscurità più nera. Se non fosse stato per lui, non so dove sarei ora.»
N la guardò, poi le posò una mano sulla spalla: «Il valore non si determina dalle proprie azioni, ma da ciò che si è dentro. In questo frangente, qui a Isshu, tu sei stata molto più di valore di me.»
Lei posò la mano sulla sua e disse: «Sai… pensavo che vi foste tutti sbagliati. Perché io? Geechisu una cosa giusta l’ha detta. Io non sono un essere umano. Ci provo, ma in fondo sono solo una belva.»
«Dipende dai punti di vista. In questo viaggio hai fatto molto per altri, soffrendo pur di non ferire nessuno.
È qualcosa.»
«Chissà…»
N le sorrise, poi si incamminò sulla pedana: «Voglio dirti una cosa.»
Lei incuriosita, lo seguì sul tappeto blu, verso il trono: «Ti ricordi quando ci siamo incontrati per la prima volta a Quattroventi? Le parole del tuo Pokémon... oh, scusa. Di Maru» si corresse con un sorriso di scuse, mentre il Samurott soffocava un ringhio: «Dicevo, le parole di Maru mi hanno scioccato. E sai perché?»
Lei sorrise e lui aggiunse, imbarazzato: «Beh, immagino di sì, ma voglio ripeterlo lo stesso, perché sono importanti. Quel Pokémon… lui, Maru, un piccolo Oshawott, mi disse che tu gli piacevi… che gli piacevi e che voleva restarti accanto.»
Camminarono verso il trono, fianco a fianco, sapendo che potevano comprendersi; N scosse la testa: «Che stupido. Io non riuscivo ad accettarlo. Non capivo… era la prima volta che incontravo un Pokémon a cui piacessero gli umani.»
«In verità Maru non è molto omofilo, sai?» disse lei, ridacchiando: «Quando ci siamo conosciuti non voleva nemmeno avere l’allenatore.»
N sorrise a quella sua particolarità e aggiunse: «Sei ancora più speciale di quanto pensassi. Io non credevo nemmeno che esistessero Pokémon che stessero bene con gli umani. Più proseguivo nel mio viaggio, più le mie convinzioni vacillavano. Non potevo ignorare tutti gli incontri fatti… tanti Pokémon e umani che si capivano e aiutavano a vicenda. È per questo che ho voluto sfidarti: per avere la conferma di ciò in cui credevo. Volevo lottare alla pari, da eroe a eroe.»
Giunsero nel punto dove Reshiram aveva creato la breccia nel muro. N superò Castiga e si mise di fronte a lei e mormorò: «Ma non poteva che finire così. Io, che nella mia vita ho conosciuto e capito solo i Pokémon, anzi, solo certi Pokémon, non avrei mai potuto competere con te! Tu hai incontrato così tanti Pokémon che ti hanno offerto la loro amicizia. Gli hai persi, ma sei riuscita ad andare avanti, conservando in te il loro ricordo e rispettando la loro memoria senza lasciarti andare.»
N si voltò e si avvicinò alla breccia: «Il Campione mi ha perdonato… spetta a me decidere cosa voglio fare ora in avanti.»
Fece uscire Reshiram, che lo guardò sospesa a mezz’aria. Arrivò anche Zekrom, che guardò la sua controparte con tristezza.
«Castiga! Hai detto di avere un sogno anche tu… se è vero, realizzalo! Insegui il tuo sogno e fallo diventare il tuo ideale. Sono sicuro che tu ci riuscirai! È tutto ciò che volevo dirti. Addio.»
Salendo su Reshiram, con un sorriso, N volò verso il sole e sparì nell’orizzonte.
«Ciao N. Spero troverai quello che cerchi.» mormorò lei al nulla.
Nel cielo si vide una vampata. L’accelerazione di Reshiram. La Piroturbina.
Un ruggito ruppe il silenzio. L’addio di Zekrom. E i fulmini. Il Teravolt.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


«Ho capito… non c’è dubbio che questo N ti stia molto a cuore, giusto?» disse Raphael, sorridendo a Castiga, mentre lei, con gli occhi un po’ lucidi, concludeva il racconto: «Adesso pensa a riprenderti e poi potremmo ripartire!»
Lei lo fissò, un po’ stupita da quella risposta e lui sorrise, intuendo i suoi pensieri. Così, per spiegarsi meglio e toglierle i dubbi, aggiunse: «Ammetto di essere un filino geloso di costui… E un po’ preoccupato visto che entra e esce senza che nessuno lo “noti”. Ma se tu ti fidi di lui, non c’è problema… io mi fido di te.»
Lei gli sorrise di rimando, imbarazzata, senza saper cosa ribattere. Temeva che lui, dato che l’amava, le avrebbe impedito di partire all’inseguimento di un altro ragazzo e che di conseguenza si sarebbero dovuti separare. Invece no. Lui non l’avrebbe fermata e anzi, probabilmente l’avrebbe anche accompagnata.
Alcuni giorni dopo riprovarono a farla stare in piedi e, con l’ausilio delle stampelle, Castiga riuscì a camminare. I suoi amici non c’erano e Raphael aveva da fare, così lei fece un giro in solitaria per Zafferanopoli.
Era strano per lei girare in una grande cittadina di Kanto senza essere oggetto di paura, odio e rabbia altrui. Una volta, appena arrivava nelle città era tutto un fuggi fuggi e lei si limitava a devastare tutto o a uccidere qualcuno. Ora, invece, camminava tranquilla per le strade, senza che nessuno facesse caso a lei. Forse qualche occhiata curiosa, visto che indossava degli occhiali da sole e una bandana in un giorno piuttosto coperto, ma lei non ci faceva caso. Aveva preso gli occhiali da sole a specchio di Surge per nascondere i suoi occhi, dato che l’avevano definita Demone Rosso perché, crudeltà a parte, aveva sia gli occhi che i capelli rossi. E probabilmente era l’unica in tutto il continente con queste caratteristiche fisiche e un’eterna sete di sangue. Per non farsi riconoscere, quindi, aveva preferito coprire gli occhi, anche se non ci vedeva un granché bene.
Mentre la ragazza vagava, Raphael ritornò alla sua vecchia fucina, in un attacco di nostalgia.
«Non è passato molto tempo, eppure questo luogo sembra diroccato.» commentò, mentre osservava il suo piccolo laboratorio artigianale che aveva aperto da solo quando era scappato di casa.
«Raphael?!» chiese una voce alle sue spalle, felicemente perplessa.
Lui si voltò, incuriosito, e vide di fronte a sé una bellissima ragazza bionda, della sua stessa età, con due occhi azzurri seducenti. Alta e slanciata, sembrava una modella, e le forme perfette erano una tentazione per ogni coetaneo. Il ragazzo ci mise un po’ a riconoscerla, ma quello sguardo intenso era unico.
«Ciao, Daisy.» rispose, rabbuiandosi leggermente, non esattamente felice di rivederla.
Lei sorrise e commentò: «È passato molto tempo… non mi hai più parlato da quella volta.»
Lui tornò a guardare la fucina, cercando di togliersi dalla mente quel ricordo da lei volutamente scatenato. Abbastanza seccato di averle dato corda, cercò di non essere maleducato, ma di tagliare velocemente corto e tornare dalla sua zoppicante ragazza; così, chiese: «Che cosa ci fai qui?»
«Ti stavo cercando naturalmente.» rispose lei, come se fosse la cosa più ovvia del mondo: «Quando i tuoi mi dissero che te ne eri andato, aspettai di compiere la maggiore età e poi venni a Kanto. Peccato che mi dissero che eri sparito. Sono rimasta qui, provando a vedere se saresti sbucato fuori dal nulla, e stavo perdendo le speranze. E invece… eccoti.»
Lui non le rispose e lei proseguì, con voce suadente: «Non ti ho mai dimenticato. Ho avuto altri ragazzi, dopo quel giorno, ma non era mai abbastanza. Tu sei l’unico che io desideri.»
«La cosa non è reciproca.» rispose lui, con voce ferma, continuando a fissare il muro di fronte a lui.
Tutta quella ostinazione cominciò a irritare la bionda, che continuò a insistere: «Io proprio non ti capisco. Posso darti tutto quello che vuoi. Perché mi rifiuti?»
Raphael fu categorico con una semplice frase e sperò che lei capisse: «Perché non ti amo, Daisy.»
«Ma cosa importa?!» esclamò spazientita lei, non capendo quanto potesse importare una cosa così banale: «L’amore è un sentimento che svanisce. La passione no. Il desiderio neanche.»
«Ti sbagli.» replicò lui, volgendo lo sguardo su di lei: «Io sono innamorato da… sei anni. E la amo ancora.»
«Questo “amore” non ti ha impedito di fare sesso con me, o sbaglio?» ribatté lei, piuttosto acida: «È successo quattro anni fa, se non tre.»
«È stato un errore. Una debolezza mia che non accadrà mai più.» rispose lui, con voce ferma.
No, non l’avrebbe più tentato. Mai più. Ora che aveva ritrovato Athena, solo lei era importante.
«Quanta convinzione… reggerà?» mormorò lei, per poi infilargli le mani nella camicia, abbassandola dolcemente, scoprendo le spalle ampie e muscolose. Daisy si avvinghiò a lui come una serpe, tentando di stritolarlo nella sua morsa letale. La morsa del tradimento.
Parlare non serviva. La carta della seduzione funzionava sempre.
Lui la scostò, deciso, ma lei non demorse. Sapeva come sedurre il sesso opposto. Ma lui non si sarebbe fatto tentare da quel demonio biondo. Predicavano tanto di Athena, ma Daisy era mille volte peggio. Mentre pensava a un modo per mandarla via del tutto e non cadere nella sua trappola, Raphael vide una figura storpia che li osservava. Mise a fuoco: era una persona, con delle stampelle, un paio di occhiali da sole a specchio e una bandana sulla testa. Impossibile non riconoscerla.
Athena aveva già sfoderato a metà il pugnale. Brutto segno. E il rumore di una stampella che si avvicinava, lo fece preoccupare.
“Devo impedirle di ucciderla. Il sangue potrebbe darle alla testa.” pensò il ragazzo, anche se sarebbe stata una vera liberazione se Daisy fosse stata decapitata. Convinto, più di prima, esclamò: «Lasciami stare, Daisy.»
Sfruttando il suo fisico, più forte, prese la ragazza per le spalle e la alzò di peso, scostandola, e rimettendosi a posto la camicia.
«Insomma, Raphael! Che ti costa?!» esclamò lei, seccata da quella resistenza. Non le era mai capitato ed era molto frustrante. Era di solito così desiderata che un “no” non era concepito.
Con la coda dell'occhio, Raphael vide Athena avvicinarsi sempre di più. Sperando che non lo sentisse, rispose: «Non tradirò la mia… ragazza per uno sbaglio che ho fatto da giovane.»
Mezza sconvolta, lei esclamò, con un acuto da spaccare i vetri: «Ti sei fidanzato?!»
«Sì.» rispose lui, maledicendola per averlo gridato a quella maniera. Athena si bloccò.
“Spero non si arrabbi…” si ritrovò a pensare lui, maledicendo quell’orecchio troppo fino mentre diceva, cercando di darsi un tono definitivo: «Senti Daisy, noi due non abbiamo più niente da dirci.»
«Non finisce qui. E sai che ti dico? Vorrei proprio vedere la faccia della sgualdrina che ha osato superarmi! E sputarle in faccia per questo affronto!» rispose lei, nera di rabbia, ma se ne andò con passo deciso, ormai rassegnata, per quel giorno, ad averlo suo.
Raphael la guardò sparire, poi si voltò. Si avvicinò invece ad Athena, preoccupato ma non impaurito. Le mise una mano su una spalla, lentamente, e sentì che era tesa come una corda di violino: aveva contratto tutti i muscoli del corpo per restare immobile e non saltare alla gola di quella bionda. Le mani le prudevano da morire. Quando li aveva visti, era rimasta immobile sul posto incredula. Cercando di pensare a un’amichevole chiacchierata, non si era molto scomposta. Ma poi la ragazza aveva tentato di togliergli la camicia. L’ira era divampata in un nanosecondo. Non si era mai sentita così. Era arrabbiata, livida, ma per un motivo ben preciso.
Lui era suo.
Non poteva tollerare che una tizia a caso le rubasse le sue attenzioni. Aveva sguainato a metà il pugnale, decisa a far pagare a quella bionda quell’affronto. E aveva cominciato ad avvicinarsi, lentamente, perché amava mettere paura. Peccato che se ne fosse accorto solo Raphael. Stava per saltarle alla gola, quando aveva visto il ragazzo scostarla di peso e dire che era fidanzato.
“Prego?” si era ritrovata a pensare Athena, alquanto interdetta da quella frase.
Poi aveva capito. Parlava di lei. Uno strano sentimento la assalì, mischiato alla rabbia di vedere che lei non se ne andava e che si era pure permessa di insultarla apertamente. Alla fine però lui era riuscito a mandarla via mentre lei si era imposta di stare perfettamente immobile per non lasciarsi prendere dalla voglia di sgozzare quella ragazza. E così era rimasta finché Raphael non l’aveva raggiunta.
«Athena…?» chiese lui, in una muta domanda.
«Nessuno.» rispose lei, con la voce incrinata dalla rabbia, con ancora la mano stretta sul pugnale e quello sguainato di due dita: «Nessuno. Neanche una sottospecie di top model uscita da una rivista, può portare via qualcosa di proprietà del Demone Rosso.»
«Lei è la stessa di cui ti avevo parlato…» disse lui, a mo’ di spiegazione, per poi bloccarsi e dire: «No, aspetta. Come scusa?»
Arrossendo per la prima volta in vita sua, lei rispose, avendo capito di aver detto e non solamente pensato nella sua testa: «Ehm… niente.»
Lui ridacchiò e disse, non riuscendo a trattenersi: «Questa proprio non me la sarei mai aspettata!»
«Ma piantala.» ribatté lei, arrossendo ancora imbarazzata e guardando torva in basso.
Lui le tolse il pugnale dalle mani e lo rimise al suo posto, vedendo che si era calmata. L’abbracciò da dietro, posando il mento sulla sua testa, e mormorò: «Mi sento onorato di aver scatenato un attacco di gelosia in piena regola.»
Lei bofonchiò qualcosa, ma visto che ormai era in ballo, buttò lì: «Onore o maledizione. Non sai quanto posso essere possessiva.»
Alzando le spalle, Raphael rispose: «Beh, questo non danneggia me. Mi credi vero se ti dico che non centro nulla?»
«Ho visto benissimo che è quella che ti ronza intorno come una mosca che vorrei schiacciare sotto una scarpa e…» ringhiò lei, ma lui sussurrò: «Ssshh.» posandole un dito sulle labbra.
Lui la strinse a sé dolcemente e lei si posò a lui, chiudendo gli occhi e calmando ogni istinto omicida. Quel ragazzo aveva un modo di fare che riusciva a calmarla. Non sapeva come fosse possibile ma lui sembrava essere riuscito a capire il suo carattere. Negli ultimi tempi, interveniva al momento giusto o si allontanava al momento giusto. Era come se riuscisse a cogliere, dal suo comportamento, cosa fare o non fare. Dopo essersi per un attimo stretti, si lasciarono. Athena si sentiva strana, contenta di essere stata abbracciata e tranquillizzata in quel modo. Era assurdo, ma non voleva respingerlo. Lui sorrise, sempre più contento di come stavano andando le cose tra loro, e propose: «Credo convenga tornare in camera. È il primo giorno che esci, non vorrei ti stancassi troppo.»
Lei assentì con un cenno e si incamminò. Lui sorrise e l'affiancò, pronto ad aiutarla se avesse avuto bisogno.
La mattina dopo, all’alba, Athena si svegliò, prese le stampelle e uscì, senza svegliare Raphael. Aveva voglia di prendere un po’ di aria, e stare sola non le dispiaceva. Tutto quell’imbarazzo, dopo quell'abbraccio che aveva incredibilmente apprezzato, l’aveva piuttosto scossa. Stava vagando quando, all’improvviso, un rumore di urla e oggetti caduti attirò la sua attenzione. Fece appena in tempo a girarsi che vide un ragazzino di dieci anni, con i capelli biondi venati di rosso e gli occhi azzurri, che scappava da un uomo armato di mazza. La gente cercava di fermarlo urlando: «Ladro!!» mentre lui svicolava, terrorizzato. Castiga si spostò di lato e gli fece leggermente segno con la testa, indicando una botte vuota in parte a lei. Lui annuì e ci si infilò dentro. Lei chiuse il coperchio e si appoggiò sulla botte, come per riposare.
«Signorina!» le chiese uno degli inseguitori, fermandosi di fronte a lei mentre si guardava intorno attentamente: «Ha visto un moccioso passare di qui?»
«Certo. È andato da quella parte.» rispose lei con un tono neutro, indicando una direzione a caso.
Gli inseguitori passarono oltre correndo e urlando, e, una volta lontani, la ragazza bussò piano sulla botte.
«Puoi uscire.» mormorò sottovoce: «Non c’è più nessuno.»
Il bambino saltò fuori dalla botte, con un gran sorriso, anche se era ancora terrorizzato; sollevato vedendo che davvero non c’era nessuno, esclamò: «Grazie mille!»
Lei si tolse gli occhiali per vederlo meglio e lo guardò senza ostilità; un bambino della sua età era troppo piccolo per ricordarsi i tempi del Demone Rosso.
«Perché ti inseguivano?» gli chiese, sorridendo amichevole.
«Ho preso questa.» rispose lui, mostrandole una pagnotta: «Ma la mia mamma non ha soldi per pagarla e io volevo farle una sorpresa!»
Le scappò un sorrisetto mentre, sospirando per la sua buona fede, borbottava: «Ma che bravo bambino che sei. Ma non farlo più, ok? Quella gente può essere molto pericolosa.»
«Grazie davvero, signora!» esclamò ancora lui, per poi correre a casa.
Lei si accigliò leggermente, pensando: “Signora?!”
Lo salutò mentre correva via e ricominciò il suo giro, pensando inorridita: “Sono davvero così vecchia da sembrare una signora?!”
Nel frattempo il bambino corse a casa, felice di avere ancora la sua pagnotta. Andò dalla madre, una donna ancora piuttosto giovane per essere madre, con i capelli color rosso inglese, molto scuro, e gli occhi marroni, che gli chiese perplessa e sbigottita: «Ma… dove hai trovato i soldi per questa?»
Lui sorrise e rispose: «L’ho presa senza dirlo.»
«Cosa?! E non ti ha detto niente?» esclamò lei, con il timore che fosse già destinato alla gogna.
«Mi ha inseguito con un bastone. Ma una ragazza mi ha difeso!»
Sempre più perplessa, la madre chiese: «Una ragazza? Ma se qui odiano i ladri…»
«Si! Una simpatica ragazza con i capelli e gli occhi rossi!» esclamò lui, ricordando quegli strani particolari proprio perché non li aveva mai visti.
La madre sbarrò gli occhi, inorridita. Cercando di non tremare nella voce, per non allarmarlo, chiese: «C-cosa ti ha fatto?»
Lui notò la sua ansia, ma non capendo da cosa fosse dovuta, rispose: «Mi ha nascosto in una botte vuota e ha mandato gli inseguitori in un’altra direzione. E poi mi ha salutato e io sono tornato a casa!»
La donna era sbigottita e si teneva la mano sul cuore, per paura che le venisse un colpo secco e ci lasciasse le penne al solo pensiero che quella avesse solo parlato con il suo bambino.
“Il Demone Rosso.” pensò, con il cuore che batteva forte: “Solo lei ha gli occhi e i capelli rossi. L’avrebbe dovuto uccidere solo perché le aveva tagliato la strada… Ma… un momento. Dovrebbe essere morta!”
Guardò il figlio, che la osservava perplesso, e chiese: «Puoi rintracciarla?»
«Certo!» rispose lui, uscendo di corsa.
In poco tempo la ritrovò. Ancora in giro, era al mercato che guardava distrattamente le bancarelle, zoppicando con le stampelle. E andò a chiamare la madre.
La donna arrivò sul posto e si nascose per vederla da lontano con il figlio, ma non capiva chi fosse. Vedeva questa ragazzina sui diciotto anni vagare per la piazza, ma non poteva riconoscerla senza vederle gli occhi o i capelli. E ovviamente cercando di non farsi uccidere nel frattempo.
“Non saprò mai se è lei se non la vedo in volto. La metterò alla prova.” pensò, inventandosi un piano.
Si alzò rapida e agì, raccomandando, però, al figlio di restare nascosto. La donna fece per andare a chiederle una cosa della bancarella davanti a lei, ma perse l’equilibrio e cadde male, non aspettandoselo. Si mise a sedere gemendo e tenendosi un polso. La ragazza si accorse di lei, si voltò, e, vedendola, le tese la mano, per aiutarla ad alzarsi. Stava buttando la copertura alle ortiche, ma non poteva fare finta di niente. Aurea le aveva spesso detto che è un bel gesto aiutare qualcuno in difficoltà. Anche perché la gente che passava sembrava ignorare quella donna.
«Si è fatta male?» chiese, giusto per coronare il bel gesto con anche l’interessamento.
La donna prese la mano di riflesso e Castiga la aiutò ad alzarsi, puntellandosi più sulle stampelle che sulle gambe; ora riuscivano a reggerla meglio, ma non se la sentiva di rischiare. Pulendosi un po’ i vestiti dalla polvere, la donna la guardò in faccia, ma la ragazza aveva gli occhiali da sole, quindi non vide gli occhi. Decise comunque di mettere in atto il piano, con una piccola variante.
«No. Grazie, ma sto bene, ragazzina.» rispose, pensando “Odiava tempo fa venir chiamata così.”
Castiga si irrigidì irritata, seccata dal fatto che le dessero ancora della ragazzina, ma non si scompose, mantenendo la calma solo perché era in una piazza di Kanto strapiena di gente.
«Le conviene far vedere il polso.» mormorò secca, per poi voltarsi e andarsene; voleva evitare che la insultasse ancora e le facesse perdere quel poco di calma che aveva.
«Aspetta.» disse la donna, mettendole un braccio sulla spalla per fermarla: «Grazie per aver aiutato mio figlio.»
Lei si voltò, la fissò un momento e vide che era sincera; così alzò le spalle e rispose: «Non c’è problema. Arrivederci.»
Castiga salutò, scostò la mano con un po' di stizza, e cominciò a zoppicare, diretta all’albergo. Il bambino però salto fuori da un angolo e la rincorse, urlando: «Aspetta! Giochi con me?»
La madre non riuscì a placcarlo e lui continuò a seguirla. La ragazza si fermò e, giratasi, guardò il bambino. Gli occhiali le erano grandi e, guardando in basso, rese possibile alla donna di vederne il colore. Rossi come il fuoco. Ma non duri come la pietra. Diversi. Più… umani. E in quel momento divertiti. Come la sua espressione. Con un sorriso, sincero, lei rispose: «Magari un’altra volta piccolo. Storpia come sono non riuscirei a tenere il passo.»
Anche quello era diverso. Era sempre un ghigno, velato di arroganza pura, ma non era crudele come una volta. Era… amichevole.
Non c’erano dubbi, quella era il Demone Rosso. Ma era diversa. Quasi umana. Senza nessun atteggiamento omicida.
La ragazza si accorse dello sguardo della donna e si affrettò a tirarsi su gli occhiali con la mano, coprendo gli occhi alla vista. Guardò la donna un po’ allarmata, ma voltò le spalle e zoppicò diretta al hotel. Il figlio, invece, raggiunse la madre che era sconvolta e incredula.
Castiga tornò nella sua camera, con un mezzo senso di panico in fondo allo stomaco. Le aveva visto gli occhi. E dalla faccia aveva tutta l’aria di averla riconosciuta. Sperò con tutto il cuore di essersi sbagliata. Avrebbe avuto tutta la polizia del continente nella camera, e forse anche il boia. Una volta se ne sarebbe fregata, ma adesso, che era appena scampata alla morte e per la prima volta si sentiva felice, di trapassare non ne aveva alcuna intenzione. Una volta avrebbe ucciso tutti quelli che sarebbero entrati, ma ora no. Basta cacciarsi nei guai. Basta uccidere. L’aveva promesso, e si stava convincendo che era giusto così.
Decise di tornare nello stesso luogo il giorno dopo. Doveva capire quanto stava rischiando.
Così, la mattina dopo all’alba, si diresse nella piazzetta e si guardò intorno. All’improvviso, vide una piccola mano sbucare da un vicolo, che le faceva segno di avvicinarsi. Castiga, perplessa, girò l’angolo del vicolo e qualcosa le saltò letteralmente in braccio. Mollò le stampelle, che caddero in terra, e lo prese in braccio, per non farlo cadere. Era un bambino. Quel bambino che la guardava allegramente e urlava: «Presaa!!»
Lei, mezza sconvolta per il fatto che riusciva a stare in piedi da sola, gli sorrise e disse: «Ciao, piccolo.»
Lo mise a terra e lui le corse davanti: «Giochiamo?»
Decise di accontentarlo: «Va bene. A cosa vuoi giocare?»
«Mmm… a prendersi!»
Lei rispose, prendendo divertita le stampelle: « E mi spieghi come faccio a correre?»
Non se la sentiva di correre, visto che aveva appena ricominciato a camminare. Era meglio non strafare.
Lui le guardò contrariato e sbottò: «Le tieni per tanto quelle?»
«Non lo so. Se guarisco presto no…» rispose la ragazza.
«Ciao!» esclamò una voce gioviale alle sue spalle: «Ancora qui?»
Castiga si girò e vide la madre del bambino che la guardava, senza paura, sorridendo cordiale.
“Mi avrà riconosciuta?” si chiese la ragazza deglutendo. Non voleva che, proprio ora, si rovinasse tutto.
«Volevo ancora ringraziarti per aver salvato Zeus.» le disse la donna, senza dare l’idea di una che l’avesse riconosciuta: «Posso sapere il tuo nome?»
La ragazza la guardò, perplessa dal suo comportamento perfettamente tranquillo, e rispose titubante: «Castiga…»
Sorpresa, la donna non fece commenti in merito, dato che pensava si chiamasse Athena, come il nome che aveva sentito da alcune Reclute in passato, a Johto. Ma ripensandoci, capì che non sarebbe stata così scema da sbandierare il suo nome ai quattro venti. Soprattutto a Kanto.
«Sembra quasi un soprannome…» disse, quindi, con un mezzo sogghigno, ma poi aggiunse: «Io sono Elizabeth, felice di conoscerti!»
Le tese la mano, sorridente, e la ragazza, perplessa, la strinse. Per la mente della donna passò un pensiero: “Sto stringendo la mano di un’assassina.”, ma come era arrivato, quel pensiero svanì al sorrisetto titubante della ragazza. Castiga dedusse che la donna non l’aveva riconosciuta, perché altrimenti non sarebbe stata così tranquilla davanti a lei. Sollevata fecero amicizia, ma lei si legò soprattutto al piccolo Zeus. Il bambino aveva scoperto che la ragazza era in hotel e passava a trovarla se non la vedeva in giro. Le raccontò che era senza papà e che viveva con sua madre. Lei non riusciva a trovare un lavoro perché era senza marito e da un po’ facevano la fame perché erano rimasti senza soldi. Così, visto che i due non potevano giocare a prendersi, lui le insegnò delle filastrocche che sapeva e lei gli insegnò a giocare a scacchi, un gioco che aveva sempre adorato.

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


Nel frattempo, però, le cose non andavano bene, altrove. Dopotutto quella era Kanto e una certa minaccia non era andata a vuoto.
Rachel, la sorellina minore di Raphael, stava giocando nel piccolo salottino, quando bussarono alla porta. La piccola andò ad aprire e si ritrovò davanti un uomo alto e muscoloso, vestito con un completo di pelle blu, con delle righe arancioni sul petto e sui polsi. Indossava degli stivali grigi e un mantello, nero nel lato esterno e rosso in quello interno, che l’uomo teneva ripiegato sul braccio. Aveva gli occhi marroni, uno sguardo deciso, ma cordiale, e i capelli arancioni, corti, sparati in alto con il gel.
L’uomo rivolse alla bambina, con un tono amichevole: «Ciao, piccola. Ci sono i tuoi genitori?»
Rachel annuì, non osando rispondere a parole, terrorizzata da quell'uomo enorme, e andò a chiamare il padre, che quando lo vide, chinò il capo e disse: «I miei omaggi, Campione Lance.»
Tornato da una visita a Sinnoh, una regione piuttosto lontana, Lance, il Campione del Continente, l'uomo che aveva compiuto una strage di Pokémon ed eliminato la minaccia del Demone, aveva ricevuto il messaggio del padre di Raphael; una missiva, breve, che lo aveva sconvolto: “Ho catturato il Demone Rosso.”
Jacob lo fece entrare e Lance, guardandosi intorno, chiese: «Allora? Dov’è?»
«Signore, io…» rispose lui, titubante, temendo una punizione esemplare per averlo fatto correre lì per niente: «Purtroppo mi è sfuggita.»
Lance si adombrò, ma poi disse: «Non importa. Se è davvero lei, sarebbe stato troppo pericoloso averla in casa.»
«Però posso scoprire dov’è!» esclamò l’uomo, cercando di metterselo in buona per prendersi la ricompensa che sicuramente il Campione gli avrebbe dato per la cattura di quell’essere. Frugando nelle tasche, prese una foto del figlio, che aveva scattato a tradimento mentre parlavano, e la porse al Campione, spiegando: «Ha costretto mio figlio Raphael ad aiutarla e ora è con lui. Se trova lui, trova anche lei.»
Lance prese la foto con un guizzo di soddisfazione, osservando attentamente il ragazzino castano.
«Molto bene.» disse: «Non dovete preoccuparvi. Farò sparire quella belva una volta per tutte.»
Voltandosi facendo ondeggiare il mantello, uscì con passo deciso.
Mentre suo padre e quell’uomo parlavano, Rachel aveva sentito chiaramente il nome di suo fratello. E il tono di quell’uomo non le era piaciuto. La bambina aveva preso la finestra velocemente ed era uscita. Doveva trovare Raphael e dirgli che questo … Lance, lo stava cercando. Ma come trovarlo?
Decise di andare a casa di un suo amico, per chiedergli aiuto nelle ricerche, che aveva la sua stessa età. Era l’unico bambino di cui lei si fidasse. Arrivata alla casa bussò e una donna aprì la porta; vedendola chiese: «Ciao, Rachel! Cosa ci fai qui?»
La bambina sorrise e rispose: «Salve, signora! C’è Zeus in casa?»
«Credo sia in piazza.» rispose Elizabeth: «Vieni, ti accompagno a cercarlo.»
La bambina seguì la donna nella grande piazza di Zafferanopoli e dopo qualche ricerca con lo sguardo, la donna esclamò, indicando una direzione: «Guarda. Eccoli là!»
La bambina guardò e vide il piccolo Zeus che passeggiava con…
«La ragazza dai capelli rossi!» esclamò sottovoce.
Elizabeth raggiunse i due e disse: «Ciao, Castiga! Ehi Zeus, c’è Rachel che ti cerca.»
«Ciao.» rispose la ragazza, fattasi attenta dopo aver sentito il nome della bambina.
Prese velocemente l’Interpoké e mandò un messaggio a Cheren, che sapeva fosse con Raphael: “Di’ a Raphael che sua sorella è in piazza, da sola. Non è un buon segno.”
«Ciao, Rachel! Come stai?» chiese allegro Zeus, andandole incontro.
«Ciao, Zeus.» rispose lei, sorridendo. Abbassando i toni, chiese: «Chi è quella ragazza?»
«È una nostra amica.» rispose lui, sottovoce a sua volta anche se non ne conosceva il motivo: «Mi ha salvato da dei tizi cattivi. È molto simpatica, vuoi che te la presento?»
Mentre i due bambini parlavano fitto fitto, Castiga vide arrivare di corsa Raphael, seguito da Belle e Cheren.
«Rachel!» disse il ragazzo, vedendola: «Che cosa ci fai qui da sola?»
«Fratellone!» esclamò lei: «Un signore è andato a casa nostra e papà gli ha dato una tua foto. Non mi piaceva e allora sono venuta a cercarti.»
«Come si chiama questo signore?» chiese lui, preoccupato.
«Si chiama…» cominciò a dire la bambina, ma Castiga la precedette, guardando ostile di fronte a sé e quasi ringhiando: «Lance.»
La bambina annuì, poi si voltò e vide l’uomo avvicinarsi. Quando era a casa della bambina, Lance l’aveva vista uscire. Supponendo dove stesse andando, aveva fatto un tentativo e fatto rotolare fuori dalla stanza la Pokéball di Dragonite; il Pokémon aveva capito cosa fare. Seguirla. E così aveva visto il Demone Rosso in piazza. Tornato dal Campione, lo aveva condotto lì e ora l’uomo aveva davanti al lui la sua più odiata nemica.
Non aveva dubbi, era lei. Anche con quei ridicoli occhiali da sole.
Lance e Athena si squadrarono con uno sguardo di odio puro. L’aria era talmente tesa che si poteva sentire a pelle. Maru, dietro la ragazza, osservava attento la scena. Non dissero nulla, ma poi Dragonite fece un passo avanti. Lance sorrise. Più la guardava, più la odiava. Il suo più grande desiderio era quello di metterle le manette, processarla di persona e darle l’agognata condanna: la pena capitale. Athena di tutta risposta, avrebbe voluto massacrarlo, farlo a pezzi lentamente, possibilmente da vivo, e vendicarsi per ciò che lui aveva fatto alla sua famiglia. Maru invece fronteggiò coloro che stavano turbando la sua Allenatrice, guardando Dragonite con occhi di fuoco, e gridò, con tono di sfida, sfoderando le spade e alzandosi sulle due zampe posteriori: *«Fatti sotto, bestione!»*
«Maru… no!» mormorò Athena, facendosi subito preoccupata, non badando più al suo peggior nemico.
Il Samurott la guardò, perplesso, distraendosi, e Lance disse: «Nuovi tirapiedi da far sparire vedo. Molto bene. Non mi ci vorrà molto. Dragonite usa Tuonopugno!»
Il Pokémon si alzò in volo e scagliò un potente pugno elettrico su Maru, che volò all'indietro, preso alla sprovvista. Castiga si agitò, vedendolo a terra; in preda al panico, frugò nelle tasche, nella disperata ricerca della Pokéball del Samurott che in quel momento aveva bloccato senza ordine un Tuonopugno con il Conchilama.
In una mezza isteria, non trovando la sfera e temendo che potesse succedergli qualcosa, Castiga esclamò: «Maru, vieni via!»
*«No!»* rispose lui, scuotendo la testa.
Quell’uomo stava dando fastidio alla sua compagna e lui l’avrebbe difesa, come aveva sempre fatto: lottando insieme. Incassò un altro colpo, ma si rialzò, ancora stordito dall’elettricità in corpo, e colpì Dragonite con un Geloraggio. Il Drago si infuriò e lanciò un Tuono, ma da una sfera uscì Warubiaru che fece da scudo all’amico, neutralizzando la scarica elettrica con il suo Tipo Terra. Mentre i due combattevano però, la loro Allenatrice vide la sua determinazione infrangersi in mille pezzi.
Come pietrificata, rimase ad osservare i suoi amici lottare per difenderla.
Ancora.
E lei impotente, a guardare.
D’un tratto, le altre quattro sfere della ragazza si aprirono. Maru si accasciò a terra, indebolito e, davanti a lui, come una muraglia, si stagliarono Shikijika, Wargle, Warubiaru, Hoshi, e Deathkan.
Athena era dietro di loro, ancora in quello stato di trance, in lacrime.
Lance, ritrovandosi davanti cinque Pokémon furiosi, sconosciuti e in piena forma, ritenne opportuna la ritirata, e, montando sul dorso del suo Dragonite, sparì all’orizzonte. Raphael fece per avvicinarsi alla ragazza, ma un bramito lo bloccò: i cinque Pokémon lo fissavano minacciosi e pronti ad attaccare. Warubiaru si avvicinò e prese in braccio Castiga, ancora sotto shock, Hoshi e Shikijika aiutarono Maru ad alzarsi e lo sostennero, e, con gli altri a fare da scudo intorno a loro, si allontanarono.
Elizabeth corse verso di loro, urlando, in preda al panico: «Lasciate stare mia figlia, bestiacce!»
Hoshi, l’ultima del gruppo, emanò minacciosa scintille, guardandola storto, mentre Raphael, dapprima sconvolto nel constatare che quella donna era la madre della sua ragazza, borbottò: «Si calmi. È meglio che stia con loro che con noi.»
La donna si fermò, fissandoli allontanarsi, e il gruppetto si rifugiò in una radura poco lontano. Il Sawsbuck si sdraiò e il Krookodile appoggiò Castiga al suo corpo. Gli altri si misero intorno a loro. La ragazza era ancora sotto shock. Non parlava, non reagiva.
*«Ehi, Castiga… parlami.»* disse Maru, avvicinandosi a lei e posando la testa sulle sue gambe.
Ma lei non rispondeva.
*«Lascia fare a me, Maru!»* disse Shikijika rivolto al Samurott.
Poi scrollò l’immenso palco di corna e un dolce profumo primaverile riempì l’aria intorno a loro. La ragazza cominciò a reagire, si rilassò e accarezzò la testa di Maru, lentamente, riprendendosi.
*«Castiga!»* esclamò Warubiaru, preoccupato, seduto a terra di fronte a lei: *«Come ti senti?»*
«Scusate, amici.» rispose lei, singhiozzando: «Mi hanno ceduto… i nervi…»
*«No, non piangere. Va tutto bene…»* mormorò dolcemente Shikijika, leccandole le lacrime.
Lei gli accarezzò il muso e borbottò: «Non mi piace che mi vediate così debole, ma… ma oggi… quella scena mi ha fatto ricordare quel giorno.»
I sei Pokémon si fecero attenti e lei, scossa dai singhiozzi, mormorò: «Loro… loro erano i miei Pokémon di Kanto. La mia famiglia. E Lance… beh… vi racconterò di quel giorno. Così capirete…»
Loro annuirono, attenti. Nessuno aveva mai sentito nulla della vita di Castiga a Kanto; lei non ne parlava e loro non si azzardavano a chiedere perché avevano saputo da Maru quanto lei ne aveva sofferto. Il caposquadra aveva detto a ogni nuovo membro di non fare troppe domande perché l'aveva vista piangere troppo spesso, ripetendo quei nomi: Pidg, Fiamma, Nid, Lapras, BD e Ju.
Maru appoggiò la testa sulla sua spalla e disse: *«Noi siamo con te, amica mia.»*
Lei fece un respiro e cominciò a raccontare, mentre le lacrime scendevano da sole, senza controllo, e dentro di lei, si faceva strada il dolore di quel ricordo che non avrebbe mai potuto cancellare.
 
~§~

INTERMEZZO: LA DISFATTA

Erano sulla Torre Radio di Fiordoropoli, a Johto.
Athena e Archer al microfono, Milas e Maxus sulla porta.
Archer stava mandando il messaggio radio, mentre lei oscurava tutti gli altri programmi. Si doveva sentire solo il loro richiamo. Era il loro messaggio a Giovanni, il capo del Team Rocket. Gli chiedevano di ritornare, che loro quattro avevano rimesso in piedi l’organizzazione, dopo che lui l’aveva sciolta, e lo volevano di nuovo al loro fianco. Dopo tre lunghi anni di preparativi, erano pronti.
Un Iper Raggio interruppe tutto.
Milas e Maxus vennero sbalzati via dalla porta e Lance entrò dietro al suo Dragonite. Dietro di lui parecchi poliziotti e Sandra, la Leader di tipo Drago e cugina del Campione, insieme agli Élite di Kanto: Bruno, Koga, Pino e Karen.
Maxus e Milas erano KO, stesi da quel fascio di energia, Archer impegnato, e così Athena mandò in campo tutti i suoi Pokémon e affrontò i nemici da sola. Il Campione del Continente, i quattro Élite della Lega Pokémon e la Leader, contro di lei. Dragonair, quella di Sandra, usò il Tuononda, tutti i Pokémon di Athena vennero paralizzati, uno dopo l’altro, e la durissima lotta venne persa. Ferita nell’orgoglio, Athena non si fece prendere dal panico e, mentre Lance era occupato a mettere le manette ad Archer, fece rientrare i suoi amici, lanciò un detrito della porta esplosa contro la finestra e la ruppe. Guardò Pidg, lui annuì e rapido, si rialzò e si lanciò dalla via di fuga appena creata, prendendo il volo. Sandra andò al davanzale, per tentare di fermarlo e Athena, vedendo che anche tutti gli altri erano troppo occupati per badare a lei, prese rapida le scale, uccidendo chi aveva sulla strada e fuggendo a tutti. Corse per parecchio tempo, vedendo l'ombra di Pidg seguirla tra le nuvole, finché non trovò il posto ideale per nascondersi: il Monte Scodella, una montagna di Johto, molto grande e intricata. Il nascondiglio perfetto. Athena entrò e venne affiancata dal fratello che, esausto, aveva il respiro affaticato. Lo accarezzò e mormorò: «Ora non ti fa comodo non avere la Pokéball, eh fratellone?»
*«No, ma ce l'abbiamo fatta comunque. Cerchiamo un posto per riposare.»* rispose lui, appoggiandosi alla sua spalla per camminare. Era esausto, non ce la faceva più.
Girovagarono parecchio, continuando a prendere tunnel dietro tunnel, per nascondersi bene.
Questo fu l’errore che costò tutto.
Trovarono una grotta ampia, così, Athena fece uscire i suoi Pokémon. Erano conciati male e lei non aveva medicine, ma voleva aspettare che si calmassero le acque, per poi portarli nell’ospedale della base.
*«Yo, lady B. Noi bene.»* disse Fiammata, facendole il segno del pollice alzato.
Lei lo fulminò con lo sguardo e ribatté: «State bene un corno, Fiamma. Poche ciance.»
*«Dai piccoletta! Siamo delle rocce noi!»* esclamò Nidor, alzandosi, ma lei lo rimise seduto, zittendolo con una semplice constatazione: «Fa’ poco lo sbruffone, tu. Ti è costato il corno, non ti basta?»
Gli altri scoppiarono a ridere mentre Nidor spalancava la bocca, senza saper cosa rispondere.
Sogghignando, Athena gli fasciò le zampe, mormorando: «Dai, Nid, non ti offendere. Sono solo preoccupata.»
*«Ti agiti per niente!»* replicò Jukain.
Lei alzò le spalle e zittì anche lui: «Per niente o no, è sempre meglio prevenire, Ju.»
*«Smettetela di fare i super Pokémon. Le abbiamo prese e dovremmo essere felici se la nostra Athy ci sta curando come può!»* esclamò Lapras, rivolta agli altri Pokémon, abbastanza irritata nel vedere la loro finta baldanza. Fiammata aveva preso talmente tanti calci in faccia da avere il sangue che gli colava dall'occhio e dall'orbita vuota, Nidor aveva parato colpi molto potenti con le zampe che parevano rotte e Jukain era mezzo abbrustolito e aveva tagli ovunque.
«LAPRAS HA PERFETTAMENTE RAGIONE.» intervenne la robotica voce di Bandan: «IL CALCOLO DEI DANNI E’ STIMABILE A…»
«Grazie BD, ma la percentuale non è importante.» intervenne Athena, prima che cominciasse a fare i suoi soliti calcoli assurdi e far venire il mal di testa a tutti: «Va bene così. Grazie a te e a Lap dell’appoggio.»
*«Figurati, Athy.»* ammiccò lei. Il Metagross non disse altro, rimettendosi comodo per riposare.
Grazie all’aiuto di Lapras e Bandan, Athena riuscì a convincerli a farsi curare. Con solo delle bende, cominciò a fasciarli, ma un ruggito interruppe il silenzio e Dragonite piombò lì, seguito da Lance. Athena lo guardò irritata, ma Nidor si alzò in piedi e disse, con un tono da spaccone: *«Lascia fare a me, piccoletta»*
Fece scrocchiare le immense mani doloranti e si preparò ad affrontarlo ma sottovalutò l’avversario. Dragonite lo colpì con il Geloraggio sulla sua menomazione, il corno frontale spezzato. Il Nidoking crollò a terra, dolorante e sul punto di svenire, ma Lance non li avrebbe lasciati scappare questa volta. Infierì sul povero Pokémon che si spense con un rantolo.
«N-nidor… Nid!» esclamò Athena, gli occhi sgranati, fissi sul Pokémon che non si rialzava; il cuore trafitto da quell’Iper Raggio che aveva ucciso uno della sua famiglia. Fece per andare da lui, vedere come stava ma Pidg la bloccò e Jukain, furioso, si alzò e attaccò con violenza. Athena non fece nemmeno in tempo a chiamarlo, che lui cadde, carbonizzato da un Lanciafiamme. Bandan si alzò a sua volta. Non gliela avrebbe fatta passare liscia. Dragonite lanciò un altro Lanciafiamme, ma Lapras si intromise incassando il colpo. Sia lei che Bandan erano deboli e stanchi, ancora provati dallo scontro di prima, mentre Dragonite, fresco e riposato, attaccò con violenza, ed entrambi si accasciarono al suolo. Come per prenderla in giro, Lance ordinò un Dragartigli, che trapassò la corazza di puro acciaio del Metagross. Era lui il più forte.
Lapras emise un lungo lamento, addolorata per la perdita dell’amico, poi un Tuono spense ogni rumore.
Il silenzio era quasi totale.
Lance rideva, soddisfatto.
Fiammata e Pidg erano increduli, gli occhi sgranati, la rabbia nel cuore.
Athena, in stato di shock, non riusciva quasi più a respirare. Non riusciva a capacitarsi di quanto stava succedendo davanti ai suoi occhi. Era completamente pietrificata, paralizzata dal dolore. Li stava perdendo. Tutti. Uno dopo l’altro. E non riusciva a fare niente, nemmeno a pensare, nemmeno a reagire.
Fiammata si alzò, determinato, sistemandosi la benda sull'occhio e asciugandosi il sangue. Era il più forte fra tutti i Pokémon di quella squadra, di quella famiglia.
*«Yo, me tocca!»* ruggì, emettendo una fiammata dalle fauci e spalancando le ali.
Mentre lui affrontava Lance, Pidg andò da Athena. Volò vicino a lei, al suo fianco, cingendola con l’enorme ala. Vedendo quanto fosse sconvolta, cercò di rendere il tono il più dolce possibile e mormorò: *«Sorellina, Fiamma sta per cedere. Tra poco tocca a me.»
La strinse con affetto, posandole il becco sulla testa.
Lei si riscosse, sentendo la sua voce ma soprattutto quelle parole, e borbottò: «N-no. Pidg non andare. No!»
Lui le sorrise e rispose: *«Devo. È mio dovere proteggerti, come tu facesti con me.»*
Lei lo abbracciò, gli occhi lucidi. La stretta del dolore le aveva catturato il cuore, e stringeva, troppo. Lo fissò disperata, a pochi centimetri dal suo becco, non potendo nemmeno contemplare una vita senza di lui.
*«Non temere.»* disse lui, dolcemente, appoggiando la fronte alla sua: *«Andrà tutto bene.»*
«Pidg, non puoi farcela.» gemette lei, aggrappandosi alle sue piume con disperazione, continuando a fissare quel mare blu che portava negli occhi: «Non lasciarmi anche tu! Ti prego fratello, corriamo via, scappiamo insieme!»
Un ruggito sofferente li interruppe. Fiammata stava perdendo. Il rapace sospirò e mormorò: *«Tu non sarai mai da sola. Mentre io li tengo occupati, tu scappa.»*
«No, Pidg. Non posso, non voglio. Vieni via con me!»
*«Non sarei un buon fratello, se facessi così.» replicò serio lui: *«E non sarei un buon amico se me ne andassi dopo che i miei compagni si sono sacrificati. Non potrei vivere dopo aver commesso un atto tanto egoista.»*
Le sorrise, guardandola con il suo dolce sguardo color oceano. Unico al mondo. Era determinato, sereno.
Lei cedette alle lacrime, che le inondarono il viso e rispose: «Sei egoista se mi lasci qui, da sola, e te ne vai! Io non posso vivere senza di te, Pidg!»
Lui, sempre sorridendo, arruffò le piume, fiero, e disse: *«Sorellina…»*
Un botto lo interruppe.
Fiammata cadde.
E non si rialzò più.
La coda si spense di colpo; dell’antica fiamma ne rimase solo un filo di fumo.
Pidg spalancò le ali e concluse la frase: *«…Ti voglio bene. Ricordalo sempre.»*
Spiccò il volo e attaccò; mentre cadeva in picchiata, brillando della luce del suo Aereoattacco, stridette con tutto il fiato che aveva in corpo: *«Scappa! Corri! Vattene via! Salvati almeno tu e noi moriremo in pace!»*
Sapeva fin dall’inizio che non ce l’avrebbe fatta. Come gli altri prima di lui, sapeva di andare incontro alla morte. Ma per lei, perché lei si salvasse, sarebbe andato nel buio sereno. Con il dolore e la disperazione nel cuore, Athena prese un tunnel e corse, poi si fermò. Magari, Pidg avrebbe vinto. Sarebbero andati via insieme. Sentì dei botti, furiosi, poi più nulla, se non una voce: «Anche l’ultimo è morto. Andiamo a cercarla.»
Lei si accasciò al muro, mormorando, fra le lacrime: «P-pidg… no… sei un egoista… un maledetto cocciuto egoista.»
Voleva arrendersi. Consegnarsi. Morire con loro.
Ma qualcosa in lei si mosse.
L’ultimo desiderio di Pidg era stato questo.
Scappa.
Corri.
Vattene via.
Salvati almeno tu, aveva detto.
E così fece. Quasi in trance, in stato di shock, corse via, urlando le ultime parole che lo shock non le aveva bloccato: «Ti odio, Pidg! Ti odio, maledetto egoista!»
Quando era entrata, tutto quel girare in tondo l’aveva portata praticamente a due passi dall’uscita del monte.
Ecco perché Lance li aveva trovati subito.
Uscendo dal Monte Scodella guardò il cielo. Una nuvola, la seguiva nella sua disperata corsa. Aveva una forma strana, come la forma di un Pidgeot che vegliava su di lei da quel cielo immenso dove lui era volato.
Fermandosi un momento, mormorò: «Addio, mio dolce fratello… ti voglio bene. Ti voglio bene… per sempre… insieme…»
Imbarcatasi sulla nave diretta a Isshu, aveva reso onore all’ultimo desiderio di Pidg.
Ma a che prezzo?

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


«Capite?» chiese Castiga, ancora in lacrime, rivolta ai suoi Pokémon: «Vedervi combattere contro Lance, mi ha riportata a quel giorno. Quando li ho persi tutti, uno dopo l’altro, per proteggere me. E… sono crollata.»
I Pokémon, turbati da quel racconto, si strinsero attorno a lei, per confortarla. Loro erano lì, insieme, e nessuno li avrebbe separati. Maru vide come l'amica fosse triste ed esclamò, convinto, in modo da convincere anche lei: *«Insieme possiamo sconfiggerlo!»*
«No, Maru.» dissentì lei, scuotendo la testa: «Voi non combatterete mai contro Lance. Mi vuole morta, vuole farmi soffrire e farebbe del male a voi per colpire me. Non potrei sopportarlo. Torniamo a Isshu al più presto. Almeno lì, forse, saremo al sicuro.»
*«Non è da te scappare!»* esclamò Wargle, di getto, in un tentativo di farla reagire, ma lei rispose: «Lo so. Ma tengo a voi più che a me stessa. Non sopporterei di perdervi. E non voglio nemmeno rischiare. Non sono un tipo che ha paura, ma ci sono cose che sono solo stupide.»
Warubiaru fece per dire qualcosa, per dare manforte ai compagni, ma Deathkan lo fermò, agitando le quattro braccia; li fissò tutti e, con voce calma e profonda, da vero spettro, ordinò: *«State zitti e ascoltate.»*
Lo guardarono tutti e lui parlò: della sua vita precedente di umano, della sofferenza di rimanere imprigionato in un corpo a metà, ma anche della felicità di aver trovato loro, amici che gli volevano bene, contro ogni sua aspettativa. Parlò un po' di tutti, sottolineando pregi e difetti, ma non solo; e infine, disse ciò che pensava di lei, Castiga, la ragazza che gli aveva mostrato il lato buono del mondo, dopo che la sua visione di esso si era oscurata per le disgrazie che gli erano accadute: *«Quando mi sono evoluto, grazie a te, ho smesso di piangere davanti all'immagine del mio vecchio viso, come Yamask. Sono cresciuto, sono diventato un altro. Tutto cambia. Nulla si crea e nulla si distrugge. I tuoi amici sono morti con la vecchia te. La nuova te non può venire sconfitta dalla stessa persona.»*
Nessuno disse nulla. Il Pokémon sarcofago sorrise, incrociò le quattro braccia e, sghignazzando, aggiunse: *«Ma ora parliamo di cose più importanti.»*
Castiga si riscosse da quello stato di trance in cui era finita; Deathkan sapeva essere molto ipnotico. Asciugandosi le lacrime che si erano rifiutate di restare dove erano, chiese: «Cose più importanti?»
Gli altri si fecero attenti e lui indicò la direzione dalla quale erano arrivati: *«Di quel che è successo prima!»*
*«Esatto, perché non ce l’hai detto?»* intervenne Shikijika annuendo, riportando un po' di vita in quel morto dialogo.
«Detto cosa?» chiese la ragazza, sempre più perplessa; non riusciva a capire di cosa stessero parlando gli amici. Wargle prese la parola e rispose: *«Quello che ha urlato la donna nuova!»*
«Elizabeth ha urlato? Non ci ho fatto caso…»
Spazientita, Hoshi si improvvisò attrice. Con una finta disperazione e una recitazione degna di nota, esclamò, accasciandosi a terra: *«Lasciate stare mia figlia, bestiacce!»*
«Che cosa?! Vi ha dato delle bestiacce?!» esclamò d'impatto Castiga, ma vide che ancora non aveva capito. I Pokémon la guardarono accigliati, come per dire che quello non c'entrava nulla. Lei ci pensò su, ripetendosi la frase in testa, e riprese: «Un momento… lei... lei sarebbe mia madre?!»
Restò un momento immobile, sconvolta e in silenzio. Ma l’iniziale stupore lasciò il posto alla rabbia… ora, chi l’aveva abbandonata aveva un volto. Un volto ma soprattutto un corpo mortale. Così ringhiò, facendo per alzarsi: «Mi deve spiegare parecchie cose… molte.»
Il suo sguardo diceva tutto e Shikijika scrollò le corna per calmarla con l’Aromaterapia, tentativo estremo e poco funzionante. Lei notò però la mossa, perché esclamò: «Vi rendete conto che se io sono così è perché ero sola?! Perché Giovanni mi ha trovata in mezzo alla strada? Che se mi avesse tenuta con lei, forse il Demone Rosso non sarebbe mai esistito e Pidg sarebbe ancora vivo?!»
*«Stalle lontana!»* disse deciso Shikijika, interrompendo la sfuriata.
Lei lo fissò, nera di rabbia, e borbottò: «Come sarebbe a dire che devo starle lontana?»
Lo sguardo eloquente del Pokémon fu più soddisfacente di qualunque risposta. Era talmente ovvio che la domanda risultava superflua. Accigliandosi, la ragazza si arrese. In quelle condizioni rischiava l'omicidio e non era di certo il caso. Così fissò il cervo e disse: «D’accordo; senti Shik, facciamo così. Non le parlerò. La ignorerò completamente. Ci stai?»
*«Andata.»* rispose lui, annuendo.
I Pokémon si rialzarono e insieme a lei tornarono da Cheren, Raphael, Belle, Rachel, Zeus… e Elizabeth.
«Ath.. ehm… Castiga!» esclamò Raphael preoccupato, andandole incontro. Mai l'aveva vista crollare così.
Lei gli fece solo un cenno e disse: «Sto bene. Scusa, voglio stare sola.»
«Aspetta!» disse Elizabeth, tendendole la mano, ma la ragazza la ignorò. Come se fosse un fantasma. O non esistesse affatto.
La donna rimase lì, a braccio teso, perplessa e affranta. In una domanda rivolta un po’ a tutti, chiese: «Ma cos’ha?»
«Ha qualcosa. Non si preoccupi, le parliamo noi.» disse Cheren e Belle annuì. Raphael li seguì, pronto a intervenire. Era bravo, stranamente bravo, a calmarla.
La rincorsero e Belle gridò: «Castì! Fermati, Castì!»
Lei si girò e chiese, brusca: «Che c’è?»
L'amica notò sguardo e tono, più irritati del solito. Intuendo cosa la turbasse, visti anche gli eventi accaduti, chiese, cauta: «Perché non le vuoi parlare? È per quello che ti ha detto prima?»
Lei si adombrò e rispose solamente: «Lasciatemi sola.»
«Insomma, Castì! Siamo preoccupati! Non è da te rimanere scioccata così!» insisté Cheren, per dare manforte all'amica e scuoterla; chiudersi così non avrebbe giovato. Speravano che sfogarsi l'avrebbe liberata da quel sentimento di rabbia. Spazientita, Athena trattenne la rispostaccia e sbottò: «Sentite, sto bene. Ora non ne voglio parlare.»
I tre amici rimasero fermi, arresi dalla sua cocciutaggine, mentre lei tornava nella sua stanza, seguita dai Pokémon. Si chiuse dentro e non rispose a nessuna delle chiamate se non…
«Salve, prof.» mormorò, rispondendo. Non poteva ignorarla. Tutti ma non lei.
La donna non ci girò troppo intorno. Fissandola decisa, quasi ordinò: «Athena. Parla.»
Sbuffando seccata, lei ribatté: «Sa già tutto scommetto. A cosa serve se glielo dico anche io?»
«Voglio capire come ti senti.» replicò decisa la scienziata, senza lasciarle lo spazio per svicolare: «Non mi importano le versioni degli altri, lo sai.»
La ragazza ringhiò qualcosa, seccata. Non aveva voglia di parlare, di vedere persone; desiderava un po’ di solitudine; solo questo. Ma ad Aurea non poté non rispondere, ma fu piuttosto lapidaria: «Male e arrabbiata… anzi. Furibonda. Le basta?»
«No.»
Castiga non disse altro, sperando che demordesse, ma Aurea non era il tipo che si arrendeva a un rifiuto, soprattutto da lei. Così incalzò, sperando di convincerla ad aprirsi: «Ti aiuta parlare, Athena, lo sai. Fai questo piccolo sforzo e ti sentirai meglio.»
«Nulla potrà cambiare quello che è successo.» borbottò lei, come sempre non riuscendo a negarle una risposta.
La donna sorrise tristemente e disse: «Forse no, ma magari potrà alleggerire la pillola. Andiamo.»
Castiga rimuginò a lungo, cercando un modo per scappare; ma non lo trovò. E non poteva chiuderle il telefono in faccia. Così, sbottò: «Lei… lei non sa come mi sento.»
«Aiutami a capirlo.» rispose pacata la scienziata, ma con una nota di incoraggiamento nella voce.
Arresa, la ragazza sospirò; con Aurea non aveva scampo. Le avrebbe dovuto raccontare tutto, come si sentiva e cosa provava, come tutte le volte; così chiese: «Le hanno detto che ho visto Lance?»
«Sì.» rispose lei, annuendo: «E anche che sei crollata… scoppiando a piangere.»
«Incredibile! Anche io piango.» rispose sarcastica la ragazza.
Aurea, seccata dal suo comportamento, cominciò a irritarsi ed esclamò: «Athena, smettila di fare l’idiota. Non ti serve il sarcasmo in questo momento.»
Lei guardò di lato, incassando il rimprovero, e borbottò, finalmente seria: «Rivederlo… mi ha fatto ricordare quel giorno. Non ho retto il peso dei ricordi. Sono troppo forti per me. Anche se ostento sicurezza, queste emozioni mi fanno paura. Sono sempre più forti e io non so controllarle. Soprattutto con Raphael. È una cosa che esce dalla logica, da ogni razionalità.»
«I sentimenti sono l’irrazionalità. E tu non devi temerli ma accoglierli, perché possono darti tanto.»
«O farmi sembrare ridicola.» commentò di risposta lei.
Aurea la squadrò e ribatté: «Con tutto quello che hai passato, nessuno si sognerebbe di darti della ridicola.»
Lei non rispose così la donna aggiunse: «Non è solo questo che ti fa star male. Questo ti fa soffrire, ok, ma non mi hai spiegato la rabbia.»
Accigliata, la ragazza chiese, sapendo già la risposta: «Non gliel’hanno detto?»
«Quella donna è tua madre. Ed è questo che ti fa rabbia.» constatò semplicemente la studiosa, aspettandosi però ora anche qualcosa da lei; e infatti, Athena, colto il motivo della pausa, disse: «Sì. Forse… forse se lei non mi avesse abbandonata, a quest’ora non ci sarebbe mai stato il Demone Rosso, Pidg sarebbe ancora vivo e io… io sarei felice.»
«Ne sei sicura?» chiese invece Aurea, cercando di farla riflettere: «Con i se e con i ma si fa ben poco. Una donna non abbandona un figlio senza motivo. Perché non le chiedi perché l’ha fatto?»
«E se non mi interessasse?»
«Non ti credo.»
La ragazza sbuffò, incrociando le braccia. Le seccava vedere come la donna le leggesse quasi nella mente. Piuttosto seccata, borbottò: «D’accordo, d’accordo. Ma non ora.»
«Naturalmente. Prima ti devi calmare.»
La ragazza non rispose, sperando che quell'interrogatorio finisse presto; per deviare il discorso, chiese d'improvviso: «Posso chiederle un favore?»
Aurea si fece perplessa e Castiga, interpretando il silenzio come assenso, aggiunse: «Devo parlare con Nardo.»
«Perché? Se devi dirgli qualcosa posso farlo io.»
«No, devo essere io. So come funziona, Lance può arrestarmi solo se sono nel continente. A Isshu, comanda Nardo.»
«Scappi di nuovo dalle tue responsabilità.» constatò la donna, un po’ delusa dal suo comportamento. Aveva sperato che fosse maturata durante quel tempo, affrontando così le conseguenze dei suoi gesti. Capiva anche però che d’altronde, non era stata lei a volere tutto quello ma Giovanni.
Athena, però, ribatté: «Sì, lo so. Ma non per paura. Io so che mi devo consegnare. Ma non ora.»
Aurea fece per dire qualcosa, ma la ragazza non la lasciò continuare: «Le spiego subito perché. Sa Lance cosa vuole? Io perfettamente. Vuole prendermi, strapparmi una confessione, anche se sinceramente lo trovo ridicolo. Ma lui vuole fare le cose per bene, per evitare che un avvocato mi salvi con un cavillo legale. Comunque, poi vorrebbe processarmi, di persona naturalmente, altrimenti che gusto ci sarebbe? E poi la bella… propinarmi la pena capitale.»
La donna aprì la bocca per ribattere, ma Castiga la interruppe di nuovo: «Ma la pena capitale è stata vietata! Mi stava per dire questo vero? Bene, ora le faccio una domanda. Facile, facile. Secondo lei, qualcuno avrebbe da sollevare obiezioni sull’esecuzione del Demone Rosso?»
Aurea la guardò; lo sguardo diceva tutto. Nessuno si sarebbe opposto anzi… e non era detto che Lance avrebbe fatto una cosa pubblica. L’avrebbe impiccata di nascosto, con un processo segreto, solo per non dover dire che aveva mentito quando aveva blaterato ai quattro venti di averla uccisa con le sue mani.
La ragazza continuò, senza dare tempo alla donna di replicare alcunché: «Io vedo eventualmente una sola mano alzata, dei residenti nel continente. Anzi, due. Raphael e il Generale. Ma due contro un intero continente… più il Campione, gli Élite… avrei talmente tante accuse da non tentare nemmeno la difesa.
Ora, io devo tornare a Isshu. Trovare i Saggi, trovare N e vedere se le sue manie di onnipotenza si sono spente. E rivederlo mi farebbe davvero molto piacere. Fatto questo, le prometto che andrò da Lance, disarmata. Il Campioncino potrà farmi quello che vuole, non opporrò resistenza. Glielo prometto. E quando prometto, le assicuro che mantengo.»
«Come farai con lui?» chiese solo Aurea, dopo una pausa, sapendo che avrebbe capito il sottinteso.
«Io non so se lo amo.» borbottò di risposta lei, alzando le spalle: «La vostra dannata cura mi ha scatenato un assoluto miscuglio di non so cosa. Non riesco a capire più niente. Se c’è amore, non ho idea di dove sia, anche perché non so nemmeno come sia fatto.»
Aurea annuì, forse un po’ delusa. Aveva sperato che, accogliendo un po’ di amore nella sua vita, avrebbe cominciato a sorridere davvero. Ma a quanto pare, era troppo tardi per poter fare qualcosa. Così le sorrise e disse solo, per congedarla: «Parto subito per la Lega Pokémon. Ti aiuterò perché so che manterrai la parola data. Buona fortuna... e torna presto.»
«Stia attenta anche lei.»
Castiga spense l’Interpoké e sentì qualcuno che batteva i pugni sulla porta della stanza. Cauta, andò ad aprire e vide che era Raphael.
«Finalmente mi apri, maledizione!» sbottò lui, furioso, entrando nella stanza: «Sono qui da mezz’ora che urlo!»
«Scusa…» borbottò solo lei: «Ero al telefono.»
Lui la fissò deciso e ringhiò: «Ho sentito tutto. Vuoi consegnarti a quel folle? Ma sei impazzita?»
«Ero pazza, Raphael.» rispose lei, altrettanto determinata, e anzi, lievemente irritata dal fatto che tutti si prendessero la libertà di rimproverarla per il suo comportamento; per una volta che pensava e ragionava prima di fare le cose: «Ora non più. Devo affrontare le mie responsabilità. Non l’ho fatto una volta ed è costato la vita di mio fratello, del mio migliore amico. Non succederà di nuovo.»
Lui respirò a fondo, stringendo i pugni. Trattenendo il tremore della voce, mormorò: «Io non voglio perderti… ancora…»
Sentendo quella voce angosciata, le venne una stretta al cuore. Castiga si strinse il petto, cercando il suo sguardo, che non trovò; non la guardava più… fissava il pavimento, gli occhi coperti dal ciuffo castano, mentre una lacrima gli scendeva da una guancia. Quella lacrima le sciolse per la prima volta il cuore, eternamente ghiacciato. Lei allungò una mano. Non sapeva cosa fosse la dolcezza, tranne quando si parlava di Pidg e gli altri. Ma tutto avvenne con naturalezza. Posò la mano aperta sulla sua guancia e gli asciugò quella lacrima solitaria con il pollice. Sentì che tremava sotto la sua mano, tremava di rabbia, di disperazione, di sofferenza. Cercando di fargli capire cosa le passasse per la testa, sussurrò: «Raphael. Io sono il Demone Rosso. Non lo negherò e non scapperò ancora. I primi tempi a Isshu, ho cercato spesso di uccidermi. Credevo per raggiungerli, ma mi sbagliavo. Il mio era senso di colpa. Perdendo Pidg, ho capito cosa devono aver provato tutte le famiglie che io ho distrutto. L’odio che provo verso Lance, so che molti lo provano verso di me. E, come io vorrei giustizia per quello che ha fatto, so che molti vorrebbero la stessa cosa. Sono una bestia, non un essere umano. Non merito di essere amata. Tu parli così, perché è il sentimento che provi per me che ti guida. Ma anche solo la prof… lei mi vuole bene, lo so, e ha fatto tanto per me. Sa, però, che è così che deve andare.»
Raphael non disse nulla, ma alzò lo sguardo su di lei e nei suoi occhi lei lesse quello che pensava, quello che provava, quello che sentiva.
Lei non sapeva cosa fare. Quel silenzio, ostinato, era quasi dilaniante. Perché non capiva? Perché si ostinava a non capire?
Lui le prese la mano. La strinse, forte ma con dolcezza, assaporando quel contatto sulla sua guancia.
«È vero, io parlo così perché ti amo.» disse solo, per poi allontanare la mano dalla sua guancia e uscire. Senza più dire nulla.
Athena rimase ferma dov’era. Immobile. A mano tesa.

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


Athena rimase sveglia tutta la notte, ma lui non tornò. Venne l’alba e lei era ancora lì, dove era rimasta dalla sera prima. Immobile, rannicchiata sul letto, fissando la porta. Aspettando lui.
Le arrivò un messaggio sull’Interpoké qualche ora dopo. Castiga fissò il telefono; non aveva voglia di parlare, ma si convinse a vedere cosa fosse. Magari era importante. Così prese l'apparecchio e aprì il messaggio.
“Castì, non uscire dalla tua stanza per nessuna ragione. Raphael sta arrivando e ti spiegherà tutto lui”.
Era di Belle.
Benché fosse perplessa, la ragazza fece come aveva detto l’amica. Aspettò. Tanto, si disse, ora più, ora meno... Un tamburellare sulla porta ruppe il silenzio. Raphael entrò, senza aspettare il suo permesso. La vide dove l'aveva lasciata la sera prima, con due occhiaie spaventose e l'aria stravolta. In una domanda retorica, chiese: «Non hai dormito?»
«Nemmeno tu.» rispose lei, sapendo che si vedeva benissimo.
Lui fece un mezzo sorriso, avvicinandosi di qualche passo; poi disse: «Ho pensato. E ho deciso. Visto che ho le ore contate, tutto il tempo che mi rimane da passare con te, lo userò per renderti felice. Non so come, ma spero che quello che provo per te basti.»
«Io non so cosa provo…»
Lui sedette al suo fianco, ormai sicuro che fosse calma, e rispose: «Non è importante.»
Lei si posò alla sua spalla, chiudendo gli occhi. Stava bene. Sentirlo lì, vicino a lei, che le accarezzava dolcemente i capelli…
«Perché non posso uscire?» chiese, però, dopo un po', cominciando a sentirsi un po' imbarazzata.
Lui sorrise, vedendo come stava lentamente cambiando, come si stava lasciando andare, ma rispose, indicandole la finestra: «Oh, si… ecco, vai là.»
Lei perplessa si alzò, ma lui le indicò la tenda: «Nasconditi lì e guarda giù.»
Athena obbedì e sbirciò dalla tenda: fuori, seduto su un muretto all’ingresso dell’albergo, c’era Lance.
«Non si muove da ieri sera.» spiegò Raphael quando la vide togliere lo sguardo dalla finestra, scioccata: «Deve aver visto uno di noi e si è messo in agguato. Se ti vede, sta sicura che ti assale.»
«Oh, accidenti a lui. Comincerò a odiare Kanto di questo passo.»
Raphael ridacchiò, abbracciandola dolcemente. Continuava a osare sempre di più, in base alle sue reazioni. E lei, non essendo mai ostile, lo spingeva a continuare a provare; stringendola piano a sé, mormorò: «Ti vuole proprio prendere eh?»
«Sapessi cosa vorrei fargli io…» rispose lei, posandosi a lui; quel caldo abbraccio era così bello...
«Lo immagino.» annuì lui: «Anzi immagino solo il verbo… e direi che mi basta!»
Lei ridacchiò e rispose: «Per fortuna non leggi nel pensiero.»
Quello stesso giorno, Castiga organizzò la partenza via messaggio ma Elizabeth la raggiunse nella stanza.
«Insomma parlami!» gridò, quasi buttando giù la porta.
«E perché dovrei?» rispose la ragazza, mettendo più cattiveria possibile nelle parole: «Non abbiamo niente da dirci.»
La donna non badò a chi lei fosse, non misurò le parole anche se sapeva che rischiava molto. Ma aveva visto che la figlia non era più una bestia con il pugnale facile, quindi poteva sperare di dire quello che le pareva e non restarci uccisa: «Abbiamo da dirci tante cose invece.»
«No.» ribatté secca la ragazza, cercando di incuterle timore con lo sguardo: «Tu forse, hai qualcosa da dire, ma io non ti voglio ascoltare. E ora lasciami in pace. Ho uno stalker fuori dalla porta e vorrei andarmene il prima possibile.»
«Ti prego…» supplicò la donna.
La ragazza la guardò gelida, non disse nulla e uscì da Zekrom. Voleva salutarlo e dirgli della partenza imminente. Non si vedevano da molto e il suo bestione nero le mancava. Dopo essere uscita dalla porta di servizio per evitare Lance, si fermò in un ampio prato dietro all’albergo. Era un posto ben nascosto e dall’ingresso praticamente invisibile. Stava per chiamare il Pokémon Nero Ideale, quando vide una figura venire nella sua direzione.
Era Elizabeth; l’aveva seguita e si avvicinò a lei un po’ titubante. Le occhiatacce aveva sortito l'effetto desiderato.
«Demone Rosso, io…» cercò di dire la donna, ma la ragazza la rimbeccò, irritata: «Non chiamarmi così.»
Lei abbassò la testa al rimprovero, ma poi alzò lo sguardo e la vide fissare il cielo, limpido e senza nuvole. Athena fece un lungo fischio: il cielo si oscurò di colpo e apparvero grosse nuvole nere. Elizabeth si spaventò e si aggrappò al braccio della figlia. Lei la guardò accigliata e la donna la lasciò quasi istantaneamente, mortificata.
Castiga si rese conto di essere stata troppo dura, così addolcì i toni; Shikijika aveva ragione, doveva ascoltare quello che la donna aveva da dire a sua discolpa.
«Non devi avere paura.» mormorò: «Tra poco tornerà come prima.»
Mentre parlava, Zekrom scese dalle nubi tra tuoni e lampi. La ragazza vide Elizabeth guardarlo con ammirazione e stupore, quindi spiegò: «Zekrom si rifugia in quelle nuvole, per riposare e ricaricarsi. Quando lo chiamo e vuole venire deve portarle qui. Poi ritornano dove erano prima, disperse nel cielo.»
Guardarono insieme il possente Pokémon posarsi a terra e chinare la testa verso Castiga. Lei gli accarezzò il muso e disse: «Buongiorno, bestione. Quanto tempo che non ci si vede, eh?»
Lui chiuse un occhio giallo pigramente e ammiccò. Poi si erse in tutta la sua statura e ruggì al cielo.  Elizabeth si nascose dietro alla ragazza, terrorizzata e lei ridacchiò: «Ma stai calma o cosa? Non ti fa nulla. È un grosso bestione e sembra sempre arrabbiato ma non farebbe male a una mosca, a meno che non lo si provochi, ovviamente. Sai a volte le apparenze ingannano…»
La donna capì al volo l’allusione e la guardò negli occhi, mormorando: «Lo so che non mi perdonerai mai. E non nego che tu abbia ragione… però ti chiedo scusa comunque. Ti devo almeno questo.»
Castiga alzò le spalle e rispose: «Non serve a nulla. Il passato è passato e non si può cambiare. Ognuno di noi fa le scelte che crede giuste.»
«Ti devo almeno una spiegazione. Non intendo giustificarmi, so di essere stata solo egoista. Però vorrei che sapessi che razza di uomo era, anzi è, tuo padre.»
«Vedi un po’ da chi ho preso.» commentò ironica la ragazza, per poi indicare alla donna una panchina.
«Taglia corto però.» aggiunse poi: «Con Lance nei paraggi non mi sento tranquilla.»
La donna annuì e le due andarono a sedersi sulla panchina; Elizabeth respirò a fondo e cominciò: «Ero ancora una bambina, quindici anni, i genitori assenti perché lavoravano entrambi. Una semplice ragazza di campagna, nulla più. Un giorno lui arrivò: un borghese, ventenne, aitante e muscoloso. Biondo con gli occhi azzurri. Sembrava un angelo. Me ne innamorai perdutamente, ma sapevo di non aver possibilità. Le sue spasimanti erano tutte del suo, diciamo, ceto sociale, e molto belle. Chi ero io? Ora mi rendo conto che probabilmente lui approfittò della mia cotta. Voleva… giocare. E così fece. Mi sedusse e mi tenne legata a lui, da un filo invisibile ma molto resistente. E un giorno rimasi incinta. Glielo dissi, ma lui minacciò di lasciarmi e io, non potendo pensare a una vita senza di lui, andai a partorire in una casa di cura per ragazze madri e poi…»
Guardò in basso, senza più riuscire a sostenere quello sguardo: «… e poi. Ti misi in quel bidone con un ciondolo. Il nome della dea greca della sapienza, della saggezza, degli aspetti nobili della guerra. Speravo che almeno questo potesse rimanerti. Tra l'altro, il dottore mi terrorizzò con delle superstizioni. Solo ora mi rendo conto che forse erano tutte baggianate. Continuava a ripetermi che... occhi e capelli rossi era un segno del demonio. E io gli credetti.»
La ragazza non rispose. Elizabeth alzò lo sguardo e vide che la figlia osservava il cielo, persa in chissà quali pensieri. Tenendo lo sguardo fisso in alto, parlò come se non l'avesse nemmeno ascoltata: «A volte mi chiedo se è davvero bello provare dei sentimenti.»
La donna, colpita e perplessa da quell’affermazione, fece per parlare, ma Castiga non glielo permise: «Dicono che la mia è una malattia. Non lo so e sinceramente nemmeno mi interessa. Ma ho cominciato a sentire, ad avere i sentimenti, solo dopo la morte di Pidg. Prima era come se… come se fossi una specie di robot. Quando lui è morto… lui era la mia famiglia. Insieme a Fiammata e tutti gli altri. Dopo che li ho persi il mondo è andato in mille pezzi, milioni di miliardi di pezzettini insaldabili. E ho cominciato a sentirlo. Il dolore. Mi chiesi cosa fosse, che cosa potesse fare così tremendamente male. Più male di una lama, più male di una frustata, più male delle punizioni di Giovanni. Trovai la risposta, ma ancora adesso mi chiedo: è davvero questo che voglio? Personalmente, stavo molto meglio prima. Forse non avevo amici, forse non avevo nessuno... ma stavo emotivamente meglio.»
Detto questo, non parlò più. La donna aveva una domanda, anzi mille domande, da fare alla figlia, ma non si fidava. Aveva vissuto anni con il terrore di quella belva, scoprendo che era la sua bambina, e anche ora aveva paura. In effetti, non capiva come avesse fatto a parlarle per così tanto tempo, rivolgendosi a lei anche in modo un po' troppo confidenziale. Restarono un momento in silenzio, poi Castiga chiese: «E Zeus?»
Dopo un attimo di pausa dovuto alla sorpresa della domanda, Elizabeth si affrettò a rispondere: «Be’… rimasi incinta otto anni dopo, ma non feci nemmeno in tempo a dirglielo. Eravamo insieme certo, ma era tutto un via vai di amanti… e io ero stufa. Ci lasciammo e tempo dopo scoprii di essere incinta. Quello che mi costò tutto fu l’errore di essere stata io a troncare. Lui, per vendicarsi, mise in giro voci diffamatorie su di me e cominciarono tutti a starmi alla larga. Non trovo lavoro e non so come sfamare Zeus. Lui almeno ha Rachel che lo sostiene, altrimenti sarebbe solo…»
La guardò, con uno sguardo di supplica: «Ti prego, odia me se vuoi, ma non lui. Non ha colpe.»
«Io odio solo una persona. Lance.»
«Posso… posso farti una domanda?»
Castiga la guardò, come per pesare quella richiesta, e poi annuì, lievemente perplessa.
La donna prese il coraggio e chiese: «Raphael è il tuo ragazzo?»
Vedendo quello sguardo irritarsi di colpo, Elizabeth si pentì della domanda, ma poi la ragazza le rispose: «Non è affare tuo.»
La donna non calcò più l’argomento e le due rimasero in silenzio, ma poco dopo, la più anziana respiro a fondo. Preso, di nuovo, il coraggio necessario, chiese: «Possiamo venire con voi?»
«Cosa?»
«Io e Zeus. Forse in un’altra regione potrei trovare un lavoro…»
«A Zeus hai pensato? Lui e Rachel sono molto legati.»
Guardando triste in terra, Elizabeth annuì: «Hai ragione.»
Il discorso sembrò chiuso così la ragazza andò a finire i preparativi per la partenza e la donna tornò a casa.
«Allora.» disse Castiga a pranzo, rivolta ai presenti riuniti nella sua stanza, ovvero il Generale, Belle, Cheren e Raphael: «Partiamo stanotte, nella baia dismessa di Aranciopoli. Con il buio avremo meno possibilità di farci scoprire.»
Gli amici annuirono e la partenza fu organizzata per quella notte. Poco dopo, Castiga e Raphael erano in camera, insieme, che discutevano sui mezzi di trasporto. A voce un po’ alta, dato che non erano d’accordo.
Belle bussò, urlando loro di aprire la porta.
«Che c’è Belle?» chiese l’amica, aprendole.
L'altra, in un mezzo attacco isterico, esclamò: «Dovete venire subito! Abbiamo un problema!»
I due si guardarono e, credendo c'entrasse Lance o qualcosa di simile, corsero fuori, uscendo da una finestra. Belle però li condusse da un'altra parte, alla casa di Elizabeth. Arrivati sul posto, videro lei e Zeus che si urlavano contro, e Rachel in lacrime.
La donna era furiosa e stava esclamando: «Ho detto che partiamo e così faremo Zeus! Ubbidisci!»
«No! Io non vengo!» urlò di risposta lui.
Athena si mise in mezzo e, fissandoli entrambi, chiese: «Che cosa succede?»
«La mamma vuole andarsene da Kanto! E io non vedrò più Rachel!» urlò il bambino, lasciando andare qualche lacrima.
«Zeus non capisce che è per il suo bene.» replicò la madre: «Non possiamo andare avanti senza cibo, vuoi capirlo?!»
«Non mi interessa! Io voglio restare con Rachel!»
Raphael andò dalla sorella, per consolarla dato che anche lei soffriva molto al pensiero di non vedere più l'amico, mentre i due urlavano. Athena invece cercò di mediare, ma senza successo. Elizabeth impose il suo volere sul figlio, ma alla ragazza venne un'idea. Voltandosi verso i bambini chiese: «Zeus, Rachel, volete poter parlarvi ancora?»
I due annuirono con le lacrime agli occhi, e lei disse: «C’è una soluzione. Guardate.»
Si chinò alla loro altezza e porse loro l’Interpoké, dicendo: «Questo, si chiama Interpoké e serve per far parlare le persone a distanza.»
«Ma non è come vedersi.» obbiettò Rachel, ma Castiga sorrise e disse: «Guarda se così ti andrebbe.»
Chiamò Belle e lei apparve sullo schermo: «Vedete? Potete parlare e vedervi in ogni momento. Certo, non è come abbracciarsi e vedersi fisicamente, ma è sempre qualcosa.»
Zeus fissò Belle salutare dallo schermo mentre rifletteva, ma poi chiese: «Ma perché dobbiamo andarcene?»
Castiga gli sorrise, cercò di spiegargli il motivo, semplicemente: «Perché la tua mamma ha bisogno di un lavoro. Pensa a come potresti vivere meglio.»
Lui guardò nuovamente l’Interpoké e Castiga aggiunse: «Questo lo lasciamo a Rachel e quando arriveremo a Isshu, la mia amica scienziata ne darà uno anche a te. Così tu potrai chiamare lei e potrete parlarvi sempre.»
I due bambini si guardarono, ormai arresi al volere degli adulti, e si abbracciarono.
«Chiamami quando arrivi.» mormorò la bambina.
«Contaci.» sorrise lui.

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


Athena e amici arrivarono a Soffiolieve in un tempo relativamente breve. Zeus, nonostante la separazione forzata da Rachel, ne fu entusiasta e la ragazza presentò la madre e il fratellino alla professoressa.
«Certo che li terrò qui!» le rispose la studiosa: «Dovrò far allargare il laboratorio, però! Ci stiamo stretti in tre!»
Aurea sorrideva, ma alla ragazza sembrava avesse qualcosa di strano, anche se naturalmente faceva il possibile per nasconderlo.
Quella sera, Belle e Cheren andarono a casa loro mentre Zeus e Elisabeth andarono al centro Pokémon perché nel laboratorio non c’era spazio, accompagnati da Surge, che li avrebbe scortati. Il bambino era felicissimo del regalo della prof e aveva già chiamato Rachel, contenta pure lei di potergli parlare ancora. Il generale invece si era offerto volentieri, avendo preso con piacere sotto la sua ala la madre della sua bambina e il suo piccolo fratellino.
«Ragazzi, voi dovrete stare giù nel laboratorio…» disse Aurea a Castiga e Raphael, cercando un modo per scusarsi della poca ospitalità: «Ho trasformato la camera degli ospiti in un magazzino e temo di non riuscire a riordinare!»
«Nessun problema prof...» le rispose la ragazza, facendole un cenno di noncuranza con la mano per tranquillizzarla: «Ha parlato con Nardo piuttosto?»
Lei annuì e rispose: «Sì, ma ha detto che voleva parlare anche con te. Quando mi avete detto della partenza, l’ho avvertito e dovrebbe arrivare a momenti.»
Dei tonfi sulla porta la interruppero: «Eccolo.»
Aurea andò ad aprire e l’uomo entrò. Non era per nulla cambiato: sempre la solita fulva criniera arancione, racchiusa in una coda. Sempre vestito di bianco, con il suo poncho a dargli l’aria dell’eremita, con la sua tracolla di sfere Poké al collo e i suoi soliti sandali. Con un sincero sorriso, salutò: «Eccomi qui, Aurea. E… ciao, Castiga!»
La ragazza fece appena un cenno e lui le indicò la porta. Lei annuì e i due andarono sul portico.
«Quello che mi ha chiesto Aurea, è un gesto di sfida in piena regola.» disse serio, abbandonando i toni gioviali che aveva sempre.
«In che senso?» chiese lei perplessa, notando il cambio di voce.
Lui la fissò dritta negli occhi e rispose: «Negare a Lance la firma per l’estradizione, per riportarti a Kanto, vuol dire sfidare la sua autorità di Campione. È una cosa molto delicata.»
Lei rifletté un attimo, annuendo, sapendo che gli stava chiedendo un favore pesante, ma poi buttò lì: «Non potrebbe chiedere l’estradizione, sai? Io non ho mai avuto la cittadinanza. A Kanto è come se non esistessi.»
Nardo, non aspettandosi niente del genere, chiese: «Com’è possibile?»
Castiga non si fece pregare e rispose, ringraziando per una volta il suo passato: «Vedi… mia madre mi ha abbandonata appena nata e Giovanni mi ha trovata subito dopo. Non risulto all’anagrafe e non ci sono documenti che attestino la mia nascita, né la mia esistenza. Qui invece ho la cittadinanza perché me l’ha data Aurea prima che partissi per il viaggio di formazione.»
«Certo capisco.» borbottò pensieroso il Campione: «Lance lo sa?»
«Non credo. Ma immagino che faccia presto a fare le carte. Si inventa una data, prende la foto dell’identikit, due nomi a caso per i genitori con le firme false ed è a posto.» commentò lei, con un'alzata di spalle: «Mi spiace chiederti così tanto, Nardo…»
«Il rischio fa parte della vita…» rispose lui, sorridendole quasi complice, citando una frase detta da lei tempo prima: «Comunque dimmi, perché sei tornata?»
«Il rischio fa parte della vita.» ripeté lei, con un ghigno, per poi dire, seriamente: «Come ho detto alla prof, voglio solo trovare N. Quando avrò visto che sta bene, allora potrò consegnarmi a Lance.»
Nardo le accarezzò la testa, sapendo che non gli avrebbe staccato la mano perché comunque ormai erano amici da tempo e si stimavano a vicenda, e disse: «Immagino quanto ti costi metterti nelle sue mani. Hai perso tutto per colpa sua, eppure non vedo tentennamenti nel tuo sguardo.»
Lei alzò le spalle, togliendo lo sguardo dai suoi occhi per evitare che le leggesse il desiderio di omicidio che aveva dentro, e rispose: «Sì, preferirei farlo a pezzi e sentirlo supplicare, ma non sarebbe la mossa giusta. Lo so e ho deciso di fare quello che devo, non quello che voglio.»
«Sapevo, come lo sa Zekrom, che sei di valore, ragazza!» esclamò il Campione, dandole una pacca sulla spalla: «La tua richiesta sarà accettata. Finché starai a Isshu, Lance non può toccarti!»
«Grazie, Nardo. Ti devo un favore.»
«Io lo dovevo a te, per aver fermato N.» rise lui e, dopo aver salutato Aurea, il Campione tornò alla Lega Pokémon.
Castiga andò a cena, e, come sempre, lei e la prof parlarono, mentre Raphael ascoltava in silenzio. Non voleva disturbarle e guardava sorridente la ragazza parlare animatamente con la studiosa. Sembrava che il loro rapporto fosse molto forte. Dopo cena andarono tutti a dormire. I due diciottenni presero i sacchi a pelo e scesero nel laboratorio, al piano terra. Rabbrividendo, la ragazza fece uscire Shikijika, appoggiandosi al suo pelo caldo. Il riscaldamento era spento da molto e il laboratorio era gelido. Poco dopo tirò appena su la testa e borbottò: «E tu che vuoi fare?»
Raphael, ancora nei pressi della porta, rispose titubante: «Beh, il Cervo Fiorito mi sta guardando un po’ male, sai com’è…»
La ragazza scoppiò a ridere, rispondendo: «Finché lo appellerai così, non gli piacerai mai, fidati. Ma ricorda, i miei Pokémon attaccano solo se glielo dico io.»
Detto questo, si posò nuovamente al Pokémon Stagione, chiudendo gli occhi. Raphael invece, infreddolito e tremante, si fece coraggio e si avvicinò al cervo. Un occhio ambrato lo scrutò nell’ombra, ma come aveva detto la ragazza, Shikijika rimase fermo dov’era. Lui si sdraiò al fianco della ragazza, stupito di essere ancora incolume, e commentò: «Che Pokémon ubbidienti.»
Lei rimase a occhi chiusi, mettendosi comoda, ma sogghignò: «Naturalmente. Come ex tenente, ho l’addestramento nel sangue.»
Zittendosi, lei si addormentò. Lui voleva abbracciarla, ma Shikijika non pareva dell'idea di tollerarlo, così, a malincuore, si addormentò a sua volta.
La mattina dopo la ragazza si svegliò all’alba, come sempre, e si alzò senza svegliare né Raphael né Shikijika. Andò all’ingresso del laboratorio e mise la mano sulla maniglia della porta, per uscire a dare il buongiorno a Zekrom che dormiva lì fuori. Girò il pomello, tirò, ma la porta rimase chiusa. Accigliata, la ragazza tentò di aprirla con tutte le sue forze, ma quella rimase ostinatamente dov’era.
«La porta è chiusa?!» borbottò incredula, non capacitandosi della novità.
Dopo un momento in cui fece mente locale, si nascose nell’ombra e aspettò. Aurea arrivò un paio di ore dopo e si diresse verso la porta con una chiave in mano. La porta del giroscale, però, quella da dove era entrata, si chiuse di colpo e lei vide Castiga, con le braccia incrociate davanti all’uscio, che la fissava. Notando di essere senza via di fuga, dato che la ragazza le aveva bloccato l'unica che avesse tranne quella che stava per aprire, Aurea balbettò: «A-athena… mi ero … dimenticata che ti alzi presto…»
«La porta era chiusa.» constatò solo lei.
«Eh… sì, già…»
«Non l’aveva mai chiusa prima.»
Agitandosi, la donna borbottò: «Lo so, ma sai… c’è pericolo di ladri e…»
«Riesco ancora a capire quando qualcuno mi mente, sa?» disse Athena, con la voce gelida e velata di minaccia.
Aurea sbiancò. Cominciando a sudare freddo, cercò altre giustificazioni, ma la ragazza era irremovibile e ringhiò, giusto per chiarirle le idee sulle sue intenzioni: «La smetta di cercare scuse inutili. Non le credo.»
Deglutendo, la donna cercò altro da dire, ma perse tutte le idee. Era come trattenere dell’acqua con le mani. La troppa ansia le impediva di pensare lucidamente. Le voleva bene, ma quando faceva quello sguardo, Athena riusciva a metterle una grande paura. Così, si arrese, abbassò la testa e borbottò: «D’accordo…»
Guardandola abbattuta, Aurea frugò nelle tasche del camice e prese un biglietto stropicciato che porse alla ragazza. Lei, accigliata, lo prese e lo lesse, incupendo lo sguardo sempre più, riga dopo riga.
 
“CARA PROFESSORESSA,
LE SUE TEORIE SONO UN’OFFESA.
NON LE PUBBLICHI PIÙ
O AVRÀ LA PROVA CHE SI SBAGLIA.”
 
Il biglietto era un collage fatto con le lettere ritagliate dai giornali, per mantenere l'anonimato.
«Maledetti bastardi…» ringhiò la ragazza: «Cosa aspettava a dirmelo? Dovevo metterla con le spalle al muro?!»
La donna mugolò qualcosa imbarazzata e l'altra la guardò accigliata, chiedendo: «Cosa?»
«Pensavo non te ne sarebbe importato…»
Castiga la guardò, tra l’arrabbiato e l’incredulo, e ripeté, alzando la voce: «Cosa?!»
Aurea, visibilmente imbarazzata, borbottò: «Ecco, io…»
«Si rende conto che se non fosse per lei… maledizione! Ma…» esclamò Castiga, interrompendola secca, senza trovare le parole per dire quello che stava provando. Era rabbia, ma non la solita rabbia assassina.
Una rabbia incredula, che la faceva sentire quasi… delusa.
Aurea abbassò lo sguardo, in colpa per la sua mancanza di fiducia e la ragazza cercò di calmarsi. Sedette al tavolo, fissandola. La donna la guardò e lei le indicò l’altra sedia. La professoressa annuì, sedette e cominciò a parlare: «Sai, ho pubblicato da poco un saggio su una mia teoria. Secondo me, i Pokémon cattivi non esistono per natura, ma diventano tali se sono a contatto con umani cattivi. A quanto pare, qualcuno discorda… Dopo aver letto quel biglietto, cominciai a chiudere la porta a chiave, ma anche a non dormire più… avevo paura che mi entrassero in casa e questo si ripercuoteva sul mio lavoro. Ma non intendevo cedere. C’è libertà di stampa e io ho solo detto ciò che pensavo. Una sera però caddi addormentata sul letto. Ero distrutta… ma quando mi svegliai, la mattina seguente, mi si fermò quasi il cuore. Nella testiera del letto c’era piantato un pugnale, con un biglietto allegato.
“Possiamo entrare, si ricordi. E abbiamo visto il suo nuovo libro.”
Ne stavo scrivendo un altro, di argomentazioni differenti, ma ho smesso. Avevo paura per la mia incolumità.
Ti giuro che non ho mai avuto tanta paura in vita mia… oddio, forse quando ho avuto l’onore di incontrare il Demone Rosso è stato peggio. Però è l’unica eccezione. Ho smesso di lavorare, ho chiuso tutti i Pokémon nelle Ball e ho aspettato…»
La ragazza, che ascoltava attenta, si fece perplessa. La donna rispose alla sua domanda silenziosa, indicandola con un cenno: «Te…»
«Io?» chiese lei, puntandosi l'indice contro.
«Sì…» annuì la donna, sorridendole un po' in imbarazzo: «Probabilmente è assurdo e ridicolo… ma io mi sento totalmente al sicuro solo se tu sei qui.»
Castiga la guardò, meravigliata: «Veramente?»
La studiosa annuì nuovamente e aggiunse: «Stanotte è stata la prima da tanto tempo in cui ho dormito bene. È assurdo lo so. Ma non c’è miglior protezione di quella del Demone Rosso, credo.»
«Non posso che concordare.» borbottò la ragazza, anche se non aveva mai provato una cosa del genere; di solito si cercava protezione da lei, non il contrario; pensosa, commentò: «Comunque sia, bisogna trovare una soluzione.»
Aurea fece per ribattere ma un urlo interruppe il loro discorso. Le due si guardarono perplesse, poi Castiga aprì la porta per vedere chi stesse urlando. Videro una figura correre verso di loro. Era Raphael che irruppe nella stanza e si nascose dietro alla ragazza, urlando: «Aiuto!»
«Ma cosa…?» cercò di chiedere lei, ma un bramito furioso la interruppe. Shikijika entrò nella stanza scalpitando, gli occhi ambrati accesi e furiosi. Quando vide il ragazzo, cercò di fare il giro della sua allenatrice, per colpirlo con il suo Legnicorno.
Lei lo fissò perplessa e chiese: «Shik? Ma che ti prende?»
*«Quello... quello ha detto che...»* rispose lui, furioso, non riuscendo nemmeno a pronunciare quelle parole che la ragazza dovette cavargli di bocca. Pacata, scosse la testa e replicò: «Ah… beh, non ti ha mica insultato. Era solo un commento.»
*«Castiga!»* esclamò lui, stizzito nel vedere che non le importava più di tanto.
Athena lo ignorò e Aurea chiese, perplessa: «Che cos’è successo?»
«Ma niente.» alzò le spalle lei: «Raphael parla nel sonno e Shikijika se la prende troppo. Sa com’è prof… è un Sawsbuck esageratamente protettivo, non mi stancherò mai di dirlo.»
Athena non voleva imbarazzare troppo Raphael e quindi non disse alla prof che, nel mezzo di un sogno, il ragazzo aveva borbottato apprezzamenti su di lei, non molto graditi al Pokémon Stagione. Shikijika si sentiva quasi un padre e non tollerava che qualcuno le girasse attorno, o dicesse certe cose. Da buon padre geloso, quindi, si era infuriato e aveva tentato di incornarlo. Cercando di fare da mediatrice, Athena riuscì a calmare il cervo, convincendolo a rientrare nella Ball.
«Tornando a noi.» disse alla prof, mentre Raphael si asciugava il sudore dalla fronte: «Io devo andare a cercare i saggi… ma non con questi che la minacciano.»

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


Nel frattempo, in quella stessa settimana, altrove girava tempesta. Nardo era tranquillo nel suo ufficio nel partenone quando gli arrivò un messaggio da Antemia, una degli Élite.
“Un certo Lance è qui e vuole parlarti.”
Il Campione prese il telefono e chiamò il guardiano della Lega, che presiedeva la porta: «Di’ a Lance che deve lottare se vuole venire… ho un guasto all’ascensore e non parte se non si sconfiggono gli Élite.»
«Sì, signore!» rispose quello, chiudendo la chiamata.
Nardo posò la penna e mise via il foglio che stava scrivendo. Lance non ci avrebbe messo molto ad arrivare. Era un Campione e quindi molto forte. Ma sperava che lottando scaricasse l’ira. Come previsto, poco dopo arrivò Lance. Bussò alla porta e, avuto il permesso, entrò, visibilmente seccato e furioso; fissando storto l'interlocutore, sbottò: «A che gioco stai giocando Nardo?! Cosa ti è venuto in mente di sguinzagliarmi addosso i tuoi dannati Élite?!»
Stupendosi per la sua giovane età, Nardo rispose pacato: «Lance, calmati e siediti. Ho un guasto all’ascensore della Lega che parte solo se sconfiggi gli Élite. Potevi comunque chiedere loro se ti attivavano il teletrasporto.»
Lance, ancora irritato, prese una sedia e sedette, avvolgendosi il mantello sotto il braccio. Guardò fisso l'altro uomo e dichiarò: «Devo prelevare una persona da Isshu.»
Nardo non abbassò lo sguardo e disse solo: «Spiegati.»
«Il Demone Rosso è in questa regione.» spiegò senza mezzi termini, sperando che la paura lo portasse ad accettare: «E io non posso toccarla senza il tuo permesso.»
«È cittadina di Kanto? » chiese invece lui, non mostrando paura a quel nome.
Perplesso dalle sue reazioni nulle, il giovane borbottò: «No, ho controllato. Non è cittadina di Kanto, ma ha commesso crimini nella mia regione e dovrà essere processata lì. Concedimi di portarla via.»
«E se io non volessi?»
Lance si scaldò subito. Cos'era quel suo fare arrogante finalizzato alla protezione di una bestia? Non sapendo che idee avesse per la testa, ringhiò: «Mi stai sfidando?!»
Nardo restò estremamente calmo e pacato, nonostante il cambio dei toni: «No. Ma non hai prove che lei sia qui.»
«Sì che le ho!» esclamò lui, alzandosi in piedi di scatto: «L’ho vista con questi occhi e aveva con lei dei Pokémon che non avevo mai visto. Ma che ho visto qui. Questo mi basta.»
«Ma non basta a me.» rispose secco Nardo, alzando la voce vista la sua irruenza non molto rispettosa, data la differenza di età fra loro: «Mi servono certezze, non ipotesi, per permetterti di portare via qualcuno dalla mia regione. Chiunque esso sia.»
«Tu devi averla vista per forza Nardo! Non puoi…»
Lance era talmente arrabbiato da non riuscire quasi a parlare. Aveva avuto il Demone Rosso a portata di mano e le era sfuggita. Tentando di calmarsi, sedendosi, e tornare diplomatico, disse: «Senti. Ti chiedo solo di farmi la firma su questo maledetto modulo e non mi vedrai più per un bel pezzo.»
«Come ho già detto, senza certezze non firmerò Lance.»
Il giovane ringhiò qualcosa dalla rabbia, ma nell'ira del momento, gli venne un'idea; alzandosi in piedi nuovamente, dichiarò: «In questo caso… Nardo. Io, Lance, Campione di Kanto e Johto, ti sfido a un incontro Pokémon per il titolo!»
Nardo parve stupito: «Cosa?»
Lui sogghignò e rispose:«Hai capito bene. Ho sconfitto gli Élite, quindi ho il diritto di sfidarti.»
«Sembri molto sicuro di te…» commentò l'altro, studiandolo interessato: «Naturalmente la sfida è accettata.»
«Sono sicuro.» ribatté lui con fierezza: «Sei Campione perché te l’hanno chiesto, non perché tu ti sia guadagnato il titolo.»
«Già, ma sono comunque l’Allenatore più forte di tutta Isshu. E sia Lance. Ti aspetto sul ring.»
I due Campioni andarono sul ring nel partenone, la prova finale per ogni aspirante Campione. Lance, un ventiquattrenne che aveva dalla sua solo la grinta dei giovani, contro Nardo, il quarantenne, che aveva dalla sua anni di esperienza e saggezza.
«Vai, Dragonair!»
«Vai, Escavalier!»
E lo scontro ebbe inizio. Dragonair attaccò con un violento Codadrago, nel tentativo di obbligare la sostituzione e risolvere il problema del tipo avversario. Non aveva per ora nulla contro il tipo Accaio. Nardo sorrise, immaginando che avesse uno stile di lotta del genere e ordinò: «Escavalier, schiva e Danzaspada.»
Il Pokémon eseguì, ruotando su se stesso eludendo l’attacco e compiendo una danza che terminò a spade incrociate. Lance non si diede per vinto e riprovò la stessa mossa, ma Nardo schivò prontamente e ordinò un attacco Forbice X che, potenziato enormemente dalla danza precedente, mando al tappeto l’avversario. Lance lo fece rientrare, seccato di quel turno lampo, e mandò in campo il suo possente Charizard. Nardo non sostituì e ordinò: «Vai Escavalier! Aeroassalto!»
«Charizard, copriti con il Lanciafiamme, girando su te stesso!»
Il Pokémon creò un Turbofuoco artigianale che gli fece da scudo quando Escavalier attaccò; il Pokémon si scontrò contro il muro di fuoco, uscendone male e Charizard mise fine allo scontro con un altro Lanciafiamme. Nardo allora mandò in campo il suo potente Bouffalant che stupì tutti con la sua velocità.
«Charizard, vagli contro in volo! Non potrà scansare un attacco aereo!»
Quando l’avversario fu a pochi centimetri dal suo Pokémon, Nardo esclamò: «Pietrataglio!»
Né Charizard né Lance se lo aspettavano e lo spuntone di roccia colpì in pieno stomaco il Charizard che rovinò a terra. Mentre ancora stava cadendo, Nardo gridò: «Vai Bouffalant! Ricciolata!»
Il bufalo si lanciò muggendo a testa bassa e, con innata potenza, scagliò l’avversario contro il muro. Lance restò impietrito. Non era mai stato sconfitto in maniera così rapida. Sempre più furibondo, mandò in campo Aerodactyl. Nardo sostituì, facendo riposare il suo campione e mandando in campo Vanilluxe.
«Aerodactyl, usa Frana!»
«Vanilluxe, Cannonflash!»
Le pietre comparvero sopra il Pokémon gelato che subì consistenti danni, mentre il veloce pterodattilo schivò con rapidità l’offensiva avversaria, lanciandosi poi in una picchiata folle, pronto ad attaccare di nuovo. Lance sorrise ed esclamò: «Vai, usa Morso!»
«Vanilluxe copriti con Ventogelato!»
Il Pokémon soffiò una corrente di aria gelida contro lo pterodattilo ma Lance rispose prontamente: «Fuocobomba!»
Nardo non poté fare niente e Vanilluxe andò KO. Lo fece rientrare un po’ amareggiato. Quel Pokémon, a dispetto delle capacità di Lance, era forte. Il giovane Campione li aveva allenati molto bene ma aveva una strategia puramente offensiva; funzionava solo in determinate circostanze.
«Vai Druddigon!» scelse quindi, lanciando la sua sfera Poké.
Lance si lanciò subito all’attacco con un Aeroassalto ma Nardo ordinò: «Druddigon, bloccalo.»
Il Drago contrasse i possenti muscoli, afferrò un’ala e il muso di Aerodactyl, tenendogli le fauci chiuse, e lo bloccò. Lance gli ordinò di liberarsi ma nulla pareva funzionare. Nardo sorrise e disse, semplicemente: «Usa Rivincita.»
Sfruttando con maestria l’attacco abilmente depotenziato, rese invece potente la sua offensiva: Druddigon alzò Aerodactyl sopra la testa, illuminato di una luce nera, e lo scagliò contro il terreno, mandandolo KO. Il risultato cambiò in fretta quando Lance mandò in campo il suo Dragonite che sconfisse senza fatica l’avversario, già stanco dalla lotta precedente. Lance digrignò i denti. Non aveva portato tutti i suoi Pokémon, non pensando che fosse necessario, e ora era in seria difficoltà. Stava perdendo la faccia davanti a quella specie di Campione da etichetta e non poteva tollerarlo. Ciò che più lo faceva arrabbiare era che non poteva nemmeno accusarlo di aver barato perché non aveva ancora usato più di quattro Pokémon. Ma poteva ancora costringerlo. Avrebbe vinto per palese imparità dello scontro. Ma non tenne conto dell’abilità di Nardo e del suo fidato Bouffalant. Con un Tuononda resero Dragonite incapace di volare e, schivando tutti i Tuoni e i Dragobolidi che gli venivano lanciati, con una Ricciolata di immane potenza, Bouffalant mise fine all’incontro.
«Bouffalant usa Ricciolata!»
Lance fece rientrare il suo Pokémon quasi con sdegno, seccato di aver perso. Nardo era forte, molto forte e lo scontro era finito rapidamente. Il Campione di Isshu fece rientrare il suo Pokémon e commentò: «Lascia che ti dica una cosa Lance. Se Athena non crollasse emotivamente quando combatte con te, saresti finito.»
«Cosa?!»
«Guarda.» disse solo lui, indicando il muro alle sue spalle con il pollice. Lo schermo dietro di lui si accese e apparvero Castiga e Nardo nello scontro alla Lega per il titolo.
Era l’ultima azione.
La rossa ragazza, diversa dall'assetata di sangue che ricordava, urlò: «Maru, Conchilama!»
«Vai Bouffalant, Sprizzalampo!» ribatté il Campione, con il viso di uno davvero teso.
Schivando le spade per un soffio, data la lentezza dello stanco Maru nei movimenti, il Bufalo lo abbatté, colpendolo a un fianco, e si vide il risultato.
«Bouffalant era il tuo ultimo Pokémon?!» esclamò Lance, cercando di rimettersi in testa ciò che di lei ricordava e non ciò che aveva appena visto. Soprattutto perché sullo schermo, dopo la lotta, lei e il vincitore si erano stretti la mano cordialmente e con rispetto, come buoni amici.
Nardo annuì e borbottò: «Se Maru avesse vinto, lei sarebbe la nuova Campionessa di Isshu. Ho vinto per il rotto della cuffia, solo perché Maru era stanco.»
Cercando di riprendersi la ragione, Lance esclamò: «Allora, ammetti che stai proteggendo il Demone.»
«No, io non sto proteggendo il Demone Rosso, ma una ragazza che si è conquistata la mia fiducia.» rispose l'altro, pacato: «Naturalmente, se dovesse fare qualcosa di male, sarei il primo a incarcerarla.»
Trattenendosi dal fare qualunque movimento, dato che era talmente arrabbiato che avrebbe potuto fare qualunque cosa, il giovane ringhiò: «Anche se tu ti sei fatto abbindolare da quella belva, io non lo farò. La prenderò prima o poi. Ricordatelo.»
Detto questo, Lance si voltò e uscì, irato. Nardo non capiva la gravità del suo gesto. Athena libera voleva dire una serial killer senza scrupoli pronta ad uccidere e libera di operare. E non poteva permettere, come Campione, che altri perdessero la vita per una banale negligenza. Lance, in passato, aveva visto con i suoi occhi gli orrori compiuti dal Demone Rosso. Era sempre stato il primo ad arrivare sulle scene del crimine, il primo a vedere i cadaveri torturati e massacrati di quella povera gente e, delle volte, anche quel ghigno divertito e quello sguardo crudele. Inoltre, non era stato né presente, né partecipe alla trasformazione della ragazza in quei tre anni: credeva che Athena fosse ancora una belva assetata di sangue, pronta ad attaccare. Una bomba orologeria pronta ad esplodere alla prima provocazione.
Uscito irato dalla Lega, quindi, gli venne un pensiero. Perché non passare dallo studioso Pokémon di quella regione? Magari aveva informazioni da dargli. Così fece curare i suoi draghi e andò dal guardiano della Lega, che gli disse dove abitava la professoressa Aralia.
“Ma tu guarda.” pensò, mentre decollava: “Una donna.”
Giunse a Soffiolieve, ma atterrò sul percorso 1, per entrare in città a piedi. Individuò il laboratorio, ma quello che vide lo bloccò; non poteva credere ai suoi occhi: nel giardino del laboratorio c’era lei, Athena, che lottava con un ragazzino moro con gli occhiali. Si nascose in fretta e rimase a guardare, mentre un pensiero gli attraversava la mente: “Vincerà e lo ucciderà. Devo fermarla!”
Restando pazientemente celato, attese la fine dell’incontro per intervenire e salvare la situazione. Nei limiti del possibile. Accecato dall’odio, però, non si accorse che non c’era violenza nello scontro. Warubiaru e Liepard dovevano allenarsi e quindi non stavano lottando duramente. Castiga vinse l’incontro, anche se Cheren si era battuto molto bene.
«Dannazione!» sbottò il ragazzo, facendo rientrare Liepard: «Non ti sconfiggerò mai!»
Lei sogghignò, battendo il pugno al suo coccodrillo bipede, rispondendo: «Una prima volta magari ci sarà. Anche se spero il più tardi possibile!»
Lui si avvicinò a lei e i due cominciarono a chiacchierare, ridendo. Lance, invece, nel suo nascondiglio, fremeva, pronto ad agire.
«Ma che fa?» borbottò: «Ha vinto, lui è solo, disarmato… perché non lo attacca?»
Il Campione era perplesso.
Mai aveva visto il Demone Rosso comportarsi così.
Mai l’aveva vista parlare amichevolmente con una potenziale vittima.
Mai l’aveva vista stare vicino a qualcuno senza minacciarlo.
Lance si convinse che era una nuova tecnica di “caccia” che la ragazza stava sperimentando; così attese.
Nel frattempo li raggiunse Belle. Era rimasta da suo padre per tranquillizzarlo per l’imminente partenza.
Come era suo solito, abbracciò Castiga per salutarla. Lei la scostò, lievemente imbarazzata e sorridendo, scatenando l’incredulità di Lance. Mai aveva visto il Demone lasciarsi toccare così.
“Forse... forse sono suoi prigionieri e devono fare finta che vada tutto bene. Mentre la studiosa, che non ho ancora visto, è imprigionata e sotto minaccia.” pensò per giustificare quel comportamento. Anche se le sue convinzioni cominciavano a vacillare. La sua incredulità aumentò quando arrivò Raphael. Uscì dal laboratorio, dove la prof Aralia gli aveva chiesto alcune cose su Kanto, li raggiunse e abbracciò la ragazza da dietro, mentre lei si posava a lui. Con un sorriso, chiese, in una domanda di pura formalità: «Chi ha vinto?»
«Che domanda…» rispose lei, ridacchiando.
Cheren mugolò qualcosa mentre Belle e Raphael ridevano, vista la sua faccia particolarmente imbarazzata.
Lui guardò giù, da sopra la sua testa e lei guardò in su. Si guardarono negli occhi e, lentamente, i loro volti si avvicinarono e le loro labbra si incontrarono.
Fu un bacio breve, superficiale, dal quale lei si separò quasi subito.
Lei non riusciva a lasciarsi andare, non era la prima volta che ci scappava un piccolo bacio, e lui non insisteva per non turbarla. Era sempre un passo in avanti. Ogni volta era un passo in più. Breve, piccolo, ma c’era.
Lance, nel frattempo, fumava di rabbia e incredulità.
“Lo sta… si stanno… ma come…”
Non riusciva nemmeno a formulare un pensiero coerente. Era confuso e arrabbiato. Quella non era l’essere che lui si ricordava. In aspetto si, anche se era cresciuta parecchio, ma non di comportamento. Si convinse che era tutta una montatura e che aveva cominciato ad usare l’arma della seduzione. Anche se nemmeno lui ci credeva molto. Perfino lui si rendeva conto che non era nel suo stile.
Aurea uscì di corsa dal laboratorio ed esclamò: «Athena! Ha chiamato Nardo!»
«Ottimo! Quando arriva a fare da guardia del corpo?» rispose lei, contenta di poter finalmente ripartire.
«Presto ma…» borbottò la scienziata, abbassando il tono: «Ha detto che Lance è andato lì.»
Lo sguardo della ragazza si incupì di colpo, mentre Raphael l’abbracciava più forte, per tentare in qualche modo di calmarla. Athena socchiuse gli occhi e disse: «Per la firma…»
«Sì.» annuì la donna, proseguendo: «Nardo gliel’ha negata e lui si è arrabbiato e… ha chiesto informazioni su dove abito.»
Castiga scostò Raphael e cominciò a guardarsi intorno, scrutando con ostilità ogni cespuglio.
«Credi sia già qui?» chiese la studiosa.
«Quanto tempo è passato?»
«Circa un’oretta.»
«Un Dragonite vola alla velocità di duemilacinquecento chilometri orari. È qui. E da molto.»
Guardandosi intorno con odio, esclamò: «Lancino, non giocare a nascondino. Vieni fuori, vigliacco.»
Lance si aggiustò il mantello, uscì dal nascondiglio e, con passo veloce, raggiunse il laboratorio.
L’odio era quasi palpabile nell’aria.
I due si fissavano, senza parlare.
Dopo un po’, lui disse: «Ero proprio convinto fossi all’inferno.»
Lei sogghignò, mettendo più veleno possibile nelle parole, e rispose: «Povero, povero Lancino. Pensava di aver ucciso la più terribile serial killer della storia, ha raccontato a tutti di essere un… “eroe” e adesso puff. La sua popolarità si disintegra.»
Era da molto che non desiderava uccidere così. Non c’era il pericolo di una mattanza ma Lance era un caso a parte. Non le importava nemmeno che Cheren e Belle sentissero. L’unica cosa importante era irritare il Campione. Funzionò perché lui la guardò con rabbia e replicò: «Non canzonarmi, vigliacca di una bestia. Sei andata via da Kanto per scapparmi e hai corrotto quel debole di Nardo. Ma prima o poi sarai mia.»
«Contaci.» sorrise lei, divertita dall'ambiguità di quella frase: «Ma sarò io a decidere quando consegnarmi.»
Lance scosse la testa, come se fosse ancora più pazza di prima, e disse: «Ma non farmi ridere… tu ti vorresti consegnare?»
«Credi a quello che vuoi, Lance.» chiuse secca il discorso, prima di saltargli davvero alla gola: «Non ho altro da dirti se non… sparisci.»
Lui la fissò un momento; quella maschera tenera e carina non avrebbe funzionato con lui. Sapeva bene che per rivedere quella che ricordava, doveva farla arrabbiare; così, per farla scattare, buttò lì, beffardo: «Oh no. Io voglio vederti bruciare insieme alle tue belve.»
Lei cominciò ad arrabbiarsi; non poteva sopportare un tale affronto alla loro memoria; così ringhiò: «Tu non devi nemmeno nominarli.»
Doveva stare attenta; l’ira era il sentimento più facile a cui cedere; così, onde evitare, ripeté: «Vattene.»
Lui sogghignò: «Non credo che me ne andrò tanto presto. Trovo proficuo e gratificante provocarti. Nonostante sia sorpreso di tutto questo autocontrollo, prima o poi crollerai. È questione di tempo. Tu non puoi vivere senza uccidere. E al primo sgarro, bella mia... ti trascinerò in catene a Kanto e ti metterò quel cappio al collo. Aspetto quel momento da anni.»
“Stai calma. Stai calma. Respira e stai calma.” si ripeté la ragazza nella mente, cercando di ignorarlo, ma lui, vedendo come stesse degenerando rapidamente, proseguì: «Sono curioso, invece. Perché non l’hai ucciso dopo aver giocato con lui?» chiese, indicando Cheren, che sobbalzò, preso alla sprovvista dall’essere chiamato in causa.
«Non faccio più quelle cose.» rispose lei, con un tono di voce basso e vibrante da quanto era arrabbiata: «La gente cambia, Lance.»
«Ma non tu. A te piace… giocare.» incalzò lui, virgolettando l’ultima parola.
Lei lo lasciò a malapena finire e sbottò: «Pensala come vuoi. Non mi interessa. Voglio solo vederti svanire.»
«Quale gioco?» intervenne curioso Cheren, ma si zittì appena vide l’occhiata fulminante dell’amica. Non sapendo più di tanto degli atti del Demone Rosso, non sapeva a cosa sarebbe andato incontro con quella domanda.
«Non lo sanno?» chiese il Campione, invece, con un ghigno, quasi gongolando: «Ottimo. Permetti che io colmi questa lacuna, vero?»
Senza attendere risposta, Lance proseguì, mentre la ragazza guardava in basso, ricordando quel divertimento e non facendo nulla. Forse sarebbe stato meglio non da lui, ma i due amici dovevano saperlo. Aveva rimandato per troppo tempo l'ora della verità, quella confessione che non aveva mai fatto alle uniche persone che l'avevano trattata come una ragazza normale: «Dovete sapere che, molto spesso, il qui presente Demone Rosso si divertiva a giocare con la sua vittima. Un incontro Pokémon all’ultimo sangue. Chi perdeva, perdeva tutto. Anche la vita. Un sanguinario spettacolo di violenza gratuita, alla luce del sole e senza il minimo risentimento.»
Belle non riuscì a nascondere la sua espressione orripilata, mentre Cheren scuoteva la testa, incredulo.
Vedendo come aveva sparso zizzania, Lance se ne andò felice, salutando: «Ci rivedremo, bestia.»
Il Campione se ne andò a bordo del suo drago, mentre la sua risata echeggiava tutt'intorno. Athena si voltò, senza guardare nessuno e si chiuse in camera. Non ce la faceva a sopportare le facce sconvolte e incredule dei suoi amici. Era troppo.
Raphael capì che non doveva insistere. Anche se voleva aiutarla, non sapeva come fare quando si chiudeva così. Ma una cosa poteva farla. Salutandola con il pensiero, inseguì Lance.
Qualche ora dopo, Aurea bussò alla porta della stanza della ragazza, si fece riconoscere ed ebbe il permesso di entrare; sedendosi sul letto accanto a lei, chiese: «Lance è stato molto crudele, ma… perché non me l’hai mai detto?»
Seduta sul letto, con le spalle al muro e il mento posato alle ginocchia, la ragazza rispose: «Vedevo la sua faccia. Pensavo che meno avessi detto, meglio sarebbe stata lei.»
Aurea le accarezzò la testa e replicò: «È stato carino da parte tua, ma avrei potuto aiutarti. Adesso perché non scendi? Belle e Cheren sono preoccupati…»
«Certo.» la interruppe lei: «Preoccupati che non li faccia a pezzi.»
«Lo sai che non è vero.»
Lei non rispose, ma era triste. Aveva visto quelle facce turbate dall'orrore. Come poteva anche solo pensare che i due amici volessero ancora parlarle?
Aurea si arrese e uscì, dopo aver cercato di confortarla un po’, ma non vedendo in lei alcun tipo di reazione.
Nel frattempo, Belle e Cheren parlavano; la ragazza chiese: «Cheren… che si fa? Ci si prova?»
«Naturale.» rispose lui, facendole l’occhiolino: «Ci siamo mai arresi? Per oggi lasciamola in pace, ma domani si riparte all’attacco.»
Lei annuì e i due se ne andarono, mentre Castiga camminava avanti e indietro nella sua stanza, con i pensieri più cupi del mondo e sentendosi terribilmente sola.
Il giorno dopo, Belle e Cheren tornarono al laboratorio e la videro fuori, vicino a Warubiaru che faceva balzi sul posto; lei lo osservava, contando a bassa voce i balzi.
«Ehi, Castì!» la salutò Cheren, mentre si avvicinavano.
Lei gli fece cenno di aspettare con la mano mentre andava avanti: «Cinquantotto, cinquantanove… Shik vieni a tenere il conto! Sessantuno, sessantadue…»
Il Sawsbuck si avvicinò, la osservò un momento, poi disse: *«…sessantacinque, sessantasei…»*
Una volta che il Sawsbuck prese il ritmo, Castiga si voltò verso gli amici, anche se era evidente la paura per la loro reazione.
«Che stavi facendo?» chiese Belle, sorridendo gioviale come sempre e non badando minimamente alla sua faccia preoccupata.
Non capendo come mai non le chiedessero nulla in merito a ciò che avevano sentito il giorno precedente, la ragazza si limitò a rispondere: «Allenando Warubiaru. Facendo balzi sul posto, potenzia le zampe posteriori, e quindi quando fa il Terremoto, salta più in alto ed è più potente.»
«Fantastico!» esclamò Cheren, meravigliato sistemandosi gli occhiali e memorizzando quel trucco: «Sei un genio! Non ci avrei mai pensato!»
Lei non rispose e Belle disse, capendo che non sarebbero mai riusciti a parlare normalmente con lei senza essersi prima chiariti: «Senti, Castì. Non fare quella faccia. Dopo Kanto e il passato, non avremmo mai paura di te.»
I due amici si guardarono, mentre la ragazza li fissava perplessa, non capendo il senso di quel discorso. Shikijika alzò il muso, mentre Warubiaru si fermava a guardarli.
«Ormai è inutile fare finta di niente, Cheren.» dichiarò Belle, convinta delle sue intenzioni: «Peggio di così non può andare.»
Cheren annuì e borbottò: «Hai ragione.»
Il ragazzo si voltò verso l’altra amica e le disse: «Ti ricordi quando ti abbiamo seguita a Kanto?»
«Sì.» rispose lei, lentamente.
Lui si fece imbarazzato e borbottò: «Beh… sei sparita all’improvviso e sai che siamo un po’ curiosi. Così siamo andati in giro per la base…»
«E abbiamo visto una porta, dalla quale provenivano degli strani lamenti.» proseguì Belle.
Athena sbiancò di botto, realizzando il senso della frase, e l’amica proseguì: «L’abbiamo aperta e…»
«E beh… abbiamo quasi preso un colpo.» disse Cheren, sapendo che, dalla faccia, Castiga aveva capito a cosa si riferissero.
Belle la guardò di sottecchi e concluse: «Siamo corsi nell’atrio e… diciamo che il resto lo sai.»
Castiga non parlava. Non si può dire come si sentisse, perché erano tante le emozioni che turbavano il suo animo. Com’era possibile che loro le fossero stati accanto, dopo ciò che avevano visto? Quasi il Demone redivivo. Ora capiva perché i due amici erano diventati strani al ritorno. Capiva che avevano avuto paura di lei e probabilmente erano rimasti stupiti e confusi da ciò che avevano visto.
Cheren, dopo un’occhiata di Belle, proseguì: «La professoressa Aralia ci raccontò tutto di te dopo che tornammo dalla spedizione nel Castello Sepolto. Volevamo venire a chiederti scusa per il nostro comportamento non molto amichevole e ingiustificato, ma dormivi e allora gironzolammo per il laboratorio, per ammazzare il tempo.»
«E fu lì che la vedemmo.» mormorò Belle: «Una strana macchina. Era una macchina del tempo, ma noi ancora non lo sapevamo.»
Cheren prese la parola e disse: «Ci entrammo e il Minccino della prof lo fece partire. Ci ritrovammo a Kanto, per la precisione ad Aranciopoli…»
«…sei anni fa.» concluse la frase Castiga, fissandoli, con lo sguardo di una che ormai aveva capito tutto. E non solo di quello che stavano spiegando loro.
I due amici la guardarono perplessi, mentre lei osservava il cielo, pensando e parlando. Quando parlava di se stessa, preferiva perdersi a fissare il niente, per concentrarsi meglio e dire le parole giuste. Così borbottò: «Quando cominciai a vivere dalla prof, passai la maggior parte del mio tempo a pensare. Cosa che, detta da me, è strana. Una domanda mi ronzava in testa. Una domanda a cui non riuscivo a dare alcuna risposta: dove diavolo vi avevo visti voi due prima di allora? Ricordavo… anzi, ricordo tutte le facce, di tutta la gente che ho incontrato, minacciato e ucciso. Eppure non riuscivo a mettervi da nessuna parte. Adesso è ovvio il motivo… a chi verrebbe mai in mente che ci sia di mezzo una macchina del tempo?»
Fece una pausa, pensando al modo per esprimere quello che voleva dire, mentre i due amici la fissavano; Cheren pensava alle parole che gli aveva rivolto la piccola Athena: “E io me le ricordo le facce.”
Erano state dannatamente vere. Li aveva visti una volta e non li aveva più dimenticati. Non notando la sua disattenzione, Castiga proseguì: «Certe volte ringrazio la mia cieca ubbidienza a Giovanni. Spesso lui mi dava ordini che mi irritavano. Lo sapeva e lo faceva apposta. Me lo ricordo ancora… faceva sempre così. Mi diceva cosa dovevo fare, dove andare, mi puntava un dito contro, e mi diceva: “Non uccidere. O sai cosa ti aspetta.”. Quel giorno, era uno di quei giorni. Dovevo semplicemente far paura a tutta Aranciopoli. Arrivavo apposta dopo il coprifuoco, per vedere chi avesse tanto coraggio da rimanere sulle strade. Tanto per rendere la missione più entusiasmante. In volo sulla città, stavo parlando con Pidg. Immaginavo che non avrei trovato nessuno in giro. E vidi due ragazzi che si guardavano in giro spaesati. Non potete capire quello che provavo in quegli anni. Era più che voglia di uccidere. Era una vera e propria droga. Stavo sempre male. Un male dentro, quasi incurabile. Non so se la prof ve lo ha detto, ma il mio problema non è tanto il divertimento che provo nell’uccidere.
È la rabbia.
Non sono mai riuscita a controllarla. Mai. E lui lo sapeva. Certo che lo sapeva. Sapete, si impegnava a farmi arrabbiare apposta e a tenermi costantemente arrabbiata. Perché sapeva che quello era, ed è, il mio punto debole. Quando esplodevo, mi rinchiudeva… e la rabbia aumentava, e ancora, e ancora… finché, l’unico modo per farla passare era uccidere. Dopo un po’ di tempo fui in suo completo potere. Cominciò a mandarmi in missione con il divieto assoluto di uccidere. Era tremendamente irritante. Soprattutto perché rischiavo sempre di perdere la poca pazienza e farmi mettere in punizione. Quanto odiavo quel posto...
Tornando a quel giorno… visto che avevo il divieto assoluto di uccidere, e lui mi avrebbe scoperta se avessi trasgredito perché le sue spie erano ovunque, pensai di mettervi almeno un po’ di paura. Eh beh… immagino vi ricordiate tutto. Quando me ne tornai alla base, ci vedevo rosso, accidenti agli eroi suicidi. E Pidg arrivò pure a farmi la paternale. Giovanni mi chiuse in isolamento per evitare che facessi una strage nella base e mi liberò il giorno dopo, con il permesso di uccidere se avessi voluto. Poi, sapete che il Generale si mise ovviamente in mezzo, fece di tutto per calmarmi e ce la fece, anche se quando tornai alla base… lasciamo perdere. Comunque sia, sono contenta. Per una volta le sue torture psicologiche hanno fatto qualcosa di buono. Se non fosse stato per voi, e Aurea, non so dove sarei ora.»
Belle non riuscì a trattenersi, dopo quelle sincere parole. Le saltò al collo, abbracciandola forte e piangendo. Stringendola, in lacrime, esclamò: «Tu non sei cattiva! Sei la mia migliore amica e io ti voglio bene! Lance è cattivo e vuole separarci ma non ce la farà!»
Castiga, stupita e imbarazzata dalla reazione, per la prima volta ricambiò l’abbraccio. Strinse piano Belle, e, senza rendersene nemmeno conto, sussurrò: «Ti voglio bene anche io, Belle.»
Cheren sorrise e le abbracciò entrambe, poi disse: «Questa data è da segnare sul calendario!»
«Ma taci tu.» ribatté Castiga, fingendosi stizzita, ma poi scoppiarono tutti e tre a ridere.
Lei capì che non doveva vergognarsi di nulla con loro. Nemmeno di quello che era. Si rese conto che loro non l’avrebbero lasciata sola, mai, nemmeno con il Demone Rosso davanti. O almeno, lo sperava. Le venne un pensiero improvviso, così chiese: «Ma sapete dov’è sparito Raphael?»
Belle si guardò intorno: «No… non lo vedo da ieri.»
Cheren annuì, mentre l’amica si faceva pensosa. Dove poteva essere finito?
In quel preciso momento, Lance lo stava massacrando di botte. Vedendo quanto Lance aveva emotivamente distrutto la sua ragazza, Raphael lo aveva inseguito, deciso a fargliela pagare. Purtroppo un Dragonite vola veloce e l'aveva perso di vista, ma non si era arreso e, dopo aver vagato tutta la notte, l'aveva trovato. Alloggiava in un albergo a Quattroventi, la città sopra Soffiolieve, e sembrava intenzionato a restarci per un po’. Raphael si era concesso qualche ora di sonno, poi l'aveva atteso fuori dall’edificio. Quando l'aveva visto uscire, l'aveva seguito e, appena potuto, aveva attaccato, gridando, tentando di essere minaccioso: «Devi lasciarla in pace.»
L’uomo si era fermato, aveva arrotolato il mantello intorno al braccio destro e si era voltato, ghignando. Aveva sentito quella voce mentre spiava la sua peggior nemica e si ricordava di lui, il povero e ingenuo ragazzino abilmente sedotto. Così, aveva risposto, magari sperando di farlo rinsavire: «Non sai di chi stai parlando.»
Lui non si era fatto incantare e aveva replicato: «Lo so meglio di te.»
«Non ho tempo di giocare, moccioso. Torna dalla mamma.» aveva ringhiato il campione, vedendo come quel bambinetto si stesse prendendo troppe libertà.
«Io non sto giocando.» aveva replicato Raphael, sapendo che stava rischiando, ma senza guardarsene:
«E non sei tanto più grande di me, scimmione! La stai facendo soffrire perché sei frustrato. Ti è sfuggita e non sei più riuscito a trovarla. Uno smacco che ti rode! Ammettilo!»
Lance si era irritato. Un ragazzino gli stava leggendo la vita. Intollerabile: «Non parlare di cose che non sai, marmocchio. È una questione fra me e lei. Non ti immischiare.»
«Lei è la mia ragazza e io mi immischio fin che voglio!» aveva esclamato il ragazzo, per poi andargli addosso e cercare di dargli un pugno sulla faccia, ma lui era solo un diciottenne, mentre Lance un ventiquattrenne ormai uomo, e pure piuttosto muscoloso.
Il Campione gli prese la mano, bloccando l’assalto, e lo colpì in pancia. Ci voleva ben altro per sorprenderlo.
«Vuoi giocare ragazzino? Bene, guarda cosa faceva la tua fidanzatina, quando era piccola.» ringhiò, per poi colpirlo ancora. Avrebbe preferito che lì ci fosse Athena, ma il suo ragazzo andava bene lo stesso. Se era davvero cambiata come diceva, vederlo pestato a sangue l’avrebbe fatta infuriare, e forse avrebbe perso il controllo, obbligando Nardo a firmare.
Un piano perfetto.
«Un piccolo sacrificio per una grande impresa.» commentò solo l’uomo, per poi colpire ancora il ragazzino, talmente forte da farlo sanguinare.
Dopo tanti, troppi colpi, Raphael cadde a terra e non riuscì ad alzarsi. Respirava a stento, sanguinando dalla bocca e con varie contusioni su tutto il corpo. Lance gli si avvicinò, chinandosi sul suo volto.
«Dille pure che sono stato io. Voglio vederla furibonda.» sussurrò, per poi alzarsi, girare sui tacchi e andarsene.
Il ragazzo, sputando un po’ di sangue, vide Wargle volare sopra di lui.
«War..gle…» cercò di urlare, ma la voce sembrava non voler uscire.
Per sua fortuna, Wargle aveva un’ottima vista e lo vide. Atterrò al suo fianco e preoccupato, chiese:
«Braave?»
«War…» riuscì solo a dire, per poi svenire.
Wargle si alzò il volo, tornando da dove era venuto, e in breve arrivò Castiga, cavalcando una velocissima Hoshi.
«Raphael!» urlò, balzando giù dalla zebra e avvicinandosi al ragazzo.
In passato aveva studiato molto bene il corpo umano, talmente bene da poter diventare un infermiera con facilità, se non fosse che non conosceva i medicinali. Controllò le funzioni vitali del ragazzo, lo stabilizzò come meglio poteva e chiamò l’ambulanza.
«Stai tranquilla.» le disse il medico, dopo che ebbe visitato il ragazzo: «Il tuo amico sta bene, anche se devo dire che chi l’ha picchiato, non ci è andato leggero. Ma si riprenderà.»
Preoccupata come mai lo era stata, chiese: «Posso vederlo?»
«Entra pure. Ora dorme, ma tra poco si sveglierà.»
Castiga entrò nella stanza e, quando lo vide, bendato e immobile, le si strinse il cuore. Con una punta di rabbia, pensò: “Se becco il bastardo che l’ha ridotto così…”
Lui si svegliò poco dopo, mentre lei lo vegliava, un po’ rintontito e dolorante. Aprendo gli occhi, la vide lì con lui; così, in un sussurro, mormorò: «Athena…»
«Ehi. Come ti senti?» chiese subito lei, prendendogli la mano.
Raphael sorrise nel vederla velatamente in ansia per lui, così rispose, per tranquillizzarla: «Ho passato giorni migliori… e peggiori.»
Lei non si fece calmare e subito chiese, pronta alla vendetta: «Dammi il nome, un particolare, qualcosa per riconoscere chi ti ha fatto questo.»
«No.» disse subito lui.
Interdetta, lei borbottò: «Cosa?»
«E a questo che punta.»
«Lance.»
La faccia del ragazzo fu la conferma. Lui si maledisse di aver detto troppo, ma lei chiese: «L’hai cercato tu o lui ha cercato te?»
Arrossendo imbarazzato, lui mormorò: «Io… volevo difenderti.»
Lei gli sorrise, scuotendo la testa, e replicò: «Dolce… ma infinitamente stupido. Non metterti fra me e Lance. È capace di tutto.»
Lui tentò di ribattere ma lei gli mise un dito sulle labbra e aggiunse: «Dimmi solo dov’è. Lo sai, so controllarmi. Voglio solo parlare, perché sono curiosa di sapere perché se l’è presa con te.»
Lui restò un momento in silenzio, poi le baciò la punta dell’indice, chiedendo: «Prometti?»
«Promesso.» rispose lei, guardandolo negli occhi e annuendo.
Lui annuì, parlò e lei uscì velocemente. Si appostò in un angolo prima dell’albergo, e, quando lo vide, disse solo, uscendo dal nascondiglio: «Non oltrepassare il limite.»
Lui sorrise, riconoscendo la voce di chi aveva parlato, e non entrò nell’edificio. Voltandosi verso di lei, ghignando, rispose: «Io voglio oltrepassare quel limite.»
Lei lo fissò gelida e chiese: «Dimmi perché te la sei presa con lui.»
Lance non smise di sogghignare e rispose: «Il fatto che tu sia qui, significa che sei davvero cambiata, o che lo stai usando, cosa che io ritengo più probabile.»
«Ritieni quello che ti pare, ma non ti azzardare a toccarlo un’altra volta.» ringhiò lei, cominciando a scaldarsi.
Lui prese male quelle parole, perché alzò la voce, irrigidendo i muscoli, e ribatté: «Mi stai forse minacciando?!»
«Lo so che vorresti più di qualunque cosa farmi perdere le staffe.» disse seria lei, ignorando il suo scatto di rabbia: «Ma non è più così semplice, Lancino. Non uccido da tre anni, non faccio del male da tre anni.
Non puoi davvero pensare che basti vederti per rovinare anni di fatiche.»
Lance rimase interdetto da quelle parole, ma non si sarebbe fatto imbambolare. Così, convinto, estrasse una Ball e chiese: «Ti faccio una proposta, bestia. Che ne dici di… giocare?»
«Ci sto.» rispose lei, prendendone una a sua volta dalla cintura.
La rabbia per ciò che aveva fatto a Raphael le fece sparire il blocco che la opprimeva ogni volta che vedeva quell’uomo. Lei, Maru, Shik e tutti gli altri… erano forti, uniti e potevano vincere. Nessuno dei due si accorse di Nardo, nascosto, che li osservava. Squadrandosi con odio, Athena e Lance cominciarono la lotta. Il Campione riuscì a sconfiggere solo Hoshi e Warubiaru. Come aveva detto Nardo, lei era molto più forte di lui.
«N-non è possibile.» mormorò, sconvolto, fissando il niente davanti a lui. Aveva perso. Di nuovo.
Lei si avvicinò con passo lento, fissandolo gelida ed estraendo il pugnale. Lance arretrò. Quello sguardo, quel passo, quella lama. Era terrorizzato. Cercava di convincersi che non c’era da aver paura, ma l’istinto parlava per lui. Finalmente riconosceva il Demone Rosso, ma voleva davvero rivederla?
O forse, preferiva la nuova versione di lei?
Athena lo condusse contro il muro e lui, dalla paura, crollò sulle ginocchia. Un’inconscia richiesta di pietà.
Lei lo inchiodò al muro, alzandogli il mento con il braccio e appoggiando la lama sulla giugulare.
«Tu non sai.» sussurrò lentamente, assaporando il terrore dell’uomo, che quasi tremava: «Tu non sai che piacere sarebbe far penetrare questa lama nella carne.
Tu non sai che divertimento sarebbe tagliarti la gola. Reciderti di netto tutti i vasi…
Tu non sai che spasso sarebbe vederti morire dissanguato, lentamente, davanti ai miei occhi. E vedere la luce lasciare questi occhi che ora vedo pieni di terrore.»
Lance deglutì, provocandosi da solo un taglietto sul collo, ma non rispose. Quella lama era troppo vicina. Una parola sbagliata e sarebbe finito all'altro mondo. O forse non sarebbe servita?
Lei si avvicinò al suo volto, guardandolo fisso e con odio, e sussurrò: «Il tempo è a tuo favore Lance. Ho imparato a non uccidere e questo ti salverà la vita. Dopo che ho rischiato di far del male ad un ragazzo al quale voglio molto bene, ho fatto una promessa a me stessa che intendo mantenere. Lo sai meglio di me... la parola del Demone è legge.»
Lo lasciò andare, allontanandosi a fatica; lo fissò e riprese: «Tu eri la mia prova del nove. Ora sono sicura di essere completamente a posto. Lasciami in pace. Vattene, torna a Kanto. E ci rivedremo quando avrò fatto ciò che devo fare.»
Athena rinfoderò il pugnale, quasi con rimpianto, e tornò a Soffiolieve, con Maru al suo fianco, uscito dalla sfera per controllare che non facesse follie. Lance, ancora sconvolto, la fissò mentre se ne andava. Da un angolo apparve Nardo.
«Che cosa vuoi?» chiese Lance, secco, quando lo vide, ma con la voce ancora tremante.
L'altro Campione lo fissò un momento, poi disse: «Non ti dirò che te l’avevo detto. Ma apri gli occhi e non farti guidare dall’odio Lance.»
«Lei è una bestia e deve essere fermata. Ma visto che ti senti così sicuro, io me ne torno a Kanto e se uccide qualcuno, mi farai quella dannata firma.» rispose lui, irato e ancora lievemente impaurito.
Nardo lo fissò salire su Dragonite e decollare. Lance era sconvolto: era ancora vivo. Fino a quel giorno avrebbe detto che non sarebbe sopravvissuto a un incontro ravvicinato con lei. Si accarezzò il taglio sul collo, guardando quel poco sangue che ne era uscito. Aveva rimediato solo un innocuo taglietto. Invertita la rotta, andò a Soffiolieve senza che nessuno lo vedesse e arrivò fuori dal piccolo ospedale della città. Vide subito la stanza, riconoscendo i suoi capelli rossi, e si appostò sull’albero vicino all’edificio. La vide entrare nella stanza, con uno sguardo preoccupato che non era da lei. Si mise in parte al letto, sedette e parlò al ragazzo. Lui le sorrise e le accarezzò dolcemente la guancia, sorridendole e dicendo qualcosa. Lei sorrise di risposta e lo aiutò a sedersi.
«Ho visto anche troppo.» commentò Lance, quasi disgustato, tornando il groppa a Dragonite: «Forse sei cambiata davvero, ma non hai mai pagato per ciò che hai fatto. E prima o poi, pagherai.»
Prese il volo, verso il sole e verso Kanto, mentre Athena, che l’aveva visto, lo scrutava andarsene.

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***


Salve, miei carissimi lettori invisibili!
Interrompo brevemente la vostra lettura per una richiesta... mi servirebbero i vostri pareri per capire se è chiara o meno la narrazione. Comincia una sorta di avanti-indietro nel tempo e non vorrei confondere troppo le idee.
Capirete che per me è tutto limpido, ma così non potrebbe essere per voi...
Quindi vi ringrazio in anticipo se mi darete questo contributo!
Buona lettura! :D


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Dopo aver terrorizzato Lance, Castiga tornò a Soffiolieve. Arrivata all’ospedale, andò di corsa da Raphael. Dopo aver bussato, entrò e chiese: «Ehi. Come stai?»
«Ciao.» rispose lui, scrutandola per recepire qualche segnale di schizzo psicopatico: «Bene, dai… un po’ dolorante, ma bene.»
Lei sorrise, avendolo visto un po’ troppo sospettoso e agitato di sapere il responso; con calma, si avvicinò e sedette al suo fianco. Preoccupato, lui non riuscì a resistere e chiese: «Cos’è successo da Lance?»
Lei non rispose, evitando il suo sguardo verde. Non sapeva se ancora le si poteva leggere negli occhi il suo desiderio omicida. Poteva essere frainteso, ma Raphael non demorse e incalzò: «Lo so che l’hai trovato. Dai parla.»
Arresasi, lei rispose: «Si, è vero, l’ho trovato. Ma non gli ho fatto niente. Però volevo fargli paura. Allora l’ho inchiodato al muro, gli ho puntato il pugnale alla gola e l’ho visto tremare con immensa soddisfazione. Ma non l’ho ucciso.»
Lui le accarezzò la guancia, dolcemente, e mormorò: «Sono fiero di te, anche se forse ti importa poco.»
«Importa più di quanto immagini.» rispose lei sorridendo, sentendosi scaldare da quelle parole dolci, e aiutando il ragazzo a sedersi, dato che, stufo di stare nel letto, voleva cominciare un po’ a ristabilirsi.
Con la coda dell’occhio, Athena vide Lance andarsene, ma non commentò oltre. Forse si era finalmente convinto.
«Comunque… siamo tre a due per te.» sussurrò lui, con un sorrisetto dipinto sul volto, distogliendola dai suoi pensieri.
Castiga ci pensò su un attimo, poi capì ed esclamò: «Tieni ancora il conto?!»
«Certo.» sorrise lui, come se fosse una cosa importantissima.
«Questa però non vale. Ti ha trovato Wargle.»
«Però mi hai soccorso tu.»
Ancora una volta, lei non seppe cosa ribattere e lui sussurrò: «Due a zero per me. Palla al centro.»
Lei gli sorrise, alzando gli occhi al cielo, dandogli un buffetto sul naso e mormorando: «Lo ripeto. Sei uno scemotto.»
Lui sorrise di risposta, non commentando oltre. Ma sapeva di averla tirata un po’ su di morale.
Alcuni giorni dopo, Raphael venne dimesso. Si era ripreso, anche se aveva molti lividi e zoppicava. Insieme a Castiga, che avrebbe seguito anche in capo al mondo, Belle e Cheren, cominciò la ricerca dei saggi.
La rossa ragazza aveva davanti una cartina di Isshu e un pennarello nella mano: «Bene. Io direi di cominciare dai posti dove li abbiamo visti all’inizio: il Bosco Girandola, Deposito Frigo…»
«…Austropoli, Quattroventi ma quello era Gheechisu…» aggiunse Belle
«…Torre Dragospira e Castello Sepolto dove siamo già stati.» concluse Cheren
Intanto che dicevano i nomi, segnavano i posti con una X rossa; Castiga fissò tutti i segni e commentò: «A questo punto dovremmo controllarli tutti.»
«E se non ci sono?»
«Non lo so Belle.» rispose affranta: «Non ho proprio idea di dove siano.»
Tornarono al laboratorio per il pranzo; la professoressa interruppe i loro discorsi e, con entusiasmo, chiese: «Ragazzi! Visto che andate in tour per Isshu… Mi raccogliereste i dati sui Tre Moschettieri!»
«Eh?!» risposero in coro
Sorridendo alle loro facce sconvolte, Aurea aggiunse, con gli occhi luccicanti dall'emozione: «Mi spiego meglio. Ci sono tre Pokémon Leggendari, citati nelle leggende, che nessuno ha mai visto. Si dice che siano le incarnazioni dei tre moschettieri. Andreste a cercarli per raccogliere le informazioni su di loro e, magari, una descrizione fisica?»
Cheren fece spallucce, come per assentire, e chiese: «E dove sarebbero?»
Il sorriso della donna si allargò quando rispose: «Non ne ho idea!»
I ragazzi la guardarono, sbalorditi e lei incalzò: «Ovvia, ragazzi! Un po’ di spirito di avventura!»
«Spirito d’avventura?!» esclamò Castiga, sbigottita, non trovando nemmeno le parole per obbiettare.
Aurea li buttò fuori dal laboratorio, blaterando elogi al loro coraggio e, prima di chiudere loro la porta in faccia, esclamò: «Tornate vincitori!»
«Spirito d’avventura!» sbottò irritata Castiga mentre si incamminavano sul Percorso 1 diretti a Quattroventi: «Certo come no! Giriamo la regione, così a caso, sperando di sbattere in creature misteriose mai viste. Ovvio no?»
«Dai Castì! Sai com’è fatta!» disse Belle, cercando di calmarla. Si perse però a guardarsi intorno e, con voce quasi sognante, mormorò: «Ehi. Vi ricordate quando abbiamo iniziato il viaggio?»
Castiga brontolò qualcosa, ancora irritata dal comportamento della professoressa, così Cheren intervenne: «Ognuno ha il suo inizio. Abbiamo cominciato a girare insieme solo dopo Zefiropoli.»
«No, prima di Zefiropoli. In quella radura…» mormorò la bionda, fissando di sottecchi l’amica per vedere qualche reazione.
«Ah si, hai ragione!» assentì Cheren, seguendo il suo sguardo, ma non notando niente di particolare.
Raphael intervenne, vedendo come la pressione si fosse rivolta tutta verso la sua ragazza, cosa che poteva comportarne l’irritazione: «Perché non mi raccontate come vi siete conosciuti? Sono curioso… siete così diversi, ma così legati. Un gruppo strano ma compatto!»
Cheren e Belle annuirono entusiasti, Castiga rispose con un grugnito. I due amici raccontarono di come erano partiti in solitaria da Soffiolieve e poi uniti in viaggio all’uscita di Quattroventi.
Fu il turno di Castiga. Si fece pregare, molto, ma poi gli amici ebbero la meglio. Facendo l’occhiolino a Maru, narrò come tutto ebbe inizio.
 

~§~

INTERMEZZO: VIAGGIO A ISSHU

Il viaggio era cominciato da poco. Castiga e Maru, l'Oshawott, si erano allontanati di poco da Soffiolieve e si dirigevano verso Quattroventi. Stavano percorrendo una strada tranquilla, poco trafficata e con alcuni Pokémon selvatici. Era contornata da alberi e a sinistra c’era un fiume navigabile che portava chissà dove.
*«Che fatica!»* si lamentò il piccolo Pokémon dopo un po’ di cammino.
La ragazza lo fissò di sottecchi e sbottò: «Non dirmi che sei già stanco.»
Lui, imbarazzato, accelerò il passo e lei ridacchiò: «Di’ un po’, Maru… hai mai lottato?»
*«Lottato?»*
«No, eh?» ridacchiò lei: «Vedremo cosa si può fare. Se dobbiamo vincere queste… Medaglie, sarà meglio allenarsi.»
Lui si batté il pugno sulla conchiglia, determinato ad impegnarsi per aiutarla, qualunque cosa dovesse fare.
In una giornata di viaggio tranquillo, con parecchie soste per far riposare Maru, i due arrivarono a Quattroventi. La ragazza fece un respiro profondo pensando: “Athena… sta calma. Hai promesso e hai una parola sola.”
Entrarono in città e fecero un giro turistico. Quattroventi era un piccolo paesino. Si entrava da sud e la strada continuava verso la montagna a nord, per poi girare verso ovest e verso un varco, che portava al percorso 2. A destra e di fronte alla strada c’erano alcune case, mentre a sinistra vi era una piazzetta sopraelevata, con alcune panchine. Una zona relax calma e tranquilla. Il Centro Pokémon era a sinistra, appena entrati in città, e, la cosa più strana, era il fatto che il Pokémon Market, il negozio con gli strumenti dedicati ai Pokémon, i rimedi e le Ball, era all’interno del centro e non in un altro edificio, come invece succedeva a Kanto e Johto.
Come a Soffiolieve, il cartello all’entrata recitava il motto della città: “Fresche arie di musica e pace”.
Già qui, il brutto carattere di Athena venne messa alla prova. Lei stava gironzolando tranquilla, quando un uomo le diede uno spintone, sbottando: «Levati, mocciosa! Ho fretta!»
La ragazza si scaldò all’istante, voltandosi rapida. Odiava che non le mostrassero rispetto e, ancora di più, non sopportava di essere chiamata “mocciosa”, “bambina” o “ragazzina”. Aprì la felpa e mise la mano nella tasca interna, stringendo l’elsa del pugnale, pronta ad estrarlo; ma Maru intervenne. Intuite le intenzioni, dato che la ragazza gli aveva raccontato qualcosa di lei per premunirsi e avere qualcuno che la fermasse, posò entrambe le zampe sul rigonfiamento della felpa che indicava la mano che stringeva il pugnale e disse, scuotendo il capo: *«Non farlo…»*
Lei lo guardò, irata, ma fece un paio di respiri, tentando di calmarsi. Il Pokémon aveva ragione, non doveva attaccare. Nessuno, mai. Voltatasi, vide un’altura proprio dietro alla città. Andarono sulla cima, isolati, e lei si arrampicò su un albero, per non essere sentita; prese l’Interpoké.
«Ciao, Athena!» rispose la professoressa, come sempre sorridente: «Che faccia orribile… è successo qualcosa?»
La ragazza raccontò brevemente quello che era successo e sbottò, seccata: «Cedere il passo, maledizione! Chi è quello per dire a me di cedere il passo? Se sapesse chi sono, mi stenderebbe il tappeto rosso per scampare alla morte!»
Aurea alzò le mani e tentò di farla ragionare: «Ora, respira… calmati.»
La ragazza chiuse gli occhi con un ringhio e respirò profondamente un paio di volte, ma, ancora a occhi chiusi, ringhiò: «Mi sono venuti in mente tutti i modi possibili per fargli soffrire le pene dell’inferno.»
«Temo che se non sfoghi, questa rabbia farà solo danni…» mormorò pensosa la scienziata: «Che ne dici di, diciamo, fargliela pagare a modo Pokémon?»
«Cioè?» chiese di rimando lei, molto perplessa.
La donna sorrise alla sua curiosità e rispose: «Immaginati cosa può provare un uomo grande e grosso, magari veterano di chissà che incontri, venendo sconfitto da una ragazza!»
Lei scosse la testa, bocciando il piano, e rispose: «Se avessi...»
«Hai Maru!» intervenne Aurea, interrompendola.
«Ma Maru è ancora debole. Non resisterebbe un minuto.»
«Insomma, Tenente!» esclamò scherzosa la scienziata: «Non dirmi che non saresti in grado di allenarlo!»
«No, beh… direi di sì, visto che Maru è sano.»
«Certo che è sano! Perché dici così?»
La ragazza fece un mezzo sogghigno e chiese, in una domanda retorica: «Ci crede se le dico che nessuno dei miei Pokémon era sano?»
«Cosa?»
La ragazza annuì, decidendosi a parlarne almeno con lei; d’altronde, le aveva detto quasi tutto: «Non lo sa nessuno, tranne me ovviamente…
Fiamma era cieco, gli avevano cavato un occhio e rovinato la retina dell’altro.
Pidg era zoppo, gli avevano tranciato la zampa destra.
Lap l’avevano torturata dei ricercatori.
Bandan era stato preso a mazzate.
Nid non poteva più usare il corno, perché se l’era spezzato.
E, infine, Ju, aveva il terrore di tutto e di tutti.
Li ho trovati tutti in forma base e mezzi morti… e li ho trasformati in campioni. Imbattibili.»
Aurea era a bocca aperta; non avrebbe mai pensato che quei Pokémon, incredibilmente forti, fossero tutti menomati. La ragazza notò l’espressione incredula e sogghignò: «Mi ha dato un buono spunto, sa? Le farò sapere come va a finire.» e chiuse la chiamata.
Scese agilmente dal nascondiglio e andò da Maru, che si era appisolato sotto la chioma dell’albero dove era salita lei. Lei sorrise vedendolo. Il piccolo Pokémon aveva fatto del suo meglio per non lamentarsi mai ed era arrivato a Quattroventi distrutto. Castiga decise di lasciarlo dormire, così attaccò a due alberi la sua amaca e lo prese in braccio. Non sapeva come mai, ma si sentiva stranamente protettiva nei confronti di quel piccolo Pokémon Lontra. Lo mise sulla rete, lo coprì con la coperta e si allontanò. Il nascondiglio era perfetto: l’amaca non si vedeva nemmeno. Lei non era stanca così andò a farsi un giro. Mentre gironzolava in città, capitò nella piazza e una folla attirò la sua attenzione. Incuriosita, andò a vedere: c’era un uomo, con i capelli di un colore indefinito, un occhio bionico rosso, vestito con una grande veste metà viola e metà gialla, con due occhi disegnati sopra. Il colletto della veste era fatto come le merlature di un castello, con al centro un sigillo che la ragazza non aveva mai visto: un blasone con una P sovrapposta a una S stilizzata, con sfondo mezzo nero e mezzo bianco. L’uomo era di fronte alla folla, sulla piazzetta, mentre alle sue spalle c’erano alcuni suoi seguaci in riga, riconoscibili poiché avevano lo stesso stemma sulla divisa bianca. Castiga si fermò dietro alla folla per ascoltare ma poco dopo Maru la raggiunse.
*«Castiga?»* le chiese, tirandole il lembo dei jeans.
Lei guardò a terra e lo vide, così sorrise e disse: «Oh, ciao Maru. Dormito bene?»
*«Scusa…»* disse lui imbarazzato, guardando in terra.
«Ma figurati.» rispose lei, prendendolo in braccio e lo mettendolo sulla sua spalla, mentre l’uomo cominciava a parlare: «Il mio nome è Geechisu e sono il capo del Team Plasma. Oggi voglio parlare a voi tutti qui riuniti della liberazione dei Pokémon!»
Un grido di stupore si alzò dall'uditorio, mentre Castiga cominciava a squadrarlo. Il suo discorso la irritava a prescindere. Quello fece una pausa calcolata, poi proseguì: «È da tantissimo tempo che noi umani viviamo a fianco dei Pokémon. Ci cerchiamo a vicenda, abbiamo bisogno gli uni degli altri. Questa sembra essere un’idea condivisa da molti. Ma stanno davvero così le cose? O siamo solo noi umani a essere convinti che questa sia la verità? Avete mai provato a pensarci?»
La gente lì riunita cominciò a commentare, turbata da quella domanda. Castiga, accigliata, spostò lo sguardo sul piccolo Pokémon seduto sulla sua spalla e chiese: «Tu che dici?»
*«E me lo chiedi pure?»* replicò lui, seccato dal vedere tutta quella agitazione della gente, tutta quella mancanza di fiducia in loro, nei Pokémon: *«Non mi sembra che tu mi abbia rapito dal laboratorio. E io potrei comunque fuggire, se volessi.»*
«Appunto.» assentì lei, rivolgendo nuovamente l'attenzione al tipo che teneva banco e che aveva ricominciato a parlare: «La verità è un’altra! Gli Allenatori schiavizzano i Pokémon e li piegano al loro volere! Li sfruttano per ogni sorta di cose! Qualcuno di voi ha il coraggio di negare sia così? Ascoltatemi! I Pokémon sono delle creature del tutto diverse dagli esseri umani ed è probabile che posseggano capacità ancora ignote. Sono tantissime le cose che possiamo imparare da loro. Allora, qual è l’unica cosa sensata che noi esseri umani possiamo fare per loro?»
Il pubblico cominciò ad agitarsi, turbato dalla colpa che quell'uomo aveva scatenato, fissando le Pokéball, fissando gli amici Pokémon, mentre loro cercavano di trasmettere con lo sguardo che quello che stava dicendo Geechisu era falso e che c'era amicizia e amore tra di loro, non sfruttamento.
«Vai, Maru. Sei libero!» esclamò con una mezza risata Castiga, ricevendo sulla testa la conchiglia dell'Oshawott, mentre quello rispondeva: *«Smettila di dire scemenze!»*
La ragazza rise vedendo quanto si fosse offeso, ma chiese scusa e borbottò: «Guardali. Si sono tutti preoccupati per quello che ha detto. Senti quei poveri Pokémon... vorrebbero solo poter urlare il loro sdegno verso queste cretinate che stiamo ascoltando.»
Maru annuì, rimettendo a posto la conchiglia, e aggiunse: *«Non ha ancora finito le parole quello.»*
In effetti, Geechisu aveva ricominciato a parlare, dando risposta alla sua domanda con enfasi: «Dobbiamo liberarli! Solo così facendo uomini e Pokémon potranno finalmente dirsi eguali! Pensateci bene!
Qual è la cosa giusta per i Pokémon?! Con queste parole vi lascio. Grazie per avermi ascoltato.»
Detto questo, i seguaci circondarono il loro capo, raccogliendo le bandiere, e se ne andarono a passo di marcia.
Castiga scosse la testa. Non c'erano parole per commentare quello scempio. Lei non aveva mai obbligato nessuno a stare con lei e addirittura Pidg non aveva mai avuto una Pokéball. Maru diede voce ai suoi pensieri perché commentò: *«Quello non ha capito niente. Tu mi piaci e io sono contento di essere al tuo fianco, Castiga.»* guardando male il gruppetto che spariva.
Lei rise e rispose: «Ti ringrazio, Maru. Lasciagli le sue idee.»
Fece per andarsene, ma arrivò un ragazzo che la fermò. Si chiamava Cheren e lo conosceva, poiché era stato lui, insieme a Belle, a salvarla quando era arrivata a Isshu. Indossava dei pantaloni eleganti di seta, una camicia cobalto, sopra un gilet blu e dei mocassini. Mancava solo la cravatta che metteva in casi eccezionali. Come sempre molto elegante. Alzando una mano in segno di saluto, esclamò: «Ciao, Athena! Anche tu da queste parti?»
«Ciao. Senti, dovresti chiam…» cominciò a rispondere la ragazza, guardandosi intorno seccata, quando sopraggiunse un altro ragazzo, che lei non conosceva. Era piuttosto alto, aveva lunghi capelli verdi, ma il viso era nascosto da un cappello da baseball nero e bianco. Indossava una maglia scollata bianca, con sotto una dolcevita nera, un paio di eleganti pantaloni grigi e delle scarpe verdi. Ai polsi portava due braccialetti strani e alla cintura aveva legata una Spugna di Menger, un gioco matematico molto complesso, molto più del cubo di Rubik. Dal portamento che aveva, si vedeva che era un ragazzo molto a modo, cordiale e beneducato. Si avvicinò a loro e disse a Castiga: «Ehi tu. Il tuo Pokémon ha detto…»
Cheren lo interruppe, quasi con scherno: «Detto? Da quando in qua i Pokémon parlano?»
«Da sempre» rispose il ragazzo, deluso da ciò che stava sentendo: «Capisco, non siete diversi dagli altri. Neanche voi potete sentirli!»
Castiga lo fissò, accigliata. Lei capiva i Pokémon e voleva dirlo al ragazzo, ma non ci riuscì perché lui continuò a parlare, senza lasciarle il tempo di replicare: «Mi dispiace per voi. Io mi chiamo Natural Harmonia Gropius, ma preferisco essere nominato N.»
«Io sono Cheren e lei è At…»
«Io sono Castiga…» disse la ragazza seccata, mollando una gomitata a ragazzo: «E comunque anche i…» continuò ma venne interrotta da Cheren, che esclamò, come per esaltare il suo compito: «Siamo in viaggio per completare il Pokédex! Una missione importante che ci ha dato la professoressa Aralia!»
“Parla per te bamboccio.” pensò la ragazza, seccata dall’interruzione.
Ormai né lui, né N badavano a lei e questo la irritava molto, dato che aveva il diritto di dire la sua. Cheren proseguì con entusiasmo e aggiunse: «Anche se il mio obbiettivo è quello di diventare Campione!»
N lo fissò, per nulla colpito o ammirato dal loro compito, e replicò: «Pokédex… e per completarlo imprigionerete tanti Pokémon nelle vostre Pokéball, immagino. Sono anch’io un Allenatore, ma non posso fare a meno di chiedermi se poi è vero che i Pokémon sono davvero felici così.»
Castiga fece per interromperlo e dirgli che lei lasciava sempre Maru, e prima di lui Pidg e gli altri, liberi di andare dove volevano, purché non si facessero del male. Ma il ragazzo si rivolse a lei, senza darle il tempo di aprire bocca e chiese: «Scusa. Come hai detto di chiamarti?»
«Castiga.»
«Ah, si…» annuì lui pensieroso, ricordando il commento appena udito di Maru: «Sentiamo cosa dice il tuo Pokémon!»
Estrasse una Pokéball, dalla quale uscì un Purrloin. Lei lo fissò, non troppo convinta, ma accettò la sfida. Non era da lei rifiutare. Maru la guardò, preoccupato, ma lei gli disse: «Fa’ quello che ti dico e andrà tutto bene.»
*«D’accordo!»* esclamò lui, anche se non molto convinto.
Mentre i due lottavano, Cheren venne chiamato da Belle e, forse un po' controvoglia, li salutò e andò via.
La prima lotta di Maru si concluse con una vittoria. Saltellando, il piccolo Pokémon festeggiò, mentre N, per niente amareggiato dalla sconfitta e con uno strano sorrisetto sul volto, disse: «Finché i Pokémon saranno imprigionati nelle Pokéball, non diventeranno mai esseri completi. È per loro, per il bene dei miei amici Pokémon, che rivoluzionerò il mondo!»
Sorridendo ambiguo, come se avesse visto, in quella lotta, qualcosa che lo aveva rallegrato, se ne andò così, come era venuto, senza aggiungere altro a spiegazione di quella frase così sibillina. Castiga e Maru si guardarono perplessi. Alzarono le spalle, contemporaneamente, intendendosi, e tornarono al loro nascondiglio.
La mattina dopo, Castiga disse a Maru: «Dimmi un po’… tu vuoi diventare forte, vero?»
*«Certo!»* annuì lui, battendosi il piccolo pugno sulla conchiglia che aveva sulla pancia.
Lei lo fissò con un sorrisetto e chiese: «Quindi sai che dovrai allenarti, giusto?»
*«Certo!»* ripeté lui, deciso a mettercela tutta.
«Bene… ti avverto piccoletto, qui non c’è spazio per le femminucce! Dovrai dare il meglio di te!»
*«Ce la farò!»* esclamò lui, battendosi il pugno sul petto, determinato.
«Molto bene… cominciamo!»
Per i primi tempi, il piccolo Maru ebbe vita dura. Athena era un tenente fatto e finito, intransigente, intollerante e instancabile. Il Pokémon arrivava a sera distrutto dalla fatica e, dopo circa un mese di allenamenti massacranti, cercò di protestare.
*«Basta…»* mormorò, sdraiandosi in terra: *«È tutto inutile.»*
Lei lo guardò accigliata, rispondendo: «Cosa? Dici che non sei migliorato?»
Lui annuì e lei sogghignò: «Non te ne sei accorto ma sei migliorato parecchio, piccoletto.»
L’Oshawott la guardò perplesso e lei aggiunse: «E così non mi credi… bene, allora andiamo a cercare un avversario! Ti ricrederai!»
Maru si alzò barcollando, perché era molto stanco, e lei lo prese in braccio, borbottando, picchettandolo piano con il dito sulla fronte: «Mi fa male star con te. Divento troppo tenera.»
Maru non osò pensare agli allenamenti se lei non fosse stata “tenera” e mangiò con felicità la Baccarancia che gli porse, riprendendo un po' di energia. Finalmente, nella piazza di Quattroventi, incontrarono degli allenatori e l’uomo che l’aveva spintonata quando erano arrivati in città, li sfidò: Maru contro Watchog. Il Pokémon Lontra era convinto di non farcela, nonostante la vittoria contro Purrloin, ma Castiga gli disse: «Fidati di me, amico… puoi vincere!»
Lui annuì e lo scontro cominciò. Maru era molto forte, Castiga precisa e razionale e vinsero in breve tempo.
*«E... evvai!»* esclamò il piccolo Pokémon, saltando di gioia.
«Visto?» rispose lei facendogli l’occhiolino.
Dopo quell’incontro, i due non ebbero nemmeno il tempo di respirare; tutti gli allenatori del parco li sfidavano, per provare a sconfiggere quella coppia incredibile. Ma nessuno ce la fece. L’ultimo avversario fu Cheren che, giunto nella piazza avendo sentito il baccano, chiese: «Adesso combatti contro di noi?»
Maru era stanco, ma si mise in posizione. Castiga lo fissò un momento, poi disse: «Ok, Cheren. Visto che Maru se la sente.»
Lo scontro fu molto duro, anche perché l’Oshawott era sfinito. Così vinse lo Snivy di Cheren, ma per poco.
Castiga prese Maru in braccio, che era svenuto, e lo portò al centro Pokémon. Quando riprese i sensi, il Pokémon era sull’amaca in parte alla sua Allenatrice, ma era triste. Aveva perso. Si alzò e si allontanò da lei, sentendosi in colpa per averla delusa. Si mise sopra al costone di roccia, sull’altura dove si erano rifugiati, a guardare le stelle e il cielo.
Una mano gli accarezzò la testa e lei sedette al suo fianco.
*«Mi dispiace…»* mormorò il Pokémon, abbassando lo sguardo.
Lei guardò l’orizzonte e disse: «Non sono per niente delusa, piccoletto. Hai fatto del tuo meglio e questo basta.»
*«Ma io volevo essere forte! Essere come Pidg!»* esclamò lui di risposta.
«Lo so che quando parlo di Pidg ti sembra che mi riferisca a una divinità. Ma pensa a questo… lui si è allenato cinque anni, prima di diventare così.»
*«È un sacco di tempo…»*
Lei lo accarezzò e, sorridendo, ribatté: «No, tu ci metterai molto meno. Sei sano e hai un talento per la lotta… un po’ di determinazione in più non guasterebbe, ma può andare anche così. Se ti impegni, nel giro di un paio di giorni quello Snivy non ha scampo!»
*«Sicura?»* chiese lui, guardandola.
«Certo che sono sicura.» rispose lei, porgendogli il pugno.
*«Vinceremo!»* esclamò Maru, alzandosi in piedi con nuova determinazione, colpendo il pugno chiuso con il suo.
I due giorni passarono e arrivò il giorno della rivincita. Con un’occhiata di superiorità che mandò in bestia la ragazza, Cheren accettò la sfida. La lotta fu spettacolare e Maru distrusse l’avversario.
Dopo aver superato lo smacco, il ragazzo chiese a Castiga se potevano viaggiare insieme, ma lei rifiutò. Non le era mai piaciuta la compagnia. 

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Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***


«Quella fu la prima e ultima volta che il Dottore riuscì a sconfiggermi!» concluse la sua storia Castiga, ridacchiando vedendo la faccia di Cheren.
Lui la fulminò con lo sguardo, seccato, e ribatté: «Prima o poi ce la farò ancora, sta' sicura!»
«Certo, certo…» ghignò lei, quasi a provocarlo, ma poi aggiunse, ignorandolo e rivolgendosi a Raphael, accarezzando Maru: «Comunque, così cominciai il mio viaggio. Anzi, il nostro.»
«Però non mi hai detto come ti sei unita a loro…» obbiettò il ragazzo.
Lei alzò le spalle e rispose: «Questa è un’altra storia. Te la racconterò più tardi, ora siamo arrivati.»
Durante il racconto, infatti, i quattro erano arrivati a Quattroventi, dove si fermarono per una breve sosta. Potevano andare con calma e godersi il viaggio, questa volta, senza dover correre dietro al Team Plasma o a far gara per la corsa alla Lega. Castiga indicò la piazza sopraelevata e disse, per confermare che non aveva inventato tutto: «Questo è lo spiazzo dove Geechisu tenne quel suo sermone e dove incontrai N la prima volta.»
«Già. Mi ricordo.» assentì Cheren, per poi aggiungere: «Domani ripartiamo. Ma ora è meglio risposare.»
Gli altri annuirono, così si sistemarono al centro Pokémon e andarono a dormire.
Il viaggio ricominciò, verso la città seguente: Levantopoli. Fu un viaggio piuttosto breve, vista la vicinanza dei centri abitati; giunti sul posto, Belle esclamò: «Ehi.. andiamo a fare un giretto al Cantiere dei Sogni? A Musharna piacerebbe tanto tornarci! Dopotutto, era la sua casa!»
Castiga alzò le spalle, come per assentire, e rispose: «Sì, dai… così lo facciamo vedere a Raphael. Lui è qui come turista.»
Lui le fissò perplesso, avendo perso il filo del discorso, e chiese: «Che cos’è il Cantiere dei Sogni?»
«Dottore... a lei la risposta!» disse Castiga a Cheren, facendogli l’occhiolino.
L'amico si aggiustò gli occhiali, schiarì la voce e, con voce quasi robotica di chi aveva imparato tutto a memoria, spiegò: «Una volta era un laboratorio di ricerca Pokémon diretto dalla professoressa Zania. I ricercatori si occupavano di studiare il Fumonirico di Munna e Musharna, che permette di rendere i sogni reali. Volevano creare un energia pulita da poter usare sfruttando i sogni dei Pokémon e degli umani. Purtroppo un brutto giorno Musharna, che aiutava i ricercatori nelle ricerche donando il suo Fumonirico, causò un esplosione che distrusse il laboratorio e così le ricerche vennero interrotte. Ora è l’habitat di molti Pokémon selvatici.»
«Capisco.» mormorò solo il ragazzo, fingendo interesse, ma poi lasciò perdere tutte quelle cose complicate e chiese: «Ehi, Athena… ma perché lo chiami “il Dottore”?»
Lei ridacchiò e rispose: «Quando sarà ora, te lo dirò.»
«Oh, dai! Sono curioso!»
«Nada! Nisba!» rispose lei, facendo segno di diniego con l'indice e un ghigno stampato in faccia.
Lui insisté ancora, ma la ragazza era irremovibile. Una cosa alla volta. Belle interruppe la discussione, esclamando: «A proposito! Vi ricordate che qui abbiamo incontrato il Team plasma? Magari un Saggio è nascosto qui!»
«Davvero? E cos’è successo?» chiese subito Raphael, sperando di sentire qualcosa in più dei loro viaggi.
«Io passo parola, sono stufa di parlare.» dichiarò subito Castiga ma lui non la lasciò protestare e, vendicandosi per il suo rifiuto di dare spiegazioni, disse: «No, no. Racconta tu!»
Lei sospirò e vide Belle e Cheren annuire, per niente dispiaciuti che fosse lei l'oratrice. Facendo loro la linguaccia, cominciò a raccontare.
~§~

INTERMEZZO: IL POTERE DEI SOGNI

Castiga e Maru erano arrivati a Levantopoli piuttosto stanchi. La città era abbastanza diversa da Quattroventi, nonostante distassero pochi chilometri. Le case erano un po’ più alte, disposte ordinatamente in due isolati, e in parte al Centro Pokémon c’era un ristorante, che era anche la Palestra Pokémon.
Il cartello all’entrata della città, citava: “Dove soffiano venti orientali.”.
A est della città c’era un piccolo parco, con un laghetto e una bella fontana e un portico conduceva al percorso 3.
Castiga e Maru fecero un salto al centro Pokémon, ma poi li raggiunse Belle, accompagnata da una donna alta, con i capelli scuri e un camice bianco.
“Collega della prof immagino.” pensò Athena, squadrandola sospettosa; incontrare gente estranea le faceva sempre un brutto effetto. Amava troppo la solitudine. Non fu costretta a chiedere nulla, perché fu la nuova venuta a rivolgerle la parola, presentandosi: «Ciao, tu sei Castiga vero? Io sono la professoressa Zania e sono una ricercatrice!»
Athena le strinse la mano, indifferente, ma lei non parve farci caso; entusiasta, esclamò: «Visto che voi siete tutti allievi di Aurea, vorrei chiedervi un favore… mi cerchereste Munna e con lui il suo Fumonirico? Dovreste vedere se c’è al Cantiere dei sogni, qui in parte alla città!»
Castiga fece per rifiutare, avendo ben altri piani in mente e con poca voglia di immischiarsi negli affari altrui, ma Belle la prese per mano, urlando: «Andiamo subito!»
Strattonandole il braccio, la condusse nella zona a destra della città, correndo, senza averle nemmeno chiesto un parere.
«Perché devo venire anche io?» chiese seccata Castiga, cercando di liberarsi dalla presa di Belle e, conseguentemente, di trattenersi dal lussarle la spalla per obbligarla a mollarla.
«Dai Athena, non fare la scontrosa come sempre! Ci divertiremo!» rispose quella tutta contenta, stringendole più forte la mano; Castiga fu costretta ad arrendersi. Non si poteva discutere con quella ragazza e non poteva usare la forza, avendo promesso ad Aurea di stare buona. Entrate nel Cantiere dei Sogni, Belle tagliò un albero per permettere loro il passaggio e le due si addentrarono nel complesso di edifici in rovina. L'esplosione aveva distrutto gran parte delle strutture che ora erano tane di Pokémon selvatici. Belle guidava, e si guardava intorno con curiosità ed entusiasmo, seguita dall'altra ragazza, seccata e con le mani in tasca. Mentre sentiva i borbottii e l'inutile sproloquiare della quasi amica, Castiga si guardò intorno e, sbuffando, fece un passo verso una piccola radura, per trovare quel Pokémon e finalmente andarsene; un verso spaventato echeggiò nell’aria subito dopo.
«Cos’era?!» esclamò Belle, tra lo spaventato e l'eccitato, cominciando a snocciolare possibili ed eventuali creature che avrebbero potuto fare un verso simile.
Castiga si fece attenta, zittendola con un cenno. Aveva sentito una parola in quel verso, ma non ne aveva capito il significato perché il probabile Pokémon l’aveva detta mangiandosi le parole; quindi andò verso il luogo dal quale aveva sentito provenire il verso. Un Pokémon rosa a fiori viola scappò quando la vide, ma si fermò contro il muro, cercando possibili vie di fuga, che non trovò poiché era un vicolo cieco. Castiga e Belle fecero per avvicinarsi e tranquillizzarlo, ma due figure vestite di bianco apparvero dal nulla, cominciando a percuotere il piccolo Pokémon e ordinando loro di consegnare il Fumonirico. La creatura si dimenò, cercando di allontanarli, e gemendo per i colpi ricevuti. Belle intervenne, furiosa -cosa piuttosto rara-, non sopportando quella violenza ed urlò, cercando di frapporsi fra gli assalitori e la loro vittima: «Fermi! Chi siete?! Cosa volete?!»
«Chi siamo?» rispose uno dei due, fissandola con disprezzo: «Siamo il Team Plasma e lavoriamo giorno e notte per liberare i Pokémon dagli esseri umani stupidi e irresponsabili!»
«Cosa stiamo facendo?» intervenne l’altro, con un tono altrettanto arrogante: «Stiamo cercando di ottenere il fumo misterioso emanato da Munna e Musharna. Il loro fumo ha il potere di far sognare. E noi lo useremo per far sognare alle persone un mondo in cui i Pokémon sono liberi. Manipoleremo la volontà degli uomini, per spingerli a realizzare il nostro sogno, quello di liberare tutti i Pokémon!»
L’altro seguace tirò un calcio a Munna facendolo gemere e ribadendo di volere ad ogni costo il Fumonirico. Non avrebbero avuto scrupoli.
“Ma perché Munna non li attacca?! Perché non si difende?!” pensò Castiga, irritata da quel comportamento violento contro una creatura pura come un Pokémon. Doveva stare calma, doveva stare ferma, ma come poteva assistere a quello spettacolo?
Uno dei due seguaci cominciò a perdere la pazienza e minacciò il piccolo Munna: «Dacci il Fumonirico! Subito!»
Belle intervenne, cercando di fermare il piede che si stava per abbattere sul Pokémon, ed esclamò: «E… gli date dei calci per fargli emettere il Fumonirico? Ma come potete fare una cosa del genere? Siete degli Allenatori, no?!»
Lui la spinse via, facendola cadere a terra, e rispose, guardandola come se avesse un ritardo mentale: «Esatto siamo degli allenatori proprio come voi. Ma il nostro scopo è diverso. Noi vogliamo liberare i Pokémon!»
«E cosa significa tutto questo in termini concreti?» aggiunse l’altro, per dare manforte al compagno e zittire quella guastafeste: «Che toglieremo i Pokémon alla gente, con la forza, lotta dopo lotta! Salveremo tutti i Pokémon, anche i vostri!»
«Ma fatemi un piacere, state zitti!» sbottò Castiga, guardando storto i due uomini e trattenendo la voglia di tagliare la gola a entrambi, dopo aver aiutato Belle a rialzarsi: «Quello che dite non è coerente! Posso capire quel tipo, ha detto le vostre stesse cose, ma almeno lui non aggredisce Pokémon indifesi! Voi due parlate tanto perché avete la bocca e aria da buttare via. Di sicuro ora il Pokémon che sta male è quello che voi state maltrattando. E se li salvate così i Pokémon… stiamo freschi.»
Belle guardò la ragazza con gioia, vedendo che la stava aiutando, ma quelli risposero a tono, aumentando la già troppa irritazione di Castiga: «Lo vedremo, carceriera di Pokémon!» 
Tornarono a percuotere Munna, con più violenza, per raggiungere il loro scopo, andarsene e completare il piano, ma Belle cercò di nuovo di fermarli, urlando: «Basta!»
Castiga mise la mano nella tasca interna della felpa e afferrò l’elsa del pugnale, preparandosi al massacro. Non gliel’avrebbe fatta passare liscia; promessa o noi, quei due dovevano pagare. Nessuno doveva permettersi di toccare un Pokémon in sua presenza. Ma, prima che potesse fare qualunque cosa, dal nulla apparve Geechisu, alla sinistra dei due Seguaci; con voce profonda e atona, ma visibilmente furiosa, disse: «Perché perdete tempo?»
I due Seguaci si pietrificarono, fissando il capo terrorizzati.
Di fronte a Geechisu ne apparve un altro, identico, che aggiunse: «Noi strapperemo i poveri Pokémon dalle grinfie degli esseri umani indegni!»
I due Geechisu sparirono e riapparvero uniti in uno solo, di fronte ai due seguaci, e disse ancora, minaccioso: «Se non riuscirete a portare a termine questo compito…»
Lasciò la frase in sospeso, sottintendendo la minaccia rivolta ai due sottoposti.
«Ma questo…» disse uno dei due seguaci, arretrando: «Non sembra il Geechisu che ha parlato alla folla per raccogliere seguaci! O quello che manipolava le persone con belle parole!»
«Esatto. Questo sembra piuttosto il Geechisu che si arrabbia quando un suo piano fallisce. E che infligge severe punizioni…» aggiunse l’altro, preoccupato.
«Scappiamo di qui finché non si sarà calmato!»
I due se la diedero a gambe e Geechisu, dopo un momento di immobilità e silenzio, sparì nel nulla. Poco dopo arrivò un Pokémon rosa, più grosso di Munna, che andò a vedere come stava il piccolo.
«Ma cos’è successo?» chiese Belle, sbattendo le palpebre e guardandosi intorno spaesata: «Ce n’erano due! Non è possibile che fossero entrambi il vero Geechisu… o abbiamo sognato? E poi quel Pokémon…»
«Quello credo sia Musharna.» esclamò una voce. Le due si voltarono, vedendo Cheren raggiungerle; sistemandosi gli occhiali, il ragazzo spiegò: «Ha la capacità di rendere reali i sogni. Probabilmente vi ha fatte sognare ad occhi aperti per salvare Munna da quei due. Ho visto la professoressa Zania e mi ha detto che eravate qui.»
Belle lo abbracciò di slanciò, salutandolo tutta contenta. Ora che Munna non era più in pericolo, era tornata la solare e allegra ragazza di prima. Cheren fece per salutare Castiga, ma vide che lei non gli badava: stava fissando uno strano fumo violetto che rimaneva sospeso a mezz’aria davanti a loro.
«Credo sia Fumonirico...» disse Cheren, rispondendo al suo sguardo perplesso, mentre prendeva uno strano strumento dallo zaino: «Zania mi ha dato questo speciale apparecchio che lo raccoglie.»
Ne raccolse un po', travasandolo in una bottiglietta; Belle, volendo andare a cercare Munna per garantirsi che stesse bene, gli chiese di consegnarlo al posto suo alla professoressa. Avuta l'ovvia risposta positiva, corse via, voltando l’angolo preso da Munna e Musharna. Cheren si voltò per chiedere a Castiga compagnia per il ritorno, ma la ragazza era sparita. Un po’ deluso, uscì dal Cantiere, diretto al laboratorio della studiosa.
Nel frattempo Castiga era già sulla via per la Palestra; furiosa, non riusciva più a scrollarsi di dosso la voglia di amputare le mani a quei due seguaci; furibonda, cercava di scaricarsi, pensando: “Vigliacchi. Scappare davanti al capo furioso. Nel Team Rocket gente così non ce n’era. O sarebbero finiti nelle mani del Demone Rosso.”
Ridacchiando, aggiunse, a voce e con un tono tetro: «E piuttosto che finire nelle mie mani, era meglio morire.»
Maru, camminando accanto a lei, ridacchiò, sperando che la lotta potesse calmarla.

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Capitolo 26
*** Capitolo 26 ***


Finito il racconto, Belle ridacchiò: «Non eri molto entusiasta di venire con me, vero?»
«Eh, già. Però sei riuscita a convincermi. Anzi, diciamo che mi hai obbligata!» replicò Castiga, con un ghigno; non le aveva mai fatto scontare quell'impudenza. Ma alla fine, ormai non importava più. Belle ridacchiò, leggermente imbarazzata, e l'amica si alzò, dicendo: «Dai ragazzi, basta poltrire. Cominciamo le ricerche.»
Gli altri annuirono e si alzarono tutti, cominciando a cercare ovunque. Guardarono in tutti i posti, ma nulla, nemmeno l’ombra di un saggio. Si riunirono all’ingresso, demoralizzati.
«A quanto pare non c’è ness…» cominciò a dire Castiga, ma Raphael esclamò, da un angolo: «Ehi, ragazzi! Qui ci sono delle scale!»
«I sotterranei del laboratorio!» esclamò Cheren, vedendo le scale che portavano sotto terra.
I quattro amici le scesero e andarono sotto al laboratorio, nel piano interrato, anch'esso semi distrutto. Esplorarono tutti i sotterranei trovando altre scale che portavano in superficie. Castiga si guardò intorno, di nuovo all'aria aperta, cercando segni di vita, ma mentre camminava...
«Buu!» esclamò il saggio Celio, balzando davanti a lei, uscito dal suo nascondiglio dietro a un muro.
Castiga estrasse il pugnale di riflesso e quasi gli tagliò la gola; fermatasi per miracolo, con una mano sul cuore e la lama puntata verso l'uomo, esclamò: «Ma sei impazzito?!»
Gli amici la guardarono preoccupati e lei, con un’occhiataccia a Celio, rinfoderò l’arma, sentendo il cuore battere all'impazzata dallo spavento.
Celio, senza paura, continuò a parlare, come nulla fosse, ridacchiando: «Ti ho colto di sorpresa? Tu sei l’Allenatore che ha distrutto il nostro palazzo! In quell’occasione sono stato io a sorprendermi!»
«Evita di rifarlo magari.» commentò lei, quasi pentita di non averlo soppresso seduta stante.
«Non ne avrei motivo. Volevo sorprendere te come facesti tu con noi. Il fattore sorpresa provoca turbamento nel cuore di uomini e Pokémon. Apre una breccia che rende impossibile utilizzare la propria intelligenza. Così noi abbiamo sorpreso le persone, facendo sorgere il nostro palazzo e apparire un Pokémon leggendario. E attraverso la breccia aperta dalla sorpresa abbiamo conquistato l’animo della gente, instillando ammirazione per noi e il desiderio di un mondo nuovo.»
Castiga annuì, riflettendo sulle sue parole, e commentò: «Beh, sì, non c'è dubbio. La gente stava davvero cominciando a credere alle vostre fandonie. Soprattutto da quando era comparsa Reshiram.»
Celio le sorrise, vedendo come concordasse, e aggiunse: «Stava funzionando ma purtroppo così non è stato realmente. Vedendo la forza d’animo tua e dei Leader mi chiedo… fino a che punto è stata una strategia efficace? Sarà questa forza d’animo l’elemento necessario a condurre i Pokémon verso la tappa successiva? Verso la perfezione a cui aspirava N? Hai posto tu fine al suo sogno. Non dimenticarlo.»
«E allora? Aveva un sogno folle, non è colpa mia.» ringhiò lei, irritata da quella velata accusa. Come se l'aver fermato il giovane avesse voluto dire renderlo triste per sempre. Quel pensiero, legato ad un vago malessere, la convinse che doveva trovarlo il prima possibile. Celio la fissò negli occhi, con un sorrisetto e fece per dire qualcosa ma venne interrotto dall'arrivo dell'agente della polizia internazionale che lo ammanettò leggendogli i suoi diritti. Prima di essere portato via, come se sapesse tutto, l'anziano mormorò: «I veri sogni non sono quelli creati con il Fumonirico. Ma quelli realizzati con le proprie forze!»
«Celio aspett...» cercò di dire lei, ma l'agente si portò via il saggio, partendo di corsa e senza lasciarle il tempo di parlare.
Raphael, sconvolto da tutte quelle entrate e uscite, borbottò: «Quello è matto.»
«Eccome…» concordò lei, seccata di non essere riuscita a parlare con l'anziano, per capire quanto sapesse: «Beh... almeno un altro saggio è andato. Ce ne mancano quattro.»
Felici di averlo trovato, i quattro amici uscirono dal Cantiere, rimasero a Levantopoli per la notte; il mattino successivo ripartirono, alla volta di Zefiropoli. Si fermarono in una radura, quella radura, e Belle disse: «Non ti sembra ora di raccontare quella storia? Dopotutto è successo qui. E Raphael mi sembra stufo di aspettare.»
Castiga annuì, non molto convinta ma quasi costretta; arresa, cominciò a raccontare.
 
~§~

INTERMEZZO: CHI LA DURA, LA VINCE!

«Maru!» esclamò Castiga vedendo l'amico finire a terra, dopo essere stato sconfitto dal Pansage del Leader.
Il suo avversario, con una nota di rimprovero nella voce, disse: «Non ci siamo… non potrai mai battere la Lega Pokèmon con solo quel piccolo Pokémon debole in squadra!»
Lei lo fissò infuriata, fremeva di rabbia, non voleva trattenersi questa volta. Quel cameriere stava insultando Maru. Intollerabile. Le cadde l’occhio sull’Oshawott. Era svenuto ma si era battuto come un leone per riuscire a vincere; purtroppo però, non era bastato. Castiga mandò giù la rabbia a stento. Il suo Pokémon era molto più importante di una vendetta. Prese Maru in braccio e lo portò al centro Pokémon. Quando riprese i sensi, lui si mise le zampe sulla testa, ancora un po’ rintontito.
«Ti fa ancora male, piccoletto?» chiese una voce preoccupata. Castiga era in parte a lui, che lo guardava. Lui le sorrise e rispose, scuotendo la testa: *«No, tranquilla!»*
La ragazza si rabbuiò e sbottò: «Mi dispiace. Non credevo fosse così forte… quello non doveva dire che sei debole!»
Lui le diede una pacca sul braccio e disse, sorridendo: *«Non importa!»*
«Se non importa a te…» commentò lei, visto il suo sfrenato ottimismo: «Vuoi riprendere gli allenamenti?»
Maru annuì e lei ricominciò a fargli fare esercizi; avrebbero avuto la loro rivincita. Durante una corsa mattutina, però, vennero attaccati da un Pokémon. Castiga prese il Pokédex che disse: “Blitzle, il Pokémon Caricavolt. Quando libera scariche elettriche, gli si illumina la criniera. Variando il tipo di illuminazione comunica con i compagni. Inoltre appare quando il cielo si riempie di fulmini e saette. Accumula elettricità attirando i fulmini con la criniera.”
La ragazza osservò la piccola zebra scrollare la testa, ruotare le orecchie e scalpitare, pronta alla lotta.
«Te la senti Maru?»
Lui annuì, pronto a dimostrarle tutto il suo valore; non aveva voluto ammetterlo, ma quella sconfitta gli bruciava. La lotta fu furiosa, soprattutto perché Maru era d’acqua, debole rispetto all'avversario, ma alla fine vinsero. Castiga fece per andarsene, ma una voce disse: «Perché non catturi quel Blitzle?»
Lei si girò e vide Belle e Cheren. Squadrandoli, rispose: «Perché mi basta Maru.»
«Non credi che ti aiuterebbe con il Leader un Pokémon in più?» chiese il ragazzo, non capendo perché non volesse catturarne altri.
Castiga fece per rispondere a tono, ma qualcosa le tirò la maglia verso il basso. Lei abbassò lo sguardo e vide la Blitzle ferita strofinare la testa sul suo fianco, tenendo il lembo della veste tra i denti.
Belle sorrise ed esclamò: «Vedi? Le piaci!»
Castiga accarezzò la testa alla zebra, evitando di farsi fulminare dalla criniera; lei, chiudendo gli occhi soddisfatta, esclamò: *«Ah, finalmente!»*
«Tu vorresti venire con noi?» chiese, non ben convinta di quell'assurda teoria.
La zebra la guardò negli occhi e rispose: *«Sarebbe bello... siete forti e sembrate anche simpatici!»*
La ragazza meditò per un momento; Maru sorrise, annuendo. Così si arrese e commentò: «Se proprio ci tieni...»
Le lanciò una ball sul naso e la zebra venne catturata. La chiamò Hoshi, stella in giapponese.
Ma con lei, non era come con Maru. L’Oshawott era riuscito a fare una piccola breccia nel suo cuore di ghiaccio, non si sa come, ma per la nuova amica la situazione era diversa. Chissà se sarebbe mai cambiata...
Eludendo Belle e Cheren, che si erano uniti a loro senza essere stati invitati, Castiga riprese gli allenamenti nel percorso che andava a Zefiropoli, la città dopo, ma…
«Maledizione! Ci siamo persi!» borbottò seccata; odiava perdere l'orientamento, non sapere cosa fare. Per una maniaca del controllo della sua portata, perdersi era una delle peggiori situazioni. I tre non si persero d’animo, ma venne sera e la via non si trovava. L'irritazione aumentava sempre più. Doveva riprendere il controllo; poteva essere in balia di chiunque in quella situazione. Con un pugno contro un albero, esclamò: «Dannazione, dove diavolo siamo?!»
Era furiosa e da tale, diveniva una perfetta macchina di morte. L'unica piccola parte razionale la teneva ancorata alla sua promessa, ma non sarebbe durato in eterno... Maru le parlava, cercava di calmarla, ma non pareva funzionare troppo. Non sapeva che era proprio la sua voce a bloccare la psicosi. Una voce amica che avrebbe tenuto lontano Giovanni ma non si sa per quanto. Entrando in una radura, videro Belle che teneva una mano a Cheren, con le lacrime agli occhi.
«Athena!» urlò la bionda, piangendo, quando la vide: «Cheren sta male! Non so cosa fare! Ci siamo persi!»
Castiga fece per voltarsi e andarsene, irritata come era da quella situazione, ma la ragazzina cominciò a chiamarla ripetutamente per farsi aiutare.
*«Sei sicura sia così rischioso? Magari insieme riuscirete a trovare la strada e forse ti calmi anche...» * mormorò il Pokémon lontra, cercando di essere ragionevole e sondare le sue emozioni.
*«E poi, anche fosse...» * commentò Hoshi: *«In caso, li proteggiamo noi.» *
«Avete la piena responsabilità della cosa.» rispose la ragazza, voltandosi nuovamente e avvicinandosi agli amici. Fissandoli con uno sguardo di ghiaccio, chiese: «Che è successo?»
Cheren, tirando un urlo, si voltò su un fianco, mostrandole un ramo spezzato piantato nell'addome, probabilmente inficcatosi dopo una caduta. Castiga lo fissò accigliata, per nulla toccata dalle urla, e commentò: “Ma che bella ferita perforante.”
Continuò a fissarlo, immaginando cosa si sarebbe potuto fare se fosse caduto molto peggio. Non era una ferita grave, spostata sul fianco, senza arterie o vasi sanguigni importanti.
«P-puoi fare qualcosa?» mormorò Belle, con le lacrime agli occhi.
“Togliere il ramo e guardarlo mentre muore.” fu il primo pensiero; il secondo, più moderato, venne anche espresso, con tono pacato e lievemente sarcastico: «Che ne dici di, per esempio, chiamare un'ambulanza?»
«Ma è lontano, lui è pallido e...» balbettò Belle, ma venne interrotta da Cheren che urlò e si tolse il ramo dal fianco con uno strattone improvviso. Ovviamente, la ferita prese a sanguinare ininterrottamente, scatenando il pianto isterico di Belle e una conseguente crisi di panico. Ferma dov'era, Castiga guardò distaccatamente la scena. Quanto era stupido quel ragazzo. Faceva tanto il professore e poi cascava in genialate che potevano ucciderlo.
*«Ehm... Castiga. Senti un po'.»* mormorò Maru.
Lei lo fissò di sottecchi e lui buttò lì: *«Non so, così per dire... potresti aiutarlo, no?»*
«Ha fatto tutto lui... se vuoi lo aiuto a trapassare.» rispose lei, sogghignando.
Maru la guardò storto, così lei alzò le mani e commentò: «Va bene, va bene. Come vuole lei, signor caporale lontra.»
Si avvicinò a Cheren, estrasse il pugnale e disse: «Hoshi, porta via Belle.»
La zebra eseguì, senza fare domande, dandole la sua completa fiducia. Aveva visto che non era più nervosa come prima e sembrava perfettamente padrona di sé. Cheren fissò quel pugnale e quello sguardo di ghiaccio terrorizzato, ma non fece domande; aveva paura di farne. Castiga scaldò il pugnale, su un fuoco che aveva acceso e che era controllato da Maru, poi si avvicinò a lui. L'intenzione era quella di cauterizzare la ferita ed evitare che morisse lì, dissanguato, ma lui prese male l'atteggiamento e cercò di alzarsi, per scappare. Quella fuga era come un'istigazione alla caccia e al conseguente omicidio ma lei si limitò a catturarlo, ad immobilizzarlo e, dopo averlo fatto urlare un po', a farlo svenire. Non poteva pretendere di scappare e poi restare impunito. Cheren svenne in fretta ma prima che potesse accadere, riuscì solo a sentire la sua voce dire: «Maru, metti una zampa in quel punto e senti il cuore. Se mi va in shock anemico, Aurea mi scanna.»
Quando si risvegliò, il ragazzo era sdraiato su un letto. Appena Hoshi l’aveva lasciata passare, dopo aver sentito il fischio della sua Allenatrice, Belle era corsa dall’amico e l’aveva trovato svenuto in una pozza di sangue, con il fianco fasciato e il battito debole. Castiga aveva chiamato la prof che aveva allertato i soccorritori che li avevano localizzati con il gps dell'interpoké. L’ambulanza era arrivata dopo poco tempo e avevano portato Cheren all’ospedale di Levantopoli.
«Cosa… mi ha fatto?» chiese il ragazzo a Belle, appena fu vicino a lui.
«Di preciso non lo so.» rispose lei, affranta e con ancora gli occhi rossi dal pianto: «Quando sono arrivata eri svenuto e subito dopo è arrivata l’ambulanza.»
Lui annuì, lei lo confortò un poco, finché non si addormentò. Le cure furono efficaci e poté ben presto rimettersi. Successivamente, andarono dal medico per un controllo. L’uomo sbendò il fianco a Cheren e, dopo aver esaminato la ferita, lo portò a fare una radiografia. Dopo tutti gli esami, il dottore disse: «Sei stato molto fortunato ragazzo… chiunque ti abbia fatto questa “operazione” ti ha salvato la vita. Era rischioso cauterizzare la ferita con qualcosa di rovente, ma a quanto pare non ha sbagliato una mossa. Ti saresti dissanguato senza questo salvataggio di emergenza.»
Il medico lo tenne un po' in osservazione, finché non si fu del tutto ripreso, poi lo lasciò andare.
«Belle… lei, mi ha salvato!» esclamò lui all'amica, stupito e felice di ciò che era successo: «Io… io pensavo volesse torturarmi per chissà che motivo e invece mi ha salvato la vita!»
Belle sorrise e replicò: «Ti eri fatto condizionare dai suoi modi scontrosi vero?»
«Si, ma anche perché non ha fatto una piega mentre urlavo. Però… le devo tutto!»
«Vuoi che andiamo a cercarla?»
«Naturale… vorrei almeno ringraziarla!»
Belle annuì e i due amici ripartirono, alla ricerca della ragazza nella città; sapevano che non aveva sconfitto la Palestra, quindi da lì non poteva di certo muoversi. Dopo un paio d’ore di cammino sentirono dei botti. Corsero a vedere cosa stesse succedendo e videro Castiga e Maru combattere contro un Allenatore e il suo Beartic. L’Oshawott era in difficoltà, ma la ragazza non intendeva cedere. Convinta, determinata, pronta a tutto, lo incitava dicendo: «Andiamo Maru! Puoi batterlo!»
I due Pokémon si scambiarono ancora due colpi furiosi, poi Maru si illuminò evolvendosi in Dewott.
Con l’abilità da spadaccino acquisita dall’evoluzione e il potere della nuova mossa Conchilama, il Pokémon Apprendista vinse. La ragazza sorrise vittoriosa e, mettendo le mani in tasca, fece un cenno a Maru con la testa. Lui rispose con il pollice alzato, facendole l’occhiolino, e lei disse: «Bravo piccoletto! Siamo pronti per la Medaglia.»
*«All'attacco!»* rispose lui, sollevando le due conchiglie sopra la testa, incrociandole come due spade.
«Ehi Ath... ehm, Castiga. Ciao.» salutò Belle, avvicinandosi cauta alla ragazza.
Lei si girò per vedere chi era, ma quando li vide, si voltò e tirò dritto per la sua strada, verso Levantopoli, verso la palestra.
Belle ci rimase male, per quel rigetto, e la rincorse, gridando: «Aspetta, Athena! Vogliamo solo…»
«Lasciatemi in pace.»
«Ma dai, noi…»
La ragazza si girò di scatto, fissandoli gelida e il più male possibile; seccata, sbottò: «Ho detto di lasciarmi in pace. Volete capirlo che giro da sola o no?»
Si voltò e tornò in città. Belle e Cheren si guardarono, annuirono, e la seguirono. Lei entrò in Palestra, combatté, e vinse la Medaglia, mentre i due l’aspettavano di fuori. Uscì dalla Palestra soddisfatta, li vide, ma li ignorò, dirigendosi verso il Percorso 3. Belle e Cheren si guardarono, poi presero a camminare dietro di lei, fingendo di non notare la sua irritazione. Per un po’ di strada Castiga fece finta di niente ma poi borbottò: «Ma la smettete di seguirmi?»
Cheren sogghignò, rispondendo: «Fino a prova contraria, anche noi dobbiamo andare a Zefiropoli! E la strada è una sola!»
Castiga sospirò, seccata, e non rispose. I due ragazzi la affiancarono, contenti di averla convinta. O meglio dire, costretta.

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Capitolo 27
*** Capitolo 27 ***


«E così cominciai a sopportare questi due.» concluse Castiga, facendo l’occhiolino ai due amici.
Aveva omesso apposta nel racconto il dialogo con Maru. Non poteva di certo dire che lo avrebbe guardato morire... Ora, anche in uno dei raptus più furiosi, sapeva che non li avrebbe mai toccati. Piuttosto si sarebbe ammazzata, ma non di certo a quell'epoca, quando ancora non si conoscevano.
«Eh, certo!» ribatté Cheren: «Si lamenta lei! Noi cosa avremmo dovuto dire? Girare con un iceberg sarebbe stato meglio!»
«Ha-ha! Spiritoso!»
Risero tutti, ma Raphael prese la parola e chiese: «Ma come avete fatto ad “ammorbidirla”?»
«Ma non sei stanco?» domandò Castiga.
«Sono più curioso!» rispose lui con un ghigno.
Cheren intervenne e spiegò: «Diciamo che l’abbiamo sciolta un po’ grazie a Belle!»
«O forse a uno Scolipede.» commentò Castiga, facendo arrossire la bionda e ridere come un matto l’amico.
«Racconta tu, visto che vuoi tanto parlare!» la rimbeccò Belle.
«D’accordo signorina “tuffo olimpico”!» rispose l’altra ridacchiando e cominciando a raccontare.
 
~§~

INTERMEZZO: CONVIVENZA

I tre ragazzi stavano camminando verso Zefiropoli. Erano in viaggio insieme da tre giorni e la situazione non era cambiata. Castiga davanti guidava il gruppo, in silenzio o parlando solo ed esclusivamente con i suoi Pokémon, mentre Belle e Cheren tentavano di fare conversazione. La sera era la stessa cosa: si accampavano, Hoshi accendeva il fuoco con la Nitrocarica, mangiavano in silenzio e poi Castiga andava a dormire sulla sua amaca con un freddo “Buonanotte”. Alla fine i due rinunciarono a parlarle, perché avevano capito che la ragazza non voleva saperne.
L’ultima sera, però, si ebbe una piccola svolta, che rese Cheren e Belle fiduciosi. Quest'ultima si era lanciata in un dettagliato resoconto della cattura del suo Minccino, parlando con l'amico. Castiga ascoltava con un orecchio, un po’ perché era curiosa e un po’ perché Belle urlava.
«E a quel punto…» stava raccontando, quindi: «Tepig era in difficoltà perché Minccino aveva usato Solletico parecchie volte. Minccino, vedendo che faticava a combattere, corse via tentando la fuga! Io lo inseguii determinata a catturarlo e vidi la chioma di un albero muoversi. Convinta fosse nascosto lì, feci fare a Tepig il suo Braciere e… sapete che successe?»
Cheren scosse il capo e Castiga alzò leggermente la testa, presa dal racconto. Vedendo che anche l’altra ragazza era interessata, la bionda assunse un tono quasi teatrale e disse, ridendo: «Sull’albero non c’era Minccino, ma uno Scolipede al quale non piacque molto la fiammata! Mi misi a urlare dallo spavento e Tepig fece retrofront di scatto. Mi passò in mezzo alle gambe, io caddi seduta sul suo dorso e lui partì a razzo, inseguito dallo Scolipede infuriato! Non vi dico la paura!»
Cheren scoppiò a ridere e Castiga la guardò incredula, con stampato in faccia quel suo sogghigno, surrogato di un sorriso divertito; non riuscendo a immaginare una scena tanto ridicola e assurda, chiese: «E poi che è successo?»
Belle, animata dalla curiosità della ragazza, rispose: «Tepig corse verso il fiume e poi, appena prima della sponda, girò violentemente a destra e io finì in acqua, con Scolipede dietro!»
Accigliata e divertita insieme, Castiga disse: «Ma dai! Non ci credo!»
«Davvero! Un tuffo degno delle Olimpiadi! E poi arrivò Minccino che scoppiò a ridere vedendoci in acqua. Io gli lanciai la Ball e lui, dal troppo ridere, non riuscì a liberarsi!»
Sghignazzando, Castiga dovette ammettere che quei due erano simpatici. Belle era distratta a tal punto che ne combinava una dietro all’altra e Cheren doveva sempre correre ad aiutarla. Il ragazzo si stava soffocando dal troppo ridere, e così, con un’occhiatina divertita, Castiga salutò i due e se ne andò a dormire di buonumore.
Il giorno dopo fu una svolta. Castiga aveva deciso di essere un po’ meno “gelidamente terrificante”, termine coniato dalla prof Aralia in uno dei loro discorsi, e così tentò di essere più loquace, con scarsi risultati. Anche se i due amici apprezzarono il suo impegno. Nelle loro poche chiacchierate, Castiga scoprì che Cheren sapeva tutta la teoria dei Pokémon, anche se con la pratica non era molto ferrato. Ripartirono, e mentre camminavano, la ragazza disse: «Mi raccomando, chiamatemi Castiga.»
«Perché?» chiese Belle.
«Tu fallo e basta.» rispose lei secca.
I due annuirono, perplessi, e si inoltrarono insieme su un sentiero. Belle si separò dal gruppo per andare a visitare la pensione Pokémon. Cheren e Castiga andarono avanti, per cercare un posto dove aspettarla, ma, all’improvviso, due seguaci Plasma corsero verso di loro. Li superarono e scapparono come fulmini.
Poco dopo sopraggiunse Belle, seguita da una bambina.
«Cos’è successo Belle?» chiese il ragazzo, vedendola preoccupata e ansimante.
«Quei due del team Plasma hanno rubato il Pokémon a questa bambina! Ero alla pensione e loro si sono intrufolati nell’asilo!»
«Vado a recuperarlo. Ath… ehm Castiga vieni con me?»
Lei lo guardò non molto entusiasta e lui incalzò: «Dai sarà un buon allenamento!»
Forse aveva capito come prenderla ed, effettivamente, lei, con un’alzata di spalle, assentì, facendo un cenno a Maru e cominciando a correre. Prima di seguirla di corsa, Cheren si voltò ed esclamò: «Tu resta qui con questa bambina Belle!»
Arrivarono a una grotta, chiamata Falda Sotterranea, ed entrarono. I due seguaci imprecarono, in trappola, ma non si persero in chiacchere e attaccarono, determinati a catturare anche i loro Pokémon.
Castiga lanciò rapida una Pokéball ed esclamò: «Vai Maru. Esci Hoshi! Sistemiamo questi pagliacci!»
*«Pronto!»* esclamò lui, sfoderando il doppio Conchilama.
*«Agli ordini!»* assentì Hoshi, uscendo dalla sua sfera facendo scintille.
Cheren prese una Ball, per aiutarla, ma lei lo fermò: «Dimmi solo tutto quello che sai su questi due Pokémon.» disse, osservando Woobat e Roggenrola perplessa, non avendoli mai visti. Cheren si aggiustò gli occhiali e parlò come un libro stampato, mentre Maru e Hoshi tenevano occupati gli avversari e lei pensava.
«Ok. So cosa fare. Grazie…. Dottore. A buon rendere.» disse la ragazza, per poi cominciare a fare sul serio.
Maru e Hoshi attaccarono insieme, in perfetta sintonia. Roggenrola tentò un Fangosberla contro la blitzle ma il dewott si mise in mezzo e lo colpì con il Conchilama, facendolo volare contro un muro e crollare esausto. Woobat lo attaccò per vendicare l'amico, ma Maru schivò il colpo e Hoshi mise la parola fine con una scintilla. I due seguaci fecero rientrare i Pokémon, delusi e disgustati, e uno disse: «D’accordo, vi restituiamo il Pokémon… ma pensate a come deve soffrire, obbligato a fare ciò che non vuole!»
Prima che gli avversari potessero fare altro, fuggirono a gambe levate. Cheren li fissò correre e commentò, parecchio seccato dal loro tono di accusa: «Secondo me non soffrono… l’Allenatore tira fuori le capacità innate di un Pokémon con l’allenamento. E di sicuro non li fa soffrire.»
«Beh, dipende…» replicò Castiga, pensando al significato del messaggio che il Team Plasma voleva diffondere: «Sai quei tipi una cosa giusta la dicono… bisogna separare i Pokémon dagli Allenatori indegni, che effettivamente li fanno soffrire. Ma questo non significa separare Pokémon e umani del tutto. Non è così arbitrario...»
Cheren annuì, d’accordo con lei, ma poi aggiunse: «Scusa una cosa piuttosto… dottore?!»
«Ma ti sei visto? Sembri un professore quando parli.» ribatté lei, con un ghigno.
Lui le sorrise, ammettendo le sue colpe, e i due uscirono, continuando a parlare. Il ragazzo aveva visto che ogni tanto lei era più disponibile del solito, quindi quando poteva, cercava di conoscerla. Riconsegnarono il Pokémon alla bambina che tornò felice all’asilo. Poi insieme a Belle, ripartirono. Mentre camminavano, l’Interpoké di Castiga squillò e lei si allontanò dal gruppo, rispose e la prima cosa che sentì fu la voce lievemente agitata della professoressa Aralia: «Ciao, Athena! Era da un pezzo che non ti sentivo! È successo qualcosa? Tutto bene?»
Castiga notò l'agitazione perché rispose, cercando di tranquillizzarla: «Salve, prof. Scusi, dovevo farmi sentire ogni due giorni ma me ne sono dimenticata.»
Lei sminuì con un cenno, sorridendo e chiese: «Non importa… va tutto bene?»
«Sì. Adesso viaggio con i due ragazzi che conosce anche lei…»
La donna si fece perplessa e chiese: «Belle e Cheren?»
Al cenno di assenso, commentò: «Mi avevano detto che volevano convincerti, ma non pensavo ce l’avessero fatta!»
Athena fece una pausa, ma notò l'eccessiva contentezza della sua interlocutrice. Si guardò intorno, poi buttò lì: «A proposito di questo... sa cos'è successo tempo fa?»
Aurea si fece attenta, visto lo sguardo serio; annuì e rispose: «Sì, Belle me l’ha detto. Ma ora voglio la tua versione.»
Omettendo qualche dettaglio, Castiga disse che aveva capito cos’aveva Cheren e, pensando agli insegnamenti della donna, aveva pensato di aiutarlo. Aurea sorrise e rispose: «Capisco. Bene sono contenta. Sai, Belle era molto scossa, potevi essere un po’ più gentile, ma conoscendoti apprezzo il gesto.» 
Lei alzò le spalle, non molto toccata dal commento; d'un tratto, di getto, chiese: «Lei… come sta?»
Non si era mai interessata, ma qualcosa le diceva che doveva farlo. Le interessava sapere come se la stesse passando.
«Io?» domandò la donna, colpita. Poi sorrise dolcemente e rispose: «Bene, grazie. Adesso vai e trattali bene. Sono due bravi ragazzi!»
«Cos’è… non si fida per caso?» chiese la ragazza, con una punta di minaccia, mista a malizia.
«Certo che no!» rispose la donna sorridendo; la salutò nuovamente e mise giù.
Castiga raggiunse Belle e Cheren, che nel frattempo la stavano cercando. La biondina le andò incontro e chiese, agitata: «Eccoti! Dov’eri finita?»
Lei non rispose, scrollando le spalle con noncuranza e ricominciando a camminare; dopo una mezza giornata, arrivarono a Zefiropoli, una città molto caratteristica, detta: “La città in cui soffia un vento di eleganza”. Zona industriale in passato, piena di magazzini, adibiti in seguito ad abitazioni e negozi, era piuttosto grande, e a sud si poteva ancora vedere il tratto di ferrovia che una volta aveva la funzione di portare i materiali ai magazzini.

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Capitolo 28
*** Capitolo 28 ***


«Zefiropoli è la prossima città.» disse Castiga, vedendo la faccia dubbiosa di Raphael, che, non conoscendo la regione, non aveva capito il riferimento al posto. Cheren si intromise e borbottò: «Ora però dormiamo. La strada è ancora lunga.»
Gli amici assentirono, mettendosi a dormire. Presi i sacchi a pelo, si sdraiarono in cerchio accanto al fuoco.
«Ehi ragazzi.» chiese Belle, tutta esaltata come era sempre: «Vi ricordate quando facevamo quel gioco?»
«E come dimenticarselo?» commentò Castiga, non molto entusiasta.
Cheren sorrise e le diede una gomitata, rispondendo: «Lo sappiamo che non ti piace, ma rendila felice!»
«È un gioco stupido.»
«Però è rilassante!» chiuse lì la discussione Belle: «Comincio io! Mmmm… quella là sembra un Lillipup!»
«Ma che gioco è?» chiese Raphael alla ragazza al suo fianco.
«Indovinare che forme fanno le nuvole al buio. Almeno farlo con la luce.» rispose Castiga, sbuffando, mentre Cheren diceva “racchetta da tennis”.
«Dai Castì!» la incitò Belle, cercando di convincerla: «Partecipa!»
«Va bene, va bene… dunque…»
Guardò il cielo.
Vide un pugnale.
Bocciato.
Vide una ghigliottina.
Bocciata.
“Possibile che debba vedere solo queste cose? Va bene che non uccido da una vita però questa è ossessione, accidenti.” pensò seccata, mentre vedeva un cappio.
«Io vedo… un fiore.» disse Raphael, facendo l’occhiolino alla ragazza vicino a lui e esaltando Belle.
«Grazie…» mormorò lei a bassa voce.
Lui le sorrise e commentò: «Immagino tu non abbia visto niente di bello, data l’espressione.»
«Eh già…» rispose solo lei, tornando a fissare il cielo.
«Prova a inventare. Almeno lei è contenta.»
La ragazza annuì e lui le suggerì qualche risposta finché la bionda non crollò addormentata.
«Notte… e grazie.» disse Athena a Raphael.
«E di cosa?» rispose lui, sorridendo.
Dormirono e il giorno dopo il viaggio proseguì verso Zefiropoli, dove arrivarono in un paio di giorni.
Decisero di andare a salutare Aloé e quando Raphael chiese chi fosse, Belle rispose: «La Leader della città. L’abbiamo aiutata con quei fanatici del Team Plasma.»
«Mettiti comodo perché questa è lunga!» disse Castiga, mentre cominciava a raccontare.
 
~§~

INTERMEZZO: I SETTE SAGGI

Castiga si diresse verso la Palestra di Zefiropoli, per affrontare Aloé, la Leader della città. Belle e Cheren dovevano allenarsi e non se la sentivano di affrontare la lotta, quindi lei andò da sola. Ma prima che riuscisse a varcare la soglia, un ragazzo le andò contro, spingendola lontano. Era N, il ragazzo che aveva visto a Quattroventi e che affermava di poter parlare con i Pokémon.
«Castiga...» mormorò, avendola riconosciuta, tendendole la mano per alzarsi.
«N.» rispose lei, accettando l'aiuto e tirandosi in piedi.
«Perdonami, non ti avevo vista.» mormorò lui, sinceramente dispiaciuto: «Stavo uscendo di corsa e non ho badato a ciò che mi capitava intorno. Sei qui per la medaglia immagino...»
Lei si rialzò, facendogli un cenno di noncuranza con la mano, e borbottò: «Hai indovinato.»
Lui sospirò, adombrandosi lievemente. Anche lei carceriera, anche lei sfruttatrice ma comunque così diversa da tutti gli altri. Rattristato, commentò: «Vorrei davvero vedere quello che sfugge agli occhi degli altri. La verità sui Pokémon nelle Pokéball, gli ideali di un Allenatore... sai qual è il mio più grande desiderio?
«Liberare i Pokémon, no?» rispose lei, avendo colto nelle sue parole il significato che celavano.
Lui le sorrise, vedendo come capisse più di tutti, e aggiunse: «Sì. Un futuro in cui i Pokémon possano essere veramente liberi, lontani dalla sofferenza umana... piacerebbe anche a te, vero?»
Castiga ci pensò su; anche lei era convinta che gli Allenatori indegni, che maltrattavano i loro Pokémon, non avessero il diritto di avere anche solo la loro fedeltà, la loro amicizia, più preziosa di qualunque gioiello.
«Sì, N, mi trovi concorde. Ma forse non con i tuoi metodi.»
Lui la squadrò, non capendo che altri metodi sarebbero stati validi, e replicò: «Staremo a vedere quali sono i metodi corretti per raggiungere l'obbiettivo. Io e i miei amici metteremo alla prova la forza dei tuoi desideri... vedremo chi avrà ragione, alla fine.»
«Come vuoi.» rispose lei, notando il suo scatto, ma vedendo che aveva messo mano a una Pokéball. Non capiva perché si ostinasse a lottare, perché cadesse nel controsenso più palese, ma non si sprecò in domande e accettò la sfida. Non capiva che N lottava perché voleva vedere come lei avrebbe risposto: se usando i Pokémon o collaborando con loro.
Castiga mandò Hoshi ad affrontare il Pidove di N. La Blitzle vinse, poi fu il turno di un Tympole che venne sconfitto a sua volta dall’Ondashock di Hoshi. Per ultimo tocco a un Timburr. Mentre lottava contro il Pokémon, la ragazza si chiese dove fosse il Purrloin contro cui aveva lottato la volta prima. Hoshi venne sconfitta ma Maru vinse lo scontro. Prima che N potesse dire qualcosa, o svanire nel nulla come al solito, Athena intervenne e chiese: «Dov’è Purrloin?»
«Prego?» chiese lui, perplesso, facendo rientrare lo sconfitto Timburr.
«Il Purrloin che hai mandato in campo la prima volta…»
«Oh certo, intendi il giovane Pokémon che il tuo Oshawott sconfisse la prima volta che ci siamo visti. Vedo con piacere che si è evoluto; è una prova di fiducia, dovresti andarne fiera.»
Maru depose le spade, tutto orgoglioso della sua potenza, e Castiga lo accarezzò. N sorrise, poi proseguì nella sua spiegazione: «Comunque, Purrloin aveva gentilmente accettato di lottare al mio fianco, quel giorno. Dopodiché, una volta che fu curato, lo lasciai libero di tornare nella sua casa. I tre Pokémon che hai visto lottare oggi, hanno fatto la medesima cosa. Sono andato all’entrata del Bosco Girandola e lì ho chiesto ad alcuni Pokémon se avevano il desiderio di misurarsi in una lotta. Pidove, Tympole e Timburr hanno accettato, ma ora saranno liberati perché possano ritornare alla vita di sempre.»
Castiga annuì, capendo il suo modo di ragionare. Dopotutto, tutti i suoi Pokémon avevano chiesto a lei di stare insieme e non viceversa. Lui continuò, preso dal suo discorso: «Io e i miei amici non abbiamo ancora la forza necessaria per salvare tutti i Pokémon. Cambiare il mondo richiede uno sforzo di cui non siamo ancora capaci. Ho bisogno di più forza… di una forza indiscutibile, che convinca tutti.»
Si allontanò di qualche passo da lei, verso il limite della città e l’entrata del Bosco Girandola. Voltato di spalle, sperando che lei capisse, che lei cogliesse tutto quello che voleva dire: «So perfettamente dove trovare tale forza… È la stessa che ha accompagnato l’eroe che ha fondato Isshu: il Pokémon Leggendario Reshiram. Ti troverò, grande Pokémon, sarò il nuovo eroe e il tuo migliore amico!»
Si voltò appena, le sorrise e le fece l'occhiolino. Poi se ne andò, diretto verso il Bosco Girandola, lasciando la ragazza perplessa sulla soglia della Palestra. Quel tipo sembrava totalmente folle, però non si poteva dire che ragionasse male. Fondamentalmente, il suo pensiero non era sbagliato... ma troppo estremista. Seccata dal contrattempo, andò al Centro Pokémon e finalmente varcò la soglia dell’edifico. Nell’atrio prima della Palestra, c’era un museo. La cosa che le saltò all’occhio fu l’enorme scheletro di un Dragonite fossilizzato. La didascalia diceva “di un Pokémon Drago” ma lei sapeva perfettamente che specie fosse: aveva visto l’odiato Pokémon di Lance massacrare la sua squadra. Ebbe la tentazione di fracassare quell’ammasso di ossa, ma si trattenne. Era ovvio, al padrone del museo non sarebbe piaciuto vedere il suo pezzo forte andare in mille pezzi. Castiga fece un giro veloce del museo, per pura curiosità, poi entrò nella stanza di fronte, preceduta da una scalinata, dove avrebbe trovato la palestra e Aloé. Ma quando entrò si chiese se avesse sbagliato posto: la stanza era piena e piena di scaffali e librerie stracolme di libri. Ma di ring neanche l’ombra.
«Ma che…?» borbottò, perplessa, guardandosi intorno.
Le venne incontro un uomo alto, vestito con una camicia bianca, i pantaloni neri e gli occhiali da sole. Era l’arbitro degli incontri in palestra, che le disse: «Lascia che ti spieghi come funziona questa palestra. Devi rispondere a cinque domande ingegnate dalla nostra Leader, che sono nascoste nei libri; la risposta ad una domanda ti porta a un altro libro della biblioteca. E avanti così! La prima domanda si trova nel libro “Buongiorno amico Pokémon!”! Buona fortuna!»
Detto questo, si voltò e sparì. Castiga sogghignò e cominciò la ricerca, volteggiando fra gli scaffali. Adorava gli indovinelli, mettere alla prova il cervello con la logica, e il suo modo di pensare, freddo e razionale, la rendeva veloce e infallibile. In breve tempo arrivò all’ultima domanda. C’era una lettera tra le pagine del libro che diceva: “Te la stai cavando proprio bene! Non sei solo forte, ma anche intelligente! Non vedo l’ora di lottare contro di te!”
La lettera era firmata dalla Leader Aloé.
L’interruttore dietro al libro scattò appena la ragazza lo rimise al suo posto e la libreria davanti a lei si mosse, spostandosi a destra e rivelando delle scale. Castiga scese dalla scaletta e andò nella vera Palestra. Sotto la biblioteca c’era il ring e nella postazione di fronte a lei, Aloé. Era una donna alta, dalla carnagione scura, gli occhi blu intenso e i capelli molto ricci, blu cobalto, tenuti indietro da una fascia rossa. Indossava una camicia bianca e del pantaloni blu eleganti, con sopra un grembiule rosa con delle tasche fatte a forma di Pokéball.
«Ti do il benvenuto!» le disse la donna, sorridendo: «Io sono Aloé, Leader di Zefiropoli e direttrice del Museo! Iniziamo, sfidante! Voglio vedere come lotta la squadra che hai allenato con tanto amore!»
Fu uno scontro durissimo. I Pokémon di tipo Normale di Aloé erano terribili e Castiga rischiò di uscirne sconfitta. All’ultimo però, lo Watchog di Aloé inciampò e cadde, permettendo a Maru di vincere con un violento quanto disperato Conchilama.
«Complimenti, hai vinto!» disse Aloé, porgendole la Medaglia, ma Castiga scosse la testa e non la prese.
«È una vittoria immeritata. Non accetto aiuti dalla sorte.»
Aloè la guardò sorridendo, stupida da tanta schiettezza e correttezza, ma ribatté: «Invece la meriti eccome. I tuoi Pokémon hanno dato il meglio del meglio per aiutarti, e tu, approfittando di una mia distrazione, hai dato loro l’occasione di vincere e di ricevere il premio per le loro fatiche. Prendila e continua il viaggio.»
Castiga la guardò, non ben convinta, ma Maru, ferito e zoppicante, si avvicinò alla Leader, prese la medaglia con un inchino di ringraziamento e la diede alla sua partner, dicendo: *«Dai, non fare troppo la difficile.»*
Lei gli accarezzò la testa e prese il simbolo della sua vittoria. Aloé sorrise e mormorò: «Fa sempre del tuo meglio e onorerai questa Medaglia.»
«Grazie, Aloé.»
All’improvviso sentirono degli urli, ed entrò il direttore del museo, gridando: «Aloé! È successa una cosa terribile! Il team Plasma vuole rubare il teschio del drago!»
«Cosa?! Come osano! Castiga! Vieni anche tu!»
Aloé corse su per le scale, seguita da Cirillo, il direttore del museo; Athena e Maru si guardarono e poi li seguirono. Arrivarono nel museo e videro una schiera di Seguaci Plasma davanti allo scheletro del Dragonite.
«Ehi voi!» gridò Aloé: «Giù le mani!»
«Oh guarda chi c’è.» esclamò il seguace che comandava l’operazione: «Il Leader. Ci spiace ma ora il teschio del Drago è nostro! Ci serve per la liberazione dei Pokémon! Plasma! Fumogeni!!»
Gli altri seguaci buttarono delle bottigliette a terra che alzarono della nebbia. Quando questa si diradò, non c’era più nessuno, nemmeno il teschio.
«Oh no…» gemette Aloé, facendo qualche passo avanti, verso lo scheletro senza testa del Dragonite.
Castiga la guardò accigliata, pensando: “Quante storie per un osso.”, anche se notò la tristezza nei suoi occhi. Per la donna, quello scheletro doveva essere molto importante. Ripresasi dal colpo, la Leader uscì dal museo come una furia. Athena la seguì e la vide guardarsi intorno, disperata. Poco dopo arrivò un uomo, molto bizzarro: alto, aveva gli occhi verdi e i capelli castani ricci. Vestiva attillato, fluorescente, verde e rosso. Sorridendo, si rivolse ad Aloé, apparentemente ignaro della sua disperazione palese: «Ciao, Aloé! Trovato qualche fossile?»
«Perché? Ti manca l’ispirazione?» chiede lei di rimando, sforzandosi di sorridere e minimizzare la sua tristezza per non farlo preoccupare.
«No no, riesco a dipingere ancora!» rispose lui, ridacchiando; poi però chiese, rendendo vani i suoi sforzi: «Ma… Che cosa succede? Ero qui di passaggio ma la tua faccia non mi piace.»
La Leader sospirò, ma decise di fare le presentazioni, prima di tutto; così spiegò alla ragazza vicino a lei, che li fissava perplessa con Maru: «Castiga, lui è Artemisio, il Leader di Austropoli. I miei fossili ispirano sempre i suoi quadri… sai lui è un pittore.»
Si strinsero la mano, facendo conoscenza, ma poi Aloé spiegò all'amico: «Ora. Artemisio, il team Plasma ha rubato il teschio del Pokémon Drago. Non so come recuperarlo.»
«Che cosa?!» esclamò lui, cominciando a guardarsi intorno, cercando qualcosa di utile.
«Ehi, Castiga! Che succede?» chiese la voce di Cheren. Athena si girò e lo vide arrivare. Poi sopraggiunse Belle che chiese, perplessa: «Perché c’è tutta questa gente qui riunita?»
Aloé li squadrò poi domandò: «Sono amici tuoi?»
La ragazza annuì pensando “Amici anche no… ma è meglio non tirare fuori polemiche per niente.”
Aloé e i due ragazzi si presentarono, poi la donna spiegò la situazione, concludendo: «Bando alle ciance, dividiamoci! Io andrò da questa parte, Cheren e Belle resteranno al museo mentre Artemisio e Castiga andranno nel Bosco Girandola. Tu le farai da guida. Dobbiamo trovarli!»
“Ma chi si crede di essere questa per darmi ordini? Giovanni?” si chiese seccata la ragazza, per poi dire: «Io non vado da nessuna parte. Se non nella prossima città.»
Aloé, che si stava avviando verso la strada per Levantopoli, si bloccò di colpo e la guardò: «Cosa?»
«Perché dovrei perdere il mio tempo per un osso? Andiamo.»
Allibita, Aloé fece per rispondere, ma Belle la fermò: «Aspetti. Ci pensiamo noi.»
Cheren prese Castiga per un braccio e la allontanò dai due Leaders furiosi, insieme a Belle che disse: «Che ti prende?»
Lei la squadrò, liberandosi dalla presa dell'amico con un gesto secco, e ribatté: «Come sarebbe a dire “Che ti prende”? Dammi una buona ragione per la quale dovrei perdere il mio tempo per cercare un osso.»
Belle si infiammò subito, vedendo il menefreghismo dell'amica, ed esclamò: «Insomma, Castiga! Che fastidio di daranno mai cinque minuti per aiutarli. Vedi com’è disperata Aloé? Abbi un po’ di cuore!»
La ragazza la guardò accigliata, per niente convinta e irritata dai toni, così Cheren intervenne: «Così non va, Belle. Te la do io una buona ragione. Prendere a calci i Plasma potrebbe essere un buon allenamento, no? Lotte in più che non fanno mai male!»
«Su questo devo darti ragione… oh. E va bene.» si arrese, vedendo le facce degli amici, la loro muta preghiera: «Ma badate che non lo faccio per l’osso.»
«Certo certo, lo fai solo per i tuoi Pokémon, lo sappiamo.» disse Cheren, facendole l’occhiolino.
I tre ritornarono dai due Leaders, che li guardarono perplessi. Quando i tre annuirono, Aloé si rimise a dare disposizioni. Castiga cominciò a correre, seguendo Artemisio.
«Forza Castiga... Che dici, andiamo a stanare questi ladri?» chiese lui, cercando di essere amichevole.
La ragazza annuì, gelida. Quel team Plasma non le piaceva. Le ricordava troppo il suo passato e in più rubavano i Pokémon, una cosa che lei trovava indignante. Lo ordinava anche Giovanni e lei era sempre stata costretta ad ubbidire malvolentieri. Ma non le piaceva. Non era nel suo stile.
Uccidere sì, ma non rubare. Soprattutto Pokémon.
Arrivarono al Bosco Girandola, un bosco molto grande e intricato, chiamato così perché chi perdeva il sentiero rischiava di girare in tondo per un bel pezzo. Artemisio si fermò davanti ad un bivio e disse: «Ecco… qui nel Bosco ci sono due strade, una dritta che va verso l’uscita e una che si inoltra nel bosco. Io andrò per quella dritta, così se non li trovo, almeno gli bloccherò l’uscita, mentre tu andrai nel bosco.. non temere, è un sentiero semplice! Diamoci da fare per Aloé!»
La ragazza era visibilmente irritata che continuassero tutti a darle ordini, ma ingoiò la rabbia; tra sé e sé, borbottò: “Hai promesso, Athena. Sta buona.”
Non poteva rischiare che l’ira la mandasse fuori di testa, non adesso, quando girava con tutta quella gente intorno. Entrò nel bosco, insieme a Maru, e scrutò la zona. Era un bosco tranquillo, enorme, con molti alberi secolari, e il sentiero spariva nelle fronde. In quel buio sottobosco era più complicato proseguire, ma non impossibile. Mentre camminava, la ragazza venne attaccata da alcuni Seguaci Plasma, in sequenza. Lei voleva andarci leggera, dopotutto erano solo reclute, ma con il loro atteggiamento da superiori riuscirono a farla arrabbiare. Oltre che a mandare KO i Pokémon, mandò KO anche gli umani a suon di botte.
«Dovrei incontrare più spesso questi tizi…» disse a bassa voce, sogghignando: «Sono un ottimo antistress.»
Maru la guardò con un misto di divertimento e inquietudine, ridacchiando. Lei rispose con il suo sogghigno divertito. E proseguirono. Alla fine del sottobosco, nascosto in un angolo tra le fronde, trovarono il Plasma con il Teschio. Lo sconfissero e lui, arresosi, consegnò loro il prezioso componente dello scheletro. Affranto, mormorò: «Non potremmo realizzare i nostri desideri né quelli del sovrano…»
Arrivò all’improvviso uno dei Sette Saggi, Celio; vestito con una lunga tunica azzurra, l'anziano squadrò la ragazza, ma poi si rivolse ai sottoposti e disse: «Non temete. La fedeltà che avete giurato al sovrano vi fa onore.»
«Eccellenza.. sono mortificato. Ci hanno sottratto il teschio preso con tanta fatica..»
«Non importa.» rispose lui, con tono consolante: «Lasciamo stare il Teschio del Drago. Dalle nostre ricerche risulta che non c'entra con il Leggendario che stiamo cercando.»
Fissando Castiga, aggiunse, con una velata minaccia: «Dobbiamo assicurarci che nessuno possa più metterci i bastoni fra le ruote in futuro.»
Lei ricambiò lo sguardo, pronta a ribattere, ma dalle fronde apparve un trafelato Artemisio che esclamò: «Sono arrivato al momento giusto! I Pokémon coleottero erano agitati e così ho capito che stava succedendo qualcosa.»
“Appena in tempo per impedirgli di farmi perdere la pazienza.” commentò sarcastica Athena con il pensiero, fissandolo recuperare fiato. Ricomponendosi e sistemando la sciarpa, il Leader volse lo sguardo sul saggio e chiese: «Sei venuto a consolare i tuoi compagni che abbiamo sconfitto?»
Prima che Celio potesse rispondere, sopraggiunse anche Aloé, che esclamò: «Castiga! Artemisio! Non ho trovato nulla perquisendo quei mascalzoni… e questo chi è? Il loro capo?»
“Ma tutti ora arrivano?” pensò seccata Castiga, stupefatta: “Prima mi lasciano sola a combattere e poi vengono a parlare… questo si chiama tempismo.”
L'anziano fissò i due Leader con superiorità e, fiero, esclamò: «Io sono Celio uno dei Sette Saggi e faccio parte del Team Plasma.»
Passeggiando avanti e indietro, tenne gli sguardi di tutti su di lui e, come in un monologo, dichiarò: «Geechisu usa le parole, noi i fatti. Ordiniamo ai nostri uomini di portare via i Pokémon con la forza. Una posizione scomoda.»
Tornando a guardare i suoi interlocutori, che non lo interrompevano per capire dove volesse andare a parare, aggiunse: «Ma guarda chi vedo qui. Il Leader di Austropoli, Artemisio, specializzato in Pokémon Coleottero e Aloé di Zefiropoli, specializzata nel tipo Normale. Conosci il tuo avversario e non avari timone nell’affrontare cento lotte. Così dice il proverbio. Per ora reputo preferibile la ritirata. Ma badate bene: il nostro obbiettivo è quello di sottrarre i Pokémon agli allenatori, per poterli liberare. Non tollereremo altre ingerenze, neanche da parte dei Leader delle Palestre. Prima o poi mi occuperò anche di voi. Aspetterò impaziente il momento giusto.»
Detto questo, Celio si voltò dopo un ultimo sguardo di sfida, e, insieme al seguace, sparì nel nulla.
Aloé fissò i due compagni e chiese: «Che facciamo, li inseguiamo?»
«Meglio di no.» rispose Artemisio: «Non sappiamo di cosa possono essere capaci se messi alle strette… abbiamo il Teschio ed è questo l’importante. Ora io vado Aloé.»
Si rivolse a Castiga, sorridendo gioioso, ed esclamò: «Mi piace come combatti! Spero di vederti presto nella Palestra di Austropoli! Non vedo l’ora di accettare la tua sfida.»
La ragazza gli fece appena un cenno annoiato; non moriva così tanto dalla voglia di lottare con lui ma tanto doveva farlo, volente o nolente. Artemisio fece un cenno anche ad Aloé, poi andò via, verso l'uscita opposta del bosco, nella sua città e nella sua palestra.
Aloé lo fissò sparire tra le fronde e chiese: «Ce l’hai ancora tu il teschio del Drago recuperato, vero Castiga?»
«Oh si! Ecco, tieni.» rispose la ragazza, prendendo il teschio dallo zaino e consegnandolo alla donna.
La donna la ringraziò calorosamente, con un sorriso sincero, come se si fosse dimenticata che inizialmente Castiga non la voleva aiutare, e se ne andò.
“Tanto devo tornarci anche io.” pensò lei, seguendo Aloé al museo, dove si ricongiunse a Belle e Cheren.
«Castiga! Avete recuperato il Teschio?» chiese l’amica, correndole incontro.
La ragazza annuì mentre Aloé lo rimetteva al suo posto; voltandosi verso di loro, esclamò: «Vi ringrazio dell’aiuto ragazzi. Siete stati molto gentili.»
Non poté però non notare le tre differenti reazioni: Belle si mise a urlare la sua felicità, Cheren sorrise e rispose che non era stato niente di che, Castiga fece appena un cenno, quasi forzato, poi si voltò e si allontanò.
«Che strana ragazza…» commentò la donna, guardando Belle e Cheren affrettarsi per seguirla. Sembrava fosse una sorta di capo supremo; era palese fosse lei a comandare quel gruppetto, a decidere dove andare e quando. Ed era così fredda, così gelida, anche con quelli che dovevano essere suoi amici.
«Castiga, aspetta!» la chiamò Belle, mentre i due la raggiungevano di corsa.
Lei li guardò perplessa e la bionda disse, titubante, avendo ancora paura nel porle richieste: «Ci aspetti mentre affrontiamo Aloé?»
Athena si bloccò un momento, ricordandosi. Si era completamente dimenticata che anche i due amici dovevano lottare. Notò però l'aria tesa che si era fatta. Come se avessero paura della sua risposta. Con tono indifferente, giusto per non darla loro troppo vinta dato che cominciava ad apprezzare la loro compagnia, mormorò: «Sì, sì... Vi aspetto qui.»
I due ragazzi, visibilmente felici, tirando un sospiro di sollievo, andarono nella Palestra, dalla quale uscirono poco dopo con la medaglia in tasca. Castiga prese la testa del gruppo e si incamminarono.

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Capitolo 29
*** Capitolo 29 ***


Finito il racconto, i quattro andarono nella Palestra di Zefiropoli a salutare Aloé che li accolse a braccia aperte. Restarono lì alcuni giorni, per riposare un po’, poi si diressero verso il bosco Girandola. Fermatasi all'ingresso, Castiga si voltò verso gli amici e disse: «Occhio a non perdere il sentiero o gireremo in tondo per un bel pezzo.»
«Stai attenta eh, Castì!» sghignazzò Cheren.
«Perché le dici così?» chiese Raphael.
Belle ridacchiò e. dandole piccole gomitate, spiegò: «Quando siamo tornati nel bosco insieme, Castì si è persa!»
«Eeeh! Maru aveva visto un Sewaddle!» si giustificò la ragazza, mentre gli amici ridevano.
Raphael scosse la testa, incredulo, e borbottò: «Dai tu che ti perdi! Non ci credo… com’è successa?»
Castiga guardò gli amici. Doveva dirlo ormai, non poteva più tacere tutte le volte che aveva potuto fare loro del male ma non l'aveva fatto. Doveva confessare... loro già sapevano, tutto, quindi forse non sarebbe cambiato niente. O forse no. Non lo sapeva, ma doveva essere sincera. Così borbottò: «Beh... una cosa è successa, in effetti.»
Belle e Cheren si fecero attenti, pensando a ciò che aveva detto loro la professoressa Aralia, tempo prima: “Quelli… beh, i suoi comportamenti strani erano derivanti da delle crisi di rabbia. Giovanni riuscì a renderla una macchina per uccidere, istigata dalla rabbia. Quella portava all’omicidio. Quando lei spariva, era per proteggervi dalla sua lama. Consapevole di essere pericolosa in quello stato, non voleva rischiare di farvi del male.”
I due amici si guardarono, poi annuirono e tornarono a rivolgere l'attenzione all’amica. Si misero comodi e Castiga cominciò a raccontare.
 
~§~

INTERMEZZO: NEL BOSCO GIRANDOLA

Usciti da Zefiropoli, i tre amici andarono nel Bosco Girandola; fermandosi all'entrata, scrutarono tra le fronde il buio sottobosco. Cheren diede un calcio a una pigna e commentò: «Sembra un bosco molto grande…»
«Sì, ma c’è una strada che va dritt…» cominciò a dire Castiga, vedendo però poi delle fioriere che bloccavano il passaggio; così borbottò: «Come non detto… è chiusa.»
«E allora che si fa?» chiese Belle.
Castiga rifletté e rispose: «C’è il sentiero nel bosco. Non è difficile se si tiene la strada, ma se si perde quella si rischia di girare in tondo.»
I due amici annuirono, approvando la strada che era anche l'unica disponibile, e i tre si incamminarono. Mentre proseguivano, nel buio sottobosco, schivando fronde, rami, pigne e quant'altro, Belle chiese: «Ehi, Cheren! Ma di Pokémon volanti esistono solo i Pidove e le loro evoluzioni?»
«No.» rispose lui, con un tono da saccente: «In alcune regioni ci sono gli Starly, che poi si evolvono in Staravia e Staraptor. In altre ci sono i Tallow e le loro evoluzioni Swellow. E poi anche i Pidgey e le evoluzioni Pidgeotto e Pidgeot. E poi ci sono tutti quelli con il secondo tipo che non sia normale.»
Belle annuì, interessata e stupita da quante cose sapeva l'amico; sempre più curiosa di saperne di più, chiese nuovamente: «E secondo te qual è la specie più forte?»
«Beh, non sono molto un fan del tipo Volante, anche se Pidove mi piace. È scontato dire che Pidgey e le sue evoluzioni sono sicuramente la classe più debole e insulsa. Piccioni che tendono al ridicolo.»
Athena si bloccò di colpo. Belle e Cheren la superarono parlottando, senza accorgersi di quello sguardo omicida. Il cervello della ragazza era come bloccato su quella frase: «I Pidgey e le evoluzioni sono sicuramente la classe più debole e insulsa. Piccioni che tendono al ridicolo.»
Era furibonda.
Pidg, ridicolo? Pidg un… piccione?
Strinse i pugni. La doveva pagare. Era un affronto, un insulto. Estrasse il pugnale, pronta all’attacco.
Squartarlo per aver osato tanto.
Non seppe nemmeno lei cosa fu, ciò che la trattenne.
Forse solo Maru. Il Dewott si era reso conto del pericolo, anche se non aveva capito perché la ragazza si fosse infuriata tanto. Vedendola estrarre il pugnale, si era posato alla sua gamba, prendendole la mano, e l’aveva convinta a inoltrarsi nel bosco, a sinistra del sentiero.
Si allontanarono un po’, poi lei si fermò. Guardò il pugnale; e sferrò una pugnalata secca ad un albero, conficcando la lama nel legno con una furia assassina fuori dal comune. Ma non bastò. Era solo legno. E il pugnale non riusciva a essere divelto dal tronco, piantato troppo a fondo. Con quella rabbia assassina nelle mani, Athena cominciò a sferrare pugni contro il tronco, spaccando la corteccia e le falangi delle mani. Varie microfratture sanguinanti sulle nocche tinsero di rosso il tronco scorticato e il verde dell'erba sul terreno. Colpiva, colpiva, colpiva, infuriata, cercando di calmare quella furia che le bruciava dentro. Nessuno poteva permettersi tanto, neanche quella sottospecie di conoscente che era costretta a portarsi dietro in quello stupido viaggio. Nessuno poteva azzardarsi a dire solo una cosa negativa su suo fratello, sull'unica creatura a cui aveva voluto un bene sincero, forte e indissolubile, che neanche la morte aveva spezzato. Era troppo.
Ma non poteva. Voleva, forse, ma non poteva fare niente. Nuocere a lui le avrebbe fatto rompere la promessa. E Pidg odiava che non mantenesse la parola; le diceva sempre che era una delle sue doti. La parola del demone era legge. E in effetti, mai aveva infranto promesse -o meglio, minacce- e sicuramente non avrebbe cominciato ora. Soprattutto, in memoria di lui. Così si sfogò ben bene contro quell'albero, sperando fosse sufficiente.
Maru le si avvicinò preoccupato, non avendo ancora chiaro il motivo di quella rabbia, e mormorò: *«Castiga...»*
«Almeno… per un po’ non vorrò fargli del male. Anche se… se insulta di nuovo Pidg… lo ammazzo.» borbottò lei, dandogli tutte le risposte di cui aveva bisogno.
Maru la aiutò a medicarsi. Le mani, fratturate e ancora sanguinanti, erano in brutte condizioni. Prese due fazzoletti dallo zaino e gliele bendò con cura. Poi, lei si mise dei guanti a mezzo dito, come quelli dei ciclisti.
Era come se non fosse successo nulla. Però aveva lasciato il sentiero e quindi perso la strada.
“Poco male..” pensò, riprendendo il cammino: “Ho una scusa per la mia sparizione.”
«Cerchiamo l’uscita Maru.»
*«Ti seguo.»* rispose lui, poco convinto, preoccupato per lei.
La ragazza gli fece un cenno di noncuranza e si incamminò; le piacevano i boschi, ma anche solo stare all'aria aperta. Aveva vissuto per troppo tempo chiusa tra quattro mura. Girovagando senza sapere dove fosse, ma godendosi il panorama e un po' di sana solitudine, Castiga sentì un debole lamento. Perplessa andò a cercarne la fonte e vide un piccolo Pokémon mai visto prima, un aquilotto, con un ala incastrata sotto un masso.
*«Dai... esci!»* stava borbottando, sfiancato, cercando debolmente di liberarsi.
Castiga si avvicinò al Pokémon; era molto magro e sciupato, visibilmente sfinito; lui la fissò terrorizzato, cercando di liberarsi e fuggire con nuovo vigore, ma lei mormorò: «Stai fermo, piccolino, non vogliamo farti del male.. adesso ti aiuto.»
Castiga si posò al masso e spinse con tutte le sue forze, senza risultato. Ringhiando imprecazioni, borbottò: «Che cavolo ci fa un sasso del genere in mezzo ad un bosco?! Maru spaccalo con Conchilama ma stai attento a non ferirlo.»
*«Subito!»* annuì lui, eseguendo l’ordine all'istante ed estraendo una delle due conchiglie sulle gambe.
Il masso si spezzò a metà, tagliato dalla lama d’acqua, e Athena si avvicinò al piccolo Pokémon che, nel tentativo di fuggire, inciampò e cadde. Lei e Maru tentarono di calmarlo e con pazienza ebbero successo. Curata e fasciata l'ala, la ragazza gli diede qualche bacca che il Pokémon divorò con entusiasmo, ringraziandola ripetutamente mentre le saltellava intorno sulle piccole zampe robuste. Lei lo osservò, ma poi prese il Pokédex che disse: “Rufflet, il Pokémon Aquilotto. Si serve degli arti come schiaccianoci per rompere le bacche. Affronta con valore anche i nemici più forti. Sfida indiscriminatamente avversari anche più forti di lui. Si irrobustisce a forza di lottare.”
«Un piccolo combattente, eh?» commentò, rimettendo in tasca l'agenda elettronica: «La faresti una lotta contro di noi?»
*«Lotta?»* chiese lui, ruotando il capo.
«Sì, una lotta!»
*«No e poi no! Mi hai salvato la vita!»* rispose quello, battendo le zampe in terra, fermo sul suo rifiuto. Lottare contro un amico era indegno e ingiusto.
«Dai, fai finta che sia un ringraziamento.» cercò di convincerlo lei, ma lui scosse la testa con decisione e cinguettò: *«Neanche per sogno!»*
La ragazza tentò di convincerlo in tutti i modi, ma lui, strusciando la testa sulla sua gamba affettuosamente, non ne voleva sapere. Avrebbe accettato coccole, carezze ma una lotta mai. Lei lo accarezzò, riflettendo. Folgorata da un'idea, prese l'interpoké e chiamò la prof Aralia, che salutò appena rispose, felice ma alquanto perplessa: «Ciao Athena! A cosa devo questa chiamata fuori orario? Non è da te!»
«Scusi se la disturbo. Ma mi servirebbe un consiglio.»
«Certo, dimmi!»
Senza troppi giri di parole, Castiga fu lapidaria come suo solito: «Come convinco un Rufflet a lottare?»
«I Rufflet sono una delle specie più combattive che esistono. Cosa gli hai fatto?»
«Niente di quel che lei sta pensando.» ribatté stizzita l'altra, per poi raccontare cos’era successo; la studiosa scoppiò a ridere, imbarazzata, e replicò: «Ora capisco! Dai, non offenderti, era lecito! Devi sapere che i Rufflet, e la loro evoluzione Braviary, sono Pokémon altamente fedeli e riconoscenti! Finché lui non capirà che non vuoi lottare come lottano loro, e quindi con l’intento di abbattere l’avversario, ma al puro scopo di allenamento, non combatterà mai!»
La ragazza borbottò qualcosa e la prof aggiunse: «Perché non lo catturi? È un ottimo Pokémon!»
«Non lo so. Non mi sembra il caso.»
«Dai, Athena!» esclamò invece Aurea, cercando di trasmetterle un po' di entusiasmo: «Non chiuderti così! Ti ho capita, sai? Tu ti trovi bene con i Pokémon. Lo so che nessuno ti riporterà indietro Pidg… e tutti gli altri, ma Maru e Hoshi sono dei degni amici. Provaci! Guardali con occhi diversi.»
Lei non rispose, ma salutò e chiuse la chiamata.
Guardare con occhi diversi. Ma come? Loro non erano i suoi amici… però potevano diventarlo. Maru era a buon punto. Hoshi stava cominciando. Perché no? Poteva almeno provarci. Così chiese, di getto: «Senti, Rufflet. Ti piacerebbe viaggiare con noi?»
*«Davvero?»* rispose lui, guardandola con i grandi occhi neri illuminati di felicità. Volandole intorno alla testa, esclamò: *«Sì, nuovi amici!»*
«Facciamo così… se io e Maru riusciamo a batterti, ti catturo, altrimenti no. Ci stai?»
Lui si mise di fronte a lei, in posizione di attacco. Era disposto a tutto pur di farsi accettare da loro.
«Combatti seriamente, però! Vai Maru! Conchilama!»
La lotta fu molto combattuta ma alla fine, Rufflet si fece catturare, permettendo all'avversario di colpirlo e non facendo la minima resistenza contro la Pokéball.
Castiga lo fece uscire e lo guardò, contrariata: «Ti sei fatto sconfiggere!»
*«Forse...»* rispose lui sorridendo, strusciando la testa contro la sua gamba.
Lei lo prese in braccio, guardandolo con attenzione.
Occhi diversi.
Cos’era?
“Un semplice Pokémon” si disse, come prima risposta.
Occhi diversi.
Si impose di guardare meglio.
Nei grandi occhi neri del piccolo Rufflet, vide la stessa grinta, la stessa speranza e la stessa fedeltà di Pidg.
L’orgoglio del tipo Volante era impresso in quel piccolo Pokémon Aquilotto, così diverso ma allo stesso tempo così uguale a quello di Pidg.
Lei gli sorrise.
Lui ammiccò.
E diventarono amici.
*«Non te l'ho ancora detto ma io mi chiamo Wargle!» * esclamò il piccolo Pokémon, saltellandole sul braccio verso la spalla.
«Una piccola aquila da guerra. Mi sembra giusto.» sorrise lei, accarezzandogli le piume sulla testa: «Adesso vola e trova l’uscita. Sono stufa di girare a vuoto qui dentro!»
*«Subito!»* rispose annuendo e spiccando il volo, in circolo sopra di loro.
Castiga guardò Maru. Meglio di come l’aveva sempre guardato. E, dentro i suoi occhi, vide una dolcezza infinita, quella che ha l’oceano quando accarezza la spiaggia. Quel Pokémon le voleva bene, bene davvero.
Fece uscire Hoshi; in lei vide l’energia, un carattere come il suo: deciso, orgoglioso; la zebra non sopportava di essere inferiore perché femmina.
In tutti e tre, inoltre, vedeva una cosa in comune: una fedeltà assoluta nei suoi confronti. I tre Pokémon si sarebbero buttati sotto un tir, per proteggerla. Loro le avevano donato la loro amicizia. Da quel giorno, lei fece altrettanto. Gradualmente. Ma lo fece.
La ragazza prese l’Interpoké e chiamò la prof; doveva dirle un’ultima cosa, la più importante.
«Un’altra volta?! Devo preoccuparmi?» chiese la studiosa, abbastanza allarmata di tutte quelle continue chiamate senza aver ancora intravisto Belle e Cheren. Voleva sperare nel meglio ma con lei non riusciva a non pensare sempre al peggio.
«Prof… io sono un mostro. Ho tanta rabbia dentro che non riesco a sfogare. Ho… paura di far del male a Belle e Cheren. Mi sono allontanata da loro, per proteggerli, ma non posso nulla contro ciò che sono.» disse, non sapendo nemmeno lei cosa sperasse di ottenere, per poi chiudere la chiamata e spegnere il cellulare.
*«Trovata, amici!»* esclamò Wargle dall’alto all'improvviso, facendo un volo in circolo su Castiga, Hoshi e Maru, e poi prendendo una direzione.
La ragazza e i due Pokémon si misero a correre e in breve tempo arrivarono all’uscita. Ma Belle e Cheren non c’erano.
«Ma dove sono quei due? Potevano anche aspettarmi…» borbottò la ragazza, accendendo mezzo secondo l’Interpoké per chiamare Belle.
«Castiga!» rispose urlando la biondina: «Ma dove sei? Ti stiamo cercando!»
«Scusa? Siete tornati nel bosco?»
«Sì.» disse Cheren, comparendo sullo schermo: «Tu dove sei?»
La ragazza, colpita dal fatto che i due si fossero inoltrati in un bosco del genere per cercarla, rispose: «All’uscita.»
«Ah, ottimo! Arriviamo!» rispose il ragazzo sorridendo.
Poco dopo sbucarono dal folto degli alberi, mentre Castiga stava spegnendo il cellulare.
«Come hai trovato l’uscita?» chiese Cheren.
«Grazie a lui.» rispose Castiga, indicando Wargle che volava sopra di loro.
«Un Rufflet? È strano vederlo da queste part…» cominciò a dire il ragazzo, sistemandosi gli occhiali, ma venne interrotto dall’urlo belluino di Belle.
«Oddio! Che Pokémon carino! Posso abbracciarlo?!» chiese, facendo a Castiga gli occhi dolci e urlando come una pazza scalmanata.
La ragazza la guardò accigliata, sconvolta da quell'isteria improvvisa, poi rispose: «Se lui vuole, Belle. Non ti prometto nulla.»
Fischiò e Wargle le si posò sul braccio teso; si posò alla sua testa, affettuoso, e lei gli accarezzò le piume sulla testa. Era un coccolone di prima categoria.
Belle tese le braccia ed esclamò: «Bel Pokémino! Ti fai abbracciare da Belle, vero?»
Wargle si nascose dietro la testa della sua Allenatrice, spaventato da quell’umana pazza, e borbottò: *«Aiuto, cosa vuole questa da me?»*
Castiga si limitò a ridacchiare, mentre Cheren rimproverò l'amica, esclamando: «Smettila, Belle! Lo stai spaventando!»
«Ma cosa dici Cheren! È solo timido!»
I due cominciarono a discutere, mentre Castiga, Wargle, Maru e Hoshi, li fissavano perplessi, finché Belle, contrariata, non lasciò perdere.

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Capitolo 30
*** Capitolo 30 ***


Finalmente, Castiga l’aveva detto; doveva ammetterlo, si era tolta un peso dal cuore. Non sopportava di aver loro nascosto per così tanto tempo quel che le era successo, quello che aveva provato... e che ormai non sentiva più. Belle e Cheren, invece, ora capivano meglio cosa aveva voluto dire loro la professoressa Aralia. La malattia di Athena l’aveva portata a desiderare di ucciderli; eppure, accanendosi su sé stessa, lei non lo aveva mai fatto. E Cheren si sentiva colpevole. Senza volerlo, aveva offeso una creatura alla quale la ragazza era molto affezionata. Di getto, abbattuto, mormorò: «Castì, ti chiedo scusa. Non pensavo che… beh, non volevo offendere Pidg. Scusa, davvero.»
La ragazza lo guardò, colpita. Le stava chiedendo scusa. Non se lo sarebbe mai aspettata ma in effetti, riflettendoci, era una reazione più che normale. Così, leggermente rattristata, rispose: «Non… fa niente. Quel che è fatto, è fatto.»
Non aveva voglia di parlare; stava aspettando le ovvie reazioni negative, di paura, di inimicizia forse, e doveva essere pronta a sopportarle. Ma invece i due amici non sembravano per nulla impauriti; Belle la squadrò, intuendo cosa stesse pensando, sbuffò spazientita e sbottò: «Non fare quella faccia! Ormai ne abbiamo viste talmente tante che non avremmo mai paura di te!»
Cheren annuì, ancora dispiaciuto, ma convinto delle parole dell'amica. Se non aveva fatto nulla allora, in quelle condizioni, ora era praticamente impossibile che potesse far loro del male, in qualunque situazione.
Lei sorrise di risposta, quasi commossa, non aspettandosi una fiducia così incondizionata. Chiariti quindi tutti i dubbi, il gruppetto ripartì, fermandosi all’entrata del Bosco Girandola.
Castiga si rivolse agli amici, convinta e determinata, e quasi ordinò: «Rimaniamo sul sentiero! Non dobbiamo perderci!»
Le ultime parole famose.
All’uscita del bosco, Cheren esclamò: «Oddio! Belle non c’è!»
A Castiga venne voglia di prendere a testate un albero. Fece per arrabbiarsi con lui, dato che era il più vicino alla dispersa, ma Raphael intervenne ed esclamò: «Vado a cercarla!»
«No, Raph…» cercò di dire la ragazza, ma lui era già corso via: «…ael… maledizione! Si perderà pure lui!»
Castiga e Cheren rimasero soli nel bosco, entrambi rivolti verso il folto degli alberi, con l’uscita alle spalle. Si guardarono. Cheren alzò le spalle a mo' di scusa e lei ringhiò: «Dottore, ti prego, non dire niente. O do’ in escandescenza.»
Si incamminarono dalla parte opposta dell’uscita, nel bel mezzo del Bosco Girandola.
Ancora.
Nel frattempo Belle era quasi in lacrime. Non riusciva a credere di essersi persa. Disperata, fissando i rami che quasi la imprigionavano come una trappola, pensò: “La prendevo tanto in giro, ma è davvero facile perdersi in questo bosco...”
Dovunque si girasse vedeva alberi e solo alberi. All’improvviso le sembrò di vedere degli occhi rossi che la fissavano dal folto del bosco. Lei rabbrividì e fece di tutto per auto convincersi che era tutta suggestione. Era troppo pensare a dei mostri; le avrebbe scatenato il panico. Funzionò e la ragazza, calmatasi continuò a cercare l’uscita. Poco dopo, giunse in una radura, molto tranquilla e una creatura sconosciuta uscì dai cespugli: era una specie di cervo, di un verde brillante, dall’aspetto molto nobile ed elegante. Lei rimase incantata a guardarlo, ma le corna del Pokémon divennero luminescenti e affilate come spade e lui attaccò senza indugio. Belle, presa dal panico, si coprì la testa con le braccia e si rannicchiò tremante, ma da un raggio bianco proveniente dalla sua borsa uscì Emboar, pronto a difenderla. Lo scontro fu molto violento e il Pokémon verde ne uscì vincitore.
«Emboar!» esclamò la ragazza andandogli vicino.
Cercò di soccorrere il Pokémon Suincendio quando l’avversario attaccò di nuovo. Emboar non riusciva ad alzarsi e lei si fece coraggio. Si misi davanti al suo compagno, a braccia aperte, e gridò, con le lacrime agli occhi: «Se vuoi fargli ancora del male dovrai passare sul mio corpo!»
Il Pokémon verde bloccò l’attacco e la fissò negli occhi, come per studiarla. Poi girò suoi tacchi e se ne andò.
Belle respirò a fondo, impaurita, crollando sulle ginocchia; le lacrime le rigarono il viso ma all'improvviso sentì uno strido e vide Wargle volare nel cielo.
«Wargle! Siamo qui!» urlò, dopo essersi asciugata gli occhi, muovendo le braccia per farsi vedere dal Braviary: «Abbiamo bisogno di aiuto!»
Lui scese, controllando che stesse bene e le permise di accarezzarlo. Belle sorrise, colta da un ricordo, e mormorò: «Adesso te le fai fare le carezze, eh?»
Wargle ammiccò, avendola ormai conosciuta e capito da un pezzo che non era così pazza come sembrava. Le becchettò la spalla, per tranquillizzarla, e decollò nuovamente, prendendo la direzione dalla quale era giunto. Poco dopo, arrivò Castiga di corsa, seguita da Cheren. Vide Emboar a terra, ferito, Belle che gli teneva la testa sollevata, sull'orlo delle lacrime e i segni di una lotta. Si avvicinò e mormorò: «Tranquilla, Belle! Ora lo curiamo.»
Castiga prese il suo zaino, nel quale c’erano tutti i tipi di medicine possibili, e in men che non si dica Emboar riprese i sensi. Belle lo strinse, facendolo rientrare, e mormorò: «Grazie, amica mia…»
L'amica le accarezzò la testa e rispose: «Non piangere, Belle. È tutto a posto. Emboar sta bene.»
La bionda annuì e i tre uscirono dalla radura. Prima di entrare tra le fronde, però, Belle si voltò e vide quegli occhi rossi osservarla da lontano.
«Ora dobbiamo trovare Raphael…» disse seccata Castiga, riportandola tra di loro con la mente; ritornando a fissarla, chiese: «Cosa? Si è perso anche lui?»
«No.. è venuto a cercarti. Mossa furbissima.»
«Athena! Amici! Sono qui!» esclamò una voce e Raphael in persona li raggiunse correndo.
«Come hai fatto a trovarci?» chiese sorpresa la ragazza.
«Mi ha aiutato questo Caterpie giallo con la foglia in testa!» rispose lui indicando un Sewaddle che si mangiava beato una foglia sulla sua spalla.
«Quello è un Sewaddle, Raphael. Ed è anche una femmina. Ascolta…»
Castiga prese il Pokèdex, lo aprì e quello disse, con una voce metallica: “Sewaddle, il Pokémon Grancucito. Quando nasce dall'Uovo, Leavanny gli fa un vestito e glielo fa indossare. Dorme coprendosi la testa con il cappuccio. Inoltre si prepara da sé i vestiti, tagliando le foglie e usando i fili viscosi che secerne dalla bocca per cucirli.”
«Oh… perdonami Sewaddle!» disse lui imbarazzato, rivolto alla Pokémon.
«Salutala che andiamo.»
Lui eseguì e il gruppetto si incamminò, di nuovo, verso l'uscita. Con l’aiuto di Wargle uscirono dal Bosco e arrivarono all’entrata del Ponte Freccialuce.
«Vedrai che bello, Raphael! Adoro questo ponte!» esclamò Castiga, con gli occhi che le brillavano.
Raphael restò incantato sulla piattaforma panoramica. Castiga, dietro di lui, gli diede divertita una gomitata e rimasero un momento a guardare. I tre amici lo avevano già visto un paio di volte, ma erano comunque stupefatti. Immaginatevi Raphael che lo vedeva per la prima volta. Di fronte a loro, un ponte sospeso, sorretto da due coppie di pilastri in muratura e corde di acciaio, posti alle due estremità del ponte stesso. Entrarono nel varco lì in parte, attraversandolo, e arrivarono all’imboccatura. Il ponte Freccialuce era enorme: una corsia ciclopedonale sopra, e due per gli automezzi sotto, con anche il passaggio per la Nave Reale di Isshu. Cominciarono a salire la lunga scalinata che portava alla corsia pedonale. Nei primi metri, il ponte faceva una rotazione di un giro a spirale, facendo perdere l’orientamento a chi ci camminava sopra. Dopo la spirale, cominciava una lunga retta, dalla quale, dalla metà in poi, si vedevano di sfondo gli enormi grattacieli di Austropoli, la città più grande della regione. Castiga mise il piede sul primo scalino. Poi un altro. E un altro ancora. E, seguita dagli amici, cominciò la traversata. Raphael era senza parole. Era il ponte più incredibile che avesse mai visto. Con i grattacieli di sfondo, davanti a loro si erse in tutta la sua grandezza Austropoli. Una di quelle città enormi, una metropoli nella quale puoi perderti se non sei pratico. Raphael guardò Castiga davanti a lui. Aveva la sua guida. E lui si fidava di lei ciecamente.
«Sewaddle!» esclamò una vocina proveniente dallo zaino del ragazzo.
Lui voltò la testa e vide sbigottito la piccola Sewaddle del Bosco Girandola con la testa fuori dallo zaino e un luccichio negli occhi mentre osservava il Ponte e Austropoli.
«Ma tu cosa...?» esclamò sbigottito.
Athena lo notò a sua volta e commentò: «Ho la netta impressione che tu le piaccia.»
«Davvero? Allora vuoi venire con me, piccolina?» gli chiese lui, emozionato.
Sewaddle annuì e si arrampicò sulla sua testa, guardandosi intorno.
«Ma che carina che sei!» esclamò Raphael, perso, accarezzando la sua Sewaddle e non prestando più attenzione alla ragazza. Athena sbottò: «Potrei ingelosirmi…» ma lui non la sentì nemmeno.
Ora aveva un Pokémon tutto suo che non lo disprezzava. Ed era sicuro che con Sewaddle, sarebbe riuscito a fare amicizia anche con Zubat. Il ragazzo rincorse gli amici che si erano incamminati e Athena, seccata, non gli rivolse la parola per tutta la strada fino ad Austropoli. Ma lui, anche se non ne capiva il motivo, non ci fece caso.
Il gruppetto fece una sosta in città. Era sera e dovevano riposare. Raphael prese la chiave della sua camera e si chiuse dentro, a giocare con Sewaddle. Dormirono insieme e il giorno dopo divisero la colazione. Il ragazzo intravide un’occhiata assassina di Athena ma non ci fece molto caso. Era perso della sua piccola nuova Pokémon.
Verso tarda mattinata, partirono per uscire dalla città. Athena voleva partire presto ma il suo ragazzo si era attardato a cercare un fiocchetto rosa per Sewaddle e così il tempo passò prima che potessero partire.
“L’avessimo mai fatto!” pensò Raphael, nel panico. Mezzogiorno era l'ora di punta: gente che girava, gente che correva, tutti che urlavano. Un inferno in terra. E il ragazzo non ne era abituato. Gli mancò l’aria e svenne in mezzo alla piazza.
Si risvegliò rintontito, massaggiandosi la testa. Non sentiva più il fracasso, ma solo una splendida pace e il rumore dell’acqua. Cercò di alzarsi ma una mano decisa lo fermò e lo fece sdraiare di nuovo.
«Sta’ fermo. Potresti stare ancora male.» disse una voce, imperiosa, secca, decisa.
Lui la riconobbe subito e le baciò dolcemente la mano; con voce flebile, chiese: «Athena… cosa… è successo?»
Lei gli accarezzò la guancia e lui aprì gli occhi. Era sdraiato su un lettino, in una spiaggia e lei era lì, sola e in ginocchio accanto a lui.
«Sei svenuto.» rispose lei: «Può succedere… tra il caldo e tutta quella frenesia, c’era d’aspettarselo.»
Lei gli fece un’altra carezza e aggiunse, in tono più dolce: «Ora stai tranquillo, alzati quando te la senti e non avere fretta.»
La ragazza lo fissava dritto negli occhi, come se avesse paura di perderlo. Lui le sorrise e rispose: «Ma dobbiamo ripartire…»
«Non è così urgente. Non sai che paura mi hai fatto prendere, maledizione a te.»
«Ma avevi detto che te lo aspettavi…»
«Non con dietro una testata alla fontana. Pensavo ti fossi spaccato la testa.»
Nell’aria c’era ancora il profumo di un Aromaterapia e lui notò solo ora che lei aveva gli occhi lucidi. Raphael si commosse; quasi stupito, pensò: “Ci tiene davvero a me. Come io tengo a lei.”
Per sdrammatizzare e cambiare discorso, chiese: «Dove sono gli altri?»
«Sono in città a fare shopping. Belle voleva assolutamente andare al centro commerciale e il Dottore l’ha accompagnata.»
«Povero lui…» commentò lui ridacchiando, poi aggiunse: «Scusa per questi giorni. Io…»
«Non fa niente.» rispose lei, sorridendo.
«Fa qualcosa invece. Non dovevo trascurarti così. Perdonami…»
Lei fece una faccia offesa e lui abbassò lo sguardo. Athena gli prese il viso con le mani e lo guardò negli occhi, sorridendo dolcemente: «Non fare lo scemo, come tuo solito. Se avessi visto me e Pidg non ti faresti tutti questi problemi. Ti capisco sai?»
Lui le ricambiò lo sguardo con dolcezza e provò a mettersi seduto. La testa gli girò paurosamente e si sentì svenire, ma lei lo sorresse e lo riadagiò sul lettino.
Gli sorrise e mormorò: «Resta giù ancora un po’.»
«Ti amo.»
Lei si limitò a sorridere e chiamò Shikijika. L’aria si riempì di un dolce profumo primaverile e Raphael si riaddormentò, con il suo viso sorridente stampato nella testa.
Raphael dormiva ma Athena era preoccupata. La ferita alla testa era profonda, l’ospedale pieno e lei non sapeva cosa fare. Sembrava che il cervello non avesse subito danni ma non ne era certa. Se Raphael fosse morto… Ma sembrava sereno. Così scacciò i brutti pensieri e si concentrò sulle migliorie dell’Aromaterapia.
Il ragazzo si svegliò poco dopo, ma con la febbre. Era debole e stanco. Così Castiga e Zekrom lo riportarono al centro Pokémon. Nel viaggio perse conoscenza dalla stanchezza. La ragazza se lo caricò sulla schiena e lo portò in camera. Gli bagnò la fronte con una spugna e fece usare ancora l’Aromaterapia a Shikijika. Gli restò accanto tutti e tre i giorni di malattia. Al terzo giorno, lui cominciò a migliorare. La ragazza era distrutta, non dormiva da giorni, ma non l’avrebbe abbandonato. Mai.
Lui finalmente si svegliò, mentre lei stava prendendo aria alla finestra.
«A…thena…» disse in un sussurro
«Ehi. Buongiorno.» gli rispose lei avvicinandosi: «Come ti senti?»
«Uno schifo…»
«Ti riprenderai presto. Il peggio è passato.»
«Cosa… ho?»
«Nulla di grave. Non ho visto l'infezione e ti è arrivata una gran febbre. Purtroppo non me ne sono accorta… non sono un dottore.» mormorò abbattuta la ragazza
Lui le prese debolmente la mano: «Hai fatto tanto…» e le sorrise a fatica
«Non ti sforzare. Sei ancora debole e ti devi riposare.» gli sussurrò lei dolcemente. Gli accarezzò i capelli e si inginocchiò in parte al letto, poi mormorò: «Andrà tutto bene, ok?»
Lui annuì, poi la guardò e disse: «Mi mancano le tue storie… cosa è successo ad Austropoli?»
Lei gli sorrise e rispose: «Ora te lo racconto.»
 
~§~

INTERMEZZO: AUSTROPOLI

Castiga, Maru, Hoshi, Wargle, Belle, Pignite, Cheren e Servine, entrarono nel varco che portava ad Austropoli.
Belle disse, trovando a stento la voce: «Non riuscivo più a parlare. Questo ponte è…»
«… Magnifico.» concluse la frase Castiga.
Cheren annuì, ma non ebbero il tempo di riprendersi che entrarono nella città. E rimasero immobili, quasi spaventati da quegli enormi grattacieli.
«Ma quanto sono alti?!» borbottò sconvolta Castiga.
Wargle, dopo un primo spavento iniziale, guardò la sua allenatrice e spiccò il volo, con tutte le intenzioni di arrivare in cima a un grattacielo e dirle l'effettiva altezza degli edifici.
«Fermo, Wargle!» gridò Castiga, ma troppo tardi.
Una corrente d’aria, di quelle che si formano in mezzo ai palazzi, investì il piccolo aquilotto che venne scaraventato contro l'edificio vicino; tramortito, precipitò al suolo con un gemito. Castiga spiccò una corsa fulminea e riuscì ad afferrarlo prima che si schiantasse sul marciapiede. Il piccolo Pokémon aveva preso una bella botta ed era ancora un cucciolo; così lei, rapidamente, lo portò al centro Pokémon, dove venne curato e si ristabilì.
«Wargle... se ti dico fermo, tu ti fermi, chiaro?» gli sbottò, quando il Pokémon fu in piena forma.
Lui abbassò la testa affranto, sentendosi in colpa, ma lei lo accarezzò e mormorò: «Ehi, non sono arrabbiata.»
Lui la guardò e lei sorrise, aggiungendo: «Mi hai solo fatto morire di infarto.»
Lui ammiccò, imbarazzato, rispondendo: *«Scusa!»*
Castiga lo fece salire sulla spalla, poi disse agli amici, che l'avevano seguita in silenzio, anche loro preoccupati per Wargle: «Ragazzi, io vado alla Palestra.»
Belle sorrise, immaginando quanto fosse ansiosa di combattere, e rispose: «Va bene, Castiga! Noi facciamo un giro della città!»
Si salutarono e la ragazza andò alla Palestra, convincendo i tre Pokémon a rientrare. Cercando il posto, si guardava intorno, intimorita. Quei palazzi erano i più grandi che avesse mai visto. Quelli di Fiordoropoli o di Zafferanopoli, le due più grandi città di Johto e Kanto, diventavano minuscoli a confronto.
La ragazza ci mise parecchio tempo per trovare l'edificio giusto ma alla fine arrivò alla Palestra; sulla porta, però, incontrò Artemisio che la fissò per un momento, con sguardo perso, prima di riconoscerla ed esclamare: «Ciao, Castiga! Oh… già, la lotta. Ascolta, ora non ho tempo! Mi hanno riferito che quelli del Team Plasma sono nella mia città, al molo principale! Non posso tollerarlo!»
Con un cenno di scuse, l’uomo corse via. Castiga lo fissò, irritata, e pensò, cominciando a correre a sua volta: “Ma perché quando arrivo in una città, arrivano anche quelli? Bisogna neutralizzarli…”
Nella città però c'erano cinque moli. E la ragazza, non avendola mai visitata, trovò quello giusto per ultimo. Arrivò ansimando al molo principale e vide Artemisio, Belle, Cheren e una ragazza con i capelli viola mai vista: aveva circa la loro età, molto sportiva, con dei lunghi capelli viola agghindati in un’acconciatura stravagante.
Artemisio la vide e le fece un cenno, dicendo: «Di qua, Castiga! Le hanno rubato il Pokémon.»
«Castì!» urlò Belle in lacrime vedendola arrivare, usando l’abbreviativo che rimarrà nella storia: «Hanno rubato il mio Munna!»
La bionda corse verso quella che vedeva come la sua migliore amica e la abbracciò. Athena ebbe come prima reazione quella di trapassarla da parte a parte con il pugnale per aver osato tanto, ma non poteva perché Belle le stava stringendo forte la vita, bloccandole contro il corpo la sua stessa arma. Sempre più irritata da quel gesto, considerato da sempre un affronto, le mise le mani ai lati della testa, con tutte le intenzioni di spezzarle di netto il collo e liberarsi di lei. Mai e poi mai si sarebbe fatta toccare così. Cominciò a stringere, ma la bionda fraintese il gesto: credendo fosse una stretta affettuosa, le posò la testa sulla spalla, in lacrime. Castiga sentì qualcosa muoversi, in fondo al cuore. Quel qualcosa le impediva di attaccare; la teneva come bloccata e le permise solo di scostare l’amica, senza però farle nulla di male. La ragazza sconosciuta ruppe il silenzio e mormorò, abbattuta: «Ho sentito gridare e li ho inseguiti, ma la città è molto grande e li ho persi di vista.»
«Hai fatto del tuo meglio, Iris.» disse Artemisio, dandole una pacca sulla spalla, ma lei, inviperita, si riprese subito da quel momentaneo sconforto e gridò: «Non è giusto! Non si fa così! Non si rapiscono i Pokémon degli altri! L’amicizia fra umani e Pokémon è una cosa meravigliosa! Un continuo supportarsi e completarsi a vicenda!»
«Iris…» mormorò Belle, colpita da tutta quella solidarietà anche da chi non conosceva.
«Hai ragione! Non temere, recupereremo il tuo Pokémon! Vero Castiga?» disse Artemisio, rivolgendosi a Castiga, che annuì, rispondendo: «Puoi contarci. Mi stanno anche facendo ritardare l’incontro in Palestra quei pagliacci.»
Risero tutti al suo commento particolarmente seccato ma poi si misero a pensare dove si potessero essere nascosti i membri del Team Plasma; stavano organizzando le squadre di ricerca, nel tentativo di setacciare nel più breve tempo possibile quella immensa città, quando videro arrivare un Seguace Plasma. L'uomo si bloccò, vedendoli tutti lì, ma soprattutto, vedendo Artemisio, poi arretrò e si diede alla fuga. Castiga cominciò a correre, pronta a braccarlo per tutta la città, seguita a ruota da Artemisio che raccomandò Belle a Iris e Cheren. I due annuirono e così, Castiga e il Leader si concentrarono sull'inseguimento: la ragazza prese una ball nella corsa e gridò: «Vai, Wargle! Inseguilo!»
Il Rufflett uscì in un raggio bianco ed esclamò: *«Subito!»*
Volando più veloce che poteva, seguì l'uomo fino a una casa, nel quartiere centrale della città, di fronte alla Palestra. Castiga e Artemisio arrivarono poco dopo, ansimanti, e videro che ora i Seguaci erano tre. Estrassero entrambi le ball, pronti alla lotta, ma uno cercò di tergiversare, dicendo: «Cosa ci fate qui? Non c'è nessuno, né i nostri compagni, né i Sette Saggi! Ci siamo solo noi!»
«Certo, come no. Tu ci credi?» chiese con una punta di scherno Artemisio a Castiga. Lei alzò gli occhi al cielo con uno sguardo eloquente.
«Non ci credete?» esclamò l'altro Seguace, sudando freddo ma fingendo sicurezza: «Vi convinceremo con una lotta! Io mi occupo dell’Allenatore che sembra più debole! Voi unitevi per sconfiggere l’altro!»
«A chi hai dato della debole?» ringhiò Castiga di risposta, mandando all'attacco Wargle. Il seguace cercò di difendersi con un Trubbish e un Purrloin ma non poté nulla contro la furia dei due, che insieme, precisi e coordinati, lo mandarono al tappeto. Wargle si posò sulla sua spalla e mormorò: *«Credo che lo abbiamo sistemato abbastanza.»*
«Per i tuoi standard, amico mio.» si limitò a rispondere solo lei, con una voglia infinita di finirlo davvero.
Videro i seguaci fuggire nell'edificio; Castiga si avvicinò ad Artemisio e chiese: «Cosa facciamo?»
«È probabile che abbiano con sé il Pokémon rapito.» rispose lui, troppo serio rispetto al solito; vedendo arrivare Belle, Cheren e Iris, sbottò: «Io entro. Vado in avanscoperta. Tu proteggili.» 
Artemisio entrò nell'edificio, pronto a farsi valere come Leader e responsabile della città, mentre Castiga veniva raggiunta dai ragazzi. Agitata, Iris esclamò: «Andiamo! Questa volta lotto anche io! Vieni, Belle, andiamo!»
Belle la fermò prendendola per un braccio e singhiozzò: «A-aspetta, Iris. Castì, vieni anche tu, vero?»
Castiga annuì, non capendo perché l'avesse chiesto, e le seguì nell’edificio insieme a Cheren; si trovarono davanti una schiera di Plasma, con due uomini e Geechisu al centro, che, beffardo, disse: «Oh, guarda chi si vede… il Leader Artemisio»
«Il team Plasma è fatto solo da gente che se vuole una cosa, la ruba vero?» chiese irato il Leader di risposta, fissandolo talmente truce da non sembrare più lui.
Uno dei due Saggi lì presenti, Moreno, intervenne, rivolgendosi solo a Geechisu e ignorando Artemisio, come se non fosse nemmeno presente, rendendo nulla la sua autorità di Leader: «Ho pensato che sarebbe stato interessante approntare un nascondiglio proprio di fronte alla Palestra. Ma è stato scoperto prima del previsto.»
«Non importa… abbiamo già il nostro meraviglioso covo.» commentò Geechisu, sminuendo il problema con un cenno annoiato della mano, per poi voltarsi verso Castiga e compagnia, tornando a dare loro un minimo di attenzione, e chiese: «Ad ogni modo, conoscete la leggenda della creazione di Isshu?»
Loro lo guardarono perplessi dal cambio di argomento. Non erano lì per fare conversazione e Castiga fece per attaccare e mettere in chiaro le ostilità, ma Artemisio la bloccò: voleva capire meglio del loro piano invece che combattere a inerzia senza motivo. Iris colse il piano perché approfittò del silenzio per rispondere: «Sì, parla di un Pokémon Drago di colore bianco!»
Geechisu sorrise, notandola preparata, e proseguì: «Proprio così. A quel tempo c’era il problema di come pacificare un mondo dilaniato da lotte fra popoli diversi. Fu allora che l’eroe della leggenda iniziò il suo viaggio alla ricerca della Verità che gli consentisse di mettere fine a queste incredibili sofferenze. E fu nel corso del suo vagare che gli apparve il grande Drago Bianco. Questi volle fargli dono della propria conoscenza, affinché la condividesse con il genere umano e le guerre finissero. Il Pokémon drago divenne il difensore delle nuove idee e, insieme all’eroe, riuscì a unire i cuori delle persone. Così nacque Isshu.»
«Bella storia, ma a noi cosa interessa?» buttò lì con disprezzo Castiga, non troppo dell'idea di restare ferma ad ascoltare i suoi sproloqui senza fare niente.
L'uomo si voltò verso di lei, con uno sguardo sprezzante, e rispose: «Questo accadrà di nuovo se riporteremo a Isshu il Pokémon assieme all’eroe e guideremo i sentimenti della gente! E così, senza difficoltà, costruiremo il mondo che io… anzi, che il team Plasma desidera! I cuori degli uomini saranno uniti, i Pokémon liberi e il mondo un posto migliore!»
Artemisio, dopo aver ascoltato quell'assurdo sproloquiare, prese la parola e disse: «Qui ad Austropoli vivono tante persone. Ognuno ha il suo modo di pensare, che è diverso e unico. Però tutti hanno una cosa in comune: vogliono bene ai Pokémon. Anche tra estranei è facile conversare proprio grazie a loro. Le persone si sfidano a lottare o fanno scambi. Se non sbaglio è stato durante il tuo discorso a Quattroventi… in quell’occasione mi hai fatto pensare al mio modo di trattare i Pokémon, cosa ti cui ti sono grato. E ho fatto un giuramento! D’ora in poi prenderò la mia amicizia con i Pokémon ancora più seriamente! Quello che state facendo voi, non fa altro che rafforzare il legame tra i Pokémon e le persone, non lo capisci?»
Geechisu rise, divertito dalla sua ingenuità di povero pittore, e rispose: «A vederti, non si direbbe, ma in realtà sei perspicace. Mi piacciono molto le persone intelligenti. In nome del sovrano, ne ho raggruppate ben sei da vari luoghi e insieme a loro ho costruito i Sette Saggi.»
«Quindi perché continui se pensi che quello che ho detto sia vero?» incalzò il Leader.
Beffardo, il capo del Team Plasma commentò: «I miei piani non sono affare tuo, mio caro. Ma come segno di rispetto per le tue considerazioni, per ora mi ritiro. E tu, restituisci il Pokémon alla ragazzina!»
Il Seguace scattò sull'attenti e lasciò andare Munna, che si guardò intorno, poi vide Belle e le saltò in braccio, felice di rivederla. Belle scoppiò in lacrime e la strinse forte, esclamando: «Munna! Per fortuna stai bene!»
Geechisu sorrise ma non era sincero; doveva spezzare quel legame tra uomini e Pokémon ma senza che il sovrano se ne accorgesse. Il piano doveva proseguire nella traccia prestabilita fino al gran finale. Così, nascosto da quel finto sorriso, commentò: «Questa è la magnifica amicizia che lega Pokémon ed esseri umani! Tuttavia, per liberare i Pokémon dal controllo di uomini stolti, farò rivivere la leggenda di Isshu e conquisterò i sentimenti della gente! Arrivederci…»
Geechisu fece l'occhiolino a Castiga, notandola nera di rabbia ma incapace di agire, e sparì, seguito dai suoi seguaci. Artemisio restò immobile, fissando il nulla, e borbottò: «Andati… ancora.»
«Perché gli avete fatti scappare?! Sono dei cattivi!» esclamò Iris, ma Artemisio le rispose: «Sì, ma cosa potevamo fare? L’importante è che il Pokémon rapito stia bene.»
Belle concordò con lui e aggiunse: «Grazie, Iris. Non è un problema, l'importante è aver trovato Munna senza che nessuno si sia fatto male!»
«Questo è vero... contenta tu...» commentò solo lei, un po' giù di corda che nessuno concordasse con lei nel voler prendere i Plasma e far pagare loro tutte le scelleratezze commesse. Castiga, in realtà, era del suo parere ma ormai non valeva più la pena di accanirsi contro di loro. Tanto valeva combattere per la Medaglia.
Artemisio fissò i giovani allenatori, sorridendo, e chiese: «Ora che programmi avete?»
«Io vorrei visitare la città!» disse Belle e Cheren assentì.
«Nessun problema!» esclamò Iris, ritrovando la sua vitalità:  «Continuerò a farti da guardia del corpo!»
Trascinò via sia Belle che Cheren, con entusiasmo, per portarli a fare una visita della città. Il Leader, invece, si voltò verso Castiga, con un sorrisetto e disse: «Non mi sono dimenticato di te. Allora, che ne dici... lottiamo, sfidante?»
Athena sorrise di risposta, pronta alla lotta, e rispose: «Vado un attimo al centro Pokémon e sono da te.»
Poco dopo, entrò nella Palestra e si guardò intorno. Aveva capito che le Palestre di quella regione erano strane ma…
«Muri di… miele?!» borbottò avvicinandosi a uno di quegli strani muri ambrati.
Il giudice le spiegò che se voleva raggiungere Artemisio, doveva attraversare i muri di miele, alcuni dei quali erano bloccati da delle grate. Queste erano attivabili mediante pulsanti nascosti.
«Ok. Mi servirà un bella doccia dopo l’incontro.» sbottò sconsolata lei, per poi cominciare la ricerca dei bottoni che l’avrebbero condotta alla Medaglia Scarabeo.
Giunse da Artemisio in breve tempo e lo scontrò cominciò. Fu molto duro: i Pokémon coleottero del Leader sembravano danzare durante la lotta, ma sapevano colpire con efficacia. Il primo round si concluse con la vittoria della ragazza: Maru, abile spadaccino d'acqua, stese il Dwebble avversario. Artemisio mandò quindi in campo un Whirlipede che ribaltò la situazione. Preciso e letale, il Pokémon veleno intossicò il povero Dewott per poi finirlo con un secco Rulloduro. Castiga allora mandò Hoshi, ma la situazione non cambiò: le tossine dell'avversario riuscirono a prosciugare le energie della Blitzle senza scampo. Tutto era nelle mani di un solo Pokémon.
«Vai, Wargle!» esclamò Castiga, lanciando la Pokéball.
Il Rufflett uscì dalla sfera con uno strido e si posò davanti a lei. Avevano entrambi uno sguardo deciso e molto simile. La lotta contro il Seguace Plasma aveva fatto capire loro come comunicare.
«Vai Whirlipede! Velencoda!» esclamò Artemisio, usando la rodata tecnica che gli aveva permesso di conquistare due round.
«Vola, Wargle.»
L'aquilotto prese il volo, schivando l'avversario, e si mise in zona sicura. Artemisio le tentò tutte ma non riusciva a raggiungerlo. Castiga approfittò di un momento di pausa per attaccare e Whirlipede, stremato dai due precedenti avversari, crollò. Cominciò lo scontro finale: «Molto bene, mi piace come lotti. Ma ora tocca alla mia campionessa. Vai, Leavanny!»
Il Pokémon mantide religiosa uscì dalla sfera, si inchinò e si mise in posizione di attacco. Wargle, a terra di fronte a lei, si mise in guardia.
«Leavanny usa Giornodisole!» esclamò Artemisio.
La Pokémon alzò le zampe al cielo e una sfera di luce solare, molto intensa, comparve sul soffitto. Castiga non si perse a pensare e ordinò: «Ok, War. Vai, usa Attacco d'Ala!»
Il Rufflet ubbidì ma Leavanny schivò con una rapidità impressionante, lasciando gli avversari sconvolti, e attaccò con Fendifoglia, veloce come un proiettile, impedendo a Wargle ogni tipo di difesa. L'aquilotto cadde violentemente a terra e sembrò spacciato, ma Castiga gridò: «Ti prego, Wargle, spostati!»
Con uno sforzo disumano, lui saltò e prese il volo. Il Fendifoglia si schiantò nel terreno, provocando un cratere.
«Dannazione, quel coso è fortissimo... cosa posso fare?» mormorò lei, riflettendo intensamente, pensando a qualcosa di utile che sconfiggesse l'abilità speciale del Pokémon: grazie a Clorofilla, sotto il sole, Leavanny era il doppio più veloce.
*«Attaccherò più rapidamente che posso.»* mormorò Wargle, ansimante, tentando di darle una piccola certezza e di farle capire che erano in due in quella situazione.
Lei annuì e rispose: «Ti dico io quando. E tu vola, piccolo. Vola sulle ali del vento!»
Lui le sorrise, convinto, e attese l'ordine. Muovendo le ali, sentiva il vento, la direzione delle correnti, tutto. Doveva essere pronto. Leavanny attaccò, spiccando un balzo. Castiga rimase immobile, fissandola. Wargle pure. Artemisio sorrise, ormai convinto della vittoria. Ma all'improvviso, Castiga urlò: «Ora!»
Wargle si buttò in picchiata, cavalcò un vento favorevole e accelerò. Di colpo, svanì nell'aria. Leavanny bloccò l'attacco, disorientata, e l'aquilotto le comparve a lato, brillante di una luce bianca, e la colpì con forza. Castiga sorrise vedendo l'avversaria schiantarsi a terra. Teneva d'occhio Wargle, dicendogli all'ultimo quando schivare, e un pensiero la colse all'improvviso.
La grossa sagoma di un Charizard arancione di sovrappose a quella del piccolo Pokémon... il drago cieco la fissò, sorridendo, con quel muso da cucciolo... deglutendo, con una stretta al cuore, la ragazza mormorò: «Fiammata...»
*«Castiga!»*
Lo strido la scosse dai suoi pensieri. Wargle si schiantò contro il muro dietro di lei e Castiga si riscosse. Il piccolo aquilotto si alzò dolorante e le lanciò un'occhiata di fuoco, sbottando: *«Ma cosa ti è preso?! Non mi hai più detto niente!»*
Lei non riuscì a rispondere alla sua domanda, perché esclamò: «Wargle salta!»
Lui ubbidì d'istinto, alzandosi in volo, e sotto di lui passò velocissima Leavanny che si schiantò contro il muro avendo mancato il bersaglio. Il Rufflet sospirò di sollievo e Castiga mormorò: «Dopo ti spiego. Ora finiamo questa lotta?»
*«Ci puoi contare!» * rispose lui, sorridendole.
Lei ricambiò con un sorriso triste e una lacrima le solcò la guancia, quando sussurrò: «A... mille, cucciolino.»
Leavanny le provò tutte ma non riuscì più a colpirlo. Wargle riusciva a schivare sempre, con l'aiuto di Castiga che vedeva oltre i suoi occhi. E la nuova mossa imparata, Aeroassalto, permise loro di vincere.
Artemisio consegnò loro la Medaglia Scarabeo e, sorridendo, disse, colpito: «Ti batti davvero molto bene! Complimenti!»
«Grazie…» rispose lei, accarezzando la testa al Rufflet che le si era posato sulla spalla: «Ottimo lavoro, amico.»
Prima di andare all'ospedale a far curare tutti, Castiga andò al molo. Guardando il mare, con Wargle sulla spalla, mormorò: «Sai, prima mi è venuto in mente un grande amico che ho perso.»
Il Rufflet la guardò e lei aggiunse: «Fiammata era un Charizard. Il mio Charizard. Ed era cieco. Non vedeva quasi niente... allora, quando lottavamo, ero io a guardare i movimenti dell'avversario. Ero io a dirgli quando schivare. E... prima facevamo la stessa cosa. Mi è parso di rivederlo.»
*«Per quello piangevi?» * chiese il piccolo aquilotto, triste per lei.
«Sì. Mi sembrava quasi di vederlo e ho avuto una piccola crisi. Poi è passata. Sei stato molto bravo.»
Wargle sorrise e mormorò: *«Ti farò passare quella tristezza, Castiga. Te lo prometto!» *
«Ti voglio bene, Wargle.»
Lui le strusciò le piume contro la testa di risposta.

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Capitolo 31
*** Capitolo 31 ***


Finito il racconto, Raphael si era addormentato e Castiga lo guardò. Avrebbe detto il resto con la presenza degli altri. Era giusto che sapessero di quella conversazione. Così, mettendosi nel letto vicino, si appisolò a sua volta.
La mattina dopo, Castiga si svegliò come sempre all’alba e provò la febbre a Raphael, cercando di non svegliarlo. Era scesa e lui respirava bene, sereno. Sembrava sulla via della guarigione, finalmente. Scese a far colazione e incontrò Belle e Cheren.
«Castì!» esclamò Belle, correndole incontro preoccupata, notandole le marcate occhiaie e l'espressione stravolta: «Hai una faccia spaventosa!!»
Lei scrollò le spalle e rispose: «Di me non m’importa…»
«Raphael come sta?» le chiese cauto Cheren, sperando che la sua non fosse eccessiva curiosità.
«Bene, credo.» sorrise lei, tranquillizzando gli animi: «Oggi sembra essere migliorato. Ma credo… sia meglio farlo vedere da un dottore.»
Belle sospirò, essendosi purtroppo già informata per prevenire un eventuale trasferimento e borbottò: «Sono tutti occupati… Austropoli è grande e piena di gente, e in questo periodo gira il virus dell’influenza. Gli ospedali sono stracolmi.»
Athena abbassò lo sguardo avvilita. Aveva in mente un piano, ma sapeva che nessuno l'avrebbe approvato. Avrebbe avuto aiuti sicuri ma implicava sicure minacce, violenza... ed, eventualmente, morti. Decise di fare un tentativo, cercando di essere paziente e amichevole; era preferibile portare un aiuto a Raphael senza l'eventualità di poliziotti alle calcagna. Andò all’ospedale e quasi la buttarono fuori a calci. Già spazientita di partenza, esclamò: «Insomma, infermiera! Il mio amico sta male! Possibile che non ci sia un solo medico libero?»
Quella, già esasperata dal lavoro, cercò di liberarsi di lei il più in fretta possibile: «Mi dispiace signorina ma siamo molto occupati… torni un’altra volta.»
Castiga cercò di insistere, quasi supplice, in un tentativo estremo, abbassando la testa come mai aveva fatto da quando era nata. Tranne che con Giovanni. Ma lui era un caso a parte. Aveva sempre ottenuto quello che voleva, quasi senza fatica, con la sola minaccia della parola. E ora non poteva. Era snervante, ma non doveva lasciarsi trascinare dal suo caratteraccio e dal suo orgoglio. Doveva restare brava, buona e... patetica.
L'infermiera, spazientita quanto lei, chiuse lì la questione e sbottò: «Ora se ne vada signorina, per cortesia.»
Castiga sbuffando, fece per andarsene, o l'avrebbe ammazzata, quando una voce urlò: «Aspetti!»
Lei si girò, ancora visibilmente seccata, e vide correre nella sua direzione un giovane dottore, probabilmente laureato da poco, vista l'età. Giunto al bancone, ringhiò all'infermiera: «Le sta chiedendo aiuto! Abbia un po’ di comprensione!»
Si avvicinò alla ragazza, guardandola con uno strano sguardo. Castiga lo fissò di rimando, perplessa, ma lui le sorrise e disse: «Sarei in pausa pranzo ma sarò felice di aiutare il suo amico, signorina! Il mio nome è Jack Wilson.»
Lei abbozzò un sorriso e gli fece strada. Il medico rimase nella stanza di Raphael a lungo, facendogli ogni tipo di analisi, mentre la ragazza, fuori dalla porta, camminava avanti e indietro, in attesa e in ansia. Quando il dottor Wilson uscì, sorrise e spiegò: «Ha preso una brutta infezione, causata dalla ferita sulla testa, ma le sue cure sono state efficaci. Ora però mi segua per favore. Vorrei fare dei controlli anche a lei, visto che è stata a stretto contatto con il malato.»
Castiga, che stava per entrare nella stanza, si bloccò e borbottò: «Ma… sto benissimo, non serve. Davvero.»
Lui sembrò titubare, ma deglutì e sbottò: «Non faccia storie, signorina, e mi segua.»
Lei si arrese con uno sbuffo seccato e, lasciando Shikijika di guardia da Raphael, lo seguì al pronto soccorso, continuando a borbottare: «Le ripeto che sto bene. Non serve tutto questo disturbo...sul serio.»
«Non se ne parla. Ora venga…» rispose lui, aprendo la porta del suo studio.
Lei entrò, seccata, e lui la fece stendere, le prese il polso, la pressione, le guardò gli occhi, la gola, i bronchi, analisi del sangue… tutto quello che gli venne in mente.
«Sembrerebbe tutto a posto.» commentò, guardando i risultati, ma palesemente non convinto di quel che gli stava dicendo la scienza: «Ma lei ha uno sguardo vacuo, strano, che mi lascia perplesso. È sicura di stare bene?»
Lei si alzò in piedi, sempre più nervosa, e annuì, rispondendo piccata: «Sto benissimo, grazie.»
«Soffre per caso di scatti d’ira, crisi d’ansia, ha dei raptus violenti...» chiese ancora lui, non mollando la corda. Voleva sapere, doveva sapere.
Lei pensò a quello che aveva detto Aurea, sulla sua probabile malattia mentale, ma non voleva sbandierare in giro i suoi problemi a chicchessia, così rispose: «Credo sia solo stanchezza. Sa, non dormo da qualche giorno.»
«Come vuole.» si arrese lui, avendo ormai capito che non avrebbe vinto: «Comunque, ci terrei a dirle che sono laureato in neurologia. Quindi se vuole, posso darle qualche consiglio.»
Lei soppesò quelle parole, ma ringraziò e salutò. Uscita dall’ospedale, tornò all’albergo; nel bar trovò Belle e Cheren. Contenta di vedere gli amici, li salutò e sedette con loro. Tra un discorso e l'altro, buttò lì: «Visto che ormai sapete tutto, devo raccontarvi di un certo discorso avuto con la prof quando siamo arrivati ad Austropoli la prima volta. Andiamo su, così può sentire la fine della storia anche Raphael.»
I due amici la guardarono perplessi, annuendo. Spostatisi nella stanza al piano di sopra, presero tutti posto e Castiga cominciò a narrare quel che era successo quel giorno.
 
~§~
 
INTERMEZZO: RIVELAZIONI
 
Dopo aver vinto la Medaglia Scarabeo, Castiga andò nella piazza di Austropoli e chiamò Belle, per dire loro che aveva finito. Ma non rispose. Provò a chiamare Cheren, ma non rispose nemmeno lui.
“Chissà dove sono tutti.” pensò sedendosi su una panchina per aspettarli, mentre pensava a come comunicare con loro. Da lontano, però, vide una sagoma avvicinarsi; mise a fuoco e vide che era la professoressa Aralia.
«Ciao, Athena.» salutò a bassa voce la donna, sedendosi al suo fianco, felice di vederla.
La ragazza la guardò perplessa, anche se contenta a sua volta, e chiese: «Ciao a lei. Che cosa ci fa qui? È piuttosto lontana da casa.»
«Ho chiesto a Belle e Cheren di avvertirmi quando avessi finito in palestra... sai, volevo parlarti.»
«In merito a?»
Aurea sospirò, poi chiese: «Tu non stai bene, vero?»
La ragazza la guardò un momento, poi rispose, incapace di mentire: «Forse.»
«Cosa c'è che non va?»
«Niente.»
Lei mise le mani sulle sue, immaginando cosa nascondessero, conoscendola ormai meglio di chiunque altro, e mormorò: «Athena, per favore. Parla con me. Forse possiamo trovare una soluzione.»
«Forse non esiste una soluzione.» ribatté lei, stringendo, però, quelle mani gentili che ormai non la temevano più, da molto tempo.
Aurea sorrise e ribatté: «O forse, è una soluzione che richiede molto tempo. Dai, raccontami cos'è successo.»
La ragazza guardò in basso, poi si guardò intorno, per controllare che nessuno fosse in ascolto, e disse: «Due volte… l’ho chiamata solo dopo la seconda.»
La donna attese con pazienza e lei continuò: «Credevo di non aver mai provato sentimenti o emozioni. Ma la rabbia c’è sempre stata. Non so come spiegarlo, ma è capace di dominarmi. Quando mi arrabbio, perdo il controllo. Devo sfogarla e se non lo faccio aumenta, aumentando a sua volta la voglia di uccidere. È un dannato circolo vizioso che non si ferma finché non ferisco qualcuno; o non lo ammazzo. Vedo le cose, sento la gente che mi insulta anche se non è vero, sento Giovanni che mi denigra... e scoppio. Penso che lui lo sapesse. Ora mi rendo conto del perché mi faceva infuriare volontariamente. Poi mi mandava a massacrare gente e mi calmavo. Stavo meglio e mi piaceva, quindi non mi ponevo troppe domande sul perché. Mentre ora… sono mesi, mesi. Mesi che non uccido, non torturo, non vedo nemmeno una goccia di sangue, non sento urla, né gemiti né sofferenza… nulla. Devo sottostare a quel che dicono gli altri, nessuno mi guarda con il timore reverenziale di sempre. E, come se non bastasse, tutto mi fa innervosire. Anche la minima cosa. Non pensavo di sentirne così tanto la mancanza, di stare così male. Ogni giorno, ogni ora… combatto, combatto e basta. Con i Pokémon e contro me stessa per tentare di sedare questa sete che spesso mi tormenta. E non ci riesco. È tutto inutile. Quando scoppio, ci rimetto io, ma non ha importanza. E non è nemmeno definitivo, maledizione.»
Aurea annuì, triste per la sofferenza che doveva patire. Ma di certo non poteva dirle, vai, sfogati e massacrali tutti. Ma non aveva idee. Non sapeva nemmeno se c'era davvero una soluzione. Di getto, chiese: «Toglimi una curiosità. Non uccidi Belle e Cheren perché…»
«… gliel’ho promesso.»
La donna delusa, annuì, e commentò: «Capisco.»
Il tono fece scattare la ragazza che sbottò: «Senta, l’ha detto anche lei. Io non provo sentimenti. E quindi quei due mi sono indifferenti. Certo, sono simpatici e tutto quello che vuole, ma non li considero miei amici; soprattutto perché non so nemmeno cosa voglia dire questa parola.»
Aurea la fissò di rimando e rispose: «Hai ragione, perdonami… ti sto chiedendo molto. E anzi, ti ringrazio per lo sforzo che stai facendo. Immagino non sia facile.»
«Io mantengo sempre la parola data.» disse lei, vagamente imbarazzata dall'affetto di quella donna. Si era legata così tanto che non le pareva quasi possibile. Era quasi... una madre.
Ci fu un momento di silenzio, poi Aurea disse, per cambiare discorso: «Ho visto combattere Belle e Cheren… ma tu mai. Sfideresti uno dei due?»
La ragazza alzò le spalle e rispose: «Non deve chiederlo a me.»
«Cosa? E a chi..?»
Lei indicò le tre Pokéball attaccate alla cintura: «A loro, ovviamente.»
«Oh… e come..?»
Castiga fece uscire i suoi tre Pokémon, li guardò e chiese: «Avete voglia di lottare ancora?»
*«Una sfida non si rifiuta mai!»* rispose Maru, alzando il doppio Conchilama sulla testa in segno di vittoria.
*«Non sono per niente stanca!»* esclamò Hoshi, facendo scintille.
*«Viva le lotte!!»* approvò anche Wargle, saltellando.
Castiga sorrise e commentò: «Non sembra che avete appena sconfitto un Leader, ragazzi. Bene, loro sono d'accordo, io pure, quindi si può fare.»
Aurea la fissò, abbastanza stupita. Mai aveva visto così tanta collaborazione tra allenatore e Pokémon. E un'intesa così naturale. Non perse ovviamente tempo, prese l’Interpoké e disse ai due amici di raggiungerle. Quando arrivarono, propose la sfida. Cheren accettò al volo, così la scienziata chiese: «Pensavo… visto che avete tre Pokémon a testa, di fare un uno contro uno in tre round! Ci state?»
«Per me va bene.» rispose Castiga.
«Anche!» esclamò Cheren, lanciando una Pokéball: «Vai Purrloin!»
La ragazza fece un cenno alla sua Blitzle: «Io scelgo Hoshi.»
Cheren attaccò e lo scontro ebbe inizio. Aurea osservò attentamente il combattimento, soprattutto Athena.
“È fredda, razionale. Una mente che passa ogni istante dello scontro ad analizzare la situazione. Non si fa prendere dalle emozioni, rimane impassibile.”
Hoshi venne colpita un paio di volte, ma la ragazza non diede segni; Aurea valutò bene le sue reazioni e pensò: “È come se non le importasse nulla di lei. Ma io so che invece è il contrario.”
Cheren le provò tutte, mentre Castiga si limitò a difendere, valutando che strategia usare. All’improvviso, ordinò: «Hoshi. Usa Doppioteam, poi Scintilla.»
“Due attacchi?!” si chiese la prof: “Che cosa vuol fare?”
Hoshi usò il Doppioteam, creando molteplici copie di sé stessa. Purrloin andò nel panico e Hoshi attaccò, senza ordine. Castiga sorrise e l’avversario, colpito in pieno, finì KO.
Aurea la guardò sconvolta, mentre i due giovani mandavano in campo Wargle e Tranquill: la lotta aerea fu spettacolare ma il piccolo aquilotto non poté nulla. Era ancora un cucciolo e troppo debole rispetto ad un Pokémon già evoluto una volta.
«La bella! Vai, Servine!» esclamò Cheren, mandando l’ultima Ball.
«Vai, Maru.» disse solo invece la sua sfidante, con un cenno del capo.
“A vederla così, la vittoria sembra già di Cheren. Ma Athena è come il diavolo. Ne sa una pagina in più del libro e sono convinta abbia non uno, ma molti assi nella manica.” pensò Aurea. E fece centro. Servine dominò per gran parte dello scontro, investendo il povero Dewott di foglie. All'ennesimo Verdebufera però, Athena ordinò: «Maru, proteggiti con il Conchilama.»
Maru eseguì, mettendo le due spade d'acqua a croce davanti a lui e limitando i danni dell'attacco avversario. Subito dopo, brillò di un blu accecante. Castiga si lasciò sfuggire un sorrisetto che Aurea notò, pensando: “Non posso crederci... l'ha calcolato?”
«Maru, usa Forbice X aiutandoti con l'Acquagetto!»
«Servine, contrattacca!» urlò Cheren, ma non ebbe successo. Maru divenne molto più veloce dell'avversario, grazie all'Acquagetto potenziato dalla sua abilità speciale, e, usando il Forbice X quando gli era vicino, in quattro colpi lo mandò KO.
Castiga prese in braccio Wargle e si diresse al centro Pokémon, seguita dalla professoressa, Belle e Cheren, quest'ultimo amareggiato dall'ennesima sconfitta. Fecero curare i Pokémon e, una volta usciti, la donna fece cenno ai due ragazzi di sparire.
Loro annuirono e Belle esclamò: «Voglio un Darumaka! Cheren! Mi accompagni nel Deserto della Quiete?»
«Va bene, Belle!» rispose lui, sorridendole.
«Vengo anche i…» cominciò a dire Castiga, ma Aurea la interruppe: «Tu li raggiungerai dopo.»
Perplessa, la ragazza la guardò, poi annuì. I due amici se ne andarono e, quando furono lontani, Castiga chiese: «Deve dirmi ancora qualcosa?»
«Sì.»
La ragazza sedette su una panchina e attese. La donna si mise al suo fianco e disse: «Sai, mi ha molto colpita il tuo modo di lottare.»
«Davvero?»
«Sì... non avevo mai visto un Allenatore concedere così tanta libertà.» confessò lei, sinceramente stupita.
Lei la fissò di rimando e gelida, rispose: «Si ricordi una cosa: loro non sono miei. Hanno deciso loro di venire con me, insistito, non il contrario. Quindi, questo fa di essi i miei compagni di viaggio, non i miei schiavi. Certo, lasciano che sia io a dir loro cosa fare nelle lotte, perché io sono al sicuro e riesco a pensare con più tranquillità cosa fare; e loro si fidano di me. Ma abbiamo deciso insieme che, a volte, devono essere loro ad agire.»
«E perché? Visto che si fidano di te, non ne vedo il motivo.»
«Perché ogni creatura di questo mondo deve saper difendersi con la sua testa, non dipendendo sempre da altri.»
La donna soppesò quella frase poi disse: «Vuoi dire che li lascerai liberi?»
Castiga la guardò accigliata e replicò: «Certo che no, a meno che non siano loro a volerlo. Comunque, intendevo dire che se mi dovesse succedere qualcosa, loro devono saper sopravvivere. Non devono essere dei banali fantocci. Io non sono eterna e potrebbe succedere di tutto. La morte è sempre all'angolo, io lo so meglio di chiunque altro.»
La donna sorrise, colpita da quel discorso. Poi, rattristata ma convinta, chiese: «Posso farti una domanda?»
Castiga annuì e lei continuò: «È un po’ personale... non ti arrabbiare, ma mi chiedevo come mai non ti ho mai vista piangere per i tuoi amici.»
La ragazza si rabbuiò e Aurea temette il peggio, ma dopo un attimo di pausa, lei rispose: «Perché le interessa?»
«Abbiamo vissuto insieme parecchio tempo e… non so, è solo che…» cominciò a rispondere lei, nemmeno sicura di avere una vera risposta in mente. Voleva solo sapere se stesse meglio, se piangeva ancora, se aveva bisogno di conforto, di una carezza... di una mamma. Athena non comprese le intenzioni ma la interruppe e disse: «Penso sempre a loro, in ogni momento. Sono morti per colpa mia. Aveva ragione lei, sono stata una maledetta vigliacca. Li ho lasciati andare al massacro per proteggermi, piuttosto che consegnarmi a Lance. Avrei meritato di morire fra atroci sofferenze, loro non c'entravano nulla. Non erano cattivi. Non erano come me. Tutti credono che fossero delle bestie, ma è falso. È solo l’apparenza. L’unica bestia ero io.
Pidg era mio fratello, ci siamo adottati a vicenda. Il Pokémon più dolce che io avessi mai incontrato. Io avevo cinque anni, lui era nato da poco, quando ci incontrammo. Fu la prima volta che uccisi. Quell’uomo lo stava massacrando e io intervenni, ma lui restò zoppo. Quel maledetto gli aveva tagliato di netto la zampa destra. Da quel giorno rimanemmo sempre insieme. Nel bene e nel male.
Fiammata era un cucciolo, dolce nonostante le apparenze, ma fedele. Lo incontrai in un vicolo nell’Isola Cannella, dove ero andata in missione per conto di Giovanni. Un piccolo Charmander che non ci vedeva quasi più; due tizi gli cavarono un occhio e rovinarono l'altro; subito dopo li spedii all'inferno. Rimpiango solo di essere arrivata troppo tardi e di essere stata troppo veloce. Lo addestrai a combattere nel buio più totale, per affinare gli altri sensi. Quando voleva combattere sul serio, chiudeva gli occhi e si affidava ai suoni o agli spostamenti d’aria... e alla mia voce. Io ero la sua guida, i suoi occhi... mi diceva sempre: «Yo, Lady B, no problema. Tu guarda, io lotta. E noi vince. Insieme.» Era divertente avere a che fare con lui. Il danno al nervo ottico gli aveva portato dei problemi cerebrali: non è che non ci arrivasse, ma faticava a parlare. Faceva sempre dei discorsi sgrammatici che a volte pareva di fare dei rebus di gruppo.
Bandan, invece, era una calcolatrice ambulante. Qualunque cosa facesse, ci metteva in mezzo numeri, calcoli ed espressioni, mandando in confusione noi che ascoltavamo i suoi deliri aritmetici. Il Grande Giovanni cercò di obbligarmi a farlo lavorare per lui, ma non lo feci. Loro erano miei. Punto. E Bandan sbagliava apposta i calcoli in sua presenza per non farsi desiderare troppo. Quando lo incontrai, Bandan era un giovane Beldum con l’unico arto spaccato. Mentre dormiva l’avevano scambiato per un blocco di ferro e un fabbro l’aveva preso a martellate. Lo trovai immobile, dov’era da molti giorni, perché i danni subiti gli avevano tolto l’elettromagnetismo che lo faceva levitare. Riuscì a ricominciare a muoversi solo con l’evoluzione in Metang. Le lascio immaginare la fatica fatta per farlo evolvere!
Lapras la trovai dispersa nel mare mentre volavo con Pidg. La vide lui in verità, io quel giorno ero una bestia. Giovanni aveva picchiato Fiammata perché starnutendo, gli aveva bruciato una pila di carte, e io ero furibonda. Se Pidg non mi avesse trascinata via, probabilmente l’avrei ucciso. E forse, sarebbe stato meglio.
Comunque, vedemmo questa Lapras lasciarsi condurre dalle acque senza una meta. Scendemmo e provammo a parlarle, ma lei era come in trance. La catturai, la portai alla base e riuscì a capire cosa avesse. Aveva in corpo chissà quante droghe diverse, contaminata fino al midollo. Ci volle una vita per disintossicarla, ma ci riuscimmo. Era una Lapras tranquilla, pacifista. L’unica che ogni giorno, insieme a Pidg, cercava di farmi ragionare, di convincermi a scappare da quell'uomo che secondo lei mi stava rovinando. Ricordo ancora i suoi assurdi piani di fuga. Cose tipo: «Dai, Athy, ti fai coprire da Archer un paio di giorni, noi partiamo, andiamo verso est e... da qualche parte arriveremo!» In pratica, avrebbe preferito perdersi in mezzo al nulla piuttosto che vedermi restare lì.
Nidor era un Nidoking con il corno spezzato, incapace di emettere il veleno. Questo perché quando era un Nidoran voleva distruggere un masso, aveva usato Incornata e si era piantato nella roccia. Cercando di liberarsi si era rotto il corno frontale. Era un dannato spaccone, sempre intento a mostrarsi il migliore. E ogni volta Fiamma smontava tutte le sue vanità, sconfiggendolo e rinfacciandogli la sua cecità.
Infine, Jukain. Uno Sceptile con il terrore degli umani. E non solo. Umani, Pokémon… qualunque cosa si muovesse era per lui fonte di paura folle. Quando lo conobbi, mi avvicinai e lui scappò. Sbagliò il ramo dell’albero e cadde, dando una testata a un sasso. Ci volle tutto il mio impegno per farmelo amico, ma alla fine la mia pazienza venne premiata.
Sa, al Grande Giovanni, loro non piacevano. Secondo lui, spendevo troppo tempo per allenarli, renderli forti nonostante le loro menomazioni, e lui non voleva.» concluse, sogghignando: «Alla fine lo minacciai di andarmene e lui non disse più nulla.»
Aurea annuì, ma vedendo che forte legame avesse con quei Pokémon, c'era da supporre che un rifiuto drastico avrebbe dovuto smuoverla. Così chiese: «Come mai non l’hai mai ucciso?»
«Mi resi conto chi era davvero solo quando Lance mi portò via la mia famiglia, soprattutto mio fratello. Ma ormai era troppo tardi… vede, Giovanni lo salvò da una morte certa, quando venne ferito, e io avevo solo cinque anni. Solo una bambina che vedeva quell’uomo come il salvatore in terra. Fedeltà assoluta. All’inizio gli ubbidivo, ma poi cominciò a seccarmi… sempre a fare da cagnolino. Poi però prese il completo potere della mia mente... sapeva come prendermi, come bloccarmi, come tormentarmi. Quindi... Pidg non era d’accordo con me, come tutti gli altri, ma non volevano lasciarmi sola.»
La donna sorrise e commentò, fissando quei gelidi occhi rossi ormai lucidi dalle lacrime che si sforzava di non versare: «Sai, mi sarebbe piaciuto conoscerlo. Pidg intendo.»
«Sareste andati molto d'accordo.» rispose solo lei.
Aurea le strinse le mani e, con sentimento, cercando di farle capire che lei non l'avrebbe mai abbandonata, mormorò: «Athena, forse queste parole ti sembreranno dure, ma devi rassegnarti alla loro scomparsa. Non puoi vivere con questo peso nel cuore.»
«È la punizione che merito. Soffrire per sempre.»
Aurea non la lasciò restare lì a compiangersi; la costrinse a guardarla e disse: «Ascolta, tu puoi essere diversa da come sei stata. Puoi essere una persona migliore, quella che loro avrebbero voluto vedere. L’hai già dimostrato aiutando Belle e Cheren, ma puoi fare di meglio. Ora, lo so che stai fermando i Plasma perché non vuoi che ti portino via i tuoi Pokémon… però hai salvato il Munna di Belle. Non era un tuo Pokémon, eppure l’hai fatto.»
«Se non l’avessi fatto, Artemisio non avrebbe combattuto.» mormorò la ragazza.
«Non cercare giustificazioni inutili. Io lo so che sotto sotto volevi farlo anche per lei.»
Castiga ci pensò su. Quando si era persa nel Bosco Girandola, li aveva chiamati per sapere dov’erano. Questo voleva dire che a lei importavano, anche se non se ne rendeva conto. Vedere Belle piangere; anche quello l’aveva fatta arrabbiare. Ma perché?
Espresse i suoi pensieri alla donna che disse: «Stai capendo che cos’è l’amicizia. Vuol dire essere sicuri che i nostri amici siano felici e stiano bene. Impara a capire questo e capirai che cos’è realmente.»
La ragazza non rispose e, per sdrammatizzare, Aurea cambiò discorso. Le piaceva tornare a parlare con quella ragazzina. Anche di cose futili, bastava parlare. E Castiga, stranamente, era della stessa idea. Anche lei era contenta. Alzatasi in piedi, la donna disse: «Ora ti lascio andare, Belle e Cheren saranno in pensiero e Sciroccopoli ti aspetta. Fa' buon viaggio!»
«Lei con cosa torna a Soffiolieve?»
«A piedi… tranquilla, c’è Minccino con me!»
«Non ho dubbi.. arrivederci, prof. La chiamo quando siamo a Sciroccopoli.»
«D’accordo! Ciao, Athena.»
Si salutarono e si separarono. La ragazza trovò Belle e Cheren alle prese con un Sandile molto forte. Persero entrambi e lo affrontò la ragazza. Il Pokémon era forte, ma a differenza degli altri Pokémon non aveva il minimo scrupolo. Per questo alla ragazza piacque molto. Una volta che riuscì a sconfiggerlo, lo catturò, chiamandolo Warubiaru.
Restarono nel Deserto per allenarsi, quando, all'improvviso, Cheren disse: «La prossima città è Sciroccopoli. Una città piuttosto grande che ha molte attività di svago. C’è il Pokémon Musical, il Metrò Lotta, il luna park… e ovviamente la Palestra Pokémon!»
«Cheren, io voglio un Darumaka!» esclamò Belle, con un fare decisamente imperioso: «Lo farò debuttare al Musical e farà un figurone! Quindi restiamo qui finché non ne catturo uno!»
Castiga li fissò, accigliata da quell'isteria improvvisa, e disse solo: «Voi restate qui, se volete, ma io vado in città. Voglio quella Medaglia.»
I due amici annuirono e si salutarono; non l'avrebbero di certo trattenuta.

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Capitolo 32
*** Capitolo 32 ***


Belle, commossa da quel racconto ma soprattutto dalla nota di dolore evidente nella voce dell'amica, chiese: «Eri molto legata a loro, vero?»
Castiga accarezzò Maru, cercando di trattenere le lacrime, e rispose: «Più di quanto tu possa immaginare. Quello che provo per Lance non è odio… è qualcosa di più forte.»
«Hai una loro foto?»
«No. Non ero nelle condizioni di pensarci. Peccato…»
Belle la fissò per un momento, pensando a cosa dire per tirarla su. Doveva tirarla su, non poteva permettere che rimanesse triste. Così, dopo un momento di pausa, commentò: «Dovevano essere dei Pokémon fortissimi.»
«Normali.» rispose lei, sorridendole e facendole capire che, nonostante tutto, stava bene.
Qualche giorno più tardi, Raphael si riprese perfettamente, grazie all’antibiotico che gli aveva prescritto il dottor Wilson. Guarito, però, non aveva nessuna voglia di rimettere piede in ospedale. Castiga, seccata, lo prese per un braccio, pronta a trascinarlo anche di peso: «Dai poche storie. Il controllo non te lo leva nessuno.»
«Lascia stare.»
«Abbiamo l’appuntamento. Muoviti.»
«Non serve…»
«Non farmi arrabbiare, Raphael!»
Lui si arrese e lei lo portò in ospedale. Trovarono facilmente lo studio del dottore; Castiga si accostò alla porta, non sentendo rumori. Si guardò intorno, guardò l'amico che alzò le spalle perplesso, e si decise a bussare.
«Avanti!» rispose una voce
Lei abbassò la maniglia ed entrò, chiedendo: «È permesso?»
Il dottor Wilson alzò lo sguardo e, riconosciutala, le sorrise amichevolmente; lei notò la differente reazione: questa volta non pareva impaurito o che altro. Solo contento.
«Venga, venga! È ora del controllo immagino!»
Lei annuì e fece entrare anche Raphael. Il dottore gli fece parecchi controlli. Era un tipo molto scrupoloso.
Finito con Raphael si avvicinò alla ragazza e, tentando di rimanere vago, commentò: «Vedo che non si è riposata…»
«Cosa?» rispose lei distrattamente, senza pensare: «Certo che mi sono riposata. Mai dormito così bene.»
Lui sorrise e buttò lì: «Allora questo sguardo spento non è dovuto alla stanchezza.»
Solo in quel momento Castiga si rese conto di quello che le stava dicendo il medico. Senza sapere cosa replicare, colta in fallo, balbettò qualcosa di non ben identificato. Era caduta in una trappola banalissima. La salvò Raphael che, intuito che qualcosa non andava, borbottò: «Di cosa parla dottore? La mia ragazza sta bene!»
«Sarà… ma sa, gli occhi sono lo specchio dell’anima si dice…»
«Non le sembra di esagerare?» gli chiese lei, irritandosi di colpo. Tutte quelle allusioni non le piacevano. Quell'uomo sapeva qualcosa, ma il punto era: cosa?
Lui fece un mezzo sorriso, tentando di nasconderlo, e Raphael le sussurrò: «Sta’ calma… credo punti a quello.»
La ragazza fece un profondo respiro chiudendo gli occhi e prese la mano di Raphael. Lui la strinse, cercando di trasmetterle un po' di tranquillità. Non era più sola, non lo sarebbe mai più stata. Wilson notò il repentino cambio di umore e storse lievemente la bocca, deluso. Porse loro un cartoncino e mormorò: «Sono laureato in neurologia. Questo è il mio biglietto da visita… se aveste bisogno.»
I due lo fissarono perplessi, senza lasciarsi la mano. Lui andò alla porta, la aprì e li congedò. Ringraziato, i due uscirono, ancora perplessi. Non l'aveva provocata più di tanto però ci aveva comunque provato, ed era sospetto. Molto sospetto.
Una volta lontani, lei mormorò: «Come hai fatto a capire che mi stava provocando?»
Lui alzò le spalle, memore di alcune scene alquanto trucide, e rispose, semplicemente: «Lo sappiamo tutti come reagisci quando ti arrabbi. Perdi la testa; e visto che sei molto irritabile, ho preferito avvertirti. Se uno strizzacervelli dovesse vederti quando dai di matto, saresti rinchiusa in manicomio in meno di un minuto.»
Castiga abbassò lo sguardo e mormorò: «O forse in galera. Se non peggio…»
Lui la strinse a sé, e lei, appoggiandosi, scacciò via i pensieri bui.
Arrivati al Centro Pokémon, tutti e quattro all’unanimità, decisero di farsi una vacanza. Sotto Austropoli c’era un’enorme spiaggia. I ragazzi passarono un week-end di divertimento puro, anche se Castiga vide spesso in giro il dottor Wilson. Ma non c’era pericolo. Lei e Raphael stavano sempre insieme. La compagnia del ragazzo era la miglior cura contro la rabbia. Il loro rapporto migliorava sempre più. Castiga si sentiva sempre meglio man mano che passava del tempo con lui e Raphael non le faceva pressioni. Sapeva che l’amore era un sentimento ancora troppo forte perché il suo cervello potesse reggerlo, ma era fiducioso.
La sera del sabato i due andarono sulla spiaggia, mano nella mano. Si sedettero sul molo.
Lui le mise il braccio sulle spalle e lei si appoggiò a lui, guardando la luna. Era persa nei suoi pensieri, quando lui le prese il mento e la baciò. Lei ricambiò, sulla punta delle labbra, come sempre, leggermente stupita. All’improvviso, lui si fece prendere dalla passione e le aprì le labbra, baciandola con la lingua. Le mise le mani dietro le spalle, stingendola a lui. Il cervello della ragazza mandò un segnale d’allarme: gli stava dando troppa confidenza. Ma il corpo non lo ascoltava, le mani di lei strinsero il ragazzo a loro volta. Il fedele organo cerebrale, la guida che aveva diretto ogni sua scelta, razionalmente e crudelmente, in quel momento era isolato. Annebbiato da altro, dalla forza prepotente e dominante del cuore. Le mani di lui scesero per tutta la spina dorsale, andarono sotto la camicia, alzandola e seguirono le forme della schiena, come per esplorare qualcosa di sconosciuto.
Athena si sdraiò, Raphael su di lei. Le loro bocche non si erano staccate un minuto, il respiro cominciava a farsi affannato. L’aria era poca nei polmoni, ma a nessuno dei due importava.
Lui spostò la bocca dalle sue labbra, cadde sul collo, baciandolo piano. Lei fremette a quel contatto, chiudendo gli occhi e leccandosi le labbra, e gli allarmi del cervello svanirono del tutto, lasciandolo nell’oblio.
Lui, tornato sulle sue labbra, cominciò a sbottonarle la camicia, le mani inesperte ma sicure, guidate da quel desiderio che covava da molto tempo. Da quella volta che si era lasciato andare con Daisy, cadendo in quello che per lui era un tradimento.
Lei invece era insicura e inesperta; aveva a che fare con quella forza da poco, non sapeva come comportarsi, non aveva mai amato. E quel desiderio le faceva paura.
Perché voleva farlo?
Perché non desiderava staccarsi da lui, come sempre?
Perché si lasciava toccare così, da uno che, fino a prova contraria, era poco più che un estraneo?
Eppure, quelle domande, non solo non ebbero risposta, ma non vennero nemmeno formulate. Era quasi diventata incapace di pensare, di ragionare, di fare qualunque cosa con il cervello. Il suo corpo andava da solo: mentre gli toglieva la maglia, mentre gli sfilava la T-shirt, lo baciava… nulla era razionale. Ma, anche se era spaventata da quel sentimento, non riusciva a fermarsi. Dentro di lei, sentiva che la paura era infondata e che lei lo desiderava, come lui desiderava lei.
Con un gesto secco dei piedi, si tolsero entrambi le scarpe e le calze, e subito dopo anche i vestiti. Perfino il pugnale, la fedele lama che aveva ucciso tanta gente da non poter essere nemmeno contata, giaceva sul legno, quasi abbandonato. L’intimità di quel momento era talmente profonda, che sembrava quasi irreale.
Lui era dolce, ma si sentiva il desiderio nei suoi gesti.
Lei, quasi impaurita, non sapeva come sentirsi. Mille emozioni le nuotavano nel cuore, spegnevano il cervello e la ragione, lasciando spazio al nulla.
Lui era suo, lei era sua. Mai furono vere quelle parole come quella notte.
“«Noi ci apparteniamo.»” aveva detto Raphael, tempo prima.
E, in effetti, aveva ragione. Era riuscito a ottenere ciò che nessuno aveva mai nemmeno pensato di poter anche solo desiderare.
Aveva l’amore del Demone Rosso.
Non era ancora chiaro per entrambi, poiché lei per prima non se ne rendeva conto. Ma era così.
Da quel giorno, la loro intimità aumentò in maniera esponenziale.
Se prima lei lo allontanava quando si allargava troppo, ora non più.
Se prima lui tratteneva i baci alla sola superficie, per non turbarla, ora non più.
Non mostrarono mai quanto erano legati all’esterno. Il loro amore si rispecchiava in altre cose: i piccoli gesti quotidiani, l’aiuto che lui le dava a controllare la rabbia, l’impegno che lei metteva nel tentare di lasciarsi andare ai sentimenti.
Nessuno avrebbe mai detto che loro erano fidanzati, ma lo erano, nel più profondo del loro essere, o forse erano qualcosa di più.
Due anime gemelle che si appartenevano, che si erano trovate e che nemmeno la morte avrebbe mai potuto separare.

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Capitolo 33
*** Capitolo 33 ***


Finita la vacanza, il gruppo ripartì alla volta di Sciroccopoli, la città seguente, che raggiunsero in poco tempo di marcia. Con alcuni problemi nel sabbioso percorso 4, il gruppetto entrò in città.
«Ehi! Mi piace questo posto!» esclamò Raphael, guardandosi intorno.
Sciroccopoli era una città colorata, piena di vita. Le case erano poche, mentre c'erano molte strutture per lo svago. Perfino la Palestra Pokémon era dedicata al divertimento. Ovunque neon e luci colorate, e da ogni punto della città si poteva vedere l’enorme ruota panoramica del Luna Park.
«Il Musical!» esclamò Belle, intravedendo l'edifico rosa che stava cercando: «Ragazzi, io vi saluto!»
La bionda spiccò una corsa da centometrista verso il teatro del Pokémon Musical, impaziente di esibirsi, ancora, insieme ai suoi adorati Pokémon. Castiga ridacchiò e commentò: «Chissà perché, me lo aspettavo.»
«Io vorrei…» cominciò a dire Cheren, ovviamente più pacato dell'amica, ma la ragazza lo interruppe ed esclamò: «Dai, vacci dopo al Metrò Lotta. Andiamo a fare il tifo a Belle?»
Raphael assentì, dandole manforte, e aggiunse: «Io ci sto. Non ho mai visto un Pokémon Musical.»
Cheren li guardò, poi alzò le spalle e annuì. In effetti, non c'era nessuna fretta. I tre amici si diressero verso il teatro, rosa e luminoso. Castiga lo fissò e pensò che non era per niente cambiato. Sembrava un enorme confetto luccicante. I ragazzi entrarono e si avvicinarono al bancone per capire dove andare.
«Scusi.» chiese Cheren all'addetta, prendendo la parola per primo: «Dove sono le tribune?»
La segretaria indicò loro le scale e i tre amici sedettero in mezzo agli spalti, per vedere bene l'esibizione della loro amica.
«Belle è la quinta concorrente.» disse Castiga, guardando il programma: «Vediamo come se la cava.»
I primi quattro concorrenti diedero spettacolo, poi fu il turno di Belle. La ragazza venne annunciata e si aprì il sipario. Belle uscì di corsa, seguita da un metallaro Emboar e un elegante Minccino. I due Pokémon erano vestiti perfetti; il gusto della biondina era encomiabile. Emboar indossava un giacca di pelle, una catena agganciata dalla tasca davanti a quella dietro, e aveva una chitarra elettrica, mentre Minccino indossava un mantello, una tuba, un bastone e un papillon. Ma quello che stupì di più l’intera platea, scatenando un’ovazione, fu l’abbigliamento di Belle: aveva abbandonato la sua solita pettinatura raccolta, sciogliendo i capelli biondi sulle spalle. Invece del suo solito baschetto verde, indossava un velo, e, al posto della camicia, i pantaloni bianchi e il gilet arancione, vestiva un lungo abito rosa scollato, con dei pizzi bianchi intorno alle maniche e in fondo alla lunga gonna.
Raphael si incantò a fissarla, mentre Castiga commentava: «Belle si è proprio lanciata…»
Le cadde l'occhio su Raphael, così gli mollò una gomitata nelle costole, sbottando: «Non è che perché adesso non sono un iceberg, devi mettere gli occhi sulle altre, signorino.»
«Devi ammettere che… che… cavoli!» rispose lui, ancora incantato.
«Ammetto che è carina. Fine.»
Raphael ridacchiò, mandandole un bacio aereo, e Castiga, cedendo al sorriso, alzò gli occhi al cielo; ma poi, facendo un cenno con la testa, disse: «Guarda il Dottore!»
Il ragazzo si voltò alla sua destra e scoppiò a ridere: Cheren fissava Belle a bocca aperta, con due occhi che non faticavano a far capire cosa pensasse in quel momento. Mentre Athena quasi si uccideva dal ridere, nel vedere quella faccia imbambolata e sognante, Raphael gli sussurrò: «Guarda che se la fissi ancora un po’, le si incendiano i vestiti.»
Cheren sobbalzò, tornando sulla terra, e vide i due amici che rotolavano dal ridere silenziosamente, cercando di non disturbare la folla. Ignorando i due che stavano letteralmente soffocando, tornò a guardare Belle. Il nome rendeva l’idea. Era davvero bella. E come ballava. Aggraziata come un angelo, saltava delicata insieme ai suoi due Pokémon. La loro esibizione finì con l’assolo di Emboar e il sipario si chiuse.
Castiga, Raphael e Cheren andarono ad aspettarla all’ingresso. Quando la vide uscire, Castiga l'accolse con un applauso ed esclamò: «Brava, Belle! Grande esibizione!»
«Castì? Cheren? Raphael? Che ci fate qui?» chiese lei, imbarazzata; mai si sarebbe aspettata la loro presenza al suo spettacolo.
«Siamo venuti a vederti, ovvio!» rispose l’amica, con un ghigno rivolto a Cheren.
Raphael ricominciò a ridere, cercando di nascondersi, e Cheren arrossì; ignorando i due, si avvicinò a lei e le disse: «Sei stata davvero brava.»
Belle avvampò di colpo e mormorò: «Grazie, Cheren.»
I due si guardarono, sorrisero, e poi tornarono dagli amici. Belle li squadrò tutti e tre e mormorò: «Come mai siete venuti? Pensavo aveste altro da fare…»
«Non ci corre dietro nessuno!» le rispose Castiga, dandole una pacca sulla spalla: «Non c’è fretta! Possiamo aspettarci a vicenda questa volta.»
«Ora dove si va?» chiese Raphael, intervenendo nel discorso. Cheren fu rapido a rispondere e, animato, esclamò: «Metrò Lotta!»
Come Belle aveva fatto un’ottima performance al Musical, anche lui doveva stupirla al Metrò. Peccato che, se avesse combattuto una certa persona, la figura del carciofo era assicurata. Vedendo un cenno di Castiga, Raphael cominciò a camminare insieme a Belle, mentre Athena fermò Cheren, dicendo: «Dottore, io non combatto. Ma vedi di non fare brutta figura!»
«Castì, ma…»
«Non dire nulla. Se vuoi fare colpo su Belle, impegnati più che puoi.»
Lui avvampò, colto in fallo, e mormorò: «Come… hai fatto a capirlo?»
Spazientita per quelle domande inutili, lei replicò: «Insomma, Dottore! Sarò una crudele pazza senza cuore, ma l’hai spogliata con gli occhi per tutta l’esibizione.»
Cheren arrossì ancora di più e lei aggiunse, in un tentativo di incitamento: «Spacca la faccia a tutti e anche lei si incanterà.»
«Farò del mio meglio. E non dire quelle cose su di te!»
Lei lo spinse via con un sorrisetto e i due raggiunsero Raphael e Belle. I quattro amici andarono quindi nella Stazione Ruotadentata, da dove partivano gli otto treni lotta, sui quali si poteva combattere; l'unica eccezione era l'ottavo che portava a Roteolia, un crocevia ferroviario dove sostavano i treni in arrivo dalla stazione di Sciroccopoli. Cheren salutò gli amici, con uno sguardo in più a Belle, e salì sul primo treno.
«Non possiamo vedere gli incontri.» sbottò seccata Castiga: «Mi sarebbe piaciuto!»
«Non ci pensare.» mormorò Belle: «Cheren sarà più bravo senza pubblico.»
I tre amici andarono a fare un giro a Roteolia, dove un meccanico spiegò loro le caratteristiche dei treni. Quando tornarono indietro, sugli schermi stavano trasmettendo la lotta di Cheren contro Andy, uno dei due Capi Metrò.
Il ragazzo perse, ma l’incontro fu molto avvincente, soprattutto perché era lo scontro finale di tutta la serie. Era un ottimo piazzamento.
«Sei stato fantastico!» gli disse Belle, con un sorriso, leggermente rossa, quando lo vide scendere dalla carrozza che lo aveva riportato in stazione.
«Grazie, Belle. Anche se avrei potuto fare di meglio.» rispose lui, sorridendole a sua volta.
Castiga si intromise, mettendosi tra loro due, e commentò: «Basta tubare, voi due! Chi la fa una partita a tennis?»
Belle e Cheren avvamparono ma non ebbero il tempo di replicare, perché vennero trascinati al Campetto, un enorme stadio dove c’erano tre campi da tennis e tre da basket. Giocarono tutto il pomeriggio, tra doppi e singoli, divertendosi un mondo e anche deridendosi un po' a vicenda. Verso la sera, uscirono e andarono a prendersi un gelato.
«Che pomeriggio ragazzi.» esclamò Belle, felice: «Non mi sono mai divertita tanto!»
La bionda si mise a parlare con i due ragazzi, ricordando i momenti più belli di quel pomeriggio, mentre Castiga pensava. Era davvero la prima volta che non si sentiva oppressa da nulla. Il suo cuore era leggero, la mente vuota, l’anima non era in pena. Stava davvero bene, pensando a divertirsi con i suoi amici e a nient’altro. Quanto avrebbe voluto che ci fosse stato anche Pidg... si sarebbe divertito e sarebbe stato felice nel vederla così serena. Notando una certa costruzione, propose, sorridendo: «Per ultimo, propongo un giro sulla ruota.»
Belle saltò sul posto, emozionata, ed esclamò: «Ci sto! Non ho mai visto Sciroccopoli dall’alto!»
Raphael e Cheren annuirono e si incamminarono. Presero il biglietto e salirono, due a due.
Castiga e Raphael entrarono nella navicella.
«Sai…» disse lei, guardando fuori dal finestrino: «Qui ho rivisto N…»
«Dai, racconta.» rispose lui, mettendole un braccio sulle spalle e stingendola a lui.
 
~§~

INTERMEZZO: IL SOVRANO
 
Castiga proseguì da sola verso Sciroccopoli, poiché i due amici erano rimasti nel Deserto della Quiete, decisa a prendere la Medaglia della Palestra Pokémon. Incappò in una tempesta di sabbia sul Percorso 4 che le rese più difficile il viaggio. Ma alla fine arrivò al varco e entrò in città.
La Las Vegas di Isshu: Sciroccopoli.
Abbagliata dalle luci e assordata dal rumore, Castiga non si rese subito conto di quel che stava succedendo ma poi notò due seguaci Plasma fronteggiare un anziano signore alle porte della città.
«Lo sai benissimo dove si trova la Pensione Pokémon!» disse uno dei due aggressori: «E ora devi dircelo! Non vorrai mica fare arrabbiare il Team Plasma!»
L’anziano ribatté, dando prova di molto coraggio, ma poco dopo arretrò, sentendosi minacciato da quei due. Guardandosi intorno, vide Castiga, corse da lei e la prese per un braccio, nascondendosi dai due aggressori. Con tono supplicante, esclamò: «Aiuto! Mi sembri un Allenatore forte! Aiutami, ti prego!»
La ragazza lo guardò accigliata, seccata da tanta confidenza, ma poi i due seguaci la minacciarono di prendersi i suoi Pokémon e quindi il Demone cambiò obbiettivo. Lo scontro fu impari: due contro lei sola. Ma i suoi Pokémon abbatterono ogni avversario che si presentò di fronte a loro. I seguaci arretrarono, sconvolti dalla facilità con cui erano stati sconfitti, e fuggirono verso il luna park. Pronta ad inseguirli, Castiga fece rientrare i Pokémon ma il vecchino che le aveva chiesto aiuto la fermò, tenendola per il braccio e ringraziandola, senza lasciarla andare. Lei, seccata, si liberò dalla presa con un gesto secco di stizza, ma prima che potesse correre dietro ai Plasma, arrivarono anche Belle e Cheren.
«Castì! Cos’è successo?» chiese l'amica, notando i segni dello scontro e la sua espressione particolarmente seccata.
«Plasma… andiamo a prenderli a calci?»
Cheren estrasse una Poké Ball ed esclamò: «Contaci! Dove sono?»
«Luna Park!»
E si lanciarono all’inseguimento. Castiga, però, arrivò da sola, perché Cheren si fermò al Metrò Lotta e Belle al Pokémon Musical. Irritata, lei entrò nel Luna Park, pensando: “Che razza di bambini. Potevano andare a divertirsi dopo...”
E lì lo vide.
N.
Fissava la Palestra, perso in chissà quali pensieri, ma poi la notò, sorrise e si avvicinò a lei. Facendo il vago, chiese: «Ehi! Stai cercando il Team Plasma?»
«Sì. E tu come lo sai?»
N le fece cenno di seguirlo e rispose: «Sono scappati da quella parte. Seguimi.»
Lei non batté ciglio e gli corse dietro. Si fidava di quel ragazzo; strano ma vero. Arrivarono alla ruota panoramica, ma lì non c’era nessuno.
«Non ci sono…» mormorò N, guardandosi intorno: «Saliamo sulla ruota panoramica. Forse dall’alto riusciremo a individuarli.»
Fece per salire, ma poi si fermò a fissare l’attrazione. Sembrava quasi ipnotizzato dal suo movimento. Con voce sognante, commentò: «A me piace molto la ruota. La sua dinamica, il movimento circolare… È un concentrato splendido di formule matematiche…»
Si riscosse, come da una trance, la precedette e salì sulla navicella; lei fece altrettanto subito dopo, entrando prima che le si chiudessero le porte in faccia. Divertita, fissò la ruota salire e pensò: “Questo tizio sarebbe piaciuto molto a Bandan. Matematici.”
La ruota proseguì il giro nel più totale silenzio; Castiga guardava in basso, cercando di scorgere i seguaci, ma senza risultati. Si accorse di N, che si era avvicinato a lei e la stava fissando. Perplessa, lei ricambiò lo sguardo intenso con uno stupito e chiese: «Che c'è?»
«Perché insegui il team Plasma?» chiese lui, con il volto vicino al suo e uno sguardo indecifrabile.
«Sono solo degli squallidi ladri.» rispose lei, con una nota di disprezzo nella voce: «Si nascondono dietro a falsi ideali per i loro scopi. Non mi fanno fessa... due che prendono a calci Munna, non vogliono il suo bene.»
«Preso a calci Munna?» chiese invece di nuovo lui, facendosi stupito.
Lei annuì, con sguardo eloquente, e replicò: «Quando ero al Cantiere dei Sogni, sono apparsi. Volevano il Fumonirico e facevano del male a Munna per obbligarla a darglielo. Chiedi a lei se non mi credi... ora è diventata grande amica di Belle, la ragazza che gira con me.»
N si allontanò da lei per un momento, turbato da quanto saputo. Gli indegni erano anche lì... avevano contaminato il team... preso da un pensiero, la fissò di sottecchi e chiese: «Chi pensi sia il loro capo?»
Castiga ricambiò ancora il suo sguardo, non riuscendo a capire dove volesse andare a parare, ma poi rispose: «Geechisu fa il comandino, ma l'ho sentito parlare di un certo “sovrano”. Quindi non è lui ma costui il vero capo.»
«Infatti.» annuì N, guardando fuori dal finestrino la grande città e il deserto più lontano: «Lui è solo uno dei Sette Saggi, in fin dei conti. Il sovrano sono io.»
Lei si fece ancora più perplessa, ma anche stupita, non volendo credere che lui fosse il capo di quella banda di pagliacci che faceva tutto il contrario di ciò che lui predicava. Non sapeva che rispondere a quell'affermazione messa lì, con tutta la sua naturale pesantezza.
«Dovrò ripulire il team...» aggiunse poi, parlando tra sé, abbastanza turbato del fatto che Geechisu non gli avesse detto niente di ciò che era successo al Cantiere del Sogni e del perché avesse mandato lì dei Seguaci per tormentare Munna; guardando di lato, mise gli occhi in quelli della ragazza, come per studiare il suo comportamento, e chiese: «Dunque? Cosa pensi di fare ora?»
«Niente, in realtà.» rispose lei, alzando le spalle: «Tu sei coerente con quello che dici, non sei tu il problema.»
«Loro però fanno quello che fanno secondo i miei ordini. Geechisu mi ha chiesto di aiutarlo a salvare i Pokémon separandoli dagli uomini. Questo non ti fa cambiare posizione?»
«No.» rispose semplicemente lei. N la fissava, cercando di leggerle l'anima, ma la sincerità del suo sguardo era più forte di ogni parola. Lo pensava davvero. E quella sincerità lo faceva vacillare. In lei vedeva un essere umano come lui: in perfetta simbiosi con i Pokémon. Un essere umano che rispettava i suoi Pokémon, che li amava, nonostante facesse come tutti gli altri. Anche lei li imprigionava nelle Pokéball, li faceva lottare tra di loro... ma era diverso. Sperava che dirle chi lui fosse davvero l'avrebbe fatta scoppiare e gli avrebbe dato modo di odiarla o anche solo disprezzarla come tutti gli altri esseri umani. Invece no. Tutto quello che aveva ricavato da quel dialogo era stato rispetto e stima. Doveva inoltre ammettere che, da una parte, voleva anche dirle per motivi personali chi era davvero lui. Non poteva sopportare di mentire così spudoratamente a una persona che stimava. Dal canto suo, Castiga non sapeva che dire. Nonostante tutto, non lo disprezzava. Lui era coerente, lui seguiva un suo sentiero. Erano in caso i Seguaci che facevano altro. Ma soprattutto, era probabilmente Geechisu a fare un po' quel che voleva. Le veniva da pensare che l'uomo ogni tanto prendesse l'iniziativa e desse ordini senza il consenso di N. Sovrano o non sovrano, N le stava simpatico. E niente le avrebbe fatto cambiare opinione su di lui.
Il giro finì nel più completo silenzio. La loro navicella tornò al punto di partenza e i due scesero. Senza guardarsi uscirono dall’edificio che porta alla ruota, e, all’ingresso, si voltarono, uno di fronte all’altra. Occhi negli occhi.
«N!» chiamò uno dei due seguaci che la ragazza stava inseguendo, arrivando lì con il compagno, notando la presenza della ragazza e quindi temendo il peggio: «Tutto bene?»
«Tutto bene, sì.» rispose lui, senza staccare gli occhi verdi fissi dentro quelli rossi di Castiga: «È mio dovere proteggere chi vuole veramente il bene dei Pokémon. Mentre lotto, voi allontanatevi immediatamente da qui.
Allora, Castiga, capisci il mio piano?»
«Naturalmente.»
«Mi auguro che la tua risposta sia sincera. Ne sarei felice. Ho un futuro ben chiaro in mente. Non voglio sconfiggerti, non voglio lottare, ma ti affronterò comunque, per permettere al Team Plasma di fuggire.»
«Allora sarete tu e i tuoi Pokémon a subire la nostra ira.» rispose solo lei e la lotta cominciò.
N mandò in campo, in ordine: Sandile, Darumaka, Scraggy e Sigilyph, che vennero sconfitti insieme a Hoshi e Wargle. Rimase in piedi solo Maru che vinse per poco. Lei sorrise, accarezzando il suo coraggioso Dewott, e commentò: «Ancora cambio Pokémon vedo…»
«Come ben sai.» rispose lui, sorridendo nel vedere con quanto affetto quei due si stessero facendo le coccole: «Sei forte… ma il futuro va cambiato e questo spetta a me!»
Il ragazzo si avvicinò a lei; i loro visi erano vicinissimi. E si fissavano dritti negli occhi, con sfida, ma anche con grande rispetto: «Sconfiggerò anche il Campione e diventerò imbattibile… senza rivali. Farò in modo che tutti gli Allenatori liberino i loro Pokémon. Tu speri di stare sempre insieme ai tuoi Pokémon? È questo il tuo desiderio? E allora colleziona le Medaglie delle varie città e poi dirigiti alla Lega Pokémon! Una volta là, prova a fermarmi! Se il tuo spirito non è saldo, non ce la fari mai a fermarmi.»
Le sorrise, come sempre con quel sorriso ambiguo, dal quale non si capiva cosa volesse veramente, se sfidarla, se volerla come amica, o che altro, e se ne andò. Castiga lo fissò camminare e mormorò: «Mi stai simpatico, ma vai fermato. Se mi porti via Maru, giuro che ti uccido.»
Il Dewott, che era lì con lei, appoggiò la testa alla sua mano; sperava di spegnere i moti di ira. Lei lo accarezzò e mormorò: «Vieni Maru… andiamo al Centro Pokémon.»

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Capitolo 34
*** Intermezzo: Amicizia ***


«Castì!» esclamò una voce mentre Castiga usciva dal centro Pokémon. La lotta con N aveva debilitato molto i suoi amici Pokémon e scosso lei. Più incontrava quel ragazzo, meno capiva il senso dei suoi discorsi. Non voleva che la gente sfruttasse i Pokémon ma combatteva, era del team Plasma ma mezza roba non la conosceva...
Si voltò e vide arrivare Belle di corsa. Aspettandola, la guardò e salutò: «Ciao, Belle. Che cosa succede?»
«Devi venire a vedere il Musical! Dai, dai, dai!» le rispose lei agitata ed emozionata insieme. Sembrava particolarmente felice in quel momento. La prese per un braccio, scatenandole una certa irritazione, e la trascinò fino al Teatro del Pokémon Musical. Mentre camminava, Castiga ebbe l’occasione di guardare la città. Era davvero colpita: Sciroccopoli era una città molto colorata, con molti teatri per lo svago e poche case. E naturalmente l'enorme Luna Park, a destra della Palestra Pokémon. Le due ragazze entrarono nel teatro e Castiga fu costretta da Belle ad agghindare Hoshi; era l'unica femmina e quindi l'unica che potesse prestarsi per l'abbigliamento pensato dalla bionda amica. Entrambe erano molto seccate.
«Per favore Hoshi, niente fulmini. Abbi pazienza con Belle.» mormorò la ragazza alla zebra, con un tono tutt’altro che paziente. Sbuffando, le vennero in mente le parole della professoressa Aralia, così pensò: “Rendere gli amici felici, così ha detto. Belle sembra molto contenta. Dai, facciamo questo sacrificio.”
Quando il supplizio fu terminato, Belle e Castiga uscirono; la prima era il ritratto della felicità, mentre l'altra non ne poteva più di quel tormento. Un uomo però sbarrò loro la strada; Belle si bloccò ed esclamò: «Papà?!»
«Ciao, Belle. Ti vedo bene!» salutò lui, avvicinandosi e raddrizzandole il cappello sulla testa.
Lei arretrò di qualche passo, sempre più vicina all'amica, e chiese: «Che ci fai qui, papà?»
«Sono venuto a riportarti a casa.»
«Che cosa?!» esclamò lei, aggrappandosi al braccio di Castiga, che la fissò accigliata ma non ritenne opportuno intervenire e sbottarle qualcosa, vista la situazione.
Lui allargò il sorriso e spiegò: «Tua madre mi ha detto che sei arrivata fin qua. Ed è abbastanza! Torniamo a casa!»
«Ma papà…» cercò di replicare lei, deglutendo; era la prima volta che andava contro una decisione del padre ed era molto agitata; fattasi forza, rispose: «Io non voglio tornare a casa. Questo viaggio mi sta facendo crescere, è bellissimo e non intendo mollare! Voglio andare alla Lega e aiutare i miei amici a sconfiggere il Team Plasma!»
Il padre la afferrò con decisione per le spalle e, alzando la voce, replicò: «Ecco! È per questo che non ti lascerò proseguire oltre! Quegli uomini sono dei criminali, Belle! Ti possono fare del male!»
«Ma…» borbottò lei, cercando qualcosa, qualunque cosa, da replicare.
«Continua il tuo viaggio, ragazzina.» esclamò una voce, interrompendo il dibattito.
Arrivò sul posto una donna bionda, magra, alta e slanciata; il padre di Belle le intimò di restarne fuori, ma lei rispose, quasi con fierezza: «Mi chiamo Camelia. Sono la Leader di Sciroccopoli e faccio anche la modella.»
Castiga restò a guardare mentre lei, dopo una pausa ad effetto, proseguì con il suo discorso, come se qualcuno le avesse chiesto la sua idea in merito: «Ci sono tante persone al mondo, ognuna con le proprie idee. E queste idee sono così diverse, a volte, che inevitabilmente si finisce per soffrire o per far soffrire gli altri.»
«Esatto!» esclamò il padre di Belle, dandole corda, pensando di aver trovato un appoggio: «Ed è proprio questo che mi preoccupa… Belle potrebbe farsi male e io ho il dovere di proteggerla!»
«Sì, è comprensibile» rispose Camelia, ormai dedicandogli la sua completa attenzione: «Però… È importante avere questo tipo di esperienze per imparare che è del tutto naturale avere diverse visioni del mondo. E poi è rassicurante sapere che accanto agli Allenatori ci sono sempre i Pokémon, che non sono solo carini, ma anche affidabili nel momento del bisogno.»
Belle si avvicinò al padre e, insieme a Camelia, lo convinse a lasciarla proseguire. Lui fu molto restio, non voleva in alcun modo cedere, ma alla fine dovette arrendersi. Prima di andare però, si voltò verso l'amica della figlia, che non aveva ancora detto una parola, e borbottò: «Castiga, prenditi cura della mia piccola Belle. Te ne prego»
Poi si voltò e si diresse con passo deciso verso il varco che portava al percorso 4, verso casa.
«Spero di non essere stata inopportuna.» disse Camelia a Belle, mentre Castiga guardava perplessa l’uomo che se ne andava, perplessa dal fatto che la conoscesse: «Ma mi sembravi in difficoltà e ho pensato di intervenire.»
«Sei stata gentile, Camelia. Grazie.» disse Belle, sorridendo, felice di averlo convinto.
Camelia ricambiò e riprese, guardando entrambe: «Siete Allenatrici, vero? Spero di vedervi nella mia Palestra. Vi farò toccare con mano le difficoltà che si incontrano viaggiando.»
Belle annuì e, indicando l'amica, rispose: «Io no, per ora. Ma la mia amica Castiga di sicuro!»
Camelia guardò la ragazza sorridendo, ma cambiò espressione di colpo; rabbrividì sotto quello sguardo gelato, di sfida. Deglutendo, se ne andò guardandosi le spalle. Si sentiva in pericolo e non ne capiva la ragione. Era solo una ragazza...
Belle, invece, che ormai si era abituata al gelo dell’amica, le si avvicinò e disse: «Che classe! Vorrei diventare come lei un giorno! Mi raccomando, amica mia, sconfiggila! So che puoi farcela!»
Castiga alzò il pollice, senza più volontà di minaccia, e rispose, sorridendo: «Ci puoi scommettere… non ci sarà Emolga che tenga!»
L'altra sorrise e, sapendo quanto amasse stare da sola e in pace prima di uno scontro, la congedò e disse: «Allora io vado al Musical. Ci vediamo, Castì!»
«Aspetta, Belle.» la fermò però Castiga, prima che corresse via.
«Cosa c’è?»
«Perché tuo padre non vuole che tu vada in viaggio?»
Belle arrossì di colpo; per dissimulare l'imbarazzo, balbetto: «Oh… non… non è nulla tranquilla!»
“Ma perché mi interessa così tanto, maledizione?!” pensò Castiga, irritata da quella strana curiosità che le era sorta, per poi dire: «Dai, Belle. Ci deve pur essere un motivo.»
La bionda guardò l’amica ancora imbarazzata, poi disse: «Mio padre ha paura che mi faccia del male. Prima di partire con Cheren per seguirti sono andata a dirglielo e si è arrabbiato. La professoressa l’ha convinto a farmi partire parlandogli di te. Ha detto che se sono con te non corro alcun pericolo e allora oggi è voluto venire a verificare. A quanto pare si è convinto che è vero.»
«Apprensivo il paparino.» commentò solo lei, con un tono sarcastico, ma poi aggiunse: «Perché non volevi dirmelo?»
Belle avvampò, sempre più a disagio, ma sotto il suo sguardo tra il curioso e il minaccioso, mormorò: «Perché… so che sei sola e non mi sembrava carino dirti dei miei problemi con mio padre. Almeno ho la fortuna di avercelo, ecco.»
Castiga le sorrise e le diede una pacca sulla spalla, mormorando: «Fatti meno problemi la prossima volta.»
Poi si allontanò, andando verso la palestra. Belle la guardò andare via sorridendo e, annuendo, andò nel teatro.
Mentre camminava, Castiga pensava, come sempre, al comportamento della gente intorno a lei. Non le sarebbe mai venuta in mente una cosa del genere: “Questi due sono sempre più strani. Perché Belle si preoccupava di quanto mi avrebbero ferito le sue parole. Non ha senso.”
Ci pensò su e poi concluse: “Forse era questo che intendeva la prof. Belle non voleva rendermi infelice perché… mi reputa sua amica. E quindi vuole che io sia felice. Il ragionamento torna. È logico. Molto, molto logico.”
Si riscosse di colpo, bloccandosi in mezzo alla strada. Picchiandosi una mano sulla fronte, borbottò: «Basta pensare a Belle. Ho una Medaglia da vincere!»
Fece uscire i suoi Pokémon, pronta per il discorso prima dell'allenamento. Dovevano prendere quella lotta seriamente e non adagiarsi sugli allori per via delle ultime vittorie.
«Allora, ragazzi.» esordì rivolta loro: «E ragazze.» aggiunse facendo un cenno a Hoshi: «La Leader Camelia ha un Emolga e quel maledetto vola. Non abbiamo niente per sopraffarlo efficacemente, quindi andremo ad allenarci nel Deserto della Quiete. Dobbiamo avere quella Medaglia!»
Maru, Hoshi, Wargle e l’ultimo arrivato Warubiaru il Sandile annuirono con grinta. E così Castiga cominciò gli Allenamenti. I Pokémon erano sfiniti ogni giorno ma lei non li lasciava respirare; dovevano essere pronti. E così furono quando si presentarono davanti alla Palestra: una squadra di quattro Pokémon determinati a vincere. Li fece rientrare e poi entrò in Palestra. Rimase scioccata sulla soglia. Davanti a lei c’erano dei binari colorati e fosforescenti e una navicella delle montagne russe, aperta e pronta a partire.
«Ma che…?» borbottò sconvolta.
Il Giudice di gara la raggiunse e disse: «Salve, sfidante! Questa Palestra è stata costruita prendendo come esempio il famoso Luna Park di Sciroccopoli! Sali sulle montagne russe e scova la nostra Leader!»
Con ancora lo shock dipinto in faccia, Castiga salì sulla prima navicella che, dopo un percorso segnato da alcune lucine blu, si fermò. Lei scese e si guardò intorno. Era su una piattaforma, vuota, tranne che per un pulsante viola. Perplessa, lo cliccò e una voce metallica disse: «Percorso dei binari cambiato!»
La ragazza si voltò verso la navicella e vide che ora le lucine blu erano viola e segnavano un nuovo percorso.
Divertita, si lasciò scappare un sorriso ed esclamò: «Che forza questo posto!»
Salì di nuovo sulla navicella e ripartì. Cambiò il percorso quattro volte, spostandosi in tutta la palestra con varie navicelle finché, nell’ultima piazzola, esattamente nel centro dell’edificio, trovò Camelia. La lotta fu molto dura: i due Emolga della Leader usavano spesso e volentieri l’attacco Invertivolt, che provocava danno e poi obbligava la sostituzione. Quindi ogni strategia della ragazza falliva, perché obbligata al cambio, doveva cambiare anche i piani. Mentre meditava sulla mossa da fare, masticandosi quasi un labbro a sangue per la rabbia di non avere soluzioni, Castiga sentì due voci incitarla. Si voltò verso gli spalti e vide Belle e Cheren, seduti, che la incoraggiavano a lottare. Era strano, ma le faceva piacere. Non le era mai successo prima. Si impegnò di più e inventò una strategia che si basava sull’abilità di Hoshi, Elettrorapid, che assorbì gli attacchi elettrici, aumentando la velocità della zebra. In questo modo, bloccando l’Invertivolt, Hoshi divenne talmente veloce che stese in un battibaleno entrambi gli Emolga. Poi fu il turno della Zebstrika di Camelia, che venne sconfitta dalla Fossa di Warubiaru.

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Capitolo 35
*** Capitolo 34 ***


«E vinsi così la Medaglia Volt.» concluse Castiga, ancora soddisfatta di quella vittoria molto sudata ma anche molto studiata. Una forse delle più dure affrontate in tutto il viaggio.
«Eri un po’ confusa, eh?» chiese Raphael, conoscendola e immaginando quanto poco riuscisse a capire dei problemi dell'amica.
«Non sai quanto.» rispose lei, posandosi al vetro della navicella: «Non capivo le reazioni di Belle, non capivo i suoi sentimenti, le sue paure, i suoi desideri... era tutto così incomprensibile. Riducevo tutto al piano razionale, logico, perché altro non sapevo fare. I miei unici contatti umani erano stati con le mie vittime o con Giovanni, prima della prof, quindi... era tutto nuovo ed estremamente strano.»
Lui sedette accanto a lei e chiese: «Però ora va meglio no?»
«Sì, direi di sì. Ma devo imparare ancora tanto, in questo senso...» borbottò Castiga, un po' giù di corda. Raphael fece per dire qualcosa e farla almeno sorridere, ma lei ridacchiò e buttò lì: «Sai che poi Belle mi chiese di lottare con lei?»
«Davvero?»
«Sì e io non sapevo come fare. Alla fine riuscii a farle capire quello che volevo, anche se mi diede del mostro.»
«Addirittura? Che hai combinato?»
Lei sorrise, facendo il gesto di chiudersi la bocca con le dita, e rispose: «Te lo racconterò, ma Belle e il Dottore devono aggiungere la loro parte.»
Lui annuì e la ragazza guardò fuori. Avevano appena superato la metà della circonferenza. Quella ruota era davvero enorme. Raphael le mise un braccio intorno alle spalle e la strinse a lui; lei, con un ghigno malvagio, chiese: «Secondo te Cheren è saltato addosso a Belle?»
«In effetti, questo è forse uno dei posti più romantici del mondo… ma non credo.» rispose definitivo lui, scuotendo la testa e alzando gli occhi al cielo.
«Forse hai ragione. È troppo timido.» assentì lei, per poi commentare, con tono provocatorio: «Non sono mica tutti come te.»
Lui le fece la linguaccia stizzito, ma rispose prontamente, guardando a lato: «Intanto ho ottenuto qualcosa.»
«Attento a non adagiarti troppo signorino...» buttò lì lei, con tono di minaccia.
Raphael tornò a fissarla, con il terrore negli occhi, e balbettò: «Ma... io, cioè... cosa intendi con... insomma...»
Castiga ridacchiò e gli diede un buffetto, scuotendo la testa. Lui si imbronciò e mormorò: «Sadica. Ricordami ogni tanto che un po' cattiva sei rimasta...»
Lei ridacchiò e rispose: «Non bastano tutte le derisioni a Belle e Cheren?»
«In effetti, ogni tanto ci vai giù pesante. Ma con me di più!» piagnucolò lui, incrociando le braccia.
«Che bambinetto scemo che sei.» commentò lei con disappunto, accarezzandogli la testa e lasciandosi abbracciare. Bastava così poco per fargli passare il broncio. Il giro finì tra le coccole e i due scesero dalla ruota panoramica, ricongiungendosi poco dopo con gli amici.
«Che ruota enorme!!» esclamò Belle, saltellando come una bambina a Natale.
«Già. Ho avuto il tempo di raccontare quando ho incontrato N.» assentì Castiga, guardandola sorridente: «E sì che è lunga.»
Raphael assentì e aggiunse: «Stava per dirmi della lotta con Belle, ma ha detto che voleva aspettare voi.»
«Mi mancano pezzi.» si giustificò subito la ragazza.
«Beh, ora ci siamo!» esclamò Belle, entusiasta di essere parte integrante della narrazione: «Comincia tu e noi aggiungiamo quel che non sai!»
«Agli ordini!»
~§~
 
INTERMEZZO: BELLE
 
Castiga uscì dalla Palestra di Sciroccopoli con i due amici, commentando la lotta appena conclusa.
«Vedervi combattere mi ha dato molte idee per la mia strategia!» stava dicendo Cheren, animato: «Mi ci vorrà molto impegno per sconfiggerla, ma ce la posso fare!»
«Non sia mai che il Dottore perda!» ridacchiò Castiga, divertita vista la sua sicurezza.
Belle rise e il ragazzo si congedò, per andare nel Deserto ad allenarsi e ottenere anche lui quella preziosissima medaglia. Le due ragazze invece proseguirono sul viale della città, continuando a parlare. Belle prese un respiro profondo e, in un momento di silenzio, chiamò, titubante: «Castì…»
L'amica, che si era persa nei suoi pensieri, si riscosse e borbottò: «Mmh? Hai detto qualcosa?»
«Sì. Posso chiederti un favore?»
«Certo.»
Dopo aver deglutito, imbarazzata, le chiese: «Faresti una lotta con me? Per vedere se posso provare ad affrontare Camelia.»
«Oh. Sì, va bene Belle.» rispose istintivamente; poi però si bloccò, pensando ad una cosa, e aggiunse: « Però puoi aspettare qui un secondo?»
Con un sorriso di gioia dipinto in faccia, Belle annuì. Castiga andò al Centro Pokémon, diede la squadra all’infermiera e prese l’Interpoké. Dopo aver selezionato il destinatario, attese e quando la persona all'altro capo rispose, salutò dicendo: «Salve, prof.»
«Ciao, Athena!» ricambiò lei, sorridente: «Come mai questa chiamata? Tutto bene?»
«Sì, stia tranquilla.» rispose la ragazza, buttando lì, tanto per dire: «Ho vinto la Medaglia Volt.»
«Non avevo dubbi!» sorrise lei, sapendo quanto fosse forte: «Ma non è questo il motivo della chiamata, vero?»
La ragazza scosse la testa e rispose: «No. Lei ha parlato di me al padre di Belle.»
Non era una domanda. E nemmeno un’accusa. Più una constatazione.
Aurea ponderò cosa dire, poi semplicemente, assentì e chiese: «E allora?»
«Che cosa gli ha detto?»
«Niente di preoccupante, stai tranquilla! Gli ho detto che sei una ragazza coraggiosa e in gamba, che non hai paura di niente e che Belle poteva essere al sicuro in viaggio con te. Tutto qui.»
Athena rifletté su quella risposta, poi chiese, ancora: «Solo questo?»
La donna annuì, non capendo che problemi ci fossero. Non poteva davvero credere che avrebbe detto a tutti chi era davvero. Avrebbe ottenuto solo aggressioni alla ragazza e disprezzo nei suoi confronti. Era una follia anche solo pensarlo. Ma probabilmente, da buona maniaca del controllo quale era, voleva solo essere sicura che fosse tutto a posto. Athena interruppe le sue riflessioni e mormorò: «C’è un’altra cosa.»
«Cioè?»
Dopo una pausa, per pensare a come spiegare cosa sentiva -cosa non facile-, la ragazza sbottò: «Belle mi ha chiesto di lottare con lei per vedere se è in grado di affrontare Camelia. Ecco io… non so come gestire la cosa.»
«In che senso?» chiese Aurea, davvero perplessa, incalzandola a parlare per capire meglio la situazione.
«Ho sempre combattuto con l’idea di abbattere l’avversario. Non so come fare con Belle. E ho paura che dica o faccia qualcosa in reazione che riesca a farmi perdere la testa. Una volta non temevo niente ma ora... non mi conosco più. Sarò sincera, non so cosa aspettarmi da me stessa... ho avuto reazioni completamente insensate che mai avrei pensato.»
La studiosa annuì, riflettendo su quel discorso. Era il suo tentativo di renderla umana a renderla anche più instabile di quanto non lo fosse già? Vedendo una sincera paura nel fondo di quegli occhi rossi, cercò qualcosa da dire; da una parte però era contenta: quel timore dimostrava il bene che ormai voleva per i suoi amici, anche se forse non se ne rendeva conto.
«Tu devi solo correggerla, ok? Non aggredirla, non andarci giù pesante. In questo modo non dovresti avere problemi... neanche di reazioni negative.»
La ragazza annuì, registrando i consigli e riflettendo su cosa fare, salutò e chiuse la chiamata. Pensò a lungo, poi tornò da Belle, e, quando vide quello sguardo di fiducia e di amicizia, annuì. Cominciarono la lotta. Per facilitare Belle, Castiga mandò in campo Wargle che era il suo più debole, mentre Belle mandò Pignite. Dopo poche mosse, Castiga si rese conto che Belle non metteva il cuore nelle lotte. Aveva paura di tutto, anche che Pignite e Wargle si facessero male, e non si impegnava molto. Non faceva errori grossolani, e anzi, aveva ben chiaro come si lotta. Ma le mancava quello spirito, quella grinta che nella lotta è fondamentale. Athena notò anche che il Pokémon Fuoco si tratteneva; non usava appieno la sua forza per non turbare Belle. Dopo aver riflettuto, decise di fare a modo suo. Reazioni negative o meno, non aveva importanza. Se Belle doveva imparare cosa voleva dire il legame vero e autentico con un Pokémon, due cuori che combattono insieme, che battono insieme, per una vittoria comune... cos'era quell'inutile e infimo legame tra di loro? Amicizia? Forse, si rispose, ma non era di certo così importante.
«Wargle, ritorna. Vai Maru.»
Belle si fece preoccupata, ma Castiga mise da parte il sentimento di leggero affetto che provava per lei. Cominciò ad attaccare con Conchilama a ripetizione. Quando era così concentrata, tendeva ad assumere la classica posizione d’attacco che ancora oggi terrorizza Kanto e Johto: piede destro avanti, sinistro dietro di traverso, braccia incrociate e sguardo serio, deciso. Mancava solo il pugnale e il sogghigno sadico, ma non erano necessari. Intensificando gli attacchi, pensò: “Andiamo, Belle. Reagisci. Arrabbiati. Dimostrami che sei in grado di lottare!” 
Aveva calcolato tutto alla minima precisione, Pignite poteva resistere, ma solo se Belle gli dava la grinta per farlo. Finalmente la sua pazienza venne premiata; con le lacrime agli occhi, Belle cominciò a incitare Pignite, dandogli coraggio, anche se piangendo. Il Pokémon, illuminato dalla luce dell’entusiasmo, carico della fiducia della sua compagna, combatté come un leone, mettendo in difficoltà Maru. Alla fine dell’incontro, dopo un ultimo colpo, Pignite cadde e Belle corse a soccorrerlo, urlando: «Pignite! Cosa gli hai fatto? Ti odio! Sei cattiva! Sei un mostro!»
Abbracciò il Pokémon, piangendo e urlando. Il tempo di abbassare la testa e rialzare lo sguardo che l’amica era svanita. Il dolore per quel che era successo soffocò il disagio di essere rimasta sola. Belle si alzò e portò il suo Pokémon al centro, dove si riprese in breve tempo. Fatto rientrare Pignite, uscì e incontrò Cheren, di ritorno dall'allenamento nel deserto.
«Ciao.» lo salutò, con ancora gli occhi verdi lucidi di lacrime.
Cheren la fissò sconvolto, notando subito i segni, ed esclamò: «Belle, tu hai pianto! Che cosa ti è successo?»
Singhiozzando, la biondina raccontò tutto, e Cheren le sorrise; la prese per mano e mormorò: «Vieni con me. Voglio mostrarti una cosa.»
Belle seguì l’amico dietro degli alberi e sbirciò la radura che lui le indicò. Lì c’era Castiga che stava allenando Warubiaru, facendolo combattere contro Maru; il Sandile finì per l’ennesima volta a terra colpito dal Conchilama, un attacco che aveva molto effetto su di lui.
«Andiamo, Warubiaru!» esclamò la ragazza, cercando la sintonia, cercando di capire il modo per comunicare con lui per fargli capire ciò che intendeva: «Tu puoi fermare il Conchilama! Ricordati che volere è potere! Solo se ti convinci che puoi, lo farai! Non temere... io sono qui, per aiutarti. Non sei solo, non lo sarai mai... so che è dura, ma so che puoi farcela!»
*«Mi hai convinto.»* rispose lui, rialzandosi, con la determinazione nello sguardo: *«Io fermerò quell'acqua!»*
Cadde a terra un paio di volte, ma non si arrese finché riuscì ad afferrare la lama d’acqua con il Morso, bloccando l’offensiva.
«Sì!» borbottò Castiga con un sorrisetto; aveva la gioia nello sguardo, quella che emergeva solo quando lei e i suoi Pokémon riuscivano a trovare una sintonia, a cementare un legame che sarebbe durato in eterno.
«Maru, Pistolacqua! Warubiaru, proteggiti con il Sabbiotomba!»
I due Pokémon eseguirono e Warubiaru riuscì a difendersi da tutti gli attacchi d’acqua, sotto gli occhi meravigliati di Belle. Cheren mormorò, per spiegarsi: «Prima l’ho vista con Hoshi. Faceva la stessa cosa, solo che usava Warubiaru per allenarla. Sono rimasto altrettanto scioccato. E credo che abbia fatto lo stesso con te. Ti ha spinta a reagire, a dare il massimo e a vincere insieme a Pignite, non per mezzo di lui.»
Belle ci pensò su. Effettivamente non aveva mai visto Pignite combattere così bene e con così tanta grinta.
“Metterci il cuore, non solo la forza. Forse, forse ho capito. Grazie, Castì.” pensò Belle, grata di quella importante lezione. Un pensiero però le attraversò la mente e lei mormorò, seriamente preoccupata: «Cheren. Io non so se mi vorrà parlare ancora.»
«Perché?»
Imbarazzata, l'amica ammise: «Le ho detto che è cattiva e che è un mostro..»
Cheren si fece preoccupato. E se l’amica si fosse offesa?
«Che cosa facciamo Cheren?» chiese l'altra, con una punta di vera ansia nella voce. Forse non voleva più avere a che fare con loro, li odiava...
«Vai a chiederle scusa. Forse potremmo ancora viaggiare insieme.»
Belle annuì, ma aveva paura di affrontarla. Nonostante le volesse bene, le faceva ancora tanta paura quella ragazza sempre tetra.
«Hoshi!» sentirono gridare, mentre confabulavano. Castiga corse verso la sua zebra, che si era accasciata al suolo.
*«Mi dispiace...»* sussurrò lei, sul punto di svenire.
«Buona Hoshi, va tutto bene.» mormorò la ragazza, sostenendola mentre prendeva delle medicine dallo zaino: «Ecco, mangia questo. Ti sentirai meglio.»
Belle e Cheren erano stupiti. Non avevano mai visto Castiga con un tono di voce così dolce, con uno sguardo così preoccupato ma amorevole. Non l'avevano mai vista comportarsi così umanamente con una persona. Con i Pokémon sembrava quasi trasformarsi.
La zebra eseguì, mangiando la bacca che le era stata porta, ma Castiga si voltò di scatto, sentendo muoversi i cespugli. Socchiudendo gli occhi sospettosa, ordinò: «Maru, vai a vedere se è qualcuno di ostile. Io intanto aiuto Hoshi.»
*«Sì, capo!»* rispose lui, annuendo. Belle e Cheren si nascosero su un albero, sfuggendo al vigile Dewott; non volevano che Castiga scoprisse che la stavano spiando, ma la ragazza disse, ridacchiando: «Perché non venite giù da quell’albero, spioni? Volete spaccarvi i denti?»
I due amici si guardarono e scesero, rossi in volto, imbarazzati di essere stati scoperti così. Senza riuscire a smettere di ridacchiare, Castiga fece rientrare tutti tranne Maru e si diresse verso la città. Belle, però, la fermò, sbarrandole la strada, e disse, tutto d’un fiato e abbassando il capo: «Scusami! Non volevo offenderti!»
Dato che non riceveva risposta, alzò lo sguardo e vide che l’amica stava sorridendo. Castiga le arruffò i capelli con un gesto amichevole e disse, andandosene: «Ti fai troppi problemi, Belle. Troppi.»
Ritornarono in città per passare la notte; la mattina dopo, si sarebbero allenati e poi Belle e Cheren avrebbero tentato contro Camelia. Quella sera, si accamparono come sempre per dormire. Castiga faticava a prendere sonno e, confermato che gli altri due umani stavano dormendo, Maru mormorò: *«Ehi, Castiga. Dormi?»*
«Non ancora... che c'è?» chiese lei di risposta, a bassa voce per non svegliare gli altri.
*«Che ti è successo?»*
«Cosa intendi?»
Maru sorrise e spiegò: *«Sei stata molto più gentile del solito con Belle. Eppure ti ha detto parole pesanti.»*
Castiga ridacchiò, divertita dal metro di misura del suo amico e replicò: «Parole pesanti? Piccolo mio, non hai sentito niente. Mi hanno rivolto insulti ben peggiori di un “sei un mostro”. E non me la sento nemmeno di darle torto. Comunque, sì, sono stata gentile, ma c'è un motivo: so cosa vuol dire vedere il proprio Pokémon che soffre e quindi so come si è sentita Belle. Io avevo quella sensazione quando sono morti i miei migliori amici... quindi sì, ti dirò che avrei tollerato molto peggio di quello che ha realmente detto. Cosa, lo ammetto, non frequente.»
*«Sei più buona di quanto pensi...»* mormorò il Dewott, sorridendo dolcemente.
«Ah-ha.» fece finta di concordare lei, non troppo concorde in realtà. Erano tutti matti: lui, la prof, quei due pazzi di... amici. Pazzi che volevano stringere chissà quale legame con il Demone Rosso.
La mattina si incamminarono sul Percorso 5, verso Libecciopoli ma soprattutto verso Allenatori da sfidare per allenarsi, diventare più forti e arrivare alla Lega. Arrivati sulla strada, dopo il varco di Sciroccopoli, oltrepassarono un viale in un parco dove però vennero fermati da dei motociclisti che, annoiati, pensarono bene di passare il tempo schernendo quelli che per loro erano solo tre bambinetti indifesi.
«Ehi, guardate!» esclamò uno: «Ciao, bei bambini! Dove andate di bello?»
Castiga si voltò di colpo, squadrandoli furiosa, mentre Cheren si metteva davanti a Belle per proteggerla. Quei tizi sembravano pericolosi: era meglio allontanarsi al più presto e mettersi in salvo. Maru si accostò alla sua allenatrice e mormorò: *«Calma, Castiga. Andiamo via.» *
Ormai conosceva la sua allenatrice. Ormai sapeva quasi tutte le situazioni che potevano farla scattare. Le prese la mano e la condusse via ma lo notarono i motociclisti e uno urlò: «Guardatela! Poverina, ha paura e si fa tenere la manina da un Pokémon!»
Castiga scattò ma Maru riuscì a trattenerla, stringendole forte la mano; l'affetto che lei provava per quel piccolo Pokémon le impediva di strattonarlo e liberarsi, rischiando di ferirlo. Prima che la situazione potesse degenerare in un bagno di sangue, giunse sul posto Camelia, la Leader di Sciroccopoli, che, avendo sentito il baccano, era accorsa. Arrivata e compresa la situazione, prese immediatamente le loro difese. Quelli fecero ancora gli spacconi, ma, nonostante fosse una donna, Camelia era anche una Leader. Avere il Campione rabbioso addosso non era proprio uno dei loro desideri. Così, ridacchiando per non perdere del tutto la faccia, se ne andarono. Belle e Cheren ringraziarono la donna ma Castiga restò zitta. Si era lasciata insultare così, senza fare niente. E per di più, facendosi proteggere da questa tipa che non era nessuno in confronto a lei. Il Demone Rosso non aveva bisogno di protezione. E la reazione arrivò ben presto. Nella sua testa, la voce di Giovanni cominciò a dirle: «E ora ti fai pure mettere i piedi in testa?»
Gli amici si erano già incamminati, così non la sentirono borbottare di risposta: «Non è vero.»
Maru le teneva la mano, la abbracciava alla vita, per cercare di starle vicino, ma non capiva cosa stesse dicendo. A chi stava rispondendo? Castiga si costrinse a proseguire, ancora irritata, e sbottò: «Andiamo via.»
Il Dewott la guardò per un momento, non la sentì più parlare e si tranquillizzò. Pensò che fosse tutto a posto e raggiunse Belle e Cheren per dare loro la buona notizia. Anche loro avevano visto l'amica un po' troppo tesa ed erano preoccupati. Fu in quel momento che Athena sorrise.
«Ecco fatto, capo. Posso agire indisturbata.» dichiarò, per poi voltarsi e sparire.
Aveva recitato perfettamente: aveva finto di essersi calmata per ingannarlo e allontanarlo. Sapeva di potercela fare... lui non era Pidg. Lui non la capiva come Pidg. Con ancora quel sorriso sanguinario sulle labbra, si voltò e sparì. Cercò i motociclisti per tutto il parco e, finalmente, dopo lunghe ricerche, li trovò. Li seguì, prendendo un ferro d’armatura da un cantiere chiuso, e quando furono in uno spiazzo isolato, li raggiunse.
«Ehi, voi.» chiamò, minacciosa, facendo roteare il ferro.
«Ma guarda un po’. La bambina di prima. Che c’è, vuoi farcela pagare?» le rispose uno della banda, con tono di scherno.
«Contaci.» rispose solo lei, leccandosi le labbra, con un ghigno assassino dipinto in faccia.
Non la prendevano sul serio, nonostante avesse due metri di ferro in mano; questo fu il loro più grave errore.
Athena si avvicinò con passo lento, mentre loro la schernivano ridendo. Il capo della banda le andò incontro, per fare il gradasso, e fu il primo a morire. Tre sprangate in testa e crollò come un birillo. Ormai lei era scatenata, e non si sarebbe fermata finché la rabbia non fosse scomparsa. Quando ebbe finito, gettò a terra il ferro e ripiegò sulla lama. Finito il massacro, stava molto meglio. Nessuno poteva permettersi di insultarla. E anche Giovanni era tornato silenzioso nella sua testa. All'improvviso, un pugnale sbucò da dietro un albero e le sfregiò un fianco. Un motociclista si era nascosto e aveva tentato di vendicare i suoi compagni. Ma la mano gli era tremata, ancora scosso da ciò che aveva visto, e aveva mancato il bersaglio. Si prese più sprangate di tutti e morì dopo una lenta ma dolorosa tortura.
Athena, prima di tornare in città, doveva fare una cosa. Prese l’Interpoke e chiamò Aurea.
«Ciao, Athena!» salutò allegra la studiosa. Ma quando vide quella faccia, quello sguardo ancora eccitato e pieno di euforia, chiese, cauta: «Cos’è successo?»
«Ho fatto una cosa cattiva… tanto cattiva.» mormorò lei, mentre tentava di riprendere il controllo di sé.
Aurea cercò di infonderle calma con la voce e mormorò: «Ascolta. Siediti tranquilla e raccontami cos’è successo.»
La ragazza annuì, e sedette, con il mento sulle ginocchia, posando l’Interpoké in terra, davanti a lei.
«Siamo arrivati nel percorso e… quei tizi ci hanno insultati. Volevo passarci sopra, ma poi è arrivata Camelia e li ha mandati via, come se non potessimo difenderci da soli. Lì sono esplosa. Nessuno è più forte di me. Io posso comandare. Allora... Li ho inseguiti e li ho uccisi con una spranga di ferro.»
Aurea sbiancò, rabbrividendo; una cosa così terribile detta con un tono tranquillissimo, era orribile. Ma cercò di non farlo notare e chiese: «E… Camelia?»
«Sta bene. È con Belle e Cheren.»
Aurea stava pensando a cosa dire per essere rassicurante ma sentì la ragazza mormorare: «Non è possibile recuperarmi… sono un caso perso, un mostro…»
«No, non dire così. Vedrai, la cura andrà meglio! Stai già un po’ guarendo, no? Eviti di fare male a Belle e Cheren. Devi solo avere pazienza.»
«Lei ne è sicura?»
«Al cento per cento.» rispose convinta la studiosa, sperando che un po' della sua fiducia passasse a lei, che riuscisse anche lei a credere alla sua guarigione: «Sono sicura che prima o poi, riusciremo a trovare il modo per contenere questa... cosa. Vai da Belle e Cheren, stai in loro compagnia e vedrai che ti sentirai meglio. Vai da Maru. Isolarti non fa altro che peggiorare il tuo stato d’animo.»
Athena non ripose e la studiosa aggiunse: «Non sono arrabbiata… non pretendo che tu faccia miracoli da un giorno all’altro. Ma stai migliorando e questo mi consola.»
Si salutarono e la ragazza tornò in città; superò il varco, pulendosi le mani. Aurea invece, dopo essersi fatta dire il luogo di quel massacro, chiamò l’ambulanza.
Castiga trovò all’ingresso del varco Belle, Cheren e Camelia che erano tornati indietro per cercarla. L'amica, agitatissima, esclamò: «Castì! Eccoti! Ma dove ti eri cacciata?!»
«Scusa, Belle.» rispose lei, cercando di sembrare credibile con quella scusa campata per aria: «Mi ero scordata di una cosa in città e sono tornata indietro. Pensavo di fare in fretta, allora non vi ho detto nulla.»
Belle l’abbracciò ma notò il taglio sul fianco; così, esclamò: «Ehi, Castì! Ma tu sei ferita!»
«Cosa?!» esclamò lei, mettendo la camicia sotto i pantaloni con finta noncuranza: «È solo un graffio dovuto a un ramo. Non è nulla, davvero!»
Con noncuranza, superò il varco insieme a Camelia, mentre Maru, al suo fianco, mormorò: *«Faccia di bronzo. Non ci crederanno mai.»*
E infatti, Belle e Cheren si scambiarono un’occhiata che voleva dire: “Ci sta nascondendo qualcosa.”
Dopo un ultimo sguardo, i due raggiunsero le altre, non osando fare domande all'amica. Mentre camminavano verso il ponte che li avrebbe portati a Libecciopoli, videro un uomo dai fulvi capelli arancioni, vestito come un monaco, che disse: «Ehi, Camelia! Che bell’atmosfera che c’è qui! Nella vita è importante sapersi divertire!»
Cheren lo guardò perplesso dal tono e dall'abbigliamento, e sussurrò: «E questo chi è?»
«Nardo.» rispose Camelia, sentendo il bisbiglio del ragazzo: «Il Campione di Isshu. È un tipo un po' particolare... so che non si direbbe, ma è proprio lui.»
Castiga lo fissò perplessa, squadrando l'uomo che aveva davanti, non molto propensa a credere alle parole della Leader.
«Il Campione?! Come mai viene a ciondolare da queste parti?» chiese Cheren, dando voce ai dubbi di Castiga, forse con eccessiva confidenza. Ma non poteva concepire che il Campione in carica vagasse per la regione invece che stare alla Lega.
«Che insolenza! Guarda che ti ho sentito! Piacere, mi chiamo Nardo!» disse l’uomo avvicinandosi a Cheren, e guardandolo in faccia: «Sono il Campione della Lega Pokémon di Isshu. E comunque, non sono qui per divertirmi, ma come tappa dei miei viaggi! Tu chi sei, sbruffoncello?»
Il ragazzo sostenne lo sguardo ed esclamò: «Io mi chiamo Cheren e vengo da Soffiolieve!»
«Io sono Belle… e vengo dallo stesso posto…» mormorò Belle, intimidita, inserendosi nella conversazione, sentendosi in dovere di presentarsi anche lei.
Cheren riprese la parola; aveva davanti il suo eroe, l'allenatore più forte di tutta Isshu. Così, esclamò, guardando Nardo negli occhi: «Sono un Allenatore e il mio obiettivo è quello di diventare Campione!»
«È ammirevole viaggiare con uno scopo prefissato.» rispose Nardo, tornando a rivolgersi a lui, notando la luce della determinazione nei suoi occhi: «E cosa vuoi fare una volta che sarai Campione?»
Cheren rimase interdetto un momento; poi rispose: «Voglio diventare forte. Oltre a ciò, che altro si può desiderare? L’Allenatore più forte viene proclamato Campione, no?»
«Diventare forte, eh? E credi sia sufficiente come obiettivo?» chiese nuovamente il Campione, forse un po' beffardo ma con il chiaro intento di farlo ragionare: «Non fraintendermi, con questo non sto insinuando che hai torto. Ma ti chiedo: vuoi solo questo? O hai ben altri obbiettivi?»
«Io... non lo so...» balbettò incerto lui, non sapendo cosa rispondere.
Nardo sorrise e mormorò: «È giusto che tu abbia un obbiettivo, ma ponitene sempre anche uno maggiore. Bisogna sempre avere un obbiettivo davanti, altrimenti si rischia di invecchiare troppo in fretta! Io, per esempio, voglio anche fare in modo che la gente si affezioni ai Pokémon. Per me è una cosa molto importante e me ne convinco sempre di più. E cercherò di farlo fino alla fine dei miei giorni!»
«Sono d'accordo.» replicò Cheren, sorridendo timidamente dopo quella specie di gentile rimprovero.
Nardo si fece prendere dall'entusiasmo ed esclamò: «Ascoltatemi, giovani! Ci sono persone che come Cheren puntano a diventare più forti. Ad altre invece, basta poter stare in compagnia dei Pokémon, come questa ragazza che non mi ha detto il suo nome.» aggiunse guardando Castiga. Lei ricambiò lo sguardo, chiedendosi cosa avesse capito di lei alla prima occhiata, mentre lui andava avanti nel suo discorso: «Ogni persona ha il suo approccio. Se la mia e la vostra idea di Campione non coincidono, non c’è niente di strano: il mondo è bello perché è vario!»
“Io ho una mia idea del Campione. E non mi piace per niente. Anche se tu mi sembri diverso.” commentò Castiga con il pensiero, pensando con rabbia a Lance. Quella specifica idea di Campione non le piaceva per niente. Nardo fece un elegante baciamano a Camelia, poi se ne andò, salutando anche i ragazzi con un sorriso amichevole.
«Allora ragazzi, vogliamo andare? Il Ponte mobile di Libecciopoli è qui vicino.» intervenne Camelia, lievemente rossa in viso, incamminandosi seguita da Belle.
I ragazzi annuirono e Cheren mormorò: «Il Campione è davvero forte! Non c’è altro da aggiungere!»
Nardo si fermò e si voltò. Castiga lo guardò per l’ultima volta, negli occhi, studiandolo, mentre probabilmente lui faceva altrettanto. Poi prese e seguì gli amici. Lui sorrise e si incamminò verso la direzione opposta.
Arrivarono all’entrata di un ponte di colore arancione, dove c’era un casello.
«Ora devo chiamare.» disse Camelia, prendendo il cellulare: «Il Leader di Libecciopoli, la prossima città, deve darmi il consenso per abbassare il ponte.»
Spento il telefono, indicò il ponte ed esclamò: «Guardate!»
Le due travi del ponte, sollevate per permettere il passaggio delle navi, si chiusero e il ponte divenne percorribile; Camelia indicò loro l'entrata ma dovette congedarsi e si scusò, dicendo: «Io devo lasciarvi. Ho un impegno per un programma televisivo. Il Leader della prossima città è un tipo un po’ stravagante, ma non fatevi scoraggiare. Buona fortuna!»
La Leader li salutò con un sorriso e sparì. I tre amici si guardarono e Belle mormorò: «Che tipa...»
«Andiamo?» chiese Castiga, seccata da tutte quelle chiacchere. Non vedeva l'ora di combattere ancora e di rivedere Nardo.
«No, aspetta.» la fermò Cheren, tendendo la mano per mettergliela sulla spalla e trattenerla, ma ripensandoci all'ultimo: «Noi non abbiamo ancora sfidato Camelia.»
Lei notò il gesto, ma fece finta di niente e rispose: «Hai ragione, scusa, Dottore. Io vi aspetto qui, voi and…»
«Perché non vieni a vederci?» la interruppe Belle, timidamente.
La ragazza la guardò un momento, colpita, poi annuì, con un mezzo sorriso. Li seguì nella Palestra e guardò con attenzione i loro incontri. Cheren vinse e Belle lottò subito dopo.
“Belle non così, maledizione!” pensava, mentre la osservava lottare: “Non ci siamo.”
La bionda perse e uscì demoralizzata dall’edificio. Cheren si offrì di aiutarla, ma lei, abbattuta e sconsolata, rifiutò e mormorò: «Io torno a casa... non ho la stoffa dell’Allenatrice è evidente.»
Cheren cercò di consolarla ma era troppo giù di corda. Castiga li seguiva, in silenzio, seccata da quell’atteggiamento. Perché Belle non reagiva mai? Perché si lasciava calpestare così? Anche dai suoi stessi sentimenti?
“Va bene che sono una parte sostanziale dell'essere umano” pensò, ricordando le parole di Aurea: “Ma non va bene di certo farsi dominare in questo modo.”
Castiga voleva scuoterla, farle capire che poteva fare di meglio. Ma non era mai stata brava con le parole, quindi decise di non intromettersi.
«Ascolta Belle. Andiamo insieme nel Deserto della Quiete e ti aiuto ad allenare la tua squadra! Cosa ne dici?» le propose Cheren, ma lei declinò, affranta: «No, Cheren. Ti ringrazio ma… forse il Team Plasma ha ragione.»
Castiga si fece attenta e il ragazzo chiese: «Cosa?! Perché?»
«Perché i miei Pokémon sono sicuramente infelici con me. Perdiamo sempre e io non so comandarli… ho paura che si facciano male e allora perdiamo. Se li liberassi, sarebbero più felici.»
«Ti rendi conto delle fesserie che stai dicendo, Belle?!» sbottò Castiga, digrignando i denti dall’irritazione.
«Castì, io…»
Con gli occhi fiammeggianti, Castiga disse delle parole che rimasero per sempre racchiuse nel cuore di Belle e che le diedero la forza di andare avanti: «Ascoltami bene. Non esiste chi ha la stoffa dell’Allenatore e chi non la ha. Non esiste l’Allenatore migliore e il peggiore. Esistono solo quelli che sanno amare e rispettare i Pokémon e chi li usa per il suo piacere come oggetti. Chi vuole bene ai propri Pokémon non ha bisogno di essere un mago della lotta; loro non combattono e basta. Giocano, amano, scherzano, soffrono, come tutte le creature di questo mondo. C’è chi è più portato a fare le gare, chi gli sport, chi la lotta, altri che sanno solo amare. Ma ricordati, Belle, che anche il miglior lottatore di questo mondo, se non ama e rispetta i suoi Pokémon, non ha nemmeno il diritto di definirsi Allenatore. Ammetto che, caratterialmente, non sei un tipo combattivo. Ma guarda il tuo Pignite. Guarda Minccino. Guarda Herdier! Loro hanno voglia di lottare, vogliono dare il meglio per te! Se vuoi, puoi lanciarli al massimo e capire se ce la fanno o non ce la fanno. Ma non puoi pretendere che lottino a metà per le tue paure!»
Belle, colpita da quel discorso, sussurrò: «Mi faresti vedere come?»
Castiga sorrise, contenta -doveva ammetterlo- di aver sortito qualcosa e rispose: «Ehi, Dottore, vuoi renderti utile? Combatti.»
«Contro di te?»
«No, contro Belle.»
I due amici si guardarono, poi si misero l’uno di fronte all’altra. Castiga andò al fianco di Belle e le sussurrò: «Respira e stai calma... Puoi farcela.»
Belle annuì e mandò in campo Pignite, mentre Cheren fece uscire Liepard. Lo scontro cominciò e Belle combatteva come suo solito.
Castiga le sussurrò: «Ascoltami, Belle. Cosa vedi in questo momento?»
«Pignite è in difficoltà e si sta facendo male!»
«Sbagliato. Guarda bene.»
La ragazza ricacciò indietro le lacrime e osservò Pignite. Il Pokémon scalpitava, voleva lottare, lanciarsi alla carica. Fremeva dalla voglia di mostrare la sua abilità e la sua potenza.
«Ma… e se si facesse male?» chiese titubante.
«Tu prova.»
Belle annuì e ordinò a Pignite di usare Nitrocarica, seguendo i consigli dell'amica. Cheren, preso alla sprovvista, si difese a fatica. Belle continuò a lottare, sentendo la voce di Castiga sussurrarle cosa fare, ma a poco a poco, la ragazza si allontanò lasciandola combattere da sola. Presa dall'eccitazione dello scontro, Belle non se ne accorse nemmeno e sfiorò la vittoria. Esultante si voltò verso dove c’era Castiga per abbracciarla, ma la vide lontana che li osservava, trattenendo Maru. Si avvicinò, titubante e mormorò:
«Quando te ne sei andata?»
«Non è importante… ora hai capito. Basta questo. Sei stata brava.»
Belle fece per protestare, anche se era lusingata da quel complimento, ma l’urlo belluino di Maru sovrastò tutto: *«Lasciami! Voglio lottare!»*
«Che cos’ha? Sta male?» chiese Belle, spaventata da quella reazione esagerata per il di solito calmissimo Maru.
«Sta benissimo. Vuole solo lottare. Ehi, Dottore! Fai la doppietta?»
Belle intervenne e mormorò: «Perché non… combatti contro di me?»
«Non sei ancora pronta per Maru, Belle. Non perché sei debole, anzi, ma per altre ragioni. Non hai ancora i nervi sufficientemente saldi per uno scontro serio.»
Cheren acconsentì e in breve curò i suoi Pokémon. Belle rimase affascinata da quella lotta. Ora che sapeva come guardare, vedeva l’impegno di Pokémon e allenatori. E, con nuova grinta, affrontò Camelia, vincendo.
Durante la lotta con Cheren, Maru si evolse, divenendo uno splendido Samurott. Sempre al fianco della sua compagna e mai nella Pokéball.

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Capitolo 36
*** Capitolo 35 ***


«Mi ricorderò sempre quel discorso…» commentò Belle, ricordando quel giorno come se fosse appena successo, vivo nella sua mente. Le doveva così tanto... senza di lei, non avrebbe mai capito quel che aveva capito quel giorno. E non sarebbe riuscita a stabilire quel bel rapporto con i suoi Pokémon che aveva ora.
«Era a questo che volevo arrivare!» sorrise Castiga di risposta, contenta di aver fatto scoprire il legame speciale che unisce Pokémon e umani; imbarazzata, però, aggiunse: «Non immaginavo che aveste intuito qualcosa.»
«Sarò distratta ma non scema.» la rimbeccò piccata l'amica, fissandola di sbieco: «Dovresti saperlo meglio di me che rami e lame feriscono in maniera differente. Avevo visto un bel taglio profondo, altro che graffio. Non mi prendi per il naso così.»
Castiga le fece la linguaccia di risposta e replicò: «Capirai anche tu che non potevo dirvi che ero appena andata a massacrare delle persone, da brava. Si può definire una bugia a fin di bene.»
«Bene della mia salute fisica sicuro, ma non mentale.»
«Affari tuoi. Rifarei tutto quello che ho fatto. Ora andiamo va', che la strada è lunga.»
Belle strinse le braccia al petto, imbronciata, mentre Cheren la abbracciò nel tentativo di consolarla. Tutti insieme, comunque, ripartirono per Libecciopoli, la città seguente. Arrivarono al ponte Charizard, passando nel percorso dove Nardo li aveva intrattenuti e arrivarono al casello. Vedendo il ponte alzato e quindi inaccessibile, Castiga si picchiò una mano in fronte ed esclamò: «Mi ero dimenticata che serve l’autorizzazione di Rafan!»
«Di chi?» chiese Raphael.
«Il Leader di Libecciopoli.» rispose Cheren: «Colui che Castiga non può vedere!»
«Taci, Dottore.» sbuffò lei, irritata da quel contrattempo: «Chi va a chiamare Camelia?»
«Corro!» esclamò Belle, partendo come un missile verso Sciroccopoli.
Tornò poco dopo, seguita da Camelia. La modella aveva appena finito un servizio fotografico in costume e non era riuscita a cambiarsi, perché Belle, agitatissima, aveva preteso la sua presenza sul ponte all'istante. Raphael restò a fissarla a bocca aperta, colpito dal suo fascino. Castiga gli scoccò un'occhiataccia ingelosita e pensò: “Maledetta quella volta che non ti ho tagliato la gola, bionda.”
«Ciao Camelia.» salutò invece, irritata, sperando che il marcato tono di voce smuovesse il ragazzo: «Vorremmo passare il ponte Libecciopoli.»
«Tranquilla, Castiga!» sorrise lei, prendendo il cellulare, facendole l'occhiolino: «Dico subito a Rafan di abbassarlo.»
«Grazie.» rispose lei, notando lo sguardo supplice ed in cerca del perdono di Raphael.
Il ponte venne abbassato e i ragazzi, salutando Camelia, lo oltrepassarono. Il ragazzo vide però che la fidanzata non era intenzionata a perdonarlo, così mormorò: «Dai, non fare quella faccia! Non pensavo a quello che credi!»
Lei borbottò solo: «Uomini.» facendo ridacchiare e assentire Belle.
Dall’altra parte del ponte vennero accolti da un cowboy, che probabilmente li stava aspettando perché, quando li vide, con un ghigno arrogante, salutò dicendo: «Salve, ragazzi! Come mai ancora in giro?»
«Ciao, Rafan.» rispose Castiga: «Stavolta niente ricatti spero.»
«Naturalmente no! Senza i Plasma non è necessario!» rise lui, fissando con lo stesso sguardo di sfida Castiga.
«Ricatti?» le chiese Raphael mentre salutavano il Leader e si allontanavano.
«Sì... quando siamo arrivati.»
«Racconta!»
~§~
 
INTERMEZZO: LIBECCIOPOLI
 
I tre amici attraversarono il ponte e proseguirono il viaggio verso Libecciopoli. Scoprirono che era detto “Ponte Charizard” per la sua forma e il suo colore arancione, che appunto ricordavano le sembianze del Pokémon Fiamma. Castiga ebbe una stretta al cuore, mentre le veniva in mente il suo dolce cucciolone sgrammatico: “Fiammata...”
Alla fine del ponte, videro un uomo vestito da cowboy che, appena li vide, disse: «Così sareste voi gli Allenatori di cui parlava Camelia? Siete in ritardo!»
Li squadrò quasi con astio, sguardo ostile al quale rispose Castiga, mai stata portata a sopportare le provocazioni di chicchessia.
«Io sono Rafan, il Leader di questa città!» disse il cowboy, con sguardo sprezzante e tono arrogante: «Non aspettatevi che vi dia il benvenuto. Quando abbiamo abbassato il ponte, quelli del team Plasma sono riusciti a rifugiarsi in città!»
Cheren andò subito sulla difensiva e, per non restare inerme a quelle velate accuse, replicò: «Grazie per averlo abbassato, ma cosa c'entriamo noi con loro?»
«Di’ pure quello che vuoi. Sta di fatto che siete arrivati voi e quelli del team Plasma si sono infiltrati in città.» ringhiò Rafan, senza tanti giri di parole. Voleva provocarli, farli sentire in colpa e poi farsi aiutare.
«Senti, bellimbusto, ci stai dando la colpa? Probabilmente quei pagliacci sarebbero entrati con chiunque altro, se non fossimo passati noi.» disse gelida Castiga, non molto propensa a lasciarsi accusare da quel tizio mai visto prima.
«Non intendevo questo…» rispose lui, fissandola altrettanto gelido, ma con un sorrisetto: «Ma non potete rifiutare di darmi una mano! Siete o non siete valenti allenatori?»
«Non è da me aiutare chi mi offende, Leader.» rispose Castiga, irritata da quello che sembrava tutto un piano pensato a priori: «Ho di meglio da fare che risolvere i tuoi problemi.»
Rafan la guardò con uno sguardo tutt’altro che amichevole e disse: «Facciamo così... se scoverete quelli del team Plasma, accetterò la vostra sfida in Palestra! Senza la mia medaglia, non si va alla Lega, sapete?»
Con uno sguardo arrogante che mando Castiga in bestia, Rafan se ne andò, ridacchiando vittorioso.
«Io odio i ricatti.» sbottò la ragazza, seccata. Aveva mantenuto un miracoloso controllo, nonostante tutto, probabilmente merito soprattutto di Maru che le era rimasto vicino tutto il tempo.
Belle sorrise e per calmarla, mormorò: «Dai, Castì! Camelia ci aveva detto che era un tipo strano.»
«Strano. Troppo buona. Ma adesso i Plasma mi hanno veramente seccata. Andiamo a cercarli.» rispose secca, incamminandosi verso la città.
Libecciopoli era una città portuale, famosa per il suo mercato. La maggior parte delle merci importate a Isshu passavano per questa città e venivano o vendute al mercato, o mandate nelle altre città, oppure conservate nell’immenso Deposito Frigo a sud. Era una città molto viva e piena di gente. Mentre perlustravano la zona, decisero di separarsi. Castiga controllò tutta la sua zona, e, non trovando nulla, andò in quella di Cheren, per aiutarlo e sbrigarsi in fretta. Lo trovò al Deposito Frigo. Lui sorrise quando la vide e mormorò: «Ciao, Castì. Mi rimane solo qui da controllare. Tu hai già finito?»
«Sì. Ti aiuto.»
Entrarono insieme e si divisero, finché non giunsero entrambi all’ultimo container. Annuirono, guardandosi, ed entrarono insieme: dentro videro una schiera di Seguaci Plasma, e Violante, il Saggio in mezzo a loro, non essendosi accorto dell'intrusione, disse: «Seguaci! Serrate le file per ripararmi meglio. Sto morendo di freddo…»
Castiga si avvicinò al gruppetto di Plasma e disse, senza mezzi termini: «Ehi, Violante… levate le tende.»
Il saggio non si fece intimidire ma, restando al caldo tra i suoi seguaci, rispose: «Abbiamo in consegna i Pokémon del sovrano. Non possiamo permettere che si facciano male. Seguaci, disperdete questi scocciatori!»
«Ricevuto, Eccellenza!»
I Seguaci erano otto e attaccarono tutti insieme. I ragazzi lottarono duramente e sconfissero insieme tutti gli avversari; in quel momento arrivò Rafan con degli amici.
«Che tempismo ragazzi…» commentò ironica Castiga.
«Ehi!» disse Rafan, stupito nel vedere tutti i seguaci a terra e Violante indifeso, incassando il commento velenoso come nulla fosse: «Ma guarda tu! Chi l’avrebbe mai immaginato? Un nascondiglio gelido! Portate via questi ladri di Pokémon!»
Castiga e Cheren si spostarono e gli uomini portarono via di peso i Seguaci, compreso Violante.
«Avete fatto un buon lavoro.» disse poi il Leader ai due amici, davvero colpito dalle loro capacità: «E, come promesso, accetterò di sfidarvi nella mia Palestra. Allora, vi aspetto!»
Con un ghigno arrogante, Rafan girò sui tacchi e uscì dal container. Cheren e Castiga si guardarono. Lui sorrise a mo' di scusa, mentre lei sbottò, senza parole: «Raggiungiamo Belle va’…»
Si ricongiunsero a Belle e decisero di allenarsi un po’ per poi lottare. Belle e Cheren tornarono nel percorso 5, per chiedere dei consigli a Nardo e allenarsi insieme, mentre Castiga andò nel percorso 6 sopra la città, per rinforzarsi da sola. Mentre combatteva con Maru, intravide un Pokémon strano. Sembrava un cerbiatto, ma era molto combattivo, cosa che non si addiceva al suo aspetto dolce.
*«Ehi!»* esclamò quando li vide, caricando e lanciando un’Energipalla: *«Via da qui!»*
Castiga fu rapida ad agire ed esclamò: «Maru, schiva e usa Forbice X!»
Il Samurott eseguì, atterrando il Pokémon che bramì furioso, ma incapace di alzarsi, vista la violenza del colpo subito. Castiga gli si avvicinò. Aveva sentito chiaramente le sue parole e voleva dissuaderlo dal combattere. Cercando il tono più dolce e tranquillo che possedeva, mormorò: «Non voglio farti del male. Davvero.»
Lui la guardò negli occhi, poi si alzò barcollante, sbottando: *«Lo giuri?»*
«Sì, lo giuro.»
All’improvviso però, sbucarono dal nulla degli scienziati, con delle reti. Accerchiarono Castiga, il Pokémon e Maru, pronti a catturarli. Castiga restò pronta alla lotta ma prima chiese: «Che cosa volete?»
«Quel Pokémon! Si chiama Deerling! Ne abbiamo tanti, ma sono talmente particolari che vanno studiati a fondo!» esclamò uno degli aggressori.
*«Non mi avrete mai! E io mi chiamo Shikijika!»* bramì il piccolo Pokémon furioso. Poi guardò Castiga e disse: *«Sei in combutta con loro?»*
«No.»
Uno scienziato attaccò a tradimento e tentò di catturare Deerling, ma Maru lo difese senza indugio, confermando le parole della sua allenatrice.
«Reggimi il gioco.» sussurrò la ragazza al Pokémon, per poi gridare: «Ehi, voi! Smettetela! Questo Deerling è mio!»
Gli scienziati si bloccarono di colpo, sgomenti da quella scoperta, e uno chiese: «Cosa? Davvero?»
«Sì! È mio e si chiama Shikijika! Andatevene a trovare uno selvatico!» sbottò lei, mentre il Pokémon, capito il piano, le strusciava la testa sotto la mano. Lei lo accarezzò dolcemente, di riflesso, senza pensarci.
Loro, scusandosi imbarazzati, se ne andarono e il Deerling guardò Athena, dicendo, più tranquillo: *«Grazie!»*
«Figurati!» rispose lei, sorridendo; poi si rivolse al suo Samurott e borbottò: «Andiamo, Maru. Dobbiamo continuare l’allenamento.»
*«Sissignora!»* rispose lui, salutando il cerbiatto con un cenno del capo e seguendo la sua allenatrice.
*«Aspettatemi!»* esclamò però lui, seguendoli.
La ragazza si girò e disse: «Dimmi.»
*«Posso... posso venire con voi?»* chiese, abbassando la testa.
Castiga sorrise e commentò, quasi a sfidarlo: «Non è da te questo atteggiamento! La risolviamo con una lotta?»
*«Ci puoi giurare!»* esclamò lui, animato, raspando il terreno con le zampe anteriori.
Sorridendo, la ragazza prese una Ball: «Vai Warubiaru!»
Il Sandile uscì dalla Pokéball e la lotta cominciò: fu molto dura a causa del vantaggio di tipo del piccolo cerbiatto ma, evolvendosi il Krokorok, Warubiaru ebbe la meglio e Castiga catturò il Deerling, anzi, Shikijika. Prima di andare da Rafan però, lo fece combattere a lungo. Doveva essere in grado di aiutarla contro il Leader, visto che ora lui era la sua punta di diamante dopo Maru. Soddisfatta si avviò verso la città. Arrivata alla Palestra di Libecciopoli, vide anche Cheren, fermo però poco prima, nascosto dietro ad alcuni alberi, che osservava qualcosa indispettito.
«Ehi, Dottore! Ma cosa..?» cominciò a dire, ma l’amico la zittì dicendo: «Ascolta.» e indicò la Palestra.
Davanti alla porta c’erano Rafan, circondato da Violante e altri due seguaci Plasma, mentre di fronte a loro una schiera di altri seguaci e Geechisu; il capo dei Plasma stava dicendo: «È un piacere conoscerti, Rafan. Mi chiamo Geechisu Harmonia Gropius e sono del Team Plasma. Sono venuto a riprendermi i miei compagni. Grazie per averne avuto cura.»
Rafan sbottò di risposta, non molto felice di avere quel tipo di ospiti nella sua città e addirittura davanti alla Palestra: «Non è il caso di ringraziarmi. I tuoi amici stavano cercando di rubare i Pokémon.»
«Devi avere frainteso.» cantilenò di risposta Geechisu, con un tono di voce quasi saccente, che irritò ulteriormente il Leader: «Noi stiamo solo liberando i Pokémon dai malvagi.»
«Vorrei davvero aver frainteso.» replicò lui, quasi tentato di dargli un pugno sul naso per poi mandarlo a scavare in miniera: «Io sono una persona sincera ma non ho una gran parlantina. Tu, invece, parli bene, ma sento puzza di bruciato.»
Castiga sorrise; era un'ottima risposta, degna di lui e degna di una persona davvero onesta. L'aveva già inquadrato ma quel discorso non fece che confermare l'idea che si era fatta al primo incontro.
«Come la mettiamo?» aggiunse aspro il Leader, esigendo una risposta alla sua imbeccata.
Geechisu però non collaborò, evitando la domanda e cominciando con i suoi soliti vaneggiamenti, stavolta però arricchiti da velate minacce. Con uno sguardo quasi di sfida, replicò: «Noi del Team Plasma siamo interessati a Libecciopoli e abbiamo molti altri Seguaci oltre a quelli che vedi...»
Rafan li squadrò, con disprezzo; cosa voleva fare, attaccare la palestra e far partire una guerra? Decise che non ne valeva la pena, così sbottò: «Va bene. Portateli via e sparisci.»
«Non ti chiamano “Re delle miniere” senza motivo!» disse beffardo Geechisu: «Hai una straordinaria capacità di giudizio. Bene… allora, mi riprendo lui, che è uno dei Sette Saggi.»
Violante quasi gli si prostrò ai piedi, commosso da tanta gentilezza, ed esclamò: «Grazie, Geechisu!»
«Non c’è di che.» rispose quello, come se fosse stato un gesto naturale, ma Castiga pensava che fosse tutta facciata: «In fondo anche tu, come me, sei uno dei Sette Saggi. Siamo tutti al servizio del sovrano.»
“N…” pensò Castiga: “E sono convinta che se non ti fosse più servito, avresti lasciato Violante a marcire chissà dove...”
«Arrivederci, signori! Sicuramente ci incontreremo di nuovo!» salutò Geechisu, scomparendo nel nulla con tutti i suoi seguaci.
Castiga e Cheren uscirono dal loro nascondiglio e andarono da Rafan, che disse loro: «Eccovi qui! Mi spiace avervi fatto cercare il Team Plasma per niente. Era meglio evitare di far scoppiare un putiferio per quelli lì... Beh, fatevi coraggio e venite a lottare! Ma non fatemi aspettare troppo!»
Con il suo ghigno arrogante dipinto sul volto e uno sguardo di sfida rivolto a Castiga, ritornò nella Palestra. Cheren tornò ad allenarsi, dopo un commento su Geechisu, non convinto di essere pronto per la lotta, mentre Castiga, con una gran voglia di vincere, entrò a passi decisi nell’edificio. Nell’ingresso, si guardò in giro. Era in una specie di atrio, ma di ring neanche l’ombra. Vide una piattaforma e il giudice che le disse: «Sali sulla piattaforma e schiaccia il bottone verde della discesa! Buona fortuna, Allenatore!»
La ragazza salì sulla pedana e schiacciò il pulsante, cominciando a scendere sulla piattaforma, come se fosse una specie di ascensore. La Palestra si estendeva metri e metri sotto terra, ed era percorribile per mezzo di percorsi costruiti su travi e pedane semoventi in acciaio. Passando di pedana in pedana, la ragazza arrivò all’ultima, che andò più in giù delle altre, nei meandri del sottosuolo. Rallentò un momento. Sporgendosi, Castiga vide un portone con su incisa la Pokéball con il fulmine, simbolo delle palestre, che si aprì nel centro. La pedana arrivò a terra e la ragazza si ritrovò nel fondo della miniera, dove, ad aspettarla, c’era Rafan.
“A noi due” pensò, avvicinandosi.
Dopo essersi scambiati uno sguardo di sfida, i due si affrontarono. Rafan mandò in campo il suo Krokorok, mentre Castiga, tenendo Shikijika come asso nella manica, mandò Maru. La lotta fu furiosa, ma Maru vinse. Divertito, Rafan mandò in campo Palpitoad che, grazie al suo doppio tipo, resisteva senza problemi ai continui Conchilama di Maru. Il povero Samurott, già provato dalla precedente lotta, fu sconfitto da un violento Terremoto.
«Vai Shikijika! Diamogli il ben servito! Energipalla!» esclamò la ragazza, lanciando una ball. Il Deerling uscì con l’Energipalla carico e, colpendolo, stese l’avversario con un colpo.
Rafan sorrise, felice di aver davanti un'avversaria tosta come se l'era immaginata ed esclamò, lanciando una ball: «Adesso tocca al mio campione! Vai Excadrill! Usa Frana!»
«Forza Shik! Calciosalto!»
I due Pokémon si attaccarono furiosamente, ma il tipo Acciaio di Excadrill lo rendeva di gran lunga superiore al Deerling. Shikijika venne colpito e rovinò a terra. Castiga si morse un labbro e cercò di incitarlo, dicendo: «Andiamo Shik! Non mollare!»
*«Non perderò!»* rispose lui rialzandosi e brillando di una forte luce: diventò più grande e, una volta che fu svanita la luce, alzò il palco di corna e, con un grido di battaglia determinato, si preparò alla rivincita. Le sue corna diventarono luminose e il cervo caricò a testa bassa Excadrill. Ritornò dalla sua allenatrice avvolto da una luce verdina, scrollando il capo, mentre le ferite guarivano. Meravigliata, Castiga prese il Pokédex, che le disse che il suo Deerling era evoluto in Sawsbuck e aggiunse: “Legnicorno. Questa mossa di tipo Erba provoca danno e restituisce le forze a chi la usa. Il Pokémon carica l’avversario a testa bassa.”
«Fantastico!» esclamò, esaltata da quell'evoluzione improvvisa che poteva ribaltare la situazione: «Vai Shikijika! Legnicorno!»
Dopo l’evoluzione, Shikijika divenne molto più forte e, sconfiggendo Excadrill, permise l'ottenimento della medaglia Sisma.
«Molto bene.» sorrise Rafan, davvero contento di averci visto giusto: «Ora seguimi, ti aspetto al percorso 6, all’entrata della Cava Pietrelettrica.»
Castiga rifletté un istante e ricordò il posto: aveva provato a entrare per allenarsi con più efficacia ma l'accesso era bloccato da una tela luminescente. Notò però che nel frattempo Rafan era sparito, così corse fuori per rincorrerlo, ma si imbatté in Belle e Cheren.
«Rafan non c’è.» esordì, quando la salutarono: «Dovrete aspettare per l’incontro. L’ho sconfitto e mi ha detto di andare all’entrata della Cava Pietrelettrica.» 
Una luce bianca uscì dal suo zaino e Shikijika apparve di fronte a lei, abbassando la testa, pronto a caricare i due sconosciuti al primo sentore di pericolo o al primo ordine.
Perplessa, Castiga lo fissò e chiese: «Shikijika ma che ti prende?»
*«Nemici.»* bramì lui, pronto a battersi per proteggerla.
«Ma no! Loro sono a posto. Davvero!» replicò lei, cercando di calmarlo, stupita del suo comportamento.
Il Sawsbuck alzò la testa, e squadrò i due umani che aveva di fronte, così Castiga prese la parola e li presentò: «Shik... Lui è Cheren, detto il Dottore, e lei è Belle. Viaggiano con noi. Ragazzi, lui è Shikijika un mio nuovo Pokémon, esageratamente protettivo.»
Belle lo guardò meravigliata, stupita dalla sua bellezza, e Cheren sbottò seccato: «Andiamo… non voglio che Rafan mi sfugga ancora!»
Era particolarmente irritato: l'amica era sempre un passo davanti a lui e con Pokémon sempre più forti. Castiga, non accorgendosi del motivo del suo umore nero, fece rientrare Shikijika e i tre amici si incamminarono, per raggiungere il posto.
Cheren e Belle continuavano a fissare Castiga, per vedere qualche eventuale comportamento anomalo come prima del Ponte Charizard. Ma la ragazza era tranquilla e non notarono niente di strano.

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Capitolo 37
*** Capitolo 36 ***


«Ah, ma davvero?» commentò ironica Castiga, alla fine del racconto, dopo la rivelazione che Belle aveva aggiunto imbarazzata: «Ero pure sotto controllo?»
«Chiaro!» rispose Cheren, ormai senza più alcun timore di dire la cosa sbagliata: «Eravamo preoccupati più che altro per te, ma di sicuro non immaginavamo nulla del genere.»
«Dai, andiamo al Deposito Frigo.» intervenne Belle, vedendo che la discussione stava cominciando a scaldarsi: «Lì abbiamo incontrato un Saggio.»
«Sì, Violante.» borbottò Castiga, ancora contrariata nel vedere come era stata facilmente scoperta nonostante tutte le sue attenzioni: «Direi di tornarci. Magari abbiamo fortuna...»
Si diressero quindi verso il sud della città. Belle si accostò all'amica e mormorò: «Dai Castì, su con il morale. Non cambierà niente tra di noi, te lo prometto. Nemmeno se cercassi di farci del male, potremmo giudicarti. Sei nostra amica e questo non cambierà mai.»
Lei non rispose, ma dentro di sé era contenta di quelle parole. Loro sì che erano veri amici... ed era stata molto, troppo fortunata a trovarli. Lei, che non meritava niente di tutto questo. Belle non insisté ma Raphael la prese da parte e mormorò: «Non ti preoccupare. È contenta, solo che si vergogna a mostrarlo. È troppo orgogliosa. E credo non senta di meritare amici così sinceri per quel che ha fatto...»
«Tu riesci a capirla al volo, Raphael. Non capirò mai come fai.»
«Diciamo che ho imparato a conoscerla.» sorrise lui, guardando con l'occhio dell'amore: «Un mago non rivela mai i suoi segreti.»
«Allora, voi due?!» li interruppe Castiga, diversi metri davanti a loro: «La piantate di confabulare?! Abbiamo un intero deposito da perlustrare!»
I due chiesero scusa e accorsero. Tutti in gruppo, quindi, andarono ad esaminare il freddo Deposito Frigo. Mentre camminava, Castiga pensò a tutto ciò che era successo lì e vagò, presente con il corpo, ma assente con la mente, alla ricerca di Violante.
«Maledizione… ma d-dov’è?» balbettò Cheren, riportandola tra di loro, tremante per il freddo.
Castiga scosse un momento la testa, per riprendersi, e borbottò: «Dottore, ti ricordi dov’era l’ultima volta? Andiamo all'ultimo container.»
Lui annuì e fece strada. Proprio lì trovarono il vecchio saggio.
«Violante…» disse la ragazza, con un sogghigno stampato in faccia: «Stavolta niente cricca di seguaci a tenerti al caldo mi pare.»
«Non ho nemmeno con me i Pokémon del sovrano. Sono rimasti con lui, per sempre.» rispose lui, tremante. Irruppe di colpo l'agente della polizia internazionale che gli intimò di seguirlo. Lui sorrise, mite, tese le mani e rispose: «Qui fa troppo freddo e sono stufo di battere i denti. Dammi tempo e ti racconterò tutto. E ora portami con te dove vorrai.»
Bellocchio lo ammanettò, felice della cattura, ed esclamò, rivolto a Castiga: «Escludendo Geechisu… restano ancora tre Saggi! Alla prossima, Allenatore!»
Sempre correndo, mentre il saggio gli caracollava dietro a fatica, l'agente scappò.
«Violante è un dannato masochista…» mormorò Castiga, battendo i denti, mentre uscivano quasi congelati dal deposito.
Raphael si tolse la giacca e la mise intorno alle sue spalle. Lei gli sorrise, arrossendo lievemente, e i quattro si rifugiarono nel Centro Pokémon per scaldarsi. Avevano perso tutta la mattinata nel Deposito, e nessuno aveva voglia di ripartire. Così restarono lì per tutta la giornata e per la notte. La voglia di accamparsi era ben poca.
«Dove andiamo ora?» chiese Cheren con la cartina di Isshu aperta davanti a sé, la mattina dopo.
Castiga la osservò un attimo, con sguardo critico, e rispose: «Direi di puntare a Ponentopoli.»
«Però dovremmo passare di nuovo nella Cava Pietrelettica…» disse Belle, con una nota di panico nella voce.
«Lo so che hai paura dei Galvantula... ma stai tranquilla, ci proteggerà Hoshi.» disse Castiga, sorridendo rassicurante a Belle.
Lei parve tranquillizzarsi un po’, così si avviarono e arrivarono alla Cava Pietrelettrica: un’enorme grotta, con le rocce di colore bluastro, dovuto al campo elettrico che percorreva tutta la grotta. Era l’habitat ideale per i piccoli Joltik e le loro evoluzioni Galvantula, i ragni elettrici della regione.
Castiga vide Belle tremare, così borbottò: «Stai calma, Belle! Esci Hoshi!»
La ragazza fece uscire la sua Zebstrika che scorrazzò felice intorno a loro. Adorava quel posto elettrostatico, pieno di scintille e di energia elettrica, come la sua.
«Perché prima non racconti a Raphael cosa successe nella Cava?» chiese Cheren, preso da un pensiero, sperando che Belle, distratta dal racconto, sarebbe entrata più volentieri nella cava: «Anche perché non ce lo hai mai detto.»
«Avete ragione.» assentì Castiga, intuendo anche il suo piano. Così prese a raccontare.
 
~§~
 
INTERMEZZO: LA CAVA PIETRELETTRICA
 
Castiga, Belle e Cheren arrivarono all’entrata della cava, pensando che Rafan ci fosse già, dato che aveva detto di raggiungerlo lì e che era partito parecchio prima. Invece non era così. Cheren fissò la tela luminescente, incuriosito, e borbottò: «Che strana ragnatela.»
Per stemperare un po' le ire, Castiga chiese: «Non sai di cos'è, Dottore?»
«Credo di Galvantula, un Pokémon ragno di tipo elettro, ma non ne sono troppo convinto.»
Seccata dal poco dialogo ottenuto da quella domanda, Castiga tornò a pensare a Rafan e sbottò: «Ma dove si è cacciato quel minatore?»
«Stai calma, Castì! Arriverà!» disse Belle, cercando di calmarla.
Lei grugnì qualcosa di risposta, ma le previsioni si avverarono e il Leader sopraggiunse con il suo passo pesante e deciso.
«Scusate il ritardo.» disse, raggiungendoli davanti alla tela gialla: «Questa qui è una tela di Galvantula, un Pokémon tipo Elettro. Ma non chiedetemi perché si trovi qui. Comunque, quando qualcuno è nei guai, aiutarlo è compito del Leader.»
«Oh, certo. Solo dopo la lotta in Palestra.» commentò ironica Castiga: «Dov'eri finito? In qualche saloon con pagliacci vestiti da carnevale della tua risma?»
Rafan la guardò seccato, non sopportando la sua arroganza, e ringhiò: «Cos’hai detto?!»
Castiga fece per rispondere a tono, ma Belle la rimproverò: «Castì, smettila di essere antipatica!»
Lei non commentò oltre, offesa, e Rafan, dopo averle scoccato un’altra occhiata gelida, fece uscire uno dei suoi Pokémon che distrusse la rete.
“Potevo anche arrangiarmi se bastava solo questo.” pensò ironica Castiga: “Forse si sente umiliato dalla sconfitta e vuole far vedere che è forte. Pagliaccio.”
«Bene.» disse, soddisfatto: «I Galvantula non sono furiosi e non ci sono Plasma in giro. Volevo essere sicuro che non vi aggredisse nessuno. Castiga, non mi piaci, l'abbiamo capito, ma sono convinto che tu abbia la stoffa per grandi cose. Ricorda però di non cacciarti nei guai con questa tua arroganza. Voi due invece, vi aspetto in Palestra.»
Così come era venuto, se ne andò, non aspettando la velenosa imbeccata della ragazza. Aveva però mentito. Castiga gli piaceva, molto. Arguta, intelligente, furba, con un grande sangue freddo... era una ragazza con molte doti, ma chissà quali difetti celava quella perfezione?
“Un giorno forse, ne saprò di più” concluse con la mente, facendoci sopra una bella risata.
«Ah, lasciamo perdere.» sbottò la ragazza, irritata dal modo di fare di quell'uomo. Si rivolse agli amici e chiese: «Sentite, andiamo dentro? Voi vi allenate, io vedo qual è la prossima città... che ne dite?»
«Andata.» rispose Cheren, mentre Belle annuiva.
Entrarono ma, dopo qualche passo, due figure ninja li circondarono, apparendo dal nulla. Spinsero via Belle e Cheren e trascinarono Castiga, dicendo: «… di qua.»
La condussero da un ragazzo che lei riconobbe senza problemi.
«… Abbiamo portato l’Allenatore.» disse uno e i tre sparirono nel nulla.
«Grazie.» rispose N alle figure ormai sparite, ma non poté aggiungere altro perché Shikijika uscì dalla Ball e bramì, rivolto a N: *«Lontano, tu!»*
«Oh. E perché?» ripose lui, sinceramente colpito da quella reazione anomala.
*«Perché non ti conosco e potresti aggredirla.»* rispose lui, per niente colpito dal fatto che l'umano lo capisse. Anche Castiga poteva, quindi non era così strano.
«Ma non io non voglio aggredire nessuno, mio giovane Sawsbuck. Sono sincero.» replicò il giovane, mentre Castiga mormorava: «Shik per favore. Non puoi attaccare chiunque si avvicini nel raggio di un metro.»
Lui si voltò verso di lei e mormorò: *«Ti devo proteggere.»*
«Lo so, ma non serve. Ora fai il bravo e rientra.»
*«Ti tengo d'occhio…»* disse solo lui, minaccioso, rivolto verso N, per poi rientrare.
N la guardò, sorridendo, e disse: «Vedo che hai un nuovo Pokémon.»
«Estremamente protettivo.»
N ridacchiò e commentò: «Non è poi così negativa come cosa. Non sai mai chi potresti incontrare sulla tua strada.»
«Già...» mormorò vaga lei, pensando che in realtà erano gli altri a dover temere lei e non il contrario.
N vide che la conversazione non proseguiva, così aggiunse: «Quelli erano due dei Trio Oscuro. Fanno parte del Team Plasma e sono stati reclutati da Geechisu in persona; gli sono molto fedeli. Sembra che siano stati loro a ostruire l’entrata di questa cava con la tela di Galvantula.»
N si voltò, guardando le profondità della cava; sognante, con il tono di un ragazzo davvero felice, mormorò: «La Cava Pietrelettrica... Mi piace molto questo luogo. La scienza può affannarsi quanto vuole a cercare di spiegare il fenomeno dell’elettricità, ma la verità è che in questo luogo il legame con i Pokémon è lampante. Se non ci fossero gli esseri umani, sarebbe il mio posto preferito. Ma ora veniamo a noi. Ti ho scelta... questo non ti sorprende?»
Castiga lo guardò inarcando un sopracciglio e pensò: “Scelta? Era ovvio. Una persona non tormenta così tanto se non per qualche scopo.”
Dato che però ci capiva poco di tutta quella storia, scosse la testa, giusto per dargli il contentino ma avere informazioni. N abboccò perché, contrariato, sbottò: «Tze… non puoi certo sorprenderti se non capisci di ciò che parlo. Ho parlato di voi a Geechisu. E lui ha chiesto subito al Trio Oscuro di raccogliere informazioni in proposito. Così ha scoperto che Cheren persegue ingenuamente l’ideale di diventare forte. Mentre Belle conosce la triste verità: non tutti possono diventarlo. Invece tu non sembri tendere verso alcun estremo, sei in posizione neutra.»
«Ho i miei problemi, senza crearmene di altri inutili.» commentò lei, non riuscendo, come al solito, a capire dove volesse andare a parare: «Forza o non forza, io voglio solo passare del tempo con i miei amici Pokémon. Il resto mi interessa relativamente.»
«La cosa mi fa piacere.» sorrise lui, come se l'irritazione di prima fosse svanita nel nulla: «Più avanti troverai ad aspettarti il Team Plasma. Geechisu vuole mettere alla prova le tue capacità di Allenatore. Ti prego di proseguire da sola.»
Dopo un altro sincero sorriso, se ne andò, ben convinto che avrebbe superato egregiamente la prova.
Castiga lo guardò irritata e sbottò: «D’accordo. Volete sfidarmi? Peggio per voi. Sarò inarrestabile.»
Andò dagli amici e disse loro di aspettarla fuori dalla cava, spiegando rapidamente cosa le aveva detto N, concludendo dicendo: «Vi chiamo quando sono fuori. Ok?»
Cheren annuì e per ottimizzare i tempi, propose: «Facciamo così, Castì. Noi andiamo da Rafan e prendiamo la Medaglia, intanto.»
«Ok. Mi sembra un’ottima idea.»
«Stai attenta…» mormorò Belle, preoccupata.
Castiga le fece l’occhiolino di risposta e, con un sogghigno spavaldo, si incamminò sicura. Le e Maru vagarono per la cava per parecchio, ammirandone le particolarità. Anche se era fatta di roccia, era di colore blu, a causa della forte elettricità di cui era pervasa. Alcune rocce erano talmente elettriche che levitavano a mezz’aria. Gironzolò ancora, finché non vide un ponte.
“Forse da lì si esce.” pensò avvicinandosi.
Ma, all’improvviso, tutti i tre membri del Trio Oscuro la circondarono.
«… di qua.» disse uno, conducendola sul ponte con gli altri due.
Lo attraversarono e si fermarono. Uno dei tre disse: «… più avanti ci sono delle scale. Lì ti aspetta il Team Plasma.»
Sparirono nel nulla, come dal nulla erano comparsi.
Castiga giunse alle scale e le scese. Camminò per un lungo tratto, finché non incrociò alcuni Seguaci che sconfisse prontamente, anche se a fatica a causa del grande numero di avversari.
Arrivata in fondo alla Cava, rivide N, che, dando le spalle all'entrata del tunnel, non la notò ed esclamò: «Al fondersi e confondersi di valori diversi, il mondo si va tingendo di tinte fosche. Non posso permetterlo! La separazione tra Pokémon e uomini sarà netta, come tra bianco e nero. Solo in questo modo i Pokémon potranno diventare completi. Questo è il mio sogno! Un sogno che devo realizzare a tutti i costi!»
Sembrava volesse autoconvincersi che ciò che faceva era giusto, che non poteva permettersi di vacillare in quella che era la sua missione di vita. Si voltò, illuminato dalla luce della sua convinzione ritrovata ed esclamò: «Castiga, finalmente! Sapevo ce l'avresti fatta! Ce l’hai anche tu un sogno?»
«Un sogno… può darsi.» rispose lei, se la speranza di una vita migliore poteva essere considerata tale.
«Mi rallegra.» replicò lui, davvero contento di vedere che aveva brillantemente superato la prova di Geechisu: «Avere dei sogni è una cosa meravigliosa. Ti sfido a dimostrarmi quanto tieni al tuo sogno.»
E cominciò l'ennesima lotta. Castiga vinse e N disse, sconvolto e abbattuto, mormorò: «Ferire i propri amici… a questo servono le lotte Pokémon. Ma perché? Con il cuore pesante mi sono calato nei panni di Allenatore per sfidarti e ne ho riportato solo una sconfitta. Come farò ora a proseguire la ricerca della verità? Non sono degno dell’amicizia di un Pokémon leggendario!»
«Dai, N, lo scopo della lotta non è vincere...» cercò di replicare Castiga, per tirarlo su di morale ma anche fargli capire che gli scontri Pokémon non avevano l'obbiettivo di ferire. O almeno, non quelli di alcune persone.
«Castì!» li interruppe Belle, raggiungendoli con Cheren e la prof Aralia.
Castiga e N li guardarono, perplessi e stupiti da quell’entrata in scena che non si aspettavano e che non sarebbe dovuta avvenire. Avevano chiesto di essere lasciati soli, ma a quanto pare, non erano stati ascoltati.
«L’udito di Belle è eccezionale.» disse la studiosa, sorridendo alla sua pupilla: «Ha sentito la tua voce da molto lontano. Ciao! Come stai? E chi è l’Allenatore che è con te?»
Prima che la ragazza potesse rispondere, N intervenne, con una voce molto più dura e ostile del solito e uno sguardo per nulla amichevole: «Sei Aralia, giusto? Classifichi i Pokémon secondo le regole decise dagli uomini, senza mettere neanche in dubbio il legame tra Allenatori e Pokémon. Credi di capire tutto, vero? Il tuo Pokédex non serve a niente. Che cosa pensi di ottenere?»
Castiga si irrigidì. L’istinto fu di saltare addosso al ragazzo a lama tesa, arrabbiata per quelle accuse, mosse con quel tono, alla donna che l’aveva tirata fuori dal baratro. Ma Aurea tese un braccio per bloccarla, avendo notato il suo comportamento, e, guardando N, disse: «Oh, quanto astio… tu hai il tuo modo di pensare. Ma anch’io ho il mio e non vale meno del tuo. Ogni singola persona dovrebbe decidere da sola come vivere insieme ai Pokémon.»
«Ma in questo modo gli esseri umani malvagi fanno soffrire i Pokémon. Non posso chiudere gli occhi di fronte a tanta stoltezza.» replicò infuriato N, andandosene di corsa, non potendo restare tra gente che non capiva il suo pensiero. Forse Castiga, forse solo lei lo comprendeva... ma non sarebbe mai andata contro gli amici, era evidente.
Da parte sua, Castiga l’aveva osservato bene e aveva visto delle lacrime di rabbia uscire dai suoi occhi verdi. Una sensazione la colpì. La stessa cosa che la legava a Cheren e Belle, le diceva che N aveva bisogno di aiuto. Di una spalla su cui forse anche piangere. Soffriva, soffriva molto.
«Non mi aspetto che capisca e cambi idea da un momento all’altro.» disse Aurea: «Ma spero che un po’ alla volta comprenda i sentimenti di tutti noi.» concluse scoccando un’occhiata a Castiga: «Ora devo salutarvi ragazzi. Continuate il vostro viaggio e divertitevi!»

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Capitolo 38
*** Capitolo 37 ***


«Shikijika è sempre il solito.» commentò Raphael, ridacchiando, contento di vedere che il cervo non ce l'aveva solo con lui ma anche con questo N. Cominciava, però, ad essere irritante tutto questo parlare di lui. Sembrava fosse sempre al centro dei pensieri della ragazza, che lei non vedesse l'ora di rivederlo... doveva considerarlo una specie di rivale? D'altronde, si conoscevano da molto prima...
Castiga ridacchiò a sua volta e replicò: «Già. N fu molto convincente, però. Da quel giorno, nonostante la minaccia, Shikijika non ha più tentato aggressioni.»
Raphael si rabbuiò lievemente e borbottò: «Di me non si fida ancora quel cervo, accidenti.»
«E fa bene!» commentò la ragazza maliziosa, facendo ridere sia Belle che Cheren. Lui, sempre più seccato, sbottò: «Andiamo va'...»
Belle strinse ancora di più Cheren, terrorizzata; lui la cinse con fare protettivo di risposta. Castiga sospirò, arresa a quella paura senza senso, e disse solamente: «Sbrighiamoci ad uscire...»
I ragazzi si incamminarono uniti. Castiga e Hoshi davanti, dietro Raphael, poi Belle e a chiudere la fila Cheren.
Belle si fermò di botto urlando: «Aiuto, un Galvantula!» e balzò in braccio a Cheren. Lui quasi cadde e Castiga, innervosita e accigliata, si voltò e sbottò: «Belle… è un Joltik. Ti vuoi calmare? Non puoi urlare ad ogni minimo rumore che senti!»
«S-scusa…» balbettò lei, imbarazzata da quella figuraccia ma anche terrorizzata.
Ricominciarono a camminare per uscire da quel posto, quando all’improvviso Belle, cacciando nuovamente un urlo, corse via, in un tunnel preso a caso dal panico.
«Belle, no! Maledizione!» esclamò Castiga, vedendola sparire nel buio: «Ha scambiato l’ennesimo Joltik per un Galvantula! Ora dobbiamo andare a cercarla.»
Sbuffando, si inoltrarono nel tunnel ma arrivarono ben presto a un bivio. Si divisero in due gruppi, ma entrambi i gruppi incontrarono uno sdoppiamento. Alla fine si ritrovarono uno per tunnel, tutti separati. Ma questo fatto, che per loro fu seccatura e perdita di tempo, alla fine si rivelò di grande aiuto per la ricerca della nostra Castiga. Infatti, nascosto nei più remoti meandri della Cava Pietrelettrica c’era Moreno, uno dei Sette Saggi. Ma non fu la ragazza a trovarlo, bensì la sua migliore amica. Ora, dato che quando lo raccontò era terrorizzata, eccitata e provava altre emozioni non ben definite, non si capì nulla di quel che disse.
Cheren la trovò correre come un’ossessa, inseguita da un Galvantula furioso. La salvò e cercarono i compagni. Persero tutto il giorno ma alla fine si ritrovarono all’uscita. Chiesero a Belle cosa le fosse accaduto, ma lei disse sono frasi sconnesse: «Ho trovato un Saggio! Ma poi un Galvantula.. per regalo! E Bellocchio lo ha portato via! E…»
Castiga mise un po’ insieme il rebus e capì che Belle aveva incontrato un Saggio e che se lo era portato via Bellocchio. Il Saggio, per regalo, le aveva sguinzagliato dietro un Galvantula infuriato che l’aveva inseguita finché Cheren non l’aveva salvata. La ragazza prese la sua lista. I nomi non cancellati erano: Ross, Moreno e Giano.
“Chissà qual’era… mah vedremo alla fine di questa assurda ricerca.” pensò lei, mentre rimetteva via il foglio. L'importante era averlo trovato.
Uscirono dalla Cava e andarono a Ponentopoli, la città vicina, con un’altra giornata di viaggio. Ci volle un eternità per calmare Belle, ma alla fine, prima delle porte della città, ci riuscirono. Trovata un po' di pace interiore, la ragazza mormorò: «Vi ricordate cosa successe a Ponentopoli?»
«E come scordarlo…» commentò Castiga: «Anemone e la sua dannata palestra!»
«E la Torre Cielo.» aggiunse Cheren.
«Chi racconta?» chiese Raphael.
Guardarono tutti Castiga e lei, con un alzata di spalle, indicò loro una panchina e cominciò a parlare.
 
~§~

INTERMEZZO: PONENTOPOLI
 
Castiga, Belle e Cheren entrarono al centro Pokémon di Ponentopoli, parlando ancora di N.
La ragazza avrebbe voluto stargli accanto, per aiutarlo, ma non ne capiva il motivo; perché voleva così tanto vederlo sorridere sincero di nuovo? Una cosa era certa. La sua sofferenza l’aveva turbata.
Arrivarono a Ponentopoli, una città molto particolare: aveva poche case, il Centro Pokémon e una gigantesca pista di atterraggio per gli aerei a est. A sud della pista campi e campi di ortaggi che poi, una volta raccolti, venivano trasportati via aereo nel resto della regione.
I tre amici fecero curare i loro Pokémon, poi si avviarono verso la Palestra, che era a nord della pista.
All’improvviso però, l’Interpoké di Castiga squillò e la ragazza rispose, allontanandosi dagli amici, lievemente preoccupata: «Salve, prof. Le è successo qualcosa?»
«Ascoltami bene, Athena. Risparmiati quegli scatti. Se non ti avessi fermata, cosa avresti fatto?»
Castiga, colpita da quel tono secco, molto diverso dal solito, borbottò: «Beh, io… ecco… volevo…»
Non sapeva nemmeno lei cosa dire. Accortasi della sua difficoltà, Aurea sorrise, addolcendo i toni: «Ascolta. Ho capito che ti ha dato fastidio l’atteggiamento di quel ragazzo nei miei confronti e lo capisco, però avere idee contrarie è normale. Lui è arrabbiato, ma non credo fosse sua intenzione offendermi. Cerca di controllarti, ok?»
Castiga abbassò lo sguardo di lato. Si stava prendendo una ramanzina in piena regola e la cosa divertente era che non la irritava. Si sentiva solo in colpa. Così, mormorò: «Mi scusi.»
«Ehi, non fare così.» disse la donna, notando la sua reazione mite: «Non sono arrabbiata, ma solo preoccupata. Se non impari a trattenerti, finirai nei guai.»
«Le chiedo scusa. Cercherò di stare calma, glielo prometto.»
«Grazie, Athena.» le sorrise lei, vedendosi ricambiare il gesto dalla ragazza.
Le due parlarono un po’, del più e del meno, quando ad Aurea sorse una curiosità: «Posso chiederti una cosa?»
«Naturalmente.»
«Mi sarebbe piaciuto di più chiedertelo di persona, ma visto che non mi è possibile raggiungerti… è una cosa che tratta di Giovanni. Vuoi ancora rispondermi?»
La ragazza si irrigidì, ma annuì. Ormai le aveva detto tutto. Sapeva che non lo faceva per farla soffrire.
Aurea attese un attimo, per vedere che non cambiasse idea. Non avendo repliche, chiese: «Bene. Volevo sapere, visto che il dolore fisico sembra non farti nulla… come faceva a punirti se disobbedivi?»
Sulle labbra di Athena apparve un leggero sogghigno, anche se la sua voce era velata di malcelato terrore.
«Niente di più facile. Sa, io odio i posti chiusi. Mi manca l’aria e mi fanno perdere la testa. Mi chiudeva dentro una stanza blindata di due metri cubi. Davo i numeri, mi faceva impazzire, finché non lo imploravo di farmi uscire. Battevo i pugni su quella porta fino al sangue... La paura di quel posto mi impediva di disobbedire. Lui aveva occhi ovunque. Io sapevo che mi avrebbe vista. Se avessi trasgredito, sarei finita lì dentro, ancora. Delle volte mi proibiva nella maniera più assoluta di uccidere in missione. E io obbedivo senza discutere. Anche se stavo male, soffrivo, non osavo in alcun modo trasgredire. Odiavo quel posto...»
Aurea ascoltava, trattenendo a stento le lacrime, per la crudeltà di quell’uomo. Una piccola bambina... era solo una bambina e aveva sopportato sevizie psicologiche terribili: “E poi si chiedono come fa ad essere un mostro. Povera ragazza.”
Fingendo una visita improvvisa, la donna chiuse la chiamata, per cercare di celare i suoi sentimenti e non scoppiare a piangere di fronte a lei. Non voleva che pensasse che avesse pietà per lei; ma pensò ad Athena tutto il giorno: “L’ha rovinata per sempre. Per le sue manie di onnipotenza, ha rovinato una vita innocente.”
Nel frattempo, Castiga raggiunse Belle e Cheren alle porte della Palestra, ancora un po' giù di corda per quella ramanzina. Per una volta che non voleva attaccare per se stessa...
«Che facciamo? Andiamo?» chiese Cheren, strappandola dalle sue riflessioni.
«Direi di sì.» rispose solo Castiga, ma all’improvviso videro venire verso di loro un uomo con i capelli grigi e l’aria simpatica, accompagnato da una donna vestita con degli shirt azzurri e un top. Sulle mani portava dei guanti da pilota e un fiore azzurro le teneva raccolti il capelli castani in uno stravagante ciuffo. La donna rivelò di essere Anemone, la Leader di Ponentopoli e l’uomo si presentò come Cedric Aralia.
“Il padre di Aurea?!” pensò sbalordita Athena, fissandolo senza parole. Stravagante quanto la figlia, non c'era dubbio. Ma si chiese cosa sapesse di lei... Cheren non perse tempo in presentazioni inutili ed esclamò:
«Io sono Cheren e vorrei chiederti una lotta in Palestra, Anemone!»
Belle e Castiga annuirono, sottolineando anche il loro intento di lottare, ma Anemone si scusò e replicò: «Ho visto un Pokémon Volante atterrare sulla Torre Cielo e credo sia ferito. Volava storto... Scusatemi ma voglio andare a curarlo.»
Salutò tutti e li lasciò, dirigendosi a nord della città, senza altre spiegazioni. Cedric entrò nella cava Pietrelettrica per fare qualche ricerca e Castiga guardò gli amici, dicendo: «Direi che è scontato cosa faremo ora.»
«Torre Cielo… arriviamo!» esclamò Cheren.
Arrivarono alla Torre Cielo, sul percorso 7 e il ragazzo disse: «Questa Torre è stata eretta per le anime dei Pokémon. Quando sono arrabbiati o comunque turbati, bisogna suonare la campana in cima per calmarli.»
In religioso rispetto, i tre amici salirono i piani della torre, osservando le lapidi. Vedere quella gente che piangeva per i propri Pokémon scomparsi, insidiò nel cuore di Athena il dolore che la accompagnò per tutta la salita.
Ma Belle scivolò sulla ripida scalinata e cadde, facendosi male ad una gamba.
«Io resto con lei.» disse Cheren, notando la caviglia gonfiarsi: «Tu vai a vedere se Anemone ha bisogno di aiuto, Castì.»
La ragazza annuì e, con quel groppo in fondo allo stomaco sempre più opprimente, arrivò fino in cima, accompagnata dall’onnipresente Maru che, per tirarla su di morale, posò la testa alla sua spalla e borbottò: *«Non essere triste...»*
«Tranquillo.» rispose lei, accarezzandogli il muso: «Passerà. Ora andiamo.»
Lui annuì e insieme, varcarono la botola che portava sul tetto piatto della torre.
«Ah sei qui! Grazie.» disse Anemone sorridendo quando la vide: «Quello che avevo visto prima era proprio un Pokémon ferito. Ma ora sta meglio! Gli ho dato una medicina ed è volato via pieno di energia.»
«Complimenti per la vista. Non era facile da vedere da laggiù.» commentò la ragazza, notando quanto fosse lontana Ponentopoli.
Anemone sorrise e replicò, quasi con tono di vanto: «Lo so. È un requisito molto importante per un pilota.»
Spazientita e nervosa da quel malessere che sentiva dentro, Castiga sbottò: «Bene, allora. Possiamo tornare in città.»
La Leader annuì ma le scappò l'occhio sulla campana. Con un sorriso, propose: «Aspetta! Visto che sei qui, vuoi provare a suonare la campana? I suoi rintocchi placano gli spiriti dei Pokémon. Inoltre, il buon cuore di chi la suona si riflette nel suono emesso.»
Castiga la guardò, non molto entusiasta. Sarcastica, pensò: “Se quella campana misura il buon cuore, con me non si degna nemmeno di suonare.”
Anemone la guardò interrogativa, incitandola a suonare, e lei, alzando le spalle, si avvicinò alla campana.
“Te la sei voluta, cara. Poi non te la prendere.” pensò, tirando la corda che azionava lo strumento.
La campana suonò e i suoi rintocchi echeggiarono tutt’intorno.
«Che suono strano.» commentò Anemone, fattasi pensosa: «Mi dice che sei una ragazza forte, determinata e delle volte anche gentile. Ma ha anche un mezzo tono sinistro che non riesco ad identificare. Probabilmente non è importante! Ora sarà meglio andare... immagino sia già nei tuoi piani ma ti rinnovo l'invito: vieni a trovarmi nella mia Palestra! Ti accoglierò a braccia aperte… e a Poké ball tesa, sfidante!»
Con un sorriso, prese le scale e sparì giù dalla Torre, lasciando la ragazza con i suoi confusi pensieri.
«Avrei scommesso che la campana non avrebbe suonato. E se… la prof avesse ragione?» borbottò, davvero stupita di quel che era successo. Aurea diceva sempre che sapeva che, in fondo, lei era una brava ragazza, nonostante tutto quello che aveva fatto e le sue pulsioni omicide. Ma Castiga non ci aveva mai creduto... ma ora... non sapeva più cosa pensare. Rosa dai dubbi, scese di sotto per vedere come stava Belle. Ma quando arrivò al piano dove li aveva lasciati, non li trovò. Perplessa e stupita, prese l’Interpoké e chiamò Cheren, ma lui non rispose. Guardando Maru, borbottò: «Ma dove diavolo sono spariti?!»
Lui scrollò le spalle di risposta, sapendone quanto lei.
«Andiamo in città. Vediamo se sono già in Palestra.» concluse lei, scendendo le scale.
Castiga e Maru uscirono dalla Torre Cielo e tornarono in città. Entrati a Ponentopoli, videro venire loro incontro un ragazzo che accompagnava una ragazza con delle stampelle.
«Belle!» esclamò Castiga, correndo dall’amica: «Che cosa…?»
«Purtroppo la caduta è stata più forte del previsto…» mormorò lei, imbarazzata: «Mi sono slogata una caviglia e…» ma non riuscì a terminare la frase, perché un ragazzo le passò di fianco correndo e, urtandola, la fece crollare a terra.
Belle gemette, tenendosi la caviglia e Athena sentì la sua rabbia assassina salirle in corpo. Stavolta era fondata. Come era successo per Aurea, si era affezionata a Belle, voleva proteggerla e ora voleva il sangue di colui che aveva ferito la sua amica. Ma come un imperativo, le tornò in mente l'ammonizione della prof: “Risparmiati questi scatti”. Aveva ragione, doveva imparare a mantenere la calma. A passare sopra a ciò che la faceva arrabbiare. Una cosa che non aveva mai fatto. Decise di lasciar perdere, di non far pagare a quel tipo la sofferenza che aveva causato a Belle. Però si rese conto di una cosa. Ora, se si infuriava, se perdeva la testa, stranamente non voleva uccidere Belle e Cheren. Anche se ce li aveva davanti, innocui e indifesi, e il suo istinto le ordinava di attaccare, non voleva far loro del male.
“È forse questa, l’amicizia?” si chiese, senza sapersi dare risposta.
Belle ci mise molto a tranquillizzare gli amici, ma Cheren non si diede per vinto. Deciso, sbottò: «Tu va pure in Palestra, Castì. Io accompagno Belle in ospedale per un controllo.»
«Ok, Dottore. Fammi sapere.» assentì lei, bruciando con quattro parole tutte le proteste di Belle.
Lui annuì e si salutarono. Mentre camminava, Castiga sentì una voce femminile alle sue spalle urlare: «Buona fortuna, Castì!»
Sorrise e continuò la strada fino alla Palestra di Anemone. Entrata vide davanti a lei un cannone. E null’altro. Perplessa, rivolse uno sguardo interrogativo al giudice che disse: «Per arrivare dalla nostra Leader, dovrai librarti in aria come un uccello! Entra nel cannone e vola da lei!»
La ragazza, sconvolta, guardò il cannone e borbottò: «Io dovrei farmi… sparare da questo coso?!»
Si avvicinò al cannone, nel quale notò una porticina. Senza parole, fissò Maru, che ridacchiò di risposta.
«Io volo sui Pokémon, non con i cannoni!» esclamò, cercando aiuto nel suo compagno.
*«Mi spiace, ma temo che dovrai farlo.»* commentò il Samurott, divertito da quella situazione.
«Questa gente è fuori di testa.» borbottò rassegnata, facendolo rientrare.
La porta scorrevole di fronte a lei si aprì, lei entrò, e la porta si richiuse. Sotto i suoi piedi si alzò il pavimento e la ragazza venne sparata fuori dal cannone, atterrando sui materassi messi apposta. Stordita dall’atterraggio, si rialzò barcollante e si guardò intorno.
«Uno.» borbottò, inorridita: «Due… Tre… Quattro… ma quanti diavolo di cannoni ci sono?!»
Dopo parecchio tempo, parecchi lanci e parecchi atterraggi -troppi secondo lei-, Castiga arrivò da Anemone.
«Ben arrivata!» le disse, ridacchiando, vedendola barcollare: «Come ti senti?»
Castiga grugnì qualcosa e Anemone rise: «Tieni, bevi un po’ d’acqua e siediti un momento. Per chi non è abituato, questa Palestra è micidiale! Ma poi diventa divertente!»
La Leader le porse un bicchiere d’acqua e Castiga sedette mentre il mondo si raddrizzava e cominciava a stare fermo.
«Ok. Lottiamo!» esclamò dopo un po', rialzandosi.
Anemone sorrise di sfida e la lotta cominciò: Hoshi contro, in sequenza, Swoobat, Unfezant e Swanna. Con un ultima Scintilla, Castiga ottenne la Medaglia Jet. Fu una delle battaglie più facili di tutto il viaggio.
«Anemone…» chiese preoccupata la sfidante: «Per uscire devo rifare tutto il giro?»
Lei rise, divertita dalla preoccupazione che le leggeva in faccia, e rispose: «Tranquilla c’è solo un cannone per l’uscita. Solo che ti spara con più forza perché l’uscita è lontana!»
Castiga entrò nel cannone, rassegnata e la macchina la spedì davanti alla porta della Palestra. Uscita, ancora barcollante, la ragazza incontrò N. Lui le sorrise con calore, come aveva sempre fatto, notando quanto fosse scossa e commentò: «Luogo particolare, vero?»
«Quella è pazza.» rispose solo lei, con ancora la testa che girava. N ridacchiò, sorreggendola e aiutandola a sedere su una panchina. Non poteva pretendere che potesse sopportare il dialogo che aveva in mente in quelle condizioni. E un po' gli dispiaceva vederla così; sembrava davvero fuori forma. Notò però lo sguardo fisso di Maru, uscito rapido dalla sfera appena sentito l'atterraggio; sembrava sfidarlo a farle del male. Così, vedendo che si era un po' ripresa, buttò lì: «Immagino tu abbia vinto la Medaglia... Per dimostrare di essere i migliori, gli Allenatori fanno lotte in cui i loro Pokémon rimangono feriti. Non posso essere l’unico a pensare che sia una cosa davvero crudele.»
«Punti di vista, suppongo.» rispose solo lei, non molto propensa ad ascoltare i suoi deliri.
N la squadrò, notando la poca collaborazione, poi tornò a guardare Maru e mormorò: «Proverò a chiedere direttamente al tuo Pokémon cosa ne pensa. Sono curioso di vedere se le vostre idee coincidono.» vedendo lo sguardo perplesso di lei, sorrise e aggiunse: «Proprio così. Sono cresciuto circondato dai Pokémon e per me è più facile parlare con loro che con gli esseri umani. E poi i Pokémon non dicono mai bugie.»
Lei alzò le spalle, fingendo di acconsentire. Opporsi non sarebbe servito e lei sapeva benissimo come la pensava Maru. N quindi si rivolse al Pokémon ed esordì, dicendo: «Dimmi, Samurott…»
Lui lo interruppe subito e sbottò: *«Il mio nome è Maru.»*
«Oh… d’accordo.» si corresse subito N, alzando le mani: «Dimmi, allora, Maru; parlami un po’ della tua Allenatrice.»
Il Samurott rispose e N borbottò: «Capisco… Castiga viene da Soffiolieve; e vive.. da sola?»
La ragazza, che seguiva perfettamente la conversazione, si fece attenta. Ma sapeva che Maru non avrebbe detto nulla. Infatti, dopo un momento di silenzio, il Pokémon la guardò e chiese: *«Posso dirlo?»*
Lei si limitò ad annuire. N la guardò, quasi sorpreso, mentre Maru parlava.
Il ragazzo commentò, alla fine del racconto: «E così viene da un’altra regione…»
Poi la fissò dritta negli occhi e aggiunse: «E anche tu capisci i Pokémon.»
«Se mi avessi fatto parlare a Quattroventi te lo avrei detto ancora allora.» rispose solo lei, pacata: «E credevo l'avessi già capito quando ho convinto Shikijika a rientrare nella sfera alla cava.»
Lui annuì, notando un suo grave deficit di valutazione, e commentò: «Ora capisco come fate a intendervi così bene. Mi è tutto più chiaro. E come avevo immaginato, questo Samurott, Maru, si fida molto di te. E non è poco!»
«E non è l’unico.» aggiunse lei.
Ignorando il suo commento, N proseguì: «Se tutti fossero come voi due, non servirebbe più liberare in massa i Pokémon per evitare che vengano sfruttati. Il futuro di Pokémon e uomini sarebbe al sicuro.»
«No aspetta, mi stai perdendo. Anche io faccio le lotte...»
N annuì ma precisò: «Sì, ma ti ho osservata. Se il tuo Pokémon rischia molto, preferisci cambiarlo, preservare la sua salute... c'è chi non lo fa. Geechisu ha sguinzagliato il Team Plasma alla ricerca di due pietre speciali: Il Chiarolite e lo Scurolite. Quando un Pokémon Leggendario abbandona la sua esistenza terrena, il suo corpo si trasforma in una pietra, in attesa che venga al mondo un eroe… Riporterò in vita un Pokémon Drago e diventerò suo amico. Verrò acclamato eroe in tutto il mondo e tutti mi obbediranno…»
N si voltò verso l’immensa pista di atterraggio, gli occhi illuminati da una luce di determinazione; poteva farcela, doveva farcela: «Il mio sogno è quello di cambiare il mondo senza lottare. Se si cerca di farlo con la forza, è inevitabile crearsi dei nemici. E a farne le spese sono sempre i Pokémon, sfruttati e feriti in lotta; finiscono senza volerlo in queste guerre... I Pokémon non sono esseri inferiori da usare come ci pare e piace!»
“Concordo con te, se non lo avessi capito…” pensò lei, ma N proseguì, senza lasciarle il tempo di dire nulla: «Un po’ mi spiace che questo significhi anche distruggere amicizie rispettose come quella tra te e i tuoi Pokémon…»
La guardò, con un sorriso ambiguo e leggermente triste, e se ne andò. Castiga non riuscì a resistere al pensiero che qualcuno potesse portarle via la sua squadra. Di nuovo.
«Non me li porterai mai via, N! Ricordati queste parole! Non me li porterai via! Mai!»
Al suo urlo si unì quello di Maru, che diceva le stesse parole, mentre N si allontanava.
I due si guardarono, poi Castiga abbracciò il suo amico. Dalle sfere uscirono tutti i suoi Pokémon. Loro erano forti, uniti... nessuno li avrebbe separati. Mai.
Dopo un aggiornamento al telefono, attesero e finalmente Belle e Cheren li raggiunsero. La ragazza era ancora zoppa ma determinata a vincere e, dopo un’aspra lotta, riuscirono entrambi a sconfiggere Anemone; così il viaggio ricominciò.
I due amici erano rimasti sconvolti tanto quanto Castiga dalla Palestra di Ponentopoli, anche se la bionda venne esonerata dallo sparo. D’altronde, aveva le stampelle.

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Capitolo 39
*** Capitolo 38 ***


«Ci sono davvero i cannoni?!» chiese Raphael, sconvolto dalla descrizione della Palestra.
«Eccome. Però non credo tu possa farci su un giro e poi non combattere.» rispose Castiga, stando male al solo pensiero. Non le era proprio piaciuta quell'esperienza.
«Evitiamo.»
Ridacchiando i quattro andarono a riposarsi e poi, il giorno dopo, ripartirono. Belle prese la carta della regione e chiese: «Ora dove andiamo, Castì? Mistralopoli?»
«Ci sarebbe la Torre Dragospira…» rispose la ragazza, pensando, con la cartina di Isshu davanti al naso: «Ma prima volevo andare nella Cava Ponentopoli… qui.»
Con il dito, indicò un punto a est della città. Raphael tolse lo sguardo dalla mappa per posarlo su di lei e chiese: «Perché vuoi andare lì?»
«Dicono ci sia dentro un mostro. Sai che figo incontrarlo?»
Gli altri accettarono, ma Belle si rifiutò categoricamente di entrare nella grotta. Così, lei e Cheren rimasero fuori, mentre Castiga e Raphael andarono dentro la Cava. Preoccupato, doveva ammetterlo, lui chiese: «Vuoi davvero cercare un mostro?»
«No. Però so che qui ci sono degli Axew. La prof ha detto che ne hanno avvistato uno particolare e mi ha chiesto i dati ma aveva paura che Belle e Cheren si offendessero. È top secret.» rispose lei, con un'alzata di spalle: «Conosco Belle e so quanto è fifona. Era l'espediente perfetto.»
«Dai, vieni qui.» disse il ragazzo, abbracciandola, non avendo ascoltato nemmeno una parola della sua spiegazione.
Lei si strinse a lui. Restarono così un po’, poi lui la spinse contro la parete e la baciò dolcemente. Lei non fece nemmeno in tempo a ricambiare che il muro alle sue spalle cedette e la ragazza precipitò attraverso un tunnel, finendo in fondo alla grotta con una capriola. Si rialzò tenendosi la testa.
«Maledizione, che volo.» borbottò, ma si bloccò vedendo la creatura che aveva di fronte.
Una specie di cavallo color cobalto, fiero e altero, che la fissava con due occhi ardenti. Si specchiarono negli occhi, rosso nel rosso. Il Pokémon e Castiga si studiarono a lungo. Poi le corna della bestia divennero luminose e lui attaccò. Castiga se lo aspettava e fece uscire prontamente Hoshi che si preparò a combattere.
«Hoshi usa Nitrocarica!» ordinò la ragazza, ma l’avversario ruggì e la Zebrstrika, come se fosse stata ipnotizzata, cambiò direzione e attaccò la sua stessa allenatrice. Il Pokémon cobalto fermò il suo attacco e guardò attentamente la scena.
Castiga rimase immobile un secondo, vedendo Hoshi correre fiammeggiante verso di lei, ma non arretrò. Vedendo che non aveva paura, la bestia blu ruggì di nuovo e Hoshi si diresse a tutta velocità verso il muro.
«Hoshi, no!» esclamò la ragazza, ma la Zebstrika non rallentò. Ignorò gli ordini della ragazza e sembrò che si volesse schiantare.
Castiga non perse tempo: corse verso la sua Pokémon, la strinse e, scottandosi le mani e le braccia, fermò la sua folle corsa. Il Pokémon Blu osservò la scena, poi ruggì ancora e Hoshi venne liberata da quella strana ipnosi. Scrollò la testa, rintontita.
«Per fortuna stai bene, Hoshi!» esclamò la ragazza fra le lacrime, dovute alle ustioni sulle braccia.
*«Scusami...»* mormorò lei, leccandole le ferite
«Non ti devi scusare Hoshi. Tu non c'entri.» disse Castiga, alzando poi lo sguardo sul Pokémon blu con occhi ardenti: «Senti un po’ bestione… non so come tu abbia fatto, ma non ti permettere mai più di fare del male a Hoshi. Sleale vigliacco. Cos’è… hai paura di lei per caso?»
Il Pokémon emise un ringhio di avvertimento ma la ragazza non intendeva farsi intimidire. Lo fissò decisa negli occhi, senza mostrare timore e pensò: “Non mi fai paura…”
*«La tua anima è strana, umana. Ci rivedremo.»* disse lui, con una voce profonda e solenne. Aveva visto che lei poteva comunicare con i Pokémon e per questo le aveva parlato a voce e non telepaticamente come raramente era solito fare con umani meritevoli della sua attenzione.
Il Pokémon la guardò negli occhi e lei, con un sorrisetto, rispose: «Contaci.»
Lui la fissò per un ultimo, interminabile istante e poi svanì nel buio con un guizzo della coda. Castiga, invece, tornò in superficie con Hoshi, in tempo per vedere Raphael catturare un Axew. Vedendola, le corse incontro, preoccupato, ed esclamò: «Athena! Grazie al cielo stai bene! Stavo catturando un Axew per farmi aiutare ma… che hai fatto alle braccia?!»
«Mi ha attaccata uno strano Pokémon blu ed è riuscito, non so come, a mandarmi contro Hoshi. Ma non è nulla.» rispose lei, cercando di tranquillizzarlo, ma lui non sentì ragioni: la prese fra le braccia, senza farle male e la strinse. Lei, toccata da quell’abbraccio dal quale trasparivano i sentimenti del ragazzo, si posò a lui e si tranquillizzarono a vicenda. Per ognuno bastava la presenza dell’altro.
Due occhi rossi li scrutarono dal profondo della Cava: “La tua anima è pura, ma ha un fondo oscuro che mi inquieta. Qual è il tuo segreto, giovane umana?”
Castiga e Raphael uscirono dalla grotta, dopo che lui le ebbe medicato le ferite subite con lo scontro. La ragazza si sentiva osservata, ma una volta fuori, la sensazione svanì.
«Castì!» esclamò Belle correndole incontro, seguita a ruota da Cheren: «Cos’hai fatto alle braccia?! Sei ferita?»
«Tranquilla Belle.» rispose la ragazza, facendole un cenno di noncuranza con la mano: «Non è nulla! Solo un Pokémon blu cornuto che ha tentato di farmi secca.»
Belle si bloccò e, con voce tremante, mormorò: «Le sue corna sono diventate più grandi? E luminose?»
«Sì. Come fai a saperlo?»
«Nel… nel Bosco Girandola un Pokémon verde ha fatto la stessa combattendo contro Emboar.»
«Era stato lui a ferirlo?»
«Sì… scusa se non te l’ho detto.»
Castiga le sorrise e rispose: «Non è un problema, saranno della stessa specie.»
I quattro amici ritornarono e rimasero una settimana a Ponentopoli, ospiti di Anemone, per permettere alle braccia della ragazza di cicatrizzare. In quel lasso di tempo, piuttosto lungo vista la lenta guarigione, raccontarono a Raphael cosa successe prima, dentro e dopo Mistralopoli.
 
~§~
  
INTERMEZZO: TRA RABBIA, DRAGHI E DELIRI DI ONNIPOTENZA
 
Arrivati alle pendici del Monte Vite, la miniera tra Ponentopoli e Mistralopoli. Cheren e Castiga improvvisarono una lotta di allenamento dalla quale risultò vincitrice la ragazza. Imbronciato, lui fece rientrare i suoi Pokémon. Era stufo di vedere sempre lo stesso epilogo.
«Bravi ragazzi! Bella lotta!» esclamò una voce dall’alto.
Alzando lo sguardo, i tre amici videro un uomo dalla fulva chioma arancione che li fissava dal costone di roccia sopra di loro. Con un sorriso l’uomo saltò giù e Cheren sbottò: «Ciao, Nardo. Ho perso la sfida perché sono troppo debole. Quindi i tuoi complimenti, a dire la verità, mi sembrano fuori luogo.»
«Non è la prima volta e non sarà l'ultima, Dottore.» sogghignò Castiga, troppo contenta di aver umiliato quel bambino saccente un'altra volta.
Lui la squadrò di risposta e ribatté: «Prima o poi avrò la mia rivincita, stanne certa!»
«Non prendertela, ragazzo.» intervenne Nardo, nel tentativo di sedare il battibecco sul nascere ed evitare che i due amici litigassero: «Secondo me dovresti rilassarti ed essere contento. Dopotutto i tuoi Pokémon si sono impegnati molto. Te lo chiedo ancora: che cosa vuoi fare una volta che sarai divenuto forte?»
«Se diventassi forte… se diventassi il Campione, potrei dare un senso alla mia vita. E proverei che sto davvero vivendo!» esclamò lui, avendo finalmente pensato a una risposta per quella domanda che tanto lo aveva spiazzato.
“Prova a tagliare una gola e vedrai se non ti senti vivo e onnipotente.” commentò la ragazza con il pensiero, mentre Nardo rispose: «Mmh.. mi ricordi Marzio. Avere un obbiettivo è senza dubbio importante. Ma ancora più essenziale è sapere che cosa fare quando lo si raggiunge, nel tuo caso, cosa fare con la forza ottenuta. Non credi?»
«Non so... io penso che prima mi concentrerò su come ottenerla e poi... vedrò cos'altro fare!» rispose lui, determinato ad arrivare alla Lega e a sfidarlo almeno una volta nella vita.
Nardo sorrise e gli fece l'occhiolino. Salutò educatamente Belle, che rispose imbarazzata. Poi guardò Castiga... si fissarono un momento, senza parlare, poi lui le sorrise. Lei si fece perplessa, ma ricambiò. Nardo risalì sul costone con un balzo, si voltò e disse: «Allora, miei giovani Allenatori! Non dimenticate di considerare anche cosa desiderano i vostri Pokémon! Non ci siete solo voi, siete una squadra. Non dimenticatelo mai!»
Sorridendo loro, fiero, se ne andò con passo veloce, pronto a ricominciare a vagare per la regione, ma questa volta, con un obbiettivo: la ricerca del team Plasma.
Castiga lo fissò pensierosa e commentò: «Che tipo quel Nardo… è così diverso.»
«Diverso?» chiese Cheren: «In che senso?»
«Diverso da una persona che conosco. Non fate caso a me.» rispose lei vaga, per poi incamminarsi verso il Monte Vite.
Belle e Cheren si guardarono perplessi ma non insistettero. Entrarono nel monte e, appena fatti alcuni passi, videro Rafan.
«Salve ragazzi!» li salutò: «Stavo perlustrando il Monte Vite e non mi aspettavo proprio di incontrarvi! Siete diventati più forti, mi pare.»
«E da cosa lo vedi?» chiese Castiga accigliata.
«Castì piantala di rispondergli male!» le disse Belle, riprendendola seccamente. Non sopportava che ogni volta che si vedevano, dovevano per forza parlarsi in quel modo.
Rafan la squadrò, seccato, mentre lei borbottava qualcosa piccata; lasciando perdere il sicuro litigio, il Leader aggiunse: «Sentite, avete visto il Team Plasma di recente? Io e gli altri Leader ci siamo riuniti per capire dove si possano essere nascosti. Ma non abbiamo proprio idea di dove possa trovarsi il loro covo. Sembra che siano stati inghiottiti dalle fauci della terra! Forse possiamo solo aspettare il loro prossimo passo.»
«Beh, effettivamente Geechisu aveva det…» cominciò Cheren, avendo qualche informazione a riguardo, ma Rafan lo interruppe, continuando a parlare: «Ma scusate, non sono cose di cui dovete preoccuparvi. È giusto che i bambini pensino soltanto a giocare con i Pokémon!»
Ignorando le facce seccate dei tre, e soprattutto di una persona in particolare, cambiò discorso, guardando verso le profondità del monte.
«Il Monte Vite è eccezionale! Il mio posto preferito si trova proprio dopo questo passaggio…» disse, indicando una direzione: «Ma invece che spiegarvelo a parole, è meglio che lo vediate con i vostri occhi.
Vi saluto ragazzi!»
Sorrise a Belle e Cheren, scoccò uno sguardo arrogante a Castiga e se ne andò con passo deciso.
I ragazzi si guardarono e Castiga sbottò: «Io direi che dovremo preoccuparcene invece. Quel folle di Geechisu vuole anche i nostri, di Pokémon.»
«Sono d’accordo. Dobbiamo aiutare i Leaders più che possiamo!» concordò Cheren.
«Peccato che per loro valiamo meno di zero.» sbottò ancora irritata Castiga: «Beh, si accorgeranno che ci siamo anche noi a tempo debito. Noi intanto andiamo a Mistralopoli! Mancano ancora due Medaglie!»
Il Monte Vite era un’enorme montagna, scavata all’interno e usata come miniera. Non era una novità che Rafan andasse lì: era un minatore che amava scavare e cercare fossili, che poi portava alla sua amica e collega Aloé a Zefiropoli. Ed era risaputo il suo amore per quel luogo.
I tre amici faticarono molto a trovare l’uscita, soprattutto perché era tutto un via vai di cunicoli intricati, i quali, se non eri un minatore e non li conoscevi a memoria, diventavano un vero e proprio labirinto. E i tre si persero. Castiga continuava a guardarsi intorno, abbastanza agitata. Vedeva solo roccia intorno a lei. Roccia, solo soffocante roccia. Si sentiva schiacciata, in trappola, senza uscita. Cheren e Belle continuavano a parlare, senza rendersi conto del suo disagio, ma questo era un bene perché una voce, una qualunque voce teneva Giovanni lontano. Castiga avrebbe preferito essere all'aria aperta ma, nonostante l'ansia, si sentiva ancora padrona di sé. Belle però si era accorta del suo disagio e, credendo che il problema fosse la sua parlantina, aveva cominciato a fare silenzio, per non darle fastidio. Il silenzio di Belle fu però rotto dal mormorio di Giovanni. Athena cominciò ad essere sempre più agitata: si guardava intorno, a scatti, temendo di vedere il capo comparire da un momento all'altro. Uno squillo ruppe il silenzio; Belle rispose alla professoressa Aralia: «Salve, prof! Come sta?»
«Ciao, Belle! Io sto bene, grazie. Voi? Dove siete?»
«Al Monte Vite!» rispose lei, ma poi abbassò la voce, per non farsi sentire da Castiga, che probabilmente non l'avrebbe comunque notata presa com'era a scrutare i dintorni: «Professoressa… Castiga si comporta in modo strano.»
«Strano come?» chiese la donna, facendosi attenta.
«Non lo so... credo tema qualcosa. Si guarda intorno, sembra tesa, come se avesse paura di veder spuntare qualcosa che la terrorizza dalla roccia. E borbotta cose senza senso.»
Aralia spalancò gli occhi, inorridita. Ricordava bene la loro ultima chiaccherata... Castiga aveva lamentato la sua insofferenza nei luoghi chiusi.
“Nel monte Vite… si saranno persi! Deve essere al limite. È in un luogo chiuso... sono in pericolo!” pensò preoccupata, poi disse: «Belle, Cheren, allontanatevi subito da lei. Non parlatele, non guardatela… lasciatela andare avanti da sola. Quando le sarà passata, tornerà lei, ma fate molta attenzione.»
Con queste parole rischiava di mandare all’aria la copertura della ragazza. Avrebbe potuto essere costretta a rivelare tutto su di lei, per le domande dei due ragazzi. Ma la situazione era troppo grave. In quello stato, Athena poteva essere fuori controllo. I due eseguirono, prendendo senza dirle niente un cunicolo trasversale. Castiga notò all'improvviso, metri dopo, che era rimasta sola. I due amici erano spariti. Spalancò gli occhi... Giovanni aveva campo libero. Si appoggiò al muro, sedette a terra, si prese la testa, ad occhi chiusi, e borbottò: «Stai calma, stai calma... Giovanni è a Kanto, non sei nei sotterranei...»
Cercava di convincersi che andava tutto bene, che era al sicuro, ma in fondo alla sua mente, la risata di Giovanni diventava sempre più forte, sempre più reale. Maru non sapeva cosa fare. Voleva aiutarla ma come poteva? Non sapeva che sarebbe bastato parlarle e tranquillizzarla...
All'improvviso, lei spalancò gli occhi. Lo vedeva lì, nel buio, il suo ex capo, il suo carceriere, tornato dal passato per ricominciare a controllarla. Per avere di nuovo la sua arma. Cominciando a respirare più forte, tirò un pugno al muro e gridò: «Vattene!»
Tra il panico e la rabbia, gridava sempre più forte, nel vano tentativo di scacciare quella visione ormai quasi del tutto reale. Maru arretrò, impaurito da quel che stava vedendo. Non l'aveva mai vista in quelle condizioni, sembrava totalmente folle, staccata dalla realtà, spettatrice di qualcosa che in realtà non esisteva. Il Samurott non sapeva cosa fare... impaurito, arrivò all'imboccatura del cunicolo e corse via; tra le lacrime, si maledisse per la sua vigliaccheria.
*«Pidg, aiutami tu!»* gridò, mentre correva nel pianto: *«Tu sapresti cosa fare... io no, non sono degno.»*
Quando non sentì più le grida, si fermò, ansimante. Si sentiva male per il suo gesto, voleva tornare indietro, aiutarla... ma per cosa? Per restare lì, impotente, e guardarla impazzire? Magari neanche riconoscerlo?
Con la sua fuga però, Athena era peggiorata. Se i luoghi chiusi le facevano male, essere sola faceva peggio. Era in balia delle sue stesse allucinazioni, più cercava di combatterle, più sembravano nitide. D'un tratto, apparve un minatore, nuovo e inesperto, che esclamò: «Chi è là?»
Athena sovrappose la figura reale con quella illusoria di Giovanni e, volendo far smettere a tutti i costi quella risata, attaccò a lama tesa. Ad ogni pugnalata, la voce si allontanava, lei tornava ad avere contatto con la realtà, tornava se stessa. E si rese conto di quel che aveva fatto. Come al solito, solo quello riusciva a calmarla. Non era cambiato niente, nonostante la cura. Togliere le vite la faceva stare bene. Come avrebbe fatto ad andare avanti? Come poteva riunirsi con gli amici, dare la caccia ai Plasma, fermare N, se rischiava di perdere la testa da un momento all'altro? Doveva ammettere che quella nuova vita le piaceva ma il passato era sempre in agguato, pronto a rovinare tutto...
Prese l’Interpoké con un sospiro e chiamò. Doveva dirlo. Ora che riusciva a mettere bene i pensieri in fila, doveva confessare. Di nuovo. Non le era mai pesato tanto in vita sua. Una volta andava quasi orgogliosa dei suoi lavori...
«Athena… è finita?» chiese preoccupata la prof, quando vide chi stava chiamando.
La ragazza annuì di risposta, ancora parecchio su di giri. Amava troppo uccidere, era inutile negarlo.
Vedendo che ancora non parlava, Aurea incalzò: «Belle e Cheren…»
«… stanno bene. Un minatore no, però.»
«Dimmi cos'è successo esattamente.» mormorò la studiosa, per capire se ci aveva visto giusto.
«Ho incontrato Nardo, che mi ha ricordato Lance. Poi ci siamo persi. Odio non sapere dove sono e in questa montagna… mi sento chiusa in gabbia. È più forte di me. Poi è comparso Giovanni. Cioè, i miei occhi lo vedevano ovunque ma in realtà non c'era.»
Aurea annuì e replicò: «Sì, me l'hai detto... L’importante è che loro stiano bene.»
«È strano… ho fatto di tutto per non far loro del male. E boh, come dire, stavo leggermente meglio in compagnia. Sa, la compagnia mi aiuta... anche quando ero piccola... Pidg veniva sempre fuori dalla stanza buia e mi parlava, cercando di tenermi ancorata alla realtà.»
Aurea spalancò gli occhi. Non aveva capito niente. Aveva detto lei a Belle e Cheren di allontanarsi e così facendo, aveva peggiorato la situazione. Era tutta colpa sua... cercando di non mostrare il suo senso di colpa, provò invece a trasmetterle un po' di ottimismo, dicendo: «Purtroppo sei ancora instabile, più di quanto pensassi. La cura sta funzionando, anche se a rilento. Io ho fiducia in te e so che ce la farai.»
«Io no, prof…»
«Devi invece. Quando sarai davvero convinta di poterti controllare, sarà fatta.»
Uscita dal cunicolo, la ragazza prese il tunnel principale, alla ricerca di Belle e Cheren, ma non prima di aver chiamato il numero di emergenza e aver allertato le ricerche del minatore. Almeno lo avrebbero trovato in fretta. Dopo aver vagato per parecchio, riuscì a trovare l’uscita. Lì, però, vide due allenatori lottare: Cheren e un seguace dei Plasma. Si avvicinò, mentre la lotta infuriava, colpita dalla bravura dell'amico. Cominciava davvero a dare spettacolo. Belle la salutò timidamente, vedendola tornata normale mentre Maru evitò il suo sguardo. Perplessa, Castiga si avvicinò a lui, ma il Pokémon non parlò, allontanandosi di qualche passo. Lei non ricordava quando se ne fosse andato, era troppo presa dal sentire e vedere Giovanni ovunque, quindi non sapeva cosa avesse visto. Sentendosi in colpa per averlo probabilmente spaventato molto, borbottò: «Scusami, Maru.»
Poi tornò vicino a Belle, pronta anche a dirgli addio pur di vederlo felice. Maru alzò lo sguardo, colpito, la raggiunse e mormorò: *«Scusami tu. Non dovevo andarmene ma...»*
«Non ti preoccupare.» rispose lei, sottovoce, per non farsi sentire da Belle: «Credo sia normale. E più sicuro.»
Maru guardò a terra, in colpa, e sussurrò: *«Pidg non lo avrebbe fatto.»*
Lei si chinò, mise un dito sulla punta del corno e gli fece alzare il muso, per guardarlo negli occhi. Con un sorriso, mentre gocciolava il sangue dal suo indice, commentò: «Tu non sei Pidg, Maru. Credimi, lui conosceva la bestia meglio di chiunque altro eppure confessava ogni tanto di avere paura. È normale... credimi, non hai fatto niente di male. Anzi, sono contenta che ti sia messo in salvo. Il resto non conta.»
Maru le gettò le zampe al collo, in lacrime, chiedendo scusa e dicendole che le voleva tanto bene. Lei lo strinse a sua volta e rispose: «Ti voglio bene anche io, cucciolone.»
Un grido deluso improvviso attirò la loro attenzione: «Accidenti, che forza!» ringhiò il seguace Plasma sconfitto da Cheren: «Ma è una forza che voi allenatori ottenete sfruttando i Pokémon!»
Lui, seccato da quelle continue insinuazioni che andavano avanti dall'inizio del viaggio, ribatté: «E sarebbe per questo che voi mirate alla liberazione dei Pokémon? Se è quello che volete, fate pure. Ma voi usate la forza per rapire i Pokémon degli altri. Non avete di certo nulla di cui vantarvi!»
Il seguace fece per ribattere, ma venne distratto da un suo compagno, che, dopo averlo raggiunto, esclamò:
«Oh, eri qui? Abbiamo trovato quello che cercavamo. Andiamo anche noi alla torre!»
Lui annuì, mentre la delusione svaniva dal suo sguardo come se non fosse successo nulla e, voltandosi verso Cheren, disse: «Questa sconfitta non ha importanza. Il Team Plasma adesso dispone del potere necessario a cambiare questo mondo che opprime i Pokémon!»
«Esatto!» aggiunse l’altro, con fervore: «Su, presto, andiamo a rapporto da N, il nostro sovrano!»
I due si voltarono e fuggirono come fulmini. Cheren li fissò, ancora arrabbiato per le loro parole, e sbottò: «Chissà cos’hanno trovato. Vorrei proprio saperlo…»
“Il Pokémon Leggendario... il Chiarolite o lo Scurolite.” pensò Castiga, mentre uscivano: “Io ti fermerò N. è una promessa.”
Uscirono dal Monte Vite e videro venire loro incontro Cedric Aralia, il padre di Aurea, che, sorridendo gioviale come sempre, li salutò e chiese: «Salve ragazzi! Come stanno i vostri Pokémon?»
«Bene grazie.» risposero loro.
«Da come vedo Samurott.» proseguì Cedric, notando il Pokémon accanto alla sua allenatrice: «Sembra che si sia affezionato a te! Molto più di prima. Il Pokédex è importante, ma non c’è nulla di meglio che passare del tempo assieme agli amici!»
«Sono d'accordo.» rispose lei, sorridendo all'amico che rispose: *«Ora più che mai. Prometto che non ti abbandonerò più.»*
Lei non rispose per non cominciare una discussione eterna ma sperò che così non sarebbe stato. In caso di pericolo, Maru doveva andarsene, mettersi in salvo e proteggere gli amici. Lo sguardo le cadde su una torre in lontananza: sembrava molto antica e aveva qualcosa di strano.
Seguendo lo sguardo della ragazza, Cedric chiese: «Conoscete la Torre Dragospira?»
Cheren fece per dire di sì, ma Belle lo interruppe con una gomitata perché non parlasse, indicando Castiga che scuoteva la testa, perplessa e incuriosita.
«Beh, in effetti non tutti la conoscono…» commentò Cedric per poi spiegare: «Vuoi sentire una delle mie vecchie storie?»
Castiga annuì, interessata, soprattutto perché i Plasma avevano parlato di una torre, e lui proseguì: «La Torre Dragospira è la più antica costruzione di Isshu. Si dice che i Pokémon Leggendari siano nati lì e che vi risiedano dormienti. »
«Pokémon Leggendari?» chiese lei, cercando di saperne di più visto che N aveva parlato proprio di questo.
«Sì. La torre si trova appena usciti da Mistralopoli, ma non so dirti nulla di più. Nessuno ci ha mai messo piede. Anche a mia figlia piacerebbe carpirne i segreti, ma non ne ha il tempo.»
«Immagino. Aurea è un tipo curioso.» sorrise la rossa ragazzina, pensando a quella stramba donna così dolce: «Si appassiona a tutto ciò che non riesce a capire.»
Cedric rise e ribatté: «È vero! Ed è questo che la rende speciale. Ora perdonate,  è proprio alla Torre che stavo andando! Ci si vede!»
Li salutò con un gioviale cenno della mano e se ne andò, pronto ad esplorare ogni antro di quell'antica torre che incuriosiva tutti. Voleva scoprire qualcosa anche per la figlia, che da sempre ambiva alla ricerca.
Castiga lo seguì con lo sguardo, soffermandosi poi sulla torre e pensò: “I Pokémon Leggendari sono nati lì. N sta cercando le pietre e il Seguace di prima ha detto che le hanno trovate. N è lassù, non ho dubbi.”
«Ehi, Castì! A cosa stai pensando?» le chiese Cheren, notando il suo sguardo assente.
Lei scosse la testa e rispose: «Niente di importante.»
Non voleva parlare agli amici delle sue supposizioni. Rischiava di sbagliare e comunque era meglio prendere prima le medaglie. Voleva rivedere Nardo, ma soprattutto sfidarlo. Se N non si mostrava e non faceva qualche danno, potevano ancora lasciargli fare quel che gli pareva.
Belle le si avvicinò titubante e chiese: «Cosa ti è preso prima? Ero preoccupata.»
«Nulla di grave, Belle. Lascia stare.» disse lei, con noncuranza, sperando che non le facesse troppe pressioni per sapere ciò che era meglio non sapesse. Erano già parecchie volte che rischiavano la vita in sua compagnia. Ma sentiva che le era sempre più difficile far loro del male. Sentiva di non volerli ferire. Sapeva che era strano, anche se le era già successo. Di norma, non aveva mai ucciso qualcuno che le stava simpatico. Sentiva che però era una cosa diversa. Un legame diverso che non riusciva a definire. Per sdrammatizzare, ma togliersi anche dalla testa tutti i pensieri cupi, disse: «Beh, ragazzi. Cedric non ci ha detto dov’è la Palestra. Andiamo a cercarla?»
«Perché non facciamo un giro della città? Mio padre dice che Mistralopoli è una città molto caratteristica!» propose Belle, ma Castiga scosse la testa: «Prima la Medaglia. Poi facciamo i turisti.»
«Io devo allenarmi. Non sono pronto per Silvestro.» sbottò invece Cheren.
Ovviamente, non avevano le stesse priorità; così si misero d’accordo: Belle fece un giro turistico della città, facendo uscire Pignite, Minccino e Herdier a farle compagnia, Cheren andò nella Palude Mistralopoli per allenarsi e Castiga andò a cercare la Palestra. Quando la trovò, entrò e vide di fronte a sé una distesa di ghiaccio. Il Giudice di gara le disse che se voleva andare da Silvestro, il Leader, doveva scivolare sul ghiaccio e raggiungerlo, superando alcuni ostacoli. Con l’aiuto di Maru, la ragazza non ebbe problemi e, in breve tempo, raggiunse il Leader. La lotta fu molto dura, perché Castiga aveva solo la Nitrocarica di Hoshi per sopraffare i Pokémon di tipo Ghiaccio di Silvestro. Fu un colpo di fortuna quando Maru imparò la mossa Vendetta, che devastò gli avversari e le fece ottenere la Medaglia Stalattite. Silvestro le stinse la mano, soddisfatto dell’incontro, avendola anche lui presa in simpatia per la grinta con cui combatteva, e lei, dopo averlo salutato, raggiunse la porta attraverso una scorciatoia. Uscì dalla Palestra con la medaglia in mano e vide Belle e Cheren attenderla fuori.
«Grande!» esclamò Belle, entusiasta, quando vide la Medaglia e il ghigno dell’amica: «Lo sapevo che ce l’avresti fatta!»
Lei sorrise, ma Cheren disse, con la faccia di uno che aveva passato tutto il pomeriggio a rimuginare su chissà cosa: «Castì... Secondo te sono cambiato da quando abbiamo lasciato Soffiolieve?»
“Tu non lo so. Io di sicuro.” pensò lei di risposta, mentre Cheren, non aspettando una risposta, le raccontava i suoi dubbi esistenziali che aveva da quando aveva parlato con Nardo. Che era confuso, non sapeva più cosa voleva perché il Campione lo aveva riempito di dubbi e cose così.
«Dai, Cheren! Non fare così! L’importante è che siamo ancora tutti insieme!» esclamò Belle per sdrammatizzare e tirarlo su di morale.
«E poi, siamo come i Pokémon... evolviamo andando avanti con la vita. È un dato di fatto.» commentò Castiga, notando come lei stessa era cambiata dopo aver cominciato quel viaggio.
Cheren annuì, cercando di sorridere, ma all’improvviso Silvestro uscì di corsa dalla Palestra e secco, esclamò: «Chi c’è?!»
Belle si nascose dietro Cheren, spaventata dalla reazione esagerata alla loro visita, e borbottò: «Che modi… io sono Belle e lui è Cheren.»
Silvestro la ignorò completamente e si guardò intorno, quasi arrabbiato: «Lo so che siete qui. Fatevi vedere!»
Dal nulla apparve il Trio Oscuro che li circondò. Uno sorrise da sotto la maschera e commentò: «Bravo, Leader di Mistralopoli. Sei degno della tua fama. Non siamo facili da scovare. Volevamo riferirlo solo a Castiga… ma pazienza.»
I tre si voltarono verso la ragazza e uno esclamò: «Geechisu ha un messaggio per te: vieni alla Torre Dragospira!»
«N ti aspetta lì... così ha detto.»
Silvestro li interruppe, intromettendosi, e chiese: «La Torre Dragospira?! Che significa? Spiegatevi!»
I tre ninja sparirono nel nulla senza dare risposta e Silvestro, nero di rabbia per essere stato ignorato, si rivolse a Belle e Cheren: «Voi due! Se siete qui per sfidarmi, allora dovrete aspettare. Ora devo andare alla Torre Dragospira!»
Castiga lo guardò accigliata: volevano lei e nessun altro. Avevano chiesto espressamente di lei. Perché si metteva in mezzo?
“Questi Leader. Vogliono fare tutto loro.” pensò, seccata da quelle manie di protagonismo.
«Veniamo anche noi!» si propose Cheren senza indugio, mentre Belle al suo fianco annuiva: «Se questi minacciano la nostra amica, se la vedranno anche con noi! La Torre si trova a nord di qui se non sbaglio.»
Silvestro annuì e guidò il gruppo diretto alla Torre. Lui e Cheren davanti, Belle dietro e Castiga chiudeva la fila, imbronciata.
“Impiccioni.” pensò, irritata da quella compagnia non voluta: “N vuole me. Fatevi i cavoli vostri.”
Questo pensiero la stupì; era forse... gelosa? Ma gelosa di cosa, si disse, sempre più imbronciata.
*«Secondo me lo sei.»* commentò Maru, ridacchiando, avendola sentita borbottare le sue considerazioni sulla gelosia: *«N è un po' come te. Siete molto simili, avete avuto gli stessi problemi con l'uomo e l'unica ancora sono i Pokémon. E credo che la sua costante attenzione ti lusinghi, sotto sotto.»*
Lei guardò di lato, non volendo far notare quanto quel discorso l'avesse scoperta. Maru aveva ragione. Il continuo tormentarla di N la faceva sentire importante. Era da sempre stata unica, staccata dalla massa. Era il Demone Rosso, era il terrore di Kanto e Johto, era temuta ma era come su un piedistallo che la rendeva unica agli occhi di tutti. Smettere di esserlo l'aveva resa uguale ad ogni allenatore... ma N vedeva in lei qualcosa di unico, talmente speciale da separarla di nuovo da tutti.
«L'ego del Demone non è morto con lei, insomma.» sbottò riconoscendosi in quel suo bisogno estremo di attenzioni.
Arrivarono all’inizio di un ponte artificiale, più moderno della torre, che conduceva al suo interno e lì videro un uomo che disse: «Oh, Castiga! Ciao!» esclamò gioviale Cedric Aralia; vide però lo sguardo truce di Silvestro, così aggiunse: «Ma ora non c’è tempo per parlare! La situazione è questa: alcuni membri del Team Plasma hanno abbattuto una parete e si sono intrufolati nella Torre! Dovete fermarli!»
Silvestro e Cheren si guardarono e corsero dentro. Castiga voleva seguirli, ma Belle le teneva un braccio, come fosse un’ancora di salvezza. Così si arrese e attese, non trattenendo però lo sbuffo.
«Ma professor Aralia, lei ci ha detto com’è nata la torre... ma perché ora interessa al Team Plasma?»
Cedric scoppiò a ridere ed esclamò: «Scusa! Ho tralasciato la spiegazione più importante! La Torre Dragospira è una torre antichissima, eretta prima che Isshu venisse fondata. Si racconta che il Pokémon leggendario attendesse in cima alla torre l’avvento di colui che persegue la verità.»
«N crede di essere l’eroe, quindi sarà lì che tenta di risvegliare il Pokémon Leggendario.» mormorò Castiga, mentre i tasselli di quello strambo puzzle andavano a posto da soli, con un quadro completo di tutta la storia.
Cedric si accorse della sua voglia di seguire Cheren e Silvestro, così disse, per tagliare il discorso: «Allora, pensate anche voi di mettervi all’inseguimento del Team Plasma? Badate bene però che non sarà una passeggiata. Se pensate di proseguire, fate molta attenzione!»
«Non si preoccupi! Castiga e Cheren sono due Allenatori molto forti che hanno già affrontato il Team Plasma! Io non sono altrettanto forte, quindi preferirei restare qui a proteggerla.» mormorò Belle, timidamente, cercando la sua approvazione.
«Ti ringrazio.» rispose lui, sorridendo davanti al suo imbarazzo: «Mi piacerebbe davvero sapere cosa hanno in mente quegli invasati del Team Plasma.»
Castiga guardò Belle che disse: «Non guardarmi così Castì!»
«Sei sicura?» chiese lei, semplicemente. Non era tranquilla a lasciarla sola.
Belle capì cosa volesse dire con quella frase e rispose: «So difendermi, anche se non sono molto forte.»
Castiga prese la Ball di Wargle e disse: «Tieni. Affidati a lui se sei in pericolo.»
«Wargle... grazie Castì! Vai tranquilla!»
Con un’ultima occhiata, Castiga fece un cenno a Maru e insieme corsero nella Torre Dragospira. Giunti sul posto, entrarono con passo deciso nella torre, passando sopra il ponte fatto dai Plasma. Entrati, percorsero un corridoio dissestato, avvicinandosi a delle scale. Prima che potessero salire però, un boato fece ondeggiare la torre.
«Che diavolo stanno facendo lì in cima?!» si chiese Castiga mentre salivano.
*«Una lotta. E temo non stia andando bene per i nostri.»* commentò Maru, proteggendola dal crollo di una colonna.
«N non guarda in faccia a nessuno. Ammetto che mi piace di più quando fa così.»
*«Non fartelo piacere troppo. Dobbiamo fermarlo.»* rispose lui, ridacchiando nel vederla così contenta di vedere un essere umano.
«Lo so. Ma questo non mi impedisce di apprezzare questi modi... come dire, decisi.»
*«Oserei dire esagerati.»*
Al piano superiore  dovettero camminare sulle colonne crollate per poter proseguire, perché le scale erano bloccate. I boati si sentivano ancora e non sembrava per niente un buon segno.
“Arrivare da N sarò dura. Forza Athena, non ti sei mai tirata indietro!” pensò, prendendo le scale con decisione.
Al piano successivo trovarono dei salti da superare per proseguire, preceduti da una scala contorta che girava sulle pareti della torre, a spirale. Osservandola, buttò lì: «Ora ha tutto più senso. Torre drago-spira. Ingegnoso.»
Arrivarono finalmente al terzo piano. Nascondendosi dietro a una colonna, Castiga vide i Seguaci Plasma circondare Silvestro e Cheren. Si fece avanti per aiutarli ma Silvestro le urlò, mentre combatteva: «Castiga! Ci penso io a questi! Tu vai pure avanti!»
Castiga proseguì, ma mentre saliva per il quarto piano incontrò altri seguaci, che sconfisse prontamente.
Il quarto piano era un labirinto circolare, formato da tre cerchi, rampe e salti. Arrivarono senza problemi alla scala, che li condusse al quinto piano, dove si sentì un boato e la terra tremò. Poi un ruggito squarciò il silenzio e qualcuno urlò: «È tutto in fiamme!»
«Ma che diavolo succede lì sopra?!» si chiese Castiga, cominciando a correre. Cominciava davvero a temere che qualcosa fosse andato storto e che N fosse in pericolo. Un leggendario fuori controllo non era proprio una cosa divertente. Vide quattro dei seguaci Plasma e si nascose dietro una colonna. Di fronte a loro c’era Giano, uno dei Sette Saggi, che parlava: «Finalmente! Il nostro sovrano, N, diventerà l’eroe!»
Maru, per nascondersi meglio, si spostò leggermente urtando un sasso e facendo rivelare la loro posizione.
Giano li vide ed esclamò, in maniera quasi eccessivamente teatrale: «Impossibile! Come hai fatto ad arrivare fin qui?! Forza, proteggiamo il nostro sovrano!»
Uno dei Plasma afferrò Castiga e i quattro la circondarono. Lei si liberò dalla presa con sdegno, irritata da tanto coraggio. Nessuno si era mai permesso di metterle le mani addosso. Mai.
Giano esclamò: «O sei con il Team Plasma oppure sei contro il Team Plasma! Non c’è posto qui per te!»
I quattro attaccarono tutti insieme, ma Castiga e Maru si difesero con classe e potenza, sconfiggendoli tutti.
Liberatasi dei Seguaci, Castiga guardò Giano, che di tutta risposta arretrò impaurito e la lasciò proseguire, fino al sesto piano.
Lì, voltato verso l’orizzonte, c’era N.
Davanti a lui si stagliava un Pokémon Bianco, una viverna di dimensioni immense, con due occhi blu ghiaccio, che lanciò un ruggito spaventoso.
«Guarda, Castiga!» disse N, voltandosi verso la ragazza con la felicità dipinta nello sguardo, avvertito della sua presenza dal Pokémon: «Non è maestoso? Questo è il Pokémon Leggendario che guiderà il mondo accanto all’eroe! Ora potrò recarmi alla Lega Pokémon con Reshiram per sconfiggere il Campione! Sarà l’ultima lotta per i Pokémon! Quella che metterà fine alle loro sofferenze! Finalmente potranno avere un mondo in cui vivere felici! Alzati in volo, mia cara Reshiram, e portiamo i Pokémon alla salvezza! La mia unica verità è che gli umani sono il male per i Pokémon!»
Con un ruggito, il Pokémon Bianco Verità distese le immense ali e si librò in volo, pronta a partire, pronta a perseguire la Verità ad ogni costo. L'umano dal cuore puro l'aveva convinta e lei lo avrebbe servito: *«Pronti alla partenza, mio Lord.»*
«Se vuoi fermarci, dovrai prima diventare un eroe!» esclamò N, rivolto alla ragazza, ormai convinto che tutto sarebbe andato secondo i suoi piani: «Per me lo sei già, ma solo se Zekrom, il nero Pokémon degli Ideali, riconoscerà il tuo valore, potrai affrontare me e Reshiram alla pari e avrai così una possibilità di fermarci! Allora, cosa pensi di fare?»
«Indovina.» rispose lei, sorridendo però nel pregustare lo scontro finale. Sarebbe stato... epico.
Lui sorrise, felice nel vedere che anche lei desiderava quel che voleva lui: «Secondo le mie previsioni, tu incontrerai Zekrom. Sarai forse tu, con l’aiuto e la fiducia dei tuoi Pokémon, l’incognita che manderà all’aria il mio piano di cambiare il mondo? Ora vai! Trova Zekrom, se ci tieni così tanto a proteggere il legame che unisce uomini e Pokémon! Sono sicuro che lui, sottoforma di Scurolite, ti sta aspettando.»
Con un balzo elegante e un sorriso sulle labbra, un sorriso di vittoria, N salì in groppa a Reshiram; dopo un ultimo sguardo, accarezzò la sua viverna e mormorò: «Andiamo, mia Lady.» e volò via.
Poco dopo arrivarono di corsa Silvestro e Cheren; da lontano, avevano visto N e Reshiram volare via. Agitato, il ragazzo chiese: «Castì! Ma chi era quello?»
«Cosa sta succedendo?» aggiunse Silvestro.
«Castì…» riprese Cheren, fissando la ragazza, che stava ancora guardando la direzione nella quale N era svanito: «Quel tizio era N, vero? Come mai accanto a lui c’era il Pokémon leggendario? Non può essere veramente lui l’eroe! E perché ti ha chiesto di trovare l’altro Pokémon leggendario?»
«Dottore, finiscila!» sbottò Castiga irritata da tutte quelle domande. Preferiva di gran lunga la compagnia di N, ormai era certo. Lui non faceva domande inutili e, a parte i suoi sproloqui a caso, era un ottimo interlocutore.
«Calmiamoci!» intervenne Silvestro, notando l'aria farsi troppo tesa: «Intanto, usciamo di qua. La cosa più importante ora non è capire cos’è successo, ma qual è la prossima mossa da fare!»
Insieme, i tre scesero dalla Torre dove ritrovarono Belle e Cedric, che disse: «Non credo ai miei occhi! Il Pokémon Drago Leggendario si è risvegliato!»
«A quanto pare, quel tizio di nome N…» cominciò Cheren, ma venne interrotto da Castiga, che pensierosa mormorò: «Natural Harmonia Gropius… detto N.»
«Sì, lui.» riprese Cheren: «Il capo del Team Plasma, ha risvegliato il Pokémon Drago.»
«Reshiram.» mormorò ancora la ragazza.
«E prima di sparire» riprese Cheren scoccando un’occhiataccia a Castiga: «Ha anche detto a Castì di cercare l’altro Pokémon leggendario.»
«Zekrom.»
«Sì, lui.»
«Che cosa?!» esclamò Belle: «Quindi ci sono due Pokémon Drago leggendari?»
«Esatto, proprio così!» esclamò una voce.
Tutti si voltarono a vedere chi li raggiungeva da Mistralopoli e videro Nardo che venne salutato da Cedric. Il Campione però, molto serio rispetto ai suoi standard, liquidò l'amico dicendo: «Non c’è tempo per i saluti. Quella fiammata violenta che si è levato dalla torre... È opera di un Pokémon così potente da poter distruggere il mondo intero. E il pazzo che lo controlla vuole imporre a tutti di liberare i Pokémon.»
“Quello non è pazzo. Io sì, Geechisu forse, ma non N. La pazzia è un’altra cosa.” commentò Castiga con il pensiero “È solo un po’ invasato… e ha anche un po’ di ragione.”
«Non possiamo lasciarlo fare…» proseguì il Campione: «O quello che ci aspetta sarà un mondo in cui Pokémon e Allenatori non potranno più vivere gli uni accanto agli altri.»
«Hai ragione!» esclamò Cedric, per dargli manforte e convincere tutti che la situazione era grave: «E non è tutto. N, il capo del Team Plasma che ha risvegliato Reshiram, ci ha anche detto di cercare Zekrom.»
«Secondo il mito, Reshiram devastò in un istante, con fiammate micidiali, l’antica regione di Isshu, insieme ad un altro Pokémon. N deve esserne al corrente e ora si aspetta che noi gli portiamo l’altro Pokémon leggendario.» disse Nardo.
«Co-cosa?!» esclamò Belle, terrorizzata: «Ma risvegliare un Pokémon così forte è pericoloso! Dobbiamo fare qualcosa!»
«Sei davvero una ragazza buona, Belle!» disse Nardo sorridendole: «Ma purtroppo con gli altri Pokémon non abbiamo alcuna possibilità di riuscita. Si tratta di un Pokémon Leggendario!»
«Nemmeno se combattiamo tutti insieme…» provò a chiedere Cheren, ma Nardo scosse la testa: «No, ragazzo. Non funzionerebbe. Non piace nemmeno a me fare quello che N, o come si chiama, si aspetta che facciamo, ma non ci resta che cercare quel Drago. Anzi la sua Pietra. Meglio che a trovarlo siamo noi, piuttosto che il Team Plasma. Andremo a cercarla al Castello Sepolto che ho visto durante il mio viaggio per la regione.»
«Nardo, senti una cosa.» borbottò invece Castiga, fermandolo prima che salisse sul suo Bouffalant e partisse verso il luogo prestabilito. Lui si voltò, perplesso, e chiese: «Dimmi.»
«Cosa cambia se il Team Plasma trova lo Scurolite?»
«Cosa vuoi dire?»
«Intendo... se Reshiram si è risvegliata perché c'era N, anche Zekrom aspetta l'umano diciamo prescelto per tornare in forma di Pokémon. Quindi se questo non è tra le file dei Plasma, il drago non si risveglierà mai. Tanto vale che lo trovino loro.»
Nardo storse la bocca; sembrava volesse far fare agli altri quello che non aveva voglia di fare lei. Così rispose: «N ti ha detto di cercare la pietra, no? Ti ha detto che secondo lui, tu sei l'eroe. Quindi se i Plasma dovessero trovare la pietra prima di noi, potrebbero ricattarti per fartela avere. Oppure non consegnarcela proprio, visto che è l'unico modo tangibile per fermare la sua follia.»
Castiga rimuginò a lungo. Poi fece uscire Wargle e commentò: «N ci tiene troppo alla lotta finale per non consegnarci la pietra. Ma Geechisu potrebbe farlo. Quindi sì, a questo punto, è meglio se la troviamo noi. Andiamo al Castello.»
Usando i loro Pokémon volanti, i tre amici partirono e ben presto arrivarono al Castello Sepolto, nel mezzo del Deserto della Quiete; avevano perso Nardo che, durante il tragitto, aveva accelerato troppo per i loro giovani Pokémon.
«Bene il posto è questo.» disse Cheren, scendendo dal suo Unfezant e atterrando nella sabbia: «Nardo è già andato avanti. Dobbiamo trovare quella pietra!» esclamò il ragazzo per poi entrare nel Castello Sepolto. Così fece anche Belle; Castiga fece lo stesso ma li guardò cadere nelle sabbie mobili, convinti di essere sulla strada giusta; non li seguì e decise di controllare meglio il posto in cui era. Una strada così semplice non la rassicurava. Mentre vagava, guardandosi in giro, vide uno spiritello che la osservava e la seguiva da un po’. Era nero, con una maschera appoggiata al corpo e due occhi rossi, molto tristi.
*«Ciao!»* esclamò, volteggiandole intorno alla testa.
«Ciao a te.» rispose lei, estraendo il Pokédex: “Yamask, il Pokémon Fatuanima. La maschera che indossa è il volto che aveva quando era un umano. A volte si mette a piangere mentre la guarda. È nato dagli spettri che riposano nelle antiche tombe. Conserva la memoria del tempo che fu.”
«E così tu saresti uno Yamask. Di’ un po’.. sai come si arriva in fondo al Castello?» chiese la ragazza, mettendo via il dex.
*«Certamente! Seguitemi, amici!»* rispose lui annuendo e guidò lei e Maru verso destra, dove Castiga vide delle scale nascoste.
Incuriosita, le scese e incontrò Verdanio, che le disse: «Geechisu mi ha avvertito di quanto tu sia forte.
Ora vedremo se aveva ragione. Prova a sconfiggere noi del Team Plasma!»
«Perché, tu hai il distaccamento di pagliacci più forte?» chiese ironica Castiga, oltrepassando il Saggio che la fissava con sguardo di trionfo e di sfida, convinto che non avrebbe resistito contro tutti i suoi seguaci. Castiga incontrò ben presto un avversario prima delle sabbie mobili che sconfisse con facilità; poi si buttò nel vortice. Atterrò con un tonfo sordo su un cumulo di sabbia e un seguace l'attaccò. Maru doveva ancora scendere e lei non fece in tempo a difendersi ma dal nulla apparve Yamask che atterrò il nemico.
«Grazie!» esclamò lei, stupita da quell'intervento inaspettato.
*«Nessun problema! Posso venite con voi? Sei l'unica persona che incontro che non mi ha guardata con paura...»* mormorò, rattristandosi: *«Gli umani temono noi fantasmi. E io, su questa piastra d'oro, porto impressa la mia vita passata. Ma è ora di andare avanti e sento che con te posso farlo.»*
«Vieni pure, amico. Un'anima tormentata in più non darà fastidio.»
*«Vi ringrazio!»*
Castiga quindi lo catturò e lo chiamò Deathkan; lo fece uscire subito. Una guida le avrebbe fatto comodo. Tornò al vortice e si buttò. Scese così finché non arrivò in un’enorme grotta sotterranea. Di fronte a lei, Nardo e Geechisu si squadravano.
Un rumore le fece capire che anche Cheren e Belle erano arrivati.
«Finalmente ci siamo!» disse il ragazzo
«Ehi, venite da questa parte!» urlò loro Nardo: «Qui! Vicino a me!»
I due affiancarono il Campione e Geeschisu, divertito, disse beffardo: «Ma guardatevi! Tutti qui al gran completo! Ce la state mettendo davvero tutta per svegliare Zekrom, il secondo Drago! Mi dispiace deludervi, ma purtroppo lo Scurolite non è qui. Ad ogni modo…» proseguì avvicinandosi: «Complimenti, Castiga!»
La fisso dritta negli occhi e, dopo una pausa calcolata, aggiunse: «Il nostro sovrano ha scelto te. Se desideri un mondo in cui convivano uomini e Pokémon, dovrai guadagnarti la stima del secondo Drago Leggendario e poi sfidare il nostro sovrano! Se non lo farai, il Team Plasma rapirà i Pokémon e li libererà dal giogo umano!»
Maru, dietro la ragazza, scoprì i denti ringhiando e abbassò la testa, mostrando il corno come segno di sfida.
Nardo, sgomento, chiese: «Liberarli? Come puoi essere sicuro che questo sia ciò che vogliono i Pokémon?»
Guardando Maru, aggiunse: «Voi del team Plasma non siete altro che dei ladri! È inutile che vi nascondiate dietro a paroloni come libertà!»
Distogliendo lo sguardo da Athena, Geechisu fissò Nardo e disse, con disprezzo evidente: «Ma guarda chi abbiamo qui… Nardo, il Campione! Campione che, anni fa, dopo aver perso l’amato Pokémon a causa di una malattia, ha abbandonato la Lega Pokémon nelle mani degli Élite, per andarsene tranquillamente a zonzo nella regione di Isshu! Da quanto tempo non fai una lotta vera? Ma, soprattutto, pensi che uno come te sia in grado di difendere questo mondo dove uomini e Pokémon vivono insieme? Il nostro sovrano mostrerà agli abitanti di Isshu che la sua forza è di gran lunga superiore a quella di un Campione che imprigiona Pokémon! Come un tempo fece l’eroe fondatore di Isshu, il sovrano prenderà il comando al fianco di Reshiram. E allora ordinerà a tutti gli Allenatori di rimettere in libertà i loro Pokémon! Per questo grande momento è già pronto un palazzo, degno del sovrano e del suo leggendario Reshiram!»
Nardo, colpito e ferito da quelle parole, da quel ricordo sempre vivo nella sua mente, ribatté: «Non ci contare! Non perderò! Mi batterò per tutti gli Allenatori che amano i Pokémon! E per tutti i Pokémon che credono nei loro Allenatori, come questo Samurott!»
«E pensi che il nostro sovrano sia interessato a lottare con te?» chiese Geechisu, beffardo: «Se proprio vuoi saperlo, dà già per scontato che ti sconfiggerà! Chi lo preoccupa è qualcun altro…»
«E ti ha lasciato qui per dirmi questo? Aveva voglia di prendermi in giro?!» esclamò, quasi con le lacrime agli occhi, il Campione. Castiga lo osservò, comprendendo il suo dolore e pensò, squadrando l'uomo: “Secondo me N non gli ha detto niente. Non mi sembra il tipo che calcherebbe la mano su una cosa come questa. Geechisu invece sì, chissà perché.”
«Al contrario. Lo ha fatto per gentilezza! Non voleva che tu, il Campione, ti facessi male inutilmente. Anche se a me non dispiacerebbe certo essere testimone dell’istante in cui le tue speranze vanno infrante! Non ho altro da aggiungere. Addio.» concluse Geechisu, andandosene con passo elegante. Castiga lo osservò; lui non aveva la stessa classe di N. Cercava di emularlo, di sembrare nobile, ma non ce la faceva. A differenza del ragazzo, più che rispetto, suscitava ilarità.
«Che uomo ridicolo.» commentò, senza nascondere il suo disprezzo.
Cheren e Belle si avvicinarono a Nardo. Il Campione guardava fisso dinanzi a sé. Castiga fermò gli amici, si avvicinò a Nardo e disse: «Rispetta il suo ricordo battendoti come un vero Campione. Non serve altro.»
Detto questo, si voltò e si diresse verso l’uscita. Nardo la guardò, con il dolore negli occhi, ma si riprese e rivolse la sua attenzione a Cheren che chiese: «Nardo, cosa facciamo adesso?»
«Non mi resta altro da fare che tornare alla Lega Pokémon e lottare contro N. Anche se Geechisu potrebbe aver ragione…»
Guardò ancora Castiga e le lesse la determinazione negli occhi.
«Mi vedi già sconfitto, vero?» chiese, sapendo la risposta.
«Quello che penso io non ha importanza. Sono convinta che tu sia forte, ma avrai davanti Reshiram, non dimenticarlo.»

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Capitolo 40
*** Capitolo 39 ***


Castiga sbuffò; ogni volta che pensava alla crudeltà con cui Geechisu aveva strapazzato psicologicamente Nardo le saliva il nervoso. La cosa peggiore era il tentativo di nascondersi dietro agli ordini di N. Ma lei sapeva che il ragazzo non avrebbe mai fatto una cosa tanto malvagia. Lui per primo sapeva l'importanza del legame con un Pokémon e mai si sarebbe permesso di usarlo come arma. Era un controsenso troppo evidente.
«Mi ha fatto ricordare una cosa questo episodio.» commentò, avendo avuto una mezza illuminazione.
Gli amici la guardarono perplessa e lei mormorò: «Quando Geechisu mi disse queste cose io ero convinta che N non c'entrasse. Lui non avrebbe mai calcato la mano su una cosa distruttiva come la morte di un Pokémon. E lo penso anche ora. Però prima della nostra lotta, quando ha sconfitto Nardo, ha detto quelle esatte parole del padre.»
«Non penso siano state parole sue.» buttò lì Cheren, riflettendo anche lui su questo fatto: «Tu conosci N meglio di noi, però se ha usato le stesse parole... beh, è più un mezzo lavaggio del cervello che un pensiero simile.»
«La penso così anche io.» rispose annuendo la ragazza: «Anche perché, quando gli ho raccontato dei miei sei amici... mi è quasi crollato in lacrime davanti agli occhi. Era Geechisu che parlava in quel delirio di onnipotenza, non N.»
Raphael notò che si stava parlando un po' troppo di N, così chiese, per cambiare discorso: «Alla fine poi lo avete trovato lo Scurolite no?»
«Sì, a Zefiropoli. Ce l'aveva Aloé.» rispose lei, smettendo di pensare all'amico scomparso: «Come ben sai, Zekrom ci mise un po' a svegliarsi. N era assolutamente convinto che l'altro eroe fossi io, però senza la prova del drago, non ne aveva la certezza. Ha passato un brutto quarto d'ora d'ansia, convinto di essersi sbagliato.»
«Da come ne parli, sembra che non volesse nessun altro.»
«No, infatti.» rispose lei, sorridendo, davvero impaziente di rivederlo: «E mi domando sempre cosa ci abbia mai visto in me, anche lui. Sono circondata da gente più matta di me, è un dato di fatto.»
«O forse tu ti sottovaluti!» esclamò Belle, inserendosi nella conversazione con un sorriso, notando l'irritazione di Raphael. Era geloso, palesemente, ma la sua ragazza non sembrava accorgersene.
Castiga lasciò cadere il discorso. Anche questa volta, nonostante il racconto della sua instabilità, del pericolo che avevano corso, i due amici non sembravano troppo turbati. Ormai l'aveva capito, erano amici, grandi amici, e niente li avrebbe separati.
«Però N sapeva quel che voleva, eh? Nonostante i deliri del padre.» borbottò Cheren: «L'unica che aveva capito qualcosa era Castì, ma devo dire che non si è fermato davanti a niente.»
«Solo davanti a Zekrom!»
Ridendo, proseguirono il loro viaggio, attraversando la palude Mistralopoli, uno dei luoghi più caratteristici dell'intera regione. Visto che, questa volta, non erano di corsa, visitarono la zona, scoprendo Pokémon mai visti, chiaccherando, giocando e prendendosela comoda. Castiga avrebbe voluto andare più in fretta, impaziente di rivedere N, ma non poteva pretendere che gli amici le corressero dietro. Era giusto che, almeno questa volta, si godessero un po' il viaggio e la regione. Ripreso il viaggio, arrivarono al Ponte Propulsione, che passava sopra la ferrovia.
«Ehi, Castì!» esclamò Cheren, colto da un pensiero improvviso: «Cosa ti disse Geechisu quel giorno? Dicesti solo che voleva minacciarti.»
La ragazza lo guardò: «Un po’ dei suoi deliri di onnipotenza, come quello di Boreduopoli. Volete ascoltare?»
 
~§~
 
INTERMEZZO: GEECHISU
 
Tra le due città, Mistralopoli e Boreduopoli, c’era una Palude, nella quale vivevano Pokémon molto rari, ma i tre amici non si fermarono a esaminarli. Era urgente arrivare a Boreduopoli il prima possibile, città della Leader drago Iris e del Maestro dei Draghi Aristide. Dovevano farsi spiegare bene come risvegliare quel drago e fermare N da chi ne sapeva più di loro. Arrivarono all’entrata del Ponte Propulsione, chiamato così per la ferrovia che gli passava sotto. All'improvviso, vennero circondati dal Trio Oscuro.
«… di qua.»  disse uno.
Trascinarono Castiga, sola, verso Geechisu che li aspettava più avanti, nel centro del Ponte.
«…Geechisu, ecco l’Allenatore.» disse uno dei tre. Poi il Trio svanì nell’aria.
L’uomo sorrise, beffardo, osservando la ragazza davanti a lui, e disse: «I tuoi sforzi sono encomiabili, ragazza mia. Vedo che hai ottenuto lo Scurolite. Ti faccio i miei complimenti per l’ottimo lavoro.»
«Risparmia il fiato.» sbottò irritata lei, non avendo alcuna voglia di avere a che fare con lui: «Non abbiamo nulla da dirci. E soprattutto non mi interessano i tuoi complimenti ipocriti.»
Lui rise, per nulla spaventato dal tono minaccioso, e replicò: «Non credo… certo che hai un bel caratterino.»
Passeggiando a destra e a sinistra, proseguì: «Sai, N ha un’idea un po’ bizzarra. Secondo lui i due Allenatori che riescono a risvegliare i Pokémon Drago Leggendari dovrebbero affrontarsi in una lotta per determinare chi sia il vero eroe. Sono costretto ad assecondarlo o non farebbe più quel che voglio.»
«Ovviamente. N è il tuo burattino e nemmeno se ne rende conto.» ringhiò lei, rimpiangendo di non avere un registratore a portata di mano e far sentire al ragazzo quali fossero in realtà i veri piani del padre.
Sghignazzando, Geechisu replicò: «N è un piccolo ingenuo, ma è così perché io l'ho cresciuto così. La vostra sfida è una prova del tutto inutile. Fin dall’infanzia, N è stato educato per diventare l’eroe. Come risultato, il Pokémon Leggendario ha riconosciuto il suo valore. Si sa… N è una persona pura.»
“E qualcosa mi dice che tu te ne stai approfittando. Di N mi fido, non so perché, ma di te no.” pensò lei, attenta alle parole dell’uomo, ma non interrompendolo per avere, finalmente, forse informazioni.
«Ancora mi chiedo come N possa anche solo pensare che tu sia il secondo eroe. Sarò franco, tanto non ci può sentire nessuno. Pensi veramente che un Pokémon Leggendario possa scegliere… te? Una bestia rinchiusa in un misero corpo umano? Ma forse, tutto sta nel fatto che N non conosce la tua vera natura.»
«Se hai finito di dirmi quello che so già, posso anche andarmene.» commentò solo lei, stufa di sentirlo parlare a vanvera e un po' ferita nel profondo. Se N avesse saputo chi era veramente, l'avrebbe abbandonata? Non l'avrebbe più vista speciale come la vedeva ora? Non l'avrebbe più considerata sua amica?
Geechisu interruppe i suoi cupi pensieri, rispondendo: «Giusto. Parliamo di cose più… importanti. Il Team Plasma porterà alla liberazione dei Pokémon. Separeremo gli esseri umani stolti dai loro Pokémon e renderemo inoffensivi tutti gli Allenatori che si opporranno. Solo noi potremo usare i Pokémon in futuro!»
«E questa mania di onnipotenza la sa N? Non credo che ne sarebbe felice...»
Lui si irritò e ribatté: «N ovviamente, pensa che la nostra intenzione sia ben altra. Ma ci penserò a tempo debito su come limitare la sua influenza, soprattutto ora che ha ai suoi ordini quel drago fuori misura. I preparativi sono stati ultimati. E una volta messo in atto il mio infallibile piano… gli Allenatori non potranno opporsi al Team Plasma e libereranno i loro Pokémon, uno dopo l’altro. In breve saranno centinaia e… migliaia. Avere dei Pokémon presto equivarrà a un crimine. Persino Belle, la ragazza a cui è stato sottratto un Pokémon ad Austropoli, seguirà il flusso, e spontaneamente libererà i suoi Pokémon. E alla fine il mondo cambierà.»
«Tornerò al lato oscuro allora; nessuno mi separerà dai miei amici, fosse l'ultima cosa che faccio. Tu sei più matto di Giovanni, Geechisu. E non mi fai paura. Io non lotto solo con i Pokémon, ricordatelo.»
Lui si avvicinò a lei, per nulla intimorito dalla minaccia, e disse: «La pietra, da sola, non basterà a farti ottenere il riconoscimento del Pokémon leggendario e neppure ti garantirà il titolo di eroe. La tua lama potrebbe forse liberarti di me, ma ti provocherebbe talmente tanti guai che non te lo consiglio. Ma se insisti a non voler lasciare andare la tua amata squadra di Pokémon, allora metticela tutta. Non posso dirti altro…»
Geechisu si voltò e sparì. Castiga fissò il ponte ormai vuoto, con una voglia insana di squartarlo ma più determinata che mai a far rinsavire N. E con quel pensiero, guidò gli amici a Boreduopoli, dove avrebbero forse avuto più informazioni sui draghi e sugli eroi. Entrati in città, videro Nardo e, poco lontano da lui, una folla di gente intenta ad ascoltare: «Geechisu?!» esclamò Castiga: «Ma non è possibile! È ovunque!»
Girando lo sguardo vide Iris, e un anziano uomo, che guardavano il capo dei Plasma con uno sguardo che non nascondeva i loro pensieri. Era incredulità allo stato puro.
«Quel bugiardo!» esclamò rabbioso il Campione, avendoli raggiunti e dopo aver visto che avevano notato chi stava parlando: «Sta facendo di tutto per abbindolare la gente con le sue chiacchere!»
Castiga gli fece segno di tacere per ascoltare.
«Ascoltate, gente!» stava dicendo l’uomo: «N, il nostro sovrano, ha unito le forze con un Pokémon Drago Leggendario per costruire un nuovo mondo ideale! In tal modo, si ripeterà la leggenda della fondazione di Isshu per mano di un eroe!»
Passeggiando a destra e a sinistra, infervorato, Geechisu continuò a parlare ad una folla che pendeva dalle sue labbra: «I Pokémon non sono come noi umani! Posseggono capacità ancora ignote. Sono esseri dai quali possiamo imparare innumerevoli cose. Dobbiamo riconoscerne i grandi meriti e liberarli dal dominio umano!
Aiutate noi del Team Plasma a costruire un nuovo regno! Un regno in cui tutti possano essere liberi!
Signore e signori! Ridate la libertà ai vostri Pokémon!
Con queste parole io, umile Geechisu, vi lascio. Grazie per avermi ascoltato.»
Se ne andò con le sue reclute, come aveva fatto a Quattroventi. Castiga lo fissò svanire e borbottò: «Se lui è umile io sono la fata turchina. Razza di bugiardo, so bene cosa vuoi in realtà.»
La folla, però, era in subbuglio. Le grandi capacità oratorie dell'uomo avevano colpito l'uditorio e ora la gente era dubbiosa. Credere o non credere a quel che aveva detto il capo del team Plasma e braccio destro del sovrano? Dopo altri commenti sporadici, la folla si disperse, tranne per Iris e l’anziano signore al suo fianco.
«Ma cosa va dicendo quello?! Non ho mai sentito tante buffonate!» esclamò la ragazza, infuriata: «Questa regione è stata costruita grazie alla collaborazione tra uomini e Pokémon! Se i Pokémon non volessero stare con noi, se ne sarebbero già andati via… Con le Pokéball non si possono imprigionare i sentimenti!»
Nardo guardò Castiga. Le indicò i due e le disse: «Vieni.»
Lei annuì e si avvicinarono ai due. Il Campione alzò una mano e salutò: «Iris, Aristide! Quanto tempo!»
«Guarda chi c’è!» rispose la ragazza, aprendosi in un sorriso: «Nardo e l’Allenatrice di Austropoli!»
«È successo qualcosa?» chiese Aristide: «Non avevi lasciato la Lega per andartene a zonzo nella regione? Cosa ti porta qui?»
«Vado subito al dunque.» rispose Nardo: «Castiga vorrebbe sapere tutto sulla leggenda del Pokémon Drago!»
Lei lo fissò un momento perplessa, non avendo chiesto di farle da portavoce. Ma vedendo che i due sembravano interessati, lasciò perdere la protesta, accettò l'aiuto e annuì. Iris la guardò e chiese, in una raffica di domande quasi stordente: «Intendi Reshiram? Oppure Zekrom? E perché, poi? Cos’è successo?»
Aristide si intromise e borbottò: «Poco fa un tizio losco, di nome Geechisu, ha detto in un comizio che un certo N ha risvegliato Reshiram…»
«Esatto. E quello stesso N ha detto a Castiga…» rispose Nardo, indicando la ragazza: «Di cercare l’altro Pokémon Drago. Crede che lei sia il secondo eroe e vuole una sfida per dimostrare che lui è il più forte. Una cosa del genere. Così ho pensato di far venire qui Castiga, così che potesse sapere da chi ne sa di più di me tutta la storia.»
«Non capisco… cosa vuole fare? Far lottare due Pokémon Drago solo per affermare le proprie convinzioni? Ma chi è poi, questo N…?» chiese Aristide, per poi essere interrotto da una furibonda Iris che esclamò: «Che cosa?! Non può farli lottare! I Pokémon Drago vanno d’accordo! Perché costringerli a battersi?»
«Questo bisognerà farlo capire a lui.» rispose Nardo, con un sospiro: «Va bene... ve l'affido per le spiegazioni. Io mi avvio alla Lega Pokémon. O, per meglio dire, ci ritorno. Sconfiggerò quel N e gli farò capire io quanto sia fantastico questo mondo in cui Allenatori e Pokémon convivono! Castiga! Tu vinci la Medaglia della Palestra di Boreduopoli e raggiungimi! Ti aspetto alla Lega! Preparati. Il Leader di Boreduopoli è un tipo tosto! Aristide, Iris… grazie! Ci vediamo!»
Li salutò con un cenno e corse via, pronto a tutto pur di fermare N.
«Oh... se n’è andato…» disse Iris: «Sembrava parecchio arrabbiato… speriamo vada tutto bene!»
«Non ti preoccupare, Iris. Lui è il più forte Allenatore di Pokémon di tutta la regione di Isshu!» le disse sorridendo Aristide: «Non avrà problemi anche se... beh, Reshiram sarà un osso duro anche per lui e Bouffalant.»
L’uomo si rivolse a Castiga e, con un sorriso, la invitò a casa sua, dove le avrebbe raccontato tutto ciò che riguardava i Pokémon drago e la leggenda degli eroi.
«Ti diremo tutto su Zekrom e Reshiram! Da questa parte!» esclamò Iris, prendendola per un braccio e conducendola a casa di Aristide. Era una casa molto semplice, che non si addiceva alla grande fama dell’uomo come Maestro dei Draghi.
Castiga seguì Iris dentro la casa e Aristide disse: «Ti dirò quello che so. Quello che hai con te è lo Scurolite.
Un tempo Zekrom, che si risveglierà proprio da quella pietra, e Reshiram, che si è già risvegliata, erano un Pokémon solo.»
«Quel Pokémon e gli eroi gemelli» continuò Iris, prendendo la parola per mostrare la sua bravura di allieva del grande Maestro: «Avevano fondato una nuova regione, dove Pokémon e umani vivevano felici!»
«Finché un brutto giorno…» riprese Aristide: «I due eroi gemelli si scontrarono: uno di loro ricercava la verità, l’altro gli ideali. Ebbe inizio una lunga lotta, per decidere chi dei due avesse ragione… Il Pokémon Drago, incapace di schierarsi, scisse il suo corpo, per poter così fiancheggiare entrambi i gemelli.»
«Zekrom, il drago nero, dalla parte di chi insegue gli Ideali, per un mondo di speranza, e Reshiram, la viverna bianca, schierata con chi cerca la Verità, fautrice di un nuovo mondo di pace…» continuò Iris.
«Dato che i due Pokémon erano in origine un essere unico, avevano pari forza e resistenza. La lotta continuò, sempre più aspra, senza produrre alcun risultato. Finché, logorati dalla stanchezza, i gemelli capirono.
La ragione non poteva stare da una parte sola. E così la lotta terminò.»
«Purtroppo però… i figli degli eroi iniziarono una nuova lite. Fu allora che Reshiram e Zekrom si abbatterono su Isshu, lanciando fiamme e fulmini e distruggendo in un istante la regione, per poi sparire nel nulla. E la colpa era tutta degli umani! Se avessero saputo trattare i Pokémon con rispetto, non sarebbe accaduto nulla! Reshiram e Zekrom si erano sacrificati per fondare una nuova regione, dove Pokémon e uomini potessero vivere in pace!» esclamò Iris, scaldandosi, furiosa nel vedere che la storia si stava ripetendo per colpa di un altro pazzo con manie di grandezza. La loro regione rischiava la fine, non poteva permetterlo.
Aristide sospirò e mormorò: «È vero, i Pokémon non sanno parlare...»
“Se non sei in grado di capirli…” pensò amara Castiga.
«E per questo gli uomini spesso impongono loro le proprie idee, facendoli soffrire.» continuò lui, completando il suo pensiero: «Ma malgrado tutto… Uomini e Pokémon credono gli uni negli altri e si cercano a vicenda. E sarà così per sempre…»
«Nulla di più vero!» intervenne Iris: «Non riesco proprio a capire quelli del Team Plasma! Come possono volere che ci separiamo dai nostri cari Pokémon?!»
«Scusa per la piccola digressione finale.» disse Aristide, scoccando un’occhiataccia a Iris per il modo in cui si stava esprimendo: «Ad ogni modo, questo è tutto ciò che sappiamo. Rimane un mistero, come si possa risvegliare il Pokémon Leggendario…»
«Tutto ciò è molto interessante, davvero, ma non avete risolto il problema..» sbottò Castiga, notando l'inutilità di quella bella favola. Tante cose ma niente per risvegliare il sasso che si trascinava nello zaino. Anche se... il Drago della speranza... e lei, che sperava in una vita migliore...
Iris la guardò un po’ abbattuta, ma Aristide, con un’occhiata strana, quasi sapesse cose che per la ragazza erano ignote, disse: «Hai ragione, ma è tutto ciò che sappiamo. Adesso vai! E non dimenticare la promessa fatta a Nardo! Devi vincere la Medaglia di Boreduopoli!»
Iris le sorrise e, alzandosi in piedi, esclamò: «Castiga, ti aspetto nella Palestra! Vieni a sfidarmi!»
«Cosa?! La Leader sei tu?!» chiese lei di risposta, stupita. Pensava fosse Aristide...
Lei sorrise, gonfia di orgoglio, e rispose: «Aristide mi ha lasciato la palestra l'anno scorso! Dice che secondo lui, il modo migliore per vedere se sono pronta a succederlo è farmi effettivamente provare!»
«Più che giusto... vado al centro Pokémon e arrivo!» sorrise Castiga, pronta a tutto per vincere.

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Capitolo 41
*** Capitolo 40 ***


«Ovviamente vinsi io!» concluse Castiga, con un sorriso: «Poi andai alla Lega, per fermare N, come ti ho già raccontato.»
«Sì mi ricordo.» ripose Raphael.
«Sai, ora che ci penso, le parole di Aristide hanno un senso, ora. E anche lo sguardo che mi fece.»
«In che senso?»
Castiga alzò le spalle e rispose: «Lui mi disse che i gemelli capirono che la ragione non sta da una sola parte, che un Drago non può prevalere sull’altro e schiacciarlo. Allora non capii quelle parole, ma quando io e N ci scontrammo, lui ripeté la stessa cosa. Non le esatte parole, ma disse: “Reshiram e Zekrom… hanno entrambi scelto il proprio eroe. Non avevo considerato tale possibilità: uno persegue la Verità, e l’altro gli Ideali. Che abbiano entrambi ragione?”. Mi ricordai della Leggenda e capii finalmente ogni cosa. Niente è assoluto. E poi ho anche ragionato sul mio stesso pensiero... anche Zekrom ha confermato. Ha visto in me una grande speranza. Non solo la mia, ma anche quella che tutti riponevano in me. Questo l'ha convinto, oltre ai miei personali ideali.»
«Hai ragione. E finalmente lo capì anche N!» esclamò Belle.
Castiga annuì e aggiunse: «Già. Credo che invece Reshiram abbia scelto lui perché vedeva un cuore che ambiva alla pace. Lui voleva solo che le creature smettessero di soffrire, che non ci fossero più conflitti. Credo che, a parti invertite, i due Pokémon sarebbero rimasti roccia.»
«Tu per la pace e lui per la speranza?» chiese Cheren, ridacchiando.
«Sì, esatto. Io porto proprio la pace. Quella del riposo eterno!» ribatté lei. Gli altri tre scoppiarono a ridere. Sapevano che non era seria, anche se sapevano pure che quelle parole erano totalmente veritiere.
Dopo una tappa in città e un saluto a Iris e ad Aristide, ripartirono. Prima di uscire dalla città e avviarsi sul percorso 11, Cheren esordì, titubante: «Io vorrei… fare una proposta.»
Belle, al suo fianco, annuiva incoraggiante. Castiga sorrise, intuendo qualcosa visto dove erano, e lo invitò a parlare, dicendo: «Dica, Dottore!»
«Io vorrei… tornare alla Lega Pokémon. Mi sento più forte. Posso farcela!» esclamò, determinato questa volta a vincere. O almeno a vedere Nardo.
Gli altri acconsentirono e così, attraversando Boreduopoli e il percorso 10, arrivarono alla Via Vittoria,  l’impervia grotta che precede il palazzo della Lega di Isshu. Cominciarono la scalata insieme, chiacchierando allegramente, ma circa a metà strada un terremoto li colse alla sprovvista e il soffitto cominciò a franare. Castiga e Raphael si presero per mano d’istinto, Belle e Cheren tentarono di fare lo stesso, ma una frana li divise e formò un muro, separando il ragazzo dal resto del gruppo. Belle cominciò a gridare contro la roccia: «Cheren! Cheren, stai bene?! CHEREN!»
Lui, dall’altra parte del muro, picchiò i pugni contro le rocce e urlò di risposta: «Belle! Sto bene! Ma sono intrappolato!»
Castiga si avvicinò alla parete, si schiarì la voce e gridò: «Dottore, mi senti?»
«Sì, Castì… hai qualche idea?»
«Io ho sempre un’idea, ricordatelo! Scherzi a parte… dietro di te dovrebbe esserci una gradinata che scende, dico bene?» borbottò lei, andando a memoria. Aveva esplorato quella grotta da cima a fondo, per allenarsi e poter sconfiggere Nardo. Non era riuscita nell'obbiettivo, ma conosceva perfettamente la Via Vittoria.
«Sì, sento il primo scalino con il piede.»
«Perfetto. Allora… scendi le scale e prosegui nel tunnel che c’è dopo. Ti ritroverai in una grotta abbastanza larga, nella quale si può accedere da una strada più lunga. Noi prenderemo quella strada e ti raggiungeremo. Chiaro?»
«Sì, tranquilla, ho capito!» rispose lui, per poi cominciare a percorrere il tunnel, al buio, dato che non aveva Pokémon di tipo Fuoco su cui fare affidamento per farsi luce. Ci mise molto tempo, ma finalmente arrivò nella grotta che gli aveva descritto Athena. Si preparò ad aspettare gli amici e sedette su una roccia.
Ma, all’improvviso, sentì un fragoroso rumore alle sue spalle. Si girò di scatto, in tempo per vedere un enorme bisonte di pietra corrergli addosso, alla carica. I suoi occhi rosso fuoco puntavano proprio lui e le grosse zampe non tradivano nessun rallentamento.
«Vai, Serperior! Usa Fendifoglia!» esclamò il ragazzo lanciando una Pokéball.
Il Pokémon Serperba uscì dalla sfera e attaccò. L’avversario non rallentò, anzi, accelerò la carica, le sue corna si illuminarono e il Pokémon colpì Serperior facendolo schiantare contro il muro.
«Serperior!» esclamò Cheren, correndo dall’amico.
Il bisonte lì superò a causa dello slancio, fece una curva per cambiare la direzione e ripartì alla carica, puntando il Pokémon Verde. Cheren si parò davanti all’amico d’erba per proteggerlo, ma lui lo scavalcò e, con un Fendifoglia aereo, riuscì a bloccare la folle carica del bisonte. L’avversario puntò le zampe nel terreno dietro di sé e aumentò la forza. Serperior cercò di resistere, ma cedette e cadde a terra, esausto.
Il bisonte si allontanò di qualche passo e fissò Cheren soccorrere il Pokémon Serperba. Senza emettere un suono, girò sui tacchi e se ne andò. Il ragazzo si avvicinò al suo Pokémon e, preoccupato, chiese: «Come stai?»
«Ser… perior…» mormorò lui affaticato dalla lotta. Cercò di rialzarsi ma rovinò al suolo.
«Stai calmo, Serperior… tra poco arriverà Castì con le sue medicine. Ora rientra, così sentirai meno dolore.»
Serperior scosse il capo; poi, con un cenno del muso, indicò il punto in cui era sparito il bisonte.
«Non vuoi lasciarmi solo?» mormorò il ragazzo: «Grazie amico…»
Sorridendo, gli fece una carezza. Molto tempo dopo arrivarono di corsa gli amici. Belle saltò letteralmente addosso a Cheren e Raphael la seguì, per salvare l’amico dal suo assalto.
«Cheren! Ero così preoccupata! Sei ferito? Stai male?»
Lui la tenne stretta, sorridendo e cercando di calmarla, e rispose: «Tranquilla Belle... sto bene, davvero!»
Nel frattempo Serperior si era rannicchiato in un angolo, aspettando pazientemente che il suo allenatore andasse a curarlo. Purtroppo per lui, ora Cheren aveva occhi solo per Belle.
«Abbiamo una brutta cera, eh Serpentone?» disse una voce vicino a lui.
Serperior girò la testa e vide Castiga inginocchiata a pochi metri da lui. Si chiese come mai non fosse il suo Allenatore a preoccuparsi di lui, ma la ragazza. Lei gli sorrise, intuendo i suoi dubbi; accennando a Cheren con un cenno del capo, disse: «Ora il Dottore ha altro a cui pensare, ma non credere che non ti voglia bene.»
Il Pokémon la guardò e lei prese una medicina spray dallo zaino, dicendo: «Allora, vuoi farti curare o rimani lì a soffrire?»
Serperior guardò Cheren, che in quel momento stava stringendo con affetto Belle; sconsolato e con gli occhi tristi, strisciò fino a Castiga, le mise la testa sulle gambe e la cinse con il corpo affusolato. Lei gli curò le ferite, senza fare cenni di affetto per non turbare il Pokémon, ma lui sembrava quasi ansioso di ricevere qualche carezza. Gli scese una lacrima da un occhio e guardò la ragazza in una muta preghiera. Lei gli sorrise e gli accarezzò dolcemente la testa. Lui si posò a lei. Il povero Pokémon non aveva mai ricevuto molte coccole dal suo Allenatore, non perché lui non gli volesse bene, ma perché non sapeva esprimerlo. E in quel momento Serperior aveva bisogno di affetto.
«Non abbatterti Serperior. Il Dottore ti vuole molto bene, lo sai, solo che non sa dimostrarlo.»
Serperior chiuse gli occhi, godendosi un attimo quel poco di affetto che per la prima volta gli veniva dato. Alzò la testa e fece un cenno alla ragazza, di imbarazzo e ringraziamento insieme; poi si allontanò da lei.
Nel frattempo Cheren si era liberato dall’abbraccio di Belle, grazie anche all’aiuto di Raphael, e andò dal suo coraggioso amico, per ringraziarlo ancora una volta. Serperior seppe che Castiga aveva ragione: Cheren gli voleva bene, anche se non riusciva ad esprimerlo.
Castiga non poté fare a meno di pensare a una cosa: “Cheren e Serperior … Belle e Emboar … Raphael e Zubat … non posso certo togliere nulla a Maru. Lui ha fatto tanto per me in questi tre anni. Ma lui… lui è stato il mio primo Pokémon. Il mio migliore, unico e fidato amico. Noi eravamo una cosa sola… due anime, una cosa sola… lo diceva sempre... Pidg, fratello mio … mi manchi da morire… non sai quanto.”
La ragazza cercò di scacciare quel pensiero, ma senza riuscirci. Così, per non disturbare gli altri e farsi vedere così “dannatamente debole”, si rintanò in un angolo buio e pianse, pianse tutte le sue lacrime, in silenzio e solitudine, come aveva sempre fatto. Maru però la vide e, senza parlare, le posò la testa sulle gambe, dandole sostegno con la sola presenza. Lei lo accarezzò, mentre le lacrime silenziose le rigavano il volto. Cercò di riprendersi in fretta, non voleva che gli amici la vedessero piangere. Si asciugò gli occhi in tempo per sentire Raphael dire: «Ehi, Athena! Ce cosa fai tutta sola? Vieni che usciamo da qui!»
Lei si stampò in faccia un finto sorriso e seguì gli amici fuori dalla via Vittoria, finalmente alla Lega Pokémon. Cheren curò la sua squadra, fece un respiro profondo e entrò nel palazzo. Gli amici lo aspettarono fuori, tranne Belle che andò a vedere gli incontri.
Castiga fece per andare al centro Pokémon, quando una mano le prese una spalla e Raphael disse: «Dimmi cos’hai.»
«Niente.» rispose lei, scostando la mano.
Lui la prese per i fianchi e la costrinse a voltarsi. Fissandola negli occhi, disse: «Non ti credo. Ho aspettato che gli altri non ci fossero, ma parlami.»
Lei distolse lo sguardo, per non far vedere la sua palese menzogna, e replicò: «Sto bene.»
«Athena, ascoltami. Se stai male devi dirmelo, chiaro? Sei la mia ragazza, ti amo e non voglio che tu soffra da sola. Avevo detto che il poco tempo che mi rimane da passare con te, l’avrei usato per renderti felice. E voglio farlo. Voglio che tu sia serena e ora non lo sei. Possibile che tu non lo capisca?!»
Castiga ci rimase di stucco, colpita da quelle parole.
Nessuno le aveva mai detto quelle cose.
Nessuno l’aveva mai amata così tanto.
Lo guardò negli occhi, vedendo quello sguardo deciso e preoccupato, poi posò la testa al suo petto e sussurrò: «Alla Cava… quando ho visto Serperior e Cheren… mi è venuto in mente…»
«Maru?»
Lei scosse la testa: «No.»
«E allora chi?»
Castiga guardò di lato, con un groppo alla gola, e rispose: «Il Pokémon che mi stava più a cuore. Più della mia stessa vita… e che ora non c’è più.»
Raphael ci pensò un attimo, poi gli venne l'illuminazione. In un sussurrò, mormorò: «Pidg.»
Lei non resistette e cominciò a piangere; si sentiva una nullità, una debole e mormorò: «S-scusami…» cercando di scostarlo.
Lui invece la strinse al suo petto, dolcemente, e disse: «Piangi, mia piccola pazza. Con me non devi vergognarti di nulla. Piangi e sfoga il tuo dolore…»
Tra le lacrime, lei mormorò, cercando quasi di giustificare quella sofferenza che sentiva dentro: «P-pidg era una parte di me. Eravamo una cosa sola… lui era tutto per me. Tutto… Eravamo insieme da quando avevo cinque anni. Nel bene e nel male, è stato sempre al mio fianco… sempre…»
La ragazza nascose il volto nella giacca del ragazzo, stringendone i lati, e pianse tutto il suo dolore. Raphael la cullò fra le sue braccia, sussurrando parole di conforto, finché lei non fu calma.
«Scusami… non dovevo. Sono… patetica.»
Lui le sorrise e ribatté: «Non dire sciocchezze. Sai… mi avrebbe fatto piacere conoscere Pidg.»
«Non credo. Sarebbe stato molto pericoloso.» mormorò lei, ricordando come fosse protettivo; se Shikijika si limitava a spaventare, Pidg non ci avrebbe pensato due volte ad attaccare: «Avrei tanto voluto che fosse venuto a Isshu con me. Avrei dovuto salvarlo…»
Raphael la strinse, non capendo del tutto quanto stesse male ma cercando di provarci e disse: «Lui vivrà sempre nel tuo cuore, non dimenticarlo. E non vorrebbe che tu fossi così triste.»
Lei gli sorrise e, pian piano, si sentì un po' meglio. Cheren e Belle uscirono dal palazzo dopo un paio d’ore. Cheren era abbattuto e Belle gli stava sussurrando qualcosa.
«Cos’è successo?» chiese Castiga, ormai del tutto calma e padrona di sé.
Il ragazzo era stato sconfitto dallo Chandelure dell’Élite Antemia. Non era nemmeno riuscito a vedere Nardo. Aveva perso contro l’ultimo degli Élite Four, i quattro allenatori che precedono il Campione, quindi doveva esserne fiero. Era un ottimo piazzamento. Ma non per lui. Il ragazzo avrebbe voluto vincere, per Belle, e dedicarle la vittoria. Ma era stato sconfitto.
«Dai Cheren… sei stato bravo.» disse timidamente lei, per consolarlo.
«Io… io volevo vincere per te, Belle.» mormorò affranto il ragazzo.
Lei lo guardò, stupita e lusingata insieme, e, raccolto il coraggio, gli sussurrò: «Sei il migliore…»
Lo abbracciò forte e lui la strinse. Si guardarono negli occhi, avvicinandosi lentamente.
«Dai che va!» mormorò Castiga con un ghigno, trascinando via Raphael.
«Voglio vedere!» esclamò lui.
«Ma smettila, scemo! Dai a quei due un po’ di privacy, guardone che non sei altro.»
I due se ne andarono al Centro Pokémon, anzi meglio dire che Castiga dovette trascinare a forza Raphael, mentre, dietro di loro, Belle e Cheren si baciavano, cullandosi dolcemente.
Quando i due amici raggiunsero gli altri nel Centro, erano entrambi al settimo cielo, e si tenevano per mano. Dichiararono il loro fidanzamento ufficiale con un sorriso a trentadue denti. Dopo complimenti, prese in giro e risate, andarono a dormire tutti e quattro. Il giorno dopo fecero il punto della situazione .
«Abbiamo esplorato la parte nota di Isshu, ora ci resta quella ignota.» disse Castiga guardando la mappa e cerchiando le città visitate: «Andando verso est da Boreduopoli, si va a Ponte Villaggio, Fortebrezza, Spiraria, Foresta Bianca e poi si ritorna a Sciroccopoli, dopo aver attraversato il Ponte delle Meraviglie.»
«Beh… allora andiamo!» esclamò Cheren e il gruppetto ripartì alla volta di Boreduopoli.
Camminarono per altri due giorni e finalmente arrivarono a Ponte Villaggio, una piccola cittadina costruita su un ponte a scalinate. Era una città molto particolare: sulle due rive cominciavano le due gradinate, con ai bordi delle case. Il ponte in ferro superava il fiume e collegava le rampe di scale. Tutta la superficie era coperta da pietre grigie a vista. Il ponte aveva più di duecento anni, ma era in perfetto stato. Fecero un giorno di sosta, visitando quella città così particolare, per poi proseguire e arrivare a Fortebrezza in altri due giorni.
Fortebrezza era una città fuori dal tempo. La prima cosa che i ragazzi notarono, furono le mura di cinta. Non le avevano mai viste, in nessuna delle città visitate. Perplessi, entrarono e notarono che la città era formata da più livelli: la strada principale, a livello del terreno, portava all’uscita. Sui bordi vi erano alcune case, ma la maggior parte delle costruzioni era sopra, ai livelli superiori, che potevano essere raggiunti da due scalinate.
Incuriositi, chiesero spiegazioni a un residente. L’uomo disse loro che, da tempi antichi, c’era una leggenda a Fortebrezza: si diceva che, nella Fossa Gigante a est della città, ci fosse un mostro, portato dal meteorite che aveva provocato il cratere, divenuto poi la famosa fossa. Si diceva che il mostro uscisse di notte dalla sua tana, portando un vento forte e gelido, per rapire i bambini e mangiarseli. Da allora, al tramonto, tutti gli abitanti di Fortebrezza si rifugiano in casa e viene scoraggiata l’idea di uscire di notte, proprio per paura del mostro.
«Ragazzi… riposiamoci che domani ripartiamo.» disse Castiga, perplessa da quella codardia.
In casa dopo le cinque per una leggenda. Un conto era lei, che arrivava per mietere vittime, un altro era un fantomatico mostro mangia-bambini. Si salutarono ed andarono a dormire, ma la ragazza non era molto stanca e non riuscì a prendere sonno. Eludendo la vigilanza dell’infermiera, uscì per prendere un po’ d’aria nel cortile del centro Pokémon. Quando era calata la sera, tutti si erano raccomandati che nessuno uscisse fino all’alba e tutta la gente si era barricata in casa.
«Fa proprio freddino.» borbottò Castiga, sedendosi su un gradino. Almeno quello era vero: durante la notte il vento era proprio gelido.
Non le erano mai piaciute le leggende e lei sicuramente non avrebbe avuto paura di una voce. All’improvviso, vide un Pokémon blu cobalto, dalle sembianze di un cavallo, uscire da dietro un albero.
«Guarda un po’ chi si rivede.» mormorò la ragazza, socchiudendo gli occhi.
Il Pokémon fece un passo avanti e la scrutò con un profondo occhio rosso. Quel Pokémon la sapeva lunga, Castiga lo vedeva. Era un vecchio Pokémon saggio e astuto. La ragazza incrociò le braccia, senza abbassare lo sguardo. Rosso nel rosso.
“Non hai paura del mostro?” chiese il Pokémon, telepaticamente, per non farsi sentire da altri. Era molto improbabile ma non si poteva mai dire. La ragazza capiva le sue parole, quindi non era un problema, ma se qualcun altro lo avesse sentito parlare, avrebbe udito il suo nome nel suo verso. E non era accettabile.
«No. Le leggende non mi fanno paura, a meno che non le veda con questi occhi. E forse, nemmeno in quel caso.» rispose lei, sinceramente colpita da tutta quella paura: «Che cosa vuoi ancora? Ponentopoli è lontana da qui.»
Il Pokémon non le rispose, guardandola altero. Lei lo fissò di risposta, poi chiese: «Il mostro esiste davvero?»
“Perché me lo chiedi?”
«Curiosità. Questa gente è terrorizzata.»
“Esiste, ma non è un mostro. Il suo nome è Kyurem e lo temono perché è ostile verso umani e Pokémon.”
«Capisco.»
Un gelido vento interruppe il loro discorso. Athena si alzò, andando a vedere cosa stava succedendo e il Pokémon la seguì. Davanti a loro c’era un drago grigio, con le ali e alcune parti del corpo congelate. Era bipede, ma chinato in avanti. Le possenti e robuste zampe posteriori sorreggevano il corpo, mentre quelle anteriori, molto piccole, non servivano quasi a nulla. Le ali congelate somigliavano a quelle di Zekrom, mentre la coda era vagamente simile a quella di Reshiram.
Castiga estrasse il Pokédex che disse: “Kyurem, il Pokémon Confine. Produce all'interno del suo corpo una potente e gelida energia. Ma l'aria fredda che esala lo ha congelato. Ha il potere di generare un freddo glaciale, ma ha finito per congelare il suo stesso corpo.”
Castiga mise via il Pokédex, fissando quello strano Pokémon. Quello al suo fianco, invece, con una nota di allarme nella voce, borbottò: “Scappa umana. Ti copro le spalle.”
«Ma se invece collaborassimo?»
“Lascia fare a me!” rispose lui, per poi attaccare con quelle sue corna luminose.
Castiga si arrese al suo volere e si allontanò, ma si nascose per potergli dare man forte se avesse avuto bisogno di aiuto. Il Pokémon cobalto combatté come una furia, ma Kyurem era molto forte e lo sconfisse. Poi se ne andò, così come era venuto. Castiga vide un uomo osservare Kyurem e poi il Pokémon a terra. Si avvicinò al ferito, con tutte le intenzioni di catturarlo, ma lui cercò debolmente di difendersi. Poi però svenne.
Il Pokémon cobalto si risvegliò dopo parecchie ore. Era nel punto in cui era svenuto, ma le sue ferite erano state curate e aveva una ciotola con del cibo accanto alla sua testa. Non c’era traccia dell’umano che aveva tentato di fargli del male e, credendo di essere solo, mangiò come un lupo affamato tutto quello che c’era. La lotta con Kyurem gli aveva prosciugato quasi tutte le energie. All’improvviso un sospiro lo fece sobbalzare. Si guardò intorno preso dal panico e vide l’umana dai capelli rossi dormire su un'amaca, a pochi metri da lui. Da come dormiva, sembrava sempre sul punto di svegliarsi e nelle mani teneva un pugnale.
Il Pokémon si avvicinò a lei silenziosamente e la guardò. Poi corse via e sparì nella notte.
Castiga si svegliò la mattina dopo all’alba. Si stropicciò gli occhi e vide con un sorrisetto che il Pokémon cobalto se n’era andato.
«Almeno ha mangiato…» commentò, stiracchiandosi.
Tornò nel centro Pokémon e subito gli amici le furono addosso: «Dove sei stata?!»
Lei, seccata e imbarazzata insieme, raccontò che aveva caldo e aveva dormito fuori. Teoria che scatenò il panico a causa del mostro. Una volta soli, mostrò agli amici il volto del terribile mangiatore di uomini.
«Un Pokémon?» chiese Cheren.
«Esatto. Nulla in più.» rispose lei.
Nel pomeriggio si incamminarono, anzi quasi li buttarono fuori per aver stuzzicato il mostro, e due giorni dopo arrivarono a Spiraria, una piccola cittadina sul mare. L’unica città turistica di Isshu, d’estate è piena di gente e vita, mentre nelle altre stagioni è quasi vuota. A ovest della cittadina c’era Villa Borghese, una villa enorme di proprietà della Famiglia Borghese.
Sbuffando, sempre più impaziente di rivedere N, Castiga esclamò: «Dannazione! Ma i due Saggi che mancano dove diavolo sono?!»
«Calma Castì… li troveremo vedrai.» mormorò Belle, notando quanto fosse nervosa.
«Non ti lasciamo da sola.» approvò Cheren: «Ma… ora che ci penso dobbiamo anche trovare i tre Pokémon che ci aveva chiesto la Professoressa Aralia.»
«Già.» disse Castiga, incrociando le braccia, irritata: «Vuole i miracoli senza informazioni quella donna... Chissà come sono fatti. Sarei curiosa di conoscere anche i tre Pokémon che ci hanno attaccato. Erano molto simili, probabilmente della stessa specie.»
Belle si strinse a Cheren e mormorò: «Mi viene ancora paura a pensarci. Quel Pokémon era molto bello, ma terrificante.»
«Come gli altri due. Beh… ci penseremo. Ora andiamo alla Foresta Bianca. Forse un Saggio è lì… o almeno lo spero.» concluse il discorso Castiga, con un sospiro.
Il giorno dopo proseguirono nella strada sotto Spiraria, il Percorso 14, e una tempesta li colse all’improvviso.
Pioggia, vento, grandine, bufera… tutto insieme in una volta.
«Ma che diavolo succede?!» esclamò Cheren, abbracciando Belle per ripararla.
«Non ne ho idea, maledizione!» esclamò Castiga, alzando il bavero della maglia per coprirsi un po’ di più dal vento tagliente: «Torniamo nel passaggio, presto!»
I ragazzi corsero subito nel varco coperto appena attraversato, che conduceva da Spiraria al percorso. Erano fradici, infreddoliti e Castiga molto, ma molto, arrabbiata.
«Athena, calmati… respira.» disse Raphael, cingendola con le braccia, prima che perdesse la testa.
«Non permetto al tempo di farmi cambiare strada!» esclamò lei di risposta, furibonda.
Prendendo la porta, aggiunse, vedendo Raphael che la seguiva: «E voi restate qui!»
«Ma Athen…»
«Non osare muoverti da qui.» ribatté con un tono che non ammetteva repliche.
Il ragazzo abbassò la testa e si arrese. Lei prese la porta e uscì. Nascose il mento nella maglia, abbassò la testa e affrontò la tempesta. Strabiliata dalla potenza della natura, pensò: “Maledizione che tempaccio. Com’è possibile?”
Il vento aumentò di forza e lei quasi cadde all’indietro. Si girò e non vide più il passaggio. Con un grugnito si costrinse a proseguire, la furia degli elementi addosso. Dopo molta fatica, si guardò intorno. Non vedeva nulla, data la forte pioggia, ma scorse davanti a lei una nuvola. Perplessa si avvicinò e vide che sulla nuvola c’era un omone blu, bruttissimo. Una specie di genio. Si rese conto che era tutt’uno con la nuvola e rimase sconvolta. Il Pokémon la fissò truce e caricò un Tuono. La ragazza non poteva scappare; quel mostro sembrava ci vedesse bene nella tempesta. Scagliò il Tuono e lei chiuse gli occhi, aspettando la scarica che però non la colpì. Prima che potesse raggiungerla, dei denti delicati la presero per la maglia e la spostarono dalla traiettoria del Tuono.
«Ma che diamine…» mormorò, voltandosi quando fu liberata.
Davanti a lei c’era il Pokémon cobalto.
Rimase stupita e borbottò: «Tu?!»
Il Pokémon sogghignò e rispose: “Ti devo un favore umana.”
«Ma non essere sciocco.» sbottò lei secca: «Non voglio nulla in cambio.»
“Però ora una mano ti serve. Perché non fai uscire uno dei tuoi Pokémon?”
«Nessuno dei miei Pokémon è in grado di resistere a una tempesta del genere. E non li mando certo allo sbaraglio.»
Lui la guardò, per nulla stupito da quell’affermazione, ma si mise davanti a lei, per proteggerla.
«Non ho bisogno della balia, bestione.» mormorò irritata.
“Non scherzare con Thundurus… può essere molto pericoloso.”
«Chi?!»
“Thundurus, il Pokémon Fulminante. Lo dice la sua specie stessa.”
Lei lo guardò accigliata e disse: «Prima vuoi farmi secca, poi mi salvi la vita… rinuncio a capire.»
“Io non…” cominciò a ribattere lui, ma un Fulmine lo interruppe, colpendolo.
La bestia cobalto ruggì e Thundurus, come ipnotizzato, se ne andò via. La tempesta cessò all’istante.
Castiga lo guardò impalata, stupita dalla facilità con cui l'aveva scacciato e balbettò: «Ma come…»
“Io non ho mai tentato di ucciderti!” esclamò la voce mentale del Pokémon, mentre si ergeva in tutti i suoi due metri di altezza di fronte a lei.
Castiga non si scompose; si tolse la felpa e fece vedere gli avambracci al Pokémon, che avevano ancora i segni delle ustioni, e commentò: «Certo che no.»
Poi si voltò per andarsene ma, guardandolo con la coda dell’occhio, aggiunse: «Grazie dell’aiuto comunque.»
Lui le saltò davanti con un ringhio e accennò con il muso alle braccia: “Non è stata colpa mia.”
«Hai dirottato tu Hoshi, se non sbaglio.»
“Ma ti sei messa tu in mezzo.”
«Avrei dovuto lasciare che si schiantasse contro il muro secondo te?!»
Lui rimase interdetto e lei ne approfittò, dicendo: «Non ho tempo di discutere. Ci vediamo…»
Si incamminò nella direzione del passaggio. Il Pokémon la seguì. Dopo un po’ di strada la ragazza sbottò: «Perché mi segui?»
“Non ho nulla da fare…” rispose lui, scrollando le immense spalle. Non voleva ammetterlo, ma quella ragazza dall’anima strana le piaceva. Anche a Castiga, quell’enorme cavallo blu stava simpatico; ma i due, entrambi molto orgogliosi, anche troppo, non osavano ammetterlo. All’improvviso un urlo squarciò l’aria. Castiga e la bestia si girarono di scatto verso la fonte del rumore. Proveniva da in cima a una cascata.
La tempesta riprese, più forte di prima, seguita da un violento terremoto.
Castiga barcollò e il Pokémon blu la sostenne con una zampa.
«Ma che succede ancora?!» esclamò la ragazza, non potendone più di quei continui colpi di scena.
“Un Terremoto. Siamo nei guai…” rispose il Pokémon.
Si sentì di nuovo l’urlo. Il Pokémon le prese la felpa con i denti e la mise sulla sua groppa. Poi ruggì verso il cielo: «Finitela!»
Con un salto, il Pokémon balzò oltre la cascata. Castiga si guardò intorno e vide Thundurus, accompagnato da altri due mostri come lui, uno viola e uno marrone, che minacciava Giano, uno dei sette Saggi.
«Giano? Ma cosa ci fai qui?» esclamò lei, stupita da quella scoperta, mentre il Pokémon era troppo attento a distrarre i geni per sentire il loro discorso. L'anziano si voltò, la vide ed esclamò: «Castiga?! E... Cobalion?!»
La tempesta aumentò, come il terremoto, non lasciando ai due il tempo di dire altro. Ma lei elaborò l'informazione: il Pokémon si chiamava Cobalion. Lui, avendo perso le speranze di convincere i tre nemici alla pace, disse: “Ora li caccerò da qui umana.”
«Aspetta, Cobalion…» borbottò la ragazza estraendo il Pokédex, chiamandolo per nome di riflesso.
“Thundurus, il Pokémon Fulminante.” disse la macchinetta, con voce metallica: “Lancia scariche elettriche dagli aculei della coda. Vola per i cieli di Isshu scagliando fulmini.
Tornadus, il Pokémon Turbinio. Ha la parte inferiore del corpo avvolta in una nuvola di energia. Sfreccia nei cieli a 300 km/h. L'energia sprigionata dalla coda di Tornadus provoca una violenta tempesta in grado di spazzare via le case.
Landorus, il Pokémon Fertilità. Poiché le terre che visita producono abbondanti raccolti, è considerato una benedizione per i campi.”
La ragazza mise via il Pokédex con un sogghigno e fece un cenno a Cobalion, che, perplesso, ruggì, facendo fuggire i tre mostri. Poi però si rivolse a lei e chiese: “Che cos’è quella macchina?”
«Si chiama Pokédex! Serve a identificare i Pokémon.» rispose lei, guardando Bellocchio arrivare di corsa, catturare Giano e fuggire così come era arrivato.
“Di me cosa dice?” chiese Cobalion, tra l'interessato e il sospettoso.
«Oh… non lo so.»
La ragazza prese il Pokédex, lo puntò verso Cobalion e la macchina disse: “Nessuna informazione disponibile!”
La macchinetta si spense. Castiga lo rimise in tasca e mormorò: «C’è solo una spiegazione…»
Prese l’Interpoké e chiamò la professoressa Aralia: «Salve, prof! Mi dica… conosceva tre Pokémon chiamati Thundurus, Tornadus e Landorus?»
«Certo, Athena! Perché?»
«No, nulla.» mormorò lei, comprendendo la situazione. Il Pokédex sapeva quel che la professoressa aveva caricato nel computer. Conosceva i dati di ciò che lei conosceva. E nient'altro.
Aurea ruppe il silenzio e chiese: «Invece... Avete trovato i Tre Moschettieri?»
Cobalion si irrigidì e Castiga rispose, guardandolo, mentre il suo sospetto aveva sempre più conferme: «No, prof… ci lasci tempo. Senza indizi non facciamo miracoli.»
«Hai ragione, scusa. Ci sentiamo!» disse la donna, chiudendo la chiamata.
“Perc…” cominciò il Pokémon, ma Castiga lo zittì. Scese dal suo dorso, lo guardò il Pokémon dritto negli occhi, digitando sul Dex: “Cobalion”. Senza distogliere lo sguardo, ascoltò la macchina dire: “Nessuna corrispondenza trovata!”
Mise via il Pokédex. Semplicemente, espresse la sua conclusione: «Sei uno dei Tre Moschettieri.»
Lui arretrò, pronto a combattere per la libertà, ringhiando. Lei era simpatica ma non si sarebbe fatto imprigionare da nessuno. Capendo le sue intenzioni, Castiga svuotò le tasche in terra: Pokéball, Pokédex, pugnale… tutto. Si allontanò dalle sue cose, senza mai togliere lo sguardo dal Pokémon, e, incrociando le braccia, ripeté l’affermazione, aspettando una risposta. Cobalion la guardò stupito, poi, abbassando leggermente la guardia, disse: “Sì… il mio nome è Cobalion, come già sai. Ma gli antichi popoli umani mi chiamavano Athos.”
«Fammi indovinare… i due Pokémon che hanno attaccato i miei amici sono Porthos e Aramis?»
“Sì. Perché ci state cercando?” chiese di getto, sospettoso ma convinto. Voleva sapere.
La ragazza accennò un sorriso e rispose: «Non per il motivo che credi. Non ho intenzione di catturarti, mi servono solo alcune informazioni. Me le concedi?»
“Perché?”
«La mia amica è una studiosa Pokémon e le interessa tutto ciò che vi riguarda. Come studiosa di Isshu vorrebbe conoscere tutte le specie presenti nella regione. Ha sentito parlare di voi e ha chiesto a me e ai miei amici se possiamo raccogliere i vostri dati. Tutto qui.»
Lui abbassò completamente la guardia. Era sincera, si vedeva. Non era una trappola. Così borbottò: “D’accordo umana. Non so perché, ma mi fido. Cosa vuoi sapere?”
Castiga gli fece alcune domande su lui, la sua specie e la sua storia.
Quando tornò dagli amici, mostrò loro il Pokédex con un ghigno, dicendo: «Vi presento Athos, amici! Il capo dei moschettieri!»
La macchinetta si azionò e disse: “Cobalion, il Pokémon Metalcuore. È un Pokémon leggendario che ha lottato contro gli umani per difendere i Pokémon. Ha un carattere calmo e controllato. Ha un corpo e uno spirito d'acciaio. Gli basta lo sguardo per farsi ubbidire anche dai Pokémon più feroci.”
«Come hai… fatto?! Dove lo… hai visto?!» esclamò senza parole Cheren, sconvolto che lei fosse riuscita, ancora, dove lui aveva fallito.
«Il Pokémon Colbalto che mi attaccò nella cava Pontentopoli. Era lui. E i due che hanno attaccato voi sono Porthos e Aramis. Cobalion non ha voluto dirmi nulla di loro, ma li incontreremo ancora!» rispose la ragazza sorridendo: «Ah e poi… ho trovato Giano! Ci manca solo un Saggio e troveremo N.»
Il quartetto uscì dal passaggio e in un paio di giorni arrivò alla Foresta Bianca. Era una calma foresta, tranquilla e piena di alberi. Castiga si appoggiò a un tronco e ripensò alle parole di Cobalion quando si erano salutati.
 
*Il Pokémon aveva risposto a tutte le sue domande e la ragazza aveva spento soddisfatta il Pokédex. Lui le si era avvicinato, e, fissandola negli occhi aveva detto, con la voce mentale: “Quando mi aiutasti, ho visto del sangue.”
Le si era congelato il sorrisetto in faccia, e non aveva risposto, guardando di lato. Vedendo che non rispondeva, lui aveva aggiunto: “Durante la mia lunga vita, ho imparato un po’ a conoscere la tua specie. Ma non avevo mai conosciuto nessuno così.”
«Così… come?»
“Un’anima… grigia. Non riesco a inquadrarti.”
Seccata da tutto quel girarci intorno, lei aveva sbottato: «Dai, lo so che muori dalla voglia di chiedermelo… e allora fallo.»
Lui l’aveva fissata, serio ma colpito dalla sua schiettezza, e aveva chiesto: “… L’hai ucciso?”
Castiga l’aveva fissato dritto negli occhi.
«No.» aveva risposto: «Ma ti confesso che avrei voluto.»
Il Pokémon, sdraiatosi a terra, aveva detto: “Avanti, parla.”
Dopo che si fu seduta a gambe incrociate a terra, la ragazza gli aveva raccontato tutto. La sua vita, come aveva detto anche ai suoi amici, ma al Pokémon raccontò di più. Gli descrisse anche i suoi sentimenti, quello che provava e che aveva provato in passato, prima e dopo essere diventata il Demone Rosso e Cobalion ne rimase colpito.
“La tua malattia è molto grave, umana… la tua specie non ha rimedi?”
«Oh certo. Ma non ho nessuna intenzione di andare in manicomio.» aveva risposto lei, convinta: «Finché avrò un minimo di autocontrollo, posso benissimo evitare farmaci, camicie di forza e affini.»
Il Pokémon le aveva sorriso: “Se saprai resistere a ciò che desideri, non avrai problemi.
Ora. Per raccogliere i dati anche dei miei fratelli, andate alla Palude di Mistralopoli. Lì ci incontreremo ancora.”
«Non ti capisco.» aveva mormorato la ragazza, pensierosa.
“Cosa intendi dire?”
«Pensavo mi avresti disprezzato.»
“Per questo? No… d’altronde non è colpa tua.”
Lei non aveva risposto, abbattuta.
«Quando si diventa bestie… lo si rimane per tutta la vita.» aveva mormorato, ma Cobalion l’aveva zittita.
“La vita è quello che noi desideriamo che sia.” aveva detto, fiero e solenne: “Se tu non vuoi essere un mostro, puoi redimerti e potrai cambiare. Forse non la tua essenza, ma qualcosa si può fare comunque.”
I due si erano fissati a lungo, poi il Pokémon aveva allungato la testa e posato la fronte su quella della ragazza.
“Se mai avrai bisogno di un aiuto, non esitare a chiamarmi. Ti aspetto alla Palude Mistralopoli.”
Detto questo, si era alzato e, con un ultimo sorriso alla ragazza, era corso via. Fiero e maestoso. Lei era rimasta colpita dalla sua bellezza.*
 
Castiga si riscosse dai pensieri e si guardò intorno. Avevano fatto tutti uscire i Pokémon, per riposarsi in quella foresta tranquilla che emanava pace da ogni parte. Restarono lì una settimana, per riposarsi bene e ripartire con nuove energie.

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Capitolo 42
*** Capitolo 41 ***


Riunitisi dopo la breve vacanza, i quattro ragazzi fecero il punto della situazione. Castiga sorrise ed dichiarò: «Dobbiamo tornare alla Palude Mistralopoli.»
Raphael la guardò perplesso. Non era molto esperto di quella regione, ma era sicuro che avessero già passato quel posto; così, chiese: «Perché?»
«Là ci saranno i tre Pokémon o almeno così mi ha detto Cobalion.»
Cheren la fissò, non ben convinto di quel piano, e chiese: «Sicura che non sia una trappola?»
«No. Ma non credo che mi abbia mentito. Cosa ne dite?»
«Andiamo!» esclamarono gli altri; e così partirono.
Arrivarono alla Palude Mistralopoli circa due settimane dopo, facendo il percorso inverso. Erano molto lontani e quindi dovettero attraversare di nuovo mezza Isshu. Una volta a destinazione, si inoltrarono nella Palude. Belle strinse Cheren e mormorò, terrorizzata: «Mamma mia che posto spettrale! Non bastava passarci una volta, no. Dovevamo ritornare!»
Nessuno rispose al suo piagnisteo e continuarono la ricerca. All’improvviso, dalla nebbia, echeggiò il ruggito di un cucciolo e un piccolo unicorno bianco con la criniera blu e rossa apparve dinanzi a loro, scagliandosi su Raphael. Castiga fece per intervenire, ma delle barriere di acciaio, roccia e alberi circondarono Castiga, Cheren e Belle, che dovettero stare a guardare.
L’unicorno attaccò ancora, ma Raphael estrasse rapido una Pokéball e fece uscire Sewaddle che si preparò a lottare. Il corno dell’avversario divenne luminoso e tagliente, ma Raphael non si fece prendere alla sprovvista. Athena gli aveva insegnato qualche trucchetto di lotta e lui, usando le lezioni con maestria, riuscì a mettere in difficoltà il suo avversario. Ma la vittoria la ottenne solo grazie a Sewaddle che, a metà incontro, si evolse in una splendida Swadloon. Una volta sconfitto l’avversario, le barriere si dissolsero e i quattro amici si riunirono.
«Bravo, Raphael!» esclamò Castiga con un sorriso, felice che il suo ragazzo avesse vinto.
Raphael voltò le spalle all’avversario a terra per vedere come stessero gli amici e l’unicorno, rialzatosi, balzò verso la sua schiena, infuriato per aver perso. La sua voce mentale, furiosa, rimbombò per tutta la palude: “Io non sono stato sconfitto!”
“Fermo, Keldeo!”
Una voce mentale, imperiosa, bloccò l’assalto del piccolo unicorno che si inchiodò a terra, incapace di muoversi. Dalla foschia emersero fieri i tre Pokémon misteriosi: Cobalion davanti a tutti, seguito dal cervo verde e dal bisonte roccioso.
“Keldeo!” esclamò di nuovo Cobalion, rivolto all’unicorno: “Quest’umano ti ha sconfitto, accetta la lezione e ricorda: non si attacca alle spalle, per nessun motivo! È un atto vile, che copre di disonore chi lo compie.”
L’unicorno abbassò la testa ma rispose: “Se voi mi aveste insegnato la Spadamistica, ora sarei il vincitore.”
“La Spadamistica deve essere usata con onore, non per vincere facilmente.”
“Sì, ma...”
“SILENZIO!”
Il ruggito di Cobalion rimbombò per l’intera palude e Keldeo non aprì più bocca.
“Dovrai imparare a sfruttare bene la Spadasolenne e poi potrai imparare la Spadamistica.” concluse il Pokémon cobalto, chiudendo il discorso. Poi si voltò, imitato dagli altri due, e guardò gli umani lì presenti, alquanto scioccati da quella discussione. Con un sorriso, si rivolse ad Athena: “Finalmente ci rivediamo.”
«Ciao, Cobalion.» salutò la ragazza, guardandolo negli occhi
“So a cosa pensi. Ti avevo detto che venendo qui, avreste avuto i nostri dati a disposizione. Ma solo a una condizione…”
«Cioè?»
“Una lotta in quadruplo. Se ci batterete tutti e quattro, con gli stessi Pokémon che avete usato nel nostro primo scontro, avrete quello che volete.”
«E se perdiamo?»
“Tu, Athena, detta Castiga, resterai con noi per l’eternità.”
Solo l’occhiataccia della ragazza fermò Raphael da saltare addosso al Pokémon dalla rabbia. Sincera, commentò: «Non riesco a capire il senso di questa condizione.»
“Voi vi reputate grandi amici.” dichiarò il Pokémon, squadrando gli altri tre con sufficienza: “Vedremo se è così. Loro dovranno battersi al meglio se vogliono salvarti, umana.”
Contro ogni ipotesi, la ragazza scoppiò a ridere. La guardarono tutti sbigottiti e lei, controllandosi, fissò con occhi di ghiaccio e di sfida il Pokémon. Gli amici la guardarono un po’ spaventati, Raphael a parte, e così anche i Pokémon. Estraendo la Pokéball di Hoshi, lei disse solo: «Ne riparliamo a fine scontro, Cobalion.»
Era determinata a vincere. Ma non per la sua libertà. Di quello non le importava nulla. Ma le parole del Pokèmon avevano risvegliato in lei quel suo lato che odiava essere comandato.
Odiava che qualcuno disponesse a proprio piacimento della sua vita.
Odiava che le dessero ultimatum con quel tono di superiorità.
“Giovanni.” pensò in preda alla collera: “Lo stesso dannato tono di Giovanni.”
La ragazza sfogò tutto il suo rancore nella lotta. Già dall’inizio i tre Pokémon erano in netto vantaggio su Belle, Cheren e Raphael, ma Castiga e Hoshi diedero parecchio filo da torcere a Cobalion. Per premunirsi dal ruggito ipnotizzante del Pokémon, Castiga aveva messo a Hoshi i tappi nelle orecchie e le diceva cosa fare a gesti. E il trucco funzionava molto bene. Cobalion, infatti, sprovvisto della sua arma vincente, dovette fare i salti mortali per evitare la sconfitta. Con un sogghigno disse: “Ti batti davvero molto bene, umana. Astuta, rapida e letale. Ma i tuoi amici sono in difficoltà. Tu potresti vincere, ma loro?”
«Non trarre conclusioni affrettate.» rispose soltanto lei.
Castiga girò appena lo sguardo. Emboar, Serperior e Swadloon erano distrutti, sull’orlo di KO, compreso Keldeo, mentre il bisonte e il cervo sembravano appena affaticati.
Castiga guardò Hoshi: le aveva fatto fare il Nitrocarica parecchie volte, aumentando la velocità della zebra in modo esponenziale, ma le aveva detto di muoversi lentamente, per non far vedere il cambiamento.
“È giunto il momento…” pensò e ordinò: «Vai Hoshi! Nitrocarica alla massima potenza sul Pokémon verde! Sprizzalampo su Keldeo! Nitrocarica sul bisonte e ancora Nitrocarica su Cobalion! Alla massima velocità!»
La Zebstrika fu rapida come un lampo; colpì i quattro Pokèmon con una velocità estrema, atterrandone tre, senza che nessuno se ne rendesse conto. Rimase in piedi solo il bisonte che però, stordito dalla Nitrocarica, non riuscì a schivare il Fendifoglia di Serperior, potenziato dall’Erbaiuto, che lo mandò KO.
Castiga si avvicinò a Cobalion, minacciosa, mentre lui tentava di alzarsi. Si abbassò avvicinando la testa e gli sussurrò: «Non azzardarti mai più a darmi ultimatum o ordini. Se fossi stato un umano saresti morto, ricordatelo.»
Poi si risollevò e se ne andò. Raphael cercò di fermarla ed esclamò: «Ehi, dove vai?»
«Via di qui di sicuro. Quello che mi serve ce l’ho già.» rispose lei, con la voce ancora velata di quella rabbia che dominava a stento. Gli amici capirono di non insistere e presero i dati degli altri Pokémon.
Il Cervo verde era Virizion, il Pokémon Prateria, di tipo Erba/Lotta: “Pokémon che ha sfidato gli uomini per proteggere i propri compagni. Si racconta di lui nelle leggende. Inoltre le corna della testa sono lame affilate. Muovendosi come un turbine, scuote e falcia fulmineo i nemici.”
Il bisonte si chiamava Terrakion, il Pokémon Caverna, di tipo Roccia/Lotta: “Ha lottato contro gli esseri umani per proteggere i Pokémon scacciati dalle loro dimore a causa delle guerre. Inoltre quando carica, ha una forza tale da sfondare un'enorme muraglia. Si racconta di lui nelle leggende.”
Infine Keldeo, il Pokémon Puledro, di tipo Acqua/Lotta: “Spara acqua dagli zoccoli, poi si muove scivolando sulla superficie liquida che ha formato. Lotta usando abilmente gli arti. Inoltre scorrazza per il mondo muovendosi sulla superficie dei mari o dei fiumi. Appare nei lidi più ameni.”
Cobalion però, si alzò a fatica e seguì Castiga, zoppicando. Lei, nel frattempo, si era allontanata e guardava una pozza di acqua torbida.
“Quest’acqua… è come il mio cuore. Nero che cerca un modo per pulirsi ed essere migliore.”
Persa nei suoi pensieri, sentì dei passi e, con la coda dell’occhio, vide Cobalion avvicinarsi. Secca, più di quanto avrebbe in realtà voluto, chiese: «Cosa vuoi ancora?»
“Ti chiedo scusa se ho risvegliato in te brutti ricordi. Se ti può interessare, posso rivelarti il perché della mia condizione.”
La ragazza, incuriosita, si girò e guardò il Pokémon. Lui proseguì, notando il suo interessamento: “So quanto soffre la tua anima umana. Un Pokémon vecchio come me lo sente a pelle. Volevo che venissi con noi, per cercare di purificare il tuo spirito. Tu provi piacere nell’uccidere e nel provocare sofferenza altrui, me lo hai detto tu stessa, ma sei in grado di dominarti, pur soffrendo. Speravo che restare un po’ con noi potesse cambiare la tua indole omicida. Nulla in più… ma ora ho capito. Tu vuoi essere libera, pur nella tua sofferenza, e per questo mio grave errore di valutazione, ti porgo le mie più umili scuse.”
Cobalion la guardò, pentito sinceramente, e abbassò il capo. Quelle parole, dette con sincerità, stupirono molto la ragazza che si calmò quasi all’istante. Pensava che i tre Pokémon volessero ancora imprigionarla come aveva fatto Giovanni e quel pensiero l’aveva mandata in bestia. Ora invece, si diede della stupida, per aver pensato una cosa del genere.
“Solo gli umani sono così crudeli.” concluse con amarezza nella sua mente. Poi, sorridendo, disse: «Non sta bene per un Pokémon millenario come te, chinare il capo davanti a una banale umana.»
Il Pokémon alzò lo sguardo e lei, avvicinatasi, gli accarezzo la testa, dicendo: «Perdonami anche tu. Avevo frainteso le tue parole. La mia anima nera non può essere corretta. Posso solo tenere a bada l’oscurità del mio cuore con la sola forza di volontà. È l’unica carta che ho e voglio giocarla al meglio. Voglio però chiederti una cosa. Un piacere per l’esattezza.»
“Tutto quello che vuoi.”
«Promettimi di proteggerlo.»
Lui, capendo l'allusione, annuì e rispose: “Hai la mia parola.”
Lei gli sorrise: «Grazie amico.»

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Capitolo 43
*** Capitolo 42 ***


«D’accordo. Ci manca un saggio. Un solo, maledettissimo Saggio. Qualche idea?» chiese Castiga, facendo il punto della situazione, mentre erano ancora ospiti dei Moschettieri.
“Avete visitato tutta Isshu?” chiese Cobalion.
«Sì.» rispose Castiga, aprendo la cartina davanti a tutti: «Abbiamo fatto tutto il giro della regione.»
“E qui?” chiese Virizion, folgorato da un pensiero, indicando un percorso con uno zoccolo.
Cheren lo fissò e mormorò: «Il percorso 18. Quello sotto Soffiolieve. Effettivamente non ci siamo mai stati…»
«Beh, tanto vale andarci… ormai non so più che pesci pigliare.» dichiarò Castiga, rimettendo via la mappa scocciata di quel contrattempo. Un cavolo di saggio disperso che le ritardava la riunione con N.
Raphael sorrise e concluse: «Allora partiamo… prima arriviamo, meglio sarà!»
Castiga si alzò in piedi, prese lo zaino e fece una carezza a Cobalion, sotto lo sguardo stupito di tutti; gli amici si alzarono a loro volta e, dopo aver salutato i Pokémon, ripresero il loro viaggio.
Virizion guardò il fratello d'acciaio e constatò: *«Ti sei legato molto a quell'umana, mi sembra.»*
*«È simpatica.»* rispose lui, restando vago.
*«Non eri tu quello che diceva che gli umani sono il male di questa terra e che bisogna sterminarli tutti?»* incalzò il Pokémon verde, accigliato.
Cobalion lo fissò di traverso e replicò: *«Di quante ere fa stai parlando?»*
*«Non sono così tante.»* rise Terrakion, vedendo come si fosse offeso: *«Ma una cosa è certa: se si è guadagnata la tua fiducia, è una persona speciale.»*
*«E non se ne rende nemmeno conto.»* sorrise lui, per chiudere il discorso; con un balzo, si diresse verso Ponentopoli, gridando: *«Sparpagliatevi, Moschettieri! E vegliate sui Pokémon!»*
Castiga, invece, era già intenta a brontolare per la distanza che avrebbero dovuto percorrere. Con un tono quasi infantile, esclamò: «Ci metteremo una vita.»
Praticamente dovevano attraversare tutta Isshu un’altra volta, tornare a Soffiolieve e andare nel percorso sotto la città, esplorandolo tutto. Ci misero quello che sembrò loro un secolo ma che in realtà furono solo venti giorni e finalmente arrivarono a Soffiolieve.
«Tappa dalla prof!» esclamò Castiga, stremata.
«Ci puoi giurare!» risposero gli altri, stanchi a loro volta.
La professoressa Aralia li accolse a braccia aperte e i quattro amici restarono lì una bella settimana.
Anzi, Belle e Cheren andarono a casa, mentre Castiga e Raphael rimasero ospiti di Aurea. Lei fu felicissima di avere i dati di Cobalion e gli altri tre Pokémon, confermato dal fatto che ignorava l’esistenza di Keldeo.
Castiga, dal canto suo, fu felice di tornare. Zeus le saltò in braccio appena la riconobbe da lontano e anche con Elizabeth le cose sembravano andare per il meglio. Si prese un po’ di tempo per tutti. Giocò con Zeus, ma soprattutto parlò con sua madre. Volevano conoscersi meglio e recuperare il tempo perduto. E impararono a volersi bene, nonostante la ragazza provasse ancora un po’ di rancore verso la donna. D’altronde non si può biasimarla: se era diventata il Demone Rosso, era perché Giovanni l’aveva raccolta dalla strada. Comunque impararono ad andare d’accordo e questo bastò.
Quelle sere, Cheren e Belle andavano a dormire a casa loro, mentre Castiga e Raphael nel laboratorio Pokémon nei sacchi a pelo. La professoressa non aveva posto e si era scusata in tutte le lingue per non avere dei letti per loro due. Ma ai ragazzi non importava, bastava essere insieme. Si misero in un angolino, tenendosi caldo a vicenda. Lui tentò di abbracciarla ma a causa del sacco a pelo non ci riuscì. Seccato, borbottò: «Perché non li fanno matrimoniali questi cosi?»
Lei ridacchiò e si appoggiò a lui: «Ma da quanto tempo è che non stiamo così vicini?»
«Troppo.» rispose lui, tirando fuori le braccia dal sacco a pelo.
Si abbracciarono e si addormentarono insieme.
La settimana dopo ripartirono. Ci misero ben quindici giorni per trovare l’ultimo Saggio, dato che si era nascosto bene e il percorso era adornato da un bosco enorme, ma finalmente lo videro: in fondo al percorso che guardava perso il mare. Ross.
Il Saggio fissava l’oceano con sguardo assente e quando Castiga lo raggiunse, mormorò: «Qui si sente il profumo del mare.»
Si voltò, fissando la ragazza, e continuò: «È proprio lo stesso profumo della regione dove sono nato.»
«Ovvero?» chiese lei, ricambiando lo sguardo.
«Canalipoli, a Sinnoh. Geechisu ha viaggiato per tutto il mondo per accumulare ogni forma di conoscenza e cercare dei degni compagni. Ha capito subito i miei desideri, dal primo istante in cui ci siamo incontrati.»
«Che cosa desideravi, Ross? Non l'ho mai capito...»
Lui sorrise e rispose: «Non è importante. Geechisu però aveva una grande dote. Sapeva leggere nel cuore delle persone e capire i loro desideri… sono capacità essenziali per vivere insieme agli altri. N, invece, ha lo straordinario potere di capire i sentimenti dei Pokémon, come te. Ma, d’altro canto, non è ancora riuscito a penetrare nei meandri reconditi del cuore degli uomini. Del resto, sono sicuro che anche questo rientrasse nel piano di Geechisu.
Non ci è dato sapere quale verità e quale menzogna si celino dietro ai suoi desideri. Mi auguro che un giorno N riesca a comprendere non solo i sentimenti dei Pokémon, ma anche quelli degli uomini.
Allora ci ritroveremo di nuovo tutti insieme… e potremmo vivere, in pace, noi e i Pokémon.»
«Sei strano Ross, lo sai?» commentò lei, non cogliendo del tutto il significato del suo discorso.
Lui rise e rispose: «Ho seguito Geechisu per N. Puoi non credermi se ti fa stare meglio, ma io speravo in una vita migliore per lui. Suo padre non ha mai capito niente di cosa voglia dire avere un figlio... sono stato contento della sua disfatta. N non meritava di vivere ancora così. Ora è libero.»
«Ma non tu!» esclamò una voce; Bellocchio arrivò di corsa urlando: «Il carcere ti aspetta, Saggio! Per quanto riguarda il Team Plasma… racconterai tutto a me, Agente della Polizia Internazionale!»
«Se è quello che vuoi…» rispose lui: «A me importava solo della felicità di N.»
Prima di portare via Ross, Bellocchio si rivolse a Castiga: «Ora abbiamo tutti i Saggi! Grazie dell’aiuto! Abbiamo inoltre scoperto che in una regione lontana hanno intravisto un Drago Bianco volare nei cieli… pensiamo si tratti di Reshiram!»
Alla ragazza quasi si fermò il cuore. Deglutì, sentendosi troppo felice, più di quanto avesse mai immaginato, e chiese, con voce tremante: «Quale regione?»
«Hoenn… buona fortuna, Allenatore!» rispose Bellocchio, con un sorriso, per poi portarsi via Ross. Anche il Saggio sorrideva. Sapeva che N sarebbe stato felice di rivedere la ragazza come lei lo era di lui.
«Hoenn…» mormorò Castiga persa nei suoi pensieri: «Hoenn è lontana… molto lontana da qui. Ci vorrà più tempo del previsto.»
«Piccola pazza...» la chiamò Raphael, ma lei, persa nei suoi pensieri non lo sentì.
«Athena!» ritentò lui, usando il nome, senza successo.
«ATHENA!» esclamò, infine, quasi urlando.
La ragazza si riscosse con un sobbalzo e, spaesata, chiese: «Eh? Hai detto qualcosa?»
Raphael la guardò seccato e sbottò: «Sì! Che cos’hai intenzione di fare?»
«Beh, mi sembra ovvio. Vado a Hoenn a cercare N. Non ho fatto tutta questa fatica per trovare i saggi e poi mollare così.»
«Vengo con te.» le disse il ragazzo, intenzionato a non perderla mai di vista.
Lei gli sorrise e si aggiunsero anche Cheren e Belle; quest'ultima, come sempre agitata per la nuova avventura, esclamò: «Non ti lasciamo da sola!»
«Grazie, amici.» mormorò semplicemente Castiga, imbarazzata ma lusingata dal loro sincero affetto.
I quattro tornarono dalla professoressa e le dissero della nuova destinazione.
«Hoenn?! Ma è a dir poco lontanissima! Restate un po’ qui, riposatevi e io chiamerò il professor Birch… è lo studioso Pokémon di quella regione e vi saprà aiutare! Guardate, Hoenn è qui…» disse loro, aprendo una cartina geografica dell'intero mondo.
Athena evitò di soffermarsi sul continente di Johto e Kanto ma guardò dove stava indicando la studiosa e, sconvolta, mormorò: «Accidenti. Ma è davvero lontana. Dovremmo navigare parecchio.»
«Perché non andate in volo?» chiese Aurea, stupita che lei non ci avesse pensato: «Sarebbe molto più facile.»
«Ehm... l'ultima volta è stato un po' un fiasco e... ehm, soffro di mal d'aria!» rispose lei, cercando di sembrare convincente.
Aurea la squadrò. Il Demone Rosso aveva da sempre volato su Pidg. Non era molto credibile ma decise di darle corda. Se lei voleva andare per mare, doveva avere i suoi buoni motivi. E non sarebbe stata di certo lei a torchiarla. Vedendo che gli altri non avevano problemi e non sembravano essersi resi conto del suo disagio, chiese: «Sarà un viaggio molto lungo e faticoso ragazzi… ve la sentite?»
I quattro annuirono convinti e la professoressa disegnò loro una rotta da seguire: «Questa non è la via più breve, però potrete trovare molte città dove riposarvi. State attenti e tenetevi in contatto.»
«Grazie, prof!» disse Castiga, anche per non aver insistito: «Ci rivedremo al ritorno.»
Due settimane dopo si ritrovarono per la partenza. Athena, Raphael, Belle e Cheren erano al porto di Austropoli. Con loro c’erano anche la professoressa Aralia, il generale Surge, Zeus ed Elizabeth, che volevano salutarli.
«Mi raccomando: fatevi sentire e buon viaggio!» disse la professoressa, accorata, cercando di non sembrare troppo agitata per quel viaggio molto lungo. Si sentiva come una madre, ormai non aveva più dubbi. E quella rossa ragazzina psicolabile era la sua bambina.
Castiga le sorrise e rispose: «Stia tranquilla! Ci vediamo al ritorno!»
Si misero in formazione: Castiga avrebbe navigato su Maru, Raphael sul Jellicent che aveva catturato con l’aiuto della sua ragazza, Belle sul suo Stoutland, al quale aveva insegnato Surf apposta per l’occasione, e Cheren sul suo Simipour.
La navigata fu tosta. Per raggiungere il continente, Castiga e Raphael, in volo, avevano impiegato poche settimane, ma il viaggio per mare, molto più lento, durò circa due mesi che sembrarono interminabili. Dopo un mese e mezzo circa si cominciò ad avvistare la terraferma, che però venne raggiunta due settimane dopo. Tra Isshu e il continente infatti non c’erano isole e quindi i ragazzi dovettero razionare le provviste al limite. Ma, alla fine, riuscirono ad attraccare.
«Finalmente a terra!» esclamò Castiga prendendo l’Interpoké; le girava la testa e non stava affatto bene. Sedette a terra, cercando di riprendere fiato, poi guardò la carta geografica digitale: «Dunque vediamo dove siamo… ecco! Regione di Auros, a est di Kanto. Se proseguiamo verso ovest dovremmo arrivare alla città di Ipogea, dove potremmo fare provviste.»
Fecero rientrare i Pokémon e si incamminarono. Ci misero ben tre settimane, poiché la brughiera era sempre uguale e molto spesso sbagliarono strada. D’altronde erano in una regione quasi del tutto sconosciuta e l’Interpoké non era infallibile. A Ipogea si rifocillarono e si ricaricarono di provviste, riposandosi bene. Ripartirono una settimana dopo, raggiungendo Diamantopoli, la città più grande di Auros.
“Che razza di regione.” si trovò a pensare Athena, mentre camminavano nel deserto dopo Diamantopoli: “È più arida del mio cuore. Il che è tutto dire.”
Finalmente, due settimane dopo, raggiunsero Porto Pontipoli, l’unico della regione. Ripartirono dal porto di Auros con i loro Pokémon d’acqua e, facendo un giro piuttosto lungo e strambo a causa delle correnti marine, in un mese di navigazione arrivarono al porto dell’Isola Cannella a Kanto. Fecero provviste e curarono i Pokémon, facendo anche un paio di giorni di sosta. Raphael notò che negli ultimi tempi, Castiga tendeva a mettersi maglie e vestiti molto larghi, ma non ci diede troppo peso; ma stava spesso male ed era piuttosto scontrosa; si isolava più del solito. Pensando a un ritorno di fiamma del suo passato, data la meta, non le fece domande, anche se era preoccupato. Non si faceva neanche più abbracciare, si teneva distante...
Ripartirono facendo rotta verso Hoenn e in circa un mese e dieci giorni arrivarono finalmente al molo del Signor Marino e del suo Wingull Peecko, nelle vicinanze della città di Petalipoli.
«Finalmente ci siamo!» esclamò Castiga, guardandosi intorno, finalmente di umore meno nero: «Ora dobbiamo solo… ehi! Guardate Zekrom!»
Il Pokémon Nero Ideale aveva preso la direzione di Petalipoli e volava veloce. Aveva sentito la presenza di Reshiram e voleva a tutti i costi raggiungerla. Seguirono il Pokémon fino a Petalipoli, poi a Solarosa e infine nel percorso appena sopra. Lì, seduto su una roccia, c’era N e Reshiram volava sopra di lui insieme a Zekrom.
«N!» esclamò Castiga, sorridendo e riconoscendo il ragazzo; era sempre uguale, vestito di bianco, con i lunghi capelli verdi e ricci, ma questa volta senza cappello da baseball. Contro ogni aspettativa, lei si mise a correre e lo abbracciò, lasciando tutti di stucco. Raphael per primo.
«Finalmente sei arrivata...» mormorò lui, sorridendo e ricambiando la stretta: «Io e Reshiram attendevamo la rivincita con ansia.»
«Se ti nascondi, poi ti tocca aspettare! Lo sapevi fin dall’inizio.» ribatté lei, lasciandolo andare ma facendo segno di fare silenzio con un dito posato in verticale sulle labbra.
Lui annuì, non smettendo di sorridere, e disse: «Vedo che non sei per nulla cambiata. Ciò mi rende molto felice. Cheren, Belle, lieto di rivedervi.» aggiunse poi ai due ragazzi, che lo salutarono a loro volta.
Infine N si rivolse a Raphael e commentò: «Temo invece di non conoscere questo giovine. E immagino che lui non conosca me.»
Si avvicinò con passo elegante al ragazzo e gli tese la mano, con un sorrisetto ambiguo: «Il mio nome è Natural Harmonia Gropius, ma tutti mi chiamano N, e non nego che lo preferisca a mia volta.»
Lui lo fissò con uno sguardo di sfida, ingelosito dall’atteggiamento della sua ragazza con quel tizio; N era più alto di lui, di una spanna, e Raphael si sentiva decisamente inferiore, in più o meno tutto. Senza contare che lui non la abbracciava dalla partenza da Isshu. Gli strinse comunque la mano, rispondendo: «Io invece mi chiamo Raphael e sono il suo ragazzo.» sottolineando l’ultima parola, mentre indicava Athena.
L’occhiataccia della ragazza venne contrastata dalla risata di N che, avendo capito il motivo di quel tono ostile, replicò: «Non temere, amico, non intendo rubare la ragazza di nessuno. Siamo solo ottimi amici, nulla in più.»
Castiga scoccò un’ultima occhiataccia a Raphael, poi si rivolse a N: «Allora… hai trovato ciò che cercavi?»
Lui le sorrise di risposta: «In parte sì. Ricordi che desideravo, e anzi, lo desidero ancora, un mondo dove i Pokémon non siano schiavi dell'uomo? Ecco, ho trovato una città che si confà al mio modo di pensare.»
«Davvero?»
«Certamente. Venite, vi mostro ciò che intendo.» concluse lui, facendo cenno di seguirlo e imboccando una stradina. Loro si guardarono poi eseguirono. Prendendo una scorciatoia che non rubò loro più di un paio d’ore, giunsero alla città di Forestopoli, mentre Reshiram e Zekrom volavano felici nel cielo sopra di loro.
N si voltò, aprendo le braccia, ed esclamò: «Ecco cosa intendevo, amici. Questa città è costruita sugli alberi e gli uomini vivono in stretto contatto con i Pokémon che hanno accesso alle loro case. Le prigioni che voi chiamate Pokéball sono inesistenti, a parte per la Leader Alice, e nessuno comanda le altre creature. È il posto che cercavo da molto tempo!»
I ragazzi guardarono ammirati la città. Case sugli alberi, passerelle per andare da una all'altra, Pokémon che entravano e uscivano dalle finestre aperte... strabiliata, Belle mormorò: «A Isshu non c’è una città così meravigliosa.»
«Nemmeno a Kanto se è per quello.» aggiunse Raphael, lasciando perdere per un momento il malumore da gelosia con quello spettacolo davanti agli occhi.
«A Johto menchemeno.» borbottò Castiga.
«E a Sinnoh?» chiese Cheren
Gli altri lo guardarono, senza saper rispondere. Castiga vide lo sguardo spaesato di tutti e disse: «Nessuno di noi è mai stato a Sinnoh… la mettiamo come prossima meta, ragazzi?»
«Un tour a Sinnoh… magari a caccia di medaglie, tutti insieme, come abbiamo fatto a Isshu!» esclamò Belle, felice al solo pensiero di ripartire in viaggio con loro, di nuovo.
«La Lega in gruppo!» aggiunse Cheren e i cinque amici scoppiarono a ridere.
Ricomponendosi, cercarono un posto dove dormire. Era quasi buio e dovevano riposare. La mattina dopo ci sarebbe stata la rivincita. N e Castiga si arrampicarono in cima all’albero per parlare. Non era per stare da soli e fare qualcosa che non avrebbero dovuto, ma solo per parlare, in amicizia, quella che avevano consolidato nel castello del team Plasma. Un sentimento forte che li avrebbe legati per sempre. Sedettero su un ramo alto. N le mise un braccio intorno alle spalle e lei lo strinse intorno alla vita. Si volevano un mondo di bene perché avevano molto in comune, poiché trattavano meglio con i Pokémon che con gli umani e avevano le stesse idee. Solo che N era più rivoluzionario. Ed erano molto, ma molto legati. Nemmeno loro sapevano perché, ma quel legame, nato da una rivalità, era sbocciato in una splendida e duratura amicizia.
Si raccontarono un po’ di tutto, felici di essersi ritrovati. Soprattutto per N. Lui era un ragazzo molto solo, non riusciva a trovare amicizie negli uomini, tranne che con lei. E lei era felice di poterlo aiutare, di poter essere la cura alle sue lacrime. Ridacchiando, Castiga fece un cenno a Wargle che le portò una scacchiera. Con un sorriso di sfida, lei chiese: «Sai giocare a scacchi, N?»
«Sì, certo.» rispose lui, intuendo il motivo della domanda.
«Facciamo una sfida preliminare e decidiamo chi muoverà per primo domani?»
«Andata.»
A notte inoltrata, la ragazza rientrò nella stanza che divideva con Raphael; un voce, dal buio, chiese: «Dove sei stata?»
«Fuori con N. Come mai sei ancora sveglio?» rispose lei, rivolta all’oscurità, sapendo che lui era lì da qualche parte.
Raphael accese la luce. Con lo sguardo di uno parecchio arrabbiato e il tono di voce tagliente, chiese: «E cosa avete fatto?»
Lei vide la luce della gelosia brillare nei suoi occhi. Ricambiando lo sguardo, rispose: «Abbiamo parlato.»
«Quattro ore a … parlare. Sulla cima di un albero.» ringhiò lui, assolutamente convinto che si fossero nascosti per non avere un pubblico indiscreto che potesse smascherare il tradimento in pubblica piazza.
«Sì, a parlare. Perché, non mi credi?» chiese invece lei, cominciando a seccarsi vista la sua insistenza.
«Non sto dicendo questo...» cercò di salvarsi lui, ma Athena non lo lasciò arrampicare sugli specchi e sbottò: «Non direttamente, ma lo stai insinuando. Si può sapere che cos’hai contro di lui?»
Raphael batté la mano sul tavolo, alzando la voce; quella domanda aveva toccato un nervo scoperto che lo fece infuriare: «Cos’ho contro di lui?! Ti rendi conto che… che maledizione sembra che sia il ragazzo più figo di questa terra! N di qua, N di là! Parli sempre di lui! Sono... sì, sono geloso di quel damerino!»
«Sei geloso per niente. Siamo solo amici.» cercò di chiudere lì lei quell'inutile discussione.
«Amici intimi...»
Athena perse la già poca pazienza e ringhiò: «Finiscila. Senti, se vuoi vederla così, fa' pure, ma mi chiedo dove sia finita la tua fiducia in me in questo momento! Avevi detto di fidarti, ma non mi sembra proprio.»
Per evitare di farsi controllare dall’ira, Athena prese lo zaino e uscì, sbattendo la porta. Scese di sotto, andò nel bosco, dove appese la sua amaca. E si preparò per dormire, irritata. Raphael invece, guardava torvo la porta con rabbia e tristezza. Lui vedeva in N un rivale, lei stava bene con lui... Perché lei non lo capiva? Vederli insieme era una ferita al suo cuore.
La mattina dopo si trovarono per fare colazione, ma si notò subito un'aria un po' troppo tesa. N cercò di calmare gli animi e disse: «Purtroppo, ho esplorato questa magnifica regione da cima a fondo, ma non vi è uno spiazzo tale da poter contenere lo scontro fra Zekrom e Reshiram… quindi ora, con il teletrasporto di questa elegante Gardevoir, che ha gentilmente accettato di aiutarmi, e del Musharna della giovane Belle, vorrei proporre di andare in uno spiazzo nella regione di Johto. È un posto molto grande, consono per la nostra lotta!»
Belle arrossì sotto lo sguardo intenso del ragazzo e suscitò le ire di Cheren. N, in verità, non voleva far arrabbiare nessuno. Ma i suoi modi sofisticati e galanti colpivano molto le ragazze e ovviamente i fidanzati erano gelosi. Il forte rapporto con Castiga non aiutava e infatti, per colpa sua indirettamente, lei e Raphael non si erano ancora rivolti la parola in tutta la mattinata. Si teletrasportarono accanto alla città di Mogania e lo scontro ebbe inizio. Athena usò tutti i suoi Pokémon tranne Deathkan che cedette il posto a Zekrom. N invece, stranamente, usò gli stessi Pokémon del loro ultimo scontro. Stupita dal vedere Carracosta, lei chiese: «Ehi, non fai più i cambi tattici?»
«I cinque amici che vedrai hanno chiesto se potevano restare al mio fianco e io ho accettato. Nulla in più.»
La lotta cominciò e in breve si trovarono Zekrom contro Reshiram, con la differenza che Castiga aveva ancora Hoshi, indebolita, ma ancora pronta alla lotta.
Lo scontro fu epico: Zekrom e Reshiram erano entrambi molto forti e determinati a vincere.
N e Castiga si guardarono, sorrisero e un lampo passò nei loro occhi: «Vai Zekrom...»
«Per favore, mia Lady…»
«Usa Sprizzalampo!»
«Usa Vampata!»
«ORA!» esclamarono insieme.
Zekrom caricò la coda di elettricità statica e si scagliò come una cometa scintillante verso Reshiram, che nel frattempo aveva incendiato la coda e sparato una fiammata dalla bocca. L’impatto fu tremendo. Si creò uno spostamento d’aria che fece quasi cadere a terra i due allenatori, seguito da un esplosione di proporzioni gigantesche. Si diradò la nebbia e si vide il risultato: Reshiram e Zekrom si stavano affrontando rispettivamente con l’Incrofiamma e l’Incrotuono e nessuno dei due intendeva cedere. Abbinarono, senza l’ordine degli allenatori, i due attacchi con la Vampata e lo Sprizzalampo, creando una nuova esplosione.
Questa volta finirono entrambi KO.
N fece rientrare Reshiram e disse: «A quanto pare siamo pari.»
«No, spiacente, matematico…» rispose Castiga con un sogghigno, facendo rientrare Zekrom e uscire Hoshi: «Due a zero per me, amico!»
N rimase un attimo interdetto, fissando la zebra, poi sorrise e disse: «Dovrò allenarmi meglio a quanto vedo.»
N si avvicinò agli amici che avevano raggiunto la ragazza, per farle i complimenti. Castiga sorrise, davvero contenta, ed esclamò: «Grande incontro, N! Vedo che ti sei appassionato alla lotta!»
Lui annuì di risposta, un po’ imbarazzato, e tutti insieme andarono al centro Pokémon di Mogania, la città più vicina allo spiazzo in cui si erano fermati. Chiaccherando allegramente uscirono dall’ospedale e si fermarono di fuori.
«Che incontro duro!» esclamò Castiga, ancora su di giri per lo scontro che aspettava da tempo: «Se ti alleni ancora un po’ non riuscirò più a vincere, N!»
«È questo il mio obbiettivo, mia giovane amica. Da quando ci avete sconfitti alla Lega Pokémon di Isshu meditiamo vendetta!» replicò lui, determinato a migliorare.
«N che si vuole vendicare! Addirittura!» esclamò lei, facendo la finta stupita.
«Certamente… è sconveniente farsi umiliare, per quanto graziosa sia, da una dama.»
Castiga scoppiò a ridere, deridendolo un po' per la seconda sconfitta subita da una “dama”, e Raphael, seccato da quell’intesa troppo evidente, sussurrò a Cheren: «Ma come parla questo? Sembra uscito da un romanzo...»
«Se i miei modi non vi aggradano, gradirei me lo diceste in faccia.» intervenne N, avendo sentito il commento del ragazzo. Raphael e Cheren sbiancarono di colpo.
N li squadrò con disappunto, poi scoppiò a ridere ed esclamò: «Vedeste le vostre facce in questo momento, miei giovani amici! Sto scherzando, posso capire sia disarmante un diverso modo di esprimersi.»
Cheren annuì imbarazzato mentre Raphael lo guardò con astio; lo stava deridendo davanti a lei; gli stava facendo perdere la dignità davanti a lei.
«Scusa, N!» disse invece Cheren, davvero dispiaciuto di essere stato così maleducato: «Ma parli in un modo un po’ strano!»
«Il fatto che io abbia ricevuto un’educazione consona al mio rango include un linguaggio più elevato di quello del comune volgo.» rispose lui, incassando un commento irrisorio di Castiga stessa: «Vostra Maestà, suvvia, non adiratevi!»
«Non sei divertente.» sbottò lui, non potendo, però, negarle il sorriso.
Cheren si rilassò, ridacchiando, ma Raphael si fece sempre più scuro in volto. Doveva trovare il modo di cancellare quella sua perfezione, di dimostrare che anche N aveva dei dannati difetti.
«Che cosa stai facendo?!» esclamò una voce gelida alle loro spalle.
Castiga la riconobbe subito. Gelò sul posto e si voltò, presa dal panico. Non riuscì a proferire parola, quando vide chi aveva parlato.
«Non si saluta più, Tenente? Sull’attenti! Scattare!»
La ragazza saltò sull’attenti come se l’avesse punta una vespa. Abbassò la testa, mite e sottomessa, e balbettò: «Chiedo p-perdono, signore… non succederà più, signore! Non punitemi, vi prego!»
Belle, Cheren, Raphael e N guardarono l’uomo che stava terrorizzando la loro amica. Era un uomo alto, di circa quarantacinque anni, vestito completamente di nero, leggermente stempiato e lo sguardo d’acciaio. Raphael credette di riconoscerlo da una vecchia foto che ricordava, ma non ne era sicuro.
«Non ci siamo, Athena… che cosa stavi facendo?! Amabile conversazione?! Con delle prede?! Quanto sei cambiata in soli tre anni?! Eh?!» le urlò contro, tirandole uno schiaffo.
Lei incassò il colpo ma non reagì, cosa che stupì non poco gli amici. Balbettando, non sapendo cosa dire, farfugliò: «Io… io…»
«Tu che cosa, ragazzina? Avevo fatto un così bel lavoro… e va tutto in frantumi in così poco tempo? Ma ci penserò io a recuperarti… Riavrò la mia amata Creatura. Non una piccola mocciosa inutile.» sbottò Giovanni, fissandola gelido e tirandole un altro schiaffo: « Dov’è finito il Demone Rosso?! Eh?!»
La prese per un braccio senza che lei potesse rispondere e ringhiò: «Ci penserò io a farla tornare. Vedrai…»
Cominciò a ridere come un ossesso e trascinò la ragazza dentro all’erboristeria di Mogania, dove c’era una delle vecchie basi del Team Rocket.
Raphael cercò di seguirli ma N lo trattenne, scuotendo la testa.
Prima di sparire, la ragazza riuscì a fare un cenno di diniego con la testa, gli occhi tristi e affranti; il messaggio era chiaro: “Non seguitemi, non cercatemi. Andate via.”

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Capitolo 44
*** Capitolo 43 ***


Raphael guardò incredulo Giovanni, quel Giovanni, portare via la sua ragazza, trattenuto a stento da N. Quando i due furono spariti all'interno dell'erboristeria di Mogania, N lo lasciò andare e lui, furibondo, gridò: «Perché mi hai fermato?! Dovevo salvarla!»
N, pacato e mite come sempre, mormorò: «Ragiona: quell’uomo non avrebbe esitato a farle del male e, a quanto pare, lei non avrebbe reagito. L'hai visto tu stesso. Dobbiamo studiare un piano.»
«Ma... ma io devo chiederle scusa!» esclamò invece lui, sconvolto dallo shock: «Io devo parlarle! Quello me la sta portando via, ma io devo scusarmi! Devo dirle che la amo e che sono uno scemo!»
«Cosa vuoi dire?» chiese N, perplesso dalle sue parole.
Raphael deglutì, sentendosi sempre più idiota ma anche in imbarazzo. Dopo un respiro profondo per calmarsi un attimo, spiegò: «Ieri sera abbiamo litigato perché… sì, perché solo geloso del vostro rapporto. E lei si è arrabbiata.»
«Ecco perché non vi siete parlati in tutto il giorno...» borbottò N, mentre Raphael annuiva e riprendeva: «Stamattina ero pronto a fare pace, ma quando è arrivata non mi ha nemmeno guardato, parlando solo con te. E allora…»
«Era proprio questo l’argomento di una nostra conversazione. Immagino saprai che si sveglia all’alba ed è venuta a chiedermi consiglio, perché non sapeva come farti capire che siamo solo amici.»
N prese Raphael per le spalle, guardandolo negli occhi con sentimento: «Ascoltami bene. Lei ti ama, anche se non se ne rende ancora conto e non te l’ha mai detto. Ma non ti tradirebbe mai, neanche sotto tortura. E non lo dico così per dire, ma perché so cosa l’affligge. La sua fedeltà verso di te è assoluta. Te lo ripeto per l’ultima volta, spero tu capisca. Lei ti ama e fra di noi non c’è nulla se non una semplice ma splendida amicizia. Molto forte, sono d’accordo, ma è solo amicizia.»
Raphael rimase sconvolto da quel discorso e dalla sincerità che vedeva trasparire dagli occhi verdi. Si era lasciato trasportare dalla gelosia come uno stupido. Cercando di reagire, di fare qualcosa per essere migliore e degno di lei, mormorò: «Dobbiamo… salvarla.»
N annuì e cercò di dargli un minimo di speranza, dicendo: «E così faremo. Ma ora calmati. Devi essere lucido.»
Lui annuì, pronto anche a dare la sua vita per lei; rabbuiandosi lievemente però, disse: «Dobbiamo dirlo al Generale.»
«Cosa?!» esclamò Belle, inserendosi nella conversazione mentre si asciugava le lacrime versate per il rapimento repentino e improvviso della sua migliore amica: «No, Raphael. Ti ammazzerà! Ti odia, lo sai.»
«Sì e avrebbe ragione. Gli avevo promesso di proteggerla e ho fallito.» sbottò lui, lacerato dal senso di colpa.
N li fissò tutti e poi chiese, perplesso: «Di chi state parlando?»
Raphael prese la parola e spiegò, con un lieve tremito della voce: «Il Generale Surge è una specie di… padre adottivo di Athena. Chiaramente, mi ha odiato dal primo istante in cui ha capito che sono innamorato di lei.»
«Lascia che te lo dica a mia volta… non è una buona idea. Un padre geloso, della figlia femmina per giunta, è un grave pericolo. Soprattutto se gli dici che un pazzo l’ha rapita prendendola a schiaffi.» disse N, seriamente preoccupato per la sua incolumità.
«Aspetta che gli dico che quel pazzo è Giovanni e posso dire addio a questo mondo.» gli rispose Raphael, senza sentire ragioni e prendendo l’Interpoké che Cheren gli stava porgendo.
Gli amici lo fissarono preoccupati e lui chiamò la prof Aralia, facendosi passare il Generale. Spiegò a Surge la situazione e lui furibondo, chiuse la chiamata dicendo: «Se le fa qualcosa… ti inseguirò ovunque, ma me la pagherai, moccioso.»
Il Musharna di Belle andò a prendere il Generale e lo portò dai ragazzi. L’uomo diede solo un’occhiata gelida e furibonda a Raphael, trattenendo la voglia di pestarlo a sangue, poi chiese a Belle e Cheren notizie.
«Scusate…» chiese educatamente N, dando voce alle perplessità dei due ragazzi, nonché alle sue: «Potreste spiegarmi chi è questo Giovanni e cosa vuole dalla piccola Castiga?»
Surge si passò una mano fra i capelli e rispose: «Giovanni è il capo del team Rocket, l’organizzazione della quale Athé faceva parte. Fu lui a volere il Demone Rosso e immagino che ora abbia l’intenzione di farla tornare…»
«Generale, io avrei una domanda. Come ha fatto Castì a diventare il Demone Rosso? Voglio dire… non è cattiva.» chiese Belle, timidamente ma convinta di quel che diceva. Lei era una brava ragazza, l'aveva dimostrato molte volte... non aveva il minimo senso.
«Me lo raccontò lei quando arrivai a Isshu, un po’ di tempo fa. Non la vedevo da molto e finalmente potevo parlarle. E così mi raccontò come tutto ebbe inizio. Finalmente si rendeva conto che Giovanni aveva calcato sulla sua indole aggressiva.» spiegò il generale, per poi raccontare ciò che aveva scoperto.
Tutta la dolorosa e infelice verità.
 
~§~

INTERMEZZO: COME GIOVANNI CREÒ IL DEMONE
 
Athena fu portata via a forza dalla Palestra di Surge da Giovanni. L’uomo era nero di rabbia e camminava veloce, mentre lei gli trotterellava dietro. La fece salire sull’aereo privato e la portò a Mogania, nella base segreta. Giunti nel suo ufficio, la fissò negli occhi e chiese: «Che cosa ti ha fatto quel maledetto, eh Killera? Rispondi!»
Lei lo guardò, seria, e rispose, stupendolo: «Io mi chiamo Athena.»
Giovanni restò immobile un secondo, sconvolto. Poi chiese, convinto di aver sentito male: «Che cosa?!»
«Io mi chiamo Athena.»
«Ti ha insegnato a parlare?!» esclamò, incredulo, mentre la furia gli saliva in corpo come mai in tutta la sua vita.
«Sì, signore. E non solo.» rispose lei, senza mai abbassare lo sguardo, convinta di quel che stava dicendo e di quel che le era stato insegnato.
Cercando di calmare i nervi, Giovanni la interrogò ancora e apprese quello che aveva fatto il generale. L’esatto contrario di quello che lui aveva chiesto.
«Quel dannato energumeno… mi toccherà fare il doppio della fatica.» commentò alla fine, furioso per quel problema in più.
Guardò la bambina, severo e ordinò, indicando una porta: «Tu. Fila in quella stanza e ammazza tutti quelli che ci sono dentro. Subito!»
«No.»
Senza parole, lui borbottò: «Cosa…? Ti stai… rifiutando?!»
«Sì, signore. Il generale dice che è sbagliato uccidere.» rispose lei, pacata, notando però come il tono della conversazione si stesse alzando. Il capo pareva davvero furioso, quasi sul punto di scoppiare a urlare. Pidg la guardava, non sapendo se portarla via o che altro fare.
Fumante di collera, Giovanni la spedì nella sua stanza, senza prolungare quell'assurda conversazione senza senso. Doveva calmarsi e pensare a qualcosa. Non poteva aver perso la sua carta vincente così.
Il giorno dopo, calmo e con un piano in testa, la mandò a chiamare e la fece sedere. Lei lo guardò un po’ ostile, ma sollevata, vedendolo più tranquillo.
«Allora. Da quanto ho capito ti sei divertita ad Aranciopoli, vero?» chiese, con voce quasi suadente.
Lei lo fissò, perplessa da quella strana dolcezza, e rispose: «Sì, signore.»
Giovanni sorrise e chiese, ancora: «E da quanto non uccidi?»
«Da… un po’. Perché?»
«Secondo il mio parere… ti sembra di esserti divertita perché non hai ucciso. Che ne dici di fare un piccolo test. Per vedere cosa ti diverte di più.» propose lui, sempre con questo tono gentile, quasi melenso, incrociando le dita delle mani, posate sul tavolo della scrivania nel suo ufficio.
«Il generale dice che anche se mi diverto non devo farlo.» borbottò lei, tentata ma decisa a non cedere.
«Il generale dice questo perché lui è un debole.» rispose lui, facendole quasi il verso: «È ovvio che i deboli non uccidono e nascondono la loro debolezza nelle regole morali delle quali vanno tanto fieri. Mia piccola creatura, le regole morali che va predicando quello stolto sono state create da persone mediocri, che non avevano il coraggio di fare ciò che vogliono. Noi due invece, possiamo anche snobbare quelle regole, possiamo farne a meno.
Noi siamo forti.
Noi dobbiamo comandare.
Pensaci. Quel giorno, tu eri forte e questo ti ha permesso di salvare il tuo pennuto, di strapparlo da morte certa. Il mio sogno è quello di regnare, di dominare questo mondo di stolti per garantire la sicurezza ai forti e la sofferenza ai deboli. Il mondo non è fatto per persone che vivono nella paura, nel rispetto, nell’…amore.» disse l'ultima parola quasi con disgusto: «Queste persone sono destinate a soccombere. Invece, se tu sarai forte, potrai aiutarmi e insieme, piegheremo il mondo al nostro volere! Basta che seguirai la tua passione; la tua sete di sangue ti traccerà la via. Il resto verrà da sé.»
La bambina non era molto convinta; le piaceva, si divertiva, ma era sicura che Surge le aveva detto quelle cose perché le voleva bene e quindi lei doveva ubbidire e non uccidere. Così Giovanni cambiò strategia: fece leva sul suo orgoglio, ma non prima di averle insinuato il dubbio nella mente. Istruì alcune reclute perché dicessero determinate cose quando lei passava: che Surge ora era felice di essere tornato solo, che lei era solo un peso per lui, che finalmente era libero. Athena cercò di ignorare le voci, non poteva essere vero. Ma il continuo martellare le mise il germe del dubbio in testa. Se era veramente così, forse Surge le aveva detto quelle cose per renderla debole e indifesa al mondo... Giovanni rincarò la dose, cercando di creare un piccolo legame con lei, e, quando la vide al limite della disperazione, tormentata dai dubbi e dalle incertezze, esclamò: «Andiamo, Athena! Non vorrai mica andare in giro e venire additata come una debole, come una mediocre piccola ragazzina. Lo pensano tutti in questa base e sto cominciando a crederci anch'io!»
«No, io sono forte!» esclamò lei, cominciando a scaldarsi, il respiro affannoso e la mano sull'elsa del pugnale.
«E allora dimostrami questa forza! Vai dentro quella stanza e fammi vedere chi sei!»
Con uno sguardo di sfida, la bambina sguainò il pugnale ed entrò nella stanza. Non ebbe pietà di nessuno, seccata dalle insinuazioni di Giovanni e di tutta la base ma anche attirata dalla forza che poteva ottenere con la sua lama. Una forza che la rendeva invincibile, superiore a tutti. Non mediocre. E capì che l’uomo aveva ragione. Niente era così divertente che vedere la gente tremare di fronte a lei, supplicare, urlare. Assolutamente niente. Se Surge non le aveva mai voluto bene, se le aveva detto quelle cose per indebolirla, era ora di reagire. Di mostrare che lei non era inferiore a nessuno. Anche quando era arrabbiata, nervosa, cosa che di solito difficilmente passava, piantare la sua lama la faceva stare bene, la rendeva felice. Presa dalla sua sete di sangue, dopo alcuni giorni che uccideva senza più remore, senza più dubbi, esclamò, per la gioia del suo capo: «Al diavolo Surge, al diavolo le “regole morali”, al diavolo tutto! Io sono forte, imbattibile e mi piace uccidere!»
Giovanni sorrise ma notò che aveva risvegliato qualcosa su cui non aveva un controllo: cercava di tenerla a freno, di fare in modo che non uccidesse casualmente, ma non aveva idea di come punirla, di come renderla ubbidiente. Aveva ancora gli stessi problemi di prima. Necessitava di un freno, qualcosa che la spaventasse a tal punto da renderla completamente ubbidiente. Quando fallì una delle missioni, uccidendo più di chi doveva, la frustò, la percosse, le provò tutte ma notò che le punizioni corporali erano inutili. Lei non pareva sentire il dolore e anzi, sembrava studiare gli effetti sul suo stesso corpo. Cercò il modo di piegarla a lungo, senza successo, ma la fortuna fu dalla sua parte. Un giorno, Athena cadde per sbaglio in un pozzo per lo scolo dell'acqua e l'attacco di panico che ebbe gli diede tutte le risposte. Il buio, quattro pareti e la solitudine... una triade vincente.
Fece costruire una stanza apposita: interamente d’acciaio, nascosta nei sotterranei della base… testò la punizione la volta dopo, quando ovviamente la bambina fece di testa sua, sperimentando chissà che sulle vittime. Quel posto era la sua fine. Il cervello andava in crisi: scatenava pesanti allucinazioni che sfociavano nella psicosi più violenta, facendola quasi impazzire. Si vedeva derisa, tormentata da voci e visioni, e per difendersi si scagliava contro le pareti, gridava, prendeva a pugni i muri fino a spaccarsi le mani. Quando la faceva uscire, le faceva giurare fedeltà, ma lei, esuberante e curiosa di natura, disubbidiva spesso e altrettanto spesso veniva imprigionata. La psicosi progredì, scatenandole allucinazioni uditive anche fuori da quella stanza, provocandole scatti ed eccessi d'ira casuali. Insieme alla sua instabilità psichica, Giovanni calcò sulla rabbia, riuscendo a collegarla con l'omicidio. Solo uccidere riusciva a placarla. E lui sapeva anche che più lei  partiva furiosa, più sarebbe stata crudele e senza pietà.

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Capitolo 45
*** Capitolo 44 ***


«Gli anni successivi la vidi solo per poco tempo e intenta a uccidere come una belva.» concluse amareggiato il Generale, con un sospiro affranto: «Non riuscivo nemmeno più a parlarle. La mia piccola bambina era diventata un mostro. Solo perché quel folle aveva esaltato la sua indole cattiva, nascondendo il buono che c’era in lei.»
«Che c'è!» ringhiò Raphael, furioso dopo aver ascoltato la crudeltà a cui era stata sottoposta la sua piccola pazza: «Che c'è!»
Surge lo ignorò di proposito, ancora furibondo con lui, e N chiese, sia per curiosità sia per calmare le acque: «Pensa che userà ancora il lavaggio del cervello?»
«Non credo… non credo basterebbe….» rispose il Generale, seriamente preoccupato. Athena era cambiata troppo e Giovanni era determinato a riaverla indietro: avrebbe usato qualunque mezzo per il suo fine.
Nel frattempo, Castiga stava seguendo Giovanni nel labirinto di corridoi della base. Gli trotterellava dietro, senza sapere cosa fare o dire. Quell’apparizione funesta del suo passato l’aveva presa in contropiede e lei non sapeva come reagire. Inoltre, sentì il lampo di Zekrom abbandonarla. Non sentire più il suo compagno Pokémon, le mise nel cuore una grande tristezza, un senso di abbandono che la ferì nel profondo.
Giovanni la condusse nel suo ufficio, la fece sedere e cambiò totalmente atteggiamento, lasciando la ragazza sbigottita sulla sedia.
«Piccola Athena…» disse, con un tono quasi affettuoso: «È da molto che non ci vediamo. Perdona i miei modi bruschi ma dovevo far capire a quella gente che con me non si scherza.»
Lei lo guardò lievemente accigliata e chiese: «Come avete fatto a trovarmi, signore?»
Giovanni sperava in quella domanda, ma non lo diede a vedere. Sapeva come comandarla. Era diventato un vero esperto; con un sorriso triste, rispose: «Hai riposto male la tua fiducia. Sono stato a Kanto recentemente e c’è chi ha parlato…»
«Archer e Milas non lo avrebbero mai fatto.» decreto lei, ben convinta di quel che diceva.
«Loro no, hai ragione… ma Maxus, diciamo che non si è fatto pregare. Mi ha rivelato tutto ciò che tu hai detto ad Archer ed è stato facile intuire le tue mosse.»
“Quel maledetto…” pensò la ragazza furibonda: “Così volevi farmela pagare, eh?”
 «Non temere…» disse Giovanni, vedendo la sua espressione truce: «Ti concederò di avere la tua vendetta su di lui.»
«La vendetta…» ripeté lei, quasi gustando quella parola; era da tanto che non si vendicava di qualche torto ed effettivamente, Maxus l'aveva combinata piuttosto grave. Doveva ammettere che ucciderlo sarebbe stato gratificante.
«Sì. Potrai fargli ciò che vuoi…» mormorò lui, suadente: «Tu puoi fare ciò che vuoi. La tua natura è uccidere.»
Athena lasciò perdere le fantasie omicide e, memore di dibattiti con Aurea, disse: «No; sarà anche la mia natura ma uccidere è sbagliato.»
«E’ sbagliato per i deboli… ma noi, noi abbiamo il coraggio di farlo. Per questo noi dobbiamo comandare. Chi non ha questa forza non merita di avere il potere e di vivere. Lo so che ti manca… fa parte di te e non puoi bloccarlo. Ma se vuoi puoi ricominciare… la rabbia guiderà le tue azioni come ha sempre fatto.»
«Non c'è solo la rabbia.» replicò lei, stranita nell'avere una vera conversazione con lui, ma convinta di quel che diceva: «Ci sono anche l'amicizia... e l'amore.»
«Quelli sono sentimenti deboli e impuri.» ribatté lui, quasi con sdegno, sconvolto dalla sua ingenuità e da tutta quella fiducia verso gli altri esseri umani: «Cos’hanno fatto i tuoi amici? Quando non sei più servita loro, ti hanno abbandonata… E l’amore. Quale sentimento più effimero. Colui che diceva di amarti non ti ha dato la minima fiducia. È stato pronto a prendersela con te appena ne ha avuto l’occasione. E non ti ha chiesto nemmeno scusa. Non si è reso conto di essere nel torto. Bella prova di … amore.»
Lei lo fissò, accigliata, e chiese: «Voi come fate a saperlo?»
«No, non ti stavo spiando. Ti ho solo osservata per qualche tempo, per vedere se stavi bene, per proteggerti. E ho fatto bene, visto quello che ti è successo.»
Durante il loro dialogo, entrò nella stanza un Hypno. Giovanni sapeva che la ragazza era cambiata troppo e non era sicuro che i suoi giri di parole avrebbero funzionato. Così fece usare l’attacco Ipnosi al Pokémon, come aiuto. Le si cominciarono ad abbassare le palpebre, mentre lui sussurrava: «Ritrova la tua forza, nella tua indole omicida… solo così ti sentirai completa, solo così sarai te stessa. Non avrai mai nessun tradimento, perché la tua lama saprà sempre dove andare. Abbandonati al dolce sapore del sangue che tu stessa verserai, perché è la tua natura… l’amore, l’amicizia e i buoni sentimenti sono inutili ed effimeri in questa vita… esiste solo il potere e chi è abbastanza forte da tenerlo in pugno.»
«La mia natura…» ripeté la ragazza, in tono vacuo, con lo sguardo assente: «Sentimenti deboli… potere…»
Il ghigno di Giovanni si fece più ampio, mentre incalzava: «Sì, così… l’amore è inutile, è debole, è finto. Un’illusione del cuore.»
«L’amore… è un’illusione…» ripeté lei, ma poi l’immagine di Raphael sovrastò tutto.
Lei sentì vividi sulla sua pelle i suoi baci, le sue dolci carezze, il suo profondo amore e cominciò a ribellarsi all’ipnosi. Lei amava Raphael e sapeva che non era un’illusione. Si ricordò che il ragazzo era stato trattenuto a forza da N, per impedirgli di correrle dietro. Non importava se avevano litigato, si sarebbe risolto tutto. Sarebbe venuto a prenderla e si sarebbero chiariti.
«N-no… l’amore non è un’illusione… e … non è… da deboli…. Io… io… io lo amo, maledizione!» urlò spezzando il contatto ipnotico e riprendendosi di colpo. Sbattendo le palpebre, si guardò intorno, spaesata.
Giovanni ne rimase scioccato. Non avrebbe mai pensato che la ragazza si sarebbe potuta ribellare all’ipnosi.
“Il loro amore è molto forte se è riuscito a cambiarla così. Ormai non è più in mio potere. Dovrò usare il piano B, anzi quello C. Ma prima… l’ultima carta…”
Giovanni le accarezzò il ventre, con fare paterno, e chiese: «E questo allora cos’è? Un pegno d’amore o un parassita che ti fa soffrire? Scommetto che non gliel’hai detto, vero?»
La ragazza guardò di lato, innervosita; i nove mesi erano quasi scaduti e lei da parecchio tempo sentiva i piccoli pugni colpire da dentro… e la piccola creatura muoversi dentro di lei. No, a Raphael non aveva detto niente. Aveva paura, paura che lui la lasciasse. Come aveva fatto il suo vero padre con sua madre.
«No…» mormorò, rosa dai dubbi e dalla pesantezza di quel segreto.
Le aveva fatte tutte per non far vedere il cambiamento. Niente abbracci, non troppi contatti, felpone enormi di due taglie in più... ed era riuscita nel suo intento, tranne che con N. Ma lui, da buon amico, aveva mantenuto il segreto.
«Lo farà.» disse invece Giovanni, con un ghigno e il tono di chi sapeva tutto: «Le tue paure si avvereranno… lui ti lascerà e di certo non puoi dargli torto. A diciotto anni essere padre è uno shock. D’altronde si è ancora bambini, no? Come potrebbe solo pensare di rinunciare alla sua giovinezza per un marmocchio?»
Giovanni stava alimentando la sua paura, buttando legna sul fuoco già acceso. E la ragazza era terrorizzata.
Nel frattempo però, lei pensava all’amore. Ci aveva riflettuto durante quel discorso. Aveva capito che lo amava davvero, aveva capito cos’è realmente quel sentimento chiamato “amore”. Era pronta a buttare via il suo pugnale e a vivere con lui fino alla morte. Era pronta a sopprimere la sua voglia di uccidere per lui. Non poteva cambiare ciò che era e non poteva dire che uccidere non la divertiva, ma avrebbe fatto senza la sua passione.
Per lui.
Ma Giovanni, come una nenia che le opprimeva il cervello, continuava a parlare e a parlare e a parlare… confondendole le idee, mettendo zizzania tra cuore e psiche: «L’amore illude la mente. Anzi, la tua mente ti sta illudendo. Lo sai, è malata e ti ha fatto credere di poter essere amata. Ma guardati. Guarda ciò che hai fatto. Sei una bestia, ragazza mia, e nessuno potrebbe mai amarti. Come potrebbe una persona sana di mente amare un mostro? E come vorrebbe, di conseguenza, allevarne il figlio? Sii sincera con te stessa, è tutta un’illusione. Ti sei autoconvinta che ti volessero bene, ma è tutto fasullo, tutta una finzione. Per una volta in tre anni, ammetti la verità, ammetti che nessuno potrebbe volerti bene. Ti hanno tutti presa in giro e ora sono là fuori che ti deridono. Tu non potrai essere amata. Mai.»
Athena era sull’orlo delle lacrime. Pensava a ciò che stava dicendo Giovanni, sentiva che lei amava davvero Raphael, ma forse l’uomo aveva ragione. La sua mente le aveva fatto tanti scherzi, l’aveva tratta in inganno molte volte, offuscata dalla rabbia.
Il dolore poteva fare lo stesso? Poteva spingerla a credersi amata, pur di non soffrire?
«Un’illusione…» mormorò, ma non era convinta.
Perché avrebbe dovuto illudersi per così tanto tempo?
Si sentì stordita. Il sonnifero era nell’aria, uscito da una provetta nelle mani di Giovanni, ma prima che lei potesse rendersene conto, era già svenuta. Quando si risvegliò, Athena aveva male alla pancia. Non poteva muovere le mani, così abbassò lo sguardo: era tornata piatta, appena gonfia, reduce dalla gravidanza ultimata.
«Il mio bambino…» mormorò, con le lacrime agli occhi, cominciando a respirare affannosamente dall'ansia: «D-dov’è il mio bambino?!»
Si accorse di avere un legaccio ai polsi, alle caviglie e al torace. Era legata ad una sedia inchiodata al pavimento.
«Giovanni!» urlò, in preda all’ira. Sapeva che era stato lui: «Giovanni! Riportami il mio bambino, maledetto bastardo!»
La porta si aprì. Lui entrò, con il vestito ancora sporco di sangue e, con un ghigno sul volto, salutò: «Buongiorno. Finalmente.»
«Ridammi il mio bambino o giuro che ti uccido con queste mani, maledizione! Ridammelo!» rispose lei, furiosa, dibattendosi sulla sedia nel tentativo di liberarsi dalle corde.
Il ghigno dell’uomo si allargò, mentre rispondeva: «Non credo proprio.»
Athena cercò di liberarsi, nera di rabbia, ma le catene erano troppo robuste. Il suo sguardo, solitamente spento, era acceso dal fuoco dell’antica rabbia assassina.
«Questo bambino mi servirà.» proseguì Giovanni, con quel sorriso sempre più largo sul viso: «Io diventerò il padrone del mondo e lui sarà il mio erede. Naturalmente, tu mi aiuterai.»
«Vai al diavolo! Non mi userai mai più! Se dovrò uccidere qualcuno, sarai tu, e tu soltanto!»
«Le ultime parole famose… ma se tu non collabori, quel piccolo esserino mi serve a poco. Non ho voglia di allevare un altro marmocchio.»
Giovanni tornò alla porta, con un ghigno crudele, e disse: «Mi toccherà ucciderlo. Ma non importa. D’altronde, ci sono tanti bambini in giro.»
L’uomo uscì, mentre Athena realizzava ciò che aveva detto.
«Ucciderlo… lo vuole…» mormorò scioccata, per poi perdere la testa: «Maledetto bastardo! Non osare mettergli le mani addosso!»
La ragazza urlava frasi sconnesse, in preda all’ira, l’antica ira omicida che le stava facendo tornare quella sete di sangue, quella voglia di uccidere. Giovanni la lasciò urlare un paio d’ore, poi tornò dentro con un sacco dell’immondizia. Conteneva alcune maglie, ma non era quello che contava. Era la forma.
«Ecco qui.» disse, mostrandole il rigonfiamento nel sacco: «Ora devo solo liberarmi del corpo.»
L’uomo uscì appena in tempo. Athena si liberò, trovando la forza nell’ira animale che la stava dominando, e attaccò, estraendo il pugnale. Giovanni chiuse la porta e la lama si conficcò nel legno.
Mentre andava a prendere la sua vittima sacrificale, l’uomo rideva, gioioso e gongolante: «È stato troppo facile convincerla. Che ingenua, la mia piccola Killera. Sempre la solita, piccola, irritabile ingenua. Che è in mio potere solo grazie alla rabbia.»
Arrivò nei sotterranei, dove c’erano delle celle. Guardò nella cella comune e disse: «Buonasera, signori. Chi vuole farsi uccidere per primo?»
Athena colpì la porta varie volte, ma era spessa e un misero pugnale non poteva fare molto. Era furiosa, voleva uccidere quell’uomo per ciò che aveva fatto. Giovanni le portò un prigioniero, che lei fece letteralmente a pezzi, prima di capire che non era lui. Il sapore del sangue la eccitò. Uccidere le piaceva. E non voleva più smettere. Quella bella sensazione che sentiva era la prova che tutti avevano fatto finta di volerle bene. Come potevano amare un mostro? Quello che lei era? Impossibile. Era una bestia. Ormai se n’era resa pienamente conto e, anche se le faceva male ammetterlo, era così. Guardò Giovanni, che rideva, felice, guardando i resti della vittima ai suoi piedi.
Tutta colpa sua.
Illusione o no, prima di rivederlo, era felice. Prese la sedia su cui era stata seduta. L’adrenalina che aveva in circolo era talmente tanta che l’arredo sembrava non pesasse nulla. Sollevò la sedia e si avvicinò all’uomo che la guardò un momento interdetto, perplesso da ciò che stava facendo.
Avvicinatasi a Giovanni, alzò la sedia sopra la testa e gliela spaccò sul cranio. L’uomo cadde e lei sbatté a terra i piedi di legno che le erano rimasti in mano. Athena gli montò sopra, mentre lui mugolava, tenendosi la testa. Il sangue usciva da una ferita sulla fronte e lui ebbe paura. Per la prima volta in tutta la sua vita, aveva paura della sua creatura.
Il ghigno passò da lui a lei. Lo fissò, vedendo quegli occhi terrorizzati e mormorò: «Volevi vedermi uccidere, capo? Volevi vedermi folle? Volevi la tua bestia? Eccotela. In prima fila. Non c'è più Pidg a fermarmi.»
Prese il pugnale e colpì. Non si fermò e continuò a colpire, ancora, ancora e ancora, tentando di sfogare quella rabbia, di calmarsi e cercare una soluzione. Ma non c'era una soluzione. Il suo bimbo era morto, Raphael non l'amava... cosa poteva fare? Si fermò solo quando il bracciò cominciò a dolere, il muscolo della spalla a infiammarsi. Quarantasette pugnalate dopo.
Non fermò lì il suo massacro. Dovevano ucciderla per fermarla.
Andò nei sotterranei e trovò i prigionieri, facendo una strage. Sia con il pugnale che con le mani. Era una furia: la forza animale che aveva in corpo, sommata alla mancanza di pietà, era inarrestabile.
Rimasta sola, cominciò a ridere. Una risata vuota, il suo unico rimprovero per essere cascata in quel tranello della sua mente, come una novellina, come se non conoscesse ciò che poteva fare il suo cervello sotto pressione. E aveva perso il suo unico briciolo di umanità... era in quel bambino. Tutto quello che era diventata in quei tre anni era morto con lui. Non voleva più vivere, non voleva più soffrire, non voleva più illudersi. Voleva solo uccidere, divertirsi, un'ultima danza mortale fino al momento in cui qualcuno avrebbe messo fine alla sua misera vita.
Intanto, fuori a Mogania, Raphael, N, Surge, Belle e Cheren fecero un piano di attacco. N, con l’aiuto di Reshiram, aveva spezzato il legame fra Athena e Zekrom, unendo l’anima del Pokémon Nero Ideale a quella del Pokémon Bianco Verità. In questo modo sarebbero stati entrambi immuni alle sofferenze umane. Avrebbero applicato il piano di salvataggio la mattina dopo.
Ma arrivarono tardi.
Quando penetrarono nella base segreta, videro solo cadaveri lungo la strada. Intravidero una stanza, con la porta scardinata e, sulla soglia, disteso sul pavimento, il corpo di Giovanni, talmente massacrato da essere quasi irriconoscibile.
Belle nascose il viso tra le mani e Cheren la strinse. N si rattristò e Surge scosse la testa, affranto. Raphael non ci badò nemmeno. Cercava lei e solo lei. Arrivarono nell'ufficio di Giovanni e la trovarono: seduta sull’enorme tavolo che giocava con il suo pugnale.
Athena li sentì entrare, ma ormai non era più in grado di intendere e di volere. E nemmeno di riconoscere i suoi amici. Quelle erano altre illusioni, un gioco della sua mente. Solo illusioni che volevano farla impazzire. Come potevano essere loro? Se n'erano andati, l'avevano lasciata al suo destino perché in realtà non le volevano bene come credeva. L’unica cosa importante era uccidere o farsi uccidere. Smise di giocare con il pugnale e lo afferrò per l’impugnatura, posando il pollice sulla lama: la sua classica posizione di attacco che il generale riconobbe. Si mise davanti ai ragazzi, vedendo quello sguardo. Era di nuovo quello che lui si ricordava. Lo sguardo di un animale assetato di sangue.
«Quel pazzo le ha fatto qualcosa.» mormorò, per far capire ai ragazzi che dovevano stare attenti, che quella non era Castiga ma il Demone Rosso: «È fuori controllo.»
Quasi non riuscì neppure a finire la frase, che lei scese dal tavolo, ridendo, con il pugnale in mano e una voglia matta di ucciderli. Surge si preparò ad affrontarla, ma Raphael lo spostò con una gomitata e guardò la ragazza.
«Andiamo, Athena… non mi riconosci? Sono Raphael!»
Lei non si fermò, né accelerò il passo. Ma si avvicinava, lentamente e inesorabilmente, con gli occhi fissi su di lui e un ghigno assassino, mentre mormorava: «Illusioni, illusioni… sono tutte illusioni…»
Raphael le tese la mano, per cercare di stabilire un contatto, ma lei prese un piede della sedia, che si era tenuta per massacrare i prigionieri, e glielo sbatté violentemente sul polso, spezzandolo di netto. Il ragazzo si prese la mano, con le lacrime dal dolore, inciampò e cadde. Lei gli montò sopra, per tenerlo fermo, inchiodandogli la testa al suolo, con il gomito sul mento. Lui, nonostante il dolore lancinante al polso, la guardò negli occhi con affetto, la pace nel cuore, e disse: «Athena, perdonami. Non avevo capito nulla. Ma ora sono sicuro, sono convinto. Io ho davvero fiducia in te.»
Lei, che aveva alzato il pugnale per colpirlo, si fermò. Quelle parole avevano avuto effetto, così lui proseguì, dicendole tutto quello che voleva dirle: «N è stato convincente, davvero. Mi ha fatto capire quanto sono stato stupido. Io ti amo e ti amerò per sempre, finché la morte non mi porterà via. E se potrò, ti amerò anche dall’aldilà.»
La mano che reggeva il pugnale tremava. Raphael poteva vedere nei suoi occhi quella guerra interna: cuore contro cervello.
Ma prevalse il più forte. Il cuore, ancora ferito, cessò di combattere.
Lei menò il fendente, preciso, verso il petto dell’unico ragazzo che avesse mai amato.
Il cuore si ribellò, un’ultima volta, con un disperato gesto di amore.
A pochi centimetri dal costato di Raphael, Athena deviò il colpo e si piantò il pugnale nel petto. La lama penetrò del tutto, finché la guardia non si fermò, bloccata dallo sterno.
Con un gemito, la ragazza cadde al suolo.
Raphael, sconvolto, cercò di sostenerla, prendendola in braccio e tenendole la testa, implorando: «Resisti! Ti portiamo in ospedale, resisti maledizione!»
Le strappò di dosso la maglia, per farla respirare meglio e vide il sangue sgorgare copioso; con le lacrime agli occhi, disperato, gridò: «Io ti amo! Non posso vivere senza di te! Ti prego, non lasciarmi! Ti guariremo, vedrai! Vinceremo la maledizione di quel pazzo, ma tu resisti!»
Lei sorrise, cercò di dire qualcosa, ma il suo respiro divenne presto un rantolo soffocato. Con ancora quel sorriso dipinto sul volto, chiuse gli occhi. Il suo respiro si indebolì sempre più. Debole… sempre più debole…
Cheren, Belle e Surge si avvicinarono preoccupati, ma, N li anticipò: corse verso Raphael e lo spinse via; prese in braccio la ragazza e fischiò, schivando un pugno in faccia dell’amico.
«Mettila giù, N! Potresti ucciderla!» gridò lui, cercando di afferrargli un braccio.
«È troppo tardi.» rispose il ragazzo, liberandosi dalla presa.
Il soffitto tremò. Comparve una breccia e Reshiram planò nella stanza. N le saltò in groppa e il Pokémon bianco prese il volo.
Raphael cercò di fermarli, aggrappandosi alla coda della viverna, ma lei la sbatté e il ragazzo cadde al suolo, con un gemito.
N e Reshiram svanirono all’orizzonte, seguiti da Zekrom, mentre Raphael, ancora in terra, gemeva: «N… riportamela… la salveremo… vivrà… con me… per sempre… Non è tardi… non è mai troppo tardi…»
Non aveva nemmeno le lacrime per piangere. Il suo dolore era immenso, oltre le lacrime, oltre qualunque cosa.
Girando lo sguardo, vide un vetro.
Affilato, letale.
Sarebbe finito all’inferno.
Il suicidio è peccato.
L’avrebbe raggiunta.
Prese il vetro e lo fissò. Ma prima che potesse piantarselo nel collo, Cheren intervenne e gli bloccò il braccio, dicendo: «Fermo, Raphael! Cosa vuoi fare?!»
«Lasciami! La raggiungerò! Andrò con lei! Lasciami!»
«No! Sta’ fermo! Belle, prendi quel vetro!»
Belle si avvicinò titubante e lo disarmò ma Raphael continuò a lottare, finché la ragazza non disse: «Guardate!»
Cheren e Raphael si bloccarono. Davanti a loro c’era Cobalion, che disse, con la voce mentale spezzata dal dolore: “Sono arrivato tardi.”
«Cobalion?» esclamarono i tre amici, ma lui fissò Raphael e disse: “Tu, umano. Raphael. Seguimi.
Io dovevo proteggerle entrambe, l’avevo promesso, ma purtroppo manterrò la promessa a metà, perché sono stato troppo lento.”
«Protegger…le?» chiese Belle, non riuscendo a comprendere le parole del Pokémon.
Raphael si alzò e seguì Cobalion, che lo condusse in una stanza vuota. Sul tavolo, un fagotto piangeva.
Il ragazzo accese la luce e prese il fagotto. Dentro, avvolta da una vecchia coperta, c’era una neonata, ancora sporca del sangue materno, che strillava. Ma quando lo vide, si calmò.
Belle e Cheren lo raggiunsero. Lei mormorò: «Guarda… Guarda gli occhi.»
Erano della stessa forma di quelli di Athena, mentre in alcuni tratti del viso si vedeva Raphael.
«Ma… l’avete fatto?» chiese Cheren, pentendosi poi della domanda, vedendolo avvampare ma annuire.
«Dove?» chiese ancora e lui rispose solo: «Austropoli.»
Belle fece qualche calcolo e sbarrò gli occhi, borbottando: «Nove mesi esatti fa. E… e tutte quelle maglie larghe. E stava sempre male. E... e… Ma che stupidi!»
Raphael guardò la bambina. Come poteva farla finita, ora che aveva lei?
Tornarono al piano di sotto, con la bimba fra le braccia. Surge era ancora lì, fermo al suo posto. Fissava quella pozza di sangue, con lo sguardo vuoto. A vederlo, si sarebbe potuto pensare che sarebbe rimasto lì così per sempre.
Raphael si avvicinò a lui e lo riscosse, mostrandogli la bambina. Surge guardo lei, guardò lui e gli tirò un pugno nei denti. Poi, fissando ancora quella pozza, cominciò a piangere, crollando sulle ginocchia. Raphael si pulì la bocca, sputando un po’ di sangue, mise un braccio dietro alla schiena del soldato, mentre con l’altro teneva la bambina. Lo aiutò ad alzarsi e lo condusse fuori.
Ritornarono a Isshu con la morte nel cuore, ma una nuova vita tra le braccia. Al porto li accolsero Aurea, Zeus e Elizabeth, ma quando li videro, scortati a vista da Cobalion e senza la ragazza, capirono che qualcosa era andato storto.
Raphael prese da parte la studiosa e la suocera, mentre Cobalion e gli amici badavano alla piccola e a Zeus.
«No…» gemette Aurea, sentito il racconto: «Non può essersene andata…»
Elizabeth non aveva né lacrime né parole, ma si chiedeva come fare, cosa dire a Zeus che la sorella non c’era più.
Aurea ricacciò indietro le lacrime con poco successo e chiese, con voce tremante: «Raphael… Maru?»
«Deve averli N. Si è portato via tutto, quindi immagino li terrà lui.»
La studiosa non resse più e scoppiò in lacrime, gridando tutta la sua rabbia, insieme alla domanda che si stavano ponendo tutti: «Perché? Proprio ora che stava cambiando, che stava diventando una persona migliore… perché?!»
Nessuno sapeva come consolarla, perché tutti erano nel suo stato d’animo. Surge e Raphael peggio di tutti.
Dopo che si fu un po’ ripreso, il Generale portò Elizabeth e Zeus ad Aranciopoli, ma voleva vedere molto spesso la sua nipotina.
Belle e Cheren, invece, rimasero con Raphael. Lui voleva rimediare a quello che aveva fatto alla madre, con la figlia. La crebbe con amore e lei diventò una bambina buona, educata e gentile.
Quando lei compì i tre anni, lui chiese ai due amici di lasciarlo solo. Doveva farcela senza l’aiuto di nessuno.
L’unica eccezione era Cobalion. Il Pokémon Metalcuore si sentiva in colpa. Aveva promesso di proteggerle entrambe e invece aveva fallito. Così andò a vivere con Raphael e la piccola, aiutandolo a crescerla.
Lilith Castiga Grayhowl, ecco come l’aveva chiamata Raphael. E non c’erano più dubbi su di chi fosse figlia: due occhi verdi, ma non il suo verde, un verde più scuro, lo osservavano con uno sguardo intelligente e furbo ogni giorno; i capelli castani, sempre ben tenuti, avevano delle sfumature rossicce che apparivano solo quando erano colpiti dal sole. Li portava lunghi, come lei quando era il Demone Rosso.
Una ragazzina sportiva, che odiava andare all’asilo e adorava giocare con i Pokémon. Dolce e comprensiva di natura, era vivace e piena di vita, ma con un innato sarcasmo e poca inclinazione alla solitudine.
A Raphael sembrava di rivedere Athena.
Quella bambina era la luce del sole.
La luce che andava a dissipare un po’ di quel buio che gli oscurava il cuore.
La luce che riscaldava temporaneamente il gelo di quel cuore perso nell’oscurità.
La luce da sola che poteva curare quel dolore che lentamente gli corrodeva l’anima.

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Capitolo 46
*** EPILOGO ***


{Athena}
 
Buio. Solo buio nella mia mente.
Buio e un’insaziabile sete di sangue.
Buio e rabbia.
Rabbia per aver permesso a quel folle di portarmi via il dono più prezioso che Raphael potesse darmi.
Rabbia perché… mi sono illusa. Ho creduto di poter essere amata, ma una bestia può essere solo odiata.
Chi potrebbe mai amare una bestia?
Giovanni è davanti a me. Mi osserva. Felice.
Il buco nero della sua maledizione non lascia scampo. Ti trascina dentro, sempre, senza possibilità di fuga. È troppo potente...
Mi libero dalle corde, trovando la forza in questa rabbia animale che mi sta lentamente possedendo e gli spacco la testa, lo trafiggo senza pensarci due volte. Lui mi ha rovinato la vita. Una seconda volta.
Mi accanisco su di lui, cerco di sfogare la mia rabbia, ma non serve, non si placa.
Io amo uccidere. Mi piace. Sono una bestia che si è illusa di poter avere una vita normale.
Il mio bambino non c’è più. Lui me l’ha portato via, per sempre.
Il mio ragazzo non mi ama, ora lo so.
Il muscolo della spalla mi fa male, il braccio è stanco.
Così mi fermo.
Voglio ancora uccidere.
Non ho più mio figlio. Non ho più il mio ragazzo.
Ora che ho capito cos’è l’amore, ho perso tutto.
Uccido chiunque mi capiti a tiro, in quel posto. E rimango sola. Con la sola compagnia della mia mente malata e della mia rabbia, verso di me, verso tutti quelli che mi hanno tradita e ingannata; ma c'è anche il dolore. Io amavo Raphael e amavo quel bambino.
Un’accoppiata che mi divora dall’interno, che mi devasta l’anima.
Passa del tempo. Vedo Raphael, Belle, Cheren, il generale e N che mi vengono incontro. Ma io voglio uccidere.
Loro sono un’illusione della mia mente. Sono un’illusione che vuole tormentarmi. Perché dovrebbero venire a cercare un mostro?
Io sono un mostro. Solo un maledetto mostro.
Sono destinata a stare sola. Non sarò mai felice.
Mi avvicino a Raphael, con il pugnale in mano. Combatterò queste illusioni. Non mi piegheranno mai. Non riusciranno ad avere la meglio come è successo in questi tre anni. Ora sono libera.
Lui mi tende la mano, ma gli rompo il polso con un legno. Cade, lo atterro, lo voglio uccidere. Eliminare quell’illusione che alimenta il mio dolore straziante e la mia ira.
Lui mi parla. Chiede scusa. Dice che ha fiducia in me. È un illusione talmente reale che mi confonde.
Il cuore mi dice che lui è reale, che mi sta chiedendo scusa, ma la mente si oppone.
A chi devo credere?
In quegli occhi leggo l’amore, vedo l’affetto e capisco. Lui è reale. Ma non posso fermarmi. Non riesco.
Calo il fendente, preciso, verso di lui. Ma il mio cuore comanda, ora. Riesco a fare la follia che metterà fine a tutto.
L’inizio della fine.
Il pugnale cambia direzione, lo sento penetrarmi nello sterno, sotto la pelle, nel polmone destro.
Sento il dolore percuotermi fin dentro l’anima. Sento il mio corpo cadere, senza forze, e l’urlo di dolore di Raphael. Mi dice di resistere. Mi dice che mi ama.
Voglio dirgli che ora ho davvero capito, che lo amo, ma non riesco a parlare.
Voglio chiedergli scusa per aver permesso a quel folle di portarmi via nostro figlio. Ma non ci riesco.
Sento le forze abbandonarmi e un freddo mi congela perfino le ossa. Fatico a respirare, l’aria non basta nei polmoni. È poca. Troppo poca.
Qualcuno mi solleva, o forse, e la mia anima che sta uscendo dal corpo?
Prima di cadere nel buio più profondo e più nero, vedo una figura bianca davanti a me.
La riconosco senza problemi.
È lui, è venuto a prendermi..
… Pidg…

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