This time won't you save me?

di smilefromhell
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. ***


CAPITOLO PRIMO.

-“Daniel cos’hai intenzione di fare?” la voce di mia madre echeggiò per tutta la casa.
Urlò contro mio padre come non aveva mai fatto.
La mia camera era grande e tutta buia, non avevo il coraggio di uscire da sotto le coperte.
Avevo ormai otto anni ma ero ancora terrorizzata di mettere i piedi giù dal letto quando non c’era la luce. Avevo paura che qualcuno mi prendesse le caviglie e mi trascinasse chissà dove.
Non era nessun tipo di mostro, nessun uomo nero, nessun assassino.
Era mio padre, solo lui.

Quell’uomo che aveva reso la mia infanzia un inferno, quell’uomo che faceva soffrire me e mia madre, quell’uomo che avrei voluto morisse.
E’ troppo pensare così all’età di otto anni? Per me non lo era, lui mi aveva resa così.
Mesi e mesi passati in quella casa, fra urla e rumori, fra sofferenze fisiche e psicologiche.
Pensavo che fossi impazzita a volere la morte di mio padre.
Ora sono qui, una strana ragazza di diciassette anni che ha voluto riempire un diario intero di pensieri che non è mai riuscita a raccontare né alla madre né allo psicologo.
Forse un giorno farò leggere tutto ciò ai miei figli se mai ne avrò, oppure no?
Non lo so, poi si vedrà, ora ti saluto caro Josh, continuerò a scrivere domani se ne avrò il tempo. Grazie di ascoltarmi quando nessuno lo fa.-

“Jacqueline, vuoi smetterla di rintanarti nel tuo mondo? Non esci mai. A proposito, oggi vado a fare shopping, e vorrei che tu venissi con me” disse mia madre irrompendo improvvisamente in camera mia.
“Ma’, lo sai che mi fa schifo fare shopping, e poi si usa bussare” sbuffai.
“Jay, tesoro mio, vorrei solo che tu fossi una ragazzina normale come tutte le altre. Stai sempre tappata in camera a disegnare, leggere e scrivere a quel tuo diario “Josh”.”
“Ma a me piace!” sorrisi in modo irritante.
“Io voglio solo il tuo bene, devi uscire e farti degli amici. Su, ti compro quello che vuoi” alzò leggermente la voce.
Silenzio.
Il silenzio era il mio modo per farla andare via, e così fu.
Sorrisi compiaciuta e posai il mio diario sotto il cuscino.
Neanche il tempo di scendere dal letto che sentii di nuovo il suo passo che si dirigeva verso camera mia, perfetto.
Miss non-so-che-fare-quindi-rompo-a-mia-figlia avrà qualche altra bellissima notizia.
“Ah, comunque stasera esco con un uomo. Ordini la pizza o ti lascio qualcosa nel frigo?” disse frettolosamente, come se volesse andarsene prima che io cominciassi ad arrabbiarmi.
“Non so neanche se avrò fame quindi presumo che deciderò quando sarà ora. Buon shopping e buon appuntamento se dopo non ci vediamo” bofonchiai.
“Come sarebbe a dire se dopo non ci vediamo? Torno a casa per prepararmi, tu dove vai?” si allarmò.
“Pensavo di andare in biblioteca a restituire l’ultimo libro di Harry Potter, nulla di che” mi scocciava quando voleva farsi i fatti miei.
“Okay, ciao” mi mandò un bacetto.
Che palle, un altro tizio da ‘accogliere’ in casa? Ne ha uno nuovo ogni mese, è una cosa insopportabilmente insopportabile.
Ho sempre voluto mamma tutta per me, ma lei si è sempre comportata come se non le importasse nulla di ciò che volevo. Sono gelosa di quegli uomini, molto.
Sospirai.
Decisi di continuare il dipinto su cui lavoravo da una settimana tanto per non pensare a cos’avrei dovuto dire stanotte a quel tizio.
Inquadrai il dipinto con le mani mettendole a forma di rettangolo, come se stessi filmando.
Non era uno dei migliori tra quelli del mio vasto repertorio ma non faceva nemmeno schifo.
Una tigre che lecca la testa del suo cucciolo. Banale ma tenero, dopotutto.
Stavo rifinendo gli occhi del piccolino, quando un rumore improvviso mi fece sobbalzare e tracciai una rigaccia sul muso della tigre.
Porca di una miseriaccia ladra, chi diavolo è che fa questo baccano alle due del pomeriggio?
I rumori improvvisi non hanno mai smesso di scatenarmi agitazione a causa di quello che ho passato tempo fa, ma cercai di scacciare quei brutti pensieri dalla mia mente e provai a vedere come avrei potuto aggiustare il dipinto.
Nulla da fare. Completamente, totalmente, irrimediabilmente rovinato.
Merda, devo buttarlo. Questa tela mi era costata un mese di paghette.
Sospirai una seconda volta e mi rassegnai al fatto che sarei rimasta una sfigata a vita.
Tutte a me.
Mi guardai allo specchio: avevo della tempera schizzata in faccia.
Provai a togliermela con una mano ma mi resi conto dopo che anch’essa era sporca.
Almeno il colore copriva un po’ il mio viso brutto e spento.
Capelli neri, lunghi e lisci senza un taglio preciso. Lentiggini sulle guance. Sorriso spento. Occhi verde scurissimo. Pelle bianca come il latte.
Odiavo tutto ciò.
Sospirai per una terza volta e mi buttai di faccia sul letto.
Mi addormentai di sicuro perché quando riaprii gli occhi erano le sette di sera.
Quel libro non sarebbe mai più arrivato in biblioteca vista la mia straripante dote della pigrizia.
Sentivo qualcosa di strano vicino al braccio, guardai e vidi un bigliettino.
“BUONA SERATA TESORO, BACI MAMMA”
La sua scrittura era brutta e incomprensibile, ma ciò che ogni tanto mi
lasciava scritto era veramente dolce, apprezzavo molto.
Mi riguardai allo specchio: peggio di prima. Occhiaie e tempera seccata in faccia, oltretutto ne avevo lasciata un po’ sul cuscino. Che impiastro che sono.
Decisi di farmi una doccia anche se non ne avevo voglia, successivamente scesi le scale e andai a sedermi sul divano rosso in salotto.
Accesi la televisione.
Fico, stanno dando Jersey Shore.
Stranamente mi annoiavo, quindi decisi di andare ad esplorare il frigo scolorito e pieno di calamite per vedere se poteva offrirmi del buon cibo.
Macchè, niente di niente.
Mi rassegnai e tornai a vedere Jersey Shore.
Erano le undici di sera quando la porta si aprì ed entrò mamma con un uomo messo in tiro. Camicia bianca perfettamente stirata infilata nei pantaloni neri ed eleganti, scarpe lucide che sembrava dicessero apparteniamo-a-un-damerino-del-cazzo, e cravatta rigorosamente a rombi, neanche fosse appena tornato da una conferenza lavorativa.
Sembrava Ken. Denti bianchissimi, occhi azzurri e capelli pieni zeppi di gel unto.
Che schifo, pensai.
“Gabriella, questa è tua figlia?” disse Ken con un’aria da allora-è-lei-la-tua-mocciosa?
“Sì Maurice, lei è Jacqueline” disse mamma tutta felice.
Accompagnai un cenno di capo con un sorriso finto.
Lui mi sorrise. Che sorriso odioso.
“Beh, buonanotte Gabriella, ci sentiamo” disse Ken.
Si diedero un bacio a stampo, poi lui chiuse la porta.
“Andiamo Jay, non è un uomo perfetto? Ha pure un figlio che ha un anno in più di te, potrebbe essere un’occasione per fare amicizia” era evidentemente imbarazzata.
“A primo impatto non mi è piaciuto. E grazie per avermi ricordato che non ho amici” mi alzai e andai in camera mia. Sbattei la porta.
Ogni volta che mamma esce con qualcuno io passo la notte in bianco pensando e ripensando a come sarebbe stato fra qualche settimana quando avrebbe finalmente capito che non è quello giusto.
Mi addormentai, rassegnandomi un’altra volta, perché dopotutto non ne potevo nulla.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. ***


CAPITOLO SECONDO.

“I walk a lonely road
the only one that I have ever known,
don't know where it goes
but its home to me and I walk alone”

La canzone con cui mi svegliavo ogni mattina. Boulevard Of Broken Dreams dei Green Day.
Era la mia canzone preferita ma stranamente cominciai ad odiarla dal momento in cui la impostai come ‘tono sveglia’.
Risi.
Sapevo che impostare la mia canzone preferita come sveglia mi avrebbe portato alla disperata ricerca di qualcos’altro con cui fissarmi.
Cercai la forza di alzarmi dal letto ma non la trovai. Le palpebre erano pesanti come fossero sommerse da chili di trucco, si chiudevano appena provavo ad aprirle.
Alzarmi alle sei del mattino con la consapevolezza che mi sarebbero aspettate sei ore di scuola non mi aiutava per niente.
Raccolsi un po’ della buona volontà che avevo e mi misi a sedere sul letto.
Ripensai a quand’ero bambina e a quanto mi terrorizzava il fatto di avere le caviglie esposte al ‘sotto letto’.
Scacciai tutti questi brutti pensieri dalla mia testa. Lui non poteva più farmi del male, loro gli avevano dato ciò che si merita.
Ebbi un brivido lungo la schiena e scossi la testa.
Decisi di andarmi a fare una doccia fredda; quella mattinata era più pesante del solito e avevo bisogno di lavarmi via di dosso la fiacchezza e tutti quei pensieri cattivi.
Finii doccia e preparativi vari in circa quaranta minuti, dopodiché scesi le scale per fare colazione insieme a mia mamma com’era solito fare.
“Hai davvero intenzione di andare a scuola conciata così?” mi rimproverò.
Alzai gli occhi al cielo.
“I maschi non ci mettono niente a farsi strani pensieri su di te” continuò imperterrita.
Per mia madre, il massimo di pancia che potevo scoprire era un centimetro.
Già due centimetri per lei volevano dire ‘sono qui, venite a violentarmi’.
Le lanciai un’occhiataccia, poi ingoiai l’ultimo boccone del mio toast e mi tirai giù di forza la maglietta.
Volevo tagliare la corda prima di sentirmi l’ennesima ramanzina di mamma-cane-da-guardia, così mi alzai di scatto, afferrai il mio zaino ai piedi del tavolo e corsi verso la porta salutando mamma con un gesto di mano svogliato.
Fuori c’era un’aria migliore di quella che c’era in casa.
Non si vedeva nemmeno una nuvola, come se il sole le avesse cacciate via per mostrare a tutti la sua bellezza.
Sorrisi compiaciuta e mi avviai a passo veloce verso scuola.
Ci arrivai davanti appena svoltato l’ultimo angolo e, come ogni mattina, mi sentii a disagio.
Non perché tutti mi guardavano, affatto, piuttosto per il fatto che nessuno lo fa.
Era inevitabile, non riuscivo a non farci caso.
Una persona normale avrebbe imparato con il passare del tempo, ma io, io no.
Sospirai malinconicamente e con la tristezza dipinta in volto mi avviai verso la classe di trigonometria.
Passai l’intera mattinata disegnando oggetti indefiniti fra gli spazi bianchi nei libri delle noiose materie che avevo quel mattino, quando finalmente la campanella suonò per avvisarci che era ora della pausa pranzo.
Presi freneticamente la mia roba posata con totale ordine sul banco, uscii dalla classe e imboccai il corridoio che portava al giardino della scuola.
Scrutai i tavoli da pic-nic.
Tutti pieni, perfetto.
Odiavo il fatto che le persone mi costringessero inconsciamente ad andarmi a sedere sull’asfalto al sole dove nessuno andava mai a consumare il pranzo, ma la paura di venire rifiutata al tentativo di sedermi vicino a qualcuno superava di gran lunga la vergogna di essere l’unica idiota a mangiare per terra.
Presi coraggio e mi sedetti, appoggiando la schiena al muro.
Scrutavo tutte le altre persone che mangiavano, ridevano, chiacchieravano, si facevano gli scherzi e qualcuno si baciava pure.
Successivamente, il mio sguardo fu attirato da un ragazzo che mi fissava.
Mi fissava come se non ci fosse nient’altro intorno a me, mi fissava insistentemente, mi fissava proprio come si fissano le persone strane.
Distolsi il mio sguardo dal suo per evitare che si accorgesse del mio arrossamento improvviso, e mi misi a guardare i mozziconi di sigaretta per terra.
Cominciai pure a contarli nell’attesa che lui la smettesse di guardarmi.
Sparito.
Quando circa dieci secondi dopo alzai lo sguardo, il ragazzo si era come volatilizzato nel nulla.
Sarà colpa della mia maglietta corta, ipotizzai.
Forse aveva ragione mamma.
Sorrisi.
Faceva veramente caldo nonostante fosse aprile, e io volevo togliermi da lì il prima possibile.
Mi alzai e mi diressi verso il bagno per riempire la bottiglietta d’acqua ormai vuota.
Non avrei mai voluto girare l’angolo, perché appena lo feci vidi quel ragazzo che prendeva qualcosa dall’armadietto.
Mi spaventai e mi girai di spalle.
Il fatto che qualcuno improvvisamente si fosse messo a fissarmi mi spaventava, dopotutto non ero abituata a relazionarmi con le persone e non avevo la minima idea di come ci si dovesse comportare, così pensai che la decisione giusta fosse scappare.
Che genio che sei Jay, più scappi più attiri l’attenzione.
Mi maledissi mentalmente e sperai di non rivederlo più.
Feci tre respiri profondi, cercai un po’ di coraggio e svoltai di nuovo l’angolo dopo esser stata nascosta cinque minuti in uno spazietto fra gli armadietti e la colonna che reggeva il soffitto.
Sbattei violentemente contro qualcuno.
“Mi stai evitando, non è così?”
Era lui.
Arrossii di nuovo e guardai per terra, notando le sue orribili supra viola.
“Non ti sto evitando” dissi senza sforzarmi di alzare la voce per farmi sentire.
“A me sembra che tu stia evitando sia me che il mio sguardo”
La voce di quel ragazzo era così bella, rassicurante, profonda e marcata.
Non seppi più come mentire all’evidenza.
“Forse hai ragione” risposi.
Decisi di guardarlo in faccia o mi sarei resa ridicola ancor di più, e non ne avevo la minima intenzione.
Pelle liscia e luminosa, labbra carnose, capelli castani, sparati e sbarazzini, e due occhi color caramello che rendevano il suo sguardo maledettamente magnetico.
Mi sorrise e io arrossii per l’ennesima volta.
Avevo la seria intenzione di scappare di nuovo ma non ne ebbi la forza.
Quel sorriso aveva la capacità di catturare il mio sguardo e non lasciarlo più andare.
Era perfetto, non seppi che altro aggettivo dargli.
“Ora però sei tu a fissare me” aggiunse poi lui ridendo.
Mi accorsi che era palesemente così.
Mi coprii automaticamente la faccia con una mano per la troppa vergogna che provavo.
Non ebbi il tempo di dire nulla che suonò la campanella.
I corridoi si riempirono di ragazzi che correvano da tutte le parti cercando disperatamente l’aula giusta.
Poi guardai lui, che mi sorrise e si dileguò nella folla.
Sbuffai scocciata.
Questo tipo di cosa succede nei telefilm delle quattro del pomeriggio, non nella vita reale.
Feci spallucce e mi rassegnai perché sapevo che quella sarebbe stata la nostra prima ed ultima conversazione.
Me ne andai in classe strisciando lentamente i piedi per terra.
Passai un’altra ora a disegnare.
Ero completamente sovrappensiero, non era mio solito fregarmene della lezione ma i pensieri che mi affollavano la testa sovrastavano le parole della professoressa.
Quella maledetta campanella mi fece sobbalzare un’altra volta, risvegliandomi bruscamente dal mio splendido sogno ad occhi aperti.
Stavo diventando pigra e disattenta e l’idea non mi piaceva affatto.
Chiusi il mio blocco da disegno senza rendermi conto che il soggetto disegnato era proprio la causa della mia totale assenza in classe.
In quel momento avrei semplicemente voluto andare a casa per rilassarmi mentre mi gustavo il tanto atteso ultimo episodio di Grey’s Anatomy.
Nel cortile davanti all’entrata c’erano un sacco di persone.
Chi aspetta l’autobus, chi parla, chi comincia a studiare.
Cominciai a cercare quel ragazzo in mezzo alla massa di gente.
Lo sguardo si spostava velocemente, il mio cuore era speranzoso di rivederlo con gli occhi posati su di me, il mio cervello si chiedeva perché stessi facendo tutto ciò.
Ebbi un improvviso cedimento di gambe quando lo vidi.
Era lì, anche lui con lo sguardo che cercava qualcosa.
Ad un tratto i nostri occhi si incontrarono.
Lui sorrise, ma io distolsi lo sguardo talmente mi vergognavo di aver permesso ai miei occhi di fargli notare che anche io lo stavo cercando.
Mi diressi quasi correndo verso la strada che mi avrebbe ricondotta a casa mia, quando sentii dei passi di fianco a me.
“Mi prendo l’impegno di accompagnarti fino a casa tua, andiamo pure nella stessa direzione”
Lo guardai e acconsentii con un cenno di capo.
Notai i libri che aveva in mano e vidi con piacere che erano di storia dell’arte.
C’era pure scritto il suo nome, così non sarei stata costretta a rompere il silenzio che tanto mi metteva a mio agio chiedendogli come si chiamasse. Justin Bieber, mai sentito, evidentemente era nuovo.
Eravamo arrivati.
Non avevamo spiccicato una sola parola per tutta la durata del tragitto e cominciai a pentirmi di non avergli chiesto il nome a voce.
Nello stesso momento in cui stavo per aprire il cancello, Maurice e mia madre uscirono di casa dirigendosi verso di me.
Justin si voltò e sorrise a mia madre, poi guardò Maurice.
“Ah, ciao papà”






Mi sto rendendo conto che sto perdendo la fantasia, sono disperata. (?) çç
Comunque, grazie alla mia amica Serena che mi ha suggerito un po’ di idee.
Spero che piaccia comunque, però.
Ciao. C:

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. ***


CAPITOLO TERZO.

Arrossii, ma stavolta era un rosso di rabbia.
Il fatto che lui si fosse fatto sfuggire un dettaglio così rilevante mi dava parecchio sui nervi, ma provai comunque a non sembrare sorpresa mostrando il migliore dei sorrisi che potessi fare in cenno di saluto.
I due si avviarono verso una macchina nera che partì e scomparve dalla mia vista in una manciata di secondi.
Sorrisi anche a mia madre per fingere che andasse tutto bene, poi entrai in casa e andai dritta verso camera mia.
Provavo confusione. Tanta, tanta confusione.
La prima cosa che mi venne in mente fu prendere il mio diario Josh sperando di riuscire a sfogarmi almeno con lui.
Scrivere mi faceva sentire meglio, soprattutto perché nessuno giudicava i miei pensieri o spifferava i miei segreti. D’altronde un diario segreto non avrebbe mai potuto fare queste cose a meno che non fosse capitato in mani sbagliate.
Sciolsi il fiocco rosso che teneva chiuso l’oggetto e poi lo aprii portandolo vicino al mio viso cosicchè potessi assaporare l’odore di pagine vecchie e consumate dal tempo.
Presi una penna a caso dalla tazza delle penne che si trovava sulla mia scrivania e cominciai a scrivere.

-Sembrava andasse tutto bene, caro Josh. Oggi un ragazzo mi ha finalmente rivolto la parola, e indovina cosa vengo a scoprire appena tornata da scuola? Che è il figlio di Maurice.
Si chiama Justin, ed è straordinariamente bello.
Ho paura, però.
Ho paura che per continuare a vederlo debba farmi piacere a forza quell’uomo.
Ho perso il conto di quanti compagni si sia trovata mamma negli ultimi anni, ma sono sicura che lui sia come tutti gli altri.
Lei mi ha promesso che se avesse trovato l’uomo della sua vita ci saremmo trasferite stabilmente senza dover più traslocare ogni otto mesi a causa del suo lavoro.
Mi immaginavo già tutto: un matrimonio perfetto con il padre dei sogni. Un uomo bello, gentile, intelligente, generoso ma soprattutto degno di portare il nome con cui avrei dovuto chiamarlo da lì in poi.
Finora non l’ha mai trovato, ma sembrerebbe che abbia intenzione di prolungare la storia con Maurice.
Per ora escono solo assieme, ma mi fa stare malissimo il fatto che la mia presenza o la mia assenza non gli cambi più di tanto la vita.
Per lui è indifferente, non mi rivolge mai la parola e non mi degna mai di uno sguardo, non chiede mai a mamma di me e si vede, altrimenti cenerebbero a casa con me anziché andare a sperperare soldi nei ristoranti più costosi della zona.
Potrei benissimo cercare di allontanarlo, ma non voglio farlo.
Non voglio, perché si allontanerebbe automaticamente pure Justin.
Il mio primo amico in tutti questi anni pieni di traslochi e problemi non può andarsene via per colpa di capricci personali… a parte il fatto che non sono nemmeno sicura che lui mi veda come un’amica considerando il fatto che le uniche volte che siamo stati assieme abbiamo passato interi minuti a fissarci.
Però mi sorrideva, e questo mi rende felice.
Ha un sorriso bellissimo, sai Josh? Non ne ho mai visti di più belli.
Ha i denti perfetti, le labbra perfette, il suo sorriso non potrebbe ch’essere perfetto, o sbaglio?
Potrei dire la stessa cosa dei suoi occhi, i suoi magnifici occhi castano chiaro che quando vengono illuminati dal sole sembra quasi che brillino.
Oh, e i suoi capelli, i suoi lucenti capelli all’insù che lo fanno sembrare un ragazzino un po’ troppo cresciuto.
Chissà che gel usa. A mio parere usa quello di Maurice, con la differenza che lui se lo sa mettere.
Vorrei vedere una volta come se lo mette, come si passa le mani fra quei capelli sbarazzini.
…-


“Piccola mia, vieni giù che è pronta la cena. Hai passato tutto il pomeriggio in camera tua a fare non so che cosa, stasera passa un po’ di tempo con me” mia madre irruppe per l’ennesima volta in camera mia, era davvero una cattiva abitudine.
“Cinque minuti che metto un po’ di ordine e arrivo” risposi frettolosamente.
Diedi un’ultima occhiata a ciò che avevo scritto e mi resi conto che avevo praticamente occupato una pagina per parlare di Justin.
Il motivo mi sfuggiva, ma quello non era il momento per pensarci.
Richiusi il mio diario con il fiocco rosso e lo riposi ordinatamente sotto il cuscino, poi corsi in cucina al piano di sotto.
“Polpettone?” dissi con tono irritato.
“Pensavo ti piacesse” provò a giustificarsi mia madre.
“Non mi è mai piaciuto, ogni volta ti dimentichi e lo compri, e io ogni volta continuo a ripeterti che mi fa schifo. So benissimo che c’è gente che muore di fame, non cominciare con le tue ramanzine, ma non forzo il mio stomaco a mangiare una cosa che digerisce a malapena. Penso che piacerà di più al gatto dei vicini” mantenni un tono calmo per evitare di far sentire troppo in colpa mia madre, dopotutto prepara i suoi piatti sempre con tanta cura.
Lei mi guardò con aria dispiaciuta, un’aria con cui si guardano le povere ragazzine che cominciano ad avere le crisi adolescenziali e smettono di mangiare da un giorno all’altro per assomigliare alle modelle delle riviste.
Io assolutamente non sono una di quelle, ma levare quell’idea dalla testa di mia madre sarebbe stata un’ardua impresa considerando che io sono magra da sempre anche se mangio pure fuori dai pasti normali.
“Tesoro, se vuoi c’è della pasta avanzata in frigo. Scaldala nel microonde”
La premura di mia madre era una delle cose più belle di lei, ma io non la apprezzavo appieno solamente perché ci ero abituata dopo anni e anni che si comportava così.
Le sorrisi e presi la pasta mettendola poi nel microonde.
La serata fu tranquilla, guardammo un po’ di tv e poi me ne andai a letto.
Mi addormentai velocemente, ero veramente stanca.

“Svegliati Jay” era una voce familiare.
“Mmmmh”
“Jay andiamo, non farti pregare”
“Uff…”
“Per favore”
“JUSTIN CHE DIAVOLO CI FAI SEDUTO SUL MIO LETTO?” gli urlai.
“Sono venuto a svegliarti perché dobbiamo andare a scuola” la sua voce soave mi fece dimenticare la stanchezza del mattino.
Mi alzai, dopodiché lui mi prese la mano e andammo entrambi al piano di sotto.
“Jay, devi sapere una cosa”


“I walk a lonely road
the only one that I have ever known,
don’t know where it goes
but it’s home to me and I walk alone”

Spensi la sveglia tastando dappertutto per trovare il telefono e mi alzai confusa, molto molto confusa.

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