1001 Modi per Fregare la Morte: Manuale per Niubbi

di Subutai Khan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Et voilà, il palcoscenico si riapre ***
Capitolo 2: *** Qualcuno ci ha lasciato le penne ***
Capitolo 3: *** Contemplando il sacrificio ***
Capitolo 4: *** Radiocronaca di un'esistenza che affonda ***
Capitolo 5: *** Necrosi ***
Capitolo 6: *** Le bombe possono far male se te le sganciano in piena faccia ***
Capitolo 7: *** Dialogo mortale ***
Capitolo 8: *** Su, manca tanto poco ***
Capitolo 9: *** Hanno ammazzato Asuka, Asuka è viva ***
Capitolo 10: *** Tiè Shinji, questo è il bocchettone dell'ossigeno che tanto agognavi ***
Capitolo 11: *** Qualcosa si spezza con un gran fracasso ***
Capitolo 12: *** Lacrime ***



Capitolo 1
*** Et voilà, il palcoscenico si riapre ***


Oggi è il 13 luglio 2025.
Fa caldo, come al solito. Non ricordo di aver mai visto, in vita mia, una giornata in cui la temperatura osasse scendere sotto i venti gradi abbondanti.
Mi stiracchio distrattamente nel mio letto. Per mia grande fortuna è estate, oltre che nella realtà dei fatti, anche secondo i calendari.
Non avrei sopportato una giornata di lavoro.
Oltre a essere mostruosamente stanca credo anche di avere qualche lineetta di febbre. Niente di grave, per fortuna, ma abbastanza da stimolare la mia voglia di restare inchiodata al materasso.
Però un minimo di colazione mi conviene farla. Non ricordo più quale dei miei parenti soleva ripetere, a mò di cantilena senza varianti, “sacco vuoto non sta in piedi”. E non aveva torto, c'è da dargliene atto.
Sbuffo un pochetto e combatto tenacemente con quella malefica vocina che mi sussurra di starmene lunga e distesa dove ancora sono, ben lontana da qualsiasi intenzione di attività.
Alla fine vinco.
Mi alzo e mi dirigo verso la cucina, vestita del più classico dei maglioni extralarge e una mano nei capelli.
Me li sono tagliati...
Senza prestarci eccessiva cura mi preparo una tazza di caffellatte e me la porto sul tavolino della camera.
D'accordo, mi sono tirata in piedi ma progetto di passare un altro po' di tempo sdraiata.
E di ricordare.
Glielo devo, ogni tanto.
Mentre sorseggio la deliziosa bevanda butto ogni tanto lo sguardo fuori dalla finestrella. Il sole, come sempre, è accecante.
Los Angeles è davvero una bella città.
Mi ci sono trasferita sette anni fa, ormai. Volevo sparire dal Giappone, culla di ricordi tremendi.
La NERV. Gli Eva. Gli Angeli.
Tutta roba che ha cercato di rovinarmi impietosamente la vita.
E neanche c'era andata troppo lontana.
Ci avevo messo del mio, e neppure poco. Ma ciò non toglie che considero le tre cose sopra elencate come le peggiori maledizioni abbattutesi su di me da venticinque anni che esisto.
E poi c'era Shinji. Uno dei miei colleghi piloti.
Quando è stato sconfitto l'ultimo Angelo sembrava tutto finito, come logica avrebbe voluto.
Invece no.
Io e lui, di punto in bianco, ci siamo ritrovati chiusi in uno stanzino grande quanto il mio bagno, che vi assicuro essere molto... claustrofobico.
Aggiungete a questo, già di per sé nulla di entusiasmante, la mia particolare situazione psicologica: in quegli anni di gioventù spericolata avevo la pessima, pessima abitudine di comportarmi da zitella intrattabile. Altezzosa, scontrosa, rompiballe all'inverosimile.
Un gioiellino, lo so.
La preda più frequente dei miei scatti di furia isterica era, come da buon copione, quel povero ragazzo. Una pecorella timida e riservata, mai sopra le righe e sempre pronto a scusarsi per qualsiasi sciocchezza.
Dio, se ripenso a come lo trattavo solitamente mi sento davvero il peggiore dei vermi.
Di nuovo.
L'inizio, chiaramente, fu un disastro: entrambi pieni di domande sul perché e sul percome eravamo finiti lì, non passò molto tempo prima dell'inizio dei litigi. Lui, inusualmente per il suo carattere, non si limitava a subire ma anzi reagiva con discreta veemenza.
Furono faville, ve lo assicuro.
Volarono parolacce di tutte le nature e i generi ed epiteti irripetibili in qualsiasi altra sede. Io mi prendetti, fra gli altri, della senza cuore e della stronza; lui del coglione e del cagasotto.
Una coppia di geni, posso dire col senno di poi.
Ma, complice anche la stanchezza e la fame per la prolungata permanenza in quel cesso di posto, sopraggiunse un punto di svolta: lui si dichiarò innamorato di me.
E il solo fatto di sentirlo dire, suppergiù, “io ti amo, Asuka” fece scattare una molla.
Improvvisamente, come se fossi stata investita dallo Spirito Santo, capii che razza di persona di merda ero stata sino a quel momento.
O meglio, me ne resi pienamente conto. Perché non è che non sapessi di comportarmi in maniera insopportabile, ma credevo che fosse giusto e sacrosanto dati tutti i problemi che ebbi da bambina con mia madre, la mia matrigna e via discorrendo.
Vedere lui, con quel suo sguardo estatico, che non faceva altro che rimirarmi e che, se avesse potuto, avrebbe leccato dove camminavo... beh, diciamo che ho pensato che si sarebbe meritato innanzitutto un atteggiamento diverso da parte mia, e poi forse una possibilità anche in senso romantico.
Ma tutti i nostri piani di gloria andarono mestamente in fumo.

A hundred days have made me older
since the last time that I saw your pretty face


Oh.
Senza neanche accorgermene mi sono ficcata nelle orecchie le cuffie dello SDAT.
Il suo SDAT.
Quello che usava fino a farlo consumare quando abitavamo insieme.
Lo tengo un po' come una reliquia e raramente mi prendo la libertà di maneggiarlo.
Succede solo quando sono in vena di malinconia, esattamente come adesso.
Perché mi manca, quello scemo.
Mi manca un sacco.
So cosa stanno pensando i più maliziosi: probabilmente sono innamorata di lui, seppur siano trascorsi quasi dieci anni dall'ultima volta che l'ho visto.
Eh sì.
Shinji Ikari è morto.
Ecco, lo sapevo. Adesso scoppierò a piangere.
Stupida Asuka. Non impari mai. Lo sai che quando pensi a quella frase poi esplodi tipo miccetta.

[dieci minuti dopo]

Sniff.
Sono proprio senza speranza.
Frignare come una ragazzina alla prima cotta.
E il bello è che, ogni tanto, mi convinco di averlo superato. Tutta gasata mi dico: “Ma su, è passata un'eternità ormai, non puoi stare così ancorata al passato. Dimenticalo, purtroppo non c'è più e sai che non può tornare. Sì, ce la posso fare”.
Puntualmente il mio cuore mi smentisce. E lacrima disperato. Poveretto, probabilmente cerca di recuperare tutto il tempo in cui l'ho messo sotto una campana di vetro e lo ignoravo totalmente.
Ma chi me l'ha fatto fare di capitolare proprio con lui? Ci sono dozzine di uomini più semplici, più solari, meno complessati. E soprattutto vivi.
Eppure non c'è verso. Non sono in grado di dimenticarlo. Non mi è proprio possibile.
Da quel giorno, nello sgabuzzino in cui eravamo imprigionati, ho avuto un cambio totale: sono passata da Miss Guardate-Quanto-Sono-Forte-E-Potente all'immagine tipica dell'innamorata da film melenso. E il tutto nell'arco di mezza giornata.
Quello sconsiderato mi ha capovolta come un calzino bucato. Da solo, unicamente con la forza di ciò che provava per me.
Ne sento le ripercussioni ancora adesso, a distanza di così tanto tempo.
Maledetto Shinji. Ti rendi conto di come mi hai ridotta?

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Capitolo 2
*** Qualcuno ci ha lasciato le penne ***


Scuoto il suo corpo. Prima con delicatezza, poi sempre più forte.
E urlo. Urlo.
Urlo il suo nome.
In profondità so che non mi risponderà. Ma, come si suol dire, la speranza è sempre l'ultima a morire. Per morire muore, ma le ci vuole del tempo. E io faccio di tutto per darglielo, questo tempo.
Tento tutto quel poco che so di primo soccorso: respirazione bocca a bocca, a cui si aggiunge un involontario piacere un po' carnale; massaggio cardiaco; varie ed eventuali.
Fallisco la prima volta. Persisto.
Fallisco la seconda. Persisto ancora.
Fallisco la terza. Persisto ulteriormente.
Al quarto buco nell'acqua mi arrendo.
Il tutto sotto i freddi occhi del nostro carceriere, nonché suo assassino. La luce che ci impediva di vederlo in volto è scomparsa.
Mi ci vogliono alcuni minuti buoni per realizzare del tutto la gravità e l'enormità di quanto appena successo.
Quel nefasto proposito si è avverato.
Uno dei due ha dato la propria vita per l'altro.
È andata così, ci metterei la mano sul fuoco: quando si è aperta la porta io ero davanti, non ho alcun dubbio in proposito. Poi, appena si sono sentiti dei passi, magicamente ero dietro.
Avevo uno scudo.
E questo scudo è crollato per proteggere me.
Comincio a piangere. Senza strepiti, senza singhiozzi, senza gemiti.
Piango e basta.
Non ho intenzione di dare al suo carnefice la soddisfazione di vedermi a pezzi. Lo sa comunque, ma è una questione di orgoglio personale.
L'immagine si congela così: io, in ginocchio di fronte al suo corpo, che nulla faccio se non esternare l'immenso peso che da poco mi grava in testa con delle dolci lacrime. Lui che se ne sta bel bello, ritto come un fusto, a sogghignare per l'eccellente lavoro appena svolto.
Non ci sarà più un “noi”.
Non ci sarà un felice ritorno a casa, in cui Misato ci abbraccia stile orso grizzly e si commuove nel vederci sani e salvi dopo chissà quanto tempo in cui eravamo mancati.
Non ci sarà un felice ritorno a scuola. Niente sguardi sollevati da parte di Aida, della capoclasse e degli altri compagni. E, se il mondo sta per finire, anche da parte di Ayanami.
Non ci sarà nessun ritorno felice.
Niente.
Tutto morto qui e adesso.
“Bene, metà del mio incarico è fatta. Ora occupiamoci dell'altra metà”. È lui a parlare. La soddisfazione per l'atrocità che ha appena commesso non fa altro che spingermi più in profondità nel baratro.
Credo di stare per raggiungerti.
Poi mi dico di no. Non accetto che finisca così.
Siamo sopravvissuti agli Angeli, pur con innumerevoli danni fisici e psichici.
Non accetto che sia un uomo, uno di quelli che abbiamo protetto a costo della nostra stessa incolumità, a farci finire in simile modo.
Sarebbe troppo umiliante e ingiusto.
Ne abbiamo passate troppe, in tutti sensi, per permetterci di mollare la spugna proprio adesso. Quando la libertà è a un passo.
Allora lascio che tutto il dolore del mio cuore si trasformi in rabbia cieca.
Non è una cosa che mi piace particolarmente, ma è per salvarsi la pellaccia.
Sento il rumore di una pistola che viene ricaricata.
Adesso.
Senza pensare del tutto coerentemente afferro il vassoio su cui c'era il pranzo che abbiamo consumato insieme non più di un quarto d'ora fa.
E, giusto pochi istanti prima che il macellaio possa ripetersi, glielo sbatto in faccia con tutta la forza di cui sono capace.
Non ottengo risultati clamorosi, visto che riesco a malapena a farlo barcollare all'indietro di qualche passo.
Ma basta. Deve bastarmi.
Non demordo e proseguo nell'assalto.
Due colpi. Tre colpi. Quattro. Cinque. Dieci. Venti.
Senza sosta. Senza pietà. Senza rimorso.
Lo voglio morto, questo bastardo.
Alla fine, ansimante, getto per terra l'arma impropria con cui ho infierito su di lui.
Devo ammettere che la fortuna è stata con me: gli sarebbe bastato davvero poco per saldare la presa della sua sputafuoco e piantarmi due proiettili in mezzo alla fronte.
Ma qualcuno deve aver guardato giù, forse impietosito dalle continue prove a cui il fato mi sottopone.
E quindi il risultato è che lui è disteso a terra, in una discreta pozza di sangue, la faccia piagata dai colpi della mia sacrosanta ira.
Spero di avergli spezzato il setto nasale e altre ossa a casaccio. Anche se, naturalmente, non sarebbe che una piccola rivincita insignificante.
Neanche i successivi calci nei fianchi servono a placare la mia insoddisfazione.
La tensione nervosa, cruciale in quei brevi attimi di lotta per la sopravvivenza, se ne va via a piccole dosi, come un veleno che abbandona lentamente un corpo malato.
Mi lascio cadere sul duro pavimento.
Posso respirare, finalmente. E disperarmi in santa pace.
Me ne avete scagliata addosso un'altra, da lassù.
Come potrò comunicarlo a Misato quando le dovrò raccontare?
Cosa dirò ai suoi amici?
Distendendomi sento gli occhi bagnarsi ancora. Credo che non smetterò mai di piangere.
Mi prendo una manciata di minuti per dare libero sfogo alla frustrazione e all'impotenza che ancora sento grandi e pesanti sulla mia schiena, sulle mie ginocchia, sul mio petto.
Però, ora che ci penso, non ho neanche una vaga idea di dove sia esattamente. Per quanto ne so potrei essere nella più profonda cella della NERV, quanto in un posto totalmente sconosciuto. E dubito che mi lasceranno andar via pacificamente.
Quindi tanto vale sfoderare il miglior ghigno da Rambo di cui sono capace.
Schizzo in piedi, una nuova determinazione forte dentro di me. La determinazione di uscire da qui.
Glielo devo. Non vorrebbe che mi lasciassi andare. Non che ne abbia la benché minima intenzione.
Requisisco la pistola. Mi sarà molto utile.
E carico il suo cadavere sulle mie fragili spalle.
Tempo di andarsene.
Ti amo, Asuka. Anche se sei morta.

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Capitolo 3
*** Contemplando il sacrificio ***


Stavolta hanno proprio deciso di benedirmi con tutti i crismi.
Sono fuori. Senza un graffio. E, presumo, senza che nessuno si sia accorto della mia... nostra fuga.
Lei è con me. Nonostante tutto.
Spero che nessuna guardia fra quelle che ho miracolosamente evitato abbia avuto la geniale pensata di guardare per terra e seguire la striscia di lacrime da me generosamente disseminate.
Oh, quando uno dice “credo che non smetterò mai di piangere” difficilmente scherza. Specialmente se tiene a cavalcioni il corpo, ormai un po' freddo, della persona che più ama al mondo.
Sì, sono fuori. Ma niente impedisce a qualcuno di affacciarsi alla finestra, urlare “Ehi stronzetto, torna qua!” e dare l'allarme generale globale.
Meglio mettere più metri possibili fra me e questo posto. Posto che, prendendomi dieci secondi per guardarlo di sfuggita, mi sembra esternamente più anonimo del palazzo dove abita Rei. Dentro poi sembra una base militare più profonda, strutturata e labirintica del Geo Front, ma non sono qui per un saggio su quanto un architetto sa essere malefico.
Via!
Nel correre più veloce che posso, pur ostacolato dal dolcissimo peso che non ho intenzione di lasciare indietro neanche se dovesse costarmi tutti gli arti, faccio rotolare per terra la pistola. Per quel poco che ne so probabilmente aveva pure la sicura inserita, quindi non era niente più che uno scacciacani da usare per le emergenze. Emergenze che, per mia insolita fortuna, non si sono presentate.
Più veloce.
Più distanza.
Di più.
Se mi faccio beccare ora nessuno potrà dire che non me la sono meritata.
A perdifiato. Per stradine, vicoletti e grandi viali.
E ancora. Ancora. Ancora.
Non basta.
Più lontano.
Poi, quindici minuti buoni di corsa dopo, sento i polmoni infiammarsi e la milza implorare pietà in ginocchio.
Sì, direi che può bastare.
Semi-svengo appena girato l'ennesimo angolo dell'ennesima via. Il mio respiro è cortissimo. Totalmente spompato dalla massacrante corsa mi adagio addosso al muro lasciandomi scivolare con lentezza, non prima di aver appoggiato Asuka lì vicino.
Vista appannata. Cuore sotto enorme stress. Cervello che ballonzola nella scatola cranica.
Devo riposarmi o stavolta muoio davvero.
Decido che dieci minuti bastano. E in questo lasso di tempo non faccio nulla: rimango appoggiato dove sono, gli occhi chiusi e il fiato quasi inesistente.
Una mano cade, un po' involontariamente e un po' no, sulla sua gamba destra. Prima sul suo vestito giallo, poi scorre sulla pelle nuda.
Mi sobbalza in testa la balzana idea che il mio calore le possa dare un minimo di conforto.
Piango. Sì, ancora. Non basterà mai.
Se credessi che un essere umano ha una riserva limitata di lacrime sarei probabilmente quasi alla sua fine.
Ora che ho un attimo per riflettere, mentre il corpo cerca di risollevarsi dalla maratona appena sostenuta, mi rendo limpidamente conto di una cosa: non supererò mai questo shock, dovessi campare cent'anni.
Di solito, quando accade qualcosa di tanto tragico, le persone più vicine al caro estinto si prendono un po' di tempo per metabolizzare l'accaduto. Il più delle volte, alla fine, si giunge alla logica, e in effetti giusta, conclusione che la vita conclusasi non è la propria. Ci si scrolla la polvere del funerale di dosso, ci si passa una mano sugli occhi ancora velati e si rizza la testa in avanti, pronti a ricominciare.
Non sarà così per me. Lo so per certo.
Da qualche parte, dentro di me, c'è una voce baritonale che continua a dire come Asuka significasse più del sole e dell'acqua per me. Di come non ci fosse giorno senza che pensassi almeno una volta a quanto speravo in un suo cambiamento. Di quanto fossi disposto a sacrificare il mio scarso amor proprio, il mio asfittico orgoglio, la mia quasi nulla stima di me pur di illudermi di vederla realizzata.
Era un chiodo più che fisso. Era tanto radicato che probabilmente mi era stato piantato in mezzo al petto con un trapano elettrico e saldato col cemento armato.
E no, non è perché la ferita è ancora freschissima. Potrebbe sembrare così ad un punto di vista esterno, ma sono convinto che non mi basterebbe un'eternità per mettermi l'anima in pace.
Pace? Esiste davvero la pace per uno come me?
Uno maltrattato dal suo stesso padre, carne della sua carne? Uno più timido di un porcospino timido? Uno che ha visto morirgli sotto gli occhi la persona che più aveva importanza per lui?
Aspetterò l'arrivo di Babbo Natale, questo dicembre.
Ma adesso è inutile rigirare il coltello nella piaga sanguinante. Avrò tutto il tempo del mondo, una volta tornato fra mura amiche, per meditare il suicidio nella maniera più appropriata.
Mi rilasso.
Dopo un po' sento che le mie funzioni vitali si sono normalizzate. Non ansimo più come un maiale sgozzato, non ho più le gambe molli peggio del burro, non ho più un gong nella cassa toracica.
A posto. Fisicamente.
Mi guardo intorno per dare al mio fantastico senso dell'orientamento un minimo di punto di partenza, giusto per capire dove cavolo sono finito nella mia corsa cieca e disperatissima.
Non riconosco neanche un palazzo che sia uno. Bell'affare. A 'sto punto, con la mia proverbiale fortuna, è possibilissimo che mi... ci abbiano portato a Neo Tokyo-2.
Io come rientro a casa, eh?
Ancora alla ricerca di una risposta vedo una familiare macchina blu parcheggiare a non più di cinque metri dal mio naso.
Vuoi vedere che...
Lo sportello si apre con un cigolio davvero sinistro e scende...
“Signorina Misato! Signorina Misato!” strepito più forte che posso, anche se a questa breve distanza non dovrebbe avere grossi problemi nel sentirmi.
E infatti si gira di scatto dalla mia parte.
Non posso fare a meno di notare che ha delle occhiaie enormi. Deve aver passato sveglia molte delle ultime notti.
“Shinji! Ommiodio! È quasi una settimana che vi cerchiamo!”.
Si avventa velocissima su di me e mi stritola in un abbraccio formato famiglia.
“Signorina Misato, mi strozza così”.
“Oh sì, scusa. Colpa dell'emozione. Dove siete finiti? Come stai? Tutto bene?”.
Orba oltre che ubriacona.
Abbasso la testa, affranto. “No, niente va bene”.
“Come? Cosa? Sei ferito? Asuka è ferita? Cosa c'è? Dimmelo!”.
“La prego, si calmi un attimo. Le racconterò tutto, c'è tempo. Per ora sono in grado di dirle solo che... Asuka...”.
“Ma non sta... dormendo?”.
“Darei la mia stessa vita per far sì che stia davvero dormendo”.
Immediatamente, con la stessa identica foga di prima, si precipita a mò di peso morto su di lei.
Prima le tasta il polso, poi appoggia l'orecchio sul suo petto.
In seguito, come la faina che ha mostrato più di una volta di essere, si accorge dei fori di proiettile.
Infine comincia a sbattere i pugni sul muro, urlando frasi sconnesse sull'ingiustizia e su come tutto questo non sarebbe dovuto accadere.
Non ho la forza di far altro se non guardarla.

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Capitolo 4
*** Radiocronaca di un'esistenza che affonda ***


Piccolo strappo alla regola, visto che desidero rispondere a un paio di recensioni che ho ricevuto: tranquilizzatevi, quadra tutto. Per la questione "ma come, non era Asuka a essere morta invece di Shinji?" so che può apparire strano ma vi ricordo che questo racconto parte con l'intenzione di essere sperimentale, matto e un po' pericoloso (cit.), quindi abbiate fede nel vostro autore.

Odio quest'infinita estate.
Un clima così asfissiante, trecentosessantacinque giorni l'anno, finisce con lo sfibrare chiunque. Anche le super-donne come me, già.
Sono settimane che ogni mattina faccio una fatica matta per alzarmi. E se certi giorni ho la fortuna di poter poltrire, in altri sono obbligata ad alzare il mio adorabile fondoschiena dal materasso a fiorellini.
Oggi sono obbligata.
Lavoro di merda.
E ho pure le mie cose.
Uhm, “lavoro di merda” non basta. Credo che opterò per “giornata di merda”.
In effetti non è solo la mia patetica mansione di segretaria quasi nullo-pagata ma tuttofare in quell'orrendo e puzzolente ufficio a buttarmi così giù di morale.
Anche i litri, neppure troppo figurati, di sangue che ho disseminato per il letto aiutano.
Eh, gli assorbenti di infima qualità. Che gioia portarli sapendo che si romperanno tipo tonno col grissino.
Ma quando dedichi i tre quarti del tuo misero budget mensile ad affitto e cibo non rimane molto per cose più, diciamo, superflue.
Non che la preservazione delle proprie zone intime sia una questione superflua, tutt'altro. È solo che preferisco avere il piatto della cena pieno, o perlomeno non vuoto, piuttosto che dover lavare le lenzuola una volta in meno al mese.
Sistemo come posso quel tremendo macello. Sia là sotto che non.
Vabbè, basta pensieri cupi. Ho una montagna di cose da fare in redazione, non è davvero il caso che mi deprima ancora prima di uscire di casa.
Medito per cinque minuti. Mi piace farlo, mi aiuta a riordinare le idee e a scacciare le infide vocine interne che cercano di portarmi sull'orlo della crisi nervosa.
Poi procedo nella sacra opera di preparazione: doccia bollente, colazione frugale e leggera, vestizione dell'oramai consunta divisa aziendale.
Mi chiudo la porta alle spalle. Salto sul solito pullman, il 582. Arrivo a destinazione in buon anticipo.
E qui indosso la maschera.
Mi si dipinge sul viso, come praticamente ogni mattina da sette mesi a questa parte, il sorriso più splendente di cui sono capace.
Non ho nessuna intenzione di apparire come una persona piena di rimorsi e conflitti. Non sul posto di lavoro, almeno.
Avanzo. Prendo il solito ascensore e salgo al solito piano, il quarantaseiesimo.
Entro dalla solita porta. I soliti saluti di circostanza, caldi come una palla di neve sul grugno, mi accolgono.
Ingoio. Come sempre.
Il tempo scorre con l'usuale, agghiacciante lentezza.
Non è un impiego questo. È una tortura.
Mi tocca apparire gentile, carina e anche un po' oca per evitare qualsiasi possibile problema in questo ambiente, già di per sé nulla di paradisiaco.
Nessuna faccia amica in questo letamaio. Solo sguardi severi o pieni di disapprovazione per l'ultima ruota del carro, cioè me.
Ci dev'essere una qualche maledizione su questo posto visto che è frequentato solo ed esclusivamente da gente frustrata e piena di dolore.
Esattamente come me.
Solo che io faccio almeno lo sforzo di nasconderlo.
Mi costa una fatica indicibile, è vero. Ma almeno non penso di correre il rischio di ritrovarmi col culo per terra e senza l'assicurazione di un risicatissimo assegno in tasca a fine mese.
Darei un dito per poter, una sola volta, aprire la finestra e urlare all'intera Valencia Street quanto schifo mi faccia dover passare otto ore della mia quotidianità in un simile covo di persone malvagie e traboccanti di odio.
“Langley, maledetta lumaca! Questo cazzo di caffè arriva o no?”. Ecco. In tale, ignobile maniera svaniscono le mie manie di grandezza.
Poi, finalmente, la sera arriva sfiancata.
Mentre esco, col morale prossimo al punto di sbarco nel centro della Terra previsto da Jules Verne in uno dei suoi preistorici romanzi, mi chiedo se davvero posso reggere ancora per molto a questo ritmo.
E, come quasi ogni giorno, mi trovo a rimpiangere la mia vita passata.
A dirla tutta neanche allora vivevo nell'Eden: mi trascinavo ancora le scorie di un'infanzia traumatica, mi comportavo da gran stronza e rischiavo di morire su base pressoché giornaliera.
Ma almeno c'era una cosa che, potenzialmente, offuscava tutte queste: non ero sola.
Avevo attorno un sacco di persone che, se non proprio mie amiche, erano almeno interessate a me, foss'anche solo per mero scrupolo o per calcolo. Persone come quel viscido del comandante Ikari e la dottoressa Akagi.
E comunque c'erano delle anime pie che mi consideravano degna di stima. O quantomeno che mi consideravano.
Ripenso, con un sorriso mesto, a Hikari.
A quei due stupidi di Suzuhara e Aida.
A Misato.
A... lui.
Shhhhhhh. Asuka, stai buona e ferma. Non ricadere nel solito, annoso errore.
Sai come finisce se pensi a lui.
Respira, scema. Non farti trascinare anche stavolta.
Giungo, dopo un breve viaggio, davanti all'uscio di casa. Sto per prendere le chiavi dalla borsa quando, neanche mi fosse caduto un fulmine in testa, realizzo: non voglio più andare avanti così.
Il modo in cui sto vivendo ora mi fa vomitare.
Non ne posso più di passare le mie giornate in questo deumanizzante tran-tran fatto di insulti, malessere e nessuna possibilità di svago.
Non ricordo un solo momento in cui non abbia sentito, più o meno forte, la voglia di tornarmene indietro.
Do un fortissimo calcio al muro per sfogare un millesimo dell'enorme disgusto che ho per me stessa in questo momento.
L'impatto è tanto tremendo che il piede decide di non smettere di dolermi, anche a distanza di parecchi minuti.
Probabilmente mi sono incrinata qualche osso.
Ma il dolore fisico, in questo mio particolare caso, agisce da catalizzatore per farmi capire che sì, è ora di darci un taglio. Di quelli belli netti, tanto secchi che il filo finisce con l'attorcigliarsi su se stesso senza possibilità di riattaccarlo com'era prima.
Sono sempre stata una maestra nel farmi del male.
Stavolta, però, lo accolgo come un salvatore celeste.
Perché se devo spezzarmi un piede per arrivare all'ovvia conclusione di voler cambiare vita... beh, allora spero che non guarisca mai.
Rientro in casa zoppicando. E sorrido di gusto.
Nel farlo prendo una solenne decisione: desidero sentire male al piede finché non avrò risolto la mia penosa situazione. Servirà da costante monito.
Il dado è tratto. Ora non mi serve l'arrendevolezza dell'Asuka Soryu Langley venticinquenne. Mi serve il cipiglio dell'Asuka Soryu Langley quindicenne.
Mi risolleverò da questo pantano, lo giuro.
A me stessa. E a Shinji.

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Capitolo 5
*** Necrosi ***


E io che pensavo di essere la persona più sfortunata sulla faccia di questo pianeta.
A quattordici anni ho perso mio padre nel Second Impact, il più devastante cataclisma nella storia dell'umanità. E come premio bonus ho guadagnato una cicatrice che solca il mio busto per quasi tutta la sua lunghezza.
Ho passato gran parte della giovinezza sprofondata nel mutismo, incapace di spiaccicare la più elementare delle parole a causa del ricordo di ciò che mi è successo.
Poi, per fortuna, ho recuperato un po': ho riguadagnato l'uso della lingua, ho conosciuto Ritsuko all'università e mi sono messa con Kaji, inaugurando la nostra prima settimana di fidanzamento con tantissimo sesso sfrenato e senza pensieri.
Avevo anni di inattività di cui rifarmi, mi sembra il minimo.
Beh, posso dire col cuore in mano che tutto questo impallidisce di fronte alle tremende prove che il destino ha deciso di mettere di fronte a due ragazzini di neanche quindici anni.
Asuka Soryu Langley e Shinji Ikari.
Lei è morta. Non so ancora come, ma non le ha sparato di certo uno dei Teletubbies.
Lui è in uno stato che definire “pietoso” è davvero un complimento.
Sono passati pochi giorni da quando li ho fortunosamente trovati quella mattina. Ebbene, è da quel momento che Shinji si rifiuta di parlare e di spiegarmi cosa sia successo, dove sono stati nei cinque giorni in cui sono risultati dispersi e come Asuka sia finita con due fori di proiettile nello stomaco.
Non che gliene faccia una colpa, sia chiaro. Vorrei vedere chiunque, dopo tutto quello che ha già dovuto passare negli ultimi mesi, se riesce a reggere a quest'ennesima mazzata fra capo e collo.
Soprattutto perché il giovane Ikari, per quanto non lo ammetterebbe con me neanche se minacciassi di spezzargli le dita una a una, era abbastanza segretamente innamorato della sua collega. Dico “abbastanza” perché in effetti, a un occhio adulto e allenato, si notava piuttosto bene come lui fosse attratto, di sicuro fisicamente ma conoscendolo anche in un modo più profondo, dalla sua coinquilina.
Solitamente nei film l'eroe, sebbene consumato fino al midollo dalla perdita del suo grande amore, si rifiuterebbe di lasciarsi andare all'oblio.
Ma Shinji, ahilui, non è un eroe. Lo sappiamo bene entrambi.
Shinji è solo un adolescente con già una montagna di problemi alta come il Nanga Parbat. Con un carattere tanto timido che mi chiedo come sia riuscito a non impazzire totalmente sino a questo momento, visti tutti i soprusi e le imposizioni che gli sono piovuti in testa tipo meteoriti. Affetto da quello che Ritsuko chiama “la sindrome del riccio”, in parole povere il trovarsi nella situazione in cui si viene feriti se gli altri ti stanno lontani e si feriscono gli altri se si prova ad avvicinarsi.
Bella roba, vero?
E comunque quel ragazzo è davvero lodevole. Nonostante questo sta facendo una fatica mostruosa per non farsi schiacciare.
Negli ultimi giorni, infatti, ha sostenuto la solita vita cercando, con la forza dei denti e delle unghie, di non mostrare al mondo quel suo enorme ribollire di dolore, disperazione e rabbia. È andato a scuola come sempre, ha sostenuto i test come sempre, è sempre stato lo stesso Shinji a una prima, fugace, superficialissima occhiata.
Molto superficiale, intendiamoci. Solo Ritsuko -totalmente assorbita da quel suo asettico lavoro di scienziata-, Rei -che non saprebbe dire nemmeno se quella roba rossa che ha sulle guance è imbarazzo o ketchup- e il comandate Ikari -gli iceberg sanno guardare la gente in faccia?- non hanno avuto nulla da ridire. Tutto il resto del personale della NERV ha espresso, a più riprese, sconcerto e preoccupazione per l'immenso carico piazzato alla bell'e meglio sulle fragili spalle di quel povero ragazzo.
Il resto dei suoi conoscenti, per fortuna, non sa nulla di tutto questo. È stata fatta spargere la voce che Asuka è tornata per un periodo in Germania dal padre e dalla matrigna, ora che tutti gli Angeli risultano sconfitti. Sarebbe una notizia troppo pesante per i suoi compagni di classe, credo specialmente per la loro capoclasse che so essere la sua migliore amica.
Di cuori ne sono già stati infranti abbastanza, ultimamente.
Io stessa, nonostante ora stia ragionando lucidamente sull'accaduto, in certi momenti mi sento sopraffatta e non posso fare a meno di dare spettacolo. Non che sia mai stata particolarmente empatica o compassionevole, ma davvero quei ragazzi ne hanno sofferte troppe per restare del tutto indifferenti di fronte alle loro disgrazie.
La cosa più triste e straziante di tutta questa brutta faccenda è che Asuka non potrà nemmeno essere seppellita in terreno consacrato, non di certo a Neo Tokyo-3. Le alte sfere NERV, se non addirittura la SEELE, hanno intimato il più stretto riserbo.
Nella migliore delle ipotesi la ficcheranno sotto sei piedi di terra tedesca, quindi al di fuori di ogni possibilità di Shinji di poter almeno andarla a trovare ogni tanto. Nella peggiore le sfigureranno il volto e la getteranno in qualche cassonetto per la spazzatura.
Che ribrezzo.
Farò del mio meglio affinché non profanino in questo modo indegno le sue spoglie.
Mentre prendo una Yebitsu dal frigo mi risulta impossibile non pensare innanzitutto alla fragilità della vita umana, e in seconda battuta a quanto male siamo stati in grado di fare a due ragazzini adolescenti.
Da parte mia ho sempre cercato, per quanto mi era possibile, di alleviare le loro pene ma non sono ancora attrezzata per fare miracoli.
Rifletto su tutte le angherie piovute sopra di loro come fossero pioggia acida: la durezza di una vita militare, la responsabilità inumanamente grande di dover difendere un'intera specie dall'annientamento, gli esperimenti per la sincronia con gli Eva così massacranti.
E noi dello staff adulto la consideravamo semplice routine, roba da affrontare con un sorriso sulle labbra.
Pochissime volte, prima dei fattacci recenti, mi sono chiesta se davvero tutto questo non fosse evitabile, anche solo parzialmente. Se davvero abbiamo solo fatto ciò che era ineluttabile o se invece non abbiamo indugiato in pratiche inutili e non necessarie, magari per soddisfare un macabro senso di potere sull'esistenza altrui.
Dominio sulla vita. Non che alla NERV queste cose non si facciano, dopotutto.
Rei è l'esempio ambulante di ciò.
Rei Ayanami, frutto di lunghi anni di sperimentazioni di quella testa bacata del comandante Gendo Ikari.
Che poi, per quel poco che ne può sapere un ufficiale tattico come me quasi totalmente sconnesso dal reparto scientifico, potrebbero...
Potrebbero...
Omioddio.
Salto come un ghepardo sulla cornetta del telefono e compongo l'ormai memorizzato numero interno della dottoressa Ritsuko Akagi.
TUTU. TUTU. TUTU.
“Pronto?”.
“Ritsuko, sono Misato”.
“Oh, Misato. Per quale motivo mi telefoni? Non è il tuo giorno libero oggi?”.
“Sì sì, ma ho una domanda importantissima da farti. E ti prego, non obbligarmi a puntarti di nuovo una pistola alla schiena per farti rispondere”.
“...”.

[quindici minuti dopo]

Entro senza nessun tatto nella camera di Shinji. Lui, al solito, è sdraiato sul letto con lo SDAT nelle orecchie. Il volume è tanto alto che lo sento sin da questa distanza.
Mi avvicino e lo scuoto un po', giusto per fare in modo che si accorga della mia presenza.
Si toglie gli auricolari dalle orecchie intontito, poi mi osserva con uno sguardo totalmente privo di emozione.
“Cosa c'è, signorina Misato? Le avevo chiesto di non disturbarmi”.
“Lo so e me ne scuso, Shinji. Ma devi assolutamente venire con me, c'è una cosa di cui la dottoressa Akagi deve parlarti”.
“È davvero tanto urgente? Preferirei evitare, se possibile”.
Scuoto la testa con fare greve. Non permetto che ti faccia prendere dall'inedia, ragazzo. Non dopo ciò che ho scoperto.
“Non si può. Avanti giovanotto, preparati. Stiamo per andare alla NERV”.
“Ma...”.
“Niente ma, Shinji. O devo diventare cattiva?”. Il mio tono è di quelli marziali, che ammettono repliche solo da gente rassegnata a morire sul momento.
Sbuffa, evidente la sua totale controvoglia nel muoversi.
Abbi fiducia in me, Shinji. Te ne prego.
Ho fallito una volta ma sto per rimediare.

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Capitolo 6
*** Le bombe possono far male se te le sganciano in piena faccia ***


Tutto questo non ha senso.
Non mi lasciano nemmeno a macerare nella mia fottutissima solitudine, 'sti animali.
Io voglio bene alla signorina Misato. Le voglio bene davvero. Ma certe volte la squarterei con un coltello tanto mi fa girare i cosiddetti.
Mi ha preso di peso dalla mia camera -dov'ero tanto tranquillo a progettare una cosa a scelta fra il suicidio e il lasciarsi morire di sete- e mi ha caricato in macchina, intimandomi di seguirla con lei alla NERV.
Non ci voglio mettere neanche una spanna del naso dentro a quel posto.
Non gli servo più. Me l'ha detto chiaro e tondo quell'orrenda persona che risponde al nome di Gendo Ikari.
Me l'ha detto mio padre. E non era neanche la prima volta, a voler fare i tragici a tutti i costi.
Al termine dell'interrogatorio in cui mi hanno chiesto dove io e Asuka fossimo stati nei giorni in cui ci eravamo eclissati mi ha guardato dritto negli occhi e, con quel suo fare da uomo che non deve chiedere proprio mai, mi ha fulminato con un lapidario “Sei inutile, Shinji”, aggiungendo in seconda battuta “Non sai neanche rispondere a delle elementari domande. Esci da qui, mi hai già fatto perdere troppo tempo”.
Questo è mio padre.
Capirai se non faccio i salti di gioia a farmi trascinare nuovamente lì.
Per cosa poi non ne ho idea. La signorina Misato mi sembrava tutta elettrizzata, oserei dire quasi euforica. Negli occhi le baluginava una strana luce, che mai avevo visto prima, un po' in oscillazione fra lo sguardo di chi ha appena fatto una scoperta da Nobel e quello di chi sa di star facendo una cazzata grande quanto un grattacielo.
Non saprei dire quale dei due aspetti era il più forte. Entrambi sembravano ardere con vigore nelle sue pupille.
Sto con la testa mollemente appoggiata al vetro della Renault Alphine blu che più di una volta ha infestato i miei incubi con l'intenzione di tirarmi sotto a velocità cosmiche.
Ogni tanto do una rapida occhiata alla mia tutrice, tutta presa da quella sua guida definita “sportiva” che a volte penso trascinerà lei, il suo macinino e chiunque abbia la sfortuna di esserci a bordo direttamente al cimitero. Forse mi sbaglio ma ho come l'impressione che ogni tanto tremi impercettibilmente, non saprei se per l'eccitazione di cui già parlavo sopra o semplicemente perché sente freddo a causa del condizionatore della macchina al massimo.
Io sì, ho freddo. Quasi più freddo fuori che dentro.
Come temevo non sto guarendo. Non sto facendo progressi. Non sto facendo passi avanti. Non sto facendo nulla.
Sto solo vegetando. Peggio di una pianta non curata.
Non ho la forza di far nulla con convinzione.
Non rido più di cuore. Non mi arrabbio più di cuore. Non sono più triste di cuore.
Neanche piango di cuore. Nonostante le mie iniziali credenze sì, ho smesso.
Mi sento indurito. Sfinito. Sfiancato.
Da quando lei non c'è più niente ha una parvenza di senso. Niente.
Men che meno io.
Ora dovrei uscirmene con frasi tipo “avrei dovuto esserci io al suo posto”, o stronzate simili.
No, non avrei dovuto esserci io al suo posto. Non avrebbe dovuto esserci nessuno al suo posto, semplicemente.
Saremmo dovuti uscire insieme da quel postaccio. Insieme.
Meglio mano nella mano, ma non avrei preteso così tanto.
Mi sarebbe bastato uscire con lei. E magari vederla sbottare in quella sua maniera così teutonica, così paurosa, così Asuka. Sentirla dire “Baka di uno Shinji! Se fosse stato per te sarei potuta morire lì dentro!”, mentre saremmo stati intenti a fuggire via verso la libertà, mi sarebbe sembrato più paradisiaco di qualsiasi altro rumore la natura o gli uomini sono in grado di produrre.
Perché, per quanto furioso, sarebbe stato un segnale che mi urlava forte “È viva, Shinji. È viva. Non è morta in quell'infame cubicolo di merda e sporcizia. Ce l'avete fatta”.
Sì, è dipeso da me. E sì, sei morta.
Ma sai cosa, Asuka? È stata colpa tua.
Questo ovviamente non allevia la mia condizione attuale ma non sono disposto a darti la soddisfazione di credermi colpevole di quello che ti è successo.
Sei stata tu a ribaltare il tuo stesso desiderio, quello secondo il quale io mi sarei dovuto sacrificare per salvarti.
Sei stata tu a spingermi indietro quando quell'uomo è entrato.
Sei stata tu a esporti davanti e, anche se non l'ho visto lo giurerei, ad allargare le tue braccia come a dire “Prendi me”.
Quindi sognatelo che verrò sulla tua tomba, mi getterò in ginocchio e ti chiederò scusa.
Potrei gettarmi in ginocchio e scongiurarti di tornare. Ma non ti chiederei scusa.
Hai agito di testa tua, come al solito.
...
...
...
Wow. Non do proprio l'idea dell'innamorato ebbro di colpa.
E soprattutto parlo coi morti. Sanità mentale, tornerai a trovarmi ogni tanto?
È che, come ho detto, tutto ha perso di una qualsivoglia importanza. Sento come se il mio cervello e il mio spirito si fossero sconnessi con tutto ciò che mi circonda.
Fisicamente apatico, certo. Ma anche mentalmente oggettivo, così oggettivo da rischiare del fare del male.
Sono diventato più testimone che protagonista della mia stessa vita. È come se avessi la capacità di vedere con occhi totalmente distaccati, o almeno distaccati quel tanto che basta per non gettarmi nella fiera dell'autocommiserazione.
Perché ora so che non ho motivi di rimproverarmi.
Motivi di disperarmi, se mai riuscirò a tornare a quello stadio emotivo per me così avanzato ora, ne ho una lista lunga quanto il regolamento della NERV.
Sempre alla NERV si torna.
“Shinji, siamo arrivati. Alza quel testone dal finestrino”.
Grugnisco un qualcosa che vorrebbe suonare come un “sì” e scendo dalla macchina.
Seguo come un bravo cucciolo la signorina Misato mentre mi conduce da una qualche parte che ancora ignoro. Non riuscirò mai e poi mai a orientarmi qui dentro.
Finalmente paiamo giungere a destinazione quando lei si inchioda di fronte a una porticina, anonima come tutte le sue gemelle di questo ennesimo corridoio.
Bussa piano.
“Avanti, entrate”.
Dentro, come preventivato, c'è la dottoressa Akagi. Vicino al monitor del suo pc, su cui riesco a spiare formule di una complicatezza troppo astrusa per me, c'è un posacenere stracolmo di mozziconi di sigaretta. L'aria sa di catrame.
Si volta in modo compassato, un sorriso di circostanza stampato in volto.
“Bene arrivati. Vi aspettavo. Volete una tazza di caffè?”.
La signorina Misato emette dalla sua bocca un suono ben poco rassicurante, come se i suoi denti stessero sbattendo volontariamente uno contro l'altro.
“Bando alle ciance, Ritsuko. Dì al ragazzo quello che hai detto a me”.
La bionda alza le mani in finto segno di arrendevolezza: “Accidenti Misato, dovresti fare dei corsi per insegnare a spaventare la gente. Sei tremenda”.
“Grrrazie”.
“Purtroppo, Shinji, non ho una sedia da offrirti. Ti sarebbe servita, visto e considerato quello che sto per spifferarti”.
Incredibile. Per la prima volta da che la conosco il tono della sua voce non è quello che amavo definire “metallico e un po' da stronza”.
Giochiccia nervosamente con uno dei diecimila gattini di porcellana che inondano la sua scrivania.
Poi si schiarisce la voce con un colpo di tosse posticcio e finalmente pare cominciare.
“Allora, la questione è allo stesso tempo facilissima e tremendamente complessa. Come ben ricorderai tu e i tuoi colleghi piloti siete stati sottoposti, in vari punti della vostra attività qui alla NERV, a quelle che venivano definite visite di controllo. Non che non fossero tali, ma nascondevano qualcosa in più. Ordini diretti del comandante prevedevano che vi venissero estratti degli esemplari di cellule. Chiaramente parlo solo di te e Asuka, Rei come sai è un po'... particolare”.
“Ci estraevate... delle cellule?”. Dal giorno in cui la signorina Misato ci ha ritrovati sento qualcosa dentro di me che assomiglia vagamente allo spettro di una sensazione. Mi sento confuso.
“Sì. E quando stavate dentro gli Entry Plug durante i test di sincronizzazione non ci limitavano a controllare i vostri tassi armonici, ma registravamo e catalogavamo ogni vostro singolo parametro biologico. In primis era per monitorare la vostra sicurezza, ma anche qui c'era un secondo fine”.
Faccio un passo indietro: “Cosa... vuol dire tutto questo?”.
Sento la mano della signorina Misato che si appoggia alla mia schiena e mi tiene saldamente fermo dove sono: “Ti prego Shinji, sii forte e finisci di ascoltare la storia della dottoressa”.
“Shinji, quello che sto cercando di dirti è che nei database dei Magi e nelle nostre celle criogeniche abbiamo tutti i dati che servono per creare dei cloni perfetti di te e Asuka. Può tornare”.

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Capitolo 7
*** Dialogo mortale ***


Via.
Fatemi spazio.
Fatemi respirare.
Aria.
Esco. Velocissimo. Senza pensarci nemmeno.
Può tornare. Può tornare. Può tornare.
Questo non è possibile. Asuka è morta.
Morta.
Dalla morte non si torna indietro.
È come sfidare Dio a scacchi o a poker con la speranza di vincere.
Non dico di averlo accettato. Ma persino io, l'idiota del villaggio, mi rendo conto che è ineluttabile come le tasse.
Corro senza un perché. Corro dove capita. Corro.
I corridoi di questa odiosissima agenzia segreta sono ancora più intricati, lunghi e difficili del solito.
Sono sconvolto.
In un certo modo ciò ha anche dei risvolti positivi. Vuol dire che so ancora provare sentimenti.
Credevo di essere marcito del tutto, ormai.
Ma l'allucinante agitazione che mi rimbomba nella testa e nel petto non è salutare. Mi sta dicendo che la realtà è sconfinata in un romanzo di fantascienza. Un brutto romanzo di fantascienza.
Che razza di schifezze si celano nei Dogma più profondi di questo posto?
Con che coraggio mio padre e la dottoressa Akagi giocano con la vita umana come se fosse fatta dai mattoncini del Lego?
Con che ambizione si sono permessi di prelevare dei campioni della nostra pelle e di chissà quanti altri organi per le loro porcate da macellai psicopatici?
Con che faccia...mi tentano così?
Non prenderti in giro, Shinji. Sotto alla crosta di disgusto per quanto hai appena scoperto c'è una voglia malata, di quelle da serial killer. Un irresistibile impulso che ti attanaglia le orecchie e ti sussurra, malizioso e suadente: “Cosa aspetti, decerebrato? La puoi riavere. Tutta per te. Sarà il tuo passepartout per il paradiso”.
Mi blocco di scatto. Stremato per la corsa.
E per la lotta fra buonsenso e amore.
L'uno mi dice che tutto questo è malsano, è pazzo, è depravato.
L'altro sostiene invece che non importa quanto io possa strepitare e lamentarmi, resta il fatto che potrei di nuovo avere la possibilità di vederla scuotersi i capelli. Di vederla arrabbiarsi. Di vederla sofferente. Di vederla viva.
Maledizione. Maledizione. Maledizione. Maledizione.
Perché, per una sola volta nella mia cazzo di vita, non sono in grado di essere egoista e di pensare solo per me? Perché non so prendere al volo le occasioni che mi vengono offerte, anche se degne del peggior Mengele? Perché sono sempre così fottutamente indeciso?
Mi appoggio stanco al muro, sfibrato come se avessi sostenuto un'intera maratona quando avrò percorso non più di cinquecento metri.
Devo riflettere.
Non posso decidere col culo.
Ne va di più di un'esistenza. La sua, innanzitutto. E la mia.
Riordina le idee. Respira. Calmati.
Di motivi per rifiutare ne ho un miliardo: tutto ciò, oltre che illecito, è spaventosamente mostruoso. Viscido. Rivoltante.
Di motivi per accettare, d'altro canto, ne ho un miliardo: rivedrei la sua indomabile massa di capelli scarlatti fare capolino dalla sua camera la mattina, all'ora di colazione. Avrei di nuovo la squisita occasione di fare insieme il viaggio da casa a scuola, da scuola a qui e da qui a casa. Potrei di nuovo farmi insultare, col cuore leggero e un bel sorriso soddisfatto.
Avrei di nuovo, a portata di tocco, il mio inestinguibile tesoro.
Avrei di nuovo una spinta per sentirmi vivo. Vivo, e non solo vivente.
Avrei di nuovo Asuka.
E Dio solo sa quanto questo vorrebbe dire, per me e per la disgraziata esistenza che ho trascinato con fatica fino a qui da quell'infausta mattina di due settimane fa.
...
Rifletti.
...
I suoi occhi.
...
Pensa.
...
La sua voce.
...
Soppesa.
...
Il suo intossicante profumo di nord e passione.
...
Sii prudente.
...
Le sue gambe.
...
Sii saggio.
...
Le sue labbra.
...
Sii equilibrato.
...
La sua lingua.
...
...
...
Basta.
La voglio.
La bramo più di quanto un assetato brami l'acqua.
Questa tortura non mi serve. Mi offusca solo lo sguardo verso il traguardo.
Lei, il mio traguardo placcato d'oro e frenesia.
Asuka. Soryu. Langley.
La mia droga.
L'oramai unico mio motivo di vita.
Dov'è l'ufficio di mio padre? Devo parlargli. Devo obbligarlo ad acconsentire all'operazione.
Deve. Deve. Deve.
A costo di fargli firmare un documento col sangue della sua mano staccata.
Mi butto alla ricerca del mio punto d'arrivo, animato da qualcosa che ormai credevo estinto: un obiettivo. Una meta. Un proposito, saldo come la roccia e incrollabile come l'acciaio più temprato.
Ho come la sensazione di essere appena entrato a pieno titolo nella tradizione degli Ikari.
Perché in questo momento sono uguale a Gendo.
Uguale.
E non me ne pento. Per nulla.

Ah, la Commissione mi sta ancora addosso.
Non hanno ancora capito che non c'è verso, per loro, di mettermi al guinzaglio come tanto vorrebbero?
L'Eva 01 è nelle mie mani e solo quel debosciato di Shinji è in grado di farlo muovere.
Stanno cercando di ricondurmi all'ovile, gli illusi. Non hanno compreso nulla.
Il Third Impact si farà, certo. Ma alle mie condizioni.
Vero Adam? Tu sei con me. Non permetterò a nessuno di separarci. Sei uno dei tanti mezzi con cui ho intenzione di portare a termine ciò che mi sono prefissato.
Vedrai, SEELE. E soprattutto tu, Lorentz.
Ti farò mangiare la polvere, maledetto cyborg.
Impegnato come sono in tutte queste elucubrazioni di gloria celestiale faccio fatica ad accorgermi dell'irruzione di Shinji dalla porta del mio studio.
“Che diavolo ci fai qui, ragazzo? Non ti ho mai fatto chiamare”.
Lui sembra accusare il colpo, ma poi si riprende con visibile baldanza.
“Padre, sono qui perché ho una richiesta ufficiale da farti”.
Sbuffo. Che corbelleria vorrà mai sottopormi stavolta? Orari di lavoro più elastici o una paga migliore?
Tuttavia la sua inusuale determinazione stuzzica la mia curiosità. E così decido di ascoltarlo.
“Parla Shinji, ma bada a non farmi perdere del tempo prezioso. Ho una montagna di lavoro da sbrigare”.
Si fa sotto fino a essermi quasi attaccato. Faccia a faccia.
Mi ricorda uno dei famosi primi piani di Sergio Leone, un regista che era tanto in voga quand'ero un poppante.
“Rivoglio Asuka e so che tu puoi ridarmela”.
...
Eh?
No. Quella sconsiderata di Ritsuko non gli ha raccontato tutto. Non può averlo fatto.
Folle.
“Non ho idea di cosa tu stia blaterando. Sparisci”.
Invece di vederlo girarsi con le pive nel sacco, azione del tutto normale dopo un mio così perentorio ordine, si fa ancora più insistente.
“Balle. La dottoressa Akagi mi ha detto tutto. Tutto. So che conservate, da qualche parte nei vostri laboratori, dei campioni dei nostri tessuti. So che siete in grado di ricreare un clone dal nulla. So”.
Sgrano un sopracciglio. Questo è mio figlio? Quell'imberbe senza spina dorsale?
Mi sta meravigliando. Sul serio.
Non che tenga granché a darlo a vedere. Così mi limito a mettermi nella mia classica “posa Gendo”, quella per cui sono famoso in ogni dove.
Sto zitto per qualche secondo. Voglio testarlo.
“Rispondimi. Voglio sentirti ammetterlo”.
Non una parola da parte mia.
“Ti prego”.
Nulla.
“Ti prego”.
Ancora niente.
All'ennesima richiesta a vuoto aggiunge un altro tassello al mio stupore: fa un passo indietro e si inginocchia su una gamba sola.
“Padre. Comandante. Sto calpestando quel poco che resta del mio orgoglio pur di avere la risposta che cerco. Mi prostro di fronte a te pur di ottenerla. Potete farlo, non è così?”.
Assurdo. Shinji sta mostrando un coraggio e una sfacciataggine inconcepibili per uno come lui.
Lo squadro meglio. Il suo volto è saldato al mio.
Non un movimento, non un accenno a tentennare.
Solo sicurezza.
Dove hai nascosto questo tuo lato finora, figlio mio?
Sai che stai rendendo immensamente fiero di te il tuo vecchio?
La sua testardaggine merita un premio.
“Sì. Possiamo”.
Non dà segno di volersi spostare da quella scomoda posizione: “Allora fatelo. Ve ne prego”.
“A che pro? Il pilota Soryu non serve più alla NERV. Gli Angeli sono stati sconfitti tutti”.
In realtà sto mentendo. Temo che la SEELE non digerirà i miei rifiuti ancora a lungo. Potrebbe scatenarci contro un intero esercito.
Ma sono sempre più desideroso di vedere sino a che punto può spingersi.
“Lo so. Lei non serve alla NERV, è vero. Ma serve a me. Senza di lei non posso vivere, padre. La mia esistenza è più vuota di un posacenere appena pulito, e non altrettanto linda”.
Impossibile. Shinji...
Shinji mi ricorda me.
Vedo in lui la stessa immensa, consumante, totalizzante volontà di riavere a sé la persona che ama.
Yui.
Nostro figlio è ormai uguale a me.
So riconoscere un viso innamorato. Mi guardo allo specchio tutte le mattine.
Questo ragazzo ama Asuka Soryu Langley più della sua stessa salvaguardia.
Esattamente come io amo te.
“Farò tutto ciò che vorrai chiedermi in cambio. Piloterò lo 01 fino ai recessi dello spazio, se serve. Ucciderò tutti coloro che ti ostacolano, se serve. Ti farò da schiavetto personale, se serve. Sono disposto a gettarmi via pur di saperla di nuovo fra noi”.
Non ci posso credere. Per la prima volta in quindici anni mi sento felice di essere genitore.
“Non ci sarà bisogno di tutto questo”.
La mia risposta lo spiazza.
Pensavo che non l'avrei più visto così, durante questa discussione.
“La tua richiesta, Third Children, è appena stata accettata”.
Si alza, gli occhi ingolfati di lacrime.
Ma ancora prevale questa sua nuova, strana attitudine.
“La ringrazio, comandante”.
“Vai, ora. Ti faremo sapere quando e dove avverrà il tutto”.
Si volta senza un fiato, racchiudendo in una fugacissima occhiata la grande gratitudine nei miei confronti.
Gratitudine.
Per me.
Da Shinji, che ho sempre trattato alla stregua di una scarpa vecchia.
Il mondo sta per esplodere, non è vero?
Non appena la porta si chiude non posso fare a meno di ridere di fronte all'ironia.

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Capitolo 8
*** Su, manca tanto poco ***


La accarezzo. Come mai ho potuto fare quand'era viva.
NERV. Settore Profondo numero cinquecentonovantaseimiladodici. Galleria Lateralmente Complicata numero quarantasetteeunterzoemezzo.
La dottoressa Akagi ha bonariamente e stranamente acconsentito alla mia bizzarra richiesta: quella di farmi rivedere il corpo di Asuka prima dell'esperimento.
Non so quanto questo esuli dal programma previsto da mio padre, ma in tutta sincerità non me ne frega nulla. Anche perché non credo di star facendo niente di male.
Siamo solo io e lei. Lei Ritsuko. Solo noi vivi, intendo. Dentro queste bare tecnologiche ci saranno probabilmente dozzine di cadaveri, magari di gente prelevata dalla strada che fungeva loro da casa e su cui sono stati condotti le più inumani operazioni di dissezione e rimescolamento degli organi interni.
O forse sto troppo galoppando con la fantasia nera. Neanche questo mi interessa granché.
La accarezzo.
Di solito, in questi casi, si dice “se non avesse gli occhi chiusi non sembrerebbe neanche passata a miglior vita”. Eh già. E il colorito di persona deceduta da quasi una settimana dove lo mettiamo? E i segni dell'autopsia? E quei due cupi buchi circondati di sangue incrostato ce li dimentichiamo così?
Una volta avrei urlato come un agnello sgozzato di fronte a tale spettacolo. Non che adesso lo affronti del tutto pacificamente, ci mancherebbe. È che il mio attuale stato psicologico mi conferisce una sorta di tranquillità rassegnata mischiata alla consapevolezza che questo è solo momentaneo e che, al più tardi fra tre o quattro ore, potrà essere considerato alla stregua di un brutto sogno. Il tutto condito da una punta insignificantemente piccola di vomito.
Spio con la coda dell'occhio Ritsuko. Se ne sta un pochino in disparte, incredibilmente disposta a lasciarmi qualche attimo di privacy con lei.
Non so, in questi giorni ho come visto nascere una persona nuova sotto quel camice da lavoro macchiato di caffè un po' ovunque. Si è trasformata in un essere umano, comprensivo e attento alle altrui esigenze. Ha scoperchiato il suo essere da quella soffocante cappa di scienziata brava solo coi numeri e totalmente negata coi sentimenti. E non solo quegli degli altri, a giudicare come è cambiato anche il suo rapporto con la signorina Misato. Prima erano amiche, sì, ma si trattava di una cosa piuttosto fredda e impersonale. Ora invece escono spesso insieme a fare shopping o solo a bere qualcosa, si confidano, parlano un po' di tutto. Sarei ipocrita se dicessi che mi fa piacere, ma ammetterò che non sono neanche del tutto contrariato all'idea di vederla un po' più aperta al mondo. Devo ancora decidere.
E comunque sono debitore nei suoi confronti, che mi garbi o no. Vero anche che c'è voluto un po' di incoraggiamento da parte di Misato, ma ciò non toglie che sia stata lei a rivelarmi quello che ora attendo con ansia.
Stai per riaprire gli occhi, amore. Non proprio tu, d'accordo, ma a me sta bene lo stesso.
“Shinji, sei al corrente di quel che ti serve sapere?”.
Prima di risponderle mi prendo il mio tempo: traccio con un dito le ferite sul suo ventre e le regalo il mio sguardo più triste, più malinconico e più affranto.
Sussurro piano “saremo presto di nuovo insieme, Asuka” portando le labbra vicine al suo freddo orecchio. Dopodiché muovo la testa e le stampo sulla fronte scoperta un bacio ricolmo di affetto. Rimane una piccola pozzanghera di saliva a testimoniare il fatto.
“Certo dottoressa, il suo briefing è stato esauriente come al solito” le rispondo volgendo lo sguardo nella sua direzione.
Uhm.
È incertezza quella che vedo?
“E sei comunque sicuro di voler proseguire?” chiede ancora, con il respiro leggermente affannoso.
“Beh, sì. Certo. Non mobilito mezza NERV per quello che, in fondo, è un mio capriccio e poi mi tiro indietro all'ultimo minuto”.
Un istante di tremolante silenzio.
“Dottoressa, sta bene? Sembra scossa”. Mi meraviglio di questa mia domanda.
Tira fuori una mano dalle sue ormai consunte tasche e se la passa sulla fronte. Il suo atteggiamento non è propriamente rassicurante. Sembra come preda di piccole convulsioni.
“Sì, sto bene. È solo che...non so spiegarmi, ma ho come la sensazione...no, nulla. Ascolta Shinji, ti ricordi anche quello che ti ho detto riguardo la sua memoria?”.
Ancora? Credo che potrei ripeterlo meglio del testo della mia canzone preferita.
“Lo so perfettamente. Visto che nella vostra banca dati le registrazioni si fermavano a prima del nostro rapimento lei non potrà essere a conoscenza di ciò che ci è successo nel frattempo. E per una questione di igiene mentale e stabilità psico-fisica non dovrà mai sapere che è solo un clone. Dovrà risultare assolutamente convinta di essere l'Asuka Soryu Langley uscita dalla pancia di sua madre”.
Che schifo. Parlo di enormità simili come se fossero una noiosa lezione di geometria.
Assume un'espressione appena più rilassata mentre mi conferma che ho imparato bene la nenia. Poi, inaspettatamente, mi fa una domanda a bruciapelo: “Non te ne pentirai? Sì, cioè, insomma...Asuka non ricorderà nulla della vostra esperienza...potrebbe lasciarsi indietro...ecco...dei particolari importanti...”.
Eh? Stai insinuando qualcosa, Ritsuko?
E comunque questi scherzi non mi piacciono. Non ho affrontato mio padre a muso duro come mai ho fatto prima, e come mai farò in futuro, per pentirmene.
“Non ho spazio, né tempo, né voglia di pentirmi riguardo una cosa tanto importante per me. Sinceramente posso dire che sono davvero disposto a qualunque cosa, anche a una porcata del genere, pur di rivederla camminare per casa in quelle sue tenute attillatissime e sentirla bestemmiare in dialetto della Baviera inferiore. Piuttosto, ora ho io una domanda per lei: come procederete per la sua anima? Non intendo condividere l'appartamento con uno zombie”.
Accenna a un lieve ghigno, poi liquida il mio legittimo dubbio con un secco “Non lo vuoi sapere”.
Col cazzo che non lo voglio sapere. Sto per insistere quando la porta si spalanca e ne entra una trafelata Misato, sudaticcia per la corsa.
“Siamo pronti. Mancate solo voi” annuncia con una spolverata di solennità.
“Ehi Misato, sei sicura di avere ancora fiato in corpo?” la punzecchia la dottoressa mentre le si avvicina con un sorriso appena appena preoccupato e molto birichino. Ultimamente questa donna mi sta stupendo sempre di più.
“E lasciami stare, dai. Non ho sei anni” borbotta il maggiore, anche lei abbastanza divertita dalla finta, ma non troppo, premura della sua amica.
Mugugno qualche parola di disapprovazione per la scenetta, anche se in cuor mio non posso dire che la cosa mi crei particolari scompensi.
Oh, al diavolo. Per quel che mi frega potrebbero anche cominciare a baciarsi e rotolarsi per terra, ognuna con le mani sotto al reggiseno dell'altra. Sono fatti loro, io voglio solo tornare a respirare per un motivo e non per inerzia.
Mi incammino con passo spedito verso l'uscita intimando loro in modo gentile ma perentorio che è ora di sbrigarsi, mi pare. Colgono al volo il mio invito e marciano anche loro verso la nostra comune destinazione.
Sto per riabbracciarti. Spero mi concederai il permesso di darti un'altra carezza.

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Capitolo 9
*** Hanno ammazzato Asuka, Asuka è viva ***


“Attenzione, i signori passeggeri diretti a Neo Tokyo-3 col volo 1632 della United Executive Airlines sono gentilmente pregati di dirigersi verso il gate quattro. Ripeto, i signori passeggeri...”.
Sì sì, ho capito. Mica sono sorda.
Al momento sono pesantemente claudicante, d'accordo, ma che io sappia il camminare strisciando un piede non provoca danni all'udito.
Oh già, non ho mancato al mio proposito. Ogni giorno in cui tornavo a casa da lavoro senza aver deciso nulla sul mio futuro mi fermavo di fronte alla porta, facevo tremare gli inquilini dei piani alti con una sequela di blasfemie a loro rivolte e centravo col destro il solito punto sul muro, ormai leggermente scalfito dai ripetuti colpi.
Da brava persona senza spina dorsale mi ci è voluto quasi un mese prima di decidermi, mese nel quale la mia deambulazione ha subito pesanti ripercussioni. In ufficio ero sempre più bersagliata da quelle caccole bipedi dei miei colleghi, soddisfatti di vedere qualcuno star peggio di loro in maniera tanto evidente.
E da brava testarda senza buonsenso non ho mai pensato a farmi vedere quel martoriato arto inferiore, convinta com'ero che il curarmi avrebbe affievolito il mio smorto proposito di cambiamento. L'unico lusso che mi concedevo era una stampella artigianale.
Chissà che diavolo hanno pensato le persone con cui avevo sfortunatamente a che fare ogni dì. Probabilmente credono tuttora che sia troppo povera per permettermi una visita specialistica.
Intendiamoci, non navigo affatto nell'oro. Ma non sono ancora ridotta a tale, penoso stato. Ci avrei messo un nulla a farmi visitare e, presumo, a farmi ingessare il piede ormai sull'orlo del collasso.
Ma farlo avrebbe significato cedere. E io non volevo cedere.
Non dopo che mi ero riscoperta capace di una determinazione per me ancestrale e perduta in qualche anfratto del mio cervello da pesce lesso.
Inoltre mi sarei probabilmente lasciata cullare da un falso senso di esagerazione, qualcosa del tipo “Su Asuka, la stai facendo troppo grossa. In fondo non sei poi arrivata tanto in fondo al pozzo. E poi la gente pensa male di te. Fatti sistemare, cretina”.
Invece così il dolore fisico autoimpostomi, alimentato dagli sguardi pietosi e beffardi degli ex-colleghi, mi ha scosso giorno dopo giorno finché stamattina, invece di saltare sul 582, ho grattato ogni possibile spicciolo da qualunque angolino di casa, ho messo tutti i miei pochi soldi nel portafogli e mi sono diretta qui. In aeroporto.
E così mi ritrovo qua, più o meno pronta a prendere un volo verso il Giappone.
Voglio tornare a casa. A Tokyo-3.
Forse non entrerò dall'Eden per la porta principale ma almeno potrò dire di non pentirmi ogni mattina di alzarmi dal letto e di condurre una vita indegna di essere chiamata tale.
Desidero anche andare a trovarlo. Conoscendo Gendo la sua lapide sarà piena di erbacce e le ci vorrà una pulita.
Mi trascino in modo piuttosto goffo verso il famoso gate quattro, del quale ovviamente ignoro del tutto la posizione, seguendo una scia mica da ridere di tipici turisti del Sol Levante, rigorosamente muniti di macchina fotografica iper-tecnologica, che paiono in procinto di rientrare in patria. Dunque i luoghi comuni hanno un fondo di verità.
Per fortuna non ho che qualche straccio come bagaglio. Faccio già una fatica non indifferente a muovere me stessa, figurati portarsi dietro uno di quei valigioni extra-large pieni di roba inutile come trucchi, vestiti per ogni clima e cianfrusaglie assortite. Tutte cose che, peraltro, non possiedo allo stato attuale delle cose.
Gettato via anche l'artificiale aiuto che usavo per camminare alla meno peggio siamo rimasti solo io e il mio piede rotto, testimone di quanto in basso si possa giungere prima di capire che non ne vale la pena e che basta in fondo poco per cambiare.
Stringo i denti. Fa un male cane.
Non auguro neanche al mio peggior nemico una tale incuria per la propria salute.
Coraggio piccolo, ancora uno sforzo. Sull'aereo potrai riposarti un po' e, appena sarò sbarcata in terra asiatica, ti farò mettere subito a posto. Fidati di mamma Asuka, sai che tutto questo ha avuto un ben preciso motivo.
Finalmente giungo al luogo da cui prenderò il volo verso una nuova vita.
Il personale di terra mi guarda con occhi sgranati, neanche avessero visto lo spettro della loro bisnonna morta da centocinquant'anni. Non pensavo di dare tutto questo spettacolo. Dev'essere a causa del fatto che sto praticamente in equilibrio su una gamba sola, come se la destra mancasse del tutto.
“Salve signorina” dico educatamente “questo è il mio foglio di imbarco e questo è il mio bagaglio per i raggi X”. Mi asciugo distrattamente la fronte imperlata di sudore, nel mio stato fisico ogni più piccolo movimento è tremendamente faticoso.
“Grazie. Ma...è sicura di star bene?” tentenna l'altra.
Abbozzo un sorriso che forse mi esce sin troppo compiaciuto: “Stia tranquilla, sono a posto”.
A quanto pare non suono abbastanza convincente perché quella insiste: “Scusi eh, ma non mi dà proprio l'idea di qualcuno che non ha problemi. Davvero non ha bisogno di un dottore?”.
Mi lascio sfuggire, involontariamente ma fino a un certo punto, un ghignetto di quelli in cui ero maestra da adolescente: “Parla del piede? Non si preoccupi, è tutto calcolato e voluto. È come dev'essere. Apprezzo la premura ma non serve”.
La mia risposta la lascia di sasso. Effettivamente la capisco, anch'io ci rimarrei così se mi vedessi capitare davanti un tizio conciato come lo sono io che si affanna a rassicurarmi sulle sue condizioni.
“Posso riavere la mia roba, per favore?” la fulmino con una prontezza di spirito che riemerge da chissà dove.
“Certo...certo. Mi scusi per la mia sfacciataggine”.
“Non ha di che scusarsi. Comprendo bene la sua reazione, è del tutto naturale. Sono io a essere un po' toccata”.
Ecco, qui succede una cosa che non credevo più possibile: mi sorride. Ma non un sorriso di quelli finti, da fornitore di servizi a cliente per tenerselo stretto. È un sorriso genuino, tremendamente dolce.
Sto per chiederle a cosa devo questo inaspettatissimo miracolo quando rumori e vocii dal retro della fila mi fanno desistere. Per un attimo mi ero immaginata di essere seduta al bar con una vecchia amica, a confidarmi sui fatti miei e sul perché e il percome delle mie scelte.
Ho giusto il tempo di ricambiare il sorriso, sfoderando un calore tipo fornace, e sussurrare un rapido ringraziamento silenzioso.
Lei, pur indaffarata dal successivo passeggero, se ne accorge e scuote appena la testa in segno di approvazione.
La gente non fa così schifo, allora.
Saltello in maniera sgraziata verso la navetta che ci condurrà a bordo del Boeing Future.
Non mi sentivo tanto confortata e capita da secoli. Da quando Shinji era ancora fra noi.
Lo considero un presagio. Un segno di buona sorte. Qualcosa che mi conferma come stia agendo bene.
Guardo il sole dritto negli occhi. È un po' l'alba del mio nuovo corso.
Neo Tokyo-3, la tua cittadina più ingombrante sta tornando.

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Capitolo 10
*** Tiè Shinji, questo è il bocchettone dell'ossigeno che tanto agognavi ***


Che? Cazzo? È? Successo?
E chi mi ha rimescolato il cranio con una spatola? Sento il mio cervelletto che spinge contro la gola e l'ipofisi che fa a calci con l'orecchio sinistro.
Muovo con lentezza la testa, bombardata da un miliardo di stilettate, per cercare di capire dove sono, perché sto così di merda e che ci fa tutta 'sta gente attorno a me.
Apro senza delicatezza la porta della tomba hyper-tech in cui mi avevano ficcata. Il liquido che prima mi arrivava almeno fino alla gola ne esce fuori con un rumoroso scroscio.
Sono presenti quel bamboccio di Shinji, tutte le più alte cariche NERV e tre tecnici di livello inferiore che però, concluso il fatto che motivava qui la loro presenza, vengono subito fatti sloggiare da quella sagoma del comandante Ikari.
Rimaniamo in cinque. E so che almeno uno di loro ha in mano tutte le risposte che cerco.
Risposte a domande innocenti e prive di significato, tipo “perché minchia mi hanno sbattuta qui?”.
Faccio un mezzo passo falso e inciampo in avanti, salvo recuperare con destrezza ed evitare ulteriori danni.
Mi prendo il cranio fra le mani, sperando che il loro calore faccia smettere il concerto di ottoni e strumenti a percussione. Speranza vana.
“Che...diavolo...è successo?” mormoro a voce bassa.
Nessuno si accorge che ho parlato, quindi provvedo a ripetere.
Ancora nessuno reagisce.
A 'sto punto mi girano i cosiddetti e urlo, per quanto il mio pietoso stato mi consenta.
I presenti, manco fossero stati destati da un sogno ad occhi aperti, strabuzzano gli occhi. Specialmente Shinji sembra piuttosto sconvolto. Come se non mi vedesse da secoli.
Il solito debosciato del cazzo.
Noto immediatamente che il mio legittimo dubbio pare averli presi in contropiede. Persino il meraviglioso, immarcescibile e granitico comandante Ikari si trova a disagio, anche se anni e anni di allenamento gli permettono di non darlo troppo a vedere.
“Esigo delle risposte”. Il mio tono è marziale.
La dottoressa Akagi fa per alzare un dito e schiudere le labbra, ma una voce maschile la sovrasta con potenza e autorità: “Pilota Soryu, innanzitutto non osare mai più certi colpi di coda in mia presenza, lo considererei alto tradimento e agirei di conseguenza. In secondo luogo tutto quello che sta per venirti detto deve rimanere entro queste quattro mura. La versione ufficiale prevede che tu sia appena tornata dalla Germania, dove hai fatto visita ai tuoi genitori. I dettagli a tal proposito sono a tua totale discrezione. Sono stato esauriente?”.
Mi pietrifico sul posto. Non mi piace passare così repentinamente da aggredente ad aggredita.
“Certo comandante, esaurientissimo”. Se coglie l'ironia più del dovuto mi fa sbattere in galera per il resto dell'eternità.
“Bene dottoressa, spieghi cos'è successo. Io ho da fare”. E detto ciò se ne va, lo stronzo.
Finalmente.
Rimaniamo in quattro. Tre sanno, una no.
“Asuka, quello che sto per dirti potrebbe risultare disturbante. Forse è meglio se ci sediamo prima di procedere a un resoconto”.
Sì, sono d'accordo. Ho il pruriginoso presentimento che quello che mi verrà detto non mi piacerà per nulla.
Misato, sino a quel momento silenziosa e in disparte, si fa carico di agire da apripista per tutti noi. Ci incolonniamo da brave pecorelle e senza un fiato di troppo la seguiamo per l'usuale matassa di corridoi, deviazioni e angoli da svoltare.
Finalmente entriamo in una porta a caso. Solito ambiente spartano, una postazione da lavoro e un buon numero di sedie.
Ognuno si accomoda dove più preferisce.
Ritsuko si schiarisce la voce.
“Ok, ci siamo. Dunque, premetterò che un trauma cervicale da te riportato ha danneggiato la tua memoria degli ultimi tre giorni. Quindi quello che sto per raccontarti, sebbene l'abbia vissuto in prima persona, ti suonerà estraneo”.
Qui accade qualcosa che mi fa puzzare il naso: un veloce lampo negli occhi della nostra generosa dispensatrice di novità. E poi come diavolo possono dire che sono tre giorni esatti quelli di vuoto? Anzi, io faccio fatica a ricordare, adesso come adesso, roba successami più di tre giorni fa. Dev'essere anche a causa del tremendo dolore che, seppur diminuito un po' da prima, mi stritola ancora il cervello.
Ma il suo riprendere il discorso mi fa desistere.
“C'è stata un'incursione improvvisa, l'altro ieri. Un Angelo non previsto. Guarda, è inutile che mi squadri con quella faccia, nessuno qui era preparato. Il comandante e il vice-comandante, gli unici che sanno qualcosa sulla possibile frequenza degli attacchi, non ci hanno comunicato niente. Siete stati, al solito, convocati d'urgenza e avete assistito a un veloce briefing, insieme alla formulazione del miglior piano di risposta da parte del nostro baldo ufficiale tattico”.
Misato si lascia andare a una pallida risatina.
“Inizialmente è andato tutto bene, anche se con un'eccessiva quantità di danni agli edifici circostanti. Questo, alla lunga, avrà un effetto che ti andrò a spiegare meglio dopo. Poi è accaduto qualcosa. L'Angelo si è fatto spuntare delle armi non preventivate dal torso e ha puntato con esse al petto dello 01. Visto che al momento eri la più vicina ti è stato immediatamente ordinato di spostare l'Eva viola dalla traiettoria d'impatto, ma purtroppo non sei stata abbastanza veloce per scansarti a tua volta”.
Una goccia fredda sulla mia fronte.
“Ti ha trapassata da parte a parte, sfondando l'armatura dello 02. Ti abbiamo sentita urlare per tutto il Geo Front”.
Per dodici secondi vado in stato di shock.
Sento indistinta la sensazione che non dovrei essere qui, ora.
“Per fortuna Rei e Shinji sono stati bravissimi nel recuperare la situazione, sistemare l'intruso e metterti al sicuro. Peccato che un attacco particolarmente violento, con conseguente caduta di detriti, abbia provocato una piccola scossa tellurica che, a sua volta, ha causato la totale inagibilità del settore ospedaliero”.
A questo punto tremo.
“Shinji, preoccupatissimo, ti ha portata a braccia sul ponte di comando. Eri uno straccio e respiravi in maniera impercettibile. Quando gli abbiamo comunicato le infauste nuove è quasi svenuto, vero?”.
Il baka fa debolmente “sì” con la testa, con un'aria sconcertata.
“Le tue condizioni erano gravissime e noi eravamo senza le strutture adeguate per prestarti i dovuti soccorsi. Siamo caduti nel panico più totale. Ogni minuto che passava era un minuto in meno in cui vivevi”.
Fa una pausa.
“Mi spiace di essere tanto cruda, ma non voglio nasconderti nulla. Abbiamo seriamente pensato che non ci fosse nulla da fare. Poi mi è venuto in mente che stavamo studiando un nuovo sistema di guarigione per voi piloti, solo che era sperimentale e mai neanche collaudato. Ma, in fondo, non c'era niente da perdere. Se non avessimo fatto nulla saresti morta a breve, probabilmente soffocata dal tuo stesso sangue. Ci siamo detti che valeva la pena tentare la carta della disperazione. E così ti abbiamo, il più celermente possibile, infilata dentro il macchinario da cui sei uscita pochi minuti fa. Ammetterò che siamo stati più che fortunati e tutto si è ora risolto per il meglio, visto che a parte l'amnesia non riporti altri danni, né a lungo né a breve termine”.
Alla fine della tirata respira, senza nascondere il fatto che si è tolta un bel peso di dosso.
Non accenno a smettere di tremare.
Questa volta mi è andata di lusso. Ma davvero di lusso.
Il terrore di morire. Lo sento invadermi in ogni dove. Insieme alla già sopracitata sensazione di essere fuori posto. Come se fossi davvero dovuta crepare in quel brutto frangente.
In una maniera che non mi contraddistingue mi alzo di scatto dalla sedia, mormoro qualcosa di inintelligibile e schizzo via, mettendo più metri possibili fra me e i latori di tali notizie.
Sento l'impellente bisogno di piangere. Sfogarmi. Buttar fuori l'orrore che sento bruciarmi la gola e il cuore in questo momento.
Difficilmente mi dimenticherò di un momento simile.

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Capitolo 11
*** Qualcosa si spezza con un gran fracasso ***


Sono passati sei giorni da quel momento. Il momento in cui l'ho rivista camminare, dire parolacce più o meno violente e cercare di spingere se stessa al di sopra degli altri.
L'ultimo punto è stato particolarmente, dolorosamente chiaro quando, dopo che si è bevuta la storia di Ritsuko come un alcolista si berrebbe una bottiglia intera di rosso, ho provato a seguirla per confortarla un po'.
Non l'avessi mai fatto.
“Che cazzo vuoi, Shinji? Sei venuto qui per sfottere? Dopo che ho salvato quel tuo inutile culo flaccido rischiando di rimanerci secca? Eclissati. Non mi serve la tua pietà, né mi servi tu”.
Perfettamente in linea col mio usuale carattere mi sono ritratto dalla sua forma strepitante.
È vero: era preventivabile.
È vero: era stato preventivato.
Ma è stato ugualmente brutto. Brutto brutto brutto.
Le sono andato dietro avendo ben in testa l'idea che era Asuka e nello stesso tempo non lo era. Non lo era perché non ricordava la sua tormentatissima ammissione di colpa, quando si era finalmente resa conto di quanto il suo classico comportamento, con me e più in generale con tutti, servisse solo a ferire lei e chi le stava accanto. Di come non sarebbe bastata nient'altro che una piccola ritirata del suo preponderante orgoglio per renderle la vita più facile, più piacevole, più bella. Di come ci volesse quel grammo di coraggio per affrontare i problemi, senza fuggire usando la maschera della donna superiore.
Tutto questo non c'era più.
Svanito. Sciolto come si scioglierebbe quel miraggio che ormai è la neve dopo una settimana di sole intenso.
Come se non fosse mai esistito.
Peccato che sia esistito eccome. Peccato che io soffra, ben di più di quanto soffrissi prima, nel vederla ritornare a simili modi di essere e di fare. Peccato che io ricordi un'Asuka diversa: un po' più remissiva, più ragionevole e soprattutto forse, quasi, magari innamorata di me. Peccato che io avessi ben stampata in testa l'immagine di lei che, emozionale come mai l'avevo vista prima, dichiarava solennemente come la persona conosciuta sino a quel momento non fosse la vera Asuka Soryu Langley.
Già, peccato.
Sto ancora decidendo se e quanto pentirmi del mio colpo di testa.
Da una parte c'è il mio vecchio, noioso e sin troppo ignorato senso etico che mi dice, tipo disco fatto a pezzi dalle cavallette, di essermi reso colpevolmente complice degli psicolabili all'interno della NERV. In effetti il mio cervello razionale gli riconosce buona parte di ragione perché non è da persona del tutto sana di mente non riuscire ad accettare, e cercare anzi di sovvertirlo, un fatto così drastico ma in fondo naturale -non tanto nei modi quanto nei risultati, in questo caso- come la morte di una persona cara.
Dall'altra parte della barricata, a tirare insulti e pomodori marci alla fazione avversa, c'è invece il mio vecchio, noioso e sin troppo ascoltato amore viscerale. Ehi, è solo parità di trattamento.
In compenso non è tanto aggressivo nei miei confronti: si limita a ribadire, con tono compassato, come abbia fatto bene a fregarmene di stupidi problemi filosofici e per una volta abbia finalmente pensato solo a me stesso. In barba a regole, imposizioni e restrizioni.
La fai facile tu, stupido sentimento a cuoricini.
Sei stato tu a spingermi verso il punto in cui mi trovo ora. È grazie a te se ho scardinato monti, bevuto mari e abbattuto pianeti con la forza delle mani nude.
Dovrei esserne fiero. E lo sono stato, eccome se lo sono stato.
Adesso, però, lo sono molto di meno.
Anzi, non è esatto dire che non ne sono fiero.
Più che altro sono dubbioso. Molto dubbioso.
Abbiamo giocato con forze ben aldilà della nostra mera comprensione. La morte non va presa alla leggera. Non si può sperare di farla franca con tanta nonchalance.
Fra le varie motivazioni che mi ero dato per smuovermi c'era anche la meravigliosa intenzione, in quel momento falsa come una patacca di Van Gogh, di darle una nuova possibilità di vita. Falsa perché, in quei convulsi momenti di disordine mentale, ero il ritratto dell'egoismo più puro.
Non mi interessava che tornasse a vivere perché era giusto così. Mi interessava solo riaverla accanto.
Ho sottovalutato tantissimo i problemi che poi mi si sarebbero presentati, cioè quelli di rapportarmi a lei con il cosiddetto senno di poi avendo stampato a fuoco in fronte ciò che era accaduto in quel maleodorante sgabuzzino.
Lì per lì ero solo drogato d'amore.
E adesso posso dire che la cosa non mi soddisfa per niente.
Perché faccio una fatica tremenda, per non dire direttamente che non riesco, ad accettare nuovamente le prese in giro, gli insulti e i lazzi che mi tira dietro costantemente.
Per lei non è cambiato nulla. Niente di niente.
Non è consapevole. Non è conscia.
Non gliene faccio una colpa, come già detto era più che preventivato. Ma sapete, il preventivarlo non lo rende più facile da digerire.
Sono stato avventato.
Però, in fondo, non è tutto così disastroso. In fondo lei è qui, viva. In fondo ho ancora una speranza di farle vedere, di nuovo, quanto sbaglia. In fondo posso ancora raddrizzarla.
Se avessi tentennato, allora, questo adesso non sarebbe neanche concepibile.
Improvvisamente la porta di camera mia si spalanca. Ne entra un tornado rosso.
“Ehi baka, hai preparato la cena? Ho una fame ciclopica e divorerei un intero branco di cinghiali”.
Il solito tatto. Proprio da Asuka.
Sigh.
“No, a dire il vero no. Stavo...riflettendo”.
I suoi occhi diventano due fessure di pece e rabbia: “Non me ne frega niente, ho fame. Alza le chiappe e vedi di cucinare qualcosa di buono”.
“Sì, ma abbi pazienza. I fornelli mica scappano. E poi non stavo pensando a roba di poco conto. Erano cose serie”. Urca, mi dev'essere rimasto addosso un po' di fegato extra dall'ultima volta.
Le fessure nelle sue pupille diventano sempre più simili a dei puntini di lava infernale. Avanza a grandi falcate verso di me, circondata da un'aura fiammeggiante. Quando è a dieci centimetri dal mio naso si ferma, occhio contro mazza chiodata: “Stammi-bene-a-sentire. Io voglio mangiare. Alle tue ridicole elucubrazioni da bambino col pannolino sporco ci starai dietro un altro momento. Vai in cucina e spadella, com'è giusto che sia. Altrimenti raccatteranno la tua testa in Mozambico e cominceranno ad usarla come totem durante le danze tribali. Mi-sono-spiegata?”.
Succede qualcosa di imprevisto. Qualcosa di brutto. Qualcosa che è indice di predisposizione al suicidio.
Le do uno spintone.
“Mi hai stancato con queste scenate da primadonna, Asuka. Ne ho i coglioni pieni fino a scoppiare. Scendi da quel cazzo di piedistallo e togliti il pisello dalle mutande”.
Ma bene. Sono un quattordicenne morto.
Fottuta bocca. Cosa ti salta in testa?
Il ceffone che mi arriva non è più leggero, né meno doloroso di un missile terra-terra. La faccia mi si piega di quarantacinque gradi abbondanti.
“Che? Cazzo? Mi? Hai? Detto?”.
Cerco goffamente di rimediare: “Scusa, mi sono lasciato andare. Scusa”.
“Che? Cazzo? Mi? Hai? Detto?”.
Salto rapido dall'altra parte del letto. Magari così le ci vorrà un po' prima di prendermi e sgozzarmi.
“Asuka, calmati. Ragioniamo”.
“Io non voglio ragionare. Io ti voglio spellare vivo”.
Neanche fosse una tigre fa un balzo assurdo verso di me. Solo la fortuna e dei riflessi miracolosi mi evitano una dura punizione corporale.
Fuggo più veloce che posso per tutta la casa, lanciandole addosso richieste di pietà. Lei risponde grugnendo e maneggiando qualcosa a mò di forcone.
La salvezza per il mio organo genitale si presenta sotto forma di Misato, che proprio in quel momento rientra in casa e ci vede schizzar davanti a lei.
“Fermatevi! Cosa state combinando? Mi devastate l'appartamento!”.
Asuka, stranamente, si arresta. Quando non sento più la sua incombente presenza alle mie spalle mi fermo anch'io, già piuttosto stanco.
Poi qualcosa mi pizzica l'orecchio. È Misato, che ha provveduto a farle altrettanto.
Ci sbatte senza creanza sul divano.
“Allora marmocchi, che diavolo succede?”. Mai sentita così furiosa.
Asuka scatta in piedi, manco avesse le molle. “Questo screanzato si è permesso di trattarmi in maniera incivile”.
Sento in me ardere lo sdegno per la descrizione dei fatti clamorosamente lacunosa.
“Ehi! È vero, ho esagerato. Ma tu sei arrivata in camera mia senza neanche bussare e hai preteso una cena da re ignorando quello che stavo facendo”.
“E cosa c'è di male in questo?” replica con stizza.
*crack*
Ho realizzato. Finalmente ho realizzato.
Questo tono. Questa cattiveria. Questo disprezzo.
Lei non tornerà.
Questa non è lei. È solo un guscio incompleto.
Asuka, amore. Mi mancherai.
Mi metto a piangere in maniera incontrollata. O meglio, questo è ciò che vorrei fare.
Invece mi alzo dal divano, in silenzio. È così che si fa quando si commemora una persona defunta.
Mi limito a un acido “Saresti dovuta morire lì, sappilo” e me ne vado.
Mi volto un'ultima volta.
Asuka è una beffarda rappresentazione dell'odio più incandescente.
Misato piange.
Mi piace pensare che abbia capito.

[Quella notte]

Non riesco a dormire.
Come cazzo posso dormire?
Oggi ho definitivamente seppellito il mio tesoro più prezioso.
Quella che adesso se la sta ronfando della grossa nella stanza accanto mi odia.
E io odio lei.
Sì, la odio.
Odio ciò che rappresenta.
Odio ciò che è.
Odio ciò che non sarà.
Non troverò mai più il coraggio di dichiararmi.
Nella cella è stata una fortunatissima serie di coincidenze a conferirmelo, come un dio conferisce la sua benedizione ai paladini nei giochi di ruolo.
Non è cosa che mi è propria.
Non tornerà.
E, non tornando quello, non c'è possibilità alcuna che torni lei.
Tutta la convinzione. Tutta la determinazione. Tutto l'afflato dell'eroe.
Ciò con cui ho affrontato, e vinto, mio padre.
Tutto perduto nella nebbia.
E me con loro.
Non voglio star qui.
Mi alzo senza far troppo casino.
In cucina trovo la generosa scorta di birra della signorina Misato. Me ne apro una.
Sì, di solito non bevo. Ma questa è un'occasione speciale.
“Alla tua, Asuka. Che tu possa riposare in pace”.
Me la scolo tutta di un fiato. Buona.
La seconda arriva più filata di un treno.
“Alla tua, Asuka. Non avercela con me, ho fatto del mio meglio”.
E il mio gargarozzo si bagna di nuovo.
Va avanti così per sei lattine: prima di svuotarle le alzo oltre la testa e brindo mestamente al mio inestinguibile amore.
Molto prima della sesta sono ubriaco fradicio.
Le mie gambe mi guidano verso il soggiorno. Le mie mani afferrano le chiavi della Renault Alphine, appoggiate distrattamente sul tavolo. Qualcosa di non ben definito mi fa uscire di casa, scalzo e in pigiama.
In men che non si dica sono al volante del macinino più pericoloso del West.
In ancora meno, avendo fortunosamente uno sprazzo di lucidità, vedo un palo della luce rombare a tutta velocità verso di me.
Ecco, ora lo definisco.
Rimpianto.

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Capitolo 12
*** Lacrime ***


Ci dev'essere un errore. Un grosso errore.
Questo è l'ultimo cimitero di Neo Tokyo-3. E Shinji Ikari non risulta da nessuna parte.
Non capisco.
Trascino con fatica il mio piede ingessato. La stampella che uso per deambulare è di pessima qualità, fatta di legno un po' marcio. Ma finché non mi si sbriciola in mano fa il suo.
Oggi è il 13 febbraio 2026.
Sono rientrata in patria da poco meno di quindici giorni. La prima urgenza, come mi ero ripromessa, è stata curare il mio arto danneggiato dall'autodistruttiva furia della vecchia Langley. Danno grave ma sopportabile, alla luce di ciò che ne è scaturito.
Poi ho trovato, nell'ordine, casa e lavoro. Nessuno dei due può essere ricondotto all'aggettivo “principesco”, ma rispetto alla lunga trasferta losangelina posso dire di vivere su tutt'altro pianeta. Il soffitto non minaccia di cadermi in testa quando vado a dormire, non ospito colonie di tarme e altri animalacci, i colleghi non sono delle carogne patentate. Anzi, sull'ultimo punto sono piuttosto ottimista. Ci sono un paio di persone davvero piacevoli, sia per conversazioni futili che per argomenti più impegnati. Ne sono davvero felice.
Tutto bello e significativo, eh. Però non riuscire a venire a capo di questo mistero mi lascia inquieta.
Non ha senso. Shinji Ikari è morto.
Se non l'hanno seppellito qui non saprei dove andare a pescarlo.
Mi immergo in pensieri meno cupi mentre cammino lentamente verso l'uscita del camposanto. In effetti ho tutto il tempo di questo mondo per venire a capo dell'enigma, visto e considerato che non ho alcuna intenzione di arrendermi tanto presto.
Domani, appena il comune sarà aperto, andrò a fare una piccola ricerca. Sperando che nei loro computeroni tengano i dati anche di altre città.
Avanzo col capo leggermente chinato verso terra.
Bump.
Accidenti. Ho urtato qualcuno. Mannaggia a me e alla mia distrazione.
Il colpo mi sbilancia all'indietro, ma grazie a Dio non cado a terra. Sarebbe stato un bel problema rimettersi in piedi.
Smaltisco velocemente la botta e alzo gli occhi per vedere a chi sono andata addosso e porgli le mie scuse.
...
...
...
...
...
...
...
Incubo.
Questo è un incubo.
Di fronte a me si para...
Shinji.
C'è Shinji davanti a me.
Noto immediatamente come il gambale destro dei suoi pantaloni, così simili a quelli che indossava quand'era ragazzo, sia...
È vuoto. Penzola inerte. Non vi è dentro niente, almeno fino all'altezza del ginocchio.
Cerco di spiccicare qualche parola di sorpresa, ma è solo aria riscaldata quella che esce dalla mia ammutolita bocca.
Credo di essere sbiancata come un lenzuolo appena uscito dalla lavatrice.
“Toh, guarda chi c'è” mi apostrofa, alzando la stampella con cui si sorregge nella mia direzione “la figliol prodiga è tornata a casa”.
Ma che...
Ma che...
“Stupita di vedermi, Asuka? Fai bene. Fosse stato per te ora io occuperei uno di quei bei loculi lindi in fondo al vialetto che hai appena percorso. Probabilmente sarei nella tomba di famiglia, accanto a mia madre e ai suoi genitori”.
Non riesco a parlare.
Non riesco a pensare.
Non riesco a far nulla. Persino respirare è difficile, assurdamente difficile.
“Ma guarda, la sontuosa Asuka Soryu Langley che non può dir nulla. È uno spettacolo che non si vede tutti i giorni. Meglio così, ho io da parlare per entrambi”.
Risentimento. Terrore. Voci. Sudo. Paura. Tremo. Commozione.
Si avvicina con fare piuttosto compassato. A meno di dieci centimetri da me si arresta, sicuro che il suo messaggio arriverà a destinazione.
“Non hai un po' di rimorso? Sai che io sono ridotto in questo stato pietoso solo ed esclusivamente per colpa tua? Che la mia vita è rovinata e non potrà mai più avere una minima sembianza di normalità? Che i miei nipotini giocheranno coi miei pantaloni chiedendosi perché il loro nonno non sia come tutti gli altri vecchietti del mondo?”.
Ma tu...non dovresti...non dovresti essere qui.
“Ti ricordi l'ultima giornata? Quando facesti quella scenata da teatro d'opera per qualcosa di così inutile e spregevolmente vile come una cena non preparata? Beh, quella tua ennesima uscita da donna di merda fu la goccia che fece traboccare il vaso, già stracolmo per tutti gli abusi passati. E solo un colpo di fortuna di cui ancora adesso non mi capacito mi ha dato la possibilità di essere qui, di fronte a te, a metterti al muro con i tuoi torti e i tuoi soprusi”.
Ma io...ma io...non volevo...non sapevo...
“Sì, sgrana i tuoi occhioni blu. Fammi vedere quanto ti struggi. È solo l'ennesima cisterna di fiele che si aggiunge a tutte le precedenti. Anche perché, conoscendoti, starai fingendo per qualche astruso e non ben precisato motivo del cazzo”.
Ride. Ride a crepapelle.
Non ha la minima idea di quanto mi abbia fatta a pezzi.
Di quanto mi senta male, adesso.
“Cosa ci faccio qui? Passavo casualmente da queste parti, come vuole la tradizione dei film drammatici. Avevo una mezza intenzione di fare una visita alla mamma, ma altri pensieri mi stavano facendo desistere. Poi ho buttato l'occhio, per puro volere della sorte, sull'ingresso e ho visto la tua inconfondibile figura zoppicare senza grazia verso l'esterno. Ah, vedo che ti sei tagliata i capelli. Va di moda così, in America? Sei la più bella vipera che esista”.
No...sai perché l'ho fatto...
“Tranquillizzati, ho quasi finito. Vorrei solo farti presente che, in quanto comandante in capo della nuova NERV, mi assicurerò che tu non riesca a lavorare per mantenerti. Ricordi quanto potere aveva mio padre quando occupava il posto che ora è mio, e le cose non sono cambiate nel frattempo. Arriverai alla fine del mese con una non meglio precisata pensione, ovviamente il minimo indispensabile per non farti mangiare i ratti del vicolo sotto casa. Forse”.
Ommioddio...l'odio...l'ha distrutto...chi è questa persona? Non la riconosco...
“E ora la gran ciliegina sulla torta della mia vendetta. Hai presente quel grandioso incidente che avesti a bordo dello 02, quando togliesti il mio...vediamo se ricordo le parole esatte...'inutile culo largo', mi pare, dal fuoco del pericolo? Di quando rimanesti ferita e in condizioni disperate, con la zona ospedaliera della NERV totalmente fuori uso? Di come fosti messa in una nuova e fantasmagorica macchina guaritrice, frutto dell'inarrivabile genio della dottoressa Akagi? Te lo ricordi?”.
Pausa.
“Ti ho fatto una domanda, cristo!”.
Quel tono così allucinato mi spinge a rispondere. Eppure, ancora, sono paralizzata. Riesco a malapena ad annuire con la testa.
“Ecco. È tutto falso. Tutto inventato. Niente di tutto questo è mai successo”.
Sento gli occhi uscirmi dalle orbite.
“Tu non sei Asuka Soryu Langley. Tu non sei altro che uno sporco e incompleto clone. Sei uscita da quell'aggeggio perché eri appena stata creata. Creata, non nata. Creata, come una lega metallica o una nuova plastica. Lei, la vera Asuka, la mia Asuka, era morta. Eravamo stati rapiti da non so chi e chiusi in uno sgabuzzino piccolo e buio. A un certo punto la porta si è aperta e ne è entrato qualcuno che ci ha sparato. A bruciapelo”.
Ti prego...ti prego...non raccontarmi tutto questo...
“Lei si mise davanti a me. Mi fece da scudo. Una cosa che tu non faresti mai, viscida e schifosa come sei. Si è presa i proiettili al posto mio. Mi è morta fra le braccia”.
Dio...o Dio...
“Ho passato dei giorni orrendi. Il mondo mi è crollato sulla testa e sulle spalle. Poi, più o meno ispirato da Misato e da Ritsuko, ho avuto una genialissima pensata. Ed eccoti qui, in tutto il tuo splendore di stronza fatta e finita”.
Mi stai uccidendo...Shinji, mi stai uccidendo...
“Affrontai titani, oceani in tempesta e ogni mia più radicata convinzione morale per convincere Gendo ad acconsentire all'esperimento che ti ha vomitata. Quel tuo cervellino di falso è in grado di dirti quanto tremendo sapesse essere il comandante supremo della NERV. Eppure io lo affrontai senza timore, convinto com'ero che mi servisse un simulacro del mio amore. Niente più che una lurida copia, che dell'originale manteneva solo i numerosi difetti senza incorporarne i più numerosi pregi. Dalla sera del litigio ho smesso di nutrire speranze nei tuoi confronti e mi sono rassegnato a vederti per ciò che sei. Una orrida e malriuscita riproduzione. Ti detesto dal profondo del cuore. Il solo vederti mi dà il voltastomaco, perché mi ricordi Asuka com'era prima e come non l'avrei più voluta. Ero riuscito a cambiarla, ce l'avevo fatta. Poi quella disgrazia me l'ha strappata crudelmente da sotto gli occhi. E io, trascinato da un sentimento malato, mi sono fatto spingere fino a qui. A te, che non meriti nulla se non gli sputi della folla inferocita. Spero tu possa morire come meriti, compatita dalle zanzare e derisa dai mosconi”.
Crollo sulle ginocchia. Più annichilita di Hiroshima e Nagasaki assommate.
“A mai più rivederci, clone. Buona non-vita”.
E così si volta e se ne va.

Oggi è il 4 febbraio 2007.
Questa notte, dopo lunghe peripezie, ho finalmente concluso e pubblicato l'ultimo capitolo di questa storia.
Storia che, lo ammetterò senza remore e senza falsa modestia, considero la mia opera migliore.
Se è riuscita così bene lo devo anche al prezioso e continuo aiuto di una persona.
Una persona che ha avuto il fegato e la costanza di starmi dietro nonostante le abbia spesso giocato dei brutti scherzi, tipo il mostruoso ritardo con cui ho consegnato i miei giudizi al concorso delle drabble sulle personificazioni.
Grazie Claudia. Non so se sarei qui, adesso, a rimirare un racconto che mi fa fiero e felice.

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