But you look so good it hurts sometimes

di Ireth_Mezzelfa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter I ***
Capitolo 2: *** Chapter II ***
Capitolo 3: *** Chapter III ***
Capitolo 4: *** Chapter IV ***
Capitolo 5: *** Chapter V ***
Capitolo 6: *** Chapter VI ***
Capitolo 7: *** Chapter VII ***
Capitolo 8: *** Chapter VIII ***
Capitolo 9: *** Chapter IX ***
Capitolo 10: *** Chapter X ***
Capitolo 11: *** Chapter XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***



Capitolo 1
*** Chapter I ***



But you look so good it hurts sometimes



Capitolo I




Siamo noi due qui, e sento la tua voce e sento la tua musica, che è solo per me.
Lo è sempre stata, tutte le note che sono state scritte,
sono state create per stanotte.



 


Non so come sono arrivata qui, ma sicuramente mi stavo chiedendo come ero arrivata a quella stupida fermata della metro nella periferia di Londra, seduta al freddo umido di una panchina con in mano un cavalletto e la pesante custodia del mixer. Sarà che era un momento di lucidità più vivido del solito, ma quando mi vidi lì, a tirare su con il naso, impregnata di tanta umidità e grigiore, con una felpa non mia e puzzolente buttata addosso, non riuscii a sentire altro che una domanda indefinita che si diffondeva in tutto il corpo e si fermava di piombo nello stomaco. Ero persa, totalmente incapace di tornare in me, stavo lì a fissare un vaso accanto alla panca, pieno di terra e pianticelle morte dal freddo che appassivano insieme a mozziconi di sigaretta e chewing gum.

Ma, come sempre, il tempo di rimanere con sé stessi, è poco, che siano gli altri a volerlo o tu stesso: Christos con la sua testona di riccioli accompagnato dal suo corpaccione, scese chiedendomi frettolosamente aiuto per portare la chitarra di Jacob, pericolosamente appoggiata sopra la cassa che il ragazzo portava e trattenuta con il mento. La metro passò.
“Oh, vaffanculo.” Imprecò lui posando la cassa mentre io cercavo di non alzare lo sguardo sul cielo vuoto e  opaco che sapevo avrei visto oltre la tettoia sotto cui eravamo.
Intanto arrivarono tutti gli altri, bagnati, incappucciati e grigi quanto quel momento, curvi sotto il peso degli strumenti e dell’attrezzatura: Jacob, Lefteris, Dionisis, Makis e infine Alexandros ed Helena.
E mentre io mi domandavo com’era possibile che io fossi lì con loro, com’era iniziata, forse è meglio che cominci a dire io chi sono, o meglio, chi ero.

Mi chiamo Cecilia come la santa che protegge i musicisti(sarà forse per questo che è andata così? Non lo so.)sono italiana e ho vent’anni. Quando ne avevo sedici è successo che è cominciata, con una vacanza in Grecia, ho incontrato Alexandros e questo può non voler dire proprio niente, invece vuol dire proprio tutto. Mi sono innamorata, sul serio, da impazzire. E, sarà che le storie a distanza hanno un sacco di quel pathos travolgente, ma io bruciavo ogni giorno di passione e non sono riuscita a far altro che andare avanti per due anni pieni di quei drammi che solo due persone con un mare in mezzo, possono capire. Alla fine ho mollato tutto; tutto il resto intendo: ho mollato la scuola, ho mollato la casa, gli amici e il mio paese. Ho seguito lui e per forza di cose, quando ho scelto lui, ho scelto anche la band.

Ho scelto i Jump-In, quell’uragano travolgente di funk, risate, ritmi assurdi, cene alle quattro del mattino e notti pazze. Ho scelto loro.
E in quella bigia sera, seduta su quella panchina un po’ ammuffita, sotto quel cielo scolorito, uno dopo l’altro passai in rassegna le mie scelte, i miei compagni di quella vita che solo in quel momento mi rendevo conto fosse la mia.
Guardai Lefteris, il boss, il capo, il frontman. Cantava e suonava agitandosi, su e giù, come un folletto appoggiandosi alla sua tastiera zebrata, con la sua corporatura minuta, i suoi abbigliamenti strani, il suo fintissimo accento americano che calamitava le donne. Lefteris era ed è il donnaiolo spudorato più di classe che io abbia conosciuto: non so se fossero i suoi occhi chiari troppo vicini, il suo sguardo troppo malizioso, le sue sopracciglia troppo folte o la sua voce un po’ troppo graffiante, ma affascinava; e a volte mi viene da pensare che fosse proprio l’ insieme di difetti a renderlo intrigante.
L’unica a non aver mai ceduto alle avance di Lefteris era Helena, la voce femminile, la più grande del gruppo. In lei tutto sembrava soffice e materno: gli occhi color nocciola, i capelli castano chiaro che le incorniciavano i lineamenti dolci e le curve morbide. Ma era tutt’altro sul palco e la sua voce potente rispecchiava il suo carattere deciso, maturo, onesto e fermo. A ventiquattro anni Helena era già una donna forte, la donna del gruppo.
Lo stesso non si poteva dire per Christos, detto Big C., lui era morbido dentro e fuori e io lo adoravo. Suonava il trombone e sicuramente non gli mancava fiato in quel suo corpo robusto e soffice. Era sempre pronto a una una battuta o a una freddura pronunciata con il suo tono pacioso e allegro; e i suoi abbracci erano qualcosa di impagabile, come entrare in un budino, con la testa immersa nei suoi riccioli neri e disordinati. Un vero e proprio cuscino umano perfetto per il freddo e la piog…
“Ceci, muoviti!”
Big C. si era voltato mentre lo osservavo immersa nei miei pensieri e solo in quel momento mi resi conto di essermi completamente estraniata dalla realtà, dalla stazione piovosa e dalla metropolitana che in quel momento stava per partire con i ragazzi e gli strumenti sopra. Quando mai era arrivata, porca paletta?!
Il mio soffice amico mi prese per il braccio e mi trascinò dentro dove mi fece sedere su un sedile rimasto libero poi mi gettò in braccio la chitarra di Jacob: praticamente occupavamo tutta lo scomparto tra strumenti e borse vari, ma sulla metro non c’era quasi nessuno.
Rimasi un po’ intontita dal cambio di ambiente, le luci al neon illuminavano le facce di Dionisis, Makis e Jacob seduti di fronte a me.
Ripresi a estraniarmi dal mondo pensando al loro, alle mie scelte. Mi voltai verso Alexandros, guardava fuori dal finestrino con l’aria sfinita che tutti noi avevamo.
Le mie scelte, la mia scelta.






Ok,  sto probabilmente commettendo un delitto perché non scrivo da tantissimo e questa storia si sta creando poco a poco nella mia mente quindi gli aggiornamenti saranno incostanti, molto corti e probabilmente senza il minimo senso. Per di più non so come possa essere il tutto, potrebbe molto probabilmente essere uno schifo. Comunque ora la smetto di denigrarmi e lascio a chi vuole leggere l’ardua sentenza. J E’ la mia prima long Originale e sono completamente terrorizzata perché tengo molto ai suoi personaggi. Siate clementi, se ci siete.

Buona Lettura,


Ireth

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Capitolo 2
*** Chapter II ***


Capitolo II

 

Avviso: In questo e nei prossimi capitoli ci sarà forse qualche parola in greco. Ho cercato di mettere in fondo alla pagina la lettura e il significato dei termini. Non conosco perfettamente il greco quindi, se qualcuno nota qualche imperfezione, dica pure (:
 

 

          "Vedo solo te, voglio solo te, amo solo te."

 







Click! Bzzz…
“Non posso dormire con lui. Amico, scusa ma quel pigiamino è imbarazzante!”
L’espressione di Makis era impagabile, mezzo schifato, mezzo incredulo: guardava Dionisis e la sua camicia da notte. Sì, ho detto camicia da notte.
“Hum, che problema c’è? Mi respira il pendolo. ”
Click! Bzzz…
Scattai un’altra foto con la Polaroid mentre Mak assumeva un’espressione realmente orripilata. Eravamo arrivati nell’appartamento che i proprietari del locale in cui avremmo suonato la sera successiva ci avevano assegnato per la notte.
Eravamo in tour: i Jump-in non erano di certo una band famosa, in Grecia erano piuttosto conosciuti in bar e locali, specialmente ad Atene e nelle isole in cui erano stati durante quell’estate.
Avevano deciso di dedicare quei tre mesi alla promozione della band e, dopo essere stati in qualsiasi posto ci offrisse vitto, alloggio e qualche soldo in cambio di una serata di musica e un po’ di pubblicità, si era deciso di passare alla Spagna e, infine, Londra. In Spagna era stato memorabile, là non era difficile trovare lavoro e le serate, bè, erano pazzesche ed infinite: gli spagnoli erano gente che sa come far festa e l’alchimia tra quella gente mediterranea era stata immediata;  era stato lì che avevo scattato le foto migliori.

Ero stata infatti incaricata, fin dall’inizio, di immortalare ogni istante di vita della band, specialmente i concerti, anche perché se no l’avrei fatto comunque per conto mio, data la mia passione per il click.
Era da un po’ che avevo il pallino per fotografia e, da quando mi era stata regalata dal padre di Alexandros la vecchia polaroid, scattavo istantanee su istantanee tanto da aver dovuto comprare parecchi raccoglitori per non restarne sommersa. Il mio zaino era più occupato da obiettivi e attrezzatura che da vestiti, ma io non potevo chiedere di meglio. Risparmiavo solo per accessoriare la mia Canon, a cui avevo persino dato un nome: Kalokairi*, ‘estate’ in greco. 
Ma a Londra, non c’era esattamente una luce ideale per le fotografie, eravamo lì da tre giorni e, continuando a girare senza successo, non avevo avuto nemmeno il tempo di mettermi tranquilla per qualche scatto: l’accoglienza non era stata delle migliori da parte dei locali londinesi. Finchè finalmente una telefonata era andata a buon fine, ed eccoci lì; in un appartamento squallido e piuttosto buio, situato su tre piani stretti stretti, un solo bagno e stanze soffocanti…un cinque stelle, per i nostri standard!

Me ne stavo sdraiata sul piano inferiore del letto a castello dondolando la testa giù dal materasso, mentre sorridevo seguendo, attraverso il mirino, il battibecco sull’oscena camicia da notte a fantasia di palme e fiori tropicali di Dionisis.
Lui, il nostro bassista, se ne infischiava. Come di tutto il resto, se ne infischiava delle apparenze, era sopra le righe con i capelli tagliati corti senza un senso, ad eccezione di un lungo ciuffo mosso che gli ricadeva su una spalla, così, in memoria del suo passato da capellone. Allampanato, con una barba sempre in disordine, Dionisis,  era del tutto trasandato, ma nel contempo risultava un ragazzo carino. Un barbone chic che nessuno di noi riusciva a immaginare suonare nell’orchestra della capitale come faceva da ormai tre anni, come se fosse un niente. Era bello stare con Dionisis, era rassicurante, come sentire il doing doing vibrante del basso nel petto, a calibrarti i battiti del cuore.
Makis, invece, era piuttosto ordinario, paragonato al nostro dio del basso. Era un ragazzo tranquillo, ma di buona compagnia, non particolarmente alto nè snello, aveva grandi occhi neri e un sorriso gentile e contagioso, leggeva spesso ed io l’ho sempre considerato l’intellettuale della band.

Lo guardai mentre scoppiava a ridere, allontanandosi da Dionisis che aveva cominciato a far ondeggiare il bacino avanti e indietro per confermare la sua teoria del ‘pendolo libero e felice’.
Click! Bzzz…
Rimisi in borsa la macchina fotografica mentre Mr. Pendolo si stava rivolgendo, sempre ondeggiando, a me.
Kοριτσακι μου*, per me tutti dovrebbero girare nudi. Vestirsi non è naturale, la società di oggi è così opprimente,damn!”
Dionisis mescolava sempre un sacco di lingue, tra loro parlavano tranquillamente sia greco che inglese, ed io, mi ero adeguata, l’inglese ormai era la mia lingua principale e il greco lo capivo perfettamente, pur avendo ancora qualche problema ad esprimermi correttamente, insomma mi ero dovuta adattare in quegli anni.
“Credo che adotterò la tua filosofia, sai. Non ne hai un’altra di quelle?” Indicai la camicia da notte.
“Oh, non è necessario. Io intendo nudi nudi. Insomma chi è che ci impone di vestirci? Io no di certo. E poi le donne sono molto più belle nude.”
“Finalmente un argomento interessante!”
La voce di Jacob arrivò dal corridoio seguita subito dopo dal nostro chitarrista, il più giovane di noi dopo me e Alexandros. Entrò togliendosi la maglietta e lanciandola addosso a Makis.
“Cecy, cosa stai aspettando? Segui la filosofia di Zigouras.”
Jacob chiamava quasi tutti per cognome ed era il tipico bravo ragazzo su cui poter contare. Ero spesso andata da lui in cerca di consiglio, ormai lo consideravo il mio psicologo e santo paziente sceso in terra ad ascoltare i miei sbalzi psicologici.
“Hey hey hey, Jacob no!”
Strillai mentre lui zompava sul materasso e cominciava a strattonarmi la felpa mentre tentavo di difendermi inutilmente con un cuscino.
“Occhio che poi Alexos prende a calci il tuo bel culetto di chitarrista, man!”
“Uuuh, Jacob, darei ascolto a Dimitris!”
“Oh, Lazou può anche baciarmelo il culetto!”
“Oh, that’s my man, così si parla!”
Continuammo così, per ancora un po’ finchè Jacob non la smise e Mak non prese il suo libro e si isolò nel suo mondo letterario.
“Comunque, che fine hanno fatto gli altri?” chiesi spostando la testa castana di Jacob che stava invadendo il mio spazio-cuscino stiracchiandosi al mio fianco.
“Il tuo boyfriend è con Lefteris a stabilire il compenso, giù dal proprietario..” rispose Dionisis mettendosi comodo e infilandosi le cuffiette dell’i-pod nelle orecchie.
“Christos ed Helena sono a cercare qualcosa con cui cibarsi, credo..” disse Jacob riprendendosi il suo posto con aria risentita mentre pensavo a come una persona alta poco più di un metro e cinquantacinque e pesante 47 chili poteva scaraventarne una di almeno venti chili in più definitivamente giù dal letto.
Passò qualche minuto in cui rimasi lì, a fissare una strana macchi che somigliava ad un elefante sul materasso sopra di me, finché non tornarono Christos ed Helena con dei sandwich dall’aspetto disgustoso e tanta birra per dimenticarne il probabilissimo sapore altrettanto disgustoso.

Poco dopo tornarono Lefteris e Alexandros, entrarono dalla porta trionfanti e tutti ci voltammo attendendo novità.
“Ragazzi, tutto a posto!”
Annunciò il primo con entusiasmo mentre Alexos lo guardava sorridendo ed annuendo.  
“Il proprietario ci paga bene e conferma che non dobbiamo sganciare un fottuto euro per la camera. In più, durante la serata ci offrono alcol a volontà!”
Ovazione da parte della band, specialmente da Christos.
“E, diciamocelo, le cameriere non sono niente male, eh man?”
“Ah, Lefteris!”
“Ammettilo che la rossa non ti dispiaceva affatto eh, Alexos eh?”
Guardai il mio ragazzo ridere e tirare una gomitata al suo compare approvando con aria d’intesa senza curarsi minimamente di qualsiasi mia reazione.
Ormai c’ero abituata, per quanto potessi abituarmi io, persona estremamente gelosa, persino al punto di temere che la mia macchina fotografica si affezionasse troppo a qualcun altro, ad apprezzamenti verso le altre ragazze.
Avrei dovuto ingoiare il rospo, come al solito e ripetermi che erano solo parole, stupidate davanti agli amici, ma in quel momento, in quel preciso momento, tornò di nuovo la sensazione di smarrimento-nausea di qualche ora prima.
Basta.
Mi alzai dal letto fissando il pavimento e cominciai a muovermi dritta verso la porta.
“Hey, Cecy dove…?”
La voce di Jacob fece voltare gli altri e sentii un indistinto brusio di risatine e un “Oh-ho! Alexos sei nei guai!” di Big C., mentre superavo la porta senza curarmi di spingere Alexandros. Probabilmente solo in quel momento si sarebbe reso conto della mia presenza.
Scesi le scale e mi accoccolai in un letto a caso nell’altra stanza.

Era così da un bel po’. Lui faceva quel che voleva, io sopportavo. Sopportavo con mille scuse: il suo carattere esuberante, solare, esplosivo, la sua capacità di piacere a tutti senza far nulla, la sua voglia di essere indipendente, il suo attaccamento a Lefteris, che era un vero e proprio fratello maggiore da imitare per lui.
Sopportavo, sopportavo le sue frecciatine sulle altre ragazze, i suoi sguardi maliziosi, il suo ignorarmi, il suo tornare da me quando gli era comodo, il suo comportamento imbarazzante quando esagerava con i drink, il suo sapersi far perdonare sempre, sempre, sempre. Infatti, quando raggiungevo il limite della mia pazienza, Alexandros sapeva sempre ricordarmi perché mi ero innamorata di lui e farmi tornare la fiducia.
Quanto lo amavo, quanto lo odiavo, quanto mi odiavo.
Odiavo essere così debole quando si trattava di lui, odiavo il fatto che, quando suonava il sax, mi affascinasse a tal punto da pensare che la sua vera anima fosse uguale a quelle note sensuali e suadenti, odiavo che lui amasse la musica più di me, odiavo i suoi occhi neri e profondi, le mani grandi, le spalle larghe, il fisico atletico, odiavo la sua risata esplosiva.  Odiavo tutto ciò che mi aveva fatto innamorare di lui, proprio perché lo adoravo.
E mentre ero lì al buio, la mia debolezza entrò nella stanza e mi si distese a fianco.
“Hey…”
“Lasciami in pace, per favore.”
“Stavo scherzando, lo sai che stavo scherzando, αγαπημου*. Lo sai vero?”
Il sussurro era così dolce che a malapena riuscii a tenere lo sguardo fisso sul muro tacendo.
“Mi conosci, mi piace fare così, con i ragazzi. Sai benissimo che voglio stare solo con la mia stupida permalosa. Eddai, prometto che non dirò più niente di stupido.”
Sbuffai sarcastica, lui ridacchiò e mi accarezzò i capelli. La stava spuntando, la mia unica speranza era non voltarmi verso di lui.
“Su, dai, guardami.”
Dannazione, lo feci. Eccoci lì, io e il suo sguardo. Immaginate chi ha vinto?

Mi svegliai che era buio, guardai l’ora sul cellulare: 4.08.
Avevo freddo dato che le mie coperte erano finite a coprire solo Alexandros che dormiva pacificamente al mio fianco.
Lo guardai  per un po’,  l’avrei sempre voluto così: innocente, pacifico, innocuo.
 
Vagai con lo sguardo sul viso, il naso importante, le ciglia lunghe, le labbra carnose e per la prima volta, dopo lungo tempo, mi sentii inquieta mentre sentivo il suo respiro regolare. Perché ero lì, con quella persona? Perché avevo mollato tutto per lui?
Mi sembrava una domanda inopportuna, ma non riuscivo a trovare una risposta… eppure un tempo era così scontata.
Era come svegliarsi, provare a riaddormentarsi e non ritrovare più la posizione comoda.
Non dormii molto e, la mattina dopo, la stessa sensazione sgradevole di panico soffocante, non se n’era ancora andata.




*Lettura :“Kalokieri”
*Lettura:”Koritsaki mu”= più o meno significa, ragazza mia, bambina mia J
*Lettura:”Agapi mu” = amore mio.
 


Okkey, opinioni? Consigli? :)
Prometto che i prossimi capitoli saranno un bel pò più dinamici. Ho dovuto sfruttare un pò questi primi capitoli per le presentazioni.
Grazie alla mia Lucy che ha recensito e a chi leggerà<3

Alla prossima

Ireth



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Capitolo 3
*** Chapter III ***



Capitolo III




"Dimmi che non andrai lontano, se tendo la mano ti troverò ancora?"

 




“Sei club sandwich?”
Alzai lo sguardo dallo schermo di Kalokairi e mi trovai faccia a faccia con la cameriera che mi guardava con aria interrogativa.
“No, non sono un club sandwich.”
Borbottai astiosa distogliendo nuovamente lo sguardo.
“Prego?”
“Sì, sì sei club sandwich, li appoggi pure qui. “
La cameriera posò i piatti con i panini e patatine fritte sul tavolo poi se ne andò scrollando le spalle. Osservai i suoi capelli rossi ondeggiare lisci e luminosi sulle spalle…beh, aveva un culone enorme.
Erano le due del pomeriggio e mi trovavo nel locale dove i Jump-in si sarebbero esibiti quella sera, era un bel posto tutto sommato: luminoso, moderno, pulito, un bel palco spazioso dove i ragazzi erano alle prese con il sound-check.
Ero l’unica nel locale, a parte due vecchiotti al bancone che probabilmente erano pezzi fissi dell’arredamento da tempi immemori a giudicare di come si guardavano intorno a proprio agio, spadroneggiando dagli sgabelli.
“Bang bang, sandwich!”
Erano arrivati Big C. e Jacob che presero posto con me e attaccarono il loro pranzo come disperati.
“Allora, ragazzi, tutto pronto?”
Fi! Farà una ferata faftaftica!”
Schivai le briciole che mi aveva sputacchiato addosso Christos mentre questi si alzava per andare a chiedere una birretta per mandar giù il boccone.
Lo seguii con lo sguardo e intercettai Alexandros in piedi a parlare con la cameriera. Stavano ridendo e lui le aveva indicato il sassofono sul palco mentre lei sbatteva le ciglia e annuiva ammirata.
Santoddio.
Distolsi lo sguardo per evitare di vomitare nelle patatine di Christos; stavo cercando di non farmi prendere dalla gelosia perché mi rendevo conto che nello stato in cui mi trovavo dal giorno prima, avrei potuto compiere azioni non del tutto adatte alla situazione.
“Hey?”
Jacob mi stava guardando con un’espressione comprensiva, come se volesse rassicurarmi.
“Stai tranquilla, sarà un bel concerto...”
Si sporse verso di me e mi strinse la mano scuotendomela come per ricaricare la mia energia vitale, momentaneamente sotto i tacchi delle scarpe.
“…e spaccherai i culi, con quelle foto!”
Sorrisi e risposi alla stratta di mano, grata di come aveva captato il mio stato d’ansia e avesse deviato il discorso.
“Sicuro, Jacob, sicuro.”
Mi sarei divertita quella sera, lo volevo davvero.




**


Bèh, nonostante tutto non ero male.
I miei capelli castani, lunghi e mossi, lasciati sciolti sul mio vestito blu dall’aria vagamente giapponese, erano a posto, nonostante l’umidità londinese.
Indugiai davanti allo specchio un po’ scheggiato e ammiccai, valutando che, sì, ero abbastanza soddisfatta.
“Allora, in quel bagno?!”
“Lefteris, santo cielo, sono ancora nel mio turno!”
Uscii di fretta dal bagno e mi trovai di fronte il nostro front-man appoggiato allo stipite della porta mezzo nudo.
Darling, stanotte la passeresti sotto le lenzuola di un tastierista funky?”
“Solo se non porta le mutandine zebrate, Lefteris.”
Un mio cenno del capo a indicare i suoi boxer, effettivamente a righe bianche e nere, e lo superai scendendo al piano di sotto dove trovai Christos, Jacob, Dionisis e Makis seduti sui divanetti aspettando di salire al locale ed iniziare il concerto.
 “Heilà heilà, la nostra fotografa da schianto, vieni un po’ qua!”
Mi diressi verso Big C. sorridendo e lui mi afferrò facendomi sedere sulle sue ginocchia, come una bambina.
Presi la scaletta delle canzoni che teneva in mano e iniziai a leggerla:
Proud Mary? Li facciamo ballare questi londinesi stasera!”
“Eccome baby!”
In quel momento entrò nella stanza Alexandros, sistemandosi le pieghe della maglietta azzurro fluorescente che indossava.
“Hey, boy. Ti spellerai tutti e tre quei peli sul petto che hai se continui a strofinarti così!”
Risi alla battuta di Dionisis sul risaputo narcisismo del mio ragazzo, ma non riuscimmo a sentire la sua risposta che scesero le scale anche Lefteris ed Helena.
“Helenita! Sei spettacolare!”
Alexandros accolse la cantante nel suo  vestito rosa pastello, prendendola per mano e facendole fare una giravolta.
Nonostante fossi abituata alla grande amicizia tra i due, mi sentii mancare per un attimo. Forse perché non mi aveva neppure notato, forse perché non mi aveva nemmeno fatto un cenno per dirmi: 'Hey, ti vedo! Non sei affatto male, ma sono troppo agitato per il concerto per darti dimostrazioni d’affetto.”
“Alexos, sei uno schianto anche tu, bimbo.”
Helena si svincolò da Alexandros e si incamminò verso la porta con Lefteris che aveva già cominciato a trotterellare gasato verso la porta.
“Andiamo ragazzi, carichi! Facciamo ballare questi fucking londonesi”
Yeah man!”
Tra urla e isterismo pre-live, ci incamminammo verso il vicinissimo locale. Io mi tenni in disparte, a fianco a Jacob che, in un assolo di chitarra immaginario, saltellava sul marciapiede.
“Hey, Cecy?”
Alexandros si era fermato pochi passi più avanti per aspettarmi e mi stava guardando.
"Dimmi."
Sorrisi, in attesa: eccoli, i miei complimenti, finalmente!
“Senti, quando sono sul palco, cerca di prendermi insieme a Christos ok? Vogliamo qualche foto con gli ottoni, per myspace…”
“Cosa? Ah, sì…ma certo...”
Abbassai lo sguardo abbattuta, mentre lui mi dava una veloce pacca sulla spalla.
“…conta pure su di me.”
Mormorai, ma Alexandros era già corso davanti saltando addosso a Lefteris.
Sospirai, cercando di pensare che non me ne importava nulla se non aveva notato il mio impegno nel rendermi carina; dopotutto non avevo mai fatto caso a questo genere di cose, ma non era solo questo: era tutta la situazione, quello strano dubbio enorme che pendeva su di me da due giorni: era questa la vita che volevo? Ero davvero al posto giusto con la persona giusta? 
“Hey, non badare a Lazou e le sue stronzate.”
Alzai lo sguardo verso Jacob, al mio fianco, mi stava fissando con quell'aria comprensiva.
“Sai com’è fatto prima di un concerto, non farci caso…Ora, mi serve una batteria di accompagnamento! Pronta? One, two, one, two three!”
E mentre suonavo la mia batteria immaginaria per strada, cercai di schiarire la mia mente e di godermi la serata.
Il mio entusiasmo aumentò quando vidi che tra il pubblico sedeva George, il mio migliore amico greco in assoluto, venuto direttamente da Atene per assistere all’esibizione.
Mi sedetti tra lui ed un altro nostro fan accanito che ci seguiva ovunque, John: matto come un cavallo, una bomba esplosiva.
Dopo un paio di drink si abbassarono le luci e la voce di Lefteris, con quel suo falsissimo accento americano iniziò la serata.
“Hey people, are you ready for funky? Because i am and tonight I feel very very good…yeah, I feel good!”
Attaccarono 'I feel good' e la magia iniziò.

Sentivo la musica vibrarmi dentro e darmi la carica: non avevo nessuna preoccupazione, nessun pensiero: mi sentivo solo stordita dalla loro energia, travolta dal ritmo.
Feci parecchie foto, bevvi qualche drink offerto da George e poi mi trovai a ballare con John per più di una canzone.
Ma per il resto del tempo non riuscii a staccare gli occhi da Alexandros: come sempre mi incantava tutto, la sua musica, i suoi movimenti, la sua concentrazione, il suo divertirsi, l'amore che ci metteva in quelle note; come potevo pensare che mi volesse del male? Come potevo avere dubbi?
Mi rendevo conto che era una pazzia basarsi su quelle due ore di spettacolo, ma era così. Per due ore io amai l'Alexandros sul palco, l’Alexandros musicista, alla follia.
Ma le due ore finirono.
I ragazzi scesero dal palco e andammo tutti a congratularci con loro: erano elettrizzati da tutta l’adrenalina del concerto, sudati e puzzolenti come non mai, ma soprattutto parecchio brilli per tutti i drink che erano stati loro offerti durante tutta la performance. C’era pieno di gente ed arrivai a gomitate da Dionisis che mi abbracciò urlandomi nell’orecchio: “Vedi quel sorriso che hai? Abbiamo suonato per quello, baby, per quello!”
Non penso capisse bene il senso di quello che stava dicendo ma sorrisi a quelle parole ubriache cercando Alexandros tra una pacca sulla spalla a Jacob e un abbraccio ad Helena.
Infine lo vidi e mi mancò il fiato.
Aveva un braccio attorno alle spalle della cameriera e rideva a circa due centimetri dal suo viso, sorreggendosi alla ragazza evidentemente ubriaco.
Erano talmente vicini.
Lo raggiunsi a passo malfermo e mi piazzai davanti a lui fissandolo senza riuscire a spiccicare parola.
Dopo qualche secondo la cameriera mi guardò come a chiedermi che diamine volessi e anche Alexandros, finalmente mi mise a fuoco.
“Hey!”
Scoppiò a ridere staccandosi dalla ragazza e guardandomi con sguardo vacuo. Puzzava d'alcool.
“Cosa stai facendo?”
Riuscii a biascicare ad occhi sgranati.
“Beh vedi, Cecilia…Io mi sto…cioè…mi diverto un po’, è stato bello no…no?”
Ridacchiò barcollando e tornò ad abbracciare la cameriera che lo sorresse continuando a scrutarmi come se fossi io l’intrusa.
All’istante capii che in effetti, lo ero davvero. Ero io l’intrusa. Io non conoscevo più quel ragazzo.
“Non ti vergogni?”
Mi tremava la voce dalla rabbia e dal disgusto. Mi schifava. Mi schifava quel suo sguardo da ubriaco, quel suo odore, le sue parole, la sua voce.
Alexandros mi si avvicinò a passi incredibilmente decisi e ci trovammo faccia a faccia, uno di fronte all’altro.
“Non ne posso più, piantala di starmi tra i piedi. Va' ...vattene via!”

Si voltò e la baciò.

I minuti che seguirono sono confusi.
Ricordo solo me stessa che spingevo tra la folla del locale, Jacob che mi chiamava, la mano di George che non riusciva a trattenermi, ricordo le lacrime mentre gettavo alla rinfusa vestiti nella mia borsa e ricordo la metropolitana, le chiamate ignorate e l’aeroporto.
Mi ricordo in piedi, camminando lungo la via di casa.
Ricordo l’aria tiepida della notte veneziana. E come tutto sembrava immobile. 





Ok, bene. Ho scritto tutto il capitolo di getto...spero che vi piaccia. (:
Le cose si fanno più movimentate d'ora in poi!
Ringrazio molto le mie due lettrici che hanno recensito: _amethyst_e la mia Lucy
Grazie ragazze, senza di voi non andrei avanti!
Alla prossima,


Ireth



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Capitolo 4
*** Chapter IV ***



Capitolo IV

 

                                                       “I’ve just seen a face.”




Ero a Venezia, ero a casa.
Stordita, rimasi qualche minuto ferma davanti al portone respirando piano l’aria estiva calda e profumata sotto la luce arancione di un lampione con il mio zaino ai piedi.
Mi calmai un po’, abbassai la maniglia con convinzione e spinsi, ma la porta rimase bloccata.
Dopo qualche secondo di perplessità mi resi conto di quanto tardi fosse e che effettivamente tutte le persone di buon senso, anche la sua squinternata famiglia, chiudono a chiave le proprie case alle tre del mattino.
Dlin dlon!
 Suonai brevemente il campanello chiudendo gli occhi: mi avrebbero uccisa svegliandoli a quell’ora.
Passarono i minuti, nessun segno di vita.
Dlin dlon!
Santo cielo, possibile che mio fratello avesse contagiato anche il sonno leggerissimo di mia mamma con il suo letargo impenetrabile?
Dlin dlon! Dlin dlon! Dlin dlon!
Ormai mi ero incollata disperatamente al campanello mentre una sgradevole ipotesi stava prendendo piede nella mia mente: non sono a casa.
Afferrai il cellulare e composi frettolosamente il numero di mio fratello diciottenne: Filippo mi avrebbe perdonata per averlo svegliato, avrebbe compreso l’emergenza. Sempre che si svegliasse.

Qualche squillo e poi mi giunse un grugnito dall’oltre tomba.
“Filo! Oh, dimmi che sei sveglio, dimmi che sei a dormire da Pietro e che hai le chiavi di casa con te!”
“Cosa? Mh? Ceci ma sei tu?”
“Sì, sì che sono io! Sono a casa, a Venezia. Sai, è successa una cosa con Alexandros e…”
Percepii la smorfia di disgusto dall’altro capo del filo, mio fratello odiava Alex.
“Ma sai che ore sono?! E comunque non sono a casa, anzi sono in Francia, ricordi? Il ritiro di hokey.”
Oh Gesù, che stupida, l’avevo scordato.
“E la mamma? Il papà? Dove sono?” Pigolai mentre la risposta mi giungeva come una mattonata in testa.
“Ceci, sono via pure loro, come ogni anno, come ogni estate da anni...si può sapere cosa ti succede?”
Spiegai brevemente la situazione e alla fine mi promise di provare a mandarmi le chiavi per posta in un modo o nell’altro.
Chiusi la chiamata e mi sedetti sul gradino dell’ingresso. Mi sentii addosso tutta la stanchezza delle ultime ore, non riuscivo a pensare lucidamente e mi sentivo crollare da un momento all’altro.

Il pensiero di Alexandros e i ragazzi mi tormentava dandomi la nausea e le chiamate che continuavo a ignorare sul mio telefono non mi facevano sentire meglio.
Alzai lo sguardo sulla piccola piazzetta all’interno delle calli veneziane in cui mi trovavo e notai che dal vicolo buio che portava lì, si stava avvicinando un…un…qualcosa di strano: una specie di montagna bitorzoluta camminante.
Man mano che si avvicinava capii che era una persona sommersa da borse e cose del genere.
Perfetto. Stavo per essere aggredita da un barbone.
Strinsi a me lo zaino con le macchine fotografiche all’interno, pronta a darmela a gambe. La figura si avvicinava barcollando lentamente.
“Hey? Hey tu, dammi una mano per favore!”
La voce che mi raggiunse facendomi sobbalzare non era di certo quella arrugginita e graffiante di un ubriacone bensì quella di un ragazzo.
 Mi avvicinai titubante, ma quando vidi
una delle borse in serio pericolo di schiantarsi a terra, trotterellai avanti e l'afferrai al volo.
Sorpresa dei miei riflessi nonostante la mia stanchezza obesa, guardai cosa mi fosse capitato in mano.
Per poco non cadde di mano pure a me: era la custodia di una chitarra.
Cristo santo, ero tornata indietro?
“Occhio!”
“Oh, scusami, scusami.”
Strinsi al petto lo strumento e alzai lo sguardo sullo sconosciuto musicista nottambulo.
“Ma tu non sei…”
Mi sforzai di ricordare il nome da associare a quel viso: occhi sorridenti color nocciola scuro, un sorriso gentile e capelli abbastanza corti, un po’ spettinati, senza un senso.
“Ti ho già visto in giro.” Conclusi fissandolo aggrottando le sopracciglia.
Anche lui mi guardò per una frazione di secondo e finalmente mi si accese la lampadina.
“Andrea, giusto?”
“Sì, esatto! E tu credo sia Cecilia, abitavo nella via parallela alla tua.”
Annuii riportando la mente a rari incontri per strada iniziati e conclusi con un cenno del capo, un sorriso ed un saluto distratto.
“Ma certo, sì, ora ricordo…E hai una band se non sbaglio?”
“Hum, no. Trasporto strumenti pesanti per tenermi in forma, sai. Hop!” Rispose lui molleggiandosi sulle gambe magre.
“Ah, davvero? Sì, bèh, è un buon modo per, insomma…originale, ma...”
“Hey, stavo scherzando. Suono davvero in una band!”
Il suo sguardo divertito mi face sprofondare e interrompere il mio borbottio insensato: il sonno stava decisamente vincendo la mia capacità di captare l’ironia.
“Anzi, è colpa dei ragazzi se sto tornando a quest’ora con tutti questi strumenti."
Continuò Andrea.
"Hanno deciso di provare la follia delle prove notturne, non chiedermi nemmeno il perché!”  sbuffò, tentando di non far scivolare la tastiera che trasportava in bilico.
“Bèh, se ti va posso aiutarti a portarli fino a casa.”


Tanto valeva essere utile a qualcuno, dopotutto non avevo idea di dove e come avrei trascorso la notte.
“Oh, grazie! Mi salvi la vita.”

Ci incamminammo lentamente ciondolando sotto tutto quel peso, scambiandoci qualche parola fluttuante nell'aria tiepida, oltrepassammo un ponticello su un canale ed arrivammo fino ad un portone in una stradina stretta stretta.  
“Ah, grazie davvero!”
Andrea appoggiò gli strumenti all’ingresso ed aprì la porta, poi si rivolse a me con un’espressione gentile.
“Ascolta, vieni dentro: ti offro qualcosa per la sfacchinata.”
Normalmente, non avrei mai accettato, ma quella notte pensare lucidamente non era il mio forte e così sorrisi a mia volta e acconsentii ringraziandolo.
“Figurati, per il momento son qui da solo. Vivo con mio fratello da quando i miei si sono trasferiti, ma per qualche settimana si è tolto dalle scatole, con mio grande dispiacere!”
Face una smorfia buffa che mi fece scappare una risata assonnata.
Entrai in un salotto accogliente che dava su una cucina un po’ in disordine; gli avanzi della cena sul tavolo e i piatti da lavare nel lavandino davano un atmosfera familiare, di vita, di normalità.
A un cenno di Andrea  mi accomodai sul divano senza riuscire ad evitare un sospiro di sollievo: comodità.
Poco dopo mi raggiunse anche lui con due birre fresche.
“Ma tu, invece, da dove spunti fuori a quest’ora di notte?”
Sospirai immergendomi nel cuscino e desiderando scomparire piuttosto che raccontare e rivivere tutto.
Alexandros, i ragazzi e Londra sembravano lontani anni luce.
“Diciamo che sono scappata da Londra all’improvviso ed ora mi ritrovo qui senza chiavi di casa .”
Osservai la sua espressione stupita, con le sopracciglia sollevate e un lampo curioso negli occhi.
“Scappata da Londra? ”
“Storia lunga…”
Abbassai lo sguardo, pensierosa.
“Beh, se posso fare qualcosa, dimmi pure!"
Lo guardai riconoscente a quel nuovo vecchio conoscente così gentile.

"Posso procurarti un documento falso se l'Intelligence ti sta ricercando...”
Ridacchiai e mi misi a sedere stiracchiandomi, poi aggiunsi:
“Se puoi sopportarmi ancora un po’, provo a fare qualche telefonata e trovare qualcuno che mi ospiti stanotte.”
Mi alzai e afferrai il cellulare, ignorando nuovamente le chiamate ricevute e preparandomi a chiamare le mie migliori amiche.
“Certo, fai pure. In caso, se ti fidi, posso sempre offrirti la camera di mio fratello. Certo, so che non ci conosciamo e che probabilmente rischi un’infezione o la peste o peggio, entrando lì dentro, ma è pur sempre meglio che lasciarti per strada e…”
“Grazie.”
Ci guardammo per un secondo sorridendo, poi filai a telefonare in cucina.

Dopo qualche minuto tornai abbattuta in salotto, le mie migliori amiche erano inutili in quel momento: le loro segreterie telefoniche mi avevano avvisato che Viola  era in Palestina, mentre Carlotta in Tunisia con il suo ragazzo.
“Beh, temo dovrò prendermi qualche malattia incurabile.” Proclamai risoluta.
Andrea rise e si alzò facendomi strada al piano di sopra, nella camera del fratello.
“Qui c’è il bagno e qui sto io. E’ difficile che ti perda, ma se hai bisogno di una cartina geografica o qualsiasi altra cosa fa un fischio. Ok?”
Il ragazzo rimase sulla porta mentre io posavo lo zaino sul pavimento.
“Grazie, grazie ancora, sul serio! Domani ti lascio in pace, promesso! Dovrò assolutamente sdebitarmi, sul serio…” Cominciai io, blaterando.
Lui alzò una mano per fermarmi.
“Non farti problemi, è un piacere poter salvare qualcuno dal barbonaggio.”
Risi, sedendomi sul letto, rassegnata ad avere un gran debito di riconoscenza con quel ragazzo.
“Dai, ti lascio riposare, sembri davvero sfinita. Buonanotte.”
“Buonanotte. E grazie.”
Andrea chiuse la porta con un ultimo sorriso e finalmente mi abbandonai per l’ennesima volta su un letto che non era il mio, per la prima volta sentendomi a casa.






Uo, sto sfornando capitoli su capitoli! Grazie alle mie lettrici!
Grazie sul serio alla mia Luci e a parameg che hanno recensito!
Spero piaccia anche questo capitolo e che continuiate a seguirmi!
Bacio,


Ireth



L'immagine all'inizio non mi appartiene, tutti i copyright sono di   http://weheartit.com :)

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Capitolo 5
*** Chapter V ***



Capitolo V

“I need a fix cause i’m going down.”




Aprii gli occhi.

Una radiosveglia rossa, la scritta lampeggiante “11.58”, il lenzuolo a righe gialle e blu, la penombra e il tepore assonnato del mezzogiorno.
Per qualche secondo restai così, senza pensare a niente, senza nemmeno sapere chi fossi, circondata da quegli oggetti, ascoltando i rumori che provenivano dalla finestra lasciata aperta, con gli scuri chiusi che lasciavano entrare qualche scaglia di luce e mondo.
Quando cominciai a recuperare me stessa in mezzo al sonno da cui ero circondata, una piccola fitta nel petto mi ricordò tutto ciò che era successo la notte prima.
Era assurdo, come se il mio istinto avesse agito senza di me e avesse trascinato con sé il corpo e tutta la mia razionalità.
Mi misi a sedere sul letto e fissai il pavimento: mi girava la testa a pensare di dover affrontare quello che era successo, avrei pagato oro per tornare a quel sonno vuoto di poco prima.
Ma dovevo pur reagire, no? Anche perché al momento ero una senzatetto parassita.

Presi il cellulare dal comodino e osservai l’elenco delle dodici chiamate perse sullo schermo: sei erano di Jacob, tre di Christos, una di Helena e due di Dionisis.
Chiusi gli occhi cercando di non cedere alla nausea: Alexandros non aveva neppure provato a contattarmi.
Un messaggio di Filippo distrasse la mia attenzione:

Ceci, le chiavi arriveranno minimo tra una settimana. Qui c’è un maledetto sciopero delle poste. Spero tu abbia trovato posto da Viola o Carlotta, chiamami se hai problemi!

Oh, perfetto insomma.
Sospirai alzandomi: dovevo fare qualcosa in fretta e riuscire a trovare una soluzione al più presto.
Infilai il telefono nella tasca dei jeans che ancora indossavo dalla sera prima e mi decisi a uscire dalla camera.
Mentre scendevo le scale mi bloccai per un secondo sentendo che qualcuno al piano di sotto stava cantando:

And in my hour of darkness
she is standing right in front of me
Speaking words of wisdom, let it be.
*

Rimasi in ascolto esitante, come se stessi infrangendo un momento intimo, poi scesi gli ultimi gradini, entrando nel salotto.
Lì, il mio buon samaritano cantava seduto alla tastiera con le cuffie sulle orecchie, rivolgendomi le spalle.
Non so perché, ma non riuscii ad interromperlo: aveva davvero una bella voce: sincera, intonata, forte ma allo stesso tempo capace di far trasparire qualche piccola crepa di debolezza che faceva venire i brividi.

And when the broken hearted people
Living in the world agree,
There will be an answer, let it be.
*

 Me ne stavo lì e attendevo che Let it Be finisse, osservando come Andrea stesse incurvato, concentrato sui tasti bianchi e neri, come la colonna vertebrale si delineasse attraverso la maglietta e quanto fosse magrolino.

Whisper words of wisdom, let it be.”*

A quell’ultima frase restai ancora imbambolata per un secondo, poi battei timidamente sulla spalla al ragazzo che, dopo un lieve sussulto si voltò togliendosi le cuffie.
“Hey, buongiorno!” esclamò alzandosi. “Sopravvissuta al letto di mio fratello?”
“Sì sì, l'ho apprezzato fin troppo vista l’ora!” risposi tormentandomi la maglietta viola che indossavo e smettendo non appena realizzai fosse di Alexandros.
Dovevo avere un aspetto orribile: la notte prima non avevo badato a cosa mi fossi buttata addosso per andare all’aeroporto e tantomeno a cosa avessi messo in valigia, prendendo alla rinfusa vestiti miei e non, gettandoli nello zaino a caso.
“Tranquilla, mi sono svegliato giusto mezzoretta fa anch’io. Anzi, se ti va c’è del caffè e qualcosa da mangiare in cucina.” proseguì lui stiracchiandosi.
“Oh no, no no. Non voglio abusare ancora dell’ospitalità, grazie.”
Santo cielo, non volevo essere una sanguisuga umana.
“ Ma dai, dammi soddisfazione! Ho sempre sognato di aprire un Bed and Breakfast!”
“Davvero?” Chiesi io guardandolo con aria interrogativa.
“No.”
“Oh.”
Scoppiò a ridere alla mia faccia imbarazzata. Ok, la scusa del sonno non regge più: sono incapace di capire le sue battute.
“Lo aprirò quando sarò  una cinquantenne piena di gatti in pensione.” Proseguì lui cacciandomi fuori un sorriso. “Comunque, non c’è problema, davvero. Serviti pure, mi fa piacere.”
Stavo per declinare nuovamente l’offerta, quando il cellulare squillò.
“Scusa un secon…”
Sullo schermo la scritta ‘Alex’ ebbe l’effetto di una mattonata in pancia.
Mi allontanai di qualche passo verso il divano mentre vidi con la coda dell’occhio Andrea che spariva in cucina per non disturbarmi.
Ok, puoi farcela Ceci, respira.
“Sì?”
“Hey!”
La sua voce peggiorò la situazione ‘mattonata in pancia’ facendola passare a ‘intero muro di mattoni nello stomaco’.
“Si può sapere che fine hai fatto? I ragazzi ti stanno cercando per tutta Londra!” continuò lui.
“Io sono a cas…hem, a Venezia.”
“Sei in Italia!? ”
“Sì.”
Rispondevo alle domande senza capire dove sarebbe andata a finire quella conversazione, non mi passava niente per la testa se non una specie di rimbombo.
“Ma come hai...? Beh, non importa. Ascoltami, Ceci, io so che ieri notte è stato…bè, insomma ho sbagliato, diciamo…”
L’immagine della cameriera mi rivoltò lo stomaco, già abbastanza bastonato dalle precedenti mattonate.
“…Ma, ascolta io non posso farcela ad andare avanti così. Sono in una band! Non posso controllarmi sempre e starti appiccicato. Devo mantenere una certa immagine libera di me stesso, sai il pubblico lo nota, apprezza che io sia a sua intera disposizione, senza legami…”
Un momento, aveva sul serio detto questo? Stava sul serio ponendo il problema sulla sua immagine nella sua trascurabile band con il suo minuscolo pubblico?
“…Mi sento oppresso capisci? Io devo stare con i ragazzi, divertirmi! Mi capisci vero babe? Io ti amo, ma devo pensare ad essere un musicista, non possiamo fare i piccioncini, sono le regole del tour…”
“Tu mi hai detto di piantarla di starti tra i piedi.” Sbottai.
Lo interruppi così, temendo di tremare talmente forte che lo potesse sentire anche lui a Londra.
“Io? Quando? No, ero...Ero ubriaco!”
“Ma è quello che mi stai dicendo ora. Tu non mi vuoi tra i piedi.” Ripetei piattamente.
“Io, non è che non ti voglia, è che…”
“E’ che tu tieni di più a te stesso che a me.”
Era così semplice.
“Ma che dici? Io semplicemente…”
“Non mi ami.”
“Certo che ti…ti voglio bene!”
Deglutii, mentre cominciavano a bruciarmi gli occhi.
“E con il tuo bene cosa ci devo fare?”
Ci fu una strana pausa di silenzio poi sentii che dall’altro capo del filo Alexandros tossicchiava.
“Potremmo restare amici, almeno per un po’ finchè…”
Basta.
Non potevo più resistere al telefono, la mia voce ormai si stava sgretolando, ma non volevo sentisse quanto mi stesse facendo male quella frase.
“Certo.” Riuscii a balbettare.
Era come se fosse crollata una diga, mi era bastata quella parola per emettere la mia sentenza finale. Era finita. Ora la crepa non era più riparabile.
“Oh, perfetto allora! Sono contento tu sia d’accordo.”
Riuscii a stento a sopportare la sua voce sollevata, quasi baldanzosa.
“Una di queste settimane ti porto lì le cose che hai lasciato qui. Ora devo andare, stammi bene, Kοριτσακι μου*, ok?”
“Ok.”
“Baci, ciao!”
Riattaccò.

Andrea entrò che stavo ancora fissando il muro davanti a me, come una squilibrata. C’era mosca che si puliva le zampette lì, sul bianco.
“Oh, hey?! Tutto…tutto a posto? ”
Mi voltai a guardarlo e capii che dovevo avere davvero un’espressione sconvolta dalla faccia traumatizzata con cui mi guardava.
Per un secondo mi venne da ridere: aveva un’aria veramente preoccupata, mentre Alexandros nemmeno mi aveva chiesto come stessi, era una cosa così buffa.
Poi crollai lentamente sul divano, rischiando di mancarlo, tanto che l’ultima cosa che vidi prima di scoppiare a piangere, fu Andrea che, prendendomi per le spalle, mi spingeva sui cuscini evitando che scivolassi per terra.

Continuai a singhiozzare appoggiata a quel povero ragazzo che se ne stava zitto aspettando che finissi, tenendomi una mano posata sulla testa, mentre la sua maglietta si inzuppava di pianto.
Era finita. Basta, non c’era niente da aggiustare questa volta. Non ci sarebbe stato nessun concerto, nessuna musica a farmi incantare, nessuna voce a farmi ricredere.
“Su, su dai...si risolve tutto, dai.”
Andrea aveva cominciato a darmi qualche colpetto sulla schiena, ed io, nel mio delirio, esibii la mia migliore performance di frasi sconclusionate e non connesse tra loro, in uno specie di sfogo di tutto quanto.
“E…e in più m…mio fratello ha le chiavi e…e…arriveranno tra una settimana…Non ho nessun…nessun posto!”  Conclusi singhiozzando, poi stetti in silenzio per qualche secondo realizzando che avevo appena innaffiato di muco, lacrime e residui di trucco la maglietta di un povero semiestraneo che stava subendo la mia scenata da un bel po’.
Mi asciugai le lacrime, cercando di ritrovare la mia dignità ormai perduta per sempre.
“Beh, se posso risolvere almeno uno dei tuoi problemi, posso dirti che qui puoi restare. Per una settimana non c’è problema, basta cambiare le lenzuola di mio fratello e poi sei al sicuro, più o meno!” Disse lui.
Sollevai lo sguardo sul ragazzo che mi guardava con un sorriso incoraggiante.
“Io…io, bi dispiace per duddo questo…insobba…” Borbottai tirando su con il naso.
“Sta tranquilla. Posso capire che sia un brutto momento, ne ho avuti anch’io! Ma ora dimmi solo se vuoi restare o no.” Disse con tono deciso.
Sospirai.
“Io…non voglio starmene qui…come un parassita.”
“Allora mi aiuterai a casa ok? Ci dividiamo qualche compito, se proprio vuoi ripagarmi per qualcosa. D’accordo?”
Restai per un secondo a guardarlo: aveva la barba fatta da poco e le ciglia lunghe a guardarlo da vicino.
Perché quella mattina riuscivo a concentrarmi solo su cose assurde?
Pensai alla proposta e capii che non avevo scelta, finché non avevo altri posti dove stare.
“Io, va bene se non…”
“Perfetto. Non voglio sentire altro ok?”
Il ragazzo si sollevò in piedi e mi tese la mano.
“Andiamo su a cambiare il letto di quella bestiaccia.”


 E fu così che iniziai la mia settimana di convivenza con Andrea. Stavo bene lì. Non uscivo quasi mai di casa: alla mattina Andrea usciva per andare all’università ed io preparavo il pranzo e ciondolavo davanti alla tivù, poi lui tornava per mangiare e spesso ripartiva per andare a suonare con i ‘Found’, la sua band.
Alla sera, quando tornava, si metteva a cantare ed io lo ascoltavo dal mio angolino sul divano, o preparando la cena. Era bello stare con lui, stavamo ore a chiacchierare di quello che ci passava per la testa ed io riuscivo a non pensare per un po’ a Londra e i ragazzi.
Era come ritrovare l’equilibrio per camminare e Andrea mi stava tenendo per mano in quel momento.
E mentre facevo i miei primi passi, mi rendevo conto di essere ancora su una fune sospesa.


* Koritsaki mou: ragazza mia, bimba mia.

*La canzone è Let it be dei Beatles!

Ecco qui un altro capitolo, un po' più lungo e un po' più significativo (:
Insomma Alexandros si è mostrato per quel che è e Cecilia è allo sbando. Chennepensate? 


Approfitto per un ringraziamento speciale a Marghe e la Lucy che mi recensiscono sempre. Megagrazie!
A
 prestissimo,

Ireth



L'immagine all'inizio non mi appartiene, tutti i copyright sono di   http://weheartit.com :)

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Capitolo 6
*** Chapter VI ***


Capitolo VI



"Nothing is gonna change my world." (Or maybe yes.)


“Brava, così…Ora accellera piano piano…No, aspetta ho detto PIANO!”
L’auto sobbalzò frenando e facendoci catapultare la testa avanti.
Guardai Andrea a fianco a me sorridendo imbarazzata.
“E’ chiaro: nella tua vita precedente non eri un pilota.” Disse il ragazzo appoggiando la testa al sedile e tirando il fiato.
“Ma è la prima volta che ho in mano un volante!” Mi lamentai io tirando il freno a mano e spegnendo il motore.

Sì, avevo vent’anni, ma non avevo mai preso la patente: fino a quel momento mi aveva sempre scarrozzato in giro Alexandros e, con tutti i nostri viaggi, non avevo mai avuto l’occasione d’imparare.
Quel pomeriggio però, Andrea mi aveva chiesto se potevo dare un passaggio a Stefano, il batterista dei Found, per una commissione fuori Venezia e, alla mia risposta “Non so guidare.” aveva deciso per conto suo di insegnarmelo, nonostante le mie proteste.
Ci trovavamo in un piazzale deserto, un parcheggio di un centro commerciale in disuso.
“Dai, in realtà stai andando bene, devi solo andarci piano con quella frizione…e cercare di non schiantarti contro i muri, se possibile.”
Gli assestai un pugno sulla spalla, mentre lui rideva e mi misi a guardare il sole che cominciava la sua discesa verso il tramonto.
Erano sei giorni che ero a Venezia e mi sentivo un tantino meglio.  Andrea era un amico grandioso: sapeva farmi ridere e distrarmi dai brutti pensieri, in sua compagnia mi sentivo in qualche modo rassicurata e tranquilla; tra noi era tutto semplice, un’amicizia appena nata e sbocciata in fretta, genuina e spontanea, senza complicazioni.
Ma nonostante questo, l’ombra di Alexandros mi disturbava in ogni momento. Quando ero a casa da sola mi tormentava: ad ogni minimo rumore, lo immaginavo entrare a casa per portarmi le cose che avevo scordato a Londra, ad ogni squillo del telefono il cuore mi esplodeva temendo fosse lui che, non trovandomi a casa dei miei, mi stesse cercando.
Non volevo rivederlo. Ma dovevo, bisognava affrontarlo.

Rabbrividii al pensiero di dovergli parlare e distolsi lo sguardo dal cielo. Voltandomi a destra mi trovai faccia a faccia con Andrea che mi guardava, come se mi stesse studiando con quegli occhi da cerbiatto.
“Che c’è?”
“Nulla, cercavo di capire dove fluttuavi.”
Sorrisi alzando le spalle, come per scusarmi.
“Fluttuavo a caso.”
“Ok, lasciami tornare al posto di guida che è meglio, allora.” Ridacchiò mentre lo guardavo male e aprì la portiera.
“Bèh, concludiamo qui la prima puntata di ‘distruggi la mia macchina’ e andiamo a riprendere Stefano?” Chiese mentre riprendeva possesso del volante.
“Agli ordini, boss!”
Qualche minuto dopo eravamo sulla strada di ritorno con Stefano seduto sul sedile posteriore. Era un ragazzo simpatico, più stempiato di come avrebbe dovuto essere alla sua età, carnagione abbronzata e uno sguardo timido che non gli si addiceva per niente.
“La tua macchina fa schifo, capo.” Stava dicendo ad Andrea. “E’ sporca come poche!”
“Oh vecchio, piantala di lamentarti o ti lascio a piedi.”
“Eddai, potresti fermarti all’autolavaggio qui a destra!”
Andrea sbuffò guardandomi e alzando poi gli occhi al cielo.
“Non ho soldi da buttare, Stè!”
“Mio dio, sei un poveraccio. Dai, offro io il lavaggio, gira qui!”
Stefano indicò una stazione di servizio con l’autolavaggio automatico che svettava come una scatoletta grigia con i suoi spazzoloni gialli rossi e blu penzolanti.
“E va bene!” Sbuffò Andrea svoltando ed entrando nello spiazzo e posizionandosi all’inizio del macchinario.
 Stefano scese al volo dalla macchina sventolando dieci euro; lo seguii con lo sguardo dal finestrino mentre lui inseriva i soldi e attivava il lavaggio sedendosi poi su una panchina e facendoci segno di tirare su tutti i finestrini.

“E’ così indecente?” Chiese Andrea rivolgendosi a me.
“Hmm, diciamo che ha il fascino dell’immondizia.”
 Il ragazzo sospirò un  “Ma guarda te cosa mi tocca fare!” con un sorrisetto accondiscendente mentre la macchina avanzava da sola sul tappetino mobile dell’autolavaggio, procedendo nella penombra del macchinario e nascondendoci dalla vista di Stefano.
“Invece è bellissimo!” Esclamai io. “Quando ero piccola adoravo stare in macchina quando papà la lavava!”
Andrea si voltò a guardarmi incuriosito, mentre io osservavo affascinata gli spruzzi d’acqua che colpivano i vetri creando tanti rigagnoli e stradine tremolanti sul finestrino.
“Bellissimo?”
Guardai il ragazzo felice come una pasqua, senza riuscire a trattenere il mio entusiasmo.
“Sì, è divertente! E’ come essere in una capsula spaziale o in un altro pianeta: è tutto così buio e strano, le gocce sembrano volarti addosso, mentre tu stai al sicuro e le guardi…”
Lui rise scuotendo la testa e continuando a guardarmi come se fossi un fenomeno da baraccone…In effetti non ero del tutto normale, sembravo elettrizzata.
I getti spruzzarono il sapone e le bollicine bianche e azzurrine ci avvolsero in un silenzio ovattato, interrotto dagli zwnn zwnn dell’autolavaggio all’opera.
Me ne stavo in silenzio con le mani appoggiate al vetro, guardando rapita come gli spazzoloni avevano cominciato a ruotare e avvicinarsi ai vetri.
“Vedi vedi? Adesso inizia il bello!”
Mi voltai verso Andrea indicando fuori dal finestrino e mi sorpresi quando vidi che lui stava guardando me.
Aveva la testa inclinata appoggiata sul dorso della mano, e mi fissava in modo strano, come se non stesse vedendo me, ma qualcosa dentro di me.
“Che c’è?”
Mi passai una mano sulle labbra e lanciai uno sguardo allo specchietto retrovisore, tutto a posto: i soliti capelli castani, lunghi e mossi, soliti occhi castano chiaro, solite mie guancie arrossate. Niente dentifricio appiccicato in faccia o cose del genere.
“Nulla.” Disse lui piano. “Guardavo  dove fluttuavi, ma non penso di poterlo capire mai.”
Gli occhi scuri restavano fermi e luccicanti sulla mia espressione a punto interrogativo, dandomi una strana impressione, come un giramento di testa.
“Scusa, non stavo vagando con la mente stavolta. E’ solo che questo mi riporta a quando ero piccola.” Mormorai a mia volta, adattandomi senza volerlo al suo tono.

Gli spazzoloni avevano oscurato l’abitacolo della macchina con il loro sfrush sfrush meccanico e sembrava di essere sott’acqua, o sotto terra, o forse nello spazio, isolati da ogni cosa.
Andrea continuava a rimanere lì inclinato leggermente verso il mio sedile, guardandomi con un piccolo sorriso e quell’espressione indecifrabile.
Vagai sul suo viso magro e dolce, cercando di capire cosa diavolo gli stesse passando per la testa.
“E tu? Dove stai fluttuando?” Chiesi infine, rompendo il silenzio.
“Io sono fermo qui.” Disse lui semplicemente. “Perché è il miglior posto in cui potrei fluttuare.”
Ci stavamo guardando uno di fronte all’altra e nemmeno mi resi conto di quanto fossimo vicini: potevo distinguere una ad una le sue ciglia.
 “Non ti sembra strano?” Sussurrai.
 Sentivo le mie stesse parole come un’eco, era tutto surreale.
E in quel momento lui si avvicinò di più. Sentii la sua voce dire: “Tu sei strana.” Poi, non so come, ma le nostre labbra si toccarono.
Fu qualcosa di velocissimo o forse di lentissimo. Non so. So solo che nello stesso momento in cui mi rendevo conto di quello che succedeva, allo stesso tempo non riuscivo a capacitarmene. Mi stava baciando? Penso di sì. Vedevo i suoi occhi chiusi e le sopracciglia inarcate, il naso che mi sfiorava e il battito mancato del mio cuore.
Gli spazzoloni se n’erano andati, lasciando spazio a getti d’acqua calda che facevano correre le goccioline come tante biglie trasparenti.
Bip!
Il lavaggio era finito. Andrea aprì gli occhi e si ritrasse, come scottato, con aria scombussolata. Io rimasi lì ferma, ancora inchiodata alla mia postazione, senza riuscire a spiccicare parola.
Ci fissavamo, entrambi sperduti.
“Oh, finalmente! Ora scintilla!”
La voce di Stefano ci riscosse, facendoci sobbalzare.
“Oh…hm, sì. Perfetto, grazie Stè.”
Andrea riavviò il motore e riprendemmo il viaggio per tornare a casa.
Stefano continuava a parlare mentre io non riuscivo a dire ancora nulla. Diedi un’occhiata ad Andrea che guidava con lo sguardo fisso sulla strada, le labbra serrate, annuendo talvolta ai racconti del batterista.
Cosa cavolo era successo?Un momento prima eravamo tranquilli e a nostro agio come sempre e poi…poi cos’era successo? Cosa significava questo? Ero frastornata. Non riuscivo ad assimilare l’accaduto, semplicemente. Era successo tutto in un mondo parallelo, avevo sognato. Ma allora perché Andrea era così teso? Perché io non riuscivo a spiccicare parola e il mio petto rimbombava impazzito?
Accompagnammo Stefano a casa e proseguimmo a piedi per le vie di Venezia. Non ci fu nemmeno una parola durante la camminata.
Entrammo in casa impacciati, come se non ci fosse abbastanza posto per tutti e due.
“C’è posta.” Parlò lui per primo, sollevando una lettera da terra, lasciata cadere dal postino attraverso lo spiraglio della porta. “E’ per te.”
“Oh.”
Lo raggiunsi e presi la busta, aprendola senza nemmeno guardare il mittente. Mi scivolò dalle mani una chiave: Filippo era riuscito a spedirmela.
Fissai l’oggetto raccogliendolo e passandomelo tra le dita.
“E’ la chiave di casa.” Dissi, con tono assente.
“Oh.” Andrea che si schiarì la voce. “Allora, se vuoi ti accompagno.”
Mi voltai e non riuscii a guardarlo in faccia, poi annuii.
“Vado a prendere la borsa.” Dissi e mi diressi verso le scale superandolo, lasciandolo lì al centro del salotto.
Era finita la nostra convivenza, ora potevo finalmente tornare a casa. Ma non mi sentivo soddisfatta, era come se avessi un palloncino nel petto, una sensazione di scombussolamento totale. Quello che era successo poco prima sembrava avermi rovesciato come un calzino.
Tornai al piano di sotto con le mie cose e ci incamminammo insieme nel buio della sera.
Arrivati al portone di casa mia ci fermammo.
“Bèh, grazie per questa settimana Andrea, davvero.”
Riuscii ad alzare lo sguardo per vedere le sue belle labbra sorridere lievemente.
“Non c’è di che. Mi ha fatto piacere.” Mormorò passandosi una mano tra i capelli che si scompigliarono ancora più del normale.
“Sono in debito con te, lo sai?”
“Figurati!”
Calò di nuovo il silenzio. Sembrava la stessa sera in cui l’avevo incontrato, c’era un bel venticello estivo a rinfrescare la serata e il cielo era limpido. Stavo per non reggere più l’imbarazzo quando Andrea prese un bel respiro e mi guardò in faccia.
Ecco, ci siamo.
“Ascolta Ceci, riguardo prima io…”
Ma la frase non finì.
Non finì perché una voce lo interruppe.
La voce.
“Ceci! Eccoti finalmente.”
Alexandros.




DADADAN! Hahahaha tensione e suspense!
Eccomi con un altro capitolo. Lo so, sto sparando a raffica capitoli e non riesco a fermarmi, non so se sia un male o un bene. :D
Probabilmente sto andando così veloce perchè voi mi gasate un sacco. Voi chi?
Bèh, le mie lettrici :)
Un big Grazie a 
Alan, Cohava, Ametyst, Foldr, Christine, Parameg e Lucy.
Vi adoro, grazie!
Bèh, quindi siamo arrivate a questo punto, le cose si sono complicate. Voglio sapere cosa ne pensate. Cosa vorreste accada? Chi prova ad indovinare? :D
Un bacione grandissimo
alla prossima!


Ireth

 

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Capitolo 7
*** Chapter VII ***


Capitolo VII

 

  "When people run in circles is a very very mad world"


 




Eravamo lì tutti e tre in piedi: una strana scena teatrale dai personaggi scombinati, presi da copioni diversi.
Fissavo Alexandros con la bocca semiaperta, mentre ancora ero voltata verso Andrea, che guardava a sua volta il greco con l’espressione vacua di chi era appena stato distratto da qualcosa di molto importante.
Non riuscivo a dire niente, non potevo far altro di notare particolari insignificanti: la maglietta verde fosforescente che indossava, il suo viso a metà tra un sorriso trattenuto e un’espressione contrita, lo zaino che portava in spalla.
 “Ceci!” Ripetè nuovamente lui. Avanzò verso di me coprendo con pochi passi la distanza che ci separava.
Rimasi più o meno sotto shock quando mi sentii stritolare tra le sue braccia: me ne restai inerte, con le braccia a penzoloni mentre lui continuava a blaterare cose che non capivo come: “Sono tornato a prenderti, hai visto? Non preoccuparti ora!”
Cosa? Cosa stava dicendo? Mi sentivo come se avessi perso un passaggio fondamentale nella storia: da quando lui doveva venire a prendermi? Da quando mi abbracciava così?

Finalmente mi lasciò andare, guardandomi raggiante.
“Non sei contenta di vedermi?”
Cercai di parlare, ma la voce si incagliò in gola un paio di volte.
“I...Io…cosa?...Non capisco.” Riuscii finalmente a far rotolare fuori: il mio cervello era tutto vuoto, non ragionavo più, non capivo più.
Alexandros mi stava di fronte tenendomi le mani sulle spalle e sorridendo tranquillo.
“Hem.”
Qualcuno tossicchiò alle mie spalle, ci voltammo entrambi a guardare Andrea: era rimasto immobile, a fianco al portone, con un’espressione indefinibile negli occhi che brillavano scuri nella luce dei lampioni.
“Io credo sia meglio che vada.” Disse lentamente, spostando lo sguardo al marciapiede e posando lo zaino che mi aveva aiutato a portare.
 Restai lì, frastornata, riuscendo soltanto a vederlo voltarsi e incamminarsi pian piano -così lentamente da spezzare il cuore- lungo il vicolo.
Fluttuava via.
“Ma…”  Sussurrai a mezza voce, senza riuscire a terminare la mia inutile frase poiché mi trovai di nuovo faccia a faccia con Alex, che si era spostato per guardarmi, coprendomi la viuzza e Andrea che se ne andava curvo nel buio.
“Chi è quello? Un tuo amico?”
“Lui è…” Pensai a poche ore prima: l’autolavaggio, la bolla isolata dal mondo, le labbra, la penombra. “…è Andrea.” Conclusi con lo sguardo fisso nel vuoto oltre la spalla del mio (ex?) ragazzo.
“Ah bè, ad ogni modo, eccomi qui!” Continuò lui, senza aspettare altre spiegazioni e costringendomi ad ascoltarlo, sollevandomi il mento con la mano.
 “Mi dispiace che tu sia dovuta restare senza di me questi giorni, davvero! Ma ci ho ripensato, sai? Quindi non preoccuparti, non ti lascio più qui da sola!”
Che cosa? Ma io non ero stata da sola.
Lo guardai senza capire, sembrava fosse al settimo cielo, come se avesse trovato una soluzione ad ogni problema, compreso il cubo di Rubik e la cura di tutte le malattie.
“Io, non capisco Alex.” Riuscii finalmente a dire. “Non capisco cosa stai dicendo. Cosa vuoi da me? Pensavo dovessi portarmi le mie cose e che non mi volessi più tra i piedi. L’hai detto tu. Hai detto che dobbiamo restare amici.”
Lui sbuffò come se stessi dicendo frivolezze e mi guardò con tenera compassione.
“Ceci, lo so di aver fatto qualche pasticcio, insomma…può capitare no? Però ho cambiato idea e sono qui per riprenderti con me.”
Stava scherzando?
Avevo passato e stavo passando giorni atroci per le parole che mi aveva riversato addosso, per quegli anni di umiliazione e perdoni immeritati. Ma lui aveva cambiato idea ora. E voleva riprendermi, ma certo.
“Riprendermi con te?” Ripetei io, senza riuscire ad assimilare l’assurdità del suo discorso.
“Sì! Ti ho preso un biglietto per Atene. Starai dai miei finché io non finisco il tour e poi potremo stare insieme ancora!” Esclamò lui senza riuscire a trattenere un sorrisone enorme.
“Aspetta un secondo.”
Mi girava la testa e dovetti fare qualche passo indietro per prendere un respiro e farmi tornare l’equilibrio.
“Tu mi hai lasciata e hai detto che dovevamo restare amici…” Cominciai.
“Sì ma solo per un po’ e…”
“…e ora mi stai dicendo che dovrei andare ad Atene per stare con i tuoi genitori e aspettarti finché non hai finito di spassartela con i ragazzi a Londra?”
Più parlavo, più la situazione mi si dipanava davanti agli occhi: lui pensava che fosse tutto facile, che avrebbe potuto averla vinta ancora una volta senza sacrificare niente, lui pensava di potermi gestire.
“Bèh sì, detta così suona male, ma è più o meno questo che avevo in mente. Non sei felice, babe?”
Alzai la testa piano e lo guardai vacua: passai in rassegna la sua faccia compiaciuta, il sorriso da vincitore, gli occhi ammiccanti, ogni cosa.
“No.” Dissi poi semplicemente.
Stavolta no, non era una ferita guaribile, non era una crepa aggiustabile.
Lui si ammutolì e assunse un’espressione stordita…non si aspettava nulla di tutto ciò.
“No?”
“No, non voglio venire con te.”
“Ma Ceci, cosa dici? Tu mi ami!”
“Io…ti voglio bene.”
Ricalcai sue stesse parole di una settimana prima con tono pacato, sostenendo il suo sguardo senza capire come: mi sentivo svuotata e priva di ogni emozione, nonostante il cuore galoppasse più veloce che mai, come quello di un pettirosso.
Lui restò lì, con la bocca aperta, le mani ancora sollevate per enfatizzare il suo discorso del suo piano ormai fallito, incapace di affrontare una situazione che non aveva previsto.
Poi si riprese, come da copione.
“Ma Ceci, dai non dire cavolate, su! Sei arrabbiata, è giusto, ma non fare così!”
Si avvicinò a me, lentamente, come se potessi scappare da un momento all’altro e, devo dire la verità, mi mise la voglia di farlo.
”Vieni qui, dai. Torniamo ad Atene. “
Tese le braccia verso di me ed io indietreggiai verso il portone.
Nei suoi occhi passò un’ombra di turbamento: forse aveva finalmente realizzato che non c’era una via di ritorno, che gli stavo scivolando via.
Passo dopo passo, io indietreggiavo presa da una specie di panico che mi impediva di dire o fare qualsiasi cosa.

Ad un tratto colpii il muro di casa con la schiena e mi fermai. Ci fermammo.
Non riuscivo a togliere lo sguardo dal suo: stavolta nessuno dei due avrebbe ceduto, nessuno avrebbe abbassato gli occhi, nessuno si sarebbe arreso.
All’improvviso, tutta quell’immobilità si incrinò e senza nemmeno che mi accorgessi di cosa fosse successo, mi ritrovai le labbra di Alexandros sulle mie e le su mani a stringermi i polsi.
Rimasi bloccata, la bocca serrata, le braccia tese lungo il corpo mentre lui cercava violentemente una breccia, una possibilità disperata di recupero, una comparsa della solita vittoria a cui era abituato: un ritorno alla sua normalità.
Alexandros continuava a tenermi schiacciata contro il muro e il suo corpo, facendomi persino male, tanto che cercai di divincolarmi dalla sua presa senza riuscirci minimamente.
"Lasciami stare..." Implorai a bassa voce, voltandomi e tentando di allontanarlo.
"No Ceci, no."
Nella sua voce ansimante, dura e fredda notai una nota impaurita, come se stesse affogando e non riuscisse a trovare appigli: solo un muro liscio.
"Mollami, Alexandros!"
"Tu vieni via con me."
Fu in quel momento che accadde : reagii.
“NO!”
Urlai spingendolo forte e rimanendo sconvolta dalla mia stessa voce che risuonò nella piazzetta vuota.
“No.” Ripetei piano guardandolo indietreggiare, colpito più dall'urlo che dalle mie braccia: era come fulminato, come allucinato.
 “Basta." Mormorai con voce rotta, aggrappandomi ai mattoni a cui ero appoggiata per non cadere: era come se avessi esaurito tutte le mie forze in quelle parole.
"Basta farmi male."
Alexandros rimase lì senza espressione, mentre io cercavo di controllarmi e reggere lo sguardo: mi sentivo come tremare dentro.
Era la mia decisione ultima, la scelta che per una volta avevo avuto il coraggio di fare.
Mi sentivo del tutto sopraffatta dalla paura di una sicurezza troppo grande per me, eterna indecisa: era come essermi lanciata nel vuoto, ma volontariamente.

E poi lui se ne andò. Lo vidi voltarsi deciso, di scatto.
A passi veloci, senza nemmeno guardarsi indietro si incamminò deciso.
Mi parve di sentire la sua voce dire: “Pronto Lefteris? Sto tornando in albergo…stasera discoteca italiana?...” e poi scomparire insieme a lui tra le viuzze buie e sole di quella notte di Venezia.

Ed io rimasi lì, sola, appassendo lungo il muro, mi rannicchiai sulla soglia della mia casa vuota, con la testa tra le mani e qualche lacrima sul marciapiede.




Eccomi, dopo un po' (colpa della scuola GROAR!) a pubblicare il settimo capitolo (Uao, diggià?) Bèh, spero vi sia piaciuto anche se effettivamente non è lungo quanto promesso...ma perdonatemi, il prossimo arriverà presto (:
Spero abbiate voglia di continuare a leggere!
Incrocio le dita e, anzi, vi ringrazio ancora tutte per seguire e sostenere questa mia storia. Di cuore.
Alla prossima, un bacio,

Ireth


L'immagine all'inizio non mi appartiene, tutti i copyright sono di   http://weheartit.com :)

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Capitolo 8
*** Chapter VIII ***


Capitolo VII

 

"You say you want a revolution:
well you know, we all want to change the world
."



Ero nel mio letto.
Aprendo gli occhi il soffitto della mia infanzia era apparso su di me, senza che io capissi del tutto come.
Del giorno prima non riuscivo a distinguere precisamente un evento dall’altro: Andrea, l’autolavaggio, le chiavi, Alexandros, la sua sicurezza, il mio riufiuto…di com’ero arrivata a letto non avevo idea.
Restai lì quasi mezzora, con le gambe attorcigliate nelle lenzuola e strizzando gli occhi alla luce mattutina che entrava prepotente dalla finestra aperta: la mia testa era così vuota che non avevo nessuna voglia di dovermi alzare e rimescolare tutte le preoccupazioni che stavano là, ancora addormentate.

Un rumore strano al piano di sotto però, mi costrinse a rizzarmi a sedere di scatto: sembrava che qualcuno fosse appena entrato in casa.
Oh mio Dio.
Mi avvolsi nel lenzuolo, avendo dormito in biancheria, e scesi di soppiatto la ripida scala di legno che portava all’ingresso con il cuore che mi scoppiava e il cellulare pronto a chiamare la polizia, i pompieri, i carabinieri, l’ospedale e l’esercito tutti insieme, se fosse stato necessario.
Il piano di sotto era immerso in una penombra che in quel momento mi sembrò inquietante con gli scuri chiusi: c’era solo una strana luce grigio-blu che filtrava dalle tende.
All’ingresso non c’era nessuno.
Mi bloccai prima di entrare in cucina con tutti i sensi in all’erta: sì, c’era decisamente qualcuno che armeggiava in quella stanza.
Senza ragionare entrai decisa spalancando la porta e mi trovai di fronte alla sagoma di un uomo: urlai in preda al panico con tutto il fiato che avevo…e lo fece anche lui.
I nostri strilli e un gran baccano di cocci frantumati per terra rischiarono di farmi venire un infarto mentre tentavo di colpire alla cieca il tizio continuando a gridare e agitando mani, piedi, cellulare e lenzuolo.
“Ceci! Ahia!…Ceci, sono io! Piantala!” Si lamentò una voce familiare.
Alzai lo sguardo ancora intenta a graffiare il braccio del ragazzo e lo riconobbi: Jacob!
“Ma cosa ci fai qui?” Esclamai fissandolo incredula e mollando la presa. “Perché sei in casa mia?”
Esitai un momento mentre il mio sguardo si spostava sul pavimento. “E perché stai rompendo le mie tazze?”
Lo guardai tutta scarmigliata con gli occhi sgranati e un’espressione stupida da semiaddormentata aspettando una risposta e lui mi guardò con un sorriso sghembo.
“Prima di tutto, per quanto mi dispiaccia, meglio che tu ti copra.”
Effettivamente ero mezza nuda. Raccattai il lenzuolo da terra e mi ci arrotolai dentro velocemente.
“Comunque ero venuto qui per farti un caffè.” Continuò lui chinandosi a raccogliere quel che restava delle tazzine da caffè.
“Tu lo sai che questa spiegazione è da stalker malato, vero?” Dissi io guardandolo dall’alto per la prima volta nella mia vita di persona bassa.
Jacob ridacchiò e si alzò per buttare via la ceramica: conosceva casa mia, i Jump-in erano venuti più volte a Venezia a trovarmi e li avevo ospitati spesso in quegli anni.
Lo seguii fino al fornello dove lui cominciò a preparare il caffè prendendo altre tazze dal mobile. Rimasi ad osservarlo senza sapere che dire: ancora non riuscivo a connettere il fatto che lui fosse lì.

“Sono venuto anch’io con Lefteris per accompagnare Lazou qui.” Disse ad un tratto mentre accendeva il gas.
Tacque qualche secondo ed io lo esortai a proseguire con un lieve “Mhm…”
“Ieri sera…” Proseguì Jacob. ”…quando lui è uscito per parlarti, noi abbiamo aspettato in albergo pensando che ti avremmo rivista presto e saremmo partiti domani per tornare a Londra dai ragazzi, Ma…”
Deglutii intuendo il seguito del racconto.
“Ma Lazou ci ha telefonato dicendo che voleva divertirsi e, quando è tornato, ha trascinato Lefteris in discoteca senza troppe spiegazioni e senza nemmeno dirci dov’eri e cosa fosse successo.”
Annuii ripensando alla sera prima e abbassai lo sguardo sulle rughe del legno del tavolo.
“Io ero rimasto in albergo a dormire ma quando sono rientrati…bèh, Lazou non era esattamente sobrio.”
Era totalmente ubriaco. Non era difficile immaginarlo.
“Così io e Lefteris abbiamo cercato di metterlo a letto tranquillo ma lui ha cominciato a divincolarsi e…insomma, per fartela breve quel malaka* di Alex se n’è andato a zonzo per Venezia e non riusciamo più a trovarlo.”
Lo guardai se possibile ancora più sconvolta. Alexandros conciato così avrebbe potuto fare di tutto: cadere in un canale per esempio.
Cominciai a sentirmi leggermente in panico.
“Ma…ma non l’avete seguito?!“ Mormorai mentre il caffè borbottava.
“Ci abbiamo provato ma si è messo a correre come un fottuto leprotto in mezzo alle stradine buie!” Esclamò Jacob iniziando a versare il caffè impugnando la moka con il guanto da cucina rosso di mia mamma.
“Oh mamma…” Sospirai fissando il vuoto oltre il fumo che saliva dalle tazze.
“Lefteris lo sta cercando in giro ed io sono venuto qui, così se fosse passato di qua lo recuperavo senza che ti desse fastidio. Ma poi si è fatto tardi e ho pensato di farti un caffè dato che ormai ti saresti svegliata comunque. E poi tu lo preparavi sempre per tutti…ora alla mattina sembriamo un branco di zombie!”
Guardai il chitarrista che girava piano il cucchiaino e mi guardava con un sorriso mezzo triste, mezzo gentile.
“Mi dispiace Jacob, non posso più farcela.” Dissi lentamente.
“Non devi giustificarti, gliki mou*. Sappi che comunque vada con Lazou, noi siamo dalla tua parte. Ci saremo sempre.”
Mi prese la mano guardandomi alzando le sopracciglia rassicurante e io gliela strinsi mentre anche il cuore mi si stringeva al pensiero di quanto bene volevo a tutti loro e a quanto non volessi perderli: erano stati la mia famiglia per gli ultimi due anni.

Bevemmo il caffè silenziosamente e intanto incrociavo mentalmente le dita sperando che Alexandros non si fosse fatto del male, che si fosse solamente addormentato in qualche anfratto.
Passarono i minuti ed io mi andai a lavarmi e vestirmi per ingannare l’attesa di una qualche chiamata di Lefteris che con il suo falso accento americano ci informasse di aver trovatoquell’idiota di Lazou coperto da cacche di piccione sotto un ponte.
Un toc toc al portone mi fece sobbalzare mentre mi lavavo i denti.
Mi lanciai giù dalle scale ed arrivai prima di Jacob alla porta.
“Al…”
“Hey, ciao.”
Rimasi per un momento confusa con lo spazzolino da denti in bocca: non era Alexandros.
“Andrea?”
Il ragazzo alzò le spalle per scusarsi.
“Mi spiace disturbarti a quest’ora solo che…”
“Sono loro?!”
Jacob sbucò da sopra la mia spalla affacciandosi alla porta e poi zittendosi alla vista di Andrea.
“Ops, scusa! Ho interrotto qualcosa?” Esclamò quest’ultimo fissando piuttosto sconcertato il greco.
“Oh no, figurati! Jacob è un mio caro amico che è venuto per…oh, insomma è una storia lunga.” Conclusi io distogliendo lo sguardo.
“Hai un sacco di storie lunghe tu.” Disse lui attraverso l’ombra di un sorriso strano, ricordando il nostro primo incontro.
“Scusate, io torno dentro.” Borbottò Jacob ritirandosi nuovamente in cucina e lasciandoci soli.
Restammo un po’ in un silenzio imbarazzato, senza riuscire a guardarci negli occhi: aveva una maglietta bianca con dei disegni colorati e un po’ troppo larga per il suo fisico magrolino.
“Bèh…” Iniziò lui. “…sono passato perché ieri…hem…”
In quella micro pausa sembrò portare entrambi alla mattina del giorno prima e ci fece arrossire contemporaneamente.
“…ieri mi pareva di avere capito che ti erano venuti a prendere e che dovresti ripartire presto quindi…quindi, ecco, io sono passato.” 
Andrea buttò lì le ultime parole come se nemmeno lui avesse ben chiaro cosa intendeva dire ed io sentii il cuore accelerare leggermente a quelle parole spezzate e risolute.
“Ma io non parto.”
Alla mia affermazione lui alzò lo sguardo sorpreso ed io mi strinsi nelle spalle annuendo.
“Ma c’era quel ragazzo…”
Deglutii e quasi smisi di respirare guardando quegli occhi circondati da lunghe ciglia nere che mi fissavano profondi e affamati di una spiegazione.
“Lo so.”
Restò lì a guardarmi fisso, come se stesse rielaborando le mie risposte poi, come attraversato da una scossa di parole si avvicinò di mezzo passo parlando veloce.
“Perchè Ceci, io non voglio che tu parta e…”
“E’ COLPA TUA!”
Un urlo quasi disumano ci fece voltare entrambi di scatto verso la strada ed mi mancò il fiato per un secondo: Alexandros stava barcollando verso di noi con un’aria tutt’altro che normale.
Aveva gli occhi segnati dall’insonnia di quella notte e si muoveva a passi incerti ringhiando e continuando a inveire contro di noi.
“Alexos!”
Lo guardai sconvolta lanciarsi contro Andrea che dopo una frazione di secondo di sconcerto si spostò all’indietro schivandolo.
“Ma che cosa…?”
Alexandros si voltò con lo sguardo annebbiato verso di me: rabbrividii.
“Tu mi ami, Cecy! Perché non vuoi più amarmi? Perché Ceci? Perché?!”
“Calmati Alex…” Mormorai shockata avvicinandomi alzando le mani e avvicinandomi lentamente.
“NO!” Gridò lui con un’espressione allucinata che mi pietrificò.
A quell’urlo apparve anche Jacob dietro di me.
“Lazou!”
Ma il ragazzo non lo ascoltava, mi guardava ancora con quella faccia disperata.
“Io lo so: è colpa sua vero? E’ colpa sua!”
Si slanciò nuovamente su Andrea che era rimasto come tutti noi bloccato a fissare quella scena surreale e penosa.
“Hey, ma che cavolo vuoi?!” Esclamò senza riuscire ad evitare una spallata e indietreggiando un po’ dopo l’urto.
Alexandros si voltò rapidamente guardandolo con aria cattiva e gli si buttò di nuovo addosso violentemente, spingendolo addosso a un muretto.
Mi portai le mani davanti alla bocca sconvolta.
“Ma sei impazzito!?” Gridò Andrea urtandolo a sua volta e spostandosi, visibilmente sull’attenti in caso l’ubriaco tornasse all’attacco.
“Lazou basta così!” Urlò Jacob spostandomi di lato e avvicinandosi ai due, ma quando era appena a un passo da Alex, questo si gettò con tutta la forza e la velocità possibile contro Andrea che però stavolta riuscì a muoversi in tempo: ci fu un tonfo sordo e Alexandros si schiantò prepotentemente contro il muro in una scena ai limiti del comico.
Non fosse per il fatto che cadde a terra privo di sensi.

All’improvviso sembrò esserci un silenzio ghiacciato.  Per mezzo secondo rimanemmo paralizzati a guardare il ragazzo a terra: Jacob aveva ancora la mano tesa per afferrare Alex, Andrea con i muscoli ancora in tensione sembrava scompigliato e scosso, io non riuscivo a battere ciglio, con gli occhi sgranati rimasi attonita.

Poi non capii più niente: mi lanciai in avanti senza riuscire a trattenere uno strano gemito e mi inginocchiai accanto al corpo inerte di Alexandros.
Gli sollevai la testa e sentii qualcosa di caldo e viscoso scivolarmi sulle dita.
“Oh mio Dio…Alexandros!”  Chiamai con un tono isterico senza ricevere segni di vita.
“Alexandros! Alexandros?”
Non rispondeva.
Il mio respiro si fece un rantolio veloce, mi sentivo girare la testa e sentivo solamente la voce di Jacob intenta ad urlare qualcosa confusamente.
Com’era potuto succedere? Perché non apriva gli occhi? Perché?
“Ceci, ascoltami!”
La faccia di Jacob mi si parò davanti con espressione decisa.
“Ceci, dimmelo!”
“Cosa?”
“Il numero del pronto soccorso! Presto!”
“Oh…sì, certo…”
Composi in qualche modo il 118 con le dita insanguinate e tremanti e, mentre Jacob parlava al cellulare concitato, percepii accanto a me Andrea che si accucciò al mio fianco.
“Dio santo…” Bisbigliò: la voce gli tremava.
Lo guardai senza espressione e cercai di dire qualcosa ma la mano di Jacob artigliò la spalla del ragazzo e lo scaraventò all’indietro.
“Lasciagli spazio!” Ordinò stranamente violento. “Hai visto cos’hai fatto?” Proseguì poi quasi urlando e con voce rotta dalla paura e dall’agitazione.
Andrea era pallidissimo, aprì la bocca per parlare ma Jacob si accanì nuovamente su di lui.
“Cerca aiuto, idiota!” Gridò e poi tornò a voltarsi verso il ferito.
Pochi minuti dopo la sirena di un’ambulanza ci raggiunse.

E poi ero in ospedale accanto a quel lettino.






Insulto a piacere: stupido/ idiota/ vari significati spiacevoli  (:
* Mia dolce/mia cara/ mia...Si insomma nomignolo affettuoso!




Eccomi tornata con un altro capitolo finalmente! Scusate l'attesa, ma la scuola è una sanguisuga...immagino mi possiate capire.
Bèh spero non rimaniate deluse nonostante la fine un po' hum, tragica? 
Siete le migliori lettrici del mondo.
Grazie a tutte e alla prossima!


Ireth



L'immagine all'inizio non mi appartiene, tutti i copyright sono di   http://weheartit.com :)

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Capitolo 9
*** Chapter IX ***


Capitolo IX






            "Pools of sorrow, waves of joy are drifting to my open mind, possesing and carressing me"






Bip!
Presi gli snack dalla macchinetta dell’ospedale e mi avviai per corridoio bianco e spoglio.
Alexandros stava bene: aveva una lieve commozione cerebrale, niente di grave, ma l’alcool e la bella botta l’avevano messo così k.o. che non si era ancora svegliato.
Entrai nella stanza e lanciai a Jacob che se ne stava seduto sulla sedia, il Mars e a Lefteris, stravaccato su una poltroncina, un pacchetto di patatine.
“Dorme ancora?” Chiesi lanciando un’occhiata ad Alex, che respirava pacifico con la bocca semiaperta.
Yeah, baby.” Assentì Lefteris iniziando a sgranocchiare le schifezze che gli avevo portato.

Mi sedetti sul letto e guardai il viso del ragazzo: aveva un cerotto sulla fronte ma un’aria serena, per fortuna non era successo nulla di grave.
Avevo davvero temuto il peggio quando l’avevo visto privo di sensi, così immobile e bianco con il sangue sull’asfalto della piazza davanti casa mia, ma ora, dopo una cioccolata calda e le rassicurazioni di un medico simpatico, mi sentivo decisamente più tranquilla.
 “Sinceramente non vedo l’ora di vedere la faccia di Lazou quando gli ricorderò come si sia atterrato da solo!” Ridacchiò Jacob dopo qualche minuto.
“Il nostro piccolo trottolino ubriaco! Ah, what a malaka*!”
Scoppiammo tutti a ridere allentando definitivamente la tensione: ero contenta ci fossero anche loro lì, dopotutto volevano davvero bene ad Alexos, nonostante le sue cavolate, e si erano tutti presi una bella paura, anche se non l’avrebbero mai ammesso compromettendo la loro virilità di uomini privi di debolezze e sentimentalismi.
Sorrisi e scoprii di non essere più arrabbiata con Alex. Sì, la rabbia e la delusione non c’erano più, ma rimaneva sempre quella sensazione leggermente amara di cambiamento irreversibile, un senso di non ritorno che mi continuava ad assalire.
Scostai i capelli scuri che gli ricadevano sulla fronte ferita e l’osservai borbottare nel sonno: gli volevo bene, davvero. Un bene speciale, un bene unico e diverso da quello per tutti gli altri…ma niente di più.
Sospirai stranamente sollevata: doveva andare così.

Mi voltai verso gli altri due e notai che mi stavano osservando in modo strano.
“Non tornerai con noi a Londra, vero?” Disse Jacob con la sua faccia onesta.
Annuii guardandoli entrambi e valutando i loro sguardi che però sorridevano comprensivi.
“Mi piacerebbe, sul serio. Ma credo di non potere. Non è colpa vostra però! Voi siete…come dire?”
“Arrapanti?”
“Sexy?”
Non riuscii a trattenere una risatina.
“…volevo dire che siete degli amici grandiosi, ma sexy e arrapanti è più adatto. Comunque davvero io…”
“Non giustificarti baby. Sappiamo tutti quant’è difficile per te. Insomma…allontanarti da un bocconcino come me? Damn, sarà dura!” Esclamò ovviamente Lefteris alzandosi e facendomi l’occhiolino.
“Comunque Ceci, se vorrai tornare a scattarci qualche foto, per una sveltina con me o…qualsiasi cosa sappi che per noi…Jacob se ci provi I’ll kill you!*
Il chitarrista lasciò cadere le patatine dell’amico sbuffando.
“Bèh comunque…” Continuò poi il tastierista. “…posso capire che tu sia stufa di stare in mezzo a bastardi scrocconi e ladri, ma per noi sarai sempre un valido membro deiJump-in.”
“E una grandiosa amica.” Concluse Jacob appropriandosi nuovamente delle patatine e strappandomi un sorriso.

Un mugolio ci fece voltare all’improvviso: Alexandros si stava svegliando.
Scesi dal letto mentre anche gli altri si avvicinavano: il ragazzo aprì gli occhi stiracchiandosi e guardandosi intorno con aria spaesata e interrogativa.
“Hey man! Sei tornato tra noi?” Sorrise allegro Lefteris avvicinandosi.
Lui con una smorfia si porto le mani alla fronte.
“Mpfh…male.” Mugugnò spostando lo sguardo di qua e di là, come per orientarsi. “Come mai sono qui?”
“Giuro che sto fremendo per dirtelo Lazou, ma mi sto preparando per godermi il momento!” Ghignò Jacob e dandogli una leggera pacca sulla spalla.
“Perché? Non ricordo nulla…solo che ero con quella tipa rimorchiata in discoteca…” Accennò una risatina goffa che si trasformò in una nuova smorfia di dolore per aver scosso un po’ troppo la testa ancora intontita.
Jacob tossicchiò indicandomi con la testa e Alexandros riuscì a mettermi a fuoco dopo qualche secondo strizzando i grandi occhi per inquadrarmi.
“Oh Ceci, sei qui!” Esclamò un tantino imbarazzato dalla sua frase da vero play boy ubriaco, ma riprendendosi poco dopo. “Stai bene?”
Accennai un sorrisetto ironico.
“Bene, ma dalla tua posizione sei avvantaggiato: chiunque starebbe meglio di te. Quindi non vale.”
Alex rise un po’ nervosamente, cercando di capire se stessi scherzando, se fosse in corso un armistizio o fossimo ancora in piena guerra.
Ci fu un breve momento di silenzio statico e di attesa poi Jacob lo ruppe.
“Noi usciamo un attimo. Lefteris e io dobbiamo elaborare il modo più efficace per smerdare il nostro Lazou raccontandogli la sua impresa!”
Ridendo loscamente i due uscirono lasciandoci soli nella stanzetta.
Guardai la porta chiudersi e poi con un breve sospiro tornai a voltarmi verso il letto.
Alexandros mi guardava un po’ circospetto, come in esplorazione del mio umore.
“Sono davvero sembrato così deficiente?”
“Oh, non lo sei sembrato Alex. Lo sei stato.”
Si lasciò andare una risatina cauta.
“Eddai, non penso proprio…”
“Te lo assicuro, sei stato un vero grande idiota.” Sentenziai sedendomi sulla sedia accanto a lui, senza mostrare alcuna emozione se non una calma piatta.
Lui mi fissò per un po’ con un mezzo sorriso ebete in sospeso tra la risata e l’incomprensione.
Dentro di me sentii una strana soddisfazione: era proprio sulle spine, stava aspettando che io continuassi a parlare e io lo stavo tenendo in sospeso. Non era del tutto spiacevole come cosa.
“D’accordo…” Disse allora lui quando si rese conto che la mia bocca era cucita. “Sono stato un idiota e mi dispiace. Probabilmente non avrei dovuto fare certe cose e ti chiedo scusa.”
Assunse un’aria più seria e si sedette più dritto sui cuscini, aspettando una mia reazione.
Era arrivato il momento delle spiegazioni: eravamo lì alla pari, faccia a faccia, feriti entrambi in un modo o nell’altro e non c’era più tempo per rancore o false speranze.
Presi fiato e mi cominciai a parlare piano con tutta la sincerità, con tutte le parole che volevo dire.
“Non sono arrabbiata Alexos.”
Il suo viso si rilassò un po’.
“Non sono arrabbiata e accetto le tue scuse. Abbiamo sbagliato tutti e due, forse io non dovevo scappare così e forse tu non dovevi ubriacarti come un cammello. Ma comunque sia andata, credo sia servito, no? Almeno io credo di aver capito qualcosa.”
“Cosa?” Alexandros mi guardava inarcando le sopracciglia.
“Ho capito che non posso più vivere a metà strada tra quello che vorrei io, tra quello che vuoi tu e quello che siamo diventati. Credo di aver capito che così non va più bene…”
“Non capisco.” Mi interruppe lui. “Ne abbiamo passate così tante per stare insieme!”
“No, Alex. Ultimamente io ne ho passate tante per stare con te e…no aspetta, lasciami finire! Non sto dicendo che sia colpa tua, che tu sia cattivo. Credo solo che per te non sia il momento giusto per pensare a qualcun altro più di te stesso. Due anni fa forse lo era. Ma ora lo è? Io ho bisogno di vivere per me stessa, non posso stare qui e vivere come un tuo satellite impazzito: voglio trovare un posto in cui stare, voglio capire cosa voglio.”
“Ma tu volevi me! Tu vuoi me!” Esclamò lui alzando un po’ la voce.
“Alex, piantala. Pensaci bene: lo credi davvero?” Dissi lentamente guardando la sua espressione infervorata che mutava, il suo sguardo farsi pensieroso.
Io mi sentivo sempre più strana, come se mi stessi svuotando di un peso a cui da un lato ero quasi affezionata, dall’altro non riuscivo più a sopportare di tenere dentro.
“Forse…” Iniziò lui altrettanto piano. “…forse è vero. Stare un po’ lontana da me ti aiuterebbe a schiarirti le idee. Una bella pausa.”
Abbassai per un secondo lo sguardo: ancora non capiva.
“Alexandros io non sto parlando di pause. Io non torno in tour con te, io resto qui.”
“Lo so.” Borbottò lui giocherellando con la coperta. “Fai bene ad odiarmi.”
Deglutii dispiaciuta e, sedendomi sul bordo del letto, mi avvicinai al ragazzo che conoscevo e avevo imparato ad apprezzare più di ogni altro, nonostante tutto.
“Io non posso odiarti. Non potrò voler bene a nessuno nel modo in cui te ne voglio.”
Alexandros  alzò lo sguardo e sorrise.
“Lo sai che è così anche per me.”
Ricambiai il sorriso e mi chinai e, ad occhi chiusi, gli baciai la fronte tra i capelli neri che le ricadevano sopra.  Era strano: sentivo una pace incomprensibilmente triste e totalmente giusta andare e venire a ondate lente.
Lui mi trattenne lì un secondo in più stringendomi il braccio con la mano, ma io mi rialzai lentamente trovandomi davanti a due occhi vivaci, con tutto l'ottimismo di questo mondo dentro. Non ci saremmo persi, ma ora che la nostra gabbia di complicazioni e ferite era andata in frantumi, riuscivamo a respirare meglio entrambi.  
Sorridevo anch'io con lui.
“Mi verrai a trovare?”
“Verrò.” Prima o poi, forse.
“Lo so!” Esclamò lui allegro. “Ci vorrà tempo, ma poi tornerai da me.” Concluse guardandomi con aria convinta e rilassata.
Quasi mi sfuggì una risata dall’assurdità della sua sicurezza: lo stavo lasciando e lui faceva lo sbruffone!
“Dio mio Alexos! Sei assurdo!”
“Lo farai Ceci, cambierai idea e tornerai.” Ripetè annuendo come se fosse un dato di fatto e senza lasciarmi possibilità di risposta.
Scesi dal letto senza sapere se ridere o meno, forse era questo che mi era sempre piaciuto di lui: non si lasciava abbattere da niente.

D’un tratto entrarono nella stanza Jacob e Lefteris seguiti da un giovane dottore dai capelli castani e gli occhi azzurri con un’aria simpatica.*
“Allora signor Lazou, stiamo meglio vedo!” Esclamò controllando la cartella del paziente.
“Manderò un’infermiera a controllarle la ferita e poi la lasceremo andare. D’accordo?”
Alexandros assentì e il dottore sorrise allegro.
“D’ora in poi eviti di prendersela con i muri: alla fine vincono sempre! Sono malvagi!” Assentì per poi tornare in corridoio camminando all’indietro e con lo stesso sorriso smagliante.
Ci trovammo di nuovo in quattro e, dopo mezzora di prese in giro verso "quel pirla di Lazou che pensava di essere un martello pneumatico" giunse il momento che io me ne tornassi a casa.
Abbracciai i ragazzi stringendoli forte, cercando di incollarmi addosso l’odore di sigarette e profumo dozzinale di Lefteris, di caffè e vestiti puliti di Jacob e di passato e dopobarba di Alexandros.
Sarebbero ripartiti la sera stessa.
Lanciai loro un’ultima occhiata sapendo perfettamente quanto e mi sarebbero mancati tutti quanti. La mia seconda famiglia squinternata. 
Poi chiusi la porta e tornai a casa pensando che ora la vita era mia, ma dovevo ancora capire se fosse bello o terribile.
Per il momento non c'era posto nè per il panico nè per la consapevolezza, solo un vuoto piacevole.
In cucina era avanzato del caffè.
Senza pensarci troppo lo scaldai, come in uno stato di trans, mi sedetti al tavolo e restai lì, senza berlo.
Guardavo nella tazzina in silenzio, nel vuoto della mia casa e della mia testa: ero sola e il caffè si era già raffreddato.



What a malaka!= Mix di inglese e greco = "Che idiota!"
*I'll kill you!= Ti uccido! (Non si sa mai che qualcuno non sappia l'inglese :) )
* Avete presente Scrubs? Bèh, pensate a J.D. per inquadrare il dottore in questione!:)





Ho cercato di pubblicare prima possibile :) Ma devo dire che questo capitolo non mi piace un granchè...non so come mai, non mi convince!
Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate e vi assicuro che la storia si farà più più interessante e dinamica più avanti (:
..Intanto un GRAZIE ENORME a tutte le pazientissime e lealissime lettrici!
Grazie mille!
Un bacio, alla prossima,


Ireth



L'immagine all'inizio non mi appartiene, tutti i copyright sono di   http://weheartit.com :)

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Capitolo 10
*** Chapter X ***


Capitolo X


 

            "I didnt mean to hurt you, I'm sorry that i made you cry."







“Ok, se non esci fuori, vengo a stanarti io. Preparati.”
Cacciai la testa sotto il letto mugugnando e sbuffando per poi riemergere con il caricabatterie della macchina fotografica in mano.
“Visto? Visto cosa succede a mettersi con la guerriera?!” Esclamai fissandolo vittoriosa e ringhiando per poi sedermi sul letto con la testa tra le mani: stare da sola evidentemente non mi faceva bene.

Era il tardo pomeriggio del giorno dopo l’incidente della testa di Alexandros contro il muro e per tutta la mattina non avevo fatto altro che riordinare casa e fare ogni genere di mestieri pur di non pensare a niente. Ora però mi trovavo davvero spiazzata da tutto quel silenzio, da quell’assenza di persone che ero sempre abituata ad avere vicino. Non c’era nemmeno il mio cane, partita con mio fratello, con cui solitamente avevo intense conversazioni unilaterali.
Restai un po’ a fissare il vuoto, cercando di mantenere la calma e di attutire qualsiasi pensiero pungente e fastidioso potesse venirmi a galla, ma la cosa risultava sempre più difficile.

Tutte le mie foto erano sparse in giro per la stanza, per terra, sul letto, le avevo riguardate tutte la notte prima e non avevo più la forza di riguardarle per metterle a posto.
Guardai sconsolata il cellulare che non dava alcun segno di vita dal giorno prima. Deglutii e mi alzai di scatto calpestando tutte le istantanee sul pavimento, sovrappensiero, mi diressi verso la cucina e frugai a caso nella dispensa e nel frigo, ma con disappunto scoprii che prima di partire i miei avevano lasciato solo qualche confezione di tè verde e del caffè.
Il pensiero del cibo non mi aveva stranamente sfiorata per tutto il giorno e nemmeno in quel momento avevo voglia di mangiare, ma prima o poi avrei pur dovuto nutrirmi, se non volevo trovarmi a sgranocchiare bustine e infusi.
Decisi di uscire e fare rifornimento di viveri e poi mi avrebbe fatto bene distrarmi un po’ all’aria aperta.
Afferrai la mia vecchissima tracolla di pelle e ci gettai dentro chiavi, macchine fotografiche e portafoglio, poi uscii nella luce aranciata della sera e cominciai a camminare.

Andavo tranquilla a passo non troppo veloce, svoltando in una viuzza, attraversando un ponticello o una piccola piazza, senza pensare troppo a dove stessi andando: volevo mescolarmi con la gente, volevo essere inghiottita dalle persone e confondermi fino a sparire.
La presenza sempre più frequente di turisti e di lingue straniere mi avvisò che ero sempre più vicina al centro di Venezia, con tutto il suo caotico scalpiccio di piedi e flash di macchinette usa e getta.
Accelerai il passo tenendo lo sguardo basso sulle stradine lastricate e facendo attenzione a schivare qua e là una coppietta, un bambino, dei giapponesi in posa, un venditore ambulante e un gondoliere dall’aria stanca.
La mia testa era vuota e le strade erano piene, salii quasi correndo dei gradini, spiaccicandomi tra braccia, corpi, zaini, odori e voci, fino a che non alzai lo sguardo sul Canal Grande mentre appoggiavo le braccia sul parapetto del famoso Ponte di Rialto.
La forte luce arancione mi schiaffeggiava in piena faccia, abbagliante, bellissima e spietata colorando di rosso fiammante l’acqua che scorreva tranquilla e le barchette irrequiete sulla sua superficie.
Estrassi dalla borsa Xalokairi e scattai una, due, tre volte, rintronata da quel calore come da un abbraccio.
Chiusi gli occhi più stretti che potevo e mi trovai nel mondo di lucine e ghirigori dietro le mie palpebre mentre il brusio indistinto attorno a me si attutiva piano piano e all’improvviso ero sola.
Ero sola, ecco cos’era. Non riuscivo a sopportarlo, ero a casa eppure mi sentivo sradicata, non avevo un posto vero dove stare: una casa è un posto dove ci si sente protetti, dove c’è chi ti accoglie, un posto in cui non ci sono spifferi freddi e ti senti comodo.
E la mia casa non era lì -ma nemmeno ad Atene o a Londra!- , i miei amici non c’erano e nemmeno la mia famiglia.
E allora dove dovevo stare io? Quand’era stata l’ultima volta che mi ero sentita al mio posto?
Un barlume indefinito mi si accese nella mente illuminando ricordi di note musicali, risate e ciglia lunghe: ero stata così concentrata su Alexandros e tutti gli avvenimenti che lo avevo lasciato in disparte.
 Andrea non si era più fatto vivo da quando l’avevo visto l’ultima volta dall’ambulanza, fermo sul marciapiede con la sua faccia sconcertata, dopo che un pazzo ubriaco l’aveva quasi picchiato e un perfetto sconosciuto l’aveva preso a male parole.
Uno strano nodo mi si strinse nello stomaco: come avevo potuto lasciarlo lì e dimenticarmi dell’unica persona che mi aveva aiutato, l’unica innocente in tutto questo caos?
Dovevo per lo meno scusarmi, per quanto la situazione fosse rimasta in sospeso, per quanto gli ultimi incontri fossero stati sempre interrotti, insicuri e confusi come lo ero io stessa.

Rimisi Kalokairi in borsa e mi voltai urtando la gente che si era accalcata lì nel frattempo; camminando a passo svelto percorsi a ritroso le viette lungo le case tiepide, mentre il sole filtrava sempre più basso.
Ed eccomi al portone.
Suonai il campanello mentre mi spuntava pian piano un mezzo sorriso che non riuscivo né a spiegare né a trattenere: il pensiero del suo viso amichevole e degli occhi vivaci che si stringevano a ogni risata, mi dava uno strano effetto mentre mi aspettavo di vedere la maniglia abbassarsi da un momento all’altro.
Ma non accadde nulla. Nessun segno di vita. Nizba.
Attesi qualche minuto e dopo un po’ iniziai a tamburellare con una mano sullo stipite della porta, scorrendo rapidamente nella mia testa il calendario delle giornate di Andrea: a quell’ora era sempre a casa, ne ero sicurissima.
Suonai nuovamente valutando il fatto che una persona normale probabilmente si sposta da casa di tanto in tanto, non tutti passano le giornate a riordinare una casa vuota per dimenticare la solitudine.
Avrei dovuto chiamare prima? Ovviamente. Cavoli che stupida, non si dovrebbe piombare in casa di qualcuno così.
Stavo per tornare sui miei passi quando dei rumori dall’interno dell’appartamento mi fecero restare ferma dov’ero: una chiave raschiava nella vecchia serratura…finalmente apriva!
Mi risistemai ben dritta e con il mio sorriso smagliante migliore mentre la porta un po’ scricchiolante si apriva piano piano con qualche cigolio ed esitazione.
“Ciao Andr…”
La voce mi si smorzò in gola quando vidi che davanti a me avevo un ragazzo che mi guardava diffidente, muscoloso, spalle larghe e capelli scuri.
Rimasi spiazzata per una frazione di secondo, temendo di aver sbagliato campanello, portone, casa o quartiere, ma poi riconobbi le stesse ciglia lunghe e gli occhi liquidi e dolci, un po’ nascosti in quei lineamenti più decisi e marcati rispetto a quelli a cui ero abituata.
 “Sì?” Borbottò il fratello di Andrea con una voce più profonda e un po’ impacciata.
“Sì ciao. Hem, io stavo cercando Andrea, è in casa?”
Il ragazzo si guardò nervosamente le punte delle scarpe, evitando il mio sguardo.
“No, lui…non credo ci sia.”
“Oh bè, in questo caso…”
Mi bloccai. Cosa diamine voleva dire “non credo ci sia”? In quell’appartamentino sicuramente non ci si perdeva di vista.
“…Non è che puoi controllare se c’è?” Chiesi scrutando le sue mani che giocherellavano con le chiavi.
“Digli che sono la Ceci.” Aggiunsi poi con un sorriso speranzoso.
“Oh, eh…” Balbettò lui mentre notavo che il suo sguardo saettava a disagio verso l’interno della casa da dove proveniva una musica blues che non riuscivo a riconoscere.
“Eh, Andrea è via.”
Alla sua risposta aggrottai le sopracciglia mentre lui incassò la testa nelle spalle come se volesse scomparirci dentro con il suo sguardo basso.
“Ok.” Dissi dopo qualche momento di silenzio imbarazzante.
“Già.” Mormorò il fratello arrossendo e chiudendo un pochino la porta dietro di sé, come se temesse che mi scaraventassi in casa sua da un momento all’altro.
 “Bèh, allora per favore digli che sono passata quando lo vedi.” Conclusi con un sorriso forzato, di cortesia, verso il ragazzo che cercava di scomparire in sé stesso.
“Sì, sì.”
“Grazie mille!”

Mi voltai senza ricevere risposta, mentre la porta si richiudeva velocemente, e camminai lentamente verso casa, delusa ed esitante.
Ormai il sole faticava a illuminare la strada e tutto si era tinto di una luce rosata che mi faceva sempre sentire in pace con il mondo di solito, ma in quel momento ero come inquieta: avrei scommesso qualsiasi cosa che Andrea fosse in casa.
Forse perché suo fratello era così nervoso, forse per colpa di quel blues che mi sapeva tanto da lui, forse perché…forse perché ero solo paranoica.
A dire il vero, un modo per saperlo c’era, bastava chiamarlo.
Estrassi in fretta il cellulare dalla borsa e me lo incollai all’orecchio subito dopo aver schiacciato il tasto verde.
Tuut-tuut-tuut..
Rispondi dai, rispondi. Rispondi, rispondi, rispondi. Rispondi. Che brutto imperativo, mi sembrava la preghiera più disperata che avessi mai fatto. Rispondimi Andrea.
Scattò la segreteria telefonica ed io riprovai subito dopo, e un’altra volta ancora finché la linea non cadde miseramente, con tutte le mie speranze.
Andrea stava cercando di evitarmi, chiaro come il sole.

Corsi fino a casa e mi infilai subito in camera mia, a faccia in giù sul letto, schiacciando le fotografie e i miei ricordi, braccia e gambe aperte a stella marina. Solo in quel momento ricordai di non aver fatto nessuna provvista di cibo.
Poco importava, mi sentivo così sola che avrei potuto mangiare bustine da tè per un mese, in cambio di una voce amica, di qualcuno che cercasse di capire dove stessi fluttuando e mi riportasse a terra, o di un paio di ciglia lunghe sopra uno sguardo limpido.






Ok. Odiatemi. Maledicetemi. Non recensitemi mai più, sono imperdonabile, è tardissimo. Ci ho messo tantissimo a pubblicare, lo so.
Non accadrà più-spero- ma è stata tutta colpa della scuola (maturità maledettissima.)
Spero mi perdoniate e continuiate a leggere, nonostante questo capitolo sia stato scritto di fretta, spero vi piaccia :)
Fatemi sapere cosa vi frulla in testa,
Bacio,


Ireth


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Capitolo 11
*** Chapter XI ***


Capitolo XI

 

 "I'm gonna try with a little help from my friends!"


Ero davvero scomoda.
Quel marciapiede rugoso e sconnesso su cui ero seduta cominciava proprio a darmi noia, dopotutto era da almeno mezzora che me ne stavo lì, con un libro aperto sulle ginocchia e scrutandomi intorno ogni cinque minuti.
Ormai era diventata una routine da qualche giorno: ogni mattina alle nove in punto partivo da casa, prendevo il mio ice-caffè da asporto e poi mi sedevo lì ad aspettare, sul marciapiede di fronte alla casa di Andrea.
Sì, ero diventata una fottuta stalker, lo ammetto.
Rimanevo lì fino alle undici, a volte fino a mezzogiorno, attendendo di vederlo uscire o rientrare con la tastiera sottobraccio o la tracolla piena di libri, ma finora non avevo avuto fortuna; era come se vivesse chiuso in casa o si fosse trasferito.
Non c’era traccia nemmeno di suo fratello, il vecchio portone scricchiolante non si era mai aperto neanche una volta durante i miei appostamenti. Nemmeno una volta.
Appoggiai il libro per terra e mi stiracchiai le gambe sentendomi davvero una povera matta ossessionata, dopotutto poteva essersene andato in vacanza o in qualsiasi altro posto, ma d’altra parte non riuscivo a togliermi dalla testa che mi stesse evitando e questo mi faceva davvero impazzire.
Forse era la solitudine che mi stava dando alla testa, forse il caldo afoso di quei ultimi giorni, umido, pesante, con un cielo bianco che non dava tregua a un senso d’ansia palpitante, ma mi sentivo irrequieta, dormivo male, sudando e annaspando nel letto, impaurita dal vuoto della casa e da quella mancanza strana che continuava a disturbarmi.
Volevo davvero chiarirmi con Andrea, ricambiare tutto quello che aveva fatto per me e parlargli, vederlo scombinarsi i capelli e ridere. Ma perché poi?
Forse perché l’ unico contatti umano degli ultimi giorni era stato il barista che mi allungava il caffè ed ero diventata un’asociale bisognosa d’attenzioni, ma in realtà se mi lasciavo sprofondare nella mia parte più sincera, in fondo in fondo, sapevo che, semplicemente, senza troppi fronzoli, mi mancava.
Aveva riempito in così poco tempo tutti i miei vuoti, lasciandomene uno ancora più grande adesso che non lo trovavo più.
Era strano, non mi era mai successa una cosa del genere.

Mi guardai intorno sospirando e all’improvviso suonò il cellulare: era un numero sconosciuto.
“Pronto?”
“Ciao cacca, siamo tornati!”
Era Carlotta! Riconobbi subito la voce di una delle mie più care amiche.
“Oddio ciao! Sei a casa? Sei a Venezia? Hai fatto foto? Come stai? Com’era la Tunisia?”
La mia voglia di parlare stava strabordando.
“Porca vacca, sta buona un attimo!” Rise lei. “Comunque no, sono ancora in aeroporto con il Teo. In realtà siamo atterrati qualche ora fa, ma poi Viola mi ha chiamata dicendo che sarebbe tornata oggi anche lei dalla Palestina, così abbiamo deciso di aspettarla e tornare con la sua macchina…”
“Torna anche Viola?”
Pazzesco, all’improvviso sarei passata da eremita a umano socievole.
“Sì! E tu sei ancora a Venezia vero? Perché abbiamo intenzione di venirti a trovare!”
“Certo, cavoli! Vi aspetto, fatemi sapere appena siete arrivate che vi preparo qualcosa e stasera ceniamo insieme.”
“Aggiudicata…Cosa? Sì, un attimo amore, adesso metto giù…Scusa Ceci devo riattaccare ora o il Teo mi picchia, a più tardi!”
“Sì sì, a dopo, ciao!”

Riattaccai sorridendo emozionata, era da almeno due mesi che non vedevo le mie amiche e non stavo nella pelle di incontrarle. Ora la giornata aveva un senso! Dovevo fare la spesa, riordinare la casa, preparami a una lunga nottata di racconti e poi…
“Hei, ma guarda chi si vede! Cecilia!”
Una voce interruppe i miei pensieri all’improvviso, facendomi sussultare; mi voltai e mi trovai davanti la sagoma di Stefano, il batterista dei Found.
“Hei!” Riuscii a dire dopo averlo focalizzato in controluce portandomi la mano davanti agli occhi per proteggermi dal sole.
Per un momento mi venne in mente l’ultima volta che avevo visto quel ragazzo un po’ stempiato, dall’aria simpatica, ridere della macchina sporca di Andrea e offrirsi di lavarla, lasciandoci soli, nella penombra…
Rabbrividii.
“Stai bene?” Chiese lui guardandomi interrogativo, lì seduta su un marciapiede come un’accattona.
“Sì io...bene! Ero qui che…bèh, stavo per andarmene!” Blaterai mentre mi alzavo raccattando le mie cose.
Stefano continuava a guardarmi in modo strano, come se mi avesse colto in flagrante in qualcosa di molto losco. Cosa non del tutto falsa.
“E tu invece che ci fai qui?” Chiesi cercando di deviare l’attenzione dalle mie attività di pedinaggio.
“Per affari, mia cara. Sto appiccicando in giro questi.” Disse sventolandomi davanti agli occhi dei volantini che teneva in mano su cui riconobbi la scritta “Found live concert”.
“Suoniamo sabato prossimo all’Old Bridge e sto cercando di pubblicizzare un po’ per far venire un po’ più di gente dei soliti quattro gatti.” Sospirò fingendosi sconsolato e poi aggiunse: “Anzi, se ti va di distribuire un  po’ di questi alle tue amiche, amici, parenti, sconosciuti per strada…chiunque!”
Mi ritrovai in mano una ventina di locandine mentre Stefano continuava a parlare.
“Mi raccomando, invita più persone che puoi!”
“Userò anche la forza se serve.”  Scherzai io mettendo tutto in borsa.
“Così ti voglio Ceci! Ricordami che ti devo un favore! Ora torno a ridistribuire tutto, ci si vede!”
Mi diede un lieve pacchetta sul braccio e fece per incamminarsi, ma la mia mano gli afferrò il braccio per trattenerlo.
“Ascolta Ste…” Cominciai titubante. “Andrea."
Lui mi guardò 
 con espressione interrogativa attendendo il proseguimento mentre io me ne restai lì ferma e impalata a fissarlo.
Non so, mi dava uno strano effetto pronunciare quel nome che continuava a tamburellarmi nella testa tutto il giorno, era come rivelare un segreto.

"Cos'è? Hai una crisi d'identità? Io Stefano, tu Ceci." Scimmiottò lui imitando un cavernicolo e ridendo da solo. 
"No no!" Scossi la testa decisa, riprendendomi e cercai di spiegarmi meglio:  "Andrea, il tuo cantante...tu sai dove possa essere?”
Il batterista si strinse nelle spalle.
“Il capo? Hmm, non saprei, l’ho visto l’altro ieri alle prove, ma non so dove sia adesso, prova a chiamarlo se lo stai cercando.”
Già, sarebbe stato facile. Se solo le avesse risposto, per una volta.
“Ok, grazie mille lo stesso!”
“Figurati!” Sorrise lui agitando la mano in cenno di saluto ed andandosene.

Quindi era proprio così, mi stava evitando. O per lo meno agli altri rispondeva al telefono e non era né partito, né si era barricato in casa.
Ma allora ero davvero così sfortunata da non riuscire mai ad incrociarlo?
Sospirai cercando di scrollarmi di dosso quella strana sensazione viscosa che mi stava salendo nello stomaco e, con il libro sottobraccio, mi incamminai verso casa, deviando i miei pensieri sulla cena della sera.


-
 
“No ma aspetta…Cosa? Vi siete baciati?”
“Oddio, non direi baciati, cioè sì, ci siamo baciati, circa…”
Giocherellai con la forchetta sul piatto sentendomi più imbarazzata di quanto pensassi.
Ero nel pieno dei miei racconti estivi con le ragazze, avevamo finito di cenare da un pezzo ormai e si era fatto così buio nel mio piccolo giardino sul retro, che avevo dovuto accendere qualche candela per vedere in faccia Carlotta e Viola, sedute di fronte a me.
Ma la notte sicuramente non avrebbe fermato il flusso continuo di parole che erano rimaste imbottigliate per così tanto tempo, eravamo state lontane troppo tempo e niente almondo ci avrebbe fatte alzare da quelle seggioline un po’ scomode, da quell’aria un po’ umida, da quella cascata di frasi e racconti.
“Capisco che ricevere un bacio vero dopo anni passati con quel pistolone bavoso di Alex potrebbe averti un po’ shockato…” Iniziò Carlotta, con il suo solito grande affetto per Alexandros, sistemandosi i lunghi capelli scuri dietro le spalle. “...ma o c’è stato un bacio o non c’è stato.”
“Oppure gli è caduta la faccia sulla tua senza accorgersene.”  Se ne uscì con tono serio Viola da dietro i suoi lunghi capelli ricci mentre faceva colare la cera di una delle candele sulla tovaglia di plastica.
“Probabile…” Sorrisi io cercando di strappargliela dalle mani per evitare il macello totale.
“Bè, in ogni caso dovresti andare al concerto, secondo me. E parlargli.” Riprese Carlotta alzando le spalle e allungandosi per prendere un biscottino dal piatto al centro della tavola.
Mi voltai verso Viola per una sua opinione e lei mi fissò impassibile per qualche secondo con i suoi occhi allungati e taglienti.
“Se mi ridai il mio giochino, saprai.” Disse con calma enigmatica indicando la candela e strappandomi una risata esasperata mentre gliela restituivo. Tutta soddisfatta infilò un dito nella cera calda e sorrise
sentenziando: “Approvo, piccina. Dovresti andare a chiarire le cose!” 
“E se prova a evitarti di nuovo, taglierò via il suo piccolo flauto magico.”
“Approvo, approvo.”
Ridacchiai e mi rilassai sulla sedia osservando le prime stelle di quella notte con la faccia verso il cielo.
“Se mi dite così, devo proprio andare.”
“Ascolta Ceci.” Mi risollevai per ascoltare Carlotta che mi guardava stranamente seria. “Ci tieni proprio tanto a quel coso mingherlino e pappamolla?”
Sorrisi spostando lo sguardo sulle gocce di cera sparse ormai ovunque sulla tovaglia e, piano piano, quasi lasciandomelo sfuggire sovrappensiero mormorai semplicemente: “Sì.”
“Oh merdaccia schifosa!” Viola schizzò via strillando con le mani coperte di cera bollente e saltellando per il giardino.
“Così impari!”
“Ma taci!”
Scoppiai a ridere scuotendo la testa e bevendo l’ennesimo sorso di sangria della serata; quelle due riuscivano sempre a farmi star meglio, potevano sembrare strane o chiassose a volte, ma mi conoscevano meglio di chiunque altro. E tanto bastava.

 
"Non lo so dove fluttuo, non lo so Andrea..." Borbottai qualche ora dopo, mezza sbronza, mezza addormentata, con un piede fuori dalla coperta che tentava di coprirci tutte e tre, ma nè Carlotta nè Viola, addormentate di fianco a me, mi sentirono, e nemmeno io probabilmente mi sentii.



Ok, ho pubblicato.
Non dico altro. E' già un miracolo che ci sia riuscita.
Solo PERDONO e GRAZIE a quelle che hanno aspettato questo capitolo(di cui non sono molto soddisfatta) e che avranno ancora voglia di recensire. Mi sto già mettendo a scrivere il prossimo capitolo, che sarà davvero importante...preparatevi :)

Un bacio,
Ireth




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Capitolo 12
*** Capitolo XII ***


Capitolo XII

"Hey, you've got to hide your love away."

“Ho fame.”
“Taci.”
“Ma ho fame.”
“Tornatene a casa allora, parassita.”
“No. Però ho fame.”
Mi voltai rotolando sul tappeto verso Viola, che era accoccolata sul divano e nel frattempo pungolava con un piede Carlotta che dormiva pacificamente stravaccata a fianco a lei.
Eravamo tutte e tre a casa mia, guardando l’ennesimo film della serata e completamente sfinite dalle poche ore di sonno del giorno prima.
Stavamo lì a ciondolare senza far nulla ma, né io avevo voglia di scacciarle, né loro avevano la forza di alzare le chiappe per tornare a casa.

“Non possiamo avere qualcosa da mangiare?” Insistette Viola osservando distrattamente Carlotta che mugolava qualcosa nel sonno.
Sbuffai alzandomi da terra e mi stiracchiai un po’, in effetti non sarebbe dispiaciuto nemmeno a me qualcosa da mettere sotto i denti.
“Mmm e va bene, esco a prendere qualcosa. Cosa volete?” Chiesi alzandomi e dirigendomi verso il tavolo per prendere la borsa.
“Io ho voglia di cinese. Sì sì, passa da Chin!” Rispose Viola annuendo tutta soddisfatta e tornando a tormentare la poveraccia che dormiva ignara del piede che la stava lentamente spingendo giù dal divano.
“Ma Carlotta? …Beh, cinese pure per lei e si accontenta. Sempre che ritorni tra noi.” Osservai io alzando le sopracciglia dubbiosa.
Viola mi guardò con aria malvagia.
“Posso buttarla giù dal divano?”
Alzai le spalle risoluta.
“Fai come ti pare.”
Spinsi la maniglia urlando: “Torno tra mezzora!” e mentre la porta si chiudeva dietro di me feci in tempo a sentire un tonfo e la voce di Carlotta esibirsi in insulti di vario genere.
Sghignazzai tra me e me e sorrisi nell’aria tiepida della sera incamminandomi verso i canali principali per poter prendere un battello e arrivare dal nostro ristorante cinese di fiducia a pochi minuti da lì.

Mentre aspettavo l’arrivo di un vaporetto ancora assonnata, in compagnia di un anziana signora con una borsa della spesa, il suono di una risata scrosciante pazzescamente vicina mi fece sobbalzare: era incredibilmente familiare…e proveniva dalla mia borsa!
Frugai alla ricerca del cellulare mentre la risata di Christos, che avevo dimenticato di aver impostato come suoneria per le sue chiamate, continuava ad alzarsi di volume attirando su di me lo sguardo sconvolto di disapprovazione della vecchietta lì di fianco.
Finalmente riuscii a recuperarlo e per poco non me lo feci sfuggire dalle mani mentre premevo il tasto verde e borbottavo uno “Scusi!” imbarazzato in direzione della tizia shockata.
-Big C., spera per te che questa chiamata sia importante.- pensai, venendo smentita non appena appoggiai l’orecchio al telefono: un insieme di urla, risate, musica e versi senza senso mi colpì dritta nel mio povero timpano.
“Pronto?” Urlai, tentando di sovrastare il caos totale che proveniva direttamente da Londra, ma non ottenni altro che altre grida di una stanza piena di persone ubriache.
Un classico, i ragazzi erano nel bel mezzo di una delle loro sbronze in allegria e chiamavano a caso.
“Pronto?” Ripetei esasperata, ma anche un tantino divertita.
“Ceci! Hahaha…”
La voce altissima di Christos si interruppe subito, sostituita da quella di Dionisis, urlante anch’egli.
“Piccola bella!” Strepitò il bassista con un improbabile accento italiano. “We miss you*!”
Sorrisi, mentre strani rumori soffocati suggerivano un altro passaggio di mano del telefono di Big C.
“Ceci!”
Il mio sorriso si allargò nuovamente, immaginando la faccia tutta rossa, tipica di Jacob quando beveva un drink più del solito.
“Jacob, ciao!”
“Ceci, Ceci, qua siamo tutti…Hahaha, ti vogliamo bene, baby!”
“Passami il telefono, malaka  *  !”
Una nuova interferenza coprì la voce di Lefteris e la chiamata si interruppe bruscamente, riportando il silenzio alla fermata del vaporetto di Venezia.
Riattaccai anch’io scuotendo la testa ridendo tra me e me: i ragazzi mi mancavano ed era bello sapere che la mia pazza famiglia allargata si stava divertendo, era viva e mi pensava in qualche modo, nel suo delirio.
Dopo qualche minuto il vaporetto arrivò e non potei fare a meno di notare che l’anziano signore andò a posizionarsi dalla parte opposta rispetto a me, osservandomi con aria guardinga.
Sollevai le spalle soffocando un’altra risata e mi sedetti.

Nel tragitto, un’altra telefonata dei Jump in! rallegrò il mio breve viaggetto con frasi sconclusionate, in greco mescolato a qualche linguaggio sconosciuto da parte di un Christos completamente perso nell’alcool.
Giunta a destinazione fui costretta a riattaccare per prendere le ordinazioni da Chin, il mio cameriere fidato, che mi offrì il solito sconto e mi fece uscire dal ristorante di buon umore e con un’odore appiccicaticcio di cibo cinese attaccato ai capelli.
Cominciava ad essere buio e mi affrettai a prendere un vaporetto su cui riuscii a salire al volo, per miracolo.
Viola mi avrebbe ucciso se le avessi portato il cibo raffreddato.
Mi guardai intorno, cercando un sedile libero, il più vicino possibile alla ringhiera, per sentire l’aria fresca in faccia, e per poco non presi un colpo.
Andrea era lì seduto e fissava un punto nel vuoto dritto davanti a sé, nel mare, e non mi aveva notata.
Strinsi forte la carta dei sacchetti che mi aveva dato Chin, con il cuore in gola: era strano vederlo lì dopo aver tanto pensato a dove avesse potuto finire, dopo averlo tanto cercato in tutti i volti della gente di Venezia e in tutti gli angoli dei miei ricordi.
Ed era lì tranquillo, con i capelli più scompigliati del solito. E fissava chissà dove, mentre io fissavo lui.
Deglutii e mi avvicinai più lentamente possibile, tanto che si accorse di me solo quando la mia ombra lo distrasse dai suoi pensieri e si voltò a guardarmi.
E io ero lì, indecisa tra un sorriso e un’espressione strana, come impaurita, aspettando che mi mettesse a fuoco.
Quando mi riconobbe rimase come paralizzato per una frazione di secondo, sorpreso, con le sopracciglia alzate e la bocca semiaperta.
“Hei!” Esclamò con un tono di voce innaturalmente alto scattando su più dritto con la schiena.
“Heilà!” Risposi io a bassa voce, a disagio, senza sapere se sedermi sul sedile accanto a lui o rimanere lì ferma come un palo.
Andrea si mosse nervosamente sulla sedia guardando di qua e di là mentre io dondolai sulle punte dei piedi.
“Bè, che ci fai qui? Cioè…come va?” Chiese infine lui guardandomi con un sorriso teso.
“Oh, tutto bene! Sono andata a rifornirmi.” Dissi io alzando i sacchetti del ristorante a mo di spiegazione.
“Ah, vedo. Hai fatto bene…Hai…hem, vuoi sederti?”
“Oh, sì. Grazie!”
Mi sistemai lentamente sul sedile mentre l’imbarcazione partiva con calma dalla fermata.
E ora? Come potevo chiedergli in modo carino dove fosse scomparso per tutto quel tempo? Forse dovevo iniziare a scusarmi per averlo coinvolto nella faccenda di Alex e della sua testata contro il muro?
La situazione era piuttosto imbarazzante e il silenzio stava durando un po’ troppo, ma per fortuna fu lui a parlare:
“Bèh, è da un po’ che non ci si vede eh?”
“Già. Sai, ho visto Stefano…”
“Ah sì?”
“Eh sì…” Proprio davanti a casa tua, mentre ti stalkerizzavo.
Tornò di nuovo il silenzio, interrotto solo dal rumore del vaporetto, finchè non decisi di schiarirmi la gola e voltarmi verso di lui.
“Senti, mi dispiace per l’ultima volta che ci siamo visti. Era una situazione un po’ particolare e mi scuso davvero per quello che ti ha detto Jacob, sai…quel ragazzo…non quello in barella, quello…l’altro.”
Finii di borbottare e mi fissai la punta delle scarpe.
Sentii Andrea sospirare e tornai a guardarlo: aveva un espressione indecifrabile, neutrale.
“Non ti preoccupare, non c’è problema.” Disse poi tranquillamente, senza emozione nella voce e portandosi una mano ai capelli, attorcigliandoseli velocemente intorno al dito.
Quel tono monocorde, così strano nella sua bella voce mi fece agitare, sentii che cominciavo a scaldarmi e cominciai a parlare troppo veloce.
“Bè, non penso non ci sia problema dato che mi hai evitata per…”
Maledizione, la risata di Christos. Mi interruppi per cercare il cellulare e rifiutare l’ennesima chiamata dei ragazzi, odiandoli per il tempismo.
“Ecco, insomma…perché non mi hai mai risposto al telefono?” Riuscii a dire infine, guardandolo dritto in faccia.
Lui scosse la testa con aria stanca e sospirò.
“Ascolta, lascia stare.” Disse poi con lo sguardo basso.
“No io non…scusa un secondo.”
Un’altra chiamata. Rifiutata. Dannazione, Christos.
Mentre rimettevo il cellulare in borsa, Andrea con mia sorpresa si alzò in piedi a guardarmi.
“Ascolta Ceci, ho dovuto ignorarti perché ho capito che per me non c’è il posto che mi ero immaginato di poter avere. Stai cercando di sistemare qualcosa in cui non centro nulla e devo farmi da parte...per il mio bene. Lo so, mi rendo conto di essere stato un idiota a coinvolgermi in qualcosa che in realtà è esistito solo nella mia testa, ma è per questo che devo prendere le distanze da te. Non so, non è da me questo…non è da me.”

Oddio.
Totalmente spiazzata da quella sottospecie di confessione improvvisa mi trovai a fissarlo con gli occhi sgranati per qualche secondo prima di riuscire a pronunciare un “Cosa?” che mi sembrò subito la parola più sbagliata da dire.
Lo guardai scrollare le spalle mentre il mio stomaco si stringeva in modo quasi doloroso: quello che aveva detto mi aveva veramente colta di sorpresa, era questo quello che sentiva? Non sapevo proprio cosa pensare, era come se mi avesse lanciata nell’acqua fredda sotto di noi e per un assurdo momento lo immaginai mentre mi scaraventava con un abile mossa di restling nel canale.
Deglutii e mi imposi di ritrovare un minimo di lucidità.
“Non so…” Dissi lentamente, scegliendo con attenzione ogni parola. “…non so se sono d’accordo con te.”
Mi schiarii la voce cercando di attirare il suo sguardo che ormai sembrava del tutto assente.
“Insomma io so di dovermi…hem, riassestare, ma per te io credo ci sia del posto, cioè sei stato gentile con…”
“HAHAHAHAHAHA…”
Maledizione. Un'altra chiamata.
“Scusa un secondo!”
Risposi al cellulare e, senza ascoltare chi diavolo stesse parlando, sbottai: “Ragazzi piantatela!”
Tornai a guardare Andrea che stava scuotendo la testa con un sorriso triste.
“Vedi?” Disse. “E’ stato bello esserci per un po’, ora però devi pensare a sistemare il tuo mondo. Io non ci sto, lo capisco.”
Senza lasciarmi il tempo per rispondere si voltò di scatto e scese alla fermata a cui non mi ero nemmeno accorta fossimo arrivati.
Restai lì ferma, con del cibo cinese freddo in mano e la bocca semi aperta senza rendermi davvero conto di quello che era successo.
E il vaporetto ripartì e la riva, insieme ad Andrea, si allontanò piano fino a scomparire nel buio.
Ed io non riuscii più a distinguere se la sua figura fosse ancora lì, a rivolgere le spalle al mare, ferma e fragile come un ombra.


* We miss you= Ci manchi
* Malaka = insulto a piacere, molto simile a "idiota" in italiano :)

Hahaha ho aggiornato e tutto ciò fa molto ridere perchè nessuno si ricorderà più di questa storia ma ho una scusa sul mio ritardo. La maturità e tutto l'esaurimento che ne è conseguito :) Ma finalmente ora che sono una ex liceale maturata ecco a voi questo capitolo :) Spero vi sia piaciuto (a me no.) e che mi vorrete bene comunque!
Grazie di tutte le recensioni agli altri capitoli!
Un bacio,


Ireth

 

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