Cinque posate

di Pichichi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima ***
Capitolo 2: *** Adesso ***
Capitolo 3: *** Più tardi ***



Capitolo 1
*** Prima ***


CINQUE POSATE

Prima

La colpa era tutta di Roberta. Doveva essere per forza così, perché escludendo i sintomi da sindrome pre-mestruale e il cambio repentino di temperatura –lì a Foggia non si registravano misurazioni inferiori ai 20° C da almeno una settimana– non le restava null’altro che giustificasse il suo rombante mal di testa, a causa del quale si era chiusa in casa da sola, al buio, sotto un plaid di lana e con la guancia affossata nel cuscino. Nulla si muoveva all’interno della stanza, eccezion fatta per due punti simmetrici oltre le sopracciglia che pulsavano con insistenza.

Si chiamava Ivonne non perché avesse origini francesi, ma per via del gusto eccentrico di sua madre, fortunata nel disporre di cinque figlie femmine con cui potersi sbizzarrire; lei era la secondogenita, dichiaratamente vegetariana e lesbica, dotata di uno straordinario talento nel far andare tutto per il verso sbagliato. In quel momento giaceva inerte sul letto, raggomitolata su se stessa ad interrogarsi su che cosa avesse fatto di male quella volta, per averne somatizzato le conseguenze in quel modo così doloroso.

Quando le cose andavano male tirava sempre fuori la solita scusa, la più fragile, quella di aver dato troppa confidenza ad una ragazza dallo sguardo vivace, un qualsiasi mercoledì di alcuni mesi prima. Se ciò non fosse avvenuto, si sarebbe risparmiata moltissime seccature, ne era certa, a cominciare da quel brutto mal di testa.

Certo lei era ignara, a quei tempi, di tutto quel che avrebbe comportato accettare l’aiuto di una ragazza che, come lei, doveva caricare i bagagli sul pullman diretto verso l’entroterra garganico. Dopo i primi frettolosi rigurgiti di come ti chiami, cosa studi, di dove sei, erano passate a quanti fratelli hai, tieni per il Foggia o per il Bari, sei fidanzata, oh accidenti sono single anch’io, sapessi quante ne ho passate, aspetta cos’hai detto?

«Mi piacciono le ragazze» aveva ripetuto Ivonne, gli occhi fissi sull’altra e le guance sempre più rosse; credeva di averci fatto l’abitudine, ma evidentemente così non era se ancora s’imbarazzava nel rivelarlo, soprattutto ad una ragazza così carina.

«Quindi… sei bisessuale?»

«No, lesbica.»

«Uh uh. Wow, sei la prima.»

Quella venatura languida e curiosa nello sguardo di Roberta avrebbe dovuto metterla sull’attenti, ma siccome la sua unica reazione era stata sorridere placidamente come una fessa, ci era cascata con tutte le scarpe. Da lì in poi gli eventi si erano succeduti con tanta naturalezza da sembrare programmati o comunque talmente rapidi e concatenati da far presupporre l’esistenza di un certo disegno superiore, il cosiddetto destino.

Quando fece ritorno a casa ed entrò nella camera Roberta la riconobbe subito, non tanto perché creava un informe fagotto sul materasso quanto per i calzini colorati e a righe che vide spuntare da sotto la coperta. Era contenta per essere sopravvissuta ad una giornata molto intensa e non vedeva l’ora di stringersi addosso a quella che poteva ormai considerare a tutti gli effetti la sua fidanzata. Salì sul letto, le afferrò le caviglie e la trasse a sé.

«Ivonne?»

«Eh?»

«Che cos’hai?»

Ivonne si prese qualche secondo per valutare che cosa risponderle, se affrontare direttamente l’argomento oppure limitarsi a scrollare le spalle per non metterla di malumore; scelse di mostrarsi vaga.

«Mah… niente.»

«Oh, per favore!»

Roberta le crollò accanto per guardarla in faccia e sincerarsi personalmente del suo stato; Ivonne tenne gli occhi chiusi finché non sentì il naso dell’altra ragazza premere contro il suo e una mano fresca spostarle i capelli oltre l’orecchio. Allora schiuse le palpebre.

«Non ti senti bene?»

«Ho mal di testa» spiegò con voce lamentosa. «Forte.»

Roberta si sedette composta, tirando un sospiro e lasciandole un’altra carezza sulla guancia. Cominciò a togliersi il giubbino, ci pensò su e poi chiese:

«Be’, che stai aspettando? Che ti passi da solo?»

Ivonne non rispose, perciò Roberta interpretò quel silenzio come la conferma della sua ipotesi; quando si fu sgranchita le dita dei piedi e infilate le pantofole si alzò, con l’intenzione di avviarsi verso la cucina.

«Non hai preso nulla?» s’informò.

«No.»

«Okay. Vedo cosa c’è.»

Roberta non poté evitare di domandarsi, mentre recuperava il tubetto di Vivin-C, che cosa avrebbe fatto Ivonne se lei non fosse in quel momento tornata a casa. Sarebbe rimasta lì inerte, a soffrire nel buio?

Roberta le voleva tanto bene, ma a volte proprio non la capiva. Di solito Ivonne lasciava che fosse lei a sbrigare la maggior parte delle faccende, come pagare le bollette, ritirare le raccomandate alla posta, prenotare il tavolo in pizzeria e cose del genere; fin qui non c’era nulla di male, faceva parte della natura della ragazza, dotata di uno spiccato senso pratico. Ivonne era invece più un tipo svagato, un po’ troppo ingenua e sognatrice per occuparsi delle cose di questo mondo; poi c’era quell’enorme problema che era l’estrema timidezza unita alla facile tendenza a buttarsi giù, cose che la rendevano uno di quei soggetti assolutamente indifesi, pronti ad aggrapparsi a chiunque offrisse loro protezione. A volte si sentiva proprio così, come assediata da un parassita.

A riguardo Roberta bisognava dire che era una ragazza molto paziente; di più, aveva imparato ad essere paziente e ad accordare le sue reazioni secondo quelle di Ivonne. Non era stato semplice: le veniva quasi da ridere al pensiero dei problemi che si era posta all’inizio, quando si era accorta di provare qualcosa per lei.

Aveva sempre sospettato che anche Ivonne ricambiasse i suoi sentimenti – di certo non doveva rivolgere quei sorrisi dolci e quelle occhiate affettuose a chiunque –, eppure si accorgeva che l’altra ragazza, in risposta alle sue espressioni concilianti e a certi tentativi forzati di condividere il maggior contatto fisico possibile – abbracci, baci gratuiti e carezze superflue erano all’ordine del giorno –, non reagiva assolutamente. O meglio: sì, aveva visto chiaramente che diventava tutta rossa se solo si azzardava a pettinarle i capelli con una mano, aveva notato il suo essere sempre sorridente nel rivolgerle la parola, ma il tutto moriva lì. Dopotutto, si era detta Roberta, era o non era lei quella omosessuale? Non avrebbe dovuto condurla lei sulle dolci vie della perdizione?

Ma nessuna si decideva a fare il primo passo, e ciò dovette accumulare fra loro una tale quantità di parole inespresse e tensione sessuale che fu sufficiente un evento del tutto casuale a far scattare la scintilla.

Roberta se lo ricordava bene, sovrapponeva l’immagine di quell’Ivonne, così serena e allegra, a quella triste e demoralizzata che di tanto in tanto rispuntava fuori, come quella volta. Quando le portò il bicchiere con la compressa accanto aspettò che finisse d’ingoiare e si protese per baciarle una guancia, ma venne bruscamente respinta.

«No, lasciami stare.»

«Hai preferenze per cena?»

«No, va bene tutto. Anzi no, non ho fame, non voglio nulla.»

Dopo esser tornata sotto la coperta ed averle voltato le spalle, si chiuse nel silenzio più impenetrabile; Roberta decise che era meglio lasciar perdere, che nonostante avesse molta voglia di essere stretta fra le sua braccia e poggiare la testa sul suo corpo per cinque minuti, cinque soli minuti di beatitudine che l’avrebbero ripagata di tutta la stanchezza accumulata durante il giorno, vi avrebbe rinunciato per non urtare la sensibilità della sua fidanzata. Quell’Ivonne non aveva molti punti in comune con quella che, una luminosa mattinata di febbraio, si era offerta di accompagnarla a fare la spesa.

C’era da far provviste per tutta la settimana e Roberta aveva avuto bisogno di un aiuto supplementare, così Ivonne l’aveva seguita fino al supermercato e l’aveva assistita molto volentieri nello spingere il carrello della spesa. Non era accaduto niente di speciale, anzi quel giorno le ragazze sembravano essere meno occupate a farsi gli occhi dolci per concentrarsi sulla lista di cose da comprare; nemmeno quando Roberta aveva chiesto a Ivonne se, per piacere, potesse allungare una mano e afferrare la scatola di corn-flakes era cambiato qualcosa, nonostante la ragazza, nel farlo, avesse rischiato di far cadere le altre confezioni e perdere l’equilibrio, necessitando il sostegno dell’amica. Sembrava insomma che fosse la giornata più normale del mondo, o così aveva pensato Roberta con una punta di delusione mentre si erano avviate oltre le porte automatiche del negozio.

Avevano parcheggiato non proprio vicino e si erano affannate a percorrere il tragitto trascinando due buste consistenti a testa; sentendo la stanchezza, Ivonne aveva chiesto:

«Dov’è la macchina?»

«Un altro po’, siamo quasi arrivate. Ma sei stanca?» Roberta si era voltata a guardarla mentre imboccavano una discesa. «Vuoi darmi una busta?»

«No, no, ce la faccio.»

Capitò che in quel momento passasse una moto, di gran carriera, e che il rumore del motore coprisse le loro voci. Roberta, che aveva ripreso a guardare avanti a sé, si fermò ad un tratto voltandosi tutta.

«Scusa, che hai detto? Non ho capito niente, con quel rumore.»

Ma tanto brusca era stata la sua fermata quanto rapido fu il movimento di Ivonne, fermatasi giusto qualche centimetro prima di finirle addosso. Anche se non pareva esser la situazione più romantica del mondo, con la strada trafficata, le sciarpe e i cappotti ingombranti addosso, le buste della spesa in mano, forse alle ragazze non serviva che un pretesto qualsiasi per prendere coraggio e smuovere la situazione. Ivonne aveva pensato che non importava se si trovavano in una via cittadina in cui l’intimità non esisteva affatto, perché tanto Roberta le piaceva comunque, anche col fiatone e le guance rosse come in quel momento.

Ed era stata la cosa più semplice del mondo allungarsi e posarle un bacio sulla bocca, tanto naturale che Roberta, come se non aspettasse altro, l’aveva assecondata senza esitare. Fortunatamente ebbero la prontezza di non lasciarsi sfuggire di mano le buste e, dopo un primo momento di tenerezza, di riprendere il loro cammino fino all’automobile. Erano incuranti del resto, e molto innamorate.

A dispetto di quel che aveva affermato Ivonne, Roberta si presentò in camera da letto, poco dopo le dieci, reggendo un vassoio.

«Sei sveglia?» domandò.

«Sì.»

La compressa aveva agito con efficacia ed Ivonne aveva trovato sollievo da quel dolore opprimente; sembrava essersi tranquillizzata e rilassata a sufficienza da permettere alla fidanzata di rivolgerle la parola. Accettò con un certo imbarazzo quel che Roberta le aveva preparato – due fette di mozzarella con accanto dell’insalata – e, mettendosi seduta, cominciò a mangiare in silenzio. Roberta nel frattempo prese a spogliarsi, sospirando fra sé riguardo all’umore volubile dell’altra.

Il silenzio continuò per un po’, intervallato dal rumore delle posate che urtavano il piatto e dal fruscio degli abiti; Ivonne sapeva di non essersi comportata nel migliore dei modi e immaginava che Roberta fosse, se non arrabbiata, quantomeno irritata. Non era la prima volta che succedeva e detestava enormemente essere dalla parte del torto, specie perché non era sicura del modo in cui chiederle scusa.

«Vado in bagno.»

«Va bene» fece lei, con un filo di voce, seguendola con lo sguardo nel tragitto verso il bagno.

Lo scatto della porta la fece ripiombare nei suoi tristi pensieri; non sapeva nemmeno lei cos’avesse, non aveva idea del perché fosse così preoccupata e pensierosa. A dirla tutta, Ivonne ammise a se stessa che il fatto che Roberta fosse stata parecchio impegnata, quella mattina, senza volerle rivelare di che cosa effettivamente si stesse occupando, l’aveva seccata non poco. Aveva provato a girarci intorno, a carpirle informazioni, ma Roberta non aveva lasciato trapelare nulla.

«Cose noiose, devo spedire una raccomandata» le aveva risposto, rassicurandola con un sorriso, facendo leva sul fatto che la sua fidanzata non nutrisse il minimo interesse per quel genere di cose, così quotidiane.

«Ah, d’accordo.»

Per tutto il pomeriggio Roberta aveva avuto lezioni all’università e nel momento in cui era rientrata Ivonne aveva già somatizzato tutti quei pensieri.

Come le accadeva spesso, d’un colpo mutò umore e considerò la cosa da una prospettiva diversa: stava facendo tante storie per una sciocchezza, mentre Roberta era soltanto stanca e avrebbe certo desiderato tutto un altro tipo di accoglienza?

Scalciò via la coperta che aveva tenuto sulle gambe, poggiò il piatto sul comodino e si avviò, scalza, verso il bagno. Abbassò la maniglia e sgattaiolò nella stanza, per nulla sorpresa di trovare Roberta piegata sul lavandino, intenta a sciacquarsi i capelli.

«Che c’è?» domandò lei, voltandosi appena per darle un’occhiata che non lasciava presagire alcun affettuoso benvenuto.

«Vuoi aiuto per asciugarli?»

Il rumore dell’acqua che la ragazza si fece scivolare sul capo, badando che spazzasse via anche gli ultimi residui dello shampoo, non le diede modo di ascoltare alcuna risposta, ammesso che ce ne fosse stata una: Ivonne notò le sopracciglia della sua fidanzata appena corrugate ed intuì che nel lasso di tempo in cui l’aveva lasciata da sola Roberta doveva aver meditato pensieri non molto pacifici nei suoi confronti.

Una volta che ebbe chiuso il rubinetto e strizzato fra le mani le ciocche fradice, si rimise dritta e si strinse nelle spalle.

«Mah, se proprio vuoi…»

«Sì, sì! Prendo il phon e la sedia.»

Ivonne la superò, aprendo l’anta del mobiletto in cui conservavano tutto il necessario per igiene personale e cura del corpo, alla ricerca dell’attrezzo, del beccuccio adatto e di una spazzola rotonda. Sorrise fra sé, senza osare farne mostra all’altra: pur se in modo scorbutico, il permesso di assisterla in quel rito era già un passo avanti.

In tempi più tranquilli e sereni, quella sarebbe stata una comunissima scenetta romantica a cui entrambe amavano prendere parte: Roberta lasciava volentieri a Ivonne il compito di occuparsi dei suoi capelli ondulati e informi, mentre l’altra gioiva nel partecipare a quel momento così personale. Fin da subito era stato uno dei loro siparietti d’intimità preferiti.

Ivonne fece prendere posto alla ragazza su una sedia più bassa del dovuto, si sedette sul bordo della vasca da bagno e prese in mano un pettine.

«Riga a destra?»

«No, sinistra.»

Con un lieve sospiro li prese in mano e cominciò a passarci le dita ed il pettine, incontrando non poche resistenze. Per i primi momenti rimasero in silenzio, l’una concentrata sul suo lavoro e l’altra a braccia conserte, gli occhi fissi nello specchio di fronte a sé. Si percepiva un’atmosfera grave, carica di parole non dette e di pensieri lasciati a macerare troppo a lungo.

«Si son fatti lunghi, Robbé» commentò Ivonne, accennando un sorriso.

Fu uno sbaglio: non fece che irritare ancora di più Roberta.

«Sì, devo andare a tagliarli. Però sbrigati, dai.»

Ivonne sapeva benissimo che l’arrabbiatura della sua ragazza trovava giustificazione da tutti i punti di vista, tuttavia non poté evitare di sbuffare per il suo atteggiamento anti-collaborativo.

«Ma sei arrabbiata, eh?»

«No.»

«Sicura?»

«Sicura.»

Non passò che qualche secondo di silenzio che Roberta si contraddisse.

«Ecco, questo mi fa proprio incazzare.»

«Che cosa?» domandò Ivonne, smettendo di pettinarla.

«Tu. Tu quando fai così.»

«E che cosa ho fatto?»

«Non lo so! Vengo a casa e ti trovo col muso, che non parli, che sembra che ti abbia fatto qualcosa!»

«Avevo mal di testa…»

«E ho capito che hai mal di testa, però… anche io sono stanchissima, oggi ho fatto un sacco di cose! Non è che quando stai male tu deve fermarsi il mondo e tutti sull’attenti!»

Incerta su che cosa rispondere, Ivonne tentennò. Poi provò ad obiettare:

«Ma non ti ho fatto niente di male.»

«Sì, non mi hai fatto niente di male, ma ci sono dei giorni in cui pare che ti sia dovuto tutto, in cui esisti solo tu! Certe volte, certe volte… non lo so! Certe volte mi sembri una bambina, guarda! E dai!»

Accompagnò la tirata con un gesto energico della mano, testimone della necessità quasi fisica che aveva di buttar fuori quelle parole; la sua espressione però mutò in preoccupata quando vide il viso della sua ragazza rannuvolarsi d’un tratto. Ivonne lasciò andare i capelli, si tirò leggermente indietro e disse:

«Bene. D’accordo. Fatteli tu i capelli.»

Roberta diede prova di grande autocontrollo nel trattenere tutti gli improperi che le erano saliti alle labbra. Scosse la testa, manifestando disapprovazione, e si voltò a guardarla negli occhi.

«Dai, finiscimi ‘sti capelli.»

«No. Fatteli da sola.»

«E dai.»

«Fatteli da sola ho detto!»

«Ora ti sei arrabbiata tu?»

«Sì, sono arrabbiata.»

«Oho!»

A Roberta sfuggì un sorriso sarcastico. Fece roteare la mano destra e si girò completamente verso la sua fidanzata, senza abbandonare quell’aria divertita.

«Ora ti sei arrabbiata, eh?»

Ivonne le lanciò uno sguardo cattivo, fece un bel respiro perché non le mancasse il fiato e poi sbottò, le guance improvvisamente rossissime.

«Sì, mi sono arrabbiata! Che c’è? Non mi posso arrabbiare, io? Non mi posso arrabbiare? Anche tu mi fai incazzare, quando fai così!»

«Ivonne…»

«Tu mi tratti peggio di una scema! Anzi no, l’hai detto prima, una bambina! Tu mi tratti come una bambina, sì! Non capisco niente, è vero? Una povera scema, non capisce niente, non diciamole niente!»

«Abbassa la voce, che è tardi!»

«Non abbasso niente! Grido quanto mi pare!» fece lei per tutta risposta, fermandosi poi a riprendere fiato.

Roberta dimenticò tutto quel che aveva detto prima, ciò di cui si era lamentata, più preoccupata in quel momento dello stato isterico in cui sembrava vertere l’altra; agitata e scossa, era tutta un tremito. Ivonne si fece coraggio, approfittando dello spiazzamento della ragazza, per deglutire e tirar fuori quello che aveva da dire.

«Tu non mi dici mai niente» concluse.

«A che cosa ti riferisci?»

Roberta allungò un braccio per tirarla vicino a sé e farla risedere; interpretò la sua non resistenza come il segno che la ragazza doveva essersi calmata, perciò si permise di domandarle, con tono più dimesso e premuroso:

«Cos’è che non ti dico? Che cosa?»

Ivonne tacque, guardandola senza dire nulla. Non poteva dire la verità, non poteva rivelarle di essere ancora seccata per la faccenda di quella mattina, soprattutto ora che aveva ottenuto la sua piena attenzione.

Da parte sua, Roberta si dispiacque enormemente di averla esasperata a quel modo, tanto da farle perdere il controllo; sapeva bene che la sua compagna soffriva di bruschi sbalzi d’umore che spaziavano dal malinconico al collerico, dall’euforico all’indifferente, sapeva quanto Ivonne fosse sensibile a queste variazioni, per questo si maledisse fra sé, sentendosi terribilmente in colpa. Aspettò una sua qualche reazione, rassicurata almeno dal non vederle più sul volto quell’ansia esagitata di poco prima.

Ivonne non disse nulla, riprese in mano il pettine e riprese a svolgere i nodi che Roberta si ritrovava in testa. Questa aspettò un po’, per controllare che non ci fossero da temere altre sfuriate, poi chiese:

«È per via del vestito?»

Faceva riferimento ad un episodio accaduto qualche giorno prima. Le due ragazze si erano recate in centro alla ricerca di un negozio dove poter reperire degli abiti carini e non eccessivamente costosi, in previsione di un compleanno al quale entrambe erano state invitate.

Roberta era stata molto sbrigativa e decisa: scelto il modello, provatolo e constatata la perfetta adesione della stoffa al suo corpo un po’ robusto e formoso, non aveva avuto dubbi nell’acquistarlo. Ivonne invece aveva provato e riprovato vari modelli dei più disparati colori, dal rosa pallido al blu scuro, passando per il nero e per un eccentrico tubino giallo che Roberta aveva senza esitazioni disapprovato; aveva tenuto la commessa per molto tempo accanto a sé, incapace di scegliere l’abito che le stesse meglio, portando al limite la sopportazione della compagna.

Dopo aver ingannato il tempo sbirciando i diversi tipi di camicie e giubbini esposti, sfogliato per tre volte il catalogo della collezione primavera-estate, dato un’occhiata alle borse e ai cappelli, così come ai foulard e persino alle scarpe da uomo, aveva fatto ritorno nei camerini con la speranza che Ivonne avesse finalmente scelto che cosa prendere.

«Non mi so decidere! Tu che ne pensi?»

La mente di Roberta aveva lavorato con grande rapidità. Continuando a dare carta bianca ad Ivonne, si poteva star certi che le cose sarebbero andate per le lunghe; aveva dato un’occhiata al vestito che stava provando: di color grigio, morbido, non era nulla di speciale ma nemmeno poteva definirsi orribile. Aveva liquidato fra sé la questione asserendo che Ivonne aveva quel tipo di fisico naturalmente armonioso, per cui poteva andarle bene tutto.

«A me piace questo.»

«Sì?»

Lei si era voltata con aria sollevata, felice di aver trovato un giudizio a cui aggrapparsi in quel mare di confusione. Tutto sarebbe andato per il meglio se Roberta non si fosse fatta successivamente sfuggire, in un momento d’ilarità, che quel vestito le dava l’aria di un fantasma e la faceva apparire un’anemica in carenza di vitamine. Ivonne era cascata dalle nuvole: per lei non faceva davvero differenza il tipo di vestito da indossare, ma aveva pensato di prendere quello che più era piaciuto alla sua fidanzata. Si era imbronciata e le aveva tenuto il muso per un po’, ma poi Roberta l’aveva convinta a non pensarci più di tanto, perché lei era bella in ogni caso e tutto le stava bene addosso.

Non ricevendo risposta, interpretò il silenzio come una conferma.

«Cioè, allora… ammettiamolo: non è un granché» riprese a parlare, cercando di assumere un tono pratico e di portare la discussione su toni più rilassati. «A me personalmente non importa che vestito tu abbia addosso.»

Ivonne smise di pettinarla, eliminando i capelli che aveva tirato via dai denti del pettine, e infilò il beccuccio sul phon.

«Perché preferisci senza, lo so. Originale.»

«Ma a parte questo, visto che a te piacevano tutti e non riuscivi a deciderti, ho pensato che non interessando a nessuna delle due, non facesse alcuna differenza.»

«Sì sì, certo.»

Il rombo del phon coprì ogni possibile risposta, ma Roberta notò il tono più disteso e ironico dell’altra e si tranquillizzò. Passata la burrasca, entrambe parvero dimenticare quanto accaduto prima; non dissero più nulla e Ivonne continuò a passare la spazzola attorno ai capelli dell’altra, avvolgendola con decisione per conferire loro più volume.

Indubbiamente ci voleva una gran pazienza, pensava Roberta guardandola nello specchio: non erano permessi toni di discussione troppo bruschi, i suoi momenti di umore altalenante non erano sindacabili ed era necessario fare sempre scorta di insalata, verdure e ortaggi che sostituissero la tanto avversata carne, di cui Roberta era molto ghiotta. Tutto ciò passava in secondo piano nel momento in cui si accorgeva di quanto impegno e premura mettesse Ivonne nell’asciugarle i capelli; quando il riflesso della sua ragazza incontrò il suo sguardo e le rivolse un sorriso, oltre che un’amorevole occhiata, si accorse che gli angoli della sua bocca si erano spontaneamente tesi verso l’alto.

Succedeva sempre così, passavano da uno stato d’animo all’altro con grande rapidità, ma questo non le turbava e non accumulava in loro rancore per le controversie non risolte; i problemi sorgevano nel momento in cui una delle due si stabilizzava su una tonalità diversa – solitamente si trattava di Ivonne – e allora era necessaria una discussione energica, un gesto spontaneo e irrazionale per riportare la situazione in parità. Roberta aveva imparato che Ivonne era molto suscettibile alle litigate, producevano in lei una grande impressione ed erano capaci di scuoterla tutta; la cosa fondamentale era capire in tempo quale fosse il punto di non ritorno, quella soglia d’orgoglio oltre la quale Ivonne non sarebbe riuscita ad andare se non mutando radicalmente i rapporti con la sua interlocutrice. Fino a quel momento Roberta era sempre riuscita a perdonarle e farsi perdonare tutto, prima che fosse troppo tardi.

«Allora era per quello che stavi in pensiero?» le domandò più tardi, quando furono entrambe sotto le lenzuola, aggrovigliate a formare un’unica massa corporea.

Ivonne, occupata a rallegrarsi della ritrovata intimità e della rappacificazione, non comprese subito a che cosa si stesse riferendo la ragazza.

«Per il vestito, dici?»

«Dai, al massimo ne indosserai uno vecchio che non t’ha mai visto nessuno.»

Si ricordò della misteriosa faccenda della mattina e fu lì lì per parlargliene sperando che, data la situazione favorevole, Roberta la tranquillizzasse esponendole tutti i dettagli del caso, ma il suo proposito venne meno quando l’altra ragazza allungò una mano a far scattare l’interruttore dell’abat-jour, facendole piombare nel buio più totale.

Ivonne pensò che non era quello stupido vestito il motivo del suo malumore e che forse avrebbe dovuto semplicemente dire la verità, piuttosto che lasciar galleggiare quella raccomandata ignota nei suoi pensieri, ma il percepire una coppia di mani che la tenevano ferma per i fianchi e Roberta salirle sopra per cercare un comodo incastro la distrasse completamente, al punto che quando si ritrovò a torcere il collo per ricambiare e al contempo sfuggire i baci dell’altra aveva già dimenticato tutto.

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Capitolo 2
*** Adesso ***


 
II. Adesso




Fu solo quando tentò per la terza volta di passare energicamente il panno sullo schermo del portatile che Roberta si accorse che la macchia non si trovava sul monitor ma sulla lente destra dei suoi occhiali. Ci alitò sopra per umidificarli e poi provvide a ripulirli. Rimessa a fuoco la stanza si lasciò andare contro lo schienale della sedia con uno sbuffo prolungato: quella mattina era particolarmente annoiata e non aveva alcuna voglia di terminare di leggere e sintetizzare il capitolo numero otto del libro che aveva davanti; aveva giustificato l’accensione del computer con la necessità di dover reperire immediatamente i decreti legislativi a cui si faceva riferimento, ma la pagina sulla quale stava lavorando raccontava invece di un solitario in via di soluzione, peraltro ancora lontana.

Si dondolò, reggendosi bene al mobile alle sue spalle, cercando una qualsiasi distrazione che rimandasse ancora e ancora l’impegno che la teneva lì seduta da quella mattina. In preda ad un brusio irrefrenabile delle membra alzò lo sguardo verso il soffitto, constatò con aria distratta che la seconda lucina del lampadario non era ancora stata sostituita, poi si dedicò a sfrangiare una ciocca di capelli, esaminando il filo sottile da tutte le parti, infine decise di alzarsi ed andare alla ricerca di qualcosa da mangiare – o di Ivonne, faceva lo stesso.

Trovò entrambe le cose in cucina: la sua fidanzata stava raccogliendo alcune cose dal mobile e, a giudicare dall’abbigliamento, era in procinto di uscire.

«Dove vai?» domandò Roberta, superandola per fiondarsi sul frigorifero.

«Esco un po’.»

«Con chi?»

«Qualche amica… forse Clotilde.»

«Non c’è mai niente da mangiare, qui» borbottò fra sé Roberta. «Scusa, non sai con chi esci?»

«Ma sì, due amiche.»

«Clotilde è quella stile new age, quella con le fasce multicolore e i capelli lunghi lunghi?»

«Sentila, come se non ricordassi chi è!» fece Ivonne, richiudendo la borsa e muovendo qualche passo verso la porta. «Hai anche detto che è molto carina.»

Roberta si voltò completamente a guardarla, ci pensò su un momento, poi sorrise con fare languido.

«Mi piacciono tanto i capelli, così.»

Pur se continuando a mantenersi seria, Ivonne non riuscì a reprimere l’impulso di sorridere e sfiorarsi la nuca con le mani; aveva dato ai suoi capelli un taglio drastico da qualche settimana, preferendo un’acconciatura più maschile, quasi a spazzola.

«Ah ah, certo.»

«No, sul serio. Sei carina.»

«Più di te?» la provocò con un sorriso sornione.

«Non esagerare» rimbeccò Roberta. «Compri tu qualcosa da mangiare?»

«Dipende, se mi resta del tempo.»

«Sono nelle tue mani, ricorda!»

Ivonne fece qualche passo nel corridoio, guardandola con aria curiosa.

«Sei allegra stamattina, cos’hai?»

Roberta mantenne il suo sorriso e le si avvicinò, prendendole il viso fra le mani e posandole un bacio sulle labbra.

«Sarà la primavera! Ci vediamo dopo.»

«Ciao.»

Roberta attese che la ragazza scomparisse dal suo campo visivo, poi perse d’un colpo l’allegria e richiuse il portone con aria mogia. La verità era che si annoiava terribilmente, sentiva addosso un’inerzia fastidiosa che avrebbe voluto scaricare in qualche modo – e fra le varie ipotesi formulate nella sua mente, quella riguardante Ivonne era sfumata nel momento in cui questa aveva varcato la soglia di casa – amplificata dal pensiero di dover passare il sabato mattina seduta alla scrivania, alle prese con tabelle recanti il numero identificativo delle sostanze chimiche. Con un pacchetto di cracker in mano tornò a sedersi di malavoglia di fronte al portatile.

Ivonne aveva preso appuntamento con Valeria e Clotilde per le undici e mezza in piazza Cavour; era una giornata soleggiata e le ragazze avevano tutta l’intenzione di passeggiare lungo il viale fermandosi di tanto in tanto alle vetrine dei negozi e spettegolare sulle loro conoscenze comuni e non. Alle undici e cinque minuti Ivonne si trovava su una panchina dello stradone in attesa delle amiche, non senza una certa agitazione interiore.

Non si vedevano da qualche tempo, un po’ perché Valeria era stata a trovare Clotilde che studiava Lingue all’università di Pescara, un po’ per via del poco tempo libero a disposizione della ragazza. Fortunatamente abitava insieme a Roberta da quasi due mesi, altrimenti le serate da poter dedicare alle sue amiche sarebbero state davvero ridotte all’osso – Ivonne studiava presso la facoltà di Scienze infermieristiche ed era impegnata per tutta la settimana dalla mattina alla sera, complice il tirocinio che la obbligava ad una levataccia – ed anche così c’era sempre qualche contrattempo che le aveva impedito di uscire con loro: a Roberta non piaceva il film che avevano intenzione di andare a vedere, Roberta non aveva voglia di andare a ballare, Roberta non sopportava troppo il suo giro di amiche.

Ecco, era questo il problema più grosso, che aveva sempre dato a Ivonne molto da pensare; aveva preferito omettere il fatto che ci fosse anche Valeria, menzionando Clotilde perché lei e Roberta avevano delle amiche in comune, e in presenza della sua amica non sapeva mai bene come comportarsi a riguardo della sua fidanzata. Sperava che quello di Roberta fosse solo un capriccio momentaneo, che per il momento si traduceva nel netto rifiuto di partecipare a serate nei locali insieme al gruppo di amiche lesbiche da cui Ivonne aveva dovuto prendere le distanze. C’era stata anche una discussione intensa a questo proposito, che non aveva trovato risoluzione in un comune accordo, così si era tacitamente deciso di non parlarne più.

«Ivonne?»

Una ragazza dai capelli biondissimi – doveva essere la sesta volta che Valeria decideva di tingersi, pensò fra sé Ivonne – che ne teneva per mano un’altra dalle tonalità più scure e tradizionali le si avvicinò quasi di corsa.

«Fatti guardare! No… bellissimi i capelli, mi piacciono, stai benissimo!» esclamò entusiasta Valeria, tirandola a destra e sinistra per osservarla meglio.

«Dici? Ho sempre un po’ vergogna…» commentò con imbarazzo lei, che non ci aveva fatto del tutto l’abitudine.

«No no, ti stanno bene davvero. Specie a te che sei fina fina.»

«Grazie, ragazze.»

Si scambiarono i baci di convenienza, un paio di sorrisi entusiasti, poi Clotilde le offrì il braccio sinistro, agganciandosi contemporaneamente a quello di Valeria, e cominciarono a passeggiare lungo il viale.

«Come mai hai deciso di tagliarti i capelli?» domandò Valeria, che pareva molto curiosa al riguardo.

«Sì, infatti» rincarò Clotilde, «è una decisione drastica.»

«Non è da me, vero?» si schermì Ivonne, ridendo con loro. «A dire la verità non lo so di preciso… volevo cambiare. Mi ero stancata di tenerli lunghi.»

«Fanno molto modella di haute couture francese.»

«Ma sì, infatti a lei stanno benissimo, potresti davvero posare per un servizio, col fisico che hai. Ci sono ragazze su cui i capelli corti stanno divinamente.»

«A me non sono mai piaciuti lunghi, per dire.»

«Sì, ma tu non puoi fare da esempio, tu sei una capra che se li tinge ogni luna nuova.»

«Ti ricordi, Ivonne? La prima volta che li tagliai fu subito dopo l’esame di maturità» fece Valeria, cercando l’approvazione dell’altra.

«Certo, me lo ricordo. Be’, non so, io ormai mi sono abituata alla tua stravaganza, non ci faccio più caso!»

«A Roberta piacciono, invece?» chiese Clotilde.

Ivonne ebbe un momento di titubanza al sentir spuntare il nome della fidanzata; era convinta che non ci fosse alcun intento battagliero nelle due ragazze, ma preferì mantenersi vaga.

«Uhm… be’, sì, credo di sì.»

«Ma anche in caso si frega, a me piacciono un sacco» obiettò subito Valeria, «sei bellissima, poi se non le stanno bene si arrangia.»

Intercettata l’occhiata di rimprovero che Clotilde rivolse all’altra, Ivonne preferì lasciar cadere l’allusione e ribadire:

«No, no, mi ha detto che le piacciono.»

«Allora, come vanno le cose?»

«Tutto bene, tutto bene. E voi?»

Cercò di deviare l’interrogatorio da sé per non dover toccare più l’argomento “Roberta”, così domandò a Clotilde come proseguissero i suoi studi, se avesse qualche progetto in cantiere.

«A dire la verità è possibile che vada in Spagna.»

«In Spagna? Perché?»

«C’è una specie di Erasmus per cui se lei va in Spagna e dà degli esami, quando torna è già pronta per la laurea» rispose Valeria.

«E tu andrai?»

«Be’, penso di sì, se si concretizza la cosa.»

Ivonne ammutolì, osservandole con aria perplessa e preoccupata; le ragazze non davano il minimo segnale di turbamento, parevano indifferenti alla notizia se non addirittura disposte a liquidarla come qualcosa da poco. Per lei, che aveva rimuginato su quella terrificante opzione del distacco per molto tempo, vederle così impassibili era sconcertante. Si fece coraggio e domandò:

«Ma… siete così tranquille? Cos’è, vai in Spagna anche tu?»

Valeria e Clotilde si guardarono, sorrisero insieme e poi le risposero:

«No, assolutamente! Perché dovrei?»

«Non stiamo più insieme.»

«Non state più insieme? Che significa?»

Valeria, divertita dalla sua espressione meravigliata, liberò una risata e si staccò dalla sua posizione per andare a prendere sottobraccio l’amica.

«Sì, lo so che non te l’aspettavi, ma non stiamo più insieme. L’abbiamo deciso di comune accordo.»

«Esatto!»

Nuovamente Ivonne fece fatica a comprendere i sorrisi e la naturalezza con cui le due le stavano comunicando la notizia; sapeva bene che Valeria non era nuova a colpi di testa di quella sorta, ma la situazione le sembrava anche troppo surreale.

«Okay, okay, la stiamo perdendo!» scherzò Clotilde, posizionandosi di fronte a lei, preoccupata dalla faccia sbigottita della ragazza.

«Forse dovevamo usare più cautela, la cosa l’ha scioccata.»

«No, no, aspettate!» Ivonne le afferrò per le braccia e le costrinse a restarle davanti. «Ora vi fermate qui e mi spiegate tutto per filo e per segno. Non è che è uno scherzo, eh?»

«Mai stata più seria!»

«Vedi, ci è sembrata la cosa più giusta da fare» fu Clotilde a riaffiancarsi a lei e costringerla a riprendere la passeggiata. «Che senso aveva, se poi avremmo dovuto separarci?»

«Ma cosa c’entra, voi date per scontato che la lontananza sia più forte…»

«Del nostro amore? Sì» Clotilde ridacchiò per via dell’ingenuo stupore di Ivonne. «Abbiamo preferito essere oneste con noi stesse, tutto qua. Oppure, se preferisci, evitare di star male più tardi e decidere ora, insieme, senza rancore.»

Valeria e Clotilde, notando il suo rannuvolamento, continuarono a spiegarle i punti di vista da cui la loro decisione emergeva quale la migliore soluzione al problema, insistendo sul lato scherzoso della faccenda, sulla leggerezza con cui bisognava prendere quelle cose.

«Dai, dopotutto non è la fine del mondo! Voglio dire, sarà carina e divertente e tutto, ma Clotilde non è l’unica ragazza sulla faccia della terra» fece notare Valeria.

«Così come tu potrai essere euforica e folle quanto vuoi ma, tutto sommato, soltanto una ragazzina in cerca di stabilità.»

«Oh, mi conosci bene.»

Ivonne non appariva per niente convinta.

«Sinceramente non capisco. Perché darvi sconfitte in partenza?»

«Oh, Ivonne… la verità è che forse non ci diamo tanta importanza quanta ce ne dai tu.»

«E non vi volete bene, scusa?» obiettò lei.

«Certo, infatti continuiamo a restare amiche.»

«Come sei carina! La cosa proprio non ti va giù, eh?» osservò Valeria.

Ottenendo in risposta un broncio perplesso e notando come la loro affermazione doveva aver scatenato tutta una serie di pensieri negativi, la ragazza preferì tentare di distrarla.

«Invece Roberta che fa, studia?»

«Oh sì, Roberta studia.»

Per qualche motivo quella domanda parve acuire l’umore negativo assunto tutto a un tratto dalla ragazza; accorgendosene, Valeria pensò di dirottarla su argomenti a lei più graditi.

«Ora ci ho pensato… Roberta è più grande di noi! Che cosa fa, Farmacia? Non ricordo…»

«Medicina, medicina» le ricordò Clotilde.

«Ah però! Dottoressa e infermiera, siete già avviate a lavorare insieme.»

«Speriamo di sì.»

A quel punto l’espressione mogia sul volto della ragazza era diventata troppo evidente per poter essere ignorata e Valeria, che nonostante le riserve tenute su Roberta aveva a cuore il benessere dell’amica, si fece seria d’un tratto e domandò:

«C’è qualcosa che non va, Ivonne?»

«Ci dispiace se ti abbiamo intristito» aggiunse Clotilde.

«Niente, è che Roberta ha quasi finito il corso di laurea.»

«Mmm… sì, giusto, ormai c’ha venticinque anni. E quindi?»

«Le tocca la specializzazione, ora» le spiegò Clotilde, che aveva intuito quale pensiero preoccupasse l’amica.

Una volta che anche Valeria ebbe compreso per quale motivo Ivonne fosse rimasta così negativamente colpita dalle loro parole dimenticò tutto ciò che provava nei confronti di Roberta e si lanciò in un’appassionata arringa riguardo l’impossibilità di una loro separazione.

«Roberta non è stupida, cosa credi! Qui ha già un alloggio, ha la possibilità di restare vicino alla famiglia… da dove viene, da Sannicandro, vero? Ah no, Apricena. Va be’, è lo stesso. Voglio dire, perché dovrebbe tentare in altre città? Al massimo Napoli, va’. E che vuoi che sia? Due ore con il CLP, puoi andare a trovarla quando vuoi…»

«Io non sono sicura che Roberta voglia restare qui.»

«Perché dici questo?»

«Non le piace Foggia.»

Improvvisamente la gola le si chiuse in maniera dolorosa. Non immaginava che, inoltrandosi in quel discorso, sarebbe stata costretta a far emergere la spina nel fianco che la tormentava da un po’ di tempo; non immaginava di dover essere costretta a mascherare il suo “non le piaccio abbastanza” sotto un debolissimo “non le piace Foggia”. Non credeva di poter arrivare a un tale livello di pateticità.

«Oh, Ivonne…»

Clotilde preferì non dire nulla, comprendendo che si trattava di un problema più serio di una semplice preferenza geografica. Valeria non sopportava il vedere l’amica così triste per via di quella ragazza arrogante e presuntuosa, non trovava giusto che Ivonne si buttasse giù in quel modo; non era sicura di aver capito bene che cosa si celasse dietro le sue parole, ma nemmeno le importava: sapeva per certo che la colpa doveva essere di Roberta. Fin da subito aveva avuto modo di notare quanto potere questa detenesse sulla sua amica e il suo viso triste la indusse a mandare al diavolo la diplomazia.

Le tre si sedettero sulla prima panchina libera che trovarono, poi Valeria prese le mani di Ivonne e la costrinse a guardarla negli occhi.

«Sentimi bene, tu» cominciò, con aria battagliera. «Io non so che cosa è successo fra voi – se è successo qualcosa – e nemmeno mi interessa saperlo, va bene? Io so solo che da quando state insieme tu sei diventata come succube! E non puoi uscire con le amiche, e non puoi tagliarti i capelli come ti pare! Guarda, non sarò intelligente quanto lei, però so che è prepotente con te. Sì, non conosco i dettagli, ma ci scommetto che si deve far sempre come dice lei!»

«Va be’, dai, non esagerare» l’ammonì Clotilde.

«Esagerare? Dico solo la verità, perché Ivonne la conosco e so che nella sua testa sta sicuramente preoccupandosi di come non recarle fastidio, di come fare il suo volere, di come accontentarla.»

Per tutto il tempo in cui Valeria aveva sproloquiato, Ivonne era rimasta in religioso silenzio, ignorando le argomentazioni convincenti che l’amica adduceva; qualcosa di vero c’era, lo sapeva bene anche lei, tuttavia in quel momento non voleva ascoltare quelle accuse, non voleva che Valeria sparasse a zero su Roberta: le sembrava che ogni parola cattiva nei confronti fosse inevitabilmente diretta anche a lei, ogni minuto in più di quella conversazione la faceva star male.

«Io te l’ho sempre detto che dovevi star lontana dalle etero, Ivonne» concluse Valeria, incrociando le braccia al petto e guardando l’amica con aria di rimprovero.

«Come al solito sei una testa calda che parla senza riflettere. Ora che c’entra questo, se Roberta si è innamorata di Ivonne ci sarà un motivo» la rimproverò Clotilde. «Perché devi generalizzare le tue opinioni, nemmeno la conosci!»

«La conosco abbastanza per dire che non mi piace!»

«Sei pregiudicata, magari anche lei pensa le stesse cose di te. Il motivo è che entrambe tenete molto a lei.»

«Certo che le pensa, che domande! Magari ha paura che possa rubarle il cagnolino.»

«Quanto non vi sopporto quando fate così!» esclamò ad un trattò Ivonne.

Valeria ammutolì e si rese conto di aver esagerato. Scambiò un’occhiata con Clotilde, anche lei turbata dall’atteggiamento di Ivonne, che aveva tirato un sospiro e nascosto il viso fra le mani. Lasciarono che passassero alcuni secondi, per darle modo di sfogarsi ulteriormente; dal momento che non sembrava voler condividere i suoi pensieri, Valeria osò domandarle scusa.

«Non parliamo più di questa cosa, d’accordo?» tagliò corto lei.

Si manifestavano nuovamente i suoi repentini sbalzi d’umore: improvvisamente decisa, volle che le ragazze si alzassero e percorressero il viale a ritroso, verso la piazza dove si erano incontrate. Durante il tragitto parlò con forzata allegria della storia di Anita, una loro conoscenza superficiale che si era imbarcata in una brutta situazione per via della sua cotta per Chiara, fidanzata di Lucia, ragazza estremamente possessiva e brusca; sulle prime Valeria e Clotilde non sapevano come interpretare quel capovolgimento, ma poi si adeguarono e presero a spettegolare assieme a lei, felice che il momento di crisi fosse stato superato.

«Sai, mi ha detto la sorella della cugina di Lucia che le aveva viste baciarsi in una macchina mercoledì scorso.»

«Ma chi? Chiara e Lucia?»

«No, Anita e Chiara!»

«Io sapevo anche che c’era stato un confronto faccia a faccia, che Lucia quasi quasi le aveva messo le mani addosso…»

«Figurati, a quella mancano solo le palle perché sia un uomo.»

«No, allora non sapete le ultime novità» Clotilde si diede un tono, catalizzando su di sé l’attenzione delle altre due pettegole. «Questo fatto della quasi rissa è successo sabato scorso, mentre non sapete che Chiara ha lasciato Lucia dicendo che ha bisogno di prendersi un po’ di tempo per riflettere. Poi – così sembra, ma non ne sono del tutto certa – è stata vista ieri sera al locale tutta abbracciata ad Anita, ben sapendo che era presente anche Lucia.»

«Che casino! E si sono picchiate?» chiese avidamente Ivonne.

«Guarda guarda, ti piacciono le risse?»

«Quelle degli altri sì! Sono ridicole e patetiche.»

«Insomma, alla fine è andato tutto bene, perché non si sono incontrate. Però stamattina Morena mi ha mandato un messaggio dicendo che ha saputo che ieri sera, dopo che noi del gruppo ce ne siamo andate, Lucia è stata vista pomiciare – indovinate? – con Michela! Che era…»

«L’ex di Anita» completò Ivonne. «Accidenti, che schifo però. Manco fossimo un bordello.»

«Chi è Morena?» chiese Valeria.

«Oh, una ragazza che ho conosciuto lì a Pescara.»

«Non me l’hai presentata.»

«Rimedieremo. Sei a piedi, Ivonne? Vuoi un passaggio?»

La ragazza rifiutò la loro offerta, preferendo incamminarsi a piedi verso casa in modo da poter passare davanti al negozio di alimentari e comprare qualche pomodoro e gli spaghetti da cucinare a pranzo. Dimenticati in fretta i pettegolezzi sulle loro conoscenti, le erano ritornati in mente quei pensieri angoscianti riguardanti lei e Roberta, quel nodo alla gola che la opprimeva ogni volta che provava ad immaginarsi a distanza di qualche mese. Tornare a casa ed essere rassicurata, ecco ciò di cui aveva bisogno, tornare a casa, trovare Roberta seduta alla scrivania con aria annoiata – lei sarebbe saltata su al suo ingresso nella stanza, per ricoprirla di baci e abbracciarla, distraendosi dai suoi libri – pranzare insieme e poi sdraiarsi sul divano e scivolare nell’incavo dei suoi seni, liberandola dall’impiccio della maglietta, e sentirla domandare di più e sapere di essere stata cercata, di essere desiderata, e di farla sentire bene così come Roberta faceva con lei. Di questo aveva necessariamente bisogno Ivonne quando spinse in avanti il portone del loro appartamento, annunciando:

«Sono tornata!»  

Attese una qualsiasi risposta per qualche secondo e cominciò a farsi strada in lei una punta di delusione quando avvertì un’altra voce sovrapporsi, in lontananza, a quella della sua ragazza. Si addentrò nel corridoio con circospezione, sporgendo la testa dalla soglia della camera che utilizzavano come studio, stanza da stiro e ripostiglio per le più diverse evenienze.

«Ciao! Sei tornata.»

«Eh sì.»

Ivonne mosse le labbra in un accenno di sorriso, spostando gli occhi da Roberta al ragazzo che, occhiali spessi e barba folta, stava seduto accanto a lei e teneva in mano un quaderno a righe. Doveva trattarsi di un suo compagno di corso, pensò subito Ivonne, non senza avvertire un certo fastidio nel vederli così vicini in quella piccola stanza.

«Paolo, Ivonne… Ivonne, è un mio amico.»

«Sì, sì, piacere.»

Subito la ragazza tese la mano per afferrare quella di lui, che rispose con un mezzo sorriso e una stretta blanda; poi tirò un sospiro e si alzò dalla sua postazione, rimettendosi in ordine e facendo per raccogliere le cose.

«Me ne vado, si è fatto tardi… devo passare a comprare della pasta, che sono da solo oggi» disse, facendo scorrere la cerniera di una borsa di colore blu.

Ivonne si spostò leggermente per farlo passare, ma Roberta intervenne:

«Resta a mangiare con noi! Tanto Ivonne ha fatto appena la spesa… così non stai da solo.»

«Va be’, non so, non vorrei disturbare.»

«Figurati, per una volta che ci viene a trovare qualcuno… siamo sempre noi due.»

Il gran sorriso e l’aria allegra di Roberta incoraggiarono Paolo a voltarsi verso Ivonne, per cercare anche in lei segnali di disponibilità. Questa non disse nulla, ma scrollò le spalle con aria indifferente, per indicare che le andava bene così.

«D’accordo, allora grazie… però me ne vado subito, alle due e mezza devo scappare.»

Concordata la partecipazione del ragazzo al loro pranzo, Roberta seguì Ivonne in cucina adducendo come scusa quella di doverla aiutare a sistemare la spesa nei mobiletti della cucina, mentre Paolo dichiarava di avere bisogno del bagno. La ragazza si rese presto conto, mentre le andava dietro e cercava di tirarla a sé e posarle qualche semplice bacio sulla guancia, che doveva aver fatto qualcosa di sbagliato. Preferì far finta di nulla, sperando che le passasse.

«Allora, com’è andata?» domandò.

«Che cosa?»

«Con le tue amiche, com’è andata? Avete girato per shopping?»

Ivonne aveva messo sul fornello una pentola piena d’acqua e, attendendo che questa raggiungesse la giusta temperatura, stava smistando gli acquisti nel mobiletto della pasta; indecisa se rispondere o meno, lasciò passare qualche secondo di silenzio.

«No, niente shopping. Abbiamo parlato.»

«Chi eravate?»

«Perché?» domandò subito, voltandosi a guardarla.

«No niente, così… per sapere.»

Roberta arrossì e comprese che non le conveniva spingersi oltre nel chiedere informazioni. Ivonne, da parte sua, non mostrò la volontà di continuare la conversazione. Roberta si prese qualche minuto per riflettere su che cosa avesse sbagliato quella volta, poi ebbe un’intuizione e, dando un’occhiata al corridoio per assicurarsi che Paolo non potesse ascoltarle, chiese:

«Si tratta di Paolo? Ti secca che resti qui a mangiare?»

«No, non è questo.»

Era vero solo in parte, ma la ragazza si vergognava ad ammettere che le avesse dato non poco fastidio quell’improvviso cambiamento di programma; quando metteva su il muso, come diceva Roberta, preferiva non rivelare il reale motivo del suo cambio d’umore: aveva una paura matta che la sua ragazza potesse minimizzare o prenderla in giro. Scelse perciò di cambiare atteggiamento e, schiarendosi la voce, domandò se durante quella mattinata fossero riusciti a concludere qualcosa.

«Insomma… è venuto a trovarmi poco dopo che sei uscita e ci siamo messi subito al computer. Solo che, fra una cosa e l’altra, abbiamo perso parecchio tempo a cazzeggiare.»

Roberta si poggiò contro il frigorifero, raccontandole di quanto fosse difficile riuscire a sintetizzare i tomi che doveva studiare per il prossimo esame: Medicina legale. Parlò di quanto fosse noioso dover imparare tutti quei decreti finché non si accorse che la sua fidanzata, a giudicare da come sminuzzava le foglie di basilico per lasciarle cadere nel pentolino del sugo con aria assente, non le stava prestando la minima attenzione. Era proprio così: Ivonne non si era nemmeno accorta del restaurato silenzio. Pensò che fosse in pensiero per qualcosa.

«Dai, sinceramente… » le prese una mano per catturarne l’attenzione, «ti secca che Paolo resti a mangiare? È solo un mio amico, niente di che. Stasera usciamo insieme, andiamo dove vuoi tu.»

«Lui lo sa?»

«Sa… che cosa?»

Fu il turno di Ivonne di arrossire e di sentire il cuore accelerare i battiti; del tutto terrorizzata dalla possibilità di una risposta negativa, spiegò, riducendo la voce ad un soffio:

«Di noi.»

Per un momento temette che il tentennamento della sua fidanzata si stesse spingendo oltre i limiti di una normale meditazione; temette che dietro quei secondi di silenzio si celasse una risposta davvero pericolosa.

«Be’, no. Non lo sa, non gliel’ho detto.» Roberta comprese che era necessario aggiungere una spiegazione che giustificasse quell’omissione, perché la sua ragazza sembrava essere proprio sul punto di agitarsi. «Non lo sanno tutti i miei amici.»

A quell’aggiunta, che sapeva un po’ di scusa, Ivonne mutò la sua espressione da preoccupata ad indifferente; tornò ad occuparsi del fornello del gas che continuava a fare cilecca, pensando che dopo pranzo avrebbe dovuto ripulire per bene tutto il piano cottura. Mosse il capo, dimostrando di aver capito.

«Ah, d’accordo.»

Roberta emise uno sbuffo di insoddisfazione: aveva la sensazione di aver solo peggiorato le cose.

«Che c’è adesso?»

«Adesso? Nulla. Non ho nulla.»

«Nulla nulla? Mi assicuri che non hai nulla? Che è tutto a posto?»

«Sì, sì, vai tranquilla.»

«Va bene. Torno di là.»

Una volta che fu rientrata in corridoio, lasciando Ivonne ai preparativi per il pranzo, si prese il lusso di alzare gli occhi al cielo e agitare le mani in maniera eloquente a significare che, quando voleva, la sua fidanzata sapeva essere davvero pesante. Si pentì di aver lasciato trapelare i suoi sentimenti quando si trovò lo sguardo di Paolo addosso, contornato da un sorriso complice.

«Cos’è, ti fa problemi per il pranzo?»

«No, no! È solo che… mi ha detto di comunicarti che non si mangerà alcuna carne, no.»

Risolse la cosa adoperando il primo dettaglio che le venne in mente e, soddisfatta della scusa, insistette. «Sai, è vegetariana.»

«Sul serio? Non mi dire… Quindi niente bistecche?»

«Bistecche, arrosto, roastbeef, pollo, cotolette, spiedini… non me lo ricordare.»

Si risedettero alla scrivania, voltando di malavoglia le pagine dei libri che avevano davanti, ma il tentativo di riprendere a studiare fallì presto.

«In effetti ce l’ha l’aria da vegetariana, da alternativa» commentò Paolo, scambiando con la ragazza un’occhiata vivace.

«Ma chi, Ivonne?» Roberta lo guardò, sospettosa, poi sorrise. «Carina, vero?»

«Sì, abbastanza.»

Paolo ci pensò su e poi, temendo di aver offeso l’orgoglio dell’amica, volle riparare aggiungendo:

«Però si vede che è ansiosa. Nevrotica.»

«Da che lo capisci?»

«Dalle mani» affermò lui.

«Dalle mani?»

«Sì. Pelle chiara, dita magre, movimenti nervosi. L’ho notato prima, quando si è affacciata alla porta.»

Non era un’analisi del tutto sbagliata, ma Roberta provò un certo risentimento nel sentirlo parlare a quel modo; certo, lei per prima riconosceva una miriade di difetti nella sua fidanzata, ma non le piacque che l’amico la giudicasse in quel modo spietato, oggettivo, quasi si irritò come se quella diagnosi fosse riferita a lei. Paolo non poteva sapere che parte di quel suo stato d’animo agitato era stato provocato da lei – non sapeva come, né che cosa avesse fatto di male, ma erano faccende che riguardavano solo lei e Ivonne, nessun altro. Dimenticò l’astio nei suoi confronti e, accigliandosi leggermente, ribatté:

«Non è che si tratta di un’isterica, di una pazza… È solo che certe volte è un po’ complicata, tutto qui, come lo siamo tutti.»

«Sì, certo, la mia era solo una considerazione approssimativa. Non ce l’hai mai presentata, però. Sapevo che ti eri trovata una nuova coinquilina, ma non l’avevo mai vista.»

Roberta tentennò, reagendo con una risatina.

«Non mi andava che le saltasse addosso un branco di studenti arrapati.»

Paolo non fece più domande, preferendo stappare l’evidenziatore e iniziare a leggere il capitolo numero dieci in maniera distratta, apponendo dei segni qua e là; Roberta però continuava a rimuginarci su e, improvvisamente curiosa, gli spinse il palmo della mano sotto gli occhi.

«Be’, e invece che dicono le mie mani?»

«Pensavo che queste cose di psicologia spicciola non t’interessassero… vedi che sei contraddittoria?» fece lui, sornione.

«Quante arie che ti dai! Su, allora?»

«Non dicono niente, basta guardarti in faccia, a te, per capirti.»

«Ah sì?» lei si fece un attimo seria, quasi delusa. «È davvero così semplice?»

«Ma perché tu sei più aperta, più solare. Sei il classico tipo estroverso. Tu con una persona potresti litigare e un momento dopo farci pace, se ricevi delle scuse. Non ti fai troppi pensieri, agisci sull’onda del momento.»

Lusingata da quel commento, Roberta abbassò gli occhi; quando li rialzò teneva sulle labbra un bel sorriso complice.

«Invece so benissimo che cosa rivelano le tue, di mani. Tipica ansia da studio, perché sono tutte mangiucchiate, scarsa igiene, perché di solito sono sudate, oltre che una notevole propensione ad un certo tipo di attività volta a sfogare lo stress… d’altronde, mica porti gli occhiali per niente.»

Quando Paolo capì a che cosa si stesse riferendo la ragazza le mollò un buffetto sul braccio, ma non rinunciò a ridacchiare insieme a lei, scambiandosi commenti su quanta verità ci fosse nelle sue parole.

«Sai, ci sono cose che non vorrei sapere, specialmente riguardo certe serate fra voi ragazzi.»

«Certo, certo, sono cose che sai benissimo, invece.»

«Che idiota!»

«Roberta, è pronto da mangiare.»

Lo sguardo a dir poco glaciale che Ivonne le stava dando bastò a far smettere immediatamente il sorriso alla ragazza, che fermò la mano a mezz’aria, nell’atto di ricambiare lo schiaffo di Paolo, e scivolò giù dalla sedia come fosse stata elettrizzata. Mentre percorrevano insieme il corridoio verso la cucina, provò a cercare gli occhi dell’altra ragazza, per valutare se fosse davvero arrabbiata, ma non le riuscì – forse per sfortunate coincidenze, forse per un’intenzionale riottosità di Ivonne – e dovette accontentarsi di sedere al tavolo, di fronte a lei, sperando con tutto il cuore che non accadessero ulteriori incidenti e che, una volta rispedito a casa Paolo, avrebbe potuto spiegarsi con la sua fidanzata. Tuttavia il ragazzo, forse galvanizzato dalle risate di poco prima, sembrava tutto intenzionato ad attaccare bottone con Ivonne, rivolgendosi a lei e richiedendo la sua complicità.

«Insomma, prima ho domandato a Roberta se facessi la modella» cominciò, cacciandosi in bocca una forchettata di spaghetti.

Non era vero, ma Roberta gli concesse quella finzione sperando che la sua allegria risollevasse il morale della ragazza e la traesse fuori dai guai.

«No, quale modella…»

Ivonne non gli concesse nemmeno il piacere di vederla arrossire: si concentrò sul suo piatto e liquidò il complimento con una stretta di spalle. Paolo non si perse d’animo.

«Le ho detto che potresti benissimo lavorare per qualche agenzia, che hai proprio il fisico dei manichini esposti nei negozi.»

«Una volta ho letto da qualche parte che la taglia considerata standard per la popolazione è progressivamente aumentata nel corso degli anni, cioè che la quarantadue di adesso corrisponde alla quarantaquattro di anni fa.»

«Non penso ci siano dubbi sul fatto che tu abbia un bel fisico, lo dico oggettivamente, da quasi medico! Mantenere una certa linea è fondamentale.»

«Tu non ti poni questi problemi, vero?» si rivolse a Roberta con un sorriso strano, palesemente costruito.

Paolo ridacchiò e la ragazza non poté che adeguarsi all’atmosfera ilare, anche se quel sorriso e quell’affermazione le avevano procurato tutt’altro che allegria; era rimasta raggelata, quasi come qualche minuto prima nel vederla comparire sulla soglia della camera. Non si trattava di un’ironia bonaria, no. Quella che Ivonne le aveva appena rivolto, corredandola con un finto sorriso, era una vera e propria cattiveria.

«Ah ah, no.»

«Roberta non ci ha mai parlato di te» incalzava lui, «sapevo solo che aveva cambiato casa.»

«Pensavo la stessa cosa, sai? Non conosco nessuno dei suoi amici d’università, a parte qualche conoscenza comune.»

Si fermò un momento, diede a Roberta un’occhiata che alla ragazza non piacque affatto, poi continuò a rivolgersi a Paolo.

«E da quant’è che state insieme tu e lei?»

Aveva poggiato un gomito sul tavolo e si era sistemata in modo voltarsi tutta verso il ragazzo. Roberta, che non aveva smesso di guardarla, strabuzzò gli occhi a quella domanda e si domandò che diamine avesse in mente; Paolo, per fortuna, arrossì tutto e scoppiò a ridere.

«Chi, noi due?» indicò se stesso e l’amica. «Non siamo buoni nemmeno nello studio, figurarsi in coppia.»

«Io e Paolo non siamo fidanzati, che dici!» sbottò Roberta.

Ivonne ricambiò il suo sguardo con aria di sufficienza, tornando a concentrarsi sul suo piatto.

«Scusa, pensavo solo… visto che non stai con nessuno, ad un tratto mi trovo lui qua…»

L’altra fu sul punto di lasciar cadere le posate e alzarsi di scatto, per intimarle di smetterla e domandarle a che gioco stesse giocando. Tenne le labbra serrate per non lasciarsi sfuggire nulla di compromettente, ma fra sé rimuginò a lungo su quanto fosse infantile quel modo di reagire: una ripicca, non era nient’altro che questo, un sotterfugio per vendicarsi, per fargliela pagare; che cosa le avesse fatto ancora non riusciva a capirlo – permettere ad un suo amico di pranzare assieme a loro non le sembrava una motivazione sufficiente per giustificare quel comportamento – ma in cuor suo stabilì che non appena Paolo avesse varcato la soglia del portone gliene avrebbe dette di tutti i colori.

Roberta non era un tipo vendicativo, il suo carattere era piuttosto estroverso e impulsivo, cosa che la portava a cercare sempre il confronto con l’avversario e il dialogo con l’amico. Quando veniva meno la componente diretta, lo scontro o il concilio che fosse, Roberta s’innervosiva parecchio e cominciava a covare in sé un forte risentimento. Non era però rancorosa e due parole dette con sincerità sarebbero bastate a renderla un agnellino mansueto, a farle dimenticare tutto quanto, ogni screzio od incomprensione. Anche se più volte si lamentava fra sé di Ivonne, Roberta le voleva sinceramente bene e si dispiaceva nel vederla star male, chiusa in un silenzio impenetrabile: sapeva che per lei non era affatto facile comunicare, Ivonne si rintanava spesso in un mondo fatto di pensieri e supposizioni, di dettagli anche insignificanti che maceravano lentamente nella sua mente conducendola verso strade sbagliate. Per questo era essenziale che la si scuotesse, che la si riportasse alla realtà, esponendola al contatto con ciò che non era solo frutto dell’immaginazione, con i dati concreti.

Però quella cattiveria gratuita non riuscì proprio a mandarla giù; fu silenziosa e accigliata per tutto il resto del pranzo, rispondendo quasi a monosillabi e covando sempre più risentimento ogni qualvolta incrociava lo sguardo di Ivonne e vi leggeva soddisfazione e rinnovata impertinenza. Si ritrovò a pensare, con orgoglio, che lei poteva essere indelicata e prepotente alle volte, ma perlomeno non doveva ricorrere a quei mezzucci infantili per comunicare con un’altra persona, preferire le frecciatine indirette a una discussione franca.

«Ti è piaciuto il pranzo?»

«Sì, certo, solo che ora devo proprio andarmene. Vi ho disturbate anche troppo.»

«Non lo prendi il caffè?»

Ivonne continuava a mostrarsi gentile e disponibile nei suoi confronti, tenendo sempre su quel sorriso di cortesia che celava in realtà il desiderio che si levasse di torno al più presto.

«No, no, grazie, non lo prendo, non mi piace.»

Paolo s’infilò il giubbino e prese in mano la borsa contenente libri e quaderni, poi baciò sulle guance sia lei che Roberta e fece per abbassare la maniglia del portone. A metà strada verso il pianerottolo si sporse verso l’interno e disse:

«Magari qualche volta possiamo uscire assieme, eh? Che dici, Roberta?»

«Oh sì, certamente! Tanto ormai…»

Lei era seduta sul divano del salotto, l’aria abbattuta e irritabile, e rispose pensando fra sé che quel momento non sarebbe giunto mai, non se ogni intrusione da parte di estranei doveva provocare quel terremoto nel loro già fragile rapporto. Quando Paolo richiuse il portone e le lasciò da sole, l’atmosfera si raggelò immediatamente.

Ivonne preparava il caffè con diligenza e tranquillità e il rumore delle tazzine e della caffettiera erano gli unici suoni udibili. La loro casa non era molto grande: l’ingresso dava immediatamente sul salotto – composto da una poltrona, un divano e la televisione – e la cucina era subito a sinistra, separata dal resto della casa da una vetrata a scorrimento; più avanti c’era la camera da letto – solo una, con letto matrimoniale, in quanto vi aveva abitato lo zio di Ivonne con sua moglie, prima di trasferirsi a Pompei – e il bagno, oltre che un piccolo studio multifunzionale. Roberta poteva perciò osservarla stando seduta sulla poltrona, a braccia conserte e con la fronte aggrottata.

Era giunta ad un punto in cui non sarebbe più stata disposta a tornare indietro, ad accomodare le cose; non le era piaciuto per niente l’atteggiamento della ragazza, non le era mai capitato di doversi sentire così ingiustamente accusata. Quello era un altro aspetto che la mandava fuori dai gangheri, al quale tentava spesso di non pensare, ma che in situazioni esasperate come quella riemergeva prepotente e la privava di qualsiasi comprensione.

Non trovava affatto giusto dover recitare sempre la parte della cattiva, soprattutto perché non si sentiva colpevole di nulla. Ivonne aveva in sé una naturale tendenza a demoralizzarsi, caratteristica che assumeva, in condizioni estreme, i connotati di un dichiarato vittimismo. La stava trattando con freddezza, come se le fosse stato recato chissà quale torto, come se stesse aspettando null’altro che delle scuse sentite; Roberta si arrabbiava pensando che andava a finire sempre così: lei la perdonava, dimenticava di far luce su tutte quelle oscure allusioni, quei comportamenti strani e ambigui, l’assecondava e la ricopriva di attenzioni in nome del quieto vivere e della ritrovata calma. Quella volta però avrebbe puntato i piedi, soprattutto perché le frecciatine non le erano piaciute affatto – era un po’ sovrappeso, e allora? Era chiaro che fosse Ivonne la più bella, fra loro due, ma non per questo era autorizzata a farglielo pesare – e le era rimasto un senso di amaro in bocca, come di delusione: era davvero quello il loro rapporto, il loro stare insieme? Litigare, non dirsi nulla e covare cattiverie fino all’esasperazione?

«Ecco qua.»

Ivonne poggiò il vassoio sul tavolino del salotto e si sedette sul divano, premurandosi di versare due cucchiaini di zucchero nella propria tazzina e metà in quella dell’altra ragazza. Le diede un’occhiata veloce prima di portarsela alle labbra e si accorse, nel farlo, che le tremavano le mani. Sapeva che Roberta doveva essere molto arrabbiata, sapeva benissimo di aver esagerato, sapeva di essere dalla parte del torto e nonostante ciò pregava ancora che la ragazza non dicesse nulla e lasciasse passare del tempo; si sarebbe fatta perdonare – riconosceva di essere stata troppo aggressiva nei suoi confronti – ma in un secondo momento, non ora che si trovava nell’occhio del ciclone.

Il desiderio di rimandare il confronto si scontrò col silenzio di Roberta, a cui non era abituata: la ragazza non aveva fatto una piega e non pareva intenzionata a servirsi. Sapendo di commettere un atto suicida, le domandò:

«Non lo bevi?»

Si accorse di aver la voce ridotta ad un soffio e capì di avere una paura immensa di una qualsiasi risposta, di una possibile reazione aggressiva. Fu però troppo tardi per rimandare la discussione. Roberta la guardò per un lungo attimo senza dire nulla, poi allungò la mano per prendere in mano la tazzina e disse:

«Mi pare evidente che c’è un problema.»

Non sembrava intenzionata ad alzare la voce, né a darle addosso con parole veementi; sembrava invece preferire un tono lucido, controllato e chiaramente deluso.

«Forse sarò stupida io a non averci capito niente… però, se ti comporti in questo modo – che nemmeno le mie cuginette di sei anni, Ivonne – significa che qualcosa c’è, qualcosa di grave, presumo.»

Bevve un primo sorso, tirò un sospiro e chiese:

«Allora, che cosa vogliamo fare?»

«Che significa?»

«Che cosa devo fare? Dimmi tu, che cosa devo fare, devo chiederti scusa?»

Ivonne sentiva il peso di quello sguardo compassionevole schiacciarla e la consapevolezza di essere stata del tutto patetica invaderla sempre più. Si mosse un po’ sul suo posto, nervosa, sperando di riuscire a chiudere in fretta la conversazione.

«No, non devi. Non devi fare niente.»

«E allora che cosa vuoi?»

«Niente, non voglio niente.»

«E sì, mi pare logico. Prima tutte quelle storie e poi niente.»

Poggiò la tazzina sul tavolo e si sporse nella sua direzione.

«Ivonne, non puoi fare sempre così ogni volta che c’è qualche cosa che non va… A me dispiace arrabbiarmi con te.»

Già la rabbia si diradava: quello che le importava di più, in quel momento, era riuscire a far parlare Ivonne una volta per tutte; sapeva che in fondo non era nemmeno colpa sua.

«Io sono fatta così, ho bisogno di parlare, ho bisogno di un confronto, di sapere che cosa c’è che non va dalla tua bocca, non dagli altri… o magari sono stupida e non so capire, allora aiutami, no?»

Ivonne evitò di guardarla e afferrò i manici del vassoio, intenzionata a riportarlo in cucina.

«Ho da lavare i piatti, parliamo più tardi.»

«Più tardi cosa?» esclamò Roberta, alzando la voce e tenendola ferma per un braccio. «Ma allora è proprio una fissa, allora non me lo vuoi dire che cos’hai, eh?»

Non sopportava quell’intenzionale esclusione, questo la faceva andare fuori di testa. Ivonne non rispose, non reagì a quel gesto energico; teneva però le labbra strette e in tutti i modi evitava il suo sguardo.

«Allora?» provò a domandare con più gentilezza Roberta, scuotendola lievemente.

«Mi lasci?» sbottò infine lei.

La disposizione al perdono della ragazza veniva meno nel momento in cui la conciliazione veniva rifiutata; allora Roberta, agendo d’istinto, non ci vedeva più dalla rabbia e cominciava ad innervosirsi sul serio.

«Ah, allora è così, è così che funziona?» le tolse dalle mani il vassoio, facendolo tornare sul tavolo. «A questo ti servo, a scaldarti il letto quando fa freddo? Giustamente, ora arriva l’estate e non c’è più bisogno di nulla! Ma dico io, cosa pensi? Di poter stare chiusa nel tuo mondo, con le tue cose e di arrabbiarti con me così, di punto in bianco? Io non ti ho fatto niente, Ivonne, io non ti ho fatto nulla!»

Nonostante le grida, la concitazione, Ivonne non si mosse. Continuò a guardare dritta davanti a sé con aria impassibile, come se volesse fare di tutto per non ascoltarla, per non farsi investire da quelle parole; riuscì a non piangere e a non farsi sfuggire nulla, nemmeno una mezza parola che potesse tradire i suoi reali pensieri. Quando Roberta si fu sfogata le spostò la mano che le aveva afferrato il polso e si alzò, dirigendosi verso la cucina col vassoio in mano.

Una cosa del genere non era mai capitata, pensò la ragazza, osservandola andare via con aria sbalordita: di solito, nel bel mezzo di quelle violente discussioni, Ivonne scoppiava in lacrime o aveva dei ripensamenti e confessava tutto – o una parte del tutto, quella meno onerosa – o ancora chiedeva perdono per essersi lasciata trasportare da quelli che chiamava “brutti pensieri”. Il non ricevere alcuna reazione la spiazzò completamente e si ritrovò a fissare la propria fidanzata allontanarsi con tanto d’occhi. La spontanea reazione che seguì quel momento fu una rincorsa rapida e raffazzonata.

«Aspetta, aspetta, ti aiuto io» disse, sistemandosi accanto a lei.

«D’accordo, prendi le posate.»

Presero a sciacquare le stoviglie con spugna e detersivo e farle scorrere sotto l’acqua, senza parlare. Ivonne sentiva un impulso fortissimo che la spingeva a smettere quell’incomprensibile silenzio e abbracciare la sua ragazza e baciarla sulla bocca e farsi dire che quella era stata soltanto una brutta giornata, soltanto un’altra brutta giornata, ma qualcosa di più prepotente le imponeva di continuare in quel modo: se la ferita doveva arrivare, era meglio che fosse data da una stilettata profonda e rapida, in modo che potesse abituarsi meglio al dolore. Non poté evitare, nella sua coraggiosa resistenza, di fremere intimamente alle parole della sua ragazza.

«Forse ho capito di che si tratta» affermò questa, improvvisamente lucida.

«Dimmi.»

«Tu vuoi che la finiamo qui, o no?» domandò, dandole un’occhiata di sottecchi per controllare la sua reazione. «O almeno, così mi pare di capire.»

«Tanto sembra che non sia nemmeno una cosa ufficiale, o mi sbaglio?» Ivonne non riuscì a trattenersi, quell’omissione le aveva dato troppo fastidio per non farglielo notare.

Roberta emise un sospiro, forse in cuor suo sollevata per aver almeno tirato fuori uno dei motivi del suo silenzio; non le piaceva affatto l’Ivonne fredda e impassibile di poco prima.

«Va bene, forse hai ragione. Però capiscimi, non è una cosa facile… per me è diverso, a te sono sempre piaciute le ragazze. Non è che posso uscirmene così e dire che siamo fidanzate, no?»

L’argomentazione era talmente debole che la stessa Roberta si sentì in dovere di aggiungere:

«Lo so, lo so che ho sbagliato e non è stata una bella cosa da parte mia, lo so. Scusami.»

«Forse non ti senti così sicura nemmeno tu. In tal caso, va bene. Cioè, lo capisco. È una motivazione più accettabile.»

Anche se continuava a parlare in quel modo distaccato, Ivonne cominciò lentamente a cedere; la verità era che la paura di quella frase, di quella conclusione drastica – alla quale comunque aveva intenzione di arrivare, ma per la quale non era ancora pronta – l’aveva tanto impressionata da farle dimenticare tutto quanto, tutta la strategia maturata per portare finalmente a galla la verità, quella che teneva nascosta e sigillata sotto carezze, abbracci, baci, parole dolci in modo da auto-ingannarsi. Si rimproverò per non essere stata capace di andare fino in fondo, ma quello che provava per Roberta, che fosse rancore, sfiducia, amore, affetto o amicizia era stato più forte di lei. Non era affatto brava a gestire le emozioni: Roberta si lasciava pienamente investire, lei le valutava da lontano, cercava di resistervi o vi si abbandonava, riservandosi sempre una via d’uscita; alla fine, però, rischiava di perdere il controllo e farsi sopraffare.

«Non è questo… perché dici così? Non ti fidi di me? Non pensi che provi qualcosa per te?»

Dovendosi accordare all’umore della sua ragazza, Roberta aveva fatto l’abitudine a veder mutare una situazione sotto i suoi occhi nella sua totalità, a passare dal bianco al nero, a ruotare di centottanta gradi nel giro di pochi minuti. Ne usciva sempre un po’ barcollante, ma ci aveva preso la mano.

«Non lo so. Forse… non so.»

Restavano però dei casi in cui le scosse erano troppo violente e la ragazza non era in grado di prendere le adeguate contromisure. I suoi nervi, per quanto allenati alla pazienza, avevano un punto di rottura. Smise di lavare le sue posate, lasciò andare la spugna e fissò per un lungo istante la sua ragazza, sbalordita. Cosa si doveva rispondere a quella mezza confessione? Doveva arrabbiarsi, doveva costringerla a tirar fuori tutto quanto, spiegarle i motivi di queste sue insicurezze, ma in nome di che cosa? Se veniva meno la componente basilare, se Ivonne non credeva di provare più qualcosa per lei, tutte quelle discussioni, quei tentativi non avevano valore.

Si diresse verso il corridoio, nello studio. Sedette fra i libri, il portatile e le pile di panni in fase di stiraggio. Ancora una volta era costretta a passare per la strega cattiva della situazione; ancora una volta era tutta colpa sua; ancora una volta, era lei ad essere stata manchevole di qualcosa; ancora una volta Roberta non capiva dove stesse andando a parare la sua fidanzata – forse sì, qualcosa aveva intuito, ma non lo riteneva sufficiente per prendersela con lei in quel modo – e soprattutto si domandava quale fosse la cosa giusta da fare. Doveva perdonarla, doveva tornare da lei e dimostrarle che tutto ciò che pensava erano fandonie, fugare tutti i suoi dubbi? O doveva, per una volta, prendersi del tempo per pensare, per riflettere sul fatto che arrivati a quel punto non sapeva più nemmeno lei quali fossero i suoi sentimenti verso Ivonne?

Si era sistemata lì perché sperava di essere lasciata in pace – almeno per una volta – e fingere di aver ripreso a studiare. Ma Ivonne la seguì immediatamente, affacciandosi alla soglia; dall’espressione che aveva si poteva intuire quanto anche lei fosse confusa.

«Ma che cosa devo fare, insomma?» la voce di Roberta cominciava ad incrinarsi. «Sbaglio sempre! In ogni modo sbaglio, dimmelo tu che cosa vuoi che faccia!»

Si fermò per non scoppiare in singhiozzi senza ritegno, preferendo lasciare che le scivolassero delle lacrime sulle guance. Ivonne le si avvicinò leggera, sedendosi accanto a lei e prendendole una mano fra le sue; vi posò sopra un bacio e poi allungò le braccia per stringerle attorno al suo corpo, carezzandole i capelli e la schiena.

«Io non lo so più, che cosa devo fare, non lo so più.»

Si trattava di un rimprovero e di un’ammissione di resa insieme, del desiderio di chiarire una volta per tutte quel giro contorto di parole. Ivonne le spostò con premura i capelli dalla fronte e vi premette sopra le sue labbra, per poi baciarla sulla bocca. L’iniziale passività di Roberta si risolse in appassionata partecipazione, quando entrambe sembrarono riprendere confidenza l’una con l’altra e ricordare come si faceva, com’era semplice dimostrarsi affetto, come ogni resistenza innalzata veniva demolita, com’era piacevole starsene acquattata fra le braccia della propria compagna e baciarsi, senza dover spiegare nulla, senza dover giustificare ogni azione.

La mortificazione di Ivonne era grande quasi quanto la confusione di Roberta che, intorpidita dal piacevole calore dell’altra, non disse nulla, limitandosi a regolarizzare il respiro. Ivonne era consapevole di aver ceduto alla paura di vedersela sfuggire fra le mani e di non essere mai stata così vicina alla realizzazione dei suoi timori; sapeva che, giunta a quel punto, sarebbe dovuta andare oltre e portare il loro rapporto ad un’inevitabile rottura, ma non ne era stata capace, non aveva saputo resistere. Il pensiero di una futura delusione non aveva potuto battere ciò che provava.

«Che facciamo?» chiese piano Roberta.

Ultimamente ciò che mancava loro era la spontaneità. Ivonne riprese a baciarla, tenendole il viso fra le mani, prolungando il più possibile quell’attimo di tenerezza. Roberta non la respinse, ma le permise di abbracciarla e la portò sulle sue gambe, quasi tenendola in braccio; i dubbi che le avevano offuscato la mente e inumidito gli occhi si erano dissolti e la ragazza non ne aveva memoria, beata com’era fra le braccia della sua fidanzata.

Ivonne le accarezzava i capelli e il viso con movimenti leggeri, com’era sua consuetudine, ma non aveva dimenticato quel che era accaduto prima, così come sapeva che quel momento di tenerezza, pur se sincero e intenso, non sarebbe bastato a scacciar via lo spettro di quella brutta mattinata. Si pentì di aver dato ascolto alle malignità delle sue amiche e aver lasciato che le sue ansie riguardo il futuro compromettessero ingiustamente i momenti felici che poteva ancora trascorrere insieme a Roberta. Pensò che avrebbe lasciato andare le cose nel modo in cui dovevano naturalmente accadere, senza preoccuparsi troppo e senza intervenire ad affrettare o rallentare gli eventi.

Restarono per un po’ di tempo in silenzio, l’una in braccio all’altra sulla sedia mobile dello studio, a guardarsi negli occhi, scambiarsi affettuosità e mormorarsi scuse miste a parole sdolcinate – così tipiche del linguaggio degli innamorati ed incomprensibili ad estranei – fino a che non raggiunsero una calma interiore tale da bilanciare i precedenti eventi.

«Questa stanza fa un po’ schifo» commentò Ivonne, dando una rapida occhiata alle sue spalle, alludendo ai vestiti ammucchiati su una sedia, in attesa di essere stirati, ai libri sparsi in disordine, alla polvere sulla scrivania visibile ad occhio nudo.

«Dovremmo darle una pulita» asserì Roberta.

«Che cosa ti va di fare, stasera?»

«Tu vuoi andare a ballare.»

«E tu vuoi andare al cinema.»

«Oh, ci conosciamo bene.»

Risero insieme e Roberta sbadigliò, assonnata. Stiracchiò le braccia e chiese:

«Volevi uscire con le tue amiche, forse?»

«No, non ci siamo date appuntamento. Non avevo fatto programmi.»

«Ti sei divertita, stamattina?»

«Sì, abbastanza. Sono stata con Valeria e Clotilde» ammise Ivonne, arrossendo un po’.

«Sì, l’avevo capito dal fatto che non volevi dirmi niente. Ma guarda che puoi uscire con chi ti pare. Solo che le tue amiche a me proprio non piacciono.»

Ci pensò un momento, poi aggiunse:

«Anzi, credo che nemmeno io sia molto apprezzata fra loro.»

«Be’, diciamo di sì. È solo che avete la testa dura.»

«Chi?»

«Tu e Valeria.»

«Quella mi odia proprio, no?»

«Ora non esagerare…» Ivonne si accoccolò meglio contro la sua spalla, incoraggiata a rivelarle tutto dall’atmosfera rilassata. «Abbiamo fatto due passi per il viale e mi hanno raccontato che Clotilde forse va in Spagna. Per questo motivo si sono lasciate. Dicono che così risparmiano tempo e seccature inutili.»

Piano piano Roberta cominciava a capire da dove venissero fuori gli strani ragionamenti di Ivonne. Prima di esprimere il suo giudizio, lasciò che finisse di parlare.

«Sembravano molto lucide e tranquille. Questa cosa mi ha proprio scombussolato.»

«Ho notato, ho notato» confermò con un sorriso. «Scommetto che hanno anche detto che sono grassa, è vero?»

Ivonne nascose di più la faccia fra i suoi capelli, ridendo e lamentandosi al tempo stesso, mentre Roberta sogghignava divertita.

«No, questo no.»

«Ah, quindi sei tu che lo pensi.»

«Io non penso proprio nulla. È stata solo una stupida ripicca che spero non mi rinfaccerai mai più, perché vorrei non averlo mai detto.»

«Sbagliamo tutti, Ivonne. Anche Valeria.»

Lei rise e scivolò giù dalle sue gambe, aiutando anche Roberta ad alzarsi. Uscirono dalla stanza per dirigersi l’una in bagno, l’altra in camera da letto con l’intento di farsi una lunga dormita. Prima che potesse oltrepassare la soglia della camera, però, Roberta le si avvicinò, la prese per le mani e le diede un bacio.

«Possiamo farcela, eh? Un’altra possibilità.»

«Un’altra possibilità…» ripeté Ivonne.

«Allora, dove vuoi che andiamo?»

«Ti va un giro al centro commerciale? Così, in verità, non abbiamo nemmeno il problema di che cosa cucinare stasera.»

«D’accordo, va bene.»

Ivonne si chiuse nel bagno, lasciando che l’altra andasse a riposare. Era in parte euforica per la complicità e l’apparente serenità ritrovata, ma non aveva dimenticato i brutti pensieri che l’avevano spinta a comportarsi in quel modo. Il semplice fatto che avesse preferito illudersi ancora, piuttosto che affrontare la verità nella sua totalità, non le garantiva alcuna certezza: come sempre, aveva paura che Roberta intuisse i suoi veri sentimenti, o più semplicemente aveva paura che i suoi timori si avverassero. La rappacificazione portò una ventata di rinnovamento nel loro rapporto – di certo una sensibilità e un’attenzione tutta speciale, almeno per i primi giorni – e Roberta stessa si scoprì improvvisamente più arguta, più abile nel capire cosa passasse per la testa della sua fidanzata. Non le ci volle molto per scoprire ciò che stava alle fondamenta dei suoi dubbi.

Uscirono di casa non prima delle sei e mezza: il pisolino pomeridiano di Roberta durò a lungo e Ivonne, nel frattempo, mise un po’ d’ordine nello studio, separando i loro libri e togliendo dalla circolazione gli indumenti già piegati e stirati. Svegliò l’altra ragazza quando il sole non era più così alto nel cielo e la gente si arrischiava a mettere il naso fuori di casa; persero una buona mezz’ora per prepararsi, alternandosi allo specchio, finché Ivonne non dichiarò di essere pronta e scese a prelevare l’auto dal garage.

Mentre aspettava che Roberta la raggiungesse si domandò come comportarsi riguardo il messaggio che le era giunto ore prima, in cui Valeria l’invitava a farle sapere se volesse raggiungere lei e le altre ragazze del gruppo, più tardi, per passare insieme la serata in un pub; naturalmente l’invito era stato esplicitamente esteso anche a Roberta e Ivonne si divertiva nell’immaginare quanto sofferta fosse stata quella decisione, da parte dell’amica. Inizialmente, sull’onda della ritrovata quiete, aveva pensato di parlargliene e cercare di convincerla, ma riflettendoci si era detta che non sarebbe stato saggio scombussolare nuovamente la situazione: non era sicura che Valeria o la sua fidanzata sarebbero state capaci di tenere a freno la lingua e per quella giornata ne aveva avuti abbastanza, di litigi.

«Eccomi, avevo scordato di chiudere le persiane.»

Roberta la raggiunse, sedendosi al suo posto e allacciandosi la cintura. Le sorrideva con entusiasmo e quel dettaglio le fece sperare di poter ambire ad una serata tranquilla; contagiata dalla sua allegria, si rianimò e mise in moto.

«Mongolfiera?» chiese.

«Per forza. A meno che tu non abbia altre idee.»

«No, no, andiamo.»

La tentazione di proporre la rimpatriata col gruppo svanì subito, sostituita dal desiderio di trascorrere una serata normale assieme alla propria ragazza. Giunsero presto al parcheggio, ma faticarono non poco per trovare un posto libero, ripetendo il giro della piazza più volte.

«Guarda quanta gente…» commentò Roberta. «Tutti qui vengono, sabato e domenica.»

Alla ragazza non piaceva troppo l’idea di rinchiudersi là dentro e Ivonne dovette intuirlo, perché specificò:

«Nemmeno a me piace troppo. Se vuoi ci giriamo e andiamo a fare quattro passi sul corso, almeno stiamo al fresco.»

«C’è da fare la spesa, però… Ah, ma devo comprare i dolci per mamma!» si ricordò improvvisamente l’altra, levando una mano. «Mi ero proprio dimenticata che domani devo tornare a casa.»

«Allora andiamo al supermercato, mangiamo qualcosa e poi usciamo?»

«Sì, sì, va bene…»

Esultarono per la provvida retromarcia di un’automobile che permetteva loro di infilarsi nel posto lasciato libero e smettere finalmente quel girotondo nel piazzale. Scesero, raccolsero le borse e le chiavi e si avviarono verso il centro commerciale.

Roberta trotterellava al fianco di Ivonne con aria pensosa. Aveva completamente scordato che fosse sabato e che l’indomani fosse attesa a casa per un pranzo domenicale alla vecchia maniera; andava a far visita a suo padre e sua madre una settimana sì ed una no, curandosi sempre di portare qualcosa di buono da mangiare – del gelato, un vassoio di paste, panettoni o colombe, a seconda del periodo – e vi rimaneva per tutta la domenica facendo ritorno a Foggia la sera, con l’ultima corsa del pullman.

«Me n’ero proprio scordata…» ripeté fra sé.

«Te ne sei dimenticata perché due settimane fa hai mancato l’appuntamento, che siamo andate da tuo fratello, a Chieti.»

«Hai ragione, hai ragione! Ecco perché non mi tornavano i conti… accidenti che bello che è stato, vero?»

«Sì, tuo fratello è gentile.»

Ivonne l’aveva preso subito in simpatia: aveva qualche anno in più della sorella e aveva accettato senza fare una piega – o perlomeno, non manifestando alcuna riserva – la loro relazione. Non era sicura dell’opinione che si fosse fatta a suo riguardo, se la considerasse un incidente di percorso, una distrazione o un capriccio della sorellina, ma si era comportato in maniera educata. Aveva anche acconsentito a farle dormire assieme nel divano-letto.

«L’ultima volta che l’avevo visto era stata poco prima di Carnevale, quando ancora non stavamo insieme. Me lo ricordo, perché mentre ero lì a mangiare con i suoi amici mi arrivò un tuo messaggio, che mi chiedevi se avevo dei libri da prestarti.»

Sogghignò e aggiunse:

«Che razza di scusa.»

Ivonne rispose con una smorfia, attraversando la porta ad apertura automatica e prendendola sottobraccio.

«Non era una scusa, i libri mi servivano sul serio.»

«E guarda caso, con tutti gli studenti più avanti di te che conosci, dovevi chiedere a me.»

«Cercavo di essere discreta. Non come te… mi ricordo un certo pomeriggio in cui ci siamo messe a guardare la televisione, quando abitavi ancora nella vecchia casa, che non si capiva se stavi dormendo sul serio o se cercavi di strusciarti contro di me.»

«Non sono mai stata una grande diplomatica… era un periodo di sregolatezza. Altro che primavera.»

«Allora andiamo prima al supermercato?»

S’inoltrarono alla ricerca di pasta a buon prezzo, cereali e biscotti, confezioni d’acqua gassata – ma non troppo, insisteva Ivonne – e frutta di stagione quali ciliegie, meloni e nespole, prima che Roberta ricevesse una folgorazione e ricordasse che avevano terminato il latte proprio quella mattina. La sosta di fronte al frigorifero portò nel carrello delle ragazze anche una nuova confezione di yogurt, del formaggio fresco e un pacco di ravioli con ripieno di ricotta e spinaci.

«Lo so che fanno schifo e non si sa che ci si mette dentro, ma può sempre fare comodo un pasto pronto!» si giustificava Roberta.

Ma Ivonne era già proiettata verso i surgelati e la ragazza dovette affrettarsi per raggiungerla. Sembrava di nuovo in pensiero e, per evitare che passasse troppo tempo a rimuginare fra sé, cercò di distrarla.

«Tu che fai domani? Vai da tua madre?»

«No, macché! Che vado a fare, torna mia sorella Anastasia dall’Inghilterra, figurati…»

«Appunto, vai a salutarla e mangi da loro.»

Raccolta una confezione di spinaci dal freezer, Ivonne dichiarò che la retata poteva considerarsi conclusa e indirizzò il carrello verso la cassa.

«Ma vacci da tua madre, dai! Fai come me, comprale un vassoio di dolci e domani state insieme.»

«A mamma non piacciono i dolci. Solo e soltanto ghiaccioli, meglio se alla menta.»

«Ghiaccioli?»

Si lasciò scappare un sorriso, di fronte alla sorpresa di Roberta. Poggiarono insieme tutta la spesa sul nastro trasportatore e si spostarono in avanti per pagare. Ogni volta che era costretta a rivelare qualcosa in più sulle stravaganti abitudini di sua madre vedeva il proprio interlocutore rimanere interdetto e trattenere sulla punta della lingua considerazioni veritiere, ma giudicate indelicate dal comune senso etico.

«Lo so, lo so» proseguì, trascinando le buste verso l’uscita del centro commerciale: avevano deciso di poggiarle in macchina, tornare dentro e stabilirsi ad un tavolino, mangiare e poi rifugiarsi nella solita piazza Cavour, passeggiando per il viale e magari comprare un gelato. «Non sai quante volte m’imbarazzavo, da piccola, quando venivano le mie amiche a giocare a casa.»

«Dev’essere un tipo interessante.»

«Mah, non so. È un po’ euforica, molto eccentrica. Le è sempre piaciuto giocare a far Mrs. March con noi. Però è ancora una bella donna e almeno non si lascia andare.»

Roberta comprese di essere riuscita ad allontanare eventuali pensieri spiacevoli quando la vide sorridere fra sé e alimentare ancora il discorso, segno che non era affatto a disagio, per una volta, a rivelarle qualcosa della sua famiglia; sapeva molto poco: sua madre e suo padre erano separati da un bel po’ di tempo, la madre viveva a Foggia insieme alle due figlie più piccole e in casa loro si mangiavano sempre un sacco di cose strane.

«Pensa che mia sorella Damiana ha deciso di abbracciare la religione ebraica… Dovresti vederle! Stanno cercando di fare il pane azzimo in casa, ma i risultati non sono stati granché, per ora. Già so che festeggeremo lo Shabbat.»

«Perché vuol diventare ebrea?»

«Ma che ne so, secondo me guarda troppi film. I fratelli Coen, cose così… e poi telefilm pieni di sangue, sesso, tutto lei. Mi manda sempre messaggi dicendo di guardarmi quello nuovo che fanno il weekend, ora esce l’ultima puntata. Ma non è cosa mia.»

«Damiana è la più grande?»

«No, Damiana è la quarta, la più grande è Sissi… cioè, Anastasia.»

Nel frattempo avevano terminato lo scarico delle buste e si erano nuovamente intrufolate nella struttura alla ricerca, quella volta, di un punto ristoro. Roberta la tirò con decisione in direzione del McDonald’s, scelta a cui Ivonne scelse di opporsi storcendo il naso e facendo un sacco di smorfie quando fu il momento dell’ordinazione a base di coca-cola, patatine e un panino dal ripieno inquietante. Lei scelse di accontentarsi di un trancio di pizza e, sedute l’una di fronte all’altra, per qualche momento non parlarono più, impegnate a mangiare.

Ivonne si divertì molto nel prendere in giro Roberta riguardo i suoi tentativi di mordere il suo panino a più piani senza risultare sgraziata, oltre che nel ricordarle quanto poco salutare fosse quel tipo di pasto.

«Senti, ho fame, e quando ho fame a me non importa che cosa mi stia davanti.»

«Non va bene così, sai?»

«Non cominciare con le tue sparate salutiste!» l’avvisò prontamente. «Conosco la tua politica, tu conosci la mia, io rispetto le tue scelte così come pretendo che tu rispetti le mie.»

«Come t’infervori per queste cose…»

«Perché non mi fai conoscere tua madre?»

«Cambi discorso, Roberta?» ridacchiò Ivonne.

«Rispondi alla domanda» nemmeno l’altra poté evitare di sorridere. «Perché non me l’hai mai presentata?»

«Perché… perché sarebbe un casino.»

«Sembra una persona interessante… perché diventi rossa?»

«No, non si può fare. Tu non la conosci. Comincerebbe a farsi idee strane.»

Il tono con cui aveva pronunciato quell’ultima frase non era imbarazzato come quello adoperato per le precedenti, ma velato di una certa tristezza. Incerta se insistere o meno su quella strada, Roberta provò a lusingarla:

«Be’, sai, mia madre fa l’impiegata nell’ufficio del comune – ma i timbri sulle carte d’identità come lei, nessuno! –, tu mi parli di una donna completamente diversa. Le assomigli?»

«Poco. Tutti mi trovano strana, lo so, però a ben guardare sono forse la più normale.»

«E tuo papà? Lo vedi?»

«Uhm, non tanto. Mi ha mandato una cartolina a Natale, poi basta.»

Intenerita dall’aria loquace che sembrava aver risvegliato nella sua ragazza, Roberta si credeva pronta ad intraprendere il discorso lasciato in sospeso a casa. Stava quasi per coglierla alla sprovvista, introducendo la considerazione che aveva meditato per tutto il pomeriggio, quando fu interrotta in maniera brusca. Una ragazza alta e abbottonata in un giubbino di jeans dai bottoni vistosi sventolava una mano e si avvicinava rapida nella sua direzione, ondeggiando sui tacchi.

«Ciao Roberta!»

«Oh, è una mia amica» borbottò sottovoce ad Ivonne. «Devo salutarla, faccio subito.»

«Sì, tranquilla.»

Ivonne si girò a guardare le due ragazze salutarsi con una certa curiosità; in meno di un’occhiata aveva già deciso che quella ragazza doveva essere una persona con la quale Roberta non aveva molta confidenza, dal poco cervello e, a giudicare dallo sguardo che le stava riservando, una scarsa opinione della sua persona.

«Ciao!»

La ragazza non meglio identificata oltrepassò Roberta, che pareva aver voglia di sbrigare la cosa in fretta, avvicinandosi a lei con un gran sorriso.

«Piacere, Luisa.»

«Ivonne.»

«Sì, stavamo mangiando qualcosa così, poi andiamo a farci una passeggiata in città» tagliò corto Roberta.

Non voleva che rispuntasse fuori il problema del fidanzamento più o meno ufficiale, anche perché non era del tutto sicura di voler spiegare come stessero le cose a quella ragazza che conosceva pochissimo e della quale non aveva molta stima; era difficile confessarlo a Paolo, figurarsi ad una tipa del genere. Per questo cercò di fare in modo che se ne andasse al più presto.

«Allora magari ci vediamo in giro, eh?»

«Sì, sì, va bene.»

Ivonne aveva osservato con aria al contempo divertita e pensosa la scenetta della sua fidanzata intenta a scacciare l’intrusa, non risparmiandosi in cuor suo rimandi a ciò che era avvenuto quel pomeriggio. Quando Roberta tornò a sedersi di fronte a lei con uno sbuffo irritato, accorgendosi che doveva essersi innervosita non poco, provò a farla ridere:

«Carina, eh?»

«Sì, certo, non so bene se è tutta farina del suo sacco o una serie di strati di plastica su una scatola vuota» replicò, dando un’occhiata di traverso nella direzione verso cui Luisa si era allontanata.

Prima che Ivonne potesse aggiungere qualsiasi cosa, mise le mani avanti e spiegò:

«Guarda che questa è proprio una stupida e se non ti ho presentato bene è solo perché non mi va che… che le cose nostre debbano essere di dominio pubblico, d’accordo? E comunque non deve interessarle nulla, hai visto che faccia che ha fatto? Solo perché hai i capelli tagliati corti ed è tutta invidia, lei un viso bello come il tuo se lo sogna anche con anni e anni di trattamenti, sembra che abbia fatto una lampada, solo strati e strati di fondotinta!»

Ivonne allungò una mano, sorridendo divertita, lusingata e intenerita, per stringere quella dell’altra e fermare quel flusso inarrestabile di considerazioni. Sembrava che si sentisse in dovere di giustificarsi a tutti i costi.

«Va bene così, non devi fare la guerra per me, eh?»

Roberta arrossì violentemente, sia per quel gesto affettuoso – ma nel complesso discreto – del tenersi per mano compiuto in pubblico, sia per lo sguardo che la ragazza le stava lanciando: vi leggeva malinconia e così non doveva essere, non voleva che la sua arringa sembrasse una scusa per celare il fatto che si vergognava di lei. Non era affatto vero, ne era più che certa e non voleva assolutamente che Ivonne lo pensasse.

«Andiamo, allora?»

Avevano terminato di consumare e tornarono nel parcheggio in silenzio, senza alcun apparente mutamento, senza nessun peso a gravare fra loro. Quando furono entrambe in macchina, dirette verso casa, dove avrebbero scaricato la spesa prima di scendere in strada a compiere quella famosa passeggiata, Roberta volle puntualizzare ciò che le passava per la mente, onde evitare che si potesse giungere ad una situazione esasperata come quella vissuta poche ore prima.

«Senti Ivonne, non voglio che ti fai idee strane: io non mi vergogno affatto di te.»

L’altra non rispose, continuò a guardare la strada e reggere il volante con aria impassibile. Roberta rincarò, convinta di non essere creduta.

«Non voglio che lo pensi, perché non è proprio vero. Io non ho da vergognarmi di nulla.»

Di cose da aggiungere ce ne sarebbero state tante, pensò Ivonne, ma volle limitarsi a farle eco, fugando uno di quelli che dovevano essere i dubbi della sua fidanzata.

«E tu non devi avere paura delle mie amiche. Guarda che io non ho mai pensato, nemmeno per un momento, di preferire una di loro – anche la più bella, la più divertente, quella con cui ho più confidenza – a te. Mai.»

Roberta accolse quella confessione con grande stupore. Poche volte aveva sentito Ivonne parlare in modo così esplicito dei sentimenti che provava per lei; le fu impossibile non arrossire, ma notando che anche le guance della sua ragazza si erano fatte più rosse si sentì abbastanza sicura da recuperare un minimo di spavalderia e ribattere:

«A me le tue amiche non fanno paura.»

«Sì? Dici?» la ragazza alzò un sopracciglio con aria scettica, gesto al quale Roberta non poté opporre nessuna obiezione.

Sembrava davvero che la rappacificazione avesse portato buoni frutti. Camminavano tenendosi per mano e scambiandosi occhiate complici, tutte cose che riportavano alla mente di Roberta i momenti iniziali della loro storia, quando ancora non si conoscevano troppo e il peso della quotidianità non sembrava un problema, piuttosto un traguardo da raggiungere. All’inizio era tutto molto semplice, le ragazze erano curiose l’una dell’altra e diveniva importante condividere ogni cosa, che fosse la più piccola, al fine di costruire finalmente una loro intimità, un loro mondo fatto di oggetti investiti di significati personali e parole e rituali privati, una bolla entro la quale rifugiarsi quando l’esterno diveniva grigio e annichilente; allora quella piccola sfera era per loro una fonte alla quale attingere per rigenerarsi.

Purtroppo il tempo non era loro alleato, perché una volta lasciata passare la prima fase, quella più idillica, anche all’interno della bolla cominciava a penetrare del grigiore, la meccanicità dei gesti, veniva meno l’entusiasmo. Tornare a casa non significava più riabbracciare la propria amata, ma rinchiudersi in un silenzio nel quale cercare quella spinta rigenerante che sembrava essere andata perduta; che cosa poteva più offrire l’altra, una volta che si scoprivano difetti che inizialmente sembravano passabili e che poi diventavano pecche incolmabili, dalle quali prendere decisamente le distanze?

A Roberta il carattere di Ivonne era sempre piaciuto, l’aveva da subito affascinata perché la distingueva dal resto delle ragazze che conosceva; quel suo modo di fare delicato e insicuro faceva da contraltare ai suoi metodi, più bruschi e diretti. Non che non si fosse mai accorta di quanto la sua ragazza preferisse tenere per sé i suoi pensieri, ma all’inizio questa mancanza di dialogo veniva compensata da una serie di gesti semplici e spontanei, per i quali Roberta era disposta a passar sopra a tutto. Quante persone conosceva che fossero altrettanto premurose – in un modo non invadente e discreto, una sorta di vigilanza silenziosa – come lo era stata Ivonne con lei? Non le aveva chiesto nulla, la loro amicizia non era partita con alcuna roboante attrazione sessuale né con gelosie e provocazioni, Roberta si era solo accorta di volerle immensamente bene e di provare sentimenti particolari nel momento in cui le veniva carezzata una guancia o, come quella volta in università, le veniva offerta l’altra barretta delle merendine al caramello di cui lei era ghiottissima e che, per disgrazia, non aveva potuto comprare per mancanza di spiccioli.

Col passare del tempo era come se Ivonne avesse perso gradualmente fiducia in se stessa e nel loro rapporto, questo Roberta l’aveva capito bene.

«Lo sai, Ivonne» cominciò, facendosi seria e tirandosela vicino per non dover alzare la voce. «Ho pensato un sacco questo pomeriggio. Ho pensato che questa situazione mi ricorda tanto la prima volta in cui» abbassò ancora la voce, «abbiamo fatto l’amore.»

Ivonne corrugò la fronte, perplessa riguardo il paragone.

«Ehm, non ti seguo» ammise. «Cioè, mi ricordo bene quel momento, non fraintendere! Solo non capisco che vuoi dire.»

«Ti ricordi che abbiamo dormito insieme, per la prima volta, a casa tua? Che non avevo il pigiama e faceva ancora freddo e così hai dovuto prestarmene uno tuo che mi andava anche un po’ stretto?»

«Certo! Mi ricordo anche che la mattina dopo, a colazione, ci sei rimasta malissimo perché non avevo biscotti, ma soltanto cereali.»

«E quello doveva essere un campanello d’allarme, ma lasciamo stare… Io mi ricordo che, messo a posto tutto quanto, raccattate le mie cose perché c’era lezione, ti ho detto che ti avrei chiamata più tardi. E tu sai che mi hai risposto?»

«Sul momento non ricordo, in verità.»

«Tu mi hai detto: e perché? Ci sono rimasta malissimo, sai?»

«Davvero ho detto così? Non me lo ricordavo… ma sei sicura?»

«Certo che sono sicura, ci sono rimasta male per tutta la giornata, credevo che mi avessi solo preso in giro!»

«Ma no! È che lo sai… io pensavo la stessa cosa, chi poteva immaginare che ti saresti innamorata di una come me?»

«Certo, ma io per capirlo ci ho messo un sacco di tempo. Pensa se non ti avessi dato un’altra possibilità. Ammetti che ne avevo tutto il diritto.»

Ivonne tacque, incerta su che cosa rispondere. Si strinse nelle spalle, provando a sorridere.

«Vedi perché non mi va, di dire quello che penso? Perché faccio guai.»

«Sì. Ma tu, quando dici queste cose, tralasci sempre la parte più importante» ribatté, sorridendo sorniona, Roberta. Quello era il momento di metterla davanti alla sua scoperta e portare alla luce ciò che angustiava terribilmente la sua ragazza.

«Non era nemmeno quello, il motivo. Tu non avevi paura di non piacermi, tu lo sapevi benissimo che mi piacevi, e anche tanto. Tu non volevi proprio partire, con questa storia. Non volevi che ci mettessimo insieme.»

«E sentiamo, quale sarebbe il motivo?» domandò Ivonne, fermandosi ad osservare la vetrina di un negozio di gioielli, interessata piuttosto al collier che vedeva esposto che non al ragionamento della fidanzata.

«Tu hai una tremenda paura che vada tutto male» concluse Roberta, stringendo di più la sua mano e osservandola con attenzione, sperando di cogliere una qualche reazione che potesse confermare la sua teoria.

«Secondo te è troppo pesante, questo qui?» chiese invece lei, riferita alla collana che stava esaminando.

«Ivonne, non cambiare discorso! Comunque no, solo che costa un accidente.»

«Ma in questi negozi, infatti, non ci si ferma per comprare. Sono vetrine da guardare e sulle quali sospirare.»

«Allora?» Roberta le scosse il braccio, riprendendo a camminare e passando oltre la gioielleria. «Che ne pensi?»

«Non so, forse hai ragione, non ci ho mai pensato. Ma non ti preoccupare di quello che penso io, certe volte… sono solo momenti bui, non ti preoccupare. Non pensare a me, d’accordo? È che a volte» sospirò, «mi faccio prendere da tante cose e mi metto a pensare… ma lascia stare, sono cose mie.»

«Sono cose nostre, invece!»

Le si parò davanti, prendendole entrambe le mani e facendo in modo di guardarla dritta negli occhi.

«Tu hai paura che vada tutto per il verso sbagliato, hai paura di far andare tutto male. Per questo eri così fredda, all’inizio, quella mattina. Non volevi trovarti in una situazione che ti portasse a dire: è finita, basta, ho rovinato tutto. Vero?»

Ora capiva bene quale fosse la sfumatura malinconica che di tanto in tanto le velava gli occhi e la rendeva pensosa, distante, improvvisamente triste e lunatica. Sapeva che tutto quello che pensava era in parte dettato dalla brutta esperienza avuta in famiglia e dal suo carattere consequenzialmente insicuro; Ivonne aveva paura di immischiarsi in una relazione più seria del previsto e faceva di tutto per svalutarsi, assumeva comportamenti incoerenti e quasi provava gusto a mettere alla prova la pazienza della sua ragazza. Roberta l’aveva capito. Non si trattava di egoismo, si trattava di una paura ancestrale: Ivonne credeva di non essere capace di sopportare un fallimento così grande, la rottura di un sentimento – l’amore, di questo si trattava – nel quale, nonostante tutto, credeva ancora ciecamente e verso il quale provava un profondo rispetto; in virtù di questa sacralità minimizzava i suoi sentimenti, certa che non avrebbero retto il confronto con quelli puri e sinceri, incorruttibili, che aveva nella testa. Si dava dunque a storielle più o meno importanti, curandosi di non avvicinarsi mai ad un grado più alto di coinvolgimento. Per questo con Roberta gli sbalzi d’umore erano più frequenti e le paranoie la pressavano maggiormente: sentiva di aver perso il controllo e sapeva già che, alla fine, avrebbe pagato un prezzo più alto.

«Tanto finirà così, non lo sai?» disse, accorgendosi solo ora che la voce le tremava un po’.

«Hai poca fiducia in noi.»

«In me.»

«In noi.»

Roberta non riusciva a cogliere il lato tragico della situazione, quello che agli occhi di Ivonne appariva come insormontabile e sempre più vicino capolinea. Memore degli avvenimenti di quel pomeriggio e spinta dal sentimento che provava, le mise le braccia attorno alla vita, abbracciandola stretta.

La serata non portò altri particolari sconvolgimenti; Roberta era riuscita a riportare in alto l’umore di Ivonne e a far sì che, una volta per tutte, smascherasse quei misteriosi pensieri che aveva in testa; non riusciva a credere che le avesse tenuta nascosta quella paura per così tanto tempo, costringendola a salti mortali fra tentativi di pace e accese discussioni, mentre l’altra non riusciva a credere al fatto che Roberta non fosse nemmeno per un secondo turbata da quell’eventualità. Pensò che non dovesse preoccuparla molto la fine della loro storia, era agitata dal pensiero che tutta quella conversazione rappresentasse il preludio dell’effettiva separazione, una sorta di comune accordo, come era avvenuto fra Clotilde e Valeria. Tutte quelle ipotesi vennero però sconfessate al momento del rientro a casa, quando, prima di andare a dormire, Roberta la trascinò in un appassionato bacio, seguito da un assalto violento culminato con l’atterraggio brusco sul materasso. Ivonne smetteva sempre di chiedersi quale vana speranza le permettesse di continuare ad affogare in quella relazione quando poteva appoggiare la testa e le labbra in mezzo ai seni di Roberta e farle il solletico dappertutto.

«Mi sa che me li faccio ricrescere, i capelli» mormorò, beandosi dell’abbraccio intimo sotto le coperte.

Roberta rise, prima di augurarle la buonanotte. Quando si svegliò, l’indomani, era già tardi e si affrettò a rivestirsi e a correre alla pasticceria più vicina; ordinò un vassoio di dolci di varia composizione, includendo quelli alla ricotta, i babà e le paste di mandorle. Prima di pagare il conto aggiunse al tutto anche un cornetto alla nutella, il più grosso che riusciva a vedere oltre la vetrata del bancone. Tenendo fra le mani i dolci e in equilibrio il sacchetto ripeté il suo percorso al contrario, facendo attenzione, nel rientrare a casa, a non fare troppo rumore. Sul divano aveva lasciato il giubbino e la borsa con tutto ciò che le sarebbe servito quel giorno, sul mobile gli occhiali da sole e le chiavi del portone. Ricordava ancora quanto avesse dovuto faticare prima che Ivonne le proponesse di prenderne una copia; era stato difficile quasi quanto riuscire a calarsi nel mondo della studentessa d’infermieristica, tanto gentile quanto, a detta delle sue conoscenze, stravagante.

Era ancora addormentata, la sua studentessa, quando Roberta entrò di soppiatto nella camera da letto; schiuse lievemente la persiana per non lasciarla completamente al buio, le lasciò il cornetto ed i tovaglioli sul comodino e si preoccupò di coprire con il lenzuolo la parte del busto lasciata scoperta dalla sua brusca levata. Le dispiaceva moltissimo abbandonarla così, senza salutarla se non con un bacio, ma il suo pullman partiva a breve e Roberta preferì lasciarla dormire un altro po’, piuttosto che svegliarla e metterla di malumore con la sua partenza. L’avrebbe chiamata più tardi, non appena arrivata.   

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Capitolo 3
*** Più tardi ***


III. Più tardi

 

Valeria la stava chiamando con insistenza da un po’ e lei faceva finta di non averla udita, chiusa nel bagno alla ricerca di una limetta per le unghie; al terzo richiamo, urlato in modo tale da essere sicura che anche gli altri abitanti del condomino l’avessero percepito, Ivonne non poté più ignorarla e, schiusa la porta, le assicurò che stava arrivando.

Prima di tornare in cucina, sedersi accanto alla ragazza e dedicarsi alla manicure, si sciacquò la faccia con acqua fredda. Si guardò allo specchio, il volto ancora grondante, e si trovò più pallida del solito; la mano le corse ad attorcigliarsi fra i ciuffi scuri sulla nuca: i suoi capelli non erano più corti come qualche mese prima, cominciavano ad allungarsi e a toccarle quasi le spalle; Ivonne provò l’impulso di afferrare un paio di forbici e tagliarli più corti di prima, cancellando specialmente quella frangetta che non le piaceva affatto ma alla quale, almeno finché non fossero stati abbastanza lunghi da spostarli di lato, doveva fare l’abitudine.

«Arrivo, sto arrivando!» informò l’amica, temendo un nuovo richiamo.

Raccolse la lima e si chiuse la porta del bagno alle spalle. Valeria non approvava la sua decisione di farsi ricrescere i capelli, diceva che con un taglio corto era molto più bella e delicata di quanto non lo fosse normalmente, ma Ivonne non aveva voluto sentire ragioni e, nonostante i frequenti ripensamenti, si era ostinata a riportarli ad una lunghezza conveniente. La sua scusa era che l’estate era finita e cominciava a fare freddo e che le piaceva portare i capelli lunghi sotto sciccosi cappellini colorati, ma la verità era che i capelli lunghi le ricordavano il primo periodo dell’anno, quello in cui aveva conosciuto Roberta e durante il quale si erano messe insieme. Di queste motivazioni, ovviamente, non faceva parola con Valeria.

Ora si vedevano più spesso: andavano insieme al cinema, il sabato sera erano sempre ad un qualche tavolo, impegnate ad avvistare e braccare qualche ragazza, Ivonne le dava un passaggio e Valeria l’invitava a pranzare a casa sua; nello specifico, quel pomeriggio si erano messe a guardare un film alla televisione e ora si apprestavano a chiacchierare del più e del meno mentre si passavano lo smalto sulle unghie.

«Oh finalmente! Che facevi?»

«Niente, niente. Ho trovato questa, va bene?» chiese Ivonne, mostrandole la lima.

«Sì, sì, va bene tutto.»

Valeria poggiò la mano destra sul tavolo. Per un paio di minuti rimasero in silenzio, poi Ivonne fu costretta ad alzare la testa, smettere il suo lavoro e rispondere all’amica che le domandava, con simulata noncuranza, di ricordarle di che cosa stessero parlando poco prima.

«Mah… di Clotilde, credo.»

Rispose con altrettanta vaghezza, ma in cuor suo si preparò a sorbirsi un’altra tirata, l’ennesima, contro l’ex-ragazza di Valeria della quale a quest’ultima, casomai non fosse stato abbastanza chiaro, non importava nulla di nulla.

«Ah sì, è vero. Ormai è una settimana che se n’è andata in Spagna, quella troia.»

«Come lo sai?»

Ivonne non si dava più nemmeno la pena di distoglierla da quei discorsi, l’assecondava meccanicamente sperando che prima o poi si stancasse di tornare sempre sullo stesso argomento; non si poteva più condurre una conversazione senza che in qualche modo Clotilde spuntasse fuori. Sembrava che Valeria non si stancasse mai di ripetere quant’era stata ingiusta nei suoi confronti, lasciarla per poi mettersi a fare gli occhi dolci a quella studentessa di Pescara, Morena.

«Che tra l’altro è bruttissima, non capisco che cosa ci trovi! È grassa, orrenda, è una tappa!»

«E questo cosa c’entra?»

«Come cosa c’entra?»

Il tono di voce improvvisamente acuto dell’altra la fece pentire di quella azzardatissima opinione: quando Valeria cominciava a sproloquiare riguardo Clotilde non ci capiva più nulla e il suo carattere, già impulsivo e avventato, assumeva i contorni di un egoismo senza fine.

«Non riesco a non pensare a quanto sia stata cattiva con me. Che senso aveva decidere insieme di lasciarci, allora?»

Valeria recriminava l’essere stata indotta a quella separazione serena e successivamente esser presa per il naso, a quanto pareva, dato che Clotilde non sembrava molto preoccupata circa la distanza che la separava dalla sua attuale ragazza.

«Ma tanto si lasceranno sicuramente.»

«Sì, questo lo so anch’io e lo spero tanto, ma è il principio che mi fa andare in bestia, capisci? Il principio!»

Ivonne pensava che la sua amica avesse ragione: in fin dei conti lei e Clotilde si erano separate proprio in vista del trasferimento in Spagna di quest’ultima e delle complicazioni che avrebbe portato il proseguire la relazione a distanza; pensava anche, tuttavia, che dopo un mese intero di lugubri chiacchierate e invettive contro la ragazza fosse anche giunto il momento di dire basta, voltare la pagina, metterci una pietra sopra. Valeria doveva averla presa proprio male, quella volta, perché non ricordava che si fosse accanita sino a quel punto quando era stata lasciata da altre ragazze; al contrario, aveva ammirato molto il suo temperamento vivace e reattivo in seguito alle delusioni, il suo prendere sempre tutto con grande leggerezza ed esser subito pronta a ripartire.

«Ma che c’è? Mi ascolti?»

«Stavo pensando.»

«Tu pensi troppo.»

«Sì, lo so. Roberta lo diceva sempre.»

Nello stesso momento in cui pronunciò il suo nome si rese conto di aver commesso un errore fatale. Valeria aggrottò le sopracciglia.

«Ma che, pensi ancora a quella?»

«No, macché, dicevo così…»

«Meno male, perché su di lei non c’è proprio niente da dire e te la devi togliere dalla testa. Non voglio che ci pensi sempre. A proposito, che fa Anita?»

«Boh, non lo so.»

«Non vi sentite più? Perché?»

«Non mi va.»

«Non ti va mai niente! Non fare la depressa!»

«Non sono depressa, è solo che non mi va.»

Ogni volta che si lasciava scappare il nome di Roberta in una conversazione, Valeria le dava subito addosso accusandola di star vivendo ancora nel passato e di essere aggrappata ad un ricordo che non aveva più possibilità di rivivere. Ivonne doveva sforzarsi di chiudere la bocca e non rispondere nulla, in quei casi.

Lei sapeva benissimo di non avere più nulla da spartire con Roberta; non era depressa, non viveva nel passato e soprattutto non rimuginava ogni istante del suo tempo su di lei, come invece faceva la sua amica. Certe volte si domandava se per caso Valeria non fosse cosciente del proprio blocco emotivo e cercasse di esorcizzarlo attribuendo a lei quel comportamento; ma non era Ivonne a voler parlare a tutti i costi della sua ex-ragazza, non era lei a gettarle addosso del fango e ad aprire inutili ferite. Era anche per questo motivo che non provava nemmeno a farla rinsavire e imporle una volta per tutte di smettere di parlare di Clotilde o, se era questa l’origine di tutto, costringerla ad ammettere che era profondamente delusa e che avrebbe voluto essere al posto di Morena, a dialogare con la ragazza attraverso lo schermo di un computer; invece, notando quell’aria aggressiva e saccente che assumeva nei suoi confronti quando veniva tirata in ballo Roberta, aveva deciso di comportarsi in maniera passiva. Non voleva frequentare Anita perché sentiva di non provare assolutamente nulla per lei, né attrazione fisica e tantomeno mentale, dunque perché Valeria si ostinava a far passare questo suo rifiuto come la celata speranza di poter tornare fra le braccia di Roberta?

Non aveva bisogno, come invece pareva necessario per l’amica, di una scossa che la facesse tornare in sé e le aprisse gli occhi sul presente, un presente in cui Roberta se n’era andata a Pavia e non abitava più assieme a lei e in cui i loro rapporti si erano interrotti; era consapevole di questa situazione e cercava di farci l’abitudine.

«Grazie!» commentò Valeria con un sorriso, ammirando le unghie delle mani perfettamente regolari. «Ora tu. Che colore preferisci?»

«Non saprei… grigio?»

«Grigio? Che mortorio! Perché non rosse?»

«Rosse? No, sono troppo… appariscenti.»

«Vada per il rosso e niente storie, ti ci vuole un po’ di vitalità.»

Ivonne le consegnò le mani tirando un lungo sospiro e pensando che ci voleva davvero una gran pazienza per non arrabbiarsi; ad ogni modo, dare di matto non serviva a nulla: non era capace di gestire un litigio e finiva sempre per lasciarsi sfuggire troppe considerazioni, troppi brutti pensieri covati a lungo che peggioravano la situazione.

Valeria le aveva già passato lo smalto sul pollice e sull’indice quando squillò un telefono. Entrambe si riscossero dai rispettivi pensieri per identificare la provenienza della suoneria e la proprietaria.

«Oh, è il tuo, Ivonne.»

«Devo averlo lasciato in borsa» allungò la testa verso il corridoio e si guardò le mani laccate per un quinto. «Me lo prendi, per favore?»

«Sì, certo.»

Valeria abbandonò la sua postazione per fiondarsi sull’attaccapanni alla ricerca della borsa dell’amica e del telefonino che continuava a squillare. La ragazza non fu abbastanza rapida nella ricerca e quando tirò fuori l’aggeggio la chiamata era già terminata; lo riportò all’amica, scusandosi.

«Non fa niente, vediamo chi era.»

Fece in modo da illuminare il display e vi lesse un numero che non era stato salvato in memoria, ma che non le era troppo sconosciuto.

«Chi era?» domandò, Valeria, che nel frattempo aveva ripreso in mano il pennellino.

«C’è un numero sconosciuto che continua a chiamarmi» rispose Ivonne, concentrata sulle cifre, «mi sembra che sia lo stesso delle altre volte, ma non ne sono sicura.»

«Sarà un’ammiratrice segreta. Perché non richiami?»

«Vuoi scherzare? E che dico?»

«Ah, sì, dimenticavo le tue innumerevoli paranoie riguardo le conversazioni telefoniche.»

Anche se Ivonne arrossì di vergogna, non poté non ammettere che a quel proposito l’amica aveva ragione: non era troppo a suo agio nel parlare con sconosciuti e dover comunicare attraverso il telefonino la rendeva molto nervosa ed ancora più rigida di quanto non fosse di solito. Non avere la possibilità di guardare l’interlocutore negli occhi la inibiva, nonostante s’impacciasse anche durante le conversazioni dirette; la sua giustificazione era che in un faccia a faccia, almeno, poteva intuire dall’espressione dell’altra persona che cosa stesse pensando di lei.

«Avranno sbagliato numero.»

«Boh, chi lo sa. Attenta a non sbavare!»

«Sì, sì, tranquilla.»

Insieme ai rapporti con Valeria aveva cominciato a ritagliarsi più tempo da passare con sua madre e la famiglia. Una volta che lo smalto si fu asciugato Ivonne si congedò dall’amica con la promessa di rivedersi il giorno successivo, per poi ricevere una nuova chiamata mentre metteva in moto la sua automobile. Azionato il vivavoce prese a rassicurare sua madre.

«Sto arrivando, sto arrivando! Dammi il tempo.»

«No, perché poi stasera ho da preparare una cena e non voglio trovarmi a dover fare tutto all’ultimo minuto, quindi se non puoi venire non fa niente, basta che me lo fai sapere.»

«Mamma, sto arrivando, sono ancora le sette. Hai tutto il tempo di prepararti.»

«Allora poi mi aiuti, se non ce la facciamo?»

«Ma sì, ma sì, stai tranquilla.»

Non era solo Valeria ad essere esagitata e frenetica in quell’ultimo periodo. Anche sua madre aveva cominciato ad essere più apprensiva ed invadente del solito nei suoi confronti; aveva voluto essere informata, di fronte ad una tazza di cioccolata calda, su tutti i dettagli della sua vita privata che si era perduta in quei mesi di lontananza. Aveva ascoltato con attenzione – non risparmiandosi però commenti e critiche che Ivonne avrebbe volentieri evitato di ascoltare – tutta l’evoluzione della storia con Roberta e ne aveva concluso che era meglio così, era meglio che la sua bambina trovasse una ragazza diversa, in grado di capirla e di non soffocarla.

«Le persone si approfittano di te, perché hai un carattere un po’…» aveva detto, tentennando sull’ultima parte, alla ricerca della parola giusta.

«Debole?»

«Hai sempre avuto bisogno del tuo spazio, che ti lasciassero fare le tue cose in pace. Ecco, non so se questa ragazza è stata in grado di capirlo fino in fondo.»

Ivonne era sicura che sua madre le volesse bene, anche se la carezza ed il sorriso che avevano seguito quell’affermazione suonavano un po’ come un contentino. Era sicura che le sue intenzioni fossero le migliori, che quel tentativo di riavvicinamento dopo mesi di freddezza fosse spontaneo – forse era lei per prima ad aver bisogno di riallacciare quel rapporto, di aggrapparsi a qualcun’altra, dopo l’abbandono di Roberta – ma quando sentì squillare di nuovo il cellulare pensò che cominciava a diventare davvero troppo insistente. Schiacciò il pulsante di accettazione della chiamata.

«Che vuoi, ma’? Sto arrivando.»

Nell’abitacolo si spanse la risata genuina di una ragazza.

«Non sono tua madre, Ivonne.»

Lei si ritenne fortunata, per una volta, ad essere bloccata in una chilometrica coda: in questo modo non dovette preoccuparsi di tenere i nervi saldi e occuparsi dell’automobile; dapprima impallidì, poi divenne tutta rossa e scelse di dire la cosa più sciocca che le passò per la mente.

«Chi parla?»

Un tono formale e neutro, ma che non nascondeva a sufficienza l’improvviso tremolio della voce.

«Mi senti, Ivonne? Sono Roberta.»

Pur volendo rispondere qualcosa, qualsiasi cosa, darle un segnale della sua presenza, si ritrovò con la lingua incollata al palato.

«Pronto?»

Dopo i primi secondi di stasi, l’istintivo pensiero che formulò la sua mente fu quello di chiudere bruscamente la chiamata, spegnere il cellulare e gettarlo nella borsa; cosa che non avvenne perché Ivonne sentì muoversi qualcosa nelle sue viscere, come non le capitava da un bel po’ di tempo, nel momento in cui Roberta pronunciò il suo nome.

«Ivonne? Ci sei?»

«Sì.»

Rispose quasi senza accorgersene e subito se ne pentì. Anche Roberta sembrò meno tesa, dopo aver ascoltato la risposta.

«Cosa stai facendo?» domandò.

«Sono in macchina.»

Ivonne fu felice che l’avesse domandato. Provò piacere nel farle capire che era impegnata e che non aveva tempo da perdere, anche se evitò di interrogarsi su quanto fosse veritiera quella voglia di scacciarla.

«Sono in macchina, sto guidando. Sto andando da mia madre.»

Esitò un attimo, poi rincarò la dose:

«Non posso parlare.»

«Ti posso chiamare, più tardi?»

«Più tardi quando?»

«Più tardi. Rispondimi.»

La sicurezza di Roberta, tanto anelata quanto a tratti detestata, si manifestava ancora; ebbe un istintivo moto di repulsione, pensò che dall’altra parte del telefono lei fosse tranquilla e certa che la cara e ingenua Ivonne non le avrebbe negato nulla; mise giù senza tanti complimenti, congedandola in maniera sbrigativa.

Non fu nel pieno possesso delle sue facoltà mentali per tutto il resto della serata, ma non fu un problema: sua madre, in un eccesso di iperattività, correva da una parte all’altra della casa, spostando piatti, tovaglie, posate e sedie, così da non accorgersi dello stato assente e meditabondo più acuto del solito della figlia, ottenebrata dall’orologio che l’incalzava e dall’arrosto che non si cuoceva come previsto.

Distribuiva ordini con l’inflessione di un generale e svolazzava dalla cucina al soggiorno con l’eleganza di una pattinatrice; nel complesso l’insieme risultava bizzarro, ma Ivonne e le sue sorelle erano abituate a quegli improvvisi sbalzi d’umore da parte della mamma.

«Damiana, spegni il forno!»

«Ma no, non è ancora cotto bene!» le rispose una voce proveniente dalla cucina.

«Non fa niente, altrimenti diventa secco e immangiabile!»

«Ma vieni a vedere, è ancora tutto rosa!»

«Damiana, ho detto che non fa nulla. Tiralo fuori e basta!»

Ivonne osservò divertita la madre rizzarsi sulla schiena e agitare un dito nel rivolgersi a sua sorella che, non troppo convinta, spegneva il microonde; aveva assunto una tale naturalezza nel gesticolare in quel modo così teatrale che non ci faceva più caso, ma ad un occhio esterno – Ivonne lo sapeva – sembrava un po’ tocca.

«Ma’» si lamentò ancora Damiana, «e vieni a vedere, non si può!»

Con un verso isterico la donna lasciò perdere la disposizione dei tovaglioli per procedere a passo di marcia verso la cucina; Ivonne accelerò le operazioni di smistamento delle forchette per poi correrle dietro, per nulla intenzionata a perdersi una sola scena di quel teatrino. Era anche per quello che le piaceva tanto intrufolarsi a casa sua: per poter fare l’estranea, sedersi in un angolino e godersi i battibecchi fra le sorelle o le stranezze della madre.

«Che c’è, cos’ha che non va?» stava dicendo. «Lo vedi, è solo un po’ rosa… come vuoi che sia fatto il roastbeef?»

«Ti prego, è crudo!»

Anche sua sorella Damiana era essere molto portata per la drammatizzazione e, quando voleva, toccava picchi di esagerazione che facevano concorrenza alla madre. Quella volta, però, Ivonne le dava ragione e la spalleggiava silenziosamente nel suo rammaricarsi per le scelte della mamma: sarebbe venuto a cena il suo fidanzato con i genitori e la ragazza ci teneva a nascondere le eccentricità familiari – o quantomeno a far sì che fossero meno evidenti.

Cincischiarono per un altro po’ circa il grado di cottura dell’arrosto finché Damiana, con risolutezza ed un gran movimento dei capelli, non infilò di tutta forza la carne nel microonde. Ivonne vide sua madre accettare la sconfitta e tornare in salotto ad apparecchiare la tavola. Poco dopo una figura più esile e imbronciata fece capolino dalla porta del corridoio.

«Ma perché gridate, si può sapere?»

«Ciao Antonia» la salutò subito Ivonne.

«Ciao» rispose lei, non troppo affabile.

Era la più piccola della famiglia e covava già un senso di estraneità rispetto a tutto quel marasma che producevano la mamma e le sorelle; per questo Ivonne la prendeva in simpatia, per non avere quelle manie da primadonna che parevano accomunare un po’ tutte le altre. Quando vide sua madre portarsi una mano alle tempie e alzare gli occhi al cielo capì che doveva essersi del tutto dimenticata della presenza della figlia più piccola.

«Tesoro! Ci aiuti a preparare la tavola?»

«No, non mi va. Perché preparate la tavola, chi viene?»

«Il fidanzato di Damiana.»

Ivonne notò le sue guance arrossate e la spavalderia che veniva meno nel viso, dunque suppose che quell’improvvisa informazione l’avesse messa non poco a disagio. Assistette con taciturna goduria alla visione della madre che tentava in tutti i modi di trovare una scusa per mandarla via.

«Non c’era il compleanno di una tua amica, stasera?»

«No.»

«Non ti va di scendere a giocare insieme a Luciana?»

«Mamma, sono grande! Non gioco più con le bambine piccole.»

Ivonne pensò che poi tanto grande non era, visto che a Dicembre avrebbe compiuto undici anni, ma sorrise divertita per quella manifestazione di carattere. Antonia si avvicinò al tavolo in via di preparazione, scrutandolo attenta.

«Ivonne, perché metti solo la forchetta e il cucchiaio?»

Lei si rese conto di aver lasciato in cucina i coltelli e si batté una mano sulla fronte.

«Ah, è l’abitudine. Sai, a casa io non uso quasi mai il coltello.»

«Davvero?»

«Sì. Roberta se lo prendeva sempre da sola…»

Accorgendosi di essersi lasciata sfuggire quel nome in presenza della madre e della sorellina divenne tutta rossa e subito mollò le posate per fiondarsi in cucina a prendere quelle mancanti. Doveva essere colpa di quella telefonata, sì, non vedeva altra spiegazione per quelle sue incoscienze; era già pericoloso nominarla per la sua tranquillità mentale, figurarsi poi mettersi a snocciolare aneddoti sotto il naso di sua madre. Non voleva assolutamente esser presa per una poveraccia ancorata al passato, le bastavano i sermoni di Valeria. Quando fece ritorno in salotto scoprì che la curiosità della sorella non si era affatto placata.

«Chi è Roberta?» le domandò immediatamente, tenendo sulle labbra un sorriso furbo che non le piacque affatto.

«Un’amica.»

Non sapeva che cosa Antonia credesse e che cosa le avesse raccontato la madre riguardo la sorella maggiore che non aveva un fidanzato, ma di sicuro non voleva tirar fuori quell’argomento, non in quel momento.

«Era la coinquilina di Ivonne» aggiunse sua madre, sperando che ulteriori informazioni la quietassero.

«E adesso?»

«Antonia, allora che fai? Ti chiudi in camera tua per tutta la sera?»

Ivonne fu grata alla madre per aver portato il discorso su altri lidi, ma non fu altrettanto entusiasta quando, in risposta al diniego di Antonia, si volse nella sua direzione e disse:

«Be’, allora vai a fare un giro con Ivonne.»

«Un giro? Che cosa?»

«Sì, tanto hai la macchina, no?»

Provò ad obiettare qualcosa, a mettere in piedi una scusa qualsiasi, ma capì di non avere alcuna possibilità di scampo quando la sorella annuì con convinzione, dichiarando che le andava bene.

I minuti seguenti furono i più caotici: Damiana richiese l’aiuto della madre per legare i capelli in una treccia, Antonia lottò con costanza per farsi affidare le chiavi del portone, l’arrosto rischiò di bruciare e quando suonò il citofono tutte e quattro erano tanto agitate da non capire più niente.

«Andrà benissimo, andrà benissimo! Ora abbracciamoci tutte!»

Ivonne, assieme a Damiana ed Antonia, venne catturata di forza dalle braccia della madre, che le tenne strette per una manciata di secondi in cui le tre ragazze trovarono il tempo di lamentarsi per quella scomoda affettuosità.

«Aprite la porta, su» comandò.

Poi, rivolgendosi ad Ivonne, le raccomandò di scendere rapidamente per le scale e di riportare a casa la piccola ad un orario che non fosse superiore alle dieci e mezza. Ivonne fu spinta sul pianerottolo dalla sorella che, nervosa, si lisciava le pieghe del vestito.

«Ve ne volete andare? E che diamine!» sbottò Damiana.

«Andrà benissimo, vedrai. Sei molto bella» fece in tempo a dirle Ivonne, prima di sparire oltre la tromba di scale.

Quando giunsero al piano terra sentirono il rumore delle porte cigolanti dell’ascensore che si aprivano e un cicaleccio di voci fra le quali spiccava quella della loro mamma, che invitava gli ospiti ad entrare.

«Non vorrei essere al posto di Damiana» commentò Antonia quando furono in strada.

Ivonne la squadrò per un lungo momento; si domandava che cosa avrebbe dovuto farsene di una sorella più piccola a cui badare quando aveva per la testa tutt’altri pensieri.

«Come la mettiamo?» domandò infine. «Dove vuoi andare?»

«Mi porti al cinema?»

«Al cinema? No, no, non se ne parla.»

«Perché no?»

«No, non si può.»

«Perché?» ripeté Antonia, per nulla intenzionata a demordere. «Non dirmi che avevi qualcosa da fare, perché non ci credo!»

«In effetti, io… Io avevo qualcosa da fare, sì.»

«E che cosa?»

«Una cosa…»

Istintivamente la mano le corse alla tasca del soprabito in cui aveva infilato il cellulare; lo estrasse per controllare il display e trovò due chiamate perse dallo stesso numero, non memorizzato in rubrica. Scartò subito l’idea di richiamarla, sarebbe stato troppo imbarazzante e soprattutto non voleva darle l’impressione di essere ansiosa di parlare con lei; sperava che chiamasse ancora, che le desse un’altra possibilità, ma non era sicura di volerla rivedere. Non che ci fossero molte certezze nella sua testa, ma riguardo quella situazione non aveva ancora pensato al da farsi, non aveva ancora chiarito i suoi sentimenti. Le appariva tutto molto confuso, avrebbe avuto bisogno di più tempo per valutare le cose, per sincerarsi circa le intenzioni di Roberta, per starsene in santa pace a riflettere senza una sorellina impicciona fra i piedi.

«Non hai niente da fare» concluse Antonia, l’aria soddisfatta. «Su, andiamo in macchina.»

Ivonne rimase lì, pensosa, con le mani che le tremavano nell’atto di premere il pulsante verde. Le sembrò di risentire la voce di Valeria che le intimava di non avere più alcun contatto con quella stronza prepotente e quella di sua madre che le offriva la sua pietosa compassione. Senza nemmeno accorgersene, aveva già fatto partire la chiamata. Antonia osservò la sorella restare lì impalata e portarsi il cellulare all’orecchio. Incuriosita, fece qualche passo nella sua direzione; non aveva mai visto Ivonne così pallida, sembrava anche più cadaverica del solito.

Attese che la ragazza accettasse la chiamata con le mani che le tremavano e la sensazione di aver compiuto un’enorme sciocchezza. Avrebbe voluto che rispondesse e al contempo sperava il contrario. Dal “Pronto?” trafelato che ricevette capì che Roberta doveva essersi precipitata alla ricerca dell’apparecchio e dalla confusione che udiva immaginò che si trovasse in strada.

«Ciao.»

«Ivonne! Mi hai chiamata!»

Il suo tono entusiasta divenne d’un tratto dubbioso.

«Perché?»

«Non lo so» rispose lei, l’aria terrorizzata, «ho premuto.»

Roberta rise e anche la ragazza distese il viso in una smorfia. Non ricordava di essere mai stata così agitata come in quel momento, temeva di non riuscire a mettere in fila due parole; era perfino riuscita a vincere il disagio che le provocavano le conversazioni telefoniche, non poteva mollare, doveva per forza continuare a parlare. Pensò che per svenire ci sarebbe stato tempo più tardi, forse.

Proprio mentre s’ingegnava per formulare una frase che mandasse avanti la conversazione, Roberta provvide a trarla fuori dall’impaccio.

«Dove sei?»

Il suo senso pratico la scuoteva sempre: si aspettava una lunga spiegazione avulsa dal tempo e dallo spazio riguardo i mesi in cui non si erano rivolte la parola e lei la riportava sulla terra, in città, sul marciapiede che contornava il condominio in cui abitava la madre. Non doveva essere troppo distante da lei.

«A casa di mamma.»

«Puoi venire in piazza?»

Il tremolio nella voce di Roberta la rese più sicura e insieme mansueta. Tuttavia in lei permaneva ancora una certa resistenza all’istinto, che invece le suggeriva di abbandonarsi al corso degli eventi. Diede un’occhiata ad Antonia.

«Non sono sola. C’è mia sorella.»

«Davvero? Be’, se vuoi… porta anche lei.»

Antonia era ormai ad un passo dalla sorella, concentrata nel seguire la conversazione senza un briciolo di discrezione. Non avere a disposizione molto tempo per prendere una decisione così importante metteva Ivonne a disagio; avrebbe prendersi qualche momento per pensare, ma la situazione imponeva un sì o un no e lo esigeva subito.

«Va bene» rispose, «ti vengo a prendere con la macchina.»

Ebbe l’impressione che Roberta, dall’altra parte, avesse appena ripreso a respirare.

«D’accordo. Ho la sciarpa colorata.»

Con tutta la buona volontà che impiegò nel dissimulare, Ivonne non riuscì a non apparire scossa ed emozionata dopo aver chiuso la chiamata. Cercò le chiavi dell’automobile e fece per aprire la portiera, poi si ricordò di avere in affidamento la sorellina. Antonia dovette notare benissimo l’euforia sul suo viso tramutarsi in preoccupazione nel momento in cui si voltò a guardarla; non aveva ancora ben capito di che si trattava – sicuramente qualcosa d’importante – ma ad essere scaricata in quel modo non ci stava. E poi era tremendamente curiosa, arrivata a quel punto.

«Io vengo» la precedette, avanzando con sicurezza verso il sedile anteriore e aprendo lo sportello.

Salirono dunque in macchina, l’una curiosa dei mutamenti che vedeva affacciarsi sul volto della sorella maggiore, l’altra impegnata nel disperato tentativo di non lasciar trapelare nulla, nemmeno una parte dell’agitazione in cui era piombata e tantomeno della contorsione delle sue viscere. Era così nervosa che impiegò non poco tempo ad assumere la piena padronanza del veicolo e rendersi conto del luogo in cui doveva recarsi.

«Ivonne?» osò domandare ad un certo punto Antonia.

«Che c’è?»

«Perché stiamo andando di nuovo da questa parte? È la terza volta che facciamo questa strada.»

«Sto cercando un parcheggio» mentì lei.

«Eccolo, è lì, guarda!»

Ivonne fu costretta a sistemarsi nello spazio lasciato libero da un’altra automobile; spense il motore e abbassò il finestrino. Diede una timida occhiata alla gente che vedeva passeggiare per la strada, sperando di scorgere Roberta e al contempo desiderando che non si presentasse. Mentre lei spingeva a malapena il naso fuori dal finestrino, Antonia si mostrava interessatissima.

«Allora, la vedi?»

«Chi?»

«La tua amica.»

Per quanto la ragazzina si ostinasse a non riconoscersi nelle bizzarrie di famiglia, Ivonne pensò che di sicuro l’attitudine ad impicciarsi degli affari altrui non le mancava affatto.

«Com’è vestita?»

«Ha una sciarpa colorata. Verde, viola e blu.»

«Ha gli occhiali?»

«Sì.»

«Ah, allora è quella. Sta arrivando.»

Ivonne non fece in tempo a girarsi dalla sua parte per sbirciare oltre il finestrino che si trovò una ragazza ansante e sorridente aggrappata alla portiera.

«Ciao!» salutò Roberta, tutta entusiasta.

Dopo essersi sincerata della presenza di Ivonne nell’abitacolo spostò lo sguardo sulla ragazzina seduta accanto a lei. Ebbe un attimo di smarrimento, poi le sorrise con indulgenza e domandò:

«Tu sei Damiana?»

«No, mi chiamo Antonia. Sono la sorella di Ivonne.»

«Sì, lo so. Piacere, Roberta.»

Si tesero la mano a mezz’aria fra l’abitacolo e l’esterno e, cosa che Ivonne non mancò di notare, Roberta impiegò qualche secondo di troppo ad infilarsi sui sedili posteriori; le scappò un sorriso immaginando che le fosse sembrato strano trovarsi una mocciosa spavalda lì, sul sedile anteriore – sul suo sedile, al suo posto. Tuttavia, una volta che si fu sistemata dietro, impiegarono ancora qualche minuto per stabilire dove recarsi.

«Be’, ciao. Come stai?»

Roberta scelse di mostrarsi indifferente alla presenza di Antonia, ma dal sorriso che aveva su e dal modo in cui pronunciava le parole era evidente che aveva una voglia matta di mettersi a parlare.

«Bene, bene» rispose Ivonne, spiccia, «te l’avevo detto che c’era anche mia sorella, no?»

«Sì, sì, nessun problema. Come mai uscite insieme? La portavi al cinema?»

Antonia aprì la bocca per risponderle, ma cambiò idea notando l’occhiata gelida che le aveva riservato la sorella. Preferì starsene buona sul suo sedile e osservare dallo specchietto retrovisore i movimenti di quella sconosciuta.

«Non me ne hai mai parlato…» aggiunse Roberta, sperando di invogliarla a sbottonarsi.

«Devo farle da babysitter per stasera.»

Si voltò a guardarla, curandosi di non lasciar trapelare la minima emozione.

«Mi dispiace» disse, alludendo al colloquio franco e privato che la ragazza doveva aver progettato.

«D’accordo» Roberta non riuscì a mascherare la delusione per l’atteggiamento freddo che le veniva riservato. «Be’, non importa. Ti… vi va di mangiare qualcosa?»

Ivonne scrollò le spalle, indicando che per lei faceva lo stesso – anche se in cuor suo avrebbe desiderato rispondere con un sì; guardò Antonia per farle capire che toccava a lei esprimere l’opinione decisiva.

«Io ho fame» fece lei, incontrando la tacita approvazione della sorella e osservando, con la coda dell’occhio, l’aria sollevata di Roberta.

«Allora ci prendiamo una pizza qui vicino, va bene?»

Messa in moto la macchina, si avviarono. Ivonne rimase in silenzio, Antonia era attentissima ad ogni loro movimento, presa da una tacita curiosità, mentre era evidente che Roberta sarebbe esplosa di lì a poco se non avesse cominciato una qualsiasi conversazione. Dato che la sorella maggiore la scoraggiava, decise di conquistarsi la simpatia della più piccola.

«Come mai non sei a casa? Tua mamma è uscita, stasera?»

«No, viene a cena il fidanzato di mia sorella. Io e Ivonne non siamo state invitate.»

«Perché?»

«Non so, credo per non mettere in imbarazzo. Ma non è che senza noi vada meglio.»

«Avevate altri programmi?»

«Io no. Ho chiesto a Ivonne se aveva qualcosa da fare e lei ha detto che c’era una cosa.»

«Qui va bene, che dite?» tagliò corto lei, preoccupata che la sorellina potesse rivelare informazioni che invece dovevano restare private.

Presero posto ad un tavolino della pizzeria, ognuna con un trancio bollente in mano, impegnate a scambiarsi sguardi di sottecchi. Ivonne provava un certo compiacimento nel vedere Roberta impaziente di parlarle e nel risponderle con freddezza; notava chiaramente il suo dispiacere, la sua smania: dopo un po’ credette che l’avrebbe afferrata di forza con una mano per trascinarla in un posto tranquillo. Non che l’idea le dispiacesse, era anzi piacevole controllarla in quel modo, ma decise di alleviare almeno un po’ quel bisogno spasmodico di confronto.

«Mi vai a prendere dei fazzoletti?» domandò ad Antonia.

Lei eseguì prontamente, scivolando giù dallo sgabello e dirigendosi al bancone.

«Perché non mi parli?»

«Ah, l’antica domanda.»

«Sono seria, Ivonne» Roberta non raccolse la provocazione, sembrava proprio avvilita. «Ho bisogno di parlarti.»

«C’è mia sorella, non si può.»

«Riportala a casa.»

«Ma che cosa dobbiamo dirci?»

«Tante cose. Devo spiegarti.»

«Non sei riuscita a spiegarti in tre mesi, cosa vuoi che cambi in una sera?»

In seguito furono costrette a tacere perché Antonia, pur avendo colto il desiderio della sorella maggiore di essere lasciata da sola, aveva fatto ritorno al tavolo. Ivonne masticava piano la sua pizza, compiaciuta. Covava quel risentimento da molto tempo ed era felice di essere riuscita a comunicarglielo. Prima di rimettersi in macchina, Antonia sussurrò al suo orecchio:

«Riportami a casa.»

«Perché?»

«Mi sono annoiata.»

La verità era che la ragazzina aveva percepito benissimo l’atmosfera di tensione e non vedeva l’ora di allontanarsene, specie perché non aveva mai visto la sorella così seria e tesa; Ivonne non era molto loquace, ma non aveva detto che quattro parole per tutta la sera ed Antonia aveva immaginato di esserle solo d’impiccio.

«La riporto a casa e poi accompagno anche te» spiegò a Roberta, che annuì senza commentare alcunché.

Ivonne entrò nell’androne del palazzo assieme ad Antonia, domandandole che avesse intenzione di fare.

«Me ne vado a casa di Luciana, poi più tardi torno a casa.»

«Sei sicura? Per me puoi restare.»

Quando stavano per separarsi, Antonia la richiamò.

«Avete litigato, per questo non vi parlate?»

«Mi dispiace, ma sono cose che non ti riguardano.»

Antonia non sembrò offendersi, quella serata doveva averle fatto grande impressione.

«Quella è la tua fidanzata?»

In risposta all’occhiata incredula della sorella, si strinse nelle spalle.

«Lo sapevo. Mamma e Damiana me l’hanno sempre detto, che eri fidanzata.»

Ai nervi duramente provati di Ivonne mancava solo quella rivelazione per giungere al crollo. Non commentò quell’affermazione e la salutò sbrigativamente. Tornò sul sedile dell’automobile – Roberta aveva prontamente ripreso il suo posto, davanti – con un sospiro.

«Cosa c’è?»

«Mia sorella sa che siamo fidanzate.»

«Non sopporto mia madre» aggiunse, dopo una pausa.

Roberta la osservava con attenzione, incerta se cominciare a discutere o lasciarla in pace. Sembrava piuttosto stanca.

«Siamo ancora fidanzate?» chiese cautamente.

«No, non direi. Le fidanzate non spariscono per mesi senza dare notizia e non tornano di botto, senza avvisare. E soprattutto pretendendo che tutto sia rimasto come prima.»

Le sue parole la rattristarono, ma Ivonne non parve accorgersene.

«Allora sei tornata, bene. Che cosa vuoi?»

«Ti devo spiegare.»

«Spiegare che cosa? Che hai terminato la laurea, hai vinto il concorso per la specializzazione e non hai più bisogno di una casa qui a Foggia?»

Solo in quel momento si rese conto di quanto fosse arrabbiata; aveva pensato di allontanare il ricordo della loro relazione, archiviarla senza farsi travolgere dai rimorsi e dal rimpianto, ma si accorse di avere un gran bisogno di parlare di quello che era successo.

«Scendi, facciamo due passi.»

Roberta la convinse a seguirla sul marciapiede e presero a passeggiare l’una accanto all’altra; la ragazza sembrava molto avvilita.

«Non è una cosa facile da spiegare» cominciò.

«Non sei stata molto corretta con me» l’interruppe Ivonne. «Non ci siamo nemmeno dette di esserci lasciate. È successo così… come quando un arto va in cancrena e ad un certo punto si decide di amputarlo»

«Accidenti.»

«Cosa?»

«Non credo di averti mai sentita parlare così francamente, da quando ti conosco.»

Roberta non ottenne risposta, se non uno sguardo deluso che era in procinto di inumidirsi per le lacrime.

«Non sai che cosa mi sono dovuta sorbire, in questi mesi in cui non ci sei stata!» riprese, sentendo le parole affollarsi sulle labbra. «Ti ricordi di Valeria, no?»

«Certo, la tua carissima amica.»

«Ecco, ricordi che lei e la sua ragazza si erano lasciate di comune accordo? Bene, ora che ha scoperto che Clotilde si è messa con un’altra ha dato di matto! Non fa che parlarmi di lei, non fa che ripetermi che è stata una stronza e un sacco di altre cose… giuro che impazzirò se la sento ancora una volta dirmi quelle cose!»

«E come se non bastasse» proseguì, con rinnovata foga, «mi trattano come un’idiota. Siccome ci siamo lasciate – eh, poverina Ivonne, si è lasciata, ma se vogliamo dire la verità non erano fatte per stare insieme, è stato meglio così – ora sono diventata una stupida, una pavida che non sa prendere decisioni per sé e non sa cos’è meglio per lei.»

«Povera Ivonne.»

«Il che sarà anche vero, ma non sopporto che mi si venga a dire di non pensare più a te, di lasciare indietro il passato, quando la mia migliore amica mi propina ogni giorno le stesse solite stronzate su quanto sia stata cattiva Clotilde con lei. Io non ce la faccio, io non le sopporto più…»

Fece una pausa, poi si rivolse alla ragazza.

«Perché sei tornata?»

«Avevo un po’ di giorni liberi.»

«Perché non mi hai più cercata?»

Ivonne pensò che se proprio doveva sfogarsi, tanto valeva comunicarle tutti i suoi pensieri. Non si accorse di essersi fermata poco più in là di un lampione solitario e di avere la propria mano stretta in quella di Roberta.

«Mi pensi ancora?» chiese questa, portandosi davanti a lei.

Ivonne la guardò bene, prima di rispondere. Non sembrava cattiva, non pareva manifestare segni di prepotenza e non le aveva ancora rimproverato alcuna sciocchezza. In lei non vedeva volontà di sopraffazione e dominazione quanto piuttosto un porto sicuro in cui gettarsi; Valeria e sua madre non potevano capire quanto lei avesse bisogno di Roberta e lei stessa cominciava a rendersene conto solo in quel momento; non riusciva a spiegare altrimenti quel moto interiore che superava anche l’orgoglio ferito.

«Sì.»

«Anche io, sempre.»

Non le fu chiaro il modo in cui la ragazza riuscì a portarsi talmente vicina al suo viso da potersi vedere riflessa nelle lenti dei suoi occhiali.

«Mi piaci tanto, Ivonne.»

La confusione nella sua testa era troppa per permetterle di ragionare su cosa fosse meglio fare e su cosa dovesse rispondere, su cosa dovesse farle scontare e su quanto fosse stupido lasciare che l’emozione prendesse il sopravvento sulla testa, pena il ritrovarsi con milioni di domande senza risposta, in una situazione senza via d’uscita. Non vivevano più insieme, le separavano un’infinità di chilometri e due temperamenti molto diversi.

Tuttavia, quando fu il momento di baciarsi, tutte quelle valide motivazioni per cui non avrebbero dovuto trovarsi lì, in quella strada secondaria dove chiunque poteva scorgerle, scomparvero. Si stupì addirittura della naturalezza con cui tutto si stava accomodando: poche parole, sbagli da parte di entrambi, molta voglia di riparare e volersi ancora bene.

«Hai visto che quando m’infervoro non piango più?»

«Io sto cercando di arrabbiarmi un po’ meno.»

Restarono a scambiarsi tenerezze finché Roberta non propose di spostarsi in automobile e fare un giro in qualche posto più appartato, dato che era ancora presto e suo fratello non sarebbe passato a prenderla prima delle undici. La proposta piacque ad Ivonne che la trascinò di corsa, ridendo, verso la sua macchina.

«Ivonne! Ivonne!»

La ragazza si sentì chiamare e alzò lo sguardo verso i balconi del palazzo, per scoprire sua madre che l’invitava a salire.

«Che fai lì?» domandò, inorridita al pensiero che si fosse goduta tutta quanta la scena.

«Salite, venite a prendere un pezzo di dolce!»

«Buonasera» la salutò Roberta, evidentemente favorevole all’idea più di quanto non lo fosse Ivonne.

Si trovarono al tavolo del soggiorno assieme al fidanzato di Damiana, ai suoi genitori e ad Antonia a condividere del pandispagna imbottito di nutella e ricoperto di glassa. Antonia non parlò molto, ma parve più contenta e meno scontrosa, sollevata nel vedere le sorelle maggiori a proprio agio. Roberta venne presentata come un’amica e le fu permesso di rimanere a chiacchierare finché non fu troppo tardi. Damiana fu ripagata delle preghiere che aveva fatto: sua madre riuscì a non comportarsi in maniera troppo bizzarra e gli ospiti rimasero nel complesso soddisfatti della cena.

Ivonne continuò a frequentare Roberta, incurante delle opinioni altrui, finché la loro relazione non sfociò in un’amicizia profonda a causa della distanza e del poco tempo a disposizione da passare insieme. Roberta conservò sempre un grande affetto nei suoi confronti e si premurò di ospitarla spesso da lei, permettendosi di tanto in tanto qualche gesto più intimo: non voleva dimenticare del tutto la matrice fisica del loro rapporto, aveva bisogno di ricordare che si erano amate, che non erano state soltanto due buone amiche. Ivonne glielo permetteva, ma le nascose a lungo quanto le fosse difficile non ricambiare con altrettanta enfasi; impiegò molto tempo prima di riuscire a vivere con sereno distacco la faccenda: anche quando cercava di non pensarci più l’automatico gesto del prendere in mano, oltre alle due posate per lei, una forchetta, un cucchiaio ed un coltello le procurava una grande malinconia e, di tanto in tanto, anche qualche lacrima.

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