II.
Adesso
Fu
solo
quando tentò per la terza volta
di passare energicamente il panno sullo schermo del portatile che
Roberta si
accorse che la macchia non si trovava sul monitor ma sulla lente destra
dei
suoi occhiali. Ci alitò sopra per umidificarli e poi
provvide a ripulirli.
Rimessa a fuoco la stanza si lasciò andare contro lo
schienale della sedia con
uno sbuffo prolungato: quella mattina era particolarmente annoiata e
non aveva
alcuna voglia di terminare di leggere e sintetizzare il capitolo numero
otto
del libro che aveva davanti; aveva giustificato l’accensione
del computer con
la necessità di dover reperire immediatamente i decreti
legislativi a cui si
faceva riferimento, ma la pagina sulla quale stava lavorando raccontava
invece
di un solitario in via di soluzione, peraltro ancora lontana.
Si dondolò, reggendosi
bene al mobile
alle sue spalle, cercando una qualsiasi distrazione che rimandasse
ancora e
ancora l’impegno che la teneva lì seduta da quella
mattina. In preda ad un
brusio irrefrenabile delle membra alzò lo sguardo verso il
soffitto, constatò
con aria distratta che la seconda lucina del lampadario non era ancora
stata
sostituita, poi si dedicò a sfrangiare una ciocca di
capelli, esaminando il
filo sottile da tutte le parti, infine decise di alzarsi ed andare alla
ricerca
di qualcosa da mangiare – o di Ivonne, faceva lo stesso.
Trovò entrambe le cose
in cucina: la sua
fidanzata stava raccogliendo alcune cose dal mobile e, a giudicare
dall’abbigliamento, era in procinto di uscire.
«Dove vai?»
domandò Roberta, superandola
per fiondarsi sul frigorifero.
«Esco un
po’.»
«Con chi?»
«Qualche
amica… forse Clotilde.»
«Non
c’è mai niente da mangiare, qui»
borbottò fra sé Roberta. «Scusa, non
sai con chi esci?»
«Ma sì, due
amiche.»
«Clotilde è
quella stile new age, quella
con le fasce multicolore e i capelli lunghi lunghi?»
«Sentila, come se non
ricordassi chi è!»
fece Ivonne, richiudendo la borsa e muovendo qualche passo verso la
porta. «Hai
anche detto che è molto carina.»
Roberta si voltò
completamente a
guardarla, ci pensò su un momento, poi sorrise con fare
languido.
«Mi piacciono tanto i
capelli, così.»
Pur se continuando a mantenersi
seria,
Ivonne non riuscì a reprimere l’impulso di
sorridere e sfiorarsi la nuca con le
mani; aveva dato ai suoi capelli un taglio drastico da qualche
settimana,
preferendo un’acconciatura più maschile, quasi a
spazzola.
«Ah ah, certo.»
«No, sul serio. Sei
carina.»
«Più di
te?» la provocò con un sorriso
sornione.
«Non esagerare»
rimbeccò Roberta.
«Compri tu qualcosa da mangiare?»
«Dipende, se mi resta del
tempo.»
«Sono nelle tue mani,
ricorda!»
Ivonne fece qualche passo nel
corridoio,
guardandola con aria curiosa.
«Sei allegra stamattina,
cos’hai?»
Roberta mantenne il suo sorriso e
le si
avvicinò, prendendole il viso fra le mani e posandole un
bacio sulle labbra.
«Sarà la
primavera! Ci vediamo dopo.»
«Ciao.»
Roberta attese che la ragazza
scomparisse dal suo campo visivo, poi perse d’un colpo
l’allegria e richiuse il
portone con aria mogia. La verità era che si annoiava
terribilmente, sentiva
addosso un’inerzia fastidiosa che avrebbe voluto scaricare in
qualche modo – e
fra le varie ipotesi formulate nella sua mente, quella riguardante
Ivonne era
sfumata nel momento in cui questa aveva varcato la soglia di casa
– amplificata
dal pensiero di dover passare il sabato mattina seduta alla scrivania,
alle
prese con tabelle recanti il numero identificativo delle sostanze
chimiche. Con
un pacchetto di cracker in mano tornò a sedersi di
malavoglia di fronte al
portatile.
Ivonne aveva preso appuntamento con
Valeria e Clotilde per le undici e mezza in piazza Cavour; era una
giornata
soleggiata e le ragazze avevano tutta l’intenzione di
passeggiare lungo il
viale fermandosi di tanto in tanto alle vetrine dei negozi e
spettegolare sulle
loro conoscenze comuni e non. Alle undici e cinque minuti Ivonne si
trovava su
una panchina dello stradone in attesa delle amiche, non senza una certa
agitazione interiore.
Non si vedevano da qualche tempo,
un po’
perché Valeria era stata a trovare Clotilde che studiava
Lingue all’università
di Pescara, un po’ per via del poco tempo libero a
disposizione della ragazza.
Fortunatamente abitava insieme a Roberta da quasi due mesi, altrimenti
le
serate da poter dedicare alle sue amiche sarebbero state davvero
ridotte
all’osso – Ivonne studiava presso la
facoltà di Scienze infermieristiche ed era
impegnata per tutta la settimana dalla mattina alla sera, complice il
tirocinio
che la obbligava ad una levataccia – ed anche così
c’era sempre qualche
contrattempo che le aveva impedito di uscire con loro: a Roberta non
piaceva il
film che avevano intenzione di andare a vedere, Roberta non aveva
voglia di
andare a ballare, Roberta non sopportava troppo il suo giro di amiche.
Ecco, era questo il problema
più grosso,
che aveva sempre dato a Ivonne molto da pensare; aveva preferito
omettere il
fatto che ci fosse anche Valeria, menzionando Clotilde
perché lei e Roberta
avevano delle amiche in comune, e in presenza della sua amica non
sapeva mai
bene come comportarsi a riguardo della sua fidanzata. Sperava che
quello di
Roberta fosse solo un capriccio momentaneo, che per il momento si
traduceva nel
netto rifiuto di partecipare a serate nei locali insieme al gruppo di
amiche
lesbiche da cui Ivonne aveva dovuto prendere le distanze.
C’era stata anche una
discussione intensa a questo proposito, che non aveva trovato
risoluzione in un
comune accordo, così si era tacitamente deciso di non
parlarne più.
«Ivonne?»
Una ragazza dai capelli biondissimi
–
doveva essere la sesta volta che Valeria decideva di tingersi,
pensò fra sé
Ivonne – che ne teneva per mano un’altra dalle
tonalità più scure e
tradizionali le si avvicinò quasi di corsa.
«Fatti guardare!
No… bellissimi i
capelli, mi piacciono, stai benissimo!» esclamò
entusiasta Valeria, tirandola a
destra e sinistra per osservarla meglio.
«Dici? Ho sempre un
po’ vergogna…»
commentò con imbarazzo lei, che non ci aveva fatto del tutto
l’abitudine.
«No no, ti stanno bene
davvero. Specie a
te che sei fina fina.»
«Grazie,
ragazze.»
Si scambiarono i baci di
convenienza, un
paio di sorrisi entusiasti, poi Clotilde le offrì il braccio
sinistro, agganciandosi
contemporaneamente a quello di Valeria, e cominciarono a passeggiare
lungo il
viale.
«Come mai hai deciso di
tagliarti i
capelli?» domandò Valeria, che pareva molto
curiosa al riguardo.
«Sì,
infatti» rincarò Clotilde, «è
una
decisione drastica.»
«Non è da me,
vero?» si schermì Ivonne,
ridendo con loro. «A dire la verità non lo so di
preciso… volevo cambiare. Mi
ero stancata di tenerli lunghi.»
«Fanno molto modella di
haute couture
francese.»
«Ma sì,
infatti a lei stanno benissimo,
potresti davvero posare per un servizio, col fisico che hai. Ci sono
ragazze su
cui i capelli corti stanno divinamente.»
«A me non sono mai
piaciuti lunghi, per
dire.»
«Sì, ma tu non
puoi fare da esempio, tu
sei una capra che se li tinge ogni luna nuova.»
«Ti ricordi, Ivonne? La
prima volta che
li tagliai fu subito dopo l’esame di
maturità» fece Valeria, cercando
l’approvazione dell’altra.
«Certo, me lo ricordo.
Be’, non so, io
ormai mi sono abituata alla tua stravaganza, non ci faccio
più caso!»
«A Roberta piacciono,
invece?» chiese
Clotilde.
Ivonne ebbe un momento di titubanza
al sentir
spuntare il nome della fidanzata; era convinta che non ci fosse alcun
intento
battagliero nelle due ragazze, ma preferì mantenersi vaga.
«Uhm…
be’, sì, credo di sì.»
«Ma anche in caso si
frega, a me
piacciono un sacco» obiettò subito Valeria,
«sei bellissima, poi se non le
stanno bene si arrangia.»
Intercettata l’occhiata
di rimprovero
che Clotilde rivolse all’altra, Ivonne preferì
lasciar cadere l’allusione e
ribadire:
«No, no, mi ha detto che
le piacciono.»
«Allora, come vanno le
cose?»
«Tutto bene, tutto bene.
E voi?»
Cercò di deviare
l’interrogatorio da sé
per non dover toccare più l’argomento
“Roberta”, così domandò a
Clotilde come
proseguissero i suoi studi, se avesse qualche progetto in cantiere.
«A dire la
verità è possibile che vada
in Spagna.»
«In Spagna?
Perché?»
«C’è
una specie di Erasmus per cui se
lei va in Spagna e dà degli esami, quando torna è
già pronta per la laurea»
rispose Valeria.
«E tu andrai?»
«Be’, penso di
sì, se si concretizza la
cosa.»
Ivonne ammutolì,
osservandole con aria
perplessa e preoccupata; le ragazze non davano il minimo segnale di
turbamento,
parevano indifferenti alla notizia se non addirittura disposte a
liquidarla
come qualcosa da poco. Per lei, che aveva rimuginato su quella
terrificante
opzione del distacco per molto tempo, vederle così
impassibili era
sconcertante. Si fece coraggio e domandò:
«Ma… siete
così tranquille? Cos’è, vai
in Spagna anche tu?»
Valeria e Clotilde si guardarono,
sorrisero
insieme e poi le risposero:
«No, assolutamente!
Perché dovrei?»
«Non stiamo
più insieme.»
«Non state più
insieme? Che significa?»
Valeria, divertita dalla sua
espressione
meravigliata, liberò una risata e si staccò dalla
sua posizione per andare a
prendere sottobraccio l’amica.
«Sì, lo so che
non te l’aspettavi, ma
non stiamo più insieme. L’abbiamo deciso di comune
accordo.»
«Esatto!»
Nuovamente Ivonne fece fatica a
comprendere i sorrisi e la naturalezza con cui le due le stavano
comunicando la
notizia; sapeva bene che Valeria non era nuova a colpi di testa di
quella
sorta, ma la situazione le sembrava anche troppo surreale.
«Okay, okay, la stiamo
perdendo!»
scherzò Clotilde, posizionandosi di fronte a lei,
preoccupata dalla faccia
sbigottita della ragazza.
«Forse dovevamo usare
più cautela, la
cosa l’ha scioccata.»
«No, no,
aspettate!» Ivonne le afferrò
per le braccia e le costrinse a restarle davanti. «Ora vi
fermate qui e mi
spiegate tutto per filo e per segno. Non è che è
uno scherzo, eh?»
«Mai stata più
seria!»
«Vedi, ci è
sembrata la cosa più giusta
da fare» fu Clotilde a riaffiancarsi a lei e costringerla a
riprendere la
passeggiata. «Che senso aveva, se poi avremmo dovuto
separarci?»
«Ma cosa
c’entra, voi date per scontato
che la lontananza sia più forte…»
«Del nostro amore?
Sì» Clotilde
ridacchiò per via dell’ingenuo stupore di Ivonne.
«Abbiamo preferito essere
oneste con noi stesse, tutto qua. Oppure, se preferisci, evitare di
star male
più tardi e decidere ora, insieme, senza rancore.»
Valeria e Clotilde, notando il suo
rannuvolamento, continuarono a spiegarle i punti di vista da cui la
loro
decisione emergeva quale la migliore soluzione al problema, insistendo
sul lato
scherzoso della faccenda, sulla leggerezza con cui bisognava prendere
quelle
cose.
«Dai, dopotutto non
è la fine del mondo!
Voglio dire, sarà carina e divertente e tutto, ma Clotilde
non è l’unica
ragazza sulla faccia della terra» fece notare Valeria.
«Così come tu
potrai essere euforica e
folle quanto vuoi ma, tutto sommato, soltanto una ragazzina in cerca di
stabilità.»
«Oh, mi conosci
bene.»
Ivonne non appariva per niente
convinta.
«Sinceramente non
capisco. Perché darvi
sconfitte in partenza?»
«Oh, Ivonne…
la verità è che forse non
ci diamo tanta importanza quanta ce ne dai tu.»
«E non vi volete bene,
scusa?» obiettò
lei.
«Certo, infatti
continuiamo a restare
amiche.»
«Come sei carina! La cosa
proprio non ti
va giù, eh?» osservò Valeria.
Ottenendo in risposta un broncio
perplesso e notando come la loro affermazione doveva aver scatenato
tutta una
serie di pensieri negativi, la ragazza preferì tentare di
distrarla.
«Invece Roberta che fa,
studia?»
«Oh sì,
Roberta studia.»
Per qualche motivo quella domanda
parve
acuire l’umore negativo assunto tutto a un tratto dalla
ragazza;
accorgendosene, Valeria pensò di dirottarla su argomenti a
lei più graditi.
«Ora ci ho
pensato… Roberta è più grande
di noi! Che cosa fa, Farmacia? Non ricordo…»
«Medicina,
medicina» le ricordò Clotilde.
«Ah però!
Dottoressa e infermiera, siete
già avviate a lavorare insieme.»
«Speriamo di
sì.»
A quel punto
l’espressione mogia sul
volto della ragazza era diventata troppo evidente per poter essere
ignorata e
Valeria, che nonostante le riserve tenute su Roberta aveva a cuore il
benessere
dell’amica, si fece seria d’un tratto e
domandò:
«C’è
qualcosa che non va, Ivonne?»
«Ci dispiace se ti
abbiamo intristito»
aggiunse Clotilde.
«Niente, è che
Roberta ha quasi finito
il corso di laurea.»
«Mmm…
sì, giusto, ormai c’ha venticinque
anni. E quindi?»
«Le tocca la
specializzazione, ora» le
spiegò Clotilde, che aveva intuito quale pensiero
preoccupasse l’amica.
Una volta che anche Valeria ebbe
compreso per quale motivo Ivonne fosse rimasta così
negativamente colpita dalle
loro parole dimenticò tutto ciò che provava nei
confronti di Roberta e si
lanciò in un’appassionata arringa riguardo
l’impossibilità di una loro
separazione.
«Roberta non è
stupida, cosa credi! Qui
ha già un alloggio, ha la possibilità di restare
vicino alla famiglia… da dove
viene, da Sannicandro, vero? Ah no, Apricena. Va be’,
è lo stesso. Voglio dire,
perché dovrebbe tentare in altre città? Al
massimo Napoli, va’. E che vuoi che
sia? Due ore con il CLP, puoi andare a trovarla quando
vuoi…»
«Io non sono sicura che
Roberta voglia
restare qui.»
«Perché dici
questo?»
«Non le piace
Foggia.»
Improvvisamente la gola le si
chiuse in
maniera dolorosa. Non immaginava che, inoltrandosi in quel discorso,
sarebbe
stata costretta a far emergere la spina nel fianco che la tormentava da
un po’
di tempo; non immaginava di dover essere costretta a mascherare il suo
“non le
piaccio abbastanza” sotto un debolissimo “non le
piace Foggia”. Non credeva di
poter arrivare a un tale livello di pateticità.
«Oh,
Ivonne…»
Clotilde preferì non
dire nulla,
comprendendo che si trattava di un problema più serio di una
semplice
preferenza geografica. Valeria non sopportava il vedere
l’amica così triste per
via di quella ragazza arrogante e presuntuosa, non trovava giusto che
Ivonne si
buttasse giù in quel modo; non era sicura di aver capito
bene che cosa si
celasse dietro le sue parole, ma nemmeno le importava: sapeva per certo
che la
colpa doveva essere di Roberta. Fin da subito aveva avuto modo di
notare quanto
potere questa detenesse sulla sua amica e il suo viso triste la indusse
a
mandare al diavolo la diplomazia.
Le tre si sedettero sulla prima
panchina
libera che trovarono, poi Valeria prese le mani di Ivonne e la
costrinse a
guardarla negli occhi.
«Sentimi bene,
tu» cominciò, con aria
battagliera. «Io non so che cosa è successo fra
voi – se è successo qualcosa –
e nemmeno mi interessa saperlo, va bene? Io so solo che da quando state
insieme
tu sei diventata come succube! E non puoi uscire con le amiche, e non
puoi
tagliarti i capelli come ti pare! Guarda, non sarò
intelligente quanto lei,
però so che è prepotente con te. Sì,
non conosco i dettagli, ma ci scommetto
che si deve far sempre come dice lei!»
«Va be’, dai,
non esagerare» l’ammonì
Clotilde.
«Esagerare? Dico solo la
verità, perché
Ivonne la conosco e so che nella sua testa sta sicuramente
preoccupandosi di
come non recarle fastidio, di come fare il suo volere, di come
accontentarla.»
Per tutto il tempo in cui Valeria
aveva
sproloquiato, Ivonne era rimasta in religioso silenzio, ignorando le
argomentazioni convincenti che l’amica adduceva; qualcosa di
vero c’era, lo
sapeva bene anche lei, tuttavia in quel momento non voleva ascoltare
quelle
accuse, non voleva che Valeria sparasse a zero su Roberta: le sembrava
che ogni
parola cattiva nei confronti fosse inevitabilmente diretta anche a lei,
ogni
minuto in più di quella conversazione la faceva star male.
«Io te l’ho
sempre detto che dovevi star
lontana dalle etero, Ivonne» concluse Valeria, incrociando le
braccia al petto
e guardando l’amica con aria di rimprovero.
«Come al solito sei una
testa calda che
parla senza riflettere. Ora che c’entra questo, se Roberta si
è innamorata di
Ivonne ci sarà un motivo» la rimproverò
Clotilde. «Perché devi generalizzare le
tue opinioni, nemmeno la conosci!»
«La conosco abbastanza
per dire che non
mi piace!»
«Sei pregiudicata, magari
anche lei
pensa le stesse cose di te. Il motivo è che entrambe tenete
molto a lei.»
«Certo che le pensa, che
domande! Magari
ha paura che possa rubarle il cagnolino.»
«Quanto non vi sopporto
quando fate
così!» esclamò ad un trattò
Ivonne.
Valeria ammutolì e si
rese conto di aver
esagerato. Scambiò un’occhiata con Clotilde, anche
lei turbata
dall’atteggiamento di Ivonne, che aveva tirato un sospiro e
nascosto il viso
fra le mani. Lasciarono che passassero alcuni secondi, per darle modo
di
sfogarsi ulteriormente; dal momento che non sembrava voler condividere
i suoi
pensieri, Valeria osò domandarle scusa.
«Non parliamo
più di questa cosa,
d’accordo?» tagliò corto lei.
Si manifestavano nuovamente i suoi
repentini sbalzi d’umore: improvvisamente decisa, volle che
le ragazze si
alzassero e percorressero il viale a ritroso, verso la piazza dove si
erano
incontrate. Durante il tragitto parlò con forzata allegria
della storia di
Anita, una loro conoscenza superficiale che si era imbarcata in una
brutta
situazione per via della sua cotta per Chiara, fidanzata di Lucia,
ragazza
estremamente possessiva e brusca; sulle prime Valeria e Clotilde non
sapevano
come interpretare quel capovolgimento, ma poi si adeguarono e presero a
spettegolare
assieme a lei, felice che il momento di crisi fosse stato superato.
«Sai, mi ha detto la
sorella della
cugina di Lucia che le aveva viste baciarsi in una macchina
mercoledì scorso.»
«Ma chi? Chiara e
Lucia?»
«No, Anita e
Chiara!»
«Io sapevo anche che
c’era stato un
confronto faccia a faccia, che Lucia quasi quasi le aveva messo le mani
addosso…»
«Figurati, a quella
mancano solo le
palle perché sia un uomo.»
«No, allora non sapete le
ultime novità»
Clotilde si diede un tono, catalizzando su di sé
l’attenzione delle altre due
pettegole. «Questo fatto della quasi rissa è
successo sabato scorso, mentre non
sapete che Chiara ha lasciato Lucia dicendo che ha bisogno di prendersi
un po’
di tempo per riflettere. Poi – così sembra, ma non
ne sono del tutto certa – è
stata vista ieri sera al locale tutta abbracciata ad Anita, ben sapendo
che era
presente anche Lucia.»
«Che casino! E si sono
picchiate?»
chiese avidamente Ivonne.
«Guarda guarda, ti
piacciono le risse?»
«Quelle degli altri
sì! Sono ridicole e
patetiche.»
«Insomma, alla fine
è andato tutto bene,
perché non si sono incontrate. Però stamattina
Morena mi ha mandato un
messaggio dicendo che ha saputo che ieri sera, dopo che noi del gruppo
ce ne
siamo andate, Lucia è stata vista pomiciare –
indovinate? – con Michela! Che
era…»
«L’ex di
Anita» completò Ivonne.
«Accidenti, che schifo però. Manco fossimo un
bordello.»
«Chi è
Morena?» chiese Valeria.
«Oh, una ragazza che ho
conosciuto lì a
Pescara.»
«Non me l’hai
presentata.»
«Rimedieremo. Sei a
piedi, Ivonne? Vuoi
un passaggio?»
La ragazza rifiutò la
loro offerta,
preferendo incamminarsi a piedi verso casa in modo da poter passare
davanti al
negozio di alimentari e comprare qualche pomodoro e gli spaghetti da
cucinare a
pranzo. Dimenticati in fretta i pettegolezzi sulle loro conoscenti, le
erano
ritornati in mente quei pensieri angoscianti riguardanti lei e Roberta,
quel
nodo alla gola che la opprimeva ogni volta che provava ad immaginarsi a
distanza di qualche mese. Tornare a casa ed essere rassicurata, ecco
ciò di cui
aveva bisogno, tornare a casa, trovare Roberta seduta alla scrivania
con aria
annoiata – lei sarebbe saltata su al suo ingresso nella
stanza, per ricoprirla
di baci e abbracciarla, distraendosi dai suoi libri –
pranzare insieme e poi
sdraiarsi sul divano e scivolare nell’incavo dei suoi seni,
liberandola
dall’impiccio della maglietta, e sentirla domandare di
più e sapere di essere
stata cercata, di essere desiderata, e di farla sentire bene
così come Roberta
faceva con lei. Di questo aveva necessariamente bisogno Ivonne quando
spinse in
avanti il portone del loro appartamento, annunciando:
«Sono tornata!»
Attese una qualsiasi risposta per
qualche secondo e cominciò a farsi strada in lei una punta
di delusione quando
avvertì un’altra voce sovrapporsi, in lontananza,
a quella della sua ragazza.
Si addentrò nel corridoio con circospezione, sporgendo la
testa dalla soglia
della camera che utilizzavano come studio, stanza da stiro e
ripostiglio per le
più diverse evenienze.
«Ciao! Sei
tornata.»
«Eh
sì.»
Ivonne mosse le labbra in un
accenno di
sorriso, spostando gli occhi da Roberta al ragazzo che, occhiali spessi
e barba
folta, stava seduto accanto a lei e teneva in mano un quaderno a righe.
Doveva
trattarsi di un suo compagno di corso, pensò subito Ivonne,
non senza avvertire
un certo fastidio nel vederli così vicini in quella piccola
stanza.
«Paolo,
Ivonne… Ivonne, è un mio amico.»
«Sì,
sì, piacere.»
Subito la ragazza tese la mano per
afferrare quella di lui, che rispose con un mezzo sorriso e una stretta
blanda;
poi tirò un sospiro e si alzò dalla sua
postazione, rimettendosi in ordine e
facendo per raccogliere le cose.
«Me ne vado, si
è fatto tardi… devo
passare a comprare della pasta, che sono da solo oggi» disse,
facendo scorrere
la cerniera di una borsa di colore blu.
Ivonne si spostò
leggermente per farlo
passare, ma Roberta intervenne:
«Resta a mangiare con
noi! Tanto Ivonne
ha fatto appena la spesa… così non stai da
solo.»
«Va be’, non
so, non vorrei disturbare.»
«Figurati, per una volta
che ci viene a
trovare qualcuno… siamo sempre noi due.»
Il gran sorriso e l’aria
allegra di
Roberta incoraggiarono Paolo a voltarsi verso Ivonne, per cercare anche
in lei
segnali di disponibilità. Questa non disse nulla, ma
scrollò le spalle con aria
indifferente, per indicare che le andava bene così.
«D’accordo,
allora grazie… però me ne
vado subito, alle due e mezza devo scappare.»
Concordata la partecipazione del
ragazzo
al loro pranzo, Roberta seguì Ivonne in cucina adducendo
come scusa quella di
doverla aiutare a sistemare la spesa nei mobiletti della cucina, mentre
Paolo
dichiarava di avere bisogno del bagno. La ragazza si rese presto conto,
mentre
le andava dietro e cercava di tirarla a sé e posarle qualche
semplice bacio
sulla guancia, che doveva aver fatto qualcosa di sbagliato.
Preferì far finta
di nulla, sperando che le passasse.
«Allora,
com’è andata?» domandò.
«Che cosa?»
«Con le tue amiche,
com’è andata? Avete
girato per shopping?»
Ivonne aveva messo sul fornello una
pentola piena d’acqua e, attendendo che questa raggiungesse
la giusta
temperatura, stava smistando gli acquisti nel mobiletto della pasta;
indecisa
se rispondere o meno, lasciò passare qualche secondo di
silenzio.
«No, niente shopping.
Abbiamo parlato.»
«Chi eravate?»
«Perché?»
domandò subito, voltandosi a
guardarla.
«No niente,
così… per sapere.»
Roberta arrossì e
comprese che non le
conveniva spingersi oltre nel chiedere informazioni. Ivonne, da parte
sua, non
mostrò la volontà di continuare la conversazione.
Roberta si prese qualche
minuto per riflettere su che cosa avesse sbagliato quella volta, poi
ebbe
un’intuizione e, dando un’occhiata al corridoio per
assicurarsi che Paolo non
potesse ascoltarle, chiese:
«Si tratta di Paolo? Ti
secca che resti
qui a mangiare?»
«No, non è
questo.»
Era vero solo in parte, ma la
ragazza si
vergognava ad ammettere che le avesse dato non poco fastidio
quell’improvviso
cambiamento di programma; quando metteva su il muso, come diceva
Roberta, preferiva
non rivelare il reale motivo del suo cambio d’umore: aveva
una paura matta che
la sua ragazza potesse minimizzare o prenderla in giro. Scelse
perciò di
cambiare atteggiamento e, schiarendosi la voce, domandò se
durante quella
mattinata fossero riusciti a concludere qualcosa.
«Insomma…
è venuto a trovarmi poco dopo
che sei uscita e ci siamo messi subito al computer. Solo che, fra una
cosa e
l’altra, abbiamo perso parecchio tempo a
cazzeggiare.»
Roberta si poggiò contro
il frigorifero,
raccontandole di quanto fosse difficile riuscire a sintetizzare i tomi
che
doveva studiare per il prossimo esame: Medicina legale.
Parlò di
quanto fosse noioso dover imparare tutti quei decreti finché
non si accorse che
la sua fidanzata, a giudicare da come sminuzzava le foglie di basilico
per
lasciarle cadere nel pentolino del sugo con aria assente, non le stava
prestando la minima attenzione. Era proprio così: Ivonne non
si era nemmeno
accorta del restaurato silenzio. Pensò che fosse in pensiero
per qualcosa.
«Dai,
sinceramente… » le prese una mano
per catturarne l’attenzione, «ti secca che Paolo
resti a mangiare? È solo un
mio amico, niente di che. Stasera usciamo insieme, andiamo dove vuoi
tu.»
«Lui lo sa?»
«Sa… che
cosa?»
Fu il turno di Ivonne di arrossire
e di
sentire il cuore accelerare i battiti; del tutto terrorizzata dalla
possibilità
di una risposta negativa, spiegò, riducendo la voce ad un
soffio:
«Di noi.»
Per un momento temette che il
tentennamento della sua fidanzata si stesse spingendo oltre i limiti di
una
normale meditazione; temette che dietro quei secondi di silenzio si
celasse una
risposta davvero pericolosa.
«Be’, no. Non
lo sa, non gliel’ho
detto.» Roberta comprese che era necessario aggiungere una
spiegazione che
giustificasse quell’omissione, perché la sua
ragazza sembrava essere proprio sul
punto di agitarsi. «Non lo sanno tutti i miei
amici.»
A quell’aggiunta, che
sapeva un po’ di
scusa, Ivonne mutò la sua espressione da preoccupata ad
indifferente; tornò ad occuparsi
del fornello del gas che continuava a fare cilecca, pensando che dopo
pranzo
avrebbe dovuto ripulire per bene tutto il piano cottura. Mosse il capo,
dimostrando di aver capito.
«Ah,
d’accordo.»
Roberta emise uno sbuffo di
insoddisfazione: aveva la sensazione di aver solo peggiorato le cose.
«Che
c’è adesso?»
«Adesso? Nulla. Non ho
nulla.»
«Nulla nulla? Mi assicuri
che non hai
nulla? Che è tutto a posto?»
«Sì,
sì, vai tranquilla.»
«Va bene. Torno di
là.»
Una volta che fu rientrata in
corridoio,
lasciando Ivonne ai preparativi per il pranzo, si prese il lusso di
alzare gli
occhi al cielo e agitare le mani in maniera eloquente a significare
che, quando
voleva, la sua fidanzata sapeva essere davvero pesante. Si
pentì di aver
lasciato trapelare i suoi sentimenti quando si trovò lo
sguardo di Paolo
addosso, contornato da un sorriso complice.
«Cos’è,
ti fa problemi per il pranzo?»
«No, no! È
solo che… mi ha detto di
comunicarti che non si mangerà alcuna carne, no.»
Risolse la cosa adoperando il primo
dettaglio che le venne in mente e, soddisfatta della scusa, insistette.
«Sai, è
vegetariana.»
«Sul serio? Non mi
dire… Quindi niente
bistecche?»
«Bistecche, arrosto,
roastbeef, pollo,
cotolette, spiedini… non me lo ricordare.»
Si risedettero alla scrivania,
voltando
di malavoglia le pagine dei libri che avevano davanti, ma il tentativo
di
riprendere a studiare fallì presto.
«In effetti ce
l’ha l’aria da
vegetariana, da alternativa» commentò Paolo,
scambiando con la ragazza un’occhiata
vivace.
«Ma chi,
Ivonne?» Roberta lo guardò,
sospettosa, poi sorrise. «Carina, vero?»
«Sì,
abbastanza.»
Paolo ci pensò su e poi,
temendo di aver
offeso l’orgoglio dell’amica, volle riparare
aggiungendo:
«Però si vede
che è ansiosa. Nevrotica.»
«Da che lo
capisci?»
«Dalle mani»
affermò lui.
«Dalle mani?»
«Sì. Pelle
chiara, dita magre, movimenti
nervosi. L’ho notato prima, quando si è affacciata
alla porta.»
Non era un’analisi del
tutto sbagliata,
ma Roberta provò un certo risentimento nel sentirlo parlare
a quel modo; certo,
lei per prima riconosceva una miriade di difetti nella sua fidanzata,
ma non le
piacque che l’amico la giudicasse in quel modo spietato,
oggettivo, quasi si
irritò come se quella diagnosi fosse riferita a lei. Paolo
non poteva sapere
che parte di quel suo stato d’animo agitato era stato
provocato da lei – non
sapeva come, né che cosa avesse fatto di male, ma erano
faccende che
riguardavano solo lei e Ivonne, nessun altro. Dimenticò
l’astio nei suoi
confronti e, accigliandosi leggermente, ribatté:
«Non è che si
tratta di un’isterica, di
una pazza… È solo che certe volte è un
po’ complicata, tutto qui, come lo siamo
tutti.»
«Sì, certo, la
mia era solo una
considerazione approssimativa. Non ce l’hai mai presentata,
però. Sapevo che ti
eri trovata una nuova coinquilina, ma non l’avevo mai
vista.»
Roberta tentennò,
reagendo con una
risatina.
«Non mi andava che le
saltasse addosso
un branco di studenti arrapati.»
Paolo non fece più
domande, preferendo
stappare l’evidenziatore e iniziare a leggere il capitolo
numero dieci in
maniera distratta, apponendo dei segni qua e là; Roberta
però continuava a
rimuginarci su e, improvvisamente curiosa, gli spinse il palmo della
mano sotto
gli occhi.
«Be’, e invece
che dicono le mie mani?»
«Pensavo che queste cose
di psicologia
spicciola non t’interessassero… vedi che sei
contraddittoria?» fece lui,
sornione.
«Quante arie che ti dai!
Su, allora?»
«Non dicono niente, basta
guardarti in
faccia, a te, per capirti.»
«Ah
sì?» lei si fece un attimo seria,
quasi delusa. «È davvero così
semplice?»
«Ma perché tu
sei più aperta, più
solare. Sei il classico tipo estroverso. Tu con una persona potresti
litigare e
un momento dopo farci pace, se ricevi delle scuse. Non ti fai troppi
pensieri,
agisci sull’onda del momento.»
Lusingata da quel commento, Roberta
abbassò gli occhi; quando li rialzò teneva sulle
labbra un bel sorriso complice.
«Invece so benissimo che
cosa rivelano
le tue, di mani. Tipica ansia da studio, perché sono tutte
mangiucchiate,
scarsa igiene, perché di solito sono sudate, oltre che una
notevole propensione
ad un certo tipo di attività volta a sfogare lo
stress… d’altronde, mica porti
gli occhiali per niente.»
Quando Paolo capì a che
cosa si stesse
riferendo la ragazza le mollò un buffetto sul braccio, ma
non rinunciò a
ridacchiare insieme a lei, scambiandosi commenti su quanta
verità ci fosse
nelle sue parole.
«Sai, ci sono cose che
non vorrei
sapere, specialmente riguardo certe serate fra voi ragazzi.»
«Certo, certo, sono cose
che sai
benissimo, invece.»
«Che idiota!»
«Roberta, è
pronto da mangiare.»
Lo sguardo a dir poco glaciale che
Ivonne le stava dando bastò a far smettere immediatamente il
sorriso alla
ragazza, che fermò la mano a mezz’aria,
nell’atto di ricambiare lo schiaffo di
Paolo, e scivolò giù dalla sedia come fosse stata
elettrizzata. Mentre
percorrevano insieme il corridoio verso la cucina, provò a
cercare gli occhi
dell’altra ragazza, per valutare se fosse davvero arrabbiata,
ma non le riuscì
– forse per sfortunate coincidenze, forse per
un’intenzionale riottosità di
Ivonne – e dovette accontentarsi di sedere al tavolo, di
fronte a lei, sperando
con tutto il cuore che non accadessero ulteriori incidenti e che, una
volta
rispedito a casa Paolo, avrebbe potuto spiegarsi con la sua fidanzata.
Tuttavia
il ragazzo, forse galvanizzato dalle risate di poco prima, sembrava
tutto
intenzionato ad attaccare bottone con Ivonne, rivolgendosi a lei e
richiedendo
la sua complicità.
«Insomma, prima ho
domandato a Roberta
se facessi la modella» cominciò, cacciandosi in
bocca una forchettata di
spaghetti.
Non era vero, ma Roberta gli
concesse
quella finzione sperando che la sua allegria risollevasse il morale
della ragazza
e la traesse fuori dai guai.
«No, quale
modella…»
Ivonne non gli concesse nemmeno il
piacere di vederla arrossire: si concentrò sul suo piatto e
liquidò il
complimento con una stretta di spalle. Paolo non si perse
d’animo.
«Le ho detto che potresti
benissimo
lavorare per qualche agenzia, che hai proprio il fisico dei manichini
esposti nei
negozi.»
«Una volta ho letto da
qualche parte che
la taglia considerata standard per la popolazione è
progressivamente aumentata
nel corso degli anni, cioè che la quarantadue di adesso
corrisponde alla
quarantaquattro di anni fa.»
«Non penso ci siano dubbi
sul fatto che
tu abbia un bel fisico, lo dico oggettivamente, da quasi medico!
Mantenere una
certa linea è fondamentale.»
«Tu non ti poni questi
problemi, vero?»
si rivolse a Roberta con un sorriso strano, palesemente costruito.
Paolo ridacchiò e la
ragazza non poté
che adeguarsi all’atmosfera ilare, anche se quel sorriso e
quell’affermazione
le avevano procurato tutt’altro che allegria; era rimasta
raggelata, quasi come
qualche minuto prima nel vederla comparire sulla soglia della camera.
Non si trattava
di un’ironia bonaria, no. Quella che Ivonne le aveva appena
rivolto,
corredandola con un finto sorriso, era una vera e propria cattiveria.
«Ah ah, no.»
«Roberta non ci ha mai
parlato di te»
incalzava lui,
«sapevo solo che aveva cambiato casa.»
«Pensavo la
stessa cosa, sai? Non conosco nessuno dei suoi amici
d’università, a parte
qualche conoscenza comune.»
Si fermò un
momento, diede a Roberta un’occhiata che alla ragazza non
piacque affatto, poi
continuò a rivolgersi a Paolo.
«E da
quant’è
che state insieme tu e lei?»
Aveva poggiato
un gomito sul tavolo e si era sistemata in modo voltarsi tutta verso il
ragazzo. Roberta, che non aveva smesso di guardarla,
strabuzzò gli occhi a
quella domanda e si domandò che diamine avesse in mente;
Paolo, per fortuna, arrossì
tutto e scoppiò a ridere.
«Chi, noi
due?» indicò se stesso e l’amica.
«Non siamo buoni nemmeno nello studio,
figurarsi in coppia.»
«Io e Paolo
non siamo fidanzati, che dici!» sbottò Roberta.
Ivonne
ricambiò il suo sguardo con aria di sufficienza, tornando a
concentrarsi sul
suo piatto.
«Scusa,
pensavo solo… visto che non stai con nessuno, ad un tratto
mi trovo lui qua…»
L’altra fu sul
punto di lasciar cadere le posate e alzarsi di scatto, per intimarle di
smetterla e domandarle a che gioco stesse giocando. Tenne le labbra
serrate per
non lasciarsi sfuggire nulla di compromettente, ma fra sé
rimuginò a lungo su
quanto fosse infantile quel modo di reagire: una ripicca, non era
nient’altro
che questo, un sotterfugio per vendicarsi, per fargliela pagare; che
cosa le
avesse fatto ancora non riusciva a capirlo – permettere ad un
suo amico di
pranzare assieme a loro non le sembrava una motivazione sufficiente per
giustificare quel comportamento – ma in cuor suo
stabilì che non appena Paolo
avesse varcato la soglia del portone gliene avrebbe dette di tutti i
colori.
Roberta non
era un tipo vendicativo, il suo carattere era piuttosto estroverso e
impulsivo,
cosa che la portava a cercare sempre il confronto con
l’avversario e il dialogo
con l’amico. Quando veniva meno la componente diretta, lo
scontro o il concilio
che fosse, Roberta s’innervosiva parecchio e cominciava a
covare in sé un forte
risentimento. Non era però rancorosa e due parole dette con
sincerità sarebbero
bastate a renderla un agnellino mansueto, a farle dimenticare tutto
quanto,
ogni screzio od incomprensione. Anche se più volte si
lamentava fra sé di
Ivonne, Roberta le voleva sinceramente bene e si dispiaceva nel vederla
star
male, chiusa in un silenzio impenetrabile: sapeva che per lei non era
affatto
facile comunicare, Ivonne si rintanava spesso in un mondo fatto di
pensieri e
supposizioni, di dettagli anche insignificanti che maceravano
lentamente nella
sua mente conducendola verso strade sbagliate. Per questo era
essenziale che la
si scuotesse, che la si riportasse alla realtà, esponendola
al contatto con ciò
che non era solo frutto dell’immaginazione, con i dati
concreti.
Però quella
cattiveria gratuita non riuscì proprio a mandarla
giù; fu silenziosa e
accigliata per tutto il resto del pranzo, rispondendo quasi a
monosillabi e
covando sempre più risentimento ogni qualvolta incrociava lo
sguardo di Ivonne
e vi leggeva soddisfazione e rinnovata impertinenza. Si
ritrovò a pensare, con orgoglio,
che lei poteva essere indelicata e prepotente alle volte, ma perlomeno
non
doveva ricorrere a quei mezzucci infantili per comunicare con
un’altra persona,
preferire le frecciatine indirette a una discussione franca.
«Ti è piaciuto
il pranzo?»
«Sì, certo,
solo che ora devo proprio andarmene. Vi ho disturbate anche
troppo.»
«Non lo prendi
il caffè?»
Ivonne
continuava a mostrarsi gentile e disponibile nei suoi confronti,
tenendo sempre
su quel sorriso di cortesia che celava in realtà il
desiderio che si levasse di
torno al più presto.
«No, no,
grazie, non lo prendo, non mi piace.»
Paolo s’infilò
il giubbino e prese in mano la borsa contenente libri e quaderni, poi
baciò
sulle guance sia lei che Roberta e fece per abbassare la maniglia del
portone.
A metà strada verso il pianerottolo si sporse verso
l’interno e disse:
«Magari
qualche volta possiamo uscire assieme, eh? Che dici, Roberta?»
«Oh sì,
certamente! Tanto ormai…»
Lei era seduta
sul divano del salotto, l’aria abbattuta e irritabile, e
rispose pensando fra
sé che quel momento non sarebbe giunto mai, non se ogni
intrusione da parte di
estranei doveva provocare quel terremoto nel loro già
fragile rapporto. Quando
Paolo richiuse il portone e le lasciò da sole,
l’atmosfera si raggelò
immediatamente.
Ivonne
preparava il caffè con diligenza e tranquillità e
il rumore delle tazzine e
della caffettiera erano gli unici suoni udibili. La loro casa non era
molto
grande: l’ingresso dava immediatamente sul salotto
– composto da una poltrona,
un divano e la televisione – e la cucina era subito a
sinistra, separata dal
resto della casa da una vetrata a scorrimento; più avanti
c’era la camera da
letto – solo una, con letto matrimoniale, in quanto vi aveva
abitato lo zio di
Ivonne con sua moglie, prima di trasferirsi a Pompei – e il
bagno, oltre che un
piccolo studio multifunzionale. Roberta poteva perciò
osservarla stando seduta
sulla poltrona, a braccia conserte e con la fronte aggrottata.
Era giunta ad
un punto in cui non sarebbe più stata disposta a tornare
indietro, ad
accomodare le cose; non le era piaciuto per niente
l’atteggiamento della
ragazza, non le era mai capitato di doversi sentire così
ingiustamente
accusata. Quello era un altro aspetto che la mandava fuori dai
gangheri, al
quale tentava spesso di non pensare, ma che in situazioni esasperate
come
quella riemergeva prepotente e la privava di qualsiasi comprensione.
Non trovava
affatto giusto dover recitare sempre la parte della cattiva,
soprattutto perché
non si sentiva colpevole di nulla. Ivonne aveva in sé una
naturale tendenza a
demoralizzarsi, caratteristica che assumeva, in condizioni estreme, i
connotati
di un dichiarato vittimismo. La stava trattando con freddezza, come se
le fosse
stato recato chissà quale torto, come se stesse aspettando
null’altro che delle
scuse sentite; Roberta si arrabbiava pensando che andava a finire
sempre così:
lei la perdonava, dimenticava di far luce su tutte quelle oscure
allusioni,
quei comportamenti strani e ambigui, l’assecondava e la
ricopriva di attenzioni
in nome del quieto vivere e della ritrovata calma. Quella volta
però avrebbe
puntato i piedi, soprattutto perché le frecciatine non le
erano piaciute
affatto – era un po’ sovrappeso, e allora? Era
chiaro che fosse Ivonne la più
bella, fra loro due, ma non per questo era autorizzata a farglielo
pesare – e
le era rimasto un senso di amaro in bocca, come di delusione: era
davvero
quello il loro rapporto, il loro stare insieme? Litigare, non dirsi
nulla e
covare cattiverie fino all’esasperazione?
«Ecco qua.»
Ivonne poggiò
il vassoio sul tavolino del salotto e si sedette sul divano,
premurandosi di
versare due cucchiaini di zucchero nella propria tazzina e
metà in quella
dell’altra ragazza. Le diede un’occhiata veloce
prima di portarsela alle labbra
e si accorse, nel farlo, che le tremavano le mani. Sapeva che Roberta
doveva
essere molto arrabbiata, sapeva benissimo di aver esagerato, sapeva di
essere
dalla parte del torto e nonostante ciò pregava ancora che la
ragazza non
dicesse nulla e lasciasse passare del tempo; si sarebbe fatta perdonare
–
riconosceva di essere stata troppo aggressiva nei suoi confronti
– ma in un
secondo momento, non ora che si trovava nell’occhio del
ciclone.
Il desiderio
di rimandare il confronto si scontrò col silenzio di
Roberta, a cui non era
abituata: la ragazza non aveva fatto una piega e non pareva
intenzionata a
servirsi. Sapendo di commettere un atto suicida, le domandò:
«Non lo bevi?»
Si accorse di
aver la voce ridotta ad un soffio e capì di avere una paura
immensa di una
qualsiasi risposta, di una possibile reazione aggressiva. Fu
però troppo tardi
per rimandare la discussione. Roberta la guardò per un lungo
attimo senza dire
nulla, poi allungò la mano per prendere in mano la tazzina e
disse:
«Mi pare
evidente che c’è un problema.»
Non sembrava
intenzionata ad alzare la voce, né a darle addosso con
parole veementi;
sembrava invece preferire un tono lucido, controllato e chiaramente
deluso.
«Forse sarò
stupida io a non averci
capito niente… però, se ti comporti in questo
modo – che nemmeno le mie
cuginette di sei anni, Ivonne – significa che qualcosa
c’è, qualcosa di grave,
presumo.»
Bevve un primo sorso,
tirò un sospiro e
chiese:
«Allora, che cosa
vogliamo fare?»
«Che significa?»
«Che cosa devo fare?
Dimmi tu, che cosa
devo fare, devo chiederti scusa?»
Ivonne sentiva il peso di quello
sguardo
compassionevole schiacciarla e la consapevolezza di essere stata del
tutto
patetica invaderla sempre più. Si mosse un po’ sul
suo posto, nervosa, sperando
di riuscire a chiudere in fretta la conversazione.
«No, non devi. Non devi
fare niente.»
«E allora che cosa
vuoi?»
«Niente, non voglio
niente.»
«E sì, mi pare
logico. Prima tutte
quelle storie e poi niente.»
Poggiò la tazzina sul
tavolo e si sporse
nella sua direzione.
«Ivonne, non puoi fare
sempre così ogni
volta che c’è qualche cosa che non va…
A me dispiace arrabbiarmi con te.»
Già la rabbia si
diradava: quello che le
importava di più, in quel momento, era riuscire a far
parlare Ivonne una volta
per tutte; sapeva che in fondo non era nemmeno colpa sua.
«Io sono fatta
così, ho bisogno di
parlare, ho bisogno di un confronto, di sapere che cosa
c’è che non va dalla
tua bocca, non dagli altri… o magari sono stupida e non so
capire, allora
aiutami, no?»
Ivonne evitò di
guardarla e afferrò i
manici del vassoio, intenzionata a riportarlo in cucina.
«Ho da lavare i piatti,
parliamo più
tardi.»
«Più tardi
cosa?» esclamò Roberta, alzando
la voce e tenendola ferma per un braccio. «Ma allora
è proprio una fissa,
allora non me lo vuoi dire che cos’hai, eh?»
Non sopportava
quell’intenzionale
esclusione, questo la faceva andare fuori di testa. Ivonne non rispose,
non
reagì a quel gesto energico; teneva però le
labbra strette e in tutti i modi
evitava il suo sguardo.
«Allora?»
provò a domandare con più
gentilezza Roberta, scuotendola lievemente.
«Mi lasci?»
sbottò infine lei.
La disposizione al perdono della
ragazza
veniva meno nel momento in cui la conciliazione veniva rifiutata;
allora
Roberta, agendo d’istinto, non ci vedeva più dalla
rabbia e cominciava ad innervosirsi
sul serio.
«Ah, allora è
così, è così che
funziona?» le tolse dalle mani il vassoio, facendolo tornare
sul tavolo. «A
questo ti servo, a scaldarti il letto quando fa freddo? Giustamente,
ora arriva
l’estate e non c’è più
bisogno di nulla! Ma dico io, cosa pensi? Di poter stare
chiusa nel tuo mondo, con le tue cose e di arrabbiarti con me
così, di punto in
bianco? Io non ti ho fatto niente, Ivonne, io non ti ho fatto
nulla!»
Nonostante le grida, la
concitazione,
Ivonne non si mosse. Continuò a guardare dritta davanti a
sé con aria
impassibile, come se volesse fare di tutto per non ascoltarla, per non
farsi
investire da quelle parole; riuscì a non piangere e a non
farsi sfuggire nulla,
nemmeno una mezza parola che potesse tradire i suoi reali pensieri.
Quando
Roberta si fu sfogata le spostò la mano che le aveva
afferrato il polso e si
alzò, dirigendosi verso la cucina col vassoio in mano.
Una cosa del genere non era mai
capitata, pensò la ragazza, osservandola andare via con aria
sbalordita: di solito,
nel bel mezzo di quelle violente discussioni, Ivonne scoppiava in
lacrime o
aveva dei ripensamenti e confessava tutto – o una parte del
tutto, quella meno
onerosa – o ancora chiedeva perdono per essersi lasciata
trasportare da quelli
che chiamava “brutti pensieri”. Il non ricevere
alcuna reazione la spiazzò completamente
e si ritrovò a fissare la propria fidanzata allontanarsi con
tanto d’occhi. La
spontanea reazione che seguì quel momento fu una rincorsa
rapida e
raffazzonata.
«Aspetta, aspetta, ti
aiuto io» disse,
sistemandosi accanto a lei.
«D’accordo,
prendi le posate.»
Presero a sciacquare le stoviglie
con
spugna e detersivo e farle scorrere sotto l’acqua, senza
parlare. Ivonne
sentiva un impulso fortissimo che la spingeva a smettere
quell’incomprensibile
silenzio e abbracciare la sua ragazza e baciarla sulla bocca e farsi
dire che
quella era stata soltanto una brutta giornata, soltanto
un’altra brutta
giornata, ma qualcosa di più prepotente le imponeva di
continuare in quel modo:
se la ferita doveva arrivare, era meglio che fosse data da una
stilettata
profonda e rapida, in modo che potesse abituarsi meglio al dolore. Non
poté
evitare, nella sua coraggiosa resistenza, di fremere intimamente alle
parole
della sua ragazza.
«Forse ho capito di che
si tratta»
affermò questa, improvvisamente lucida.
«Dimmi.»
«Tu vuoi che la finiamo
qui, o no?»
domandò, dandole un’occhiata di sottecchi per
controllare la sua reazione. «O
almeno, così mi pare di capire.»
«Tanto sembra che non sia
nemmeno una
cosa ufficiale, o mi sbaglio?» Ivonne non riuscì a
trattenersi, quell’omissione
le aveva dato troppo fastidio per non farglielo notare.
Roberta emise un sospiro, forse in
cuor
suo sollevata per aver almeno tirato fuori uno dei motivi del suo
silenzio; non
le piaceva affatto l’Ivonne fredda e impassibile di poco
prima.
«Va bene, forse hai
ragione. Però
capiscimi, non è una cosa facile… per me
è diverso, a te sono sempre piaciute
le ragazze. Non è che posso uscirmene così e dire
che siamo fidanzate, no?»
L’argomentazione era
talmente debole che
la stessa Roberta si sentì in dovere di aggiungere:
«Lo so, lo so che ho
sbagliato e non è
stata una bella cosa da parte mia, lo so. Scusami.»
«Forse non ti senti
così sicura nemmeno
tu. In tal caso, va bene. Cioè, lo capisco. È una
motivazione più accettabile.»
Anche se continuava a parlare in
quel
modo distaccato, Ivonne cominciò lentamente a cedere; la
verità era che la
paura di quella frase, di quella conclusione drastica – alla
quale comunque
aveva intenzione di arrivare, ma per la quale non era ancora pronta
– l’aveva
tanto impressionata da farle dimenticare tutto quanto, tutta la
strategia
maturata per portare finalmente a galla la verità, quella
che teneva nascosta e
sigillata sotto carezze, abbracci, baci, parole dolci in modo da
auto-ingannarsi.
Si rimproverò per non essere stata capace di andare fino in
fondo, ma quello
che provava per Roberta, che fosse rancore, sfiducia, amore, affetto o
amicizia
era stato più forte di lei. Non era affatto brava a gestire
le emozioni:
Roberta si lasciava pienamente investire, lei le valutava da lontano,
cercava
di resistervi o vi si abbandonava, riservandosi sempre una via
d’uscita; alla
fine, però, rischiava di perdere il controllo e farsi
sopraffare.
«Non è
questo… perché dici così? Non ti
fidi di me? Non pensi che provi qualcosa per te?»
Dovendosi accordare
all’umore della sua
ragazza, Roberta aveva fatto l’abitudine a veder mutare una
situazione sotto i
suoi occhi nella sua totalità, a passare dal bianco al nero,
a ruotare di
centottanta gradi nel giro di pochi minuti. Ne usciva sempre un
po’ barcollante,
ma ci aveva preso la mano.
«Non lo so.
Forse… non so.»
Restavano però dei casi
in cui le scosse
erano troppo violente e la ragazza non era in grado di prendere le
adeguate
contromisure. I suoi nervi, per quanto allenati alla pazienza, avevano
un punto
di rottura. Smise di lavare le sue posate, lasciò andare la
spugna e fissò per
un lungo istante la sua ragazza, sbalordita. Cosa si doveva rispondere
a quella
mezza confessione? Doveva arrabbiarsi, doveva costringerla a tirar
fuori tutto
quanto, spiegarle i motivi di queste sue insicurezze, ma in nome di che
cosa?
Se veniva meno la componente basilare, se Ivonne non credeva di provare
più
qualcosa per lei, tutte quelle discussioni, quei tentativi non avevano
valore.
Si diresse verso il corridoio,
nello
studio. Sedette fra i libri, il portatile e le pile di panni in fase di
stiraggio. Ancora una volta era costretta a passare per la strega
cattiva della
situazione; ancora una volta era tutta colpa sua; ancora una volta, era
lei ad
essere stata manchevole di qualcosa; ancora una volta Roberta non
capiva dove
stesse andando a parare la sua fidanzata – forse
sì, qualcosa aveva intuito, ma
non lo riteneva sufficiente per prendersela con lei in quel modo
– e
soprattutto si domandava quale fosse la cosa giusta da fare. Doveva
perdonarla,
doveva tornare da lei e dimostrarle che tutto ciò che
pensava erano fandonie, fugare
tutti i suoi dubbi? O doveva, per una volta, prendersi del tempo per
pensare,
per riflettere sul fatto che arrivati a quel punto non sapeva
più nemmeno lei
quali fossero i suoi sentimenti verso Ivonne?
Si era sistemata lì
perché sperava di
essere lasciata in pace – almeno per una volta – e
fingere di aver ripreso a
studiare. Ma Ivonne la seguì immediatamente, affacciandosi
alla soglia;
dall’espressione che aveva si poteva intuire quanto anche lei
fosse confusa.
«Ma che cosa devo fare,
insomma?» la
voce di Roberta cominciava ad incrinarsi. «Sbaglio sempre! In
ogni modo
sbaglio, dimmelo tu che cosa vuoi che faccia!»
Si fermò per non
scoppiare in singhiozzi
senza ritegno, preferendo lasciare che le scivolassero delle lacrime
sulle
guance. Ivonne le si avvicinò leggera, sedendosi accanto a
lei e prendendole
una mano fra le sue; vi posò sopra un bacio e poi
allungò le braccia per
stringerle attorno al suo corpo, carezzandole i capelli e la schiena.
«Io non lo so
più, che cosa devo fare,
non lo so più.»
Si trattava di un rimprovero e di
un’ammissione di resa insieme, del desiderio di chiarire una
volta per tutte
quel giro contorto di parole. Ivonne le spostò con premura i
capelli dalla
fronte e vi premette sopra le sue labbra, per poi baciarla sulla bocca.
L’iniziale
passività di Roberta si risolse in appassionata
partecipazione, quando entrambe
sembrarono riprendere confidenza l’una con l’altra
e ricordare come si faceva,
com’era semplice dimostrarsi affetto, come ogni resistenza
innalzata veniva
demolita, com’era piacevole starsene acquattata fra le
braccia della propria
compagna e baciarsi, senza dover spiegare nulla, senza dover
giustificare ogni
azione.
La mortificazione di Ivonne era
grande
quasi quanto la confusione di Roberta che, intorpidita dal piacevole
calore
dell’altra, non disse nulla, limitandosi a regolarizzare il
respiro. Ivonne era
consapevole di aver ceduto alla paura di vedersela sfuggire fra le mani
e di
non essere mai stata così vicina alla realizzazione dei suoi
timori; sapeva
che, giunta a quel punto, sarebbe dovuta andare oltre e portare il loro
rapporto ad un’inevitabile rottura, ma non ne era stata
capace, non aveva
saputo resistere. Il pensiero di una futura delusione non aveva potuto
battere
ciò che provava.
«Che facciamo?»
chiese piano Roberta.
Ultimamente ciò che
mancava loro era la
spontaneità. Ivonne riprese a baciarla, tenendole il viso
fra le mani,
prolungando il più possibile quell’attimo di
tenerezza. Roberta non la
respinse, ma le permise di abbracciarla e la portò sulle sue
gambe, quasi
tenendola in braccio; i dubbi che le avevano offuscato la mente e
inumidito gli
occhi si erano dissolti e la ragazza non ne aveva memoria, beata
com’era fra le
braccia della sua fidanzata.
Ivonne le accarezzava i capelli e
il
viso con movimenti leggeri, com’era sua consuetudine, ma non
aveva dimenticato
quel che era accaduto prima, così come sapeva che quel
momento di tenerezza,
pur se sincero e intenso, non sarebbe bastato a scacciar via lo spettro
di
quella brutta mattinata. Si pentì di aver dato ascolto alle
malignità delle sue
amiche e aver lasciato che le sue ansie riguardo il futuro
compromettessero
ingiustamente i momenti felici che poteva ancora trascorrere insieme a
Roberta.
Pensò che avrebbe lasciato andare le cose nel modo in cui
dovevano naturalmente
accadere, senza preoccuparsi troppo e senza intervenire ad affrettare o
rallentare gli eventi.
Restarono per un po’ di
tempo in
silenzio, l’una in braccio all’altra sulla sedia
mobile dello studio, a
guardarsi negli occhi, scambiarsi affettuosità e mormorarsi
scuse miste a
parole sdolcinate – così tipiche del linguaggio
degli innamorati ed
incomprensibili ad estranei – fino a che non raggiunsero una
calma interiore
tale da bilanciare i precedenti eventi.
«Questa stanza fa un
po’ schifo»
commentò Ivonne, dando una rapida occhiata alle sue spalle,
alludendo ai
vestiti ammucchiati su una sedia, in attesa di essere stirati, ai libri
sparsi
in disordine, alla polvere sulla scrivania visibile ad occhio nudo.
«Dovremmo darle una
pulita» asserì
Roberta.
«Che cosa ti va di fare,
stasera?»
«Tu vuoi andare a
ballare.»
«E tu vuoi andare al
cinema.»
«Oh, ci conosciamo
bene.»
Risero insieme e Roberta
sbadigliò,
assonnata. Stiracchiò le braccia e chiese:
«Volevi uscire con le tue
amiche,
forse?»
«No, non ci siamo date
appuntamento. Non
avevo fatto programmi.»
«Ti sei divertita,
stamattina?»
«Sì,
abbastanza. Sono stata con Valeria
e Clotilde» ammise Ivonne, arrossendo un po’.
«Sì,
l’avevo capito dal fatto che non
volevi dirmi niente. Ma guarda che puoi uscire con chi ti pare. Solo
che le tue
amiche a me proprio non piacciono.»
Ci pensò un momento, poi
aggiunse:
«Anzi, credo che nemmeno
io sia molto
apprezzata fra loro.»
«Be’, diciamo
di sì. È solo che avete la
testa dura.»
«Chi?»
«Tu e Valeria.»
«Quella mi odia proprio,
no?»
«Ora non
esagerare…» Ivonne si accoccolò
meglio contro la sua spalla, incoraggiata a rivelarle tutto
dall’atmosfera
rilassata. «Abbiamo
fatto due passi per il viale e mi hanno raccontato che Clotilde forse
va in
Spagna. Per questo motivo si sono lasciate. Dicono che così
risparmiano tempo e
seccature inutili.»
Piano piano Roberta cominciava a
capire
da dove venissero fuori gli strani ragionamenti di Ivonne. Prima di
esprimere
il suo giudizio, lasciò che finisse di parlare.
«Sembravano molto lucide
e tranquille.
Questa cosa mi ha proprio scombussolato.»
«Ho notato, ho
notato» confermò con un
sorriso. «Scommetto che hanno anche detto che sono grassa,
è vero?»
Ivonne nascose di più la
faccia fra i
suoi capelli, ridendo e lamentandosi al tempo stesso, mentre Roberta
sogghignava divertita.
«No, questo no.»
«Ah, quindi sei tu che lo
pensi.»
«Io non penso proprio
nulla. È stata
solo una stupida ripicca che spero non mi rinfaccerai mai
più, perché vorrei
non averlo mai detto.»
«Sbagliamo tutti, Ivonne.
Anche
Valeria.»
Lei rise e scivolò
giù dalle sue gambe,
aiutando anche Roberta ad alzarsi. Uscirono dalla stanza per dirigersi
l’una in
bagno, l’altra in camera da letto con l’intento di
farsi una lunga dormita.
Prima che potesse oltrepassare la soglia della camera, però,
Roberta le si
avvicinò, la prese per le mani e le diede un bacio.
«Possiamo farcela, eh?
Un’altra
possibilità.»
«Un’altra
possibilità…» ripeté Ivonne.
«Allora, dove vuoi che
andiamo?»
«Ti va un giro al centro
commerciale?
Così, in verità, non abbiamo nemmeno il problema
di che cosa cucinare stasera.»
«D’accordo, va
bene.»
Ivonne si chiuse nel bagno,
lasciando
che l’altra andasse a riposare. Era in parte euforica per la
complicità e
l’apparente serenità ritrovata, ma non aveva
dimenticato i brutti pensieri che
l’avevano spinta a comportarsi in quel modo. Il semplice
fatto che avesse
preferito illudersi ancora, piuttosto che affrontare la
verità nella sua totalità,
non le garantiva alcuna certezza: come sempre, aveva paura che Roberta
intuisse
i suoi veri sentimenti, o più semplicemente aveva paura che
i suoi timori si
avverassero. La rappacificazione portò una ventata di
rinnovamento nel loro
rapporto – di certo una sensibilità e
un’attenzione tutta speciale, almeno per
i primi giorni – e Roberta stessa si scoprì
improvvisamente più arguta, più
abile nel capire cosa passasse per la testa della sua fidanzata. Non le
ci
volle molto per scoprire ciò che stava alle fondamenta dei
suoi dubbi.
Uscirono di casa non prima delle
sei e
mezza: il pisolino pomeridiano di Roberta durò a lungo e
Ivonne, nel frattempo,
mise un po’ d’ordine nello studio, separando i loro
libri e togliendo dalla
circolazione gli indumenti già piegati e stirati.
Svegliò l’altra ragazza
quando il sole non era più così alto nel cielo e
la gente si arrischiava a
mettere il naso fuori di casa; persero una buona mezz’ora per
prepararsi,
alternandosi allo specchio, finché Ivonne non
dichiarò di essere pronta e scese
a prelevare l’auto dal garage.
Mentre aspettava che Roberta la
raggiungesse si domandò come comportarsi riguardo il
messaggio che le era
giunto ore prima, in cui Valeria l’invitava a farle sapere se
volesse
raggiungere lei e le altre ragazze del gruppo, più tardi,
per passare insieme
la serata in un pub; naturalmente l’invito era stato
esplicitamente esteso
anche a Roberta e Ivonne si divertiva nell’immaginare quanto
sofferta fosse
stata quella decisione, da parte dell’amica. Inizialmente,
sull’onda della
ritrovata quiete, aveva pensato di parlargliene e cercare di
convincerla, ma
riflettendoci si era detta che non sarebbe stato saggio scombussolare
nuovamente la situazione: non era sicura che Valeria o la sua fidanzata
sarebbero state capaci di tenere a freno la lingua e per quella
giornata ne
aveva avuti abbastanza, di litigi.
«Eccomi, avevo scordato
di chiudere le
persiane.»
Roberta la raggiunse, sedendosi al
suo
posto e allacciandosi la cintura. Le sorrideva con entusiasmo e quel
dettaglio
le fece sperare di poter ambire ad una serata tranquilla; contagiata
dalla sua
allegria, si rianimò e mise in moto.
«Mongolfiera?»
chiese.
«Per forza. A meno che tu
non abbia
altre idee.»
«No, no,
andiamo.»
La tentazione di proporre la
rimpatriata
col gruppo svanì subito, sostituita dal desiderio di
trascorrere una serata
normale assieme alla propria ragazza. Giunsero presto al parcheggio, ma
faticarono non poco per trovare un posto libero, ripetendo il giro
della piazza
più volte.
«Guarda quanta
gente…» commentò Roberta.
«Tutti qui vengono, sabato e domenica.»
Alla ragazza non piaceva troppo
l’idea
di rinchiudersi là dentro e Ivonne dovette intuirlo,
perché specificò:
«Nemmeno a me piace
troppo. Se vuoi ci
giriamo e andiamo a fare quattro passi sul corso, almeno stiamo al
fresco.»
«C’è
da fare la spesa, però… Ah, ma devo
comprare i dolci per mamma!» si ricordò
improvvisamente l’altra, levando una
mano. «Mi ero proprio dimenticata che domani devo tornare a
casa.»
«Allora andiamo al
supermercato,
mangiamo qualcosa e poi usciamo?»
«Sì,
sì, va bene…»
Esultarono per la provvida
retromarcia
di un’automobile che permetteva loro di infilarsi nel posto
lasciato libero e
smettere finalmente quel girotondo nel piazzale. Scesero, raccolsero le
borse e
le chiavi e si avviarono verso il centro commerciale.
Roberta trotterellava al fianco di
Ivonne con aria pensosa. Aveva completamente scordato che fosse sabato
e che
l’indomani fosse attesa a casa per un pranzo domenicale alla
vecchia maniera;
andava a far visita a suo padre e sua madre una settimana sì
ed una no,
curandosi sempre di portare qualcosa di buono da mangiare –
del gelato, un
vassoio di paste, panettoni o colombe, a seconda del periodo
– e vi rimaneva
per tutta la domenica facendo ritorno a Foggia la sera, con
l’ultima corsa del
pullman.
«Me n’ero
proprio scordata…» ripeté fra
sé.
«Te ne sei dimenticata
perché due
settimane fa hai mancato l’appuntamento, che siamo andate da
tuo fratello, a
Chieti.»
«Hai ragione, hai
ragione! Ecco perché
non mi tornavano i conti… accidenti che bello che
è stato, vero?»
«Sì, tuo
fratello è gentile.»
Ivonne l’aveva preso
subito in simpatia:
aveva qualche anno in più della sorella e aveva accettato
senza fare una piega
– o perlomeno, non manifestando alcuna riserva – la
loro relazione. Non era
sicura dell’opinione che si fosse fatta a suo riguardo, se la
considerasse un
incidente di percorso, una distrazione o un capriccio della sorellina,
ma si
era comportato in maniera educata. Aveva anche acconsentito a farle
dormire
assieme nel divano-letto.
«L’ultima volta
che l’avevo visto era
stata poco prima di Carnevale, quando ancora non stavamo insieme. Me lo
ricordo, perché mentre ero lì a mangiare con i
suoi amici mi arrivò un tuo
messaggio, che mi chiedevi se avevo dei libri da prestarti.»
Sogghignò e aggiunse:
«Che razza di
scusa.»
Ivonne rispose con una smorfia,
attraversando la porta ad apertura automatica e prendendola
sottobraccio.
«Non era una scusa, i
libri mi servivano
sul serio.»
«E guarda caso, con tutti
gli studenti
più avanti di te che conosci, dovevi chiedere a
me.»
«Cercavo di essere
discreta. Non come
te… mi ricordo un certo pomeriggio in cui ci siamo messe a
guardare la
televisione, quando abitavi ancora nella vecchia casa, che non si
capiva se
stavi dormendo sul serio o se cercavi di strusciarti contro di
me.»
«Non sono mai stata una
grande
diplomatica… era un periodo di sregolatezza. Altro che
primavera.»
«Allora andiamo prima al
supermercato?»
S’inoltrarono alla
ricerca di pasta a
buon prezzo, cereali e biscotti, confezioni d’acqua gassata
– ma non troppo,
insisteva Ivonne – e frutta di stagione quali ciliegie,
meloni e nespole, prima
che Roberta ricevesse una folgorazione e ricordasse che avevano
terminato il
latte proprio quella mattina. La sosta di fronte al frigorifero
portò nel
carrello delle ragazze anche una nuova confezione di yogurt, del
formaggio
fresco e un pacco di ravioli con ripieno di ricotta e spinaci.
«Lo so che fanno schifo e
non si sa che
ci si mette dentro, ma può sempre fare comodo un pasto
pronto!» si giustificava
Roberta.
Ma Ivonne era già
proiettata verso i
surgelati e la ragazza dovette affrettarsi per raggiungerla. Sembrava
di nuovo
in pensiero e, per evitare che passasse troppo tempo a rimuginare fra
sé, cercò
di distrarla.
«Tu che fai domani? Vai
da tua madre?»
«No, macché!
Che vado a fare, torna mia
sorella Anastasia dall’Inghilterra,
figurati…»
«Appunto, vai a salutarla
e mangi da
loro.»
Raccolta una confezione di spinaci
dal
freezer, Ivonne dichiarò che la retata poteva considerarsi
conclusa e indirizzò
il carrello verso la cassa.
«Ma vacci da tua madre,
dai! Fai come
me, comprale un vassoio di dolci e domani state insieme.»
«A mamma non piacciono i
dolci. Solo e soltanto
ghiaccioli, meglio se alla menta.»
«Ghiaccioli?»
Si lasciò scappare un
sorriso, di fronte
alla sorpresa di Roberta. Poggiarono insieme tutta la spesa sul nastro
trasportatore e si spostarono in avanti per pagare. Ogni volta che era
costretta a rivelare qualcosa in più sulle stravaganti
abitudini di sua madre
vedeva il proprio interlocutore rimanere interdetto e trattenere sulla
punta
della lingua considerazioni veritiere, ma giudicate indelicate dal
comune senso
etico.
«Lo so, lo so»
proseguì, trascinando le
buste verso l’uscita del centro commerciale: avevano deciso
di poggiarle in
macchina, tornare dentro e stabilirsi ad un tavolino, mangiare e poi
rifugiarsi
nella solita piazza Cavour, passeggiando per il viale e magari comprare
un
gelato. «Non sai quante volte m’imbarazzavo, da
piccola, quando venivano le mie
amiche a giocare a casa.»
«Dev’essere un
tipo interessante.»
«Mah, non so.
È un po’ euforica, molto
eccentrica. Le è sempre piaciuto giocare a far Mrs. March
con noi. Però è
ancora una bella donna e almeno non si lascia andare.»
Roberta comprese di essere riuscita
ad
allontanare eventuali pensieri spiacevoli quando la vide sorridere fra
sé e
alimentare ancora il discorso, segno che non era affatto a disagio, per
una
volta, a rivelarle qualcosa della sua famiglia; sapeva molto poco: sua
madre e
suo padre erano separati da un bel po’ di tempo, la madre
viveva a Foggia
insieme alle due figlie più piccole e in casa loro si
mangiavano sempre un
sacco di cose strane.
«Pensa che mia sorella
Damiana ha deciso
di abbracciare la religione ebraica… Dovresti vederle!
Stanno cercando di fare
il pane azzimo in casa, ma i risultati non sono stati
granché, per ora. Già so
che festeggeremo lo Shabbat.»
«Perché vuol
diventare ebrea?»
«Ma che ne so, secondo me
guarda troppi
film. I fratelli Coen, cose così… e poi telefilm
pieni di sangue, sesso, tutto
lei. Mi manda sempre messaggi dicendo di guardarmi quello nuovo che
fanno il
weekend, ora esce l’ultima puntata. Ma non è cosa
mia.»
«Damiana è la
più grande?»
«No, Damiana è
la quarta, la più grande
è Sissi… cioè, Anastasia.»
Nel frattempo avevano terminato lo
scarico delle buste e si erano nuovamente intrufolate nella struttura
alla
ricerca, quella volta, di un punto ristoro. Roberta la tirò
con decisione in
direzione del McDonald’s, scelta a cui Ivonne scelse di
opporsi storcendo il
naso e facendo un sacco di smorfie quando fu il momento
dell’ordinazione a base
di coca-cola, patatine e un panino dal ripieno inquietante. Lei scelse
di
accontentarsi di un trancio di pizza e, sedute l’una di
fronte all’altra, per
qualche momento non parlarono più, impegnate a mangiare.
Ivonne si divertì molto
nel prendere in
giro Roberta riguardo i suoi tentativi di mordere il suo panino a
più piani
senza risultare sgraziata, oltre che nel ricordarle quanto poco
salutare fosse
quel tipo di pasto.
«Senti, ho fame, e quando
ho fame a me
non importa che cosa mi stia davanti.»
«Non va bene
così, sai?»
«Non cominciare con le
tue sparate
salutiste!» l’avvisò prontamente.
«Conosco la tua politica, tu conosci la mia,
io rispetto le tue scelte così come pretendo che tu rispetti
le mie.»
«Come
t’infervori per queste cose…»
«Perché non mi
fai conoscere tua madre?»
«Cambi discorso,
Roberta?» ridacchiò
Ivonne.
«Rispondi alla
domanda» nemmeno l’altra
poté evitare di sorridere. «Perché non
me l’hai mai presentata?»
«Perché…
perché sarebbe un casino.»
«Sembra una persona
interessante… perché
diventi rossa?»
«No, non si
può fare. Tu non la conosci.
Comincerebbe a farsi idee strane.»
Il tono con cui aveva pronunciato
quell’ultima frase non era imbarazzato come quello adoperato
per le precedenti,
ma velato di una certa tristezza. Incerta se insistere o meno su quella
strada,
Roberta provò a lusingarla:
«Be’, sai, mia
madre fa l’impiegata
nell’ufficio del comune – ma i timbri sulle carte
d’identità come lei, nessuno!
–, tu mi parli di una donna completamente diversa. Le
assomigli?»
«Poco. Tutti mi trovano
strana, lo so,
però a ben guardare sono forse la più
normale.»
«E tuo papà?
Lo vedi?»
«Uhm, non tanto. Mi ha
mandato una
cartolina a Natale, poi basta.»
Intenerita dall’aria
loquace che
sembrava aver risvegliato nella sua ragazza, Roberta si credeva pronta
ad
intraprendere il discorso lasciato in sospeso a casa. Stava quasi per
coglierla
alla sprovvista, introducendo la considerazione che aveva meditato per
tutto il
pomeriggio, quando fu interrotta in maniera brusca. Una ragazza alta e
abbottonata in un giubbino di jeans dai bottoni vistosi sventolava una
mano e
si avvicinava rapida nella sua direzione, ondeggiando sui tacchi.
«Ciao Roberta!»
«Oh, è una mia
amica» borbottò sottovoce
ad Ivonne. «Devo salutarla, faccio subito.»
«Sì,
tranquilla.»
Ivonne si girò a
guardare le due ragazze
salutarsi con una certa curiosità; in meno di
un’occhiata aveva già deciso che
quella ragazza doveva essere una persona con la quale Roberta non aveva
molta
confidenza, dal poco cervello e, a giudicare dallo sguardo che le stava
riservando, una scarsa opinione della sua persona.
«Ciao!»
La ragazza non meglio identificata
oltrepassò Roberta, che pareva aver voglia di sbrigare la
cosa in fretta,
avvicinandosi a lei con un gran sorriso.
«Piacere,
Luisa.»
«Ivonne.»
«Sì, stavamo
mangiando qualcosa così,
poi andiamo a farci una passeggiata in città»
tagliò corto Roberta.
Non voleva che rispuntasse fuori il
problema del fidanzamento più o meno ufficiale, anche
perché non era del tutto
sicura di voler spiegare come stessero le cose a quella ragazza che
conosceva
pochissimo e della quale non aveva molta stima; era difficile
confessarlo a
Paolo, figurarsi ad una tipa del genere. Per questo cercò di
fare in modo che
se ne andasse al più presto.
«Allora magari ci vediamo
in giro, eh?»
«Sì,
sì, va bene.»
Ivonne aveva osservato con aria al
contempo divertita e pensosa la scenetta della sua fidanzata intenta a
scacciare l’intrusa, non risparmiandosi in cuor suo rimandi a
ciò che era
avvenuto quel pomeriggio. Quando Roberta tornò a sedersi di
fronte a lei con
uno sbuffo irritato, accorgendosi che doveva essersi innervosita non
poco,
provò a farla ridere:
«Carina, eh?»
«Sì, certo,
non so bene se è tutta
farina del suo sacco o una serie di strati di plastica su una scatola
vuota»
replicò, dando un’occhiata di traverso nella
direzione verso cui Luisa si era
allontanata.
Prima che Ivonne potesse aggiungere
qualsiasi cosa, mise le mani avanti e spiegò:
«Guarda che questa
è proprio una stupida
e se non ti ho presentato bene è solo perché non
mi va che… che le cose nostre
debbano essere di dominio pubblico, d’accordo? E comunque non
deve interessarle
nulla, hai visto che faccia che ha fatto? Solo perché hai i
capelli tagliati
corti ed è tutta invidia, lei un viso bello come il tuo se
lo sogna anche con
anni e anni di trattamenti, sembra che abbia fatto una lampada, solo
strati e
strati di fondotinta!»
Ivonne allungò una mano,
sorridendo
divertita, lusingata e intenerita, per stringere quella
dell’altra e fermare
quel flusso inarrestabile di considerazioni. Sembrava che si sentisse
in dovere
di giustificarsi a tutti i costi.
«Va bene così,
non devi fare la guerra
per me, eh?»
Roberta arrossì
violentemente, sia per
quel gesto affettuoso – ma nel complesso discreto –
del tenersi per mano
compiuto in pubblico, sia per lo sguardo che la ragazza le stava
lanciando: vi leggeva
malinconia e così non doveva essere, non voleva che la sua
arringa sembrasse
una scusa per celare il fatto che si vergognava di lei. Non era affatto
vero,
ne era più che certa e non voleva assolutamente che Ivonne
lo pensasse.
«Andiamo,
allora?»
Avevano terminato di consumare e
tornarono
nel parcheggio in silenzio, senza alcun apparente mutamento, senza
nessun peso
a gravare fra loro. Quando furono entrambe in macchina, dirette verso
casa,
dove avrebbero scaricato la spesa prima di scendere in strada a
compiere quella
famosa passeggiata, Roberta volle puntualizzare ciò che le
passava per la
mente, onde evitare che si potesse giungere ad una situazione
esasperata come
quella vissuta poche ore prima.
«Senti Ivonne, non voglio
che ti fai
idee strane: io non mi vergogno affatto di te.»
L’altra non rispose,
continuò a guardare
la strada e reggere il volante con aria impassibile. Roberta
rincarò, convinta
di non essere creduta.
«Non voglio che lo pensi,
perché non è
proprio vero. Io non ho da vergognarmi di nulla.»
Di cose da aggiungere ce ne
sarebbero
state tante, pensò Ivonne, ma volle limitarsi a farle eco,
fugando uno di
quelli che dovevano essere i dubbi della sua fidanzata.
«E tu non devi avere
paura delle mie
amiche. Guarda che io non ho mai pensato, nemmeno per un momento, di
preferire
una di loro – anche la più bella, la
più divertente, quella con cui ho più
confidenza – a te. Mai.»
Roberta accolse quella confessione
con grande
stupore. Poche volte aveva sentito Ivonne parlare in modo
così esplicito dei
sentimenti che provava per lei; le fu impossibile non arrossire, ma
notando che
anche le guance della sua ragazza si erano fatte più rosse
si sentì abbastanza
sicura da recuperare un minimo di spavalderia e ribattere:
«A me le tue amiche non
fanno paura.»
«Sì?
Dici?» la
ragazza alzò un sopracciglio con aria scettica, gesto al
quale Roberta non poté
opporre nessuna obiezione.
Sembrava
davvero che la rappacificazione avesse portato buoni frutti.
Camminavano
tenendosi per mano e scambiandosi occhiate complici, tutte cose che
riportavano
alla mente di Roberta i momenti iniziali della loro storia, quando
ancora non
si conoscevano troppo e il peso della quotidianità non
sembrava un problema,
piuttosto un traguardo da raggiungere. All’inizio era tutto
molto semplice, le
ragazze erano curiose l’una dell’altra e diveniva
importante condividere ogni
cosa, che fosse la più piccola, al fine di costruire
finalmente una loro
intimità, un loro mondo fatto di oggetti investiti di
significati personali e
parole e rituali privati, una bolla entro la quale rifugiarsi quando
l’esterno
diveniva grigio e annichilente; allora quella piccola sfera era per
loro una
fonte alla quale attingere per rigenerarsi.
Purtroppo il
tempo non era loro alleato, perché una volta lasciata
passare la prima fase,
quella più idillica, anche all’interno della bolla
cominciava a penetrare del
grigiore, la meccanicità dei gesti, veniva meno
l’entusiasmo. Tornare a casa
non significava più riabbracciare la propria amata, ma
rinchiudersi in un
silenzio nel quale cercare quella spinta rigenerante che sembrava
essere andata
perduta; che cosa poteva più offrire l’altra, una
volta che si scoprivano
difetti che inizialmente sembravano passabili e che poi diventavano
pecche
incolmabili, dalle quali prendere decisamente le distanze?
A Roberta il
carattere di Ivonne era sempre piaciuto, l’aveva da subito
affascinata perché
la distingueva dal resto delle ragazze che conosceva; quel suo modo di
fare
delicato e insicuro faceva da contraltare ai suoi metodi,
più bruschi e
diretti. Non che non si fosse mai accorta di quanto la sua ragazza
preferisse
tenere per sé i suoi pensieri, ma all’inizio
questa mancanza di dialogo veniva
compensata da una serie di gesti semplici e spontanei, per i quali
Roberta era
disposta a passar sopra a tutto. Quante persone conosceva che fossero
altrettanto premurose – in un modo non invadente e discreto,
una sorta di
vigilanza silenziosa – come lo era stata Ivonne con lei? Non
le aveva chiesto
nulla, la loro amicizia non era partita con alcuna roboante attrazione
sessuale
né con gelosie e provocazioni, Roberta si era solo accorta
di volerle
immensamente bene e di provare sentimenti particolari nel momento in
cui le
veniva carezzata una guancia o, come quella volta in
università, le veniva
offerta l’altra barretta delle merendine al caramello di cui
lei era
ghiottissima e che, per disgrazia, non aveva potuto comprare per
mancanza di
spiccioli.
Col passare del
tempo era come se Ivonne avesse perso gradualmente fiducia in se stessa
e nel
loro rapporto, questo Roberta l’aveva capito bene.
«Lo sai,
Ivonne» cominciò, facendosi seria e tirandosela
vicino per non dover alzare la
voce. «Ho pensato un sacco questo pomeriggio. Ho pensato che
questa situazione
mi ricorda tanto la prima volta in cui» abbassò
ancora la voce, «abbiamo fatto
l’amore.»
Ivonne corrugò
la fronte, perplessa riguardo il paragone.
«Ehm, non ti
seguo» ammise. «Cioè, mi ricordo bene
quel momento, non fraintendere! Solo non
capisco che vuoi dire.»
«Ti ricordi
che abbiamo dormito insieme, per la prima volta, a casa tua? Che non
avevo il
pigiama e faceva ancora freddo e così hai dovuto prestarmene
uno tuo che mi
andava anche un po’ stretto?»
«Certo! Mi ricordo
anche che la mattina dopo, a colazione, ci sei rimasta malissimo
perché non
avevo biscotti, ma soltanto cereali.»
«E quello
doveva essere un campanello d’allarme, ma lasciamo
stare… Io mi ricordo che,
messo a posto tutto quanto, raccattate le mie cose perché
c’era lezione, ti ho
detto che ti avrei chiamata più tardi. E tu sai che mi hai
risposto?»
«Sul momento
non ricordo, in verità.»
«Tu mi hai
detto: e perché? Ci sono rimasta malissimo, sai?»
«Davvero ho
detto così? Non me lo ricordavo… ma sei
sicura?»
«Certo che
sono sicura, ci sono rimasta male per tutta la giornata, credevo che mi
avessi
solo preso in giro!»
«Ma no! È che
lo sai… io pensavo la stessa cosa, chi poteva immaginare che
ti saresti
innamorata di una come me?»
«Certo, ma io
per capirlo ci ho messo un sacco di tempo. Pensa se non ti avessi dato
un’altra
possibilità. Ammetti che ne avevo tutto il
diritto.»
Ivonne tacque,
incerta su che cosa rispondere. Si strinse nelle spalle, provando a
sorridere.
«Vedi perché
non mi va, di dire quello che penso? Perché faccio
guai.»
«Sì. Ma tu,
quando dici queste cose, tralasci sempre la parte più
importante» ribatté,
sorridendo sorniona, Roberta. Quello era il momento di metterla davanti
alla
sua scoperta e portare alla luce ciò che angustiava
terribilmente la sua
ragazza.
«Non era
nemmeno quello, il motivo. Tu non avevi paura di non piacermi, tu lo
sapevi
benissimo che mi piacevi, e anche tanto. Tu non volevi proprio partire,
con
questa storia. Non volevi che ci mettessimo insieme.»
«E sentiamo,
quale sarebbe il motivo?» domandò Ivonne,
fermandosi ad osservare la vetrina di
un negozio di gioielli, interessata piuttosto al collier che vedeva
esposto che
non al ragionamento della fidanzata.
«Tu hai una
tremenda paura che vada tutto male» concluse Roberta,
stringendo di più la sua
mano e osservandola con attenzione, sperando di cogliere una qualche
reazione
che potesse confermare la sua teoria.
«Secondo te è
troppo pesante, questo qui?» chiese invece lei, riferita alla
collana che stava
esaminando.
«Ivonne, non
cambiare discorso! Comunque no, solo che costa un accidente.»
«Ma in questi
negozi, infatti, non ci si ferma per comprare. Sono vetrine da guardare
e sulle
quali sospirare.»
«Allora?»
Roberta le scosse il braccio, riprendendo a camminare e passando oltre
la
gioielleria. «Che ne pensi?»
«Non so, forse
hai ragione, non ci ho mai pensato. Ma non ti preoccupare di quello che
penso
io, certe volte… sono solo momenti bui, non ti preoccupare.
Non pensare a me,
d’accordo? È che a volte»
sospirò, «mi faccio prendere da tante cose e mi
metto
a pensare… ma lascia stare, sono cose mie.»
«Sono cose
nostre, invece!»
Le si parò
davanti, prendendole entrambe le mani e facendo in modo di guardarla
dritta
negli occhi.
«Tu hai paura
che vada tutto per il verso sbagliato, hai paura di far andare tutto
male. Per
questo eri così fredda, all’inizio, quella
mattina. Non volevi trovarti in una
situazione che ti portasse a dire: è finita, basta, ho
rovinato tutto. Vero?»
Ora capiva
bene quale fosse la sfumatura malinconica che di tanto in tanto le
velava gli
occhi e la rendeva pensosa, distante, improvvisamente triste e
lunatica. Sapeva
che tutto quello che pensava era in parte dettato dalla brutta
esperienza avuta
in famiglia e dal suo carattere consequenzialmente insicuro; Ivonne
aveva paura
di immischiarsi in una relazione più seria del previsto e
faceva di tutto per
svalutarsi, assumeva comportamenti incoerenti e quasi provava gusto a
mettere
alla prova la pazienza della sua ragazza. Roberta l’aveva
capito. Non si
trattava di egoismo, si trattava di una paura ancestrale: Ivonne
credeva di non
essere capace di sopportare un fallimento così grande, la
rottura di un
sentimento – l’amore, di questo si trattava
– nel quale, nonostante tutto,
credeva ancora ciecamente e verso il quale provava un profondo
rispetto; in virtù
di questa sacralità minimizzava i suoi sentimenti, certa che
non avrebbero
retto il confronto con quelli puri e sinceri, incorruttibili, che aveva
nella
testa. Si dava dunque a storielle più o meno importanti,
curandosi di non
avvicinarsi mai ad un grado più alto di coinvolgimento. Per
questo con Roberta
gli sbalzi d’umore erano più frequenti e le
paranoie la pressavano
maggiormente: sentiva di aver perso il controllo e sapeva
già che, alla fine,
avrebbe pagato un prezzo più alto.
«Tanto finirà
così, non lo sai?» disse, accorgendosi solo ora
che la voce le tremava un po’.
«Hai poca
fiducia in noi.»
«In me.»
«In noi.»
Roberta non
riusciva a cogliere il lato tragico della situazione, quello che agli
occhi di
Ivonne appariva come insormontabile e sempre più vicino
capolinea. Memore degli
avvenimenti di quel pomeriggio e spinta dal sentimento che provava, le
mise le
braccia attorno alla vita, abbracciandola stretta.
La serata non
portò altri particolari sconvolgimenti; Roberta era riuscita
a riportare in
alto l’umore di Ivonne e a far sì che, una volta
per tutte, smascherasse quei
misteriosi pensieri che aveva in testa; non riusciva a credere che le
avesse
tenuta nascosta quella paura per così tanto tempo,
costringendola a salti
mortali fra tentativi di pace e accese discussioni, mentre
l’altra non riusciva
a credere al fatto che Roberta non fosse nemmeno per un secondo turbata
da
quell’eventualità. Pensò che non
dovesse preoccuparla molto la fine della loro
storia, era agitata dal pensiero che tutta quella conversazione
rappresentasse
il preludio dell’effettiva separazione, una sorta di comune
accordo, come era
avvenuto fra Clotilde e Valeria. Tutte quelle ipotesi vennero
però sconfessate
al momento del rientro a casa, quando, prima di andare a dormire,
Roberta la
trascinò in un appassionato bacio, seguito da un assalto
violento culminato con
l’atterraggio brusco sul materasso. Ivonne smetteva sempre di
chiedersi quale
vana speranza le permettesse di continuare ad affogare in quella
relazione quando
poteva appoggiare la testa e le labbra in mezzo ai seni di Roberta e
farle il
solletico dappertutto.
«Mi sa che me
li faccio ricrescere, i capelli» mormorò, beandosi
dell’abbraccio intimo sotto
le coperte.
Roberta rise,
prima di augurarle la buonanotte. Quando si svegliò,
l’indomani, era già tardi
e si affrettò a rivestirsi e a correre alla pasticceria
più vicina; ordinò un
vassoio di dolci di varia composizione, includendo quelli alla ricotta,
i babà
e le paste di mandorle. Prima di pagare il conto aggiunse al tutto
anche un
cornetto alla nutella, il più grosso che riusciva a vedere
oltre la vetrata del
bancone. Tenendo fra le mani i dolci e in equilibrio il sacchetto
ripeté il suo
percorso al contrario, facendo attenzione, nel rientrare a casa, a non
fare
troppo rumore. Sul divano aveva lasciato il giubbino e la borsa con
tutto ciò
che le sarebbe servito quel giorno, sul mobile gli occhiali da sole e
le chiavi
del portone. Ricordava ancora quanto avesse dovuto faticare prima che
Ivonne le
proponesse di prenderne una copia; era stato difficile quasi quanto
riuscire a
calarsi nel mondo della studentessa d’infermieristica, tanto
gentile quanto, a
detta delle sue conoscenze, stravagante.
Era
ancora
addormentata, la sua studentessa, quando Roberta entrò di
soppiatto nella
camera da letto; schiuse lievemente la persiana per non lasciarla
completamente
al buio, le lasciò il cornetto ed i tovaglioli sul comodino
e si preoccupò di
coprire con il lenzuolo la parte del busto lasciata scoperta dalla sua
brusca
levata. Le dispiaceva moltissimo abbandonarla così, senza
salutarla se non con
un bacio, ma il suo pullman partiva a breve e Roberta
preferì lasciarla dormire
un altro po’, piuttosto che svegliarla e metterla di malumore
con la sua
partenza. L’avrebbe chiamata più tardi, non appena
arrivata.
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