Diary of a lesbian

di LadyProud
(/viewuser.php?uid=205946)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


[Narratore esterno]







PROLOGO.

 
Un letto, una ragazza distesa sopra di esso.
Un letto sporco di sangue, una ragazza con il volto macchiato, sopra di esso.
Un letto sporco del sangue della ragazza con il volto macchiato che era sdraiata sopra di esso.
Cassandra riuscì a sorridere di quel pensiero. Ci voleva così poco, per unire due elementi, ma non tutti riuscivano a prenderne atto. Sicuramente, non ci riuscivano i due ragazzi che l’avevano conciata a quel modo.
Sollevò una mano e se la poggiò sul viso, dove un lungo taglio verticale sembrava dividerle in due la guancia.  Al contatto, una lacrima involontaria, non desiderata, si fece timidamente spazio tra i pori della pelle, quasi sapesse di trovarsi lì senza permesso, seguendo il solco del taglio, per andare a tracciare un confine immaginario, ma nello stesso tempo così maledettamente definito, tra asciutto e bagnato, felicità e tristezza. La tamponò subito con la manica del pigiama, un gesto impulsivo della mano, dettato dalla semplice speranza dell’assenza di dolore.
Cassandra amava le cose semplici, tuttavia sapeva che, per cancellare quel tipo di dolore, non sarebbe bastato uno dei suoi ingenui gesti.
Una gomma può cancellare un tratto a matita, pensò, non un’intera serie di parole vacue scritte a penna.
E quello che le avevano fatto, era decisamente qualcosa che le sarebbe rimasto impresso nella mente, indelebile come i graffiti sui muri della sua scuola.
«Non toccarti la ferita, o si infetterà».
Un ragazzo esile, di media statura, fece per avvicinarsi al letto.
«Posso?», domandò, titubante. Cassandra sorrise.
«Prego». La ragazza si mise a sedere sul letto con un po’ di difficoltà, poiché le coperte le si erano avvolte attorno alle gambe; scalciò e incrociò queste ultime, poggiando il viso sulle mani e i gomiti sulle ginocchia. «Che palle», sentenziò, come se avesse appena detto la cosa più importante del mondo, scandendo bene le due parole. L’altro rise.
«Vedo che niente può buttarti giù, mh?»
«Beh, dipende. In senso letterale, mi hanno buttata giù eccome. Se intendevi il senso figurato della frase… Sono ancora qua, sì». Il giovane sembrò sentirsi in colpa per un momento, poi scosse la testa.
«Sai che non riesco sempre a comprendere i tuoi discorsi, Cassie. Dammi tregua. Come stai?»
«D’accordo, ma avresti potuto scegliere una domanda meno banale».
«Hai ragione. Quando tornerai a scuola?». Cassie si stiracchiò, ma a metà del movimento si bloccò, come se le avessero dato un pugno alla schiena. Per qualche breve secondo tenne i grandi occhi verdi spalancati, dopodiché li richiuse.
«Ti basta come risposta?», disse, rabbuiandosi.
«Perché l’hanno fatto, Cassie?»
«Non so, Rudi, prova ad indovinare!». La ragazza alzò il volume della voce, senza neanche rendersene conto. «Forse perché queste», continuò, piazzando la mano di Rudi sopra al suo seno, «Non erano a loro disposizione? Forse perché questa», sempre piazzando la mano dell’amico in un posto molto intimo, «gli era stata rifiutata?»
Il ragazzo si ritrasse, con un’aria vagamente schifata.
«Calmati, stai urlando», bisbigliò, spostandosi impercettibilmente in fondo al letto.
«Hai ragione», disse lei in un sussurro, «Scusami. Sai quanto tutto questo mi faccia impazzire».
«Non te ne preoccupare, tesoro, ora l’importante è che tu stia bene. Che fine hanno fatto, quei due?»
«Credo che uno sia ancora in ospedale». Il viso della ragazza era sadicamente soddisfatto.
«A proposito, prenderanno dei provvedimenti?»
«Per il mio coltello o per la loro aggressione?»
«Entrambi, suppongo…»
«Ho detto alla polizia che l’ho colpito con un coltello da cucina e che l’avevo con me solo perché avevo notato un interesse morboso nei miei confronti da parte di quei due e volevo essere pronta a difendermi. Dovrebbero finire entrambi in galera, sono maggiorenni. Veramente dovrebbero finire entrambi impiccati».
«Cassie…»
«Potrei impiccarli io. Sarebbe una soddisfazione passare una corda intorno ai loro colli butterati e pieni di cicatrici…»
«Cassandra?»
«…Infilando accidentalmente le unghie nella loro carne madida di sudore…»
«Fai abbastanza schifo, smettila».
«E sentire i loro gemiti di dolore, mentre il sangue comincia copiosamente a…»
«Cazzo, fai schifo!» Rudi si alzò dal letto, portandosi una mano alla bocca con fare teatrale. «Sto per vomitare».
«Non qui, non in camera mia, pezzo d’idiota!»
Cassie gli lanciò un cuscino con fare scherzoso, alzandosi dal letto. La maglietta del pigiama, che le arrivava quasi fino alle ginocchia, era l’unico indumento che portava, oltre alle mutandine.
«Ma ti fa schifo vestirti?», la punzecchiò l’amico.
«Non ne ho bisogno, quando sono in compagnia di persone come te», rispose lei, lanciandogli un cuscino; Rudi la imitò subito, e continuarono a lanciarsi pressoché tutta la casa per l’intera serata.
 
 
 
_______________________________
(Buonasera! Questa è la prima storia che pubblico, su EFP. Mi sono limitata a mettere un prologo molto breve, poiché questa è solamente una 'prova'; effettivamente, non si capisce bene quale sia il problema di Cassandra. Beh, se vorrete, potrò continuarla -lo sto già facendo, ehm-, ma: voglio una vostra opinione sul cortissimo prologo. Grazie in anticipo!

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1. ***


CAPITOLO 1.

 
Perché essere felice, quando puoi essere normale?
-Jeanette Winterson
 


La sveglia suonò, come tutti i giorni, alle sei e zerouno del mattino. Mettevo un numero uno, dopo lo zero, perché lasciare il sei da solo non mi sembrava giusto. Fin da bambina, ho imparato ad amare il numero sei, lo usavo in tutte le password che dovevo inventarmi, in tutte le combinazioni, mi sembrava perfetto. Per non lasciarlo da solo in mezzo a tutti quei numeri inutili, quindi, gli avevo affiancato un numero uno, sperando che in questo modo trovasse qualcuno degno della sua compagnia.
Svogliatamente, mi misi a sedere e con una manata zittii la sveglia. Era passata una settimana, dall’ “incidente” con quei due ragazzi, e mi ero rimessa totalmente in forma; tuttavia, sentii ancora un po’ di dolore, nel malmenare la mia sveglia.
Vicino al letto c’era sempre un paio di calzini puliti. Li presi, silenziosamente, e li infilai. Subito dopo averlo fatto, notai che erano uno rosso e uno viola, ma non me ne curai; non volevo produrre inutile rumore cercandone degli altri.
Il pavimento della casa era interamente ricoperto da un parquet scuro e lucido, e i piedi scalzi avrebbero lasciato delle impronte, quindi stavo sempre attenta a non girare per casa scalza.
Le uniche cose che potevo fare per quella famiglia che non mi apparteneva più, era di non lasciare impronte sul pavimento pulito, e di non fare rumore la mattina.
Ero l’unica ad alzarsi a quell'ora, e non mi piaceva svegliare gli altri; si sarebbero arrabbiati, e avevo già troppi pensieri per la testa.
Puntai dritta verso il bagno, rigorosamente in silenzio; accostai la porta, per non fare rumore nel chiuderla, e mi lavai.
Compivo quotidianamente gli stessi gesti, e tutto ciò era alquanto rassicurante; mi convincevo che, se quei semplici gesti mi fossero venuti bene, allora anche il resto della mattinata sarebbe stato semplice da affrontare. Adoravo i gesti semplici, non perché non fossi capace di compierne altri più difficili, ma perché la sicurezza che deriva da queste piccole quotidianità mi affascinava. Ed era tutto dentro di me, capite? Ero l’unica che avrebbe potuto rassicurarmi, e sapevo anche come fare. Avevo il totale controllo del mio corpo e della mia persona.
Uscita dal bagno, con i corti e scompigliati capelli neri ancora umidi, ritornai in camera mia e aprii l’armadio. Presi un toppino nero, una maglietta dello stesso colore, e degli shorts di un grigio slavato. Usavo il toppino al posto del reggiseno, perché ero alta e magra come un chiodo, senza un filo di seno. Quel poco che c’era mi dava fastidio, e non mi andava di sentirmi limitata indossando un reggiseno, così lo sostituivo con un toppino, che non mi faceva sentire nuda. Ho sempre pensato, in segreto, che da grande mi sarebbe piaciuto fare un’operazione per rimuovere il seno; successivamente cambiai idea, un po’ perché mi sembrava irrispettoso verso quante lo dovevano fare obbligatoriamente, a causa di un tumore o un cancro al seno, un po’ perché ero fiera di essere donna, e non mi andava di perdere un elemento che sottolineava la mia femminilità per un mio capriccio.
Mentre mi guardavo allo specchio, cominciai a pettinarmi i capelli, giusto per dargli una forma. Mi compiacqui del mio aspetto; non avevo bisogno di trucco o di altre maschere per sentirmi bene con me stessa.  Amavo il mio corpo in quanto era il corpo di una donna, e tutte le donne sono belle. Mi persi per un istante a fissare i miei occhi verdi, le pupille che si stringevano e si dilatavano a seconda della luce, la mia carnagione pallida, e l’accenno di cicatrice su una guancia.
Un’altra ragione per la quale non mi sistemavo più di tanto, era che in ogni caso il mondo mi avrebbe giudicata secondo degli standard che non riuscivo a capire, e che sotto sotto neanche volevo capire.  
Mi infilai un paio di converse nere usurate e mi diressi in cucina. Mia madre, stranamente, era già sveglia e stava preparando il caffè. Io riempii un bicchiere di latte e mi appoggiai su un bancone vicino ai fornelli a bere. Tutto ciò avvenne in un religioso silenzio, finché mia madre non ruppe l’atmosfera.
«Sta’ attenta a non farti uccidere, oggi».
«Non sono morta, oppure non sarei qui».
«Non sentirai freddo, con quei pantaloncini?». Storse il naso. Non le piaceva avere una figlia più alta di lei –molto più alta di lei-, quindi non sopportava la visione delle mie due gambe snelle, pallide e lisce.
«E’ primavera, mamma. Non morirò né a causa di improbabili aggressioni alla luce del sole, né per il freddo. Contenta?»
Aprii il rubinetto del lavandino e lavai il bicchiere.
«Ce l’hai degli amici, a scuola?», sbottò lei. Smisi di far scorrere l’acqua e la guardai. Cominciai a sentire la rabbia che prendeva il sopravvento, e provai una familiare sensazione di soffocamento. Spesso mi capitava di sentirmi come un povero naufrago che annega. L’acqua gli arriva pian piano al cervello, facendolo sentire ottuso, facendogli girare la testa, improvvisamente leggerissima. Sto affogando, ho bisogno di ossigeno, ma come posso liberarmi da questa situazione, se non so nuotare? Pensa questo, il suo ultimo pensiero. Si sente stupido, per l’ultima volta, e si lascia morire. Perché non ha imparato a nuotare, da bambino?
Ed io, perché non ho mai imparato ad abbassare la testa, a passare oltre le cose, ad essere superiore?
«Questi non sono affari che ti riguardano», sputai. Presi la cartella, il cellulare, le cuffiette ed uscii di casa, sbattendo la porta.
Please momma can’t you see, I’ve always tried to please,
I wore ribbons and jewelry and make up and perfume and dresses down to my knees…
Melissa Ferrick gridava a tutto volume nelle mie orecchie.



__________________________________________________
Buonasera! Scusatemi per il ritardo, ho una marea di cose da fare, prometto di essere più celere per il prossimo capitolo. Li sto facendo brevi, di modo che non vi stufiate subito a leggerli. Ringrazio infinitamente le quattro recensioni positive, i preferiti, i seguiti e anche i lettori silenziosi!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2. ***


CAPITOLO 2.

 
«Non ti sposerai mai» disse, «questo è certo. E non troverai mai pace.»
-Jeanette Winterson, Non ci sono solo le arance
 
 
Non doveva andare così. Si suppone che i genitori amino i figli, indipendentemente da qualsiasi cosa. Mia madre non poteva darmi la colpa per una vita che non ho scelto. Forse se avessi potuto scegliere sarei comunque qui, nella stessa situazione; ma non ho potuto.
Un’altra cosa sbagliata era che a me importava.
Mi faceva male non essere accettata da mia madre, da mio padre, da mia sorella. A volte, mi sembrava che anche il mio gatto mi guardasse male. Quando ero chiusa in camera, la mia camera, mi sembrava che i poster attaccati al muro mi lanciassero delle occhiate di disprezzo, di rimprovero. Neanche quel luogo, che avrebbe dovuto essermi familiare, riusciva a sembrarmi accogliente. Non lo sentivo mio, non era la mia camera, non era casa mia. Una persona non dovrebbe rimanere mai così sola.
Alzai gli occhi al cielo, e una goccia di pioggia mi centrò la punta del naso.
«Maledizione», mormorai, «Guarda se mia madre non aveva ragione». Affrettai il passo. La fermata dell’autobus distava ancora cinque minuti di cammino.
Per non pensare alla pioggia, che mi stava inzuppando tutti i vestiti, lasciai che la mia mente si riempisse di pensieri, e decisi di concentrarmi su uno in particolare.
Era passata una settimana dall’aggressione, la gente avrebbe voluto sapere. Ero pronta a sopportare gli infiniti interrogatori? Il perbenismo e la falsità di quelle persone che, almeno in apparenza e purtroppo, abitavano il mio stesso mondo? Mi soffermai su quest’ultimo pensiero. E’ buffo: condividiamo tutti lo stesso mondo, la Terra è di tutti noi e serve a tutti noi. Teoricamente dovremmo lavorare affinché diventi un posto sempre migliore, e dovremmo farlo insieme. Abitare nella stessa casa, il più delle volte ci rende parenti; solo perché il pianeta Terra è uno spazio un po’ più ampio, non significa che in fondo non siamo qualcosa tipo, non so, fratelli. A volte mi vien voglia di piazzarmi davanti alla gente, davanti ai carri armati, ed urlare “ehi, gente! Che cavolo state facendo? Tu ci vivi qui, noi tutti viviamo qui, in questo stesso mondo! Potreste essere parenti e neanche saperlo! Potresti stare per uccidere il marito di tua figlia! Potresti stare per distruggere una foresta dove in un futuro neanche troppo lontano, tuo figlio porterà la sua fidanzata a fare un bellissimo picnic!”, e cose del genere.
In ogni caso, non vedevo nessuna collaborazione, e avevo perso la voglia di aspettare.
«Ehi, Cassie!»
Alzai la testa di scatto. Non mi ero neppure accorta di essere arrivata in fermata. Aveva anche smesso di piovere.
«Ciao, Nick». Nick era un mio compagno di classe, uno di quei maschi che hanno in mente sempre la stessa cosa… Sto parlando del calcio. Forse.
«Come stai? Non ho capito esattamente cosa sia successo, però…». Ringraziai silenziosamente qualche divinità inventata per l’occasione.
«Nulla di che, ho fatto a botte», risposi ridendo. «Sto bene, ora».
«Mi fa piacere. Ah, sei fradicia».
«Non importa. E’ spuntato il sole, mi asciugherò».
«Ah, pioggia e sole, ora dovrebbe spuntare l’arcobaleno…»
Nick fece una risatina, che gli morì in gola dopo avermi guardata in faccia. So lanciare delle occhiate assassine, quando voglio; spesso lo faccio senza accorgermene. Per un motivo o per un altro, tanto, la gente si sarebbe allontanata da me, quindi perché non accelerare il processo? Inoltre, con i capelli zuppi di pioggia appiccicati al volto, dovevo essere raccapricciante.
«Continua pure», dissi alla fine, dopo averlo fissato per un minuto buono.
«Scusa, non volevo…», farfugliò alla fine.
«Sì che volevi». In quel momento arrivò l’autobus. Salii e mi sedetti in un posto molto lontano da quello del ragazzo. Mi rimisi le cuffiette, che per gentilezza mi ero levata durante la conversazione –se così la si può chiamare- e mi estraniai dal mondo, ancora una volta, ancora una volta non per colpa mia.

Scesi alla solita fermata, vicino alla mia scuola. Ovviamente, anche Nick scese lì, ma mi passò accanto velocemente, ignorandomi e superandomi. I primi tempi, questo comportamento mi aveva infastidita; poi aveva cominciato a farmi piacere. Meno gente respirava la mia stessa aria, meglio mi sentivo. Non che mi piacesse isolarmi; ma i compagni di scuola, come i parenti, non puoi sceglierteli, e se ti capitano certi pezzi d’idiota, devi tenerteli e sopportare.
Prima di arrivare alla mia scuola, c’erano un paio di minuti di tragitto  a piedi. Li percorsi velocemente, come se avessi una spina conficcata in un piede e volessi toccare terra il meno possibile. Effettivamente, un po’ era così; volevo vedere i miei compagni di scuola. Volevo parlarci. Volevo che loro facessero qualcosa che mi desse un pretesto per ricominciare ad ignorarli. Poi volevo uscire e tornarmene a casa. Volevo levarmi questa spina dal fianco il più velocemente possibile.
Presi un respiro e girai l’angolo.
Mi ritrovai davanti quell’immensa costruzione di mattoni rossi, ricoperti da una vernice di un colore triste, che si stava lentamente scrostando. Oddio, neanche troppo lentamente; effettivamente, quella scuola cadeva a pezzi. Sembrava che la stessa costruzione volesse allontanarsi da se medesima.
Mi avvicinai al cancello arrugginito e, come previsto, un gruppetto di studenti cominciò ad avvicinarsi a me. Mi sembrava di essere in uno di quei film, dove la protagonista sfigata viene sempre accerchiata da dei bulletti. Alla fine, però, sono questi ultimi che fanno sempre una brutta fine…
«Oh, mio Dio, Cassandra!». Lisa, la pettegola della mia classe, mi si avvicinò, con la bocca coperta da un rossetto così rosso che mi venne l’impulso di schernirmi gli occhi.
Mi fece ridere, quell’invocazione: ‘Oh mio Dio!’. Come se Dio potesse essere davvero suo! Dopotutto, pareva potersi permettere di tutto.
«Ciao, Lisa», le risposi, sorridendo. Lei sembrò indispettita dal mio apparente buonumore.
«Ah, vedo che ti sei ripresa».
«Certamente. Questo ti disturba?»
«No, mi è del tutto indifferente».
Il mio sorriso si allargò ulteriormente, e un attento osservatore sarebbe riuscito ad intravedere le gocce di veleno che scendevano dalle mie labbra.
«Allora, levati dai piedi e smettila di disturbarmi».
Lei rimase di sasso. Evidentemente, una settimana era bastata a farle dimenticare quanto potessimo odiarci, o forse pensava che avrei abbassato la cresta. In ogni caso, approfittai del suo silenzio per superarla ed avvicinarmi all’entrata. I ragazzi intorno a lei ridacchiavano, e io mi concessi un altro piccolo sorriso.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3. ***


CAPITOLO 3.


La scelta della solitudine era come il piacere di camminare sotto la neve con un cappotto caldo. Chi vorrebbe camminare nudo sotto la neve?
-Jeanette Winterson, Scritto sul corpo


La campanella suonò, e tutti i ragazzi si fiondarono dentro scuola. Perché diamine correvano?
Attraversai lentamente il grande cortile interno. Di solito, Rudi mi aspettava vicino alla scala antincendio, ma oggi non era lì. Eppure l’avevo avvertito per telefono: oggi sarei tornata a scuola. Guardai l’orologio. Non ero affatto in ritardo, la campanella era appena suonata! Lo aspettai per cinque minuti, nascosta dietro ad una colonna per evitare che i miei ‘amici’ mi fermassero e mi facessero un interrogatorio. Non arrivò, così cominciai a salire le scale e mi diressi verso la mia classe. Passai di fianco a varie aule con la targa ‘quarto…’ e la relativa lettera. Sembrava stessero lì a mo’ di rimprovero; io avevo perso un anno, quindi ora mi ritrovavo in un terzo, ed ero la più grande. Ero l’unica bocciata in quella classe; di conseguenza, ero il bersaglio più gettonato per le spietate critiche dei professori.
Ovviamente, non solo perché avevo perso un anno.
Girai l’angolo, e mi ritrovai nell’ala della scuola dove erano riuniti tutti i terzi. Presi un respiro profondo, e mi piazzai di fronte alla mia classe. Dovevo entrare per forza, giusto?
«Cassandra, stai bloccando l’entrata». Sobbalzai. Cosa mi era preso? Quel giorno il mio cervello aveva deciso di non svegliarsi. Non mi piaceva mostrarmi debole, e ancor meno volevo sembrare rimbambita. Mi sembrava di essere tutte e due le cose, però.
Mi girai lentamente, e mi trovai faccia a faccia con Jessica, una delle mie compagne di classe. Non avevo mai parlato molto con lei; non che ci tenessi. Era una di quelle ragazze anonime, che cercano disperatamente di farsi notare, che cambiano pettinatura e stile ogni settimana, a seconda del gruppetto che frequentano.
Scommetto che se fosse diventata mia amica, si sarebbe tagliata i capelli e fatta qualche piercing.
«Scusa, Jessica, ero sovrappensiero».
Mi guardò come se all’improvviso mi fossero spuntate due orecchie da orco, così le dissi:
«So riconoscere quando faccio qualcosa che non va, sai?».
Perché la gente aveva questa brutta opinione di me? Sono una persona estremamente corretta. Sarà anche vero che è difficile farmi abbassare la testa, ma pensano davvero che sia così umiliante chiedere scusa quando si ha torto?
Mi diressi spedita all’ultimo banco, dove c’era una ragazza riccia e sorridente ad aspettarmi.
«Ciao, Delia», la salutai, e le diedi un bacio sulla guancia.
«Ciao, Cassie! Finalmente sei tornata. Come stai?»
Sorrisi. Delia era l’unica ragazza della mia classe che non stava perennemente a giudicarmi. A lei non importava chi mi portassi a letto, quali poster avevo in camera o quali libri sul comodino. Il primo giorno di scuola mi ha guardata, mi ha indicata e ha detto qualcosa tipo “Tu, tu sembri qualcuno che potrebbe diventare mio amico”. Mi aveva preso per un maschio, ma non era la prima volta che succedeva. Non aveva un approccio normale con le cose né con le persone. Di solito di questa gente si dice che ‘vivono in un mondo tutto loro’, e mai nessun luogo comune fu più appropriato, per Delia. L’unica cosa che le dispiaceva, era di non poter condividere i suoi pensieri sconci con me. Quando passava un bel ragazzo, subito si girava per sussurrarmi qualcosa nell’orecchio; dopo un po’, si ricordava che non m’interessava. “Ah, merda”, mormorava, e metteva il broncio per un paio di minuti, dopodiché si sentiva in colpa per non avermi parlato tutto quel tempo –e secondo lei era davvero un tempo lunghissimo!- e mi offriva una sigaretta. Dovevo preoccuparmi, se una delle mie poche amiche era totalmente fuori di testa?
«Come sta?» ripeté lei, visto che non le avevo risposto. Mi sedetti.
«Te lo dirò alla fine di questa giornata».
«Oh, Cassie, non rispondermi sempre così… Così… Così!». Risi, non potei farne a meno.
«Vuoi dirmi che tu non sai il casino che succederà oggi?»
Delia si guardò intorno. Alzai gli occhi al cielo, mentre lei cominciò a parlare come se qualcuno stesse tramando qualcosa contro di lei.
«Cosa? Che deve succedere? C’è qualche festa, me ne sono scordata? Dio, mio… I miei vestiti!». Ad un certo punto sembrò rinsavire, e disse: «Ma tu come fai a sapere queste cose? Sei tornata solo oggi…»
Continuai a ridere di gusto.
«Intendevo, la gente vorrà sapere, giusto?»
«Sì. Sì, certamente, avevo capito».
«Brava. E non credi che sarà un po’ stressante, per me?»
«Sì, un pochino».
«Esatto. Quindi a fine giornata sarò esausta».
«Ah, ora ho capito!».
«Brava». Le passai una mano tra i capelli castani.
«Ho capito, mi stai invitando a prendere un caffè?»
La mia mano si bloccò. Era sempre stata così deficiente, oppure in quella settimana era peggiorata ulteriormente?
«Delia… Ti sto dicendo che un interrogatorio è sempre difficile da sopportare. Se i nostri compagni di classe e i nostri professori dovessero farmi troppe domande, potrei mandarli tranquillamente a quel paese, perché sai che mi dà fastidio questo loro modo di fare. Compris
Delia fece una risatina nervosa.
«Ti stavo prendendo in giro», disse infine.
«Sì, come no…»
Mentre continuavamo questo scambio di battute poco coerenti, la professoressa della prima ora entrò in classe. Quest’ultima si era popolata, e ogni tanto qualcuno mi lanciava qualche sguardo. Fui contenta di aver parlato tutto il tempo con Delia; avevo sicuramente evitato qualche scocciatura.
La professoressa mi fissò a lungo, prima di parlare.
«Cassandra, puoi venire qui un attimo?»
Mi alzai. Che diamine voleva? Oh, aspetta. Lo sapevo, ovvio. Mi alzai e la raggiunsi, sotto gli sguardi di una ventina di studenti. Tutti che guardavano, ma senza vedere. La mia insegnante parlò sottovoce, per farsi udire solo da me.
«Vorrei che tu spiegassi ai tuoi compagni cos’è successo».
Aggrottai la fronte e piegai la testa da un lato, con fare melodrammatico.
«Non fare quell’espressione, voglio che tu racconti della tua aggressione, senza dare troppi particolari».
Inarcai un sopracciglio. «Perché dovrei volerlo fare, signora Evans?»
«Perché così ti risparmieresti molte seccature, dico bene?»
Annuii. Da quando era così comprensiva, specie con me?
«Non voglio che i miei studenti si distraggano per bazzecole come queste».
Ah, ecco.
«Cosa intende con ‘non devi dare troppi particolari’?».
Mi fulminò con lo sguardo.
«Racconta sommariamente cosa ti è successo, ci impiegherai qualche minuto. Nessuno vuole sapere perché quei due ragazzi fossero tanto indispettiti dal tuo comportamento».
Avevo capito bene? Voleva che raccontassi uno degli episodi peggiori della mia vita, omettendo la parte più importante? E tutto questo, solo per non creare una specie di scandalo tra gli studenti?
Se aveva bisogno di fare raccomandazioni del genere, probabilmente era troppo tardi. Sorrisi maliziosamente.
«Va bene, signora Evans».
«Non creare scandali, o finirai dritta dal preside».
Non era una minaccia poi così terribile, come non era la prima volta che sarei scesa dal preside.
Perché, con quello che avevo intenzione di dire, ci sarei tornata eccome, dal preside.



________________________________________________
Buonasera! 
Personalmente, non mi piace molto questo capitolo. Se otterrò abbastanza recensioni positive continuerò, oppure penso di fermarmi fino a che non mi verrà in mente un qualcosa di geniale. Quindi, invito tutti voi che mi avete messo tra le seguite, tra le preferite, tra le ricordate, a farmi sapere con qualche parola cosa pensate della storia, se volete che la continui; ma prima di tutto vi ringrazio di seguirmi. Intendiamoci bene, questa non è pubblicità; solo, non vorrei sprecare tempo, perché le idee ci sono, ma non so come possono risultare, sulla carta, quindi vorrei che mi spronaste un po'. Ringrazio Armony, Brodos, Flicka09, IEchelon106, Kim_Tankian, marniss, Pretty Vampire, S u n s e t per avermi messo nelle seguite.
Ringrazio Sitara_J per le ricordate.
Dopodiché, ringrazio tutti quelli che hanno recensito, e infine ringrazio Daiana, la mia migliore amica, che pur non essendo iscritta legge sempre tutto ciò che scrivo e mi fa da beta, come Romina, un'altra mia cara amica che saluto.
Okay, la finisco. Un bacio!

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 4. ***


CAPITOLO 4.

 
Amore e morte sono gemelli, nati nello stesso istante, entrambi in lotta per la supremazia, e se la morte pretende tutto, lo stesso fa l'amore. Eppure è più facile morire che amare. La morte mi annienterà, ma per amore sono stato mille volte annientato.
-Jeanette Winterson, Powerbook
 
 
«Io sono pronta», le dissi. «Comincio?»
«Aspetta».
La signora Evans si piazzò alla cattedra, si schiarì la voce e si piegò un po’ in avanti, come a volersi piazzare davanti ad un microfono invisibile.
«Ragazzi», esordì; inutilmente, perché la classe aveva tutta la nostra attenzione già da un pezzo. «Saprete certamente tutti che Cassandra ha passato una brutta esperienza». Dai volti ottusi dei ragazzi di fronte a me si levarono delle risatine e qualche vago cenno di assenso col capo.
«Giusto per mettere a tacere delle voci scomode, Cassandra ha deciso di spiegarvi brevemente quanto le è accaduto». Mi fece cenno di avvicinarmi. «Quindi, ora lascio per una decina di minuti la parola alla vostra compagna. Io sono qua fuori, quindi non urlate, vi sento!».
Detto questo, si diresse verso la porta, si guardò intorno nervosamente ed uscì, lasciandola socchiusa.
Che io avessi deciso di mia spontanea volontà di fare quel discorso, l’aveva deliberatamente inventato lei, tra l’altro. Mi avvicinai alla cattedra, scansando la sedia dei professori, e decisi di rimanere in piedi.
«Sicuramente sapete già quello che è successo», cominciai. Incredibilmente, avevo la piena attenzione dei miei compagni di classe. Non m’interessava il motivo; che mi volessero prendere in giro o altro, l’importante era che stessero ad ascoltare.
«Quindi, direi di fare un bel passo indietro e di raccontare alcune cose inerenti a quanto mi è successo. Lisa, perché non prendi appunti? Non potresti fare un articolo su quanto sto per dire?».
Sgranò gli occhioni azzurri. «Ho il tuo permesso?»
«Ti serve realmente?». Fece un sorrisetto, chiudendo gli occhi.
«No, ma grazie per l’idea». Accese il registratore del cellulare, si munì di carta e penna e cominciò a tamburellare sul tavolo con le lunghe unghie laccate dello stesso rosso delle labbra.
Era ovvio che la ragazza più odiosa della scuola fosse anche la direttrice del giornalino scolastico.
«Allora farò una cosa molto professionale, a questo punto. Voglio farti fare bella figura».
Montai sulla cattedra, di modo che tutta la mia classe potesse vedermi, senza che potessi nascondere nulla, né nell’apparenza, né nelle mie parole. Incrociai le lunghe gambe bianche e mi misi comoda.
«Mi chiamo Cassandra Proud. Ho diciassette anni, e voglio raccontarvi la mia storia. Io ho due genitori etero; proprio così, un maschio ed una femmina. Sin da bambina, sono stata costretta a vedere i miei due genitori etero che si ‘rotolavano sul letto’. Sono cresciuta in questa famiglia, con l’esempio costante dei miei due genitori eterosessuali, così il mio cervello da bambina pensò che quella fosse la normalità».
Cominciarono a sentirsi dei bisbigli, così alzai il tono di voce.
«All’asilo, alle elementari, da brava bambina, cercai sempre il fidanzatino, perché la mia cara mamma eterosessuale mi diceva sempre che le femmine dovevano stare con i maschi. Ad un certo punto, cominciai a capire che forse i miei mi avevano nascosto qualcosa, e non mi avevano detto tutta la verità sulla vita. Dopo dodici anni, durante i quali, ricordiamolo, convissi con due eterosessuali, senza nessun altro termine di paragone, capii che quella mezza verità non mi bastava più, e mi feci una fidanzatina».
Tutti i casi patologici davanti a me sgranarono gli occhi. Seppi all’istante il motivo; non mi ero mai nascosta, ma non avevo mai fatto propriamente coming out con loro.
Veramente era necessario che dicessi parola per parola quel che c’era da dire? Non ci potevano arrivare da soli? Cosa si aspettavano?
Mi sentii come se mi avessero chiesto di firmare un contratto dove dichiaravo apertamente la mia omosessualità.
Erano davvero, davvero fottutamente ottusi, ma decisi di continuare.
«Ovviamente ero confusa, perché i miei due genitori eterosessuali non mi avevano mai spiegato come funzionasse una cosa del genere, e cominciai a chiedermi “Sono sbagliata? Non sono normale? Beh, qualcosa di sbagliato deve esserci, perché i miei due cari genitori eterosessuali, che sono proprio un modello da seguire, non fanno come me e non mi hanno mai parlato di questa situazione”».
«Non sei normale, infatti!»
Ecco, mi sembrava troppo bello per essere vero. Mi stavano ascoltando tutti troppo attentamente, solo per cogliere la giusta occasione di fare qualche battutina di pessimo gusto.
Scesi dalla cattedra e puntai dritta verso il proprietario della voce, Nick.
«Stavo facendo un discorso, e tu mi hai interrotta», dissi, poggiando una mano sul suo banco e l’altra sulla sua sedia e fissandolo negli occhi.
«Non mi piace essere interrotta».
Evidentemente, qualcosa nella mia espressione gli fece capire che non ero esattamente felice di quella sua uscita. Non ero una persona violenta, affatto; ma avevo delle mie particolari fisse, ed una di queste era quella per il rispetto.
«Stavo parlando di un argomento serio, Nick. Non è importante solo per me, è importante e basta. Lo capisci, ottuso essere che non sei altro?»
«Cassie, non infierire». Delia intervenne con un tono di voce molto dolce, cercando di calmarmi, e il suo intervento fu decisivo.
Scoccai un’ultima truce occhiata al mio compagno di classe, dopodiché ripresi la mia postazione.
«Dicevo. Con gli anni, dimenticai questa faccenda; ero troppo imbarazzata, mi sentivo in colpa e non l’avrei mai detto ai miei carissimi genitori. Finsi di essere una persona normale; oramai mi ero convinta di non esserlo, perché mia madre e mio padre continuavano a tacermi qualsiasi altra alternativa alla vita di coppia eterosessuale.
Ora, vi risparmierò i penosi dettagli della mia esistenza diversa, ma vi basti sapere che, nonostante tutto, ora ho capito cosa sono. Anzi, ancora meglio; ho capito cosa voglio. L’ho dovuto capire completamente da sola, senza l’aiuto di nessuno; anzi, i miei modelli di comportamento eterosessuali hanno avuto, nella mia vita, una dubbia utilità, poiché nonostante tutti i loro sforzi, le loro lezioni, le cose non dette, io ho capito chi voglio essere, e l’avrei capito in ogni caso; genitori etero, genitori gay, nessun genitore.»
Mi alzai in piedi.
«Sono lesbica», proclamai finalmente. Cominciai a camminare tra i banchi dei miei compagni.
«Sono gay, sono omosessuale».
Fissai Nick. «Mi chiamano frocia, finocchia, busona…». Abbassò lo sguardo, così mi girai e a turno guardai molti degli elementi presenti in quella stanza, come se stessi affibbiando ad ognuno di loro una definizione.
Come facevano con me.
«Frocia, finocchia, busona, buliccia, ricchiona, lesbica, invertita, leccafighe, mangiaclitoridi, ebrea, comunista, nipotina di Stalin!»
Il tono della mia voce saliva, ogni volta che pronunciavo uno dei tanti nomignoli malvagi che mi sentivo ripetere quotidianamente.
 «E’ per questo, quindi, che l’altra sera sono stata picchiata, e non era neppure la prima volta. Sono stati due ragazzi. Volevano fare sesso con me, perché qualche persona, che evidentemente si diverte in modi molto poco sani, aveva riferito loro la mia omosessualità. Evidentemente, i cliché, i luoghi comuni, i pregiudizi, valgono più per gli etero che per i froci, non trovate? Alzi la mano chi tra voi… uomini, non ha mai desiderato di fare sesso con due lesbiche».
Nessuno alzò la mano.
«Sto aspettando!»
Non avrei mai immaginato di essere in grado di fare una simile piazzata. Mi sentii come doveva essersi sentito Spiderman, dopo che un ragno radioattivo gli aveva donato i suoi poteri. Qualcosa dentro di me era cambiato, dopo gli ultimi avvenimenti. Non volevo più vedere la vita che mi scivolava via dalle mani, non volevo più vivere passivamente come avevo fatto fino a quel momento.
Fino a quel momento, il mio cervello aveva attivato un meccanismo di autodifesa chiamato ignoranza.
L'ignoranza è una benedizione, perché sicuramente porta più in alto della conoscenza. Chiunque abbia un po' di buon senso sa che non ci si potrà mai innalzare sopra se stessi. Sopra tutto, sopra tutti, ma sopra se stessi mai. E' per questo che l'ignoranza è un tristissimo senso di libertà.
L'ignorante ride di chi si sbriga a cogliere i fiori, poiché non ne vede l'utilità; non sa che lui stesso sta tristemente appassendo.
Ho dato un contributo a così tante vite, vite che potevo vedere solo dall'esterno, di cui, nonostante tutto, non facevo parte. Ho cercato un mio posto nell'anima degli altri, e mi ero ritrovata a guardare la mia stessa vita, la mia stessa anima, da spettatrice; non riuscivo più ad entrarci.
Ero rinchiusa in una scatola d’oro. La mia vita, fino a quel momento, era stata buia; per quanti buchi, scavati dalle incertezze, potessi aver creato dentro quella scatola, essa rimaneva pur sempre una prigione, ed io ancora non riuscivo a respirare.
Finalmente mi resi conto di quanto poco avessi fatto nella mia vita; fui felice di accorgermene, e fui ancora più felice di poter rimediare. Avevo ancora tutta una vita, davanti, e d’ora in avanti non mi sarebbe importato più di nulla, se non di crearmi un’esistenza che avesse per scopo la mia realizzazione, la mia felicità, ad ogni costo.
E nel frattempo, nessuno alzò la mano. Mi guardavano, inebetiti.
«Qualcuno chiami la signora Evans», dissi, tornando vicino a Delia. Era evidente che la professoressa non fosse fuori dalla porta. Ogni scusa era buona, per prendersi una pausa…
Tornata al mio posto, Delia mi abbracciò.
«Mi hai fatta commuovere. Sei stata splendida, dovresti frequentare il corso di recitazione che c’è qui a scuola… Lo sapevo che eri una tipa con le palle!»
«Appropriato», risposi, ridendo. «Delia, questo mio corpo è traditore. La freddezza del mio aspetto, i miei pacati modi di fare. Sono una falena, ma pur sempre una farfalla.»




_________________________________
Buon pomeriggio! Voglio solo ringraziarvi per le recensioni e per il vostro sostegno, siete adorabili. 
Questo capitolo è stato un po' uno sfogo, e la storia raccontata da Cassandra è un po' la mia. Solo che io non sono così coraggiosa, s i g h .
Domani andrò a stare dalla mia ragazza fino a lunedì, quindi per questi giorni non aspettatevi il prossimo capitolo. Mi dispiace tanto, era per avvertirvi!
Un bacio!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1130392