Vampire Devil

di Night_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** L'inizio o la fine? ***
Capitolo 3: *** Incontri spiacevoli... o piacevoli. ***
Capitolo 4: *** Determinazione perduta. ***
Capitolo 5: *** L'oscurità dei segreti. ***
Capitolo 6: *** Meglio la menzogna. ***
Capitolo 7: *** Occhi dorati. ***
Capitolo 8: *** Capirsi. ***
Capitolo 9: *** Senza anima, senza conoscenza, cosa rimane? ***
Capitolo 10: *** Una piacevole, prevedibile visita. ***
Capitolo 11: *** Coincidenze, caso, a random! ***
Capitolo 12: *** Le punizioni possono diventare ingiustizie vere e proprie. ***
Capitolo 13: *** La quiete prima della tempesta. ***
Capitolo 14: *** La calma è stata distrutta perché essa era solo un prologo. ***
Capitolo 15: *** Un diario dell'amore. ***
Capitolo 16: *** Lo sforzo dell'andare avanti e un gelato sciolto al sole. ***
Capitolo 17: *** Due passi in avanti, duecento indietro. ***
Capitolo 18: *** Ah, che peccato, non ci pensiamo. ***
Capitolo 19: *** Gli occhi dell'indifferenza. ***
Capitolo 20: *** La fastidiosa e ostentata ostinazione. ***
Capitolo 21: *** Quando un'amicizia diventa incomprensibile. ***
Capitolo 22: *** L'impagabile sensazione. ***
Capitolo 23: *** Le omissioni vengono a galla. ***
Capitolo 24: *** Le divergenze della debolezza illogica. ***
Capitolo 25: *** I sospiri, le palpitazioni e qualcosa che si muove. ***
Capitolo 26: *** Un sole spavaldo su visi immacolati. ***
Capitolo 27: *** Il salvatore senza armatura. ***
Capitolo 28: *** Vivere per dovere? ***
Capitolo 29: *** Nel fondo del passato. ***
Capitolo 30: *** "Takeshi". ***
Capitolo 31: *** Qualcosa sta pendendo verso il baratro. ***
Capitolo 32: *** Andrà tutto bene, vedrai. ***
Capitolo 33: *** Sii felice. ***
Capitolo 34: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Una bellezza scioccante.

Narratrice.



 

 

 

 

 

Prologo

 

 

 

 




 


 

La figura dagli occhi rubino sollevò lo sguardo alla volta oscurata dalla notte, osservando con un sorriso appena accennato le stelle. Splendevano, arroganti, come se si stessero vantando della loro imponenza, della loro luce senza fine. 
Ma quella persona aveva ben altro da fare. Abbassò la testa, schioccando una fredda occhiata al corpo accasciato al muro di mattoni rossi; una donna, - il cui mestiere non andrebbe detto in giro – dai lunghi capelli biondi, prima davvero splendidi, ora impiastricciati di sangue scuro.
Il collo, il petto prosperoso e i vestiti erano tinti di quel colore intenso, il cui odore sarebbe stato definito abominevole.
Ma la figura non la pensava affatto così; gli incavi sul collo della donna e le sue sottili labbra sporche di sangue ne erano le prove.
Non l'aveva scelta basandosi su un criterio, non agiva così. Aveva semplicemente passeggiato da quelle parti e, appena scambiata qualche parola, - appena affascinata completamente – l'aveva invitata in quel posto. Magari, se la donna avesse avuto un senso di responsabilità avrebbe rifiutato e avrebbe salva la vita. Scosse la testa, chiudendo gli occhi per un lungo, infinito istante - uguale a tutti gli altri che aveva vissuto.
Bene, la notte era giovane. E la figura si sentiva elettrizzata. 
Alzò le palpebre e s'incamminò verso l'uscita di quella stretta stradina; e i suoi occhi, così avvolgenti, cominciarono a mutare colore: scarlatto, arancione, e infine dorato.

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Capitolo 2
*** L'inizio o la fine? ***



 

E se farà male, sarà vero.

Yuki.

 

 

 

 

 

 

 

 

L'inizio o la fine?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Yuki Akawa era quel genere di persona inavvicinabile e che, in un modo o nell'altro – volontariamente o meno – riusciva sempre a sorprendere chi le stava attorno.
E certo, in un paesino sperduto come quello in cui lei viveva, non era troppo difficile sorpassare gli altri, che si trattasse di intelligenza o bellezza.
Ma lei non riusciva a rendersi conto dell'effetto devastante che esercitava il suo aspetto – o la sua aurea stessa, insomma.
I capelli, lunghi sino ai fianchi, di uno splendente colore argentato, setosi e chissà come, perennemente sani e senza nodi, e gli enigmatici occhi color oro – belli e luminosi come soli, bisognava solo interrogarsi sulla loro esistenza in natura. C'era comunque un piccolo inconveniente che riguardava, stavolta, il colore dei suoi capelli: visto il colore argentato tendente al bianco, veniva chiamata “albina”. Ed era esattamente una delle cose che più urtavano il suo impaziente sistema nervoso – detestava le nomine.

E odiava tanto anche quella strada in salita che, proprio adesso, camminava con passo deciso – per dirigersi a scuola. Un edificio costruito all'occidentale, ossia, l'unico liceo esistente in quel paesino – assurdo.
L'unica consolazione – mera consolazione – era quel piacevole venticello primaverile che accarezzava le guance e la fronte, scostando i filamenti argenti indietro, a creare piccole onde.
Una mera e... alquanto breve, consolazione.
Pochi istanti dopo, la sentì. Quella voce squillante, che ti penetrava in testa a tartassare la vittima – il cervello – e non ti lasciava andare per il resto della giornata, fino a quando non chiedevi pietà. E questa voce, alta e frizzante, apparteneva a colei in grado di correre, o meglio inciampare, la mattina presto.
Sayumi “Yumi” Ichinomiya.
Era pochi metri distante da Yuki e, in men che non si dica, era già arrivata al fianco dell'amica. I capelli rosa – ecco, un altro strano colore per i tratti somatici – erano in disordine per la corsa sfrenata e gli occhi, di un azzurro limpido, un po' nascosti dalle palpebre socchiuse.
Una ragazza graziosa quanto burrascosa.
Era piegata leggermente su se stessa, i palmi appoggiati sulle ginocchia.
«Ma... stai pensando di partecipare ad una maratona, per caso?», la voce dell'albina, perplessa e divertita, era accompagnata dal sopracciglio chiaro inarcato. Sayumi stava già sorridendo raggiante, prima di rimettersi dritta e sistemarsi la corta chioma sopra le spalle. «Qualcosa del genere».
Yuki storse le labbra sottili e pallide – hm. «Non è che semplicemente ti sei svegliata tardi, come tuo solito?». Sayumi aveva già spostato lo sguardo stordito altrove, a guardare i ragazzi camminare.
«Certo che no», rispose, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Se ho corso così, è per mantenermi in forma. Si avvicina l'estate».
E vabbè, pensò Yuki, sorridendo.
Emettendo un breve sospiro, si girò.
«Vabbè, che ne dici di andare? Sai com'è, la mia pelle non è resistente al sole come la tua», aveva poi borbottato, quando un raggio solare, violento e accecante, aveva centrato il volto immacolato dell'albina.
Sayumi lo sapeva bene – della sua poca resistenza. E, al contrario di lei, non ne soffriva per niente: l'incarnato rosa chiaro era simile a quello dei suoi capelli. Sorrise, annuendo.
«Ah-a».

 

 

 

 

***


 

 

 

Se c'era una cosa che Yuki davvero odiava – tra le tante, per la cronaca – erano i suoi compagni di classe. Quegli inutili, codardi e pettegoli compagni di classe che la ragazza aveva avuto la disgrazia di “conoscere”. A primo impatto, un anno fa, quando si era trasferita – più precisamente a metà anno scolastico – la classe le era sembrata apposto. Nella norma, insomma.
Poi, forse per il suo aspetto, forse per il modo di fare, Yuki si era guadagnata il deplorevole soprannome di “Principessa di Ghiaccio”.
Ma non è che avesse fatto qualcosa... davvero niente. Okay, aveva destato scalpore, ma niente di più, niente di meno.
Lei non parlava con loro e viceversa. Ma quest'ultimi avevano ben altro motivo per non rivolgerle la parola: soggezione. Lei non ne era cosciente – non lo credeva affatto.
E comunque, non era importante se quei balordi decidevano di non conversare con lei... ma il fatto che la mattina, appena giunta in classe, dovesse sorbirsi quel chiacchiericcio sommesso...
«Eccola, la “Principessa di Ghiaccio”», bisgbigliava una.
«Ahah, chissà come è riuscita a procurarsi quello stupido nome... », ghignava una seconda.
«E' così insulsa! Eppure ha già una schiera di ragazzi cotti.. bah».
E allora lei si voltò, schiarendosi la voce. Credevano di star parlando a bassa voce o cosa?
«Non avete niente di meglio di cui parlare se non della sottoscritta, la mattina presto? E se credete che io sia così insulsa, allora non vedo l'ora di vedere i vostri voti al prossimo test di algebra. Sarà uno spasso». Un sorriso altezzoso e si era accomodata al suo posto, un banco poco più dietro della finestra in prima fila.
Sayumi, invece, continuava a guardare con calma quei ragazzi che, indignati, avevano ripreso a parlottare – d'altro, chiaramente.
«Che branco d'idioti, eh», aveva detto, posando lo sguardo sull'amica. Yuki sospirò, ancora, appoggiando il mento sul dorso della mano. «Onestamente, mi chiedo come abbiano fatto ad entrare in questa scuola».
«Boh», rise l'altra. «Magari hanno dato una bustarella o qualcosa del genere».
«Ne sarebbero capaci!».
E così, le loro chiacchiere continuarono, ma per ben poco – poi Yuki si fermò. C'era un suono. Lo sentiva. Un suono molto basso, quasi impercettibile, ma che lei aveva sentito chiaramente, limpido e risuonante. Era il passo felpato di una persona che si aggirava lì vicino.
In quell'istante, era come se tutti i suoni e rumori fossero svaniti, lasciando uno spazio bianco e un silenzio assordante, sovrastato da quell'unico passo.
Era tutto sordo-- il vento, una brezza più violenta, le scompigliò i capelli. La porta era aperta. Non ci aveva fatto caso.
Lei...
«Yuki-chan?».
Sussultò. Fu quando l'amica chiamò il suo nome, con quell'adorabile onorifico, che si rese conto della presenza del professore d'inglese. Rivenuta, si alzò in piedi – di scatto, urtando la sedia. Nel silenzio imbarazzante della classe, Yuki spostava gli occhi da Sayumi al professore – ma... cosa... ?
«Stai bene?», chiese Yumi, un po' in apprensione, ignorando bellamente i richiami dell'insegnante.
L'albina fece un cenno col capo, sconnesso. Sì, stava... bene. «A dopo, allora».
«Akawa-san?», chiamò dopo la voce del professore. La diretta interessata portò l'attenzione sull'uomo. Alto, dai lineamenti delicati e con una mascella ben disegnata, più o meno sulla trentina. I capelli corvini erano portati indietro con il gel – sostanza strana, la chiamava Yumi – e gli occhi, come giusto che sia, di un marrone scuro. Informazione più importante: era single.
In totale, Yamato Okamoto era un bell'uomo.
«Sì, prof. Okamoto?».
L'uomo tenne lo sguardo fisso in quello oro di Yuki, per un po', allargando le labbra in un sorriso gentile. A parte Yumi, era l'unico in grado di tenerle testa e, soprattutto, di parlarle decentemente.
«Potresti distribuire questi?». Yamato sollevò un mazzo compatto di fogli con la mano destra, indicandoli con l'indice della sinistra. Lei annuì. Era certa di avere addosso un paio di sguardi carichi di astio e pura invidia, considerato quanto poco “espansivo” fosse il professore e, naturalmente, perché doveva essere quel pezzo di ghiaccio ad avvicinarcisi?
Ma non era importante, adesso, non quando nella sua testa c'era ben altro – lasciò il foglio sul banco di Sayumi. Le mimò con le labbra la frase «Anche oggi sostanza strana!», strappando una risatina all'amica.
Considerando che trascorreva la giornata insieme a quegli idioti, aveva bisogno di qualcosa di divertente o di un minimo soddisfacente o sarebbe stata ardua, sopportarli. I fogli erano terminati.
Quieta, tornò al suo posto – e i ciuffi che cadevano sulle orecchie, furono tirati dietro esse.
Stava cercando quel suono. Doveva.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Non se n'era accorta, Yuki, ma era arrivata l'ora di pranzo. Le ore erano passate, veloci e comunque tediose, ed ora guardava Sayumi intenta a prendere il suo bento*.
Guardandola, si era resa conto di quanto risultassero sicuri e fluidi, come torrenti d'acqua. Sin dalla prima volta che si erano parlate, le era sembrata diversa; da ogni cosa, da ogni persona, da tutto. Il modo di parlare, di dimostrare il suo affetto, il modo di osservare.
Era una persona interessante.
«Yuki-chan, pranziamo?», aveva chiesto, una volta al banco dell'albina. Yuki, per risposta, aveva sorriso sorniona. «Pranzi, vorrai dire».
«Ah, sì, giusto. Pranzo», uno sbuffo, un sospiro e un assottigliare le palpebre. «volevo dire. Continuo a chiedermi come fai a resistere così tante ore senza mangiare».
Yuki era in piedi e stava scostando la sedia indietro. Sayumi seguì i movimenti dell'amica e, quando le fu proprio affianco, prese il suo braccio sotto il proprio.
«Su, muoviamoci, ho voglia di gironzolare – dopo, dico!». Yuki fece una smorfia e, in pochi gesti veloci, si era liberata dalla presa dell'amica per prendere la sua mano.
«Come vuoi, ma conduco io! Con te ci perdiamo», rise, avanzando verso la porta scorrevole parallela alla cattedra. D'altronde, l'albina sapeva dove Yumi avrebbe voluto dirigersi, per il pranzo. Era diventata un'abitudine; raccattava Yuki dovunque ella fosse e poi andavano, tutte contente, nel luogo stabili.
La rosa arricciò il naso, offesa. «Come sarebbe? Sono qui da due anni, la strada ormai la conosco!». Ma Yuki rideva, scuotendo la testa, mentre si allontanava dall'altra per avviarsi davanti a sé – le scale che conducevano al terzo piano.
«Speriamo. Il terrazzo non è difficile da trovare, sai».
Ci fu un obiettare sconnesso, riempito di “bleah!” e linguacce, naturalmente stavano scherzando fra di loro; non avevano davvero argomenti in particolare da condividere, avendo avuto infanzie e crescita completamente diverse, ma a loro bastava sentirsi vicine.
L'una con l'altra.
Salivano le scale, aumentando la velocità e dopo riducendola, arrivando ridendo e scherzando fino al terzo piano – ossia dove c'erano gli studenti del terzo anno.
Al secondo piano, invece, c'erano quelli del primo e secondo anno e, al piano terra, stanze come lal segreteria, laboratori e classi utilizzate per i club.
Ogni volta, passare di lì... era una tortura. Una punizione.
Per qualche irrazionale motivo, i ragazzi erano sempre appostati alle porte delle proprie classi, spiando la gente che andava e veniva con falso disinteresse. Non appena vedevano passare le ragazze, partivano i fischi, i complimenti, le idiozie. Tante parole vuote e di pura circostanza, seguite da altre molto più sincere. Del tipo che ti venir voglia di romperti i timpani.
Dio solo sapeva quanto Yuki avrebbe voluto rispondere a quei decerebrati ma Sayumi riusciva sempre a fermarla in tempo, distraendola o facendole tornare la ragione con i suoi occhioni azzurri. D'altronde, Yuki non voleva scatenare dicerie o scenate.
«Comunque, hanno coraggio. Quelli del primo e secondo anno non tentano neanche di guardarti», disse Sayumi. «Sarà perché siamo senpai**?».
«Beh, evidentemente, i nostri senpai si sentono coraggiosi e spavaldi perché andranno all'università», disse l'albina. «Tra l'altro, non hanno certo paura di una ragazza, anzi».
Si fermò per un attimo, arricciando le labbra con disprezzo.
«Mi guardano come se fossi un innocente scoiattolo», aggiunse, dopo.
Sayumi scoppiò in fragorose risate, mentre superavano il terzo piano e si apprestavano a salire le scale per il terrazzo. «Già! E quando si avvicineranno per accarezzare il presunto scoiattolo... ».
«... capiranno di aver preso un abbaglio perché, in realtà, lo scoiattolo non è altri che una serpe».

 



* bento: i cestini che contengono il pranzo, sono carinissimi ahfosdhh-- 
** senpai: compagno di scuola o al lavoro, più grande. 

 

NOTA DELL'AUTRICE:

Haro! ♥

Lo so, volete Unmei no Hana. * crii crii*
Allora... questa storia ha un passato luuuuungo lungo. u.u

La ideai circa cinque anni fa' e col passare del tempo l'ho cambiata e rimodellata. In tutto sono tre serie/stagioni! E forse, ci sarà una specie di speciale. X”
Sarà un vero parto farle tutte e tre, ma ne vale la pena. x°D L'idea era di rendere questa storia il mio primo manga, quando sarò fumettista, ma per ora e per ovvie ragioni dovrò accontentarmi della fan fiction. Uwu
E poi, scrivendo i vari capitoli, mi sembra di avere più sotto controllo la storia e avere un quadro migliore dei rapporti tra i personaggi – ossia tantissimi.
Vabbé, vi lascio con il primo capitolo~ spero vi piacerà così quanto la amo io!

Night, ovviamente, con affetto. ♥ 

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Capitolo 3
*** Incontri spiacevoli... o piacevoli. ***


 

Segnava qualcosa.

Yuki.

 

 

 

 

 

 

 

 

Incontri spiacevoli o... piacevoli

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

Yuki si era fermata – per qualche strana ragione – davanti alla massiccia porta grigia che sfociava nel terrazzo. L'albina stava così, con la mano sospesa a mezz'aria e Sayumi uno scalino, spettatrice del suo atteggiamento – un ripensamento?
La rosa batté sulla spalla dell'amica, leggermente. «Yuki-chan? Che c'è, hai visto un ragno? In tal caso, ti saluto».
Nuovamente, era stata la voce acuta dell'amica a riscuoterla; scosse il capo leggermente, come per destarsi da un forte mal di testa e rivolse un sorriso debole all'amica.
«Già», disse. «Mi era proprio sembrato di vedere un ragno. Ma è stata solo un impressione. Credo».
A chi vuoi darla a bere?, pensava Sayumi, lo sguardo fisso in quello della ragazza – tuttavia, sembrava pacato, anche se lei non era né convinta né soddisfatta della risposta. I tratti si rilassarono ancora, in una piccola risata.
«Quindi anche alla famigerata Yuki Akawa i ragni fanno paura! Non l'avrei mai detto», esclamò, salendo quello scalino di differenza.
«Non mi fanno paura, ma schifo», la corresse la diretta interessata, storcendo le labbra sottili in una smorfia disgustata. Yumi posò la mano sulla maniglia, di un nero lucido borbottando un: «Certo, come no».
La porta si aprì.
A primo acchito, quest'ultima non pareva affatto antica – anzi – eppure il tremendo rumore che emetteva ogni volta che veniva chiusa, smentiva l'aspetto – e faceva sorgere i dubbi.
Era un nervoso. Oltre che un dolore irritante all'udito.
«Oh, mio Dio, che palle», mugugnò la rosa, posando i palmi sulle proprie orecchie. «Ogni volta, è la stessa storia. Ma non potrebbero fare qualcosa?».
«E cosa potrebbero fare? Olio?», domandò Yuki, mentre si avvicinavano al loro posto preferito; poco distante dall'entrata, sedute a terra – non prima di aver spolverato come si deve – e con le schiene rivolte contro le ringhiere. Non era comodissimo, sentendosi i fondoschiena duri come marmo, ma piaceva comunque a tutte e due.
Una volta sedute, Yumi si appoggiò il bento* sulle gambe. «Boh. Per me potrebbero metterci anche lo shampoo. Baste che fanno qualcosa, quei scansafatiche!».
L'altra scoppiò a ridere.
«Cosa ridi?! Guarda che la mia è un'ottima idea!», imbronciandosi, sciolse il nodo del fazzoletto che teneva il bento. Yuki strofinò il dorso della mano sugli occhi, asciugando delle fuggenti lacrime dalle risate. «Niente in contrario, figurati, ma perché... lo s-shampoo?». 
«Ho tirato a casaccio», disse l'altra. «Avrei potuto dire anche, che so, di... usare una lumaca!».
Yuki, per risposta, storse il naso per niente convinta – e Sayumi batté le palpebre, sorpresa.
«Non ti piacciono?», chiese, quasi delusa, immotivatamente delusa.
«Le lumache? Per niente», si fermò un secondo, il tempo di cacciare un sospiro – un pochetto dubbiosa. «sono viscide».
E la ragazza dagli assurdi capelli rosa non rispose, decidendo di cominciare a mangiare – perché il tempo era agli sgoccioli – conscia che la sua migliore amica non avrebbe cambiato idea. Ma non era poi così importante. Yuki stava ancora ridacchiando quando, voltandosi, la vide. Credeva che Sayumi avrebbe cominciato a mangiare, a dare la sua attenzione al cibo e, invece, guardava in alto.
Il profilo rivolto verso un cielo color cobalto; le labbra semichiuse e lo sguardo lontano, come se le sue iridi stessero salutando qualcosa – o qualcuno – che aveva perso.
Yuki, dal canto suo, non riusciva a provare niente in quei istanti – un po' di curiosità, forse. Si limitava a tacere, guardando lo stesso punto.
Erano momenti intensi e, da una parte, strani.
Si chiedeva se un giorno sarebbero mai terminati.

 

 

 

***

 

 


«Io vado, allora».
Non avevano più parlato.
Per tutta la durata del pranzo della rosa, avevano taciuto, guardando il cielo. Quelle parole erano state le uniche che aveva sentito da Sayumi, quando finalmente aveva staccato lo sguardo dal pranzo. Yuki era semplicemente frastornata – come sempre. Annuì. Mentre la guardava alzarsi e darle le spalle, si domandava silenziosamente – e mentalmente – se mai le avrebbe spiegato quello strano atteggiamento. Ma dopotutto, anche Yuki aveva segreti da mantenere.
«Segreti, eh... », mormorò. Si alzò dal pavimento, con qualche pacca alla gonna, appoggiandosi piano alla sbarra della ringhiera con i gomiti.
Avrebbe dovuto andarsene, teoricamente.
Da lì a poco, il suono della campanella che segnava il ricominciare delle lezioni avrebbe invaso tutto l'istituto e costretto l'albina a tornare anche lei in classe. L'idea non era attellante.
«Ho di meglio da fare che seguire delle stupide lezioni». Già.
C'erano molte cose da fare e quella che più le premeva era...
«... che ne dici di scendere da lì?».
Annoiata, portò leggermente il capo indietro, lasciando scoperto un collo bianco. Una risata echeggiò. Una risata che le sembrò dannatamente irritante, di quelle che ti urtano feroci il sistema nervoso. E per tipi come Yuki, palesemente infastiditi da tutto, quella era sfida. Una sfida che urlava “Uccidemi, uccidemi!”.
E poi, sentì il rumore di passi e il tonfo di qualcuno che saltava e atterrava – sollevò il capo e guardò davanti a sé.
Una figura. Un ragazzo – dai passi decisi e felpati.
Era un ragazzo. Probabilmente, come lei e l'amica, del secondo anno; lo si notava bene dai lineamenti leggermente spigolosi, quelli che sembravano avviarsi verso l'aspetto più maturo, ma che contribuivano bene alla sua... bellezza.
Oh.
Ed eccolo, lui era davanti a lei. I capelli di un castano chiaro, un po' arruffati – sembravano davvero tanti –, cadevano sugli occhi scuri come cioccolato fondente amalgamato al latte. Non riusciva a staccare lo sguardo da quelle gemme scure.
Erano la cosa più bella che lei avesse avuto l'onore di vedere. Intensi, penetranti. Capaci di renderti loro succube, in cui, se non prestata attenzione, ci si poteva annegare. Non riusciva a spiccicare parola.
Le labbra schiuse e il viso un po' sollevato – il ragazzo era nettamente più alto –, con lo sguardo di chi non lo avrebbe mai distolto. Anche lui la guardava.
Le labbra carnose e rosee allargate in un fascinoso sorriso, le mani nelle tasche.
«Yuki», disse solamente – dannazione, la voce era come una carezza. L'albina non rispose.
«Sei tu, non è vero?».
Silenzio.
«O forse dovrei... chiamarti “Principessa di Ghiaccio”?».
Silenzio.
«Qual è il tuo colore preferito?».
«Lilla».
Lui sorrise ancora e ancora. E Yuki inspirò abbassando di poco la testa. Espirò – senza fiato.
«Che vuoi?». Poteva essere bello quanto voleva, dannazione, ma non si sarebbe sciolta. No.
Anche se quel ragazzo continuava a guardarla, come se volesse strapparle di dosso la pelle, come se volesse studiare la sua muscolatura.
Dannazione.
La stava consumando.
«Non mi chiedi di che classe sono o come mi chiamo e via dicendo?».
«Okay. Di che classe sei, che diavolo vuoi?».
«Il mio nome è Takeshi Katugawa», e Yuki poteva giurarlo sulla sua testa, ma se possibile, aveva il sorriso più ironico e divertito del mondo. «e la mia classe è la “classe in fondo”. Ovvero, la 2-C. Ne avrai sentito parlare e... beh, il piacere è tutto mio, cherì».
Yuki dovette fare appello a tutte le sue forze per non pestarlo a sangue lì, sul momento, sul posto – niente da fare.
«E che vuoi?», disse, alzando due dita per toccarsi la tempia.
«Che voglio... ?».
Takeshi fece un passo in avanti, svelto e improvviso, afferrando quella stessa mano posata sulla tempia – e con l'altro braccio, andò a circondarle la vita, attirandosela contro. Con dolcezza, con attenzione. Ora, la ragazza poteva affermare che non era solo bello, ma che il suo corpo parlava da sé – fermo e tonico, una specie di scultura.
Ma non era questo che---
«Sappi che non ti lascerò mai più, una volta che ti avrò detto le mie intenzioni».
La sua voce era una fitta.
Ma lei, non faceva una piega, limitandosi a guardare quelle iridi. Non mostrava sorpresa, non mostrava rabbia – era immobile. Lo vide avvicinarsi ancora e ancora, fino a quando non si trovarono a sfiorarsi le punte dei nasi.
E solo a quel punto, lui parlò davvero.
«Voglio... perseguitarti».

 

 

 

***

 


 

Ancora.
Quel silenzio – lei cominciava ad odiarlo – era calato di nuovo. Ma non era lo stesso silenzio freddo e intoccabile, sfuggente come la stessa aria che lambiva i volti di quei due, no. Era diverso. Era un silenzio caldo come il sole.
E che palle!, pensò lei, sbuffando. Vide Takeshi – quel nuovo arrivato – alzare appena le sopracciglia e aprire le labbra, davvero perplesso. Beh, di solito, non si reagisce così ad una frase del genere – eh, no.
Approfittando della distrazione, lo scansò, spaesata.
Aveva ricevuto delle dichiarazione, pure troppe. Ma mai... «Hmm... beh, addio». Doveva andare via. Subito.
Ora che era libera da quel abbraccio, passò affiancò a Takeshi, rapida ma lui ebbe il riflesso di prenderla per il sottile polso. Ecco, ora lei cominciava a sudare freddo, con il volto che andava a fuoco e il battito che andava accelerando.
La gola e le labbra diventavano secche, come deserti in piena estate. La vista si faceva instabile, sfocata – e le forze sfuggivano via. Il corpo, era un macigno, ogni tentativo di passo era messo in discussione.
Ormai era impossibile anche solo pensare – e cadde. In avanti, a rallentatore, improvvisamente sicura che avrebbe fatto male, considerando che il viso avrebbe battuto contro il cemento.
Non riusciva a salvarsi la pelle.
«Yuki, tutto bene?». Non sentiva dolore. Non era caduta... ?
Aveva chiuso gli occhi, d'istinto, aspettando semplicemente che il dolore la prendesse – e invece, no. Lentamente, aprì gli occhi.
Braccia solide che stringevano il suo corpo. Viso preoccupato, sinceramente preoccupato. Seduto sui talloni.
La schiena di lei appoggiata sulle sue gambe.
«Ah». Monosillabi. Di nuovo!
«Stai... bene?», mormorò Takeshi.
«No. No, non sto bene!», perché cavolo stava urlando? «... vado in infermeria. Non mi seguire».
«Sì, ma---».
«Maledetto stalker».
«Prego, le apro la porta».
E lo fece, sul serio, dopo averla aiutata a rimettersi in piedi – anche se lei era decisamente riluttante –, aveva raggiunto la porta, aprendola senza farle emettere un solo cigolio.
Yuki alzò un sopracciglio.
«Faccio finta di niente. Beh... », si voltò per guardarlo, alle sua spalle – a disagio. «... ciao, allora».
Gli occhi di Takeshi brillarono elettrizzati. «Ciao. Se ti senti male, fammelo sapere».
«Mai».
Lui sorrise – diciamo che gli andava bene. Il suono della campanella fu così improvviso e assordante da far sussultare entrambi che, dopo un cenno di lei, si divisero. Finalmente. Mentre scendeva le scale, Yuki si portò una mano dietro la nuca, sfiorando con i polpastrelli i capelli argentei.
L'incontro più strano della mia vita, pensava, scuotendo il capo, veramente, veramente strano. Spero di non vederlo più.
E sovrappensiero... «Classe in fondo, eh? Devo chiedere a Yumi. Ma... ».
non mi importa di quello stalker! Tsk!
«Non me ne importa... niente... eh?».

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL'AUTRICE:

Tutturu! – guardo troppo Steins;Gate.
Okay, facciamo i seri. X”
Ecco a voi... *rullo di tamburo*
Il secondo capitolo di Vampire Devil! *applausi*
L'altra volta non l'ho detto, ma sto cambiando quasi completamente tutti i capitoli. Difatti anche nel secondo capitolo - questo qui - ci sono cose e dettagli che nell'originale non c'erano. xD
Comunque, la storia non subirà cambiamenti... forse il passato di Sayumi... ma per scoprirlo, non vi resta che leggere!


Night, ovviamente, con affetto.
 

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Capitolo 4
*** Determinazione perduta. ***


 

In un mare di guai, in un mare di fatti.

Sayumi.

 

 

 

 

 

 

 

Determinazione perduta

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Sei in ritardo».
Nella voce di Sayumi c'era quella leggera incrinatura, una specie di crepa che, col tempo, di solito finiva per diventare irreparabile – Yuki era appena giunta. Davanti alla porta, vide lo sguardo turchese della sua amica, teso e in preda all'apprensione. Con tutta la nonchalanche del mondo, le passò di fianco.
«Ci eravamo date appuntamento?», disse, velatamente ironica.
«No, ma... hai saltato un'intera ora».
«Non muoio mica se ne salto una».
«Ma cosa stai dicendo?!».
Sayumi sembrava arrabbiata, agli occhi dell'albina e, dal canto suo, non riusciva a spiegarsene il motivo; era lei quella che era quasi svenuta sul terrazzo, era lei che si era trascinata, in qualche modo, fino all'infermeria, onde evitare altre cadute improvvise.
Era lei; era lei, anche, che non sapeva e non capiva lo strato che si nascondeva dietro gli occhi irati di Sayumi. Che non riusciva a trovare la verità per quella strana arrabbiatura. «Non voglio urlarti contro solo perché qualcuno mi ha fatto girare le pa- evitiamo».
L'altra s'irrigidì di colpo, stringendosi leggermente nelle spalle contratte – sconcertata. 
«Yumi?», mormorò, stanca, l'albina. Non sapeva come esprimersi senza ferirla ancora.
«Lascia stare», balbettò Sayumi. «Solo, evita di saltare le lezioni a caso».
E si voltò, lentamente, andando a sedersi al suo posto sotto lo sguardo – privo di espressivit à – di Yuki. Socchiuse le palpebre e anche lei si diresse al suo banco.
In silenzio.
Per quel giorno, avrebbe voluto tornasene a casa senza altre novità. Domande che gli frullavano il cervello, impazienti.
E siccome le domande non bastavano – no, affatto –, mentre passava fra i banchi per raggiungere il proprio, il suo nome spuntò sussurrato e odioso, alle sue orecchie. Rallentò un poco il passo, deviando la destinazione per raggiungere la finestra.
Dio, se odiava farlo – cionostante, dovette tendere le orecchie.
«Ehi, hai sentito?», diceva una.
«Cosa?».
«Hai presente Takeshi Katugawa, no? Quel bel ragazzo della 2-C. Si dice che abbia rotto le gambe a due ragazzi, con un calcio!».
Le mani dell'albina, posate sul davanzale della finestra, ebbero un forte fremito – un brivido. E non poteva nemmeno credere di aver sentito male, no. Affrontando la realtà, si appoggiò con i gomiti.
«Oddio! E quei ragazzi?».
«All'ospedale... a quanto pare, questo tipo non è stato sospeso né espulso. Incredibile».
«Beh, se è avvenuto fuori dalla scuola.. », mormorò l'altra.
Quindi quel ragazzo è un poco di buono. Tutti io li incontro, wow, pensava, abbassando le sopracciglia fino ad aggrottarle – con chi aveva a che fare? Esattamente, non sapeva dirlo. Non sapeva abbastanza.
«Questi ragazzi sono traumatizzati. Pare che stiano farneticando frasi senza senso... indovina riguardo chi?».
«Non ne ho idea!», esclamò.
«La nostra "Principessa di Ghiaccio", Yuki Akawa!».
Bene
La sorpresa era stata talmente tanta e improvvisa che i suoi gomiti cedettero e scivolarono via dal davanzale, facendo precipitare la sua fronte contro la superficie piatta e fredda – accidenti. E le due ragazze, sobbalzando, schioccarono qualche occhiata verso di lei. E tornarono a bisbigliare. «Perché lei?».
«Boh. Probabilmente avevano una cotta per lei o... superficiale interesse!», rispose l'altra. Poi rise. «Magari è stata una specie di battaglia tra uomini per il suo amore».
«Figo! Mi dispiace per loro, dubito che otterranno qualcosa».
C'era da dire che quella ragazza la conosceva abbastanza bene, pur non essendosi mai scambiate mezza parola – Yuki annuì appena. Aveva ragione. Lei che non prestava attenzione a nessuno, figurarsi se concedeva chissà cosa a chissà chi! Stringendo le labbra per non sospirare ancora e ancora, si voltò, camminando verso la porta scorrevole parallela alla cattedra.
Classe in fondo, eh?, pensava, mentre faceva un passo in avanti, restando sulla soglia. Guardò alla sua destra: diverse classi e il vocare sommesso o eloquente. E risate, grasse risate. Il corridoio non possedeva molta luce, se non quella che veniva direttamente dalle grandi finistre in fondo.
Un fascio di luce segnava il punto, rivelando microscopica polvere nell'aria.
«In fondo», ripeté, mentre metteva un piede di fronte all'altro.
In fondo, molto in fondo..., e mentre i suoi pensieri sfuggivano dal suo controllo, insieme ai suoi passi, aveva già superato una classe, e poi un'altra, e un'altra ancora – giunse. L'ultima classe.
In fondo al corridoio – era proprio davanti. Alzò lo sguardo, ispezionando la porta e tutto intorno ad essa, scorgendo poi di lato un cartello rettangolare: "2-C".
«Sarebbe questa, la classe dello stalker», borbottò fra sé – qualcuno uscì. Un ragazzo.
Non era Takeshi, per fortuna, ma un ragazzo dagli eccentrici capelli bianchi, anche più di quelli dell'albina. Probabilmente, a giudicare da un sottile livello più scuro, erano tinti.
«Ti serve qualcosa?», si voltò verso Yuki e così, con tranquillità, le fece questa domanda.
Lei sussultò. Era talmente calmo e.. rilassato?... da metterle una strana ansia, addosso. «Sto cercando Takeshi Katugawa».
L'istante dopo si era già maledetta e pentita. Le era uscito così, senza che nemmeno ci avesse fatto caso. Il ragazzo annuì, indietreggiando per sporsi con la testa nella classe e, a tono alto- venne fermato da Yuki. Lo afferrò per la manica del cardigan, tirandolo un poco. «NO! Cioè- non mi serve niente».
Il ragazzo non batteva ciglio. «Avevi detto che cercavi Katugawa».
«Ecco... no. Mi sono... veramente... oh, chiudi quella fogna! E' stato un errore! Un Diavolo di errore! Ignora! Dentro! Classe!». E okay che non aveva mai avuto questo grande rispetto per gli altri, ma ormai stava cominciando a parlargli come se fosse diventata la reincarnazione di Adolf Hitler.
O un addestratore per pastori tedeschi.
Nel panico più totale, farfugliò: «Chi sei?». E lo guardava per capire com'è che non fosse affatto in soggezione, in sua presenza.
«Si dice "Come ti chiami", a dir il vero. Sono Kazuki», rispose, lentamente. Quasi scandendo le parole.
«Bene», lei incrociò le braccia al petto. «Kazuki, capisco. E conosci questo Katugawa? Non che mi inter---».
Kazuki fece un cenno col capo – esattamente come un cagnolino – e, allungando una mano coperta per metà dalla manica della giacca di lana, prese la mano di Yuki – oh. Lei non si riuscì a concedere nemmeno il tempo di capire chi gli avesse dato il permesso di toccarla o di cominciare a comportarsi come un cane che volesse giocare, limitandosi a borbottare cose come: «Ti ucciderò», «Faccia di plastica».
Ormai erano dentro, sotto gli occhi di un'intera classe – sottostiamo, assurda.
Almeno la metà aveva i capelli tinti dei più mirabolandi colori, visi truccati fino a pesare più del dovuto, e divise portate nel modo più peggiore. Ma sembravano tranquilli.
«Katugawa?», chiamò Kazuki, con la sua voce impostata su "piatto". Si guardò attorno. «Mi dispiace, Akawa, ma pare ch--».
Durante il gioco del "Interrompi chi vuoi", era risaputo che scrupoli o tentennamenti non erano molto graditi e Yuki era l'apoteosi della crudeltà – gli afferrò la giacca per tirarselo incontro.
E poi, con la grazia di un lottatore di sumo, gli mollò un gancio destro. 
E fu così che Yuki Akawa si creò l'ennesima scenata da premio Oscar – più una classe a metà fra il terrorizzato e l'isterico.
«Idiota! Maledetta faccia di plastica!», urlava, inviperita. E chi se ne fregava se il ragazzo si piegava un po', tanto era il dolore alla guancia – pulsante. Eppure, udite udite, non appariva né arrabbiato né sgomento. No.
Sul suo viso c'era sorpresa.
E meraviglia.
Occhi che fissavano, miracolosamente contenti.
«Ma allora hai emozioni», disse Yuki, stupita. Posò le mani sui fianchi, aggiungendo con voce dura: «Comunque, non dire a nessuno che ero qui. Anche perché non... niente. Chiaro?».
«Una ragazza che prende a pugni un ragazzo in quel modo... ».
«Eh? Ah, scusa tanto, tsk».
Ma no, non era quello che intendeva il ragazzo. Si alzò in piedi, afferrò le mani di Yuki e se le portò al proprio petto.
«Ho bisogno di te!».

 

 

 

 

***

 

 

 

«Che cosa hai detto?».
Con l'ennesimo scatto, si era divincolata da quella gentile e lenta presa, per fare un passo indietro e squadrarlo, come se davanti ai suoi occhi ci fosse un corpo in putrefazione. Un altro passo indietro e un sorriso. «Beh... addio. E' stato bello prenderti a pugni».
Detto ciò, continuò a camminare a passi indietro, fin quando non si decise a dargli le spalle e a catapultarsi fuori da quella classe – per sbollire un po', ecco. Ciò non voleva dire che non sentisse il vociare sorpreso e divertito di quella gente assurda. Qualcuno diceva a Kazuki di aver provato ad approcciarsi alla persona più sbagliata del mondo, qualcuno che poteva anche ritentare – seh – o che era stato davvero ridicolo il tutto.
Tsk.
«Akawa-san, aspetta!».
Ed eccolo nuovamente davanti a lei, le braccia stese e le sopracciglia leggermente inarcate. Un accenno di espressione sul viso pulito. «Devo parlarti».
Ma che diavolo è, oggi? La giornata nazionale del "Infastidiamo Yuki"? , pensava, conservando quel minimo di amabilità che gli permetteva di andare ancora a scuola. E infatti: «Che vuoi, razza di feccia in via di estinzione?». Ma a quella testa calda di un Kazuki sembravano non toccare minimamente frasi di questo genere, veri e propri insulti. Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e si grattò il capo, indeciso. «Ho bisogno della tua torza!».
«Spostati».
«Non potresti almeno ascoltarmi?», insistette lui. Yuki chinò il capo, sospirò.
Ah, che seccatura, pensò. Sin da quando si era svegliata e i suoi occhi avevano guardato, ostili, il tetto del suo letto a baldacchino, aveva sentito la morsa tipica del "brutto presentimento". E aveva ragione. Takeshi, Sayumi e adesso Kazuki.
Batté le palpebre una sola volta, prima di sollevare il viso e mormorare: «... una cosa istantanea». E se doveva essere onesta, vedergli quella forza d'animo brillante che, una volta, splendeva anche in lei... era un po' nostalgico.
Una forza, una determinazione, che aveva perso da un po'.
Kazuki sorrise e annuì, portando l'albina a sedersi sui primi scalini delle scale parallele alla 2-C.
«Quindi? Cosa ti serve da me?», domandò Yuki, una volta messi fianco a fianco – accavallò le gambe a attese. Attese che Kazuki raccogliesse da qualche parte quella famigerata determinazione. «Vedi, ho fondato un club di pugilato», esordì. «Ma i componeti scarseggiano. E gli attuali, non danno il massimo come dovrebbero. Può sembrare un po' strano chiederti una cosa simile, ma... ».
«No», lo interruppe Yuki.
Giochiamo ancora questo gioco, pensò, mentre si alzava. Kazuki era sussultato, sul viso un espressione costernata – lei lo guardò.
«Ascolta... sai chi sono, vero? Per questo hai saputo il mio cognome senza che mi presentassi», disse. «Di certo, anche se provassi, non mi permetterebbero di entrare nel tuo club né di partire al torneo».
«Ma io non ho parlato del torneo!», esclamò lui, alzando le sopracciglia quel tanto che bastava a fargli un viso sorpreso. L'albina alzò una mano, per portare l'indice destro al mento e picchiettarlo. «Se il club esiste ancora, vuol dire che hai più di quattro membri. In questo caso, non saresti costreetto a chiedermi di farne parte – a meno che non ci sia un evento. Stamani ho letto una locandina. Ci vogliono cinque memebri, esatto?».
Se possibile, Kazuki era ancora più stupefatto di quando aveva ricevuto quel pugno, prima.
«... degna della tua fama», disse, con un sorriso storto. «Ma non è giusto che non ti facciano entrare per motivi personali. Talmente stupidi».
Abbassò lo sguardo a terra. «E il club è mio, uffa».
Yuki inclinò lievemente il capo di lato, lasciando oscillare la chioma argentea come una tenda a frange e sorrise, ad occhi socchiusi.
«Io vado, eh. Tanti saluti e brutte cose, mi raccomando».
E si girò, con la stessa movenza di una fata – che di certo non era – con un sorriso che troneggiava trionfante sulle labbra sottili... ed esso si spense, alla bellissima e penosa visione che ebbe; Takeshi fermo a pochi metri da lei, mani nelle tasche, gli occhi coperti da ciuffi scuri – aprì la bocca carnosa.
«Ehilà».

 

 

 

 

 

NOTA DELL'AUTRICE:
Bonsoir, minna-san!
Viva il francese e il giapponese mischiati! ~

Eccoci arrivati al... rullo di tamburi* ... 3° capitolo!
Sapete, se fosse per me posterei tutti i capitoli in una volta ma... è palloso. X°
E poi sarebbe troppo veloce. Ho già pronto il 4°, eheh.

Bene, bene... COSA STA NASCONDENDO SAYUMI?! °A° Bella domanda. Me lo sto chiedendo anch'io.
E sono l'autrice! :D

Va bien, vi lascio. Vado a scrivere il 5° capitolo. Recensite o vi punisco a morte! °A°

 

 

Night, ovviamente, con affetto.

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Capitolo 5
*** L'oscurità dei segreti. ***


 

 

Mi dispiace.

Yuki.

 

 

 

 

 

 

L'oscurità dei segreti

 

 

 

 

 

 

 







Ecco.
Yuki poteva tranquillamente ritenere quel momento il "quadretto perfetto", che di perfezione aveva ben poco; lei, la tanto desiderata e amata dama, e i due ragazzi, gli idioti innamorati – beh, non era molto corretto come dettaglio, questo.
Il ché era meglio così: meno ammiratori aveva, meglio era.
«Oh», bisbigliò Yuki, arricciando le labbra in una smorfia. Sentiva il suo sguardo addosso come una calamità ed era... stressante. «Ci incontriamo ancora».
«A quanto pare sì, mademoiselle», cantilenò lui.
«Smettila di chiamarmi a quel modo!», ringhiò l'albina, chiudendo le mani a pugni prudenti – neanche molto. «Lo odio!». Per ghiacciare i nervi e poi stenderli, con tranquillità, inspirò profondamente – e svuotò i polmoni come fossero palloncini. Bene.
Era calma. Più o meno, lo era, insomma; stendendo le labbra in un leggero sorriso, si voltò in direzione di Kazuki che, da parte suo, era alquanto interdetto dalla scena appena vista. Batteva le palpebre e aggrottava appena appena la fronte, inclinava il capo, possedeva persino un espressione facciale di confusione.
«Ehm, io sto andando», bisbigliò, mentre già cominciava a salire gli scalini di fianco al ragazzo dai capelli chiari e gli faceva "ciao" con la mano.
«Ah--», riuscì a sentire quella che sembrava una frase, da Kazuki – ma non aveva importanza in quel momento. Voleva andare via da lì, al più presto, e non solo perché mancavano tre minuti all'inizio della penultima ora. Almeno, così diceva il suo orologio da polso; e allora, ignorando tranquillamente il ticchettio insistente delle sue scarpe, mentre correva a perdifiato per quel breve corridoio del terzo anno – una scorciatoia – si sentì chiamare.
Cosa avreste fatto voi? Vi sareste girati, no?
Ed è ciò che fece anche Yuki, naturalmente-- con una sorpresa non molto gradita. «Che accidenti fai qui, Katugawa?!». Il ragazzo era proprio al suo fianco e correva, reggendo – senza il minimo affanno – l'andatura dell'albina e rivolgendole, al contempo, un sorriso placido.
«Ti seguo!», esclamò.
«Questo lo vedo anch'io! T-torna nella tua classe... !».
«E perché dovrei farlo?».
Yuki strizzò gli occhi, irata. «Perché le mucche volano. Che domande! Perché le lezioni stanno cominciando!».
A quel punto, un sorriso compiaciuto gli incurvò la bocca carnosa e, addirittura, era lì lì per ridere – o ridacchiare, insomma. «Solo per questo, eh».
Yuki aggrottò la fronte, aprendo la bocca con tutta l'intenzione – aggressiva, ovviamente – di ribattere, ma la richiuse un istante dopo: non aveva tempo da perdere. Non con lui, per lo meno – dunque, tornò a guardare davanti. Erano ormai arrivati in cima alle scale che davano davanti alla 2-B, la classe di Yuki – ce l'aveva fatta in tempo!
«In anticipo!», disse, sorridendo. Appoggiò le mani sui fianchi e pompò un poco il petto, annuendo soddisfatta di se stessa. «Sono stata brava!», e rivolgendo un'occhiataccia a Takeshi, aggiunse: «Io sto andando in classe, almeno lì non seguirmi!».
Lui sorrise – e no, non era possibile.
Nell'attimo in cui lei mosse una gamba per cominciare a scendere i gradini, lui fece un piccolo e rapido scatto per afferrarle il sottile polso e sospingerla contro il proprio torace – e respirare, senza volerlo, contro il suo collo. «Cos---». Era come una carezza pre estiva, che danzava sulla pelle del collo – e poi, le braccia di lui le cinsero tutto intorno le spalle. Dio, non potevano certo restare così; si dimenò, imprecò sottovoce, pensò persino di sgusciare da sotto. Era bloccata e sentiva gli arti pesanti come piombo, era tutto così... strano, vicino, imbarazzante.
«Shh», soffiò Takeshi, mentre con delicatezza, prese il mento dell'albina per invogliarla a girarsi dalla sua parte. Troppo, troppo, troppo vicino! Sentiva le guance andarle a fuoco – sentiva la testa girare come una trottola.
«Togliti. Ora!», sibilò. «Guarda che sono capace di darti una ginocchiata». E anche se diceva così, sicuramente dava l'impressione di una pecorella smarrita, con le guance a fuoco e le gambe che andavano via via accalorandosi sempre di più, diventare deboli e tremanti. 
«Nessun problema», mormorò lui – e sorrise, ancora una volta.
«Ti sbagli! E' un problema! Se salto anche quest'ora avrò problemi! Idiota!».
Strizzò gli occhi e prego qualsiasi Dio lassù in cielo di darle una mano – ne aveva un disperato bisogno.
E successe; avvertì nitidamente la presa di Takeshi allentarsi gradualmente, fin quando non fu abbastanza debole da permetterle di scostarlo e fare due passi in avanti, veloce, quasi inciampando nell'aria – e con la stessa velocità, scese le scale.
«Non mi seguire più», disse, davanti alla porta socchiusa, una mano posata su di essa, mentre riprendeva lenta il respiro regolare e minacciava il cuore di smettere di fare il pazzo.
Okay, andava tutto bene, se non altro non era nella sua morsa e... le guance erano tornate normali. Non sentiva nemmeno caldo. Tutto bene. Inspirò – e anche se la sua voce era ghiaccio, lui rise.
«Questo è impossibile!».
Yuki si voltò appena, con un sorriso malvagio sulle labbra sottili – un sorriso strano. «Oh, non è così. Sono sicura che mi lascerai in pace, di tua sponté. Prima o poi, tanto, si verrà a sapere... ».
Takeshi guardò il suo profilo. «Di cosa stai parlando?».
«Ascoltami bene», e ignorò bellamente la domanda del moro, perché non le interessava dargli informazioni. Perché lui doveva solo obbedire. «Seguimi ancora e dovrò... ucciderti».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Per un istante – in cui aveva percepito un freddo polare sulla nuca – c'era stato qualcosa di diverso, di ambiguo, in quella ragazza dalla pelle pallida, i capelli argentei e gli occhi di un oro sciolto. "Si verrà a sapere" – un segreto. C'era qualcosa che lei custodiva attentamente.
Eppure, lui l'aveva osservata, studiata, come uno scienziato sulla sua cavia preferita e adesso, lui sapeva praticamente tutto.
Ma qualcosa gli era evidentemente sfuggito.
«Mi ucciderai», ripeté con calma. «Non so perché», ridacchiò, «ma ho la netta sensazione che ne saresti pienamente capace. E' così, vero?».
«Può darsi», rispose l'albina, lo sguardo tornato fisso sulla porta; guardava attraverso quello spiffero, la luce che si rifletteva debole sui suoi occhi e la polvere che riusciva persino a vedere. «Forse dipende anche da quanto ne sei convinto. Sai, una persona, una volta, mi ha detto che quanto più sei certo che qualcosa accadrà, quella sara possibile».
«Dev'essere la cosidetta forza di volontà».
«Già. Quindi, stai in campana», l'ultimo bisbigliò, prima che il suono assordante della campanella riempì la scuola e stroncò i loro discorsi. Come se si trovassero in autostrada gremita di rumori e suoni, lei mosse le labbra – ma la voce era appena appena sentibile.
Sembrava una tv impostata su 3 di volume.
"Non esiterò a farti fuori, la prossima volta", aveva detto, giusto? Lui rise leggermente, mentre la campanella smetteva di strillare un po' alla volta – e lei, intanto, era entrata dentro. Se ci pensava un secondo, Yuki non riusciva a capacitarsi come un tipo talmente eccentrico ed intrigante avesse cominciato a... perseguitarla, in sostanza – proprio come aveva promesso.
Doveva essere il tipo di persona che mantiene la parola data. Il ché era un problema – sospirò allungo.
«Ehi!».
Sollevò il viso – e vide Sayumi rivolgerle un largo sorriso.
«Ehi», rispose l'albina, arricciando un poco il nasino. «Senti, posso farti una domanda?».
Passandosi una mano verso le punte dei capelli, l'altra annuì. «Certo, dimmi».
«Conosci... una certa sezione chiamata "classe in fondo"?».
«Beh, è famosissima», disse Yumi. «Principalmente perché è composta da delinquenti e scansafatiche – ed è inutile la spiegazione sul nome "classe in fondo", no? E poi, comunque, sono noti anche perché-- beh, non fanno un accidenti. La metà degli alunni sono ripetenti!».
Yuki aggrottò la fronte – come come?
«Delinquenti e scansafatiche? Noti perché non fanno un accidenti? Ma che diavolo di classe è?!», sbottò, alzando entrambe le sopracciglia e poi, sbuffando, tacque.
Takeshi a quale "gruppo" appartiene, allora? Cioè--- Katugawa!, pensò, afferrando un lembo della gonna con una mano e cominciando a stropicciarla, nervosa, seccata. Stava perdendo la bussola? In ogni caso, c'erano altre domande a cui voleva necessariamente una risposta, ecco. Per chiarirsi le idee.
«Sai qualcosa su Takeshi Katugawa? Fa parte di quella classe... ».
Sayumi portò una mano al mento, cercando di far mente locale – fin quando non interruppe i pensieri, annuendo. «Mh. E' piuttosto famoso, qui a scuola, ma naturalmente tu non puoi né volevi saperlo, giusto? In ogni caso, non molto con gli altri, che siano della sua età, kohai o senpai, sembra che sia un po' taciturno. Però so che è molto popolare per il suo aspetto e... non so, non l'ho mai incontrato. Poi--».
«Poi?».
«Pare che sia molto letale», mormorò, guardando di sottecchi l'amica. «Fin troppo».
Yuki, ormai, era in preda ad una folle curiosità; c'erano molti tasselli mancanti ma più o meno si era fatta un'idea di che tipo di persona era quel tipo, e di quanto – così pareva – fosse pericoloso. Se doveva attribuirgli delle caratteristiche-- a malincuore, doveva ammetterelo: era un affascinante distruttore di poche parole. E l'ultimo dettaglio era molto amato, dall'albina – che odiava il rumore.
«Pare abbia rotto le ossa a dei ragazzi», disse sovvrapensiero Sayumi, appoggiandosi al muro. Yuki sollevò lo sguardo sull'amica, stupita, mormorando: «Allora è vero».
«Già- oh, e... credo lo saprai, ma parlavano di te». Sayumi non sembrava molto preoccupata per la sua amica e, normalmente, questo farebbe pensare a menefreghismo: e invece, era solo il suo sapere che la teneva così calma.
«Che seccatura. Perché non posso essere estranea a questa robaccia?».
Sayumi alzò le spalle, schioccandole poi un'occhiata dalla doppia faccia. «... ora dimmi: perché tutte queste domande?».
«Eh? Ah, curiosità».
«Yuki-chan».
«L'ho incontrato. Takeshi, dico».
L'altra allungò un lato della bocca in un sorrisetto divertito, mentre le punzecchiava il fianco con l'indice. «Immagino che vi conosciate bene, visto che lo chiami per nome».
«Ma non l'ho chiam---... ah». Ed eccolo che tornava, quel colorito roseo che sembrava ridare vita all'albina dalla pelle nivea – meno preoccupante rispetto a prima, se non altro.
«Katugawa!», esclamò, prendendosi la testa fra le mani. «Era--- è stato un errore, nient'altro!».
«Se lo dici tu... ».
... non ci credo minimanete, e sollevò gli occhi al soffitto.

 

 

 


***

 


 


«Yuki-chan~ ... accompagnami in biblioteca!».
Din don dan – grazie al cielo, le lezioni erano terminate. Non era stata una giornata stancante, avendo avuto un'ora di giapponese, due di inglese, una di educazione fisica e qualche altra idiozia. Insomma, tranquillo. Quindi adesso poteva tranquillamente alzare il sedere dalla sedia – magari anche velocemente – e imboccare quella strada trinsica di alberi per andare a casa, mettersi sul letto e lasciare che la mente si riposasse. Ecco.
E invece. «... certo».
Okay, non era del tutto vero che voleva tornare a casa – non amava casa propria – ma... aveva la libertà, il lusso!, di girare per la scuola, considerando chi poteva nascondersi dietro l'angolo? Quello stalker cominciava ad essere sfiancante.
«Perfetto. Adesso devo andare in sala insegnanti – e dovresti venirci anche tu – quindi, ci vediamo tra mezz'ora qui, vabbene?», disse Sayumi, piegando il capo in direzione di quello di Yuki – annuì. Meccanicamente e senza dire una parola, conscia di essersi volutamente buttata nella tana del lupo.
Possibile che fosse ancora a scuola? Persino nella loro classe non c'era più anima viva, chi al club, chi verso casa propria.
Mentre Sayumi usciva dalla classe e Yuki la seguiva per un po' con lo sguardo, si chiese cosa avrebbe potuto fare intanto; beh, anziché pensarci, decise direttamente di alzarsi in piedi, prendere la valigetta e avviarsi verso l'uscita. Aveva due opzioni: fare un giro di ronda per controllare che lui non ci fosse oppure nascondersi da qualche parte in atteso che il tempo passasse.
«Giro di ronda~», cantilenò, abbandonando la classe con attenzione maniacale. Doveva ammettere che, una volta diplomata, avrebbe sentito la mancaza del suo posto affianco alla finestra; era una postazione tranquilla, più o meno "staccata" dal resto della classe, con una gentile brezza che ti carezza il viso – specie in estate.
«Posso andare... ?», sussurrò, mentre gettava occhiate a destra e sinistra.
Non c'era nessuno. Naturalmente. Il cielo era persino di calde sfumatore arancio – ma la precauzione non ha mai ucciso nessuno, quindi..
Cercando di ignorare i suoni distinti che ogni tanto l'assalivano tutti assieme, fece qualche rapido passo, quanto più silenziosi possibile.
Non c'è veramente nessuno, magari posso addirittura andare in biblioteca. Ah, devo prima aspettare Yumi, pensava, serrando le labbra e gonfiando le guance – espressione rara, da parte sua, ma più che lecita.
E invece, si catapultò nella 2-C, la classe di Takeshi e Kazuki – si affacciò: non c'era nessuno nemmeno lì. Doveva ammetterlo, quasi sperava di incontrare qualcuno, magari privo di pregiudizi e socievole; quell'enorme scuola, dove se parlavi si udiva l'eco della tua stessa voce, cominciava a trasmetterle una sensazione di malinconia. E poi, il fischiare del vento contro i vetri delle finestre, ecco la sua attuale compagnia – qualcuno avrebbe detto che era tutto molto inquietante. Lei no.
... evidentemente, sono inquietante, pensò, mentre sospirava ancora.
«Yuki!».
«Oh, Santo Iddio!», urlò Yuki, con le mani premute sul petto e le spalle fino ai lobi delle orecchie. «Ma porca miseria, Yumi!».
La diretta interessata appoggiò una mano sul fianco, mentre con l'altra si reggeva la cartella scolastica – chiusa alla cavolo, fra l'altro – e aggrottò la fronte con tanto di sgrugnito.
«Ho fatto così tardi?», chiese.
«Moltissimo!», la ribeccò Yuki, incrociando le braccia al petto in qualche maniera, avendo anche lei una mano impegnata.
«Ma ci avrò messo sì e no qualche minuto!».
«E allora non farmi domande idiote come "Ho fatto così tardi?", con tanto di sfondo rosa e sbrilluccicoso, se---». E inspirò. Cominciava a pensare di dover andare a fare qualche sport, o di poter insegnare la respirazione. Sayumi arcuò le sopracciglio. «Per caso è il tuo periodo?».
«Che? No-- sono solo... », borbottò l'albina, tenendo in sospeso la frase, mentre alzava anche gli occhi al soffitto. «Andiamo in biblioteca, che è meglio. E a tal proposito, è strano che tu ci vada».
Yumi sorrise. «Già. Però ultimamente pensavo che non sarebbe male leggere qualcosa, no?». Sayumi aveva quel modo di parlare che, in qualche modo, ti ci "infilava" per forza; che fosse chiedendoti un parere, che fosse un altro tipo di domanda o una frase qualunque, ti rendeva partecipe!
«Buona idea, sì», rispose Yuki, annuendo, decisamente più rilassata e conscia di potersi godere la sua adolescenza senza crucci per la testa – o quasi. Beh, la presenza di Sayumi era sempre in grado di rasserenarla e farle sciogliere ogni nodo della tensione, quindi...
«Yuki-sai? Sai, ultimamente mi sembri sempre fra le nuvole. E' successo qualcosa, per caso?», chiese la rosa, cominciando a camminare dalla parte dalla quale era arrivata.
L'albina sospirò. «Una cosa del genere».
«Parlamente, se vuoi», disse Sayumi, dopo un secondo di pausa.
In effetti, avrebbe anche potuto parlarne con lei – come faceva ogni volta che ne sentiva il bisogno –, di dirle di Takeshi Katugawa e la promessa che le aveva fatto e, a conti fatti, sembrava intenzionato a mantenere. D'altro canto, non era una questione così seria. «Non è niente. Sono solo un po' stanca».
«Oh. Come mai?», altra domanda – altra maledetta domanda.
«N-non... sto dormendo molto bene, la notte, sai... ».
«Prova a bere qualcosa di caldo, così ti rilassi, prima di dormire».
Tu non mi convinci, pensava Sayumi, nascondendo i propri pensieri con un piccolo sorriso amichevole, gli stessi che si rivolgono ai parenti che, di solito, capita di non ricordarsi affatto. La conosceva troppo bene per farsi fregare così!
«Grazie per la dritta», ridacchiò Yuki, intanto, catturando l'attenzione dell'amica. «Sei proprio una brava bambina».
«Non sono una bambina!», protestò Yumi, arricciando il naso e le labbra accese. «Abbiamo entrambe sedici anni, siamo grandi, ormai!».
Oh, beh, detto con quel tono...
«A sedici anni si è ancora bambini! Il fatto stesso che non lo ammetti fa di te una mocciosetta», e scoppiò a ridere, chiudendo gli occhi – ops? E d'istinto, Sayumi si fermò, puntando le punte degli stivali, mentre le guance prendevano rapidamente colore – il colore dell'imbarazzo.
«Ma---».
«Ma? ... ripensandoci, sei talmente bassa da sembrare una ragazzina di undici anni!».
«EHI!».
Chiacchierando, prendendosi stupidamente in giro e scambiandosi persino un abbraccio – cosa strana da Yuki, già – erano finalmente arrivate davanti alla porta a due ante che sfociava nella grande e invidiabile biblioteca.
E non era incantevole solo all'interno, ma bensì anche all'esterno, con la lavorazione floreale sulle due ante di legno scuro; Yuki vi posò contro il palmo per spingere la porta e aprirla, assaporando la sesanzione del legno lavorato – sospinse e quella cigolò un poco.
«Perché tutte le porte che apriamo fanno rumore?», disse Yuki, causando un risolio all'amica . Erano entrambe curiose di vedere la biblioteca perché, proprio di recente, essa era stata rinnovata e cambiata, con un aggiunta di diversi scaffali e quel motivo sulla porta – anche prima era molto bello, comunque.
Un grande salone – con un secondo piano – dove, proprio alla destra dell'entrata, c'era un piccolo salotto che veniva usato come posto lettura o ristorazione, i pomeriggi o all'ora di pranzo; c'era persino un caminetto, piuttosto grande, con parallelo ad esso un divano a tre posti e, ai lati, due poltrone, tutti rossi – e un tavolino sopra ad un tappeto.
Invece, alla sinistra, un bar con tanto di bancone professionale; proprio dietro esso, c'erano diversi scaffali gremiti di bottiglie di vino e champagne e, ai piani più bassi, bibite e bottiglie d'acqua – perché? Alla luce del sole sicuramente doveva essere un posto allegro e accogliente, ma adesso sembrava quasi un locale per host!
Con questa poca luce, poi, si è già fatto buio..., pensava l'albina, mentre recuperava i metri che la distanziavano da Sayumi.
Soprassarono una delle tante colonne di marmo bianco della sala, salendo le scale a gradino – simile a quelle di casa Akawa – e chiamando sottovoce l'amica per farsi prendere la mano, vista la scarsa luminosità – e poi. Si sentiva così stanca e fiacca...
Proprio in cima alle scale, sul pianerottolo, c'era una finestra, alta e priva di tenda: era buio. L'unica luce che attraversava spavalda il vetro lucido era quella lunare, quasi tendente al blu chiaro, avvolgente e romantica – Yuki sorrise, piacevolmente colpita.
«Che freddo», mormorò Sayumi. «Tu non ne hai, Yuki-chan?». Si cinse le spalle con le braccia, nel tentativo di riscaldarsi.
L'albina non rispose, limitandosi a scostare lo sguardo dalla finestra per posarlo sull'amica; le sorrise, ma piano, con molta attenzione, quasi le costasse un'immensa fatica farlo. «Vai solo tu, okay?».
«Eh? Ma sei venuta fin qui!».
Yuki si voltò – non le stava dando ascolto. Doveva tornare a casa sin dall'inizio e, adesso, l'avrebbe fatto... o quasi – perché mise un piede in fallo. Stava scivolando? Stava cadendo dalle scale? Cavolo, avrebbe fatto un sacco di male.
«YUKI!». La sentiva, la voce squillante dell'amica, stimpanarle i timpani con potenza inaudita ma le appariva così strana, così diversa – gutturale e sdoppiata. Come se fossero due le entità che stavano parlando – era tutto nella sua testa?
Era tutta una menzogna?
Cosa era vero, cosa non lo era, cosa stava accadendo, cosa stava---
«Yu----».
Spalancò gli occhi: non era caduta.
Era sul secondo scalino, un braccio teso dietro, il cui polso era tenuto stretto da Sayumi – non era caduta! In bilico, inspirò tutta l'aria che possedeva, mentre un rivolo di sudore le serpeggiava la schiena e le tempie.
«Fatti forza!», esclamò la ragazza. Con uno scatto, Sayumi la tirò verso di sé, sul pianerottolo, con una certa fatica; non immaginava che Yuki fosse così difficile da trasportare e, all'improvviso, si trovò talmente sbilanciata da cadere a terra sul sedere.
Entrambe respiravano pesantemente – e accaldate –, una seduta a terra e l'altra appoggiata sulle ginocchia, che si teneva in quel modo per miracolo.
«Lo dicevo che sei distratta, ultimamente... !», ansimò Sayumi, passandosi una mano tra i capelli per scostarli dalla fronte e prendere dell'aria rinfrescante. Sembrava sollevata di aver salvato l'amica ma – Yuki era nel panico. La gola le ardeva terribilmente, come se si fosse scolata una tanica di benzina e, qualcuno di poco gentile, le avesse gettatto un fiammifero acceso in gola, tra le corde vocali non più funzionanti.
Si alzò in piedi, barcollante. Doveva andarsene. Immediatamente.
«Aspetta! Fatti aiutare, si vede che stai male... », esclamò Sayumi, sollevandosi da terra anche lei, con qualche pacca alla gonna – e avvicinandosi di un passo all'amica. E l'albina si voltò, più bianca di una tempesta di neve, di un fantasma incapace di trapassare – e tirò su gli angoli della bocca, per un sorriso. Ma ne uscì solo una smorfia di puro dolore.
«Perdonami».
E poi accadde.
Cosa, poi, era difficile da dire – ma accadde; nata una nuova forza dentro Yuki, prese entrambi i polsi dell'altra, stringendoli talmente da lasciarci segni circolari rossi e, in un secondo, era alle sue spalle – costringendola a tenere le braccia dietro la schiena.
In questo modo, con i capelli corti che lasciavano in bella vista la trachea, il lato del suo collo, la clavicola... Yuki ci si avventò.
Vorace, come un lupo affamato; con due lunghi e affilati canini immacolati come neve, che sporsero evidenti dalla bocca di quella che, Sayumi, aveva sempre creduto fosse la sua migliore amica.
Da quella che aveva sempre riconosciuto come un'umana.

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL'AUTRICE:

Ehilà, gente!

Chi parlava è Night, quell'androide pulcioso che ruba le caramelle ai bambini e shippa le vecchiette con i vecchietti.
... beh, anche se mi porta non si sa quanto rammarico, mettiamo da parte lo sclero time e parliamo di questo e lo scorso capitolo.
... ADESSO CHE TAKESHI E' SPUNTATO, PEGGIO DELLA PESTE, COSA FARA' YUKI?!
E KAZUKI VERRA' ANCORA MALMENATO?!

Fine.

 

 

Night, ovviamente, con affetto.

 

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Capitolo 6
*** Meglio la menzogna. ***


 

Intrecci di legami, di valori, di sentimenti, di riflessioni.

Yuki.

 

 

 

 

 

 

 

Meglio la menzogna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La notte era avanzata ormai da un po', immergendo ogni cosa nell'oscurità più totale – un'oscurità dove si barcollava, incapaci di mantenere un sano equilibrio. Solo la debole luce della luna piena riusciva ad illuminare le figure di quelle due adolescenti, sul pianerottolo delle scale.
Un'umana e... cos'era esattamente Yuki Akawa?
Per i pochi secondi in cui Sayumi restò cosciente – prima di svenire fra le braccia dell'albina per l'improvvisa mancanza di troppo sangue – non poté fare a meno di porsi questa domanda.
Dopo, buio.
Lentamente, l'altra si era ritratta un minimo da Yumi, per poi sedersi sui talloni e facendola pian piano sdraiare sul pavimento, la testa sulle proprie ginocchia – lievemente tremanti.
«Yumi... come sei bella, al chiarore della luna. Sei solo una vittima a cui ho sottratto ciò che volevo. Mi chiedo cosa hai pensato, prima. Eri spaventata... ? Se i ruoli fossero stati invertiti, io sarei di certo terrorizzata... d'altronde, sono un mostro». La sua voce era spenta, mentre carezzava delicatamente il volto pregno di pallore dell'amica.
Il collo e il colletto della divisa erano impiastricciati di sangue. A Yuki bastava rilassare i sensi per riuscire a sentirne distintamente l'aroma che finiva per catturare tutta la sua attenzione.
«Mi dispiace... », bisbigliò, trattenendo un singhiozzo. Le palpebre che coprivano gli specchi azzurri non facevano che alimentare l'angoscia di Yuki.
Era angosciata.
Lei!
Con quale coraggio stava ora sopprimendo la voglia di scoppiare in un pianto silenzioso, conscia di non aver il diritto di respirare, di vivere, di starle accanto?
Il suo gesto non sarebbe mai stato perdonato. Lo sapeva. Lo comprendeva. E, naturalmente, non biasimava nessuno per questo – se non sé stessa.
«Esci». E nella voce dell'albina era tornata la consueta altezzosità e freddezza. Era sorprendente come cambiava umore, da un attimo all'altro. Anche se--- in quel momento, era più una copertura. Perché davanti a quella persona, non si sarebbe permessa – per nessun motivo al mondo – una facciata debole. Lo sguardo di Yuki era puntato su Sayumi, mentre dei passi felpati giungevano al suo orecchio. No, non avrebbe spostato gli occhi su colui che si era nascosto dietro una delle tante colonne bianche di quella sala.
«Katugawa, eh?».
I raggi lunari finirono per illuminare la figura frontale del ragazzo – aveva lo sguardo a terra e non sembrava intenzionato a sollevarlo su di lei. Yuki non riusciva a vedere bene la sua espressione – ma aveva un impressione.
Pareva che quel ragazzo si sentisse in colpa.
«Non preoccuparti», la voce di lei spezzò il silenzio della sala. «Non nutro tutto questo interesse per te da arrivare a farti la stessa cosa». Lei, intanto, aveva trovato la forza di guardare il capo cioccolato di Takeshi, ancora chino, ad esaminare il pavimento di marmo.
Una breve risata di scherno sfuggì dalle labbra dell'albina.
«Non vuoi guardarmi, eh? Ti faccio schifo, vero? O è paura? Ne hai tutte le ragioni. E, anzi, faresti meglio ad armarti e uccidermi. Oppure, meglio, fuggi».
Eppure, la sua voce era ugualmente incrinata, mentre tentava disperatamente di sorridere sprezzante – solo una smorfia di dolore.
A quelle parole, lui sollevò il volto per guardarla – sgomento, incredulo di ciò che stava sentendo. «No! Tu---».
«Io?».
«Tu sei... sei solo Yuki, non sei un mostro, non fai schifo. Hai... hai solo fatto ciò che ti permette di vivere... !».
Yuki si voltò, guardando verso la finestra. La luna era così grande e bianca da stordirla. Sembrava possibile toccarla, solo sporgendosi un po' dalla finestra alta e imponente.
«Sai poco su di noi, a quanto pare. Ma prima di tutto... ».
E il pianerottolo divenne inabitato.
Entrambe, erano svanite nel nulla – no, non era così. Erano proprio al suo fianco.
La vittima portata dall'assassina come una principessa addormentata.
«Devi occuparti di lei», solo una frase, mentre lei già lasciava fra le braccia del moro quel corpo in esanime – e con sorpresa, Takeshi scoprì
quanto carina fosse quella ragazza. E quanto strani fossero i suoi tratti, soprattutto. Ma non era il momento per studiare la migliore amica di quella che, Takeshi, aveva sempre creduto fosse solo un adolescente fredda come il ghiaccio e bella come un'estate fresca.
«Cosa--- ».
«Casa sua è il negozio di fiori, al secondo piano», disse Yuki.
Si concesse il privilegio di guardare ancora una volta il viso di Sayumi, di accarezzarlo con lo sguardo vitreo, di chiedersi se l'avrebbe mai più rivista – se... .
Ma, ancora una volta, non era il momento di lasciarsi andare. La sua calma doveva restare immutabile. E allora, guardò Takeshi, dritto dritto negli occhi spaesati, dalle tinte calde e scure. Ma lo sguardo dell'albina era tutto tranne che caldo, ma determinato a farsi ascoltare, intollerante, impaziente. Le labbra sottili serrate e la fronte lievemente aggrottata.
Poi, si rilassò in un sorrisetto, mentre piegava il capo verso l'orecchio di lui – e ne percepiva chiaramente il battito accelerato, il respiro irregolare e il calore che il suo corpo sprigionava.
L'ombra della testa argentea andò a coprire metà del viso del ragazzo, calante, tetra.
«... e bada, nessuno deve sapere cosa è successo stasera. Fa il bravo. Non mi va di... », s'interruppe per un attimo, scostando appena gli occhi oro, per poi puntarli di traverso in quelli di Takeshi. «... ucciderti».
Un brivido percorse la schiena leggermente umida di Takeshi. Ricordava bene quella parola e il suo suono, e le frequenza con la quale Yuki era solita pronunciarla.
Uccidere.
Con quale leggerezza diceva cose simili?
D'istinto, si fece indietro. «Non c'è bisogno di dirmi una cosa simile. Non avrei mai rivelato niente di te a nessuno, Yuki».
Un sorriso entusiasta allargò la bocca pallida della diretta interessata, mentre congiungeva le mani alle guance.
«Ma che gentlmen!», cantilenò dunque, mentre anche lei si faceva indietro piano. Poi portò le braccia dietro la schiena, annuendo più volte. «E' stato bello conoscerti. In un certo senso. Non avrei mai detto che un umano avrebbe avuto la decenza di comportarsi come te. Sono sorpresa. Piacevolmente sorpresa – colpita».
E stava salendo quelle scale, che sembrava dannatamente distanti da lui. Era in cima quando si sentì dire la frase che segnava una fine, ma un inizio – al contempo.
«Peccato che questa sarà l'ultima volta che ci vedremo, Takeshi».
Perché doveva dire proprio in quel momento il suo nome?
In un'altra occasione, ne sarebbe stato felice, pieno di pura gioia – e un po' di soddisfazione – ma adesso, mentre la guardava, immersa da quella luce bianca, sentiva solo sconcerto.
«Cosa vuol dire---?!».
Ma lei era già sparita. In quel tetro luogo macchiato di sangue e di un gesto imperdonabile, lei, l'artefice, non c'era.
E chissà quando sarebbe tornata.
Forse tra qualche settimana.
Forse mai.

 

 

 

***

 

 

 

Pioggia.
Fitta, intensa e gelida.
Quella domenica di Aprile, Takeshi, seduto al tavolo della cucina, disegnava con l'indice figure distorte sul vetro opaco. Era passata una notte e una mattina intera e non riusciva a togliersi dalla testa l'immagine di Yuki – mentre affondava i denti nel collo di quella ragazza.
La sua migliore amica, pensò, Yumi, se non erro.
Si lasciò andare ad un sospiro affranto, alzandosi dalla sedia. Restare lì a rimuginare sul giorno precedente non l'avrebbe aiutato in alcun modo quindi tanto valeva far qualcosa di costruttivo.
Qualcosa... – qualsiasi.
«Oh, Takecchi, stai uscendo?», chiese una voce femminile. Takeshi era già davanti alla porta d'ingresso, con la mano posata sul pomello – si fermò.
«A giudicare dal tuo abbigliamento, direi di sì», aggiunse la voce. Takeshi si volse, sospirando.
Una donna bassa, dai capelli castano scuro, corti fino a sopra le spalle e occhi del medesimo colore – gli occhi di Takeshi, di suo figlio.
«Non ti soddisfa il mio abbigliamento?», disse lui, alzando un sopracciglio con fare sarcastico. La donna rise a bassa voce. «Una camicia nera, un paio di jeans blu e sopra un cappotto con cappuccio? Perché mai dovrei ritenermi insoddisfatta? Figlio mio, sei talmente affascinante che uscirei con te!».
«Scordatelo», replicò lui, sorridendo leggermente. «Torno tra poco».
«Non è un appuntamento, quindi? Di solito torni sempre tardi», disse lei, sfoggiando un sorriso divertito quanto curioso.
E il povero figlio interrogato sospirò di nuovo, stavolta irato dalla madre. «Spiacente, ma non ho né il tempo né la voglia di uscire con una ragazza». Aveva detto così, ma era una mezza verità. Se la ragazza in questione fosse stata Yuki Akawa, allora non avrebbe speso un secondo di più a casa sua.
Prima che l'interrogatorio potesse avere la sua continua, aprì di scatto la porta, uscendo.
Sotto il porticato, appena fuori, c'era il continuo ticchettare della pioggia che, in un certo senso, trasmetteva una serenità sinistra.
Gli piaceva, la pioggia.
Non proprio la sensazione di umidità, ma la calma sovrannaturale che avvolgeva il suono che produceva. Era rilassante.
Chiuse un istante gli occhi, per crogiolarsi in quel suono; sarebbe stato lì per molto altro tempo ancora, quando si ricordò di avere un “impegno”. Si tirò su il cappuccio piumato e attraversò a falcate il breve vialetto, fino a giungere alla cancellata che l'avrebbe condotto fino in strada – deserta.
Non c'era un'anima.
Né macchine sfreccianti per le strade inzuppate d'acqua, né famigliole felici con tanto di impermeabili gialli – va' a vedere che era l'unico genio in giro.
Il freddo pungente andò a colpirlo dritto in viso nel momento in cui si mosse e il vento gli sferzò il viso. Si strinse nel cappotto, cercando di abbassare di più il cappuccio sul viso e salvarsi dalla pioggia battente. Pensandoci, era ovvio che le strade fossero vuote. Faceva un freddo cane, dannazione.
«Ma cosa sto facendo?», si chiese, a bassa voce, mentre chiudeva le palpebre – ma non fermava la sua camminata lenta e rumorosa.
Le mani nelle tasche, immaginò quale fosse la mossa giusta, in quel momento, avvolto dal silenzio di una salita vuota e silenziosa, dove i suoi pensieri erano l'unico suono.
Si guardò indietro; se fosse tornato indietro, la madre l'avrebbe assalito con altre mille domande e la cosa, non lo entusiasmava molto. Se fosse andato a scuola, forse, sarebbe riuscito a capire qualcosa su ciò che era accaduto con Yuki Akawa e la fantomatica “Yumi”.
La ragazza dai capelli rosa. Sbuffando, ancora un po' combattuto, s'incamminò nuovamente verso--- verso l'edificio scolastico. Le sue gambe lo stavano conducendo lì sin dall'inizio, che fosse un segno del destino? Di quel burlone?
Tenendo lo sguardo fisso a terra, cominciò a contare pigramente i passi che lo separavano dalla scuola – e non erano tanti, essendo già piuttosto vicino.
12, 11, 10, 9...
E fu proprio quando arrivò al numero cinque che vide, in lontananza, una figura incappucciata in piedi davanti al cancello della scuola. Era un mantello scarlatto che giungeva alle ginocchia – ed era una lei.
Si capiva dalle gambe che s'intravedevano sotto – già, Takeshi ne capiva della fisionomia della ragazze.
Percorrendo gli ultimi passi, le arrivò proprio al fianco. La guardò stupito – osservava qualcosa – poiché sembrava che lei non si fosse affatto accorta dell'entrata in scena del moro. Battendo le palpebre, fece anche lui per guardare davanti a sé: guardava la scuola?
Aveva lo sguardo verso il secondo piano...
«Oh--!». Un esclamazione, acuta, quasi stridula.
Si era girata verso di lui, forse con l'intento di andare via per la sua strada e ora era tutta avvolta da tremolii.
Takeshi sorrise gentilmente. «Non ti ho mai vista. Sei una straniera?».
Lei sembrava pietrificata sul posto, come un ladro colto in fragrante; a dirla tutta, una figura incappucciata, dava esattamente l'impressione di non voler essere scoperta né vista.
E comunque, non sembrava straniera, no.
«S-sì... cioè, no... io... », balbettò.
Una cosa era certa: timidezza a livelli massimi.
E in un certo senso, il suo aspetto parlava per lei; aveva occhi di una luminosa luce azzurra, tendenti al ghiaccio, dietro ad un paio di occhiali a mezzaluna con la montatura blu. I capelli neri, cortissimi e arruffati, giungevano appena sulla nuca.
«Ehi, ehi, tranquilla, non sei obbligata a dirmi niente!», disse Takeshi, alzando le mani davanti al volto. Tranquillizzata dal gesto improvviso del ragazzo, la ragazza fece un leggero cenno col capo, per poi accennare un vago sorriso.
«Kukuri... è il mio nome. Mi è stato chiesto di venire qui a recuperare un oggetto, però... ».
Takeshi guardò le sbarre di ferro dei cancelli. «... è chiuso».
Lei sospirò silenziosamente, facendo ciondolare il capo in avanti, sconsolata di fronte alla verità dei fatti.
Un oggetto, eh? Sono curioso di sapere cos'è, pensò il moro, mentre notava che il ticchettio della pioggia stava rapidamente diminuendo – fino a diventare poche occasionali gocce.
«Sei fortunata», sorrise. «sta smettendo di piovere. A quel punto, potrò aiutarti».
«Cosa?! No, assolutamente, non posso lasciarmi aiutare uno sconosciuto!».
Takeshi levò le sopracciglia scure e le guance di Kukuri si accesero di un rossore di imbarazzo. «Ecco... non voglio essere scortese, ma... noi due non ci conosciamo, ecco».
Lui sorrise vacuo, stringendo le mani a pugno per riscaldarle, mentre guardava ancora una volta verso la scuola. «Immagino che tu sia il tipo che teme gli sconosciuti».
E Kukuri lì si sentì sciogliere dalla vergogna, per aver dato l'impressione di una pappamolle riservatissima, neanche in grado di rivolger la parola alle persone che non conosceva.
«E' naturale. Gli umani hanno paura di ciò o chi non conoscono».
A quel punto, lei tacque.
Takeshi sospirò – quanti sospiri aveva fatto, in un giorno solo – e rivolse un'occhiata esasperata ed un sorriso alla giovane dai capelli neri, stretta ora nelle spalle.
Con dolcezza tipica del moro, le scompigliò la frangia che cadeva sulla fronte, con due dita.
E a quel punto – qualcosa spuntò nella mente della ragazza.
Adesso lo guardava, stupita, presa da un illuminazione senza pari – che fosse?. E doveva restare solo un pensiero, una possibilità, qualcosa che non doveva uscire dalla sua testolina. Eppure. «Ma tu non sarai... ?».
«Hm?».
Kukuri si fece indietro.
Passo dopo passo, aveva messo una distanza evidente fra di loro e si era girata, per correre dalla parte opposta, proprio verso la fitta forestazione che era alla sinistra della scuola. Takeshi non pensò nemmeno per un attimo di rincorrerla. Si limitò a fissare la figura rossa farsi sempre più piccola e indefinita, fino a diventare inguardabile per i suoi occhi.
Si chiese solo una volta perché era scappata via e, poi, tornò ad incamminarsi verso casa sua.
«Non sarà che mi sto abituando a tutte queste stranezze?», si chiese, mentre aggrottava la fronte.
Assurdamente, l'idea non lo infastidiva; però era comunque strambo che, da un momento all'altro, si stava impegnando per qualcosa che non fossero gli appuntamenti con le ragazze, come farle felici, quali parole utilizzare per troncare la loro “relazione”.
Fu mentre camminava che si rese conto di aver percorso della strada inutile per un impegno inutile – non aveva combinato niente. E alla fine, c'era davvero qualcosa da fare?
Cosa si aspettava?
Si era solamente infradiciato le scarpe e la giacca – perché si dannava per Yuki Akawa? Perché era fuori dal normale, fuori dall'umano – forse.
Cominciava a chiedersi se non fosse attratto dal carattere spinoso e lunatico – osservando come cambiava umore velocemente, aveva dedotto che fosse lunatica, ma forse era solo eccentrica. 
Era bella come una rosa, tagliente come una katana, e i suoi sorrisi – che fossero ironici o perfidi – erano le sue armi, quelle con la quale metteva k.o.
Che fosse merito della sua natura non umana? Poteva anche essere – o almeno, così la pensava lui. Quei canini affilati come schegge di diamanti li aveva visti brillare nell'oscurità, e quegli occhi... non erano dell'insolito e luminoso dorato.
No. Erano scarlatti. Più rossi del colore di una mela, più densi del sangue. 
Erano qualcosa... che andava oltre la sua comprensione.

 

 

 

 

NOTA DELL'AUTRICE: 
Salve!
Quanto tempo! >3< Oggi non ho molta voglia di sclerare, quindi arriviamo al sodo. YUKI E' DIVENTATA CANNIBALE O COSA?! °A°
Vi rispondo io. No, non è diventata Massu - se non capite chi intendo allora andate a cercare su google! è___é 
Altra domanda: CHE FINE HA FATTO QUEL MALEDETTO STALKER?! 
E' stato un po' complicato scrivere questo capitolo, quindi... se avete consigli o correzioni da farmi, prego, parlate pure! *3* 
Leggete e commentate. 



By Night, ovviamente, con affetto.   

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Capitolo 7
*** Occhi dorati. ***


 

Nel corso di questi anni, ho capito una cosa: non puoi girarti, mai.
Yuki

 

 



 

 

 

 

Occhi dorati

 

 

 

 

 

 




 

 

 

 

Kukuri non aveva idea di come l'avrebbe presa la sua padrona, vedendola a mani vuote. L'avrebbe punita? E avrebbe fatto benissimo – un fallimento. Non aveva neanche provato ad entrare nella scuola e, inoltre, era stata vista. Da quel ragazzo, poi. Con aria sconfortata, cacciò il mazzo di chiavi argentee, aprendo silenziosamente la porta d'ingresso.
Inutile dire quanto sperasse che lei non fosse lì – ma ovviamente, c'era. Di spalle, le mani sui fianchi e lo sguardo perso a guardare chissà cosa, ma c'era.
Sospirando, fece il suo ingresso dentro l'enorme salone, sfilando le chiavi e chiudendosi alle spalle la porta. Poi, le si avvicinò alle spalle.
«Nobile Yuki... », sussurrò stringendo un lembo della gonna, parte della sua divisa da cameriera. Lei si voltò, senza stendere le braccia, con un sorriso stampato sulle labbra sottili. I capelli argentati erano legati in un elegante coda di cavallo. «Sei tornata. Bene», disse, espandendo il sorriso.
Kukuri strinse ulteriormente il povero indumento. Lo stava riducendo a poltiglia.
«Sono tornata, s-sì... ». Sospiro. Dai.
«Senza la borsa», osservò l'albina, alzando lentamente le sopracciglia. Come risposta, Kukuri piegò la schiena – così
veloce da smuovere l'aria – in un inchino, poggiando i palmi sulle ginocchia. «Sono immensamente dispiaciuta. Ho fallito. Cioè, precisamente.. sono stata vista quindi... non ritenevo opportuno provare a.. e-ecco... mi dispiace, se volete io posso t-tornare e--... ».
Yuki scoppiò a ridere, non poteva farci molto, era divertita. Fece un gesto di noncuranza con il palmo, dando le spalle alla cameriera.
«Non era così importante», cantilenò. «Posso sempre soggiogarli, i professori, sai? Quindi smetti di distruggere quella povera gonna».
La giovane dai capelli neri sollevò lentamente il viso, lo sguardo dispiaciuto e le labbra strette. La stava ringraziando in mente, perché davvero non se lo aspettava. Lei era una persona gentile, lo sapeva, ma non immaginava che--... come se fosse di buon umore. Tornò alla normale postura, guardandola mentre si allontanava, tranquilla, canticchiando.
Era di buon umore. Ma perché?
O... chi?

 

 

 

***

 

 

 

Beh, ormai era lunedì. Dopo quel venerdì, quel sabato, quella domenica. Il fine settimana era scivolato rapido, e lei aveva saltato quel sabato scolastico perché... semplicemente, non ce l'avrebbe fatta. Ma ormai.
Aprì le palpebre, lasciando che le ciglia nere superiori si allontanino da quelle inferiori, seppur con palese malavoglia. I disegni del soffitto del suo letto a baldacchino le apparivano vagamente confusi, erano diventati scarabocchi. Si mise a sedere, passando un palmo sugli occhi socchiusi. Lunedì. Sayumi.
«Takeshi-come-si-chiama-lui», borbottò, con tono acido, come se il solo suono del nome le provocasse la nausea. Seccata, si alzò, passando di fianco al lungo specchio: ciò che vide non le piacque molto; gambe bianche, quasi eteree, i capelli argentati che cadevano lungo la schiena e oscillavano ai fianchi.
E quegli occhi.
Quelle intense gemme dorate, che brillavano talmente tanto. La sua stessa immagine la rattristava incredibilmente. Lei era quella persona che vedeva. E nient'altro.
Uno sporco essere. Una sporca mezzosangue.

 

 

 

***

 

 

 

Sayumi non c'era. Non c'era. Nonc'eranonc'eranonc'era. 
L'intervallo era giunto – per sua fortuna – e Yuki non sapeva più dove sbattere la testa. Anzi, in realtà lo sapeva perfettamente, ma non moriva dalla voglia di andarci – in quella classe.
Ciononostante.
Non appena suonò l'intervallo, lei volò via dalla classe, restando qualche attimo davanti alla porta cercando con lo sguardo l'alta figura. I corridoi erano gremiti di studenti che, contenti di avere attimi di pace, scherzavano e si punzecchiavano, allegri come normali studenti. Serrò le labbra – stava bene così. E comunque, di quell'alta figura, non c'era l'ombra.
Dove cavolo è, quando serve?, pensò facendo una smorfia artica. Niente, non lo vedeva.
Decise di staccarsi dalla porta scorrevole per passeggiare per quel corridoio, continuando a lanciarsi diverse occhiate intorno; oh, se solo avesse la forza per chiedere a qualcuno.
Ma vedeva bene – non riusciva a vedere Takeshi, però – gli sguardi che le venivano lanciati, i sussurri che di tanto in tanto facevano capolino fra una chiacchiera e l'altra, il ritrarsi di quei ragazzi, come gatti spaventati. «Al diavolo», ringhiò fra sé e sé, camminando con la testa leggermente più china e i capelli argentei che scivolavano sulle spalle sugli occhi.
Stupidi. Erano degli stupidi.
«Stupidi-stupidi-stupidi-stupidi-stupidi---», continuò a insultarli sottovoce, fin quando la sua fronte non batté contro un petto – un bel petto. Indietreggiò di qualche passo, posando una mano sui capelli che coprivano dove aveva battuto, pronta a inveire; ma quando alzò gli occhi, in contemporanea, il suo polso venne afferrato con vigore da quella persona.
«Chi è stupido?». Takeshi Katugawa.
«Oh. Eccoti».
«Eccomi». Sorrise dolcemente.
«Proprio te cercavo».
«Così mi pare di aver capito».
«Sì, beh. Volevo.. ».
«Sì?».
«Volevo... ». Cos'è che voleva, da lui? Oh, aveva sempre avuto una memoria perfetta, per qualsiasi genere di ricordo.
Eppure, quei due occhi del colore più caldo che avesse mai visto – cioccolato, era cioccolato fuso, quello! – avevano fatto reset della sua mente. Dannazione a lui. Ora, lì, in piedi: davanti a tutti.
«Giusto, me ne ero dimenticato», disse lui, allargando le labbra rosee, senza lasciarle il polso. «Vieni, il libro di matematica è in classe!». Alzò volutamente il tono di voce, lanciando occhiatacce intorno a sé.
«Spero abbiano colto il messaggio», storse le labbra, irritato, mentre conduceva l'albina nel solito posto: le scale davanti alla sua classe. In silenzio, lei non si oppose alla leggera stretta. Piuttosto, sentiva quel punto andarle a fuoco, come se il tocco di quel semplice umano riuscisse a riscaldarla. Era incredibile.
«Ti sono mancato, quindi». Erano arrivati. Yuki sollevò il mento, con aria altezzosa. «Affatto. Volevo domandarti come... come... è andata venerdì sera».
«Ti riferisci a... », lui chinò appena il volto, guardando di lato per essere certo che nessuno sentisse, inclusi i muri.
«Sì, andiamo», bofonchiò algida Yuki, portandosi una lunga ciocca dietro la spalla. «Ovviamente mi riferisco a lei. Come sta? E'... è vi--».
Annuì – meccanicamente, a dirla tutta – quasi zittendola. Si sentiva tremendamente messo a nudo, in quella scuola. E se Kazuki avesse sentito?
Scosse la testa, laconico, accennando un sorriso addolcito. «Sta bene», sussurrò appena, inforcando i pugni nelle tasche del pantalone della divisa, piegando leggermente il collo in
avanti. «Non sarà venuta per-- beh, non ne ho idea».
«Non sei nella sua testa», sospirò l'albina, socchiudendo le palpebre e alzando successivamente le spalle. «Poco male – non che mi interessi.Volevo solo accettarmi che fosse viva».
Lui alzò le sopracciglia in un espressione teatralmente sbalordita. Non ci credeva. Stava imparando a non crederle troppo spesso oppure finiva per sapere una cosa sbagliata. E quella era sbagliata.
«Ah, ma davvero, cherì?», reclinò il capo indietro, scoprendo un collo diafano quasi quanto quello di Yuki. Quest'ultima non aveva fatto attenzione a quel collo – né doveva mettercene.
Si schiarì la gola bruscamente, girandosi per andare quando – come in realtà sospettava – il suo polso venne nuovamente preso.
A fuoco. Scotta, pensò. Chiuse le palpebre, schiudendo le labbra sottili.
«Cosa vuoi.. ancora?», tentennò, stanca.
«Tu... ». Sentì il suono del suo deglutire e abbozzò un sorriso sarcastico. « … beh, niente. Ci vediamo presto». Con uno strattone, lei si liberò dalla gentile presa senza rispondere né dare segni di volersi girare; perché lei voleva girarsi? - no, certo che no. A lei non interessava affatto.
Eppure, qualcosa nel petto, le stava chiaramente dando dell'idiota. 



NOTA DELL'AUTRICE:

Buondì! 
Dopo secoli, eoni, anni, decenni - e chi ne ha, più ne metta - son tornata con il 6° capitolo di Vampire Devil! *spara coriandolirandom* E sono tornata con un capitolo più o meno a caso! *v*
Perché, voglio dire, penso che tutti leggendolo, noteranno quanto sia inutile e poco ausiliare♪.
Avrebbe dovuto continuare fino alla quinta-sesta pagina, perché al prossimo capitolo - che poi sarebbe dovuto essere questo - succedeno due cosette. Poi, nell'altro ancora, un'altra cosetta♪.
Sì, siamo pieni di cosette. (?) 
Sto delirando quindi vi lascio al capitolo-- 



By Night, ovviamente, con affetto.   

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Capitolo 8
*** Capirsi. ***



Il mondo dei vampiri e dei demoni è un enorme pozza nera, da cui scappare è come arrampicarsi sui rasoi.

Yuki.

 

 

 

 

 

 

 

Capirsi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capisco andarci a parlare, così, per sapere di Yumi, pensava, mentre se ne tornava nella sua classe, ma addirittura farsi a portare a spasso! Sono un'idiota! L'idiota del secolo, per essere più precisi! Come diavolo mi è venuto in mente di andare direttamente da lui, fra l'altro quando tutti potevano vederci, aaaah, detto così sembriamo una coppia, che diavo-!
I suoi pensiero vennero interrotti dal prof. Okamoto che, in piedi davanti alla porta appena socchiusa della classe dell'albina, la stava ora guardando con le sopracciglia lievemente inarcate. Effettivamente, con quell'espressione arrabbiata, le labbra più rosse del solito – grazie al suo mordicchiarle – sarebbe potuta essere benissimo scambiata per un'isterica schizofrenica. E chi lo sa, presto avrebbe potuto vincere l'attestato per la miglior isterica schizofrenica.
Sì, stava delirando.
«Akawa-san? Qualcosa non va?», le chiese con il solito tono educato, di chi non aveva paura di una normalissima e comune studentessa del liceo. Lei alzò i lati delle labbra in un sorriso sorpreso, scuotendo leggermente il capo. «Tutto benissimo, tut--».
Un suono la interruppe. E stavolta, non era un ragazzo che la pedinava.
Un suono molto lontano da lì, più o meno a... trenta? Quaranta metri? Diversamente da Takeshi, questo era stato chiaro e fin troppo evidente, sembrava quasi che questa persona volesse venir scoperta. Chinò leggermente il capo in avanti, portandosi una ciocca dietro l'orecchio.
«Professore, le spiace se prima vado al bagno?», disse, risollevando lo sguardo con un sorriso gentile sulle labbra. L'uomo restò a guardarla un po' interdetto, per poi annuire. «Prego: ma fa' presto, la lezione sta per cominciare».
Lei sforzò l'ennesimo gentile sorriso, per poi voltarsi e andare in direzione dei bagni, tranquilla; non appena sentì la porta della classe richiudersi – segno che lui era entrato –, si girò di scatto verso le scale conducenti al terzo piano.
Non aveva tempo da perdere in stupide lezioni che già conosceva.
Mentre saliva le scale vide andarle incontro tre ragazzi del terzo anno, la camicia messa scomposta, i talloni fuori dalle scarpe.
«Ah, Akawa», ghignò uno. Lei continuò a salire gli scalini con una certa fretta, chiedendosi se il rumore arrivasse da lì o dalla terrazza.
«Ti ignora, eh? Beh, ha ragione», rise il secondo.
«Con Katugawa ci parla però».
«Non ci parlo affatto, idioti». Ops. Aveva rivolto la parola a quei tipi. Male.
«Eppure non sembrava», il primo la guardava con un sopracciglio – tagliato – alzato e l'altro inarcato, come se volesse intendere chissà cosa.
Uh, sembravano una coppia, lo sapeva!
«Non ti piace?», sibilò il terzo. Lei sospirò, stanca di conversare con essere i cui neuroni avevano preferito suicidarsi. «Okay, allora... aprite quelle orecchie: rinchiudetevi in classe. Non uscite, non andate da nessuna parte, state lì. E dite lo stesso a tutti». Detto questo, continuò a salire i tre scalini che la separavano dal pianerottolo.
«Aspetta--». Il primo che aveva parlato le afferrò il polso, cercando di tirarla verso di sé; ma Yuki non aveva davvero il tempo per star lì ad assecondarli quindi, girandosi leggermente di tre quarti, sollevò la gamba destra, che spinse brusca contro il volto del tipo.
«Veloce, veloce», si ripeteva lei, riprendendo a camminare sotto gli occhi terrorizzati e stupiti degli altri due.
Se i suoi calcoli erano esatti, in cinque minuti avrebbe raggiunto la terrazza.
O, almeno, sempre se non avesse incrociato altri idioti.

 

 

 

***

 

 

 

Che strano.
Non ha l'aria di un luogo infestato, pensava, sconcertata di aver – forse – errato.
Tutta presa com'era, poco fa, dai suoi ragionamenti su Takeshi e su ciò che era successo, aveva tratto conclusioni affrettate. Capitava a tutti, giusto? Di sbagliare perché ci si concentrava su... un ragazzo. Rendendosene conto, aggrottò la fronte bianca come la neve, turbata – per non dire infastidita: beh, era storia passata. Scrollò le spalle, per poi ruotarle.
Il professore le aveva detto di far presto e per fortuna, non era passato poi così tanto tempo.
Forse.
Cinque minuti.
«Beh~‎... », cantilenò, stiracchiandosi avvolta nell'aria fresca della primavera.
Primavera... da quando mi sono trasferita qui, ad inizio Aprile, sembra passato un secolo... , pensava, mentre guardava il cielo limpido. Alzò le spalle, per poi avviarsi alla porta.
Meglio tornare in classe, si disse, altrimenti il prof. Okamoto si sarebbe arrabbiato.
«Tick tock».
Yuki si fermò – ad un metro dalla porta.
«Her life is over, Princess». Qualcosa di freddo e appuntito prese a camminare sul suo collo, graffiandolo con facilità. Yuki non si muoveva, se voleva vivere.
Il sangue cominciò a pompare più velocemente al cuore, i pugni si chiusero.
«Chi sei?», disse in un sussurro freddo, senza staccare gli occhi dalla porta in acciaio. La persona alle sue spalle ghignò, una risatina rauca e gutturale, quasi fossero due entità a ridere.
«Non è importante... a nessuno è mai importato... », quella persona avvicinò tutte e due le mani – dagli artigli neri come l'ebano, lunghi, irreali – al collo dell'albina. «Se lei morirà... importerà a qualcuno!». Il suo grido squarciò il silenzio fino a poco prima rilassante della scuola, immersa nelle lezioni – cosa... ? Solo dal suono della sua voce, lei aveva percepito tutti i suoi sentimenti, il suo penoso stato d'animo.
Era questo che provava quell'essere alle sue spalle, con le unghie che desideravano soltanto strapparle la pelle bianca?
Mentre se lo chiedeva, i grandi occhi sbarrati, lui lo fece davvero – facendola irrigidire e strizzare le palpebre. Alzò le braccia per afferrargli le mani e cominciò a indietreggiare, andando a scontrare la schiena contro il petto di quella persona.
«Levati dai piedi!», urlò furiosa, sollevandolo di peso e lanciandolo contro la porta di ferro. Poi si portò una mano al collo, nel vano tentativo di fermare il sangue che cadeva sull'uniforme e a terra.
«Per favore», disse con un sorrisetto sarcastico. L'uomo – era un uomo? I capelli erano alquanto lunghi ma la corporatura era troppo massiccia – si rialzò da terra con semplicità, come nulla fosse.
«Non posso», mormorò, basso, profondo. «Non posso. Non posso! Non posso!». Prese a correre, con furia, per accorciare quella piccola distanza.
«Mentecatto, non correre cos--», lei si spostò si lato, rapida, riuscendo ad evitarlo e... a vederlo mentre continuava a correre, fino a finire dall'altra parte della ringhiera.
«Oh, diamine», imprecò lei mentre raggiungeva quel punto. Si sporse oltre, lasciando che i filamenti argentei librassero nel vento. «Oh, ma porca--». Sentì degli urli sgomenti che automaticamente risposero alla peggiore situazione possibile: qualcuno aveva visto cadere il tizio.
«Bene, molto bene, molto... ah, avrò bisogno di uno piscologo», si portò una mano alla fronte, leggermente accaldata, allontanandosi dalla ringhiera. Intanto, per sua fortuna, il corpo si era dissolto in polvere – ciò che accadeva alla morte di un... ah, era un demone.
Questo spiegava perché era così disperato.
E deglutì, preoccupata.
Era un demone.

 

 

 

***

 

 

 

«Aspetta», disse Takeshi lentamente, come un bambino alle prese con le prime parole. «Ripetiamo: sei stata attaccata da un demone. No, aspetta. Non ho capito. Un demone? … eh?».
Yuki che solitamente evitava il contatto con i suoi capelli, si portò le mani proprio fra di essi, disperata quasi quanto quel demone.
Se non di più.
«Se parliamo tutti e due giapponese penso che invece tu abbia capito», sospirò.
Adesso che si erano seduti sul tettuccio dell'entrata al terrazzo, Yuki si sentiva terribilmente sfinita, prosciugata da tutte le sue forze. Sembrava quasi che il sangue preso da Yumi fosse finito in quel breve ma intenso scontro. Sarebbe volentieri tornata a casa – beh, volentieri... – per lasciare che il lato vampirico, o meglio quello pigro, prendesse il sopravvento e la mettesse a dormire per un decennio circa.
«Ah», fece asciutto lui. «Allora ho capito. Potevi dirmelo prima!».
Lei aggrottò la fronte.
«E ora... cosa farai?», le chiese mentre si sdraiava a braccia conserte a mò di cuscino, dietro la testa mora. Guardò la schiena ricoperta da luce argentata, sorridendo flebile.
«Adesso aspetto gli Addetti» ennesimo sospiro.
«I cosa?».
«Sì, forse non parliamo davvero la stessa lingua».
Il tempo di girarsi a guardare quell'idiota che un suono sottile preannunciò l'arrivo di due persone. Era sempre così. Non capiva da dov'è che venisse quel suono e non le importava granché, ma era sinistro!
«Hmmm», cantilenò, molto simile al rumore delle fusa di un micio, guardando i due vampiri. Un uomo e una donna, ovviamente, tutti e due estremamente belli. «Katugawa, gli Addetti. Addetti, Katugawa».
«Akawa, non abbiamo tempo», disse la donna, mentre lei scendeva con un piccolo salto dal tettuccio, poi seguita da Takeshi – che continuava a chiedersi se avesse sbagliato scuola quella mattina. Beh, scuola esatta o no, non studiava tanto quindi...
«Vediamo», l'albina si portò l'indice alle labbra, alzando gli occhi. «forse era demone di livello D, non ho potuto controllare. Volete la descrizione fisica?».
Takeshi guardò Yuki nello stesso modo in cui si guarda un alieno. Chi diavolo era quella ragazza così gentile e amabile? Scosse la testa, rabbrividendo.
«E' gradito», rispose l'Addetta.
«Capelli lunghi fino alle spalle», e segnò con la mano sotto la sua spalla. «leggermente ondulati, occhi neri – ovviamente – unghie nere e lunghe, pelle più sul grigio. Alto – penso – un metro e ottanta, spalle larghe e gambe lunghe quanto un autostrada».
Takeshi lanciò un'occhiata ad entrambi; l'uomo stava scrivendo su una scheda, tipo quelle negli ospedali, con aria seria e inflessibile; la donna sembrava più propensa al sorriso che ora mostrava alla mezzosangue, anche se era privo di gentilezza.
Tutti e due indossavano delle divise a pezzo unico, color verde-acqua e un cappello con la visiera che copriva per metà gli occhi rispettivamente nocciola e verdi.
La donna si aggiustò un ciuffo biondo che sporgeva da sotto il cappello. «Direi che se evitassi di avere altri scontri, in futuro, ci renderesti la vita molto più semplice».
L'albina storse la labbra sottili in una smorfia rassegnata. «Dillo a loro!», e indicò oltre la ringhiera.
Una forte macchia rossa si distingueva su tutto quel verde, nell'atrio-giardino. L'uomo si mise sottobraccio la scheda, girandosi per dirigersi verso la ringhiera che saltò con facilità, senza un misero saluto.
«Odioso», sibilò tra i denti Yuki. «Quando ti strapperò le corde vocali ti verrà voglia di salutare».
La donna tossì come ad intimarla a zittirsi, ricevendo un'occhiata riluttante. «Forza Akawa, se ti impegni a non combattere a caso, quel tizio non lo vedrai più».
La ragazza alzò gli angoli della bocca in un piccolo sorriso sinceramente felice, guardando Takeshi che, intanto, faceva ancora fatica a riprendersi dallo... shock. E non era tanto il fatto che esistessero davvero demoni e vampiri, quanto più i sorrisi gentili, le movenze stranamente femminili, i grazie.
Da quando lei ringraziava? O sorrideva! Scrollò le spalle, esausto ma curioso.
Yuki Akawa, quale puzzle complicato. Quanti pezzi ancora gli mancavano per completare l'opera d'arte, quanto ancora doveva scavare e scoprirlaprima di trovare gli artefatti del suo essere?
«Katugawa?». La sua voce lo fece riscuotere con un sussulto. I due vampiri erano andati, probabilmente già da un po'.
«Smettila di chiamarmi così», borbottò l'umano. «Sono Takeshi, io».
Lei batté le palpebre confusa, poi rise.
Oddio, pensò lui, da quand'è che ha scoperto la risata?
«Ascoltami, Takeshi», calcò il nome del ragazzo come se fosse una formula magica, sogghignando. «Ormai hai visto molte cose appartenenti a... questa parte. Quindi penso sia arrivato il momento di svelarti tutto il resto. Cosa ne pensi?».
«... è una domanda retorica, Yuki».
«Lo so». 










NOTA DELL'AUTRICE:
Non lo so manco io come abbia fatto a postare il 7°-- considerando che il mio pc portatile dove avevo questo e molti altri capitoli era deceduto... possiamo dire di essere alquanto culati! *V* *tossisce* 
Okay, finalmente entriamo un po' più nel vivo dell'azione (?), cominciamo a conoscere alcuni dettagli del mondo vampirico edemoniaco e blablabla, sappiate che mi son divertita mentre lo scrivevo, quindi divertitevi anche voi (?). 



By Night, ovviamente, con affetto. ♥  

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Capitolo 9
*** Senza anima, senza conoscenza, cosa rimane? ***


 

E forse, ma dico forse, le persone si sforzano di capire gli altri per essere a loro volta capiti. Accontentiamoli, allora!

Sayumi.

 

 

 

 

 

 

 

Senza anima, senza conoscenza, cosa rimane?










 

 

 

 

 

 

 

Col cuore in gola, scelse il numero di Sayumi nella rubrica del cellulare; schiacciò il tasto della chiamata e portò quel dannato oggetto all'orecchio. Non le era mai sembrato così odioso e da panico come in quel momento – le chiamate la mettevano in agitazione, strano ma vero.
Mentre aspettava che dall'altro capo arrivasse una risposta, guardava Takeshi che era appoggiato alla ringhiera – lei stava alla porta – affianco a quest'ultima, intento a scrutare la volta azzurrina, le mani nelle tasche. Aveva uno sguardo talmente calmo. Non sembrava neanche lui. Mancava quel guizzo un po' sociopatico nelle iridi.
La parte inferiore della camicia, quella degli ultimi due bottoni, svolazzava ad ogni soffio di vento – che fosse leggero o meno pare non interessasse a nessuno – mostrando per qualche attimo un pizzico di addome. Un addome, per la cronaca, scolpito ad arte.
«Yuki... chan?», la sottile e incerta vocina di Sayumi la fece sobbalzare sul posto. Il cuore non si decideva a scendere! «Oh, porca-- Yumi! Ciao. Ehm. Come stai? Sai, da quella volta.. no, meglio non parlarne. Almeno per ora, giusto? Sono sicura che avrai fin troppe domande e mi verrà il mal di testa e per questo ho la tentazione di tornare a casa a prendermi una medicina. N-non che mi serva, se vogliamo essere onesti, perché creature come me--... puoi venire a scuola?».
«Respira».
«Ehm. Non penso proprio!». Le scappò persino una risatina, con una bella marcata isterica. Girando gli occhi, notò lo sguardo alquanto spaventato di Takeshi.
Come biasimarlo, pensò, abbassando le palpebre, devo calmarmi. Andiamo. Ci sarà una ragione se si ostinano a chiamarmi “Regina di Ghiaccio”!
Frustrata, strinse la presa al cellulare. «Allora, puoi raggiungerc-mi?». Era il caso di dirle di Takeshi? Sayumi, svenuta, non aveva avuto la possibilità di conoscerlo – che fortuna, pensò l'albina. D'altro canto, non voleva nascondere più nulla alla sua migliore amica. Abbassò repentinamente le spalle.
«Sì, penso di farcela», disse Sayumi.
«C'è qualcuno che dovresti conoscere», si affrettò ad aggiungere Yuki, guardando l'umano che aveva incrociato le braccia al petto. «Diciamo che gli devi questa cortesia».
«Gli?». L'albina colse il tono sorpreso quanto imbarazzato dell'amica – non aveva mai avuto queste grandi vicinanze con l'altro sesso. Il motivo, era sconosciuto. Per tranquillizzarla, usò un tono più comprensivo, quasi dolce. «Non preoccuparti, è solo una persona qualsiasi», lanciò una tagliente occhiata a Takeshi che, alzando il mento, ricambiava lo sguardo. «Che tra l'altro ha fretta».
L'umana fece un sospiro impercettibile, sollevato.
Bene, meglio per lei. Prima di chiudere, assicurò che avrebbe fatto quanto più presto possibile, ricevendo in risposta un: «Sul tetto!».
Su quel tetto... era una cosa naturale per loro due starci, in tutta tranquillità, lontane dall'ipocrisia di quei volti senza tratti – i loro compagni. Anche Yuki sospirò, mentre riponeva il “dannato” aggeggio nella tasca della gonna.
«A proposito». Alzò lo sguardo su Takeshi, che ora le parlava e si staccava dalla ringhiera. Come sempre, lui aveva lo sguardo di un imprevedibile. «Questa divisa ti sta d'incanto».
Yuki prese i lembi della gonna e li sollevò appena, tanto per guardare la gonna con un sopracciglio arcuato.
«Ma se è terribilmente tris- Oh, mio Dio!», esclamò, lasciandosi scivolare il tessuto dalle dita. Guardò Takeshi. «Diamine! Teoricamente, ora starei in bagno da... 40 minuti?». Il ragazzo sogghignò. «Al massimo penseranno che hai problemi di stomaco».
«Ah-ah, preferisco che pensino stia marinando la lezione», aggrottò la fronte e, a grande falcate, raggiunse il moro; alzò il mento con i pugni sui fianchi e, tutta impettita, disse a gran voce: «Resta qui fino alla fine delle lezioni, se ci tieni a quella bel-- a quella pelle, insomma!».
Lui alzò notevolmente le palpebre, scoprendo occhi al sapore di cioccolato, mentre le braccia si allargavano vicino ai suoi fianchi.
«Ho una classe dove dovrei tornare, sai? Mi rifiuto di interessarmi alle lezioni ma questo... è irrilevante», si passò la lingua fra le morbide labbra, soffiando verso l'alto per spostarsi una ciocca castana dalla vista.
L'albina seguì i movimenti con pignola attenzione, fin quando la campanella che segnava la fine di quell'ora non catturò la sua mente. «Tanto piacere. Se... ». Si fermò, serrando la bocca in una linea fredda e insensibile. Fece spallucce, prima di proseguire. «Se ti fossi deciso a fare come ti ho già detto mille volte, a questo punto la tua vita sarebbe più semplice. Anzi, sarebbe sempre... la stessa noiosa, monotona esistenza».
E nonostante la freddezza, – punta veritiera anche troppo evidente – il veleno delle sue parole, Takeshi non si scompose di un centimetro. Anzi, dal sorriso spontaneo che appariva ora, sembrava divertito e persino un po' ammirato. Incrociò le braccia al petto, alzando un sopracciglio mentre inarcava l'altro. «E non ti è mai passato per la testa che se mi sono interessato così tanto a te è proprio per questo?», disse, in tono canzonatorio. Yuki non rispose, stette a guardarlo come si guarda un dipinto incasinato, cercando di capirne il senso. E tutto questo andava un po' contro l'espressione immobile, come un muro di mattoni mentre il suo “sguardo” era su di lui, aspettandone un «Scherzavo!».
Sapeva che era terribilmente sciocco da parte sua, ma... aveva davvero pensato per un mezzo millesimo di secondo, che qualcuno provava sincero interesse per lei?
I tratti del viso si abbassarono, spinti dalla gravità. «Oh... », sussurrò, abbassando gli occhi al pavimento impolverato. Che stupida. Che stupida. Che stupida!
«Giusto», disse solo. «Allora ci vediamo più... più tardi. Dobbiamo p-parlare». Dannazione! Le era sfuggito un balbettio. Chiuse gli occhi e strizzò le palpebre, pregando con tutto il cuore che Takeshi non ci avesse fatto caso. Altrimenti...
Sentendo lo sguardo di quest'ultimo addosso, non aspettò nessuna risposta e rientrò dal terrazzo. Forza, non c'era niente di nuovo, no? Era tutto nella norma.
«Tutto nella norma».
Quindi... non c'era motivo per sentirsi fatta a pezzi, giusto?

 

 

 

***

 

 

Le 17:30.
Il cielo si era tinto dei colori caldi del tardo pomeriggio, andando a colorare anche le pallide nuvole; spruzzi di arancione, giallo e rosso e persino un po' di rosa. Uno scenario romantico, rilassante! Proprio niente male. Solo la slanciata figura che spiccava nell'atrio della scuola – al centro, orgoglioso – stonava con lo sfondo altrimenti perfetto. In realtà, un ragazzo così bello potrebbe essere il protagonista di qualche smielata storia d'amore. Ma le iridi ametista erano talmente taglienti da rovinare ogni cosa – perché erano così fredde? Sembravano avere tutta l'intenzione di segare in due una persona, una qualsiasi, per il puro scopo di far del male.
Vuote, senza alcuna forma di vita.
Come se fossero gli occhi di una marionetta.

 

 

 

***


 

 

I sospiri che si arrampicavano disperati su per le sue corde vocali, sì, probabilmente erano soprattutto quelli a innervosirla. E ora si sentiva quasi stupida ad aver perso mezz'ora, in preda al panico, ad aggiustare la corta chioma rosata.
Tanto, non doveva incontrare certo un duca! … peggio, doveva incontrare qualcuno non-umano. Come doveva vedere Yuki, ora? E perché ci pensava proprio in quel momento, cavolo!
La fronte aggrottata, gli occhi chiusi e le braccia strette attorno al proprio piccolo corpicino – avvolto da un cardigan color biscotto – per infondersi un minimo di calore, camminava la salita che l'avrebbe condotta a scuola. Le era venuto mal di testa, a forza di starci a pensare.
Forse non dovrei andarci!, pensò, dopo aver esalato un ultimo sospiro. Basta così, con i sospiri. E basta così con le cattive idee. Cosa avrebbe pensato di se stessa, dopo aver preferito fuggire dalla sua migliore amica? E quest'ultima... magari non si sarebbe davvero rattristata. Da quando si conosceva lei non le aveva mai dimostrato aperto affetto.
Vai a vedere che, alla fine della fiera, era l'unica a pensare a loro come “migliori amiche”. Che superficialità, che stupidaggini.
«Mi scusi, signorina». Enormi, colossali-- Sayumi si fermò, impuntando le punte degli stivaletti. Sorpresa e scossa, si girò per trovare la voce – maschile – che aveva parlato – e rimase paralizzata.
«Penso di essermi perso e... saprebbe dirmi dove posso trovare la scuola superiore--».
«Ah! Lei, ehm, non è di qui, vero? In tutto il paese, ne abbiamo solo una», si affrettò lei, sgranando le iridi cerulei. Non sapeva dove aveva trovato la voce, dopo che il suo sguardo si era posato sulla figura davanti a lei.
Non era sicura che, in vita sua, i suoi occhi avevano mai guardato una persona tanto bella – beh, in realtà, Yuki era fin troppo bella... e questo spiegava un paio di suoi dubbi.
«Esatto», rispose il ragazzo. «Quindi ne esiste solo una? Dov'è, precisamente? Mi scuso per tutti questi problemi». E non era solo affascinante, anche cortese. Era un Dio? Sceso in terra... doveva aver perso una scommessa. Povero.
Sayumi sollevò il braccio sinistro, staccandoselo di dosso, per indicare alla loro destra. «E' lì, sempre dritto... ».
Le labbra del ragazzo presero una curva rotonda, avvenente; c'era qualcosa di strano, in quel sorriso, sembrava quasi che non gli appartenesse...
Si chinò in avanti, in direzione di Sayumi. «Capisco, la ringrazio infinitamente... ». Le prese il piccolo mento fra le dita e le pupille, in un solo attimo, si ridussero ad uno spillo per poi ringrandirsi.
«Immagino non ti dispiacerà accompagnarmi. Immagino... che tu ci tenga al tuo debole cuoricino».

 

 

 

***

 

 

Quanto tempo era passato... ? Non riusciva a capirlo.
L'unica cosa che giungeva alle sue orecchie, era il suono flebile di passi silenziosi, di passi accuratamente pensati. Non uno falso, non uno di troppo.
A volte, pareva quasi che stesse volando.
A volte, pareva che i suoi piedi si staccassero dal suolo.
Ah, ci capiva sempre meno, mentre, debolmente le palpebre provavano a levarsi – e non ci riuscivano, si riabbassavano con la stessa velocità di un battito d'ali.
C'era qualcosa di strano.
Di... contorto.
Nel piccolo attimo in cui aveva visto qualcosa, le era sembrato di vedere dei talloni che scomparivano a turno; quindi erano davvero passi.
Filamenti dorati.
Occhi senza conoscenza.
Anima corrotta.
Cosa... ?
«Mettimi giù».

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Capitolo 10
*** Una piacevole, prevedibile visita. ***


Perché dovrei fermarmi a riflettere per tutto? Non capisco.

Takeshi

 

 

 

 

 

 

Una piacevole, prevedibile, visita

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Yuki aveva conosciuto Sayumi a scuola. L'albina era entrata in classe, le mani bianche strette in pugni serrati e un viso serio, immobile. Si erano levati dei mormorii meravigliati, impressionati, che si erano ammutoliti quando lei aveva alzato lo sguardo a guardare la sua classe. Mediocri.
Le iridi, – quelle iridi baciate dai raggi solari –, osservavano le facce dei suoi compagni, dei suoi presto compagni. Mancava qualche stupida procedura e sarebbe divenuta parte di quella scuola – ma solo in modo teorico. Le sembravano davvero nella norma, a primo acchito non aveva niente da ridire; poi però non c'erano state le usuali domande che si facevano ai nuovi arrivati, quei ragazzi si erano limitati a rivolgersi occhiate complici. E bisbigli, bisbigli su bisbigli.
L'agitazione stava prendendo il sopravvento su di lei. Sapeva che era una pessima idea, mischiarsi tra gli umani! - sapeva.
C'era il rischio di venire scoperta, di essere cacciata con chissà quale aggeggio terribile, eppure aveva voluto rischiare. Per sé stessa e per lui
Il prof. Okamoto le aveva rivolto un sorriso cordiale, i capelli neri – come sempre – portati indietro con la gelatina. «Forza, presentati».
Yuki aveva avuto un fremito di puro nervosismo, aveva persino leggermente sgranato gli occhi. Doveva presentarsi? … a loro
Come un automa, si era girata verso la classe. Doveva solo dire il suo nome. No, non solo. Cosa poteva aggiungere? Che scuola aveva frequentato prima? Ma non ne aveva frequentate, non ne aveva il bisogno.
I suoi hobby? Ma sì certo, perché non parlare dei suoi hobby. Ad esempio, che trovava molto divertente dissanguare vivo – o morto – un umano. Trasse un profondo respiro, spezzato da un colpo di tosse in mezzo agli studenti.
«Il mio nome è Yuki», altri bisbigli. «Yuki Akawa. Mi sono trasferita dalla mia vecchia scuola per il lavoro di mio padre e... ». …. e?
«E--... ».
«Ci sono, ci sono, CI SONO!». Come un tornado, la porta scorrevole venne brutalmente fatta scorrere verso l'interno, mostrando un nido rosa al posto di capelli che di solito – almeno, in Oriente – sarebbero scuri.
«Vedo», commentò il prof, alzando un sopracciglio. Sospirò, indicando a quella persona senza discrezione il suo posto. «Forza, non perdere tempo sulla porta».
Il nido rosa si era piegato, con le piccole mani poggiate sulle gambe. Aveva l'affanno, sembrava proprio qualcuno che aveva corso a perdifiato. «Ah, Ichinomiya, lei è Yuki Akawa», aggiunse l'uomo. Quindi, finalmente, il nido sollevò la testa con un raggiante sorriso che illuminava il viso roseo.
Oh, pensava distrattamente l'albina, alzando le sopracciglia e mostrando una nuova espressione, che non fosse di panico. Curioso che fosse stato il sorriso a trentadue denti di quella ragazza che, all'apparenza, sembrava così maldestra. La ragazza raddrizzò la schiena e, a grandi e buffone falcate, giunse davanti a Yuki. E quest'ultima, non si era sbagliata.
«Molto piacere!», esclamò l'altra, porgendole la mano. Yuki chinò lo sguardo a guardarla, aprendo un po' le labbra – morse, spaventate.
Alzò il viso per perdersi negli occhi cerulei di quella che poi sarebbe stata la sua cara, migliore amica.
«Piacere mio».

 

 

 

***

 

 

 

Forse era proprio perché questi ricordi le erano tornati in mente che, d'un tratto, si sentiva la creatura vivente più cretina del mondo. Che cosa le costava non distruggere tutto, alla fine? Ah... sì, la sua esistenza. Perché il suo essere in parte un vampiro, la portava – volente o nolente – ad affondare affilate perle bianche nella morbida e indifesa pelle di qualche umano, probabilmente capitato per caso.
Il ché era meglio.
«Io me ne torno a casa», era stato il sibilo, freddo come l'Antartico, mentre semplicemente dava le spalle a Takeshi – non era stato tutto il tempo in terrazzo, ma un'ora o due se l'era passate. E l'umano era stato sorpreso dell'uscita, quasi preoccupato, perché si sarebbe aspettato una reazione più attiva. D'altronde, quella ragazza non si era presentata e per la mezzosangue sembrava davvero importante... cos'era successo, non poteva neanche provare ad immaginarlo.
Se ci allontaniamo, magari, non proverò più nessuna forma d'affetto per lei, pensava Yuki, guardando il cielo imbrunito, mentre camminava lentamente verso casa sua. A dirla tutta, casa Akawa, non poteva essere chiamata casa. Aveva quel non so ché di totalmente assurdo, e non perché dei coniglietti, ogni tanto, uscivano all'improvviso dalla fitta forestazione intorno alla residenza, ma perché era un castello.
Un castello dove nessuno aveva mai osato mettere piede, che casomai, veniva guardato da lontano con sospetto; chi viveva in un castello, al giorno d'oggi?
Le persone avevano una fervida immaginazione e spesso si rivelava realtà.
Per questo, Yuki non aveva mai pensato di portare Sayumi a casa sua; non voleva farle oltrepassare quel piccolo cancellato di ferro, non voleva chiacchierare spensieratamente con lei mentre attraversavano il lungo sentiero circondato dal verde che in estate, bagnato dalla rugiada della pioggia occasionale, brillava colpito dai raggi solari.
Avrebbe percorso da sola, quella strada; giungendo fino all'ingresso a due ante, largo. Indugiandoci, lì davanti, a guardare le alte e strette finestre coperte internamente da spesse tende viola e rosse – ne sono poche, ma d'altronde, non servivano granché delle finestre.
«Sono tornata», mormorò, più tra sé e sé, limitandosi ad aprire la maniglia all'anta sinistra.
Un enorme salone dove bastava dire appena qualcosa per riprodurne subito l'eco. Fece un passo in avanti e si richiuse la porta alle spalle, tirando un lungo e profondo sospiro.
Non c'era nessuno, il silenzio ne era la prova.
I suoi genitori, probabilmente erano da qualche parte, a fare qualche viaggio di lavoro; e sua sorella... sarà andata con loro, per capire meglio quella società.
Pigramente, si avviò verso le scale di legno – coperte da un tappeto rosso carminio – che si dividevano, dirigendosi a sinistra e a destra: la sua stanza era a destra. Per la prima volta in vita sua, non voleva fare altro che lasciarsi cadere a peso morto sul letto e non alzarsi per le prossime 24h.
Aumentò il passo e si trovò davanti la porta, che aprì.
«Mio Dio», esclamò, lanciando la valigetta a terra. «Sono così felice di essere torn-- … ma che sto dicendo?». Si strofinò le palpebre, passandoci più volte i palmi.
Portati quest'ultimi giù, si guardò brevemente intorno, fermando poi lo sguardo sul suo letto. «Eh?».
Avanzò di alcuni passi, lenta, cauta ed estremamente – estremamente... diciamo, in modo preoccupante – confusa.
Sayumi era seduta sul letto.
Bianca, pallida, più di Yuki stessa. Ma – al suo fianco... un uomo. Un uomo? No, un adolescente, sulla strada della maturità. E, a giudicare dalle spalle larghe, la stava percorrendo anche abbastanza bene.
Lenta, e sempre più attenta, aggirò il letto, per poter arrivare alla finestra di fianco al letto a baldacchino, con i morbidi veli che scendevano sinuosi ai fianchi. Una volta davanti alla finestra, poté posare e fissare più attentamente il giovane; capelli biondi, particolarmente... familiare. Teneva gli occhi chiusi e la schiena appoggiata alla testata del letto, mentre Sayumi aveva la testa inclinata in avanti, seduta sul bordo.
«Con chi ho l'onore di... confrontarmi?», azzardò l'albina, incrociando le braccia al petto. Come doveva rapportarsi con uno sconosciuto, peraltro, affascinante, proprio non lo sapeva. Strano. Molto. Strano.
Lo sconosciuto sollevò il viso e aprì gli occhi, rivelando gemme... ametista?
«Che delusione», sospirò. «non mi riconosci».
Yuki inarcò elegantemente un sopracciglio, alzando l'altro. «Prego?».
Beh, sì... effettivamente era familiare... simile a quella persona. Simile alla persona che era venuta a cercare, che l'aveva esortata indirettamente a iscriversi a quella scuola, ad arrivare lì. Perché non le sarebbe importato poi tanto di starsene tra banchi umani, se non fosse stato per lui. Per la sua gentilezza disarmante. Già, sentimenti più forti di lei, contrastanti: senza via di scampo.
La mezzosangue aguzzò la vita, assottigliando le palpebre, strizzandole. «... Te... tsu?».
Un sussurro, un bisbiglio in uno stadio, ma lui parve sentirla come se gli avesse parlato nelle orecchie. Il suo viso si illuminò, mentre si alzava e le andava incontro.
«Finalmente», esclamò, aprendo le labbra in un sorriso radioso. «Vieni qui». Se la portò vicina, in un abbraccio che le avvolgeva le spalle bianche almeno quanto Sayumi. Eccola lì, tra le sue braccia, dopo tanti tanti anni. Posò le labbra sulla testa albina, baciandola, assaporandone il profumo alla vaniglia.
Lei si lasciò andare ad un sorriso e ad un sospiro, entrambi sollevati. Ironico. Lei era andata a cercarlo, e lui l'aveva trovata. «Dove sei stato per tutto questo tempo, Tetsu... ?», disse, il viso contro la sua spalla, quest'ultima usata come un appoggio.
«Mi dispiace», proferì, schioccando un altro bacio. Yuki allungò piano le mani dietro la sua schiena, per ricambiare – come meglio poteva, lui le stava spezzando la schiena, in pratica – l'abbraccio tanto agognato. «Ma sono successe delle cose a cui ho dovuto... pensare, diciamo».
Yuki allentò la sua presa, tentando di alzare lo sguardo oltre la sua spalla, per guardare la sua cara amica. «Sì, ma... cosa hai fatto? L'hai soggiogata! Se volevi arrivare a casa mia, potevi vedere, non so, nei registri di cla-- ehm... potevi andare ad intuito. Voglio dire, te la immagini una casa modesta per gli Akawa? Si nota, casa nostra...! ».
No. NO! Non doveva assolutamente sapere che andava in una scuola umana. Quanto a Sayumi, poteva fargli credere che la usasse come scorta di sangue in casi disperati. Sì, ci poteva stare. Sì. Certo.
«Per arrivare alla tua classe», la guardò, eloquente, con le sopracciglia aggrottate. «avrei dovuto soggiogare il doppio delle persone. O ucciderle. Insomma, come capitava. Lei è la prima tizia che mi è capitata davanti, le ho ordinato di portarmi da te e... sono stata fortunato, direi». Sorrise, di nuovo piuttosto eloquente, con una smorfia maliziosa su un viso candido.
«Il solito vampiro dolce e carino», lo canzonò Yuki. «Di quelli che portano i dolcetti ai bambini e leggono le poesie alle vecchiette». Lenta e con dolcezza – altamente insuale, ma okay –, sciolse quell'abbraccio e puntò gli occhi oro in quelli rosati. Sospirò. «Quindi lo sai. Cioè, l'hai scoperto, eh?».
«Forse non dovrei dirti che è stato facilissimo», sorrise. «ma te lo dico lo stesso: è stato facilissimo».
Yuki abbozzò una risata, consegnandogli uno schiaffo sul petto. Si allontanò da Tetsu, per dirigersi in fretta da Yumi, chinandosi sui talloni. Le sollevò il mento, prendendolo tra il pollice e l'indice. «Yumi? Non ti ho mai portata qua con l'intento di non farti conoscere tutto questo, sia chiaro, eh». Certo che, le faceva male vedere quel viso completamente inespressivo, vuoto, le labbra appena schiuse e le iridi vitree. Contraendo il proprio, le piccole pupille si ingrandirono e diminuirono in pochi istanti.
«Peccato, era più graziosa così», disse lui, alzando le spalle in un lieve gesto. In contemporanea con la ripresa di coscienza dell'umana. Sollevò il viso, boccheggiando, come fosse tornata dalle profondità marine. In apnea.
Le iridi cerulei si inchiodarono in quelle oro dell'albina, terrorizzate. Dov'era? Cosa diamine stava succedendo? Le labbra tremavano mentre spostava lo sguardo sul biondo a braccia conserte. Quest'ultimo fece un sorriso a mezzaluna, alzando due dita prima posate sull'avambraccio.
In segno di strafottente saluto.
«Ehi, ehi, aspetta», mormorò Yuki, prendendole il viso fra le mani per indirizzarlo verso il proprio. L'umana cercava di guardarla, ma non riusciva a stare ferma e scrutava ogni particolare, boccheggiando. Yuki strinse appena la presa sul suo viso. «Yumi. Ti prego, sono io. Sono Yuki. Il tuo “lenzuolo” che non si porta mai il pranzo!».
«Il mio... », le parole gli morirono in gola, quando per davvero guardò l'amica. E senza aspettare altro tempo, la travolse in un abbraccio soffocante. Yumi, a differenza di Tetsu, strinse il suo collo. Fino a... soffocarla.
«Yu—Yu-- muoio!». Però rise. Anche se stava morendo per assenza d'ossigeno, rideva, pure felice. Finalmente, dopo tanto tempo, riassaporava la morbidezza dei suoi abbracci – impulsivi, dolci. Forse, chissà, avrebbe addirittura versato qualche lacrima. Se... se quello sguardo non la stesse trafiggendo da parte a parte.
«Tetsuya Tanigawa», annunciò con solennità Yuki, alzandosi in piedi con l'umana attaccata addosso. «... ti dispiacerebbe smettere di guardarmi così?».
«Così come?», chiese lui, alzando un sopracciglio.
«Così». E lo imitò, rendendo labbra, sopracciglia e palpebre come tante linee perfettamente immobili. Sayumi staccò la testa dal petto dell'albina per guardare il diretto interessato, dubbiosa. «Ma chi è, si può capire? … a parte un gran figo... ».
«La ringrazio, signorina», arcuò un sorriso di lato, quel dannato sopracciglio nuovamente alto.
«Lui», fulminò entrambi. «è un vampiro. Kyuuketsuki*. E mio caro amico d'infanzia, sì». Aveva usato un tono velenoso quanto profondo nel pronunciare la parola “Kyuuketsuki”, come se la parola stessa fosse imbevuta di nocività.
«Kyuuketsuki... », ripeté Yumi, battendo le palpebre. Poi si staccò definitivamente dall'amica, avvicinandosi a piccoli passi al vampiro. Gli allungò la mano destra, tenendo l'altra al fianco, le dita a stropicciare la gonna. «Sayumi Ichinomiya. Dovrei dire di essere lieta ma... mi hai ingannata e costretta a portarti qui, quindi, non lo sono poi molto. Scusami!».
Il vampiro guardò prima Yuki – che gli restituì un'occhiata di compatimento –, perplesso, poi l'umana. Allora, tentennando, le porse la mano. E un confetto bianco e uno rosa si unirono in una piccola e gentile stretta.
«Ehm... lieto?».

 

 

 

 

 

Kyuuketsuki: vampiro. So che può sembrare una ripetizione averlo scritto prima in italiano e poi in giapponese, ma in quest'ultima lingua viene visto in maniera più “forte”, tipo demone.

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Capitolo 11
*** Coincidenze, caso, a random! ***



- Chissà, forse sì, forse no. O magari non interessa a nessuno saperlo, basta che vada tutto per il verso giusto, no?

Takeshi.


 

 

 


 


 

Coincidenze, caso, a random!


 

 

 


 

 


 

Era contenta. Sì, poteva dirsi contenta e soddisfatta; ma non del tutto.
Su una scala da uno a dieci, la sua soddisfazione arrivava a otto. Qualcuno avrebbe detto che era avida, che non si accontentava. Ma... questo non risolveva un piccolo problema: non aveva chiarito un bel niente con quei due. Non aveva spiegato ai due cosa fosse lei, cosa era venuta a fare in quella scuola. E di certo non poteva trattenere Sayumi a casa sua, né voleva – comunque.
Se doveva essere onesta, aveva ancora da smaltire lo shock del trovarsi – da un momento all'altro – quel vampiro. Quella persona. Chissà da quanto tempo era in città e lei non lo sapeva. Chissà.
«A proposito», disse Yuki, davanti all'ingresso, mentre teneva lo sguardo fisso su Sayumi che si allontanava. Dopo averle rifilato mille raccomandazione, in perfetto stile madre rompi scatole, l'aveva mandata a casa. Con un gran sospiro. «Hai un posto dove stare?».
Il vampiro, appoggiato a braccia conserte allo stipite del portone, aveva uno strano sorriso d'un lato. Poi rivolse lentamente lo sguardo sull'albina.
«Essendo arrivato stamani... non proprio. Stavo pensando di andare al Consiglio», rispose, sotto lo sguardo colmo di disapprovazione dell'amica – dunque era lì da pochissimo... «Che c'è, hai paura che provino ad uccidermi?». Il sorriso si fece più sghembo, mentre scioglieva le braccia per allungare una mano verso il viso di Yuki. Quest'ultima chiuse gli occhi e... ah, no. Scacciò la mano con la propria e si girò, per dirigersi alle scale.
«Non ci riuscirebbero, neanche in dieci. Pensavo solo che dovresti prendere una stanza già affidata a qualcuno», ribatté, di spalle. «D'altronde, la tua famiglia non fa parte del Consiglio».
E di questo, lei ne era palesemente felice. Tetsuya sollevò le palpebre, leggermente, per lanciare un'intensa occhiata alla mezzosangue che già saliva le scale, incurante, insofferente. Come sempre.
«Odi così tanto, quelli là?». Un filo di voce. Un filo di voce che arrivò come una coltellata al fianco di Yuki che, ciononostante, non si fermò.
«Già. Li voglio morti quanto loro vogliono morta me».



 


 



 

***


 

 

 

 

 

«Buongiorno!».
Il fatto che Sayumi fosse arrivata in classe in tempo presagiva problemi. E non stava scherzando, l'albina, né esagerando nel guardare la sua amica con un espressione di terrore e preoccupazione.
Da quando era arrivata lì, le volte che Sayumi era stata puntuale le aveva contate sulla punta delle dita: tre, forse quattro. Ma questo diventava privo di importanza quando, quei giorni, succedeva.
Se non era troppo in orario, allora, l'universo si limitava a rifilare alla città una pioggia violenta che batteva con una forza alquanto sinistra, arrivando perfino a danneggiare qualche parabrezza o a bucare gli ombrelli. Sì, era inconcepibile.
Se invece era dieci minuti in anticipo... beh, grazie a Dio, non era ancora successo. Fino a quel giorno.
«Cosa. Diavolo. Ci. Fai. Qui!», paralizzata, la fissò allungò, mentre l'altra sbuffava esasperata. Lasciò la cartella – poco gentilmente – sul banco dell'albina, incrociando le braccia al petto.
«La vuoi piantare o no, con questa storia?», brontolò, contrariata. «Come potrebbe mai essere colpa mia! Si chiama caso. O coincidenze. In ogni caso, comincia con la c».
Yuki alzò un sopracciglio, alzandosi e afferrando la valigetta dell'amica per il manico. «Senti, ad una stupidaggine come il caso, io non c-- … iniziano con la c... e non dirmelo, anche questa è una coincidenza».
Yumi fece un enorme sorriso, da orecchio a orecchio, compiaciuta. Annuì, ripetutamente. «Esatto! Vedi, cominci a parlare la mia lingua!».
«Quale, quella dei trogloditi?», e con un sorriso di sfida, si allontanò dal banco con la valigetta dell'amica tenuta dal manico con il gomito verso l'alto, la cartella che sbatteva contro la scapola destra.
«Ehi! Non sei molto carina, sai?». Per tutta risposta, l'altra la seguì con lo sguardo puntato addosso, evitando per puro miracolo – o caso – gli spigoli dei banchi. Quando le fu alle spalle, Yuki si voltò di scatto, dopo aver lasciato la valigetta sul banco dell'umana.
«Oggi vorrei parlarvi», disse, improvvisamente seria, la fronte corrucciata.
Sayumi piegò leggermente la testa indietro, per poter guardare bene in faccia l'albina. D'altronde, la sua altezza era di solo 166 cm che, in confronto ai 173 cm della mezzosangue... la facevano apparire leggermente gnoma.
«A me e... quel ragazzo di cui parlavi?». Era contenta che Yuki avesse visto con i propri occhi – e sentito con le proprie orecchie – che quel vampiro l'aveva costretta. Altrimenti, seppur completamente nel pallone, si sarebbe presentata. Sicuramente. Yuki annuì, celere. «Sì, e dobbiamo pure darci una mossa».
«E... perché?», chiese Sayumi, piegando la testa di lato.
«Beh... mettiamola così. Prima vi chiarisco la situazione, prima posso... ». allontanarvi, pensò, abbassando leggermente la testa in avanti, con un velo sugli occhi.
Ormai aveva deciso. Anzi, non c'era niente da decidere: gli umani non devono intromettersi.
O finire coinvolti. L'albina sorrise appena. «... farvi passare la domande di testa».
Sayumi batté le palpebre, tenendo lo sguardo accorato negli occhi dell'amica, cercando qualcosa che la tradisse. E invece niente, la sua maschera da bambola di porcellana era infrangibile. Non sembrava neanche una maschera. Infine, spostò lo sguardo di lato, vaga. «Bene. Allora parliamo sul terrazzo alla fine delle lezioni».
Yuki sarebbe pure rimasta lì, davanti al banco dell'amica, a ricambiare lo sguardo ricevuto poco prima, se solo il prof. Okamoto non fosse entrato in classe proprio in quel momento. Sotto il braccio, aveva il registro e con la mano destra portava la solita valigetta da lavoro dei tipici professori. Peccato che lui non fosse proprio tipico.
«In piedi», ordinò la voce del capoclasse, una volta che tutti furono ai loro posti. «Saluto. Seduti». Come robot, eseguirono, per poi lasciarsi cadere chi stravaccati, chi composti. C'era persino qualcuno che già cominciava a chiedere di andare in bagno, nonostante fosse solo la prima ora.
«Allora», cominciò Okamoto, poggiando le mani sulla scrivania. Aveva un bel sorriso sulle labbra, sembrava proprio di buon umore. «Come sapete, tra non molto ci sarà la gita--... beh, in realtà, è un modo di dire. Ho appena saputo la data precisa».
Ah, già! La gita. Yuki si trattenne dal portare una mano alla fronte, desiderando ardentemente essere un mollusco. Così non avrebbe dovuto sorbirsi Yumi che la pregava di andarci – il ché era ovvio. L'anno scorso – sfortunatamente, non conoscendo le usanze delle scuole, Yuki non sapeva neanche dell'esistenza delle gite – se l'era scampata, essendo arrivata a metà dell'anno scolastico... stavolta non aveva scampo.
«Quest'anno, la gita scolastica si terrà – udite, udite – il diciannove maggio!», annunciò, tutto fiero. Gli alunni non fecero una piega, di fronte alla data, attendendo piuttosto dove si sarebbe svolta.
E l'uomo doveva averlo intuito, perché aggiunse – dopo un colpo di tosse: «... al mare».
Al mare?, pensò l'albina. Un coro di voci soddisfatte si levò così all'improvviso che il professore sobbalzò, abbozzando un sorriso sollevato.
Al mare? Al mare? AL MARE?, il corso dei pensieri della mezzosangue erano così intensi da distrarla completamente, da farle dimenticare tutto il resto. Compreso il resto del discorso dell'uomo.
«Un'ultima cosa, saremo in compagnia di una classe, come sempre», continuò Okamoto, accingendosi ad aprire il registro. «la 2-C. Penso che la conosciate. Si fa chiamare “classe in fondo”».


 



 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

Era ancora turbata, quando le lezioni finalmente finirono. Sayumi le ripeté così tante volte di non preoccuparsi, che alla fine l'umana stessa iniziava a trovare strana la frase “non preoccuparti”.
Ma davvero, non doveva preoccuparsi! Cosa poteva mai essere, andare in gita – al mare –
con la classe di quello stalker mania-- poi però le venne in mente che lì c'era anche Kazuki, meglio conosciuto – beh, solo Yuki lo conosceva così – come Faccia di Plastica. Ah, ma che bello. Saltellava dal desiderio di andare lì.
«Intanto», disse Sayumi, mentre camminavano, lente e “tranquille”, verso la classe di Takeshi. «L'idea del mare mi sembra davvero originale. E poi non siamo mai andate al mare insieme!». Oh, beh, almeno lei era felice. Così felice che saltellava e piroettava – sì, lei saltellava davvero.
A breve, probabilmente, Yuki le avrebbe lanciato uno stivale in testa.
«Ma al mare possiamo andarci quando vogliamo, noi due», brontolò, alzando gli occhi al cielo, alquanto disperata. «Con quel branco di mentecatti non ci tengo. Men che meno, con quegli altri!». E ovviamente, si riferiva alla classe dove si stavano dirigendo.
Dove erano appena giunte.
«Chiam—hm... ». La mezzosangue stava già per pronunciare la frase “Chiamalo tu, ti prego”, quando ricordò che Sayumi non sapeva l'aspetto di quello lì. La diretta interessata la guardava con un sopracciglio arcuato, le labbra contratte e lo sguardo interrogativo.
«Niente, lascia stare», disse Yuki. «Quando vengo da queste parti tendo a diventare scema».
E quindi si appoggiò allo stipite della porta scorrevole per sporgere la testa e cercarlo con lo sguardo. Come sempre, non c'era – beh, c'erano pochissimi studenti, visto che ormai erano finite le lezioni.
Possibile che tutte le volte che lo cercava non c'era mai? Sembrava quasi che lo facesse apposta. Certo, se così fosse stato, lei non si sarebbe limitata a qualche battutina glaciale.
Oh, no.
Avrebbe condiviso con lui i suoi hobby – come sgozzare teste, perché no.

«Beh?», la incalzò Yumi, piegando la schiena per dare un'occhiata. «Hai detto che era un tipo qualsiasi ma carino, giusto? Io non vedo nessuno qui di carino. A parte quello con l'orecchino».
Orecchino? A proposito, Tak-- Katugawa li avrà, i buchi?, pensò l'albina, stranamente curiosa, mentre seguiva lo sguardo dell'amica che la indirizzò verso Kazuki. Aggrottò la fronte. Il caso.
E chissà per quale oscuro motivo, ma Kazuki si girò proprio a guardare la porta, allagando le labbra in un enorme sorriso a trentadue denti. Yuki si allontanò dallo stipite della porta, lentamente. «... direi che non è qui». Sayumi non si mosse, invece, continuando a guardare fisso quel ragazzo. «Yuki-chan, sembra che stia venendo da questa parte. Alla faccia, che sorriso! Ora gli si intorpidisce la mandibola!».
Yuki valutò l'ipotesi di scavare una fossa e infilarci la testa, cosicché possa finalmente recuperare la calma, la postura elegante di un tempo. «Akawa-san!». Ma niente. Ormai, non poteva più sfuggire ai suoi doveri. Era proprio arrivato al fianco di Sayumi, la mano sollevata per salutarla.
«Uccidetemi!».
«Come?».
«Niente. Ma perché il -san?». Yuki si passò una mano sulla fronte, guardando di lato. «Insomma, abbiamo la stessa età. Anche se sembri più piccolo».
«Che brutta cosa da dire, Akawa-sa-- Akawa», borbottò Kazuki, storcendo le labbra in una smorfia tenera. Sayumi incrociò le braccia al petto, portando l'indice e il pollice al mento, pensierosa.
«Yuki-chan», disse. «Mi presenti?».
«Sì, certo». E sorvolò sul fatto che, fino a due giorni prima, Sayumi non fosse affatto il tipo di persona che conversa tranquillamente col sesso opposto. «Kazuki, Sayumi Ichinomiya. Yumi, Kazuki».
«”Yumi”?», ripeté lentamente il ragazzo, guardando l'umana dai capelli rosa. Quest'ultima fece un leggero cenno col capo, . «Yumi!», confermò, sorridente. «E' un soprannome che ho ricevuto proprio da Yuki-chan. Diceva che il mio nome era troppo lungo da pronunciare... ».
«Ma hai tolto solo due sillabe», osservò Kazuki, spostando ora lo sguardo su Yuki. Lei scosse la testa, le mani sui fianchi, un espressione talmente convinta da risultare divertente.
«No, no», disse. «Voi non avete capito l'essenza dei nomi con quattro sillabe! … e un solo kanji*».
«Quindi... “neve”, giusto?», chiese Kazuki, inclinando il capo di lato. Poi sorrise, con calore. Il ché era strano, considerando che lui non aveva proprio espressioni facciali... che il pugno dell'albina gli avesse aggiustato i muscoli facciali?
«Mi piace scoprire i significati dei nomi, è divertente», aggiunse. «Poi mi viene da chiedermi a cosa stessero pensando i genitori in quel momento».
A cosa stessero pensando... non so se voglio saperlo, pensò Yuki, aggrottando lievemente la fronte.
«Che hobby originale», commentò Sayumi, ormai le braccia dietro la schiena già da un po'.
«Yumi, stai ripetendo fin troppo spesso quella parola», disse Yuki. E, prima che la conversazione finisse per diventare infinita, girò la testa verso Kazuki.
«Senti», cominciò, gonfiando leggermente le guance, indispettita – chiedendosi se fosse il caso di essere così diretta. Mah, alla fin fine, a breve Sayumi l'avrebbe saputo, quindi... «Sto cercando Katugawa. Sì, stavolta sì. Ma ho visto che in classe non c'è, quindi per caso è già... ?».
«... tornato a casa? No, non penso», batté le palpebre. «Altrimenti lo saprei».
Sorvolando anche su questo, continuò lei, che mi fa tanto spione stalker, – non mi sorprenderei se andassero d'accordo – dove sarà, allora? Almeno sappiamo che è a scuola.
Lenta e, tutto sommato, placida, volse gli occhi sull'amica – e, oh, giustamente era stupita. Molto, stupita. Diciamo che era a metà fra lo stupore e l'imbarazzo cronico.
Giorni prima aveva fornito informazioni su Takeshi Katugawa alla sua migliore amica e, meraviglie delle meraviglie, adesso scopriva che era lui la persona a cui doveva un favore? E va a capire che cosa aveva fatto di così eclatante, quel ragazzo! La fronte un poco aggrottata e il visino roseo più vivido, borbottò: «... e non ti ha detto dove è andato?».
«Forse è andato in bagno», rispose il ragazzo, stringendosi nelle spalle. Sayumi si accigliò, perché di certo non sarebbe andata vicino ai bagni dei maschi. Già era tanto se ci parlava – pur riluttante – figurarsi passare davanti ai loro bagni.
«Bene, grazie per l'utilità delle informazioni», cantilenò Yuki, dopo essersi ripresa dai suoi pensieri. Kazuki accennò un altro sorriso, socchiudendo le palpebre. «Ah. Magari potresti attaccargli una cimice addosso, visto che lo cerc--». Sarà stata l'occhiata della mezzosangue oppure l'istinto di sopravvivenza, ma qualcosa gli intimò di fermarsi e lui lo fece. Lo fece più in fretta che poté.
«Eh? Che?», balbettò Sayumi, guardando prima uno poi l'altra. «Non ho capito un accidenti!».
«Ah, niente di importante», Yuki mosse una mano come per scacciare quell'argomento. «umorismo di pessimo gusto».
Eppure Yumi avrebbe voluto capire perché le gote della mezzosangue le sembravano più colorate, più rosa, più vive. Forse si sbagliava, chi lo sapeva. Eppure quel colorito le stava bene.
«Non avrai la febbre».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Yuki aveva accennato a Sayumi della persona che doveva conoscere e a cui – addirittura – doveva un favore, un favore anche piuttosto grande. E lei si era un po' spaventata di fronte a questo, perché non aveva mai ripagato nessuno, perché non si era mai servita di favori.
Ma il vero problema... era che l'amica le aveva solo fatto qualche breve e disinteressato accenno e solo adesso, per caso, aveva scoperto il nome e cognome.
Una persona nota nella scuola, ma di cui lei non sapeva né l'aspetto, né la voce, né i suoi modi di fare; se era una persona con la quale era facile parlare, se doveva fare attenzione a qualcosa in particolare. Niente di niente. Però non sapeva se Yuki conosceva tutte queste cose, quindi, non ci aveva fatto caso. E basta.
Ed era a causa di questo che Sayumi si mosse.
«Togliti---», con una velocità, una forza, un'abilità che lasciò a bocca aperta tutti, afferrò il polso del nuovo arrivato per rovesciarlo a terra, le gambe divaricate per sollevarne il peso.
«Yumi, aspet--», esclamò l'albina, purtroppo in ritardo.
Va bene, arrivare alle spalle di quest'ultima e abbracciarla alle spalle, avvolgendole il collo con l'avambraccio destro e la vita con quello sinistro non era stata un'ideaona... ma così che sembrava un pervertito. «Lui è... !». La voce di Yuki fu spezzata dai passi di Kazuki che si apprestava, sorpreso, a raggiungere il ragazzo steso a terra.
«Aaaah, Katugawa, stai bene?!».
Katugawa?, pensò Sayumi, le mani che si aprivano e richiudevano rapidamente, gli occhi strabuzzati.
«Accidenti, cosa ti è preso?», esclamò la mezzosangue, lanciandole occhiate.
«Scusa ma... quello è... Katugawa Takeshi?», balbettò Yumi, il viso in fiamme, le braccia che tornavano vicino al proprio corpo, ora a stringersi il busto. Oddio, cos'aveva fatto!
Il ragazzo – Takeshi, poverino – si era messo seduto con una gamba stesa e un ginocchio alto, mentre scuoteva più volte la testa. E dire che gli doveva un favore...
«Tutto apposto? Dammi il braccio, ti aiuto», disse Kazuki, piegandosi verso di lui per porgergli la spalla. Takeshi, per tutta risposta, si alzò da solo in piedi, sotto lo sguardo di tutti e tre. Sembrava ancora intontito dalla botta e in effetti, di solito, non si viene sollevati in quel modo e gettati a terra come una cartaccia. Ora aveva una mano sulla schiena, mentre la raddrizzava sollevando le spalle e stringendosi in esse.
«S-scusami», la voce di Sayumi, normalmente raggiante e squillante, arrivò flebile e persino Yuki ebbe problemi a sentirla.
E finalmente, Takeshi si girò verso di loro.
«Ma che hanno le ragazze d'oggigiorno? Me le ricordavo dolci e morbide», borbottò. L'umana strizzò le palpebre, piegando le schiena. «Il fatto è che.. è che sei.. sei arrivato all'improvviso, e Yuki-chan non si fa sfiorare da nessuno quindi.. quindi--».
«Ah-ah, ne so qualcosa. Dopo questo, voglio un gelato». Sayumi sorrise tra sé e sé, mentre tornava a schiena dritta e sollevava lo sguardo su Takeshi.
Beh. “Tipo carino” non rendeva l'idea. Il fisico alto, all'apparenza sembrava anche abbastanza resistente e formato, – sennò starebbe ancora a crogiolarsi nel dolore – le spalle larghe, le maniche della camicia scolastica tirate fino ai gomiti a mostrare gli stessi avambracci di prima – ovviamente. E il viso. Un contrasto fra lineamenti dolci e spigolosi, che non facevano ben capire se sembrasse della sua età o se apparisse più grande. Quei capelli che cadevano dolcemente sugli occhi nocciola--.
«Che strani capelli», commentò. Allungò una mano verso la testa rosa dell'umana – abbassando la testa per riuscire a specchiarsi nei laghi al posto degli occhi – prendendo gentilmente una ciocca sulla fronte. «Non mi sembrano tinti. Sono... naturali?».
«Ehi», lo fulminò Yuki, prendendo per le spalle Sayumi – in tinta col fiocco rosso al petto.
«I miei sono tinti!», esclamò Kazuki, sbracciandosi. La ragazza mormorò un «Davvero?», incuriosito.
«Che c'è? Gelosa?», cantilenò Takeshi, incrociando le braccia al petto, un sorrisetto sulle labbra piene.
«A proposito, Yuki-chan... hai un concetto strano della bellezza... ». Anche se Tetsuya, quel vampiro, era davvero bello. Ma c'era qualcosa di strano nel suo aspetto: sembrava quasi finto. Di plastica, per citare qualcuno. Sayumi non sapeva dire con certezza cosa fosse, ma aveva l'impressione che poteva essere il sorriso misterioso.
«Casomai», ribatté la mezzosangue, lasciando Sayumi – e ignorando sia lei che Kazuki – per fare un passo in avanti in direzione del ragazzo. Le palpebre appena socchiuse e un espressione di sfida. «sei tu quello geloso. Sennò, non avresti fatto quello che hai fatto».
«Sì, è vero. Sono geloso», e lo disse con una schiettezza, una sincerità tale da fare retrocedere del passo appena raggiunto l'albina. Con la stessa occhiata di quest'ultima poi, faceva un certo effetto.
«Oh, cavoli», commentò Sayumi, mentre Kazuki faceva un cenno con la testa, assorto. Era così preso dalla scena che non si accorse subito della vibrazione del cellulare nella tasca dal pantalone. «Ah, dannazione. Ichinomiya», e lei si girò, riluttante – poteva perdersi di tutto in quei pochi secondi. «Io devo sbrigarmi ad andare a casa... salutami questi due. Bye bye».
Sayumi rise brevemente, annuendo. «Bye bye!», rispose, tenendolo con lo sguardo fin quando non ebbe svoltato l'angolo.
E poté tornare, tutta emozionata, al suo drama tv**.














 

 

 

 

Kanji: allora, sì. Penso che sappiate tutti cosa siano i kanji, hm-- la frase di Yuki è per dire che il suo nome si scrive con un solo ideogramma, ossia... “neve”. E se non erro, anche “coraggio”. Il ché, più avanti, sarà collegato alla sua personalità.

** Drama tv: i drama tv – meglio conosciuti come... drama e basta – sono le serie tv giapponesi, coreane, cinesi, taiwannesi e poi buh, anche filippine penso. Alla fine, sono come le serie tv americane o ita-- niente, americane.



NOTA DELL'AUTRICE:
Bonsoir, mesdames et messieurs! Rendiamo grazie a google translate! (?)
… sì scusate, ma davvero non mi ricordo niente di francese okay-- (???) vabbeh, passiamo alle faccende importanti. Sono già due-tre capitoli che non metto una nota dove sclerare e praticamente è perché sono occupata a scrivere gli altri capitoli – così non aspettate decenni – o a... rendermi conto che devo studiare per il debito. SI' GIA'. 
Quindi probabilmente questa settimana e la prossima sarò occupata a studiare, e blabla... beh, almeno il pomeriggio. La fine di tutto questo è per dirvi che troverò tempo di scrivere la sera verso le dieci – che manco più sarà sera ma okay – quindi BOH. MAH. 
Bien, basta così! 


Night, ovviamente, con affetto. ♥

 

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Capitolo 12
*** Le punizioni possono diventare ingiustizie vere e proprie. ***


 

 

Salvami e io non ti salverò.

Yuki

 

 

 

 

 

 

 

 

Le punizioni possono diventare ingiustizie vere e proprie

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Tanto tempo fa... ». La voce di Yuki era abbastanza chiara, anche se non parlava molto alto. Con lo sguardo a terra, non sembrava né dispiaciuta, né turbata, né dimostrava qualsivoglia emozione; era solo concentrata a raccogliere le parole giuste, seduta a terra, al centro della terrazza – i due umani seduti davanti a lei, in ascolto. «... esistevano un demone e una vampira», continuò, l'albina, inspirando silenziosamente dal naso.
No, tutto quel tempo che si prendeva non era solo un “raccogliere le parole giuste”. Sayumi poteva dirlo guardando l'amica, quest'ultima con gli occhi fissi sul pavimento.
«Erano i figli dei primi vampiri e dei primi demoni che ebbero messo piede sulla Terra», disse. «Ovviamente, c'era qualcun altro: i parenti ad esempio. Nonostante non fossero poi così “primi”, il demone e la vampira furono scelti per diventare l'Imperatore e l'Imperatrice». Il tono si era fatto leggermente più gelido.
«Il popolo era felice di avere qualcuno a cui appoggiarsi, soprattutto in quel momento, dove si stavano pian piano rendendo conto dei propri... disagi», proseguì, alzando un sopracciglio. «Come ad esempio, l'eccessiva vulnerabilità al sole. Avendo un corpo più debole, visto che il sangue tende a fluire meno velocemente, la luce solare ci indeb--- beh, questo è un altro discorso». Tornò ad un espressione quasi serena, sorridendo appena, mentre posava lo sguardo sui due.
Mantenevano una certa distanza di sicurezza; non si ignoravano ma non avevano ragioni per guardarsi o parlarsi.
«Comunque», riprese, dopo aver battuto le palpebre un paio di volte. «adesso che c'era qualcuno a governare, un matrimonio era assolutamente necessario».
«Un matrimonio... combinato?», domandò Sayumi, alzando le sopracciglia, sorpresa. Lei non potrebbe sopportare di sposare una persona sconosciuta... ma ai quei tempi era una cosa naturale, si disse mentalmente.
Yuki annuì, con un leggero sorriso sulle sottili labbra. «Sì, ma... alla fine della fiera, si sono innamorati. Da quello che mi è stato detto, si sono incontrati ad un ballo e--».
«Aspetta, aspetta, aspetta!», quasi urlò l'umana, sollevatasi sulle ginocchia. Takeshi sussultò anche, sollevando lo sguardo su Yumi, la fronte corrugata.
«Mi hai fatto prendere un infarto», commentò lui.
Sayumi, con le iridi impregnate di emozione, chiese: «Mi stai dicendo che ci sono dei balli?!».
Yuki fece un nuovo cenno d'assenso, titubante. «Beh, certo... anche se adesso non sono più frequenti come prima... ».
Sayumi tornò seduta composta, con un sospiro beato. La mezzosangue, ovviamente, non capiva perché tanto batticuore
per quegli stupidi, patetici balli. I quali, la maggior parte delle volte, erano per trattative o altri fidanzamenti combinati.

Yuki chiuse gli occhi, trattenendosi dal sgozzare uno dei due, solo per la furia. «... si sono incontrati ad un ballo e si sono conosciuti sempre meglio, fino a... ».
«... innamorarsi». La voce di Takeshi catturò la sua attenzione; quasi non volesse farsi vedere, portò gli occhi su di lui, di sottecchi. E lui stava guardando verso di lei, intensamente, attentamente. Come se fosse molto interessante, ciò che vedeva. Allora lei, imbarazzata, si apprestò a guardare altrove.
«Tutti erano convinti che», proseguì, chiudendo nuovamente le palpebre. «sarebbero stati tempi d'oro per loro. Per gli Imperatori, per il popolo. Però una cosa è risaputa, ovunque: la felicità non è destinata a durare».
In quel momento, il cielo cominciò a tingersi della tipica luce calda del pieno pomeriggio; toni arancioni, gialli, leggermente rosei, avvolgevano la palla di luce che si intravedeva all'orizzonte. Yuki vi si posò lo sguardo, scostandolo subito dopo, come un gatto ferito. Quanto odiava quella luce.
«Che visione pessimistica della vita», osservò Takeshi, il braccio destro poggiato sul ginocchio sollevato.
Dopo essersi strofinata gli occhi e averne sbattuto le palpebre, la vista le tornò regolare e poté fissare l'umano. «Finisci di ascoltarmi e poi vediamo cos'hai da dire».
E sembrava una sfida, mentre posava i palmi sulle gambe. Ci mise qualche secondo per trovare la voglia di continuare. Takeshi non aveva smesso di tenerla accorata, incuriosito quanto dubbioso.
Cosa era successo di tanto brutto da dare alla mezzosangue quell'idea della felicità?
«Sapete», ricominciò, sottovoce. «C'è un certo lato collaterale dei demoni. Sono noti per le loro abilità, distruttive e non, davvero davvero potenti... c'è persino chi pensa che siano imbattibili».
Un lieve silenzio si abbatté con meschina prepotenza sul terrazzo, mentre un caldo vento primaverile avvolse tutti e tre. I lucidi filamenti argenti vennero mossi dalla folata, fino a svolazzare scompigliati. Pareva quasi un'aurora a tinta unica, mentre lei aveva le palpebre socchiuse a nascondere occhi del colore del sole. C'era qualcosa di completamente fuori dal normale in quella scena.
Ma non parlarono. «... peccato che non possano usarli allungo. C'è come una data di scadenza. Se – e dico, se – i loro poteri vengono usati più e più volte, in modo permanente... per più di due mesi... i demoni perdono il senno».
Perdono il senno.
Questa breve frase risuonò come il rintocco di una campana, nel silenzio assoluto.
«... che cosa vuol di--», sussurrò Sayumi.
«Vuol dire che impazziscono. Completamente. Che non distinguono più il vero dal falso. I sogni dalla realtà, o dagli incubi. Che per loro, da quando impazziscono, non esistono più “amici” o “nemici”». E tutti e due non trovavano una valida spiegazione a quel tono così inespressivo, neanche stesse ordinando un thé al bar.
Era assurdo.
Assurdo!
«... perché... questo?», chiese Takeshi, lentamente, scandendo bene le sillabe.
Yuki non rispose subito, forse stava soppesando la domanda. Forse non sapeva nemmeno lei il perché di quell'ingiustizia. «Non saprei», rispose, infine, sentendosi infinitamente sconfitta. Ancora una volta. «I demoni, d'altronde... sono considerati i figli del Diavolo. Magari è una punizione. Chi può saperlo?».
«Quindi è qualcosa di naturale, diciamo», osservò il ragazzo, portando il pollice al mento. Yuki fece spallucce, mostrandosi disinteressata. Quando, invece...
«E questa cosa, che vuol dire?», a interrompere i pensieri dell'albina fu Sayumi. In realtà, aveva tutta l'aria di una persona che non voleva più sentire niente. Sembrava davvero turbata. Lo dimostrava dagli occhi lievemente sgranati e dal colorito non più roseo come sempre, ma pallido, provato.
E ne aveva tutte le ragioni, era ciò che pensava Yuki, mentre esalava ossigeno per riscuotersi. «Erano innamorati. Follemente, direi. Niente e nessuno avrebbe potuto dividerli. Ma lei era una vampira e lui un demone. Non so cosa abbia portato lui a usare così tanto i suoi poteri, ma fatto stà che, due mesi dopo il matrimonio... l'Imperatore aveva cominciato a sudare, tanto, ad avere gli occhi cerchiati di rosso per la spossatezza. Stava sempre peggio».
Rilasciò l'ossigeno accumulato, schiarendosi la voce con un colpo di tosse.
«Sempre, sempre di più. I capelli si erano allungati talmente tanto... e la voce era decisamente diversa da come l'Imperatrice la ricordava. Era tutto così diverso», scosse lentamente la testa. Voleva cancellare ciò che sapeva. Ciò che era impresso a fuoco nei suoi ricordi – che le sembrava di riuscire a vedere perfettamente. «Passò un altro mese. Il tempo trascorso dal matrimonio era pari a tre mesi. Tre mesi di difficoltà, di stanchezza mentale. Tre mesi».
Oh, sì, avevano decisamente capito dove voleva andare a parare Yuki. E in qualche senso, avevano capito anche perché
non tagliava la testa al toro e completava quel dannato paragrafo. Un rivolo di sudore scivolò lungo la schiena dell'albina.
«... sì impegnato davvero. Ma non ce l'ha fatta. E allora, l'ha uccisa».

 


 

 

***

 

 

Cosa sapeva di quella donna?
Cosa sapeva di quell'uomo?
A onor del vero, non sapeva nulla, se non quelle informazioni, quelle misere, irrilevanti informazioni. Perché, che importanza potevano avere, se messe in confronto a tutto quel dolore? A tutte quelle lacrime? Al corpo in esanime, dentro una pozza di sangue, di lei?
Nessuna – ecco.
E Yuki, ogni che si fermava a rifletterci, a immaginare com'era successo, sentiva una tristezza così dannatamente forte... da farle diventare gli occhi gelidi due gelati sciolti. Si facevano lucidi, si facevano malinconici. Eppure non era lei quella che aveva sofferto – fisicamente e moralmente parlando. E' un evento così lontano dai suoi anni che non dovrebbe interessarle. D'altronde, non provava niente neanche per ciò che accadeva ai suoi giorni, perché doveva diventare triste per qualcosa accaduto secoli e secoli fa? Quando neanche i suoi genitori erano nati.
Non aveva senso. Era inconcepibile.
«Dopo questo incidente», magicamente, ritrovò la voce. Non la ritrovò di certo guardando i volti bianchi come lenzuoli dei due umani-- bensì, pensando che davvero non voleva prolungarsi su quella cosa. Non voleva dirne una parola di più, basta. «ci furono diversi problemi».
Takeshi e Sayumi finalmente tornarono ad un colorito più sano, mentre guardavano l'albina, spaesati.
«Teniamo conto che si parlava di due casate differenti, di razze differenti», disse, con tono leggermente inasprito. «Quindi, in teoria, doveva essere una cosa a lunga durata. Per farla breve, il fatto che l'Imperatore avesse ucciso l'Imperatrice era stato considerato come un enorme oltraggio alla casata di lei».
«Ma... », balbettò Sayumi, chinando lo sguardo a terra, colta da un fremito. «Ma non è stata colpa sua! Non voleva!».
Yuki stette in silenzio.
Certo che non voleva. O almeno era quello che lei sapeva. Poi, la verità poteva anche essere un'altra.
«Fatto stà che dopo questo, tutto andò in rovina», continuò, imperscrutabile, stavolta. «Le casate si divisero completamente, cominciando a farsi guerra in tutti i modi possibili. E misero di mezzo persino il popolo».
«Il popolo... », mormorò Takeshi, guardando la luce pomeridiana. La mezzosangue fece un leggero cenno d'assenso con la testa, così leggero da sembrare immobile.
«Insomma, demoni e vampiri erano diventati nemici mortali», disse, decisa. «Era passato poco più di un mese dall'accaduto di quei due e già il popolo aveva cominciato a schierarsi a destra e sinistra». Un lungo sospiro susseguì le sue parole. Che idiozia...
«Allora... in pratica, più che essere stati messi di mezzo, lo hanno voluto loro», disse Takeshi, inarcando un sopracciglio. «Altrimenti, avrebbero potuto scegliere se unirsi alle guerre, no?».
«No». E che cavolo, non voleva parlarne. Si rendeva conto di dover dare delle spiegazioni per quegli ultimi giorni, però, che diamine!
Altro sospiro, estenuato. «Non è che potessero per davvero scegliere qualcosa. C'è una tecnica di governo anche abbastanza efficacie in situazioni come queste».
Sayumi sollevò le iridi azzurrine sull'amica, che era così diversa. Se la ricordava come una persona un po' fredda, indipendente, ma sempre gentile con lei. Chi era, allora?
Chiuse gli occhi, in silenzio.
«E cioè?», incalzò lui.
«E cioè», riprese Yuki. «dare l'impressione che il popolo possa ancora prendere decisione autonome. Quando, invece, chi è al potere si limiterà a prendere in considerazione, ma la maggior parte delle volte non effettuerà mai le idee della gente».
«Beh, wow», commentò Takeshi, alzandole – ora – le sopracciglia. Wow davvero.
Era a conoscenza dei metodi poco gentili dei politici, ma non si era mai soffermato a capire il loro metodo di lavoro. E meno male.
«Potresti fare il politico», disse, abbozzando un sorriso. Lei lo ricambiò, piegando il capo leggermente.
«Certo, perché no. Potrei approfittarne per spillarvi più soldi possibili», commentò, con tono acido, corrugando la fronte. Takeshi storse le labbra in una smorfia divertita. Sentirle dire “spillarvi”, gli dava una strana impressione. Mah.
«Spillarvi... », ripeté.
«Cosa?».
«Impigliarvi. Impigliarvi».
«... ah».
«Stavo pensando», disse Yumi, approfittando delle distrazioni dell'albina e del ragazzo. «Mi pare che tu avessi affermato qualcosa... riguardo te». E guardò Yuki, in attesa.
«Beh», quest'ultima portò una mano dietro la testa, alla nuca, incerta. «in effetti dovrei dirvi una cosa».
Era l'idea principale. Poi, però, c'era il dovere di spiegare tutto dall'inizio degli inizi; non era andata nei dettagli perché altrimenti si sarebbe fatto così tardi che avrebbero dovuto scavalcare il cancello, per uscire dalla scuola.
Quindi, prese un bel respiro e annuì. «Alla fine, a causa di queste guerre, i demoni e i vampiri non ebbero più contatti. Almeno, di certo non andavano a incontrarsi perché a uno dei due mancava la presenza dell'altro».
Il filo di sarcasmo era intuibile anche dal sorrisetto sulle labbra della narratrice, che ora aveva le braccia incrociate al petto.
«A parte che, ormai, avevano messo un divieto». Alzò il mento e raddrizzò la schiena, socchiuse le palpebre e pronunciò con voce atona: «”Da questo momento in poi, è severamente proibito l'incontro non autorizzato tra demoni e vampiri. Se mai questa regola verrà trasgredita più volte, la pena salirà alla morte”».
Di morte?!, erano i pensieri dei due umani. Addirittura di morte. Le pupille rimpicciolite e gli occhi sgranati.
«Infatti, i miei genitori in un certo senso sono stati fortunati», abbassò il mento e guardò entrambi, cercando di rassicurarli con un sorriso. Erano stati ben pochi i morti, grazie al cielo.
«Lei è un vampiro e lui un demone», disse, lentamente. «Si sono conosciuti poco prima che venisse reso pubblico il divieto quindi non ci furono grossi problemi. Certo, per convincere i famigliari... ». Le venne da sospirare ma riuscì a trattenerlo, battendo le palpebre e schiarendosi nuovamente la gola. «In ogni caso, si sposarono, ed ebbero due figlie: me e mia sorella».
Silenzio.
Silenzio assordante. Yuki passava lo sguardo da Takeshi e Sayumi, inespressiva; le labbra di entrambi erano serrate e
avevano gli sguardi di chi si era lasciato sfuggire qualche pezzo della storia, per strada, e adesso tornavano indietro a raccoglierli. Nel silenzio, le iridi azzurre dell'umana dai capelli rosati, si posarono lentamente a terra.
«Mi stai dicendo che... », cominciò lei, a voce bassa, quasi cupa. Un'ombra era scesa a coprirle la metà del viso, lasciando in mostra solo le labbra che si muovevano, a rallentatore.
«... CHE HAI UNA SORELLA?!».   

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Capitolo 13
*** La quiete prima della tempesta. ***


 

Sappiamo chi siamo ma non sappiamo chi potremmo essere.
Shaekspear.

 

 

 

 

 

 

 

La quiete prima della tempesta

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le spiegazioni, i racconti, i pareri, i pensieri; in tutta sincerità, avevano finito di parlarne verso le 17:36. E il cielo era già stato tinto di un'inebriante atmosfera serale, sfumando su un rossiccio che, dal terrazzo, sembrava più vicino a loro. Era un bel panorama.
E quei tre sarebbero pure rimasti lì a guardare il cielo, se non fosse stato per l'ora di chiusura della scuola; già, perché, una volta finito di parlare, non se ne erano andati subito.
Ma era davvero quel cielo a trattenerli?
Beh, a giudicare dal colore acceso degli occhi dell'albina – no.
«Fate attenzione, per strada», disse loro, quando furono davanti ai cancelli di ferro all'entrata. «Soprattutto tu, Yumi. Non vorrei che... ». … che incontrasse di nuovo Tetsu, pensò, scostando lo sguardo. Non era davvero pericoloso.
O, almeno, lei se lo ricordava come un vampiro pacifico e annoiato, perennemente annoiato. Senza un vero scopo nella vita. Per questo, in teoria, non dovevano preoccuparsi. Eppure, chissà.
I vampiri sono noti per la loro incredibile abilità nell'essere imprevedibili. Imprevedibilità dovuta ai tanti anni vissuti, agli anni infiniti. Quasi quasi, veniva pure da dar ragione, a quei tipi.
«Va bene, filerò dritta dritta a casa», Yumi sorrise, dolcemente, come a rassicurare l'amica preoccupata. Anche se, lo sguardo imperscrutabile – che lei conosceva come le sue tasche –, sembrava stesse dicendo «Non mi interessa».
Takeshi schioccò un'occhiata ad entrambe, guardando prima l'albina silenziosa poi la rosa, le cui guance erano leggermente colorate. Ora che ci pensava, non sapeva il suo nome, mentre lei sembrava che lo conoscesse.
«Ehi, capelli rosa», disse, avvicinandosi di un passo. Sayumi alzò distrattamente lo sguardo per guardare in faccia il moro, inarcando un sopracciglio e alzando l'altro, offesa dal nomignolo. «Ho un nome, sai?».
«No, non lo so. Non ci ha presentato, la tua amica», e ripiegò la sua attenzione su Yuki, che alzava le spalle, incurante –anche se era vero. Nella foga del racconto, si era completamente dimenticata di accennare a delle presentazioni. E dire che l'aveva presentata persino a Kazuki!
Lui sorrise, riportando gli occhi sull'umana. «Immagino sia colpa della gelosia. Faccio da solo, allora», quindi allungò la mano destra – prima nelle tasche del pantalone – verso di lei. «Takeshi Katugawa, molto piacere».
Yumi guardò la mano dalle dita lunghe e affusolate, bianche, che aspettavano di essere strette. In due giorni aveva conosciuto ben tre persone, tutte e tre ragazzi.
«Mi cade il braccio», mormorò il moro, incurvando un sorriso allegro. Lei si riscosse, annuendo e stringendo finalmente la mano che, al contrario della sua, era abbastanza grande. Era morbida, per essere la mano di un ragazzo. Vi si posò lo sguardo, sorpresa, fissandola con attenzione.
«Sayumi Ichinomiya», disse dopo, con calma. Entrambi sciolsero la stretta, lenti. Lei sorrise, amichevole. «Yuki-chan mi ha detto che ti devo un favore. Potrei saperne il motivo?».
Alla domanda chiaramente retorica della nuova conoscente, Takeshi si accigliò un secondo, riportando l'altra mano in tasca. «Non ho fatto quello che ho fatto per farlo considerare un “favore”», ribatté.
«Sì, ma cos'hai fatto!», esclamò l'altra, esasperata. Andiamo, non avrà mica salvato il mondo o cose del genere, no? Quindi che lo dicano e basta.
«Ti ha salvato la vita, Yumi», disse Yuki, tutto d'un fiato, le palpebre chiuse e le braccia incrociate in una postura elegante quanto fredda. «Dame».
«Perché sei una mezzosangue?». Sayumi l'aveva detto e basta, senza pensare che le sue parole potessero ferirla. Anche se il suo sguardo tradiva un certo timore, se non preoccupazione per lei, il tono era comunque fermo e deciso.
Voleva farle sapere che non aveva paura di lei, ma per quello che avrebbe potuto incontrare d'ora in avanti. Aveva appena appreso che il mondo era dieci volte più pericoloso di come normalmente si pensa. Non si limitava agli assassini, ai rapinatori: c'era di mezzo ben altro. Allora, con lo sguardo concentrato a fissare quello serrato della mezzosangue, aggiunse lentamente: «Non sarei morta lo stesso».
Takeshi lanciò un'occhiata traversale all'umana, all'apparenza, pareva che niente potesse smuoverlo. Invece, stava cercando di capire meglio quella piccoletta dagli strani capelli. E pensava che, di stranezze in fatto di capelli, ne aveva già viste.
Poi d'un tratto gli venne qualcosa in mente.
«Ah, ma certo», esclamò, sorpreso. «Tu stai sempre insieme a Yuki!».
Sayumi si voltò a guardare Takeshi, un espressione dubbiosa. «Come?».
«Come ho detto», riprese lui, così serio da far ridere. «tu stai sempre con Yuki. Mentre andate a scuola e quando siete in classe. Ne sono sicuro, ecco perché mi eri familiare».
«Ti ero familiare?», ripeté Yumi, ora più sorpresa che altro. Ma davvero? A lei invece sembrava di vederlo per la prima volta in vita sua. Eppure, a quanto pare, anche lui – come le due ragazze – era del secondo anno.
«Ma che bravo», Yuki ridacchiò, mentre riaprì gli occhi, coprendosi le labbra con una mano. Si avvicinò, dondolandosi da un posto all'altro, fino a Takeshi, posando l'altra mano sul suo petto. Ad una distanza un po' ravvicinata, sussurrò quasi cantando: «il mio stalker».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Non gli ho parlato del Consiglio!» … e di Tetsuya.
La mattina dopo, frastornata dal sole che filtrava dalle finestre, i suoi pensieri erano già puntati su i suoi due amici. Amici... aveva degli amici.
Un piccolo – addirittura timido, potremmo dire – sorriso spuntò dal solito broncio mattutino, mentre tirava la zip degli stivali e si sistemava addosso la divisa bianca. Un colore insolito per una divisa scolastica giapponese ma, in realtà, la divisa stessa era strana; era, praticamente, un vestito con una gonna piuttosto corta mentre in vita c'era una cinta dai bordi rossi che scendeva un po' cadente non avendo dei passanti.
Non aveva né bottoni né zip, solo un fiocco rosso al petto che si chiudeva tramite un bottone dietro.
E poi, per quanto riguarda le calze, c'era la libera scelta: Yuki aveva optato per parigine nere. Aveva sempre adorato le parigine.
«Io esco», annunciò. Kukuri era proprio all'entrata, impugnando una scopa con la quale spazzava, in maniera né troppo forte né troppo debole. Alzò lo sguardo, raggiante, verso la padrona e fece un cenno col capo. «Buona giornata».
Yuki sorrise e la ringraziò.
E in effetti, poteva davvero essere una buona giornata. Adesso che tutti i dubbi dei due umani, dei suoi amici, erano stati dissipati. Magari... magari potevano godersi la loro vita adolescenziale.
Sì.
Mentre passeggiava a passo lento la solita salita per la scuola, si sentiva talmente di buon umore che avrebbe anche accettato di incontrare – proprio ora, proprio in quel momento – Takeshi. “Il suo stalker”.
Quando lo aveva chiamato così, la sera prima, si era divertita da morire; il colorito roseo era diventato leggermente più evidente sulle gote, gli occhi si erano chiusi e le labbra... mordicchiate fino a sfinirle. Lo aveva reso nervoso. Lui.
Se ci pensava, sentiva la cosa come una conquista. Poi, naturalmente, si dava della stupida perché certi pensieri mentre si cammina non andavano fatti o si finiva per inciampare e cadere e--. Naaah!
Con un sorriso luminoso sulle labbra sottili, rafforzò la presa al manico della valigetta e si guardò indietro, per vedere se Sayumi la stesse raggiungendo.
«Che strano», disse, sorpresa: non c'era. La mattina si incontravano quasi sempre, erano due o tre le volte in cui non capitava e, più che altro, era a causa di malattie.
Neanche Yuki era davvero puntuale, ma per lei c'era una ragione: il sole. La mattina ci metteva sempre un po' prima di riuscire a raccogliere le forze e alzarsi e camminare. Lei si stava comportando “al contrario”. Viveva il giorno e dormiva la notte.
Ed essendo una creatura della notte... era particolare. I suoi genitori non si erano lamentati a riguardo; beh, a dirla tutta, i suoi genitori non avevano mai messo bocca negli affari della figlia maggiore. Primo: non c'era mai il reale bisogno. Secondo: … non volevano. Non c'era l'intenzione.
A Yuki andava benissimo così. Ognuno viveva la propria vita come meglio credeva, anche se poteva risultare dannoso, ma per lo meno non avrebbe avuto rimpianti o ripensamenti, giusto?
«Sc-scusa... ». Una voce femminile la chiamò appena appena, soffocata, decisamente affaticata. A primo acchito subito pensò a Sayumi, quindi si girò alle sue spalle.
«Oh? E tu... chi saresti?», era di buon umore, certo, ma questo non l'aveva resa più docile con gli esseri umani.
L'umana in questione aveva la schiena ricurva, entrambe le mani che premevano contro il costato, mentre respirava lentamente – e la stessa divisa scolastica. Un paio di sussurri di dolore catturarono l'attenzione dell'albina.
«Che diamine hai?», sbottò, perplessa; con un sospiro, piegò la schiena per porgerle la propria spalla, a cui la ragazza si appoggiò quasi all'istante, con tutto il peso.
Yuki prese il braccio sinistro per passarselo sulle spalle e, al contatto, sentì sotto la mano un calore anormale – era febbre, forse. «Ma hai... hai l'appendicite?».
Lei fece un leggero cenno col capo, lasciandolo cadere in avanti, senza forze. Dannazione. Proprio adesso doveva trovare una malata di appendicite? Non era sicuro, ma vista la febbre e il modo con la quale si tastava le parti del costato, era probabile.
Non bastava darle una spalla. Piegò le ginocchio e passò il braccio sinistro sotto le gambe della sconosciuta, sollevandola di peso con un «Issà!». Era in momenti come quelli che ringraziava la forza spropositata.
Si gettò qualche occhiata intorno, mentre riprendeva la strada verso la scuola, stavolta correndo; purtroppo nei paraggi non c'erano ospedali e, a quanto pare, neanche qualche forma vivente.
Proprio oggi hanno deciso di essere tutti puntuali? Oppure c'è un epidemia e sono tutti a casa, pensò Yuki, accorciando sempre più rapidamente la distanza fra loro e la scuola. Rivolse lo sguardo alla ragazza il cui respiro si era fatto pesante, quasi avesse un macigno sullo stomaco. Il viso era pallido e gli occhi chiusi, mentre cercava di respirare quanto più poteva.
«Siamo arrivati», le disse, con calma, mentre varcava i cancelli. Finalmente, la ragazza aprì gli occhi, rivelando iridi nere come pece, incorniciate da lunghe ciglia nere – era bella. Boccheggiò qualcosa di incomprensibile – nervosa, nel pallone. «A-asp... no».
Yuki si accigliò un attimo, lanciandole un'occhiataccia. «Cosa, “no”? Sappi che la mattina non ho proprio voglia di portare in braccio le persone», sibilò. E no! Se qualcuno sperava in una Yuki preoccupata, gentile e premurosa, se lo potevano benissimo scordare!
Le sfuggì un sospiro, ormai dentro la scuola, nei pressi della segreteria. «Resisti. Ti porto in infermeria».
Almeno, da lì, potevano visitarla e darle qualcosa mentre arrivava l'ambulanza – sempre meglio di uccidersi a quel modo per portarla a piedi fino all'ospedale più vicino.
La sconosciuta richiuse gli occhi, appoggiando la testa contro la spalla dell'albina.
Adesso si sentiva un po' meglio. «... ah, no. Non c'è bisogno, idiota».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Il cinguettare degli uccellini e la luce solare che trapassava violenta la chioma degli alberi erano lo scenario di quell'attimo.
Un fascio di luce – e non era quello del sole – spuntò fuori dalla tasca della sconosciuta, arrivando in meno di qualche microsecondo al lato del collo di Yuki, dove le vene pulsavano – nervose. Ma non in preda al panico.
Perché il suo corpo si mosse, prima della mente stessa, ordinando ai muscoli di mettersi in azione; piegò la schiena in basso, per poi afferrare ilpugnale direttamente dalla lama.
Il busto spinto in avanti e le ginocchia piegate, sentiva tutte le articolazioni tremare. Ciononostante, strinse la presa intorno al tagliente e lo spinse, come a intimare la ragazza a lasciarlo.
Ma lei sorrideva, oh, se sorrideva! Un ghigno che trasfigurava il bel visino, che mostrava denti bianchi e rendeva più piccoli gli occhi. Un ghigno di tutto rispetto.
«Oh, cavoli», persino la voce era incrinata verso il divertimento. Divertita, con una punta di follia, mentre portava un indice alle labbra incurvate. Non mostrava il minimo dispiacere. «Oh, cavoli! … ti stai tagliando la mano. Povera, bianca, vampirica manina».
Posizionò meglio la propria mano all'elsa del pugnale, volgendo persino lo sguardo altrove.
«Ah, ma visto che è sangue», cantilenò, fissando il cielo. «non dovrebbe essere tipo gustoso? Non lo stai desiderando?».
Bene. Voleva già ucciderla. Decisamente.
«O forse voi non provate niente verso il vostro sangue?», finalmente, riportò la sua attenzione sull'albina, ancora immobile a tenere stretto il pugnale tra le dita, grondanti di liquido rosso. Pensierosa, la sconosciuta si passò la lingua fra le labbra, lentamente. «Aspetta. Allora, forse... ».
Quindi, dopo essersi ammorbidita le labbra con passate di lingua, si inflesse profondi, intensi morsi. Così forti che quelle cominciarono a sanguinare leggermente, rendendole ancora più rosee di prima. Poi le aprì e avvicinò lievemente il viso a quello di Yuki. «E ora? Non dovresti essere tipo... eccitata?».
«La smetti di dire “tipo”? Al prossimo, ti strappo la lingua a falciate». Yuki chiuse gli occhi. No, no che non lo era. Ne era sicura. Però la mano le tremava ugualmente, anche se non stava provando nessuna tentazione verso tutto quel rosso che sgorgava, che bagnava, impiastricciava. Come per dimostrarsi tranquilla, chiuse ancora di più le dita intorno alla lama.
«Allora», disse, scandendo per bene le sillabe. «Non ti chiederò neanche chi sei. O cosa vuoi. Ho solo una domanda da porti».
La ragazza incrociò le gambe, appoggiando la mano libera sul fianco. Era un po' delusa dalla reazione della mezzosangue ma, beh, aveva tutto il tempo per vederne altre.
«Sì?», chiese, quieta.
«Come vuoi... essere uccisa? Dissanguata viva? Smembrata? A cubi? Oppure preferiresti essere prosciugata?», aprì gli occhi, sollevando iridi rubino, ammalianti, in quelle nere della sconosciuta.
Questa le fissò di rimando, dapprima curiosa, sorpresa; come uno scienziato che vedeva per la prima volta un laboratorio. Fissò i due specchi di sangue, li fissò e li fissò.
E poi rise.
Una risata alta, eloquente, una risata che forse qualcuno – dentro la scuola o nei paraggi – aveva sentito. E chissà, si era spaventato. D'altronde, una risata del genere non poteva che spaventare.
«Non sono un'indovina», scandì Yuki, ancora – senza un freno. E dopo il tono ironico, susseguì uno pieno di disprezzo, di puro disgusto. Davanti a lei c'era solo immondizia. «... ningen*».
La risata terminò con un botto, con una chiusura improvvisa.
Adesso, era silenziosa. Yuki non riusciva a sentirne nemmeno il battito cardiaco che di solito aveva nelle orecchie, chiaro e forte, vivo.
Adesso, era silenzio.
«Ningen? Ningen? A chi stai dando... del ningen!».
E poi, come una canzone all'apparenza calma, ci fu un acuto agghiacciante.

 

 

 

 

 

 

 

 

* Ningen: parola giapponese, ovviamente, che significa “umano/a”. Perché l'ho voluto scrivere in giapponese? PERCHE' FACEVA PIU' FIGO. No vabbè. X””
Allur, come avrete notato, Yuki e gli umani non vanno proprio d'accordo... che poi, in VD, è difficile trovare qualcuno che vada davvero d'accordo. Lal
Quindi buh, per rendere più l'idea del suo disprezzo, ho voluto scriverlo in giapponese. Provate ad immaginare Miyuki Sawashiro (doppiatrice di: Saeko Busujima, Celty Sturlusun, Suruga Kanbaru) mentre dice “ningen” con voce piena di odio. <3



NOTA DELL'AUTRICE:

Aloha, bei cricetini~~ (?)
Allur. Cosa potrei dirvi. °V° A parte che mi sono divertita da morire a scrivere questo capitolo? Boh, mi piace far interagire Yuki con la gente, quin--- ma magari dovrei stare zitta, eh? E' un mezzo spoiler e ultimamente io non faccio che riceverne.
In ogni caso, parliamo di cose più belle; prima di scrivere questo capitolo, ho visto Road to Ninja!*3* E COSA POSSO DIRE SE NON: vedetelo. VEDETELO.
E' pieno di feels, non potenti potenti, ma ci sono e ne vale la pena! <3
…. visto che ne ho parlato ad una mia amica, un'amica davvero scema, specifico: è un film di Naruto.
In realtà boh, mi riesce difficile credere che non tutti sanno dell'esistenza di questo film-- ne hanno parlato molto, d'altronde. Uwu Ma vabbè!
Vi lascio al capitolo~~ ...

 

Night, ovviamente, con affetto. ♥

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Capitolo 14
*** La calma è stata distrutta perché essa era solo un prologo. ***


 

Dipendi dagli altri e sei finito. Vuoi sapere perché? Perché gli altri dipendono da te.

Tetsuya.

 

 

 

 

 

 

 

 

La calma è stata distrutta, perché essa era un solo un prologo

 

 

 

 

 

 

 

 



 

 

«Non ti distrarre».
Come non poteva distrarsi, esattamente, come? Quell'urlo di paura era bastato a farla girare di scatto verso gli scalini che precedevano l'entrata nella scuola. Quell'urlo leggermente stridulo, femminile – soprattutto. Era bastato.
Era agitata. «Yuki--! », la voce di Sayumi era forzata, incrinata – mentre accadeva. Di nuovo, quel pugnale diventava un fascio luminoso, ma stavolta tagliente, e si liberava dalla presa ferrea dell'albina e si spingeva contro il suo viso.
Lei si spostò – o ci provò –, ricavando un lungo taglio dallo zigomo sinistro fino alle tempie, schivando per mera fortuna l'occhio.
Era saltata via come un grillo, atterrando sui piedi come un gatto, piegandosi leggermente sulle ginocchia. Ebbe un piccolo fremito, mentre portava il pollice destro alla striscia rossa.
«Vai via!», urlò, senza staccare lo sguardo dalla sconosciuta che roteava il pugnale, divertita. Stava prendendo la come un gioco. Un passatempo. Oh, voleva farle a pezzi quel sorrisetto beffardo. Voleva – ma sentiva la presenza di Sayumi.
«Cosa aspetti? Muoviti!».
«Ma non posso lasciarti qui così!», ribatté l'umana, corrucciandosi. No, non poteva assolutamente. Non con quella persona così inquietante. «T-ti ha già... ».
«... ferita? E allora? Non si muore per un taglio», sibilò Yuki, stringendo la mano ancora impiastriciata di sangue. I tagli si stavano già rimarginando, lasciando però le macchie scarlatte di sangue asciutto. Avvertiva i proccessi di guarigione pizzicarle dentro, inducendola a socchiudere le palpebre – dolorosamente.
«Se stai qui», disse. «Non posso liberarmi di quest'isterica».
La suddetta isterica impugnò nuovamente e saldamente l'arma, mutando espressione in una di ribrezzo. «Smetti di darmi inutili appellativi. Non ti salveranno. ---Lo so, tanto». Fece una pausa, senza smettere di compiere piccoli passi che l'avvicinavano alla mezzosangue, vigile. «Lo so che fremi dalla voglia di bere il mio sangue».
Il corpo di Yuki, tuttavia, dimostrava solo una pura riluttanza ad avvicinarsi appena appena; cominciò lentamente ad indietreggiare, un passo alla volta – come se stesse danzando – mentre si tratteneva dal guardare verso l'amica.
Doveva andare via.
«Bene, mi sono scocciata», disse l'altra. «Chiudiamola qua e basta. Avrei un appuntamento da rispettare!».
E ci fu un nuovo attacco, rapido e fulmineo, che l'albina riuscì a schivare spostando il capo; l'avversaria non si era però limitata ad uno solo, perché aveva già sollevato una gamba per sferrare un calcio – verso destra.
Dannazione--, l'avrebbe colpita e poi si sarebbe alzata difficilmente. Il caldo, la preoccupazione, i tagli e il sangue perso – la testa che pulsava. Non... ce la faceva. Non riusciva.
«Adesso basta». Mai l'avrebbe detto, ma l'intervento di Tetsuya fu una vera mano dal cielo. Yuki aveva le braccia incrociate nel vago tentativo di parare il colpo, spalancò gli occhi – quando li aveva chiusi? – trovandosi davanti un'ampia schiena, fasciata dal tessuto bianco tipico delle camicie. Si piegò un po' di lato, osservando il gesto del vampiro: gli era bastata una mano. Una sola mossa della mano era bastata a fermare lo stinco della nemica, la cui gamba era ancora a mezz'aria, tremante per lo sforzo.
«Tetsu», sussurrò l'albina, tornando lentamente dritta. Lui sospirò, gravemente esasperato, spingendo via la gamba della ragazza come se avesse tenuto fra le dita qualcosa di lercio. Poi, con tutta la calma del mondo, si girò verso Yuki – prese le sue spalle.
«Stai bene? Da queste ferite, direi di no», disse, preoccupato, carezzandole i punti prima feriti.
«Ah, no... si sono già rimarginati», mormorò confusamente lei, battendo le palpebre; spostò dopo lo sguardo su Sayumi, che poi era il suo modo di tornare alla realtà, vedendola seduta a terra – alquanto angosciata ma sollevata. Lo leggeva negli occhi che semi aperti, ora che si alzavano a ricambiare l'occhiata dell'amica, forzata.
«Ho un déjà vu», commento la mezzosangue. «Chi diavolo è quella squilibrata?».
Puntò le iridi – rubinee – in quelle nero pece della diretta interessata, che ora si mostrava profondamente seccata, il coltello tornato al suo posto e le braccia sul petto – sembrava che stesse aspettando.
Tetsuya si voltò, restando qualche secondo in silenzio.
«Vorrei saperlo anch'io», rispose, arcuando le labbra in un sorrisetto interessato – la ragazza alzò le sopracciglia. Serrò le labbra imbrattate del suo sangue e, a seguire, ci fu un immenso silenzio, duraturo e freddo come un mare ghiacciato.
Nessuno si azzardava a prendere parole, a spaccare la lastra di acqua solidificata; probabilmente perché nessuno sapeva che piega avrebbe preso la faccenda, dopo. Per cui, a parlare, fu semplicemente la ragazza. «... Hokori. Sono Hokori». Un borbottio infastidito.
«Hokori, cosa?», la incalzò la mezzosangue, velenosa.
«Yamashita». Yamashita... un cognome abbastanza comune. Adesso c'era da capire perché aveva attaccato, di punto in bianco, Yuki. Non sembrava un demone e neanche un vampiro, sennò avrebbe usato i propri poteri.
Allora... era un'umana?
«Pensi di dirci cosa ti frullava per la testa?», chiese, ironica, appoggiando la mano pulita su un fianco. Non voleva rischiare di insudiciare l'uniforme – non con quello schifo. «Hai spaventato a morte un umano», continuò, lanciando lo sguardo a Sayumi. «nonostante tu stessa sia un umano. E, mi hai attaccata, dopo aver finto un malore. Quindi?».
Hokori non sembrava intenzionata a svelare il suo obiettivo.
Aveva portato l'indice e il pollice all'inizio delle labbra, portandole fino all'altro capo, mimando una zip che si chiudeva. Yuki esalò l'ennesimo sospiro, guardando poi Tetsuya – quest'ultimo in silenzio. «Io devo andare in classe-- anzi, prima a sciacquarmi. Puoi pensarci tu? Chiama gli Adetti, se devi».
Senza la benché minima pietà, aveva nominato gli Addetti che sì, in effetti, non erano terrificanti; non lo erano, ma Hokori aveva infranto una delle regole del Consiglio e di conseguenza avrebbe dovuto stare faccia a faccia con quelle creature. Con i loro occhi indagatori.
E non era un gioco di ragazzi – specie se le avessero dato addirittura una pena.
«Certo», lui sorrise, tranquillo. Le scostò una ciocca argentea dalla fronte accaldata, annuendo. «Andate tutte e due, farò io».
Yuki lo ringraziò con un piccolo sorriso, prima guardare un'ultima volta la ragazza dagli occhi neri, Hokori; e chissà se era stato il caso regalarle un'altra occhiata... perché la sua faccia sembrava tutto fuorché felice.

 

 

 

 

***

 

 

 

Quando la calma, la quiete, avevano preso finalmente il possesso della situazione – si era sentita cadere come un castello di carte. Se solo avesse potuto infilare le sue zanne nel collo di qualcuno – tranne che di Hokori Yamashita, questo era certo –, sarebbe per lo meno riuscita a tenersi in piedi da sola, senza doversi appoggiare pesantemente sulla spalla di Sayumi.
Se avesse avuto appena un po' di sangue... scosse la testa, mentalmente: non doveva fare certi pensieri in presenza dell'amica. Non dopo quello che le aveva fatto.
«Quindi puoi rimarginarti, eh», disse lei, sorpresa.
«Beh, in teoria, anche voi potete... », ribatté Yuki, tenendo lo sguardo davanti a sé, mentre camminavano lente verso l'infermeria.
«Nnon in pochi secondi! Davvero... uhm». Rinforzò la presa che aveva al polso dell'albina, il braccio di quest'ultima che si era passata sulle spalle. In realtà, avrebbe voluto farle diverse domande – perché fosse così stremata. Perché era successo quello che era successo.
«Giusta osservazione», concordò Yuki, accennando una languida risata. 
Giunte davanti alla porta dell'infemeria, si staccò con calma da Yumi per appoggiarsi al muro con la schiena, sotto il suo sguardo un po' allibito.
«Che ci facevi lì?», chiese la mezzosangue, respirando molto lentamente. In modo quasi flemmatico. Sì, in quel momento si sentiva estremamente pigra, come se- tutto fosse sfumato. Sayumi abbassò lievemente le palpebre, facendo ombra sotto di esse con le ciglia lunghe – chiuse le labbra. «Sinceramente... stavo cercando quel ragazzo».
«Quel... ragazzo?».
«Quello. Takeshi, ecco».
Il respiro divenne più rapido.
Un torrente, sì, se proprio doveva paragonare il suo respiro a qualcosa, sarebbe stato di sicuro un torrente, limpido e frizzante.
Takeshi.
Tre katakana, due kanji. Takeshi era un guerriero*. Un distruttore senza patria e senza scrupoli. Quelle sillabe... quel nome le apparve a dimensioni piccole piccole nella sua testa, fra tantissimi altri scritti più grandi, in modo quasi ingombrante. Eppure, anche se era così minuscolo, era il primo che i suoi occhi della mente leggevano all'istante – brillava.
Perché ci stesse pensando, faceva meglio a non chiederselo. O non avrebbe più smesso di farsi domande, di mordersi le labbra e poi di sorridere, mestamente.
«Ka... Katugawa», ciononostante, ne pronunciò il cognome – perché cavolo balbettava!
«Katugawa», ripeté, meccanicamente, Sayumi, aprendo di più gli occhi e aggrottando la fronte.
«Quindi lo cercavi», riprese la mezzosangue. «Oh, ehm- per quale motivo? Avevi bisogno di qualcosa?». Tentava davvero e disperatamente di tenere gli angoli della bocca sollevati, sembrando la solita, vecchia Yuki – era complicato.
Sayumi scosse il capo. «Niente di ché, se devo... essere onesta». Alzò le spalle e gonfiò un poco le guance leggermente arrossate. «Volevo ringraziarlo», aggiunse. «Ho... pensato bene, vero?».
«Perché lo chiedi a me?», sbottò Yuki, perplessa, alzando persino le sopracciglia. «... moralmente parlando, direi di sì».
Un sospiro di puro sollevio scivolò dalle labbra di Sayumi, che venne accompagnato dal suo posarsi una mano sul petto. «Meno male. Sai, d'altronde non lo conosco davvero. Non so bene che tipo sia- ma tu sì, quindi... beh, alla fine non sono riuscita a trovarlo».
Che novità, pensò la mezzosangue, con un espressione apatica, quel ragazzo sembra che si faccia un viaggio in giro per il mondo ogni ora.
«... guarda che non lo conosco affatto», borbottò, qualche attimo dopo, le braccia dietro la schiena. Sayumi piegò il capo di lato, lasciandosi cadere una ciocca sullo zigomo destro, se non più giù. «Di certo, più di me. E poi, direi che sarebbe comodo conoscere Takeshi».
«In quale modo sarebbe comodo conoscere Ta-- Katugawa?», ribatté l'albina, storcendo le labbra per nulla convinta. «E' un fastidioso, stalker, distruttivo umano. Non fa altro che darmi grattacapi. Accidenti- andrò a stendermi».
Sayumi inarcò molto in profondita un unico sopracciglio, davvero stupita da ciò che l'amica che conosceva da ormai due anni stesse dicendo; andiamo, perché si stava impuntando su una cosa del genere? Ma forse era meglio non dar volume ai propri pensieri e lasciarla entrare.
«Come desidera, signorina Albina», cantilenò, sorridendo per tacere il proprio filo di riflessioni. «Ormai la seconda ora è andata, quindi dovresti entrare alla terza. Ci vediamo dopo!».
Yuki annuì, mentre l'altra si allontanava e lei al guardava – un po' in ansia. Si stava rendendo sempre più conto di quanto fosse difficile vivere senza venir attaccati a vista, nemmeno fosse un cervo e loro dei cacciatori con fucili.
Mah, forse stava esagerando.
Si staccò dal muro e fece scorrere stancamente la porta dell'infermeria, le palpebre in procinto di chiudersi: era vuota. Avvolta da un leggero venticello primaverile, tiepido – sorrise rilassata. A larghi passi, si avvicinò ad uno dei letti e ne scostò le tende sottili e velate; il letto era morbido al punto giusto, lo poté appurare quando sentì il materasso piegarsi gentilmente alla sua conformazione fisica. Lasciati gli stivali al lato del letto, si sfilò le parigine e le mise dentro le scarpe, stiracchiandosi per bene.
«Aah, come si sta bene!», esclamò.
Riposarsi lì sarebbe stato rigenerante, per il suo corpo, l'umore e la testa. Si sentiva completamente in pace, mentre si raccoglieva la chioma argentea e la spostava di lato, a lasciare la nucca scoperta. Sì, poteva dormire in santa pace.
«Buonanotte... ».
E in pochi istanti, utilizzati per strofinare la guancia sul cuscino, Morfeo aveva avuto l'ardore di avvolgere il suo corpo freddo e ferito in un tenero abbraccio.

 

 

 

 

***

 

 

 

Che strano.
Takeshi non poteva effettivamente dire di conoscere Yuki, ma... in ogni caso, si era fatto un'idea degli orari della diretta interessata – era un tipo puntuale. Probabilmente, era proprio il tipo che si infuriava con se stessa se e quando faceva ritardo. Quindi, la domanda, era questa: dov'era?
Andare o non andare nella sua classe?, si domandava mentre, insonnolito da quel terribile orario mattutino – beh, erano praticamente le dieci – teneva le gambe sul banco e il collo piegato indietro, a lasciare scoperto il pomo d'Adamo e la carnogiano bianca come marmo – che sonno.
Ah, chissà dov'era – cosa faceva, con chi era. «Katugawa, giù questi piedi», la voce della rappresentata di classe gli arrivò come un fastidioso ronzio saccente – nonostante ciò, aprì gli occhi. Guardò la ragazza, occhialuta, e le rivolse un sorriso mite.
«Sì sì, Iincho**», disse lui. «Quello che vuoi».
Beh, d'altronde, stava giusto pensando di uscire dalla proprio classe... per andare... ehm, in giro. Fece scendere le lunghe gambe a terra, una dopo l'altra, per poi alzarsi pigramente in piedi – guardò appena la ragazza. Il suo guardo fiero, eretto per una ragione talmente insignificante da far sospirare avvillito il moro. Inforcò le mani nelle tasche e uscì dalla classe; che noia, l'essere umano, avezzo a compiacersi per la più piccola sciocchezza, che sorrideva tutto orgoglioso di un'insulsa conquista.
Percorrendo il corridoio pullulante di studenti, poteva capire almeno in parte perché Yuki sembrasse così restia, ogni volta, dal provare a... fare amicizia, in pratica. Il ché forse poteva essere strano, considerand che lui stesso era un essere umano.
Ma c'è una differenza fra me e loro, e lanciò qualche occhiata intorno a sé, ... io sono un gran figo.
Conscio dell'idiozia dei pensieri, riportò lo sguardo dritto davanti a sé – e, wow, ciò che vide fu inaspettato. E divertente!
«Devi farmi solo questo favore, non preoccuparti».
«... togli quella mano dal mio fiocco!».
Due ragazze: la prima aveva capelli neri con riflessi... viola?... e occhi davvero scuri, quasi come pozzi di inchiostro; la seconda, capelli corti e ros- ... rosa?
«Ichinomiya?», azzardò il ragazzo, mentre riduceva sempre di più a distanza. Sayumi sussultò, prima di sollevare le iridi cielo su Takeshi, la propria mano che cercava di staccarsi di dosso l'altra.
Sembravano sul punto di azzuffarsi. Almeno, sicuramente la ragazza dai capelli neri aveva quell'intenzione, era abbastanza palese, mentre stringeva fra le dita la stozza scarlatta di quel fiocco. Takeshi passò lo sguardo da Sayumi alla nera, scandendo lentamente: «Qualche problema?». Con uno strattone, Sayumi si liberò dalla stretta dell'altra – un po' distratta dalla presenza di Takeshi. Il suo viso era reclinato di lato e lo sguardo, un po' assonnato, posato su di loro – ciuffi scuri cadenti. «A... adesso no», rispose la rosa.
«Se avessi accontentito e basta, non ci sarebbe stato nessun problema», borbottò l'altra, incrocinado le braccia al petto e riportando l'attenzione su Sayumi.
«Yamashita, fa silenzio».
Takeshi abbassò lentamente le palpebre, ora più stizzito che addormentato; ne aveva le scatole strapiene di gente che faceva discorsi in cui ci capiva, bene o male, un accidenti di nulla! Perché non parlavano chiaro, cosa gli costava?
E Sayumi doveva aver colto i pensieri del ragazzo perché, subito, si accinse a spiegargli chi fosse la ragazza e l'accaduto. «Lei è Hokori Yamashita», lancò una gelida occhiata ad Hokori. «E ha--».
Ma prima che la rosa poté parlare riguardo l'attacco, Hokori aveva avuto uno scatto: la sua mano che tappava la sua bocca.
Takeshi ebbe l'accenno di un sussulto, preso in contro piede. Inspirò profondamente. «Toglila».
«Concordo».
E tutti e tre, così concentrati nella loro piacevolissima conversazione, fecero un salto sulla loro postazione. «Vi giuro, ho creduto davvero che tutto questo fosse un sogno e che niente di niente fosse reale». La solita voce con la lancetta posizionata sul tono scocciato, con una tinta ironica di sottofondo, come una melodia ripetitiva. La voce di chi preferiva fare un bagno con i piranha piuttosto che subire tutto questo. «Ma, a quanto sembra, pare che debba essere tormentata».
«Akawa!», esclamò Hokori, guardando verso Takeshi, alle sua spalle. «E' bello vederti tutta intera! Pensavo di averti fatto male, prima... ».
«Pensiero fin troppo azzardato, da parte tua. Come speri di far male ad un-- beh, ci siamo capite, no?», sbraitò Yuki, un sopracciglio alzato – e lo sguardo su Takeshi. Tutto sommato, doveva ammettere di essere felice di vederlo. Quella giornata si stava dimostrando davvero fastidiosa e il suo viso era un doccia rinfrescante. Un leggero sorriso apparì sulle labbra sottili della mezzosangue. «Non puoi fare a meno di immischairti, eh?».
Lui, volto di tre quarti verso di lei, si girò completamente – ricambiò il sorriso.
«Se vuoi, lascio che si azzuffino. Per gli uomini è davvero divertente», alzò le spalle, senza perdere quel sorriso che aveva il sapore della nostalgia. Dolce, dava vita a piccole ma abbastanza evidenti fosssette, intonate così bene ai profondi occhi cioccolato e alla loro forma un poco sottile...
«Quindi diverte anche te?».
«Ah-ehm!». Oh, accidenti. Era successo di nuovo. Yuki e Takeshi si guardarono, per un istante, perché dovevano dare un po' della loro attenzione alle due ragazze che stavano per sccannarsi – un sorriso complice, divertito.
«Questa tizia», cominciò Sayumi, irritata. «Mi ha praticamente minacciata. "Non devi dire una parola, okay?"». Tentò di imitarne la voce, aggiungendone un tratto da perfetta oca starnazzante.
«In pratica non ti disturba l'idea che la tua amichetta venga presa da chissà chi per essere sottoposta a chissà cosa?», sbottò Hokori, puntando le iridi pece in quelle oro di Yuki – la suddetta amichetta, stupita.
«E chi ti dice che si farebbe prendere? Olrettutto, è divertente sentirti parlare così, considerando che volevi farla fuori!».
«Ma non volevo farla fuori, dolcezza, era solo un modo per presentarmi», un sorriso quasi candido. «perché sai... sono un t---».
«Cosa?».
Il suono della campanella catturò l'attenzione delle ragazze e di tutti gli studenti, che si dividevano e sparpagliavano da tutte le parti – eccetto Takeshi.
Lui-- i suoi occhi. Erano occhi di un umano. Su questo, le tre ragazze – che tornarono a loro – erano sicurissime
Eppure, Hokori, in quel momento, capì una cosa: facevano forse pù paura di quelli di un demone impazzito.

 

 


 

 

 

 

* guerriero: precedentemente, avevo scritto che il nome Takeshi significava bambù. ... perdono, non so dove avevo la testa. Il nome Takeshi signica soldato, guerriero.

** Iincho: significa "rappresentante". Ovviamente, quello di classe. uvu

 

 

 

NOTA DELL'AUTRICE:
Uhm.

CHIEDO UMILMENTE PERDONO, UHM.
Non vado neanche a vedere uando è stat al'ultima volta che ho aggiornato perché sennò mi sparo un colpo alla tempia. <3

Beh, scherzi a perte, ho avuto un po' da fare e-- qualche problema di salute, a dirla tutta. Problemi di salute non del tutto guariti ma comunque non mi impediranno di aggiornare. Uvu

E, uhm, visto che è da un sacco che non aggiorno e ho un altro capitolo pronto... SPERO VI FACCIA PIACERE SAPERE CHE VADO A METTERLO.

Vi lovvoh, yah.

 

 

Night, ovviamente, con affetto.

 

 

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Capitolo 15
*** Un diario dell'amore. ***


 

 

Era una sensazione anestetizzante.

Imperatrice.

 

 

 

 

 

 

 

 

Un diario dell'amore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

01/06/--
«L'essere umano è dotato di un incredibile potere: la possibilità di catturare la percezione. Farla propria, racchiudendola con la mente. Gli umani--- giocano con il pensiero. Lo plasmano, gli danno altre forme: ma il punto è che, alla fine, resta un “pensiero”. I vampiri, i demoni, la magia; tutto ciò ha sempre avuto un'unica distinguibile forma, non possono camuffarsi come tentano di dimostrare – ostentare.
D'altronde, è improbabile – anzi, assurdo – che centinaia di persone vadano in giro per una città, tutti affetti dall'insonnia o, addirittura, dal sonnambulismo.
Sono stati distratti. Anzi, hanno semplicemente sottovalutato l'umano. Hanno creduto che quella gente non sarebbe mai giunta alla conclusione più inverosimile – per loro certamente è inverosimile, e come biasimarli? – e che la “convivenza” avrebbe progredito.
E invece.
E' accaduto il peggio – da questo momento, non saprò neanche io cosa dirò».

 

 

 

04/06/--
«Bael sta diventando strano. Molto, strano. Non mi sorride più, non mi parla più; quando ci incrociamo dentro questo mastodontico palazzo, lui va via. Mi sta sfuggendo via dalle dita, vero? Eppure, nella testa ho tutti i momenti in cui ho pensato per davvero che i demoni non erano male.
Tutti i momenti passati con lui. Il numero dei suoi sorrisi, della loro intensità, del modo in cui mi scompiglia i capelli--- ma non fa più niente di niente».

 

 

06/05/--
«Stanotte ho sentito qualcosa.
Sto provando ad usare quella roba strana a cui i nostri scienziati stanno lavorando; visto che noi non possiamo dormire e, la maggior parte delle notti, le passiamo a fissare quella forma rotonda giallognola in cielo, hanno pensato di ideare qualcosa che ci addormentasseNon so se sia giusto averne fiducia ma sto facendo da cavia per loro. D'altronde, non morirò mai – quindi lo faccio.
E so che non funziona.
Stanotte, di certo non ha funzionato – altrimenti--- non avrei sentito quel rumore. Quel qualcosa. Sono le tre di notte e sono in camera da letto – l'ho aspettato ma... .Il rumore – il suono – l'ho sentito verso l'una e adesso sto scrivendo perché, beh, sono spaventata.
Ho paura. Ho paura perché era strano.
Era--- cos'era? Non voglio ancora crederci, anche dopo due ore passate a rimuginarci – mi sono seduta sul davanzale della finestra, la luna mi è testimone. Dovrei darmi una mossa e scrivere cos'è che ho sentito, giusto?
Ma le mani mi tremano, non riesco a scrivere per bene, quindi mi scuso in anticipo: non capirete molto». Lasciò per un attimo la penna. «La carne che si dilaniava. Era il rumore di denti che affondavano sulla carne di qualcuno – o qualcosa – non più vivo, perché non c'era un lamento. O forse era stata usata l'ipnosi. Non lo so. So solo che--- è arrivato alle ossa, questo lo so, sì. Si è sentito un netto crack e poi un tonfo. Non lo so. Non lo so. Ho paura.
Ho paura e Bael non è qui. Dove sei, ho bisogno di te. Non voglio stare qui da sola. Non con quel rumore così vicino-- sembrava proprio a due passi. Non so come andranno le cose da ora in avanti, non so se continuerò a scrivere – se potrò. In ogni caso, dovete sapere che c'è un pericolo dentro il palazzo e che deve essere fermato.
Ve ne prego.
Fate il vostro dovere, per tutti».

 

 

 

***

 

 

 

«Aspetta, aspetta, sei Takeshi! Sei Takeshi, vero?». La voce di Hokori esplose come un fuoco d'artificio – purtroppo, appariva orrendo alle orecchie delle tre persone vicine a lei.
«Katugawa, per te». Gelo. Improvvisamente, il Giappone era diventato l'Alaska – ehi, alla faccia della tecnologia!
Occhi neri, occhi azzurri e occhi oro: addosso a lui. E il ragazzo non si sentiva poi tanto a disagio, era abituato a essere fissato con una certa insistenza – beh, non era abituato ai vampiri o ai demoni. O alle isteriche.
«Kat-- Takes--- … insomma, tu!», esclamò Yuki, incrociando le braccia al petto e aggrottando la fronte. Il chiamato chinò lo sguardo verso di lei, con uno sguardo quasi strano. Sembrava un po' ferito. Malinconico, forse. «Devo parlarti. Verresti un secondo con me?».
«... è meglio se vengo con te, decisamente», e allora, con tutta la naturalezza possibile, Yuki si avvicinò ancora a Takeshi per posargli una mano sulla spalla.
«Oh mio Dio, mi vuoi incoraggiare?», fu la prima cosa che disse lui, quando furono sulle scale parallele alla classe in fondo – dove Takeshi avrebbe dovuto urgentemente dirigersi.
Yuki lasciò scivolare via la mano, portandosela al petto.
«Cos'era quello sguardo?».
«A quale sguardo ti riferisci, pardon?».
«A quello», sussurrò la mezzosangue, con tono algido. E Takeshi aveva capito. Sarà stato il fatto che, di sguardi lanciati quel giorno, solo uno era certo che avesse catturato l'attenzione di lei.
Evidentemente, quelli febbricitanti d'amore non la sfioravano, tsk.
«Sei un po' frigida, Yuki?», rise lui.
«Sono un po' violenta, Takeshi», sibilò lei. Il diritto interessato sorrise, nonostante sapesse a cosa andava incontro. … ai calci dell'albina, già.
«Mi hai chiamato per nome, vuoi far venire la grandine? Con una così bella giornata... », cantilenò, mentre volgeva lo sguardo cioccolato alla finestra – proprio alla loro destra, urlava di essere aperta.
«... adesso ti ci lancio fuori», fu la risposta. Un sospiro. «Sarebbe davvero bello uscire. Non ne posso più di quella».
«Yamashita, eh? Che vuole, esattamente?».
«Bella domanda». Poi le venne in mente che Tetsuya doveva averle strappato qualcosa di bocca, ne era sicura, perché il vampiro sapeva come lavorare. Quindi sussultò, battendo un pugno sul palmo dell'altra mano. «Tetsuya saprà qualcosa. Ci ha parlato giusto dopo lo scontr-- … sconcertante incontro».
Takeshi riportò le iridi su Yuki. Era calmo. Calmissimo. Un velo di quiete. 
Ma che inquietudine quando fa così, pensò lei.
«Chi è... Tetsuya?», domandò l'umano, facendo un passo in avanti. In direzione di Yuki. Che sudava. Freddo, freddissimo. A cubetti.
«Ah. Un mio amico. Hm, d'infanzia. Ci conosciamo da tanti anni e credo due giorni fa... l'ho incontrato... ». … con Yumi, ma sorvoliamo.
Intanto, grazie a chissà quale Dio là sopra, il corridoio si era svuotato. Persino Sayumi e Hokori si erano dileguate, probabilmente entrambe erano andate nelle proprie classe. Doveva farlo anche lei, in verità.
Però, con Takeshi sempre più vicino, con le punte delle scarpe di entrambi che si toccavano, era abbastanza complicato. I nasi si sfioravano e Yuki sentiva il respiro caldo, terribilmente caldo, di Takeshi.
«Gentilmente, Takeshi, potresti spostarti? Devo andare in classe. Ho già---».
«Cosa?».
«Togliti dalle scatole, insomma».
«Yuki», come un appello, lei sollevò la mano destra all'altezza della propria testa. Il sorriso che rendeva leggermente più sottili le sue labbra – altrimenti carnose, rosee, decisamente... – le aveva fatto dimenticare per l'ennesima volta cosa volesse dirgli.
Perché lo aveva portato lì?
«Ricordi cosa ti dissi, al nostro primo incontro?».
«No. No, non... penso di ricordare».
«E' una sfida, questa?».
«No. Oddio, mi sta salendo la febbre».
«Pf--... ». Takeshi si allontanò. Teneva una mano contro le labbra, gli zigomi un po' più alti, gli occhi ridotti a due spille.
Era chiaro che stesse disperatamente trattenendo le risate. Ed era chiaro che anche Yuki lo stava facendo, visto che si era girata verso le scale, le braccia incrociate al petto – ancora.
«Non sei divertente!», esclamò, piccata.
«Tu, invece, tantissimo. Grazie a te sarò la persona più felice del mondo», ribatté Takeshi, mentre scendeva il palmo nella tasca del pantalone. Con l'altra mano, si passò il pollice all'inizio della mascella fino al mento, lentamente.
«Ah, per quella cosa? Ogni risata aumenta la propria felicità, corretto?».
«Correttissimo. Per lei, il massimo dei voti, signorinella».
Yuki si voltò.
Un largo, luminoso, inusuale sorriso sulle labbra. Ecco, le sue erano sottili. Quindi, in teoria, non dovevano essere più morbide di quelle di una ragazza nella sua classe, che aveva due cuscini apposto della bocca. In teoria.
Chissà, invece...
«Peccato, è ora di andare in classe. Anzi, l'ora di andarci è passata da un pezzo, ma è irrilevante. Giusto?», disse lei. Poi girò a destra, per dirigersi verso la propria classe.
«Ah-- aspetta, non fuggire!», esclamò Takeshi, facendo un passo come a volerla raggiungere.
«E chi fugge». Non l'aveva sentita granché bene, perché la voce era arrivata ovattata, in un certo senso confusa; e in un altro senso, guardare la schiena coperta dalla lunga chioma argentea, un colore assai strano per dei capelli – ma esistente, in natura –, era così limpido.
In quel momento, Takeshi si rese conto di chi stesse osservando.
La lama di una spada.

 

 

 

***

 

 

 

Il resto delle ore scolastiche erano scivolate via come saponette da mani bagnate. C'erano queste giornate, così strane, che sembravano finte. Una giornata con la chirurgia plastica.
«Vai subito a casa, immagino», disse Sayumi, mentre scendevano le scale del primo anno. Yuki si spostò una ciocca dietro l'orecchio, prima di rispondere all'amica. «Beh, se vuoi... possiamo fermarci da qualche parte. Lo so che lo vuoi». Sorrise, divertita.
Yumi scoppiò a ridere, socchiudendo le palpebre.
«E ho pure usato il tono più mite possibile», disse, la voce incrinata dai risolini. «Colgo la palla al balzo, allora. Hm... che ne dici... di un gelato?».
Yuki guardò Sayumi. Era stata astuta, l'amica, doveva concederle questa vittoria.
«Però non è valido», commentò. «Tu sai che ho un debole per i dolci e ne approfitti spudoratamente».
Sayumi alzò il mento e “pompò” il petto, tutta fiera di sé, ridacchiando in seguito. «Conoscere i punti deboli del nemico è la prima cosa da sapere prima di andarcisi a scontrare!».
«... sarei un nemico?».
«Il più pauroso!».
L'atrio, o meglio, i cancelli della libertà, a quell'ora erano sempre gremiti di studenti – allegri, drogati dell'aria aperta – che percorrevano le brevi scalinate e si disperdevano come formichine.
Non era l'orario migliore del mondo per tornarsene a casa. Yuki preferiva, difatti, l'orario un po' più sul tardi. Era più... comodo.
Sperava solo di non incontrare una certa sedicenne dai capelli neri e gli occhi del medesimo colore, un sorriso strafottente sulle labbra: Hokori. Naturalmente.
Anche se, effettivamente, negli ultimi tempi stava incontrando più sorrisi strafottenti che persone qualunque senza carattere...
«Vorrei un gelato alla stracciatella, sì», cantilenava Sayumi, mentre camminavano in mezzo agli alunni.
«Con un'aggiunta di cannella», disse Yuki. «E panna montata a coronare il tutto».
«... ho l'acquolina in bocca!».
Seguirono meste chiacchiere fra amiche, di quelle irrilevanti che sono però ripiene di sorrisi, ricordi e insieme un velo di malinconia. A Yuki piacevano molto. Si sentiva perfettamente a suo agio, cullata dalla voce di Sayumi – anche se non era proprio una ninna nanna, squillante com'era.
Perciò non voleva che niente e nessuno ci mettesse il naso.
Che interrompesse quella routine.
Eppure---
«Buonasera, ragazze».
«Guarda chi si vede!».
Eppure, erano appena state disturbate, da due presenze talmente diverse ma insieme simili da far rabbrividire l'albina.

 

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Capitolo 16
*** Lo sforzo dell'andare avanti e un gelato sciolto al sole. ***


 

Riesci a sentirmi?

A song.

 

 


 

 

 

 

 

Lo sforzo dell'andare avanti e un gelato sciolto al sole

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Era un incubo.
Peggio, uno scherzo.
E invece non è niente di tutto ciò, solo la pura, semplice... verità, pensò con l'orrore dipinto nelle iridi oro, indietreggiando istintivamente, sotto sguardi familiari quanto disturbanti.
Tetsuya aveva la solita postura elegante, appoggiato con la schiena ad un cancello; e lui, in realtà, le faceva piacere vederlo... lui sì.
Ma la ragazza, quella che proprio pochi istanti prima aveva desiderato non incontrare, le si era parata davanti, in tutta la sua sfacciataggine.
O stupidaggine?
«Senti, perché non ti cerchi un hobby? Guarda, potresti, non so... andare a giocare nel Mar Mediterraneo, provare a volare lanciandoti dal monte Everest, ingurgitare veleni!», ebbene sì, stava diventando – se possibile – ancora più tagliante.
Sayumi, affianco all'albina, aveva notevolmente ridotto la grandezza dei suoi occhi – socchiudendo le palpebre.
«C'è quel tipo», mormorò, posando poi lo sguardo su Tetsuya. Il vampiro, come per rispondere all”appello”, voltò il viso nella direzione dell'umana – abbozzando un sorriso.
«Che ci fai qui?», chiese Sayumi, facendo un passo in avanti, lasciando Yuki e Hokori da sole a lanciarsi frecce vere e proprie – ci mancava solo questo.
Tetsuya piegò leggermente il capo verso la sua destra, interrogativo. «Dovrei avere un motivo, per giungere qui?».
«No, ma... ». Sayumi inarcò un sopracciglio e levò l'altro, perplessa. «Va bene, per te, stare qui? La luce del sole non ti fa.. ?».
«Ah, ti riferisci a quelle mere leggende metropolitane? Ti prego di dimenticartene e di non porvi il minimo pensiero», Tetsuya scosse il capo, mestamente. Che razza di tono rigido. Non se lo ricordava così... come dire, freddo, impalpabile!
Stette ad osservarlo per una manciata di secondi, indecisa se fargli notare o meno il suo cambiamento, quando la voce infervorata di Yuki la distrasse.
«Uhm. Sì, come... vuoi».
E' lui il vampiro, ne sa meglio di chiunque altro, pensò Sayumi, girandosi verso le due ragazze.
«E lei, invece?», sussurrò tra sé e sé l'umana, volgendo un'occhiata irata alla mora. La diretta interessata schioccò la lingua, volgendo le iridi sull'umana. «Inizio a pensare che tu sia una specie di animale da compagnia. Sei ovunque. Ovunque!».
come come? Un'animale da----
«Yuki-chan, fermami, prima che le spacchi qualcosa!».
«Ma non sporcarti le mani, ci penso io. Le cambio il colore di capelli col suo sangue».
La situazione stava degenerando.
E avrebbe continuato, sempre peggio, perché quelle due ragazze non potevano provare che astio per la mora – ancora sconosciuta, a rigor di logica. Una persona completamente a casaccio ai loro occhi che, di punto in bianco, aveva attaccato con un pugnale la mezzosangue.
Le iridi oro di quest'ultima avrebbero potuto persino mutare colore – in un molto più feroce. Chissà se Hokori immaginava cosa sarebbe successo, una volta che...
«Ehi, ragazze, state attirando un po' troppo l'attenzione!».
I quattro presenti guardarono verso la scuola, avendo l'attenzione rivolta fra di loro, intercettando un bruno alquanto piacevole da scrutare – Takeshi lo sapeva, era palese.
«Oh, sei solo tu», sospirò l'albina, posando una mano sul petto.
«... quanto entusiasmo, mi sento amato come non mai».
«N-no, non è per te, ma--». Okay.
Doveva ammettere che quel giorno, la presenza sporadica di Takeshi, era un salvagente in mezzo all'oceano Atlantico; ad essere franchi, l'avrebbe pure detto ad alta voce, se solo non ci fosse stato Tetsuya, che conosceva ogni sfaccettatura del carattere della mezzosangue e... sarebbe stato troppo imbarazzante.
«... Tetsuya?», il tono di solito basso di Takeshi si alzò un pochino, ma con una sfumatura gelida quanto incuriosita. Takeshi guardava oltre le tre ragazze, al cancello, verso il biondo.
Era lui, quel Tetsuya?
Quel “amico di infanzia”? Il tizio che poteva vantare di conoscere l'albina da “tanti anni”?
Takeshi prese un lungo, profondo, respiro. Forse no.
Forse stava facendosi troppi film mentali.
«Oh», disse Yuki, sorpresa. «Che perspicacia. E stavolta non sono ironica».
E dannaz--
«Ho tirato ad indovinare», un sorriso bonario, ad occhi chiusi, mentre le mani nelle tasche dei pantaloni si chiudevano a pugni ferrati.
Sarà un umano, o no? Vorrei saperlo. Ma non posso chiederle adesso questa cosa, non qui..., pensò il ragazzo, guardando dentro le pupille strette come lame di Yuki. … aspetta, cosa?
Takeshi batté le palpebre diverse volte, sgranando i propri occhi – le pupille erano... .
Scosse il capo, chiudendo le palpebre. No. No, era semplice... stanchezza. Non potevano esistere occhi del genere. Il colore era già più probabile di una pupilla talmente sottile!
«Beh, noi stavamo andando a prendere un gelato, quindi... », disse Sayumi, mentre prendeva il braccio dell'amica per portarsela vicina.
«Gelato! Amo il gelato. Verrò con voi», squittì Hokori.
«Cosa?».
«Mi avete sentita. Tanigawa-kun, Takeshi, voi venite con noi, vero?».
Takeshi fremette internamente. «Penso che non sia proprio il caso, Yamashita».
«Ti disturba la mia persona?», disse Tetsuya.
Oh.
A ben vedere, non aveva spiccicato parola da quando era arrivato. Dunque era questa la sua voce. Bene. Non aveva affatto una bella voce, melodiosa, o checchessia. Assurdamente no.
Avrebbe potuto benissimo ascoltarla per il resto del pomeriggio, fino a sera, fino a separarsi del tutto da quelle persone. Certo.
Con un sorriso colmo di sarcasmo, Takeshi fece un leggero cenno laterale.
«Perché dovrebbe».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Ti disturba la mia presenza?”.
Quanto se la tirava!
Non era preoccupazione per gli altri, questa, no. Era semplice e schifoso egocentrismo, ecco tutto. E anche se non era la persona più adatta a provare ciò, a lui infastidiva l'ego spropositato... usato così. Diciamo che, se portato con eleganza, lo affascinava. E lui non lo portava male, ma malissimo, come un barbone.
«Andiam, andiam, andiamo a lavorar~», la voce cantilenante di Hokori – Yuki ci aveva fatto caso, quella ragazza cantilenava spesso – spezzò il filo disordinato di pensieri del ragazzo umano che sobbalzò quasi, preso alla “sprovvista”.
«Tutto bene?», sussurrò Sayumi, al fianco sinistro del ragazzo. Per andare tutti insieme – non che volessero – alla fantomatica gelateria, avevano ideato una disposizione che non scaturisse laghi di sangue; Tetsuya e Hokori dietro, Yuki in mezzo per conto proprio e, avanti a quest'ultima, Takeshi e Sayumi.
In questo modo non c'era un contatto troppo diretto tra le tre ragazze.
… o tra Takeshi e Tetsuya – anche se il vampiro non poteva immaginare cosa pensasse l'altro... giusto?
«Potrebbe andare meglio», rispose, sinceramente, perché non gli andava di celare la realtà con un sorriso forzato. Difatti, sospirò sottovoce.
«Se ti può far piacere saperlo, casa mia è proprio di fianco a questa gelateria», disse Sayumi. «Quindi puoi fuggire lì».
Beh, lei non sapeva quali pensieri affliggessero il ragazzo e... d'altronde, non era neanche così vicini da confidarsi i propri drammi! Però, ecco, non le sarebbe dispiaciuto.
Takeshi accennò una risatina. «Bene, buono a sapersi. Spero di aver portato con me un paio di fumogeni. Sai, per occultare il luogo del... delitto... ?».
«Ma quello è per gli omicidi! Scemo! … aspetta, hai intenzione di uccidere qualcuno?». E, teatralmente, Sayumi si lanciò occhiate guardinghe tutto intorno a sé – causando una risata allegra nel ragazzo.
Forse poteva reggere, insieme a quella ragazza. Bastava con concentrarsi per nemmeno un attimo sul biondo alle proprie spalle.
Mentalmente, ringraziò Sayumi.
«A proposito», come non detto. «questi sarebbero gli umani che sanno?».
Yuki spostò il viso di profilo per guardare un minimo l'amico di infanzia, alzando appena le spalle. «Ah-a. Ho spiegato loro... un paio di cose».
«Ad esempio?», incalzò genti la voce del vampiro.
«Ad esempio», interruppe, brusca, Hokori – schioccando un'occhiata a Tetsuya. «Tutta la storia degli Imperatori. Non sono cose che questi due avrebbero dovuto sapere, ne sei cosciente, vero?».
«Ah, già», fece laconica l'albina. «E tu invece? Chi è l'idiota che si è accollato la responsabilità di spifferarti tutto?».
Hokori sorrise.
Di nuovo, pensò Yuki, di nuovo quello strano sorriso.
Inquietudine che si sposava a meraviglia con una vena di felicità, mischiata a follia. Un casino, insomma. E non si accingeva a darle una risposta, lasciandola così, in sospeso – a ipotizzare tutte le possibilità. Un membro del Consiglio?
Qualche nobile che non c'entra affatto?
Tetsuya?
La sua famiglia?
Con un profondo sospiro, guardò il compagno vampiro, alzando le sopracciglia come a chiedergli: «Beh? Fa qualcosa!». Ma lui si limitava a chiudere le palpebre e a serrare le labbra in una retta perfetta, appena colorata di rosa, nel suo silenzio insignificante.
E questo turbò la mezzosangue.
Perché?
Un tempo il suo silenzio valeva talmente tanto per lei da sconvolgerla. Lei ci aveva vissuto, dentro il silenzio di Tetsuya.
E adesso, era solo apatia, ai suoi occhi color del sole.
«Siamo arrivati!». I presenti spostarono la loro attenzione per rivolgerla proprio qualche metro distante da loro; aveva un aspetto carino, delizioso, con l'insegna rosa ciliegio dove ergeva la scritta “Cannella”. Yuki si disse di non aver mai visto un posto simile – si sarebbe ricordata la parola italiana.
In un silenzio agghiacciante, i quattro ragazzi seguirono Sayumi che, dopo un colpo di tosse, fece il suo ingresso dentro la gelateria. Anche all'interno, c'era un'aria particolarmente tenera, calorosa, con tutti quei colori pastello e decorazioni.
Sarebbe stato carino andarci da sola con Ta--- oh, credo che prenderò la vaniglia, pensò distrattamente Yuki, mentre si portava una mano alla guancia sinistra, ora un poco rossa rispetto a prima.
Cominciava a rilassarsi, ora che Hokori e Tetsuya erano un po' più lontani, la prima a debita distanza da Sayumi. E Takeshi, proprio al fianco di quest'ultima, a guardare superficialmente i gusti esposti nelle vaschette.
La mezzosangue si ritrovò a chiedersi quali fossero i preferiti del moro. Uhm.
«Un cono alla vaniglia e nocciola, con panna e--- avete la cannella, per caso?». Più per distrarsi – per staccarsi da quel benedetto ragazzo – parlò a raffica, verso il ragazzo dall'altra parte.
...'ccidenti, che nervi, pensò, mordendosi il labbro.
«Certo», rispose il ragazzo, cordiale. Poi sorrise, sornione. «Ci vai giù pesante, eh».
Yuki sollevò gli occhi sul gelataio, già pronta a dare una risposta delle sue: tagliente come una katana, fredda come un gelato.
Eppure. «Hm-hm! Naturalmente!». Le era spuntato persino un sorriso. «Meglio approfittarne. D'altronde, non ne mangio spesso».
«Beh, si vede, hai un fisico da modella», lui annuì, mentre prendeva il famigerato cono e il grande cucchiaio per servire l'albina.
Fisico da modella? Ma, in realtà, lei lo trovava piuttosto nella norma. E, chiaramente, si stava sbagliando di grosso; slanciata, con gambe snelle e in salute, vita stretta e fianchi armoniosi; addominali e braccia allenate, a furia di confrontarsi contro demoni e vampiri; e, per la gioia di Takeshi, un dècolleté piuttosto pieno.
Per il resto, il paese era quasi abituato al suo colore di capelli, agli occhi dalla forma a mandarlo con quello stranissimo oro.
«Mai pensato di farlo per professione?», continuò il ragazzo, la prima pallina che finiva sul cono. Yuki guardò il gelato, riprendendo a mordere il labbro – scosse il capo, laconica.
«Se facessi la modella, non potrei più mangiare gelati, probabilmente», mormorò, incantata dal bianco e dal marrone chiaro che si accostavano. Il ragazzo rise, dicendosi d'accordo, mentre porgeva il cono avvolto da un fazzoletto a Yuki.
Poi, con naturalezza, si appoggiò al bancone più basso e si sporse verso di lei. «Ti direi: mangia quelli di soia. Ma non è la stessa cosa».
Esattamente. Proprio perché lei adorava i dolci e i gelati, non riusciva proprio a concentrarsi sulle parole appena riferitele. E no, proprio no.
«Vai al liceo, vero? Di che anno sei?».
«---secondo». Dopo un bel morso – le palpebre chiuse, la spensieratezza stampata sul viso niveo – alla pallina alla vaniglia, si passò la lingua sul labbro superiore.
«Come pensavo. Io andrò all'università di Tokyo, anche se sono in ritardo di un anno».
«Ah-ah».
Ma davvero, doveva importarle se il tizio dei gelati avesse saltato un anno di università? No davvero. Il suo gelato sembrava molto più interessante – e non possedeva neanche la parola, forse quel tipo doveva farsi due domande.
Ecco il risultato di aver concesso un minimo di socialità.
«Oggi ho definitivamente capito perché fare amicizia, per te, è come fare bunjee jumping senza corda». Okay. Era assurdo che non ne avesse percepito la sua presenza.
Due erano le ipotesi: o Takeshi era silenzioso come un'ombra, o lei si era rincretinita. La seconda, senza dubbio. Le era giunto alle spalle, causandole un sussulto troppo evidente.
«Pensa a far il tuo lavoro, tu», aveva sibilato il moro, assottigliando lo sguardo cioccolato. E nel momento in cui furono “soli” e lui ebbe posato gli occhi su di lei, nuovamente lo sguardo si aprì, caloroso e---- sarcastico.
A cosa doveva quel sarcasmo negli occhi?
«Li attiri come il miele con gli orsi», disse Takeshi, arricciando il naso. Yuki lo fissò, senza espressione, le labbra chiuse in una linea rigida.
«E già. Perché tu, invece, non attiri nessuna ninfomane impazzita, assolutamente», disse, quasi ringhiando – che fastidio. «Sei talmente brutto che persino gli animali fuggono o si accecano. Meglio che lo faccia anch'io, eh?».
«Sì, è meglio. Non mi va di essere guardato da un'attira idioti-che-ci-provano-anche-con-i-muri. Il ché è triste».
Yuki strinse impercettibilmente le dita attorno al suo cono, chiudendo le palpebre.
«Perché mi salvi e dopo fai l'antipatico?».
Takeshi aprì le palpebre, trattenendo a stento lo stupore. Non se la sentiva di dirle cosa provava in quel momento, nel vedere Tetsuya e... no. 
«Perché tu sei sempre antipatica. Sei fredda, scorbutica, l'antipatia fatta um--- mezzosangue!».
E quello che doveva essere un gelato fra amici, si trasformò in un gelato schiantato contro la faccia di un “amico”. No.
No, no e ancora no. Stupidaggini, smettila di fare la bambina e caccia indietro quelle lacrime!, pensò Yuki, mentre lasciava definitivamente il cono e guardava prima la camicia di lui e dopo il suo viso – ricoperto di gelato e panna.
Mezzosangue”. “Fredda, scorbutica, antipatica”.
Non aveva nessun diritto di sentirsi ferita – ancora una volta. Non aveva nessunissimo diritto di volergli spaccare la faccia, di piangere. Era una sciocchezza.
Non c'era--- non doveva.
Poteva solo fare ciò che faceva sempre.
Scappare.



NOTA DELL'AUTRICE:
Dunque, dunque, dunque.
DUNQUE. 
Siamo giunti al sedicesimo capitolo, ossia, il quindicesimo--- sempre per la storia del contatore di Efp che avanza di un capitolo, contanto il prologo come il 1°. ewe 
Ho l'impressione che supererà i trenta capitoli, uhm... quindi, prima di pubblicare il prossimo capitolo, sarà meglio rivedere cosa posso scrivere e cosa è il caso di evitare. X" PER NON FARLO DIVENTARE ABNORME INSOMMA. 
Poi poi poi. 
Vorrei fare un sondaggio, a cui potete rispondermi nelle recensioni di questo capitolo--- qual è il vostro personaggio preferito, tra tutti quelli usciti fino ad ora? uvu 
E detto questo, non ho nient'altro da dirvi. ANDATE IN PACE. 

Night, ovviamente, con affetto. 

 

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Capitolo 17
*** Due passi in avanti, duecento indietro. ***


 

 

Quel viso, quella voce, quel cuore.

A song.

 

 

 

 

 

 

 

 

Due passi avanti, duecento indietro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quante volte aveva preferito la fuga?
Un numero che lei stessa preferiva non sapere. Preferiva non sapere quante volte si era comportata come un'infida codarda e, incapace di affrontare quel qualcosa, si era ritrovata nella sua stanza – le ginocchia al petto, stretta nel suo involucro.
E andava bene?
No.
No, non andava bene.
Stava sbagliando – tutto. Per prima cosa, perché se l'era presa così tanto per poche parole dette, sicuramente, senza pensarci? Ah, chissà se era giusto pensarci, proprio in quel momento, con il corpo percorso da infiniti brividi.
La serra brillava di luce blu.
Era un blu un po' strano, chiaro quasi sull'azzurro con una spruzzata bianca – e dopo si rese conto da dove provenissero quei colori.
Giustamente, essendo nella serra, si era trovata circondata da molteplici e stupendi vasi di rose blu; e quella luce bianca che schiariva quella blu, non era altro che piccole luci impostate sui ripiani ove vi erano i vasi.
Yuki non ne sapeva niente di fiori e giardinaggio.
Yuki non ne sapeva niente della vita – dell'amore, della sensazione che dava, del benessere e del dolore.
Se avesse dovuto rimanere relegata a vita da qualche parte, quella serra sarebbe stata di certo la sua prima opzione, perché era davvero bellissima, anche se non particolarmente grande – ma forse lei aveva bisogno di spazi un po' più piccoli.
Aveva vissuto per troppo tempo in enormi saloni, in giganti camere da letto, aveva pranzato troppe volte ad un tavolo lungo più di tre corpi umani. E si sentiva così sciocca, così dannatamente insulsa, a fare quei pensieri – e a sperare.
E finalmente capì – perché era tutto vero. E a quel ragazzo così sveglio mancava addirittura qualche frammento di Yuki, qualche pezzetto che lei aveva accuratamente nascosto perché, sennò, avrebbe dovuto tornare in quel posto – e restarci, mattina, pomeriggio, sera, notte.
Antipatica, fredda, scorbutica, mezzosangue”.
«Perché dovrebbe. Non c'è nessuna... motivazione... v-valida».
E lei non poteva pretendere che lui ascoltasse i suoi problemi, non poteva assolutamente farlo, e non perché sembrasse occupato – si sarebbe liberato, per lei? Ah, che sciocchezza!
Era inutile.
Inutile portarsi le mani bianche come neve, con i palmi segnati, al viso; non sarebbe certo corso in suo aiuto, non avrebbe certo tolto quelle dita dagli occhi, non l'avrebbe guardata in viso e detto le magiche parole.
“Va tutto bene”.
“Andiamo a casa”.
Chiuse gli occhi.
Inspirò. Bene, andava tutto bene.
Ci voleva solo un urlo – ci voleva solo coraggio.

 

 

 

 

***

 

 

 

L'aveva persa.
Il tempo di alzare gli occhi, rendersi conto che il gelato gelido era finito contro il suo petto, che di lei c'era solo il profumo alla vaniglia – dissolta, assurdo.
Il peggio era che, lui, lo sguardo sbarrato e ferito l'aveva visto benissimo. Dannazione. Dannazione. Cosa aveva combinato, lui e la sua linguaccia!
Dannazione!, pensava, mentre afferrava bruscamente dei fazzoletti e raccoglieva il gelato come meglio poteva. Era finito addirittura a terra. Ma non aveva tempo da perdere con una stupida gelateria e il loro altrettanto idiota senso della pulizia, doveva---
«Katugawa, dov'è finita... ?». Ecco. Ecco.
Adesso doveva vedersela anche con Sayumi e i suoi sinceri quanto limpidi occhi azzurri – occhi stranieri su una ragazza che, teoricamente, doveva essere giapponese. Chi le spiegava che l'aveva fatta, in sostanza, fuggire via da qualche parte?
Chi?
Naturalmente, Takeshi.
«Ah. Lei. Lei è... », balbettando, aveva lasciato i fazzoletti sul bancone per girarsi verso la rosa, avvolto nel forte odore dei gusti scelti dall'albina, con la cannella che gli arrivava al cervello. Stordito, si portò una mano ai capelli scompigliati. «... è andata via».
Bene.
«Questo lo vedo. Ma dove?», incalzò lei, alzando le sopracciglia con aria confusa – lanciando occhiate perplesse alla camicia.
«Aaaaaaaaaaaaaaaa... da qualche parte, immagino, non saprei», borbottò Takeshi, battendo così velocemente le palpebre da coinvolgere anche Sayumi a fare la medesima cosa. Continuarono a sbattere le ciglia per un paio di secondi, fin quando lei non afferrò il ragazzo per le spalle, costringendosi ad alzarsi sulle punte e a stendere di più le braccia, tanta era la differenza d'altezza.
«Senti, non può essere sparita nel nulla, senza dire niente a nessuno!», esclamò, piccata. «Avrebbe detto qualcosa almeno a me. Sicuramente ha detto qualcosa. Quindi... ricorda».
«Qualche problema?».
Quando Takeshi cominciava a pensare a qualche plausibile “scusa”, ecco che la situazione degenerava e lui poteva darsi tranquillamente per spacciato – Tetsuya e Hokori, si era dimenticato di loro e della loro presenza.
Ed era stato proprio Tetsuya – il vampiro – ha parlare, lo sguardo algido e inespressivo puntato a mo' di fari della luce sull'umano, alla muta ricerca di spiegazioni. Tutti volevano spiegazioni – tutti volevano sapere dove lei fosse. Ed era giustissimo, essendo tutti connessi a lei, in un modo o nell'altro, nel bene o nel male.
Prese fiato. Poteva farcela.
Non era tanto difficile, alla fine. «Ecco, in realtà... prima stavamo parlando».
Sotto gli sguardi indagatori, si sentì andare a fuoco la pelle del torace e della schiena, i muscoli tesi in modo brutale, di fronte a tutti quei occhi – ed era così strano. Era abituato ad avere occhiate addosso...
«E... ?».
«E, in pratica, il gelataio cercava di provarci con lei. E allora--- allora---».
Forse era stato il fato, divenuto improvvisamente magnanimo con il povero umano, ma sembrava che quelle tanto agognate spiegazioni non sarebbero arrivate.
Ecco che le porte della gelateria si aprivano, lentamente, producendo un sottile e sinistro rumore – in netto contrasto con l'aspetto confetto del posto. Takeshi era sicuro che non c'era niente di cui aver paura, eppure, proprio non riuscì a reprimere un forte brivido.
Specie quando, spostando gli occhi, vide quelli di Tetsuya che fissavano le porte della gelateria – erano occhi sbalorditi, quelli? Non riusciva a crederci. E poi, perché tutti guardavano da quella parte?
Finalmente, anche lui si decise a girarsi, arrivando a dare le spalle a Sayumi pur di capire cosa ci fosse di tanto interessante – e quello che vide, lo deluse immensamente.
Era una bambina.
Alta un metro e un tappo e, di certo, non era molto piccola visto che i tratti somatici dimostravano un'età fra i dieci anni e i dodici. Ma non era tanto quello a catturare l'attenzione dei presenti, no, ovviamente – erano i capelli rossi amaranto. Una lunga cascata di vino rosso fino alla vita, una via di mezzo fra il liscio e qualche onda che scendeva sul petto. La frangetta cadeva ordinata sulla fronte e, da quella distanza, Takeshi poteva assicurarsi che non avesse gli occhi scuri.
«... perché guardiamo quella bambina?», disse lentamente, quasi con cautela.
Fu proprio Tetsuya a riprendersi per primo – ed era stato il primo a concentrarsi sulla nuova arrivata – regalando un'occhiata di sufficienza al moro, come se davanti a lui ci fosse solo un sacco di immondizia. E di fronte a quell'occhiata, Takeshi si accigliò – palesemente.
«Perché, sciocco umano, di fronte ai tuoi occhi c'è la secondogenita di uno dei casati nobiliari più potenti in circolazione», sibilò il vampiro.
«Ma è naturale che non lo sappia, essendo un umano!». Sorprendentemente, Hokori aveva preso le difese di Takeshi, aggrottando la fronte e regalandogli occhiatacce. Forse era semplice solidarietà fra umani, cosa poteva saperne, lui.
Passò qualche attimo di silenzio, interrotto da un'assorta Sayumi. «... e cosa ci fa qui?».
«Non lo so», rispose Tetsuya, con talmente tanta calma da irritare nel profondo Takeshi che, intanto, stringeva i pugni fino a sbiancarne le nocche un po' esposte.
Prima scocciava se lui non sapeva chi era una bambina entrata probabilmente casualmente e dopo lui non sapeva rispondere alle domande postategli. Che idiota. Con tono beffardo, gli disse: «Allora perché non ti avvicini e le chiedi cosa ci fa qui?».
Ed ecco che, nuovamente, quegli sguardi lo stavano trafiggendo da parte a parte – ugh.
«Per educazione, dovrei almeno porgere i miei omaggi», disse Tetsuya.
Sì bravo, porgi tutti gli omaggi che vuoi, basta che ti levi dalle pal---, era lì lì per cominciare a fare pensieri che implicavano diversi omicidi, quando si sentì strattonare con gentilezza la manica della camicia.
Sayumi gli stava rivolgendo un sorriso cordiale, di quelli fatti per pura circostanza – a cui lui rispose, comunque. «Perché non andiamo a cercare Yuki, io e te?».
Hmmm, vediamo... restare qui con questi psicomani o andare a cercare Yuki..., mentre faceva finta di pensarci seriamente, sentiva i passi di Tetsuya che si facevano più pacati e felpati, quasi stessero accarezzando un terreno stracolmo di mini anti-uomo.
«Prima voglio vedere che succede. Non sei curiosa?», disse, guardando il duo.
«In effetti».
Una cosa che non aveva notato subito, era stata il pupazzo viola a pois che la bambina teneva stretto al petto, abbracciato da esili braccia. Era interessante il vestito fino alle ginocchia che portava, aveva uno strano stile gotico ma, insieme, di delicatezza, con quei fru fru.
«Buongiorno», la voce di Tetsuya era gentile, come un velo che ti sfiorava il viso. «Ai-san. Cosa ci fa qui, a quest'ora del giorno?».
“Ai”.
Eppure a quella bambina, tra le tante sensazioni che trasmetteva, mancava proprio l'amore*; solo guardando il movimento del capo che si portava lievemente indietro e un passo che l'accompagnava, ne avvertiva chiaramente l'aura elegante e fine.
E poi, però, c'era quella strana luce scura intorno a lei...
«Mi è stato consigliato di uscire più spesso, per abituarmi alla luce», persino la voce sembrava quella di qualche figura altolocata! La parte divertente era che, in ogni caso, c'era sempre quella sfumatura insolita e infantile. «E tu, Tetsuya-san? Non sapeva che fosse tornato in questo mediocre paese».
«Sono tornato pochi giorni fa», sorrise il biondo. «e sono andato subito a cercare sua sorella».
Alla fine di quella frase – o addirittura nel mentre – il visetto di porcellana della bambina Ai si illuminò di luce raggiante. Sembrava che sapere di sua sorella fosse motivo di pura felicità.
«Hai fatto benissimo. Va' a trovare spesso, sarà contenta», disse.
«Lo farò di certo. La residenza Akawa è sempre uno splendore per gli occhi».

 

 

 

 

 

 

* amore: alloV. Il nome “Ai” significa amore in giapponese quindi-- fate due più due. :]]

 

 

NOTA DELL'AUTRICE:
BUONCIORNO A TUTTI UEUEUEUEU--- okay, basta.

E siamo giunti a questo capitolo... con tanta di quella fatica che non potete immaginare. *scuoricin

Prima di tutto, tutta la roba di VD è attualmente depositata sul pc della mia cara sorellona che, prima o poi, mi manderà tutto tramite skype... evitandomi di metterci secoli a scrivere un capitolo. X”

Eeee, questo è il motivo del ritardo.

Il secondo, che è legato al primo, è che ho perso il pc--- e ne ho comprato uno nuovo. Uvu

Però adesso dovrebbe andare tutto bene, DOVREBBE, quindi tenterò tornerò regolare~

Grazie per l'attenCCione.

 

 

Night, ovviamente, con affetto.

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Capitolo 18
*** Ah, che peccato, non ci pensiamo. ***


 

Adesso fermati e respira, prendi quanta più aria possibile. Ottieni ciò che vuoi, fallo solo per te.

Yuki.

 

 

 

 

 

 

 

Ah, che peccato, non ci pensiamo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Dovrebbe pensarci più attentamente, secondo il mio parere».
L'aria umida e pungente dei sotterranei aveva ridotto ad una statua di ghiaccio l'umana che quei due vampiri si erano portati giù, come appendiabiti mobile, quando poi avrebbero dovuto levare le tende – quello era un momento dove la scaltrezza doveva essere attiva, tutto il tempo.
«Ha ragione ma, francamente, non credo mi interessi il tuo parere», era stata la risposta dell'altro, sibilata tra denti dritti e bianchi, con canini sporgenti e pronti all'utilizzo. Il vampiro portò lo sguardo sulle sbarre di quella cella; i sotterranei del Consiglio erano noti non solo per le basse temperature ma soprattutto per essere delle prigioni. Non venivano utilizzate granché – il ché rincuorava, a dirla tutta.
Un sorrisetto rivolto al prigioniero davanti agli occhi dei due vampiri, ossia, un terzo vampiro – celato nell'oscurità più recondita della sua casetta.
Se ne stava sdraiato su un lettino lercio, con le braccia dietro la testa come cuscino – essendone sprovvisto – e, stranamente, stava sorridendo anche lui... un sorriso davvero soddisfatto.
Anche se i capelli neri erano ormai arrivati alle spalle, dopo tanto che non li tagliava, anche se gli occhi erano contornati di rosso, anche se il corpo era decisamente scarno, dopo che non si era nutrito per mesi e mesi.
Ciononostante, sorrideva di gusto.
«Fatemi uscire di qui, avanti».

 

 

 

***

 

 

 

«Non toccarlo, è mio».
Bene, ora – c'era una certa domanda, un certo dubbio, che assillava la mente di Takeshi. Insomma, probabilmente, era la cosa più naturale da pensare in un attimo talmente assurdo, fuori dagli schemi più ovvi.
Quella ragazzina, quella Ai, era la famigerata sorellina di Yuki? Sul serio?
Più i tre umani la guardavano, meno la convinzione di faceva solida, più sbriciolava; francamente, non era facile dire cosa rendeva quella bambina totalmente diversa dall'albina; che fosse il colore di capelli? Oppure, quello strano attaccamento al pupazzo viola? O ancora, il carattere.
Mentre Takeshi e Yumi la guardavano, spaesati e dubbiosi, Hokori si era avvicinata, forse con l'intento di presentarsi – ed era finita a chiedere alla rossa di farle prendere il pupazzo.
Cosa se ne poteva fare un adolescente, meglio non chiederselo.
«Moccios--- hm, Ai... -chan?», articolò cautamente Hokori, forzandosi a sorridere. «Quanti anni hai?».
Per tutta risposta, Ai sollevò il viso con aria altezzosa, appoggiando una mano – piccola e bianca, come un fiocco di neve – sul fianco e lasciando penzolare il pupazzo lungo il fianco.
Tutta impettita, disse: «Tetsuya-san, puoi gentilmente liberarmi da questa ingombrante presenza? Oh, mi ha dato del tu, come nulla fosse... che seccatura. E dire che con quella faccia anonima, potrebbe essere scambiata per un manichino. Uff».
Annientamento dell'autostima in meno di cinque secondi – giusto il tempo di formulare qualche frasetta. E, accidenti, Takeshi e Sayumi non dovevano assolutamente ridere, se volevano tornare integri alle proprie case! Entrambi si ritrovarono a scambiarsi occhiate divertite, a respirare lentamente per trattenere la ridarella, a chiedersi se sarebbero volati dei tavoli – e invece!
Invece, Hokori, sembrava molto più calma... molto più... come se fosse stata pietrificata. Scioccata da quella che doveva essere una bambina
delle elementari – esattamente.

«E comunque, ho dodici anni, appena compiuti», aggiunse dopo una relativamente breve pausa, il timbro di voce graffiato farcito di orgoglio.
Dodici anni?, pensò Sayumi, battendo le palpebre. Beh, non è che lei, invece, dimostrasse realmente i suoi sedici anni, ma... wow.
«Senta, Ai-san», e Hokori era ripartita. Ad una velocità stordente, le sue dita avevano afferrato la cravatta dell'uniforme scolastica di Takeshi e quest'ultimo, all'improvviso, era trovato con un ginocchio a terra e l'altro alzato – e non era stato un atterraggio particolarmente piacevole, no.
Continuando, Hokori sorrise – perfida. «E questo qua, come ti sembra?».
Il viso del ragazzo era incredibilmente vicino a quello piccolo e immacolato della bambina. Le labbra di quest'ultima appena arricciate in una smorfia, come se trovasse tutto ciò molto irritante e sconveniente – lei!
E Tetsuya, aveva più o meno la stessa espressione, incluse sopracciglia inarcate. Sembrava infastidito. E Yumi se la rideva, allegramente, tra sé e sé.
Chi si divertiva, chi si sentiva disturbato.
E lui, eh?
Con i capelli che cadevano disordinati, gli occhi sorpresi e le labbra rosee, carnose e schiuse.
«... non è malaccio». Takeshi fissò la bambina, con uno scatto di incredulità. Aveva sentito bene? Non era malaccio. Poteva ritenersi fortunato, allora. «Ma trovo che Tetsuya sia molto, molto, ma molto, più bello. Non fartene una colpa, naturalmente, non tutti nascono sotto una buona stella».
Ah.
Ah.
Certo.
Molto, molto, ma molto – più bello.
Grazie a Dio, Hokori non aveva lasciato la sua cravatta... o i tavoli sarebbero volati per opera sua. Il fastidio, la pura irritazione, l'offesa, il veleno – ma a chi importava! Non importava agli altri e neanche a lui, quindi... beh, non era il tipo di persona che si offendeva per certe idiozie, quindi andava bene. Andava bene – ma ciononostante, nessuno gli impediva di liberarsi.
Ci volle solo uno scatto improvviso, verso l'alto, per alzarsi, e Hokori non lo teneva più per il guinzaglio. «Ehi, cosa---».
«Mi sono stufato, torno a casa mia». La voce fredda come il marmo, inscalfibile, arrivò chiaramente e nitida alle orecchie di tutti i presenti, forse addirittura all'interdetto inserviente dietro al bancone – colpa sua, di tutto, del suo litigio con Yuki.
Yuki... chissà dov'era e cosa stava facendo.
Con un sospiro significativo, il moro diede un'ultima occhiata a tutti, soffermandosi a specchiarsi nei laghi limpidi di Sayumi: sentiva di potersi fidare di lei. Per questo, le sorrise, con una nota di amarezza – e a giudicare dall'espressione intristita di lei, si erano compresi.
Ed eccolo che era già fuori, immerso nella calda luce del tramonto.
Eppure, era talmente malinconica, da non sembrare nemmeno una luce. Era da un po' di tempo che non si sentiva in colpa per qualcosa.
Una volta, commetteva azioni senza sentire niente, senza percepire nulla – né divertimento, né gioia, né dispiacere.
Era come se i suoi sensi fossero in modalità spenta. E adesso era lì, a camminare lento e assorto, con un'immagine fissa nella mente. L'espressione ferita di quella ragazza – i suoi occhi che si facevano acquosi.
Lui... aveva sbagliato.
«Ehi, aspetta! Volevo---». Una mano andò a toccare la spalla sinistra di Takeshi, facendolo sobbalzare appena. Cavolo, se era preso dai suoi pensieri!
Hokori aveva un piccolo sorriso e l'altra mano dietro il capo. Sembrava incerta. Sinceramente incerta.
«Cosa c'è?», disse Takeshi – voleva tornare a casa e basta. Quindi, meglio era sbrigativi e chi se ne importava, dopo.
«Volevo scusarmi con te, sono stata... », tentennò, indecisa su che parole usare. Abbassando gli occhi, continuò. «Sono stata insopportabile, ecco. Quindi, scusami».
Takeshi sgranò un po' lo sguardo cioccolato, piacevolmente sorpreso. Allora era capace di scuse. Anche se, c'era da dirlo, sembrava un po' arrugginita! Sorrise, annuendo leggermente. «Non era niente».
Hokori si strinse nelle spalle, accentuando il sorriso. «Posso.. fare un pezzo di strada con te, Katugawa?».
Hm.
«Sì, dai. Un po' di compagnia non fa male, spero», rispose lui, girandosi verso la strada per riprendere a camminare. Sospirando di sollievo, Hokori lo affiancò, camminando a passi un po' più larghi per tenere il passo con lui.
«... Takeshi, in ogni caso».
«Come?».
«Puoi chiamarmi Takeshi».

 

 

 

 

***

 

 

 

Sì, perché non chiamarlo per nome? Aveva un così bel nome, così dolce e, al contempo, trasmetteva forza. Sembrava essere in grado di proteggerti da ogni cosa, da ogni dolore.
Era proprio un bel nome. Tanto valeva usarlo, no?
Yuki era d'accordo. Yuki aveva già detto: “Esatto, Yamashita, chiamalo “Takeshi”.
Dannazione, perché non era tornata a casa...

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Quella mattina, sembrava una tela; una tela completamente bianca che avrebbe dovuto essere costellata di neve del medesimo colore e, invece, era tinta di asfalto. Grigia, grigia mattina. In tutti i sensi. Alzarsi quel giorno era stato davvero difficile visto che, sia dal lato meteorologico che da quello umoristico, l'albina non era proprio in vena.
Hokori frequentava la loro scuola; a quanto pare, aveva cercato di farsi infilare nella classe di Yuki e Sayumi, ma non ci era riuscita ed era finita in... quella... nella “classe in fondo”, ecco. La mezzosangue nemmeno voleva sapere dove sedesse, chi le aveva prestato i libri all'inzio – quando lei era sprovvista.
Meglio non domandarsi, meglio non chiedere alla diretta interessata. Anche se, proprio adesso, ce l'aveva davanti. E sorrideva, tutta fiera di sé, perché aveva appena annunciato di essere diventata amica di Takeshi Katugawa – ahah, povera lei.
La poveretta non sapeva che genere di persona fosse davvero Takeshi e che soffriva di qualche strana malattia legata allo stalking. Forse l'avrebbe scoperto ad impattoBeh, tanto meglio.
«Vorrei tornare in quella gelateria, con lui, visto che l'ultima volta non abbiamo... », diceva, parlava, blaterava.
Raccontava – anche se sia Yuki che Yumi davvero, non ne volevano sapere – di come lui incrociasse le braccia sul banco e poggiasse lì la testa, per poi addormentarsi; raccontava di come gli piacessero i panini con le polpette; raccontava di quando lo aveva visto mangiucchiare famelico il cappuccio della penna, un'ora prima di quella del pranzo.
Raccontava, raccontava.
E rideva, tutta felice.
Dannazione – dannazionedannazionedannazione.
Ai non fu nominata. Almeno per il momento, anche se Sayumi voleva fare qualche domanda sulla bambina a Yuki – ma aveva visto il suo sguardo e aveva scosso la testa, semplicemente. E allo scoccare della seguente ora, finalmente – finalmente! – Hokori si era incamminata per la propria classe, non prima di aver sorriso, definendosi infinitamente grata verso l'albina per averglielo “presentato”.
Sì. Certo. Ah-a.
Gli istinti omicidi salivano sempre di più, in ogni caso, e chi lo sa, un giorno avrebbe esaudito i loro desideri di sangue. Chi lo sa – rientrarono in classe.
In silenzio, la testa immersa nei propri pensieri, ormai era tornata al suo posto – le sembrava un'ancora gelida di salvezza. La sedia era davvero fredda, eppure erano a Maggio, ormai.
«Prendete il libro e aprite a pagina... two hundred six», la pronuncia pressoché perfetta del professore Okamoto raccolse, quasi come un cucchiaio, l'attenzione della bella albina.
Doveva prendere il libro e concentrarsi sulla lezione. L'inglese era importante. Al contrario di---
«Akawa-san, leggi, per favore», disse Okamoto, appoggiando le mani sulla scrivania. E Yuki annuì, infilando le mani sotto il proprio banco, alla ricerca celere del libro – ah, eccolo.
Ma c'era qualcosa o... si sbagliava? Le sue dita toccavano altra carta, un quadrato di carta.
Fece scivolare libro e pezzetto di carta verso di sé e---.
L'inglese aveva importanza.
Ma anche quel biglietto.
Ci vediamo sotto al ponte, Principessa”.

 



 

***

 

 

 

Ci vediamo sotto al ponte, Principessa”.
Mai frase fu meno informativa.
Chi era? Quale ponte? A che ora? Perché?
Fare un simile invito a Yuki Akawa era stato alquanto stupido, se non completamente privo di senso; almeno, la stupidità è dettata da un problema che
affligge il cervello e non permette ad esso di lavorare come si deve: l'assenza di logica, era una cosa nettamente fatta a caso. 
Così la pensava lei.
«Ponte, eh?», mormorava Yumi, una mano al mento, pensierosa. «Beh, c'è solo... un possibile ponte, se escludiamo i due piccoli ponti che portano ai templi».
Yuki si guardò le unghie, inespressiva. «E dove si trova?».
«Hm, sai, hai presente quel fiume... ?», disse l'altra.
Fiume? Fiume..., pensò l'albina, alzando lo sguardo per fissare l'amica – la fronte corrugata. Fiume. Fiume! Ma certo.
Si ricordava dell'esistenza di un fiume... era lo stesso di cui aveva parlato con Takeshi, immaginava lei. Pare che al moro piacesse tanto; quando Yuki fu costretta a chiamare gli addetti, per via di quel vampiro infiltratosi nella scuola, i due si erano messi a chiacchierare del più e del meno: e lui gli aveva parlato di quel fiume. Poi, beh, erano cominciate le domande sul vampiro e su cosa avrebbe dovuto fare lei.
E comunque...
… 'ddio, se era nervosa! Un fascio di nervi!
Non aveva idea di chi o cosa stesse per incontrare e, per quanto ne sapeva, poteva benissimo trattarsi di un vampiro o di un demone.
Un brivido accarezzò la schiena della mezzosangue, toccando ogni vertebra con attenzione, lambendo le più piccole. Non doveva pensarci – tanto valeva andarci e poi tornare indietro. Forse era un ragazzo che voleva dichiararsi all'albina.
«Ah! Ha cominciato a piovere... », esclamò Sayumi, lo sguardo sulle finestre.
Yuki fece lo stesso.
L'odore della pioggia filtrava sui vetri e giungeva nella classe, a riempire l'ambiente riscaldato dai termosifoni, regalando una leggera umidità. Batteva ritmica sui vetri, sulle sporgenze dell'edificio e i davanzali. Sembrava un orologio elementare.
Tanti microscopici ticchetti – tick, tack.
Sarebbe rimasta per ore a guardare lo scendere di quelle gocce, spiattellarsi a terra e perdersi sull'asfalto – era tranquillo. Era come una ninna nanna cantata a labbra chiuse, nel bel mezzo della notte, quando sei colto da un'incredibile agitazione.
Era rilassante.
«Yuuuuuuuuuuuuuki-chan! Pensi di restare qui ancora per molto?».
E boom, quasi era caduta dalla sedia, – stupida pioggia ipnotica – di fronte alle otto ottave di voce di Sayumi, i pugni sui fianchi e un sopracciglio alto.
«Scusa, andiamo».
Ed ecco che stava camminando, priva di ombrello, per le strade impregnate d'acqua del paese, da sola. Aveva lasciato Sayumi a casa sua, al negozio, e aveva intrapreso la via più coperta per raggiungere il tanto temuto ponte.
Non manca poi tanto.
Giusto una decina di metri e sarebbe giunta – avrebbe capito. Sperava non fosse nessuno di chissà quanto “importante” e altolocato, perché non aveva voglia di presentarsi infradiciata com'era, la divisa attaccata al corpo, i capelli sulla fronte e le guance arrossate, le ciglia che gocciolavano.
'ccidenti, come era conciata.
Uscì dal suo riparo – un ampio balcone di un appartamento – e cominciò a correre, battendo i tacchi dei suoi stivali sul pavimento e, una volta scese le scale che portavano sotto, il rumore venne attutito dal terreno bagnato.
Ecco, era arrivata.
Oh, pare che fosse un po' in ritardo... perché in lontananza c'era una figura. 
Sorrise, un largo e luminoso sorriso.
Era Takeshi.
Riprese a correre – doveva raggiungerlo.
… o forse no. Sembrava impegnato.
Sembrava...
«Ah... ».
… che stesse baciando Hokori.

 

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:

E io boh, è stato un parto, ma posso dire di essere soddisfatta... e triste. Hm. Non sono al massimo della forma, no, direi proprio per niente.

Ma vabbé, non ci pensiamo e godiamoci Vampire Devil, va bene? ~

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Capitolo 19
*** Gli occhi dell'indifferenza. ***


 

 

Forse stavo iniziando ad arrendermi al destino che ogni demone, prima o poi, riscontra.

La disperazione.

Yuki.

 

 

 

 

 

 

Gli occhi dell'indifferenza

 

 

 

 

 

 


 

 

 

«Sai, la tua mamma ha incontrato un'umana, quando era ancora una ragazzina... questa donna, era una mamma anche lei. Se ne stava seduta a terra con imbraccio – proprio come sto tenendo io te! – un bambino molto molto piccolo, un neonato. Lo teneva stretto stretto, contro il suo petto e guardava il cielo. Respirava sulla sua fronte.
Lo sai perché faceva una cosa simile?
Perché era notte fonda ed era inverno. Vedi? Gli umani sono delle buone creature!».

 

 

 

***

 

 

 

Gli umani sono delle buone creature. Gli umani sono gentili, gli umani sono dei sognatori; gli umani salvano se stessi e gli altri; gli umani ti sorridono con calore e ti insegnano ad amare. Poi, ti fanno amare – ti fanno credere e sognare senza dormire.
Questo, Yuki Akawa, dna vampirico e demoniaco mischiato, figlia di Kazumi Akawa e Oseroth Akawa, lo sapeva benissimo. L'aveva scoperto da piccolissima, fra le braccia della sua mamma e ne aveva appurato la verità da adolescente.
Ma quella donna aveva omesso quanto potessero essere... distruttivi.
Un bacio.
Cos'era un bacio, di fronte ai suoi occhi, se non il contatto ravvicinato di labbra, parti rilevanti del corpo? Sayumi le aveva detto la sua opinione, nel bel mezzo delle loro chiacchierate sul terrazzo, durante un pranzo troppo rapido.
«Tecnicamente, è quello che hai detto tu, ma», rise. «è anche uno scambio di saliva. E di batteri. Non sembra il massimo!».
I batteri facevano schifo a tutte e due e quindi, Yuki, pensava che l'amica fosse d'accordo con lei sull'inutilità di quel contatto. Ma non era così. «Però sai!», riprese. «E' anche una scarica di adrenalina per tutto il corpo. E' anche un momento in cui ti senti terribilmente amata, al sicuro... con qualcuno. Non sei sola».
Se solo Sayumi non le avesse detto quelle cose.
Se solo lei fosse tornata direttamente a casa propria, senza dar corda a quel biglietto spuntato dal nulla, allora, forse, adesso non si troverebbe sotto una pioggia battente.
Adesso non starebbe guardando ciò che--- aveva di fronte agli occhi, spiattellato con bruschezza, con tutta la prepotenza possibile.
E voleva correre via.
Voleva fare dietrofront e scivolare per quelle strade intrise d'acqua, tornare nel suo regno notturno e cercare Ai, perché Ai l'avrebbe abbracciata, le avrebbe dato della scema e poi consolata come lei sapeva fare.
«Yuki... ».
Accidenti... i suoi occhi erano già pieni di lacrime...
«Vieni qui... ».
«Tetsu... portami via».

 

 

 

***

 


 

Le sue dita scendevano lentamente lungo quelle pallide guance e premevano, sempre più forte, sempre più veementi, come se con quel gesto potesse scavare dentro il suo viso di una bellezza immutabile privo di imperfezioni.
Il volto dell'irritante perfezione.
Tempo addietro, non le era stato bellamente dato quell'appellativo? Sì, certo – l'avevano fatto. Solo che lei l'aveva rimosso: e non era stato facile – per niente. Lei aveva semplicemente dimenticato ogni cosa; quel “nome”, quella beffa, il loro tono rabbioso. E tutto questo, rinchiudendosi nella sua gelida e buia stanza, con le mani nei capelli, gli occhi chiusi e le labbra che sanguinavano leggermente.
Adottare quella tattica era doloroso. Doloroso per la sua gola, per la sua nutrizione – già, perché si era tenuta a distanza dalla sua dolce sorellina.
E dalle sue vittime, certo; e sinceramente, qualora le venisse domandato se, mentre tagliava loro la gola, avesse provato una qualche sorta di dispiacere, lei si sarebbe limitata ad una scrollata di spalle.
Solo che non capiva-- perché tutti quei ricordi come una valanga di neve? Si stava rendendo conto di qualcosa? - con quella scena stampata nitida nella sua mente.
Ah.
Ah, forse, stava facendo caso che – cavolo, era sola? Era tutto andato. Era tutto sfuggito dalle sue dita e adesso, brandendo un coraggio che non possedeva né desiderava, doveva combattere i propri incubi. Con la strisciante disperazione che si infilava nel suo petto.
Nemmeno si rendeva conto dei puntini rossi, del suo sangue, che usciva dai tagli delle sue unghie su una pelle forse troppo delicata per un'anima tormentata.
«Onee... chan?». Era stato un bisbiglio, lanciato nell'oscurità, che subito si era fuso con le ombre della stanza – Yuki l'aveva sentito.
«Onee-chan».
Finalmente, aveva alzato la testa dalle ginocchia, il volto cereo e i capelli argentati scompigliati – ciuffi cadenti sugli occhi, ciuffi verso l'alto. La sua piccola e ancora innocente Ai.
In piedi, con la schiena appoggiata alla porta e dipinta sul volto un'espressione fredda come un muro di ghiaccio impenetrabile.
«Non va bene», sibilò la bambina. «Non va davvero bene».
Quieta, si staccò dalla porta di legno per avanzare fino al fianco della sorella sedicenne. Yuki levò – non sapeva nemmeno come – gli occhi, cerchiati di rosso, con le palpebre semi aperte. Pulsavano come tizzoni ardenti. Voleva parlare.
Voleva dire qualcosa e, allora, aprì la bocca – ma nessun suono uscì. Niente che sembrò davvero somigliante ad una frase, ad una parola, a qualcosa – insomma! Poteva solo seguire con lo sguardo la piccola rossa salire sul letto e accoccolarsi vicino a lei, il capo posato contro il suo braccio. E da quella maledetta attenzione riusciva a scorgere più che bene la clavicola e quella piccola parte di collo. Riusciva a intravedere le vene pulsare sangue ritmicamente, come una melodia nervosa, instancabile.
Era affascinante.
«Non ricordavo di avere una sorella così... », attese un attimo, corrugando la fronte come se le costasse parlarle. «... debole!». E scosse il capo, piano. «Capirlo è... doloroso, in un certo sen--».
«Niente è così scontato!». Un ringhio. Era ancora allo stato bestia, ma per lo meno, aveva cacciato suoni e parole. Aveva parlato. Il tutto, in un impeto di rabbia e frustrazione, perché si sentiva una sorella incapace – e non voleva. E poi.
E poi: non voleva apparire forte.
Ai sorrise. «Non è esatto. Sei tu che ti sei mostrata talmente indistruttibile da renderlo vero».
La mezzosangue maggiore digrignò i denti ed eccoli, i canini brillanti come diamanti, esercitare pressione sopra gli altri denti. Quasi stavano per spaccarli.
«Cosa dovrei fare, allora?», disse. «Piagnucolare come una comunissima umana ai piedi dei nostri amorevoli genitori? E credi che servirebbe a qualcosa, Ai?». Il suo tono era aggressivo, irruento come tsunami.
Il suo era il tono di una sopravvissuta.
«Capirebbero». Lo sguardo della rossa, del medesimo colore di Yuki, finì a posarsi su di lei – sospirò.
Ma Yuki scosse la testa, inarcando le sopracciglia chiare fino a dare vita ad un solco fra di esse, segno che era davvero certa. Li conosceva. Kazumi Akawa e Oseroth Akawa, i suoi genitori, i suoi creatori, i suoi carcerieri. Conosceva tutti e due.
Incrociò lo sguardo della bambina – malinconico, vinto – con le iridi, ricolme di sangue. 
Non si mossero. 
Aspettando in un cedimento, un gesto che dicesse: «Hai vinto», e poi, come succede per ogni competizione, ricevere il proprio premio.
Ed eccolo! – il cedimento. Ai si strinse nelle spalle e Yuki allungò la mano verso il viso bianco e piccolo di lei – e già alzava il mento, consapevole com'era sempre stata.
In un istante, i denti furono scoperti e affondati nel collo della bambina. Quest'ultima irrigidì tutti i muscoli, in allerta, e si lasciò avvolgere dalle braccia di Yuki.
Le sembrarono così fredde.
Così... prive di vita.

 

 

 

***

 

 

 

«... awa... Katu... Katugawa!».
Takeshi mosse il capo in avanti, scattante, quasi cadendo all'indietro dalla sedia su cui era mollemente stravaccato – con tanto di cucino dietro la nuca e cioè, le sue braccia incrociate. Non si può nemmeno dormire in pace, pensò, mentre si passava una mano fra i filamenti color cioccolato fuso e cercava di dar loro una forma, un senso – sotto uno sguardo rassegnato e innervosito.
Takeshi non poteva che essergli d'accordo. Si sarebbe preso a schiaffi.
«Che c'è, Kazuki?», sbuffò, lasciandosi ricadere sullo schienale. Kazuki tenne gli occhi fissi sul ragazzo per un po', forse arrivò ad un minuto, per poi chiudere le palpebre.
Sembrata concentrato a esaminare...
«Stavo per chiederti una cosa su Akawa», gettò una rapida occhiata al moro. «ma visto e considerato come sei saltato dalla sedia – adesso, in questo preciso istante –, credo che rimanderò».
Pft. Doveva dire che era carino, Kazuki, a preoccuparsi per lui ma... non gli interessavano le premure di un ragazzo, anche se era così tenero! Sospirò, socchiudendo le palpebre – pesanti, davvero. «Dimmi».
«Ne sei sicuro?».
«Spara».
Tentennò. «Beh... quand'è... il compleanno di Akawa?».
Takeshi aprì occhi e labbra.
Ecco che sensazioni di stordimento, sorpresa e gelosia lo invasero, puntandogli fucili al petto; e non si spiegava perché si stesse regalando il diritto di provare qualcosa quando si nominava il suo nome. Quel diritto era diventato cenere quando aveva capito – lui, la portava alla distruzione.
Stava distruggendo Yuki Akawa.
«Katugawa?».
Ah!
Doveva rispondere. In teoria, non c'erano problemi a dire una banalità come il suo compleanno, no? Non gli ha chiesto mica se poteva accompagnarlo a comprare un anello di fidanzamento. E poi... e poi, in teoria, lui e Yuki non erano più niente. In teoria, Hokori e lui... beh, l'aveva baciata, dopotutto.
«A cosa ti serve quest'informazione?», francamente? Lui e Yuki non si erano nemmeno avviati.
Ecco.
«Vorrei farle un regalo. Tutto qui», rispose Kazuki, stringendosi nelle spalle.
Un regalo. Perché Kazuki voleva fare un regalo a quella spietata, acida, fredda, lunatica, meravigliosa, coraggiosa, intelligente, generosa, determinata... mezzosangue?
Perché non voleva rispondere?
«Due Dicembre», sussurrò Takeshi. Si alzò, in tutta fretta, aggrottando la fronte. «Ma ti consiglio vivamente di lasciar perdere qualsiasi buona intenzione nei confronti di quella tipaccia. Esperienza personale».
Il compagno rise brevemente, ringraziandolo per la risposta che, sicuramente, gli era pesata un sacco. Takeshi scosse la testa. «Ma no».
Ma sì.
Alzò il polso destro: mancava qualche minuto all'inizio delle lezioni. Non aveva visto, da quando era arrivato a scuola, né l'albina né la rosa; aveva imparato che se incrociava una delle due, allora c'era sicuramente l'altra.
Sembrano gemelle, pensava, mentre varcava l'uscita dalla classe e sbucava nel corridoio, anche se di carattere sono come dolci e frutta: l'opposto.
Il corridoio era stracolmo di studenti; Takeshi pensò che non avevano fretta di dirigersi nelle proprie aule – senpai inclusi – se erano ancora lì a chiacchierare e che fossero particolarmente fastidiose le loro voci ammassate. Cominciò a camminare, attraversando la folla.
Al suo passaggio, si scansavano come se fosse fatto di fuoco; le ragazze lo mangiavano con occhi languidi e i ragazzi osservavano cautamente i suoi gesti. Talmente tanta gente – si rese conto che la frase “Essere soli in una stanza piena di persone” era reale.
Reale come la sua frustrazione.
Si guardò attorno. Tanti volti, tante maschere, vuoti; la bocca, il naso, gli occhi, le sopracciglia, i capelli – vuoto. Erano volti dell'indifferenza.
Si passò una mano tra i capelli, coltivano la speranza che il solito gesto potesse rassicurarlo. Ma – ma non poteva accadere. 
Guardò avanti, ad una decina di metri, una figura. La conosceva, certo che la conosceva.
La bramava, quella figura.
Ne aveva imparato i contorni e i difetti – eppure. Eppure, era irriconoscibile. Perché quegli stessi contorni che tanto pensava di sapere, ora erano illuminati da un'aura nera che si agitava, come se essa fosse l'insieme di lingue di fuoco.
Invisibile, impalpabile, doloroso solo per chi se le portava addosso.
Neanche la fulgida e lunga chioma argentea riusciva a illuminarla.
No – non poteva crederlo.
Gli occhi di lui si sgranarono, terrorizzati, disorientati.
Gli occhi di lei incrociarono i suoi, impassibili, inespressivi.
E un infinito brivido gli artigliò la carne.

 

 

 

 

 

NOTA DELL'AUTRICE:
Uuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuhm.
Beh.
Ecco. AH. Non ho molto da dire, a dirla tutta, se non... MADO' A CHE TRISTEZZA QUESTO CAPITOLO. Ceh, mi sono depressa a scriverlo, ci rendiamo conto? oAo
Beh, in ogni caso, mi rendo sempre più conto di trovarmi tristemente bene a scrivere questo genere di cose... :]
Sono una depressa cronica, yay. <3


E vbb.
Non ho altro da dire, a parte che school sucks e che Domenica ((quindi domani, yuuup)) sarò felicemente al Romics! *^*
Ah, mi piacerebbe incontrare e ringraziare chi mi legge e addirittura si prende la briga di recensirmi... PECCATO CHE NON SAPPIAMO COME SI SIAMO FATTI. ((wutwut))
Beh, il Romics comunque è anche il motivo per la quale ho deciso di pubblicare oggi il capitolo.

Perché non voglio rischiare di finire male con gli orari e avrò da fare, nei prossimi giorni. Love me.

 

Night, ovviamente con affetto

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Capitolo 20
*** La fastidiosa e ostentata ostinazione. ***


I miei sentimenti non smettevano di crescere, come se fossero state piante a cui veniva data acqua periodicamente.

Sayumi.

 

 

 

 

 

 

 

 

La fastidiosa e ostentata ostinazione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Oh, Takugawa».
Il respiro tornò a circolargli nei polmoni.
Fu talmente improvviso il tornare a respirare che sobbalzò e deglutì – la giovane mezzosangue lo fissava con un vacuo sorriso. Un sorriso a mezzaluna, verso il lato destro della faccia: insomma, i suoi sorrisi.
Era distante.
Non si era avvicinata neanche di un passo, limitandosi ad alzare appena la voce.
«Takugawa?», ripeté, perplesso.
«Takugawa», affermò lei, con calma. Poi si voltò e, con un passo – lo stesso che non aveva usato, prima – si avvicinò alla porta della sua classe, fondendosi nei gruppi di studenti. Takeshi batté le palpebre.
Takugawa.
Takugawa.
Lui si rendeva conto che non aveva proprio il diritto di sorprendersi o di arrabbiarsi; ma davvero, per una semplice discussione – per qualche parola masticata –, lei era... aveva appena cominciato a chiamarlo per nome. Aveva appena cominciato a vederlo.
Per una banale discussione... e qualcos'altro. Il motivo per quale lui stesso aveva pensato di starla lentamente distruggendo.
Il ponte... ?, pensò, mentre i suoi occhi si abbassavano a terra. Possibile che fosse lì, in quel momento? Possibile che in tutti i momenti, l'albina avesse deciso di apparire proprio in quello?
Respirò – dannazione – e, paonazzo, marciò verso la 2-B.
Ora basta, pensava, ora basta.
E mentre i suoi stessi pensieri gli davano la carica per affrontare ogni cosa, era giunto davanti alla porta, con una mano infilata a fermare la porta scorrevole – e un'occhiata di ghiaccio al ragazzo che stava uscendo e chiudendo. Dunque, si affacciò, guardandosi intorno.
Ed eccola.
Appoggiata con i gomiti sul davanzale di una finestra e un sorriso freddo – c'era gente, intorno a lei. Come sudditi di una Divinità tirannica, si mantenevano comunque ad una certa distanza, e sorridevano, sorridevano beatamente. No... come?
Takeshi sbarrò gli occhi; non c'era modo che Yuki, la sua Yuki, parlasse a quella gente in quel modo carezzevole, che non congelasse ognuno con le iridi più calde del sole.
«Ah, ma guarda chi si vede», esclamò una voce femminile, vispa e squillante. Takeshi s'irrigidì, al suono di quella voce; volse il capo alla sua destra e, in quel momento, Sayumi gli passò affianco. «Sayumi---», e al richiamo, la ragazzi si fermò di scatto e, con la stessa rapidità, afferrò la cravatta della divisa di Takeshi – e, placida, tornò a camminare verso il proprio posto – trascinandoselo.
«Asp--», borbottando frasi sconnesse, si chiese se sarebbe stato ucciso da una ragazza così piccina e grande, al contempo, magari appunto strozzato dalla propria cravatta.
«Apri le orecchie». Sayumi aprì la mano e appoggiò la borsa sul banco. «Fino a quando continuerai con questo atteggiamento così patetico, io e te, possiamo evitare di sprecare il nostro tempo. Okay? Soprattutto adesso che mi hai chiamata per nome. OKAY?».
Si voltò verso di lui.
Oh, pensò.
Non le si addiceva proprio quel tono ricolmo di odio e fastidio e i suoi occhi, un po' lucidi, parlavano per lei e per le sue sensazioni, mostravano tutto il suo essere; e allora Takeshi si rispondeva da solo ai suoi precedenti dubbi e capiva, capiva che Yuki e Sayumi erano amiche e che se avevano bisogno l'una dell'altra, si parlavano, si esprimevano come meglio riuscivano.
E la capiva, perché sembrava che anche l'umana non fosse molto lieta del cambiamento della mezzosangue – la guardava, distante.
«Per carità, Yuki è libera di comportarsi... come preferisce!», disse, come se gli avesse letto nel pensiero. «Ma c'è qualcosa di sbagliato... ».
«Aspetta. Aspetta, ascoltami. Non è--- io e Hokori non---». E dannazione, non riusciva a parlare in un giapponese vagamente corretto! Da quando era affetto da dislessia, eh?
«Oh, fa silenzio. Fa silenzio. Non è con me che dovresti... parlare... lo sai, cavolo!», sbottò, infervorata, lei. Incrociò le braccia al petto e Takeshi poté giurare di vedere le sue guance prendere un colore piuttosto vistoso, quasi preoccupante.
E quindi – stette in silenzio, come lei gli aveva ordinato.
D'altronde, cosa avrebbe potuto dire?
Sentiva le mani formicolare e un intenso fastidio alla bocca dello stomaco scorticargli gli organi e i muscoli, riempirsi la pancia di lui stesso. Si sentiva male – e si appoggiò alla porta semi aperta.
Però, sapete come si dice, quando pensi che il peggio sia passato... ecco che succede qualcosa, un qualsiasi avvenimento, che fa cadere tutte le supposizioni e speranze.
Una mano – chi lo sa di chi fosse – aveva appena afferrato il braccio del moro, con una forza e un aggressività paralizzanti, fuori dal comune. C'era qualcosa di completamente sbagliato, ora era d'accordo, mentre tentava di girare la testa verso quella persona – in tempo per notare il suo avvicinamento, comprese le sue labbra.
«Ehi, calma!».
Takeshi strizzò gli occhi e fece un passo indietro, strattonando il braccio.
Hokori era proprio davanti alla porta, con la fronte corrugata e gli occhi scuri piantati su Sayumi – quest'ultima aveva salvato il moro da un apprezzamento indesiderato. La mano era stretta intorno al suo avambraccio.
«Che ninfomane», sibilò la ragazza. Avanzò, parandosi davanti a Takeshi.
E Hokori, le palpebre serrate e lo sguardo sottile, la guardò come se davanti a lei si ergeva uno gnomo che provava a difendersi da un troll. Era così divertente, quella ragazza, così pateticamente idiota! Ma per lo meno, sembrava in grado di sopportare gli sguardi di ghiaccio.
Poi, un sorriso prese forma sul volto di Hokori. «Oh-oh. Cosa sarebbe questo? Non sarai... innamorata di Takeshi?».
Un suono sordo si infiltrò nelle orecchie di Sayumi.
Oh.
Ma cosa stava dicendo, quella... «Ah--...». Poteva parlare quanto voleva, smentire e difendersi, arrivare ad azzuffarsi con quella intrusa – ma le sue gote erano comunque di un rosso acceso. In un altro momento, avrebbe porto le proprie mani sulle guance per coprire quel colore così egocentrico, ma lo shock superava ogni pensiero, ogni possibilità.
Poi, il rosso venne sostituito dal pallore. Lanciò un'occhiata alla finestra – e si sentì morire.
La mezzosangue aveva gli occhi rivolti verso di lei.
Quegli occhi.
Quei dannati occhi color del sole, fissi come punteruoli su di lei – e c'era solo fredda determinazione, fredda considerazione. Esattamente come se la notizia appena udita non la scalfisse neanche un po'. Come se stesse fingendo che i suoi ultra sensi non avessero fatto il loro lavoro.
E questo era peggio della sua rabbia.
«Yumi!». Senza che se ne fosse accorta, aveva ricurvato la schiena e una mano era contro il petto – sentiva dolore. Si sentiva male – ma comunque, sorrise. Un sorriso che allargava le labbra, un sorriso più somigliante ad una smorfia che a qualsiasi altra cosa più felice. Scese la mano dal petto.
«Stai bene?», chiese in apprensione Takeshi, la mano sulla sua spalla. La mano... sulla sua spalla – ah.
Di nuovo, il suo corpo si mosse prima della mente e, sgranando gli occhi, fece uno scatto indietro, col risultato di inciampare nell'aria e cadere di sedere sul freddo pavimento – e all'improvviso, ecco che innumerevoli sguardi guardavano verso di loro.
«Non stai bene, eh», ridacchiò Takeshi, mentre si chinava e sedeva sui talloni.
Lei incassò la testa nelle spalle. «Ah--- sì, no... sto bene. Ma s-senti, Yamashita... dice sempre un sacco di-- frottole... quindi... non---».
Takeshi alzò le sopracciglia e sorrise, con dolcezza, proprio la dolcezza che mancava a tutta quella gente lì rinchiusa. «Non preoccuparti. So bene che Hokori non è capace di dire altro se non menzogne. E poi, neanche ti sono simpatico!».
«Già», disse lei e, sorridendo, abbasso lentamente lo sguardo. «Già».
Eh, già.
Eh, già. Le stava davvero antipatico quello stupido, non poteva essere altrimenti – soprattutto ora che stava facendo soffrire Yuki. In quei occhi talmente dolci e al contempo distruttivi, lei non è che si perdesse dentro, niente affatto.
E non è che stesse considerando l'idea di lanciarsi dalla finestra, certo che no, non diciamo sciocchezze fraintendibili.
Chiuse gli occhi e un singhiozzo scappò dalla sua bocca color bocciolo di rosa, facendola sobbalzare – sarebbe rimasta a terra ancora per molto? E proprio quando se lo chiese, dita bianche, sottili e lunghe, occuparono il suo raggio visivo e allora lei alzò un po' lo sguardo – finalmente –, incrociando quello raggiante di Takeshi, ora in piedi. Prese la mano che le stava porgendo, incerta, e si alzò.
Dopo successero altre cose.
Ma Sayumi non era sicura di aver realmente visto o sentito cosa accadde.
C'era Takeshi, , che si voltava verso Hokori e la rimproverava per le sue azioni sconsiderate e prive di considerazione per i desideri altrui; lei scoppiava a ridere, dicendo che non era rilevante – Takeshi alzava le spalle. Perché lo immaginava, evidentemente.
Però, si ricordò nitidamente di Yuki – le dita intrecciate davanti all'addome, osservava.
«E' tutto sbagliato».
Takeshi si girò appena. «Eh?».
«Tutto. Ogni cosa. Ogni mossa!». Abbassò le palpebre e le folte ciglia andarono a fare un po' di ombra poco più sotto gli occhi. «Siete.. siete degli idioti!». E boom, la goccia che fa traboccare il vaso.
Come un esplosione, un profondo mormorio di disapprovazione si legò nella classe e l'avvolse, trasformando la stanza in un'orchestra di caos e schiamazzi; e Hokori non era da meno, mentre aveva stretto i pugni e, gli occhi iniettati di indignazione, si era piazzata davanti a Yumi.
«Non mettermi alla pari con questi!», gridò – e indicò intorno a sé.
«EHI! Come ti permetti?!», esclamò una ragazza. Un ragazzo al suo fianco, rise sonoramente. «Come se tu fossi meglio!».
«Non ha tutti i torti, per alcuni!».
«Te incluso!».
La situazione stava degenerando. Ogni secondo che passava, ogni qualvolta qualcuno, lì dentro, dava sfogo ai propri pensieri – ecco che una carta di quel castello veniva tolta. E quel castello tremava, fragile, come avvolto in un tornado.
Sayumi, allarmata, si guardò attorno, cercando con lo sguardo Yuki e Takeshi; la prima era ancora immobile, con la freddezza di un giocatore d'azzardo, mentre il secondo scostava i ragazzi per andare incontro verso di lei.
E Hokori era ancora davanti a lei.
«Guarda cos'hai combinato», ringhiò. «Guarda! Stanno tutti litigando a causa tua! Cosa farai adesso, eh? Eh?!».
Purtroppo, non ne era nemmeno del tutto falso, ciò aveva detto; gli studenti non avevano ricorso alle mani per miracolo e, difatti, bastava una parola di troppo per far trascendere l'Inferno.
Questo stava accadendo perché non si era controllata.
«Sei tu che non la pianti di stare attaccata a Takeshi!».
Hokori sorrise. «Avevo ragione, allora... sei innamorata di lui».
«Smettila!». Aveva urlato – stava perdendo la bussola. Non era vero.
Non era vero!
E' vero!, strizzò le palpebre e chiuse le mani a pugni, serrati, inaccessibili, mentre il suo piccolo corpo da debole umana tremò.
«Non dirlo», mormorò a fior di labbra. «Non dirlo a nessuno».
Sul viso dell'altra apparì un sorriso; il sorriso inconsapevolmente perfido dei bambini quando mettono mano su ciò che desiderano, che sia un giocattolo, che sia una mano affettuosa – la diceva lunga sulle intenzioni di Hokori.
«Soprattutto a quella là», e indico Yuki col mento. La guardò per un po' – si era staccata dalla finestra e stava ascoltando Takeshi che parlava animatamente – quasi incuriosita, per poi riportare gli occhi su Sayumi. «Dovrebbe saperlo».
Rise, compiaciuta, mentre sotto gli occhi spauriti della rosa, lei si allontanò; ma non poteva accadere, la situazione non poteva regredire ancora o non ci sarebbe stata possibilità di... di aggiustare le cose.
Per questo, con uno scatto felino, Sayumi prese il passo per raggiungerla – afferrò il suo braccio e la tirò indietro. «Lei non... !», le parole le morirono in gola e deglutì. «... non deve saperlo!».
Spinta ad indietreggiare, Hokori fece effettivamente qualche passo indietro e serrò la mandibola, seccata. Non avrebbe lasciato distruggersi i piani da una patetica ragazzina dai capelli rosa – quindi riprese, strattonandosi.
«Hokori!», gridò Sayumi. Di nuovo, il suo corpo si mosse e stavolta, con più forza – con più determinazione – le sue unghie andarono a graffiare il dorso della mano dell'altra.
E finalmente, Hokori era fermata.
Ce l'aveva fatta – tirò un sospiro di sollievo. Se le avesse spiegato con calma cosa stava accadendo, era certa che Yamashita avrebbe capito in cosa si era cacciata e come stavano andando le cose. Sicuramente – o forse no.
Accadde – con un tale velocità da stordirla – un atto doloroso, di violenza; Hokori, posizionatasi di profilo, alzò il gomito e con un impeto lo spinse contro il petto di Sayumi. Forte, senza esitazione.
E la classe, dovette ringraziare il tonfo che lei fece, perché evitò una sospensione per violenza gratuita.
Nel silenzio di piombo, si sentì – toonf.
Takeshi si voltò.
E Yuki tornò viva.

 

 

 

***

 


 

Il suono di tacchi bassi risuonava, ritmico, scandendo il tempo – si era fermato. Come quando vedi un video o un dvd e, per un attimo, decidi di mettere un freno a tutto. In quello spaventoso silenzio, c'era lei che camminava piano, con i capelli argenti – simili a filamenti di ragnatele fulgide – si muovevano leggermente ad ogni suo passo.
Sarebbe stato tutto nella norma, nel suo aspetto, se solo-- se solo i suoi occhi non stessero splendendo di rosso.
Rosso fuoco, rosso bollente, rosso feroce.
Erano chini sulla figura in esanime di una giovane umana, la sua giovane umana, ed erano gravi, impegnati nella ricerca scrupolosa di ferite evidenti. Niente, non c'era niente, se non un mancamento di battito cardiaco e respiro – il suo petto si stava gradualmente alzando.
A seguire, colpi di tosse e la schiena che si alzava d'istinto.
«Ha ragione», disse la mezzosangue. «Siete degli idioti. E tu sei la regina degli idioti».
Hokori sussultò. «Oh. Akawa, ascoltami--».
No. Non voleva ascoltare nient'altro da lei. Non voleva vederla più. «Silenzio».
Come se il suo cervello di mezzosangue l'avesse registrato – o copiato –, eseguì l'identica mossa eseguita poco prima dalla ragazza, sfrecciando l'aria con il proprio gomito, ad un centimetro dal suo naso.
«Silenzio».
Sentì un lieve sospiro sfuggire dalla bocca di Hokori e sorrise; fulminea, spinse la gamba sinistra contro il suo fianco, con tutta l'intenzione di spaccarle qualche costola – ma lei indietreggiò, colta alla sprovvista, goffamente.
«Ridicolo», la schernì Yuki. «Credevi forse che ti avrei lasciata andare?». E un ghigno sadico si impossessò delle sottili pallide labbra. Oh, voleva ucciderla...
Voleva davvero vedere la sua faccia contorta dal dolore bruciante, il suo sangue scorrere dalla bocca, dal naso, dal collo – era suo dovere e piacere, mettere fine a Hokori Yamashita.
Seconda parte: scatto imprevisto e pugno carico verso la bocca del suo stomaco; Hokori aprì le mani a coppa e, davanti al proprio addome, cercò di fermarlo.
Yuki la guardò negli occhi, mentre sollevava il ginocchio e lo sferrava contro di lei. Un sussurro gelido... «... muori, Yamashita».
Hokori sgranò gli occhi e spinta via dalla pressione, cadde di sedere sul pavimento; sbuffò dalle narici e fece appena in tempo ad alzare lo sguardo, per vedere la mezzosangue ripartire alla carica ed evitarne il colpo.
«Take!», esclamò Yuki. «Porta Yumi al sicuro!».
Takeshi socchiuse le palpebre, respirando piano – era rimasto immobile. Non era né spaventato né sorpreso. La conosceva. Non l'aveva mai vista... combattere... ma conosceva il suo lato violento.
Quindi – annuì. Si gettò in mezzo alla gente, spaesata e perplessa, raggiungendo le tre ragazze e chinandosi su Yumi; purtroppo, di andare in infermeria non c'era possibilità, essendo le due porte bloccate da studenti spalmatici contro nel tentativo di fuga.
Si avvicinò al banco di Yuki e a quello affianco per far stendere con delicatezza la ragazza – sospirò.
«Hai ferito Yumi», sussurrò lei. «Hai ferito Yumi!».
E mentre la voce dell'albina si faceva via via più rabbiosa, più acuta, Takeshi scostava i capelli rosa dalla fronte di Sayumi, accuratamente attento – sentiva una curiosa apprensione, per lei.
Aveva le palpebre appena aperte e sembrava stesse cercando di mettere a fuoco la vista, come un neonato appena risvegliatosi da un torpore stordente. Stava bene. Stordita e dolorante, ma stava bene.
«Yuki!», esclamò Takeshi – e la mezzosangue si fermò. Si fermò, perché la voce che di solito restava su un tono basso e profondo, si era alzata e non capitava spesso – non capitava mai. E si era fermata.
Con le labbra serrate e il sangue che risaliva fino alle guance, gli occhi estranei. «Yuki, fermati. Non è importante, fare questo, adesso».
Hokori guardò verso il ragazzo moro, che aveva la testa china, che guardava quella sciocca insolente umana come se avesse davanti un cucciolo ferito. Con attenzione e tenerezza – che idiozia.
Però, anche se era un'idiozia, si sentiva male lo stesso.
Si sentiva male, a osservare quasi spaventata Yuki Akawa che non le prestava più l'attenzione dovuta; drizzava elegantemente la schiena e senza rivolgerle neanche un'occhiata – inferocita, d'ammonimento – si avviava verso i due umani – i suoi amici.
Quei tre insieme avevano qualcosa che schiacciava il dovere.
Il dovere di Hokori, era stato appena schiacciato.

 

 

 

 

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Capitolo 21
*** Quando un'amicizia diventa incomprensibile. ***


 

Pensavo che, oramai, sapessi tutto di te.
Ma riesci ancora a mettermi in difficoltà, bravo.

Yuki.

 

 

 

 

 

 

 

Quando un'amicizia diventa incomprensibile

 

 

 

 

 

 

 

 

La scuola era assorbita dal silenzio ovattato delle lezioni appena cominciate; anche mentre i tre scendevano in tutta fretta gli scalini e i loro passi facevano abbastanza rumore, sembrava che fossero rinchiusi in una bolla inscalfibile.
Erano usciti dalla 2-B prima che il professore di turno arrivasse – perché a quel punto uscire sarebbe stato molto difficile, specie per Takeshi – per catapultarsi del tutto fuori dall'edificio scolastico. L'idea era di accompagnare a casa Sayumi – personalmente.
Avrebbero potuto portarla in infermeria e lasciarla nelle mani della dottoressa, perfettamente capace, ma sia l'albina che il moro avevano preferito portarla a casa sua. Takeshi se l'era caricata sulle spalle – era a mo' di peso morto, Yumi – con un piccolo aiutino da Yuki: un calcio in sedere all'umana, per farla uscire dallo stato comatoso.
Beh, si era ripresa.
… e cavolo, se era spaventata! Tremante come una fogliolina sopravvissuta e ancora svolazzante, nell'aria gelida di Dicembre; si era aggrappata come un koala a Takeshi, stringendo morbosamente le gambe contro il suo costato e le braccia attorno al collo.
«Sof—soffoc---... soffoco!», aveva balbettato, lui, piegando un po' indietro il capo.
Altro calcio in sedere.
«Ma la pianti--- Yuki-chan!», sbottò Yumi. «Mi farai uscire lividi a quantità industriale!».
«E allora non attaccarti come se volessi risucchiargli la linfa vitale».
Ritorno violentissimo al presente, pesante come un masso delle piramide egizie; era dovuto, con molta probabilità, al tono ancora congelato della mezzosangue con un pizzico di preoccupazione gentile. Era già qualcosa!
Sayumi aveva staccato il busto dalla schiena di Takeshi e girato il volto verso Yuki, un paio di centimetri più addietro, con le braccia incrociate al petto – e poi, una brezza calda aveva scompigliato loro i capelli.
«State bene, voi due?», esclamò Yumi.
Takeshi batté le palpebre. «Noi stiamo bene. Tu, piuttosto, è un stato un colpo fin troppo forte».
«Sto... sto bene», sussurrò – mezza verità, mezza bugia, mezza volontà di parlare. Con delicatezza, era tornata a stringersi a Takeshi, alla sua schiena rassicurante e calda.
un secondo. Schiena?, pensò, mentre finalmente si rendeva conto di cosa stessero saggiando la tonicità, le sue gambe, di dove si era comodamente appoggiata col viso. Ricordava bene il colpo di Hokori al suo petto e la durezza del pavimento, quando era caduta, ma perché era sulle spalle di Takeshi Katugawa?
Dio, se ci fosse anche solo una ragazza della scuola, quanto l'avrebbero invidiata in quel momento! Cosa che, francamente, sarebbe stata solo molto molto imbarazzante. Quindi, meglio quella desolazione desertica.
Ci mancavano solo le balle di fieno.
«Comunque, posso camminare, Takeshi», disse, mentre spostava da una parte all'altra le iridi cerulei, imbarazzate.
Takeshi, nuovamente, sollevò il viso di un poco.
«Sei sicura?», chiese. E lei annuì nervosa – okay, aveva capito come stavano le cose. Evidentemente a Sayumi non piaceva essere portata sulle spalle, hm. Piano, lui si piegò sulle ginocchia, indebolendo gradualmente la presa sotto le cosce, fino a lasciarla completamente – il suono dei tacchetti gli indicò che era scesa.
Molto meglio, pensò lei. «E... come mai siamo fuori dalla scuola?».
«Ti stiamo accompagnando a casa», disse Yuki, guardandola di traverso.
«A casa?», ripeté l'altra, sorpresa – alzò le sopracciglia.
«Già».
«Perché... », ma decise di non dire altro e concentrarsi sul suono dei loro passi. Avrebbe voluto ricordare un po' meglio gli avvenimenti; prima che il suo cuore avesse perso un battito, rimembrava tutto, più o meno ma... dopo, era una coltre di fumo.
Però... però c'era qualcosa... Yuki, sì... risentiva la sua voce in testa, rabbiosa e viva, e poi qualche rumore sordo di qualcosa che si scontrava contro altro. E basta – sorrise, leggermente, mentre la guardava.
Camminavano fianco a fianco e lei, lei aveva quella camminata fiera, la stessa di una fata che non toccava terra – leggera e mistica.
Anche se, Yuki, era tutto eccetto una fata.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Riposati, mi raccomando».
Parole sbocconcellate, con la gentilezza di una mamma – da parte di Takeshi.
Erano già fuori dal negozio di fiori, quando Yuki sentì nitidamente i piedi di Sayumi salire le scale per il secondo piano, percorrere il corridoio e aprire l'ultima porta – la sua legittima camera. Meno chiaro fu il susseguirsi di suoni di lei che si metteva a letto, con la divisa.
«Direi che possiamo andare», disse la mezzosangue, mentre girava le spalle all'edificio e riprendeva la strada sul marciapiedi.
La residenza Akawa era molto più vicina alla scuola, rispetto a casa di Sayumi, che si trovava alla fine della salita – e discesa – e, girato l'angolo, ci si avviava verso il lato commerciale del paese; Yuki ci era stata sì e no cinque volte, quasi sempre per motivi scolastici o di acquisti essenziali, anche quando Sayumi l'aveva pregata di onorarla della sua presenza un pomeriggio.
E invece, Takeshi, ci passava molto più tempo del dovuto, con le sue poche amicizie – una volta, c'era stato anche con Kazuki – e, sfortunatamente per la madre, con una marea di ragazze, tutte diverse. Tutte pessime, tutte finte come un mazzo di rose di plastica, con la medesima bellezza e falsità.
Non era un problema per Takeshi, ai tempi. E adesso – esilarante, l'essere umano – solo l'idea era raccapricciante e nauseante.
Avrebbe rigettato ogni abbraccio, avrebbe vomitato ogni bacio, cucito le proprie labbra e le frasi dette a cuor leggero – ma per lo meno, non aveva mai detto quell'unica parola*.
E non si era mai chiesto se ci fosse una chissà quale ragione per questo, soprattutto perché non era certo di credere che, una volta arrivata la donna della sua vita, l'avrebbe detto tranquillamente e spontaneamente; era il tempismo? L'atmosfera? La passione?
Lento, sollevò il viso – e soffiò contro i ciuffi sugli occhi.
Il mantello del colore lunare oscillava ad ogni suo piccolo passo. «Yuki?».
«Sì?», mormorò lei.
«Posso farti una domanda?», mentre parlava, la raggiunse di qualche passo, per arrivarle di fianco. Lei spostò lo sguardo dalla strada per posarlo su quello cioccolato del moro. «Sono tutta orecchi».
«Beh... », perché lo stesse chiedendo a lei, non lo sapeva, davvero. «... hai... hai mai detto a qualcuno... ».
«... sì?».
«... a qualcuno... ».
«... ah-a?».
«... a--».
«Concludi la frase». Perdinci, nemmeno indirettamente riusciva a pronunciare quella melensa parolina? Eppure non era difficile, non stava certo rischiando la vit--- beh, se continuava così, forse l'avrebbe rischiata eccome. Lei stava già stringendo gli occhi – perplessa.
«”Ti amo”», disse lui, infine.
«Ero già pronta a prendere il cucchiaio... ».
«... sii seria, per favore».
Una risatina; una risatina perché era ambiguamente divertente vederlo imbarazzato così tanto; un'altra perché le loro conversazioni sembravano barzellette, a volte; l'ennesima, perché le andava di ridere insieme a lui, e sembrava stare bene, al bel moro; l'ultima perché, cavolo se faceva effetto sentirgli certe parole!
«Beh, ecco... sì».
«SI'?!».
«N-non urlare!», borbottò l'albina, stringendosi nelle spalle – e soppesando lo sguardo di Takeshi. A giudicare dagli occhi quasi usciti dalle orbite, non ci riusciva a credere. Si sentiva quasi offesa, mentre stringeva meglio il manico della cartella.
«Scusa ma-», s'interruppe, chiudendo la bocca e serrandola. «... è impensabile. Tu che non dici nemmeno un “Ti voglio bene” a Sayumi... hai detto un-».
Yuki batté le ciglia color carbone, allungando la sua curva più bella – un bel sorriso canzonatorio, decisamente divertito.
«L'amore si dimostra con le azioni, mica con le parole, caro».
Amore.
Quella tipaccia aveva provato amore! Che storia strana da sentire, davvero – l'avrebbe raccontata ai suoi figli per la buonanotte.
C'era una volta, una ragazza tanto fredda e crudele, frigid-- che sembrava incapace di provare affetto... quando invece, aveva già dichiarato il suo amore per qualcuno, prima del vostro papà, pensò il moro, corrugando la fronte in un espressione di puro imbarazzo.
Oh, Dio.
«E poi, che ne sai che non ho mai detto un “Ti voglio bene”?», grugnì, dopo qualche attimo, la mezzosangue, arricciando il nasino.
Lui rise, profondamente colpito dal cambio di faccia di lei, da quello spontaneo mostrargli come si sentiva – che rarità, wow. «Lo so!».
Lo sapeva.
stalker, era giustamente il pensiero di Yuki, mentre la brezza che c'era fino a poco prima cominciava a farsi più piatta e appena percepibile, come un soffio sul viso. Erano appena le otto e mezza di mattino e il cielo era talmente terso da poter intravedere un pezzo rotondo, pallido – un po' di luna.
Il sole non era molto forte, erano raggi timidi e debolucci, ma la luce in sé era abbastanza fastidiosa da costringere Yuki a chinare il viso. Adesso che si era accertata che Yumi stesse bene... «... me ne torno a casa». Incredibilmente, era riuscita a stargli accanto senza pensare nemmeno un po' a quel ponte – a quel bacio, a lei.
Ma in ogni caso, non aveva nessun motivo per continuare a stare lì, a camminare e chiacchierare con quella persona, scherzarci come se lui non avesse fatto niente di male – come se non stesse giocando con la sua mente. Non poteva, ecco.
Né voleva.
«Eh? Di già?», esclamò Takeshi.
«Di già, sì», rispose Yuki, evasiva. Poi, con un sospiro, aggiunse: «E' perché c'è troppa luce... ».
«Oh».
Oh, già! Diciamo pure che la storia della luce era una mezza verità, per il semplice fatto che un po' le dispiaceva – lui sembrava voler parlare ancora. E lei si sentiva con i nervi sottosopra, quindi... quindi era nel pallone più totale, dentro.
Accidenti. Un compromesso magari sarebbe stato... «Vuoi... », fa che non me ne debba pentire, cavolo! «... non so... accompagnarmi... ?».
E Yuki non seppe dire se era la già citata luce ad avergli illuminato così il viso o se era realmente felice di poter stare ancora un pochino con lei, anche solo nel tratto di strada, quei pochi metri che li separava dalla piccola cancellata. «Certo!».
Se era contento così, tanto meglio, giusto?


 

 

 

 

***

 

 

 

 

Enorme.
Ecco cosa c'era stampato a caratteri cubitali sulla fronte di Takeshi: ENORME.
E non era esagerato, dategli retta, sapeva distinguere qualcosa di grande da qualcosa di così gigante da essere sbagliato; davanti agli occhi dell'albina e del moro si ergeva una “casa” - se così poteva essere chiamata – di probabilmente tre piani, in uno stile architettonico Gotico, con colori prevalenti il grigio, il bianco e il nero e il tetto a puntoni; le finestre erano del medesimo stile architettonico, non lunghe come dovrebbero essere ma basse, quasi come dei quadrati, dai vetri lucidi e brillanti.
E più Takeshi piegava il capo per trovare la fine di quella cosa, più non la trovava. Curioso che fosse nascosta a quel modo, nel mezzo del bosco!
«Così ti si spezza il collo», lo ammonì lei, lanciandogli un'occhiatina. «E comunque, è meglio quella in montagna--... ».
«... hai una casa in montagna? Una specie di casa per le vacanze... ?», mormorò il ragazzo, davvero desideroso di aggrottare la fronte – ma non lo fece, un po' per rispetto, un po' perché a forza di farlo gli faceva male la fronte. Poi, spostò le iridi sulla... casa da ricconi.
«E' davvero bellissima. Chissà... com'è... dentro... ».
E lentamente, roteò lo sguardo su Yuki – e lei sbuffò. «... vuoi entrare? Ti offro qua---».
«Sì». In un netto secondo, Takeshi era già davanti alla porta a due ante di legno massiccio, una porta alta ed imponente, sapeva di antico: Yuki non capiva perché fosse così eccitato.
In ogni caso... «Cosa dovrei dirti se non “benvenuto a casa Akawa”?».
Aprì le porte.
Con la stessa grazia di un vichingo – ma le aprì; e non era proprio come Takeshi si immaginava l'interno di una super residenza come quella – perché di chiamarla casa, quella roba, non aveva davvero voglia – visto che aveva un qualcosa di spoglio e malinconico.
Un ampio salone era l'ingresso, con in fondo delle larghe scale che si separavano verso sinistra e destra, come due passerelle, coperte da tappeti rosso carminio. E proprio in quello che doveva essere il sottoscale, c'era un piccolo salottino: divano, due poltrone ai lati di quest'ultimo e un tavolino.
E svariate porte. Chissà cosa contenevano... !
«Fa presto!», esclamò Yuki – improvvisamente nervosa. «Non voglio che qualcuno ti veda... ».
Takeshi aggrottò la fronte.
Ma non è qui che dovrebbe esserci quella bambina rossa... ?, pensò, mentre seguiva Yuki e i suoi passi celeri, verso quella larga scala che aveva subito visto. «Qual è il problema? I tuoi sono fascisti?».
«Peggio». Yuki tossicchiò. «E poi... non vuoi vedere la mia camera?».
Okay, se lei pensava che Takeshi fosse talmente stupido da cascare in un diversivo come quello – … aveva fatto centro. Perché eccolo, con gli occhi prontamente fissi sulla schiena dell'albina, scalpitante. Certo che voleva vedere la stanza dell'albina, che domande!
«Allora andiamo», e lei gli fece un cenno con il capo, per incitarlo ad aumentare il passo. La stanza di Yuki era la seconda porta della passerella destra; una normalissima porta di legno scuro, talmente scura da confondersi nell'ombra che si gettava su quell'angolo.
E l'interno, con le finestre spalancate, era totalmente immerso nella luce.
Un bagliore che riempiva tutta quella grande – inutilmente grande – stanza dalle tinte chiare, tendenti al rosa molto chiaro e al bianco, una camera a metà fra l'adolescente e la ragazzina. Il ché era davvero strano per una come Yuki, che sembrava tutto fuorché una ragazzina.
«E' una stanza inaspettata», commentò lui, guardandosi intorno.
«Inaspettata?».
«Già. Mi aspettavo teste mozze che pendevano sopra il tuo letto-- oh, un baldacchino».
Yuki gli regalò un'occhiata rassegnata, le palpebre serrate e la bocca quasi incurvata – non si lamentava nemmeno. Per chi l'aveva presa, la Regina di Alice nel Paese delle Meraviglie? Che di meraviglie, in quel paese, non vi ne erano – per niente.
«Chissà dove Kukuri», mormorò la mezzosangue, dopo aver lasciato la cartella sul materasso. «Sparisce in continuazione. Mi ricorda qualcuno». E adocchiò il ragazzo.
«Chi è Kukuri?», chiese il diretto interessato, mentre si lasciava cadere su quel letto dall'aspetto invitante, a braccia aperte – e sospirò di beatitudine.
«E' la mia cameriera personale, una nanetta umana», disse Yuki, mentre sollevava le braccia verso l'alto e stiracchiava il suo corpo, un po' teso dal piccolo scontro avuto in classe. Anche lei sospirò – o meglio, sbuffò – e lanciò l'ennesima occhiata a Takeshi. «Vado a cercarla. Ho bisogno di lei. Tu non ti intrattenere inutilmente».
E allora, ricevendo solo una risata come mera risposta, era già lì a camminare verso la porta della sua stanza per uscirne. Aveva una gran sete e Hokori era l'ideale, a dirla tutta – ma...
Aprì la porta.
E andò a sbattere.

 

 

 

 

***

 

 

 

Chissà perché, ma se lo aspettava.
Conosceva Tetsuya. Anche da bambino si comportava in questa ambiguissima maniera; appariva da un momento all'altro, nei momenti meno opportuni, probabilmente alle spalle della gente – e le spaventava, cavoli!
E infatti lei si era presa un mezzo infarto, andandoci contro con tutta la spavalderia del mondo, battendo il viso contro il suo torace e sprofondando nel profumo della sua camicia nivea; e lui, come aveva reagito, se non allargando le braccia e prendendola al “volo”?
«Yuki?». Accidenti!
Immediatamente, l'albina si pietrificò, stretta dolcemente dalle lunghe e solide braccia del vampiro biondo – incapace di muovere un solo muscolo. Tecnicamente, doveva essere piacevole, quell'”abbraccio”, e invece sembrava solo la morsa di un ragno. «Tetsu--- lasciami! Lasciami andare– !».
E aveva urlato. Si sentiva presa da un estraneo: ancora una volta, si chiedeva chi diavolo avesse davanti agli occhi.
Che fine avesse fatto quel ragazzo che lei...
«Yuki! Che succede?!». Takeshi si era precipitato sulla porta, a qualche metro da i due – nel momento in cui Tetsuya scioglieva l'abbraccio. Non ci ha visti, pensò Yuki, col fiato in gola, non ci ha visti.
«N-niente», sussurrò. «Non succede niente. Che hai da urlare?».
Takeshi sbatté lentamente le palpebre, come se gli costasse fatica combaciare un microsecondo le ciglia superiori con quelle inferiori. «E lui quando è arrivato?».
«Proprio adesso», rispose il vampiro, incrociando le braccia al petto – quelle zampe di ragno. «E tu sei... sei... Takashi, giusto?».
«Takeshi!», ringhiò il moro – o quasi, diciamo che non era poi tanto brusco, lui. Ecco, se prima la presenza di quel vampiro biondo era irritante, adesso avrebbe voluto lanciargli una pala in testa e sotterrarle sotto l'oceano Pacifico. Ma questi son dettagli.
Mentre invocava questi pensieri poco buoni, vide Tetsuya piegarsi verso Yuki e rivolgerle un sorriso caloroso, un raggio di sole che si espandeva e faceva pandant con la stanza e la sua luminosità.
«Mi fai entrare?», soffiò contro il viso impallidito di lei – che annuì, silente. D'altronde, perché avrebbe dovuto lasciarlo fuori? A quanto diceva, lui era un suo carissimo amico di infanzia, sin da quando erano solo dei bambini – dei bellissimi bambini.
«Non ero ancora tornato in questa stanza», disse Tetsuya, guardandosi intorno. Si fermò davanti alla finestra, osservando un attimo fuori, con un sorriso tranquillo – per poi voltarsi verso Yuki. «E' rimasta uguale».
La mezzosangue camminò verso di lui – e Takeshi, lui preferiva restare vicino alla porta – con un espressione di sorpresa, mentre scuoteva languida il capo. «No no. Prima non avevo né il baldacchino né quella scrivania». E indicò entrambi.
Che strano, pensò lei, ha sempre avuto una memoria impeccabile.
Tetsuya non disse nulla, né diede l'impressione di volerlo fare; la guardava negli occhi senza un sorriso, senza sorpresa sul volto, solo agghiaccianti e impenetrabili occhi ametista – che poi spostò su Takeshi.
«Ascolta, Takashi», disse. «Voglio darti un consiglio: torna a casa e ignora tutto questo».
Istinti omicidi livello 8000, pensò il diretto interessato, facendo qualche passo verso di loro. Non aveva nemmeno dato peso a quello che il vampiro aveva avuto la faccia tosta di chiamare “consiglio”, quando sembrava semplicemente un ordine. Sembrava il tipo abituato ad impartire ordini e propri desideri.
«Perché dovrei fare una cosa del genere?», disse Takeshi.
Tetsuya sorrise. «Non è già ovvio? Io ho capito, Takashi».
«Hai capito cosa, Tetsaya?».
E con tutta la calma del mondo, Tetsuya parlò – piegando ancora una volta le labbra. «Senti, lei è innamorata di me».
Ora; avete presente il suono sordo e pesante del cuore quando cessa di emettere battiti, quando esso è attaccato ad una macchina? Quel suono disperante e incredibilmente spaventoso che ti blocca lì, a fissare la linea piatta. Ecco – lui si sentiva esattamente così.
«Non scherzare», e diamine!, si era detto di usare un tono di voce fermo e deciso, invece risultò persino un po' tremante – che razza di uomo era mai?
«Non scherzare!». Al secondo tentativo, sembrava almeno un'affermazione e non il piagnucolare di un neonato.
Però, era certo delle sue parole; perché lui non doveva scherzare su quelle cose: Yuki Akawa non si innamorava. Lei, proprio lei e nessun'altra, lo prendeva a calci, quel sentimento melenso, lo derideva, lo scherniva, era solo motivo di grasse risate, per lei – per questo lei non si era mai accorta di nullaPer questo anche quando era evidente, quella ragazza – quella non-umana – sembrava aver preferito voltare le spalle e dirigersi verso una strada buia, costellata dei suoi principi e pregna di sarcasmo.
Aveva ignorato.
E quindi; quindi questo vampiro non poteva dire frasi del genere e aspettarsi che lui fosse d'accordo, aspettarsi qualcosa, un «Sono d'accordo», perché no – non lo era.
«Non sta scherzando», soffiò Yuki – la causa di tutti i suoi mali.
E allora Takeshi capì: si ferivano a vicenda; che fossero sorrisi o frasi dette non curanti, che fossero baci non meditati. Eppure, nella voce acuta dell'albina ci aveva colto un po' di incertezza, una specie di ancora egoista. «E penso che dovresti... andare».
«Sì, adesso vado».
Cosa c'è? Perché non mi guardi negli occhi?, perché i suoi occhi guardavano da tutte le parti eccetto che nella direzione del moro? Qualcosa andava storto, dentro la mezzosangue immortale? Qualcosa si era spaccato?
Sette anni di sfortuna, Yuki Akawa, pensava Takeshi mentre- i suoi occhi guardavano insistentemente lei e solo lei, seppure sentiva su di sé Tetsuya – intralcio!
«Prima però... ».
«No, davvero, dovr---».
«Ascoltami, devi ascoltarmi, okay? Ne vale la pena».
E fece quei passi.
Non pensò, non indugiò. Inspirò e le parole fuggirono come farfalle variopinte.
«Yuki Akawa, sei la persona più brutale che abbia mai conosciuto. E fidati, di persone ne ho conosciute davvero tante. Sin dalla prima volta che ti ho visto, si capiva a vista d'occhio che avresti incenerito ogni essere vivente. Che sei cattiva, crudele, senza scrupoli. Che sei un tantino lunatica, che 27 ore su 27 sei di cattivo umore. Che mi odi.
E poi, che sei la persona di cui mi sono innamorato.
Yuki, io ti amo».
«... eh?».

 

 

 

 

* quell'unica parola: “Ti amo” si può dire in tre modi diversi; daisuki, a mo' di “mi piaci”; aishiteru, un vero e proprio ti amo più serio; koishiteru, detto raramente essendo una specie di: “Voglio vivere per sempre con te”, quindi ha un certo valore.

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL'AUTRICE:

Aaaaaaaaaaaaaaaaallora.
Sì.

Avrete notato che sto pubblicando ogni mercoledì – e sta volta ho saltato un giorno. :------)
Tecnicamente, ieri sarei pure riuscita a completarlo e poi a postarlo, ma... fai una cosa, dì un'altra e ho finito per non portarlo avanti TIPO PER NIENTE.
Scusate. Cvc

In ogni caso, spero vi piaccia~ … d'altronde, è il capitolo dove il Takkino alias Takeshi si dichiara, OMG. Ah!
Una cosa; avete capito che il “Ti amo” si dice in tre modi diversi, no? Quindi, secondo voi, Takeshi che cosa ha detto? 

 

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Capitolo 22
*** L'impagabile sensazione. ***


Il mio cuore è fatto di carta: scrivici quanto vuoi.

A Song.

 

 

 

 

 

 

 

L'impagabile sensazione

 

 

 

 

 

 

 

“Ti amo”.
Stavolta, poteva considerare la sua azione come un modo per schiarirsi le idee e non solo dare le spalle ad ogni cosa. Mentre sentiva quella parola* rimbombargli nelle orecchie e nella testa, correva in quella fitta foresta che circondava tutta la residenza Akawa e che quasi la opprimeva, la nascondeva. Correva, con i rami che picchiavano le gambe e sfrecciavano sulle parigine – salvava il viso per miracolo.
La testa, Dio se era nel pallone più totale. Offuscata.
Ti amo”.
E cos'era successo, dopo? Lei l'aveva guardato dritto dritto negli occhi, incosciente – senza parole. Boccheggiava, chiudeva e apriva le labbra, ma la voce era andata a nascondersi impaurita.
… impaurita? No. Non era impaurita. Ciò che sentiva ricolmarle il cuore era una strana sensazione, provata mai nei suoi sedici anni di vita, una percezione che le dava un nodo al gola – che la faceva sorridere. Mentre percorreva una strada senza meta, sollevava lo sguardo per incontrare quei raggi che illuminavano, fieri, che facevano capolino dalle chiome verde acceso di tutti quegli alberi.
Era davvero bello, lì – una natura che urlava di essere lì. «Ehi, dove stai fuggendo! Ehi!».
E quasi cadde, quando quella voce la colpì in pieno proprio dove non doveva – povero cuore massacrato – e la sorprendeva ancora una volta. Cavolo. Cavolo. Cavolo!
Non era pronta a guardare nessuno, figuriamoci il diretto interessato! E anche lui, non si sentiva in imbarazzo a rivolerle parole due minuti dopo averle detto--- … ah.
Ah.
«La smetti di... fuggire ogni... volta?», ansimava leggermente, mentre scostava con entrambe le mani i rami che gli finivano davanti. Aveva il viso un po' rosso – ma mai quanto la bella mezzosangue. Lei che era rossa. Lei sì che si confondeva col fiocco della divisa; cercava anche di nasconderlo, con il viso girato di profilo e le labbra storte in una smorfia di disappunto. Dannazione. Quella bellissima sensazione, la sentiva già come un vecchio ricordo, un qualcosa che le era passato davanti per mostrarsi in tutta la sua bellezza.
Yuki aveva capito, tutto qui.
«... pensi di rivolgermi la parola?», disse il moro, la schiena dritta e il palmo della mano destra sulla fronte. «Yuki. Non fare la bambina».
«Sparisci». Takeshi sussultò – oh. Riconosceva quel tono di voce gelido, capiva che quella era solo la punta della freddezza che poteva dimostrare: era parsimoniosa? No, certo che no... doveva esserci qualcos'altro che la spingeva ad essere ancora un po' “gentile”.
E poi--- “sparisci”.
Si morse il labbro inferiore, freneticamente, guardando un punto impreciso di Yuki stessa. «Non è molto carino sentirselo dire... dopo... una dichiaraz---».
«Vuoi che ti spedisca a casa tua a calci in cu--».
«Yuki Akawa, qual è il tuo problema con me?». Takeshi l'aveva interrotta, con lo sguardo, con la voce – con sé stesso. Doveva ascoltarlo. Ma lei stringeva i pugni e non era un buon segno. Li stringeva, perché se apriva le mani desiderava solo strozzarlo – prendere la sua gola fra le dita.
«Sei TU! Tu e le tue menzogne! Dovrei ucciderti qui, sul posto, ora! Tu, le tue dichiarazioni finte e i tuoi biglietti della malora!».
«Di cosa stai parlando?! Sei ammattita!».
«Ah, quindi il famigerato gentlemen fa il codardo e non ammette le proprie azioni! Il biglietto, punto!».
La verità era che non riuscivano ad incontrarsi; quasi fossero dei bradipi impigriti dalla vita, non avevano nessuna intenzione di percorrere quel tratto di strada che avrebbe fatto inesoraiblmenete incrociare le loro vite, le loro scelte.
Preferivano starsene così: con i pugni chiusi e l'anima a soqquadro.
«Immagino sia stato esilarante invitarmi lì! Immagino che non avessi niente di meglio da fare!». Urlava lei, urlava perché nel bosco non c'era nessuno. Ma le sue urla da sole non bastavano a spaventare quello sciocco umano che si era divertito così tanto a deriderla, a farle credere il meglioE lui non si capacitava di cosa stesse sentendo, non riusciva nemmeno a capire di cosa quella pazza isterica lo stesse accusando; biglietto? Quale biglietto? Quale invito?
Eppure, di tanto in tanto, l'aveva scorta, quell'adorabile e imbarazzante affinità – fra di loro, fra i loro sorrisi.
«E poi... per quale motivo, eh? Perché? Per farmi vedere come sei bravo a baciare? Non avevi di ché disturbarti. Me lo sentivo da sola. Oh, Takeshi, quanto ti odio!». 
Odio.
Amore.
Amicizia.
C'era qualcosa di importante, fra quelle cose? In quel momento – era palese un no.
«Idiota! Ti ho detto che non l'ho scritto io! E per l'amor di Dio, mi ha baciato lei!».
«E chi diavolo l'avrebbe scritto, allora?! Adesso vengo lì e ti stacco---».
E se Takeshi avesse detto un'altra cretinata delle sue, davvero che avrebbe usato le mani.
Davvero. Per questo, quando sentì quella voce – si sentì morire un po' dentro, subito dopo.
«Sono stato io».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Ed eccolo lì, che si ergeva in tutta la sua imponenza – quel grande punto di domanda, accompagnato dal “perché”.
La voce era giunta alle sue spalle, passi felpati sull'erba e su vecchie foglie rimaste a marcire, sorprendendola, scuotendola all'interno. Takeshi fissava – a qualche metro di distanza da lei – con lo sguardo allibito e, allo stesso tempo, vagamente consapevole.
Lo sguardo di chi pensava: «Quindi era come pensavo». E rabbia.
Tanta rabbia.
Dalla prima volta che aveva incrociato il suo essere per strada, aveva capito che sarebbe stato un rapporto di odio e competizione, di rivalità insostenibile, di dolore e di paragoni – di sconfitte e vincite. I suoi capelli biondi vennero mossi appena dalla brezza pre estiva.
«Sono stato io, Yuki», ripeté.
«Tu... », boccheggiò, la mezzosangue, con le mani accaldate e aperte, con le palpebre che si chiudevano e aprivano in continuazione. Sentiva gli occhi dolerle. «Tetsuya... cosa vuol dire?».
Il vampiro chiuse gli occhi meccanicamente, inspirando dalle narici ed espirando dalla bocca pallida. «Che ho scritto io quel biglietto».
«E io, l'ho portato lì e poi baciato nel momento in cui sei arrivata».
Uno shock dopo l'altro. Ecco, un'altra apparizione dal nulla, proprio mentre Yuki e Takeshi cominciavano a capirci qualcosa – Hokori fece qualche passo per uscire da un gruppetto di alberi vicini l'un l'altro.
Yuki si rese conto che il suo livello di distrazione – in quel momento – era davvero alto, se non si era resa conto della presenza di quella ragazza; Yuki si rese conto di volerla uccidere nei modi più cruenti che i suoi poteri le permettevano; Yuki si rese conto che il suo migliore amico le aveva fatto un torto doloroso, molto doloroso.
«Perché?». Fu Takeshi a parlare, ad anticipare l'albina – lei lo guardò. Malinconica, dispiaciuta. Era sta un po'... affrettata, fra le tante cose. «Spero abbiate buoni motivi».
Hokori avanzò di altri centimetri, accorciando con cautela la distanza fra lei e i due ragazzi. Guardava le proprie punte dei piedi, così come Tetsuya. Quell'umana, era preoccupata della loro reazione? Ah, effettivamente, era più che giusto.
«Io sono una cacciatrice di creature sovrannaturali», spezzò il silenzio, guardandoli. «Una principiante, sia chiaro».
«Una... cacciatrice di creature sovrannaturali?», disse Takeshi in un sussurro esterrefatto. “Cacciatrice”.
Il resto della frase gli era chiara, ma una cacciatrice... ?
«Significa che mi sono allenata da quando avevo dieci anni nell'uccisione di creature non-umane ritenute pericolose», spiegò. La voce era apatica e, in lontananza, solo il sommesso rumore della macchine dava un po' di realtà a quella situazione fuori dal comune.
Silenziosamente, Takeshi non si capacitava di cosa stava vivendo.
Una vampiro, una cacciatrice di creature sovrannaturali, una mezzosangue e poi c'era lui, un semplicissimo umano dal bel viso.
E ora, perché si trovava lì? Giusto.
Perché si era innamorato di quella mezzosangue, si ricordava il giorno in cui l'aveva incontrata come se fosse ieri; la sua camminata fiera e composta, i suoi capelli liberi e fulgidi, i suoi occhi ornati da ciglia nerissime, il suo raro e vero sorriso fare capolino dalle solite espressioni imbronciate. Il suo modo di prendersi cura di Sayumi e come la proteggeva, con occhiatacce, con abbracci possessivi – e buffi. La sua voce alta e viva. «Sei qui per me?».
«Più o meno, Akawa».
Era strano come l'albina non avesse pensato nemmeno per un'istante che si trattasse di Tetsuya. Sembrava completamente certa che lui fosse inoffensivo o... che lei fosse ritenuta un pericolo.
«Cosa significa?», incalzò Yuki, i pugni stretti – di nuovo... ma per un'altra ragione e un altro ragazzo. Hokori una cacciatrice... talmente giovane e già le sue mani erano state macchiate di sangue. L'interessata sollevò lo sguardo da loro per spostarlo in quello sfuggente di Tetsuya, rivolgendogli un sorriso sornione.
«La tua famiglia, Akawa, la tua famiglia. Mi hanno contattata e... chiesto un piccolo favore», stava tergiversando o cosa? «proprio su di te. Ti hanno scoperta, Akawa: hanno scoperto di te e questo ragazzo». E indicò Takeshi con il mento.
La famiglia di Yuki avrebbe- ma non aveva senso, soprattutto perché tra i due – sfortunatamente – non c'era nulla. Niente che potesse considerarsi... decente.
«Di cosa stai parlando?», chiese Takeshi, puntando gli occhi scuri e gravi sul vampiro biondo – non accennava una parola, una mossa. Era come una statua di sale.
Si comportava sempre così, quel tizio, come uno specchio neanche in grado di riflettere. E Hokori sospirò, nel suo solito modo di fare teatrale, battendo le palpebre come se non si capacitasse di ciò che avesse davanti. «Quello che ho detto... la famiglia della tua cara albina mezzosangue ha scoperto i sentimenti che provate l'un l'altra. In che lingua devo dirvelo?».
Silenzio.
E tanto per cambiare, shock.
Sentimenti che provavano l'un per l'altra?
Assurdo. Proprio poco fa, lei gli aveva urlato di odiarlo – quella ragazza si stava sbagliando, decisamente.
«Guarda che---», e Takeshi si fermò. Oh, accidenti. Yuki era, se possibile, addirittura più rossa di prima: stava avviandosi per il porpora. Oh, accidenti!
Stringeva le labbra in una linea stretta e impenetrabile e teneva gli occhi spalancati ma distanti, non osava incontrare lo sguardo di nessuno – se non quello di Hokori. La guardò, corrucciò la fronte scarlatta. La maledì col pensiero.
«... e-eccola, la mentecatta più grande del mondo. Mi dispiace che tu sia salita al primo posto e abbia spodestato Take--- Katugawa, peccato... ».
«Yuki». Era arrivata a tre infarti? Ah, no, quattro! Quello era il quarto: Tetsuya che riprendeva l'uso della parola e la usava per chiamare il suo nome. “Yuki” - con un tono che nemmeno riconosceva. Lo stesso tono apatico delle macchine da guerra.
«Yamashita è stata chiamata qui dalla tua famiglia per tenerti d'occhio. Per... ». Tetsuya guardò il moro.
«... per lui?», sussurrò, la voce spezzata, Yuki. Aprì le labbra e puntò anche lei lo sguardo sull'umano. Chiuse gli occhi, li strizzò, sperando che quando li avrebbe riaperti – tutto un sogno, svanito come nebbia e fumo. «Vi ripeto che non c'è niente. Niente».
«Fatto stà», Hokori alzò le spalle. «che gli Akawa mi hanno chiamata. Nella fattispecie, tuo padre».
Quello là?, pensò l'albina, sgranando ancora una volta i grandi occhi oro. Suo padre aveva deciso di interferire nella sua vita, in tutti gli ambiti, all'improvviso? Senza darle nemmeno un qualche tipo di avviso, niente di niente, aveva semplicemente agito.
«E non hanno chiamato solo me», aggiunse la cacciatrice. «Anche... ».
Allora, Yuki si concentrò su Hokori e sulla direzione delle sue occhiate. Si sentì gli occhi pieni di lacrime. Si sentì tradita; quella persona che l'aveva rassicurata, che le aveva detto molte, troppe volte, quanto fosse coraggiosa, quanto dovesse credere in sé stessa; la persona che considerava parte di sé: l'aveva tradita.
Tetsuya Tanigawa l'aveva tradita.
«Dovevamo, io e lui, come dire... allontanarvi. Non dovevate più provare niente. Non dovevate vedervi, sentirvi. Tornare alle vostre vite, separatamente».
Yuki strinse i pugni e chinò il viso in avanti. Sentiva Hokori, era certa che lei la stesse osservando, e chissà, se la rideva anche! Era divertente, immaginava l'albina, mentre le unghie si conficcavano nei palmi bianchi.
Dannazi--, e i pensieri della mezzosangue sentirono un forte tonfo. O meglio, le sue orecchie.
Il tonfo di qualcosa di particolarmente forte che colpisce qualcos'altro, un viso forse – un colpo abbastanza violento da spingere via. Alzò di scatto il viso, in tempo per vedere Tetsuya indietreggiare contro un tronco per un pugno.
Takeshi agitava la mano destra, le nocche leggermente arrossate. «E voi vi siete immischiati nelle nostre vite. Avete obbedito come bravi cani quali siete e siete venuti qui, ad allontanare due persone che, fino a prova contraria, non avevano niente contro di voi. Non vi è importato di niente. L'importante era portare a termine la vostra missione, vero?». Un respiro. Lungo e pregno di pesanti sensazioni.
«Andate al Diavolo».

 

 

 

 

***


 

 

 

Avevano parlato.
Avevano parlato per forse un'ora, se non di più. Era stato un discorso lungo, doloroso e gremito di verità che l'albina stentava a voler credere. Tetsuya era restato immobile ai piedi di un albero, seduto, quasi fosse in punizione – la guancia solo leggermente rosea: Hokori spiegava e Yuki e Takeshi ascoltavano.
La cacciatrice riusciva a mantenere un tono fermo per puro miracolo – a volte, si incrinava. E Yuki vedeva le espressioni spaesate e incredule, a tratti indurite, dell'umano dagli occhi scuri; era certa – ormai conosceva i suoi pensieri – che Takeshi fosse quasi spaventato dal modo di fare di... quelle persone. Lo leggeva proprio nei suoi occhi, il sperare in un: «E' tutto uno scherzo!».
E invece, seguirono solo sguardi cupi e colpevoli.
«Perché ci hai detto tutto questo?», aveva chiesto Yuki, piano. Hokori aveva socchiuso le palpebre, sospirando – o sbuffando, non si capiva molto.
«Volevo... volevo fare qualcosa per rimediare», disse. «Non dovevo fare ciò che ho fatto. Mi dispiace, a tutti e due... mi dispiace di averti baciato, Takeshi-kun».
La mezzosangue aveva sorriso, un esplosione di rara dolcezza e comprensività.
Poi – poi aveva guardato Tetsuya.
Adesso lei riusciva a spiegarsi tanto.
Adesso, poteva aggiustare tutto.

 

 

 

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Capitolo 23
*** Le omissioni vengono a galla. ***


 

 

Bentornato a casa.

Yuki.

 

 

 

 

 

 

 

Le omissioni vengono a galla

 

 

 

 


 

 

Stentava ancora a crederci.
A questo punto, poi, si chiedeva se non era meglio che avessero fatto tutto di testa loro, Tetsuya e Hokori, senza che- non riusciva a spiegarselo. Insomma, sapeva come quella persona aveva fatto – conosceva il modo, ma non sapeva metterlo in pratica – ma... era doloroso. Ma Yuki avrebbe dovuto aspettarselo. Perché conosceva il suo carattere, sapeva che tipo di persona era e che, se qualcosa non andava bene, la cambiava a suo piacimento perché così doveva essere.
E improvvisamente, quel dolore, venne sostituito dalla furia cieca.
«Restate qui, è meglio che ci vada da sola», disse l'albina, appena raggiunto il luogo esatto.
Esatto, ci avrebbe pensato da sola – come sempre – ma non perché reputava inutile l'aiuto degli amici bensì perché erano affari di famiglia. E chi avrebbe dovuto pensarci, se non un componente di quella famiglia? Seppure si sentisse male a rendersene conto.
In tutta la communitià sovrannaturale era ben noto l'astio della mezzosangue verso i propri genitori – e se la ridevano, era divertente, vero?
«Come vuoi», disse Takeshi, con un cenno di testa – alle sue spalle, Tetsuya e Hokori. L'albina si girò quanto bastava per poter guardare in viso tutti e tre, squadrare le loro espressioni: un misto di preoccupazione e determinazione – e sorrise.
«Mi potrai perdonare?». Sussultò. Era stato Tetsuya a parlare, con la sua voce carezzevole ma leggermente spezzata dal senso di colpa – evidentemente –, il viso inclinato un poco in avanti. Fissava ovunque, eccetto gli occhi dell'amica. «Vediamo», sussurrò Yuki. «Lo scopriamo adesso, no?».
E Tetsuya si costrinse ad annuire – e Yuki aprì la porta che aveva davanti.
Non entrava molto spesso in quella stanza, più perché quell'ammasso di colori romantici e zuccheresi erano un pugno in occhio per una come lei – il rosa, lo detestava –, monocromatica e lilla. I muri rosa e le tende di lino, rosse, che nascondevano la forte luce che filtrava, bene o male, dai vetri: il sole di Maggio era insopportabile, non c'era che dire. E quelle tende non andavano bene – essendo poco coprenti – per l'abitante di quella stanza, debole ed esile alla luminosità.
Però, come si faceva a rinunciare a quel calore talmente piacevole che ti riscaldava la pelle, che ti splendeva il viso e dava quell'atmosfera di sogni? Era impossibile. Ed era proprio per questo che, nonostante i rimproveri, gli avvertimenti – le minacce – Ai Akawa era seduta con il sedere sui talloni, al centro del tappeto davanti al proprio letto, ove la luce batteva insistente e fulgida.
I suoi capelli rossi, lisci sulla piccola schiena, erano belli quanto un tramonto. «Sei... arrabbiata, Onee-chan?».
Yuki non rispose – camminò fino al tappeto. Si piegò sulle ginocchia per poi poggiare quest'ultime a terra e posare una mano, sospirando dolcemente, sui capelli della piccola mezzosangue – aveva lo sguardo colpevole.
«Non sono arrabbiata», disse l'albina. «Sono ferita, che è ben diverso».
Le palpebre che celavano le stesse iridi della sorella ebbero un fremito – aveva ferito sua sorella maggiore, l'unica sorella che possedeva. «Io non volevo-- ferirti... !».
«Però lo hai fatto. Te ne rendi conto?».
Ai strizzò gli occhi e li spalancò – puntandoli come fari in quelli di Yuki. «Volevo solo proteggerti! Quella scuola umana, quell'umano- ti stanno distruggendo e nemmeno te ne accorgi! Pensi che potrei lasciarti andare così?!».
Yuki trattenne il respiro.
Nessuno poteva distruggerla. Nessuno poteva avere l'ardire di minacciare il suo organismo – perché lei, , voleva anche lei proteggere. Tenere a bada i propri sentimenti per preservare le vite dei suoi cari: aveva dei cari, questa era nuova!
Doveva dire di amare le persone che aveva intorno – sua sorella era l'esempio in persona. E adesso ce l'aveva davanti, con le mani piccole piccole chiuse in pugni ancora più minuscoli e il capo incassato fra le spalle – gli occhi lucidi.
«Ehi», sussurrò Yuki. «Chi sono io?».
Ai singhiozzò appena, sottovoce. «... mia sorella maggiore... ».
«Esatto!», e quasi urlò, probabilmente aveva persino spaventato gli altri fuori dalla stanza – ma voleva rendere il concetto. Posò i pugni sui fianchi, mentre stendeva le gambe ed era nuovamente in piedi. «Esatto! E nessuno, ripeto, nessuno può scalfirmi!».
«Ma», Ai tirò su il volto per guardare la sorella, dal basso. «ma tu... tu sei stata così male, quando quel Takashi e l'altra idiota si sono baciati! Stavi così male!».
«Non urlare---!», e ci mancò poco che l'albina assaltasse la bambina e le tappasse la bocca con il peluche a pois – e che cavolo! Se Takeshi avesse sentito... «Sì, è vero», e fece qualche passo indietro, respirando lentamente. «è stato doloroso; forse è stato soprattutto perché mi hanno spiegato cos'è un bacio e cosa accidenti c'è di bello, di così emozionante... quando li ho visti, quella spiegazione mi è tornata in mente. E mi sono sentita davvero male. Mi sono sentita morire un po' dentro».
E la sua schiena aveva ormai toccato il legno scuro della porta – che importanza aveva, alla fin fine, se sentiva? Era sincera.
«Ma Ai», puntò lo sguardo a terra – con il sorriso più mesto del mondo. «tutti soffrono. Tutti vengono feriti, inconsapevolmente o consapevolmente, persino da chi pensiamo di poterci fidare. E' una delle tante stupide regole del mondo. Ma credi che, per ogni ferita, noi dobbiamo per forza lasciare tutto? Dobbiamo per forza restare a terra?».
Ai era ancora una bambina di appena dodici anni, Yuki ne era consapevole: una bambina con la mente di un'aristocratica. Forse, quelle parole non avevano nessuno effetto su di lei; magari stava persino dubitando della sanità mentale della sorella maggiore o, peggio, stava perdendo l'ammirazione che provava per lei – la fiducia.
«Quindi Ai, per farla breve», sussurrò – guardandola negli occhi del medesimo colore.
Il loro specchiarsi era un riflesso di dolore color ambra. «Io sono indistruttibile, perché mi rialzerò ogni volta».

 

 

 

 

***

 

 

 

"Marionetta": il potere che permette di prendere in possesso il corpo e la mente della vittima – il potere di Ai Akawa, secondo genita della famiglia Akawa. Essendo le abilità un qualcosa che si sviluppa con il tempo e non un pezzo del dna dei propri genitori – i poteri erano passabili solo da antenato a discendente – che viene trasmesso, nessuno si era mai fatto domande, né si era chiesto perché Ai fosse l'unica ad avere un potere psichico.
E se qualcuno pensi che non sia pericoloso – si sbaglia. Di grosso.
E la risposta stava proprio in ciò che accadeva, ora, in quella stanza dai colori confetto; dopo la chiacchiera delle due sorelle, l'albina aveva chiesto il permesso alla minore di far entrare gli altri e concludere la cosa una volta per tutte. Doveva farlo; aveva fatto parlare, muovere e pensare a suo piacimento quella persona per troppo tempo.
Allora, Ai aveva annuito – ed eccolì, tutti seduti su quel tappeto.
«M-ma non sarà arrabbiato... ?», mormorò Ai, mentre alzava timidamente la mani.
«Tetsuya non si arrabbia mai», disse Yuki, sorridendole. «Andrà tutto bene. Fidati di me».
"Andrà tutto bene", erano le parole magiche che le sussurrava ogni volta che qualcosa non andava – e puntualmente, tutto si aggiustava. Come un vecchio orologio che aveva smesso di ticchettare.
Ad Ai, dopo, era bastato abbassare gli occhi per muovere il collo del vampiro biondo ed imporgli di chinare la testa – bastava così poco! Con le sottili dita sulle sue tempie, risollevò lo sguardo.
E Takeshi e Hokori osservavano col cuore in gola cosa stava accadendo: era senza senso, eppure stava funzionando. Poteva pure sembrare una messa in scena, una menzogna, ma almeno Hokori era certa che tutto questo era reale. Che i vampiri e i demoni possedevano poteri fuori dal comune, privi di senso logico.
«Chiedo il tuo perdono, lo chiedo con il cuore trafitto. Chiedo che tu sia libero», sussurrò la bambina – e calò un silenzio pesante. Palpabile, appena respirabile – soffocava i polmoni dei presenti.
Quanto tempo passò prima che ci fu un segno di vita? Sembrarono minuti lunghi e inesorabili – quando invece passò appena un minuto. Uno scatto e il suono di qualcuno che tornava brutalmente a respirare, quasi fosse riemerso dalle acque più gelide del mondo. La testa bionda era sollevata e lo sguardo rosato disperso, spaesato a spaventato.
«Tetsu-».
Yuki si spospinse verso di lui, toccandogli la spalla: lui era rimasto indietro nel tempo.
La sua mente era stata bloccata a quando era arrivato nel paese ed era giunto fino a casa Akawa – e poi, era stato ingannato e catturato. Il suo agire era stato sotto il comando di Ai per tutto il tempo e, adesso, quel vampiro dagli atteggiamenti sicuri di sé era spaventato – fin quando il suo sguardo non incontrò Yuki.
La sua cara Yuki...
«... Yu... », persino il tono di voce aveva qualcosa di diverso – era come riscaldato.
«Sì, sono io», soffiò la mezzosangue – sorridendo, a quel nomignolo. Era Tetsuya. Si ricordava persino di quel nome che lui le aveva dato, subito dopo quel fatidico e bellissimo "ciao!", subito dopo le presentazione. E subito, erano diventati indispensabili l'uno per l'altra – Yuki gli prese la mano. «Va tutto bene. Ora va tutto bene!». E gettò un'occhiata ad Ai, chiusa a riccio nelle sue spalle. «Ai?».
Ai si morse il labbro.
Doveva fare la cosa giusta, ancora una volta!
«Mi dispiace... di averti... manipolato. Non volevo- non volevo fare niente di... », e si tappò la bocca, stringendo le labbra in una linea bianca. Poi, volse gli occhioni su Hokori e Takeshi, con un piccolo cenno della testa. «Mi dispiace aver minacciato tuo padre di perdere il lavoro, Yamashita. E mi dispiace di aver sbagliato il tuo nome, Taka--- Takeshi... ».
Avrebbe voluto aggiungere qualcosa. Soprattutto per quel ragazzo che, doveva riconoscerlo, era davvero carino – comunque, tacque, aspettando la sua sorte.
«Scuse accettate», sorrise Tetsuya, sollevando piano una mano per carezzarle il capo, con gentilezza, con amore. Eccolo, il vero Tetsuya Tanigawa, l'emblema stesso della pacatezza – della cortesia, gentilezza. Non ce l'aveva con la mezzosangue, anzi. «L'importante è che d'ora in poi userai con giudizio il tuo potere».
Ai si trattenne dal sorridere, mentre, stranamente, le guance prendevano un po' di colore. Era imbarazzante, per lei, essere trattata così – come un adorabile tesoro dei mari.
«Non è grave, sbagliare diecimila volte un nome», disse Takeshi, sperando davvero che alla prossima volta sarebbe stato chiamato nel modo giusto.
Lo sperava davvero. Hokori tossicchiò. «... più grave è mandare una famiglia sul lastrico... ».
«Cosa che non è successa, giusto, Yamashita?», e Yuki ghignò.
«Giusto», confermò la cacciatrice – aggrottando la fronte. Yuki sorrise, rilassata.
Era particolarmente piacevole starsene lì, su quel tappeto, a parlare e chiarire i malintesi, i "litigi", i pensieri: si sentiva bene. Si sentiva sospesa fra le nuvole più soffici del mondo etereo. Avrebbero potuto restare così per tutta la vita, Sayumi inclusa.
«Oh, ma», Tetsuya spostò lo sguardo su Takeshi e Hokori. «... voi chi siete?».
Appunto, pensò l'albina, inarcando un sopracciglio – e ridacchiando. Ci avrebbe scommesso la testa!
«Vuoi dire che... ?».
«Cosa?».
«Non ti ricordi di noi?».
Tetsuya scosse lentamente il capo, battendo le ciglia come se fosse stato appena svegliato da un sonno interminabile. Yuki roteò le spalle, cercando di sgranchirsi – e parlando. «I suoi ricordi sono fermi a quando è arrivato qui. Quindi tutto ciò che ha visto e fatto è nei ricordi di Ai».
Naturalmente, la spiegazione era assurda, così come tutto il resto; se dovevano dare una logica, forse, potevano anche pensare all'ipnosi classica, ma... come poteva essere che i ricordi del vampiro erano in quella bambina dall'aspetto angelico e il carattere di un Diavolo?
«Beh», Takeshi corrugò la fronte. «Io sono Takeshi Katugawa».
«E io Hokori Yamashita».
Chissà se dovrei dirgli che, in sostanza, l'ho desiderato morto, pensava il moro, mentre guardava il viso confuso e interrogativo del diretto intereressato – adesso annuiva e sorrideva, quello lì. Adesso aveva un ché di carino.
«Capisco. Mi presenterei, ma immagino non ci sia il bisogno, vero?», disse. E gli altri fecero dei cenni con la testa, sorridendo appena o ridacchiando. «Andate tutti e tre a scuola insieme, vedo dalle divise».
Ah, già. Sia Yuki che Hokori avevano indosso ancora i vestiti della scuola, così come Takeshi; con la differenza che Yuki e Hokori avevano gli stessi abiti, identici, per ovvi motivi. L'albina tamburellò le dita nivee sulle gambe abbracciate dalle parigine nere.
«E' strano che Yu si sia iscritta ad una scuola umana», disse Tetsuya, pensieroso.
«Ah ah, già, beh, non... non avevo niente di meglio da fare. E poi, ti stavo cercando», mormorò la mezzosangue – ricevendo un'occhiata dalla sorellina minore.
Naturalmente, si erano capite benissimo: lei non aveva più ragioni di restare in quella scuola.
Perché era esattamente come Yuki aveva detto, lei era andata in quella scuola perché Tetsuya, che era dato per disperso – per ragioni ancora ignote –, era stato avvistato da quelle parti. E allora, ignorando ogni cosa – ci era andata.
E adesso, doveva andarsene.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Una mezz'oretta più tardi, Takeshi, Tetsuya e Hokori se ne andarono – anche se, per come stava progredendo la chiacchierata, sarebbero rimasti anche di più – lasciando tornare in quella casa il suo alone di mistero e freddo.
Un po' Yuki stentava a credere che tutto era risolto, che il suo migliore amico era tornato come lei lo conosceva. Nessun cruccio né dubbio, tutto filava liscio. Mentre scendeva le scale e arrivava nell'ampio salone dell'ingresso, persino canticchiava, chiedendosi di cosa avrebbero parlato domani; chi avrebbero incontrato, cosa sarebbe accaduto, quanto avrebbero pregato perché la giornata scolastica finisse.
Quante volte Takeshi le avrebbe sorriso e-- un secondo.
Un secondo, un secondo, un secondo; solo adesso che si era fermata, che aveva dato il permesso alla sua mente di rilassarsi, quando fu sola ci pensò davvero – un secondo.
Se quel biglietto l'aveva scritto Tetsuya sotto l'effetto del potere di Ai, se Hokori era andata lì nel momento in cui era arrivata l'albina... se tutto era stato calcolato da Ai e Oseroth, dalla sua famiglia... questo significava che... ?
Non c'era niente di falso nelle parole di Takeshi, lui è davvero..., deglutì, mentre stringeva le mani, sudate a nervose – oddio.
Takeshi era innamorato di lei.
Oddio, pensò ancora. E in un battibaleno, tutto il suo viso si era colorato di rosso cremisi, un rosso imbarazzante e preoccupante, mentre stringeva le mani a pugno, abbastanza forte da far sbiancare le nocche, da sentire nitidamente il sudore.
Questo è... quando, come--- perché!, e non riusciva a darsi una risposta perché per lei, tutto questo, era impensabile, irrealizzabile. E stava impazzendo – sentiva la testa confusa.
Sentiva le gambe pesanti come macigni, la testa ciondolare per tutto l'accumolo di pensieri e, ora, persino un lacerante mal di testa.
Ci stava pensando troppo, era meglio smettere e rilassarsi; quindi alzò con calma lo sguardo, quasi ogni movimento potesse aggravare la situazione, ritrovandosi a guardare le scale che portavano alle passerelle – sembravano così distanti.
E allora, siccome la strada appariva lunghissima, cominciò a camminare – e cadde sulle sue stesse ginocchia.
Cadde ancora, cadde a terra, battendo appena il capo contro il duro e ghiacciato marmo grigio – cadde come un fiocco di neve.
E le sue palpebre si chiusero. 

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Capitolo 24
*** Le divergenze della debolezza illogica. ***



 

Voglio essere un eroe, un eroe con gli occhi rossi.

A song.

 

 

 

 

 

 

Le divergenze della debolezza illogica

 

 

 





 

 

Caldo: afoso, appiccicoso, bruciante sulla pelle umida.
Yuki si girò faticosamente sul fianco, trascinandosi il braccio sinistro sul materasso, riempendo i polmoni di aria fredda e umida. Avrebbe davvero voluto tirarsi su, ma sembrava la mossa più impegnativa del secolo, quindi – sbuffò pesantemente.
Poi però, buttò ancora una volta un'occhiata nell'angolo della stanza, quello alla sinistra della porta – c'era una figura, slanciata e composta. La guardò per una decina di secondi. Era decisamente inquietante. «Sebastian. Guarda che non muoio per un po' di febbre. Quindi, potresti controllare a che punto è la lavatrice?».
Il capo maggiordomo e del servizio domestico intero annuì, silente, sparendo oltre la porta di quella camera – che fra l'altro, non era nemmeno quella dell'albina.
La febbre.
Aveva un ché di esilarante... una creatura non-umana, fra l'altro per metà vampira e demone, si era ammalata di quella malattia chiamata febbre. Avrebbe riso, sì.
Yuki aveva provato a fare i conti e capire in quale momento si fosse ammalata e, la sua mente ora intorpidita, l'aveva spedita dritta dritta ad una pioggia, gelida e incessante, che cadeva senza pietà – e lei, priva di un ombrello o checchessia.
E si era ammalata, riducendo il proprio aspetto fisico ad un catorcio: la camicia da notte fin sopra le ginocchia, di un rosa chiaro e tenue, era attaccata come un adesivo per via di tutto il sudore che l'aveva fatta dannare per tutta la mattinata – la notte, invece, era stata gelo assoluto. Dopo alcuni secondi, Sebastian tornò.
«Dunque?», borbottò Yuki, prendendo fra l'indice e il pollice il tessuto umido della camicia da notte.
L'uomo scosse lentamente il capo, chiudendo le palpebre sugli occhi scuri. «Avete terminato i cambi». Le labbra della mezzosangue si aprirono leggermente, tanto per enfatizzare la disperazione che cominciava a dilagare e sbuffò, di nuovo, nervosa
«Ho capito. Farò da me, allora». E fece un cenno per congedarlo. La mattina, intorno alle nove, aveva trovato – da qualche parte dentro di sé – la forza di chiamare Sayumi per dirle della sua febbre e di “giustificare” la sua assenza agli insegnanti. Naturalmente, la ragazza si era già proposta come infermiera nel pomeriggio, non appena fosse stata libera dalla scuola.
Con un sorriso – ricordando la piccola chiacchierata – riuscì a sollevare la schiena e ad appoggiarsi alla testata del letto.
Sì, forse a quest'andatura, nel duemilaemai sarebbe riuscita ad arrivare all'armadio. Forse. 
Se solo avessi preso più sangue da Ai!, pensava, mentre allontanava il lenzuolo dalle gambe per poggiare i piedi a terra e, successivamente, per mettersi in piedi con l'ennesimo sforzo.
Doveva ammettere di sentirsi sempre un po' a disagio quando prendeva il sangue della sorellina, soprattutto vista la sua poca resistenza – d'ora in poi, ne avrebbe fatto a meno. Arrivata all'armadio, quasi ci si infilò dentro – cascandoci dentro –, alla disperata e astratta ricerca delle sue vesti e pigiami per la notte, ma niente
La fortuna voleva che fossero tutti a lavare – comunque ne aveva pochi – e, che quello che aveva indosso in quel momento, fosse l'ultimo e che fosse fradicio«Che rottura», brontolò. «L'unica alternativa è prendere un vestito a caso, a questo punto... ». Magari, il più comodo – e no, niente tute, non le piacevano per nienteInfilando il braccio nell'armadio, estrasse una camicia bianca piegata con cura nel fondo, sottile e leggera, lunga e larga. L'ideale.
Visto che tanto non viene nessuno, posso restarmene anche così, pensò, pigra, mentre si spogliava della veste rosea per scambiarla con la camicia immacolata e tornare sul letto, a piccoli e lenti passi.
Sarebbe restata tutto il tempo da sola, in quella casa c'erano solo i domestici che, se non per fare il loro lavoro, di certo non si avvicinavano.
Aah, meglio dormire.

 

 

 

 

***

 

 

 

«Akawa ha la febbre?».
Sayumi annuì, portando alle labbra un boccone della sua frittata, mentre Hokori ancora si apprestava ad aprire il proprio bento. Con un sorriso che allungava le sue labbra, disse: «Non avevo mai sentito di una creatura sovrannaturale che si ammala!».
«Sssh!», e sollevò la mano che reggeva le bacchette per premere l'indice contro le proprie labbra, in segno di assoluto silenzio. «Qui anche i muri ascoltano!».
E alla fine, Sayumi detta “Yumi” Ichinomiya e Hokori Yamashita, due persone dal carattere completamente opposto, dai principi dai poli opposti, si erano trovate – e si erano legate un po'. Quella stessa mattina, il giorno dopo dello scontro in classe fra la mezzosangue albina e la cacciatrice, quest'ultima aveva preso in disparte Sayumi per parlare. Il resto era stato quasi divertente; Sayumi l'aveva guardata con gli occhi cerulei intontiti e Hokori, in attesa di una risposta... aveva ricevuto un: «Eh?».
Ora, parlavano come vecchie amiche senza nulla in comune.
«Esagerata! Oh, a proposito... », Hokori si fece più vicina, appoggiando i gomiti sul banco. «... nessuno si è fatto delle domande sugli occhi... ?».
Naturalmente, si riferiva al colore scarlatto che aveva preso il sopravvento, il giorno prima, nel pieno della furia di Yuki.
«Ah, sì».
«... eeee?».
Sayumi alzò le spalle. «Hanno chiesto dove ha comprato quelle lenti a contatto».

 

 

 

 

***

 

 



 

Buio. Era tutto buio, non c'era nessuno.
Uno spazio, immenso e ignoto, infettato dell'oscurità priva di spiragli di luce – priva di vita. L'unica fonte fulgida, brillante come mille stelle ma schiacciate da tutto quel nero, erano i propri occhi – gemme d'ambra.
Dove sono... ?, e quello che doveva essere un pensiero venne riprodotto ad alta voce, mentre si scopriva a volgere lo sguardo in ogni dove, tutto attorno a sé – sempre più velocemente, sempre più in fretta.
Era opprimente, era così buio!
Chinò lo sguardo e sotto ai suoi piedi, nudi e bianchi, non c'era altro che la stessa cosa che c'era sopra, a destra, a sinistra, in obliquo: era come respirare in un foglio di inchiostro – i suoi capelli galleggiavano appena. E poi, tutto ad un tratto, lo spazio venne risucchiato dentro se stesso, teletrasportando l'albina in un'altra zona.
Un... teatro?, pensò, mentre lentamente il suo corpo scendeva a toccare la moquette rossa – ma non appena la toccò, la scoprì umida. Sobbalzò, arrancando per salire su uno dei sedili e poi gettare un'occhiata sugli altri posti ma, anche in questo posto... non c'era un respiro. Proprio per istanti che parvero infiniti e assordanti, ecco che finalmente ci fu un rumore, un suono, di passi felpati; poi ne sussegui un altro, che era l'eco di una voce, poi un terzo – e furono urla. Improvvise, agghiaccianti, che penetrarono nelle orecchie di Yuki.
Con un salto, si buttò a terra, fra due sedili – e schiacciò le mani sulle orecchie – pregando che tutto finisse.
Che tutto
smettesse.
Ma non era quello il destino, no, certo che no. Perché quella sensazione di umido che aveva avvertito prima, era di nuovo nitida e palpabile, dove si era seduta – e solo dopo capì di cosa si trattava.
Quella non era moquetté rossa.
Non sarebbe ancora finita, perché un'orchestra caotica di suoni e rumori, voci e urla, netti o echeggianti – voci furiose, voci calme, voci innamorate – esplosero con violenza. Tutto che si ammassava, che riempiva la testa argentata della mezzosangue e colpiva, colpiva così forte...
E poi, silenzio.
Le voci e i rumori, tutto cessò.
Ma i suoi occhi guardarono sul palco e--... li richiuse.

 

 

 

 

***


 

 

 

Si svegliò – spalancò gli occhi, con violenza e paura.
Cosa aveva visto? Cosa aveva appena sognato? Il suo corpo tremava convulsamente, a spasmi dolorosi, anche se sentiva ogni muscolo e osso ridotto a carboni ardenti – bruciava e tremava. Era tutto finito, era nel suo letto al sicuro, eppure la paura non era ancora andata via. La paura... stava provando una cosa del genere?
«... ki--».
Con il petto che si alzava e abbassava, cacciò una mano da sotto le coperte.
«... ki--!!».
Cielo, era madida di sudore freddo – si passò le dita fra i capelli sulla fronte.
Che qualcuno l'aiuti – ora.
«Yuki!». E il suo desiderio era stato appena esaudito. Il mondo era davvero un ufficio per richieste? Eppure lei non riusciva a focalizzare da dove provenisse quella rassicurante, bassa e profonda voce maschile, una ventata gentile sulla pelle imperlata.
Batté le palpebre – ma ce l'aveva davanti! La vista era confusa e sfocata, come se i suoi occhi fossero riempiti di lacrime, ma riusciva a vederlo almeno un poco; zirconi color cioccolato con sfumature più giallognole, sfumature calde e nascoste, timide ma bellissime. E questi zirconi non erano soli, abbracciati da lunghe ciglia nere come la pece, che si alzavano e abbassavano – oh.
«... cosa ci fai... qui... ?», parole boccheggiate, mentre la mano tornava sotto le coperte a spingerle per coprirsi il viso. «Non dovresti... essere a scuola?».
«Se è il tuo modo per dirmi “grazie”, prego, non c'è di ché».
«Take!».
Lentamente, scoprì il viso dal tessuto. Se c'era una cosa che aveva notato sin dal loro primo incontro, era che lui aveva una bellezza che la trafiggeva ogni santa volta! Quel viso dai lineamenti un poco più occidentali del normale, con gli occhi gentile e la bocca carnosa – ora incurvata –, di un rosa vivo, il naso dritto e i capelli che parevano un cuscino di cioccolato.
E lei era ridotta a mo' di straccio bagnato – ma che bello.
«Sì?», mormorò, alzando una gamba per accavallarla sull'altra. Era seduto sul bordo del letto, proprio all'altezza del busto della mezzosangue, per cui molto vicino.
Per cui, lei cominciava a sentirsi dannatamente a disagio. «... guarda che sto benissimo. Davvero- non c'era bisogno che venissi!».
Alle sue parole, l'espressione del moro vorticò verso l'affranto – con l'indice, le spostò ciocche di capelli.
«Ti rendi conto che quando sono arrivato ti contorcevi come un'anguilla?», disse.
«Beh, è stato un incubo», ribatté lei. Takeshi inarcò un sopracciglio. «Un incubo. E non posso dissiparlo?».
Yuki sollevò lo sguardo fino a incontrare quello del ragazzo, schioccandogli un'occhiata dubbiosa e confusa; a breve gli avrebbe chiesto di cosa parlava ma, prima, doveva assolutamente mettersi seduta e riuscire a guardarlo senza differenza d'altezza – quella c'era anche troppo di norma.
«Hm... », mugugnò, mentre si faceva leva con le mani per sollevarsi. In qualche modo, si trovò ad appoggiare la schiena – con la camicia attaccatasi sulla pelle – contro la testata del letto ad una piazza. Con calma, continuò. «... di che parli? In che senso... ?».
Lui sorrise, leggermente. «Oggi ti farò da dottore. Niente repliche, signorina, da sola non guarirai mai – anche se hai la guarigione accelerata. E comincerò subito, partendo da... questo incubo... », e la sua voce si faceva via via più sommessa, quasi il sussurro di un venticello, mentre si piegava un po' in avanti.
Ah. AH, sempre più vicino, sempre più percepibile il suo profumo ai fiori di ciliegio – shampoo? –, che si insinuava nelle narici della mezzosangue febbricitante, intenso e piacevole... oddio, stava delirando...
Soppresse il respiro dentro i suoi polmoni, quando la distanza fra di loro era di appena qualche patetico centimetro, eliminabile solo con un po' di coraggio.
Lui era- … «Hm, la febbre non deve essere altissima, adesso».
Ed eccolo, con una mano a sorreggere i propri capelli e la fronte poggiata contro quella di Yuki – a controllare rudimentalmente la temperatura. Ahah, voglio morire!, pensò Yuki, mentre deglutiva silenziosamente e, tanto per farsi più del male, incastrò il labbro inferiore fra i denti.
«Hai preso qualcosa?», chiese Takeshi, staccando finalmente la fronte e concedendole un'occhiata – stranamente seria, tranquilla si direbbe – di traverso, mentre tornava con la schiena dritta. Yuki scosse il capo, desiderando fortemente di tornare nascosta dalle coperte. «No. Non ne ho bisogno». Il moro inarcò un sopracciglio. «Sono io o mi è appena sembrato di sentire una frase... stupida?».
«Sei tu... !».
L'albina si schiarì la voce con qualche colpo di tosse. Quanto a gola, stava bene, se non altro. «Non serviranno a niente, le medicine!». Takeshi sospirò, si alzò e appoggiò le mani sui fianchi, mollemente.
«Ma tentar non nuoce, giusto?», disse, inclinando il capo di lato – e sorridendo, divertito da ciò che gli aspetterà. A lui, ma soprattutto a lei.
Cacciò l'aria dal naso, dopo averla catturata e, con la voce di un tono più basso e calmo, profondo come l'oceano più distante, sussurrò...
«Adesso spogliati».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL'AUTRICE:
Eeeeeeeeeee dunque. Siamo arrivati fin qui e si è ufficialmente conclusa una saga e riaperta un'altra! ~

Sì, dovete sapere che Vampire Devil è praticamente composto da saghe e diciamo che è il mio modo di tenere tutto in ordine e non incasinare il mondo. X°
E niente, la prima, quella su Tetsuya e Hokori, è chiusa!

Tolto questo.

VORREI DIRE UNA COSA.
Il primo capitolo conta 1132. MILLECENTOTRENTADUE. RAGAZZI. CI RENDIAMO CONTO?

Davvero, grazie per le visite, per le recensioni, per esserci sempre (( a modo vostro (?) )) e... migliorerò sempre di più solo per farvi leggere qualcosa di piacevole. Uvu

 

Night, ovviamente, con affetto.

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Capitolo 25
*** I sospiri, le palpitazioni e qualcosa che si muove. ***


 

 

La coscienza mi uccide.

Yuki.

 

 

 

 

 

 

I sospiri, le palpitazioni e qualcosa che si muove

 

 

 

 

 

 

 

 

Davanti allo sguardo di Takeshi, si mostrava una schiena; essa era lievemente incurvata, con la colonna vertebrale più in vista del dovuto e le vertebre appena visibili – era una schiena bianca, bianchissima. E poi, era esile, come un ramoscello.
Avendo visto sempre quella lunga chioma scenderle la schiena, a proteggerla, non poteva nemmeno immaginare quanto potesse essere debole; quei capelli, adesso, erano stati spostati sul petto a scendere in onde fulgide e un poco scompigliate: per comodità e protezione.
Takeshi fece un passo in avanti – Yuki ebbe un fremito.
Doveva concentrare la propria mente su qualcos'altro, qualcosa che non fosse il ragazzo e le sue belle e immacolate mani che stringevano una spugna gialla, per accarezzare la pelle di lei e lavarne via il sudore, no.
Doveva pensare a... a qualcosa come i prati – Seduta sul letto, con la coperta a coprire attentamente il fondo schiena che, altrimenti, sarebbe troppo scoperto, contò i lenti passi di Takeshi, il suo avanzare un po' incerto.
Il ché era strano. Quando mai lui era incerto, in situazioni come quelle?
Non che sia una situazione come quelle, alla fine, pensava mentre ormai era arrivato alle sue spalle, ma... diciamo che... siamo molto vicini... ?
Trattenne un sospiro esasperato – contro se stesso, più che altro – e si chinò, facendo toccare entrambe le ginocchia il pavimento e tenendo la mano con la spugna sospesa a mezz'aria.
«Se senti freddo, dimmelo», disse. Yuki annuì, silente; proprio un attimo dopo, la spugna toccò finalmente la sua pelle, partendo da appena sotto il collo, in linea con le spalle. Con movimenti lenti e gentili, lui strofinava quella spugna che, all'improvviso, aveva assunto un espressione altamente... critica.
Takeshi chiuse gli occhi, corrugando la fronte fino a creare un solco fra le sopracciglia scure.
«Take», mormorò a fior di labbra Yuki, spezzando quella che sarebbe stato un silenzio eterno.
«Sì?». Improvvisamente parlare sembrava così ardua! Eppure si trattava di dire ciò che si stava pensando, di essere onesti o qualcosa del genere, giusto?
«... mi sento in imbarazzo», borbottò. Lui rise. E giustamente, mica era lui quello mezzo nudo, certo. «Non pensare a niente. Qualcuno ti sta semplicemente lavando perché sei troppo debole. Ecco tutto», disse il ragazzo, mentre piano scendeva lungo la colonna, stringendo fra le dita la spugna per lasciar fluire il sapone.
«Qualcuno, eh?», sussurrò Yuki. Sollevando il viso a guardare il muro, chiese, sovrappensiero: «Quindi tu sei un “qualcuno”?». Eppure non sembrava una cosa molto bella, né da dire né da sentire, appariva come... una figura completamente grigia, priva di nome e passato. Non era piacevole. E quindi, Takeshi aggrottò la fronte, confuso, puntando lo sguardo sulla spalla umida di lei. «Qualcuno... non riesco a vedermi come un conoscente. E nemmeno come un... amico. Non lo so».
Non lo sapeva e, a questo punto, chissà se l'avrebbe mai saputo; d'altronde lui aveva dichiarato i suoi sentimenti, aveva reso pubblico alla diretta interessata cos'è che provasse ma... non c'era stata nemmeno una risposta, ecco. Era ancora nell'oblio di un grande punto interrogativo.
Ma, d'altro canto, era passato appena un giorno. Non doveva metterle fretta – più o meno. Con rabbia, Takeshi si morse il labbro. «Qualcuno sarò o qualcuno posso essere. Ma questo spetta anche a te, Yuki. A te e alla tua risposta».
Non aggiunse altro. Non lo fece, un po' perché lei aveva già afferrato il senso celato delle sue parole, un po' perché non voleva parlarne né metterla più in disagio di quanto già fosse. E ciononostante.
Ciononostante, niente gli impedì di stringere le labbra e appoggiarle contro la pelle umida e profumata che aveva davanti, la stessa che lui aveva lavato con cura e dolcezza – ci lasciò un lungo bacio. Un lungo, significativo bacio. Immobile e morbido, con le palpebre abbassate e le ciglia scurissime che tremicchiavano un poco – dannazione. Non doveva accadere. 
«--cosa---... », Yuki prese nei polmoni tutta l'aria che poté, per poi chiudere la bocca, sigillarla e stringersi nelle spalle, appena appena – tremante. Tremante per il freddo, tremante perché lui aveva baciato poco più sotto la scapola destra e sembrava così rilassato, così tranquillo, mentre lei stava evaporando.
... e che cavolo!
«... mi metti in... difficoltà». Ebbe effettivamente il coraggio di parlare, l'albina, serrando ancora di più la bocca pallida.
«Tu fai lo stesso. Mi fai effetto, un effetto spaventoso», replicò lui – ancora a pochi centimetri da quel punto. E dire che con l'adrenalina – l'eccitazione – che serpeggiava per tutto il suo corpo, toccando la sua mente e la sua razionalità, avrebbe dovuto avere un espressione almeno... viva, se non contenta – e invece.
Invece, aveva lasciato cadere la spugna dentro la bacinella ad un passo da lui, mollemente – sospiro. Sospiro perché lei stava pensando troppo e lo sapeva, lo capiva.
«Hm... non penso di aver capito davvero, ma... », e si fermò, espirando nervosamente. «... mi dispiace. Mi dispiace per tutto. Avrei preferito renderti la vita più facile e non... questo casino!». Okay. Quella di certo non era Yuki. Almeno, non quella che lui aveva conosciuto dalla metà dell'anno scorso, no. "Mi dispiace" era un espressione fin troppo affabile e sincera, per una come lei!
«Ah... non fa niente. Va bene così», disse lui. Si lasciò cadere, alzando appena un ginocchio per posarci l'avambraccio sinistro – sbuffò. «... mi metti davvero in difficoltà. Non sono preparato».
E non disse altro. Si cucì la bocca e gli occhi. Si cucì i pensieri – che erano stati puri, nonostante la situazione – e il cuore, almeno per quel momento.
Fin tanto che lei fosse stata con la febbre, avrebbe cucito attentamente ogni emozione.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Dunque; esco da questa stanza e raggiungo le scale, giusto? Le salgo e vado per la passerella sinistra. Una volta lì, supera tre stanze e arrivo al bagno. Dopo... dopo?».
«Dopo: apri la porta e sei arrivato».
Yuki alzò le spalle, di fronte agli occhi stirzzati di Takeshi – un bagno con una porta che conduceva ad una lavanderia. L'albina gli disse, inoltre, di fare attenzione alle stanze che apriva e a dove metteva i piedi o, peggio, a chi incontrava; l'unica cosa che rasserenava l'albina – infilata sotto le coperte, privata della camicia umida di sudore – era il sapere che né i suoi genitori né Ai erano nei paraggi.
Sarebbe uno shock se li conoscesse così, pensava, mentre lo guardava alzarsi dal bordo del letto.
«Bene», disse lui. «Se non torno, sai perché: "mi sono leggermente perso"».
Yuki arricciò un poco il naso e rise, sommessamente. «In ogni stanza c'è un campanello. Suonalo, se ti perdi, è un inservienete verrà ad aiutarti».
La consapevolezza che, se non altro, aveva una via di "fuga", lo fece sorridere. Un breve gesto con la mano destra, un altro sorriso e qualche passo – era fuori. Nel grande e freddo salone che fungeva anche da ingresso nella residenza; mentre percorreva il piccolo percorso per raggiungere le scale, il moro non poté evitarsi di chiedere a voce alta quanto tempo ci avessero messo a costruire una cosa così abnorme.
E poi, che utilità avevano tutte queste stanze? Solo al piano terra ne aveva trovate una decina per lato – chissà sopra.
Oh, e Yuki non gli aveva forse detto che c'era addirittura un terzo piano? E una piccola soffitta dove lei, da bambina – sorridente e gentile, Takeshi aveva i brividi –, vi andava a nascondersi quando desiderava un momento suo.
A quanto pare ne aveva bisogno spesso, di momenti di solitudine, con un'unica compagnia canterina: un uccellino che si appostava sopra ad una finestra rotonda. Inutile dire che quell'uccellino spiccava il volo non appena la mezzosangue azzardava ad avvicinarsi e, il motivo, era presto detto: l'animale percepiva la sua aura negativa.
«... aspetta, qual era? La quarta? La seconda? ... la prima?», borbottava il moro, ormai sulla passerella sinistra – le mani in vita e la fronte corrugata. Alzò le spalle, tanto valeva fare qualche prova; evitò la prima porta, ricordandosi all'improvviso che fosse quella di Ai, quell'ammasso di rosa, rosso e pizzo, un pugno ai suoi occhi.
Aprì la seconda: una camera da letto matrimoniale.
Lo si notava dal letto a due piazze – o forse era di più –, con una sobria coperta beige e il bordo bianco del lenzuolo appena visibile. Tre cuscini. E una cassapanca ai piedi del letto. Takeshi fissò il letto, quasi esso fosse la cosa più invitante che avesse davanti agli occhi – il ché, dopo poco prima, non era esatto.
«Meglio uscire... », e proprio mentre sussurrava questo, il suo sguardo si adagiò sul comò alla destra, gremito di vari oggetti e fotografie. Con passo frettoloso, si avvicinò per guardarle tutte, come un turista al Louvre; la prima fotografia era la tipica di famiglia – naturalmente, in stile aristocratico, eh –, con la famigliola al completo.
Due adulti e due bambine; a sinistra quello che doveva essere il marito e padre, un uomo slanciato dal viso severo e imperscrutabile, la bocca sottile chiusa come una cassaforte e gli occhi dalla tinta rossiccia puntati contro l'obiettivo – privi di serenità.
Affianco, tutto l'opposto; una donna mediamente alta, dai lunghi e setosi capelli rossi che scendevano lungo la schiena – e forse oltre, ma nella foto non si vedeva bene – e un sorriso dolce e quasi soddisfatto. Le palpebre erano un poco socchiuse ma Takeshi riusciva a intravedere due gemme color del sole brillare come stelle.
Infine, le due bambine: la maggiore, con le braccia incrociate al petto e un'aria scocciata, la minore con un bel sorriso.
E indoviniamo chi è l'imbronciata?, e sarebbe scoppiato a ridere, se solo non si sentisse come un coniglietto nella tana del lupo, e in ogni caso...
«... sono tutti spaventosamente bellissimi... », sussurrò.
Era sicuro di essere sbiancato, già.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Perché?
Non riusciva a capire, non riusciva a spiegarselo. Teoricamente, la febbre doveva essere già scesa, almeno di un poco! Aveva preso tutte le medicine e, per un'oretta circa, la temperatura era tornata stabile – e adesso. Adesso, era tornata con il corpo febbricitante e il respiro pesante, quasi avesse sul petto un macigno insopportabile. E lui, cosa poteva fare? Niente di davvero rilevante, oltre ad aiutarla con i cambi, lasciarle un panno umido sulla fronte e idiozie simili; inoltre, aiutare Yuki a cambiarsi i vestiti, era un' impresa.
Soprattutto perché lei non si fidava di Takeshi e lo costringeva a bendarsi gli occhi.
Stava sospirando nervosamente quando, alzatosi dalla sedia davanti al letto, si era spostato sul bordo di esso. Chiudere gli occhi e aspettare in un miracolo era la via più idiota che potesse prendere – solo per questo, li tenne aperti.
«Oh, avanti-- ... piantala... non sto per... morire», boccheggiò la mezzosangue. E tuttavia, il pallore e le palpebre chino, davano tutto fuorché l'impressione che lei stesse vivendo. «Non guardarmi... così».
Takeshi portò due dita alla fronte – e la corrugò. «Perché questa febbre non scende?!».
E il suo sguardo ricadde sulla manica della propria camicia, quella bianca della divisa che, nemmeno per un istante, aveva pensato di voler togliersi. Di tornare a casa, di lasciarla lì, sola e dolorante. La sua famiglia, invece, non l'aveva fatto – forse... ?
«Oh», borbottò lei. «Te l'ho detto... le medicine non funzionano».
Takeshi sollevò gli occhi su di lei – gravi.
«E allora cosa dovrei fare, lasciare che qualcosa cambi da sola?», esclamò. Non poteva farci niente se ciò che lei gli aveva appena detto sembrava semplicemente la via più codarda, quella più nullafacente – ma lui era un nullafacente, giusto.
Lui era quello che non aveva motivo per andare a scuola e frequentare le lezioni, lui era quello senza futuro, il playboy ignorante, giusto? Lui avrebbe vissuto nella miseria perché, oh, non era in grado di fare niente – giusto, papà?
«Take, Take».
Bene, poteva essere una nullità per il resto della sua vita. Ma non mentre la ragazza che amava non riusciva nemmeno ad esalare respiri regolari. «Dimmi», le sorrise, mentre lei cacciava le braccia fuori dalla coperta e avvicinava le mani bianche al suo volto. Yuki rise e gli prese il volto, giocosamente. «Che faccia seria... ».
«Posso essere serio anch'io», disse lui – può essere serio anche lui. Può fare qualcosa di giusto anche lui?
«Ma a me piace il Takeshi di sempre», esclamò l'albina, aggrottando un poco la fronte – sembrava ubriaca. E Takeshi, per un lungo attimo, pensò seriamente che lo fosse. Le piaceva il Takeshi di... sempre? Piaceva?
Sembrava una bambina che si metteva in bocca parole brutte, inconsapevole del significato. Sembrava innocente, lei. Non sembrava affatto una vampira o un demone, non in quel mom---. «Mi è venuta un'idea».
Yuki batté le ciglia. «Un'idea... ?».
«Adesso devi bere il mio sangue. Devi farlo e dobbiamo vedere cosa succede», disse – e se aveva ragione, sarebbe guarita.
La sua mente l'aveva portato a quel pomeriggio sulla terrazza della scuola, quando Yuki aveva raccontato tutte quelle cose ai ragazzi, aveva tentato di spiegare cosa fosse lei e cosa fosse il suo mondo.
E poi-

 

 

«Quindi, se ho capito bene, continuano a restare in vita bevendo sangue... ?», Yumi non era certa che una cosa del genere avesse senso, per cui aggrottò la fronte. Yuki fece un cenno col capo. «Per i vampiri bere sangue è come mangiare per gli umani. Un bisogno e un desiderio».
«E per i demoni?», aveva chiesto Takeshi, osservando come Yuki sospirasse ogni volta, quasi quella parola la conducesse a vecchi e nostalgici ricordi, ricordi gremiti di sorrisi e smorfie.
«Per i demoni è diverso. Loro si cibano di ogni cosa – del sangue, della carne».

 

 

Se gli umani tornavano in salute anche mangiando, poteva essere lo stesso per i vampiri? Poteva essere lo stesso per una creatura non-umana?
«Che idea stupida», sussurrava appena, lei – eppure si stava mettendo seduta. Anche se non era d'accordo e lo diceva, a voce un poco più alta, con il viso impallidito – anche se lo faceva, le sue mani erano a quel collo. Un collo bianco e vivo, con quella vena al lato che si faceva timidamente vedere: gli occhi di Yuki stavano già vedendo diramazioni violacee.
«Tipica idea da mentecatto... », e le dita correvano fino alla mascella, la sfioravano appena, mentre si sdraiava lentamente sul corpo sotto al suo; li sentiva, gli addominali contrarsi, il petto alzarsi e abbassarsi e la netta sensazione che non sarebe finita bene.
La sua bocca si apriva per rassicurarlo e gli occhi erano già rossi, la stessa tinta del sangue più profumato. «Sei in tempo per... ». E lo guardò, le palpebre socchiuse.
Sul suo viso c'era solo sicurezza e determinazione, non c'era un attimo di esitazione – Takeshi stava persino sorridendo.
Non aveva paura perché lo stava facendo per una ragione?
«Sto aspettando», aveva detto, sornione. Le sue braccia andarono ad allacciare i fianchi dell'albina, ad avvicinarsela ancora di più, a sentirne la morbidezza e ogni osso, ogni curva: il suo peso era impercettibile sopra al proprio corpo. Ma sentiva sempre più caldo bruciargli dentro, come scosse elettriche.
«E' un peccato che tu ti sia cambiata... stavi bene con quella camicia».
«Stai zitto, stai zitto», e poi, Takeshi sentì prima le sue labbra appoggiarsi e lo schiocco di un bacio, prolungato, bollente. Fu così strano, quella dolcezza che fungeva d'anteprima ad un dolore sordo, insistente, poco più sotto la mascella.
Ah – ecco, Yuki doveva averlo fatto sul serio.
Perché sentiva le percezioni offuscarsi, perché faceva abbastanza male e quei denti, duri come acciaio, avevano perforato la carne.
Perché lei si cibava di lui.

 




NOTA DELL'AUTRICE: 
ZAAAAAAAAALVE CENTEH BELLA! ~
Che dire, rieccoci! Al 25° capitolo, o m g- la fine è ancora mooolto distante, ma ciò non toglie che sta lentamente arrivando. Devo dire che-- se ci penso, mi viene un po' di tristezza. cvc

Ho aggiustato un'imprecisazione del capitolo 11, ossia la parte in cui Sayumi e Takeshi si incontrano per la prima volta,
realmente, visto che lei sapeva già dell'esistenza di lui. 
In pratica, non mi chiedete perché, avevo descritto la scena come se Yuki avesse detto a Sayumi che era Takeshi il suo
"salvatore", quando invece la nostra albina aveva detto che era solo "una persona qualsiasi". E al massimo, che era
carino. 
.. mi rendo conto che a volte dormo in piedi. Detto questo, spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento~ 

Night, ovviamente, con affetto.

 

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Capitolo 26
*** Un sole spavaldo su visi immacolati. ***


 

 

Cosa desideri?

Takeshi.

 

 


 

 

 

 

 

Un sole spavaldo su visi immacolati

 

 

 

 

 

 

 

 

Diciottotto maggio, le sette e mezza circa di sera e un freddo innaturale, a casa Akawa, specie nella camera della primogenita dai capelli argentei, in quel momento acconciati in una treccia morbida, cadente sulla schiena. La sua schiena.
«... porca miseria», borbottò, passandosi le mani sulle guance che, accidentaccio, avevano preso un colore fin troppo forte per una come lei. Ah, ormai era palese: non riusciva a pensare alla sua schiena senza ricordare quel giorno, anche se era passato del tempo.
Per quanto fosse stata stordita e scombussolata, ricordava nitidamente il momento in cui... lui... e poi, alla fine, quando...
«Onee-chan, così lo riduci a poltiglia».
«Ah!», l'albina allentò la presa intorno alla bottiglietta di crema solare, fino a farlo cadere a picco dentro la valigia a borsa, già riempita fino a implodere – a lei sarebbe decisamente servita, la crema solare.
Ai era sul punto di ridere, lo si capiva dal sorrisetto divertito che le incorniciava il viso candido. «Senti, Onee-chan, c'è niente che devi dirmi... ? E' da quando sei guarita che sei strana».
Ah, che gran rottura di scatole, l'intelligenza acuta di quella ragazzina – alle volte, già. Ma Yuki, inutile nasconderlo – inutile star lì a provarci –, adorava fin troppo quella piccola saputella dai capelli cremisi e, inesorabilmente, finiva per adorare anche il suo acume.
«Uhm, niente degno di nota, no», borbottò, tirando bruscamente la zip della valigia: bene, finito.
«Meglio così», rispose Ai, abbracciando un poco di più il pupazzo a pois – seh. A chi voleva darla a bere?
Tutti, a casa Akawa, sapevano che pessima bugiarda fosse Yuki.
Tutti, eccetto lei, a quanto pareva.

 

 


 

 

***

 

 

 

 

Il diciannove maggio era finalmente arrivato, dopo che era sembrato restio a farsi avanti; come un souvenir, aveva portato con sé un caldo che scottava sulle pelli degli studenti della 2-B e 2-C, in fila per salire sull'autobus che li avrebbe condotti nella prefettura di Kyoto – la tanto agognata gita scolastica!
Che di agognato, per l'albina, non aveva proprio niente. Non era particolarmente contenta di essere lì, a dispetto della ragazza dai vivaci capelli rosa proprio di fianco a lei, un sorriso a trentatré denti e gli occhi più luminosi e limpidi del solito. Era davvero di buon umore – ci teneva così tanto?
«La spiaggia di Kotohiki è molto bella, lo sai?», cantilenava, muovendo il basso tacco della sua scarpa destra, avanti e indietro – erano in divisa estiva già da qualche tempo. Era identica al modello invernale, con l'unico cambiamento delle maniche accorciate fin sotto le spalle e l'assenza delle calze nere, sostituite dalle bianche.
«Ci sei già stata?», disse Yuki, un po' vaga, a dir il vero. «Io non vado in questo genere di posti, sai».
Sayumi accennò una risata, guardando i capelli albini intrecciati in una treccia, che cadeva sul suo petto. «Un paio di volte e... sì, immagino perché tu non ci vada. La tua prima volta al mare, che bello!». Un sospiro di felicità espirò dalle labbra dell'umana dai capelli rosa, ribelli come sempre, vaporosi nel medesimo modo – Yuki sorrise e fece un leggero cenno col capo.
Aveva una cosa per la testa, però.
Con nonchalance, spostò lo sguardo verso la seconda entrata dell'autobus, ove gli studenti della 2-C, disordinati e più allegri del dovuto – alias urlanti – scalpitavano e scherzavano fra di loro. Qualcuno, dopo essere ripreso dall'insegnante, si degnava anche di salire quella maledetta scaletta ed entrare nel veicolo – qualcuno. In ogni caso, Yuki si stava seriamente chiedendo dove fosse andato a finire Takeshi; che poi, pensandoci, non è che lei ci avesse parlato - da quella volta, lui non si era fatto vedere - e saputo se sarebbe effettivamente andato a quell'uscita didattica – didattica? Andare al mare era didattico?
Forse non avrebbe nemmeno dovuto risultare così sorpresa, nel vedere che di lui – dei suoi capelli scomposti – non c'era l'ombra.
Chiuse le labbra, imbronciata e tornò a guardare davanti a sé, mentre finalmente toccava alle due di salire – spinse un poco Sayumi; aveva la mente abbastanza lucida, sveglia e attiva, abbastanza da riuscire a sentire molto chiaramente il calore che si avvicinava rapidamente alle sue spalle: un calore tiepido. La distanza si faceva sempre più corta, cinque metri- Yuki sorrise, in un modo talmente naturale e automatico da sorprendere l'amica dentro l'autobus – appena due metri.
«Tak-», si era girata, quasi con uno scatto, la bocca ancora incurvata in quella inusuale maniera; voleva dirgli «Buongiorno!», nel modo più tranquillo che conoscesse, più gentile e solare possibile. E come se la sua espressione volesse imitare la treccia appena caduta dal petto, portandosi sulla schiena – per via del movimento brusco –, anche la sua faccia scese.
«Oh, Tanigawa! Ben arrivato! Forza, forza», il prof. Okamoto muoveva la mano per fare cenno al vampiro dai capelli biondi di avanzare ed entrare al più presto, perché da lì a breve sarebbero finalmente partiti – e che Diavolo.
Yuki era fissa, come se i suoi piedi fossero stati riempiti di chiodi, su quel punto, lo sguardo fisso sul petto di Tetsuya – le guance colorate di un rosso sgargiante.
«'ccidente, che benvenuto!», mormorò fra i denti il vampiro, rivolgendo un cenno d'assenso a Yamato. Chinò il viso in direzione di Yuki, battendo le palpebre e poggiando una mano su una spalla calda, appena un gradino sotto il "bollente". «Stai bene? Hai uno sguardo che ucciderebbe anche un angelo».
«Gli angeli non esistono, Tetsu», ringhiò l'albina. Il suo viso ancora non si smuoveva da quell'espressione, un frullato di emozioni poco desiderate: turbata, arrabbiata, determinata a piantarla, delusa – un rivolo di sudore che percorreva il lato del suo collo.
Tetsuya rise, leggermente. «Dai, ragazzina, saliamo».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Akawa!».
Il suo cognome – mai le apparì così odioso come in quel momento – destò l'albina dal viso ancora irrigidito dal suo sonno, pesante come un macigno e privo di sogni, sia belli che brutti – sonno vuoto. Non fu tanto Sayumi che, intanto, si era dolcemente addormentata – sì, anche lei – con il capo posato sulla spalla di Yuki, che di tanto in tanto muoveva o strofinava, quanto più il forte tono che aveva usato il prof. Okamoto.
«Presente», farfugliò la mezzosangue, le braccia incrociate contro il petto e una gamba accavallata sull'altra, una posizione complicata quando adatta – per il tipo che era – per dormire e- i sedili erano scomodi.  Beh, non voleva dormire, a dire il vero, e nemmeno si ricordava a che punto della chiacchierata con Sayumi le sue palpebre si erano calate pesantemente e l'avevano condotta da quello sfrontato di un Morfeo. Poco importava.
Per lo meno, non aveva dovuto sorbirsi il vociare chiassoso di quegli umani. «Buongiorno».
E parlando di voci, quella di Tetsuya le arrivò alle orecchie un poco intorpidite come un pugnale da lancio; partendo dai primi sedili – se non più in fondo – camminava verso il posto delle due ragazze, situato nel centro, regalando sorrisi radiosi a destra e sinistra: naturalmente, alle stupide oche. Erano rimaste molto stupite alla vista di Tetsuya, quando era salito insieme a Yuki nell'autobus; tra occhi a forma di patetici cuori e schiamazzi fracassa-timpani, si era presentato come la guida di quella gita - perché. Dunque, a quanto si era detto, sarebbe stato effettivamente il biondino a condurli per Kyoto – Yuki aveva storto il naso.
E trattenuto risate isteriche.
«Tanigawa-san, ma lei è della nostra città? Non l'abbiamo mai vista nei dintorni», esclamò una ragazza della 2-B, nel momento in cui Tetsuya le passò davanti per raggiungere finalmente il sedile di Yuki e Yumi – la prima sorrideva e guardava verso il biondo.
«Sono arrivato qui da poco», rispose. Il ché non era falso. «E conto di restarci per molto tempo». Ed eccola, la mezzosangue ben nota per la sua freddezza palpabile e gli sguardi assassini che, con molta tranquillità, scoppiava a ridere – e svegliava la poveretta al suo fianco.
«... perché ride così?», sussurava la compagnia dell'altra ragazza.
«Perché è una pazza», rispondeva Tetsuya, schioccando un'occhiata a tutte e due; Yuki a momenti si rotolava a terra dal ridere – che cosa ci fosse da ridere, lui non lo capiva – e Sayumi era intenta a mettersi seduta meglio, guardando da una parte a l'altra e a domandare: «Eh?», «Cosa?».
Che duo di pazze, pensò, appoggiando un gomito al loro sedile, per poi piegare il proprio sguardo sulle dirette interessate – sorrise divertito. Entrambe avevano il viso più roseo del solito, per via del caldo e dell'essersi appena svegliate, specie la rosa che aveva stampato sulla guancia sinistra le forme del pezzo della spalla dell'uniforme dell'albina – e poi il suo sguardo, tutto addormentato... !
«Sayumi – posso chiamarti così? – hai un viso bellissimo», ridacchiò Tetsuya.
Sayumi saltò sul sedile e gli schioccò un'occhiata stupita, mentre rapidamente prendeva ancora più colore – a momenti si confondeva con i suoi capelli. «Ma-- cosa... ?».
«Penso si riferisca alla tua faccia mezza addormentata», disse Yuki. «Dove siamo?». E guardò fuori, scorgendo all'orizzonte quella che era una mastodontica distesa blu, brillante e invitante. A dire il vero doveva ancora chiedergli cosa cavolo ci facesse lui, Tetsuya Tanigawa, nell'autobus di una scuola.
«Siamo quasi arrivati», rispose Tetsuya. «Abbiamo superato da un'ora circa l'ultimo autogrill – il momento in cui vi siete addormentate, insomma». Sayumi – non dopo averlo guardato malissimo – si sospinse verso il finestrino, dalla parte di Yuki, spiaccicando naso e bocca contro la superficie fredda. «FINALMENTE!».
«Yumi... ! Sputo il fegato... !», farfugliò la mezzosangue; si interruppe, quando la voce di Yamato raccolse l'attenzione delle due classi. Dopo aver dato due colpi al microfono ed essersi impacciatamente schiarito la voce, parlò:
«Ragazzi, lasciatemi ripeterei le regole che, guai a voi, non dovranno essere trascurate, understand?».
Qualcuno rise leggermente, ma in sostanza, erano d'accordo.
«Primo: non allontanatevi dall'hotel senza la nostra autorizzazione. Non è che non possiate andare in città ma dovete assolutamente darci un avviso e dirci più o meno le zone in cui andrete. Secondo: prestate attenzione al cellulare. Se non vi troveremo e dovremo riunirci, saremo costretti a ricorrere al cellulare o, peggio, agli elicotteri».
Altre risate.
«Terzo: siete separati. Ragazzi e ragazzi, siete obbligatoriamente separati. Se troveremo dei ragazzi nelle stanze delle ragazze, dopo le dieci, non ci faremo scrupoli a prendere severi provvedimenti. Intesi?».
Piccolo coro, decisamente moscio, d'assensi.
«Very well. Andiamo a divertirci». 

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Capitolo 27
*** Il salvatore senza armatura. ***


 

 

Questo è il posto del nostro sogno.

A song.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il salvatore senza armatura

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Afoso, bruciante, stordente.
Questa temperatura – questa atmosfera sempre più degradante – si sentiva già mentre andavano per le strade di Kyoto, ancora seduti in quel benedetto autobus che era diventato più o meno una cella per criminali, direzionati per l'hotel sulla spiaggia. Pareva essere piuttosto carino, ma nulla di eccezionale; e parlando di cose eccezionali, tutte e due le classi si erano rese conto di quanto Kyoto fosse stupenda e piena di attrattive e, infatti, erano già sfuggiti diversi «Dopo andiamo lì!», con tanto di dito indicato e viso spiaccicato contro il vetro accaldato.
L'euforia era iniziata a crescere appena arrivati nella super città, moderna e tradizionale al contempo – poi aveva raggiunto l'apice una volta all'hotel.
«Scendete uno alla volta e non spingete», diceva il prof. Okamoto, gesticolando con una mano e tenendo la lista dei nomi della 2-B nell'altra. «Ci siete tutti, credo. Facciamo l'appello».
Uno sbuffo di gruppo che, purtroppo, non avrebbe smosso l'uomo dalle sue buone intenzioni: non sia mai che si fosse perso uno studente per strada!
«Sono a pezzi», disse Yuki, rotendo una spalla alla volta per rimettere a posto le ossa. Persino i suoi capelli sembravano stanchi di starsene intrecciati, come dimostrava qualche ciuffo bianco sfuggente. Sayumi annuì leggermente, stordita. «Ho una gran voglia di farmi la doccia!».
«Per tua fortuna, hai una vasta quantità d'acqua proprio davanti ai tuoi occhi, Ichinomiya», disse il professore, indicando vagamente verso le sue spalle: l'hotel. Pare che le due ragazze fossero le uniche a non aver visto subito l'edificio dotato di un piano terra e altre due, in uno stile prettamente tradizionale. «Ma è un ryokan*!», esclamò Sayumi, per poi guardare il professore. «Non avevo capito che saremmo stati in un ryokan. Sul mare. Oddio, che bello».
L'uomo rise leggermente, annuendo un paio di volte per enfatizzare. «Direi che potremmo anche avviarci».
E le ragazze erano decisamente d'accordo. Camminando con lo sguardo incollato sull'edificio, grazie al fatto che era ancora giorno – più o meno le dodici – si poteva vedere chiaramente ogni dettaglio, ogni asse di legno scurissimo e il tipo di tetto. Era esattamente un ryokan – Yuki non c'era mai stata.
«Bello, vero?».
«Tetsu-!», l'albina sobbalzò di scatto, precedendo lo spavento dell'umana dai capelli rosa. Essendo sempre vicine, se una si spaventava e l'altra era distratta – sarebbe stato un ciclo continuo. Aggrottando la fronte e rivolgendogli un'occhiata poco contenta, annuì. «Sì. E' bellissimo. Ma mi spieghi cosa ci fai qui? Ancora non te l'ho chiesto».
Tetsuya fece qualche passo più veloce per affiancare l'albina, a sua volta alla destra di Sayumi – inclinò il capo. «Stare in paese da solo... mi sarei annoiato».
«Ah», fece Yuki. «Giustamente, nemmeno Sayumi sarebbe stata lì».
Tetsuya spostò lo sguardo dalla mezzosangue per farlo rotolare sulla ragazza, continuando a tenerlo lì per un paio di lunghi, densi e strani secondi; effettivamente, da quando avevano avuto l'onore di conoscersi, non avevano avuto l'occasione di... conoscersi veramente. Di capire un po' che tipo di persona fosse l'una e l'altro.
Non è che devono diventare migliori amici del cuore o checchessia, pensava Yuki, ma per lo meno riuscire a rivolgersi la parola sarebbe...
«A proposito», esordì il vampiro, guardandosi in giro. «E quell'altro? Quel Takeshi».
Yuki strinse le labbra e sbuffò, pesantemente stizzita – sentva che quella domanda sarebbe arrivata; e si chiedeva perché lo stesse chiedendo a lei, dove fosse Takeshi. Alla fine era quella la sua domanda.
«Immagino che tu non voglia rispondere», disse Tetsuya, aggrottando la fronte. La guardò per un po', preocccupato, per poi spostare gli occhi sulla strada davanti agli occhi. Stavano percorrendo un pezzo di strada tra il parcheggio – dove si era fermato il bus – e l'hotel che, essendo proprio sulla spiaggia, non era proprio vicino. «E' da prima che sembri arrabbiata».
Sayumi girò un poco il viso. L'aveva notato anche lei.
E piuttosto facilmente, era palese.
«Beh, lo sai», rispose Yuki. «Sono sempre arrabbiata».
E il bello stava nel fatto che non aveva torto e che quindi non stava nemmeno mentendo, quella là – Tetsu trattenne un sospiro nei polmoni. 
«Hmm... Tanigawa-kun?», mormorò Sayumi. Era strano cercare di parlargli per prima, davvero – intercettò per un attimo lo sguardo oro dell'amica.
«Hm?», fece il vampiro, distratto.
«Ma le--- tu, sei davvero venuto alla gita scolastica di umani per noia?», chiese, dubbiosa, Sayumi – non era granché certa delle sue parole. Non sembrava il tipo di persona che dispensava il suo tempo così stupidamente, sebbene ne avesse davvero tanto. Eppure, Yumi non poteva dare per scontato cosa pensava o cosa desiderava.
«Pensi che potrei avere altri motivi?», Tetsuya sorrise, girando la testa verso Sayumi – la mezzosangue nel mezzo, come ponte.
E l'umana chiuse le labbra, sempre più dubbiosa, corrugando la fronte – beh. «Non ti conosco. Non posso dirlo».
«Esattamente. E puoi chiamarmi Tetsuya», disse lui.
«Oh». Silenzio. Imbarazzante.
Come al solito, conversare con il sesso opposto era davvero ardua. Quasi stancante - eppure con Kazuki le riusciva. «Vabbene. Ti chiamerò Tetsuya, allora!».
A seguire, qualche chiacchiera sul tempo piuttosto caldo e la pelle di Yuki e Tetsuya gravemente a rischio, sotto quella luce così intensa – poi silenzio. Ma sotto questo tipo di silenzio - diverso da quello di poco prima - era tutt'altra storia: come se ci fossero nati. Tre persone diverse e molto simili, a camminare la stessa strada, verso la stessa meta: un pezzo di ghiaccio ironico, un asociale energico e un contatore di parole dette. Era assurdo come si trovassero bene tra di loro, specie per Sayumi e Tetsuya, che si "conoscevano" da appena due settimane e qualche giorno – e avevano parlato sì e no tre volte.
«Come pensi di farci da guida, Tetsu?», chiese, ad un certo punto, Yuki. Molto prossima al ghigno, tacque e aspettò una risposta che arrivò solo dopo una decina di secondi.
«Pensi che non conosca Kyoto?», rispose il vampiro, inarcando un sopracciglio e alzando l'altro, sornione. 
«Ah, sinceramente non lo so. Ti ricordo che per un certo periodo sei stato ritenuto "scomparso"».
Scomparso.
La parola stessa sembrava essergli stata impressa a fuoco addosso. E così come la parola – e il suo significato –, il momento e la ragione per la quale era stato ritenuto scomparso, erano dentro di sé. Ricordava e sapeva bene. Ecco, quel bel silenzio d'intesa che c'era fino a poco prima, si era automaticamente dissolto – in quanto Tetsu non era più a suo agio. Con un mezzo sorriso, deglutì e fece un piccolo cenno col capo. «Vado a parlare con Yamato. Ci incontriamo più tardi». E accelerò il passo – andò via.
Yuki ne seguì la figura slanciata e longilinea, fin quando essa non cominciò a diventare troppo distante persino per i suoi occhi acuti. Si rendeva conto di aver toccato un tasto sensibile e- avrebbe voluto ritirare la mano – aggrottò la fronte.
"Yamato", quasi fossero grandi amiconi.
«... Dio, se vorrei chiederti di cosa stavi parlando», sibilò Sayumi, portandosi le dita fra i capelli.

«Potresti chiederlo direttamente a lui», disse Yuki. «... e lui potrebbe reagire così. Meglio di no, in effetti».
Sayumi alzò le spalle e fece un sospiro esasperato. «Cercherò di convivere con la consapevolezza di non poter mai sapere cosa successe».
«... te ne parlerò. Ma non ora!».
«Fatti abbracciare!». E quasi le saltò addosso, Sayumi, con quella sua grinta destabilizzante e le braccia gettate al suo collo, la guancia che si strofinava contro la sua. Una dolcezza e un'energia che insieme formavano Sayumi Ichinomiya, la migliore amica di una Regina senza scrupoliE finalmente, dopo che chiusero quella conversazione con un abbraccio, raggiunsero l'entrata del ryokan; anche l'interno era, naturalmente, come ci si aspetta da un ryokan: tradizionale. Beh, col passare degli anni, si erano un po' "modernizzati", mettendo all'entrata un pavimento più come il marmo o simili, anziché il tatami**.
Con numerose piante all'esterno e all'interno, la reception che sapeva di fiori di ciliegio e un piccolo salottino alla destra – e un altro decisamente più grande alla sinistra –, era l'emblema della vacanza.
«Formate coppie da due o tre e andate al bancone per prendere la chiave della stanza», spiegò Okamoto. «A turno». Considerando che stava parlando anche alla "classe in fondo", era meglio sottolineare certe ovvietà.
E allora, – messesi d'accordo di aspettare alla fine – sedute sul divano del salottino alla destra, Yuki e Sayumi ne approfittavano per rilassarsi per qualche attimo.
Chiudendo gli occhi. «Non dobbiamo addormentarci», dicevano, tutte e due.
Dicevano.


 

 

 

***

 

 

 

«Signorina. Non può addormentarsi qui. E' pericoloso».
Yuki spalancò gli occhi – santo Dio! Il corpo governato da infiniti brividi di terrore, la fronte madida di sudore e le braccia corse a circondarsi il busto, in preda al panicoEra successo di nuovo. Ed era sinceramente spaventata – quel dannato incubo.
Lo stesso che aveva avuto quando la febbre era lì per mangiarla viva, immersa nel suo stato stordente, si era addormentata e al suo risveglio... al suo risveglio non era da sola.
Ma il punto è che, pensava, strizzando gli occhi, il punto è che stavolta-
Stavolta era come l'altra.
«Cosa... ?», riuscì solo a sussurrare. Ancora stretta nella propria gelida morsa, i suoi occhi stavano guardando quelli che stamani, arrabbiata, aveva cercato; gli stessi che l'avevano studiata per giorni e giorni, mesi e mesi; quelli che lei aveva imparato a non farsi dispiacere poi tanto, a non reputare solo come occhi marroni – ma del cioccolato più dolce del mondo.
Chiuse le labbra, le sigillò.
Si sentiva così immensamente triste e in un certo senso, sollevata. «Allora ci sei, idiota mentecatto! Dove diavolo eri, quando ti cercavo? Appari solo quando vuoi tu. Solo e sempre quando vuoi tu. Cosa ti costa essere un po' meno... ». E si fermò.
Stava sorridendo.
Come se stesse guardando e sentendo qualcosa di davvero divertente, di bellissimo. Forse un po' accecante. «Sono qui».
Era davvero lì, su questo non c'era il benché minimo dubbio; lei, inchiodata su quella sedia – e di Sayumi non c'era nemmeno l'ombra – con le braccia che cingevano le proprie spalle e lui, le mani sui braccioli della sedia e la schiena lievemente piegata, forse per farsi un po' più vicino all'albina. Faceva una grande ombra, con la sua larga schiena.
E il viso inclinato di lato e una larga e sorniona – bellissima, luminosa – curva. Era così vicino, eppure, la sua mente era così indecifrabile da... essere distante. Era talmente vicino al suo viso che lei poteva vedere quelle lunghe ciglia, un paio incastrate fra di loro, a fare quella leggera ombra sulle iridi. Era così vicino.
«Già, lo vedo», disse Yuki. «Fa caldo».
E lui rise, con tutta la naturalezza del mondo. Certo, lui rideva! E lei si prendeva gli infarti, ovvio. «Quindi potresti gentilmente spostarti? A momenti mi cadi addosso e mi schiacci, Takeshi».
«Chéri, sei la dolcezza fatta persona», sussurrò lui – senza staccarle lo sguardo di dosso. I capelli che come sempre non avevano un vero e proprio senso, cadevano spinti dalla gravità e i suoi occhi erano finalmente messi più in vista. Per questo, per lei, era stato così semplice notarli – accennò un sorriso. «A-ah».
«Però ero serio, prima», aggiunse Takeshi, staccandosi dalla sedia – un passo indietro, leggero. «Non devi addormentarti così».
Yuki lo guardò, colpevole, incassando la testa fra le spalle; naturalmente, la mezzosangue capiva che il bel moro avesse ragione, non era così sconsiderata, ma... «Non hai dormito?», chiese poi Takeshi.
«Hm, insomma», rispose lei. "Insomma" era proprio adatto. Con quegli incubi che l'attanagliavano la notte, non era proprio- non ci riusciva. E dire che già era un'impresa quotidiana cercare di prendere sonno nel momento della giornata che, per lei, non si poteva dormire! E mentre pensava al fatto che avrebbe potuto addormentarsi salendo le scale, lo vide portare, con un'eleganza flessuosa, un braccio dietro la schiena, piegato, e allungarle una mano – come se le stesse domandando un valzer. «Ti porto in camera»
«Hm». Prese la mano.
«Cosa?».
«Niente, stalker caro».
Takeshi inarcò un sopracciglio e, anche se per un quarto di secondo sembrò addirittura irato, era sinceramente divertito – sorrise e la tirò su dalla sedia. E poi, come se stessero realmente improvvisamendo un ballo, - senza regole, senza ma e se – se l'avvicinò fino a sfiorarne la punta del piccolo naso col proprio, fino a sentirne il respiro calmo, mentre portava l'altro braccio alla sua vita. La strinse appena. «Se avessi voluto fare qualcosa, l'avrei fatta prima».
A momenti l'albina incrociava gli occhi – oddio. Com'è che un secondo prima era tremante di paura e adesso di adrenalina, di aspettative?
Oh, non sapeva rispondersi, non ce l'avrebbe mai fatta; per questo serrò la bocca come se volesse preservarla e, in silenzio, aspettò che lui capì. «Intesi?», e la lasciò davvero andare, con delicatezza; tolse il suo braccio dalla vita e lo portò al proprio fianco, per poi farlo scendere per infilare la mano nella tasca del jeans. Yuki fece un passo indietro e gli scoccò una lunga occhiata: maglietta a manica corte nera e jeans chiaro con alcuni punti strappati. Hm. «Hai visto Yumi?», chiese, spostando poi lo sguardo altrove.
«No. Pensavo l'avessi vista tu».
«... abbiamo una dispersa, che bello».
E mentre la mezzosangue già si immaginava la sua migliore amica sbracciarsi nell'acqua tiepida perché incapace di nuotare, oppure rapinata e poi tragicamente rapita e portata fino in Polonia, si sentì toccare leggermente tutte e due le spalle – sussultò e si girò.
Sayumi e Tetsuya.
Insieme.
«Ah, ecco», fece Yuki. «Parli del Diavolo e spuntano le corna».
Yumi portò le braccia dietro la schiena, con fare innocente, per poi accorgersi che la sua amica non era sola – sobbalzò come un gatto scottato e si avvicinò al moro, rapida. «Ci sei, allora! Pensavamo che non saresti venuto», si fermò e guardò i tre, un sorriso da Stregatto. «Siamo tutti insieme! Manca solo Hokori».
Yuki si ritrovò, solo in quel momento, a ricordarsi che la cacciatrice frequentava la 2-D – per sua sfortuna. Che peccato, in effetti.
«Penso sia meglio così», disse Tetsuya, spostandosi una ciocca bionda. Poi, anche lui guardò Takeshi. Takeshi Katugawa... era quell'umano che aveva scoperto l'identità di Yuki, quella sera, nella biblioteca, proprio mentre la mezzosangue era intenta a cibarsi. Che gran tempismo.
A quanto aveva saputo, non era stato moltlo gentile nei suoi confronti nel periodo in cui era sotto il potere di Ai e... cosa avrebbe dovuto fafre, esattamente? Scusarsi? Provare a farci amicizia? Con un umano?
Ma che sciocchezze.
Nell'istante in cui Takeshi voltò il viso – sentendosi decisamente osservato ma abituato – il vampiro fece altrettanto, per mettersi, piuttosto, a guardare la reception come se fosse la cosa più interessante del mondo.
«Beh... tutto questo è abbastanza... hai preso la chiave?», chiese Yuki, a Sayumi. Quest'ultima sollevò la mano destra e l'apri, sventolando la chiave che teneva fra l'indice e il pollice. «Ce l'ho. Sono stata brava, mentre tu dormivi. E ora filiamo in camera a cambiarci».
Yuki annuì.
Santo cielo, se era d'accordo. Prima toglieva le tende, prima si allontanava da Takeshi. E nemmeno Tetsuya, in quel momento, sembrava la persona più piacevole con la quale avere una conversazione, quindi...
«A dopo», dissero, all'unisono, le due ragazze – e si avviarono verso le scale del secondo piano. Lasciando un umano e un vampiro da soli.

Entrambi bellissimi, entrambi di poche parole.
Sarebbero diventati molto amici, sì sì.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

La stanza aveva quella bellezza tipica del tradizionalismo che, agli occhi delle due ragazze, appariva davvero mistico, con uun tratto ambiguo; forse la misticità risiedeva nell'ampiezza della stanza – 10 tatami – o da quella veranda che si affacciava sul panorama più luminoso e bello che Yuki avesse mai visto.
Le finestre erano già aperte, mostrando la distesa celeste puntellata di rosa o di un colore appena più rossiccio, con il leggero e caldo – quasi tropicale – venticello. Trasportava persino, con sé, qualche granello di sabbia che andava disperdendosi e diventando sempre più piccolo, sempre di più, fino a dissolversi nell'aria.
«Potrei decidere di murarmi da qualche parte», disse Sayumi. «L'importante è restare qui».
«Concordo. E' davvero bello», mormorò Yuki.
Doveva ammettere di essere rimasta sorpresa, dal ryokan, dalla camera, dalle presenze: forse non sarebbe stata male, quella gita. E mentre lei pensava, Yumi aveva già cominciato a trotterellare per la stanza, mollando la valigia e la borsa a tracolla di paglia intrecciata per terra. «Su su, muoviamoci!».
«Ehi», disse l'albina. «... guarda che pulirai tu».
Un vago «Hm-hm», raggiunse l'orecchio della mezzosangue, diciamo pure che riuscì a rassicurarla o, per lo meno, a sperare che quella stanza sarebbe arrivata intatta alla fine del loro soggiorno; intanto però si chiedeva dov'è che dovessero muoversi, loro due, e dove si fosse cacciata Sayumi se fino a qualche minuto prima era proprio al suo fianco. 
C'era da pensare che avesse qualche potere come Yuki, mpf – lasciò la valigia a borsa sul basso tavolino al centro della stanza.
Okay, adesso che se l'era per--- «Fiiinito! E tu sei ancora qui. Eddai!».
L'albina aggrottò la fronte. «Ma finito cosa. Ma dove sei. Che diavol-- ».
Ed eccola, la sua cara amica che scompariva e appariva a suo mero piacimento, mentre usciva dalla porta scorrevole proprio alla sinistra di Yuki, stirando le braccia verso l'alto e... decisamente mettendo in mostra ciò che madre e natura le aveva concesso; il fisico che – l'albina lo sospettava – dimostrava di non essere solo snello ma anche e soprattutto allenato, con addominali accennati e gambe sottili e toniche, sarebbe stato invidiato anche da una modella.
Il tutto, coperto da un costume e a due pezzi rosso fuoco, annodato intorno al collo con un fiocco – e un secondo a unire le due coppe.
«... wow», sussurrò Yuki. «Stai davvero bene- quando... ?».
Sayumi lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, velocemente, con un bel sorriso ad illuminargli il volto. «Quando meno te l'aspetti!».
Bene, la mezzosangue avrebbe potuto continuare a guardarla stordita oppure darsi una mossa e prepararsi anche lei. Oddio.
«Forza, sbrigati», esclamò l'altra. Portò una mano alla fronte, per stostare ribelli ciocche. «Aaah, sarà imbarazzante... !».
«Imbarazzante?». Yuki si era appena chinata per sprofondare con le braccia all'interno della valigia, con tutte le intenzioni di acchiappare ciò che le serviva – ora cadeva. «Beh, è la prima volta che andiamo al mare con quella gente della classe e-».
Yumi grugnì. «Hmmm».
E la mezzosangue cominciava a non capire più la ragazza. Cacciò il costume dalla borsa, quasi facendolo volare per aria, per poi poggiare anche quello sul tavolino. Poi guardò Sayumi. «Cos'è imbarazzante, se non la loro presenza o- boh, loro, insomma».
E la diretta interessata tacque.
Allungo.
Ma proprio per tanto.
O meglio – sembrava di non voler proprio parlare. Sembrava che se fosse stato possibile, sarebbe stato in silenzio per tutta la vita. Con il volto... in fiamme? «Yumi?», chiamò, turbata, Yuki.
«Che... oh mio Dio».

 

 

 

 

 

 

* ryokan: il ryokan è, come penso avrete intuito, un albergo – o pensione – in stile prettamente tradizionale. Oh beh, in realtà "prettamente" non è esatto, la tecnologia esiste anche lei. :"

** tatami: è il classico pavimento giapponese, composto da panneli rettangolari posti l'uno di fianco all'altro, fatti di paglia di riso intrecciata e pressata.

E niente, di solito per chiarire la dimensione del pavimento si dice "10 tatami", "14 tatami", ect.

 

 

 

 

 

NOTA DELL'AUTRICE:
Dunque. Dunquedunque.
Avrei dovuto postare questo capitolo il mercoledì scorso, il 3 Dicembre e non---... l'8.
E in realtà, il capitolo era pronto e tutto il resto ma mi pesava troppo fare la persona responsabile e aggiornare, scufate. (?)

In ogni caso, voi mi amate, io vi amo, QUINDI E' TUTTO OKAY SI' SI'.

Devo dire di essere piuttosto felice di averli portati a Kyoto in gita scolastica, sapete, è abbastanza difficile scrivere una storia i cui luoghi sono per la maggior parte una casa mastodontica e una scuola e riuscire a renderla interessante. cvc

In ogni caso, mercoledì naturalmente aggiornerò con il 28° e... nient'altro. GODETEVOLO~

 

Night, ovviamente, con affetto.

 

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Capitolo 28
*** Vivere per dovere? ***


 

 

Ti rendi conto che qualcosa ti sta sfuggendo di mano

quando non ricordi più come si fa a riprenderla.

Yuki.

 

 

 

 

 

 

Vivere per dovere?

 

 


 

 

 

 

 

Yuki conosceva i suoi polli. Li conosceva come le madri conoscono i propri figli, sebbene questi dicano bugie, omettano diverse fasi della loro vita, anche se, morale della favola, non sono onesti: eppure, il sapere c'è sempre. Onnipresente e onnipotente. E non era un modo per mettere in guardia il figlio – un modo per dire "Quindi non preoccuparti".
Cionostante – la sorpresa. Essa c'era. E chissà, forse un poco di delusione nell'averlo dovuto scoprire, e non sentire dalla diretta interessata che, meraviglie delle meraviglie, aveva perso tutta l'allegria con un rosso preoccupante e acceso. «... oh mio Dio, adesso ho capito».
Sayumi non disse nulla. Si limitò a spostare le braccia sul davanti e a portare una mano alla spalla, per massaggiarsela – sotto lo sguardo di Yuki. Ghiaccio. Ansia.
«E mi... », l'albina si fermò un attimo e inspirò – la traccia cadde dietro. «... non so. Forse non dovrei sentirmi così. Ma devo dire che mi dispiace. Molto». Sayumi trattenne un sospiro nel fondo della propria anima ed aspettò. Aspettò il momento in cui Yuki avrebbe pronunciato le parole che avrebbero reciso la loro amicizia; e i motivi potevano essere di diversi, a partire dal fatto che non era stata onesta con lei.
E allora – aspettò.
«C'è qualcuno che ti piace, non è vero?».
Sussultò.
Esatto, pensò l'umana, esatto, Yuki-chan.
«E'... ». E l'attesa non era mai piaciuta a nessuna delle due, perché faceva male nel profondo ed era inutile, ridicola e inappropriata e... e comunque, in quel momento, c'era solo quell'infinta e agghiacciante pausa. Smorzata ogni tanto dai soffi quasi inudibili del vento e da tintinni delicati e melodiosi. Il vento e i tintinni si univano – che fosse un furin?*
«... è chiedere troppo o pensi di dirmi chi sia?», sussurrò la voce algida della mezzosangue – Sayumi sobbalzò, di nuovo.
«Ah-... ». Si fermò, buttò fuori un lungo respiro. Non ha capito che..., e nemmeno nei suoi pensieri riusciva a pronunciare quella frase, ad ammettere come stavano le cose e quanto si sentisse idiota, in tutta quella situazione. Chiuse la bocca e guardò Yuki, seduta a terra sui talloni e le mani poggiate sul tavolino, forse era sul punto di andare sul serio a prepararsi. E lei- lei si era fissata in quel punto, appena fuori dalla porta scorrevole. Nemmeno quel costume aveva più importanza.
Chissà, magari il fato – e l'albina stessa – volevano soltanto offrirle il momento giusto per dire la verità. Abbassò gli occhi a terra, sul tatami, e fece un leggero cenno col capo. «... è una persona. Un umano. Voglio dire, una persona... molto bella». Sollevò lo sguardo, incrociando quello dubbioso della mezzosangue dai capelli argentei – era stata vaga, sì. Lo riconosceva.
«Che vuol dire?», chiese Yuki, aggrottando la fronte – quasi calma. «Fisicamente? Esteticamente? Interiormente? Tutte e tre le cose?». Ebbe l'impulso di abbassare anche lei gli occhi e lasciar perdere quella stupida conversazione, ma- l'istinto di protezione che aveva e che era così oppressivo, nei suoi confronti, superava ogni cosa.
Persino la voglia di respirare l'aria salmastra del mare – di buon umore. «Senti, non voglio di certo... farti il terzo grado o checchessia. Assolutamente. Ma mi piacerebbe almeno sapere se è un bravo ragazzo. O una brava ragazza. Insomma- non so nemmeno se sei etero, bisessuale o lesbica o... non so niente, Yumi».
«Da che pulpito viene la predica».
Yuki batté le palpebre. Come? Cosa? Chi aveva parlato?
Di certo quella non era la dolce e un poco stridula voce di Sayumi, no... era entrato qualcuno e lei non ci aveva fatto minimamente caso. Perché stava parlando con lei di un fatto importante – ecco, tutto spiegato.
Si girò, a sinistra, a destra. Cercò la voce. 
Ma nulla. Nessuno, a parte loro due.
«Che stai facendo?», mormorò Sayumi – bassa, impenetrabile. Era appena diventata un muro o peggio, una lastra di ghiaccio. Il solo tocco faceva male, tanto era freddo.
«Sto... », cosa? Non c'erano spiegazioni, non c'era niente da "spiegare".
La voce inespressiva, la stessa di un guerriero fasciato dalla propria armatura grigia, era proprio quella di Sayumi – la sua Yumi. La sua dolce ragazzina un po' asociale, che parlava solo con lei, aveva appena parlato come se davanti ai suoi occhi ci fosse un nemico. La vide chiudere gli occhi e raccogliere la forza di volontà.
E poi parlò – era livida. «Per favore, non dire niente. Ne va della tua coerenza. Sai quante volte ho cercato di scoprirti, Yuki-chan? Troppe. E quante volte ho ricevuto uno sguardo che non diceva assolutamente nulla? "Devi solo capirmi" e mi sarebbe piaciuto farlo, come hai detto tu stessa. Ma come si fa a capire un manichino?».
Poi, niente.
Solo lo scrosciare del mare.
E il suo muoversi lentamente per prendere una giacca, mettersela addossa, raccogliere le scarpe.
E lo sbattere solitario di una porta.
Il manichino chiuse gli occhi.

 

 

 

 

***

 

 


 

«Yu---... !». Il vampiro biondo trattenne il respiro e strinse di più la presa, piegando leggermente la schiena in avanti – Dio, era stordito. Con una linea di sudore che gli percorreva la tempia e una seconda che correva lunga la colonna vertebrale, lambendo la pelle bianca, bramando la sua lucidità
«Hmm», fece Yuki, facendosi indietro con la schiena. «Io--... ». L'albina si morse violentemente il labbro inferiore, soffocando un lamento e... 'ccidenti, a momenti bruciavano come lucertole al sole! Forse non erano stati molto furbi, Yuki e Tetsuya, a sedersi sulle poltrone nella veranda dell'albergo, dalla parte dell'ingresso, i piedi immersi
nella sabbia cocente e il sole che batteva senza pietà sui loro capi.

Con quei capelli già così chiari, avrebbero finito col schiarirsi ancora di più!
«... ho caldo», brontolò la mezzosangue.
«E sei pure in costume, tu», replicò Tetsuya. «Cosa dovrei dire io, che ho addosso i vestiti? Ah, dannazione».
Yuki Akawa in costume da bagno. Il vampiro le lanciò una piccola ma eloquente occhiatina, con un mezzo sorriso; l'albina si era sentita come al primo giorno nella scuola umana che, ormai, aveva imparato a conoscere: una foca leopardo in mezzo a cani e gatti.
E il motivo, per una volta, Yuki l'aveva azzeccato – soprattutto aiutata dalle occhiate del vampiro – e... diciamo che non aveva avuto da ridire. Le ci era voluto un po' per rimettere al suo posto il cervello e trovare la forza di alzarsi, cambiarsi e poi scendere le scale per raggiungere la spiaggia e gli altri. Come aveva detto ad Ai, era indistruttibile perché poteva sempre rialzarsi da terra, a prescindere dal tipo di attacco che avrebbe accusato – ma poteva provare a schivarli, magari.
Comunque, non riusciva bene a capire per cosa avessero discusso. Nella sua testa aveva risuonato forte e incisiva quell'unica parola, quell'unico appellativo – "manichino".
Era rimasta immobile, seduta. Il respiro trattenuto, la bocca serrata e gli occhi appena sgranati.
Solo dopo qualche minuto era tornata effettivamente attiva; meccanicamente, con la vivacità di un bradipo, si era tolta la divisa per indossare quel dannato costume viola scuro, il cui pezzo superiore era legato intorno al collo – come quello di Yumi, insomma – e due piccole ma graziose farfalle al pezzo inferiore, ad entrambi i fianchi, come se stessero reggendo quel pezzo di costume – i capelli intrecciati in due trecce.
Non aveva senso restare lì, in quella stanza... tanto valeva scendere – forse.
Con una giacca a maniche corte addosso, aperta, aveva superato velocemente qualche gruppetto da tre-quattro studenti - ... un poco distratto – e si era fiondata giù.
Cercava Tetsuya, Takeshi e anche Sayumi.
Per il vampiro biondo, le era bastato concentrarsi appena appena sulle voci femminili nei dintorni e, tramite urletti entusiasti e voci otto ottave più alte, aveva raggiunto il vampiro biondo dal sorriso gentile.
«Oh», aveva fatto, col suo sorriso irritante in volto. «Dovresti metterlo più spesso».
Il solito, pensava l'albina, mentre studiava distrattamente la sua figura girata di tre quarti, su quella poltrona, uffa.
Non si allargava mai più di tanto, nei complimenti, e chissà se non avesse imparato a farlo conoscendo l'albina dal sangue misto – la sua amica di infanzia.
«Quindi», il vampiro bevve un po' del suo thé alla pesca, guardando lontano, verso il mare. «avete avuto questa... discussione... e poi, è sparita».
Yuki annuì, silente, trasferendo l'aria per gonfiare le guance, da esse alla bocca.
«Non ha del tutto torto», continuò Tetsuya, assorto. «Ma non posso dare un parere concreto, non avendovi viste per tutto questo tempo. Come ti rapporti, con gli umani?».
Certo, Tetsuya conosceva la Yuki mediamente cordiale, con la quale parlare non era poi tanto complicato come si pensava; ma sugli umani non sapeva proprio che dire.
«... lasciamo perdere», grugnì la mezzosangue, arricciando un poco il naso. Il suo addome piatto si ritirò leggermente, mentre inspirava l'aria salmastra e guardava la sabbia quasi dorata, a causa del forte sole – era piacevole. Come farsi una doccia di tranquillità e giornate felici. Ecco, in quel momento, seduta di fianco al suo migliore amico, con le sedie rivolte verso una distesa riflettente ma dell'azzurro più fulgido che ci possa essere, e con voci frizzanti che carezzavano l'udito, con il suono ritmico delle cicale, si sentiva bene. Senza nessun pensiero per la testa, nessuna critica, nessun ricordo distrutto dalla consapevolezza che era solo quello – un ricordo.
Si rendeva conto che senza di lui non sarebbe stata niente, non si sarebbe tenuta sulle sue gambe – sarebbe affondata come un vascello.
Che fosse così tanto legata a lui, dopo tutto quello che era successo, era forse dovuto al suo sangue per metà vampiro? Alla fratellanza? Probabilmente, non era nemmeno possibile includere la stupida fratellanza di cui si vantavano, come uomini stretti nei loro abiti costosi e le mani fetide di bancanote – i pugnali latenti.
«Ah, guarda chi arriva», disse Tetsuya – lei sussultò. Scosse appena il capo e guardò chi stava camminando verso di loro, che si passava lentamente le dita lunghe e sottili fra i capelli bagnati, spostandoseli indietro, alzando il volto madido.
... non è legale!, pensò Yuki, stringendo convulsamente le dita intorno ai braccioli – lo vide battere lentamente le ciglia nere.
Gambe lunghe e snelle, ma abbastanza solide da essere reputate allenate, con polpacci definiti – ma non erano esattamente le gambe ad averle appena tolto il respiro: quanto più ciò che c'era più sopra; a partire dagli addominali obbligui, pronunciati – quella v che lasciava il resto all'immaginazione –, per poi salire all'addome e a quelle forme quasi geometriche, tracciate da tante, tantissime goccioline d'acqua che scivolavano disordinate, traslucide e... stava davvero bene, con i capelli tirati indietro.
Non c'era dubbio.
«Eccovi. Pensavo che sareste rimasti fabbricati nelle vostre stanze».
«Takeshi».
«Hm?».
Yuki assottigliò lo sguardo. «No. Tu. oggi. mi. uccidi». Niente, per quel giorno e il prossimo a venire sarebbe stato impossibile parlargli e guardarlo negli occhi al contempo.
Quei pettorali sembravano davvero ben fatti, marmo modellato. E se avesse allungato una mano?
Sicuramente Takeshi non avrebbe avuto niente da ridire – err, basta. «... e Sayumi?».
Lei inchiodò gli occhi al pavimento. «Dovrebbe essere qui, da qualche parte. Ci siamo divise». Takeshi mormorò qualcosa come un «Capisco», salendo i tre scalini che precedevano l'entrata, per poi passarle di fianco e lasciarsi cadere piano sulla poltrona più dietro – scosse il capo con veemenza. Le labbra erano umide e più rosee, con una goccia che sembrava indugiare su di esse, traballante – fin quando non le chiuse e serrò.
«Ah... uhm... », mormorò.
«Vuoi... dire qualcosa?», chiese Yuki, girandosi con la sedia di un poco, a guardare verso di lui ma non lui. Evitare. 
«In effetti», disse sottovoce lui. Aveva reclinato il viso verso il basso, con le punte dei capelli che gocciolavano ritmicamente al pavimento, come se degli esserini minuscoli stessero camminando. In quel breve silenzio, solo il lontano frastagliare delle onde e il vociare astratto delle persone sembrava dare un senso di realtà al momento.
Takeshi sollevò il volto e guardò le spalle di Tetsuya. «Come dovrei chiamarti?».
«Prego?». Il vampiro si girò verso il moro, aggrottando lievemente la fronte, incerto se avesse capito o no.
«Dico: vabbene Tanigawa-san? Tetsuya-kun? Tetsuya e basta?», riprovò il ragazzo – si mordicchiò le labbra.
Il diretto interessato tacque, spostando lo sguardo in un punto imprecisato, seriamente pensieroso su cosa rispondergli. Alla ragazzina umana aveva detto che "Tetsuya" era apposto, quindi... «... vabbene Tetsuya».
«Tetsuya. Afferrato», mormorò Takeshi.
Con un sospiro di sollievo, appoggiò pigramente la schiena ancora bagnata allo schienale di legno della poltrona, assaporando il venticello sulla pelle e i brividi che si creavano, a seguire, sulla spina dorsale – sulle braccia, sulle gambe. «Perché non venite a nuotare?», disse.
«Perché il sole è troppo forte», rispose Yuki, tornando a guardare verso il mare. Ragazze in bikini che correvano e camminavano con ragazzi, che scherzavano e, nell'acqua, riusciva a vedere qualcuno giocare a pallone, gettarsi l'acqua addosso e ridere, ridere e ridere. «Potremmo scottarci».
«Davvero?», mormorò il moro. Non pensava – l'albina annuì piano. E lui si alzò. «Peccato».
Ormai la pelle si era quasi del tutto asciugata, soprattutto a contatto con l'aria calda di quella veranda con il tetto che faceva un enorme ombra, e visto che aveva parlato finalmente con Yuki – e Tetsuya –, tecnicamente, poteva anche tornarsene in mare... eppure.
«Venite», disse. Gettò un'occhiata celere alle sue spalle. «In acqua non dovreste avere gravi problemi. Non fate storie, su».
I due lo guardarono, tra fronte aggrottata e bocca storta, più cinici – e vagamente irritati – che mai. D'altronde, erano loro quelli in pericolo.
«Hmmm», fece la mezzosangue. E doveva proprio dirlo, si sentiva un pochetto in imbarazzo con i suoi occhi puntati addosso, con quel costume viola scuro che lasciava le sue curve, la sua forma in bella vista. Si sarebbe gettata addosso un piumone.
«Il punto è che», lui sorrise e inclinò il capo. «non era una domanda».
Rapido, improvviso, se stesso, prese una mano ad entrambi e se li tirò contro per farli alzare da quelle sedie, per farli vivere. Anche se si narrava che i vampiri fossero dei cadaveri tornati in vita, lui non avrebbe lasciato che quei due si fossero davvero fossilizzati lì, come anziani che aspettano la morte: per questo non si fece complimenti e li trascinò. «Take!», quasi gridò Yuki.
«Silenzio!».
Tetsuya rivolse uno sguardo rassegnato all'amica, scuotendo il capo lentamente – aveva capito.
Insomma, era un libro di fantascienza, quel tipo, del tutto limpido – ai suoi occhi da vampiro. Ma lei non voleva lasciar stare, perché voleva allontarsi; e invece, in brevissimi attimi che andavano dai tre ai cinque minuti, ecco che si era trovata con l'acqua fino alle ginocchia nude e la mandibola serrata, dopo che aveva scalciato nervosamente nella sabbia cocente.
Ora lo prendeva a morsi. «Accidenti a te, mentecatto!», urlò, per poi cercare Tetsuya con lo sguardo d'ambra – ed eccolo. 
Ed eccolo, cavolo.
Immerso nella tiepida acqua estiva, anche lui fino alle ginocchia, con indosso dei vestiti fradici – e questo significava una sola cosa; un'unica ed ovvia risposta al gesto improvviso di Takeshi; i suoi abiti, dalla fine del pantalone nero fino alla parte dell'addome della camicia linda, erano attaccati fermamente alla sua forma fisica – la trasperenza della camicia era così...
E disgraziatamente, il rumore e gli schiamazzi dell'albina, avevano attirato abbastanza attenzione da potersi sentire addosso sguardi curiosi, sguardi ammaliati – Yuki deglutì.
«Grazie», disse Tetsuya, aggrottando la fronte. «Era proprio ciò di cui avevo bisogno!».
Ed era inusuale che uno come lui avesse alzato di quel poco la sua voce calma e schiva. Con le mani madide di acqua salata, andò a tirarsi indietro i capelli biondi e a reclinare la testa indietro, il collo, fin quando il bellissimo viso non fu iradiato dalla luce solare – caldo.
«Tetsu, tira avanti la faccia- idiota!», sibilò Yuki, a denti stretti.
Giusto, pensò il vampiro con un leggero sussulto, eseguendo quello che era stato un ordine poco felice – e la guardò. Le sue trecce erano un poco scompigliate, con ciuffi che spuntavano selvaggiamente e i capelli sulla fronte spostati a cadere sull'occhio sinistro.
Il vampiro biondo pensava – non sentiva calore. Non quel tipo di calore, di bruciore, di afa che sospettava; chissà che forse Takeshi avesse avuto ragione, che in acqua non avrebbero rischiato? L'acqua aveva funzionato come uno scudo trasparente?
Improbabile. «Tutto okay?», ridacchiò appena, Takeshi, mentre indietreggiava nell'acqua cristallina e ci affondava le dita – ricevette un'occhiata irata dall'albina. «Per miracolo». E mentre bisbigliava quelle che sembravano imprecazioni, intercettò lo sguardo topazio di quel dannato moro combina guai e-- uff, e vabbene, ormai il danno era fatto e quasi le dispiaceva rimproverarlo.
Tra un sospiro e un brivido di freddo – d'altronde, l'acqua era ancora un poco fredda – portò una treccia davanti al petto per toglierne l'elastico e fece lo stesso con la seconda; con un altro unico gesto, lasciò cadere le lunghe onde albine, calde per il sole, lungo la schiena nivea – come una cascata di ghiaccio purissimo.
«Vedrai», disse, in un soffio – c'era un sorriso crudele. «Te la farò pagare».
E mentre le voci si ammassavano e il chiasso non cercava nemmeno lontanamente di diminuire e i palloni di cadere a picco nell'acqua – Yuki diede le spalle ai due.
La sua schiena, latente, per quel manto algido, sembrava che stesse dolcemente invitando qualcuno a seguirla; sì, come le sirene e i loro incantevoli canti, nel pieno della notte, con le code che si agitano appena appena – era una richiesta, quella della mezzosangue.
Nei confronti di quel marinaio che la guardava piano e che, puntualmente, salvava la sua anima dall'oscurità degli incubi. 





* furin: sono campanelle che suonano quando c'è vento e di solito vengono messe in estate, visto che riescono a dare l'impressione di "fresco".

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Capitolo 29
*** Nel fondo del passato. ***


 

 

Rompimi, spezzami.

A song.

 


 

 

 

 

 

Nel fondo del passato

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le sue braccia si muovevano, prima la sinistra e poi la destra, ritmicamente e celeremente, come le gambe, che parevano una vera e propria coda di essere marino. Sentiva la velocità crescere vertiginosa, l'acqua battere contro il proprio addome e i capelli lontani dalla schiena – tuttavia, non rallentava di una sola bracciata; casomai, andava sempre più rapida, più irragiungibile, creando una distanza fra lei e la riva che cominciava a prendere forme sfumate e indistinte, quasi fosse solo un miraggio.
Ed era certa di non essere da sola.
Le bastò, infatti, gettarsi un'occhiata indietro – eccolo, l'aveva visto con la coda dell'occhio d'ambra. Si aspettava che sarebbe stata seguita proprio da lui, lo immaginava. Con un sorriso placido, fermò la nuotata, solo per rivolgergli qualcosa che aveva tutta l'aria di uno sguardo di sfida – "credi di potermi prendere?", sembrava dire quel sopracciglio inarcato. 
Gli diede le spalle, ne intercettò la profonda sorpresa negli occhi, nei lineamenti bagnati appena smossi e nella bocca vermiglia – lei riprese, maledicendo i propri capelli. Erano come una corda di argento fuso e fabbricato, la tenevano al guinzaglio e finiva per andare avanti per inezia.
«Ehi», sentì la sua voce nelle orecchie leggermente tappate dall'acqua, oh, che fosse lui la sirena, dei due? No, non si sarebbe donata una rivelazione di quel calibro, soprattutto perché era di Takeshi che si stava parlando – si immerse per ricominciare a sfuggirgli via. 
Era meglio così, che lui le desse ascolto, una volta tanto. C'era una ragione se lei era ancora viva, nonostante quegli anni trascorsi tra uno scontro e l'altro, tra un sicario e un pazzo, tra gli Addetti e il Consiglio. Quel ragazzo non se ne rendeva conto, evidentemente – ma lei sì, certo.
Spuntò con il capo fuori dall'acqua e respirò, con un po' di affanno, l'aria leggermente più fredda e il profumo del mare che le bruciava le narici, prima di concedersi un'occhiata attorno e capire dove fosse arrivata; alle sue spalle, la riva era una specie di lunga linea orizzontale tempestata di puntini variopinti, mentre intorno non c'era altro che la continua di quella distesa turchina e trasparente – eccetto qualche metro a sinistra, dalla parte degli scogli.
C'era come una caverna, o qualcosa di molto simile – un'incavatura nella roccia?
«Non ti... », lo smuovere dell'acqua indicava che Takeshi l'aveva raggiunta. «... azzardare... ad andare più in fondo!».
Con il fiatone, – povero umano – raddrizzò la schiena e un leggero scricchiolio accompagnò il lento movimento. Portò le mani al viso, gocciolante, per tirarsi indietro la chioma color caramello mischiato al fondente – poi, lasciò cadere le braccia e inclinò il viso di lato.
Le sue labbra si erano stese nel sorriso più tranquillo che potesse trovare dentro sé, sembrava come anestetizzato alla vista di Yuki – ciononostante, era ancora bello come il sole di quel mese. 
Lei sorrise – era contagiata. «Ben arrivato».
«Grazie», fece il moro, sospirando leggermente. «Grazie tante. Non ho la tua resistenza, lo sai. L'hai fatto apposta». Come a volerlo imitare, Yuki reclinò il capo da un lato, portando i polpastrelli della mano destra alle labbra sottili e arrossate.
Non dire niente, sembrava volergli trasmettere, con quel debole gesto – forse persino lei si era un po' affaticata. Poi, con la tranquillità di un passerotto, gli diede le spalle per camminare nell'acqua, faticosamente, affondando i piedi nella densa sabbia: voleva raggiungere quell'incavatura.
Voleva toccare con le propria dita la roccia che appariva tagliente, pericolosa.
C'era qualcosa di dannatamente attraente in quel pezzo di mare – o meglio, di scoglio – lontano da tutto e tutti; Yuki non sapeva dire quanta distanza ci fosse fra il punto dove si trovavano loro e la riva, ma era certa che fossero più di venti metri. Forse trenta – Takeshi la seguì, silenzioso come suo solito, senza commentare nemmeno quel piccolo gesto. Si chiedeva solo perché sembrava tenerci così tanto, l'albina, a raggiungere quel punto; insomma, , era strano che ci fosse una caverna talmente piccola in un posto del genere, in un punto così impreciso e, in pratica, nel mezzo del mare della spiaggia, ma-- che ci fosse altro che lui non sapeva?
Qualcosa che nessuno sapeva, eccetto lei – questo significava qualcosa: probabilmente, avrebbe centrato con le creature sovrannaturali. Mentre sollevava lo sguardo sulla figura dell'albina – i lunghi capelli cadenti come una cascata di neve e quelli sulla fronte tirati indietro – e guardava come, abilmente, si appoggiava alla superficie con i palmi delle mani per sollevarsi, si chiese se allora esistessero realmente altre creature non umane.
Vampiri e demoni.
E che altro? Improvvisamente, ciò che gli era sembrata la prassi – apparì distorto, errato.
«Temo che potresti diventare molle», Takeshi sorrise appena alle parole buffe che gli vennero rivolte. «a forza di restare nell'acqua. Avanti, sali anche tu».
Restò di spalle, ferma sul punto appena salito, quel bordo roccioso ed inaspettametne liscio – sembrò avere un tentennamento. Come se avesse voluto girarsi e porgergli una mano.
Con un sorriso tranquillo, Takeshi si avvicinò di quei pochi passi che lo distanziavano, per poi fare gli stessi gesti di Yuki e riuscire a salire subito. Raggiunse l'albina che, frattanto, era andata un poco più avanti, lenta e cauta, ma con lo sguardo che danzava su ogni spigolo, angolo, lato di quel posto.
«C'era qualcosa che volevi vedere?», chiese Takeshi, una volta al suo fianco. Lei spostò il proprio peso da un piede all'altro, inarcando leggermente un sopracciglio.
«Non proprio», rispose. «Ma quando ho visto questo posto da lontano... ». E si fermò, indugiò, si morse dolorosamente il labbro inferiore appena umido.
Copiose goccioline picchiettavano ritmiche, come a scandire il tempo che loro due, da soli, passavano in quella che appariva come una caverna vuota, appena illuminata dalla distesa limpida e cristallina del mare alle loro spalle – Takeshi aspettò qualche attimo. «Non sei sicura?».
I suoi capelli non erano poi molto bagnati, non aveva immerso il capo come, invece, Yuki aveva fatto. Piegò lentamente il capo nella direzione della mezzosangue, a cercarne lo sguardo ora dubbioso.
«No», era laconica come se avesse passato una notte di tetri incubi. «Avevo la sensazione di aver già visto questo posto. Volevo appurare se fosse così o meno e... ».
Takeshi tornò a guardare la parete di roccia scalfita davanti ai loro occhi; linee irregolari, geometriche, che andavano a infrangersi fra di loro e a formare un inespugnabile muro senza significato. Eppure – Yuki aveva delle sensazioni.
«... sono confusa», disse infine.
Il moro strinse le morbide e rosate labbra fra di loro, battendo lentamente le palpebre, mentre cercava di trovare un senso a ciò che la mezzosangue gli aveva appena detto; la ragione dell'impressione della ragazza poteva, pensandoci, essere dovuta ad una sua visita da bambina... proprio in quel posto. E dunque, non lo ricordava bene.
No, improbabile, pensò.
Ed era improbabile anche solo perché era troppo semplice, come spiegazione.
«Sì, anch'io», borbottò – aggrottò la fronte e girò lo sguardo. Doveva esserci qualcosa, qualsiasi cosa, che avesse un... significato? Una rilevanza? Con passo lento, si allontanò dal fianco dell'albina, per avvicinarsi alle altre due uniche pareti. Si mostravano tutte identiche a quella di poco prima, taglienti e irregolari, di un colore tendente al grigio scuro.
Takeshi aveva appena posato l'indice e il medio su un punto a caso del muro, camminando lentamente e guardandolo, con gli occhi vacui di un turista assonnato. «Che facciamo? Torniamo ind---».
E si ammutolì, ad appena due passi compiuti – le sue dita.
I polpastrelli avevano appenao toccato il contorno di scritte carminee.
«Yuki, vieni qui».

 

 

 

 

***

 


 

 

«Dunque, uno alla volta, avvicinatevi e prendete il numero di almeno un professore. Mi raccomando, assicuratevi di averlo salvato bene. Nel caso in cui vi perdiate o non rispettiate il coprifuoco – le 23, non un minuto di più – il numero che avrete potrebbe essere la vostra ancora di salvezza o di sospensione».
Yamato Okamato diede queste istruzioni con un tono talmente rigido e algido che tutti, compresi gli altri tre professori, annuirono nel silenzio più tombale e rigoroso. Era sempre stato una persona di buon cuore, gentile e dedito alla socievolezza ma, non appena si entrava nel campo delle regole, si trasformava nella punta di un iceberg.
Yuki osservava l'uomo, con la sua espressione imperturbabile, la bocca sigillata e gli occhi che mandavano a rassegna ogni alunno lì presente – lo considerava un ottimo esempio di essere umano. Era certa che lui sarebbe stato capace di governare nel modo più giusto, ottimale, un regno.
«Se avete capito», riprese. «cominciamo».
L'enorme gruppo delle due classi unite – si trovavano nell'ampia hall, appena lambita dalle voci degli altri ospiti – si sciolse rapidamente e piccoli gruppetti, da due, da quattro o massimo da sei andarono a formarsi e a trottorellare dai professori.
Bene, e ora?, pensava l'albina, mentre gettava una piccola occhiata intorno a sé. Tetsuya era insieme ai professori, scambiava qualche parola, concedeva il proprio numero di cellulare alle studentesse- la loro voce, irritante e acuta, raggiungeva nitidamente le orecchie di Yuki – che nervi.
«Grazie, Tetsuya-san», diceva una. «Se ci perderemo chiameremo sicuramente lei!».
Ma non mi dire, pensò la mezzosangue, mentre serrava la mandibola, se hai preso solo il suo numero, chi pensi di poter chiamare, al suo posto- che idiota!
«Fate attenzione, però», Tetsuya e i suoi sorrisi da attore dei teatri kabuki*, era quasi una barzelletta – Yuki sorrise sadicamente. «Kyoto è una città grande, sarebbe difficile ritrovarvi».
Qualche altro schiamazzo, sciocchi sorrisini e cenni del capo e poi, lentamente, si dileguarono – i loro sguardi si videro. E lei aveva inteso i suoi messaggi muti. Eppure, il desiderio di eseguire ciò che lui le stava dicendo, non... comunque, non poteva decidere da sola di rivolgerle la parola.
In silenzio, spostò lo sguardo ambra dal vampiro biondo per cercarla, quella chioma color fiore di ciliegio, profumati e radiosi quanto essi – ed eccola. Non era molto distante, circa cinque metri; sembrava così piccola, ma al contempo intoccabile, mentre si faceva strada fra i ragazzi per uscire da quella rumorosa folla di pecore. Gli occhi concentrati a guardare dove metteva i piedi e la bocca che lasciava sfuggire sospiri.
I sospiri; persone pragmatiche come Yuki e Tetsuya definivano quei brevi e, spesso, affranti respiri come un secondo modo per respirare e nulla di più. Sebbene si sia sempre detto che i sospiri erano ciò che strappava piano piano, a piccoli pezzi, la felicità – quei due non ci avevano mai creduto.
Né durante la loro infanzia, ricolma di momenti curiosi e sorrisi dolci come miele caramellato, né nell'adolescenza compiuta in momenti diversi: Tetsuya non dimostrava la sua età. I suoi diciannove anni li portava come se non avessero valore. Erano solo due numeri messi l'uno di fianco all'altro, a fare bella mostra di loro – e null'altro?
D'altro canto, quell'età era passeggera: era solo la sostituta per un'età di quattro cifre, se lui stesso avrebbe desiderato.
Yuki raccolse l'aria appena più rinfrescata, proveniente dalle porte dell'ingresso socchiuse, e avanzò a larghe falcate verso Sayumi, verso la sua più cara amica – ella si fermò in tempo, prima di scontrarsi contro Yuki.
I loro occhi si incrociarono, i topazi e le ambre, i cieli e le distese di sabbia – i primi erano indecisi. Guardavano in basso, poi si decidevano a guardare quelli che aveva di fronte, anche se per poco, perché subito tornavano a concentrarsi su altro.
Fin quando- «Vai in stanza. Vestiti, preparati. Fai in fretta. E quando avrai finito, sarà il mio turno». Così disse.
E non era fredda, non era calda, non era altro che una persona che parlava con un altra, col tono più flemmatico di tutti i tempi – si sentiva così, lei. Come se fosse appena giunta sulla riva di una spiaggia desolata e sconfitta dall'uomo, ma era stata lasciata in pace – lei o l'isola?
Lei, o quell'isola?

 

 

 

***

 

 

 

In meno di due ore, il ryokan era talmente vuoto che gli unici rumori a dargli una parvenza di vita erano gli inservienti nelle loro tenute arancioni tutti intenti a sistemare in posti caldi la cena avanzata; dato che, alla fin fine, erano gli studenti e i professori della 2-B e 2-D ad aver improvvisamente gremito l'edificio tradizionale, – gli affari andavano, ma non così tanto come ci si aspetta – non c'era stato nessuno alla cena fissata per le 21:00.
E c'era da capirli, avevano tempo fino alle 23:00 per poter visitare Kyoto come pareva a loro, senza l'asfissiante quanto giusta supervisione degli adulti – erano già stati fermati per troppo tempo a ricevere raccomandazioni e numeri telefonici.
Ridendo, sbuffando e chiacchierando, la zona della hall era stata celermente svuotata e tutti si erano diritti nelle proprie stanze – con i loro amati bagni annessi – a prepararsi. Eccetto – eccetto Sayumi Ichinomiya, che si era avviata anche prima.
Con il cuore che le martellava nel petto e la testa schiacciata dalla voce inespressiva dell'albina, le aveva volto le spalle e aveva percorso le scale.
«Cherì?».
La voce di Takeshi era leggermente incerta, mentre cercava sul viso di Yuki un segno di vita, o meglio, di presenza – che si fosse addormentata come un cavallo? Il moro aggrottò la fronte.
«Cherì, non è il caso addormentarsi per strada, lo sai?», disse. «Stai prendendo un brutto vizio».
Yuki stessa era perfettamente cosciente, che lui avesse ragione, che stessero percorrendo quelle strade affollate – a volte scontravano le spalle – e illuminate da radiose lanterne di carta scarlatta, appese alle locande e alle bancarelle, come per farsi notare in mezzo a tutto quel caos; ma pareva che quelle fonti di luce non bastassero per i cittadini e allora, all'interno dei negozi, dei piccoli ristoranti, nei viaggianti carretti di dolciumi, venivano accese lampade e luci varie.
Nel quartiere Kamishichiken la vitalità appariva eccessiva, colorata come fuochi d'artificio, rumorosa, chiassosa, come se fosse appena arrivata al confine – boom! Era appena esplosa, ma Yuki non ci aveva prestato attenzione mentre, per l'ennesima volta, la sua spalla si scontrava contro il braccio di Takeshi.
Solo i profumi dei cibi, che si addentravano dentro le narici di entrambi, li alliettavano, riuscivano un poco a destarla dal suo stato di trance – cercavano di camminare stando vicini, loro due.
«Scusami», mormorò l'albina, spostando appena gli occhi – doveva sollevarli, se voleva guardare il ragazzo nei suoi bellissimi occhi di cioccolato screziato di nocciole. Sembravano un po' confusi, mentre la trovavano, ma quell'immancabile e calda sfumatura di dolcezza e comprensione gli illuminava lo sguardo, mentre intorno a loro la gente non accennava a diminuire e quasi li spingevano a stare più vicini.
La fragranza dei takoyaki**, dello zucchero filato, delle varie verdure bollite... erano solo alcuni degli innumerevoli spettatori curiosi. «Stai bene?», chiese, muovendo lentamente le labbra, come se non volesse affatto parlare – il rumore lontano dei fuochi d'artificio ovattò la sua voce bassa.
Yuki non rispose.
Nei suoi occhi si era impressa senza scampo la scena di una persona realmente e gentilmenete preoccupata per lei. Avevano appena scattato una fotografia col flash a pochi centimetri dalle sue iridi e adesso, adesso!, la retina ne risentiva, dolorosamente, forte e bruciante.
Un secondo fuoco d'artificio la fece sussultare poco poco. «Sto bene».
Avrebbe voluto aggiungere qualcosa, anche di sarcastico. Persino una frase insulsa come: "Ti sta bene quella camicia", sarebbe andata bene, sì. Takeshi avrebbe dato il via ad una discussione senza logica e regole, semplicemente un botta e risposta tra due elementi differenti quanto simili – loro lo sapevano?
«Sai, a pensarci bene», aggiunse lentamente la mezzosangue, con il vociare sfrenato nelle orecchie e la canotta annodata al collo che cominciava a darle fastidio. «Hm. Non ho ben capito cosa ci facevi al ryokan, prima dell'autobus, stamani». E intanto era tornata a seguire con lo sguardo le figure colorate ed energiche dei turisti e concittadini, mentre si mischiavano e camminavano allegramente – dunque non guardò il moro; né lui, né i suoi occhi appena colti di sorpresa che, un attimo dopo, erano già coperti dal consueto velo sornione – era al sicuro.
Le sue spalle si alzarono istintivamente, come se non avesse molta importanza. «Mio zio paterno è a capo del ryokan. Mi ha chiesto una mano e l'ho raggiunto prima».
Si zittì. Aveva deciso che non vi era altro da dire. Non era rilevante, come le sue spalle avevano suggerito. Yuki lo intuì – lo guardò di sottecchi. E sorrise lievemente. «Chiaro».
«Bene».
Takeshi osservò lontano, tra la folla che, finalmente, sembrava cominciare a smembrarsi, probabilmente volevano tutti assistere al grande spettacolo pirotecnico della mezzanotte; e avrebbe dovuto ringraziare lo spettacolo, se adesso poteva improvvisamente cogliere con gli occhi meravigliati delle silhouette, a primo acchito, di una geisha*** e due maiko****.
Erano stupende.
Con i loro capelli corvini acconciati in accurate – e probabilmente scomode – pettinature e i corpi fasciati e accarezzati dal tessuto leggero degli yukata***** dalle decorazioni di ogni tipo: dai fiori ai pois o alle righe.
Passeggiavano lentamente, scambiandosi parole e occhiate divertite, commentando forse su ciò che le circondava o sul caldo leggermente più asfissiante del normale.
Takeshi le osservava con la bocca schiusa. «Sono bellissime, vero?».
Nessuna risposta – il moro azzardò un sorriso. «Sei bellissima anche tu, lo sai».
Ancora, non una parola. «Non mi dirai che sei arrabbiata... ».
Forse si era addormentata per strada sul serio.
«Oh, for---- ... Yuki?».
In quell'istante solo una frase stava circolando per la sua testa, quando ebbe girato il viso per guardare alla sua sinistra.
Solo una, significativa, giusta: «Dove diavolo è finita. DOVE---!».

 

 

 

***

 

 

 

Okay, si era sbagliata.
Anche lei poteva commettere degli sbagli, comunque – sollevò gli occhi dai gioielli con incisioni scarlatte della piccola bancherella. Era stato a causa di ciò che aveva trovato con Takeshi, in quell'incavatura rocciosa, di cui ignorava ancora l'origine e il significato; a primo acchito era sembrata una lingua antica, ma nessuno dei due sapeva dire con certezza di quale lingua si trattasse – avevano fissato quelle scritte per molto.
C'era qualcosa che aveva fatto pensare alla mezzosangue che si trattasse di francese, ma...
«... hm?», come se si fosse appena destata da un lungo sogno – e in un certo senso era così – si accorse di essere "sola".
Takeshi non c'era – solo una mastodontica folla. Eppure, poco prima, la folla non aveva gentilmente deciso di svuotarsi? Quanto tempo era passato, allora?
Dov'era?
Improvvisamente si era resa conto di essere sola in mezzo a tutti; era stata questione di pochi attimi, il tempo di allontanarsi un secondo, spinta dalla curiosità, e avvicinarsi a quella stramaledetta bancarella e accertarsi di cosa ci fosse sopra – e l'aveva perso. Inspirando l'aria calda e umida, si staccò dal tavolo di gioielli e fece qualche passo indietro, infilandosi lentamente tra la gente scalpitante – strizzò gli occhi; oh, sentiva ogni cosa come se fosse sulla sua pelle, ogni odore, ogni profumo, ogni piccola frase, a momenti avrebbe percepito anche gli stati d'animo.
E mentre alle sue spalle qualcuno la spingeva leggermente verso la persona che aveva di fronte, sentì andarle a fuoco gli occhi, la gola, il naso, i polmoni – come se il caldo estivo fosse diventato arsenio.
Dannazione.
Non era passato molto tempo dall'ultima volta che aveva bevuto sangue, giusto? Era stato quella volta, quando era incapace di alzare un braccio e quel ragazzo, quell'irresistibile idiota... le aveva donato il sangue che circolava energico nelle sue vene.
Brusca e rabbiosa, nuotò tra i corpi che premevano per schiacciarla, per assorbirla, incastrando con i denti il labbro inferiore; le sfuggì un ringhio, qualche imprecazione e avrebbe sgomitato!, se la sua educazione non le fosse sempre stata d'ostacolo, l'avrebbe fatto.
Bene, pensava, ironicamente, nessuno me ne verrà a male se faccio una strage.
E finalmente i palmi delle sue mani toccarono il muro vicino ad una stretta – ma per lo meno vuota – stradina decorata da un fitto buio e il rumore di gocce d'acque che picchiettavano, piano, scandendo i secondi di quell'interminabile serata.
Serata in cui potrei finire col dormire proprio qui, pensò, con l'immancabile autoironia, non sembra... magari mi faccio ospitare. Se trovo un quartiere senza gente che ride e grida.
A mo' di anguilla, si lasciò scivolare dentro la viuzza, mentre spostava i capelli sul petto e li teneva stretti e arrotolati fra le dita – non avrebbero toccato un bel niente lì.
Diede un'ultima, accorata occhiata indietro.
Se avesse visto una chioma disordinata ma all'apparenza soffice, di un caldo colore caramellato, probabilmente avrebbe pianto per il sollievo o per un imminente crisi isterica. Ma non c'era.
In quel momento si sarebbe data un colpo alla testa – ma intanto se la prendeva fra le mani, disperatamente – per non aver chiesto il suo numero; d'altro canto, Takeshi era quel che era, cioè un odioso distruttore dalle idee malsane. Chissà cos'avrebbe pensato se lei l'avesse chiesto! Qualcosa di terribilmente sbagliato, imbarazzante, conturbante.
E proprio con questi pensieri che, ormai iraconda con se stessa e con lui, aveva raggiunto l'altro capo della stretta e afosa via, con le grondaie gocciolanti che avevano minacciato più volte di prenderla in pieno. Dall'altra parte, una strada identica a quella dove si trovava prima con Takeshi, non c'era quasi nessuno: qualche coppietta, i venditori di bevande e roseo zucchero filato e qualche ragazzino – silenzio.
Lontano, irragiungibile e indistinto, c'era il vociare vigoroso di chi ha voglia di fare festa e non badare più a nulla, compreso loro stessi; Yuki pensò sul serio di essere approdata dentro ad un sogno la cui postazione era una bolla, l'interno, tiepido e rassicurante, silenzioso come una biblioteca.
Aveva raggiunto la sua isola.
Mi sento quasi... , si sentiva debole, prosciugata – ecco, le sue gambe non avevano sostanza. Qualche passo, traballante e senza speranze, per raggiungere l'interno di un ristorante e sedersi lì, raccattare i pensieri e decidere cosa fare – non ci arrivò; il suo corpo la tradì a metà strada, proprio al centro della strada e del suo selciato grigio, lasciandola cadere sulle ginocchia nivee e pulite e poi, inesorabilmente, col resto del corpo.
Quel silenzio di poco prima era solo un'utopia, lei lo capì in quel momento – quando le voci si alzarono gradualmente.
«Oh, sta bene?».
«Dovremmo aiutarla... ?».
«Signorina!».
Che la lascino dormire! Una volta tanto, che la lascino sprofondare, che le lascino il ruolo dell'agnellino anziché del lupo famelico: ormai era sazia.
Buonanotte, pensò, mentre le palpebre diventavano macigli di titanio e si abbassavano, piano, lente, con tutta la calma, buonanotte a tutti. 
Ed evidentemente il fato ce l'aveva pesantemente con lei, perché quel secondo decisivo aveva perso importanza l'attimo dopo. Una voce gagliarda, strana le giunse all'orecchio.
«Oh, che bella ragazza---... voglio dire, scusami! Stai bene?».

 

 

 

 

 

 

* kabuki: il termine kabuki sta ad indicare una forma di teatro nata in Giappone, all'inizio del '600. E' piuttosto noto anche perché, all'inizio, erano le donne le uniche a recitarlo, per poi venire sostituite dagli uomini che hanno finito per occuparsi anche delle parti femminili.
** takoyaki: stento a credere che qualcuno non li conosca, but- sono polpotte fritte giapponesi, sferiche, con all'interno un pezzo di polpo. In realtà sono tipiche di Osaka, ma si mangiano un po' ovunque!
*** geisha: scambiate erroneamente per donne di facili costumi ((alziamo i mignoli)), sono delle tradizionali artiste e intrattenitrici giapponesi. Di solito intrattengono soprattutto con abilità legate all'arte: canto, danza, suonare uno strumento.
**** maiko: un'apprendista geisha.
***** yukata: un tipo di kimone estivo e leggero, fatto infatti di cotone invece che di seta o tessuti sintetici. E niente, so' belli.

 

 

 

 

NOTA DELL'AUTRICE:
Bene, ragazzi, bene bene bene. Sì, 'a volte ritornano'! X°

Devo dire che in questo periodo è difficile riuscire a farsi bastare le 24 ore--- o meglio, le 23 ore che abbiamo! -_____-

Non riesco a fare tutto e scrivere rientra nel 'tutto'! Uff.
Vabbé, a parte il ritardo e l'aggiornamento senza senso dell'ultimo periodo... enjoy! <|3

P.s: non sono sicurissima sulla questione delle geishe e delle maiko, se possono mettere degli yukata, quindi se ho sbagliato, corregetemi!

 

Night, ovviamente, con affetto.

 

 

 

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Capitolo 30
*** "Takeshi". ***


 

 

Può capitare di sentirsi sfuggire, tutto ad un tratto, ogni cosa che ci è cara; a quel punto, cos'è che dovremmo fare?

Takeshi.

 

 

 

 

 

 

 

"Takeshi"

 

 

 

 

 


 

 

 

Voci che si ammassavano; chiacchiericci e bisbigli intrecciati fra di loro; una mano che toccava con delicatezza la sua spalla – una voce gioviale. Yuki si sentiva soffocare e si domandava perché mai, era talmente distante dalle acque limpide di quella stessa mattina: stava percorrendo il selciato di una strada, d'altronde; ne ebbe la conferma quando aprì gli occhi e ne incontrò un paio scuri come la volta notturna di quella serata così strana – intensa –, appena latenti dalla visiera di un cappellino arancione.
«Dicevo, stai bene?», e poi c'era quella particolare luce, a metà fra il preoccupato e il curioso, come se stesse osservando una creatura mitologica e si stesse chiedendo se avesse male da qualche parte. «Ti aiuto ad alzarti».
E mentre quei due specchi notturni continuavano imperterriti a guardarla – contornati da ciglia nerissime e lunghe, come gli anelli di un pianeta –, vide quella persona, piegata verso di lei, con un ginocchio a terra e l'altro alzato, mettersi in piedi e porgerle una mano guantata – bianca.
Yuki batté le palpebre e scontrò le ciglia.
«Sì, sto bene», soffiò, sottovoce, mentre appoggiava un palmo a terra e si issava in piedi, da sola. «Sto bene».
Chissà per quale motivo stava ripetendo la medesima frase, quella persona – quel ragazzo – pareva aver compreso alla grande, a giudicare dal grande sorrisone che le illuminava radioso il volto, leggermente più scuro.
«Meglio così!», esclamò, riportando il braccio al fianco. «Mi assicuro che tutti stiano bene e che siano felici. E' il mio mestiere».
«Ah», fece Yuki, mentre la sua mente le ricordava che era sempre una buona mossa dar la ragione ai folli; quindi, con la tranquillità di un tempio Zen, rispose a quel grande sorriso con un espressione mite, tranquilla, distesa. «Mestiere svolto egregiamente. Sto bene e sono felice, felicissima, una Pasqua».
In quel momento l'albina capì che quello non era un ragazzo in grado di cogliere l'ironia o il pungente sarcasmo che gli avrebbe volentieri servito. Diamine, una persona di buon umore era l'ultima che avrebbe voluto incontrare!
Corrugò la fronte, formando un solco, mentre portava una mano al setto nasale e lo premeva appena – sospirò.
«Okay, ho bisogno del suo aiuto», il "lei" sembrava un optional per lui. «per tornare al mio hotel. Oh, è tardi, 'ccidenti... ».
«Aspetta, fammi indovinare!», proruppe l'altro. «Sei una studentessa in gita scolastica e hai un coprifuoco da rispettare. Dimmi che ho ragione».
Yuki piegò il capo di lato – sorrise, sarcastica.
«... no?».
«».
«Ah!», quasi urlò. «Sono un genio!».
Sei un mentecatto che ascolta ciò che vuole e che se adesso non si muove a darmi una mano finirà per farmi da cena, con tanto di candele, pensava la ragazza, incrociando lentamente le braccia al petto.
«Io invece ho diciotto anni, sai?», fece poi, il tipo. «Presto ne farò diciannove. Non ho mai finito la scuola e, diciamo, non me ne pento. Però mi piacerebbe frequentare un istituto d'arte... !».
«Sì, okay---!». Yuki chiuse gli occhi e si prese il viso fra le mani, mentre si sporcava la bocca pallida di imprecazioni pesanti. Un attimo dopo, l'aveva rialzata, le palpebre socchiuse e le sopracciglia chiare inarcate profondamente. «Vuoi vivere allungo, scommetto. Dunque, povero idiota, dammi una diavolo di mano o finisco molto male. Okay? Okay?! Ci siamo capiti? Do you understand me?».
«... a».
«Cosa?».
«... povera». La persona – ormai di dubbio sesso – si fermò. «Casomai».
Yuki balbettò, incredula, presa decisamente in contropiede; ... era una ragazza? Questa persona davanti a lei, era una ragazza?
Oh.
Questo spiegava i suoi tratti estremamente delicati e la voce un po' troppo acuta per essere quella di un maschio – ma quei "boku, boku, boku*" l'avevano confusa, sì; mentre si rendeva conto di essere arrivata al punto di scambiare una ragazza per un ragazzo, si concesse un'occhiata più attenta, approfondita – aveva un bell'aspetto; i capelli erano corti dietro la nuca e spuntavano da sotto il capello chiuso dietro, superando appena appena la linea della mandibola, scuri come carbone; sul davanti, c'erano due lunghi ciuffi che scendevano lisci e morbidi, superando il mento. Labbra carnose e rosee, naso piccolo e con la punta verso l'alto, lo sguardo distratto quanto vitale – era una ragazza carina, sì.
«BENE!», esordì Yuki, aprendo le braccia. «Povera idiota. Come ti chiami?».
«Makoto», borbottò, inclinando il capo verso destra. «Ma non dovresti chiamare così la gente».
«Makoto come?».
«Makoto Aozawa. Ho un bel nome, vero?».
Yuki si fermò, chiuse la bocca e sembrò rifletterci – annuì. «Sì, è vero. E' un bel nome».
Sincerità**.
Quella persona – quella ragazza – in effetti dava l'impressione di possedere la tipica sincerità disarmante che ti toglie il respiro, che non permette a persona del genere di Yuki di dire cattiverie o, peggio, di commetterle. Non andava bene, dunque. Proprio per niente!
«Makoto, ho bisogno davvero del tuo aiuto, devo trovare i miei amici», e benché la parola "amici" stonasse come una nota rotta sulle labbra della mezzosangue albina, la disse, perché si sentiva stanca e voleva solo dormire. «Dove mi trovo? Come faccio a tornare alla spiaggia Kotohiki?».
Makoto appoggiò le mani sui fianchi, energica, lanciando sguardi a destra e sinistra. Yuki ebbe l'impressione che nemmeno quella ragazza dalla pelle colpita dal sole sapesse bene dove si trovassero.
«Fammi pensare», disse Makoto. «Sei dalla parte parallela al Kamashichiken, quindi... devi passare per il quartiere Miyagawachou. Ti ci accompagno!».
L'albina arricciò le labbra e poi le storse, mentre sul suo viso un espressione dubbiosa prendeva il sopravvento; farsi aiutare o non farsi aiutare? Il grande dilemma per una persona orgogliosa e superba come lei, ah! Ma il punto è che se avesse oltrepassato le 23.00, le cose sarebbero diventate insostenibili, probabilmente – lanciò un'occhiata all'orologio da polso: 22.30.
Ecco, il tempo era diventato il suo peggior nemico.
«Vabbene, diamoci una mossa».

 

 

 

***

 

 

 

Miyagawachou, una delle "città di fiori" di Kyoto.
Un tempo, era un posto – un quartiere delle geishe – noto e conosciuto per la capacità di attrarre e intrattenere i turisti, le persone in cerca di un po' di bellezza e arte; numerose erano le case da tè e i piccoli teatri che costellavano le rive del fiume Kamo, silenziosa distesa turchina.
«Peccato che di questi teatri ne siano rimasti pochi», diceva Makoto, tra un passo e un sospiro. «Le rappresentazioni kabuki dovevano essere davvero belle... ».
Mentre camminavano verso quel quartiere di svago, Yuki poteva vedere i suoi occhi sognanti e nostalgici – in un certo senso – chiedere di poter ammirare quelle scene, quei momenti di fiato sospeso. Makoto alzò le spalle, e tornò a guardare l'albina. «Almeno c'è il Minami-za**. Yuki, non ti piacerebbe vederlo?».
Makoto aveva detto che il nome sembrava esserle stato cucito addosso; oppure, che solo dopo averla vista cresciuta e più bianca della neve, avevano optato per quel nome – la mezzosangue aveva ridacchiato leggermente.
«Sì, mi piacerebbe», rispose lei. «Mi piace il teatro. Ma temo che non ci sia il tempo».
Le piaceva ma, peccato, non ci era stata poi molte volte; aveva assistito a commedie e tragedie con l'impassibilità di un giocatore d'azzardo – okay.
La verità era che qualche frasette poco gentile le era uscita più che spontanea; quando, ad esempio. aveva visto per la prima volta Romeo e Giulietta... metà teatro si era girato verso di lei a fissarla come se le fosse spuntata la coda e un corno.
Makoto, alle sue parole, aveva storto appena la bocca. «Forse per vedere tutto lo spettacolo. Ma potresti assistere un pochetto!». Mentre attraversavano il quartiere a passo svelto, sfrecciando nell'aria calda della tarda serata, aveva notato persone di ogni genere; Yuki si era un po' sorpresa, alcuni avevano una strana bellezza, e Makoto sorrideva allegra – salutava tutti.
Si vedeva che era una specie di mascotte, per quei posti.
«... Makoto», mormorò la mezzosangue, aggrottando la fronte.
«Sarà divertente. Vedrai!».
Appena il secondo di aprire la bocca e contrastare le decisioni – imprevedibili, meravigliose – di quella ragazza che si spacciava inconsciamente per un ragazzo, che il suo polso era stato afferrato e da un momento all'altro e stavano correndo; rapide e feline come gattini troppo cresciuti, sfrecciano nella folla disordinata, mano nella mano, aumentando di volta in volta la velocità – Yuki lo stava facendo anche troppo.
Senza nemmeno farci caso, era diventata talmente veloce che le sue gambe erano diventate segni indistinti e rosei, confusi nella luce di quella sera: nemmeno Makoto se ne accorgeva – ma gli altri sì. Furono i loro sibili di sorpresa e quasi paura a far riscattare l'albina – a farla fermare di malomodo, turbata. Il suo respiro era fermo, così come il corpo, finalmente – Makoto aveva il respiro frammentato, giustamente.
«Te l'hanno mai detto che sei piuttosto veloce... ? Dio mio!», ansimò, lasciando la mano di Yuki con delicatezza, per poi volgere il proprio sguardo in alto e... eccolo, in tutta la sua magnificenza; alto per tre piani – escluso quello terra – e disseminato di luci gialle che andavano colorando i muri, di giorno bianchi, di un tenue dorato.
Le finestre quadrate, piccole, il tetto tipicamente giapponese con la punta verso l'alto... le labbra di Makoto si erano già incurvate, stava già assaporando l'eleganza di quelle creature mentre si muovevano da una parte all'altra, i suoi occhi rispecchiavano le luci invitanti e i loro colori sgargianti, il loro tocco tradizionale e le orecchie, esse attendevano impazientemente di ascoltare quelle voci delicate quanto forti.
Yuki guardò con la coda dell'occhio Makoto e il suo viso – vivo e meraviglioso, era bellissima. Prima non l'aveva capito.
Prima, quando era occupata a pensare a se stessa, quando non aveva nemmeno capito che fosse una ragazza la persona che l'aveva aiutata – una piccola fitta al petto della mezzosangue
L'infima mezzosangue, la sporca mezzosangue.
«Beh? Entriamo o no?», sbottò, sbuffando prepotentemente – prima di sorridere appena e tendere la mano a Makoto.
Lei sussultò come se fosse stata colta con le mani nel sacco. «... si capisce che muoio dalla voglia di andarci?».
«Neanche un po'».

 

 

 

***

 

 

 

L'ultima cosa che gli occhi delle due avevano visto, era stato lo sfiorarsi di sottili labbra tinte di scarlatto. Poi, con la medesima velocità con la quale erano arrivate, erano scivolate via dalle proprie poltrone e catapultate fuori – il rammarico era immenso. Yuki borbottava ancora, mentre guardava verso la strada che avrebbe dovuto intraprendere per tornare al caro e amato ryokan. Già.
Per quella sera, basta così.
«Ti accompagnerei volentieri», sospirava Makoto. «ma se mi allontano troppo, farò arrabbiare il mio capo. Cavoli». 
Yuki scrollò appena il capo, con un leggero sorriso sulle labbra sottili, addolcita dalla voglia di fare di quella ragazza. Stentava ancora a credere che non fosse un maschio – wow. 
«Forza, sgambetta fino al quartiere dove devi stare, me la caverò», disse lei. «Al massimo, farò segnali di fumo».
Makoto accennò una risata – sincera come quella di un bambino.

 

 

 

***

 

 

 

Yuki aprì gli occhi.
Un'oscurità contrastata dalla luce lunare e qualche sfuggente briciolo di luce dai lampioni avvolgeva ampiamente tutta la camera, riempita di ben sette adolescenti dormienti, dopo qualche ora passata a chiacchierare – più una settima, appena svegliatasi. Era stata una cosa un po'... ecco, Yuki e Sayumi non ci teneva più di tanto – si erano scambiate una brevissima occhiata, d'altronde... – ma quelle ragazze avevano insistito in modo talmente innocente che alla fine avevano detto di sì.
«Ma... hm... Akawa-san, posso farti una domanda?», aveva mormorato una, leggermente.
E Yuki non era sicura di volerle consentire una domanda – ma annuì, in silenzio.
«Tu e Takeshi Katugawa state insieme?».
L'albina si era strozzata con il tè.
Sayumi aveva deglutito.
E silenzio.
Ormai è tutto finito, pensava, mentre girava il capo, con calma, verso l'orologio digitale sul comodino sotto la finestra – aperta, con le tende velate spostate dal leggero venticello estivo: 3.28. Aggrottò un poco la fronte, mentre alzava il busto e si metteva seduta. Perché accidenti si era svegliata, dopo la fatica – quotidiana – che ci aveva messo ad addormentarsi? Tanto per rassicurarsi, fece girare lo sguardo per tutta la stanza, scrutando i volti dormienti e rilassati delle sue compagne di classe – ma non di stanza.
Dormivano tutti. Com'era più che giusto che fosse! Probabilmente, in tutto l'hotel, era l'unica ad essersi svegliata e a starsi maledicendo, specie per essersi messa seduta.
Perché, ecco, il sonno era teatralmente dissolto.

 

 

 

***

 

 

 

Che peso morto, erano i pensieri assonnati di un seccato Takeshi mentre, facendo attenzione a non svegliarlo, spostava dal proprio petto il braccio di Kazuki – non era la sua stanza, che voleva? Quand'è che erano diventati così vicini, eh? E chi l'aveva chiesto, soprattutto – Takeshi di certo no.
Non è che considerasse quel ragazzo una sgradevole compagnia – era quasi tenero – ma, francamente, non gli interessava per nulla avere una qualche interazione sociale con i suoi coetani. Stava bene così, lui e i suoi sguardi impenetrabili, fatti di acciaio scuro.
Ma in quel momento, il problema non era certo il suo rapporto con quello là – stava ancora pensando a quella sera; l'aveva cercata in lungo e largo, aveva corso per metri, forse km e... alla fine, quando era tornato al ryokan per avvisare i professori e Tetsuya, se l'era trovata all'entrata, ad aspettarlo. L'aveva guardata e nient'altro.
Lei non si era scomposta, come al solito – ma neanche questo era un problema. Il casino stava che non avrebbe dovuto oltrepassare la soglia della camera e cominciare, con le mani nelle tasche ed un espressione accigliatissima dal sonno tragicamente perduto, a scendere le scale – giunse al piano terro.
Se avesse chiuso gli occhi e contato pecore saltellanti, magari si sarebbe riaddormentato tranquillamente.
Ah, che cavolo, ormai era inutile starci a pensare – tanto valeva scendere in spiaggia.

 

 

 

***

 

 

 

La spiaggia era deserta, immersa nel silenzio notturno. Solo lo scrosciare delle onde tiepide accompagnava i passi di Yuki sulla riva, i piedi nivei che affondavano nella sabbia bagnata e molle, vestita dalla luce lunare e di qualche lampione distante, bianca quasi quanto i suoi capelli – i pensieri altrove. Aveva tante cose a cui pensare; tante risposte che doveva ancora a molte persone, doveva ancora servire la giustizia per troppi idioti e il tempo non bastava.
Eppure, nel momento stesso in cui si dice di non aver tempo, pensava, ne si ha appena perso un altro pezzo. E' strano.
Ma lo strano era realtà, a volte, soprattutto nel suo universo. Lei e tutti quanti, presi com'erano dal cercare la razionalità, perdevano di vista le priorità che incombevano, premevano, scavavano – e poi si trovavano con l'anima scorticata. Lei l'aveva compreso e ciononostante- i suoi occhi erano ancora appannati da vetri.
«AH!», una mano fredda aveva appena toccato la sua spalla destra, nuda dalle bretelle della veste da notte, bianca come soffice neve.
Ma a parte questo, era caduta.
Di sedere.
Abbastanza forte da imprecare a voce alta, mentre appoggiava i palmi sulla sabbia e sollevava pian piano le ginocchia. «Takeshi, 'ccidenti a te! Ma si arriva di spalle, mentecatto?!». La bocca sentenziava, ma gli occhi non riuscivano a seguire le stesse idee, così come la testa; se una parte di lei avrebbe volentieri seppellito il moro nella sabbia, lasciando che la marea lo soffocasse, un'altra avrebba carezzato quel viso dai lineamenti appena spinosi e i morbidi capelli di caramello amalgamato al fondente.
E stava ridacchiando, sottovoce, per un attimo tentato di soffocarsi – le porse la mano. «Dai, vieni».
L'albina aveva inspirato l'aria marina, rinnovandosi i polmoni, prima di afferargli la mano – dalle dita sottili – e issarsi su. Un piccolo sbuffo e qualche pacca alla veste da notte, per spolverarla da sabbia tediosa. Poi, senza che nessuno avesse detto, proposto o desiderato, cominciarono una lenta e placida camminata senza meta, verso destra.
Accompagnati dal lento e musicale infrangersi delle onde e la schiuma che raggiungeva un po' oltre la riva, sfiorando appena i piedi nudi dei due.
In lontananza, c'era solo il sommesso suono di qualche macchina solitaria.
«Mi piace, questo posto», mormorò. «E' come se fossimo fuggiti da tutto per un po'». Rivolse lo sguardo verso la volta notturna e quei innumerevoli punti bianchi; talmente piccoli, forse più di una formica, ma di una luminosità e potenza fuori dal comune.
Risplendevano come diamanti imbevuti di inchiostro nero, di notte – in quella notte calda. Takeshi aveva annuito, senza dare segni di voler arrestare la sua camminata – o di volersi girare a guardarla. La brezza al sapore di salsedine accarezzava i loro visi e spostava di qualche centimetro i loro capelli, i loro vestiti leggeri e impalpabili.
Takeshi non voleva fermarsi. «Da tutto?».
«Da tutto».
Takeshi sapeva di essere esattamente il tipo da fuga. Sopportare il peso di una società arida e algida come ghiaccio, la noncuranza della propria famiglia, la propria natura illogica. No, non avrebbe avuto una tale forza da sopportare tutto questo – lui ne era certo. Per il momento, non avrebbe avuto tale forza.
«Ti piace fuggire?», chiese.
«No, in realtà no», rispose lei, stringendosi leggermente nelle spalle: un brivido si frappose fra le sue scapole scoperte, mentre calciava leggermente la sabbia vestita della luce lunare – bianca, immacolata. «Mi sembra triste, fuggire».
Un ultimo passo – ancora un enorme pezzo di spiaggia da percorrere – e Takeshi si era fermato, stavolta si era arrestato, di scatto, accompagno da un piccolo sussulto.Yuki arretrò istintivamente di un passo, prima di finire per scontrarsi contro la sua schiena. «Cos-».
«Ti senti triste, Yuki?».
Lei la guardò, allungo – la sua schiena, larga.
Perché stava guardando il retro di lui, invece dei suoi occhi? Invece di quei pezzi di cioccolato, a volte fondente, a volte al latte – espressivi come il suo sorriso. Ma adesso, non aveva importanza cos'è che stesse guardando tanto colta alla sprovvista, tanto impreparata ma- lei doveva dargli una risposta.
Una risposta che riuscisse a cavarla fuori da una situazione in cui, lei, non sarebbe sopravvissuta. In cui un suono sinistro avrebbe fatto la sua inesorabile comparsa – non voleva.
Eppure, eppure.
I suoi occhi parlavano, gridavano.
La sua bocca pretendeva, muta.
E il suo respiro si spezzava, come sul momento più importante di un film – il respiro raccolto dentro e i muscoli tesi, caldi. «Ti senti sola?».
E l'ingranaggio che teneva su quella sua maschera di porcellana si era appena incrinato – crack.
«Sono domande sconvenienti, Takeshi», riuscì infine a biascicare, abbassando il capo – lo sentì fare un "mpf". Erano domande indisiderate. Erano domande esploratrici. «... solo quando sei gentile con altre ragazze».
Ogni tanto ci pensava; ogni tanto chiudeva le palpebre, nascondeva i propri occhi, e rifletteva, pensava – si trovava a farlo e nemmeno se ne rendeva conto: quante ragazze avevano sentito la sua fragranza? Quante, quante avevano percorso la sua pelle con la punta delle dita? E a quante lui aveva regalato dolci e radioso sorrisi?
Quando la sua mente tentava di immaginare il numero, sentiva al centro del suo stomaco una sensazione simile alla nausea, e poi, un desiderio folle di prendere fra le mani tutte loro.
E Takeshi, cosa poteva saperne, lei non era mai stata chiara; proprio perché non lo era mai stata, perché lui non poteva saperne nulla che, adesso – incredibilmente –, si era girato verso di lei, con un espressione costernata in viso e l'angoscia che gli stava lacerando l'organo che teneva in vita un essere vivente.
Un espressione costernata – Takeshi la conosceva?
«Dici sul serio?», disse, la voce un po' instabile. Ci fu un attimo di silenzio, forse una decina di secondi, prima che lui prese le sue spalle – un poco brusco. «Dici sul serio? Perché se dici sul serio, io... ». Ancora una volta, s'interruppe.
Abbassò lo sguardo, scosse il capo e lentamente, fece scendere le proprie braccia lungo i fianchi – si diede dello stupido. Cosa aveva pensato, per quell'istante?
«Se dici sul serio, io sarò quel che dice il mio nome», disse. «Sarò il tuo Takeshi****».
E le diede le spalle, forse più afflitto di poc'anzi.
Sarebbe stato ciò – e null'altro.
«Take... ».
«... dimmi».
«Take, io... ».

 

 

 

***

 




«Take, io ti amo. Sono innamorata di te, stupido mentecatto».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

* boku, boku, boku: "boku" significa "io" in giapponese ed è la forma usata dal genere maschile, diciamo... nell'età adolescienziale.

** sincerità: Makoto significa "sincerità".

*** Minami-za: tecnicamente, avrei dovuto scrivere anche su i due quartieri but- il Minami-za è il principale teatro kabuki di tutta Kyoto.

**** Takeshi: il nome Takeshi significa "guerriero, soldato". Insomma, lui sta intendendo che sarà il suo protettore.

 

 

 

 

 

NOTA DELL'AUTRICE:

... ah.

... mio Dio, siamo già arrivati a questo punto. Stento davvero a crederci. OH MIO DIO.

Sapete, qualche notte mi capita di mettermi a pensare a VD, a quello che deve ancora succedere e... mi rendo conto che dopo VD, probabilmente non saprò cosa scrivere.

Tutt'ora non sono sicura di cosa fare dopo VD.

Oddio, che tristezza. D:

In ogni caso- spero che il capitolo vi sia piaciuto! cvc


Night, ovviamente, con affetto.

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Capitolo 31
*** Qualcosa sta pendendo verso il baratro. ***


 

 

E' la confessione ad assolvere, non il prete.

Il Ritratto di Dorian Gray.

 

 

 

 

 

 

 

 

Qualcosa sta pendendo verso il baratro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Qualcosa doveva esserle sfuggito di mano. O di mente. O di entrambi.
Il problema era che, tra tutte le cose sfuggibili, quella non doveva proprio essere inclusa, né in quel momento né mai – eppure, era andata; come una farfalla dalle leggere ali variopinte, era spiccata nel cielo notturno, scritto da innumerevoli puntini fulgidi.
I protagonisti di quella notte erano stati una creatura sovrannaturale e un essere umano – e uno dei due, si era lasciato scoprire.
Eppure, doveva proprio dirlo, non era stato forse il momento più vivo, più adrenalinico della sua vita? Sarà stato per quelle parole pronunciate col tono spezzato, messa in contropiede, oppure per l'espressione dell'essere umano?
Oh, quella non la dimenticherà mai, nemmeno se costretta; dapprima, si era specchiata – immersa, affondata – nelle iridi limpide, nei suoi occhi che andavano aprendosi, sgranarsi. Poi, la bocca si era socchiusa leggermente, da sola, e il respiro si era fermato fra le labbra piene, in attesa.
Si era fermato – e l'aveva guardata.
Come avrebbe mai potuto spiegare a parole la sensazione aggrovigliante che percepiva, nitida e fiera? Non era solo stupore, meraviglia – ma proprio non riusciva a capirlo. Afferrava la risposta ma un attimo dopo... fuggiva.
«Stai---».
«NO!». Lei aveva interrotto la voce incerta di Takeshi con un urlo e le sue mani parate contro il proprio viso, voleva celarsi ai suoi occhi. E Takeshi aveva richiuso automaticamente la bocca, l'aveva sigillata; si sentiva teso come una corda di violino, ed era tutto così dannatamente strano, insolito! E lei non lo aiutava, proprio per niente. L'aveva interrotto prima che potesse tornare ad esalare respiri caldi. «Yuki».
«Ho detto: no».
Come si era conclusa quella situazione, a primo acchito, perfetta? 
A quattro metri di distanza, l'uno dall'altra, incamminati per rientrare nel ryokan – in silenzio, i capi chini e scostati. E i pensieri di entrambi avevano la stessa lunghezza d'onda, questo era il bello!
Come. È. Finita. Così, e Yuki scalciava la sabbia immacolata.
Basta, mi rinchiudo in convento, e Takeshi sospirava pesantemente; fra l'altro, se il moro avesse saputo i pensieri dell'albina, avrebbe saputo rispondere con tranquillità, almeno in apparenza: tu, Yuki, è colpa tua. Perché si era nettamente e disperatamente rifiutata di... tutto! Insomma, non era modo di comportarsi – ma poi, proprio a lei voleva dire una cosa simile? "Non ci si comporta così", e lei avrebbe riso, una risata fragorosa e divertita al limite dell'estremo – o del fastidioso.
Era una tipaccia. L'aveva sempre pensato, l'aveva sempre detto. Si era persino premurato di renderlo noto a Kazuki, quando avevano parlato di lei e del desiderio del ragazzo di farle un regalo.
«... allora... », fu proprio lei, il Diavolo, a parlare. Le braccia incrociate al petto, quasi stesse impersonando un militare, e lo sguardo finalmente su Takeshi.
Si fermò – deglutì, lui notò la sua trachea muoversi appena – e scese gli occhi verso un punto impreciso, alle sue spalle. «Quindi... ecco---».
E Takeshi, stavolta, sbuffo contrariato. «... sì, infatti».
Ecco qualcos'altro di veramente insolito: lui che sbuffava come un ragazzino!
«F-fa silenzio!».
«Come al solito, immagino».
«... stupido mentecatto idiota. Se solo ti lasciassi cavare gli occhi, non ci sarebbero più problemi... !».
Il moro aggrottò talmente tanto la fronte che le sue sopracciglia sembrarono più doppie del normale. Cosa? Perché i suoi occhi erano un problema? Mentre si poneva queste domande, a cui probabilmente non avrebbe mai dato una risposta, si trovò a sospirare ancora una volta. Meglio chiudere il discorso, oppure sarebbe finita come quella volta, quando fu lui a dichiararsi a lei e... finirono per litigare, piuttosto aggressivi. E in quel momento, nemmeno riusciva a capire dove fosse il problema, perché doveva finire con lei impuntata – le braccia incrociate al petto armonioso – e lui infastidito, seccato?
Avrebbe trovato la risposta?
«Buonanotte», disse lei, silenziosamente. «... e gli occhi puoi tenerteli, per ora».
Takeshi la guardò, soppesò le sue parole.
«Non guardarmi così. Vai nella tua stanza».
Sarebbe andato. Si sarebbe recato nella sua stanza per racimolare un po' di riposo: prima, però, aveva qualcosa da fare; le mani scivolate nelle tasche e un leggero ed enigmatico sorriso, la sua schiena si era piegata verso di lei e... le sue labbra avevano toccato la guancia d'avorio di lei, dolcemente, schioccando come ad avvisarla – beh, anche se dopo.
E lei restò immobile. Come un manichino.
«Buonanotte, Yuki», ed era la punizione, il servizio, per lo stato di inquietudine che gli aveva provocato. «Fai bei sogni, mpf».

 

 

 

***

 

 

La cosa peggiore era che non poteva parlarne con la persona che più le mancava. La vedeva, sgusciare silenziosamente e rigida, fra i gruppeti formatosi delle due due classi; proprio come la sera prima, quando si erano preparati per uscire dentro Kyoto – non molto lontani dal ryokan, però. E come quella sera, quel pomeriggio, appena dieci minuti dopo, si stavano preparando in fretta e furia per lasciare l'hotel e comportarsi da bravi turisti – c'era molto da vedere e poco tempo. Segretamente, Yuki sperava di tornare in quel meraviglioso teatro.
«Ci siete tutti? Adesso facciamo l'appello», Yamato Okamoto era al suo solito posto nell'autobus e, con il suo sguardo indescrivibilmente cangiante, squadrava i suoi alunni, adesso riconoscibili grazie alle divise scolastiche bianche; siccome la mattina dovevano stare per forza tutti insieme – il più vicini possibile – e i professori non dovevano assolutamente perderli di vista, le divise scolastiche erano obbligatorie. Oltre che, insomma, dovute; ovunque si fosse girato, l'uomo avrebbe preferito di molto vedere vestiti bianchi – decisamente.
Dunque cominciò, con lenti ma larghi passi, a chiamare i nomi degli studenti e a contare le loro teste, gettando piccole occhiate e saluti – era piuttosto amato, nonostante la rigidità. Forse era dovuto al fatto che, anche se professore, si interessava ai suoi studenti come a delle persone, e non solo a ragazzini chiassosi: non era il tipo che ignorava le richieste d'aiuto negli sguardi.
Quindi, non ignorò nemmeno Yuki. «Akawa, eccoti. Come va?».
L'albina, seduta stavolta dal lato del finestrino – col posto affianco vuoto – con le gambe accavallate, guardò l'uomo. «Bene. Discretamente bene».
«Discretamente», ripeté il professore, aggrottando le sopracciglia. «E Ichinomiya? Siete sempre insieme, non---... ».
«Non c'è». Yuki spostò lo sguardo verso il vetro, abbassando un poco le palpebre. «Almeno, non con me». Con un leggero e appena accennato cenno, indicò in obliquo – Okamoto seguì la traiettoria; ed eccola, seduta proprio nel mezzo dell'autobus, anche lei dalla parte del vetro – da sola.
Strano è strano, pensò l'uomo. Non era strano che Akawa avesse litigato con qualcuno, dato il suo carattere poco amabile, ma che fosse successo con Ichinomiya... cavoli! Quella ragazza dai capelli così innaturali non sembrava essere il tipo con la quale possibile discutere; spesso sorrideva in modo gentile, luminoso, come se il suo viso fosse un incantevole fuocco d'artificio.
«Capisco», rispose – e si fermò un secondo. «Vuoi... vuoi compagnia?».
Compagnia, pensò Yuki, mordendosi avidamente il labbro, compagnia!
Con un sospiro, spostò lo sguardo dal paesaggio della città per guardare nuovamente Yamato; anche se, doveva dire la verità, sebbene l'uomo fosse davvero di bell'aspetto... avrebbe preferito guardare i palazzi tradizionali che stavano passando, le distese verde brillante, sporadiche geishe accompagnate dalle maiko. Già.
Ciononostante, guardò l'uomo: «... come vuole».
Oh, diamine, non voleva compagnia! Davvero, stava bene così – eppure, non riuscì a dire di no all'uomo; stava già sorridendo, gentilmente, mentre faceva un cenno d'assenso.
«Finisco l'appello e arrivo».
Yuki annuì.
"Senza fretta", era sul punto di dire, con tutto il sarcasmo che poteva cacciare. E invece, si limitò a tornare ai paesaggi – iniziava a stufarsi – con il capo leggermente inclinato verso il vetro e, dannazione, le palpebre un po' stanche: erano appena le 9:00 di mattina ed era già stanca.
Dannazione.

 

 

 

***

 

 

 

«Facciamoci una foto, Tetsuya-san!».
Il vampiro biondo preferiva di gran lunga osservare il Kinkaku-ji*, la sua magnificenza e il suo sgargiante quanto improbabile colore dorato, invece di mettersi in pose inappropriate con... delle umane, tre per i curiosi. Guardarlo allungo era quasi doloroso – in foto appariva più luminoso, comunque.
«Teeeetsuya-san~», a momenti si sarebbe infilato dei bastoncini nelle orecchie, oh, se l'avrebbe fatto. E che diamine. Ma erano delle piattole! - ciononostante, si volse verso di loro. Le labbra si aprirono in un sorriso di circostanza, con le punte dei canini che facevano lievemente capolino. «Scusate. Devo raggiungere gli altri insegnanti».
«Oh--», appena un secondo dopo, il vampiro biondo stava già incamminandosi verso il prof. Okamoto, appoggiato con i gomiti sul parapetto di legno e il volto coperto da un velo di pensieri – la sua testa era leggermente inclinata verso il basso.
«Yamato-san?», chiamò Tetsuya – e l'uomo sussultò. «Ah, Tetsuya-kun».
Il vampiro si avvicinò fino ad affiancarlo, poggiandosi nel medesimo modo. Lo guardò, aggrottando la fronte quel poco che bastava per far intendere quasi preoccupazione.
Yamato Okamoto, non lo disprezzava affatto. Anzi!
«Qualcosa non va?».
Yamato inspirò l'aria calda, mentre il canto delle cicale pareva scandire il tempo che passavano in quel posto, contornato da un fitto e piacevole verde. «Beh, sì, ma... si tratta di Akawa. Sai, la ragazza albina».
Tetsuya sollevò impercettibilmente le sopracciglia chiare, di un tinta più scura dei propri capelli: Yuki. La ragazza albina – però non l'aveva chiamata così con disprezzo, dunque non doveva né c'era il motivo per inveire contro il professore. Bene.
«Non passa inosservata», commentò il biondo, distaccato. Yamato si trovò d'accordo, quindi annuì un paio di volte. «Già. Non ha un carattere facile e credo che abbia litigato con la sua amica, quella... con i capelli rosa. Che colori strani!». E aggrottò la fronte, sollevando lo sguardo per puntarlo sul palazzo d'oro.
«Ah, sì, me ne a---», e si fermò, Tetsuya, chiudendo la bocca di scatto: tecnicamente, Tetsuya e Yuki non si conoscevano. Era stata una richiesta – o un ordine? – della mezzosangue che, le braccia incrociate al petto e un espressione funesta, non voleva assolutamente che si sapesse di legami fra di loro. Tetsuya era fin troppo bello per averlo come amico – come migliore amico.
«E... sei preoccupato per Akawa?», chiese il vampiro.
«Non ha altri amici, all'infuori di Ichinomiya», si spiegò il professore. «E siamo in gita scolastica, non è il massimo restare da soli. Pensandoci poi, nemmeno Ichinomiya ha qualcun altro».
«Non sembra del tutto sola, Akawa, ho visto che era con un ragazzo». E non sapeva dire se la cosa gli andasse bene o no; gli andava bene se la sua Yuki era così intima con quel Takeshi, quell'umano talmente... ?
'ccidenti, mica tanto! E chissà dove si trovava in quel momento: in autobus non c'era.
«Ehi, Tanigawa-san». E il tono gelido di un'assassina priva di tentennamenti o qualsivoglia scrupolo, arrivò alle spalle dei due, dell'uomo e del ragazzo – era un ragazzo? Aveva diciannove anni. Tetsuya si girò lentamente, lasciando i propri gomiti sul parapetto di legno mentre, con la coda dell'occhio, vide Okamoto irrigidirsi per lo stupore: tale gelo era quasi inamissibile.
Poi guardò la persona davanti a sé, con i capelli argentei elegantemente acconciati in una cosa alta, che le lasciava scoperto il niveo e delicato collo – la divisa estiva le stava piuttosto bene! E accanto a lei, un... doveva essere una ragazza, sì.
«Devo presentarti una persona», aggiunse, con tono un poco più addolcito. «Makoto Aozawa!».
Makoto Aozawa, pensò il vampiro biondo, staccandosi dal parapetto come se l'avessero spinto forzatamente e brutalmente a farlo; un nome e un volto che ispiravano onestà e sincerità, un sorriso che illuminava i tratti feminili del suo volto e una leggera folata di vento che spostava di appena i suoi capelli corti, scuri – era una bella ragazza.
«Molto piacere!», esclamò Makoto. Si tolse il berretto dal capo e improvvisò un inchino – poi, guardò gli occhi ametista di Tetsuya e rise.
Anche Tetsuya guardò i suoi occhi.
Poi, guardò Yuki.
Atterrito, rammaricato.
E lei non voleva crederci, ecco tutto; eppure non poteva fare diversamente – poteva chiudere gli occhi e basta? Poteva rifugiarsi nell'incoscienza e nell'ignoranza? Lei, poteva lasciare che Makoto restasse nella bolla del "non sapere"?
Sentiva i dotti lacrimare combattere per ottenere il loro ruolo, in quel momento. Sentiva gli occhi ardere come tizzoni. «Senti, Makoto... ».
Come poteva restare impassibile, mentre lei sorrideva e rideva così graziosamente, dolcemente? Mentre si girava verso Yuki, con un espressione di pura preoccupazione verso l'albina? Non aveva risposte, una dannata risposta.
«Makoto». Qualcosa, in lontananza, si ruppe. «Non sei umana. Sei un demone».
Crack.
Non era umana, era un demone – non era umana. Lei, nella sua essenza, nella sua anima – non era umana. Cosa... ?
No.
C'era qualcosa di così dannatamente errato, sbagliato, non andava lì, non doveva incastrarsi tra i deboli pezzi della sua vita – era spensierata; ma le sue piccole orecchie volevano sentire una tale confessione, una tale assurda storiella?
Oh, la risposta era abbastanza palese, era un'ovvietà del colore trasparente- quelle persone non sembravano recepirlo molto bene. Ma, persone, era giusto come appellativo? Meritavano di essere chiamate così? E improvvisamente, era solo rabbia furente ad animare i suoi respiri irregolari. Era solo una furia silenziosa a combattere contro gli altrettanto iracondi raggi di sole, a non lasciare che le forze l'abbandonassero, come sembrava avevano fatto tutti – tutto –, sotto quel caldo cocente, destabilizzante.
Silenziosa.
Le sue labbra erano ancora serrate, i denti sprofondati – il respiro piatto.
«Makoto--», eccola, aveva parlato. Aveva fatto bene a restare in silenzio e ad aspettare che una delle due voci si facesse coraggio; che fosse quella acuta e ricoperta di gelo familiare dell'albina o quella laconica e silenziosa come una luna piena, non aveva importanza – no.
... qualcosa aveva importanza? La cosa più naturale, il pensiero che regna naturalmente in tutti gli esseri umani, la certezza assoluta... erano bastata una frase o due a disintegrare quella specie di fede. Un castello di carte crollato miserabilmente sull'asfalto.
«Makoto, ascoltami», lei ci provava ancora. Makoto guardò nei suoi occhi, limpidi e radiosi, ma con quell'ombra oscura infrangibile. Li guardava e cercava la stessa ragazza un poco scontrosa che era svenuta, sulla strada – e non la trovava.
Oh, chissà dove era andata a finire...
«Non sei Yuki», l'affanno era tornato, no. «No, no, no. Yuki non è così. Yuki è una brava ragazza. Yuki è in gita scolastica. Yuki è un essere umano». La sua testa si muoveva, si scuoteva, si scrollava, gli occhi erano tornati chiusi.
La mente andava lentamente in rovinaPerché era da sola, non conosceva quelle due persone, non sapeva chi fossero, cosa volevano e--- ah, adesso aveva afferrato – volevano la sua esistenza. L'avrebbero uccisa, giusto? Non avrebbe avuto scampo.
«Mako---», e la mezzosangue – quella sporca e fasulla Yuki – allungò la sua mano verso Makoto, la vittima. Ma ricevette uno scrollamento di spalle e un passo indietro – uno sguardo di terrore che distorceva i suoi tratti. Aveva paura di lei.
Era una paura sincera.
E la sua corsa, avventata e insana, ne era la conferma.

 

 

 

 

 

 

* Kinkaku-ji: sarebbe il "Tempio del padiglione d'oro", un tempo era la villa di gente varia, adesso è un reliquario. Ed è tuuuutto d'oro.

 

 

 

NOTA DELL'AUTRICE:

Aloha, bella gente! ~

E siamo arrivati al capitolo 31° capitolo, ALMENO SECONDO EFP. In realtà è il 30°, ma vbb. Dunque, qualcuno se l'aspettava questa notizia su Makoto? °V°

COSI' EH, SO' CURIOSA.

E niente. Ritardo.
As always.
VBB.

 

Night, ovviamente, con affetto.

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Capitolo 32
*** Andrà tutto bene, vedrai. ***


 

Voglio solo che tu possa respirare l'aria pulita della pace. Voglio solo che tu stia bene. E che non ti accorga delle mie bugie.

Makoto.

 

 

 

 

 

 

 

Andrà tutto bene, vedrai

 

 

 

 

 

 

 

 

Era sparita dietro una nuvola di dubbi; una nuvola plumbea, fitta e violenta, frastagliata dai suoi occhi terrorizzati e accecati da una strana rabbia. Yuki aveva allungato una mano per prenderla, chissà da dove poi, ma le sue dita avevano piccchiato solo l'aria pesante e attanagliata dal caldo di Maggio. Era andataCon la consapevolezza della sua nuova natura, era sparita, corsa via, dopo aver guardato tutto e due come se fossero mostri dalle fauci macchiate di sangue – Yuki chiuse le mani a pugno, le serrò.
«Hai fatto la cosa giusta», la voce di Tetsuya le arrivò calma, alle orecchie intontite. Aveva fatto la cosa giusta? Come poteva saperlo? Come poteva dire che non avesse fatto l'errore madornale del secolo?
E Tetsuya sembrò interpretare queste domande nelle pepite oro dei suoi occhi. «Cosa sarebbe successo se avesse scoperto la sua natura da sola?». Si fermò, respirando lentamente. «Cosa sarebbe accaduto se fosse impazzita dal nulla? L'hai visto anche tu, lei è... ».
«... sul filo del rasoio».
L'aveva capito anche lei, sebbene la seconda volta che aveva incontrato Makoto. L'aveva portata da Tetsuya per una conferma: si diceva che non avrebbe dovuto farlo. Poi però, il vampiro biondo le faceva presente quelle eventualità e lei, con un sospiro più pesante di un macigno, annuiva e comprendeva, tornava lucida.
Oh, diamine. Quanto avrebbe voluto, in quel momento, stringersi all'amico dai capelli oro?
Immensamente – ma non si mosse da quel punto; le braccia lungo i fianchi e lo sguardo fisso per quella via che aveva intrapeso Makoto – la fuggitiva –, con il capo leggermente chinato verso il basso e le spalle impercettibilmente tremanti, deboliLe aveva ruotate, aveva scosso la testa e via, si era girata verso Tetsuya per schioccargli un'occhiata tenace. «Abbiamo ancora domani per aggiustare le cose. Per il momento, è meglio tornare dal resto della classe, tanto Makoto non riuscirebbe nemmeno a guardarci in faccia. Deve cercare di smaltire la faccenda. Domani mattina ho bisogno che tu mi copra le spalle».
L'avrebbe chiesto a Sayumi – ma avevano litigato.
E Takeshi... escluso a priori. Dunque, perché non affidarsi un minimo al suo migliore amico?
Quello annuì, battendo appena le palpebre. «Andrà tutto bene, vedrai».
La mezzosangue fissò i suoi occhi, le iride ametista, con la pupilla pregna del nero più oscuro, più fitto. E in quei due specchi della sua anima, lei aveva compreso la verità più atroce, il dovere più importante.
Ciononostante, sorrise e annuì.

 

 

 

***

 

 

 

Quando si guardò allo specchio – appena opaco dal vapore della doccia calda – vide i propri occhi. Essi erano di una forma normale, forse un poco più rotondi del normale, con le ciglia nere che battevano e le microscopiche gocce incastrate che cadevano a picco: un colore scuro, tendente al nero, ma con una strana luce blu.
Brillavano come topazi.
Ma, una nuova verità, una nuova scoperta, le stava gridando che erano colpevoli e carichi di oscurità – che non erano occhi di una vera luce. Non c'era una luce vera, non c'era una luce bianca. Erano i pezzi di un cielo rattoppato, ferito brutalmente: era stata lei a ferirlo? Oppure, i suoi genitori? Chi aveva le mani macchiate di sangue? Lei guardava i propri palmi lattei e non riusciva a capire: era lei che non ci vedeva bene o le sue mani non volevano star ferme? Un bruciore che partiva dalla punta dei piedi e terminava ai polpastrelli, li sentiva come se fossero miriadi di aghi a muoverla – era un burattino nelle mani del fato.
Le guardava, cercare di concentrarsi, ma era tutto così sfocato, così distrutto.
Distrutto.
E in quel momento, si rese conto di qualcosa. Qualcosa di storto, qualcosa di davvero strano. Era una brutta sensazione, che percorreva le sue braccia, la nuca, la schiena – brividi. La sua stanza al mattino rasentava il disastro, la distruzione. I mobili accappotati, i propri vestiti posati come piume in posti impensabili, lividi violacei sul suo corpo come pezze.
Non capiva ma, in qualche modo, aveva capito.

 

 

 

***

 

 

 

«Yuki-chan?».
L'albina, al richiamo, non si era fermata. Senza rallentare, né accelerare, aveva continuato a camminare in direzione delle scale: aveva tutta l'intenzione di stendersi nella camera. Era stanca. Ma quella voce, la cui provenienza appariva sfocata, indistingubile, continuò a chiamarla. «Non mi ignorare! Ehi!».
Solo quando la voce divenne acuta e squillante, l'albina la riconobbe e, con una certa sorpresa stampata sulla faccia, si fermò e girò alle sue spalle. Sayumi aveva la fronte aggrottata e le dita stringevano forsennatamente l'orlo della gonna della divisa, a stroppicciarla – sembrava nervosa e confusa. Un passo, due passi, e la distanza fra le due ragazza andò a diminuire di un bel po'. «Volevo... », si interruppe, sospirando. «... parlarti».
Al contrario della ragazza, la mezzosangue aveva una calma zen invidiabile – la sorpresa era andata via subito. Nettamente calma. Non disse nulla, quasi in attesa delle parole dell'amica«Uhm, beh, ecco... », fece per prendere un respiro profondo, ma si fermò, guardando negli occhi ambra di Yuki, con i propri turchini. «Sono stata brusca, l'altra volta. Non ti dirò che mi dispiace, ma piuttosto che vorrei che tra di noi ci fosse un'amiciza che comprende il "confidarsi". Mi sento come se fosse una messinscena. E'---».
«Ti fermo subito».
Sayumi batté le palpebre e strinse la labbra.
«Ciò che vuoi è che io mi confida con te, anche se la cosa potrebbe mettere in pericolo qualcuno, anche se io non voglio, non me la sento o odio farlo?», disse lentamente Yuki – il tono freddo di un iceberg. «Per avere un'amiciza che non sia una messinscena. Capisco. Eppure mi sembra che tu mi abbia conosciuta e capita anche senza che ti rivelassi chissà cosa». Sayumi sentì dentro di sé che non poteva darle torto. Ricordava ancora, come se fosse appena il giorno prima, quando si erano incontrate; entrambe si erano sentite sorprese, meravigliate, l'una di fronte l'altra, a guardare dentro occhi di lucenti sfumature ma con, all'interno – nel profondo –, tutt'altra luce. E si erano capite, incastrate come puzzle, come amanti.
E adesso, sembrava che la cosa fosse impossibile – ma l'impossibile non esiste. Vide la mezzosangue passarsi il palmo della mano dal punto in mezzo alle sopracciglia fino a toccare la radice dei capelli argentei, scuotendo piano la testa.
A guardarla meglio, sembrava davvero stremata... «... va tutto bene?». La notò spostare lo sguardo di lato e far tornare il braccio lungo il fianco, meccanicamente – no, decisamente no. Ma le avrebbe detto ciò? Non poteva sempre e solamente leggerle negli occhi, per riuscire a capire i suoi stati d'animo, i suoi problemi.
Aveva bisogno che lei parlasse, di tanto in tanto. Della sua voce, graffiante e acuta.
«Una ragazza», esordì – Sayumi sopresse un sussulto. «C'è una ragazza che ho conosciuto, ieri sera e... stamani abbiamo capito che è un demone. Ma lei non lo sapeva».
La reception del ryokan era vuota. L'unico suono che si udiva, era lo scalpitare leggero e sommesso degli inservienti, mentre preparavano la tavola per la cena; tintinni di patti e bicchieri accompagnava un crescente vociare, che andava infiltrandosi nelle orecchie delle due ragazze e spingere, spingere fino a trovare il timpano. Improvvisamente, era arrivato il rumore.
«Sono preoccupata per lei», aggiunse piano l'albina, abbassando lo sguardo, toccando con i propri occhi le punte degli stivali della divisa. «Non so dove sia, come stia. Beh, posso immaginare, come si senta».
Sayumi ascoltava le sue parole e tutto ciò che riuscì a dire, per il momento fu un: «Capisco», teso e preoccupato quanto Yuki. Capiva, ma in realtà, fino ad un certo punto. Ci un attimo di puro silenzio, persino il fracasso dei piatti e degli inservienti divenne muto, di un muto quasi assordante.
«Cosa pensi di fare, ora?», domandò Sayumi. «Con la ragazza, intendo».
Yuki si morse avidamente il labbro inferiore – cosa pensava di fare? «Non... domani mattina andrò a cercarla e cercherò di... aiutarla a capire la faccenda. Ecco tutto».
Avrebbe voluto aggiungere, con il tono acido di chi era stufo marcio di tutto, "sei contenta adesso?", ma dalle sue labbra fuoriuscì soltando un grave sospiro. Come aveva sospettato, non si era sentita particolarmente a suo agio, a parlare di quale fosse il problema.
Forse era lei quella strana. Forse sbagliava lei.
Forse era lei quella sbagliata.
«Vado in stanza», disse e, con l'ombra dell'errore in viso, sparì per le scale.

 

 

 

***

 

 

 

Fu il rumore di sassi contro il vetro a destarla dal suo sonno, tormentato. Suoni secchi e precisi, quasi venisse presa la mira, prima di effettuare... il lancio; ma in quel momento, non era il modo di lanciare i sassi ad occupare la sua mente, quanto più: chi diavolo era?
Gettò un'occhiata stralunata all'orologio: 4:27. E certo.
Oh, quella giornata era peggio della precedente, qualcuno doveva essersi messo d'accordo contro di lei per rovinarle la gita ascolastica – e lei non voleva nemmeno andarci, dannazione! Furente, con le palpebre assottigliate e i denti stretti, si era messa in piedi di scatto e avvicinata alla finestra qualche metro distante.
«Hm... ? Che diamine... ?», ecco, aveva svegliato Sayumi. Ma che diamine. Il manto albino scendeva un poco disordinato lungo la schiena, coperta dal sottile tessuto della veste da notte – si girò a guardarla, assente. «Un idiota vuole morire, torna a dormire», non l'aveva detto particolarmente addolcita, no. 
La ragazza si era sollevata sui gomiti, il nido di capelli rosa tragicamente scompigliato e gli occhi attaccati dal sonno disturbato – il proprio futono di fianco a quello di Yuki. Già.
«Ah, uhm... ». Lentamente, tornò con la testa sul cusci-- «MAKOTO!».
Un urlo, sconcertato, meravigliato, sollevato.
Sayumi era tornata sui gomiti e aveva guardato la figura di spalle della ragazza con le sopracciglia alzate, mentre ella si girava e scattava verso la porta. «Yuki?!». E niente, era già scivolata via, come una qualche creatura notturna: non poteva perdere tempo, non in quella situazione. Scese le scale, saltò qualche gradino, atterrando in un equilibrio poco stabile e, nel giro di pochi secondi, era fuori dal ryokan; purtroppo però, c'era ancora un tratto di strada da fare, poiché la stanza si trovava sul fianco dell'edificio.
Corse. Corse, forsennatamente, con la velocità che aumentava ad ogni passo, ad ogni respiro – eccola.
Il viso chinato a fissare l'asfalto plumbeo, le mani nelle tasche di una giacca blu col cappuccio sollevato, il peso spostata suo una gamba e l'altra posta leggermente più indietro. Di spalle, in attesa.
Forse di Yuki.
«Makoto!», gridò ancora, l'albina. Vide la sua figura muoversi e girarsi verso di lei, mentre accorciava ancora la distanza, fino a giungerle davanti – era un po' stanca, doveva dirlo. Appoggiando una mano sulla fronte, per scostarsi i capelli da quel punto, inspirò profondamente l'aria tiepida della notte. «Makoto... ».
Era così felice di vederla... ! Avrebbe circondato il suo corpo per abbracciarla, consolarla, rassicurarla; sarebbe andato tutto bene, se le avesse dato retta, perché avrebbe saputo dirle cosa doveva fare e cosa... doveva assolutamente evitare. Per la sua sopravvivenza.
Per la sanità mentale.
«Makoto, stai... », si fermò, espirando in modo irregolare. Lei sollevò il viso e incrociò lo sguardo dell'albina, titubante. Ecco, nei suoi occhi c'era ancora la parvenza dell'incertezza e della paura, del "cosa sto facendo?".
Yuki la capiva, in qualche modo, e non le dava una colpa – si sentiva un po'...
«Come faccio a sapere che sono davvero un... », la voce di Makoto era trattenuta, come stretta da una corda. «... mostro?».
«Non sei un mostro», replicò Yuki, piano. «Essere un demone non vuol dire essere un mostro. Sei tu che decidi come esserlo!». Makoto era sicura che l'albina scontrosa avesse ragione; che non per forza lei sarebbe stata qualcosa di disumano, in grado di lacerare le carni altrui, di scavarne all'interno e accarezzare con l'acquolina in bocca la pelle morbida, tenera... no. Non era così.
Era tutto sbagliato.
Lei non era quello che... non poteva esserlo. Voleva vivere, voleva inseguire i propri sogni. Voleva diventare un'attrice. Partecipare a quegli spettacoli senza precendeti. Non un demone. Non una bestia.
«Makoto, devi sapere una cosa», Yuki sussurrò. Sembrava che non volesse farsi ascoltare – la demonessa la guardò, turbata. «I demoni hanno dei poteri, degli enormi e potenti poteri. Però, non devi usarli. Non li usare. Non dovresti averne nemmeno bisogno».
Makoto la guardò ancora. Quando Yuki aveva detto che lei era un demone, era sicura che anche l'albina lo fosse – e adesso aveva avuto la conferma. «Perché?», chiese, secca.
La vide avere un leggero tentennamento. «I poteri di un demone, se usati per più di tre mesi, in continuazione, finiscono con... privarti della razionalità».
Razionalità. Esserne privati. Perdere il privilegio della comprensione, della logica. Dentro Makoto, questi concetti rimbalzavano e producevano echi distanti; conosceva il significato di quelle frasi – di ciò che aveva detto Yuki stessa – eppure, non capiva... a cosa serviva la razionalità? I suoi occhi scuri come la pece brillarono, guizzanti. «Perdere la razionalità. Perdere. Perdere tutto. Perdere il lume della ragione. Impazzire. Razionalità».
Razionalità.
Essere perduti.
«No», Yuki digrignò i denti. Con uno scatto, le sue mani si posarono sul viso di Makoto e la costrinse, la costrinse a guardarla dritto negli occhi ambra – no. «Dannazione, Makoto, smettila. Smettila, okay? Andrà tutto bene. Se mi darai retta, se mi ascolterai, non sentirai nemmeno la differenza. Sarà come se tu fossi sempre stata umana. Makoto? Makoto, mi---».
«RAZIONALITA'!».
Makoto la spinse via. Le sue mani, gelide, agguantarono le spalle della mezzosangue per scostarla – era ripugnante.
«Ma io penso di non aver mai avuto quella cosa, quel... la razionalità». La sua voce calava a picco e poi tornava rapidamente su, instabile. «La notte faccio dei sogni strani, dei sogni che non hanno niente di sensato. Sogno che tutto va' a farsi benedire. Tutto cade, tutto si distrugge. I mobili si muovono. Ma... oh! Non fanno tutto da soli!».
Un leggero sorriso arcuò la bocca rosea di Makoto, mentre piegava le ginocchia e i palmi delle sue mani volteggiavano – Yuki restava in silenzio.
«C'è come un vento. Tanto vento. Folate, brezze, schiaffi di vento. E' piuttosto forte, ma... è bello. E' uno spettacolo stupendo», Makoto tacque, fissando Yuki.
La fissava, con le pupille appena ristrette, e un espressione sconcertata in viso – la fissava, la squadrava, l'apriva. «Tu hai già capito, non è vero? Avanti, dillo. Cosa aspetti? Pensi che io sia una debole, mi disperirò di fronte alla verità? Ma cosa... ». La sua espressione divenne grave. La bocca si strinse in una ferra morsa, le sopracciglia si inarcarono – una piccola vena fece la sua comparsa, disegnando la scia dell'ira. «Ma cosa ne sai di me! Mostro, mostro, MOSTRO!».
Yuki non parlò.
Tacque. L'ombra della notte accarezzava la sua pelle, sulle spalle, nuda – i suoi occhi, vacui, guardarono l'edificio.
«Sonnanbulismo, eh?».

 

 

 

 

 

NOTA DELL'AUTRICE:

Posso essere sincera?
Credo che, tra quello scorso, questo e quello a venire, MORIRO'. Non so, trovo molta difficoltà a scrivere di Makoto e... la sua pazzia, ecco. E niente.
Ho il kokoro un po' brekkato, nau, torno a scrivere. C:

 

Night, ovviamente, con affetto.

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Capitolo 33
*** Sii felice. ***


 

 

- Posso sporcarmi le mani, posso costruire una corazza, posso... posso anche morire, volendo.

Sayumi.

 

 

 

 

 

 

Sii felice

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Makoto non era più Makoto.
Era troppo tardi per dirle qualcosa – "non lasciarti portare via". Resta qui, non ti muovere: respira piano. La mezzosangue si era resa conto di quella dannata verità quando Makoto cominciò a cambiare. Non era una stranezza, capitava a tutti – ma come poteva guardarla? Eppure, lo fece. 
«Makoto», quei corti capellis sbarizzini, neri come il petrolio, neri come il fondo di un pozzo, si facevano spazio prepotentemente e cadevano sotto la mandibola, lungo il collo, sfiorando le spalle.
«Ti prego... », a cosa serviva pregare chi non riusciva a riconoscere un amico da un nemico? I suoi occhi screziati di rosso e roseo lo dimostravano – con la loro pupilla sottile come una lama che squarciava il suo sguardo gentile. Quando incrociarono lo sguardo, si sentì trafitta da parte a parte. Yuki era indietro.
«Razionalità, razionalità, cosa devo fare? Chi devo prendere? Chi devo mangiare?».
Aveva la testa fra le mani, le unghie che grattavano la superficie, volevano insidiarsi nel rimasuio del suo cervello.
Con quelle unghie grigie, lunghe, molto lunghe – fece un passo indietro e poi uno avanti. Gli occhi strabuzzanti, non riusciva a focalizzare cosa avesse davanti o, peggio, chi: era Yuki, giusto? Riusciva a riconoscere, in mezzo al buio più fitto, i filamenti bianchi mossi dal vento notturno; la vedeva con le braccia stese lungo i fianchi e lo sguardo inchiodato al proprio, con la gonna della veste spostata appena dagli schiaffi di vento. Se fosse riuscita a vederla meglio, sarebbe stato come ammirare la figura di un elfo – o di un angelo. In quel momento, un dubbio assalì Makoto: e se fosse un Diavolo, sotto quelle vesti? Possedeva il segreto, quel segreto talmente soffocante da provocare dolore. I suoi occhi ambra erano rivoltanti.
La sua pelle di neve era sporca.
«Makoto!», e la sua voce era lo stridere di unghie contro la parete – urlava il suo nome, con rabbia.
Poi, quando la vista tornò, riuscì a vedere solo una macchia bianca muoversi come una saetta nel buio illuminato dai lampioni poco distanti; un movimento a zig zag e il dolore atroce di un pugno alla bocca dello stomaco la lasciò senza un fiato in corpo. Guardò in basso. Eccola«Ti farò tornare in te», ringhiò. La sua mano chiusa si allontanò – la schiena era piegata. «Stanne certa».
Tornare in lei? Ma... lei era lei. Non si era mai sentita così reale e onesta con se stessa, fino a quel momento – l'elettricità che affondava nel suo organismo era linfa vitale. Elettricità furente e violenta che spingeva contro l'addome irrigidito e si propagava per tutto il corpo come una macchia di olio, fino alla punta dei piedi e delle mani – ah, adesso aveva capito.
I "poteri".
Dalle dita di quel mostro, vedeva piccole scariche elettriche. «Ahahah», rise. Rise, con la bocca aperta e il collo reclinato indietro – le vene pulsavano nitidamente. Coprivano il suo collo come un trucco pesante. «Che schifo!». Tornò a guardarla e alzò le mani, insieme al ginocchio – il suono di un osso che si spezzava le riempì le orecchie e la testa, come una deliziosa melodia.
Vide Yuki scattare indietro, barcollante, e tenersi le mani contro il costato dalla parte destra e gli occhi serrati, stretti dolorosamente, verso il basso: stupidi demoni risvegliati e infarciti di follia. Faceva male, dannazione. 
Doveva essere spezzato – Makoto ridacchiò e scrollò la testa. «Vai via. Via via via via. O dovrò mangiarti. Ma non mi piaci. Che schifo».
Il paradosso di un demone: non vuole mangiare ma lo farà ugualmente. Spinto dall'irrefrenabile desiderio di non appassire, di dimostrare una forza, uno stupido potere che ti mangia dentro – non era finita. Non sarebbe finita – corse; ignorando le fitte che le facevano accapponare la pelle, aspettando che rimarginasse, scatto di lato e poi alzò il gomito destro verso il cranio di Makoto.
«Sei ancora qui?!», e Makoto si spostò allegramente di un metro indietro, per poi cominciare a correre, come se quello fosse il gioco dell'acchiapparella. "Vieni a prendermi", gridava la sua espressione, con i lineamenti stregati – e la sclera che si tingeva di un nero
petrolio: in men che non si dica, aveva già svoltato l'angolo. 
Yuki si fermò un secondo, per espirare profondamente; la trasformazione non aveva solo fatto fare un bel giretto alla sua razionalità, anche quella più ovvia, ma aveva potenziato tutte le abilità che sin da prima erano notevoli – la velocità non le mancava, eh no.
Doveva raggiungerla, subi--- «Ahia!». Non riusciva a reggersi in piedi. Non si rimarginava. Oh, diamine, no. Ecco cosa significava nutrirsi quando si trovava allo sfinimento più totale – sbuffò, ringhiò, imprecò.
E proprio quando cominciò a pensare che non sarebbe riuscita a fare un passo in più, una voce maschile e familiare fece la sua comparsa – non ora. «Che diavolo--?!». Passi e sgomento. Non era uno solo.
Tetsuya e Takeshi?
«Ma porca miseria!». E che le importava se aveva la sensazione che la costole fosse piegata contro degli organi nelle vicinanze e stesse graffiando contro essi, sapendo che due persone per la quale avrebbe dato più di una vita avevano appena incrociato un demone nel pieno della sua pazzia – correva a più non posso, sfidando la luce e il suono.
«Ma cosa vi dice il cervello, ammesso che l'abbiate?!».
Eccoli.
La tonalità bianca di Yuki sfiorò il trasparente, di fronte a quella visione – quasi sfrecciò più oltre del dovuto. Si fermò. Makoto, con quel suo sguardo disumano e le mani sporche di sangue, teneva saldamente stretti i polsi di Takeshi, costretto a terra da lei. Sporche di sangue? Che cosa aveva fatto?!
«Hai un secondo per toglierti e», Yuki camminava, cauta, furiosa – le iridi scarlatte che brillavano nella notte. «prostarti a terra e implorare il perdono. Muoviti». Non voleva farle del male. Ma non poteva accettare – Takeshi non doveva essere lì.
Il demone ruotò il viso verso la mezzosangue, lentamente, placidamente, incorniciandosi il viso di un asimmetrico ghigno. Squarciava la bocca rosea – Tetsuya aveva appena guardato Yuki. Si scambiarono solo una breve occhiata, fugace, prima di annuire e scattare come se sotto ai loro piedi si trovassero tizzoni ardenti; il vampiro biondo aveva balzato agilmente in avanti ed era andato addosso a Makoto, afferrando le mani cremisi e buttandola bruscamente a terra, a trattenerla col proprio peso – Yuki si era avvicinata a Takeshi.
«Corri immediatamente sopra», sibilò. «Non tornare per nessun motivo».
I lamenti isterici di Makoto distoglievano l'attenzione dell'albina dal moro che, intanto, aveva espirato profondamente dalla bocca. Una macchia di sangue l'aveva sporcata all'angolo. La sua espressione negava la possibilità di fare come gli era stato detto – si alzò in piedi.
«E' escluso», mentre diceva ciò, si avvicinava a passo rapido ma cauto all'entrata del ryokan , senza dare le spalle agli attori di quella tragedia. «Stai attenta». Una verità patetica – lui non poteva fare niente – quanto vera si insinuò dentro la sua testa; Yuki lo guardò per un attimo, beandosi gli occhi ambra del suo sorriso, prima di rivolgergliene uno incalzante.
Poi, si girò e gridò: «Tetsu, è okay!».
Il vampiro irrigidì ogni muscolo del suo corpo, girando un poco il viso per guardare l'amica con gli occhi derubati dell'ametista e impregnati di rosso, sconcertato. «Che diavolo stai dicendo?!».
«Quello che ho detto! Lasciala!».
Era senza parole. Sotto il suo corpo, un demone scalciava e gridava furiosamente, quasi gli stessero strappando i capelli, uno ad uno, e per come erano cresciuti, sarebbe stato davvero orrendo. Ciononostante, voleva che la liberesse? Era seria? La guardò ancora, stringendo la presa intorno ai polsi sottili e pulsanti – ah, ecco, probabilmente voleva salvarla. Consapevole, sospirò. Lasciò andare la ragazza e scattò indietro, evitando di striscio un calcio allo stomaco.
Affianco alla mezzosangue, sbuffò. «Sai che non può accadere, vero?».
«Stai zitto», sbraitava lei, sommessamente. «Stai zitto».
Può farcela.
Io posso farcela, pensò. Fece un passo in avanti, lentamente. «Makoto?».
C'erano almeno sette metri, tra di loro, e anche se lei sembrava percorrerne solo qualche centimetro, il demone era agitato, nervoso. Arretrava e sbuffava dal naso.
«Makoto, ascoltami», tentò Yuki. «Non voglio farti del male. Lo sai. Ma devi calmarti, vabbene? Chiudi gli occhi, fermati, respira con calma. Ti aiuterò a---».
«Posso ucciderti?».
Yuki si fermò.
«Posso ucciderti? Posso ammazzarti? Posso mangiarti? Posso vedere come sei fatta, dentro?». Il dilaniamento che spezza la speranza.
«Posso, Yuki?».

 

 

 

***

 

 

 

Le sue dita si raccoglievano per permettere alla mano di chiudersi, in un pugno fermo e serrato, con le unghie che spingevano contro il morbido palmo. Dentro la mezzosangue albina, la consapevolezza che l'amico avesse ragione si faceva velocemente largo tra i pensieri, densi e sporchi. Tetsuya era in silenzio, al suo fianco – le era vicino. «Che vuoi fare?».
Yuki chiuse gli occhi, abbassò il sipario. Quando li riaprì, vide che lui la stava guardando: quattro fuochi si scontrarono. «Per il momento, la metterò k.o».
Tetsuya aggrottò la fronte, contrariato. «Vuoi combatterci da sola?».
Lei non rispose, limitandosi a spostare lo sguardo sulla figura del demone; aveva appena chinato la schiena e stava accarezzando la sabbia fine e bianca con la punta delle dita, penetrando il terreno prima con le unghie aguzze. Sembrava ammansita.
«Sei impazzita anche tu?», sbottò il vampiro. «Non-- ».
«Tetsu, ti prego». La voce dell'albina aveva un qualcosa di rassegnato, di malinconico, di stanco. Era provata – ma mentre la voce lo dimostrava, gli occhi erano accesi, temerari. L'avrebbe portata indietro, a costo di trascinarla per quei capelli falsi: era solo un oggetto di scena, quello.
Tetsuya aveva ancora gli occhi incollati sul profilo dell'amica, stringendo le labbra e trattenendo dentro i polmoni un sospiro nervoso. «Starò qui. Urla il mio nome, se vuoi che faccia qualcosa».
Lo farà? Non lo farà? Lascerà un finale tragico alla scena?
Yuki non fece segno di aver capito, riprese semplicemente a camminare: un piede dopo l'altro. La voce premeva per uscire e gridare. Un rivolo di sudore disegnava una scia trasparente lungo la colonna vertebrale. «Allora? Che vogliamo fare?».
Un movimento – stava ancora recitando! – scosse dal profondo il demone. Sollevò gli occhi, con le sue pupille affilate come pugnali, e li puntò sulla mezzosangue. Era sempre più disgustosa, con quegli occhi color fuoco, con tutto il suo essere. A guardarla bene, si somigliavano, con quegli occhi strani.
Il fuoco che divampava, bruciava, si batteva.
E quella non era altri se non... Yuki.
«Uccidimi».
Era come un incubo – se moriva nell'incubo, non si sarebbe più svegliata. Vide Yuki avere uno scatto, le sue mani si mossero, il corpo tremò profondamente. E poi, come se fosse stato solo cambio di scena, tornò immobile come una statua. 
Cinque metri.
«Non ha più senso vivere, per me. L'unica cosa che mi portava avanti era quella piccola certezza. Sono... ero umana. Questo riusciva a farmi reggere in piedi».
Eppure, nessuno vuole morire troppo velocemente. Nessuno vuole smettere di respirare, da un momento all'altro – lei era l'eccezione, forse?
Quattro metri.
«Sono sola. Sono sola in mezzo a tanti sconosciuti. E poi sei apparsa tu, Yuki. Sei stata così vera... così te. Mi hai chiamata "idiota". Mi hai scambiata per un ragazzo e», dalle labbra di Makoto, una leggera risate echeggiò. Priva di sfumature diaboliche. Una risata umana. «stento a crederci ancora, se devo essere sincera. Come hai fatto?».
Come ho fatto ad affezionarmi così a te? Non ti conosco, eppure!, sentiva gli angoli degli occhi bagnarsi di lacrime, calde e disperate, mentre la voce si rinchiudeva a riccio – Yuki non l'avrebbe più sentita: quella voce, quella risata. Solo un eco lontano, che le ricordava dolorosamente come tra le sue mani un'esistenza era svanita. No.
Due metri.
Occhi dentro occhi.
Yuki aprì la bocca – e i suoni non uscirono.
«Non voglio la tua forza», sorrideva, sorrideva ancora. «Vabbene così. Grazie. Grazie di tutto». 
I metri finirono. Braccia incontrarono il debole corpo di chi era stato devastato, nel giro di qualche ora, e lo strinsero. Lo strinsero fino a sentirne le costole e il petto, il cuore battere lentamente, rassegnato. «Stupida bugiarda. Stupida bugiarda». Un tremolio. Un tremolio spezzato, gli occhi appannati. «Makoto, che fine ha fatto la nostalgia che avevi negli occhi? La passione? Makoto, che fine hai fatto, dove diamine sei finita? Non puoi morire. Okay? Non puoi. Dannazione... devi trascinarmi di nuovo in un teatro, devo... ! Dobbiamo conoscerci. Voglio conoscerti. Ma se muori... come farò? Stupida mentecatta!».
Sarebbe stata l'ultima volta. Sarebbe stato l'ultimo sorriso sul suo volto, prima che tutto finisse in cenere grigia, che tutto venisse sepolto sotto la Morte – sarebbe stata l'ultima di poche volte. E non la vedeva bene, per niente, con quello spesso velo a celare i suoi occhi. Non la vide bene, ma ci provò: sorrise dolcemente. Makoto stava ancora sorridendo, aveva mai smesso, per una persona che conosceva a malapena? Non aveva mai smesso – perché Makoto era così: era perfetta nella sua imperfezione.
E Yuki adorava la sua imperfezione, adorava come l'aveva aiutata, le aveva prestato quella leggera ma viva forza.

E con le guance rigate da traslucide, roventi e crudeli lacrime, Makoto era andata a fuoco. Il suo corpo era stato preso da fiamme scarlatte.
«Yuki!», lei li aveva sentiti quei gridi, di Takeshi e Tetsuya - Takeshi... era ancora lì - li aveva sentiti invocare il proprio nome – ma, al contatto con le fiamme, non si era allontanata. L'aveva stretta ancora più forte perché, diamine, non voleva che lei andasse via – doveva proprio? Doveva andarsene per forza? Poteva restare ancora un po', con lei. Potevano stare ancora un poco assieme.
E poi, l'avrebbe lasciata – lo prometteva. Lo prometteva! Dovevano crederle, dannazione! Il calore diventava più forte. Diventava insostenibile. Camminava sulle braccia nude della mezzosangue e le scorticava, dava loro fuoco come se su di esse avesse trovato benzina – la mangiava. Alla fine, Makoto la stava mangiando.
«Devi... », la sua voce le arrivò alle orecchie spezzata, sul procinto di annullarsi – la sentì tremare, col viso color carbone. «Devi andare... vabbene?».
«No», e l'altra stava già singhiozzando. «No!». Un urlo strozzato e secco – no. Se l'avesse lasciata, sarebbe scomparsa, i suoi resti... lei sarebbe svanita. E piangeva, piangeva talmente forte che sentiva che non ci sarebbe più riuscita, in un altro momento. Piangeva per lei, per la sua vita che si consumava – per il suo viso che andava a fuoco.
«Yu---... non fare... ».
E dopo, divenne tutto nero, proprio come gli occhi di Makoto; proprio come la sua pelle carbonizzata, come i rimasugli dei suoi capelli, come le dita sottili, come ogni suo tratto. Era tutto nero.
Era tutto annullato.
La scena era conclusa.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Eccola lì, rotta.
Sul suo viso c'erano ancora le tracce umide di lacrime traslucide, fili quasi invisibili che segnano profondamente, dentro e fuori, che tu lo voglia o no, che tu ne abbia bisogno o meno. Devi accoglierli in ogni caso, come se tu fossi semplicemente una tela bianca che attende di essere cosparsa di colori – e se non li volesse, la tela?
E se stesse bene così come sta?
Ma a qualcuno importava dei desideri delle persone? Importava delle persone? Mentre i dorsi delle mani rosse sfregavano bruscamente e disperatamente gli occhi e ne macchiava le palpebre, debolmente, camminava. Un passo alla volta, un metro alla volta – gli occhi serrati. E le mani sporche. I gradini non erano gradini, le persone che aveva vicino – non le sentiva. E si dava della stupida, con la forza d'animo che se n'era restata accucciata, ci riusciva: che stupida che era.
Era solo una persona, una delle tante che calpestavano la terra.
Aveva sorriso in quel modo, e quindi? Aveva aiutato qualcuno che non conosceva come se fosse la cosa più naturale del mondo, e quindi?
Le aveva mostrato una meraviglia fittizia, e quindi?
E quindi – quando vide Sayumi, sulla soglia della porta, le gambe cedettero. Era a terra – scossa da tremendi singhiozzi. Piangeva, tremava, sussultava, teneva la testa incastrata fra spalle non sue, non erano così deboli.
Un nodo che stringeva e afferrava le sue corde vocali e non riusciva a dire nemmeno una parola, era come una muta che non voleva ascoltare. Se avesse ascoltata – si sarebba rialzata? Era una menzogna, la storia dell'indistruttibilità?
«Va tutto bene», non doveva parlare. Non farlo. «Ci sono io, con te. E' tutto finito».
E le braccia di Sayumi avvolsero quelle spalle non proprie, inquinate da tremolii infiniti, ancora scorticate e ustionate, ancora ferite. Era tutto finito.
C'era la sua migliore amica, con lei.
Andava tutto bene.

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL'AUTRICE:

Ragazzi. Io.
Non.
Aiuto.
Questo è... questo è l'ultimo capitolo. L'ULTIMO CAPITOLO. Beh, tecnicamente c'è anche l'epilogo, quindi in teoria sarebbe il penultimo. Ma io lo vedo come l'ultimo. E non. Io non. Aiuto.
Vi dico solo che sono dannatamente emozionata, triste, scombussolata, che non vedo l'ora dell'epilogo perché, signori e signore (?), persino nell'epigolo accadrà qualcosa. :)))) E niente-- è tardi, dovrei andare a scuola, ma vorrei star qui a parlare per ore di quanto mi senta completa. (?) 
Vabbene, bast', me ne vado- 

Niente, grazie di tutto. Sul serio, I love u.

 

Night, ovviamente, con affetto.

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Capitolo 34
*** Epilogo. ***


 

- I nostri errori hanno un doppio strato: sono la nostra rovina e il nostro insegnamento.

Yuki.

 

 

 

 

 

 

Epilogo

 

 

 


 

 

 

 

La tinta azzurra del cielo, quella mattina, limpida come la superficie di un lago, aveva un aspetto talmente rassicurante e rinfrescante che quella mattina erano tutti di buon umore, anche se stavano salendo sull'autobus per tornare a casa e non avrebbero rivisto quel mare per un bel po'.
Era così, la gita scolastica era giunta al termine. Con imprevisti ad ogni angolo, novità, decisioni.
«Ci siamo tutti, vero?». Era una bellissima giornata e, sebbene il mese fosse stato caldo per tutto il tempo, quella era una mattina priva di caldo bruciante e afoso – c'era una bell'aria, salmastro e fresco insieme. I ragazzi chiacchieravano, ridevano e facevano gli stupidi come se fosse l'ultimo giorno di scuola: erano tutti felici.
E seduta contro un finestrino, la guancia piegata contro le nocche di una mano, a guardare fuori – c'era Yuki. Non triste, non malinconica, non felice. C'era solo lei. E fine a qualche attimo prima, anche Sayumi. Dov'era finita?
«Si torna in paese, eh», quella voce maschile arrivò come un balsamo per le orecchie, tranquilla ma affettuosa. Il leggero tonfo le suggerì che si era seduto. Yuki accennò un sorriso, tamburellando con i polpastrelli della mano libera sulla coscia.
Si tornava in paese e alla vita di sempre; si sperava che la "vita di sempre" includesse la tranquillità e la pace, basta colpi di scena, basta tragedie.
Basta tutto.
«Yumi mi ha detto che doveva... », eccolo, quello scemo di un Takeshi, che quando iniziava ad innervosirsi o imbarazzarsi parlava anche troppo. «... parlare con Tetsuya. Di qualcosa. E poi, ha aggiunto che volevi dirmi... delle cose?».
Chiusa e serrata nel suo silenzio, l'albina aggrottò piano la fronte lattea.
«Quindi, sono venuto qui», aggiunse lui, stringendo le mani a pugno per poi riaprirle – quasi avesse una palla antistress. Stette in silenzio. Aspettò.
Le attese non avevano mai avuto un forte impatto su di lui; né quando doveva andare a fare il vaccino, né per entrare in bagno la mattina, né per salire, quando era bambino, sulle giostre: in quel momento si stava corrodendo l'anima.
Era proprio una sadica, quella là, per far--
«Stai tranquillo, con quelle dita», e insieme alla sua voce, talmente gentile e leggermente divertita, ci fu il movimento di quella mano libera – che strinse quella più grande, quella di Takeshi. La strinse, percependo contro la propria pelle quella calda e liscia, morbida, di lui. Sentì le nocche rigide e solide un po' contratte distendersi sotto i polpastrelli della mezzosangue, come sciolti – poi, lei infiltrò le dita tra quelle di lui
E stettero così, per molto, molto tempo.  

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