And then there were none di murdershewrote (/viewuser.php?uid=198375)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Ten little niggers ***
Capitolo 3: *** Nine little niggers ***
Capitolo 4: *** Eight little niggers ***
Capitolo 5: *** Seven little niggers ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Alcune NOTE
fondamentali prima di iniziare:
1) Per chi non
lo sapesse, "And then there were none", pubblicato in Italia come
"Dieci piccoli indiani", è un racconto giallo scritto da
Agatha Christie. Amando particolarmente questa scrittrice e i suoi
favolosi personaggi, ho pensato di renderle omaggio con questo mio
personalissimo scritto, ispiratomi appunto dalla sua opera. Sperando
vivamente di non farla rivoltare nella tomba!
2) La
traduzione italiana della filastrocca, fondamento dell'opera originale,
fa riferimento a "negretti" e non a "indiani" per motivi che risalgono
alle prime pubblicazioni del libro della Christie. In ogni caso, non è mia
intenzione offendere nessuno o inneggiare in alcun modo al razzismo!
3) Per quanto
riguarda i contenuti, la mia storia fa riferimento ad alcune scene di
Resident Evil1 comunque rivisitate e/o modificate da me per poter
meglio fittare la filastrocca (come ad es., la riduzione del numero dei
membri della S.T.A.R.S. da 12 a 10).
Credits: "And then there were
none" e la filastrocca sono proprietà dei rispettivi autori,
i quali ne detengono tutti i diritti, mentre RE1 e i suoi personaggi
appartengono alla Capcom.
And then there were none
È
una storia piuttosto bizzarra quella che mi accingo a raccontarvi. Ai
limiti dell’inverosimile, direte voi. Ma posso garantirvi che
è tutto vero.
Tutto
iniziò in quella afosa estate del 1998 a Raccoon City. La
città, solitamente tranquilla e con un tasso di
criminalità assolutamente nella norma, venne stretta in una
morsa di puro terrore causato da una serie di misteriose e barbare
morti. Nessuno in città osava più girare da solo
oltre un certo orario e anche i cacciatori più esperti non
varcavano più i confini della città,
lì dove la civiltà sembrava svanire inghiottita
dalla natura selvaggia. Per rimediare a tutto ciò e
salvaguardare i suoi concittadini, il sindaco Warren fece appello non
solo al Dipartimento di polizia della città ma anche al neo
fondato reparto speciale S.T.A.R.S.
Questo era
suddiviso in due squadre, l’Alpha e il Bravo Team,
formate dai migliori agenti sulla piazza: il capitano Albert Wesker e
il comandante in seconda Enrico Marini, Chris Redfield, davvero un
ragazzo irruento ma ottimo soldato, Jill Valentine, il cui aspetto
gentile e innocente non vi avrebbe fatto sospettare minimamente che
potesse essere invece una tipa tosta, vera maestra nel sbloccare
serrature, Barry Burton, ex membro della SWAT esperto di armi e
responsabile del loro rifornimento alle squadre, Joseph Frost,
specializzato in automezzi, Richard Aiken, elemento indispensabile per
le comunicazioni, Forest Speyer, tiratore scelto, Kenneth Sullivan, il
chimico del Bravo Team, e infine Rebecca Chambers, giovanissima ma
intelligente, col fondamentale ruolo di aiuto in primo soccorso.
Tutti ottimi
agenti, preparati per ogni evenienza. Ma
non per quello che li aspettava...
Quando gli fu
ordinato di partire subito, quella sera di luglio, qualcuno
tentò di obiettare.
Effettivamente,
sarebbe stato più opportuno per loro muoversi alla luce del
sole, soprattutto se c’era davvero uno psicopatico che si
aggirava nei boschi appena fuori città divertendosi a
smembrare la gente. Ma, dopotutto, erano dieci armati contro uno...cosa
poteva mai capitargli? Inoltre c’era il rischio che il
suddetto psicopatico mietesse un’altra vittima mentre loro
stavano lì a discutere su quando partire. Dovevano agire
subito.
Così,
senza indugiare oltre, la S.T.A.R.S. giunse sul luogo tanto temuto,
disperdendosi per avere una visione più ampia della zona.
Gli agenti scansionarono il terreno alla ricerca di qualche indizio, di
prove, ma inizialmente la caccia fu molto scarsa. Sembrava che non ci
fosse niente di strano, nulla fuori dall’ordinario.
Frost
camminò a lungo uscendo infine dalla boscaglia per
ritrovarsi in un ampia radura. Si asciugò il sudore dal viso
con un braccio e sospirò. Vediamo...Cosa avevano detto i
giornali? Corpi straziati, mutilati? Ma dove?!
Un rumore alle
sue spalle lo fece voltare di scatto con la pistola puntata, pronta a
far fuoco.
“La
metta giù, Frost” disse Wesker, uscendo dagli
alberi.
Frost
ubbidì prontamente mentre lo scrutava. Se fosse stati
lì avreste sicuramente notato lo sguardo corrucciato del
giovane, il quale non riusciva a spiegarsi come il suo superiore fosse
uscito dal bosco senza aver fatto una piega, mentre lui avesse le
braccia graffiate dai ramoscelli e dai cespugli, i quali sembravano
volergli impedire di continuare la missione.
Avrebbe
fatto bene a cogliere quei segnali. Così come
i suoi compagni.
La natura non
lascia mai nulla al caso.
Ma
questo, loro, sembrarono non capirlo.
Wesker gli
chiese “Trovato qualcosa?”
“No,
signore”
Frost fece
qualche passo tra l’erba alta e si bloccò di colpo
emettendo un mugolio sommesso.
“Forse
ho parlato troppo presto, signore...” aggiunse poi.
Wesker lo
raggiunse ed entrambi osservarono la scena sotto i loro occhi.
Uno sguardo
sbarrato, vacuo.
Il volto
orribilmente scarnificato.
Il torace
squarciato.
Una mano
mancante.
Una gamba
maciullata.
E
il sangue, naturalmente. Denso e scuro,
scintillava alla luce argentea della luna piena quasi a voler catturare
l’attenzione dei due osservatori su quel macabro spettacolino.
Frost
deglutì sonoramente mentre Wesker portava istintivamente una
mano sull’arma che teneva al fianco.
“Non
sembra sia qui da molto...Si tenga pronto, Frost..”
Un ringhio
basso e cupo portò la loro attenzione sulla vasta distesa
erbosa che avevano di fronte, senza però riuscire a capire
chi o cosa lo avesse emesso.
Così
concentrati, sobbalzarono quando dal bosco dietro di loro fecero
capolino Jill, Chris e Barry. La ragazza si avvicinò cauta
ai due chiedendo “Ma che succed...?”
Le parole le
morirono in gola alla vista dello scempio ai suoi piedi mentre
sopraggiungevano anche Kenneth e Rick. Fecero per dire qualcosa ma un
ringhio, più potente del precedente, costrinse
l’intero gruppo a guardare un punto fisso tra
l’erba. I lunghi fasci si muovevano regolarmente.
C’era qualcosa lì...e sicuramente non doveva
trattarsi di un coniglietto in cerca della tana. Era qualcosa di
più grande e pericoloso. E non era solo.
Tutti loro
fecero questi pensieri mentre un branco di cani apparve in mezzo alla
radura puntando verso di loro, lentamente. Poi si fermò.
C’era
qualcosa di strano in quegli animali...Nessuno dei presenti
aveva mai visto dei cani così. Dalle fattezze sembravano dei
dobermann ma il pelo era rado a mancante in molti punti. Ad essere
più precisi, mancavano interi lembi di pelle che lasciavano
scoperti i muscoli sottostanti e, a tratti, anche alcune ossa. Sulle
teste, poi, le orecchie sembravano doversi staccare da un momento
all’altro mentre le fauci spalancate, dalle quali uscivano
lunghi filamenti di saliva frammista a sangue, non lasciavano presagire
nulla di buono.
Entrambi gli
schieramenti si studiarono un attimo.
Chi era preda
e chi era predatore?
Nessuno si
mosse finché Wesker non urlò ai suoi uomini di
correre. Ovviamente, gli animali si lanciarono
all’inseguimento. Una corsa fatta di urla concitate, spari e
uggiolii.
Nello stesso
momento gli ultimi tre membri del Bravo Team raggiunsero la radura,
portati là dalle voci e dagli spari uditi. Forest, vedendo i
compagni correre all’impazzata, esclamò
“Ehi! Ma che diavolo...Perché tutta questa
fretta?”
I tre fecero
qualche passo avanti. Videro il cadavere a terra, poi, sentendo
qualcosa, sollevarono lo sguardo su un cane ringhiante. Compresero al
volo il motivo della fuga dei colleghi e non persero tempo a imitarli.
Come loro, infatti, raggiunsero in fretta l’ingresso di una
villa che figurava nella radura, al confine con il bosco. Marini spinse
dentro Rebecca mentre Forest tentava ancora di colpire gli animali in
corsa dietro sé. Poi entrò e si chiuse il pesante
portone alle spalle.
Dieci persone
si trovavano così in una villa, apparentemente abbandonata, non
sapendo che avevano appena varcato la soglia dell’inferno.
No. No,
aspettate.
“Inferno”
non è la definizione esatta.
Secondo
l’accezione dantesca sarebbe un luogo controllato da leggi e
popolato da personaggi alquanto singolari.
In questo,
invece, non vi è legge alcuna se non quella più
naturale... “sopravvive solo il più
forte”.
Per quanto
concerne i personaggi...si, credo che si possano definire
“singolari”.
Un uomo, se
credente, sa cosa aspettarsi una volta morto.
Loro no. E la
cosa peggiore è che non sono ancora morti.
Ancora.
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Capitolo 2 *** Ten little niggers ***
Ten
little niggers...
Dieci piccoli negretti
se ne andarono a mangiar,
uno fece indigestione
solo nove ne restar.
Sfuggiti
alla prima selvaggia e assurda minaccia, i dieci membri della
S.T.A.R.S. presero una decisione ardua ma necessaria: esplorare
l’imponente magione per controllare se ci fosse qualcuno e
trovare eventuali indizi da poter collegare agli strani incidenti
avvenuti proprio in quella zona.
Non
fu una scelta arguta...Ma, dopotutto, non avevano motivo di sospettare
nulla.
Fatte le
dovute raccomandazioni, il gruppo si sciolse.
Kenneth
aprì una porta alla sua sinistra trovandosi in una grande
sala da pranzo. Stranamente, il lungo tavolo era apparecchiato con
tutte le stoviglie necessarie per le più svariate portate e
tre argentati candelabri troneggiavano accesi su esso, come se
dovessero arrivare ospiti da un momento all’altro. Eppure,
guardando con più attenzione la tavola imbandita, Kenneth si
accorse di come uno spesso strato di polvere avvolgesse tutto, chiaro
segno che, invece, quella sala non doveva essere stata utilizzata di
recente. L’uomo percorse l’intera stanza
guardandosi attorno, fino a raggiungere un caminetto spento. Non so
dirvi se fu la vista di tutti quei piatti pronti, comunque, un leggero
brontolio proveniente dal suo stomaco avvertì Kenneth di un
certo languorino che lo attanagliava nonostante la tensione della
situazione.
“Ehi...sta
buono. Non è il momento adatto per mangiare!”
Un altro
brontolio si fece sentire ma stavolta non venne dal suo stomaco. Lo
strano lamento calamitò la sua attenzione verso una porta
immediatamente alla sua destra, che aprì piano trovandosi in
un corridoio fiocamente illuminato. I gemiti si fecero più
insistenti e per un attimo pensò che si trattasse di qualche
suo compagno, forse ferito. A sinistra il corridoio dava su una
stanzetta finemente decorata e rivestita con della tappezzeria scura.
Qualcosa
tuttavia stonava con l’eleganza dell’ambiente...
Kenneth vide
una figura, voltata di spalle, leggermente curva in avanti. Un uomo.
Così
pensava lui.
Aveva i
vestiti logori e sporchi e continuava a emettere lamenti, come se
soffrisse.
“Ehi,
si sente male?” chiese l’agente senza
però ricevere una risposta.
Kenneth fece
qualche passo verso di lui.
“Serve
aiuto? Sta male?” richiese poi.
Fece per
posargli una mano sulla spalla quando l’altro
sembrò finalmente accorgersi di lui. L’uomo
misterioso si volse lentamente verso Kenneth, il quale
rabbrividì all’istante.
Quello aveva
il volto terribilmente pallido. Troppo pallido per essere in salute.
Beh,
dopotutto, Kenneth non si era interrogato circa il suo stato di salute?
Gli occhi
erano azzurri, di una tonalità così chiara che
l’agente si chiese se non fosse cieco.
Kenneth non
sapeva cosa dire e in ogni caso la bocca gli si asciugò non
appena vide un alone sospetto tutt’intorno a quella
dell’altro. Che fosse sangue?
Provò
a dire qualcosa ma l’altro lo precedette aprendo la bocca e
mettendo in mostra una fila di denti giallastri e marci.
Vi avevo
già descritto una scena simile se ricordate, quando la
S.T.A.R.S. era in fuga da quei dobermann infernali. Senz'altro vi
chiederete se c’è qualche collegamento tra quelle
creature e questa...cosa. Ovviamente.
E il nostro caro Kenneth non era certo così ingenuo da non
capirlo.
A quel punto
fece un passo indietro preoccupato.
Terrorizzato,
direi.
Ma prima che
potesse fare altro quella creatura, perché non
c’è altro modo per descrivervela, gli
gettò le braccia al collo.
E vi assicuro
che non poteva di certo essere per mancanza d’affetto.
Kenneth
cercò di divincolarsi ma contrariamente alle sue
aspettative, visto l’aspetto trasandato della creatura, la
sua presa fu abbastanza forte da tenerlo stretto e avvicinare i loro
volti. Quando fu abbastanza vicino al collo del malcapitato glie lo
addentò con uno scatto. Kenneth urlò tanto per il
dolore quanto per la sorpresa e facendo appello a tutte le sue forze
riuscì a spintonarlo via da sé.
“Ma
dico, sei impazzito?!” gli urlò contro.
Per tutta
risposta l’altro gli si lanciò di nuovo addosso.
Questa volta però Kenneth non si fece trovare impreparato e,
estratta l’arma dalla fondina, gli sparò un paio
di colpi in pieno petto senza pensarci due volte.
Il corpo cadde
a terra con un tonfo sordo.
Kenneth
cercò di riprendere fiato e riordinare i pensieri poggiando
la fronte sulla parete. Qualche secondo dopo però
sentì un forte gemito alle sue spalle.
Si
voltò e con suo sommo orrore vide il corpo, prima steso a
terra, alzarsi lentamente e tendere nuovamente la braccia verso di lui.
Ebbe appena il
tempo di pronunciare un sorpreso “No, non è
possibile...” che l’altro si lanciò per
la terza volta all’attacco.
Kenneth era talmente scioccato da ciò che aveva appena visto
che non riuscì a schivarlo in tempo, permettendo
così all’altro di affondargli nuovamente i denti
nella carne. Sentì un dolore mai provato prima mentre il suo
istinto di sopravvivenza gli faceva allontanare con forza
quell’orribile cosa.
E sparò. Un unico colpo preciso, dritto in fronte.
L’altro cadde a terra in una pozza di sangue e Kenneth
continuò a puntarlo, con la mano tremante, terrorizzato
all’idea che potesse rialzarsi. Fortunatamente per lui questo
non accadde e, una volta che l’ebbe capito, Kenneth si
appoggiò al muro. Poi, forzato dal forte tremore che lo
aveva colto, si sedette per terra premendosi una mano sulla ferita.
Un’altra ondata di terrore lo investì quando,
tastandosi il collo, percepì la mancanza di un intero
brandello di pelle mentre un fiotto di sangue gli schizzava la divisa.
“Quel
bastardo...m-mi ha morso come fossi un sandwich...Ma che diavolo sta
succedendo qui...?!” urlò in preda alla
frustrazione.
Poi
pensò di tornare indietro.
Magari avrebbe incontrato qualcuno dei suoi compagni che lo avrebbero
potuto aiutare. Ma un capogiro lo colse non appena cercò di
mettersi in piedi.
I minuti
passarono veloci e Kenneth si sentiva sempre più debole
mentre l’emorragia non accennava ad arrestarsi.
L’agente, in un momento di lucidità, si rese conto
che se non fosse in qualche modo riuscito a fermarla sarebbero stati
guai seri per lui.
E
le palpebre si fecero sempre più pesanti...
Senza quasi
accorgersene, Kenneth J.Sullivan fu la prima vittima della malefica
residenza.
Triste,
non trovate?
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Capitolo 3 *** Nine little niggers ***
Nine little niggers...
Nove piccoli negretti
fino a notte alta
vegliar,
uno cadde
addormentato
solo otto ne restar.
Mentre
un uomo affogava nel suo stesso sangue, una ragazza
impaurita e stanca vagava lungo i corridoi bui e deserti della magione.
La missione era iniziata decisamente male e la scelta di
dividersi per indagare singolarmente le era sembrata davvero pessima.
Insomma,
erano dieci...potevano almeno formare delle coppie.
Cosa che non era stata fatta.
Ma la giovane Rebecca non aveva protestato. Non voleva
sembrare una bambina agli occhi dei colleghi. Era già
difficile
confrontarsi ogni giorno con loro, più grandi e con
più esperienza.
Dopotutto, cosa pretendere da lei?
Era solo una ragazzina con l’unico compito di curare le
persone...non di andare in battaglia.
La ragazza si fermò un momento per guardarsi attorno. Stava
attraversando un lungo corridoio calpestando una soffice moquette rosso
fuoco.
Il colore delle pareti, un verde antico molto intenso, era reso
visibile grazie
alle svariate lampade che si alternavano tra una porta e
l’altra, poggiate
sopra eleganti mobiletti d’epoca in perfetto stato. Talmente
perfetto che la
ragazza si chiese se quella casa fosse davvero disabitata.
La risposta non tardò ad arrivare...anche se sotto forma di
lamenti sommessi.
Si voltò indietro ma non vide nulla. Udì solo
degli strani
passi strascicati.
“Chi c’è?”
Nessuna risposta.
Solo qualcuno che svoltava l’angolo che poco prima aveva
passato anche lei.
Rebecca aguzzò la vista, abbagliata dalla luce di una
lampada posta accanto a lei mentre un sagoma scura si stagliava in
fondo al
corridoio.
“Ma chi è..? Joseph, sei tu? Guarda che non
è affatto
divertente!”
Sfortunatamente, non si trattava di Frost.
La sagoma riprese la sua lenta avanzata e non appena
raggiunse il primo alone luminoso diffuso da una delle lampade la
ragazza
sussultò violentemente.
La sua giovane e brillante mente la classificò
immediatamente come “morto vivente” o,
più semplicemente, “zombie”.
Ne aveva visti tanti di film con protagonisti quegli esseri
non morti ma nemmeno vivi. Non era difficile riconoscerli: il colorito
terribilmente pallido o tendente al verdognolo, la pelle marcescente e
cascante, lo sguardo vacuo e le braccia tese in avanti o tenute
penzoloni lungo i fianchi.
Un campanello d’allarme iniziò a trillare nella
sua testa ma
Rebecca non si mosse, intenta a cercare una spiegazione logica a quanto
aveva
di fronte.
Non poteva esistere sul serio.
Solo quando lo zombie arrivò a qualche metro di distanza da
lei, investendola col suo tanfo di cadavere, si decise a voltarsi e a
iniziare
a correre.
Se c’era una cosa che aveva imparato da quegli stupidi film
era che quelle creature non si muovevano velocemente, dato la figura
piuttosto
decadente.
Non si fermò finché anche l’ultima eco
di quella macabra
sinfonia di morte non si dissolse nell’aria. Allora
rallentò il passo e l’unica
cosa che sentì furono i furiosi battiti del suo cuore che
cercava di pompare la
quantità maggiore possibile di ossigeno fino ai polmoni per
permetterle di
riprendersi. Anche le gambe però reclamavano un
po’ di tregua dopo quelle ore
di ininterrotta camminata. Così, imboccato
l’ennesimo corridoio, si fermò di
fronte ad una porta. Soffermò a lungo lo sguardo sulle
curiose decorazioni
incise con maestria sul legno scuro, poi ruotò la maniglia e
l’apri con
cautela.
All’interno, solo il buio.
Tese le orecchie per capire se doveva attendersi qualche
altra sorpresa. Poi, escluso ciò, fece qualche passo avanti.
Fece passare
una mano rasente alla parete in cerca di un interruttore e
andò invece a sbattere
contro un tavolino facendo rovesciare qualcosa al di sopra di esso.
Almeno aveva trovato una lampada.
Provò ad accenderla e, dopo qualche lampo incerto, quella
gettò una calda luce tutt’intorno permettendo
così alla ragazza di
capire dove si trovava.
Per prima cosa Rebecca chiuse la porta lanciando
un’imprecazione al cielo per la mancanza di un chiavistello
per bloccarla. Sospirò
cercando di mantenere la calma e seguitò a guardarsi intorno.
Si trovava in una camera da letto costituita da mobili di
legno scuro sormontati alcuni da bianche statuine di porcellana, altri
da una
gran varietà di centrini di morbida lana, pizzi e merletti.
Le pareti erano
rivestite da una tappezzeria beige, macchiate qua e là da
qualche quadro
raffigurante paesaggi e nature morte. Al centro della stanza spiccava
però il
vero pezzo forte: su di una pedana che fungeva da scala stava un enorme
letto a
baldacchino che avrebbe fatto tranquillamente concorrenza a quelli di
tutte le
principesse che Rebecca aveva sentito nominare nelle favole quando era
bambina.
Si avvicinò di più al mobile attratta dalla sua
grandiosità e dalle minuziose
decorazioni incisevi sopra, in linea con quelle della porta.
Ammirò il pesante
copriletto dai ricami dorati estremamente elaborati su uno sfondo
bordeaux.
Sembrava molto comodo...e lei era tanto stanca.
Se voleva continuare ad esplorare quella villa doveva pur
riposarsi un attimo.
Si arrampicò sul materasso senza curarsi di sfilare gli
anfibi. Non ci sarebbe stata molto, giusto il tempo di rilassare un
po’ i
muscoli. Vi gattonò sopra fino a raggiungere i due
guanciali. Erano così
morbidi! Per un attimo affondò il viso in uno dei due,
beandosi di quel
contatto delicato e fresco. Poi alzò la testa, sbuffando.
“Rebecca, che ti salta in mente? Ti sembra il momento di
abbassare la guardia?” disse rimproverandosi.
Si appoggiò allora contro la testiera del letto sistemandosi
meglio i cuscini dietro la schiena. Non le sarebbe successo niente se
fosse
rimasta vigile.
Forse.
Nonostante i buoni propositi la ragazza faticò non poco a
mantenere le palpebre sollevate.
“Dai, posso farcela...devo stare sveglia. Mi riposo qualche
minuto,
solo qualche minuto...Poi esco di qui, trovo gli altri e poi...e
poi..”
E poi, cadde addormentata.
Posso immaginare ora le
vostre esclamazioni concitate...Ma
che volete farci? Ve l’ho già detto che non era
fatta per le missioni pesanti.
Ma a volte la stanchezza
può giocare brutti scherzi.
Rebecca si svegliò di soprassalto, disturbata da un ronzio
proveniente dalla lampada all’ingresso che aveva ricominciato
ad avere
problemi. Ma ciò che la turbò di più
fu il constatare che la porta era
socchiusa, quando invece lei l’aveva chiusa. Poteva essere
stata una corrente
d’aria, anche se tutte le finestre che aveva incontrato erano
chiuse e la
camera stessa ne fosse priva.
In realtà, la piccola Rebecca era scivolata in un sonno
così
profondo da non farle percepire lo scatto della maniglia che ruotava e
il
cigolio della porta che si apriva lentamente. E, soprattutto, non
aveva sentito i
passi pesanti e irregolari che avevano costeggiato il letto dove lei,
ignara di
tutto, dormiva beata.
Rebecca si sedette sul ciglio del letto e si accorse di
alcune macchie scure che andavano dall’ingresso ad un armadio
a muro, che fino
ad allora non aveva notato, con un’anta dischiusa. Anche
stavolta la coscienza
le urlò di lasciare subito quella stanza ma la
curiosità ebbe la meglio e
Rebecca avanzò fino all’armadio.
Allungò una mano e lo aprì con uno scatto. Un
corpo, semisepolto dai vestiti scivolati dalle grucce, giaceva in un
angolo.
Allora Rebecca si decise ad ascoltare la sua coscienza...ma ormai era
tardi.
Mentre il tizio nell’armadio si rianimava con qualche
brontolio,
altri tre zombie fecero capolino dalla porta, bloccando così
l’unica via di
fuga.
Rebecca li guardò un
momento, disgustata, poi fece uno scatto verso di loro nel
tentativo di
confondere i loro sensi bacati e poterli aggirare.
Ma chi si trova tra le
braccia della morte cosa altro può temere?
I quattro avanzarono inesorabili verso la ragazza che, non
sapendo cosa fare, salì nuovamente in piedi sul letto in
preda al panico.
Era in trappola, definitivamente.
Se, alla fine di tutto, qualcuno avesse mai avuto
l’intenzione di tornare nella villa in cerca del
più giovane medico del
Dipartimento, avrebbe trovato solo un corpicino esile disteso
scompostamente su
un elegante e grandioso letto, degno proprio di una principessa.
Ma stavolta
nessun principe azzurro, ammesso che avesse
avuto il coraggio di baciarla, sarebbe riuscito a svegliarla.
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Capitolo 4 *** Eight little niggers ***
Eight
little niggers...
Otto piccoli negretti
se ne vanno a
passeggiar,
uno, ahimè, è rimasto
indietro
solo sette ne restar.
Erano
passate più di due ore da quando la S.T.A.R.S. si era
dispersa nella villa e Forest non aveva incontrato nessuno da allora.
Nessun
compagno, nessun inquilino... proprio nessuno. Ogni tanto aveva sentito
qualche
scricchiolio sospetto, alcuni passi quà e là ma,
guardandosi intorno, non vedeva mai
niente e nessuno. Dove si erano cacciati tutti?
Era già un pezzo che l’agente aveva riposto
l’arma nella
fondina, ritenendo inutile tenerla ancora puntata contro il vuoto, e
aveva
iniziato a guardare in giro con curiosità, come un turista
avrebbe fatto in
visita alla Casa Bianca. Ed effettivamente quella villa ne reggeva il
confronto, maestosa com’era.
Forest salì una doppia rampa di scale trovando alla sua
sinistra due grandi finestre arcuate. Si fermò di fronte ad
una di esse ma
fuori non si vedeva nulla se non le sagome nere degli alberi stagliate
contro
un cielo altrettanto scuro. Sbuffò lasciando un alone sul
vetro freddo.
Poi
proseguì quella sorta di tour, sperando di finirlo al
più presto.
Dopo aver sbirciato in quasi tutte le sontuose camere di
fronte alle quali passava, la sua attenzione fu calamitata da una
curiosa
stanza dalla forma ad “L”. Un terzo delle pareti
era coperto da un’intrecciata
decorazione verde pallido mentre la porzione restante era tinta di un
beige
scuro. La cosa che colpiva di più l’osservatore
era però l’illuminazione.
Sul soffitto erano installate delle sbarre in ferro battuto
che facevano da supporto a dei faretti, ognuno dei quali puntava il
proprio
fascio di luce al centro del quadro che incontrava sulla parete
opposta,
creando così un particolare gioco di luci e ombre in tutto
l’ambiente.
Forest notò subito, appollaiati accanto ai fari, diversi
uccelli scuri, corvi sicuramente, che, non appena si muoveva,
emettevano
striduli gracchi.
Di avvertimento?
L’agente avanzò lentamente lungo la prima parte
della stanza,
incuriosito dai dipinti che sembravano raffigurare le varie fasi della
vita di
un uomo. Svoltato un angolo sulla destra, fu accolto da un altro gruppo
di
uccelli, appostati come sentinelle sopra di lui. Arrivato in fondo,
Forest
osservò l’ultimo dipinto. Allungò un
braccio fino a sfiorare la tela con i
polpastrelli quando un forte gracchiare lo fece sussultare.
Sollevò gli occhi
al soffitto e guardò i corvi.
“Ehi, state calmi! Non sto facendo nulla di male..”
Riprovò ad avvicinare la mano ma ancora una volta si
levarono urla di protesta.
A quel punto Forest alzò le mani in segno di resa e disse
“Va bene, va bene! Non tocco niente...Siete proprio dei
custodi inflessibili,
eh?”
Si voltò per tornare indietro dandosi dello stupido per aver
discusso con degli uccelli, nonché per essere sceso a patti
con loro.
Svoltato nuovamente l’angolo dei versi acuti lo costrinsero
a sollevare lo sguardo ed esclamare “Beh? E ora che ho
fatto?”
I suoi interlocutori si agitarono un po’ sopra le sbarre che
li reggevano, sparpagliando piume nere ovunque e fissandolo con una
strano
luccichio vermiglio negli occhi.
Accortosi di ciò, Forest deglutì e disse
“Va bene, ragazzi.
Ho capito. Forse ho invaso il vostro territorio...ma sono pronto a
togliere il
disturbo, ok?”
Si voltò con lentezza, per evitare un’ulteriore
reazione
negativa da parte degli animali, ma ebbe appena il tempo di poggiare la
mano
sulla maniglia che quelli gli furono subito addosso in un turbinio
oscuro.
Forest
si sentì pizzicare e tirare la pelle del viso e delle
braccia, con le quali
cercava di ripararsi. Dopo qualche momento di confusione e qualche
brusca
piroetta riuscì a scrollarseli di dosso, uscire dalla stanza
e sbattergli la
porta contro.
Rimase a fissarla per diversi secondi cercando di riprendere
fiato.
“Ehi, che diavolo vi è preso?!”
sbraitò contro la porta
chiusa, dietro la quale si sentivano ancora gracchiare furiosamente i
corvi.
L’agente sbatté più volte le palpebre,
ancora sorpreso per
la violenza degli animali, poi si incamminò lungo il
corridoio alla fine del
quale aveva visto esserci una porta che doveva condurre
all’esterno.
Aveva
decisamente bisogno di una boccata d’aria.
Uscì sul grande balcone ornato da svariate piante rampicanti
avvolte alla balaustra in un contorto intreccio di foglie e rametti.
Forest
prese posto su di una sedia di legno dalla vernice scrostata, gettata
in un
angolo, e reclinò per un momento la testa
all’indietro lasciando che la brezza
lo accarezzasse e, con la sua freschezza, arrecasse un po’ di
sollievo alla sua
pelle in fiamme.
Ma non poteva mica
filare tutto liscio, no?
Passò qualche minuto lì, seduto, immerso in un
silenzio
interrotto solo dal vento che scoteva leggermente le fronde degli
alberi.
D’improvviso un ticchettio regolare gli fece drizzare il capo
per mettersi
all’erta. Aguzzò la vista e la luce della luna lo
aiutò ad individuare la fonte
di tale rumore. A diversi metri di distanza da dove sedeva lui era
atterrato un
corvo che, avendolo notato e forse riconosciuto come intruso,
cominciò a
saltellare verso di lui colpendo con le zampe artigliate le assi di
legno del
pavimento.
A quella vista Forest sbuffò sonoramente.
“E tu cosa vuoi? Ho già discusso con i tuoi amici
pennuti
quindi stammi alla larga!”
Quello continuò imperterrito ad avvicinarsi mentre altri
corvi atterrarono vicino ad esso, con grande disagio
dell’agente.
Li fissò per un attimo in silenzio, abbandonandosi poi ad
una risata nervosa.
Che situazione
ridicola... Mettersi a tu per tu con dei
pennuti!
Mentre il piccolo stormo si avvicinava sempre più Forest
ripensò ai quadri che aveva visionato poco prima.
Cosa rappresentavano?
Infanzia.
Si, c’era un bambino in fasce cullato dalla madre.
Il corvo in testa al gruppo seguitò la sua avanzata
gracchiando di tanto in tanto.
Età adulta.
Ricordava di aver visto un giovane uomo in eleganti abiti di
fine Ottocento.
Un altro corvo si avvicinò zampettando velocemente.
Vecchiaia.
L’anziano del dipinto gli era sembrato triste, ormai
rassegnato al
vicino epilogo.
Forest si alzò di scatto, rovesciando la sedia, e
indietreggiò fino a toccare la ringhiera con la schiena.
Dietro di lui, il
vuoto.
E l’ultimo?
Cosa c’era nell’ultimo dipinto?
Forest cercò di focalizzare l’immagine del quadro
appeso
alla parete in fondo mentre i corvi, quasi si fossero messi
d’accordo,
spiccarono il volo in contemporanea contro di lui.
Oh, si...certo. La
morte, ovviamente.
Quale realistica rappresentazione!
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Capitolo 5 *** Seven little niggers ***
Sette poveri
negretti
legna
andarono a spaccar,
un di
loro s’infranse a mezzo
e sei
soli ne restar.
“Questa magione è immensa!”
Queste erano
state le parole del Capitano Wesker non appena erano entrati nella
villa e da allora Barry non aveva fatto altro che ripetersele
mentalmente ogni qualvolta svoltava un angolo e si trovava davanti
all’ennesimo lungo corridoio, camera da letto, balcone o
ripostiglio.
Andando sempre
più avanti, però, si era accorto che
c’era qualcosa che non andava in quella casa, qualcosa di
sbagliato. Era una struttura di gran lusso in condizioni quasi
perfette, segno che non doveva essere del tutto abbandonata. Eppure gli
unici inquilini che aveva sporadicamente incrociato tra quelle mura
erano stati degli uomini dall’aspetto trasandato con seri
problemi di deambulazione, affetti da una qualche strana forma di
cannibalismo dato che avevano tentato più volte di morderlo.
Sebbene
l’uomo amasse le armi, non gli piaceva usarle per uccidere.
Essendo un militare professionista aveva dovuto accettare il fatto di
dover, talvolta, stroncare la vita di altri esseri umani ma si trattava
sempre di casi estremi, quando in gioco c’era la salvaguardia
della sicurezza pubblica. Come in quel caso, appunto.
Ma mai si era
sentito tanto in colpa come quella sera. Quei tizi avevano
sì qualche problema... ma gli sembravano così
inermi di fronte alla potenza delle sue armi.
Per questo
motivo, dopo aver fatto a botte con la parte più moralista
di sé, decise di approfittare di qualche momento di
raccoglimento e perdersi tra i fumi del suo sigaro. Lo estrasse da una
delle tasche sul petto e lo passò sotto le narici per
catturarne l’aroma. Tastò poi le tasche dei
calzoni alla ricerca dell’accendino, prendendo il sigaro tra
le labbra in modo da avere entrambe le mani libere.
“Ma
dove l’ho messo?” si chiese pensoso.
Stava quasi
per rinunciarvi quando sentì, attraverso la stoffa dei
pantaloni, la familiare forma rettangolare dello zippo. Prese
l’oggetto tra le mani e lo ammirò quasi fosse una
pietra preziosa. Soddisfatto accese il sigaro e ne aspirò un
lungo tiro assaporandone il gusto. Sapeva di liquirizia. Personalmente
non badava molto agli aromi che venivano aggiunti al tabacco ma quello
era l’unico che sua moglie gli permetteva di fumare in casa.
Sorrise a quel pensiero, immaginando l’espressione
imbronciata che assumeva quando si preoccupava per la sua salute, quasi
più di quando andava in missione per lavoro. Scosse la testa
bonariamente ma il flusso di quei pensieri fu interrotto da un
improvviso rumore.
Uno strano,
stridulo raschiare.
Espirò
lentamente il fumo dalla bocca e si avvicinò alla porta in
fondo al corridoio che aveva precedentemente imboccato. Raggiunse la
porta di metallo e, cautamente, vi accostò un orecchio. Non
sentiva più nulla, se non degli spifferi freddi sulla pelle
e il pungente odore di muffa e della ruggine che incrostava gli
infissi. Ci fu un fruscio dall’altra parte, poi il rumore si
arrestò del tutto.
Non
poteva essere una coincidenza, no?
Intuendo il
pericolo, Barry indietreggiò di un passo e fece scorrere la
mano sulla fondina, pronto ad ogni evenienza.
Poi qualcosa
andò a sbattere con violenza contro la porta.
Barry
liberò la magnum dalla custodia, ne fece scattare la sicura
e la puntò davanti a sé con mano ferma.
Seguì
un altro colpo e poi un altro e un altro ancora.
Beh, qualunque
cosa ci fosse la fuori era decisa ad entrare e ci sarebbe riuscita,
viste le condizioni critiche in cui versavano i cardini.
Contrariamente
ad ogni aspettativa anche quei colpi cessarono, facendo calare un
pesante silenzio carico di tensione. Poi, senza che l’uomo
potesse fare niente, la maniglia si mosse lentamente verso il basso con
un cigolio sinistro.
Avreste
dovuto sentirlo... Il suono dell’inevitabile!
Barry strinse
il sigaro tra i denti mentre continuava a puntare l’arma
contro la porta che piano si aprì.
E una mano
fece capolino dall’anta appena schiusa.
L’uomo
corrugò le sopracciglia notando che, in realtà,
non si trattava propriamente di una mano. Era più una zampa
con quelli che dovevano essere artigli, eccessivamente lunghi per
qualunque animale di cui conosceva l’esistenza. Poteva forse
essere un orso ma, quando l’altro scostò ancora un
poco l’anta e fece scorrere l’intero arto
all’interno, vide che non c’era traccia di
pelliccia e che, invece, era ricoperto da squame verdastre. La
curiosità di Barry sparì all’istante e
l’agente decise che era meglio non indagare oltre. Era tempo
di agire!
Diede una
poderosa spinta alla porta bloccandovi l’arto in mezzo per
poi allontanarsi correndo lungo il corridoio dal quale era venuto,
seguito dalle urla animalesche di quella... cosa.
Corse a lungo
poi, stremato, si fermò finché il respiro non gli
tornò regolare, sputando a terra il sigaro che ancora teneva
tra le labbra.
“E
no, non ci siamo proprio!” esclamò. Non poteva
mica scappare per sempre.
Fece per
raccogliere il sigaro ma un’ombra si allungò su di
lui minacciosa. Barry si levò per vedere finalmente lo
strano animale che lo aveva inseguito e che adesso si avvicinava a lui
lentamente, come un gatto che punta il topo solo per spaventarlo prima
di eliminarlo per puro divertimento.
Ma Barry, che
di certo non aveva l’indole di un roditore, dopo aver
calciato il sigaro di lato per non calpestarlo, puntò
l’arma davanti e osservò attentamente la creatura.
Appariva molto
robusta, muscolosa e interamente coperta di scaglie, come un grosso
alligatore. Doveva essere piuttosto alta anche se camminava leggermente
curva in avanti stando in equilibrio sulle zampe posteriori. Queste,
come l’arto che aveva visto poco prima, erano provviste di
lunghi artigli affilati col risultato che l’andatura
dell’animale era accompagnata da un sonoro ticchettio. Anche
la bocca comunque non era particolarmente rassicurante, munita
com’era di denti acuminati. Da essa, poi, usciva copiosa
della bava densa e presumibilmente appiccicosa.
“Eww!
Senza offesa, amico, sei disgustoso!” disse Barry
storcendo il naso.
La creatura
per tutta risposta ringhiò ferocemente fendendo
l’aria con una zampata. L’agente non si fece
intimidire da quell’approccio e fece fuoco senza indugiare
oltre. La colpì al torace ma quella non sembrò
risentire affatto del colpo, continuando ad avvicinarsi. Barry
sparò di nuovo, colpendola quasi nello stesso punto. La
creatura barcollò un po’, indietreggiando di
qualche passo, ma chiaramente non aveva intenzione di lasciarsi
sfuggire la preda. Nemmeno Barry comunque pareva arrendersi facilmente,
così fece un respiro profondo, prese bene la mira e premette
il grilletto una terza volta.
Non si
sentì un lamento.
Solo un tonfo
dopo che l’animale cadde sul pavimento in una pozza di
sangue, cervella e un nauseante liquido verdognolo.
“Eri
proprio una brutta bestia, eh?” osservò Barry
colpendo il corpo con la punta di un anfibio per verificarne il decesso.
Come per
sfidarlo, una delle zampe superiori scattò di lato arrivando
a toccargli una gamba per poi ricadere al suolo. L’agente
d’istinto puntò subito la magnum contro la
creatura: ormai si aspettava di tutto. Invece quella rimase immobile,
facendogli capire che era stato solo un riflesso muscolare
involontario, come quando una lucertola perde la coda e quella continua
a muoversi anche separata dal corpo. Verificato, quindi, che non vi era
più alcun pericolo Barry recuperò il sigaro,
ormai spento, e se lo mise in bocca. Scavalcò il corpo ai
suoi piedi e si appoggiò ad una parete, cercando nuovamente
l’accendino. Fece per prenderlo quando un rumore, appena
divenuto familiare, catturò la sua attenzione.
Un
regolare, sonoro, sinistro ticchettio sulle assi di legno del pavimento.
Barry
sospirò, sapendo già cosa lo avrebbe raggiunto a
breve.
Cacciò
definitivamente il sigaro in una tasca, impugnò la magnum e
camminò silenzioso fino alla fine del corridoio poi,
cautamente, si sporse un poco dall’angolo e lo vide. Un altro
mostro, come quello che aveva appena fatto fuori.
Anzi no.
Stavolta erano due.
Barry si
ritrasse prontamente per pensare ad un piano. Se avesse mirato subito
alla testa avrebbe evitato di consumare invano preziose munizioni che,
presumibilmente, gli sarebbero servite in futuro. Quindi
inspirò profondamente e uscì allo scoperto
facendo fuoco.
La fretta
però lo tradì e lo sparo colpì la
prima creatura solo di striscio ad una spalla, cosicché la
pallottola andò oltre e finì col conficcarsi sul
petto della seconda, rallentandola. Sparò di nuovo e
stavolta prese l’animale dritto in mezzo agli occhi. La
seconda creatura, ancora stordita dal precedente colpo, pareva soffrire
per lo squarcio che aveva nel petto ma sembrava anche decisa a
raggiungerlo in ogni caso. Barry si concentrò e
pregò che l’ultimo colpo che aveva in canna non
andasse sprecato. E così fu: beccò
l’animale in testa facendogliela così esplodere e
macchiare l’elegante tappezzeria delle pareti. Era abbastanza
sicuro che nessuno si sarebbe lamentato.
Ma
sfortunatamente per lui la partita non era ancora finita.
Si
lasciò i due corpi esanimi alle spalle e varcò
l’ennesima soglia, percorse un breve tratto di corridoio e si
bloccò. L’uomo non ebbe tempo di rilassare i
muscoli ancora tesi che quel maledetto ticchettio giunse nuovamente
alle sue orecchie. Quella volta però era decisamente
irregolare, sconnesso, il che gli fece intuire che non si trattava di
una sola creatura. E nemmeno di due.
Era fermo
all’incrocio tra due corridoi. Alle sue spalle
c’era la porta chiusa dalla quale era giunto. Alla sua
sinistra contò subito due creature e un’altra alla
sua destra. Di fronte a sé, proprio in fondo al corridoio,
ce n’era una quarta che lo fissava agitando un po’
le zampe, come per fargli capire che non sarebbe andato da nessuna
parte.
Barry
mandò giù a fatica il groppo che aveva in gola.
Tentare la fuga, ammesso che le uniche vie disponibili non fossero
già state bloccate, non sarebbe servito a nulla. Per un
momento pensò di farla finita. Passò
distrattamente una mano sul giubbotto e allora ricordò di
avere ancora una carta da giocare. Sorrise amaramente mentre si
lasciava scivolare a terra con le spalle contro la porta e
poggiò la magnum accanto a sé. Era stata la sua
fedele alleata fino a quel momento. Ma la superiorità, in
quanto a potenza di fuoco, di una granata era fuori discussione!
L’estrasse
da una tasca e quando le creature furono abbastanza vicine ne
tirò la spoletta.
“Beh,
se proprio dobbiamo finirla facciamolo in bellezza, dannate
bestiacce!” disse con veemenza.
Un’esplosione
risuonò potente nella villa maledetta.
Dell’agente
Burton rimase solo una foto bruciacchiata ritraente due bambine, le
quali avrebbero aspettato inutilmente il rientro del padre dal lavoro.
Note dell'autrice:
Mi scuso con
voi che leggete e seguite questa storia per l'enorme lasso di tempo che
ho impiegato per aggiornare ma voglio assicurarvi che non è
mia intenzione abbandonarla e lasciarla incompiuta. So che la
curiosità e la voglia di sapere come
andrà a finire può essere tanta ma vi prego solo
di avere tanta pazienza con me e con le mie altalenanti pubblicazioni.
Le idee ci sono tutte, belle e pronte. Ciò che mi rallenta
tremendamente è la mancanza di tempo (sono attiva anche in
altri fandom e, al di fuori di efp, lo studio universitario mi debilita
molto) e la difficoltà di mettere tutta questa storia su
carta. Spero che almeno anche questo capitolo sia stato di vostro
gradimento.
Ci si sente al
prossimo! (spero non tra troppi anni ^^')
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