And then there were none

di murdershewrote
(/viewuser.php?uid=198375)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Ten little niggers ***
Capitolo 3: *** Nine little niggers ***
Capitolo 4: *** Eight little niggers ***
Capitolo 5: *** Seven little niggers ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




Alcune NOTE fondamentali prima di iniziare:

1) Per chi non lo sapesse, "And then there were none", pubblicato in Italia come "Dieci piccoli indiani", è un racconto giallo scritto da Agatha Christie. Amando particolarmente questa scrittrice e i suoi favolosi personaggi, ho pensato di renderle omaggio con questo mio personalissimo scritto, ispiratomi appunto dalla sua opera. Sperando vivamente di non farla rivoltare nella tomba!
2) La traduzione italiana della filastrocca, fondamento dell'opera originale, fa riferimento a "negretti" e non a "indiani" per motivi che risalgono alle prime pubblicazioni del libro della Christie. In ogni caso, non è mia intenzione offendere nessuno o inneggiare in alcun modo al razzismo!
3) Per quanto riguarda i contenuti, la mia storia fa riferimento ad alcune scene di Resident Evil1 comunque rivisitate e/o modificate da me per poter meglio fittare la filastrocca (come ad es., la riduzione del numero dei membri della S.T.A.R.S. da 12 a 10).
Credits: "And then there were none" e la filastrocca sono proprietà dei rispettivi autori, i quali ne detengono tutti i diritti, mentre RE1 e i suoi personaggi appartengono alla Capcom.



And then there were none



È una storia piuttosto bizzarra quella che mi accingo a raccontarvi. Ai limiti dell’inverosimile, direte voi. Ma posso garantirvi che è tutto vero.
Tutto iniziò in quella afosa estate del 1998 a Raccoon City. La città, solitamente tranquilla e con un tasso di criminalità assolutamente nella norma, venne stretta in una morsa di puro terrore causato da una serie di misteriose e barbare morti. Nessuno in città osava più girare da solo oltre un certo orario e anche i cacciatori più esperti non varcavano più i confini della città, lì dove la civiltà sembrava svanire inghiottita dalla natura selvaggia. Per rimediare a tutto ciò e salvaguardare i suoi concittadini, il sindaco Warren fece appello non solo al Dipartimento di polizia della città ma anche al neo fondato reparto speciale S.T.A.R.S.
Questo era suddiviso in due squadre, l’Alpha e il Bravo Team, formate dai migliori agenti sulla piazza: il capitano Albert Wesker e il comandante in seconda Enrico Marini, Chris Redfield, davvero un ragazzo irruento ma ottimo soldato, Jill Valentine, il cui aspetto gentile e innocente non vi avrebbe fatto sospettare minimamente che potesse essere invece una tipa tosta, vera maestra nel sbloccare serrature, Barry Burton, ex membro della SWAT esperto di armi e responsabile del loro rifornimento alle squadre, Joseph Frost, specializzato in automezzi, Richard Aiken, elemento indispensabile per le comunicazioni, Forest Speyer, tiratore scelto, Kenneth Sullivan, il chimico del Bravo Team, e infine Rebecca Chambers, giovanissima ma intelligente, col fondamentale ruolo di aiuto in primo soccorso.
Tutti ottimi agenti, preparati per ogni evenienza. Ma non per quello che li aspettava...
Quando gli fu ordinato di partire subito, quella sera di luglio, qualcuno tentò di obiettare.
Effettivamente, sarebbe stato più opportuno per loro muoversi alla luce del sole, soprattutto se c’era davvero uno psicopatico che si aggirava nei boschi appena fuori città divertendosi a smembrare la gente. Ma, dopotutto, erano dieci armati contro uno...cosa poteva mai capitargli? Inoltre c’era il rischio che il suddetto psicopatico mietesse un’altra vittima mentre loro stavano lì a discutere su quando partire. Dovevano agire subito.
Così, senza indugiare oltre, la S.T.A.R.S. giunse sul luogo tanto temuto, disperdendosi per avere una visione più ampia della zona. Gli agenti scansionarono il terreno alla ricerca di qualche indizio, di prove, ma inizialmente la caccia fu molto scarsa. Sembrava che non ci fosse niente di strano, nulla fuori dall’ordinario.
Frost camminò a lungo uscendo infine dalla boscaglia per ritrovarsi in un ampia radura. Si asciugò il sudore dal viso con un braccio e sospirò. Vediamo...Cosa avevano detto i giornali? Corpi straziati, mutilati? Ma dove?!
Un rumore alle sue spalle lo fece voltare di scatto con la pistola puntata, pronta a far fuoco.
“La metta giù, Frost” disse Wesker, uscendo dagli alberi.
Frost ubbidì prontamente mentre lo scrutava. Se fosse stati lì avreste sicuramente notato lo sguardo corrucciato del giovane, il quale non riusciva a spiegarsi come il suo superiore fosse uscito dal bosco senza aver fatto una piega, mentre lui avesse le braccia graffiate dai ramoscelli e dai cespugli, i quali sembravano volergli impedire di continuare la missione.
Avrebbe fatto bene a cogliere quei segnali. Così come i suoi compagni.
La natura non lascia mai nulla al caso.
Ma questo, loro, sembrarono non capirlo.
Wesker gli chiese “Trovato qualcosa?”
“No, signore”
Frost fece qualche passo tra l’erba alta e si bloccò di colpo emettendo un mugolio sommesso.
“Forse ho parlato troppo presto, signore...” aggiunse poi.
Wesker lo raggiunse ed entrambi osservarono la scena sotto i loro occhi.
Uno sguardo sbarrato, vacuo.
Il volto orribilmente scarnificato.
Il torace squarciato.
Una mano mancante.
Una gamba maciullata.
E il sangue, naturalmente. Denso e scuro, scintillava alla luce argentea della luna piena quasi a voler catturare l’attenzione dei due osservatori su quel macabro spettacolino.
Frost deglutì sonoramente mentre Wesker portava istintivamente una mano sull’arma che teneva al fianco.
“Non sembra sia qui da molto...Si tenga pronto, Frost..”
Un ringhio basso e cupo portò la loro attenzione sulla vasta distesa erbosa che avevano di fronte, senza però riuscire a capire chi o cosa lo avesse emesso.
Così concentrati, sobbalzarono quando dal bosco dietro di loro fecero capolino Jill, Chris e Barry. La ragazza si avvicinò cauta ai due chiedendo “Ma che succed...?”
Le parole le morirono in gola alla vista dello scempio ai suoi piedi mentre sopraggiungevano anche Kenneth e Rick. Fecero per dire qualcosa ma un ringhio, più potente del precedente, costrinse l’intero gruppo a guardare un punto fisso tra l’erba. I lunghi fasci si muovevano regolarmente. C’era qualcosa lì...e sicuramente non doveva trattarsi di un coniglietto in cerca della tana. Era qualcosa di più grande e pericoloso. E non era solo.
Tutti loro fecero questi pensieri mentre un branco di cani apparve in mezzo alla radura puntando verso di loro, lentamente. Poi si fermò.
C’era qualcosa di strano in quegli animali...Nessuno dei presenti aveva mai visto dei cani così. Dalle fattezze sembravano dei dobermann ma il pelo era rado a mancante in molti punti. Ad essere più precisi, mancavano interi lembi di pelle che lasciavano scoperti i muscoli sottostanti e, a tratti, anche alcune ossa. Sulle teste, poi, le orecchie sembravano doversi staccare da un momento all’altro mentre le fauci spalancate, dalle quali uscivano lunghi filamenti di saliva frammista a sangue, non lasciavano presagire nulla di buono.
Entrambi gli schieramenti si studiarono un attimo.
Chi era preda e chi era predatore?
Nessuno si mosse finché Wesker non urlò ai suoi uomini di correre. Ovviamente, gli animali si lanciarono all’inseguimento. Una corsa fatta di urla concitate, spari e uggiolii.
Nello stesso momento gli ultimi tre membri del Bravo Team raggiunsero la radura, portati là dalle voci e dagli spari uditi. Forest, vedendo i compagni correre all’impazzata, esclamò “Ehi! Ma che diavolo...Perché tutta questa fretta?”
I tre fecero qualche passo avanti. Videro il cadavere a terra, poi, sentendo qualcosa, sollevarono lo sguardo su un cane ringhiante. Compresero al volo il motivo della fuga dei colleghi e non persero tempo a imitarli. Come loro, infatti, raggiunsero in fretta l’ingresso di una villa che figurava nella radura, al confine con il bosco. Marini spinse dentro Rebecca mentre Forest tentava ancora di colpire gli animali in corsa dietro sé. Poi entrò e si chiuse il pesante portone alle spalle.
Dieci persone si trovavano così in una villa, apparentemente abbandonata, non sapendo che avevano appena varcato la soglia dell’inferno.
No. No, aspettate.
“Inferno” non è la definizione esatta.
Secondo l’accezione dantesca sarebbe un luogo controllato da leggi e popolato da personaggi alquanto singolari.
In questo, invece, non vi è legge alcuna se non quella più naturale... “sopravvive solo il più forte”.
Per quanto concerne i personaggi...si, credo che si possano definire “singolari”.
Un uomo, se credente, sa cosa aspettarsi una volta morto.
Loro no. E la cosa peggiore è che non sono ancora morti.
Ancora.




Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Ten little niggers ***


Ten little niggers...

Dieci piccoli negretti
se ne andarono a mangiar,
uno fece indigestione
solo nove ne restar.


Sfuggiti alla prima selvaggia e assurda minaccia, i dieci membri della S.T.A.R.S. presero una decisione ardua ma necessaria: esplorare l’imponente magione per controllare se ci fosse qualcuno e trovare eventuali indizi da poter collegare agli strani incidenti avvenuti proprio in quella zona.
Non fu una scelta arguta...Ma, dopotutto, non avevano motivo di sospettare nulla.
Fatte le dovute raccomandazioni, il gruppo si sciolse.
Kenneth aprì una porta alla sua sinistra trovandosi in una grande sala da pranzo. Stranamente, il lungo tavolo era apparecchiato con tutte le stoviglie necessarie per le più svariate portate e tre argentati candelabri troneggiavano accesi su esso, come se dovessero arrivare ospiti da un momento all’altro. Eppure, guardando con più attenzione la tavola imbandita, Kenneth si accorse di come uno spesso strato di polvere avvolgesse tutto, chiaro segno che, invece, quella sala non doveva essere stata utilizzata di recente. L’uomo percorse l’intera stanza guardandosi attorno, fino a raggiungere un caminetto spento. Non so dirvi se fu la vista di tutti quei piatti pronti, comunque, un leggero brontolio proveniente dal suo stomaco avvertì Kenneth di un certo languorino che lo attanagliava nonostante la tensione della situazione.
“Ehi...sta buono. Non è il momento adatto per mangiare!”
Un altro brontolio si fece sentire ma stavolta non venne dal suo stomaco. Lo strano lamento calamitò la sua attenzione verso una porta immediatamente alla sua destra, che aprì piano trovandosi in un corridoio fiocamente illuminato. I gemiti si fecero più insistenti e per un attimo pensò che si trattasse di qualche suo compagno, forse ferito. A sinistra il corridoio dava su una stanzetta finemente decorata e rivestita con della tappezzeria scura.
Qualcosa tuttavia stonava con l’eleganza dell’ambiente...
Kenneth vide una figura, voltata di spalle, leggermente curva in avanti. Un uomo.
Così pensava lui.
Aveva i vestiti logori e sporchi e continuava a emettere lamenti, come se soffrisse.
“Ehi, si sente male?” chiese l’agente senza però ricevere una risposta.
Kenneth fece qualche passo verso di lui.
“Serve aiuto? Sta male?” richiese poi.
Fece per posargli una mano sulla spalla quando l’altro sembrò finalmente accorgersi di lui. L’uomo misterioso si volse lentamente verso Kenneth, il quale rabbrividì all’istante.
Quello aveva il volto terribilmente pallido. Troppo pallido per essere in salute.
Beh, dopotutto, Kenneth non si era interrogato circa il suo stato di salute?
Gli occhi erano azzurri, di una tonalità così chiara che l’agente si chiese se non fosse cieco.
Kenneth non sapeva cosa dire e in ogni caso la bocca gli si asciugò non appena vide un alone sospetto tutt’intorno a quella dell’altro. Che fosse sangue?
Provò a dire qualcosa ma l’altro lo precedette aprendo la bocca e mettendo in mostra una fila di denti giallastri e marci.
Vi avevo già descritto una scena simile se ricordate, quando la S.T.A.R.S. era in fuga da quei dobermann infernali. Senz'altro vi chiederete se c’è qualche collegamento tra quelle creature e questa...cosa. Ovviamente. E il nostro caro Kenneth non era certo così ingenuo da non capirlo.
A quel punto fece un passo indietro preoccupato.
Terrorizzato, direi.
Ma prima che potesse fare altro quella creatura, perché non c’è altro modo per descrivervela, gli gettò le braccia al collo.
E vi assicuro che non poteva di certo essere per mancanza d’affetto.
Kenneth cercò di divincolarsi ma contrariamente alle sue aspettative, visto l’aspetto trasandato della creatura, la sua presa fu abbastanza forte da tenerlo stretto e avvicinare i loro volti. Quando fu abbastanza vicino al collo del malcapitato glie lo addentò con uno scatto. Kenneth urlò tanto per il dolore quanto per la sorpresa e facendo appello a tutte le sue forze riuscì a spintonarlo via da sé.
“Ma dico, sei impazzito?!” gli urlò contro.
Per tutta risposta l’altro gli si lanciò di nuovo addosso. Questa volta però Kenneth non si fece trovare impreparato e, estratta l’arma dalla fondina, gli sparò un paio di colpi in pieno petto senza pensarci due volte.
Il corpo cadde a terra con un tonfo sordo.
Kenneth cercò di riprendere fiato e riordinare i pensieri poggiando la fronte sulla parete. Qualche secondo dopo però sentì un forte gemito alle sue spalle.
Si voltò e con suo sommo orrore vide il corpo, prima steso a terra, alzarsi lentamente e tendere nuovamente la braccia verso di lui.
Ebbe appena il tempo di pronunciare un sorpreso “No, non è possibile...” che l’altro si lanciò per la terza volta all’attacco.
Kenneth era talmente scioccato da ciò che aveva appena visto che non riuscì a schivarlo in tempo, permettendo così all’altro di affondargli nuovamente i denti nella carne. Sentì un dolore mai provato prima mentre il suo istinto di sopravvivenza gli faceva allontanare con forza quell’orribile cosa.
E sparò. Un unico colpo preciso, dritto in fronte.
L’altro cadde a terra in una pozza di sangue e Kenneth continuò a puntarlo, con la mano tremante, terrorizzato all’idea che potesse rialzarsi. Fortunatamente per lui questo non accadde e, una volta che l’ebbe capito, Kenneth si appoggiò al muro. Poi, forzato dal forte tremore che lo aveva colto, si sedette per terra premendosi una mano sulla ferita. Un’altra ondata di terrore lo investì quando, tastandosi il collo, percepì la mancanza di un intero brandello di pelle mentre un fiotto di sangue gli schizzava la divisa.

“Quel bastardo...m-mi ha morso come fossi un sandwich...Ma che diavolo sta succedendo qui...?!” urlò in preda alla frustrazione.
Poi pensò di tornare indietro.
Magari avrebbe incontrato qualcuno dei suoi compagni che lo avrebbero potuto aiutare. Ma un capogiro lo colse non appena cercò di mettersi in piedi.

I minuti passarono veloci e Kenneth si sentiva sempre più debole mentre l’emorragia non accennava ad arrestarsi.
L’agente, in un momento di lucidità, si rese conto che se non fosse in qualche modo riuscito a fermarla sarebbero stati guai seri per lui.

E le palpebre si fecero sempre più pesanti...
Senza quasi accorgersene, Kenneth J.Sullivan fu la prima vittima della malefica residenza.
Triste, non trovate?

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Nine little niggers ***


Nine little niggers...

Nove piccoli negretti
fino a notte alta vegliar,
uno cadde addormentato
solo otto ne restar.

Mentre un uomo affogava nel suo stesso sangue, una ragazza impaurita e stanca vagava lungo i corridoi bui e deserti della magione.
La missione era iniziata decisamente male e la scelta di dividersi per indagare singolarmente le era sembrata davvero pessima. Insomma, erano dieci...potevano almeno formare delle coppie.
Cosa che non era stata fatta.
Ma la giovane Rebecca non aveva protestato. Non voleva sembrare una bambina agli occhi dei colleghi. Era già difficile confrontarsi ogni giorno con loro, più grandi e con più esperienza.
Dopotutto, cosa pretendere da lei?
Era solo una ragazzina con l’unico compito di curare le persone...non di andare in battaglia.
La ragazza si fermò un momento per guardarsi attorno. Stava attraversando un lungo corridoio calpestando una soffice moquette rosso fuoco. Il colore delle pareti, un verde antico molto intenso, era reso visibile grazie alle svariate lampade che si alternavano tra una porta e l’altra, poggiate sopra eleganti mobiletti d’epoca in perfetto stato. Talmente perfetto che la ragazza si chiese se quella casa fosse davvero disabitata.
La risposta non tardò ad arrivare...anche se sotto forma di lamenti sommessi.
Si voltò indietro ma non vide nulla. Udì solo degli strani passi strascicati.
“Chi c’è?”
Nessuna risposta.
Solo qualcuno che svoltava l’angolo che poco prima aveva passato anche lei.
Rebecca aguzzò la vista, abbagliata dalla luce di una lampada posta accanto a lei mentre un sagoma scura si stagliava in fondo al corridoio.
“Ma chi è..? Joseph, sei tu? Guarda che non è affatto divertente!”
Sfortunatamente, non si trattava di Frost.
La sagoma riprese la sua lenta avanzata e non appena raggiunse il primo alone luminoso diffuso da una delle lampade la ragazza sussultò violentemente.
La sua giovane e brillante mente la classificò immediatamente come “morto vivente” o, più semplicemente, “zombie”.
Ne aveva visti tanti di film con protagonisti quegli esseri non morti ma nemmeno vivi. Non era difficile riconoscerli: il colorito terribilmente pallido o tendente al verdognolo, la pelle marcescente e cascante, lo sguardo vacuo e le braccia tese in avanti o tenute penzoloni lungo i fianchi.
Un campanello d’allarme iniziò a trillare nella sua testa ma Rebecca non si mosse, intenta a cercare una spiegazione logica a quanto aveva di fronte.
Non poteva esistere sul serio.
Solo quando lo zombie arrivò a qualche metro di distanza da lei, investendola col suo tanfo di cadavere, si decise a voltarsi e a iniziare a correre.
Se c’era una cosa che aveva imparato da quegli stupidi film era che quelle creature non si muovevano velocemente, dato la figura piuttosto decadente.
Non si fermò finché anche l’ultima eco di quella macabra sinfonia di morte non si dissolse nell’aria. Allora rallentò il passo e l’unica cosa che sentì furono i furiosi battiti del suo cuore che cercava di pompare la quantità maggiore possibile di ossigeno fino ai polmoni per permetterle di riprendersi. Anche le gambe però reclamavano un po’ di tregua dopo quelle ore di ininterrotta camminata. Così, imboccato l’ennesimo corridoio, si fermò di fronte ad una porta. Soffermò a lungo lo sguardo sulle curiose decorazioni incise con maestria sul legno scuro, poi ruotò la maniglia e l’apri con cautela.
All’interno, solo il buio.
Tese le orecchie per capire se doveva attendersi qualche altra sorpresa. Poi, escluso ciò, fece qualche passo avanti. Fece passare una mano rasente alla parete in cerca di un interruttore e andò invece a sbattere contro un tavolino facendo rovesciare qualcosa al di sopra di esso.
Almeno aveva trovato una lampada.
Provò ad accenderla e, dopo qualche lampo incerto, quella gettò una calda luce tutt’intorno permettendo così alla ragazza di capire dove si trovava.
Per prima cosa Rebecca chiuse la porta lanciando un’imprecazione al cielo per la mancanza di un chiavistello per bloccarla. Sospirò cercando di mantenere la calma e seguitò a guardarsi intorno.
Si trovava in una camera da letto costituita da mobili di legno scuro sormontati alcuni da bianche statuine di porcellana, altri da una gran varietà di centrini di morbida lana, pizzi e merletti. Le pareti erano rivestite da una tappezzeria beige, macchiate qua e là da qualche quadro raffigurante paesaggi e nature morte. Al centro della stanza spiccava però il vero pezzo forte: su di una pedana che fungeva da scala stava un enorme letto a baldacchino che avrebbe fatto tranquillamente concorrenza a quelli di tutte le principesse che Rebecca aveva sentito nominare nelle favole quando era bambina. Si avvicinò di più al mobile attratta dalla sua grandiosità e dalle minuziose decorazioni incisevi sopra, in linea con quelle della porta. Ammirò il pesante copriletto dai ricami dorati estremamente elaborati su uno sfondo bordeaux.
Sembrava molto comodo...e lei era tanto stanca.
Se voleva continuare ad esplorare quella villa doveva pur riposarsi un attimo.
Si arrampicò sul materasso senza curarsi di sfilare gli anfibi. Non ci sarebbe stata molto, giusto il tempo di rilassare un po’ i muscoli. Vi gattonò sopra fino a raggiungere i due guanciali. Erano così morbidi! Per un attimo affondò il viso in uno dei due, beandosi di quel contatto delicato e fresco. Poi alzò la testa, sbuffando.
“Rebecca, che ti salta in mente? Ti sembra il momento di abbassare la guardia?” disse rimproverandosi.
Si appoggiò allora contro la testiera del letto sistemandosi meglio i cuscini dietro la schiena. Non le sarebbe successo niente se fosse rimasta vigile.
Forse.
Nonostante i buoni propositi la ragazza faticò non poco a mantenere le palpebre sollevate.
“Dai, posso farcela...devo stare sveglia. Mi riposo qualche minuto, solo qualche minuto...Poi esco di qui, trovo gli altri e poi...e poi..”
E poi, cadde addormentata.
Posso immaginare ora le vostre esclamazioni concitate...Ma che volete farci? Ve l’ho già detto che non era fatta per le missioni pesanti.
Ma a volte la stanchezza può giocare brutti scherzi.
Rebecca si svegliò di soprassalto, disturbata da un ronzio proveniente dalla lampada all’ingresso che aveva ricominciato ad avere problemi. Ma ciò che la turbò di più fu il constatare che la porta era socchiusa, quando invece lei l’aveva chiusa. Poteva essere stata una corrente d’aria, anche se tutte le finestre che aveva incontrato erano chiuse e la camera stessa ne fosse priva.
In realtà, la piccola Rebecca era scivolata in un sonno così profondo da non farle percepire lo scatto della maniglia che ruotava e il cigolio della porta che si apriva lentamente. E, soprattutto, non aveva sentito i passi pesanti e irregolari che avevano costeggiato il letto dove lei, ignara di tutto, dormiva beata.
Rebecca si sedette sul ciglio del letto e si accorse di alcune macchie scure che andavano dall’ingresso ad un armadio a muro, che fino ad allora non aveva notato, con un’anta dischiusa. Anche stavolta la coscienza le urlò di lasciare subito quella stanza ma la curiosità ebbe la meglio e Rebecca avanzò fino all’armadio. Allungò una mano e lo aprì con uno scatto. Un corpo, semisepolto dai vestiti scivolati dalle grucce, giaceva in un angolo. Allora Rebecca si decise ad ascoltare la sua coscienza...ma ormai era tardi.
Mentre il tizio nell’armadio si rianimava con qualche brontolio, altri tre zombie fecero capolino dalla porta, bloccando così l’unica via di fuga.
Rebecca li guardò un  momento, disgustata, poi fece uno scatto verso di loro nel tentativo di confondere i loro sensi bacati e poterli aggirare.
Ma chi si trova tra le braccia della morte cosa altro può temere?
I quattro avanzarono inesorabili verso la ragazza che, non sapendo cosa fare, salì nuovamente in piedi sul letto in preda al panico.
Era in trappola, definitivamente.
Se, alla fine di tutto, qualcuno avesse mai avuto l’intenzione di tornare nella villa in cerca del più giovane medico del Dipartimento, avrebbe trovato solo un corpicino esile disteso scompostamente su un elegante e grandioso letto, degno proprio di una principessa.
Ma stavolta nessun principe azzurro, ammesso che avesse avuto il coraggio di baciarla, sarebbe riuscito a svegliarla.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Eight little niggers ***


Eight little niggers...

Otto piccoli negretti
se ne vanno a passeggiar,
uno, ahimè, è rimasto indietro
solo sette ne restar.

Erano passate più di due ore da quando la S.T.A.R.S. si era dispersa nella villa e Forest non aveva incontrato nessuno da allora. Nessun compagno, nessun inquilino... proprio nessuno. Ogni tanto aveva sentito qualche scricchiolio sospetto, alcuni passi quà e là ma, guardandosi intorno, non vedeva mai niente e nessuno. Dove si erano cacciati tutti?
Era già un pezzo che l’agente aveva riposto l’arma nella fondina, ritenendo inutile tenerla ancora puntata contro il vuoto, e aveva iniziato a guardare in giro con curiosità, come un turista avrebbe fatto in visita alla Casa Bianca. Ed effettivamente quella villa ne reggeva il confronto, maestosa com’era.
Forest salì una doppia rampa di scale trovando alla sua sinistra due grandi finestre arcuate. Si fermò di fronte ad una di esse ma fuori non si vedeva nulla se non le sagome nere degli alberi stagliate contro un cielo altrettanto scuro. Sbuffò lasciando un alone sul vetro freddo.
Poi proseguì quella sorta di tour, sperando di finirlo al più presto.
Dopo aver sbirciato in quasi tutte le sontuose camere di fronte alle quali passava, la sua attenzione fu calamitata da una curiosa stanza dalla forma ad “L”. Un terzo delle pareti era coperto da un’intrecciata decorazione verde pallido mentre la porzione restante era tinta di un beige scuro. La cosa che colpiva di più l’osservatore era però l’illuminazione.
Sul soffitto erano installate delle sbarre in ferro battuto che facevano da supporto a dei faretti, ognuno dei quali puntava il proprio fascio di luce al centro del quadro che incontrava sulla parete opposta, creando così un particolare gioco di luci e ombre in tutto l’ambiente.
Forest notò subito, appollaiati accanto ai fari, diversi uccelli scuri, corvi sicuramente, che, non appena si muoveva, emettevano striduli gracchi.
Di avvertimento?
L’agente avanzò lentamente lungo la prima parte della stanza, incuriosito dai dipinti che sembravano raffigurare le varie fasi della vita di un uomo. Svoltato un angolo sulla destra, fu accolto da un altro gruppo di uccelli, appostati come sentinelle sopra di lui. Arrivato in fondo, Forest osservò l’ultimo dipinto. Allungò un braccio fino a sfiorare la tela con i polpastrelli quando un forte gracchiare lo fece sussultare. Sollevò gli occhi al soffitto e guardò i corvi.
“Ehi, state calmi! Non sto facendo nulla di male..”
Riprovò ad avvicinare la mano ma ancora una volta si levarono urla di protesta.
A quel punto Forest alzò le mani in segno di resa e disse “Va bene, va bene! Non tocco niente...Siete proprio dei custodi inflessibili, eh?”
Si voltò per tornare indietro dandosi dello stupido per aver discusso con degli uccelli, nonché per essere sceso a patti con loro.
Svoltato nuovamente l’angolo dei versi acuti lo costrinsero a sollevare lo sguardo ed esclamare “Beh? E ora che ho fatto?”
I suoi interlocutori si agitarono un po’ sopra le sbarre che li reggevano, sparpagliando piume nere ovunque e fissandolo con una strano luccichio vermiglio negli occhi.
Accortosi di ciò, Forest deglutì e disse “Va bene, ragazzi. Ho capito. Forse ho invaso il vostro territorio...ma sono pronto a togliere il disturbo, ok?”
Si voltò con lentezza, per evitare un’ulteriore reazione negativa da parte degli animali, ma ebbe appena il tempo di poggiare la mano sulla maniglia che quelli gli furono subito addosso in un turbinio oscuro.
Forest si sentì pizzicare e tirare la pelle del viso e delle braccia, con le quali cercava di ripararsi. Dopo qualche momento di confusione e qualche brusca piroetta riuscì a scrollarseli di dosso, uscire dalla stanza e sbattergli la porta contro.
Rimase a fissarla per diversi secondi cercando di riprendere fiato.
“Ehi, che diavolo vi è preso?!” sbraitò contro la porta chiusa, dietro la quale si sentivano ancora gracchiare furiosamente i corvi.
L’agente sbatté più volte le palpebre, ancora sorpreso per la violenza degli animali, poi si incamminò lungo il corridoio alla fine del quale aveva visto esserci una porta che doveva condurre all’esterno.
Aveva decisamente bisogno di una boccata d’aria.
Uscì sul grande balcone ornato da svariate piante rampicanti avvolte alla balaustra in un contorto intreccio di foglie e rametti. Forest prese posto su di una sedia di legno dalla vernice scrostata, gettata in un angolo, e reclinò per un momento la testa all’indietro lasciando che la brezza lo accarezzasse e, con la sua freschezza, arrecasse un po’ di sollievo alla sua pelle in fiamme.
Ma non poteva mica filare tutto liscio, no?
Passò qualche minuto lì, seduto, immerso in un silenzio interrotto solo dal vento che scoteva leggermente le fronde degli alberi.
D’improvviso un ticchettio regolare gli fece drizzare il capo per mettersi all’erta. Aguzzò la vista e la luce della luna lo aiutò ad individuare la fonte di tale rumore. A diversi metri di distanza da dove sedeva lui era atterrato un corvo che, avendolo notato e forse riconosciuto come intruso, cominciò a saltellare verso di lui colpendo con le zampe artigliate le assi di legno del pavimento.
A quella vista Forest sbuffò sonoramente.
“E tu cosa vuoi? Ho già discusso con i tuoi amici pennuti quindi stammi alla larga!”
Quello continuò imperterrito ad avvicinarsi mentre altri corvi atterrarono vicino ad esso, con grande disagio dell’agente.
Li fissò per un attimo in silenzio, abbandonandosi poi ad una risata nervosa.
Che situazione ridicola... Mettersi a tu per tu con dei pennuti!
Mentre il piccolo stormo si avvicinava sempre più Forest ripensò ai quadri che aveva visionato poco prima.
Cosa rappresentavano?
Infanzia.
Si, c’era un bambino in fasce cullato dalla madre.
Il corvo in testa al gruppo seguitò la sua avanzata gracchiando di tanto in tanto.
Età adulta.
Ricordava di aver visto un giovane uomo in eleganti abiti di fine Ottocento.
Un altro corvo si avvicinò zampettando velocemente.
Vecchiaia.
L’anziano del dipinto gli era sembrato triste, ormai rassegnato al vicino epilogo.
Forest si alzò di scatto, rovesciando la sedia, e indietreggiò fino a toccare la ringhiera con la schiena. Dietro di lui, il vuoto.
E l’ultimo? Cosa c’era nell’ultimo dipinto?
Forest cercò di focalizzare l’immagine del quadro appeso alla parete in fondo mentre i corvi, quasi si fossero messi d’accordo, spiccarono il volo in contemporanea contro di lui.
Oh, si...certo. La morte, ovviamente.
Quale realistica rappresentazione!

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Seven little niggers ***


Sette poveri negretti
legna andarono a spaccar,
un di loro s’infranse a mezzo
e sei soli ne restar.



“Questa magione è immensa!”

Queste erano state le parole del Capitano Wesker non appena erano entrati nella villa e da allora Barry non aveva fatto altro che ripetersele mentalmente ogni qualvolta svoltava un angolo e si trovava davanti all’ennesimo lungo corridoio, camera da letto, balcone o ripostiglio.
Andando sempre più avanti, però, si era accorto che c’era qualcosa che non andava in quella casa, qualcosa di sbagliato. Era una struttura di gran lusso in condizioni quasi perfette, segno che non doveva essere del tutto abbandonata. Eppure gli unici inquilini che aveva sporadicamente incrociato tra quelle mura erano stati degli uomini dall’aspetto trasandato con seri problemi di deambulazione, affetti da una qualche strana forma di cannibalismo dato che avevano tentato più volte di morderlo.
Sebbene l’uomo amasse le armi, non gli piaceva usarle per uccidere. Essendo un militare professionista aveva dovuto accettare il fatto di dover, talvolta, stroncare la vita di altri esseri umani ma si trattava sempre di casi estremi, quando in gioco c’era la salvaguardia della sicurezza pubblica. Come in quel caso, appunto.
Ma mai si era sentito tanto in colpa come quella sera. Quei tizi avevano sì qualche problema... ma gli sembravano così inermi di fronte alla potenza delle sue armi.
Per questo motivo, dopo aver fatto a botte con la parte più moralista di sé, decise di approfittare di qualche momento di raccoglimento e perdersi tra i fumi del suo sigaro. Lo estrasse da una delle tasche sul petto e lo passò sotto le narici per catturarne l’aroma. Tastò poi le tasche dei calzoni alla ricerca dell’accendino, prendendo il sigaro tra le labbra in modo da avere entrambe le mani libere.
“Ma dove l’ho messo?” si chiese pensoso.
Stava quasi per rinunciarvi quando sentì, attraverso la stoffa dei pantaloni, la familiare forma rettangolare dello zippo. Prese l’oggetto tra le mani e lo ammirò quasi fosse una pietra preziosa. Soddisfatto accese il sigaro e ne aspirò un lungo tiro assaporandone il gusto. Sapeva di liquirizia. Personalmente non badava molto agli aromi che venivano aggiunti al tabacco ma quello era l’unico che sua moglie gli permetteva di fumare in casa. Sorrise a quel pensiero, immaginando l’espressione imbronciata che assumeva quando si preoccupava per la sua salute, quasi più di quando andava in missione per lavoro. Scosse la testa bonariamente ma il flusso di quei pensieri fu interrotto da un improvviso rumore.
Uno strano, stridulo raschiare.
Espirò lentamente il fumo dalla bocca e si avvicinò alla porta in fondo al corridoio che aveva precedentemente imboccato. Raggiunse la porta di metallo e, cautamente, vi accostò un orecchio. Non sentiva più nulla, se non degli spifferi freddi sulla pelle e il pungente odore di muffa e della ruggine che incrostava gli infissi. Ci fu un fruscio dall’altra parte, poi il rumore si arrestò del tutto.
Non poteva essere una coincidenza, no?
Intuendo il pericolo, Barry indietreggiò di un passo e fece scorrere la mano sulla fondina, pronto ad ogni evenienza.
Poi qualcosa andò a sbattere con violenza contro la porta.
Barry liberò la magnum dalla custodia, ne fece scattare la sicura e la puntò davanti a sé con mano ferma.
Seguì un altro colpo e poi un altro e un altro ancora.
Beh, qualunque cosa ci fosse la fuori era decisa ad entrare e ci sarebbe riuscita, viste le condizioni critiche in cui versavano i cardini.
Contrariamente ad ogni aspettativa anche quei colpi cessarono, facendo calare un pesante silenzio carico di tensione. Poi, senza che l’uomo potesse fare niente, la maniglia si mosse lentamente verso il basso con un cigolio sinistro.
Avreste dovuto sentirlo... Il suono dell’inevitabile!
Barry strinse il sigaro tra i denti mentre continuava a puntare l’arma contro la porta che piano si aprì.
E una mano fece capolino dall’anta appena schiusa.
L’uomo corrugò le sopracciglia notando che, in realtà, non si trattava propriamente di una mano. Era più una zampa con quelli che dovevano essere artigli, eccessivamente lunghi per qualunque animale di cui conosceva l’esistenza. Poteva forse essere un orso ma, quando l’altro scostò ancora un poco l’anta e fece scorrere l’intero arto all’interno, vide che non c’era traccia di pelliccia e che, invece, era ricoperto da squame verdastre. La curiosità di Barry sparì all’istante e l’agente decise che era meglio non indagare oltre. Era tempo di agire!
Diede una poderosa spinta alla porta bloccandovi l’arto in mezzo per poi allontanarsi correndo lungo il corridoio dal quale era venuto, seguito dalle urla animalesche di quella... cosa.
Corse a lungo poi, stremato, si fermò finché il respiro non gli tornò regolare, sputando a terra il sigaro che ancora teneva tra le labbra.
“E no, non ci siamo proprio!” esclamò. Non poteva mica scappare per sempre.
Fece per raccogliere il sigaro ma un’ombra si allungò su di lui minacciosa. Barry si levò per vedere finalmente lo strano animale che lo aveva inseguito e che adesso si avvicinava a lui lentamente, come un gatto che punta il topo solo per spaventarlo prima di eliminarlo per puro divertimento.
Ma Barry, che di certo non aveva l’indole di un roditore, dopo aver calciato il sigaro di lato per non calpestarlo, puntò l’arma davanti e osservò attentamente la creatura.
Appariva molto robusta, muscolosa e interamente coperta di scaglie, come un grosso alligatore. Doveva essere piuttosto alta anche se camminava leggermente curva in avanti stando in equilibrio sulle zampe posteriori. Queste, come l’arto che aveva visto poco prima, erano provviste di lunghi artigli affilati col risultato che l’andatura dell’animale era accompagnata da un sonoro ticchettio. Anche la bocca comunque non era particolarmente rassicurante, munita com’era di denti acuminati. Da essa, poi, usciva copiosa della bava densa e presumibilmente appiccicosa.
“Eww! Senza offesa, amico, sei disgustoso!” disse Barry storcendo il naso.
La creatura per tutta risposta ringhiò ferocemente fendendo l’aria con una zampata. L’agente non si fece intimidire da quell’approccio e fece fuoco senza indugiare oltre. La colpì al torace ma quella non sembrò risentire affatto del colpo, continuando ad avvicinarsi. Barry sparò di nuovo, colpendola quasi nello stesso punto. La creatura barcollò un po’, indietreggiando di qualche passo, ma chiaramente non aveva intenzione di lasciarsi sfuggire la preda. Nemmeno Barry comunque pareva arrendersi facilmente, così fece un respiro profondo, prese bene la mira e premette il grilletto una terza volta.
Non si sentì un lamento.
Solo un tonfo dopo che l’animale cadde sul pavimento in una pozza di sangue, cervella e un nauseante liquido verdognolo.
“Eri proprio una brutta bestia, eh?” osservò Barry colpendo il corpo con la punta di un anfibio per verificarne il decesso.
Come per sfidarlo, una delle zampe superiori scattò di lato arrivando a toccargli una gamba per poi ricadere al suolo. L’agente d’istinto puntò subito la magnum contro la creatura: ormai si aspettava di tutto. Invece quella rimase immobile, facendogli capire che era stato solo un riflesso muscolare involontario, come quando una lucertola perde la coda e quella continua a muoversi anche separata dal corpo. Verificato, quindi, che non vi era più alcun pericolo Barry recuperò il sigaro, ormai spento, e se lo mise in bocca. Scavalcò il corpo ai suoi piedi e si appoggiò ad una parete, cercando nuovamente l’accendino. Fece per prenderlo quando un rumore, appena divenuto familiare, catturò la sua attenzione.
Un regolare, sonoro, sinistro ticchettio sulle assi di legno del pavimento.
Barry sospirò, sapendo già cosa lo avrebbe raggiunto a breve.
Cacciò definitivamente il sigaro in una tasca, impugnò la magnum e camminò silenzioso fino alla fine del corridoio poi, cautamente, si sporse un poco dall’angolo e lo vide. Un altro mostro, come quello che aveva appena fatto fuori.
Anzi no. Stavolta erano due.
Barry si ritrasse prontamente per pensare ad un piano. Se avesse mirato subito alla testa avrebbe evitato di consumare invano preziose munizioni che, presumibilmente, gli sarebbero servite in futuro. Quindi inspirò profondamente e uscì allo scoperto facendo fuoco.
La fretta però lo tradì e lo sparo colpì la prima creatura solo di striscio ad una spalla, cosicché la pallottola andò oltre e finì col conficcarsi sul petto della seconda, rallentandola. Sparò di nuovo e stavolta prese l’animale dritto in mezzo agli occhi. La seconda creatura, ancora stordita dal precedente colpo, pareva soffrire per lo squarcio che aveva nel petto ma sembrava anche decisa a raggiungerlo in ogni caso. Barry si concentrò e pregò che l’ultimo colpo che aveva in canna non andasse sprecato. E così fu: beccò l’animale in testa facendogliela così esplodere e macchiare l’elegante tappezzeria delle pareti. Era abbastanza sicuro che nessuno si sarebbe lamentato.
Ma sfortunatamente per lui la partita non era ancora finita.
Si lasciò i due corpi esanimi alle spalle e varcò l’ennesima soglia, percorse un breve tratto di corridoio e si bloccò. L’uomo non ebbe tempo di rilassare i muscoli ancora tesi che quel maledetto ticchettio giunse nuovamente alle sue orecchie. Quella volta però era decisamente irregolare, sconnesso, il che gli fece intuire che non si trattava di una sola creatura. E nemmeno di due.
Era fermo all’incrocio tra due corridoi. Alle sue spalle c’era la porta chiusa dalla quale era giunto. Alla sua sinistra contò subito due creature e un’altra alla sua destra. Di fronte a sé, proprio in fondo al corridoio, ce n’era una quarta che lo fissava agitando un po’ le zampe, come per fargli capire che non sarebbe andato da nessuna parte.
Barry mandò giù a fatica il groppo che aveva in gola. Tentare la fuga, ammesso che le uniche vie disponibili non fossero già state bloccate, non sarebbe servito a nulla. Per un momento pensò di farla finita. Passò distrattamente una mano sul giubbotto e allora ricordò di avere ancora una carta da giocare. Sorrise amaramente mentre si lasciava scivolare a terra con le spalle contro la porta e poggiò la magnum accanto a sé. Era stata la sua fedele alleata fino a quel momento. Ma la superiorità, in quanto a potenza di fuoco, di una granata era fuori discussione!
L’estrasse da una tasca e quando le creature furono abbastanza vicine ne tirò la spoletta.
“Beh, se proprio dobbiamo finirla facciamolo in bellezza, dannate bestiacce!” disse con veemenza.
Un’esplosione risuonò potente nella villa maledetta.
Dell’agente Burton rimase solo una foto bruciacchiata ritraente due bambine, le quali avrebbero aspettato inutilmente il rientro del padre dal lavoro.








Note dell'autrice:

Mi scuso con voi che leggete e seguite questa storia per l'enorme lasso di tempo che ho impiegato per aggiornare ma voglio assicurarvi che non è mia intenzione abbandonarla e lasciarla incompiuta. So che la curiosità e la voglia di sapere come andrà a finire può essere tanta ma vi prego solo di avere tanta pazienza con me e con le mie altalenanti pubblicazioni. Le idee ci sono tutte, belle e pronte. Ciò che mi rallenta tremendamente è la mancanza di tempo (sono attiva anche in altri fandom e, al di fuori di efp, lo studio universitario mi debilita molto) e la difficoltà di mettere tutta questa storia su carta. Spero che almeno anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento.
Ci si sente al prossimo! (spero non tra troppi anni ^^')



   

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1194662